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COMPARATO. SISTEMI
GIURIDICI COMPARATI
(GAMBARO-SACCO). QUARTA
EDIZIONE (2018)
Sistemi Giuridici Comparati
Università di Torino
127 pag.
I singoli formanti.
Le argomentazioni sono formanti dell’ordinamento in cui sono inserite, cosi come le declamazioni. Anche la
legittimazione è un formante (il più importante), invocata a favore delle norme appartenenti al dato sistema.
La legittimazione che sostiene la norma giuridica deve formularsi come una teoria, una verità. Questo ne
deriva che all’interno dell’ordinamento ci sarà un soggetto che definisce e afferma la verità.
I vari formanti di un ordinamento tendono ad influenzarsi. La dicotomia più importante in tema di formanti è
quella che distingue le regole operazionali (che costituiscono criteri di decisione), e le proposizioni elaborate
per pensare mediante concetti, enunciare, recitare e comunicare la norma stessa. Le contraddizioni fra regole
ed enunciazioni si colmano ricorrendo a finzioni, a presunzioni assolute, e a definizioni accomodanti.
Gli enunciati, le formulazioni, i concetti appartenenti ad ordinamenti molto dissimili l’uno dall’altro tendono
a diversificarsi tanto più quanto sono generali. Viceversa, le regole applicative e le soluzioni pratiche
tendono ad una maggiore compatibilità.
I crittotipi.
Si tratta di formanti del diritto impliciti, non verbalizzati. Si chiamano anche modelli inferenziali. Quando
comparando troviamo che leggi identiche, in vigore in due aree diverse, danno luogo a soluzioni applicative
diverse, e troviamo che soluzioni applicative identiche sono prodotte da leggi diverse, siamo costretti a
concludere che oltre alla legge influisce sulla soluzione un ulteriore criterio di decisione non verbalizzato,
ossia crittotipico.
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La scoperta di un crittotipo è facile quando una nozione implicita in un sistema è implicita in un altro. Queste
regole non verbalizzate hanno una notevole importanza; queste vengono tramandate dai giuristi da
generazione in generazione. L’insieme dei crittotipi che dominano in un dato ambiente incide in modo
rilevante sulla mentalità dell’ambiente in questione.
La traduzione.
Le differenze fra le norme giuridiche dei diversi sistemi creano specifiche difficoltà di traduzione. Questa è
necessaria al giurista. La sua importanza ha dato vita ad una letteratura; in modo speciale, l’attenzione dello
studioso si è rivolta ai problemi presenti nella creazione del diritto uniforme dell’Unione Europea.
Con la traduttologia si passa dal confronto dei significati al confronto dei concetti. Tuttavia si presentano vari
problemi a questa nuova scienza. Innanzitutto alcuni vocaboli non corrispondono pienamente a vocaboli di
paesi diversi (es. in francese il concetto di “contrat” non corrisponde al concetto di “concract” inglese); alle
difficoltà di traduzione si aggiunge la difficoltà posta dalle diversità delle strutture linguistiche (la parola
francese “acte” esprime due diverse nozioni che in italiano e in tedesco sono il “negozio giuridico” e l’“atto
giuridico semplice”); alcune lingue possono ammettere figure retoriche, che si inseriscono nella correlazione
parola-significato, alterandola rispetto alla regola generale. Certe lingue acconsentono alla pratica di indicare
una certa fattispecie mediante un solo costituente di essa (es. “incontro di volontà” per dire incontro di due
dichiarazioni e due volontà); spesso le parole dei giuristi sono fatte per indicare non soltanto i caratteri che
circoscrivono concettualmente una categoria, ma anche una seri di emozioni che il giurista ricollega alla
categoria; all’interno di ogni sistema giuridico operano poi parole destinate ad avere due diversi livelli di
interpretazione: si distingue una definizione più generica ed una più precisa e puntuale. Si parla di genotipo o
fenotipo (definizione più circostanziata).
Spetta alla scienza giuridica definire i concetti giuridici, ossia le categorie ordinanti in cui incasellare i
risultati dell’interpretazione giuridica. Non spetta al legislatore costruite l’apparato concettuale utile alla
conoscenza delle regole. Può avvenire che un legislatore affermi, più o meno puntigliosamente, una data
qualificazione e classificazione. In questo caso il giurista (comparatista) può contestare ma non può ignorare
questa scelta del legislatore.
Può avvenire che un legislatore manifesti la sua volontà in molte lingue e allora le multiple dizioni legislative
non possono essere ridotte ad un significato uniforme.
Talvolta un reticolato di vocaboli viene introdotto in una lingua per inserirvi un reticolato concettuale
proveniente da una cultura che si esprime in un’altra lingua.
Posto quindi di fronte a sé un problema di traduzione, il comparatista ha davanti a sé varie soluzioni e deve
scegliere quella corretta. Talora la corrispondenza concettuale e semantica è ben garantita, e la traduzione
può essere eseguita senza difficoltà maggiori; talora non bisogna tradurre; altre volte occorre accertare quale
sia la disparità di significato dei termini in questione e accertare se questa nuoccia alla precisione del
discorso giuridico. Altre volte il comparatista dovrà introdurre nella lingua, in cui egli si esprime, il
neologismo necessario per rendere l’espressione presente nell’altra lingua.
La sistemologia.
Il comparatista inventaria dei dati e quindi redige una specie di ritratto dei connotati propri e caratterizzanti
dell’ordinamento preso in esame. Ecco che la sistemologia si preoccupa della raccolta dei dati utili a questi
fini. Alla descrizione dei sistemi operata mediante l’indicazione delle fonti verbalizzate, è stata sostituita una
descrizione operata indicando gli elementi relativamente permanenti dei sistemi. Questi elementi si
ricollegano spesso con la storia del diritto del paese considerato.
Il comparatista tuttavia tiene continuamente sotto esame quegli elementi, perché nella vita del diritto nulla è
statico e tutto può mutare rapidamente.
della Chiesa erano sottratti alla giurisdizione mondana. Tali rapporti possono oggi apparire come un esempio
limite di clericizzazione della vita civile e di intrusione del soprannaturale nelle cose terrene. Risalendo
indietro nel tempo ci si imbatte in esperienze in cui il soprannaturale e il giuridico si allentano (il
soprannaturale può sacralizzare una cosa materiale, può garantire una verità e quindi risolvere un problema
istruttorio, può decidere di una controversia, può determinare la posizione di una persona nella società ecc..).
Il soprannaturale può immettersi nella sfera del diritto condizionandone le fonti o legittimandole, attraverso
formulazioni verbalizzate, oppure attraverso norme manifestate dalla pratica dei credenti, ispirate dalla fede.
Il pluralismo giuridico.
Se due comunità sono legate a soluzioni giuridiche estremamente diverse, ognuna di essa è refrattaria alla
soluzione dell’altra. La comunità dotata di un peso politico sufficiente per far riconoscere la propria
vocazione giuridica non avrà problemi speciali poiché i suoi membri saranno legittimati a seguire la propria
tradizione. I problemi incominciano quando una comunità tecnologicamente meno avanzata e sfornita di
potere politico si trova immersa in una società dominata da un’etnia più avanzata. Questo è avvenuto quando
gli Europei hanno colonizzato l’America, l’Oceania, l’Asia, l’Africa. Questi eventi hanno lasciato due diversi
esiti: le minoranze autottone sono circondate da una maggioranza legata alla tradizione giuridica occidentale;
o dopo la colonizzazione, gli autottoni costituiscono la totalità (o la maggioranza) della popolazione del
paese, ma molti di essi non si sentono di rigettare i modelli occidentali cui hanno avuto accesso in occasione
dei contatti con le culture europee o con l’America. Nel primo caso la soluzione del “pluralismo giuridico”
può avere un riconoscimento. L’etnia dominante riserva esplicitamente alla minoranza la possibilità di
praticare e garantire la propria regola giuridica. Nel secondo caso sono possibili giustapposizioni di un
modello di tipo europeo e un modello autottono.
altro, più efficiente, vince e si diffonde. Questi conflitti, insieme con l’innovazione, sono la molla del
progresso.
Le cause delle imitazioni sono il desiderio di appropriarsi le attribuzioni altrui, quando queste sono caricate
di una qualità chiamata “prestigio”; il desiderio di diffondere il proprio modelli culturale, accompagnato dal
potere di condizionare ulteriori aree giuridiche (es. Napoleone).
Oggi viviamo in un’epoca che vede con favore l’unificazione e la incoraggia. Nel mondo occidentale le
diversità vanno riducendosi nel campo del diritto pubblico e del diritto privato (convenzioni internazionali,
imitazione, camere di commercio). Ma quali vantaggi offre l’uniformazione delle norme? Queste avita le
contraddizioni creati dai conflitti di norme nello spazio. Inoltre una disparità di trattamento dei rapporti può
disincentivare gli scambi, distorcere il mercato o disorientare gli operatori.
Nonostante ciò sono state fatte alcune contestazioni e resistenze all’unificazione, in nome delle tradizioni
nazionali, e della storia. Per quanto attiene alla storia, sappiamo che questa non può creare nulla di eterno e
nulla di invariabile. Le soluzioni del diritto sono molteplici perché sono il prodotto di variazioni. Il diritto
non è statico, le sue soluzioni circolano e si diffondono producendo imitazioni. L’imitazione è la prima
alleata dell’uniformazione. In secondo luogo, l’uniformazione non è sempre un bene: questa sacrifica
dolorosamente l’identità culturale dell’area portatrice del modello più debole (problema del pluralismo
giuridico). Ancora, la riduzione del numero dei modelli attualmente in vigore restringe del pari i possibili
punti di partenza, utili per le future evoluzioni e i futuri progressi, e soprattutto impedisce di trarre i frutti
della concorrenza che si dovrebbe istituire fra essi. Infine, l’uniformità imposta (derivante da
trattato/accordo) introduce un ostacolo importante allo sviluppo e al progresso, che diventa ancora più arduo
se l’uniformità è il prodotto di un accordo multilaterale, le cui conclusioni non potranno essere riformulate,
se non sulla base di una nuova decisione unanime, presa da tutti i partecipanti.
Concludendo bisogna escludere dal discorso del giurista ogni idea di invariabilità del diritto; si può credere
insieme alla diversità e all’uniformità; chi crede all’uniformità non deve rinunciare al progresso e dunque
alla variazione.
C’è poi un ostacolo alla uniformazione che è rappresentato dal fatto che la diversità giuridica tende a vivere
più a lungo, ostacolando appunto l’uniformazione, quando la diversità è presente negli apparati concettuali in
cui la realtà giuridica viene sistemata nelle varie aree. Talora regole operazionali uniformi vengono
schermate dietro definizioni, spiegazioni e giustificazioni diversissime, e nessuno osa concepire la speranza
che le barriere esistenti fra i diversi sistemi possano scomparire.
parzialmente autopoietico. Esso è capace quindi di svilupparsi attraverso il tempo e comprende al suo interno
meccanismi di autoregolazione i quali ne dirigono l’adattamento al mutare delle circostanze esterne. Da
quanto si è indicato discendono le due caratteristiche fondamentali della tradizione giuridica occidentale: le
singole regole sono intellegibili solo quando sono collocate nel contesto di procedure ed istituzioni
concettualmente coordinate; la legalità è superiore alla sovranità, ovvero la volontà politica non può
sovvertire l’ordine legale, il quale predispone specifiche procedure perché la prima possa esprimersi in modo
legittimo (la pura volontà soggettiva del sovrano non è sufficiente a fondare una regola di diritto.
La visione classica che puntava le sue carte sulla opposizione tra civil law e common law richiamava un
approccio esplicativo di carattere storicistico, poiché alle vicende storiche era affidato il compito di
evidenziare le origini delle diversità e di spiegarne le cause. Si trattava quindi di chiarire con precisione quali
contingenze storiche abbiano effettivamente contribuito a creare le differenze tra civil law e common law.
Innanzitutto la dimensione della durata è essenziale per porre in rilievo i caratteri di una tradizione giuridica;
al fine si semplificare un discorso narrativo, la storiografia ha introdotto nel fluire della storia alcune
scansioni artificiali atte a suddividerla in periodi. In riferimento alla storia dell’Europa si parla comunemente
di periodo medievale, periodo moderno e di periodo contemporaneo.
Per gli stessi motivi, e con le identiche riserve, si effettua una periodicizzazione storica, sia in riferimento al
common law che al civil law, che distingua un periodo formativo (XII-XIV secolo); un periodo del
consolidamento (XIV-XVIII secolo); un periodo delle rivoluzioni (seconda metà XVIII-prima guerra
mondiale); un periodo contemporaneo (anni ‘30XX-stati sociali). Tuttavia visto che la maggior parte del
diritto che attualmente usiamo, compresa la mentalità con cui gli operatori lo affrontano, deriva direttamente
dal rinnovamento e dalle rivoluzioni, si insiste maggiormente con ampia trattazione sul terzo e sul quarto dei
periodi (XIV - XX secolo).
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il re si impegnasse a rispettare i loro diritti, enumerati e messi per iscritto (Magna Charta). Ottennero le
Provisions of oxford nel 1258 in cui fu stabilito che i chierici della Cancelleria potessero emanare i soli writs
che a quell’epoca si trovassero già nei loro registri (brevia de curso), ma non potessero crearne di nuovi.
Tuttavia qualche anno più tardi si consentì ai chierici di creare nuovi writs qualora essi riguardassero casi
simili a quelli già previsti dai brevia de curso.
In effetti, forse senza rendersene conto, i chierici della Cancelleria creando a raffica nuovi writs avevano
fatto una cosa non facilmente tollerabile: avevano legiferato. Non si distingueva dunque la creazione di un
writs e la istituzione di un nuovo diritto soggettivo. Ciò deriva dal modus operandi dei chierici i quali se
formulavano un nuovo writs ne conservavano una copia nei propri registri con la conseguenza che tale
formula diveniva disponibile per gli altri richiedenti successivi.
Dopo che lo scontro tra baroni e re fu concluso, il problema principale che rimase era quello di “mandare
avanti” l’amministrazione regia. La soluzione adottata era un compromesso: il re manteneva la sua giustizia
sulla base dei writs creati fino al 1258 ed il resto rimaneva compito delle corti decentrate. Tuttavia tutti i tipi
di corti applicavano un diritto consuetudinario, ed il diritto applicato nelle corti locali decentrate era
prossimo si costumi ed alle tradizioni di ciascun gruppo. Questo localismo e quindi il radicarsi della giustizia
nelle tradizioni di ciascun territorio, era quello che contrastava con le aspirazioni di coloro i quali
partecipavano a quelle cultura, e cioè legalità come ordine universale, capace di esprimersi mediante regole
generali ed astratte applicate a tutti i singoli casi.
luogo a reprimere gli abusi ed a creare controlli preventivi. Si crearono così corporazioni dotate di propri
statuti e regole organizzative. La specializzazione nello svolgimento dei diversi compiti comportò il formarsi
di una gerarchia. L’attività più prestigiosa fu quella svolta dai narratores, cioè coloro i quali, per conto della
parte, narravano i fatti avanti i giudici e si impegnavano poi nella discussione degli argomenti. Un gruppo di
narratores, conosciuto come serjeants, si organizzò più tardi in una corporazione: l’ammissione al gruppo
avveniva seguendo un cerimoniale elaborato con l’intervento dei giudici della corte e nel corso del quale
veniva imposto al nuovo al nuovo serjeant una berretta di seta bianca detta Coif (da qui prende il nome di
order of the Coif). Questa corporazione monopolizzò a lungo i posti di giudice ma tale monopolio divenne
poi più formale che sostanziale, tanto che si prese l’abitudine di ammettere allo order of the Coif tutti coloro
che venivano nominati giudici alle corti regie. Oggi i serjantes sono scomparsi ma i loro “eredi” detti
barristers sono tuttora organizzati in quattro Inns: Inner Temple, Middle Temple, Gray’s Inn, Lincoln’s Inn.
Tali Inns sono luoghi di riunione, lavoro ed anche di formazione dei futuri membri della corporazione, il cui
modello di ispirazione è quello conventuale (già imitato dai grandi ordini cavallereschi medievali). Per
quanto attiene alla formazione del giurista, gli Inns erano luoghi di residenza e di apprendistato mediante lo
studio, soprattutto mediante la vita in comune, che consente l’apprendimento per mezzo dell’imitazione da
parte dei più giovani della condotta e dello stile dei più anziani. In cooperazione con la Cancelleria gli Inns
formarono una sorta di scuola di diritto occupando tutto lo spazio educativo. In questo modo la professione
forense si assicurò un duplice monopolio: quello delle tecniche giuridiche necessarie avanti le corti regie e
quello della formazione dei giuristi.
Tuttavia tale schema comporta delle conseguenze: esso contempla una procedura di cooptazione, essendo la
corporazione arbitra di ammettere o non ammettere un aspirante apprendista, nonché di escluderlo durante
l’apprendistato. La procedura di cooptazione può dare luogo ad un circolo virtuoso, quando i membri della
corporazione hanno interesse a rafforzarla mediante la cooptazione degli elementi più promittenti, sia ad un
circolo vizioso, quando i membri della corporazione ritengono maggiormente vantaggioso per loro scegliere
elementi mediocri.
Nei suoi sei secoli di vita l’ordine dei serjantes raccolse in totale meno di mille membri, e ciò mantenne il
sapere giuridico all’interno di una logica iniziatica (incomprensibile ai più), il che è l’opposto del modello
universitario basato sul sapere professato in pubblico il quale quindi si rende disponibile ad una cerchia
indefinita di fruitori (la cui definizione dei confini della cerchia dei fruitori dell’insegnamento pubblico
avviene con altri mezzi). Naturalmente il modello di trasmissione del sapere giuridico si adegua sempre alla
struttura delle fonti del diritto, e ciò spiega perché il tipo di formazione del giurista in uso in Inghilterra tra
XIV e XVII secolo non richiedeva troppi libri. I giuristi inglesi pensarono che l’unico modo sicuro di
accertamento del diritto fosse il riferimento alle opinioni espresse dai giudici e dai serjeantes. Quando queste
erano ripetute ed accertate dal gruppo esse divenivano le consuetudini legali del regno, quindi l’unico punto
di riferimento erano le discussioni che avvenivano tra i membri più autorevoli della corporazione e l’unico
modo per apprendere quale fosse il diritto era quello di assistere alle discussioni ed annotarle. Tutto questo
ebbe conseguenze sulla struttura del sistema delle fonti di accertamento del diritto e anche sulla struttura del
ragionamento giuridico. A proposito del ragionamento giuridico va sottolineato come la logica del gruppo
ristretto, i cui membri vivono a stretto contatto sociale tra loro, favorisca una altrettanta stretta connessione
tra valori sociali e valori formali. Ovviamente simile struttura organizzativa condannava i giuristi inglesi ad
una certa chiusura verso le correnti intellettuali presenti nel loro paese.
L’evoluzione del sistema dei writs tra consenso dei giuristi e consenso sociale.
In luogo di sancire una netta divisione dei compiti giurisdizionali tra il re ed i baroni il sistema dei writs servì
egregiamente a costruire le basi tecniche della legalità dell’ordinamento.
Sotto il profilo processuale l’adesione al sistema dei writs diede forma ad una procedura di carattere
tipicamente accusatorio: l’accusa cui il convenuto doveva rispondere era chiaramente specificata nella parte
della formula del writ che iniziava con le parole “ostensurur quare” (=sto per mostrare questa cosa). La
garanzia fornita al convenuto che egli sarebbe stato chiamato a rispondere solo di ciò che gli veniva
contestato sin dal primo atto, rimase uno dei pilastri del sistema. In ciò si coglie una delle matrici del
concetto di “due process of law”, secondo il quale una persona può essere assoggettata a certe conseguenze
giuridiche a lui sfavorevoli solo dopo che gli è stata data la possibilità di difendersi in un giudizio avanti una
autorità imparziale, in cui l’accusa è stata chiaramente formulata e non può essere mutata.
Sotto il profilo sostanziale questo sistema serviva a garantire una certa parità di trattamento di tutti i casi
eguali, cioè eguale iter processuale per tutte le accuse appartenenti ad un medesimo tipo.
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Sotto il profilo costituzionale il sistema dei writs forniva una base di legittimazione indipendente all’operare
delle corti regie, che diventarono quelle corti che ammiravano una giustizia tradizionale, nel senso che i loro
procedimenti continuavano a riprodurre rituali basati su una tradizione che si era nel frattempo formata.
Chiuso dal 1258 il registro dei writs lo sviluppo del common law è stato filtrato dalle formule ivi contenute:
qualunque pretesa doveva poter essere calata nei calchi di una delle formule in uso, altrimenti non vi era
rimedio davanti alle corte regie. Questa situazione è durata fino alle riforme giudiziarie del XIX secolo
quando le forms of action sono state abolite (non è stato più necessario compilare un writ intitolato ad una
tipica form of action per ciascuna causa petendi e si è potuto quindi inserire in un solo atto una pluralità di
pretese). Tutto questo implica che il common law ha vissuto per oltre mezzo millennio entro le griglie di
formule tendenzialmente rigide; in realtà il numero di writs non è mai stato del tutto chiuso, né le formule di
essi sono rimaste immutabili. Tra il XIII e il XIX secolo si è svolta una graduale evoluzione, tuttavia è
indubitabile che in Inghilterra sia stato a lungo in vigore un sistema di tipicità delle azioni nel quale il diritto
veniva pensato come rimedio e come procedura collegata a quello specifico rimedio. Infatti, le diverse forme
si collegavano anche ad un diverso rito processuale: si fece una distinzione tra i writs in cui si rivendicava un
diritto (a demand) e quelli in cui ci si lamentava di un torto subito (a plaint). I primi erano connotati dalla
forma praecipe (ordina), perché in essi il re dirigeva lo sceriffo ad ordinare praecipe al convenuto di restituire
ciò di cui si era impadronito (praecipe quod reddat). La differenza tra i due tipi di writs riposava sulla
percezione per cui rivendicare un diritto (che tipicamente era un diritto di natura feudale), significava
assegnare un qualcosa che aveva le caratteristiche dell’eternità. Il processo relativo ai diritti era quindi
circondato dalle più grandi cautele ed era anche decisamente arcaico perché originariamente le prove regine
erano l’ordalia (giudizio divino) ed il giuramento. La materia dei torti invece era trattata più speditamente
perché concerneva un singolo episodio il cui accertamento poteva essere demandato ad una giuria.
Ecco che quindi i processi concernenti la materia più importante sono stati evitati dagli attori, mentre i
processi pensati per la materia meno rilevanti, quella dei torti, sono divenuti il vero processo di common law:
si ha avuto un graduale abbandono dei writs nella forma praecipe quod reddat (azioni che davano luogo ad
un effetto restitutorio), e ad una estensione dei writs derivati dal trespass.
Il passaggio importante si ha avuto nel 1360 quando dalla formula del writ of trespass fu eliminato il
riferimento al requisito del vi et armis. Inizialmente il writ of trespass era stato concepito per reprimere
scoppi di violenza molto elevati, e da ciò il riferimento alla vi et armis mediante il quale si accusava il
convenuto di aver perpetrato un assalto alla sfera giuridica dell’attore (nel possesso immobiliare, nel
possesso mobiliare, nella incolumità personale). L’eliminazione del requisito del vi et armis lasciava quindi
la formula del writ of trespass on the case disponibile per reprimere qualsiasi invasione non autorizzata della
sfera giuridica altrui. Il cambiamento fu stimolato dalla considerazione che la violenza non è
necessariamente un elemento caratterizzante dell’aggressione, ma un elemento che può caratterizzare la
situazione complessiva derivata dall’aggressione. Il trespass on the case in quanto riferibile ad ogni tipo di
situazione in cui vi era stata una illegittima invasione nella sfera giuridica altrui (es. rapinatore che ferisce la
vittima prima di derubarla; rapinatore che minaccia senza fare del male; vittima che si ribella al rapinatore),
divenne il ceppo da cui si diramarono una vasta serie di rimedi che assunsero nomi propri: negligence,
deceit, assumpsit, ejectement, trover, ecc...
a sanzione penale ove, al contrario, il documento fosse stato ritenuto autentico. Ecco che quindi le
obbligazioni di pagare una somma di denaro assunsero la forma scritta munita di sigillo (= bond).
Da questo rimedio rimase esclusa la maggior parte degli accordi contrattuali. In un ambiente dominato dal
procedimento formulare si dovette procedere mediante adattamenti dei writs più flessibili e dotati di una
procedura più moderna quali quelli derivati dal trespass. Questa evoluzione si svolse nel corso di almeno due
secoli, procedimento lungo una catena di analogie tra casi simili. Il punto di partenza fu assicurato dalla
naturale ambivalenza di alcune ipotesi di inadempimento di obbligazioni di fare. L’esecuzione di diverse
obbligazioni di fare comporta un contatto molto stretto tra debitore della prestazione e la sfera giuridica del
creditore. Nel caso in cui dalla obbligazione derivi un evento dannoso, questo può essere visto
alternativamente sotto il profilo della responsabilità per inadempimento contrattuale, oppure sotto quello
della responsabilità extracontrattuale per il torto arrecato al proprietario dei beni o per l’integrità fisica
arrecata all’integrità fisica altrui.
Come si è accennato, poiché era penalizzante agire a titolo di responsabilità contrattuale, ci si rivolse
all’ottica degli illeciti extracontrattuali (torts). In caso di torto il trespass on the case era pronto ad accogliere
casi simili (poiché spogliato dei requisiti di violenza a mano armata); perciò sia l’ipotesi di un misfatto
(malfeasance) che di omissione (non feasance), poteva essere repressa con un rimedio tratto dal trespass. Il
passaggio cruciale tra le due ipotesi era facilitato dall’idea di frode, mediante la quale il debitore
inadempiente aveva raggirato il creditore deluso. La frode può essere in qualche modo ricollegabile all’idea
di una illecita invasione della sfera giuridica altrui, ma perché l’analogia sia percepibile occorre che il
creditore deluso abbia già pagato in anticipo la sua controprestazione: solo in questo caso l’ipotesi di chi con
artifici e raggiri induce un altro a pagare una somma di denaro può essere accostata all’ipotesi di chi allunga
la mano nella tasca altrui per cavarne del denaro.
I giuristi inglesi scorgevano nel pagamento anticipato una executed consideration, atta a sorreggere la
vincolatività della contro promessa, ciò che quindi la vittima della supposta frode otteneva a titolo di danno
non era solo la restituzione di quanto aveva già pagato, ma il danno sofferto per aver confidato nella
esecuzione della controprestazione, che comprendeva anche il lucro cessante.
L’analogia fra frode e malfare poteva quindi sorreggere una azione in case per responsabilità contrattuale
quando la parte avesse già adempiuto, ma rimase dubbio se lo steso rimedio fosse esperibile nel caso in cui le
parti avessero solo programmato due controprestazioni. In questo caso si discusse se era implicita la
promessa vincolante di eseguire la prestazione, e la risposta affermativa a questa domanda aprì le porte alla
tutela delle promesse contrattuali sorrette da una controprestazione che poteva però essere solo promessa
(executory consideration) anziché essere già eseguita (executed consideration). Ecco che quindi la funzione
del requisito della consideration divenne, da elemento cui ricollegare l’idea della frode, a requisito richiesto
per verificare che la promessa fosse seria ed atta a suscitare un affidamento tutelabile.
Ecco che i writs of debt e di convenant, ed il wager of law, vennero accantonati e l’assumpsit, ovvero la
promessa di pagare una somma di denaro, divenne la form of action nella quale venne riversata la
problematica contrattuale.
Ancora oggi i common lawyers vedono il contratto nell’ottica della tutela dell’affidamento del destinatario di
una promessa vincolante, la cui tutela è parzialmente fungibile con quella offerta dalla law of torts; mentre
rimane estranea alla loro mentalità giuridica l’idea che il contratto in sé sia una valida fonte di obbligazioni.
aggiungerne altri tendenti a svuotare l’esposizione dell’attore del suo significato (confession and advoice). In
questo ultimo caso la parola tornava all’attore il quale poteva prendere posizione rispetto ai fatti aggiunti dal
convenuto: se li negava si creava immediatamente un issue da sottoporre alla giuria; se li ammetteva la giuria
diveniva inutile poiché il problema era di diritto e spettava ai giudici risolvere la questione.
In questa schermaglia alla mossa di una parte corrisponde la contromossa dell’altra, ciascuna cercava di
creare l’exitus sul terreno che le era più favorevole. Da qui deriva anche la necessità per le parti di farsi
assistere da avvocati esperti e dotati di un cervello non torpido.
Nel contesto del processo completo, la seconda possibilità che si apriva al convenuto (ammettere i fatti
narrati dall’attore) produceva l’ammissione dei fatti ma o se ne disputava la rilevanza giuridica ai fini
dell’accoglimento della domanda, oppure no (perdendo la lite).
Demurrer è il termine tecnico del pleading in cui il convenuto sostiene che i fatti narrati dall’attore sono veri,
ma da essi non discendono le conseguenze giuridiche poste a fondamento della sua domanda. In questa
ipotesi la questione diventa di puro diritto e spetta ai giudici e non alle giurie decidere la questione.
Real Property. La quantità di tali richieste (intervento ex gratia), creò la necessità di amministrarle e la
modalità concretamente attuata chiamò in causa la figura del Cancelliere ed il suo ufficio.
Il Cancelliere, che era normalmente un Vescovo, non era solo il più alto funzionario del regno, ma anche il
confessore del re e veniva quindi considerato the keeper of the king’s conscience (rettore della coscienza del
re), perciò delegando a lui la cura delle suppliche che gli erano rivolte, il sovrano metteva la propria
coscienza in pace e risparmiava tempo. Concretamente il cancelliere era la persona adatta allo scopo perché
la sua cultura gli consentiva di scorgere la giustizia nel contesto di un’etica di matrice religiosa largamente
condivisa, e perché essendo un personaggio potente aveva i mezzi per farsi obbedire.
La procedura davanti al Cancelliere era informale: iniziava con una petizione (scritta o orale), la denuntiatio,
tratta dal modello canonico in cui l’attore lamentava una ingiustizia. A questo punto il Cancelliere chiamava
il convenuto mediante un atto di citazione detto writ of subpoena (pronuncia: sab-pina), perché si
preannunciava una penalità in denaro se il convenuto non fosse comparso. L’accertamento dei fatti seguiva
un modello inquisitorio: il writ non conteneva l’enunciazione delle ragioni per cui il convenuto era chiamato
avanti al cancelliere (quest’ultimo però ne era a conoscenza). La caratteristica del writ of subpoena non era
solo quella di chiamare il convenuto senza precisargli le ragioni della sua comparizione (il che serviva a non
far preparare al convenuto le risposte, che erano quindi spontanee), ma anche quella di porre in primo piano
il rapporto tra il convenuto e l’autorità inquisitrice, il quale non era di parità ma solo di soggezione.
L’inchiesta andava avanti con i suoi ritmi dettati dalla necessità di accertare la verità, non c’erano termini
processuali. Il giudice era il Cancelliere, sebbene qualche volta questo potesse delegare altri con la formula
dedimus potestatem (molto utilizzata in caso di controversie che riguardavano i poveri o gli oppressi, per la
cui soluzione veniva delegato un signore del luogo). Poiché egli esercitava una giurisdizione di coscienza,
mirava anche a mondare l’anima dell’autore dell’ingiustizia (era una giurisdizione in personam, per cui una
volta che l’autore della ingiustizia avesse riparato il torto commesso e si fosse mondato la coscienza, tutto
era concluso nel migliore dei modi). Neanche la condanna al pagamento di una somma di denato sembrava
un rimedio adeguato, poiché incideva sul patrimonio del condannato e quindi sul tenore di vita della famiglia
e degli eredi; piuttosto il Cancelliere preferiva emanare ordini di fare o non fare o di restituire.
Inizialmente non esisteva un corpus di regole giuridiche costituenti un ordinamento specifico, le regole
applicate erano quelle della morale cristiana: mantenere la parola data, non fare violanza ad altri, non frodare
il prossimo, non approfittare della debolezza o dell’ignoranza altrui…tuttavia l’applicazione di queste regole
non poteva contraddire le regole di diritto positivo. Il Cancelliere poteva però sovvertirne il risultato
ricorrendo ad un espediente retorico. Ad esempio se Tizio aveva promesso di trasferire la proprietà di un
immobile a Caio e poi non lo ha fatto, le regole di diritto attribuiscono la proprietà dell’immobile comunque
a Tizio, lasciando a Caio la sola possibilità di ricorrere ai rimedi contro le promesse non mantenute per farsi
risarcire in denaro il danno sofferto. Il Cancelliere poteva invece ingiungere al promittente di effettuare l’atto
di trasferimento in favore di Caio.
la cessione avveniva a tutolo oneroso, in luogo dei beni primitivi si trovava quindi il corrispettivo, e il
patrimonio del trust era grossomodo quello di prima, quindi il trustee continuava ad essere gravato
dell’obbligo di comportarsi come tale rispetto a ciò che aveva ricevuto come corrispettivo (il disinvestimento
e reinvestimento del patrimonio di un trust rientra nelle legittime scelte di un onesto trustee, ecco perché il
Cancelliere considerava i nuovi beni come oggetto di obbligazione fiduciaria esattamente come quelli
precedenti. Tutt’al più se il corrispettivo era inferiore al valore dei beni primitivi il trustee doveva risarcire i
danni attingendo al proprio patrimonio).
Una seconda ipotesi era quella del trasferimento a titolo gratuito, per cui il terzo acquirente si trovava a
preservare un vantaggio con danno altrui, perciò il Cancelliere gli ordinava di comportarsi come un trustee e
non come un proprietario normale.
dalla volontà normativa del sovrano, e pertanto i creatori di tale diritto percepivano se stessi come
indipendentemente dalla volontà del sovrano.
La crisi tra common law ed equity arrivò al suo culmine nel 1616, quando il Re chiamò i giudici avanti a sé
per chiedere ad essi se si sarebbero astenuti dal giudicare un caso qualora il Re lo avesse ordinato. Tutti
risposero affermativamente, tranne Coke il quale disse che quando il caso fosse giunto avanti la corte
avrebbe fatto ciò che per un giudice era appropriato fare. Tale risposta sottolineava che il principio di
imparzialità rendeva comunque inappropriato per un giudice enunciare preventivamente come avrebbe
giudicato prima di avere sentito le ragioni delle parti. In realtà la domanda del Re sottointendeva una
questione fondamentale: se si ammetteva che i giudici del Re non facessero altro che applicare la legge del
regno, diveniva immediato dedurre come l’ordine del sovrano di astenersi dal giudicare un caso, equivaleva
all’ordine di non applicare la legge a quella controversia; rispondere affermativamente equivaleva ad
ammettere che il sovrano è superiore alla legge. Era esattamente quello che Coke non voleva ammettere, egli
sosteneva che il sovrano era soggetto a Dio ed alla legge. Tale principio costituiva le base ideologica dei ceti
sociali e delle forze politiche che si riconoscevano nel Parlamento (la legalità stava dalla parte del partito dei
parlamentari e non da quella del partito del sovrano).
Re Giacomo pose una ulteriore questione: poteva il sovrano stesso giudicare un caso sottraendolo alla
cognizione dei suoi giudici? Negare ad un sovrano la possibilità di giudicare comporta irresistibilmente una
valutazione negativa circa le sue capacità intellettuali, inoltre, negare al sovrano la possibilità di giudicare in
luogo dei suoi giudici, significava disconoscere il carattere delegato della funzione giudiziaria. Coke ammise
che il sovrano era dotato di grandi doti di intelligenza e di senso del giusto, ma negò che potesse giudicare in
una corte di common law, perché il diritto quivi applicato non corrispondeva alla ragione comune, ma era il
frutto di una ragione artificiale che non si poteva apprendere e padroneggiare senza lungo studio e
l’esperienza.
Dopo simili risposte Coke venne licenziato ma le sue parole rimasero come modello ed esempio di ciò che
deve fare un buon giudice, e la pressione politica fu tanto forte da costringere nel 1642 il nuovo Re, Carlo I,
a nominare i giudici con un incarico a vita e non sino a quando al sovrano fosse piaciuto mantenerli nella
carica.
Quando gli Stuart vennero cacciati nel 1688, in nuovo costituzionale assunto dall’Inghilterra vide la vittoria
del Parlamento ed il partito dei giudici, mentre le attività svolte dai sovrani e dai Cancellieri precedenti
vennero considerate come l’incarnazione dell’arbitrio. In questo nuovo assetto politico-costituzionale la
Court of Chancery sopravvisse (eccetto il ramo penale che venne abolito) solo perché la giurisdizione del
Cancelliere seppe adeguarsi al nuovo clima di legalità ed assunse le forme di una giurisdizione speciale, ma
prevedibile.
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Ricordato ciò è da sottolineare che l’intera vicenda storica della dialettica tra common law ed equity ha finito
con il riaffermare la stretta adesione del sistema giuridico inglese al principio di legalità, riassunto nella
formula tradizionale della “rule of law”. Tale espressione sintetizza non solo il criterio per cui i cittadini
possono essere obbligati ad adeguarsi a regole prestabilite seguendo procedure su cui si è formato il
consenso generale e non alle regole dettate dalla volontà individuale, ma sintetizza l’adesione ad alcuni
valori sostanziali che intessono lo spirito profondo dell’esperienza giuridica inglese.
Oggi si definisce conforme alla rule of law un sistema che garantisce l’accessibilità ex ante alle regole
giuridiche; si vincola a fare sì che le questioni attinenti ai diritti ed alle responsabilità debbono essere risolte
in base al diritto e non mediante l’esercizio di poteri discrezionali; si prevede che i pubblici poteri debbano
essere esercitati nei limiti in cui sono conferiti e per gli scopi per cui sono conferiti e mai in modo
irragionevole; si tende ad assicurare l’eguaglianza di fronte alla legge salvo che diversità oggettive
giustifichino una differenziazione; si offre una adeguata protezione ai diritti umani fondamentali. Tutto
questo funziona solo se si ha alle spalle una lunga tradizione storica coerentemente orientata verso l’idea che
il governo serve a garantire le libertà individuali e la maggiore felicità collettiva.
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Ogni volta che si ha circolazione di modelli, questa comporta ibridazioni di varia natura e momenti di
convergenza tra civil law e common law; soprattutto alla fine del XX e inizio del XXI secolo gli elementi di
convergenza sono stati maggiori rispetto a quelli di divergenza, del resto anche i sistemi di civil law si sono
evoluti fortemente manifestando sintomi di convergenza con le parallele evoluzioni dei sistemi anglo-
americani.
Al fondo di questi fenomeni di convergenza tra esperienze giuridiche vi è un comune sentimento latente in
tutte le società post-industriali. Il continuo progresso tecnico dei mezzi di trasporto e dei mezzi di
comunicazione ha spinto l’integrazione reciproca delle comunità umane, ma ha anche accresciuto la
competizione tra gli ordinamenti che governano le singole comunità politicamente organizzate in Stati
sovrani. Tale competizione induce a considerare il diritto nella direzione di una maggiore efficienza
nell’allocazione delle risorse, senza farsi condizionare dalla tradizione culturale in cui affonda le proprie
radici.
costruita durante tanti secoli di sforzi); sino al XIX secolo il criterio del precedente era stato inteso in senso
perfettamente ragionevole ossia nel senso che un giudice deve conoscere e tener nel massimo conto le
precedenti decisioni sue e di altri giudici in casi analoghi. Se un giudice si discostava immotivatamente delle
decisioni precedenti non solo mostrava disprezzo per i suoi predecessori, ma poneva in crisi il principio
fondamentale della legalità e dell’uguaglianza di fronte alle regole di diritto, il quale esige che casi eguali
ricevano soluzioni identiche indipendentemente dalle qualità professionali delle parti e quelle del giudice
avanti al quale è portata la causa.
Dal XIX secolo prese piede una teoria secondo la quale il precedente giudiziale è giuridicamente vincolante
in modo assoluto, in quanto ciò che è stato enunciato nella decisione precedente non è l’opinione di un
giudice più antico o più anziano, ma la verbalizzazione di una regola di diritto consuetudinario positivo.
Da questo derivò la teoria dichiarativa del precedente giudiziario. Il suo assunto di partenza è che il common
law non è una judge made law, ossia un diritto giurisprudenziale, ma è una consuetudine esistente ab
immemorabile. Questa consuetudine si compone di una serie di norme non scritte, ma conosciute da ogni
buon inglese. Il compito di dare ad esse una verbalizzazione spetta solo ai giudici quando agiscono come tali,
ossia quando risolvono una controversia che è sottoposta ad essi: infatti, enunciano quale sia la regola di
diritto consuetudinario in base alla quale la controversia viene risolta in un modo o nell’altro. Essi sono
quindi oracoli del diritto, essi trovano il diritto (to find the law), ma non creano il diritto (to make the law).
Da questo deriva che quando una regola del diritto consuetudinario è scoperta e verbalizzata da un giudice
essa cessa per sempre di esistere allo stato amorfo (senza configurazione), e perciò il giudice seguente non
deve fare altro che applicare al caso da decidere la regola formulata in precedenza; discostarsi dalla decisione
precedente è un errore di diritto che consiste in una falsa ed erronea applicazione di una regola di diritto
positivo.
Una volta asserito che il solo giudice in sede di decisione di una controversia era dotato di tale potere, era
necessario individuare, nel testo della sentenza, il punto esatto in cui il giudice enunciava la regola che
costituiva la regione di decidere (ratio decidendi); il resto era considerato detto gratis o obiter. Attuata questa
distinzione, si riteneva vincolante la sola ratio decidendi del caso, e questo implicava che si dovevano
identificare con precisione i fatti di causa: la ratio decidendi vive in simbiosi con la descrizione del caso
operata dal giudice. Il giudice seguente è infatti vincolato alla decisione del precedente solo se ritiene che il
problema che egli deve risolvere si ponga negli stessi termini in cui si è posto il problema risolto mediante la
regola enunciata nella ratio decidendi della sentenza precedente.
Da questo discende che il giudice non è vincolato dalle pronunce precedenti se ritiene che il problema a lui
sottoposto sia distinguibile da quello affrontato nelle sentenze precedenti. Questo significa che i fatti di causa
a lui sottoposti debbono contenere almeno un elemento giuridicamente rilevante che li distingue dai fatti
precedentemente giudicati (arte del distinguishing).
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della possibile analogia tra il caso della lesione arrecata con un martello e quello della lesione arrecata
brandendo il manico di una scopa.
Storicamente però la teoria dichiarativa del precedente è servita per dimostrare che di fronte a casi in cui i
giudici non trovavano alcun precedente in cui si affermasse che la condotta del convenuto era ritenuta
illecita, essi non potevano giudicare secondo il loro capriccio, ma attenersi alle regole prestabilite.
Tuttavia, nel 1966 la House of Lords ha emanato un documento, il Pratice Statement, per annunciare che da
allora in poi essa non si sarebbe più ritenuta strettamente vincolata ai propri precedenti, pur continuando a
tenerli nel massimo conto al fine di preservare il principio della certezza del diritto. Questo annuncio ha
segnato la sepoltura della teoria dichiarativa.
SEZIONE QUARTA - IL DIRITTO INGLESE DELL’EPOCA CONTEMPORANEA E LE RIFORME DEL XXI SECOLO
Il sistema delle corti ed il processo civile nel sistema inglese attuale.
Le riforme del XIX secolo furono un’apertura del potere politico verso il ceto dei giuristi: le riforme
dell’organizzazione giudiziaria furono tese a liberare i giudici dai lacci che impedivano uno sviluppo
organico del diritto alienato con la velocità dei mutamenti storici. Non è solo stato il progresso tecnologico
ad agitare le acque del sistema giuridico: una civiltà industriale in continuo sviluppo pone problemi di
redistribuzione della ricchezza prodotta che sono del tutto nuovi e che occorre affrontare per mantenere un
accettabile livello di pace sociale. Nel medio lungo periodo nel Regno Unito si sono imposte traiettorie
evolutive basate sulla domanda diffusa di poter vivere in un sistema che oltre a garantire il soddisfacimento
universale di alcuni bisogni primari delle persone, miri ad assicurare che i salari siano “fair” ed egualmente
lo siano gli affitti ed, in definitiva che sia assicurata una sostanziale fairness degli scambi.
Il parziale soddisfacimento di queste esigenze, nella seconda metà del XX secolo ha indotto ad accettare
trasformazioni nel sistema giuridico: la logica conseguenza della redistribuzione della ricchezza è quella di
dare ordine ad apparati amministrativi appositi e gli apparati amministrativi richiedono di essere governati
mediante leggi e regolamenti essendo del tutto insufficiente il diritto di origine giurisprudenziale. D’altra
parte i governi per potersi procurare le risorse economiche necessarie debbono accentuare la pressione
fiscale sulle imprese e cittadini munirsi degli indispensabili apparati di controllo.
Questo modello comporta uno spostamento imponente nella distribuzione dei compiti tra i diversi formanti.
Man mano, a partire dal 1945, il diritto inglese ha conosciuto una stagione in cui la principale fonte del
diritto è divenuta la legge votata dal Parlamento (statue): fonte attraverso la quale le necessarie riforme sono
state introdotte nell’ordinamento. Inoltre il diritto inglese ha recepito per oltre 40 anni le normazioni europee
veicolate per la gran parte in linguaggio legislativo.
Le sequenze delle riforme è stata inversa rispetto a quella delle riforme del secolo precedente: prima sono
state introdotte continue riforme del diritto sostanziale in tutti i campi, dal diritto di famiglia alla circolazione
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dei titoli di proprietà ai contratti con i consumatori, poi si è proceduto ad una riforma molto radicale del
processo civile con le Civil Procedures Rules 1998; infine si è modificata l’organizzazione delle corti
supreme e del sistema di reclutamento dei giudici. Queste ultime riforme discendono dal Constitutional
Reform Act 2005, e mirano ad attuare il principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo,
giudiziario) che l’ordinamento inglese aveva da lungo tempo osservato nella sostanza ma trascurato nella
forma. Infatti l’ufficio del Lord Chancellor è stato radicalmente riformato ed al posto del Judical Committee
della House of Lords è stata istituita (2009) una Supreme Court of the United Kingdom che si pone al vertice
degli organi che amministrano la giustizia del regno. Questa è composta di 12 giudici, che inizialmente
furono i law lords in carica; ha una composizione e le caratteristiche sostanziali del precedente Judical
Commitee. La elaborata procedura di nomina dei giudici della Supreme court e delle altre cordi superiori ha
l’obiettivo di eliminare ogni residuo patronage governativo ed assicurare una composizione bilanciata delle
corti, con attenzione al genere, ma anche di selezionare giuristi di talento e di esperienza.
Il sistema giudiziario inglese è rimasto ancorato alla tradizione giuridica ed alle sue dinamiche intrinseche
lasciando al formante legislativo il compito di introdurre riforme organiche; è rimasto, a differenza di altre
esperienze, immune dalle tentazioni del diritto fluido. A differenza di quanto accade nel diritto americano, i
giudici inglesi non si sono attribuiti il potere di sindacato giurisdizionale sulle leggi approvate dal parlamento
di cui riconoscono la supremazia. Solo limitatamente alla tutela dei diritti umani, dopo lo Human Rights Act
del 1998, è possibile che una corte disconosca efficacia ad un atto normativo secondario.
Con le modifiche riportate, il vertice del sistema giudiziario inglese è rimasto affidato ad una ristretta élite
giudiziaria che condivide una forte coesione intellettuale dando origine ad una mentalità tecnico giuridica
che si riflette anche sulle giuridizioni di base, ove vengono affrontate la maggior parte delle questioni
giudiziarie.
Questa compattezza è necessaria per mantenere la razionalità di un sistema che non prevede l’appello come
diritto del singolo litigante e mano che mai prevede il diritto di ricorrere sino al vertice della giurisdizione. Il
ricorso del giudice è solo una possibilità che può concretizzarsi a condizione che la parte soccombente lo
richieda, che il giudice d’appello consenta a rivedere il giudizio. In base alla Rule 52.13 delle Civil
Procedure Rules la Court of Appesl può concedere la necessaria permission all’appello solo se il ricorso
solleva una questione importante di diritto o per la pratica; è irrilevante l’interesse della parte soccombente.
L’appello serve in realtà a produrre decisioni più mature e vagliate al massimo livello di autorevolezza.
L’attività delle corti di revisione non è quindi principalmente diretta a rendere giustizia nel caso singolo ma a
pronunciare sentenza su casi che coinvolgono questioni di principio, oppure quando la decisione appellata
sembri così poco persuasiva da rendere necessario un intervento correttivo. La presenza di questi filtri spiega
la ragione per cui le decisioni della Court of Appeal e della Supreme court siano poco numerose (nel 2016 la
Supreme Court ha emanato 75 sentenze), e sono estremamente analitiche in fatto e riccamente argomentate
in diritto. Si sottolinea come lo stile della sentenza inglese di appello non è stato modificato dalle riforme di
cui si è detto: ogni giudice può manifestare una propria opinione concorrente o dissenziente. Anche se la
prassi delle opinioni dissenzienti è meno praticata in seno alla Supreme Court e le opinioni concorrenti sono
poche, rimane che è difficile per il giudice relatore conquistare l’unanimità dei consensi se il testo della
sentenza è meno che impeccabile.
Il potere di overruling, ossia di ripudiare un precedente giudiziale, formalizzato dalla House of Lords con il
Pratice Statement del 1966, è rimasto in capo alla Supreme Court, che lo utilizza con maggiore frequenza.
In definitiva, le riforme del XXI secolo non hanno mutato gli stili ed i meccanismi di fondo, come lo è stato
invece il diritto sostanziale.
Anche le riforme della procedura civile hanno modificato il tradizionale modello del processo adversary, che
assegna al giudice un ruolo di arbitro silente, mentre il processo viene condotto dalle parti in
contrapposizione dialettica tra loro: il Civil Procedure Act del 1998 assegna al giudice un ruolo direttivo
notevole pregnanza, in funzione della identificazione precoce delle questioni che meritano di essere trarttare
e discusse ed eliminazione di quelle che non hanno effettiva rilevanza; indirizzando il processo in diversi
canali procedurali a secondo della rilevanza delle questioni trattate ed incoraggiando in ogni fase le parti
verso soluzioni alternative rispetto alla lite giudiziale.
È da osservare che lo spostamento dell’asse portante del sistema delle fonti del diritto giurisprudenziale alla
legislazione ha prodotto un mutamento rilevante nell’attività della giurisdizionale. I giudici delle corti inglesi
sono solo raramente impegnati a risolvere casi della vita in base all’analisi dei fatti accaduti ed alla loro
sussunzione nelle rationes decidendi adottate in precedenza. La maggiorparte delle questioni sono relative
all’interpretazione di testi legislativi, oppure al bilanciamento tra principi espressi nei vari testi legali che
risultano in contrasto tra loro rispetto ad una situazione concreta. Questa tendenza ad operare comporta
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l’adozione di uno schema di ragionamento giuridico diffuso in tutte le esperienze giuridiche occidentali, e
che in Europa ha trovato la sua più coerente espressione nelle sentenze della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo. In seguito all’adozione nel Regno Unito dell’Human Rights Act del 1998 che ha trasposto nel
diritto interno molti principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si è reso necessario adottare
rispetto a tutte le regole vigenti il canone dell’interpretazione più adeguata al fine di promuovere la tutela dei
diritti umani.
L’emanazione dell’Human Rights Act il Parlamento non ha sciolto il dubbio circa gli effetti verticali o anche
orizzontali della tutela dei diritto umani: da un lato si è osservato che la CEDU ha effetti solo verticali poiché
ammette azioni rivolte solo contro gli Stati che ne siano firmatari; dall’altro lato si è notato come la Section 6
disponga che le pubbliche autorità non debbano agire in modo tale da violare i diritti tutelati dalla
Convenzione Europea, e le Corti, considerate pubbliche autorità, sono tenute a decidere questioni ad esse
sottoposte in conformità alle esigenze di tutela dei diritti umani anche quando si tratti di vertenze tra due
parti private. Tradizionalmente nei sistemi di common law le carte costituzionali sono intese come vincolanti
per i governi i cui poteri vengono limitati, dando così luogo all’effetto verticale; i rapporti tra privati regolati
dal common law non sono influenzati dai documenti costituzionali, ma con leggi.
Nel XX secolo il parlamento ha introdotto riforme radicali mediante l’emanazione di nuove leggi organiche:
nel 1928 l’arcaico sistema della real property fu riformato radicalmente dal Real Property Act; il Land
Registration Act del 2002 ha modificato le modalità di trasferimento dei diritti immobiliari e ha introdotto
nuovi sistemi di registrazione per via elettronica; il diritto di famiglia è stato rivoltato da cima a fondo
mediante una serie di nuove leggi che hanno ripudiato una massa di principi di common law, nei quali
trovava concretizzazione il sentimento della superiorità maritale; il diritto del lavoro è stato regolato da leggi
animate da uno spirito polemico verso i risultati di common law. Inoltre, la presenza di un apparato pubblico
molto sviluppato comporta che sia elevato il numero di persone le quali hanno a che fare con le regole di
diritto, ma che non sono specialisti del diritto. Queste necessitano di una guida nello svolgimento delle loro
attività quotidiane ed è impensabile che tale giuda sia offerta dal diritto giurisprudenziale, altamente
problematico: il diritto del Welfare State è necessariamente scritto in forma legislativa. L’apparente
complicatezza del dettato legislativo deriva dal desiderio di guidare gli esperti presenti nelle diverse
tecnostrutture pubbliche e private, usando il linguaggio settoriale tipico delle diverse specializzazioni. In
questo scenario il diritto colto che si esprime nelle opinioni dei giuristi, finisce con l’ibridarsi: giuristi e
giudici sono sempre più spesso chiamati a confrontarsi con discipline cosiddette tecniche formulate in un
altro linguaggio settoriale. L’ingresso di questi linguaggi e delle cognizioni tecniche retrostanti nell’area
della aggiudicazione ha posto problemi di coordinamento e di sintesi tra conoscenze giuridiche e conoscenze
scientifiche che il common law tradizionale non conosceva, o conosceva solo marginalmente.
Nel sistema inglese la sentenza è l’opinione personale del giudice. Anche quando più giudici siedono in una
stessa Corte la sentenza è individuale; molti giudici si limitano a segnalare di essere d’accordo con
l’opinione di uno di loro; conosciuta è la opinione dissenziente, la quale però non è frequente nella
giurisprudenza come in quella americana.
Lo stile della giurisprudenza inglese è condizionato dal fatto che il giudice deve motivare secondo uno
standard elevato il ragionamento giuridico: la motivazione debba convincere gli altri membri della
professione forense. Poiché il giudice è un personaggio di prestigio elevato ci si attende che le sue
motivazioni siano redatte secondo uno standard di ragionamento giuridico ed uno stile linguistico altrettanto
elevato; non ci si può accontentare di una motivazione qualsiasi, di una sentenza che contenga solo pochi e
sciatti rilievi, non è accettabile uno stile linguistico disadorno o piattamente burocratico. I grandi giudici
sono stati maestri della lingua inglese e le loro sentenze sono considerate anche sotto il profilo letterario.
Nelle sentenze inglesi, specie quelle delle Corti supreme, grande attenzione è dedicata alla ricostruzione dei
fatti: il fatto è analizzato per pagine e pagine in cui il giudice spiega perché accetta una versione dei fatti e
rigetta l’altra versione di essi. L’analisi del fatto è considerata necessaria al fine di consentire una completa
valutazione del ragionamento giudiziale. Vi sono due motivi che sorreggono questa tendenza: il peso della
tradizione che sospinge ad un esame analitico del caso; il fatto per cui i giudici si sentono vincolati dal
principio per ci le loro sentenze debbono essere convincenti e quindi devono dedicarsi ad una
dettagliatissima descrizione dei fatti che essi sono chiamati a valutare.
Oltre ai fatti, la sentenza inglese considera quale sia la regola di diritto che si deve applicare al caso in
esame: tale regola coincide con una norma legale, o meglio, con la sua interpretazione; nei casi che giungono
alle corti superiori si discute spesso di puri concetti giuridici attraverso l’analisi delle parole che li veicolano.
In questo senso la mentalità del giudice inglese rimane ancorata al tema del significato delle parole
giuridiche di cui si esplorano tutte le possibili anfibologie per pervenire a dotarle del senso più confacente.
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Negli ultimi lustri i problemi affrontati dalla giurisprudenza inglese coincide con una rivisitazione degli
istituti tradizionali: le forme di ragionamento giuridico assumono quindi nuovi orientamenti, imposti dalla
ricerca di bilanciamento tra diritti confliggenti e dalla giustificazione razionale di quelli che vengono
selezionati dai giudici superiori per risolvere i casi ad essi sottoposti. Questa tendenza comporta una
attenuazione delle barriere tra diritto pubblico e diritto privato; una propensione ad esercitare il judical self
restrain che vieta ai giudici di introdurre nuove regole che pure sarebbero necessarie per perseguire l’ideale
della giustizia, lasciando che tale compito sia svolto dal Parlamento.
In questo quadro evolutivo il diritto giurisprudenziale inglese non rifiuta lo sviluppo del diritto ma non
trascura neanche la necessitò di preservare un elevato standard di calcolabilità giuridica, infatti sottolinea
che: “the ultimate function of the courts in common law and equity is to formulate and develop rules of a
clear and pratical nature”.
Le professioni legali.
Per tutto il XX secolo l’organizzazione delle professioni legali inglesi è stata l’emblema della preservazione
di una tradizione corporativa che vedeva le professioni legali distinte nelle due categorie dei Barristers e dei
Sollecitors: i Barristers avevano monopolizzato le funzioni della rappresentanza della parte in giudizio, erano
gli unici abilitati a comparire avanti le corti superiori, di conseguenza i giudici erano tratti unicamente dal
novero dei Barristers, essendo i soli ad aver maturato esperienza giudiziale. Tuttavia oggi il contenzioso è
relativamente scarso, di conseguenza questa branca della professione legale si è trovata emarginata dalla
parte più redditizia dei servizi legali. La complessità dei sistemi giuridici contemporanei e la loro
interconnessione internazionale ha reso la prestazione di servizi legali una attività che richiede il
coordinamento di molteplici competenze professionali: organizzati in grandi studi professionali, i Sollicitors
si sono dimostrati i più adatti a fornire il tipo di consulenza ed assistenza che le imprese attuali richiedono.
Inoltre è da osservare che l’educazione legale oggi è svolta dalle università.
In base al legal Service Act del 2007 le professioni legale sono dotate di organismi di regolazione e
sorveglianza al pari di altre attività affini. Vi sono una decina di organismi regolativi di tale tipo, due dei
quali riguardano rispettivamente i Sollicitors (Sollicitors Regulation Authority) e i Barristers (Bar Standards
Board); ad essi sovraintende il Legal Service Board, un organismo semipubblico indipendente che ha la
missione di fare si che il mercato dei servizi legali sia competitivo conformato in modo da tutelare l’interesse
dei consumatori in cui i prestatori sono indirizzati a promuovere l’interesse generale (fiducia del pubblico
nell’amministrazione della giustizia e del sistema regolativo; effettività dell’ordinamento giuridico; rispetto
della rule of law).
Le professioni legali sono considerate, sotto il profilo della produzione di servizi, all’interno di un mercato di
regolamentato ma altamente concorrenziale, che affida al mercato stesso la selezione delle imprese di servizi
più efficienti. Le antiche associazioni professionali sono divenuto organismi rappresentativi dei propri
membri con poteri di sorveglianza sui singoli, ma a ciascuna di esse corrisponde un organismo indipendente
che svolge compiti regolativi nell’interesse generale.
Le tradizionali strutture corporative sopravvivono con funzioni ridotte, mentre acquistano un ruolo maggiore
gli organismi regolativi indipendenti istituiti con legge e composti mediante meccanismi di selezione
variegati che tendono a garantire il pluralismo delle competenze e l’assenza di conflitti di interessi. I residui
degli assetti corporativi sono destinati a scomparire: è abrogato il monopolio dei Barristers alla difesa avanti
le corti superiori ed anche quello dei Sollicitors nella presentazione dei Barristers ai clienti, i quali possono
contattarli direttamente.
Le professioni legali passano quindi dallo status di professioni protette a quello di professioni regolamentate.
Il numero dei Barristers è cresciuto e non mancano quelli che sono dipendenti pubblici o privati, o che
partecipano a società di Sollicitors, i quali si raggruppano in grandi studi legali.
Va osservato anche che se l’accesso individuale all’esercizio delle professioni legali è stato riservato a coloro
che hanno ottenuto un law degree da una università accreditata, il numero di queste ultime si è moltiplicato e
fluttua attorno al numero cento; inoltre possono essere ammessi alle professioni legali i giovani giuristi che
hanno compiuto i loro studi fuori dal Regno Unito. Il numero degli esercenti professioni legali si è quindi
fortemente accresciuto, per via della accresciuta domanda di servizi legali. È errato quindi pensare che le
professioni legali sono monopolio di un’élite numericamente ristretta che si autogoverna.
Le professioni legali inglesi hanno modificato profondamente le loro struttura anche se non ancora gli stili e
le mentalità ereditate dal passato.
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Blackstone era caduto e pensarono di porvi rimedio: ad esempio Jeremy Bentham pensò che la common law
andasse riformata per via legislativa; John Austin sosteneva che occorresse liberare il discorso dei common
lawyers da tutte le aporie e le anfibologie che lo rendevano illogico, diede origine ad una scuola di pensiero
che, richiamandosi alla necessità di una teoria generale del diritto coerente sotto il profilo logico, divenne
influente nell’ambito universitario. Le opere di Austin non ebbero molto successo ma stabilirono un modello
di trattazione comprensiva del diritto inglese che successivamente si radicò nella letteratura grazie alle opere
di Frederick Pollok e John Salmond, alle quali venne riconosciuta autorevolezza notevole.
Nel XX secolo la letteratura giuridica inglese è divenuta completamente trattatistica, destinata ai forensi.
Non manca una letteratura accademica di alto livello che esercita una crescente influenze sia nella
educazione dei giuristi che sui pratici e sui giudici. Da un lato quindi la letteratura professionale, il cui
prestigio è ormai consolidato, che si appoggia alla fonte giurisprudenziale (citazioni e punti di riferimento
sono le sentenze dei giudici), che è l’unica “autorità” che un professionista è interessato a conoscere;
dall’altro lato una letteratura più incline alla elaborazione teorica dei dati giuridici e contempla la possibilità
di approcci critici al diritto vigente.
La letteratura giuridica inglese è destinata ad essere fruita non solo in Inghilterra, ma in tutte le aree
giuridiche che al common law inglese si ispirano.
Da qui deriva una elevata propensione a comporre opere giuridiche: il numero dei saggi e delle opere
giuridiche è aumentato esponenzialmente, anche per effetto di regole universitarie che impongono ai
professori di pubblicare un certo numero di saggi; infine la diffusione della editoria elettronica ha contribuito
ad accrescere la mole dei materiali giuridici disponibili nelle diverse reti.
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stessi una serie di divieti; il secondo aspetto del problema era reso acuto dal fatto che i singoli Stati non
erano per nulla eguali quanto ad estensione territoriale, popolazione e peso economico. Accantonata la
proposta per cui ogni Stato dovesse concorrere in base alla sua ricchezza fondiaria, la soluzione più
ovvia sarebbe stata quella di far partecipare ciascuno Stato al Governo dell’Unione in base alla
rispettiva popolazione; tuttavia questa soluzione avrebbe emarginato gli Stati meno popolosi a favore di
quelli più popolosi.
Il compromesso, Connecticut Compromise (dal suggerimento della delegazione del Connecticut),
raggiunto in seno alla Convenzione di Philadelphia prevede di far eleggere la House of Representative
in base alla popolazione e di disporre invece che ciascuno Stato, indipendentemente dalla sua
popolazione, invii due senatori alla camera alta. Dunque, il numero dei “rappresentanti” eletti in
ciascuno Stato è fluttuante a seconda della popolazione residente, riscontrata ogni dieci anni mediante
censimento federale, mentre il numero dei seggi senatoriali di ciascuno Stato è sempre invariabilmente
eguale a due. Questa soluzione comportava un effetto implicito, ossia che la costituzione non potesse
essere emendata dal Congresso federale; essa infatti fu prevista come costituzione assolutamente rigida,
per modificare la quale è necessario ricorrere ad un procedimento legislativo particolarmente aggravato,
e ottenere l’approvazione di tre quarti degli Stati.
Ø Il terzo tipo di equilibrio che i costituenti volevano creare verteva sul carattere rigido della costituzione.
Essi scorsero la contraddizione che intercorreva tra potere sovrano del popolo, quindi principio
democratico-maggioritario, e la tutela dei diritti individuali. Ne trassero la conseguenza che occorreva
ricercare a livello costituzionale un equilibrio tra principio maggioritario e tutela dei diritti civili, la cui
esistenza doveva essere in una certa misura protetta contro i possibili esiti esterni della democrazia
rappresentativa. Secondo alcuni tra i costituenti la ricerca di questo equilibrio doveva essere condotta a
livello di struttura del sistema di governo, ossia essere disegnata in modo tale da garantire il rispetto dei
diritti individuali anche se questi politicamente rappresentano interessi minoritari. Tuttavia omisero di
inserire nel loro testo costituzionale un bill of rights, ossia un elenco di diritti umani inviolabili; tale
omissione fu significativa perché un simile elenco costituiva una parte integrante di una costituzione, sia
un base alla tradizione specificatamente americana delle dichiarazioni e carte coloniali, sia in base ai
dettami della cultura illuministica e giusnaturalista europea.
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Tuttavia la struttura fondamentale del sistema di governo americano rimane quello di una democrazia, che
non può rifiutare il primo corollario di essa, ossia che la maggioranza prevale sempre. In qualsiasi
democrazia se la maggioranza rimane a lungo determinata e compatta, essa impone le sue regole ed i suoi
valori.
Per tutto il XIX secolo il disegno di Madison per equilibrare la democrazia con il rispetto dei diritti
individuali mediante la struttura di governo è stato complessivamente rispettato, poiché la legislazione
federale è rimasta essenzialmente una legislazione politica e non civile. Nel XX secolo tuttavia, la
maggioranza degli americani ha voluto che la legislazione divenisse direttamente o indirettamente la fonte
principale del diritto. Tale visione era risalente anche al momento costituente, ma lasciata allo stato latente
nel testo costituzionale, però ricavabile dai primi emendamenti ad esso.
A tal proposito, la lacuna riguardante l’elenco dei diritti è stata presto colmata: all’indomani della ratifica
della Costituzione, il primo Congresso federale approvò il 25 settembre 1789, 10 emendamenti alla
costituzione unanimemente ratificati dagli Stati nel 1791. Quelli dal n.1 al numero 9 sono comunemente detti
bill of rights, poiché contengono la trama dei diritti e dei valori fondamentali. La loro formulazione nel testo
costituzionale rappresentò una vittoria di coloro che ritenevano necessario consacrarli formalmente anziché
affidarne la preservazione alla coscienza politica del popolo. Oggi la Costituzione viene comunemente intesa
come un tutto organico che comprende anche gli emendamenti conosciuti come Bill of Rights.
L’adozione del Bill of Rights, che dotava i valori di libertà individuale di una forma normativa scritta,
comportò anche una sottolineatura forte della scelta fondamentale a favore di un governo limitato.
L’inserimento nella sfera superiore della legalità costituzionale di un catalogo dei diritti e delle libertà
individuali, comporta innanzitutto una limitazione della potestà legislativa che deve svolgersi nel rispetto di
questi diritti, e il principio per cui l’azione politica è subordinata alla legalità. I diritti individuali, inseriti nel
testo di una Costituzione rigida, vengono collocati ad un livello di legalità non intaccabile da parte dei
legislatori se non tramite apposito procedimento di revisione costituzionale; la maggioranza non può
legiferare secondo la sua sola volontà, ma dovrà esprimere la propria volontà politica all’interno dei confini
tracciati da una costituzione la quale incorpora i diritti individuali come valori di fondo su cui si regge
l’intera convivenza civile. In ciò si coglie il punto di equilibrio di cui si era alla ricerca: grazie all’apposito
procedimento aggravato che salvaguardia i diritti individuali, la legislazione non può travalicare i propri
confini e ledere i diritti individuali.
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Divenuto Madison il nuovo Segretario di Stato dell’amministrazione Jefferson, impedì di assumere la carica
ad un certo Marbury quale giudice federale di pace del Distretto di Columbia. Quest’ultimo ricorse alla Corte
Suprema contando sulla vittoria, perché la sua nomina era stata validamente completata e la notifica era un
atto dovuto. Se il nuovo segretario di Stato si rifiutava di provvedere, la norma del Judicary Act, la quale
consentiva alla Corte Suprema di emettere ordini contro ogni persona che eserciti un potere federale,
sembrava fatta apposta per garantirgli un rimedio appropriato, e si offriva una occasione a Marshall per
rimediare al pasticcio combinato in qualità di Segretario di Stato, quando aveva omesso di provvedere alla
notifica di Marbury. Sotto il profilo legale Marbury aveva ragione, così come Jefferson e Madison avevano
ragione nel rifiutarsi di dare corso ad una procedura così evidentemente connotata dalla lottizzazione
partitica.
La prima parte della sentenza è dedicata alla dimostrazione del fatto che Marbury potesse vantare un titolo
legale all’incarico e un diritto al conferimento dell’incarico; però nel momento in cui tale dimostrazione
avrebbe dovuto tradursi nell’emanazione del provvedimento richiesto da Marbury, la sentenza passa a
considerare se il rimedio che competeva all’attore fosse stato correttamente esercitato ed in tale seconda
parte rileva il contrasto tra l’articolo del Judicary Act in base al quale la Corte Suprema era stata adita, ed
una chiara previsione della Costituzione. L’art. 3, sec. 2, della Costituzione prevede espressamente che: “In
tutti i casi che riguardano un Ambasciatore, altri pubblici Ministri e Consoli, ed in cui è parte uno Stato, la
Corte Suprema deve avere giurisdizione di primo grado. In tutti gli altri casi (…) la Corte Suprema avrà
giurisdizione d’Appello”. Malbury non era né un Ambasciatore, né un Ministro, né un Console, e la legge
votata dal Congresso non avrebbe potuto consentirgli di adire la Corte Suprema quale giudice di primo
grado. La Corte dichiarando nulla la legge ordinaria sulla base della quale Marbury aveva adito la Corte in
primo grado, respinse la domanda.
Marshall aveva scovato un caso di contrasto tra norma ordinaria e norma costituzionale facendo vincere a
Madison una causa che altrimenti non avrebbe vinto. L’esito non consentiva a quest’ultimo alcuna possibilità
di replica, poiché, resa evidente la antinomia tra legge ordinaria e norma costituzionale, non rimane che
applicare quest’ultima considerando nulla la prima. La ragione decisiva risiede nell’argomento a contrario
per cui se i giudici fossero tenuti a dare effetto a leggi antinomiche con la Costituzione, ciò equivarrebbe a
consentire al Congresso fare leggi che la Costituzione gli impedisce di emanare e quindi la complicata
procedura di revisione costituzionale che i costituenti vollero così ben calibrare sarebbe come non scritta.
La decisione della Corte suprema federale nel caso Malbury v. Madison ha fondato in modo definitivo il
sindacato giudiziale di costituzionalità sulle leggi. Da allora il potere di ogni giudice di disapplicare una
norma di legge ritenuta in contrasto con la costituzione non è stato oggetto di seria contestazione.
Il potere di judicial review è radicato nella tradizione giuridica americana, e nel XX secolo la discussione si è
spostata dal piano normativo a quello più informale dell’atteggiamento che i giudici, specie quelli della Corte
suprema, debbono tenere nel caso insorgano dubbi di costituzionalità riguardanti le leggi approvate dal
Congresso. Si discute non tanto attorno al potere di judicial review in sé, ma attorno alle modalità del suo
esercizio: alcuni ritengono che i giudici assumano un atteggiamento di prudenza (self restrain), altri
sostengono che i giudici non debbono mancare di esercitare il loro potere di annullare le leggi
incostituzionali (judicial activism) specialmente laddove siano lesi i diritti di minoranze religiose o razziali o
comunque pregiudizievoli.
Sotto il profilo degli equilibri politico-costituzionali il sindacato sulle leggi votate dal Congresso si configura
come un problema di rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, e poiché il potere giudiziario è
quello che ha l’ultima parola, ma è composto in modo da non rispecchiare le opinioni della maggioranza del
momento, per poter dare voce agli interessi minoritari, l’equilibrio che si deve trovare è quello idoneo a
preservare le chances della maggioranza degli elettori.
Sotto il profilo della formazione di una tradizione giuridica il potere di sindacare la costituzionalità delle
leggi diffuso tra tutti i giudici, e non accentrato in una apposita corte come accade nei sistemi europei attuali,
ha avuto l’effetto di addestrare generazioni di giuristi ad affrontare la problematica connessa alla
interpretazione ed applicazione di un testo costituzionale scritto, a non trascurare mai la dimensione
costituzionale di un qualsiasi problema di applicazione delle leggi e regole giuridiche.
Questo orientamento è distante da quello che ha permeato l’esperienza inglese nella quale non solo esiste un
testo costituzionale scritto, ma ove a lungo ha prevalso il principio per cui la volontà del Parlamento è
suprema e non conosce limiti.
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Le riforme e l’organizzazione del processo nell’esperienza americana nei secoli XIX e XX.
La presenza di una costituzione scritta munita di judicial review costituisce il primo fattore di
differenziazione tra esperienza americana e quella inglese; il secondo fattore è relativo alla organizzazione
giudiziaria.
Se è vero che inizialmente le singole colonie tentarono di modellare il proprio sistema processuale e
l’organizzazione delle proprie corti sul modello inglese, tuttavia tale ricezione non fu mai completa; nel
periodo successivo all’indipendenza, grazie alla crescita culturale che consentì una ricezione più completa
del vocabolario e dei principi di common law, vennero realizzate riforme radicali della procedura che
anticiparono quelle inglesi. Tali riforme furono il frutto di specifiche condizioni in cui il sistema di
amministrazione della giustizia dovette strutturarsi negli Stati Uniti; anche la cultura illuminista di cui erano
partecipi i fondatori della nuova repubblica, li induceva a ridisegnare le procedure giudiziarie su basi
razionali.
Sulla organizzazione delle corti statali e del processo influì anche la spinta verso una democratizzazione
delle istituzioni diffusasi a partire dalla rivoluzione jacksoniana (si fa riferimento alla salita al potere, nelle
elezioni del 1828 del partito democratico guidato da Andrew Jackson).
Circa l’organizzazione delle corti statali i nuovi Stati che si costituivano ad ovest degli Appalachi, adottarono
il criterio della elettività dei giudici, in luogo di quello della loro nomina da parte del Governatore dello
Stato. Tale scelta attenuò il ruolo della preparazione tecnico professionale nel procedimento di selezione dei
giudicanti, le cui conoscenze della tecnica del pleading ne resero obsoleto l’uso.
Quanto all’organizzazione del processo il nuovo credo democratico offrì un principio guida, riassumibile nel
desiderio di rendere la macchina della giustizia accessibile e comprensibile a tutti i cittadini.
L’intendo di rendere effettiva la giustizia aveva eliminato il principio del common law per cui contro le
sentenze non vi è normalmente appello, sicché le corti americane si strutturarono per provvedere a più gradi
di giudizio; i bisogni di razionalizzazione e democratizzazione del processo, indussero a riforme più radicali,
che vennero attuate in via legislativa nei diversi Stati. La loro formulazione compiuta di coglie nel Field
Code, dal nome dell’avvocato David Dundley Field, il quale ne fu il propugnatore ed il redattore materiale.
Giova ricordare che sull’onda del successo della sua riforma della procedura, Field preparò anche un codice
civile ed un codice penale (1865); tuttavia i tentativi di introdurre il codice civile incontrarono vaste
opposizioni. Nel 1881 una versione ampliamente modificata del penal code predisposto dal Field venne
adottata, ma del codice civile non si fece nulla. La proposta di Field ebbe migliore fortuna solo in alcuni Stati
dell’ovest di nuova formazione.
Il Field Code venne introdotto a New York bel 1848 e fu rapidamente adottato in altri Stati, specie quelli di
nuova formazione. Essa prevedeva l’abolizione delle forms of action; la fusione processuale tra common law
ed equity (salvo che le cause di equity continuarono ad essere trattate senza la giuria); la generalizzazione
della procedura di discovery.
La maggior parte degli Stati che compongono gli attuali Stati Uniti non hanno quindi mai conosciuto
un’epoca in cui vigevano le forms of action e la distinzione tra common Law ed Equity; d’altra parte alcuni
Stati hanno conservato, in primo grado, giurisdizioni separate di common law e di equity.
Inoltre, nell’esperienza americana è perennemente all’opera anche la tendenza di semplificare il processo
purgandone la procedura delle questioni più dibattute, in modo da eliminare le barriere che il formalismo
introduce sulla via della giustizia sostanziale.
Dal 1934 il Congresso ha delegato la Corte Suprema la redazione di norme di procedura civile valide per
tutto il sistema federale, riservandosene l’approvazione. Dal 1938 sono in vigore le Federal Rules of Civil
Procedure, costantemente aggiornate per favorire uno snellimento delle procedure ed una riduzione dei costi.
Questo non esclude che le regole di procedura rimangano ancorate ad alcuni capisaldi che compongono la
tradizione americana, come il trial by jury la cui presenza impone scansione tra questioni di diritto e
questioni di fatto nonché il ruolo neutrale del giudice nell’accertamento dei fatti che viene affidato al
confronto dialettico tra i testimoni esperti; o come il mancato riconoscimento dei costi alla parte vittoriosa,
che insieme all’uso ed abuso dei danni punitivi, rendono il modello processuale americano fortemente
orientato a favore degli attori, e un modello in cui le corte sono viste come lo strumento principale attraverso
il quale gli individui rivendicano e rendono effettivi i propri diritti senza doversi affidare ad altro organismi
pubblici.
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La crescita della letteratura giuridica significava una crescita del ruolo della dottrina; inoltre l’aver affidato
alla letteratura un ruolo portante nella formazione dei giuristi comportò il rapido declino del metodo della
formazione mediante apprendistato nelle botteghe degli avvocati, e incentivò un ulteriore sviluppo dei
metodi formativi.
Leggere i trattati di diritto era considerato il modo più rapido e più economico di apprendere il diritto, ma
sentire ripetere e spiegare un testo dalla viva voce di un insegnante era un metodo ancora più agevole rispetto
al puro autodidattismo veicolato dalla lettura solitaria; negli Stati Uniti sorsero quindi scuole di preparazione
alla professione forense, seguite da numerosi studenti. Si trattava di scuole serali, i cui corsi duravano un
anno e le lezioni consistevano essenzialmente nella spiegazione e riassunto di un’opera trattatistica sugli
argomenti del corso.
Il panorama cambiò con la riforma che Christopher Columbus Langdell, docente ad Harvard, introdusse alla
law School di Harvard nel 1871. Tale riforma prevedeva: regole più rigide per l’accesso alla Law School; il
raddoppio della durata dei corsi (che divennero tre nel 1876); l’abolizione della lettura e del commento di
esposizioni trattatistiche, sostituite con raccolte di casi di giurisprudenziali selezionati dal docente che gli
studenti dovevano leggere e studiare prima della lezione; la sostituzione dei giudici e degli avvocati in
pensione con giovani interamente dediti all’insegnamento ed alla ricerca.
Il filo conduttore di queste riforme è il modello delle università europee ed in particolare delle università
tedesche; la premessa della visione di Langdell era che lo studio del diritto doveva essere uno studio
scientifico, rivolto alla scoperta dei principi giuridici che emergono dai prodotti della storia (conformemente
a quanto insegnato dalla scuola storica tedesca). In ambito americano i materiali giuridici rilevanti si
identificavano con i casi risolti dalle Corti, perché in essi, e non nella legislazione, si manifesta lo sviluppo
organico del sistema giuridico. In realtà Langdell precisò che, ai fini di uno studio scientifico del diritto, la
maggior parte delle decisioni giurisprudenziali erano inutili, mentre solo pochi casi insegnavano qualcosa,
perché da essi emergeva un principio ispiratore capace di governare un ambito più vasto di problemi. L’esito
di tale impostazione era che non spettava al giudice formulare le dottrine giuridiche generali le quali formano
i fasci connettori del sistema giuridico; la verbalizzazione compiuta dal principio è compito dello scienziato
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del diritto. Inoltre, poiché la scoperta del pieno significato dei principi esistenti e la loro esatta
verbalizzazione sono anche sommamente efficaci sotto il profilo didattico, ne deriva la coniugazione del
ruolo dello scienziato e di quello del docente.
L’aspirazione di Langdell era verso la scienza, e vivendo in un’epoca ammaliata dai successi delle scienze
naturali, egli additò ai giuristi il modello di tali scienze, comprese la botanica e la zoologia, invitandoli a
considerare che come le scienze naturali si apprendono e si sviluppano nei laboratori, così il diritto si
apprende e si sviluppa nelle biblioteche, e non nella pratica forense.
Ciò che stava a cuore a Langdell era che la formazione del giurista avvenisse in università, ossia che essa si
radicasse nel luogo in cui avviene la elaborazione della cultura generale della nazione.
La riforma di Langdell segna il momento in cui l’esperienza americana ha rovesciato il modello inglese nel
suo esatto contrario, infatti la tradizione inglese era del tutto opposta, caratterizzandosi per il fatto di aver
separato la formazione del giurista dall’università per trasferirla alla pratica forense. Inoltre, con il XIX
secolo vengono abbandonate le forms of action e la tipicità delle singole procedure, e tale fenomeno in
America toglieva ogni giustificazione al sistema della formazione del giurista mediante apprendistato
pratico; diveniva preferibile che costoro potessero formarsi a contatto con la cultura generale del paese.
Il primo impatto della radicale riforma langdelliana fu quello di generare sconcerto e ripulsa tra gli studenti
come tra i membri della professione forense, tuttavia in un periodo breve la riforma didattica iniziata ad
Harvard si diffuse in tutto il paese; nel giro di pochi decenni tutte le maggiori Law Schools adottarono il
metodo di Harvard.
Il rinnovamento della cultura giuridica americana nella prima metà del XX secolo.
Tra le eredità lasciate da Langdell vi fu la fede nella possibilità di scoprire nella storia del common law quei
principi che se applicati con coerenza avrebbero conferito un volto logicamente ineccepibile all’intero
sistema. I suoi allievi svilupparono questa indicazione metodologica in grandi trattati ed opere dottrinali
dedicate ai vari settori del diritto, che ruotavano attorno ad alcune nozioni centrali (nel campo della Law of
Torts centrale fu la nozione di colpa; nel campo dei contratti centrale divenne il tema della consideration).
Questa opera di sintesi mediante il ricorso a principi ritenuti fondamentali servì a porre un freno alle
tendenze centrifughe della giurisprudenza degli Stati che avrebbero accumulato significative divergenze se si
fossero affidate al puro criterio del precedente giudiziario; tuttavia il costo di tale contenimento va bilanciato
con il costo di un irrigidimento del ragionamento giuridico condotto a fondarsi su alcuni elementi formali
delle varie fattispecie e conseguentemente confinamento nella irrilevanza giuridica di quasi tutte le
sfaccettature dei casi concreti.
Nel primo quarto del XX secolo il metodo langdelliano era completo sotto vari punti di vista:
• i laureati di Harvard e delle altre Law School che ne avevano adottato il metodo didattico, occuparono
posizioni di eccellenza nelle professioni legali, e questo dimostrò la superiorità operativa de metodo
scientifico rispetto a quello pratico-empirico;
• le legal doctrines di ispirazione universitaria erano divenute stabilmente un formante del sistema, sia
pure di rango ancora subordinato rispetto alla giurisprudenza;
• lo studio del diritto venne concepito come uno studio rigorosamente formale con il compito di estrarre e
formulare regole generali, logicamente coerenti tra loro, dalla massa delle fonti giurisprudenziali.
Sotto il profilo del funzionamento del sistema il formalismo divenne dominante perché presentava l’indubbio
vantaggio di ridurre la mole di precedenti giurisprudenziali autorevoli a pochi casi selezionati per la loro
chiara aderenza ad una serie limitata di regole accuratamente espresse.
Nel 1923 venne fondata la American Law Institute, che riuniva eminenti avvocati, giudici e professori, al
fine di promuovere la semplificazione e la chiarificazione del diritto e di incoraggiare la ricerca scientifica. Il
primo compito della American Law Institute fu quello di redigere una serie di esposizioni, chiamate
Restatements, delle branche principali del common law americano (contracts, trusts, agency, property, torts,
business corporations, conflicts of laws), che dovevano basarsi sulle decisioni delle corti, ma le regole che
venivano estratte dalla giurisprudenza americana dovevano essere formulate con un linguaggio di tipo
legislativo ed esposte in un ordine sistematico.
Il Restatement era un’opera in cui si rifletteva il metodo langdelliano dell’estrazione delle verità giuridiche
dalla massa delle decisioni giudiziali, travasando il common law in regole chiare e precise e
sistematicamente ordinate. In questo tentativo tuttavia si evidenziarono le difficoltà e la fragilità
metodologica dell’intera costruzione langdelliana, la quale non avendo alle spalle un sistema completo di
concetti giuridici, lasciava un vasto spazio alle scelte individuali del compilatore.
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Il primo Restatement sui Contracts del 1932 (di Samuel Williston) rese palese come il tipo di ordine
sistematico che si voleva imporre alla caotica vitalità del diritto giurisprudenziale era eminentemente
soggettivo, ossia rifletteva la visione dei redattori del Restatement.
I critici del Restatement (c.d. movimento realista) si richiamarono alla realtà giurisprudenziale, osservando
che accanto alle decisioni prese in considerazione per la formulazione cristallina delle loro motivazioni,
esistevano nei repertori della giurisprudenza centinaia di decisioni sostanzialmente divergenti; queste
decisioni erano anche esse di “common law” esattamente come le altre non esistendo alcun valido criterio di
distinzione. Inoltre, si osservò che la realtà giurisprudenziale osservata per intero appariva assai più articolata
di quanto non si volesse far credere, e rifletteva una realtà di prassi giuridiche ancora più profonda, nella
quale si manifestava la vitalità e l’effervescenza dell’esperienza giuridica americana, da considerare un
fenomeno positivo e non da sterilizzare. Il movimento dei realisti era favorevole a regole di diritto flessibili
che fungessero da guida per le decisioni successive senza la pretesa di controllarne completamente l’esito;
questo aveva lo scopo di consentire a giuristi e giudici di portare maggiore attenzione ai fatti della vita che
sono loro sottoposti valorizzandone gli elementi qualificanti, anche se non erano stati considerati nei
precedenti.
In sé il movimento realista fu meno compatto di quello opposto, e la varietà di posizioni metodologiche fu
notevole, come le prese di posizioni nichiliste, che finivano col confondersi con scelte di carattere
squisitamente politico.
La controversia tra i formalisti langdelliani ed i realisti è durata alcuni decenni e si è chiusa con l’abbandono
del principale obiettivo cui tendevano i formalisti, ossia quello per cui grazie ad una logica più rigorosa è
possibile che l’ordinamento giuridico possa raggiungere un livello ottimale di coerenza e stabilità grazie ad
un insieme di regole astratte semplici e precise che nel loro insieme siano idonee a risolvere qualsiasi caso
pratico. Per quanto riguarda lo studio del diritto, cambiò però il paradigma della scientificità: in luogo di una
vaga e non ben definita analogia con i metodi delle scienze naturali, il paradigma scientifico da imitare fu
quello delle scienze sociali, soprattutto la sociologia. L’idea di base era che la scienza giuridica non doveva
continuare a trascurare quei fatti sociali che una normale descrizione sociologica, o storica, non dovrebbe
trascurare.
Il cambiamento del paradigma portò a mutamenti nei metodi di analisi giuridica:
- fu considerato lo studio delle situazioni fattuali, cui seguiva lo studio di tutti i casi giurisprudenziali e
non solo di quelli in cui si era accidentalmente evidenziata una qualche “verità” giuridica;
- il giurista dotto divenne colui che studia il legal process, ovvero l’insieme dei meccanismi complessi in
parte istituzionali in parte fattuali che portano ad una data decisione giuridica, ed utilizza i dati tratti da
altre scienze sociali per progettare un legal process in grado di produrre soluzioni accettabili (il giurista
è un ingegnere sociale);
- gran parte delle scuole di diritti affiancarono ai corsi tradizionali in cui veniva offerta una formazione
tecnico giuridica di tipo classico, corsi innovativi miranti a formare giuristi capaci di cogliere gli aspetti
problematici delle questioni istituzionali e senza pretendere di fornire certezze assolute.
Sotto il profilo storico il movimento dei realisti divenne egemone in virtù della sua alleanza con le riforme
promosse dal New Deal roosveltiano.
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scontrava con la giustizia che sospingeva ad un allargamento della sfera dei diritti e dei cittadini, la cui
promozione non poteva non interferire con i diritti economici consolidati.
In questo contesto le corti americane divennero un luogo in cui lo scontro di mentalità era destinato ad
emergere con una certa intensità. Il più risoluto campione di una giurisprudenza innovativa, il giudice
Benjamin Nathan Cardozo, fu abilissimo nel manipolare la tecnica del precedente, nascondendo il
sovvertimento delle regole di diritto che egli introduceva. Essendo per vent’anni giudice alla Corte di ultima
istanza dello Stato di New York, riuscì a riformare il common law di quello Stato in forme così
impeccabilmente argomentate, che anche un presidente repubblicano e conservatore si sentì costretto a
promuoverlo alla Corte Suprema Federale, in quanto “grande giurista” posto super partes. Il suo esempio fu
per i giudici degli altri Stati un modello di riforma impercettibile del diritto giurisprudenziale evitando una
troppo scoperta visibilità politica della loro opera.
Questa operazione non riuscì alla Corte Suprema Federale ove grandi giudici furono in minoranza a fronte di
una maggioranza di giudici tenacemente conservatori e meno abili a nascondere la scelta politica del diritto
dietro il manto di argomenti giuridici impeccabili. Assumendo il ruolo di guardiana dell’ordine
costituzionale basato sull’individualismo proprietario, la Corte Suprema Federale si trovò ad invalidare molte
delle leggi votate dal Congresso nel primo mandato di Roosvelt, poiché costituzionalmente illegittime. La
Corte Suprema apparve negare che il governo federale potesse assumere un ruolo attivo, insopportabile in un
contesto democratico. Tuttavia la maggioranza dei cittadini voleva che il Governo federale assumesse il
ruolo di regolatore dell’economia. Il conflitto tra la Corte e l’amministrazione democratica divenne il
problema dii chi deve governare, se il Presidente ed il Congresso eletti dal popolo e quindi suoi naturali
rappresentanti, oppure i nove vecchi giudici della corte suprema costituzionalmente collocati al di fuori del
circuito democratico. Vista la questione, non poteva che prevalere la ragione dei più.
Quando le elezioni del 1936 confermarono il sostegno maggioritario al programma del New Deal, Roosvelt
cercò di manipolare la composizione della Corte Suprema, ma questa attuò un rapido revirement
giurisprudenziale iniziando a considerare legittime leggi che poco prima avrebbe considerato
costituzionalmente blasfeme.
Nel 1937 era ormai chiaro che una costellazione di valori era crollata per sempre ed un’altra prendeva
stabilmente il suo posto; la pretesa dei langdelliani di estrarre regole giuridiche dai casi giurisprudenziali e di
considerarle alla stregua di verità immutabili non poteva sopravvivere in un simile clima di cambiamento
radicale; il tentativo di edificare mediante i Restatements una summa del diritto americano basato sul corretto
mappaggio di tutte le regole ed i principi di common law, era ridicolizzato come una fatica inutile dal
momento che non teneva conto della nuova regolamentazione di origine legislativa ed amministrativa.
Furono gli operatori pratici i primi ad accorgersi come i problemi giuridici che assillavano i loro clienti erano
quelli che nascevano dalla necessità di adeguarsi al quadro regolativo introdotto dalla legislazione che il New
Deal iniziò ad introdurre, con la conseguente necessità di confrontarsi con i funzionari delle diverse agenzie
di regolazione che erano state introdotte. Questi ultimi non parlavano il linguaggio tradizionale del common
law, ma quello dei fatti economici e sociali e della disciplina dettagliata dei conflitti. Anzi, l’ideologia
diffusa nell’amministrazione vedeva il sistema di common law come un sistema che rifletteva tutti gli
anacronismi, l’inefficienza e l’ingiustizia del laissez faire economico; proprietà e contratto vennero pensati
come strumenti atti ad isolare le posizioni private dal contratto sociale, da considerare quindi concetti
secondari. Al loro posto i seguaci del New Deal ponevano il diritto al lavoro, all’abitazione, all’educazione,
che potevano diventare effettivi solo grazie all’azione del governo federale.
Il risultato in termini di allargamento della sfera di competenza amministrativa del governo federale fu
straordinario: in pochi anni venne creata una vasta serie di nuove “agenzie”, la cui istituzione manifestava in
pieno l’allargamento della sfera d’azione economica del governo federale; l’ampliamento comportava anche
l’introduzione di controlli più accentuati sulle attività economiche e finanziarie dei privati. Il mutamento
principale risiedeva nel fatto che le “agenzie” riunivano in sé poteri tradizionalmente separati; agivano infatti
in base a leggi che fissano obiettivi di politica economica abbastanza generali e che delegano ad esse il
compito di emanare le norme di maggior dettaglio, e di regolare i ricorsi delle controversie con i soggetti
amministrativi. Rimaneva comunque aperta la possibilità di ricorrere ai giudici ordinari i quali, oltre al potere
di judical review delle leggi, hanno il potere di emanare ingiunzioni ed ordini ai pubblici ufficiali quando la
loro azione leda i diritti dei cittadini. In realtà i giudici americani mantennero un atteggiamento di rispetto
verso le soluzioni individuate dalle agenzie di regolazione; del resto non avevano gli strumenti necessari per
esercitare un controllo di merito su quanto quest’ultime facevano: le agenzie divennero quindi soggetti
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regolatori che intervengono a tutto campo e liberamente per incentivare certe condotte e disincentivarne
altre.
Sotto il profilo della formazione del giurista negli anni trenta del XX secolo vi fu lo smantellamento del
sistema educativo langdelliano e una ricerca di nuovi modelli teorici; sotto il profilo degli esiti operativi
generali, la regolazione delle attività economiche dette buoni frutti nel periodo bellico, ma nel periodo
successivo iniziò ad evidenziare errori ed efficienze di varia natura, sicché negli anni ‘70 del XX secolo
iniziò il periodo di reflusso indotto dalla presenza di controproposte di politica economica neoliberiste che
spingeranno verso strategie di deregolazione ed in ogni caso di controlli più attenti sull’operato delle
agenzie.
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politica americana che considera il proprio modello costituzionale come rivolto verso un ampliamento dei
diritti individuali.
Alle decisioni giudiziali fanno seguito ondate di legislazione sia federale che statale che tendono a rendere
effettivi i diritti proclamati nelle prime; infatti la legislazione antidiscriminatoria degli anni 60 del XX secolo
ha reso effettiva la decisione di principio del caso Brown. Del pari, il diritto ad un ambiente salubre dibattuto
nelle corti ha trovato parziale accoglimento nelle leggi ambientalistiche degli anni settanta del XX secolo.
All’inizio del XXI secolo il catalogo dei diritti personali di cui godono i cittadini americani è quindi
notevolmente ampliato e la tendenza a contrastare ogni forma di discriminazione è parte integrante il sistema
giuridico americano.
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federale dovrà applicare il diritto dello Stato al quale la questione è connessa, secondo criteri di selezione
della legge applicabile dettati dal diritto internazionale privato.
Il Judiciary Act del 1789 fissando la competenza delle corti federali prescrive che in caso di giurisdizione
federale basata su ragioni soggettive, siano applicabili “the Laws of the several States” (la parola Laws
indica sia il diritto legislativo che quello di creazione giurisprudenziale).
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assieme all’American Law Institute, mentre è fallito il tentativo di uniformare le leggi in tema di Real
Property.
L’Uniform Commercial Code (UCC) è in vigore in forma sostanzialmente identica in tutti gli Stati ed anche
nel distretto di Columbia; esso ha prodotto l’effetto di abrogare molte regole previgenti di origine legislativa
e di common law, semplificando di molto la conclusione di affari commerciali. Un esempio è quello delle
elaborate forme di garanzie mobiliari, che sono state rimpiazzate mediante la nozione unitaria di security
interest. Il successo dell’UCC e la sua tenuta è da ascrivere alla sua struttura ed al suo contenuto che sono da
intendere nel senso di un codice europeo continentale; inoltre è dotato di una elevata coerenza sistematica
interna. L’Uniform Commercial Code è strutturato in modo da seguire le varie fasi di una negoziazione
commerciale, seguendone lo svolgimento dalla fase di formazione del contratto a quella della costituzione ed
estinzione delle garanzie sulle merci, ai modi di consegna e pagamento. La sua sistematica procede per
nuclei di problemi connessi dalla loro pratica inerenza ad una medesima fase operativa, e questo tipo di
aggregazione si è dimostrata un esperimento felice consentendo di istituire nessi logici tra le diverse
disposizioni.
L’UCC varato nel 1952 ha frequente bisogno di modifiche per mantenere il passo con i tempi: l’American
Law Institute e la National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, provvede
tempestivamente a redigere nuove versioni dell’UCC (l’ultima è del 2012), ma il processo di adozione da
parte degli Stati non ha la stessa velocità, spesso non tutti gli Stati si sono dimostrati disposti ad accogliere le
stesse modifiche. Ecco che nel processo di ammodernamento del codice la frammentazione è stata sino a qui
notevole e nei vari Stati non è contemporaneamente in vigore la medesima versione dell’UCC. Con il
trascorrere del tempo sulle singole disposizioni del codice si sono formate interpretazioni divergenti da parte
delle corti dei singoli Stati.
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Quando la dottrina americana iniziò ad indagare con rigore il tema del precedente, la teoria dichiarativa ne
uscì screditata e si mise in evidenza che il problema dello stare decisis consiste nel trovare un punto di
equilibrio tra l’esigenza di ragionevole certezza del diritto e quella di assicurare lo sviluppo anche per via
giurisprudenziale. Tuttavia irrigidire il criterio del precedente vincolante equivaleva ad impedire al formante
giurisprudenziale si svilupparsi mediante la sostituzione di regole vecchie con regole nuove. Da qui il
problema di cosa fare quando i legislatori appaiono poco inclini ad introdurre nuove riforme, sicché l’assetto
legislativo diviene rapidamente obsoleto, rispetto all’evoluzione generale del sistema giuridico nazionale.
Questo ultimo aspetto è reso più evidente dal confronto tra i vari sistemi statali che è venuto ad emersione
soprattutto nel settore della law of torts, in cui il common law tradizionale si era dotato di una serie di regole
e principi che tendevano “a lasciare i danni dove cadono”.
Simili regole (come ad esempio la contributory negligence in base alla quale la vittima di un incidente non
poteva ottenere il risarcimento se aveva anche in piccola parte contribuito a causare il danno), si potevano
appoggiare ad una serie imponenti di precedenti giudiziari, ed il problema divenne di svincolarsene senza
mettere in crisi il criterio del precedente vincolante e la certezza del diritto giurisprudenziale. Il problema
venne in parte attenuato dagli interventi legislativi che introducevano riforme della law of torts specie nelle
aree in cui gli incidenti erano più frequenti, consentendo alle corti più attiviste di sviluppare un percorso
incrementale al termine del quale il precedente assetto del common law è risultato del tutto rovesciato.
Tuttavia la complessità degli intrecci tra diritto dei singoli Stati e tra diritto giurisprudenziale e diritto
legislativo, favorisce la dinamica del sistema giuridico americano che è guidato dal sentimento diffuso tra i
giudici ed i giuristi, che esso debba tendere ad essere complessivamente coerente, ossia debba tendere a
rendere effettivo il principio di eguaglianza su cui è fondata la Repubblica.
Per tornare all’esempio della low of torts, se il legislatore interviene per esentare i lavoratori dei trasporti
dalla tagliola della regola sulla contributoty negligence, sostituendola con la regola della “comparative
negligence” in base alla quale di deve avere riguardo alla misura del contributo causale di ciascuno, dopo
poco le corti tenderanno ad estendere questa soluzione anche alle vittime di incidenti che non siano
lavoratori dei trasporti; e se il legislatore di uno Stato ha anticipato la giurisprudenza, prevedendo che il
contributo causale della vittima non deve superare la misura del 50%, i giudici di quello Stato si troveranno
nella posizione di dover decidere se forzare l’interpretazione dello Statute diventato obsoleto, oppure forzare
il legislatore a farsi carico della riforma.
In simile contesto le corti americane hanno adottato tecniche innovative, la più nota va sotto il nome di
prospective overruling: tale tecnica consente di conciliare due esigenze opposte, ossia la giustizia del caso
singolo rispetto al quale la innovazione giurisprudenziale si pone sempre come una ex post facto law, e la
necessità di riformare una regola ritenuta ingiusta. Le esigenze sono contemperate ove la Corte riconosce
come più adeguata la regola nuova, ma applichi al caso da decidere la regola vecchia, in quanto la condotta è
stata posta in essere in un momento in cui le parti facevano legittimamente affidamento sulla sua esistenza.
Questa tecnica non riesce tuttavia a rendere completamente giustizia: la parte soccombente si sentirà dire che
la regola in base alla quale essa perde la causa è sbagliata e viene applicata per l’ultima volta proprio nel suo
caso, e da qual momento in poi i cittadini sono avvertiti che la Corte seguirà una regola più adeguata.
Altra tecnica di avvertimento consiste nell’esporre nelle opinions dei giudicanti motivi di critica e di
insoddisfazione verso la regola del precedente, che pure viene applicata. Mano a mano che si accumulano le
critiche, il pubblico è avvertito che la regola tradizionale sta per essere abbandonata.
Simili tecniche di annuncio appaiono più adeguate a preservare un certo grado di calcolabilità giuridica
rispetto a quella tradizionale, importata dall’Inghilterra, del distinguishing. Questa tecnica consiste nel
rilevare che il caso in esame presenta dissimilarità rispetto al caso deciso in precedenza, da cui discende che
la ragione del decidere precedentemente adottata non può applicarsi in presenza di circostanze diverse,
perché altrimenti si violerebbe il principio di eguaglianza che prescrive che debbano essere decisi in modo
eguali i casi analoghi, mentre i casi dissimili debbono essere decisi in modo differente.
Negli Stati Uniti tale tecnica va incontro a dei problemi: innanzitutto è da chiarire cosa si intende per ratio
decidendi, posto che la regola di diritto che risolve un caso della vita può essere formulata dal giudice
decidente a diversi libelli di generalità. Siccome però spetta al giudice successivo isolare la ratio decidendi
del precedente giudiziario, se quest’ultimo la intende come espressione di un principio giuridico, gli sarà
difficile operare un distinguisching; se invece la intende come regola adatta solo al caso deciso, il
distinguisching sarà facilissimo, sebbene si rischi di cadere nella tecnica del sotterfugio.
Negli ultimi lustri la problematica della individuazione della ratio decidenti e della sua distinzione rispetto ai
cosiddetti obiter dicta, è uscita dalle tematiche dibattute poiché è mutato il contenuto delle decisioni
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giudiziali, specie quelle di ultime istanza. Il mutamento si collega con l’ondata di legislazione ambientale e
consumeristica degli anni ’80 del secolo scorso, che ha dotato i cittadini di nuovi rimedi per farli valere. La
rivoluzione dei diritti ha prodotto una massa di litigations in cui si confrontano diritti individuali, o di
gruppo, incompatibili tra loro, ma entrambe meritevoli di tutela. Le corti si sono quindi trovate ad arbitrare
conflitti in cui nessuna delle due parti può prevalere completamente. La conseguenza è che le corti devono
mettere a punto criteri di bilanciamento tra interessi confliggenti alla luce delle svariate circostanze in cui il
medesimo conflitto si può presentare; le corti si trovano nella necessità di indicare criteri o standard di
giudizio anziché regole di diritto di tipo tradizionale, con la conseguenza che l’efficacia del precedente
vincolante si trasferisce sul tipo di test che una corte ha indicato come adatto a risolvere un problema di
bilanciamento.
In questa trasposizione delle regole di diritto giurisprudenziale in criteri di aggiudicazione, l’esperienza
giuridica americana è il modello di riferimento.
Per fare un esempio, capita spesso che nelle vertenze di torts l’attore debba dare la prova che una certa
sostanza, prodotta dal convenuto, gli abbia procurato dei danni alla salute. Nel processo civile americano non
si ricorre a consulenti tecnici, e l’onere della prova incombe sull’attore. La prova deve essere una “prova
scientifica”, questo significa che l’attore deve introdurre un testimone esperto munito delle necessarie
credenziali; ma per impedire che la “scienza spazzatura” entri nelle aule di giustizia ed influenzi le giurie, si
è fatto in passato ricorso al criterio per cui la tesi esposta dall’esperto debba essere stata accolta dalla
comunità scientifica di riferimento. Però, in tal modo, la vittima di una sostanza dannosa, non sarebbe
ammessa a dare la prova a lei richiesta, prima che sia formato un consenso ben percepibile nella comunità
scientifica; quindi si è proposto di liberalizzare le prove che l’attore debba fornire, onde evitare che le vittime
di nuovi trovati non potessero mai ottenere il risarcimento cui hanno diritto.
La Corte Suprema Federale ha indicato che perché una tesi possa essere qualificata come scientifica, e quindi
ammessa come prova quando è presentata da un testimone esperto, occorre che:
- sia formulata in modo tale che sia possibile saggiarne le controllabilità e la falsificabilità;
- si tratti di ipotesi oggetto di pubblicazioni scientifiche su riviste peer review;
- deve essere nota la percentuale di errore connessa con la tecnica di rilevamento dei dati impiegata;
- rileva anche la generale accettazione da parte delle comunità scientifica di riferimento.
Questo set di criteri di riconoscimento della qualità scientifica di una tesi non ha struttura sillogistica, perché
si tratta di standard di valutazione che debbono essere applicati con flessibilità dai giudici successivi.
In questo contesto il precedente giurisprudenziale diviene una fonte di linee giuda che continuano a vincolare
i giudici inferiori, ma dotati di flessibilità tale da consentirne un adattamento ai singoli casi concreti. Il
rispetto del precedente non è il risultato di una operazione meccanica, ma il risultato di un fine bilanciamento
tra opposte esigenze tra le quali il peso assegnato al valore della certezza baria da un settore all’altro.
Nell’esperienza americana il criterio dello stare decisis si pone come strumento di certezza del diritto nel
senso che esso evita che i giudici possano sorprendere i cittadini applicando regole nuove a condotte che
erano state programmate e poste in essere in base a regole in vigore in tale momento. La legislazione che si
esprime in riferimento a casi futuri può mutare la regola giurisprudenziale senza provocare sorprese; i giudici
sono pronti ad abbandonare un precedente se esso è contraddetto da nuove leggi (anzi, in molti casi sono essi
a sollecitare l’intervento riformatore del legislatore).
È da considerare però un problema, poiché quando si tratti di diritto giurisprudenziale formatosi per via di
interpretazione di uno Statue, il fattore cronologico acquista un rilievo non trascurabile, e nella tradizione di
common law il legislatore è alieno dall’emanare leggi di interpretazione autentica.
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nel panorama delle fonti. Tale proclamazione di principio è indipendente dall’abbondanza e dall’incisività
della legislazione.
Le tecniche interpretative si atteggiano in modo diverso in funzione del ruolo complessivo che la legislazione
ricopre all’interno dei rapporti tra formanti del sistema. Il secolo XIX non fu un periodo di particolare
attivismo legislativo, anche se verso la fine del secolo alcune leggi federali porsero problemi interpretativi; al
contrario, nel XX secolo si è assistito ad uno sviluppo quantitativamente impressionante della legislazione:
ciò ha imposto una revisione dell’atteggiamento di tradizionale trascuratezza verso il tema
dell’interpretazione dei testi legislativi, che era confinato al solo ambito del testo costituzionale che presenta
specificità sue proprie perché non contempla l’aspetto fondamentale che condiziona la tematica interpretativa
delle leggi e delle regulations.
Lo Stato interventista, che regola vasti aspetti della vita economica e sociale della nazione, richiede una
raccolta sistematica delle informazioni e la creazione di nuovi apparati pubblici: le leggi e i regolamenti sono
il frutto di questa raccolta sistematica. I giudici non sono attrezzati per la raccolta di informazioni perché
posseggono solo quelle che vengono loro fornite dalle parti; tanto meno possono creare nuove istituzioni e
provvedere al loro finanziamento. Si constata quindi che i compiti più impegnatici dello Stato moderno sono
al di là della portata del diritto creato dai giudici; inoltre non è da trascurare il cambiamento di mentalità che
ha condotto ad un atteggiamento più critico che sottolinea continuamente il bisogno di legal reforms. Questo
dà origine ad un procedimento a spirale, poiché una volta che un dato settore è stato oggetto di riforma per
via legislativa si manifesta un continuo bisogno di nuove leggi sia per correggere i difetti, o gli effetti inattesi
delle riforme precedenti, sia per continuare ad adattare le regole alle nuove situazioni. Ciò ha dato interesse
alle dottrine dell’interpretazione degli Statutes, che nasce dalla constatata impossibilità di mantenersi fedeli
ai canoni ermeneutici tradizionali.
Secondo il common law inglese, uno Statutes viene emanato dal Parlamento per correggere un difetto del
common law; per interpretare la legge basta quindi seguirne il testo letterale (plain meaning): se il testo
presenta margini di ambiguità, l’interprete deve identificare il difetto (mishief) del common law che si è
voluto correggere e ciò esaurisce la ricerca della ratio legis. Ciò implica che la norma legislativa è sempre
speciale e quindi si deve intendere in senso restrittivo e non è suscettibile di applicazione analogica.
Questo approccio può essere adatto ad un periodo in cui il legislatore legifera assai poco, e che riconosce
quindi implicitamente che il common law è quasi perfetto; lo stesso approccio non fa senso in un ambiente in
cui la legislazione è abbondante. Tuttavia elaborare una coerente teoria dell’interpretazione della legge non è
affatto agevole, infatti nelle esperienze di civil law non ne esiste solo una, ma molte in competizione tra loro.
Le ricerche più recenti hanno messo in luce alcuni tratti caratteristici dell’esperienza americana che si
possono riassumere nella duplice consapevolezza per cui nell’interpretare la legge si deve anzitutto avere
riguardo alle scelte di policy del legislatore; quando questo scopo non è intellegibile, o è tramontato dalle
scelte di politica del diritto posta in essere in un dato momento storico, si deve preferire la soluzione
ermeneutica che meglio armonizza il diritto creato dalle corti con quello creato dal legislatore. Questo
comporta il riconoscimento che l’interpretazione giudiziale è solo limitatamente una operazione logica
condotta sui segni linguistici che compongono il testo legislativo, ed è piuttosto guidata da considerazioni di
politica del diritto che comprendono anche la necessità di mantenere aperto un equilibrato dialogo
istituzionale tra le corti ed i legislatori.
In un sistema complesso ed articolato come quello americano l’esigenza principale è quella di mantenere una
generale armonia tra le regole provenienti dalle molteplici fonti di produzione; perciò nell’esperienza
americana i problemi ermeneutici si pongono quasi sempre come problemi di coordinamento tra testi
emanati da fonti diversificate, e come problemi che attengono non tanto all’analisi dei testi stessi, quanto alla
distribuzione delle competenze ed alla integrazione tra linguaggi. In realtà il problema ermeneutico si pone
dopo una serie di opzioni di carattere istituzionale esaurite le quali la soluzione preferibile si rende evidente
senza bisogno di analisi lessicali.
La dottrina accademica insiste affinché il procedimento ermeneutico sia integrato mediante l’inserimento di
un altro elemento che proviene dall’esperienza di common law, ossia il controllo sulla coerenza complessiva
delle regole operazionali con la costellazione dei principi fondamentai che reggono il sistema juris. La
dottrina accademica continua a criticare le sentenze che sono unprincipled, cioè prive di riferimento ad un
qualche principio di carattere etico rispetto al quale la regola operativa rappresenti uno sviluppo coerente.
Questa insistenza coinvolte le leggi e le regolazioni che sono dichiaratamente emanate per affrontare
problemi contingenti, la cui emersione è connessa con una specifica congiuntura delle circostanze
economiche e sociali.
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Questo spinge gli interpreti a farsi carico dell’aspetto temporale della vita e delle leggi o delle regolazioni, la
cui impostazione formale del tema le aveva sottratte.
Il common law ha sempre praticato l’arte di incorporare le regole sancite negli Statutes nel proprio seno
dando ai giudici la facoltà di interpretarle in modo autonomo rispetto alle intenzioni dei legislatori, che
diventano del tutto irrilevanti.
Rispetto alla interpretazione della legge ordinaria, sia statale che federale, l’interpretazione del testo
costituzionale presenta un panorama piuttosto diverso:
- si tratta di interpretazione su cui i giudici ed i giuristi americani si sono allenati da tempo;
- nel sistema americano il sindacato di costituzionalità delle leggi è diffuso e quindi si integra
perfettamente tra le funzioni assegnate alle corti;
- il rapporto politico istituzionale tra corti e costituenti si atteggia in modo assai diverso, perché coinvolge
il profilo della modificazione per via interpretativa del testo costituzionale, quando la costituzione stessa
prevede a tali fine un procedimento speciale e assai difficoltoso.
Si può dire che la costituzione federale ha costituito la fonte di un modello di interpretazione alternativo a
quello tradizionale di common law.
Ai fini del suo intendimento, il testo costituzionale viene normalmente assunto come un insieme di principi,
ciascuno dei quali ha la sua base in una espressione verbale che ricorre nel testo e che viene denominata
“clause”. Con l’andare del tempo su ognuna di queste singole clause si è stratificata una interpretazione
giurisprudenziale, che evolve nel tempo. Un esempio è l’interpretazione del XIV emendamento che
permetteva la segregazione razziale purché i cittadini delle diverse razze ricevessero un trattamento separato.
Il problema è dunque quello relativo ai criteri mediante i quali si può giustificare una determinata operazione
di estrazione del significato da una clausola della costituzione. Su ciò non vi è accordo tra i giuristi
americani, anzi nei tempi più recenti si sono aperte accanite controversie, tra le diverse scuole di pensiero:
una di queste predica che l’unico modo giustificabile di intendere la costituzione è quello di rifarsi alla
intenzione originaria dei costituenti, mentre sarebbe una usurpazione del potere costituente ogni aggiunta di
senso che vada al di là dell’“original understanding” dei segni linguistici che compongono il testo
costituzionale. Altri ritengono che sia perfettamente giustificata una interpretazione estensiva dei diritti
umani consacrati dalla Costituzione, poiché il testo costituzionale è da intendersi come un “living
document”, in cui ogni generazione può scrivere la propria pagina.
La Corte Suprema federale oscilla a seconda della sua composizione tra la tendenza più attivista nel campo
dei diritti umani, la quale l’ha condotta ad elaborare nuovi diritti della personalità, che non sono iscritti nel
testo ma ricollegabili all’alone di significato riconoscibile nel tessuto delle diverse clausole; ed una tendenza
più prudente.
Proprio le controversie del XX secolo hanno posto in risalto un dato, ossia che la giurisprudenza in materia
costituzionale è legata a procedimenti interpretativi che hanno la loro base in orientamenti in filosofia
politica di cui i singoli giudici sono portatori. Infatti, i giudici non si confrontano con i casi della vita che
possono essere risolti pragmaticamente, ma con operazioni argomentative generali su cui si riconnettono esiti
parimenti generali.
Questo stato delle cose è denominato come ideologia giudiziaria, ma tale etichetta può essere fuorviante
perché fa pensare ad ideologie puramente politiche. In realtà, se è vero che gli indirizzi ermeneutici possono
essere imparentati con scelte di pura policy, la judical philosophy dei giudici americani si coniuga con
visioni che attengono alla pura architettura delle istituzioni; dall’altro lato chi sostiene atteggiamenti più
attivi da parte delle corti non manca di sottolineare come esse non possano agire come agenti del libero
progresso democratico, ma debbano coordinarsi con le iniziative legislative in cui si esprime l’orientamento
della maggioranza degli elettori, oppure giustificarsi razionalmente in base alla dimostrata necessità di
mantenere aperti i canali della partecipazione politica.
Ciò indica che in tema di interpretazione i fattori di carattere logico ed istituzionale sono prevalenti su quelli
puramente ideologici. Del resto, in un sistema complesso ed articolato come quello americano è inevitabile
che i problemi interpretativi vengano affrontati e discussi in un’ottica di carattere istituzionale chiedendosi
sempre quale istituzione (parlamenti, corti, agenzie, “private arregements”), è meglio in grado di produrre le
migliori regole giuste. La cornica istituzionale entro cui si svolge la discussione teorico-pratica fa si che le
ragioni capaci di orientare le scelte interpretative siano improntate dal requisito della loro coerenza logica e
non dal solo appello a sentimenti morali, come avviene nelle competizioni elettorali.
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Le fonti di cognizione.
La tematica delle fonti di cognizioni del diritto americano è dominata dalla numerosità e complessità delle
fonti di produzione. Tale problema presenta due aspetti fondamentali: l’accessibilità dei dati giuridici, e la
sistemazione delle informazioni che possono essere tratti dai documenti una volta che siano consultati. Si
tratta di un problema di carattere operativo. Da sempre risposte negative sono considerate inaccettabili e si è
lavorato attorno ai modi con cui rendere agevole il reperimento dei dati giuridici su scala nazionale.
Trascurare questo aspetto avrebbe condotto a compartimentalizzare gli ambiti locali spezzando il tessuto
culturalmente unitario delle professioni legali. I problemi più acuti erano posti dal diritto giurisprudenziale
(precisamente dal common law degli Stati), posto che le leggi, federali e Statali, sono pubbliche, organizzate
in raccolte di non difficile reperimento, e che la giurisprudenza federale è da lungo tempo raccolta in appositi
repertori.
Gli strumenti posti in essere per rendere cognitivamente accessibile tutto il diritto applicato nei diversi Stati
sono stati di due tipi: la produzione di sintesi nazionali e la organizzazione di canali di informazione
accessibili ovunque.
L’esempio della soluzione del primo tipo è dato dalla istituzione del Restatement of American Law (1923);
l’esempio della soluzione del secondo tipo è dato dalla organizzazione del National Reporter System (1879).
• Il Restatement of American Law è una fonte di carattere normativo, munito di valore solo persuasivo. Il
suo impianto mirava a trasporre in regole formulate come in un testo legislativo gli orientamenti
prevalenti delle corti federali, soprattutto statali, rendendo superflua la ricerca del precedente specifico.
I benefici di una compilazione riassuntiva della casistica giurisprudenziale sono inversamente
proporzionali rispetto alla massa dei dati giurisprudenziali accessibili: più quest’ultima è grande e poco
accessibile, più una compilazione riassuntiva è utile.
• Il National Reporter System comprende, oltre alla giurisprudenza federale, la giurisprudenza delle corti
supreme dei diversi Stati e per alcuni, come New York e California, anche tutta la giurisprudenza delle
corti d’appello.
La pubblicazione del NRS è stata accompagnata da strumenti di appoggio e facilitazione delle ricerche
dei precedenti giurisprudenziali (come lo Shepard’s Citations, il West American Digest System),
tuttavia l’accumulazione dei dati giurisprudenziali ha gettato nel panico le professioni legali, cui veniva
richiesta una assai faticosa ricerca dei precedenti. Questo spiega il successo delle raccolte in forme
enciclopedica in cui la giurisprudenza venne sommarizzata e citata, senza essere riportata né per
massime né per esteso.
Il National Reporter System ha inciso profondamente sull’assetto delle fonti di cognizione del diritto
giurisprudenziale, ma il problema di fondo relativo al modo con cui rendere accessibili i dati
giurisprudenziali ha radicalmente mutato aspetto con il passaggio dall’editoria cartacea a quella elettronica, e
più in generale con la compiuta transizione da una informazione mediante documenti cartacei a documenti
elettronici accessibili online.
La struttura delle fonti di cognizione è infatti fortemente dipendente dal mezzo di comunicazione in uso; per
conseguenza, il passaggio dai mezzi cartacei a quelli elettronici immediatamente accessibili online, ha
comportato un cambiamento epocale da cui è sortito un modo completamente nuovo, nel contesto del quale il
problema della conoscibilità dei dati che ha condizionato la storia del sistema americano delle fonti di
cognizione, ha trovato una soluzione ed ha cessato quasi di esistere come problema: i dati giuridici generati
dalle fonti di produzione sono accessibili da ogni dove, anche da luoghi esterni agli Stati Uniti.
Ciò tuttavia non dipende da una riduzione dei documenti o da una loro compattazione mediante la riduzione
in riassunti o massime, poiché quelli che vengono raccolti in forma digitale sono i documenti giuridici
originali e completi (full text); piuttosto è stato il radicale mutamento del mezzo di accesso che ha consentito
di rendere fruibile una impressionante mole di informazioni giuridiche. Se fosse rimasto su un supporto
cartaceo, il NRS, che ha raggiunto la dimensione di oltre 10.000 volumi, sarebbe una fonte di cognizione
inconsultabile.
Oggi il problema è solo quello di trovare il modo di automatizzare la ricerca dei dati sfruttando le elevate
capacità di calcolo raggiunti dagli attuali computers: vi sono vari modelli tecnici di Legal information
retrieval e ciascuna delle maggiori banche dati (Westlaw, LexisNexis Findlaw), utilizza un proprio algoritmo
e lo perfeziona costantemente. Ciò che interessa le professioni legali è la possibilità, inserendo le stringhe
linguistiche appropriate, di trovare tutti i documenti rilevanti (recall rate), e di ridurre la percentuale di
documenti irrilevanti che la banca dati produce (precision rate).
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La frontiera del tema delle fonti di cognizione si è spostata su un altro versante connesso alle tecniche
informatiche, ovvero su quello del trattamento automatico della documentazione raccolta ai fini della loro
utilizzazione nella costruzione di un argomento giuridico. Questo comporta il ricorso ad algoritmi che
tengano conto della gerarchia delle fonti, della efficacia nel tempo del valore giuridico dei loro prodotti, della
misura della influenza che questi ultimi hanno ottenuto, delle polisemie del lessico giuridico, dei diversi
obiettivi che gli autori della ricerca si possono prefiggere.
In questo contesto, i sistemi c.d. Booleani, in cui la ricerca viene condotta mediante stringhe di parole e la
banca dati consultata restituisce tutti i documenti in cui appaiono gli stessi segni linguistici, appaiono
superati perché generano troppi documenti irrilevanti, e non consentono di accedere a documenti in cui lo
stesso concetto giuridico è espresso mediante mediante parole diverse. I sistemi più attuali fanno uso
dell’esperienza che si sta accumulando nel campo della Intelligenza Artificiale e della scienza cognitiva. I
progressi sono rapidi e l’evoluzione è in corso, mentre si è dato vita ad una nuova branca delle discipline
giuridiche, dotata di una propria letteratura e di propri canali di diffusione delle idee.
Rimane che una certa famigliarità con le strutture del sistema giuridico ed i suoi linguaggi è prerequisito
indispensabile per poter condurre ricerche significative.
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è del tutto tramontata, e la scuola di pensiero dominante nella parte centrale del XX secolo, chiamata del
Legal Process, è ispirata alla impostazione dei c.d. realisti. Si tratta di scuole di pensiero che si caratterizzano
per il loro orientamento metodologico, e non stupisce che l’accademia americana abbia espresso svariati
orientamenti di metodo che si siano anche ibridati tra loro.
Oltre a queste scuole, altre scuole di pensiero hanno influenzato l’insegnamento e la produzione di
accedemica; tra queste la principale prende il nome di “law and…”, intendendo con ciò designare i numerosi
tentativi di integrare lo studio del diritto con gli apporti di altre scienze sociali: la “law and sociology” dava
una descrizione ed una spiegazione dei fenomeni istituzionale grazie all’apporto degli studi sociologici,
connettendo lo studio del sistema giuridico con lo studio della società. Questo sottintende la operazione di
metodo per cui non si può regolare una società senza conoscerla e che quindi le regole giuridiche debbono
essere ritagliate sui bisogni che la società esprime in un dato momento storico e non calate dall’alto per
scelta di un legislatore o di un giudice per quanto illuminato possa essere.
Impostazioni simili si ritrovano nel movimento di “law and economics”: per capire meglio questo
movimento occorre sottolineare un aspetto del pensiero giuridico americano contemporaneo che lo
differenzia da quello europeo, ossia che quest’ultimo è dominato da impostazioni positivistiche che hanno
confinato il ruolo del giurista dotto, e quindi della dottrina accademica, nel riportare a coerenza l’insieme
delle norme vigenti, ponendosi in una prospettiva in cui il diritto viene calato dall’alto e non hanno rilevanza
né le evoluzioni dei gruppi sociali, né gli assetti che la società civile si dà nelle proprie varie articolazioni.
Nell’esperienza americana il ruolo del giurista dotto è sempre stato quello di razionalizzare e rendere
coerente il guazzabuglio di norme costituzionali e legali sia federali che statuali con i precedenti delle corti,
tenendo conto delle regolazioni pubbliche come del “private ordering”.
Detto questo diviene più comprensibile che l’apporto delle altre scienze sociali alla indispensabile opera di
coordinamento svolta dalla dottrina accademica è consistito nell’offrire ai giuristi dotti gli strumenti
concettuali grazie ai quali analizzare le relazioni e le interrelazioni sociali che il diritto deve ordinare. Si
tratta di strumenti di tipo conoscitivo di cui la tradizione giuridica occidentale difetta.
L’apporto fornito dalle analisi della corrente di economic analysis of law, diffusasi negli Stati Uniti a partire
dagli anni sessanta del XX secolo, si sono rivelati i più importanti.
È opportuno però distinguere tra diversi approcci: alcuni muovono dagli assunti chiaramente utilitaristici,
quindi dai paradigmi teorici tipici della economia neoclassica che immaginano un comportamento
razionalmente massimizzatore dei soggetti regolati, per calcolare gli effetti delle regole vigenti e prescriverne
la riforma al fine di ottimizzare l’uso delle risorse complessivamente disponibili (in questo orientamento cii
si avvale di paradigmi economici a fini nettamente normativi).
Altri approcci, pur accogliendo i paradigmi delle teorie economiche, non muovono dai postulati astratti della
microeconomia e riconoscono che l’esperienza giuridica congloba in sé una conoscenza empirica collaudata,
più vicina alle realtà umane così come esse sono, evitando con ciò di scambiare per razionale ciò che è solo
astratto. Questo tipo di approccio che integra le conoscenze delle discipline economiche con quelle
giuridiche non rinuncia a fornire dimostrazioni rigorose.
Nelle sue varie accezioni, la scuola di pensiero che ha integrato le analisi giuridiche con gli studi economici
ha introdotto nelle ricerche giuridiche un importante incremento, fornendo al giurista la possibilità di
prevedere entro certi limiti gli esiti fattuali dell’adozione di regole giuridiche, pertanto non stupisce che
abbia suscitato vasto interesse in tutto il mondo. Qualche progresso in materia si è registrato e ciò ha
condotto a rafforzare la tendenza che si riscontra in tutte le esperienze giuridiche contemporanee, ad elevare
il criterio dello scopo pratico da raggiungere a principio direttivo eminente nella interpretazione e
applicazione delle regole giuridiche.
Accanto alle scuole di pensiero principali, il terreno fertile delle università americane produce continuamente
nuovi indirizzi di ricerca, alcuni abbandonano l’ambizione di perseguire visioni generali, per sposare
interessi apertamente settoriali.
Il dato di fondo che ancora tiene insieme queste tendenze frammentarie è la comune adesione all’idea che se
è tramontata l’illusione nella neutrale impersonalità delle regole giuridiche, tuttavia continua a sussistere un
terreno comune di confronto e di dialogo critico tra le diverse tendenze sul quale ciascuna può misurare la
propria forza intellettuale. Le tendenze più esposte sul fronte dell’avanguardia culturale e scientifica sono
tenute a freno dalla comune coscienza che lo scopo principale delle Law School rimane quello di preparare
avvocati e, eventualmente, giudici.
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Le professioni legali.
Negli Stati Uniti la professione legale è unitaria. Per ottenere la qualifica di lawyer (avvocato), che consente
il patrocinio avanti le corti, è necessario passare un esame che si svolge secondo modalità piuttosto uniformi,
regolato dalle leggi di ciascuno Stato. Il Bar Examination Test tuttavia è solo il momento conclusivo di una
carriera scolastica, infatti, per esservi ammessi occorre aver precedentemente ottenuto un law degree da una
delle law school approvate dalla American Bar Association. Ad esse si accede mediante il Law School
Admission Test il cui risultato determina l’ammissione ai corsi di ciascuna law school che sono in genere
triennali, anche se alcune offrono programmi accelerati.
Le Law School più accreditate devono offrire al primo anno un curriculum che comprende corsi in: Civil
procedure, Constitutional law, Contracts, Criminal law, Property, Torts, Legal Research e Legal Writing. Il
numero delle Law School accreditate è assai elevato ed oscilla il numero di 200. Le Law School sono
valutate da vari organismi che propongono una loro graduatoria: le prime posizioni (10 o 14) tendono a
rimanere sostanzialmente costanti ed assicurano ai laureati una carriera successiva onorevole. Chi esce da
una Law School di elites normalmente si apre al mercato dei servizi legali nazionale, mentre chi esce da una
Law School meno accreditata si rivolge al mercato locale.
I costi per le iscrizioni ad una Law School specie di elites sono assai elevati; molti studenti per poterli
affrontare ricorrono al mercato di credito, assai disponibile ad offrire prestiti rimborsabili ratealmente dopo
aver terminato gli studi.
La tradizione americana non ha mai conosciuto le distinzioni corporative che hanno caratterizzato la
professione forense in Inghilterra, perciò la figura dell’avvocato è l’unica e le differenziazioni lessicali sono
irrilevanti.
Tuttavia nella professione legale esistono fortissime differenziazioni. Nella seconda decade del XXI secolo il
numero degli avvocati americani ha superato il milione, ed è difficile trovare qualcosa in comune tra chi
eserciti da solo in un piccolo centro di provincia di uno Stato poco popoloso, e colui che faccia parte di un
grande studio associativo attivo nei centri di New York, Chicago, Washington D.C. e Los Angeles. Altra
notevole differenziazione intercorre tra avvocati specializzati e generalisti: oltre ad una generale
differenziazione tra i trial lawyers che compaiono avanti le corti e le giurie, e gli avvocati che offrono servizi
legali non necessariamente connessi con la rappresentanza in giudizio, è da registrare che le elites
professionali hanno seguito una traiettoria di specializzazione assai spinta, da cui discente la necessità di
aggregarsi in grandi studi associati per poter offrire alla clientela una assistenza a 360 gradi. Il punto è che
fuori dai processi civili e penali, gli interlocutori degli avvocati americani sono spesso a loro volta assai
specializzati, pertanto il dialogo con essi richiede competenze anche di natura tecnica assai pronunciate.
Da rimarcare è inoltre, che specie negli studi associati (law firms), le attività della professione forense hanno
assunto una impronta imprenditoriale: sono le imprese che offrono servizi legali su un mercato competitivo.
Il sistema americano tende a rendere tale mercato sempre più aperto alla libera competizione tra imprese.
L’originalità delle soluzioni pratiche offerte è altamente apprezzata, essendo origine di fortune economiche
invidiabili ed invidiate. La molla che spinge gli avvocati americani verso certi comportamenti piuttosto che
altri è ovviamente la ricerca del successo professionale.
Date queste differenziazioni è da sottolineare che il tono della professione legale è dato dai grandi studi
cittadini. In un contesto altamente competitivo è ormai del tutto tramontata nel panorama americano la figura
dell’avvocato “uomo di cultura” nel senso umanistico del termine; nelle università la tendenza alla
scientificizzazione dei discorsi giuridici hanno emarginato gli insegnamenti di tipo tradizionalmente
culturale; nella professione il gusto per le buone letture di stampo classico è stata soppiantata
dall’apprendimento delle tecniche comunicative moderne, le quali sono autentiche succedanee dell’ars
retorica veicolata dalla lettura dei classici del pensiero occidentale.
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Il contesto storico.
L’esperienza di civil law nacque non dal potere politico e dalle sue strutture di governo, ma dalle lacune di
queste strutture ed indipendentemente da ogni potere politico. Il fiorire del sistema di civil law che si verifica
nel XII e XIII secolo, non è dovuto in alcun modo all’affermazione d’un potere politico, né alla
centralizzazione operata da un’autorità sovrana; esso si afferma in un’epoca in cui gli sforzi del papato o
dell’impero non riusciranno mai a ricostruire, sul piano politico, l’unità dell’Impero romano. Il sistema è
nato ed è esistito indipendentemente da ogni mira politica.
Mentre la radice dell’esperienza di common law si colloca nelle prassi di corti centrali di giustizia istituite da
un potere sovrano, la radice dell’esperienza di civil law si colloca in dati e fenomeni storici più incerti, ossia
nella metamorfosi di un insegnamento accademico che diviene ordinamento. Occorre ora spiegare come tale
metamorfosi sia potuta avvenire.
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Il primo sviluppo della scienza del diritto era un fenomeno paradossale poiché i protagonisti erano tutti
personaggi privati, essendo soltanto professori di università da essi stessi istituite; erano soggetti privi di ogni
legittimazione a jus dicere.
Il sostanziale problema era quindi quello della legittimazione a proclamare un diritto destinato all’osservanza
da parte dei consociati, quando coloro che lo proclamavano non erano rivestiti di alcuna autorità al riguardo.
Irnerio acquisì autorevolezza perché riuscì a persuadere i suoi ascoltatori di poter illuminare una materia
oscura per mezzo della forza del suo intelletto; questo indica che il mezzo adottato per superare l’handicap di
legittimazione fu l’appello all’autorità della scienza. In questo senso la scienza del diritto si segnala come un
fattore di demarcazione sistemologico rispetto alla parallela esperienza di common law e come un formante
di lunga durata all’interno della tradizione giuridica europeo-continentale.
Inserirsi nella struttura elastica/inesistente delle fonti del diritto medievali fu relativamente facile; le
condizioni furono tre:
1. in primo luogo la pluralità delle fonti del diritto era un dato ormai accettato, inoltre la formazione dei
regni romano barbarici aveva condotto a concepire i diritti separati per i popoli germanici e per le
popolazioni già stanziate nei territori dell’impero romano. La legge era personale, ciascuna etnia
stanziata nel territorio continua a vivere secondo la sua legge;
2. il secondo fattore che ha favorito la nascita di una scentia juris fu la afasia legislativa dei sovrani
altomedievali, interrotta dai sovrani, visigoti in Spagna e Longobardi in alta Italia, che concepiscono
il loro potere come una sovranità territoriale che abbraccia tutti i popoli in essa ricompresa;
3. il terzo fattore fu la diffusione dell’idea dell’universalità della giustizia e della connessione tra diritto
e giustizia. Se la legge è giusta è difficile spiegare come può variare tra una popolazione e l’altra
della res pubblica cristianorum, poiché una sola è la nozione di giustizia che la regge.
Ad ogni modo inserirsi stabilmente tra i formanti della tradizione di civil law è stato un risultato strepitoso.
Sino all’illuminismo ed alla rivoluzione francese in tutto il mondo europeo si concepiva in modo assai
elastico la struttura delle fonti e si attribuiva grande autorità alla cultura in generale.
Ma quali sono state le strategie seguite per concretizzare le possibilità offerte dal contesto storico in cui
nacque la scientia juris? Il prestigio della dottrina giuridica oggi è assicurato dal suo radicamento nelle
università ove si concentra e si riflette il prestigio generale dell’alta cultura e del progresso scientifico;
soprattutto assume il monopolio della formazione professionale dei giuristi. Inizialmente però questi
vantaggi erano insussistenti. La scienza giuridica europea è stata la figlia primogenita del razionalismo
europeo, quella che ha introdotto in tutte le altre scienze il suo spirito sistematizzatore e legistico, che ha
introdotto anche le scienze della natura. Il suo prestigio iniziale quindi non può farsi risalire al suo
presentarsi in collegamento con l’istruzione superiore. Essenziale fu il lavoro di ricostruzione filologica e
sistematica compiuto su un testo, ossia l’attività dei glossatori e commentatori.
Il giurista in effetti rinasce in Europa continentale come interprete dotto di un testo prestigioso: interprete
perché il suo jus dicere non è un trovare le regole secondo saggezza ed esperienza, ma partendo da un testo
cui viene attribuita una auctoritas sua propria; dotto perché la tecnica dell’interpretatio è scandita dagli
strumenti intellettuali di origine logica mutati dalla cultura filosofica medievale, che si è allenata all’analisi
del Testo, ossia le Sacre Scritture. Il problema era che mentre le Sacre Scritture contengono il verbo di Dio e
quindi la loro autorità era assolutamente indiscutibile, il testo del Corpus Juris giustinianeo doveva essere
accreditato come fonte autoritativa e legittima. Non è da credersi che il diritto romano fosse legittimato dal
suo porsi come diritto imperiale e quindi come naturale candidato al ruolo di diritto positivo nel contesto di
un impero romano-germanico. Questo modo di intendere le cose è una concezione dei moderni, nelle cui
menti è radicato il mito per cui il diritto proviene dallo Stato da metterlo precocemente all’opera; in realtà, in
senso moderno, mancava persino lo Stato. In effetti l’imperatore medievale non ha assolutamente alcun
merito nella rinascita del diritto; questo diritto glielo regalano i giuristi di Bologna.
I giuristi bolognesi riscoprendo l’utilità del Corpus Juris interpretarono in modo geniale il desiderio
medievale di una renovatio, ossia l’aspirazione a ripartire dall’esperienza romana verso nuovi orizzonti.
L’idea era una trasformazione di un testo originariamente solo, venerabile in una fonte di un diritto
legittimamente posto: la trasformazione richiedeva che il diritto romano fosse anzitutto fruibile e
promettente. La prima operazione cui provvidero i giuristi medievali fu attuata mediante una interpretatio
libera che consentì di attualizzare l’esposizione dottrinale contenuta nel testo giustinianeo; questo fece si che
i giuristi trassero prestigio dal fatto di riferirsi al Corpus Juris e reinvestirono tale prestigio accreditando il
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testo di qualità che non aveva. Infine i giuristi medievali osarono attribuire all’ispirazione divina il diritto
contenuto nei testi giustinianei: questo abilitava i suoi interpreti a ricoprire un ruolo quasi sacerdotale.
L’interpretatio come momento di sutura tra autorità e ragione, e tra logica ed aequitas.
Gli interpreti medievali erano però ben consci che l’origine divina del Corpus Juris fosse sostanzialmente
una finzione: essi non divennero adoratori della parola ma meri esegeti. La base della loro legittimazione era
sapienziale e non positiva, la loro ammirata venerazione verso il Corpus Juris era rivolta non alle singole
frasi ma all’insieme. Questo accadeva perché il Corpus Juris racchiudeva tutto il diritto romano, un diritto
ricco ed articolato, quantitativamente in grado di soddisfare i bisogni di una società anche molto più
sviluppata e complessa di quella medievale; il testo del Corpus racchiude tutto il diritto civile di cui una
qualsiasi collettività possa avere bisogno: è un ordinamento tendenzialmente completo.
A differenza del common law, incompleto poiché costituito da rimedi eccezionali, il diritto colto dell’Europa
continentale nacque invece come un sistema già esaustivo. La presenza di un edificio già costruito e
completo fu un dato costante dell’esperienza di civil law.
Come l’interprete è immerso nel circolo ermeneutico in cui ogni parte deve essere intesa in relazione al tutto
ed il tutto deve essere intero in relazione alle sue parti, il giurista ponendosi come l’interprete di un sistema il
quale si presenta come completo deve anzitutto organizzare la sua visione in forma sistematica.
Commentando ed analizzando le varie parti del testo, con particolare predilezione per il Digesto, si mise in
luce che esso si poteva comporre in un sistema, cioè in un modello di ordine. Questo ordine racchiudeva un
insieme di regole altamente articolate che potevano quindi appagare il bisogno di complessità allora
avvertito. Il modello di ordine ricavato dal Corpus Juris non era nemmeno la riproduzione del sistema del
diritto romano, che per quanto impregnato di logica medievale, si collocava in una dimensione tipicamente
universale: si proponeva come un sistema valido per ogni luogo.
Tuttavia i bisogni concreti rimanevano e sollecitavano il giurista a farsene carico; la propensione della
scientia juris ad incarnarsi in momenti pratici significa essenzialmente la sua propensione a farsi carico dei
problemi concreti. L’interpretazione del testo giustinianeo non poteva quindi essere letterale.
I giuristi medievali non furono sicuramente romanisti, non solo non cercarono di individuare la vera regola di
diritto romano, classico o giustinianeo ma, al contrario, si accaparrarono grande libertà verso il testo, ed
attribuirono alle loro interpretazioni una autorità non inferiore a quella del testo originario. Da ciò il
problema della legittimazione rispetto ad un jus dictum svincolato dal testo ed in questo caso la matrice della
soluzione escogitata a riguardo ricalcò quella precedente, ma con qualche valenza diversificata: lo strumento
ermeneutico (glossae, summae, definitiones, distinctiones, questiones) era tratto di peso dalla cultura
medievale e si accreditava come opera di scoperta scientifica.
L’uomo medievale concepiva sé stesso come “viaggiatore” verso una dimensione eterna in cui è
effettivamente presente Dio e la verità finale, ed era quindi disposto ad accettare la scienza come tramite per
il raggiungimento della verità; la scienza del diritto poté quindi conquistare stabilmente un ruolo di formante
dell’ordinamento, in quanto radicò sé stessa in una sfera sapienziale di alta cultura.
Da questo deriva la radicale ambivalenza della scientia juris che si presenta inizialmente come una strada atta
al raggiungimento della verità, ma che nel percorrere detta strada non può evitare di perseguire la soluzione
di problemi della vita secondo una valutazione di carattere etico.
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di fatto sussumendole sotto norme con sentenze aventi una struttura ipotetica, appartiene per sua natura al
procedimento proprio della conoscenza teorica e non già al comportamento tipico del giudice. La decisione
giuridica è infatti applicazione del diritto e non la sua creazione o la sua invenzione.
Per quanto concerne invece la distinzione tra metodologia proclamata e tecnica ricostruttiva applicata, si
deve partire dalla asserzione secondo la quale nessuna disciplina come la scientia juris europea abbia cos’
affannosamente interrogato se stessa ed i propri metodi con l’assilio costante della propria scientificità.
L’interrogarsi attorno alla scienza ed al proprio essere scienza è divenuto un tema dominante nelle riflessioni
epistemologiche della giurisprudenza europea. Tuttavia nessuna delle rivoluzioni metodologiche è nata sulla
spinta di bisogni interni alla tecnica giuridica. Si è trattato piuttosto della necessità di non perdere i contatti
con l’evoluzione della cultura in generale e quindi di importare all’interno delle tecniche giuridiche le
rivoluzioni epistemologiche attuate in altri settori del sapere, onde far si che la giurisprudenza potesse
sempre presentarsi in possesso di un bagaglio sapienziale aggiornato.
La letteratura giuridica inglese appare immune da problemi di metodo ed anche i mutamenti di paradigma
avvengono in forme velate, perché non si è avvertito il bisogno di mantenere aperte le comunicazioni con le
altre scienze e le altre manifestazioni dell’altra cultura, ma quello opposto di mantenere i legami con una
consuetudine ed una tradizione esclusivamente giuridica. In Europa continentale il bisogno di legittimarsi
come scienza teoretica volta alla conoscenza del diritto è ciò che spiega la costante imitazione in seno alla
giurisprudenza europea dei modelli epistemologici già accreditati altrove: nell’interpretatio del testo
giustinianeo i Glossatori imitarono le tecniche filologiche collaudate nell’esegesi biblica; i giuristi culti del
Cinquecento muteranno queste tecniche alla luce di quelle, filologicamente più corrette, adottate in campo
letterario dagli Umanisti; ancora, la diffusione del pensiero razionalistico in filosofia (opere di Cartesio), si
tradurrà in un nuovo modo di intendere la costruzione del giuridico; la demolizione Kantiana dei postulati
del Giusnaturalismo ebbe immediato riscontro nella rivoluzione metodologica di cui si fece banditore von
Savigny, la cui scuola storica mantenne lo studio della giurisprudenza dentro le linee di riferimento fornite
dalla grande filosofia tedesca del suo tempo. Ancora oggi è da osservare il modo pressoché naturale con cui
la dottrina tedesca dell’Ottocento scivolò dal vigoroso positivismo scientifico della prima metà, al
positivismo legislativo della seconda metà, che, quanto a metodo di costruzione giuridica era il suo esatto
opposto, ma presentava il vantaggio di riprodurre nel timbro e nel registro di analisi il metodo delle scienze
naturali allora catapultate al vertice del prestigio culturale.
In breve, la scienza del diritto europea si è quasi sempre dotata di un modello scientifico esterno ad essa e su
tale registro ha adeguato i propri metodo e stili di indagine.
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gli aspetti spirituali della condotta umana, e quindi verso le sue radici psicologiche: si apprezzò il
giuridicamente rilevante, con conseguente valorizzazione di elementi quali la volontà psicologica, la buona
fede, l’errore innocente, la colpa. Sempre sul piano dei contenuti, la ricercata consonanza con i precetti etici
della teologia morale si tradusse in una serie di regole e principi di universale applicazione, poiché si
riteneva che contraddirli significasse rinnegare la morale cristiana (un esempio è la secolare lotta conto le
usure).
L’apporto maggiore del diritto canonico si ebbe però nella struttura del processo. In questo settore i
professori del diritto comune entravano di mala voglia, probabilmente ben consapevoli del fatto che
intromettersi in materia di giurisdizione avrebbe significato scontrarsi con i detentori del potere politico,
mettendo a nudo la loro scarsa legittimazione; la Chiesa invece non aveva le stesse esitazioni. La grande
battaglia per la legalità del processo fu combattuta dalla Chiesa in prima persona (un esempio è la lotta
contro le ordalie): il diritto canonico adottò uno schema rigido di procedimento costruito su un rigoroso
meccanismo logico e basato sugli atti scritti in modo da rendere possibile un controllo successivo, in sede di
appello, da parte di persone lontanissime dai luoghi del litigio. Il procedimento era disciplinato in forme
prefissate secondo una meccanica rigorosa, in cui si stabilivano “termini” per il passaggio da una fase a
quella successiva; si prevedeva ogni possibile questione, pregiudiziale, preliminare, probatoria, ecc, prima di
passare alla fase successiva. La gran parte delle categorie processuali di civil law (appello, litispendenza,
competenza, atto notorio, revocazione della sentenza) trova la sua radice in questo tipo di processo, il quale è
molto diverso da quello romano classico e anche da quello del common law. Quest’ultimo è un processo
costruito sull’assunto che bisogna nutrire fiducia nella ragionevolezza e nella imparzialità dei giudici. Il
processo romano-canonico prevedeva che la procedura doveva sostanziarsi in atti scritti ed il giudizio
verteva su quanto risultava dagli atti del processo, con esclusione di qualsiasi altra fonte.
Questo tipo di processo, in cui si trovano fuse la passione logico-razionale della scientia juris medievale ed il
pessimismo della Chiesa, divenne il processo romano-canonico comune in Europa continentale, veicolo e
tramite della diffusione dello jus commune.
Carattere unitario del jus commune e della scientia juris europea nei secoli XIV-XVIII.
In che modo il jus comune fu unitario, o meglio in che modo contribuì ad una sintesi unitaria del materiale
giuridico che si era formato nelle varie zone di Europa?
Nonostante le diversità di metodo e di stile che colorivano della propria tonalità le diverse aree culturali, il
diritto romano comune, così come veniva insegnato e trasformato nelle università e nei tribunali, rimase una
tradizione culturale transnazionale e sostanzialmente unitaria. Accanto a questa tradizione culturale,
continuarono ad esistere isole, anche assai estese, di diritto puramente locale disuniforme, come, ad esempio,
accadde nel caso dei diritti territoriali tedeschi, nelle coutumes francesi e nei diritti consuetudinari dei
cantoni svizzeri. Queste isole di diritto positivo locale erano tali non tanto perché venivano considerare come
diritti eccezionali, ma perché al loro interno le grandi categorie ordinanti il diritto comune operarono una
metamorfosi delle idee originarie mediante una rete di concetti classificatori in cui le visioni popolari e
consuetudinarie smarrirono la propria compattezza di significato. Uno dei veicoli di questo lavorio di
trasformazione derivò dal ricorso nei testi e documenti scritti della lingua latina, nella quale le terminologie
giuridiche locali si origine germanistica, veniva tradotte. Questo ha generato una serie di fraintendimenti,
frutto di una ibridazione, ossia dell’insinuarsi grazie alle parole latine delle categorie romanistiche
corrispondenti nel tessuto di regole ed istituti che ad esse erano estranei. La traduzione dei termini “Gewere”
e “saisine” con la parola possessio è un buon esempio di questo processo di metamorfosi indiretta dei diritti
locali.
Solo il diritto romano sembrava degno di uno sforzo di chiarificazione e di sistemazione scientifica; gli altri
diritti positivi erano tutt’al più oggetto di esposizioni, raccolte, senza che si potesse formare una letteratura
giuridica dotata della sufficiente massa critica.
Le tassonomie tecniche mediante le quali la scientia juris organizzava se stessa divennero categorie
universali all’interno dello spazio culturale europeo continentale. Tuttavia si deve ricordare come sino alla
rivoluzione industriale la maggior parte della popolazione europea sia rimasta immersa nella civiltà rurale,
queste comunità si autoamministravano secondo regole, istituzioni e procedure che sfuggivano al controllo
del diritto colto e dal controllo statale. Esse emergevano come soggetti della vita e dell’organizzazione del
diritto in occasioni eccezionali, come ad esempio per liti tra comunità o contrapposizione tra comunità ed
istituzioni, ma l’organizzazione politica non entrava nella loro vita quotidiana; la rivoluzione industriale
porrà poco a poco fine a queste civiltà rurali.
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La tradizione della scientia iuris crebbe come tradizione culturale cittadine e delle élites, le quali
comunicavano tra loro e sentivano l’esigenza di mantenere vivi i contatti intellettuali proprio perché si
sentivano partecipi di una civiltà comune contrapposta all’altra che le circondava nelle loro isole cittadine.
Il Giusnaturalismo.
Nei secoli XVII e XVIII accanto alla scientia juris si collocò un’altra corrente culturale che riuscì ad
abbracciare tutta l’Europa esercitando una profonda influenza anche in Inghilterra e, successivamente, negli
Stati Uniti.
In questo periodo infatti la Seconda Scolastica prima, e la Scuola del diritto naturale poi, fornirono un
movimento ideale cosmopolita che si interessò essenzialmente del fondamento etico delle regole giuridiche. I
fattori di questi movimenti furono vari e occorre richiamare l’attenzione su due in particolare di essi: in
primo luogo occorre sottolineare che l’autorità del Corpus Juris era destinata a scemare con il trascorrere del
tempo. L’accumularsi dei prodotti di una interpretazione del testo giustinianeo così libera come quella dei
giuristi medievali e moderni non poteva non contribuire a corrodere l’autorevolezza del testo originario. A
questo fenomeno di corrosione si aggiungeva l’influenza di altre traiettorie culturali. Il rinascimento aveva
consentito di mettere meglio a fuoco le basi teoriche dello Stato moderno e sebbene sul piano operazionale
queste basi teoriche fossero assai lontane dal trovare salda realizzazione in strutture politiche vigenti, tuttavia
era facile intuire come tra i corollari delle teorie politiche di Machiavelli, Jean Bodin e di Hobbes vi fosse
quello per cui l’autorità di fondare i diritti ed i doveri dei cittadini non potesse essere riconosciuta ad un
antico imperatore romano d’oriente vissuto in tempo ormai remoti, ma alla volontà di sovrani attuali, ovvero
ad entità politiche che fossero nella pienezza dell’esercizio dei loro poteri. Per sfuggire agli inevitabili
corollari di questa concezione era necessario rifondare la categoria universale della giustizia sulla base di
un’etica comune anziché sulla base di una autorità comunemente riconosciuta. La teoria diffusa in Francia
per cui il diritto romano vi veniva ammesso imperio rationis e non ratione imperii, ossia per la sua razionalità
intrinseca e non in quanto espressione dell’autorità riconoscibile al diritto dell’Impero romano, conteneva già
il suggerimento essenziale.
Il merito di avere dimostrato come ciò fosse possibile va riconosciuto alla Seconda Scolastica che fiorì in
Spagna nel XVI secolo, annoverando una serie di teologi-giuristi. La ricerca da essi condotta portò a
riorganizzare il materiale romanistico in funzione delle categorie aristoteliche della giustizia.
Il repertorio fornito dagli autori della Seconda Scolastica fornì la base per ulteriori sviluppi. Questi si ebbero
con la Scuola del diritto naturale, che gli anglosassoni dominano come “secular”, ossia laica, per distinguerla
dalle altre scuole di pensiero, e che in altri contesti culturali europei si è usi denominare Giusrazionalismo.
Il secondo dato su cui giova richiamare l’attenzione è fornito dalle vicende storiche dell’Europa continentale.
Il XVII secolo fu in Europa un secolo di lotte scaturite dall’aspro confronto tra riforma protestante e
controriforma cattolica. In questo contesto se si voleva mantenere aperto il dialogo con entrambe le fazioni in
lotta, non era più possibile appellarsi ad un’etica cristiana comune per fondare le ragioni del diritto, dato che,
era proprio la scissione circa il modo di intendere la morale cristiana la causa dei conflitti endemici e delle
guerre brutali quanto di lunghissima durata (guerra di 30 anni). In un periodo ferrigno dominato da guerre
pestilenze e superstizioni, se si voleva preservare uno spazio per i diritti e le regole occorreva fondare la
religione su una morale non legata alla teologia. Questa fondazione fu il merito di Ugo Grozio (1583-1645),
il quale scelse di ancorare le regole di diritto al riconoscimento della razionalità intrinseca negli esseri umani.
In tal modo operò una saldatura tra la visione umanistica che aveva posto l’uomo al centro della vita sociale
ed il razionalismo gnoseologico (gnoseologia: teoria della conoscenza) comune all’atteggiamento scientifico
di Galileo ed all’intelletto sistematizzatore di Cartesio.
Elaborando il suo sistema di regole valide tra gli uomini e le nazioni sia in tempo di guerra che in tempo di
pace, Grozio poté scrivere che quanto da lui dimostrato sarebbe rimasto valido anche se si fosse asserita
l’inesistenza di Dio. Il sistema da lui elaborato era un diritto di ragione laicamente autosufficiente; la
peculiarità del movimento risiede nella sua emancipazione dalla teologia morale e dal suo porsi come
deificatore di un’etica sociale autonoma della visione religiosa, fondata invece su una analisi sostanzialmente
antropologica della condizione dell’uomo occidentale.
L’opera maggiore di Grozio (De juri belli ac pacis, 1625) fu dedicata ad esplorare le regole che dovevano
applicarsi nei conflitti di interessi tra nazioni, sicché Grozio è divenuto il padre del diritto internazionale
moderno. La sua impostazione si prestava ad essere utilizzata anche per chiarire come avrebbe dovuto essere
un sistema giuridico rispettoso dei postulati della giustizia naturale. L’interesse principale degli autori della
Scuola del diritto naturale rimase confinato ai fondamenti primi del loro discorso, ossia ai postulati
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principali; secondo Grozio il punto di partenza essenziale deve essere rintracciato nel dato per cui l’uomo è
naturalmente portato ad organizzare i propri rapporti sociali. È questo che lo spinge ad uscire dallo stato di
natura per entrare in rapporti civili. L’appetitus societatis distingue l’uomo dalle altre creature ed è quindi ciò
che caratterizza la sua natura.
Il problema di fondo verso il quale le energie intellettuali della scuola vennero indirizzate rimase il rapporto
tra diritto naturale e diritto positivo vigente. Ciò che mirava a scoprire l’analisi dei Giusrazionalisti erano le
ragioni fondamentali dell’esistenza delle regole e degli istituti giuridici vigenti.
La Scuola del diritto naturale reintrodusse tra i temi ed i problemi del dibattito politico e filosofico le eterne
domande attorno al che cos’è una società giusta ed al tipo di sistema giuridico che deve vigervi. Con questo
il diritto tornò ad essere pensato nel contesto della filosofia morale. In questo senso il Giusrazionalismo
contribuì a riorientare la coscienza europea.
La Scuola del diritto naturale diffuse l’idea dell’esistenza di un discorso razionalmente riconoscibile e
razionalmente valutabile in ogni condotta socialmente rilavante, sicché implicitamente, la ricerca andava
accumulando strumenti logici mediante i quali regole ed istituti di diritto positivo potevano essere
razionalmente criticati e squalificati avanti il tribunale della ragione.
Grozio fu incline ad intessere i suoi argomenti appoggiandosi alle idee teologiche ed umanistiche
generalmente accettate al suo tempo, le generazioni successive furono invece attratte dal metodo geometrico
inaugurato da Hobbes, più incline all’uso dell’argomento esclusivamente logico-deduttivo. Tale metodo
partiva da postulati assai diversi da quelli di Grozio, tanto che è spesso considerato come uno dei fondatori
intellettuali del positivismo giuridico e non come un membro della scuola del diritto naturale.
I sistemi del diritto razionale elaborati dai Giusrazionalisti sconvolsero l’architettura del sistema di
riferimento sino ad allora usato dai giuristi tecnici in quanto i punti di partenza erano quanto mai difformi.
Sino a Grozio i giuristi si erano trovati a loro agio seguendo la sistematica delle Istitutiones giustinianee,
tuttavia questa naturalità “non autentica” non poteva coincidere con il sistema del diritto naturale pensato
come geometrico. Quest’ultimo muoveva da alcuni postulati primi e da essi traeva mediante un processo di
pura deduzione logica le regole conseguenti. Solo ad un livello di maggiore dettaglio i sistemi del diritto
naturale reincontravano e reinserivano nel loro contesto le regole e le categorie di origine romanistica
elaborate dalle diverse scuole. L’esposizione sistematica delle regole del diritto non era più solo un problema
collegato alla leggibilità del sistema giuridico inteso come un insieme tendenzialmente coerente; era invero
qualcosa di più, ossia la garanzia della legittimità razionale della regola stessa.
La sistematica giusrazionalista ed il suo carattere innovativo rispetto a quella romanistica tradizionale,
offrirono un modello di rilevanza capitale al successivo movimento per la codificazione del diritto. Inoltre,
affascinò le menti riformatrici il fatto che l’impianto sistematico dei Giusrazionalisti fosse percepibile come
sviluppo logicamente coerente di princìpi assiologici (valori morali) collocati sul terreno della filosofia
morale e della teoria politica. Poiché tali principi erano comprensibili anche a coloro che non fossero tecnici
del diritto, si creò l’impressione che dominando tali principi fosse possibile svolgerli coerentemente sino a
governare le più minute fattispecie del diritto civile scavalcando di colpo tutta la casistica su cui insistevano
tanto le prassi discorsive pratiche dei giuristi.
Vero è che l’insegnamento dei Giusrazionalisti non si presentava per nulla compatto, poiché i postulati
assunti in partenza si prestavano ad essere svolti in varie direzioni. Rilevante è che attraverso le inevitabili
dispute suscitate da svolgimenti assai divergenti, venne reintrodotto sul terreno del diritto e della legalità il
pensiero critico emarginato e quasi cancellato dallo svolgimento della tradizione tecnico-giuridica in forme
sempre più autoritative.
Al di là di questo è da sottolineare come, sotto il profilo istituzionale, il pensiero giusrazionalista contribuì
potentemente ad elevare il sentimento del diritto soggettivo da componente dello spirito signorile a centro
della costruzione dogmatica della scientia juris, nonché a centro della scala dei valori in cui si riconosce la
civiltà giuridica europea. Il modello fornito dalla Scuola del diritto naturale ebbe enorme rilevanza. In realtà
la sistematica giusnaturalista influì in modo determinante sul modo di pensare il diritto in tutta la tradizione
giuridica occidentale. In generale la configurazione di molti istituti cardinali del diritto civile venne
profondamente alterata dagli insegnamenti giusnaturalistici.
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Le codificazioni illuministiche.
Non tutti i sovrani accolsero l’invito, altri, ad esempio in area tedesca sovrani energici come Federico II in
Prussia e Maria Teresa nei dominii austriaci si misero risolutamente sulla via di complete riforme
progettando codificazioni di diritto civile. In altri Paesi la maggior complessità dell’articolazione sociale
distolse invece i sovrani da un simile compito.
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Laddove ci si accinse a realizzare il programma di fare leggi del tutto nuove che concernessero anche i
rapporti molecolari tra individui, ci si avvide che i programmi filosofici non erano sufficientemente
dettagliati e si fu costretti ad attingere dall’insieme di sapienza giuridica del foro ed alle regole locali, e al
riguardo ciascuno fece quello che poteva pervenendo ad adottare soluzioni compromissorie le quali avevano
l’unico scopo di superare gli ostacoli che si frappongono casualmente al varo della codificazione.
Le prime codificazioni offrirono l’esempio di codici diversissimi tra loro sia nelle strutture, che nello stile
linguistico, che nelle soluzioni giuridiche capitali. Queste codificazioni sotto il profilo del loro contenuto
tecnico giuridico risultarono il punto di incontro tra la volontà politica riformatrice e le categorie ordinanti, i
presupposti concettuali della scientia juris europea, senza la cui conoscenza sono del tutto illeggibili; essi
agirono selettivamente e stabilirono un proprio lessico nazionale e, mentre livellarono le differenze
all’interno di ciascun paese, cancellando tutti i localismi, istituirono una novità assoluta per l’Europa, ossia
un linguaggio giuridico nazionale. Ciascuno edificò il proprio sistema adottandolo alle necessità specifiche
del paese e questi sistema-paesi divennero i diritti nazionali.
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La nobiltà di toga riuscì a sfuggire al controllo del sovrano, sino a contrapporsi vivacemente ad esso; essa
nacque come corpo di funzionari ai quali doveva essere demandato l’applicazione del diritto secondo quei
canoni di logica ermeneutica che avrebbero dovuto impedire agli interpreti di manifestare una volontà
politica loro propria, lasciando così che la sfera di discrezionalità politica fosse dominata dalla sola volontà
del sovrano. I giuristi quindi vennero arruolati al servizio dello Stato seguendo coerentemente con un
disegno di accentramento del potere statuale e facendo assegnamento sulle promesse della scientia juris di
riuscire ad individuare un percorso di deduzione dei precetti concreti alle norme astratte secondo pura logica
deduttiva, assicurando l’esatta corrispondenza dei primi alle seconde.
È da ricordare anche come la medesima politica accentratrice introdusse i sovrani francesi ad assumere
l’iniziativa della codificazione delle coutumes.
Per quanto concerneva il diritto civile comune il regno di Francia si trovava diviso in due grandi aree, in una,
geograficamente coincidente con la zona posta a nord tra Ginevra e Bordeaux, vigevano consuetudini locali
di origine germanica, nell’altra, geograficamente posta a sud, era riconosciuto come diritto vigente il diritto
romano comune, in quanto erede del diritto promulgato nella Lex romana Wisigothorum e della Lex romana
Burgundiorum.
La presenza delle coutumes si collegava all’idea tipicamente medievale per cui ciascuno aveva diritto a
vivere secondo la propria legge; tale idea venne incrinata dall’Ordonnance di Montil-lez-Tours del 1454 con
cui Carlo VII dichiarava si voler procedere alla redazione scritta delle coutumes locali degli usi e egli stili
processuali vigenti. Redigere per iscritto le consuetudini significava qualcosa di più di una semplice attività
di accertamento ricognitivo, perché l’iniziativa regia manifestava l’idea che spettasse al sovrano controllare
le fonti del diritto, ed eventualmente introdurvi le precisazioni e le modifiche ritenute necessarie prima di
promulgarle in forma di decreto. Il risultato del processo di redazione delle coutumes fu quello di favorire
l’unificazione dei paesi di diritto consuetudinario e non già quello di contribuire ad un rafforzamento del
potere centrale. Si venne così formando la coscienza dell’esistenza di un droit commun coutumier da opporre
al diritto romano comune, di cui i parlamenti divennero custodi.
Per quanto concerne la struttura delle fonti, il sistema francese dei secoli XVII e XVIII si avvicinò in modo
significativo al sistema inglese. Con l’avvento al trono della casa Borbone, il potere regio mutò strategia.
Enrico IV e il suo ministro Sully affidarono le sorti dell’accentramento monarchico ad un corpo di funzionari
regi, i quali, a differenza dei giuristi parlamentari, non venivano in genere nobilitati, e non acquistavano la
proprietà della propria carica. I funzionari di nuovo tipo non solo potevano essere quindi licenziati in ogni
momento dal loro superiore gerarchico, ma, compiuto il loro servizio, andavano in pensione. Con questo
nuovo personale gli uffici erano strutturati in forma di piramide gerarchica con un vertice rappresentato da
un ministro sempre responsabile delle attività del suo dicastero di fronte al sovrano, ed una base di funzionari
addetti a funzioni particellari in seno agli uffici centrali, sia distaccati nelle provincie e posti in continua
corrispondenza con il vertice dal quale ricevevano istruzioni ed al quale fornivano informazioni circa la
situazione locale. Il periodo del Re Sole (Luigi XIV) fu l’apogeo di questa nuova politica regia, che trovò
esplicazione anche nel campo della legislazione. Le Ordonnances di Louis XIV riformarono la procedura
civile (Ordonnance sul la procédure civile, 1667-1669), la disciplina dei commerci (Ordonnance du
commerce, 1673), e riordinarono la materia della navigazione marittima (Ordonnance de la marine, 1681). Il
cancelliere D’Augusseau curò poi altre ordinanze nelle quali si istituì in forma legislativa la disciplina delle
donazioni (1731), dei testamenti (1735) e delle sostituzioni fedecommissorie (1747).
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La Rivoluzione francese è stata uno degli accadimenti più complessi della storia moderna. Richiamiamo
l’attenzione su alcuni fattori: in primo luogo la radicalità impressa alle riforme del movimento rivoluzionario
contribuì efficacemente a dotare il modello francese di una compattezza difficilmente attingibile altrimenti;
in secondo luogo la Rivoluzione francese si presentò come movimento politico di rifondazione dello Stato
sulla base di valori universali: l’uguaglianza formale di tutti avanti alla legge si dovette alla Rivoluzione.
Questo radicarsi del valore dell’uguaglianza ha immediate ricadute a livello di visione costituzionale, in
quanto si traduce nel primato della legge tutte le volte che entrano in gioco i diritti fondamentali (art. 4
Déclaration). In terzo luogo i valori universali racchiusi nella Déclaration des droits de l’homme et du
citoyen, approvata dall’assemblea costituente del regno di Francia il 26 agosto 1789, dovettero convivere con
una visione delle strutture del politico profondamente condizionate dalle esperienze pregresse: nella
Déclaration non si trova una lista di tutte le istituzioni di cui ha bisogno il cittadino di uno Stato liberal-
democratico; piuttosto essa pone in forma accentuatamente didascalica i fondamenti di un nuovo modo di
concepire lo Stato e la cittadinanza.
Rimasero insoluti, o meglio aperti a varie soluzioni, i problemi capitali che concernono il problema della
tutela e, poi, della effettività dei diritti fondamentali che la stessa Déclaration des droits formula in modo
schiettamente individuale.
Il nuovo ordine.
Il nuovo ordine muoveva da una visione del duplice rapporto tra governanti e governati e tra governati tra
loro. nella Francia del tempo, si dovette ripensare al rapporto tra Stato e società civile ed i rapporti interni
alla società civile.
Sotto il primo aspetto, ci si era resi conto come lo strumento più efficace per modernizzare l’amministrazione
della cosa pubblica ed unificare le strutture amministrative del paese non ricalcasse affatto la via della
legalità del diritto comune affidata alla custodia dei giuristi. Questa via si era palesata alla lunga come
fallimentare. Lo strumento più efficace si era dimostrato invece l’apparato burocratico centralizzato,
vincolato a procedere secondo modelli di azione prestabili dal vertice, dotato verso l’esterno di una vasta
discrezionalità, grazie alla quale poteva reagire con prontezza e flessibilità alle diverse circostanze.
Fu la giurisprudenza del Conseil d’État (poiché nessun governo ci pensò), a creare le figure giuridiche adatte
a limitare la discrezionalità dell’amministrazione riportandola in pieno nel solco del principio di legalità.
Tuttavia il baratro tra diritto comune e diritto amministrativo pubblico fu incolmabile. Il risultato operativo
era che si abbandonava un vasto settore di diritto, quello amministrativo, ad una legalità attenuata in nome
dell’efficienza.
In riferimento ai rapporti interni alla società civile ci si orientò non solo verso criteri di legalità, ma si volle
essere del tutto coerenti, secondo la richiesta che proveniva dal terzo stato. L’idea della sovranità della
nazione comportava che le fonti della legalità dovessero essere riordinate, riconducendole alla legge, in
quanto solo quest’ultima è lo strumento di espressione della volontà della nazione. Il diritto comune, le
consuetudini, le fonti dottrinali e giurisprudenziali, gli statuti locali, dovevano essere aboliti in quanto
incompatibili con il nuovo ordine costituzionale (Loi 30 ventoso anno XII: insieme delle leggi con cui furono
emanate le diverse parti del Code Civil). La drastica semplificazione del sistema delle fonti era funzionale
anche al progetto di ridisegnare in forme più semplici i diritti di cui godevano i cittadini per muoversi
secondo le regole del gioco.
La codificazione.
Il nuovo ordine esigeva di essere completato mediante una legislazione sostanziale. Sin dalla prima fase della
rivoluzione perciò fu progettata l’emanazione di un codice civile: sarebbe stato fatto un codice delle leggi
civili “simples, claires, … et communes à tout le royaume”. L’impresa si manifestò molto ardua, tuttavia un
codice penale fu redatto alla svelta e promulgato nello stesso anno 1791, ma il primo progetto della apposita
commissione incaricata di redigere un codice civile (con a capo il presidente Cambacérés), fu presentato solo
nel 1793. Il progetto era così povero da ricomprendere il diritto civile francese in soli 719 articoli, che la
Convenzione ritenne che non fosse abbastanza filosofico e troppo vicino alle complicazioni care ai causidici.
Il 3 novembre venne quindi incaricata una nuova commissione con a capo sempre Cambacérés, che il 17
novembre presentò il lavoro, che riduceva il codice civile a soli 297 articoli. La Convenzione discusse il
progetto ma svogliatamente, perché si rese conto che quel codice non era altro che il piano per un codice e
non un codice vero e proprio, con la conseguenza che in tal modo lo spazio lasciato alla giurisprudenza era
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immenso. Cambacérés si rimise al lavoro e presentò al Consiglio dei Cinquecento un progetto di 1104
articoli, ma anche questo non venne mai discusso.
Toccò a Napoleone Bonaparte, primo console, riprendere nell’agosto del 1800 la questione incaricando della
redazione del codice civile una commissione composta da soli quattro giuristi, stabilendo altresì una
procedura rigida per il suo esame da parte del Consiglio di Stato ed il Tribunato e poi avanti al Corpo
Legislativo. Nel giro di tre anni il progetto venne discusso ed approvato il 21 marzo 1804.
La struttura del Code civil si componeva di tre libri, che seguono da vicino lo schema delle Istituzioni
giustinianee: il primo libro è dedicato alle Persone e contiene la disciplina delle capacità, dello stato civile,
del domicilio e dell’assenza, nonché la materia del diritto di famiglia; il secondo libro è dedicato ai beni ed
alla proprietà e contiene la disciplina dei diritti reali; il terzo libro è intitolato “alle differenti maniere per
acquistare la proprietà” e contiene il diritto delle obbligazioni e dei contratti, delle garanzie e della
responsabilità patrimoniale.
Quanto al contenuto il diritto di famiglia viene regolato secondo valori laico-patriarcali: viene mantenuto il
matrimonio civile, ma il governo della famiglia è affidato al padre-marito, mentre la posizione della donna
viene assoggettata ad una stretta sorveglianza e gravata da incapacità che la rivoluzione aveva superato.
Anche la posizione dei figli nati fuori dal matrimonio fu resa deteriore. Nel campo delle successioni le
barriere tradizionali del maggiorascato (primo genito unico erede) vennero infrante a favore di un rigido
rispetto del criterio di eguaglianza tra figli legittimi. Nel campo della proprietà e dei diritti reali, dalle riforme
della proprietà agraria derivarono il paradigma della proprietà individuale e compatta, tuttavia il modello
codicistico escludeva nel modo più rigiro la capacità conformativa dell’autonomia privata (questo avrebbe
potuto reintrodurre la proprietà stratificata tipica del modello feudale).
Le difficoltà tecniche che provenivano dalla materia delle obbligazioni e dei contratti furono superate
assumendo come giuda le opere di Domat e di Pothier.
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La norma del diritto di civil law si pone nel mezzo tra la decisione della lite, considerata come
un’applicazione pratica della norma, e i principi, dotati di una maggiore generalità, di cui la norma stessa può
essere considerata come un’applicazione. L’abilità del giurista consiste nel saper formulare la norma al
livello adatto: non è opportuno che la norma sia troppo generale, perché allora cesserebbe di essere una guida
sufficientemente sicura per la pratica; bisogna invece che essa sia generale quanto occorre per indicare un
certo tipo di situazione, senza però essere applicabile soltanto ad un caso particolare, come avviene della
decisione del giudice.
Da considerare è anche come il Code civil fu l’esempio più evidente di monolinguismo legislativo. Le fonti
che vennero abrogate e sostituite del testo del codice risentivano ancora in parte delle sfumature dei diversi
linguaggi presenti in Francia. Il codice fu redatto nella lingua francese dell’epoca; il significato del
monolinguismo legislativo consiste nel supporre istituita una unica lingua nazionale che costituisce il codice
linguistico comune tra il legislatore sovrano ed il cittadino, si che quest’ultimo abbia il dovere di capire la
parola del primo.
In omaggio al principio di stretta legalità nei rapporti civili, i codificatori napoleonici hanno evitato di
ricorrere a clausole generali come il principio di buona fede (eccetto l’articolo 1382): il divieto di abuso del
diritto e di atti emulativi non trovano alcun posto nel codice, il quale anzi, in tema di rapporti di vicinato,
ricorre al criterio, preciso e geometrico delle distanze legali, proprio per evitare di ricorrere a disposizioni
elastiche. Del pari, dopo aver stabilito che les conventions légalement formées tiennent lieu à ceux qui les on
faites (art. 1134), il codice non fa alcuno spazio all’equità sostanziale; rifiuta la teoria del iustum pretium
(giusto prezzo) che era stata elaborata nel diritto comune soprattutto per influenze canonistiche. Anche le
regole in tema di laesio enormis (recessione accordo) furono ridotte in ambiti minimali. In generale fino alla
riforma del 2016 il Code servì a consacrare il principio della force obbligatoire du contract ed a tal fine anche
l’interpretazione dei documenti contrattuali fu relegata ai quattro angoli del testo, secondo una espressione
inglese che in Francia non venne utilizzata ma ampiamente praticata.
L’École de l’Exegèse.
I commentatori del codice si mostrarono più estremisti dei redattori dello stesso: mentre questi ultimi
avevano ammesso che il codice non può regolare ogni cosa e deve quindi necessariamente lasciare un certo
spazio ai giureconsulti ed ai giudici, i primi amavano partire dall’idea della completezza del testo per non
lasciare dubbi circa la loro fedeltà alla equazione tra legge dello Stato e diritto. Il giurista assunse quindi la
veste del giurista positivo, ossia di colui che a differenza di altri studiosi di cose giuridiche si interessa
unicamente del jus positum, inteso come l’insieme delle regole scritte nel codice. Questo ha condizionato gli
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sviluppi della dottrina francese, la quale ha praticato metodologie diverse da quelle proclamate: nel
commento ed interpretazione del codice furono recuperati e messi all’opera strumenti concettuali derivanti
dalla tradizione del precedente in cui si erano fuse tra loto i diversi approcci metodologici.
Intesi come gruppo i commentatori del Code civil vengono normalmente designati mediante l’appellativo di
Ecole de l’exégèse. Nella vicenda storica di questa scuola si è soliti distinguere tra diversi periodi: un primo
periodo formativo, coincidente con i primi tre decenni del XIX secolo, in cui furono poste le basi dello stile e
del metodo poi comunemente seguito; un periodo intermedio dal 1830 al 1860, che vide la piena fioritura e
lo sviluppo della scuola; un periodo finale che si colloca verso la fine del secolo XIX, contrassegnato da
significativi mutamenti di orizzonte.
Il primo periodo, che si colloca a ridosso dell’emanazione del Code civil, è caratterizzato da opere
sostanzialmente di diritto transitorio nel senso che accompagnarono le spiegazioni delle nuove regole
attingendo alla tradizione tecnico giuridica precedente. Si distinsero due opere di genere enciclopedico: il
Répertoire universel et raisonné de jurisprudence de Merlin, ed il Répertoire de la nouvelle législation civile,
commerciale et administrative de Favard de Langlade. Accanto a queste due opere intrise della casistica
giuridica dell’ancien régime, giocarono un ruolo fondamentale le collezioni dei lavori preparatori curate da
Locré, da Fenet e da Maleville. Il commento articolo per articolo aveva la funzione di facilitare la ricerca su
ogni problema riferibile al codice civile. La familiarità con le partizioni del codice e le sue categorie
ordinandi, consentiva di utilizzare i commentari usando il codice come una sorta di indice. Una volta
individuata la norma rilevante, i volumi di quelle opere ponderose si aprivano quasi da soli sul tavolo
dell’operatore desideroso di approfondire una data questione, semplificando di molto il lavoro di ricerca e
generando l’impressione di una soddisfacente certezza e semplicità del sistema. In questo modo venivano
sciolti in modo chiaro e preciso i principali dubbi, senza ricorrere a teorizzazioni culturalmente elevate.
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eccome, ma anche che esso parlava il linguaggio della scienza del diritto e perciò per comprenderne il
significato non vi era altra alternativa all’infuori di quella di affidarsi agli studiosi. Il ruolo della dottrina ne
risultò corroborato in modo evidente.
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le quali si comprende il diritto. Questa apertura ai problemi rinnovò gli interessi per gli aspetti del metodo,
ossia quel tipo di operazioni concettuali che i giuristi pongono in essere per affrontare i problemi operativi.
Ogni pubblica controversia sul metodo è evidentemente fatale al metodo esegetici, perché le sue equazioni
tra diritto-legge-Stato si reggono sulle finzioni della completezza della legge e della immediata intelligibilità
del dettato normativo; finzioni che si reggono solo se per convenienza pratica sono tutti concordi
nell’accettarle, senza discuterne i fondamenti.
È merito di François Gény rinverdire appieno la discussione metodologica: esso fornì in due vaste opere
(Méthode d’interprétation et source en droit privé positif, 1899; Science et Thecnique en droit privé positif-
Nouvelle contribution à la critique de la méthode juridique, 1914 e 1924) una visione consapevole ed
informata delle possibilità ermeneutiche che si offrono al giurista di fronte al testo, ma insistette sempre sul
fatto che il giurista deve rimanere un interprete del diritto positivo e nessuno più nettamente di lui rivendicò
il primato della legge su ogni altro formante.
Sotto il profilo del metodo le critiche di Gény hanno seppellito in modo definitivo il metodo esegetico che
esso non riuscì più a risollevarsi a livello di dignitosa prospettazione metolodologica anche se continuò ad
essere applicato. Tutti i dottrinari francesi premettono di essere seguaci della Ecole scientifique di cui
riconoscono Gény come capostipite, riconoscono la non assimilabilità del diritto alla legge.
Gény aveva predicato le aperture dell’interprete ai risultati costruttivi derivanti dalla “libera ricerca
scientifica” indicando come tale l’insieme dei criteri obiettivi che consentivano di attingere elementi della
costruzione giuridica della natura delle cose.
La dottrina successiva non ha in realtà utilizzato troppo accuratamente i suggerimenti scientifici di Gény, ha
invece elaborato con intelligenza una serie di “teorie” giuridiche settoriali:
- la teoria dell’abuso del diritto formulata da Josserand (De l’abus de droit, 1905; De l’esprit des droits et
de leur relativité, 1927);
- la teoria istituzionalistica formulata da Hauriou (Précis de droit administratif et de droit public, 1910);
- la teoria della finzione della persona giuridica (Cours de drout civil positif français, 1930);
- la teoria della funzionalizzazione dei diritti soggettivi formulata da Deguit (Les transformations
générales du droit privé depuis le Code Napoléon, 1912);
- la teoria personalistica dei diritti reali formulata di Roguin e Michas (La règle de droit. Etude de science
juridique pure, 1889; Le droit réel considéré comme une obligation passive universelle, 1900);
- la teoria del matrimonio putativo formulata da Planiol (Traité Elémentaire de droit civil, 1904);
- la théorie de l’imprevision di Voirin (De l’imprévision dans les rapports de droit privé, 1922);
- altre teorie che intendevano riassumere la cifra della responsabilità civile in formule come:
“responsabilità per rischio”, oppure: “assurance oblige”.
Tutte queste teorie non erano altro che categorie concettuali mediante le quali si tende a raccordare tra loro
fenomeni e regole giuridiche apparentemente disparate riconducendole ad un principio comune che a sua
volta è dotato di capacità generativa. Tuttavia la forza della mentalità legalista era troppo forte per
consegnare un ruolo effettivamente trainante alla dottrina giuridica; meglio spendibile era assegnare tale
ruolo alla giurisprudenza della cassazione che si esprimeva mediante sentenze che sembrano testi legislativi
o regolamentari.
La tesi di Gény per cui accanto al primato della legge di possono riconoscere altre fonti secondarie, a
cominciare dalla giurisprudenza, è quella cui ha arriso il maggior successo pratico. Alla giurisprudenza fu
affidato il compito di mantenere aggiornato ordinamento formalmente basato su codici invecchiati di oltre un
secolo. Il riconoscimento della giurisprudenza come formante essenziale del sistema non indusse però i
giudici francesi a mutare lo stile lapidario delle loro motivazioni, tanto concise da risultare spesso
incomprensibili.
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supremo e non è accettabile che l’azione del parlamento attuale sia vincolata ad opera di un parlamento
precedente).
Con la Costituzione del 1958 si è assistito ad un mutamento di prospettiva addebitabile alla volontà del
costituente di imbrigliare il regime partitico-parlamentare, perciò disponendo che la legislazione approvata
dal parlamento potesse intervenire solo in alcune materie di notevole rilievo civile e politico, mentre la
introduzione nel sistema di gran parte delle regole giuridiche fosse riservata ai regolamenti approvati dal
governo in carica. Era quindi necessario prevedere un organo che potesse imporre al parlamento il rispetto
della Costituzione in materia di ripartizione della competenza normativa, evitando che l’organo normalmente
deputato ad esprimere la volontà nazionale invadesse il campo della normativa regolamentare. L’organo fu
individuato nel Conseil constitutionnel, che agisce da filtro bloccando l’adozione di leggi contrarie alla
costituzione prima che vengano promulgate. Dal 2010 il Conseil constitutionnel può essere adito, per rinvio
della Corte di cassazione o del Consiglio di Stato, per controllare che una legge non porti pregiudizio ai
diritti ed alle libertà garantiti dalla Costituzione. Svolge quindi anche attività di sindacato di costituzionalità
sulle leggi in vigore le quali sono dichiarate nulle se in contrasto con la Costituzione, che a tali fini
comprende anche la Déclaration del 1789 ed il preambolo alla Costituzione del 1946. Il Conseil
constitutionnel è competente anche in altre materie (es. giudice nel contenzioso elettorale), è composta da
nove membri di cui tre sono scelti dal presidente della repubblica, tre dal presidente del senato e tre da quello
della camera dei deputati; ne fanno anche parte di diritto gli ex presidenti della repubblica.
Una caratteristica del sistema francese delle fonti consiste nella separazione tra la normativa affidata alla
legge votata dal parlamento e la normativa regolamentare affidata al governo:
• art. 34 Cost.: il settore della legislazione riguarda un numero definito di materie tra le quali i diritti
civili e politici, l’assoggettamento alle imposte ed alle necessità della difesa nazionale, le materie
criminali e la posizione dei magistrati, gli status delle persone e la loro capacità, i regimi matrimoniali,
le successioni e le liberalità, l’emissione di moneta e le modalità di riscossione delle imposte. La legge
determina inoltre i principi fondamentali in materia di proprietà e diritti reali e in tema di obbligazioni
civili e commerciali, di diritto del lavoro e sindacale e della sicurezza sociale; inoltre riservati al
“domaine” della legge sono i settori più importanti del sistema giuridico e della organizzazione
pubblica.
• Art. 37 Cost.: le materie diverse da quelle ivi elencate hanno carattere regolamentare. Si tratta quindi
di materie residuali. Tuttavia è ammessa ex art. 21 Cost., anche nelle materie disciplinate con legge,
l’emanazione di regolamenti di attuazione. Il potere regolamentare si suddivide quindi in potere
regolamentare autonomo (introdotto con la Costituzione) ed in potere regolamentare suppletivo.
Relativamente a questa suddivisione del potere regolamentare, la giurisprudenza del Conseil
constitutionnel ha assunto che i regolamenti emanati ex art. 37 Cost. se hanno natura di legge in senso
materiale rimangono atti aventi natura amministrativa e pertanto sono sottoposti al controllo di legalità
da parte degli organi di giustizia amministrativa, il che implica un controllo anche sul contenuto
precettivo dei regolamenti ed il loro annullamento nel caso di contrasto con disposizioni di legge che
abbiano comunque incidenza nella materia specifica.
Il potere regolamentare non è tanto espressione del Governo in carica, quanto dall’amministrazione
centrale, ovvero dalla tecnostruttura burocratica che da secoli regge la Francia. La novità introdotta
dalla costituzione del 1958 sta nell’aver spostato l’asse di equilibrio a favore della normazione tecnico
burocratica ed a svantaggio della normazione che nasce dal circuito democratico e rappresentativo, ma
che prende corpo nel sistema dei partiti politici.
La legislazione francese è quindi un corpus di norme assai complesso ed in continua evoluzione; e non ci si
deve dimenticare che la Francia, paese membro fondatore della comunità europea, deve recepire le novità
legislative provenienti dalle istituzioni europee. I codici attualmente (al 2008) in vigore in Francia sono 67
ma la loro portata ed il loro spessore sono varie; si distinguono vari tipi di codificazione: codificazioni a droit
constant e codificazioni comportanti riforma dei contenuti normativi. La codification a droit constant è
avviata da una apposita commissione supérieure de codification, consiste nell’organizzare in forma unitaria
le leggi ed i regolamenti vigenti, mutandone la struttura e la numerazione degli articoli senza modificarne il
contenuto precettivo; la ricodificazione o modernizzazione dei codici consiste nella modifica di leggi e di
regolamenti precedenti e richiede, nel caso di leggi, un passaggio parlamentare. In questo secondo caso si
parla di riforma dei codici, di novellazioni che modificano a volte profondamente gli assetti normativi in
vigore.
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competenza dei giuristi: lo sviluppo del diritto è quindi dotato di una doppia vitalità, perché se esso non cessa
mai di vivere della vita del popolo, ne ha anche un’altra come scienza specifica dei giuristi.
Ciò che era fondamentale per Savigny era mostrare come la legittimità della scentia juris non discendeva
dall’autorità delle regole da essa insegnate, né dalla scientificità del suo metodo, ma discendeva dal suo porsi
come organo della cultura di un popolo dotato di una sua ben precisa identità.
La pandettistica.
Gli autori che seguirono le indicazioni di Savigny e di Puchta costruirono il proprio sistema assumendo come
materiale giuridico quello contenuto nel Corpus Juris. Perciò essi sono noti come scuola “pandettistica”,
termine derivato da “Pandette”. Gli scrupoli storico filosofici tesi ad una ricostruzione attendibile del diritto
romano classico, presenti in Savigny, furono messi rapidamente da parte. Ciò che a loro interessava era il
sistema in grado di inquadrare qualsiasi regola di diritto; interessava anche la possibilità di inquadrare
qualsiasi sistema di regole grazie alla capacità intrinseca al metodo concettuale di dischiudersi verso una
giurisprudenza costruttiva, tesa a generare nuovi concetti, nuove regole, da concetti precedentemente inseriti
nel sistema. In questo contesto si richiedeva al giurista una elevata capacità analitica, non una comprensione
storica.
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Ricostruire un sistema sulle basi citate fu un’opera collettiva alla quale si dedicarono una serie di giuristi
attratti all’impegno scientifico dalla consapevolezza della grandiosità del compito loro affidato. Per fare
degli esempi: Von Vangerow; Brinz; Ernst Immanuel Bekker; Regelsberger; Denburg; Bernhard
Windscheid, la cui opera riassunse i risultati dell’intero movimento.
Il successo della Pandettistica si misura essenzialmente sul piano del metodo, il quale fornì uno schema
altamente astratto, e proprio per questo capace di adattarsi ad inquadrare giuridicamente qualsiasi contenuto
normativo. Questo fu il modello dottrinale tedesco maggiormente circolato fuori dalla Germania; le tappe
della sua ricezione toccarono prima i Paesi di lingua tedesca, come l’Austria, che si convertì al modello
pandettistico di fronte alle difficoltà incontrate nell’applicazione dell’ABGB (Codice Civile Austriaco, 1811,
Francesco I); e la parte tedesca della Svizzera, la cui ricezione del modello segnò il ritorno della tradizione
romanista, dalla quale il Paese si era allontanato per coltivare solo il diritto consuetudinario locale.
Al di fuori dei paesi di lingua tedesca, il modello pandettistico convertì tutte le dottrine bisognose di
scientificità e di prestigio: si diffuse nei Paesi dell’est europeo, nei Paesi scandinavi, ed in quelli latini come
l’Italia e la Spagna ed anche nelle tradizioni latino americane. In questo senso si può affermare che il
modello pandettistico ebbe una diffusione universale simile a quella del Code Civil francese; tuttavia, la
circolazione rimase legata ad una scuola di pensiero dottrinale e quindi venne accolta principalmente dalle
dottrine dei Peasi ricettori, e non come un modello completo di ordinamento.
Mentre quest’opera era in fase di costruzione, mutava il panorama culturale della Germania: nella seconda
metà del secolo i modelli culturali diffusi non erano più quelli della grande filosofia idealistica, ma quelli
tratti dalle scienze naturali; le scoperte scientifiche elettrizzarono gli ambienti dotti; le teorie di Darwin
schiudevano nuovi orizzonti alla comprensione della posizione dell’uomo nel mondo; i progressi della fisica
e della chimica ampliavano i i confini delle conoscenze umane e si traducevano in tecnologie di evidente
concretezza.
D’altra parte la costruzione di un diritto semantico usciva dall’ambito astratto delle Pandette, e si scontrava
con una realtà normativa che non riusciva a piegare; la dogmatica giuridica prendeva coscienza di territori
del diritto, estranei al diritto comune, nei quali imperava il diritto positivo nel senso di regole imposte da una
autorità sovrana.
Nel 1848 un avvocato prussiano, Julis Hermann Kirchmann, portò alle estreme conseguenze le predizioni di
Savigny, e mescolando vari profili denunciò come una giurisprudenza che pretenda di interessarsi solo del
diritto positivo contingente, diventa contingente essa stessa: “tre parole di rettifica del legislatore, ed intere
biblioteche diventano carta straccia”. Il sentimento comune continuava a sovrapporre legge e diritto ed il
rafforzamento degli apparati statuali contribuiva a famigliarizzare l’opinione pubblica con l’idea che l’unica
fonte del diritto potesse essere la legislazione.
Nonostante ciò, il lavoro dei giuristi dogmatici proseguì, e buona parte dell’edificio pandettistico fu costruito
in tempi in cui le basi culturali della sua impostazione originaria si erano ribaltate; il diritto non era più
organismo vivente in quanto espressione dello spirito del popolo, per cui i concetti giuridici cessarono di
essere riconosciuti come estrapolazioni di significato da fenomeni reali, per divenire meri sinonimi del
relativo gruppo di operazioni concettuali che si devono compiere all’interno di un sistema. Questa era
l’accezione strumentalista dei concetti giuridici, che rischiava però di mettere in pericolo la funzione di guida
unitaria che aveva la dottrina pandettistica: se ogni studioso poteva configurare i concetti chiave nel modo
che riteneva più opportuno, ciò implicava la possibilità che ciascun giurista costruisse non il sistema unitario
del diritto tedesco, ma il suo personale sistema.
Iniziarono a sorgere controversie sul metodo: la “scuola della giurisprudenza degli interessi”, fondata da
Jhering von Rudolf, nel tentativo liberare il giurista dall’apparato dogmatico e concettuale che caratterizzava
la Pandettistica, iniziò attrarre seguaci sia per il prestigio accademico del suo fondatore, sia perché giudici ed
operatori percepivano come la sua metodologia mirasse alla rivalutazione dell’opera dell’interprete.
La critica di Jhering era rivolta soprattutto all’insegnamento di Puchta, ed aveva posto l’attenzione
sull’impossibilità per il giurista di leggere tutti i fatti del mondo solo attraverso un sistema di forme
concettuali esclusivamente sue, non contaminate da quanto è ricavabile dall’esperienza storica e dalle
indicazioni delle altre scienze sociali; costruire un sistema logicamente coerente in cui inquadrare qualunque
fattispecie aveva condotto ad un isolamento del giuridico dalla sapienza accumulata dalla altre scienze.
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Confrontando il BGB ed il Code Civil, si nota come sotto il profilo dello stile il Code Civil parli il linguaggio
comune, quello della gente, mentre il BGB utilizza il linguaggio dei professori, pieno di terminologia
tecnica; il linguaggio del BGB è arido ed inelegante, ma preciso e non cade mai in sciatterie; i termini tecnici
sono sempre usati rigorosamente con il medesimo significato; le anfibologie sono assolutamente evitate.
Quanto alla sua struttura, il BGB si presenta suddiviso in 5 libri:
1. il primo libro, racchiude il patrimonio ereditato dalla dottrina tedesca ottocentesca; costituisce la parte
generale. In essa si ritrovano quelle disposizioni che, essendo comuni a tutti gli altri 4 libri del codice, i
redattori del codice avevano voluto esporre una volta sola in un’unica sede all’inizio del codice. In
questa prima parte trovano posto la nozione di persona fisica e di persona giuridica; il concetto di bene;
la nozione di negozio giuridico.
2. Il secondo libro concerne i rapporti obbligatori. La priorità data alla disciplina delle obbligazioni,
implica la consapevolezza che in una società industriale i rapporti di collaborazione hanno una rilevanza
preminente rispetto alle situazioni di appartenenza dei beni materiali (nel Code Civil la seconda parte è
assegnata ai diritti reali). Il secondo libro è quindi il cuore del BGB; è stato recentemente rimodernato
per preservare l’idea della centralità del rapporto obbligatorio come strumento fondamentale di
organizzazione dei rapporti di diritto civile.
3. Il terzo libro è dedicato al diritto sui beni e contiene la disciplina della proprietà e degli altri diritti reali
(compreso pegno e ipoteca, che nel nostro codice si trovano nel libro sulla tutela dei diritti).
4. Il quarto libro riguarda il diritto di famiglia e contiene la disciplina del divorzio e dei regimi
patrimoniali fra coniugi.
5. Il quinto riguarda il diritto delle successioni.
La promulgazione del BGB è stata accompagnata da una legge di introduzione, contenente le norme di diritto
internazionale privato.
Il BGB accogliendo le soluzioni proposte dalla maggioranza della dottrina giuridica nazionale, le ha
consacrate e radicate nella tradizione giuridica tedesca; il Code civil aveva fatto scelte opposte.
Gli sviluppi del diritto tedesco e della dottrina dopo il BGB sino alla metà del XX secolo.
Nel 1914 la Germania entrò in guerra e quattro anni più tardi l’Impero crollò. L’inutile strage provocata dalla
guerra in Lotaringia aveva richiesto la mobilitazione per via amministrativa di tutte le risorse nazionali,
sicché, al suo termine, le figure maggiormente consapevoli si resero conto che era stata posta una totale
rivoluzione dell’ordine giuridico liberale mediante la statalizzazione di quasi tutti i beni produttivi.
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Nel contesto del XX secolo, la messa in opera ed il consolidarsi del BGB nel sistema giuridico tedesco fu
una vicenda agitata. Nel contesto universitario e culturale iniziarono a prendere piede le diverse visioni
alternative di coloro i quali ritenevano che il compito della scienza del diritto fosse di quella di svelare i
complicati itinerari del legal process e guidare coloro che dovevano percorrerli.
Si diffuse nel mondo universitario la corrente critica più radicale nota come “scuola del diritto libero”, a cui
deve riconoscersi il merito di aver emancipato la giurisprudenza dal ruolo di secondo piano.
Il tentativo di sviluppare un metodo giuridico aggiornato venne perseguito mantenendo stretti collegamenti
con le discipline filosofiche: la dottrina tedesca ha mantenuta viva l’idea che esiste una dimensione della
giuridicità che è deputata a conferire un senso alle proposizioni giuridiche mediante la loro analisi critica ed
il loro inserimento in un contesto generale. Pertanto la legge non esaurisce il diritto, di esso fa parte una
componente che è sottratta alle scelte del legislatore e delle altre autorità dello Stato. Questa visione di fondo
è rimasta dominante anche negli anni ’30 del XX secolo, sebbene le motivate opposizioni (Kelsen):
rinunciare ad ogni determinazione contenutistica delle proposizioni giuridiche al di fuori delle norme,
implicava un abbandono di tutto quanto la dottrina giuridica tedesca aveva costruito dai tempi di Savigny.
Va ricordata anche la corrente di pensiero che va sotto il nome di “socialismo giuridico”, la quale
rimproverava al BGB ed alla pandettistica che lo aveva preparato, il suo rigido ancorarsi al sistema dei valori
individualistici borghesi. La critica tendeva a demistificare la pretesa neutralità scientifica delle costruzioni
pandettistiche e comportava un riferimento alla giustizia sociale, propugnando un sistema che diverrà
socialdemocratico.
La critica più efficacemente demolitrice del sistema pandettistico è venuta da una scuola di pensiero che si
presentò come prosecuzione e sviluppo della “giurisprudenza degli interessi”. Il suo rappresentante, Philipp
Heck, colse con precisione il punto di frattura della metodologia pandettistica nel momento in cui da
suggerimento culturale proveniente dal formante dottrinale si era trasformata in ermeneutica del diritto
positivo. Il tentativo di continuare ad applicare al BGB ed ad ogni altro testo legislativo la genealogia di
Puchta, sfociava in una inversione logica, anzi in un metodo dell’inversione: ammessa la legittimità
dell’operazione di riconduzione di una serie di disposizioni normative ad un unico concetto in grado dii
coordinarne la ratio comune, non poteva essere ammesso il percorso inverso, ovvero la deduzione di regole
positive dal concetto ricostruito.
Il problema di fondo era legato soprattutto al fatto che nonostante la Germania disponesse di un codice
cronologicamente recente e moderno in molte soluzioni, la giurisprudenza tedesca rivoltava alcune delle
principali linee di tendenza del BGB stesso. L’occasione fornita dalla grande inflazione degli anni ‘20
permise l’affermazione del principio della prevalenza di una clausola generale, su una previsione specifica.
L’utilizzo di clausole generali ha chiuso le porte ad una giurisprudenza creativa ed ha richiesto un’opera
creativa da parte della dottrina chiamata ad un compito di divulgazione, di riordino e di valutazione dei
risultati giurisprudenziali. Un esempio è la clausola del paragrafo 242 BGB, la quale stabilisce che nel
rapporto obbligatorio le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede.
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Costituzione sottratte ad ogni possibilità di variazione, ovvero i diritti fondamentali (artt. 1-20), la struttura
federale del Paese, e la partecipazione dei diversi Lander all’attività legislativa (art. 79 comma 3, GG).
Il controllo di costituzionalità delle leggi è demandato al Tribunale Costituzionale Federale, che esercita un
controllo concreto ed anche un controllo “astratto”. Quest’ultimo è indipendente dall’esistenza di un caso o
di una controversia giudiziale: è ammissibile nei casi di questioni sulla compatibilità formale e sostanziale
del diritto federale o del diritto del Lander con la Legge Fondamentale. Legittimati ad invocarlo sono il
Governo Federale o il Governo di un Land, o un terzo dei membri del Bundestag. Il controllo concreto (art.
100 GG) presuppone invece l’esistenza di un procedimento in cui viene sollevata la questione incidentale di
costituzionalità, e riguarda solo le leggi in senso formale.
L’articolo 100 GG dispone che se un tribunale ritiene incostituzionale una legge dalla cui validità dipende la
sua decisione, il processo deve essere sospeso per essere riassunto davanti al tribunale Costituzionale
Federale. Se si tratta di un controllo di costituzionalità delle leggi dei Lander rispetto alle rispettive
Costituzioni locali, la questione è sollevata di fronte ai Tribunali Costituzionali locali.
Un altro importantissimo compito affidato al Tribunale Costituzionale Federale è quello di conoscere dei
ricorsi costituzionali, previsti dall’art. 93 GG, i quali costituiscono una peculiarità del sistema costituzionale
tedesco. Questi ricorsi possono essere intentati direttamente al Tribunale da chiunque ritenga di essere stato
leso dalla pubblica autorità di uno dei suoi diritti fondamentali. Questa possibilità è prevista anche a favore
dei comuni e dei consorzi dei comuni anche se solo nei confronti di una legge, mentre il ricorso esperibile
dai cittadini può essere altresì rivolto contro qualsiasi atto di governo. Con questi ricorsi sono garantiti solo i
diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, infatti il ricorso non deve essere inteso come rimedio
aggiuntivo alla tutela dei diritti già previsti dall’ordinamento che consentono di adire altri tribunali.
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Accanto al codice civile e a quello commerciale, il terzo pilastro della legislazione privatistica è il codice di
procedura civile, ossia la Zivilprozessordung (ZPO) del 1877, scandita in 10 libri. Il modello di processo che
la ZPO disegna e disciplina viene utilizzato come riferimento anche nei processi che si svolgono avanti le
giurisdizioni diverse da quella civile ordinaria, per colmare tutte le eventuali lacune delle singole leggi di
procedura.
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CAPITOLO NONO - I MODERNI SISTEMI DII CIVIL LAW TRA INFLUENZE FRANCESI E TEDESCHE
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L’insegnamento pandettistico si diffuse in quanto rappresentava l’estrema discendenza della scientia juris di
civil law, l’ultima grande scuola di pensiero che ha prodotto un sistema giuridico indipendente dal potere
politico (quindi dal formante legislativo), la più moderna espressione del sistema romanistico.
Pur essendo più compatto di quello francese, anche il modello tedesco subì numerosi adattamenti e
distorsioni: in alcuni casi l’insegnamento pandettistico è stato recepito là dove era precedentemente penetrato
il modello francese, ma ha dovuto arrendersi di fronte a soluzioni legislative già sancite dal Code civil; il
modello dottrinale può circolare attraverso le altre dottrine, subendo così una doppia distorsione; inoltre i
modelli dottrinali subiscono uno sbiadimento dovuto al decorrere del tempo e al sopraggiungere
dell’influenza di altri modelli. Inoltre tra le due guerre la stessa dottrina tedesca voltò le spalle alla
pandettistica, adottando metodi e stili del tutto diversi, come quelli provenienti dagli Stati Uniti.
Il modello giuridico francese fu restaurato come diritto positivo, con le sole eccezioni del Gran Ducato di
Toscana e lo Stato della Chiesa che conservarono il proprio diritto comune, e del Lombardo-Veneto ove fu
introdotto l’ABGB austriaco.
Il Regno di Italia costituitosi nel 1861 adottò i modelli giuridici in vigore nello Stato sabaudo da cui era
partito il movimento di unificazione nazionale e unitamente ad un generale sentimento di simpatia per la
Francia la quale aveva agevolato in modo decisivo l’unità di Italia, condusse alla adozione di un codice civile
nel 1865, analogo al modello francese, e di un ordinamento amministrativo ricalcato su quello in vigore in
Francia. La dottrina giuridica dell’Italia unita seguì da vicino i modelli dottrinali francesi dando vita ad un
periodo denominato come quello della scuola italiana dell’esegesi.
Il modello francese è stato recepito in Italia tra il 1796 ed il 1865 come modello legislativo; è intervenuta
anche una ricezione dottrinale. Si è trattato di una ricezione completa: i giuristi italiani non si limitarono a
compulsare i propri codici, ma si rivolsero anche alla dottrina francese della scuola dell’esegesi, infatti
inequivocabile fu la traduzione in lingua italiana di tutti i grandi trattati della ecole de l’exégèse.
Meno influente fu la giurisprudenza francese; la conoscenza delle pronunce di Coru de Cassation e del
Conseil D’Etat avveniva attraverso il filtro della dottrina francese che le citava.
La giurisprudenza italiana non si è ispirata a quella francese; è rimasta immune dalle influenze dell’omologo
formante francese. Le sentenze dei giudici italiani non si sono mai ridotta alla concisione tipica dei jugement
à phrase unique, ma hanno sempre fatto ricorso a pagine intere per motivare la propria decisione. Lo stile
della motivazione è rimasto legato allo stile rotale, ovvero allo stile delle Rote e dei Senati del sei-settecento,
quando si riteneva doveroso per il giudice il rispondere esaurientemente a tutti gli argomenti sollevati dagli
argomenti delle parti. In Italia non si ebbe la necessità di sopprimere le Corti supreme degli Stati Preunitari,
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sicché vennero conservate cinque Corti di Cassazione con sede a Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.
Nel 1923 si provvide all’unificazione della Corte di Cassazione in materia civile.
Il codice civile italiano del 1865 essendo giunto cronologicamente più tardi i suoi redattori tennero presenti
tutte le innovazioni introdotte nel frattempo dalla giurisprudenza e la dottrina francesi, di conseguenza in
Italia si è avvertita in modo meno chiaro la necessità di progredire oltre la lettera del codice, e la dottrina e la
giurisprudenza italiane hanno avvertito in minor misura la necessità di emanciparsi dalle parole del
legislatore. Mentre la scuola dell’esegesi in Francia ebbe grandi meriti operativi ed impostò le soluzioni
codicistiche in modo tuttora valido, l’esegesi all’italiana non è stata affatto una dottrina progressiva capace di
promuovere l’adozione di soluzioni innovative.
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L’esperienza austriaca.
Nei domini austriaci venne introdotto all’inizio dell’era delle codificazioni un codice moderno autoctono,
l’Allegemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB), del 1811, ancora oggi in vigore in Austria. Insieme
all’Allgemeines Landrecht (codice prussiano, ALR) e al Codex Masimilianeus Bavaricus Civilis costituisce
il nucleo delle codificazioni illuministiche del ‘700. L’iniziativa di codificare il diritto civile degli Stati
soggetti alla casa d’Austria fu infatti assunta da Maria Theresia, al fine di redigere un codice fondato su
diritto della ragione. Invece che promulgare un codice simile all’ALR, i sovrani austriaci preferirono
prolungare i lavori di redazione, sino a pervenire alla redazione di un codice civile moderno: l’AGBG è una
codificazione del solo diritto civile e non onnicomprensivo come l’ALR; lo stile con cui è redatto attinge alla
sobrietà del Code civil; le disposizioni chiave dell’ABGB mirano ad una effettiva razionalizzazione e
semplificazione delle istituzioni del mercato; L’ABGB ha abolito i diritti civili diversificati in funzione dello
status delle persone ed introdotto il principio della capacità giuridica generale attribuita a tutti; ha provveduto
alla ricomposizione delle situazioni proprietarie abolendo i vincoli sulla terra e sancito il diritto di chiudere i
fondi; ha riconosciuto il principio generale dell’autonomia negoziale e fissato il regime unitario della
circolazione dei beni e dei diritti.
Esso realizzò dunque gli stessi obiettivi del Code civil: modernizzazione ed uniformazione del diritto.
Tuttavia la sua messa in opera non seguì lo stesso itinerario percorso dall’esperienza francese: i commenti
dottrinali non si accumularono con la regolarità che si è vista in Francia e non raggiunsero quindi quella
massa critica idonea a fornire una guida completa agli operatori del diritto, il quale venne assunto
dall’amministrazione governativa e locale.
Presto la dottrina austriaca venne attratta dagli insegnamenti della scuola storica tedesca e ripudiò uno stile
esegetico che aveva caratterizzato i primi commenti. I giuristi austriaci furono propensi a pensare in termini
di sistema logico formale senza dare troppa rilevanza alle singole disposizioni del codice. La prevalenza dei
modelli pandettistici nella dottrina austriaca indusse ad un aggiornamento del codice. Solo con il tramonto di
quella scuola di pensiero i giuristi austriaci, contemplando con occhi diverse le disposizioni del loro codice,
valorizzarono le differenze rispetto al sistema del BGB.
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per quasi un cinquantennio, ma le impostazioni di fondo del New Burgerlijk Wetboek (NBW) rifletté le
scelte di Meijers. Il riferimento alla buona fede nel NBW è onnipresente; esso si compone di otto libri: il
primo concerne il diritto di famiglia e delle persone fisiche, il secondo il diritto delle persone giuridiche, il
terzo libro contiene la parte generale del diritto patrimoniale, separando il diritto delle persone da ciò che
concerne la detenzione e la trasmissione della ricchezza (la scelta è significativa per due ragioni: da un lato la
consapevolezza che i diritti della persona e la sua vita privata e famigliare devono essere disciplinati in base
a criteri diversi da quelli che presiedono al diritto patrimoniale; dall’altro lato il rifiuto di una Parte Generale
a tutta la materia privatistica ha fatto salva l’ammissibilità di una parte generale concernente il settore
tradizionalmente tecnico del diritto privato). I libri dal quarto al settimo sono dedicati rispettivamente alle
successioni, alla proprietà, alle obbligazioni in generale ed ai singoli contratti; l’ultimo libro è dedicato al
diritto dei trasporti e qui il codice diventa dettagliato e preciso e puntiglioso sul regolamento delle singole
fattispecie (a differenza che nei precedenti libri dove sono presenti clausole generali o disposizioni aperte
all’interpretazione giurisprudenziale).
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essi figurarono materiali tratti dal diritto spagnolo previgente e da un insieme di altri codici tra cui
quello cileno, il codice italiano del 1865, l’ALR prussiano del 1794, l’ABGB austriaco del 1811 ed il
codice civile della Louisiana;
- il Paraguay dotandosi di un proprio codice civile nel 1889, scelse a modello quello argentino, così
come successe in Uruguay il cui primo codice civile risale al 1871;
- nel primo codice civile della Bolivia la prevalenza del modello francese fu netta: essa fu una netta
traduzione del Code Napoléon, che venne poi sostituito nel 1976 da un nuovo testo che ripete in grandi
linee i contenuti di quello già in vigore;
- in Brasile il governo brasiliano affidò nel 1856 l’incarico di redigere il codice civile ad Augusto
Teixera de Freitas, giurista noto come autore di una opera privata di sistemazione e consolidazione
nella quale venivano amalgamate insieme le fonti di diritto portoghese e quelle locali. Esso redasse un
testo di ben 4900 articoli, intitolato Esboço de Código Civil, che comprendeva una parte generale, ma
che non venne mai approvato. Verso la fine del secolo XIX il governo brasiliano incaricò un altro
giurista, Clovis Bevilaqua di redigere un progetto di codice che entrò in vigore nel 1917. I suoi
modelli sono rintracciabili nel codice civile francese e nel BGB. Nel 2002 il Brasile si dota di un
nuovo codice civile ispirato dal desiderio di modernizzazione e di sistematicità, derivato dal modello
del BGB, ma prevedendo una parte generale divisa in tre libri dedicati alle persone, ai beni, ed ai fatti
giuridici. La parte speciale è divisa in cinque libri dedicati al diritto delle obbligazioni, all’impresa, ai
diritti sulle cose, al diritto di famiglia, ed alle successioni.
Le varie influenze riscontrabili a livello dei codici e di legislazione ha fatto si che la frammentazione imposta
dai singoli codici nazionali non ha prodotto in America Latina lo stesso grado di frantumazione che si è
verificato in Europa. Inoltre l’unità culturale di fondo agevola il coordinamento che si sta sviluppando
dell’America Latina in corrispondenza con lo sviluppo del Mercosur, ossia la istituzione di un mercato unico
tra i paesi latino americani aderenti. Istituito con il trattato di Asunction nel 1991, il Mercosur ha come
obiettivo l’abolizione delle barriere tariffarie sui flussi di merci e di fattori di produzione, la fissazione di
un’unica tariffa verso l’esterno e l’interno e l’armonizzazione di alcuni aspetti della politica economica dei
paesi coinvolti.
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attività economiche senza sottoporsi ai controlli delle autorità amministrative nazionali diverse da quelle del
paese in cui hanno la loro sede formale. Sotto il profilo delle strutture di tipo pubblicistico che regolano gli
assetti del mercato esiste già un diritto comune europeo, che non è completo ma dotato di propria fisionomia.
Quando si parla di diritto comune europeo ci si riferisce all’ordinamento giuridico nel suo complesso, ed un
ordinamento giuridico è un insieme complesso di norme, istituzioni e mentalità, analiticamente scomponibili
in ulteriori formanti.
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Da tempo alcuni studiosi europei si sono posti privatamente all’opera per designare un possibile testo
comune in tema di diritto contrattuale, ma è probabile che l’influenza maggiore sarà esercitata dalle riforme
ai codici civili introdotte a livello nazionale (riforme al BGB e al Code civil).
Si deve aggiungere che nessun testo legislativo è in grado di influire sulla formazione della mentalità
giuridica come un codice civile. Da ricordare sono i codici civili europei del XIX secolo che costituirono
strumenti di unificazione dei diritti nazionali perché unificarono linguaggio e grammatica giuridica ed
istituzionalizzarono le categorie ordinanti che tengono insieme il sistema.
All’attuale stato delle cose la dottrina europea per sopravvivere come formante deve essere accreditata
presso gli apparati che amministrano il diritto contemporaneo del legislatore e tale accreditamento può
avvenire solo ove il legislatore adotti un linguaggio che manifesta l’intenzione di creare una intensa
linguistica con il giurista dotto. Una codificazione del diritto provato europeo deriva dalla necessità di
preservare il ruolo del formante dottrinale che rischia di appassire a seguito dell’estraniamento del formante
legislativo europeo; tuttavia al momento attuale non sarebbe il codice civile europeo ad arricchire il ruolo del
formante dottrinale, ma la sua assenza.
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La Polonia.
La base del diritto fu consuetudinaria ed era estranea qualsiasi influenza romana. Il diritto delle città fu
pronto invece a recepire il modello sassone o altri modelli germanici aperti ad ispirazioni romane. Il diritto
canonico operava con vigore nel diritto della famiglia e nel processo; l’università (introdotta a Cracovia nel
1365) non mise il diritto romano al centro dell’insegnamento. Alla vigilia delle spartizioni la Polonia non era
paese romanista.
La spartizione, seguita dalla creazione del ducato di Varsavia, divenuto Regno del Congresso (sotto la corona
dello zar di Russia), fu la premessa di nuovi assetti giuridici: in Posnania e nel corridoio penetrò il diritto
prussiano e poi quello tedesco; in Galizia e Lodomira giunse la legislazione austriaca; nel regno vennero
introdotti in epoca napoleonica importanti modelli francesi; i territori ad est del regno facevano parte della
Russia.
Nel 1919 la Polonia diventa unita e indipendente e poteva considerarsi un paese romanista; codificò nel 1933
la materia delle obbligazioni (secondo il modello francese e tedesco) e dei contratti, ed il diritto commerciale
(germanizzante).
I Paesi Baltici.
La prima fonte scritta del diritto lituano fu un codice penale redatto nel 1468, cui seguirono altri tre statuti
lituani del 1529, 1566 e 1588. Gli statuti fanno posto a modelli consuetudinari lituani, a regole tedesche e
polacche; le città baltiche recepiscono il diritto cittadino di Magdeburgo; il diritto canonico trova
applicazione nel solito ambito.
Ridotta la Lituania, sotto il potere zarista, i russi vi estesero lo Svod Zakonov (1840). Nel 1865 venne
adottato in Lituania il Diritto provinciale del Governo baltico, relativo al diritto pubblico e privato (redatto in
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tedesco e tradotto in russo), che sopravvisse anche dopo l’indipendenza acquisita dalla Lettonia e
dall’Estonia nel 1918.
La Russia e l’Ucraina.
Durante la prima metà del XI secolo venne redatta la prima raccolta di regole praticate dalla popolazione
russa dell’epoca (la Russkaja pravda), la quale trattava il diritto penale e civile e i rapporti commerciali.
Accanto al diritto consuetudinario popolare risiedeva il diritto bizantino, professato dalla Chiesa ortodossa,
espresso dalle fonti giustinianee.
Durante l’occupazione mongola (1237-1480) il diritto comune russo rimase legato alla Russkaya pravda e
alle consuetudini che essa sottende; i Mongoli non imposero il loro diritto (lo Yassak); i principati russi
autonomi rilasciarono alle città delle carte statutarie (testi giuridici moderni e illuminati); infine si sviluppava
il diritto della Chiesa, che era rispettato e favorito dal Mongoli.
Una volta indipendente, al vertice della Russia risiedevano lo Zar, ovvero un’autorità politica autocratica, e
la Chiesa ortodossa russa, comunità religiosa. Tra i due poteri c’era un rapporto di protezione/pubblicità: lo
zar proteggeva la Chiesa e questa sponsorizzava il suo potere.
Bisanzio cadde sotto il dominio dei Turchi musulmani, venuti da Oriente; era quindi affidato a Mosca il
compito di vegliare sulla fede, di riscattare l’umanità dall’errore e dal peccato, diffondendo intorno a sé la
verità e le giuste regole di vita.
Dal 1497 al 1649 lo zar legiferò redigendo testi chiamati sudebniki i quali accentrarono e resero uniforme
l’amministrazione della giustizia e la riscossione dei tributi, e gradatamente vincolarono il contadino al
padrone della terra, facendone un servo della gleba.
Nel 1649 una consolidazione approvata dall’assemblea imperiale (la Sobornoe Ulozenie), si propose di
ridurre in un testo unico, redatto in russo, il diritto del paese. I modelli provenivano dal diritto bizantino,
consuetudinario russo, dallo statuto lituano del 1588, dagli editti degli zar. La consolidazione, nelle sue
quindici edizioni, era destinata a rimanere in vita fino al 1832. Essa regola le grandi forme di proprietà
nobiliare, servile e “di servizio”, il contratto, l’obbligazione, la responsabilità, la famiglia.
Il diritto della famiglia, il diritto della Chiesa e i rapporti fra lo Stato e Chiesa venivano espressi in fonti
specifiche.
La rivoluzione francese e le grandi riforme che ne seguirono trovarono in Russia personaggi favorevoli ad
una recezione: Alessandro I, Nicola I affidarono al conte Speranskij il compito della raccolta e
riformulazione del diritto russo. Egli elaborò il Svod Zakonov, in 15 volumi, in vigore dal 1835.
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Dopo il 1832 il diritto continuò ad evolvere: si codificò promulgando codici penali (1855 e 1903), a modello
occidentale, e di procedura civile, a modello francese (1864); si mise a punto una legge cambiaria (1903); i
lavori condotti dal 1882 al 1905 permisero di redigere il progetto di un codice civile, il Grazdanskoe
ulozeine, tuttavia lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò il progetto.
Il diritto scritto russo rincorreva, per una parte, modelli sapienti, occidentali, illuministi, e per l’altra parte,
garantiva il potere oppressivo dell’autorità.
Il giurista russo era legato al modello francese; nel corso del secolo divenne vincente il modello tedesco
(dogmatico e pandettistico): accanto a un diritto russo tradizionale e accanto ad un diritto russo scritto di
fonte autoritativa veniva a disporsi un modo di conoscenza del diritto filtrato attraverso i modelli romanisti.
La Valacchia e la Moldavia.
Dal XIV al XVIII secolo troviamo una compresenza della consuetudine, del diritto bizantino e canonico e
delle leggi scritte principesche.
Fino al 1450 si sviluppa una recezione del diritto bizantino, utilizzato per regolare il nuovo diritto feudale.
Dal 1600 si profilò la tendenza a codificare il diritto feudale.
Con il XVIII secolo si rafforzò l’idea di autorità e si diffuse l’ideologia del diritto naturale; crebbe la
recezione di fonti canoniche e di fonti bizantine laiche; apparvero raccolte di consuetudini o collezioni
private. Si legiferò il greco o in rumeno.
In Romania venne introdotto il Codul civil nel 1964, su modello francese, anche se apparivano anche norme
autoctone; il codice di commercio del 1887 ha come modello il codice di commercio italiano del 1882. Il
diritto elaborato per la Moldavia e Valacchia unite fu poi esteso, fra il 1919 e il 1943, alla Bessarabia, alla
Bucovina, alla Dobrugia e alla Transilvania.
Nel 1943 la cultura giuridica tedesca penetra in Romania e suggerisce l’adozione di un cod civil nuovo,
germanizzante: il nuovo testo fu promulgato nel 1940, con applicazione differita, ma tempo dopo fu
abrogato.
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Con l’indipendenza venne abbandonato al diritto canonico il diritto di famiglia, e vennero adottate tre
grandi leggi civili, a modello italiano, per regolare le persone, la proprietà, le successioni, le
obbligazioni e i contratti. Venne poi promulgato un codice di commercio, su modello ungherese, e un
codice di procedura civile, su modello russo.
La scelta socialista.
Preso nelle mani il potere (1917.1921), il partito e la sua giuda Lenin, rivolsero la loro volontà
all’edificazione del comunismo. Alcune misure erano destinate a rimanere in piedi, come la laicizzazione
dello Stato e del matrimonio, la nazionalizzazione delle terre; altre dovevano essere ridiscusse. La moneta
venne abolita e il commercio vietato; l’industria venne nazionalizzata.
Nel 1921 il partito fu costretto a rinunciare all’instaurazione del comunismo, e ad adottare una “nuova
politica economica” che ripristinò la proprietà privata agricola e l’autonomia delle imprese industriali; inoltre
si adottarono sei codici.
Nel 1924 Lenin morì e la direzione del partito passò a Stalin, il quale confermava l’abbandono temporaneo
dell’obiettivo comunista, e nel contempo faceva marcia verso l’edificazione di una società socialista, in cui
lo sfruttamento economico non sarebbe più esistito, ognuno avrebbe lavorato nella misura fissata dal
contratto di lavoro suo proprio, e sarebbe stato remunerato secondo la qualità e la qualità del lavoro prestato,
infine i mezzi di produzione sarebbero stati collettivizzati.
Fra il 1928 e il 1989 le società sovietiche non rimasero uguali a se stesse: i comunisti esclusero che le masse
degli operai e dei contadini dovessero negoziare con le classi sfruttatrici e parassitarie. Le masse quindi
esercitarono una dittatura (dittatura del proletariato), che agì con durezza per disarmare le forze
antirivoluzionarie. Una volta dissolte le classi sfruttatrici, lo Stato dei proletari poteva lasciare il posto ad uno
Stato di operai e contadini, e più tardi, ad uno Stato di tutto il popolo, si da rendere legittima l’identificazione
fra Stato e popolo.
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Gli Stati socialisti potevano essere federali e decentrati; per bilanciare federalismo e decentramento ogni
provvedimento era preceduto da una decisione dell’organo di partito, il quale era accentrato. Il carattere
federale poneva problemi di unificazione giuridica, ma la soluzione venne adottata nel 1936 quando l’Unione
adottò Codici repubblicani, nei quali le differenze raramente erano significative. Il carattere federale rendeva
complessa la gerarchia delle fonti, ma degli arbitri operavano nel partito e nella burocrazia per calmare ogni
inquietudine.
La famiglia.
Il sistema comunista trascinava con sé il deperimento della famiglia (idee di Marx e Engels), istituita con lo
scopo di perpetuare il privilegio economico; tuttavia questa premessa fece seguito una liberalizzazione
estremista nel primo codice russo rivoluzionario della famiglia, del 1918.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli esponenti della sinistra politica, andati al potere nella Repubblica
democratica tedesca, in Cecoslovacchia e altrove, manifestarono tendenze diversificate rispetto a quelle
vincenti in Unione sovietica: le soluzioni da loro proposte si accordarono a quelle sovietiche ed il legislatore
sovietico rimise in onore modelli libertari abbandonati da tempo. Un nucleo di principi venne a trovarsi
presente in tutti i sistemi socialisti: il matrimonio era monogamico, laico e dissolubile; il divorzio era
connesso al venir meno del legame affettivo; marito e moglie avevano pari diritti e pari diritti avevano i figli
legittimi e quelli nati fuori dal matrimonio; il potere parentale era attribuito ai genitori perché lo esercitassero
nell’interesse del figlio; gli acquisti dei coniugi erano comuni solo se il loro reddito non differiva
eccessivamente.
La proprietà.
Primordiale è la distinzione tra mezzi di produzione e i beni di consumo; i mezzi destinati alla produzione
industriale debbono appartenere allo Stato, il titolare del diritto di proprietà socialista dello Stato. La gestione
di questi mezzi è affidata ad imprese di Stato create ad hoc, dotate di personalità giuridica.
Nell’agricoltura, ferma restando la statizzazione della terra, i mezzi di produzione agricoli furono proclamati
propri del lavoratore agricolo, il quale veniva indotto ad unirsi ad altri per formare una cooperativa (che
diveniva proprietaria dei mezzi di produzione e riceveva la terra in uso gratuito). La proprietà sui mezzi di
produzione agricoli era definita “proprietà socialista cooperativa” ed era destinata ad essere gradatamente
rimpiazzata dalla proprietà di Stato.
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Il lavoratore impiegava il proprio salario o la propria quota di utili della cooperativa agricola per procurarsi i
beni destinati a soddisfare immediatamente i suoi bisogni; su questi beni egli aveva un diritto di proprietà
personale.
La casa di abitazione era oggetto della proprietà personale; tuttavia era diffusa la casa di proprietà dello
Stato, assegnata in locazione-conduzione ad un cittadino (era viva la convinzione che la casa unifamigliare
segrega la famiglia dalla società, perciò si incoraggiava la coabitazione). La proprietà personale poneva il
problema della successione per causa di morte: fu accolta l’idea di una successione legittima, all’interno
della famiglia, e di una successione testamentaria.
La produzione e lo scambio.
Alla produzione provvedevano l’impresa di Stato, che agiva nell’area industriale, e la cooperativa, che agiva
nel campo agricolo.
L’attività dell’impresa di Stato era soggetta al piano di Stato (narjad), era suddivisa in piani territoriali, in
piani di settori, e in piani operanti formulati per la singola impresa. In narjad precisava presso quali
venditori, in quale quantità e per quale prezzo la data impresa dovesse acquistare le materie prime o
semilavorate; a quali compratori essa dovesse rivendere i prodotti, in quale quantità e per quale prezzo. Le
due imprese coinvolte, compratrice e venditrice, dovevano concludere un contratto. Il prodotto finito se era
destinato al soddisfacimento diretto dei bisogni dei cittadini veniva trasferito ad organizzazioni socialiste
create per la distribuzione, e da qui veniva venduto al cittadino.
La cooperativa agricola non era legata ad un narjad; gli organi dello Stato deputati alla raccolta e alla
distribuzione dei prodotti agricoli stipulavano all’inizio dell’anno contratti d’acquisto dell’intera produzione
della data cooperativa, conformando i programmi della cooperativa al piano dello Stato.
Al commercio internazionale non accedeva l’impresa di Stato, questa doveva affidarsi ad un organo statale
ad hoc. Gli scambi svolti all’interno dell’area socialista erano inquadrati nelle regole di una importantissima
organizzazione multinazionale, il Consiglio di mutua assistenza economica (C.A.E.M. o Comecon),
paragonata funzionalmente e contrapposta alla Comunità europea.
I rimedi.
Le corti ricalcavano le linee di quelle dei paesi continenti occidentali. Tuttavia vi erano diverse particolarità:
• la tradizione russa conosceva la figura del Prokurator a cui facevano capo i compiti di promuovere e
controllare l’attività di tutti gli organi amministrativi dello Stato, di promuovere l’attività del giudice
penale, e di formare i ricorsi opportuni contro qualsiasi decisione civile e penale. Questo era nominato dal
Soviet supremo dell’URSS.
• Il giudizio penale e civile era deciso da un collegio, formato da alcuni giudici a tempo pieno, eletti sulla
base di una candidatura proposta dal partito per quattro anni, e da un numero maggiore di giudici
popolari.
• La sentenza era la decisione di un organo popolare elettivo, e manifestazione di sovranità, perciò la parte
non poteva appellarla, eccetto quando ci si rivolgeva alla Prokuratura per chiedere il riesame del caso.
• Le liti fra le imprese e le cooperative erano sottoposte all’arbitrato di Stato. All’operatore straniero che si
trovasse in conflitto con una organizzazione sovietica era riservato un organo giudiziale sovietico,
l’“arbitrato internazionale”, nel quale la parte occidentale ricorreva all’assistenza di patroni del proprio
paese, i quali potevano esprimersi in inglese.
americano.; il potere di fare le leggi si consolida nelle mani di un’assemblea legislativa interamente nuova e
tecnicamente addestrata; la corte costituzionale diventa organo-chiave.
Le nuove necessità.
Si devono lasciare cadere i divieti di svolgere attività politica e religiosa, di commerciare, e di possedere
mezzi di produzione. Le imprese nuove private non saranno inclini ad autodisciplinare la propria attività.
I settori in cui sarà necessario intervenire saranno: le garanzie reali; i contratti nominati; le assicurazioni, le
società, i titoli di credito; la borsa, la valuta, la finanza; il fallimento; la concorrenza, l’ambiente, la
protezione del consumatore; la difesa del lavoratore.
Si forma inoltre un bisogno di norme: grandi organizzazioni internazionali offrono i modelli e il personale
capace di provvedere. Ogni paese disporrà di giuristi che hanno passato il tempo del socialismo all’estero
(soprattutto negli USA), e che ora sono i consulenti del potere. L’Est europeo beneficia di una sostanziale
assistenza giuridica occidentale da parte di organizzazioni governative o private.
La legalità e le fonti.
Nel periodo postsocialista di trovano situazioni diverse in tre aree: nei paesi chiaramente europei; nei paesi
dotati di un sistema legale europeo importato, ma non garantito da una tradizione conforme; nei paesi di
cultura extraeuropea.
Abbandonata la via socialista i Paesi hanno fatto proprie le soluzioni liberali vittoriose in occidente: si
redigono costituzioni scritte non modificabili dal legislatore ordinario e garantite da una corte costituzionale,
o si ristrutturano le costituzioni del periodo socialista; si proclamano i diritti fondamentali dell’uomo (ratifica
della Convenzione europea sui diritti dell’uomo in molti Paesi); si proclama il principio di legalità e
l’indipendenza del giudice. Si vuole ovunque lo Stato di diritto.
Elementi diversi si notano in Russia, dove la costituzione del 12 dicembre del 1993 prevede la libertà
religiosa e la laicità dello Stato, ma la legge applicativa ha ribadito i vecchi privilegi della Chiesa ortodossa
russa e delle altre religioni radicate nell’area; inoltre l’uguaglianza dei culti di fronte allo Stato è
inconcepibile.
Per instaurare o restaurare un ordine in rottura con il precedente passato, l’area postsocialista ha bisogno
della legge, norma autoritativa scritta, la quale era applicata grazie ad una letteratura giuridica indicativa
dello stato del diritto positivo e fonte autorevole per la cognizione e l’interpretazione della legge. Oggi
l’importanza della dottrina è evidente anche in Cechia, Slovenia e in Croazia; le opere più interessanti sono
nelle riviste, più che sotto forma di libro (questo deriva dal poco spazio che offriva il mercato alle iniziative
dell’editore, e dal periodo di crisi in cui si trova la dottrina).
Il ruolo della giurisprudenza nella creazione del diritto non è uniforme: disparità esistevano tra le varie
soluzioni nazionali fino alla rivoluzione socialista. Oggi il valore del precedente mette radice nella
tradizione, nell’esperienza del tempo socialista, nella povertà della dottrina. La presenza di corti
costituzionali aiuta a far comprendere come la norma scritta abbia bisogno dell’aiuto del giudice; tuttavia il
ruolo creativo del giudice è controbilanciato dalla preoccupazione di salvaguardare il principio di legalità.
In occidente la legge è sempre integrata da regole di matrice giudiziaria (create sulla base di rinvii legali a
clausole sulla buona fede, sull’abuso del diritto), le quali, sopravvissute alla rivoluzione socialista e alla
caduta del potere comunista, sono un’alternativa e un aiuto prezioso rispetto al potere del legislatore. Sono
mutate invece le grandi declamazioni: per fare un esempio, in Russia al posto del vocabolo “popolo” si
preferisce il termine “nazione”. Infine, è tornata alla luce la distinzione fra diritto pubblico e diritto privato;
proprietà pubblica e proprietà privata.
Le regole.
La piramide delle fonti è sormontata da una Costituzione, che il legislatore ordinario non può modificare;
essa distribuisce i poteri, largheggiando con il Presidente e con il parlamento (eletto con sistema
proporzionale).
• Il parlamento è chiamato a fare le leggi e il governo a fare i decreti; tuttavia in Russia la tradizione tiene
in vita tre diversi tipi di legge e cinque tipi di norme messe in opera dal potere esecutivo.
• Lo Stato è tendenzialmente laico, ma norme variabili da un paese all’altro possono regolare l’assistenza
religiosa, l’insegnamento religioso, o porre a carico dello Stato il mantenimento del clero con cura di
anime.
• Il giudice è soggetto alla legge; è reclutato per via burocratica, e conserva le funzioni per tutta la vita.
97
• L’amministrazione è legata al principio di legalità; solo Russia è rimasta in piedi la Prokuratura dotata di
vasti poteri di propulsione e controllo nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Fuori dalla Russia,
la procura ha ridotto i suoi compiti a quelli tradizionali, da svolgere nell’area dei procedimenti giudiziali.
L’arbitrato ha mantenuto questo nome in Russia; altrove è ridiventato Tribunale commerciale, o è una
sezione del Tribunale generale.
• Le parti sono libere di interporre ricorsi contro i provvedimenti giudiziari.
• Le regole sulla famiglia sono moderne e aperte; si profilano mutazioni a favore delle coppie di fatto
eterosessuali e per quelle omosessuali; si nota poi un interesse per l’adozione piena.
• In alcuni Paesi, la dottrina dei beni ha dovuto essere riadattata: in Russia risorge la distinzione fra cose
immobili e cose mobili.
• È pienamente conforme a diritto la proprietà privata dei mezzi di produzione; si assicura la parità di
trattamento fra la proprietà pubblica e privata, eliminando i privilegi di cui godeva la proprietà dello
Stato. Nell’area degli atti si trova l’enunciazione del principio di autonomia, e anche qui è viva la
preoccupazione di garantire l’uguaglianza di trattamento fra il contraente pubblico e quello privato; la
protezione dei consumatori si trova contrastata dal desiderio di evitare le disparità di trattamento e il
dirigismo economico.
• La dottrina del negozio giuridico continua a fiorire e viene reintrodotto la nozione generale del contratto
(con la novella che modifica il codice civile cecoslovacco del 1994).
98
La šarī‘a.
La šarī‘a è una precettistica rivelata da Dio agli uomini per regolarne la condotta. La conoscenza di questa è
affidata al faqīh, ovvero l’esperto di giurisprudenza islamica, la cui opera è il fiqh (la giurisprudenza).
Prima tra le fonti del fiqh è il Corano (Qur’ān), in 114 capitoli suddivisi in versetti e disposti in un ordine,
che non è quello cronologico. Dei 6200 versetti del Corano, 500 contengono regole giuridiche. Seconda
fonte del fiqh è la Sunna, ovvero la condotta del profeta, ispirata da Dio, quindi esemplare. La condotta
venne osservata dai contemporanei e trasmessa verbalmente, composta poi per scritto articolandola in
ahādīth. Altra fonte del fiqh è l’interpretazione data alle due fonti primarie dal consenso di tutta la Comunità
di tutti i musulmani (Umma). Quarta fonte del fiqh è il qiyās, paragonabile alla analogia; la legittimità di
questa ultima fonte però è dubbia e soprattutto è dubbia la larghezza consentita al suo impiego.
Se in sede teorica la šarī‘a è rivelata ed è priva di lacune, in sede di verità storica si deve dire che il diritto
islamico è creazione dei dotti; è l’esempio più tipico di creazione dottorale del diritto. I dotti possono
svolgere la loro funzione se praticano un autocontrollo, evitando ragionamenti e soluzioni troppo personali e
soggettivi, che renderebbero incerto il diritto e inaffidabili le loro stesse conclusioni. Il rifiuto a soluzioni
originali si è formalizzato con il principio per cui le soluzioni affermatesi entro il X secolo dell’era volgare
sono incontestabili; in tale data si è “chiusa la porta dello sforzo” interpretativo. Recentemente si è aperta la
discussione, se non sia giunto il momento di riaprire la porta. La funzione creatrice della dottrina trova il
doppio limite del testo rivelato e della tradizione, ma non trova all’opera alcun legislatore umano.
La Umma islamica non dispone di una corte massima unica, le cui soluzioni possano valere come modello
dotato di autorità suprema; inoltre il giudice islamico non motiva, perciò la decisione non è chiamata ad
enunciare la regola di diritto.
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Le diverse interpretazioni.
L’Islam è diviso in Islam sunnita, Islam sciita e Islam kharigita. Gli sciiti a loro volta sono divisi in zayditi,
duodecimani e settimani. Le differenze teologiche vertono sul fondamento del valore della sunna e dei
precetti che essa consegna ai credenti, nonché sulle prerogative.
Il kharigismo in nome dell’uguaglianza in diritto fra tutti i credenti, induceva rivendicazioni di etnie che non
accettavano volentieri la centralità araba nella Umma islamica, è minoritario e vive nella scuola ibadita;
l’Islam sciita domina in Iran e ha un seguito importante in Iraq e Siria; l’Islam sunnita prevale in Asia e in
Africa, e al suo interno si sono consolidate divergenze di interpretazioni dei testi, ritenute tutte legittime.
All’origine dii ognuno dei quattro grandi modelli interpretativi troviamo un sapiente che dà il nome alla
propria scuola: la più seguita è la hanafita, che prende il nome da Abū Hanīfa iracheno; la scuola malikita si
richiama a Mālik ibn Anas, ed è diffusa nell’Africa nordoccidentale; la scuola sciafiita prende il nome da
Muhammad al-Shāfi‘ī, ed è diffusa nello Yemen, in Somalia, nel Pakistan e in Indonesia; la scuola habanita,
legata all’insegnamento di Ibn Hanbal, domina in Arabia Saudita.
Ogni musulmano può scegliere fra i quattro indirizzi, e anche mutare scuola; il potere politico può
prescrivere ai giudici l’applicazione delle regole di una scuola diversa da quella seguita usualmente nel
paese.
della donna è ridotta anche a proposito della capacità di testimoniare (la sua testimonianza vale metà di
quella dell’uomo), e a proposito della responsabilità civile (la penalità da versare per morte o lesione della
donna è dimezzata). Inoltre, la donna non può adire cariche o dignità religiose che implichino un potere
giudiziario, o di guida alla preghiera, di predicazione; è esclusa dall’insegnamento religioso e dalla decisione
politica.
La famiglia e le successioni.
Un particolare settore delle norme sciaraitiche prende il nome di “statuto personale”, e si estende al diritto
delle persone e della famiglia, alle successioni per causa di morte e alle regole sulle fondazioni pie. Il legale
dello statuto personale con il musulmano è particolarmente stretto, e il musulmano pensa che gli debba
essere consentito di praticarlo anche in paesi non islamici.
Quanto alla famiglia, quella islamica è fondata sull’autorità del padre e del marito, sebbene non manchino
norme complementari e integrative di segno diverso. Il matrimonio è un accordo fra il pretendente e la
controparte che si identifica, secondo la scuola sciafiita, nell’uomo che ha il potere sulla donna (il walī);
secondo le altre scuole, il negozio è concluso dalla sposa. Il consenso matrimoniale verte sul vincolo
contratto e sul mahr, un corrispettivo posto a carico dello sposo. La šarī‘a non prevede per il matrimonio
un’età minima prefissata; inoltre regola il concubinato se da esso nascono dei figli. L’uomo può avere
contemporaneamente fino a quattro mogli; esso può far cessare il matrimonio in qualsiasi momento mediante
il ripudio; il matrimonio è sciolto di diritto in caso di apostasia (abbandono alla propria religione). I beni dei
coniugi sono separati: la donna amministra liberamente i propri beni, sebbene venga chiesto il consenso del
marito per le donazioni. La presunzione di paternità si ricollega al matrimonio, e solo secondo la scuola
hanafita è invincibile; solo la scuola malichita fa perdurare la presunzione di paternità fino a tre o quattro
anni dall’ultima possibilità di concepimento.
Quanto alle regole sulla successione per causa di morte i chiamati all’eredità sono indicati dalla šarī‘a: sono
gli eredi “coranici” non agnati (fratello uterino, sorella, vedovo/a, ascendenti, discendenti femmine) e quelli
‘asaba agnati (figli, fratelli consanguinei e i loro discendenti per via maschile); parti diverse sono lasciate
agli uni e agli altri. Una regola cardinale impone che la figlia riceva la metà di ciò che riceve il figlio. Infine,
un terzo del patrimonio può essere lasciato liberamente a persone scelte dal de cuius mediante atto di ultima
volontà (wasiyya). L’eredità si acquista senza bisogno di accettazione e la rinuncia non è ammessa.
Le relazioni patrimoniali.
La šarī‘a considera fondamentale il diritto di proprietà individuale. La dottrina elabora distinzioni di beni, di
capitali e di reddito. Accanto al diritto di proprietà, la šarī‘a conosce i diritti temporanei e i diritti volti a
speciali utilità.
Fra i modi di acquisto della proprietà deve ricordarsi la bonifica delle terre inutilizzate. Sono note forme di
proprietà collettiva e comunitaria, perfino una proprietà che compete all’intera comunità islamica. Un modo
peculiare di destinare i beni consiste nel vincolarli mediante wafq, sorta di fondazione pia o patrimonio
legato ad uno scopo. Nella menzione di scopo pio non è proibito indicare una persona fisica, beneficiaria
delle utilità che il bene offre. Il wafq consente di rendere indisponibile il bene, di sottrarlo al regime
ereditario e di riservare le utilità contenute nel patrimonio del fondatore a persone diverse da quelle indicate
dalla regola successoria. Questa distorsione ha messo però in allerta i legislatori che hanno vietato il wafq “di
famiglia”.
Manca nella dottrina sciaraitica una nozione generale di obbligazione: si trattano separatamente le
dichiarazioni di volontà e la responsabilità civile. Tra le dichiarazioni di volontà spiccano i contratti, di cui la
dottrina ne studia i singoli tipi. Sono caratteristici della šarī‘a la condanna dei contratti aleatori e il rigido
divieto di stipulare e ricevere interessi. Sono trattati a parte i contratti liberali (donazioni, prestito, mandato,
deposito), per la conclusione dei quali ha particolare rilievo la consegna della cosa.
I fatti illeciti comportano un’obbligazione di risarcire i danni; le conseguenze dei fatti illeciti che
costituiscono reato vengono esaminate studiando le sanzioni penali.
Il diritto penale.
Sussiste una distinzione di base tra delitti che comportano il taglione, quelli che comportano una pena fissata
dal Corano e quelli che danno luogo ad una sanzione rimessa al giudice: il taglione rimanda a società
preislamiche a potere diffuso, è sostituito dalla composizione la cui misura è basata sulle qualità personali e
sociali della vittima; deve essere corrisposta dal colpevole e dai suoi parenti più prossimi. Il Corano fissa
direttamente la pena da erogarsi per comportamenti che mettono a rischio le basi dell’ordine sociale islamico
101
(apostasia, ribellione all’Islam, consumo di bevande alcoliche, brigantaggio, furto, rapporti extraconiugali).
Infine, il giudice sceglie la sanzione quando l’infrazione turna l’ordine di una società a potere centralizzato,
impegnata nella difesa dell’ordine pubblico (falsa testimonianza, falsificazione di documenti, alterazione di
pesi).
Il giudice e il giudizio.
L’arbitro tradizionale è stato sostituito dal qādī, il quale, chiamato alla funzione giudiziale, rende giustizia fra
i musulmani e occasionalmente fra gli infedeli. La fonte del suo potere è la delega del Califfo, ma se
necessario anche altre autorità possono investirlo di funzioni. Il qādī è giudice monocratico; può appoggiarsi
a consulenti giuridici; può delegare altri giudici. Il suo giudizio è inappellabile, ma poiché la decisione, pur
essendo esecutiva, non passa in giudicato, la sentenza può subire forme di revisione. La sentenza non è
motivata e non esiste un principio che vincoli il giudice al precedente.
Le consuetudini.
La šarī‘a non è imposta ai popoli che via via adottano l’Islam. Così come essi conservano la propria lingua,
così conservano il proprio diritto tradizionale, quando la consuetudine non urti contro un principio
inderogabile della šarī‘a. Tuttavia popolazioni islamizzate da secoli dimostrano di non voler abbandonare le
proprie consuetudini, così come non hanno abbandonato la propria lingua (es. Berberi, Somali).
Lo stratagemma giuridico.
Fra i cristiani è diffusa la concezione che non possano esistere conflitti tra soluzione giuridica divina e
assiologia giuridica sponsorizzata dalla ragione, perciò la ragione non si discosterà mai dal rispetto dei valori
protetti dalla volontà divina rivelata. Nell’Islam il rapporto tra il divino e razionale non è formulato con così
altrettanta chiarezza. La conseguenza è che il divieto posto da Dio non genera sempre interpretazioni
estensive e analogiche, e può essere neutralizzato mediante stratagemmi giuridici.
102
- un uomo di Dio può riunire intorno ad una regola un numero di confratelli, invitandoli alla pietà e alla
venerazione in comune di un santo. Le confraternite si appropriano per lunghi periodi e per un ampio
territorio dei compiti dello Stato; può vedersi come alternativa alle strutture universali della Comunità
islamica. Morto il fondatore della congregazione, la comunità si perpetua e predica il culto del santo
fondatore defunto;
- anche la vita privata del musulmano lascia intravedere interpretazioni diverse: talune etnie si tengono
lontane dalla poligamia; in alcune aree la poligamia implica che le varie spose convivano e i bambini
chiamino con un appellativo uniforme le varie mogli del padre; in altre aree si considera indecente che
le varie mogli di un unico uomo si frequentino, esse sono quindi sistemate in luoghi lontanissimi l’uno
dall’altro.
Le consuetudini.
In dati ambienti la consuetudine può penetrare all’interno dell’applicazione e dell’insegnamento della šarī‘a,
corrodendone i contenuti e facendo credere al musulmano in buona fede che una prassi consuetudinaria sia
legittimata dalla Rivelazione.
Da più di un secolo fra le aree islamiche si sente il bisogno di muoversi verso la modernità e la razionalità.
Questi movimenti riformistici possono anche condurre alla contestazione dell’Islam, o di alcune sue parti.
Tuttavia spesso accade che procedano restituendo la šarī‘a alla sua primitiva purezza, purgandola di
incrostazioni irrazionali e barbariche depositate dalla tradizione consuetudinaria.
Il pensiero riformista.
Non tutti i musulmani sono entusiasti del rapporto praticato tra Islam, insegnamento sciaraitico e diritto
applicato. Alcuni ritengono che un’applicazione integrale della šarī‘a sua impossibile o quanto meno in
ritardo rispetto ai bisogni della vita e alle idee moderne. Un primo atteggiamento (fine XIX secolo) chiese la
riforma delle tradizionali regole del fiqh; un secondo atteggiamento (seconda metà del XX secolo) si
pronunciò per l’applicazione integrale della šarī‘a e proponeva che questa venisse ridefinita ricostruendo con
nuovi strumenti la dottrina delle fonti e i metodi del ragionamento giuridico.
Si popone oggi di riaprire la porta dello sforzo e ricominciare a interpretare, ma la Comunità islamica
potrebbe non essere disponibile ad una simile operazione. Questa potrebbe implicare l’illazione che per
secoli l’Islam è vissuto di verità contestabili e mal certe, e potrebbe aprire la porta a divisioni laceranti e
dolorose nel corpo della Comunità.
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Di fatto la šarī‘a subisce la concorrenza di consuetudini e di codificazioni, oltre che da un altro fattore di
laicizzazione: a differenza del qādī, che viene formato nell’università coranica ed è uomo di Dio, il giudice
laico, che lo sostituisce, ha una formazione occidentale e, quando è chiamato ad applicare una šarī‘a sarà
indotto a costruirne i contenuti con una mentalità razionalista e modernista deformante.
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sentito il bisogno di opere ausiliarie che aiutino a dedurre dal dharma regole applicabili. Lo sviluppo di
queste opere contrassegna l’epoca del diritto indù (200-1100 d.C.).
Più tardi (XI-XVII secolo) si è sentita la necessità di opere che raccolgano tutte le fonti rivolte ad un dato
problema o ad un dato istituto: sono le nibandha (che possono essere estese a tutto il dharma o ristrette a uno
o più istituti). La moltiplicazione di nibandha e la diversa fortuna di ognuno di essi hanno permesso
all’induismo di segmentarsi di tendenze, che prevalgono in aree geografiche distinte.
106
raccolte di giurisprudenza, sistemate secondo i concetti e le categorie inglesi. Le lacune furono colmate
ricorrendo a Justice, Equity and Good Conscience, che comportarono l’applicazione dei principi inglesi.
Le alterazioni agirono nel senso di rendere le regole indiane più uniformi e più moderne. La parziale
anglizzazione del diritto indù portò a varie mutazioni notevoli: l’elemento tratto dal dharma assunse
l’andatura di una qualsiasi norma statale-positiva; la consuetudine venne sospinta in posizione marginale; la
consuetudine ebbe come diritto rivale e alternativo una fonte giudiziale.
Il potere britannico creò norme legali operanti in tutto il paese nei confronti di tutti gli abitanti, o destinate ad
un’area determinata del paese. Mise anche in funzione regole volte a modificare il solo diritto indù e
indirizzate a chi fosse soggetto a questo diritto. Le leggi britanniche hanno ad oggetto il diritto delle persone
e della famiglia, esse tendono ad abolire il sistema delle caste (Caste Disabilities Act, 1850) e a garantire la
capacità giuridica della donna.
Nella prima metà del XIX secolo fu programmata una codificazione tripartita volta ad edificare un corpus di
tutto il diritto pan-indiano territoriale, un corpus contenente tutto il diritto indù e un corpus contenente tutto il
diritto per i musulmani. Il programma ebbe attuazione solo per il diritto territoriale, inoltre l’interferenza
della legge nella vita indiana suscitò reazioni locali crescenti nel tempo e dovette ridursi drasticamente.
108
La prima Indian law Commission fu insediata nel 1835 e prese a progettare anche un codice penale. La
commissione intraprese un’opera di codificazione di regole conformi al modello inglese, e non a quello
indiano.
Nel 1860 entrò in vigore l’Indian Penal Code, applicabile a tutti in buona parte dell’India; l’anno prima entrò
in vigore il codice di procedura civile e poco dopo il codice di procedura penale; furono adottate diverse
leggi in materia di contratti, di prove, di trasferimento della proprietà, sul trust, sull’esecuzione forzata delle
obbligazioni, sui titoli di credito.
L’opera di legislazione penetrò anche nei settori che riguardavano le persone, la famiglia e le successioni.
Il diritto dell’indipendenza.
L’indipendenza del paese ha tagliato fuori dall’India le masse musulmane residenti in Pakistan e nel
Bengala, riducendo i grandi protagonisti della vita giuridica indiana a due: il diritto territoriale e il diritto
indù.
Nel 1950 la nuova Costituzione del paese ha sovrapposto al diritto vigente un testo giuridico in ben 395
articoli, situati ad un livello superiore, che costituisce una componente nuova nell’ordine giuridico indiano;
ha affrontato problemi che non esistevano al tempo dei britannici, e che si pongono in termini del tutto nuovi
dopo l’indipendenza:
Ø le lingue principali sono 15, appartenenti a 4 gruppi diversi; fra queste la lingua di maggiore
diffusione e prestigio è l’hindi. La lingua culturale è l’inglese, e l’unica lingua attualmente capace di
esprimere il discorso giuridico è l’inglese;
Ø il legame tra cittadino indiano e il diritto è molto più tenue del vincolo che intercorre fra cittadino e
diritto in Gran Bretagna;
Ø l’India è una federazione di 28 Stati, ogni Stato opera le proprie scelte linguistiche; a livello federale,
la lingua unificante dovrebbe essere lo hindi;
Ø il potere federale è legittimato ad intervenire negli Stati quando il mantenimento dell’ordine e della
pace lo esiga;
Ø la costituzione indiana non impaccia in modo eccessivo il legislatore ordinario. È facile da emendare
e consente alla maggioranza parlamentare di adattarla in ragione della volontà politica che via via
viene a prevalere;
Ø l’India è aperta alle codificazioni: un articolo della costituzione auspica la promulgazione di un
codice civile unificato per tutta la nazione;
Ø al vertice della piramide giudiziaria si trova la Corte suprema federale, con sede a Nuova Delhi; è
presieduta dallo Chief Justice of India ed è composta da 25 giudici; sono tutti nominati dal
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presidente della repubblica. La corte suprema ha una molteplicità di funzioni: opera come Corte
Costituzionale, pronunciandosi sulle eccezioni di incostituzionalità sollevate contro leggi federali e
leggi statali, interviene quando sia violato un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione;
giudica anche come giurisdizione di ultima istanza per le cause civili. Può inoltre avocare qualsiasi
vertenza giudicata da un tribunale indiano.
La Corte è arbitra della propria procedura, che definisce mediante un autoregolamento approvato dal
presidente della repubblica; non è tenuta a rispettare i propri precedenti, mentre ogni altra corte è
vincolata all’insegnamento della Corte suprema. I giudici, fatta salva la fedeltà dovuta alla Corte
suprema, si attengono ai precedenti fissati all’interno di ogni Stato.
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Il sistema illustrato non regnò sempre nella Cina imperiale: nel periodo storico dei “regni combattenti” (III
secolo a.C.) si divulgò la dottrina dei legisti i quali insistettero sulla necessità di preregolare mediante
prescrizioni legali uguali per tutti la condotta dei cittadini e le decisioni dei giudici. L’avversione all’etica
111
confuciana divenne metodica nel breve periodo della dinastia Qin (221-206 a.C.), che riunificò il paese.
Le gerarchie, i compiti, le virtù.
L’ordine della società cinese è affidato in larga misura al “fen”, principio di giustizia distributiva. La
collocazione del soggetto nel rango che gli compete assicura, mediante la varietà dei ruoli e dei trattamenti,
l’armonia sociale cui mira la morale. Il “fen” garantisce le disuguaglianze fra i soggetti, modellando la
relazione fra principe e suddito, fra padre e figlio, fra marito e moglie, fra fratello maggiore e fratello
minore.
Un criterio importante è la dottrina del governo attraverso la storia, elaborata da Dong Zhong-shu. Secondo
questo filosofo, il precedente storico, manifestazione terrena di una legge cosmica universale, deve essere
integrato mediante il ricorso all’estensione analogica, e poi utilizzato per ricavarne la regola da seguire nel
futuro.
La filosofia illumina le regole che condizionano il reclutamento degli amministratori e la loro promozione,
le loro posizioni reciproche e gerarchizzate, le virtù che essi devono avere; l’amore per la virtù, cui la
filosofia inneggia, unisce l’immensa piramide burocratica, che, sotto la guida dell’imperatore, cura la
gestione degli affari statali.
Alla base della società figura la compatta famiglia clanica, ove il legale è assicurato dal culto che tutti gli
uomini del gruppo rendono ai comuni antenati: il padre ha poteri sui figli e nipoti, il figlio non ha poteri sui
beni, ubbidisce al capofamiglia in tutto; il capofamiglia è personalmente responsabile per la condotta di chi
gli è soggetto; il marito ha autorità sulla moglie, il matrimonio è monogamico, ma l’uomo può avere delle
concubine.
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La Cina rivela anche nel diritto la ricchezza delle sue risorse e delle sue soluzioni: la fonte imperiale si
spartiva il campo, anzitutto, con gli statuti dei clan e delle corporazioni; è un paese di consuetudini, note
tanto al magistrato imperiale quanto ad organi di giustizia più vicini alle strutture sociali decentrate.
La letteratura cinese che ci parla del confucianesimo e delle leggi, tace delle consuetudini: esse non erano
né ammirate, né sacralizzate, né interessavano la politica da vicino.
Queste consuetudini non erano completamente ignorate dagli organi dello Stato: quest’ultimo se ne
occupava controllando la gestione della giustizia a livelli sociali di base. Inoltre, il giudice statuale doveva
informarsi bene sulle consuetudini e decidere tenendone conto. Esse rientravano nel mondo del diritto dello
stato per il rinvio fatto dal sentimento umano cui il giudice doveva ispirarsi.
La giurisprudenza era fonte di persuasione giuridica: le decisioni più importanti erano spesso aggregate al
codice in occasione di una revisione specifica periodica o di una ricodificazione. A varie riprese sono state
redatte delle raccolte di giurisprudenza.
Mancava in Cina una fonte di diritto di stampo dottorale, perché mancava una vera letteratura giuridica, e
questa non esisteva perché il giurista non esisteva.
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della famiglia era il culto da prestare agli antenati, il pilastro era l’obbedienza al capofamiglia. La parentela
creava gruppi a due livelli: il clan e la famiglia. Il clan si componeva dei discendenti di un comune
capostipite, collegati dal fatto che prestavano il culto agli stessi antenati comuni. Appartenevano alla
famiglia le mogli dei figli maschi, ne uscivano le figlie sposate ad estranei. Diritti e poteri appartenevano al
capofamiglia; il vincolo familiare obbligava all’omertà e alla vendetta. Il matrimonio era concordato dai
parenti, e creava un vincolo tra le due famiglie. L’uomo poteva avere una moglie principale e alcune
concubine o mogli secondarie. Il marito poteva ripudiare la moglie principale in sette ipotesi, e poteva
ripudiare la concubina senza limiti. La moglie non poteva ripudiare il marito. Alla carenza di figli si
provvedeva con l’adozione di un giovane membro della famiglia, e così si assicurava la continuità del culto
degli antenati. Solo i maschi succedevano per causa di morte. Il testamento era sconosciuto. Il clan e la
famiglia provvedevano direttamente alla giustizia nel loro interno, in conformità con regole consuetudinarie
molto variabili: il capoclan era giudice naturale, e poteva infliggere pene corporali, pene pecuniarie, fino alla
espulsione dal gruppo.
Sulla terra esistevano diversi diritti: il diritto dell’imperatore, contrapposto al diritto del mandarino
assegnatario, il diritto del villaggio, e il diritto del contadino concessionario. La grande proprietà agraria si
sviluppa in latifondo-comunità territoriale, cioè un piccolo stato in cui si svolgeva una certa attività
giurisdizionale-correzionale.
Artigiani e commercianti costituivano corporazioni professionali, le quali adottavano un regolamento, e
garantivano il rispetto delle consuetudini, a tal fine mettendo in funzione organi giurisdizionali.
Nel villaggio e nel quartiere operavano capi locali, che si interessavano al conflitto per procurare una
conciliazione, che riusciva grazie anche alla cooperazione delle persone in grado di influire; se invece non
riusciva, l’operatore rimetteva la questione al funzionario dello stato competente.
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§ Nel 1910, fu pronto un codice che rifiuta la pena della fustigazione e depenalizza il diritto matrimoniale,
dei beni e successorio. Per la parte civilista, questo codice è rimasto in vigore fino al 1929.
§ Nel 1911, l’ultimo imperatore della dinastia Qing abdicava, aprendo la porta ad una repubblica
manifestamente sensibile ai modelli occidentali. L’uomo politico che fondò la repubblica, articolò lo
Stato sulla base della separazione dei cinque poteri: legislativo, giudiziario, esecutivo, e gli organi di
controllo e di esame.
§ Dopo il periodo di assestamento (1921-1927), vennero promulgati vari codici, visibilmente ispirati ai
modelli europei. Fu programmata la redazione di 6 codici, il cui numero è stato elevato a 11: la
Costituzione, il codice civile, il codice dei commercianti, il codice penale, il codice di procedura civile e
il codice di procedura penale, leggi agrarie, leggi della società, titoli di credito, leggi del commercio
marittimo, leggi delle assicurazioni.
Tre diverse costituzioni furono adottate nel 1931, nel 1936 e nel 1947; il codice civile risente invece del
modello tedesco, giapponese e svizzero. In materia penale, si sono succeduti tre codici, del 1912, 1928 e
1935 (quest’ultimo risente del codice Rocco del 1930). Il sistema delle fonti fece posto ai precedenti
giudiziari. I tribunali vennero organizzati in tre livelli di istanza, e le funzioni del PM vennero tenute
distinte da quelle del giudice; i giudici erano professionali, con esclusione di ogni giuria.
Questi codici, estranei alla tradizione del paese, non sono penetrati in profondità nella vita dei cinesi;
sono rimasti in vigore fino al 1949 in tutta la Cina e, dopo d’allora, a Taiwan.
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Il campo delle relazioni industriali e del diritto del lavoro ha visto la regolamentazione dei sindacati, del
miglioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro e altre misure per la protezione del lavoratore.
Il diritto penale risente del nuovo clima: sono state abrogate le norme sui reati contro la famiglia reale,
cancellata l’incriminazione dell’adulterio.
Sono più significative le modifiche apportare alla procedura civile: si dà spazio alla concezione accusatoria
della procedura, riducendo i poteri di iniziativa del giudice.
Nell’area della procedura penale un nuovo codice è stato promulgato nel 1949: questo vede l’apparizione del
modello accusatorio, la non obbligatorietà dell’azione penale, l’esclusione della prova per sentito dire.
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Dal punto di vista linguistico, la fissazione della consuetudine nello scritto implica sempre il travaso delle
idee di un popolo senza scrittura e senza giuristi nei filtri concettuali dei giuristi dotti appartenenti ad un dato
sistema. Dal punto di vista della struttura della norma, bisogna dire che chi riduce in scritto la consuetudine
indica l’elenco degli elementi presenti nel fatto che ha dato luogo al conflitto, e non può menzionare altre
variabili. Questa flessibilità della norma tradizionale è ben nota a chi parla il diritto africano, e viene evocata
osservando che non sempre il conflitto troverà una norma di merito che lo regoli, e che il compito del
giudizio sarà quello di rinsaldare la coesione del gruppo.
La regola che impone una certa rilevanza alla variabile estranea al fatto di causa potrà sopravvivere alla
verbalizzazione e alla riduzione in scritto del diritto consuetudinario.
Questa regola che opera silenziosamente sarà tanto più rigogliosa quanto più il processo e il diritto saranno
pervasi dal soprannaturale.
Tradizione e sacralità.
La norma africana subsahariana è permeabile al sacrale: la sacralità è una sua dimensione. Si sente dire che il
diritto africano è sempre spostato al soprannaturale. Dove vince la šarī‘a è spostato al divino; a sud del
Sahara è spostato al sacro.
Questa contestazione è ottima per comprendere le regole e le situazioni africane, tuttavia alcune riserve
devono essere elevate sul suo carattere assoluto: innanzitutto, le società africane tecnologicamente meno
avanzate non sembrano utilizzare il mondo soprannaturale per i bisogni del diritto; la contrapposizione tra la
fede religiosa e la sacralità tradizionale non può essere netta, date le frequenti sopravvivenze di momenti
sacrali-magici, formalmente incompatibili con la ortodossa islamica, che però si perpetuano in scenari
islamici; infine, esistono aree africane in cui la consuetudine è laica: verosimilmente si tratta di consuetudini
che hanno potuto sopravvivere all’islamizzazione o alla cristianizzazione, a patto di spogliarsi della
legittimazione sacrale tradizionale (incompatibile con la religione).
Il sacro legittima il potere. Il capo ha contatti con personaggi ultraterreni e ciò gli permette di diffondere
vantaggi e benefici alla società.
I rapporti fra le persone si intendono permeabili agli influssi malefici che molti soggetti esercitano sul
prossimo; contro essi giova ricorrere all’opera di specialisti.
La parentela e la famiglia.
L’appartenenza ad una stessa famiglia non si basa, come in Europa, sul legame tra entrambi i genitori e il
figlio: può avvenire il legale familiare esista solo fra madre e figlio, oppure solo fra padre e figlio; può
avvenire che la parentela fra figli di due fratelli o di due sorelle (cugini paralleli) sia strettissima da impedire
il matrimonio, e che invece la parentela fra figli di un fratello e una sorella (cugini incrociati) sia considerata
remota e dia luogo ad una prelazione matrimoniale.
La scelta del coniuge è dominata da regola fondamentali: ovunque si lotta contro l’incesto; ovunque il
matrimonio è visto come legame tra due famiglie; ovunque il marito versa un corrispettivo per acquistare la
moglie (in cambio gli apparterranno i figli e i frutti delle opere della sposa).
A seconda delle culture, poi, il matrimonio può essere monogamico o meno; in alcuni casi è ammesso il
divorzio in altri no; in alcuni casi la nuova famiglia vivrà dove vive la famiglia dello sposo (matrimonio
virilocale), in altri dove vive la famiglia della sposa (matrimonio uxorilocale).
Nell’Africa subsahariana sono rilevanti le diverse cerchie determinate dalla discendenza comune da un
capostipite di cui si racconta ma con un ricordo incerto. In ogni caso, il defunto è sempre virtualmente
presente, partecipa alle decisioni, ha esigenze proprie che vengono rispettate.
Nell’Africa del nord e ad est del Sahara la famiglia è regolata dal diritto religioso.
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Il contratto e lo scambio.
Il contratto, inteso come convenzione a carattere patrimoniale, non ha la stessa importanza che ha in Europa.
Le prestazioni si scambiano fra soggetti non estranei. Sono parti negli scambi gli uomini vivi, i defunti, la
terra, gli dei. Ciò che è importante è il sentimento della corrispettività fra due prestazioni.
Il contratto-accordo non ha un riconoscimento generalizzato. L’accordo può reggere in virtù di
sacralizzazioni o solennità variabili dall’una all’altra cultura.
Valgono gli obblighi restitutori derivanti dalla consegna di una cosa, oppure quelli rivolti a promuovere
un’attività comune.
Far le attività svolte collettivamente deve essere ricordata la caccia. Le regole sulla caccia e sul riparto della
selvaggina hanno importanza primaria nelle culture dei popoli dei Pigmei e dei San.
A nord e ad est del Sahara le obbligazioni e i contratti sono retti da norme sciaraitiche o altre regole culte.
L’infrazione e il conflitto.
Il diritto tradizionale conosce bene l’idea del fatto illecito, che merita e scatena una sanzione, ma non
distingue tra responsabilità civile e penale: fa una distinzione tra reazione del gruppo offeso e reazione della
comunità.
La vendetta è posta in essere dal gruppo dell’offeso contro il gruppo dell’agente. Essa è ritualizzata, e
denominata dal principio di uguaglianza fra la vittima del delitto e la vittima della reazione; inoltre si ispira
di norma alla legge del taglione. Il gruppo responsabile può esonerarsi espellendo dal proprio seno l’agente.
Un surrogato della vendetta è il pagamento di una pena privata.
Taluni illeciti mettono a repentaglio i rapporti fra le comunità: in questi casi dovrà intervenire la società
imponendo un giudizio. La prova si collegherà all’assunzione di un veleno, o al contatto con un metallo
rovente, o al comportamento rivelatore di un animale appropriato, o al giuramento, o ad una inchiesta.
Le pene sono molto varie, ora afflittive ora indirizzate alla riparazione psicologica; fra le sanzioni punitive fa
spicco l’esclusione del gruppo.
Nelle comunità di raccoglitori-cacciatori sono importanti l’autodifesa, la guerra e l’allontanamento reciproco
dei litiganti. Il giudizio non è sviluppato.
A nord e ad est del Sahara, il magico non ha preso sul giudizio, e il compito di dirimere il conflitto è affidato
ad un giudice professionale, insediato dallo Stato.
Il potere politico.
Per quanto riguarda il potere politico, in buona parte dell’Africa a sud del Sahara la società esprime un potere
centralizzato, normalmente nelle mani di un re, spesso di natura divina, e dotato di poteri dispotici.
L’accesso al trono è riservato ad una data etnia, un dato linguaggio e una data famiglia. il trono verrà
attribuito secondo una regola (es. prevale il più anziano o il primogenito) o secondo l’esito di una guerra di
successione ritualizzata.
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Spesso accanto il potere regale, troviamo contropoteri di vario tipo o poteri locali. Se il potere è collegiale le
decisioni sono prese all’unanimità.
Il re sarà spesso circondato da una corte, i cui membri accedono per sua nomina o per diritto proprio. Nella
società africana ha un suo posto l’aristocrazia. Diversa è la società segreta, operante in alcune aree.
La presenza di un surplus di produzione consente l’istituzionalizzazione di tributi cui segue una
redistribuzione a pioggia a favore dei singoli.
Spesso fioriscono, nelle società africane, l’artigianato, il commercio, l’estrazione e la lavorazione di vari
metalli.
Nell’Africa tradizionale manca una sapienza affidata ad un collegio consapevole della propria responsabilità,
e capace di legittimare il potere e la sua trasmissione. La scrittura, dove esiste, non genera l’archivio, né
genera il sistema tributario capillare e razionale, né l’elaborazione delle norme giuridiche formalizzate
mediante la lettera.
A nord e ad est del Sahara il potere centralizzato si identifica con il potere statuale.
Vi è, però, un’altra Africa in cui questo potere centralizzato manca: si tratta delle c.d. società “a potere
diffuso”. In tali società il gruppo provvede alla difesa dei propri membri e dei beni di questi ultimi mediante
autotutela.
La tribù si divide in clan, i clan in lignaggi, il lignaggio in famiglie. Fuori delle famiglie non esistono autorità
dotate di un potere proprio. Non si costituiscono società segrete né gruppi di età. Sono note forme di
aggregazione convenzionale al gruppo, su base paritaria o clientelare, con effetto perenne o temporaneo;
queste adozioni simulano la consanguineità.
Il matrimonio è regolato dalla šarī‘a; la donna è esclusa dalla successione.
La proprietà è individuale, ma lo statuto del bene lo vincola al gruppo con clausole che vietano l’alienabilità.
La responsabilità, in via di principio, dà luogo alla vendetta. L’uccisione del fratello, del figlio, del padre non
daranno luogo a sanzione.
Il conflitto può dar luogo ad un combattimento, che sarà seguito da una trattativa ed un accordo di pace. La
tribù ha un organo assembleare, formato dai maschi adulti saggi; l’assemblea ha un presidente, eletto con
rotazione (in certi casi ereditario).
Il giuramento ha importanza centrale, per garantire un patto, asseverare un diritto, o decidere una vertenza.
La variabilità dell’islam.
L’islam africano è uniformemente sunnita. Le quattro scuole ortodosse non incidono in maniera profonda sul
messaggio islamico concernente il diritto; tuttavia troviamo volti ed atteggiamenti diversi nelle diverse aree:
- troviamo in alcune zone (es. Senegal) al centro della scena sociale la confraternita, stretta intorno ad
un capo, che è il direttore spirituale ed anche condottiero militare. La confraternita svuota dei poteri
lo Stato.
- In altre aree troviamo un islam severo nei riguardi del culto dei santi, o aperto ad essi. Le due
tendenze si sono contrastate in sanguinose guerre.
- In alcune aree fiorisce il rispetto delle prerogative che competono ai discendenti del profeta, ai
quarisciti, membri della tribù del profeta, e agli arabi. Tra questa prerogative sono importanti la
capacità di diffondere la grazia intorno a sé, la santità ereditaria, ecc.
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Anche i dettagli della condotta esterna possono essere influenzati da tradizioni e interpretazioni locali: c’è
una Africa islamica in cui le mogli del marito poligamo convivono e un’Africa islamica in cui le mogli
vivono a grande distanza l’una dall’altra; ci sono aree dove la donna si vela, e aree in cui essa lascia il volto
scoperto.
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- quando si voleva introdurre in Africa un sistema di protezione dei lavoratori, il diritto africano non
offriva modelli, e bisognava ricorrere a prestiti europei.
L’applicazione del diritto africano poteva imbattersi in difficoltà di varia natura: l’autorità europea,
responsabile dell’ordine pubblico, non poteva tollerare a lungo il permanere della schiavitù e della vendetta
tribale; l’intolleranza verso le tradizioni obbliga l’europeo a controllare l’amministrazione della giustizia
operata dagli africani; si manifestava una intolleranza europea verso la commistione fra il giurisdizionale e il
magico, così come insorgeva una più o meno marcata diffidenza verso il giudice non professionale e non
giurista, e verso la norma giuridica non verbalizzata.
Il diritto europeo si applicava ai rapporti “misti”, in cui erano parti un africano e un europeo; si insinuava nel
regolamento di fattispecie estranee alla tipologia tradizionale; talora si consentiva all’africano di sottoporre il
proprio statuto personale o il proprio rapporto alla regola europea. Ecco che alcuni settori del diritto europeo
rimasero del tutto estranei all’Africa (ad esempio il diritto costituzionale): ciò che il paese metropolitano
affermava in Europa, cozzava in Africa, con la disparità di trattamento dell’europeo e dell’africano, e con il
rifiuto a priori del diritto all’indipendenza.
La decolonizzazione.
A partire dagli anni ‘30 iniziò il processo di decolonizzazione, e intorno al 1960 le colonie africane
divennero Stati indipendenti.
Questo non significa che scomparve l’influenza occidentale sul diritto africano: in un primo momento, questi
Stati indipendenti mantennero legami confederali con la potenza coloniale. Nei paesi africani funziona
un’assistenza tecnica europea, che è prestata dal Paese colonizzatore; essa suole estendersi alla scuola, e
consente al Paese operante di diffondere la propria lingua e la propria cultura.
La modernizzazione dell’Africa esige procedimenti che il Paese africano non può permettersi: il Paese ex
colonizzatore può essere presente, offrire i mezzi materiali ed esercitare un’influenza determinante. Per fare
alcuni esempi, si tratta de l’Organisation pour l’Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires, che riunisce
le ex colonie francesi dell’Africa subsahariana; del COMESA, che raccoglie i Paesi africani sotto influenza
britannica.
Anche l’Unione Europea ha istituzionalizzato vincoli con i paesi ex coloniali dell’Africa subsahariana;
inoltre i Paesi africani partecipano alla vita internazionale.
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Al momento dell’indipendenza, per il tramite del partito, o senza esso, l’Africa affidò sé stessa ai laureati,
che univano la radice africana e il possesso degli strumenti con cui, nel mondo avanzato, i governanti
guidano il proprio paese.
L’opzione socialista.
Una serie di circostanze poteva suggerire al potere africano di optare per il “socialismo scientifico”, allora
vittorioso in URSS e in Cina.
Dove ciò avveniva, venivano sciolti i partiti, e reclutati e indottrinati i membri del partito socialista; venivano
strutturati gli organismi paramilitari e di massa che dovevano fiancheggiarlo. Le condizioni africane
suggerivano di non programmare una collettivizzazione generale dei mezzi di produzione e di attestarsi su
una linea meno ambiziosa. Vasti poteri venivano poi concentrati nelle mani del capo dello Stato. Con il
tempo si redige una costituzione e si elegge un’assemblea nazionale. La lotta contro i particolarismi e contro
i privilegi etnici o castali si portava a tutte le conseguenze, e si perseguiva l’uguaglianza giuridica della
donna e dell’uomo.
Nel campo economico si redigevano programmi di obiettivi da raggiungere, si pubblicizzavano imprese
industriali o del ramo terziario, si riservava allo Stato il monopolio sul commercio all’ingrosso, si regolava il
prezzo dei prodotti agricoli, si creavano fattorie agricole collettive, si proclamava lo Stato proprietario della
terra, ma non si organizzava la gestione statale di quest’ultima, che rimaneva nelle mani dei precedenti
possessori, si confermava il regime fondiario concessionario preesistente, un diritto penale e processuale
garantiva il rispetto delle direttive politiche del regime.
Dal 1989, l’opzione socialista fu abbandonata in ogni parte dell’Africa.
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Fino alla fine del secolo scorso, il potere politico veniva normalmente acquisito mediante incruenti colpi di
mano, che potevano susseguirsi a ritmo rapido. La scarsa considerazione per la democrazia maggioritaria si
accompagna ad una disponibilità alla sottomissione del capo unico dotato di vasti poteri, fondato su
sponsorizzazioni di tipo carismatico. Inoltre, mancano ragioni condivise da tutti per una divisione dei poteri
di tipo europeo.
I caratteri del costituzionalismo africano dipendono:
• da una concentrazione di potere nelle mani del capo dello Stato, che normalmente detiene la
presidenza del partito unico o egemone. Si pensa che egli perpetua la figura del re di origine divina;
• in secondo luogo, in molti casi il potere è finito nelle mani dei militari, che lo hanno acquisito
mediante colpi di Stato. In alcuni casi le forze militari rappresentano una determinata etnia che,
attraverso le stesse, acquistano una posizione egemone (le forze militari si schierano a favore
dell’accentramento amministrativo).
Il potere presidenziale e quello militare sono adatti a convivere con il potere del partito, cui compete il
compito di promuovere e canalizzare l’adesione dei cittadini all’ordine politico instaurato nel paese dato. In
una cultura come quella africana, dove la democrazia è fondata sull’unanimità, la presenza di forze opposte
delegittimano il potere. Una serie di accorgimenti tenderà a negare o attenuare il contrasto fra partiti (quelli
diversi da quello al potere possono venire sciolti); si può promuovere un fronte unitario di partiti esistenti, o
assorbire partiti minori in quello più forte; si può anche riservare il 100 % dei seggi al partico che vince le
elezioni; si potrà sottoporre a speciale autorizzazione la partecipazione delle varie forze al confronto politico.
Con il crollo del potere comunista in Europa, il sistema del partito unico ha perso credito in tutto il mondo;
inoltre, il sistema dei colpi di Stato ha dato luogo a guerre civili che hanno paralizzato la vita dello Sato. Gli
Africani prendono a considerare i vantaggi del sistema pluripartitico.
Qua e la si percepiscono tentativi di ammorbidire i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
Tuttavia manca una soluzione per il problema centrale del diritto pubblico africano: l’africano è legato
all’etnia più che allo Stato, si identifica con l’etnia e non con lo Stato: la prima è naturale, il secondo è
artificiale. Tuttavia l’etnia non è abbastanza numerosa né per provvedere alla propria difesa né per
giustificare la creazione di servizi basati sulla comunicazione linguistica, quali quotidiani, università, rete
ospedaliera. Inoltre, in ogni singolo territorio sono frammischiati africani appartenenti a etnie diverse. Per
ora, manca una struttura pubblica in cui l’africano possa identificarsi e che sia idonea a provvedergli i servizi
di cui ha bisogno.
La proprietà fondiaria.
Il diritto fondiario non è uniforme in Africa, come del resto negli altri Stati. Troviamo l’alternarsi delle figure
giuridiche che seguono:
- il fondo è legato ad un gruppo, all’interno del quale avviene una distribuzione di aree fra i gruppi
minori o le famiglie. Questo tipo di proprietà ha forme diversificate, perché possono variare le
qualità del gruppo (villaggio, tribù, famiglia);
- il soggetto del diritto non ha interesse ad effettuare investimenti importanti sul bene, non ha il potere
di alienare quando il terreno sia improduttivo, non può ipotecare per procurarsi i mezzi occorrenti
per una bonifica;
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- Europei e africani indipendenti hanno manifestato ostilità nei confronti della proprietà tradizionale, e
la legge in alcuni paesi l’ha addirittura abolita (almeno sulla carta).
- Per introdurre una proprietà dinamica, si è pensato di ricorrere all’immatricolazione del bene; si sono
strutturati i libri fondiari come migliore difesa del proprietario; si è subordinato il riconoscimento del
diritto di proprietà all’intavolazione del fondo. Tuttavia, la diffusione dei libri fondiari è stata
ostacolata dalla macchinosità del procedimento, dai costi, dall’ignoranza del diritto;
- i riformatori hanno pensato di rendere dinamica la proprietà africana mediante la valorizzazione
obbligatoria del suolo. Si espropriano i terreni non sfruttati, si elaborano piano di valorizzazione;
- l’espropriazione delle aree non valorizzate suggerisce di creare un “patrimonio fondiario nazionale”,
destinato a redistribuzioni che seguiranno il meccanismo della concessione (la proprietà
concessionaria può rappresentare un potente strumento di collegamento fra il potere politico e il
cittadino meritevole).
La famiglia.
Nel diritto africano tradizionale ha importanza centrale la famiglia estesa. Il matrimonio è concluso dalle
famiglie estese. Esse consentono allo scambio, che assicura alla famiglia della sposa una importante “dote”,
e alla famiglia dello sposo i frutti del lavoro della sposa, e i figli che essa partorirà. Il consenso dei coniugi è
richiesto qua e là: dove non è richiesto è possibile il matrimonio tra bambini. La morte del marito non risolve
sempre gli effetti del matrimonio.
I coniugi devono appartenere alla stessa tribù, e avere pari rango castale; i beni della moglie, salvo i frutti del
lavoro, sono gestiti dalla proprietaria. La moglie è soggetta al marito. Il matrimonio è risolubile, la poligamia
ammessa.
La pubblicità degli atti rilevanti per lo stato civile non è basata su memorizzazione (documenti).
Queste regole sono state “aggredite” dal diritto legislativo: le potenze coloniali offrono all’africano la facoltà
di assoggettarsi alla regola europea.
La legge identifica ovunque il matrimonio come consenso degli sposi, ma la vecchia concezione lascia
sopravvivenze. La dote è vietata, o almeno cancellata dai requisiti di validità del matrimonio. la poligamia è
un male da combattere, ma il legislatore sa che un divieto legale può avere come conseguenza una
indesiderata proliferazione delle unioni non legittime. La nuova coscienza africana tende a respingere
l’attribuzione al marito dei frutti del lavoro della donna; il salariato femminile rafforza questa evoluzione e
apre le porte alla comunione dei redditi.
Tuttavia il contesto africano non riesce a recepire queste soluzioni europee senza difficoltà. Modelli europei
hanno diffuso nel diritto legale di alcuni paesi africani l’obbligo, imposto al marito, di mantenere la moglie;
il diritto legale combatte le gerarchie familiari, poste a favore di ascendenti, di uomini, di primogeniti; il
diritto legale ama il formalismo e la legalità: prevede il matrimonio celebrato con l’intervento dell’organo del
pubblico potere, e instaura i registri dello stato civile. Tuttavia in questi settori non ottiene risultati
convincenti.
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