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Garcilaso DE LA VEGA

Letteratura spagnola II (Università degli Studi di Napoli L'Orientale)

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GARCILASO DE LA VEGA –
TRADUZIONE

COPLA II
Dev’essere una colpa amarvi,
visto ciò che fate in me,
ma lì lo pagherete,
dove non vi sapranno apprezzare,
per come male mi avete apprezzato.
Per amarvi, pensavo di
Essere perso, non avevo colpa;
Ma che tutto lo sia stato,
così me lo avete dimostrato
che lo conosco molto bene.
Chi potesse non apprezzarvi
Tanto come voi sapete,
per godermi che paghiate
per quello che non mi hanno
fatto conoscere con quello
che non conoscete!

SONETTO 28
Boscán, sei vendicato, con mia diminuzione,
del mio rigore passato e della mia asprezza,
con cui ero solito rimproverare la tenerezza
del vostro morbido cuore;
ora mi castigo ogni giorno
di tale comportamento e tale ottusità,
ma è il tempo per cui della mia bassezza
potrei ben vergognarmi e castigarmi.
Sappiate che nella mia età perfetta e armato,
con i miei occhi aperti, mi sono arreso
al bambino che sapete, cieco e nudo.
Un cuore non fu mai consumato da un

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Fuoco così bello;


se mi chiedete il di più, io sono di più muto.

SONETTO 33

Boscán, le armi e il furore di Marte,


che con la sua propria forza bagnano
il suolo africano, fanno si che l’impero
romano rifiorisca in questa parte,
hanno ridotto alla memoria l’arte e
l’antico valore italiano,
per cui la forza e la valorosa mano
l’Africa si terrorizzò da parte a parte.
Qui dove l’incendio romano,
dove il fuoco e la fiamma incontrollata
solo il nome lasciarono a Cartagine,
L’amore sconvolge e turba il mio pensiero,
ferisce e incendia l’anima timorosa,
e in pianto e cenere mi dissolvo.

SONETTO 35

Mario, l’ingrato amore, come testimone


Della mia fede pura e della mia grande fermezza,
usando in me la sua vile natura,
che è fare l’offesa più grande al suo più grande amico,
avendo paura che se scrivo e racconto
della sua condizione, abbatta la sua grandezza,
non bastando lo sforzo alla sua crudeltà,
ha armato la mano al mio nemico;
e così, nella parte che la destra mano
governa e in quella che dichiara
i concetti dell’anima, fui ferito.
Ma io farò si che questa offesa gli
Costi cara all’offensore, ora che sono sano,
libero, disperato e offeso.

SONETTO 15

Se gemiti e lamenti possono tanto


Che frenarono il corso dei fiumi
e i monti lontani e gli ombrosi alberi

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mossero con il loro canto;


si convertirono ad ascoltare il suo pianto
le bestie feroci e i dirupi freschi;
se, alla fine, con meno disgrazie delle mie
scesero nel regno della paura:
perchè la mia vita travagliata non intenerirà,
nella miseria e lacrime passate,
un cuore indurito con me?
Con più pietà dovrebbe essere ascoltata
La voce di colui che piange
Per perso che quella di colui
Che perse e piange per un’altra cosa.

SONETTO 19

Giulio, dopo che sono partito piangendo


Da chi parte sempre il mio pensiero
E lasciai dalla mia anima quella parte
Che stava dando vita e forza al corpo,
del mio bene a me stesso vado chiedendo
uno stretto racconto, e sento di tale maniera
mancarmi tutto il bene che temo in parte
che possa mancarmi l’aria respirando.
E con questo timore la mia lingua prova
A ragionare con voi, oh dolce amico,
dell’amara memoria di quel giorno
in cui io cominciai come testimone
a potervi dare, dell’anima vostra,
nuova notizia, e voi dell’anima mia.

SONETTO 24

Illustre onore del nome di Cardona,


decima abitatrice del Parnaso,
a Tansilo, a Minturno, al colto Tasso
soggetto nobile di immortale corona:
se nel bel mezzo del cammino la
forza e lo spirito non abbandonano il vostro
lasso,
per voi il mio passo audace mi porterà
alla difficile cima del monte Elicona.
Potrò portarvi allora senza fatica,
con il dolce suono che frena il corso delle acque,

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per un cammino fino ad ora asciutto,


il patrio, celebrato e ricco Tago,
che del valore della sua lucente sabbia
al vostro nome pagherei un gran tributo.

SONETTO 13

A Dafne già le crescevano le braccia


E in lunghi rami si trasformavano;
In verdi foglie vidi che si trasformavano
I capelli che scurivano l’oro;
di un’aspra corteccia si coprivano
le tenere membra che stavano muovendosi;
i bianchi piedi nella terra si conficcavano
e in contorte radici si trasformavano.
Quello fu la causa di tale danno,
a forza di piangere, faceva crescere
questo albero, che annaffiava con le lacrime.
Oh miserabile stato, oh male grande,
che nel piangerla cresce ogni giorno
la causa e la ragione per cui piangeva!

SONETTO 29

Leandro l’audace attraversava il mare,


tutto ardendo in un fuoco amoroso,
il vento iniziò a soffiare, l’acqua si
andò agitando con un impeto furioso.
Vinto dalla fatica,
non potendo contrastare le onde,
e più del bene che lì perdeva morendo
che della sua propria vita angosciato,
come potè, sforzò la sua voce stanca
e parlò alle onde in questo modo,
ma la sua voce non venne mai ascoltata da
loro: ‘’Onde, non si scusa che io muoia,
lasciatemi lì arrivare, e al ritorno
prendetevi la mia vita con il vostro furore.’’

SONETTO 11

Bellissime ninfe, messe nel fiume,

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contente abitate nelle dimore


fabbricate di pietre lucenti e
sostenute da colonne di cristallo,
che ora stiate ricamando assorte
o tessendo le tele delicate,
o che siate in disparte una con l’altra
raccontandovi gli amori e le vite:
Lasciate per un pò il lavoro,
alzate le vostre teste bionde a guardarmi,
e non DETENDREIS(?) molto per il male che VOY(?),
che o non potrete ascoltarmi per pietà,
o trasformato in acqua qui piangendo,
potrete lì lentamente consolarmi.

SONETTO 10

Oh dolci pegni d’amore, per il mio male ritrovati,


dolci e allegri quando Dio voleva,
Siete insieme, nella mia memoria,
e con essa, uniti alla mia morte.
Chi avrebbe detto, quando nelle ore
Passate, in tanto bene per voi stavo,
che un giorno mi sareste stati
ritrovati con così grande dolore?
Visto che in un’ora insieme mi
toglieste tutto il bene che
Poco a poco mi deste,
toglietemi anche il male che mi lasciaste;
Altrimenti, sospetterò che mi metteste
in tanti beni perchè desideravate
Vedermi morire fra le tristi memorie.

SONETTO 25

Oh destino esecutivo nei miei dolori,


come ho sentito le tue leggi rigorose!
Tagliasti l’albero con mani dannose
E spargesti per terra frutta e fiori.
In poco spazio giacciono gli amori,
e tutta la speranza delle mie cose,
trasformate in ceneri sprezzanti
e sorde ai miei lamenti e gridi.
Le lacrime che in questa sepoltura

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Si riversano oggigiorno e si versarono


Ricevi, anche se infruttuose là ti saranno,
fino a che quella eterna notte scura
mi chiuda questi occhi che ti videro,
lasciandomi con altri che ti vedranno.

SONETTO 16

Non le odiose armi francesi,


poste contro il petto adirato,
ne negli alti muri con armi da fuoco
ne archi ne frecce velenose;
non le scaramucce pericolose,
ne quel fiero rumore contraffatto
di colui che per Giove fu fatto
per mano del Dio Vulcano artificiose,
poterono, anche se più io mi offrivo
ai pericoli della dura guerra,
tolto una sola ora del mio destino;
ma una infezione dell’aria in un solo giorno
mi tolse dal mondo e mi ha in te sepolto,
Partenope, tanto lontano dalla mia terra.

SONETTO 6

Per aspri cammini sono arrivato


In una parte che per paura non mi muovo,
e se provo a muovermi di un passo,
sono riportato lì per i capelli;
Sto così male che con la morte a lato
Cerco del mio vivere una nuova strada,
e vedo il meglio e mi affido al peggio,
o per mal abitudine o per il mio destino.
D’altra parte, il mio breve tempo
e il processo sbagliato dei miei anni,
nel suo primo e medio principio,
la mia inclinazione, con cui non PORFìO(?),
la certa morte, fine di tanti danni,
mi fanno trascurare il mio rimedio.

SONETTO 17

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Pensando che la strada andasse dritta,


venni a finire in tanta sventura
che immaginare non posso, seppur con pazzia,
qualcosa che sia un pò piacevole:
lo spazio ampio mi sembra stretto,
la notte chiara per me è oscura,
la dolce compagnia amara e dura,
e duro campo di battaglia il letto.
Del sonno, se ve ne è alcuno,
quella parte sola che è immagine della morte
si adatta con l’anima stanca.
Infine che, come voglio, sto così male
Che giudico il momento presente meno doloroso,
anche se in esso mi vidi, nel passato.

SONETTO 22

Con estrema ansia di guardare ciò che ha


Il vostro petto nascosto là nel suo centro
E vedere se il fuori in apparenza corrisponde
Ugualmente al dentro,
in esso posai la vista,
ma della vostra bellezza detiene il duro incontro
i miei occhi, e non passano tanto dentro
da guardare ciò che l’anima in esso contiene.
E così si pongono tristi nella porta fatta,
per il mio dolore, con quella mano,
che pur al suo stesso petto non perdona;
dove vidi chiaro la mia speranza morta
e il colpo, che in voi fece amore invano,
non esservi passato oltre la gona.

SONETTO 23

Finchè sul vostro volto si mostra


Il colore della rosa e del giglio,
e che il vostro sguardo ardente, onesto,
con una luce chiara calma la tempesta;
Finchè i capelli, che in un filone
D’oro raccolti, con tocco pronto
Per il bellissimo collo bianco, dritto,
il vento muove, sparge e disordina:

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Cogliete della vostra allegra primavera


Il dolce frutto prima che il tempo adirato
Copra di neve la bellissima cima.
Il vento gelato appassirà la rosa,
tutto muterà l’età leggera
per non aver mutato nella sua abitudine.

SONETTO 31

Dentro la mia anima fu da me generato


Un dolce amore, e del mio sentimento tanto approvato
fu la sua nascita come di un unico figlio desiderato;
Ma da lui nacque colui che ha devastato
Del tutto il mio pensiero amoroso;
in aspro rigore e grande tormento
le prime delizie ha trasformato.
Oh crudo nipote, che dai vita al padre
E uccidi il nonno! Perchè cresci così
Deforme a colui da cui sei nato?
Che anche l’invidia, tua propria e fiera madre,
si spaventa a vedere il mostro che ha partorito.

SONETTO 30

Sospetti che, nella mia triste immaginazione


Posti, fate la guerra alla mia ragione,
turbando e sconvolgendo l’afflitto
petto con dura mano notte e giorno:
Ormai la mia resistenza è finita,
e la forza dell’anima; mi arrendo,
mi lascio vincere da voi, pentito
di avervi contrastato con tale ostinazione;
Portatemi in quel luogo così spaventoso
Che, per non vedere la mia morte lì scolpita,
tenni gli occhi chiusi fin qui.
Ormai ripongo le armi, che concessa
Non è una lunga difesa al miserabile:
Appendete sul vostro carro le mie spoglie.

EPÌSTOLA A BOSCÀN

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Voi Boscàn, colui che tanto gusto ha


Di dar conto dei pensieri,
fino alle cose che non hanno nome,
non potrà mancare con voi materia,
ne sarà necessario cercare uno stile
pronto, adornato d’ornamento puro
così come occorre a questa colta epistola.
Fra i grandi beni che conseguo
L’amicizia perfetta che ci concede
È questa noncuranza sciolta e pura
Lontana dall’erudita pesantezza;
e così, di questa libertà vado godendo,
dico che venni, come il primo,
così sano come quello che in dodici giorni
solo vedrete ha camminato
quando alla fine della carta ve lo mostrerò.
Allargo e sciolgo le redini al suo gusto,
più che al cavallo, al pensiero,
e portami alle volte per cammino
così dolce e gradevole che mi fa
dimenticare lo sforzo del passato;
(v.57) Ma l’amore, dove per ventura
Nascono tutte le cose, se c’è n’è qualcuna,
che al vostro utilizzo e gusto mirano,
è grande ragione che in maggiore stima
fra tutto il resto sia da me tenuta,
quanto più generoso e alto ufficio
è fare del bene che riceverlo;
così che amando mi diletto, e trovo
che non è pazzia questo mio diletto.
Oh come sono vergognato e pentito
Di avervi parlato del tratto
Del cammino della Francia e delle locande!
Vergognato perchè già per bugiardo
Con ragione m’avete giudicato; pentito
Di aver perso tempo nel parlarvi
Di cose degne di peccato,
dove non troverete altro che bugie,
vini acidi, cameriere brutte,
valletti avidi, cavalli pessimi,
prezzi cari, pochi soldi, strada lunga;
arrivare infine a Napoli, non avendo
lasciato lì sepolto alcun tesoro,

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salvo che diciate che è sepolto


ciò che mai si trova se non si ha.
Al mio signor Durall, abbraccialo
Strettamente da parte mia,
se potessi.
Dodici del mese d’ottobre, dalla terra
Dove nacque il chiaro fuoco del Petrarca
E dove sono del fuoco le ceneri.

CANCIÒN III

Con un suono dolce


D’acqua corrente e chiara
Il Danubio circonda una isola che potrebbe
Essere luogo scelto
Per riposare
Chi, come io sto ora, non lo fosse:
lì sempre la primavera
sembra fra il verde
seminato di fiori;
gli usignoli fanno
rinnovare il piacere o la tristezza
con i loro morbidi canti,
che mai, ne notte e giorno, cessano.
Qui fui io messo,
o per meglio dire,
preso e forzato e solo in terra straniera;
ben possono farlo questo
su chi può sopportarlo
e su chi esso a se stesso si condanna.
Ho solo una pena,
se muoio esiliato
e in tanta sventura:
che pensino che per ventura
tanti mali mi hanno portato,
ma so bene che muoio
per solo quello per cui spero di morire.
Il corpo è nel potere
E nella mano di chi può
Fare del suo piacere quello che vuole,
ma non potrà fare
che mal liberato rimanga
mentre della mia altra parte non dispone;

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quando il male sarà venuto


e la morte,
qui mi deve trovare
nello stesso luogo,
che un’altra cosa più dura della morte
mi trova e mi ha trovato,
e questo lo sa molto bene chi lo ha provato.
Non è necessario ora
parlare ancora inutilmente,
che è mia necessità molto angusta,
già che in una sola ora
venne disfatto
tutto quello per cui spesi la mia vita.
E alla fine di tale giornata
Credono di spaventarmi?
Sappiano già che io non posso
Morire senza paura,
che mai nulla da temere volle lasciarmi
la mia sventura,
che il bene e la paura mi tolse in un giorno.
Danubio, fiume divino,
che per fiere nazioni
vai scorrendo con le tue chiare onde,
non c’è un altro cammino
per dove le mie parole
escano fuori di qui se non correndo
per le tue acque e essendo
in esse annegate,
se in terra straniera,
nella deserta sabbia,
da qualcuno fossero alla fine ritrovate,
sotterrale se vuoi,
così che il suo viaggio finisca nella tua riva.
Anche se muori nell’acqua,
canzone, non devi lamentarti,
che ho visto bene ciò che ti tocca,
meno vita avresti
se dovessi uguagliarti
con altre che sono morte nella mia bocca.
Chi ha la colpa di questo,
là lo capirai di me molto presto.

CANCIÒN V

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ODE AL FIORE DI CNIDO


Se il suono della mia umile lira
Tanto potesse in un momento
Placare la ira
Del vento audace
E la furia del mare e il movimento,
e su per aspri monti
con il canto soave intenerisse
le bestie feroci,
e gli alberi movesse
e al suono confusamente li trascinasse:
Non pensare che da me
Sarebbe cantato, bellissima fiore di Cnido,
del fiero Marte adirato,
votato alla morte,
sporco di polvere e sangue e sudore,
ne di quei capitani
sulle sublimi ruote collocati,
dai quali i tedeschi,
il fiero collo legato,
e i francesi vanno addomesticati.
Ma solamente quella
Forza della tua bellezza sarebbe cantata,
e alcune volte con essa
sarebbe notata anche
l’asprezza di cui sei armata,
e come per te sola
e per il tuo grande valore e bellezza,
trasformato in viola,
piange la sua sventura
il miserabile innamorato nella tua figura.
Parlo di quel prigioniero
Di cui bisogna avere più attenzione,
che sta morendo vivo,
condannato al remo,
attaccato alla conchiglia di Venere.
Per te, come era solito,
del focoso cavallo non corregge
la furia e il vigore,
ne col freno la regge,
ne con vivi sproni lo tormenta.
Per te con destra mano

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Non agita la spada,


e nell’incerto campo
schiva la polverosa
palestra come serpe velenosa.
Per te sua dolce musa,
invece della cetra suonante,
utilizza tristi canti
che con il pianto abbondante
fa bagnare il volto dell’innamorato;
Per te il migliore amico
È inopportuno, grave, fastidioso:
io posso essere testimone,
che prima del pericoloso naufragio
io fui il suo porto e il suo riposo,
e ora in tale maniera
vince il dolore alla ragione persa
che la bestia velenosa
mai fu odiata
tanto come io da lui, ne più temuta.
Non fosti tu generata
Ne prodotta dalla dura terra;
non deve essere conosciuta
che ingratamente sbaglia
chi allontana da se l’errore altrui.
Ti faccia timorosa
Il caso di Annaserete, e codarda,
d’essere disdegnosa
si pentì molto tardi,
e così la sua anima brucia col marmo.
Si stava rallegrando
Del male altrui col petto di pietra,
quando, guardando in basso,
vide il corpo morto
del miserabile innamorato lì appeso,
e con il collo stretto al laccio
con il quale si liberò della catena
il cuore tormentato,
e con la sua breve pena,
comprò l’eterna punizione altrui.
Sentì lì trasformarsi
L’asprezza in pietà amorosa.
Oh tardo pentimento!
Oh ultima tenerezza!

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Come ti successe tanta durezza?


Gli occhi s’inchiodarono
Nel tenero corpo che lì videro;
Le ossa si trasformarono
Più dure e grosse
E in se tutta la carne si trasformarono;
le viscere gelate
si trasformarono a poco a poco in pietra dura;
per le vene stremate
il sangue
andava disconoscendo la sua figura
e la sua natura,
fino a che finalmente
in dura marmo resa e trasformata,
fece si che la gente
non fu tanto meravigliata
quanto di quella ingratitudine vendicata.
Non vuoi tu, signora,
provare le frecce
di Nemesi adirata, per Dio, ora;
Basta che le tue perfette
Opere e bellezza ai poeti
Diano immortale materia,
senza che anche col verso lamentabile
celebrino la miseria
di qualche caso notevole
che ti passa, triste, miserabile.

ELEGIA II

Boscàn, qui, dove del buon troiano


Anchise con eterno nome e vita
Conserva la cenere il Mantovano,
sotto l’illustre bandiera
del Cesare Africano noi troviamo
la gente vincitrice raccolta:
diversi in impegno, che alcuni vanno
morendo per cogliere dello sforzo
il frutto che con il sudore seminiamo;
altri (che fanno della virtù amica
e premio delle loro opere e così vogliono
che la gente lo pensi e lo dica)
di questi altri dai primi si differiscono,

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e nel segreto Dio sa quanto


si contraddicono con quello che dicono.
Io vado per il mezzo, perchè mai tanto
Volli obbligarmi a procurarmi denaro,
che un poco più di quelli mi elevo;
non vado nemmeno per la stretta strada
di quelli che certi so che l’altra strada
tornano la briglia, di notte camminando.
Ma dove mi ha portato la mia penna?
Passo a passo vado per la satira,
e questa che vi scrivo è un’elegia.
Io dirigo, signore, infine il mio passo
Per dove voi sapete che il suo corso
Sempre ha portato e porta Garcilaso;
e così, alla metà di questo monte folto,
dalle contraddizioni mi difendo,
non senza difficoltà, ma non per questo
lascio le muse, prima vado e vengo
da loro agli altri affari, e variando,
con loro dolcemente m’intrattengo.
Così si vanno ingannando le ore;
così dal duro sforzo e della grande pena
ci riposiamo per alcune ore.
Da qui andremo a vedere della Serena
La patria, che ben mostra essere stata
Anticamente piena di ozio e di amore.
Lì il mio cuore ebbe il suo nido
Un tempo, ma non so, triste, ora
Se sarà occupato o disastrato;
Per questo un freddo timore all’improvviso
mi corre dentro le mie ossa in tale modo
che non posso vivere con esso un’ora.
Se, triste, dal mio bene io fossi stato
Assente per un breve tempo, non lo nego
Che vivrei con maggiore sicurezza;
La breve assenza fa lo stesso gioco
nella fucina d’amore che la fucina ardente
poca acqua esercita sul fuoco,
la quale vedrai che non solo
non la uccide, ma la rinforza
con ardore più intenso e imminente,
perchè l’avversario, con la poca forza
del suo avversario, per vincere la lotta

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il suo braccia ravviva e il valore rafforza.


Però se l’acqua in abbondanza
Sul fuoco si sparge e si riversa,
il fuoco sale al cielo, il suono si ascolta
e, il chiaro splendore della fiamma viva
in polve e in cenere si dissolve,
resta appena di lui solo la fama:
così la lunga assenza che ha sparso
in abbondanza il suo liquido che
spegne il fuoco che l’amore teneva acceso,
lo lascia in tale stato che la mano
senza rischio lo tocca nel momento
in cui in apparenza il suono si disperde.
Io resto solo fuori da questa storia,
perchè l’amore mi affligge e mi tormenta
e nell’assenza cresce il male che sento;
e penso che la ragione consenta
e permetta la causa di questo effetto,
che a me solo fra tutti si presenta,
perchè come del cielo io ero
eternamente soggetto
e destinato
al fuoco amoroso in cui mi metto,
così, per poter essere ucciso,
l’assenza senza termine, infinita
deve essere, senza limite di tempo;
il che non c’è ragione che lo permetta,
perchè per quanto sia lunga l’assenza,
con la vita finisce, che è finita.
Ma a me chi ci sarà per assicurarmi
Che la mia sfortuna con distacco
E oblio non si congiuri contro di me?
Questo timore persegue la mia speranza
E opprime e indebolisce il gran desiderio
Che i miei occhi hanno di riposare;
ora con essi solamente vedo
questo dolore che mi divide il cuore,
e con lui insieme qui combatto.
Oh crudele, rigoroso, fiero Marte,
coperto da una tunica di diamanti
e duro sempre in tutte le parti!
Che deve fare il tenero innamorato
Con la tua durezza e il tuo aspro esercizio,

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portato sempre avanti dal furore?


Esercito per il mio male il tuo ufficio,
sono ridotto a termini in cui la morte
sarà per me l’ultimo beneficio;
e questa non permise la mia dura sorte
che mi cogliesse combattendo,
trapassato dal ferro acuto e forte,
perchè mi consumassi contemplando
il mio amato e dolce frutto in mano altrui,
e il duro possessore burlarsi di me.
Ma dove mi trasporta e allontana
Dalla mia ragione la triste paura?
A un luogo di vergogna e pieno di dolore,
dove, se non vedessi il male,
da come nell’attenderlo mi perdo,
accrescere la miseria di un dito.
Così lo penso ora, e se lui fosse arrivato
Nella sua stessa forma e figura,
terrei il presente come miglior partito,
e gradirei sempre la mia avventura
mostrarmi del mio male solo il ritratto
che dipingono il mio timore e la mia tristezza.
Io so cosa significhi sperare a lungo
Il bene del proprio inganno e solamente
Avere con lui intelligenza e tratto,
come avviene al misero malato
che, da un lato, il verace amico, sano,
gli mostra il grave stato del suo male,
e lo avvisa che dal corpo umano
cominci a elevare a miglior parte
l’anima, sciolta con volo leggero;
ma la tenera moglie, dall’altro lato,
non riesce ad adeguarsi al disinganno
e nasconde del male la maggior parte;
lui, abbracciato al suo dolce inganno,
volge gli occhi alla voce pietosa
e si rallegra morendo con il suo danno:
così io li distolgo da ogni cosa
e li fisso solo nel pensiero
della speranza, certa o bugiarda;
in questo dolce inganno muoio contento,
perché vedere chiaro e conoscere il mio stato
non può più curare il male che sento,

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e muoio come colui che in un tiepido


bagno messo, senza sentirlo muore,
con le vene dolcemente tagliate.
Tu, che sei nella patria, fra chi ti vuole bene,
stai guardando la graziosa spiaggia
e sentendo il suono del mare che la colpisce,
e senza impedimento contemplando
la stessa a cui tu vai procurando
eterna fama nei tuoi vivi scritti,
Rallegrati, che più bella fiamma
Che quella dell’incendio di Troia
Poté causare, il cuore t’infiamma;
non devi temere il movimento
della fortuna con il soffio avverso,
Io, come soldato prezzolato,
vado dove la fortuna a mio malgrado mi manda,
se non a morire, che è volontario;
la mia speranza è sostenuta solo
da un così debole inganno che
ogni giorno devo rinnovare,
e se non lo fabbrico e lo rinnovo,
cade a terra la mia speranza
tanto che invano provo a sollevarla.
Questo è il premio che tocca al mio servire,
che solo alla miseria della mia vita
negò fortuna il comune mutare.
Dove potrò fuggire che mi scrolli
Per un pò da me il grave carico
Che opprime il mio collo indebolito?
Ma ahimè, la distanza non allevia
Il triste cuore, e il male, ovunque
Io sia, per raggiungermi allarga il braccio:
Se lì dove il sole ardente risplende
Nella sabbiosa Libia, generatrice
Di tutte le cose velenose e fiere,
o lì dove esso ora è sopraffatto a qualunque ora
della rigida neve e il vento freddo,
un luogo dove non si vive e non si dimora,
se in questa o in quella parte la follia
o la fortuna mi portasse un giorno
e lì consumassi tutto il mio tempo,
il geloso timore con mano fredda
nel bel mezzo del calore o dell’ardente sabbia

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m’opprimerebbe il triste cuore;


e nel rigore del gelo, nella serena
notte, soffiando il vento acuto e puro
che frena il corso veloce dell’acqua,
di questo fuoco vivo, in cui mi struggo
e spero di consumarmi a poco a poco,
e so che neanche lì potrò stare al sicuro,
e così diviso fra gli opposti muoio.

EGLOGA III

Quella volontà onesta e pura


Illustre e bellissima Maria,
che è in me di celebrare la tua bellezza,
il tuo ingegno e il tuo valore (ESTAR SOLIA),
a dispetto e dolore della sorte
che per un altro cammino mi devia,
è e sarà tanto in me conficcata
come il corpo è accompagnato dall’anima.
E ancora non mi figura che mi tocca
Questo ufficio non solamente in vita,
ma con la lingua morta e fredda nella bocca
intendo muovere la voce a te dovuta;
libero la mia anima dalla sua stretta roccia,
per la palude Stigia condotta,
ti andrà celebrando, e quel suono
farà frenare le acque dell’oblio.
Ma la sorte, del mio male non si stanca,
mi affligge e mi porta da una difficoltà all’altra:
Ora dalla patria, ora dal bene mi divide,
Ora prova la mia pazienza in mille modi,
e quello che mi dispiace di più è che il foglio
dove la mia penna scrive le tue lodi,
ponendo al suo posto cure invano,
mi divide e mi strappa dalle mani.
Però per quanto provi la sua forza in me,
non trasformerà il mio cuore mutevole;
Nessuno dirà mai che la sorte
Mi allontana da un impegno così lodevole;
Apollo e le sorelle tutte e nove
Mi daranno ozio e lingua con cui parli
Almeno ciò che nel tuo essere è adatto,

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che questo sarà il massimo che posso.


Nel frattempo, non ti offenda ne stanchi
Trattare del campo e solitudine che amasti,
ne disdegni questa incolta parte
del mio stile, che in qualcosa già stimasti;
fra le armi del sanguinoso Marte,
dove appena vi è chi contrasti il suo furore,
rubai questa breve somma di tempo,
prendendo ora la spada, ora la piuma.
Presta attenzione, quindi, per un po’
All’umile suono della mia rude zampogna,
indegna di arrivare alle tue orecchie,
che d’ornamento e grazia va spoglia;
ma alle volte sono meglio ascoltati
il puro ingegno e la lingua quasi muta,
testimoni limpidi d’animo innocente,
che l’artificio dell’eloquente.
Per questa ragione, anche se
Mancano delle altre,
merito di essere da te ascoltato;
quello che posso ti do, e quello che ho dato,
quando lo ricevi, io mi arricchisco.
Di quattro ninfe che dall’amato Tago
Uscirono insieme, mi offro di cantare:
Filòdoce, Dinàmene, e Climene,
Nise, che in bellezza non ha rivali.
Vicino al Tago, nella solitudine amena,
dai verdi salici vi è una boscaglia
rivestita e piena tutta di edera,
che per il tronco va fino all’alto
e così la tesse in alto e incatena
che il sole non trova passo al verde;
l’acqua bagna il prato con un suono,
rallegrando l’erba e l’orecchio.
Con tanta tranquillità il cristallino
Tago in quella parte scorreva
Che gli occhi appena poterono
Determinare il cammino che portava.
Pettinando i suoi capelli d’oro fino,
una ninfa dell’acqua dove abitava
tirò fuori la testa, e il prato ameno
vide pieno di fiori e ombre.
Mossa dal luogo ombroso, il vento tranquillo,

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il soave odore di quel fiorito suolo;


gli uccellini nel fresco luogo
vide riposare dal faticoso volo;
Asciugava quindi il terreno il respiro
Del sole, salito alla metà del cielo;
nel silenzio solo si ascoltava
un sussurro di api che suonava.
Avendo contemplato per un po’
Attentamente quel luogo ombreggiato,
immerse di nuovo la sua testa
e al fondo si lasciò calare dal fiume;
Inizia a raccontare alle sue sorelle
Del luogo verde del fresco piacevole,
e che vadano, le prega e avvisa,
lì con il loro lavoro a riposarsi.
Non perse in queste suppliche molto tempo,
che le tre di loro presero il loro lavoro
e guardando al di fuori videro poi
il prato, nel quale si indirizzarono;
l’acqua chiara con lascivo gioco
nuotando divisero e tagliarono
fino a che il bianco piede toccò bagnato,
uscendo dalla sabbia, il verde prato.
Mettendo all’asciutto le punte,
scorrendo l’acqua dai loro capelli,
i quali si spargevano e furono coperte
le loro bellissime spalle,
poi tirando fuori le tele delicate
che in sottigliezza le competevano,
nel più nascosto si misero
e si posero attente al loro lavoro.
Le tele erano fatte e tessute
Dall’oro che il felice Tago invia,
dopo aver ben setacciato
le stesse spiagge dove si piange,
e delle verdi alghe, ridotte
a un filo sottile che conveniva
per seguire la delicata forma
dell’oro, già tirato nel ricco filo.
La delicata tela era adornata
Dai colori che prima le avevano dato
Con la delicatezza della varia tinta
Che si trova nella conchiglia dei molluschi;

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tanto artificio mostra ciò che dipinge


e tesse ogni ninfa nella sua tela
come mostrarono nelle loro tavole prima
il celebrato Apelle e Timante.
Filòdoce, che così di quelle era
Chiamata la maggiore, con mano destra
Era raffigurata la riva
Dell’Estrimone, da una parte il verde piano
E dall’altra il monte d’asprezza fiera,
pestato tardi o mai dal piede umano,
dove l’amore mosse con tanta grazia
la dolorosa lingua di colui di Tracia.
Era raffigurata la bella
Euridice nel bianco piede morsa
Dalla piccola serpe velenosa,
nascosta fra i fiori e l’erba;
Scolorita stava come la rosa
Che fu colta fuori la stagione,
e l’anima, gli occhi già voltati,
della bella carne congedando.
Si vedeva figurato ampiamente
L’audace marito, che scendeva
Al triste regno dell’oscura gente
E la moglie persa recuperava;
e come, dopo di ciò, l’impaziente
per guardarla di nuovo, la tornava
a perdere un’altra volta, e del tiranno
si lamenta al monte solitario invano.
Dinàmene non meno artificio
Mostrava nella tela che ha tessuto,
pitturando ad Apollo nel forte ufficio
della caccia selvatica assorto.
La vendicativa mano di Cupido
Gli fa presto cambiare l’esercizio,
che fece ad Apollo consumarsi in pianto
dopo che lo colpì con la freccia d’oro.
Dafne, con i capelli sciolti al vento,
senza risparmiare il piede delicato correva
per il duro cammino con tale negligenza
che Apollo nella pittura pareva
che, perchè lei rallentasse il movimento,
con meno velocità la seguiva;
lui va seguendo, e lei fugge come

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chi sente al petto l’odioso piombo.


Ma alla fine le crebbero le braccia
E in rispettivi rami si mostravano trasformati;
ed i capelli, che erano soliti vincere
l’oro fino, si trasformavano in foglie;
in tortuose radici si estesero
i piedi delicati e si incatastavano nella terra;
piange l’innamorato e cerca il suo modo di essere prima,
baciando e abbracciando quel legno.
Climene, piena di destrezza e abilità,
l’oro e i colori sfumando,
IBA DE HAYAS(?) una grande montagna,
Di querce e rocce variando;
un cinghiale fra queste, di bravura estranea.
Stava aguzzando le zanne
Contro uno stalliere non meno audace
Con la sua lancia in mano, meraviglioso.
Dopo questo, il cinghiale va via da lì ferito
Da quel giovane, per sua sfortuna valoroso,
e lo stalliere era a terra disteso,
aperto il petto dal rabbioso dente,
con i capelli d’oro sparsi
setacciando il suolo miserabilmente;
le rose bianche lì seminate
si trasformavano con il suo sangue colorate.
Adone, questo si mostrava chi era,
come si mostra Venere addolorata,
che vedendo la ferita aperta e fiera,
sopra di lui era quasi morta;
bocca a bocca coglie l’ultimo
respiro dell’aria che era solita dare vita
al corpo per cui ella in questo suolo
odiato ebbe all’alto cielo.
La delicata Nise non prese come compito
I passati casi della memoria,
e nel lavoro del suo sottile lavoro
non volle intrecciare la storica antica;
Anzi, nel suo lavoro mostrando
Del suo chiaro Tago la celebrata gloria,
la raffigurò nella parte dove lui bagna
la più felice terra della Spagna.
Pitturato si vedeva l’impetuoso fiume,
che in dura ristrettezza ridotto,

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un monte quasi circondava intorno,


con impeto discorrendo e con rumore;
sembrava volerlo circondare tutto
EN SU VOLVER(?), ma era uno sforzo inutile;
Si lasciava correre infine dritto,
contento di quello che aveva fatto.
Era posta nella sublime cima
Del monte, e da lì da lui seminata,
quell’illustre e chiara massa eccelsa
adornata di antichi edifici.
Da lì con piacevole tranquillità
Il Tago va seguendo il suo percorso
E annaffiando i campi e boschi
Con artificio delle alte ruote.
Nella bella tela si vedevano,
tesse, le dee silvestri
uscire dalla boscaglia, e che
arrivavano tutte frettolose alla riva,
nel volto tristi, e portavano
dei cesti bianchi di rose purpuree,
le quali spargendo disperdevano
sopra una ninfa morta che piangevano.
Tutte, con i capelli sciolti,
piangevano una ninfa delicata
la cui vita mostrava che era stata
prima del tempo e quasi come un fiore reciso;
vicino l’acqua, in un luogo fiorito,
era tra l’erba decapitata
che sembra il bianco cigno quando perde
la dolce vita fra l’erba verde.
Una di quelle ninfe che in bellezza
In apparenza eccedeva fra tutte,
mostrando nel volto la tristezza
che del funesto e triste caso aveva,
allontanata dalle altre, nella corteccia
di un pioppo delle parole incideva
come un epitaffio alla bella ninfa,
che parlavano così da parte di ella:
‘’Sono Elisa, il cui nome risuona
E si lamenta il monte cavernoso,
testimone del dolore e della grave pena
in cui per me si affligge Nemoroso
e chiama ‘Elisa’; ‘Elisa’ a bocca piena

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risponde il Tago, e porta frettolosamente


al mare di Lusitania il mio nome,
dove sarà ascoltato, io mi fido.’’
Infine, in questa tela ingegnosa
Tutta la storia era raffigurata
Che in quella riva deliziosa
Di Nemoroso fu tanto celebrata,
perchè di tutto questo e ogni cosa
era Nise così informata
che, piangendo il pastore, mille volte ella
si intenerì ascoltando il suo lamento;
e perchè questo racconto lamentabile
non solo fra i boschi si raccontasse,
ma dentro delle onde si mostrasse
il sentimento con la notizia di questo,
volle che della sua tela la storia
della bella ninfa morta fosse nota
e così si pubblicasse ad uno ad uno
per l’umido regno di Nettuno.
Di queste tali storie variate
Erano le tele delle quattro sorelle,
le quali con colori sfumati,
chiaroscuri, delle ombre vane
mostravano agli occhi le cose
e figure che erano piane
in rilievo, tanto che all’apparenza
il corpo vano potesse essere preso
con la mano.
I raggi del sole si occultavano,
nascondendo la sua luce cara al mondo
tra gli alti monti, e alla luna davano
luogo per mostrare la sua bianca testa;
i pesci spesso saltavano,
con la coda colpendo l’acqua chiara,
quando le ninfe, lasciando il loro lavoro,
fino l’acqua si diressero camminando.
Nelle tiepide onde già messi
Avevano i piedi e volevano riposare
I corpi delicati quando le loro orecchie
Furono di due zampogne che toccavano
Soave e dolcemente trattenute,
tanto che senza muoversi le sentivano
e al suono delle zampogne ascoltavano

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due pastori che cantavano alternandosi.


Più chiaro si sentiva il suono ogni volta,
di due pastori che venivano cantando
tra il bestiame, che anche veniva
per quel verde fiume camminando
e alla stalla, passato il giorno,
le portano raccolte, rallegrando
i verdi boschi con il suono soave,
rendendo il loro lavoro meno pesante.
Tirreno, di questi due uno era,
Alcino l’altro, entrambi stimati
Su quanto pascolino la riva
Del Tago con le loro vacche abili;
Giovani della stessa età, d’una maniera
A cantare insieme accompagnati
E a rispondere, questo vanno dicendo,
cantando uno, e l’altro rispondendo:
TIRRENO: ‘’Flerida, per me dolce e saporita
Più della frutta dell’orto altrui,
più bianca del latte e più bella
del prato ad aprile pieno di fiori:
se tu rispondi pura e amorosa
al vero amore del tuo Tirreno,
alla mia stalla arriverai prima
che il cielo ci mostri la sua stella.
ALCINO: ’’Bella Filis, sempre io ti sia
Amaro al gusto più che la ginestra
E di te spogliato mi veda
Come resta il tronco del suo verde ramo,
Se più che io il pipistrello desidera
L'oscurità, né più la luce odia,
Per vedere la fine di questo lungo
giorno, per me più grande che di un anno.
Questo cantò Tirreno, e questo Alcino
Gli rispose, e avendo già concluso
Il dolce suono, proseguirono il loro cammino
Con un passo più frettoloso;
Essendo le ninfe vicine al rumore,
insieme si gettano in acqua a nuoto,
e della bianca spuma che mossero
le cristalline onde si coprirono.

EGLOGA I

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Il dolce lamentare di due pastori,


Salicio assieme e Nemoroso,
devo cantare, i loro lamenti imitando;
le quali pecore al cantare saporito
erano molto attente,
di pascolare dimenticate, gli amori,
ascoltando.
Tu, che guadagnasti con le tue imprese
Un nome in tutto il mondo
E un livello senza eguali,
ora che tu stia solo attento e dato
all’illustre governo dello stato
Albano, ora tornato all’altra parte,
raggiante, armato,
rappresentando sulla terra il fiero Marte;
Ora, che sia libero da cose gravose
E affari, per casualità
Tu vada a caccia, il monte percorrendo
Con un focoso cavallo che affretta
l’andatura fra i cervi timorosi,
che invano la loro morte vanno rimandando;
Aspetta, che al ritorno
Sarà restituito
L’ozio già perso,
poi vedrai esercitare la mia penna
per l’infinita, innumerevole somma
delle tue virtù e famose opere,
prima che mi consumi,
mancando a te, che a tutto il mondo superi.
Nel frattempo che questo tempo che immagino
Viene a tirarmi fuori dal debito un giorno
Che si deve alla tua fama e alla tua gloria
(che è un debito generale, non solo mio,
ma di qualunque ingegno pellegrino
che celebra ciò che è degno di memoria),
l’albero della vittoria
che cinge strettamente
la tua gloriosa fronte
che dia posto all’edera che cresce
in basso alla tua ombra e si alza
poco a poco, attaccata ai tuoi pianti;
e appena questo si canta,

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ascolta tu il cantare dei miei pastori.


Uscendo dalle onde acceso,
splendeva fra l’altura dei monti
il sole, quando Salicio, sdraiato
al piede d’una alta montagna, nel verde
per dove un’acqua chiara con suono
attraversava il fresco e verde prato,
esso, con il canto accordato
al rumore che risuonava
dall’acqua che scorreva,
si lamentava così dolce e delicatamente
come se non fosse da lì assente
colei che aveva la colpa del suo dolore,
e così come il presente,
ragionando con lei, le diceva:
Salicio: //NO//
Nemoroso: Acque correnti, pure, cristalline,
alberi che state specchiando in essi,
verde prato pieno di fresca ombra,
uccellini che qui spargete i vostri lamenti,
edera che per gli alberi cammini,
distorcendo il passo per il suo verde seno:
Io mi vidi così estraneo
Dal grande male che sento
Che di pura soddisfazione
Con la vostra solitudine mi ricreava,
dove con un dolce sonno riposavo,
o con il pensiero discorrevo
per dove non trovavo
altro che memorie piene d’allegria;
E in questa stessa valle, dove ora
Mi rattristo e mi stanco nel riposo,
stetti prima contento e riposato.
O bene caduco, vano e frettoloso!
Mi ricordo, dormendo qui qualche ora,
che, al risveglio, Elisa vidi al mio fianco.
Oh destino miserabile!
Oh tela delicata,
prima del tempo data
ai taglienti fili della morte!
Questa sorte sarebbe stata appropriata
Agli stanchi anni della mia vita,
che è più forte del ferro,

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visto che non la ha spezzata neanche


la tua forza.
Dove sono ora quegli occhi chiari
Che portavano dietro di sé, come appesa,
la mia anima, dovunque essi si diressero?
Dov’è la bianca mano delicata,
piena di trofei e spoglie
che di me i miei sensi le offrivano?
I capelli che vedevano
Con grande disprezzo all’oro
Come a minore tesoro
Dove sono, dov’è il bianco petto?
Dov’è il collo che i capelli dorati
Con graziosa proporzione sosteneva?
Tutto questo ora si interra,
per mia sfortuna,
nell’oscura, deserta e dura terra.
Chi mi avrebbe detto, Elisa, vita mia,
quando in questa valle al vento fresco
andavamo raccogliendo i teneri fiori,
che dovevo vedere, per lungo tratto,
venire il triste e solitario giorno
che abbia dato fine amaro ai miei amori?
Il cielo nei miei dolori
Caricò la mano tanto
Che a un eterno pianto
E una triste solitudine mi ha condannato;
e quello che mi dispiace di più è vedermi attaccato
alla pesante e fastidiosa vita,
solo, abbandonato,
cieco, senza luce nel carcere tenebroso.
Dopo che ci lasciasti, mai riesce
A saziarsi il bestiame, ne il contadino
Si occupa del campo in abbondanza;
Non c’è bene che in male non si trasformi e cambi.
La malerba affoga il grano, e nasce
Al suo posto l’infelice avena.
La terra, che volentieri
Produceva fiori
Con cui era solita
Rimuovere in solo VELLAS(?) mille fastidi,
produce ora in cambio questi ABROJOS(?),
che di rigore spine incoltivabili.

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Io faccio crescere
Con i miei occhi, piangendo,
il frutto miserabile.
Come al tramontare del sole l’ombra cresce,
e in essa cadendo il suo raggio, si alza
la nera oscurità che il mondo copre,
da dove viene il timore che ci spaventa
e la impaurita forma in cui s’offre
quella che la notte ci copre
fino a che il sole scopre
la sua luce pura e bella:
tale è la tenebrosa
notte dalla tua partenza in cui mi sono messo
dell’ombra e del timore tormentato,
fino a che morte il tempo determini
che a vedere il desiderato
sole della tua chiara vista che m’incammini.
Così come è solito l’usignolo con triste canto
Lamentarsi, fra le foglie nascosto,
del duro contadino che attentamente
gli portò via il suo caro e dolce nido
dei teneri figlioletti nel frattempo
che era assente dall’amato ramo,
e quel dolore che sente,
con tanta variazione
per la dolce gola
congeda che al suo canto l’aria suona(?),
e la tranquilla notte non frena
la sua occupazione lamentabile ed i suoi lamenti,
portando della sua pena
il cielo e le stelle come testimoni:
di questa maniera sciolgo io le redini
al mio dolore e così mi lamento invano
della durezza della morte adirata:
essa nel mio cuore mise la mano
e da lì mi portò il mio dolce pegno d’amore
che quello era il suo nido e la sua casa.
Ah, morte improvvisa,
per te mi sto lamentando
al cielo e infastidendo
con pianto inopportuno a tutto il mondo!
Il dolore ineguale non va incontro a un modo(?);
Non mi potranno togliere il dolorante

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Sentire se prima di tutto


Non mi tolgono il senso.
Ho una parte qui dei tuoi capelli,
Elisa, avvolti in un panno bianco,
che mai dal mio petto mi si separano;
li sciolgo, e da un grande dolore
mi sento intenerire che sopra essi
mai i miei occhi si stancano di piangere.
Senza che da lì si spezzino,
con sospiri caldi,
più che la fiamma ardente,
li asciugo dal pianto, e insieme
quasi li passo e conto uno ad uno;
li riunisco, con un laccio li lego.
Fra questo l’inopportuno
Dolore mi lascia riposare un po’.
Ma poi alla memoria mi si offre
Quella notte tenebrosa, oscura,
che sempre affligge questa anima meschina,
con la memoria della mia sfortuna:
mi sembra di vederti ora
in quel duro conflitto di Lucina;
e quella voce divina,
con cui suono e accenti
poterono calmare
gli adirati venti,
che ora è muta,
mi pare che sento, che alla crudele,
inesorabile Dea chiedevi
in quel passo aiuto;
e tu, rustica Dea, dove eri?
Ti importava tanto inseguire le bestie?
Ti importava tanto di un pastore addormentato?
Cosa poté determinare a tale crudezza
Che, commossa a compassione, udito
Non desti ai voti e alle lacrime,
per non vedere fatta la terra di tale bellezza,
o non vedere la tristezza
in cui è il tuo Nemoroso, il suo riposo
era seguire il tuo compito, inseguendo
le bestie per i monti e offrendo
alle tue sacre rovine
(?) le spoglie?

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E tu, ingrata, ridendo


Lasci morire il mio bene davanti i miei occhi!
Divina Elisa, quindi ora il cielo
Con immortali passi calpesti e misuri,
e il suo cambiamento vedi, stando immobile,
perchè di me ti dimentichi e non chiedi
che il tempo si affretti in che questo velo
rompa il corpo e possa vedermi libero,
nella terza sfera,
con te mano a mano,
cerchiamo altra pianura,
cerchiamo altri monti e altri fiumi,
altre valli fiorite e ombre
dove riposi e sempre possa vederti
davanti ai miei occhi,
senza paura di perderti?
Mai misero fino al triste pianto
I pastori, ne furono terminate
Le canzoni che solo un monte ascoltava,
se guardando le nuvole colorate,
al tramontare del sole ricamate d’oro,
non vedevano che era già passato il giorno;
l’ombra si vedeva
venire correndo rapidamente
per la falda(?) spessa
dell’altissimo monte, e svegliandosi
entrambi come dal sonno, e tramontando
il fuggitivo sole, scarso di luce,
portando il loro bestiame,
si andarono raccogliendo passo a passo.

ELEGIA I
Anche se questo grave caso abbia toccato
Con tanto sentimento la mia anima
Che necessito di conforto,
con il quale dal suo dolore la mia immaginazione
si calmasse un poco e terminasse
il mio continuo pianto ostinato(?),
Volli, però, provare se mi bastasse
L’ingegno a scriverti alcun conforto,
lo stato in cui sono, che avesse l’effetto
perchè il tuo recente sconforto
la furia mitigasse, se le muse

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possono un cuore risollevare dal suolo


e porre fine ai lamenti che utilizzi,
con cui dal Pindo le abitatrici
si mostrano addolorate e confuse;
Secondo ciò che ho saputo, ne nelle ore
In cui il sole si mostra, ne nel mare che si nasconde,
dal tuo stato piantoso non migliori,
al contrario, in esso permani dove
vuoi che sia(?), i tuoi occhi sempre bagni,
e in pianto al tuo dolore così risponde
che temo di vedere le tue viscere disfatte
in lacrime, come il piovoso vento
si scioglie la neve nelle montagne.
Di questa maniera colui, per cui divide
Il tuo cuore mille sospiri al giorno
E risuona il tuo pianto in ogni parte,
salì per la difficile e alta strada,
della mortale carne epurato e puro,
nella dolce regione dell’allegria,
dove con discorso libero(?) già e sicuro
guarda la vanità dei mortali,
ciechi, vagando nell’aria scura,
e vedendo e contemplando i nostri mali,
si rallegra di aver alzato il volo
e godere delle ore immortali.
Schiaccia l’immenso e cristallino cielo
Tenendo posto d’una e d’un’altra mano
Il chiaro padre e il sublime nonno:
Uno vede del suo percorso umano
Le sue virtù essere lì presenti,
che il duro cammino fanno piano;
l’altro, che qui fece fra la gente
nella vita mortale meno ritardo,
le sue ferite mostra lì raggianti.
(Di esse questo premio lì si raggiunge
Perchè al nemico non conviene
Procurare nel cielo un’altra vendetta.)
Guarda la terra, il mare che la contiene,
tutto il quale per un piccolo punto
rispetto al cielo la considera e giudica;
posta la vista in quel gran ritratto
e specchio dove si mostra il passato
con il futuro e il presente insieme,

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il tempo che alla tua vita ti resta


lì in alto è, Fernando, guarda,
e lì vedi il tuo posto già destinato.

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