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TRATTATO DI DIRITTO

COMPARATO. SISTEMI
GIURIDICI COMPARATI
(GAMBARO-SACCO). QUARTA
EDIZIONE (2018)
Sistemi Giuridici Comparati
Università di Torino
127 pag.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO


SISTEMI GIURIDICI COMPARATI (GAMBARO -SACCO)
Quarta edizione (2018)

LA COMPARAZIONE GIURIDICA PAG. 2

LA DIVERSITÀ E L’UNIFORMITÀ NEL DIRITTO PAG. 6

LA TRADIZIONE GIURIDICA OCCIDENTALE PAG. 9

COMMON LAW ED EQUITY IN INGHILTERRA PAG. 12

L’ESPERIENZA GIURIDICA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA PAG. 30

LE RADICI COMUNI DELLE ESPERIENZE DI CIVIL LAW PAG. 53

IL MODELLO FRANCESE PAG. 63

IL MODELLO TEDESCO PAG. 73

I MODERNI SISTEMI DI CIVIL LAW TRA INFLUENZE FRANCESI E TEDESCHE PAG. 80

L’EST EUROPEO PAG. 90

IL DIRITTO DEI PAESI ISLAMICI PAG. 99

IL DIRITTO INDIANO PAG. 105

IL DIRITTO NELL’ASIA ORIENTALE PAG. 111

L’AFRICA SUBSAHARIANA PAG. 119

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

CAPITOLO PRIMO - LA COMPARAZIONE GIURIDICA

SEZIONE PRIMA - OGGETTO E SCOPO DELLA COMPARAZIONE


Oggetto della comparazione sono le diverse soluzioni giuridiche che variano da un luogo ad un altro, da un
gruppo umano ad un altro.
La comparazione si è sviluppata a partire da una certa epoca, prima il giurista studiava un modello giuridico
dato, giudicato come ottimo (es. diritto comune, la šhari’a), e questo non portava a soffermarsi su altri
modelli. A partire dal XX secolo si iniziò a riconoscere che i vari sistemi sono diversi e legittimi, e ne è sorto
interesse a constatarne affinità e divergenze.
Lo scopo della comparazione inizialmente era quello di ricavare dall’insieme delle istituzioni particolari una
base comune o dei punti di contatto; oggi la comparazione ha lo scopo di esaminare in quale misura le regole
che appartengono a vari sistemi giuridici possono coincidere e in quale misura esse differiscano. Questa
analisi consente una migliore conoscenza dei modelli studiati comparativamente.
Per quanto attiene alla formazione del giurista, l’insegnamento più valido è quello problematico, volto a
insegnare non una soluzione, ma un modo di ragionare capace di guardare al diritto da un punto di
osservazione elevato, aperto alle esigenze culturali e professionali del discente.
La comparazione è uno strumento formidabile nella formazione del giurista, questa lo aiuta a scoprire le
discontinuità che sussistono fra regola e definizione, fra enunciato e applicazione, e ad evidenziare i dati
profondi e costanti propri di ogni ordinamento. La comparazione permette inoltre di affrontare con
competenza la ricerca del modello giuridico migliore, e quindi insegna a capire il diritto degli altri paesi.

SEZIONE SECONDA - IL METODO


Il comparatista non formula interpretazioni sue proprie. Se coesistono più interpretazioni egli non deve
rifiutarne nessuna ma inventariarle tutte, poiché tutte costituiscono dati veri e reali. Questo vale anche per le
varie formulazioni presenti nel sistema. Al comparatista interesse tanto la formulazione legale (con un
significato letterale), quanto la regola estratta e formulata dagli interpreti.
All’interno di uno stesso ordinamento (esempio Francia) il comparatista distingue una norma legale ed una
non legale, che fanno parte di due insiemi distinti. Ognuno di questi insiemi costituisce uno speciale
formante dell’ordinamento.
I sistemi giuridici constano di un grande numero di formanti. In ognuno di essi possono esserci più formanti
legali (a livello di norma costituzionale, di norma ordinaria, legale, regolamentare), alcuni formanti
giudiziari, alcuni formanti dottorali (o dottrinali). Il comparatista non può considerare uguali le soluzioni
giuridiche appartenenti a due diversi sistemi quando uno dei formanti si presenti diversificato. Occorre
quindi fare una analisi giuridica che proceda a distinguere i vari formanti; in questo modo si potrà anche
misurare le distanze intercorrenti fra un formante ed un altro. La misurazione consente di valutare se lo
scarto tra i vari formanti è più limitato o più ampio.

I singoli formanti.
Le argomentazioni sono formanti dell’ordinamento in cui sono inserite, cosi come le declamazioni. Anche la
legittimazione è un formante (il più importante), invocata a favore delle norme appartenenti al dato sistema.
La legittimazione che sostiene la norma giuridica deve formularsi come una teoria, una verità. Questo ne
deriva che all’interno dell’ordinamento ci sarà un soggetto che definisce e afferma la verità.
I vari formanti di un ordinamento tendono ad influenzarsi. La dicotomia più importante in tema di formanti è
quella che distingue le regole operazionali (che costituiscono criteri di decisione), e le proposizioni elaborate
per pensare mediante concetti, enunciare, recitare e comunicare la norma stessa. Le contraddizioni fra regole
ed enunciazioni si colmano ricorrendo a finzioni, a presunzioni assolute, e a definizioni accomodanti.
Gli enunciati, le formulazioni, i concetti appartenenti ad ordinamenti molto dissimili l’uno dall’altro tendono
a diversificarsi tanto più quanto sono generali. Viceversa, le regole applicative e le soluzioni pratiche
tendono ad una maggiore compatibilità.

I crittotipi.
Si tratta di formanti del diritto impliciti, non verbalizzati. Si chiamano anche modelli inferenziali. Quando
comparando troviamo che leggi identiche, in vigore in due aree diverse, danno luogo a soluzioni applicative
diverse, e troviamo che soluzioni applicative identiche sono prodotte da leggi diverse, siamo costretti a
concludere che oltre alla legge influisce sulla soluzione un ulteriore criterio di decisione non verbalizzato,
ossia crittotipico.
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La scoperta di un crittotipo è facile quando una nozione implicita in un sistema è implicita in un altro. Queste
regole non verbalizzate hanno una notevole importanza; queste vengono tramandate dai giuristi da
generazione in generazione. L’insieme dei crittotipi che dominano in un dato ambiente incide in modo
rilevante sulla mentalità dell’ambiente in questione.

SEZIONE TERZA - I PROBLEMI DI LINGUA


Il comparatista pensa ed esprime il proprio pensiero in una determinata lingua positiva. Alcuni sistemi
saranno stati verbalizzati, illustrati ed analizzati in una lingua che non è quella del ricercatore, né quella in
cui il ricercatore descrive i risultati della comparazione svolta.
Talora un sistema usa nozioni e parole che, non avendo un riscontro nel diritto di un paese diverso, non
hanno riscontro nei concetti noti ai giuristi di questo paese, né alla terminologia presente nella loro lingua.
Questa circostanza è molto nota, perché ad esempio categorie proprie del diritto inglese ed americano non
hanno corrispondente nel diritto europeo continentale, o perché alcune istituzioni straniere (es. zar, soviet),
vengono chiamate da chi parla una lingua diversa con il vocabolo tratto dalla lingua dio origine.
Per affrontare il problema bisogna tenere presente che il vocabolo giuridico appartiene contemporaneamente
sia ad un sistema linguistico sia ad un sistema giuridico che si esprime con parole sue proprie. Possiamo
comprendere quindi che paesi che parlano la stessa lingua possano avere vocaboli giuridici differenti.
Può avvenire che il vocabolario di un dato paese si modelli in modo da poter agevolmente indicare i concetti
elaborati per descrivere un sistema giuridico affine a quello del paese indicato. Può anche avvenire che nel
tempo si succedano due distinte rielaborazioni linguistiche ispirate a due diversi sistemi (la lingua giuridica
italiana si è resa interscambiabile con la lingua giuridica francese nel XIX secolo, e con la lingua tedesca nel
XX secolo).

La traduzione.
Le differenze fra le norme giuridiche dei diversi sistemi creano specifiche difficoltà di traduzione. Questa è
necessaria al giurista. La sua importanza ha dato vita ad una letteratura; in modo speciale, l’attenzione dello
studioso si è rivolta ai problemi presenti nella creazione del diritto uniforme dell’Unione Europea.
Con la traduttologia si passa dal confronto dei significati al confronto dei concetti. Tuttavia si presentano vari
problemi a questa nuova scienza. Innanzitutto alcuni vocaboli non corrispondono pienamente a vocaboli di
paesi diversi (es. in francese il concetto di “contrat” non corrisponde al concetto di “concract” inglese); alle
difficoltà di traduzione si aggiunge la difficoltà posta dalle diversità delle strutture linguistiche (la parola
francese “acte” esprime due diverse nozioni che in italiano e in tedesco sono il “negozio giuridico” e l’“atto
giuridico semplice”); alcune lingue possono ammettere figure retoriche, che si inseriscono nella correlazione
parola-significato, alterandola rispetto alla regola generale. Certe lingue acconsentono alla pratica di indicare
una certa fattispecie mediante un solo costituente di essa (es. “incontro di volontà” per dire incontro di due
dichiarazioni e due volontà); spesso le parole dei giuristi sono fatte per indicare non soltanto i caratteri che
circoscrivono concettualmente una categoria, ma anche una seri di emozioni che il giurista ricollega alla
categoria; all’interno di ogni sistema giuridico operano poi parole destinate ad avere due diversi livelli di
interpretazione: si distingue una definizione più generica ed una più precisa e puntuale. Si parla di genotipo o
fenotipo (definizione più circostanziata).
Spetta alla scienza giuridica definire i concetti giuridici, ossia le categorie ordinanti in cui incasellare i
risultati dell’interpretazione giuridica. Non spetta al legislatore costruite l’apparato concettuale utile alla
conoscenza delle regole. Può avvenire che un legislatore affermi, più o meno puntigliosamente, una data
qualificazione e classificazione. In questo caso il giurista (comparatista) può contestare ma non può ignorare
questa scelta del legislatore.
Può avvenire che un legislatore manifesti la sua volontà in molte lingue e allora le multiple dizioni legislative
non possono essere ridotte ad un significato uniforme.
Talvolta un reticolato di vocaboli viene introdotto in una lingua per inserirvi un reticolato concettuale
proveniente da una cultura che si esprime in un’altra lingua.
Posto quindi di fronte a sé un problema di traduzione, il comparatista ha davanti a sé varie soluzioni e deve
scegliere quella corretta. Talora la corrispondenza concettuale e semantica è ben garantita, e la traduzione
può essere eseguita senza difficoltà maggiori; talora non bisogna tradurre; altre volte occorre accertare quale
sia la disparità di significato dei termini in questione e accertare se questa nuoccia alla precisione del
discorso giuridico. Altre volte il comparatista dovrà introdurre nella lingua, in cui egli si esprime, il
neologismo necessario per rendere l’espressione presente nell’altra lingua.

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SEZIONE QUARTA - COME SEMPLIFICARE L’INDAGINE SUI SISTEMI, RACCOGLIENDOLI IN FAMIGLIE.


Le differenze superficiali e profonde nel diritto.
Le differenze tra i vari sistemi possono avere portata maggiore o minore. Il comparatista dispone delle
tecniche che occorrono per misurare queste piccole e grandi differenze. Le differenze più profonde sono
quelle che possono scomparire soltanto nei lunghi periodi, perché involgono le mentalità e i procedimenti
logici dell’interprete.
I dati più profondi di un ordinamento (e quindi le differenze più profonde rispetto agli altri sistemi),
riflettono spesso regole non scritte, osservate spontaneamente degli interpreti. Tra queste le più difficili da
neutralizzare sono quelle crittotipiche, che sono presenti nello spirito dell’interprete per cui egli è
nell’impossibilità di vagliarle criticamente.

La sistemologia.
Il comparatista inventaria dei dati e quindi redige una specie di ritratto dei connotati propri e caratterizzanti
dell’ordinamento preso in esame. Ecco che la sistemologia si preoccupa della raccolta dei dati utili a questi
fini. Alla descrizione dei sistemi operata mediante l’indicazione delle fonti verbalizzate, è stata sostituita una
descrizione operata indicando gli elementi relativamente permanenti dei sistemi. Questi elementi si
ricollegano spesso con la storia del diritto del paese considerato.
Il comparatista tuttavia tiene continuamente sotto esame quegli elementi, perché nella vita del diritto nulla è
statico e tutto può mutare rapidamente.

Le famiglie di sistemi, e i raggruppamenti proposti da R. David.


Il comparatista raggruppa gli ordinamenti secondo le loro rassomiglianze. Una prima schedatura, dovuta a R.
David, condotta negli anni ’60, ha contrapposto i sistemi romano-germanici ai sistemi socialisti, ai sistemi
imperniati sul common law di origine inglese, e alle altre concezioni dell’ordine sociale e del diritto.
La prima famiglia, quella romano-germanica, involge i sistemi che dal XIII secolo ad oggi, si sono sviluppati
nel continente europeo a sud dello Jutland e ad ovest della frontiera del S.R.I. Questi sistemi ci appaiono
oggi come sistemi codificati, ma il loro connotato essenziale non risiede nella codificazione, ridiede nel fatto
che i giuristi dell’area si sono formati in università, il cui diritto insegnato era un estratto del diritto
giustinianeo e del diritto canonico. Questo modello si estese verso l’Est europeo, l’Asia, l’America latina e
l’Africa.
La seconda famiglia, dei sistemi socialisti, vede la loro nascita con Lenin, il quale indirizzò il paese (Russia,
Unione sovietica) verso un’esperienza socialista che implicava la statizzazione dei mezzi di produzione
industriali, la collettivizzazione dei mezzi di produzione agricoli, e la subalternazione dell’attività economica
al piano di Stato. Questo modello si diffuse in Cina, in Vietnam, a Cuba e in molti paesi africani.
La terza famiglia, la cui culla è l’Inghilterra, vede come punto centrale il common law, ossia un diritto che si
supponeva essere comune a tutto il regno. Il giurista inglese si formava a contatto con la pratica del common
law e non sul diritto romano. Tale sistema si è diffuso in tutte le colonie inglesi: negli Stati Uniti d’America,
in Canada, in India, in Australia, in Nuova Zelanda, e in molti paesi africani.
C’è poi una buona parte del mondo che adotta soluzioni di altre origine, ad esempio la sari’a islamica, i
sistemi asiatici e quelli africani. Altri ordinamenti si sono poi presentati come “misti”, in cui sono presenti
elementi romanistici e altri di tipo angloamericano (es. Scozia., Quebec, Sud Africa, Israele).
Tale ripartizione in famiglie tuttavia ha incontrato diverse critiche: alcuni hanno negato validità alla sua
sistemazione fuori dell’area del diritto privato; altri hanno rivendicato un posto a parte alla famiglia
latinoamericana, o ai sistemi germanico e scandinavo, da considerarsi contrapposti al sistema romanista; altri
ne hanno contestato il carattere eurocentrico, incentrato sull’Europa e l’America (R. David ha infatti
confinato ordinamenti extraeuropei in un capitolo residuale della sua opera, cioè la terza famiglia); altri
hanno contestato la dicotomia fra sistemi di common law e sistemi romanisti sostenendo sia che ci siano
contatti storici tra diritto inglese e continentale, sia che ci siano numerosi modelli che scorrono dall’area
nordamericana a quella europea, sia perché le convergenze sono importanti (ci sono alcuni settori di diritto
uniforme), sia perché le divergenze tra il diritto angloamericano e quello europeo-continentale riguardano
più l’apparato concettuale, didattico ed espositivo, predisposto per conoscere il diritto, piuttosto che il
contenuto delle norme e i valori che le ispirano.

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I problemi della classificazione.


Per conoscere i sistemi è necessario raggrupparli. Per raggruppare i sistemi è necessario classificarli. Gli
elementi che possiamo mettere alla base delle distinzioni e delle classificazioni sono numerosi (storia,
legittimazione del potere, valori ecc), tuttavia bisogna mettere in conto una difficoltà maggiore, dipendente
dalla variabilità dei sistemi giuridici. I sistemi giuridici non giacciono mai, diventano in continuazione. La
variabilità di ogni sistema rende più delicata l’opera di classificazione.
Molti modelli accolgono nel loro interno una molteplicità di modelli, che si spartiscono gli strati sociali del
paese, o i vari settori del diritto, o i vati formanti dell’ordinamento. Nessun sistema è pienamente fedele ad
un unico modelli, l’unicità di un dato ordinamento significa solo che le sue norme sono immaginate come
volontà di un unico legislatore. Ma le norme possono avere provenienza diversissima.
Si può quindi fare una comparazione di modelli e guardare ai caratteri intrinseci di ognuno di essi, o fare una
comparazione di sistemi, e misurare quali modelli vi siano presenti, e quale spazio vi abbia ognuno dei
modelli presenti.

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CAPITOLO SECONDO - LA DIVERSITÀ E L’UNIFORMITÀ NEL DIRITTO

SEZIONE PRIMA - IL VALORE DELLA DIVERSITÀ


Constatate le differenze intercorrenti fra un sistema e l’altro, diverse iniziative vengono prese per rendere
uniforme il diritto. Varie ragioni stanno alla base della volontà di unificazione (per ottenere che le norme
rese uguali ricevano un’applicazione uniforme) e di uniformazione (rendere uguali norme scritte appartenenti
a due territori diversi). Avere un diritto uniforme significa unità culturale, quindi eliminazione delle
difficoltà e dei malintesi fra le diverse civiltà che devono convivere. Se i diritti nazionali restano diversi
questo significa che ostacoli si frappongono all’unificazione (storia, tradizione, specificità delle culture
nazionali, assenza della stessa lingua giuridica universale ecc..).
Ci si pone quindi una domanda: si deve desiderare la diversità dei diritti o si deve auspicare la loro
uniformità?
Il diritto non è isolato, né separato dagli altri fenomeni sociali, come la lingua, il sapere, la qualità dei
prodotti dell’attività umana. Questi elementi costituiscono insieme la cultura dell’uomo.
Fra questi la lingua e il diritto hanno un significato speciale. Se la comunità degli umani non parla una sola
lingua, ciò contraddice lo scopo della lingua, che consiste nella comunicazione; se gli umani non osservano
un solo diritto, ciò va contro lo scopo del diritto, che consiste nel garantire un meccanismo di soluzione dei
conflitti uguale per tutti e prevedibile. Il carattere astratto della regola implica l’uniformità e questa è perduta
se le soluzioni previste per due ipotesi identiche sono molteplici.
I diritti e le lingue quindi differiscono e questo trova spiegazione nella natura delle cose. Tutto ciò che è reale
è dominato dalla diversità. La diversità, propria del reale, proviene dalla variazione e dal mutamento.
Tuttavia a volte la diversità può implicare l’incompatibilità e il conflitto (il leone uccide la gazzella, la
gazzella uccide una pianta/frutto).
La variazione produce diversità. Senza variazione non avremmo il progresso, perché questo è appunto
variazione. Questa non si arrende una volta raggiunto un traguardo determinato. Il progresso non ha di mira
il conseguimento di una situazione statica, ogni nuovo assestamento produce nuovi squilibri, cioè situazioni
favorevoli ad ulteriori innovazioni.

SEZIONE SECONDA - CONTRAPPOSIZIONI NOTEVOLI DEI CARATTERI DEI DIVERSI MODELLI


Nel mondo sono presenti ordini giuridici assai dissimili da quelli a noi famigliari.
Una prima distinzione riguarda la presenza o l’assenza, nell’ordinamento, di organi o di autorità dotate di
una competenza legislativa generale (parlamento e autorità costituente). Questo meccanismo oggi esiste
ovunque. Tuttavia fino alla fine del XVIII secolo si supponeva che la produzione del diritto fosse compito
riservato a Dio, o svolto dagli antenati (consuetudine). La prima soluzione si ritrova nel pensiero islamico,
ove si assume che il diritto è rivelato da Dio; qui il potere esercitato dell’interprete è un potere circoscritto.
La seconda soluzione si trova nei modelli autenticamente africani.
Una seconda distinzione tiene conto del diritto con o senza la figura del giurista. La tradizione giuridica
occidentale è ben caratterizzata da giuristi presenti nel suo seno. Fuori da questi sistemi non troviamo nulla
che corrisponda ad un giurista professionale, o ad una scienza o dottrina o teoria giuridica. Dove manca il
giurista, manca anche una terminologia giuridica specialistica e adatta per i bisogni della scienza. Mancano
anche concetti nitidi e rigorosi. Il giurista esiste per la prima volta nell’antica Roma, prima non esisteva la
dottrina giuridica e neanche una conoscenza del diritto dotata di un carattere scientifico.
Una terza distinzione è da fare tra diritto con o senza lo Stato. Lo Stato nasce non prima del 3500 a.C., prima
mancava uno Stato che provvedesse globalmente a tutti i bisogni collettivi della società, e mancava anche
una autorità centralizzata. Nei millenni successivi la struttura statuale si è diffusa sulla maggior parte della
superficie terrestre. Tuttavia esistono società in cui le strutture statuali non sono operanti. Si distinguono le
società “a potere centralizzato” e le società “a potere diffuso”, le prime la regola, le seconde l’eccezione. In
determinate aree geografiche estese il diritto fa a meno dello Stato: America, Australia, Africa, Asia sono
caratterizzate dalla presenza di un diritto a carattere tradizionale, praticato da autottoni all’insaputa dello
Stato o con la approvazione. Questo accade anche il Cina e in Giappone dove la regolazione dei conflitti a
carattere privatistico si svolge senza l’intervento dello Stato, e ciò fa dedurre che apparati, diversi da ogni
potere centralizzato, prendano in mano la definizione della controversia.
Di ulteriore rilevanza è il rapporto tra il diritto e il soprannaturale. La storia dell’Europa evidenzia gli
intercorrenti legami fra il potere spirituale e il potere mondano. Il primo sponsorizzava e legittimava
l’imperatore. Non poteva esserlo chi non fosse membro della Chiesa, né chi fosse scomunicato. Diversi
vescovi gestivano feudi di grande importanza, personaggi ecclesiastici e beni destinati al culto o al servizio
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della Chiesa erano sottratti alla giurisdizione mondana. Tali rapporti possono oggi apparire come un esempio
limite di clericizzazione della vita civile e di intrusione del soprannaturale nelle cose terrene. Risalendo
indietro nel tempo ci si imbatte in esperienze in cui il soprannaturale e il giuridico si allentano (il
soprannaturale può sacralizzare una cosa materiale, può garantire una verità e quindi risolvere un problema
istruttorio, può decidere di una controversia, può determinare la posizione di una persona nella società ecc..).
Il soprannaturale può immettersi nella sfera del diritto condizionandone le fonti o legittimandole, attraverso
formulazioni verbalizzate, oppure attraverso norme manifestate dalla pratica dei credenti, ispirate dalla fede.

Il pluralismo giuridico.
Se due comunità sono legate a soluzioni giuridiche estremamente diverse, ognuna di essa è refrattaria alla
soluzione dell’altra. La comunità dotata di un peso politico sufficiente per far riconoscere la propria
vocazione giuridica non avrà problemi speciali poiché i suoi membri saranno legittimati a seguire la propria
tradizione. I problemi incominciano quando una comunità tecnologicamente meno avanzata e sfornita di
potere politico si trova immersa in una società dominata da un’etnia più avanzata. Questo è avvenuto quando
gli Europei hanno colonizzato l’America, l’Oceania, l’Asia, l’Africa. Questi eventi hanno lasciato due diversi
esiti: le minoranze autottone sono circondate da una maggioranza legata alla tradizione giuridica occidentale;
o dopo la colonizzazione, gli autottoni costituiscono la totalità (o la maggioranza) della popolazione del
paese, ma molti di essi non si sentono di rigettare i modelli occidentali cui hanno avuto accesso in occasione
dei contatti con le culture europee o con l’America. Nel primo caso la soluzione del “pluralismo giuridico”
può avere un riconoscimento. L’etnia dominante riserva esplicitamente alla minoranza la possibilità di
praticare e garantire la propria regola giuridica. Nel secondo caso sono possibili giustapposizioni di un
modello di tipo europeo e un modello autottono.

SEZIONE TERZA - LA MUTAZIONE GIURIDICA


Il diritto muta, senza interruzione, da sempre. Lo studioso si domanda se queste mutazioni obbediscano a
ritmi e a scansioni misurabili, se seguono regole; si interroga sulle cause di queste mutazioni. Come le altre
scienze che studiano le mutazioni (ed. le piante, gli animali, la cultura umana) e riconducono le diversità dei
viventi con l’evoluzione, anche il giurista ha pensato di giovarsi della chiave evolutiva per spiegare il
concetto di divenire giuridico. Da forme elementari semplici, sono derivate per evoluzione forme giuridiche
via via più complesse, idonee a risolvere problemi più difficili.,
Ciò che muta è dapprima un formante dell’ordinamento, che poi si diffonde sugli altri, poiché ogni formante
può mutare in modo indipendente dagli altri, ma può anche indurre gli altri formanti a recepire la nuova
mutazione.
Il giurista è quindi interessato a conoscere le cause delle innovazioni giuridiche. La causa di un mutamento
può consistere in un fenomeno appartenente al mondo del diritto, o può consistere in un dato extragiuridico.
Il giurista e lo storico e il sociologo amano porre alla base delle mutazioni giuridiche fattori economici e
strutture sociali. Tuttavia raramente alla base di mutamenti di lingua o di diritto si riscontrano fattori
economici, mutamenti di strutture sociali o l’affermarsi di nuovi valori etici o religiosi. Nulla impedisce
quindi che il diritto evolva per stimoli che provengono dal suo interno. Del pari, gli elementi della cultura
extragiuridica di una società (religione, cultura, arte, lingua) non condizionano il diritto in modo univoco.
L’innovazione giuridica può dunque essere dovuta ad una radicale trasformazione della società, ma ciò
interessa più la macrostoria del diritto che non la comparazione fra sistemi moderni. In un numero non
elevato di casi, l’innovazione creativa dipende da una scelta politica, veicolata da mutazioni nella scala di
valori e nella ideologia delle persone in grado di influire sul dato giuridico. In qualche caso opera invece una
tendenza all’analogia; in altri casi opera un’attitudine del giurista a scorgere nelle peculiarità dei fatti ragioni
di distinzione e di trattamento speciale.

SEZIONE QUARTA - L’UNIFORMAZIONE GIURIDICA


La diffusione.
Il meccanismo evolutivo non basta per spiegare le mutazioni del diritto. Ogni gruppo umano, purché conosca
la lingua e il diritto del vicino, può fare sue le strutture linguistiche e le soluzioni giuridiche del vicino. Tale
fenomeno viene chiamato diffusione. Il diritto di un’area può dunque mutare per effetto della diffusione di
un modello esterno nell’area considerata.
L’imitazione è spesso il motore di fenomeni di unificazione culturale. Imitazione e selezione sono processi
paragonabili, basati sul fatto che più modelli entrano in conflitto, e uno di essi soccombe e scompare e un

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altro, più efficiente, vince e si diffonde. Questi conflitti, insieme con l’innovazione, sono la molla del
progresso.
Le cause delle imitazioni sono il desiderio di appropriarsi le attribuzioni altrui, quando queste sono caricate
di una qualità chiamata “prestigio”; il desiderio di diffondere il proprio modelli culturale, accompagnato dal
potere di condizionare ulteriori aree giuridiche (es. Napoleone).
Oggi viviamo in un’epoca che vede con favore l’unificazione e la incoraggia. Nel mondo occidentale le
diversità vanno riducendosi nel campo del diritto pubblico e del diritto privato (convenzioni internazionali,
imitazione, camere di commercio). Ma quali vantaggi offre l’uniformazione delle norme? Queste avita le
contraddizioni creati dai conflitti di norme nello spazio. Inoltre una disparità di trattamento dei rapporti può
disincentivare gli scambi, distorcere il mercato o disorientare gli operatori.
Nonostante ciò sono state fatte alcune contestazioni e resistenze all’unificazione, in nome delle tradizioni
nazionali, e della storia. Per quanto attiene alla storia, sappiamo che questa non può creare nulla di eterno e
nulla di invariabile. Le soluzioni del diritto sono molteplici perché sono il prodotto di variazioni. Il diritto
non è statico, le sue soluzioni circolano e si diffondono producendo imitazioni. L’imitazione è la prima
alleata dell’uniformazione. In secondo luogo, l’uniformazione non è sempre un bene: questa sacrifica
dolorosamente l’identità culturale dell’area portatrice del modello più debole (problema del pluralismo
giuridico). Ancora, la riduzione del numero dei modelli attualmente in vigore restringe del pari i possibili
punti di partenza, utili per le future evoluzioni e i futuri progressi, e soprattutto impedisce di trarre i frutti
della concorrenza che si dovrebbe istituire fra essi. Infine, l’uniformità imposta (derivante da
trattato/accordo) introduce un ostacolo importante allo sviluppo e al progresso, che diventa ancora più arduo
se l’uniformità è il prodotto di un accordo multilaterale, le cui conclusioni non potranno essere riformulate,
se non sulla base di una nuova decisione unanime, presa da tutti i partecipanti.
Concludendo bisogna escludere dal discorso del giurista ogni idea di invariabilità del diritto; si può credere
insieme alla diversità e all’uniformità; chi crede all’uniformità non deve rinunciare al progresso e dunque
alla variazione.
C’è poi un ostacolo alla uniformazione che è rappresentato dal fatto che la diversità giuridica tende a vivere
più a lungo, ostacolando appunto l’uniformazione, quando la diversità è presente negli apparati concettuali in
cui la realtà giuridica viene sistemata nelle varie aree. Talora regole operazionali uniformi vengono
schermate dietro definizioni, spiegazioni e giustificazioni diversissime, e nessuno osa concepire la speranza
che le barriere esistenti fra i diversi sistemi possano scomparire.

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CAPITOLO TERZO - LA TRADIZIONE GIURIDICA OCCIDENTALE

Opposizione tra common law e civil law.


La tradizione di common law raggruppa tutte quelle esperienze che storicamente hanno il loro ceppo nel
diritto inglese medievale e moderno. Si tratta della tradizione giuridica anglosassone la quale, come la lingua
inglese, accomuna l’Inghilterra, l’Irlanda, il Canada (eccetto Quebec), gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova
Zelanda. La seconda tradizione giuridica di civil law, raggruppa le esperienze germogliate in epoca
medievale nell’Europa continentale. La tradizione di civil law si presenta meno compatta, tanto da suggerire
una ulteriore scansione in varie sottofamiglie (tradizione germanica, nordica, latina, post-socialista, latino-
americana).
La metafora utilizzata per rappresentare queste due famiglie è quella dell’albero: la tradizione di common
law viene dipinta come un albero, il cui tronco è costituito dal diritto sviluppatosi storicamente in Inghilterra
a partire al 1066. I rami dell’albero sono costituiti dalle esperienze sviluppatesi altrove, dopo che il common
law inglese vi è stato trapiantato da coloni provenienti dall’Inghilterra. La tradizione di civil law sarebbe
rappresentabile mediante un albero che abbia alla sua radice il diritto romano e la sua riscoperta (XI secolo,
Irnerio, scuola di Bologna). Per questa si parla anche di “tradizione romanistica” la quale accomuna tutte le
tradizioni giuridiche dell’Europa continentale e dell’America Latina. Si annoverano tra i rami della civil law
sistemi giuridici vigenti in paesi che sono rimasti storicamente lontani dalla civiltà europea, come la Turchia
e il Giappone.
Tale metafora descrive le due tradizioni come due entità ben distinte e separate. Questo appare in contrasto
con la nozione stessa di tradizione giuridica, per cui è tradizione giuridica l’insieme dei modi di pensare,
applicare, insegnare il diritto, che siano storicamente condizionati e profondamente radicati nella mentalità
giuridica. C’è quindi una correlazione tra tradizione giuridica e cultura, anzi il fenomeno giuridico è
all’interno di una cultura che si è radicata in una civiltà. Occorre quindi abbandonare l’idea che il common
law e il civil law siano due esperienze giuridiche radicalmente contrapposte, oppure abbandonare il concetto
per cui una tradizione giuridica è la settoriale espressione di una cultura e di una civiltà?!
I dati usati come criteri di classificazione, detti demarcatori sistemologici, concernevano essenzialmente
l’assetto delle fonti: era l’epoca in cui forte impressione aveva destato la codificazione del diritto civile in
Germania. Questa venne avvertita come una sorta di fine della storia ed il codice come forma principe di
legislazione sembrava caratterizzare il modo di essere dei sistemi europei, assieme al suo corollario che
vedeva nella legge la fonte unica del diritto. Grande sorpresa suscitava quindi il rifiuto di ricorrere alla
codificazione nei sistemi di common law. Si disse quindi che la differenza essenziale tra la famiglia di civil
law e quella di common law consistesse appunto nel fatto che i sistemi della prima erano sistemi di diritto
codificato mentre i diritti dei paesi di common law non lo erano.
I primi anni del XX secolo segnarono l’epoca del positivismo legislativo, per cui la maggior parte dei giuristi
era fedele all’idea che l’unica fonte del diritto fosse la legge in senso formale. Grande sorpresa suscitava
l’apprendere che, mediante il criterio del precedente vincolante, la giurisprudenza fosse pacificamente
considerata una fonte del diritto nei sistemi di common law. Tuttavia la teoria ortodossa, in auge nelle
esperienze di common law, considerava che la decisione giudiziale non era creativa di nuove regole di
diritto, ma svolgeva solo una funzione ricognitiva di norme consuetudinarie latenti. Si disse quindi che la
seconda grande differenza tra i sistemi di civil law e quelli di common law consisteva nel fatto che gli uni
erano sistemi di diritto scritto e gli altri di diritto consuetudinario non scritto.
Tuttavia queste percezioni oggi non sono più attuali: riguardo le esperienze di civil law nessuno crede più
che il codice civile sia la cifra riassuntiva di tutti gli elementi strutturali del sistema giuridico. Oggi non è più
proponibile riguardo ad alcun sistema di civil law l’immagine della legge in senso formale come unica fonte
del diritto. Per quanto attiene ai sistemi di common law la loro evoluzione durante il XX secolo li ha condotti
a basare la produzione di regole sulla legge emanata dal parlamento e sulla legislazione delegata. Qualificarli
quindi come sistemi a diritto consuetudinario sarebbe ridicolo.
Neanche le differenze che sussistono riguardo al modus operandi del formante giurisprudenziale si prestano
ad essere stilizzate in una netta linea di demarcazione basata sulla presenza o sulla assenza del criterio del
precedente vincolante. Infatti, da un lato, alcune corti supreme di paesi di civil law sono attente al valore dei
propri precedenti che rispettano e fanno rispettare; dall’altro lato tramonta in tutti i sistemi di common law la
teoria dichiarativa della decisione giudiziale.
Le differenze diventano quindi alquanto sottili ed in definitiva nessun sistema delle fonti pare idoneo a
costruire un de marcatore sistemo logico tra le esperienze di common law e di civil law.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

L’avvento del costituzionalismo e l’emersione dei sistemi giuridici misti.


Nel corso del XX secolo è venuta meno una caratteristica tipica dei sistemi europei ottocenteschi, costituita
dal principio della onnipotenza della legge, intesa come unica fonte legittima del diritto nazionale, sia come
la fonte suprema, assolutamente insindacabile. Oggi molti stati dell’Europa continentale si sono dotati di
costituzioni rigide che prevedono un sindacato di costituzionalità sulle leggi demandato ad una apposita
Corte Costituzionale. Questo assetto ripete sostanzialmente il modello americano ed implica l’esistenza di un
livello di legalità costituzionale superiore alla volontà del singolo parlamento, concepito come organo il
quale nell’esercitare il proprio potere legislativo è vincolato da norme, principi e valori, che si collocano ad
un livello superiore. Inoltre la maggior parte dei sistemi giuridici europei attuali partecipa all’Unione
Europea ed è quindi soggetta a tale ordinamento giuridico che si pone in posizione di supremazia rispetto
agli ordinamenti giuridici statali (tra l’altro dispone di una responsabilità civile di ogni stato per l’inattività
dei loro legislatori in caso di mancata trasposizione di Direttive comunitarie). Tutto questo ha segnato il
tramonto del mito del legislatore onnipotente.
La costituzionalizzazione degli ordinamenti attuali ha condotto una espansione dei moduli di pensiero
giuridici in territori antecedentemente riservati al dominio del politico; non solo, ha condotto a modificare
alcuni aspetti del ragionamento giuridico, il quale ha tradotto in moduli di coerente razionalità formale i
valori, le gerarchie di valori e gli standard di valutazione contenuti nei testi costituzionali. L’ottica dei valori
ha condotto a scoprire come questi siano simili in tutti gli ordinamenti occidentali a prescindere dalla
distinzione di common law e civil law. I principi politici di eguaglianza, di libertà, di espressione, della
laicità dello Stato, sono vastamente comuni e si concretizzano in modo uniforme (le modalità mediante le
quali si concretizzano danno origine ad alcuni “topoi” in cui si esprime il concetto occidentale di legalità).
Oltre ai valori, si ha evidenziato come anche alcune regole cardinali che intessono le esperienze di civili law
e di common law appaiono dotate di radici comuni, e anche di una certa sincronia nelle direzioni di sviluppo.
Tutto questo ha introdotto motivi di perplessità circa la distinzione sistemologica tra esperienze di civil law e
di common law, che inizialmente sembrava così netta ed autorevole.
Da qui si ha avuto testimonianza dell’emersione di un vasto interesse per la categoria dei sistemi giuridici
misti. In realtà quasi tutti i sistemi giuridici sono misti nel senso che hanno subito l’influenza di diversi
modelli giuridici. Tuttavia l’espressione “sistemi giuridici misti” è riservata ad un piccolo gruppo di
esperienze giuridiche che sono state influenzate dal due modelli, civil e common law. In questi modelli misti
ad un sostrato derivato dalla civil law si sono aggiunte vaste influenze del modello di common law, in
seguito ad una denominazione politica inglese o americana (si tratta quindi di un fenomeno di circolazione
dei modelli per imposizione). L’aspetto interessante dei sistemi misti è che sono pienamente sistemi
occidentali pur non potendo essere ascritti né all’una né all’altra delle due tradizioni principali (civil,
common).
Per capire meglio quale sia la vera nozione di tradizione giuridica occidentale, il comparatista deve
interrogare la storia. Solo l’indagine storica può dare dei risultati. Si ricordano infatti due ricostruzioni
storiche: la prima, opera di Lupoi, rileva come nell’alto medioevo si sia creata in Europa una vasta area di
diritto comune, ovvero tutte le diverse organizzazioni politiche presenti sul territorio si sono evolute
utilizzando medesimi moduli organizzativi procedurali. Il punto importante di questa ricostruzione non è
tanto la rivendicazione dell’esistenza di un diritto comune, ma la sottolineatura del carattere dinamico insito
in quella esperienza, capace di evolversi in forme più sofisticate e complesse. Questo carattere dinamico non
è derivato solo dalla mescolanza di mentalità diverse, ma anche dalla natura aperta dei sistemi giuridici il cui
contenuto era frutto della concorrenza tra le fonti diverse (ecclesiastiche, laiche, regie e consuetudinarie). La
diversità tra civil law e common law si sarebbe così sviluppata a partire da un ceppo comune altomedievale,
e ciò spiegherebbe la consonanza di valori di fondo e la dissimilitudine di forme tecniche di espressione.
La seconda ricostruzione storica, opera di Berman, pone la sua attenzione alla svolta avvenuta tra il XI e il
XII secolo. Infatti, la ricostruzione concepisce la tradizione di civil law e quella di common law come
espressioni di una medesima tradizione giuridica di fondo, chiamata tradizione giuridica occidentale, che si è
sviluppata all’epoca della riforma gregoriana, come sottoprodotto del grande sforzo intellettuale e politico
della rifondazione della chiesa di Roma. Da questa ricostruzione si evince quali siano i caratteri della
tradizione giuridica occidentale: il diritto è concepito come relativamente autonomo rispetto alla religione ed
alla politica; l’amministrazione dello spazio giuridico viene affidata ad un ceto di professionisti i quali
svolgono attività legali sulla base di una cultura specialistica, usano un proprio linguaggio settoriale e
sviluppano una propria cultura ed una propria letteratura (il bagaglio di conoscenze che man mano questi
specialisti del diritto accumulano, diventa un formante organizzativo del sistema). Essenziale per connotare
la tradizione giuridica occidentale è che il diritto viene concepito come un insieme coerente, integrato e
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parzialmente autopoietico. Esso è capace quindi di svilupparsi attraverso il tempo e comprende al suo interno
meccanismi di autoregolazione i quali ne dirigono l’adattamento al mutare delle circostanze esterne. Da
quanto si è indicato discendono le due caratteristiche fondamentali della tradizione giuridica occidentale: le
singole regole sono intellegibili solo quando sono collocate nel contesto di procedure ed istituzioni
concettualmente coordinate; la legalità è superiore alla sovranità, ovvero la volontà politica non può
sovvertire l’ordine legale, il quale predispone specifiche procedure perché la prima possa esprimersi in modo
legittimo (la pura volontà soggettiva del sovrano non è sufficiente a fondare una regola di diritto.
La visione classica che puntava le sue carte sulla opposizione tra civil law e common law richiamava un
approccio esplicativo di carattere storicistico, poiché alle vicende storiche era affidato il compito di
evidenziare le origini delle diversità e di spiegarne le cause. Si trattava quindi di chiarire con precisione quali
contingenze storiche abbiano effettivamente contribuito a creare le differenze tra civil law e common law.
Innanzitutto la dimensione della durata è essenziale per porre in rilievo i caratteri di una tradizione giuridica;
al fine si semplificare un discorso narrativo, la storiografia ha introdotto nel fluire della storia alcune
scansioni artificiali atte a suddividerla in periodi. In riferimento alla storia dell’Europa si parla comunemente
di periodo medievale, periodo moderno e di periodo contemporaneo.
Per gli stessi motivi, e con le identiche riserve, si effettua una periodicizzazione storica, sia in riferimento al
common law che al civil law, che distingua un periodo formativo (XII-XIV secolo); un periodo del
consolidamento (XIV-XVIII secolo); un periodo delle rivoluzioni (seconda metà XVIII-prima guerra
mondiale); un periodo contemporaneo (anni ‘30XX-stati sociali). Tuttavia visto che la maggior parte del
diritto che attualmente usiamo, compresa la mentalità con cui gli operatori lo affrontano, deriva direttamente
dal rinnovamento e dalle rivoluzioni, si insiste maggiormente con ampia trattazione sul terzo e sul quarto dei
periodi (XIV - XX secolo).

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CAPITOLO QUARTO - COMMON LAW ED EQUITY IN INGHILTERRA

SEZIONE PRIMA - IL PERIODO FORMATIVO


I caratteri generali del regno normanno.
La conquista normanna dell’Inghilterra ha comportato due innovazioni di grande rilievo nel sistema di
governo del regno: introduzione del sistema feudale; introduzione (come correttivo del sistema feudale) di un
sistema di amministrazione centralizzata più moderno ed efficiente. Per quanto riguarda il sistema feudale,
per Guglielmo il Conquistatore fu una scelta obbligata, per due motivi: ricompensare i cavalieri che lo
avevano seguito nella dubbia avventura e grazie ai quali il regno d’Inghilterra era stato conquistato; per
provvedere al controllo militare ed al governo civile del paese sottomesso, prevedendo quindi una presenza
capillare sul territorio di persone costrette ad essere solidali con il re nei confronti della popolazione
indigena. Il regno venne quindi ritagliato in feudi assegnati a circa 2000 cavalieri franco-normanni che vi
costruirono castelli. Essi costituirono la cosiddetta aristocrazia guerriera. Il rapporto di vassallaggio era un
rapporto personale diretto tra il sovrano ed i primi feudatari, mentre costoro contraevano altri rapporti
personali di vassallaggio con i propri seguaci.
Visto che il sistema feudale è un sistema che alimenta le spinte centrifughe (la società feudale era
gerarchicamente strutturata: i cavalieri si riunivano attorno al signore feudale e solo indirettamente,
attraverso questo, si riferivano al sovrano), per contrastarle e mantenere unità nel regno i sovrani normanni
presero contromisure: cercarono di non creare grandi signorie; tentarono di creare un legame diretto tra
valvassori ed il sovrano. Tuttavia più che a queste contromisure la saldezza del regno risultò fondata su
alcune tecniche amministrative: riservare al sovrano alcuni poteri di polizia e di esazione fiscale concernenti
l’intero reame, scavalcando l’organizzazione feudale; possibilità del sovrano di reclutare i chierici, ovvero
persone ecclesiastiche che avevano avuto una educazione scolastica. Possedevano quindi una capacità a quel
tempo di carattere elitario (sapevano leggere e scrivere, possedevano una infarinatura di cultura ereditata
dall’impero romano cristiano la quale consentiva di costruire una amministrazione ordinata secondo i dettami
di una logica razionale).
Quanto all’amministrazione della giustizia, nella mentalità medievale spettava al sovrano conservare pace e
giustizia nel reame, egli decideva le liti. Nello svolgere questa funzione però il re non era da solo, ma era
assistito da un consiglio, la Curia Regis (il consiglio rendeva legittime le decisioni emesse dal re). Tuttavia
non c’era una distinzione tra decisione giudiziale e decisione legislativa (l’esercizio dei tre poteri era un tutto
indistinto). Una distinzione iniziò a crearsi con la presenza dei chierici, specialisti dell’amministrazione,
conservavano documenti scritti e potevano rifarsi ad essi, ma non avendo alcun rango feudale non erano
legittimati ad inserirsi nelle decisioni politiche. Tuttavia accanto alle decisioni della Curia Regis nella sua
composizione baronale (scelte legislative), c’erano altre decisioni affidate ai chierici. Si delineò quindi una
divisione del lavoro in seno alla Curia Regis: da una parte il Magnum Concilium, dall’altra un’assemblea
ristretta al quale partecipava il Cancelliere ed anche i chierici.
Ora la giustizia del re non era affatto generale, ma era limitata poiché la maggior parte dei compiti di
amministrazione di questa erano delegati ai feudatari nell’ambito del sistema di governo del territorio loro
attribuito. Al re rimanevano da giudicare due tipi di cause: questioni attinenti all’investitura dei primi
vassalli; cause che nascevano da litigi in cui era messa in forse la pace del regno.

Il sistema dei writs.


Il meccanismo di attivazione della giustizia regia era il seguente. Chi avesse voluto rivolgersi al re per
ottenere giustizia e riparazione di un torto subito si rivolgeva all’ufficio della cancelleria dove i chierici
provvedevano ad emanare, su richiesta e dietro pagamento delle somme necessarie, un documento breve
(writ. Il nome deriva dalla forma del documento, ovvero un foglio di pergamena di venti centimetri per
dieci). La lettera poteva avere due destinatari: lo sceriffo, al quale il re ordinava di compiere certe azioni; il
signore feudale, al quale il re ordinava di provvedere a fare giustizia nel caso di specie. La prima forma era
quella più efficace: ordinava allo sceriffo di procurare il necessario per lo svolgimento di un processo da
attuarsi avanti i giudici regi e quindi di procurare in primo luogo la presenza del presunto autore del torto, il
quale assumeva il ruolo di convenuto in un processo.
Il ricorso alla giustizia regia era gradita agli attori per via della neutralità che essa assicurava rispetto ai
condizionamenti locali, giovava anche ai chierici della cancelleria poiché aumentavano la redazione dei writs
(che erano remuneranti), infine giovava al sovrano perché in questo modo estendeva la sua influenza.
Tuttavia l’espansione dei writs, e quindi l’attivismo dei chierici della Cancelleria, moltiplicò le occasioni di
intervento ed erose l’area assegnata alla giustizia baronale. I baroni si ribellarono ed ottennero nel 1215 che
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il re si impegnasse a rispettare i loro diritti, enumerati e messi per iscritto (Magna Charta). Ottennero le
Provisions of oxford nel 1258 in cui fu stabilito che i chierici della Cancelleria potessero emanare i soli writs
che a quell’epoca si trovassero già nei loro registri (brevia de curso), ma non potessero crearne di nuovi.
Tuttavia qualche anno più tardi si consentì ai chierici di creare nuovi writs qualora essi riguardassero casi
simili a quelli già previsti dai brevia de curso.
In effetti, forse senza rendersene conto, i chierici della Cancelleria creando a raffica nuovi writs avevano
fatto una cosa non facilmente tollerabile: avevano legiferato. Non si distingueva dunque la creazione di un
writs e la istituzione di un nuovo diritto soggettivo. Ciò deriva dal modus operandi dei chierici i quali se
formulavano un nuovo writs ne conservavano una copia nei propri registri con la conseguenza che tale
formula diveniva disponibile per gli altri richiedenti successivi.
Dopo che lo scontro tra baroni e re fu concluso, il problema principale che rimase era quello di “mandare
avanti” l’amministrazione regia. La soluzione adottata era un compromesso: il re manteneva la sua giustizia
sulla base dei writs creati fino al 1258 ed il resto rimaneva compito delle corti decentrate. Tuttavia tutti i tipi
di corti applicavano un diritto consuetudinario, ed il diritto applicato nelle corti locali decentrate era
prossimo si costumi ed alle tradizioni di ciascun gruppo. Questo localismo e quindi il radicarsi della giustizia
nelle tradizioni di ciascun territorio, era quello che contrastava con le aspirazioni di coloro i quali
partecipavano a quelle cultura, e cioè legalità come ordine universale, capace di esprimersi mediante regole
generali ed astratte applicate a tutti i singoli casi.

SEZIONE SECONDA - IL CONSOLIDAMENTO DEL COMMON LAW E LA NASCITA DELL’EQUITY


La formazione del ceto forense in Inghilterra.
Nel 1178 Enrico II Plantageneto, per rimediare ad alcuni inconvenienti manifestatisi in precedenza quando i
giudici usavano spostarsi da un luogo all’altro, decise che cinque di essi dovessero risiedere
permanentemente a Londra. Questi fissarono la loro sede a Westminster Hall, e da loro derivarono le corti
della King’ Bench e di Common Pleas. La prima acquistò giurisdizione per le cause, specie penali, in cui era
particolarmente in gioco la pace del regno e alle quali il sovrano era interessato (Pleas of the Crown); la
seconda concentrò la propria giurisdizione sulle cause comuni, prive di rilevanza politica (Common Pleas).
L’amministrazione della giustizia in queste corti facilitò la formazione del ceto forense. Inizialmente i
giudici si consideravano come dei pubblici funzionari, coloro che risiedevano nelle Corti erano sia chierici
che cavalieri i quali possedevano le conoscenze necessarie per assicurare uniformità dei procedimenti
amministrativi. Le regole che bisognava seguire erano indicate in libri. Ne nacquero due trattati dovuti a
Glanvill ed a Bracton entrambi intitolati “De legibus et consuetudinibus Angliae”. Il primo trattava dei writs,
di cui fornisce un elenco delle formule e le diverse procedure cui ciascuno di essi dava origine. Il secondo
trattato intendeva fornire una trattazione di tutto il diritto inglese, offrendo una rappresentazione esaustiva
dell’intero conoscibile giuridico; rimaneva centrato sui writs e sulle loro procedure ma tuttavia non mancava
di pensieri e problemi tratti dal diritto romano e canonico.
Il formalismo rimediale richiedeva che i giudici fossero innanzitutto periti della tecnica dei writs e questo
provocò due conseguenze: accanto ai giudici apparvero gli avvocati, che dovevano possedere eguale perizia
in materia di writs; i giudici dovevano essere tratti dal novero di coloro che tale perizia tecnica avevano già
dimostrato di possedere. Si instaurò quindi la consuetudine per cui diventavano justiciarii coloro che
avessero assistito in qualità di cancelliere i giudici precedenti (a furia di redigere atti scritti e tenere i verbali
si assumeva che avessero imparato tutto ciò che vi era da imparare in materia). Tuttavia la nascita di una
professione forense composta da avvocati delle parti condusse ad un perfezionamento della consuetudine:
divenne regola nominare giudici coloro che in precedenza erano stati avvocati ed in tale veste avevano
verosimilmente appreso tutti i segreti dell’arte.
La nascita della professione forense portò altresì ad un mutamento della composizione sociale del personale
di giustizia. I primi re normanni avevano affidato le funzioni amministrative più elevate a chierici (persone
colte) e tale consuetudine non venne abbandonata, tanto che il Cancelliere (ministro posto al vertice
dell’amministrazione regia) rimase un ecclesiastico, più precisamente un vescovo. Tuttavia i chierici non
potevano, per ragioni canonistiche, patrocinare le cause a pagamento, perciò la professione forense si popolò
di laici e quando i giudici furono tratti per consuetudine dal novero degli avvocati si attuò una completa
laicizzazione della giustizia regia.
Gli sviluppi della professione legale come corporazione seguirono l’itinerario del corporativismo medievale.
All’inizio vi fu un accorrere di persone le quali semplicemente pensavano di avere qualche capacità di
parlare a nome delle parti in un processo, nonché qualche abilità nel comprendere il sistema dei writs.
Tuttavia a questa fase di libero mercato seguì una fase di regolamentazione pubblicistica, diretta in primo
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luogo a reprimere gli abusi ed a creare controlli preventivi. Si crearono così corporazioni dotate di propri
statuti e regole organizzative. La specializzazione nello svolgimento dei diversi compiti comportò il formarsi
di una gerarchia. L’attività più prestigiosa fu quella svolta dai narratores, cioè coloro i quali, per conto della
parte, narravano i fatti avanti i giudici e si impegnavano poi nella discussione degli argomenti. Un gruppo di
narratores, conosciuto come serjeants, si organizzò più tardi in una corporazione: l’ammissione al gruppo
avveniva seguendo un cerimoniale elaborato con l’intervento dei giudici della corte e nel corso del quale
veniva imposto al nuovo al nuovo serjeant una berretta di seta bianca detta Coif (da qui prende il nome di
order of the Coif). Questa corporazione monopolizzò a lungo i posti di giudice ma tale monopolio divenne
poi più formale che sostanziale, tanto che si prese l’abitudine di ammettere allo order of the Coif tutti coloro
che venivano nominati giudici alle corti regie. Oggi i serjantes sono scomparsi ma i loro “eredi” detti
barristers sono tuttora organizzati in quattro Inns: Inner Temple, Middle Temple, Gray’s Inn, Lincoln’s Inn.
Tali Inns sono luoghi di riunione, lavoro ed anche di formazione dei futuri membri della corporazione, il cui
modello di ispirazione è quello conventuale (già imitato dai grandi ordini cavallereschi medievali). Per
quanto attiene alla formazione del giurista, gli Inns erano luoghi di residenza e di apprendistato mediante lo
studio, soprattutto mediante la vita in comune, che consente l’apprendimento per mezzo dell’imitazione da
parte dei più giovani della condotta e dello stile dei più anziani. In cooperazione con la Cancelleria gli Inns
formarono una sorta di scuola di diritto occupando tutto lo spazio educativo. In questo modo la professione
forense si assicurò un duplice monopolio: quello delle tecniche giuridiche necessarie avanti le corti regie e
quello della formazione dei giuristi.
Tuttavia tale schema comporta delle conseguenze: esso contempla una procedura di cooptazione, essendo la
corporazione arbitra di ammettere o non ammettere un aspirante apprendista, nonché di escluderlo durante
l’apprendistato. La procedura di cooptazione può dare luogo ad un circolo virtuoso, quando i membri della
corporazione hanno interesse a rafforzarla mediante la cooptazione degli elementi più promittenti, sia ad un
circolo vizioso, quando i membri della corporazione ritengono maggiormente vantaggioso per loro scegliere
elementi mediocri.
Nei suoi sei secoli di vita l’ordine dei serjantes raccolse in totale meno di mille membri, e ciò mantenne il
sapere giuridico all’interno di una logica iniziatica (incomprensibile ai più), il che è l’opposto del modello
universitario basato sul sapere professato in pubblico il quale quindi si rende disponibile ad una cerchia
indefinita di fruitori (la cui definizione dei confini della cerchia dei fruitori dell’insegnamento pubblico
avviene con altri mezzi). Naturalmente il modello di trasmissione del sapere giuridico si adegua sempre alla
struttura delle fonti del diritto, e ciò spiega perché il tipo di formazione del giurista in uso in Inghilterra tra
XIV e XVII secolo non richiedeva troppi libri. I giuristi inglesi pensarono che l’unico modo sicuro di
accertamento del diritto fosse il riferimento alle opinioni espresse dai giudici e dai serjeantes. Quando queste
erano ripetute ed accertate dal gruppo esse divenivano le consuetudini legali del regno, quindi l’unico punto
di riferimento erano le discussioni che avvenivano tra i membri più autorevoli della corporazione e l’unico
modo per apprendere quale fosse il diritto era quello di assistere alle discussioni ed annotarle. Tutto questo
ebbe conseguenze sulla struttura del sistema delle fonti di accertamento del diritto e anche sulla struttura del
ragionamento giuridico. A proposito del ragionamento giuridico va sottolineato come la logica del gruppo
ristretto, i cui membri vivono a stretto contatto sociale tra loro, favorisca una altrettanta stretta connessione
tra valori sociali e valori formali. Ovviamente simile struttura organizzativa condannava i giuristi inglesi ad
una certa chiusura verso le correnti intellettuali presenti nel loro paese.

L’evoluzione del sistema dei writs tra consenso dei giuristi e consenso sociale.
In luogo di sancire una netta divisione dei compiti giurisdizionali tra il re ed i baroni il sistema dei writs servì
egregiamente a costruire le basi tecniche della legalità dell’ordinamento.
Sotto il profilo processuale l’adesione al sistema dei writs diede forma ad una procedura di carattere
tipicamente accusatorio: l’accusa cui il convenuto doveva rispondere era chiaramente specificata nella parte
della formula del writ che iniziava con le parole “ostensurur quare” (=sto per mostrare questa cosa). La
garanzia fornita al convenuto che egli sarebbe stato chiamato a rispondere solo di ciò che gli veniva
contestato sin dal primo atto, rimase uno dei pilastri del sistema. In ciò si coglie una delle matrici del
concetto di “due process of law”, secondo il quale una persona può essere assoggettata a certe conseguenze
giuridiche a lui sfavorevoli solo dopo che gli è stata data la possibilità di difendersi in un giudizio avanti una
autorità imparziale, in cui l’accusa è stata chiaramente formulata e non può essere mutata.
Sotto il profilo sostanziale questo sistema serviva a garantire una certa parità di trattamento di tutti i casi
eguali, cioè eguale iter processuale per tutte le accuse appartenenti ad un medesimo tipo.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Sotto il profilo costituzionale il sistema dei writs forniva una base di legittimazione indipendente all’operare
delle corti regie, che diventarono quelle corti che ammiravano una giustizia tradizionale, nel senso che i loro
procedimenti continuavano a riprodurre rituali basati su una tradizione che si era nel frattempo formata.
Chiuso dal 1258 il registro dei writs lo sviluppo del common law è stato filtrato dalle formule ivi contenute:
qualunque pretesa doveva poter essere calata nei calchi di una delle formule in uso, altrimenti non vi era
rimedio davanti alle corte regie. Questa situazione è durata fino alle riforme giudiziarie del XIX secolo
quando le forms of action sono state abolite (non è stato più necessario compilare un writ intitolato ad una
tipica form of action per ciascuna causa petendi e si è potuto quindi inserire in un solo atto una pluralità di
pretese). Tutto questo implica che il common law ha vissuto per oltre mezzo millennio entro le griglie di
formule tendenzialmente rigide; in realtà il numero di writs non è mai stato del tutto chiuso, né le formule di
essi sono rimaste immutabili. Tra il XIII e il XIX secolo si è svolta una graduale evoluzione, tuttavia è
indubitabile che in Inghilterra sia stato a lungo in vigore un sistema di tipicità delle azioni nel quale il diritto
veniva pensato come rimedio e come procedura collegata a quello specifico rimedio. Infatti, le diverse forme
si collegavano anche ad un diverso rito processuale: si fece una distinzione tra i writs in cui si rivendicava un
diritto (a demand) e quelli in cui ci si lamentava di un torto subito (a plaint). I primi erano connotati dalla
forma praecipe (ordina), perché in essi il re dirigeva lo sceriffo ad ordinare praecipe al convenuto di restituire
ciò di cui si era impadronito (praecipe quod reddat). La differenza tra i due tipi di writs riposava sulla
percezione per cui rivendicare un diritto (che tipicamente era un diritto di natura feudale), significava
assegnare un qualcosa che aveva le caratteristiche dell’eternità. Il processo relativo ai diritti era quindi
circondato dalle più grandi cautele ed era anche decisamente arcaico perché originariamente le prove regine
erano l’ordalia (giudizio divino) ed il giuramento. La materia dei torti invece era trattata più speditamente
perché concerneva un singolo episodio il cui accertamento poteva essere demandato ad una giuria.
Ecco che quindi i processi concernenti la materia più importante sono stati evitati dagli attori, mentre i
processi pensati per la materia meno rilevanti, quella dei torti, sono divenuti il vero processo di common law:
si ha avuto un graduale abbandono dei writs nella forma praecipe quod reddat (azioni che davano luogo ad
un effetto restitutorio), e ad una estensione dei writs derivati dal trespass.
Il passaggio importante si ha avuto nel 1360 quando dalla formula del writ of trespass fu eliminato il
riferimento al requisito del vi et armis. Inizialmente il writ of trespass era stato concepito per reprimere
scoppi di violenza molto elevati, e da ciò il riferimento alla vi et armis mediante il quale si accusava il
convenuto di aver perpetrato un assalto alla sfera giuridica dell’attore (nel possesso immobiliare, nel
possesso mobiliare, nella incolumità personale). L’eliminazione del requisito del vi et armis lasciava quindi
la formula del writ of trespass on the case disponibile per reprimere qualsiasi invasione non autorizzata della
sfera giuridica altrui. Il cambiamento fu stimolato dalla considerazione che la violenza non è
necessariamente un elemento caratterizzante dell’aggressione, ma un elemento che può caratterizzare la
situazione complessiva derivata dall’aggressione. Il trespass on the case in quanto riferibile ad ogni tipo di
situazione in cui vi era stata una illegittima invasione nella sfera giuridica altrui (es. rapinatore che ferisce la
vittima prima di derubarla; rapinatore che minaccia senza fare del male; vittima che si ribella al rapinatore),
divenne il ceppo da cui si diramarono una vasta serie di rimedi che assunsero nomi propri: negligence,
deceit, assumpsit, ejectement, trover, ecc...

L’analogia da un caso all’altro nel percorso dal torto all’inadempimento.


Il common law originario aveva rimedi adatti a fronteggiare l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali,
ma essi erano caratterizzati dall’arcaismo tipico dei writs nella forma praecipe.
Il writ of convenant poteva riguardare il contratto in generale, ma la sua procedura contemplava il
giuramento decisorio del convenuto e quello dei 12 testi portati a sostegno dal medesimo convenuto (wager
of law). La stessa procedura si applicava al writ of debt che riguardava l’azione rivolta all’adempimento di
obbligazioni. Il criterio del giuramento decisorio confermato dai 12 testi era un espediente processuale
efficace ma solo avanti le corti locali, ma poiché il procedimento si svolgeva a Londra lontano dagli occhi
della comunità e senza l’intervento delle parti che erano rappresentate dai loro avvocati, il wager of law
diveniva un meccanismo poco sensato. Inoltre in materia contrattuale il problema che si pone è costituito
dalla difficoltà a ricostruire il contenuto di un accordo, quindi a stabilire se il convenuto ha adempiuto
esattamente o inesattamente alla prestazione dovuta. Il giuramento dei 12 testi poteva al massimo consentire
di accertare se un accordo era intercorso o meno, ma circa l’accertamento del suo contenuto la procedura era
chiaramente inaffidabile. Si adottò quindi il criterio di ammettere solo le azioni in cui l’attore poteva
produrre un documento scritto e munito di sigillo. In questa ipotesi il convenuto poteva solo negare che il
documento provenisse da lui e cioè che era falso; tuttavia l’azione era rischiosa perché esponeva il convenuto
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a sanzione penale ove, al contrario, il documento fosse stato ritenuto autentico. Ecco che quindi le
obbligazioni di pagare una somma di denaro assunsero la forma scritta munita di sigillo (= bond).
Da questo rimedio rimase esclusa la maggior parte degli accordi contrattuali. In un ambiente dominato dal
procedimento formulare si dovette procedere mediante adattamenti dei writs più flessibili e dotati di una
procedura più moderna quali quelli derivati dal trespass. Questa evoluzione si svolse nel corso di almeno due
secoli, procedimento lungo una catena di analogie tra casi simili. Il punto di partenza fu assicurato dalla
naturale ambivalenza di alcune ipotesi di inadempimento di obbligazioni di fare. L’esecuzione di diverse
obbligazioni di fare comporta un contatto molto stretto tra debitore della prestazione e la sfera giuridica del
creditore. Nel caso in cui dalla obbligazione derivi un evento dannoso, questo può essere visto
alternativamente sotto il profilo della responsabilità per inadempimento contrattuale, oppure sotto quello
della responsabilità extracontrattuale per il torto arrecato al proprietario dei beni o per l’integrità fisica
arrecata all’integrità fisica altrui.
Come si è accennato, poiché era penalizzante agire a titolo di responsabilità contrattuale, ci si rivolse
all’ottica degli illeciti extracontrattuali (torts). In caso di torto il trespass on the case era pronto ad accogliere
casi simili (poiché spogliato dei requisiti di violenza a mano armata); perciò sia l’ipotesi di un misfatto
(malfeasance) che di omissione (non feasance), poteva essere repressa con un rimedio tratto dal trespass. Il
passaggio cruciale tra le due ipotesi era facilitato dall’idea di frode, mediante la quale il debitore
inadempiente aveva raggirato il creditore deluso. La frode può essere in qualche modo ricollegabile all’idea
di una illecita invasione della sfera giuridica altrui, ma perché l’analogia sia percepibile occorre che il
creditore deluso abbia già pagato in anticipo la sua controprestazione: solo in questo caso l’ipotesi di chi con
artifici e raggiri induce un altro a pagare una somma di denaro può essere accostata all’ipotesi di chi allunga
la mano nella tasca altrui per cavarne del denaro.
I giuristi inglesi scorgevano nel pagamento anticipato una executed consideration, atta a sorreggere la
vincolatività della contro promessa, ciò che quindi la vittima della supposta frode otteneva a titolo di danno
non era solo la restituzione di quanto aveva già pagato, ma il danno sofferto per aver confidato nella
esecuzione della controprestazione, che comprendeva anche il lucro cessante.
L’analogia fra frode e malfare poteva quindi sorreggere una azione in case per responsabilità contrattuale
quando la parte avesse già adempiuto, ma rimase dubbio se lo steso rimedio fosse esperibile nel caso in cui le
parti avessero solo programmato due controprestazioni. In questo caso si discusse se era implicita la
promessa vincolante di eseguire la prestazione, e la risposta affermativa a questa domanda aprì le porte alla
tutela delle promesse contrattuali sorrette da una controprestazione che poteva però essere solo promessa
(executory consideration) anziché essere già eseguita (executed consideration). Ecco che quindi la funzione
del requisito della consideration divenne, da elemento cui ricollegare l’idea della frode, a requisito richiesto
per verificare che la promessa fosse seria ed atta a suscitare un affidamento tutelabile.
Ecco che i writs of debt e di convenant, ed il wager of law, vennero accantonati e l’assumpsit, ovvero la
promessa di pagare una somma di denaro, divenne la form of action nella quale venne riversata la
problematica contrattuale.
Ancora oggi i common lawyers vedono il contratto nell’ottica della tutela dell’affidamento del destinatario di
una promessa vincolante, la cui tutela è parzialmente fungibile con quella offerta dalla law of torts; mentre
rimane estranea alla loro mentalità giuridica l’idea che il contratto in sé sia una valida fonte di obbligazioni.

La tecnica del pleading.


Il procedimento del writ in forma di trespass prevede una scissione tra l’accertamento del fatto storico
accaduto, demandato ad una giuria, e la sussunzione del fatto così come accertato dalla giuria nella formula.
La scissione tra fatto e diritto richiede una cucitura: il meccanismo di pleading.
La trattazione di una causa iniziava con il racconto del fatto da parte dell’attore; nella narrazione (count)
l’avvocato dell’attore esponeva davanti al tribunale i fatti su cui si basava la pretesa del suo cliente. Siccome
il processo si svolgeva avanti una giuria di semplici cittadini ai quali occorreva porre una domanda semplice
alla quale rispondere con un si o con un no, si doveva creare una contraddizione tra le due parti, ovvero una
situazione in cui l’attore affermava un certo fatto ed il convenuto lo negava, sicché la contraddizione poteva
essere sciolta con il verdetto della giuria.
Dopo che l’attore avesse fatto la propria esposizione dei fatti toccava al convenuto replicare. Aveva a
disposizione quattro possibilità: negare tutto (general traverse) ed il caso era sottoposto alla giuria avanti la
quale ciascuna parte produceva le sue prove; ammettere che i fatti narrati dall’attore erano veri ed il caso non
era sottoposto alla giuria perché non vi era un conflitto tra le parti; ammettere alcuni fatti e negarne altri
(special traverse) e solo i fatti contestati erano sottoposti alla giuria; ammettere i fatti narrati dall’attore, ma
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aggiungerne altri tendenti a svuotare l’esposizione dell’attore del suo significato (confession and advoice). In
questo ultimo caso la parola tornava all’attore il quale poteva prendere posizione rispetto ai fatti aggiunti dal
convenuto: se li negava si creava immediatamente un issue da sottoporre alla giuria; se li ammetteva la giuria
diveniva inutile poiché il problema era di diritto e spettava ai giudici risolvere la questione.
In questa schermaglia alla mossa di una parte corrisponde la contromossa dell’altra, ciascuna cercava di
creare l’exitus sul terreno che le era più favorevole. Da qui deriva anche la necessità per le parti di farsi
assistere da avvocati esperti e dotati di un cervello non torpido.
Nel contesto del processo completo, la seconda possibilità che si apriva al convenuto (ammettere i fatti
narrati dall’attore) produceva l’ammissione dei fatti ma o se ne disputava la rilevanza giuridica ai fini
dell’accoglimento della domanda, oppure no (perdendo la lite).
Demurrer è il termine tecnico del pleading in cui il convenuto sostiene che i fatti narrati dall’attore sono veri,
ma da essi non discendono le conseguenze giuridiche poste a fondamento della sua domanda. In questa
ipotesi la questione diventa di puro diritto e spetta ai giudici e non alle giurie decidere la questione.

Le conseguenze di un lungo periodo del sistema dei writs.


Secoli di fatiche trascorse sulle formule hanno lasciato in eredità al giurista di common law l’arte di
interrogarsi criticamente sull’uso delle parole, sul loro significato, sulle situazioni che possono essere
ricondotte a tale significato e quelle che invece non possono esservi ricondotte. La frammentazione che il
sistema dei writs impose al corpus del diritto inglese, impedì di operare attraverso gerarchie di concetti,
perciò il giurista che non poteva tentare di risalire da un’idea ad un concetto più generale che la
ricomprendesse, ripiegò sulle parole, problematizzando al massimo grado l’esplorazione analitica del loro
significato, ma conservando il principio per cui il linguaggio è una istituzione sociale e pertanto il significato
delle parole non può essere stravolto dall’argomentazione del singolo.
Lo stile dei testi normativi inglesi e anche di quelli contrattuali ancora oggi muovono dall’identica premessa,
per cui le parole hanno un valore costruttivo, nel senso che costringono anche il più malizioso degli interpreti
ad accettare un senso sfavorevole ai suoi interessi.
Un secondo atteggiamento mentale è la capacità di ragionare per analogia da un caso all’altro. Lo sviluppo
del trespass e del trespass on the case costituiscono il paradigma storico di questa capacità. Riflettendo sul
modo in cui fu discusso il Doige’s case del 1442, riguardante il mancato adempimento della promessa di
trasferire una proprietà per la quale la convenuta aveva già ricevuto il pagamento anticipato, i giudici
ragionarono mediante analogia da un caso ad un altro, continuando a proporre esempi per verificare se su
qualcuno di questi si potesse ottenere il consenso generale. Mancava quindi un riferimento ad una regola
juris che contemplava una fattispecie astratta cui il caso concreto potesse attagliarsi (nessuna regola juris
infatti fu invocata per tutta la discussione, poiché erano tutti consapevoli di doverla cercare).
La capacità di ragionare per analogia è rimasta ancora oggi una caratteristica essenziale per il giurista che
faccia riferimento al criterio del precedente giudiziale. Non si può infatti utilizzare correttamente la
giurisprudenza come giuda alla scoperta del diritto senza l’abilità di ragionare per analogia da un caso
all’altro.
Una terza tendenza dei giuristi è quella di ragionare per fattispecie svincolate dal sistema complessivo, e
quindi senza procedere al loro inserimento in una gerarchia di concetti formali, ma rapportando ciascuna
fattispecie ad un sistema di valori sociali.

La Court of Chancery e l’equity.


Dopo la chiusura del registro dei writs nel 1258, il common law seguì una crescita organica, ma lenta. Le
forms of action radicavano nella coscienza degli operatori i principi di legalità e di prevedibilità del diritto, i
quali trovavano attuazione nella adesione alle forme tradizionali e alle decisioni precedenti, ecco perché non
era possibile attuare alcun cambiamento senza vincere accanite resistenze, con l’ovvio risultato di rallentare
l’evoluzione del common law.
Nel XV secolo l’Inghilterra entrò pienamente nel circuito mercantile europeo, importando dal continente gli
ideali e gli atteggiamenti della cultura umanistica, e questo porse in risalto tutte le lacune del common law.
Di fronte alla pressione di una domanda di giustizia che non trovava udienza presso le corti di Westminster,
né poteva trovarla altrove, la valvola di sfogo fu un ritorno alle prerogative del sovrano. Questo aveva
sempre conservato il potere-dovere di rendere giustizia, ma lo stato delle cose cambiò quando cominciò ad
essere investito da un numero crescente di suppliche da parte di coloro che non potevano ricevere giustizia
nelle corti regie per ragioni tecniche. Il grosso delle questioni per le quali si chiedeva l’intervento diretto del
sovrano cessò quindi di riguardare i poveri, i deboli, e gli oppressi per concernere invece dispute attinenti la
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Real Property. La quantità di tali richieste (intervento ex gratia), creò la necessità di amministrarle e la
modalità concretamente attuata chiamò in causa la figura del Cancelliere ed il suo ufficio.
Il Cancelliere, che era normalmente un Vescovo, non era solo il più alto funzionario del regno, ma anche il
confessore del re e veniva quindi considerato the keeper of the king’s conscience (rettore della coscienza del
re), perciò delegando a lui la cura delle suppliche che gli erano rivolte, il sovrano metteva la propria
coscienza in pace e risparmiava tempo. Concretamente il cancelliere era la persona adatta allo scopo perché
la sua cultura gli consentiva di scorgere la giustizia nel contesto di un’etica di matrice religiosa largamente
condivisa, e perché essendo un personaggio potente aveva i mezzi per farsi obbedire.
La procedura davanti al Cancelliere era informale: iniziava con una petizione (scritta o orale), la denuntiatio,
tratta dal modello canonico in cui l’attore lamentava una ingiustizia. A questo punto il Cancelliere chiamava
il convenuto mediante un atto di citazione detto writ of subpoena (pronuncia: sab-pina), perché si
preannunciava una penalità in denaro se il convenuto non fosse comparso. L’accertamento dei fatti seguiva
un modello inquisitorio: il writ non conteneva l’enunciazione delle ragioni per cui il convenuto era chiamato
avanti al cancelliere (quest’ultimo però ne era a conoscenza). La caratteristica del writ of subpoena non era
solo quella di chiamare il convenuto senza precisargli le ragioni della sua comparizione (il che serviva a non
far preparare al convenuto le risposte, che erano quindi spontanee), ma anche quella di porre in primo piano
il rapporto tra il convenuto e l’autorità inquisitrice, il quale non era di parità ma solo di soggezione.
L’inchiesta andava avanti con i suoi ritmi dettati dalla necessità di accertare la verità, non c’erano termini
processuali. Il giudice era il Cancelliere, sebbene qualche volta questo potesse delegare altri con la formula
dedimus potestatem (molto utilizzata in caso di controversie che riguardavano i poveri o gli oppressi, per la
cui soluzione veniva delegato un signore del luogo). Poiché egli esercitava una giurisdizione di coscienza,
mirava anche a mondare l’anima dell’autore dell’ingiustizia (era una giurisdizione in personam, per cui una
volta che l’autore della ingiustizia avesse riparato il torto commesso e si fosse mondato la coscienza, tutto
era concluso nel migliore dei modi). Neanche la condanna al pagamento di una somma di denato sembrava
un rimedio adeguato, poiché incideva sul patrimonio del condannato e quindi sul tenore di vita della famiglia
e degli eredi; piuttosto il Cancelliere preferiva emanare ordini di fare o non fare o di restituire.
Inizialmente non esisteva un corpus di regole giuridiche costituenti un ordinamento specifico, le regole
applicate erano quelle della morale cristiana: mantenere la parola data, non fare violanza ad altri, non frodare
il prossimo, non approfittare della debolezza o dell’ignoranza altrui…tuttavia l’applicazione di queste regole
non poteva contraddire le regole di diritto positivo. Il Cancelliere poteva però sovvertirne il risultato
ricorrendo ad un espediente retorico. Ad esempio se Tizio aveva promesso di trasferire la proprietà di un
immobile a Caio e poi non lo ha fatto, le regole di diritto attribuiscono la proprietà dell’immobile comunque
a Tizio, lasciando a Caio la sola possibilità di ricorrere ai rimedi contro le promesse non mantenute per farsi
risarcire in denaro il danno sofferto. Il Cancelliere poteva invece ingiungere al promittente di effettuare l’atto
di trasferimento in favore di Caio.

Una creazione dell’equity: il trust (fiducia).


Il successo dell’equiy venne anche facilitato dalla protezione che essa offrì ai trust. Infatti, negli anni si
manifestò la diffusione della prassi di affidare un patrimonio, specie immobiliare, a qualcuno fiduciae causa.
Tuttavia lo scopo di questo uso non era chiaro ma la cui funzione del trust era quella di garantire la
riservatezza: chi non volesse apparire agli occhi della gente e mantenere il riserbo sulla sua sostanza
economica, poteva intestarla a qualcuno nel quale riponeva fiducia.
Tuttavia il common law non aveva nel proprio arsenale dei writs alcun rimedio atto a proteggere le
aspettative del fiduciante, sebbene era terreno fertile per questo tipo di trasferimenti fiduciari poiché,
concependo il passaggio della proprietà secondo il modello dell’investitura e quindi per atto di attribuzione
unilaterale, non richiedeva che la ragione del trasferimento fosse espressa nell’atto di attribuzione. Siccome
l’evoluzione delle corti di common law fu lenta rispetto alla pressione della domanda sociale, la
giurisdizione del Cancelliere arrivò prima a proporre una soluzione di protezione ai fiducianti e si accaparrò
l’intera materia dei trusts. Se quindi qualcuno riceveva un cospiquo patrimonio a titolo di fiducia,
promettendo di amministrarlo con cura nell’interesse del fiduciante, di cui si era conquistato la fiducia, ma
poi non manteneva la promessa fatta ed approfittava dell’intestazione formale per godere del patrimonio
acquistato gratis a proprio esclusivo vantaggio, era sotto il profilo del giudizio morale un cialtrone.
Cosa poteva accadere in questo caso? Il Cancelliere, quale guardiano della giustizia, aveva ampi motivi per
intervenire come ordinare (mediante injunction) al trustee (fiduciario) di comportarsi come tale e non come
proprietario nel proprio interesse. Il trustee prevedendo tale intervento del Cancelliere poteva cedere ad altri
tutti o gran parte dei beni ricevuti dal costituente del trust. In tale caso si potevano prospettare due ipotesi: se
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la cessione avveniva a tutolo oneroso, in luogo dei beni primitivi si trovava quindi il corrispettivo, e il
patrimonio del trust era grossomodo quello di prima, quindi il trustee continuava ad essere gravato
dell’obbligo di comportarsi come tale rispetto a ciò che aveva ricevuto come corrispettivo (il disinvestimento
e reinvestimento del patrimonio di un trust rientra nelle legittime scelte di un onesto trustee, ecco perché il
Cancelliere considerava i nuovi beni come oggetto di obbligazione fiduciaria esattamente come quelli
precedenti. Tutt’al più se il corrispettivo era inferiore al valore dei beni primitivi il trustee doveva risarcire i
danni attingendo al proprio patrimonio).
Una seconda ipotesi era quella del trasferimento a titolo gratuito, per cui il terzo acquirente si trovava a
preservare un vantaggio con danno altrui, perciò il Cancelliere gli ordinava di comportarsi come un trustee e
non come un proprietario normale.

La contrapposizione tra common law ed equity.


L’adesione delle decisioni assunte in materia di trust al sentimento comune irrobustì il consenso attorno alla
giurisdizione in equity del Cancelliere. I common lawyers erano contenti di sgravarsi del difficile compito di
risolvere simili casi. Inoltre intervenire in materia di rapporti fiduciari avrebbe comportato la necessità di
immischiarsi nella ricostruzione dei fatti perdendo la distinzione tra questioni di fatto, devolute al verdetto
delle giurie, e questioni di diritto, riservate invece al giudizio dei giudici, con conseguente smarrimento di
tutta la procedura di common law che era il cardine del loro agire.
Tuttavia una giustizia equitativa corre tre tipi di pericolo: essa può corrispondere ad una equità cerebrina,
ossia basata su valutazioni soggettive del giudicante, non prevedibili da altri, con conseguente possibile
vulnus inflitto alla certezza del diritto e certa lesione del sentimento di giustizia comune.
In secondo luogo, le regole morali sono normalmente formulate in modo piuttosto ampio ed elastico, e
pertanto non possono offrire soluzioni certe, almeno nei casi complicati; inoltre l’incertezza del diritto
favorisce la corruzione dei giudicanti.
Il terzo rischio è che la giustizia equitativa diventi strumento della lotta politica e quindi sia usata per
angariare i nemici e proteggere gli amici. Quest’ultimo rischio divenne concreto durante le lotte politiche ed
ideologiche che videro come campioni contrapposti i sovrani della dinastia Stuart da un lato ed il Parlamento
dall’altro lato. Inevitabile era che i Cancellieri, quali primi funzionari del Re, si fossero schierati dalla parte
di quest’ultimo, mentre i common lawyers aderirono al partito del Parlamento (scelta determinata dalla
contrapposizione concorrenziale alla giurisdizione in equity dei cancellieri). Proprio nella contrapposizione
con l’equity i giudici di common law seppero precisare i principi e i valori di legalità che costituivano il
sostrato della loro giurisdizione e che divennero patrimonio storico delle istituzioni anglosassoni.
I protagonisti principali della contrapposizione tra common law ed equity furono il Cancelliere di Giacomo I
Stuart e Sir Coke, Chief Justice delle corti di Common Pleas e di King’s Bench. Tale conflitto si svolse su tre
piani: un piano giuridico tecnico, perché i cancellieri avevano iniziato ad intromettersi in materia di contratto
per esentare dal dovere di adempiere la parte che fosse stata vittima di dolo o errore. Questo comportava che
il giudizio espresso dalla court of Chancery fosse diverso, anzi opposto da quello espresso precedentemente
dalla corte di common law. Benché non si trattasse di appello, tuttavia era evidente che chi giudica per
secondo ed ha il potere di ribaltare con il proprio giudizio l’esito materiale della lite, viene naturalmente
percepito come giudice superiore. Ovviamente questo non andava bene ai giudici di common law. La prima
crisi fu risolta da un decreto del Re nel 1616 in cui era stabilito che in caso di conflitto tra common law ed
equity quest’ultima avesse la prevalenza.
Intanto la controversia si era diffusa su un altro piano, quello dei rimedi. I giudici di common law avevano
infatti usato i prerogative writs per contrastare e nullificare gli ordini del Cancelliere. Ciò rese manifesto il
principio per cui sono i giudici e non i funzionari del Re coloro che hanno l’ultima parola in tema di libertà
delle persone.
Questo secondo livello di scontro portava ad un terzo carattere politico. Se i giudici di common law volevano
guadagnarsi la fiducia ed il rispetto della gente non bastava che essi amministrassero rimedi astrattamente
idonei a tutelare i diritti dei cittadini, dovevano anche apparire indipendenti rispetto al potere politico, ossia
rispetto al sovrano, così da garantire imparzialità ed equità di giudizio anche nel caso in cui si trattasse di
giudicare persone che al sovrano erano ostili in quanto suoi oppositori politici. Questo terzo livello fu il più
rilevante per le sorti dell’equity e del common law nella sua durata. In teoria i giudici di common law erano
funzionari del Re esattamente come gli altri e perciò il sovrano così come delegava ad essi il compito di
amministrare la giustizia regia in suo nome, poteva ritirare la delega, ossia licenziare un giudice senza altra
giustificazione all’infuori di quella che il giudice in questione lo aveva dispiaciuto. Tuttavia nel corso
dell’evoluzione il common law aveva elaborato le proprie ragioni ed i propri principi indipendentemente
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dalla volontà normativa del sovrano, e pertanto i creatori di tale diritto percepivano se stessi come
indipendentemente dalla volontà del sovrano.
La crisi tra common law ed equity arrivò al suo culmine nel 1616, quando il Re chiamò i giudici avanti a sé
per chiedere ad essi se si sarebbero astenuti dal giudicare un caso qualora il Re lo avesse ordinato. Tutti
risposero affermativamente, tranne Coke il quale disse che quando il caso fosse giunto avanti la corte
avrebbe fatto ciò che per un giudice era appropriato fare. Tale risposta sottolineava che il principio di
imparzialità rendeva comunque inappropriato per un giudice enunciare preventivamente come avrebbe
giudicato prima di avere sentito le ragioni delle parti. In realtà la domanda del Re sottointendeva una
questione fondamentale: se si ammetteva che i giudici del Re non facessero altro che applicare la legge del
regno, diveniva immediato dedurre come l’ordine del sovrano di astenersi dal giudicare un caso, equivaleva
all’ordine di non applicare la legge a quella controversia; rispondere affermativamente equivaleva ad
ammettere che il sovrano è superiore alla legge. Era esattamente quello che Coke non voleva ammettere, egli
sosteneva che il sovrano era soggetto a Dio ed alla legge. Tale principio costituiva le base ideologica dei ceti
sociali e delle forze politiche che si riconoscevano nel Parlamento (la legalità stava dalla parte del partito dei
parlamentari e non da quella del partito del sovrano).
Re Giacomo pose una ulteriore questione: poteva il sovrano stesso giudicare un caso sottraendolo alla
cognizione dei suoi giudici? Negare ad un sovrano la possibilità di giudicare comporta irresistibilmente una
valutazione negativa circa le sue capacità intellettuali, inoltre, negare al sovrano la possibilità di giudicare in
luogo dei suoi giudici, significava disconoscere il carattere delegato della funzione giudiziaria. Coke ammise
che il sovrano era dotato di grandi doti di intelligenza e di senso del giusto, ma negò che potesse giudicare in
una corte di common law, perché il diritto quivi applicato non corrispondeva alla ragione comune, ma era il
frutto di una ragione artificiale che non si poteva apprendere e padroneggiare senza lungo studio e
l’esperienza.
Dopo simili risposte Coke venne licenziato ma le sue parole rimasero come modello ed esempio di ciò che
deve fare un buon giudice, e la pressione politica fu tanto forte da costringere nel 1642 il nuovo Re, Carlo I,
a nominare i giudici con un incarico a vita e non sino a quando al sovrano fosse piaciuto mantenerli nella
carica.
Quando gli Stuart vennero cacciati nel 1688, in nuovo costituzionale assunto dall’Inghilterra vide la vittoria
del Parlamento ed il partito dei giudici, mentre le attività svolte dai sovrani e dai Cancellieri precedenti
vennero considerate come l’incarnazione dell’arbitrio. In questo nuovo assetto politico-costituzionale la
Court of Chancery sopravvisse (eccetto il ramo penale che venne abolito) solo perché la giurisdizione del
Cancelliere seppe adeguarsi al nuovo clima di legalità ed assunse le forme di una giurisdizione speciale, ma
prevedibile.

Il prevalere della rule of law.


Inizialmente l’equity non si era sentita legate a regole, ma solo alla giustizia, tuttavia il suo svolgimento
storico aveva reso palese come senza l’adesione a regole generali ed astratte non vi può essere garanzia che
casi analoghi vengano risolti in modo analogo; se casi eguali sono risolti diversamente si lede l’uguaglianza
e non si fa giustizia.
Sotto il principio per cui equality is equity la giurisdizione del cancelliere si cristallizzò in certe materie, da
altre invece si ritirò prudentemente. Dopo il 1660 le decisioni della Corte di Cancelleria vennero
regolarmente conservate in appositi reports e furono motivate. Nel XVIII secolo la tendenza a seguire i
precedenti divenne soverchiante. Alla fine del processo di cristallizzazione l’equity aveva perso la capacità di
trovare nuove soluzioni, ma nel momento del consolidamento ebbe una notevole rigidità. Nella prima metà
del XIX secolo la Corte di Cancelleria era considerata come fonte di spese, ritardi e disperazione, ma dopo il
periodo di cristallizzazione l’equity si trasformò in un settore del diritto inglese, con i suoi istituti, regole e
principi ben definiti, rinunciando alla pretesa di rendere una giustizia secondo morale, separata e
sovraordinata al sistema legale.
I lasciti della giurisprudenza della Court of Chancery sono stati tre: oggi esiste ancora un settore del diritto
inglese retto dall’equity (materia dei trust, ipoteche, diritto societario, rimedi in forma specifica, ecc); alcune
clausole generali di equity sono divenute parti del patrimonio del diritto inglese attuale a cui si sono ispirati
alcuni grandi giudici del nostro secolo, inoltre tali principi di equity hanno condizionato il ragionamento
giuridico del common lawyer attuale; infine nel settore dei rimedi, delle prove e del ruolo del giudice nella
conduzione dei processi civili, la tradizione di equity ha influenzato il diritto processuale riformato.

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Ricordato ciò è da sottolineare che l’intera vicenda storica della dialettica tra common law ed equity ha finito
con il riaffermare la stretta adesione del sistema giuridico inglese al principio di legalità, riassunto nella
formula tradizionale della “rule of law”. Tale espressione sintetizza non solo il criterio per cui i cittadini
possono essere obbligati ad adeguarsi a regole prestabilite seguendo procedure su cui si è formato il
consenso generale e non alle regole dettate dalla volontà individuale, ma sintetizza l’adesione ad alcuni
valori sostanziali che intessono lo spirito profondo dell’esperienza giuridica inglese.
Oggi si definisce conforme alla rule of law un sistema che garantisce l’accessibilità ex ante alle regole
giuridiche; si vincola a fare sì che le questioni attinenti ai diritti ed alle responsabilità debbono essere risolte
in base al diritto e non mediante l’esercizio di poteri discrezionali; si prevede che i pubblici poteri debbano
essere esercitati nei limiti in cui sono conferiti e per gli scopi per cui sono conferiti e mai in modo
irragionevole; si tende ad assicurare l’eguaglianza di fronte alla legge salvo che diversità oggettive
giustifichino una differenziazione; si offre una adeguata protezione ai diritti umani fondamentali. Tutto
questo funziona solo se si ha alle spalle una lunga tradizione storica coerentemente orientata verso l’idea che
il governo serve a garantire le libertà individuali e la maggiore felicità collettiva.

SEZIONE TERZA - LE RIFORME GIUDIZIARIE DEL XIX SECOLO E LE LORO CONSEGUENZE


Il diritto inglese di fronte alla rivoluzione industriale.
L’uomo del XIX secoli ebbe a subire uno shock tecnologico quale non ne ricorrevano da parecchi millenni.
Oggi siamo abituati a subire l’impatto del progresso tecnologico sulla nostra vita quotidiana, ma chi visse
durante la prima rivoluzione industriale non aveva ragione di aver acquisito una simile esperienza. Coloro
che nacquero nell’anno 1800 per arrivare fino a 70 anni, videro la civiltà materiale trasformarsi sotto i loro
occhi; essi vennero alla luce in un tempo ancora dominato dalla civiltà del legno. Sarebbero passati a miglior
vita in una civiltà del metallo, nell’anno 1800 la velocità massima degli spostamenti su terra era quella del
cavallo, nel 1870 oltre 270.000 chilometri di ferrovie ricoprivano le antiche strade; la velocità di spostamento
che prima si misurava in giorni, si misurò in ore. Verso la fine del secolo i trasporti per mare divennero
regolari per tutta la durata dell’anno e non solo in certi periodo dell’anno, e con ciò si accrebbero a dismisura
i valori.
Questi mutamenti epocali della civiltà materiale investirono l’Inghilterra prima di ogni altra nazione
occidentale, tuttavia il sistema giuridico inglese fu l’ultimo ad essere formalmente aggiornato. Si osserva
anche che molte riforme inglesi furono precedute da analoghe riforme americane. Anche gli Stati Uniti
sperimentarono, in quanto sistema di common law, le medesime difficoltà di adattamento del modello
giuridico importato dall’Inghilterra alle necessità di una società sviluppata e sempre più complessa; però
essendo l’opinione pubblica americana meno china al tradizionalismo e coltivando il progresso e la
sperimentazione come valori, avvenne che le riforme istituzionali furono introdotte e realizzate negli Stati
Uniti con un certo anticipo rispetto l’Inghilterra. In realtà i giuristi inglesi avevano preparato il terreno per le
riforme, ma erano posti nell’impossibilità di attuarle autonomamente e fu questo stallo ciò che creò una
situazione di crisi al termine della quale dovette intervenire il potere politico (detenuto dal Parlamento).
A differenza degli altri paesi europei, in Inghilterra le riforme furono un problema spinoso per due ragioni: la
prima era che i forensi avevano portato al loro estremo orizzonte le riforme di cui esano capaci; la seconda
era la diffusa coscienza che vi fosse del buono nella loro tradizione. I forensi del common law erano risultati
essere i difensori delle libertà individuali al tempo del tentativo assolutista dei sovrani Stuard, la loro difesa
era divenuta simbolo della ideologia politica universalmente abbracciata. Anche i rivoluzionari avevano
preteso di battersi per una compiuta azione del principio per cui una società di persone libere deve essere
retta da the rule of law e non da una rule of man. La scelta politica fu quindi quella di liberare i giudici dalle
gabbie, limitazioni e dai freni organizzativi e procedurali che ne limitavano la capacità di autoriforma, ma
per quanto riguardava il diritto sostanziale, i politici mostrarono riverenza e fiducia verso i common lawyers.
Va ricordato che alla prima rivoluzione industriale ne sono seguite altre, con importanti mutamenti delle
tecnologie impiegate e quindi con continui mutamenti dei modi di produrre e comunicare; inoltre la
diffusione geografica della civiltà industriale ha condizionato i rapporti tra le nazioni ed i rispettivi popoli.
Nel XIX secolo il divario tra le nazioni che avevano intrapreso la strada della industrializzazione e quelle che
erano rimaste agricole fu massimo e ciò diede origine a fenomeni di colonizzazione delle prime sulle
seconde. Nel XX secolo il divario si è man mano ridotto ed il panorama globale pur presentando aspetti di
differenziazione, ha mutato aspetto. Gli sviluppi della civiltà industriale fuori dall’Europa ha dato origine a
fenomeni di globalizzazione degli scambi commerciali, circolazioni di idee e modelli organizzativi,
migrazioni di persone.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Ogni volta che si ha circolazione di modelli, questa comporta ibridazioni di varia natura e momenti di
convergenza tra civil law e common law; soprattutto alla fine del XX e inizio del XXI secolo gli elementi di
convergenza sono stati maggiori rispetto a quelli di divergenza, del resto anche i sistemi di civil law si sono
evoluti fortemente manifestando sintomi di convergenza con le parallele evoluzioni dei sistemi anglo-
americani.
Al fondo di questi fenomeni di convergenza tra esperienze giuridiche vi è un comune sentimento latente in
tutte le società post-industriali. Il continuo progresso tecnico dei mezzi di trasporto e dei mezzi di
comunicazione ha spinto l’integrazione reciproca delle comunità umane, ma ha anche accresciuto la
competizione tra gli ordinamenti che governano le singole comunità politicamente organizzate in Stati
sovrani. Tale competizione induce a considerare il diritto nella direzione di una maggiore efficienza
nell’allocazione delle risorse, senza farsi condizionare dalla tradizione culturale in cui affonda le proprie
radici.

Le riforme dell’organizzazione giudiziaria e la fusione tra common law ed equity.


Alcune riforme introdotte dal Parlamento inglese nel XIX secolo consolidarono risultati già attinti dallo
sviluppo organico del common law, altre furono effettivamente innovative poiché si ponevano obiettivi che
erano al di fuori della portata di uno sviluppo organico del diritto per via di evoluzione giurisprudenziale.
Le riforme principali riguardarono tre settori: il primo fu l’organizzazione delle corti di giustizia; il secondo
riguardò la fusione della competenza giurisdizionale tra corti di common law e corti di equity; il terzo
attenne all’abolizione delle forms of action.
Le prime due riforme furono legislative e realizzarono obiettivi posti al di fuori della portata di una organica
evoluzione del common law tradizionale e tuttavia furono preparate da tale evoluzione. Furono riforme
necessarie. Gli inconvenienti derivanti dalla separazione tra corti di common law e corti di equity erano gravi
e non più giustificabili: erano gravi perché la complementarietà dei rimedi di common law e di equity faceva
si che per una medesima lite potesse essere necessario adire entrambe le giurisdizioni, sopportare quindi i
costi di entrambe e cumulare la lunghezza di due procedimenti separati; non più giustificabili perché
l’evoluzione dell’equity aveva comportato una sua omologazione di fondo con i metodi di common law
perdendo la iniziale vocazione per le valutazioni singolari fondate sulla moralità del caso. Per queste ragioni
non vi era ragione per escludere che anche i giudici di common law fossero in grado di amministrare i rimedi
di equità.
Se si dovevano unificare le giurisdizioni di equity e di common law era opportuno riformare tutto il sistema
organizzativo delle corti. Tale riforma più matura della precedente derivava dal successo delle corti di
common law. D’altronde l’opinione pubblica percepiva che vi era un solo paese ed una sola giurisdizione,
quella dei giudici di common law. Perciò la riforma della organizzazione delle corti procedette spedita ed un
gran numero di corti che risalivano al Medioevo furono abolite. Il potere giudiziario fu accentrato nella Hight
Court of Judicature, che al suo interno prevedeva una Hight Court of Justice ed una Court of Appeals.
La terza riforma, che prevedeva l’abolizione delle forms of action era in realtà vicina a ciò che il common
law tradizionale aveva già conseguito: la maggior parte delle forms of action originarie era caduta in disuso
e, con esse, le forme procedurali che si accompagnavano ai writs nella forma praecipe. Ciò che erano
effettivamente in uso erano i writs derivati dal ceppo del trespass, la cui procedura era riconosciuta come
unitaria. La riforma abolì in tutto i writs sostituendoli con un semplice atti di citazione e questo comportò un
mutamento di rilievo nella struttura del processo.

L’abolizione delle forms of actions e l’affermarsi del precedente vincolante.


Le riforme giudiziarie del XIX secolo, che presero il nome di Judicature Acts, costituirono l’inizio di una
rivoluzione del diritto inglese.
Quando vennero abolite le forms of action, a differenza dei giudici continentali, che si videro ingabbiati da
una legislazione che pretendeva essere chiara e completa e quindi privati di ogni funzione e di ogni potere
creativo, i giudici inglesi vennero liberati dal legislatore dalle gabbie del forms of actions, affinché potessero
essere maggiormente creativi. Tuttavia le forms of actions erano i parametri della legalità delle loro
affermazioni e costituivano il sistema all’interno del quale si era sviluppato il ragionamento giuridico e sul
quale quindi qualsiasi giustificazione si doveva fondare; inoltre indicavano l’insieme delle fattispecie che
ricevevano una valutazione giuridica e rispetto alle quali esistevano regole di decisione.
La reazione dei giudici inglesi di fronte alle riforme giudiziarie del XIX secolo fu quella di irrigidire il
criterio del precedente vincolante (l’alternativa era scivolare in una sorta di diritto libero che avrebbe
sconvolto i caratteri di certezza e prevedibilità della decisione giuridica, i quali erano il fulcro della legalità
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costruita durante tanti secoli di sforzi); sino al XIX secolo il criterio del precedente era stato inteso in senso
perfettamente ragionevole ossia nel senso che un giudice deve conoscere e tener nel massimo conto le
precedenti decisioni sue e di altri giudici in casi analoghi. Se un giudice si discostava immotivatamente delle
decisioni precedenti non solo mostrava disprezzo per i suoi predecessori, ma poneva in crisi il principio
fondamentale della legalità e dell’uguaglianza di fronte alle regole di diritto, il quale esige che casi eguali
ricevano soluzioni identiche indipendentemente dalle qualità professionali delle parti e quelle del giudice
avanti al quale è portata la causa.
Dal XIX secolo prese piede una teoria secondo la quale il precedente giudiziale è giuridicamente vincolante
in modo assoluto, in quanto ciò che è stato enunciato nella decisione precedente non è l’opinione di un
giudice più antico o più anziano, ma la verbalizzazione di una regola di diritto consuetudinario positivo.
Da questo derivò la teoria dichiarativa del precedente giudiziario. Il suo assunto di partenza è che il common
law non è una judge made law, ossia un diritto giurisprudenziale, ma è una consuetudine esistente ab
immemorabile. Questa consuetudine si compone di una serie di norme non scritte, ma conosciute da ogni
buon inglese. Il compito di dare ad esse una verbalizzazione spetta solo ai giudici quando agiscono come tali,
ossia quando risolvono una controversia che è sottoposta ad essi: infatti, enunciano quale sia la regola di
diritto consuetudinario in base alla quale la controversia viene risolta in un modo o nell’altro. Essi sono
quindi oracoli del diritto, essi trovano il diritto (to find the law), ma non creano il diritto (to make the law).
Da questo deriva che quando una regola del diritto consuetudinario è scoperta e verbalizzata da un giudice
essa cessa per sempre di esistere allo stato amorfo (senza configurazione), e perciò il giudice seguente non
deve fare altro che applicare al caso da decidere la regola formulata in precedenza; discostarsi dalla decisione
precedente è un errore di diritto che consiste in una falsa ed erronea applicazione di una regola di diritto
positivo.
Una volta asserito che il solo giudice in sede di decisione di una controversia era dotato di tale potere, era
necessario individuare, nel testo della sentenza, il punto esatto in cui il giudice enunciava la regola che
costituiva la regione di decidere (ratio decidendi); il resto era considerato detto gratis o obiter. Attuata questa
distinzione, si riteneva vincolante la sola ratio decidendi del caso, e questo implicava che si dovevano
identificare con precisione i fatti di causa: la ratio decidendi vive in simbiosi con la descrizione del caso
operata dal giudice. Il giudice seguente è infatti vincolato alla decisione del precedente solo se ritiene che il
problema che egli deve risolvere si ponga negli stessi termini in cui si è posto il problema risolto mediante la
regola enunciata nella ratio decidendi della sentenza precedente.
Da questo discende che il giudice non è vincolato dalle pronunce precedenti se ritiene che il problema a lui
sottoposto sia distinguibile da quello affrontato nelle sentenze precedenti. Questo significa che i fatti di causa
a lui sottoposti debbono contenere almeno un elemento giuridicamente rilevante che li distingue dai fatti
precedentemente giudicati (arte del distinguishing).

Il declino della teoria dichiarativa del precedente giudiziale.


La teoria dichiarativa del precedente giudiziale non è riuscita a divenire una teoria completamente sensata. Il
punto di frattura attiene al livello di generalizzazione del problema che si deve risolvere. La controversia
sottoposta ad un giudice è infatti tutta intessuta di fatti concreti non ripetibili; se ci si cala sino a questo
livello di concretezza, la teoria dichiarativa generebbe un sistema in cui nessun precedente è vincolante,
perché il problema susseguente presenterà sempre elementi di differenziazione. Tuttavia questa soluzione
sarebbe assurda perché il principio di eguaglianza di fronte alla legge impedisce che tutta una serie di
elementi concreti possano essere utilizzati per distinguere tra due casi. Per la stessa ragione, il giudice nel
decidere una controversia non formula la ratio decidendi in relazione a tutte le particolarità concrete del caso,
ma in relazione ad un certo grado di astrazione di esso. È evidente quindi che non vi è limite sicuro alle
possibilità di generalizzazione. Tuttavia la soluzione della stessa controversia può essere formulata anche
astrattizzando al massimo il problema.
La teoria dichiarativa del precedente giudiziale richiede che il giudice seguente sia vincolato a considerare
come regola di diritto il risultato raggiunto nella sentenza precedente, sulla base dei fatti che quei giudici
hanno considerato rilevanti ai fini del decidere. Il problema però è che la individuazione dei fatti rilevanti ai
fini del decidere non è dissociabile dal livello di astrazione a cui si pone la regola di decisione: se ad esempio
la regola di decisione è formulata nel senso che esiste nell’ordinamento la regola del neminem laedere tutti i
fatti che attengono agli strumenti materiali mediante i quali è stata perpetrata la lesione divengono
giuridicamente irrilevanti. Se invece la regola di decisione è formulata nel senso che è illecito percuotere il
prossimo con un martello, lo strumento della lesione è rilevante e si porrà nei casi susseguenti il problema

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della possibile analogia tra il caso della lesione arrecata con un martello e quello della lesione arrecata
brandendo il manico di una scopa.
Storicamente però la teoria dichiarativa del precedente è servita per dimostrare che di fronte a casi in cui i
giudici non trovavano alcun precedente in cui si affermasse che la condotta del convenuto era ritenuta
illecita, essi non potevano giudicare secondo il loro capriccio, ma attenersi alle regole prestabilite.
Tuttavia, nel 1966 la House of Lords ha emanato un documento, il Pratice Statement, per annunciare che da
allora in poi essa non si sarebbe più ritenuta strettamente vincolata ai propri precedenti, pur continuando a
tenerli nel massimo conto al fine di preservare il principio della certezza del diritto. Questo annuncio ha
segnato la sepoltura della teoria dichiarativa.

Il sorgere di nuove categorie ordinanti.


Nella tassonomia frammentata delle forms of action era del tutto illogico trascorrere da una categoria ad
un'altra, poiché ciascuna aveva la propria autonomia concettuale. Tuttavia già Blackstone risistemando tutta
la common law secondo un piano organico tratto dalla scuola del diritto naturale, aveva in realtà sovrapposto
alle categorie particellari del common law, le macro categorie giusnaturalistiche, le quali, a loro volta,
avevano la loro origine nella cultura romanistica (il diritto delle persone, i diritti sulle cose, i contratti e la
responsabilità da fatto illecito). Approfondendo questa impostazione, la letteratura successiva aveva
raggruppato le diverse fattispecie di common law a fini apparentemente solo didattici ed espositivi. Ma,
come sempre accade, le categorie didattiche si trasformano presto o tardi in categorie del ragionamento
giuridico operativo. In tale nuovo contesto però necessitano di venire giustificate in relazione all’insieme
delle regole di diritto. Ecco che sono ammissibili tre tipi di giustificazione: si può adottare un criterio di
carattere sociale e fare riferimento alle categorie che vengono percepite dalla generalità dei cittadini ed
utilizzate nei loro discorsi quotidiani; si può ricorrere a qualche principio logico implicito in ciascuna
categoria; infine ci si può attenere a ragioni di ordine essenzialmente storico.
I giuristi inglesi andarono alla ricerca di categorie che potessero essere giustificate in base ai primi due tipi di
giustificazione, ossia la congruità con il pensiero socialmente diffuso, oppure la corrispondenza ai canoni
della logica colta.
Tuttavia durante la rivoluzione non sono mancate resistenze, ad esempio quella del ceto forense, incline alla
conservazione della logica delle antiche forms of action, sebbene fossero scomparse da tempo. A partire
dalle riforme del secolo scorso, il common law inglese si è in realtà impegnato in una rivoluzione silenziosa
nel corso della quale tutte le categorie tradizionali sono state riscritte e risistemate.

SEZIONE QUARTA - IL DIRITTO INGLESE DELL’EPOCA CONTEMPORANEA E LE RIFORME DEL XXI SECOLO
Il sistema delle corti ed il processo civile nel sistema inglese attuale.
Le riforme del XIX secolo furono un’apertura del potere politico verso il ceto dei giuristi: le riforme
dell’organizzazione giudiziaria furono tese a liberare i giudici dai lacci che impedivano uno sviluppo
organico del diritto alienato con la velocità dei mutamenti storici. Non è solo stato il progresso tecnologico
ad agitare le acque del sistema giuridico: una civiltà industriale in continuo sviluppo pone problemi di
redistribuzione della ricchezza prodotta che sono del tutto nuovi e che occorre affrontare per mantenere un
accettabile livello di pace sociale. Nel medio lungo periodo nel Regno Unito si sono imposte traiettorie
evolutive basate sulla domanda diffusa di poter vivere in un sistema che oltre a garantire il soddisfacimento
universale di alcuni bisogni primari delle persone, miri ad assicurare che i salari siano “fair” ed egualmente
lo siano gli affitti ed, in definitiva che sia assicurata una sostanziale fairness degli scambi.
Il parziale soddisfacimento di queste esigenze, nella seconda metà del XX secolo ha indotto ad accettare
trasformazioni nel sistema giuridico: la logica conseguenza della redistribuzione della ricchezza è quella di
dare ordine ad apparati amministrativi appositi e gli apparati amministrativi richiedono di essere governati
mediante leggi e regolamenti essendo del tutto insufficiente il diritto di origine giurisprudenziale. D’altra
parte i governi per potersi procurare le risorse economiche necessarie debbono accentuare la pressione
fiscale sulle imprese e cittadini munirsi degli indispensabili apparati di controllo.
Questo modello comporta uno spostamento imponente nella distribuzione dei compiti tra i diversi formanti.
Man mano, a partire dal 1945, il diritto inglese ha conosciuto una stagione in cui la principale fonte del
diritto è divenuta la legge votata dal Parlamento (statue): fonte attraverso la quale le necessarie riforme sono
state introdotte nell’ordinamento. Inoltre il diritto inglese ha recepito per oltre 40 anni le normazioni europee
veicolate per la gran parte in linguaggio legislativo.
Le sequenze delle riforme è stata inversa rispetto a quella delle riforme del secolo precedente: prima sono
state introdotte continue riforme del diritto sostanziale in tutti i campi, dal diritto di famiglia alla circolazione
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dei titoli di proprietà ai contratti con i consumatori, poi si è proceduto ad una riforma molto radicale del
processo civile con le Civil Procedures Rules 1998; infine si è modificata l’organizzazione delle corti
supreme e del sistema di reclutamento dei giudici. Queste ultime riforme discendono dal Constitutional
Reform Act 2005, e mirano ad attuare il principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo,
giudiziario) che l’ordinamento inglese aveva da lungo tempo osservato nella sostanza ma trascurato nella
forma. Infatti l’ufficio del Lord Chancellor è stato radicalmente riformato ed al posto del Judical Committee
della House of Lords è stata istituita (2009) una Supreme Court of the United Kingdom che si pone al vertice
degli organi che amministrano la giustizia del regno. Questa è composta di 12 giudici, che inizialmente
furono i law lords in carica; ha una composizione e le caratteristiche sostanziali del precedente Judical
Commitee. La elaborata procedura di nomina dei giudici della Supreme court e delle altre cordi superiori ha
l’obiettivo di eliminare ogni residuo patronage governativo ed assicurare una composizione bilanciata delle
corti, con attenzione al genere, ma anche di selezionare giuristi di talento e di esperienza.
Il sistema giudiziario inglese è rimasto ancorato alla tradizione giuridica ed alle sue dinamiche intrinseche
lasciando al formante legislativo il compito di introdurre riforme organiche; è rimasto, a differenza di altre
esperienze, immune dalle tentazioni del diritto fluido. A differenza di quanto accade nel diritto americano, i
giudici inglesi non si sono attribuiti il potere di sindacato giurisdizionale sulle leggi approvate dal parlamento
di cui riconoscono la supremazia. Solo limitatamente alla tutela dei diritti umani, dopo lo Human Rights Act
del 1998, è possibile che una corte disconosca efficacia ad un atto normativo secondario.
Con le modifiche riportate, il vertice del sistema giudiziario inglese è rimasto affidato ad una ristretta élite
giudiziaria che condivide una forte coesione intellettuale dando origine ad una mentalità tecnico giuridica
che si riflette anche sulle giuridizioni di base, ove vengono affrontate la maggior parte delle questioni
giudiziarie.
Questa compattezza è necessaria per mantenere la razionalità di un sistema che non prevede l’appello come
diritto del singolo litigante e mano che mai prevede il diritto di ricorrere sino al vertice della giurisdizione. Il
ricorso del giudice è solo una possibilità che può concretizzarsi a condizione che la parte soccombente lo
richieda, che il giudice d’appello consenta a rivedere il giudizio. In base alla Rule 52.13 delle Civil
Procedure Rules la Court of Appesl può concedere la necessaria permission all’appello solo se il ricorso
solleva una questione importante di diritto o per la pratica; è irrilevante l’interesse della parte soccombente.
L’appello serve in realtà a produrre decisioni più mature e vagliate al massimo livello di autorevolezza.
L’attività delle corti di revisione non è quindi principalmente diretta a rendere giustizia nel caso singolo ma a
pronunciare sentenza su casi che coinvolgono questioni di principio, oppure quando la decisione appellata
sembri così poco persuasiva da rendere necessario un intervento correttivo. La presenza di questi filtri spiega
la ragione per cui le decisioni della Court of Appeal e della Supreme court siano poco numerose (nel 2016 la
Supreme Court ha emanato 75 sentenze), e sono estremamente analitiche in fatto e riccamente argomentate
in diritto. Si sottolinea come lo stile della sentenza inglese di appello non è stato modificato dalle riforme di
cui si è detto: ogni giudice può manifestare una propria opinione concorrente o dissenziente. Anche se la
prassi delle opinioni dissenzienti è meno praticata in seno alla Supreme Court e le opinioni concorrenti sono
poche, rimane che è difficile per il giudice relatore conquistare l’unanimità dei consensi se il testo della
sentenza è meno che impeccabile.
Il potere di overruling, ossia di ripudiare un precedente giudiziale, formalizzato dalla House of Lords con il
Pratice Statement del 1966, è rimasto in capo alla Supreme Court, che lo utilizza con maggiore frequenza.
In definitiva, le riforme del XXI secolo non hanno mutato gli stili ed i meccanismi di fondo, come lo è stato
invece il diritto sostanziale.
Anche le riforme della procedura civile hanno modificato il tradizionale modello del processo adversary, che
assegna al giudice un ruolo di arbitro silente, mentre il processo viene condotto dalle parti in
contrapposizione dialettica tra loro: il Civil Procedure Act del 1998 assegna al giudice un ruolo direttivo
notevole pregnanza, in funzione della identificazione precoce delle questioni che meritano di essere trarttare
e discusse ed eliminazione di quelle che non hanno effettiva rilevanza; indirizzando il processo in diversi
canali procedurali a secondo della rilevanza delle questioni trattate ed incoraggiando in ogni fase le parti
verso soluzioni alternative rispetto alla lite giudiziale.
È da osservare che lo spostamento dell’asse portante del sistema delle fonti del diritto giurisprudenziale alla
legislazione ha prodotto un mutamento rilevante nell’attività della giurisdizionale. I giudici delle corti inglesi
sono solo raramente impegnati a risolvere casi della vita in base all’analisi dei fatti accaduti ed alla loro
sussunzione nelle rationes decidendi adottate in precedenza. La maggiorparte delle questioni sono relative
all’interpretazione di testi legislativi, oppure al bilanciamento tra principi espressi nei vari testi legali che
risultano in contrasto tra loro rispetto ad una situazione concreta. Questa tendenza ad operare comporta
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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

l’adozione di uno schema di ragionamento giuridico diffuso in tutte le esperienze giuridiche occidentali, e
che in Europa ha trovato la sua più coerente espressione nelle sentenze della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo. In seguito all’adozione nel Regno Unito dell’Human Rights Act del 1998 che ha trasposto nel
diritto interno molti principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si è reso necessario adottare
rispetto a tutte le regole vigenti il canone dell’interpretazione più adeguata al fine di promuovere la tutela dei
diritti umani.
L’emanazione dell’Human Rights Act il Parlamento non ha sciolto il dubbio circa gli effetti verticali o anche
orizzontali della tutela dei diritto umani: da un lato si è osservato che la CEDU ha effetti solo verticali poiché
ammette azioni rivolte solo contro gli Stati che ne siano firmatari; dall’altro lato si è notato come la Section 6
disponga che le pubbliche autorità non debbano agire in modo tale da violare i diritti tutelati dalla
Convenzione Europea, e le Corti, considerate pubbliche autorità, sono tenute a decidere questioni ad esse
sottoposte in conformità alle esigenze di tutela dei diritti umani anche quando si tratti di vertenze tra due
parti private. Tradizionalmente nei sistemi di common law le carte costituzionali sono intese come vincolanti
per i governi i cui poteri vengono limitati, dando così luogo all’effetto verticale; i rapporti tra privati regolati
dal common law non sono influenzati dai documenti costituzionali, ma con leggi.
Nel XX secolo il parlamento ha introdotto riforme radicali mediante l’emanazione di nuove leggi organiche:
nel 1928 l’arcaico sistema della real property fu riformato radicalmente dal Real Property Act; il Land
Registration Act del 2002 ha modificato le modalità di trasferimento dei diritti immobiliari e ha introdotto
nuovi sistemi di registrazione per via elettronica; il diritto di famiglia è stato rivoltato da cima a fondo
mediante una serie di nuove leggi che hanno ripudiato una massa di principi di common law, nei quali
trovava concretizzazione il sentimento della superiorità maritale; il diritto del lavoro è stato regolato da leggi
animate da uno spirito polemico verso i risultati di common law. Inoltre, la presenza di un apparato pubblico
molto sviluppato comporta che sia elevato il numero di persone le quali hanno a che fare con le regole di
diritto, ma che non sono specialisti del diritto. Queste necessitano di una guida nello svolgimento delle loro
attività quotidiane ed è impensabile che tale giuda sia offerta dal diritto giurisprudenziale, altamente
problematico: il diritto del Welfare State è necessariamente scritto in forma legislativa. L’apparente
complicatezza del dettato legislativo deriva dal desiderio di guidare gli esperti presenti nelle diverse
tecnostrutture pubbliche e private, usando il linguaggio settoriale tipico delle diverse specializzazioni. In
questo scenario il diritto colto che si esprime nelle opinioni dei giuristi, finisce con l’ibridarsi: giuristi e
giudici sono sempre più spesso chiamati a confrontarsi con discipline cosiddette tecniche formulate in un
altro linguaggio settoriale. L’ingresso di questi linguaggi e delle cognizioni tecniche retrostanti nell’area
della aggiudicazione ha posto problemi di coordinamento e di sintesi tra conoscenze giuridiche e conoscenze
scientifiche che il common law tradizionale non conosceva, o conosceva solo marginalmente.
Nel sistema inglese la sentenza è l’opinione personale del giudice. Anche quando più giudici siedono in una
stessa Corte la sentenza è individuale; molti giudici si limitano a segnalare di essere d’accordo con
l’opinione di uno di loro; conosciuta è la opinione dissenziente, la quale però non è frequente nella
giurisprudenza come in quella americana.
Lo stile della giurisprudenza inglese è condizionato dal fatto che il giudice deve motivare secondo uno
standard elevato il ragionamento giuridico: la motivazione debba convincere gli altri membri della
professione forense. Poiché il giudice è un personaggio di prestigio elevato ci si attende che le sue
motivazioni siano redatte secondo uno standard di ragionamento giuridico ed uno stile linguistico altrettanto
elevato; non ci si può accontentare di una motivazione qualsiasi, di una sentenza che contenga solo pochi e
sciatti rilievi, non è accettabile uno stile linguistico disadorno o piattamente burocratico. I grandi giudici
sono stati maestri della lingua inglese e le loro sentenze sono considerate anche sotto il profilo letterario.
Nelle sentenze inglesi, specie quelle delle Corti supreme, grande attenzione è dedicata alla ricostruzione dei
fatti: il fatto è analizzato per pagine e pagine in cui il giudice spiega perché accetta una versione dei fatti e
rigetta l’altra versione di essi. L’analisi del fatto è considerata necessaria al fine di consentire una completa
valutazione del ragionamento giudiziale. Vi sono due motivi che sorreggono questa tendenza: il peso della
tradizione che sospinge ad un esame analitico del caso; il fatto per cui i giudici si sentono vincolati dal
principio per ci le loro sentenze debbono essere convincenti e quindi devono dedicarsi ad una
dettagliatissima descrizione dei fatti che essi sono chiamati a valutare.
Oltre ai fatti, la sentenza inglese considera quale sia la regola di diritto che si deve applicare al caso in
esame: tale regola coincide con una norma legale, o meglio, con la sua interpretazione; nei casi che giungono
alle corti superiori si discute spesso di puri concetti giuridici attraverso l’analisi delle parole che li veicolano.
In questo senso la mentalità del giudice inglese rimane ancorata al tema del significato delle parole
giuridiche di cui si esplorano tutte le possibili anfibologie per pervenire a dotarle del senso più confacente.
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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Negli ultimi lustri i problemi affrontati dalla giurisprudenza inglese coincide con una rivisitazione degli
istituti tradizionali: le forme di ragionamento giuridico assumono quindi nuovi orientamenti, imposti dalla
ricerca di bilanciamento tra diritti confliggenti e dalla giustificazione razionale di quelli che vengono
selezionati dai giudici superiori per risolvere i casi ad essi sottoposti. Questa tendenza comporta una
attenuazione delle barriere tra diritto pubblico e diritto privato; una propensione ad esercitare il judical self
restrain che vieta ai giudici di introdurre nuove regole che pure sarebbero necessarie per perseguire l’ideale
della giustizia, lasciando che tale compito sia svolto dal Parlamento.
In questo quadro evolutivo il diritto giurisprudenziale inglese non rifiuta lo sviluppo del diritto ma non
trascura neanche la necessitò di preservare un elevato standard di calcolabilità giuridica, infatti sottolinea
che: “the ultimate function of the courts in common law and equity is to formulate and develop rules of a
clear and pratical nature”.

Le professioni legali.
Per tutto il XX secolo l’organizzazione delle professioni legali inglesi è stata l’emblema della preservazione
di una tradizione corporativa che vedeva le professioni legali distinte nelle due categorie dei Barristers e dei
Sollecitors: i Barristers avevano monopolizzato le funzioni della rappresentanza della parte in giudizio, erano
gli unici abilitati a comparire avanti le corti superiori, di conseguenza i giudici erano tratti unicamente dal
novero dei Barristers, essendo i soli ad aver maturato esperienza giudiziale. Tuttavia oggi il contenzioso è
relativamente scarso, di conseguenza questa branca della professione legale si è trovata emarginata dalla
parte più redditizia dei servizi legali. La complessità dei sistemi giuridici contemporanei e la loro
interconnessione internazionale ha reso la prestazione di servizi legali una attività che richiede il
coordinamento di molteplici competenze professionali: organizzati in grandi studi professionali, i Sollicitors
si sono dimostrati i più adatti a fornire il tipo di consulenza ed assistenza che le imprese attuali richiedono.
Inoltre è da osservare che l’educazione legale oggi è svolta dalle università.
In base al legal Service Act del 2007 le professioni legale sono dotate di organismi di regolazione e
sorveglianza al pari di altre attività affini. Vi sono una decina di organismi regolativi di tale tipo, due dei
quali riguardano rispettivamente i Sollicitors (Sollicitors Regulation Authority) e i Barristers (Bar Standards
Board); ad essi sovraintende il Legal Service Board, un organismo semipubblico indipendente che ha la
missione di fare si che il mercato dei servizi legali sia competitivo conformato in modo da tutelare l’interesse
dei consumatori in cui i prestatori sono indirizzati a promuovere l’interesse generale (fiducia del pubblico
nell’amministrazione della giustizia e del sistema regolativo; effettività dell’ordinamento giuridico; rispetto
della rule of law).
Le professioni legali sono considerate, sotto il profilo della produzione di servizi, all’interno di un mercato di
regolamentato ma altamente concorrenziale, che affida al mercato stesso la selezione delle imprese di servizi
più efficienti. Le antiche associazioni professionali sono divenuto organismi rappresentativi dei propri
membri con poteri di sorveglianza sui singoli, ma a ciascuna di esse corrisponde un organismo indipendente
che svolge compiti regolativi nell’interesse generale.
Le tradizionali strutture corporative sopravvivono con funzioni ridotte, mentre acquistano un ruolo maggiore
gli organismi regolativi indipendenti istituiti con legge e composti mediante meccanismi di selezione
variegati che tendono a garantire il pluralismo delle competenze e l’assenza di conflitti di interessi. I residui
degli assetti corporativi sono destinati a scomparire: è abrogato il monopolio dei Barristers alla difesa avanti
le corti superiori ed anche quello dei Sollicitors nella presentazione dei Barristers ai clienti, i quali possono
contattarli direttamente.
Le professioni legali passano quindi dallo status di professioni protette a quello di professioni regolamentate.
Il numero dei Barristers è cresciuto e non mancano quelli che sono dipendenti pubblici o privati, o che
partecipano a società di Sollicitors, i quali si raggruppano in grandi studi legali.
Va osservato anche che se l’accesso individuale all’esercizio delle professioni legali è stato riservato a coloro
che hanno ottenuto un law degree da una università accreditata, il numero di queste ultime si è moltiplicato e
fluttua attorno al numero cento; inoltre possono essere ammessi alle professioni legali i giovani giuristi che
hanno compiuto i loro studi fuori dal Regno Unito. Il numero degli esercenti professioni legali si è quindi
fortemente accresciuto, per via della accresciuta domanda di servizi legali. È errato quindi pensare che le
professioni legali sono monopolio di un’élite numericamente ristretta che si autogoverna.
Le professioni legali inglesi hanno modificato profondamente le loro struttura anche se non ancora gli stili e
le mentalità ereditate dal passato.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La letteratura giuridica inglese e lo stile delle sentenze.


L’autonomia del diritto dalle altre discipline si manifesta nella presenza di una letteratura specialistica che
tratta questioni giuridiche e si rivolge esclusivamente a lettori giuristi.
Dal momento della chiusura del registro dei writs e per almeno due secoli la letteratura giuridica inglese fu
tipicamente professionale. I forensi dovendo affrontare il problema della scelta del writ adatto a veicolare
correttamente la pretesa del loro cliente, si rivolgevano alla ricerca dei lumi necessari per lo svolgimento
della loro attività ai reports in cui erano annotati i pronunciamenti dei giudici, nonché le spiegazioni circa la
procedura seguita per ciascuna forms of action. Questi report, detti Year-books, sono letteratura giuridica,
ossia opere scritte che trattano del diritto, ma non hanno il solo scopo di divulgare un pensiero
sistematicamente organizzato.
A partire dal XVI secolo apparvero dei reports nominativi, ad esempio quelli di Plowden, quelli di Coke. I
primi sono noti come Commentaries poiché il loro autore non si limità ad un’opera di selezione, ma aggiunse
commenti e glosse personali ai casi riportati, e li corredò con un sistema di riferimenti, in cui si manifesta
l’intento di pervenire ad una esposizione ragionata del diritto.
L’avvento della stampa stimolò una nuova produzione di libri scritti da un singolo giurista per i giuristi. Per
fare alcuni esempi: l’opera di Littleton on Tenures (1481) divenne manuale indispensabile per comprendere
la materia della real property; la New Natura Brevium (1534) di Anthony Fitzherbert, aveva lo scopo di
fornire un aggiornamento sulle nuove forms of action; il Doctor and Student (1528-31) di Christopher St
German, esponeva sotto forma di dialogo tra un teologo (doctor) ed un apprendista del common law
(student) le ragioni della giurisdizione di coscienza del Cancelliere e quelle della legalità di common law.
Con il trattato di Blackstone, Commentaries on the Laws of Englend (1765-69), si assistette ad un
mutamento di paradigma ed al ritorno ad una letteratura giuridica destinata ad un pubblico colto e non solo ai
pratici. Blackstone, pur avendo una formazione forense, era divenuto il primo professore di common law in
una università inglese essendogli stata assegnata la prima cattedra di common law istituita presso l’università
di Oxford nel 1753 e la sua opera fu scritta dopo che il suo autore aveva maturato una notevole esperienza
didattica tenendo i suoi corsi sul common law agli studenti di Oxfors per oltre dieci anni. I Commentaries
furono quindi scritti per gli studenti e si rivolsero a tutte le persone colte, non agi avvocati, i quali non si
formavano all’università.
Blackstone si occupò anche di dimostrare come la struttura fondamentale del common law corrispondesse ad
uno schema razionale ordinabile in forma logica e coerente. Egli assunse quindi come piano dei suoi
Commentaries i modelli della scuola del diritto naturale; adottò i modelli delle opere di Grozio e di
Pufendorf, contributi di filosofia politica, le quali erano largamente conosciute. I Commentaries erano divisi
in quattro libri: il primo intitolato of Person; il secondo libro intitolato of the Rights of Thinghs, aperto da un
capitolo intitolato of Property in General; il terzo libro intitolato Private Wrongs; il quarto libro intitolato
Public Wrongs, ed è un trattato di diritto penale. Blackstone parte sempre dal dato sostanziale, ossia
dall’attribuzione dei diritti e dei doveri soggettivi, perché questa è la prospettiva dalla quale il non tecnico
osserva il funzionamento delle regole istituzionali.
Più espressivo ancora del modello giusnaturalistico retrostante è il fatto che Blackstone fece precedere i suoi
Commentaries da un capitolo introduttivo dedicato al diritto inglese in particolare. Emergono in tale
occasione due caratteristiche tipiche e contrastanti dell’opera: il capitolo sulla legge in generale è svolto in
forma teoretica e rende manifesta la rottura con il paradigma della letteratura professionale; il capitolo
seguente sul diritto inglese è svolto invece in forma rigidamente storicistica, ed aderisce ad un modello
espositivo preesistente. Il problema cruciale lasciato irrisolto si coglie nel fatto che il common law poteva
essere spiegato mediante la sua storia, ma non poteva essere facilmente calato negli stampi di una logica
razionalizzatrice di origine esterna alla tradizione giuridica. Forzando ed a volte falsificando i dati storici,
Grozio e Pufendorf erano riusciti a presentare i materiali romanistici cui attingevano abbondantemente come
perfettamente congruenti con la loro visione del sistema giuridico, frutto del loro razionalismo filosofico;
Blackstone non aveva alle spalle nulla di ciò e perciò la sua sistematica rimase acerba. Tuttavia questo non
nocque alla sua fama e allo sviluppo della letteratura giuridica inglese successiva: da un lato la presentazione
in forma culturalmente accettabile di tutta la materia del common law lusingò anche i pratici che non
esitarono a proclamare che i Commentaries erano da considerarsi una esposizione giuridicamente autorevole
della loro disciplina. La letteratura giuridica successiva si orientò verso la forma espositiva di tipo
trattatistico e sostanzialistico, si trattava di una letteratura professionale nel senso che il suo pubblico era
costituito da operatori pratici che furono indotti a formare il proprio bagaglio tecnico sulla lettura di trattati
organici e non su riassunti di casistica giurisprudenziale. Dall’altro lato l’opera di Blackstone generò per
reazione un altro filone letterario del tutto nuovo. Alcuni scrittori inglesi percepirono appieno le aporie in cui
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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Blackstone era caduto e pensarono di porvi rimedio: ad esempio Jeremy Bentham pensò che la common law
andasse riformata per via legislativa; John Austin sosteneva che occorresse liberare il discorso dei common
lawyers da tutte le aporie e le anfibologie che lo rendevano illogico, diede origine ad una scuola di pensiero
che, richiamandosi alla necessità di una teoria generale del diritto coerente sotto il profilo logico, divenne
influente nell’ambito universitario. Le opere di Austin non ebbero molto successo ma stabilirono un modello
di trattazione comprensiva del diritto inglese che successivamente si radicò nella letteratura grazie alle opere
di Frederick Pollok e John Salmond, alle quali venne riconosciuta autorevolezza notevole.
Nel XX secolo la letteratura giuridica inglese è divenuta completamente trattatistica, destinata ai forensi.
Non manca una letteratura accademica di alto livello che esercita una crescente influenze sia nella
educazione dei giuristi che sui pratici e sui giudici. Da un lato quindi la letteratura professionale, il cui
prestigio è ormai consolidato, che si appoggia alla fonte giurisprudenziale (citazioni e punti di riferimento
sono le sentenze dei giudici), che è l’unica “autorità” che un professionista è interessato a conoscere;
dall’altro lato una letteratura più incline alla elaborazione teorica dei dati giuridici e contempla la possibilità
di approcci critici al diritto vigente.
La letteratura giuridica inglese è destinata ad essere fruita non solo in Inghilterra, ma in tutte le aree
giuridiche che al common law inglese si ispirano.
Da qui deriva una elevata propensione a comporre opere giuridiche: il numero dei saggi e delle opere
giuridiche è aumentato esponenzialmente, anche per effetto di regole universitarie che impongono ai
professori di pubblicare un certo numero di saggi; infine la diffusione della editoria elettronica ha contribuito
ad accrescere la mole dei materiali giuridici disponibili nelle diverse reti.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

CAPITOLO QUINTO - L’ESPERIENZA GIURIDICA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

SEZIONE PRIMA - L’ORIGINALITÀ DELL’ESPERIENZA AMERICANA IN PROSPETTIVA STORICA


La ricezione del common law nelle colonie americane.
Gli Stati Uniti d’America si proclamarono uno Stato indipendente nel 1776, costituiti in una confederazione
di 13 Stati, derivati da 13 colonie originarie poste sulla costa atlantica. Ognuna di queste tredici colonie si
popolò dal 1607 di coloni venuti dall’Inghilterra, Scozia ed Irlanda, scacciando i nativi americani. La
struttura di fondo caratterizzante le diverse colonie era piuttosto variabile: alcune, come quella del New
England, erano fondamentalmente insediamenti a base religiosa, fondati da calvinisti perseguitati in
Inghilterra per la loro dissidenza rispetto alla chiesa anglicana; in altre, pur essendo a base religiosa, la fede
non costituì il cemento della coesione sociale (la più importante di queste diede origine all’attuale Stato del
Massachusetts.
La componente giuridica del sistema fu scarsa: l’amministrazione coloniale inglese era regolata secondo i
canoni dell’improvvisazione e ciò generò un inevitabile disordine. Il diritto alla base del quale vivevano le
popolazioni locali era un miscuglio tra atti e documenti para-legislativi e consuetudini locali rapidamente
formatisi. Del resto, ad una recezione del sistema giuridico inglese mancava la presenza di un numero
sufficiente di giuristi in grado di porlo all’opera. Il numero rarefatto di abili avvocati era imputabile da un
lato alla naturale ritrosia degli avvocati di successo ad emigrare, e dall’altro lato, ad un sentimento
antilegalistico diffuso in una popolazione formata da persone che erano ridotte alla disperazione dalle leggi
vigenti nella madre patria, che consideravano oppressive. Tuttavia, anche quando furono poi presenti nelle
colonie più sviluppate giuristi dotati di buona cultura giuridica, si era nel frattempo formato una sorta di
circolo vizioso per cui l’assenza di una offerta adeguata da parte dei giuristi indirizzava la domanda sociale
di ordine e di giustizia verso forme alternative, e la presenza di queste ultime scoraggiava la formazione di
giuristi aventi una preparazione tecnica conforme agli standards britannici.
Questo circolo vizioso fu incrinato verso la fine del XVIII secolo dalla apparizione dell’opera di Blackstone,
la quale forniva una sintesi del sistema giuridico inglese in una dimensione abbordabile, e quindi ne
consentiva l’apprendimento da parte di una cerchia più larga di persone. L’accresciuto numero di persone
acculturate nel common law avvicinò il ceto dei giuristi a quella massa critica, la quale consente ad essi di
monopolizzare l’amministrazione della giustizia imponendo l’uso di quella ragione artificiale che dà corpo al
principio di legalità. Questo meccanismo non si verificò all’unisono in tutte le tredici colonie ed anche negli
Stati formatisi successivamente; anche dopo l’Indipendenza esso fu assai diluito nel tempo per effetto
dell’espansione degli Stati Uniti verso la costa del Pacifico, piuttosto, mano a mano che procedeva la
colonizzazione verso ovest si riproducevano nei nuovi territori le condizioni iniziali delle colonie originarie.
Nei nuovi insediamenti la scarsezza di giuristi preparati apriva le porte della professione legale ad ogni tipo
di persone, le quali condizionavano con il loro stile l’amministrazione della giustizia.
Nell’esperienza americana quindi la definitiva conquista del monopolio dell’amministrazione della giustizia
da parte dei giuristi esperti si è verificata solo nel XX secolo, epoca in cui la ricezione del sistema del
common law può dirsi completata. Per portare a termine questa ricezione si è verificata una profonda
rielaborazione dei materiali e degli schemi giuridici inglesi, sicché quella americana può dirsi un’esperienza
giuridica che se rimane iscritta alla famiglia del common law, è tuttavia una esperienza vissuta in forme
originali.
Infatti, la situazione inglese e quella americana sono dissimili; ciò che le accomuna è la lingua e la cultura
generale. Dai tempi dell’invasione normanna sino a questo secolo, l’Inghilterra è stata una nazione
etnicamente compatta, con una popolazione relativamente stabile; gli Stati Uniti sono la nazione multietnica
per eccellenza (vede la presenza di inglesi, scozzesi, irlandesi, olandesi, tedeschi, scandinavi, africani, ebrei,
italiani, balcanici, russi, polacchi, cinesi, giapponesi, latino americani. L’Inghilterra è un paese
tradizionalmente accentrato (preponderanza del centro londinese); gli Stati Uniti sono un paese policentrico,
con vari centri urbani (es New York, Boston) che in certi periodi storici hanno assunto ruolo da protagonisti,
ma non paragonabile all’egemonia londinese sulla vita inglese.
La vicenda del diritto americano è quindi originale e non una riproduzione storicamente più tarda dei modelli
europei; l’esperienza americana sembra rivivere nel giro di meno di tre secoli l’intera esperienza giuridica
occidentale. In questo moto accelerato si è assistito ad una competizione più accesa tra i diversi formanti, e
ad una loro ricombinazione inedita, sino a ricavarne esiti innovativi rispetto alle esperienze europee: questa
accelerazione proietta l’originalità dell’esperienza americana nel futuro anche dell’Europa anziché confinarla
in una ripetizione del suo passato.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La rilevanza della Costituzione federale: il contesto storico-politico delle sue origini.


La Dichiarazione di indipendenza, scritta da Thomas Jefferson ed approvata il 4 luglio 1776 dai delegati al
secondo congresso continentale, è un documento ispirato dagli scrittori della scuola del diritto naturale, da
Locke a Burlamaqui, a Vattel, in cui si manifesta appieno l’intenzione dei padri fondatori di dotare la nuova
nazione di ideali universali imperniati sul riconoscimento e sul rispetto dei diritti umani.
La visione del mondo veicolata dalla cultura illuministica era caratterizzata da una forte vocazione verso
l’organizzazione istituzionale, grazie alla quale vennero superati e presto dimenticati i primissimi anni di
sbandamento politico ed istituzionale in cui gli Stati Uniti assunsero forma di Confederazione di Stati.
Nel 1778 si riunì a Philadelphia una Convenzione composta dai rappresentanti di dodici Stati con il proposito
dii progettare una nuova forma di governo federale; riuscirono in un tempo piuttosto breve a redigere il testo
di una costituzione che ha retto la prova di oltre due secoli di storia.
Tra le costituzioni in vigore nei paesi occidentali, la Costituzione federale americana è quella più antica; si
tratta di un documento di altissimo livello intellettuale in cui fu trasfuso l’atteggiamento scettico verso la
capacità di autogoverno delle masse (tipico aristocratico), coniugato con l’ottimismo illuminista il quale
induceva a pensare di potere controllare le spinte irrazionali degli uomini mediante un razionale disegno
delle istituzioni pubbliche. Questo atteggiamento intellettuale doveva però essere trasposto in un disegno di
ingegneria costituzionale adeguato a reggere la multiforme varietà delle pressioni politiche dei diversi gruppi
sociali, predisponendo un insieme di meccanismi finalizzati a creare un equilibrio dinamico tra le istituzioni.
La trama della costituzione americana è leggibile come ricerca di tre punti di equilibrio principali:
Ø Il primo punto di equilibrio fu individuato in base alla adesione alle teorie di Montesquieu sulla
divisione dei poteri: il sistema di governo federale fu suddiviso in tre poteri indipendenti che si possono
controllare a vicenda. L’equilibrio dei poteri è percepibile dall’architettura del testo costituzionale la cui
prima parte si presenta scandita in ampi articoli: il primo è dedicato al Congresso, quindi al potere
legislativo; il secondo è dedicato al Presidente e Vice Presidente degli Stati Uniti, quindi al potere
esecutivo; il terzo è dedicato al potere giudiziario federale.
Per ciascun potere si prevedono limiti e contrappesi:
a. il potere esecutivo è affidato al Presidente degli Stati Uniti, eletto per quattro anni da un collegio
di grandi elettori indipendente dal Congresso. Il Presidente è il comandante in capo all’esercito e
della marina ed i dipartimenti dell’amministrazione federale debbono rispondere a lui; egli
nomina i propri ministri e tutti i funzionari federali, compresi giudici federali, ma tali nomine
devono essere ratificate dal Senato.
b. Il potere legislativo è affidato al Congresso, organo bicamerale composto da una Camera (House)
dei Rappresentanti e da un Senato che però sono composte in modo asimmetrico: i
“rappresentanti” durano in carica per due anni e sono eletti in ciascuno Stato in base al numero
degli abitanti; i senatori occupano la loro carica per sei anni, e ne sono eletti due per ciascuno
Stato indipendentemente dal numero degli abitanti. Il Congresso legifera solo nelle materie
assegnate al potere federale, oltre a questo limite si prevede che il Presidente possa opporre il
proprio veto alle leggi votate dal Congresso ed in tal caso il Congresso può riapprovarle solo con
una maggioranza qualificata di due terzi.
c. Il potere giudiziario federale è affidato ad una corte suprema ed alle altre corti federali che il
Congresso può istituire. Ai sensi dell’articolo III, sec. 2., le corti federali intervengono quando
insorgono Cases o Controversies in materie affidate alla loro competenza giurisdizionale e
pertanto non possono mai intervenire motu proprio o pronunciarsi in via astratta su una
determinata questione. I giudici federali sono nominati dal Presidente con l’approvazione del
Senato; rimangono in carica a vita ed il loro salario non può essere diminuito sino a quando
rimangono in carica, tuttavia essi possono essere soggetti alla procedura di impeachment.
Ø Il secondo punto di equilibrio riguarda i poteri assegnati al sistema di governo federale rispetto a quelli
mantenuti dai singoli Stati facenti parte dell’Unione. La ricerca di questo equilibrio fu più laboriosa:
nella Convenzione di Philadelphia si confrontarono due versioni, le quali diedero luogo a due partiti
politici, i federalisti, inclini ad un potere federale forte, ed i nazionalisti repubblicani moderati, i quali
desideravano mantenere ampi poteri in capo ai singoli Stati.
La contrapposizione aveva due volti: da un lato si doveva individuare che cosa fosse di competenza del
sistema del governo federale e che cosa rimanesse agli Stati, dall’altro si trattava di individuare in quale
modo i singoli Stati concorressero al sistema di governo federale. Il primo aspetto fu risolto indicando le
18 aree di competenza legislativa federale e lasciando tutte le altre ai singoli Stati, ma imponendo agli

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

stessi una serie di divieti; il secondo aspetto del problema era reso acuto dal fatto che i singoli Stati non
erano per nulla eguali quanto ad estensione territoriale, popolazione e peso economico. Accantonata la
proposta per cui ogni Stato dovesse concorrere in base alla sua ricchezza fondiaria, la soluzione più
ovvia sarebbe stata quella di far partecipare ciascuno Stato al Governo dell’Unione in base alla
rispettiva popolazione; tuttavia questa soluzione avrebbe emarginato gli Stati meno popolosi a favore di
quelli più popolosi.
Il compromesso, Connecticut Compromise (dal suggerimento della delegazione del Connecticut),
raggiunto in seno alla Convenzione di Philadelphia prevede di far eleggere la House of Representative
in base alla popolazione e di disporre invece che ciascuno Stato, indipendentemente dalla sua
popolazione, invii due senatori alla camera alta. Dunque, il numero dei “rappresentanti” eletti in
ciascuno Stato è fluttuante a seconda della popolazione residente, riscontrata ogni dieci anni mediante
censimento federale, mentre il numero dei seggi senatoriali di ciascuno Stato è sempre invariabilmente
eguale a due. Questa soluzione comportava un effetto implicito, ossia che la costituzione non potesse
essere emendata dal Congresso federale; essa infatti fu prevista come costituzione assolutamente rigida,
per modificare la quale è necessario ricorrere ad un procedimento legislativo particolarmente aggravato,
e ottenere l’approvazione di tre quarti degli Stati.
Ø Il terzo tipo di equilibrio che i costituenti volevano creare verteva sul carattere rigido della costituzione.
Essi scorsero la contraddizione che intercorreva tra potere sovrano del popolo, quindi principio
democratico-maggioritario, e la tutela dei diritti individuali. Ne trassero la conseguenza che occorreva
ricercare a livello costituzionale un equilibrio tra principio maggioritario e tutela dei diritti civili, la cui
esistenza doveva essere in una certa misura protetta contro i possibili esiti esterni della democrazia
rappresentativa. Secondo alcuni tra i costituenti la ricerca di questo equilibrio doveva essere condotta a
livello di struttura del sistema di governo, ossia essere disegnata in modo tale da garantire il rispetto dei
diritti individuali anche se questi politicamente rappresentano interessi minoritari. Tuttavia omisero di
inserire nel loro testo costituzionale un bill of rights, ossia un elenco di diritti umani inviolabili; tale
omissione fu significativa perché un simile elenco costituiva una parte integrante di una costituzione, sia
un base alla tradizione specificatamente americana delle dichiarazioni e carte coloniali, sia in base ai
dettami della cultura illuministica e giusnaturalista europea.

Il progetto di un “Limited Government” nelle intensioni dei costituenti.


I padri fondatori della democrazia americana pensavano che le istituzioni repubblicane dovessero avere
poteri limitati; tuttavia per conseguire tale risulto coltivavano strategie differenziate: alcuni tra i partecipanti
della Convenzione di Philadelphia, come Madison, pensavano che il diritto consuetudinario presente nelle ex
colonie tutelasse in misura sufficiente i diritti individuali, soprattutto quelli di proprietà. Si stimava che il
ceto proprietario, come gruppo di proprietari fondiari e detentori di significativi capitali, potesse divenire una
minoranza rispetto al corpo elettorale, ed il pericolo era che il diritto privato venisse modificato dalla
legislazione votata da assemblee elettive. Contro tale pericolo la costituzione sottrasse alla competenza degli
Stati i rapporti di debito-credito, proibendo ad essi di battere moneta, emettere titoli di debito, rendere
liberatori pagamenti eseguiti con mezzi diversi dall’argento e l’oro, emanare leggi retroattive, o leggi che
limitano le obbligazioni derivanti da contratto (art. I, sec. 10,1). Inoltre, a livello di sistema di Governo
federale la costituzione previde che la competenza legislativa del Congresso fosse limitata alle sole materie
elencate, e disegnò anche un iter legislativo che rendeva necessario comporre molteplici interessi manifestati
nella società, che era fortemente pluralista. Inevitabile era però che alcune materie elencate fossero indicate
con una certa vaghezza, pertanto la sola lettera del testo costituzionale non appariva sufficiente ad assicurare
la limitatezza del governo federale: l’ingegneria costituzionale posta in essere dai costituenti americani
doveva fare si che dal processo legislativo federale sortissero solo leggi di rilevanza triviale, o leggi ben
ponderate, comunque politiche, ma non leggi civili (questa impostazione resse sino agli anni ’30 del secolo
scorso, quando il modello ideale di governo cessò di essere quello dell’individualismo proprietario).
Da questa impostazione derivano alcune conseguenze:
- la costituzione americana non concepisce il mito della volontà generale che si manifesta in una
Assemblea nazionale che produce leggi poste al vertice dello stato di diritto;
- la costituzione americana ripudia il mito della legge come strumento di manifestazione dell’onnipotenza
della nazione, infatti la mentalità giuridica americana è sempre stata remota da ogni forma di
assolutismo legislativo.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Tuttavia la struttura fondamentale del sistema di governo americano rimane quello di una democrazia, che
non può rifiutare il primo corollario di essa, ossia che la maggioranza prevale sempre. In qualsiasi
democrazia se la maggioranza rimane a lungo determinata e compatta, essa impone le sue regole ed i suoi
valori.
Per tutto il XIX secolo il disegno di Madison per equilibrare la democrazia con il rispetto dei diritti
individuali mediante la struttura di governo è stato complessivamente rispettato, poiché la legislazione
federale è rimasta essenzialmente una legislazione politica e non civile. Nel XX secolo tuttavia, la
maggioranza degli americani ha voluto che la legislazione divenisse direttamente o indirettamente la fonte
principale del diritto. Tale visione era risalente anche al momento costituente, ma lasciata allo stato latente
nel testo costituzionale, però ricavabile dai primi emendamenti ad esso.
A tal proposito, la lacuna riguardante l’elenco dei diritti è stata presto colmata: all’indomani della ratifica
della Costituzione, il primo Congresso federale approvò il 25 settembre 1789, 10 emendamenti alla
costituzione unanimemente ratificati dagli Stati nel 1791. Quelli dal n.1 al numero 9 sono comunemente detti
bill of rights, poiché contengono la trama dei diritti e dei valori fondamentali. La loro formulazione nel testo
costituzionale rappresentò una vittoria di coloro che ritenevano necessario consacrarli formalmente anziché
affidarne la preservazione alla coscienza politica del popolo. Oggi la Costituzione viene comunemente intesa
come un tutto organico che comprende anche gli emendamenti conosciuti come Bill of Rights.
L’adozione del Bill of Rights, che dotava i valori di libertà individuale di una forma normativa scritta,
comportò anche una sottolineatura forte della scelta fondamentale a favore di un governo limitato.
L’inserimento nella sfera superiore della legalità costituzionale di un catalogo dei diritti e delle libertà
individuali, comporta innanzitutto una limitazione della potestà legislativa che deve svolgersi nel rispetto di
questi diritti, e il principio per cui l’azione politica è subordinata alla legalità. I diritti individuali, inseriti nel
testo di una Costituzione rigida, vengono collocati ad un livello di legalità non intaccabile da parte dei
legislatori se non tramite apposito procedimento di revisione costituzionale; la maggioranza non può
legiferare secondo la sua sola volontà, ma dovrà esprimere la propria volontà politica all’interno dei confini
tracciati da una costituzione la quale incorpora i diritti individuali come valori di fondo su cui si regge
l’intera convivenza civile. In ciò si coglie il punto di equilibrio di cui si era alla ricerca: grazie all’apposito
procedimento aggravato che salvaguardia i diritti individuali, la legislazione non può travalicare i propri
confini e ledere i diritti individuali.

L’introduzione della judicial review.


La costituzione federale non parla espressamente di un sindacato di costituzionalità sulle leggi votate dal
Congresso, tuttavia è inevitabile che i giudici in quanto guardiani della legalità complessiva non possano
applicare una norma di legge che contrasta con la costituzione, indicata come “the supreme law of land”.
Unanime era la credenza che in caso di antinomia il testo costituzionale dovesse prevalere, tuttavia alcuni,
come Madison, erano sicuri di aver disegnato un sistema di governo federale da escludere la possibilità di
una palese antinomia tra costituzione e legge ordinaria, sicché ritenevano di poter trascurare di dettare
disposizioni espresse che contemplassero tale ipotesi; altri, come Jefferson, pensavano che nell’ipotesi di
antinomia tra legge e costituzione la parola dovesse tornare al popolo, o ai suoi rappresentanti locali, ai quali
spettava il diritto ed il dovere di rifiutare le leggi contrarie alla costituzione. Altri, come Hamilton e
Marshall, ritenevano che i giudici federali dovessero essere guardiani della legalità costituzionale e
provvedere a disapplicare la norma legislativa incostituzionale.
Contrariamente alle aspettative di Madison il caso di antinomia si verificò presto e in un caso che lo
coinvolse personalmente: il caso Malbury v. Madison nacque nel frangente del passaggio da una presidenza
ad un’altra. Dopo la ratifica della Costituzione, George Washington era stato naturalmente eletto presidente,
ma dopo il secondo mandato rifiutò di farsi rieleggere per la terza volta, e fu eletto John Adams (federalista).
Nelle elezioni del 1800 vinse però il partito repubblicano-democratico guidato da Jefferson, portando alla
fine del potere federalista. Tuttavia tra il momento delle votazioni e quello dell’entrata in carica del nuovo
presidente, vi era un intervallo di alcuni mesi, ed i federalisti che dominavano ancora sia la presidenza che
entrambe le camere, pensarono di preoccuparsi per le loro sorti: approfittarono del Judiciary Act del 1789 per
votare nuove leggi di complemento (il Circuit Court Bill approvato dal Congresso nel 1801, che suscitò
particolare scandalo perché i 16 nuovi giudici federali furono confermati dal Senato il 2 marzo, mentre
l’amministrazione Adams scadeva alla mezzanotte del giorno 3; il District of Columbia Organic Act, votato
nel 1801, che prevedeva la creazione di 42 giudici di pace per distretto di Columbia), le quali prevedessero la
creazione di un buon numero di nuovi posti di giudice federale.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Divenuto Madison il nuovo Segretario di Stato dell’amministrazione Jefferson, impedì di assumere la carica
ad un certo Marbury quale giudice federale di pace del Distretto di Columbia. Quest’ultimo ricorse alla Corte
Suprema contando sulla vittoria, perché la sua nomina era stata validamente completata e la notifica era un
atto dovuto. Se il nuovo segretario di Stato si rifiutava di provvedere, la norma del Judicary Act, la quale
consentiva alla Corte Suprema di emettere ordini contro ogni persona che eserciti un potere federale,
sembrava fatta apposta per garantirgli un rimedio appropriato, e si offriva una occasione a Marshall per
rimediare al pasticcio combinato in qualità di Segretario di Stato, quando aveva omesso di provvedere alla
notifica di Marbury. Sotto il profilo legale Marbury aveva ragione, così come Jefferson e Madison avevano
ragione nel rifiutarsi di dare corso ad una procedura così evidentemente connotata dalla lottizzazione
partitica.
La prima parte della sentenza è dedicata alla dimostrazione del fatto che Marbury potesse vantare un titolo
legale all’incarico e un diritto al conferimento dell’incarico; però nel momento in cui tale dimostrazione
avrebbe dovuto tradursi nell’emanazione del provvedimento richiesto da Marbury, la sentenza passa a
considerare se il rimedio che competeva all’attore fosse stato correttamente esercitato ed in tale seconda
parte rileva il contrasto tra l’articolo del Judicary Act in base al quale la Corte Suprema era stata adita, ed
una chiara previsione della Costituzione. L’art. 3, sec. 2, della Costituzione prevede espressamente che: “In
tutti i casi che riguardano un Ambasciatore, altri pubblici Ministri e Consoli, ed in cui è parte uno Stato, la
Corte Suprema deve avere giurisdizione di primo grado. In tutti gli altri casi (…) la Corte Suprema avrà
giurisdizione d’Appello”. Malbury non era né un Ambasciatore, né un Ministro, né un Console, e la legge
votata dal Congresso non avrebbe potuto consentirgli di adire la Corte Suprema quale giudice di primo
grado. La Corte dichiarando nulla la legge ordinaria sulla base della quale Marbury aveva adito la Corte in
primo grado, respinse la domanda.
Marshall aveva scovato un caso di contrasto tra norma ordinaria e norma costituzionale facendo vincere a
Madison una causa che altrimenti non avrebbe vinto. L’esito non consentiva a quest’ultimo alcuna possibilità
di replica, poiché, resa evidente la antinomia tra legge ordinaria e norma costituzionale, non rimane che
applicare quest’ultima considerando nulla la prima. La ragione decisiva risiede nell’argomento a contrario
per cui se i giudici fossero tenuti a dare effetto a leggi antinomiche con la Costituzione, ciò equivarrebbe a
consentire al Congresso fare leggi che la Costituzione gli impedisce di emanare e quindi la complicata
procedura di revisione costituzionale che i costituenti vollero così ben calibrare sarebbe come non scritta.
La decisione della Corte suprema federale nel caso Malbury v. Madison ha fondato in modo definitivo il
sindacato giudiziale di costituzionalità sulle leggi. Da allora il potere di ogni giudice di disapplicare una
norma di legge ritenuta in contrasto con la costituzione non è stato oggetto di seria contestazione.
Il potere di judicial review è radicato nella tradizione giuridica americana, e nel XX secolo la discussione si è
spostata dal piano normativo a quello più informale dell’atteggiamento che i giudici, specie quelli della Corte
suprema, debbono tenere nel caso insorgano dubbi di costituzionalità riguardanti le leggi approvate dal
Congresso. Si discute non tanto attorno al potere di judicial review in sé, ma attorno alle modalità del suo
esercizio: alcuni ritengono che i giudici assumano un atteggiamento di prudenza (self restrain), altri
sostengono che i giudici non debbono mancare di esercitare il loro potere di annullare le leggi
incostituzionali (judicial activism) specialmente laddove siano lesi i diritti di minoranze religiose o razziali o
comunque pregiudizievoli.
Sotto il profilo degli equilibri politico-costituzionali il sindacato sulle leggi votate dal Congresso si configura
come un problema di rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, e poiché il potere giudiziario è
quello che ha l’ultima parola, ma è composto in modo da non rispecchiare le opinioni della maggioranza del
momento, per poter dare voce agli interessi minoritari, l’equilibrio che si deve trovare è quello idoneo a
preservare le chances della maggioranza degli elettori.
Sotto il profilo della formazione di una tradizione giuridica il potere di sindacare la costituzionalità delle
leggi diffuso tra tutti i giudici, e non accentrato in una apposita corte come accade nei sistemi europei attuali,
ha avuto l’effetto di addestrare generazioni di giuristi ad affrontare la problematica connessa alla
interpretazione ed applicazione di un testo costituzionale scritto, a non trascurare mai la dimensione
costituzionale di un qualsiasi problema di applicazione delle leggi e regole giuridiche.
Questo orientamento è distante da quello che ha permeato l’esperienza inglese nella quale non solo esiste un
testo costituzionale scritto, ma ove a lungo ha prevalso il principio per cui la volontà del Parlamento è
suprema e non conosce limiti.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Le riforme e l’organizzazione del processo nell’esperienza americana nei secoli XIX e XX.
La presenza di una costituzione scritta munita di judicial review costituisce il primo fattore di
differenziazione tra esperienza americana e quella inglese; il secondo fattore è relativo alla organizzazione
giudiziaria.
Se è vero che inizialmente le singole colonie tentarono di modellare il proprio sistema processuale e
l’organizzazione delle proprie corti sul modello inglese, tuttavia tale ricezione non fu mai completa; nel
periodo successivo all’indipendenza, grazie alla crescita culturale che consentì una ricezione più completa
del vocabolario e dei principi di common law, vennero realizzate riforme radicali della procedura che
anticiparono quelle inglesi. Tali riforme furono il frutto di specifiche condizioni in cui il sistema di
amministrazione della giustizia dovette strutturarsi negli Stati Uniti; anche la cultura illuminista di cui erano
partecipi i fondatori della nuova repubblica, li induceva a ridisegnare le procedure giudiziarie su basi
razionali.
Sulla organizzazione delle corti statali e del processo influì anche la spinta verso una democratizzazione
delle istituzioni diffusasi a partire dalla rivoluzione jacksoniana (si fa riferimento alla salita al potere, nelle
elezioni del 1828 del partito democratico guidato da Andrew Jackson).
Circa l’organizzazione delle corti statali i nuovi Stati che si costituivano ad ovest degli Appalachi, adottarono
il criterio della elettività dei giudici, in luogo di quello della loro nomina da parte del Governatore dello
Stato. Tale scelta attenuò il ruolo della preparazione tecnico professionale nel procedimento di selezione dei
giudicanti, le cui conoscenze della tecnica del pleading ne resero obsoleto l’uso.
Quanto all’organizzazione del processo il nuovo credo democratico offrì un principio guida, riassumibile nel
desiderio di rendere la macchina della giustizia accessibile e comprensibile a tutti i cittadini.
L’intendo di rendere effettiva la giustizia aveva eliminato il principio del common law per cui contro le
sentenze non vi è normalmente appello, sicché le corti americane si strutturarono per provvedere a più gradi
di giudizio; i bisogni di razionalizzazione e democratizzazione del processo, indussero a riforme più radicali,
che vennero attuate in via legislativa nei diversi Stati. La loro formulazione compiuta di coglie nel Field
Code, dal nome dell’avvocato David Dundley Field, il quale ne fu il propugnatore ed il redattore materiale.
Giova ricordare che sull’onda del successo della sua riforma della procedura, Field preparò anche un codice
civile ed un codice penale (1865); tuttavia i tentativi di introdurre il codice civile incontrarono vaste
opposizioni. Nel 1881 una versione ampliamente modificata del penal code predisposto dal Field venne
adottata, ma del codice civile non si fece nulla. La proposta di Field ebbe migliore fortuna solo in alcuni Stati
dell’ovest di nuova formazione.
Il Field Code venne introdotto a New York bel 1848 e fu rapidamente adottato in altri Stati, specie quelli di
nuova formazione. Essa prevedeva l’abolizione delle forms of action; la fusione processuale tra common law
ed equity (salvo che le cause di equity continuarono ad essere trattate senza la giuria); la generalizzazione
della procedura di discovery.
La maggior parte degli Stati che compongono gli attuali Stati Uniti non hanno quindi mai conosciuto
un’epoca in cui vigevano le forms of action e la distinzione tra common Law ed Equity; d’altra parte alcuni
Stati hanno conservato, in primo grado, giurisdizioni separate di common law e di equity.
Inoltre, nell’esperienza americana è perennemente all’opera anche la tendenza di semplificare il processo
purgandone la procedura delle questioni più dibattute, in modo da eliminare le barriere che il formalismo
introduce sulla via della giustizia sostanziale.
Dal 1934 il Congresso ha delegato la Corte Suprema la redazione di norme di procedura civile valide per
tutto il sistema federale, riservandosene l’approvazione. Dal 1938 sono in vigore le Federal Rules of Civil
Procedure, costantemente aggiornate per favorire uno snellimento delle procedure ed una riduzione dei costi.
Questo non esclude che le regole di procedura rimangano ancorate ad alcuni capisaldi che compongono la
tradizione americana, come il trial by jury la cui presenza impone scansione tra questioni di diritto e
questioni di fatto nonché il ruolo neutrale del giudice nell’accertamento dei fatti che viene affidato al
confronto dialettico tra i testimoni esperti; o come il mancato riconoscimento dei costi alla parte vittoriosa,
che insieme all’uso ed abuso dei danni punitivi, rendono il modello processuale americano fortemente
orientato a favore degli attori, e un modello in cui le corte sono viste come lo strumento principale attraverso
il quale gli individui rivendicano e rendono effettivi i propri diritti senza doversi affidare ad altro organismi
pubblici.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La lettura e l’insegnamento universitario.


I commentari di Blackstone godettero negli Stati Uniti un successo editoriale superiore a quello che aveva
già arriso in patria. La ragione di questo successo fu soprattutto di carattere funzionale, poiché essi fornivano
una visione del common law in una dimensione abbordabile. Visto il successo dell’opera, alcuni americani
seguirono le tracce di Blackstone: James Kent, Chanchelor della Court of Equity a New York e docente alla
Columbia University, compose un trattato in 4 volumi intitolato Commentaries on American Law, pubblicato
nel 1926; Joseph Story, giudice della Corte Suprema federale e docente all’Università di Harvard, compose
una serie di trattati di tipo monografico, editi tra il 1831 e il 1845, acclamati come le migliori opere in
argomento. A partire da questi esempi la trattatistica giuridica dilagò divenendo il genere letterario favorito
da studenti e pratici.
Due ragioni contribuirono a promuovere la letteratura giuridica ad un rango sconosciuto in Inghilterra:
- in Inghilterra l’amministrazione della giustizia è sempre stata fortemente accentrata a Londra e la
formazione del giurista avveniva in una unica sede foriera di contatti personali e di discussioni
stimolanti. Negli Stati Uniti solo chi viveva a Boston, New York o Philadelphia poteva trovare in loco
un ambiente intellettualmente stimolante, ma la grande maggioranza dei praticanti la professione legale
viveva e si formava in un certo isolamento. La letteratura era per costoro l’unico veicolo per
l’apprendimento del diritto.
- In Inghilterra i giudici sono stati tratti di preferenza dal rango dei barristers di successo, inoltre i giudici
inglesi hanno sempre ritenuto di beneficiare anche di una intelligenza giuridica non comune, per
conseguenza sino a tempi non molto recenti sono stati poco inclini ad affidarsi alla letteratura, ed ancora
meno, a riconoscere che le opere degli scrittori di cose giuridiche possano essere considerate come della
autorità.
Negli Stati Uniti si è conservata la tradizione di nominare giudici avvocati di una certa esperienza,
inoltre in molti Stati i giudici sono eletti e la loro perizia giuridica non è uno dei fattori più influenti sul
giudizio dell’elettorato. La conseguenza è che molti giudici quando divenivano tali avevano bisogno di
studiare il diritto e si rivolgevano quindi alla letteratura trattatistica; era spontaneo che gli stessi giudici
riconoscessero almeno un notevole prestigio alle tesi svolte nei testi su cui avevano studiato, perciò
finirono con il costituire le fonti comuni di riferimento per giudici ed avvocati.

La crescita della letteratura giuridica significava una crescita del ruolo della dottrina; inoltre l’aver affidato
alla letteratura un ruolo portante nella formazione dei giuristi comportò il rapido declino del metodo della
formazione mediante apprendistato nelle botteghe degli avvocati, e incentivò un ulteriore sviluppo dei
metodi formativi.
Leggere i trattati di diritto era considerato il modo più rapido e più economico di apprendere il diritto, ma
sentire ripetere e spiegare un testo dalla viva voce di un insegnante era un metodo ancora più agevole rispetto
al puro autodidattismo veicolato dalla lettura solitaria; negli Stati Uniti sorsero quindi scuole di preparazione
alla professione forense, seguite da numerosi studenti. Si trattava di scuole serali, i cui corsi duravano un
anno e le lezioni consistevano essenzialmente nella spiegazione e riassunto di un’opera trattatistica sugli
argomenti del corso.
Il panorama cambiò con la riforma che Christopher Columbus Langdell, docente ad Harvard, introdusse alla
law School di Harvard nel 1871. Tale riforma prevedeva: regole più rigide per l’accesso alla Law School; il
raddoppio della durata dei corsi (che divennero tre nel 1876); l’abolizione della lettura e del commento di
esposizioni trattatistiche, sostituite con raccolte di casi di giurisprudenziali selezionati dal docente che gli
studenti dovevano leggere e studiare prima della lezione; la sostituzione dei giudici e degli avvocati in
pensione con giovani interamente dediti all’insegnamento ed alla ricerca.
Il filo conduttore di queste riforme è il modello delle università europee ed in particolare delle università
tedesche; la premessa della visione di Langdell era che lo studio del diritto doveva essere uno studio
scientifico, rivolto alla scoperta dei principi giuridici che emergono dai prodotti della storia (conformemente
a quanto insegnato dalla scuola storica tedesca). In ambito americano i materiali giuridici rilevanti si
identificavano con i casi risolti dalle Corti, perché in essi, e non nella legislazione, si manifesta lo sviluppo
organico del sistema giuridico. In realtà Langdell precisò che, ai fini di uno studio scientifico del diritto, la
maggior parte delle decisioni giurisprudenziali erano inutili, mentre solo pochi casi insegnavano qualcosa,
perché da essi emergeva un principio ispiratore capace di governare un ambito più vasto di problemi. L’esito
di tale impostazione era che non spettava al giudice formulare le dottrine giuridiche generali le quali formano
i fasci connettori del sistema giuridico; la verbalizzazione compiuta dal principio è compito dello scienziato

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

del diritto. Inoltre, poiché la scoperta del pieno significato dei principi esistenti e la loro esatta
verbalizzazione sono anche sommamente efficaci sotto il profilo didattico, ne deriva la coniugazione del
ruolo dello scienziato e di quello del docente.
L’aspirazione di Langdell era verso la scienza, e vivendo in un’epoca ammaliata dai successi delle scienze
naturali, egli additò ai giuristi il modello di tali scienze, comprese la botanica e la zoologia, invitandoli a
considerare che come le scienze naturali si apprendono e si sviluppano nei laboratori, così il diritto si
apprende e si sviluppa nelle biblioteche, e non nella pratica forense.
Ciò che stava a cuore a Langdell era che la formazione del giurista avvenisse in università, ossia che essa si
radicasse nel luogo in cui avviene la elaborazione della cultura generale della nazione.
La riforma di Langdell segna il momento in cui l’esperienza americana ha rovesciato il modello inglese nel
suo esatto contrario, infatti la tradizione inglese era del tutto opposta, caratterizzandosi per il fatto di aver
separato la formazione del giurista dall’università per trasferirla alla pratica forense. Inoltre, con il XIX
secolo vengono abbandonate le forms of action e la tipicità delle singole procedure, e tale fenomeno in
America toglieva ogni giustificazione al sistema della formazione del giurista mediante apprendistato
pratico; diveniva preferibile che costoro potessero formarsi a contatto con la cultura generale del paese.
Il primo impatto della radicale riforma langdelliana fu quello di generare sconcerto e ripulsa tra gli studenti
come tra i membri della professione forense, tuttavia in un periodo breve la riforma didattica iniziata ad
Harvard si diffuse in tutto il paese; nel giro di pochi decenni tutte le maggiori Law Schools adottarono il
metodo di Harvard.

Il rinnovamento della cultura giuridica americana nella prima metà del XX secolo.
Tra le eredità lasciate da Langdell vi fu la fede nella possibilità di scoprire nella storia del common law quei
principi che se applicati con coerenza avrebbero conferito un volto logicamente ineccepibile all’intero
sistema. I suoi allievi svilupparono questa indicazione metodologica in grandi trattati ed opere dottrinali
dedicate ai vari settori del diritto, che ruotavano attorno ad alcune nozioni centrali (nel campo della Law of
Torts centrale fu la nozione di colpa; nel campo dei contratti centrale divenne il tema della consideration).
Questa opera di sintesi mediante il ricorso a principi ritenuti fondamentali servì a porre un freno alle
tendenze centrifughe della giurisprudenza degli Stati che avrebbero accumulato significative divergenze se si
fossero affidate al puro criterio del precedente giudiziario; tuttavia il costo di tale contenimento va bilanciato
con il costo di un irrigidimento del ragionamento giuridico condotto a fondarsi su alcuni elementi formali
delle varie fattispecie e conseguentemente confinamento nella irrilevanza giuridica di quasi tutte le
sfaccettature dei casi concreti.
Nel primo quarto del XX secolo il metodo langdelliano era completo sotto vari punti di vista:
• i laureati di Harvard e delle altre Law School che ne avevano adottato il metodo didattico, occuparono
posizioni di eccellenza nelle professioni legali, e questo dimostrò la superiorità operativa de metodo
scientifico rispetto a quello pratico-empirico;
• le legal doctrines di ispirazione universitaria erano divenute stabilmente un formante del sistema, sia
pure di rango ancora subordinato rispetto alla giurisprudenza;
• lo studio del diritto venne concepito come uno studio rigorosamente formale con il compito di estrarre e
formulare regole generali, logicamente coerenti tra loro, dalla massa delle fonti giurisprudenziali.
Sotto il profilo del funzionamento del sistema il formalismo divenne dominante perché presentava l’indubbio
vantaggio di ridurre la mole di precedenti giurisprudenziali autorevoli a pochi casi selezionati per la loro
chiara aderenza ad una serie limitata di regole accuratamente espresse.
Nel 1923 venne fondata la American Law Institute, che riuniva eminenti avvocati, giudici e professori, al
fine di promuovere la semplificazione e la chiarificazione del diritto e di incoraggiare la ricerca scientifica. Il
primo compito della American Law Institute fu quello di redigere una serie di esposizioni, chiamate
Restatements, delle branche principali del common law americano (contracts, trusts, agency, property, torts,
business corporations, conflicts of laws), che dovevano basarsi sulle decisioni delle corti, ma le regole che
venivano estratte dalla giurisprudenza americana dovevano essere formulate con un linguaggio di tipo
legislativo ed esposte in un ordine sistematico.
Il Restatement era un’opera in cui si rifletteva il metodo langdelliano dell’estrazione delle verità giuridiche
dalla massa delle decisioni giudiziali, travasando il common law in regole chiare e precise e
sistematicamente ordinate. In questo tentativo tuttavia si evidenziarono le difficoltà e la fragilità
metodologica dell’intera costruzione langdelliana, la quale non avendo alle spalle un sistema completo di
concetti giuridici, lasciava un vasto spazio alle scelte individuali del compilatore.
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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Il primo Restatement sui Contracts del 1932 (di Samuel Williston) rese palese come il tipo di ordine
sistematico che si voleva imporre alla caotica vitalità del diritto giurisprudenziale era eminentemente
soggettivo, ossia rifletteva la visione dei redattori del Restatement.
I critici del Restatement (c.d. movimento realista) si richiamarono alla realtà giurisprudenziale, osservando
che accanto alle decisioni prese in considerazione per la formulazione cristallina delle loro motivazioni,
esistevano nei repertori della giurisprudenza centinaia di decisioni sostanzialmente divergenti; queste
decisioni erano anche esse di “common law” esattamente come le altre non esistendo alcun valido criterio di
distinzione. Inoltre, si osservò che la realtà giurisprudenziale osservata per intero appariva assai più articolata
di quanto non si volesse far credere, e rifletteva una realtà di prassi giuridiche ancora più profonda, nella
quale si manifestava la vitalità e l’effervescenza dell’esperienza giuridica americana, da considerare un
fenomeno positivo e non da sterilizzare. Il movimento dei realisti era favorevole a regole di diritto flessibili
che fungessero da guida per le decisioni successive senza la pretesa di controllarne completamente l’esito;
questo aveva lo scopo di consentire a giuristi e giudici di portare maggiore attenzione ai fatti della vita che
sono loro sottoposti valorizzandone gli elementi qualificanti, anche se non erano stati considerati nei
precedenti.
In sé il movimento realista fu meno compatto di quello opposto, e la varietà di posizioni metodologiche fu
notevole, come le prese di posizioni nichiliste, che finivano col confondersi con scelte di carattere
squisitamente politico.
La controversia tra i formalisti langdelliani ed i realisti è durata alcuni decenni e si è chiusa con l’abbandono
del principale obiettivo cui tendevano i formalisti, ossia quello per cui grazie ad una logica più rigorosa è
possibile che l’ordinamento giuridico possa raggiungere un livello ottimale di coerenza e stabilità grazie ad
un insieme di regole astratte semplici e precise che nel loro insieme siano idonee a risolvere qualsiasi caso
pratico. Per quanto riguarda lo studio del diritto, cambiò però il paradigma della scientificità: in luogo di una
vaga e non ben definita analogia con i metodi delle scienze naturali, il paradigma scientifico da imitare fu
quello delle scienze sociali, soprattutto la sociologia. L’idea di base era che la scienza giuridica non doveva
continuare a trascurare quei fatti sociali che una normale descrizione sociologica, o storica, non dovrebbe
trascurare.
Il cambiamento del paradigma portò a mutamenti nei metodi di analisi giuridica:
- fu considerato lo studio delle situazioni fattuali, cui seguiva lo studio di tutti i casi giurisprudenziali e
non solo di quelli in cui si era accidentalmente evidenziata una qualche “verità” giuridica;
- il giurista dotto divenne colui che studia il legal process, ovvero l’insieme dei meccanismi complessi in
parte istituzionali in parte fattuali che portano ad una data decisione giuridica, ed utilizza i dati tratti da
altre scienze sociali per progettare un legal process in grado di produrre soluzioni accettabili (il giurista
è un ingegnere sociale);
- gran parte delle scuole di diritti affiancarono ai corsi tradizionali in cui veniva offerta una formazione
tecnico giuridica di tipo classico, corsi innovativi miranti a formare giuristi capaci di cogliere gli aspetti
problematici delle questioni istituzionali e senza pretendere di fornire certezze assolute.
Sotto il profilo storico il movimento dei realisti divenne egemone in virtù della sua alleanza con le riforme
promosse dal New Deal roosveltiano.

L’influsso del New Deal e la fine del laissez faire.


In New Deal iniziato da Roosvelt fu una socialdemocrazia che anticipò il Walfare State socialdemocratico
che si imporrà nell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra. L’idea base era che toccasse al governo
federale la manovra del ciclo economico.
L’accrescimento dei compiti dello Stato comportò un aumento della struttura burocratica federale che veniva
dotata di vasti compiti di controllo su tutti gli aspetti della vita economica; l’esigenza di stimolare la
domanda comportò una politica rivolta alla redistribuzione dei redditi tra le varie fasce sociali; la ricerca
scientifica divenne uno dei compiti dello Stato federale accanto alla realizzazione di grandi opere pubbliche.
Tutto ciò contrastava con il sistema tradizionale di common law, che veniva derogato tramite apposita
legislazione, la quale sottraendo poteri alle corti ne affidava nuovi alle diverse agenzie governative che si
venivano istituendo. Lo scontro di mentalità fu assai robusto e si incarnò in ideologie politiche, ossia
repubblicani conservatori contro democratici progressisti, o in termini di ideologie economiche-sociali,
laudatori della republic of bees contro i fautori del big government. Ovviamente non mancò una dimensione
giuridica nella quale il valore della certezza del diritto racchiuso nella fedeltà del sistema tradizionale, si

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scontrava con la giustizia che sospingeva ad un allargamento della sfera dei diritti e dei cittadini, la cui
promozione non poteva non interferire con i diritti economici consolidati.
In questo contesto le corti americane divennero un luogo in cui lo scontro di mentalità era destinato ad
emergere con una certa intensità. Il più risoluto campione di una giurisprudenza innovativa, il giudice
Benjamin Nathan Cardozo, fu abilissimo nel manipolare la tecnica del precedente, nascondendo il
sovvertimento delle regole di diritto che egli introduceva. Essendo per vent’anni giudice alla Corte di ultima
istanza dello Stato di New York, riuscì a riformare il common law di quello Stato in forme così
impeccabilmente argomentate, che anche un presidente repubblicano e conservatore si sentì costretto a
promuoverlo alla Corte Suprema Federale, in quanto “grande giurista” posto super partes. Il suo esempio fu
per i giudici degli altri Stati un modello di riforma impercettibile del diritto giurisprudenziale evitando una
troppo scoperta visibilità politica della loro opera.
Questa operazione non riuscì alla Corte Suprema Federale ove grandi giudici furono in minoranza a fronte di
una maggioranza di giudici tenacemente conservatori e meno abili a nascondere la scelta politica del diritto
dietro il manto di argomenti giuridici impeccabili. Assumendo il ruolo di guardiana dell’ordine
costituzionale basato sull’individualismo proprietario, la Corte Suprema Federale si trovò ad invalidare molte
delle leggi votate dal Congresso nel primo mandato di Roosvelt, poiché costituzionalmente illegittime. La
Corte Suprema apparve negare che il governo federale potesse assumere un ruolo attivo, insopportabile in un
contesto democratico. Tuttavia la maggioranza dei cittadini voleva che il Governo federale assumesse il
ruolo di regolatore dell’economia. Il conflitto tra la Corte e l’amministrazione democratica divenne il
problema dii chi deve governare, se il Presidente ed il Congresso eletti dal popolo e quindi suoi naturali
rappresentanti, oppure i nove vecchi giudici della corte suprema costituzionalmente collocati al di fuori del
circuito democratico. Vista la questione, non poteva che prevalere la ragione dei più.
Quando le elezioni del 1936 confermarono il sostegno maggioritario al programma del New Deal, Roosvelt
cercò di manipolare la composizione della Corte Suprema, ma questa attuò un rapido revirement
giurisprudenziale iniziando a considerare legittime leggi che poco prima avrebbe considerato
costituzionalmente blasfeme.
Nel 1937 era ormai chiaro che una costellazione di valori era crollata per sempre ed un’altra prendeva
stabilmente il suo posto; la pretesa dei langdelliani di estrarre regole giuridiche dai casi giurisprudenziali e di
considerarle alla stregua di verità immutabili non poteva sopravvivere in un simile clima di cambiamento
radicale; il tentativo di edificare mediante i Restatements una summa del diritto americano basato sul corretto
mappaggio di tutte le regole ed i principi di common law, era ridicolizzato come una fatica inutile dal
momento che non teneva conto della nuova regolamentazione di origine legislativa ed amministrativa.
Furono gli operatori pratici i primi ad accorgersi come i problemi giuridici che assillavano i loro clienti erano
quelli che nascevano dalla necessità di adeguarsi al quadro regolativo introdotto dalla legislazione che il New
Deal iniziò ad introdurre, con la conseguente necessità di confrontarsi con i funzionari delle diverse agenzie
di regolazione che erano state introdotte. Questi ultimi non parlavano il linguaggio tradizionale del common
law, ma quello dei fatti economici e sociali e della disciplina dettagliata dei conflitti. Anzi, l’ideologia
diffusa nell’amministrazione vedeva il sistema di common law come un sistema che rifletteva tutti gli
anacronismi, l’inefficienza e l’ingiustizia del laissez faire economico; proprietà e contratto vennero pensati
come strumenti atti ad isolare le posizioni private dal contratto sociale, da considerare quindi concetti
secondari. Al loro posto i seguaci del New Deal ponevano il diritto al lavoro, all’abitazione, all’educazione,
che potevano diventare effettivi solo grazie all’azione del governo federale.
Il risultato in termini di allargamento della sfera di competenza amministrativa del governo federale fu
straordinario: in pochi anni venne creata una vasta serie di nuove “agenzie”, la cui istituzione manifestava in
pieno l’allargamento della sfera d’azione economica del governo federale; l’ampliamento comportava anche
l’introduzione di controlli più accentuati sulle attività economiche e finanziarie dei privati. Il mutamento
principale risiedeva nel fatto che le “agenzie” riunivano in sé poteri tradizionalmente separati; agivano infatti
in base a leggi che fissano obiettivi di politica economica abbastanza generali e che delegano ad esse il
compito di emanare le norme di maggior dettaglio, e di regolare i ricorsi delle controversie con i soggetti
amministrativi. Rimaneva comunque aperta la possibilità di ricorrere ai giudici ordinari i quali, oltre al potere
di judical review delle leggi, hanno il potere di emanare ingiunzioni ed ordini ai pubblici ufficiali quando la
loro azione leda i diritti dei cittadini. In realtà i giudici americani mantennero un atteggiamento di rispetto
verso le soluzioni individuate dalle agenzie di regolazione; del resto non avevano gli strumenti necessari per
esercitare un controllo di merito su quanto quest’ultime facevano: le agenzie divennero quindi soggetti

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

regolatori che intervengono a tutto campo e liberamente per incentivare certe condotte e disincentivarne
altre.
Sotto il profilo della formazione del giurista negli anni trenta del XX secolo vi fu lo smantellamento del
sistema educativo langdelliano e una ricerca di nuovi modelli teorici; sotto il profilo degli esiti operativi
generali, la regolazione delle attività economiche dette buoni frutti nel periodo bellico, ma nel periodo
successivo iniziò ad evidenziare errori ed efficienze di varia natura, sicché negli anni ‘70 del XX secolo
iniziò il periodo di reflusso indotto dalla presenza di controproposte di politica economica neoliberiste che
spingeranno verso strategie di deregolazione ed in ogni caso di controlli più attenti sull’operato delle
agenzie.

L’età dei diritti e dell’uguaglianza.


Dalla seconda metà del XX secolo hanno irrotto sulla scena diverse istanze volte ad accrescere i diritti delle
persone e ad abolire ogni forma di discriminazione.
Il punto di svolta è pacificamente individuato nella decisione della corte suprema nel caso Brown del 1954 in
tema di segregazione razziale. La decisione del caso riguardava le leggi statali che permettevano, o
ordinavano, la pratica dell’apartheid nell’educazione scolastica (in realtà il caso Brown riguardava una serie
di procedimenti in tema di accesso ai bambini di colore a scuole riservate ai bianchi, ma il tema da decidere
riguardava uniformemente le regole che autorizzavano o imponevano alle autorità scolastiche di provvedere
a scuole separate in base al colore della pelle dei bambini).
Può sembrare che in una repubblica nata in base alla solenne dichiarazione “We believe that all man are
created equal”, in una Unione che, al termine della guerra civile, aveva adottato il XIV Emendamento
appositamente per sradicare dagli ordinamenti degli Stati ex schiavisti regole comportanti discriminazioni su
base razziale, una corte suprema non avesse altra scelta che dichiarare nulle tutte le regole pubblicistiche che
imponevano o permettevano la segregazione razziale.
Tuttavia i realisti avevano sottolineato che il diritto non è fatto solo di regole, ma anche di istituzioni e di
mentalità giuridiche, e la mentalità razzista era molto diffusa nella maggioranza della popolazione. Ciò
spiega il fatto che alla fine del periodo della Ricostruzione la Corte Suprema nella decisione del caso Plessy
v. Ferguson aveva adottato una soluzione di compromesso tra diritto scritto e mentalità correnti, stabilendo
che gli Stati che lo volessero potevano adottare regole che tenevano separati i bianchi dai neri nei servizi
pubblici (nel caso si trattava di ferrovie), purché i servizi offerti fossero “separate but equal” (separati ma
uguali). In realtà non solo i servizi riservati alle persone di colore venivano trascurati da chi offriva tale
servizio per una ovvia legge di mercato, ma anche nei servizi pubblici in senso stretto, l’allocazione delle
risorse decisa dalle assemblee rappresentative, risentiva della mentalità dominante e quindi favoriva
nettamente quelli riservati ai bianchi.
Negli anni ’40 del XX secolo le corti federali iniziarono a prendere sul serio la nozione di “separated but
equal” ingiungendo ai pubblici ufficiali competenti di procedere a rendere effettivamente eguali le strutture
dei servizi, specie quelli scolastici. Nell’unanime decisione del caso Brown, la Corte Suprema distaccandosi
dal proprio precedente dichiarò che non aveva rilevanza il fatto che gli elementi misurabili dei servizi
separatamente offerti fossero resi eguali, perché era la segregazione in sé, imposta o permessa dalle leggi, ad
essere in contrasto con il XIV Emendamento, infatti eguaglianza significa eguale possibilità di interagire con
gli altri e pertanto non si può essere nel contempo segregati ed eguali.
La decisione del caso Brown ha introdotto nel tessuto argomentativo dei giuristi americani una teoria dei
diritti che ha mano a mano ampliato il proprio raggio di azione per includere l’affermazione dei diritti delle
minoranze di tutti i generi e specie, dando avvio alla tendenza a considerare anticostituzionale ogni forma di
discriminazione basata sul sesso, gli orientamenti sessuali, l’età. La Corte Suprema si è fatta paladina
dell’affermazione di diritti personali grazie ad una interpretazione espansiva dei concetti dii libertà e di
eguaglianza che essa legge nella costituzione federale: sono ritenute incostituzionali leggi statali che
proibivano la vendita di contraccettivi (1965), e che incriminavano indiscriminatamente l’aborto (1973), o
quelle che contemplano il reato di sodomia (2003), e quelle che impedivano il matrimonio tra persone dello
stesso sesso (2015).
Quando un diritto o una libertà personale viene riconosciuto come tale da una Corte Suprema, tale
riconoscimento risulta definitivo ed il diritto personale ivi affermato diviene definitivamente acquisito,
mentre le decisioni negative dell’esistenza di un preteso diritto si prestano ad essere superate, ossia
overruled. La ragione di questa dissimmetria risiede in una mentalità assai diffusa nella cultura giuridica e

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politica americana che considera il proprio modello costituzionale come rivolto verso un ampliamento dei
diritti individuali.
Alle decisioni giudiziali fanno seguito ondate di legislazione sia federale che statale che tendono a rendere
effettivi i diritti proclamati nelle prime; infatti la legislazione antidiscriminatoria degli anni 60 del XX secolo
ha reso effettiva la decisione di principio del caso Brown. Del pari, il diritto ad un ambiente salubre dibattuto
nelle corti ha trovato parziale accoglimento nelle leggi ambientalistiche degli anni settanta del XX secolo.
All’inizio del XXI secolo il catalogo dei diritti personali di cui godono i cittadini americani è quindi
notevolmente ampliato e la tendenza a contrastare ogni forma di discriminazione è parte integrante il sistema
giuridico americano.

SEZIONE SECONDA - LE FONTI DEL SISTEMA AMERICANO ATTUALE


Diritto e giurisdizione federale e diritto e giurisdizione degli Stati.
Gli Stati Uniti sono uno Stato federale in cui coesistono in seno ad essi tanti sistemi giuridici quanti sono gli
Stati federati; oggigiorno quindi vi sono 51 sistemi giuridici.
È imminente nella mentalità giuridica americana il sentimento per cui è necessario porre in essere strategie
istituzionali idonee ad evitare che il sistema giuridico si frammenti in modo insopportabile.
L’armonizzazione dei sistemi statali con l’ordinamento federale è essenzialmente un problema politico
costituzionale che la costituzione risolve assegnando alcune specifiche materie alla competenza federale e
tutte le rimanenti alla competenza degli Stati.
Gli Stati Uniti sono un paese di common law perciò il diritto è creato sia dai legislatori che dai giudici e
quindi accanto alle regole introdotte per via legislativa ne esistono altre che vengono introdotte nel sistema
per via giurisprudenziale. La costituzione e il Judiciary Act del 1789 prevedono un dualismo perfetto tra
sistema giudiziario federale e sistema giudiziario dei singoli Stati: ciascuno Stato si dota del proprio sistema
giudiziario organizzando le proprie corti come ritiene più opportuno; quello federale si pone in parallelo ai
sistemi statali senza assumere strutturalmente una posizione di vertice, come avviene in altri Stati federali.
Contro le decisioni delle corti statali non vi è possibilità di appello ai giudici federali, salvo i casi in cui sia
stata fatta applicazione della costituzione o delle leggi federali; nonostante ciò, i sistemi giudiziari degli Stati
sono piuttosto uniformi ed armonici con quello federale, anche se questo non evita una vasta diversità di
nomenclature nella denominazione delle corti ed una parziale diversità di criteri di reclutamento dei giudici.
Tutti gli Stati prevedono due o più, spesso tre, gradi di giudizio nonché una corte suprema posta al vertice
della giurisdizione di ciascuno Stato; prevedono la presenza di corti ordinarie e di organi giurisdizionali
specializzati e sistemi alternativi di soluzione delle controversie. Manca una separata magistratura per le
controversie amministrative e per quelle contabili.
Sotto il profilo organizzativo vi sono procedimenti di primo grado che si svolgono avanti una trial court la
quale conosce sia il fatto che le questioni di diritto, con la presenza di una giuria e l’ascolto dei testimoni; in
contrapposizione invece procedimenti di secondo grado e terzo grado che si svolgono avanti le appellate
courts, le quali rivedono soltanto il punto di diritto deciso dalle trials courts (operano quindi senza una giuria,
non ascoltano testimonianze, il processo è sostanzialmente scritto, salva la possibilità di una udienza orale
per ascoltare gli avvocati delle parti).
Il sistema giudiziario federale ha assetti e nomenclature più stabili e contempla un primo grado di
giurisdizione composto da District Courts ripartite in base alla popolazione; un secondo grado devoluto alle
U.S. Courts of Appeals, articolate in 11 circuiti territoriali che comprendono nella loro circoscrizione più
Stati, più una per il district di Columbia che è territorio federale ed essendo la sede di molte agenzie
amministrative e regolative è competente per la loro revisione, ed una tredicesima corte di Appello (U.S.
Court of Appeals for the Federal Circuit), con competenza funzionale rivedendo in appello le decisioni delle
corti federali speciali. Un terzo ed ultimo grado costituito dalla U.S. Supreme Court, costituzionalmente
necessaria.
Accanto a queste corti ordinarie però sussistono numerose corti federali speciali. Le corti federali godono di
una strutturale superiorità rispetto a quelle statali e, a differenza di queste, sono dotate di una giurisdizione
limitata dalla costituzione che prevede che esse siano competenti in due ipotesi: quando sia parte in causa il
governo degli Stati Uniti, due o più Stati tra loro, i rappresentanti diplomatici stranieri, e quando le parti
siano cittadini di Stati diversi (e la controversia ha un valore superiore a 75.000 $).
Quando un giudice federale viene adito per ragioni di oggettiva applicabilità alla controversia di disposizioni
federali, il diritto applicabile sarà quello federale; quando invece viene adito per ragioni soggettive il giudice

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federale dovrà applicare il diritto dello Stato al quale la questione è connessa, secondo criteri di selezione
della legge applicabile dettati dal diritto internazionale privato.
Il Judiciary Act del 1789 fissando la competenza delle corti federali prescrive che in caso di giurisdizione
federale basata su ragioni soggettive, siano applicabili “the Laws of the several States” (la parola Laws
indica sia il diritto legislativo che quello di creazione giurisprudenziale).

La parabola del Federal Common Law.


Nel 1842 la Corte Suprema federale in una opinione scritta da Story ritenne che la parola “Laws” significasse
leggi in senso formale, ossia indicasse gli Statutes emanati dai singoli Stati. In mancanza di Statutes che
regolassero la materia oggetto della controversia, si era quindi di fronte ad una lacuna e si doveva scegliere
se applicare il common law dello Stato oppure quello federale.
Nella decisione Swift v. Tyson redatta da Story si decise che in materia commerciale, in mancanza di
Statutes applicabili, il giudice federale doveva far ricorso non al common law dello Stato, ma ad un Federal
Common Law. Riferirsi al common law dello Stato significava che i giudici federali si sarebbero attenuti ai
precedenti giurisprudenziali di quello Stato considerandoli vincolanti secondo il normale criterio dello stare
decisis; riferirsi ad un common law federale significava invece che spettava ai giudici federali creare il diritto
applicabile e quindi assegnare alle corti federali, ed in ultima istanza alla Corte Suprema, il compito di
sviluppare un common law federale uniforme per tutti gli Stati. Story motivò la decisione del caso Swift v.
Tyson con dotte citazioni per sostenere che il diritto commerciale è universale e non locale; in siffatta
materia sarebbe assurdo fare riferimento al common law in uso in un singolo Stato dell’Unione. La decisione
era giustificata per ragioni di opportunità: in quel periodo storico il common law degli Stati era piuttosto
variabile dato che era affidato alla creatività di giudici non sempre tecnicamente preparati, inoltre non era
sempre di facile accertamento essendo affidato a repertori di giurisprudenza locali. Nel caso da decidere si
trattava di un titolo cambiario ed il diritto eventualmente applicabile era quello di New York; tuttavia il
common law di New York era in confusione perché esistevano alcuni precedenti in cui si era ritenuto che il
debitore cambiario potesse opporre al giratario possessore del titolo la mancanza di consideration al
momento dell’emissione.
Una volta accolta la tesi per cui doveva esistere un common law federale, i giudici federali dovevano farvi
ricorso ogni volta che vi fosse una lacuna negli Statutes dello Stato il cui diritto fosse applicabile (in materia
di diritto privato e commerciale accadeva quasi sempre). D’altra parte, con lo stratificarsi delle decisioni
giurisprudenziali anche il common law degli Stati andò perfezionandosi, e l’esito di questi due sviluppi fu
che su una stessa questione potevano esservi due regole di common law diverse ed una medesima questione
poteva essere risolta in modo antietetico a seconda che entrasse in gioco, o non entrasse in gioco il fattore
della diversity of cytizenship delle parti. Se tale fattore non entrava in gioco, la questione rimaneva di
esclusiva competenza delle corti dello Stato, e veniva quindi decisa in base al common law di quello Stato;
se si trattava invece di liti tra cittadini di Stati diversi, poteva essere adito il giudice federale e quest’ultimo
avrebbe applicato la regola di common law federale giungendo ad un esito diverso.
Nel 1928 nel caso Black and White Taxi Cab Co. v. Brown and Yellow Taxi Cal. Co., il giudice Holmes
scrisse una dissenting opinions per protestare contro il sofisma nominalistico che aveva condotto ad ampliare
il potere di creare diritto dei giudici federali che la costituzione limitava alle sole materie assegnate al
governo federale. In quel caso era accaduto che una compagnia di taxi la quale aveva ottenuto, per contratto,
l’esclusiva del servizio della locale compagnia ferroviaria, temendo che il diritto dello Stato considerasse
inefficace un simile accordo nei confronti di terzi concorrenti, aveva spostato la propria sede legale in uno
Stato vicino in modo da creare, artificialmente, il presupposto della diversity of cytizenship, che rese
applicabile il common law federale il quale invece considerava che simili accordi creassero un property
rights opponibile a terzi. In queste circostanze Holmes ebbe buon gioco nel sottolineare come il sofisma che
consentiva di distinguere tra formante giurisprudenziale e formante legislativo del diritto degli Stati,
conducesse al risultato, incostituzionale, di sottrarre allo Stato in questione il potere di regolare secondo il
suo diritto la situazione dello spazio del suo territorio che si trovava avanti ad una stazione ferroviaria.
Dieci anni dopo, la stessa corte suprema seppellì l’idea di una federal common law nella decisione del caso
Eirie Railroad Co. v. Tompkins (1938) dichiarando che l’idea di un common law federale è in contrasto con
la Costituzione la quale non vuole che il diritto federale sia solo quello che è riferito alle materie che la stessa
riserva alla competenza legislativa del Congresso.

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Archiviando l’idea di un federal common law, il sistema è il seguente:


Ø accanto alla Costituzione c’è un diritto federale nelle materie che la Costituzione assegna alla
competenza legislativa del Congresso;
Ø sul diritto legislativo federale si innesta la giurisprudenza federale che interpretando le leggi federali da
origine ad un corpus di diritto giurisprudenziale federale al quale debbono attenersi anche i giudici
statali quando debbono fare applicazione del diritto federale;
Ø tutto ciò che non è materia federale rimane affidato al diritto degli Stati ed è indifferente che si tratti di
diritto legislativo oppure del common law del singolo Stato;
Ø i giudici federali quando sono competenti a conoscere una controversia per ragioni soggettive applicano
il diritto dello Stato che è maggiormente connesso con i fatti di causa;
Ø il giudice, sia statale che federale, quando applica il diritto di uno Stato, prima lo interpreta ed anche se
è vincolato dal criterio dello stare decisis, deve fare riferimento alla giurisprudenza di quello Stato
(sebbene disponga delle tecniche che gli consentono di distanziarsi dai precedenti, salvo l’overruling).

La attuale sfera di azione del diritto federale e le leggi modello.


L’idea del federal common law ha creato i presupposti per una frammentazione del sistema giuridico
americano. Tra i fattori che generano tendenze centripete grazie alle quali si argina la frammentazione del
sistema giuridico americano si possono elencare: l’ampliamento della sfera di azione del diritto legislativo
federale su cui si innesta la giurisprudenza federale; la spinta verso l’adozione di leggi statali uniformi, tra
cui lo spicca lo Uniform Commercial Code.
Quanto all’ampliamento della sfera del diritto federale, la Costituzione federale affida alla competenza
legislativa del Congresso un certo numero di materie; tra queste, le più importanti sono quelle comprese nella
“commercial clause”, la materia delle insolvenze, dei diritti sulle opere di ingegno e il diritto della
navigazione. Inoltre è da ricordare il XIV Emendamento alla Costituzione, introdotto allo scopo di
proteggere i diritti di cittadinanza degli afroamericani liberati dalla schiavitù, che ha generalizzato i bill of
rights imponendone il rispetto anche ai legislatori dei singoli Stati. Quindi quando in una controversia si
faccia questione dei diritti fondamentali dei cittadini degli Stati Uniti, la materia del contendere si riallaccia
automaticamente al diritto federale.
L’ampliamento della sfera di potere legislativo federale si deve alle novità introdotte dal New Deal, posto
che da allora in poi si era creata una forte tendenza ad attrarre al potere federale la regolazione dei rapporti
economici che sono stati fatti rientrare nella commerce clause.
Negli anni Ottanta una nuova ondata di legislazione federale si è rivolta alla tutela dell’ambiente e dei
consumatori, oltre che, in materia penale, per reprimere il crimine organizzato ed i traffici illeciti. In questi
ambiti si è formata una vasta area di diritto sostanziale federale su cui si è innestata l’interpretazione delle
corti federali e quindi un surrogato del common law federale. Ciò è potuto accadere grazie alla
interpretazione estensiva che la Corte Suprema Federale ha dato alla “commercial clause”, la quale viene
intesa nel senso che è materia federale tutto ciò che attiene alla produzione ed allo scambio di beni e di
servizi a raggio potenzialmente interstatale.
Questa vastissima massa di legislazione federale che pervade quasi tutte le attività economiche, si inserisce,
modificandolo in parte, nel tessuto delle regole di diritto degli Stati, che rimangono la fonte disciplinante le
relazioni giuridiche patrimoniali. I rapporti privatistici di base (property, contract, torts, remedies), non sono
stati federalizzati nella legislazione del New Deal e lo sono stati solo marginalmente nella legislazione
ambientalistica e consumerista degli anni Ottanta. Il grosso delle materie che consideriamo di diritto privato
sono quindi affidate al diritto degli Stati, e quindi le relazioni tra i privati deve essere decisa in base alle
discipline degli Stati. Ne conseguono differenziazioni maiuscole tra uno Stato e l’altro, tra ordinamento
privatistico di uno Stato ed un altro.
Esiste quindi da sempre una forte spinta a rendere omogenee le regole giuridiche statali, specie nell’area
degli scambi commerciali. Sin dalla fine dell’Ottocento si è dato vita ad una National Conference of
Commissioners on Uniform States Laws, che ha assunto il compito di preparare leggi modello adottate dai
legislatori dei singoli Stati. Questi non sono vincolati ad aderire al modello proposto e spesso lo adottano con
variazioni. L’uniformità che viene raggiunta è quindi relativa ed il successo o l’insuccesso di una legge
modello si misura sul numero degli Stati che l’hanno adottata senza significative variazioni. Le aree in cui i
modelli di leggi uniformi hanno avuto maggior successo sono varie, tra esse spicca negli ultimi tempi quella
dell’economia digitale, ma si deve menzionare lo Uniform Commercial Code, il cui testo è stato predisposto

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assieme all’American Law Institute, mentre è fallito il tentativo di uniformare le leggi in tema di Real
Property.
L’Uniform Commercial Code (UCC) è in vigore in forma sostanzialmente identica in tutti gli Stati ed anche
nel distretto di Columbia; esso ha prodotto l’effetto di abrogare molte regole previgenti di origine legislativa
e di common law, semplificando di molto la conclusione di affari commerciali. Un esempio è quello delle
elaborate forme di garanzie mobiliari, che sono state rimpiazzate mediante la nozione unitaria di security
interest. Il successo dell’UCC e la sua tenuta è da ascrivere alla sua struttura ed al suo contenuto che sono da
intendere nel senso di un codice europeo continentale; inoltre è dotato di una elevata coerenza sistematica
interna. L’Uniform Commercial Code è strutturato in modo da seguire le varie fasi di una negoziazione
commerciale, seguendone lo svolgimento dalla fase di formazione del contratto a quella della costituzione ed
estinzione delle garanzie sulle merci, ai modi di consegna e pagamento. La sua sistematica procede per
nuclei di problemi connessi dalla loro pratica inerenza ad una medesima fase operativa, e questo tipo di
aggregazione si è dimostrata un esperimento felice consentendo di istituire nessi logici tra le diverse
disposizioni.
L’UCC varato nel 1952 ha frequente bisogno di modifiche per mantenere il passo con i tempi: l’American
Law Institute e la National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, provvede
tempestivamente a redigere nuove versioni dell’UCC (l’ultima è del 2012), ma il processo di adozione da
parte degli Stati non ha la stessa velocità, spesso non tutti gli Stati si sono dimostrati disposti ad accogliere le
stesse modifiche. Ecco che nel processo di ammodernamento del codice la frammentazione è stata sino a qui
notevole e nei vari Stati non è contemporaneamente in vigore la medesima versione dell’UCC. Con il
trascorrere del tempo sulle singole disposizioni del codice si sono formate interpretazioni divergenti da parte
delle corti dei singoli Stati.

Convergenze giurisprudenziali ed il problema dello stare decisis.


Accanto ai modelli di leggi uniformi, altro grande fattore di coesione del diritto degli Stati è dato dalla
comune mentalità giuridica alimentata da un sistema di formazione di giuristi, uniforme per tutta l’Unione.
Questo fattore di coesione riguarda il diritto giurisprudenziale, e ricorda che i giudici americani sono
orgogliosi di essere partecipi della esperienza di common law più avanzata del pianeta, quindi sono inclini ad
una certa convergenza. Tuttavia questa aspirazione alla convergenza si deve confrontare con il principale
meccanismo di stabilizzazione del diritto giurisprudenziale che è costituito dal noto principio dello stare
decisis.
Nel sistema americano le sentenze emanate dalle corti sono la fonte della certezza del diritto per
antonomasia; anche gli avvocati quando espongono le loro argomentazioni si richiamano di preferenza alle
sentenze. Questi stili rivelano che nella mentalità giuridica diffusa il precedente giudiziale è generalmente
considerato un punto fermo nello sviluppo del diritto americano: questo implica fiducia nel valore del
precedente giudiziale e quindi nel rispetto della regola dello stare decisis.
Tuttavia nelle prassi giudiziali la situazione è più sfumata. Negli Stati Uniti la teoria del precedente
giudiziale è stata per un certo tempo in auge (dagli anni settanta del XIX secolo agli anni trenta del XX):
giudici e giuristi americani proclamarono come un dogma della loro fede giuridica che i tribunali si limitano
a dichiarare regole di diritto già esistenti, e non creano mai alcunché di nuovo. In realtà il collante di un
sistema consiste nel consentire che il giudice di uno Stato possa ispirarsi alla giurisprudenza di un altro Stato,
se questa gli pare particolarmente persuasiva; invece, il rispetto rigido del criterio del precedente all’interno
della singola giurisdizione di ciascun Stato imprimerebbe una traiettoria di allontanamento ai diversi diritti
statuali, oltre che renderebbe più difficile rimediare agli errori commessi da qualche giurisprudenza statale.
Anche quando la teoria dichiarativa del precedente era in auge, le Corti supreme dei singoli Stati hanno
invece seguito il modello della Corte Suprema Federale, la quale ha sempre ammesso di disporre del potere
di overruling, ossia il potere di rovesciare una propria decisione precedente, dichiarando che tale precedente
pronuncia è da considerarsi errata. Questa scelta era obbligata visto che essa è l’organo giurisdizionale che si
pone come interprete finale del testo costituzionale.
Confrontando la situazione inglese, altro è dire che la decisione di una corte suprema esprime in forma
linguistica una regola consuetudinaria esistente allo stato amorfo ab immemorabili e che quindi come questa
è immutabile; altro è dire che è immutabile l’interpretazione che una corte suprema conferisce ad un testo
costituzionale scritto.
Nella sua formulazione logica la teoria dichiarativa del precedente non ammette eccezioni: o il precedente è
sempre vincolante, oppure bisogna trovare un altro fondamento teorico alla regola dello stare decisis.

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Quando la dottrina americana iniziò ad indagare con rigore il tema del precedente, la teoria dichiarativa ne
uscì screditata e si mise in evidenza che il problema dello stare decisis consiste nel trovare un punto di
equilibrio tra l’esigenza di ragionevole certezza del diritto e quella di assicurare lo sviluppo anche per via
giurisprudenziale. Tuttavia irrigidire il criterio del precedente vincolante equivaleva ad impedire al formante
giurisprudenziale si svilupparsi mediante la sostituzione di regole vecchie con regole nuove. Da qui il
problema di cosa fare quando i legislatori appaiono poco inclini ad introdurre nuove riforme, sicché l’assetto
legislativo diviene rapidamente obsoleto, rispetto all’evoluzione generale del sistema giuridico nazionale.
Questo ultimo aspetto è reso più evidente dal confronto tra i vari sistemi statali che è venuto ad emersione
soprattutto nel settore della law of torts, in cui il common law tradizionale si era dotato di una serie di regole
e principi che tendevano “a lasciare i danni dove cadono”.
Simili regole (come ad esempio la contributory negligence in base alla quale la vittima di un incidente non
poteva ottenere il risarcimento se aveva anche in piccola parte contribuito a causare il danno), si potevano
appoggiare ad una serie imponenti di precedenti giudiziari, ed il problema divenne di svincolarsene senza
mettere in crisi il criterio del precedente vincolante e la certezza del diritto giurisprudenziale. Il problema
venne in parte attenuato dagli interventi legislativi che introducevano riforme della law of torts specie nelle
aree in cui gli incidenti erano più frequenti, consentendo alle corti più attiviste di sviluppare un percorso
incrementale al termine del quale il precedente assetto del common law è risultato del tutto rovesciato.
Tuttavia la complessità degli intrecci tra diritto dei singoli Stati e tra diritto giurisprudenziale e diritto
legislativo, favorisce la dinamica del sistema giuridico americano che è guidato dal sentimento diffuso tra i
giudici ed i giuristi, che esso debba tendere ad essere complessivamente coerente, ossia debba tendere a
rendere effettivo il principio di eguaglianza su cui è fondata la Repubblica.
Per tornare all’esempio della low of torts, se il legislatore interviene per esentare i lavoratori dei trasporti
dalla tagliola della regola sulla contributoty negligence, sostituendola con la regola della “comparative
negligence” in base alla quale di deve avere riguardo alla misura del contributo causale di ciascuno, dopo
poco le corti tenderanno ad estendere questa soluzione anche alle vittime di incidenti che non siano
lavoratori dei trasporti; e se il legislatore di uno Stato ha anticipato la giurisprudenza, prevedendo che il
contributo causale della vittima non deve superare la misura del 50%, i giudici di quello Stato si troveranno
nella posizione di dover decidere se forzare l’interpretazione dello Statute diventato obsoleto, oppure forzare
il legislatore a farsi carico della riforma.
In simile contesto le corti americane hanno adottato tecniche innovative, la più nota va sotto il nome di
prospective overruling: tale tecnica consente di conciliare due esigenze opposte, ossia la giustizia del caso
singolo rispetto al quale la innovazione giurisprudenziale si pone sempre come una ex post facto law, e la
necessità di riformare una regola ritenuta ingiusta. Le esigenze sono contemperate ove la Corte riconosce
come più adeguata la regola nuova, ma applichi al caso da decidere la regola vecchia, in quanto la condotta è
stata posta in essere in un momento in cui le parti facevano legittimamente affidamento sulla sua esistenza.
Questa tecnica non riesce tuttavia a rendere completamente giustizia: la parte soccombente si sentirà dire che
la regola in base alla quale essa perde la causa è sbagliata e viene applicata per l’ultima volta proprio nel suo
caso, e da qual momento in poi i cittadini sono avvertiti che la Corte seguirà una regola più adeguata.
Altra tecnica di avvertimento consiste nell’esporre nelle opinions dei giudicanti motivi di critica e di
insoddisfazione verso la regola del precedente, che pure viene applicata. Mano a mano che si accumulano le
critiche, il pubblico è avvertito che la regola tradizionale sta per essere abbandonata.
Simili tecniche di annuncio appaiono più adeguate a preservare un certo grado di calcolabilità giuridica
rispetto a quella tradizionale, importata dall’Inghilterra, del distinguishing. Questa tecnica consiste nel
rilevare che il caso in esame presenta dissimilarità rispetto al caso deciso in precedenza, da cui discende che
la ragione del decidere precedentemente adottata non può applicarsi in presenza di circostanze diverse,
perché altrimenti si violerebbe il principio di eguaglianza che prescrive che debbano essere decisi in modo
eguali i casi analoghi, mentre i casi dissimili debbono essere decisi in modo differente.
Negli Stati Uniti tale tecnica va incontro a dei problemi: innanzitutto è da chiarire cosa si intende per ratio
decidendi, posto che la regola di diritto che risolve un caso della vita può essere formulata dal giudice
decidente a diversi libelli di generalità. Siccome però spetta al giudice successivo isolare la ratio decidendi
del precedente giudiziario, se quest’ultimo la intende come espressione di un principio giuridico, gli sarà
difficile operare un distinguisching; se invece la intende come regola adatta solo al caso deciso, il
distinguisching sarà facilissimo, sebbene si rischi di cadere nella tecnica del sotterfugio.
Negli ultimi lustri la problematica della individuazione della ratio decidenti e della sua distinzione rispetto ai
cosiddetti obiter dicta, è uscita dalle tematiche dibattute poiché è mutato il contenuto delle decisioni

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giudiziali, specie quelle di ultime istanza. Il mutamento si collega con l’ondata di legislazione ambientale e
consumeristica degli anni ’80 del secolo scorso, che ha dotato i cittadini di nuovi rimedi per farli valere. La
rivoluzione dei diritti ha prodotto una massa di litigations in cui si confrontano diritti individuali, o di
gruppo, incompatibili tra loro, ma entrambe meritevoli di tutela. Le corti si sono quindi trovate ad arbitrare
conflitti in cui nessuna delle due parti può prevalere completamente. La conseguenza è che le corti devono
mettere a punto criteri di bilanciamento tra interessi confliggenti alla luce delle svariate circostanze in cui il
medesimo conflitto si può presentare; le corti si trovano nella necessità di indicare criteri o standard di
giudizio anziché regole di diritto di tipo tradizionale, con la conseguenza che l’efficacia del precedente
vincolante si trasferisce sul tipo di test che una corte ha indicato come adatto a risolvere un problema di
bilanciamento.
In questa trasposizione delle regole di diritto giurisprudenziale in criteri di aggiudicazione, l’esperienza
giuridica americana è il modello di riferimento.
Per fare un esempio, capita spesso che nelle vertenze di torts l’attore debba dare la prova che una certa
sostanza, prodotta dal convenuto, gli abbia procurato dei danni alla salute. Nel processo civile americano non
si ricorre a consulenti tecnici, e l’onere della prova incombe sull’attore. La prova deve essere una “prova
scientifica”, questo significa che l’attore deve introdurre un testimone esperto munito delle necessarie
credenziali; ma per impedire che la “scienza spazzatura” entri nelle aule di giustizia ed influenzi le giurie, si
è fatto in passato ricorso al criterio per cui la tesi esposta dall’esperto debba essere stata accolta dalla
comunità scientifica di riferimento. Però, in tal modo, la vittima di una sostanza dannosa, non sarebbe
ammessa a dare la prova a lei richiesta, prima che sia formato un consenso ben percepibile nella comunità
scientifica; quindi si è proposto di liberalizzare le prove che l’attore debba fornire, onde evitare che le vittime
di nuovi trovati non potessero mai ottenere il risarcimento cui hanno diritto.
La Corte Suprema Federale ha indicato che perché una tesi possa essere qualificata come scientifica, e quindi
ammessa come prova quando è presentata da un testimone esperto, occorre che:
- sia formulata in modo tale che sia possibile saggiarne le controllabilità e la falsificabilità;
- si tratti di ipotesi oggetto di pubblicazioni scientifiche su riviste peer review;
- deve essere nota la percentuale di errore connessa con la tecnica di rilevamento dei dati impiegata;
- rileva anche la generale accettazione da parte delle comunità scientifica di riferimento.
Questo set di criteri di riconoscimento della qualità scientifica di una tesi non ha struttura sillogistica, perché
si tratta di standard di valutazione che debbono essere applicati con flessibilità dai giudici successivi.
In questo contesto il precedente giurisprudenziale diviene una fonte di linee giuda che continuano a vincolare
i giudici inferiori, ma dotati di flessibilità tale da consentirne un adattamento ai singoli casi concreti. Il
rispetto del precedente non è il risultato di una operazione meccanica, ma il risultato di un fine bilanciamento
tra opposte esigenze tra le quali il peso assegnato al valore della certezza baria da un settore all’altro.
Nell’esperienza americana il criterio dello stare decisis si pone come strumento di certezza del diritto nel
senso che esso evita che i giudici possano sorprendere i cittadini applicando regole nuove a condotte che
erano state programmate e poste in essere in base a regole in vigore in tale momento. La legislazione che si
esprime in riferimento a casi futuri può mutare la regola giurisprudenziale senza provocare sorprese; i giudici
sono pronti ad abbandonare un precedente se esso è contraddetto da nuove leggi (anzi, in molti casi sono essi
a sollecitare l’intervento riformatore del legislatore).
È da considerare però un problema, poiché quando si tratti di diritto giurisprudenziale formatosi per via di
interpretazione di uno Statue, il fattore cronologico acquista un rilievo non trascurabile, e nella tradizione di
common law il legislatore è alieno dall’emanare leggi di interpretazione autentica.

Gli Statutes e la loro interpretazione.


La tematica dell’interpretazione della legge è emersa solo nella seconda metà del XX secolo, quando lo
sviluppo quantitativamente impressionante del formante legislativo ha prodotto la “staturification” del
common law americano.
Tuttavia, è stato proclamato il principio per cui la legge in senso formale deve essere rispettata ed applicata
fedelmente dai giudici, anche quando produce esiti infelici; sulla superiorità gerarchica della fonte legislativa
rispetto a quella giurisprudenziale non vi è mai stato dubbio: se un giudice dubita della legittimità di una
legge può ricorrere allo strumento della judical review, ma in tal caso il confronti avviene tra la costituzione
e la legge ordinarie, quindi il problema diviene quello della interpretazione del testo costituzionale. Quando
non si poteva invece, porre una questione di legittimità costituzionale della legge, si riteneva semplicemente
che la volontà del legislatore fosse sovrana. Pertanto, il formante legislativo è stato in ogni tempo presente

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nel panorama delle fonti. Tale proclamazione di principio è indipendente dall’abbondanza e dall’incisività
della legislazione.
Le tecniche interpretative si atteggiano in modo diverso in funzione del ruolo complessivo che la legislazione
ricopre all’interno dei rapporti tra formanti del sistema. Il secolo XIX non fu un periodo di particolare
attivismo legislativo, anche se verso la fine del secolo alcune leggi federali porsero problemi interpretativi; al
contrario, nel XX secolo si è assistito ad uno sviluppo quantitativamente impressionante della legislazione:
ciò ha imposto una revisione dell’atteggiamento di tradizionale trascuratezza verso il tema
dell’interpretazione dei testi legislativi, che era confinato al solo ambito del testo costituzionale che presenta
specificità sue proprie perché non contempla l’aspetto fondamentale che condiziona la tematica interpretativa
delle leggi e delle regulations.
Lo Stato interventista, che regola vasti aspetti della vita economica e sociale della nazione, richiede una
raccolta sistematica delle informazioni e la creazione di nuovi apparati pubblici: le leggi e i regolamenti sono
il frutto di questa raccolta sistematica. I giudici non sono attrezzati per la raccolta di informazioni perché
posseggono solo quelle che vengono loro fornite dalle parti; tanto meno possono creare nuove istituzioni e
provvedere al loro finanziamento. Si constata quindi che i compiti più impegnatici dello Stato moderno sono
al di là della portata del diritto creato dai giudici; inoltre non è da trascurare il cambiamento di mentalità che
ha condotto ad un atteggiamento più critico che sottolinea continuamente il bisogno di legal reforms. Questo
dà origine ad un procedimento a spirale, poiché una volta che un dato settore è stato oggetto di riforma per
via legislativa si manifesta un continuo bisogno di nuove leggi sia per correggere i difetti, o gli effetti inattesi
delle riforme precedenti, sia per continuare ad adattare le regole alle nuove situazioni. Ciò ha dato interesse
alle dottrine dell’interpretazione degli Statutes, che nasce dalla constatata impossibilità di mantenersi fedeli
ai canoni ermeneutici tradizionali.
Secondo il common law inglese, uno Statutes viene emanato dal Parlamento per correggere un difetto del
common law; per interpretare la legge basta quindi seguirne il testo letterale (plain meaning): se il testo
presenta margini di ambiguità, l’interprete deve identificare il difetto (mishief) del common law che si è
voluto correggere e ciò esaurisce la ricerca della ratio legis. Ciò implica che la norma legislativa è sempre
speciale e quindi si deve intendere in senso restrittivo e non è suscettibile di applicazione analogica.
Questo approccio può essere adatto ad un periodo in cui il legislatore legifera assai poco, e che riconosce
quindi implicitamente che il common law è quasi perfetto; lo stesso approccio non fa senso in un ambiente in
cui la legislazione è abbondante. Tuttavia elaborare una coerente teoria dell’interpretazione della legge non è
affatto agevole, infatti nelle esperienze di civil law non ne esiste solo una, ma molte in competizione tra loro.
Le ricerche più recenti hanno messo in luce alcuni tratti caratteristici dell’esperienza americana che si
possono riassumere nella duplice consapevolezza per cui nell’interpretare la legge si deve anzitutto avere
riguardo alle scelte di policy del legislatore; quando questo scopo non è intellegibile, o è tramontato dalle
scelte di politica del diritto posta in essere in un dato momento storico, si deve preferire la soluzione
ermeneutica che meglio armonizza il diritto creato dalle corti con quello creato dal legislatore. Questo
comporta il riconoscimento che l’interpretazione giudiziale è solo limitatamente una operazione logica
condotta sui segni linguistici che compongono il testo legislativo, ed è piuttosto guidata da considerazioni di
politica del diritto che comprendono anche la necessità di mantenere aperto un equilibrato dialogo
istituzionale tra le corti ed i legislatori.
In un sistema complesso ed articolato come quello americano l’esigenza principale è quella di mantenere una
generale armonia tra le regole provenienti dalle molteplici fonti di produzione; perciò nell’esperienza
americana i problemi ermeneutici si pongono quasi sempre come problemi di coordinamento tra testi
emanati da fonti diversificate, e come problemi che attengono non tanto all’analisi dei testi stessi, quanto alla
distribuzione delle competenze ed alla integrazione tra linguaggi. In realtà il problema ermeneutico si pone
dopo una serie di opzioni di carattere istituzionale esaurite le quali la soluzione preferibile si rende evidente
senza bisogno di analisi lessicali.
La dottrina accademica insiste affinché il procedimento ermeneutico sia integrato mediante l’inserimento di
un altro elemento che proviene dall’esperienza di common law, ossia il controllo sulla coerenza complessiva
delle regole operazionali con la costellazione dei principi fondamentai che reggono il sistema juris. La
dottrina accademica continua a criticare le sentenze che sono unprincipled, cioè prive di riferimento ad un
qualche principio di carattere etico rispetto al quale la regola operativa rappresenti uno sviluppo coerente.
Questa insistenza coinvolte le leggi e le regolazioni che sono dichiaratamente emanate per affrontare
problemi contingenti, la cui emersione è connessa con una specifica congiuntura delle circostanze
economiche e sociali.

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Questo spinge gli interpreti a farsi carico dell’aspetto temporale della vita e delle leggi o delle regolazioni, la
cui impostazione formale del tema le aveva sottratte.
Il common law ha sempre praticato l’arte di incorporare le regole sancite negli Statutes nel proprio seno
dando ai giudici la facoltà di interpretarle in modo autonomo rispetto alle intenzioni dei legislatori, che
diventano del tutto irrilevanti.
Rispetto alla interpretazione della legge ordinaria, sia statale che federale, l’interpretazione del testo
costituzionale presenta un panorama piuttosto diverso:
- si tratta di interpretazione su cui i giudici ed i giuristi americani si sono allenati da tempo;
- nel sistema americano il sindacato di costituzionalità delle leggi è diffuso e quindi si integra
perfettamente tra le funzioni assegnate alle corti;
- il rapporto politico istituzionale tra corti e costituenti si atteggia in modo assai diverso, perché coinvolge
il profilo della modificazione per via interpretativa del testo costituzionale, quando la costituzione stessa
prevede a tali fine un procedimento speciale e assai difficoltoso.
Si può dire che la costituzione federale ha costituito la fonte di un modello di interpretazione alternativo a
quello tradizionale di common law.
Ai fini del suo intendimento, il testo costituzionale viene normalmente assunto come un insieme di principi,
ciascuno dei quali ha la sua base in una espressione verbale che ricorre nel testo e che viene denominata
“clause”. Con l’andare del tempo su ognuna di queste singole clause si è stratificata una interpretazione
giurisprudenziale, che evolve nel tempo. Un esempio è l’interpretazione del XIV emendamento che
permetteva la segregazione razziale purché i cittadini delle diverse razze ricevessero un trattamento separato.
Il problema è dunque quello relativo ai criteri mediante i quali si può giustificare una determinata operazione
di estrazione del significato da una clausola della costituzione. Su ciò non vi è accordo tra i giuristi
americani, anzi nei tempi più recenti si sono aperte accanite controversie, tra le diverse scuole di pensiero:
una di queste predica che l’unico modo giustificabile di intendere la costituzione è quello di rifarsi alla
intenzione originaria dei costituenti, mentre sarebbe una usurpazione del potere costituente ogni aggiunta di
senso che vada al di là dell’“original understanding” dei segni linguistici che compongono il testo
costituzionale. Altri ritengono che sia perfettamente giustificata una interpretazione estensiva dei diritti
umani consacrati dalla Costituzione, poiché il testo costituzionale è da intendersi come un “living
document”, in cui ogni generazione può scrivere la propria pagina.
La Corte Suprema federale oscilla a seconda della sua composizione tra la tendenza più attivista nel campo
dei diritti umani, la quale l’ha condotta ad elaborare nuovi diritti della personalità, che non sono iscritti nel
testo ma ricollegabili all’alone di significato riconoscibile nel tessuto delle diverse clausole; ed una tendenza
più prudente.
Proprio le controversie del XX secolo hanno posto in risalto un dato, ossia che la giurisprudenza in materia
costituzionale è legata a procedimenti interpretativi che hanno la loro base in orientamenti in filosofia
politica di cui i singoli giudici sono portatori. Infatti, i giudici non si confrontano con i casi della vita che
possono essere risolti pragmaticamente, ma con operazioni argomentative generali su cui si riconnettono esiti
parimenti generali.
Questo stato delle cose è denominato come ideologia giudiziaria, ma tale etichetta può essere fuorviante
perché fa pensare ad ideologie puramente politiche. In realtà, se è vero che gli indirizzi ermeneutici possono
essere imparentati con scelte di pura policy, la judical philosophy dei giudici americani si coniuga con
visioni che attengono alla pura architettura delle istituzioni; dall’altro lato chi sostiene atteggiamenti più
attivi da parte delle corti non manca di sottolineare come esse non possano agire come agenti del libero
progresso democratico, ma debbano coordinarsi con le iniziative legislative in cui si esprime l’orientamento
della maggioranza degli elettori, oppure giustificarsi razionalmente in base alla dimostrata necessità di
mantenere aperti i canali della partecipazione politica.
Ciò indica che in tema di interpretazione i fattori di carattere logico ed istituzionale sono prevalenti su quelli
puramente ideologici. Del resto, in un sistema complesso ed articolato come quello americano è inevitabile
che i problemi interpretativi vengano affrontati e discussi in un’ottica di carattere istituzionale chiedendosi
sempre quale istituzione (parlamenti, corti, agenzie, “private arregements”), è meglio in grado di produrre le
migliori regole giuste. La cornica istituzionale entro cui si svolge la discussione teorico-pratica fa si che le
ragioni capaci di orientare le scelte interpretative siano improntate dal requisito della loro coerenza logica e
non dal solo appello a sentimenti morali, come avviene nelle competizioni elettorali.

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Le fonti di cognizione.
La tematica delle fonti di cognizioni del diritto americano è dominata dalla numerosità e complessità delle
fonti di produzione. Tale problema presenta due aspetti fondamentali: l’accessibilità dei dati giuridici, e la
sistemazione delle informazioni che possono essere tratti dai documenti una volta che siano consultati. Si
tratta di un problema di carattere operativo. Da sempre risposte negative sono considerate inaccettabili e si è
lavorato attorno ai modi con cui rendere agevole il reperimento dei dati giuridici su scala nazionale.
Trascurare questo aspetto avrebbe condotto a compartimentalizzare gli ambiti locali spezzando il tessuto
culturalmente unitario delle professioni legali. I problemi più acuti erano posti dal diritto giurisprudenziale
(precisamente dal common law degli Stati), posto che le leggi, federali e Statali, sono pubbliche, organizzate
in raccolte di non difficile reperimento, e che la giurisprudenza federale è da lungo tempo raccolta in appositi
repertori.
Gli strumenti posti in essere per rendere cognitivamente accessibile tutto il diritto applicato nei diversi Stati
sono stati di due tipi: la produzione di sintesi nazionali e la organizzazione di canali di informazione
accessibili ovunque.
L’esempio della soluzione del primo tipo è dato dalla istituzione del Restatement of American Law (1923);
l’esempio della soluzione del secondo tipo è dato dalla organizzazione del National Reporter System (1879).
• Il Restatement of American Law è una fonte di carattere normativo, munito di valore solo persuasivo. Il
suo impianto mirava a trasporre in regole formulate come in un testo legislativo gli orientamenti
prevalenti delle corti federali, soprattutto statali, rendendo superflua la ricerca del precedente specifico.
I benefici di una compilazione riassuntiva della casistica giurisprudenziale sono inversamente
proporzionali rispetto alla massa dei dati giurisprudenziali accessibili: più quest’ultima è grande e poco
accessibile, più una compilazione riassuntiva è utile.
• Il National Reporter System comprende, oltre alla giurisprudenza federale, la giurisprudenza delle corti
supreme dei diversi Stati e per alcuni, come New York e California, anche tutta la giurisprudenza delle
corti d’appello.
La pubblicazione del NRS è stata accompagnata da strumenti di appoggio e facilitazione delle ricerche
dei precedenti giurisprudenziali (come lo Shepard’s Citations, il West American Digest System),
tuttavia l’accumulazione dei dati giurisprudenziali ha gettato nel panico le professioni legali, cui veniva
richiesta una assai faticosa ricerca dei precedenti. Questo spiega il successo delle raccolte in forme
enciclopedica in cui la giurisprudenza venne sommarizzata e citata, senza essere riportata né per
massime né per esteso.
Il National Reporter System ha inciso profondamente sull’assetto delle fonti di cognizione del diritto
giurisprudenziale, ma il problema di fondo relativo al modo con cui rendere accessibili i dati
giurisprudenziali ha radicalmente mutato aspetto con il passaggio dall’editoria cartacea a quella elettronica, e
più in generale con la compiuta transizione da una informazione mediante documenti cartacei a documenti
elettronici accessibili online.
La struttura delle fonti di cognizione è infatti fortemente dipendente dal mezzo di comunicazione in uso; per
conseguenza, il passaggio dai mezzi cartacei a quelli elettronici immediatamente accessibili online, ha
comportato un cambiamento epocale da cui è sortito un modo completamente nuovo, nel contesto del quale il
problema della conoscibilità dei dati che ha condizionato la storia del sistema americano delle fonti di
cognizione, ha trovato una soluzione ed ha cessato quasi di esistere come problema: i dati giuridici generati
dalle fonti di produzione sono accessibili da ogni dove, anche da luoghi esterni agli Stati Uniti.
Ciò tuttavia non dipende da una riduzione dei documenti o da una loro compattazione mediante la riduzione
in riassunti o massime, poiché quelli che vengono raccolti in forma digitale sono i documenti giuridici
originali e completi (full text); piuttosto è stato il radicale mutamento del mezzo di accesso che ha consentito
di rendere fruibile una impressionante mole di informazioni giuridiche. Se fosse rimasto su un supporto
cartaceo, il NRS, che ha raggiunto la dimensione di oltre 10.000 volumi, sarebbe una fonte di cognizione
inconsultabile.
Oggi il problema è solo quello di trovare il modo di automatizzare la ricerca dei dati sfruttando le elevate
capacità di calcolo raggiunti dagli attuali computers: vi sono vari modelli tecnici di Legal information
retrieval e ciascuna delle maggiori banche dati (Westlaw, LexisNexis Findlaw), utilizza un proprio algoritmo
e lo perfeziona costantemente. Ciò che interessa le professioni legali è la possibilità, inserendo le stringhe
linguistiche appropriate, di trovare tutti i documenti rilevanti (recall rate), e di ridurre la percentuale di
documenti irrilevanti che la banca dati produce (precision rate).

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La frontiera del tema delle fonti di cognizione si è spostata su un altro versante connesso alle tecniche
informatiche, ovvero su quello del trattamento automatico della documentazione raccolta ai fini della loro
utilizzazione nella costruzione di un argomento giuridico. Questo comporta il ricorso ad algoritmi che
tengano conto della gerarchia delle fonti, della efficacia nel tempo del valore giuridico dei loro prodotti, della
misura della influenza che questi ultimi hanno ottenuto, delle polisemie del lessico giuridico, dei diversi
obiettivi che gli autori della ricerca si possono prefiggere.
In questo contesto, i sistemi c.d. Booleani, in cui la ricerca viene condotta mediante stringhe di parole e la
banca dati consultata restituisce tutti i documenti in cui appaiono gli stessi segni linguistici, appaiono
superati perché generano troppi documenti irrilevanti, e non consentono di accedere a documenti in cui lo
stesso concetto giuridico è espresso mediante mediante parole diverse. I sistemi più attuali fanno uso
dell’esperienza che si sta accumulando nel campo della Intelligenza Artificiale e della scienza cognitiva. I
progressi sono rapidi e l’evoluzione è in corso, mentre si è dato vita ad una nuova branca delle discipline
giuridiche, dotata di una propria letteratura e di propri canali di diffusione delle idee.
Rimane che una certa famigliarità con le strutture del sistema giuridico ed i suoi linguaggi è prerequisito
indispensabile per poter condurre ricerche significative.

La letteratura giuridica e le teorie accademiche.


La letteratura giuridica si è in parte digitalizzata e resa accessibile online, sebbene opere di manualistica e di
letteratura giuridica diffuse su supporto cartaceo conservano una rilevanza notevole; inoltre si deve osservare
che il passaggio dal formato cartaceo a quello elettronico non ha inciso significatamente sui generi letterari,
né sui modi di consultazione.
Nel XX secolo si è assistito all’apogeo e poi al tramonto del genere Trattato. Sino ai primi anni sessanta del
secolo scorso, molte parti del diritto americano vigente erano studiate e conosciute mediante i grandi trattati,
in più volumi, che narravano in forma sistematica una determinata materia. Questi erano punti di riferimento
indispensabili per giudici ed avvocati. Negli ultimi decenni del secolo scorso la trattatistica è appassita, e,
sebbene alcuni trattati vengono aggiornati e resi disponibili in forma elettronica, è quasi impossibile seguire
l’evoluzione della casistica giurisprudenziale mediante la forma di trattato.
Più fortuna hanno i manuali (Hornbook e Casebook) in un volume che forniscono un primo panorama
sistematico delle materie trattate, e che mantengono un ruolo essenziale come supporti didattici nelle law
schools. I Casebook sono raccolte di casi senza alcun commento; i moderni Casebook, contengono, accanto
ai casi giurisprudenziali, numerosi altri materiali, e sono arricchiti da ampie introduzioni di stile trattatistico
su ogni singolo argomento.
Genere letterale concorrente è quello delle trattazioni abbreviate (Nutshells) diffuse nella seconda metà del
XX secolo, per offrire agli studenti ed ai giuristi dilettanti una prima informazione sulle regole essenziali di
ciascuna materia in forma svelta, condensata e semplice. Questi sono di utilità per ricevere una prima
informazione panoramica senza la quale le ricerche più approfondite condotte direttamente sulla legislazione
e la giurisprudenza pertinenti non possono essere condotte con efficacia.
Quanto alle fonti letterarie nella letteratura giuridica americana si è creato un solco tra la letteratura di tipo
scolastico professionale e quella accademica. Gli scrittori accademici, diversamente da quanto accadeva
negli anni sessanta del secolo scorso, solo marginalmente producono opere destinate all’insegnamento, o alle
professioni legali. Le loro opere sono fortemente teoriche, o di critica del diritto vigente, che possono essere
fruiti solo come fonti di secondo grado ai fini della conoscenza del sistema. Tuttavia la loro alta qualità
intellettuale ha indotto a trasposizioni immediate in altre esperienze giuridiche.
La letteratura accademica ha assunto dimensioni enormi, sospinta dalla moda che si è introdotta nelle
università americane (prima che in Europa), di valutare la produttività dei docenti in base al numero delle
loro pubblicazioni; questa si esprime attraverso libri, genere più influente, ed in articoli su Law Reviews,
editi da Law Schools, e quindi godono del prestigio corrispondente alla Law School che le pubblica. Le
riviste giuridiche si sono trasferite da supporto cartaceo a quello elettronico, più facili da reperire mediante i
sistemi di ricerca.
L’influenza della dottrina sulla vita del diritto non è diminuita, essendo l’elaborazione di visioni teoriche
comprensive un antidoto al disordine in cui il sistema americano precipiterebbe a causa della sua stessa
complessità. Giudici e forensi continuano a prestare attenzione a quanto viene proposto in sede accademica:
la cultura giuridica americana è fortemente influenzata dagli orientamenti del pensiero accademico. Infatti da
molte generazioni la formazione del giurista avviene nelle università e più precisamente nelle Law Schools.
Si è già detto che l’impostazione specificatamente suggerita da Langdell, che va sotto il nome di formalismo

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è del tutto tramontata, e la scuola di pensiero dominante nella parte centrale del XX secolo, chiamata del
Legal Process, è ispirata alla impostazione dei c.d. realisti. Si tratta di scuole di pensiero che si caratterizzano
per il loro orientamento metodologico, e non stupisce che l’accademia americana abbia espresso svariati
orientamenti di metodo che si siano anche ibridati tra loro.
Oltre a queste scuole, altre scuole di pensiero hanno influenzato l’insegnamento e la produzione di
accedemica; tra queste la principale prende il nome di “law and…”, intendendo con ciò designare i numerosi
tentativi di integrare lo studio del diritto con gli apporti di altre scienze sociali: la “law and sociology” dava
una descrizione ed una spiegazione dei fenomeni istituzionale grazie all’apporto degli studi sociologici,
connettendo lo studio del sistema giuridico con lo studio della società. Questo sottintende la operazione di
metodo per cui non si può regolare una società senza conoscerla e che quindi le regole giuridiche debbono
essere ritagliate sui bisogni che la società esprime in un dato momento storico e non calate dall’alto per
scelta di un legislatore o di un giudice per quanto illuminato possa essere.
Impostazioni simili si ritrovano nel movimento di “law and economics”: per capire meglio questo
movimento occorre sottolineare un aspetto del pensiero giuridico americano contemporaneo che lo
differenzia da quello europeo, ossia che quest’ultimo è dominato da impostazioni positivistiche che hanno
confinato il ruolo del giurista dotto, e quindi della dottrina accademica, nel riportare a coerenza l’insieme
delle norme vigenti, ponendosi in una prospettiva in cui il diritto viene calato dall’alto e non hanno rilevanza
né le evoluzioni dei gruppi sociali, né gli assetti che la società civile si dà nelle proprie varie articolazioni.
Nell’esperienza americana il ruolo del giurista dotto è sempre stato quello di razionalizzare e rendere
coerente il guazzabuglio di norme costituzionali e legali sia federali che statuali con i precedenti delle corti,
tenendo conto delle regolazioni pubbliche come del “private ordering”.
Detto questo diviene più comprensibile che l’apporto delle altre scienze sociali alla indispensabile opera di
coordinamento svolta dalla dottrina accademica è consistito nell’offrire ai giuristi dotti gli strumenti
concettuali grazie ai quali analizzare le relazioni e le interrelazioni sociali che il diritto deve ordinare. Si
tratta di strumenti di tipo conoscitivo di cui la tradizione giuridica occidentale difetta.
L’apporto fornito dalle analisi della corrente di economic analysis of law, diffusasi negli Stati Uniti a partire
dagli anni sessanta del XX secolo, si sono rivelati i più importanti.
È opportuno però distinguere tra diversi approcci: alcuni muovono dagli assunti chiaramente utilitaristici,
quindi dai paradigmi teorici tipici della economia neoclassica che immaginano un comportamento
razionalmente massimizzatore dei soggetti regolati, per calcolare gli effetti delle regole vigenti e prescriverne
la riforma al fine di ottimizzare l’uso delle risorse complessivamente disponibili (in questo orientamento cii
si avvale di paradigmi economici a fini nettamente normativi).
Altri approcci, pur accogliendo i paradigmi delle teorie economiche, non muovono dai postulati astratti della
microeconomia e riconoscono che l’esperienza giuridica congloba in sé una conoscenza empirica collaudata,
più vicina alle realtà umane così come esse sono, evitando con ciò di scambiare per razionale ciò che è solo
astratto. Questo tipo di approccio che integra le conoscenze delle discipline economiche con quelle
giuridiche non rinuncia a fornire dimostrazioni rigorose.
Nelle sue varie accezioni, la scuola di pensiero che ha integrato le analisi giuridiche con gli studi economici
ha introdotto nelle ricerche giuridiche un importante incremento, fornendo al giurista la possibilità di
prevedere entro certi limiti gli esiti fattuali dell’adozione di regole giuridiche, pertanto non stupisce che
abbia suscitato vasto interesse in tutto il mondo. Qualche progresso in materia si è registrato e ciò ha
condotto a rafforzare la tendenza che si riscontra in tutte le esperienze giuridiche contemporanee, ad elevare
il criterio dello scopo pratico da raggiungere a principio direttivo eminente nella interpretazione e
applicazione delle regole giuridiche.
Accanto alle scuole di pensiero principali, il terreno fertile delle università americane produce continuamente
nuovi indirizzi di ricerca, alcuni abbandonano l’ambizione di perseguire visioni generali, per sposare
interessi apertamente settoriali.
Il dato di fondo che ancora tiene insieme queste tendenze frammentarie è la comune adesione all’idea che se
è tramontata l’illusione nella neutrale impersonalità delle regole giuridiche, tuttavia continua a sussistere un
terreno comune di confronto e di dialogo critico tra le diverse tendenze sul quale ciascuna può misurare la
propria forza intellettuale. Le tendenze più esposte sul fronte dell’avanguardia culturale e scientifica sono
tenute a freno dalla comune coscienza che lo scopo principale delle Law School rimane quello di preparare
avvocati e, eventualmente, giudici.

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Le professioni legali.
Negli Stati Uniti la professione legale è unitaria. Per ottenere la qualifica di lawyer (avvocato), che consente
il patrocinio avanti le corti, è necessario passare un esame che si svolge secondo modalità piuttosto uniformi,
regolato dalle leggi di ciascuno Stato. Il Bar Examination Test tuttavia è solo il momento conclusivo di una
carriera scolastica, infatti, per esservi ammessi occorre aver precedentemente ottenuto un law degree da una
delle law school approvate dalla American Bar Association. Ad esse si accede mediante il Law School
Admission Test il cui risultato determina l’ammissione ai corsi di ciascuna law school che sono in genere
triennali, anche se alcune offrono programmi accelerati.
Le Law School più accreditate devono offrire al primo anno un curriculum che comprende corsi in: Civil
procedure, Constitutional law, Contracts, Criminal law, Property, Torts, Legal Research e Legal Writing. Il
numero delle Law School accreditate è assai elevato ed oscilla il numero di 200. Le Law School sono
valutate da vari organismi che propongono una loro graduatoria: le prime posizioni (10 o 14) tendono a
rimanere sostanzialmente costanti ed assicurano ai laureati una carriera successiva onorevole. Chi esce da
una Law School di elites normalmente si apre al mercato dei servizi legali nazionale, mentre chi esce da una
Law School meno accreditata si rivolge al mercato locale.
I costi per le iscrizioni ad una Law School specie di elites sono assai elevati; molti studenti per poterli
affrontare ricorrono al mercato di credito, assai disponibile ad offrire prestiti rimborsabili ratealmente dopo
aver terminato gli studi.
La tradizione americana non ha mai conosciuto le distinzioni corporative che hanno caratterizzato la
professione forense in Inghilterra, perciò la figura dell’avvocato è l’unica e le differenziazioni lessicali sono
irrilevanti.
Tuttavia nella professione legale esistono fortissime differenziazioni. Nella seconda decade del XXI secolo il
numero degli avvocati americani ha superato il milione, ed è difficile trovare qualcosa in comune tra chi
eserciti da solo in un piccolo centro di provincia di uno Stato poco popoloso, e colui che faccia parte di un
grande studio associativo attivo nei centri di New York, Chicago, Washington D.C. e Los Angeles. Altra
notevole differenziazione intercorre tra avvocati specializzati e generalisti: oltre ad una generale
differenziazione tra i trial lawyers che compaiono avanti le corti e le giurie, e gli avvocati che offrono servizi
legali non necessariamente connessi con la rappresentanza in giudizio, è da registrare che le elites
professionali hanno seguito una traiettoria di specializzazione assai spinta, da cui discente la necessità di
aggregarsi in grandi studi associati per poter offrire alla clientela una assistenza a 360 gradi. Il punto è che
fuori dai processi civili e penali, gli interlocutori degli avvocati americani sono spesso a loro volta assai
specializzati, pertanto il dialogo con essi richiede competenze anche di natura tecnica assai pronunciate.
Da rimarcare è inoltre, che specie negli studi associati (law firms), le attività della professione forense hanno
assunto una impronta imprenditoriale: sono le imprese che offrono servizi legali su un mercato competitivo.
Il sistema americano tende a rendere tale mercato sempre più aperto alla libera competizione tra imprese.
L’originalità delle soluzioni pratiche offerte è altamente apprezzata, essendo origine di fortune economiche
invidiabili ed invidiate. La molla che spinge gli avvocati americani verso certi comportamenti piuttosto che
altri è ovviamente la ricerca del successo professionale.
Date queste differenziazioni è da sottolineare che il tono della professione legale è dato dai grandi studi
cittadini. In un contesto altamente competitivo è ormai del tutto tramontata nel panorama americano la figura
dell’avvocato “uomo di cultura” nel senso umanistico del termine; nelle università la tendenza alla
scientificizzazione dei discorsi giuridici hanno emarginato gli insegnamenti di tipo tradizionalmente
culturale; nella professione il gusto per le buone letture di stampo classico è stata soppiantata
dall’apprendimento delle tecniche comunicative moderne, le quali sono autentiche succedanee dell’ars
retorica veicolata dalla lettura dei classici del pensiero occidentale.

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CAPITOLO SESTO - LE RADICI COMUNI DELLE ESPERIENZE DI CIVIL LAW

Il contesto storico.
L’esperienza di civil law nacque non dal potere politico e dalle sue strutture di governo, ma dalle lacune di
queste strutture ed indipendentemente da ogni potere politico. Il fiorire del sistema di civil law che si verifica
nel XII e XIII secolo, non è dovuto in alcun modo all’affermazione d’un potere politico, né alla
centralizzazione operata da un’autorità sovrana; esso si afferma in un’epoca in cui gli sforzi del papato o
dell’impero non riusciranno mai a ricostruire, sul piano politico, l’unità dell’Impero romano. Il sistema è
nato ed è esistito indipendentemente da ogni mira politica.
Mentre la radice dell’esperienza di common law si colloca nelle prassi di corti centrali di giustizia istituite da
un potere sovrano, la radice dell’esperienza di civil law si colloca in dati e fenomeni storici più incerti, ossia
nella metamorfosi di un insegnamento accademico che diviene ordinamento. Occorre ora spiegare come tale
metamorfosi sia potuta avvenire.

Gli esordi della scientia juris e l’insegnamento universitario.


La scientia juris fu il formante più caratterizzante dell’esperienza di civil law. Inizialmente la scientia juris
coinvolge schiere umane molto ristrette che si muovono in un ambiente dominato da fonti, regole, procedure
e schemi tipici del diritto comune europeo altomedievale; tuttavia appare subito dotata di una dinamicità
straordinaria, grazie alla quale tale scienza è riuscita ad imporsi in sfere sempre più ampie.
La prima sede in cui si prese ad analizzare in modo scientifico il Corpus Juris giustinianeo ed a divulgare i
risultati di tale analisi mediante il pubblico insegnamento fu Bologna. Il primo maestro che fornì pubblico
insegnamento al riguardo fu Irnerio, di cui non si ha avuto una bibliografia, ma i suoi discepoli (Bulgaro,
Martino, Hugo, Jacopo), erano considerati tanto autorevoli da comparire come consiglieri dell’imperatore
nella dieta di Roncaglia (1158). Più impressionante ancora fu l’accorrere di studenti desiderosi di essere
introdotti nella scienza del diritto. Nei secoli XII e XIII la presenza di studenti stranieri a Bologna era
abbastanza vasta da richiedere una loro organizzazione in due universitates: una di citramontani, ossia
studenti di nazionalità italiana della scuola di Bologna, suddivisi in quattro nationes (Lombardi, Toscani,
Romani, Campani) e una di ultramontani, ossia studenti stranieri della scuola di Bologna, suddivisi in 13
nationes europee. Un tale successo di pubblico mette in luce il carattere pratico dell’insegnamento di quei
maestri che si limitavano a coordinare il testo del Corpus Juris mediante le glosse di commento ai singoli
passi. Tuttavia l’accorrere di studenti è inspiegabile se si consideri che il diritto insegnato nell’università di
Bologna non era il diritto applicato in alcuna zona d’Europa; ma lo studio mostrava come fosse possibile
ripensare l’andamento apparentemente caotico di ogni conflitto di interessi sotto l’aspetto ordinato di un
sistema integrato di regole e procedure. Gli studenti non facevano altro che interpretare quel bisogno di
ordine sentito in tutta l’Europa dei secoli XI e XII. I giovani quindi vennero alle scuole provate di diritto per
imparare ad amministrare un ordine legale; le cariche cui aspiravano e che spesso raggiunsero, erano quelle
di funzionario degli apparati pubblici che si andavano costituendo presso le nuove entità politiche.
La distanza con la formazione del giurista inglese, incentrata sull’addestramento operativo, era quindi ampia;
una educazione giuridica diretta alla formazione di scienziati del diritto può ben generare operatori di grande
successo pratico allorquando la capacità più preziosa di un operatore del diritto consista nel poter intendere
un insieme in trasformazione. Meno impressionante è la derivazione dell’insegnamento bolognese di una
rinnovata ars notariae, cui conseguì la sottrazione della formazione dei notai alle corporazioni ed ai collegi
dove erano docenti i notai più anziani, per affidarla alle università.
La scientia juris non fu oziosa/pigra verso i bisogni della prassi, ma li collocò nel contesto della piena
comprensione di un ordine e delle tecniche e delle categorie che erano essenziali per percepire tali bisogni e
per amministrare i fatti della vita come se a quell’ordine mentale dovessero essere ricondotti.

La scientia juris ed il problema della “legittimazione”.


L’educazione del giurista era la risposta ad un bisogno sociale, ossia il disciplinare i rapporti umani secondo
regole e procedure prestabilite e non in base ai meri rapporti di forza. In Inghilterra questo bisogno venne
soddisfatto prima dalla corona e dalle sue prerogative e poi dal ceto di giuristi formatosi attorno alle corti
regie regolarmente istituite; in Europa continentale le cose ebbero uno svolgimento più tortuoso e sottile
perché mancava l’autorità in grado di istituire tribunali e di farne rispettare le sentenze.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Il primo sviluppo della scienza del diritto era un fenomeno paradossale poiché i protagonisti erano tutti
personaggi privati, essendo soltanto professori di università da essi stessi istituite; erano soggetti privi di ogni
legittimazione a jus dicere.
Il sostanziale problema era quindi quello della legittimazione a proclamare un diritto destinato all’osservanza
da parte dei consociati, quando coloro che lo proclamavano non erano rivestiti di alcuna autorità al riguardo.
Irnerio acquisì autorevolezza perché riuscì a persuadere i suoi ascoltatori di poter illuminare una materia
oscura per mezzo della forza del suo intelletto; questo indica che il mezzo adottato per superare l’handicap di
legittimazione fu l’appello all’autorità della scienza. In questo senso la scienza del diritto si segnala come un
fattore di demarcazione sistemologico rispetto alla parallela esperienza di common law e come un formante
di lunga durata all’interno della tradizione giuridica europeo-continentale.
Inserirsi nella struttura elastica/inesistente delle fonti del diritto medievali fu relativamente facile; le
condizioni furono tre:
1. in primo luogo la pluralità delle fonti del diritto era un dato ormai accettato, inoltre la formazione dei
regni romano barbarici aveva condotto a concepire i diritti separati per i popoli germanici e per le
popolazioni già stanziate nei territori dell’impero romano. La legge era personale, ciascuna etnia
stanziata nel territorio continua a vivere secondo la sua legge;
2. il secondo fattore che ha favorito la nascita di una scentia juris fu la afasia legislativa dei sovrani
altomedievali, interrotta dai sovrani, visigoti in Spagna e Longobardi in alta Italia, che concepiscono
il loro potere come una sovranità territoriale che abbraccia tutti i popoli in essa ricompresa;
3. il terzo fattore fu la diffusione dell’idea dell’universalità della giustizia e della connessione tra diritto
e giustizia. Se la legge è giusta è difficile spiegare come può variare tra una popolazione e l’altra
della res pubblica cristianorum, poiché una sola è la nozione di giustizia che la regge.

Ad ogni modo inserirsi stabilmente tra i formanti della tradizione di civil law è stato un risultato strepitoso.
Sino all’illuminismo ed alla rivoluzione francese in tutto il mondo europeo si concepiva in modo assai
elastico la struttura delle fonti e si attribuiva grande autorità alla cultura in generale.
Ma quali sono state le strategie seguite per concretizzare le possibilità offerte dal contesto storico in cui
nacque la scientia juris? Il prestigio della dottrina giuridica oggi è assicurato dal suo radicamento nelle
università ove si concentra e si riflette il prestigio generale dell’alta cultura e del progresso scientifico;
soprattutto assume il monopolio della formazione professionale dei giuristi. Inizialmente però questi
vantaggi erano insussistenti. La scienza giuridica europea è stata la figlia primogenita del razionalismo
europeo, quella che ha introdotto in tutte le altre scienze il suo spirito sistematizzatore e legistico, che ha
introdotto anche le scienze della natura. Il suo prestigio iniziale quindi non può farsi risalire al suo
presentarsi in collegamento con l’istruzione superiore. Essenziale fu il lavoro di ricostruzione filologica e
sistematica compiuto su un testo, ossia l’attività dei glossatori e commentatori.
Il giurista in effetti rinasce in Europa continentale come interprete dotto di un testo prestigioso: interprete
perché il suo jus dicere non è un trovare le regole secondo saggezza ed esperienza, ma partendo da un testo
cui viene attribuita una auctoritas sua propria; dotto perché la tecnica dell’interpretatio è scandita dagli
strumenti intellettuali di origine logica mutati dalla cultura filosofica medievale, che si è allenata all’analisi
del Testo, ossia le Sacre Scritture. Il problema era che mentre le Sacre Scritture contengono il verbo di Dio e
quindi la loro autorità era assolutamente indiscutibile, il testo del Corpus Juris giustinianeo doveva essere
accreditato come fonte autoritativa e legittima. Non è da credersi che il diritto romano fosse legittimato dal
suo porsi come diritto imperiale e quindi come naturale candidato al ruolo di diritto positivo nel contesto di
un impero romano-germanico. Questo modo di intendere le cose è una concezione dei moderni, nelle cui
menti è radicato il mito per cui il diritto proviene dallo Stato da metterlo precocemente all’opera; in realtà, in
senso moderno, mancava persino lo Stato. In effetti l’imperatore medievale non ha assolutamente alcun
merito nella rinascita del diritto; questo diritto glielo regalano i giuristi di Bologna.
I giuristi bolognesi riscoprendo l’utilità del Corpus Juris interpretarono in modo geniale il desiderio
medievale di una renovatio, ossia l’aspirazione a ripartire dall’esperienza romana verso nuovi orizzonti.
L’idea era una trasformazione di un testo originariamente solo, venerabile in una fonte di un diritto
legittimamente posto: la trasformazione richiedeva che il diritto romano fosse anzitutto fruibile e
promettente. La prima operazione cui provvidero i giuristi medievali fu attuata mediante una interpretatio
libera che consentì di attualizzare l’esposizione dottrinale contenuta nel testo giustinianeo; questo fece si che
i giuristi trassero prestigio dal fatto di riferirsi al Corpus Juris e reinvestirono tale prestigio accreditando il

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testo di qualità che non aveva. Infine i giuristi medievali osarono attribuire all’ispirazione divina il diritto
contenuto nei testi giustinianei: questo abilitava i suoi interpreti a ricoprire un ruolo quasi sacerdotale.

L’interpretatio come momento di sutura tra autorità e ragione, e tra logica ed aequitas.
Gli interpreti medievali erano però ben consci che l’origine divina del Corpus Juris fosse sostanzialmente
una finzione: essi non divennero adoratori della parola ma meri esegeti. La base della loro legittimazione era
sapienziale e non positiva, la loro ammirata venerazione verso il Corpus Juris era rivolta non alle singole
frasi ma all’insieme. Questo accadeva perché il Corpus Juris racchiudeva tutto il diritto romano, un diritto
ricco ed articolato, quantitativamente in grado di soddisfare i bisogni di una società anche molto più
sviluppata e complessa di quella medievale; il testo del Corpus racchiude tutto il diritto civile di cui una
qualsiasi collettività possa avere bisogno: è un ordinamento tendenzialmente completo.
A differenza del common law, incompleto poiché costituito da rimedi eccezionali, il diritto colto dell’Europa
continentale nacque invece come un sistema già esaustivo. La presenza di un edificio già costruito e
completo fu un dato costante dell’esperienza di civil law.
Come l’interprete è immerso nel circolo ermeneutico in cui ogni parte deve essere intesa in relazione al tutto
ed il tutto deve essere intero in relazione alle sue parti, il giurista ponendosi come l’interprete di un sistema il
quale si presenta come completo deve anzitutto organizzare la sua visione in forma sistematica.
Commentando ed analizzando le varie parti del testo, con particolare predilezione per il Digesto, si mise in
luce che esso si poteva comporre in un sistema, cioè in un modello di ordine. Questo ordine racchiudeva un
insieme di regole altamente articolate che potevano quindi appagare il bisogno di complessità allora
avvertito. Il modello di ordine ricavato dal Corpus Juris non era nemmeno la riproduzione del sistema del
diritto romano, che per quanto impregnato di logica medievale, si collocava in una dimensione tipicamente
universale: si proponeva come un sistema valido per ogni luogo.
Tuttavia i bisogni concreti rimanevano e sollecitavano il giurista a farsene carico; la propensione della
scientia juris ad incarnarsi in momenti pratici significa essenzialmente la sua propensione a farsi carico dei
problemi concreti. L’interpretazione del testo giustinianeo non poteva quindi essere letterale.
I giuristi medievali non furono sicuramente romanisti, non solo non cercarono di individuare la vera regola di
diritto romano, classico o giustinianeo ma, al contrario, si accaparrarono grande libertà verso il testo, ed
attribuirono alle loro interpretazioni una autorità non inferiore a quella del testo originario. Da ciò il
problema della legittimazione rispetto ad un jus dictum svincolato dal testo ed in questo caso la matrice della
soluzione escogitata a riguardo ricalcò quella precedente, ma con qualche valenza diversificata: lo strumento
ermeneutico (glossae, summae, definitiones, distinctiones, questiones) era tratto di peso dalla cultura
medievale e si accreditava come opera di scoperta scientifica.
L’uomo medievale concepiva sé stesso come “viaggiatore” verso una dimensione eterna in cui è
effettivamente presente Dio e la verità finale, ed era quindi disposto ad accettare la scienza come tramite per
il raggiungimento della verità; la scienza del diritto poté quindi conquistare stabilmente un ruolo di formante
dell’ordinamento, in quanto radicò sé stessa in una sfera sapienziale di alta cultura.
Da questo deriva la radicale ambivalenza della scientia juris che si presenta inizialmente come una strada atta
al raggiungimento della verità, ma che nel percorrere detta strada non può evitare di perseguire la soluzione
di problemi della vita secondo una valutazione di carattere etico.

I lasciti perenni: il diritto come applicazione di norme.


Dalle modalità in cui la scientia juris è pervenuta a legittimare se stessa in quanto formante stabile della
tradizione di civil law sono derivate a questa tradizione dei lasciti perenni. Esempi sono la distinzione tra
struttura formale e contenuto sostanziale della decisione giuridica, nonché quella tra metodologia proclamata
e tecnica ricostruttiva applicata. Su un piano più generale si può aggiungere la distinzione tra diritto e
politica.
Iniziando dalla distinzione tra struttura formale e contenuto sostanziale della decisione giuridica, la
tradizione di common law concepiva il giudicare ed il sentenziare come un “rendere diritto ciò che non era, e
nel contempo come un piegare il diritto”, quindi come un atto che di per sé creava ordinamento. Al contrario
nel contesto del sistema di pensiero creato dalla scientia juris il giudice opera secondo una tecnica
radicalmente diversa: l’estrapolazione logica dei fatti giuridicamente rilevanti dall’insieme della materia del
contendere e la separazione tra fatto e diritto, rendono la sentenza del giudice una operazione di sussunzione,
cioè il completamento di quel giudizio logico già contenuto ipoteticamente nella norma generale o nel
sistema dei principi giuridici. Questo è il metodo della scienza, perché il ridurre a problemi giuridici le realtà

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di fatto sussumendole sotto norme con sentenze aventi una struttura ipotetica, appartiene per sua natura al
procedimento proprio della conoscenza teorica e non già al comportamento tipico del giudice. La decisione
giuridica è infatti applicazione del diritto e non la sua creazione o la sua invenzione.
Per quanto concerne invece la distinzione tra metodologia proclamata e tecnica ricostruttiva applicata, si
deve partire dalla asserzione secondo la quale nessuna disciplina come la scientia juris europea abbia cos’
affannosamente interrogato se stessa ed i propri metodi con l’assilio costante della propria scientificità.
L’interrogarsi attorno alla scienza ed al proprio essere scienza è divenuto un tema dominante nelle riflessioni
epistemologiche della giurisprudenza europea. Tuttavia nessuna delle rivoluzioni metodologiche è nata sulla
spinta di bisogni interni alla tecnica giuridica. Si è trattato piuttosto della necessità di non perdere i contatti
con l’evoluzione della cultura in generale e quindi di importare all’interno delle tecniche giuridiche le
rivoluzioni epistemologiche attuate in altri settori del sapere, onde far si che la giurisprudenza potesse
sempre presentarsi in possesso di un bagaglio sapienziale aggiornato.
La letteratura giuridica inglese appare immune da problemi di metodo ed anche i mutamenti di paradigma
avvengono in forme velate, perché non si è avvertito il bisogno di mantenere aperte le comunicazioni con le
altre scienze e le altre manifestazioni dell’altra cultura, ma quello opposto di mantenere i legami con una
consuetudine ed una tradizione esclusivamente giuridica. In Europa continentale il bisogno di legittimarsi
come scienza teoretica volta alla conoscenza del diritto è ciò che spiega la costante imitazione in seno alla
giurisprudenza europea dei modelli epistemologici già accreditati altrove: nell’interpretatio del testo
giustinianeo i Glossatori imitarono le tecniche filologiche collaudate nell’esegesi biblica; i giuristi culti del
Cinquecento muteranno queste tecniche alla luce di quelle, filologicamente più corrette, adottate in campo
letterario dagli Umanisti; ancora, la diffusione del pensiero razionalistico in filosofia (opere di Cartesio), si
tradurrà in un nuovo modo di intendere la costruzione del giuridico; la demolizione Kantiana dei postulati
del Giusnaturalismo ebbe immediato riscontro nella rivoluzione metodologica di cui si fece banditore von
Savigny, la cui scuola storica mantenne lo studio della giurisprudenza dentro le linee di riferimento fornite
dalla grande filosofia tedesca del suo tempo. Ancora oggi è da osservare il modo pressoché naturale con cui
la dottrina tedesca dell’Ottocento scivolò dal vigoroso positivismo scientifico della prima metà, al
positivismo legislativo della seconda metà, che, quanto a metodo di costruzione giuridica era il suo esatto
opposto, ma presentava il vantaggio di riprodurre nel timbro e nel registro di analisi il metodo delle scienze
naturali allora catapultate al vertice del prestigio culturale.
In breve, la scienza del diritto europea si è quasi sempre dotata di un modello scientifico esterno ad essa e su
tale registro ha adeguato i propri metodo e stili di indagine.

L’apporto della Chiesa e del diritto canonico.


L’XI secolo è anche il secolo della riforma gregoriana della Chiesa cattolica. Questa coincidenza ha
suggerito di attribuire la rinascita del sentimento di legalità ed il sorgere dell’intera tradizione giuridica
occidentale all’opera della Chiesa; in realtà la sequenza delle vicende storiche lo smentiscono. Tuttavia è
vero che la Chiesa cattolica specie dopo la riforma gregoriana, fornì all’Europa il modello di una
organizzazione complessa che si regge in base al diritto: tutto il complesso edificio ecclesiastico doveva
essere regolato da norme e non dalla volontà degli uomini che impersonavano momentaneamente i vari
organi della Chiesa. In questo senso dunque l’esempio della Chiesa fu un catalizzatore di primaria
importanza delle spinte interne che si stavano sviluppando nella società medievale.
È anche vero che la Chiesa in quanto era l’unica istituzione del mondo antico che fosse sopravvissuta, aveva
conservato il più ampio bagaglio culturale allora disponibile; tuttavia l’apparato normativo della Chiesa era
caduto in un notevole stato di disordine e la sua riorganizzazione in forma sistematica fu attuata dopo la
rinascita del diritto romano e sulla scia dell’insegnamento bolognese, non prima di esso. La compilazione in
forma organica del materiale normativo della Chiesa fu opera di Graziano, la sua Concordantia discordatia
canonum (1140-1142) divenne la base del diritto canonico, rimasto in vigore sino all’emanazione del primo
Codex juris canonici nel 1917.
Nel corso dei secoli successivi il diritto canonico diede un buon apporto alla formazione dello jus commune:
in primo luogo il carattere universale dell’organizzazione ecclesiale garantì al diritto canonico, in quanto
diritto ufficiale della Chiesa di Roma, una rapida diffusione capillare, molto più rapida e più capillare di
quella che la lentezza dei processi di diffusione culturale potettero farantire al jus civile. Sicché in molte parti
d’Europa il diritto canonico spianò la via alla ricezione del jus vicile e non viceversa. In secondo luogo, sul
piano del contenuto sostanziale, il diritto della Chiesa si è organizzato attorno ad alcune idee-forza
consonanti con i precetti etici della teologia morale. Ciò comportava uno spostamento del punto focale verso

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gli aspetti spirituali della condotta umana, e quindi verso le sue radici psicologiche: si apprezzò il
giuridicamente rilevante, con conseguente valorizzazione di elementi quali la volontà psicologica, la buona
fede, l’errore innocente, la colpa. Sempre sul piano dei contenuti, la ricercata consonanza con i precetti etici
della teologia morale si tradusse in una serie di regole e principi di universale applicazione, poiché si
riteneva che contraddirli significasse rinnegare la morale cristiana (un esempio è la secolare lotta conto le
usure).
L’apporto maggiore del diritto canonico si ebbe però nella struttura del processo. In questo settore i
professori del diritto comune entravano di mala voglia, probabilmente ben consapevoli del fatto che
intromettersi in materia di giurisdizione avrebbe significato scontrarsi con i detentori del potere politico,
mettendo a nudo la loro scarsa legittimazione; la Chiesa invece non aveva le stesse esitazioni. La grande
battaglia per la legalità del processo fu combattuta dalla Chiesa in prima persona (un esempio è la lotta
contro le ordalie): il diritto canonico adottò uno schema rigido di procedimento costruito su un rigoroso
meccanismo logico e basato sugli atti scritti in modo da rendere possibile un controllo successivo, in sede di
appello, da parte di persone lontanissime dai luoghi del litigio. Il procedimento era disciplinato in forme
prefissate secondo una meccanica rigorosa, in cui si stabilivano “termini” per il passaggio da una fase a
quella successiva; si prevedeva ogni possibile questione, pregiudiziale, preliminare, probatoria, ecc, prima di
passare alla fase successiva. La gran parte delle categorie processuali di civil law (appello, litispendenza,
competenza, atto notorio, revocazione della sentenza) trova la sua radice in questo tipo di processo, il quale è
molto diverso da quello romano classico e anche da quello del common law. Quest’ultimo è un processo
costruito sull’assunto che bisogna nutrire fiducia nella ragionevolezza e nella imparzialità dei giudici. Il
processo romano-canonico prevedeva che la procedura doveva sostanziarsi in atti scritti ed il giudizio
verteva su quanto risultava dagli atti del processo, con esclusione di qualsiasi altra fonte.
Questo tipo di processo, in cui si trovano fuse la passione logico-razionale della scientia juris medievale ed il
pessimismo della Chiesa, divenne il processo romano-canonico comune in Europa continentale, veicolo e
tramite della diffusione dello jus commune.

Carattere unitario del jus commune e della scientia juris europea nei secoli XIV-XVIII.
In che modo il jus comune fu unitario, o meglio in che modo contribuì ad una sintesi unitaria del materiale
giuridico che si era formato nelle varie zone di Europa?
Nonostante le diversità di metodo e di stile che colorivano della propria tonalità le diverse aree culturali, il
diritto romano comune, così come veniva insegnato e trasformato nelle università e nei tribunali, rimase una
tradizione culturale transnazionale e sostanzialmente unitaria. Accanto a questa tradizione culturale,
continuarono ad esistere isole, anche assai estese, di diritto puramente locale disuniforme, come, ad esempio,
accadde nel caso dei diritti territoriali tedeschi, nelle coutumes francesi e nei diritti consuetudinari dei
cantoni svizzeri. Queste isole di diritto positivo locale erano tali non tanto perché venivano considerare come
diritti eccezionali, ma perché al loro interno le grandi categorie ordinanti il diritto comune operarono una
metamorfosi delle idee originarie mediante una rete di concetti classificatori in cui le visioni popolari e
consuetudinarie smarrirono la propria compattezza di significato. Uno dei veicoli di questo lavorio di
trasformazione derivò dal ricorso nei testi e documenti scritti della lingua latina, nella quale le terminologie
giuridiche locali si origine germanistica, veniva tradotte. Questo ha generato una serie di fraintendimenti,
frutto di una ibridazione, ossia dell’insinuarsi grazie alle parole latine delle categorie romanistiche
corrispondenti nel tessuto di regole ed istituti che ad esse erano estranei. La traduzione dei termini “Gewere”
e “saisine” con la parola possessio è un buon esempio di questo processo di metamorfosi indiretta dei diritti
locali.
Solo il diritto romano sembrava degno di uno sforzo di chiarificazione e di sistemazione scientifica; gli altri
diritti positivi erano tutt’al più oggetto di esposizioni, raccolte, senza che si potesse formare una letteratura
giuridica dotata della sufficiente massa critica.
Le tassonomie tecniche mediante le quali la scientia juris organizzava se stessa divennero categorie
universali all’interno dello spazio culturale europeo continentale. Tuttavia si deve ricordare come sino alla
rivoluzione industriale la maggior parte della popolazione europea sia rimasta immersa nella civiltà rurale,
queste comunità si autoamministravano secondo regole, istituzioni e procedure che sfuggivano al controllo
del diritto colto e dal controllo statale. Esse emergevano come soggetti della vita e dell’organizzazione del
diritto in occasioni eccezionali, come ad esempio per liti tra comunità o contrapposizione tra comunità ed
istituzioni, ma l’organizzazione politica non entrava nella loro vita quotidiana; la rivoluzione industriale
porrà poco a poco fine a queste civiltà rurali.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La tradizione della scientia iuris crebbe come tradizione culturale cittadine e delle élites, le quali
comunicavano tra loro e sentivano l’esigenza di mantenere vivi i contatti intellettuali proprio perché si
sentivano partecipi di una civiltà comune contrapposta all’altra che le circondava nelle loro isole cittadine.

Il Giusnaturalismo.
Nei secoli XVII e XVIII accanto alla scientia juris si collocò un’altra corrente culturale che riuscì ad
abbracciare tutta l’Europa esercitando una profonda influenza anche in Inghilterra e, successivamente, negli
Stati Uniti.
In questo periodo infatti la Seconda Scolastica prima, e la Scuola del diritto naturale poi, fornirono un
movimento ideale cosmopolita che si interessò essenzialmente del fondamento etico delle regole giuridiche. I
fattori di questi movimenti furono vari e occorre richiamare l’attenzione su due in particolare di essi: in
primo luogo occorre sottolineare che l’autorità del Corpus Juris era destinata a scemare con il trascorrere del
tempo. L’accumularsi dei prodotti di una interpretazione del testo giustinianeo così libera come quella dei
giuristi medievali e moderni non poteva non contribuire a corrodere l’autorevolezza del testo originario. A
questo fenomeno di corrosione si aggiungeva l’influenza di altre traiettorie culturali. Il rinascimento aveva
consentito di mettere meglio a fuoco le basi teoriche dello Stato moderno e sebbene sul piano operazionale
queste basi teoriche fossero assai lontane dal trovare salda realizzazione in strutture politiche vigenti, tuttavia
era facile intuire come tra i corollari delle teorie politiche di Machiavelli, Jean Bodin e di Hobbes vi fosse
quello per cui l’autorità di fondare i diritti ed i doveri dei cittadini non potesse essere riconosciuta ad un
antico imperatore romano d’oriente vissuto in tempo ormai remoti, ma alla volontà di sovrani attuali, ovvero
ad entità politiche che fossero nella pienezza dell’esercizio dei loro poteri. Per sfuggire agli inevitabili
corollari di questa concezione era necessario rifondare la categoria universale della giustizia sulla base di
un’etica comune anziché sulla base di una autorità comunemente riconosciuta. La teoria diffusa in Francia
per cui il diritto romano vi veniva ammesso imperio rationis e non ratione imperii, ossia per la sua razionalità
intrinseca e non in quanto espressione dell’autorità riconoscibile al diritto dell’Impero romano, conteneva già
il suggerimento essenziale.
Il merito di avere dimostrato come ciò fosse possibile va riconosciuto alla Seconda Scolastica che fiorì in
Spagna nel XVI secolo, annoverando una serie di teologi-giuristi. La ricerca da essi condotta portò a
riorganizzare il materiale romanistico in funzione delle categorie aristoteliche della giustizia.
Il repertorio fornito dagli autori della Seconda Scolastica fornì la base per ulteriori sviluppi. Questi si ebbero
con la Scuola del diritto naturale, che gli anglosassoni dominano come “secular”, ossia laica, per distinguerla
dalle altre scuole di pensiero, e che in altri contesti culturali europei si è usi denominare Giusrazionalismo.
Il secondo dato su cui giova richiamare l’attenzione è fornito dalle vicende storiche dell’Europa continentale.
Il XVII secolo fu in Europa un secolo di lotte scaturite dall’aspro confronto tra riforma protestante e
controriforma cattolica. In questo contesto se si voleva mantenere aperto il dialogo con entrambe le fazioni in
lotta, non era più possibile appellarsi ad un’etica cristiana comune per fondare le ragioni del diritto, dato che,
era proprio la scissione circa il modo di intendere la morale cristiana la causa dei conflitti endemici e delle
guerre brutali quanto di lunghissima durata (guerra di 30 anni). In un periodo ferrigno dominato da guerre
pestilenze e superstizioni, se si voleva preservare uno spazio per i diritti e le regole occorreva fondare la
religione su una morale non legata alla teologia. Questa fondazione fu il merito di Ugo Grozio (1583-1645),
il quale scelse di ancorare le regole di diritto al riconoscimento della razionalità intrinseca negli esseri umani.
In tal modo operò una saldatura tra la visione umanistica che aveva posto l’uomo al centro della vita sociale
ed il razionalismo gnoseologico (gnoseologia: teoria della conoscenza) comune all’atteggiamento scientifico
di Galileo ed all’intelletto sistematizzatore di Cartesio.
Elaborando il suo sistema di regole valide tra gli uomini e le nazioni sia in tempo di guerra che in tempo di
pace, Grozio poté scrivere che quanto da lui dimostrato sarebbe rimasto valido anche se si fosse asserita
l’inesistenza di Dio. Il sistema da lui elaborato era un diritto di ragione laicamente autosufficiente; la
peculiarità del movimento risiede nella sua emancipazione dalla teologia morale e dal suo porsi come
deificatore di un’etica sociale autonoma della visione religiosa, fondata invece su una analisi sostanzialmente
antropologica della condizione dell’uomo occidentale.
L’opera maggiore di Grozio (De juri belli ac pacis, 1625) fu dedicata ad esplorare le regole che dovevano
applicarsi nei conflitti di interessi tra nazioni, sicché Grozio è divenuto il padre del diritto internazionale
moderno. La sua impostazione si prestava ad essere utilizzata anche per chiarire come avrebbe dovuto essere
un sistema giuridico rispettoso dei postulati della giustizia naturale. L’interesse principale degli autori della
Scuola del diritto naturale rimase confinato ai fondamenti primi del loro discorso, ossia ai postulati

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

principali; secondo Grozio il punto di partenza essenziale deve essere rintracciato nel dato per cui l’uomo è
naturalmente portato ad organizzare i propri rapporti sociali. È questo che lo spinge ad uscire dallo stato di
natura per entrare in rapporti civili. L’appetitus societatis distingue l’uomo dalle altre creature ed è quindi ciò
che caratterizza la sua natura.
Il problema di fondo verso il quale le energie intellettuali della scuola vennero indirizzate rimase il rapporto
tra diritto naturale e diritto positivo vigente. Ciò che mirava a scoprire l’analisi dei Giusrazionalisti erano le
ragioni fondamentali dell’esistenza delle regole e degli istituti giuridici vigenti.
La Scuola del diritto naturale reintrodusse tra i temi ed i problemi del dibattito politico e filosofico le eterne
domande attorno al che cos’è una società giusta ed al tipo di sistema giuridico che deve vigervi. Con questo
il diritto tornò ad essere pensato nel contesto della filosofia morale. In questo senso il Giusrazionalismo
contribuì a riorientare la coscienza europea.
La Scuola del diritto naturale diffuse l’idea dell’esistenza di un discorso razionalmente riconoscibile e
razionalmente valutabile in ogni condotta socialmente rilavante, sicché implicitamente, la ricerca andava
accumulando strumenti logici mediante i quali regole ed istituti di diritto positivo potevano essere
razionalmente criticati e squalificati avanti il tribunale della ragione.
Grozio fu incline ad intessere i suoi argomenti appoggiandosi alle idee teologiche ed umanistiche
generalmente accettate al suo tempo, le generazioni successive furono invece attratte dal metodo geometrico
inaugurato da Hobbes, più incline all’uso dell’argomento esclusivamente logico-deduttivo. Tale metodo
partiva da postulati assai diversi da quelli di Grozio, tanto che è spesso considerato come uno dei fondatori
intellettuali del positivismo giuridico e non come un membro della scuola del diritto naturale.
I sistemi del diritto razionale elaborati dai Giusrazionalisti sconvolsero l’architettura del sistema di
riferimento sino ad allora usato dai giuristi tecnici in quanto i punti di partenza erano quanto mai difformi.
Sino a Grozio i giuristi si erano trovati a loro agio seguendo la sistematica delle Istitutiones giustinianee,
tuttavia questa naturalità “non autentica” non poteva coincidere con il sistema del diritto naturale pensato
come geometrico. Quest’ultimo muoveva da alcuni postulati primi e da essi traeva mediante un processo di
pura deduzione logica le regole conseguenti. Solo ad un livello di maggiore dettaglio i sistemi del diritto
naturale reincontravano e reinserivano nel loro contesto le regole e le categorie di origine romanistica
elaborate dalle diverse scuole. L’esposizione sistematica delle regole del diritto non era più solo un problema
collegato alla leggibilità del sistema giuridico inteso come un insieme tendenzialmente coerente; era invero
qualcosa di più, ossia la garanzia della legittimità razionale della regola stessa.
La sistematica giusrazionalista ed il suo carattere innovativo rispetto a quella romanistica tradizionale,
offrirono un modello di rilevanza capitale al successivo movimento per la codificazione del diritto. Inoltre,
affascinò le menti riformatrici il fatto che l’impianto sistematico dei Giusrazionalisti fosse percepibile come
sviluppo logicamente coerente di princìpi assiologici (valori morali) collocati sul terreno della filosofia
morale e della teoria politica. Poiché tali principi erano comprensibili anche a coloro che non fossero tecnici
del diritto, si creò l’impressione che dominando tali principi fosse possibile svolgerli coerentemente sino a
governare le più minute fattispecie del diritto civile scavalcando di colpo tutta la casistica su cui insistevano
tanto le prassi discorsive pratiche dei giuristi.
Vero è che l’insegnamento dei Giusrazionalisti non si presentava per nulla compatto, poiché i postulati
assunti in partenza si prestavano ad essere svolti in varie direzioni. Rilevante è che attraverso le inevitabili
dispute suscitate da svolgimenti assai divergenti, venne reintrodotto sul terreno del diritto e della legalità il
pensiero critico emarginato e quasi cancellato dallo svolgimento della tradizione tecnico-giuridica in forme
sempre più autoritative.
Al di là di questo è da sottolineare come, sotto il profilo istituzionale, il pensiero giusrazionalista contribuì
potentemente ad elevare il sentimento del diritto soggettivo da componente dello spirito signorile a centro
della costruzione dogmatica della scientia juris, nonché a centro della scala dei valori in cui si riconosce la
civiltà giuridica europea. Il modello fornito dalla Scuola del diritto naturale ebbe enorme rilevanza. In realtà
la sistematica giusnaturalista influì in modo determinante sul modo di pensare il diritto in tutta la tradizione
giuridica occidentale. In generale la configurazione di molti istituti cardinali del diritto civile venne
profondamente alterata dagli insegnamenti giusnaturalistici.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La crisi del diritto comune.


La grande scuola del diritto naturale ebbe qualche seguace tra i giuristi operativi (Blackstone in Inghilterra,
Domat e Pothier in Francia, Wolff e Thomasium in Germania e Liebniz), ma mentre in Inghilterra gli
avvocati apprezzarono l’opera di Blackstone considerandola una promozione della loro tecnica giuridica, in
Europa continentale i forensi si mantennero fedeli al principio di autorità propria della loro tradizione legale
e sospettosamente discosti dal criticismo giusrazionalistico. Ciò fu una delle cause del fatto che il XVIII
secolo fu l’epoca della grande crisi del diritto comune. La crisi fu duplice: fu crisi di legittimità e crisi di
funzionamento.
La crisi del funzionamento degli apparati di giustizia fu la prima ad essere percepita: nel XVII secolo gli
apparati di giustizia erano le conseguenze delle riforme del XVI secolo quando i giuristi furono arruolati dai
sovrani per riformare ed accentrare l’amministrazione degli Stati in funzione antifeudale. Con il trascorrere
del tempo tuttavia quei giuristi che in teoria erano funzionari regi acquisirono una marcata indipendenza dal
sovrano ed anzi finirono con il contrastarne continuamente l’azione (esempio francese, esempio del Regno di
Napoli).
Quando i giudici del re divengono gli antagonisti politici del partito regio in nome del primato della legalità,
devono scegliere bene quale legalità intendono difendere. In Europa continentale i giudici difesero una
legalità che si incarnava solo nel rispetto della tradizione, la quale comprendeva anche i loro privilegi. Nello
scegliere la legalità furono selettivi: ciò che per loro era tradizione erano solo gli usi del foro, il che
comprendeva anche gli usi amministratici dello Stato. Non comprendeva invece la tradizione culturale di
civil law, la quale aveva sempre considerato il giurista come un sapiente; tuttavia nei secoli XVII e XVIII i
giuristi avevano cessato di apparire come sapienti, in quanto conoscevano bene solo il diritto applicato dai
Tribunali. La sapienza giuridica in senso genuinamente culturale era emigrata altrove, nelle opere della
scuola del diritto naturale, punto di riferimento obbligato per tutti i dotti d’Europa.
In tale contesto vi era ancora la possibilità di evitare una situazione di crisi gestendo nel migliore modo
possibile l’apparato di giustizia ed in genere l’apparato amministrativo dello Stato. Tale possibilità tuttavia
era ridotta in partenza. Anzitutto la procedura in uso stava scivolando verso durate lunghissime dei processi:
qualsiasi questione venga sollevata durante un processo, anche la più infondata, è sicuramente tale solo dopo
che è stata giudicata e respinta, ma poiché il giudicare comporta un tempo di riflessione adeguato, gli
incidenti possono essere moltiplicati ad arte in misura quasi infinita se non sono tenuti a freno da un giudice
che abbia a cuore l’interesse generale. Ma proprio questo faceva difetto in un ambiente che affidava le sorti
della propria legittimità solo al rispetto dell’usus fori.
In secondo luogo le funzioni amministrative demandate alle corti richiedevano un aggiornamento delle
tecniche di amministrazione, ossia un aggancio con le proposte culturalmente avanzate delle scienze
economiche ed amministrative. Tuttavia i cambiamenti avrebbero corroso le basi di legittimazione dei
forensi i quali perciò erano più che restii ad adottarli.
Nel campo della giustizia penale il naufragio era assicurato dalla ritrosia sempre manifestata della scientia
iuris europea continentale ad invadere un campo che per natura è, il più politico tra quelli giuridici. Venivano
qui al pettine i nodi accumulati da una tradizione che subendo il fardello iniziale un pesante handicap di
legittimazione non aveva osato contraddire i desideri del principe.
Di fronte ad un sistema di repressione penale che contraddiceva nel modo più atroce ai postulati diritti
naturali dell’uomo, risultò essenziale per il prestigio dei forensi la rottura consumatasi tra la tradizione
giuridico tecnica e la cultura generale del loro tempo. La polemica contro l’uso della tortura negli
interrogatori dei sospetti, contro i cosiddetti crimini di magia ed i processi alle cosiddette streghe e le tante
altre autentiche nefandezze della repressione penale fu monopolio dei giuristi dotti, quei giuristi della
cattedra che echeggiavano la cultura del loro tempo e cominciarono a pensare anche al diritto criminale in
termini di sistema basato su principi eticamente giustificabili.
Questo insieme di fattori espose i forensi a critiche micidiali, tuttavia prese singolarmente, tutte le accuse
rivolte alla giurisprudenza dell’ultima fase del diritto comune possono essere rifiutabili e soprattutto infantili.
Tuttavia si trattò di critiche demolitorie: la debolezza della posizione pubblica dei forensi indusse a prestar
fede a tesi radicali.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

L’ideologia della legislazione.


La giurisprudenza delle corti dell’antico regime era raffinata ed accorta che sapeva ben decidere secondo
ragione. Nonostante il riferimento al criterio del precedente giudiziale per salvaguardare la certezza del
diritto, i giudici dei grandi tribunali sapevano mantenere aperti i canai di comunicazione con le altre corti
conservando quel sentimento di unità del diritto europeo fondato su una tradizione comune.
Questi meriti non furono sufficienti a salvare la continuità del sistema, rimanendo lo squilibrio fondamentale
di una tradizione sapienziale che non si dimostrava più disposta ad apprendere, e ripeteva, pur
perfezionandoli, nel ‘700 gli schemi di gestione e di azione che erano stati messi a punto nel ‘500.
I riformatori, in luogo di corti dotate di vaste competenze amministrative, ma inette ad utilizzare le idee
innovative dell’economia politica, volevano che il potere tornasse alla amministrazione governativa, la quale
stava reclutando i propri funzionari tra le persone più aperte alle idee nuove anche al fine di superare gli
ostacoli che le corte giudiziarie frapponevano alla introduzione di nuove imposte e nuove fonti di reddito per
il governo.
Sulla via della polemica anti giurista, era facile trasmodare nella polemica antilegalistica sul presupposto che
i sistemi proposti dalle scuole del diritto naturale fossero più razionali, semplici e coerenti di quelli che
racchiudevano il patrimonio tecnico e culturale della giurisprudenza forense. Sorse così la credenza alquanto
ingenua che sistemi di origine filosofica, dogmaticamente coerenti con i postulati giusnaturalistici, fossero
più aderenti ai bisogni della prassi degli affari di quanto non fosse la casistica giurisprudenziale. Alcune
riforme infatti erano effettivamente necessarie e benefiche, ed il processo penale meritava di essere rivisitato
da cima a fondo, gli apparati burocratici pubblici richiedevano una ristrutturazione profonda, ma tutte queste
riforme non erano di per sé incompatibili con il diritto civile comune. L’incompatibilità si collocò sul piano
delle ideologie professate dai forensi che li condusse a schierarsi dalla parte sbagliata ed ad avversare ogni e
qualsiasi riforma, ma soprattutto li rese diffidenti verso i profondi desideri che animavano il pensiero
illuministico.
Vi era quindi negli spiriti innovatori quasi un presagio della rivoluzione industriale che stava per travolgere il
vecchio ordine delle cose, e questo sentimento li spingeva ad apprezzare tutte le risorse della tecnica, tutti gli
avanzamenti del sapere scientifico.
Gli illuministi considerarono ogni conquista della tecnica come la dimostrazione di ciò che la ragione umana
poteva ottenere quando si applicava ai problemi ed erano convinti dei vantaggi che potevano ritrarsi da
questo metodo, che si proposero di apparecchiare l’organizzazione sociale prendendo a modello di
riferimento quella tecniche della meccanica che era ai suoi promettenti esordi.
Il pensiero illuministico predispose un ordinamento in cui gli sconvolgenti mutamenti della civiltà materiale
prodotti dalla prima rivoluzione industriale potessero accomodarsi quasi naturalmente senza richiedere
affannosi aggiornamenti delle strutture della società civile. Vi era però in questa visione anche l’immagine
orrenda del giudice come automa inanimato capace solo di ripetere le parole della legge senza poterne
temperare la forza ed il rigore. Si trattava di credere che un meccanismo razionalmente predisposto potesse
dominare la vita sociale guidandola verso immancabili esiti felici, senza bisogno di ascoltare le ragioni dei
cittadini, senza necessità alcuna di rispettare le loro tradizioni ed abitudini. Questo era nocivo perché le
tradizioni e le abitudini erano evidentemente impregnate da quei pregiudizi oscurantistici che l’età dei lumi
voleva bandire per sempre. Da qui quindi l’immagine della tabula rasa, del terreno perfettamente disboscato
su cui l’umanità giunta all’età della ragione doveva costruire il suo habitat sociale disconoscendo qualsiasi
valore nel sapere.
L’attuazione di un simile programma, sia il disboscamento, sia l’emanazione di leggi del tutto nuove,
richiedeva ovviamente l’intervento del potere politico, ossia del principe (illuminato).
Posto quindi su questo piano, il disegno illuministico conduceva ad un drammatico rafforzamento dei poteri
dei sovrani, ai quali veniva affidato un compito al cui svolgimento si era sino ad allora sentito impreparato,
ovvero quello di dettare le leggi civili, destinate a determinare l’assetto dei rapporti sociali basilari (famiglia,
successioni, circolazione della ricchezza e dei beni, rapporti di collaborazione).

Le codificazioni illuministiche.
Non tutti i sovrani accolsero l’invito, altri, ad esempio in area tedesca sovrani energici come Federico II in
Prussia e Maria Teresa nei dominii austriaci si misero risolutamente sulla via di complete riforme
progettando codificazioni di diritto civile. In altri Paesi la maggior complessità dell’articolazione sociale
distolse invece i sovrani da un simile compito.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Laddove ci si accinse a realizzare il programma di fare leggi del tutto nuove che concernessero anche i
rapporti molecolari tra individui, ci si avvide che i programmi filosofici non erano sufficientemente
dettagliati e si fu costretti ad attingere dall’insieme di sapienza giuridica del foro ed alle regole locali, e al
riguardo ciascuno fece quello che poteva pervenendo ad adottare soluzioni compromissorie le quali avevano
l’unico scopo di superare gli ostacoli che si frappongono casualmente al varo della codificazione.
Le prime codificazioni offrirono l’esempio di codici diversissimi tra loro sia nelle strutture, che nello stile
linguistico, che nelle soluzioni giuridiche capitali. Queste codificazioni sotto il profilo del loro contenuto
tecnico giuridico risultarono il punto di incontro tra la volontà politica riformatrice e le categorie ordinanti, i
presupposti concettuali della scientia juris europea, senza la cui conoscenza sono del tutto illeggibili; essi
agirono selettivamente e stabilirono un proprio lessico nazionale e, mentre livellarono le differenze
all’interno di ciascun paese, cancellando tutti i localismi, istituirono una novità assoluta per l’Europa, ossia
un linguaggio giuridico nazionale. Ciascuno edificò il proprio sistema adottandolo alle necessità specifiche
del paese e questi sistema-paesi divennero i diritti nazionali.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

CAPITOLO SETTIMO - IL MODELLO FRANCESE

Il modello francese in prospettiva storica.


Il modello francese ha trovato la sua compiuta espressione nel tempo della rivoluzione e dell’impero
napoleonico. Quel sistema merita il nome di “modello”, essendo stato recepito come tale in numerosi paesi
fuori dalla Francia. I principali elementi costitutivi di questo modello erano: il primato della legge come
fonte del diritto; il ricorso al codice come forma principe di legislazione (all’interno di tale forma la
preminenza è del Code civil, in quanto espressione della forma di “codice” e luogo in cui si esprime la
costituzione materiale della nazione); l’organizzazione piramidale delle coorti, con al vertice la Cassazione;
la separazione tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa.
Questi risultati sono stati il frutto di una lunga esperienza storica, la quale non costituisce solo il retroterra
esplicativo di vicende ancora produttive di effetti ai nostri giorni, ma è anche strumento intellettuale
necessario per distinguere ciò che in quel modello ha potuto circolare per imitazione in altri paesi e ciò che
invece è risultato irripetibile in altri ambienti. La storia ci permette di capire la forte discrasia tra il modello
originario applicato in Francia ed il modello recepito in esperienze giuridiche che lo hanno imitato, ma non
lo hanno potuto riprodurre nella sua interezza. La ragione essenziale della discrasia è che nelle altre
esperienze giuridiche il modello francese ha avuto un impatto spesso profondo, ma resistito, dalla persistenza
di mentalità giuridiche radicate in “altre” storie. Alcuni dati della storia “generale”: a differenza dell’impero
tedesco, lo Stato francese nacque da un nucleo centrale piuttosto ristretto. La condizione in cui si trovava il
regno di Francia era quella di accentuato particolarismo feudale derivato dal frantumarsi dell’impero
carolingio. La stessa idea di Francia era assente che le impressionanti diversità esistenti impedivano di
pensare alla Francia coma ad una unità. L’unità della Francia è stata una idea indotta dall’assorbimento
linguistico, culturale ed istituzionale di un territorio in uno stato e non già un’idea preesistente ad esso.
Sotto il profilo politico, il principio ereditario ed una serie di sovrani, fecero si che ogni allargamento
territoriale corrispondesse ad un effettivo ampliamento dei poteri regi. Questo processo di aggregazione del
territorio sotto una monarchia ereditaria la quale identificava le sue fortune con quelle dello Stato nazionale,
conobbe vicende alterne, ma fu caratterizzato da una notevole continuità di strategia politica.

Stato, ordine e legge nella tradizione francese.


Attraverso queste alterne vicende potette però precisarsi un quadro di riferimento costante nel quale un
ampliamento dei poteri regi comportava alcune conseguenze negative, prima tra tutte l’imposizione fiscale.
Al contrario, ogni assottigliamento del medesimo potere si accoppiava inevitabilmente ad un periodo di
disordine, di guerre, scorrerie e brigantaggio (guerra dei cento anni con Inghilterra, lotte di religione tra
cattolici ed ugonotti, guerra dei tre Enrichi, tempo della Fronda). L’andamento di cicli storici così conformi
nel loro schema di fondo ebbe a suggerire un riflesso mediante il quale schiere di cittadini ebbero a formarsi
il convincimento che i momenti in cui regnava un Re forte all’interno, erano epoche di sicurezza, crescita
economica, gloria militare raccolta su campi di battaglia esterni; ai momenti di contestazione interna
dell’autorità regia, di frattura, o indebolimento dell’unità politica dello Stato, corrispondevano invece tempi
calamitosi contrassegnati da regresso socio-economici e dall’intervento di potenze straniere nelle cose di
Francia.
Nel tentativo di riorganizzare lo Stato in forme tali da tener a freno l’autonomia dei grandi feudatari, i
sovrani Francesi del XVI secolo ebbero in effetti l’idea di sfruttare le capacità razionalizzatrici dei giuristi,
che furono chiamati a comporre quelle corti di giustizia e di amministrazione che già esistevano in varie parti
del Regno: i Parlements. Quello di Parigi, di Toulouse, di Bordeaux e di Provence, non erano altro che le
antiche curiae regis, ed il disegno dei sovrani i quali chiamarono a comporre i Parlements tecnici del diritto
era quello di provarli della loro funzione di rappresentanza degli interessi delle comunità e dei grandi del
reame, per ricondurli alla sola funzione giurisdizionale amministrativa. Tra 1515 e 1775 furono creati 8
Parlements, parte integrande dell’apparato amministrativo del regno.
Occorre ricordare come il XVI secolo fu caratterizzato dall’apogeo della scuola francese dei culti. La
fioritura di talenti giuridici associata a tale scuola elevò notevolmente il livello della cultura giuridica
francese. I sovrani quindi poterono attingere a giuristi formatesi in scuole di diritto di alto livello, ponendoli
a servizio dello Stato. Questo reclutamento contribuì a formare un ceto sociale stabile, denominato “noblesse
de robe”, nobiltà di toga, in contrapposizione alla nobiltà feudale, la quale svolgendo il suo servizio
nell’esercito fu denominata “noblesse d’epée”, nobiltà di spada.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La nobiltà di toga riuscì a sfuggire al controllo del sovrano, sino a contrapporsi vivacemente ad esso; essa
nacque come corpo di funzionari ai quali doveva essere demandato l’applicazione del diritto secondo quei
canoni di logica ermeneutica che avrebbero dovuto impedire agli interpreti di manifestare una volontà
politica loro propria, lasciando così che la sfera di discrezionalità politica fosse dominata dalla sola volontà
del sovrano. I giuristi quindi vennero arruolati al servizio dello Stato seguendo coerentemente con un
disegno di accentramento del potere statuale e facendo assegnamento sulle promesse della scientia juris di
riuscire ad individuare un percorso di deduzione dei precetti concreti alle norme astratte secondo pura logica
deduttiva, assicurando l’esatta corrispondenza dei primi alle seconde.
È da ricordare anche come la medesima politica accentratrice introdusse i sovrani francesi ad assumere
l’iniziativa della codificazione delle coutumes.
Per quanto concerneva il diritto civile comune il regno di Francia si trovava diviso in due grandi aree, in una,
geograficamente coincidente con la zona posta a nord tra Ginevra e Bordeaux, vigevano consuetudini locali
di origine germanica, nell’altra, geograficamente posta a sud, era riconosciuto come diritto vigente il diritto
romano comune, in quanto erede del diritto promulgato nella Lex romana Wisigothorum e della Lex romana
Burgundiorum.
La presenza delle coutumes si collegava all’idea tipicamente medievale per cui ciascuno aveva diritto a
vivere secondo la propria legge; tale idea venne incrinata dall’Ordonnance di Montil-lez-Tours del 1454 con
cui Carlo VII dichiarava si voler procedere alla redazione scritta delle coutumes locali degli usi e egli stili
processuali vigenti. Redigere per iscritto le consuetudini significava qualcosa di più di una semplice attività
di accertamento ricognitivo, perché l’iniziativa regia manifestava l’idea che spettasse al sovrano controllare
le fonti del diritto, ed eventualmente introdurvi le precisazioni e le modifiche ritenute necessarie prima di
promulgarle in forma di decreto. Il risultato del processo di redazione delle coutumes fu quello di favorire
l’unificazione dei paesi di diritto consuetudinario e non già quello di contribuire ad un rafforzamento del
potere centrale. Si venne così formando la coscienza dell’esistenza di un droit commun coutumier da opporre
al diritto romano comune, di cui i parlamenti divennero custodi.
Per quanto concerne la struttura delle fonti, il sistema francese dei secoli XVII e XVIII si avvicinò in modo
significativo al sistema inglese. Con l’avvento al trono della casa Borbone, il potere regio mutò strategia.
Enrico IV e il suo ministro Sully affidarono le sorti dell’accentramento monarchico ad un corpo di funzionari
regi, i quali, a differenza dei giuristi parlamentari, non venivano in genere nobilitati, e non acquistavano la
proprietà della propria carica. I funzionari di nuovo tipo non solo potevano essere quindi licenziati in ogni
momento dal loro superiore gerarchico, ma, compiuto il loro servizio, andavano in pensione. Con questo
nuovo personale gli uffici erano strutturati in forma di piramide gerarchica con un vertice rappresentato da
un ministro sempre responsabile delle attività del suo dicastero di fronte al sovrano, ed una base di funzionari
addetti a funzioni particellari in seno agli uffici centrali, sia distaccati nelle provincie e posti in continua
corrispondenza con il vertice dal quale ricevevano istruzioni ed al quale fornivano informazioni circa la
situazione locale. Il periodo del Re Sole (Luigi XIV) fu l’apogeo di questa nuova politica regia, che trovò
esplicazione anche nel campo della legislazione. Le Ordonnances di Louis XIV riformarono la procedura
civile (Ordonnance sul la procédure civile, 1667-1669), la disciplina dei commerci (Ordonnance du
commerce, 1673), e riordinarono la materia della navigazione marittima (Ordonnance de la marine, 1681). Il
cancelliere D’Augusseau curò poi altre ordinanze nelle quali si istituì in forma legislativa la disciplina delle
donazioni (1731), dei testamenti (1735) e delle sostituzioni fedecommissorie (1747).

Fratture e continuità nel momento rivoluzionario.


Le tendenze seguite dalla monarchia francese all’epoca dei Borboni, non riuscirono ad esplicarsi appieno
perché nell’ultima fase dell’ancien regime (regni di Luigi XV e di Luigi XVI), la monarchia francese ebbe
timore di allearsi con i ceti emergenti e con gli intellettuali che ne avevano assunto la guida ideologica,
spaventata, dalla libertà critica e dalla irreligiosità di questi ultimi le quali minacciavano di corrodere la
sacralità del trono. Da qui una innaturale alleanza tra il trono e la nobiltà feudale ed una tollerante
indecisione verso la riottosità dei parlamenti, i quali ormai esprimevano gli interessi contrati ad una
modernizzazione istituzionale del paese.
Ciò non creò poca frustrazione nei ceti borghesi, riuniti nel terzo stato, i quali erano abituati a sentirsi
partecipi dell’organizzazione statuale più moderna ed efficiente d’Europa e che si sentirono risospinti dalle
indecisioni della monarchia. Tale sentimento per cui la borghesia francese avvertiva se stessa come il ceto
più avanzato del mondo, diede esca infine ad un’ansia di rinnovamento totale.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La Rivoluzione francese è stata uno degli accadimenti più complessi della storia moderna. Richiamiamo
l’attenzione su alcuni fattori: in primo luogo la radicalità impressa alle riforme del movimento rivoluzionario
contribuì efficacemente a dotare il modello francese di una compattezza difficilmente attingibile altrimenti;
in secondo luogo la Rivoluzione francese si presentò come movimento politico di rifondazione dello Stato
sulla base di valori universali: l’uguaglianza formale di tutti avanti alla legge si dovette alla Rivoluzione.
Questo radicarsi del valore dell’uguaglianza ha immediate ricadute a livello di visione costituzionale, in
quanto si traduce nel primato della legge tutte le volte che entrano in gioco i diritti fondamentali (art. 4
Déclaration). In terzo luogo i valori universali racchiusi nella Déclaration des droits de l’homme et du
citoyen, approvata dall’assemblea costituente del regno di Francia il 26 agosto 1789, dovettero convivere con
una visione delle strutture del politico profondamente condizionate dalle esperienze pregresse: nella
Déclaration non si trova una lista di tutte le istituzioni di cui ha bisogno il cittadino di uno Stato liberal-
democratico; piuttosto essa pone in forma accentuatamente didascalica i fondamenti di un nuovo modo di
concepire lo Stato e la cittadinanza.
Rimasero insoluti, o meglio aperti a varie soluzioni, i problemi capitali che concernono il problema della
tutela e, poi, della effettività dei diritti fondamentali che la stessa Déclaration des droits formula in modo
schiettamente individuale.

Il nuovo ordine.
Il nuovo ordine muoveva da una visione del duplice rapporto tra governanti e governati e tra governati tra
loro. nella Francia del tempo, si dovette ripensare al rapporto tra Stato e società civile ed i rapporti interni
alla società civile.
Sotto il primo aspetto, ci si era resi conto come lo strumento più efficace per modernizzare l’amministrazione
della cosa pubblica ed unificare le strutture amministrative del paese non ricalcasse affatto la via della
legalità del diritto comune affidata alla custodia dei giuristi. Questa via si era palesata alla lunga come
fallimentare. Lo strumento più efficace si era dimostrato invece l’apparato burocratico centralizzato,
vincolato a procedere secondo modelli di azione prestabili dal vertice, dotato verso l’esterno di una vasta
discrezionalità, grazie alla quale poteva reagire con prontezza e flessibilità alle diverse circostanze.
Fu la giurisprudenza del Conseil d’État (poiché nessun governo ci pensò), a creare le figure giuridiche adatte
a limitare la discrezionalità dell’amministrazione riportandola in pieno nel solco del principio di legalità.
Tuttavia il baratro tra diritto comune e diritto amministrativo pubblico fu incolmabile. Il risultato operativo
era che si abbandonava un vasto settore di diritto, quello amministrativo, ad una legalità attenuata in nome
dell’efficienza.
In riferimento ai rapporti interni alla società civile ci si orientò non solo verso criteri di legalità, ma si volle
essere del tutto coerenti, secondo la richiesta che proveniva dal terzo stato. L’idea della sovranità della
nazione comportava che le fonti della legalità dovessero essere riordinate, riconducendole alla legge, in
quanto solo quest’ultima è lo strumento di espressione della volontà della nazione. Il diritto comune, le
consuetudini, le fonti dottrinali e giurisprudenziali, gli statuti locali, dovevano essere aboliti in quanto
incompatibili con il nuovo ordine costituzionale (Loi 30 ventoso anno XII: insieme delle leggi con cui furono
emanate le diverse parti del Code Civil). La drastica semplificazione del sistema delle fonti era funzionale
anche al progetto di ridisegnare in forme più semplici i diritti di cui godevano i cittadini per muoversi
secondo le regole del gioco.

La codificazione.
Il nuovo ordine esigeva di essere completato mediante una legislazione sostanziale. Sin dalla prima fase della
rivoluzione perciò fu progettata l’emanazione di un codice civile: sarebbe stato fatto un codice delle leggi
civili “simples, claires, … et communes à tout le royaume”. L’impresa si manifestò molto ardua, tuttavia un
codice penale fu redatto alla svelta e promulgato nello stesso anno 1791, ma il primo progetto della apposita
commissione incaricata di redigere un codice civile (con a capo il presidente Cambacérés), fu presentato solo
nel 1793. Il progetto era così povero da ricomprendere il diritto civile francese in soli 719 articoli, che la
Convenzione ritenne che non fosse abbastanza filosofico e troppo vicino alle complicazioni care ai causidici.
Il 3 novembre venne quindi incaricata una nuova commissione con a capo sempre Cambacérés, che il 17
novembre presentò il lavoro, che riduceva il codice civile a soli 297 articoli. La Convenzione discusse il
progetto ma svogliatamente, perché si rese conto che quel codice non era altro che il piano per un codice e
non un codice vero e proprio, con la conseguenza che in tal modo lo spazio lasciato alla giurisprudenza era

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

immenso. Cambacérés si rimise al lavoro e presentò al Consiglio dei Cinquecento un progetto di 1104
articoli, ma anche questo non venne mai discusso.
Toccò a Napoleone Bonaparte, primo console, riprendere nell’agosto del 1800 la questione incaricando della
redazione del codice civile una commissione composta da soli quattro giuristi, stabilendo altresì una
procedura rigida per il suo esame da parte del Consiglio di Stato ed il Tribunato e poi avanti al Corpo
Legislativo. Nel giro di tre anni il progetto venne discusso ed approvato il 21 marzo 1804.
La struttura del Code civil si componeva di tre libri, che seguono da vicino lo schema delle Istituzioni
giustinianee: il primo libro è dedicato alle Persone e contiene la disciplina delle capacità, dello stato civile,
del domicilio e dell’assenza, nonché la materia del diritto di famiglia; il secondo libro è dedicato ai beni ed
alla proprietà e contiene la disciplina dei diritti reali; il terzo libro è intitolato “alle differenti maniere per
acquistare la proprietà” e contiene il diritto delle obbligazioni e dei contratti, delle garanzie e della
responsabilità patrimoniale.
Quanto al contenuto il diritto di famiglia viene regolato secondo valori laico-patriarcali: viene mantenuto il
matrimonio civile, ma il governo della famiglia è affidato al padre-marito, mentre la posizione della donna
viene assoggettata ad una stretta sorveglianza e gravata da incapacità che la rivoluzione aveva superato.
Anche la posizione dei figli nati fuori dal matrimonio fu resa deteriore. Nel campo delle successioni le
barriere tradizionali del maggiorascato (primo genito unico erede) vennero infrante a favore di un rigido
rispetto del criterio di eguaglianza tra figli legittimi. Nel campo della proprietà e dei diritti reali, dalle riforme
della proprietà agraria derivarono il paradigma della proprietà individuale e compatta, tuttavia il modello
codicistico escludeva nel modo più rigiro la capacità conformativa dell’autonomia privata (questo avrebbe
potuto reintrodurre la proprietà stratificata tipica del modello feudale).
Le difficoltà tecniche che provenivano dalla materia delle obbligazioni e dei contratti furono superate
assumendo come giuda le opere di Domat e di Pothier.

Il Code civil ed il linguaggio della legge.


Il modello fornito dal Code civil francese appare una equilibrata miscela di istanze provenienti da
elaborazioni culturali diverse. A ciò si aggiunge che alcune norme chiave furono tratte dal pensiero dei
fisiocratici, a sua volta influenzato dalla scuola del diritto naturale (eliminazione dei vincoli perpetui su beni
immobili, diritto di chiudere i fondi, principio dell’autonomia contrattuale); altre norme qualificanti sono poi
debitrici ai soli insegnamenti della scuola del diritto naturale, come il principio consensualistico nel
trasferimento della proprietà e la clausola generale di responsabilità civile (art. 1382 - principio di neminen
laedere).
Il linguaggio del codice è stringato, coeso ed elegante, le formulazioni sono significative, i principi generali
sono espressi in locuzioni eloquentemente efficaci. Questo perché i redattori del Code ebbero a fare tesoro
delle esperienze precedenti.
Il Code si compose inizialmente di 2281 articoli, sicché questa latitudine permise di regolare in modo
soddisfacente le materie del diritto civile, sfuggendo completamente alla pretesa di un codice composto da
soli principi generali.
Il problema essenziale era quello di rifuggire da una regolamentazione troppo dettagliata, la quale poteva
essere suggerita dal desiderio di essere coerenti con l’affermazione senza compromessi del principio di
legalità nei rapporti civili. Importante è quindi considerare come la redazione materiale del Code civil fu resa
possibile dalla inflessibilità con cui i redattori del codice imposero una scelta mediana. Essi furono netti nel
proclamare che: “Una folla di questioni è necessariamente lasciata all’impero degli usi, alle discussioni tra
le persone istruite ed all’arbitrato dei giudici. L’ufficio proprio della legge è di fissare per grandi linee, le
massime generali del diritto; di stabilire principi che siano fecondi di conseguenze, e non già quello di
scendere nei dettagli delle questioni che possono insorgere in ogni materia. Spetta al magistrato, spetta al
giureconsulto, comprendere lo spirito generale della legge e dirigerne l’applicazione”. Ancora: “Le leggi
propriamente dette differiscono dai semplici regolamenti. Spetta alle leggi porre, in ciascuna materia, le
regole fondamentali e determinare le forme essenziali. I dettagli esecutivi, le precauzioni provvisorie o
contingenti, gli oggetti momentanei o variabili, in una parola, tutto ciò che sollecita assai più la
sorveglianza dell’autorità amministrativa, che non l’intervento del potere che istituisce o che crea, deve
essere affidato ai regolamenti”. Il ricorso da parte del legislatore di un livello espressivo intermedio tra
quello che sotto il profilo semantico caratterizza la formulazione di principi teorici generai, compito lasciato
alla dottrina, e quello che caratterizza la decisione giuridica relativa ad un fatto della vita, affidata alla
giurisprudenza, è divenuto un tratto distintivo della intera tradizione di civil law.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La norma del diritto di civil law si pone nel mezzo tra la decisione della lite, considerata come
un’applicazione pratica della norma, e i principi, dotati di una maggiore generalità, di cui la norma stessa può
essere considerata come un’applicazione. L’abilità del giurista consiste nel saper formulare la norma al
livello adatto: non è opportuno che la norma sia troppo generale, perché allora cesserebbe di essere una guida
sufficientemente sicura per la pratica; bisogna invece che essa sia generale quanto occorre per indicare un
certo tipo di situazione, senza però essere applicabile soltanto ad un caso particolare, come avviene della
decisione del giudice.
Da considerare è anche come il Code civil fu l’esempio più evidente di monolinguismo legislativo. Le fonti
che vennero abrogate e sostituite del testo del codice risentivano ancora in parte delle sfumature dei diversi
linguaggi presenti in Francia. Il codice fu redatto nella lingua francese dell’epoca; il significato del
monolinguismo legislativo consiste nel supporre istituita una unica lingua nazionale che costituisce il codice
linguistico comune tra il legislatore sovrano ed il cittadino, si che quest’ultimo abbia il dovere di capire la
parola del primo.
In omaggio al principio di stretta legalità nei rapporti civili, i codificatori napoleonici hanno evitato di
ricorrere a clausole generali come il principio di buona fede (eccetto l’articolo 1382): il divieto di abuso del
diritto e di atti emulativi non trovano alcun posto nel codice, il quale anzi, in tema di rapporti di vicinato,
ricorre al criterio, preciso e geometrico delle distanze legali, proprio per evitare di ricorrere a disposizioni
elastiche. Del pari, dopo aver stabilito che les conventions légalement formées tiennent lieu à ceux qui les on
faites (art. 1134), il codice non fa alcuno spazio all’equità sostanziale; rifiuta la teoria del iustum pretium
(giusto prezzo) che era stata elaborata nel diritto comune soprattutto per influenze canonistiche. Anche le
regole in tema di laesio enormis (recessione accordo) furono ridotte in ambiti minimali. In generale fino alla
riforma del 2016 il Code servì a consacrare il principio della force obbligatoire du contract ed a tal fine anche
l’interpretazione dei documenti contrattuali fu relegata ai quattro angoli del testo, secondo una espressione
inglese che in Francia non venne utilizzata ma ampiamente praticata.

Le lacune del Code civil.


Verso la fine del XIX e nei primi anni del XX secolo cominciò a diffondersi in Francia l’idea che il codice
fosse in alcune parti lacunoso. La spiegazione del fenomeno si spiegava indicando nei mutamenti sociali ed
economici sopravvenuti, e del conseguente insorgere di questioni imprevedibili ai tempi di Napoleone.
Il Code civil è stato ambiguo sin dal primo giorno in cui è stato ufficialmente pubblicato, basta fare
riferimento agli istituti maggiori, detti i pilastri del codice: proprietà, contratto e responsabilità civile.
Circa la proprietà l’articolo 544 dispone che “La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la
manière la plus absolue, pourvu qu’on ne fasse pas un usage prohibé par la loi et par les règlements”. Viene
demandato all’interprete di decidere se il termine “chose” indichi solo un oggetto corporale oppure indichi
qualunque oggetto di appartenenza o titolarità, ivi comprese le cose immateriali ossia altri diritti. Sul punto
non si è mai fatta definitiva chiarezza, anche se recentemente la seconda accezione pare nettamente
prevalere. In tema di contratto l’articolo 1108 dispone che “Quattre conditions sont essentielles pour la
validité d’une convention: le constatement de la partie qui s’oblige; sa capacité de contracter, un object
certain qui forme la matière de l’engagement; une cause licite dans l’obbligation”; l’articolo 1131 ribadisce
che “L’obbligation sans cause, ou sur une fausse cause, ou sur une cause illicite, ne peut avoir aucun effet”.
È chiaro quindi che se la causa è illecita il contratto è nullo, tuttavia l’articolo 1133 prevede che “La cause
est illicite, quand elle est prohibée par la loi, quand elle est contraire aux bonnes moeurs ou à l’ordre public”.
Circa la responsabilità civile l’articolo 1382 dispone che “Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à
autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé à la réparer”. Questa disposizione di
incardina sulla nozione di “faute”, nozione che però in nessuna parte del codice viene precisata.
Viste le lacune presenti con riferimento ai grandi pilastri del codice, parlare di un codice autoapplicantesi
potrebbe apparire una manifestazione di sarcasmo.

L’École de l’Exegèse.
I commentatori del codice si mostrarono più estremisti dei redattori dello stesso: mentre questi ultimi
avevano ammesso che il codice non può regolare ogni cosa e deve quindi necessariamente lasciare un certo
spazio ai giureconsulti ed ai giudici, i primi amavano partire dall’idea della completezza del testo per non
lasciare dubbi circa la loro fedeltà alla equazione tra legge dello Stato e diritto. Il giurista assunse quindi la
veste del giurista positivo, ossia di colui che a differenza di altri studiosi di cose giuridiche si interessa
unicamente del jus positum, inteso come l’insieme delle regole scritte nel codice. Questo ha condizionato gli

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

sviluppi della dottrina francese, la quale ha praticato metodologie diverse da quelle proclamate: nel
commento ed interpretazione del codice furono recuperati e messi all’opera strumenti concettuali derivanti
dalla tradizione del precedente in cui si erano fuse tra loto i diversi approcci metodologici.
Intesi come gruppo i commentatori del Code civil vengono normalmente designati mediante l’appellativo di
Ecole de l’exégèse. Nella vicenda storica di questa scuola si è soliti distinguere tra diversi periodi: un primo
periodo formativo, coincidente con i primi tre decenni del XIX secolo, in cui furono poste le basi dello stile e
del metodo poi comunemente seguito; un periodo intermedio dal 1830 al 1860, che vide la piena fioritura e
lo sviluppo della scuola; un periodo finale che si colloca verso la fine del secolo XIX, contrassegnato da
significativi mutamenti di orizzonte.
Il primo periodo, che si colloca a ridosso dell’emanazione del Code civil, è caratterizzato da opere
sostanzialmente di diritto transitorio nel senso che accompagnarono le spiegazioni delle nuove regole
attingendo alla tradizione tecnico giuridica precedente. Si distinsero due opere di genere enciclopedico: il
Répertoire universel et raisonné de jurisprudence de Merlin, ed il Répertoire de la nouvelle législation civile,
commerciale et administrative de Favard de Langlade. Accanto a queste due opere intrise della casistica
giuridica dell’ancien régime, giocarono un ruolo fondamentale le collezioni dei lavori preparatori curate da
Locré, da Fenet e da Maleville. Il commento articolo per articolo aveva la funzione di facilitare la ricerca su
ogni problema riferibile al codice civile. La familiarità con le partizioni del codice e le sue categorie
ordinandi, consentiva di utilizzare i commentari usando il codice come una sorta di indice. Una volta
individuata la norma rilevante, i volumi di quelle opere ponderose si aprivano quasi da soli sul tavolo
dell’operatore desideroso di approfondire una data questione, semplificando di molto il lavoro di ricerca e
generando l’impressione di una soddisfacente certezza e semplicità del sistema. In questo modo venivano
sciolti in modo chiaro e preciso i principali dubbi, senza ricorrere a teorizzazioni culturalmente elevate.

La messa in opera del Code civil.


L’accumulazione del lavoro esegetico di diverse generazioni di commentatori, contribuì ad eliminare le
lacune del testo, a sciogliere le antinomie più evidenti, a precisare il significato delle disposizioni legali ed a
dotare di un senso quasi univoco altre che ne mancavano del tutto. Gli esegeti nel fare ciò, non fecero ricorso
a tecniche filologiche, ma ad una equilibrata miscela di tradizione giuridica, tecnicismo sistematico, riguardo
alle necessità economiche, con l’aggiunta di una dose di equità. La loro fedeltà alla lettera del testo ed alle
intenzioni politiche del codificatore, fu inesistente, ed anzi il tasso di riottosità all’una ed all’altra parte fu
elevato (tale atteggiamento non era apprezzato da Savigny il quale disprezzava il Code civile e la poca
scienza dei suoi redattori). Per fare degli esempi, il codice civile taceva in materia di azioni possessorie, si
faceva leva su un articolo del codice di procedura che menzionava le azioni possessorie nell’elenco delle
questioni affidate alla competenza del giudice di pace, e gli esegeti si convinsero e convinsero tutti che tale
menzione fosse sufficiente a giustificare il recupero delle azioni possessorie sostanzialmente quali erano
prima della codificazione; invano si cercherebbe nel testo un appiglio per giustificare la presenza dell’istituto
dei trouble de voisinage, utilizzato nella prassi operazionale; oppure tracce a fondare la nozione di erreur-
obstacle, la quale corrisponde ad una pura invenzione dottrinale.
Oltre alla lacuna da colmare vi era anche la necessità di correggere le norme troppo latitudinarie: spiccava
l’art. 1382 il quale spalancava alla responsabilità civile un’area enorme in cui la società del tempo non era
preparata; ecco che gli esegeti invocavano una serie di argomenti sofistici che ribaltavano il senso della
norma riconducendolo al criterio della tipicità dell’illecito. La tecnica usata muoveva da un atteggiamento
modestamente didattico: si spiegava che l’art. 1382 si inserisce nel capitolo dedicato ai delitti ed ai quasi
delitti, perciò al fine di qualificare un atto come illecito è necessario che esso sia proibito da una specifica
norma di legge, in quanto vale il principio per cui tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso; da
qui si traeva la conclusione che l’articolo in questione è norma secondaria e, che al fine di ascrivere la
responsabilità da atto illecito è necessario rintracciare a monte una norma primaria la cui violazione
qualifichi come illecita l’attività del soggetto agente.
L’opera di integrazione del testo del codice valse il consenso generale; il prestigio dei commentatori sia in
patria che all’estero fu altissimo; nel foro le loro opere venivano citate come se fossero testi paralegislativi.
Questo dimostra come la codificazione non sia necessariamente antagonista all’opera della dottrina giuridica,
ma anzi voglia svolgere una funzione di accreditamento dei prodotti della dottrina stessa. Il successo della
scuola dell’esegesi è legato ai bisogni di una pratica, alla quale era stato detto di affidarsi completamente da
un codice di leggi positive, chiaro e completo, al quale bisognava scrupolosamente attenersi. Ma era evidente
non solo che il testo del codice chiaro e completo non era, sicché i problemi interpretativi si ponevano

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eccome, ma anche che esso parlava il linguaggio della scienza del diritto e perciò per comprenderne il
significato non vi era altra alternativa all’infuori di quella di affidarsi agli studiosi. Il ruolo della dottrina ne
risultò corroborato in modo evidente.

Funzioni e stile della giurisprudenza.


Gli esegeti nella maggioranza erano professori ed impersonavano la figura del pedante senza potere, poco
atta a suscitare atteggiamenti antagonistici da parte dei detentori del potere politico. La posizione dei giudici
era nettamente più delicata: fanno fede le frequenti epurazioni cui la magistratura francese andò soggetta dal
periodo rivoluzionario sino al XX secolo. Fare spazio ad un ruolo creativo da parte dei giudici significa
assegnare alla giurisprudenza una funzione di protagonista nella soluzione dei conflitti sociali, in più, una
tale ridefinizione del ruolo istituzionale del giudice significa aprire l’attività della giurisprudenza alle
esigenze di partecipazione ed ai bisogni di autonomia dei cittadini. Tutto questo era improponibile
nell’atmosfera culturale della Francia del XIX secolo, perciò la giurisprudenza adottò uno stile della
motivazione giudiziale che si è dimostrato uno strumento mirabile per tenere lontani gli occhi indiscreti.
Venne adottato lo stile della redazione delle sentenze che riproduce lo schema del sillogismo giudiziale
condensandolo in una unica, complessa, frase, in cui non vi è alcuno spazio né per analizzare il senso della
norma, né per analizzare il fatto, né, tantomeno, le ragioni addotte dalle parti. Ne consegue che nel testo della
sentenza è indicata la norma ma non è mai spiegata l’interpretazione, essa si desume solo dal dispositivo,
mentre l’itinerario ermeneutico seguito dal giudice per assegnare alla norma il significato assunto nella
decisione non è mai verbalizzato; il fatto storico non è mai raccontato; il silenzio totale sulle regioni e sugli
argomenti addotti dalle parti non consente di individuare l’oggetto del litigio quale è stato presentato ai
giudici nel corso del processo. La sentenza francese contiene quindi solo la fattispecie più l’effetto giuridico,
inserendovi nel mezzo la citazione della norma di legge, ma senza alcuna spiegazione.
Questa afasia della giurisprudenza francese contrastava, e contrasta, con il sistema di organizzazione della
giustizia civile il quale, prevede una organizzazione gerarchica a forma piramidale munita di un vertice
costituito dalla Corte di cassazione, la quale ha la funzione di garantire l’uniforme interpretazione della
legge. Ciò comporta che la cassazione scelga una determinata interpretazione dei testi normativi e ne
imponga il rispetto a tutte le corti del paese. Il fatto che essa si mantenesse di regola fedele ai propri
precedenti e non esitasse a cassare le sentenze difformi delle Corti d’appello senza nemmeno discutere le
interpretazioni alternative accolte da quest’ultime, non poteva passare inosservato. Sin dalla seconda metà
del XIX secolo, i giuristi sono abituati a considerare le decisioni della cour de cassation come norme di
diritto positivo e quindi come suggello di ogni controversia interpretativa, salva sempre la possibilità che la
stessa corte modifichi la propria posizione.
Nel sistema francese i giudici sono spesso chiamati ad individuare il punto di equilibrio tra interessi
confliggenti, ma riconosciuti e salvaguardati dall’ordinamento come diritti. La giurisprudenza di altri sistemi
europei, soprattutto la giurisprudenza delle Corti europee, della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei
diritti dell’uomo, sono convinte che non è sufficiente operare il necessario bilanciamento, occorre anche
giustificarlo, soppesando analiticamente le ragioni che militano da un lato all’altro ed enunciando in modo
espresso i criteri mediante i quali i diritti in conflitto si soppesano. A questa funzione lo stile della
motivazione delle sentenze francesi è del tutto inadatto. Perciò il Conseil Constitutionel lo ha già
abbandonato sostituendolo con motivazioni più estese divise in paragrafi concisi e la Corte di Cassazione ha
iniziato a redigere motivazioni più estese (motivation enrichie) in cui i fatti che hanno dato origine al
conflitto sono ricordati in modo conciso, ma chiaro; i motivi del ricorso sono presi in esame partitamente;
non si esita a richiamare la giurisprudenza precedente per il suo contenuto anziché con il solo numero.

La Scuola scientifica e l’affermarsi del formante giurisprudenziale.


Negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi due decenni del XX secolo, l’insufficienza del metodo esegetici
divenne in Francia sempre più palese e meno sopportabile. Alcuni giuristi avevano iniziato a praticare
metodi di studio ed esposizione del diritto che tenessero in più elevato conto la logica e la sistematica
concettuale. Aubry e Rau avevano iniziato a tradurre dal tedesco un manuale del diritto francese:
trasformarono, con il succedersi delle edizioni, una libera traduzione in un’opera originale nella quale si creò
un equilibrio tra la dogmatica dell’originale tedesco ed il positivismo legislativo imperante in Francia (Cours
de droits civil français, 1844). Una novità insita in una sistematica basata su idee generali non poteva
sfuggire ai lettori; alcune teorie divennero oggetto di discussione tra i giuristi i quali si distaccarono dalla
lettera del codice e dalle sue sottili manipolazioni per tornare a discutere delle categorie concettuali mediante

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le quali si comprende il diritto. Questa apertura ai problemi rinnovò gli interessi per gli aspetti del metodo,
ossia quel tipo di operazioni concettuali che i giuristi pongono in essere per affrontare i problemi operativi.
Ogni pubblica controversia sul metodo è evidentemente fatale al metodo esegetici, perché le sue equazioni
tra diritto-legge-Stato si reggono sulle finzioni della completezza della legge e della immediata intelligibilità
del dettato normativo; finzioni che si reggono solo se per convenienza pratica sono tutti concordi
nell’accettarle, senza discuterne i fondamenti.
È merito di François Gény rinverdire appieno la discussione metodologica: esso fornì in due vaste opere
(Méthode d’interprétation et source en droit privé positif, 1899; Science et Thecnique en droit privé positif-
Nouvelle contribution à la critique de la méthode juridique, 1914 e 1924) una visione consapevole ed
informata delle possibilità ermeneutiche che si offrono al giurista di fronte al testo, ma insistette sempre sul
fatto che il giurista deve rimanere un interprete del diritto positivo e nessuno più nettamente di lui rivendicò
il primato della legge su ogni altro formante.
Sotto il profilo del metodo le critiche di Gény hanno seppellito in modo definitivo il metodo esegetico che
esso non riuscì più a risollevarsi a livello di dignitosa prospettazione metolodologica anche se continuò ad
essere applicato. Tutti i dottrinari francesi premettono di essere seguaci della Ecole scientifique di cui
riconoscono Gény come capostipite, riconoscono la non assimilabilità del diritto alla legge.
Gény aveva predicato le aperture dell’interprete ai risultati costruttivi derivanti dalla “libera ricerca
scientifica” indicando come tale l’insieme dei criteri obiettivi che consentivano di attingere elementi della
costruzione giuridica della natura delle cose.
La dottrina successiva non ha in realtà utilizzato troppo accuratamente i suggerimenti scientifici di Gény, ha
invece elaborato con intelligenza una serie di “teorie” giuridiche settoriali:
- la teoria dell’abuso del diritto formulata da Josserand (De l’abus de droit, 1905; De l’esprit des droits et
de leur relativité, 1927);
- la teoria istituzionalistica formulata da Hauriou (Précis de droit administratif et de droit public, 1910);
- la teoria della finzione della persona giuridica (Cours de drout civil positif français, 1930);
- la teoria della funzionalizzazione dei diritti soggettivi formulata da Deguit (Les transformations
générales du droit privé depuis le Code Napoléon, 1912);
- la teoria personalistica dei diritti reali formulata di Roguin e Michas (La règle de droit. Etude de science
juridique pure, 1889; Le droit réel considéré comme une obligation passive universelle, 1900);
- la teoria del matrimonio putativo formulata da Planiol (Traité Elémentaire de droit civil, 1904);
- la théorie de l’imprevision di Voirin (De l’imprévision dans les rapports de droit privé, 1922);
- altre teorie che intendevano riassumere la cifra della responsabilità civile in formule come:
“responsabilità per rischio”, oppure: “assurance oblige”.
Tutte queste teorie non erano altro che categorie concettuali mediante le quali si tende a raccordare tra loro
fenomeni e regole giuridiche apparentemente disparate riconducendole ad un principio comune che a sua
volta è dotato di capacità generativa. Tuttavia la forza della mentalità legalista era troppo forte per
consegnare un ruolo effettivamente trainante alla dottrina giuridica; meglio spendibile era assegnare tale
ruolo alla giurisprudenza della cassazione che si esprimeva mediante sentenze che sembrano testi legislativi
o regolamentari.
La tesi di Gény per cui accanto al primato della legge di possono riconoscere altre fonti secondarie, a
cominciare dalla giurisprudenza, è quella cui ha arriso il maggior successo pratico. Alla giurisprudenza fu
affidato il compito di mantenere aggiornato ordinamento formalmente basato su codici invecchiati di oltre un
secolo. Il riconoscimento della giurisprudenza come formante essenziale del sistema non indusse però i
giudici francesi a mutare lo stile lapidario delle loro motivazioni, tanto concise da risultare spesso
incomprensibili.

La prevalenza del formante legislativo all’epoca attuale.


Con la V Repubblica, ossia dal 1958, la Francia si è dotata di una costituzione rigida nel senso che essa
prevede un procedimento speciale per la propria revisione (art. 89) e di un organo che vigila sulla
costituzionalità delle leggi votate dal parlamento. A lungo la tradizione costituzionalistica francese è apparta
orientata verso il principio della costituzione flessibile il cui cardine è stata la supremazia della volontà
generale della nazione espressa mediante assemblee rappresentative. L’efficacia di questa volontà non può
essere limitata da atti di volizione espressi in un momento non attuale (in questo la visione tradizionale
francese appare conforme al principio dell’assetto costituzionale inglese per cui ogni Parlamento è organo

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

supremo e non è accettabile che l’azione del parlamento attuale sia vincolata ad opera di un parlamento
precedente).
Con la Costituzione del 1958 si è assistito ad un mutamento di prospettiva addebitabile alla volontà del
costituente di imbrigliare il regime partitico-parlamentare, perciò disponendo che la legislazione approvata
dal parlamento potesse intervenire solo in alcune materie di notevole rilievo civile e politico, mentre la
introduzione nel sistema di gran parte delle regole giuridiche fosse riservata ai regolamenti approvati dal
governo in carica. Era quindi necessario prevedere un organo che potesse imporre al parlamento il rispetto
della Costituzione in materia di ripartizione della competenza normativa, evitando che l’organo normalmente
deputato ad esprimere la volontà nazionale invadesse il campo della normativa regolamentare. L’organo fu
individuato nel Conseil constitutionnel, che agisce da filtro bloccando l’adozione di leggi contrarie alla
costituzione prima che vengano promulgate. Dal 2010 il Conseil constitutionnel può essere adito, per rinvio
della Corte di cassazione o del Consiglio di Stato, per controllare che una legge non porti pregiudizio ai
diritti ed alle libertà garantiti dalla Costituzione. Svolge quindi anche attività di sindacato di costituzionalità
sulle leggi in vigore le quali sono dichiarate nulle se in contrasto con la Costituzione, che a tali fini
comprende anche la Déclaration del 1789 ed il preambolo alla Costituzione del 1946. Il Conseil
constitutionnel è competente anche in altre materie (es. giudice nel contenzioso elettorale), è composta da
nove membri di cui tre sono scelti dal presidente della repubblica, tre dal presidente del senato e tre da quello
della camera dei deputati; ne fanno anche parte di diritto gli ex presidenti della repubblica.
Una caratteristica del sistema francese delle fonti consiste nella separazione tra la normativa affidata alla
legge votata dal parlamento e la normativa regolamentare affidata al governo:
• art. 34 Cost.: il settore della legislazione riguarda un numero definito di materie tra le quali i diritti
civili e politici, l’assoggettamento alle imposte ed alle necessità della difesa nazionale, le materie
criminali e la posizione dei magistrati, gli status delle persone e la loro capacità, i regimi matrimoniali,
le successioni e le liberalità, l’emissione di moneta e le modalità di riscossione delle imposte. La legge
determina inoltre i principi fondamentali in materia di proprietà e diritti reali e in tema di obbligazioni
civili e commerciali, di diritto del lavoro e sindacale e della sicurezza sociale; inoltre riservati al
“domaine” della legge sono i settori più importanti del sistema giuridico e della organizzazione
pubblica.
• Art. 37 Cost.: le materie diverse da quelle ivi elencate hanno carattere regolamentare. Si tratta quindi
di materie residuali. Tuttavia è ammessa ex art. 21 Cost., anche nelle materie disciplinate con legge,
l’emanazione di regolamenti di attuazione. Il potere regolamentare si suddivide quindi in potere
regolamentare autonomo (introdotto con la Costituzione) ed in potere regolamentare suppletivo.
Relativamente a questa suddivisione del potere regolamentare, la giurisprudenza del Conseil
constitutionnel ha assunto che i regolamenti emanati ex art. 37 Cost. se hanno natura di legge in senso
materiale rimangono atti aventi natura amministrativa e pertanto sono sottoposti al controllo di legalità
da parte degli organi di giustizia amministrativa, il che implica un controllo anche sul contenuto
precettivo dei regolamenti ed il loro annullamento nel caso di contrasto con disposizioni di legge che
abbiano comunque incidenza nella materia specifica.
Il potere regolamentare non è tanto espressione del Governo in carica, quanto dall’amministrazione
centrale, ovvero dalla tecnostruttura burocratica che da secoli regge la Francia. La novità introdotta
dalla costituzione del 1958 sta nell’aver spostato l’asse di equilibrio a favore della normazione tecnico
burocratica ed a svantaggio della normazione che nasce dal circuito democratico e rappresentativo, ma
che prende corpo nel sistema dei partiti politici.

La legislazione francese è quindi un corpus di norme assai complesso ed in continua evoluzione; e non ci si
deve dimenticare che la Francia, paese membro fondatore della comunità europea, deve recepire le novità
legislative provenienti dalle istituzioni europee. I codici attualmente (al 2008) in vigore in Francia sono 67
ma la loro portata ed il loro spessore sono varie; si distinguono vari tipi di codificazione: codificazioni a droit
constant e codificazioni comportanti riforma dei contenuti normativi. La codification a droit constant è
avviata da una apposita commissione supérieure de codification, consiste nell’organizzare in forma unitaria
le leggi ed i regolamenti vigenti, mutandone la struttura e la numerazione degli articoli senza modificarne il
contenuto precettivo; la ricodificazione o modernizzazione dei codici consiste nella modifica di leggi e di
regolamenti precedenti e richiede, nel caso di leggi, un passaggio parlamentare. In questo secondo caso si
parla di riforma dei codici, di novellazioni che modificano a volte profondamente gli assetti normativi in
vigore.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

La riforma del Code civil.


Riformare il Code civil si è dimostrata impresa tutt’altro che agevole e al momento attuale (2018) è compiuta
solo in parte, anche se compiuta per la parte più significativa. Agli inizi del XXI secolo la parte relativa al
diritto di famiglia era mutata in seguito alle continue novellazioni delle discipline relative alla tutela ed
all’emancipazione, dei regimi matrimoniali, dell’adozione, dell’autorità parentale, della filiazione e del
divorzio; anche il regime delle successioni è stato modificato; la parte relativa alle garanzie è stata rivista
completamente e rifusa in un corpus coerente di norme raggruppate nel nuovo libro IV del Code civil (artt.
2284-2534) (Ordonnance 23 mars 2006, n°346); con l’Ordonnance n°131 del 10 febbraio 2016 è stato infine
riformato il contratto ed il regime delle prove delle obbligazioni in generale (alcuni aspetti: ricorso alla
nozione di buona fede per equilibrare il principio dell’autonomia contrattuale con quello della giustizia
contrattuale; adozione di una fitta rete di nuove disposizioni quali dolo omissivo ed assimilazione alla
violenza dell’abuso di dipendenza economica; protezione dell’autonomia delle parti dalle ambiguità
insidiose; la nullità sanabile e prescrittibile per la violazione di norme poste a tutela di interessi privati).
Quest’ultima riforma è stata mossa da due ambizioni. La prima volta a riversare in forma di codice le
interpretazioni evolutive che la giurisprudenza ha adottato rispetto al testo originario: si è trattato di una
codificazione a diritto costante, nel senso che il diritto positivo francese non è cambiato. La seconda
ambizione è stata però quella di modernizzare il diritto civile francese rendendolo un sistema attraente per gli
investitori internazionali, oltre che un modello di codice suscettibile di essere più facilmente imitato
all’estero. Questa ambizione ha comportato una riforma vera e propria, sfruttando il fatto che il legislatore
può spingersi a modificare ed integrare le regole previgenti in un modo assai più radicale di quanto la
giurisprudenza possa fare. L’insieme di questa ambizioni ha dato forma ad un modello francese piuttosto
diverso da quello originario.
Lo scopo della riforma francese del Code civil non è quello di armonizzare il diritto civile francese con gli
altri modelli comunitari ed europei, ma quello di migliorare e modernizzare il modello civilistico francese.
La direttiva di fondo appare quella di fare si che il modello francese torni ad essere uno dei grandi modelli
nazionali di riferimento per il maggior numero possibile di sistemi in cerca di ispirazione, per ammodernare
il proprio diritto.
Il modello francese si presenta sulla scena mondiale come il sistema più incentrato sul formante legislativo e
sulla forma di “codice”; tramontato appare invece il ruolo della dottrina.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

CAPITOLO OTTAVO - IL MODELLO TEDESCO

SEZIONE PRIMA - LA FORMAZIONE STORICA DEL MODELLO.


La formazione del diritto tedesco all’epoca del jus commune.
Negli ultimi due secoli il modello tedesco ha influito su altre esperienze giuridiche, tra cui anche quella
italiana. Se si ha riguardo all’epoca contemporanea, due appaiono le aree fertili all’interno della tradizione
giuridica di civil law: Francia e Germania. Da questi paesi sono pervenuti modelli giuridici, pur diversi tra
loro, la cui varia ricezione ha contribuito a ri-orientare l’evoluzione dei diversi sistemi nazionali d’Europa
continentale, dell’America Latina, nonché di tutte le altre che in una qualche misura si richiamano alla
tradizione di civil law.
A differenza del modello francese, la cui formazione è connessa a quella dello Stato francese, il modello
tedesco non appare legato alla forma di Stato vigente in Germania. In effetti il sistema di governo vigente in
Germania non è stato unitario sino alla fondazione del secondo Reich nel 1871. Più che alle vicende politiche
bisogna quindi far riferimento alle vicende culturali: dopo l’anno mille, il diritto tedesco era un diritto
consuetudinario di stampo prettamente germanico; della sua vigenza fanno fede numerose compilazioni
giuridiche (le più famose furono il Sachsen-spiegel, 1230; Schwabenspiegel, 1275; Frankenspiegel, 1276),
che avevano per oggetto consuetudini locali. Il localismo del diritto consuetudinario contrastava però con gli
ideali universali fortemente avvertiti nella Germania del tempo, portatrice dell’idea imperiale.
Le aspirazioni all’universalità furono un veicolo importante per la ricezione della scientia juris diffusasi dalle
prime sedi universitarie dell’Italia del Nord (territorio facente parte del SRI).
La ricezione del modello romanistico termino con la fondazione del Reichskammergerieht nel 1495, a
comporre il quale furono chiamati esperti di diritto romano comune. La vera fonte del diritto era la dottrina e
la sua interpretazione creativa.
Sino all’avvento delle codificazioni settecentesche la Germania visse una vita giuridica completamente
immersa nello jus commune, di cui riprodusse tutte le caratteristiche principali, compreso il fatto di lasciar
sussistere accanto al diritto colto le consuetudini locali concepite come diritto positivo speciale.

La scuola storica tedesca


Quando la proposta di dotare la Germania di un codice civile unitario venne seriamente avanzata, il modello
di codice era quello francese. Nel 1814 Thibaut, professore ad Heidelberg, pubblicò un opuscolo, in cui,
partendo da un sentimento di deprecazione verso la frammentazione e la confusione del diritto vigente in
Germania, auspicava la introduzione di un Codice civile unitario. La proposta si collocava all’interno dei
sentimenti patriottici diffusi tra gli intellettuali tedeschi, esaltati dopo la liberazione della Germania
dall’occupazione francese. La sua proposta ricevette dunque larghi consensi tra i professori tedeschi; tuttavia
le possibilità di pratica attuazione erano scarse poiché la frammentazione politica della Germania in Stati
indipendenti e sovrani costituiva un ostacolo elevato. La ragione vera per cui la proposta di Thibaut non ebbe
alcun seguito fu che essa, e la sua base teorica, venne demolita dalla critica di Karl Friedrich Savigny, uno
dei giuristi tedeschi più famosi, apprezzato per i suoi scritti in tema di possesso. La proposta di Thibaut e la
favorevole accoglienza, gli fornì l’occasione di conferire massima risonanza al proprio manifesto politico e
metodologico, della scuola del diritto di cui Savigny è il padre spirituale.
La questione che si poneva in Germania non era solo riconducibile alla scelta se dotarsi o meno di una
codificazione unitaria, perché la situazione di crisi della giurisprudenza tedesca era più vasta e più profonda:
il dato più inquietante era costituito dal venir meno del fondamento di una scentia juris indipendente dal
potere politico. Sarebbe stato impossibile fondare l’autorità della scienza del diritto sulla propria tradizione
settoriale; non solo questa autorità era stata corrosa dalle critiche dei due secoli precedenti, ma era anche
svanita l’autorità tradizionale in quanto tale, o meglio, invocare l’autorità tradizionale avrebbe significato
schierarsi a favore del tradizionalismo ideologico resuscitato senza speranze dall’Europa dei Re e dei
principi riuniti nel Congresso di Vienna, con la conseguenza di rendere odiosa la scientia juris a tutti gli
animi liberi.
Il manifesto della scuola storica tedesca è teso a superare questi dilemmi ed a rifondare uno spazio autonomo
per la scienza del diritto. Savigny, pur riconoscendo che la proposta di Thibaut era generosa e patriottica,
volle sottolineare come l’idea di codice fosse figlia dell’epoca illuministica; il vero fondamento del diritto
civile non poteva coincidere con lo strumento caduto in mano napoleonica e divenuto odioso strumento di
guerre e soggiogazioni, ma doveva riconoscersi nella naturale dipendenza del diritto dai costumi e dal
carattere del popolo. Tuttavia nel diritto appare anche una eliminabile componente tecnica che ricade sotto la

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competenza dei giuristi: lo sviluppo del diritto è quindi dotato di una doppia vitalità, perché se esso non cessa
mai di vivere della vita del popolo, ne ha anche un’altra come scienza specifica dei giuristi.
Ciò che era fondamentale per Savigny era mostrare come la legittimità della scentia juris non discendeva
dall’autorità delle regole da essa insegnate, né dalla scientificità del suo metodo, ma discendeva dal suo porsi
come organo della cultura di un popolo dotato di una sua ben precisa identità.

Il metodo della scentia juris in Germania dopo Savigny


Il manifesto di Savigny ebbe un’accoglienza strepitosa. Aderendo alla sua metodologia e ai suoi propositi
due generazione di giuristi tedeschi si dedicarono al compito di edificare una scienza ed un sistema. Il
maggior contributo va riconosciuto a Puchta, allievo di Savigny e suo successore nella direzione spirituale
della scuola. Nel suo Corso di Istituzioni (1841-42), Puchta reinterpretò il concetto di spirito del popolo: il
diritto frutto della tradizione storica è, al pari dei prodotti di questa, un organismo vivo; il diritto considerato
come formante un organismo vivo, è diviso in altrettanti parti organiche che si integrano e completano
reciprocamente. Assunta questa visione del diritto come organismo, anche la scienza del diritto può divenire
completamente sistematica, poiché il sistema non è altro che la comprensione piena dell’organicità naturale
del diritto come fenomeno.
La metodologia di Puchta è ricordata soprattutto per la metafora della piramide concettuale, secondo la quale
i concetti giuridici possono essere sistematicamente organizzati secondo una scala a partire dai più generali,
sino ai più dettagliati. Se in questo percorso si rispettano rigorosamente i criteri di deduzione logica evitando
ambiguità o contraddizioni, si rende possibile anche il percorso inverso, di tipo induttivo, che consente di
risalire dall’insieme dei concetti particolari ai concetti più generali.
Seguendo detta impostazione una proposizione giuridica diveniva legittima solo mediante il suo inserimento
logico nel sistema: il criterio di validazione diveniva la consequenzialità logica di ogni proposizione
giuridica rispetto al tutto, e tale consequenzialità veniva misurata in base al principio di non contraddizione.
Con ciò si ripudiava il rapporto tra regola ed eccezione, che nella giurisprudenza di civil law era quantitativo
(la regola è quanto si applica alla maggior parte dei casi, l’eccezione è ciò che si applica in numero limitato e
ben individuato di circostanze); mentre in questo sistema regola ed eccezione potevano benissimo coesistere.
Da questo discende come il sistema detti leggi: la sua intelaiatura rende logicamente impossibili tutta una
serie di regole o di conclusioni giuridiche ad esso antagoniste.
Il programma politico di Savigny impresso alla scuola, ossia l’unificazione del diritto tedesco attraverso la
scienza, giustifica il carattere radicare della metodologia di Puchta.
Il secondo corollario prevedeva che, al fine di costruire concetti da concetti, ciascuno di essi fosse definito
con scientifica precisione, si da attagliarsi esattamente alla fattispecie considerata: si tratta di un’analisi
minuziosa dei concetti giuridici. Tale opera transita attraverso un arricchimento del vocabolario e quindi
connette il diritto al linguaggio.
Il lavorio continuo ed entusiasta di due generazioni di giuristi tedeschi portò ad un raffinamento senza
precedenti delle idee e delle figure giuridiche e ad una delle non molte fasi di effettiva accumulazione
concettuale promosse dalla scientia juris.
L’analisi pandettistica conduceva il giurista ad analizzare tutti gli elementi concettuali che costituiscono una
fattispecie e ad assegnare a ciascuno di essi la qualificazione giuridica appropriata. A differenza delle
impostazioni rigidamente sistematica di cui l’immagine della piramide concettuale è un espressivo
paradigma, l’analisi concettuale e rigorosa delle diverse fattispecie giuridiche della tradizione di civil law
costituì una acquisizione definitiva.

La pandettistica.
Gli autori che seguirono le indicazioni di Savigny e di Puchta costruirono il proprio sistema assumendo come
materiale giuridico quello contenuto nel Corpus Juris. Perciò essi sono noti come scuola “pandettistica”,
termine derivato da “Pandette”. Gli scrupoli storico filosofici tesi ad una ricostruzione attendibile del diritto
romano classico, presenti in Savigny, furono messi rapidamente da parte. Ciò che a loro interessava era il
sistema in grado di inquadrare qualsiasi regola di diritto; interessava anche la possibilità di inquadrare
qualsiasi sistema di regole grazie alla capacità intrinseca al metodo concettuale di dischiudersi verso una
giurisprudenza costruttiva, tesa a generare nuovi concetti, nuove regole, da concetti precedentemente inseriti
nel sistema. In questo contesto si richiedeva al giurista una elevata capacità analitica, non una comprensione
storica.

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Ricostruire un sistema sulle basi citate fu un’opera collettiva alla quale si dedicarono una serie di giuristi
attratti all’impegno scientifico dalla consapevolezza della grandiosità del compito loro affidato. Per fare
degli esempi: Von Vangerow; Brinz; Ernst Immanuel Bekker; Regelsberger; Denburg; Bernhard
Windscheid, la cui opera riassunse i risultati dell’intero movimento.
Il successo della Pandettistica si misura essenzialmente sul piano del metodo, il quale fornì uno schema
altamente astratto, e proprio per questo capace di adattarsi ad inquadrare giuridicamente qualsiasi contenuto
normativo. Questo fu il modello dottrinale tedesco maggiormente circolato fuori dalla Germania; le tappe
della sua ricezione toccarono prima i Paesi di lingua tedesca, come l’Austria, che si convertì al modello
pandettistico di fronte alle difficoltà incontrate nell’applicazione dell’ABGB (Codice Civile Austriaco, 1811,
Francesco I); e la parte tedesca della Svizzera, la cui ricezione del modello segnò il ritorno della tradizione
romanista, dalla quale il Paese si era allontanato per coltivare solo il diritto consuetudinario locale.
Al di fuori dei paesi di lingua tedesca, il modello pandettistico convertì tutte le dottrine bisognose di
scientificità e di prestigio: si diffuse nei Paesi dell’est europeo, nei Paesi scandinavi, ed in quelli latini come
l’Italia e la Spagna ed anche nelle tradizioni latino americane. In questo senso si può affermare che il
modello pandettistico ebbe una diffusione universale simile a quella del Code Civil francese; tuttavia, la
circolazione rimase legata ad una scuola di pensiero dottrinale e quindi venne accolta principalmente dalle
dottrine dei Peasi ricettori, e non come un modello completo di ordinamento.
Mentre quest’opera era in fase di costruzione, mutava il panorama culturale della Germania: nella seconda
metà del secolo i modelli culturali diffusi non erano più quelli della grande filosofia idealistica, ma quelli
tratti dalle scienze naturali; le scoperte scientifiche elettrizzarono gli ambienti dotti; le teorie di Darwin
schiudevano nuovi orizzonti alla comprensione della posizione dell’uomo nel mondo; i progressi della fisica
e della chimica ampliavano i i confini delle conoscenze umane e si traducevano in tecnologie di evidente
concretezza.
D’altra parte la costruzione di un diritto semantico usciva dall’ambito astratto delle Pandette, e si scontrava
con una realtà normativa che non riusciva a piegare; la dogmatica giuridica prendeva coscienza di territori
del diritto, estranei al diritto comune, nei quali imperava il diritto positivo nel senso di regole imposte da una
autorità sovrana.
Nel 1848 un avvocato prussiano, Julis Hermann Kirchmann, portò alle estreme conseguenze le predizioni di
Savigny, e mescolando vari profili denunciò come una giurisprudenza che pretenda di interessarsi solo del
diritto positivo contingente, diventa contingente essa stessa: “tre parole di rettifica del legislatore, ed intere
biblioteche diventano carta straccia”. Il sentimento comune continuava a sovrapporre legge e diritto ed il
rafforzamento degli apparati statuali contribuiva a famigliarizzare l’opinione pubblica con l’idea che l’unica
fonte del diritto potesse essere la legislazione.
Nonostante ciò, il lavoro dei giuristi dogmatici proseguì, e buona parte dell’edificio pandettistico fu costruito
in tempi in cui le basi culturali della sua impostazione originaria si erano ribaltate; il diritto non era più
organismo vivente in quanto espressione dello spirito del popolo, per cui i concetti giuridici cessarono di
essere riconosciuti come estrapolazioni di significato da fenomeni reali, per divenire meri sinonimi del
relativo gruppo di operazioni concettuali che si devono compiere all’interno di un sistema. Questa era
l’accezione strumentalista dei concetti giuridici, che rischiava però di mettere in pericolo la funzione di guida
unitaria che aveva la dottrina pandettistica: se ogni studioso poteva configurare i concetti chiave nel modo
che riteneva più opportuno, ciò implicava la possibilità che ciascun giurista costruisse non il sistema unitario
del diritto tedesco, ma il suo personale sistema.
Iniziarono a sorgere controversie sul metodo: la “scuola della giurisprudenza degli interessi”, fondata da
Jhering von Rudolf, nel tentativo liberare il giurista dall’apparato dogmatico e concettuale che caratterizzava
la Pandettistica, iniziò attrarre seguaci sia per il prestigio accademico del suo fondatore, sia perché giudici ed
operatori percepivano come la sua metodologia mirasse alla rivalutazione dell’opera dell’interprete.
La critica di Jhering era rivolta soprattutto all’insegnamento di Puchta, ed aveva posto l’attenzione
sull’impossibilità per il giurista di leggere tutti i fatti del mondo solo attraverso un sistema di forme
concettuali esclusivamente sue, non contaminate da quanto è ricavabile dall’esperienza storica e dalle
indicazioni delle altre scienze sociali; costruire un sistema logicamente coerente in cui inquadrare qualunque
fattispecie aveva condotto ad un isolamento del giuridico dalla sapienza accumulata dalla altre scienze.

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Il BGB (Burgerliches Gesetzbuch).


Nel 1870, con la vittoria sulla Francia, la Germania ritrovò l’unità politica smarrita da molti secoli. L’impero
fondato da Bismark era di tipo federale che non aveva competenza nei rapporti di diritto civile; fu il partito
Nazional-liberale ad imporre il progetto di un codice civile unitario. Per portare a compimento un codice
civile tedesco occorreva attingere alla sapienza giuridica della nazione: l’Impero tedesco fu obbligato a
ricevere il modello pandettistico. Il distacco sia in termini di prestigio culturale e politico tra le elaborazioni
pandettistiche e quelle di qualunque altra scuola rivale era abissale.
La prima commissione incaricata di redigere il progetto del codice (1881) si componeva di 11 membri tra cui
la maggioranza era composta da giudici e pratici di grande prestigio come Plank Gottlieb, che ne fu
presidente. Quando il progetto venne presentato nel 1887 era corredato da 5 volumi di “Motive”, ed era una
traduzione in termini legislativi di un manuale di Pandette.
Le critiche rivolte al primo progetto indussero a formare una seconda commissione, con l’incarico di
rivedere il lavoro della prima. In questa commissione la componente di prativi fu prevalente, anche se il
risultato non variò granché: la prima commissione aveva prodotto un testo dotato di una tale compattezza
sistematica da imporre ai redattori successivi o l’abbandono di questo o l’accontentarsi di alcune modifiche
stilistiche e di facciata. La seconda commissione scelse di rispettare la struttura del primo progetto e lo stile
linguistico con cui le singole norme erano redatte; inserì anche alcune disposizioni che facevano rinvio a
concetti aperti, di grande tradizione culturale, quali la buona fede, i buoni costumi, gli usi del commercio.
Queste “clausole generali” legittimavano una interpretazione del codice difforme dalla sistematica
pandettistica.
Il progetto del BGB venne approvato nel 1896 ed il codice entrò in vigore il 1° gennaio 1900.

Confrontando il BGB ed il Code Civil, si nota come sotto il profilo dello stile il Code Civil parli il linguaggio
comune, quello della gente, mentre il BGB utilizza il linguaggio dei professori, pieno di terminologia
tecnica; il linguaggio del BGB è arido ed inelegante, ma preciso e non cade mai in sciatterie; i termini tecnici
sono sempre usati rigorosamente con il medesimo significato; le anfibologie sono assolutamente evitate.
Quanto alla sua struttura, il BGB si presenta suddiviso in 5 libri:
1. il primo libro, racchiude il patrimonio ereditato dalla dottrina tedesca ottocentesca; costituisce la parte
generale. In essa si ritrovano quelle disposizioni che, essendo comuni a tutti gli altri 4 libri del codice, i
redattori del codice avevano voluto esporre una volta sola in un’unica sede all’inizio del codice. In
questa prima parte trovano posto la nozione di persona fisica e di persona giuridica; il concetto di bene;
la nozione di negozio giuridico.
2. Il secondo libro concerne i rapporti obbligatori. La priorità data alla disciplina delle obbligazioni,
implica la consapevolezza che in una società industriale i rapporti di collaborazione hanno una rilevanza
preminente rispetto alle situazioni di appartenenza dei beni materiali (nel Code Civil la seconda parte è
assegnata ai diritti reali). Il secondo libro è quindi il cuore del BGB; è stato recentemente rimodernato
per preservare l’idea della centralità del rapporto obbligatorio come strumento fondamentale di
organizzazione dei rapporti di diritto civile.
3. Il terzo libro è dedicato al diritto sui beni e contiene la disciplina della proprietà e degli altri diritti reali
(compreso pegno e ipoteca, che nel nostro codice si trovano nel libro sulla tutela dei diritti).
4. Il quarto libro riguarda il diritto di famiglia e contiene la disciplina del divorzio e dei regimi
patrimoniali fra coniugi.
5. Il quinto riguarda il diritto delle successioni.

La promulgazione del BGB è stata accompagnata da una legge di introduzione, contenente le norme di diritto
internazionale privato.
Il BGB accogliendo le soluzioni proposte dalla maggioranza della dottrina giuridica nazionale, le ha
consacrate e radicate nella tradizione giuridica tedesca; il Code civil aveva fatto scelte opposte.

Gli sviluppi del diritto tedesco e della dottrina dopo il BGB sino alla metà del XX secolo.
Nel 1914 la Germania entrò in guerra e quattro anni più tardi l’Impero crollò. L’inutile strage provocata dalla
guerra in Lotaringia aveva richiesto la mobilitazione per via amministrativa di tutte le risorse nazionali,
sicché, al suo termine, le figure maggiormente consapevoli si resero conto che era stata posta una totale
rivoluzione dell’ordine giuridico liberale mediante la statalizzazione di quasi tutti i beni produttivi.

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Nel contesto del XX secolo, la messa in opera ed il consolidarsi del BGB nel sistema giuridico tedesco fu
una vicenda agitata. Nel contesto universitario e culturale iniziarono a prendere piede le diverse visioni
alternative di coloro i quali ritenevano che il compito della scienza del diritto fosse di quella di svelare i
complicati itinerari del legal process e guidare coloro che dovevano percorrerli.
Si diffuse nel mondo universitario la corrente critica più radicale nota come “scuola del diritto libero”, a cui
deve riconoscersi il merito di aver emancipato la giurisprudenza dal ruolo di secondo piano.
Il tentativo di sviluppare un metodo giuridico aggiornato venne perseguito mantenendo stretti collegamenti
con le discipline filosofiche: la dottrina tedesca ha mantenuta viva l’idea che esiste una dimensione della
giuridicità che è deputata a conferire un senso alle proposizioni giuridiche mediante la loro analisi critica ed
il loro inserimento in un contesto generale. Pertanto la legge non esaurisce il diritto, di esso fa parte una
componente che è sottratta alle scelte del legislatore e delle altre autorità dello Stato. Questa visione di fondo
è rimasta dominante anche negli anni ’30 del XX secolo, sebbene le motivate opposizioni (Kelsen):
rinunciare ad ogni determinazione contenutistica delle proposizioni giuridiche al di fuori delle norme,
implicava un abbandono di tutto quanto la dottrina giuridica tedesca aveva costruito dai tempi di Savigny.

Va ricordata anche la corrente di pensiero che va sotto il nome di “socialismo giuridico”, la quale
rimproverava al BGB ed alla pandettistica che lo aveva preparato, il suo rigido ancorarsi al sistema dei valori
individualistici borghesi. La critica tendeva a demistificare la pretesa neutralità scientifica delle costruzioni
pandettistiche e comportava un riferimento alla giustizia sociale, propugnando un sistema che diverrà
socialdemocratico.

La critica più efficacemente demolitrice del sistema pandettistico è venuta da una scuola di pensiero che si
presentò come prosecuzione e sviluppo della “giurisprudenza degli interessi”. Il suo rappresentante, Philipp
Heck, colse con precisione il punto di frattura della metodologia pandettistica nel momento in cui da
suggerimento culturale proveniente dal formante dottrinale si era trasformata in ermeneutica del diritto
positivo. Il tentativo di continuare ad applicare al BGB ed ad ogni altro testo legislativo la genealogia di
Puchta, sfociava in una inversione logica, anzi in un metodo dell’inversione: ammessa la legittimità
dell’operazione di riconduzione di una serie di disposizioni normative ad un unico concetto in grado dii
coordinarne la ratio comune, non poteva essere ammesso il percorso inverso, ovvero la deduzione di regole
positive dal concetto ricostruito.
Il problema di fondo era legato soprattutto al fatto che nonostante la Germania disponesse di un codice
cronologicamente recente e moderno in molte soluzioni, la giurisprudenza tedesca rivoltava alcune delle
principali linee di tendenza del BGB stesso. L’occasione fornita dalla grande inflazione degli anni ‘20
permise l’affermazione del principio della prevalenza di una clausola generale, su una previsione specifica.
L’utilizzo di clausole generali ha chiuso le porte ad una giurisprudenza creativa ed ha richiesto un’opera
creativa da parte della dottrina chiamata ad un compito di divulgazione, di riordino e di valutazione dei
risultati giurisprudenziali. Un esempio è la clausola del paragrafo 242 BGB, la quale stabilisce che nel
rapporto obbligatorio le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede.

SEZIONE SECONDA – IL SISTEMA TEDESCO ATTUALE.


L’assetto costituzionale.
L’attuale assetto costituzionale della Germania è frutto delle vicende storiche verificatesi al termine del
secondo confitto mondiale, quando lo Stato si sciolse ed il territorio venne assoggettato venne occupato dalle
forze alleate.
L’attuale Costituzione della Germania Federale (Bundesrepublik Deutschland, BRD), la Grundgesetz, o
legge Fondamentale, venne elaborata da un Consiglio Parlamentare riunitosi il 1° settembre 1948, ed entrò in
vigore
Il 23 maggio 1949.
Il 5 maggio 1955 nove Lander della Germania occidentale riacquistarono la loro piena indipendenza e
costituirono la Repubblica Federale Tedesca.
La riunificazione della Germania venne attuata il 31 agosto 1990 ed alcuni Stati entrarono a far parte della
BRD insieme alla città di Berlino, che tornò ad essere la capitale della nuova Repubblica Federale Tedesca.
La Costituzione ora in vigore nella Germania unificata è la terza di tipo federale che la Germania conosce
dopo quella del 1871. Essa è di tipo rigido, e richiede per la sua modificazione o revisione una maggioranza
qualificata in tutte e due le Camere (Bundestag e Bundesrat), art. 79 GG; vi sono alcune parti della

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Costituzione sottratte ad ogni possibilità di variazione, ovvero i diritti fondamentali (artt. 1-20), la struttura
federale del Paese, e la partecipazione dei diversi Lander all’attività legislativa (art. 79 comma 3, GG).
Il controllo di costituzionalità delle leggi è demandato al Tribunale Costituzionale Federale, che esercita un
controllo concreto ed anche un controllo “astratto”. Quest’ultimo è indipendente dall’esistenza di un caso o
di una controversia giudiziale: è ammissibile nei casi di questioni sulla compatibilità formale e sostanziale
del diritto federale o del diritto del Lander con la Legge Fondamentale. Legittimati ad invocarlo sono il
Governo Federale o il Governo di un Land, o un terzo dei membri del Bundestag. Il controllo concreto (art.
100 GG) presuppone invece l’esistenza di un procedimento in cui viene sollevata la questione incidentale di
costituzionalità, e riguarda solo le leggi in senso formale.
L’articolo 100 GG dispone che se un tribunale ritiene incostituzionale una legge dalla cui validità dipende la
sua decisione, il processo deve essere sospeso per essere riassunto davanti al tribunale Costituzionale
Federale. Se si tratta di un controllo di costituzionalità delle leggi dei Lander rispetto alle rispettive
Costituzioni locali, la questione è sollevata di fronte ai Tribunali Costituzionali locali.
Un altro importantissimo compito affidato al Tribunale Costituzionale Federale è quello di conoscere dei
ricorsi costituzionali, previsti dall’art. 93 GG, i quali costituiscono una peculiarità del sistema costituzionale
tedesco. Questi ricorsi possono essere intentati direttamente al Tribunale da chiunque ritenga di essere stato
leso dalla pubblica autorità di uno dei suoi diritti fondamentali. Questa possibilità è prevista anche a favore
dei comuni e dei consorzi dei comuni anche se solo nei confronti di una legge, mentre il ricorso esperibile
dai cittadini può essere altresì rivolto contro qualsiasi atto di governo. Con questi ricorsi sono garantiti solo i
diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, infatti il ricorso non deve essere inteso come rimedio
aggiuntivo alla tutela dei diritti già previsti dall’ordinamento che consentono di adire altri tribunali.

Il sistema delle fonti nel BRD.


Nell’attuale sistema tedesco la competenza legislativa ordinaria è ripartita tra Bund e Lander, i quali hanno
diritto di legiferare nella misura in cui la GG non riservi al Bund le competenze relative (art. 70 GG).
L’art. 73 GG indica le materie di competenza esclusiva del Bund: gli affari esteri e la difesa; la cittadinanza
federale; il sistema monetario e valutario.
Esiste poi una competenza concorrente (art. 74 GG), che concerne: il diritto civile, il diritto e l’esecuzione
penale, l’ordinamento giudiziario e la procedura, lo stato civile, la cittadinanza nei Lander, il diritto di
riunione e di associazione, l’assistenza pubblica, il diritto del lavoro. In queste ambiti, i Lander hanno
competenza legislativa solo quando, e nella misura in cui, il Bund non faccia uso del suo diritto a legiferare.
Il diritto federale prevale in ogni caso sempre sul diritto del Land (art. 31 GG); è possibile poi per il Bund di
emanare disposizioni di inquadramento per determinate materie indicate dalla Costituzione (art. 75 GG). In
generale la competenza esclusiva dei Lander risulta piuttosto limitata.
Il diritto comunitario nella BRD non viene considerato come parte integrante del diritto federale, ma come
complesso di norme a sé stanti, che entra a far parte del diritto nazionale tedesco, nella misura in cui i trattati
che ne sono all’origine sono diventati diritto tedesco.

L’organizzazione delle corti e dei tribunali.


Nella attuale Repubblica Federale Tedesca, l’organizzazione delle Corti appare caratterizzata da un
pluralismo funzionale: la Legge Fondamentale prevede l’istituzione di Corti di giurisdizione ordinaria ed
amministrativa, di giurisdizione del lavoro, di giurisdizione finanziaria, di giurisdizione sociale; questi ordini
di giurisdizione sono organizzati in tre gradi di giudizio, tranne la giurisdizione finanziaria che ne ha solo 2.
I Tribunali amministrativi hanno competenza generale a conoscere tutte le controversie di diritto pubblico
che non siano di ordine costituzionale; le Corti ordinarie sono competenti per quelle pretese patrimoniali
derivanti da una richiesta di indennizzo o di risarcimento che derivano dalla violazione di diritti pubblici o da
espropri nell’interesse della pubblica utilità; i Tribunali del lavoro hanno competenza nel caso di
controversie tra lavoratori ed imprenditori e per altre controversie in cui sono presenti gli interessi dei
lavoratori; le Corti sociali hanno giurisdizione in quelle materie che rientrano nella welfare-state-legislation,
come le pensioni, i sussidi di disoccupazione, ecc.
L’esistenza di cinque ordini separati di Corti non ha intaccato la netta separazione, tradizionale nel diritto
tedesco, tra diritto privato e diritto pubblico. I tribunali del lavoro sono considerati tribunali ordinari, i quali
giudicano su questioni di diritto privato, mentre quelli sociali e delle finanze vengono considerati costituenti
una giurisdizione amministrativa speciale accanto a quella generale.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Il corpus della legislazione privatistica tedesca e la modernizzazione del BGB.


Il BGB, tornato ad essere il codice civile della Germania, nel 2002 è stato vastamente novellato nella sua
parte principale, che concerne il diritto delle obbligazioni e dei contratti.
La modernizzazione del BGB ha avuto due fonti di ispirazione: da un lato una serie di teoria affermate in
giurisprudenza sono state tradotte in norme del codice, cessando di essere consuetudini dottrinali; dall’altro
lato la modernizzazione è stata l’occasione per introdurre nel diritto civile tedesco riforme. Di queste riforme
due sono rilevanti, ovvero la riforma che ha introdotto un nuovo regime dell’inadempimento contrattuale e la
riforma che ha incorporato nel codice la categoria del contratto con i consumatori.
Accanto al BGB è da ricordare il codice commerciale tedesco, cioè l’Handelgesetzbuch (HGB) del 1900.
Anche la Germania, come la Francia, ha conservato la tradizionale divisione tra diritto civile e diritto
commerciale, operata per venire incontro alle ragioni del commercio. Il HGB si distacca dal precedente
codice di commercio del 1861 perché quest’ultimo aveva cercato di introdurre un sistema misto; il nuovo
codice di commercio predispone invece un diritto per il commerciante, definendo come tale chiunque eserciti
un’impresa commerciale e prestabilendo una lista di attività che qualificano “commerciale” una determinata
impresa: è impresa commerciale l’attività esercitata in modo commerciale e registrata nel Registro
commerciale.

L’HGB risulta scandito in 5 libri:


1. il primo libro concerne i commercianti in generale; in esso si ritrovano le norme sui registri commerciali,
sulla ditta, sugli ausiliari del commerciante e sulla figura del mediatore;
2. il secondo libro concerne le attività commerciali e l'associazione in partecipazione;
3. il terzo libro è relativo ai libri commerciali;
4. il quarto libro verte sui negozi commerciali;
5. il quinto libro è relativo al commercio marittimo.

Accanto al codice civile e a quello commerciale, il terzo pilastro della legislazione privatistica è il codice di
procedura civile, ossia la Zivilprozessordung (ZPO) del 1877, scandita in 10 libri. Il modello di processo che
la ZPO disegna e disciplina viene utilizzato come riferimento anche nei processi che si svolgono avanti le
giurisdizioni diverse da quella civile ordinaria, per colmare tutte le eventuali lacune delle singole leggi di
procedura.

L’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale.


Chiunque abbia a che fare con il BGB si munisce di un “Kommentar” per poterne intendere le disposizioni, o
per essere sicuro di averle intese chiaramente. Infatti, i commenti dottrinali sono uno strumento di lavoro
indispensabile per un operatore del diritto. Tuttavia il ruolo della giurisprudenza è andato via via crescendo
nel corso dell'ultimo secolo, tanto da mettere in ombra l’apporto della dottrina. La prospettazione
generalmente accettata è che spetti alla giurisprudenza svolgere un ruolo di concretizzazione delle norme
legislative, alla luce dei valori costituzionali, della coerenza complessiva del sistema e della giustizia del
caso.
La giurisprudenza tedesca non è chiusa ai suggerimenti culturali della dottrina, essa si apre ad apporti senza i
quali sente di non poter conservare il suo alto standard qualitativo. A differenza del giudice francese, il
giudice tedesco motiva estesamente le sue pronunce facendo riferimento sia ai precedenti giurisprudenziali
che alle indicazioni della dottrina. Inoltre la sentenza tedesca non è opera personale del singolo giudice, ma è
espressione impersonale della corte, ove le dissenting opinions non sono ammesse.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

CAPITOLO NONO - I MODERNI SISTEMI DII CIVIL LAW TRA INFLUENZE FRANCESI E TEDESCHE

SEZIONE PRIMA - LA TRADIZIONE DI CIVIL LAW COME MONDO COMUNICANTE


Realtà e prospettive dei singoli diritti nazionali
A partire dal secolo scorso i sistemi di civil law hanno acquistato una crescente impronta nazionale a causa
di un effetto collaterale delle codificazioni, ovvero la positivizzazione delle fonti del diritto, imposta per loro
tramite alle singole esperienze nazionali. Le codificazioni avrebbero segnato l’avvento di sistemi giuridici
fondati sul formante legislativo, il quale, per sua natura, è valido solo entro i confini del singolo Stato. Il peso
crescente del formante legislativo non è riconducibile soltanto al diffondersi delle codificazioni, ma è il
sintomo più evidente della dilatazione dell’intervento statale in ogni campo della vita dei cittadini. Questa
tendenza, che ha dominato buona parte del XX secolo, si scontra oggi con due contro tendenze: in primo
luogo si segnala il movimento che tende ad una drastica riduzione delle attività regolative degli Stati,
proponendo un ordine decentrato che riconosce il valore delle autonomie a tutti i livelli sottoponendole ad un
insieme di incentivi e disincentivi. Si tratta della tendenza alla deregolamentazione, ovvero la tendenza a
diminuire la quantità di regolamentazioni settoriali, che ha l’effetto di riportare al centro della scena giuridica
le figure classiche del diritto privato (proprietà, contratto, responsabilità civile); la seconda tendenza, nasce
sul piano della globalizzazione. Quest’ultima è la somma di due “avvenimenti” verificatesi
contemporaneamente sul finire del XX secolo: il fenomeno di delocalizzazione di attività manifatturiere, ed
un salto di qualità nello sviluppo di tecnologie informatiche. Questi due fenomeni hanno comportato un
incremento assai consistente ed in continua ascesa degli atti di commercio internazionale. Questo dato
storico ha rilanciato i discorsi che evocano il concetto di lex mercatoria ed hanno come epicentro l’istituto
del contratto.
Le parti mediante il contratto possono non solo regolare l’oggetto del medesimo, ma anche designare il
diritto applicabile e la giurisdizione statale o arbitrale, cui vogliono sottoporre la risoluzione di eventuali
controversie: si tratta di due sotto fenomeni correlati a quelli evidenziati precedentemente.
In Europa queste tendenze sono acuite dall’azione istituzionale svolta dall’Unione Europea alla quale si
ricollega la rinascita dei discorsi attinenti al diritto comune europeo. L’affacciarsi di un rinnovato diritto
comune porta a ripercorrere le tappe dello sviluppo dei singoli diritti nazionale europei, i quali, specie nel
campo del diritto privato, riflettono due modelli fondamentali: il modello francese ed il modello tedesco, ai
quali si aggiunge in epoca contemporanea il modello americano. Modello francese e modello tedesco sono
assunti come archetipi idonei ad indicare due realtà ben dinamiche, ciascuna delle quali ha subito abbondanti
metamorfosi.

Sguardo generale sulla circolazione del modello francese.


Si considera normalmente francese ciò che è nato in Francia. Tuttavia questa definizione è inappropriata: la
cultura giuridica e la prassi giuridiche francesi fanno parte integrante della tradizione di civil law e della
tradizione giuridica occidentale; hanno dialogato intensamente con gli altri modelli. La Francia è stato paese
di ricezione: rilevante è stata l’influenza di idee giuridiche tedesche e l’imitazione di modelli di legislazione
commerciali inglesi. Grazie al prestigio della Francia, le idee originariamente non francesi circolarono
all’interno del modello francese.
Il primo modello giuridico francese circolato all’estero è il Code civil, della cui circolazione esistono tre fasi:
la prima fase fu legata all’espansione militare dell’impero napoleonico e portò il Code civil nei Paesi Bassi,
in Belgio, in Italia, in Germania ed in Polonia; durante la seconda fase, il cui inizio coincide con la caduta di
Napoleone Bonaparte, nel 1815, il Code civil si diffuse per il suo prestigio: in Belgio, in Olanda ed Italia
esso fu conservato; in Spagna, in Romania, in Egitto ed in molti paesi arabi, in Argentina, in Paraguay ed in
Bolivia esso fu imitato spontaneamente. La terza fase riguarda la ricezione del modello codicistico francese
in molti paesi che hanno conosciuto la dominazione coloniale francese e lo hanno adottato dopo
l’indipendenza (Africa nord occidentale, Madagascar, Cambogia, Laos, Viet Nam, Quebec, Louisiana, Haiti,
Libano).

Sguardo sulla circolazione del modello tedesco.


Il modello tedesco più abbondantemente recepito fuori dalla Germania è quello dottrinale della pandettistica,
più che lo stesso BGB. Del tutto mancata è l’imitazione del modello tedesco come sistema amministrativo,
né vi è stata una diffusione per via di influenza coloniale o espansione territoriale.

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L’insegnamento pandettistico si diffuse in quanto rappresentava l’estrema discendenza della scientia juris di
civil law, l’ultima grande scuola di pensiero che ha prodotto un sistema giuridico indipendente dal potere
politico (quindi dal formante legislativo), la più moderna espressione del sistema romanistico.
Pur essendo più compatto di quello francese, anche il modello tedesco subì numerosi adattamenti e
distorsioni: in alcuni casi l’insegnamento pandettistico è stato recepito là dove era precedentemente penetrato
il modello francese, ma ha dovuto arrendersi di fronte a soluzioni legislative già sancite dal Code civil; il
modello dottrinale può circolare attraverso le altre dottrine, subendo così una doppia distorsione; inoltre i
modelli dottrinali subiscono uno sbiadimento dovuto al decorrere del tempo e al sopraggiungere
dell’influenza di altri modelli. Inoltre tra le due guerre la stessa dottrina tedesca voltò le spalle alla
pandettistica, adottando metodi e stili del tutto diversi, come quelli provenienti dagli Stati Uniti.

SEZIONE SECONDA - LE VICENDE ITALIANE


La ricezione del modello francese in Italia.
A partire dalla conquista napoleonica dell’Italia nel 1796 (Pace di Campoformio) i modelli giuridici francesi
si impongono in varie regioni d’Italia come modelli rivoluzionari.
Nel Regno d’Italia fu introdotto, in traduzione italiana, il codice civile francese dal 5 giugno 1805, il codice
di procedura civile dal 1 ottobre 1806, il codice di commercio dal 1 settembre 1808. Nel regno di Napoli il
codice civile francese entrò in vigore nel 1808 e quello di commercio l’anno successivo. Piemonte e Liguria
erano annessi direttamente alla Francia. Nel 1815 tutta l’Italia eccetto Sardegna e Sicilia seguiva la
codicistica francese.
Durante la seconda fase di ricezione dei modelli francesi accadono delle cose interessanti:
- nel regno borbonico delle Due Sicilie i codici francesi vennero nel 1819, per essere sostituiti con un
nuovo codice diviso in cinque parti dedicati alle leggi civili, penali, di procedura civile, processuali
penali e commerciali, che non erano altro che la riproduzione dei codici precedenti con qualche
modificazione;
- nel Ducato di Parma, Maria Luigia, moglie di Napoleone, adottò nel 1820 un nuovo codice civile,
ritenuto il migliore tra i codici preunitari, che seguiva struttura e pilastri portanti del codice napoleonico;
- negli Stati Sardi i codici rimasero in vigore in Liguria, mentre nei territori soggetti a casa Savoia ritornò
in vigore l’ordinamento prerivoluzionario. Questo ritorno fu di breve durata e nel 1837 fu promulgato
un codice civile, detto albertino, che era una traduzione del codice napoleonico;
- nel Ducato di Modena con la restaurazione si assistette ad un ritorno alle costituzioni del 1771, che
tuttavia si dimostrò insoddisfacente ed anche qui si sentì la necessità di una ricodificazione, che avvenne
nel 1851.

Il modello giuridico francese fu restaurato come diritto positivo, con le sole eccezioni del Gran Ducato di
Toscana e lo Stato della Chiesa che conservarono il proprio diritto comune, e del Lombardo-Veneto ove fu
introdotto l’ABGB austriaco.
Il Regno di Italia costituitosi nel 1861 adottò i modelli giuridici in vigore nello Stato sabaudo da cui era
partito il movimento di unificazione nazionale e unitamente ad un generale sentimento di simpatia per la
Francia la quale aveva agevolato in modo decisivo l’unità di Italia, condusse alla adozione di un codice civile
nel 1865, analogo al modello francese, e di un ordinamento amministrativo ricalcato su quello in vigore in
Francia. La dottrina giuridica dell’Italia unita seguì da vicino i modelli dottrinali francesi dando vita ad un
periodo denominato come quello della scuola italiana dell’esegesi.
Il modello francese è stato recepito in Italia tra il 1796 ed il 1865 come modello legislativo; è intervenuta
anche una ricezione dottrinale. Si è trattato di una ricezione completa: i giuristi italiani non si limitarono a
compulsare i propri codici, ma si rivolsero anche alla dottrina francese della scuola dell’esegesi, infatti
inequivocabile fu la traduzione in lingua italiana di tutti i grandi trattati della ecole de l’exégèse.
Meno influente fu la giurisprudenza francese; la conoscenza delle pronunce di Coru de Cassation e del
Conseil D’Etat avveniva attraverso il filtro della dottrina francese che le citava.
La giurisprudenza italiana non si è ispirata a quella francese; è rimasta immune dalle influenze dell’omologo
formante francese. Le sentenze dei giudici italiani non si sono mai ridotta alla concisione tipica dei jugement
à phrase unique, ma hanno sempre fatto ricorso a pagine intere per motivare la propria decisione. Lo stile
della motivazione è rimasto legato allo stile rotale, ovvero allo stile delle Rote e dei Senati del sei-settecento,
quando si riteneva doveroso per il giudice il rispondere esaurientemente a tutti gli argomenti sollevati dagli
argomenti delle parti. In Italia non si ebbe la necessità di sopprimere le Corti supreme degli Stati Preunitari,

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sicché vennero conservate cinque Corti di Cassazione con sede a Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.
Nel 1923 si provvide all’unificazione della Corte di Cassazione in materia civile.
Il codice civile italiano del 1865 essendo giunto cronologicamente più tardi i suoi redattori tennero presenti
tutte le innovazioni introdotte nel frattempo dalla giurisprudenza e la dottrina francesi, di conseguenza in
Italia si è avvertita in modo meno chiaro la necessità di progredire oltre la lettera del codice, e la dottrina e la
giurisprudenza italiane hanno avvertito in minor misura la necessità di emanciparsi dalle parole del
legislatore. Mentre la scuola dell’esegesi in Francia ebbe grandi meriti operativi ed impostò le soluzioni
codicistiche in modo tuttora valido, l’esegesi all’italiana non è stata affatto una dottrina progressiva capace di
promuovere l’adozione di soluzioni innovative.

La ricezione dei modelli tedeschi e la ricodificazione del 1942.


Al confronto con il modello francese quello tedesco appariva più semplice e aveva in sé gli strumenti
necessari a colmare le lacune del diritto.
I motivi di attrazione furono più di uno: innanzitutto vi fu la propensione dei romanisti ad attribuire alla loro
disciplina un ruolo guida nel rinnovamento del diritto patrio (diritto comune, influenzato dal diritto romano);
dall’altro canto vi era un incentivo per gli accademici a vedere coniugato il ruolo di docente con quello di
scienziato del diritto, fatto che ebbe una ricaduta positiva in quanto le cattedre di giurisprudenza furono
coperte da personaggi di fama che diedero vita ad una letteratura giuridica italiana; infine ebbe influenza il
desiderio di liberarsi dell’esegesi all’italiana, la quale riusciva solo a peggiorare le norme per via di
interpretazione. Tuttavia la ricezione del modello pandettistico fu limitata perché gli scrittori tedeschi furono
imitati da quelli italiani nel loro metodo di analisi ed esposizione del sistema giuridico, ma la loro influenza
fra gli operatori fu sempre indiretta, ovvero filtrata dalla dottrina italiana; inoltre l’imitazione del modello
pandettistico si verificò in un ambiente ormai codificato ed in un’epoca in cui si era affermato in maniera
trionfante il positivismo metodologico, senza potersi giovare del favore patriottico legato al desiderio di
pervenire ad una unificazione del diritto nazionale come invece era avvenuto in Germania.
Le soluzioni cardinali del diritto privato rimasero quelle di origine francese, fissate nei codici vigenti; l’unico
settore effettivamente conquistato dai modelli tedeschi fu l’università, ove si diffusero le discipline
romanistiche e civilistiche, la procedura civile e le materie del diritto pubblico e quelle penalistiche.
In simile contesto, una completa ricezione dei modelli tedeschi si sarebbe potuta ottenere solo se anche i
codici fossero stati riscritti ad imitazione dei codici tedeschi. Negli anni del regime fascista in effetti l’Italia
ha ricodificato, tuttavia le resistenze alla consacrazione di modelli tedeschi furono forti da fare si che dal
processo di ricodificazione sortissero codici ibridi: per quanto riguarda il codice civile, le varie commissioni
incaricate della redazione del nuovo codice civile italiano furono unanime nel rifiutare di seguire il BGB;
inoltre la predisposizione del testo del codice fu affidata a troppe commissioni per poter presentare caratteri
di impeccabilità di linguaggio. Essenzialmente però difettava la volontà politica di mutare le soluzioni
qualificanti del diritto patrimoniale provenienti dal modello francese ed ormai radicate nella prassi.
Il codice civile italiano del 1942 segnò un progresso solo nella parte relativa al diritto delle obbligazioni e dei
contratti, parte che la tradizione di civil law ha da sempre affidato al dominio della scientia juris; il diritto di
famiglia ha dovuto essere rifondato interamente, dopo che lo sviluppo del paese rese inaccettabile le scelte
del legislatore del ’42; il libro relativo alla proprietà non ha inciso sulla traiettoria evolutiva seguita in questo
settore dalle altre esperienze occidentali; la disciplina del rapporto di lavoro ha alimentato la fuga dal codice
di tutta la materia dei rapporti di collaborazione continuativi; la materia della responsabilità patrimoniale fu
vittima della eccessiva preoccupazione di proteggere i creditori e del mancato coordinamento con le regole
dii procedura e le regole fallimentari che non ne riflettono né il linguaggio né le categorie.
Il carattere ibrido dell’opera di ricodificazione ha influito in modo divergente sugli sviluppi seguenti: la
dottrina francese non ha avuto più corso presso quella italiana anche nella forma perfezionata dalla scuola
scientifica; il codice per il suo carattere ibrido non ha stabilito un modello autoctono cui la dottrina potesse
affezionarsi, sicché questa è apparsa con il tempo più attratta dal testo costituzionale.
La prassi del foro si è liberata da ogni timore reverenziale verso la scientia juris ed ha ripreso le proprie
abitudini esegetiche. La giurisprudenza italiana appare assai creativa e si considera svincolata dalla lettera
della legge; inoltre i giudici procedono ad un’opera di adeguamento del sistema basata su percorsi
incrementali da essi stessi tracciati.

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SEZIONE TERZA - UNO SGUARDO AI PRINCIPALI SISTEMI DI CIVIL LAW


L’esperienza svizzera.
La Confederazione Elvetica si distaccò dal Sacro Romano Impero nel XIV secolo, quando i cantoni della
Svizzera centrale si ribellarono agli imperatori della casa d’Amburgo. I modi con cui fu conquistata
l’indipendenza suggerirono che la soluzione adeguata alle necessità delle singole comunità cantonali fosse la
conservazione di un diritto consuetudinario locale amministrato da giudici elettivi. Inoltre la maggior parte
della Svizzera si estraniò dal contesto giuridico europeo. La conquista napoleonica portò all’introduzione in
Svizzera della omonima codificazione, ma tale vigenza fu piuttosto effimera. La ristrutturazione
costituzionale della confederazione dopo il Congresso di Vienna con la riconosciuta indipendenza e parità tra
i diversi cantoni, portò ciascuno di essi a rimodernare il proprio sistema giuridico: i diversi cantoni decisero
di introdurre un proprio codice civile. Essi erano divisi circa il modello da adottare: quelli della Svizzera
francofona e del Canton Ticino scelsero il modello del Code civil, mentre i cantoni della Svizzera centrale si
dotarono di codici redatti sul modello dell’austriaco ABGB. Verso la metà del secolo scorso (1853-55) il
cantone di Zurigo si dotò di un altro tipo di codice redatto da giuristi locali formatisi nella scuola di Savigny.
Esso seguiva i dettami della scuola storica tedesca ed era attento anche alle consuetudini radicate in ambiente
zurighese; presto divenne il modello di altri codici cantonali della Svizzera tedesca, grazie anche allo
strumento di diffusione dell’università.
Con la prima rivoluzione industriale la Svizzera venne risucchiata nel contesto europeo dal quale si era
appartata grazie alla sua indipendenza ed alla sua politica di neutralità. L’introduzione di codici cantonali
contribuiva però ad affrontare il problema della modernizzazione del diritto, ma aggravava quello connesso
alla sua frammentarietà: presto fu quindi avvertito il bisogno di unificare i mercati nazionali.
Ad una codificazione vera e propria si giungerà con il lavoro del giurista Eugen Huber, il cui lavoro si
protrasse dal 1884 al 1907. L’esperienza svizzera presentava famigliarità con entrambe i modelli, francese e
tedesco: alcuni cantoni conoscevano ed apprezzavano il modello napoleonico, altri avevano assimilato quello
pandettistico. Ne derivò un codice (Zivilgesetzbuch, ZBG) nel quale è netto il rifiuto di seguire il modello
del BGB, il linguaggio tende ad essere la lingua comune evitando il ricorso massiccio alla terminologia
tecnica ed ai continui rinvii tra i diversi articoli; inoltre non venne accolta la codificazione di una Parte
Generale, sostituita con una Introduzione di soli 10 articoli. Si trattava di un codice che parlava direttamente
ai cittadini.
Huber dimostrò anche famigliarità con le correnti più moderne della dottrina europea: l’art. 2, 2 comma,
ZBG codifica il principio per cui l’abuso del diritto non è protetto dall’ordinamento; l’art. 1, comma 2, ZBG
attribuisce al giudice in caso idi lacuna il potere di decidere secondo la regola che egli avrebbe adottato se
fosse il legislatore, cioè in base ad una regola generale ed astratta e non in base all’equità del caso singolo, e
nel fare ciò il giudice deve ispirarsi alle soluzioni consacrate della dottrina e della giurisprudenza. Queste due
norme sono state usate con parsimonia dalla giurisprudenza elvetica, la quale preferisce fare riferimento alla
disposizione di cui al primo comma dell’art. 2, che codifica il principio generale di buona fede.
Nell’applicare simile disposizione che è perfettamente analoga a quella dii cui al paragrafo 242 BGB, la
giurisprudenza svizzera può appoggiarsi alla parallela giurisprudenza tedesca ed alla relativa elaborazione
dottrinale. Inoltre, il principio espresso nel ZBG secondo il quale le eventuali lacune della legge debbono
essere colmate mediante il ricorso al diritto consuetudinario, oppure mediante l’attività creativa del giudice,
testimonia il diritto consuetudinario come fonte sussidiaria e la netta preferenza dei giudici di civil law ad
integrare le lacune del sistema mediante i criteri dell’analogia e dell’interpretazione estensiva anziché
mediante libera ricerca della soluzione più adatta. L’importanza delle scelte codificate nei primi due articoli
dello ZBG si coglie nel fatto che quelle disposizioni hanno delegittimato in ruolo radicale le metodologie
esegetiche.
Il cuore della codificazione svizzera è l’OR (quinto libro), appositamente rimaneggiato da Huber, al fine di
coordinarlo con le altre disposizioni del codice (primo libro, diritto delle persone; secondo libro, diritto di
famiglia; terzo libro, diritto delle successioni; quarto libro, diritti reali).
Nonostante non faccia parte dell’Unione Europea il governo federale svizzero è piuttosto attento a seguire
l’evoluzione del diritto privato comunitario, mediante una legislazione che ricalca molto da vicino le
direttive europee; sicché anche il diritto svizzero nella sostanza partecipa all’evoluzione generale dei sistemi
europei.

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L’esperienza austriaca.
Nei domini austriaci venne introdotto all’inizio dell’era delle codificazioni un codice moderno autoctono,
l’Allegemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB), del 1811, ancora oggi in vigore in Austria. Insieme
all’Allgemeines Landrecht (codice prussiano, ALR) e al Codex Masimilianeus Bavaricus Civilis costituisce
il nucleo delle codificazioni illuministiche del ‘700. L’iniziativa di codificare il diritto civile degli Stati
soggetti alla casa d’Austria fu infatti assunta da Maria Theresia, al fine di redigere un codice fondato su
diritto della ragione. Invece che promulgare un codice simile all’ALR, i sovrani austriaci preferirono
prolungare i lavori di redazione, sino a pervenire alla redazione di un codice civile moderno: l’AGBG è una
codificazione del solo diritto civile e non onnicomprensivo come l’ALR; lo stile con cui è redatto attinge alla
sobrietà del Code civil; le disposizioni chiave dell’ABGB mirano ad una effettiva razionalizzazione e
semplificazione delle istituzioni del mercato; L’ABGB ha abolito i diritti civili diversificati in funzione dello
status delle persone ed introdotto il principio della capacità giuridica generale attribuita a tutti; ha provveduto
alla ricomposizione delle situazioni proprietarie abolendo i vincoli sulla terra e sancito il diritto di chiudere i
fondi; ha riconosciuto il principio generale dell’autonomia negoziale e fissato il regime unitario della
circolazione dei beni e dei diritti.
Esso realizzò dunque gli stessi obiettivi del Code civil: modernizzazione ed uniformazione del diritto.
Tuttavia la sua messa in opera non seguì lo stesso itinerario percorso dall’esperienza francese: i commenti
dottrinali non si accumularono con la regolarità che si è vista in Francia e non raggiunsero quindi quella
massa critica idonea a fornire una guida completa agli operatori del diritto, il quale venne assunto
dall’amministrazione governativa e locale.
Presto la dottrina austriaca venne attratta dagli insegnamenti della scuola storica tedesca e ripudiò uno stile
esegetico che aveva caratterizzato i primi commenti. I giuristi austriaci furono propensi a pensare in termini
di sistema logico formale senza dare troppa rilevanza alle singole disposizioni del codice. La prevalenza dei
modelli pandettistici nella dottrina austriaca indusse ad un aggiornamento del codice. Solo con il tramonto di
quella scuola di pensiero i giuristi austriaci, contemplando con occhi diverse le disposizioni del loro codice,
valorizzarono le differenze rispetto al sistema del BGB.

L’esperienza del Belgio e dell’Olanda.


Con la pace di Campoformio del 1797 i territori di Borgogna e di Asburgo vennero annessi alla Francia e
questo comportò l’applicazione del Code civil nella sua versione originale. Quando nel 1815 l’attuale Belgio
venne unito al Regno di Olanda ed i codici francesi rimasero in vigore provvisoriamente fino al 1830,
quando il Belgio conquistò la propria indipendenza dall’Olanda. Durante quel periodo di vigenza qualche
aggiustamento fu necessariamente introdotto per via legislativa, ma nell’insieme la messa in opera del Code
civil procedette di pari passo nei due paesi; i trattati dei commentatori francesi circolarono il Belgio senza
bisogno di traduzione; le sentenze della Court di Cassation francese erano persuasive anche nel Belgio; i
giudici belgi adottarono in pieno lo stile delle sentenze dei colleghi francesi. Tuttavia nell’ultimo ventennio
si è manifestata qualche maggiore divergenza: la legislazione belga differisce da quella francese in una serie
di soluzioni puntuali; la dottrina che si esprime ormai nella propria lingua e non più in francese, appare
sensibile alle influenze angloamericane e si mostra aperta verso soluzioni straniere non solo francesi, anzi
preferisce quelle non francesi. In questo senso a livello di formante dottrinale l’esperienza belga sembra
volersi porre verso un diritto europeo comune.
Il regno di Olanda, o Paesi Bassi, fu ricostruito nel 1814 dopo la caduta di Napoleone Bonaparte e
comprendeva il territorio del Belgio attuale. Sotto il dominio francese di Luigi Bonaparte, nel 1809 venne
introdotto un primo codice ricalcato sul modello francese; l’anno seguente i Paesi Bassi furono annessi alla
Francia e il Code Civil vi trovò diretta applicazione. Il nuovo regno confermo la vigenza del codice francese,
ma intraprese al contempo lavori di ricodificazione che portarono, nel 1838, all’introduzione del Burgerlijk
Wetboek (BW), e di nuovi codici, tutti di impronta francese. La situazione delle fonti del diritto privato
olandese riproduceva quella italiana successiva all’unità; anche la dottrina olandese venne conquistata dai
modelli scientifici tedeschi i quali dall’insegnamento universitario si travasarono nella giurisprudenza; la
Corte suprema ispira molte soluzioni giurisprudenziali ai principi del BGB tedesco, scavalcando la lettera del
BW.
La secolare consuetudine con la forma di codice ha indotto il legislatore olandese a programmare nel
secondo dopoguerra una ricodificazione del diritto civile. questa decisione è collegata anche alla volontà di
ricodificare espressa dal professor Eduard Mauritis Meijers, il quale, forte di un grande prestigio scientifico,
ottenne con un Decreto del 25 aprile 1947 la delega a redigere un nuovo codice civile. I lavori si protrassero

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per quasi un cinquantennio, ma le impostazioni di fondo del New Burgerlijk Wetboek (NBW) rifletté le
scelte di Meijers. Il riferimento alla buona fede nel NBW è onnipresente; esso si compone di otto libri: il
primo concerne il diritto di famiglia e delle persone fisiche, il secondo il diritto delle persone giuridiche, il
terzo libro contiene la parte generale del diritto patrimoniale, separando il diritto delle persone da ciò che
concerne la detenzione e la trasmissione della ricchezza (la scelta è significativa per due ragioni: da un lato la
consapevolezza che i diritti della persona e la sua vita privata e famigliare devono essere disciplinati in base
a criteri diversi da quelli che presiedono al diritto patrimoniale; dall’altro lato il rifiuto di una Parte Generale
a tutta la materia privatistica ha fatto salva l’ammissibilità di una parte generale concernente il settore
tradizionalmente tecnico del diritto privato). I libri dal quarto al settimo sono dedicati rispettivamente alle
successioni, alla proprietà, alle obbligazioni in generale ed ai singoli contratti; l’ultimo libro è dedicato al
diritto dei trasporti e qui il codice diventa dettagliato e preciso e puntiglioso sul regolamento delle singole
fattispecie (a differenza che nei precedenti libri dove sono presenti clausole generali o disposizioni aperte
all’interpretazione giurisprudenziale).

La tradizione dei paesi nordici.


L’esperienza giuridica dei paesi del Nord Europa (Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda, Finlandia) presenta
tratti così peculiari da far dubitare che facciano parte della famiglia di civil law. Tuttavia la tradizione
giuridica scandinava si è formata mediante una assimilazione dei modelli romanisti del jus commune e della
pandettistica. Ciò che induce al dubbio è il fatto per cui i sistemi scandinavi non hanno conosciuto il
passaggio della codificazione; essi hanno piuttosto lasciato grande spazio alla concretizzazione
giurisprudenziale, almeno fino all’avvento della moderna legislazione.
Nel 1687 Cristiano V di Danimarca promulgo un primo codice (Danske Lov), diviso in 6 libri che venne
recepito anche in Norvegia e Islanda, soggette alla Corona danese. La Svezia codificò successivamente ed in
forma completa nel 1734 (Sveiges rikes lag) ed il codice si applicò in Finlandia e continuò ad applicarsi
anche dopo il passaggio del Gran Ducato di Finlandia alla Corona russa. Entrambi questi codici erano
primitivi e poco organici rispetto ai codici moderni; essi conglobavano tutte le materie comprese le
procedure e il diritto penale sostanziale; infine erano brevi: nel loro insieme i novi libri del codice svedese
assommavano solo 1300 paragrafi in articoli. In realtà si dava per scontato che una volta fissate le regole
cardinali del diritto nazionale, i giuristi dovessero provvedere ad elaborare le regole da applicare ai casi
omessi mediante la propria cultura, ovvero il diritto romano comune.
La limitata incidenza operativa del formante dottrinale indusse l’introduzione di nuove leggi riformatrici.
Tuttavia non avvenne una ricodificazione generale ed il problema della uniformazione nello spazio giuridico
e commerciale scandinavo venne affrontato mediante la tecnica delle leggi uniformi. A partire dal 1872
Svezia, Norvegia e Danimarca iniziarono a coordinare la loro legislazione in materia di diritto industriale,
commerciale e della navigazione; nei primi anni del secolo venne adottata una legge uniforme sulla vendita
di cose mobili; negli anni prima della guerra mondiale venne adottata una legge contenente le disposizioni
generali sui contratti e gli altri negozi giuridici in materia patrimoniale (ricalcata sul modello della Parte
Generale del BGB); nel 1936 si addivenne alla formulazione di una legge uniforme in tema di obbligazioni,
estesa anche alla Finlandia che si riunì al gruppo dei paesi nordici dopo l’indipendenza dalla Russia nel
1918.
Negli anni ’30 si afferma in Svezia e si diffonde rapidamente il modello di Stato sociale, attento alla
protezione dei cittadini specie i più deboli, e la legislazione si rivolge in tale direzione e risulta uniforme. La
svolta socialdemocratica ha rafforzato la supremazia del formante legislativo, assegnando a strutture
pubbliche il ruolo di “implementation” delle scelte consacrate nelle singole leggi. I giudici quindi
preferiscono svolgere le proprie funzioni all’interno delle tracce fornite dal legislatore uniformandosi alle sue
intenzioni.
La diffusione della lingua inglese come lingua di cultura ed un certo grado di affinità nella ricerca della
soluzione migliore hanno introdotto nella mentalità giuridica scandinava atteggiamenti analoghi a quelli dei
common lawyers. Tuttavia simili atteggiamenti anticipano alcuni caratteri che stanno prendendo piede anche
in altri sistemi di civil law, e non è quindi legittimo parlare dei sistemi scandinavi come sistemi misti o come
esperienze giuridiche che stanno seguendo una deriva verso il mondo di common law.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Tradizione e modernizzazione del diritto nella penisola iberica.


In Spagna la modernizzazione del diritto ha potuto esprimersi solo parzialmente mediante la codificazione
perché questa non ha potuto superare il particolarismo dei fueros (consuetudini locali) e quindi promuovere
l’unificazione del diritto nazionale. Anche in Spagna si è verificata una discrasia tra il settore commerciale,
per il quale un codice unitario è stato approntato nel 1829, ed il settore del diritto civile, per il quale sono nel
1889 si è pervenuti alla emanazione del Código civil. Questo codice, salvo per alcune parti, è dotato di valore
sussidiario rispetto al diritto consuetudinario di regioni come la Catalogna, province basche e Galizia. Esso si
è ispirato al modello dei codici francesi ed è stato ben accolto in Spagna in quanto codificazione romanistica;
anche la pandettistica tedesca è stata ben accetta in quanto si è presentata quale ultimo ed elevato prodotto
della scienza juris romanistica. Il carattere non unitario del diritto civile spagnolo ha consentito alle
costruzioni dottrinali di occupare uno spazio operativo assai ampio. Inoltre, l’art. 6 Código civil dispone che
la giurisprudenza deve svolgere la funzione di completamento del diritto legislativo mediante la dottrina
consolidata dal Tribunale Supremo nell’interpretazione ed applicazione della legge, della consuetudine e dei
principi generali del diritto.
Il Portogallo invece ha una lunga tradizione di diritto unitario alle spalle. Le ordinanze di re Alfonso V
fecero sì che il Portogallo disponesse già nei primi anni del XVII secolo di un ordinamento a base legislativa
il quale lasciava poco spazio alle fonti consuetudinarie locali.
La modernizzazione del diritto avviata nel secolo scorso imboccò la via della codificazione: prima di
addiviene ad una codificazione del diritto commerciale nel 1883 (riscritto nel 1888 evolvendosi in forme
moderne grazie alle indicazioni provenienti dalle codificazioni commerciali italiana e spagnola di poco
precedenti); si procede nel 1867 ad una codificazione del diritto civile. In entrambe i casi si assunsero i
codici francesi come modelli. Il codice civile si allontanò però dal modello francese perché preferì assumere
la disciplina della famiglia e delle successioni dal diritto tradizionale portoghese, ma anche perché in sede di
codificazione si provvide a risistemare la parte del diritto patrimoniale secondo linee che apparivano più
consone alla scienza romanistica del tempo. Inoltre poiché la redazione del codice venne affidata ad un
professore della celebre università di Coimbra, il suo stile fu piuttosto accademico, cosa che non può dirsi del
Code Napoléon.
Il prestigio della dottrina e dell’insegnamento universitario ha trovato il suo punto di emersione più evidente
nella ricodificazione del diritto civile del 1967: la dottrina portoghese si convertì ai modelli pandettistici
abbandonando quelli francesizzanti importati insieme ai modelli dei primi codici ed ebbe, a differenza della
dottrina italiana, la forza di imporre una ricodificazione di proprio gusto. Il Código civil portoghese del 1967
è molto vicino al modello del BGB sia nel suo impianto che nel suo contenuto: è uno dei pochi codici
europei a contenere una Parte Generale e una parte relativa ai conflitti di legge; codifica la nazione di
“negocio juridíco” ispirandosi all’insegnamento pandettistico; riproduce la disposizione di cui al paragrafo
90 BGB limitando la nozione di bene suscettibile di diritti reali ai soli beni corporali; segue le categorie
pandettistiche nella sua sequenza strutturale. Sotto il profilo storico si tratta di una ricezione tardiva giunta a
compimento quando ormai il modello pandettistico godeva di scarso credito in tutta Europa.

I sistemi giuridici latino-americani.


I sistemi giuridici latino-americani sono stati plasmati sui modelli dei paesi colonizzatori, ossia Spagna e
Portogallo. Tuttavia dalla conquista delle popolazioni indigene sortì un sistema giuridico diverso da quello
della madre patria. Si trattò di un adattamento dei modelli giuridici di provenienza ispanica, alle situazioni
locali; non sembra quindi corretto parlare dell’esistenza di un sistema giuridico latino-americano, con sue
proprie e distinte caratteristiche che lo differenzino da ogni altro.
Anche dopo l’indipendenza, nei paesi già spagnoli, rimase in vigore la Recompilaciòn de Indias del 1680, la
quale stabiliva la gerarchia delle diverse fonti, indicando nell’ordine fonti ed ordinanze regie, le fonti del
diritto castigliano ed infine i fueros. Peraltro sia per naturale vocazione dei singoli Stati indipendenti a darsi
leggi proprie, sia per i bisogni intrinsechi alla modernizzazione del diritto, ciascuno di essi provvedette, a
partire dalla seconda metà del XIX secolo, a dotarsi di un proprio codice civile. Ogni codice nazionale fu
opera di un singolo giurista:
- in Cile il Código civil del 1855, opera di Andrès Bello, riuscì piuttosto organico, tanto da esercitare
influenza su altre codificazioni dell’America latina. In realtà molti paesi si sono limitati a riprodurlo
(Ecuador, Colombia, Nicaragua, Honduras, Salvador);
- in Argentina nel 1869 venne redatto da Dalmacio Velèz Sarsfeld un codice civile che trasse
ispirazione dal Code civil francese, da cui vennero riprodotti circa la metà degli articoli, ma accanto ad

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essi figurarono materiali tratti dal diritto spagnolo previgente e da un insieme di altri codici tra cui
quello cileno, il codice italiano del 1865, l’ALR prussiano del 1794, l’ABGB austriaco del 1811 ed il
codice civile della Louisiana;
- il Paraguay dotandosi di un proprio codice civile nel 1889, scelse a modello quello argentino, così
come successe in Uruguay il cui primo codice civile risale al 1871;
- nel primo codice civile della Bolivia la prevalenza del modello francese fu netta: essa fu una netta
traduzione del Code Napoléon, che venne poi sostituito nel 1976 da un nuovo testo che ripete in grandi
linee i contenuti di quello già in vigore;
- in Brasile il governo brasiliano affidò nel 1856 l’incarico di redigere il codice civile ad Augusto
Teixera de Freitas, giurista noto come autore di una opera privata di sistemazione e consolidazione
nella quale venivano amalgamate insieme le fonti di diritto portoghese e quelle locali. Esso redasse un
testo di ben 4900 articoli, intitolato Esboço de Código Civil, che comprendeva una parte generale, ma
che non venne mai approvato. Verso la fine del secolo XIX il governo brasiliano incaricò un altro
giurista, Clovis Bevilaqua di redigere un progetto di codice che entrò in vigore nel 1917. I suoi
modelli sono rintracciabili nel codice civile francese e nel BGB. Nel 2002 il Brasile si dota di un
nuovo codice civile ispirato dal desiderio di modernizzazione e di sistematicità, derivato dal modello
del BGB, ma prevedendo una parte generale divisa in tre libri dedicati alle persone, ai beni, ed ai fatti
giuridici. La parte speciale è divisa in cinque libri dedicati al diritto delle obbligazioni, all’impresa, ai
diritti sulle cose, al diritto di famiglia, ed alle successioni.
Le varie influenze riscontrabili a livello dei codici e di legislazione ha fatto si che la frammentazione imposta
dai singoli codici nazionali non ha prodotto in America Latina lo stesso grado di frantumazione che si è
verificato in Europa. Inoltre l’unità culturale di fondo agevola il coordinamento che si sta sviluppando
dell’America Latina in corrispondenza con lo sviluppo del Mercosur, ossia la istituzione di un mercato unico
tra i paesi latino americani aderenti. Istituito con il trattato di Asunction nel 1991, il Mercosur ha come
obiettivo l’abolizione delle barriere tariffarie sui flussi di merci e di fattori di produzione, la fissazione di
un’unica tariffa verso l’esterno e l’interno e l’armonizzazione di alcuni aspetti della politica economica dei
paesi coinvolti.

SEZIONE QUARTA - IL RITORNO DEL JUS COMMUNE EUROPEUM


I problemi della edificazione di un mercato unico nell’Unione Europea.
Sin dall’istituzione della Comunità Economica Europea l’obiettivo è stato quello di creare un mercato unico
tra i paesi membri. L’itinerario è stato graduale: si è iniziato con l’abolizione delle barriere doganali, ma ciò
ha avuto effetto limitato perché gli Stati membri avevano regolato, ciascuno a proprio modo, la attività
economiche e produttive, istituendo una rete di barriere tecniche invisibili che impedivano a molti beni ed a
quasi tutti i servizi di poter essere offerti su mercati diversi da quelli nazionali. L’attività legislativa della
CEE è stata quindi rivolta a regolare di nuovo, su scala europea ed in modo uniforme, le molteplici attività
produttive. Ugualmente produttiva di effetti dinamici è stata l’opera scolta dalla Corte di Giustizia e dal
Tribunale di Primo Grado: esse hanno seguito una interpretazione orientata al risultato di favorire una
integrazione degli ordinamenti degli Stati membri. Tale azione è contrassegnata dall’introduzione di principi
innovativi come la responsabilità degli Stati verso i singoli cittadini per mancata trasposizione delle Direttive
comunitarie, o per errata applicazione da parte delle corti supreme statali.
L’azione combinata della Commissione e della Corte di Giustizia è riuscita ad imporre un alto grado di
integrazione economica europea. La libera circolazione delle persone e la moneta unica hanno reso palpabile
questa soluzione; da registrare è anche il successo di tale integrazione che ha dato origine ad un effetto
calamita grazie al quale 21 paesi si sono volontariamente uniti ai sei iniziali. Anche se non tutti gli Stati
partecipano agli accordi di Schengen ed alla moneta unica, il grado di integrazione tra le rispettive economie
risulta elevato.
In questo contesto va collegato il problema di un rinnovato diritto comune europeo.
Sotto il profilo delle pure norme di diritto positivo un diritto comune europeo esiste già e domina importanti
settori della vita economica. Il diritto degli appalti pubblici, il diritto dei segni distintivi, le regole tecniche
sulla fabbricazione dei prodotti, l’attività agricola e la pesca e la disciplina della moneta sono già uniformi e
rappresentano quindi un diritto comune. A ciò si aggiunge che principi del diritto comunitario, come il
principio di proporzionalità, sono entrati a far parte del tessuto giuridico di ogni Stato membro e possono
essere invocati come principi vigenti indipendentemente dalla natura della questione affrontata. Si deve
ricordare anche che lo strumento della libera prestazione di servizi consente alle imprese europee di svolgere

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attività economiche senza sottoporsi ai controlli delle autorità amministrative nazionali diverse da quelle del
paese in cui hanno la loro sede formale. Sotto il profilo delle strutture di tipo pubblicistico che regolano gli
assetti del mercato esiste già un diritto comune europeo, che non è completo ma dotato di propria fisionomia.
Quando si parla di diritto comune europeo ci si riferisce all’ordinamento giuridico nel suo complesso, ed un
ordinamento giuridico è un insieme complesso di norme, istituzioni e mentalità, analiticamente scomponibili
in ulteriori formanti.

Il percorso verso un diritto comune.


Amalgamare i sistemi giuridici di 27 Stati è un’impresa ardua, ma Commissione e Parlamento hanno
sostenuto che si tratta di un’opera necessaria perché le diversità di regime giuridico costituiscono anch’esse
le barriere invisibili all’integrazione dei mercati ed all’edificazione del mercato unico interno. Per perseguire
tale obiettivo sono state indicate due strategie: la prima consiste nell’accrescere il numero e la rilevanza delle
norme europee dando origine ad un vasto nucleo di diritto comune; la seconda consiste nel dotare il diritto
europeo di strumenti legislativi di grande impatto culturale, predisponendo una costituzione europea ed un
codice civile europeo. Attorno a questa seconda strategia si è acceso un grande dibattito: le istituzioni
comunitarie hanno proceduto a sviluppare il proprio programma di armonizzazione del diritto privato
europeo adottando lo strumento legislativo che si estrinseca in Regolamenti e Direttive.
Sotto il profilo istituzionale il diritto comunitario individua nella giurisprudenza europea il formante
chiamato a guidare l’uniforme applicazione del diritto di origine europea, affidando alla Corte di Giustizia ed
al tribunale di primo Grado la funzione di garantire l’osservanza della legge. È dubbio tuttavia che gli organi
europei possano essere sufficienti ai bisogni di una interpretazione uniforme di un diritto europeo. Tanto più
che la complessità del diritto comune europeo inizia dal testo stesso posto che la normazione europea deve
essere emanata in ciascuna delle 23 lingue ufficiali dell’Unione e ciò crea non pochi problemi: giudici ed
avvocati hanno grandi difficoltà a concepire i problemi che si pongono in regime di plurilinguismo
legislativo.
Sotto il profilo linguistico normalmente i legislatori nazionali hanno alle spalle una tradizione giuridica
sufficientemente strutturata per poter fornire il vocabolario di base con cui esprimere i concetti e categorie
ordinanti senza le quali non si può affrontare il campo del diritto privato; al contrario gli organi europei non
hanno alle proprie spalle una tradizione giuridica univoca e perciò si è pensato di aggirare l’ostacolo
evitando di evocare nei testi normativi i concetti astratti che servono a designare le figure giuridiche. Nel fare
ciò si è proseguito lungo la traiettoria tracciata al tempo in cui la normazione europea era essenzialmente una
normazione tecnica attinente alla produzione di beni, alla coltivazione agricole e ad altre attività che avevano
a che fare con oggetti materiali. Questo tentativo ha causato parecchio disordine: le norme uniformi
ricevevano interpretazioni divergenti; l’uso di concetti empirici ha condotto ad impiegare una terminologia
disordinata e ciò ha avuto a sua volta l’effetto di accrescere la frantumazione dei singoli sistemi giuridici
nazionali.
L’Unione Europea si è convinta nel 2003 che per edificare un diritto comune europeo occorre legiferare
meglio ed ha lanciato un vasto piano d’azione al riguardo, dando origine a due sottoprogetti: l’“Acquis”,
dedicato a sistemare le direttive già emanate dando loro veste giuridica; il Common Frame Reference (CFR),
dedicato a mettere a punto un quadro generale della materia del diritto contrattuale. Il contenuto del CFR
sarà dettato dall’opportunità politica, ma è chiaro che una disciplina limitata sarebbe solo una tappa
intermedia che non risolve il problema di fondo: se si vogliono abbattere le ultime barriere invisibili del
mercato unico mediante un diritto uniforme, allora si deve essere coscienti che tale diritto deve essere il più
possibile completo e quindi il testo che lo veicola deve prendere in considerazione tutti gli aspetti del diritto
contrattuale, della formazione, agli effetti verso i terzi, alle invalidità ed ai rimedi, inoltre deve prendere in
considerazione le aree di sovrapposizione tra diritto contrattuale e responsabilità delittuale, arricchimento
senza causa e circolazione dei diritti reali.
Inoltre, posto che nessuno può impedire ai soggetti privati di redigere i loro contratti, occorrerà decidere se
un contratto tra soggetti europei conforme al CFR possa essere in qualche modo invalidato o disatteso dai
giudici nazionali in applicazione di un qualche norma imperativa locale, oppure se, in base al principio della
supremazia del diritto comunitario, la conformità al CFR impedisca completamente l’applicazione di norme
nazionali (in questo caso il CFR diverrà il punto di riferimento normativo dalle imprese europee
contribuendo all’abbassamento dei costi transattivi ed alla eliminazione delle barriere giuridiche che
impacciano gli scambi di beni e servizi all’interno del mercato unico).

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Da tempo alcuni studiosi europei si sono posti privatamente all’opera per designare un possibile testo
comune in tema di diritto contrattuale, ma è probabile che l’influenza maggiore sarà esercitata dalle riforme
ai codici civili introdotte a livello nazionale (riforme al BGB e al Code civil).
Si deve aggiungere che nessun testo legislativo è in grado di influire sulla formazione della mentalità
giuridica come un codice civile. Da ricordare sono i codici civili europei del XIX secolo che costituirono
strumenti di unificazione dei diritti nazionali perché unificarono linguaggio e grammatica giuridica ed
istituzionalizzarono le categorie ordinanti che tengono insieme il sistema.
All’attuale stato delle cose la dottrina europea per sopravvivere come formante deve essere accreditata
presso gli apparati che amministrano il diritto contemporaneo del legislatore e tale accreditamento può
avvenire solo ove il legislatore adotti un linguaggio che manifesta l’intenzione di creare una intensa
linguistica con il giurista dotto. Una codificazione del diritto provato europeo deriva dalla necessità di
preservare il ruolo del formante dottrinale che rischia di appassire a seguito dell’estraniamento del formante
legislativo europeo; tuttavia al momento attuale non sarebbe il codice civile europeo ad arricchire il ruolo del
formante dottrinale, ma la sua assenza.

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CAPITOLO DECIMO - L’EST EUROPEO

SEZIONE PRIMA - L’EST EUROPEO FINO ALL’EPOCA DEL SOCIALISMO


I modelli storici operanti nell’Est europeo.
I paesi europei coinvolti nell’esperienza socialista (1917 e 1944) non rappresentano l’unità: alcuni di essi,
alla vigilia dell’era della codificazione, si presentavano come paesi di stampo romanistico; altri paesi non
ricorrevano in via prevalente al diritto romano. Tra questi ultimi si distinguono i paesi cristiani occidentali
dai paesi ortodossi. I primi hanno ricevuto il diritto romano canonico, il quale ha condotto con sé categorie e
norme romano-giustinianee in ciò che riguarda le persone, la famiglia, i beni ecclesiastici, i contratti in cui è
coinvolta la Chiesa ecc.; i paesi ortodossi hanno invece ricevuto un diritto canonico orientale ed un diritto
bizantino, che prendeva le mosse dal diritto giustinianeo, ma rielaborato in testi successivi.
Nei paesi non romanisti all’origine della vita giuridica, si trovano vigorose consuetudini che interagiscono
con il diritto scritto sapiente (canonico o bizantino) e con la volontà politica del principe o del dominatore
straniero.
I modelli romanisti fecero irruzione dell’Est europeo grazie all’intensificarsi nel XIX secolo dei contatti tra
occidente e la diffusione della cultura universitaria; penetrarono quindi i grandi codici napoleonici, la
dottrina francese, la dottrina dei pandettisti di lingua tedesca, che rimodellò il modo del ragionamento
giuridico. I paesi in questione divennero quindi tutti romanisti nel corso del XIX secolo.

La Boemia, la Moravia, la Slovenia.


Dal XII e XIII secolo il diritto di questi paesi era differenziato per i diversi stati della società (nobiltà,
borghesia, servi, altri gruppi): il diritto nobiliare era elaborato attraverso precedenti e delibere delle diete;
attenzione venne data ai diritti feudali (nel XIII secolo in Boemia erano già presenti i libri fondiari); nel
diritto urbano dominavano i modelli sassoni e sud germanici ma dal XIV secolo operava la ricezione del
diritto romano (lo provano le sentenze del tribunale urbano di Brno, lo “ius regale montanorum”, e l’apertura
dell’università Carlo a Praga).
Nel 1709 vennero intrapresi i lavori di codificazione del diritto civile che avrebbero portato al codice
teresiano e all’ABGB. Dal 1804 Boemia e Moravia divennero regioni dell’impero austriaco e sottoposte alle
leggi austriache (la dottrina austriaca dalla metà del XIX secolo lavorava con la dottrina pandettistica
tedesca). Dal 1918 al 1939 Boemia e Moravia furono il cuore della prima repubblica cecoslovacca. Dal 1945
la Cecoslovacchia ricostruita, prese ad appartenere all’ambito dei paesi coinvolti dall’ondata socialista.

La Polonia.
La base del diritto fu consuetudinaria ed era estranea qualsiasi influenza romana. Il diritto delle città fu
pronto invece a recepire il modello sassone o altri modelli germanici aperti ad ispirazioni romane. Il diritto
canonico operava con vigore nel diritto della famiglia e nel processo; l’università (introdotta a Cracovia nel
1365) non mise il diritto romano al centro dell’insegnamento. Alla vigilia delle spartizioni la Polonia non era
paese romanista.
La spartizione, seguita dalla creazione del ducato di Varsavia, divenuto Regno del Congresso (sotto la corona
dello zar di Russia), fu la premessa di nuovi assetti giuridici: in Posnania e nel corridoio penetrò il diritto
prussiano e poi quello tedesco; in Galizia e Lodomira giunse la legislazione austriaca; nel regno vennero
introdotti in epoca napoleonica importanti modelli francesi; i territori ad est del regno facevano parte della
Russia.
Nel 1919 la Polonia diventa unita e indipendente e poteva considerarsi un paese romanista; codificò nel 1933
la materia delle obbligazioni (secondo il modello francese e tedesco) e dei contratti, ed il diritto commerciale
(germanizzante).

I Paesi Baltici.
La prima fonte scritta del diritto lituano fu un codice penale redatto nel 1468, cui seguirono altri tre statuti
lituani del 1529, 1566 e 1588. Gli statuti fanno posto a modelli consuetudinari lituani, a regole tedesche e
polacche; le città baltiche recepiscono il diritto cittadino di Magdeburgo; il diritto canonico trova
applicazione nel solito ambito.
Ridotta la Lituania, sotto il potere zarista, i russi vi estesero lo Svod Zakonov (1840). Nel 1865 venne
adottato in Lituania il Diritto provinciale del Governo baltico, relativo al diritto pubblico e privato (redatto in

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tedesco e tradotto in russo), che sopravvisse anche dopo l’indipendenza acquisita dalla Lettonia e
dall’Estonia nel 1918.

L’Ungheria, la Croazia, la Slovacchia e la Transilvania.


La base del diritto ungherese fu la consuetudine ma l’urbanizzazione diede luogo alla redazione di statuti
cittadini e grazie allo studio di Vaszprém (libro ungaro) con professori di Bologna o di Parigi, iniziò una
timida diffusione di dottrine romanistiche.
Dal XV secolo vi fu una aspirazione a raccogliere in modo organico consuetudini e leggi regie: nel 1514
venne compiuto l’“Opus tripartitium iuris consuetudinarii inclyti regni Hungariae”, approvato dalla dieta e
dal re, e, sebbene promulgato, veniva applicato dai tribunali; nel 1584 le leggi regie vennero raccolte nel
“Corpus iuris hungarici”.
Nel 1848 la dieta approvò decine di regole che distrussero il regime feudale e immobiliare precedente; in
questo vuoto giuridico il re estese all’Ungheria l’ABGB austriaco e il sistema dei libri fondiari. Nel 1860
l’Ungheria riottenne autonomia giudiziaria, rigettò le fonti austriache, e una commissione convocata dalla
corte suprema fu incaricata di redigere un corpo di “regole giudiziarie provvisorie”, applicato dalle corti.
Nessuno di questi episodi valse per introdurre in Ungheria il diritto romano. Inoltre in Ungheria veniva
coltivata la scienza e l’insegnamento, e la dottrina giuridica che conquistò le università fu quella professata
dai pandettisti di espressione tedesca.
I progetti di codice civile ungherese (1900, 1911-1915, 1928) tengono conto della maturazione romanistica e
germanizzante dei giuristi ungheresi. Questi progetti influenzano la pratica, aumentando il peso dell’esempio
tedesco.
In Transilvania, autonoma dal 1540 fino al 1848, totalmente separata dal 1571 al 1691, troviamo i testi votati
dalla Dieta e alcune norme statutarie (tra cui Statuta iurium municipalium Saxonum).
La Croazia, a differenza di quanto fece l’Ungheria, rimase fedele al diritto austriaco; nel 1875 venne
applicato in Croazia il codice di commercio ungherese.

La Russia e l’Ucraina.
Durante la prima metà del XI secolo venne redatta la prima raccolta di regole praticate dalla popolazione
russa dell’epoca (la Russkaja pravda), la quale trattava il diritto penale e civile e i rapporti commerciali.
Accanto al diritto consuetudinario popolare risiedeva il diritto bizantino, professato dalla Chiesa ortodossa,
espresso dalle fonti giustinianee.
Durante l’occupazione mongola (1237-1480) il diritto comune russo rimase legato alla Russkaya pravda e
alle consuetudini che essa sottende; i Mongoli non imposero il loro diritto (lo Yassak); i principati russi
autonomi rilasciarono alle città delle carte statutarie (testi giuridici moderni e illuminati); infine si sviluppava
il diritto della Chiesa, che era rispettato e favorito dal Mongoli.
Una volta indipendente, al vertice della Russia risiedevano lo Zar, ovvero un’autorità politica autocratica, e
la Chiesa ortodossa russa, comunità religiosa. Tra i due poteri c’era un rapporto di protezione/pubblicità: lo
zar proteggeva la Chiesa e questa sponsorizzava il suo potere.
Bisanzio cadde sotto il dominio dei Turchi musulmani, venuti da Oriente; era quindi affidato a Mosca il
compito di vegliare sulla fede, di riscattare l’umanità dall’errore e dal peccato, diffondendo intorno a sé la
verità e le giuste regole di vita.
Dal 1497 al 1649 lo zar legiferò redigendo testi chiamati sudebniki i quali accentrarono e resero uniforme
l’amministrazione della giustizia e la riscossione dei tributi, e gradatamente vincolarono il contadino al
padrone della terra, facendone un servo della gleba.
Nel 1649 una consolidazione approvata dall’assemblea imperiale (la Sobornoe Ulozenie), si propose di
ridurre in un testo unico, redatto in russo, il diritto del paese. I modelli provenivano dal diritto bizantino,
consuetudinario russo, dallo statuto lituano del 1588, dagli editti degli zar. La consolidazione, nelle sue
quindici edizioni, era destinata a rimanere in vita fino al 1832. Essa regola le grandi forme di proprietà
nobiliare, servile e “di servizio”, il contratto, l’obbligazione, la responsabilità, la famiglia.
Il diritto della famiglia, il diritto della Chiesa e i rapporti fra lo Stato e Chiesa venivano espressi in fonti
specifiche.
La rivoluzione francese e le grandi riforme che ne seguirono trovarono in Russia personaggi favorevoli ad
una recezione: Alessandro I, Nicola I affidarono al conte Speranskij il compito della raccolta e
riformulazione del diritto russo. Egli elaborò il Svod Zakonov, in 15 volumi, in vigore dal 1835.

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Dopo il 1832 il diritto continuò ad evolvere: si codificò promulgando codici penali (1855 e 1903), a modello
occidentale, e di procedura civile, a modello francese (1864); si mise a punto una legge cambiaria (1903); i
lavori condotti dal 1882 al 1905 permisero di redigere il progetto di un codice civile, il Grazdanskoe
ulozeine, tuttavia lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò il progetto.
Il diritto scritto russo rincorreva, per una parte, modelli sapienti, occidentali, illuministi, e per l’altra parte,
garantiva il potere oppressivo dell’autorità.
Il giurista russo era legato al modello francese; nel corso del secolo divenne vincente il modello tedesco
(dogmatico e pandettistico): accanto a un diritto russo tradizionale e accanto ad un diritto russo scritto di
fonte autoritativa veniva a disporsi un modo di conoscenza del diritto filtrato attraverso i modelli romanisti.

La Valacchia e la Moldavia.
Dal XIV al XVIII secolo troviamo una compresenza della consuetudine, del diritto bizantino e canonico e
delle leggi scritte principesche.
Fino al 1450 si sviluppa una recezione del diritto bizantino, utilizzato per regolare il nuovo diritto feudale.
Dal 1600 si profilò la tendenza a codificare il diritto feudale.
Con il XVIII secolo si rafforzò l’idea di autorità e si diffuse l’ideologia del diritto naturale; crebbe la
recezione di fonti canoniche e di fonti bizantine laiche; apparvero raccolte di consuetudini o collezioni
private. Si legiferò il greco o in rumeno.
In Romania venne introdotto il Codul civil nel 1964, su modello francese, anche se apparivano anche norme
autoctone; il codice di commercio del 1887 ha come modello il codice di commercio italiano del 1882. Il
diritto elaborato per la Moldavia e Valacchia unite fu poi esteso, fra il 1919 e il 1943, alla Bessarabia, alla
Bucovina, alla Dobrugia e alla Transilvania.
Nel 1943 la cultura giuridica tedesca penetra in Romania e suggerisce l’adozione di un cod civil nuovo,
germanizzante: il nuovo testo fu promulgato nel 1940, con applicazione differita, ma tempo dopo fu
abrogato.

Gli Slavi del Sud.


• In Serbia figura un codice dello zar Stefano Dušan, il “Zakonik cara Dušana”, del 1349 e 1354, ispirato
in parte anche agli statuti latini.
Nel 1829 il principe Miloš Obrenović commise la traduzione in serbo del Codice napoleonico, ma poi il
programma mutò e fu dato a Handzič il compito di progettare un codice civile sulla base dell’ABGB
austriaco: il testo il 950 articoli fu approvato nel 1844, e accoglie le tradizioni serbe preilluministiche.
Nel 1860 entra in vigore il codice di commercio ispirato al modello francese.
• La Bosnia viveva secondo un diritto consuetudinario, amministrato da giudici laici. Sotto
l’amministrazione austriaca la giurisprudenza lasciò penetrare nel tessuto tradizionale soluzioni
austriache; solo nel diritto della famiglia e successorio si perpetuarono le regole sciaraitiche (per i
musulmani) o canonico-consuetudinarie. Dal 1883 fu in vigore il codice di commercio.
• La cultura montenegrina era a base consuetudinaria e canonistica. Un valoroso studioso, il Bogišić,
professore austriaco, ebbe a redigere un codice civile, entrato in vigore nel 1888, in cui tentò di arginare
la tentazione definitoria, e di avvicinare il codice alle concezioni popolari. A questo codice faceva
riscontro un codice di commercio del 1860, che era una imitazione del modello francese.
• I Bulgari praticavano consuetudini paragonabili a quelle dei popoli vicini. Il “nonno” o “vecchio” era
capo della famiglia patriarcale comunitaria e le relazioni giuridiche con gli estranei facevano capo a lui;
la potestà sui figli permaneva durante l’età adulta. Il matrimonio era preceduto dal fidanzamento e
comportava l’obbligo reciproco di pagare la dote e il prezzo; il cadetto non poteva sposarsi prima del
primogenito; il divorzio era previsto per il caso di adulterio della moglie, di assenza prolungata, tortura
o ubriachezza del marito, o di malattia di mente; la paternità naturale era disconosciuta; l’adozione era
ammessa in alcuni casi. I diritti successori erano riservati ai maschi. Il contratto era concluso con la
stretta di mano davanti a testimoni.
La dominazione bizantina (1018-1186) ha favorito la recezione del diritto bizantino. Inoltre dal IX
secolo il diritto autoritativo offerse il Zakon sudni Ljudem (legge per giudicare il popolo), esteso a
settori del diritto penale (furti e violenza) e al matrimonio.
Nel 1396 la Bulgaria divenne provincia turca e il diritto turco regolò il trapasso di proprietà
immobiliare, ma schemi romani venivano utilizzati per conformare i rapporti di tipo feudale.

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Con l’indipendenza venne abbandonato al diritto canonico il diritto di famiglia, e vennero adottate tre
grandi leggi civili, a modello italiano, per regolare le persone, la proprietà, le successioni, le
obbligazioni e i contratti. Venne poi promulgato un codice di commercio, su modello ungherese, e un
codice di procedura civile, su modello russo.

SEZIONE SECONDA - IL PERIODO DEL SOCIALISMO


La concezione marxengelsiana della società e della storia e la rivoluzione d’ottobre.
Con la Rivoluzione di ottobre del 1917 prese potere il Russia il partito operaio socialdemocratico russo, che
si chiamerà poi partito comunista russo. Esso dichiarava di ispirarsi all’analisi della storia e della società
condotta da K. Marx e F. Engels.
Secondo Marx ed Engels l’umanità visse dapprima praticando un’economia naturale, in cui ogni gruppo
umano si appropriava delle risorse naturali nella misura dei propri bisogni, e consumava senza maggiori
problemi. Ad un certo punto però l’interesse economico indusse gli uomini a confliggere, ed i vincitori
ridussero i vinti in schiavitù: da questo momento nacque l’antagonismo tra la classe degli sfruttatori
(proprietari degli schiavi) e la classe degli sfruttati. I padroni crearono un apparato di forza e coazione,
chiamato Stato, il quale proclama il diritto, ossia le regole che gli sfruttatori impongono agli sfruttati.
Ad un certo momento si assiste ad un rovesciamento della situazione e, nella società che esce da questi
contrasti, una classe padronale aristocratica si assicura il potere esclusivo del suolo e l’appropriazione di tutti
i prodotti della terra; la classe dei non proprietari invece è costretta, per vivere, a lavorare la terra altrui. Le
nuove relazioni giuridiche sono il rapporto feudale, il diritto feudale sulla terra e la servitù della gleba.
Più tardi si forma una classe di operatori economici liberi che toglie potere agli aristocratici e instaura un
sistema economico fondato sulla libera circolazione dei beni e sulla libertà di negoziare mediante contratto le
proprie prestazioni lavorative. L’ideologia è la libertà di pensiero, la quale si trova in simmetria con le libertà
economiche. Si creano quindi due classi antagoniste: la classe dei salariati e la classe dei possessori del
capitale, ossia dei mezzi di produzione.
Ad un certo punto i lavoratori, esercitando le libertà, si associano in sindacati o partiti e promuovono azioni
collettive. Vincendo le resistenze borghesi potranno trasferire la proprietà del capitale dalla classe sfruttatrice
alla collettività; verrà meno la necessità di puntellare con forza l’ordine sociale; lo Stato deperirà; il diritto
scomparirà; regole di convivenza sociale liberamente seguite da tutti armonizzeranno l’attività economica
dell’umanità; la società sarà comunista: ognuno lavorerà secondo le sue capacità e riceverà ciò che gli è
necessario per vivere, le soddisfazioni economiche saranno uguali per tutti. Scomparirà la famiglia,
meccanismo nato e perpetuati per garantire la conservazione della proprietà all’interno della classe; la società
intera provvederà all’allevamento dei nuovi nati.

La scelta socialista.
Preso nelle mani il potere (1917.1921), il partito e la sua giuda Lenin, rivolsero la loro volontà
all’edificazione del comunismo. Alcune misure erano destinate a rimanere in piedi, come la laicizzazione
dello Stato e del matrimonio, la nazionalizzazione delle terre; altre dovevano essere ridiscusse. La moneta
venne abolita e il commercio vietato; l’industria venne nazionalizzata.
Nel 1921 il partito fu costretto a rinunciare all’instaurazione del comunismo, e ad adottare una “nuova
politica economica” che ripristinò la proprietà privata agricola e l’autonomia delle imprese industriali; inoltre
si adottarono sei codici.
Nel 1924 Lenin morì e la direzione del partito passò a Stalin, il quale confermava l’abbandono temporaneo
dell’obiettivo comunista, e nel contempo faceva marcia verso l’edificazione di una società socialista, in cui
lo sfruttamento economico non sarebbe più esistito, ognuno avrebbe lavorato nella misura fissata dal
contratto di lavoro suo proprio, e sarebbe stato remunerato secondo la qualità e la qualità del lavoro prestato,
infine i mezzi di produzione sarebbero stati collettivizzati.
Fra il 1928 e il 1989 le società sovietiche non rimasero uguali a se stesse: i comunisti esclusero che le masse
degli operai e dei contadini dovessero negoziare con le classi sfruttatrici e parassitarie. Le masse quindi
esercitarono una dittatura (dittatura del proletariato), che agì con durezza per disarmare le forze
antirivoluzionarie. Una volta dissolte le classi sfruttatrici, lo Stato dei proletari poteva lasciare il posto ad uno
Stato di operai e contadini, e più tardi, ad uno Stato di tutto il popolo, si da rendere legittima l’identificazione
fra Stato e popolo.

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Politica, diritto, legalità.


L’edificazione del socialismo e la marcia avanti verso il comunismo aveva bisogno della coazione degli
organi dello Stato, cioè aveva bisogno del diritto. Si sarebbe potuto pensare ad una fonte autoritativa poco
formalizzata (volontà politica del potere), ad una fonte spontanea (formazione popolare), a precedenti
giudiziari e amministrativi, a principi generali elastici. La scelta fu quella di imporre l’instaurazione di un
diritto imperativo, dettato dalla volontà politica di un potere efficiente e consapevole, formulato con legge, e
come tale reso pubblico. La legge era intesa come l’imperativo contingente che la classe al potere adottava
per il raggiungimento di traguardi connessi con la rivoluzione. Tuttavia erano da tenere in considerazione
due realtà: il partito, tramite i suoi innumerevoli organi, poteva influenzare l’applicazione e la
disapplicazione di qualsiasi regola; inoltre ogni organo dello Stato era inserito in una piramide burocratica,
nella quale si ricorreva con larghezza a disposizioni interne elaborate in modo generale o per casi singoli.
D’altronde un’illegalità diffusa dominava la vita giudiziaria e amministrativa dei paesi in questione.

Speciali formanti e caratteri dei sistemi socialisti.


Nell’area socialista non veniva espressa nessuna voce dissenziente o neutrale; la ricerca scientifica, la
divulgazione e l’insegnamento obbedivano ad un centro di potere unico, efficiente e incline all’intervento. Il
potere si occupava non solo di mettere in funzione regole pratiche di condotta, ma anche di prescegliere
dottrine politiche e concettualizzazioni giuridiche, e di strutturare un vocabolario appropriato.
Nel linguaggio dei sistemi in esame, un ordine giuridico si dice socialista solo se realizza la
collettivizzazione dei mezzi di produzione. Inoltre tipica di questi sistemi è la presenza di massicci formanti
declamatori, sapienziali, politologici.
Ciò che caratterizza effettivamente il diritto socialista è il posto che esso faceva al Partito al potere: il Partito,
ricorrendo alla propria dottrina politica, legittimava il potere e ne giustificava le scelte. Il partito vittorioso in
Russia soppresse ogni altra formazione politica. L’unicità del partito era giustificata in quanto, eliminato il
capitalismo, tutti i cittadini sono lavoratori, e hanno quindi identici interessi economici; il partito è la
rappresentanza di dati interessi economici e perciò l’identità degli interessi di tutti i cittadini conduce
all’unicità del partito.
Nei paesi in cui il potere comunista ha preso a delinearsi nel 1944 non sempre il potere fu assunto in modo
esclusivo dal partito comunista: i partiti giudicati reazionari furono sciolti; gli altri partiti vennero fusi con il
partito comunista in un partito unico nominalmente non comunista. Questi ultimi scelsero, per mantenersi
vivi, quindi di cooperare con il partito comunista per l’edificazione del socialismo; essi tenevano vivi i
contatti del potere con le masse dei contadini, dei credenti e con gli intellettuali. Essi non erano un pericolo
perché il numero degli iscritti non doveva superare un certo livello, e perché i dirigenti erano scelti dal
partito comunista.
Il partito proponeva il candidato per l’elezione ad ogni compito legislativo, politico, amministrativo e
giudiziario, e controllava da vicino l’attività di tutti gli organi di Stato.
Nei paesi monopartitici il potere esercita inoltre il compito di distinguere ciò che è vero e ciò che è falso;
spetta al Partito il compito di definire la verità.

SEZIONE TERZA - ALCUNI ISTITUTI-CHIAVE AL TEMPO DEL SOCIALISMO


La costituzione, le nazioni e le lingue.
La costituzione di un paese socialista contiene la proclamazione di vedute politiche ed un bilanciamento
delle vittorie e delle conquiste operate, piuttosto che la formulazione di programmi giuridici precisi per il
futuro. Esse erano adottate dall’assemblea legislativa ordinaria ed abrogavano ogni norme anteriore
incompatibile; si flettevano in caso di conflitto con le norme ordinarie successive: tale soluzione era coerente
al sistema che vedeva la società socialista come in movimento verso il comunismo e dove quindi la regola di
diritto era destinata ad essere sostituita da altre più progredite, fino alla programmata edificazione del
comunismo (la norma successiva si doveva presumere più avanzata della norma anteriore e doveva
prevalere). Le costituzioni dei paesi socialisti delineavano la natura ed i poteri degli organi posti al vertice
dello Stato: l’assemblea legislativa era elettiva, monocamerale o bicamerale, era dotata di una commissione
ristretta che legiferava fra una sessione e l’altra, richiedendo la ratifica all’Assemblea plenaria.
La nazione non assumeva un valore speciale, ma per ragioni pratiche l’Unione sovietica ed ogni altro Stato
socialista multinazionale, basò la propria organizzazione sull’autonomia delle diverse nazioni e sul rispetto
delle varie lingue nazionali.

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Gli Stati socialisti potevano essere federali e decentrati; per bilanciare federalismo e decentramento ogni
provvedimento era preceduto da una decisione dell’organo di partito, il quale era accentrato. Il carattere
federale poneva problemi di unificazione giuridica, ma la soluzione venne adottata nel 1936 quando l’Unione
adottò Codici repubblicani, nei quali le differenze raramente erano significative. Il carattere federale rendeva
complessa la gerarchia delle fonti, ma degli arbitri operavano nel partito e nella burocrazia per calmare ogni
inquietudine.

L’individuo e i suoi diritti.


Secondo la definizione di R. Von Jhering il diritto è un interesse protetto da un rimedio giurisprudenziale.
Nella dogmatica socialista il lavoratore ha un interesse che prevale su ogni altro, ossia l’interesse alla
liberazione e allo sfruttamento: si tratta di un interesse di classe, comune a tutti i lavoratori. Il diritto del
lavoratore non può però essere in conflitto con l’esigenza della libertà dello sfruttamento, cioè con l’esigenza
di vedere vittoriosa la rivoluzione proletaria.
Quanto alla libertà di associazione la regola giuridica prevedeva un organismo unico per ogni tipo di
interesse sociale (specialmente un solo sindacato).
Quanto alla libertà religiosa, non rientravano fra le collettività regolate dal diritto comune le Chiese e le altre
comunità religiose. Il diritto dei paesi socialisti conteneva e restringeva le attività religiose, e preveniva la
concorrenza che la comunità religiosa avrebbe potuto fare, come centro di aggregazione, alle collettività
facenti capo alla società socialista. Di questo ramo del diritto la scienza giuridica socialista ha sempre parlato
il meno possibile. I testi costituzionali enunciavano il diritto a non aderire ad alcuna religione, e
sottolineavano il diritto di svolgere propaganda antireligiosa; menzionavano il diritto di professare una data
fede, ma tacevano del diritto di propagarla. In Unione sovietica la norma giuridica non conosceva le Chiese e
si indirizzava alle unità parrocchiali, chiamate associazioni religiose di credenti, le quali eleggevano il
proprio amministratore; esse potevano operare solo dopo aver ottenuto la registrazione, previo deposito degli
elenchi degli aderenti. All’associazione era vietata ogni attività produttiva, ad esempio la stampa di libri
religiosi, e ogni assistenza materiale ai membri; erano vietate le riunioni di fanciulli o di giovani, gli incontri
biblici o letterari, le biblioteche o le sale di lettura. L’attività religiosa era ammessa solo se parte integrante
della liturgia e non poteva svolgersi se non nei locali destinati a ciò, con eccezione parziali per i cimiteri e gli
ospedali.

La famiglia.
Il sistema comunista trascinava con sé il deperimento della famiglia (idee di Marx e Engels), istituita con lo
scopo di perpetuare il privilegio economico; tuttavia questa premessa fece seguito una liberalizzazione
estremista nel primo codice russo rivoluzionario della famiglia, del 1918.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli esponenti della sinistra politica, andati al potere nella Repubblica
democratica tedesca, in Cecoslovacchia e altrove, manifestarono tendenze diversificate rispetto a quelle
vincenti in Unione sovietica: le soluzioni da loro proposte si accordarono a quelle sovietiche ed il legislatore
sovietico rimise in onore modelli libertari abbandonati da tempo. Un nucleo di principi venne a trovarsi
presente in tutti i sistemi socialisti: il matrimonio era monogamico, laico e dissolubile; il divorzio era
connesso al venir meno del legame affettivo; marito e moglie avevano pari diritti e pari diritti avevano i figli
legittimi e quelli nati fuori dal matrimonio; il potere parentale era attribuito ai genitori perché lo esercitassero
nell’interesse del figlio; gli acquisti dei coniugi erano comuni solo se il loro reddito non differiva
eccessivamente.

La proprietà.
Primordiale è la distinzione tra mezzi di produzione e i beni di consumo; i mezzi destinati alla produzione
industriale debbono appartenere allo Stato, il titolare del diritto di proprietà socialista dello Stato. La gestione
di questi mezzi è affidata ad imprese di Stato create ad hoc, dotate di personalità giuridica.
Nell’agricoltura, ferma restando la statizzazione della terra, i mezzi di produzione agricoli furono proclamati
propri del lavoratore agricolo, il quale veniva indotto ad unirsi ad altri per formare una cooperativa (che
diveniva proprietaria dei mezzi di produzione e riceveva la terra in uso gratuito). La proprietà sui mezzi di
produzione agricoli era definita “proprietà socialista cooperativa” ed era destinata ad essere gradatamente
rimpiazzata dalla proprietà di Stato.

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Il lavoratore impiegava il proprio salario o la propria quota di utili della cooperativa agricola per procurarsi i
beni destinati a soddisfare immediatamente i suoi bisogni; su questi beni egli aveva un diritto di proprietà
personale.
La casa di abitazione era oggetto della proprietà personale; tuttavia era diffusa la casa di proprietà dello
Stato, assegnata in locazione-conduzione ad un cittadino (era viva la convinzione che la casa unifamigliare
segrega la famiglia dalla società, perciò si incoraggiava la coabitazione). La proprietà personale poneva il
problema della successione per causa di morte: fu accolta l’idea di una successione legittima, all’interno
della famiglia, e di una successione testamentaria.

La produzione e lo scambio.
Alla produzione provvedevano l’impresa di Stato, che agiva nell’area industriale, e la cooperativa, che agiva
nel campo agricolo.
L’attività dell’impresa di Stato era soggetta al piano di Stato (narjad), era suddivisa in piani territoriali, in
piani di settori, e in piani operanti formulati per la singola impresa. In narjad precisava presso quali
venditori, in quale quantità e per quale prezzo la data impresa dovesse acquistare le materie prime o
semilavorate; a quali compratori essa dovesse rivendere i prodotti, in quale quantità e per quale prezzo. Le
due imprese coinvolte, compratrice e venditrice, dovevano concludere un contratto. Il prodotto finito se era
destinato al soddisfacimento diretto dei bisogni dei cittadini veniva trasferito ad organizzazioni socialiste
create per la distribuzione, e da qui veniva venduto al cittadino.
La cooperativa agricola non era legata ad un narjad; gli organi dello Stato deputati alla raccolta e alla
distribuzione dei prodotti agricoli stipulavano all’inizio dell’anno contratti d’acquisto dell’intera produzione
della data cooperativa, conformando i programmi della cooperativa al piano dello Stato.
Al commercio internazionale non accedeva l’impresa di Stato, questa doveva affidarsi ad un organo statale
ad hoc. Gli scambi svolti all’interno dell’area socialista erano inquadrati nelle regole di una importantissima
organizzazione multinazionale, il Consiglio di mutua assistenza economica (C.A.E.M. o Comecon),
paragonata funzionalmente e contrapposta alla Comunità europea.

I rimedi.
Le corti ricalcavano le linee di quelle dei paesi continenti occidentali. Tuttavia vi erano diverse particolarità:
• la tradizione russa conosceva la figura del Prokurator a cui facevano capo i compiti di promuovere e
controllare l’attività di tutti gli organi amministrativi dello Stato, di promuovere l’attività del giudice
penale, e di formare i ricorsi opportuni contro qualsiasi decisione civile e penale. Questo era nominato dal
Soviet supremo dell’URSS.
• Il giudizio penale e civile era deciso da un collegio, formato da alcuni giudici a tempo pieno, eletti sulla
base di una candidatura proposta dal partito per quattro anni, e da un numero maggiore di giudici
popolari.
• La sentenza era la decisione di un organo popolare elettivo, e manifestazione di sovranità, perciò la parte
non poteva appellarla, eccetto quando ci si rivolgeva alla Prokuratura per chiedere il riesame del caso.
• Le liti fra le imprese e le cooperative erano sottoposte all’arbitrato di Stato. All’operatore straniero che si
trovasse in conflitto con una organizzazione sovietica era riservato un organo giudiziale sovietico,
l’“arbitrato internazionale”, nel quale la parte occidentale ricorreva all’assistenza di patroni del proprio
paese, i quali potevano esprimersi in inglese.

SEZIONE QUARTA - L’EST EUROPEO DOPO IL PERIODO SOCIALISTA


La caduta del potere comunista.
Dal 1953 e poi nel 1968 in vari paesi, si sono succeduti diversi tentativi di rovesciare il potere comunista, ma
questi sono stati repressi. Dal 1980 le mutazioni si succedono e si fanno più frequenti; con la seconda metà
del 1989 l’urto delle diverse pressioni politiche non è più contenuto dal potere, che diventa semplicemente
una delle parti in causa e si presenta scisso nei suoi costituenti.
Il partito comunista perde ovunque il monopolio del potere politico e la funzione direttiva; quasi ovunque il
partito viene sciolto. Il socialismo cessa di essere l’obiettivo politico del potere.
Nel 1991 l’Unione delle repubbliche sovietiche socialiste scompare e viene sostituita da una Comunità di
Stati indipendenti cui aderisce solo una parte delle repubbliche già sovietiche. Una nuova costituzione non si
improvvisa: si adottano dichiarazioni dei diritti e delle libertà dei cittadini, facili a redigere e adatti ad
appagare una necessità sentita da tutti come urgente; si impiantano corti costituzionali su modello
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americano.; il potere di fare le leggi si consolida nelle mani di un’assemblea legislativa interamente nuova e
tecnicamente addestrata; la corte costituzionale diventa organo-chiave.

Le nuove necessità.
Si devono lasciare cadere i divieti di svolgere attività politica e religiosa, di commerciare, e di possedere
mezzi di produzione. Le imprese nuove private non saranno inclini ad autodisciplinare la propria attività.
I settori in cui sarà necessario intervenire saranno: le garanzie reali; i contratti nominati; le assicurazioni, le
società, i titoli di credito; la borsa, la valuta, la finanza; il fallimento; la concorrenza, l’ambiente, la
protezione del consumatore; la difesa del lavoratore.
Si forma inoltre un bisogno di norme: grandi organizzazioni internazionali offrono i modelli e il personale
capace di provvedere. Ogni paese disporrà di giuristi che hanno passato il tempo del socialismo all’estero
(soprattutto negli USA), e che ora sono i consulenti del potere. L’Est europeo beneficia di una sostanziale
assistenza giuridica occidentale da parte di organizzazioni governative o private.

La legalità e le fonti.
Nel periodo postsocialista di trovano situazioni diverse in tre aree: nei paesi chiaramente europei; nei paesi
dotati di un sistema legale europeo importato, ma non garantito da una tradizione conforme; nei paesi di
cultura extraeuropea.
Abbandonata la via socialista i Paesi hanno fatto proprie le soluzioni liberali vittoriose in occidente: si
redigono costituzioni scritte non modificabili dal legislatore ordinario e garantite da una corte costituzionale,
o si ristrutturano le costituzioni del periodo socialista; si proclamano i diritti fondamentali dell’uomo (ratifica
della Convenzione europea sui diritti dell’uomo in molti Paesi); si proclama il principio di legalità e
l’indipendenza del giudice. Si vuole ovunque lo Stato di diritto.
Elementi diversi si notano in Russia, dove la costituzione del 12 dicembre del 1993 prevede la libertà
religiosa e la laicità dello Stato, ma la legge applicativa ha ribadito i vecchi privilegi della Chiesa ortodossa
russa e delle altre religioni radicate nell’area; inoltre l’uguaglianza dei culti di fronte allo Stato è
inconcepibile.
Per instaurare o restaurare un ordine in rottura con il precedente passato, l’area postsocialista ha bisogno
della legge, norma autoritativa scritta, la quale era applicata grazie ad una letteratura giuridica indicativa
dello stato del diritto positivo e fonte autorevole per la cognizione e l’interpretazione della legge. Oggi
l’importanza della dottrina è evidente anche in Cechia, Slovenia e in Croazia; le opere più interessanti sono
nelle riviste, più che sotto forma di libro (questo deriva dal poco spazio che offriva il mercato alle iniziative
dell’editore, e dal periodo di crisi in cui si trova la dottrina).
Il ruolo della giurisprudenza nella creazione del diritto non è uniforme: disparità esistevano tra le varie
soluzioni nazionali fino alla rivoluzione socialista. Oggi il valore del precedente mette radice nella
tradizione, nell’esperienza del tempo socialista, nella povertà della dottrina. La presenza di corti
costituzionali aiuta a far comprendere come la norma scritta abbia bisogno dell’aiuto del giudice; tuttavia il
ruolo creativo del giudice è controbilanciato dalla preoccupazione di salvaguardare il principio di legalità.
In occidente la legge è sempre integrata da regole di matrice giudiziaria (create sulla base di rinvii legali a
clausole sulla buona fede, sull’abuso del diritto), le quali, sopravvissute alla rivoluzione socialista e alla
caduta del potere comunista, sono un’alternativa e un aiuto prezioso rispetto al potere del legislatore. Sono
mutate invece le grandi declamazioni: per fare un esempio, in Russia al posto del vocabolo “popolo” si
preferisce il termine “nazione”. Infine, è tornata alla luce la distinzione fra diritto pubblico e diritto privato;
proprietà pubblica e proprietà privata.

Le regole.
La piramide delle fonti è sormontata da una Costituzione, che il legislatore ordinario non può modificare;
essa distribuisce i poteri, largheggiando con il Presidente e con il parlamento (eletto con sistema
proporzionale).
• Il parlamento è chiamato a fare le leggi e il governo a fare i decreti; tuttavia in Russia la tradizione tiene
in vita tre diversi tipi di legge e cinque tipi di norme messe in opera dal potere esecutivo.
• Lo Stato è tendenzialmente laico, ma norme variabili da un paese all’altro possono regolare l’assistenza
religiosa, l’insegnamento religioso, o porre a carico dello Stato il mantenimento del clero con cura di
anime.
• Il giudice è soggetto alla legge; è reclutato per via burocratica, e conserva le funzioni per tutta la vita.
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• L’amministrazione è legata al principio di legalità; solo Russia è rimasta in piedi la Prokuratura dotata di
vasti poteri di propulsione e controllo nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Fuori dalla Russia,
la procura ha ridotto i suoi compiti a quelli tradizionali, da svolgere nell’area dei procedimenti giudiziali.
L’arbitrato ha mantenuto questo nome in Russia; altrove è ridiventato Tribunale commerciale, o è una
sezione del Tribunale generale.
• Le parti sono libere di interporre ricorsi contro i provvedimenti giudiziari.
• Le regole sulla famiglia sono moderne e aperte; si profilano mutazioni a favore delle coppie di fatto
eterosessuali e per quelle omosessuali; si nota poi un interesse per l’adozione piena.
• In alcuni Paesi, la dottrina dei beni ha dovuto essere riadattata: in Russia risorge la distinzione fra cose
immobili e cose mobili.
• È pienamente conforme a diritto la proprietà privata dei mezzi di produzione; si assicura la parità di
trattamento fra la proprietà pubblica e privata, eliminando i privilegi di cui godeva la proprietà dello
Stato. Nell’area degli atti si trova l’enunciazione del principio di autonomia, e anche qui è viva la
preoccupazione di garantire l’uguaglianza di trattamento fra il contraente pubblico e quello privato; la
protezione dei consumatori si trova contrastata dal desiderio di evitare le disparità di trattamento e il
dirigismo economico.
• La dottrina del negozio giuridico continua a fiorire e viene reintrodotto la nozione generale del contratto
(con la novella che modifica il codice civile cecoslovacco del 1994).

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CAPITOLO UNDICESIMO – IL DIRITTO DEI PAESI ISLAMICI

SEZIONE PRIMA - IL COSIDDETTO DIRITTO ISLAMICO


Islam e diritto.
Nei primi decenni del VII secolo dopo Cristo, un profeta arabo, Maometto, insegnò una dottrina religiosa
imperniata su una rivelazione poi raccolta nel testo chiamato Corano. In quest’opera sono enunciati i precetti
cui il credente deve attenersi; questi precetti costituiscono la šarī‘a. Per il musulmano questa precettistica
viene da Dio ed è esaustiva di tutti i doveri che Dio impone al credente; poiché viene da Dio non può essere
mutata.
La rivelazione coranica è autosufficiente. Non si può pensare che esistano fonti di verità e giustizia fuori di
essa: se una situazione non è regolata nel Corano, provvederà l’interpretazione a decifrare le scritture e
reperire la soluzione.
Molte regole sciaraitiche sono rivolte ai comportamenti esteriori che l’uomo deve tenere nelle relazioni con
gli altri uomini; si rivolgono a quei rapporti che nelle altre culture sono regolati dal diritto. Secondo la
concezione islamica un ulteriore ordinamento giuridico non ha ragione di esistere là dove opera la šarī‘a;
quest’ultima deve essere messa in attuazione spontaneamente dai fedeli, e in caso di infrazione, deve essere
imposta dagli organi del pubblico potere. Il musulmano vede nella šarī‘a un sistema giuridico, il modello
giuridico insuperabile. Il musulmano che si proponga di studiare il Diritto studia la šarī‘a; egli studia un
settore del sapere rivolto al sacro e non gli preme di conoscere la cronaca giudiziaria; egli conduce i suoi
studi con le preoccupazioni che può avere lo studioso della religione.
Tuttavia nessun paese del mondo è ordinato in base alla sola šarī‘a: anche nei paesi islamici la selezione del
capo dello Stato mette in funzione procedure fissate da regole laiche; l’amministrazione svolge i suoi compiti
secondo regole fissate dallo Stato; poteri giudiziari sono stati conferiti a personaggi che non sono
semplicemente magistrati musulmani (qudat).
Alcuni paesi, memori della qualità divina e atemporale del diritto, hanno evitato di chiamare costituzione il
testo fondamentale che regola la vita dello Stato (es. Arabia Saudita), e si sono proposti di restringere al
massimo la loro attività normativa. Inoltre, da qualche decennio, si assiste ad importanti episodi di rivincita
della šarī‘a sui modelli importati dall’occidente. In altri paesi il richiamo al diritto rivelato consente, in caso
di lacuna del testo legale, l’applicazione della regola sciaraitica.
Reciprocamente, l’adozione di codificazioni occidentali non porta sempre con sé uno strappo lacerante
rispetto alla šarī‘a.

La šarī‘a.
La šarī‘a è una precettistica rivelata da Dio agli uomini per regolarne la condotta. La conoscenza di questa è
affidata al faqīh, ovvero l’esperto di giurisprudenza islamica, la cui opera è il fiqh (la giurisprudenza).
Prima tra le fonti del fiqh è il Corano (Qur’ān), in 114 capitoli suddivisi in versetti e disposti in un ordine,
che non è quello cronologico. Dei 6200 versetti del Corano, 500 contengono regole giuridiche. Seconda
fonte del fiqh è la Sunna, ovvero la condotta del profeta, ispirata da Dio, quindi esemplare. La condotta
venne osservata dai contemporanei e trasmessa verbalmente, composta poi per scritto articolandola in
ahādīth. Altra fonte del fiqh è l’interpretazione data alle due fonti primarie dal consenso di tutta la Comunità
di tutti i musulmani (Umma). Quarta fonte del fiqh è il qiyās, paragonabile alla analogia; la legittimità di
questa ultima fonte però è dubbia e soprattutto è dubbia la larghezza consentita al suo impiego.
Se in sede teorica la šarī‘a è rivelata ed è priva di lacune, in sede di verità storica si deve dire che il diritto
islamico è creazione dei dotti; è l’esempio più tipico di creazione dottorale del diritto. I dotti possono
svolgere la loro funzione se praticano un autocontrollo, evitando ragionamenti e soluzioni troppo personali e
soggettivi, che renderebbero incerto il diritto e inaffidabili le loro stesse conclusioni. Il rifiuto a soluzioni
originali si è formalizzato con il principio per cui le soluzioni affermatesi entro il X secolo dell’era volgare
sono incontestabili; in tale data si è “chiusa la porta dello sforzo” interpretativo. Recentemente si è aperta la
discussione, se non sia giunto il momento di riaprire la porta. La funzione creatrice della dottrina trova il
doppio limite del testo rivelato e della tradizione, ma non trova all’opera alcun legislatore umano.
La Umma islamica non dispone di una corte massima unica, le cui soluzioni possano valere come modello
dotato di autorità suprema; inoltre il giudice islamico non motiva, perciò la decisione non è chiamata ad
enunciare la regola di diritto.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Le diverse interpretazioni.
L’Islam è diviso in Islam sunnita, Islam sciita e Islam kharigita. Gli sciiti a loro volta sono divisi in zayditi,
duodecimani e settimani. Le differenze teologiche vertono sul fondamento del valore della sunna e dei
precetti che essa consegna ai credenti, nonché sulle prerogative.
Il kharigismo in nome dell’uguaglianza in diritto fra tutti i credenti, induceva rivendicazioni di etnie che non
accettavano volentieri la centralità araba nella Umma islamica, è minoritario e vive nella scuola ibadita;
l’Islam sciita domina in Iran e ha un seguito importante in Iraq e Siria; l’Islam sunnita prevale in Asia e in
Africa, e al suo interno si sono consolidate divergenze di interpretazioni dei testi, ritenute tutte legittime.
All’origine dii ognuno dei quattro grandi modelli interpretativi troviamo un sapiente che dà il nome alla
propria scuola: la più seguita è la hanafita, che prende il nome da Abū Hanīfa iracheno; la scuola malikita si
richiama a Mālik ibn Anas, ed è diffusa nell’Africa nordoccidentale; la scuola sciafiita prende il nome da
Muhammad al-Shāfi‘ī, ed è diffusa nello Yemen, in Somalia, nel Pakistan e in Indonesia; la scuola habanita,
legata all’insegnamento di Ibn Hanbal, domina in Arabia Saudita.
Ogni musulmano può scegliere fra i quattro indirizzi, e anche mutare scuola; il potere politico può
prescrivere ai giudici l’applicazione delle regole di una scuola diversa da quella seguita usualmente nel
paese.

SEZIONE SECONDA – LE GRANDI REGOLE DELLA ŠARĪ‘A


La Comunità islamica.
Nella concezione islamica, i credenti nel loro insieme appartengono ad un’unica e grande Comunità, la
Umma islamica. Al vertice della Umma si trova l’Imām, detto anche Califfo, cioè vicario di Maometto. Egli
beneficia di legami stretti con Dio, ma, da tempo, non appare agli occhi degli uomini. La dottrina ha
illustrato quali siano le procedure per la nomina dell’Imām: egli può essere scelto dal predecessore o eletto
dalla comunità unanime o dai suoi membri irreprensibili; la scelta deve cadere su un musulmano libero,
pubere, sano, maschio, irreprensibile, quariscita (appartenente alla tribù di Maometto); nella storia non
sempre ci fu un solo Califfo e non sempre fu quariscita (prima della prima guerra mondiale ce ne fu uno in
Marocco e uno ad Istanbul, quest’ultimo non quariscita). Una volta eletto, gli faranno carico i doveri verso la
fede, sotto pena di rimozione.
Il Califfo nomina tutti i coadiutori necessari e prepone alle pubbliche funzioni chi di dovere, in particolare i
giudici (qādī); emana ordini cui il credente deve obbedienza.
La religione non prevede il ricorso alla violenza per convertire l’infedele, ma una azione umana è prevista, se
necessaria, a favore dell’ordine islamico. Si tratta della guerra santa (gihād), alla quale si ricorre solo se il
nemico, rifiuta di abbracciare spontaneamente l’Islam e di sottomettersi al potere islamico. La possibilità di
tregua è prevista se il nemico sia più forte dei combattenti musulmani. La guerra deve essere condotta senza
crudeltà inutili; il combattimento deve essere intrapreso non prima di mezzogiorno.

Il musulmano e l’infedele, l’uomo e la donna.


La dottrina delle persone è imperniata su una triplice contrapposizione: il musulmano e il non musulmano, il
libero e lo schiavo, l’uomo e la donna.
Quanto alla contrapposizione tra musulmano e non musulmano, spetta la pienezza dei diritti politici al solo
musulmano. Fra i non musulmani si distinguono gli adoratori del vero Dio dagli idolatri o politeisti o atei.
Gli adoratori del vero Dio sono gli ebrei e i cristiani, gli zoroastriani e gli indù; questi hanno protezione da
parte dei musulmani se pagano loro una particolare imposta. Il politeista, l’idolatra o l’ateo non ha tutela
giuridica: sono esposti alla guerra santa e, in quella sede, destinati alla morte o alla schiavitù. Una volta
assoggettati al potere islamico, gli infedeli vivono secondo le leggi della propria religione per ciò che
riguarda il diritto di famiglia e il diritto successorio; a tal fine si consente il funzionamento di speciali
giurisdizioni loro riservate.
La contrapposizione tra il libero e lo schiavo perde importanza in un’epoca in cui l’Islam enfatizza
l’importanza del proprio apporto alla lotta antischiavista (atto di emancipazione, interdizione generale della
schiavitù).
Quanto alla contrapposizione tra uomo e donna, essa è vista come un personaggio bisognoso di protezione,
questa, inseparabile dal diritto al matrimonio (che assicura la protezione maritale), dal diritto al
mantenimento e da un rapporto di subalternazione all’uomo. Per agevolare alla donna il matrimonio è
consentito all’uomo di avere fino a quattro mogli contemporaneamente; il diritto al mantenimento ha come
contrappeso la riduzione dei diritti ereditari della donna; la subalternazione gioca a favore della famiglia di
origine fino al momento del matrimonio, e a favore del marito nella famiglia acquisita. La considerazione
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della donna è ridotta anche a proposito della capacità di testimoniare (la sua testimonianza vale metà di
quella dell’uomo), e a proposito della responsabilità civile (la penalità da versare per morte o lesione della
donna è dimezzata). Inoltre, la donna non può adire cariche o dignità religiose che implichino un potere
giudiziario, o di guida alla preghiera, di predicazione; è esclusa dall’insegnamento religioso e dalla decisione
politica.

La famiglia e le successioni.
Un particolare settore delle norme sciaraitiche prende il nome di “statuto personale”, e si estende al diritto
delle persone e della famiglia, alle successioni per causa di morte e alle regole sulle fondazioni pie. Il legale
dello statuto personale con il musulmano è particolarmente stretto, e il musulmano pensa che gli debba
essere consentito di praticarlo anche in paesi non islamici.
Quanto alla famiglia, quella islamica è fondata sull’autorità del padre e del marito, sebbene non manchino
norme complementari e integrative di segno diverso. Il matrimonio è un accordo fra il pretendente e la
controparte che si identifica, secondo la scuola sciafiita, nell’uomo che ha il potere sulla donna (il walī);
secondo le altre scuole, il negozio è concluso dalla sposa. Il consenso matrimoniale verte sul vincolo
contratto e sul mahr, un corrispettivo posto a carico dello sposo. La šarī‘a non prevede per il matrimonio
un’età minima prefissata; inoltre regola il concubinato se da esso nascono dei figli. L’uomo può avere
contemporaneamente fino a quattro mogli; esso può far cessare il matrimonio in qualsiasi momento mediante
il ripudio; il matrimonio è sciolto di diritto in caso di apostasia (abbandono alla propria religione). I beni dei
coniugi sono separati: la donna amministra liberamente i propri beni, sebbene venga chiesto il consenso del
marito per le donazioni. La presunzione di paternità si ricollega al matrimonio, e solo secondo la scuola
hanafita è invincibile; solo la scuola malichita fa perdurare la presunzione di paternità fino a tre o quattro
anni dall’ultima possibilità di concepimento.
Quanto alle regole sulla successione per causa di morte i chiamati all’eredità sono indicati dalla šarī‘a: sono
gli eredi “coranici” non agnati (fratello uterino, sorella, vedovo/a, ascendenti, discendenti femmine) e quelli
‘asaba agnati (figli, fratelli consanguinei e i loro discendenti per via maschile); parti diverse sono lasciate
agli uni e agli altri. Una regola cardinale impone che la figlia riceva la metà di ciò che riceve il figlio. Infine,
un terzo del patrimonio può essere lasciato liberamente a persone scelte dal de cuius mediante atto di ultima
volontà (wasiyya). L’eredità si acquista senza bisogno di accettazione e la rinuncia non è ammessa.

Le relazioni patrimoniali.
La šarī‘a considera fondamentale il diritto di proprietà individuale. La dottrina elabora distinzioni di beni, di
capitali e di reddito. Accanto al diritto di proprietà, la šarī‘a conosce i diritti temporanei e i diritti volti a
speciali utilità.
Fra i modi di acquisto della proprietà deve ricordarsi la bonifica delle terre inutilizzate. Sono note forme di
proprietà collettiva e comunitaria, perfino una proprietà che compete all’intera comunità islamica. Un modo
peculiare di destinare i beni consiste nel vincolarli mediante wafq, sorta di fondazione pia o patrimonio
legato ad uno scopo. Nella menzione di scopo pio non è proibito indicare una persona fisica, beneficiaria
delle utilità che il bene offre. Il wafq consente di rendere indisponibile il bene, di sottrarlo al regime
ereditario e di riservare le utilità contenute nel patrimonio del fondatore a persone diverse da quelle indicate
dalla regola successoria. Questa distorsione ha messo però in allerta i legislatori che hanno vietato il wafq “di
famiglia”.
Manca nella dottrina sciaraitica una nozione generale di obbligazione: si trattano separatamente le
dichiarazioni di volontà e la responsabilità civile. Tra le dichiarazioni di volontà spiccano i contratti, di cui la
dottrina ne studia i singoli tipi. Sono caratteristici della šarī‘a la condanna dei contratti aleatori e il rigido
divieto di stipulare e ricevere interessi. Sono trattati a parte i contratti liberali (donazioni, prestito, mandato,
deposito), per la conclusione dei quali ha particolare rilievo la consegna della cosa.
I fatti illeciti comportano un’obbligazione di risarcire i danni; le conseguenze dei fatti illeciti che
costituiscono reato vengono esaminate studiando le sanzioni penali.

Il diritto penale.
Sussiste una distinzione di base tra delitti che comportano il taglione, quelli che comportano una pena fissata
dal Corano e quelli che danno luogo ad una sanzione rimessa al giudice: il taglione rimanda a società
preislamiche a potere diffuso, è sostituito dalla composizione la cui misura è basata sulle qualità personali e
sociali della vittima; deve essere corrisposta dal colpevole e dai suoi parenti più prossimi. Il Corano fissa
direttamente la pena da erogarsi per comportamenti che mettono a rischio le basi dell’ordine sociale islamico
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(apostasia, ribellione all’Islam, consumo di bevande alcoliche, brigantaggio, furto, rapporti extraconiugali).
Infine, il giudice sceglie la sanzione quando l’infrazione turna l’ordine di una società a potere centralizzato,
impegnata nella difesa dell’ordine pubblico (falsa testimonianza, falsificazione di documenti, alterazione di
pesi).

Il giudice e il giudizio.
L’arbitro tradizionale è stato sostituito dal qādī, il quale, chiamato alla funzione giudiziale, rende giustizia fra
i musulmani e occasionalmente fra gli infedeli. La fonte del suo potere è la delega del Califfo, ma se
necessario anche altre autorità possono investirlo di funzioni. Il qādī è giudice monocratico; può appoggiarsi
a consulenti giuridici; può delegare altri giudici. Il suo giudizio è inappellabile, ma poiché la decisione, pur
essendo esecutiva, non passa in giudicato, la sentenza può subire forme di revisione. La sentenza non è
motivata e non esiste un principio che vincoli il giudice al precedente.

SEZIONE TERZA - I FATTORI EXTRASCIARAITICI


La siyāsa.
La dottrina islamica riconosce che l’autorità legittima, per esercitare le proprie funzioni, deve emettere ordini
imperativi. Queste regole sono vincolanti per il musulmano, pur non essendo šarī‘a; esse costituiscono la
siyāsa šar‘iyya, che si contrappone alla siyāsa zālima, atto di governo ingiusto.
Il giurista islamico, le cui preoccupazioni sono prevalentemente religiose, non dedica a questa siyāsa
l’attenzione che dedica alla šarī‘a; il giurista laico vedrà in queste un normalissimo insieme di norme
giuridiche.
Nell’ottica islamica la siyāsa šar‘iyya è il governo della cosa pubblica svolto in modo da non contraddire la
šarī‘a; il suo scopo è quello di assicurare la conservazione e la protezione degli interessi fondamentali degli
uomini; per raggiungere questo fine la siyāsa potrà anche discostarsi da qualche soluzione del fiqh. Si può
dire che la siyāsa sia la regola suggerita dall’opportunità politica, volta ad assicurare ordine nella società,
prevenendo o reprimendo tutto ciò che può metterlo in rischio; può perfino contenere norme penali
incriminatorie.
La siyāsa è applicabile anche al non musulmano, dato il suo carattere autonomo rispetto alla precettistica
religiosa, e legato invece al mantenimento dell’ordine pubblico.
La nascita storica della siyāsa fu favorita dall’immutabilità della šarī‘a, diventata effettiva dopo la chiusura
della porta dell’interpretazione. Per un certo tempo parve rimodellare, modernizzandolo, il diritto dei popoli
islamici, ma, osteggiata dagli esperti di giurisprudenza e dai magistrati, applicata da giudici meno prestigiosi
e meno preparati degli uomini di Dio che si occupavano della šarī‘a, finì per bloccarsi e cristallizzarsi.

Le consuetudini.
La šarī‘a non è imposta ai popoli che via via adottano l’Islam. Così come essi conservano la propria lingua,
così conservano il proprio diritto tradizionale, quando la consuetudine non urti contro un principio
inderogabile della šarī‘a. Tuttavia popolazioni islamizzate da secoli dimostrano di non voler abbandonare le
proprie consuetudini, così come non hanno abbandonato la propria lingua (es. Berberi, Somali).

Lo stratagemma giuridico.
Fra i cristiani è diffusa la concezione che non possano esistere conflitti tra soluzione giuridica divina e
assiologia giuridica sponsorizzata dalla ragione, perciò la ragione non si discosterà mai dal rispetto dei valori
protetti dalla volontà divina rivelata. Nell’Islam il rapporto tra il divino e razionale non è formulato con così
altrettanta chiarezza. La conseguenza è che il divieto posto da Dio non genera sempre interpretazioni
estensive e analogiche, e può essere neutralizzato mediante stratagemmi giuridici.

SEZIONE QUARTA - IL DIRITTO DEI PAESI ISLAMICI


Modello sciaraitico e società islamica.
Nonostante la compresenza di tre diverse versioni dell’Islam e la compresenza nell’Islam sunnita, di quattro
scuole di interpreti, agli occhi dello studioso l’Islam appare come un modo omogeneo. Se invece si osserva
la società islamica, si trovano diversità e contrapposizioni inaspettate:
- privilegi notevoli competono a singoli gruppi, nella prassi sunnita, su basi genealogiche;
- il soprannaturale preislamico rivive in un Islam pronto a molti adattamenti. Una parte dell’Islam
ammette il culto del santo, duramente censurata dall’Islam più ortodosso;

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- un uomo di Dio può riunire intorno ad una regola un numero di confratelli, invitandoli alla pietà e alla
venerazione in comune di un santo. Le confraternite si appropriano per lunghi periodi e per un ampio
territorio dei compiti dello Stato; può vedersi come alternativa alle strutture universali della Comunità
islamica. Morto il fondatore della congregazione, la comunità si perpetua e predica il culto del santo
fondatore defunto;
- anche la vita privata del musulmano lascia intravedere interpretazioni diverse: talune etnie si tengono
lontane dalla poligamia; in alcune aree la poligamia implica che le varie spose convivano e i bambini
chiamino con un appellativo uniforme le varie mogli del padre; in altre aree si considera indecente che
le varie mogli di un unico uomo si frequentino, esse sono quindi sistemate in luoghi lontanissimi l’uno
dall’altro.

Le consuetudini.
In dati ambienti la consuetudine può penetrare all’interno dell’applicazione e dell’insegnamento della šarī‘a,
corrodendone i contenuti e facendo credere al musulmano in buona fede che una prassi consuetudinaria sia
legittimata dalla Rivelazione.
Da più di un secolo fra le aree islamiche si sente il bisogno di muoversi verso la modernità e la razionalità.
Questi movimenti riformistici possono anche condurre alla contestazione dell’Islam, o di alcune sue parti.
Tuttavia spesso accade che procedano restituendo la šarī‘a alla sua primitiva purezza, purgandola di
incrostazioni irrazionali e barbariche depositate dalla tradizione consuetudinaria.

Il pensiero riformista.
Non tutti i musulmani sono entusiasti del rapporto praticato tra Islam, insegnamento sciaraitico e diritto
applicato. Alcuni ritengono che un’applicazione integrale della šarī‘a sua impossibile o quanto meno in
ritardo rispetto ai bisogni della vita e alle idee moderne. Un primo atteggiamento (fine XIX secolo) chiese la
riforma delle tradizionali regole del fiqh; un secondo atteggiamento (seconda metà del XX secolo) si
pronunciò per l’applicazione integrale della šarī‘a e proponeva che questa venisse ridefinita ricostruendo con
nuovi strumenti la dottrina delle fonti e i metodi del ragionamento giuridico.
Si popone oggi di riaprire la porta dello sforzo e ricominciare a interpretare, ma la Comunità islamica
potrebbe non essere disponibile ad una simile operazione. Questa potrebbe implicare l’illazione che per
secoli l’Islam è vissuto di verità contestabili e mal certe, e potrebbe aprire la porta a divisioni laceranti e
dolorose nel corpo della Comunità.

L’opera del legislatore.


Il potere politico ha una indiscussa investitura a dare appoggi all’attuazione del diritto; può legittimamente
rivolgersi al giudice dandogli istruzioni che non si considerano eterodosse (prescegliere l’interpretazione di
una data scuola, suggerire accorgimenti processuali). Tuttavia i qudat (magistrati) limitano la propria attività
allo statuto personale del musulmano, ossia al diritto delle persone e della famiglia, alle successioni e ai
wafq. Il periodo coloniale aveva favorito un’espansione delle corti dei qudat, poiché le potenze coloniali
spesso non volevano imporre il proprio diritto a quello del paese, e capivano meglio il meccanismo delle
corti sciaraitiiche che non le giurisdizioni tradizionali. L’indipendenza però ha dato un nuovo slancio alla
diffusione del modello occidentale e laico nei paesi islamici: si istituiscono meccanismi giurisdizionali in cui
figurano corti di appello e corti supreme e spesso il giudice monocratico lascia il passo al collegio
giudicante; nell’area del diritto penale, si legifera soprattutto nell’ambito dei reati che comportano una pena
scelta dal giudice; l’area dello statuto personale non si sottrae allo slancio riformistico di legislatori
musulmani; il potere politico ha posto mano a grandi opere di codificazione la quale ha sempre implicato
concessioni alla modernità e al diritto occidentale.

La laicizzazione del diritto nei paesi islamici.


Il diritto islamico è troppo lacunoso per fare a meno di integrazioni provenienti da un diritto umano. Per fare
un esempio la šarī‘a dice quale virtù debba avere il Capo, ma non dice con chiarezza come si sceglie il Capo.
Un diritto creato dall’uomo è dunque all’opera nei paesi dell’Islam, dove il legislatore ha svolto un compito
immenso, e la sua opera ha prodotto un certo grado di laicizzazione del diritto. Altri Paesi hanno percorso
molta strada verso la laicizzazione, ma non hanno voluto sconfessare lo statuto personale e il regime del
wafq (Bengala, Indonesia, alcuni Paesi africani); in alcuni paesi, in modo ininterrotto, si proclama la fedeltà
alla šarī‘a (Pakistan, Iran).

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Di fatto la šarī‘a subisce la concorrenza di consuetudini e di codificazioni, oltre che da un altro fattore di
laicizzazione: a differenza del qādī, che viene formato nell’università coranica ed è uomo di Dio, il giudice
laico, che lo sostituisce, ha una formazione occidentale e, quando è chiamato ad applicare una šarī‘a sarà
indotto a costruirne i contenuti con una mentalità razionalista e modernista deformante.

La šarī‘a e i diritti umani.


La šarī‘a non è facile da conciliare con i diritti dell’uomo; non può incrinarsi per mettersi d’accordo con le
fonti umane, e non può patteggiare in materia di libertà di religione e matrimoniale. Fanno stato di questa
situazione il Memorandum con cui l’Arabia Saudita espresse la propria mancata adesione alla Carta
Internazionale dei diritti dell’uomo, e la Dichiarazione universale islamica dei diritti dell’uomo del 1981,
presentata dal Consiglio islamico per l’Europa.

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CAPITOLO DODICESIMO-IL DIRITTO INDIANO

SEZIONE PRIMA - IL DIRITTO INDÙ


Il diritto in India.
Il sistema presente in India risulta dalla sovrapposizione di un diritto autoritativo recente, di fonte statale, a
norme tradizionali “personali”, applicabili a vari gruppi, e a regole popolari locali.
La comunità induista, tra i gruppi presenti in India, raccoglie almeno l’80% della popolazione; ad essa si
contrappongono i musulmani, i sikh, i buddisti, i parsi, i cristiani (per lo più cattolici).
Il connotato principale del diritto attuale dell’India consiste nella compresenza di un diritto-quadro laico e
autoritativo, e di diritti diversi tradizionali e personali. Il diritto indù ha una importanza speciale, perché è
applicabile alla comunità più numerosa del paese, e perché ad esso sono soggetti anche i sikh, i giaina e i
buddisti. Il diritto indù può vantare una lunga storia, che si perpetua attraverso tre millenni. Verso l’inizio del
II millennio a.C. si impadronì dell’India un popolo indoeuropeo che parlava sanscrito (antenato dell’odierna
lingua hindi) e confidava in un mondo celeste di tipo politeistico. Nell’ambito di questa cultura vennero
concepiti i testi sacri della religione, chiamati “Veda”, riconosciuti anche oggi come base di ogni sapienza
soprannaturale.

La concezione induista dell’uomo e della regola.


L’ordine cosmico, di origine impenetrabile, superiore agli dei, consta di regole non tutte penetrabili; l’uomo
deve fare i conti con esso per proteggere il corso della propria vita. I Veda rivelano le verità che interessano
l’uomo, essi sono di ispirazione divina, ma contengono opinioni del sapiente che ha intermediato la
rivelazione. L’aderenza ai precetti che seguono questa premessa è la virtù, o dharma. Il dharmasāstra è la
scienza delle virtù.
Il mondo e la vita evolvono con il tempo; quattro periodi si sono alternati, ognuno rappresenta un regresso
rispetto al precedente. Noi viviamo nella quarta epoca, immersi nelle condizioni di massima barbarie: a
cagione dei vizi umani, non si può fare affidamento sulla spontanea ottemperanza dell’uomo alla virtù,
perciò ha assunti un’importanza fondamentale la sanzione penale, di cui si occupa il principe.
Quanto alle persone, ognuno è legato alla casta cui appartiene: alle caste appartengono compiti,
giustificazioni, doveri diseguali; la divisione del lavoro è affidata alla diversità delle posizioni sociali
acquisite con la nascita.; le regole etiche variano per le diverse caste. Per fare un esempio: in India l’ascolto
di un testo sacro, o peggio la sua conoscenza, da parte di un sottocasta sono puniti penalmente.
Inoltre, alle donne è negata l’immortalità, per cui le regole etiche le riguardano solo in modo relativo.
Quanto alle regole di condotta, esse presiedono al perfezionamento etico dell’uomo, al conseguimento
dell’utile, e allo sviluppo del piacere. Si distinguono tre ordini di regole: il dharma, l’artha e il kāma. Il
dharma ha importanza diversa per le diverse caste, è fondamentale, dominante e vincolante per il brahmano
(casta sacerdotale); l’artha si indirizza al politico e all’operatore economico; il kāma soddisfa i bisogni più
transeunti, le sue regole soddisfano molte persone, soprattutto le donne.
Il dharma opera in un quadro in cui sono presenti anche l’artha e il kāma; i problemi pratici relativi alla
condotta degli uomini si risolve contemperando l’applicazione delle varie regole.

Il dharma, norma di rango superiore.


Il dharma è un insieme di precetti religiosi, etici e di prevenzione o composizione dei conflitti. Questi
precetti fissano la condotta che l’uomo deve tenere, ma non preordinano sanzioni (queste sono previste nella
vita ultraterrena). Il precetto varia a seconda della condizione sociale, lo status e l’età del destinatario; è
considerato come una proiezione dell’ordine cosmico. Persone sapienti ne hanno illustrato l’essenza e i
contenuti, il credente ammira e venera questi maestri, e si sottomette con serenità al loro autorevole
insegnamento. Non esiste nell’induismo un’autorità costituita, legittimata a riconoscere l’ortodossia di un
determinato insegnamento, o a condannare una teoria. Tuttavia l’ammirazione crea autorevolezza, e
l’autorevolezza genera una tradizione.
I dharmasāstra più segnalati sono scritti in versi; i più celebri sono dovuti a Manu (I secolo a.C.), a
Yājnavalkya e a Narāda (III o IV secolo d.C.). Il dharma si deve ricavare da tutto l’insieme dei sāstra
legittimi, senza omissioni.
A proposito di dharma ci si deve ricordare che i testi vedici e i testi smirti, che illustrano il dharmasāstra sono
testi giuridici, non sono testi giuridici, ma sono testi religiosi che predicano una data mentalità e con ciò
ispirano regole giuridiche. Inoltre, il diritto indù di matrice religiosa non è un diritto scritto. Da sempre si è

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sentito il bisogno di opere ausiliarie che aiutino a dedurre dal dharma regole applicabili. Lo sviluppo di
queste opere contrassegna l’epoca del diritto indù (200-1100 d.C.).
Più tardi (XI-XVII secolo) si è sentita la necessità di opere che raccolgano tutte le fonti rivolte ad un dato
problema o ad un dato istituto: sono le nibandha (che possono essere estese a tutto il dharma o ristrette a uno
o più istituti). La moltiplicazione di nibandha e la diversa fortuna di ognuno di essi hanno permesso
all’induismo di segmentarsi di tendenze, che prevalgono in aree geografiche distinte.

Altre regole di condotta.


A nessuna altra fonte può essere riconosciuta quella speciale dignità, collegata con l’origine soprannaturale,
propria ed esclusiva del dharma: nessuna fonte diversa dal dharma formerà oggetto di uno studio sapienziale,
né di una scienza.
Numerose e di natura varia sono le fonti che il dharma tollera senza elevare al proprio rango:
a. la consuetudine. Si legittima in quanto le regole sostenute dai sapienti raccomandano di evitare
comportamenti giudicati repellenti dalla società, anche quando questi comportamenti siano ineccepibili
alla stregua dei testi. La consuetudine è autosufficiente: il suo sviluppo non fu il risultato di una
elargizione della scienza sacra.
b. Coscienza, giustizia, equità. L’interprete decide tenendo conto della propria coscienza, cioè secondo
l’immagine che si è dato della giustizia e dell’equità.
c. La legge. Il principe è un personaggio chiave nel mondo induista; egli è sottoposto al dharma, che non
può modificare; ha il potere-dovere di rendere giustizia, ossia intervenire con forza e con minaccia della
pena, se gli equilibri sociali fondamentali vengono messi in gioco, ma, dove possibile, lascia fare ai
meccanismi di conciliazione o di giudizio consuetudinari. Poiché è garante dell’ordine, deve poter
legiferare nel campo amministrativo, procedurale e fiscale; non interviene mai in materia di famiglia o
di diritto civile. Per ben governare si rivolge all’artha che gli offre le regole e i suggerimenti pratici.
d. La giurisprudenza. Il giudice è un personaggio rispettato e responsabile; può discostarsi dal dharma se è
necessario per evitare soluzioni troppo spigolose, ma non può modificarlo. Nell’ordinamento indiano
non esiste nessuna inclinazione a considerare fonte il precedente, non esiste il dottore della legge, non
esiste l’avvocato. Il sapiente si occupa di dharma e di artha ma non tratta del problema della
composizione dei conflitti.

Dai vyavahāra alla dottrina moderna.


Il vyavahāra è un libro del dharma che si dedica all’amministrazione della giustizia e alle procedure, a talune
controversie nelle relazioni civilistiche e alla repressione penalistica. Con il vyavahāra è stato percorso un
passo importante verso la delimitazione del sapere giuridico rispetto alle altre aree del dharma. Questo ha
dato avvio ad una ulteriore costruzione del dato giuridico effettivamente applicabile, emarginandone la
precettistica religiosa.
Gli autori moderni redigono quindi opere in cui parlano delle norme relative alle persone (incapacità), alla
famiglia di sangue (matrimonio, divorzio, filiazione) o elettiva (adozione), alla proprietà famigliare,
successioni (legati o testamentari), alle fondazioni pie, convenzioni.

La messa in esecuzione della regola.


La giustizia fa capo al re. Tre gradi di giudizio assicurano l’applicazione della norma sacralizzata e garantita
dal principe. La giustizia regia convive con una giustizia gestita da tribunali popolari, disposti su tre livelli
(Pūga, Sreni, Kula); ogni casta ha la sua assemblea (panchayat) investita delle controversie che possono
nascere nel suo seno.
La presenza di personaggi che possono mettere la loro preparazione dottrinale-teologica al servizio della
giustizia, i pandit, rende più efficiente la pratica del diritto.
Il processo si svolge con una mediata valutazione delle prove: scritte, testimoniali e, se necessarie, ordaliche
(giudizio divino).

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SEZIONE SECONDA - VICENDE DEL DIRITTO INDÙ E DI QUELLO ISLAMICO IN INDIA


Potere islamico e diritto.
La pressione islamica sull’India iniziò per tempo (prima metà del ‘700) e acquistò importanza dal 1001. Nel
corso del XVI secolo il potere islamico nel subcontinente indiano toccò il suo culmine con Akbar, imperatore
“mogol”, i cui successori si apparentarono con dinastie autoctone.
Gli imperatori mogol fecero il possibile per coinvolgere nella loro attività di governo la personalità indù, con
lo scopo di fare meglio accettare dai sudditi la loro autorità.
Mentre l’estensione geografica del potere islamico cresceva, gli europei incominciarono ad acquistare il
controllo della costa indiana: dal 1700 l’avanzata del potere inglese si fece irresistibile; dal 1805 la Gran
Bretagna ha controllato l’intera India fino al 1947.
Il potere islamico non volle essere aggressivo nei confronti degli indù, li considerò adoratori del vero Dio, e
li trattò come gli ebrei e i cristiani: essi mantennero il proprio diritto privato e le proprie giurisdizioni. I
conquistatori interferirono con le giurisdizioni regie, legate alle strutture dello Stato, e lasciarono
sopravvivere le giurisdizioni popolari (le panchayat continuavano la loro opera). Alcune parti del diritto del
conquistatore furono applicare a tutti, ad esempio il diritto fiscale o quello penale.
La dominazione musulmana produsse vastissime adesioni all’Islam. Quando al potere del Gran Mogol
subentrò il regime coloniale britannico, si poté considerare che in molte regioni la popolazione era
prevalentemente islamizzata. Al momento della decolonizzazione queste regioni si sono separate dall’India,
e hanno costituito il Pakistan.
Il diritto musulmano in India è divenuto, con l’indipendenza, diritto pachistano; ha lasciato uno spazio
importantissimo alla consuetudine; ha lasciato che si sviluppasse un potere dei grandi proprietari terrieri, i
quali assunsero la funzione giurisdizionale o il controllo di essa.

Potere britannico e mappa delle fonti.


L’autorità coloniale aveva il potere di legiferare ma non si interessava del diritto privato né dei rapporti fra
indiani: il diritto previgente rimaneva in vigore.
Con il 1726 l’India viene a sdoppiarsi: da una parte ci sono i territori direttamente soggetti
all’amministrazione britannica (Presidency Towns), che vi insediò Corti giudiziarie regie; dall’altra parte ci
sono i “Mofussil”, ove operavano Corti della Compagnia delle Indie (East India Company).
I giudici regi nelle Presidency Towns erano competenti solo se una parte era britannica, applicavano il diritto
inglese solo in assenza di specifiche “regulations” cui potevano essere abilitate, in certe materie, le autorità
locali, e solo se l’applicazione era compatibile con la peculiare situazione indiana. Quando la loro
competenza fu generalizzata (1781), le corti applicarono agli autoctoni il diritto indù o musulmano.
Nel Moufussil la regola da seguire fu tracciata, nel 1781, dal governatore Warren Hastings: nel campo dello
statuto personale si applicava la norma indù o musulmana; fuori da questa area si scelsero criteri come i
“principles of justice, equity and good coscience”. Tuttavia questa formula non portò all’applicazione del
common law, poiché i giudici non erano common lawyers e le decisioni di ispiravano a modi di vedere
propri dell’ambiente dove il giudizio si svolgeva. La situazione non mutò quando la Corona assunse
l’autorità diretta su tutta l’India (1858).

Diritto indù, giudice britannico, legislatore coloniale.


I britannici, divenuti controllori dell’India, vi insediarono giudici metropolitani, i quali dovevano applicare,
in date materie, a date persone, il diritto territoriale adottato dalle autorità coloniali; se le persone da
giudicare erano induisti si applicava il loro diritto personale.
Il giudice britannico si propose di applicare dharma e nibandha, ma poiché questi erano inaccessibili, chiese
assistenza e consulenza ai pandit, i quali vincolati a fonti che stravolgevano il diritto indù, svolsero male il
loro compito. I britannici pensarono allora di raccogliere il diritto indù e codificarlo, ma l’iniziativa non ebbe
seguito; si impegnarono allora direttamente nella ricerca della regola di diritto, la identificarono nel dharma,
la applicarono. Pensarono anche di raccogliere le consuetudini e di applicarle, e ciò fu fatto.
L’uso della lingua inglese produsse distorsioni concettuali; stravolgimenti notevoli furono dovuti
all’introduzione nel giudizio delle regole probatorie inglesi, le quali modificarono i presupposti
dell’applicazione del diritto indù in India.
La chiamata in causa della lingua inglese fu favorita dalla lacunosità del diritto indù; spesso l’applicazione
del diritto inglese era invocata dalle stesse parti.
Masse di decisioni giudiziarie, furono pubblicate e quindi a disposizione dei giudici, perciò le corti trovarono
congeniale ispirarsi a questi precedenti. Si smise di redigere raccolte di diritto personale per mettere in opera
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raccolte di giurisprudenza, sistemate secondo i concetti e le categorie inglesi. Le lacune furono colmate
ricorrendo a Justice, Equity and Good Conscience, che comportarono l’applicazione dei principi inglesi.
Le alterazioni agirono nel senso di rendere le regole indiane più uniformi e più moderne. La parziale
anglizzazione del diritto indù portò a varie mutazioni notevoli: l’elemento tratto dal dharma assunse
l’andatura di una qualsiasi norma statale-positiva; la consuetudine venne sospinta in posizione marginale; la
consuetudine ebbe come diritto rivale e alternativo una fonte giudiziale.
Il potere britannico creò norme legali operanti in tutto il paese nei confronti di tutti gli abitanti, o destinate ad
un’area determinata del paese. Mise anche in funzione regole volte a modificare il solo diritto indù e
indirizzate a chi fosse soggetto a questo diritto. Le leggi britanniche hanno ad oggetto il diritto delle persone
e della famiglia, esse tendono ad abolire il sistema delle caste (Caste Disabilities Act, 1850) e a garantire la
capacità giuridica della donna.
Nella prima metà del XIX secolo fu programmata una codificazione tripartita volta ad edificare un corpus di
tutto il diritto pan-indiano territoriale, un corpus contenente tutto il diritto indù e un corpus contenente tutto il
diritto per i musulmani. Il programma ebbe attuazione solo per il diritto territoriale, inoltre l’interferenza
della legge nella vita indiana suscitò reazioni locali crescenti nel tempo e dovette ridursi drasticamente.

Diritto islamico e potere britannico.


I mufti islamici avevano la consapevolezza che dipendeva da loro la salvaguardia della sari’a in India e
svolsero compiti con autorevolezza, coerenza e capacità di iniziativa nel colmare le lacune.
Gli esperti islamici si accinsero alla compilazione di manuali contenenti sistematiche le soluzioni giudiziarie,
dottamente motivate. I britannici ammisero l’applicabilità della consuetudine, ma il riconoscimento fu
prestato anche a consuetudini che erano in urto con ii principi cui l’islam non rinuncia volentieri. Questo ha
causato un movimento di uomini di religione che ha chiesto l’abrogazione delle consuetudini. Nel 1937 il
Shariat Act diede parziale soddisfazione a questa istanza, pur rendendo legge varie regole tradizionali laiche.

Indipendenza e diritto indù.


Con l’indipendenza l’India si separa dal Pakistan e dal Bengala e il diritto personale indù diventa il diritto
della grande maggioranza della popolazione indiana. Il momento dell’indipendenza è il momento in cui si
generalizza l’applicazione di quei principi di uguaglianza e dignità umana che la tradizione giuridica
occidentale ha divulgato nel mondo.
La Costituzione del 1950 ha ripudiato pienamente il regime delle caste (art. 15). Sebbene il problema si
chiude dal punto di vista giuridico, ma non sul lato sociologico e politico. Per attribuire spazi idonei agli ex
sottocasta sono state istituite misure protettive e trattamenti preferenziali, tuttavia molti sottocasta hanno
aderito a religioni diverse dall’induismo e per questi ultimi le misure protettive non funzionano, e nulla
controbilancia lo svantaggio tuttora fondamentale dovuto all’origine famigliare.
Una commissione legislativa è stata introdotta per studiare le riforme da apportare al diritto indiano e al
diritto personale indù, le sue proposte sono tali da armonizzare il diritto indù con le idee occidentali: per fare
alcuni esempi lo Hindu Marriage Act del 1955 e 1964 ha rinnegato la tradizione proibendo le nozze ai
bambini, ha riconosciuto il consenso dei soli coniugi per il matrimonio, ha proibito la poligamia, ha
introdotto l’idea della pensione alimentare destinata al coniuge divorziato; la Hindu Minority and
Gardianship Act del 1956 riguarda la legge sulla minore età e sulla tutela; la Hindu Adoptions and
Maintenance del 1956 riguarda le adozioni; la Hindu Succession Act del 1956 introduce la parità di
trattamento fra gli uomini e le donne nelle successioni. Inoltre i diritti individuali si rafforzano, riducendo le
potestà della famiglia sugli acquisti del singolo.

SEZIONE TERZA - IL DIRITTO TERRITORIALE IN INDIA


Il diritto tradizionale nel tempo del potere britannico.
I britannici, acquistati il controllo e la sovranità sull’India, vi introdussero norme di varia natura. Molte di
queste norme hanno avuto importanza circoscritta, ovvero furono adottate per regolare settori limitati per un
tempo limitato; portò invece conseguenze spettacolari il movimento della codificazione.
Le leggi britanniche poterono essere redatte per singoli territori o per tutto l’immenso impero indiano;
poterono riferirsi ad una determinata comunità culturale o poterono essere adottate per un determinato
territorio. Alcune di esse furono dunque messe in azione per tutto l’impero, con applicazione per tutti gli
abitanti e furono il primo nucleo di un diritto vigente in modo universale in India.

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La prima Indian law Commission fu insediata nel 1835 e prese a progettare anche un codice penale. La
commissione intraprese un’opera di codificazione di regole conformi al modello inglese, e non a quello
indiano.
Nel 1860 entrò in vigore l’Indian Penal Code, applicabile a tutti in buona parte dell’India; l’anno prima entrò
in vigore il codice di procedura civile e poco dopo il codice di procedura penale; furono adottate diverse
leggi in materia di contratti, di prove, di trasferimento della proprietà, sul trust, sull’esecuzione forzata delle
obbligazioni, sui titoli di credito.
L’opera di legislazione penetrò anche nei settori che riguardavano le persone, la famiglia e le successioni.

La recezione del diritto inglese.


Le leggi territoriali introdussero in India grossi nuclei di diritto inglese. Poco a poco la “giustizia, equità e
buona coscienza” prese ad identificarsi con il diritto inglese. Nel 1887 il Comitato giudiziario del Privy
Council (massima istanza giudiziaria in India) affermò che l’equità e la coscienza significano le regole del
diritto inglese, applicabili nell’ambiente indiano.
L’applicazione del diritto indù da parte da parte dei britannici ha avuto l’effetto di anglizzare in una molto
ampia misura questo diritto, l’opera del legislatore coloniale ha dato il suo apporto alla demolizione dei vari
capisaldi del diritto indù tradizionale e sacro. La presenza britannica in India ha introdotto in questo paese e
in questa cultura un apparato per la conoscenza del diritto che è tutto inglese, mentre l’apparato tradizionale
indiano è tutto quanto deperito e scomparso. L’amministrazione si occupa della redazione di raccolte di
decisioni giudiziarie, della loro pubblicazione e diffusione.
La recezione dei caratteri giuridici inglesi basilari non significa che il diritto indiano imiti servilmente il
modello inglese. I personaggi britannici che si sono distinti nell’opera di legislazione erano animati da una
volontà riformistica: hanno provveduto a utilizzare quando ciò apparisse opportuno, modelli non inglesi.
Hanno quindi svecchiato istituzioni inglesi che erano soggette a critiche. L’effetto fu che il diritto indiano
appariva come un diritto inglese modernizzato.
I legislatori hanno creato regole destinate alla realtà indiana: hanno provveduto ad adattare alle necessità del
paese il modello inglese. Da qui il deperimento della giuria, la negoziazione della collazione delle libertà e
così via.
Mancando in India le premesse per coltivare certe distinzioni cui gli inglesi sono assai sensibili, il common
law e la equity sono stati sempre applicati dalle stesse corti, la distinzione fra le due fonti non si percepisce;
la distinzione fra un legal right e un equitable interest non è sentita.

Il diritto dell’indipendenza.
L’indipendenza del paese ha tagliato fuori dall’India le masse musulmane residenti in Pakistan e nel
Bengala, riducendo i grandi protagonisti della vita giuridica indiana a due: il diritto territoriale e il diritto
indù.
Nel 1950 la nuova Costituzione del paese ha sovrapposto al diritto vigente un testo giuridico in ben 395
articoli, situati ad un livello superiore, che costituisce una componente nuova nell’ordine giuridico indiano;
ha affrontato problemi che non esistevano al tempo dei britannici, e che si pongono in termini del tutto nuovi
dopo l’indipendenza:
Ø le lingue principali sono 15, appartenenti a 4 gruppi diversi; fra queste la lingua di maggiore
diffusione e prestigio è l’hindi. La lingua culturale è l’inglese, e l’unica lingua attualmente capace di
esprimere il discorso giuridico è l’inglese;
Ø il legame tra cittadino indiano e il diritto è molto più tenue del vincolo che intercorre fra cittadino e
diritto in Gran Bretagna;
Ø l’India è una federazione di 28 Stati, ogni Stato opera le proprie scelte linguistiche; a livello federale,
la lingua unificante dovrebbe essere lo hindi;
Ø il potere federale è legittimato ad intervenire negli Stati quando il mantenimento dell’ordine e della
pace lo esiga;
Ø la costituzione indiana non impaccia in modo eccessivo il legislatore ordinario. È facile da emendare
e consente alla maggioranza parlamentare di adattarla in ragione della volontà politica che via via
viene a prevalere;
Ø l’India è aperta alle codificazioni: un articolo della costituzione auspica la promulgazione di un
codice civile unificato per tutta la nazione;
Ø al vertice della piramide giudiziaria si trova la Corte suprema federale, con sede a Nuova Delhi; è
presieduta dallo Chief Justice of India ed è composta da 25 giudici; sono tutti nominati dal
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presidente della repubblica. La corte suprema ha una molteplicità di funzioni: opera come Corte
Costituzionale, pronunciandosi sulle eccezioni di incostituzionalità sollevate contro leggi federali e
leggi statali, interviene quando sia violato un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione;
giudica anche come giurisdizione di ultima istanza per le cause civili. Può inoltre avocare qualsiasi
vertenza giudicata da un tribunale indiano.
La Corte è arbitra della propria procedura, che definisce mediante un autoregolamento approvato dal
presidente della repubblica; non è tenuta a rispettare i propri precedenti, mentre ogni altra corte è
vincolata all’insegnamento della Corte suprema. I giudici, fatta salva la fedeltà dovuta alla Corte
suprema, si attengono ai precedenti fissati all’interno di ogni Stato.

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CAPITOLO TREDICESIMO - IL DIRITTO NELL’ASIA ORIENTALE

SEZIONE PRIMA - IL DIRITTO CINESE IMPERIALE


Le fonti del diritto cinese imperiale in una ricostruzione di maniera.
Relativamente al diritto cinese tradizionale, fino al 1980, si era soliti evidenziare che in Cina il diritto si è
evoluto in una posizione di subordinazione rispetto al pensiero filosofico, il quale ha rivolto un’attenzione
assai viva ai problemi sociali. Il pensiero filosofico cinese trova la sua espressione più rappresentativa in
Confucio (Kong Fuzi).
La concezione dell’ordine sociale cinese si ricollega all’idea di un ordine cosmico basato sull’interazione
armoniosa tra cielo, terra e uomini: l’ordine è turbato quando è perduta l’armonia che deve esistere fra
l’uomo e la natura, o se manca l’armonia tra gli uomini. I rapporti sociali devono essere basati sul consenso,
rigettando la ricerca di condanne, di sanzioni, di decisioni prese a maggioranza. Affinché il popolo
condivida queste concezioni, bisognerà educarlo in modo appropriato, mediante riti e arti.
Il ruolo assegnato al diritto non è basilare: in primo luogo, il cittadino non deve preoccuparsi di far valere i
suoi diritti, deve essere pronto a contemperare il proprio interesse con quello degli altri. In caso di
divergenze, è auspicabile la composizione amichevole o l’intervento di conciliatori o, infine, la definizione
per arbitri. Solo quando la conciliazione si renda impossibile allora la vertenza dovrà essere sottoposta ad
un giudice, il quale troverà la soluzione nella propria saggezza e nell’etica confuciana. Il giurista di
professione appartiene ad una casta ereditaria, dotata di scarso prestigio; l’amministratore chiamato a
dirimere una lite viene reclutato in base ad esami su discipline filosofiche e letterarie, e non giuridiche.
I contrasti devono essere risolti innanzitutto in base al “qing” (sentimento di umanità); in base al “li”
(tradotto è il rito, ma come valore significa cerimonia, gentilezza, rispetto per gli altri); in base al “lii” (la
ragione); in base al “fa” (la legge).
• Il “li” arcaico era dapprima un rituale religioso, poi diventato una regola di comportamento rivolta alle
attività pubbliche e private; al tempo degli Zhou era la consuetudine della casta dei signori, e base
dell’educazione aristocratica; con Confucio e i suoi seguaci, il “li” viene dotato di una nuova
legittimazione e viene ridotto in regole scritte. Il “li” regola la successione al trono, e prevede ai bisogni
del diritto “alto”. In conformità dell’esigenza dell’armonia con l’ordine cosmico, garantisce la
convivenza tra i consociati sulla base delle gerarchie sociali espresse nelle diseguaglianze di rango. La
conoscenza dei “li” è favorita ed incoraggiata; essi sono immutabili, e non sono l’opera di un legislatore.
Al sovrano si consiglia di non fare leggi; queste, infatti, determinano nel popolo un certo timore, ma
diminuiscono il rispetto per l’autorità. Fatta la legge, il cittadino specula sulle sue lacune e sulle sue
imperfezioni, e ne ricerca le interpretazioni più cavillose. Più che sulle leggi, si conta sul funzionario
che deve applicare il diritto, sulla sua virtù, ossia sulla sua preparazione, sul suo equilibrio, sulla sua
capacità di trovare la soluzione appropriata alle circostanze.
• Il “fa” è circondato da diffidenza e sfiducia, e chiunque lo invochi in contrasto con il “li” si espone ad
una riprovazione da parte dell’opinione pubblica; tuttavia il “fa” esiste (secondo una leggenda esso fu
creato da un popolo barbaro oggi scomparso, i Miao), infatti si ricorre al “fa” in modo normale e
ordinario nel campo del diritto penale, e nel campo della amministrazione. Per giustificare la durezza del
“fa”, si dirà che esso è necessario nei confronti dei criminali incorreggibili, o nei confronti di barbari, di
stranieri, di persone estranee alla cultura cinese. Poi, si chiarisce che il “fa” può essere adottato anche
nei confronti degli appartenenti alle classi inferiori perché Confucio insegna che i “li” non discendono
fino al popolo ordinario e che i castighi non risalgono fino ai dignitari; il suo discepolo Xun Zi procede
in modo più netto: “Al di sopra della classe dei letterati, ci si regola con i riti e la musica, mentre, per
la massa del popolo, bisogna ricorrere alla coazione attraverso la legge (“fa”)”.
La fonte del “fa” è la volontà dell’imperatore. L’imperatore è figlio del cielo, ed ha un mandato celeste;
il mandato gli verrà revocato se egli non sarà virtuoso. La legge, norma punitiva, repressiva,
contingente, non è redatta da un dio, ma la divinità suprema del Cielo (Shang Di), conferendo il
mandato, legittima il “fa”.
Il fa regola il diritto pubblico, cioè il diritto penale pubblico, il diritto amministrativo e le relative
procedure. Quanto ai rapporti privati, questi non sarebbero governati da regole giuridiche vere e proprie.

Il sistema illustrato non regnò sempre nella Cina imperiale: nel periodo storico dei “regni combattenti” (III
secolo a.C.) si divulgò la dottrina dei legisti i quali insistettero sulla necessità di preregolare mediante
prescrizioni legali uguali per tutti la condotta dei cittadini e le decisioni dei giudici. L’avversione all’etica

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confuciana divenne metodica nel breve periodo della dinastia Qin (221-206 a.C.), che riunificò il paese.
Le gerarchie, i compiti, le virtù.
L’ordine della società cinese è affidato in larga misura al “fen”, principio di giustizia distributiva. La
collocazione del soggetto nel rango che gli compete assicura, mediante la varietà dei ruoli e dei trattamenti,
l’armonia sociale cui mira la morale. Il “fen” garantisce le disuguaglianze fra i soggetti, modellando la
relazione fra principe e suddito, fra padre e figlio, fra marito e moglie, fra fratello maggiore e fratello
minore.
Un criterio importante è la dottrina del governo attraverso la storia, elaborata da Dong Zhong-shu. Secondo
questo filosofo, il precedente storico, manifestazione terrena di una legge cosmica universale, deve essere
integrato mediante il ricorso all’estensione analogica, e poi utilizzato per ricavarne la regola da seguire nel
futuro.
La filosofia illumina le regole che condizionano il reclutamento degli amministratori e la loro promozione,
le loro posizioni reciproche e gerarchizzate, le virtù che essi devono avere; l’amore per la virtù, cui la
filosofia inneggia, unisce l’immensa piramide burocratica, che, sotto la guida dell’imperatore, cura la
gestione degli affari statali.
Alla base della società figura la compatta famiglia clanica, ove il legale è assicurato dal culto che tutti gli
uomini del gruppo rendono ai comuni antenati: il padre ha poteri sui figli e nipoti, il figlio non ha poteri sui
beni, ubbidisce al capofamiglia in tutto; il capofamiglia è personalmente responsabile per la condotta di chi
gli è soggetto; il marito ha autorità sulla moglie, il matrimonio è monogamico, ma l’uomo può avere delle
concubine.

Revisione del sistema delle fonti.


Il sistema fino a qui descritto a è stato considerato in parte falso, esso è stato finalmente ricostruito in modo
diverso, e valutato in base a nuovi criteri. Il movimento legista intendeva far cessare le disuguaglianze dei
cittadini di fronte alla regola, e offrire gli indispensabili rimedi al cittadino conculcato. La scuola dei letterati,
e con essa Confucio, garantirono invece l’intangibilità dell’ordine sociale tradizionale.
Il “li” conteneva regole sociali, rivolte a relazioni bilaterali, la cui osservanza era ben garantita. Queste
regole costituivano quindi un sistema giuridico; il “li” si applicava alla classe egemone, sottratta alla durezza
del “fa”. Il “li” aveva origini consuetudinarie, ma Confucio e i suoi seguaci lo misero per iscritto, per
studiarlo meglio, e gli assegnarono l’autorità morale degli antichi.
Il “fa” non era per nulla una regola marginale, anzi, era un pilastro fondamentale della vita cinese. Ogni
violazione grave dei “li” era essa stessa un’infrazione penale punita da una norma penale. Il diritto penale
scritto, perciò, ha una posizione centrale nel sistema cinese.
Il diritto scritto, tuttavia, non riguarda solo il diritto penale, ma anche l’amministrazione, ed esso è dunque
il diritto di cui si serve il potere pubblico. Questo giustifica l’esistenza, in Cina, di un corpo di norme
imponente millenario, nel quale ogni dinastia ha legato il proprio nome ad un codice.
I primi elenchi di pene datano l’epoca della dinastia Xia (XXII secolo a.C.):
• verso il 400 a.C. troviamo il primo testo chiamato “fa” (classico della legge) che comprende sei
sezioni destinate: al brigantaggio, al furto, ai vari reati, alle prigioni, all’arresto, alle disposizioni
generali.
• Con gli imperatori Han (che ripudiano la tendenza legista), il “fan jing”, seguito da tre capitoli sulla
famiglia, sui lavori pubblici e sulle scuderie, confluisce in un nuovo testo, il “jiu” (nuove leggi).
• Crollata l’unità cinese, appaiono i codici locali.
• Riunito il paese, appare il “Sui lu”, in dodici capitoli e 500 articoli.
• Il “Tang lu” è coevo del Corpus Iuris: una redazione appare nel 624, un’altra nel 651, integrata da
interpretazione. Essa si ispira al “Sui lu”: le figure di reato sono 445, di cui molte consistono
nell’inottemperanza ad un rito.
• Accanto al codice, vengono posti i regolamenti interni degli uffici.
• L’edificazione del diritto continua ai tempi della dinastia Song, che produce decreti e giurisprudenza.
• I mongoli non creano regole nuove, ma dispongono in nuove forme i materiali precedenti. Sorge un
codice penale, in 2539 articoli.
• La dinastia Uing adotta un codice più sintetico, seguito da un altro più completo, arricchito da molta
giurisprudenza.
• Gli imperatori Qing (dal 1644 al 1912) adottano un codice modellato sul precedente, in 436 articoli,

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

suddiviso in 7 capitoli; la giurisprudenza aumenta ancora di volume.


Si è finalmente smesso di ripetere che il diritto cinese non regolava il diritto privato: laddove il diritto
privato interessava il potere, esso è contemplato nelle leggi. Inoltre, il codice dei Qing regola i
contratti.

La Cina rivela anche nel diritto la ricchezza delle sue risorse e delle sue soluzioni: la fonte imperiale si
spartiva il campo, anzitutto, con gli statuti dei clan e delle corporazioni; è un paese di consuetudini, note
tanto al magistrato imperiale quanto ad organi di giustizia più vicini alle strutture sociali decentrate.
La letteratura cinese che ci parla del confucianesimo e delle leggi, tace delle consuetudini: esse non erano
né ammirate, né sacralizzate, né interessavano la politica da vicino.
Queste consuetudini non erano completamente ignorate dagli organi dello Stato: quest’ultimo se ne
occupava controllando la gestione della giustizia a livelli sociali di base. Inoltre, il giudice statuale doveva
informarsi bene sulle consuetudini e decidere tenendone conto. Esse rientravano nel mondo del diritto dello
stato per il rinvio fatto dal sentimento umano cui il giudice doveva ispirarsi.
La giurisprudenza era fonte di persuasione giuridica: le decisioni più importanti erano spesso aggregate al
codice in occasione di una revisione specifica periodica o di una ricodificazione. A varie riprese sono state
redatte delle raccolte di giurisprudenza.
Mancava in Cina una fonte di diritto di stampo dottorale, perché mancava una vera letteratura giuridica, e
questa non esisteva perché il giurista non esisteva.

I tratti essenziali del diritto cinese imperiale.


Al vertice della società troviamo il principe, che ad un certo punto diventa l’imperatore, al quale si deve
completa obbedienza, ma che è soggetto ad un ordine naturale celeste che non può né violare né modificare.
Il suo mandato non è assoluto, in quanto se non assume un atteggiamento virtuoso può essere revocato.
Tra il principe ed il popolo troviamo la casta che collabora con il primo: inizialmente l’aristocrazia, più
tardi i proprietari della terra, e infine, i letterati confuciani (i mandarini). Tra questi ultimi si reclutava
l’aristocrazia, chiamata a regolare tutto il funzionamento dell’immenso Paese.
Il diritto cinese non è laico: esso è imperniato di religiosità, fa i conti con le divinità, che influenzano da
vicino la vita degli uomini, e indirizzano agli uomini imperativi etici; fa i conti con una visione del cosmo e
di un ordine ad esso collegato, che sarebbe pericoloso stravolgere e violare.
Nella Cina tradizionale la religione è centrale; lo Stato sceglie la religione e una volta prescelta, domina la
società.
In questo clima un sapiente, Confucio, elabora un sistema ed una dottrina che per millenni è stata la dottrina
ufficiale dell’Impero cinese: secondo questa visione, l’imperatore aveva un potere che gli veniva dal cielo e
poteva legiferare a mezzo del “fa”. I mandarini creduti insegnavano al popolo che quell’imperatore era
figlio del cielo. I mandarini non erano né sacerdoti né teologi, ma maestri di verità ed erano creduti. La
casta dei mandarini godeva di ampi privilegi e i suoi membri non potevano essere soggetti a sanzioni
penali, purché si riscattasse con il pagamento di una multa. La stessa casta dei mandarini era dal principio
della disuguaglianza sociale, nel senso che, nella piramide burocratica, il funzionario di grado inferiore era
sottomesso al funzionario di grado superiore. Un complesso sistema di controlli e vigilanze tendeva a
eliminare i difetti della cosa pubblica, a rendere coerente la sua opera. I mandarini vollero insindacabile dal
cittadino l’uso che essi facevano del loro potere: a tal fine si poteva invocare la dottrina sociale confuciana,
che delegittimava il diritto, e con esso il controllo giuridico sull’attività degli organi dello Stato.
La Cina era amministrata tramite un certo numero di organi centrali: tra questi c’era un collegio formato da
agnati prossimi all’imperatore, che si occupava delle questioni relative alla famiglia del sovrano; un
collegio formato da ministri e da altri funzionari di vertice e la censura (organo di sorveglianza dei
funzionari). Nelle province sedevano amministrazioni governative, affidate a mandarini, a livello di
governatori, di province, e delle circoscrizioni minori.
Al di sotto dell’amministrazione vi erano poi i sudditi, anch’essi catalogati e contrapposti secondo la
posizione sociale. Leggi, attentamente redatte, stabilivano per ogni singola categoria la qualità della casa,
del mobilio, degli abiti, delle carrozze; la trasgressione era considerata un reato, da punirsi con bastonate.
La disciplina sociale era garantita dalla sanzione penale: le pene erano atroci, ma esisteva una certa
inclinazione al principio di legalità; non mancava una riflessione sui mezzi di prova, operavano le esimenti
e le attenuanti.
Alla base della società troviamo la famiglia, la corporazione professionale e il villaggio. Il filo conduttore

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

della famiglia era il culto da prestare agli antenati, il pilastro era l’obbedienza al capofamiglia. La parentela
creava gruppi a due livelli: il clan e la famiglia. Il clan si componeva dei discendenti di un comune
capostipite, collegati dal fatto che prestavano il culto agli stessi antenati comuni. Appartenevano alla
famiglia le mogli dei figli maschi, ne uscivano le figlie sposate ad estranei. Diritti e poteri appartenevano al
capofamiglia; il vincolo familiare obbligava all’omertà e alla vendetta. Il matrimonio era concordato dai
parenti, e creava un vincolo tra le due famiglie. L’uomo poteva avere una moglie principale e alcune
concubine o mogli secondarie. Il marito poteva ripudiare la moglie principale in sette ipotesi, e poteva
ripudiare la concubina senza limiti. La moglie non poteva ripudiare il marito. Alla carenza di figli si
provvedeva con l’adozione di un giovane membro della famiglia, e così si assicurava la continuità del culto
degli antenati. Solo i maschi succedevano per causa di morte. Il testamento era sconosciuto. Il clan e la
famiglia provvedevano direttamente alla giustizia nel loro interno, in conformità con regole consuetudinarie
molto variabili: il capoclan era giudice naturale, e poteva infliggere pene corporali, pene pecuniarie, fino alla
espulsione dal gruppo.
Sulla terra esistevano diversi diritti: il diritto dell’imperatore, contrapposto al diritto del mandarino
assegnatario, il diritto del villaggio, e il diritto del contadino concessionario. La grande proprietà agraria si
sviluppa in latifondo-comunità territoriale, cioè un piccolo stato in cui si svolgeva una certa attività
giurisdizionale-correzionale.
Artigiani e commercianti costituivano corporazioni professionali, le quali adottavano un regolamento, e
garantivano il rispetto delle consuetudini, a tal fine mettendo in funzione organi giurisdizionali.
Nel villaggio e nel quartiere operavano capi locali, che si interessavano al conflitto per procurare una
conciliazione, che riusciva grazie anche alla cooperazione delle persone in grado di influire; se invece non
riusciva, l’operatore rimetteva la questione al funzionario dello stato competente.

Diritto cinese e diritti occidentali.


In Cina non esiste né il “giurista”, né la riflessione puramente giuridica, né una terminologia giuridica
particolarmente curata. Il cinese conosce il “li” e il “fa”, e li considera una regola ammirevole, strutturata
affinché il cinese si adegui ad essa.
Quando l’europeo prese ad osservare la Cina, non ci trovò corti incaricate di applicare il “li” e il “su”, e
perciò in un primo momento identificò il diritto con il solo “fa”, ma presto scoprì che il “fa” si esprime solo
mediante regole di diritto penale e amministrativo. Comparatisti illustri hanno creduto, fino a poco tempo fa
che la lacuna del diritto statuale fosse colmata dalla filosofia confuciana.
A differenza epistemologico, le differenze macroscopiche tra le soluzioni occidentali e quelle cinesi
tradizionali vertono sul reclutamento del giudice e sul suo potere discrezionale, e sul rimedio offerto al
privato nei confronti del potere costituito. La mancanza di una classe di giuristi di professione formati nello
studio delle discipline permette una maggiore elasticità nell’applicazione della norma; non si può
pretendere che un giudice applichi la legge in modo rigido. La vita giudiziaria diverrà più permeabile ad
obiettivi extra-giurisdizionali.
Questa minor rigidezza nell’applicazione della legge merita di essere meglio definita: consiste nel far
scattare un certo effetto giuridico quando quell’effetto appaia appropriato per raggiungere certe finalità
educative o sociali.
Tutte le regole sociali cinesi sono regole giuridiche; le regole ispirate a Confucio, in quanto regole sociali,
praticate e sanzionate, sono regole giuridiche consuetudinarie.
La differenza più forte tra il sistema cinese tradizionale e quelli occidentali sembra essere data dall’assenza
di rimedi affidati all’iniziativa del cittadino, e dalla assenza di una nozione di diritto soggettivo. Il privato
non avanza pretese contro il potere, il potere non ha bisogno del concetto di diritto soggettivo per imporsi;
il privato non pretende che il pubblico potere gli garantisca un rimedio contro un altro privato: il suo
sopruso scatenerà una sanzione prevista dalla consuetudine a carico del soggetto.

SEZIONE SECONDA - IL DIRITTO CINESE MODERNO


Il contatto con l’Europa nella prima metà del XX secolo.
§ Nella prima metà del ‘900 la Cina si è aperta ai modelli europei, e l’impero ha fatto posto alla
repubblica. Nel XIX secolo i contatti tra cinesi e occidentali si intensificarono, e ciò produsse in Cina il
desiderio di adottare almeno in parte i sistemi occidentali; nel 1902 furono fatti degli sforzi per
riformare il codice tradizionale cinese, alla cui opera si misero giuristi cinesi educati in occidente, e
giuristi giapponesi.

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§ Nel 1910, fu pronto un codice che rifiuta la pena della fustigazione e depenalizza il diritto matrimoniale,
dei beni e successorio. Per la parte civilista, questo codice è rimasto in vigore fino al 1929.
§ Nel 1911, l’ultimo imperatore della dinastia Qing abdicava, aprendo la porta ad una repubblica
manifestamente sensibile ai modelli occidentali. L’uomo politico che fondò la repubblica, articolò lo
Stato sulla base della separazione dei cinque poteri: legislativo, giudiziario, esecutivo, e gli organi di
controllo e di esame.
§ Dopo il periodo di assestamento (1921-1927), vennero promulgati vari codici, visibilmente ispirati ai
modelli europei. Fu programmata la redazione di 6 codici, il cui numero è stato elevato a 11: la
Costituzione, il codice civile, il codice dei commercianti, il codice penale, il codice di procedura civile e
il codice di procedura penale, leggi agrarie, leggi della società, titoli di credito, leggi del commercio
marittimo, leggi delle assicurazioni.
Tre diverse costituzioni furono adottate nel 1931, nel 1936 e nel 1947; il codice civile risente invece del
modello tedesco, giapponese e svizzero. In materia penale, si sono succeduti tre codici, del 1912, 1928 e
1935 (quest’ultimo risente del codice Rocco del 1930). Il sistema delle fonti fece posto ai precedenti
giudiziari. I tribunali vennero organizzati in tre livelli di istanza, e le funzioni del PM vennero tenute
distinte da quelle del giudice; i giudici erano professionali, con esclusione di ogni giuria.
Questi codici, estranei alla tradizione del paese, non sono penetrati in profondità nella vita dei cinesi;
sono rimasti in vigore fino al 1949 in tutta la Cina e, dopo d’allora, a Taiwan.

La presa di potere del partito comunista.


Il 1949 può essere considerato l’anno un cui il partito comunista cinese prese il controllo dell’insieme della
Cina. La conferenza politica del popolo cinese si costituì in un’assemblea nazionale popolare e adottò un
testo costituzionale. Vennero proclamate la dittatura del proletariato e la funzione guida della classe
lavoratrice. Vennero assicurati a tutti i cittadini il diritto elettorale e altri diritti politici.
Il programma comune taceva sul punto più importante, ossia sulla soggezione del Paese al partito, e
l’insindacabilità degli atti del partito. La conferenza abrogò i 6 codici e tutte le leggi risalenti al periodo
1928-1949, promettendo la promulgazione di un ordinamento giuridico popolare. La rivoluzione aveva
insediato un potere assoluto, gestito dal vertice del partito: segretariato, ufficio politico, comitato centrale.
Per regolare la vita pubblica cinese era sufficiente la volontà politica del partito.

Formalismo e anti-formalismo nel periodo 1949-1976.


Nella Cina retta dal potere comunista, era fuori discussione che questo avrebbe adoperato il diritto, ma non
poteva dispensarsi dal dare regole sulla proprietà dei mezzi di produzione, sull’appartenenza del prodotto,
sulla destinazione di quanto ricavato dalla vendita di essa, della remunerazione del lavoratore.
Si poteva identificare la norma giuridica con la pura volontà politica degli organi di partito, trasmessa a chi
deve eseguirla attraverso la stampa quotidiana e le circolari, garantita da un apparato di dissuasione e una
deterrenza in cui interviene la propaganda politica e la sanzione politico-giuridica.
La Cina poteva d’altronde rivolgersi alla norma giuridica formalizzata, adottata da organi dello stato
mediante un atto solenne, soggetto a pubblicazione, affidato per la sua attuazione a funzionari
amministrativi e giudici, i quali avrebbero potuto comminare misure afflittive-punitive, di rieducazione, di
riabilitazione. La scelta tra regola informale e regola formalizzata poteva essere parallela alla scelta delle
persone a cui affidare la formulazione delle norme e la loro esecuzione; si poteva scegliere il politico o il
giurista. La tradizione cinese poteva così fare a meno del giurista professionale.
La prima opzione rivoluzionaria si indirizzò all’imitazione del modello sovietico: si istituì una Corte
suprema e una Procuratura; si legiferò sul matrimonio, sulla riforma agraria, sull’organizzazione
giudiziaria. La tradizione cinese emerse nel senso che si fece a meno di giuristi, e organi politici o di polizia
e di sicurezza sostituivano o condizionavano i tribunali. Nel 1954 la nuova Costituzione ricalcò la
Costituzione staliniana del 1936.
Tuttavia, il parallelismo tra rivoluzione sovietica e rivoluzione cinese successivamente scomparve, come
anche l’armonia tra i due Paesi. In Cina fu proclamata la rivoluzione culturale, molto polemica nei confronti
del modello occidentale, i cui maggiori esponenti, tuttavia, furono arrestati nel 1976. Nel 1975 una
Costituzione di soli 30 articoli mise in prima linea i principi del comunismo, lo statalismo economico e il
potere del proletariato; tacque dell’indipendenza dei giudici, limitò il diritto di difesa, mise la Procuratura a
disposizione della polizia, ridusse i diritti civili del cittadino.

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Le fonti a modello occidentale dal 1976 in poi.


Nel 1978 viene redatta una nuova Costituzione, che riduce in modo vistoso le innovazioni del 1975; nel
1979 il potere passa nelle mani di Ping, statalista equilibrato e non troppo ideologizzato. Egli conferma la
scelta del socialismo, il ruolo del partito comunista, la centralizzazione del potere e la collettivizzazione
dell’economia, ma lascia cadere la rivoluzione culturale e la lotta di classe.
Il potere ora tende a puntare sulla modernizzazione dell’economia (agricola ed industriale) e a tal fine dal
1982 si è legiferato a gran forza.
Fin dal 1980 entra in vigore un codice penale in 192 articoli, non insensibile ai valori umano, le cui pene
vanno dalla sorveglianza ad opera del popolo alla uccisione; le carceri mirano a rieducare il colpevole.
Nello stesso anno si promulga la legge sul matrimonio, che ribadisce i principi della personalità del
consenso, della parità dei diritti dei coniugi, della libertà di divorzio consensuale.
Nel 1982 viene emanata una nuova Costituzione, poi emendata nel 1993, nel 1999, e nel 2004.
Si afferma il primato dell’economia collettivizzata e programmata, ma si consentono spazi all’attività libera
e privata. Si elencano i diritti civili dei cittadini. Si sancisce l’indipendenza del potere giudiziario, si insiste
sulla soggezione di tutti alla legge.

Le regole e i caratteri del diritto cinese attuale.


La repubblica cinese è strutturata tuttora secondo il principio del centralismo democratico. Al vertice dello
stato vi è l’assemblea nazionale popolare, dotata di poteri legislativi, chiamata a nominare i personaggi
illustri dello Stato e a prendere le più importanti decisioni politiche. I suoi compiti vengono svolti dal suo
comitato permanente, che ha il potere di interpretare la costituzione e la legge.
Il Presidente della Repubblica e il Consiglio di Stato sono al vertice del potere esecutivo.
Le assemblee locali del popolo e i governi locali del popolo sono organi periferici del potere amministrativo.
I tribunali sono distribuiti su vari livelli, fino al tribunale supremo. I giudici sono nominati dagli organi
politici elettivi e quindi responsabili di fronte a questi, sebbene indipendenti.
Gli uffici della Procuratura del popolo sono organi statali di controllo, disposti su vari livelli.
Il diritto penale proibisce il ricorso all’analogia (novità del 1977); conferma il rigetto della vendetta, delle
punizioni corporali e della gogna, proibisce all’autorità ogni arbitrio, e dà effetto a principi umanitari.
Nel nuovo codice di procedura civile arretra il modello inquisitorio.
I principi del diritto civile trattano della capacità (giuridica e di agire) e della morte presunta. Un capitolo
assai tecnico regola il negozio giuridico, la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale,
l’esercizio del diritto. Inoltre, sono principi essenziali del diritto civile: la parità dei soggetti del rapporto,
l’autonomia della volontà, la legalità, il rispetto del pubblico interesse, della pianificazione economica,
dell’ordine economico- sociale.
Il matrimonio è fondato sul consenso dei coniugi, è regolato sulla base della monogamia, dello
scioglimento in caso della caduta del vincolo affettivo, della parità di diritti fra uomo e donna, fra figlio
nato nel matrimonio e quello nato fuori dal matrimonio.
La proprietà è esposta ad operazioni di liberalizzazione e modernizzazione non facili. Alla tripartizione
socialista (proprietà statale, cooperativa, personale), ed al monopolio statale sulla terra è subentrato il
riconoscimento della proprietà privata capitalistica.
L’imitazione del modello occidentale si è allargata ad altre aree del diritto, lo strumento più facilmente
imitabile è la legge, perciò il diritto cinese ricorre alla legislazione, e utilizza vecchi modelli sovietici,
modelli angloamericani e più ancora modelli europei continentali. L’idea della legge deve fare i conti con le
fonti sub-legali e ai rapporti tra lingua e i concetti.
Il diritto cinese dell’ultima fase ben conosce l’integrazione prestata dalla giurisprudenza alla legge; il
legislatore ricorre spesso a clausole generali, e il giudice introduce richiami generali ulteriori. La legge
cinese vuole imitare quella occidentale, ma non è detto che trovi nella lingua e negli ideogrammi del paese
imitatore, la traduzione del concetto occidentale.

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SEZIONE TERZA - IL DIRITTO GIAPPONESE


Elementi storici.
Nella presentazione del diritto giapponese va preso in considerazione l’anno 646, anno in cui inizia l’“era
taika”. L’ordine che si impone a partire da quel momento si basa su un imperatore sacralizzato, ma
anch’esso sottomesso ad una legge naturale immutabile, su uno Stato che svolge molti compiti e che dirige
l’economia, sulla divisione della società in caste.
La garanzia del rispetto delle regole è data dal “ritsu”, regola repressiva, e dal “ryo”, regola amministrativa,
esplicitate in compilazioni, sulla base delle quali apposite scuole insegnano il diritto.
A partire dal IX secolo questo sistema viene eroso dall’ingigantirsi del potere dei governatori delle terre e
dal perfezionamento della casta dei guerrieri.
Il confucianesimo, che nel frattempo diventa dottrina ufficiale del paese, dà man forte alla suddivisione per
caste.
A partire dal XVIII secolo il potere imperiale riprende vigore, come anche la sua attività giurisdizionale:
l’imperatore, tuttavia, si tiene lontano dalle controversie che possono venire definite in una sede più
decentrata.
Va evidenziato che in tutte queste epoche manca la figura del giurista e, laddove non arriva la norma
autoritativa, si impone il “giri”, che è una regola di convenienza non giuridica, osservata per non incorrere
nel biasimo sociale, una sorta di consuetudine.
In Giappone singoli autori hanno recentemente cercato di mettere per iscritto i vari “giri”, ma queste opere
non sono tradotte in lingue occidentali.

Il diritto scritto (l’imitazione del modello occidentale).


Altra data importante nell’evoluzione del diritto giapponese è il 1868, anno dell’“era di Meji”. In questa
epoca le autorità giapponesi si convinsero che il Giappone non poteva essere forte senza diventare
moderno. e non poteva ammodernarsi senza ricorrere ai modelli occidentali. Si intrapresero, perciò, lavori
di codificazione, la quale si ridusse ad una traduzione di modelli romanisti, a seguito di una scelta operata
nel campionario che l’Europa forniva. Questa opera di recezione legislativa si svolse in due diversi periodi:
nel 1881 iniziò i suoi lavori una commissione costituita per studiare i modelli costituzionali europei, fra
questi il modello prussiano (fu la base della costituzione del 1889). Fin dal 1870 fu studiato il codice
napoleonico per un progetto di redazione del codice civile giapponese, ma il progetto ad esso ispirato non
entrò mai in vigore.
Nel 1898 entrò in vigore un nuovo testo, basato principalmente sul BGB, con apporti tratti dal Codice
Napoleonico
Il diritto commerciale giapponese è stato codificato nel 1890, ricodificato poi nel 1898, nel 1911 e nel 1938.
Nel 1882 entrò in vigore un codice penale a modello francese, soppiantato nel 1908 da un codice a modello
tedesco, rielaborato nel 1907.
Il diritto processuale civile è stato regolato a mezzo di due diversi codici, entrambi ispirati all’esempio
tedesco. Il codice attuale è comparso nel 1998.
La procedura penale fu regolata dalle leggi del 1880 e 1890 basate sul modello francese, fino all’adozione
del nuovo testo apparso nel 1922, ispirato al codice tedesco.
Alla fine della seconda guerra mondiale, il Giappone fu costretto a modernizzare le sue istituzioni al fine di
non apparire pericoloso sul piano del mantenimento della pace. Tutto il diritto giapponese fu, così,
ristrutturato. La mutazione più traumatica riguardò la Costituzione (1946) che laicizzava lo Stato
(l’imperatore rinuncia alle prerogative divine) e poneva al centro della scena la dieta, interamente elettiva
che legifera e designa il primo ministro, e i diritti politici e umani dei cittadini.
Nel nuovo clima culturale, la riflessione giuridica non si esaurisce più nella elaborazione di concetti di
stampo pandettistico-germanistico, e nulla impedisce di confidare nella creazione operata dal giudice.
L’ordine giudiziario è, almeno in teoria, indipendente: esercita il controllo di costituzionalità sulle leggi. La
Costituzione impone l’unicità della funzione giurisdizionale; anche le questioni amministrative sono
sottoposte al giudice ordinario competente per gli affari civili e penali.
Anche il diritto di famiglia si modernizza: si va verso l’uguaglianza dei sessi e la parità dei figli
extramatrimoniali, si lotta contro la violenza domestica.
Nuove norme del 1950 e del 2002 riguardano le società, specialmente le spa.
Nel diritto giapponese, è stata introdotta la figura del piano economico-finanziario di risanamento delle
industrie in crisi.

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Il campo delle relazioni industriali e del diritto del lavoro ha visto la regolamentazione dei sindacati, del
miglioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro e altre misure per la protezione del lavoratore.
Il diritto penale risente del nuovo clima: sono state abrogate le norme sui reati contro la famiglia reale,
cancellata l’incriminazione dell’adulterio.
Sono più significative le modifiche apportare alla procedura civile: si dà spazio alla concezione accusatoria
della procedura, riducendo i poteri di iniziativa del giudice.
Nell’area della procedura penale un nuovo codice è stato promulgato nel 1949: questo vede l’apparizione del
modello accusatorio, la non obbligatorietà dell’azione penale, l’esclusione della prova per sentito dire.

Lo spirito del diritto giapponese.


Il ricorso alla conciliazione ha dimensioni imponenti, e questa caratteristica del sistema proverebbe che il
giapponese non ricorre al diritto. Lo spazio lasciato vuoto dal diritto scritto sarebbe riempito dai “giri”,
regole non giuridiche. I “giri” hanno una presa decrescente.
Il diritto autoctono è il diritto spontaneo tradizionale, o formatosi in modo spontaneo e silenzioso, in
contrapposizione al diritto propriamente tradizionale. Questo diritto estraneo alla norma scritta ha bisogno
di strumenti adatti a vivificarsi: tra questi eccelle la conciliazione, specie promossa dai non giuristi. La
conciliazione assistita da un intermediario mette sempre in pratica un criterio di decisione che costituisce, a
sua volta, una norma giuridica. Il conciliatore statuale e giurista invita istintivamente le parti ad adeguarsi
alla leggo dello Stato. La diffusione della conciliazione in Giappone può essere lo strumento che veicola
l’applicazione di una regola non autoritativa e non scritta, nota ai soggetti della procedura, e da essi tenuta
in onore. A questo punto il diritto giapponese non si riduce al diritto scritto: è arricchito da norme non
scritte, anch’esse giuridiche.
Il Giappone ha cura di preparare giuristi, e di selezionare fra essi i migliori, per inserirli nelle corti. Nessuna
politica è stata praticata per la formazione di una classe di avvocati, e nella società giapponese i
meccanismi spontanei non hanno condotto ad una imponente affermazione della categoria. Il questo clima
il giudice mantiene il potere di controllare la conduzione della lite civile, cui la parte può partecipare, se lo
preferisce, senza assistenza. In parallelo, sorto il conflitto, verrà consultato un avvocato. Le conciliazioni
sono concluse senza giuristi. Molte di queste conciliazioni sono condotte lontano dagli uffici giudiziari.
All’interno delle strutture giurisdizionali giapponesi operano comitati di conciliazione, presso i quali sono
attivi personaggi laici. Anche gli organi destinati a dirimere il contenzioso si avvalgono di ausiliari
giudiziari, laici, preparati e autorevoli, che si interpongono pe la conclusione di un accorso.
Il giurista giapponese ha tenuto distinti il diritto scritto occidentale, d’origine autoritaria, e la regola
spontanea. Il “giri” e la consuetudine non entrano nelle facoltà ove si studia il diritto. Potrà apparire
singolare che lo Stato sproni le parti, mediante il tentativo di conciliazione, ad applicare la consuetudine, e
poi, se la conciliazione non riesce, imponga loro il diritto scritto.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO - L’AFRICA SUBSAHARIANA

SEZIONE PRIMA - L’AFRICA


L’Africa a nord e a sud del Sahara.
Da un punto di vista linguistico-antropologico possiamo dividere l’Africa in una zona a nord del Sahara e
l’altra a sud.
A nord ben prima del contatto con il modello europeo, si era insediata l’organizzazione statuale. In Egitto, lo
Stato è nato con le dinastie faraoniche, e poi il modello egiziano si è diffuso; nel Maghreb lo Stato è stato
introdotto dai Fenici, dai Romani, ed è stato ulteriormente radicato dall’apporto arabo-islamico e turco.
Inoltre, nell’area considerata, un ruolo rilevante è stato quello svolto dal cristianesimo e dall’islam, non solo
nel delineare la fede delle popolazioni, ma anche per la dottrina relativa alla società e allo Stato.
Molte delle informazioni relative ai sistemi giuridici che caratterizzano quest'area vanno ricercati nel
modello islamico.

Il concorso di più modelli giuridici in un solo ordinamento.


Le diversificazioni del diritto africano dipendono innanzitutto dalle differenze che intercorrono fra le singole
soluzioni giuridiche.
In Africa abbiamo un fenomeno molto importante che è dato dalla potenziale compresenza di opposti
modelli in un’unica aerea: troviamo la convivenza di modelli privatistici tradizionali, di modelli privatistici
sciaraitici e di modelli privatistici europei. La forma delle convivenze può variare.
La distribuzione dei modelli non segue solo il criterio etnico: in una stessa famiglia, infatti, potrà accadere
che l’uno si sposi con il rito del matrimonio statuale, l’altro con quello islamico e l’altro ancora con quello
tradizionale.
Per comprendere la cultura africana, bisogna comprendere ordinatamente gli strati che si sono sovrapposti.
L’analisi stratigrafica della cultura africana mette in evidenza, anzitutto, una prima componente a carattere
tradizionale, quella del giurista antropologo (unico strato autentico); un secondo strato sarà collegato con la
religione, che implica una conoscenza adeguata del cristianesimo e, più ancora, dell’Islam. Un terzo strato è
giunto in Africa con gli europei: la sua conoscenza presuppone una conoscenza del diritto europeo
continentale, del diritto inglese, del diritto introdotto dai britannici in India, con riferimento al periodo 1815-
1945. Un quarto strato è costruito dalle scelte successive al momento dell’indipendenza, integrate, in molti
paesi, dall’edificazione di un sistema rivolto al socialismo. Un quinto strato è costruito dalle scelte
successive, operanti nel momento di transito dal II al III millennio.

Le culture africane, nei rapporti con le grandi epoche del diritto.


Lo stesso diritto tradizionale africano si presenta molto composito: alcune culture tradizionali africane sono
imperniate sulla caccia e sulla raccolta, a cui si ricollegano delle regole giuridiche molto semplici. Il ricorso
al sacrale ai fini del diritto non è intenso, i gruppi sono piccoli e gli istituti giuridici sono pochi.
Tutti gli altri africani hanno acceduto alla pastorizia o all’agricoltura. I gruppi vivevano senza bisogno di
sottoporsi ad un potere centralizzato, e il diritto tradizionale africano offre numerosi esempi di società che di
fatto ancora oggi provvedono ai propri bisogni giuridici mediante l’esercizio di poteri diffusi e distribuiti
all’interno di tutto il corpo sociale.
Le culture africane in esame erano e sono fortemente impregnate del sacrale, che si sposa in qualche modo al
divino se sopraggiunge la conversione all’islam o, più recentemente, al cristianesimo.
I paesi africani subsahariani non adoperarono sistematicamente la scrittura ai fini del diritto, l’autorità non
redigeva norme giuridiche complesse, e non esistevano personaggi specializzati nella conoscenza o nella
spiegazione del diritto.
La situazione è venuta a mutare per effetto dei contatti tra l’Africa subsahariana e l’Europa, dovuti alla
colonizzazione.

SEZIONE SECONDA- IL DIRITTO AFRICANO TRADIZIONALE


La formulazione del dato giuridico tradizionale.
La regola africana tradizionale non è scritta e l’oralità si estende al processo e alla decisione del giudice:
questo segna la prima differenza rispetto al diritto europeo. Non solo il diritto non viene scritto, ma non è
agevole scriverlo perché nel mondo africano tradizionale manca il giurista di mestiere, manca un linguaggio
giuridico sofisticato, e la regola giuridica si esprime con un vago proverbio allusivo.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Dal punto di vista linguistico, la fissazione della consuetudine nello scritto implica sempre il travaso delle
idee di un popolo senza scrittura e senza giuristi nei filtri concettuali dei giuristi dotti appartenenti ad un dato
sistema. Dal punto di vista della struttura della norma, bisogna dire che chi riduce in scritto la consuetudine
indica l’elenco degli elementi presenti nel fatto che ha dato luogo al conflitto, e non può menzionare altre
variabili. Questa flessibilità della norma tradizionale è ben nota a chi parla il diritto africano, e viene evocata
osservando che non sempre il conflitto troverà una norma di merito che lo regoli, e che il compito del
giudizio sarà quello di rinsaldare la coesione del gruppo.
La regola che impone una certa rilevanza alla variabile estranea al fatto di causa potrà sopravvivere alla
verbalizzazione e alla riduzione in scritto del diritto consuetudinario.
Questa regola che opera silenziosamente sarà tanto più rigogliosa quanto più il processo e il diritto saranno
pervasi dal soprannaturale.

La raccolta dei dati.


Il reperimento dei dati relativi al diritto tradizionale africano presenta difficoltà: la tradizione giuridica non è
ridotta in formule precise, i dati quindi, vengono raccolti mediante conversazioni in cui l’antropologo
interroga l’autoctono. Il ricercatore europeo interroga per scoprire un diritto che non gli è ancora noto, non
può padroneggiare le categorie che sono appropriate per il sistema cui vorrebbe avvicinarsi.
Una seconda difficoltà dipende dal fatto che il grado di generalità e astrattezza della norma non corrisponde
necessariamente al grado di generalità appropriato per il sistema africano di riferimento. Esistono poi dei
tempi sui quali l’africano non si intrattiene volentieri, perché ritiene vincolato al segreto, o perché teme che il
discorso tratti della sua etnia come di una popolazione barbara e immatura.

Tradizione e sacralità.
La norma africana subsahariana è permeabile al sacrale: la sacralità è una sua dimensione. Si sente dire che il
diritto africano è sempre spostato al soprannaturale. Dove vince la šarī‘a è spostato al divino; a sud del
Sahara è spostato al sacro.
Questa contestazione è ottima per comprendere le regole e le situazioni africane, tuttavia alcune riserve
devono essere elevate sul suo carattere assoluto: innanzitutto, le società africane tecnologicamente meno
avanzate non sembrano utilizzare il mondo soprannaturale per i bisogni del diritto; la contrapposizione tra la
fede religiosa e la sacralità tradizionale non può essere netta, date le frequenti sopravvivenze di momenti
sacrali-magici, formalmente incompatibili con la ortodossa islamica, che però si perpetuano in scenari
islamici; infine, esistono aree africane in cui la consuetudine è laica: verosimilmente si tratta di consuetudini
che hanno potuto sopravvivere all’islamizzazione o alla cristianizzazione, a patto di spogliarsi della
legittimazione sacrale tradizionale (incompatibile con la religione).
Il sacro legittima il potere. Il capo ha contatti con personaggi ultraterreni e ciò gli permette di diffondere
vantaggi e benefici alla società.
I rapporti fra le persone si intendono permeabili agli influssi malefici che molti soggetti esercitano sul
prossimo; contro essi giova ricorrere all’opera di specialisti.

La parentela e la famiglia.
L’appartenenza ad una stessa famiglia non si basa, come in Europa, sul legame tra entrambi i genitori e il
figlio: può avvenire il legale familiare esista solo fra madre e figlio, oppure solo fra padre e figlio; può
avvenire che la parentela fra figli di due fratelli o di due sorelle (cugini paralleli) sia strettissima da impedire
il matrimonio, e che invece la parentela fra figli di un fratello e una sorella (cugini incrociati) sia considerata
remota e dia luogo ad una prelazione matrimoniale.
La scelta del coniuge è dominata da regola fondamentali: ovunque si lotta contro l’incesto; ovunque il
matrimonio è visto come legame tra due famiglie; ovunque il marito versa un corrispettivo per acquistare la
moglie (in cambio gli apparterranno i figli e i frutti delle opere della sposa).
A seconda delle culture, poi, il matrimonio può essere monogamico o meno; in alcuni casi è ammesso il
divorzio in altri no; in alcuni casi la nuova famiglia vivrà dove vive la famiglia dello sposo (matrimonio
virilocale), in altri dove vive la famiglia della sposa (matrimonio uxorilocale).
Nell’Africa subsahariana sono rilevanti le diverse cerchie determinate dalla discendenza comune da un
capostipite di cui si racconta ma con un ricordo incerto. In ogni caso, il defunto è sempre virtualmente
presente, partecipa alle decisioni, ha esigenze proprie che vengono rispettate.
Nell’Africa del nord e ad est del Sahara la famiglia è regolata dal diritto religioso.

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

Il posto della persona nella società.


Nella società sub-sahariana il diritto è legato agli status, cioè alla posizione che il singolo ha nel gruppo di
appartenenza, e alla posizione che esso gruppo ha nel consenso più ampio della società. Spesso la
responsabilità per delitto grava sul gruppo.
La regalità e la funzione politica appartengono ad una data famiglia. La persona può essere libero o schiavo.
Tendenzialmente le società sono stratificate in caste nobili e comuni. In varie culture, poi, hanno importanza
le società segrete; in altre hanno rilevanza le classi segmentate per età.
La proprietà.
La terra è sacralizzata, attira carisma sul capo e riceve un culto.
La terra non può essere alienata fuori del gruppo, che controlla la gestione e la circolazione della terra.
I singoli hanno sulla terra diritti di utilizzo, parametrati alla posizione sacrale e castale della persona, e
fondati su atti di distribuzione affidati ad un “capo della terra”, personaggio sacrale che affianca il capo
politico del gruppo.
Questo assetto della proprietà fondiaria esclude il funzionamento di garanzie ipotecarie.
Presso i Pigmei e i San appartiene alla banda l’area riservata alla caccia e alla raccolta di quel determinato
gruppo. Questa proprietà è difesa in modo geloso.
A nord e ad est del Sahara domina la proprietà economica, individualistica, garantita dalla šarī‘a.

Il contratto e lo scambio.
Il contratto, inteso come convenzione a carattere patrimoniale, non ha la stessa importanza che ha in Europa.
Le prestazioni si scambiano fra soggetti non estranei. Sono parti negli scambi gli uomini vivi, i defunti, la
terra, gli dei. Ciò che è importante è il sentimento della corrispettività fra due prestazioni.
Il contratto-accordo non ha un riconoscimento generalizzato. L’accordo può reggere in virtù di
sacralizzazioni o solennità variabili dall’una all’altra cultura.
Valgono gli obblighi restitutori derivanti dalla consegna di una cosa, oppure quelli rivolti a promuovere
un’attività comune.
Far le attività svolte collettivamente deve essere ricordata la caccia. Le regole sulla caccia e sul riparto della
selvaggina hanno importanza primaria nelle culture dei popoli dei Pigmei e dei San.
A nord e ad est del Sahara le obbligazioni e i contratti sono retti da norme sciaraitiche o altre regole culte.

L’infrazione e il conflitto.
Il diritto tradizionale conosce bene l’idea del fatto illecito, che merita e scatena una sanzione, ma non
distingue tra responsabilità civile e penale: fa una distinzione tra reazione del gruppo offeso e reazione della
comunità.
La vendetta è posta in essere dal gruppo dell’offeso contro il gruppo dell’agente. Essa è ritualizzata, e
denominata dal principio di uguaglianza fra la vittima del delitto e la vittima della reazione; inoltre si ispira
di norma alla legge del taglione. Il gruppo responsabile può esonerarsi espellendo dal proprio seno l’agente.
Un surrogato della vendetta è il pagamento di una pena privata.
Taluni illeciti mettono a repentaglio i rapporti fra le comunità: in questi casi dovrà intervenire la società
imponendo un giudizio. La prova si collegherà all’assunzione di un veleno, o al contatto con un metallo
rovente, o al comportamento rivelatore di un animale appropriato, o al giuramento, o ad una inchiesta.
Le pene sono molto varie, ora afflittive ora indirizzate alla riparazione psicologica; fra le sanzioni punitive fa
spicco l’esclusione del gruppo.
Nelle comunità di raccoglitori-cacciatori sono importanti l’autodifesa, la guerra e l’allontanamento reciproco
dei litiganti. Il giudizio non è sviluppato.
A nord e ad est del Sahara, il magico non ha preso sul giudizio, e il compito di dirimere il conflitto è affidato
ad un giudice professionale, insediato dallo Stato.

Il potere politico.
Per quanto riguarda il potere politico, in buona parte dell’Africa a sud del Sahara la società esprime un potere
centralizzato, normalmente nelle mani di un re, spesso di natura divina, e dotato di poteri dispotici.
L’accesso al trono è riservato ad una data etnia, un dato linguaggio e una data famiglia. il trono verrà
attribuito secondo una regola (es. prevale il più anziano o il primogenito) o secondo l’esito di una guerra di
successione ritualizzata.

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Spesso accanto il potere regale, troviamo contropoteri di vario tipo o poteri locali. Se il potere è collegiale le
decisioni sono prese all’unanimità.
Il re sarà spesso circondato da una corte, i cui membri accedono per sua nomina o per diritto proprio. Nella
società africana ha un suo posto l’aristocrazia. Diversa è la società segreta, operante in alcune aree.
La presenza di un surplus di produzione consente l’istituzionalizzazione di tributi cui segue una
redistribuzione a pioggia a favore dei singoli.
Spesso fioriscono, nelle società africane, l’artigianato, il commercio, l’estrazione e la lavorazione di vari
metalli.
Nell’Africa tradizionale manca una sapienza affidata ad un collegio consapevole della propria responsabilità,
e capace di legittimare il potere e la sua trasmissione. La scrittura, dove esiste, non genera l’archivio, né
genera il sistema tributario capillare e razionale, né l’elaborazione delle norme giuridiche formalizzate
mediante la lettera.
A nord e ad est del Sahara il potere centralizzato si identifica con il potere statuale.
Vi è, però, un’altra Africa in cui questo potere centralizzato manca: si tratta delle c.d. società “a potere
diffuso”. In tali società il gruppo provvede alla difesa dei propri membri e dei beni di questi ultimi mediante
autotutela.
La tribù si divide in clan, i clan in lignaggi, il lignaggio in famiglie. Fuori delle famiglie non esistono autorità
dotate di un potere proprio. Non si costituiscono società segrete né gruppi di età. Sono note forme di
aggregazione convenzionale al gruppo, su base paritaria o clientelare, con effetto perenne o temporaneo;
queste adozioni simulano la consanguineità.
Il matrimonio è regolato dalla šarī‘a; la donna è esclusa dalla successione.
La proprietà è individuale, ma lo statuto del bene lo vincola al gruppo con clausole che vietano l’alienabilità.
La responsabilità, in via di principio, dà luogo alla vendetta. L’uccisione del fratello, del figlio, del padre non
daranno luogo a sanzione.
Il conflitto può dar luogo ad un combattimento, che sarà seguito da una trattativa ed un accordo di pace. La
tribù ha un organo assembleare, formato dai maschi adulti saggi; l’assemblea ha un presidente, eletto con
rotazione (in certi casi ereditario).
Il giuramento ha importanza centrale, per garantire un patto, asseverare un diritto, o decidere una vertenza.

SEZIONE TERZA- LO STRATO RELIGIOSO


L’elemento religioso nel diritto africano.
Tempo addietro si ebbe una diffusione primaria dell’ebraismo e poi del cristianesimo in tutta l’Africa a nord
e ad est del Sahara. Una diffusione secondaria del cristianesimo si è avuta nel corso della colonizzazione,
come effetto della predicazione missionaria svolta negli ultimi due secoli.
Un’importanza molto maggiore deve assegnarsi alla diffusione dell’islam, la religione più diffusa in Africa e
nei paesi arabofoni del nord. L’importanza dell’islam ai nostri giorni è accresciuta dal fatto che esso
manifesta un interesso molto vivo per i problemi di legittimazione del potere politico e per il dato giuridico
in genere.
L’islam penetrò nell’Africa al sud del Sahara dall’XI secolo, e non modificò l’assetto della politica della
società presenti nell’area. Nel periodo che ingloba i secoli XIV-XVIII, l’area fu pervasa da un secondo islam,
molto attento alla dottrina politica e perciò capace di un impatto assai maggiore sul diritto. Ha avuto una
storia autonoma la diffusione dell’islam sulla costa orientale dell’Africa, ove è pervenuto al seguito dei
missionari, mercanti e altri viaggiatori provenienti dal Pakistan, dalla Persia e dall’Arabia.

La variabilità dell’islam.
L’islam africano è uniformemente sunnita. Le quattro scuole ortodosse non incidono in maniera profonda sul
messaggio islamico concernente il diritto; tuttavia troviamo volti ed atteggiamenti diversi nelle diverse aree:
- troviamo in alcune zone (es. Senegal) al centro della scena sociale la confraternita, stretta intorno ad
un capo, che è il direttore spirituale ed anche condottiero militare. La confraternita svuota dei poteri
lo Stato.
- In altre aree troviamo un islam severo nei riguardi del culto dei santi, o aperto ad essi. Le due
tendenze si sono contrastate in sanguinose guerre.
- In alcune aree fiorisce il rispetto delle prerogative che competono ai discendenti del profeta, ai
quarisciti, membri della tribù del profeta, e agli arabi. Tra questa prerogative sono importanti la
capacità di diffondere la grazia intorno a sé, la santità ereditaria, ecc.

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Anche i dettagli della condotta esterna possono essere influenzati da tradizioni e interpretazioni locali: c’è
una Africa islamica in cui le mogli del marito poligamo convivono e un’Africa islamica in cui le mogli
vivono a grande distanza l’una dall’altra; ci sono aree dove la donna si vela, e aree in cui essa lascia il volto
scoperto.

Islam e diritto tradizionale africano.


L’Islam ha un suo diritto. La šarī‘a è parte della dottrina religiosa islamica. Tuttavia, due circostanze
implicano che l’islam consenta spazi al diritto tradizionale africano:
a) nel diritto pubblico, l’islam fissa doveri per il governante, ma poco si pronuncia sulle procedure da
seguire per sceglierlo;
b) nel diritto privato, l’islam riconosce la possibilità di rispettare le consuetudini, senza però
incorporarle nella šarī‘a.
La consuetudine africana può mantenersi in vigore grazie alla tolleranza della šarī‘a; ma avviene che essa
influisca sulla interpretazione e sull’applicazione della šarī‘a da parte del qādī (magistrato musulmano), e che
in questo modo si presenti al musulmano come se fosse la regola sciaraitica ortodossa.
Può avvenire che la consuetudine operi anche al di là dei margini entro i quali la šarī‘a vorrebbe confinarla.
Per fare un esempio, la materia dello “statuto personale”, ossia il nucleo delle regole islamiche in tema di
matrimonio, famiglia, successione, dovrebbe essere intangibile, ma in Africa la consuetudine riesce a
sopraffarla a vari propositi, escludendo per esempio la donna dalla successione per causa di morte.

SEZIONE QUARTA - LO STATO COLONIALE


La colonizzazione e le sue varie forme.
A partire dal XVI secolo molti Stati europei si procurarono il controllo di vaste regioni africane, facendo di
esse delle colonie.
I modi di indipendenza di un territorio africano da una potenza metropolitana erano vari:
• la colonia diretta, era la colonia che apparteneva alla potenza europea, che provvedeva a governarla
mediante organi propri, diretti da cittadini metropolitani, che agivano agli ordini di un ministero
metropolitano;
• la colonia autonoma, era una colonia veniva avviata all’indipendenza mediante l’esercizio di una più
o meno ampia autonomia;
• il protettorato, si verificava quando capi africani concludevano accordi con potenze europee, le quali
riconoscevano poteri di controllo e ingerenza, e cui affidavano la propria protezione e
rappresentanza internazionale.
La scienza del tempo si misurò con le finalità perseguite dalla potenza coloniale, distinguendo politica volta
ad assimilare il suddito coloniale al cittadino metropolitano dalla scelta orientata verso il mantenimento delle
differenze e della separatezza. Il secondo orientamento si accompagnava bene con forme di governo
“indiretto” della colonia, ove si lasciavano in funzione le strutture politiche pre-coloniali, perché operassero
sotto un controllo degli organi metropolitani.
Per capire cosa fosse una colonia bisogna domandarsi in quale misura le scelte che la riguardavano fossero
operate in Africa o in Europa: nel primo caso ci si domanda se la scelta fosse operata da un funzionario
coloniale, da un europeo trapiantato (colono), o da un africano; nel secondo caso ci si domanda se fossero
assicurati gli interessi dell’amministrazione, dei coloni, e degli africani.

Diritto africano e diritto europeo nelle colonie.


Il potere europeo, insediandosi in Africa, non pensò di imporre le proprie regole e istituzioni. L’impresa
sarebbe stata difficilissima, e avrebbe violato ogni forma di rispetto per le tradizioni locali; inoltre, il potere
europeo non accettava di sottoporre gli europei alle regole e al potere locale: la soluzione appariva quella del
doppio binario.
Tuttavia una serie di fattori rese ineluttabile l’espansione della regola europea:
- l’europeo, giungendo in colonia, impiantava un’amministrazione, con funzionari, uffici, atti redatti
per iscritto da organo a ciò destinati, e questa attività era regolata dal diritto amministrativo
metropolitano;
- l’attività commerciale di tipo avanzato, non trovava sul suo cammino altra regola applicabile,
all’infuori di quella europea;

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- quando si voleva introdurre in Africa un sistema di protezione dei lavoratori, il diritto africano non
offriva modelli, e bisognava ricorrere a prestiti europei.

L’applicazione del diritto africano poteva imbattersi in difficoltà di varia natura: l’autorità europea,
responsabile dell’ordine pubblico, non poteva tollerare a lungo il permanere della schiavitù e della vendetta
tribale; l’intolleranza verso le tradizioni obbliga l’europeo a controllare l’amministrazione della giustizia
operata dagli africani; si manifestava una intolleranza europea verso la commistione fra il giurisdizionale e il
magico, così come insorgeva una più o meno marcata diffidenza verso il giudice non professionale e non
giurista, e verso la norma giuridica non verbalizzata.
Il diritto europeo si applicava ai rapporti “misti”, in cui erano parti un africano e un europeo; si insinuava nel
regolamento di fattispecie estranee alla tipologia tradizionale; talora si consentiva all’africano di sottoporre il
proprio statuto personale o il proprio rapporto alla regola europea. Ecco che alcuni settori del diritto europeo
rimasero del tutto estranei all’Africa (ad esempio il diritto costituzionale): ciò che il paese metropolitano
affermava in Europa, cozzava in Africa, con la disparità di trattamento dell’europeo e dell’africano, e con il
rifiuto a priori del diritto all’indipendenza.

Il diritto elaborato per le colonie.


Di fatto, il paese metropolitano finì per introdurre in Africa criteri e regole che non appartenevano né al
diritto europeo, né a quello preesistente nella colonia. Le norme in questione prendono il nome di diritto
coloniale in senso stretto.
Il ruolo dei militari si espandeva al massimo; i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) non si
mantenevano distinti; il necessario controllo sull’opera delle corti tradizionali africane era effettuato da
funzionari amministrativi, così come l’attività normativa locale. L’attività dei partiti mancava di scopo,
questo faceva mancare la dialettica fra le formazioni politiche. Le bonifiche del territorio creavano immensi
territori coltivabili, e bisognava evitare che esse circolassero a profitto di pochi speculatori: le aree venivano
assoggettate quindi ad un regime concessionario, finalizzato alla “messa in valore” delle terre.

La decolonizzazione.
A partire dagli anni ‘30 iniziò il processo di decolonizzazione, e intorno al 1960 le colonie africane
divennero Stati indipendenti.
Questo non significa che scomparve l’influenza occidentale sul diritto africano: in un primo momento, questi
Stati indipendenti mantennero legami confederali con la potenza coloniale. Nei paesi africani funziona
un’assistenza tecnica europea, che è prestata dal Paese colonizzatore; essa suole estendersi alla scuola, e
consente al Paese operante di diffondere la propria lingua e la propria cultura.
La modernizzazione dell’Africa esige procedimenti che il Paese africano non può permettersi: il Paese ex
colonizzatore può essere presente, offrire i mezzi materiali ed esercitare un’influenza determinante. Per fare
alcuni esempi, si tratta de l’Organisation pour l’Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires, che riunisce
le ex colonie francesi dell’Africa subsahariana; del COMESA, che raccoglie i Paesi africani sotto influenza
britannica.
Anche l’Unione Europea ha istituzionalizzato vincoli con i paesi ex coloniali dell’Africa subsahariana;
inoltre i Paesi africani partecipano alla vita internazionale.

SEZIONE QUINTA - IL DIRITTO DELL’INDIPENDENZA


La nascita dello Stato africano.
Gli africani divenuti indipendenti criticano le frontiere tracciate fra le varie colonie ma non le modificano. Il
paese africano promosso all’indipendenza non è una nazione: è suddiviso in numerose piccole etnie, spesso
culturalmente e linguisticamente diversissime; utilizza come lingua dell’amministrazione,
dell’insegnamento, del commercio, della religione, lingue diverse da quelle del parlare comune.
In alcuni casi i vecchi capi precoloniali mantennero o riottennero il potere; in molti Paesi, essi vennero
esautorati dagli europei, o avevano perduto la originaria legittimazione legata al sacrale o al magico. In altri
Paesi, essi erano stati rispettati dagli europei, ed avevano con questi collaborato: questo gli costò la
rimozione, intesa come sanzione per la collaborazione prestata agli oppressori.
Il personale adatto a reggere il Paese era offerto dal partito che, nelle more della decolonizzazione, si era
formato nella colonia reclamando l’indipendenza.

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Al momento dell’indipendenza, per il tramite del partito, o senza esso, l’Africa affidò sé stessa ai laureati,
che univano la radice africana e il possesso degli strumenti con cui, nel mondo avanzato, i governanti
guidano il proprio paese.

Il diritto europeo nell’Africa indipendente.


Le costituzioni dell’indipendenza riflettono un modello europeo, americano o britannico. Colpisce il loro
silenzio in merito ai corpi intermedi che operano fra lo Stato e la persona, vale a dire le tribù, le etnie, ecc. Il
motivo di questo silenzio è legato alla scelta africana di accentramento e unità, non sentendosi di predisporre
la protezione delle molteplici, multiformi e malstudiate forme di vita e aspirazioni tribali, e temendo una
frammentazione distruttiva della vita collettiva.
La lotta al “tribalismo” genera il divieto di partiti e candidature a sfondo tribale, nonché la repressione penale
di manifestazioni trialistiche. Tuttavia essa trascina con sé un voluto misconoscimento delle tradizioni
etniche particolaristiche, a vantaggio dell’uniformità, garantita dallo Stato e dalla legge scritta (modellata su
quella europea).
Il diritto amministrativo dell’Africa indipendente perpetua il modello coloniale. Lo Stato africano
indipendente non adotta un diritto ecclesiastico, eccetto laddove il diritto islamico riesce ad imporsi.
Quanto al diritto civile, penale, e le procedure, lo Stato africano generalizza l’applicazione di modelli finora
riservati agli europei: con ciò si vuole lottare contro l’arretratezza e contro il particolarismo, e si vuole
favorire lo sviluppo economico.
Siccome le grandi proprietà (minerarie, agricole, industriali) appartengono ad europei, lo Stato africano è
incline ad africanizzarle, statizzandole o riservandone la proprietà ai cittadini: questa politica finisce per
allontanare dall’Africa i residenti europei, ed estendere l’area di applicazione del diritto pubblico
dell’economia (a matrice europea).

L’opzione socialista.
Una serie di circostanze poteva suggerire al potere africano di optare per il “socialismo scientifico”, allora
vittorioso in URSS e in Cina.
Dove ciò avveniva, venivano sciolti i partiti, e reclutati e indottrinati i membri del partito socialista; venivano
strutturati gli organismi paramilitari e di massa che dovevano fiancheggiarlo. Le condizioni africane
suggerivano di non programmare una collettivizzazione generale dei mezzi di produzione e di attestarsi su
una linea meno ambiziosa. Vasti poteri venivano poi concentrati nelle mani del capo dello Stato. Con il
tempo si redige una costituzione e si elegge un’assemblea nazionale. La lotta contro i particolarismi e contro
i privilegi etnici o castali si portava a tutte le conseguenze, e si perseguiva l’uguaglianza giuridica della
donna e dell’uomo.
Nel campo economico si redigevano programmi di obiettivi da raggiungere, si pubblicizzavano imprese
industriali o del ramo terziario, si riservava allo Stato il monopolio sul commercio all’ingrosso, si regolava il
prezzo dei prodotti agricoli, si creavano fattorie agricole collettive, si proclamava lo Stato proprietario della
terra, ma non si organizzava la gestione statale di quest’ultima, che rimaneva nelle mani dei precedenti
possessori, si confermava il regime fondiario concessionario preesistente, un diritto penale e processuale
garantiva il rispetto delle direttive politiche del regime.
Dal 1989, l’opzione socialista fu abbandonata in ogni parte dell’Africa.

Il diritto islamico e il diritto tradizionale nell’Africa indipendente.


Nell’Africa indipendente, l’adozione di modelli legislativi europei portava con sé un arretramento del diritto
tradizionale; tuttavia il diritto ufficiale, scritto e insegnato nelle università, non veniva praticato se non nelle
città abitate da africani europeizzati. Nelle periferie venivano elaborate consuetudini nuove.

SEZIONE SESTA - IL DIRITTO AFRICANO OGGI


Il nuovo costituzionalismo africano.
Le costituzioni adottate in Africa su modello europeo non hanno resistito alle sollecitazioni provenienti dalla
profonda tradizione africana.
L’elezione, quale strumento per affidare il paese alla volontà della maggioranza, e la delibera presa a
maggioranza non godono della fiducia degli africani, i quali pensano che solo l’unanimità giustifichi la
soggezione del singolo alla decisione collettiva. Con ciò, mancano le basi per un ben rispettato
multipartitismo.

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Fino alla fine del secolo scorso, il potere politico veniva normalmente acquisito mediante incruenti colpi di
mano, che potevano susseguirsi a ritmo rapido. La scarsa considerazione per la democrazia maggioritaria si
accompagna ad una disponibilità alla sottomissione del capo unico dotato di vasti poteri, fondato su
sponsorizzazioni di tipo carismatico. Inoltre, mancano ragioni condivise da tutti per una divisione dei poteri
di tipo europeo.
I caratteri del costituzionalismo africano dipendono:
• da una concentrazione di potere nelle mani del capo dello Stato, che normalmente detiene la
presidenza del partito unico o egemone. Si pensa che egli perpetua la figura del re di origine divina;
• in secondo luogo, in molti casi il potere è finito nelle mani dei militari, che lo hanno acquisito
mediante colpi di Stato. In alcuni casi le forze militari rappresentano una determinata etnia che,
attraverso le stesse, acquistano una posizione egemone (le forze militari si schierano a favore
dell’accentramento amministrativo).
Il potere presidenziale e quello militare sono adatti a convivere con il potere del partito, cui compete il
compito di promuovere e canalizzare l’adesione dei cittadini all’ordine politico instaurato nel paese dato. In
una cultura come quella africana, dove la democrazia è fondata sull’unanimità, la presenza di forze opposte
delegittimano il potere. Una serie di accorgimenti tenderà a negare o attenuare il contrasto fra partiti (quelli
diversi da quello al potere possono venire sciolti); si può promuovere un fronte unitario di partiti esistenti, o
assorbire partiti minori in quello più forte; si può anche riservare il 100 % dei seggi al partico che vince le
elezioni; si potrà sottoporre a speciale autorizzazione la partecipazione delle varie forze al confronto politico.
Con il crollo del potere comunista in Europa, il sistema del partito unico ha perso credito in tutto il mondo;
inoltre, il sistema dei colpi di Stato ha dato luogo a guerre civili che hanno paralizzato la vita dello Sato. Gli
Africani prendono a considerare i vantaggi del sistema pluripartitico.
Qua e la si percepiscono tentativi di ammorbidire i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
Tuttavia manca una soluzione per il problema centrale del diritto pubblico africano: l’africano è legato
all’etnia più che allo Stato, si identifica con l’etnia e non con lo Stato: la prima è naturale, il secondo è
artificiale. Tuttavia l’etnia non è abbastanza numerosa né per provvedere alla propria difesa né per
giustificare la creazione di servizi basati sulla comunicazione linguistica, quali quotidiani, università, rete
ospedaliera. Inoltre, in ogni singolo territorio sono frammischiati africani appartenenti a etnie diverse. Per
ora, manca una struttura pubblica in cui l’africano possa identificarsi e che sia idonea a provvedergli i servizi
di cui ha bisogno.

Le ultime vicende del diritto tradizionale.


Per lottare contro i particolarismi, si è utilizzata la sanzione penale contro le scarificazioni e i tatuaggi rituali,
e contro i comportamenti volti ad ispirare odio etnico. Il legislatore ha spesso cessato di identificare il
progresso e lo sviluppo con l’europeizzazione, e ha messo un freno alla politica rivolta all’uniformità e
all’accentramento.
Costituzioni nuove pongono fra le fonti del diritto le consuetudini, principi tradizionali fanno la loro
apparizione nei testi scritti, corti consuetudinarie riprendono le loro funzioni, l’interprete si allea alla
tradizione adattando ad essa l’applicazione della legge, o trattando la norma scritta come un ideale più che
come uno strumento immediato.
Si fa il punto sulla effettività della legge in Africa, e si prende coscienza del grande scarto che esiste fra
diritto legale e prativa fattuale: si parla della “resistenza del diritto africano”.
Il rivoluzionamento della vita africana, non sfocia sempre nell’adesione al diritto scritto, infatti spesso si
creano delle consuetudini nuove.

La proprietà fondiaria.
Il diritto fondiario non è uniforme in Africa, come del resto negli altri Stati. Troviamo l’alternarsi delle figure
giuridiche che seguono:
- il fondo è legato ad un gruppo, all’interno del quale avviene una distribuzione di aree fra i gruppi
minori o le famiglie. Questo tipo di proprietà ha forme diversificate, perché possono variare le
qualità del gruppo (villaggio, tribù, famiglia);
- il soggetto del diritto non ha interesse ad effettuare investimenti importanti sul bene, non ha il potere
di alienare quando il terreno sia improduttivo, non può ipotecare per procurarsi i mezzi occorrenti
per una bonifica;

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TRATTATO DI DIRITTO COMPARATO - SISTEMI GIURIDICI COMPARATI

- Europei e africani indipendenti hanno manifestato ostilità nei confronti della proprietà tradizionale, e
la legge in alcuni paesi l’ha addirittura abolita (almeno sulla carta).
- Per introdurre una proprietà dinamica, si è pensato di ricorrere all’immatricolazione del bene; si sono
strutturati i libri fondiari come migliore difesa del proprietario; si è subordinato il riconoscimento del
diritto di proprietà all’intavolazione del fondo. Tuttavia, la diffusione dei libri fondiari è stata
ostacolata dalla macchinosità del procedimento, dai costi, dall’ignoranza del diritto;
- i riformatori hanno pensato di rendere dinamica la proprietà africana mediante la valorizzazione
obbligatoria del suolo. Si espropriano i terreni non sfruttati, si elaborano piano di valorizzazione;
- l’espropriazione delle aree non valorizzate suggerisce di creare un “patrimonio fondiario nazionale”,
destinato a redistribuzioni che seguiranno il meccanismo della concessione (la proprietà
concessionaria può rappresentare un potente strumento di collegamento fra il potere politico e il
cittadino meritevole).

La famiglia.
Nel diritto africano tradizionale ha importanza centrale la famiglia estesa. Il matrimonio è concluso dalle
famiglie estese. Esse consentono allo scambio, che assicura alla famiglia della sposa una importante “dote”,
e alla famiglia dello sposo i frutti del lavoro della sposa, e i figli che essa partorirà. Il consenso dei coniugi è
richiesto qua e là: dove non è richiesto è possibile il matrimonio tra bambini. La morte del marito non risolve
sempre gli effetti del matrimonio.
I coniugi devono appartenere alla stessa tribù, e avere pari rango castale; i beni della moglie, salvo i frutti del
lavoro, sono gestiti dalla proprietaria. La moglie è soggetta al marito. Il matrimonio è risolubile, la poligamia
ammessa.
La pubblicità degli atti rilevanti per lo stato civile non è basata su memorizzazione (documenti).
Queste regole sono state “aggredite” dal diritto legislativo: le potenze coloniali offrono all’africano la facoltà
di assoggettarsi alla regola europea.
La legge identifica ovunque il matrimonio come consenso degli sposi, ma la vecchia concezione lascia
sopravvivenze. La dote è vietata, o almeno cancellata dai requisiti di validità del matrimonio. la poligamia è
un male da combattere, ma il legislatore sa che un divieto legale può avere come conseguenza una
indesiderata proliferazione delle unioni non legittime. La nuova coscienza africana tende a respingere
l’attribuzione al marito dei frutti del lavoro della donna; il salariato femminile rafforza questa evoluzione e
apre le porte alla comunione dei redditi.
Tuttavia il contesto africano non riesce a recepire queste soluzioni europee senza difficoltà. Modelli europei
hanno diffuso nel diritto legale di alcuni paesi africani l’obbligo, imposto al marito, di mantenere la moglie;
il diritto legale combatte le gerarchie familiari, poste a favore di ascendenti, di uomini, di primogeniti; il
diritto legale ama il formalismo e la legalità: prevede il matrimonio celebrato con l’intervento dell’organo del
pubblico potere, e instaura i registri dello stato civile. Tuttavia in questi settori non ottiene risultati
convincenti.

Una osservazione finale sui caratteri del diritto africano.


Troviamo in Africa un diritto che conosce versioni numerose e contrastanti.
Inoltre, troviamo diversi istituti che recano un contrassegno africano:
1. la concentrazione dei poteri nelle mani del capo dello Stato, non contrappesato da nessun altro potere
visibile;
2. la superiorità del potere militare sul potere civile. Il primo è la base del potere del capo dello Stato;
3. la superiorità del potere politico su quello giudiziario;
4. l’inclinazione verso il partito unico o verso il fronte unico dei partiti;
5. il potere interviene nell’economia. L’intervento più amato è concerne la nazionalizzazione e la
redistribuzione delle terre.
Questi capisaldi hanno radice africana profonda, e non sono stati contrastati dalle strutture coloniali.
Infine, accanto al diritto tradizione di cui abbiamo parlato, opera in tutta l’Africa un secondo diritto di
emergenza che sopprime le garanzie amministrative e giudiziarie, affida la giustizia a militari o politici non
giuristi, opera con leggi penali speciali.

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