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Autodeterminazione dei popoli e diritto internazionale: Dalla Carta delle Nazioni Unite

all'Atto di Helsinki (CSCE)


Author(s): Gaetano Arangio-Ruiz
Source: Rivista di Studi Politici Internazionali , Ottobre-Dicembre 1983, Vol. 50, No. 4
(200) (Ottobre-Dicembre 1983), pp. 523-552
Published by: Maria Grazia Melchionni

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/42735846

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Autodeterminazione dei popoli
e diritto internazionale

Dalla Carta delle Nazioni Unite


all'Atto di Helsinki (CSCE)

Sommario: I. - Introduzione. 1. Importanza del tema e problematica dell'auto-


decisione. 2. Oggetto dello studio. II. - La Carta delle Nazioni Unite.
3. L'autodecisione come norma di diritto convenzionale (Nazioni Unite).
4. Inesistenza di analoga norma di diritto internazionale generale. III. - Sfera
soggettiva del principio. 5. Gli Stati membri delle Nazioni Unite come
titolari dell'obbligo e del diritto correlativo. Universalità del principio in
tale cerchia. 6. La nozione dell'autodecisione come mera condanna del colo-
nialismo. Critica. 7. Applicazione parziale del principio nell'ambito delle
Nazioni Unite. La risoluzione 1514 del 1960. 8. Significato di tale prassi.
IV. - U autodecisone negli strumenti successivi alla Carta. 9. I Covenants sui
diritti dell'uomo del 1966. 10. La Dichiarazione dei principi delle « Rela-
zioni Amichevoli » (1970). 11. L'Atto finale della Conferenza per la Sicu-
rezza e la Cooperazione in Europa (CSCE). V. - Dimensione interna e esterna
dell'autodecisione. 12- Valorizzazione della duplice dimensione dell'autodeci-
sione nell'Atto di Helsinki. 13. Riflessi sulla lettura di altri strumenti
internazionali. 14. Dichiarazione di Algeri (1976). VI. - Contenuto delV
decisione. 15. Dimensione interna. 16. Il « collettivo » e 1'« individuale »:
autodecisione dei popoli e diritti dell'uomo. 17. « Popoli » e « Stati »: l'ind
pendenza come uno degli esiti possibili dell'autodecisione. 18. Minoranze;
Stati plurinazionali. VII. - U autodecisione e altri principi della « coesi-
stenza » fra Stati. 19. Autodecisione e status quo (territoriale e politico): i
popoli. 20. Autodecisione e status quo : gli Stati. 21. Atteggiamenti rilevanti
delle Nazioni Unite. 22. Diritto positivo ( hard law) e diritto in fieri ( soft
law) nella recente prassi internazionale dell'autodecisione. 23. Problematica
che ne discende. Vílí. - Guerra civile, autodecisione intervento. 24. L'inter-
vento di « terzi » nelle lotte civili. 25. La c. d. « neutralità » del diritto
internazionale riguardo ai regimi politici. 26. Regole internazionali « cla
siche » sull'intervento nelle guerre civili. Ruolo dell'autodecisione. 27. Pr
delle Nazioni Unite. 28. Implicazioni di tale prassi alla luce della constata
universalità dell'autodecisione. 29. L'appoggio ai movimenti di liberazione
(« nazionale » o cc politica »). 30. L'appoggio ai governi al potere: aspirazioni
dei popoli e dottrine della « sovranità limitata ». 31. Il principio dell'auto-
decisione come correttivo della c.d. « neutralità » del diritto internazionale
riguardo ai regimi politici. IX. - Autodecisione dei popoli e « status quo
nelVAtto di Helsinki. 32. Concezioni dell'Atto finale della CSCE. 33. Ruolo
dei principi del rispetto dell'autodecisione e dei diritti dell'uomo nell'econo-
mia nell'Atto di Helsinki. 34. Giuoco combinato dei principi di « conserva-

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zione » e dei principi « umanitari » dell'Atto: forme illecite e lecite di


sostegno alle aspirazioni dei popoli. 35. Il ruolo « dinamico » dei principi
umanitari (autodecisione e diritti dell'uomo) e la funzione dell'Atto di
Helsinki. 36. « Conservazione » e « riforma » nel sistema delle Nazioni
Unite. X. - Applicazioni recenti dell'autodecisione. 37. Difficoltà di attu
dell'autodecisione. Il primo e il secondo conflitto mondiale. 38. L'autode
sione nel periodo sucessivo alla seconda guerra mondiale.

I. Introduzione

1. Benché legato a filo doppio con un tema quale la tutela


internazionale dei diritti dell'uomo, e pur formando oggetto anch'esso,
al pari di quel tema, di una sezione apposita del decalogo di regole
di condotta con il quale si apre l'Atto finale (1975) della Conferenza
per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), il principio
dell'autodeterminazione dei popoli sembra richiamare meno frequen-
temente l'attenzione dei commentatori. Ciò e forse dovuto in parte
alle preoccupazioni più gravi che l'autodeterminazione suscita come
minaccia al potere e all'integrità territoriale degli Stati, in parte
all'idea che l'omonimo principio avrebbe esaurito ogni funzione con
il concludersi del processo di decolonizzazione, in parte infine alla
difficoltà relativamente maggiore - sempre al confronto con i diritti
dell'uomo - di collocare l'autodeterminazione nell'ambito del diritto
internazionale.

Per fermarci sui soli aspetti cc internazionalistici » basti ricor-


dare, riguardo a quest'ultimo punto, che l'autodeterminazione pone
ai commentatori grossi problemi quali i seguenti:
(a) se l'autodeterminazione sia materia di diritto positivo ( lex
lata) o soltanto un principio d'ordine morale e politico;
(b) posto che si tratti di materia di diritto internazionale
positivo, quali siano, a livello internazionale, i titolari del diritto
corrispondente all'obbligo degli Stati di assicurare l'autodetermina-
zione: i popoli e altre collettività - quali beneficiari del principio -
ovvero gli altri Stati e in particolare gli altri Stati membri delle
Nazioni Unite;
(c) posto sempre che la materia sia ormai di diritto positivo,
tratterebbesi di un diritto universale operante a beneficio di tutti i
popoli (e di un obbligo a carico di tutti gli Stati) ovvero di una
situazione di diritto/obbligo operante soltanto a beneficio di certi
popoli o collettività e a carico di certi Stati?
(d) quale sarebbe, sempre nella stessa ipotesi, il contenuto
del diritto (e dell'obbligo correlativo): diritto di conseguire l'indi-
pendenza o anche diritto di scelta - e di modifica - del regime
politico, economico e sociale?

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Ulteriori problemi sono:


(e) le modalità di esercizio dell'autodeterminazione;
(f) il ruolo degli Stati diversi da quello della cui popola-
zione si tratta (nonché degli organi delle Nazioni Unite); e
(g) la relazione esistente fra l'autodecisione dei popoli da
una parte e altri principi: in particolare, la relazione esistente fra
l'autodecisione e i principi volti a tutelare, mediante la regola che
vieta l'uso o la minaccia della forza e altre norme, il rispetto
dell'integrità territoriale e dell'indipendenza degli Stati.

2. Sembra utile dare un nuovo sguardo a questi problemi,


specie alla luce dell'esaurirsi del processo di decolonizzazione, nonché
alla luce dell'Atto finale di Helsinki e degli avvenimenti che fre-
quentemente ne rimettono in questione la portata: non ultima la
Riunione di Madrid della CSCE, che proprio in questi giorni si è
conclusa con risultati deludenti.
Ci occupiamo, beninteso, degli aspetti giuridici internazionali
del tema.

II. La Carta delle Nazioni Unite

3. Dal punto di vista della distinzione fra lex lata e fer


sembra che a partire dall'entrata in vigore della Carta delle Naz
Unite (1945) l'autodeterminazione formi oggetto di una nor
diritto internazionale vincolante per gli Stati membri. Nonosta
opinioni contrarie manifestate da una parte considerevole della
trina e nella stessa prassi, l'esistenza di un obbligo di origin
trattuale (e del correlativo diritto) risulta abbastanza nettamen
dal tenore della Carta (art. 1, art. 55-56, ma anche, ovviam
le disposizioni dei Capi XI XIII concernenti i territori dipen
sia dall'in lerpr e tazione logico-sistematica e cc storica » di que
sposizioni e degli atteggiamenti degli Stati membri al riguar

(1) L'opinione che l'autodecisione formi l'oggetto di un obbligo di di


internazionale convenzionale derivante dalla Carta è stata da noi già espressa
in Human Rights and Non-Intervention in the Helsinki Final Act, « Recueil
des Cours de l'Académie de Droit International de la Haye », 1977, IV,
pp. 207 ss.; e in Droits de VHomme et Non Intervention: Helsinki , Belgrade,
Madrid, « La Comunità Internazionale », 1980, pp. 453 ss. Ciò a correzione della
diversa opinione da noi stessi espressa anteriormente in The Normative Role
of the General Assembly of the UN and the Declaration of Principles of Friendly
Relations, « Recueil des Cours », cit., 1972, III, pp. 561 ss. A causa di una
omissione da parte nostra l'edizione indipendente di tale corso ( The UN Declara-
tion on Friendly Relations and lhe System of the Sources of International Law,
Sijthoff, 1979, pp. 131 ss.) non è stata corretta, pur essendo posteriore al Human

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Sul piano logico - sistematico non si rilevano, a ben guardare,


differenze sostanziali fra le disposizioni concernenti l'autodetermina-
zione e quelle concernenti, vuoi i diritti dell'uomo (in ordine ai quali
sono ormai caduti la maggior parte dei dubbi inizialmente avanzati
in merito alla giuridica obbligatorietà delle disposizioni rilevanti),
vuoi le altre materie in ordine alle quali gli Stati membri delle Na-
zioni Unite sono legati da obblighi. Non vi sono in particolare nella
Carta elementi dai quali risulti che le disposizioni concernenti l'auto-
determinazione (ovvero quelle sul rispetto dei diritti dell'uomo) sia-
no norme programmatiche o enunciazioni di mera portata politico-
morale. La sola differenza fra gli obblighi « umanitari » in questione
e gli obblighi enunciati nei principi dell'articolo 2 (divieto della for-
za, regolamento pacifico delle controversie, ecc.) sta nell'ovvia consi-
derazione che mentre per i secondi (ma forse non tutti) trattasi di
obblighi da attuare - e suscettibili di essere attuati - immediata-
mente e nella loro pienezza (tipico al riguardo l'obbligo di astenersi,
nelle ipotesi indicate nell'art. 2.4, dall'uso o dalla minaccia della
forza), gli obblighi cc umanitari », come del resto quelli concernenti
i territori dipendenti e la collaborazione economica e sociale, erano
o sono destinati in parte notevole (benché non tutti) ad essere at-
tuati - stante la natura complessa dei provvedimenti interni neces-
sari - in modo ragionevolmente graduale.
La lettura delle disposizioni umanitarie della Carta come norme
vincolanti trova sostegno ulteriore nella considerazione del quadro
storico nel quale la Carta è stata elaborata. La coalizione antitotali-
taria della seconda guerra mondiale si era battuta contro la politica
di aggressione verso l'esterno e contro il dispotismo all'interno: due
mali talmente legati fra loro che la condanna della violenza verso
l'esterno sarebbe stata inconcepibile senza la condanna ugualmente
netta del totalitarismo (infra, 13, 15ss, 31, 35).

4. - Resta invece aperta la questione di sapere se l'autodecisione


sia sancita anche da una norma o da un principio di diritto inter-
nazionale non scritto e generale, valevole anche indipendentemente
dalla Carta delle Nazioni Unite.
Oltre che non provata, l'esistenza di una regola generale sif-
fatta sembra contraddetta dalla natura stessa del cc sistema » delle
regole delle relazioni internazionali e dalla applicazione non univer-
sale sinora fatta, in seno agli organi delle Nazioni Unite, delle
disposizioni della Carta concernenti l'autodeterminazione (infra, 6).

Rights ecc. sopra menzionato, nel senso indicato in quest'ultimo lavoro.


La nostra opinione resta invece immutata per quanto concerne la natura
dell'autodecisione sul piano del diritto internazionale generale. Da tale punto
di vista, come si spiega più sotto nel testo, l'autodeterminazione resta un principio
de lege ferenda .

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III. Sfera soggettiva di applicazione del principio

5. - Destinatari dell'obbligo di rispetto dell'autodeterminazione


sono i singoli membri delle Nazioni Unite. Quanto al diritto corre-
lativo, non si tratta di un diritto spettante, sul piano internazionale ,
ai popoli che sono indicati come titolari del diritto-libertà di « de-
terminarsi ». Ciò potrebbe dirsi soltanto nell'ipotesi che i popoli fos-
sero soggetti di diritto internazionale. Tale ipotesi non essendo situa-
bile nell'ambito del diritto internazionale vigente (il quale continua
ad esistere solo come regola di relazioni internazionali in senso stret-
to) i popoli possono essere considerati soltanto come i beneficiari (di
fatto) delle disposizioni internazionali concernenti l'autodecisione.
I popoli restano, in altri termini, sul piano internazionale, og-
getto di situazioni di obbligo degli Stati. Titolari, sul piano interna-
zionale, del diritto correlativo di tale obbligo sono gli altri Stati
membri delle Nazioni Unite. Di veri e propri diritti dei popoli si
può parlare soltanto all'interno degli ordinamenti degli Stati, nella
misura nella quale essi si conformino, anche sotto la spinta delle
norme internazionali e degli Stati che ne pretendano l'attuazione,
alle esigenze della Carta e degli altri strumenti internazionali ri-
levanti.

Quanto alla sfera degli Stati titolari dell'obbligo (rispettivamente


del diritto) e alla sfera dei beneficiari, il principio proclamato nella
Carta delle Nazioni Unite sembra sicuramente concepito come un
principio di portata universale. Beninteso, la Carta era, e resta, un
trattato. Essa non vincola gli Stati non membri che per la via indi-
retta indicata nel sesto paragrafo dell'articolo 2 (azione che i mem-
bri sono impegnati inter se a svolgere nei confronti degli Stati estra-
nei al fine di indurli a conformarsi alla Carta). Tolta però questa
limitazione soggettiva, il principio dell'autodeterminazione era nel
1945, e resta tuttora, assolutamente universale dal punto di vista dei
beneficiari. Il <c diritto » all'autodeterminazione si estende, secondo
gli articoli 1.2 e 55 della Carta, a tutti i popoli. Ogni Stato membro
è obbligato (nei confronti di ciascuno degli altri) ad assicurare l'auto-
determinazione ad ogni popolazione soggetta al suo controllo perma-
nente o temporaneo. Prima di tutto, ogni Stato deve assicurare l'auto-
determinazione alla sua popolazione metropolitana ed alle eventuali
popolazioni coloniali. In secondo luogo, esso deve rispettare l'auto-
determinazione dei popoli degli altri Stati. Entro i limiti che ve-
dremo ( infra 18) l'autodeterminazione si estende nei tre casi -
metropoli, colonie, popoli « diversi » - alle minoranze.

6. - Benché da certe parti si sostenga che il principio dell'auto-


determinazione sia da intendere, nella Carta, a beneficio esclusivo
dei popoli coloniali, tale tesi non sembra fondata. Anzitutto non vi

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è nulla nel tenore della Carta che giustifichi tale restrizione. Nel
paragrafo 2 dell'art. 3 come nell'art. 55 si parla di « uguaglianza
dei diritti » e « autodecisione dei popoli », senza specificazione di
sorta: e la lettura di queste due disposizioni in senso universalistico
trova conferma nella ratio delle norme e nel quadro storico nel quale
hanno preso vita. Dal punto di vista dalla ragion d'essere delle nor-
me, sarebbe assurdo ritenere che esse non contemplino - e in pri-
mo luogo - le popolazioni metropolitane. Se la restrizione fosse
esatta se ne dovrebbe dedurre che gli stessi popoli coloniali perde-
rebbero il « diritto » di autodecisione non appena conseguita l'ago-
gnata indipendenza. Quanto al contesto storico nel quale la Carta
si è formata, si è trattato, come si e detto (supra, 3), della coalizione
antifascista e antinazista della seconda guerra mondiale. Qualunque
peso si voglia attribuire all'influenza esercitata, nell'elaborazione del-
la Carta, da fattori quale l'anticolonialismo reale o apparente degli
Stati Uniti o dell'Unione sovietica - fattore controbilanciato in mi-
sura non trascurabile dal persistente colonialismo di potenze europee
grandi e piccole - sarebbe assurdo collocare il motivo dell'antico-
lonialismo, nobile ed essenziale senza dubbio ma evidentemente par-
ziale, al di sopra di motivi universali quali la liberazione del mondo
intero - metropoli e colonie - dal nazifascismo e il godimento da
parte di tutti i popoli - metropoli e colonie - dei benefici della
libertà e della pace.
L'autodeterminazione del 1945 era sicuramente universale. La
limitazione dell'obbligo agli Stati partecipanti alla Carta era e resta
la sola restrizione giuridicamente accettabile dell'universalità del prin-
cipio.

7. - La lettura della Carta nel senso indicato non sembra con-


traddetta dalla preponderante applicazione del principio ai popoli co-
loniali nel corso del primo terzo di secolo delle Nazioni Unite e spe-
cialmente a partire dalla risoluzione dell'Assemblea generale n. 1514
sulla indipendenza dei popoli coloniali (14 die. 1960). Piuttosto
che da una interpretazione restrittiva del principio, la polarizzazione
dell'attenzione delle Nazioni Unite sulla piaga del colonialismo è
stata motivata dall'urgente necessità di liberare i popoli coloniali.
La decolonizzazione e diventata così, a giusto titolo, la cc bella causa »
dell'umanità nel corso di quel periodo. Ma dal punto di vista giu-
ridico si è trattato semplicemente di una attuazione parziale del prin-
cipio dell'autodecisione rivolta - come giustizia voleva - ad elimi-
nare prima di ogni altra cosa il dominio di certi popoli su altri.
L'organizzazione si è occupata invece meno spesso - pur non igno-
randola di certo (infra, 38) - dell'autodecisione delle popolazioni
metropolitane, vale a dire del problema dell'eliminazione di quella
specie ugualmente odiosa di conculcamento della libertà di scelta

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dei popoli che è tipico delle dittature e dei regimi totalitari di ogni
specie o denominazione.

8. - Beninteso, l'applicazione spesso parziale del principio da


parte delle NU non è rimasta senza conseguenze giuridiche (2). Per
esempio, essa ha rallentato e rallenta il processo grazie al quale una
norma convenzionale della Carta avrebbe potuto e potrebbe acquisire
la portata di una norma internazionale non scritta vincolante per
tutti gli Stati (supra, 4).
E' però arbitrario asserire che l'applicazione parziale del prin-
cipio ne abbia sanzionato una interpretazione autentica o addirittura
una modifica restrittiva. Questa come altre materie risente dell'er-
rore di quei lettori superficiali della prassi delle Nazioni Unite i quali
sono pronti a dichiarare la scomparsa o la modificazione di norme
della Carta (per « erosione », per cc accordo » o per cc decisione » una-
nime o generale degli Stati membri) non appena quelle norme siano
mal applicate o violate. Il principio dell'autodeterminazione era nato
come principio universale e tale è rimasto. La stessa cosa va detta
del resto per le norme della Carta concernenti i diritti dell'uomo.
Anche queste norme sono applicate (poco imparzialmente) dalle Na-
zioni Unite nei soli confronti degli Stati o dei regimi di un certo
colore: ma non per questo si può mettere in questione l'universalità
dell'obbligo che da quelle norme discende per gli Stati membri.

IV. U autodecisione negli strumenti successivi alla Carta

9. - La constatazione che l'autodecisione è proclamata dalla Car-


ta a beneficio di tutti i popoli trova appoggio, sia nei Patti sui Di-
ritti dell'Uomo, aperti alle ratifiche (dalle Nazioni Unite) nel 1966,
sia nella Dichiarazione dei principi delle « Relazioni Amichevoli »,
adottata dall'Assemblea generale in occasione del venticinquesimo
anniversario dell'Organizzazione.
Per quanto riguarda i patti - Covenant sui diritti civili e poli-
tici e Covenant sui diritti economici, sociali e culturali - ciascuno
dei due testi si apre con un articolo che proclama il principio del-
l'autodecisione. Il paragrafo 1 (Tous les peuples ont le droit de dis-
poser d'eux-mêmes... ils déterminent librement leur statut politique
et assurent librement leur développement économique social et cul-
turel ») e lo stesso paragrafo 2 (che proclama la libera disponibilità
da parte di ogni popolo delle proprie ricchezze e risorse nazionali)
sono sicuramente di applicazione universale e non menzionano nep-

(2) The Normative Role cit. nella nota precedente, pp. 613-614.

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pure i popoli coloniali. Quanto al paragrafo 3, esso menziona espres-


samente i territori non autonomi e sotto tutela, ma in termini dai
quali risulta manifesto che i popoli coloniali sono soltanto una parte
dei popoli dei quali va rispettato il diritto dell'autodeterminazion
(« Les Etats parties au présent Pacte, y compris ceux qui ont la
responsabilité d'administrer des territoires non autonomes et les ter-
ritoires sous tutelle, sont tenus à faciliter la réalisation du droit des
peuples à disposer d'eux-mêmes, et de respecter ce droit, conformé-
ment aux dispositions de la Charte des Nations Unies »).

10. - Venendo alla ricordata Dichiarazione dei principi delle


<c Relazioni Amichevoli » (1970), numerosi scrittori asseriscono che
il tenore della parte di quella Dichiarazione concernente l'autodeci-
sione non deporrebbe a sostegno della portata universale del princi-
pio (3). Il documento del 1970 avrebbe confermato, al contrario, la
funzione puramente « anticoloniale » che il principio avrebbe avuto
nella citata risoluzione 1514 del 1960 (supra, 7).
Va notato preliminarmente che al pari della 1514 la risoluzio-
ne del 1970 non è di per sé idonea, in quanto mera raccomanda-
zione, a prevalere sulla Carta e sull'universalità del principio in que-
sta proclamata. Vincolanti là dove coincidono con la Carta, le di-
sposizioni della Dichiarazione delle Relazioni Amichevoli costitui-
scono, là dove se ne discostano, parte del c.d. soft law , ossia di quel-
l'insieme di enunciazioni esortative ( emananti da organi o conferen-
ze internazionali) che pur potendo eventualmente concorrere a crea-
re, insieme con fatti più concludenti degli Stati ( infra , 22), norme
internazionali scritte o non scritte, sono in sé e per sé nella migliore
delle ipotesi, soltanto diritto in fieri (4).
Venendo al contenuto della Dichiarazione, e vero che il testo
presenta elementi che ne giustificherebbero una lettura restrittiva.
Tale è il caso dei paragrafi 2, 4, 5 e 6. Sembra tuttavia che l'enfasi
di tali brani sul problema coloniale sia meramente un riflesso della
notata applicazione parziale che del principio veniva fatta nell'am-
bito delle Nazioni Unite (supra, 7). Se si approfondisce l'analisi del
testo vi si trovano infatti elementi che confermano l'universalismo
originario delle disposizioni della Carta.
In primo luogo, il testo in questione indica a più riprese che
il principio si applica a tutti i popoli e che l'obbligo di rispettarlo
incombe a tutti gli Stati. In secondo luogo si dice espressamente nel

(3) Vedasi Human Rights ecc., cit., p. 226 e note 38-42; e Droits de
VHomme ecc., cit pp. 461-462.
Í4) Sulla nozione di « soft law » (che non è, forse, un semplice sinonimo
di diritto in fieri) vedasi il volume edito dall'Accademia di Diritto internazionale
deirAja (ad opera del Kiss) su The Protection of the Environment and Interna-
tional Law , Sijthoff, Leiden, 1975, pp. 540-544 e 623-627.

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primo paragrafo che l'autodeterminazione è il diritto di tutti i po-


poli « de déterminer leur statut politique, en toute liberté et sans
ingérence extérieure, et de poursuivre leur développement économi-
que, social et culturel: et tout Etat a le devoir de respecter ce droit
conformément aux dispositions de la Charte ». Sarebbe strano che
il dovere di tutti gli Stati di rispettare un diritto così definito in-
combesse soltanto agli Stati dotati di dipendenze coloniali e a favore
di queste sole, e non incombesse a quegli stessi Stati come a tutti
gli altri a beneficio delle popolazioni metropolitane. Sarebbe altret-
tanto strano che l'obbligo in questione non incombesse ugualmente
ai nuovi Stati costituitisi nei territori coloniali proprio grazie al-
l'esercizio, da parte di quei popoli, del loro diritto a disporre di se
stessi. Non si sfugge insomma alla conclusione che la Dichiarazione
riguarda l'autodeterminazione cosiddetta interna al pari dell'autode-
terminazione esterna.
Che anche l'autodeterminazione interna sia oggetto della Dichia-
razione è confermato ulteriormente da due elementi che forse sfug-
gono ai più. Il paragrafo dichiara che « Tout Etat a le devoir de
favoriser le respect universel et effectif des droits de l'homme et des
libertés fondamentales, conformément à la Charte ». Non si vede
come l'obbligo del rispetto universale dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali - diritti e libertà il cui godimento è ad un
tempo condizione ed effetto dell'esercizio dell'autodecisione - possa
incombere alle sole potenze coloniali e a beneficio delle sole colonie.
La lettura del testo in senso universalistico - il solo veramente
conforme alla ratio dell'autodecisione - trova ancora un sostegno
decisivo in quella che viene chiamata la « clausola di salvaguardia »
del testo in esame (paragrafo 7). « Rien dans les paragraphes précé-
dents - recita tale clausola - ne sera interprété comme autorisant
ou encourageant une action quelle qu'elle soit qui démembrerait ou
menacerait, totalement ou partiellement, l'intégrité territoriale ou
l'unité politique de tout Etat souverain et indépendent se condui-
sant conformément au principe de l'égalité de droits et du droit des
peuples à disposer d'eux-mêmes énoncé ci-dessus et doué ainsi d'un
gouvernement représentant l'ensemble du peuple appartenant au ter-
ritoire sans distinction de race, de croyance ou de couleur »; e il pa-
ragrafo successivo aggiunge che « Tout Etat doit s'abstenir de toute
action visant à rompre partiellement ou totalement l'unité nationale
et l'intégrité territoriale d'un autre Etat ou d'un autre pays ».
Salvo a vedere più avanti il senso esatto della salvaguardia del-
l'integrità territoriale contenuta in questi due paragrafi {infra, 24ss.),
va qui notato che la salvaguardia e espressamente destinata a gio-
vare solo agli Stati che. essendo dotati cc ďun gouvernement repré-
sentant Vensemble du peuple appartenant au territoire », sono con-
siderati come Stati che si conformano al principio dell'autodetermi-

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nazione (5). Sembra difficile che una clausola di tal fatta sia desti-
nata ad operare a beneficio dei soli Stati dotati di dipendenze co-
loniali. Al contrario: è il caso di domandarsi se una potenza colo-
niale possa beneficiarne. Sarebbe strano che la semplice esistenza di
un governo rappresentativo della dipendenza bastasse per garantire
la perpetuazione del dominio coloniale. Sembra dunque certo che la
clausola rifletta in primo luogo l'esigenza del regime rappresenta-
tivo delle popolazioni metropolitane.

11. - Di ogni lettura restrittiva del principio dell'autodetermina-


zione fa comunque giustizia, grazie alla formulazione e al contesto,
l'ottava sezione del decalogo di Helsinki ricordata sopra. Secondo
tale formulazione cc 1. Gli Stati partecipanti rispettano l'uguaglianza
dei diritti dei popoli e il loro diritto all'autodeterminazione, operando
in ogni momento in conformità ai fini e ai principi dello Statuto
delle Nazioni Unite e alle norme pertinenti del diritto internazionale
comprese quelle relative all'integrità territoriale degli Stati. 2. In vir-
tù del principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione
dei popoli, tutti i popoli hanno sempre il diritto, in piena libertà, di
stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed
esterno, senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il
loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale. 3. Gli Stati par-
tecipanti riaffermano l'importanza universale del rispetto e dell'eser-
cizio effettivo da parte dei popoli dei diritti eguali e dell'autodeter-
minazione per lo sviluppo di relazioni amichevoli fra loro come fra
tutti gli Stati; essi ricordano anche l'importanza dell'eliminazione di
qualsiasi forma di violazione di questo principio ».
Dopo la generale proclamazione del primo paragrafo, la quale
certamente conferma l'universalità del principio, il secondo paragra-
fo ne definisce il contenuto in termini che categoricamente escludo-
no ogni possibilità di intenderlo in funzione meramente anticolonia-
listica. Il diritto di un popolo di stabilire il proprio « regime politico
interno ed esterno » - come dice il paragrafo in esame - include
non solo il diritto di conseguire e mantenere l'indipendenza politica,
economica e sociale nei confronti degli altri Stati ma anche il diritto
di scegliere in piena libertà il proprio regime politico, economico e
sociale rispetto all'interno; ce in piena libertà » nei confronti - in
primo luogo - di qualsiasi governo o partito nazionale.

V. Dimensione interna e dimensione esterna delV autodecisione

12. - La particolare enfasi sulla dimensione interna dell'autode-

(5) Human Rights ecc., cit., numero 17 (con la nota 40 delle pp. 318-319).

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terminazione - dimensione peraltro presente negli strumenti inter-


nazionali anteriori - ha anzi offerto ai redattori dell'Atto di Hel-
sinki l'occasione di sottolineare il carattere permanente - e qui
Y inalienabilità - del diritto dei popoli a disporre di se stessi.
condo il testo sopra riportato i popoli hanno infatti il diritto di m
dificare pacificamente in qualsiasi momento il loro governo: ed og
governo è tenuto a rispettare l'obbligo corrispondente. Così come n
si esaurisce nell'acquisto dell'indipendenza dallo straniero, l'auto
cisione non si esaurisce con l'instaurazione di un regime o di un g
verno nazionale determinato. Non potrebbe essere più sicurame
escluso che un diritto siffatto spetti soltanto ai popoli coloniali.
Incontrovertibile secondo il tenore della definizione, la natura
universale e la doppia dimensione dell'autodecisione trovano ulteriore
conferma nel contesto nel quale l'ottavo principio di Helsinki è stato
sottoscritto. Trattasi del decalogo dei principi destinati a cc guidare »
le potenze partecipanti alla CSCE (Stati dell'Alleanza Atlantica, Stati
del Patto di Varsavia insieme con Santa Sede e neutrali e non alli-
neati della stessa area euro-atlantica) principalmente - benché non
soltanto - nelle loro relazioni reciproche. Fra queste trentacinque
potenze non si davano e non si danno situazioni di dipendenza co-
loniale del tipo di quelle delle quali fa giustizia il processo di deco-
lonizzazione. La proclamazione di un principio dell'autodecisione ad
uso esclusivo delle popolazioni coloniali non avrebbe avuto, nell'Atto
finale della CSCE, nessun senso plausibile.

13. - La definitiva chiarificazione apportata sul tema dall'Atto


di Helsinki è tanto più importante in quanto essa costituisce il
risultato di un lungo e duro negoziato fra le diplomazie del mondo
libero e quelle del c.d. cc socialismo reale » dell'Europa dell'Est, ne-
goziato all'inizio del quale le seconde avevano addirittura contestato
l'opportunità che nel decalogo si parlasse di autodecisione. Il fatto
che il principio sia stato incluso - e nei termini di una inequivo-
cabile condanna di qualsiasi pretesa di immutabilità o inamovibilità
dei governi, non può non segnare, anche in considerazione dell'im-
portanza del cc confronto ideologico » che caratterizza la CSCE, l'ac-
cantonamento definitivo di ogni interpretazione non universalistica
del principio in qualsiasi altra sede, e in primo luogo nella Carta
delle Nazioni Unite. A questa infatti la Dichiarazione di Helsinki
esplicitamente rinvia come ad una fonte superiore.

14. - Una volta aggiunta la parola ufficiale di Helsinki e quella


della Carta del 1945 e a quella dei Patti del 1966, non è necessario
intrattenersi a lungo sulla Dichiarazione adottata dalla Conferenza
internazionale di Algeri (1-4 luglio 1976) da un gruppo di esponenti
politici e di studiosi sotto gli auspici, tra gli altri, della Fondazione

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Lelio Basso per i diritti e la liberazione dei popoli (6).


Benché si tratti di un testo non ufficiale, la provenienza di
questo documento è molto significativa riguardo all'atteggiamento
del Terzo Mondo in merito alla sfera dei beneficiari dell'autodeter-
minazione: e non sembra proprio dubbio, a chi legga il testo con
spirito obiettivo, che i beneficiari del principio definito ad Algeri
siano tutti i popoli: quelli metropolitani non meno dei coloniali.
Sembra certo in particolare che la dichiarazione di Algeri sia desti-
nata ad operare anche a beneficio di quelle popolazioni coloniali che,
svincolatesi dalla c.d. « madrepatria », vengano a trovarsi in qual-
siasi momento sotto il dominio diretto o indiretto di altra potenza
ovvero, puramente e semplicemente, sotto un governo totalitario -
autoctono o importato - di qualsiasi colore o denominazione.
Basti ricordare qualcuna delle disposizioni centrali della Dichia-
zione: « Artide 5. - Tout peuple a le droit imprescriptible et ina-
liénable à l'autodétermination. Il détermine son statut politique en
toute liberté, sans aucune ingérence étrangère extérieure. Article 6. -
Tout peuple a le droit de s'affranchir de toute domination coloniale
ou étrangère directe ou indirecte et de tous régimes racistes. Arti-
cle 7. - Tout peuple a droit à un régime démocratique représentant
l'ensemble des citoyens, sans distinction de race, de sexe, de croyance
ou de couleur et capable d'assurer le respect effectif des droits de
l'homme et des libertés fondamentales pour tous ».
Se l'articolo 6 riguarda i paesi soggetti a regime coloniale o raz-
zista, gli articoli 5 e 7 non potrebbero essere seriamente intesi se
non nel senso che essi proclamano l'autodecisione per tutti. L'arti-
colo 5 sancisce la libertà di scelta del proprio statuto politico (indi-
pendenza e regime politico-economico) contro ogni ingerenza esterna:
indipendenza dunque dal dominio straniero e indipendenza altresì,
beninteso, da ogni potenza egemone o imperiale di qualsiasi specie.
L'art. 7, a sua volta, dichiarando che ogni popolo ha diritto a un
regime democratico e rappresentativo, riguarda sicuramente la sola
autodeterminazione interna . Gli articoli 5-7 descrivono dunque quasi
alla perfezione il diritto permanente di tutti i popoli a disporre di
se stessi: autodeterminazione interna ed esterna di tutti i popoli co-
loniali e metropolitani, del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest.
Ogni interpretazione restrittiva di questa parte della Dichiarazione
di Algeri sarebbe, nella migliore delle ipotesi, arbitraria.

(6) Si veda sulla Dichiarazione di Algeri il volume Pour un Droit des


Peuples , Collection « Tiers Monde en bref », diretta da P. F. Gonidec e E.
Jouve, Berger-Levrault, 1978.

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VI. Contenuto delV autodecisione

15. - Il contenuto e la natura del cc diritto » all'autodecisione


risultano in gran parte determinati da quanto si è detto in merit
alla portata del principio dal punto di vista degli Stati obbligati,
degli Stati aventi diritto e dei beneficiari, in particolare della rile-
vata duplice dimensione - interna ed esterna - del principio.
Dal punto di vista interno , ogni Stato è tenuto, in virtù de-
gli strumenti internazionali ricordati, ad assicurare al popolo non
solo la possibilità effettiva di darsi una costituzione ma anche, in
tale quadro, la possibilità di modificare la costituzione scelta, cos
come il proprio regime economico, sociale, culturale.
Ne consegue che l'autodeterminazione presuppone i diritti del-
l'uomo e le libertà fondamentali. Per assicurare al popolo l'autode
terminazione, lo Stato deve garantire ad ogni individuo, ad ogn
gruppo politico, etnico, sociale o religioso, le libertà fondamentali
i diritti civili e politici, i diritti economici, sociali e culturali -
per esempio quelle libertà di parola, di stampa, di associazione, d
movimento, di comunicazione, senza le quali non sarebbe possibile
la formazione, la manifestazione, la diffusione e la discussione delle
idee e delle aspirazioni dalle quali dipendono le scelte politiche, eco-
nomiche, sociali e culturali nelle quali l'autodeterminazione consi-
ste. Uno Stato nel quale gli uomini non godano - e pienamente -
di quei diritti e di quelle libertà incorre ipso facto nella violazione
del principio dell'autodecisione. La permanenza, l'inalienabilità del-
l'autodeterminazione condannano in particolare ogni restrizione del-
la libertà e dei diritti civili e politici che comunque possa servire a
rendere irreversibile il governo o il regime politico-sociale in atto.

16. - Ha dunque poco senso discutere se l'autodeterminazione


sia da considerare un diritto dei singoli ovvero come un diritto « col-
lettivo » di popoli, di minoranze o di gruppl.
Legata com'è all'idea di scelte quali l'indipendenza nazionale
e/o il regime politico-economico-sociale, l'autodeterminazione ha co-
me destinatari o beneficiari « naturali » delle collettività: nazioni,
popoli, minoranze. E' d'altra parte altrettanto evidente che non si
dà autodecisione di nazioni, popoli o minoranze se non alla condi-
zione che i singoli godano - ed effettivamente - dei diritti e delle
libertà individuali.
L' « individuale » precede e condiziona dunque il « collettivo ».

17. - Da un punto di vista esterno va sottolineato che la valo-


rizzazione della dimensione interna accentua la distinzione fra lo
Stato da una parte e il popolo dall'altra, anche dal punto di vist
della dimensione esterna medesima. Sottolineando che il beneficiario

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dell'autodecisione è il popolo, si sottolinea che il rispetto dell'auto-


decisione (esterna) da parte degli altri Stati non significa, semplice-
mente, rispetto delle scelte di coloro che, avendo ottenuto, con le
buone o le cattive, il potere in uno Stato, dispongono ad un dato
momento della sorte del popolo. Il dovere degli altri Stati è di ri-
spettare le scelte del popolo (infra, 28 ss.).
Per quanto concerne in particolare l'oggetto dell'autodetermina-
zione esterna, questa può esplicarsi non soltanto nel conseguimento
dell'indipendenza, ossia nella formazione di uno Stato cc indipendente
e sovrano » ma anche nella cc libera associazione in uno Stato indi-
pendente » o nel conseguimento di qualsiasi altro status politico li-
beramente scelto. In tale senso si esprime, ad esempio, la parte ri-
levante della ricordata Dichiarazione dei principi delle Relazioni
Amichevoli.

18. - Una notazione speciale s'impone in tema di autodecisione


delle minoranze e delle singole etnie di Stati plurinazionali (quale
ad es. la Jugoslavia).
In entrambi i casi - minoranze relativamente esigue entro uno
Stato altrimenti omogeneo o etnie diverse (di dimensioni compara-
bili) in uno Stato plurinazionale - l'obbligo posto allo Stato di as-
sicurare l'autodecisione dei popoli non viene inteso, di regola, come
obbligo di acconsentire alla secessione. Nell'uno come nell'altro dei
due casi in parola sembra ragionevole ritenere che il principio del-
l'autodeterminazione imponga allo Stato: a) di assicurare alle col-
lettività di cui trattasi l'autodecisione cc interna », vale a dire, in-
sieme con ogni altro diritto o libertà fondamentale, la partecipazio-
ne al regime rappresentativo in piena uguaglianza con il resto della
popolazione (supra, 10); b) di consentire alle collettività medesime
la preservazione delle loro caratteristiche razziali, delle loro tradi-
zioni, della lingua, ecc. L'osservanza di tali obblighi dovrebbe far
presumere, conformemente al dettato della ricordata clausola di sal-
vaguardia contenuta nella Dichiarazione dei principi delle Relazioni
Amichevoli (supra, 10), che lo Stato de quo si conformi al princi-
pio dell'autodecisione.
Soltanto nel caso che l'uno o l'altro dei suddetti obblighi fosse
seriamente disatteso ai danni di una minoranza o di una etnia, si
porrebbe dunque una ipotesi di secessione internazionalmente cc le-
gittimata »: ipotesi nella quale si attenuerebbero o verrebbero meno
(infra, 29-31) gli obblighi degli altri Stati attinenti al rispetto del-
l'integrità territoriale dello Stato de quo .

19. - Nella dimensione esterna come in quella interna il prin-


cipio dell'autodecisione cc interagisce » infatti con altri principi del
diritto internazionale contemporaneo, codificati anch'essi nella Carta

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delle Nazioni Unite e nella maggior parte degli altri strumenti ri-
cordati. Fra tali principi spiccano, per la difficoltà dei problemi di
interaction che sollevano, il rispetto dell'integrità territoriale e il ri-
spetto deirindipendenza politica di quegli stessi Stati ai quali in-
combe l'obbligo del rispetto delle scelte dei popoli.
Allo scopo di « au tode terminarsi » verso l'esterno - per esem-
pio al fine di erigersi in Stato separato o unirsi a uno Stato diverso
- un popolo deve potersi distaccare, con il territorio nel quale
vive, dallo Stato al quale appartiene. Il popolo che voglia « autode-
terminar si » verso l'interno deve modificare il regime al quale e sog-
getto e, all'occorrenza, abbatterlo. Sino a quando il contrasto si ma-
nifesta soltanto fra lo Stato o il governo al potere da un lato e il
popolo dall'altro, il diritto internazionale non entra in gioco che
nel senso di tenere obbligato lo Stato di cui trattasi (verso gli altri
Stati) a permettere al proprio popolo di « autodeterminarsi ». Il po-
polo non essendo investito né di diritti né di obblighi internazionali,
nessuna azione da esso intrapresa per liberarsi dalla dominazione
straniera o indigena incontra limiti giuridici internazionali: non in-
contra limiti, per esempio, in quel generalissimo divieto dell'uso e
della minaccia della forza - contro l'integrità territoriale o l'indi-
pendenza politica delo Stato - che è sancito dall'articolo 2.4 della
Carta delle Nazioni Unite. Questo divieto è fatto agli Stati (e riguar-
da l'uso o la minaccia della forza nelle relazioni internazionali).

20. - Non altrettanto può dirsi degli altri Stati e degli organi
internazionali.
Pure avendo titolo a pretendere il rispetto - e quindi l'attua-
zione - del principio dell'autodecisione, gli Stati membri delle Na-
zioni Unite sono tenuti, per il citato art. 2.4 della Carta, ad « aste-
nersi, nelle loro relazioni internazionali, dall'uso o dalla minaccia
della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di
qualsiasi Stato o in altra maniera non conforme ai fini delle Nazioni
Unite ». Altrettanto vale, mutatis mutandis , per organi di « diplo-
mazia multilaterale » quali l'Assemblea generale o il Consiglio per
la Sicurezza delle Nazioni Unite.

Ci si domanda pertanto sino a quale punto prevalgano, per gli


Stati o per gli organi internazionali, i diritti, gli obblighi o le « fun-
zioni » attinenti al rispetto dell'autodecisione dei popoli e sino a
quale punto prevalgano invece diritti, obblighi, « funzioni » attinenti
alla salvaguardia dell'integrità territoriale e dell'indipendenza poli-
tica: sino a quale punto, in altri termini, il principio « dinamico »
dell'autodecisione debba o possa prevalere, stando al diritto in vi-
gore, sui principi di « conservazione ».

21. - Su questi problemi non mancano prese di posizione degli

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Stati e delle Nazioni Unite. L'Assemblea generale delle NU ad esem-


pio, dopo aver ingiunto agli Stati, nella ricordata Dichiarazione dei
principi delle Relazioni Amichevoli (come già nella ris. 1514), di
astenersi da azioni di forza intese a privare un popolo del suo di-
ritto all'autodecisione e alla indipendenza, riconosce il diritto dei po-
poli di « resistere contro atti di violenza del genere al fine di eserci-
tare l'autodecisione ». La citata Dichiarazione aggiunge che nell'eser-
cizio del loro diritto di resistenza i popoli hanno anche il diritto di
chiedere e ottenere appoggio - dagli altri Stati e dalle Nazioni Uni-
te - in conformità con i fini ed i principi della Carta: disposizioni
che vanno lette peraltro tenendo conto della ricordata clausola di
salvaguardia dell'integrità territoriale contenuta nella Dichiarazione
delle Relazioni Amichevoli (supra, 10).

22. - Le enunciazioni riportate teste vanno considerate - in-


sieme con quelle contenute in altre risoluzioni della stessa Assem-
blea generale o di altri organi internazionali - alla luce delle tesi
che si scontravano, dentro e fuori le Nazioni Unite, negli anni '60.
Da una parte si voleva vedere sancito un vero e proprio diritto
di legittima difesa del popolo dipendente (e in particolare delle po-
polazioni coloniali) contro la semplice presenza della c.d. « madre-
patria » nel territorio: il che avrebbe implicato la qualifica delle
potenze coloniali come aggressori e l'applicazione automatica ai mo-
vimenti di liberazione dell'art. 51 della Carta (come se quei movi-
menti fossero già costituiti in Stali). Come e noto, l'art. 51 fa salvo,
nell'ipotesi di attacco armato (e facendo eccezione al divieto dell'uso
o della minaccia della forza contenuto nell'art. 2.4), il diritto di le-
gittima difesa cc individuale o collettiva » degli Stati aggrediti. Dalla
parte opposta si contestava tale estensione in considerazione delle
conseguenze che ne sarebbero derivate: giustificando a priori ogni
movimento insurrezionale, si sarebbero per un verso incitati i po-
poli - e prima o poi anche quelli metropolitani - alla secessione;
per altro verso si sarebbe incoraggiato l'intervento degli Stati estra-
nei nella lotta civile.

Pur recependo soltanto in parte le tesi più avanzate, i brani


della Dichiarazione delle Nazioni Unite sopra riportati evocano non
pochi problemi di compatibilità e di « interazione » fra il principio
dell'autodecisione da una parte e alcuni dei più importanti fra i
corollari del divieto della forza consacrato nell'articolo 2.4 della Carta.
Non basterebbe, al fine di minimizzare tale problema, osservare
che le raccomandazioni (quali la 1514 e la Dichiarazione delle Rela-
zioni Amichevoli) non siano vincolanti per gli Stati. E' vero infatti
che quelle raccomandazioni debbono essere considerate, in sé e per
sé, non già come parti del diritto positivo (scritto e non scritto)
bensì come parte del c.d. soft law (supra, 10 e nota 4). E' però egual-

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mente indispensabile tenere conto delle loro implicazioni per varie


ragioni. Anzitutto trattasi di enunciazioni adottate sovente a grande
maggioranza o all'unanimità e alle quali gli Stati si ispirano non
di rado nella loro condotta e nei loro atteggiamenti reciproci: di
guisa che quelle disposizioni diventano comunque strumenti dell'ar-
gomentare diplomatico bilaterale e multilaterale (e a volte persino
della prassi dei tribunali e degli organi amministrativi o legislativi
di singoli Stati). In secondo luogo, non è neppure raro che l'una
o l'altra delle disposizioni in questione sia invocata, ed eventualmente
si riveli realmente, come l'enunciazione di una norma internazionale
già esistente in forma non scritta o come la corretta interpretazione
di una norma scritta. In terzo luogo le enunciazioni di cui trattasi
costituiscono, nella misura in cui si discostino dal diritto positivo,
parte integrante dei fattori che concorrono a determinare, attraverso
comportamenti o atteggiamenti idonei degli Stati, la formazione di
norme nuove o la modifica di norme esistenti.

23. - Da più punti di vista è dunque necessario considerare le


disposizioni citate (in tema di autodecisione) al fine di precisare la
portata del principio in sé e in relazione con i ricordati princip
di conservazione (supra, 19): siano questi a loro volta parte del c.d
soft law o parte invece del diritto positivo scritto o non scritto.
Ci riferiamo in particolare al principio enunciato nell'art. 2.4 dell
Carta, il quale certamente condiziona il comportamento degli Stat
e l'azione delle Nazioni Unite anche in sede di attuazione del prin-
cipio dell'autodecisione.
Si tratta di cercare il punto di equilibrio fra autodeterminazione
dei popoli e rinuncia all'uso o alla minaccia della forza ai danni
dell'integrità territoriale o dell'indipendenza politica dello Stato. E
si vedrà che se da una parte sembrano destinati a prevalere principi
o criteri di conservazione , dall'altra parte prevale proprio, al con
trario, il principio dinamico costituito dalla libera scelta dei popoli:
beninteso, di tutti i popoli e non soltanto delle popolazioni coloniali.

Vili. Guerra civile , autodecisione , intervento

24. - Come è noto, una delle ipotesi più frequenti di uso della
forza da parte degli Stati e l'intromissione nei rivolgimenti interni
di altri. Ci riferiamo alle due specie tipiche di situazioni insurre-
zionali costituite l'una dall'insurrezione mirante a sostituire il go-
verno al potere nell'intero Stato con un nuovo governo - situazione
che sbocca, nell'ipotesi di successo, nel c.d. « governo di fatto gene-
rale » - l'altra dall'insurrezione volta a costituire uno Stato nuovo

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in una parte del territorio dello Stato: situazione che sbocca, nel-
l'ipotesi di successo, nel c.d. cc governo di fatto locale ».
In situazioni del genere è frequente che altre potenze interven-
gano a sostegno dell'una o dell'altra parte: e le potenze che inter-
vengono a favore del governo al potere sogliono giustificarsi, sia con
la pretesa, fondata o infondata, di essere state chiamate a farlo dal
governo dello Stato, sia con la pretesa di operare obbiettivamente a
favore del mantenimento della legittimità costituzionale dello Stato
stesso e/o della sua integrità territoriale: ciò del tutto indipendente-
mente dalla qualità - libera o dispotica - del governo al potere.
Le potenze cc intervenienti » a sostegno del partito della rivoluzione
o della secessione si dicono votate, a loro volta - sempre, si capisce,
su domanda - alla cc causa » della liberazione del popolo dal tiranno
o dallo straniero. Anche da questa parte la cc causa » è sempre cc buo-
na », quale che sia la natura del regime che il partito rivoluzionario
o secessionista si propone (a fatti o a parole) di istituire.
Di fronte a giustificazioni di questa specie il diritto interna-
zionale classico non ha molto da dire.

25. - L'atteggiamento del diritto internazionale generale rispet


alla formazione e alle mutazioni degli Stati e dei governi è mo
diverso da quello che è tipico dei sistemi giuridici nazionali rispet
alle forme associative pubbliche e private.
In breve, mentre il diritto interno regola la formazione e
struttura di tutte le forme associative svolgentisi nel suo ambito,
diritto internazionale non regola il modo di essere, di insediar
di succedersi, dei governi delle società umane sulle quali si erg
gli Stati-potenze (7). Ne consegue che allorquando il cc control
di uno Stato o di una sua porzione (metropolitana o coloniale) dive
oggetto di lotta fra governo al potere e partito insurrezionale,
vano si cercherebbero normalmente nel diritto internazionale (se
lascia da parte per il momento il principio dell'autodecisione) rego
o criteri che permettano di giudicare quale delle formazioni ri
si presenti come cc legittima » o cc più legittima »: quale, in a
parole, abbia titolo giuridico al cc controllo » dello Stato o di
parte dello Stato e di conseguenza a un atteggiamento favorevole
parte del diritto internazionale e delle sue persone. Da questo pun
di vista non è dunque possibile valutare la legalità o meno de
interventi di potenze straniere.

26. - Non mancano invero regole riguardanti la condotta de


(7) Vedasi al riguardo L'Etat dans le Sens du Droit des Gens et la Notio
du Droit International, <c Oesterrechische Zeitschrift für öffentliches Rechts
vol. 26 (1975), e l'estratto indipendente edito dalla Cooperativa Libraria Un
versitaria, Bologna, 1975, pp. 282 e 290-303 (e riferimenti ivi contenuti).

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potenze estranee nelle circostanze di cui parliamo. Da una parte,


vi è la regola che favorisce l'interesse del governo al potere, vietando
quello che viene chiamato riconoscimento prematuro (premature reco-
gnition) degli insorti (8). Dall'altra parte, vi è il principio secondo
il quale il partito insurrezionale che in fatto si assicuri il controllo
relativamente esclusivo e stabile della totalità o di una parte del
territorio e della popolazione dello Stato, è considerato come persona
internazionale distinta dallo Stato/governo contro il quale si batte.
Da ciò conseguo, fra l'altro, la qualificazione della guerra civile come
guerra internazionale e l'applicazione delle regole della guerra e
della neutralità (9). Le potenze estranee sarebbero tenute pertanto
a non intervenire in favore né dell'una né dell'altra delle forma-
zioni rivali. Successivamente, se la guerra volge a favore del gover
al potere ci si troverà nella stessa situazione di partenza (nel se
che sarà lecito intervenire, su richiesta, a favore di quel gover
Se al contrario gli insorti si impongono stabilmente come gove
(« di fatto ») cc generale » o cc locale », sarà lecito intervenire, se
lo domandano, in favore loro.
Data la c.d. cc neutralità » del diritto internazionale nei con-
fronti dei regimi degli Stati e delle ideologie cui s'ispirano (10),
la valutazione della legalità dell'uno o dell'altro intervento reste-
rebbe tuttavia, pel diritto internazionale classico, del tutto indipen-
dente (se si lascia sempre da parte il principio dell'autodecisione)
dalla natura libera o non, pluralista o non, delle formazioni in pre-
senza. L'appoggio a una formazione di natura dispotica sarebbe dun-
que altrettanto lecito quanto l'appoggio a una formazione politica
di natura libera e pluralista. Essendo inoltre ogni soggetto internazio-
nale libero di chiedere assistenza ad altri, invitandoli per esempio
a intervenire nel territorio da esso controllato, va da sé che, sempre
lasciando da parte per il momento il principio dell'autodecisione, le
richieste del genere sarebbero valide, coeteris paribus , indipendente-
mente dalla natura, dispotica o libera, dell'ente che richiede l'in-
tervento.

E' riguardo a tali situazioni che bisogna ora domandarsi qu


ruolo svolga, all'occorrenza, il principio dell'autodecisione, e in par
ticolare il diritto dei popoli a disporre di se stessi quale risul
dalle definizioni appena lette.

(8) Vedere, per tutti, LaijTFRPACHT, H., Recognition in International Law


Cambridge, 1947 p. 283. Un esempio è il riconoscimento del regime « fa
gista » (fascista) di Franco come governo della Spagna da parte dei gover
fascisti di Germania e Italia durante la guerra civile in quel Paese.
(9) Vedasi, per tutti, Oppenheim's (ed. Lauterpadht), International La
vol. II, 7a ed., Londra, 1952, pp. 659-660.
(10) Ma vedasi, riguardo a tale improprio concetto, il lavoro citato supra ,
nota 7 alle pp. 7, 278 ; 321-22, 371.

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27. - Un'indicazione importante - benché parziale - viene


dalle numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sulla decoloniz-
zazione (11), che mettono in questione, più o meno direttam
la norma di diritto internazionale che vieta il « riconoscimento
prematuro » e la ratio sulla quale si fonda. Tale è il caso, sia d
l'asserzione che gli Stati « terzi » possano o debbano interven
nei conflitti fra metropoli e colonie a favore della parte che le Naz
Unite considerino legittimata all'esercizio dell'autodecisione (12), si
dell'asserzione che la presenza della metropoli nei territori colonia
e illegale e che le colonie non siano più da considerare, dal pun
di vista della legalità o illegalità dell'impiego della forza (nelle « re
zioni internazionali ») sancita dalla Carta, come parti integranti de
territorio della potenza detentrice (13): ciò che implicherebbe in t
ria l'acquisizione automatica, da parte dei territori dipendenti,
una personalità distinta da quella della metropoli (14).
Affermazioni come queste, che toccano evidentemente da vicin
la materia del cc riconoscimento prematuro » e l'applicazione d
regole della neutralità, sollevano, beninteso, problemi grossi. Anzi
tutto non e facile dire in quale misura le enunciazioni evocat
corrispondano esattamente alle « intenzioni » dell'Asemblea e/o all
intenzioni degli Stati membri o non membri delle Nazioni Un
Non e facile di conseguenza stabilire se ed in quale misura le en
ciazioni o i principi in parola modifichino, sul piano del dirit
delle Nazioni Unite o del diritto generale - per effetto di conse
e/o di prassi uniforme e costante - le norme classiche. Poich
nessuno di questi problemi può essere qui trattato in maniera a
guata (né per quanto riguarda il riconoscimento prematuro, né pe
quanto riguarda la neutralità) dobbiamo per ora riservare la no
posizione.

28. - Quale che sia però la soluzione da dare (oggi o domani)


a tali problemi, sembra certo che nella misura in cui le enuncia-
zioni e i principi in questione modifichino le norme preesistenti,
esse lo fanno non solo a beneficio delle popolazioni coloniali ma
anche - e specialmente, visto che le colonie in senso stretto stanno
scomparendo - a beneficio delle popolazioni metropolitane. Che

(11) Vedasi specialmente Rigo Sureda, The Evolution of the Right of


Self -Determination. A Study of the United Nations Practice , Sijthoff, 1973,
pp. 353-356, 215-227 et 346-348.
(]2) Op. cit. nota precedente, alla pag. 348. Cfr. Wright, in Proceedings ,
« American Society of International Law », 1954, p. 23 sgg. e Eagleton ibidem ,
pp. 67 ss.
(13) Rigo Sureda, Op. cit. supra (nota 11), p. 347.
(14) Ibidem. Ma vedansi anche gli autori citati dallo stesso Rigo Sureda.

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si versi nell'ipotesi del cc soft law » o del « hard law » (supra, 10) si
tratta sempre di interpretazioni e applicazioni del principio dell'au-
todecisione e dei suoi corollari. Essendo questo un principio univer-
sale nel senso spiegato (supra, 5 ss.), esso opera a favore della libertà
delle popolazioni metropolitane non meno che a favore dell'indi'
pendenza delle popolazioni delle colonie.
E' dunque il caso di domandarsi quali conseguenze si debbano
trarre dal principio dell'autodecisione - per quanto concerne i pro-
blemi del cc riconoscimento prematuro » e della neutralità - riguar-
do a situazioni insurrezionali che si manifestassero in società metro-
politane. Il problema si pone, sia riguardo all'appoggio prestato al
governo al potere, sia riguardo all'appoggio prestato agli insorti o
al governo da questi instaurato.

29. - Per quanto concerne gli insorti, l'universalità dell'auto-


decisione dovrebbe implicare - sul terreno del soft law o del hard
law , a seconda del caso - l'estensione parallela dell'eccezione al di-
vieto di cc riconoscimento prematuro »: eccezione manifestatasi, nel
modo che si è visto, nella prassi delle Nazioni Unite. Se il soft law
o il hard law permette che potenze straniere prestino un qualche
aiuto a una popolazione che lotta contro il regime coloniale, quello
stesso soft o hard law permette di aiutare nella stessa misura una
popolazione metropolitana che lotti, vuoi contro specie diverse di
oppressione straniera, vuoi contro il regime totalitario al quale sia
sottoposta da una dittatura indigena.
Così come non consentono di affrontare la questione di sapere
se l'eccezione in parola sia materia di diritto positivo oppure mate-
ria di c.d. soft law, i limiti della presente esposizione ci impediscono
di esplorare la questione di sapere se e in qual misura il principio
dell'autodecisione possa intaccare anche la valutazione dell'atteg-
giamento delle potenze straniere nei confronti di un partito insurre-
zionale in considerazione dell'ideologia cui s'ispira e delle finalità
che persegue. Sarebbe in particolare difficile determinare qui l'esatta
misura nella quale un intervento a favore di un partito insurrezionale
possa invece risultare illecito (a parte l'ipotesi di ce riconoscimento
prematuro ») in considerazione del regime totalitario al quale il par-
tito in questione si proponga di assoggettare il popolo.
Sembra però verosimile che anche in questo caso il principio
dell'autodecisione abbia una parola da dire al fine di condannare
ogni intervento di una potenza che assista un partito insurrezionale
a instaurare una dittatura. La pretesa dello Stato cc terzo » di giu-
stificare il suo intervento con l'argomento che esso tenda ad appog-
giare il partito della liberazione del popolo dal regime in atto non
sarà dunque l'ultima parola per giustificare l'intervento. Altri tests

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devono entrare nella valutazione, in particolare quello del rispetto


del diritto del popolo a disporre di se stesso.

30. - Per quanto riguarda il governo al potere, si domanda se


sia tuttora valida, in presenza di criteri come quelli praticati dalle
Nazioni Unite (e del principio dell'autodecisione propriamente in-
teso), la dottrina classica secondo la quale il consenso di quel governo
giustificherebbe in ogni caso, salva l'ipotesi di guerra di libera-
zione di una colonia, l'intervento di cc terzi » in suo favore.
Poiché il principio dell'autodecisione opera a beneficio delle
popolazioni metropolitane quanto a beneficio dei popoli coloniali
- e verso l 'interno come verso Yesterno - la presenza del consenso
del governo non e condizione sufficiente per giustificare l'intervento.
Tutto dipenderà dalla questione di sapere se il consenso del go-
verno - consenso che dovrà risultare liberamente dato - sia o
non essenzialmente conforme alle aspirazioni del popolo. E'
escluso, per esempio, che grazie al consenso dei governi l'inter
possa lecitamente operare come una forma di mutua assiste
dittature (15), anche se queste si dichiarano esercitate - com
sempre farsi a cc sinistra » come a cc destra » (16) - in nome e
nell'interesse dei popoli rispettivi. Lecito sarebbe invece, nel quadro
di soft o hard law evocato, un certo aiuto al popolo - entro limiti
invalicabili che vedremo (infra, 34) - nella sua lotta per la libertà.
E' inoltre evidente che l'obbligo internazionale degli Stati di
rispettare le scelte dei popoli, non cede né in presenza di un obbligo
internazionale dello Stato di accettare l'intervento o di richiederlo
né in presenza di una norma costituzionale dello Stato medesimo
analogamente ispirata all'esigenza della cc fraterna difesa » di regimi
totalitari. Con il principio dell'autodeterminazione deve dunque mi-
surarsi ogni azione di uno o più Stati che si fondi su giustificazioni
del tipo della c.d. cc dottrina Brezhnev » o della cc sovranità limi-
tata » di paesi determinati (17).

fi 5) Human Fights ecc. cit.. pp. 280-286; e Droits de l'Homme ecc. cit.,
p. 453 ss., spec. 484-488.
(16) Infra, numero 36.
(17) Per una critica (sotto il profilo giuridico) della c.d. cc dottrina Brezhnev »
(della cc sovranità limitata »), Human Rights ecc. cit., p. 282 ss. e Droits de
VHomme ecc. cit., p. 484 ss. Una discussione dell'idea secondo la quale il
diritto internazionale sarebbe caratterizzato (in questa come in altre materie)
dalla coesistenza di cc sistemi » (« Capitalista », cc Socialista », cc Terzo Mondo » o
« Nord » e « Sud ») si trova in The Noimative Role ecc. cit., pp. 518 ss. e nelle
pagine corrispondenti (148-170) nell'edizione indipendente di tale opera citata
supra . nota 1.
Clausole costituzionali che indirettamente legittimerebbero la cc dottrina
Brezhnev » si trovano nelle leggi fondamentali di alcune delle repubbliche cc popo-

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31. - Il principio dell'autodecisione attenua insomma, in una


certa misura, nel quadro di soft o hard law considerato, quella che
molto impropriamente chiamavano (supra, 24) cc neutralità » del di-
ritto internazionale rispetto al modo in cui i popoli sono governati.
Dato il permanere della natura cc interstatale » del diritto delle
relazioni internazionali, questa attenuazione è invero modesta. Il prin-
cipio dell'autodecisione non innova minimamente rispetto alla situa-
zione tradizionale per quanto concerne l'esistenza degli Stati e la
loro organizzazione. La non conformità al nostro principio non
intacca per esempio la personalità internazionale dello Stato, e nem-
meno il cc titolo » del governo a ce rappresentarlo » - (titolo che
resta, al pari dell'esistenza dello Stato, meramente cc fattuale »(18) -
neanche nel caso delle usurpazioni e dei dispotismi più feroci. Molto
tempo dovrà trascorrere, purtroppo, prima che una vera comunità
giuridica universale degli uomini si sviluppi come diritto dei po-
poli - dei popoli uniti in un sol popolo - sino al punto di met-
tere cc fuori legge » i governi non conformi al principio dell'auto-
decisione.
E' però incoraggiante constatare che, benché il diritto interna-
zionale resti, malgrado tutto, il diritto delle potenze di ogni specie
- comprese quelle meno rispettose delle aspirazioni dei popoli -
esso non e del tutto sprovvisto di norme che condizionano le potenze
obbligandole - almeno le une nei confronti delle altre - a com-
portamenti (omissivi o commissivi) nei riguardi dei popoli. Una di
tali norme è precisamente quella che condanna, malgrado l'assenso
del governo, ogni intervento che violi il diritto del popolo a disporre
di se stesso. Se i popoli restano sempre - come gli uomini -
meri cc oggetti » del diritto internazionale, essi ne sono tuttavia og-
getti relativamente tutelati. E se non sono tutelati da norme che
mettano fuori legge i tiranni, essi sono protetti almeno da norme
che impongono ad ogni governo, nei confronti degli altri, obblighi
concernenti il trattamento dei sudditi.

IX. Autodecisione dei popoli e status quo


nelV Atto di Helsinki e nella Carta delle Nazioni Unite

32. - Il ruolo cc riformistico » (in senso umanitario) svolto dal-


l'autodecisione assume un rilievo particolare nel ricordato Atto finale
della CSCE (1975): atto che solennemente riafferma, come si e visto,
vari principi di coesistenza (tutti derivati dalla Carta delle Nazioni

lari » dell'Est europeo (vedi Simons, The Constitutions of the Communist


World , Sijthoff, 1980).
(18) UEtat ecc. cit. passim e riferimenti ivi.

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Unite), come regole di comportamento nelle relazioni fra le trenta-


cinque potenze partecipanti. Accanto all'enunciazione di vari prin-
cipi di conservazione dello status quo , quel decalogo contiene infatti
- come abbiamo visto - l'enunciazione più completa sinora fatta
(ad alto livello internazionale) del ruolo « dinamico » dell'auto-
decisione.
Agli opposti principi di « conservazione » è stata data invero,
nell'Atto di Helsinki, un'enfasi particolare. I principi della integrità
territoriale e dell'inviolabilità delle frontiere, pur essendo general-
mente considerati a giusto titolo come semplici corollari del prin-
cipio che obbliga gli Stati ad astenersi dall'uso o dalla minaccia
della forza nelle relazioni internazionali (art. 2.4 della Carta delle
Nazioni Unite), sono enunciati nel decalogo di Helsinki - imme-
diatamente dopo l'uguaglianza sovrana (principio 1) e il divieto della
forza (principio II) - come principi autonomi: III e IV. Quel
decalogo sembra cosi a prima vista allontanarsi, utilizzando tale
metodo, dagli strumenti internazionali analoghi, nei quali l'inviola-
bilità delle frontiere (III) e il rispetto dell'integrità territoriale
(IV) sono sottintesi nell'enunciazione del divieto della forza (ed even-
tualmente nel principio del non intervento). Se a questi quattro
principi « conservativi » si aggiunge il non intervento (principio VI
del decalogo) l'esigenza della conservazione risulta nel testo molto
cospicua: e questa particolarità dell'Atto di Helsinki si colleghe-
rebbe, secondo alcuni commentatori, a quel fine della Conferenza
per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che sarebbe consistito
nel solenne e definitivo riconoscimento delle frontiere territoriali,
politiche e ideologiche risultanti dalla seconda guerra mondiale e
dai suoi seguiti più o meno immediati.

33. - L'opinione di cui si fa cenno nel numero precedente non


è del tutto inesatta. L'Atto di Helsinki e stato concepito, da più
parti della CSCE, come « Ersatz » di un trattato di pace.
E' ugualmente certo, d'altra parte, che nessuno potrebbe leg-
gere il testo del principio III (inviolabilità delle frontiere) nel senso
di una consacrazione delV im mutabilità delle frontiere, concetto che
la delegazione dell' URSS aveva invano cercato d'inserire (al posto
della semplice inviolabilità) nel testo del principio in questione. In
secondo luogo, quale che sia la misura in cui i principi III e IV
o altri elementi dell'Atto di Helsinki (come il principio VI, del
non intervento) svolgono un ruolo « di conservazione » dello status
quo. i principi e gli elementi in questione devono essere valutati
anch'essi alla luce del principio (Vili) dell'autodecisione dei popoli:
nonché, s'intende, alla luce del principio VII, concernente i diritti
dell'uomo.

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La contestualità dei due principi « umanitari » e « dinamici »


(VII e Vili) con i principi di cc conservazione » basterebbe invero
da sola a imporre la lettura dei secondi alla luce dei primi (e vice-
versa): ma la correlazione fra i principi è espressamente sanzionata,
è bene ricordarlo, in quel paragrafo delle clausole generali della
Dichiarazione ove è detto che cc Tutti i principi sopra enunciati sono
di importanza fondamentale e, di conseguenza, saranno applicati in
modo eguale e senza riserva, ciascuno di essi essendo interpretato
tenendo conto degli altri ».

34. - L'obbligo di ogni Stato di rispettare l'integrità territoriale


e le frontiere di ciascuno degli altri trova dunque - al pari del-
l'obbligo di non intervenire e di non ricorrere alla forza - un
limite nella necessità di rispettare al tempo stesso le scelte dei
popoli e i diritti dell'uomo. Ne segue che là dove la preservazione
di una frontiera o dell'integrità territoriale di uno Stato si rivelasse
a un dato momento non conforme alla volontà del popolo o dei
popoli interessati, quell'obbligo di cc rispetto », obbligo che eviden-
temente include una gamma ampia di comportamenti, si attenue-
rebbe in una qualche misura.
Determinare con esattezza la portata di tale attenuazione è un
compito - ■ e bene sottolinearlo - troppo arduo perché si possa
tentare di svolgerlo qui. Si può soltanto indicare, anzitutto che l'at-
tenuazione dell'obbligo del cc rispetto » dello status quo territoriale
arriverà ben difficilmente sino al punto di rendere lecito un ricorso
individuale o collettivo alla forza militare contro lo Stato cc incri-
minato ». E' in via di principio da escludere, per esempio, che uno
o più Stati possano giustificare una crociata militare contro un altro
Stato con l'argomento che una tale azione sia rivolta a liberare
dal giogo straniero una nazione che reclami l'indipendenza. Il prin-
cipio dell'autodecisione non varrebbe a giustificare un'azione armata
di Stati cc terzi » neppure nell'ipotesi di una popolazione che riven-
dicasse la libertà di determinare il proprio regime interno nei con-
fronti di una dittatura. Nell'uno come nell'altro caso - che il popolo
cerchi l'indipendenza o la libertà - l'interdizione dell'uso della
forza continuerà di regola a prevalere - con effetto cc conserva-
tivo >■ - sul principio dell'autodecisione.
Un giudizio diverso dovrebbe darsi riguardo ad altre forme di
intervento da parte di Stati estranei alla lotta civile. Il principio
dell'autodeterminazione giustificherebbe senz'altro, per esempio, prese
di posizione a favore del popolo da parte di singoli Stati oppure
l'adozione di risoluzioni di organi internazionali a sostegno della causa
del popolo e contro il governo oppressore. Lo stesso principio giusti-
ficherebbe verosimilmente alti ancora più impegnativi a favore del
popolo e ancora meno cc amichevoli » nei confronti del governo. Sa-

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rebbero lecite per esempio, in un certo grado, misure di pressione


economica e politica. In secondo luogo, gli Stati - ci riferiamo
sempre all'intervento di Stati esteri in conflitti fra governati e go-
vernanti - saranno da una parte vincolati dal divieto di portare
soccorso al governo oppressore: dall'altra parte saranno liberi di
portare soccorso agli insorti a partire forse da un momento ante-
riore (se si applica in maniera equa la cc dottrina » affermata dalle
Nazioni Unite a proposito dei movimenti di liberazione) rispetto al
momento nel quale il partito insurrezionale concluda vittoriosamente
la lotta. Si potrà anche parlare - nel quadro di hard law e/o soft
law di cui trattisi - di un obbligo degli Stati cc terzi » (da soft
o da hard law) di appoggiare in qualche misura il movimento di
liberazione.

35. - Il ruolo ce dinamico » svolto dal principio dell'autode-


terminazione nella sua interaction con le norme destinate alla pre-
servazione dello status quo meriterebbe uno studio approfondito.
Nell'attesa che tale studio sia compiuto sembra indispensabile met-
tere in guardia contro certe letture tendenziose di strumenti di di-
plomazia multilaterale quali la Carta delle Nazioni Unite o l'Atto di
Helsinki (o dello stesso diritto internazionale generale).
Valga l'esempio dell'Atto di Helsinki (CSCE). Troppo spesso
si legge che quel documento avrebbe compiuto , sino dall'istante della
firma, il suo ruolo di consacrazione delle situazioni create nell'Europa
centrale e orientale dai seguiti della seconda guerra mondiale ( supra
32 e 33). Essendo questo, secondo tali opinioni, il solo ruolo - ossia
il ruolo internazionale - della CSCE, non ci si dovrebbe aspettare
dall'Atto finale, sempre secondo certi commenti, altro che quello che
esso ha già dato attraverso il riconoscimento dello status quo. Questo
« riconoscimento » dovrebbe essere considerato insomma come defi-
nitivamente acquisito dagli Stati interessati, i quali vanterebbero
ormai nei confronti degli altri una pretesa giuridica a sostegno dello
status quo. I principi dell'Atto di Helsinki diversi da quelli di
cc conservazione », e in particolare le disposizioni che riguardano il
rispetto dei diritti dell'uomo e dell'autodecisione, sarebbero invece,
stando sempre ai commenti in parola, estranei alle regole delle rela-
zioni internazionali , e come tali secondari - se non addirittura
superflui o controproducenti - rispetto alla funzione essenziale del-
l'Atto. La loro inosservanza da parte di certi Stati partecipanti alla
CSCE non avrebbe pertanto nessuna influenza negativa sulla osser-
vanza reciproca dei principi di cc conservazione » da parte degli altri
Stati partecipanti.
Motivate come sono dalla tutela degli interessi di governi tota-
litari e sostenute con l'argomento che le materie umanitarie sarebbero
estranee per natura alle regole delle relazioni fra Stati, le interpre-

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tazioni del genere sono prive di fondamento. Come si è ricordato,


lo stesso Atto finale precisa che i principi del decalogo - principi
del resto già presenti nella Carta delle Nazioni Unite e in altri
strumenti internazionali - sono ugualmente fondamentali e tutti
strettamente interdipendenti , il rispetto di ciascun principio essendo
strettamente legato al rispetto di ciascuno degli altri. Il principio
dell'autodecisione esterna e interna segna in particolare, insieme con
quello del rispetto dei diritti dell'uomo, il limite al di là del quale
l'Atto finale della CSCE non può operare come strumento di con-
servazione dello status quo territoriale e politico e a scapito delle
scelte dei popoli.
Ma vi è di più. Non solo il rispetto delle esigenze umanitarie
- e in primo luogo dell'autodecisione - deve coesistere con il ri-
spetto delle situazioni politiche e territoriali esistenti, ma esso è
stato concepito e codificato, dai negoziatori della CSCE, come con-
dizione essenziale della stabilità ? delle buone relazioni e della colla-
borazione fra gli Stati partecipanti. Le disposizioni sull'autodecisione
e sui diritti dell'uomo sono state incluse nell'Atto finale della CSCE
non soltanto come fine a se stesse, ma anche e soprattutto in co
siderazione del fatto che le migliori difese della pace internazio
nale - insidiate in primissimo luogo dai governi dispotici - risie
dono nel rispetto delle libertà degli uomini e delle scelte dei popoli.
Lungi dal soggiacere ai principi di cc conservazione », i principi del
rispetto dell'autodecisione dei popoli e dei diritti dell'uomo li int
grano , in quanto tendono a consolidare la pace e la cooperazion
fra gli Stati partecipanti. E' dunque arbitrario leggere l'Atto finale
della CSCE come un semplice manifesto della conservazione al se
vizio di governi evidentemente interessati a eternare situazioni poli
tiche, economiche, sociali e territoriali che per loro natura non
prestano ad una tale operazione. L'Atto va letto invece nel sen
che l'inosservanza delle sue disposizioni cc umanitarie » ne mette in
questione tutte le altre , pregiudicando in definitiva la sopravviven
dell'Atto stesso.

36. - Quanto detto sin qui a proposito dell'Atto di Helsinki


vale per l'intero cc sistema » delle Nazioni Unite. Entro tale cc siste-
ma », il principio dell'autodecisione non può essere visto né come
una regola di portata limitata, destinata alla sola funzione - ormai
quasi esaurita - di presiedere al processo di decolonizzazione, né
come un corpo estraneo collocato a forza accanto alle regole ed ai
principi volti alla preservazione della pace fra gli Stati.
Ferme restando infatti le posizioni che nel cc sistema » rispetti-
vamente occupano gli Stati-potenze nella veste di soggetti protago-
nisti, e i popoli nella veste di oggetti delle relazioni e delle situa-
zioni di diritto/obbligo fra potenze, il principio dell'autodecisione

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è stato inserito nella Carta del 1945 (al pari del principio del
rispetto dei diritti dell'uomo) non soltanto al fine di promuovere la
tutela degli interessi e la realizzazione delle aspirazioni degli uomini
e dei popoli ma anche e prima di tutto al fine di contribuire alla
preservazione della pace e allo sviluppo della collaborazione fra gli
Stati e della sua organizzazione.
La storia del periodo antecedente dimostrava infatti che i mag-
giori nemici della pace, oltre che dei diritti degli uomini e dei
popoli, erano stati i governi totalitari. Da governi siffatti, esenti dal
controllo dell'opinione pubblica e di libere istituzioni, erano venuti
i più grandi pericoli: pericoli per i popoli da loro governati così
come per i popoli ai quali essi si offrivano o s'imponevano come
modello.
Non diversa è la posizione dei governi totalitari contemporanei.
Alla violazione sistematica, nel proprio interno, dei diritti e delle
libertà più elementari, questi regimi aggiungono l'opposizione più
ferma, in nome della sovranità, alla cooperazione fra Stati e allo
sviluppo dell'organizzazione internazionale; ed è dagli stessi governi
che proviene principalmente quella minaccia alla pace che si trova
alla radice dell'insicurezza generale, delle frequenti guerre cc loca-
li yy e della crescente destinazione agli armamenti di risorse che do-
vrebbero servire alla lotta contro la miseria.
Dando spazio alle aspirazioni e alle scelte dei popoli e degli
individui e condannando ogni forma di oppressione interna o esterna,
il principio dell'autodecisione opera ad un tempo per la libertà e
per la pace.
Non serve dunque la pace chi in nome di essa pretende che
le libertà degli uomini e dei popoli vengano ignorate o sacrificate
in quanto a beni secondari » al confronto con il bene supremo della
vita. Ogni attentato alle libere scelte degli uomini è al tempo stesso
un attentato alla pace e quindi alla vita.

X. Applicazioni recenti del principio dell9 autodecisione

37. - Nell'applicazione concreta il principio dell'autodecisione


risente più di altri, a causa della sua natura e della interaction con i
principi di cc conservazione », della nota carenza di organi preposti
all'attuazione del diritto delle relazioni internazionali.
E' noto per esempio che nel corso della guerra 1914-1918 il
principio dell'autodeterminazione fu proclamato dagli alleati (in par-
ticolare dal Presidente degli Stati Uniti Wilson) come fondamento
della soluzione delle questioni territoriali al termine delle osti-
lità. Applicate in alcuni casi (e nell'ambito di alcuni dei trattati di
pace) esso fu però disatteso in altri. Contraddizioni analoghe si tro-

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vano nelle sistemazioni territoriali seguite al secondo conflitto mon-


diale.

38. - Nel periodo seguente il principio è venuto in questione,


oltre che nelle innumerevoli situazioni di tensione o conflitto con-
nesse con il processo di « decolonizzazione », in numerose situazioni
di natura diversa (non coloniale).
In tema di decolonizzazione basti ricordare che le Nazioni Uni-
te, che nel 1959 contavano 83 membri, nel 1981 ne contavano 155:
e si calcola che questo numero si avvicinerà ai 200 allorché quel pro-
cesso si sarà esteso alle numerose isole ancora soggette a regime co-
loniale (19).
Al di fuori del contesto anticolonialistico il principio è stato in-
vocato, con esito ineguale (benché mai, a nostro avviso, senza un
qualche effetto diretto o indiretto), nei casi del colpo di Stato in Ce-
coslovacchia del 1948, dell'intervento sovietico in Ungheria (1956),
dell'intervento degli Stati Uniti nel Vietnam (1965), della crisi del
Biafra (1967), dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia del 1968
e in varie altre occasioni. Fra le questioni internazionali aperte e
nelle quali il principio è invocato da popoli o da Stati figurano, ol-
tre alla ben nota questione palestinese ed a quelle notissime dell'Afri-
ca australe (Sudafrica, Namibia, Rodésia del Sud), le questioni di
Gibilterra, del Sahara occidentale, di Timor (orientale), dell'Afgha-
nistan, delle Falkland, della Polonia.
In uno studio recente (20) si è ritenuto di classificare la casi-
stica dell'autodecisione in cinque specie di situazioni di possibile ri-

(19) Fra i paesi acceduti allo statehood sucessivamente al secondo conflitto


mondiale (sotto gli « auspici » se non per effetto del principio) vanno annoverati
(dopo il Libano, già indipendente nel 1943): Indonesia (1945), Filippine Gior-
dania e Siria (1946), Pakistan e India (1947), Birmania, due Coree, Israele,
Sri Lanka (Cevlon) (1948), Libia (1951), Viet-Nam (1954), Laos (1955), Marocco,
Sudan, Tunisia (1956), Malesia, Ghana (1957), Tailandia e Guinea (1958), Cipro
(1959), Alto Volta, Benin, Repubblica Centroafricana, Ciad, Congo, Costa d'Avo-
rio, Gabon, Madagascar, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Togo,
Zaire (1960), Kuwait, Camerún, Sierra Leone (1961), Nepal, Algeria, Burundi,
Ruanda, Uganda, Giamaica, Trinidad e Tobago, Samoa (1962), Kenya (1963),
Malawi, Tanzania, Zambia (1964), Maldive, Singapore, Gambia (1965), Cambogia,
Botswana, Lesotho, Barbados, Guayana (1966), Yemen meridionale (1967), Guinea
equatoriale, Mauritius, Swaziland (1968), Bhutan (1969), Oman, Figi (1970),
Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Qatar (1971), Bahamas (1973), Guinea Bissau
e Granada (1974), Angola, Capo Verde, Comore, Mozambico, Sao Tomé e Principe,
Surinam e Papa, Nuova Guinea (1975), Seychelles (1976), Gibuti (1977), Domi-
nica e Salomone (1978), Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine (1979), Zim-
babwe (1980).
(20) Moore, J., Totvards ari Applied Theory for the Regulation of Inter-
vention , in « Law and Civil War in the Modern World », 1974. Per una appli-
cazione, White, Robin. C. A.. Self-Determination : Time for a Re-assessment ,
in « Netherlands International Law Review », 1981, pp. 147-170.

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lievo internazionale. Alla prima e più frequente figura delle situa-


zioni coloniali si aggiungono: i casi nei quali uno Stato non con-
senta ad una parte della popolazione di partecipare al governo della
cosa pubblica (tipo secondo ), i casi nei quali un popolo intenda
unirsi ad uno Stato diverso etnicamente o altrimenti affine (tipo ter-
zo), i casi nei quali un popolo mira ad emanciparsi da uno Stato
al fine di erigersi in Stato separato (tipo quarto) e i casi nei quali
si chiede l'instaurazione di una data specie di organizzazione poli-
tico-sociale in uno Stato esistente (tipo quinto ). Va aggiunta come
sesta categoria importante quella dei popoli (o Stati) che aspirino
ad emanciparsi dal controllo egemonico esercitato nei loro confronti,
dall'interno o dall'esterno, da una potenza maggiore. E' ovvio che
numerosi casi (anche fra quelli più sopra ricordati) sarebbero da
collocare in più d'una delle sei classi ad un tempo.
Gaetano Arangio-Ruiz

IL POLITICO
Sommario del fascìcolo n. 2, anno XLVIII, 1983

Mario Stoppino Croce e il liberalismo

H. B. Jacobini Mexican- American Relations: A Case Study


Sergio Bartole Le convenzioni della costituzione tra storia e
scienza politica
Andrea Bosco Lord Lothian e la nascita di « Federai Union »
(1939-1940)
Antonella Besussi Consenso e disobbedienza nel Locke del II
trattato

Franco Curti Ragioni politiche per una pratica di « scrit-


tura »

Nicoletta Del Franco I fuori-casta in un villaggio bengalese


Simonetta Casci Considerazioni su casta e politica in India
Recensioni e segnalazioni

Direz, e red.: Facoltà di Scienze Politiche Università di Pavia (Italy)


Amministraz.: Dott. A. Giuffrè editore, Via Statuto 2 - 20121 Milano
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