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Premessa

Gli studi sulla cultura siciliana nel primo Cinquecento sono poco soddisfacenti a
causa di uno scollamento sempre più forte tra la penisola e la Sicilia dovuto a una
sistematica emigrazione degli autori più celebri verso Napoli, Roma, penisola iberica.
La produzione storiografica è quasi sempre d’impianto erudito e dal tono
encomiastico, e quindi in Sicilia restano in ombra anche le ‘novità’ che segnano il
pensiero religioso italiano del XVI sec.
Una svolta si ebbe con il rinvenimento dell’inventario di quasi 300 libri appartenenti
a Ettore Pignatelli, viceré a Palermo tra il 1517 e il 1535, il quale ha fornito notizie
preziose per una migliore comprensione delle condizioni dell’isola e della
pentrazione in essa di fermenti intellettuali e di rinnovamento religioso.
Seppure laico, nell’inventario di Pignatelli i molti testi teologici sono indice
dell’affievolimento del monopolio dell’istituzione ecclesiastica nell’ambito del
pensiero religioso: gli uomini colti vogliono conoscere direttamente. Vi è anche un
maggior numero di testi platonico-ermetici che indagano il rapporto tra individuo e
universo, secondo la concezione che considera l’uomo un microcosmo nel cosmo.
D’altro canto, essendo Ettore ai vertici di una Corte, non mancano le opere destinate
alla formazione del perfetto gentiluomo di Corte (Il Cortegiano di Castiglione, testi di
arte militare, falconeria e mascalcia).
La biblioteca di Pignatelli rivela un importante aspetto della sua personalità: sembra
infatti che egli abbia accompagnato la lettura alle sue scelte pratiche, dunque i libri
sono viatico del viceré anche nell’esercizio dell’attività di governo. E lo sono anche
per il suo entourage, probabilmente influenzato da queste letture visto che fu
connotato anch’esso da profetismo e neoplatonismo.

PARTE I
Cap I: Fortuna e ascesa di un nobile partenopeo
Quello di Pignatelli è un antico casato napoletano, le cui origini sono state ricercate
nei Longobardi, nella discendenza dei duchi di Benevento. Tuttavia, certo è solo che
è figlio di Carlo Pignatelli e Mariella Alferio, fratello di altri 7 fratelli.
Tra i fratelli, quelle di cui sappiamo di più sono le vicende della sorella Caterina,
sovente intrecciate con quelle del fratello Ettore, futuro viceré: essa, infatti, si sposò
nel 1469 con un grande feudatario rimasto vedovo, il conte di Fondi, e sembra avere
un ruolo principale nell’agevolare la carriera dei fratelli e, persino, nell’assicurare il
loro sostentamento. Ella assume una posizione di rilievo nei confronti del fratello
Ettore quando a questo fu donato una baronia e un feudo per favorire il suo
imparentamento nel 1489 con Ippolita Gesualdo, figlia del primo conte di Conza e
titolare di numerosi feudi.
Ettore, quindi, aveva iniziato l’ascesa nell’ambiente della feudalità fedele alla
dinastia aragonese ed era già sposato. Dal loro matrimonio nacquero tre figli:
Camillo, Costanza e Isabella.
Mentre il sodalizio con la sorella Caterina continuava, nel 1495 Ettore fu inviato dal
re di Napoli in Spagna (ciò attesta il prestigio di Ettore) probabilmente in occasione
della discesa in Italia di Carlo.
Carlo VIII di Valois, ormai padrone di Napoli, ed Ettore Pignatelli sembrarono avere
un ottimo rapporto, ma dal luglio dello stesso anno (1495) regnarono tensione e
confusione, tanto che Caterina, Ettore e Fabrizio vennero condannati per fellonia
come partecipanti alla ribellione contro Carlo VIII. Da questo reato verranno assolti
soltanto nel 1502 da Luigi XII, nuovo sovrano di Napoli.
Nel corso del 1501, comunque, il progressivo deteriorarsi della situazione politica e
la rinnovata minaccia militare francese, accrebbero l’importanza di Ettore agli occhi
di Federico d’Aragona (re di Napoli), che gli concesse in feudo, con il titolo di conte,
le terre di Borrello, Rosarno, Misiano.
Il 14 maggio 1503, Napoli venne unita al regno di Sicilia sotto il governo di
Ferdinando il Cattolico (spagnolo). L’anno successivo Ettore continuò ad
incrementare i propri studi e venne considerato da Ferdinando come uno degli
uomini di governo dei quali poteva maggiormente fidarsi.
Nel 1517 il re lo nominò luogotenente e capitano generale del regno e gli conferì
l’incarico di viceré, consapevole dell’instabilità dell’isola in seguito alla rivolta
palermitana e alla cacciata del viceré Moncada.
L’anno successivo il parlamento siciliano abilitò, come di consueto, Ettore a poter
esercitare qualunque ufficio e ottenere qualunque beneficio in Sicilia.
Nel 1521 morì la moglie Ippolita, lasciandolo erede dei propri beni.
Il lungo governo di Pignatelli fu costellato da riconoscimenti del ruolo svolto al
servizio del sovrano. Nel 1527 Carlo V gli attribuì il titolo di duca di Monteleone,
luogo che assunse nel tempo un valore affettivo sempre più rilevante.
Ettore Pignatelli morì il 7 marzo del 1535. Si concludeva così la vicenda terrena di un
viceré che aveva governato la Sicilia per più di 18 anni, lasciando di sé il ricordo di
uomo pio e saggio.
Cap. II: Viceré in Sicilia
In Sicilia la gestione di Ugo Moncada, viceré di Ferdinando il Cattolico dal 1509,
venne fortemente criticata per la diversa concezione politica dei baroni (questioni
finanziarie). Così, quando Moncada, alla morte di Ferdinando, si rifiutò di
abbandonare la carica, com’era uso fare, a Palermo scoppiò una rivolta che si estese
rapidamente a tutta l’Isola. I protagonisti dei tumulti erano Pietro Cardona, il
marchese di Geraci, quello di Licodia, il conte di Cammarata, il tesoriere del regno.
Ugo Moncada venne quindi allontanato dal regno.
Qualche mese dopo, fece il suo ingresso Ettore Pignatelli. Carlo V, eletto imperatore
nel 1519, decise di inviarlo in Sicilia poiché conosceva i meriti del conte di
Monteleone, le sue capacità di operare in accordo con la corona e di attuare una
politica morbida ma efficace. Eppure, nonostante Pignatelli avesse tra l’altro
allontanato forzatamente i protagonisti dei tumulti, non tardarono le sommosse di
chi riteneva il potere centrale ancora debole da consentire l’affermazione di
interessi particolari: uniti nell’opposizione alla Corona troviamo Giovan Luca
Squarcialupo, esponenti di alcune famiglie feudali ed alcuni soggetti delle classi
meno abbienti sempre pronti a farsi utilizzare da chi fomentava insurrezioni.
Per questo motivo venne consigliato al Viceré di chiedere l’appoggio di Guglielmo
Ventimiglia, il quale accettò la carica di capitano di giustizia a Palermo. Seppure
Ettore lo considerasse “il capo occulto dei sediziosi”, accolse il consiglio e diede il via
all’eliminazione dei congiurati che vennero invitati presso una chiesa con la scusa di
voler trattare la pace. Pignatelli però, quello stesso giorno, si diede alla fuga
imbarcandosi per Messina. La storiografia vide in questo gesto l’indolenza,
l’inoperosità del viceré, ma è più probabile che quella che sembrò una fuga
rappresentasse una prova per la fedeltà degli alleati e una messa in sicurezza del
rappresentante dell’autorità sovrana. Nonostante l’assenza di Ettore, l’incontro
andò comunque come previsto e i congiurati vennero trucidati o puniti.
Tuttavia, i tumulti continuarono a dilagare, ma Ettore Pignatelli riuscì a sedarli grazie
all’aiuto delle truppe spagnole arrivate da Napoli.
Il 28 maggio 1518 Ettore ricevette la nomina di Viceré. La situazione, però, non era
tranquilla: le minacce dei turchi, i riflessi militari e finanziari della lotta tra Carlo V e
Francesco I re di Francia, il ruolo sempre più importante della Sicilia nella politica
internazionale si intrecciarono con le aspettative di quanti continuavano a tramare
per cercare nuovi spazi di potere.
Il 25 giugno 1522 Ettore convocò il nuovo parlamento a Messina per discutere della
lotta contro una politica fiscale ritenuta iniqua. Nello stesso periodo egli riuscì a
scoprire dei congiurati siciliani esuli a Roma e li fece giustiziare. In linea di massima,
il suo progetto era volto a rafforzare il potere regio non solo con la repressione, ma
anche con l’appoggio e la ricompensa dati ai feudatari che si fossero dimostrati
fedeli alla Corona, come avvenne con la redistribuzione a chi lo aveva sostenuto dei
beni confiscati a chi aveva congiurato contro di lui a Messina nel 1523.
Un’altra difficoltà che fu costretto a fronteggiare fu il “caso di Sciacca”, banco di
prova sul quale venne misurata l’efficacia della politica di Pignatelli. A Sciacca, da
tempo era in atto una contesa della gestione del potere tra la famiglia Luna e la
famiglia Perollo, contesa che stava finendo per coinvolgere anche la Corona, poiché
Pignatelli aveva inviato un capitano d’armi (per impedire la guerra civile) che era
stato ucciso, e inoltre Perollo, nonostante la richiesta di protezione fatta a Ettore (si
erano conosciuto in Spagna a Corte di Ferdinando), venne ucciso durante uno
scontro tra le due fazioni.
Il viceré, così, in quest’occasione affermò la sua funzione super partes, inviò due
giudici della Gran Corte e 2000 soldati contro Sigismondo Luna, che resosi conto di
non avere scampo fuggì a Roma a cercare protezione. Carlo V però non concesse la
grazia e sequestrò i possedimenti della famiglia Luna. Sigismondo si buttò nel
Tevere.
Col caso di Sciacca la feudalità siciliana dovette riconoscere che gli unici spazi
d’intervento che le rimanevano erano possibili attraverso la piena fedeltà al
sovrano. Era l’eliminazione delle spinte particolaristiche.
Assieme a ciò, Pignatelli affiancò il riordinamento del sistema giuridico, burocratico-
amministrativo e fiscale.
Per la corretta amministrazione della giustizia:
 Si ebbe l’annullamento del duello nel 1523 usato per ottenere soddisfazione
per le offese arrecate al proprio onore.
 Incaricò i giuristi messinesi Pietro de Gregorio e Salvo Sollima di curare
un’edizione dei capitoli del regno, una raccolta normativa con finalità
pratiche e regolamentari.
 Fece pubblicare le prammatiche, leggi e regolamenti di ordine pubblico e
fiscale.
 Tra il 1519 e il 1533 furono assunti dei provvedimenti volti a garantire il buon
funzionamento della giustizia, per evitare influenze o pressioni esterne, abusi
(i magistrati non potevano prendere provvedimenti prima di aver trasmesso
al viceré le scritture e le suppliche), possibilità di frode e ci fu un
inasprimento delle pene per i magistrati corrotti (non si poteva essere
contemporaneamente difensori di una delle parti e giudici della stessa causa)
e per i corruttori.
Per rafforzare i poteri punitivi pubblici con la possibilità di agire ex officio:
 Agli accusati furono concessi 8 giorni per raccogliere le prove della loro
innocenza e fu ordinato che si procedesse comunque all’esecuzione se non
avessero provato i legittimi motivi della ritrattazione.
 Aggravò le pene nel caso di violazione di tregua tra faide familiari, con
l’intervento del fisco contro i trasgressori, a favore della parte offesa.
 Inasprì le condanne e confermò la pena di morte per gli autori di pamphlet o
manifesti calunniosi.
 Applicò il divieto di portare con sé armi nei luoghi abitati o nel caso di riunioni.
Un posto particolare in queste nuove regole istituzionali lo occupò la riforma della
finanza pubblica: già durante gli ultimi anni del governo Moncada, si era
ampiamente diffusa la circolazione di monete false, perciò Ettore adottò delle
misure molto rigide che prevedevano addirittura confische e pene di morte contro i
falsari.
Altra riforma rilevante fu quella dello Studio catanese: l’università etnea era l’unica
esistente in Sicilia, sviluppatasi nel corso del XV secolo, impartiva insegnamenti di
teologia, diritto canonico e civile, fisica, filosofia, dialettica, retorica, grammatica.
Essa era totalmente gestita a spese del sovrano e la sua esistenza era volta a giovare
alla Corona, ma la mancanza di denaro influiva negativamente sulla qualità
dell’insegnamento, per nulla brillante, e vane erano le richieste di aiuto alle
istituzioni ecclesiastiche. Una svolta si ebbe nel 1522 con la presentazione di una
nuova supplica al parlamento: la preoccupazione principale di Pignatelli fu quella di
tutelare la qualità dell’insegnamento, determinando il numero delle cattedre,
fissando i salari dei docenti e degli ufficiali e affidando al vescovo cancelliere il
compito di presiedere le elezioni dei lettori e di garantire la correttezza delle
operazioni di voto. Inoltre, alle cattedre già esistenti Pignatelli aggiunse quella di
diritto feudale.
Durante la permanenza nell’isola, il viceré mostrò anche una certa attenzione verso
le arti: la numerosa presenza di quadri a soggetto religioso nella sua dimora
palermitana conferma sia la sua particolare devozione sia il suo gusto. Così come
alcune committenze affidate ad artisti quali Vincenzo degli Azani (artista non molto
apprezzato in quel periodo), al quale commissionò una Natività, e Antonello Gagini
(scultore già affermato), al quale commissionò alcune opere per chiesa e convento
di Monteleone, documentano il suo interesse per l’arte figurativa e plastica.
PARTE II
Cap. I: L’inventario della biblioteca
L’esistenza di un ampio inventario dei libri redatto pochi giorni dopo la sua morte, ci
consente di delineare una biografia intellettuale (impossibile pensare a libri giuntigli
in eredità, vista la grande omogeneità dei contenuti che essi hanno: è un percorso),
o almeno un quadro degli orizzonti della cultura europea di quegli anni. Tuttavia,
bisogna precisare che l’inventario, fatto in fretta e con incompetenza, è volto solo a
consentire una individuazione dei volumi, quindi spesso non sappiamo se sono
manoscritti o stampa, luoghi o edizione, e le indicazioni di autore e titolo sono
sommarie e imprecise.
Durante l’inventario della biblioteca di Ettore Pignatelli vennero trovati molti libri
devozionali (prediche, vite dei santi, raccolte di esempi e martirologi), indice di
letture obbligate di ogni credente vissuto tra XV e XVI sec., al quale tocca sopperire il
vuoto catechistico, lo scarso impegno della Chiesa nella formazione delle coscienze,
attraverso lo studio personale: troviamo quindi la Legenda aurea di Iacopo da
Varazze (1230-1298) che costituì ‘il breviario dei laici’. Altri testi ritrovati furono
l’Horologium devotionis circa vitam Christi, la Passio Christi in metris, gli Specula, libri
di formazione e di preghiera nei quali la felicità della vita spirituale viene
contrapposta alle miserie della vita materiale.
Più complesso è invece il panorama offerto dalle opere teologico-filosofiche, tra le
quali troviamo gli indirizzi prevalenti nella speculazione dei secoli basso-medievali. Il
filone dell’interpretazione della storia umana in chiave provvidenziale è ripreso da
Ruperto di Deutz, abbate che nel De victoria Verbi Dei apporta significative
innovazioni alla concezione agostiniana, ricollegando gli avvenimenti storici alla
manifestazione del processo trinitario. Egli scrive in un momento di violento scontro
tra Chiesa e Impero, tentando di creare una sorta di teologia della Storia per
dimostrare come tutto avvenga in preparazione dell’incarnazione di Cristo.
Un’opera diventata fondamentale nell’insegnamento teologico e che in molti
continuarono a commentare negli anni in cui Ettore Pignatelli visse, furono i Libri
quattuor Sententiarum di Pietro Lombardo, opera che ha riunito sententiae o
dichiarazioni autorevoli sui passi biblici.
Uno dei primi e più autorevoli commentatori fu Bonaventura da Bagnoregio che
elabora una vasta sintesi dell’agostinismo medievale e ribadisce il primato della
teologia su ogni ramo del sapere. Egli ritiene l’universo totalmente dominato dalla
presenza divina e rifiuta di considerare la natura come fine a sé stessa.
Al suo pensiero si contrappone l’interpretazione dei testi aristotelici operata da
Tommaso d’Aquino e dalla scuola domenicana. Tommaso scrisse la Summa
theologiae, in cui adopera il cristianesimo come una delle fonti che consentono lo
sviluppo della filosofia, fine ultimo dell’universo perché conduce alla verità.
Allo stesso tempo, oltre al tomismo di Tommaso (prevalente nel periodo di
Pignatelli) e l’indirizzo di Agostino (ancora sostenuto da alcuni commentatori), a
partire dal XV secolo si affacciano nuove prospettive negli ambienti intellettuali per
effetto dell’umanesimo: vi è una ripresa di interesse verso il platonismo attraverso
la riscoperta, la traduzione e diffusione dei testi del filosofo greco a opera del
fiorentino Marsilio Ficino. Se l’aristotelismo puntava ad una rinascita della ricerca
razionale e naturalistica, il platonismo valorizzava l’urgenza di una rinascita religiosa
attraverso il ritorno a Platone, considerato massima sintesi delle religiosità antica. La
tradizione neoplatonica appare come una filosofia propria di tutta l’umanità, una
filosofia che attraversando le meditazioni dei saggi di ogni tempo (da Ermete
Trismegisto a Pitagora a Platone) scopre l’idea di una eterna rivelazione comune a
tutti i popoli e culminata in modo esemplare nel cristianesimo.
Tale sincretismo e ricerca della verità nelle più diverse correnti filosofico-religiose
costituiscono il fondamento anche della riflessione di Giovanni Pico della Mirandola,
che si riallaccia al pensiero neoplatonico di Marsilio Ficino senza però occuparsi della
polemica anti-aristotelica. Secondo Pico della Mirandola la verità è unica e di
conseguenza il pensiero umano è unitario, dunque gli esponenti di queste dottrine
hanno espresso soltanto una parte di verità, un aspetto di essa.
Il tentativo di conciliare aristotelismo e platonismo assume, con Agostino Nifo (XVI
sec), oppositore di Pico, aspetti sincretici diversi da quelli propri dell’età precedente,
trovando un accordo tra aristotelismo e platonismo nella teoria della
trasmigrazione.
Nei primi decenni del Cinquecento, oltre a platonismo e sincretismo, trovò spazio
anche l’aristotelismo tomista con Tommaso de Vio che scrisse: commenti sulla
Summa theologiae, Opuscola, commenti ai Vangeli e alle epistole di Paolo, ai libri del
Vecchio Testamento e ai Salmi, mettendo in dubbio i capisaldi della teologia
attraverso un’analisi simile alla critica testuale (l’ultimo capitolo del Vangelo di
Marco non è autentico, discute le attribuzioni di alcune Epistulae canoniche).
Negli stessi anni si vide una vivace ripresa di un filone antico quale quello profetico
o escatologico-apocalittico, frutto dei radicali cambiamenti dell’epoca. Gioacchino
da Fiore (XIII sec) nelle sue opere suddivide la storia dell’umanità in tre epoche,
ognuna delle quali posta in relazione con una persona della Trinità. Tuttavia, la
dottrina escatologica per lui non è un mero strumento di interpretazione del
passato, ma strumento capace di prospettare il futuro: applicando questo articolato
sistema all’epoca in cui vive, Gioacchino deduce che l’età iniziata con l’incarnazione
di Cristo è anche l’ultima, in seguito alla quale la Chiesa sarà purificata dai propri
mali. Tra i visionari e profeti nella crisi della chiesa medievale (scisma avignonese,
1300), invece, troviamo Brigida, principessa divenuta autorevole profetessa di un
ritorno della sede papale nelle rive del Tevere grazie alle sue Revelationes.
Influenzato dalla riflessione gioachimita e spinto ad aspirazioni escatologiche dalla
necessità di una riforma morale e di lotta alla corruzione (Gioacchino+Brigida) è
Girolamo Savonarola, frate ferrarese che profetizzò sciagure per Firenze e per l’Italia
propugnando un modello teocratico per la Repubblica fiorentina instauratasi dopo la
cacciata dei Medici, influenzato sia da Aristotele e Tommaso d’Aquino.
Per quanto riguarda il mondo classico, nell’inventario della biblioteca del Pignatelli
si nota una presenza marginale di tali testi, che venivano probabilmente usati più
che altro non per la conoscenza del passato, ma per la quantità di nozioni tecnico-
pratiche che da essi si potevano trarre (l’architettura da Vitruvio, l’agricoltura da
Columella ecc.). Altre letture classiche sono quelle comuni durante il Medioevo:
Seneca, Cicerone, Sallustio, Esopo, Gellio, Curzio Rufo.
Alcuni autori indicano intenti di edificazione, o forse solo conoscenza del
cristianesimo antico: Ambrogio, i Sermones di Leone papa, le opere di Gregorio
Magno ecc. Altri ancora, invece, indicano l’attenzione di Ettore per le origini del
cristianesimo e della Chiesa: traduzioni di autori cristiani greci. (Clemente Romano,
Ignazio di Antiochia ecc.)
Nel XVI secolo si fa strada la corrente dell’umanesimo cristiano, volto a conciliare i
principi base dell’umanesimo con il cristianesimo, mettendo l’uomo al centro della
chiesa, valorizzando il rapporto personale e individuale con Dio e favorendo lo
studio filologico dei testi sacri. Il maggior esponente di questa corrente fu Erasmo da
Rotterdam, che pone le Scritture e i Padri al centro della propria ricerca filosofica e
spirituale. Erasmo formulò una nuova teologia: nel Moriae encomium biasima la
religiosità formalistica, il malcostume dei sacerdoti e laici, l’avidità dei governanti,
l’indegnità di vescovi, cardinali e papi; nei Colloquia familiaria prende di mira i vizi
della società del tempo e colpisce i costumi del clero, la superstizione, l’ignoranza di
larga parte del mondo cristiano. Fece inoltre una critica testuale della Bibbia, del
Nuovo Testamento, una parafrasi delle Lettere di Paolo, dei Vangeli di Giovanni e
Marco, degli Atti degli apostoli. Infine, mise in discussione il sacramento della
confessione, condotta in maniera scandalosa dai sacerdoti, esula da ciò che
dovrebbe essere: un dialogo fra l’uomo e Dio.
L’edizione erasmiana del testo greco del Nuovo Testamento e la versione latina che
l’accompagna interrompono il predominio della Vulgata, ponendo le basi per la
focalizzazione sul rapporto diretto lettore-libro: la lettura è un fatto privato, il
contenuto dei testi sacri non è exemplum per la comunità, ma mezzo per la ricerca
dell’esperienza religiosa del singolo fedele. In questo clima, Antonio Brucioli matura
il proposito di una versione italiana del Nuovo Testamento, sulla base
dell’interpretazione latina del testo pubblicata da Erasmo, praticando la scelta di
separare il Nuovo Testamento dall’Antico Testamento.
Uno dei testi più letti e studiati, poiché contente il cuore teologico della
problematica dell’apostolo, nei primi decenni del Cinquecento furono le Epistole di
Paolo, commentate per la prima volta in maniera innovativa da Lefèvre d’Etaples,
esegeta francese che si differenzia da Erasmo. Infatti, per lui la Scrittura è dono di
Dio e la sua comprensione è opera della grazia: la pagina è luogo di incontro tra il
Creatore e la creatura che si realizza grazie alla pietas divina.
Da un’opera, l’Unio dissidentium di Bucero, trovata nella biblioteca, si è giunti alla
conclusione che chi scrisse i titoli sui dorsi (in questo caso appositamente generico e
fuorviante) avesse l’intenzione di nascondere opere appartenenti agli ambienti
eterodossi e di autori riformati: è possibile sospettare che il volume indicato nel
volume come Lu zero contenesse uno o più scritti riformatori.
Durante il Rinascimento si rielabora il rapporto uomo-natura, dove domina l’idea di
una stretta correlazione tra mondo naturale e uomo. Non pare strano quindi che
quest’ultimo faccia di tutto per conoscere ogni aspetto del mondo naturale in cui
vive e con cui è in universale armonia. Troviamo così libri che trattano i problemi
teologici posti dalle scoperte geografiche, come quello di Isidoro Isolano, dove
discorre della predicazione nelle nuove terre e della conversione degli infedeli. Ma
anche libri di astronomia, sviluppata nell’ultimo Medioevo grazie alla riscoperta del
De coelo di Aristotele, compendiato più volte. Su tale base poi si elaborano i lavori
fondati sull’uso della matematica per le previsioni intorno al moto degli astri – da
precisare che astronomia e astrologia sono complementari qui: miscela di fisica
aristotelica, astronomia tolemaica e misticismo neoplatonico che rispecchiano l’idea
della centralità dell’uomo in armonia con il resto, microcosmo nel cosmo. Anche la
medicina si sviluppa (l’opera da cui si parte è quella fondamentale del Medioevo: il
Canon medicinae di Avicenna), visto che è conoscenza del corpo umano e delle
possibilità di curarlo, e visto anche che esso è formato da parti che collaborano per
far funzionare l’intero: del XVI sec è Giovanni da Vigo, che si occupa di vasi
sanguigni, emorragie e ferite provocate da armi da fuoco.
Se l’uomo-microcosmo è partecipe della ragione divina negli astri, nei suoi studi e
nelle sue azioni, lo è anche nella natura mondana. Su questa linea si collocano le
opere del primo Cinquecento che guardano alla formazione dell’uomo nell’ambito
familiare e all’interno delle Corti: è la renovatio hominis umanistica. Nel De liberis
instituendis di Iacopo Sadoleto si hanno nozioni finalizzate a educare il fanciullo
attraverso non solo le lettere, ma anche le scienze e le arti, che formano
moralmente, con l’obiettivo di realizzare l’ideale rinascimentale dell’uomo che
conquista la piena consapevolezza delle cose e il dominio di sé. Di questa gamma fa
ovviamente parte anche il Cortegiano di Baldassar Castiglione. Ma per tenere a
mente tutte queste nozioni è importante tenere allenata la memoria, per questo
nella biblioteca del Pignatelli sono presenti anche libri di mnemotecnica. E oltre alla
memoria, bisogna allenare anche il corpo, mediante l’uso delle armi e la cavalleria,
ritenute da Castiglione fondamentali per il buon cortigiano: per questo motivo è
presente nella biblioteca un libro de armeria, così come alcuni di mascalcia. Allo
stesso tempo, l’esercizio dell’arte militare va affiancato alla conoscenza delle
vicende storiche, ecco perché troviamo il De vitis pontificum di Bartolomeo Sacchi,
tentativo quattrocentesco di comporre per la prima volta una storia dei papi senza
fini apologetico-religiosi divenuto famosissimo sino al 1600. Insieme alla storia del
papato, si affianca anche un interesse per la storia dell’impero, vista come un
continuum che da Giulio Cesare giunge fino a Massimiliano d’Asburgo nel De
caesaribus libri tres del veneziano Giovan Battista Cipelli. La formazione culturale del
cortigiano si completa con la lettura di testi poetici che hanno scarsa parte tra i libri
di Pignatelli: non manca l’opera di Dante, i versi del Petrarca, caratteristico del
costume dell’epoca e nuova norma di stile cortigiana.
È però anche vero che Pignatelli, in quanto viceré, deve appropriarsi delle idee che
stanno a fondamento della capacità di governare gli uomini e di dominare la
politica. A tal proposito non può mancare il Principe di Niccolò Machiavelli, opera
che per la prima volta offriva, attraverso l’osservazione storico-empirica dei
fenomeni politici (che sono in parte costanti nel loro ripresentarsi), applicazioni utili
per la pratica. L’opera ebbe ovviamente grande successo e fu addirittura oggetto di
plagio (il caso più noto è quello scritto da Agostino Nifo, che però voleva solo
tentare di mettere a disposizione della nobiltà meridionale la tecnica politica ideata
da Machiavelli).
Se è presente la scienza della politica, sembrano invece assenti le opere giuridiche,
forse però ciò è dovuto alla marginalità che gli esperti di diritto avevano avuto a
partire dal XV secolo con l’affermazione di principati e monarchie nazionali, che a
stento li usavano come consiglieri. Non deve stupire quindi che tra i libri di Ettore
manchino le opere di Giustiniano. In parte questa mancanza viene colmata con
lavori meno tecnici che mischiano etica e diritto, a metà tra riflessione teologica e
pensiero giuridico.
Un libro come De subvenzione pauperum, reca invece l’attenzione verso un
problema europeo nato nei suoi tempi (di Ettore): nel XVI secolo in Germania, Paesi
Bassi, Francia e Italia settentrionale cresce un processo di riorganizzazione radicale
del sistema di assistenza ai poveri che elimina quasi del tutto il ruolo della Chiesa
nell’aiuto degli indigenti per trasferirlo ad organi istituzionali. Allo stesso tempo
vengono banditi i mendicanti e i poveri vengono indirizzati ai lavori, al fine di
costruire una società basata sull’ordine e il rigore – d’altronde lo stesso Pignatelli
con una prammatica del sovrano nel 1527 ordina l’espulsione dall’isola di tutti i
vagabondi e i facinorosi.
PARTE III (tendenze culturali e dissenso religioso)
Cap. I: Cultura in Sicilia tra Quattro e Cinquecento
Descrivere l’ambiente intellettuale nel quale Ettore visse e operò (dal 1517 al 1535)
è presupposto necessario per comprendere se i testi più significativi presenti nella
sua biblioteca abbiano avuto incidenza nella circolazione delle idee in Sicilia. Ma non
abbiamo studi specifici. Indagini più numerose sono invece state condotte sugli
autori del secolo precedente, e ne risulta che la cultura siciliana è scollata dal
movimento umanistico del continente, anche a causa della costante emigrazione
intellettuale. È quindi verosimile che il legame con la penisola tese a rarefarsi
ulteriormente a fine secolo, ed è quindi chiaro che l’università catanese (1445) non
servì a nulla se non a fornire medici e legisti. Ne concludiamo che nella Sicilia del
‘400 prevalse una cultura “municipalistica, di limitati interessi, del tutto ligia al
potere”: l’umanesimo siciliano fu incapace di esprimere messaggi speculativi.
Probabile, perciò, che la cultura siciliana restò anche nel corso del XVI sec lontana
dal processo del grande Rinascimento ariostesco e machiavellico.
La maggior parte degli intellettuali del XVI sec operò prevalentemente fuori
dall’isola: un primo gruppo attivo a Roma, un secondo a Napoli, e un terzo,
soprattutto nei primi decenni, in stretta relazione con il mondo iberico. In questi
stessi anni ebbe successo la poesia in volgare. Il modello retorico fu ovviamente
quello continentale e la lirica degli epigoni di Petrarca si manifestò con Antonio da
Paternò, Tornabene, Bartolomeo d’Asmundo ecc. Quest’ultimo in particolare nei
suoi versi riprese il tema petrarchesco della morte e della cattiva sorte
sicilianizzandolo e rielaborandolo in chiave di amaro fatalismo. Ebbero poi larga
fortuna anche agiografi e autori di inni sacri, come notiamo dalla Vita e martirio di
sant’Agata di Giovanni Dies, che si ricollega al racconto dei molti miracoli operati
dalle reliquie dopo la traslazione della salma da Costantinopoli a Catania; ma anche
dalla Scala de vertuti di Jacopo Mazza.
Per quanto riguarda la storiografia dei primi decenni del ‘500, essa fu
contrassegnata da due tendenze: una di tipo ufficiale encomiastico, dovuta
all’accentramento dei poteri reali e vicereali, e una di tipo cronachistico/locale e
municipalistico, utile solo per l’esposizione di un punto di vista sullo
scontro/rivendicazione politico. Lo storico più autorevole del periodo fu Bernardo
Gentile, appartenente all’ordine dei predicatori e cronista di Corte, il quale scrisse
un poema latino presentato al sovrano e il Carmen dedicato a Carlo V imperatore.
Per quanto riguarda la teologia e la filosofia è difficile capire quale sia stato il livello.
Sappiamo infatti che queste discipline erano insegnate nell’università catanese e che
i principali centri conventuali avevano proprie scuole, ma la produzione
documentata è estremamente ridotta. Tuttavia, non possiamo escludere il fermento
di questi studi in Sicilia. Tra i trattati di filosofia va ricordata l’opera di un allievo di
Nifo, e quella di Matteo Selvaggio.
Cap II: I libri di Pignatelli e la cultura siciliana contemporanea
Il quadro tracciato presenta elementi di conformità e di dissonanza con i testi
contenuti nella biblioteca di Ettore. Le narrazioni agiografiche trovano riscontro
nella presenza del Martyrium di Sigonio; al contrario, gli studi di retorica e
grammatica tanto largamente praticati non attraggono l’attenzione di Ettore (manca
addirittura un’opera di questo genere a lui dedicata sui rudimenti della grammatica).
Documentata è invece la presenza di poeti come Francesco di Paola o Priamo
Capozio, il quale fu erudito siciliano umanista che tentò di sviluppare una poesia
colta e cristiana dietro il velo della mitologia classica. Troviamo poi interesse per la
storiografia locale e anche trattati di agricoltura (Antonio de Venuto).
Come si nota, solo in parte i libri del Pignatelli risultano consoni al clima isolano: gli
interessi speculativi, teologici e religiosi appaiono assai superiori alle generali
tendenze degli intellettuali siciliani. I pochi testi conservati, infatti, evidenziano una
esclusiva propensione per il pensiero aristotelico e per la morale scolastica; i volumi
del viceré, invece, costituiscono un’eccezione presentando non soltanto Platone ma
anche tutte le principali novità neoplatoniche (Ficino, Ermete Trismegisto, Pico della
Mirandola ecc.). Altra controtendenza della biblioteca di Ettore è poi anche la
presenza dei commenti alle Epistole di Paolo, dei testi profetici di Brigida e
Gioacchino, i libri di Erasmo e degli autori riformati; tutte opere che guardano a una
religiosità più profonda e autentica come abbiamo già visto.
Rimane da capire se tali orientamenti furono confinati nella curiosità personale del
‘gran saputo’ oppure furono condivisi anche col suo entourage e si diffusero
nell’isola. A tale scopo, occorre indagare sui personaggi legati a Ettore e che furono
talvolta autori di opere conservate nella sua biblioteca: il risultato lascia intravedere
un circolo di studiosi che ruotano intorno al viceré, condividendone gli ideali
filoimperiali, la passione per l’umanesimo cristiano e le inquietudini religiose.
Cap. III: 1) Bellorusso e i Sette Angeli
Uno tra i membri più attivi del sodalizio con Ettore Pignatelli fu Tommaso Bellorusso.
Questi, nato in Sicilia, non ebbe una formazione siciliana in quanto per approfondire
i suoi studi si trasferì giovanissimo a Roma, dove divenne segretario dell’arcivescovo
di Reggio Calabria. Quando nel settembre del 1500 il pontefice nominò cardinale
tale vescovo e lo mandò come legato in Ungheria e Polonia contro i turchi,
Tommaso lo seguì. Dopo un’assenza di quasi 20 anni, Tommaso ritornò in Sicilia
dove gli vennero riconosciuti molti meriti, e ciò portò, nel 1516, Leone X ad affidargli
l’incarico di risolvere la controversia tra “monaci siculi” e monaci “de Italia”. Nel
frattempo, il protonotaro apostolico aveva chiamato presso di sé un giovane
conosciuto a Roma, Antonio Lo Duca, esperto maestro di musica per l’insegnamento
di canto ai chierici della cattedrale. A tale scopo era stata adibita una antica chiesa
detta di sant’Angelo. È a questo punto che si colloca l’episodio che condizionerà i
rapporti tra Bellorusso e Pignatelli: durante una lezione di canto, Tommaso avrebbe
notato su una parete della chiesetta delle strane figure che decise di riportare alla
luce scoprendo in tal modo un antico affresco in cui era raffigurato un episodio
biblico che aveva per protagonisti gli angeli: la composizione era ricca di simbolismo
iconografico e le immagini di quelli che erano i sette principi degli angeli vennero
interpretate come un messaggio divino; nacque così un vero e proprio culto subito
circondato dall’annuncio di profezie. In un’epoca sospesa tra le estreme speranze
umanistiche e l’età delle grandi lotte di religione, un’età in cui la minaccia turca era
più che vivida, gli angeli sembravano avere il compito di rivelare agli uomini i
mysteria futurorum, esercitando la funzione di tramiti.
In Sicilia, il filone profetico non soltanto fu legato al rinnovamento spirituale, ma
assunse anche caratteri filoasburgici ancora più decisi che in altre parti della
penisola. Infatti, la scoperta dell’affresco divenne inizio di una costruzione politico-
religiosa: il Pignatelli, appena entrato in carica in Sicilia, prese a cuore questo
affresco e patrocinò il restauro dell’antico luogo di culto, promuovendo infine la
nascita di una confraternita con a capo Carlo V, il quale, come Michele nella
gerarchia angelica, doveva essere primo protettore dell’impero (cristiano contro gli
infedeli). Insomma, questo dipinto fu subito legato al culto della figura dell’Asburgo
e alla difesa fedele del suo ruolo. La confraternita (dei Sette Angioli?) stabilì che a
guidarla, dopo Carlo, sarebbero stati i suoi successori, e che il secondo ‘fratello’ nella
gerarchia angelica sarebbe stato Pignatelli e i futuri viceré.
Ma le vicende della confraternita ebbero una evoluzione totalmente diversa e dopo
qualche anno si sciolse. Questo perché, dal “manifesto” del 1526 all’accordo del
1529 tra Carlo V e Clemente VII (riconoscimento del compimento dei vaticini
dell’affresco nell’intesa col pontefice in un tempo difficile) il quadro politico mutò
radicalmente: la ripresa di rapporti distesi con il pontefice rendeva imbarazzante la
presenza di un’associazione come quella dei Sette Angeli (quando le profezie si
compiono, il profetismo non ha più ragione di esistere), e del resto la stessa Chiesa
non puntava più a una palingenesi ma al combattere il dilagare dell’eresia. Tuttavia,
il patrimonio spirituale che si era formato (fiduciose prospettive di rinnovamento)
non andò del tutto perduto perché si tramutò nelle forme più tranquille della nuova
spiritualità francescana: nella chiesa dei Sette Angeli il viceré fondò un monastero
francescano. Eppure, bisogna dire che anche dopo lo scioglimento della
confraternita il culto dei Sette Angeli continuò ad essere coltivato e ad animare le
speranze di Bellorusso.
Il rapporto tra Bellorusso e il viceré andò oltre la comune fedeltà all’imperatore e la
speranza escatologica: molti dei suoi volumi hanno contenuto uguale a quello di
alcuni testi posseduti da Ettore (Sermones di papa Leone, le rivelazioni di Santa
Brigida, le Epistole di Paolo commentate da Tommaso) e i due condivisero anche
letture meno diffuse (dei testi di Erasmo). D’altronde, la costruzione della devozione
verso i sette angeli e l’erezione della confraternita imperiale, ovvero la condivisione
di interessi religiosi e culturali, attestano l’esistenza di un saldo legame intellettuale
tra i due che rappresenta un primo spiraglio per noi per comprendere le
caratteristiche di questo ‘circolo’.
2) Giovan Luca Barberi (i vaticini filoaragonesi) e Mariano Accardo (Erasmo in
Sicilia)
Il “lealismo” alla Corona e l’interesse per il profetismo sono presenti in un altro
esponente dell’entourage di Pignatelli: Giovan Luca Barberi. Tra il 1506 e il 1508 egli
compilò due opere genealogiche contenenti la linea delle successioni dinastiche in
Sicilia e in Aragona fino ai sovrani regnanti con l’evidente intento di glorificarne le
gesta. Gli opuscoli servivano a giustificare l’appellativo di ‘Cattolico’ dato a
Ferdinando II, la cui opera in favore della fede e contro gli infedeli, si diceva, era
stata annunciata da S. Brigida e altri vaticini. Ancora, quindi, fedeltà al sovrano e
istanze profetiche nella speranza che la cristianità trionfasse unita sotto un unico
‘pastore’.
La viva attenzione del viceré per Erasmo e per il suo tentativo di liberare il
cristianesimo dai condizionamenti della teologia scolastica, portò Ettore a conoscere
un nuovo collaboratore: Mariano Accardo. Strettamente legato al vescovo di Cefalù,
egli si recò più volte a Roma dove svolse un’intensa attività diplomatica, passò
successivamente al servizio di Ugo Moncada diventandone segretario. Fu inoltre
giureconsulto, poeta e oratore, e nel 1516/7 conobbe personalmente Erasmo e con
lui rimase in contatto. Probabilmente fu proprio lui a procurare le opere di Erasmo al
viceré e ad essere il primo tramite della penetrazione erasmiana in Sicilia.
3) Antonio Minturno
Uno dei personaggi centrali dell’entourage di Pignatelli fu Antonio Sebastiani, detto
“Il Minturno”, il cui epistolario è una fonte ricca di notizie sulle idee circolanti in
Sicilia tra il 1528 e il 1535 e sul clima che si respirava alla Corte del Viceré. Egli, dopo
aver studiato grammatica, retorica e teologia venne avviato alla filosofia dal Nifo e
per otto anni lo seguì in vari luoghi, sino a quando si stabilisce a Napoli. Qui, poiché
conosceva bene greco e latino e volendo comprendere meglio, si dedicò allo studio
del Vecchio e del Nuovo Testamento con spirito erasmiano, ma fu costretto a
interrompere gli studi perché venne chiamato in Sicilia sotto richiesta di Ettore
Pignatelli che voleva lui come educatore dei figli del suo primogenito Camillo. Se in
altri scritti aveva sostenuto che la setta luterana era lo strumento di Dio per far
ravvedere il mondo, è nelle lettere scambiate con il segretario di Pignatelli che mise
a nudo i suoi pensieri più nascosti.
Nel frattempo, fecero la loro prima comparsa a Messina i primi cappuccini, che però
vennero arrestati (rilasciati poi però dal viceré, che tenne un atteggiamento del tutto
favorevole al nuovo ordine nascente). Allora, il giovane Bacchini rimase colpito dai
frati del nuovo Ordine, i quali sembrava incarnassero il ritorno al cristianesimo
originario, tanto che egli stesso decise di prendere l’abito monastico e iniziare il
noviziato. Una decisione che però gettò Minturno in uno stato di profonda
frustrazione. Secondo lui, infatti, l’amico lo aveva tradito: facendo riferimento a
precedenti discussioni epistolari, diceva che lo aveva lasciato solo a riflettere su
quale fosse il cammino più coerente per un cristiano in tempi burrascosi, ma
soprattutto aveva rifiutato di perseguire l’unica vera via della salvezza, ovvero il
superamento dell’amore verso se stessi, inutile perché nessuno può salvarci dal
male, e il conseguente ricollocamento delle proprie speranze nel Cristo, che si era
sacrificato per il genere umano salvandoci. La posizione del Minturno è molto simile
a quella esposta da Fontanini nel suo trattato Beneficio di Cristo, uno dei testi più
influenti del XVI sec. che discuteva della necessità di rinnovamento della Chiesa
cattolica a partire dalla Riforma protestante. Ne deduciamo, quindi, che la
professione di fede del Minturno non era diversa da quella di Ettore, visto che c’è
anche un’affinità tra la posizione del precettore dei nipoti e alcune letture del viceré.
Cap IV: Continuatori di Pignatelli e dissenso religioso nell’età di Carlo V
Volendo trarre delle conclusioni, l’entourage di Pignatelli condivise con lui la fedeltà
all’idea imperiale e a Carlo V, ma su questo tronco si innestarono due diversi filoni:
 il profetismo, che diede voce alle inquietudini presenti nelle alte sfere
ecclesiastiche mentre l’Italia era lacerata dal conflitto francoasburgico e
dalla lotta per la supremazia; nel cui caso, ovviamente, visioni e segni e
pronostici erano un armamentario a favore dell’imperatore.
 L’aspirazione ad un cristianesimo autentico, manifestatosi nell’approccio
filologico alle Sacre Scritture: Erasmo, Brucioli e Pagnini, le cui opere erano
presenti nella biblioteca del viceré, erano prove che vi era un interesse
verso la “vera fede” e non verso manifestazioni esteriori e cerimoniose.
Lungo questo crinale si colloca quindi anche quel rinnovamento spirituale
cristocentrico, fiducioso dell’immensa generosità di Dio, unico capace di
risanare l’arbitrio umano ‘zoppo e infermo’.
Ettore Pignatelli morì nel 1535, poco dopo Barberi e poco prima di Bellorusso, quindi
lo stesso culto dei sette angeli rischiava di essere dimenticato. Venne invece
mantenuto in vita grazie ad Antonio Lo Duca che per conservarlo, però, dovette
allontanarsi dall’isola. In ogni caso, gli echi delle discussioni tra il viceré e i suoi amici
sopravvissero in Sicilia anche negli anni successivi. Infatti, il filone escatologico e
quello di una nuova spiritualità trovarono un punto di contatto nel catanese Matteo
Selvaggio, che nelle sue opere riprende soprattutto il Beneficio di Cristo e
l’attribuzione del ruolo profetico di princeps ecclesiae a Carlo V.
Nonostante questi esempi, a partire dal decennio 1540-50, in Sicilia come in Italia,
l’epoca della ricerca e della discussione lasciava il passo all’indagine inquisitoriale e
alla repressione del dissenso. A dimostrare questo cambiamento è il fatto che tale
Herennio, amico di Minturno che era solito venire frequentemente in Sicilia,
inizialmente risultò essere presente nella lista dei predicatori approvati (i vertici,
infatti, ne controllavano l’ortodossia e quindi l’idoneità), divenendo addirittura
vicario, ma in seguito a una probabile innovazione del suo orientamento (non ne
siamo sicuri) fu indagato nel 43 dall’inquisitore di Sicilia e rimosso dall’ufficio ‘per
aver predicato molti errori luterani’.
Ma le tracce della diffusione in Sicilia di tendenze eterodosse non si fermano qui.
Bartolomea Spatafora, abbadessa di Santa Maria dell’Alto a Messina, manifestò un
profondo anelito verso la purificazione spirituale e si adoperò per una profonda
moralizzazione del convento, opponendosi ad atteggiamenti frivoli e licenziosi; a tal
proposito, quindi, cercava un buon confessore, un padre spirituale per sé e per le
monache da lei guidate (similmente alle posizioni di Juan de Valdés, che attribuì alla
confessione un valore essenziale per la crescita religiosa). È una cosa insolita, visto
che ormai solo per pochi fedeli il confessore rappresentava una figura essenziale alla
quale affidarsi per purificare l’anima. Valdesiano, oltre all’abbadessa, fu il nipote di
questa, Bartolomeo Spatafora: il più studiato e noto tra gli eretici siciliani. Insomma,
al contrario di ciò che la storiografia recente ha affermato, l’eterodossia in Sicilia
non è un fenomeno d’importazione (non solo).

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