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FORZE INTERMOLECOLARI

Sono le forze responsabili di alcune interazioni tra molecole. Lo stato fisico della materia dipende proprio dal bilanciamento di forze attrattive e
repulsive e dall’energia cinetica. Se l’energia cinetica è molto alta le molecole saranno separate (gas), se invece prevale la forza attrattiva le
molecole tenderanno a stare più vicine. Da questo dipendono infatti le caratteristiche delle diverse fasi in cui la materia si può trovare:

 GAS  E cinetica alta  forze attrattive deboli


 LIQUIDO  E cinetica bassa  forze attrattive medie
 SOLIDO  E cinetica bassissima  forze attrattive alte

Si può passare da uno stato all’altro fornendo energia sottoforma di calore e un’altra cosa da considerare è la densità che è maggiore nei solidi
rispetto ai liquidi, che a sua volta è maggiore rispetto ai gas (ad eccezione dell’acqua in cui il liquido è più denso del solido a causa legami a
idrogeno)

DISTINZIONE TRA INTERMOLECOLARI E INTRAMOLECOLARI:


INTERMOLECOLARI= forze attrattive tra molecole;
INTRAMOLECOLARI= forze che tengono insieme gli atomi nelle molecole, cioè i legami chimici veri e propri.

Le energie in gioco in queste forze sono molto diverse poiché mi serve molta più energia (930KJ) per rompere un legame chimico (intra) che
per vaporizzare una molecola di H2O (41KJ)(inter), dunque sono più deboli le forze intermolecolari rispetto alle intramolecolari.
[per misurare le forze intermolecolari abbiamo bisognio dei punti di fusione e ebollizione e delle entalpie]

TIPI DI FORZE INTERMOLECOLARI:

 forze attrattive ione-molecola polare (molecola polare che si orienta a seconda della carica dello ione), mettendo ad esempio uno
ione in soluzione avviene il fenomeno di solvatazione, cioè le molecole d’acqua si dispongono in un modo preciso. A seconda della
carica e della dimensione dello ione si avvicineranno un certo numero di molecole d’acqua;
 forze di dispersione che si hanno con molecole che non sono polari ma che possono formare dei dipoli indotti che sono temporanei
(può essere o ione-dipolo indotto o molecola polare-dipolo indotto). Queste forze dipendono dalla polarizzabilità, cioè come gli
elettroni si distribuiscono attorno agli atomi (aumenta all’aumentare del numero di elettroni), che a sua volta dipende dalla massa
molare (più elettroni e quindi più possibilità di polarizzare rispetto a una molecola isolata).
 legame a idrogeno che si genera quando un atomo di H è vicino ad atomi fortemente elettronegativi (O N F) (es: ho un gruppo OH
che si avvicina a un altro OH e l’H di uno si lega all’O dell’altro H2O, è quindi responsabile della minore densità del ghiaccio). Si
tratta di un legame direzionale che si verifica solo in determinate direzioni.

MATERIALI

Un esempio di materiale ibrido sono le ossa, sono infatti composte da collagene (organica) ma hanno anche una parte inorganica,
l’idrossiapatite, un carbonato di calcio. Il maya blu è un pigmento di colorazione blu molto intenso, è composto da indaco e sabbie, cioè argille.
Questo materiale ha delle caratteristiche molto particolari, l’indaco è stata incapsulata all’interno delle argille, la colorazione infatti è rimasta
per migliaia di anni. Possono anche essere classificati in base alle proprietà:

 METALLI= facilmenre modellabili, corrodibili, alta conduttività termica e elettrica;


 CERAMICI= materiali inorganici non metallici, isolanti, duri e fragili, non ossidabili e isolanti;
 POLIMERI= materiali organici macromolecolari, modellabili e con scarsa resistenza meccanica, termica e chimica
 Inoltre ci sono MATERIALI COMPOSITI che sono combinazioni di più materiali.

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La suddivisione in queste tre classi è basata sulla natura dei legami chimici e delle loro proprietà ma ha un certo grado di arbitrarietà (Es:
diamante può essere considerato polimero ma anche ceramico)

Un’altra cosa da tenere presente, oltre alle classi di materiali, è il modo in cui la materia è organizzata, quindi i diversi livelli della materia:

1. LIVELLO SUBATOMICO= interazioni di elettroni e nuclei negli atomi che fornisce la base per comprendere il comportamento elettrico,
magnetico, termico e ottico dei materiali;
2. LIV. ATOMICO E MOLECOLARE= interazioni che conducono ai diversi strati della materia;
3. LIV. MICROSCOPICO= distribuzione degli atomi e molecole nello spazio (informazioni di cristallinità e aggregazione amorfa)
4. LIV. MACROSCOPICO= proprietà misurabili in laboratorio su un volume di materiale e dipendono dalla media degli stati microscopici.

In generale il comporamento di un materiale è caratterizzato dalla sua reazione a una sollecitazione esterna, infatti posso classificare le
proprietà in base alle sollecitazioni:

 PROPRIETÀ MECCANICHE deformazioni in seguito a una forza di tipo meccanico


 PROPRIETÀ ELETTRICHE E MAGNETICHE comportamento di un materiale sotto l’effetto di un campo elettrico o magnetico
 PROPRIETÀ TERMICHE effetti prodotti da una sorgente di calore
 PROPRIETÀ OTTICHE effetti prodotti da una sorgente di luce

L’effetto di una sorgente energetica esterna è duplice, infatti avrò un trasferimento di energia e un trasporto di energia. L’intensità e la
modalità dei fenomeni sono legate alla struttura microscopica del materiale: per esempio nel caso dei solidi dipenderà la natura cristallina o
amorfa e quindi la presenza di eventuali difetti e la natura dei legami.

Dunque la comprensione di molte proprietà fisiche dei materiali è legata alle forze interatomiche e
bisogna tenere presente che per tutti i tipi di atomi vale lo schema di dipendenza della interazione dalla
distanza, ovvero a grandi distanze le interazioni sono trascurabili, ma quando gli atomi si avvicinano si
generano forze attrattive e repulsive. (se troppo viciniforza di repulsione)

LEGAMI CHIMICI:

 ionico (tra catione e anione e gli ioni andranno a sistemarsi nei solidi in moto da preservare
l’elettroneutralità, inoltre il rapporto tra raggi ionici determina la geometria dell’intorno di
uno ione, ovvero il poliedro di coordinazione). Si tratta di un legame non direzionale molto
forte con un’energia di legame di circa 580-1000 kJ/mol
 covalente (legame direzionale che limita l’impacchettamento, dato che gli atomi non si
possono disporre liberamente), con un’energia di legame di circa 60-700 kJ/mol
 metallico (non è direzionale, si hanno elettroni di valenza delocalizzati) 110-350 kJ/mol.

I legami fra molecole nei liquidi non sono forti, le molecole possono fluire, riducendo l’agitazione termica i legami tra molecole diventano più
stabili e si forma una massa rigida ovvero una disposizione ordinata delle molecole che è più probabile poiché avra un’energia minore. Ciò
corrisponde a un solido cristallino, ovvero un solido con una ripetizione regolare e periodica degli atomi nello spazio.
Se invece trattiamo le caratteristiche dello stato solido (e quindi dei materiali) le forze attrattive tra particelle prevalgono sull’agitazione
termica e quindi la libertà di movimento è limitata e rimangono possibili solo le oscillazioni intorno alla posizione di equilibrio (moti
vibrazionali). Tutte le sostanze si possono trovare allo stato solido e ciò dipende dalla temperatura, infatti l’intervallo di temperatura in cui ciò
si verifica dipende dalle forze di interazione tra le particelle.

Le caratteristiche comuni dei solidi sono incompressibilità, rigidità e forma definita; inoltre i solidi si dividono in cristallini e amorfi:

 cristallini particelle disposte in modo ordinato (regolare e periodico) nello spazio, hanno un punto di fusione ben definito e sono
anisotropi, ovvero le proprietà cambiono a seconda della direzione in cui guardo il mio solido;
 amorfi particelle disposte disordinatamente, punto di fusione non ben definite e isotropia, ovvero le proprietà non cambiano a
seconda della direzione.

Un altro aspetto molto importante è che i solidi possono presentarsi in due forme quando sono cristallini, ovvero possono essere monocristalli
(periodicità perfetta su tutto il solido) o policristalli (grani di dimensione variabile separati da bordi di grano come mucchietto di polvere di
cristalli), in particolare verranno approfonditi i policristallini.

PROPRIETÀ DEI MATERIALI (meccaniche, termiche, ottiche, elettriche e magnetiche)

Sono tutte proprietà macroscopiche ma che dipendono dalle caratteristiche microscopiche e anche dalle condizioni fisiche in cui si trova il
materiale in questione.

Proprietà Meccaniche
Esprimono la capacità di un materiale di resistere alle sollecitazioni dovute a forze esterne che tendono a deformarlo.

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Si possono avere due tipi di deformazioni: la deformazione ELASTICA, in cui al cessare della deformazione il materiale torna alla forma iniziale;
la deformazione PLASTICA in cui il materiale dopo l’azione della forza esterna cambia forma. Al crescere delle sollecitazioni il materiale si
deforma fino ad arrivare alla ROTTURA.

Le proprietà meccaniche più rilevanti in un solido sono: ELASTICITÀ, PLASTICITÀ, DUREZZA, FRAGILITÁ e RESISTENZA ALL’USURA.
Quindi le proprietà meccaniche ci descrivono come un materiale si comporta se soggetto ad una forza esterna (se lo tiro, piego o comprimo) e
il modo in cui esso reagisce dipende dalle forze che legano gli atomi nel materiale e quindi dal legame chimico, ma anche dalle condizioni della
superficie del materiale, in quanto è proprio la superficie che riceve la sollecitazione (es presenza di fessure e quindi più fragile).

Le sollecitazioni possono dipendere dal tempo ed essere:

Oppure le sollecitazioni possono essere dipendenti dalla superficie di applicazione

COMPORTAMENTO ELASTICO DEI SOLIDI


Dal punto di vista matematico l’effetto di una sollecitazione meccanica dipende dalla sua direzione rispetto al sistema cristallino, quindi
servono metodi di calcolo torsionale, infatti per semplicità si prendono in considerazione dei mezzi isotropi ovvero con proprietà meccaniche
che siano uguali in tutte le direzioni (è quindi un’approssimazione più valida per i materiali amorfi che per quelli cristallini che invece sono
anisotropi).
Quindi considero tre tipo di deformazioni:
1) LINEARE
2) SCORRIMENTO (o torsione)
3) COMPRESSIONE UNIFORME

1) DEFORMAZIONE LINEARE
Applico una forza (STRESS) perpendicolarmente a una faccia del solido, il quale si distorce (STRAIN) e può o allungarsi o comprimersi.

La tensione è misurata dalla forza applicata per unità di superficie, mentre la distorsione (strain) è data dall’allungamento relativo nella
direzione della forza applicata. Per ogni forza applicata possiamo determinare uno sforzo (stress)
F
σ=
A
Di conseguenza possiamo determianre una deformazione ε che a seconda di sia a trazione (ε>0) o a compressione (ε<0) avrà diversi valori
ε l
dl l
∫ dε=∫
l
→ ε =ln
l0
ε =0 l0
Facendo quindi un integrale tra la lunghezza iniziale e quella finale ottengo una funzione logaritmica dove ε (cioè la deformazione) è uguale al
logaritmo del rapporto tra la lunghezza dopo la deformazione e la lunghezza iniziale. Per piccole deformazioni
l−l 0 ∆ l
ε= =
l0 l0

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σ
Nel caso di un regime elastico, cioè quello più lontano dalla realtà, si ha una relazione tra tensione e distorsione Y = , dove Y è il modulo di
ε
Young misurato in Pa. La distorsione può essere considerata solo lungo una direzione dato che i mezzi sono isotropi. Se invece non si considera
questa approssimazione bisogna calcolare la defomrazione lungo tutte le direzioni.
I vari materiali possono essere classificati relativamente alla deformazione in base ai
diagrammi di TENSIONE DEFORMAZIONE, poiché la curva identifica un materiale appunto in
base al tipo di deformazione che ha in base alla forza.

Se quando allungo il materiale ho un aumento di volume, allora avrò quindi una diminuzione
delle dimensioni trasversali. Il rapporto tra distorsione trasversale e distorsione
longitudinale è chiamato COEFFICIENTE DI POISSON

−ε x
ν=
εy
2) SCORRIMENTO O TORSIONE

Si ha lo scorrimento quando la forza viene applicata tangenzialmente alla superficie del solido
(SHEAR STRESS) la deformazione subita dal solido è misurata dalla tangente dell’angolo di
scorrimento ( tanθ che per angoli piccoli è=θ ¿ e questa tensione generata dallo
F
scorrimento è espressa come τ =
A
Nel regime elastico la relazione tra angolo di scorrimento e tensione tangenziale è lineare

Esiste anche il coefficiente di proporzionalità G detto modulo di scorrimento che è il rapporto tra tensione di scorrimento e angolo di
τ
scorrimento—> G=
tanθ
Inoltre, in un mezzo isotropo i moduli elastici sono legati da una relazione Y=2G (1+ν)

Si può anche avere una TORSIONE che avviene quando una coppia di forze viene applicata su
una faccia del solido, l’angolo di torsione Lezione 11

3)COMPRESSIONE UNIFORME
Si ha quando il solido è sottoposto a una pressione idrostatica (uguale su tutte le superfici). Il modulo di compressione B è il rapporto tra
pressione e volume (a T costante), ed è l’inverso della compressibilità χ

B=−V ( ∆∆ VP ) = χ
T
−1

V ( δp )
−1 δv
χ=
T
Nel primo caso si ha una variazione macroscopica, nel secondo caso infinitesimale. Il modulo è quindi una grandezza macroscopica mentre la
compressibilità è una grandezza microscopica. Si ha inoltre una relazione con il modulo di Young data da
Y =3 B(1−2 ν )
GRAFICO (deformazione-sforzo)

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 Deformazione elastica: il corpo si deforma secondo la legge di Hooke e la variazione della lunghezza è proporzionale alla forza
 Deformazione plastica: non segue la legge di Hooke, accade quando la forza cessa c’è un allungamento residuo
 Sforzo massimo di trazione (R): valore massimo della forza e dopo si può rompere l’oggetto, dopo il punto R il materiale non riesce a
contrastare la forza applicata
 Punto di frattura (F): quando l’oggetto non sopporta più la forza e si rompe

Più grande è la distanza tra A ed R più il materiale sarà duttile, se invece è più ristretta si ha un materiale fragile.

COMPORTAMENTO VISCOELASTICO
Il regime elastico dei solidi rappresenta un modello ideale (applico una forza e quando la tolgo il materiale ritorna esattamente come prima
F ∝ x), mentre il regime viscoso è un modello alternativo di relazione tra tensione e deformazione, nel quale si assume che la forza sia
proporzionale alla velocità di deformazione, cioè ad x=dx / dt (il comportamento viscoso ideale è quello dell’ammortizzatore).
Poi c’è anche il comportamento reale che è una combinazione del regime elastico e di quello viscoso chiamato modello di Kelvin o di Voigt.
Bisogna sempre tenere conto che solitamente si usano sistemi ideali, ovvero reali semplificati, per studiare qualcosa.

Proprietà Termiche
Modalità con cui scaldo il materiale e il modo in cui esso reagisce o dilatandosi o comprimendosi durante il processo di uno scambio termico.
Questi cambiamenti sono importanti per imballaggi alimentari ma anche nel campo tecnologico. Tra le proprietà termiche ci sono: capacità
termica, dilatazione termica, coefficienti di dilatazione, conducibilità termica.
Quindi l’effetto dell’applicazione di una sorgente di calore ad un materiale dà origine a diversi fenomeni:
 AUMENTO DELLA TEMPERATURA in base alla capacità termica di un materiale (ovvero la capacità di assorbire il calore) 
C=dQ /dT (misura la variazione di energia e la T)
 VARIAZIONE DELLE DIMENSIONI LINEARI E DEL VOLUME DI UN CORPO e qui ci si basa sui coefficienti di dilatazione lineare e
volumetrica (dato che ho il delta minuscolo ho variazioni infinitesime)

lineareα l=
( )
1 δl
l δT
δV
volumetrica α v =1/V ( )
δT
 TRASPORTO DI CALORE DA UNA ZONA ALL’ALTRA DEL CORPO, tutte le volte che fornisco energia al materiale, essa verrà trasportata,
Q dQ δT
questo dipende dalla conducibilità termica (K) che tiene conto del flusso di calore in una direzione J X= =−K
dAdt δX
CAPACITÀ TERMICA
Perché le proprietà termiche variano così nel momento in cui viene fornito calore? Perché si fanno vibrare gli atomi del materiale e quindi si
avrà un trasferimento di energia attraverso gli elettroni.

Se ci troviamo ad una temperatura pari allo zero assoluto sappiamo che gli atomi hanno la minima energia, però nel momento in cui il
materiale viene scaldato, gli atomi acquisiscono energia e vibrano con particolare ampiezza e frequenza. La vibrazione degli atomi produce
h νs
un’onda elastica chiamata fonone la cui energia è data da E= =hν
λ
I fononi hanno massa nulla, momento angolare di spin nullo ed energia pari alla frequenza della vibrazione per la costante di Plank. Si
muovono con la velocità con cui si propagano le deformazioni del reticolo, cioè alla velocità del suono (nell’aria velocità suono= 331,2 m/s).
Sulla base di ciò si può dire che il materiale acquista o perde energia acquistando o perdendo fononi e quindi si ha la possibilità di descrivere
come varia la temperatura di un materiale sottoposto a una fonte di calore dal punto di vista quantistico dando al nostro materiale un certo
numero di fononi.

La capacità termica chiaramente aumenta se ho più vibrazioni reticolari e quindi più elettroni (es metalli più capacità termica perché hanno
molti elettroni che possono essere delocalizzati) ed essa è l’energia necessaria per aumentare la temperatura di un grado centigrado, può
essere misurata a pressione costante Cp o a volume costante Cv e in generale la Cp è sempre più grande della Cv.

H=U + PV =U +nRT

( δUδT ) =C ( δHδT ) =C
V
v
P
P

C −C =(
δT )
+ nR−(
δT )
δH δU
P V =nR
P p

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Spesso si utilizza anche il calore specifico (c), cioè è la quantità di calore necessario per innalzare di un grado K o centigrado la temperatura di
un’unità di massa. Se moltiplico il calore specifico per la massa atomica ottengo la capacità termica (c più utilizzato dagli ingegneri e C dai
chimici).

In alcuni solidi, in particolare i metallici, si è notato che il calore specifico a volume costante è molto simile e quindi per questi solidi viene
applicata la Legge di Dulong e Petit in cui la capacità termica dei materiali solidi è pari a 25 J/mol K ed è una sorta di approssimazione.

ESPANSIONE TERMICA
Un atomo che acquisisce energia termica e comincia a vibrare si comporta come se possedesse un raggio atomico di dimensioni maggiori e
quindi la distanza media tra atomi aumenta. Ciò determina la variazione di lunghezza del materiale che si esprime tramite il coefficiente lineare
di espansione termica α:

1 Δl
α l= ( )
l ΔT
Dove α ha come unità di misura il reciproco della T. Il coefficiente lineare di espansione termica è legato alla forza dei legami chimici del
materiale: per provocare lo spostamento degli atomi dalla loro posizione di equilibrio è necessario fornire energia al materiale e un basso
valore di α è indice del fatto che l’energia di legami del materiale è elevata. Questo ci dice anche che i materiali con alta T di fusione, anche a
causa di legami forti, hanno un basso α.

1 ΔV
Si ha anche il coefficiente volumetrico di dilatazione α v = ( ) il quale per alcuni materiali è anisotropo, ovvero dipende dalla direzione
l ΔT
cristallografica lungo la quale viene misurato. Per i materiali in cui l’espansione termica è isotropa invece α v è pari a 3α. Attraverso questa
formula posso calcolare la variazione di lunghezza del materiale al variare della temperatura.

CONDUCIBILITÀ TERMICA
È un fenomeno molto importante sia nella quotidianità che nell’ambito delle tecnologie ed è definita come la quantità di calore che fluisce nel
materiale per effetto di una differenza di temperatura ai suoi capi. Si ha quindi un trasferimento di calore all’interno del materiale.

Essa fu studiata in particolare da Fourier che fu il primo a esprimere la proporzionalità tra il flusso termico ed il gradiente di temperatura.
dT
Prima legge di Fourier q=−k dove k è il coefficiente di proporzionalità che lega q (flusso di calore) e il gradiente di temperatura ed è
dx
definito come conduttività termica k, il segno negativo indica il fatto che di solito il calore va dal caldo al freddo (secondo principio della
termodinamica).

Bisogna sempre tenere conto però degli elettroni di valenza che sono quelli che possono subire di più l’aumento di energia da parte
dell’esterno. Questo è importante poiché essi possono essere facilmente eccitati e passare alla banda di conduzione e il riempimento di questa
banda dipende dalla quantità di energia trasferita e dal numero di elettroni che ci sono. Ad esempio, nei metalli nel momento in cui fornisco
calore è molto probabile che un grosso numero di elettroni passi dalla banda di valenza alla banda di conduzione. Dal momento in cui gli
elettroni liberi sono responsabili anche della conduzione elettrica, esiste una relazione tra conduttività termica e elettrica, espressa da:
k −8 −2
=L=2 ,3 x 10 W Ω K in cui σ è la conduttività elettrica e L la costante di Lorentz.
σT
Ad esempio, i metalli sono ottimi conduttori di calore poiché hanno molti elettroni liberi e sono proprio questi elettroni più che le vibrazioni
dei legami che permettono la conduzione termica. Inoltre, la conduttività termica dipende anche dai difetti reticolari, dalla microstruttura e dal
processo di lavorazione impiegato. Nei metalli la conduttività termica spesso diminuisce inizialmente con la temperatura e poi diventa quasi
costante; bisogna tenere conto anche il fatto che i materiali metallici hanno anche delle impurezze che impediscono agli elettroni di muoversi
come dovrebbero, quindi ad esempio se ci sono delle vacanze ci sarà più resistenza alla conduzione.

Invece nei semiconduttori il calore viene condotto sia dai fononi ( a T basse) che dagli elettroni che vengono eccitati mediante il piccolo gap
energetico nella banda di conduzione a T alte e in questo caso la conduttività termica aumenterà.

Nei materiali ceramici invece non c’è un numero sufficiente di elettroni liberi, in quanto sono coinvolti in legami ionici o covalenti, e quindi
questi materiali sono isolanti e i responsabili del trasferimento di calore sono le vibrazioni del reticolo e cioè i fononi. In questo caso il gap
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energetico è troppo ampio per eccitare gli elettroni e quindi devo scaldare il materiale ad altissime temperature. (es vetro a T molto alte oltre
ai fononi ci sono anche gli elettroni che andranno nella banda di conduzione). Altri fattori che influenzano la conduttività termica dei ceramici
sono l’impacchettamento, la struttura che è o amorfa o cristallina (cristallini conducono di più) e anche la porosità perché aumentando il
volume dei pori la conduttività termica diminuisce, infatti molti materiali ceramici porosi sono usati come isolanti termici poiché all’interno dei
pori ho l’aria che è uno scarsissimo conduttore termico.

Lo SHOCK TERMICO avviene quando fornisco variazioni brusche di temperatura che possono portare alla rottura del materiale
Spesso viene misurata la resistenza allo shock termico determinando la massima differenza di temperatura che può essere tollerata durante
una tempra senza influenzare le proprietà meccaniche di un materiale.
Esempi: silice resistenza allo shock termico fino ai 3000 °C , zirconia fino ai 500°c
Se un materiale ha una conducibilità termica alta, un basso coefficiente di espansione termica e nessuna trasformazione polimorfa, non ci
dovrebbero essere molti problemi legati allo shock termico.

Il problema dello shock termico non riguarda la maggior parte dei materiali metallici poiché hanno una duttilità sufficiente per permettere una
deformazione piuttosto che una frattura

Proprietà Ottiche
Descrivono il modo in cui un materiale interagisce con la radiazione luminosa, quindi il materiale viene colpito con una radiazione luminosa,
viene studiato il modo in cui il materiale risponde. Si considera la risposta del materiale alla radiazione elettromagnetica. Le proprietà ottiche
sono: RIFLESSIONE, RIFRAZIONE, ASSORBIMENTO, molte proprietà ottiche dipendono dagli elettroni nelle bande del materiale.
La luce emessa da una sorgente luminosa si propaga in tutte le direzioni e va a colpire gli oggetti che reagiranno diversamente a seconda del
materiale da cui sono fatti.

Alcuni materiali, come il vetro, lasciano passare la luce, altri, come il legno invece no, c’è anche un comportamento intermedio come quello
della carta velina. Quindi i corpi luminosi possono essere:

 TRASPARENTI lasciano passare la luce e permettono di vedere attraverso;


 TRASLUCIDO lasciano passare solo in parte la luce e non permettono di distinguere nitidamente ciò che sta dietro;
 OPACHI non lasciano passare la luce e nascondono ciò che sta dietro.

Riflessione
Fenomeno per cui la luce arriva sull’oggetto e viene rimandata indietro e quindi arriva al nostro occhio, questo è proprio il motivo per cui noi
siamo in grado di vedere tutto ciò che ci circonda. L’immagine che viene diffusa da una superficie irregolare è più confusa e quindi più debole. I
raggi luminosi che vengono rimandati indietro arrivano al nostro occhio secondo angoli diversi con direzioni casuali, l’immagine appare quindi
molto meno nitida rispetto a una superficie regolare.
In generale si parla di diffusione della luce (es: a volte si usa un vetro
smerigliato per incorniciare un quadro in modo da avere una riflessione
diffusa e eliminare il bagliore dovuto alla lampada che illumina il quadro).
Se invece la superficie riflettente è abbastanza liscia, l’immagine riflessa
produrrà l’oggetto nei minimi particolari e qui i due raggi inizialmente
paralleli saranno paralleli anche dopo la riflessione (es: specchio).

La legge che regola la riflessione dice che il raggio incidente e il raggio riflesso formano con la normale alla superficie passante per il punto di
incidenza due angoli uguali, angolo di incidenza θi e angolo di riflessione θr ; i due raggi e la normale al
piano giacciono nello stesso piano.

Questo ci permette di capire come funziona la formazione dell’immagine.


Infatti considerando un oggetto posto vicino a una superficie riflettente i raggi riflessi giungeranno al
nostro occhio come se provenissero da un oggetto che si trovi dietro alla superficie riflettente e questo
oggetto è chiamato immagine virtuale. Quindi i raggi provenienti da una sorgente P’ riflessi da uno
specchio nell’occhio sembrano provenire dal punto immagine P* posto dietro allo specchio.

RIFRAZIONE
Un raggio incidente sulla superficie di un corpo trasparente si divide in due raggi, uno riflesso e uno
trasmesso. È stato dimostrato che la direzione del raggio trasmesso è diversa da quella del raggio
incidente, quindi rispetto alla normale al piano avrò due angoli diversi. (Es: bacchetta d’acqua in un
bicchiere). Un fenomeno legato alla rifrazione è quello di una moneta immersa nell’acqua che ai nostri
occhi appare più vicina
di quanto lo sia

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realmente, poiché il raggio proveniente dalla moneta segue una traiettoria spezzata. Questi fenomeni derivano dal fatto che un raggio di luce
viene deviato in corrispondenza della superficie di separazione tra due mezzi in modo tale che l’angolo formato sia maggiore in aria che in
acqua.

Quindi la rifrazione è diversa a seconda dei mezzi in questione e ciò è legato al fatto che la velocità della luce varia a seconda del mezzo in cui
si trova. La velocità della luce nel vuoto c (299.792,458 km/s) è sempre maggiore della velocità della luce in un mezzo trasparente v.

Il rapporto tra c e v è detto INDICE DI RIFRAZIONEη

c
η= Nel vuoto l’indice di rifrazione è 1 mentre in un mezzo trasparente è sempre >1, quindi l’indice di rifrazione varia a seconda del
v
materiale e ad esempio nel diamante abbiamo un indice pari a 2.4 con una v di 1.24*108 m/s quindi la luce è molto rallentata.

Legge della rifrazione (legge di Snell)

Quando una radiazione, ad esempio visibile (luce bianca), colpisce la superficie di separazione tra due materiali trasparenti (come aria e
acqua). La radiazione si divide in due parti: una parte viene riflessa con angolo di riflessione uguale a quello di incidenza e una parte continua a
propagarsi oltre la superficie di separazione.
Se il raggio incidente non è perpendicolare alla superficie di separazione, il raggio rifratto che penetra nel materiale ha una direzione diversa da
quella del raggio incidente. Il raggio rifratto può avere due comportamenti:

 se la luce passa da un mezzo con indice di rifrazione minore (aria) a uno con indice maggiore (acqua) il raggio rifratto si avvicinerà alla
normale;
 se invece la luce va da un mezzo con indice maggiore a uno con indice minore (da acqua a aria ). Il raggio rifratto si allontanerà dalla
normale.

Quindi angolo di rifrazione θ 2 dipende dall’angolo di incidenzaθ 1 e dagli indici di rifrazione dei due mezzi n1 e n2, e tutte queste grandezze sono
messe in relazione dalla legge di Snell: n1 sen θ 1=n2 sen θ 2
Questa legge è dimostrata facendo riferimento ad alcune leggi dell’ottica e quindi bisogna considerare quello che succede ai fronti d’onda
quando la luce passa da un mezzo all’altro:

Considerando un raggio che passa dal mezzo uno al mezzo due in cui la velocità della luce è minore e
quindi n1<n2 e v1>v2. I fronti d’onda sono piani perpendicolari al raggio incidente e al raggio rifratto
e poiché la parte di ciascun fronte d’onda della luce incidente che penetra nel mezzo 2 rallenta, le
superfici dei fronti d’onda nel mezzo 2 risultano ruotate in senso orario rispetto a quelle nel mezzo 1
e di conseguenza il raggio incidente risulta deviato verso la normale.
L’onda incidente e l’onda rifratta hanno però la stessa frequenza, questo intuitivamente si può
spiegare con il fatto che ogni particella del mezzo 2 presente sulla superficie di separazione è fatta
oscillare dall’onda proveniente dal mezzo 1, queste particelle naturalmente oscilleranno con la stessa
frequenza di quelle nel mezzo 1.
Considerando che la distanza tra due fronti d’onda è uguale alla lunghezza d’onda e tenendo conto
del fatto che nei due mezzi la frequenza sarà la stessa e la velocità di propagazione è diversa, allora la
v1 v2
lunghezza d’onda nei due mezzi sarà diversa λ 1= e λ 2=
f f
(distanza fronti d’onda più grande nell’1)

Gli angoli indicati nei triangoli sono rispettivamente quello di incidenza (1) e quello di rifrazione (2), inoltre i due
triangoli hanno l’ipotenusa (h) in comune e quindi:

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v1 v2
λ1 f v1 λ2 f v2
sen θ1= = = e sen θ 2= = =
h h hf h h hf
Eliminando il termina comune hf e moltiplicando per la velocità della luce c otterrò la legge di Snell (ricordando che c/v=n)
n1 sen θ 1=n2 sen θ 2. Moltiplicando per la velocità della luce abbiamo gli indici di rifrazione e non le velocità.
Il miraggio è un fenomeno comune di rifrazione atmosferica per effetto del quale in lontananza sembra che il suolo sia ricoperto di acqua. Ciò
è dovuto al fatto che gli strati d’aria più bassi sono più caldi e meno densi (quindi con minor indice di rifrazione), quindi quando la radiazione
incontra questi strati il raggio si allontana dalla normale e l’osservatore vedrà la sua immagine come se fosse specchiata in una pozza d’acqua.
(altro esempio tremolio sopra il fuoco)

La riflessione totale

Quando la luce passa da un mezzo con indice di rifrazione maggiore a uno con indice minore (acqua-aria), il raggio rifratto si allontana dalla
normale (A). Se l’angolo di incidenza aumenta, aumenta anche quello di rifrazione e quando l’angolo di incidenza raggiunge un certo valore,
chiamato angolo limite θ L, l’angolo di rifrazione sarà di 90° e sarà quindi radente alla superficie di separazione (B).
Se invece l’angolo di incidenza aumenta ulteriormente la rifrazione avverrà all’interno del primo mezzo e quindi tutta la luce sarà riflessa nel
primo mezzo e si parla di RIFLESSIONE TOTALE.

L’angolo limite dipende dal rapporto degli indici di rifrazione dei due mezzi: sen θ L=n2 /n1. Questo fenomeno è importante in alcuni
dispositivi di ingrandimento come ad esempio nel binocolo in cui il raggio viene fatto ruotare per ingrandire l’oggetto, ma anche nelle
microscopie e nelle spettroscopie, quindi queste tecniche si basano sul riuscire a mantenere il fascio incidente all’interno dello stesso mezzo
senza farlo uscire come raggio rifratto.

Esempio: se ho un diamante su cui la luce incide con un angolo di 28° e calcolo l’angolo limite avrò una riflessione totale se il diamante è
nell’aria (perché l’angolo di incidenza è maggiore dell’angolo limite) e non la avrò se il diamante è nell’acqua, quindi tutto dipende dai mezzi e
dagli indici di rifrazione.
Dai diamanti per esempio si possono ottenere i brillanti che sono famosi per lo scintillio che producono quando sono colpiti dalla luca, ciò è
reso possibile dal fatto che essi siano tagliati ad angoli per cui la quasi totalità dei raggi di luca all’interno del diamante subiscano riflessione
totale. Con questa tecnica sono fatti anche i prismi e le lenti all’interno dei microscopi e binocoli.

Un’ altra importante applicazione della riflessione totale è nelle FIBRE OTTICHE, in cui fili molto sottili
guidano la luce da un punto all’altro; ciò è possibile poiché la fibra ottica è composta da un nucleo
ricoperto da un mantello entrambi formati da vetro ma con indice di rifrazione diversi, il nucleo ha un
indice di rifrazione più grande, mentre il mantello più piccolo. Quindi la luce colpisce la superficie di
separazione nucleo-mantello con un angolo maggiore dell’angolo limite e quindi viene riflessa
totalmente all’interno del nucleo e in questo modo la luce continua a viaggiare all’interno della fibra
ottica seguendo un percorso a zig-zag. Non c’è assorbimento di luce (altrimenti si perderebbe
informazioni), la riflessione deve per forza essere totale per poter trasportare informazioni per diversi km.

RIFLESSIONE E RIFLETTIVITÀ
La riflessione dipende come abbiamo visto dall’indice di rifrazione. La riflettività (R), ossia la percentuale di luce riflessa rispetto a quella
incidente segue una legge che è valida in assenza di assorbimento: R= (n-1)2 / (n+1)2 T=1-R= 4n/(n+1) 2 dove T è la trasmittanza che
esprime invece la percenutale di luce trasmessa e se non ci sono perdite la somma di T e R vale 1 (se i mezzi hanno indici diversi si usa il
rapporto n2/n1). Questo perché non siamo in grado di misurare la luce assorbita.

Ciò è molto importante in particolare per i pittori poichè i colori che noi vediamo dipendono proprio da questi fenomeni e quindi sono
importanti i tipi di pigmenti usati.

PIGMENTI E “MEDIUM” IN PITTURA


La quantità di luce riflessa e di luce assorbita da un corpo dipende dall’indice di rifrazione del mezzo in cui il corpo è immerso, questo è molto
importante nella pittura. (luce=luce bianca, visibile). I colori usati in pittura, infatti, sono costituiti da pigmenti ottenuti polverizzando le
sostanze colorate solide per poi unirle ad un “medium”, che è un liquido trasparente che essiccando assicura l’adesione del pigmento ad un

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supporto che può essere di carta, tela o legno. I pigmenti vengono sempre usati con i medium. Si può avere come medium l’acqua, la gomma
vegetale (per acquarelli) o acqua e tuorlo d’uovo (rinascimento), quindi le proprietà del materiale colorante non dipendono solo dalle
caratteristiche del pigmento ma anche dal medium e più precisamente dalla differenza tra gli indici di rifrazione delle due sostanze:

 se la differenza è piccola, la luce penetrerà di più nelle particelle del pigmento e il colore risulterà scuro ma ricco di trasparenza a
profondità;
 se la differenza è elevata il colore sarà più chiaro e fresco ma meno profondo.

Quindi avrò molte differenze tra una pittura ad acqua e una ad olio poiché per esempio nella pittura ad acqua l’essicazione avviene per
evaporazione che elimina la gran parte del medium portando le particelle del pigmento a contatto con l’aria; durante questo processo i colori
schiariscono e appaiono opachi. Invece nella pittura ad olio, l’olio non evapora e tende a combinarsi lentamente con l’aria dando origine ad
una sostanza solida dall’aspetto gommoso che imprigiona le particelle del pigmento, le quali restano isolate dall’aria. In questo caso non si
hanno sensibili variazioni nel valore dei toni e non è difficile che il pittore preveda i risultati del suo lavoro al contrario della pittura ad acqua
dove è più difficile.
In entrambi i casi la combinazione con l’ossigeno, processo lentissimo, fa variare gli indici di rifrazione del medium. Molto spesso infatti per
proteggere il quadro si utilizza il vetro che però a volte crea disturbo nel guardare il quadro. In alcuni casi per mescolare i pigmenti si usano
delle resine con indice di rifrazione molto elevato e quindi si ottengono dei dipinti con una profondità molto importante. Quindi il medium che
usiamo per i pigmenti è fondamentale per ottenere un determinato effetto della pittura e ciò dipende dalle proprietà ottiche.

DISPERSIONE DELLA LUCE


Se un fascio di luce bianca colpisce un prisma di vetro scomponiamo la luce bianca visibile in tutte le componenti colorate. Il primo ad
osservare questo fenomeno fu Newton che si accorse che la luce bianca era data dalla sovrapposizione di diverse componenti
monocromatiche e ad ognuna di esse corrisponde ad un colore preciso e questo insieme corrisponde appunto alla luce bianca ovvero visibile.
Newton dedusse che la legge di Snell era incompleta (non veniva preso in considerazione il fatto che la luce bianca potesse contenere i diversi
colori, che a loro volta possono dare un fenomeno di rifrazione diverso), capì che a parità di angolo di incidenza e di sostanza rifrangente, i
raggi di colore diverso vengono deviati secondo angoli diversi e questo perché l’indice di rifrazione risulta diverso per i vari colori (la
differenza si vede nella seconda cifra dopo la virgola, non si hanno variazioni molto grandi.

Questo è alla base di molti fenomeni che vediamo come ad esempio l’arcobaleno ma anche il
cielo azzurro che vediamo tutti i giorni. Inoltre, dato che l’indice di rifrazione è legato alla velocità
della luce nel mezzo trasparente, le componenti monocromatiche differenti si propagano in un
mezzo materiale con velocità diverse e ciò che distingue le varie componenti monocromatiche è
la frequenza o la lunghezza d’onda.

λ=v /ν
Quindi in un prisma arriva la luce bianca e i fasci monocromatici a seconda della loro lunghezza d’onda subiranno diffrazione di angoli
differenti. I raggi luminosi di colori diversi sono deviati verso il basso con angoli diversi, ogni fascio monocromatico subisce una rifrazione
leggermente diversa.

Questo è alla base dell’arcobaleno che si forma quando ha finito di piovere poiché ci saranno goccioline sferiche di acqua sospese nell’aria a
diverse altezze e ciascuna di esse devia in modo diverso un colore della radiazione visibile, la radiazione luminosa in questione chiaramente
arriva dal sole e ciascun colore arriva da una goccia diversa e questo ci permette di scomporre la radiazione visibile.

È molto importante ovviamente anche il nostro occhio, in quanto per vedere un oggetto nitidamente, l’occhio deve rifrangere i raggi incidenti
che entrano nella pupilla in modo che vadano a formare un’immagine nitida sulla retina. Però prima di arrivare alla retina i raggi attraversano 5
mezzi con indici di rifrazione diversi: aria, cornea, umor acqueo, cristallino e umor vitreo (si alternano con n alti e n bassi) e quindi i raggi
vengono rifratti continuamente e la maggior rifrazione avviene tra aria e cornea.

RIFLETTIVITÀ NEL VISIBILI, NELL’IR E NELL’UV


Cambiando la sorgente posso analizzare ad esempio i dipinti per vedere se c’è un fondo sotto al dipinto dove magari il pittore aveva fatto un
disegno all’inizio che poi ha modificato. Nelle regioni IR e UV l’indice di rifrazione varia, mentre nei raggi X è costante e uguale a 1.
Nell’infrarosso che è a basse freq, stimola gli atomi e le molecole a vibrare, coinvolgo quindi i livelli energetici vibrazionali; se invece uso il
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visibile o l’ultravioletto gli elettroni si spostano in stati energetici con più alta energia. A seconda della lunghezza d’onda si coinvolgono
meccanismi diversi. Quindi i raggi IR sono meno assorbiti in un materiale rispetto agli UV e questa è la ragione per cui la riflettività IR rispecchia
gli strati più profondi del dipinto poiché riescono a penetrare in profondità prima di essere riflessi, mentre la riflettometria UV è
rappresentativa dei primissimi strati superficiali.

 UV  stimola elettroni e analizza strati più superficiali


 IR  va a far muovere gli atomi e analizza gli strati più profondi.

Queste tecniche si applicano alla pittura poiché non sono distruttive e ci danno più dettagli grazie alle diverse possibilità di analisi anche per
verificare l’autenticità di un dipinto. (ma anche dei documenti scritti) (se si vede il disegno preparatorio sarà un vero se non si vede è molto
probabile che sia un falso). La riflettografia mette in rilievo la struttura e la distribuzione dei pigmenti, individua contorni e disegni, fornisce
informazioni riguardanti ritocchi o sulle tecniche usate.

INTERAZIONE DEI FOTONI CON LA MATERIA


A seconda dell’energia dei fotoni ci sono diversi processi di interazione con la
materia

 MICROONDE: radiazione meno energetica che vanno a toccare i livelli


rotazionali
 INFRAROSSO: fa vibrare le molecole
 VISIBILE-ULTRAVIOLETTO che come il visibile sposta gli elettroni di
valenza
 RAGGI X: che sono i più energetici e strappano un elettrone del
nocciolo all’atomo causando il fenomeno della ionizzazione

MICROONDE hanno un energia bassa intorno a 10 -5 e 10-3 eV, se illumino il mio campione con questa radiazione vado a toccare gli stati
quantici rotazionali, quindi le molecole ruotano e aumenta l’energia termica.

INFRAROSSO è un pochino più energetica e va dai 10 -3 a 1,7 eV, ovvero nel range delle energie proprie dei livelli vibrazionali delle molecole,
quindi aumenta le vibrazioni e vengono assorbiti di più delle microonde e la loro interazione provoca l’aumento del moto vibrazionale
molecolare e produce calore. La vibrazione molecolare c’è sempre tranne allo zero assoluto.

VISIBILE è fortemente assorbita ed ha un’energia compatibile con quella dei livelli elettronici e infatti provoca la transizione degli elettroni di
valenza allo stato eccitato. La radiazione visibile scalda la zona che viene colpita ma non la brucia.

UV hanno un’energia maggiore del visibile, quelli più vicini in termini energetici ai raggi X possono anche ionizzare, infatti le scottature sono
dovute a esse e possono arrivare a rompere atomi e molecole se sono UV lontani, se invece si parla di UV vicini si limitano a portare gli
elettroni di valenza in altri livelli energetici.

STRUTTURA A BANDE
Nei solidi devo tenere conto della suddivisione non in livelli energetici ma in
bande energetiche ovvero un insieme dei livelli discreti che avrebbero gli atomi
se presi singolarmente e queste bande hanno energia diverse. Le principali sono
due ovvero la banda di valenza e la banda di conduzione, che sono quelle che ci
interessano per le varie proprietà ottiche.

Tra banda di valenza e di conduzione c’è un gap di energia che nel caso degli
isolanti è molto elevato e quindi gli elettroni non si spostano nella banda di conduzione al contrario dei conduttori. Nel caso dei
semicondutotori il meccanismo può essere stimolato attraverso l’energia termica o luminosa. Nei metalli vi è quasi una sovrapposizione tra
queste due bande e ogni fotone può essere assorbito e cedere la sua energia agli elettroni di conduzione. Se illumino con una radiazione
luminosa un metallo, esso assorbe la radiazione elettromagnetica che non riesce a propagarsi all’interno del metallo e quindi viene riflessa,
questo tipo di interazione fa sì che noi vediamo i metalli di colori non particolari ma sempre sul grigio-argento.

Altri fenomeni di interazione radiazione-materia sono: LUMINESCENZA (o fluorescenza), FOTOCONDUCIBILITÀ, DIFFUSIONE ANELASTICA
(effetto raman), EMISSIONE STIMOLATA (tipica dei laser)

 La LUMINESCENZA è legata all’assorbimento di energia nella materia e la sua re-emissione come radiazione visibile o vicina al visibile.
Quindi fornisco al materiale una certa radiazione, eccito il campione facendolo passare ad uno stato di energia più elevato e a questo
punto esso tornerà allo stato fondamentale e se ciò avviene subito si parla di fluorescenza, in cui il campione assorbe energia e la riemette
in modo istantaneo; se invece lo fa dopo un po’ di tempo si parla di fosforescenza. La differenza risiede quindi nel tempo necessario per
avere questi meccanismi.

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Se per eccitare il campione lo illumino si parla di fotoluminescenza, se lo bombardo con elettroni catodoluminescenza, con particelle
radioluminescenza, con sforzi meccanici triboluminescenza, con reazioni chimiche chemiluminescenza, con calore termoluminescenza e
cosi via… I materiali cristallini luminescenti sono detti FOSFORI, hanno molte applicazioni;
 La FOTOCONDUCIBILITÀ aumento della conducibilità elettrica di solidi non metallici in seguito all’assorbimento di radiazione
elettromagnetica. Il fenomeno è associato alla transizione di un elettrone da una banda di valenza piena ad una banda di valenza vuota,
quando l’elettrone si sposta lascia una buca positiva (lacuna) nella banda di valenza e si creano queste coppie elettrone-lacuna e quindi se
noi illuminiamo il campione si crea questa sorta di corrente elettrica chiamata fotocorrente (proprietà scoperta intorno agli anni 70 sul
selenio, il primo elemento utilizzato per le celle fotovoltaiche).
 DIFFUSIONE ANELASTICA (effetto raman ) si tratta di una tecnica di caratterizzazione ed è una diffusione anelastica. Quando illumino il
campione avviene una diffusione con la perdita di energia, se l’energia non viene persa c’è invece la diffusione elastica in cui vi è un
trasferimento netto di energia, i fotoni diffuso hanno la stessa energia di quelli incidente, in questo caso si parla di diffusione Rayleigh. La
diffusione anelastica invece è alla base della spettroscopia raman che però avviene su un numero limitato di eventi ovvero 1 su 10 6, quindi
la spettroscopia Raman ha alcuni problemi di sensibilità per riuscire a catturare la diffusione anelastica.

EFFETTO RAMAN: Sia nelle interazioni elastiche, che generano la diffusione Rayleigh (a), sia in quelle
anelastiche (b,c), possiamo immaginare che le molecole colpite passino ad uno stato energetico virtuale non
quantizzato, da cui decadono emettendo fotoni. L’interazione anelastica ha due possibilità:
1- la molecola decade ad uno stato eccitato emettendo un fotone ad energia minore di quello incidente (b)
2- la molecola già presente in uno stato vibrazionale eccitato decade dallo stato virtuale allo stato
fondamentale emettendo un fotone ad energia maggiore di quella incidente (c).

Lo spettro raman di una molecola irraggiata da luce monocromatica è caratterizzato da tre tipi di segnali:
1) radiazione Rayleigh, la più intensa dello spettro, ha lunghezza d’onda uguale alla radiazione incidente;
2) segnali Stokes che corrispondono a interazioni anelastiche in cui i fotoni sono emessi a energia minore di
quelli incidenti, e invece nelle anti-Stokes i fotoni sono emessi a E> di quelli incidenti.

A temperatura ambiente, il livello vibrazionale fondamentale è il più popolato e quindi le linee Stokes sono più intense delle anti-Stokes e sono
simmetriche rispetto alla radiazione Rayleigh. Avremo quindi una banda molto
intensa dovuta alla diffusione Rayleigh che però non ci fornisce nessuna
informazione, abbiamo poi due diversi tipi di bande, sopra lo 0 abbiamo le anti-
stokes, sotto le stokes. Le stokes sono molto intense perché partono dal livello
vibrazione più popolato, le anti- stokes invece partono da un livello vibrazionale
eccitato quindi hanno intensità minore.

Lo spettro raman ci da un’informazione vibrazionale delle molecole, quindi ci


dà informazioni di stretching e bending dei vari gruppi chimici, quindi è molto simile
all’IR ma hanno alcune differenze. La regione spettrale è uguale a quella
dell’infrarosso e quindi i vari gruppi funzionale se sono attivi sia nel raman che
nell’ir li troviamo a vibrare nella stessa posizione, infatti servono entrambe a
riconoscere i vari gruppi funzionali. La zona è quella dell’infrarosso dai 4000 ai 400 cm -1 (medio infrarosso). Queste due tecniche sono
complementari in quanto si basano su fenomeni e tecniche differenti, infatti nell’IR usiamo una sorgente che è una lampada che emette
nell’infrarosso, si lavora in trasmissione e si studiano le vibrazioni, nella Raman invece si osserva la luce diffusa in modo anelastico; un’altra
differenza sono le regole di selezione che determinano quali modi di vibrazione sono attivi e quali no: nell’Ir sono assorbite energie che
provocano cambiamenti nel momento di dipolo, nel Raman invece è richiesto un cambiamento della sua polarizzabilità, proprietà legata alla
possibilità di distorsione della nuvola elettronica, per cui ci sono modi di vibrazione attivi o in una delle due ma anche in tutte e due. Es,
l’allungamento dei legami in molecole come acqua e azoto non si vede nell’IR, perché non cambia il momento di dipolo, questi legami sono
però attivi nel Raman.

Il Raman ha uno svantaggio che è la sensibilità poiché l’effetto Rayleigh è il principale (ma non ci dà informazione) al contrario delle Stokes e
anti-Stokes che però sono di debole intensità. Ha come vantaggio che la presenza di acqua o vetro non dà fastidio al contrario dell’IR, in
generale l’IR è più ricca di segnali.

TECNICHE DI CARATTERIZZAZIONE

 Spettroscopie: FTIR Raman (vibrazionali) e UV-Vis (elettroniche), basate sull’interazione tra una radiazione elettromagnetica e il
campione;
 Analisi volumetriche, basate sull’adsorbimento di gas (in particolare N2) per determinare aree superficiali, volumi pori, ecc;
 Diffrazione di raggi X per vedere se un materiale è cristallino o meno, basata sempre sull’interazione radiazione-materia (radiazione
ad alta E);
 Tecniche termogravimetriche: analizzano il campione in seguito a un aumento di temperatura (quanto peso perde)
 Microscopie, che possono essere o elettroniche (SEM e TEM), o a forza atomica (AFM) o microscopia di fluorescenza.

Per uno studio approfondito dei materiali vanno utilizzate tutte queste tecniche.

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Proprietà Elettriche
A seconda delle caratteristiche dei materiali avviene il fenomeno fisico dell’elettrizzazione di un corpo (es: penna che si strofina e attrae a sé i
pezzi di foglio) che è dovuto a uno spostamento di carica positiva o negativa da un corpo all’altro. Vi sono due tipi di conduttori elettrici:
-conduttori elettronici o di prima specie, nei quali i portatori di corrente sono gli elettroni metalli e semiconduttori;
-conduttori ionici o di seconda specie in cui i portatori di carica sono gli ioni cristalli ionici, sali fusi e soluzioni elettrolitiche.

Quando abbiamo un metallo sappiamo che esso può trasportare corrente elettrica che è un flusso ordinato di elettroni. Esistono tre tipi di
materiali: CONDUTTORI che conducono corrente, SEMICONDUTTORI che permettono in parte lo scorrimento del flusso di corrente e ISOLANTI
che si oppongono allo scorrere della corrente.
(ES: conduttori metalli | isolanti vetro, carta, plastica, gomma | semi germano e silicio)

La conducibilità elettrica nei solidi


L’intensità di corrente elettrica è la quantità di carica che passa in un conduttore in un dato intervallo di tempo I =dq /dt in cui q è la carica
in coulomb e l’intensità si misura in Ampere
Poi lo spostamento delle cariche elettriche crea tra i due estremi del conduttore una differenza di potenziale che è misurata in Volt (V). Inoltre
c’è anche una forza che contrasta il flusso di elettroni che è la resistenza elettrica misurata in Ohm che varia a seconda del tipo di materiale ed
è messa in relazione intensità e differenza potenziali dalle leggi di Ohm:
1° legge di Ohm: la corrente che attraversa un materiale è direttamente proporzionale alla differenza di potenziale agli estremi del materiale e
inversamente proporzionale alla resistenza presente in esso
V
I=
R
2° legge di Ohm: La resistenza di un conduttore è direttamente proporzionale alla sua lunghezza e inversamente proporzionale alla sua
sezione. (ρ= resistività)
ρL
R=
A
La resistività è legata a sua volta alla conducibilità σ= 1/ ρ.
Quindi i solidi si possono classificare anche in base alla loro
resistività:

 ρ< 10-3  superconduttori o metalli


 10-3 <ρ< 105  semiconduttori
 ρ>105 isolanti

- Periodo classico: Drude e Lorentz che ipotizzano che le


proprietà dei metalli sono dovute ad un gas ideale di elettroni di
conduzione, che obbediscono alla statistica di Maxwell e
Boltzman;
- Semiclassico: modello di Sommerfeld, applica agli elettroni la
conduzione statistica di Fermi-Dirac;
- Periodo moderno: teoria di Block con una piena applicazione
della meccanica quantistica e metodo teorico-matematico
Tutto ciò pero arriva da Thomson con la scoperta degli elttroni come particelle cariche negativamente presenti in tutti gli atomi.

Il modello di Sommerfeld descrive abbastanza bene le proprietà elettriche dei metalli ma non riesce a descrivere le differenze tra
semiconduttori e isolanti e per questo tale modello viene superato da Block con la teoria delle bande che riesce a spiegare il comportamento
diverso dei tre tipi di materiali. Questa teoria prende spunto dalla considerazione della periodicità delle strutture cristalline ed è proprio questa
periodicità che porta alla formazione di bande di energia.

Quindi cosa succede nei solidi?


- Ci sono gli elettroni di core ovvero quelli vicino al nucleo che non partecipano al legame
chimico
- e- gli elettroni di valenza che sono meno legati ai nuclei e sono i responsabili dei legami,
meno localizzati. Quando due atomi si avvicinano gli elettroni di core stanno dove sono e
quelli di valenza tendono a formare una sorta di nube attorno agli atomi vicini.

In un solido ho moltissimi atomi e i livelli energetici dei singoli atomi si sovrappongono e


avendo n atomi avremo una banda di n livelli e quindi invece che avere gli orbitali
molecolari avrò due set di bande, uno a più bassa energia e uno a più alta energia
separati tra loro da un certo intervallo di energia (gap) più o meno grande che
determinerà il comportamento di materia.

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Considerando la struttura elettronica di un solido formato da atomi ciascuno in grado di
contribuire con un elettrone, vi sono N orbitali atomici, e quindi N orbitali molecolari
impacchettati in una banda continua.

A T=0 K, sono occupati N/2 orbitali molecolari di energia più bassa e l’HOMO (highest
occupied molecular orbital) è detto livello di Fermi. Molto vicino a questo livello ci sono
orbitali vacanti, per cui l’eccitazione degli elettroni più in alto quasi non richiede energia. Ciò fa sì che una parte degli elettroni sia di fatto
molto mobile e dia origine alla conduttività elettrica. A T superiore allo 0 gli elettroni possono essere eccitati semplicemente per eccitazione
termica.
1
La popolazione P degli orbitali è data dalla distribuzione di Fermi-Dirac che tiene conto del principio di Pauli: P= (E−μ )/ KT (µ è il
e +1
potenziale chimico).

Se la separazione tra la banda di valenza e la banda di conduzione è molto grande non riuscirò a far saltare gli elettroni nella banda di
conduzione e quindi ho un materiale isolante, se invece alzando la temperatura produco un’eccitazione termica e riesco a promuovere qualche
elettrone nella banda di conduzione e in questo caso si parla di semiconduttori.

Quindi le proprietà elettriche dipendono da come gli elettroni si distribuiscono nella struttura a bande e la larghezza di queste bande è
dell’ordine di pochi eV e l’energy gap varia a seconda del materiale, più è grande più il materiale è isolante.

SEMICONDUTTORI:

 -intrinseci la semiconduzione è una proprietà della struttura a bande del materiale puro. (Si e Ge);
 -composti semiconduttori intrinseci derivati dalla combinazione di elementi diversi (GaN, Cds e ossidi di metalli di transizione)
 -estrinseci semiconduttori i cui portatori di carica sono presenti in seguito alla sostituzione di alcuni atomi con atomi dopanti,
ovvero atomi di un altro elemento. Se i dopanti possono intrappolare elettroni, richiamano elettroni nella banda piena, lasciando
lacune che permettono ai restanti elettroni di muoversi e questi sono i Semiconduttori p che lasciano lacune positive. Se invece
parliamo di semiconduttori di tipo n essi cedono elettroni in eccesso che andranno nella bande vuote.

Proprietà Magnetiche
Comportamento dei materiali immersi ai campi magnetici, queste proprietà dipendono dalle proprietà degli atomi e delle molecole che
costituiscono il materiale, dal loro legame chimico e dalla struttura del solido. In base al comportamento in presenza di un campo magnetico i
materiali si dividono in: DIAMAGNETICI, PARAMAGNETICI e FERROMAGNETICI. In generale tutti i materiali hanno proprietà magnetici ma sono
molto deboli (tranne per i materiali ferromagnetici).

 DIAMAGNETISMO il materiale reagisce al campo H con una debolissima magnetizzazione opposta al campo H (es: Cu, Ag, Zn, Sn)
 PARAMAGNETISMOil materiale in un campo magnetico reagisce con una debolissima magnetizzazione concorde a H (es: Al, O2,
Pt, Ti). Nei diamagnetici e nei paramagnetici l’effetto si annulla al cessare della causa.
 FERROMAGNETICI il materiale reagisce al campo H con una magnetizzazione molto forte e concorde ad H e in questo caso la
magnetizzazione non cessa al cessare della causa.

Esiste una proprietà fisica che ci permette di classificare i materiali in base alle proprietà magnetiche che è la PERMEABILITÀ MAGNETICA (µ)
che si misura in henry su metro (H/m) ed esprime l’attitudine di una sostanza a lasciarsi magnetizzare. Moltissime sostanze hanno μ costante,
altre invece c’è un effetto che dipende da precedenti magnetizzazioni dei materiali, come se “ricordasse” i campi magnetici applicati.

In un materiale abbiamo un campo magnetico esterno H, uno interno al materiale B e uno indotto nel materiale M. Inoltre, abbiamo un altro
parametro oltre alla permeabilità che è la suscettività magnetica χ.

DIAMAGNETISMO:
Reazione debole e di tipo repulsivo rispetto al campo magnetico H, questo succede in elementi che non hanno un momento di dipolo
magnetico. Nel momento in cui applico un campo magnetico esterno questo crea dei dipoli magnetici che si orientano in maniera opposta
rispetto al campo applicato; quindi il materiale si magnetizza e ha un momento magnetico totale diverso a zero con una direzione opposta
rispetto al campo magnetico. Per questi elementi la suscettività magnetica è sempre minore di zero.
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PRAMAGNETICI:
Sempre una reazione debole ma positiva rispetto al campo magnetico esterno, generalmente se aumento la temperatura questo effetto viene
ridotto. Gli elementi hanno un loro momento di dipolo magnetico e nel momento in cui applico il campo magnetico questi dipoli vengono
orientati. In assenza di campo magnetico i dipoli sono orientati casualmente. Quindi quando applico H i dipoli si orientano concordi al campo
applicato. Qui la suscettività magnetica è più elevata >0.

FERROMAGNETICI:
Gli elementi che costituiscono il materiale hanno un dipolo magnetico e puntano tutti nella stessa direzione, quindi il materiale ha un
momento magnetico anche se non applico un campo esterno (una specie di magnetizzazione spontanea) e applicandolo viene in qualche modo
esaltata la magnetizzazione. (es ferro e calamita). C’è una temperatura limite a cui questo comportamento scompare che è la temperatura di
Curie che è tipica di ogni elemento (Fe=770°).

SUPERCONDUTTORI
Materiali che mostrano resistività nulla al di sotto di una temperatura particolare detta Temperatura
di transizione critica (Tc). Solo alcune sostanze mostrano questo particolare comportamento. La
prima volta è stato notato con il mercurio raffreddandolo (fino a circa 4.2 K) e si notò che la
resistenza diminuiva con una brusca transizione man mano che si raffreddava, si osservò che il
mercurio passava in uno stato con proprietà elettriche completamente diverse da quelle note fino a
quel momento e questo stato fu chiamato “stato superconduttivo”. Quindi si scoprì che la
dipendenza della resistività rimane uguale a temperature alte e diventa bruscamente nulla in
prossimità dello zero assoluto, per cui il materiale non si oppone più al passaggio di corrente. In un
superconduttore il campo magnetico è generalmente nullo, per cui se imponiamo un campo
magnetico esterno, il superconduttore tenderà a creare un suo campo magnetico per annullarlo,
però se il campo magnetico esterno è troppo forte allora il superconduttore deve crearne uno
altrettanto forte spendendo molta energia e smettendo così di essere un superconduttore (campo magnetico critico).

TEORIA DEI SUPERCONDUTTORI


Teoria poggiata sulla meccanica quantistica poiché la superconduttività non può essere spiegata con la
meccanica classica. La teoria BCS (dai suoi scienziati) spiega la superconduttività con le interazioni reticolo ed
elettroni di conduzione e considerando che i portatori di carica siano coppie di elettroni. Questa teoria
spiega il fenomeno della superconduttività nei metalli a bassa temperatura (fino a 30K).
Quindi in un metallo normale gli elettroni si muovono e si urtano indipendentemente ma se la temperatura si
abbassa gli elettroni si accoppiano e si muovono in modo coerente e in fase (coppie di Cooper). Perché gli e-
si accoppiano se hanno carica uguale? Questo perché il reticolo è un mezzo elastico e l’attrazione elastica
può vincere la repulsione coulombiana tra cariche uguali e gli elettroni si accoppiano. Per cui si può dire che
riusciamo ad avvicinare questi elettroni quando c’è un movimento dei nuclei degli atomi che fanno parte del
reticolo e quindi quando abbiamo i fononi che neutralizzano la repulsione coulombiana. Un elettrone che
attraversa un reticolo cristallino causa una deformazione e la deformazione attrae il secondo elettrone,
permettendo la formazione delle coppie di Cooper. Da ciò deriva il fatto che le coppie di Cooper si propagano
nel materiale senza incontrare resistenza. Però l’intensità di questa interazione dipende anche dalla
temperatura, dato che il raffreddamento è essenziale per bloccare le vibrazioni reticolari (i fononi); a temperature al di sopra del valore critico,
le fluttuazioni termiche distruggono le coppie di Cooper e di conseguenza lo stato di superconduzione del metallo. Inizialmente si conoscevano
solo materiali con una T critica molto bassa ma attualmente ci sono le perovskiti che hanno temperature critiche più alte e più accessibili
(>30K)

LEVITAZIONE
Se muoviamo una calamita nelle vicinanze di un conduttore, questa indurrà correnti elettriche nel conduttore. Se abbiamo un superconduttore
le correnti elettriche indotte scorrono sulla superficie e sono in grado di schermare completamente il campo magnetico esterno, generando un
campo magnetico secondario che annulla il campo magnetico totale. Questo secondo campo generato respinge il magnete ed è noto come
diamagnetismo perfetto ed è il responsabile della levitazione, ad esempio del rame su una calamita. Questo fenomeno è sfruttato in alcune
tecnologie.

CLASSIFICAZIONE DEI SUPERCONDUTTORI

-CONVENZIONALI  di basse Tc, utilizzabili in He liquido, metalli e alcune leghe metalliche; sono quelli più usati a livello industriale
-Di alte Tc  utilizzabili in N2 liquido, niobio, vanadio e molte leghe ceramiche.

I superconduttori sono utilizzati in cavi per trasporto di correnti, treni a levitazione magnetica (in giappone, ha un record di velocità, elimina il
problema dell’attrito), risonanza magnetica nucleare…

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Zeoliti
Sono materiali microporosi ovvero con pori piccoli, sono molto spesso nei detersivi per le lavatrici. Il
termine zeoliti deriva dal greco zein=bollire e lithos=roccia, “pietre che bollono” questo termine fu
coniato da un mineralogista che trovò questi minerali in natura e scaldandoli si rese conto che
espellevano acqua e da questo deriva il nome. Esistono quindi zeoliti naturali ma anche sintesi di
zeoliti con strutture o simili alle naturali o del tutto nuove.

Con il tempo è stato notato che questi materiali potevano avere un ruolo importante nei processi di
adsorbimento, proprio per la presenza di queste porosità, quindi iniziano ad essere studiate e poi a
partire dagli anni 50 iniziano le sintesi delle zeoliti in molti laboratori per poi arrivare anche alla loro
commercializzazione poiché potevano essere usate in sistemi di separazione delle molecole o in
processi di tipo catalitico, oppure anche come scambiatori ionici come avviene nei saponi utilizzati
nelle lavatrici. Negli anni 80 vengono brevettate delle sintesi di sistemi zeolitici ma con composizione
chimica leggermente diversa, ovvero gli allumino-fosfati; negli anni 90 invece vengono sintetizzai sistemi mesoporosi, ovvero con pori più
grandi. Tutti questi passaggi sono stati fatti da aziende chimiche e per la maggior parte di petrolchimica, infatti le zeoliti sono anche dei
catalizzatori eterogenei in grado di ottenere dal petrolio benzina, diesel ecc…

Le zeoliti sono materiali solidi microporosi cristallini con cavita e canali, quindi la disposizione spaziale degli atomi in queste strutture è
periodica e regolare e all’interno della struttura ci possono essere dei canali o delle cavità (“sacche”) ognuno con dimensioni differenti. Infatti,
ho la dimensione dei canali modulabile in modo da fare entrare solo determinate molecole a seconda della dimensione di questi canali
all’interno dei micropori.
Questi micropori hanno una dimensione che va dai 2 fino ai 10 A° ovvero massimo 1 nm. Dal punto di vista chimico le zeoliti sono
alluminosilicati cristallino-porosi caratterizzati da un’impalcatura tridimensionale (framework) costituita da tetraedri TO4 (T= Si, Al) legati tra
loro tramite atomi di ossigeno.

Quindi avremo il silicio che ha un numero di ossidazione 4 + e l’alluminio che è invece un elemento trivalente 3 +, quest’ultimo induce nella
struttura una carica negativa (sull’O), cioè uno scompenso di carica, che deve essere compensata da un catione per rendere stabile la
struttura, come ad esempio un Na+ o un Ca+. Questi cationi sono debolmente legati alla struttura poiché non appartengono al reticolo e quindi
sono extraframework, ciò comporta il fatto che siano facilmente scambiati con altri e quindi le zeoliti in questo caso possono essere utilizzate
come scambiatori ionici. Questa applicazione è quella che avviene nei detergenti ma anche nelle acque in cui si devono togliere degli elementi
da acque inquinate, ad esempio se c’è del cesio radioattivo le zeoliti sono utili per liberare le acque da questa sostanza o comunque da
elementi non graditi.

Nella struttura delle zeoliti i tetraedri sono legati insieme da atomi di ossigeno e ogni tetraedro condivide quindi un vertice con il tetraedro
adiacente. I tetraedri sono generalmente regolari ma gli angoli T-O-T possono essere distribuiti dai 125° ai 180° e quindi avremo una grande
varietà di strutture proprio per la possibilità di piegare questi angoli a diverse ampiezze. Ogni tetraedro è un’unità primaria, esso unendosi
ad altri tetraedri va a formare un’unità secondaria che è composta da almeno
3 o 4 tetraedri e sono strutture più complesse e combinandole tra di loro si
ottengono diverse geometrie che poi vanno combinate di nuovo insieme per
avere la struttura zeolitica.

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Le unità secondarie che
permettono la costruzione delle zeoliti sono già organizzate in modo tridimensionale, quindi abbiamo dei
poliedri, e mettendo insieme diversi poliedri formiamo il reticolo tridimensionale che forma la struttura
delle diverse zeoliti. Ad esempio, abbiamo la gabbia cancrinite (a), la gabbia sodalite (b, più comune), gabbia
gmelinite (c), gabbia erionite (d), gabbia chabazite (f)… Ad esempio dall’unità sodalitica posso fare diverse
combinazioni e formare 4 diverse strutture che hanno uguale composizione chimica ma struttura diversa ad
esempio nella dimensione dei pori, ognuna di queste strutture è identificata con una sigla diversa e tutte
sono contenute in un atlante delle zeoliti.

Chimicamente le zeoliti sono silicati e quindi tutti i tetraedri sono composti


da alluminio e ossigeno, ma la maggior parte sono alluminosilicati, quindi in
qualche tetraedro ci sarà l’alluminio, ma nel momento in cui il silicio viene
sostituito dall’alluminio ci sarò uno scompenso di carica e l’ossigeno in
prossimità dell’alluminio si caricherà negativamente. In queste condizioni la
struttura non sarà stabile, per questo devono intervenire i controcationi,
(es. Na) che non fa parte del reticolo ma è extraframework, esso si avvicina
all’ossigeno legato ad Al per compensare la carica e neutralizzare il sistema.
Si ricorda che però questo catione, dato che non fa parte della zeolite, è
scambiabile.
Se però al posto di usare dei cationi positivi, ho un protone cioè un H+, esso
manda via il catione positivo, si avvicina all’ossigeno negativo andando a
formare un gruppo OH che è un gruppo acido, più precisamente avrà
un’acidità di Bronsted (ovvero un acido forte che è in grado di rilasciare il
protone). Quindi in prossimità di una molecola basica l’H + verrà strappato.
Questa capacità di rilasciare protoni, quindi la natura acida di queste zeoliti,
trova un grandissimo impiego in tutti i processi industriali in cui è richiesta una catalisi acida, in quanto riescono a fornire molto facilmente il
protone per fare poi avvenire la reazione. (questo accade solo se c’è una sostituzione Si-Al). Quindi posso avere o zeoliti protonate o
scambiate e posso passare sempre dalle une alle altre, in quanto lo scambio catione-protone è molto facile da controllare chimicamente. Per
farlo basta prendere la zeolite, metterla in un solvente con un sale (scambiatore), lasciar girare anche a T ambiente e si verificherà questo
fenomeno.

I controcationi, come ad esempio gli ioni sodio, non fanno parte della struttura della zeolite e possono
occupare posizioni diverse a seconda della posizione degli ossigeni negativi, quindi non sono tutti
equivalenti dal punto di vista della posizione e per questo non sono tutti egualmente scambiabili nello
stesso modo. Per ogni zeolite le posizioni in cui possono allocarsi i controcationi possono essere diverse.

Le proprietà che hanno questi materiali dipendono fortemente dalla loro struttura. Una proprietà è quella
di setacci molecolari, avendo pori di dimensioni precise sono in grado di far passare solo molecole di
determinate dimensioni e di trattenere quelle più grosse, proprio grazie alla presenza dei pori, questo le
rende molto utili nei processi industriali in cui posso trasformare le molecole con la catalisi. La funzione dei
setacci molecolari quindi si basa sulla selettività di forma poiché dipende appunto dalle dimensioni dei
canali.
Un'altra funzione delle zeoliti è quella di essere usate come scambiatori ionici.

Esiste una commissione internazionale (CNMMN, commission on new minerals and mineral names) che valuta se i nuovo materiali scoperti o
sintetizzati nel corso degli anni rientrano nella classe delle zeoliti e verso la fine del 1900 questa commissione ha deciso che potevano entrare a

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far parte di questa categoria anche composti che non avevano solo Si e Al all’interno del reticolo ma che avevano comunque una struttura
tridimensionale microporosa simile a quella delle zeoliti e che quindi possiedono proprietà zeolitiche. Quindi in questi anni vengono inseriti
come sistemi simili alle zeoliti gli alluminofosfati (AlPO) che sono sempre materiali microporosi cristallini composti però da un’alternanza di
alluminio e fosforo(P) sempre in coordinazione tetraedrica legati dagli O. All’interno degli alluminofosfati si hanno due sottocategorie: ci sono i
silicoalluminofosfati (SAPO) in cui oltre al fosforo e all’alluminio aggiungo il silicio. Poi ci sono i MeAlPO dove vengono introdotti metalli che
possono essere diversi (Ti, Mg, Zn, Fe, ecc) ed hanno sempre una struttura come quella delle zeoliti. Questi sono tutti materiali di sintesi e sono
stati sintetizzati intorno al 1982 per poi essere riconosciuti come zeoliti circa 20 anni dopo, nel 1998.

Questi materiali rispetto alle zeoliti hanno rappresentato una sorta di svolta poiché si possono introdurre all’interno del reticolo il silicio e
anche dei metalli, cosa che non è possibile all’interno delle zeoliti. Gli alluminosilicati in generale hanno cationi extraframework che non fanno
parte del materiale, è molto difficile sostituire un alluminio o un silicio con altri elementi all’interno del reticolo, ci sono pochissimi esempi in
cui questo è possibile, tra cui un materiale zeolitico in cui è stato introdotto il titanio. Questo materiale si chiama Titanio-silicalite ed è
diventato un materiale importantissimo poiché è un catalizzatore molto efficiente per le ossidazioni selettive. La sua struttura è composta da
tanti tetraedri SiO4 e ogni tanto si può trovare il titanio che è legato ai tetraedri, esattamente come il silicio, all’interno del framework. Ti è un
centro redox e per questo è utilizzato per ossidazione selettive. Una reazione molto importante che può avvenire in questa struttura è la
conversione del cicloesanone in cicloesanoneossima, il precursore del Nylon-6 ed è molto importante industrialmente, proprio la Ti-silicalite
catalizza questa reazione che ha una selettività molto alta.

Negli alluminofosfati (ALPO) in cui vi è un’alternanza di tetraedri con fosforo e


alluminio, è molto più facile sostituire con eteroatomi l’alluminio o il fosforo e per
questo con il tempo sono risultati importanti, in quanto hanno il vantaggio di
introdurre non solo il titanio ma anche altri elementi. Ad esempio, P può essere
sostituito con Si, generando così uno scompenso di carica che viene neutralizzato
con un H legato all’ossigeno negativo, che genera un gruppo OH e quindi un sito
acido di Bronsted (molto simile a quello presente nelle zeoliti), però solo
localmente in quanto poi nella struttura generale avremo anche altri tetraedri di P,
l’acidità di questi gruppi non è quindi la stessa. Inoltre, come succede nelle zeoliti,
questo H può essere sostituito a sua volta con un metallo.

Un’altra possibilità, partendo sempre dall’ALPO, è quella di sostituire l’alluminio


con un metallo che solitamente è in uno stato di ossidazione 2 +, dato che l’Al è 3 +
con P dall’altra parte, avremo di nuovo un ossigeno negativo che verrà bilanciato dal protone H; quindi si forma ancora un acido di Bronsted
che però non avrà la stessa acidità dei precedenti in quanto è legato a un metallo e al fosforo. Questa classe di materiali si chiama MeAPO.
Non si sostituiscono tutti i P o Al, solo una parte.

Poi c’è il caso più complicato di tutti in cui si ha una composizione chimica di metallo, alluminio, fosforo e silicio (MeAPSO) e posso sintetizzare
un materiale in cui una certa frazione di alluminio viene sostituita da un metallo (es cobalto) e una certa frazione di fosforo viene sostituita dal
silicio, quindi avrò più di un ossigeno negativo la cui carica sarà compensata con il protone H, per cui avrò più siti acidi di Bronsted ma con una
acidità diversa.

Tutti questi sistemi hanno proprietà diverse da quelle delle zeoliti e per questo sono molto importanti a livello di applicazioni industriali per
catalisi eterogenea. Ogni tipologia di sostituzione dipende dalla struttura dell’alluminofosfato (ce ne sono diverse perché il meccanismo di
formazione è la stessa).

Molte strutture degli alluminofosfati sono identiche a quelle delle zeoliti, cambiando ovviamente la natura chimica degli elementi, mentre altre
strutture non hanno invece corrispondenza. Se si parte ad esempio dal reticolo neutro delle Alpo, ci sono almeno tre meccanismi di
sostituzione che dipendono da ciò che si sta sostituendo:

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- tipo di sostituzione 1se metto il metallo che può avere stato di ossidazione 2 o 3, generalmente va a sostituire l’alluminio 3+
- tipo di sostituzione 2 se invece metto un atomo con un numero di ossidazione più alto, come il silicio o il titanio, che hanno
valenza dal 4 al 5, vado a sostituire il fosforo
- -tipo di sostituzione 3 se metto una certa quantità ad esempio di silicio può succedere che ci siano due tetraedri vicini che abbiano
una sostituzione con il silicio al posto del fosforo e questo può generare delle isole di silice, ovvero una zona in cui invece che avere
un’alternanza Al O Si ho tanti tetraedri di silicio l’uno vicino all’altro, quindi una zona in cui c’è una composizione molto simile
all’ossido di silicio.

CLASSIFICAZIONE STRUTTURALE

Vista l’ampia varietà chimica delle zeoliti, la loro classificazione viene fatta su basi strutturali, quindi è basata sulla topologia del framework e
non dipende dalla composizione chimica, ma dalle distribuzioni degli atomi in T. Esistono 201 tipi di framework e ognuno di essi è identificato
con un codice di tre lettere. A ciascun tipo strutturale appartengono composti che possono essere diversi per composizione ma che hanno la
stessa topologia di framework e quindi una stessa simmetria topologica. Tutte le diverse tipologie di framework riconosciute sono contenute in
un atlante. Per essere riconosciute le zeoliti devono rispettare alcuni criteri:

 devono avere un’impalcatura tridimensionale tetraedrica (per confermarlo devo fare un’analisi a raggi x)
 devono avere una densità del reticolo inferiore a circa 20,5 tetraedri per nm3.

In questi atlanti avrò quindi informazioni strutturali con allegate immagini e diffrazione dei raggi x.

CRISTALLOCHIMICA DELLE ZEOLITI

Per una zeolite naturale la formula chimica generale è: M x D y [T x+2 y S i z ( x+2 y ) O 2 z ]n H 2 O . Quindi ci sono sempre un certo numero di
molecole d’acqua adsorbite all’interno della struttura tridimensionale, sempre se non viene riscaldata. Poi abbiamo tra le parentesi quadre la
composizione del reticolo mentre fuori abbiamo altre lettere con cui si possono identificare i controcationi, quindi:

 Mx = cationi metallici più o meno facilmente scambiabili (es: Na, K, Li)


 Dy = cationi come Mg, Ca, Sr, Ba e meno frequentemente Fe bivalente e Mn
 T = cationi normalmente in coordinazione tetraedrica come Al e, in minore quantità Fe 3+ mentre gli indici a pedice indicano i rapporti
molari.

I pedici indicano i rapporti molari tra i composti usati. La variabilità cristallochimica di questi sistemi è legata al tipo di cationi che si possono
ospitare all’interno della struttura, che generalmente sono Si e Al, il cui rapporto è variabile, nelle zeoliti naturali varia da 1 a 7, mentre in
quelle sintetiche da 1 a infinito. Per cui se ho un numero molto alto nel rapporto Si/Al vuol dire che ho un numero elevato di Si e per cui avrò
una struttura che è prevalentemente silicea e ho un numero molto basso di siti acidi di Bronsted, se invece ho un numero molto basso sono
nelle condizioni opposte. Nel momento in cui faccio una sintesi posso modulare questo rapporto. C’è un limite inferiore rispetto al rapporto
Si-Al che è dettato dalla regola di Lowenstein, poiché se io abbasso troppo questo rapporto può succedere che io abbia due tetraedri di
alluminio che si leghino e questo è molto improbabile, per cui si può avere un materiale con prevalenza di silicio ma non si può avere con
prevalenza di alluminio poiché la struttura non reggerebbe. Non ho quindi materiali con tutti tetraedri di Al.

Se il rapporto Si/Al è uguale a uno significa che ho un’alternanza di tetraedri con Si e tetraedri con Al in modo regolare, se vado sotto l’1 ho
prevalenza di Al e sopra prevalenza di Si, però in generale l’1 è il limite più basso che si può raggiungere.

Nella struttura ci sono anche i cationi extra-framework che possono essere scambiati senza che il framework subisca sostanziali modificazioni,
quindi le zeoliti hanno queste proprietà di scambio ionico. Oltre a queste ci sono anche proprietà di adsorbimento, ricordiamo che le
molecole di acqua nelle zeoliti possono essere perse e riacquistate (=idratazione e disidratazione reversibile) e come esse anche altre molecole
grazie a queste proprietà di adsorbimento. Altre proprietà sono quelle di setaccio molecolare dovute alla presenza di cavità e canali di
dimensioni diverse e limitate (<10°) che permettono di passare solo molecole di una certa dimensione e le altre vengono bloccate. Un altro
importante utilizzo è come catalizzatore eterogeneo.

SINTESI DELLE ZEOLITI


Molte zeoliti di sintesi sono ottenute in presenza di una molecola organica di tipo basico nota come TEMPLANTE, che può essere presente
anche nella successiva fase cristallina. Questo templante viene messo subito nel momento sintesi e attorno ad essa si crea la struttura
cristallina, essendo una molecola organica, alla fine della sintesi rimarrà intrappolata nei canali o nelle cavità.
Quindi quando facciamo una sintesi di questo tipo dobbiamo prevedere che tipo di struttura e di proprietà che vogliamo avere e per questo è
importante la scelta dei reagenti da cui partire, i rapporti molari in cui essi sono presenti e il templante organico che ci indirizzerà alla
struttura interessata. Le sintesi avvengono a condizioni particolari di temperatura, pressione e durata del trattamento termico,
infatti le sintesi vengono definite come sintesi idrotermali poiché avvengono in acqua (che è il solvente) e si ha bisogno di scaldare.

Quindi quello che si fa quando si fanno sintesi sia delle zeoliti ma anche degli alluminosilicati è scegliere i reagenti che verranno sciolti in acqua
che è il solvente, poi il gel di sintesi viene messo a temperature che vanno dai 100 ai 250°C in un contenitore che è una sorta di pentola a
pressione, chiamata autoclave, e una volta in stufa ha inizio la cristallizzazione. Ad esempio per una zeolite classica si deve scegliere una
sorgente si silicio (come un silicato) e una di alluminio (come un idrossido, un alluminato o un sale di alluminio), poi si aggiusta il pH (di solito

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basico) ed infine viene aggiunto il templante che ci permette di
indirizzare la struttura, il tutto viene mescolato e questo gel di
sintesi viene messo in un contenitore (in teflon) che permette di
scaldare e di sviluppare anche una pressione più alta di quella
atmosferica e così ha inizio la cristallizzazione. Si usano oggetti
chiamati autoclavi in acciaio, dentro si ha una camicia bianca,
cioè un contenitore in teflon dove si mette il gel di sintesi,
questa camicia viene poi messa all’interno dell’autoclave, si
chiudono le rotelle e l’autoclave viene messa in stufa. Quando il
gel inizia a riscaldarsi e aumenta la pressione inizia la
cristallizzazione. È come una pentola a pressione, la chiusura
deve quindi essere fatta bene altrimenti si potrebbe verificare
un’esplosione. Per quanto riguarda i tempi di cristallizzazione
sono variabili a seconda della struttura.

Inizialmente si mette il precursore di Si (es, TEOS), si scioglie, si aggiunge poi il precursore di Al, lasciando girare per un certo tempo. Infine, si
aggiunge il templante (o SDA structure directing agent), una volta che è tutto mescolato bene ed è tutto omogeneo si inserisce nell’autoclave e
successivamente in stufa dove avviene il meccanismo di cristallizzazione.

Se invece si sta sintetizzato una SAPO bisogna mettere i precursori di fosforo, alluminio e silicio (es: acido fosforico H3PO4, isopropossido di
alluminio, il TEOS, poi l’acqua come solvente e la TEA trietilammina come templante) e di questo gel di sintesi naturalmente devo specificare
tutte le varie proporzioni.

Uno dei primi studi che si fanno dopo la sintesi è la diffrazione con i raggi X per vedere se è stato ottenuto un materiale cristallino con la
struttura desiderata.

Invece per quanto riguarda il processo di cristallizzazione avviene in questo modo: si parte da un gel di sintesi omogeneo dove si mescolano
tutti i precursori, questo gel viene messo in autoclave a una certa temperatura e pressione. Inizialmente si formano delle particelle molto
piccole e amorfe che poi si ingrandiscono un po’ formando degli agglomerati; successivamente inizia la nucleazione. quindi all’interno di questi
agglomerati amorfi iniziano poco alla volta a formarsi i primi cristalli che sono più piccoli per poi passare all’accrescimento di questi cristalli fino
ad arrivare ai veri e propri cristalli della zeolite.

Si ha quindi una sintesi idrotermale poiché ho come solvente l’acqua e devo scaldare in autoclave per avere una pressione più alta di quella
atmosferica. Invece dal punto di vista della chimica che sta sotto a questo meccanismo, queste sintesi sono sintesi SOL-GEL perché appunto si
parte da una soluzione che viene mescolata ottenendo poi una sorta di gel.

Partendo ad esempio dal precursore di silicio, uno dei più usati è il TEOS (tetraetilortosilicato) Si(OC2H5)4.Si tratta di un liquido che viene
immerso acqua, il primo processo che si verifica è l’idrolisi, quindi l’acqua spacca la molecola di TEOS in prossimità dei legami O-C 2H5 e genera
una molecola di Si(OH)4. Quindi il primo step è l’idrolisi.
Il 2° step è invece la condensazione, poiché i composti Si(OH) 4 devono reagire insieme, cioè condensare, per formare dei ponti a ossigeno e
dare origine alla struttura inorganica. Così si formano i tetraedri che reagiscono insieme generando una struttura tridimensionale che però è
piena di molecole organiche usate come templante e quindi tutte le proprietà che dipendono dalla presenza dei vari canali non sono sfruttabili,
per questo si passa alla rimozione totale del templante ad esempio tramite un’ossidazione. Quindi metto la mia polvere a contatto con
l’ossigeno, scaldo a 550°C, l’ossigeno effettua una reazione di combustione, il templante organico si brucia e fuoriescono CO 2 e vapor d’acqua
che porto via. Quindi è molto importante che dopo la sintesi bisogna calcinare il materiale in ossigeno ad alta T.

Un altro fattore importante è il pH, poiché in funzione del pH del gel si possono produrre materiali diversi. Usando il TEOS, a seconda del pH a
cui lavoriamo possiamo avere una prevalenza dell’idrolisi rispetto alla condensazione o viceversa. In funzione del pH usando sempre lo stesso
precursore posso produrre materiali diversi:

 pH acidi  l’idrolisi è prevalente sulla condensazione. Si formano piccole particelle che si aggregano, aggiungendo come templante
organico molecole grandi come il tensioattivo, si formeranno aggregati micellari e si possono ottenere dei materiali diversi dalle
zeoliti, ovvero le silici mesoporose.
 pH basici  è la condensazione che prevale sull’idrolisi, si formano quindi i nuclei e poi le zeoliti, quindi in questo caso siamo in
condizioni basiche e il templante è più piccolo e per questo si formeranno materiali microporosi (con pori più piccoli dei meso).

(pH acidimesoporosi pH basicimicroporosi)

Sono invece molto lenti a pH neutro. Quindi per sintetizzare le zeoliti si lavora generalmente a pH basici con
templanti corti come le ammine. Se si cambia il pH e si usano molecole grosse si ottiene un altro prodotto
sempre partendo dal TEOS. Si può anche monitorare la cristallizzazione che avviene all’interno dell’autoclave
prelevando ogni tot ore del gel e analizzandolo con i raggi X. Si può vedere come con il passare delle ore ci
sono segnali, e quindi picchi sempre più evidenti, sul difrattogramma in determinate posizioni. In questo modo
si può monitorare nel tempo la crescita.

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Si ragione quindi sempre in termini di gel di sintesi, si usa lo stesso solvente (acqua), la temperatura varia in funzione della struttura voluta
così come i tempi. Un altro parametro importante è il pH e il templante organico: molecole organiche piccole come ammine o Sali di
ammonio quaternari servono per formare zeoliti (alluminofosfati) con micropori, molecole organiche molto più grandi, come i tensioattivi,
servono per formare pori più grandi: mesopori.

SELETTIVITÀ DI FORMA
Questa proprietà è molto importante e molto utilizzata nelle zeoliti quando esse si applicano nel campo della catalisi eterogenea, poiché sono
in grado di trasformare solo molecole che sono in grado di entrare nei pori di questi materiali, mentre quelle più grandi non hanno accesso a
questi pori. Infatti, quando si parla di catalisi eterogenea si fa riferimento al fatto che all’interno di questi pori avvengono delle reazioni a una
velocità aumentata rispetto a reazioni che avvengono in assenza di zeoliti, proprio perché esse sono dei catalizzatori. Bisogna quindi
immaginare i pori come dei microreattori. Questa proprietà viene molto sfruttata nei processi industriali

Dal punto di vista chimico possiamo avere una selettività di forma che riguarda
i reagenti, quindi all’interno dei canali delle zeoliti entrano solo reagenti in
grado di farlo. Ad esempio, catene lineari come l’etano e non catene come il
dimetilesano, quindi vengono trasformate solo quelle molecole che riescono a
passare nei micropori. L’altra possibilità è che ci sia una selettività di forma nei
confronti dei prodotti, quindi ho un reagente che entra nel canale dove avverrà
la trasformazione, ma dal canale uscirà solo il prodotto che ha dimensioni tali
da essere in grado di uscire dal canale e non rimanere intrappolato all’interno
della zeolite. Inoltre, ci può essere anche la selettività di forma nel caso dello
stato di transizione poiché uno stato di transizione si può formare all’interno
dei canali solo se ha dimensioni consone a quelle dei pori per poi andare a
formare il prodotto.

Questa selettività di forma fa sì che la quantità di sottoprodotto diminuisca o si


annulli poiché grazie a questa proprietà posso spingere la reazione esclusivamente verso il prodotto che mi interessa, per questo a livello
industriale sono diventate di notevole importanza.

Le zeoliti oltre a questo sono anche usate come agenti disidratanti poiché sono in grado di adsorbire molecole d’acqua e rilasciarle in
funzione della temperatura, infatti le strutture possono essere disidratate per riscaldamento sottovuoto; quindi le zeoliti sono degli ottimi
agenti essiccanti.

Sono anche usate come scambiatori di ioni poiché nel reticolo si hanno degli ossigeni negativi che possono essere bilanciati da cationi positivi
che però non fanno parte del reticolo cristallino e quindi permettono di scambiarsi con altri ioni, possono ad esempio portare via ioni
particolari dalle acque; è importante ricordare che la quantità di ioni che possono essere ospitati nella zeolite dipende dal rapporto
silicio/alluminio (più silicio meno ossigeni negativi meno ioni). Ad esempio, la zeolite-A con Na è molto usata come additivo per addolcire
le acque, gli ioni Na vengono rilasciati e sostituiti da ioni Ca e l’additivo può essere poi rigenerato facendovi passare una soluzione salina molto
pura di NaCl; questa zeolite-A è aggiunta spesso ai detersivi. Esistono anche zeoliti che hanno un’affinità con un catione particolare, ovvero la
clinoptiloilite che è una zeolite naturale che scambia facilmente cationi con il cesio, infatti è usata per separare il 137Cs da rifiuti radioattivi
scambiando ioni Na con ioni Cs.

Le zeoliti sono adsorbenti e quindi sono in grado di ospitare e adsorbire molecole all’interno dei loro micropori e proprio grazie alla
dimensione dei loro canali sono in grado di far passare molecole di una determinata taglia lasciando fuori le altre e quindi sono usate anche
come setacci molecolari per purificare o separare sostanze. Anche in questo caso il rapporto Si/Al è molto importante perché ci dà
informazioni riguardo l’idrofobicità e l’idrofilicità della zeolite, ovvero la quantità d’acqua che può essere ospitata nei canali. Se la zeolite è
idrofobica può essere usata per rimuovere molecole organiche da soluzioni acquose. (rimozione di sostanze tossiche dal sangue, produzione di
bevande analcoliche…)
Se la zeolite ha molto silicio, sulla superficie ci saranno molti silanoli (gruppi SiOH) che sono molto idrofilici e quindi la zeolite tende ad
adsorbire l’acqua, ma se invece ho meno silicio e quindi meno silanoli e la zeolite risulta idrofobica.

Un’altra applicazione è quella di catalizzatori eterogenei, le zeoliti hanno un elevata area superficiale (400/500 m 2g), quindi permettono di
trattare una quantità di molecole altrettanto elevata rispetto a quelle che si possono adsorbire su un catalizzatore amorfo tradizionale. Le
zeoliti usate come catalizzatori devono essere facilmente sintetizzabili. In questa applicazione viene sfruttata la selettività di forma delle zeoliti,
quindi si fanno avvenire reazioni all’interno dei pori come visto in precedenza.

In generale le zeoliti sono usate per il 67% nel campo della detergenza, 11% agricoltura, 8% trattamento aria e acque, 14% catalisi; inoltre le
zeoliti naturali e sintetiche hanno alcune differenze fondamentali:

 le naturali hanno una disponibilità elevata ma non illimitata, mentre le sintetiche illimitata,
 le naturali hanno un numero limitato di tipi strutturali mentre le sintetiche ne hanno una enorme varietà in base alle diverse
necessità,
 le naturali hanno un limitato grado di purezza (60-70%), mentre per le sintetiche il grado di purezza è elevato,

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 le naturali hanno un costo commerciale pari a qualche decina di euro al chilo (costo dovuto solo all’estrazione), mentre le sintetiche
qualche centinaio di euro al chilo (a causa del costo dei precursori, tempi di sintesi, energia consumata, ecc).

MATERIALI MESOPOROSI (silici mesoporose)


Il problema dei sistemi microporosi è proprio la dimensione ridotta dei pori, poiché, ad esempio, nel momento in cui si fa avvenire una
reazione all’interno di questi pori devo portare a temperatura per fare avvenire la reazione e può succedere di avere problemi di diffusione
delle molecole e ci può essere la produzione di coke ovvero di specie carboniose che si depositano nei pori disattivando il materiale e questo è
uno dei problemi.
Per risolvere questo problema sono stati sintetizzati nuovi materiali con pori un po’ più grandi, quindi con mesopori (15-70 A°); essi sono stati
sintetizzati per la prima volta dalla Mobil (USA) usando, al posto di un templante come ammine o Sali di ammonio, dei tensioattivi in modo da
ottenere dei pori di dimensioni più grandi.

Le silici mesoporose sono composte da silicio e ossigeno e hanno dei pori che arrivano anche fino ai 70A° e quindi sono in grado di trattare
molecole più grandi rispetto alle zeoliti. La loro sintesi avviene combinando la sintesi sol-gel e l’utilizzo dei tensioattivi, inizialmente venivano
utilizzate solo nelle catalisi, ma poi sono state utilizzate anche in altri numerosi ambiti come nella nanomedicina.

Tra le silici mesoporose il materiale più noto è studiato è un sistema chiamato MCM-41 (mobil cathalitic material n 41) che appartiene alla
famiglia di silici mesoporose chiamate M41S ed è considerata una silice amorfa ma ha un arrangiamento esagonale dei canali mesoporosi (25-
28 A° diametro). Quindi è considerato un materiale amorfo poiché ha un ordine a lungo raggio dovuto alla ripetizione delle celle esagonali, ma
i muri di questi pori sono amorfi e quindi non è un materiale cristallino. Se si fa un’analisi ai raggi x ci saranno dei segnali nel difrattogramma
che mi indicano delle diffrazioni ma ci saranno meno picchi rispetto a un materiale puramente cristallino come le zeoliti.

SINTESI
Da una parte si ha la chimica sol-gel, quindi avremo un precursore di silicio, si tratta di sintesi sempre idrotermali per cui il
solvente è acqua e il tutto verrà scaldato in autoclave a una certa T, però non serve il templante per costruire la struttura
poiché nelle zeoliti servivano molecole piccole per i micropori, mentre in questo caso serviranno molecole organiche più
grandi come i TENSIOATTIVI. Il tensioattivo più usato è il CTMABr (cetiltrimetilammonio bomuro) che ha una coda con 16
carboni e una testa con un azoto positivizzato affiancato dal bromo che fa da contro anione. Se si usa questo tensioattivo
nel gel di sintesi si fa poi polimerizzare la silice su queste molecole grandi e si producono le silici mesoporose.
Oltre all’MCM41 si hanno altre silici mesoporose come MCM-50 che ha una struttura lamellare o MCM-48 che è invece cubico ma ha dei
problemi di diffusione a causa dei canali distorti.

TENSIOATTIVI sono molecole che abbassano la tensione superficiale di un liquido, agevolando la bagnabilità delle superfici o la miscibilità tra
liquidi diversi. Sono caratterizzate da una parte lipofila ovvero una catena idrocarburica che è in grado di respingere l’acqua e da una parte
idrofila ovvero la testa polare che fa sì che il tensioattivo sia solubile in acqua. Sono anche detti surfattanti poiché agiscono sulla bagnabilità
delle superfici.

A seconda della loro concentrazione in acqua possono accadere cose differenti:

 a bassa concentrazione si orienteranno e la parte idrofilica va verso l’aria e la idrofobica verso l’aria, saranno tutte separate tra di
loro;
 se si aumenta la concentrazione si avranno zone molto affollate di molecole di tensioattivo e ad un certo punto esse si organizzano
in micelle ovvero gruppi di molecole di tensioattivo in cui la coda sarà verso l’interno e la parte polare verso l’esterno. La
concentrazione alla quale avviene la formazione di micelle è tipica di ogni tensioattivo ed è detta CMC ovvero concentrazione
micellare critica ed è proprio la concentrazione a cui si pone il tensioattivo nelle sintesi delle silici mesoporose in modo da avere la

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formazione di micelle. Può variare anche la forma delle micelle a seconda dei tensioattivi, questa forma conferirà poi la struttura alla
silice mesoporosa. La concentrazione micellare critica diminuisce all’aumentare del numero di carboni presenti nella catena.

Un altro parametro importante nei tensioattivi è la temperatura di Kraft che è un ristretto intervallo di temperature al di sopra del quale la
solubilità di un tensioattivo aumenta nettamente; a questa temperatura la solubilità diviene uguale alla concentrazione micellare critica e
quindi è possibile la formazione di micelle.

Durante la sintesi bisogna quindi sapere sia la concentrazione che la temperatura. Partendo da un monomero e usando un solvente polare
come l’acqua si formano micelle sferiche che crescono e formano micelle cilindriche, da cui ottengo MCM-41. Possono anche formarsi micelle
con un’organizzazione lamellare da cui si ottiene la MCM-50 Nel caso dei solventi non polari si ha un’organizzazione opposta, nelle silici
mesoporose si ha sempre un solvente acquoso.

Tornando alla sintesi delle silici mesoporose si formeranno le strutture micellari che indirizzeranno la struttura del materiale che voglio
ottenere. All’interno del gel di sintesi devo anche mettere un precursore di silicio e posso usare o una silice amorfa che però è solida, oppure
posso ricorrere all’utilizzo di molecole particolari chiamate silani con gruppi OR che sono facilmente idrolizzabili. I silani subiscono quindi un
meccanismo di idrolisi e vanno a legarsi alle teste polari delle micelle.

Per cui all’interno del gel di sintesi avrò: precursore di silicio, acqua, tensioattivo, cosolvente ed eventualmente posso aggiungere un
additivo per ingrandire ulteriormente le micelle che si ottengono dal tensioattivo ; pongo il tutto in autoclave, la silice polimerizza attorno alle
micelle e quando estraggo il materiale, dopo averlo filtrato, avrò un sistema siliceo mesoporoso in cui i pori sono riempiti dal tensioattivo che
poi dovrà essere tolto per avere i canali vuoti da utilizzare. Per eliminare il tensioattivo devo calcinare e quindi porto il materiale a 500-600°C in
ossigeno e brucio tutta la parte organica, a questo punto ottengo il mio materiale pronto per l’utilizzo.

 ANALISI A RAGGI X  grazie ai difrattogrammi è possibile


distinguere la silice mesoporosa esagonale dalla lamellare e
dalla cubica, si avranno picchi a bassi angoli.
 ANALISI POROSIMETRICA  per quanto riguarda invece
l’analisi dei pori si studiano i cappi di isteresi. In presenza dei
mesopori ottengo infatti isoterme con cappi d’isteresi, il ramo
di adsorbimento quindi non coincide con quello di
desorbimento. I materiali microporosi NON hanno cappi
d’isteresi.

Infatti, quando faccio le sintesi queste due sono le prime misure che si
fanno. Controllo la struttura con la diffrazione dei raggi X andando a
vedere se i picchi della struttura che ho sintetizzato coincidono con i
picchi della struttura che volevo ottenere, in seconda battuta si misura
l’adsorbimento di gas (azoto 77K) per avere informazioni sull’area superficiale e sul volume dei pori.

CLASSI DI SILICI MESOPOROSE

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Si hanno principalmente due classi:

- la prima è la M41s ovvero quella dell’MCM41/ 50/ 48 che hanno un diametro dei pori che va dai 23 ai 25A° e con aree superficiali sui 580
m2/g (per MCM 50 e 48) e di 1050 m2/g per MCM41;

-se cambio la temperatura, i tempi di reazione e soprattutto il tipo di tensioattivo posso ottenere materiali che appartengono ad un'altra classe
ovvero gli SBA-n che possono essere di due tipi SBA15 e SBA16, la sigla deriva dal luogo della prima sintesi di questi materiali ovvero Santa
Barbara. Il numero affianco alla sigla denota un particolare tipo di struttura e al contrario degli M41s essi hanno una dimensione di pori molto
più grande ovvero tra i 72 e i 73 A e ciò dipende dal tensioattivo, infatti in questo caso si usano dei polimeri che sono macromolecole e quindi
sono più grosse.

Il meccanismo di crescita è sempre uguale, cambia solo la dimensione delle micelle. L’SBA15 ha canali lineari al contrario del 16 che è molto
simile all’MCM-48, per questo il 15 è il più usato ed è il più simile all’MCM-41 sia per struttura che per composizione chimica ma non per la
dimensione dei pori.

MCM-41  nel suo difrattogramma (sx) abbiamo un picco più intenso e due picchi più piccoli
e questi segnali sono tipici dell’MCM-41 che ha una simmetria esagonale e si sintetizza in
condizioni alcaline, quindi ph basici utilizzando i tensioattivi cationici come i CTABr. (pori=27A
superficie=1020 m2/g)

SBA-15  (dx) anche in questo caso si hanno tre picchi come nell’MCM-41 per cui si avrà la
stessa struttura e arrangiamento, ma i picchi sono ad angoli diversi. Si usano polimeri come
tensioattivi e quindi i pori saranno più grandi. (pori=67 A° superficie 650 m2/g)

Dal punto di vista chimico le silici mesoporose sono composti di silicio e ossigeno, gli unici difetti che possiamo avere sono i silanoli (SiOH) che
però non hanno proprietà acide, per cui così come sono le silici mesoporose sono semplicemente dei contenitori e nulla di più chimicamente.
Questi silanoli sulla superficie possono essere dei punti su cui intervenire per funzionalizzare in modo particolare il materiale. Per fare questo
si può operare attraverso due metodologie diverse: si possono usare i silanoli sulla superficie dei canali per graffare (grafting = ancoraggio)
delle molecole e quindi conferire delle proprietà alla struttura), oppure si può introdurre qualcosa nel gel di sintesi che dia una proprietà
specifica alla silice che andrò a produrre (silice one-pot). La differenza principale tra questi due modi è che il grafting avviene dopo la sintesi,
mentre il one-pot avviene durante la sintesi.

GRAFTING (graffaggio)

Sulla superficie del mesoporo ho un certo numero di silanoli, la cui densità è facilmente calcolabile (con tecniche termogravimetriche), in
questo caso ad esempio abbiamo dai 4 ai 6 gruppi OH per nm 2, questi gruppi non sono chimicamente utili perché non sono né acidi né basici,
però li posso utilizzare come punto di ancoraggio di un qualcosa che voglio mettere all’interno della silice. Solitamente vengono messe delle
molecole come silani che hanno gruppi idrolizzabili OR che possono agganciarsi chimicamente (attraverso un legame covalente) ai gruppi OH
dei silanoli.
Tutto ciò avviene dopo che ho sintetizzato la silice mesoporosa e dopo aver svuotato i pori, quindi aggancio un silano con una determinata
funzionalità R che decidiamo noi. Ottengo quindi una silice funzionalizzata.

Questo metodo è usato per il rilascio controllato di farmaci. Se all’interno del materiale introduco un farmaco adsorbito mettendo il solido a
contatto con la soluzione, il farmaco andrà a diffondere dentro questi canali. Non si ha però un controllo sulla modalità in cui il farmaco viene
rilasciato. Tramite il grafting posso agganciare all’entrata del poro una molecola particolare che è la cumarina: quindi sintetizzo la silice, la
calcino e una volta che i pori sono vuoti la carico di farmaco e faccio il grafting della cumarina che si lega covalentemente all’imbocco del poro

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chiudendolo. Esso si apre solamente se illumino con una radiazione UV, cambiando la sua conformazione e rilasciando così il farmaco; per cui
con questa modalità riesco a controllare il rilascio del farmaco che verrà rilasciato solo nel punto specifico. In questo modo posso avere un
numero elevato di molecole di farmaco che posso rilasciare gradualmente in base alle esigenze.

Il grafting con il titanio è molto usato per le catalisi nella produzione di caprolattame usato nel Nylon 6, avrà una coordinazione tetraedrica
nella Si riuscendo a legare altre due molecole per la catalisi.

ONE-POT
Chiamata anche co-condensazione. In questo caso si sintetizza un materiale
funzionalizzato dall’inizio poiché nel gel di sintesi viene aggiunto, oltre al TEOS e al
tensioattivo, un silano con una funzionalità R; per cui alla fine ottengo una silice
mesoporosa con il tensioattivo e all’interno dei canali la funzionalità R. Il problema è che
se calcino per eliminare il tensioattivo brucerò anche la funzionalità R, di solito organica,
quindi in questo caso non si usa la calcinazione ma un’estrazione con un solvente per
togliere il tensioattivo, grazie a interazioni elettrostatiche, tramite una serie di lavaggi.
Infine, dopo l’estrazione otterrò una silice mesoporosa con la mia funzionalità R che non è stata rimossa attraverso

l’estrazione poiché è legata covalentemente. Quindi dentro la struttura della silice avrò il silano e fuori sulla superficie del poro ho la
funzionalità R, per cui con questa sintesi ho il poro più “libero” rispetto al grafting, che ingombra di più il poro.

SINTESI FOTOATTIVA
Un altro modo in cui possono essere usati le zeoliti mesoporose è come contenitori di enzimi piuttosto che coloranti. Possono essere anche
funzionalizzate con molecole fotoattive, per utilizzare questo materiale come agente di contrasto per l’immaging ottico. Questo materiale
infatti emetterà una radiazione per effetto di un’illuminazione (fotoattivo), posso quindi seguirlo all’interno delle cellule. Questi sistemi
fotoattivi vengono seguiti attraverso un microscopio a fluorescenza e servono per la diagnostica medica.

In questo caso si ha il mesoporo vuoto in cui viene aggiunta una molecola fotoattiva o per adsorbimento (si potrebbe avere un problema di
rilascio incontrollato) oppure funzionalizzando la zeolite in modo che la molecola che poi introduco sia ben “legata” alla struttura con un
legame covalente (o one pot o grafting), questa seconda possibilità è più lunga e complessa ma più vantaggiosa rispetto all’adsorbimento
poiché qui non si perde la molecola dato che è agganciata chimicamente. Questi sistemi sono molto usati in nanomedicina.

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In medicina vengono usate nanoparticelle in modo che possano passare le varie membrane cellulari, se sono grosse si fermano all’esterno
della cellula. Essendo negli ordini dei nanometri la cellula la fa entrare all’interno dove può essere rilasciato un farmaco. Si usa un metodo one-
pot per produrre un materiale che oltre ad avere i silanoli sulla superficie abbia anche gruppi NH 2 basici che riascano ad agganciare molecole
con gruppi acidi attraverso la chimica acido-base.
Sintetizzo una silice usando tensioattivo, TEOS e un silano con un gruppo basico NH 2 (es APTES, amminopropiletossisilano), il tutto è messo nel
gel di sintesi (la sintesi di solito è molto veloce circa 2h). Ottengo un materiale in cui ho intrappolato nel canale un tensioattivo e sulla
superficie dei pori avrà gruppi NH2, poi estraggo il tensioattivo facendo rimanere solo gli NH2.
Queste nanoparticelle funzionalizzate con NH 2 servono per agganciare una molecola organica come ad esempio il rosa bengala che ha un
gruppo carbossilico (acido). Il rosa bengala è legato covalentemente con la silice formando un’ammide. Questo materiale è un vero e proprio
agente terapeutico e dato che il rosa bengala è legato covalentemente alla struttura non si staccherà facilmente. Se colpisco la particella con
una luce verde (540 nm), questa molecola è in grado per acquisizione dell’energia dovuta all’illumazione, si attiva la molecola di ossigeno
passando da uno stato di tripletto a uno stato di singoletto, cambia quindi la configurazione elettronica per effetto di uno scambio di energia.
L’ossigeno di singoletto è una specie citotossica che uccide le cellule, per cui se mando la mia nanoparticella funzionalizzata con il rosa bengala
a una cellula tumorale e la illumino la cellula tumorale muore e questo tipo di terapia è detta terapia fotodinamica. Nel caso della
chemioterapia si uccidono sia cellule malate che cellule sane, in questo caso si ha una selettività più grande.

Applicazioni dei materiali porosi strutturali


Le principali applicazioni che andremo a studiare sono la biomedicina e la catalisi, ma ci sono altri
ambiti in cui questi materiali vengono usati, come ad esempio la conversione di energia, meccanismi
di assorbimento e separazione, fotocatalisi…. In tutte vengono sfruttate le caratteristiche strutturali
di questi materiali.

Il percorso che si fa quando si parla di materiali comprende diverse fasi:


- la prima è il design ovvero la progettazione del materiale a seconda delle sue applicazioni
- poi si passa alla sintesi che può essere o idrotermale o sol-gel
- poi si passa alla caratterizzazione del materiale e sulla base delle nozioni che si ottengono
con le tecniche di caratterizzazione si può poi precedere alla fase successiva
- ovvero l’ottimizzazione cioè modificare il gel di sintesi a seconda della funzione che deve avere il materiale, quindi si fa una sorta di
percorso circolare in quanto si torna alla sintesi.

La cosa più importante dei materiali porosi è la superficie poiché i siti di superficie sono
di natura molto diversa: possono avere un’attività chimica, permettere l’adesione di
molecole, essere tossici e noi dobbiamo essere in grado di studiare ciò che sta su una
superficie e se non conosciamo come è fatta la superficie non riusciamo ad avere
informazioni sul materiale. Quindi si dovranno utilizzare tecniche di caratterizzazione
che, non solo ci diano informazioni sul materiale nel suo complesso, ma in particolare
informazioni riguardanti la superficie, per questo si passa da un’analisi di Bulk (nel complesso) a un’analisi di superficie che in termini di
dimensioni significa studiare spessori di 1 nm, quindi un numero ridotto di atomi presenti nello strato superficiale. (ES: raggi x è un’analisi di
bulk, ci dà un’informazione di tutto il materiale, complessiva, l’analisi porosimetrica è un’analisi di superficie. Sono analisi diverse ma
complementari che ci forniscono tutta l’informazione sul materiale)

Tecniche di caratterizzazione
ANALISI DI SUPERFICI
Quando si fa un’analisi di superficie ci sono principalmente due problemi:

1) la sensibilità, perché se immaginiamo il nostro materiale e consideriamo solo un piccolo strato di 1 nm in un volume di 1 cm 3 con
1023 atomi e in quello strato di 1 nm avrò circa 10 16 atomi, poiché facendo il rapporto tra ciò che abbiamo in superficie e ciò che
abbiamo nel complesso è di 1:10 7, quindi abbiamo pochissimi atomi di superficie e quindi la sensibilità delle tecniche deve essere
molto alta per riuscire ad avere un’informazione su un numero esiguo di atomi rispetto al numero totale di atomi.
2) la superficie deve essere pulita, quindi prima di studiarla devo operare andando a pulire la superficie di tutte le molecole che può
aver adsorbito; per fare ciò si utilizzano tecniche che ci permettono di lavorare in ultraalto vuoto (UHV, 10 -5 mbarr), ovvero portiamo
via dal materiale per effetto di pompe a bassissima pressione dopo averlo scaldato (viene desorbito). Altrimenti studiamo quello che
è adsorbito sulla superficie.

Per ottenere informazioni sul materiale si usano tecniche che per la maggior parte si basano sulla radiazione elettromagnetica. Ovviamente la
lunghezza d’onda della radiazione usata deve essere coerente con le dimensioni dell’oggetto che stiamo guardando. Esistono anche tecniche
che non utilizzano la radiazione elettromagnetica come le microscopie che utilizzano elettroni:

MICROSCOPIA ELETTRONICA (sem a scansione e tem a trasmissione)


Si basano sull’utilizzo del microscopio ottico che funziona con una lampadina di
luce visibile che illumina e ingrandisce il campione da studiare, Invece il
microscopio elettronico non ha più la lampadina ma ha fasci di elettroni che

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illuminano gli oggetti. I microscopi ottici arrivano fino a dimensioni di circa 1 μm e quindi si riescono a studiare i batteri ma non i virus. Usando i
microscopi elettronici riusciamo ad arrivare a una risoluzione atomica

Nelle microscopie elettroniche è importante l’interazione elettrone-


materia, quindi consideriamo un materiale che viene colpito da un fascio
incidente e monocromatico di elettroni che devono essere accelerati (di
solito all’interno di una colonna in cui si ha un filamento di esaboruro di
lantanio LaB o il tungsteno W). Nel momento in cui il fascio arriva sul
materiale possono succedere diverse cose: alcuni elettroni possono
essere retrodiffusi (backscattered) ad un certo angolo; oppure, per
effetto dell’interazione del fascio incidente di elettroni, gli atomi del
materiale possono espellere elettroni secondari (gli elettroni primari
sono quelli del fascio incidente); Abbiamo due tipologie di elettroni che si
possono catturare con due detector diversi, nel primo caso si usa la
microscopia SEM ovvero elettronica a scansione. Questa microscopia SEM ci dà informazioni superficiali poiché gli elettroni non escono da
zone profonde del materiale ma solo da zone superficiali per cui viene fornita un’informazione morfologica. Un’altra possibilità è che, se il
nostro campione è abbastanza sottile, il fascio di elettroni passa attraverso il campione e quindi si avrà un fascio trasmesso ed è quello che
serve per la microscopia elettronica a trasmissione (TEM), si ottiene in questo modo un’immagine diretta del materiale ad altissimi
ingradimenti. Un’ulteriore possibilità è quella che ci può essere una frazione di fascio trasmesso che viene scatterato, se viene scatterato ad un
angolo opportuno, ovvero all’angolo di Bragg, si avrà un fascio rifratto, quindi si può fare una diffrazione elettronica che verrà esaminata
sempre con il microscopio elettronico in trasmissione. Quindi con il TEM si ottiene sia l’immagine diretta del materiale che la diffrazione, in
questo modo si può risalire alle posizioni atomiche senza i raggi X.

Un ultimo fenomeno che si può verificare, e che dipende dal fatto che vengano usati degli elettroni accelerati, è una emissione di raggi x da
parte degli atomi che vengono colpiti, la cui energia dipende dagli atomi che li emettono e quindi analizzando l’energia si può fare un’analisi
elementare degli atomi che compongono il campione (informazione composizionale). La tecnica che studia i raggi X emessi dal campione si
chiama EDX (energy dispersive x-ray spettroscopy).

Queste tre informazioni sono diverse tra di loro a seconda delle varie tecniche:

 microscopia elettronica a scansione  immagine morfologica del campione


 microscopia elettronica in trasmissione  immagine diretta del campione ad elevatissima risoluzione e quindi si può andare
addirittura al dettaglio atomico e contemporaneamente si ha diffrazione si può ottiene quindi anche informazione riguardo a come
sono disposti questi atomi nello spazio (quando il materiale è cristallino)
 EDX  analisi chimica, cioè la composizione del campione.

Se il materiale da analizzare è un conduttore si può porre così com’è nel microscopio SEM, se invece non è conduttore bisogna modificarlo
poiché i raggi che colpiscono la superficie non saranno in grado di propagarsi e quindi bisogna ricoprire la superficie con uno strato metallico
che generalmente è oro o grafite, questo per far propagare gli elettroni e che non si concentrino in una zona. Ovviamente tutto il microscopio
è in condizione di ultraalto vuoto in modo che gli elettroni siano accelerati. Il SEM è più piccolo del TEM anche perché nel TEM gli elettroni
sono più accelerati. Questo microscopio occupa quasi una stanza, si ha una colonna molto grande in cui gli elettroni vengono accelerati. Il
campione deve essere messo a metà della colonna. In questo caso si devono lavorare con campioni più sottili, nel caso delle polveri bisogna
disperderle bene sul vetrino per riuscire a visualizzarle bene. Il costo di uno strumento di questo tipo si aggira intorno a 1M-2M€, mentre il
SEM ha costi più contenuti intorno ai 200k€. Per la microscopia TEM inoltre ci vuole una certa preparazione, mentre per la SEM no. Come visto
in precedenza cambia anche l’accelerazione, intorno ai 50 kV nella SEM, mentre nella TEM si parte dai 100 e si arriva ai 500 kV, per quello si ha
bisogno di una colonna più lunga.

Solo elettroni accelerati hanno le caratteristiche giuste per interagire con il campione e dare fenomeni alla base della microscopia
elettronica a trasmissione.

Con il SEM si avranno immagini tridimensionali mentre con il TEM si hanno immagini più piatte, però dal TEM vediamo più dettagli poiché ha
un ingrandimento che va fino ai nanometri, si riescono quindi a distinguere ad esempio delle porosità.

SPETTROSCOPIE OTTICHE
In questo caso ci si basa sulla interazione radiazione-materia. In particolare, considerando le radiazioni UV, visibile e infrarosso sappiamo che:
la radiazione infrarossa fa vibrare le molecole e quindi allunga o accorcia i legami chimici, quella visibile o UV permette invece la transizione
degli elettroni di valenza, cioè quelli più esterni.

Ci sono formule che legano l’energia alla lunghezza d’onda (espressa in nm) e alla frequenza della radiazione elettromagnetica (c=λν) ed è
sempre valida la legge E=hν dove h è la costante di Planck, quindi se l’energia aumento e la frequenza aumenta la lunghezza d’onda
diminuisce. Un’altra cosa importante è il numero d’onda che è uguale a 1/λ.

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Ovviamente se utilizziamo radiazioni nell’UV e nel visibile si vanno a intoccare gli elettroni di valenza, mente nel caso dei Raggi X quelli di core
poiché la loro lunghezza d’onda è compatibile con la distanza tra atomi in un reticolo cristallino.

Il termine spettroscopia fu usato per la prima volta da Newton che dimostrò che la luce bianca passando attraverso un prisma veniva separata
nelle diverse componenti colorate; il termine spettroscopia deriva dal latino e dal greco e significa “vedere un fantasma o spirito”, infatti la
spettroscopia ci mostra il “fantasma” dell’oggetto che è colpito dalla radiazione poiché ci fornisce un’immagine non diretta in quanto studiamo
come viene modificata la radiazione dall’oggetto. Infatti, abbiamo la radiazione luminosa che colpisce in materiale e viene modificata, noi
studiamo come la radiazione luminosa viene modificata, vediamo quindi il “fantasma” e non il materiale.

Ogni radiazione elettromagnetica avrà un’energia e una lunghezza d’onda, inoltre bisogna ricordare il dualismo onda-particella. Se si considera
un pacchetto di particelle si fa riferimento al concetto pacchetto di fotoni la cui energia è data da E=h ν=hc / λ .

Se quindi gli elettroni vengono trattati come onda avranno una lunghezza d’onda

1 2 h h 12, 26
E= m ν =eV λ= = = quindi se aumento il potenziale di accelerazione degli elettroni la loro lunghezza d’onda
2 mv √2 mE √E
sarà piccolissima, proprio per questo con queste tecniche riusciamo ad avere il dettaglio atomico, perché la lunghezza d’onda coincide con le
grandezze atomiche (questo in particolare nel TEM).
Tutto questo quindi sta alla base della microscopia in cui uso degli elettroni, quindi particelle, accelerati per illuminare il campione, ma anche
alla base delle spettroscopie poiché si usano dei fotoni per illuminare il campione.

Le radiazioni elettromagnetiche hanno una parte elettrica e una magnetica, quindi è fatta da un campo elettrico e uno magnetico che oscillano
e si muovono perpendicolarmente uno rispetto all’altro alla velocità della luce.

Nel caso delle spettroscopie ottiche avviene un’interazione del campo elettrico della radiazione elettromagnetica con il momento di dipolo
della molecola, quindi si prende in considerazione solo la parte elettrica. La parte magnetica si usa in altre spettroscopie come la NMR. Per
semplificare lo studio si fa una distinzione tra moti nucleari e moti elettronici, poiché gli elettroni hanno una massa molto più piccola rispetto
quella dei nuclei, quindi si fa una grossa distinzione tra spettroscopie vibrazionali (infrarosso e raman) e spettroscopie elettroniche (UV visibile
e tecniche di emissione).

Inoltre, bisogna anche definire l’energia totale di una molecola che è determinata dall’insieme delle interazioie tra particelle, quindi possiamo
esprimere una Etot come somma di diversi contributi come: E rotazionale, E vibrazionale, E elettronica, E legata all’orientamento dello spin
elettronico, E legata all’orientamento dello spin nucleare (bisogna ricordare che le molecole vibrano e ruotano anche se non sono illuminate,
basta che siano a T ambiente e non allo zero assoluto).

I valori di energia non variano con continuità ma sono discreti e quindi sono livelli energetici quantizzati, ciò vuol dire che la molecola non può
avere qualsiasi valore energetico; il livello a più bassa E è lo stato fondamentale e i livelli energetici superiori sono gli stati eccitati. Se la
molecola non è illuminata tende a stare nello stato fondamentale o comunque a livelli a bassa energia, ma quando sollecito la molecola
fornendo calore o tramite una radiazione essa andrà negli stati eccitati. Lo stato fondamentale è lo stato di equilibrio poiché meno E ha la
molecola più è stabile.

Possiamo trattare separatamente i diversi contributi energetici?


Nell’ipotesi che si possano trattare separatamente i vari contributi energetici (elettronici,
vibrazionali…), la successione dei livelli può essere rappresentata con una scala di livelli per
ciascun tipo di energia. Prendendo i livelli elettronici sappiamo che la differenza di energia tra
un livello e l’altro è molto più grande rispetto alla separazione di energia dei livelli vibrazionali,
questo vuol dire che i ΔE dei livelli elettronici è più grande dei vibrazionali che a sua volta è più
grande dei rotazionali, e così via per i livelli di spin elettronico e di spin nucleare. Quindi per
ogni livello elettronico avrò un certo numero di livelli vibrazionali e per ogni livello vibrazionale
avrò un certo numero di livelli rotazionali. Si hanno quindi energie di separazioni differenti,
sulla base dei ΔE riusciamo a interpretare i livelli coinvolti e quindi trattare separatamente i
diversi contributi.

Quindi una molecola può essere promossa dallo stato fondamentale a un livello energetico superiore fornendole energia e questo può
avvenire irradiandola con una radiazione elettromagnetica e ovviamente il ΔE tra i due livelli deve essere compatibile con l’energia della
radiazione elettromagnetica se no non avverrebbe (quindi l’energia deve essere compatibile con quella dei fotoni che sto utilizzando). Infatti,
se utilizzo una radiazione infrarossa mi sto muovendo su livelli vibrazionali, se invece uso l’UV-visibile i cui fotoni hanno E più alta, mi muoverò
lungo livelli elettronici.

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Spettroscopia IR
Se si parla di vibrazioni una delle tecniche principali è la spettroscopia infrarossa che usa come
radiazione l’infrarosso, in particolare il medio infrarosso che va dai 4000 ai 400 cm-1. In questo
caso si studiano le vibrazioni degli atomi all’interno della molecola, quindi o stiro o piego un
legame, i movimenti possono essere:

 stretching simmetrico o asimmetrico (stiramento)


 bending ovvero un piegamento dell’angolo di legame.

Immaginiamo di avere una molecola biatomica in cui abbiamo due atomi legati da una molla e
se vado a stirare questa molla allungandola. Per descrivere il fenomeno si possono usare delle
curve che riportano sull’ascissa la separazione internucleare e sulle ordinate l’energia.

Le curve possono essere di due tipi: verde e blu, nel caso di quella verde si ha l’oscillatore
armonico, la curva in sé rappresenta uno stato elettronico, si tratta una situazione ideale del moto vibrazionale che però nella realtà non esiste
e in cui ho tutti i livelli vibrazionali equidistanti, ciascun livello vibrazionale dovrebbe essere a sua volta suddiviso in diversi livelli rotazionali.
Nel momento in cui si riceve una radiazione elettromagnetica la molecola fa un salto energetico. Nella realtà invece le molecole hanno una
sorta di deviazione da questo modello ed è la curva di Morse o potenziale anarmonico, graficamente la parabola si allarga a destra, inoltre i
livelli vibrazionali si avvicinano sempre di più man mano che l’energia aumenta e quindi NON sono più equidistanti come nel modello
dell’oscillatore armonico; per cui se andiamo a livelli ad alte energie essi saranno tutti molto vicini e quindi la molecola si dissocia, questo non
avviene nell’oscillatore armonico poiché se idealmente allunghiamo la molla tra i due atomi essi non si separeranno mai, ma nella realtà se la
molla si allunga troppo i due atomi si separeranno (questa rappresentazione vale solo per molecole biatomiche).

Per descrivere la vibrazione si usa l’oscillatore armonico che è un modello ma poi


bisogna passare a quello di Morse che ci dice che se tiro troppo il legame esso si
romperà.

Inoltre, bisogna ricordare che la transizione parte dal livello fondamentale che non
coincide col minimo della curva ma è il v=0.

L’equazione di Shroedinger è un’equazione teorica che ci permette di descrivere il


movimento degli elettroni, risolvendola ci permette di trovare le energie dei vari livelli
vibrazionali. Le transizioni permesse sono quelle che fanno variare di 1 il numero
quantico vibrazionale, quindi posso passare dal livello 0 all’1 ma non dallo 0 al 2 o al
3, si parla di regola di selezione. Tutte le spettroscopie hanno regole di selezione
teoriche che ci permettono di capire quali transizioni sono permesse e quali no.

Se si è a T ambiente la maggior parte delle molecole è sul livello v=0 (tutto ciò per l’oscillatore
armonico). Se invece parliamo dell’oscillatore anarmonico la differenza sta nel fatto che i livelli non
sono equidistanti e in termini energetici appare la
costante di anarmonicità, tipica del legame analizzato

Un’altra cosa da tenere conto è che ciascun livello vibrazionale si può descrivere attraverso
una funzione d’onda che ha un andamento diverso nei vari livelli vibrazionali. Oltre a ciò bisogna
tenere conto anche del quadrato della funzione d’onda che ci dà la probabilità e varia anche esso
in base al livello vibrazionale: ad esempio nel livello zero si ha il massimo della probabilità nel
punto medio mentre su livelli vibrazionali più alti è diverso.

Andando nella pratica e immaginando di avere il nostro campione andiamo a vedere cosa analizziamo con la radiazione infrarossa: nel
momento in cui il fascio infrarosso colpisce il campione noi andremo ad analizzare la luce trasmessa che è strettamente correlata con la
radiazione assorbita. Non sono però gli unici fenomeniche si verificano, dato che si analizza dei sistemi solidi, in quanto una fetta di radiazione
può essere riflessa in tutte le direzioni e di questo bisogna tenerne conto, questo problema non si verifica nel caso delle soluzioni. Si tratta di
una tecnica IN TRASMISSIONE, il detector si trova aldilà del campione. Solitamente di prepara una pastiglia sottile di materiale in modo tale
che il fasscio infrarosso riesca a passare attraverso e questo tipo di spettroscopia serve a distinguere i gruppi funzionali in base alle vibrazioni
che nello spettro sono dei picchi, riconoscibili attraverso un data base.

29
La spettroscopia infrarossa quindi è una tecnica in trasmittanza (rapporto tra l’intensità della luce trasmessa e quella incidente) si utilizza la
legge di Lambert Beer ovvero A=εbc dove ε è il coefficiente di estinzione molare (tipico della molecola analizzata) , b è la lunghezza del
cammino ottico (in cm, dato dalla dimensione del portacampioni) e c la concentrazione molare. La trasmittanza è strettamente correlata
all’assorbanza A, definita come il logaritmo del rapporto tra l’intensità della luce incidente e l’intensità della luce trasmessa.

Con l’analisi di spettroscopia noi otteniamo i valori di trasmittanza, poi tramite la legge di Lambert Beer possiamo andare a calcolare la
concentrazione piuttosto che il cammino ottico, inoltre dato che studiamo la radiazione trasmessa dovremmo preparare una pastiglia di
materiale molto sottile che deve stare dritta in modo da far arrivare il raggio infrarosso che poi passerà attraverso ad essa.

Nel momento in cui abbiamo un campione microcristallino, quindi una polvere posta sottoforma di pastiglia, il nostro raggio arriva sul
campione per poi essere trasmesso e arrivare sul detector, tutto ciò è molto semplice se siamo in soluzione, ma se siamo in un solido
dobbiamo tenere conto che la radiazione verrà anche diffusa in tutte le direzioni (scattering). Questo effetto della luce scatterata può essere
più o meno importante in funzione di quelle che sono le dimensioni delle particelle che formano il campione, inoltre se prevale la luce
scatterata su quella trasmessa si avrà un grosso problema nello studio dei solidi.

Gli spettri di solito vengono riportati in trasmittanza % e in λ in cm -1. Considerando ad esempio lo spettro di un sistema zeolitico. Se andiamo a
studiare gli spettri IR nel caso di una molecola in soluzione avremo una trasmittanza del 100% e ogni tanto ci sarà qualche banda in
corrispondenza di dove la molecola assorbe la radiazione infrarossa e in base alla posizione di tali bande si possono avere informazioni sui
gruppi funzionali, per cui fondamentalmente si avrà una linea di base dritta. Nel caso delle polveri e quindi dei solidi, questo non succede
poiché abbiamo una frazione della luce che incide sulla nostra pastiglia che viene scatterata si perde infatti informazione. Questi spettri hanno
una zona molto simili andando verso i numeri d’onda bassi, si ha una finestra con un certo grado di trasparenza. Si ha poi una banda che va a
zero di trasmittanza, si ha quindi una regione cieca che corrisponde ai tetraedri di cui è composto il materiale. Nel caso delle zeoliti i tetraedri
tendono ad assorbire la radiazione e quindi nel mio spettro avrò una trasmittanza nulla; si ha
poi una bruca risalita e una discesa più o meno accentuata a seconda del materiale. Nella zona
ad alta frequenza ci possono quindi essere problemi di trasmissione. Gli spettri delle polveri
hanno più o meno sempre questo andamento proprio dovuto alla componente scatterata.

Nell’immagine lo spettro A, che ha la trasmittanza più alta, è di un materiale con particelle più
piccole rispetto allo spettro B, quindi se si hanno particelle grandi generalmente lo scattering
aumenta e quindi la trasmittanza diminuisce, fatico a vedere cosa vibra ad alta frequenza
dove di solito vibrano quei legami che hanno l’idrogeno si tratta di una zona molto importante
da interpretare, invece se le particelle sono piccole non si hanno grossi problemi. Si ha una
stretta dipendenza tra trasmittanza e dimensioni delle particelle.

Se prendiamo ad esempio un materiale tipo zeolite e quindi un alluminosilicato (SAPO) ovvero con una struttura
microporosa e quindi sono polveri policristalline il cui spettro vibrazionale è quello visto in precedenza. In questa
struttura si ha un’alternanza di tetreaedri di Al e Si uniti attraverso O bilanciati da protoni, si tratta di gruppi
piuttosto acidi OH. Ciò che vibra è il gruppo OH che si affaccia nei micropori dei materiali per cui i gruppi OH sono
gruppi di superficie, il suo segnale nello spettro ovviamente sarà ad alte frequenze (intorno ai 3500 cm -1); un’altra
cosa che vibra è il reticolo e quindi tutti i legami silicio-ossigeno o alluminio-ossigeno e in questo caso vengono
definite come vibrazioni di reticolo. Nell’immagine dello spettro A vediamo quindi i gruppi OH a 3500 ma anche
picchi meno intensi che indicano le vibrazioni dei difetti, cioè i silanoli. Nelle zone a bassa frequenza si hanno le vibrazioni del reticolo che però
assorbono la radiazione e quindi la trasmittanza va a zero.

Come studiamo le polveri con l’IR? Cercando di risolvere il problema dello scattering sono state ideate
una serie di celle che permettono l’analisi di queste pastiglie in una situazione di vuoto poiché appunto
quando si lavora con un solido bisogna innanzitutto ripulire la superficie. Queste celle permettono sia
di fare analisi a temperatura ambiente (RT) ma anche a temperatura dell’azoto liquido e quindi
raffreddando fino a 77K.
La tecnica usata è chiamata FTIR dove FT sta per trasformata di Fourier ovvero un’operazione
matematiche che fa lo strumento che converte lo spettro nel dominio del tempo nel dominio delle
frequenze; si usa la trasformata di Fourier poiché permette di raccogliere lo spettro in pochi secondi, in
modo da seguire la reattività e quindi la cinetica..

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Si ha una cella nel vano portacampione e una lampada che emette una radiazione che finisce sulla pastiglia, si ha dall’altra parte il detector. La
cella è fatta di vetro, in particolare di pirex e di quarzo, si hanno poi ci sono delle finestre in KBr bromuro di potassio che sono trasparenti alla
radiazione infrarossa. La pastiglia invece viene fatta a parte e una volta ottenuta si pone in una bustina di oro che ha un buco per fare passare
la radiazione e serve da supporto poiché la pastiglia è sottilissima e passando attraverso alla cella potrebbe rompersi senza il portacampione.
La cella nella parte superiore è dotata di una sorta di rubinetto che permette di legarla alla linea a vuoto, questo ci permette di poter mandare
le molecole dalla linea a vuoto e di togliere tutta l’atmosfera presente nella cella, inoltre queste celle ci permettono di trattare termicamente il
campione, per fare ciò devo portare il campione nella zona intermedia della parte stretta in quarzo, poi porre la cella in orizzontale in modo da
non far tornare la pastiglia in prossimità delle finestre per forza di gravità, poi si collega la cella con la linea a vuoto e si pone un fornetto in
prossimità del campione per riuscire a scaldarlo, tutto ciò che si desorbe dalla pastiglia viene portato via dal sistema di pompaggio della linea a
vuoto, si ottiene in questo modo il materiale pulito, per svolgere l’analisi ripongo la cella in verticale in modo che la pastiglia vada nelle
finestre. Quindi il quarzo serve perché è molto resistente alle alte temperature.

La cella invece che permette di fare misure a bassa temperatura è diversa: si ha sempre un rubinetto che permette di collegarsi alla linea a
vuoto però la cella è un pochino più grande e si ha una parte in rame all’interno della quale si
inserisce la pastiglia con il portacampione. In prossimità di questa parte in rame si hanno le
finestre in KBr e ovviamente il rame sarà bucato dove c’è la pastiglia. Questa parte in rame
serve poiché c’è l’azoto liquido che deve essere posto da qualche parte, quindi in alto ci sarà
una fessura per l’azoto liquido che andrà nel tubo della cella, ma la pastiglia non può essere
immersa nell’azoto liquido, il rame per conduzione trasmette la temperatura dell’azoto alla
pastiglia. Questo serve se si ha una molecola che a T ambiente non si adsorbe. Se si vuole fare
un trattamento termico bisogna porre la pastiglia nella zona inferiore della cella che è sempre
fatta in quarzo e quindi si può mettere un fornetto e trattare il materiale e bisogna ricordare
che dopo il trattamento il materiale non va esposto per nessun motivo all’aria altrimenti il
trattamento non è servito a nulla.

Dato che l’infrarosso non è visibile ai nostri occhi per essere sicuri che la radiazione infrarossa
colpisca la pastiglia si fa riferimento a uno spot rosso, ovvero a un laser collimato con la
radiazione infrarossa, se il laser va sulla pastiglia siamo sicuri che su di essa andrà anche la
radiazione infrarossa.

INFORMAZIONI OTTENUTE DALLO SPETTRO IR Studiando delle zeoliti


con degli spettri in assorbanza (se sono in trasmittanza i picchi sono in
negativo, in assorbanza sono in POSITVO) in cui abbiamo picchi in
positivo e prendendo in considerazione zone ad alta frequenza e
quindi vibrazioni dei gruppi OH (stretching). Considerando quattro
zeoliti diverse si ottengono picchi molto simili:

 alta frequenza (intorno ai 3700) bande strette che


corrispondono alla vibrazione del gruppo OH su un tetraedro di
silicio e che è una sorta di difetto della zeolite, poiché nel punto in
cui si rompe il cristallo si formano questi difetti ovvero i silanoli;
questo gruppo OH è debolmente acido e quindi se arriva una
molecola basica non cede il protone.
 intorno ai 3600banda non stretta come quella dei silanoli e in
questo caso vibrano sempre i gruppi OH ma questa volta sono quelli degli acidi di bronsted e quindi quelli a ponte tra silicio e alluminio; in
questo caso sono acidi forti e se arriva una molecola basica l’idrogeno viene rilasciato e la molecola basica viene protonata.
 i segnali più deboli (in a e b) tra i silanoli e i Bronsted possono essere dovuti ad altri difetti che possono essere degli AlOH.

I gruppi OH dei silanoli e deli acidi di bronsted vibrano a frequenze diverse perché nel caso dell’OH dell acido di bronsted la molla tra O e H sarà
più impedita poiché l’O è legato sia al silicio che all’alluminio. I gruppi risentono infatti delle condizioni elettroniche che hanno attorno.

Questi spettri sono quindi raccolto dopo che il campione è stato messo in vuoto, è stato degasato e trattato ad alte temperature per
togliere eventuali molecole organiche adsorbite.

Se vogliamo avere delle informazioni aggiuntive, oltre a sapere che ci sono gruppi OH di diversa natura, possiamo mandare una molecola
sonda che ci permetterà di distinguere i vari siti presenti, poiché la molecola si adsorbirà sui vari siti accessibili della superficie e verrà
perturbata, se questa molecola sarà attiva all’infrarosso noi saremo in grado di studiare la sua perturbazione indotta dalla superficie e quindi
avere un’informazione riguardante ad esempio l’acidità di questi siti di Bronsted. Naturalmente per studiare l’acidità dovremmo mandare
molecole sonda basiche (esempio: prato con fiori diversi e ape molecola sonda)

Le MOLECOLE SONDA devono avere delle caratteristiche specifiche:

1. devono essere piccole, soprattutto se andiamo a studiare le zeoliti in quanto sono materiali microporosi, in modo che le molecole
raggiungano tutti i siti sulla superficie;

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2. deve essere attiva nell’infrarosso e deve avere delle modificazioni per effetto delle interazioni con la superficie che mi facciano
discriminare i siti superficiali di natura differente;
3. deve avere un alto coefficiente di estinzione molare poiché più esso è alto più la banda che osserverò nell’infrarosso è grande,
quindi se il coefficiente è troppo basso poi avrò problemi di sensibilità e non riuscirò a vedere nello spettro IR la vibrazione di quella
molecola;
4. devo usare molecole che stabiliscono con la superficie interazioni di tipo debole, tipo un fisisorbimento, poiché se l’interazione è
troppo grande la superficie sarà modificata.

Quando si usa la molecola sonda sugli spettri apparirà sia la perturbazione della molecola per effetto dell’adsorbimento, ma anche la
perturbazione della superficie del materiale per effetto della presenza della molecola, per cui avrò una sorta di doppio controllo.
Un’altra possibilità è quella di usare, con i materiali porosi, molecole sonda di diverse dimensioni per capire quale sia l’ accessibilità di tutti i siti
della superficie. Per testare l’acidità si potrebbero quindi usare sia molecole piccole che molecole grosso, in modo da sondare solo ciò che è
fuori i micropori. La molecola sonda naturalmente determinerà una sorta di riarrangiamento elettronico per effetto della sua interazione con la
superficie, questo farà cambiare i suoi modi vibrazionali rispetto a quando la molecola è libera e proprio per questo riesco a studiare la natura
e la localizzazione dei siti di superficie. Una delle molecole più usate è il CO, una base debole, però posso usare anche altre molecole con
basicità più elevata come ammoniaca, piridina o piridine sostituite.

Il monossido di carbonio a temperatura ambiente è in fase gas e facendo lo spettro del gas troviamo una banda a 2143 cm-1, ovvero la
vibrazione del legame carbonio ossigeno; quando adsorbiamo questa molecola possiamo essere o a temperatura ambiente o a quella
dell’azoto liquido (77K) e questo adsorbimento può essere reversibile (se mando una certa quantità di CO e degasando si staccano tutte le
molecole) o irreversibile (interazioni più forti, alcune molecole rimangono ancorate sulla superficie) a seconda dei siti che trova sulla superficie.
Il CO è una base di Lewis molto debole e infatti la sua affinità protonica è la più bassa, se arriva su un acido di Bronsted la sua basicità non è
così forte da strappare il protone, per cui si instaura con la superficie un altro tipo di interazione.

Quindi a seconda dei siti OH, che la nostra molecola sonda trova, ci saranno interazioni differenti e soprattutto ciò dipende dalla basicità della
mia molecola sonda. Se ho una base forte tipo ammoniaca, nel momento in cui incontra i siti acidi di Bronsted questa molecola si protona; se
invece uso una base debole come il CO, la molecola sonda non riesce a protonarsi ma si crea un’interazione con un legame a idrogeno che
modificherà la vibrazione del gruppo OH della zeolite e anche la vibrazione della molecola sonda, mi aspetto quindi delle frequenze di
vibrazioni diverse. Avrò come riferimento la molecola a fase gas (nel caso del CO la vibrazione a 2143 cm -1). Nel caso della base forte non vedrò
più la vibrazione del gruppo OH perché l’H si è staccato. In generale si hanno due tipi di interazioni molto diverse che dipendono dalla forza
acida della molecola usata.

Cosa succede sullo spettro? Prima di mandare la molecola sonda conosco la


vibrazione dei gruppi OH isolati ad alte frequenze, ho anche la vibrazione della
molecola CO libera. Quando invio la molecola sonda:

- la vibrazione del gruppo OH, che non è più libero ma è legato con legame a
idrogeno al CO, si sposta a più bassa frequenza poiché il legame OH viene
indebolito per effetto della presenza della molecola sonda; inoltre le bande
da strette diventano un po’ più larghe. Indebolisco il legame.
- la vibrazione del CO, cioè lo stretching, risente del legame idrogeno con il
gruppo OH della superficie e si sposta a frequenze un po’ più alte perché il
legame CO in questo caso viene rinforzato in quanto c’è una sorta di donazione elettronica del CO al gruppo OH di quegli elettroni
che stanno sull’orbitale 5s che è un’orbitale antilegante, per cui portando via elettroni da quell’orbitale stabilizzo la molecola di CO e
quindi vibra a frequenze più alte . Rafforzo il legame.

In particolare, se valuto lo spostamento della vibrazione degli OH isolati e quella degli OH legati con CO (Δν) posso notare che più esso è grande
più il sito che sto monitorando è acido, quindi sulla base del Δν so quanto è acido il sito analizzato (in questi casi Δν vale 300 cm -1).

Nella zona invece del CO in cui si ha uno spostamento a più alte frequenze, questo spostamento
può essere ancora più grande se il CO si lega con un sito acido di Lewis come ad esempio possiamo
avere in presenza di alluminio. Se siamo a basse temperature il CO interagisce sia con i siti di
Bronsted sia con quelli di Lewis, se invece stiamo a temperatura ambiente il CO interagisce solo
con i siti di Lewis e quindi questo ci permette di svolgere adsorbimenti di CO sia a T basse che a T
ambiente e quindi di distinguere i siti di Bronsted e quelli di Lewis. La differenza tra gli acidi di
Lewis e quelli di Bronsted è che gli ultimi donano un protone, ovvero H che protona la molecola,
invece un acido di Lewis è un accettore di doppietto elettronico (es Al3+).

SILICI E SITI OH DEI SILANOLI Gli altri siti presenti nelle zeoliti sono i silanoli, i cui gruppi OH
vibrano a circa 3745 cm-1. Se analizziamo una silice avremo solo la vibrazione degli OH dei silanoli
(deboli dal punto di vista dell’acidità e non quella dei siti di Bronsted. La vibrazione dei silanoli è
molto affilata ma poi presenta una sorta di gobba che indica la presenza di silanoli eterogenei tra
di loro, quindi non tutti uguali e possono anche reagire tra di loro, per esempio se abbiamo due
gruppi silanoli OH vicini, essi possono reagire tra di loro formando un legame a idrogeno:
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Quindi la vibrazione di questi gruppi OH non è la stessa di quando il gruppo OH vibra da solo; un’altra situazione può essere quella dei silanoli
geminali, ovvero due OH legati ad un solo silicio, anche in questo caso la vibrazione sarà diversa. La reattività di un silanolo singolo rispetto a
un silanolo vicinale o geminale è diversa, soprattutto in termini di acidità: il silanolo libero è poco acido, se invece i silanoli sono legati con
legami a idrogeno hanno un’acidità un po’ più spiccata, quindi anche una silice può avere proprietà acide ma non sono acidi di bronsted e
quindi non rilasciano il protone.

Se mando il CO sulla silice, accade ciò che succede con i siti di Bronsted, quindi si crea un legame a
idrogeno tra gli OH dei silanoli e CO. L’adsorbimento del CO sulla silice determina uno spostamento
dei picchi nello spettro IR e tutto ciò viene fatto a temperatura dell’azoto liquido poiché se è fatto a
temperatura ambiente non c’è interazione. Cosa succede nello spettro dopo l’adsorbimento di CO?

 Il picco dell’OH dei silanoli è a più bassa frequenza ed è più allargata e corrisponde al gruppo
OH che non è più libero ma è legato con un legame a idrogeno al CO, la banda si sposta di circa
90-100cm-1 quindi di poco poiché il sito è debolmente acido;
 Nella zona più a bassa frequenza (intorno ai 2150cm -1) appaiono due picchi, uno a circa 2150
che corrisponde alla vibrazione del legame CO della molecola legata al silanolo e uno a più
bassa frequenza (2138) che corrisponde alla molecola di CO libera che non sarà in fase gas ma
sarà in fase liquida poiché ci troviamo a bassa temperatura.

ZEOLITI- ALLUMINOFOSFATO (SAPO) Nelle zeoliti la situazione è più complessa poiché abbiamo gli acidi di Bronsted. Nello spettro di una SAPO
abbiamo la banda degli OH che però è composta da due bande poiché i siti di Bronsted OH possono occupare
posizioni diverse all’interno del reticolo, questo genera due bande vicine ma con due massimi in posizioni
diverse, sono quindi due siti di Bronsted diversi dal punto di vista strutturale. A 3700 circa, dove vibrano i silanoli
non abbiamo nulla, ma abbiamo una banda più bassa a circa 3678 che corrisponde a dei difetti P-OH (che sono
un po’ come i silanoli quindi non sono siti acidi di bronsted e vibrano a una frequenza diversa rispetto a quella dei
silanoli poiché c’è il fosforo e non il silicio).

Quando mando il CO a bassa temperatura sul gruppo OH di bronsted si instaura un legame idrogeno con il CO. In
questo caso sono stati fatti
degli spettri con il CO a diverse
pressioni e sono stati
confrontati con quello senza il CO. Confrontando gli spettri si
nota che le bande legate ai siti di Bronsted scendono e
contemporaneamente si forma una banda a circa 3355 cm-1
che corrisponde agli OH legati al CO. Quando la pressione
aumenta le bande degli OH di Bronsted liberi scendono
sempre di più e salgono sempre di più quelle degli OH che
interagiscono con il CO, mentre i P-OH non variano e ciò vuol
dire che il CO non li vede e quindi non interagisce con
questi gruppi. In questo caso lo spostamento delle bande
degli OH liberi e quelle degli OH legati al CO è molto più
grande rispetto alla silice e si aggira attorno ai 300 cm-1, questo perché in questo caso abbiamo a che fare con acidi di Bronsted che hanno
quindi un’acidità più forte e quindi un’interazione più forte. Nella zona a più bassa frequenza dove abbiamo lo stretching del CO invece
inizialmente non abbiamo nulla appunto perché non c’era, poi all’aumentare della pressione si formano bande sempre più alte; le bande sono
due poiché una indica il CO isolato e a frequenza un po’ più alta abbiamo quella del CO legato a OH. Quindi ancora una volta sulla base degli
spostamenti delle bande avremo un’informazione sull’acidità dei siti di Bronsted (non si fa mai un solo spettro ad un’unica pressione ma si
fanno delle isoterme ovvero la T è costante e vario la pressione di CO fino a che non sono scomparsi tutti i siti di Bronsted liberi. Posso anche
togliere man mano la pressione per vedere se l’adsorbimento è reversibile).

AMMONIACA Possiamo anche usare molecole più basiche come l’ammoniaca.


Essendo una molecola fortemente basica, quando si avvicina viene protonata
formando lo ione ammonio (NH4+) che avrà diverse vibrazioni, ovvero lo
stretching del legame azoto-idrogeno e il bending che sarà diverso rispetto a
quello dell’ammoniaca.

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Quindi nello spettro IR vedremo la formazione di una nuova banda che non era presente nello spetro dell’ammoniaca, e questa banda
corrisponde alla nuova forma protonata. L’ammoniaca viene adsorbita a T ambiente.

Prendendo gli spettri infrarossi abbiamo lo spettro blu del campione da solo, mentre quello rosa è dopo l’adsorbimento, si tratta di uno spettro
molto più complesso. Notiamo che: lo stretching dovuto agli OH di Bronsted scompare poiché l’ammoniaca ha strappato il protone e appaiono
una serie di bande più larghe e complesse ad alta frequenza che indicano tutti i modi di stretching del legame N-H; inoltre a bassa frequenza
(1448) appare un segnale che ci fa capire se l’ammoniaca è stata protonata o meno e corrisponde al bending dello ione ammonio.

In questo caso non si fanno considerazioni riguardo allo spostamento della banda del gruppo OH poiché qui il gruppo OH è scomparso, per cui
non avremo indicazioni sull’acidità dei siti di Bronsted.

Catalisi:
Le zeoliti sono dei catalizzatori acidi. I processi industriali che utilizzano catalizzatori omogenei acidi (come H 2SO4 o HF) creano problemi
ambientali e quindi devono essere in qualche modo sostituiti. Possiamo usare le zeoliti in processi che necessitano di una catalisi acida e in
questo caso avremo dei vantaggi in quanto le zeoliti essendo solide e non liquide possono essere riutilizzate, ma soprattutto non sono
corrosive.
Le reazioni che necessitano di catalisi acida sono nitrazioni, riarrangiamenti, alchilazioni ecc. Possiamo svolgere sostituendo il catalizzatore
omogeneo in un catalizzatore eterogeneo come le zeoliti.

A partire dal petrolio tramite distillazione, reforming e rottura abbiamo 7 molecole ( etanolo, etilene, propilene, butadiene, benzene, toluene e
xileni) che tramite catalisi acida permettono la produzione del 90% dei prodotti chimici che ci servono per la nostra vita.

Quindi la catalisi è molto importante per la produzione di molto prodotti chimici. Un catalizzatore velocizza la reazione, agendo sulla cinetica
ma senza intervenire nella termodinamica ed esistono diversi tipi di catalizzatori:

 catalizzatore omogeneo ovvero nella stessa fase dei reagenti


 enzimi che catalizzano reazioni di biocatalisi, come gli enzimi che catalizzano reazioni biochimiche (tipo pepsina)
 catalizzatori eterogenei in cui il catalizzatore è in una fase diversa rispetto ai reagenti e quindi può essere separato da essi per poi
essere riutilizzato.

In sostanza il catalizzatore abbassa l’energia di attivazione della reazione e quindi la


velocizza. Avremo quindi dei reagenti con una certa che per diventare prodotti devono
superare una barriera energetica (energia di attivazione), se questa barriera è molto
alta dal punto di vista dell’energia, si ha una reazione lenta. Se E a è più bassa la velocità
di reazione aumenta perché si ha bisogno di meno tempo per riuscire a superarla.
Rispetto a una rxn non catalizzata, se si usa un catalizzatore E a viene abbassata, si ha
quindi un’influenza sulla velocità. Il catalizzatore abbassando questa energia può anche
far andare la rxn verso un meccanismo diverso. Se l’energia di attivazione si abbassa la
velocità aumenta. Il catalizzatore fornisce un cammino di rxn alternativo favorevole
energeticamente.

Nelle zeoliti l’acidità è una proprietà importante, fa sì che questi materiali si possano utilizzare come catalizzatori eterogenei in reazioni che
richiedono una catalisi acida. Quali sono i vantaggi di una catalisi eterogenea?

1) Posso recuperare il materiale facendolo lavorare per successivi cicli, ciò non accade nel caso dei catalizzatori omogenei (es. enzimi)

Immaginando di avere un reagente in fase liquida o gas, esso arriverà sulla superficie del catalizzatore dove troverà il sito attivo, viene
adsorbito su questo sito dove inizia a indebolire alcuni legami per effetto dell’interazione con la superficie. In questo modo la molecola di
reagente viene resa reattiva. A questo punto può subentrare un altro reagente che, trovando i legami indeboliti, riuscirà a combinarsi. Il
prodotto deve essere poi “sganciato” dalla superficie.

Immaginando di avere il catalizzatore fatto da supporto e sito attivo (sito acido nel caso delle zeoliti), il reagente deve essere attratto verso la
superficie, trovare il sito attivo a adsorbirsi. L’adsorbimento può essere molecolare in modo da dissociarsi. Dobbiamo quindi immaginare tutti
questi meccanismi sulla superficie che possono essere deboli (indebolendo il legame) ma ci possono anche essere adsorbimenti chimici che
spezzano i legami, alterando la molecola di reagente. Rispetto a una reazione senza catalizzatore il meccanismo di reazione si complica, questi
meccanismi ci permettono però di velocizzare il processo, quindi pur essendo molto complesse sono molto efficaci.

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Il catalizzatore, soprattutto le zeoliti, sono sistemi porosi. Nel caso delle zeoliti si hanno
micropori (diametro < 10 A°). I siti attivi in questo caso sono all’interno dei micropori, la
molecola di reagente deve quindi avere dimensioni tali da riuscire ad entrare. Nel caso
di un sistema poro il meccanismo si complica ulteriormente: il reagente A deve riuscire
a diffondere all’interno dei pori. Si ha un meccanismo iniziale di diffusione dei reagenti.
Quando la molecola di A vede il sito attivo si aggancia e viene adsorbita. Sempre
all’interno del poro si deve verificare la reazione sulla superficie in modo da ottenere un
prodotto B che deve sganciarsi e riuscire a diffondere all’interno del poro per poter
essere raccolto. I sistemi porosi devono tener conto di questo meccanismo di
diffusione, il quale dipende dalla struttura delle zeoliti. Bisogna quindi scegliere la
struttura con meno problemi di diffusione.

Il vantaggio di usare sistemi porosi è l’aumento di aree superficiale, posso quindi trattare un numero molto elevato di molecole. (Svantaggio ->
diffusione, vantaggio -> elevato numero di molecole di reagente). Sono inoltre catalizzatori molto selettivi proprio a causa della sua struttura,
che avranno un minor numero di sottoprodotti, spesso molto problematici.

La catalisi eterogenea è sempre preceduta dall’adsorbimento, senza l’adsorbimento è come se la reazione avvenisse senza catalizzatore

L’adsorbimento è quindi il meccanismo di interazione di una molecola con la superficie di un solido, può essere sia fisico che chimico. Questi
due meccanismi avranno energie in gioco molto diverse, nel caso di quello fisico è più debole rispetto a quello chimico. Per spiegare questi
meccanismi di adsorbimento possono essere utilizzati due modelli. Come si possono adsorbire i reagenti sulla superficie e sui siti attivi? I
meccanismi di reazioni possono essere ricondotti dagli studi cinetici. La conoscenza dei meccanismi di reazione ci permette di poterli
modificare, una reazione avviene infatti per stadi successivi, ciascuno avrà una costante cinetica. Se ci sono step particolarmente lenti o che
deviano il meccanismo portando alla produzione dei sottoprodotti, grazie agli studi cinetici questi meccanismi possono essere eliminati.
L’obiettivo è quindi quello di modificare la reazione e il percorso in modo da arrivare ad un’alta percentuale di resa. L’adsorbimento avviene
con una sua velocità che dipende dalla dimensione dei pori e dalla velocità di diffusione all’interno del materiale. Quando le molecole di
reagente arrivano in prossimità della superficie, possono interagire sulla superficie in due modi (spiegabili con due modelli):

1) Meccanismo Langmiur-Hinselwood (già visto per N 2 a 77 K nei sistemi microporosi per la formazione di monostrati). Essendo dei
modelli hanno grosse approssimazioni, questo modello considera l’adsorbimento di un monostrato sulla superficie, dove tutti i siti
sono omogenei. Questo modello va bene per spiegare adsorbimenti semplici. Considerando i reagenti in fase gassosa A e B che si
avvicinano sulla superficie, entrambi devono adsorbirsi:
A g ↔ Aads B g ↔ Bads
In questo modo interagiscono i siti attivi della superficie del catalizzatore. Solo se sono adsorbiti possono reagire tra di loro,
formando il prodotto, anch’esso adsorbito sulla superficie
A ads + Bads ↔ Pads Pads ↔ Pg
2) Meccanismo di Eley-Redeal in cui uno dei reagenti interagisce dalla fase gassosa con l’altro adsorbito sulla superficie. La molecola di
A viene attivata per effetto dell’interazione sulla superficie
A g ↔ Aads
A ads + Bg ↔ P ads
Pads ↔ Pg
Il meccanismo dipenderà sia dalla natura di B che quella del catalizzatore. Una reazione molto semplice come A + B -> P prevede quindi 3/4
passaggi successivi. Ogni stadio ha una diversa velocità di reazione. Gli studi cinetici sono quindi fondamentali nel campo della catalisi
eterogenea, la reazione deve essere termodinamicamente favorita, tuttavia la cinetica è fondamentale.

Uno dei problemi è la stabilità del catalizzatore. Di solito viene usato un solido che può essere usato per cicli successivi, il catalizzatore però
non ha una vita infinita, durante la reazione ci possono essere meccanismi di disattivazione. Le reazioni lavorate in fase gas sono infatti
generalmente ad alte T (T > 250 °C), se sono in fase liquida si ha la presenza di solventi. Il catalizzatore ad alte temperature può produrre coke
(specie carboniose) che si depositano all’interno dei pori bloccandoli. Nei cicli successivi i pori bloccati non saranno più disponibili. Ci può
anche essere un fenomeno di sinterizzazione (sintering), questo succede nel caso dei catalizzatori metallici, per effetto della T le nanoparticelle
metalliche possono muoversi e aumentare di dimensione (sinterizzare). Se crescono di dimensione perdono le proprietà che hanno quando
sono nanoparticelle, subiscono quindi una disattivazione. In fase liquida ci può essere un meccanismo di leaching in cui il sito attivo viene
portato in soluzione, alla fine del processo il numero di siti attivi sulla superficie del catalizzatore sarà minore.

Molti catalizzatori possono essere rigenerati (es, zeoliti). Il coke per effetto di una reazione di combustione può essere trasformato in CO 2 e
acqua ad alte temperature. Questo processo ovviamente ha un costo. La cosa migliore sarebbe quella di non dover rigenerare i catalizzatori.
Nel caso del fenomeno di leaching non si può fare niente se non sostituire il catalizzatore. Bisogna quindi prevedere i meccanismi di
disattivazione a seconda delle condizioni in cui si lavora (presenza di solvente, temperatura, pressione, ecc). Bisogna quindi considerare tutto il
percorso del materiale in modo da evitare questi meccanismi.

Riassumendo:

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 Il catalizzatore eterogeneo accelera la reazione, permettendo di lavorare a pressioni e temperature più basse.
 Deve abbassare l’energia di attivazione
 In un impianto industriale si deve tener conto dell’impianto (di solito un reattore) e della sua progettazione, si tratta di un aspetto più
ingegneristico
 Si minimizza la formazione di scarti, permettendo di diminuire anche l’uso di solventi, ecc
 Fino al 90% di prodotti sono ottenuti attraverso processi in cui si ha la presenza di catalizzatori.

Alcune reazioni in cui sono presenti i catalizzatori sono:

Un concetto importante è il fattore E che ci dice quanti kg di scarti sono stati prodotti per ogni kg di prodotto desiderato. Si tratta di un numero
che tutti gli impianti industriale devono fornire, infatti più è basso questo prodotto più è sostenibile il processo

E=kg waste /kg product


Nell’industria farmaceutica questo fattore E è di circa 25-100, i processi non sono tanto sostenibili dal punto di vista ambientale. Pur non
avendo una produzione annua molto alta il costo ambientale è molto grande.

Dobbiamo però passare a un sistema più microscopico per poi passare a quello macroscopico tipico dei reattori. Considerando le polveri di
zeoliti di dimensione nanometriche, queste non potranno essere messe dentro un reattore. Per riuscire a portare il catalizzatore in un
ambiente industriale si usano normalmente cilindretti in ceramica (di solito hanno una dimensione di 1 cm) in cui si mettono le polveri, si parla
di letto del catalizzatore, sopra il quale passa il reagente. Un certo numero di questi cilindretti viene quindi introdotto dentro il reattore
industriale, arrivano i reagenti da una parte vedono il letto catalitico, si trasformano per effetto delle interazioni che avvengono a livello
atomico, i prodotti poi devono uscire ed essere raccolti. Il passaggio dal laboratorio all’impianto industriale non è immediato. Non è detto che
aumentando le moli di reagente aumenti anche il prodotto, bisogna fare un passaggio anche in termine di quantità. La sintesi del materiale
deve essere riproducibile, bisogna fare un certo numero di sintesi in cui si ottiene sempre lo stesso materiale. Solo successivamente si può fare
il passaggio a una scala superiore (di solito fatto da un’azienda).

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All’inizio devo quindi progettare il sito attivo che mi serve a seconda delle necessità, in questo caso si è nell’ordine dei nanometri. Dopodiché
bisogna sintetizzare il materiale ottimizzandole man mano che si fanno variare i parametri. Le sintesi migliori devono essere poi svolte un certo
numero di volte in modo che siano riproducibili. I passaggi successivi sono: la caratterizzazione, lo studio della cinetica, lo studio della stabilità
termica. Dopo la sintesi c’è quindi tutta una fase di ottimizzazione e controllo delle proprietà del materiale. Solo successivamente c’è lo scale
up, cioè il passaggio dai grammi ai kg in modo da poter utilizzare il catalizzatori in grandi impianti. Cosa investiamo? Tempo, soldi attraverso
finanziamenti

Zeoliti nella catalisi eterogenea nell’industria petrolchimica.


Nonostante sia una fonte in esaurimento i combustibili fossili sono la fonte primaria di combustibile. Le zeoliti hanno introdotto la catalisi
eterogenea all’interno di processi che non prevedevano l’uso di un catalizzatore proprio grazie alle loro proprietà acide. Le zeoliti riescono a
fare cracking catalitico (spezzare molecole grosse in modo da farle diventare più piccole), riescono inoltre a trasformare il metanolo in
benzina. Entrambe queste reazioni sono importanti dal punto di vista industriale a livello mondiale, riguardando tutti gli impianti di raffinazione
del petrolio. Il cracking catalitico permette quindi di rompere molecole di idrocarburi molte grosse in molecole più leggere . Per fare ciò si ha
bisogno di calore, pressione e ovviamente del catalizzatore.

Si ha una serie di trasformazione complesse. La catalisi eterogenea in un processo di raffinazione non interviene su tutto l’impianto ma solo in
particolari punti.

Cosa si può usare come catalizzatore? Vengono usate le zeoliti (FAU -> faugiasite) nella sua forma acida, denominata USHY (ultra-stable HY in
cui H denomina la sua forma protonata e Y che fa parte della classe della faugiasite). Il processo di cracking catalitico ci permette di ottenere
molecole con atomi di carbonio C3-C7. Questa zeolite deve essere stabile dal punto di vista termico ma anche in presenza di tutte le possibili
trasformazioni che possono avvenire all’interno del reattore. Nel reattore ci può essere del vapor d’acqua, fonte di disattivazione dato che
l’acqua si adsorbe molto facilmente sulle superficie. La zeoliti quindi subisce un trattamento in modo da essere resa più stabile, si parla di
dealluminazione, si toglie cioè Al dal reticolo (la zeolite è infatti un alluminosilicato). In questo modo la zeolite ha una struttura più stabile che
le permette di subire alte temperature e la presenza di vapor d’acqua.

Questo processo può produrre diverse frazioni: paraffine, aromatici, ecc Uno dei problemi è proprio la disattivazione del catalizzatore per
effetto di deposito di coke (idrocarburi poliaromatici non saturi). Ci deve essere quindi un processo di rigenerazione che di solito avviene ad
alte T (circa 700 °C) in modo da bruciare il coke presente.

Meccanismo:
Questo craking catalitico procede attraverso la formazione di specie organiche positive (carbocationi) che rappresentano gli intermedi di
reazione. Il primo step prevede quindi la formazione di carbocationi R + che si formano sui siti acidi di Bronsted, può avvenire anche sui siti acidi
di Lewis. Si ha quindi un’iniziazione in cui si la paraffina e il sito acido della zeolite, per effetto dell’interazione con la superficie si forma un
carbocatione, successivamente può avvenire la protonazione.
−¿ H ¿
2
+¿ H −R +Z ¿
−¿→R 1 −CH2 −C 2
¿
+¿Z ¿
R1−C H 2 C H 2 −R 2+ H
−¿ ¿
+¿ H −R +Z ¿
−¿→R 1 −C H2 −C 2
¿
+¿Z ¿
R1−CH =CH −R 2+ H
Il secondo step corrisponde alla rottura del legame C-C attraverso una scissione β. Si ha un carbocatione che vede la paraffina, successivamente
si ha la propagazione della catena, attraverso reazioni di trasferimento dell’idrogeno. Si ha poi la scissione dove si ottiene un carbocatione più
piccolo e un’olefina. Infine, si ha la terminazione della catena in cui si ottiene il prodotto finale, viene anche restituito il protone tolto ai siti
acidi di Bronsted.

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I siti attivi della zeolite intervengono nel primo passaggio in cui si ha bisogno di siti acidi per riuscire a formare queste specie caricate
positivamente. La zeolite HY viene caricata in quantità che possono variare dal 50 al 40% nei cilindretti ceramici (di solito fatti di allumina) che
hanno anche il ruolo di proteggere la zeolite dall’ambiente. La zeolite via via nel tempo viene disattivata, deve essere quindi rigenerata. L’80%
del tempo la zeolite subisce un processo di rigenerazione, si hanno quindi dei costi non indifferenti.

Prima di lavorare la zeolite all’interno dell’impianto deve essere dealluminata in modo da renderla più stabile termicamente (in modo che
possa anche subire il processo di rigenerazione). Si tratta di un processo molto importante che aumenta anche la forza dei siti acidi e previene
la formazione del coke. Si generano anche cavità che possono aumentare la diffusione delle molecole di reagente.

Un altro processo produttivo in cui vengono usate le zeoliti come catalizzatori è nella produzione di caprolattame (precursore del nylon). In
questo caso si usano sia zeoliti acide che zeoliti che fanno avvenire processi di ossidazione. Anche in questo caso hanno sostituito il primo
processo industriale che prevedeva l’uso di H2SO4.

Spettroscopia elettronica:
Ci collochiamo nel range del Uv-visibile per la spettroscopia elettronica. Questa energia è in grado di far passare gli elettroni da un livello
elettronico più basso a un livello elettronico più alto. Il visibile va dai 400-800 nm oppure 4000-8000 A°. L’ultravioletto vicino va dai 2000 ai
4000 A°, mentre quello lontano λ < 2000 A°. L’UV vicino ha un’energia minore rispetto all’UV-lontano.

Mandando una radiazione elettromagnetica sul campione, esso potrà assorbire una parte della radiazione e quindi trasmettere l’altra parte.
Possiamo quindi registrare uno spettro di assorbimento, andando ad analizzare la luce trasmessa possiamo calcolare l’assorbanza attraverso la
legge di Lambert-Beer. Si usa una radiazione elettromagnetica ad elevate energie che riguarda il movimento degli elettroni. Il sistema
molecolare deve riuscire a tornare nel sistema di partenza, si può quindi registrare uno spettro di emissione, cioè analizziamo la luce emessa
da un campione che preventivamente viene eccitato.

Una volta che la radiazione elettromagnetica arriva con un’energia hν, confrontabile con quello che è un salto energetico, si verifica
l’assorbimento

hc
E=hν=
λ
Il materiale assorbe la radiazione UV-visibile quando l’energia dei fotoni è uguale al salto energetico che deve compiere . Quando si usa una
radiazione UV-visibile si fa variare l’energia elettronica, ma anche quella vibrazionale e rotazione. Succede che portando gli elettroni su un
livello energetico a più alta energia, contemporaneamente la molecola vibrerà e ruoterà. Su un livello elettronico si hanno diverse livelli
vibrazionali i quali a sua volta hanno diversi livelli rotazionali.

Si chiama stato fondamentale lo stato elettronico a energia più bassa, cioè lo stato a cui si trova nelle
condizioni normali, si parla poi di stati eccitati. A più bassa energia si ha il livello fondamentale elettronico il
quale è suddiviso in segmenti che rappresentano i livelli vibrazionali, questi segmenti a loro volta
dovrebbero avere dei segmenti ancora più piccoli per rappresentare quelli rotazionali. Si hanno poi i diversi
livelli eccitati dove ciascun livello ha a sua volta dei livelli vibrazionali. Le energie in gioco nei vari livelli sono
diverse tra di loro. I livelli elettronici sono molto separati in termini energetici, quelli vibrazionali molto più
vicini, mentre quelle rotazionali sono molto molto vicini tra di loro. La radiazione UV-visibile è in grado di
fornire l’energia necessaria per far avvenire una transizione elettronica.

Possiamo utilizzare dei diagrammi per riuscire a descrivere queste transizioni elettroniche: i diagrammi di Jablonski. Grazie a questi diagrammi
possiamo descrivere in modo semplice i fenomeni legati all’assorbimento della radiazione UV-visibile.

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I livelli elettronici sono classificati in base alla molteplicità data da 2S+1, dove S è il momento angolare totale di spin degli elettroni.
Immaginando di essere nello stato fondamentale, gli elettroni occuperanno un orbitale molecolare, al massimo saranno due con spin
antiparalleli. In questo caso il momento angolare totale sarà 2(+1 /2−1/2)+1, si ha quindi molteplicità 1 e lo stato viene chiamato
singoletto S. Il pedice indica il livello elettronico S0 sarà il livello di singoletto dello stato elettronico fondamentale.

Mandando una radiazione UV-visibile si promuove la transizione elettronica tra i due livelli elettronici. Gli spin rimangono sempre antiparalleli
nel primo caso, la molteplicità quindi rimarrà la stessa. Le frecce rosse rappresentano la transizione elettronica che parte dal livello
vibrazionale più basso dello stato elettronico fondamentale. Si riesce a popolare in questo modo lo stato elettronico del singoletto eccitato.
Dopo questo si può ottenere uno spettro di assorbimento. La molecola però cerca di cedere questa energia acquisita. Si hanno due
meccanismi per portare la molecola allo stato fondamentale.

Un primo meccanismo è quello del rilassamento vibrazionale VR. Le molecole


che sono andate a popolare i livelli vibrazioni a più alta energia dello stato
elettronico eccitato perdono energia, magari sottoforma di calore, e si
collocano nello stato vibrazionale fondamentale dello stato elettronico eccitato.
Arrivati a questo livello emetteranno una radiazione elettromagnetica per
tornare allo stato elettronico fondamentale. Questo meccanismo viene
chiamato fluorescenza. La fluorescenza è quindi l’emissione di una radiazione
elettromagnetica tra lo stato di singoletto eccitato S 1 e lo stato di singoletto
fondamentale S0. Si tratta di una radiazione elettromagnetica emessa che può
essere osservata attraverso i fluorimetri. Accanto agli spettri di assorbimento
potrò ottenere uno spettro di emissione grazie allo spettrofluorimetro. Questo
però non è l’unico meccanismo che si instaura.

Lo stato eccitato T1 ha un’energia più bassa rispetto a S1. Nello stato T1 si


ha un cambio di molteplicità, si hanno cioè spin paralleli che determinano
una molteplicità 3, si parla di stato di tripletto. Questo stato si trova ad
energie più basse rispetto al singoletto corrispondente perché è più
stabile. Questa stabilità è dovuta alla disposizione degli elettroni: in
entrambi i casi gli elettroni sono su orbitali diversi (non siamo quindi
vincolati dal principio di esclusione di Pauli), nel tripletto i due elettroni
hanno spin parallelo, nel singoletto spin antiparallelo. L’orbitale è una
zona dello spazio in cui c’è una certa probabilità di trovare l’elettrone. Nel
caso in cui si hanno due orbitali in cui ognuno c’è un elettrone con spin
parallelo, questi due orbitali avranno probabilità nulla di occupare la
stessa regione di spazio, ciò vuol dire che i due elettroni non si
respingono, le repulsioni coulombiane sono deboli. Nel caso in cui i due elettroni abbiano spin antiparallelo su orbitali diversi, essi avranno una
probabilità finita di occupare la stessa regione di spazio, le repulsioni coulombiane sono quindi maggiori. Nello stato di singoletto gli elettroni
si respingono di più rispetto a quello di tripletto, in termini energetici il primo sarà quindi meno stabile.

Per far passare gli elettroni da uno stato di singoletto a uno di tripletto isoenergetico esistono dei meccanismi di passaggio che “ permettono
all’elettrone di girarsi”. Uno di questi è l’intersystem processing. Una volta arrivato nello stato di tripletto, avviene di nuovo un meccanismo di
rilassamento vibrazionale, viene popolato in questo modo il livello vibrazionale più basso dello stato di tripletto eccitato. Da qui ci può essere
un’emissione di radiazione elettromagnetica. Questo meccanismo si chiama fosforescenza.

Fosforescenza e fluorescenza sono due meccanismi che le molecole hanno per tornare allo stato elettronico fondamentale emettendo una
radiazione elettromagnetica. Gli stati elettronici da cui partono sono diversi: nel caso della fluorescenza si parte da un livello di singoletto
eccitato e si arriva su un livello di singoletto fondamentale; per la fosforescenza si parte da un livello di tripletto eccitato e si arriva a un livello

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di singoletto fondamentale. Assorbimento, fluorescenza e fosforescenza sono quindi i tre grossi meccanismi che possono analizzare nel
momento in cui faccio incidere una radiazione UV-visibile sul campione.

La presenza di un gran numero di sottolivelli molto ravvicinati conferisce agli spettri UV-visibile di molecole poliatomiche il caratteristico
aspetto di bande larghe e ad inviluppo di bande. Una volta che è avvenuto l’assorbimento, la molecola può decadere nello stato
fondamentale attraverso vari meccanismi:

1) Non quantizzati o non radiativi, cioè attraverso scambi di calore, rappresentati nei diagrammi da linee spezzate. Questi meccanismi
non possono essere osservati attraverso la spettroscopia. Non comportano l’emissione di una radiazione elettromagnetica.
2) Quantizzati o radiativi, si parla in questo caso di luminescenza. Si ha proprio l’emissione di una radiazione elettromagnetica che può
essere catturata attraverso ad esempio un fluorimetro.

Processi non radiativi

Una volta mandata la radiazione elettromagnetica e avvenuto


l’assorbimento, negli stati eccitati ci possono essere reazioni
fotochimiche. Mandando una molecola in uno stato eccitato si spostano
gli elettroni di valenza (NON del nucleo che verrebbero spostati dai raggi
X) cioè gli elettroni di legame. L’orbitale a più alta energia in cui si
posizionano gli elettroni dopo il salto energetico, può anche essere un
orbitale antilegante, quindi si indeboliscono i legami. Ci possono quindi
essere delle reazioni a causa della maggiore reattività della molecola nello
stato eccitato. La fotosintesi clorofilliana funziona in questo modo, si ha
come sorgente la luce solare che porta le molecole negli stati eccitati e lì
reagiscono per produrre zuccheri. Questo può succedere sia nello stato di
singoletto che nello stato di tripletto. Se queste reazioni fotochimiche si
verificano, la molecola non tornerà nello stato fondamentale attraverso i
meccanismi radiativi, dato che si modifica la sua natura chimica. Non
avverrà quindi un’emissione di radiazione.

Un’altra possibilità è che una volta che la molecola arriva sullo stato elettronico eccitato ci sia un meccanismo che fa passare la molecola da un
livello vibrazionale basso del S 1 a un livello vibrazione molto alto di S 0 isoenergetico con il livello di partenza, non si avrà quindi una perdita di
energia. Questo meccanismo si chiama IC (internal convertion). Una volta arrivato a questo livello vibrazionale ad elevata energia, la molecola
perderà energia sottoforma di rilassamento vibrazionale, finendo nel livello vibrazionale più basso dello stato elettronico fondamentale. In
questo modo torna nel livello di partenza senza emettere radiazione elettromagnetica.

Un altro meccanismo è quello che permette di popolare lo stato di tripletto eccitato T 1, sempre isoenergetico rispetto al livello vibrazionale di
arrivo. Si parla di ISC (intersystem crossing). Questo meccanismo fa cambiare lo spin all’elettrone. Una volta arrivato al livello vibrazionale
eccitato si avrà un rilassamento vibrazionale che farà ritornare la molecola allo stato vibrazionale fondamentale del livello elettronico eccitato.
Ci può poi essere una fluorescenza (meccanismo radiativo), oppure un altro ISC, passando da un livello vibrazione basso del T 1 ad un livello
vibrazionale ad alte energie del S0 e infine esserci un rilassamento vibrazionale.

Una volta nello stato eccitato ci possono essere quindi dei meccanismi non
radiativi che fanno perdere energia alla molecola. Questi meccanismi sono in
competizioni con quelli radiativi che possono effettivamente essere analizzati.

Gli spettri elettronici sono abbastanza larghi, proprio perché si coprono in termini
energetici non solo i livelli elettronici, ma anche quelli rotazionali e vibrazionali. Lo
spettro osservato sarà formato da bande larghe che tengono conto di tutti i salti
energetici.

Anche nella spettroscopia di assorbimento ci sono delle regole teoriche di selezione, non tutte le transizioni fra i vari livelli energetici possono
effettivamente realizzarsi. In generale, le bande più intense nello spettro UV-Vis sono associate a transizioni permesse. Bande molto deboli
corrispondono a transizioni non permesse. Queste regole ci dicono dal punto di vista teorico se queste transizioni possono avvenire o meno,
Nel contesto reale infatti la molecola o il materiale avrà dei movimenti che rompono le condizioni poste dalle regole di selezione. Queste
regole quindi spiegano perché una banda è più intensa rispetto ad un’altra. Per la spettroscopia UV-visibile si hanno due regole di selezione
importanti:

1) Si applica alle molecole con un centro di simmetria. Gli orbitali molecolari vengono infatti etichettati con g (pari, se per effetto
dell’inversione attraverso il centro di simmetria la funzione d’onda rimane immutata) o u (dispari, se la funzione d’onda cambia di
segno). Sono permesse le transizioni elettroniche accompagnate da un cambio di parità si deve andare quindi da u → g o g → u .
Vale solo per molecole con un centro di simmetria.

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2) Legata alla molteplicità degli stati. Si possono verificare transizioni solo tra stati con la stessa molteplicità. La fosforescenza che
avviene tra uno stato di tripletto eccitato e uno stato di singoletto fondamentale è quindi teoricamente proibita. Vuol dire che la
fosforescenza avrà una minore intensa rispetto a un meccanismo che non è vietato, come la fluorescenza.

I diagrammi di Jablonski sono diagramma estremamente semplificati che permettono di capire lo spettro generale. La spettroscopia elettronica
si basa su il principio teorico di Franck-Condon. Questo principio dà informazioni sui tempi necessari per far avvenire una transizione
elettronica e una vibrazione. Il tempo richiesto per una transizione elettronica è di circa 10 -16 s, mentre quello richiesto per una vibrazione è di
circa 10-14 s. Il periodo di vibrazione è quindi relativamente lungo rispetto a quello necessario per la transizione elettronica, quest’ultima è
infatti molto rapida. Possiamo quindi introdurre un’approssimazione: Una transizione elettronica è così rapida che, subito dopo la
transizione, la distanza tra i nuclei è la stessa che si aveva prima della transizione. Si considerano quindi i nuclei fermi nella loro posizione. Il
principio di Franck-Condon tiene proprio conto della diversa velocità e del diverso tempo richiesto per le due transizioni. Dobbiamo quindi
considerare le curve di energia potenziale (o potenziali di Morse), le quali rappresentano le distanze tra i nuclei per una molecola biatomica.
Valgono solo per molecole biatomiche. Per molecole con più atomi bisognerebbe usare le superfici, molto più complesse.

Il principio di Franck-Condon stabilisce che la transizione più probabile è quella che non
comporta variazione nella posizione dei nuclei, rappresentabile da una linea verticale.
Tenendo conto di questo principio dobbiamo rappresentare le transizioni con una linea
verticale. Portando la molecola dal livello vibrazionale fondamentale (immaginando di
essere a temperatura ambiente) dello stato elettronico fondamentale allo stato
elettronico eccitato non si ha un cambiamento della posizione dei nuclei. I minimi delle
due curve non sono alle stesse posizioni, infatti, il minimo che corrisponde al livello
elettronico eccitato è leggermente spostato rispetto a quello fondamentale, trovandosi
a distanze interatomiche maggiori. Lo stato eccitato è generalmente più espanso e
quindi più polarizzabile. In quel punto il legame sarà quindi più allungato con più
possibilità di rompersi. Quindi se vogliamo far reagire una molecola, che in condizioni
normali non reagirebbe, una possibilità è quella di far assorbire una radiazione
elettromagnetica nel UV-visibile in modo che vada nello stato eccitato dove possiamo farla reagire.

Considerando solo due livelli vibrazionali e il quadrato della funzione d’onda (funzione che
matematicamente permette di descrivere il moto degli elettroni), cioè la probabilità di
trovare gli elettroni nei livelli vibrazionali. Questi quadrati sono diversi tra i diversi livelli
vibrazionali. Nello stato vibrazionale fondamentale sia dello stato elettronico fondamentale
che di quello eccitato, l’andamento è a campana, si avrà quindi una maggiore probabilità nel
punto medio del segmento. Si fa quindi partire la transizione da questo punto. Per quanto
riguarda i livelli vibrazionali eccitati, l’andamento del quadrato della funzione d’onda è
diverso. In generale ha sempre dei massini nei punti di massima elongazione del segmento.
Si deve quindi andare da massimo a massimo. Questo è il motivo per cui nei diagrammi di
Jablonski vengono rappresentate diverse frecce.

In condizioni normali, la maggioranza delle molecole si trova nello stato vibrazionale


fondamentale. La transizione in rosso sarà quindi più probabile dato che passa da un
massimo di probabilità del livello di partenza, e arriva su un massimo di probabilità del
livello vibrazionale di arrivo dello stato eccitato. È la transizione più probabile ma non
l’unica, altrimenti si avrebbero delle righe e non delle bande. Il punto di partenza è quindi sempre lo stesso, il punto di arrivo può variare.

Dal punto di vista della spettroscopia elettronica che tipi di transizioni possiamo osservare?

Molecole organiche

Alcune molecole organiche sono colorate, i gruppi che conferiscono colore sono detti cromofori (greco= portatore di colore) e sono causati da
insaturazioni. Alcuni gruppi cromofori sono C=C , C=O , N =N . Se questi gruppi sono presenti quindi ci aspettiamo di vedere delle
bande nel visibile. La lunghezza d’onda a cui osservo il massimo è tipica di ogni cromoforo. Possiamo quindi utilizzare questa spettroscopia per
riconoscere i gruppi funzionali.

Esistono altri gruppi chiamati auxocromi, che non sono responsabili diretti della colorazione della molecola, ma se presenti cambiano
l’intensità o il colore della molecola C−Br , C−OH , C−N H 2. Per motivi elettronici questi gruppi cambiano la colorazione del
cromoforo. Se la molecola è colorata vuol dire che assorbe nel visibile, se invece è bianca assorbe nell’UV.

Se questi gruppi non sono presenti non vuol dire che le transizioni elettroniche non avvengano, ma semplicemente che avvengono in una zona
diversa dello spettro elettromagnetico. In generale, molecole organiche sature non hanno transizioni nel visibile, nell’UV-vicino (380 e 200 nm)
ma le loro transizioni si collocano nella zona dell’UV-lontano (sotto i 200 nm). Introducendo nella molecola un gruppo auxocromo posso
spostare a lunghezze d’onda maggiori il massimo d’assorbimento.

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I fattori che intervengono nel determinare la λ maxdei vari cromofori sono la differenza di elettronegatività degli elementi che formano il
doppio legame e la relativa tendenza a formare legami multipli. La probabilità di vedere le transizioni elettroniche nell’UV e nel visibile dipende
dalle insaturazioni e anche negli atomi coinvolti nelle insaturazioni e dalla differenza di elettronegatività.

La complessità degli spettri sarà quindi direttamente proporzionale alla complessità delle molecole. Grazie alla possibilità di riconoscere i
diversi gruppi funzionali, possiamo avere un utilizzo molto analitico della tecnica per il riconoscimento delle molecole organiche.

Che tipologie di transizioni osserviamo nel caso delle molecole organiche?

Partendo da una molecola con solo legami di tipo σ come un alcano, si avranno due orbitali: uno σ di
legame e uno σ* di antilegame a più alta energia. Con l’assorbimento una radiazione UV-visibile si
possono spostare solo gli elettroni degli orbitali σ. Questa differenza energetica tra σ e σ* corrisponde a
un pacchetto hν nella regione dell’UV-lontano. Le transizioni σ -> σ* si vedono quindi sotto i 200 nm. Dato
che sposto il legame da un orbitale di legame a uno di antilegame, in quest’ultimo la molecola può essere
soggetta una scissione.

Se si hanno dei doppi legami, cioè sia legami σ che π, cioè in presenza di gruppi cromofori: si ha sicuramente la transizione
¿ ¿
σ →σ , in più si ha una transizione π → π . Quest’ultimo ∆ E è minore rispetto al primo, avverrà quindi a
lunghezze d’onda più alte e si potranno osservare nella zona dell’UV vicino se non
addirittura nel visibile. Nel caso delle insaturazioni si hanno quindi due tipi di
transizioni elettroniche.

In presenza di gruppi carbonili (C=O ¿, in cui si ha un ossigeno con doppietti non condivisi che occupano orbitali

molecolari di non legame, la cui energia è intermedia tra quella degli orbitali di tipo π e π*. In presenza di questi
¿
gruppi carbonili quindi si hanno sia le transizioni π → π , sia transizioni dovute al salto energetico degli elettroni
¿ ¿ ¿
non condivisi dell’ossigeno da n → π*. Questi ∆E sono diversi, quello dovuto a n→π è più piccolo rispetto a π →π , n→π sarà
quindi a lunghezze d’onda più grandi.

A seconda della natura della molecola organica si avranno quindi diverse possibilità di transizione. Ciascuna transizione avrà lunghezze d’onda
d’assorbimento diverse a seconda delle energie dei vari orbitali molecolari.

Nel caso di molecole coniugate cioè con doppi legami che si ripetono ogni tot atomi, si avrà un cambiamento dello spettro UV-visibile. Rispetto
a una molecola con un’unica insaturazione, se si hanno sistemi coniugati con un numero maggiore di doppi legami, la differenza energetica tra
l’orbitale molecolare π e π* si riduce per effetto della delocalizzazione. Vuol dire che la lunghezza d’onda a cui si osserva la transizione
elettronica sarà più alta. Molecole coniugate hanno sempre un certo grado di colorazione. Come nel caso del β-carotene.

Quali effetti possiamo avere nelle bande di assorbimento delle molecole organiche?
Lavorando con molecole organiche si usano dei solventi, che generalmente possono
essere polari o non polari. Cambiando il solvente ci possono essere effetti sugli spettri
dato che si cambia la polarità e l’intorno chimico. Se si ha uno spostamento dello spettro
verso lunghezze d’onda più grandi si parla di red shift o effetto batocromico; se invece si
ha uno spostamento verso lunghezze d’onda minori si parla di blue shift o effetto
ipsocromico. Ci può inoltre essere un effetto sull’intensità: se si aumenta l’intensità si

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parla di effetto ipercromico, cioè si esalta la colorazione; mentre se si abbassa l’intensità della banda si parla di effetto ipocromico. Questi
quattro effetti dipendono dall’interno chimico della molecola e soprattutto dal solvente che si sta utilizzando. Sono comunque spostamenti
piccoli che possono essere osservati.

Sistemi inorganici

In questo caso la situazione è più complessa perché si possono avere due tipologie di transizioni elettroniche:

1) La prima tipologia di transizione dipende dalla presenza o meno di elementi di transizione, cioè elementi che hanno elettroni negli
orbitali d. Si parla di transizioni d-d. Gli orbitali d sono cinque e sono orientati nello spazio in modo diverso. Possono ospitare fino a
dieci elettroni. Nel caso dell’atomo isolato questi cinque orbitali sono tutti degeneri. Quando però l’atomo si trova in un complesso o
all’interno di un materiale, questi orbitali d non sono più degeneri ma si dividono in due gruppi di orbitali: si ha un gruppo fatto da tre
orbitali d e un altro fatto da due orbitali d. Questo avviene per elementi con elettroni negli orbitali d che però non sono
completamente pieni, cioè non possono essere d 10, perché altrimenti non si ha la possibilità di far muovere gli elettroni. Le transizioni
d-d le osserviamo per metalli di transizione che hanno da 1 a 9 elettroni. Mettendo questo
elemento in un complesso o in un materiale si avrà questa divisione in due gruppi, in questo modo
si può far passare per effetto dell’assorbimento della radiazione UV-visibile questi elettroni d da un
gruppo all’altro. Questo permette di studiare lo stato di ossidazione e il numero di coordinazione,
3+¿¿
ovvero la geometria. Un esempio è il complesso ottaedrico di titanio [ Ti ( O H 2 )6 ] che ha 5
orbitali d dell’atomo centrale separati in due gruppi. Il salto energetico tra questi due gruppi è responsabile degli spettri e delle
transizioni d-d. Questa differenza energetica dipenderà dalla geometrica del complesso, cambiando la coordinazione cambia anche la
differenza di energia. Sugli spettri quindi si potrà anche distinguere la geometria alla quale si trova il metallo di transizione. Dato che
questa differenza energetica non è molto alta, perché gli orbitali sono molto simili tra loro, generalmente queste transizioni cadono
nella zona del visibile. I complessi dei metalli di transizione sono infatti generalmente molto colorati. Sono transizioni vietate dalle
regole di selezione (perché avvengono tra livelli gerade), saranno quindi bande di debole intensità.
2) L’altra tipologia di transizione è quella del trasferimento di carica. Avvengono quando si ha un gruppo elettron-accettore e un
gruppo elettron-donatore, quindi gruppi che hanno capacità di acquisire o cedere elettroni molto diversa tra loro. Possiamo quindi
immaginare che gli elettroni per effetto di assorbimento della radiazione passeranno da un gruppo all’altro. Queste transizioni sono
molto intense e si posizionano nell’UV, proprio perché in questo i ∆ E sono molto più grandi rispetto alle transizioni d-d.

Nel caso di un complesso di un metallo di transizione ci dobbiamo aspettare entrambi i tipi di transizioni. Una non esclude l’altra. Sono due
transizioni che hanno una natura molto diversa tra loro.

−¿ ¿
Pensando al sistema del permanganato di potassio, lo ione manganato Mn O4 ha una

colorazione molto intensa, pur essendo un d0, cioè pur non avendo elettroni nell’orbitale d. Il
colore sarà quindi dovuto ad altre tipologie di transizioni come quella di trasferimento di
carica tra l’ossigeno e il manganese. Queste transizioni sono permesse dalle regole di
selezione, sono quindi molto intense e dipendono fortemente dalla differenza di
elettronegatività tra il metallo (Mn) e il legante (O). Sono intense, quindi il ∆ E responsabili
di questa transizione sono piuttosto grandi, quindi l’intensità delle bande sarà elevata.
L’elettrone migra tra un orbitale dell’atomo di O e un orbitale di Mn, si parla di transizioni
LMCT (transizione di trasferimento di carica legante-metallo). I trasferimenti di carica
avvengono quindi prevalentemente nella zona dell’UV vicino (400-200 nm), mentre le d-d
nella zona del visibile (responsabili della colorazione dei metalli di transizione) ma anche del vicino infrarosso.

Come funziona uno strumento UV-visibile per fare spettri di assorbimento?

C’è una sorgente, di solito infatti si usano due lampade di cui una serve per illuminare nell’UV e l’altra per illuminare nel visibile. Questa
radiazione deve diventare monocromatica, va quindi all’interno di un monocromatore che seleziona la lunghezza d’onda e la manda nella zona

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dove è posto il campione. Gli strumenti più recenti lavorano a doppio raggio, ciò vuol dire che uscendo dal monocromotore il raggio viene
diviso in due: da una parte si ha la possibilità di mettere il campione (soluzione con la molecola) e parallelamente solo il solvente, per avere un
bianco, cioè per vedere gli assorbimenti del solvente. Con lo strumento a doppio raggio si lavora sia con la soluzione che con il solvente in
modo che lo strumento in automatico faccia lo azzeramento.

Se si lavora con soluzioni limpide si usa la legge di Lambert-Beer. La soluzione viene infatti messa in una cuvetta (di solito in quarzo), cioè un
contenitore in vetro trasparente che non dà nessun tipo di assorbimento nell’UV-visibile. Dietro si ha il rivelatore che lavora in trasmissione e
grazie alla legge di Lambert-Beer possiamo collegare l’assorbanza alla concentrazione attraverso il coefficiente di estinzione molare. Il cammino
ottico quando si usano le cuvette standard è di 1 cm.

Quando si lavora con solidi (polveri pollicristalline) non si può applicare la legge di Lambert-Beer. Questo perché non si ha più un cammino
ottico definito. Ogni piccolo cristallo della polvere dà un fenomeno diverso, il cammino ottico quindi non è più 1 cm. Oltre al fenomeno della
trasmissione della luce incidente si ha anche uno scattering, cioè una diffusione in tutte le direzioni. Con la legge di Lambert-Beer infatti si
studia la luce trasmessa, quando la maggior parte della luce non viene trasmessa ma diffusa perdiamo una grossa fetta di informazioni.

Dobbiamo quindi adattare lo strumento per poter cattura la radiazione diffusa, si parla di riflettanza diffusa UV-visibile (DR UV-Vis). Non si
raccoglie la radiazione trasmessa ma quella diffusa in tutte le direzioni. Possiamo usare uno strumento che lavora in riflettanza diffusa,
oppure cambiare la zona dove noi inseriamo il campione, in modo da poter raccogliere questa radiazione diffusa. La prima parte dello
strumento rimane invariato, si cambia poi il vano portacampioni.

Per i solidi si usa la sfera integratrice. Lo strumento deve infatti avere una geometria
che consenta di raccogliere tutta la radiazione diffusa in tutte le direzioni. In questo
modo si ha un fascio incidente che entra all’interno di questa sfera cava dotata di una
fenditura e ricoperta da materiale altamente riflettente (generalmente BaSO 4). Il
campione si adagia fuori dalla sfera in prossimità di questa fenditura. Al centro di
questa sfera si ha il detector. Per effetto delle interazioni con il campione si ha la
diffusione della radiazione in tutte le direzioni all’interno della sfera. I fasci diffusi si
scontreranno con le pareti della sfera fino ad arrivare al detector. Il detector è in
grado di raccogliere tutta la radiazione diffuso. C’è poi un’altra apertura ad
un’angolazione ben precisa rispetto al campione che lascia passare un fascio
(riflettanza speculare, che ha lo stesso angolo rispetto a quello di incidenza). Questa
riflettanza genera alterazioni nello spettro elettronico, per questo si lascia un’apertura
per mandare fuori questo fascio in modo che non venga raccolto dal detector. Il detector quindi raccoglie tutta la radiazione diffusa tranne
quella speculare. In questo modo non si ha nessuna trasmissione della radiazione. Le dimensioni della sfera vanno dai 60 ai 150 mm. La
geometria permette di riuscire a monitorare la radiazione diffusa in tutte le direzioni.

Questa tecnica viene anche usata per le sospensioni, cioè particelle sospese in un mezzo, non essendo possibile lavorare come se fosse una
soluzione limpida, dato che comunque il fenomeno della diffusione c’è. Nel momento in cui si lavora con i solidi bisogna quindi cambiare la
modalità di raccolta dei segnali.

Nel campo medico ci sono molte terapie che hanno tutta una serie di problemi. Una delle
possibilità individuate è utilizzare dei sistemi organici o inorganici come veicoli per
trasportare dei farmaci. La dimensione di questi veicoli deve essere molto piccola in modo
tale da riuscire a penetrare la membrana cellulare. Questa tecnica viene di solito usata per i
farmaci chemioterapici in modo da rilasciare il farmaco solo dove serve senza uccidere
cellule sane. La nanoparticella deve essere dotata di un sistema targhetizzato che permetta
l’entrata solo nelle cellule malate. Queste tecnologie hanno iniziato a svilupparsi dagli anni
2000. Ci sono tutta una serie di polimeri e sistemi organici, ma anche sistemi inorganici
come le silici e soprattutto quelle porose (come la MCM-41). Il requisito indispensabile è
quello della biocompatibilità. Altri sistemi che possono essere usati sono l’ossido di titanio e l’ossido di zircone.

Le nanoparticelle con una struttura inorganica piuttosto stabile possono rilasciare il farmaco in modo controllato nel tempo e soprattutto
possono essere funzionalizzate dal punto di vista chimico. Si ha quindi un oggetto molto complesso con funzionalità chimica multipla.
Concentrandoci sulle particelle di natura silicea porosa per applicazione in ambito medico.

Considerando l’immagine ottenuta grazie al microscopio elettronico si ha una struttura


porosa ordinata tipica del MCM-41. Abbiamo quindi una serie di canali che possiamo
utilizzare per le varie terapie. Questi materiali devono avere dimensioni nanometriche,
altrimenti non riescono ad attraverso la membrana cellulare. La cellula infatti non riconosce
le nanoparticelle come oggetti estranei e riescono in questo modo ad arrivare al nucleo.
Sfruttando le caratteristiche strutturali, e cioè l’elevata area superficiale e la relativamente
grossa capacità dei pori tra i 25-30 A°, possiamo pensare di usare questi materiali per la
nanomedicina.

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La sintesi di queste silici prevede l’utilizzo di un tensioattivo (CTAB). Immaginando di avere la
nanoparticella di silice porosa con i suoi canali dentro i quali possiamo ospitare agenti che servono
per la terapia, non solo quindi un farmaco ma anche un agente chimico in grado di uccidere la
cellula malata. Abbiamo però anche una superficie esterna che possiamo funzionalizzare, possiamo
quindi mettere molecole fluorescenti e adatte per poter essere seguite durante il suo percorso, si
parla di imaging ottico. Abbiamo in questo modo inserito due funzionalità: una per la terapia e una
per la diagnostica, si parla di teranostica. Posso ancora avere una terza funzionalizzazione chimica,
la molecola target, cioè quella molecola che ci serve perché la cellula molecola, la quale espone dei
gruppi che si legheranno ai gruppi bersaglio, attiri verso di sé la nanoparticella e la faccia entrare. La
natura inorganica di questi sistemi permette di utilizzare sia la superficie interna che quella esterna.
Possiamo quindi progettare un sistema molto complesso che lavora in modo sinergico sulla stessa tipologia di materiale.

Possiamo applicare questi sistemi a una terapia particolare: la terapia fotodinamica. Questa terapia si usa comunemente in cure oncologiche
ma non solo. Rappresenta un trattamento alternativo alla chemioterapia e radioterapia. C’è bisogno di una molecola in grado di assorbire la
luce (fotosensitizzatore), questa capacità è tipica delle molecole organiche. Nel momento in cui la molecola assorbe la radiazione
generalmente UV-Visibile, genera l’ossigeno di singoletto, che se generato all’interno di una cellula malata è una specie citotossica, cioè che
uccide la cellula. Dobbiamo quindi stimolare il fotosensitizzatore all’interno di una cellula malata, in modo che generi ossigeno di singoletto e
che uccida la cellula malata senza toccare quelle sane.

Per spiegare il meccanismo possiamo utilizzare il diagramma di Jablonski. I componenti chiave sono: il fotosensitizzatore, la luce (con una
lunghezza d’onda appropriata) e la produzione di ossigeno di singoletto. L’ossigeno di singoletto è una specie tossica, quello che invece noi
respiriamo è l’ossigeno molecolare che è una specie di tripletto. L’ossigeno molecolare è infatti paramagnetico che è molto stabile e non
reagisce facilmente per dare ossigeno di singoletto. Ci sono quindi meccanismi specifici per fare questo passaggio.

Considerando il fotosensitizzatore che si trova nello stato elettronico fondamentale S 0 che viene illuminato con una radiazione nell’UV o nel
visibile, in modo che vada nello stato elettronico eccitato. Quando arriva allo stato S 1 per la natura chimica della molecola non torna
sottoforma di fluorescenza allo stato fondamentale, ma è in grado di subire l’ISC. Va quindi a popolare lo stato di tripletto eccitato. L’energia di
questo stato di tripletto eccitato è simile all’energia dell’ossigeno in tripletto, riesce quindi a scambiare energia con l’ossigeno molecolare e
farlo passare ad un livello eccitato, generando così l’ossigeno di singoletto che uccide le cellule. In questo caso in fotosensitizzatore non dà né
fluorescenza né fosforescenza, non vediamo quindi un ritorno allo stato fondamentale. Se il fotosensitizzatore non viene illuminato tutto
questo meccanismo non si verifica.

Nel sistema pensato il fotosensitizzatore dovrà essere all’interno di una nanoparticella di silice. Quando viene illuminato dovrà generare
all’interno della cellula malata l’ossigeno di singoletto,

I vantaggi di questa terapia sono la specificità, si lasciano inalterati le cellule e i tessuti sani. Attraverso l’illuminazione si attiva questo
meccanismo, all’interno della cellula malata si genera quindi la specie citotossica che ucciderà la cellula. Non si ha un vero e proprio rilascio di
farmaci, si ha il rilascio di una specie tossica attraverso il meccanismo di attivazione per effetto dell’assorbimento della radiazione
elettromagnetica.

Come scegliere il fotosensitizzatore? Dobbiamo scegliere una molecola organica con alcuni requisiti: non deve essere di per sé citotossica,
deve riuscire a produrre la specie citotossica, cioè l’ossigeno di singoletto, in tempi brevi e solo quando viene illuminata, la sua attività deve
quindi essere legata al momento dell’illuminazione. Deve avere inoltre un altissimo coefficiente di estinzione molare ε, cioè deve assorbire una
grossa quantità di energia che arriva dalla radiazione incidente. Deve riuscire a fare il meccanismo di ISC, cioè deve riuscire a popolare lo stato
T1 da S1 con una resa alta. Deve avere un’energia di T 1 appropriata compatibile con quella dello stato elettronico fondamentale dell’ossigeno.
Deve avere un’efficienza quantica molto alta dello stato di tripletto con tempi di vita sopra 1 μs in modo da riuscire a scambiare energia con lo
stato di tripletto dell’ossigeno. Deve inoltre essere fotostabile, cioè non deve perdere le sue caratteristiche. Anche se illuminato per tempi
lunghi deve sempre riuscire ad avere questo meccanismo di assorbimento senza deteriorarsi. I requisiti sono quindi molto stringenti.

Le molecole più utilizzate sono le seguenti:

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Sono molecole piuttosto complesse che devono avere un’energia dello stato di tripletto sopra i 22 kcal/mol e delle rese quantiche di ISC
piuttosto alto. Il rosa bengala ad esempio è una molecola che non ha un costo molto elevato. È considerato un colorante xantinico per i tre
anelli benzenici. Ha un assorbimento molto forte nel verde (Il colore che vediamo è infatti complementare a quello assorbito dalla molecola).
Illuminando questa molecola con una luce verde si ha un’alta produzione di ossigeno di singoletto. Dal punto di vista della natura chimica ha
dei sostituenti pesanti che permettono di avere come preponderante l’ISC e quindi riescono a popolare il più possibile lo stato di tripletto
eccitato.

Abbiamo quindi un sistema in cui sono state sintetizzate le particelle di silice mesoporosa MCM-41. All’interno delle porosità viene introdotto il
rosa bengala. Quando la nanoparticella è illuminata con una radiazione nel verde (circa 540 nm) viene rilasciato l’ossigeno di singoletto, il quale
dentro la cellula malata la uccide. La nanoparticella funziona quindi come terapia.

Come preparo la nanoparticella? Uso la chimica per produrre la silice mesoporosa. Viene utilizzato un precursore del silicio (TEOS), un
tensioattivo che sopra una certa concentrazione produce le micelle sulle quali si deposita la silice. Dato che all’interno dei pori devo mettere la
molecola organica, ragiono sulla chimica della molecola. Questa molecola deve essere legata covalentemente all’interno della silice, altrimenti
la molecola organica può facilmente uscire. Devo quindi pensare a un modo per legarla chimicamente. Sulla superficie della silice ho dei
silanoli, cioè dei gruppi Si-OH. La rosa bengala ha un gruppo carbossilico acido, posso quindi usare una chimica acido-base per formare un
legame covalente. Posso mettere sulla superficie della silice un gruppo basico. Nella sintesi della nanoparticella aggiungo quindi un composto
in più: un ammino silano l’APTS (amminopropiltrietilsilano), cioè un silano che è in grado di polimerizzare e portare all’interno delle pareti dei
pori un gruppo amminico (basico). Sintetizzando in questo modo la silice poroso attraverso un metodo di co-condensazione, posso conferire
alla silice una proprietà basica di superficie in modo che il gruppo amminico fuoriesca dai canali e leghi il rosa bengala.

Prima di legare il rosa bengala devo eliminare le micelle di tensioattivo. Non posso però calcinare altrimenti brucerei anche la parte organica.
Devo fare un’estrazione con un solvente in soxhlet. Faccio cioè passare il solvente più volte in modo da “lavare” il materiale. Siccome il
tensioattivo ha delle interazioni deboli con la struttura (interazioni elettrostatiche) posso lavarlo via lasciando il gruppo basico ancorato
all’interno dei pori. Devo quindi fare una sintesi pensando ai gruppi che dovrò legare alla struttura inorganica.

Sfrutto una reazione acido-base lavorando in un particolare solvente (DMF) e uso delle molecole per attivare i gruppi amminici in modo da
generare un’ammide tra il gruppo carbossilico e il gruppo amminico. In questo modo posso legare all’interno dei pori della silice la rosa
bengala. In questo modo evito che la molecola di rosa bengala venga rilasciata dato che la molecola viene saldamente tenuto all’interno della
nanoparticella.

Possiamo scegliere quanto rosa bengala caricare all’interno del materiale. Alla fine, si otterrà una polvere colorata di rosa molto intenso. Si
avrà un caricamento nominale e un caricamento effettivo misurabile sperimentale attraverso la spettroscopia elettronica. Possiamo
monitorare la quantità di rosa bengala rimasto in soluzione attraverso uno spettro UV-visibile e la legge di Lambert-Beer. All’aumentare del
carico si ha uno scostamento negativo del carico effettivo.

Possiamo poi studiare la nanoparticella con diverse tecniche:

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 Raggi X, in modo da avere un’informazione strutturale, perché le silici mesoporose hanno un ordine a lungo raggio
 Microscopie
 Dynamic light scattering, che permette di avere informazioni sulle dimensioni delle particelle
 Analisi volumetrica, cioè assorbimento di N a 77 K
 Spettroscopie DR UV-Vis

Considerando i diffratogrammi di silice vuota (in rosso) e poi quelli del rosa bengala con i diversi carichi, vediamo
che i segnali ci sono in tutti i campioni. Il metodo chimico di funzionalizzazione non ha alterato quindi la
nanoparticella. Questo è il primo controllo da fare, in modo da verificare che la struttura inorganica non si sia
modificata. Se i diffrattogrammi presentano i tre picchi caratteristici, vuol dire che il metodo usato per
funzionalizzare non ha alterato la struttura porosa della silice.

Usando poi un microscopio elettronico a trasmissione ad alta risoluzione possiamo poi fotografare le
nanoparticelle e vedere che dimensioni hanno. Insieme alla microscopia elettronica possiamo usare il DLS,
mettendo le nanoparticelle in un solvente in modo da ottenere informazioni sui diametri medi delle nanoparticelle
per tutti i campioni.

verificare la presenza del rosa bengala nei canali posso usare l’analisi volumetrica e
ottenere informazioni sulle proprietà tessiturali prima e dopo l’aggancio del rosa
bengala. Ottengo quindi delle isoterme di adsorbimento di N 2 a 77 K da cui posso
sapere la dimensione del poro e il volume. Posso farlo sia per il materiale vuoto
che per i tre campioni con concentrazioni diverse di rosa bengala. L’area
superficiale, così come il diametro del poro e il volume, diminuisce all’aumentare
del carico. Più rosa bengala si mette, più spazio si occupa, ci si aspetta quindi una
diminuzione di questi tre parametri. In questo modo possiamo sapere se
effettivamente abbiamo agganciato rosa bengala all’interno dei canali delle nanoparticelle porose. Non ho una modifica strutturale ma avrò
una diminuzione dell’area superficiale e del diametro dei pori.

Siccome il rosa bengala assorbe la radiazione visibile, possiamo usare la spettroscopia


UV-visibile in riflettanza diffusa, siccome si ha a che fare con polveri. Per questo tipo di
spettroscopia si usa la funzione di Kubelka-Munk. Rispetto al rosa bengala in soluzione,
per la quale si può usare la legge di Lambert-Beer, quando è presente nelle silici, si ha
un massimo di assorbimento leggermente spostato. In funzione della quantità di rosa
bengala presente, l’intensità del segnale è differente. Questo perché aumentando la
concentrazione di rosa bengala ci possono essere dei fenomeni di aggregazione che
fanno sì che si spenga l’assorbimento. Non è detto che aumentando la concentrazione
del fotosensitizzatore si abbia un segnale più intenso. Si ha infatti una concentrazione
ottimale al 4 % dove le intensità sono le più alte. Confrontandolo con lo spettro del rosa
bengala in soluzione, si osserva questo spostamento dovuto al fatto che il rosa bengala
in acqua ha un certo intorno in acqua rispetto a quando è nella silice. Si ha quindi
questo red shift a lunghezze d’onda più basse. Questa è un’ulteriore conferma della presenza del rosa bengala all’interno dei canali.

Come posso monitorare la produzione di 1O2? Posso farlo attraverso un metodo


indiretto. Potrei analizzarlo direttamente con uno strumento che permette di
analizzare una fosforescenza, l’ossigeno di singoletto è infatti fosforescente e dà
un’emissione nel vicino infrarosso, Usando uno
spettrofluorimetro posso vedere direttamente la produzione
dell’ossigeno di singoletto. Strumenti con questo detector
sono però pochi e non sempre a disposizione. Possono
quindi adottare un metodo indiretto, usando una molecola
sensibile all’emissione di ossigeno di singoletto, che ad
esempio si ossidi. Una di queste molecole è l’acido urico, proprio perché è molto
sensibile alla produzione di ossigeno di singoletto, può inoltre monitorato con la
spettroscopia UV-visibile dato che ha un massimo di assorbimento nell’UV. Se in
contatto con l’ossigeno di singoletto l’acido urico si ossida e la banda diminuisce la sua
intensità. Il fotosensitizzatore infatti rimane stabile, proprio come dovrebbe essere. In questo modo controllo che la nanoparticella, illuminata
a una luce opportuna, produce ossigeno di singoletto. Posso inoltre attraverso una formula calcolare l’efficienza dell’ossigeno di singoletto.

1 t RB
n(RB− MSNs)=φ RB . O2
t (RB− MSNs)
Conoscendo quello che fa il rosa bengala in soluzione. Devo tener conto quindi del tempo in cui il rosa bengala in soluzione rilascia ossigeno,
della sua efficienza quantica (nota) e infine, del tempo in cui le nanoparticelle rilasciano ossigeno di singoletto.
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Osservo in questo modo che nel caso del campione più caricato ho un’efficienza molto bassa. I due materiali con una minore quantità di rosa
bengala hanno una resa quantica molto simile. Scelgo quindi quelli a caricamento più basso. Tutto infatti dipende dall’interno chimico, tante
molecole vicine fano sì che l’assorbimento sia spento e che ci siano altri meccanismi che intervengono.
Proprio per questo motivo bisogna fare attenzione ai caricamenti.

Una volta individuato il materiale migliore, si può partire con uno studio in vitro. Si ha quindi un numero
di cellule di partenza a cui vengono somministrate le nanoparticelle sia da sole che con il rosa bengala al
4%, prima senza luce e poi con. Si osserva quindi una diminuzione delle cellule tumorali. Gli studi in vitro
confermano la validità di questa tecnica. Dopo il test in vitro si fa il test in vivo. Si può poi targhetizzare
la molecola funzionalizzando la superficie esterna.

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