Sei sulla pagina 1di 7

VENTILAZIONE MECCANICA

La VM non è fisiologica ma un’opzione terapeutica potenzialmente dannosa.


INDICAZIONI (Consensus conference 1993- Slusky)
1. Rimpiazzare in parte o in toto le funzioni di scambio gassoso
a. della POMPA VENTILATORIA: riduzione della V A = RR x (Vc – Vspazio morto) con ipossia e ipercapnia
es. SLA, AG, droghe, crisi asmatica (in cui aumenta RR ma la V A si riduce per aumento VD)
b. del POLMONE: ipossia
nei pazienti in cui questa funzione è temporaneamente o permanentemente persa
2. Provocare il minor danno possibile.

MODALITA’
In un atto respiratorio (insp-esp-pausa esp) si riconoscono TRIGGER, LIMITE, CICLAGGIO.
Il LAVORO (= Pressione x Volume) distingue i tipi di ventilazione:
1. Il ventilatore fa il 100% del wob CONTROLLATA (IPPV, PCV, VGRP;IRV): in questo tipo di v. il trigger è il
tempo, il limite è volume/pressione e il ciclaggio è a tempo (I:E)
2. Il ventilatore fa parte del lavoro  ASSISTITA (imposti 10 atti e il paziente chiama l’11°) / DI SUPPORTO
3. Il ventilatore fa 0  RESPIRO SPONTANEO

IRV: inverse ratio ventilation con I:E=2:1


Effetti: ↑PaO2 (per ↑pressioni medie vie aeree, per es se faccio 2:1 faccio 2Pinsp
+ 1 Pesp/3 e migliore distribuzione dei gas) e riduzione di Ppicco (per raggiungere
il volume tidal vengono richieste pressioni minori perché ho > tempo insp)

VENTILAZIONE CONTROLLATA:
*se il flusso non torna a 0 : intrappolamento per broncocostrizione (↑ tempo per espirare); iperinflazione dinamica.
Quindi il volume controllato sulla curva di pressione puoi avere indicazioni sul VILI:
VENTILAZIONE DI SUPPORTO

1. TRIGGER
a. A PRESSIONE: il paziente sviluppa Pneg ed azione il ventilatore ma 1/3 degli sforzi sono inefficaci (fatica)
b. A FLUSSO: meno sforzo da parte del pz ma rischio di autotrigger.
c. NEURALE (NAVA)
2. CICLAGGIO: si innesca la fase esp a una certa percentuale di flusso insp (solitamente al 25% di picco di flusso).

MODALITA’ “ALTERNATIVE” DI VENTILAZIONE

1. ACV (assist control ventilation):è la ventilazione controllata con il trigger. La finalità di questa modalità di
ventilazione è di erogare inspirazioni di dimensione e durata prefissate, lasciando al paziente la scelta della
frequenza respiratoria. La ventilazione può essere volumetrica (assisted control ventilation, ACV), pressometrica
(assited pressure controlled ventilation, APCV) o pressometrica a target di volume. E fino a qui tutto semplice.
La frequenza respiratoria che impostiamo definisce la frequenza respiratoria minima del paziente, che
diventa operativa in assenza di triggeraggio. Inoltre, assieme al rapporto inspirazione/espirazione (I:E),
identifica la durata del tempo inspiratorio. E’ scorretto ragionare in termini di I:E nella ventilazione assistita
controllata. Impostiamo una frequenza respiratoria di 12/min ed un I:E di 1:1: la durata di un ciclo
respiratorio sarà di 5 secondi (60/frequenza respiratoria) ed il tempo inspiratorio sarà uguale al tempo
espiratorio, cioè entrambi avranno la durata di 2.5 secondi. Ma questo sarebbe vero se facessimo una
ventilazione controllata, cioè con la frequenza respiratoria decisa dal ventilatore e non dal paziente. Quando
invece il paziente inizia a triggerare, perdiamo il controllo della durata della espirazione, che terminerà
quando il paziente deciderà di iniziare l’inspirazione successiva. La nostra impostazione però ci mantiene il
controllo della durata dell’inspirazione, che nell’esempio che abbiamo fatto rimarrà di 2.5 secondi. Vediamo
allora cosa succederebbe se quindi il nostro paziente assumesse il controllo della frequenza respiratoria con
20 atti al minuto. In questo caso la durata media di un ciclo respiratorio diventerà di 3 secondi (60/20):
essendo l’inspirazione di 2.5 secondi, all’espirazione resterà solo mezzo secondo (I:E reale di 5:1 invece
dell’impostato 1:1). Un ottimo modo per mettersi nei guai!
La raccomandazione è quindi di utilizzare il rapporto I:E solo per ottenere un tempo inspiratorio appropriato
(solo quest’ultimo resterà sempre costante), non prestando attenzione al valore impostato di I:E, poichè il I:E
reale si modifica al variare della frequenza respiratoria del paziente.

2. APRV (Airway Pressure Release Ventilation): La APRV è un caso particolare di BIPAP in cui la pressione alta (Palta)
viene mantenuta per un tempo superiore alla pressione bassa (Pbassa) (il tempo di Pbassa deve comunque essere
inferiore a 1.5 secondi). Quindi la APRV è una CPAP su due livelli, ed il livello di pressione nettamente prevalente è
quello alto.

Per capire la APRV, analizziamo per ora solamente la sua parte predominate, cioè i periodi a Palta, e
dimentichiamo temporaneamente la presenza dei brevi periodi a Pbassa: da questa prospettiva ci troviamo di
fronte ad una CPAP con una pressione elevata.
Sappiamo che una alta CPAP aumenta il volume di fine espirazione, lasciando il lavoro respiratorio a carico
del paziente. A questo punto diventano chiare due condizioni che devono essere simultaneamente presenti
per un’indicazione razionale della APRV: 1) la necessità di aumentare il volume polmonare a fine espirazione
e 2) la volontà di far respirare spontaneamente il paziente. La APRV può essere applicata anche a pazienti
passivi, ma in questo caso è inutile chiamarla APRV, il suo nome più corretto diventa pressione controllata a
rapporti invertiti e perde tutti i vantaggi che descriveremo.
La necessità di aumentare il volume polmonare a fine espirazione ci fa venire subito in mente la Acute
Respiratory Distress Syndrome (ARDS), condizione in cui spesso la capacità funzionale residua diventa
inferiore ad 1 litro. Per questo motivo la principale applicazione della APRV è proprio la ARDS, mentre la APRV
può essere vista come un controsenso in chi già soffre un elevato volume di fine espirazione, come i pazienti
con iperinflazione dinamica associata a broncopneumopatia cronica ostruttiva.
Solo la presenza di attività respiratoria spontanea consente di sfruttare appieno i vantaggi della APRV. Per
questo motivo la APRV non offre vantaggi rispetto alla ventilazione protettiva convenzionale (anzi, potrebbe
anche essere peggiore) nelle fasi più gravi di ARDS, quando è necessario sedare e paralizzare i nostri pazienti.
La APRV può diventare però un’arma decisiva quando si vogliano sospendere paralisi e sedazione nei casi di
ARDS grave-moderata: spesso in questi pazienti l’inizio della ventilazione assistita è tempestoso, con
tachipnea associata ad elevati volumi correnti, il tutto in un mare di asincronie. La CPAP della APRV lascia
libero il paziente di respirare senza necessità di sincronia, e le inspirazioni su Palta, prive di supporto
inspiratorio, normalmente si associano a volumi correnti accettabili. Ovviamente non si chiede al paziente di
garantire da solo tutta la ventilazione/minuto, è sufficiente un contributo del paziente pari al 10-30% della
ventilazione minuto (il resto lo faranno i passaggi in Pbassa, come vedremo in seguito). Il ripristino del respiro
spontaneo favorisce l’aumento della portata cardiaca e la perfusione splancnica (per aumento del ritorno
venoso associato a sedazione ridotta o abolita), il miglioramento dell’ossigenazione (si privilegia la
ventilazione delle zone basali del polmone e la ridistribuzione dei gas alveolari) e la prevenzione della
disfunzione dei muscoli respiratori indotta dalla ventilazione.
La APRV deve anche supportare il paziente nell’eliminazione di CO2 e questo risultato è ottenuto con i brevi
periodi di Pbassa: nel passaggio a Pbassa (definito “rilascio di pressione“) i polmoni esalano un volume di gas
che contiene CO2 ed il ritorno a Palta si ottiene con un volume di gas fresco che non contiene CO2. Si capisce
bene a questo punto perchè si chiama “ventilazione a rilascio di pressione nelle vie aeree“: grazie ai rilasci di
pressione si concretizza il supporto della ventilazione (=eliminazione di CO2), che sarà tanto maggiore quanto
più frequenti saranno le fasi di Pbassa e quanto più grande il volume esalato nel passaggio a Pbassa.
In sintesi: il paziente rimane prevalentemente in CPAP (Palta) e non riceve alcun supporto inspiratorio ed i
brevi rilasci di pressione consentono di eliminare “aria sporca” (=con CO2) e sostituirla con “aria pulita”
(=senza CO2).
Al termine del periodo di Pbassa è comunque necessario che rimanga nei polmoni una pressione positiva
(concettualmente simile alla PEEP totale) in linea con i valori di PEEP che riteniamo appropriati per evitare
l’atelectrauma. Grazie alla breve durata della Pbassa, questo risultato sarà ottenuto per merito dell’auto-
PEEP.
A rigor di termine può essere improprio parlare di PEEP ed auto-PEEP (PEEP= positve end-expiratory
pressure) nella APRV, visto che il periodo di Pbassa non è “l’espirazione” ma “una delle espirazioni” del
paziente, una parte delle quali si può verificare anche a Palta.
Come impostare la APRV:
L’utilizzo della APRV si fonda su due fasi che devono essere continuamente ripercorse: 1) l’impostazione dei
parametri e 2) l’adeguamento dell’impostazione in base ai risultati ottenuti.
Impostazione dei parametri.
La APRV richiede l’impostazione di 4 variabili: Palta, Pbassa, la durata di Palta (T-Palta) e la durata di Pbassa
(T-Pbassa). Vediamo quale può essere una loro iniziale impostazione ragionata.
Palta: inizialmente si può impostare una Palta tra i 20 ed i 25 cmH2O.
Pbassa: come impostazione iniziale preferisco scegliere 0 cmH2O associata ad un T-Pbassa molto breve In
questo modo il flusso espiratorio passivo che inizia con il passaggio a Pbassa si interrompe precocemente,
lasciano nel paziente una certa quota di “auto-PEEP“, che noi sfrutteremo per evitare il ciclico collasso
alveolare in espirazione. (esiste anche la corrente di pensiero che preferisce valori di Pbassa sopra lo zero e
un T-Pbassa più lungo. Ritengo che questo approccio condizioni inevitabilmente un T-Palta troppo breve,
tuttavia in alcuni pazienti anche questa scelta potrebbe essere efficace);
T-Pbassa: può essere opportuno iniziare con 0.5″-0.6″.
T-Palta: la somma T-Pbassa + TPalta descrive la durata di un ciclo completo di APRV. Se scegliessimo 0.5″ di T-
Pbassa e 4.5″ di T-Palta, avremmo un ciclo di 5″. Questo significa che ogni 5″ (e quindi 12 volte al minuto) c’è
un rilascio di pressione e quindi un contributo meccanico alla ventilazione. Se il T-Palta fosse ridotto a 2.5″, il
ciclo sarebbe di 3″ e quindi 20 volte al minuto ci sarebbe il rilascio di pressione. Quest’ultima scelta garantisce
un maggior contributo del ventilatore all’eliminazione della CO2. Quindi il T-Palta deve essere accorciato
quando si vuole supportare maggiormente l’eliminazione di CO2, mentre dovrebbe essere allungato quando
il paziente è in grado di mantenere una adeguata PaCO2 con la propria attività respiratoria o quando è più
importante supportare l’ossigenazione.
Adeguamento dell’impostazione in base ai risultati ottenuti.
- PEEP totale: la PEEP totale si può misurare con l’occlusione di fine espirazione anche in APRV e
dovrebbe essere simile alla PEEP che riteniamo appropriata.
Se la PEEP totale fosse eccessiva, possiamo o ridurre i volumi correnti se sono elevati (vedi sotto) e/o
aumentare T-Pbassa. Se la PEEP totale fosse invece insufficiente, possiamo ridurre il T-Pbassa e/o
aumentare Pbassa.
- Volume corrente: le variazioni di passive di volume nel passaggio da Palta a Pbassa devono essere
nei limiti accettabili della ventilazione protettiva, così come le variazioni totali di volume durante una
fase di Palta devono essere ragionevoli.
Se il volume fosse troppo piccolo possiamo aumentare la differenza tra Palta e la PEEP totale,
viceversa quensta va ridotta se il volume corrente fosse eccessivo.
PaCO2: se la PaCO2 fosse troppo elevata, la soluzione è ridurre T-Palta, con l’effetto di aumentare il
numero di rilasci al minuto. Ovviamente possiamo aumentare il volume associato al rilascio di
pressione (vedi sopra) qualora questo fosse inferiore al raccomandato.
PaO2: l’ossigenazione può essere migliorata aumentando la pressione media delle vie aeree, cosa
possibile aumentando Palta e/o T-Palta.

3. HFOV (High frequency oscillatory ventilation):


La ventilazione ad alta frequenza oscillatoria (HFOV) è una modalità di ventilazione non convenzionale a ritmi
soprafisiologici e bassi volumi correnti.
Attorno a una pressione, che viene mantenuta costante (Continuous Distending Pressure –CDP- o Mean Airway
Pressure- MAP), si sviluppano oscillazioni pressorie (pressure amplitude o P/P) a una frequenza tra 180 e 1200
cicli al minuto (3-20 Hz) che erogano volumi correnti (TV) inferiori allo spazio morto anatomico. La possibilità di
ventilare con volumi correnti inferiori allo spazio morto anatomico risiede in particolari meccanismi di trasporto
dei gas lungo l’albero respiratorio il cui contributo aumenta con l’aumentare delle frequenze.
Il tempo inspiratorio varia da 20 a 150 msec in relazione alla frequenza e al rapporto I:E. L’espirazione è attiva
Per effetto dell’alta frequenza le oscillazioni pressorie si attenuano progressivamente lungo l’albero respiratorio
cosicché le variazioni pressorie applicate agli alveoli sono molto basse (Fig.2) (3), mentre i volumi correnti sono
1/5-1/10 di quelli applicati in ventilazione convenzionale. Ciò contribuisce a ridurre sia il barotrauma che il
volutrauma.
La CDP, in quanto segnale continuo, viene invece trasmessa completamente agli alveoli. Il rapporto I:E può però
condizionare l’entità della trasmissione. Nel modello in vitro e in vivo se il rapporto tempo inspiratorio/tempo
espiratorio (I:E) è di 1:2, si osserva una caduta della pressione alveolare rispetto a quella misurata all’apertura
delle vie aeree (raccordo) in funzione dell’aumento del volume corrente (ovvero l’ampiezza del picco).
Lo scambio dell’ossigeno è correlato, oltre che alla frazione inspirata di ossigeno (FiO2), al volume polmonare che
in HFOV dipende esclusivamente dalla pressione di distensione (CDP o MAP). Le variazioni dell’ossigenazione
osservate come conseguenza di modifiche del TV sono minime e nulle quando il volume polmonare è seriamente
compromesso. La CDP inoltre è in HFOV un parametro direttamente manipolabile, contrariamente a quanto
avviene in ventilazione convenzionale, in cui la MAP è funzione di molteplici variabili (pressione di picco, tempo
inspiratorio, pressione di fine espirazione e tempo espiratorio). Questo importante attributo consente
all’operatore un elevato controllo sul volume polmonare e quindi sull’ossigenazione.
Per frequenze comprese tra 3 e 20 Hz la quota di CO2 eliminata dal polmone (ventilazione) è funzione della
frequenza (rate) e del quadrato del volume corrente (TV2).
Ciò significa che la rimozione della CO2 è funzione quasi esclusiva del TV generato dall’ampiezza del picco (P/P).
La correlazione quasi univoca e separata tra CDP e ossigenazione e P/P e rimozione della CO2, fenomeno noto
come disaccoppiamento, rende relativamente semplici le modificazioni del setting ventilatorio, in funzione del
target dei gas respiratori. Si aumenta o si riduce la CDP rispettivamente per aumentare o ridurre l’ossigenazione.
Si aumenta o si riduce il P/P rispettivamente per aumentare o ridurre il TV e quindi l’eliminazione della CO2. La
riduzione della frequenza respiratoria produce in realtà un aumento dello scambio della CO2 perché, con
l’incremento della durata del tempo inspiratorio conseguente alla riduzione della frequenza, il volume erogato è
maggiore.
L’efficacia della ventilazione oscillatoria si osserva nelle patologie polmonari caratterizzate da scarsa espansione
polmonare. Quando utilizzata con una CDP diretta a reclutare volume seguita da un’attenta riduzione della
pressione una volta che il volume polmonare è migliorato, la HFOV riduce il danno e migliora. Questo approccio si
basa sull’isteresi della curva pressione/volume del polmone e presuppone l’esistenza di aree ancora reclutabili.
Quando utilizzata con CDP superiori alla pressione di apertura del polmone (di solito maggiori rispetto a quelle
generalmente accettate in ventilazione convenzionale), la HFOV recluta unità polmonari collassate. Una volta
aperte, queste unità possono essere mantenute aperte a pressioni più basse di quelle usate per reclutare.
La frequenza ottimale in HFOV è quella che produce la miglior ventilazione (miglior scambio della CO2) con il più
basso P/P, il più basso TV senza gas trapping.
ASINCRONIE
Imperfetta sincronizzazione tra i tempi inspiratorio ed espiratorio del paziente e quelli del ventilatore.
1. AUTOCICLAGGIO, cioè l’inizio di una inspirazione meccanica in assenza di attività inspiratoria del paziente o
dell’insufflazione programmata del ventilatore. In altre parole, il ventilatore “si sbaglia” e crede di percepire
l’inizio dell’attività inspiratoria del paziente che in realtà non è presente (catetere Edi della NAVA oppure
guardi la curva pressoria che fa un incisura verso il basso, dubitare quando ritmica con FC). Cosa attiva il
trigger, se i muscoli respiratori sono fermi? La causa più frequente è l’oscillazione dell’aria nell’apparato
respiratorio determinata dalla trasmissione del battito cardiaco.
L’abolizione della semplice attività di trigger è sufficiente a determinare una rilevante disfunzione
diaframmatica indotta dalla ventilazione, una delle principali cause di svezzamento prolungato o impossibile
2. SFORZO INEFFICACE, l’esatto contrario dell’autociclaggio: il paziente inizia l’inspirazione ma il ventilatore non
lo percepisce e quindi non inizia ad erogare flusso inspiratorio. Il paziente quindi cerca di inspirare
(inutilmente) durante la fase espiratoria del ventilatore; la diagnosi di sforzo inefficace si fa sulla curva di
flusso espiratorio, dove si nota è la transitoria riduzione (o addirittura l’annullamento) del flusso espiratorio
che subito dopo ricomincia ad una velocità simile a quella che aveva prima del rallentamento.
3. DOPPIO TRIGGER, cioè l’attivazione consecutiva di due inspirazioni non separate da un significativo periodo
espiratorio: appena termina un’inspirazione ne inizia immediatamente un’altra. due inspirazioni separate da
un tempo espiratorio molto breve (definito “breve” quando è meno della metà del tempo inspiratorio medio)
e la prima inspirazione è triggerata dal paziente. il monitoraggio con catetere NAVA ci consente di affermare
che la seconda inspirazione è autociclata perchè si verifica in assenza di attività diaframmatica. In assenza del
monitoraggio dell’attività elettrica del diaframma questo autociclaggio sarebbe assolutamente impossibile da
identificare, perchè la pressione delle vie aeree, prima della seconda inspirazione, cala al di sotto del valore di
PEEP, come quando il trigger viene realmente attivato dal paziente.
Il doppio trigger è molto frequente in ventilazione assiStita-controllata e quasi assente in pressione di
supporto, dove lo si osserva solo in caso di trigger espiratorio molto precoce (45% del picco di flusso) (1-5).
Addirittura il passaggio da ventilazione assistita-controllata a pressione di supporto è spesso sufficiente a far
scomparire il doppio trigger (6). Dobbiamo quindi prendere atto che il doppio trigger è tipico delle
ventilazioni che prevedono atti controllati. L’interpretazione “ufficiale” del doppio trigger può essere
certamente compatibile con la ventilazione assistita-controllata se il primo atto del doppio trigger è triggerato
dal paziente e se il tempo inspiratorio è troppo breve o il volume impostato è troppo basso.
Per gli altri casi esiste una spiegazione alternativa: il “reverse triggering“. E’ noto che anche in soggetti sani
sottoposti a ventilazione meccanica il ritmo respiratorio spontaneo può resettarsi sul ritmo delle insufflazioni
meccaniche (8). Il ritmo del ventilatore meccanico diventa una sorta di pace-maker per i centri respiratori del
paziente, che si adeguano al ritmo delle insufflazioni e lo seguono: è il ventilatore che triggera il paziente e
non viceversa! La conseguenza è che si osserva prima l’insufflazione meccanica e subito dopo la
depolarizzazione diaframmatica, e questo con un ritmo regolare.
l ritmo regolare può essere 1:1 (ciascun respiro del ventilatore “traina” un respiro del paziente) o anche 1:2,
1:3, 1:4 (un respiro del paziente è innescato regolarmente ogni 2, 3 o 4 insufflazioni meccaniche).
Questo evento è stato osservato anche in pazienti con ARDS sottoposti a sedazione ed è stato definito
“reverse triggering”.
Un ultima causa di doppio trigger può essere un autociclaggio sul secondo respiro della “doppietta”, cui il
doppio trigger è costituito da un atto triggerato seguito da un atto autociclato. In questo caso però
l’asincronia “madre” è l’autociclaggio e non il doppio trigger.
problemi che il doppio trigger può provocare sono tre: 1) il discomfort del paziente, 2) l’aumento del volume
corrente e 3) la creazione di auto-PEEP (o PEEP intrinseca).
L’aumento del volume corrente è dovuto al fatto che il volume del secondo respiro si somma a quello del
primo che è stato espirato solo in piccola parte. Nei pazienti con ARDS con volume corrente impostato di 6
ml/kg (di peso ideale), la presenza di doppio trigger il volume corrente realmente erogato diventa di 10 ml/kg
(di peso ideale). L’aumento del volume corrente può comportare un aumento della auto-PEEP, soprattutto se
la frequenza respiratoria è piuttosto elevata, con l’aumento del carico soglia e la possibilità di successivi sforzi
inefficaci.
E’ evidente che se il doppio trigger è sporadico non rappresenta di per sè un pericolo per il paziente, ma può
essere la spia di una scorretta impostazione del ventilatore meccanico. Quindi in presenza di doppio trigger
abbiamo il dovere di verificare di se abbiamo impostato correttamente il ventilatore .
La soluzione è (come sempre) in un’adeguata impostazione del ventilatore per arrivare a questa è necessario
comprendere correttamente la causa del doppio trigger: la soluzione sarà diversa nei due tipi di doppio
trigger.
Infatti se il primo dei due respiri è triggerato dal paziente, penso che l’interpretazione “ufficiale” sia corretta:
il paziente ha iniziato l’inspirazione, il ventilatore cicla in espirazione prima che il paziente sia soddisfatto
dell’inspirazione ottenuta. Se siamo in ventilazione assistita-controllata, dobbiamo aumentare il tempo
inspiratorio (che in questi casi dovrebbe essere circa 0.8-1″) e aumentare il volume corrente impostato. Il
passaggio dalla ventilazione assistita-controllata alla pressione di supporto potrebbe da solo risolvere il
problema. Se invece abbiamo questo tipo di doppio trigger in pressione di supporto, dovremo diminuire il
trigger espiratorio (portandolo ad esempio al 10-20%), eventualmente anche aumentando di qualche cmH2O
la pressione di supporto.
Quando il primo dei due respiri del doppio trigger non è triggerato dal paziente, dobbiamo invece considerare
il reverse triggering come causa del doppio trigger. In questo caso la durata dell’inspirazione non c’entra
nulla. Abbiamo due possibilità per risolverlo: aumentare o ridurre la frequenza respiratoria impostata.
L’incremento della frequenza respiratoria determina la progressiva scomparsa dell’attività neurale del
paziente e quindi l’abolizione dell’attività della sua muscolatura inspiratoria: il paziente si lascia comandare la
macchina e si mette a riposo. La riduzione della frequenza respiratoria invece determina il prevalere della
frequenza neurale del paziente su quella impostata sul ventilatore e l’effetto la scomparsa degli atti meccanci
e la permanenza dei soli atti triggerati: al contrario della scelta precedente, in questo caso si lascia
comandare la ventilazione al paziente ed il ventilatore si limita a seguirlo (si fa quindi una vera ventilazione
assistita-controllata). La scelta tra le due opzioni dipende ovviamente dal contesto clinico: se siamo in “fase
weaning”, privilegerei la seconda, se siamo in “fase ARDS grave” invece sceglierei la prima.
Infine, se ci accorgiamo che il primo atto è triggerato ed il secondo è autociclato, dovremo risolvere
l’autociclaggio

Potrebbero piacerti anche