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Vito Plantamura

I REATI ASSOCIATIVI
TRA TEORIA E PRASSI
Nuove Ricerche di Scienze Penalistiche

Collana diretta da
Sergio Moccia
25
Direttore: Sergio Moccia

Comitato scientifico: Luigi Ferrajoli, Carlo Fiore, Winfried Hassemer, Marcello


Gallo, Santiago Mir Puig, Massimo Nobili, Tullio Padovani, Carlo Enrico Pa-
liero, Claus Roxin, Juarez Tavares, Klaus Volk, Eugenio Raúl Zaffaroni

La pubblicazione è stata sottoposta a una procedura di valutazione a opera di


blind referees.
Vito Plantamura

I REATI ASSOCIATIVI
TRA TEORIA E PRASSI
Volume pubblicato con il contributo del fondo di finanziamento ordinario de-
stinato alla ricerca scientifica nell’ambito del Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Plantamura, Vito
I reati associativi tra teoria e prassi
Collana: Nuove Ricerche di Scienze Penalistiche, 25
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2019
pp. 188; 24 cm
ISBN 978-88-495-3974-5

© 2019 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.


80121 Napoli, via Chiatamone 7
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4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, con-
fartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000.
Al Maestro
Indice Sommario

Capitolo I
La libertà di associazione
1. Cenni storici sulla libertà di associazione p. 9
2. La libertà di associazione nella Costituzione italiana » 17
3. La libertà di associazione nella Convenzione EDU » 35
4. La libertà di associazione in prospettiva comparata (Spagna, Francia,
USA, Germania) » 41
5. Prime considerazioni » 50

Capitolo II
L’evoluzione dottrinale sui reati associativi
1. Reato associativo o reati associativi? » 55
2. Il problema del bene giuridico » 59
3. L’associazione «aperta» » 69
3.1 Associazione «aperta» e principi penalistici fondamentali » 74
4. Reati associativi e criminalità organizzata: rapporti e intersezioni » 82
5. Alcune proposte della dottrina, per la riforma dei reati associativi » 91

Capitolo III
La prassi applicativa dei reati associativi
1. Elementi costitutivi dei reati associativi e della condotta di partecipa-
zione » 99
2. Associazione, partecipazione e tentativo » 112
3. Cospirazione politica mediante accordo o associazione » 119
4. È davvero possibile che sussista un’associazione per delinquere tra cor-
ruttori e corrotti? » 126
5. La Cassazione italiana compara l’associazione per delinquere con quella
di malfattori del codice penale francese » 130

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8 indice sommario

Capitolo IV
Spunti comparativi e prospettive di riforma
1. Il tentativo, l’associazione di malfattori, la banda organizzata e il «one
man bad» (o «loup solitaire») » 139
2. La multiforme fattispecie incriminatrice spagnola di associazioni illecite
e il successivo delitto di organizzazione criminale » 146
3. Il concetto di banda e quello di associazione criminale in Germania,
prima e dopo la riforma, tra irrilevanza penale delle associazioni gerar-
chiche ed esigenze sovranazionali di tutela » 152
4. La conspiracy (l’attempt e la solicitation) negli USA » 159
5. Rilievi conclusivi e prospettive di riforma » 166

Bibliografia » 177

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Capitolo I

La libertà di associazione

Sommario: 1. Cenni storici sulla libertà di associazione. – 2. La libertà di


associazione nella Costituzione italiana. – 3. La libertà di associazione nella
Convenzione EDU. – 4. La libertà di associazione in prospettiva compa-
rata (Spagna, Francia, USA, Germania). – 5. Prime considerazioni.

1. Cenni storici sulla libertà di associazione

Nella libertà di associazione, anche per come affermatasi nel tempo,


si riscontra una tensione che, pure a seguito del diffondersi del ter-
rorismo internazionale1, e dei relativi attentati (a partire da quello
delle Twin Tower), risulta molto attuale2. Il riferimento è alla ten-
sione esistente tra due bisogni sociali, spesso contrastanti, e cioè, da
un lato, quello di libertà, e, dall’altro, quello di sicurezza; con la dif-
ferenza che il profilo individuale, soggettivo della sicurezza è emerso
più di recente, pure in conseguenza, appunto, ai succitati attacchi
terroristici, mentre la prospettiva ottocentesca era ancora saldamente
ancorata ad una concezione esclusivamente collettiva e pubblicistica
della sicurezza3.

1
Cfr. Manna, La strategia del terrore e i delitti di attentato, in Ind. pen., 2013,
51 ss.
2
Cfr.: Fenucci, Sicurezza nazionale e diritti di libertà negli USA, Bari, 2015; Lo-
rello, Il dilemma sicurezza vs. libertà al tempo del terrorismo internazionale, in De-
mocrazia e Sicurezza, 2017, n. 1., 31 maggio 2017.
3
Secondo autorevole dottrina, tuttavia, la sicurezza può essere solo pubblica, come

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10 capitolo i

Le spinte culturali e politiche all’affermazione della libertà di as-


sociazione, infatti, sono sempre state contrastate dalle istanze di si-
curezza, e, in particolare, di tutela dell’ordine pubblico: istanze che,
in molti casi, hanno portato ad erodere sensibilmente, con la legi-
slazione ordinaria e di polizia, le garanzie formalmente concesse a
livello costituzionale.
È interessante rilevare, in ogni caso, che, storicamente, la libertà
di associazione segue due linee di sviluppo diverse, a seconda che
trattasi di Paesi di civil law o di common law. Nei primi Paesi, in-
fatti, la libertà di associazione nasce, si sviluppa e – in parte già nel-
l’ottocento, ma con una consacrazione generalizzata nelle Carte no-
vecentesche – si automatizza, a partire da un’altra libertà che, in una
certa misura, la presuppone, ovverosia quella di riunione. Nei se-
condi Paesi, invece – ispirati a concezioni politiche di tipo contrat-
tualista e, comunque, più individualista –, la libertà di associazione
nasce per «gemmazione» da quella di espressione, soprattutto grazie
all’intervento di alcune sentenza delle Corti Supreme4.
Nella prima Carta della modernità, ovverosia la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, non trovano menzione
espressa né la libertà di riunione né quella di associazione, anche per
via del sospetto, proprio della mentalità giacobina, nei confronti dei
corpi intermedi – quali, ad es., associazioni religiose o corporazioni
di mestieri –, che rischiavano di potersi trasformare in uno strumento
di restaurazione.
Nel successivo Statuto Albertino, invece, tra i diritti e i doveri dei
cittadini – ovverosia in quella parte dove erano riconosciute le li-
bertà negative, come quella individuale, domiciliare, etc. –, era pre-
visto, all’art. 32, solo il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi,
in conformità a le leggi che potevano disciplinare e regolare l’eser-
cizio di tale diritto nell’interesse pubblico, mentre nulla si prevedeva
sulla libertà di associazione. Nello Statuto del 1848, del resto, lo

interesse diffuso collegato all’ordine pubblico. Cfr.: Pace, Libertà e sicurezza cin-
quant’anni dopo, in Diritto e società, 2013, n. 2, 177 ss., nonché Id., La funzione di
sicurezza nella legalità costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2014, n. 4, 989 ss.
4
Cfr. Clementi, Lo «statuto generale» della libertà di associazione in prospettiva
comparata: l’esperienza dei Paesi europei e dell’Unione europea, in Dir. pub. comp. eur.,
2017, 879 ss.

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la libertà di associazione 11

stesso diritto di riunione subiva ancora considerevoli restrizioni, in


quanto era limitato alle adunanze in sedi private, mentre quelle in
luogo pubblico o aperto al pubblico erano sottoposte alle leggi di
polizia.
Vi è da aggiungere, inoltre, che, con il d.lg. 5 agosto 1848, n. 768,
venne abolito il regime generale di autorizzazione preventiva per la
costituzione di associazioni, e fu abolita pure una serie di articoli del
codice penale sabaudo del 1839, che criminalizzavano il fenomeno
associativo in sé: per cui, anche considerando che lo Statuto Alber-
tino non era una Costituzione «rigida», si deve rilevare che il diritto
di associazione finì per essere garantito in modo non troppo dimi-
nuito rispetto a quello di riunione, salve successive oscillazioni in
senso autoritario.
Forse, però, la prima Carta occidentale che riconosce entrambe le
libertà di cui trattasi, in modo autonomo e distinto, è la Costitu-
zione belga del 1831 (il Belgio era appena divenuto indipendente dai
Paesi Bassi, a seguito dei moti unionisti del 1830), che anzi pare
molto più restrittiva nella previsione della libertà di riunione, che
non nella descrizione di quella di associazione, sostanzialmente priva
di limitazioni espresse, se non quelle discendenti, indirettamente, dalle
restrizioni proprie della antecedente libertà di riunione.
Nella Costituzione belga del 1831, infatti, all’art. 19 viene pre-
visto il diritto di riunione, per cui ai cittadini viene riconosciuto
il diritto di radunarsi pacificamente e senza armi, senza il bisogno
di un’autorizzazione preventiva, ma comunque conformandosi alle
leggi che possono regolare l’esercizio di questo diritto. Tale di-
ritto, tuttavia, non si estendeva agli assembramenti «a cielo aperto»,
che soggiacevano interamente alle leggi di polizia. Il successivo art.
20, invece, riconosceva semplicemente ai cittadini il diritto di as-
sociarsi, specificando che tale diritto non era sottoposto ad alcuna
autorizzazione preventiva, e senza prevedere alcuna restrizione
espressa, neppure con riferimento ad eventuali fini sociali crimi-
nosi o illeciti.
È solo successivamente alla prima guerra mondiale, però, che il
riconoscimento di una libertà di associazione autonoma, rispetto a
quella di riunione, diviene generalizzato in tutte le Carte europee,
tra le quali, esemplificativamente, si considerino la Costituzione di
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12 capitolo i

Weimar5, del 1919, e quella sovietica, del 1918. Nella prima, era pre-
visto che tutti i tedeschi avevano il diritto di riunirsi (art. 123) pa-
cificamente e senz’armi, senza il bisogno di previa autorizzazione.
La legge, tuttavia, poteva subordinare le riunioni all’aperto all’ob-
bligo di previa autorizzazione, disponendone la proibizione quando
dalla riunione fosse derivato un pericolo «immediato» per la sicu-
rezza pubblica.
Sempre nella Costituzione di Weimar, poi, all’art. 124, si affer-
mava che tutti i cittadini tedeschi avevano il diritto, che non poteva
essere limitato con misure preventive, di formare unioni o associa-
zioni, ma, con una formulazione caratteristica delle Carte novecen-
tesche, solo per il raggiungimento di scopi che non fossero in con-
trasto con la legge penale.
Si riteneva opportuno specificare, inoltre, che il diritto in que-
stione si estendeva a unioni o associazioni religiose, aggiungendo al-
tresì che ogni associazione poteva liberamente acquistare la capacità
giuridica, in conformità alle norme del diritto civile, senza che ciò
potesse essere negato per via del particolare scopo perseguito, fosse
esso politico, sociale o, appunto, religioso.
Con riferimento alla Costituzione dell’Unione Sovietica6, è inte-
ressante rilevare, invece, come sia la libertà di riunione, che quella
di associazione, fossero intese non solo in senso negativo, ma pure
positivo, soprattutto in relazione ai diritti sociali dei lavoratori. Ai
lavoratori sovietici, infatti – ex art. 15 Cost. –, era garantita un’ef-
fettiva libertà di riunione, con il diritto di organizzare, appunto, riu-
nioni, comizi, cortei, etc., e, a tal fine, la Repubblica Sovietica avrebbe
messo a disposizione di tutti i cittadini, operai o contadini che fos-
sero, appositi locali, debitamente illuminati e riscaldati, per consen-
tire l’organizzazione delle summenzionate riunioni.
Secondo l’art. 16 della stessa Costituzione, poi, l’Unione Sovie-
tica, «dopo avere spezzato il potere economico e politico delle classi
possidenti ed eliminato così tutti gli ostacoli che nella società borghese
impedivano finora agli operai e ai contadini di godere della libertà

5
Cfr. Mortati, Introduzione alla traduzione della Costituzione di Weimar, Roma,
Ministero per la Costituente, 1946.
6
Cfr. dircost.di.unito.it.

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la libertà di associazione 13

di organizzazione e di azione», riconosceva pienamente la libertà di


associazione, per altro, senza riferimenti limitativi ad eventuali scopi
illeciti, anche in considerazione del fatto che, evidentemente, nel re-
gime comunista la libertà di associazione veniva intesa come finaliz-
zata essenzialmente a scopi e rivendicazioni in ambito lavorativo,
senza porre soverchia attenzione alla possibilità che i cittadini – rec-
tius: i lavoratori – si associassero per altre finalità.
Anche in questo caso, poi, la libertà (nella specie, di associazione)
è intesa in una dimensione non solo negativa, ma pure positiva, per-
ché l’Unione Sovietica (almeno, a livello di previsione costituzionale)
offriva agli operai e ai contadini i mezzi materiali per rendere effet-
tivo l’esercizio del diritto in questione. È interessante rilevare, al pro-
posito, che tali mezzi venivano offerti solo ai contadini «più poveri»,
e, in questa differenziazione tra operai e contadini, traspare tutto il
sospetto dell’ideologia comunista sovietica, già nella sua prima fase
leninista, verso i contadini «non poveri», ovverosia quei kulaki che,
qualche anno dopo, saranno ferocemente perseguitati da Stalin, fi-
nendo per morire in massa nei gulag, col «brillante» risultato di af-
famare l’intera Russia7.
In Italia, invece, la prospettiva era cambiata a seguito dell’avvento
del regime fascista8, a partire dalla legge sulle associazioni segrete del
26 novembre 1925, n. 2029 che, nata col fine di contrastare, appunto,
le associazioni segrete e, in particolar modo, la massoneria, finì per
prevedere norme applicabili a tutte le associazioni, che poi vennero
trasfuse nei TULPS.

7
La lucida follia con la quale venne teorizzata (e, poi, attuata) la soppressione dei
kulaki come classe è espressa a chiare lettere in Stalin, Questioni del Leninismo, ed.
it., Roma, 1945, vol. I, 355, secondo il quale «Per eliminare i kulak come classe, è ne-
cessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti
economiche della sua esistenza e del suo sviluppo (libera utilizzazione della terra, mezzi
di produzione, affitto, diritto di ingaggiare mano d’opera salariata, eccetera)». Nello
stesso libro, al medesimo proposito, vi è poi un esempio paradigmatico di quella che
potremmo definire «ottusità ideologica», per cui, avendo constatato che, più si elimi-
navano i kulaki e si rafforzavano le aziende agricole collettive/comuniste, cioè i colcos
e sovcos, più la produzione di grano annua nazionale diminuiva, si formulava il rime-
dio di diminuire ancor più i kulaki e, correlativamente, aumentare le aziende collet-
tive, con ovvie conseguenze contrarie a quelle auspicate.
8
Cfr. Semeraro, L’esercizio di un diritto, Milano, 2009, 96.

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14 capitolo i

Con il TULPS del 1931 (e, ancor prima, con quello del 1926),
infatti, da un lato si limitò fortemente il diritto di riunione (artt. 18
ss. TULPS del 1931 e artt. 17 ss. TULPS del 1926) e, dall’altro (artt.
209 ss. TULPS del 1931, artt. 214 ss. TULP del 1926), si previde
che le associazioni fossero tenute a comunicare, all’Autorità di pub-
blica sicurezza, tutte le notizie riguardanti il proprio statuto e fun-
zionamento, la compagine sociale, etc., ogni qualvolta ne fossero ri-
chieste per ragione di ordine pubblico o sicurezza pubblica: l’inos-
servanza di tale obbligo, spettante a tutti coloro che avessero fun-
zioni di rappresentanza o direttive delle associazioni, era penalmente
sanzionata.
Il Prefetto, poi, poteva sciogliere le associazione che svolgevano
attività contraria agli ordinamenti politici dello Stato, anche, in tale
occasione, ordinando la confisca dei beni sociali, e, avverso tale prov-
vedimento, non era previsto alcun rimedio giurisdizionale, essendo
lo stesso ricorribile, invece, solo dinanzi al Ministro dell’Interno
(mentre il decreto del Ministro non era a sua volta ricorribile, nean-
che per motivi di legittimità).
Ritornava, poi – novità del TULPS, non prevista nella citata legge
Rocco del 1925 –, il regime dell’autorizzazione preventiva (addirit-
tura, ministeriale), ma per la costituzione, organizzazione o direzione
solo di associazioni internazionali, evidentemente viste con grande
sospetto dal regime, tanto che anche la semplice partecipazione, da
parte di un singolo, ad un’associazione internazionale già costituita
era, a sua volta, sottoposta ad autorizzazione ministeriale.
Il rovescio della medaglia fu rappresentato dall’enorme espansione
del fenomeno associativo, quando controllato e voluto dallo Stato, e
ciò sia in riferimento allo stesso partito fascista, come partito di
massa, al quale era auspicata l’iscrizione dell’intera popolazione, che
in relazione all’inquadramento, nel fenomeno corporativo, del plu-
ralismo sociale di tipo economico e professionale9.
In questo quadro normativo, si inseriscono i lavori dell’Assem-
blea Costituente italiana10 che, per quanto riguarda l’aspetto di cui

9
Così Nacci, La libertà di associazione tra tutela multilivello dei diritti e limiti
imposti dalla sicurezza interna ed internazionale, in Dir.fond., 2018, n. 1, 19.
10
Cfr.: Cheli, La fondazione della Repubblica – Dalla costituzione provvisoria alla

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la libertà di associazione 15

trattasi, si concluderanno – com’è noto – con una doppia previsione


autonoma dei diritti di riunione (art. 17) e associazione (art. 18). È
interessante rilevare come la relazione, in Commissione per la Co-
stituzione (e, in particolare, in III sottocommissione), sul diritto di
associazione, sia stata affidata al Di Vittorio, noto sindacalista che,
nella medesima relazione, trattava anche dell’ordinamento sindacale.
Anche nella Costituzione italiana, quindi – comunque, a fonda-
mento lavorista – la libertà di associazione non è disgiunta da quella
sindacale. Secondo Di Vittorio, del resto, il diritto di associazione è
il presidio più sicuro della libertà della persona umana, che normal-
mente ricerca il proprio sviluppo in sede associativa, politica, sociale,
culturale, religiosa, sportiva o di altro genere, e, appunto, massima-
mente sindacale, come associazione dei lavoratori, per i quali la li-
bertà di associarsi assume, quindi, un’importanza maggiore di quella
che le è propria rispetto alle classe dei grandi datori di lavoro e de-
gli stessi ceti medi o borghesi.
In ogni caso, nella proposta di articolo formulata dall’on Di Vit-
torio, la libertà di associazione, testualmente estesa anche agli stra-
nieri legalmente presenti sul territorio nazionale, non subiva limiti
espressi di sorta, con riferimento ad eventuali scopi illeciti o alla na-
tura segreta delle associazioni, mentre era previsto che «tale diritto
è garantito dalla legge e non potrà essere limitato dagli scopi politici,
sociali, religiosi o filosofici che persegue l’associazione».
Per quanto riguarda, invece, i Paesi di common law, appare pa-
radigmatica l’evoluzione della libertà di associazione così come av-
venuta negli USA, in cui vi è un mancato riconoscimento espresso,
nella Costituzione del 1787 e nei relativi primi dieci Emendamenti
del 1791 (nonché in quelli successivi), della libertà di associazione;
mentre la libertà di riunione (freedom of assembly), pur testualmente
citata, appare come una forma dilatata della libertà di manifestazione
del pensiero. Per via giurisprudenziale, poi, a partire dai primi anni
del ‘900, le libertà di riunione e, quindi, di associazione, si sono me-
glio affermate, come estensioni del primo e del quattordicesimo emen-
damento, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, appunto la

assemblea costituente, Bologna, 1981; Giovannelli, voce Assemblea Costituente, in


Enc. giur., Roma, 1988, vol. III.

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16 capitolo i

libertà di manifestazione del pensiero11 e il giusto processo (riferibile


anche al quinto emendamento).
Ad es., in De Jonge v. State of Oregon, del 1937 (299 US 353),
venne riconosciuto il diritto di riunione (pacifica) anche pubblica e,
soprattutto il diritto, in tale sede, di poter esprimere pure opinioni
radicalmente contrarie «all’ordine costituito». Nella specie, si trattava
di una riunione, aperta al pubblico, del partito comunista di Por-
tland, per la quale il De Jonge era stato inizialmente arrestato, e poi
condannato, in base alle leggi dell’Oregon, per altro analoghe a quelle
di altri Stati che, in precedenza, la Corte Suprema aveva ritenuto le-
gittime12.
La sentenza di condanna del De Jonge venne annullata, offrendo
un interpretazione restrittiva, costituzionalmente orientata, delle leggi
in questione, mentre, per una vera e propria dichiarazione di inco-
stituzionalità di una legge analoga, bisognerà aspettare trent’anni, con
la sentenza Brandenburg v. Ohio, del 1969 (395 US 444): si deve
specificare, però, che – in questo intervallo di tempo – un’oscilla-
zione in senso contrario, ovverosia autoritario, si produsse all’epoca
del c.d. maccartismo13.
Un’altra specificità della libertà di associazione, nel contesto de-
gli USA, è quella di essere stata spesso collegata al principio di ugua-
glianza, nel senso che l’associarsi sarebbe strumentale per l’afferma-
zione dei diritti delle minoranze, in un’ottica di contrasto alle di-
scriminazioni. Ciò è vero tanto in una prospettiva attuale, specie con
riferimento alle associazioni GLTB aut similia, quanto in relazione
alle prime importanti pronunce al riguardo, tra cui merita un posto
d’onore quella NAACP (National Association for the Advancement
of Coloured People) v. Alabama, del 1958 (357 US 449), in cui è
stato affermato, non solo il diritto di associazione, ma anche quello
di non presentare, su richiesta dell’Autorità Pubblica, la lista degli

11
I Emendamento: «Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di
una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di
stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al go-
verno per la riparazione dei torti subiti».
12
Cfr.: Gitlow v. New York (268 US 652) del 1925 e Whitney v California (274
US 357) del 1927.
13
Cfr. Dennis v. United States (341 US 494) del 1951.

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la libertà di associazione 17

associati: quasi una sorta di diritto di associazione segreta, che non


trova riscontro nella tradizione giuridica di common law, ma che
nella specie era evidentemente diretto a tutelare gli aderenti all’asso-
ciazione da possibili ritorsioni o persecuzioni da parte dello Stato
dell’Alabama.

2. La libertà di associazione nella Costituzione italiana

Com’è noto, la libertà di associazione nella Costituzione italiana,


rivolta ai cittadini, garantisce la possibilità, appunto, di associarsi,
senza autorizzazione, col solo limite dei fini vietati ai singoli dalla
legge penale. Al suo secondo comma, poi, l’art. 18 Cost. vieta le as-
sociazioni segrete14 e quelle che perseguono scopi politici, pure in-
diretti, ed hanno un’organizzazione di carattere militare15.
La libertà di associazione, tuttavia, viene tutelata direttamente (e
indirettamente) anche in altri articoli della Costituzione. Da un parte,
infatti – oltre che, come accennato, all’art. 17 Cost. sul prodromico
diritto di riunione16 – il diritto di associarsi liberamente è indiretta-
mente riconducibile all’ampia formulazione di cui all’art. 2 Cost., in
virtù della quale l’uomo viene tutelato non solo come singolo, ma
anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità17. D’al-

14
Cfr. Barbieri, Contento, Giocoli Nacci, Le associazioni segrete. Libertà as-
sociativa e diritto dell’associato tra legge Rocco (1925) e legge sulla P2 (1982), Napoli,
1984.
15
Cfr. Barile, voce Associazione (diritto di), in Enc. dir., vol. III, Milano, 1958,
837 ss.; Pace, Art. 18, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca e Pizzo-
russo, Bologna, 1977, 200 ss.; Ridola, voce Associazione I), Libertà di associazione,
in Enc. giur., III, Roma, 1988; Vigevani, voce Associazione (libertà di), in Dizionario
di diritto pubblico, a cura di Cassese, Milano, 2006, 472ss
16
Art. 17. I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riu-
nioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in
luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto
per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
17
In questa sede, quindi, si aderisce, al proposito, all’interpretazione prevalente, se-
condo la quale le associazioni sarebbero una specie, del più ampio genere costituito
dalle formazioni sociali. Si deve anche riferire, tuttavia, che secondo autorevole, ma
minoritaria, dottrina, tra i due fenomeni vi sarebbe alterità. Cfr. Mortati, Note in-

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18 capitolo i

tra parte, poi, il diritto di cui trattasi riceve un suo espresso rico-
noscimento, tanto al già citato art. 18, quanto agli artt. 20, 39 e 49
Cost., che tuttavia, in questa sede, rivestono minor rilievo.
L’art. 20 Cost., però, non possiede riflessi penalistici diretti, per-
ché riguarda, in particolare, le associazioni di carattere ecclesiastico
o, comunque, quelle che perseguono fini religiosi o di culto, e si
pone in continuità con gli altri articoli della nostra Costituzione sulla
libertà religiosa (qui intesa come religious freedom, all’americana, più
che come laicité alla francese), stabilendo giustamente che tali asso-
ciazioni ecclesiastiche e religiose, per il loro carattere e/o per i pro-
pri fini, non possono essere discriminate in alcun modo, come spe-
cificava pure la citata previsione, di cui all’art. 123 della Costituzione
di Weimar.
Allo stesso modo, manca di diretto rilievo penalistico anche l’art.
39 Cost., che si riferisce solo alle associazioni sindacali, anche se tale
articolo, e non solo il successivo, più specifico, art. 40 Cost. sul di-
ritto di sciopero, fu giustamente ritenuto violato dall’art. 502 c.p.
(serrata e sciopero per fini contrattuali), nella nota sentenza della
Corte Costituzionale, 4 maggio 1960, n. 2918, che ritenne costitu-
zionalmente illegittimo sanzionare penalmente non solo lo sciopero
ma, pur senza una disposizione espressa al riguardo, la «simmetrica»
serrata.
L’art. 49 Cost., infine – che dev’essere integrato dalla nota XII
dip.trans.fin.19, sul divieto di riorganizzazione del partito fascista: per

troduttive ad uno studio sulle garanzie dei singoli nelle formazioni sociali, in Scritti in
onore di S. Pugliatti, III, Milano, 1978, 1565 ss.
18
Reperibile in www.giuricost.org.
19
Di recente, vi è stato un caso di esclusione (per altro, ex post, cioè dopo l’ini-
ziale ammissione) di un partito da una competizione elettorale comunale, ma senza
scioglimento dell’associazione. Mentre, o l’associazione politica è fascista, e quindi
dev’essere disciolta – e devono essere applicate le sanzioni penali di cui alla c.d. legge
Scelba –, oppure non lo è, e allora non dev’essere disciolta, e non le si può neppure
impedire di partecipare ad una competizione elettorale. Sempre in senso critico – an-
che in relazione alla mancanza di un preciso quadro normativo di riferimento –, si
veda Nacci, Contrassegni politico-elettorali, simboli fascisti e XII disposizione transi-
toria e finale della Costituzione, Note a margine di un recente caso di esclusione ex
post dalle elezioni della lista «Fasci Italiani del Lavoro», 10 ottobre 2018, in federali-
smi.it.

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la libertà di associazione 19

altro di valore soprattutto simbolico, e applicata, forse, in un unico


caso, negli anni ’70 del secolo scorso, relativo allo scioglimento del
movimento politico Ordine Nuovo –, si riferisce specificatamente
alle associazioni partitiche/politiche20, ed ha quindi un suo rilievo pe-
nalistico principalmente nei confronti delle c.d. associazioni antico-
stituzionali21.
Tornando, quindi, all’art. 18 Cost., si deve rilevare che esso, se-
condo l’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale, è un vero
e proprio diritto inviolabile comprensivo, per altro, pure del c.d. ro-
vescio della medaglia, ovverosia del diritto di non associarsi, sancito
dalla Consulta, per la prima volta, con la sentenza n. 69, del 26 giu-
gno 196222.
In tale sentenza, infatti – relativa all’obbligo di associarsi all’ap-
posita federazione locale del CONI, per il legittimo esercizio del-
l’attività venatoria –, si afferma che, se pure nell’art. 18 Cost. sem-
brerebbe prevista soltanto la libertà di associazione, intesa come li-
bertà dei cittadini di associarsi per il raggiungimento di fini leciti, e
ciò, in via di principio, non escluderebbe la potestà dello Stato di
costringere in un nesso associativo gli appartenenti a una determi-
nata categoria, tutte le volte che un pubblico interesse lo imponga o
soltanto lo consigli – come avviene nel caso paradigmatico degli or-

20
Cfr. Brunelli, Struttura e limiti del diritto di associazione politica, Milano, 1991.
21
In argomento, anche per i rapporti tra gli artt. 18 e 49 Cost., si rinvia a Petta,
Le associazioni anticostituzionali nell’ordinamento italiano, in Giur. cost., 1973, 667 ss.
Secondo Cass. pen., 16 dicembre 1987, in Riv. pen., 1989, 84: «Tra il delitto di asso-
ciazione sovversiva e quello di ricostituzione del disciolto partito fascista ricorre un’i-
potesi di concorso di reati, non di concorso apparente di norme, in quanto i due reati,
pur presentando qualche affinità, sono tuttavia essenzialmente diversi sia nella condotta
sia nell’obiettività giuridica; ed invero, la riorganizzazione del disciolto partito fascista
si ha anche al di fuori della costituzione di un’associazione, dato che la legge fa espres-
samente riferimento anche a un movimento o a un gruppo di persone, e inoltre, l’as-
sociazione sovversiva è finalizzata alla lesione diretta e immediata della personalità
dello stato nei suoi ordinamenti economici e sociali, mentre nella riorganizzazione del
disciolto partito fascista la personalità dello stato è lesa in modo mediato e indiretto,
attraverso l’adozione dei principi ideologici fondamentali di quel partito e il metodo di
lotta da esso adottata, che ha condotto all’annullamento di ogni libertà politica, cioè
del fondamento stesso della democrazia».
22
Reperibile in www.giuricost.org.

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20 capitolo i

dini professionali –, l’articolo in questione deve essere interpretato


nel proprio contesto storico.
Bisogna considerare, cioè, che trattasi di una libertà formulata
dopo il ventennio fascista, in cui il legislatore aveva mirato ad in-
quadrare i fenomeni associativi nell’ambito di strutture pubblicisti-
che e sotto il controllo dello Stato, imponendo ai cittadini di far
parte di questa o di quella associazione, così comprimendo indiret-
tamente la stessa libertà positiva di associazione (qui intesa nel senso
di libertà di associarsi, e non come diritto di prestazione).
Allora, però – secondo la Consulta –, al Costituente italiano, la
libertà di non associarsi non poteva apparire meno essenziale di quella
di associarsi, anche se, in riferimento alla prima, non possono esclu-
dersi limiti dettati dall’opportunità, che la seconda invece non co-
nosce: limiti che, non essedo espressi, vanno accertati, caso per caso,
dalla stessa Corte. In linea di principio, tuttavia, si può affermare
che l’obbligo di associarsi, rivolto agli appartenenti ad un gruppo o
ad una categoria, si pone in contrasto con la libertà costituzionale
di non associarsi quando: 1. viola un diritto, una libertà o un prin-
cipio costituzionalmente garantito; 2 il fine pubblico che il legisla-
tore dichiara di perseguire mediante tale obbligo è palesemente ar-
bitrario, pretestuoso e artificioso.
Per quanto riguarda, invece, la libertà di associarsi, una delle prime,
più significative sentenze della Consulta, fu quella (n. 114 del 26 giu-
gno 1967) che dichiarò l’incostituzionalità del citato potere di scio-
glimento prefettizio previsto dal TULPS23. All’art. 18 Cost., del re-
sto, si è di fronte, in modo piuttosto evidente, ad una formulazione
assai ampia e libertaria del diritto in questione24, tanto che, almeno
apparentemente, la sua lettera risulta violata da alcuni reati associa-
tivi presenti nel nostro ordinamento25.
Sussistono, infatti, delle fattispecie incriminatrici le quali preve-
dono, appunto, come costitutiva di reato, la condotta di chi parte-

23
Cfr. Politi, Libertà costituzionali e diritti fondamentali, Casi e Materiali, Un
itinerario giurisprudenziale, Torino, 2016, 68.
24
Nella medesima direzione, si vedano le osservazioni di Vigevani, op. cit., 475.
25
In questo stesso senso, si veda già Plantamura, Reati associativi e rispetto dei
principi fondamentali in materia penale, in Ind. pen., 2007, 389 ss.

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la libertà di associazione 21

cipa ad associazioni che, ciò nondimeno, non solo non rientrano nei
casi speciali di cui al secondo comma dell’art. 18 Cost., ma che, even-
tualmente, possono pure perseguire solo fini non vietati ai singoli
dalla legge penale.
Sotto quest’ultimo punto di vista, bisogna aver particolare riguardo:
da un lato, al reato associativo di cui all’art. 3, co.3, della l. n.654/75
– successivamente modificata, prima, dalla c.d. legge Mancino, e,
dopo, dalla più recente legge di modifica dei «reati d’opinione», n.
85/200626 – in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa
(non priva di interferenze con la già citata c.d. legge Scelba27); non-
ché, dall’altro – e soprattutto, vista la sua maggiore incidenza sul si-
stema penale –, al reato di associazione per delinquere di tipo ma-
fioso, inserito, nel nostro codice penale, dall’art. 1 della l. n. 356/82,
recependo l’evoluzione giurisprudenziale in tema di misure di pre-
venzione.
Secondo la lettera del primo reato associativo in questione, infatti,
parrebbero risultare costitutive di reato anche le associazioni finaliz-
zate a condotte che, tuttavia, sarebbero penalmente irrilevanti – pure
ai sensi dei primi due commi del medesimo art. 3 l. n.654/75 –, se
poste in essere a livello individuale. Ex art. 416 bis c.p., invece, può
considerarsi di tipo mafioso, e quindi costitutiva di reato, anche un’as-
sociazione finalizzata allo scopo, magari illecito, ma non necessaria-
mente di penale rilevanza, di realizzare profitti o vantaggi ingiusti,

26
Cfr.: Notaro, Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione (l. 24
febbraio 2006 n. 85), in Legis. pen., 2006, 401 ss.; Pascarelli, La riforma dei reati
d’opinione: un commento alla nuova disciplina, in Ind. pen., 2006, 697 ss.
27
«In tema di rapporti fra l’art. 1 l. 20 giugno 1952 n. 645, il quale, nel delineare
le varie possibili forme di riorganizzazione vietata dal partito fascista, si riferisce an-
che alla «propaganda razzista», e l’art. 3, 3° comma, l. 13 ottobre 1975 n. 654 (come
sostituito dall’art. 1, 1° comma, d.l. 26 aprile 1993 n. 122, conv. con modif. in l. 25
giugno 1993 n. 205), il quale vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o
gruppo che abbia fra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza
per motivi razziali, deve ritenersi che, quando la ricostituzione del partito fascista non
appaia riconoscibile attraverso la propaganda razzista, quest’ultima possa acquistare ri-
levanza solo come forma di incitamento, punibile ai sensi del citato art. 3 l. n. 654/75
le cui previsioni trovano applicazione, come espressamente affermato nella stessa norma,
«salvo che il fatto costituisca più grave reato»», così Cass. pen., sez. I, 7 maggio 1999,
in Riv. pen., 1999, 735.

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22 capitolo i

e, addirittura, un’associazione finalizzata allo scopo, indubbiamente


lecito in sé, di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o
comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di auto-
rizzazioni, appalti e servizi pubblici».
Invece, in relazione all’incriminazione delle associazioni che hanno,
tra i propri scopi, l’incitamento alla discriminazione (o alla violenza),
per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, si deve effettivamente
constatare che, nel passaggio dalla dimensione individuale, a quella
associativa, viene meno l’aggancio normativo agli «atti», appunto, di
discriminazione, che caratterizza invece le condotte individuali, ed è
importante per garantire concretezza e materialità alla fattispecie in-
criminatrice, perché, viceversa, non può escludersi «il sospetto che il
punto di sbocco di questo doppio finalismo …sia in definitiva, piut-
tosto che la commissione di autentici delitti, la diffusione di contenuti
di pensiero certamente incompatibili con i valori fondamentali del no-
stro ordinamento, ma che non per questo possono giustificare a li-
vello costituzionale l’incriminazione delle associazioni rivolte a di-
fenderli»28.
Il divario, poi, tra il piano individuale e quello associativo, par-
rebbe accentuato dall’intervento operato dall’ultima citata legge di
modifica – n.85/06 – (anche) della normativa di cui trattasi, la quale,
per quello che in questa sede più direttamente interessa, ha sosti-
tuito giustamente l’espressione «incita», di cui al comma 1 lett. a) e
b) dell’art. 3 della legge in questione, con quella, più determinata e
meno anticipata, «istiga»29, ma non ha operato una modifica corri-
spondente, a livello di reato associativo.
I suesposti rilievi, tuttavia, possono risultare notevolmente «sdram-
matizzati», qualora, come è preferibile, si aderisca all’interpretazione,
decisamente restrittiva, inizialmente offerta dalla Cassazione, sul con-
cetto di discriminazione di cui all’art. 3, della l. n.654/75. La Su-
prema Corte, infatti, investita della questione di legittimità costitu-

28
Così, testualmente, de Vero, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 385 ss., e, spec., 400.
29
Pare minimizzare, però, la portata della modifica in questione, Visconti, Il le-
gislatore azzeccagarbugli: le modifiche in materia di reati di opinione introdotte dalla
l. 24 febbraio 2006, n.85, in Foro it., V, 2006, 217 ss. e, spec., 223.

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la libertà di associazione 23

zionale del reato associativo in oggetto, per violazione, appunto, del-


l’art. 18 Cost., ha ritenuto la questione stessa manifestamente infon-
data, chiarendo, però – ed è questo il punto fondamentale –, che «la
discriminazione prevista dalla norma penale in questione sarebbe rea-
lizzabile solo mediante atti di coercizione fisica o morale suscettibili
di integrare di volta in volta gli estremi di reati quali la violenza
privata, l’estorsione, le lesioni volontarie ed altri»30. Sotto questo punto
di vista, quindi, l’incitamento alla discriminazione potrebbe essere in-
teso, non senza una certa dose di «buona volontà» interpretativa,
come una sorta di istigazione a delinquere, notoriamente vietata an-
che a livello monosoggettivo (art. 414 c.p.).
Successivamente, però, la stessa Cassazione ha affermato che: «In
tema di discriminazione razziale, non viola i principi di materialità
e di offensività l’art. 3, 3º comma, l. 13 ottobre 1975 n. 654, nella
parte in cui attribuisce rilevanza penale ad «ogni organizzazione, as-
sociazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento
alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, na-
zionali o religiosi», così escludendo che sia necessaria, per la configu-
rabilità del reato, l’esistenza di una struttura e organizzazione anche
materiale, come invece è richiesto per il delitto di associazione per de-
linquere»31.
L’intera questione, quindi, risulta affatto significativa anche da un
altro punto di vista, perché dimostra che la tenuta della dimensione
realmente garantista dell’art. 18 Cost. è legata, a doppio filo, con
quella dell’intero sistema di garanzie costituzionali. Nel senso che
solo in un Paese in cui i principi di materialità, offensività, extrema
ratio, tassatività, ecc., siano effettivamente fatti propri dal legislatore
penale, e «presi sul serio» dalla giurisprudenza, specie di Cassazione,
l’articolo in questione può risultare dotato di una sua reale portata
garantista.
Sempre la Cassazione, del resto, al proposito si è espressa in senso
quantomeno estensivo, affermando che: «Costituisce associazione per
delinquere finalizzata all’incitamento ed alla violenza per motivi raz-
ziali, etnici e religiosi, anche una struttura che, utilizzando la gestione

30
Così Cass. pen., sez. V, 24 gennaio 2001, Gariglio, in Riv. pen., 2001, 1018.
31
Così Cass. pen., sez. I, 16 febbraio 2016, n. 34713, in Riv. pen., 2016, 895.

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24 capitolo i

di un blog, tenga i contatti tra gli aderenti, metta in atto condotte


di proselitismo, anche mediante diffusione di documenti e testi in-
neggianti al razzismo, programmi azioni dimostrative e violente, rac-
colga elargizioni economiche a favore del forum, provveda a censire
episodi e persone che operino per l’affermazione dell’uguaglianza tra
cittadini di etnie e razze diverse»32.
Per giunta, qualora il legislatore penale fosse indotto a ritenere
costitutivi di reato, già a livello monosoggettivo, fatti che non ledano
alcun bene giuridico, e che, magari, siano espressione di altre libertà
costituzionali (come, ad es., appunto la libertà di pensiero), l’art. 18
Cost. risulterebbe, conseguentemente, svuotato del proprio conte-
nuto. Anzi, proprio il tenore dell’articolo in questione potrebbe co-
stituire una sorta di arma a doppio taglio. Secondo autorevole dot-
trina33, infatti, per il legislatore penale può risultare necessario incri-
minare taluni fatti esclusivamente qualora siano commessi da asso-
ciazioni, magari di notevoli dimensioni, e non, anche, quando siano
commessi a livello individuale.
Allora, però, il legislatore stesso – per non incorrere in profili di
incostituzionalità – ben potrebbe essere indotto a punire i fatti in
oggetto già a livello individuale, solo per poterli incriminare, altresì,
a livello associativo. E tale (possibile) inversione metodologica com-
porterebbe, altresì, una conseguente inversione, della funzione dal-
l’art. 18, co. 1 Cost. che, da delimitativa, diverrebbe ampliativa, della
sfera del punibile.
Per quanto attiene, invece, all’associazione di tipo mafioso, risulta
evidente che l’unica concreta possibilità di ritenere tale norma costi-
tuzionalmente compatibile, in riferimento all’art. 18, risiede nel con-
siderare il metodo mafioso sempre e comunque come penalmente ri-
levante, già a livello monosoggettivo. E, in effetti, l’agire avvalendosi
della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, pure a livello

Così Cass. pen., sez. III, 24 aprile 2013, n. 33179, in Foro it., 2014, II, 90.
32

La possibilità che la medesima attività possa acquistare significato diverso, a se-


33

conda che sia svolta da un singolo, oppure da una associazione, magari di notevoli di-
mensioni, è sottolineata, anche in prospettiva di riforma dell’art. 18 Cost., da Spa-
gnolo, L’associazione di tipo mafioso, 4a ed., Padova, 1993, 12.

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la libertà di associazione 25

individuale, può costituire, a seconda dei casi, il reato di violenza


privata, o anche, addirittura, quello di estorsione: questo, beninteso,
anche se, al momento del fatto, non vengano reiterate le minacce,
che però, evidentemente, devono essere state precedentemente for-
mulate nel medesimo ambiente, appunto per creare il pregresso, e
sufficientemente diffuso, stato di soggezione psicologica.
In questa prospettiva costituzionalmente orientata, tuttavia, risulta
evidente che il metodo mafioso viene inteso come un elemento og-
gettivo della fattispecie incriminatrice, e non come un mero elemento
del programma criminoso. Elemento che presuppone lo svolgimento,
da parte dell’associazione, di una qualche consistente attività delin-
quenziale che, a sua volta, deve aver creato quella particolare con-
dizione ambientale, in cui può svolgere la sua attività una associa-
zione di tipo mafioso: la quale, quindi, sarebbe una associazione che
delinque, più che una associazione per delinquere, non essendo pre-
vista in un reato associativo puro, ma a struttura mista, come sa-
rebbe dimostrato, per altro, dalla mancanza, tra le condotte qualifi-
cate, di quella di costituzione34.
Questo tipo di ricostruzione, tuttavia, si attaglia bene alle mafie
storiche, magari agenti nelle regioni a maggiore radicamento mafioso,
ma entra in crisi se relazionata alle nuove mafie, per le quali, non a
caso, la Cassazione, al contrario, ritiene che: «Ai fini della configu-
rabilità del delitto previsto dall’art. 416 bis c.p., in ipotesi di strutture
delocalizzate e di mafie «atipiche», non è necessaria la prova che l’im-
piego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato
in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di ele-

34
Per una più ampia esposizione di tali argomenti, si rinvia al citato volume mo-
nografico dello Spagnolo. Successivamente, però, è stato sostenuto che, nel caso in cui
l’attività criminosa svolta non sia tale da aver prodotto la necessaria condizione di as-
soggettamento, non si sia di fronte ad una associazione per delinquere «semplice» –
come affermato, appunto, dallo Spagnolo –, ma ad un tentativo (ritenuto possibile no-
nostante trattasi di reato di pericolo) di associazione di tipo mafioso, come sarebbe
dimostrato dalla presenza, al secondo comma dell’articolo di cui trattasi, della con-
dotta qualificata di promozione, la cui integrazione, quindi, si verificherebbe anche
qualora il reato associativo stesso si arrestasse alle soglie del tentativo. In tal senso, si
veda Militello, voce Associazione di tipo mafioso, in Dizionario di diritto pubblico,
cit., 482 ss., e, spec., 486.

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26 capitolo i

zione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della con-


notazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice»35.
Molto probabilmente, poi – a proposito di mafie «atipiche» –,
sempre la Cassazione sarà chiamata a sciogliere il nodo della nota
vicenda di Mafia Capitale36 che, con riferimento, appunto, alla qua-
lificazione come mafiosa dell’associazione (o delle associazioni) in
questione – in ogni caso, ritenute rilevanti ex art. 416 c.p. –, ha vi-
sto un ribaltamento, in appello, di quanto più garantisticamente ri-
tenuto dal giudice di prime cure37.
Almeno secondo chi scrive, inoltre, anche l’interpretazione costi-
tuzionalmente orientata, qui offerta, del metodo mafioso, se pur si-
curamente preferibile e più vicina al dettato letterale della norma,
non riesce ad eliminare completamente l’attrito esistente tra quanto
previsto, da un lato, dall’art. 18 Cost., e, dall’altro, dall’art. 416 bis
c.p. E questo perché, in definitiva, da un lato vi sono i mezzi, e dal-
l’altro i fini. Tanto che, al riguardo, in una prospettiva di riforma,
potrebbe apparire forse più felice, nonostante (o, se si preferisce: pro-
prio perché) sia più restrittiva, la formulazione della libertà di asso-
ciazione prevista dall’art. 22 della Costituzione spagnola, del 197838
– che si approfondirà nel proseguo –, nel quale articolo, a parte il
rituale divieto delle associazioni segrete e di quelle paramilitari, si
definiscono altresì illegali le associazioni, non solo che perseguono
fini, ma anche che adottano metodi, tipicamente delittuosi.
A questo proposito, tuttavia, bisogna sottolineare come proprio
tale, più restrittiva, previsione costituzionale, abbia consentito l’in-
troduzione, nel codice penale spagnolo, di una fattispecie incrimina-
trice di associazione «illecita» (art. 515 c.p.39: che pure sarà oggetto

35
Così Cass. pen., sez. II, 4 aprile 2017, n. 24851, in Ced Cass., rv. 270442.
36
Cfr. Manna, I «confini mobili» dell’associazione per delinquere di stampo ma-
fioso ovvero della cd. concezione antropomorfica della norma penale, in Parola alla Di-
fesa, 2018, n. 1, 17 ss.; nonché, amplius, Pomanti, Le metamorfosi delle associazioni
di tipo mafioso e la legalità penale, Pisa, 2018.
37
Cfr.: Trib. Roma, X coll. Pen., 20 luglio 2017, n. 11730, in Guida al dir. n. 1-2
2018, con nota di Cisterna; App. Roma, sez. III, 10 dicembre 2018, n. 10010, in
www.penalecontemporaneo.it.
38
Cfr. www.constitucion.es.
39
Cfr. Il Codice penale spagnolo, intr. Quintero Olivares, trad. Naronte, Pa-
dova, 1997.

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la libertà di associazione 27

di trattazione dedicata nel proseguo), e non per delinquere, che de-


sta davvero notevoli perplessità40, nella misura in cui sembra espres-
sione ancora di una certa diffidenza verso i c.d. corpi intermedi,
quantomeno nella parte in cui criminalizza le associazioni che per-
seguono fini leciti, non solo attraverso mezzi violenti – il che è, al
limite, accettabile– ma anche attraverso mezzi, non meglio specifi-
cati, di alterazione o controllo della personalità, che, ad es., potreb-
bero essere ritenuti sussistenti, data la sostanziale indeterminatezza
dell’espressione utilizzata, anche nel caso di ordini monastici, l’ade-
sione ai quali, nella tradizione cristiana, comporta una totale sotto-
missione ai propri superiori, nonché, più in generale, una vera e pro-
pria «rinuncia al mondo».
Sempre de iure condendo, poi – ma senza che con questo si vo-
glia affermare l’esistenza di obblighi costituzionali di difesa –, si deve
in fine rilevare che, a fronte della fin qui illustrata ampiezza del di-
ritto di associazione (e, indirettamente, di non associarsi) riconosciuto
nella nostra Carta fondamentale, il legislatore penale italiano non ha
fin qui ritenuto, però, di introdurre una fattispecie incriminatrice a
difesa dell’esercizio di tale diritto, come giustamente fatto, invece, da
quello francese, che infatti, all’art. 431-1 c.p.41, punisce il fatto di
ostacolare, quantomeno tramite minacce – ma la pena è maggiore in
caso di uso di violenza, vie di fatto, etc. –, l’esercizio di alcune li-
bertà fondamentali (di espressione, di manifestazione, ecc.), tra le
quali, appunto, vi è pure quella d’associazione.
Tornando all’ordinamento italiano, un altro momento di crisi della
libertà di associazione costituzionalmente garantita è rappresentato
dalla recente normativa di contrasto al terrorismo42. Com’è noto, del
resto, già l’art. 270 bis c.p., che – in aggiunta, se non in sovrappo-
sizione, o comunque in progressione, rispetto all’art. 270 c.p.43 – era

40
Condivise da Vinciguerra, I reati associativi nell’esperienza giuridica europeo
continentale, in Aa.Vv., I reati associativi (atti del convegno di Courmayeur), Milano,
1998, 101 ss., e, spec., 111.
41
Cfr. www.legifrance.fr.
42
Su cui si rinvia a Nacci, op. cit., 48 ss.
43
«Tra la figura di reato di cui all’art. 270 c.p. (associazione sovversiva) e quella
di cui all’art. 270 bis stesso codice (associazione con finalità di terrorismo anche inter-
nazionale o di eversione dell’ordine democratico) è ravvisabile un rapporto di progres-

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28 capitolo i

stato introdotto nel 1979, sull’onda emotiva del sequestro Moro – e


che poi è stato modificato, nel 2001, a seguito del già ricordato at-
tentato delle Twin Towers –, rischia di porsi in contrasto con il di-
ritto di associazione di cui all’art. 18 Cost., se non anche con il di-
ritto di libera manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 Cost44.
Tale pericolo, però, è stato in parte scongiurato dall’interpreta-
zione costituzionalmente orientata offerta da certa giurisprudenza,
per la quale, infatti, l’integrazione del delitto di associazione con fi-
nalità di terrorismo (anche internazionale) non richiede la presenza
solo di una semplice attività di proselitismo ed indottrinamento, se
pur svolta con lo scopo di magnificare la causa islamica e, magari,
il relativo martirio, nonché di acquisire una generica disponibilità ad
unirsi ai combattenti in suo nome, ma necessita della sussistenza di
una vera e propria struttura criminale che, da un lato, si prefigga la
realizzazione di atti violenti qualificati dalla summenzionata finalità
di terrorismo e, dall’altro, abbia la capacità di dare agli stessi atti ef-
fettiva realizzazione.
In applicazione di tale principio, la Corte, nel caso di gruppi con
limitata operatività, desunta da una serie di indici fattuali, ha rite-
nuto insussistente il delitto di cui all’art. 270 bis c.p., specificando,
tuttavia, come l’attività di mero proselitismo ed indottrinamento, ben
potendo costituire precondizione ideologica per la successiva costi-
tuzione di un’associazione terroristica, può risultare rilevante per l’ap-

sione criminosa, in conseguenza del quale la ritenuta sussistenza della seconda e più
grave di dette figure assorbe ed impedisce la contestuale configurabilità della prima»,
così Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2004, Marotta, in Riv. pen., 2005, 165. Nello stesso
senso si veda Cass. pen., sez. V, 4 luglio 2013, n. 46340, in Riv. pen., 2014, 36, se-
condo la quale: «Il reato di associazione sovversiva (art. 270 c.p.) e quello di associa-
zione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.)
si differenziano tra loro essenzialmente per il fatto che il primo postula l’impiego di
una violenza generica mentre il secondo quello di una violenza di tipo terroristico; il
che giustifica la maggiore severità della pena che per quest’ultimo è stata prevista».
44
Al proposito, si veda la derubricazione – dal reato di cui all’art. 270bis, a quello
previsto dall’art. 416 c.p. – compiuta dalla Cassazione in relazione a soggetti operanti,
anche con il compimento di «micro-attentati» alle cose (diretti, evidentemente, a sol-
lecitare l’opinione pubblica), per protestare contro la TAV in Val di Susa. Cfr. Cass.
pen., sez. I, 21 novembre 2001, in Cass. pen., 2004, 1249, con nota seguente di Da-
gnino, Associazioni con finalità eversive e libertà costituzionali di associazioni e ma-
nifestazione del pensiero: un coniugio non sempre agevole.

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la libertà di associazione 29

plicazione di misure di prevenzione45.


Nello stesso senso, si pone quella giurisprudenza per cui il
reato associativo di cui all’art. 270 bis c.p. – nella specie, di ma-
trice anarchica – non deve ritenersi integrato, perfino a seguito
del compimento di atti di violenza, e quindi di fatti certamente
vietati ai singoli dalla legge penale, qualora sia supportato, però,
da una mera adesione individuale al programma di un’associa-
zione effettivamente esistente, nel caso in cui i soggetti agenti –
evidentemente, in mero concorso di persone nel reato plurisog-
gettivo eventuale – non abbiano costituito una «cellula» della pre-
detta associazione, o, quantomeno, un «gruppo di affinità» alla
stessa, alla quale risultino riconducibili le azioni delittuose poste
in essere46.
Accanto a tale filone giurisprudenziale più garantista, tuttavia, è
presente anche uno più rigorista, secondo il quale il reato cui trat-
tasi risulterebbe sussistente anche nel caso di un sodalizio di mero
supporto all’azione terroristica di organizzazioni riconosciute ed ope-
ranti come tali. Il supporto in questione potrebbe concretizzarsi nello
svolgimento di una o più attività strumentali all’azione terroristica,
alcune delle quali – ma, attenzione, forse non tutte – rilevanti pure
a titolo monosoggettivo, tra cui sono menzionate quelle indirizzate
al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assi-
stenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acqui-
sizione di armi, alla predisposizione o acquisizione di documenti falsi,
all’arruolamento, all’addestramento47.
Le maggiori criticità, del resto, sono rappresentate proprio da
quelle fattispecie incriminatrici che – via via introdotte, fino al 2016,
a seguito di attentati, e/o per il recepimento di atti internazionali e
sovranazionali – vanno ad anticipare ulteriormente la soglia di pu-
nibilità, punendo attività poste in essere «al di fuori dei casi di cui
all’art. 270bis», ovverosia ancor prima che gli estremi di tale reato
associativo di pericolo astratto siano integrati48.

45
Così Cass. pen., sez. V, 14 luglio 2016, n. 48001, in Ced Cass., rv. 268164.
46
Cfr. Cass. pen., sez. II, 1 aprile 2016, n. 28753, in Ced Cass., rv. 267512.
47
Così Cass. pen., sez. I, 11 dicembre 2015, n. 22126, in Cass. pen., 2016, 4076,
con nota di Padrone.

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30 capitolo i

Fortunatamente, però, esiste anche una norma di portata generale,


di cui all’art. 270 sexies c.p., per cui «Sono considerate con finalità

48
Un ottimo quadro sintetico – ma non aggiornato al 2016, e quindi con esclu-
sione dell’art. 270quinquies.1 c.p., sul finanziamento di condotte con finalità di terro-
rismo – di tali fattispecie sussidiarie è fornito da Leotta, La repressione penale del
terrorismo a un anno dalla riforma del d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv. con modif.
dalla l. 17 aprile 2015, n. 43, in Arch. pen., 2016, n. 1, 10s.: «l’assistenza agli associati
(art. 270-ter c.p.): la fattispecie, inserita dal d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, conv. è sussi-
diaria sia rispetto all’art. 270-bis c.p. sia rispetto ai delitti di favoreggiamento (artt. 378
e 379 c.p.) e punisce con la reclusione fino a 4 anni, escluso il caso in cui l’assistito sia
un prossimo congiunto, chi «dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto,
strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano alle associazioni in-
dicate negli articoli 270 e 270-bis»; – l’arruolamento attivo (art. 270-quater, co. 1, c.p.):
la fattispecie, introdotta dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv., è sussidiaria all’art. 270-
bis c.p. e punisce con la reclusione da 7 a 15 anni, chi «arruola una o più persone per
il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali,
con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un
organismo internazionale»; – l’arruolamento passivo (art. 270-quater, co. 2, c.p.): la fat-
tispecie, introdotta, come si è detto, dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv., è sussidiaria
sia rispetto al delitto di associazione terroristica (art. 270-bis c.p.) sia rispetto al delitto
di addestramento passivo (art. 270-quinquies, co. 1, 2° per., c.p.) e punisce con la re-
clusione da 5 a 8 anni chi si arruola per il compimento di atti con finalità di terrori-
smo; – l’organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo (art. 270-quater.1 c.p.):
la fattispecie, sempre introdotta dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv. è sussidiaria sia
rispetto al delitto di associazione terroristica (art. 270-bis c.p.) sia rispetto al delitto di
arruolamento (art. 270-quater c.p.) e punisce con la reclusione da 5 a 8 anni, «chiun-
que organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compi-
mento delle condotte con finalità di terrorismo»; – l’addestramento attivo ad attività
con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies, co. 1, 1 per., c.p.): la fattispecie, introdotta
dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv., è sussidiaria rispetto all’associazione terroristica
(art. 270-bis c.p.) e punisce con la reclusione da 5 a 10 anni, chi «addestra o comun-
que fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da
fuoco o di altre la repressione penale del terrorismo a un anno dalla riforma del d.l.
18 febbraio 2015 21 armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose,
nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di
sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti con-
tro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale»; – l’addestramento
passivo ad attività con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies, co. 1, 2° per., c.p.): la
fattispecie, introdotta dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv., è sussidiaria all’associazione
terroristica (art. 270-bis c.p.) e punisce con la reclusione da 5 a 10 anni, chi è da terzi
addestrato al compimento di atti di terrorismo; – il compimento di atti finalizzati al
terrorismo da parte di chi si è auto-addestrato (art. 270-quinquies, co. 1, 2° per., c.p.):
la fattispecie, introdotta dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv., funge da norma di chiu-
sura del sistema di tutela, è sussidiaria alla partecipazione all’associazione terroristica

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la libertà di associazione 31

di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono


arrecate grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione interna-
zionale», alla luce della quale devono essere interpretati i vari reati
«anticipati» (di addestramento, arruolamento, etc.), «nel senso che,
per possedere penale rilevanza, devono sottostare al giudizio di peri-
colo concreto che comporta quest’ultima norma, che, per l’appunto,
non è altro che l’espressione del principio di offensività, applicato alla
materia in esame. In tal modo, la punizione di atti puramente pre-
paratori viene decisamente controbilanciata, a livello di interpreta-
zione sistematica, attraverso il criterio ermeneutico dettato dall’art.
270 sexies»49.
Non è certo un caso, comunque, che la fattispecie incriminatrice
introdotta per ultima in materia – e cioè, appunto, nel 2016 –, al-
l’art. 270 quinquies.1 c.p., sul finanziamento di condotte con finalità
di terrorismo, rappresenta pure l’ipotesi più avanzata di tale processo
di progressiva anticipazione. Atteso, infatti, che il finanziamento al
terrorismo poteva già essere punito ex art. 270 bis c.p., oppure, in
subordine, come assistenza agli associati, ex art. 270 ter c.p., o, sgan-
ciandosi dal fenomeno associativo, come finanziamento di viaggi al-
l’estero (beninteso: finalizzati al compimento delle condotte con fi-
nalità di terrorismo), ex art. 270 quater.1 c.p., non risulta chiarissimo
– anche in assenza, allo stato, di una pronuncia della Cassazione al
riguardo – l’autonomo ambito di operatività della norma incrimina-
trice di finanziamento di condotte finalizza al terrorismo, che pure
risulta dotata di una sanzione particolarmente severa (reclusione da
sette a quindici anni).
Una possibilità sarebbe data dall’intendere la norma in questione
come diretta solo a colmare la presunta lacuna consistente nella pos-
sibilità di finanziamento di un singolo «lupo solitario», che agisce in
assenza di un’associazione di riferimento. Diversamente, bisognerebbe
spingere la fattispecie stessa – ma proprio questo, del resto, pare l’e-

(art. 270-bis c.p.) e punisce con la reclusione da 5 a 10 anni la «persona che avendo
acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al
primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione
delle condotte di cui all’articolo 270-sexies».
49
Così Manna, La strategia del terrore e i delitti di attentato, cit., 63.

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32 capitolo i

vidente l’intento del legislatore – fino alla punizione di atti molto


anticipati, rispetto all’offesa di qualsivoglia bene giuridico costitu-
zionalmente rilevante, come parrebbe confermato pure dall’espresso
inciso, secondo il quale il fatto è comunque punito «indipendente-
mente dall’effettivo utilizzo dei fondi per la commissione delle citate
condotte».
Ovviamente, poi, il cortocircuito con l’art. 18 Cost. si ottiene im-
maginando la punizione, ex art. 416 c.p., di un’associazione – ma-
gari, con organizzazione rudimentale – finalizzata al finanziamento
di condotte con finalità di terrorismo: punizione in astratto ben pos-
sibile, essendo ora tale finanziamento un fine vietato ai singoli – ap-
punto, ex art. 270quinquies.1 c.p. – dalla legge penale. Ciò a con-
ferma di quanto già accennato, ovverosia che la reale portata garan-
tista dell’art. 18, co. 1, Cost. non è autonoma, ma è effettivamente
assicurata solo in un ordinamento in cui il diritto penale, e le con-
nesse fattispecie incriminatrici monosoggettive, siano coerenti con i
principi costituzionali in materia penale: ivi compreso quello di of-
fensività, da intendere almeno in senso debole, come notoriamente
fatto dalla Consulta, sub specie di ragionevolezza50.
Per quanto riguarda, invece, il secondo comma dell’art. 18 Cost.,
e quindi il paradigma della democrazia protetta, da modalità dell’a-
zione politica che potrebbero falsare la fisiologica dialettica demo-
cratica, appare opportuno riferire che, da parte di certa dottrina, si
era ritenuto che, nonostante ciò non fosse esplicitato dalla lettera
della norma, il fine politico che doveva contraddistinguere le orga-
nizzazioni para-militari (anche non armate, ma caratterizzate da di-
sciplina ed ordinamento gerarchico analoghi a quelli militari, secondo
quanto previsto dal d.lg. n. 43/1948), perché le stesse fossero proi-
bite (mentre, ad es., i Tiratori Tirolesi, c.d. Shutzen, non avendo fini
politici, ma culturali e folkloristici, non possono esserlo, nonostante
siano armati51), dovesse essere proprio, per incorrere nel medesimo
divieto, pure delle associazioni segrete: viceversa, la disposizione si

50
Cfr. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica cri-
minale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005.
51
Cfr. Corte Costituzionale, 19 febbraio 1976, n. 26, in www.giuricost.org.

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la libertà di associazione 33

sarebbe posta in insanabile contrasto con la tutela della riservatezza


che, invece, la Costituzione assicura ad individui e gruppi52.
La concezione per cui non tutte le associazioni segrete dovevano
essere vietate (anche se, ad alcune categorie di persone, può essere
vietata, dalla legge, l’affiliazione: come attualmente avviene per i ma-
gistrati rispetto alla massoneria)53, già sostenuta da parte della dot-
trina, è stata accolta, poi, nella nota l. n. 17/1982: ovverosia la legge
c.d. Spadolini-Anselmi, di attuazione, appunto, dell’art. 18 Cost. in
materia di associazioni segrete – ovverosia di quelle associazioni che
occultano, anche all’interno di associazioni palesi, la loro esistenza,
ovvero tengono segrete congiuntamente finalità e attività sociali ov-
vero rendono sconosciuti, in tutto od in parte ed anche reciproca-
mente, i soci –, nonché di scioglimento dell’associazione denominata
Loggia P2.
In base al primo articolo di tale legge, infatti, non tutte le asso-
ciazioni segrete sembrerebbero vietate dall’art. 18 Cost., co. 2, ma
rientrerebbero nel divieto solo quelle che svolgono attività diretta ad
interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di am-
ministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti
pubblici pure economici, nonché di servizi pubblici essenziali di in-
teresse nazionale: il modello di riferimento è, chiaramente, quello
dell’associazione politica sovversiva, com’era, appunto, la P2.
Senza, però – almeno secondo una isolata interpretazione giuri-
sprudenziale: in generale, trattasi sostanzialmente di una legge di-
sapplicata –, che sia necessario che tali associazioni segrete, per es-
sere vietate, debbano perseguire finalità eversive o debbano essere
caratterizzate da un programma diretto alla commissione di specifici
delitti, né che le stesse associazioni debbano caratterizzarsi per l’esi-
stenza di una struttura organizzativa estesa, com’era avvenuto nel

52
Crf. Pace, art. 18, cit., 217 ss.
53
Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16 luglio 2010, n. 4597, in Foro amm.-Cons.
Stato, 2010, 1433 ss., per il quale, «In base al principio costituzionale della libertà di
associazione, che riguarda anche i magistrati, è illegittima la delibera del Csm che di-
chiara inidoneo un soggetto alla nomina di giudice della cassazione per affiliazione alla
massoneria ufficiale, qualora l’interessato abbia aderito a tale associazione quando l’ap-
partenenza non era ancora considerata un disvalore e se ne è dissociato prima che in-
tervenisse un preciso divieto da parte della legge».

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34 capitolo i

caso paradigmatico della potentissima (e sovversiva) Loggia masso-


nica deviata P254.
Di recente, tuttavia, l’impostazione limitativa del divieto di asso-
ciazione segreta, fatta propria dalla citata legge c.d. Spadolini-An-
selmi, è stata oggetto di severe critiche e proposte di revisione, pro-
prio in relazione alla massoneria e alle relative logge, non tanto de-
viate, come la P2, ma piuttosto infiltrate dalla criminalità organiz-
zata. Il 21 dicembre 2017, infatti, l’apposita Commissione parla-
mentare antimafia ha presentato un’ampia relazione, contenente un
allegato dedicato ai rapporti tra mafia e massoneria, soprattutto in
Sicilia e Calabria.
In tale relazione55, si spiega come la massoneria non abbia posto
in essere le necessarie strategie per contrastare il fenomeno delle in-
filtrazioni mafiose, dotandosi di serio sistema interno di controlli, ed
anzi abbia rafforzato talune proprie originarie caratteristiche, sebbene
notoriamente analoghe a quelle mafiose, che quindi esercitano un
forza attrattiva nei confronti dei mafiosi stessi: prima di queste ca-
ratteristiche è, appunto, la segretezza, che permea tanto il mondo
massonico quanto quello mafioso.
Nella stessa relazione, per altro, si mette in luce come, nel dibat-
tito svoltosi, sul punto, in Assemblea Costituente, a fronte della pro-
posta di Togliatti, di vietare le associazioni segrete, vi era stata una
controproposta, «essenzialmente di parte massonica», tesa a limitare
tale divieto alle associazioni svolgenti un fine illecito. Alla fine, però,
era nettamente prevalsa la tesi del divieto tout court – che, del re-
sto, emerge chiaramente dal testo della norma –, pure in base alle
considerazioni di Moro e Tupini, secondo i quali le società segrete
sono concepibili solo nei regini totalitari o autoritari, dove la segre-
tezza può evitare persecuzioni e discriminazioni, ma non hanno ra-
gione di esistere in un regime democratico come il nostro.
Sempre nella relazione, poi, si osserva giustamente che la defini-
zione di associazione segreta, di cui all’art. 1 della l. n. 17/1982, ri-
sulta strumentale alla criminalizzazione, all’articolo seguente, di quanto
definito, con la previsione della pena della reclusione sia per i ver-

54
Cfr. Trib. Roma, 2 novembre 2010, Carboni, in Foro it., 2011, II, 123.
55
Reperibile sul sito istituzionale www.camera.it.

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la libertà di associazione 35

tici che per i meri partecipi delle associazioni segrete: sanzioni che,
ovviamente, non si sono potute applicare ai «piduisti», ex art. 2 c.p.;
e che però, anche in seguito, sono rimaste sostanzialmente inappli-
cate.
A ben osservare, tuttavia, la Costituzione pone un divieto per le
associazioni segrete, ma non un obbligo di incriminazione delle stesse,
per cui ben potrebbe intendersi la summenzionata definizione legale
come relativa solo alle associazioni segrete da criminalizzare, mentre
rimarrebbe ancora necessaria una legge più generale che regoli, in
applicazione del divieto di cui al secondo comma dell’art. 18 Cost.,
lo scioglimento delle associazioni segrete – magari, secondo la stessa
definizione di segretezza di cui al citato art. 1 –, a prescindere dai
fini perseguiti, e senza il bisogno di applicare sanzioni penali ai ver-
tici e ai partecipi56.

3. La libertà di associazione nella Convenzione EDU

A livello di Convenzione EDU, le libertà di riunione e di asso-


ciazione sono tutelate al medesimo art. 11, con una previsione che
se, da un lato, neglige completamente gli aspetti, pur affatto rilevanti,
delle associazioni segrete e para-militari, dall’altro risulta caratteriz-
zata da eccezioni forse troppo numerose. Secondo la lettera del ci-
tato art. 11, comunque, ogni persona ha diritto alla libertà di riu-

56
Per completezza, si segnala che l’art. 5 – rubricato partecipazione ad associazioni
e organizzazioni – del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, prevede che: «1. Nel rispetto della
disciplina vigente del diritto di associazione, il dipendente comunica tempestivamente
al responsabile dell’ufficio di appartenenza la propria adesione o appartenenza ad as-
sociazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui
ambiti di interessi possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. Il pre-
sente comma non si applica all’adesione a partiti politici o a sindacati
2. Il pubblico dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni
od organizzazioni, né esercita pressioni a tale fine, promettendo vantaggi o prospet-
tando svantaggi di carriera». Trattasi, tuttavia, di un regolamento di attuazione del-
l’art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che disciplina il pubblico impiego contrat-
tualizzato, da cui esulano, ancora, alcune sparute eccezioni di dipendenti pubblici in
senso stretto: come, ad es., quella dei magistrati o dei ricercatori e professori univer-
sitari.

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36 capitolo i

nione pacifica, nonché a quella d’associazione, che comprende il di-


ritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi
per la difesa dei propri interessi.
Non distante risulta la formulazione di cui alla successiva Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, all’art. 12 sulle li-
bertà di riunione e di associazione, prevede che «Ogni individuo ha
diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a
tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che
implica il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con
altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi».
Tornando all’art. 11 delle Convenzione EDU, il riferimento ai sin-
dacati, assente in altre parti della stessa Convenzione – ma presente
all’art. 5 della successiva Carta sociale europea57 –, è stato di grande
importanza. Se inizialmente, infatti, la Corte EDU aveva ritenuto
che, dal diritto associativo di fondare sindacati ed aderirvi, non era
possibile dedurre quali fossero le possibilità di azione dei sindacati
medesimi, con svuotamento conseguente del diritto in questione, dal
2008 in poi, invece, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è
cambiata nel senso di individuare, appunto, violazioni dell’art. 11, in
ipotesi di compressione del diritto di sciopero58.
È interessante rilevare che alcune tra tali sentenze hanno riguar-
dato anche lo sciopero di categorie particolari di lavoratori. Ad es.,
la Corte EDU (in Enerji Yapi-Yolsen c. Turchia, del 21 aprile 2009)
ha ritenuto che, in generale, la libertà sindacale può essere compati-
bile con il divieto di sciopero nei confronti dei dipendenti che eser-
citino funzioni pubbliche a nome dello Stato, perché il diritto di

57
Nel testo del 1996, la Carta recita: «Articolo 5 Diritti sindacali – Per garantire
o promuovere la libertà dei lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizza-
zioni locali, nazionali o internazionali per la protezione dei loro interessi economici e
sociali ed aderire a queste organizzazioni, le Parti s’impegnano affinché la legislazione
nazionale non pregiudichi questa libertà né sia applicata in modo da pregiudicarla. La
misura in cui le garanzie previste nel presente articolo si applicheranno alla polizia sarà
determinata dalla legislazione o dalla regolamentazione nazionale. Il principio dell’ap-
plicazione di queste garanzie ai membri delle forze armate e la misura in cui sono ap-
plicate a questa categoria di persone è parimenti determinata dalla legislazione o dalla
regolamentazione nazionale».
58
Cfr. Guazzarotti, Articolo 11, in Bartole, De Sena, Zagrebelsky, Commen-
tario breve alla CEDU, Padova 2012, p. 447

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la libertà di associazione 37

sciopero non ha carattere assoluto e, dunque, può essere subordi-


nato a condizioni o essere oggetto di talune restrizioni.
La sospensione del diritto di sciopero, quindi, può riguardare ta-
lune categorie di funzionari, ma non può avere luogo, come nel caso
oggetto di ricorso, nei confronti di tutti i dipendenti in generale o
dei lavoratori pubblici delle imprese commerciali o industriali statali.
Nella specie, inoltre, le previste restrizioni normative al diritto di
sciopero, per essere compatibili col diritto di associazione, avrebbero
dovuto precisare chiaramente, e in misura più restrittiva possibile, le
categorie di funzionari interessati, e non determinare un divieto as-
soluto di sciopero per tutti i dipendenti, senza operare alcun tenta-
tivo di bilanciamento, nei confronti delle esigenze imperative elen-
cate al secondo comma dell’art. 11 della Convenzione.
Come anticipato, infatti, secondo l’art. 11 della Convenzione EDU,
le libertà di riunione e di associazione possono essere oggetto di al-
cune restrizioni stabilite dalla legge, ma solo se tali restrizioni costi-
tuiscono misure necessarie, in una società democratica: alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla pre-
venzione dei reati, alla protezione della salute o, anche, della morale,
nonché alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Le libertà di associazione e di riunione, inoltre – con una for-
mulazione, secondo chi scrive, particolarmente controversa –, non
vietano delle speciali restrizioni (delle libertà stesse) che possono es-
sere stabilite dalla legge nei confronti di particolari categorie di per-
sone, come militari, poliziotti e, in genere, impiegati delle ammini-
strazioni dello Stato: almeno, la lettera della norma non include, tra
le categorie che possono essere soggette a tali restrizioni, i magistrati.
Il vero problema, però, è che la norma non pone limiti alle ti-
pologie di associazioni, rispetto alle quali le succitate categorie di
persone possono vedere compresso il loro diritto di associarsi, senza
poter invocare una violazione dei diritti umani. Anche nella Costi-
tuzione italiana, infatti, vi è questo tipo di limitazione – per altro
estesa, oltre che i militari di carriera in servizio attivo, ai funzionari
ed agenti di polizia, e ai rappresentanti diplomatici e consolari all’e-
stero, anche ai magistrati –, ma ciò, ex art. 98, co. 3, Cost., riguarda
solo i partiti politici, e quindi una singola tipologia di associazioni,

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38 capitolo i

per ovvie ragioni di tutela della democrazia e dell’equilibrio trai po-


teri dello Stato.
In precedenza si è riferito, per vero, del divieto di legge, per i
magistrati italiani, di iscriversi pure alla massoneria. Non si dimen-
tichi, però, che, nonostante la restrittiva definizione di associazione
segreta di cui alla citata legge c.d. Spadolini-Anselmi, per l’art. 18
Cost. sono vietate le associazioni segrete tout court, e non solo quelle
svolgenti particolari finalità, per cui perfino un divieto generalizzato
d’iscrizione alla massoneria, almeno fin quando la stessa ritenga im-
prescindibile il requisito della segretezza, ben potrebbe considerarsi
costituzionalmente compatibile.
Al proposito delle restrizioni riguardanti particolari categorie di
soggetti, tuttavia, la giurisprudenza della Corte EDU, pure in alcune
sentenze nei confronti della Francia (Matelly contro Francia e Asso-
ciation de Défense des Droits des Militaires contro Francia59), si è
evoluta nel senso di ritenere che un conto è prevedere restrizioni,
altro è negare alla radice il diritto di istituire e partecipare, ad es., a
sindacati (nella specie, ai militari).
Considerato, quindi, che le norme della Convenzione EDU, nel
nostro ordinamento interno – ex art. 117 Cost. –, devono essere con-
siderate, non tanto in sé, cioè per la loro lettera, ma per come in-
terpretate dall’apposita Corte (come chiarito dalle c.d. sentenze ge-
melle nn. 348 e 349 del 200760), proprio in base all’invocato (dai ri-

59
Entrambe reperibili – come pure le altre che si citeranno – sul sito istituzionale
hudoc.echr.coe.int.
60
Cfr. Cartabia, Le sentenze «gemelle»: diritti fondamentali, fonti, giudici, in Giur.
costit., 2007, 3564. La Corte Costituzionale, tuttavia – nella sentenza citata alla nota
successiva –, ricordando tale principio, specifica che esso non vale in relazione alla
Carta sociale europea, che infatti è priva di previsioni analoghe a quelle di cui agli artt.
32 e 40 CEDU, e dunque alle decisioni – se pur autorevoli, non vincolanti – assunte
dall’apposito Comitato europeo dei diritti sociali: ai fini nazionali, quindi, la Consulta
rimane libera di interpretare le norme della Carta sociale europea. Anche il principio
enunciato nelle c.d. sentenze gemelle, del resto, non è stato successivamente privo di
evoluzioni e/o modificazioni. Cfr.: Viganò, L’impatto della Cedu e dei suoi protocolli
sul sistema penale italiano, in Ubertis, Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giu-
stizia penale, Torino, 2016, 13 ss.; Sotis, Le regole dell’incoerenza. Pluralismo norma-
tivo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012, 81; Manes, Il giudice nel la-
birinto. Profili delle intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012.

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la libertà di associazione 39

correnti dinanzi al Consiglio di Stato) art. 11 della Convenzione


EDU (in combinato disposto con l’art. 14, sul divieto di discrimi-
nazione), pur testualmente più restrittivo del nostro art. 18 Cost.,
dalla Consulta, con una sentenza manipolativa, è stato considerato
costituzionalmente illegittimo «l’art. 1475, comma 2, del decreto le-
gislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in
quanto prevede che “I militari non possono costituire associazioni pro-
fessionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sinda-
cali” invece di prevedere che “I militari possono costituire associa-
zioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti
fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sinda-
cali”»61.
Avendo riguardo, quindi, più in generale, all’interpretazione del-
l’art. 11 offerta dalla stessa Corte EDU – che poi, come chiarito, è
quella che davvero rileva, specie se trattasi di «diritto consolidato» –,
si deve segnalare che la Corte in questione ha più volte affermato
(ad es., Sidiropoulos e altri v. Grecia, del 10 luglio 1998, e Gorzelik
e altri v. Polonia, del 17 febbraio 2004) il ruolo essenziale svolto
dalle associazioni nel mantenimento del pluralismo e della democra-
zia, da cui consegue l’esigenza di un’interpretazione particolarmente
rigorosa delle numerose eccezioni di cui al medesimo art. 11.
Conseguentemente, per la Corte EDU, il termine «necessario» di
cui all’art. 11 – quando tale articolo si riferisce a misure, appunto,
necessarie in una società democratica – deve essere interpretato in
modo affatto stringente, anche perché non ha la flessibilità di altri
termini, come, ad es., «utile» o «tempestivo»: qualsiasi limitazione
della libertà di associazione, dunque, deve rispondere a un «bisogno
sociale urgente».
In prima battuta, poi, il compito di valutare se sussiste una «ne-

Com’è noto, poi, i rapporti tra Convenzione EDU e diritto nazionale sono stati in
parte ridisegnati soprattutto dalla nota sentenza, in tema di confisca urbanistica, Corte
Costituzionale, 23 marzo 2015, n. 49, anche in Cass. pen., 2015, 2195, con nota di
Manes e in Arch. pen., 2015, 783, con nota di Civello. Più in generale, sui rapporti
tra legalità costituzionale e convenzionale, si rinvia a Plantamura, Legalità costitu-
zionale e convenzionale: tra misure di prevenzione e concorso esterno, in Arch. pen.,
2018, n. 3.
61
Così Corte Costituzionale, 27 luglio 2018, n. 180, in www.federalismi.it.

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40 capitolo i

cessità sociale pressante», nell’interesse pubblico, per limitare la libertà


di associazione, è delle singole Autorità nazionali, alle quali, infatti,
la Convenzione attribuisce, a tal riguardo, un certo margine di ap-
prezzamento e di discrezionalità: anche se ciò non esclude, ovvia-
mente, che le decisioni di tali Autorità nazionali rimangono soggette,
in materia, al controllo della Corte EDU, che si estende sia alle leggi
in sé, che alle decisioni con cui sono state applicate, tanto dall’au-
torità amministrativa, quanto dai tribunali indipendenti.
Ciò non significa, però, che la Corte EDU intende soppiantare i
tribunali nazionali competenti, ma che, quando esamina, a norma
dell’articolo 11 della Convenzione, le decisioni che tali Tribunali
hanno assunto a loro discrezione, non si limita ad verificare se lo
Stato convenuto abbia esercitato (o meno) il proprio potere in buona
fede, con cura e in modo ragionevole.
Anche un tale esercizio ragionevole della propria discrezionalità,
infatti, non implica necessariamente che la limitazione della libertà
di associazione contestata dal ricorrente fosse realmente «proporzio-
nata allo scopo legittimo perseguito» e che i motivi invocati dalle au-
torità nazionali per giustificarla siano davvero «pertinenti e suffi-
cienti», e comunque non in contrasto con i principi sanciti dall’art.
11 (Authentiks e Supras Auteuil 91 c. Francia, del 27 ottobre 2016).
Ad es., con un’interessante sentenza (Biblical Centre Chuvash Re-
public c. Russia, del 13 ottobre 2014), la Corte EDU ha deciso che
non risulta rispettato il principio di proporzionalità nelle limitazioni
all’esercizio delle libertà religiosa (art. 9) e di associazione, che su-
biscono in questo modo compressione eccessiva, che non può con-
siderarsi legittima, dallo scioglimento, da parte delle autorità gover-
native russe, di un’intera organizzazione religiosa riconosciuta (bi-
blical centre of the Chuvash Republic), a causa delle violazioni in
materia di standards da adottarsi nei locali adibiti all’insegnamento
pubblico, trattandosi di violazioni limitate ad un’attività dell’associa-
zione – appunto quella di catechesi svolta dagli stessi genitori in con-
comitanza con le funzioni religiose, diretta ad intrattenere i minori
in modo gratuito e senza l’impiego di personale dedicato – del tutto
secondaria rispetto a quella principale dell’esercizio di un culto, vero
scopo dell’associazione stessa.
È interessante notare, infine, che la Corte EDU, del tutto in via
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la libertà di associazione 41

interpretativa62, ha enucleato una categoria di associazioni meritevoli


di una tutela rafforzata, ovverosia i partiti politici. Questo tutela
rafforzata è dovuta al riferimento, contenuto all’art. 11 della Con-
venzione, alla società democratica, e dunque in base all’osservazione
per cui i partiti politici hanno un’importanza, appunto per la de-
mocrazia, che è maggiore di quella propria di qualsiasi altra catego-
ria di associazioni, e, conseguentemente, sono meritevoli di un esame
più rigoroso della necessità di limitare la libertà di associazione.
Nei confronti dei partiti politici, in particolare, tale necessità può
riscontrarsi, in modo paradigmatico, quando si tratti di partiti che,
a loro volta, si pongano in contrasto programmatico con le regole
di una società democratica: come in Vona v. Ungheria, del 9 luglio
2013, con cui la Corte EDU ha ritenuto che lo scioglimento di un’as-
sociazione lato sensu politica, che diffondeva idee basate sull’odio ra-
ziale e, per giunta, aveva una struttura paramilitare, non violasse l’art.
11 della Convenzione, anche in considerazione del seguente art. 17,
sull’abuso di diritto.

4. La libertà di associazione in prospettiva comparata (Spagna, Fran-


cia, USA, Germania)

Come accennato, la Costituzione spagnola del 1978 riconosce se-


paratamente, all’art. 21, il diritto di riunione e, all’art. 22, quello di
associazione. L’art. 21, infatti, prevede il riconoscimento del diritto
di riunione pacifica e senza armi, specificando che l’esercizio di tale
diritto non necessita di previa autorizzazione. Nei casi di riunione
in luogo pubblico e di manifestazioni, tuttavia, dovrà essere data co-
municazione preventiva all’autorità, che potrà proibirle, ma soltanto
quando esistano ragioni fondate di turbativa dell’ordine pubblico,
con pericolo per persone o cose.
L’art. 22, invece, sancisce in genere il diritto di associazione, ma
definisce illegali le associazioni che perseguono finalità o utilizzino
modalità qualificate come reato. Sono vietate, altresì, le associazioni

62
Cfr. Mariotti, Art. 11 – Libertà di riunione e di associazione, in Corte di Stra-
sburgo e giustizia penale, cit., 307 ss., e, spec., 313.

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42 capitolo i

segrete e quelle di carattere paramilitare. Le associazioni costituite


nel rispetto dei succitati limiti costituzionali, invece, dovranno essere
registrate soltanto agli effetti della pubblicità. A tal proposito, nel
preambolo della legge organica 22 marzo 222, n. 1, regolatoria del
diritto di associazione, si precisa che «Del contenido del artículo 22.3
de la Constitución se deriva que la Administración carece, al gestio-
nar los Registros, de facultades que pudieran entrañar un control ma-
terial de legalización o reconocimiento. Por ello, se regula el proce-
dimiento de inscripción en los límites constitucionales mencionados,
estableciéndose la inscripción por silencio positivo en coherencia con
el hecho de tratarse del ejercicio de un derecho fundamental».
Per altro, come chiarito dalla dottrina, la mancata iscrizione, e la
conseguente assenza di personalità giuridica dell’associazione, com-
porta l’esclusione da benefici fiscali, finanziamenti pubblici, aut si-
milia, ma non la qualificazione dell’associazione come segreta o il-
legale63.
Le associazioni, tuttavia – sempre in base all’art. 22 Cost. –, po-
tranno essere sciolte o sospese dalla loro attività, in virtù di prov-
vedimento giudiziale motivato. Il testo della norma non chiarisce
espressamente se lo scioglimento e la sospensione, a seguito di prov-
vedimento giudiziale motivato, sono possibili solo in caso di viola-
zione dei limiti di cui allo stesso art. 22, o anche per altri motivi.
La prima opzione, però, sembra preferibile, anche perché, come chia-
rito dal secondo comma dell’art. 10 Cost., le norme relative ai di-
ritti fondamentali e alle libertà riconosciute dalla Costituzione spa-
gnola devono essere interpretate in conformità alla Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo – il cui art. 20 stabilisce che ogni
individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione paci-
fica, e che nessuno può essere costretto a far parte di un’associa-
zione – e ai Trattati e Accordi internazionali nelle stesse materie ra-
tificate dalla Spagna, tra cui la menzionata Convenzione EDU.
Quando, tuttavia, il legislatore spagnolo ha disciplinato puntual-
mente, all’art. 38 della citata legge organica, i casi di sospensione o
scioglimento delle associazioni, ha finito per prevedere margini pro-

63
Cfr. Carrera, Libertad de asociacion y terrorismo, in Aa.Vv., Aplicacion de la
normativa antiterrorista, Donostian (San Sebastian), 2009, 324 ss., e, spec., 331.

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la libertà di associazione 43

babilmente più ampi di quelli risultanti dagli accordi internazionali


in materia, stabilendo che «2. La disolución de las asociaciones sólo
podrá declararse en los siguientes casos: a) Cuando tengan la condi-
ción de asociación ilícita, de acuerdo con las leyes penales. b) Por las
causas previstas en leyes especiales o en esta ley, o cuando se declare
nula o disuelta por aplicación de la legislación civil».
In ogni caso, a proposito della libertà di associazione, merita men-
zione una recente e interessante sentenza, la n. 226 del 2016, del Tri-
bunal Constitucional in composizione plenaria64, emessa a seguito di
un ricorso presentato contro la decisione della Commissione esecu-
tiva federale del Partido Socialista Obrero Español, giurisdizional-
mente confermata (con «sentencia de la Sala de lo Civil del Tribu-
nal Supremo de 27 de septiembre de 2011»), con la quale la ricor-
rente, in base all’art. 46 del regolamento interno del partito in que-
stione, era stata sospesa, per venti mesi, dall’associazione politica di
cui trattasi, per via della pubblicazione di due sue lettere offensive
dell’immagine del partito medesimo, su di un quotidiano.
La particolarità della decisione consiste nell’aver dovuto analiz-
zare il ricorso, non solo in relazione all’art. 22, sulla libertà di asso-
ciazione, ma pure con riferimento all’art. 665, sui partiti politici, e al-
l’art. 2066, sulla libertà di espressione. Ebbene, per il Tribunal, se è

64
Il testo delle sentenze del Tribunal è reperibile sul sito istituzionale hj.tribunal-
constitucional.es. Per un commento della sentenza citata, nella dottrina italiana, si veda
Iacometti, La giurisprudenza del Tribunale Costituzionale spagnolo nel biennio 2015-
2016, in Giur.Cost., 2017, 2259 ss.
65
Articolo 6 – I partiti politici esprimono il pluralismo politico, concorrono alla for-
mazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per
la partecipazione politica. La loro creazione e l’esercizio della loro attività sono libere
nel rispetto della Costituzione e della legge. La loro struttura interna e il loro operare
dovranno essere democratici.
66
Articolo 20 – Si riconoscono e tutelano i diritti: a) a esprimere e diffondere li-
beramente il pensiero, le idee e le opinioni per mezzo della parola, degli scritti o con
qualunque altro mezzo di riproduzione; b) alla produzione e creazione letteraria, ar-
tistica, scientifica e tecnica; c) alla libertà di insegnamento; d) a comunicare o ricevere
liberamente informazioni veritiere attraverso qualsiasi mezzo di diffusione. La legge
regolerà il diritto alla clausola di coscienza e il segreto professionale nell’esercizio di tale
libertà. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere ristretto da nessun tipo di censura
preventiva. 3. La legge regolerà l’organizzazione e la verifica parlamentaria dei mezzi
di comunicazione sociali controllati dallo Stato o da qualsiasi ente pubblico e garantirà

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44 capitolo i

vero che è necessario che le libertà fondamentali degli associati siano


tutelate all’interno dei partiti, è altrettanto vero che sugli associati
gravano doveri di lealtà, collaborazione e garanzia nei confronti del-
l’associazione cui si sono affiliati, che si concretano in speciali limiti
della libertà di espressione, per cui, nella specie, le affermazioni con-
tenute nelle lettere pubblicate, relative ai meccanismi di selezione
delle candidature, sono state ritenute effettivamente insultanti, con
legittimità costituzionale conseguente della sanzione «disciplinare»
applicata.
Un’altra significativa e recente sentenza del Tribunal Constitucio-
nal, la n. 100/2018, sempre in seduta plenaria, ma dai maggiori ri-
flessi penalistici, ha riguardato la compatibilità costituzionale della
legge del Parlamento di Catalogna n. 13/2017, sulle associazioni di
consumatori di cannabis, in riferimento al secondo comma dell’art.
22, sulle associazioni illegali. Ebbene, considerando che l’art. 368 del
codice penale spagnolo punisce non solo chi coltiva, trasforma o
tratta droghe, ma anche chi ne promuove il consumo, il Tribunal ha
dichiarato incostituzionale e nulla la legge della Catalogna, proprio
perché finiva, almeno indirettamente, per promuovere il consumo di
droga.
In Francia, invece, le associazioni sono regolate dalla legge 1 lu-
glio 1901, mentre manca una previsione costituzionale espressa della
libertà di associazione. Secondo tale legge ordinaria, le associazioni
possono essere formate liberamente, senza controllo dell’ammini-
strazione, e possono essere riconosciute dallo Stato con una semplice
dichiarazione in Prefettura.
Nel 1971, tuttavia, l’amministrazione pubblica si oppose, per mo-
tivi lato sensu politici, ma senza alcuna effettiva base legale, alla di-
chiarazione dell’associazione maoista Les amis de La Cause du peu-
ple, rifiutando di rilasciare l’apposita ricevuta di dichiarazione In quel-

l’accesso a detti mezzi da parte dei gruppi sociali e politici significativi, rispettando il
pluralismo della società e delle diverse lingue della Spagna. 4. Queste libertà hanno i
loro limiti nel rispetto dei diritti riconosciuti in questo titolo, nei precetti delle leggi che
lo attuano, e specialmente nel diritto all’onore, all’intimità, alla propria immagine e alla
protezione della gioventù e dell’infanzia. 5. Il sequestro di pubblicazioni, registrazioni
e altri mezzi d’informazione potrà essere concesso soltanto in base a provvedimento
giudiziale.

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la libertà di associazione 45

l’occasione, il Governo decise quindi di approvare una legge, di mo-


difica della legge del 1901, e, in particolare, del relativo art. 7, per
stabilire un controllo amministrativo di validazione delle dichiara-
zioni delle associazioni, rilasciate ai fini del proprio riconoscimento.
Questa situazione portò alcuni parlamentari a chiedere al Presi-
dente del Senato – uno dei pochi soggetti a cui la Costituzione del
1958, che aveva introdotto il Conseil constitutionnel, attribuiva tale
potere – di attivare la procedura per la verifica (preventiva, cioè prima
della promulgazione) della legittimità costituzionale della citata legge
di modifica, proprio dinanzi al Conseil constitutionnel: a tal propo-
sito si deve ricordare che poi, con la riforma del 1974, questa pos-
sibilità di ricorso è stata data anche a gruppi di 60 deputati o 60 se-
natori; mentre, solo con la successiva riforma del 2008 – e conse-
guente legge di regolamentazione del 2010 –, si è reso possibile il ri-
corso individuale di un cittadino, ma solo ex post, ovverosia dopo
la decisione dei giudici di cognizione67.
In ogni caso, il ricorso in questione si concluse con la fonda-
mentale decisione n. 71-44 DC, del 16 luglio 197168, con la quale si
è affermata la parziale non conformità costituzionale della legge di
modifica di cui trattasi, nella parte in cui, appunto modificando l’art.
7 della legge del 1901, istituiva un controllo amministrativo preven-
tivo sulle dichiarazioni delle associazioni, rilasciate ai fini del pro-
prio riconoscimento: controllo preventivo che, come specificato nella
decisione, non si sarebbe potuto ritenere legittimo neanche se, in-
vece che come amministrativo, fosse stato previsto in sede giurisdi-
zionale.
L’importanza di tale decisione, comunque, è data da un aspetto
metodologico, che travalica di molto il pur interessate merito della
questione. Ciò che più rileva, infatti, è la circostanza che, in quel
caso, per la prima volta, il Conseil constitutionnel – la cui funzione
non è direttamente paragonabile a quella della nostra Corte Costi-

67
Cfr. Grosso, La Francia, in Aa.Vv., a cura di Carrozza, Di Giovine, Fer-
rari, Diritto costituzionale comparato, Tomo I, 2a ed., Bari, 2014, 108 ss., e, spec.,
137 ss.
68
I provvedimenti del Conseil sono reperibili sul sito istituzionale www.conseil-
constitutionnel.fr.

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46 capitolo i

tuzionale –, si attribuì il ruolo, non espressamente riconosciutogli dalla


legge, di difensore dei diritti umani69: diritti che lo stesso Conseil in-
dividua, nell’ambito del vasto «blocco costituzionale» – che si estende
dalla Dichiarazione del 1789 alla carta dell’ambiente del 2003 –, so-
prattutto nell’ampio preambolo della Costituzione del 1946, che per
altro non contiene un riferimento espresso alla libertà di associazione,
se non sub specie alla libertà di formare un sindacato di aderirvi.
Il Conseil constitutionnel, invece – con decisione n. 2010-604 DC
del 25 febbraio 2010 –, ha ritenuto costituzionalmente compatibile,
perché non violativo dei principi di necessità e proporzionalità delle
pene, della legalità dei reati e delle pene, della natura personale e in-
tenzionale del reato, di rispetto dei diritti di difesa e, per quanto qui
più direttamente interessa, della libertà di associazione, opinione, as-
semblea e dimostrazione, il nuovo reato lato sensu associativo poi
introdotto (come spiegato, infatti, il controllo di costituzionalità è
anche preventivo), all’art. 222-14-2 c.p., dalla legge n. 201 del 2010.
Secondo tale nuovo reato, infatti, è punita, con la reclusione e la
multa, la partecipazione ad un gruppo, anche se formatosi solo tem-
poraneamente, per la preparazione, caratterizzata da una o più azioni
materiali, di reati di violenza alle persone o di danneggiamento. I ri-
correnti (parlamentari) lamentavano, in definitiva, l’eccesiva anticipa-
zione della tutela penale che caratterizzava tale fattispecie incrimina-
trice, nonché la possibilità che, per tale via, fosse criminalizzata, in
sé, la partecipazione ad un gruppo, anche nel caso in cui il singolo
soggetto risultasse estraneo agli intenti delinquenziali propri del gruppo
medesimo, con violazione conseguente pure del principio di perso-
nalità della responsabilità penale.
Il Conseil constitutionnel, tuttavia, ha ritenuto che il nuovo arti-
colo 222-14-2 del codice penale vieta il fatto, per una persona, di
partecipare consapevolmente ad un gruppo, per cui la Pubblica Ac-
cusa deve dimostrare che lo ha fatto al fine di commettere atti di
violenza contro persone o danni a cose, a condizione che la prepa-
razione di tali reati sia caratterizzata da uno o più fatti materiali ese-
guiti dalla stessa persona o, comunque, a sua conoscenza, per cui la

69
Cfr. Champeil – Desplats, Le Conseil constitutionnel, protecteur de droits et
des libertés?, in CRDF, n. 9, 2011, 11 ss.

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la libertà di associazione 47

disposizione oggetto di ricorso non stabilisce una forma di respon-


sabilità penale collettiva, per atti commessi da terzi, incriminando in
sé il fenomeno associativo.
Negli USA, invece – come accennato –, la libertà di associazione,
non espressamente prevista a livello costituzionale, si è connessa con
quella di manifestazione del pensiero e con i divieti di discrimina-
zione, in un primo momento, dando luogo a sentenze che proteg-
gevano le associazioni da ingerenze pubbliche, ed anche dall’obbligo
di esibire l’elenco degli associati (per evitare, appunto, che questi su-
bissero ritorsioni), e, in tempi più recenti, con pronunce, di segno
altalenante, che hanno riguardato la possibilità, o meno, da parte di
talune associazioni, di precludere il diritto di associarsi a determi-
nate categorie di persone.
A tal proposito, sono molto noti, anche per l’estrema rilevanza
delle associazioni coinvolte, le sentenze, in un certo senso opposte,
con le quali:
da un lato (Rotary International v. Rotary Club of Duarte, del
1987, 481 U.S. 537), si è ritenuta legittima la legge della California
che costringeva il Rotary Club ad accettare soci donna – associare
delle donne, infatti, non avrebbe impedito al gruppo di raggiungere
i propri obiettivi, per cui la Corte ha ritenuto che l’interesse dello
Stato, nel porre fine alla discriminazione sessuale, superava, nella spe-
cie, la compressione del diritto di associazione;
mentre, dall’altro (Boy Scouts of America v. Dale, del 2000, 530
US 640) si è ritenuto costituzionalmente legittimo, per i Boy Scout,
escludere membri omosessuali, in quanto l’associazione affermava che
la condotta omosessuale è incoerente con i valori che cerca di in-
stillare, e dunque la presenza di un membro – e, a fortiori, come
nella specie, di capo-truppe – gay avrebbe, costretto l’associazione
ad inviare un messaggio contrario, sia ai giovani membri che al
mondo, ovverosia che i Boy Scout accettano la condotta omosessuale
come una forma legittima di comportamento.
Per quanto riguarda, infine, la Germania, bisogna ricordare che
l’art. 8 della legge fondamentale (GG)70, sulla libertà di riunione, pre-

70
Tradotta in italiano sul sito istituzionale wwww.consiglio.regione.veneto.it.

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48 capitolo i

vede, appunto, che tutti i tedeschi, senza il bisogno di preavviso o


permesso, hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi, an-
che se, per le riunioni all’aperto, questo diritto può essere limitato
con legge o in base ad una legge.
L’art. 9, poi, stabilisce le libertà di associazione in generale, e sin-
dacale in particolare, prevedendo che tutti i tedeschi hanno diritto
di costituire associazioni e società, ma – in base al secondo comma
dell’articolo in questione – sono vietate le associazioni, i cui scopi o
la cui attività contrastino con le leggi penali ovvero siano dirette con-
tro l’ordinamento costituzionale (fanno parte dell’ordinamento co-
stituzionale i principi di base della Costituzione, come la protezione
dei diritti umani e la sovranità del popolo, la separazione dei poteri
tra cui la responsabilità del Governo, la legittimità dell’amministra-
zione e l’indipendenza dei tribunali e il sistema multipartitico con il
diritto di formare un’opposizione, etc.) o contro il principio, a onor
del vero piuttosto sfuggente, della «comprensione fra i popoli».
Per quanto riguarda, poi, la libertà sindacale, il terzo ed ultimo
comma dell’articolo in questione prevede il diritto di formare asso-
ciazioni per la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni di la-
voro ed economiche, quale diritto garantito per ogni individuo e per
tutte le professioni. Conseguentemente, gli accordi che tentano di li-
mitare o impedire tale diritto sono nulli e i provvedimenti adottati
a tale scopo sono illegali, ed anche gli speciali provvedimenti che
possono essere adottati in forza di altri articoli della GG, non pos-
sono essere diretti contro i conflitti di lavoro condotti dalle associa-
zioni sindacali, al fine di salvaguardare e migliorare le condizioni di
lavoro ed economiche.
Ebbene, limitandosi all’analisi del comma più propriamente pe-
nalistico, cioè il secondo, dell’art. 9 GG, si deve riferire che, secondo
recente giurisprudenza della Corte Costituzionale Federale tedesca
(BVerfG, si veda l’interessante ordinanza del Primo Senato del 13
luglio 2018, con cui sono stati unificati, e respinti, i ricorsi di tre as-
sociazioni avverso i provvedimenti a loro avversi71), i divieti di cui
a tale comma devono essere interpretati in senso stretto.

71
Il testo del provvedimento è reperibile sul sito istituzionale www.bundesverfas-
sungsgericht.de. Le tre associazioni (autonomamente) ricorrenti erano state vietate sulla

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la libertà di associazione 49

Il divieto di un’associazione, infatti, in quanto forma più grave di


ingerenza, può essere imposto solo se, per raggiungere gli obiettivi
di divieto di cui all’art. 9, co. 2, GG, mezzi meno restrittivi e ugual-
mente efficaci non sono sufficienti. Se, invece, gli interessi di cui al-
l’art. 9, co. 2, GG possono essere raggiunti anche non proibendo
l’associazione, tale opzione dev’essere preferita. In tal senso, i divieti
di cui al menzionato comma rappresentano una manifestazione del
più generale principio di proporzionalità, e non un’eccezione ad esso.
Conseguentemente, un’associazione non può essere vietata basan-
dosi unicamente su azioni isolate commesse dai singoli membri, a
meno che queste azioni possano caratterizzare l’associazione stessa
ed essere attribuibili ad essa. Ciò avviene, in primo luogo, quando
le azioni in questione sono proprie degli organi dell’associazione, op-
pure della maggioranza dei suoi membri, o anche di terzi, ma, in
quest’ultimo caso, dev’essere senza dubbio dimostrato che l’associa-
zione è realmente a conoscenza di tali azioni, le approva e si iden-
tifica con essa.
In particolare, poi, il primo divieto deve essere applicato ad un’as-
sociazione se il suo scopo o attività principale consiste essenzialmente
nel provocare o incoraggiare, impegnare o facilitare la commissione
di atti criminali da parte di membri o terzi, promuovendo le loro
azioni punibili o, almeno, identificandosi con esse.
Quest’ultima ipotesi si verifica anche quando un’associazione ap-
prova e promuove azioni criminali dopo che sono state compiute,
appunto identificandosi con esse, o quando determinate attività pe-
nalmente rilevanti, pure iniziate autonomamente, sono poi proseguite
con la conoscenza e il supporto dell’associazione.
Il primo divieto di associazione soddisfa i requisiti di proporzio-

base della legge sull’associazione (VereinsG). In particolare, si riteneva che l’associa-


zione Hells Angels MC Charter Westend di Francoforte sul Meno avesse sostenuto i
suoi membri nel commettere crimini (primo divieto). L’associazione di aiuto per i pri-
gionieri politici nazionali e i loro parenti, invece, era stata accusata di aver confermato,
con una propria rivista, detenuti estremisti di destra nella loro posizione contro le basi
dell’ordine costituzionale della Repubblica Federale di Germania (secondo divieto).
L’associazione International Humanitarian Aid, infine, era accusata di aver indiretta-
mente sostenuto un’organizzazione terroristica attraverso l’inoltro di donazioni, per-
ché diretta contro l’idea di comprensione internazionale (terzo divieto).

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50 capitolo i

nalità quando l’azione contro i reati individuali non sarebbe suffi-


ciente, dato che le azioni punibili sono pianificate o commesse al-
l’interno dell’organizzazione stessa. Siccome, però, trattasi di un mec-
canismo indipendente di protezione preventiva dell’ordine costitu-
zionale, il divieto di associazioni i cui scopi o la cui attività contra-
stino con le leggi penali non è necessariamente collegato all’esistenza
di una condanna penale.
Il secondo divieto, invece, riguarda le associazione dirette contro
l’ordine costituzionale, ovverosia quelle associazioni che esternano
un atteggiamento aggressivo-combattivo nei confronti dei principi
elementari della Costituzione e sono caratterizzate da esso.
Il terzo divieto, infine, è relativo alle associazioni che promuo-
vono attivamente violenze o altre gravi violazioni del diritto inter-
nazionale, come il terrorismo nelle relazioni internazionali o tra parti
della medesima popolazione. Il divieto si estende anche alle associa-
zioni che promuovono l’attività di terzi, se questa è oggettivamente
in grado di compromettere seriamente l’idea di «comprensione in-
ternazionale», e se l’associazione la conosce e almeno la approva.
Tale divieto, tuttavia, non deve impedire tutte le forme di aiuto uma-
nitario nelle aree di crisi, a causa dei loro possibili effetti indiretti di
promozione del terrorismo.

5. Prime considerazioni

Ebbene, al termine di questa indagine – anche in chiave storica,


sovranazionale e comparata – sulla libertà di associazione, si ritiene
opportuno formulare delle prime considerazioni, che saranno utili
per il proseguo della trattazione, in connessione ai profili più stret-
tamente penalistici dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale
sui reati associativi.
In primo luogo, bisogna evidenziare come la relazione storica, tra
la libertà di associazione e quella di riunione (nei Paesi di civil law),
e tra la libertà di associazione e quella di libera manifestazione del
pensiero (nei Paesi di common law), milita a favore di una conce-
zione «aperta» delle associazioni, nel senso di una libertà che non si
rivolge ad un gruppo ristretto e determinato – una volta e per sem-
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la libertà di associazione 51

pre – di persone, ma ad un novero aperto di associati, sia attuali che


futuri72.
Anche la giurisprudenza costituzionale, del resto – sia italiana che
estera e sovranazionale –, tanto relativa all’obbligo, gravante su de-
terminati soggetti, di aderire ad alcune associazioni, quanto concer-
nente il diritto delle associazioni, di rifiutare richieste di adesioni (o
di allontanare soci sgraditi), appare confermare che la cifra caratte-
ristica delle associazioni in generale è quella, appunto, di essere dei
gruppi non statici nella propria composizione, ed anzi fortemente
dinamici, e, soprattutto, naturalmente votati all’espansione della pro-
pria compagine.
In secondo luogo, l’atteggiamento prudente della giurisprudenza
– pure in questo caso, sia italiana che estera e sovranazionale –, che
tende a considerare lo scioglimento di un’associazione come l’ultima
ratio, come un provvedimento, cioè, da adottarsi solo se l’intera as-
sociazione deve ritenersi illegale in base alla normativa costituzionale
di riferimento, senza che, in relazione all’associazione in questione,
vi sia la possibilità di operare distinguo tra diversi soci o diverse at-
tività, conduce a ritenere a fortiori che, quando si tratta di associa-
zioni, non solo da vietare e sciogliere, ma addirittura da criminaliz-
zare, non può farsi «di tutt’erba un fascio».
Un esempio paradigmatico, tutto italiano, della capacità di ope-
rare un simile distinguo – se pur solo ad esito di una «spoletta» tra
Corte d’Appello e Cassazione –, è rinvenibile nella complicata vi-
cenda processuale legata alla c.d. chiesa di Scientology. Ad un certo
punto, infatti, la giurisprudenza si era assestata sulla posizione per
cui tale associazione non poteva essere considerata una confessione
religiosa, nel senso costituzionalmente rilevante del termine, senza
che, in senso contrario, dovesse attribuirsi soverchia rilevanza al-
l’auto-qualificazione della propria natura religiosa contenuta nei re-
lativi statuti associativi (ritenuti, infatti, meramente strumentali alla
copertura di un’attività svolta, in realtà, al solo scopo di lucro).
Siccome, poi, sia la dianetica che la scientologia si consideravano
pratiche di tipo non religioso, ma terapeutico, ideate ed attuate, però,
da soggetti privi di qualsiasi preparazione professionale, si conclu-

72
Cfr. Plantamura, Reati associativi, cit., 400 ss.

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52 capitolo i

deva per la criminalizzazione dell’intera associazione: «si deve per-


ciò ritenere che gli istituti di dianetics, le chiese di scientology ed i
centri ad esse collegati costituiscono associazioni per delinquere volte
al perseguimento del medesimo disegno criminoso, destinato a com-
mettere una serie indeterminata di delitti, quali truffe, circonvenzioni
di incapaci, violazioni tributarie, allo scopo di procurare più danaro
possibile all’organizzazione stessa»73.
Solo successivamente, con la sentenza conclusiva del processo in
questione, una volta accertata la natura religiosa della c.d. chiesa di
Scientology, con operatività conseguente, non solo dell’art. 18 Cost.,
ma anche e soprattutto dell’art. 19 Cost. – sulla libertà religiosa pure
in forma associativa –, si è affermato che il reato di associazione per
delinquere si sarebbe potuto ritenere sussistente solo ove vi fosse
stata la prova – che nella specie, però, non si era raggiunta – della
costituzione, da parte di alcuni adepti/associati, di un gruppo illecito
autonomo, all’interno ed in contrasto con i fini confessionali del-
l’organizzazione di cui pur facevano parte.
Ebbene, anche prescindere dal raggiungimento, o meno, di tale
prova nel caso di specie, a livello di principio è importante l’affer-
mazione, contenuta nella sentenza di cui trattasi, che l’esistenza di
tale eventuale associazione per delinquere, «parallela» alla c.d. chiesa
di Scientology, se pure fosse stata accertata, non avrebbe comportato
la criminalizzazione dell’intera associazione/chiesa74, e, quindi, di tutti
i soci.
Nel caso di specie, dunque, la doppia «copertura» costituzionale
dell’associazione oggetto di scrutinio – appunto, ex artt. 18 e 19 Cost.

73
Così Corte Appello Milano, 14 febbraio 1997, in Corriere giur., 1997, 1207. Si
tratta, per altro, della seconda sentenza di appello emessa, in tale processo, a seguito
dell’annullamento con rinvio, nel 1995, da parte della Cassazione, della prima sentenza
d’appello del 1993 (che, riformando la sentenza d’assoluzione di primo grado, aveva
ritenuto sussistente il contestato reato d’associazione per delinquere).
74
Cfr. Corte Appello Milano, 5 ottobre 2000, 2001, II, 644, con nota di Formica,
L’art. 416 c.p. e le confessioni religiose: un commento all’epilogo del «caso Scientology».
La vicenda processuale in questione si concluse, infatti, con tale terza sentenza d’ap-
pello (d’assoluzione perché il fatto non sussiste, per n. 33 imputati), dopo che la Cas-
sazione, nel 1997, aveva annullato la seconda, succitata, sentenza d’appello, non avendo
il giudice di merito compiutamente adempiuto all’indagine sulla religiosità (o meno)
dell’associazione, prescritta dalla prima sentenza di annullamento con rinvio del 1995.

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la libertà di associazione 53

– ha consentito che fosse posto un importante distinguo, tra l’asso-


ciazione lecita, da un lato, e l’eventuale, ulteriore ed autonoma as-
sociazione illecita, dall’altro: distinguo che invece, quando trattasi di
criminalità d’impresa, viene spesso negletto.
Come sottolineato dalla dottrina75, infatti, da parte delle giuri-
sprudenza – a fortiori in sede di indagini, e, magari, di richieste cau-
telari –, in tema di criminalità d’impresa sussiste una tendenza a far
coincidere il requisito dell’organizzazione, di cui all’art. 416 c.p., con
l’organizzazione propria della società lecita, per cui gli amministra-
tori della seconda, con una straordinaria semplificazione ricostrut-
tiva, diventano sic et simpliciter gli organizzatori della prima.
Anche nel caso dell’attività imprenditoriale, invece, bisognerebbe
essere in grado di operare un distinguo, come richiesto, d’altronde,
dall’ultimo comma dell’art. 16 del d.lgs. n. 231/2001, che infatti pre-
vede l’obbligatoria disposizione dell’interdizione definitiva dall’eser-
cizio dell’attività, solo se l’ente o una sua unità organizzativa viene
stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o
agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la
sua responsabilità76.
Un giusta lettura della libertà d’associazione, quindi – oltre, e in
aggiunta, a considerazioni prettamente penalistiche – potrebbe com-

75
Cfr. Insolera, Le irresistibili fortune della «vecchia» associazione per delinquere,
271 ss.,e, spec., 280 ss., in Aa.Vv., Per un manifesto del neoilluminismo penale, a cura
di Cocco, Padova, 2016
76
«Se ne può fondatamente dedurre che il sistema (complessivamente considerato)
distingue e tratta diversamente le ipotesi di «criminalità societaria» a seconda che la
struttura organizzativa imprenditoriale si connoti per una sua vocazione esclusiva (o
semi-esclusiva) alla commissione di illeciti penali oppure venga per così dire a tali fini
«sfruttata», ancorché ripetutamente e con una frequenza non certo sporadica. E ciò vale
anche ai fini di individuare le caratteristiche connotative di una associazione per de-
linquere, allorché la trama organizzativa coincida con la struttura imprenditoriale al-
lestita per finalità «istituzionali lecite». Quindi, solo allorché si possa fondatamente ri-
tenere che l’impresa societaria «lecita» abbia per così dire subito una degenerazione dei
suoi connotati che non la identificano più nella realtà socio-economica come «società
commerciale», ma come organismo dedito alla commissione di delitti caratteristici della
criminalità del profitto, potrà configurarsi nei confronti di «tre o più» soggetti cui si
deve la trasformazione genetica della compagine sociale, il delitto di associazione per
delinquere», così Flora, Impresa lecita e associazione per delinquere, in Parola alla
difesa, 2016, n.1, 9 ss.

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54 capitolo i

portare la capacità di distinguere, all’interno di una più ampia e pre-


ponderante attività lecita, l’eventuale costituzione di un’autonoma as-
sociazione per delinquere, con la conseguenza di non poter crimi-
nalizzare, in sé, l’impresa – o, comunque, l’associazione lecita –, e,
soprattutto, di non poter considerare automaticamente organizzatori,
o partecipi, dell’associazione per delinquere stessa, rispettivamente, i
soggetti apicali, o sottoposti, della società lecita medesima.

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Capitolo II

L’evoluzione dottrinale sui reati associativi

Sommario: 1. Reato associativo o reati associativi? – 2. Il problema del


bene giuridico. – 3. L’associazione «aperta». - 3.1 Associazione «aperta» e
principi penalistici fondamentali. – 4. Reati associativi e criminalità orga-
nizzata: rapporti e intersezioni. – 5. Alcune proposte della dottrina, per la
riforma dei reati associativi.

1. Reato associativo o reati associativi?1

Storicamente, il modello dei reati associativi, ripreso anche in molti


codici preunitari italiani, è costituito dall’associazione di malfattori
del codice napoleonico del 1810 – in vigore, se pur molto «rima-
neggiato», fino al 1994 –, il quale, all’art. 265, prevedeva che «Ogni
associazione di malfattori contro le persone o la proprietà è un cri-
mine contro la pace pubblica».
Lo stesso codice, poi, agli artt. 266, 267 e 268, stabiliva rispetti-
vamente che:
«Questo crimine esiste per il sol fatto dell’organizzazione delle
bande, della corrispondenza tra queste e i loro capi oppure dei patti
intervenuti per il rendimento dei conti o per la distribuzione o divi-
sione del prodotto dei reati»;
«Ove questo crimine non sia stato accompagnato, né seguito da

1
Cfr. Conso, Dal reato associativo ai reati associativi, in Aa.Vv., I reati associa-
tivi, cit., 11 ss.

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56 capitolo ii

veruno altro, gli autori diretti dell’associazione e i comandanti in capo


o in seconda di quelle bande sono puniti con i lavori forzati a tempo»;
«Sono puniti con la reclusione tutti gli altri individui incaricati di
un servizio qualunque in queste bande e – con un’equiparazione tra
partecipazione vera e propria ed assistenza agli associati – coloro che
abbiano volontariamente o dolosamente somministrato alle bande e
alle loro squadre, armi, munizioni, alloggio, riparo e locali per riu-
nioni»2.
Può agevolmente constatarsi, quindi, che non trattavasi di un’i-
potesi generale, ovverosia che puniva le associazioni dirette al com-
pimento di qualsiasi reato, ma di due sole – per quanto ampie e fon-
damentali – categorie di mala in se, ovverosia quelli contro le cose
e quelli contro le persone. Tale binomio, del resto, risulta piuttosto
radicato nella mentalità del legislatore francese, tanto che, come evi-
denziato nel precedente capitolo del presente volume, rileva anche
ai fini del nuovo reato associativo (anticipato) di cui all’art. 222-14-
2 del code penal, introdotto nel 2010.
Nel codice del 1994, invece, con l’associazione di malfattori pre-
vista dall’art. 405-1 c.p. – di cui si tratterà ampiamente nel proseguo
–, si era operata la diversa scelta di non selezionare in base ai beni,
ma alla pena (crimini e delitti puniti con non meno di cinque anni
di reclusione: anche il nostro art. 416 c.p., del resto, opera pur sem-
pre una certa selezione, essendo almeno irrilevanti eventuali associa-
zioni per commettere contravvenzioni).
Ebbene, anche se non si trattava di un’ipotesi generale – nel senso
della criminalizzazione dei gruppi formatisi per il compimento di
qualsivoglia reato –, l’associazione di malfattori, nel codice napoleo-
nico, e, più in generale, nell’ordinamento del tempo, rappresentava
quasi un unicum, nel senso che associazioni dirette invece alla le-
sione di altri beni – se non nel caso dei reati contro lo Stato, di co-
spirazione politica –, in quanto tali, non sarebbero state proprio pu-
nite, non essendovi altri reati associativi che ne prevedessero la pu-
nizione a titolo diverso.
Quasi la stessa impostazione si ritrova nel codice Zanardelli del

2
Anche per un’ampia ricostruzione storica, si rinvia ad Insolera, L’associazione
per delinquere, Padova, 1983.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 57

1889, dove, a parte le ipotesi di banda armata e cospirazione contro


lo Stato, di cui agli art. 131 ss., il reato associativo «non politico»
era essenzialmente unico, e, all’art. 248, rubricato dell’associazione
per delinquere, prevedeva che: «Quando cinque o più persone si as-
sociano per commettere delitti contro l’amministrazione della giusti-
zia, o la fede pubblica, o l’incolumità pubblica, o il buon costume e
l’ordine delle famiglie, o contro la persona o la proprietà, ciascuna di
essa è punita, per il sol fatto dell’associazione, con la reclusione da
uno a cinque anni».
Il delitto associativo «non politico», quindi, accresceva la propria
sfera di applicabilità, rispetto al proprio modello originario, appli-
candosi ad associazioni per commettere un’ampia serie di delitti. Già
in tale codice, inoltre, si assisteva ad una prima gemmazione del-
l’associazione per delinquere, perché l’art. 251 puniva in modo più
mite, ovverosia con la reclusione da sei a diciotto mesi e con la multa
da lire cento a tremila, i partecipi di associazioni dirette a commet-
tere i delitti di cui all’art. 247, ovverosia istigazione a delinquere e a
disubbidire alle leggi o incitamento all’odio tra le varie classi sociali
in modo pericoloso per la pubblica incolumità.
Nel codice Rocco, invece, la moltiplicazione delle fattispecie as-
sociative riguarda i reati politici3: artt. 305 e 306 (cospirazione poli-
tica mediante accordo e banda armata), 270 (associazioni sovversive)
e 271 c.p. (associazioni antinazionali, dichiarato incostituzionale con
sentenza n. 243/01); mentre il reato associativo «non politico» torna
ad essere unico – cioè, appunto, quello di cui all’art. 416 –, e anche
le successive fattispecie incriminatrici inserite nell’ordinamento re-
pubblicano, a partire da quella di cui all’art. 2 della l. n. 1546/47 (as-
sociazione diretta alla restaurazione violenta della monarchia), fino a
quella, già ampiamente citata, di associazione segreta, ex art. 2 della
l. n. 17/82, sono sempre caratterizzabili lato sensu come reati poli-
tici.
Sempre nel 1982, tuttavia – solo qualche mese più tardi –, venne

3
Cfr. De Francesco, I reati politici associativi nel codice Rocco: nessi sistematici
ed implicazioni interpretative, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 679 ss.; nonché, amplius,
Id., I reati di associazione politica: storia, costituzione e sistema nell’analisi strutturale
delle fattispecie, Milano, 1985.

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58 capitolo ii

introdotto l’art. 416bis4, che è la norma che davvero segna il pas-


saggio, nel nostro ordinamento (almeno nell’ambito «non politico»),
dal reato associativo ai reati associativi (con una specificazione del
metodo): passaggio che poi sarà portato oltre, mediante una specifi-
cazione dei fini, con l’introduzione dell’art. 74 del DPR 309/90. Al-
lora, però, secondo chi scrive bisogna innanzitutto domandarsi se sia
possibile ipotizzare, al proposito, una marcia indietro del legislatore,
col ritorno, cioè, almeno in ambito «non politico», ad un reato as-
sociativo unico. Ciò appare, tuttavia, più che improbabile, visto il
ruolo fondamentale che le due norme da ultimo citate, di applica-
zione quotidiana nelle aule di giustizia italiane, hanno assunto nel
contrasto di due fenomeni tanto preoccupanti, quali, appunto, quello
mafioso e quello del traffico di stupefacenti.
Com’è noto, del resto, la giurisprudenza, sin dalle prime inter-
pretazioni al riguardo, si è espressa nel senso di non voler ritenere
i due strumenti di contrasto in questione alternativi tra loro, ma piut-
tosto in quello di ritenere che, tra il reato associativo previsto nel
TU degli stupefacenti, e quello di cui all’art. 416 bis c.p., vi fosse un
rapporto di specialità reciproca – essendo caratterizzato il secondo
delitto dal metodo mafioso, assente nel primo, il quale contiene, tut-
tavia, un elemento specializzante costituito dalla natura dei reati scopo,
assente nel secondo –, con impossibilità conseguente di applicare il
principio sancito dall’art. 15 c.p., e configurabilità, invece, del con-
corso formale di reati5.
Ciò non significa, tuttavia, che ci si debba arrendere esclusiva-
mente ad uno studio settoriale dei reati associativi, fattispecie per fat-
tispecie: studio che infatti, per quanto legittimo e proficuo sul piano
scientifico, nonché interessante su quello applicativo, non esclude una
diversa prospettiva, che poi è fatta propria dal presente studio, ov-
verosia quella di voler analizzare il fenomeno del reato associativo

4
Proprio in riferimento all’associazione di tipo mafioso, si svilupperà il dibattito
giurisprudenziale e dottrinario sulla possibilità di contestare l’art. 110 c.p. in relazione
ai reati associativi. La letteratura in materia è sterminata, per cui, ricorrendo ad una
sineddoche, si rinvia a Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino,
2003.
5
Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 maggio-1995, Allegretto, in Ced Cass., n. 202811.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 59

in modo trasversale6, rispetto alle diverse norme incriminatrici in cui


trova espressione, concentrandosi sui dati comuni a tale tipologia di
reati, più che sull’analisi degli elementi tipici, caratteristici di ciascun
reato7.

2. Il problema del bene giuridico

Il problema del bene giuridico si pone con particolare forza nei


riguardi dei reati associativi, in quanto si deve trovare una giustifi-
cazione razionale – ammesso, beninteso, che ci sia – che spieghi una
differenza di trattamento altrimenti incomprensibile, con il diverso
fenomeno dell’accordo per commettere più reati, in sé non punibile,
ex art. 115 c.p.
Com’è noto, il delitto di associazione per delinquere – che non
si può non assumere come archetipo dei reati associativi – è inse-
rito, nel codice penale, all’interno del Titolo dedicato ai delitti con-
tro l’ordine pubblico8; e, del resto, il reato in questione aveva avuto

6
Cfr.: Aa.Vv., I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio – Un
contributo all’analisi e alla critica del dritto vivente (atti del convegno tenuto a Bre-
scia il 19 e 20 marzo 2004), Padova, 2005; Aleo, Delitti associativi e criminalità or-
ganizzata – I contributi della teoria dell’organizzazione, in Ra ss.penit.crimin., 2012,
f.3, 7 ss.; De Francesco, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni crimi-
nali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 54 ss.; de Vero, I reati associativi nell’odierno si-
stema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 385 ss.; Id., Tutela dell’ordine pubblico
e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 93 ss.; Dolcini, Appunti su «crimi-
nalità organizzata» e reati associativi, in Arch. pen., 1982, 263 ss.; Panebianco, Reati
di associazione e declinazioni preternazionali della criminalità organizzata, Milano,
2018; Spagnolo, Reati associativi [voce aggiornata-2006], in Enc. giur., Roma, vol.
XXVI; Id., Criminalità organizzata e reati associativi: problemi e prospettive, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1998, 1161 ss.
7
Cfr. Paterniti, Modelli conoscitivi dei reati associativi, in Aa.Vv., I reati asso-
ciativi, cit., 55 ss. che propone di ridurre «ad unità la pluralità, facendo luogo ad una
sola e generale previsione di reato associativo».
8
Cfr.: de Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una veri-
fica dogmatica e politico-criminale, Milano, 1988, 5 ss.; Id., Ordine pubblico (delitti
contro), in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, 72 ss.; Insolera, Sicurezza e ordine pub-
blico, in Ind. pen., 2010, 27 ss.; Id., L’associazione per delinquere tra concezione «isti-
tuzionale» e tutela di beni giuridici, in Crit. dir., 2016, 242 ss. Montanara, Ordine
pubblico (delitti contro), in Diz. dir. pubbl., cit., 4002ss

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60 capitolo ii

esattamente la stessa collocazione nell’ambito del precedente codice


Zanardelli, che era stato evidentemente influenzato, a sua volta, dal
riferimento espresso alla pace pubblica, di cui all’associazione di mal-
fattori del codice napoleonico. Tale riferimento alla pace pubblica,
tuttavia, appare espressione più propriamente legata al fenomeno del
banditismo ottocentesco: l’ordine pubblico, cioè, sarebbe qualcosa di
comunque più astratto, e anticipato, rispetto alla pubblica tranquil-
lità (o pace pubblica).
È chiaro, poi, che si potrebbe obiettare che, ad es., l’art. 270 c.p.
è un reato che tutela la personalità dello Stato, mentre l’art. 74 del
DPR 309/90 è posto a tutela della salute pubblica, ma, in entrambi
i casi, a meno di non voler creare una irragionevole disparità col
principio di non punibilità, in sé, dell’accordo, si deve ritenere che
la tutela di tali beni si aggiunge a quella dell’ordine pubblico, senza
escluderla, secondo il noto paradigma dei reati c.d. plurioffensivi, o
meglio in cui – secondo il paradigma della seriazione dei beni giu-
ridici9 – il bene specifico tutelato dal singolo reato associativo deve
considerarsi quello finale (e, appunto, aggiuntivo), che si staglia sullo
sfondo, mentre l’ordine pubblico deve ritenersi il bene strumentale,
che risulta immediatamente offeso dal reato10.

9
Cfr. Fiorella, Reato in generale, in Enc. dir., vol. XXXVIII, 770 ss.
10
La ricostruzione qui offerta è in parte negletta, però, dalla giurisprudenza, che
infatti tende a svilire il ruolo del bene giuridico dell’ordine pubblico, all’interno del
reato associativo di cui all’art. 74 in questione, ma questo, evidentemente, sempre per-
seguendo l’obiettivo finale dell’affermazione del concorso di reati. «I reati associativi
di cui agli art. 416 bis c.p. – associazione per delinquere di stampo mafioso – e 74 d.p.r.
9 ottobre 1990 n. 309 – associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti – avendo scopi diversi e tutelando differenti beni giuridici – il primo l’or-
dine pubblico sotto il particolare profilo della pericolosità sociale dell’esistenza di orga-
nizzazioni svolgenti attività, lecite ed illecite, con modalità intimidatrici derivanti dalla
natura dell’associazione e cagionanti condizioni di assoggettamento ai propri scopi e di
omertà sugli stessi idonei al raggiungimento di profitti o vantaggi ingiusti, l’altro la di-
fesa della salute individuale e collettiva contro l’aggressione della droga e della sua dif-
fusione e, solo indirettamente – come del resto ogni fattispecie penale – la salvaguar-
dia dell’ordine pubblico in senso generico – possono concorrere tra loro», così Cass.
pen., sez. I, 28 marzo 1996, in Ced Cass., n. 204549. Recente manualistica, tuttavia,
partendo dalla parziale comunanza di oggettività giuridica dei due reati associativi di
cui trattasi, sostiene che il caso in questione – indubbiamente di specialità reciproca –
debba essere risolto in base alla sussidiarietà tacita, con l’applicazione della sola norma

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 61

Concentrandosi, però, sul bene giuridico costituito dall’ordine pub-


blico, trasversalmente tutelato da tutti i reati associativi, preliminar-
mente è il caso di ricordare che, circa tale bene, esistono due diverse
nozioni che si contendono il campo, ovverosia quella materiale e
quella ideale. Secondo la prima, l’ordine pubblico coincide con la
pace pubblica, ovverosia uno stato concreto, esteriore e tangibile di
pace sociale, che consente ai consociati di svolgere tranquillamente
la propria esistenza quotidiana, senza timore.
In base alla seconda, invece, l’ordine pubblico rappresenta l’in-
sieme dei principi giuridici fondamentali fatti propri dall’ordinamento
statuale, che quindi caratterizzano la struttura etico-sociale della co-
munità nazionale, in un determinato periodo storico. Si tratta, evi-
dentemente, di una concezione normativa dell’ordine pubblico, in
base alla quale, ad es., fino alla recente svolta giurisprudenziale del
201711, non si era mai ritenuto possibile delibare, in Italia, una sen-
tenza straniera di condanna per danni punitivi, appunto perché rite-
nuti contrari all’ordine pubblico (inteso, appunto, in senso norma-
tivo).
Secondo la dottrina maggioritaria12, intendere l’ordine pubblico
tutelato penalisticamente (anche) dai reati associativi in senso nor-
mativo, magari inteso come ordine pubblico costituzionale – nono-
stante nella nostra Costituzione manchi un riferimento espresso al-
l’ordine pubblico –, finisce, però, per privare il bene giuridico della
sua funzione di limite all’incriminazione, anche considerando che
trattasi di reati che, a loro volta, spesso sono espressione di libertà
costituzionali: come quella di associazione, per i reati associativi, o
quella di libera manifestazione del pensiero, per quelli di istigazione
di cui al medesimo Titolo del codice penale (anche se non è neces-
sariamente detto che quest’ultimi debbano essere interpretati in base
alla medesima nozione di ordine pubblico a cui si riterrà di aderire
in relazione ai reati associativi).

più grave, che nello specifico è quella caratterizzata dall’oggettività giuridica complessa
(tutelando sia l’ordine che la salute pubblica). In questo senso, si veda Manna, Corso
di diritto penale, Parte generale, 4a ed., Milano, 2017, 453s.
11
Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, in Foro it., 2017, I, 2613.
12
In tal senso si veda già Fiore, voce Ordine pubblico, in Enc. dir., vol. XXX,
Milano, 1980, nonché, anche in precedenza, Id., I reati di opinione, Padova, 1972.

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62 capitolo ii

A prima vista, dunque, sembrerebbe preferibile una nozione ma-


teriale di ordine pubblico, connessa all’allarme sociale che l’esistenza
di un’associazione per delinquere può creare nel territorio in cui
opera, e coerente con gli ulteriori delitti contro l’ordine pubblico
previsti nel Titolo in questione13: art. 419 – devastazione e saccheg-
gio14, art. 420 – attentato a impianti di pubblica utilità, art. 421 –
pubblica intimidazione (per altro, praticamente privo di applicazione
giurisprudenziale). In questo caso, però, si corre il rischio di un ri-
torno al passato, al paradigma criminologico della scorreria in armi,
che senza dubbio può mancare nell’ipotesi di associazioni per de-
linquere che non hanno alcun interesse a manifestarsi in modo tanto
«rumoroso», ma preferiscono lavorare molto più proficuamente in
segreto, senza creare turbamento in quello che è l’aspetto soggettivo
dell’ordine pubblico inteso in senso materiale, ovverosia l’opinione
di sicurezza dei consociati.
È davvero possibile, tuttavia, contrapporre a tale aspetto sogget-
tivo dell’ordine pubblico inteso in senso materiale, un aspetto og-
gettivo? Secondo chi scrive, no, perché l’ordine pubblico materiale,
privato del suo aspetto soggettivo, cioè per come percepito dai con-
sociati, finisce irrimediabilmente per essere attratto nell’astrattezza
dell’ordine pubblico inteso in senso ideale, senza che, tra i due poli,
sussista un terzo spazio che sia realmente autonomo, sul piano em-
pirico, ancor più che su quello astratto concettuale.

13
Cfr. Fornasari, Introduzione, in Aa.Vv., Reati contro l’ordine pubblico, a cura
di Fornasari, Riondato, Torino, 2017, XV ss., e, spec. XVII.
14
«L’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 419 c.p. (devastazione e saccheg-
gio) consiste, nell’ipotesi della commissione di fatti di devastazione, in qualsiasi azione,
con qualsivoglia modalità posta in essere, produttiva di rovina, distruzione o anche dan-
neggiamento, che sia comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo, di una
notevole quantità di cose mobili o immobili, sì da determinare non solo un pregiudi-
zio del patrimonio di uno o più soggetti e con esso il danno sociale conseguente alla le-
sione della proprietà privata, ma anche offesa e pericolo concreti dell’ordine pubblico
inteso in senso specifico come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui
corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza
(fattispecie relativa all’assalto di un circolo giovanile organizzato da giovani di oppo-
ste tendenze politiche muniti di armi proprie e improprie, che si era risolto in aggres-
sione a cose e persone con danni di notevole entità)», così Cass. pen., sez. I, 1 aprile
2010, n. 22633, in Ced Cass., n. 247418.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 63

Anche a ragione di questa ambivalenza, e inafferrabilità del bene


giuridico costituito dall’ordine pubblico, non è mancato chi ha rite-
nuto di individuare l’oggettività giuridica dell’art. 416 c.p. in rela-
zione ai delitti scopo, nel senso che si tratterebbe di tutelare in ma-
niera anticipata i beni di possibile offesa da parte dei consociati. Tale
tesi, evidentemente, si attaglia meglio a fattispecie associative che si
caratterizzano dall’essere finalizzate al compimento di una certa, de-
finita categoria di delitti – com’era, in definitiva, l’originaria, già ci-
tata previsione dell’associazione di malfattori di cui al codice napo-
leonico –, ma non sembra potersi applicare ad una previsione tra-
sversale, applicabile a tutti i delitti.
Di contro, potrebbe osservarsi che esiste una norma di pericolo ge-
nerale, ovverosia quella di cui all’art. 56 c.p., che appunto non possiede
un bene di riferimento suo proprio, ma tutela anticipatamente, a livello
di pericolo, i beni tutelati dalle singole fattispecie incriminatrici delit-
tuose. Tale norma, tuttavia, è inserita in un sistema che prevede la non
punibilità in sé dell’accordo, appunto quando gli atti non siano arrivati
ancora alla soglia del tentativo, per cui il problema rimane sempre quello
di individuare in cosa risieda il quid pluris che porta alla punibilità, in-
vece, dell’associazione per delinquere, visto che, se davvero si trattava
solo di anticipare la tutela dei beni già protetti dai singoli delitti di parte
speciale, senza l’emersione di alcun bene autonomo, il legislatore ben
avrebbe potuto prevedere, più semplicemente – ma con successivo con-
trasto con i principi di materialità ed offensività –, la punibilità del-
l’accordo per commettere uno o, almeno, più delitti.
Anche la circostanza che la punibilità dell’associazione in sé non
è esclusa dal successivo compimento dei delitti scopo, per cui lo
stesso soggetto può essere chiamato a rispondere sia dell’una che de-
gli altri, appare rilevante per poter affermare la sussistenza della le-
sione di un bene autonomo, mentre non si conviene con chi, pur
autorevolmente, ha sostenuto che l’argomento sarebbe superabile, in
quanto il pericolo rappresentato dell’associazione sarebbe così in-
tenso, perché diretto alla commissione di una pluralità di reati – ca-
ratterizzandosi, quindi, come pericolo diffuso – da superare l’effet-
tiva lesione del singolo bene in sede di commissione del reato scopo15.

15
«Vero è tuttavia che anche in questo caso può intervenire, a porre in crisi l’ul-

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64 capitolo ii

L’indeterminatezza del programma criminoso, del resto – nono-


stante la comune opinione esistente al riguardo –, non è un requi-
sito necessario dei reati associativi. Tale comune interpretazione, in-
fatti, è frutto di una sovrapposizione del dato empirico su quello
normativo «trasversale», nonché, per altro verso, su quello concet-
tuale. Nel senso che la circostanza per cui, di fatto, le associazioni
per delinquere, nella stragrande maggioranza dei casi, sono finaliz-
zate al compimento di una serie di reati indeterminata – da un punto
di vista, se non del tipo, almeno del numero degli stessi –, è quella
che induce a ritenere che la caratteristica in oggetto sia insita nel
concetto stesso di associazione: mentre, al limite, tale caratteristica
può dirsi sicuramente propria del reato associativo di cui all’art. 416
c.p., solo in virtù della specifica indicazione normativa ivi contenuta
(«più delitti»).
In tema di reati associativi, però, non manca anche una indica-
zione normativa opposta. Il riferimento è, chiaramente, allo stesso
tenore letterale del primo comma dell’art. 305 c.p., secondo il quale
la cospirazione politica mediante associazione può avere come og-
getto anche il compimento di un solo delitto, tra quelli non colposi
previsti nei capi primo e secondo, del titolo primo, del codice pe-
nale (capi che contengono, com’è noto, i delitti contro la persona-
lità dello Stato, rispettivamente, interna ed internazionale). Tant’è vero
che, qualora l’associazione di cui trattasi sia finalizzata, invece, alla
commissione di due o più delitti, ai sensi dell’art. 305 ult.co. c.p., «le
pene sono aumentate»16.
Più in generale, del resto, si deve osservare come anche le asso-
ciazioni lecite ben possano essere caratterizzate – e, in effetti, alle
volte lo siano – da un fine comune affatto determinato. Così come,
per altro, è normativamente dimostrato, ex art. 27 c.c., dalla previ-

tima affermazione, una valutazione concernente l’entità della lesione potenzialmente


riconducibile alla condotta pericolosa. Pur nell’ambito della medesima oggettività giu-
ridica può in sostanza ravvisarsi minor disvalore in una condotta effettivamente lesiva
rispetto ad altra che configuri un pericolo particolarmente intenso e diffuso», così In-
solera, L’associazione per delinquere, cit., 172.
16
L’argomento è validamente sostenuto da Spagnolo, voce Reati…, 3s. E, in pro-
posito, a tale scritto si rinvia anche per la convincente risposta all’obiezione sollevata,
sul punto, da De Francesco, Associazione…, cit., 293.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 65

sione, all’interno del novero delle cause di estinzione delle associa-


zioni (e fondazioni), dell’avvenuto raggiungimento dello scopo.
Appare evidente, infatti, che l’unico tipo di scopo che, per sua na-
tura, si presta a poter essere definitivamente raggiunto da un’asso-
ciazione, e dai suoi associati, è proprio quello determinato. L’inde-
terminatezza dello scopo comune, quindi, non risulta essere, sia da
un punto di vista logico, che normativo, un requisito indispensabile
del concetto di associazione: né si può negare che una associazione
possa essere prevista come temporanea, e non come perpetua, nel
caso in cui sia stabilito un termine finale, per la vita dell’associazione
stessa17.
Il carattere non necessario dell’indeterminatezza del programma
criminoso alla base dell’accordo associativo e, correlativamente, del-
l’esistenza di un pericolo diffuso nei confronti degli stessi beni tu-
telati dai singoli delitti scopo, conduce a scartare la tesi del reato as-
sociativo come anticipazione ulteriore, alla fase dell’accordo, e prima
del tentativo, appunto della protezione dei beni tutelati dai singoli
reati scopo.
Se è vero, d’altronde, che nel nostro ordinamento sono previste
alcune ipotesi di accordo punibile in sé – e, del resto, lo stesso art.
115 c.p. prevede la clausola «salvo che la legge disponga altrimenti»
–, come nei diversi casi di c.d. reato-contratto18 (quest’ultimo, infatti,
è per espressa definizione legislativa un accordo, ex art. 1321 c.c.),
con tutela anticipata dei beni giuridici di riferimento, tuttavia, in tali
ipotesi, qualora, successivamente al raggiungimento dell’accordo, se-
gua l’effettiva esecuzione delle prestazioni corrispettive oggetto del-
l’accordo/contratto stesso, i colpevoli non risponderanno di due reati,
ma solo di uno, perché il disvalore dell’accordo, che è appunto privo
di reale autonomia, viene assorbito in quello della sua effettiva ese-
cuzione.
È il caso, ad es.: del delitto di corruzione19, in cui l’accettazione

17
Cfr. Auricchio, voce Associazioni (diritto civile), in Enc. dir., vol.III, Milano,
1958, 875.
18
Cfr. Vassalli, voce Accordo, in Enc. dir., Milano, 1958, I, 302.
19
In questa sede, per altro, si accoglie l’interpretazione «classica», secondo la quale
la corruzione sarebbe un reato a concorso necessario. Tuttavia, anche parte della dot-

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66 capitolo ii

della promessa rappresenta il raggiungimento dell’accordo (o, se si


preferisce, la stipula del «contratto»), mentre la successiva dazione
del denaro, o dell’altra utilità, al pubblico ufficiale, non costituisce
altro che l’esecuzione dell’accordo/contratto stesso; oppure del de-
litto di usura, di cui all’art. 644 c.p., che è sempre un reato-contratto,
in cui, però, il contraente debole – che, in definitiva, è la vera e pro-
pria vittima del reato medesimo– chiaramente non è punibile (trat-
tasi, cioè, di un c.d. reato plurisoggettivo improprio20).
È proprio per questo, poi, che davvero non coglie nel segno l’in-
terpretazione secondo la quale la dazione degli interessi usurari co-
stituirebbe un post factum non punibile, quando, al contrario, trat-
tasi del momento consumativo «sostanziale» del reato, in cui, in
realtà, si esplica il pieno disvalore dello stesso21, con evidenti conse-
guenze in tema di concorso di persone nel reato, per il caso dell’e-
sattore degli interessi usurari che sia intervenuto anche solo succes-
sivamente alla stipula dell’accordo usurario in questione.
Per tornare, però, allo specifico oggetto della trattazione, la fun-
zione di sola anticipazione della soglia di punibilità, e non di dupli-
cazione di quest’ultima, propria delle speciali ipotesi di accordo pu-
nibile, risulta espressamente, ad es., nella previsione relativa al delitto
di cospirazione politica mediante accordo – di cui all’art. 304 c.p. –,
che infatti è punito con la reclusione da uno a sei anni, ma con la
specificazione che la pena da applicare è sempre inferiore alla metà
della pena stabilita per il delitto al quale si riferisce l’accordo, e, so-
prattutto, che contiene la clausola «se il delitto non è commesso», per
cui, qualora il fatto sia appunto commesso, l’autonoma punibilità
dell’accordo viene meno, in quanto la sempre minore (meno della

trina, sopravvalutando la circostanza della previsione in articoli distinti (artt. 318 e 319
c.p, da un lato, ed art. 321 c.p., dall’altro) della corruzione passiva ed attiva, arriva a
conclusioni diametralmente opposte a quelle qui accolte. Dalle quali conseguirebbe, ad
es., la possibilità della punizione del p.u., a titolo di concussione, e, nel contempo, del
privato, a titolo di corruzione. Anche per una critica attenta, a tale inaccettabile in-
terpretazione, si rinvia a Forte, La mercificazione della funzione pubblica al bivio fra
corruzione e concussione, in Aa.Vv., Materiali sulla riforma dei reati contro la pubblica
amministrazione, a cura di Manna, Padova, 2007, 313s.
20
In senso conforme, Montanara, op. cit., 870.
21
Cfr.: Manna, Usura (La nuova normativa sull’), in Dig. disc. pen., agg., Torino,
2000, 665, nello stesso senso Plantamura, voce Usura, in Diz.dir.pub., cit., 6139.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 67

metà) offesa viene assorbita da quella maggiore rappresentata dalla


consumazione.
Tale clausola «se il delitto non è commesso», viceversa, non è pre-
vista – non a caso – nella susseguente, già citata, fattispecie incrimi-
natrice associativa di cui all’art. 305 c.p., che è l’unica delle due fi-
gure di cospirazione politica a cui, conseguentemente, si deve attri-
buire una dimensione offensiva propria, autonoma e distinta, rispetto
a quella che caratterizza il delitto (o i delitti) scopo.
La conferma, tuttavia – ricavabile, appunto, dalla distinzione tra
gli artt. 304 e 305 c.p.–, che l’associazione non è un mero accordo
criminoso, non deve portare a negare che, anche nell’associazione
per delinquere, e, più in generale nei reati associativi, vi sia, alla base,
una qualche forma di accordo intercorrente tra gli associati. Resta
piuttosto da individuare quale sia la specificità, o caratteristica, pro-
pria dell’accordo associativo, che lo differenzia rispetto ad ogni al-
tro accordo criminoso, e che lo rende tale da risultare espressione di
un disvalore suo proprio.
Ovviamente, poi, a questo punto, non ci si potrebbe acconten-
tare della risposta, praticamente tautologica, secondo la quale l’ac-
cordo costitutivo di un’associazione per delinquere è quello che of-
fende l’ordine pubblico, ed è per questo, poi, che la condotta di chi
lo pone, o successivamente vi aderisce, è, in sé, offensiva. Perché, in
definitiva, la questione è proprio quella di riuscire a comprendere
come mai la sola costituzione di un’associazione, se pur criminale,
possa comportare una lesione autonoma dell’ordine pubblico22.
Com’è noto, la prima risposta data dalla dottrina a questo inter-
rogativo è stata nel senso che l’associazione, diversamente dal mero
accordo, ha regole atte a disciplinare le situazioni interne, le posi-

22
È chiaro che il problema, in parte, si pone diversamente per i reati associativi
«generali», e per quelli «specifici». Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, in cui, indub-
biamente, l’anticipazione della tutela del bene protetto dai delitti-scopo gioca un ruolo
maggiore, non si deve negligere la prospettiva connessa al diverso bene rappresentato
dall’ordine pubblico. Prospettiva che ovviamente, e a fortiori, deve valere nel caso del-
l’art. 416 c.p. Altrimenti si aprono «delicate questioni di determinazione dell’oggetto
reale della tutela penale, nonché di rapporti con istituti generali del sistema penale quali
il tentativo punibile». Così Grosso, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di
politica criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 412 ss., e, spec., 413.

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68 capitolo ii

zioni degli associati, anche in modo da garantire la continuità del


sodalizio. L’associazione (anche per delinquere) possiederebbe, cioè,
un carattere istituzionale – secondo l’istituzionalismo del Santi Ro-
mano23 –, di cui invece il mero accordo per commettere reati sarebbe
privo, tale da comportare la creazione di un autonomo ordinamento
giuridico, e quindi la punibilità delle associazioni per delinquere in
sé rappresenterebbe il precipitato di uno scontro tra istituzioni e or-
dinamenti incompatibili, antitetici, quali, appunto, quello statuale e
quello proprio delle associazioni criminali24.
Successivamente, però, è stato sostenuto che tale interpretazione
dei reati associativi quali reati di danno, rappresentato, appunto, dalla
mera esistenza di un ordinamento che persegua fini antitetici a quelli
propri dell’ordinamento statuale, non fosse accettabile, perché rifa-
centesi al concetto ideale di ordine pubblico, che tuttavia è quello
meno adatto al diritto penale, in quanto particolarmente sfuggente e
inidoneo a garantire che il bene giuridico svolga una qualsivoglia
funzione di selezione delle condotte punibili25: sarebbe molto me-
glio, quindi, interpretare i reati associativi, invece che quali reati di
danno in relazione all’ordine pubblico ideale, come reati di pericolo
nei confronti dell’ordine pubblico materiale.
In base a questa ricostruzione, cioè, si sostiene che, tanto sotto il
profilo oggettivo, quanto secondo quello soggettivo della percezione
dei singoli, la pace sociale, la tranquillità e la sicurezza pubblica siano
poste in pericolo dalla sola esistenza di un sodalizio criminale, a pre-
scindere dalla tipologia delittuosa dello stesso e dalla commissione
dei delitti scopo. Per questa via, il bene giuridico assumerebbe dav-
vero un carattere selettivo dei fatti offensivi o, al contrario, inoffen-
sivi, nel senso che dovrebbero essere ritenuti non punibili quei fatti
che riguardano associazioni finalizzate al compimento di reati, che
però non sono idonee a porsi in relazione, in termini di pericolo
concreto, con una dimensione materiale dell’ordine pubblico. Il bene
giuridico così inteso, inoltre, potrebbe giocare un ruolo, nel senso
ancora una volta della selezione e della determinatezza, nei confronti

23
Cfr. Santi Romano, L’ordinamento giuridico, 2a ed, Firenze, 1945.
24
Cfr. Patalano, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971, 150 ss.
25
Cfr. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., 184 ss.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 69

di quello che rappresenta un requisito cardine dei reati associativi,


ovverosia la presenza di un’organizzazione.
In una prospettiva di riforma, poi, i reati associativi dovrebbero
essere conseguentemente limitati, a livello di possibili delitti scopo,
in relazione a quelle categorie di delitti che, se commessi, possono
ledere l’ordine pubblico materiale, con un’elencazione di tipologie o,
come l’attuale previsione del codice francese, con un limite di pena
minima, che deve caratterizzare, appunto, i delitti cui il reato asso-
ciativo è finalizzato26.

3. L’associazione «aperta»

Secondo chi scrive, invece, bisogna considerare l’associazione per


delinquere in particolare, ed i reati associativi in generale, come reati
di danno contro l’ordine pubblico inteso in senso materiale (e, a tal
proposito, si deve rilevare che uno dei profili di criticità dell’inter-
pretazione dello stesso art. 416 bis c.p. è rappresentato proprio dallo
scivolamento, dal danno al pericolo concreto, fino a quello astratto,
connesso al concetto di «violenza potenziale»27): questo anche per-
ché è solo così che si riesce a giustificare, in modo davvero convin-
cente, la differenza tra accordo criminoso non punibile, e accordo
criminoso associativo punibile e, per altro, autonomamente punibile

26
Cfr. Insolera, Le irresistibili fortune della «vecchia» associazione per delinquere,
277 ss., in Aa.Vv., Per un manifesto del neoilluminismo penale, cit.
27
Cfr. Pomanti, op. cit., 35s. Sul passaggio dal danno al pericolo, anche in rela-
zione alla sentenza della Cassazione sul clan Fasciani di Ostia (Cass. pen., sez. VI, 26
ottobre 2017, n. 57896, in Foro it., 2018, II, 145 ss., si veda Manna, I «confini mo-
bili» dell’associazione per delinquere di stampo mafioso ovvero della cd. concezione an-
tropomorfica della norma penale, cit., 22. «Rimane peraltro da chiedersi, in considera-
zione dell’accennata difficoltà obiettiva di accertare processualmente la reale consistenza
ed estensione della carica intimidatrice posseduta dall’organizzazione criminale di volta
in volta sub iudice, se alla distinzione concettuale tra forza intimidatrice «potenziale»
e forza intimidatrice «effettiva e attuale» corrispondano poi davvero realtà empiriche
differenti, come tali verificabili al di là di ogni ragionevole dubbio», così Fiandaca,
Esiste a Roma la mafia? Una questione (ancora) giuridicamente controversa, in Foro
it., 2018, II, 176 ss.

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70 capitolo ii

anche dopo che, eventualmente, il reato (o i reati) oggetto dell’ac-


cordo stesso (determinato o indeterminato) siano stati commessi.
La ragione di questa differenza di trattamento, del resto, dev’es-
sere necessariamente individuata, perché, altrimenti, i reati associativi
dovrebbero ritenersi incostituzionali, in quanto violativi del princi-
pio di offensività, perfino se inteso solo nel senso debole in cui, d’al-
tronde, è notoriamente accolto dalla Corte costituzionale, ovverosia
sub specie di ragionevolezza.
Se non si riuscisse ad individuare una differenza significativa trai
due succitati fenomeni, infatti, la disciplina propria dei reati associa-
tivi risulterebbe manifestamente irragionevole, e la relativa risposta
sanzionatoria decisamente sproporzionata28: e, per altro, proprio ne-
gli ultimi anni sta emergendo una nuova tendenza della Consulta,
volta a censurare eventuali sproporzioni sanzionatorie, con un’atti-
vità che si pone al confine con quella puramente legislativa, mediante
la quale, ad es., le pena di cui al secondo comma dell’art. 567 c.p. è
stata diminuita sia nel minimo che nel massimo29; mentre, da ultimo,
quella di cui all’art. 73, co. 1, del d.P.R. 309/90, è stata diminuita nel
minimo30.
La differenza in questione, evidentemente, dev’essere connessa ad
una qualche rilevante specificazione, propria dell’accordo associativo,
rispetto all’accordo criminoso in genere ex art. 115 c.p.: accordo,
quest’ultimo, che ben può essere caratterizzato da un programma in-
determinato (per altro, invece, non indispensabile, in sé, al concetto
di reato associativo, come normativamente dimostrato dall’art. 305
c.p.,), nonché da una suddivisione dei ruoli dei diversi concorrenti
eventuali, e, in definitiva, da un’organizzazione.

28
Sulla progressiva autonomizzazione del concetto di proporzione da quello di ra-
gionevolezza, si veda Ruggero, La proporzionalità nel diritto penale. Natura e at-
tuazione, Napoli, 2018, 193 ss. La Consulta, per altro, ha pure di recente precisato –
in una sentenza non avente ad oggetto materia penale – di essere l’unico giudice del-
l’uso del potere discrezionale legislativo dello Stato, sul quale è invece precluso un sin-
dacato da parte della Corte EDU o della Corte di Giustizia. Cfr. Corte Cost., 20 lu-
glio 2016, n. 187.
29
Corte Cost., 10 novembre 2016, n. 236, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 1949,
con nota seguente di Dolcini, Pene edittali, principio di proporzione, funzione riedu-
cativa della pena: la corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato.
30
Cfr. Corte Cost., 8 marzo 2019, n. 40.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 71

Ebbene, secondo chi scrive, la differenza di sostanza, da cui di-


pende in modo ragionevole e proporzionato quella di disciplina, è
connessa alla natura necessariamente aperta31 dell’accordo che carat-
terizza tutte le realtà associative, sia lecite che illecite. La natura aperta
delle associazioni, del resto, è davvero innegabile, come dimostrato
anche dalla circostanza che, riguardo alle associazioni lecite, anche
in Italia, come già si è constatato nella giurisprudenza della Corte
Suprema statunitense, si discute se sussista (o meno) un diritto dei
terzi (pure nel nostro Paese, ritenuto di fondamento costituzionale:
vuoi come libertà di associazione, vuoi come principio di uguaglianza)
di essere ammessi a far parte delle associazioni lecite stesse32. Il di-
ritto in questione, tuttavia, è stato negato dalla giurisprudenza, per-
fino con riferimento al caso, indubbiamente più controverso, in cui
l’associazione sia un partito politico33.
Una tale impostazione, tuttavia, non implica affatto una negazione
della natura aperta dell’accordo associativo, ma solo l’affermazione
– secondo chi scrive, del tutto condivisibile – di un pieno diritto, in
capo alle associazioni, ad una libera selezione degli aspiranti asso-
ciati. Una cosa, infatti, è affermare che, negli accordi associativi, non
è preclusa, ed anzi è naturalmente inclusa, l’eventualità di ulteriori
adesioni, altra, invece, è sostenere che tali accordi implichino un ob-
bligo a far aderire i terzi, la richiesta di ammissione dei quali, in-
vece, può essere legittimamente respinta, a discrezione, anche nel caso
in cui gli stessi siano in possesso dei requisiti previsti in statuto.
Sta di fatto, però, che ai sensi dell’art. 16 c.c., per le associazioni,
diversamente che per le fondazioni, è necessario che l’atto costitu-

31
Conformemente, De Giorgi, voce Associazione II) associazioni riconosciute, in
Enc. giur., Roma, 1988.
32
Cfr. Pace, ult. op. cit., 223. L’illustre Autore nega la sussistenza di tale diritto,
arrivando persino ad affermare che le associazioni potrebbero anche caratterizzarsi
come «chiuse», e non solo come «aperte». Ebbene, se quest’ultima considerazione è
vera per quanto riguarda «la disposizione costituzionale in commento» (e, cioè, nella
specie, l’art. 18 Cost.), e quindi per il conseguente punto di vista dell’Autore mede-
simo, la stessa, però, non risulta altrettanto esatta – come emergerà nel proseguo –
qualora ci si soffermi sulla normativa civilistica.
33
Cfr. Trib. Verona, 7 dicembre 1987, Chemelli vs. Liga Veneta, in Giur.it., 1989,
I, 2, 75 ss., con nota contestuale di Eroli, «Diritto» di iscrizione ed ordinamento in-
terno democratico nelle associazioni non riconosciute.

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72 capitolo ii

tivo e, soprattutto, lo statuto – che, chiaramente, è un requisito fon-


damentale delle associazioni34 –, prevedano i diritti e gli obblighi de-
gli associati, nonché, per quanto qui più direttamente interessa, le
condizioni della loro ammissione: in caso contrario, l’art. 5 del d.lgs.
n. 460/97 prevede, per le ONLUS, l’esclusione dai benefici fiscali.
A tal proposito, secondo autorevole dottrina civilistica, pur non
esistendo un diritto all’ammissione da parte di terzi, essendo co-
munque quello associativo un contratto – e, quindi, un accordo –
aperto, nel caso di rifiuto di un candidato avente i requisiti previsti
dallo statuto, dovrebbe sorgere quantomeno una forma di responsa-
bilità pre-contrattuale (1337 c.c.), in mancanza di un vero diritto al
risarcimento del danno o all’esecuzione in forma specifica35.
A ben considerare, del resto – tornando al versante penalistico –,
si può affermare che è proprio tale natura tendenzialmente aperta,
appunto all’adesione da parte di terzi, che caratterizza l’accordo pro-
prio dell’associazione per delinquere, rispetto al mero accordo per
commettere uno, o, nel caso di concorso nel reato continuato, più
reati. Solo nel primo dei due casi, infatti, non ci si accorda solo per
commettere dei delitti – ché, altrimenti, dovrebbe trovare applica-
zione il principio di cui all’art. 115 c.p. –, ma anche sulla modalità
con le quali all’accordo, inizialmente preso tra parti definite, deb-
bano poter accedere, nel tempo, anche ulteriori soggetti.
Anzi, l’accordo associativo è solo quello che è diretto/finalizzato
anche all’acquisizione di nuovi associati, in quanto, come è stato giu-
stamente osservato, per altro, dalla stessa giurisprudenza penale, «è
la disponibilità dei vari associati costituenti il patrimonio umano del-
l’associazione, che ne condiziona autorevolezza e funzionalità»36.
Solo in quest’ultimo senso, poi, si può accettare il requisito della
stabilità dell’organizzazione come coessenziale al concetto stesso di
associazione. Non nel senso, cioè, che debbano escludersi, dal pre-

34
Cfr. Santoroni, Associazione, in Dig.civ., Torino,1995, vol XII, appendice, 578
ss., e, spec., 579.
35
Cfr. Gallo, Art. 1332 – Adesione di altre parti al contratto, 376ss, e, spec., 383.,
in Navarretta, Oristano (a cura di), Commentario del Codice Civile, Dei contratti
in generale, Torino, 2011.
36
Cfr. Cass. pen., 4 febbraio 1988, Barbella, in Riv. pen., 1989, 613.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 73

detto concetto, quelle realtà la cui permanenza abbia carattere me-


ramente relativo, o addirittura occasionale – che invece vi rientrano37
–, ma solo nella misura in cui si sostenga, e non a torto, che una
organizzazione di tipo associativo, per essere tale, debba necessaria-
mente prevedere che gli associati possano mutare, senza, però, che
l’associazione – che è dunque stabile – muti38.
Non si deve ritenere, inoltre, che la previsione del codice civile
italiano sia stata condizionata, in una qualche misura, dal risalente
periodo storico in cui è stata formulata, ed abbia condizionato, a sua
volta, l’impostazione del pur meno risalente decreto legislativo ci-
tato, sui profili tributari delle ONLUS. Anche nella più recente, ci-
tata legge organica spagnola, n.1/2002, infatti – come accennato, at-
tuativa del diritto di associazione, di cui al citato art. 22 Cost. –, al-
l’art. 7 lett. e), si prevede, allo stesso modo, che uno degli elementi
necessari, dell’obbligatorio statuto delle associazioni, sia proprio quello
che regola i requisiti e le modalità di ammissione degli associati.
L’associazione, infatti, è per sua natura una realtà che, financo
quando sia segreta39, tende sempre e comunque a proiettarsi all’e-
sterno, alla continua ricerca di nuovi associati, costituendo quest’ul-
timi la vera ricchezza, nonché il reale metro di misura dell’afferma-
zione, dell’associazione stessa. Ed è per questo, poi, che, di fatto, ol-
tre che di diritto, una certa tendenza all’espansione numerica degli
associati è sempre coessenziale all’associazionismo, come dimostrato
ampiamente, del resto, pure da quanto comunemente avviene nel va-
sto ambito dell’associazionismo lecito: si pensi, ad es., ai partiti, ai
sindacati, ma anche alle associazioni culturali, di volontariato o ca-
tegoria, etc.
Sotto un certo punto di vista, quindi, non hanno torto la dottrina
e la giurisprudenza nel ritenere che la differenza tra il mero accordo
criminoso, e quello, invece, costitutivo di una vera e propria asso-
ciazione, risieda nella indeterminatezza di quest’ultimo. Ciò che in

37
In tal senso, lucidamente, Barile, op. cit., 838.
38
Cfr F. Ferrara sr, Le persone giuridiche, 2^ ed., Torino, 1956, 76.
39
Anzi, è interessante notare come il novero delle condotte qualificate sia stato in-
crementato, nel nostro ordinamento, con l’introduzione di quella di proselitismo, pro-
prio in riferimento all’associazione segreta. Sul punto, si rinvia a Contento, Le asso-
ciazioni segrete, cit., 130 ss.

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74 capitolo ii

una associazione risulta necessariamente indeterminato, tuttavia, non


è il programma (che sia criminoso o meno), ma il numero e l’iden-
tità degli associati/concorrenti.
In definitiva, una prima proposta, da verificare meglio nel prose-
guo della trattazione, potrebbe essere quella dell’introduzione, nel
nostro codice di diritto sostanziale, di una disposizione di carattere
definitorio, secondo la quale – appunto, ai fini della legge penale –
l’accordo intercorrente tra tre o più persone si ritenga costitutivo di
una associazione, solo qualora sia finalizzato anche all’aumento, in-
determinato, del numero degli aderenti all’accordo stesso. Si tratta,
tuttavia, di un’ipotesi che, in primo luogo, deve dimostrare di risul-
tare davvero utile, qualora fosse accolta, per il sistema penale.

3.1. Associazione «aperta» e principi penalistici fondamentali


Come si accennava, tuttavia, si deve considerare che l’accogli-
mento della suindicata proposta eventuale – secondo chi scrive, in
ogni caso, almeno concettualmente esatta – potrebbe risultare op-
portuno esclusivamente nell’ipotesi in cui si verifichi che, dall’acco-
glimento medesimo, deriverebbero vantaggi così concreti e tangibili,
in termini di rispetto dei principi penalistici fondamentali, da risul-
tare superiori ai relativi «costi», sul piano processuale.
Risulta evidente, infatti, che l’introduzione di qualunque elemento
costitutivo aggiuntivo, rispetto a quelli già attualmente ritenuti ne-
cessari, affinché possa ritenersi sussistente un’associazione criminosa,
comporterebbe un onere probatorio in più per la Pubblica Accusa,
che infatti: da un lato, ne dovrebbe provare l’oggettiva sussistenza,
appunto perché possa ritenersi esistente l’associazione; nonché, dal-
l’altro, ne dovrebbe dimostrare, altresì, la soggettiva ricorrenza, in
ogni singolo presunto partecipe, ai fini della sua punibilità.
Per giurisprudenza consolidata, infatti, il dolo specifico del delitto
di associazione è integrato solo quando il singolo partecipe abbia la
volontà di contribuire a realizzare gli scopi in vista dei quali è co-
stituito, ed opera, il sodalizio40: scopi ai quali, per quanto fin qui so-
stenuto, bisognerebbe aggiungere anche quello di incrementare, in

40
Cfr. Cass. pen., sez.I, 14 ottobre 1994, in Cass. pen., 1996, 2177.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 75

modo indeterminato, il numero dei concorrenti necessari del reato


associativo stesso, che infatti rientrerebbe, «arricchendolo», nel pro-
gramma criminoso41.
Ebbene, sull’utilità della disposizione definitoria proposta, rispetto
alla possibilità di spiegare la differenza di trattamento, in ossequio
dei principi di ragionevolezza e proporzione, tra le ipotesi di ac-
cordo non punibile ex art. 115 c.p., e quelle relative, invece, ad as-
sociazioni per delinquere vere e proprie, si è già ampiamente argo-
mentato nel paragrafo precedente, per cui ora si passerà a prendere
in considerazione il principio di determinatezza.
Per quanto attiene tal ultimo principio fondamentale, atteso che la
natura necessariamente aperta dell’accordo associativo è utile per di-
stinguere, in modo, appunto, determinato, tra reato associativo e alcuni
casi di concorso di persone nel reato continuato (si pensi ad una «banda»
chiusa, ovverosia composta da un numero fisso di componenti che, se-
condo questa ricostruzione, non dovrebbero essere chiamati a rispon-
dere del reato associativo), resta da verificare se la suggerita nozione di
associazione «aperta» risulti altresì strumentale, nei confronti di una più
precisa delimitazione della condotta associativa in sé meno determinata,
ovverosia quella di mera partecipazione, a fortiori in difetto di conte-
stazione del concorso anche in un solo reato fine42.
Anche su questo punto, del resto, si è già lanciato un input al-
quanto significativo, quando si è riferito del correlato arricchimento
del dolo specifico di associazione, conseguente alla migliore defini-
zione della nozione di accordo associativo. Per questa via, infatti –
contrariamente a quanto attualmente avviene, con le interpretazioni
rigoriste della giurisprudenza43 –, proprio l’elemento soggettivo po-

41
«Il dolo del delitto di associazione a delinquere è integrato dalla coscienza e vo-
lontà di partecipare attivamente alla realizzazione del programma delinquenziale in
modo stabile e permanente e può desumersi in modo fortemente indiziante dalla stessa
realizzazione dell’attività delittuosa in termini conformi al piano associativo», così Cass.
pen., sez. VI, 2 ottobre 2013, n. 50334, in Ced Cass., n. 257845.
42
«In materia di reati associativi, la commissione dei «reati-fine» dell’associazione,
di qualunque tipo essa sia, non è necessaria, né ai fini della configurabilità e nemmeno
ai fini della prova della sussistenza della condotta di partecipazione», così Cass. pen.,
sez. III, 6 novembre 2015, n. 9459, in Ced Cass., n. 266710.
43
Cfr. Trib. Palermo, 17 gennaio 2002, in Foro it., 2003, II, 100. In particolare, in

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76 capitolo ii

trebbe giustamente essere ritenuto insussistente, ad esempio, in tutti


quei casi in cui taluni soggetti abbiano svolto mansioni in sé lecite
(come quelle proprie di autisti, fattorini, guardie del corpo, etc.), ma
lo abbiano fatto – magari pure consapevolmente – alle dipendenze
di una associazione criminale o, comunque, di uno dei suoi capi,
senza, tuttavia, che lo svolgimento dell’attività medesima fosse in al-
cun modo finalizzato anche ad un’espansione numerica degli asso-
ciati dell’associazione stessa: espansione dell’associazione che, infatti,
certamente non rientra nei fini perseguiti da tali soggetti.
Da un altro punto di vista, del resto, forse in questi casi si ver-
serebbe proprio in quelle ipotesi di contributo materiale secondario
o, comunque, di lieve colpevolezza – e quindi, in definitiva, di so-
stanziale irrilevanza penale del fatto –, in cui il codice penale tede-
sco, al n. 6 del §129 (che si approfondirà nel proseguo della tratta-
zione), ammette la possibilità della non punibilità del partecipe di
un’associazione: possibilità che però, come già evidenziato, tale co-
dice rimette invece completamente, in modo non condivisibile, alla
discrezionalità del giudice44.
Com’è noto, poi, anche in Italia – nel 2015 – è stata inserita, al-
l’art. 131 bis c.p., un clausola generale di esclusione della punibilità
per particolare tenuità del fatto45, che si basa sulla particolare tenuità
dell’offesa – dovuta ad un limitato disvalore di condotta e di evento

tal caso è stato ritenuto partecipe di una associazione di tipo mafioso un soggetto, la-
voratore dipendente, svolgente, prevalentemente, una attività di guardiania.
44
Per altro, nel sistema penale tedesco esiste, da tempo, una disposizione generale
sull’irrilevanza penale del fatto (§§ 153 a e b del c.p.p.), che prima, in Italia, era presa
in considerazione solo nel processo minorile e nel micro-sistema del GdP. Nella pre-
visione generale del codice di rito tedesco, tuttavia, la discrezionalità del Giudice viene
mitigata dalla necessaria presenza, per l’operatività della clausola in commento, del-
l’intervenuto risarcimento del danno, che, nei reati di pericolo, si concretizza nel pa-
gamento di una somma allo Stato, secondo il paradigma della «symbolische Wieder-
gutmachung». In argomento, si rinvia a Manna, Risarcimento del danno, offensività
ed irrilevanza penale del fatto: rapporti ed intersezioni, in Crit. dir., 2001, 380 ss.
45
Cfr.: Amarelli, Particolare tenuità del fatto (diritto penale), in Encicl. dir.-An-
nali, Milano, 2017, vol. X, 557 ss.; Giacona, La nuova causa di non punibilità per
particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), tra esigenze deflattive e di bilanciamento
dei princìpi costituzionali, in Ind. pen., 2016, 38 ss.; Sylos Labini, Nuove prospettive
nelle alternative al processo penale – La messa alla prova e la particolare tenuità del
fatto, Roma, 2017.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 77

–, nonché sul comportamento non abituale, e che ha come limite la


comminatoria non superiore nel massimo a cinque anni di reclu-
sione: per cui, almeno da tal ultimo aspetto, potrebbe applicarsi al
mero partecipe – almeno, se nel senso «minore» summenzionato –
di un’associazione per delinquere.
Purtroppo, però, è il requisito della non abitualità della condotta46
che, almeno secondo chi scrive, renderebbe comunque inapplicabile
l’istituto di cui trattasi ai suindicati casi di «partecipazione minore»,
e ciò anche in considerazione del fatto che, per la giurisprudenza, «i
criteri indicati nel primo comma dell’art. 131 bis c.p. sono cumula-
tivi quanto al giudizio finale circa la riconoscibilità della causa di non
punibilità in questione mentre sono alternativi quanto al suo diniego,
nel senso che l’applicazione della detta causa di non punibilità è pre-
clusa dalla valutazione negativa anche di uno solo di essi»47.
L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, quindi,
non può servire per escludere la punibilità a titolo di reato associa-
tivo in quelle ipotesi di partecipazione «non piena» che, invece, la
nozione «aperta» di associazione, che restringe il campo dei reati as-
sociativi ad un novero più determinato di fatti, è in grado di sele-
zionare ed escludere.
Per quanto riguarda, poi, il principio di personalità della respon-
sabilità penale, la nozione «aperta» di reato associativo risulta utile
anche per evitare che i semplici concorrenti eventuali, nella com-
missione di un delitto-fine di una associazione criminosa, siano, per
ciò solo, ritenuti partecipi dell’associazione medesima, così finendo
per rispondere anche del fatto altrui, oltre che del proprio.
Non è per niente detto, infatti, che chi concorra in un singolo de-
litto-fine (o, eventualmente, anche in più di uno), sia necessariamente
un associato. Circostanza che, per altro, correlativamente comporte-
rebbe l’esistenza di un obbligo (giuridico, o solamente morale?), pro-
prio dei capi dell’associazione per delinquere, di avvalersi, nella rea-
lizzazione dei singoli delitti-fine, esclusivamente dei loro associati:
obbligo alla sussistenza del quale, chiaramente, nessuno si troverà
pronto a credere. Si deve ricordare che, del resto, la stessa giuri-

46
Cfr. Cass. pen., sez. III, 11 ottobre 2016, n. 48318, in Ced Cass., n. 268566.
47
Così Cass. pen., sez. III, 28 giugno 2017, n. 893, in Riv. pen., 2018, 274.

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78 capitolo ii

sprudenza, almeno teoricamente, tende sempre a distinguere, tra il


vincolo associativo, da un lato, e la concreta esecuzione dei delitti-
scopo48, dall’altro.
Come è noto, tuttavia, nella pratica diventa abbastanza facile as-
similare il concorrente nel delitto-fine all’associato, ma tale processo
di assimilazione sarebbe sicuramente reso più difficoltoso dall’intro-
duzione della proposta disposizione definitoria. Beninteso, però: non
si dovrebbe affatto pretendere la prova che ogni singolo partecipe,
per essere ritenuto tale, abbia compiuto personalmente uno o più
concreti atti di proselitismo, ma almeno quella che, pure nell’esecu-
zione dello specifico reato-fine, il partecipe sia stato immediatamente
disponibile a collaborare, e quindi concorrere, con chiunque rive-
stisse, a sua volta, la qualifica di partecipe dell’associazione in que-
stione, con ciò dimostrando quell’apertura, verso gli altri associati,
caratteristica, appunto, degli appartenenti alle realtà associative sia le-
cite che illecite.
Secondo chi scrive, però, la migliore prova di sé l’associazione
«aperta» la offre, sicuramente, quando si tratta di confrontarsi con
il principio di offensività. Se, infatti, un’associazione criminosa, per
essere tale, deve essere continuamente diretta anche alla propria espan-
sione numerica, il che implica l’utilizzo di un qualsivoglia mezzo di
propaganda, se pur, ovviamente clandestina49, si comprende facilmente
come la sua stessa esistenza rappresenti una lesione dell’ordine pub-
blico, inteso in senso materiale50.

48
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 24 settembre 1999, n.12530, in Cass. pen., 2001, 1195.
49
Si sa bene che l’opinione è generalmente avversata in dottrina, ma si deve riba-
dire che la propaganda, se svolta con particolari modalità, non è affatto incompatibile,
addirittura, con la segretezza, come storicamente dimostrato, ad es., dalle vicende della
c.d. massoneria speculativa del 700-800, nonché, normativamente, dalla citata condotta
qualificata di proselitismo, propria appunto delle associazioni segrete. Non si deve ri-
tenere, quindi, che l’esigenza di proselitismo sia caratteristica solo delle associazioni
terroristiche, nelle quali, eventualmente, la stessa può risultare solo più spiccata, ri-
spetto a quella propria delle associazioni criminose comuni. In senso contrario, tutta-
via, si veda de Vero, Ordine pubblico, cit., 80.
50
Come già affermato, infatti, negligere, tanto la nozione ideale, quanto quella c.d.
costituzionale, del bene giuridico «ordine pubblico», e questo nel tentativo di dotare
di un minimo di afferrabilità il bene stesso. In senso parzialmente, difforme, però, si
veda Montanara, op. cit., 4004.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 79

Ciò si comprende, in particolare, almeno nella misura in cui la


sussistenza dell’associazione costituisce una forma speciale, partico-
larmente concreta, efficace e, quindi, lesiva/pericolosa, di istigazione
a delinquere, che, per altro, potrebbe perfino ritenersi pubblica, ap-
punto perché propagandata, secondo la definizione di cui all’art. 266,
co. 4, n.1, c.p., dalla quale, tuttavia, forse dovrebbe essere esclusa la
propaganda, come nella specie, tendenzialmente segreta51.
Indubbiamente, infatti, la stessa circostanza di sapere, specie in un
determinato ambiente circoscritto52, che esiste un accordo criminoso
tendenzialmente aperto all’adesione da parte dei terzi – e che quindi,
sotto questo punto di vista, si rivolge ad una pluralità indeterminata
di persone53 –, costituisce, appunto, per chiunque lo sappia, anche
se non sia stato mai direttamente invitato ad aderirvi e, ovviamente,
a fortiori se lo sia stato, una vera e propria istigazione: tanto più
provocatoria54, per altro, quanto l’idea di delinquere all’interno di
una associazione, contando sulla sua protezione, esperienza e orga-
nizzazione, può apparire di assai più facile realizzazione, rispetto al-
l’intrapresa di altre improbabili carriere criminali non associate.
Questa concezione di reato associativo, del resto, risulta più coe-
rente con il concetto, non solo civilistico, ma anche costituzionale
(e, quindi, sempre pubblicistico), di associazione, e può trovare una
sua conferma anche nell’interpretazione differente, tutta penalistica,
del ruolo del promotore nell’accordo e nell’associazione: nel primo

51
Anche nel caso di un’associazione criminale, del resto, qualora la propaganda
sia, invece, davvero pubblica, si dovrà ritenere integrato un altro autonomo reato, ov-
verosia quello di cui all’art. 414 c.p. Al proposito, per altro, vi è anche un precedente
giurisprudenziale, in cui la Cassazione ritenne integrato l’art. 414, ult. co, c.p., nelle
scritte apologetiche che alcuni membri delle BR avevano verniciato sulle mura interne
di una scuola, con evidente fine di proselitismo. Cfr. Cass. pen., 18 aprile 1983, in
Foro it., 1984, II, 391.
52
Sulla necessità di circoscrivere, e quindi concretizzare, lo stesso ordine pubblico
materiale, si veda de Vero, Ordine pubblico…, cit., 77.
53
In dottrina, ritiene che l’indeterminatezza dei destinatari dell’istigazione costitui-
sca un elemento necessario del delitto di cui all’art. 414 c.p. Montanara, op. cit., 4005.
In giurisprudenza, si veda Cass. pen., sez. IV, 17 aprile, 1998, in Ced Cass., n.211995.
54
D’altronde – con riferimento, però, all’istigazione a delinquere –, proprio il li-
vello di provocazione, che la condotta esprime nei confronti dei consociati, viene con-
siderato espressione della lesione dell’ordine pubblico, inteso come «pace pubblica», da
de Vero, Ordine pubblico, cit., 81.

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80 capitolo ii

caso, infatti, la promozione riguarda esclusivamente la fase genetica;


mentre nel secondo caso, la stessa giurisprudenza afferma che:
«In tema di reato associativo, riveste il ruolo di promotore non
solo chi sia stato l’iniziatore dell’associazione, coagulando attorno a
sè le prime adesioni e consensi partecipativi, ma anche colui che con-
tribuisce alla potenzialità pericolosa del gruppo già costituito, provo-
cando l’adesione di terzi all’associazione ed ai suoi scopi attraverso
un’attività di diffusione del programma»55.
Risulta piuttosto evidente, inoltre, che, coerentemente con la cor-
rente interpretazione costituzionalmente orientata, recepita anche dalla
giurisprudenza, del delitto di cui all’art. 414 c.p., per cui bisogna pre-
tendere una certa concretezza del pericolo per il bene tutelato56, la
punibilità dei reati associativi, che però qui si sono intesi come di
danno nei confronti di tale bene, dovrebbe essere esclusa quando
l’associazione criminosa, magari per le sue caratteristiche scarsamente
significative, da un punto di vista quantitativo e/o qualitativo, degli
associati e dei loro mezzi, sia priva di una reale capacità attrattiva di
ulteriori associati. Capacità che, tuttavia, almeno in linea teorica, po-
trebbe essere riconosciuta anche ad una associazione appena costi-
tuita, qualora, ad es., i costitutori godano di un particolare «presti-
gio criminale», o comunque abbiano dotato l’associazione stessa di
mezzi particolarmente significativi.

55
Così Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2016, n. 52316, in Ced Cass., n. 268962.
Sottolinea che la promozione non è legata alla sola fase genetica, ma suggerisce che
sia meno grave delle altre condotte qualificate, Panebianco, Reati di associazione e
declinazioni preternazionali della criminalità organizzata, cit., 254.
56
«A seguito della sentenza interpretativa della corte cost. n. 65/70, l’apologia di
reato punita dall’art. 414, ultimo comma c.p. deve considerarsi reato a pericolo con-
creto; pertanto la condotta di chi compia l’esaltazione di un fatto o del suo autore al
fine di spronare altri all’imitazione o anche solo per negare la ripugnanza del fatto o
del suo autore, deve tradursi in un comportamento che abbia probabilità di un effetto
suggestivo tenuto conto della qualità dell’agente e della massa generalizzata di persone
potenziali recettrici delle espressioni apologetiche (nella specie, la suprema corte ha ri-
tenuto che configurasse il reato de quo la condotta di un sindaco che relativamente ad
un omicidio compiuto ai danni di un tunisino, aveva affermato al telegiornale di una
emittente televisiva nazionale che «nella medesima situazione anche lui avrebbe fatto
lo stesso» e che «così il tunisino non poteva più nuocere a nessuno» e, in due quoti-
diani, che anche lui avrebbe fatto altrettanto, «anzi avrebbe ammazzato lo spacciatore
con le sue mani»)», così Cass. pen., sez. I, 5 giugno 2001, in Riv. pen., 2001, 820.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 81

Ovviamente, però, la differenza tra l’intendere i reati associativi


«aperti» come di danno o di pericolo (concreto), nei confronti del
bene giuridico ordine pubblico (inteso in senso materiale), consiste
nel fatto che, nel primo caso, non si dovrebbe richiedere solo la
prova di una concreta capacità attrattiva di nuovi soci (pericolo con-
creto), ma piuttosto quella che, successivamente all’accordo iniziale
intercorso trai soci fondatori, qualche nuovo soggetto abbia effetti-
vamente aderito al sodalizio (danno).
Se, poi, ci si domanda perché nell’istigazione a delinquere si do-
vrebbe richiedere qualcosa di meno (pericolo concreto) di quanto sia
opportuno fare, invece, nei reati associativi (danno), la risposta ri-
siede nella circostanza che l’istigazione, per essere penalmente rile-
vante, dev’essere pubblica (nel senso pieno del termine), per cui si
tratta di criminalizzare un pericolo ad alta diffusività, con necessità
conseguente di anticipazione della soglia di punibilità.
Nel caso dei reati associativi, invece, l’attività di proselitismo dev’es-
sere necessariamente caratterizzata dalla segretezza o clandestinità,
con una diffusività conseguente più limitata, per cui, per giungere
alla soglie della consumazione (ma la concezione qui accolta com-
porterebbe la penale rilevanza del tentativo, diversamente da esclu-
dersi57), si dovrebbe richiedere il danno, sub specie di effettivo am-
pliamento, anche di una sola unità, della compagine sociale di par-
tenza: circostanza che infatti dimostrerebbe l’effettiva operatività del-
l’associazione, pure a prescindere dalla commissione di un primo de-
litto-fine.
La risoluzione dei profili inerenti all’offensività autonoma dei reati
associativi, infine, operata, come in questa sede, senza alcun minimo
riferimento ai beni tutelati dai singoli delitti-scopo – e questo anche

57
«In tema di associazione per delinquere, se deve ritenersi ipotizzabile il tentativo
punibile quando si tratti di condotta che il soggetto abbia posto in essere al fine di en-
trare a far parte di un sodalizio già costituito, lo stesso non può dirsi quando la situa-
zione sia quella di un organismo ancora «in fieri», dal momento che la natura di pe-
ricolo del reato in questione – da riguardarsi come già perfetto non appena si sia creato
il vincolo associativo e si sia concordato il piano organizzativo per l’attuazione del pro-
gramma delinquenziale – non consente (così come avviene, del resto, in tutti i reati di
pericolo), la configurabilità del tentativo», così Cass. pen., sez. VI, 9 ottobre 2014, n.
4294, in Riv. pen., 2015, 244

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82 capitolo ii

qualora si tratti di reati associativi «specifici» –, consente di risol-


vere, alla base, qualsiasi eventuale profilo concernente la possibilità
che la doppia punizione, per la partecipazione all’associazione cri-
minosa e per l’esecuzione di un delitto-scopo dell’associazione me-
desima, rappresenti una violazione del principio del ne bis idem so-
stanziale, nonché dei connessi principi di ragionevolezza e propor-
zione, di cui si è già riferito.

4. Reati associativi e criminalità organizzata: rapporti e intersezioni

L’espressione criminalità organizzata richiama, probabilmente, un


concetto sociologico più che propriamente normativo, ma gioca ugual-
mente un suo ruolo in ambito squisitamente giuridico, tanto da es-
sere presa in considerazione spesso dalla dottrina penalistica58, so-
prattutto, ma non solo, a seguito della Convenzione ONU di Pa-
lermo, del dicembre 2000, appunto contro la criminalità organizzata,
in specie transnazionale59, ratificata ed eseguita, in Italia, con la legge
16 marzo 2006, n. 14660.
Com’è noto, l’art. 2 delle citata Convenzione definiva – ai fini
della Convenzione stessa – la nozione di «gruppo criminale orga-
nizzato», ovverosia quel gruppo strutturato – che quindi non si è
costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato,

58
Cfr.: Aa.Vv., Criminalità organizzata fra repressione e prevenzione, Messina,
1994; Aa.Vv., Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, tra efficienza e garan-
zia, a cura di Moccia, Napoli, 1999; Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata
– Le figure delittuose associative, 3a ed., Milano, 2009; Id., Delitti associativi e crimi-
nalità organizzata – I contributi della teoria dell’organizzazione, Ra ss. penit. e crimi-
nologica, 2012, f. 3, 7 ss.; Insolera, Guarini, Diritto penale e criminalità organizzata,
Torino, 2019: Panebianco, Reati di associazione e declinazioni preternazionali della
criminalità organizzata, cit.; Peccioli, Romano B., Il diritto penale della criminalità
organizzata, in Dir. pen. proc., 2013, 1013 ss.
59
Cfr. Aa.Vv., Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale,
a cura di Patalano, Torino, 2003; Aleo, Sul problema della definizione della crimi-
nalità organizzata alla luce della Convenzione di Palermo, in Ra ss. penit. e crimino-
logica, f. 1-2,; Centonze, Criminalità organizzata e reati transnazionali, Milano, 2008;
60
Cfr. Di Martino, Criminalità organizzata, reato transnazionale e diritto penale
nazionale: l’attuazione in Italia della c.d. convenzione di Palermo (commento alla l.
16 marzo 2006, n. 146), in Dir. pen. proc., 20017, 11.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 83

ma che, non per questo, deve necessariamente caratterizzarsi per una


«ruolizzazione» definita, una compagine sociale stabile o una strut-
tura articolata –, esistente per un certo periodo di tempo, composto
da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere
uno o più reati gravi – cioè puniti nel minimo con quattro anni di
reclusione, o espressamente previsti dalla Convenzione medesima
(corruzione, riciclaggio e intralcio alla giustizia) –, al fine di ottenere,
direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro
vantaggio materiale: l’intento di quest’ultimo requisito era quello di
circoscrivere l’applicazione della Convenzione alle organizzazioni per
delinquere «non politiche».
Ebbene, risulta evidente che trattasi di una definizione molto am-
pia di «gruppo criminale organizzato», non particolarmente deter-
minata61, che – prescindendo dal profilo transnazionale, che in que-
sta sede non rileva direttamente62 – si presta a ricomprendere molte
delle associazioni tipiche ex art. 416 c.p., rispetto alle quali, infatti,
se da un lato «alza l’asticella», riferendosi solo a quei delitti che sono
puniti nel minimo con cinque anni di reclusione, dall’altro, invece,
richiede alcuni requisiti in meno, ovverosia: l’essere il gruppo fina-
lizzato alla commissione anche di solo un reato, invece che di più
delitti, nonché la mera non costituzione fortuita per la commissione
estemporanea di un reato, anche senza una ruolizzazione definita o

61
Conformemente, Insolera, Guarini, op. cit., 42.
62
A tal proposito, l’art. 3, co. 2, della Convenzione prevede che un reato si con-
sidera transnazionale se: «(a) è commesso in più di uno Stato; (b) è commesso in uno
Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o con-
trollo avviene in un altro Stato; (c) è commesso in uno Stato, ma in esso è implicato
un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; o
(d) è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un altro Stato». Nella Deci-
sione Quadro 2008/841/GAI, invece – a sua volta preceduta dall’azione comune eu-
ropea del 1998 –, si mutua la definizione contenuta nella Convenzione, ma non si li-
mita l’applicazione ai casi di reati transnazionali. A livello europeo, inoltre, merita men-
zione l’inserimento, all’art. 83, co. 2, TFUE, della criminalità organizzata nell’elenco
di quelle «sfere di criminalità» in cui «il Parlamento europeo e il Consiglio, delibe-
rando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire
norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni». In argomento, si ve-
dano Militello, Criminalità organizzata trasnazionale ed intervento europeo fra con-
trasto e garanzie, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2011, 811 e Peccioli, Unione europea e
criminalità transnazionale. Nuovi sviluppi, Torino, 2005.

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84 capitolo ii

una struttura articolata, al posto della presenza di un’organizzazione,


se pur rudimentale, normalmente richiesta dalla giurisprudenza per
l’integrazione dell’associazione per delinquere.
Al proposito, è interessante analizzare la giurisprudenza sull’ag-
gravante di cui all’art. 4 della citata legge n. 146/06, secondo la quale
«Per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel mas-
simo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo
contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività cri-
minali in più di uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla
metà», in particolare con riferimento alla possibilità di applicare, o
meno, tale aggravante al contestato reato associativo. Se, infatti –
come chiarito dalla dottrina63 –, l’aggravante in oggetto può appli-
carsi tanto agli affiliati a un gruppo criminale organizzato, quanto a
quei soggetti che, invece, tale qualifica non possiedono, nel caso in
cui abbiano comunque concorso nelle singole vicende delittuose del
gruppo, è più controverso se la stessa possa applicarsi, o meno, non
solo ai delitti-scopo, ma allo stesso reato associativo.
Un’unica sentenza, più attenta ai profili di garanzia, ha ritenuto
l’incompatibilità di tale aggravante con il reato associativo contestato
(nella specie, quello di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90), in quanto la
stessa presuppone l’esistenza del gruppo criminale organizzato e,
quindi, può eventualmente applicarsi ai reati-fine dell’associazione,
che sono appunto quelli alla commissione dei quali l’associazione
stessa ha dato un contributo, ma non al reato associativo in sé, per-
ché l’associazione criminosa altro non è che la qualificazione giuri-
dica, speculare, del «gruppo criminale organizzato», e non una sua
proiezione esterna: un quid pluris, alla realizzazione del quale il
gruppo abbia fornito un contributo causale64.
Le Sezioni Unite, poi, con una sorta di mediazione, tra l’orienta-
mento maggioritario che riconosceva la compatibilità tra l’aggravante
in questione e i reati associativi, e la dissonante sentenza da ultimo
citata, si sono espresse nel senso che sarebbe necessaria una distin-
zione caso per caso, tra le ipotesi in cui «gruppo criminale organiz-
zato» e associazione per delinquere coincidano, incompatibili con

63
Cfr. Centonze, op. cit., 304.
64
Cfr. Cass. pen., sez. V, 15 dicembre 2010, n. 1937, in Ced. Cass., n. 249099.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 85

l’aggravante di cui trattasi, e quelle in cui tale coincidenza non sus-


sista, compatibili con l’aggravante in oggetto65.
Un’equiparazione tout court tra il concetto di criminalità orga-
nizzata e quello di associazione per delinquere è stata compiuta, in-
vece, dalle Sezioni Unite della Cassazione – nel solco, per altro, di
quanto ritenuto in precedenza dalle sezioni semplici66 –, con riferi-
mento alla nota vicenda dei captatori informatici, in modo da con-
sentirne l’uso in più procedimenti possibili – e non solo, ad es., in
quelli di cui all’ art. 51, commi 3 bis e 3quater, c.p.p.67 –, visto che,
appunto in relazione allo svolgimento di indagini per un delitto di
criminalità organizzata, il d.l. n. 151/91 deroga alla disciplina del co-
dice di rito in tema di intercettazioni, anche non richiedendo, per
quelle domiciliari, che siano ammesse solo se vi sia fondato motivo
di ritenere che ivi si sta svolgendo l’attività criminosa (il punto, come
si ricorderà, era che, trattandosi di trojan horse, e, quindi, di inter-
cettazioni «deambulanti», sussisteva sempre la possibilità che il sog-
getto intercettato portasse il dispositivo «infetto» nel domicilio pro-
prio o di terzi):
«In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ai
fini dell’applicazione della disciplina derogatoria delle norme codici-
stiche prevista dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, conv. dalla l. n. 203
del 1991, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata
devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, 3º bis e 3º comma qua-
ter, c.p.p. nonché quelli comunque facenti capo ad un’associazione per
delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato»68.

65
Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18374, in Ced Cass., n. 255035.
66
«In tema di intercettazioni, la nozione di «delitti di «criminalità organizzata» di
cui all’art. 12 d.l. n. 152 del 1991 (conv. in l. 203 del 1991), ricomprende nel suo am-
bito applicativo attività criminose diverse, purché realizzate da una pluralità di sog-
getti i quali, per la commissione del reato, abbiano costituito un apposito apparato or-
ganizzativo talché sono ad essa riconducibili non solo i reati di criminalità mafiosa e
assimilati, ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo»,
67
Una limitazione a tali delitti, per l’operatività domiciliare dei captatori informa-
tici, era stata proposta da chi scrive e, poi, è stata effettivamente accolta dalla c.d.
riforma Orlando (legge delega 23 giugno 2017, n. 103) e dal conseguente decreto le-
gislativo delegato n. 216/17, che ha modificato gli artt. 266 e 267 c.p.p.. Cfr. Planta-
mura, Domicilio e diritto penale nella società post-industriale, Pisa, 2017.
68
Così Cass. pen., sez. un., 28-04-2016, n. 26889, in Foro it, 2016, II, 491, con

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86 capitolo ii

Può apparire inspiegabile che un decreto legge, come il n.152 del


’91, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità
organizzata» non si premurasse di definire il concetto, appunto, di
criminalità organizzata, che pure utilizzava sia all’art. 13, in tema di
intercettazioni, che all’art. 12, sul coordinamento dei servizi di poli-
zia giudiziaria, ma forse questa circostanza rappresenta la spia che
trattasi di una nozione particolarmente sfuggente, nonostante le op-
poste pretese della prima, «ingenua», sentenza della Cassazione al ri-
guardo, che inizialmente aveva posto un argine molto delimitato, ma
poi dimostratosi fragile, all’espansione di tale concetto, escludendo
dal suo novero perfino il traffico di stupefacenti69, che al momento
della decisione, infatti, non era compreso negli elenchi di reati con-
tenuti nelle – per giunta, plurime – disposizioni processuali richia-
mate, tra cui quella di cui all’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p., che, per

nota di Di Stefano, secondo la quale: «L’intercettazione di comunicazioni tra presenti


mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è con-
sentita nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova ap-
plicazione la disciplina di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, conv. dalla l. n. 203 del
1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di
preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostra-
zione che siano sedi di attività criminosa in atto (in motivazione la corte ha sottoli-
neato che, in considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del
fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata
a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del prov-
vedimento di autorizzazione in modo rigoroso)».
69
«Nel vigente ordinamento penale l’espressione «delitti di criminalità organizzata»
ha un significato ben preciso che tende ad individuare non una fattispecie autonoma,
ma una categoria di reati definita chiaramente attraverso l’analitica individuazione delle
fattispecie fatta dall’art. 407, 2º comma, lett. a) c.p.p., dall’art. 372, 1º comma bis c.p.p.,
dall’art. 51, 3º comma bis e 54 ter c.p.p.; il riferimento ai delitti di criminalità orga-
nizzata, poiché incide sui provvedimenti limitativi della libertà personale, è tassativo e
non può andare oltre le ipotesi espressamente previste; sicuramente tra tali delitti non
rientra quello previsto dall’art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 e di conseguenza non si
estende a tale reato il regime particolare per l’autorizzazione alle intercettazioni te-
lefoniche introdotto con l’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 convertito con l. 12 luglio
1991 n. 203, tuttavia l’intercettazione deve ritenersi legittimamente disposta e perciò
utilizzabile a fine di prova quando sia stata autorizzata con riferimento ad una ipo-
tesi delittuosa rientrante nella categoria dei reati di criminalità organizzata ed all’esito
dell’istruttoria l’azione penale venga esercitata per la violazione dell’art. 73 d.p.r. 9 ot-
tobre 1990 n. 309», così Cass. pen., sez. VI, 24 febbraio 1995, in Ma ss.Cass. pen.,
1995, fasc. 8, 144.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 87

altro, contiene il primo elenco di reati che dovevano corrispondere


all’espressione «criminalità organizzata» contenuta, al proposito (du-
rata delle indagini preliminari) nella legge delega per il nuovo codice
di rito70.
Non si può fare a meno di segnalare, tuttavia, che ben due capi
del decreto in questione riguardano la legislazione antimafia (di grande
successo applicativo la nota aggravante di cui all’art. 7, dell’aver agito
avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p., ovvero
al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso
articolo), uno il traffico di armi, e che, quando in esso vi sono norme
che elencano particolari delitti (ad es., l’art. 1, che ha inserito l’art.
4 bis O.P.), si tratta sempre di ipotesi particolarmente gravi (mafia,
terrorismo, rapina, sequestro di persona a scopo di estorsione, stu-
pefacenti, aut similia).
Non v’è dubbio, del resto, che l’espressione criminalità organiz-
zata in senso stretto richiama alla mente, innanzitutto, il fenomeno
mafioso. L’importante ricerca empirica coordinata dall’Alessandri, ad
es. – sul ruolo della criminalità organizzata nell’economia setten-
trionale, dal 2000 al 2015 –, si basava sui procedimenti e processi
milanesi in cui era stato contestato, appunto, l’416 bis c.p., per rile-
vare il livello di infiltrazione delle mafie nelle imprese settentrionali71.
Allo stesso modo, un’interessante, successiva ricerca sulle aziende cri-
minali al centro-nord, è stata condotta su di un campione di 643
aziende ritenute tali in tre casi, ovverosia:
1. erano state oggetto di sequestro o confisca in base alla legisla-
zione antimafia;
2. avevano un consigliere d’amministrazione condannato per ma-
fia;
3. avevano un azionista rilevante – almeno al 10% – condannato
per mafia72.

70
Cfr. Insolera, Guerini, op. cit., 25.
71
Cfr. Alessandri (a cura di), L’espansione della criminalità organizzata nell’atti-
vità d’impresa al nord, in Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, n.
4, 2016, 3 ss. Lo stesso Centro interdipartimentale dell’Università di Milano denomi-
nato Osservatorio sulla criminalità organizzata, che pubblica la succitata rivista, in de-
finitiva si occupa di mafie.
72
Cfr. Fabrizi, Malaspina, Parbonetti, Caratteristiche e modalità di gestione

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88 capitolo ii

Non sarebbe priva di fondamento, dunque, una ricostruzione che


limitasse l’espressione criminalità organizzata alle associazioni rile-
vanti, appunto, ex art. 416 bis c.p., e, con una prospettiva in parte
inversa a quella fin qui riferita, definisse delitti di criminalità orga-
nizzata – oltre che, per antonomasia, quello di cui all’art. 416 bis c.p.
– tutti e solo quelli che, a prescindere dalla loro qualificazione o gra-
vità intrinseca, rappresentano un delitto-scopo di un’associazione ma-
fiosa, tanto da essere contestati in concorso con l’art. 416 bis c.p.,
nell’ambito di un medesimo procedimento o processo.
In base a questa opzione, però – che, allo stato, risulta priva di una
base normativa, e si prende in considerazione de iure condendo – bi-
sognerebbe escludere dal novero dei delitti di criminalità organizzata
anche quelli particolarmente gravi di cui fin qui si è riferito, almeno
se privi di connessione con un’associazione di cui all’art. 416 bis c.p.
e, a fortiori, se privi di riferimento ad una qualsivoglia associazione
per delinquere, e commessi monosoggettivamente, oppure, com’è più
probabile, in mero concorso eventuale di persone nel medesimo reato.
In questo modo, tuttavia, resterebbero escluse dalla definizione di
criminalità organizzata anche le associazioni per delinquere finaliz-
zate al traffico di stupefacenti (reato, per altro, più frequentemente
contestato in concorso con il 416 bis c.p., nella citata ricerca dell’A-
lessandri), a quello di armi, alla tratta di persone o al traffico illecito
di migranti – che pure spesso, ma non necessariamente, sono con-
temporaneamente di tipo mafioso –, e questo nonostante il traffico
di stupefacenti sia il primo reato in Italia, nel senso del reato com-
messo dalla maggioranza relativa dei detenuti italiani (circa il 40%)73,
mentre gli altri ambiti criminali succitati siano tanto rilevanti da es-
sere oggetto di appositi protocolli della Convenzione di Palermo.
Allora, però, se l’apertura ad ogni associazione per delinquere fi-
nalizzata al compimento di qualsivoglia delitto – e, secondo chi scrive,
pure quella a reati in sé gravissimi, ma commessi al di fuori dell’at-

delle aziende criminali, in Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, n.


1, 2017, 47 ss., e, spec. 50.
73
Secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili, infatti – relativi al 2013 e pubblicati
nel 2015 –, al 38,8% dei soggetti detenuti nelle carceri italiane è stato contestato il
traffico di stupefacenti, al 28,9% la rapina e al 21,6% il furto. Cfr. www.istat.it.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 89

tuazione del programma criminoso di un’associazione – finisce per


allargare troppo la nozione di criminalità organizzata, e dei relativi
delitti, il riferimento alla sola associazione di tipo mafioso rischie-
rebbe di risultare, invece, eccessivamente restrittivo. Una possibile
soluzione, quindi, sarebbe quella di elencare i delitti al compimento
dei quali l’associazione per delinquere «non mafiosa» dev’essere fi-
nalizzata, per essere considerata criminalità organizzata: ma si trat-
terebbe di un elenco destinato ad allungarsi indefinitivamente e, ciò
nonostante, ad apparire sempre incompleto (si veda l’estensione, me-
diante implementazione del co. 2 bis dell’art. 266 c.p.p., che si è
avuta con la legge c.d. spazzacorrotti).
La soluzione più convincente, dunque, è quella di circoscrivere il
concetto di criminalità organizzata alle associazioni per delinquere di
tipo mafioso e a quelle per delinquere, anche «non mafiose», ma ar-
mate; perché, a ben considerare, è l’idea stessa di una «criminalità or-
ganizzata disarmata» a risultare quantomeno crontroversa, tanto che
l’espressione potrebbe perfino ritenersi un ossimoro. Il concetto di as-
sociazione armata, del resto, ha un suo preciso aggancio normativo,
non tanto con l’anacronistica aggravante della scorreria in armi di cam-
pagne e pubbliche vie, di cui al quarto comma dell’art. 416 c.p., quanto,
piuttosto, all’aggravante di cui al quarto comma dell’art. 416 bis c.p.,
e alla conseguente definizione del comma successivo, secondo la quale
«l’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la di-
sponibilità, per il conseguimento delle finalità dell’associazione, di armi
o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito»:
formulazione che deve ritenersi preferibile a quella di cui al quarto
comma dell’art. 74 del T.U. stupefacenti, in cui, infatti, l’aggancio delle
armi al conseguimento delle finalità dell’organizzazione viene meno74.
Se, poi, ci si domanda perché mai un’associazione mafiosa – di-
versamente da una per delinquere «non mafiosa» – dovrebbe rite-

74
«In tema di reati concernenti gli stupefacenti, la circostanza aggravante dell’as-
sociazione armata, prevista dall’art. 74, 4º comma, d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 – di-
versamente da quella analoga, ipotizzata dall’art. 416 bis, 5º comma, c.p. con riguardo
all’associazione per delinquere di stampo mafioso – richiede unicamente la disponibilità
di armi, non esigendo anche la correlazione tra queste ultime e gli scopi perseguiti dal-
l’associazione criminosa», così Cass. pen., sez. V, 4 febbraio 2015, n. 11101, in Ced
Cass., n. 262714.

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90 capitolo ii

nersi rientrante nel concetto di «criminalità organizzata» anche se


non armata, si deve segnalare che, se è vero che la formulazione co-
dicistica sembra credere a tale possibilità, ovverosia, appunto, a quella
dell’esistenza di un’associazione mafiosa «non armata» (ché, altri-
menti, non avrebbe senso la previsione dell’aggravante per quella ar-
mata), chi scrive si permette di dubitare che una tale realtà esista in
rerum natura, se non con riferimento alla fantomatiche nuove ma-
fie (che poi, per l’appunto, probabilmente tali non sono75), e altret-
tanto sembra fare la stessa giurisprudenza, almeno in relazione alle
mafie «classiche», ritenute notoriamente armate «per definizione»:
«Sussiste la circostanza aggravante prevista dall’art. 416bis, 4°
comma, c.p., là dove il singolo partecipe sia consapevole del possesso
di armi da parte di anche solo uno tra associati ovvero non conosca
tale circostanza per colpa, essendo fatto notorio non ignorabile che la
camorra sia un’associazione criminale armata»76.
La qui proposta nozione di criminalità organizzata, che non è né
più ampia né più restrittiva, ma più calzante, rispetto a quella che,
se pur implicitamente, da ultimo è stata accolta nel nuovo comma 2
bis dell’art. 266 c.p.p. – a fronte della previsione del quale, infatti,
bisognerebbe concludere che sono delitti di criminalità organizzata
tutti (e solo) quelli di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. –
non avrebbe neppure l’effetto collaterale, che invece poteva prodursi
a seguito della sentenza delle Sezioni Unite da ultimo citata, in base
alla quale bastava l’associazione per delinquere semplice per poter ri-
tenere integrata la criminalità organizzata, di produrre contestazioni
sostanziali puramente strumentali all’ottenimento di benefici investi-
gativi, procedimentali e processuali (o sostanziali, almeno con riferi-
mento all’art. 24 ter del d.lgs 231/0177): una cosa, infatti, è dover
contestare il 416 c.p. (ad es., per poter utilizzare i captatori infor-
matici senza limitazioni, aut similia), altra è dover contestare l’asso-
ciazione di tipo mafioso, o, comunque quella semplice ma armata,
tanto più se dovesse contemporaneamente accogliersi la già illustrata
nozione aperta di associazione.

75
Cfr. Visconti, «La mafia è dappertutto» Falso!, Bari, 2016.
76
Così Cass. pen., sez. II, 30 maggio 2017, n. 31541, Ced Cass., n. 270467.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 91

5. Alcune proposte della dottrina, per la riforma dei reati associativi

Secondo chi scrive, un significativo limite al dibattito sulla riforma


dei reati associativi e, correlativamente, a quello sulla riforma del
concorso di persone nel reato, è stato rappresentato dall’esistenza di
quella figura di confine, che coinvolge entrambe le tematiche succi-
tate, costituita dal concorso esterno nei reati associativi (in genere,
e, principalmente, nell’associazione di tipo mafioso).
Si tratta di un argomento, infatti, che – anche per la rilevanza me-
diatica dei soggetti alle volte coinvolti: si pensi, paradigmaticamente,
ai casi Andreotti e Contrada –, è riuscito a catalizzare su di sé gran
parte dell’attenzione e delle energie degli studiosi, forse a discapito
di questioni, come appunto la riforma dei reati associativi e quella
del concorso di persone nel reato, più generali, e, proprio per que-
sto, di impatto sistemico – a fortiori, se si ha riguardo all’ambito ap-
plicativo del concorso di persone tout court – incommensurabilmente
maggiore.
Nella prassi, inoltre, il concorso esterno riguarda quasi esclusiva-
mente un solo, per quanto rilevante, reato associativo, appunto il 416
bis c.p., ed anche rispetto ad esso ha una rilevanza statistica insigni-
ficante: tanto che, ad es., nella citata ricerca dell’Alessandri – che
pure riguardava i rapporti tra mafia e imprenditoria, e dunque rap-
presentava un terreno particolarmente fertile al riguardo –, la conte-
stazione di concorso esterno riguardava meno dell’1% dei reati78.
Per quanto attiene, invece, specificatamente la problematica dei
reati associativi – oggetto dell’ultima importante riflessione collettiva
della dottrina italiana, in sede del noto convegno di Courmayeur,
svoltosi nell’ormai lontano 199779 –, si vuole innanzitutto segnalare

77
Tale articolo, infatti – rubricato «Delitti di criminalità organizzata» –, ha inse-
rito, nel 2008, tra il novero dei reati presupposto della responsabilità degli enti, sia
l’art. 416 bis c.p. che, con una sanzione inferiore, l’art. 416 c.p. Ovviamente, però, l’e-
stensione agli enti di una responsabilità da reato associativo non è priva di complica-
zioni, tanto con riferimento alla possibilità di contestare agli enti stessi la commissione
dei reati-scopo dell’associazione, quanto in relazione all’effettiva possibilità di adottare
modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di tali reati presupposto. Sul
punto, si rinvia a Insolera, Guerini, op. cit., 186 ss.
78
Cfr. Alessandri (a cura di), op. cit., 18.
79
Si può ricordare anche il convegno di Brescia del 2004 – e i relativi atti –, in

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92 capitolo ii

una proposta di riforma che nasce dallo studio dell’art. 416 bis c.p.,
inteso come descrittivo di un’associazione che delinque, più che come
associazione per delinquere, nel senso che si sarebbe di fronte ad
una fattispecie a formazione progressiva, con passaggio conseguente,
da 416 c.p. a 416 bis c.p., a seguito di una sufficiente affermazione
e radicazione, sul territorio, di una medesima associazione80.
Lo Spagnolo, quindi, definisce l’associazione di tipo mafioso come
un reato associativo a struttura mista, categoria in cui rientrerebbero
anche due reati associativi politici (riorganizzazione del disciolto par-
tito fascista e associazione segreta), da contrapporre a quelli associa-
tivi puri – come, paradigmaticamente, quello di cui all’art. 416 c.p.
–, essendo i primi caratterizzati – a livello di integrazione dell’ele-
mento oggettivo – dall’esigenza della commissione di reati, anche se
minori, o, comunque, da quella del compimento di un’attività esterna
strumentale, ulteriore rispetto a quella meramente associativa, diretta
alla realizzazione dei fini associativi. La soluzione avanzata dallo Spa-
gnolo consiste, quindi, nell’eliminare i reati associativi puri o, co-
munque, nel trasformarli in altrettanti reati associativi misti81.
Tra le proposte avanzate in più ampia sede di riforma del codice
penale, invece, merita una menzione particolare il progetto Grosso,
che infatti, pur dovendo riguardare la sola parte generale82, è stato

cui, tuttavia, il tema del concorso esterno, già ben presente pure nel succitato conve-
gno di Courmayeur, era divenuto decisamente preponderante. Cfr. Aa.Vv., I reati as-
sociativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla
critica del diritto vivente, a cura di Picotti, Fornasari, Viganò, Melchionda, Pa-
dova, 2005.
80
Cfr. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, cit.
81
Cfr. Spagnolo, Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in
Aa.Vv., Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 150.
82
Più scarne risultano, invece, le indicazioni risultanti dal progetto Pagliaro, e dal
relativo articolato, pur notoriamente esteso anche alla parte speciale. La maggiore no-
vità al proposito, come si legge nella relativa Relazione (reperibile sul sito istituzionale
www.giustizia.it), consisterebbe nel passaggio dal bene dell’ordine pubblico a quello
della sicurezza collettiva, intesa in un’accezione molto «fisica»: «Il Titolo II sostituisce
alla rubrica del codice Rocco («Dei delitti contro l’ordine pubblico») quella «Dei reati
contro la sicurezza collettiva». Non si tratta di un mutamento solo formale, perché la
nuova intitolazione vuol meglio caratterizzare il bene giuridico offeso dai reati del ti-
tolo, che non è più la generica, e sotto molti profili indecifrabile, entità dell’»ordine
pubblico», ma appunto la «sicurezza collettiva», maggiormente concreta ed in sintonia

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 93

caratterizzato da una sottocommissione che ha studiato congiunta-


mente il fenomeno concorsuale e quello associativo, ed ha quindi
prodotto un’interessante relazione – di cui risulta estensore il Semi-
nara –, al termine della quale sono previste anche alcune proposte
normative puntuali83.
In quell’occasione, tutti i commissari si sono trovati d’accordo
sull’esigenza di circoscrivere meglio il concetto di associazione, ri-
chiedendo espressamente due elementi, ovverosia la sua idoneità a
perdurare nel tempo, come suggerito dalla dottrina84, e quella a rea-
lizzare i delitti oggetto del proprio programma criminoso, anch’essa
già proposta da tempo in dottrina85, nonché accolta dal legislatore,
in occasione della modifica dell’art. 270 c.p. (in sede della già citata
legge sui reati d’opinione): il che ha comportato un effetto positivo
anche sull’interpretazione del – pur non modificato – art. 270 bis
c.p.86

con la struttura democratica dello Stato. Emerge in particolare l’aspetto della sicurezza
«fisica» della collettività. L’art. 97 delinea una serie di circostanze aggravanti che de-
finiscono le più pericolose forme di criminalità organizzata. Tra le fattispecie dell’art.
97 viene compresa anche la rissa, per la forza di attrazione esercitata dal bene della
sicurezza collettiva intesa come sicurezza fisica: indubbiamente la rissa merita una con-
siderazione autonoma, rispetto alle fattispecie offensive della vita e dell’incolumità in-
dividuale, per la diffusività del suo potenziale aggressivo. È sembrato opportuno esclu-
dere dal codice la disciplina dell’associazione di stampo mafioso, perché più adatta ad
un corpo legislativo autonomo e meglio plausibile secondo le mutevoli e particolari esi-
genze che si pongono per contrastare efficacemente questa specifica forma di crimina-
lità organizzata. L’art. 98 impone la previsione di una fattispecie contravvenzionale che
porta in sé un evidente significato di minaccia per la sicurezza collettiva, anche se l’og-
getto dei corpi armati (la cui formazione viene perseguita) non è la commissione di
reati».
83
Cfr. Commissione Grosso – per la riforma del codice penale (1 ottobre 1998) –
La disciplina del concorso di persone nel reato. I reati associativi (allegato alla Rela-
zione del 15 luglio 1999), Sottocommissione: Seminara – Canzio – Randazzo – Tu-
rone, Estensore materiale del documento: Seminara, in www.giustizia.it.
84
Cfr. De Francesco, op. cit., 120.
85
Cfr. Patalano, L’associazione per delinquere, cit., 94.
86
«In tema di reati di associazione sovversiva e di associazione con finalità ever-
siva dell’ordine democratico, il fatto che la l. n. 85/2006 abbia inserito espressamente
nell’art. 270 c.p. il requisito della «idoneità», lasciando intatto l’art. 270 bis c.p., non
significa che il legislatore abbia inteso stabilire che l’associazione sovversiva è tale solo
se idonea al suo scopo, mentre l’associazione eversiva può configurarsi anche senza l’i-
doneità degli atti di violenza programmati, in quanto, di fronte alla notevole sotti-

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94 capitolo ii

Nella citata sottocommissione, invece, un punto più controverso


ha riguardato la possibilità, o meno, di restringere l’ambito applica-
tivo della fattispecie di associazione per delinquere in relazione ai
delitti-scopo, e le relative modalità, in quanto taluni ritenevano che
ciò dovesse essere operato tramite un’elencazione delle tipologie dei
reati a cui l’associazione, per essere penalmente rilevante, dev’essere
finalizzata, mentre altri sostenevano che la limitazione dovesse es-
sere ottenuta per via di un aggancio al limite edittale dei delitti-scopo
(per altro, massimo e non minimo, come invece sarebbe forse più
opportuno), e proprio quest’ultima impostazione aveva finito per
prevalere.
Il proposto reato di associazione per delinquere, dunque – mo-
dificato anche in altre parti, ad es., tramite la sostituzione dell’ag-
gravante delle scorreria in armi con quella più moderna dell’associa-
zione armata –, al suo primo comma prevedeva che:
«Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere
più delitti mediante una struttura organizzativa idonea a perdurare
nel tempo e a realizzare i delitti programmati, coloro che costitui-
scono, dirigono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo,
con la reclusione da tre a sette anni».
Come si può facilmente constatare, nonostante la finale conver-
genza di opinioni di cui riferisce la Relazione, al momento di tra-
durre l’opinione in norma, è venuto meno qualsivoglia limite con-
cernente la tipologia deli delitti-scopo o la loro comminatoria edit-
tale, mentre sono state inserite le limitazioni relative alla «doppia
idoneità», delle quali la più interessante, almeno nell’ottica del pre-
sente volume, rimane quella riferita alla capacità di perdurare nel
tempo, perché strettamente connessa all’apertura del gruppo a nuovi
soci, per sostituire quelli morti, arrestati o in altro modo privati o

gliezza della distinzione tra sovversione ed eversione ed alla pena più grave prevista
per la seconda, una siffatta intenzione sarebbe del tutto irrazionale ed incomprensibile;
conseguentemente, non può ritenersi integrato il reato di cui all’art. 270 bis c.p. nel caso
di un gruppo che si proponga l’eversione dell’ordine democratico, ma non intenda ot-
tenerla con il compimento di atti di violenza idonei allo scopo», così Corte Assise Lecce,
12 luglio 2007, in Giur.mer., 2008, 2899. In senso conforme, si veda Cass. pen., sez.
I, 22 aprile 2008, in Ced Cass., n. 240075.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 95

limitati nella propria libertà personale, o comunque, per qualsivoglia


ragione, fuoriusciti dal circuito criminale.
La seconda idoneità prevista in tale articolato – che pure, come
ricordato è forse quella più radicata in dottrina – appare, invece,
meno interessante, in quanto strettamente connessa all’idea, che qui
si è già ampiamente criticata, del reato associativo come anticipazione
della tutela del bene giuridico protetto dal relativo delitto-fine: pro-
spettiva che, in base ad una notizia riferita dalla dottrina87, sarebbe
stata fatta propria, e portata a conseguenze ulteriori, nell’ambito del
progetto Pisapia, nel quale si era ipotizzato che la punibilità dei reati
associativi fosse subordinata alla realizzazione, almeno a titolo di ten-
tativo, di uno dei delitti-scopo, secondo il modello già proposto dallo
Spagnolo.
La formulazione di cui alla citata relazione della sottocommis-
sione Seminara, poi, recepisce le istanze dottrinali anche con riferi-
mento all’emersione espressa del requisito dell’organizzazione, che
attualmente, invece, proprio perché implicito, rischierebbe di essere
svalutato dalla giurisprudenza88. A bene considerare, però, l’organiz-
zazione e la ruolizzazione ben possono essere presente anche in una
«banda» di delinquenti chiusa all’adesione di terzi, che si sia accor-
data per mettere a segno più «colpi», o magari anche uno solo:
«banda» o «gruppo» di delinquenti che, per quanto qui evidenziato,
non costituisce un’associazione per delinquere.
Secondo quanto proposto dall’Insolera89, invece, si dovrebbe ar-
rivare alla previsione di un’unica fattispecie associativa, costruita sul
tipo sociologico rappresentato dalla grande criminalità organizzata,
per la integrazione della quale dovrebbe essere richiesta la realizza-
zione del pericolo per l’ordine pubblico (inteso in senso materiale,
e non ideale): realizzazione che, a sua volta, dovrebbe essere consi-
derata il vero e proprio evento del reato, e non come una mera con-
dizione obiettiva di punibilità. Mentre, al di fuori di questo caso spe-
ciale, l’associazione – o, comunque, il concorso mediante previo ac-

87
Cfr. Insolera, Guerini, op. cit., 51.
88
Cfr. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico, cit., 274.
89
Cfr. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., 317 ss.

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96 capitolo ii

cordo – potrebbe divenire una circostanza aggravante dei delitti-


scopo90.
Teoricamente, del resto – in una prospettiva più propriamente
abolizionista –, si potrebbe anche ritenere che il ruolo di circostanza
aggravante potrebbe ritenersi l’unico che il fenomeno associativo do-
vrebbe giocare nel diritto penale. L’ipotesi della «aggravante associa-
tiva», del resto, è sicuramente suggestiva91, ma si deve chiarire che,
per ottenere tramite tale via un risultato in qualche modo positivo,
bisognerebbe introdurre simili aggravanti solo dopo aver eliminato
del tutto le fattispecie associative vere e proprie, o, comunque, dopo
aver regolato espressamente, in modo chiaro ed inequivocabile, il
rapporto tra le prime e le seconde, così evitando, alla radice, possi-
bili violazioni del principio del ne bis in idem, come quella che af-
fligge, ad es., la citata aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152/91.
Purtroppo, infatti, è stato presto superato il più ragionevole orien-
tamento92 per cui «l’essere mafioso comporta di per sé stesso l’eser-
cizio del metodo mafioso», in virtù del quale, giustamente, l’aggra-
vante in oggetto si riteneva applicabile solo a coloro i quali non fosse
stato contestato pure il reato associativo, e le Sezioni Unite hanno
invece ritenuto che:
«L’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91, che prevede l’aumento
da un terzo alla metà per i delitti puniti con pena diversa dall’erga-
stolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis
c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste

90
Sul punto, si veda anche Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie
nel sistema penale, Napoli, 1995, 42.
91
Non a caso, infatti, tale ipotesi aveva trovato accoglimento anche nell’articolato
progettato dalla c.d. Commissione Manna, del 1997, sulla tutela penale dell’ambiente,
che si era premurata di offrire anche una risposta al preoccupante fenomeno, allora
appena emerso, ma oggi tristemente consolidatosi, della c.d. ecomafia. In argomento,
si rinvia a Manna, Realtà e prospettive della tutela penale dell’ambiente in Italia, in
Riv.trim.dir.pen.econ., 1998, 867 ss. Attualmente, invece, l’art. 452octies c.p. contiene
un’aggravante per gli artt. 416 e 416 bis c.p., operante, in particolare, nel primo caso
quando l’associazione sia diretta in via esclusiva o concorrente alla commissione di de-
litti ambientali, e, nel secondo caso, qualora l’associazione sia finalizzata al compimento
di delitti ambientali oppure all’acquisizione di attività economiche, appalti, etc., in am-
bito ambientale.
92
Cfr. Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 2000, in Ced Cass., n.215702.

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l’evoluzione dottrinale sui reati associativi 97

dallo stesso articolo, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne


realizzino gli estremi, siano essi partecipi in qualche modo al sodali-
zio mafioso, siano essi estranei; in particolare, per i soggetti qualifi-
cati l’aggravante è operante anche per i reati fine»93.
Allora, però, anche per eliminare rischi di duplicazioni nella pu-
nizione, forse bisognerebbe scegliere in maniera netta tra le due al-
ternative, ovverosia quella di incriminare autonomamente i reati as-
sociativi oppure quella di punire più gravemente, attraverso corri-
spondenti circostanze aggravanti, i delitti commessi in esecuzione del
programma delittuoso di un’associazione. A tal proposito, tuttavia,
il più recente volume monografico in argomento94 suggerisce, da un
lato, di mantenere l’incriminazione di alcuni reati associativi, ma solo
se specifici per modalità o fini – con esclusione, quindi, di una fat-
tispecie generale come quella di cui all’art. 416 c.p. –, e, dall’altro,
di introdurre una aggravante comune da applicare ai reati commessi
in attuazione del programma criminoso di un’associazione per de-
linquere, in sé, però, non autonomamente rilevante, come reato as-
sociativo, in quanto non rientrante in alcun tipo specifico95.
Non si deve ritenere, però, che, qualora i reati associativi fossero
eliminati anche completamente, e, al loro posto, fosse introdotta una
circostanza aggravante comune, o fossero previste alcune circostanze
speciali solo per alcuni gravi delitti, che stabiliscono un aumento di
pena – ad es., se «il fatto è commesso da un associato per delinquere
quando la commissione del reato rientra tra le finalità dell’associa-
zione» –, si sarebbero risolti i problemi sul tappeto.
Questo non solo perché, per tale via, si correrebbe il rischio di
non punire, in alcun modo, proprio i capi dell’associazione, che in-
fatti spesso possono rimanere estranei (soprattutto da un punto di

93
Così Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2001, Cinalli, in Foro it., II, 2002, 297, con
nota di Garufi. Nella specie, per altro, si è di fronte, più che ad una duplicazione
della punizione, ad una sua triplicazione, in quanto la stessa sentenza, ritiene che la
circostanza aggravante di cui trattasi può concorrere con quelle previste dagli art. 628,
co. 3, n. 3, e 629, co. 2, c.p, cioè se la violenza o la minaccia è posta in essere da per-
sona che fa parte di un’associazione di tipo mafioso.
94
Cfr. Panebianco, Reati di associazione e declinazioni preternazionali della cri-
minalità organizzata, cit., 243 ss.
95
Cfr. De Francesco, Societas sceleris, cit., 79.

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98 capitolo ii

vista processuale), rispetto alla progettazione ed esecuzione dei sin-


goli reati-fine dell’associazione stessa96. Ma soprattutto perché, in
questo modo, si mancherebbe di affrontare, e risolvere, il vero pro-
blema cruciale, limitandosi, invece, a spostarlo sul piano dell’aggra-
vante: non è certo così, infatti, che si offre una definizione più pre-
cisa, e afferrabile, del concetto stesso di reato associativo; mentre,
per questa via, si rischia di spostare la tutela penale troppo a valle.
Anche tutte le altre proposte fin qui ricordate, del resto – se pur
assai interessanti –, probabilmente non appaiono davvero risolutive
sul piano concettuale e definitorio. Si tratta, cioè, di proposte legate
ad una idea piuttosto quantitativa, della distinzione tra l’organizza-
zione tipica del concorso di persone previo concerto, e quella pro-
pria dell’associazione per delinquere.
In questo volume, invece, mediante l’illustrata nozione di asso-
ciazione «aperta» – sulla quale si tornerà in sede di conclusioni, dopo
aver analizzato le interpretazioni giurisprudenziali e i profili compa-
rati –, si vuole offrire un contributo per l’esatta precisazione della
nozione di associazione per delinquere, anche, ma non solo, distin-
guendo nettamente, già sul piano qualitativo, il fenomeno associa-
tivo da quello, affine ma distinto, costituito dal concorso eventuale
di persone nel medesimo reato preceduto da concerto97. Solo ben
definendo l’associazione per delinquere, inoltre, si potrà anche otte-
nere – almeno in accoglimento della proposta qui avanzata – una
nozione giuridica altrettanto definita di criminalità organizzata.

96
Tale rilievo sarebbe sdrammatizzato, secondo la dottrina, se l’aggravante riguar-
dasse solo le associazioni «minori», e per questo non rilevanti «per ciò solo», in quanto
quest’ultime dovrebbero essere caratterizzate da un numero esiguo di sodali, nessuno
dei quali, quindi, potrebbe facilmente trovarsi escluso dal concorso, almeno morale, in
tutti i singoli reati-fine. Cfr. Panebianco, op. cit., 262.
97
Sempre tenendo presente, però, che «la già segnalata tendenza a confondere l’as-
sociazione con il ben diverso istituto del concorso di persone nel reato non potrà essere
definitivamente superata, laddove la stessa disciplina del concorso non venga assogget-
tata ad un’opera di revisione profonda, la quale giunga a sostituire all’attuale sistema
– imperniato su di una formulazione «tautologica» e di portata generalissima come
quella dell’art. 110 – una più congrua e rigorosa tipizzazione delle condotte concor-
suali», così De Francesco, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni cri-
minali, cit., 100.

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Capitolo III

I reati associativi nella prassi giurisprudenziale

Sommario: 1. Elementi costitutivi dei reati associativi e della condotta di


partecipazione. – 2. Associazione, partecipazione e tentativo. – 3. Cospira-
zione politica mediante accordo o associazione. – 4. È davvero possibile
che sussista un’associazione per delinquere tra corruttori e corrotti? – 5.
La Cassazione italiana compara l’associazione per delinquere con quella di
malfattori del codice penale francese.

1. Elementi costitutivi dei reati associativi e della condotta di parte-


cipazione
In ordine agli elementi costitutivi dei reati associativi e della con-
dotta di partecipazione, la giurisprudenza più recente sembra carat-
terizzarsi soprattutto in negativo, ovverosia in relazione a ciò che,
diversamente da quanto potrebbe ritenersi di primo acchito, a se-
guito di una più attenta analisi, in realtà non risulta necessario af-
finché, da un lato, possa considerarsi integrata una fattispecie pluri-
soggettiva necessaria di tipo associativo, nonché, dall’altro, possa es-
sere contestata, al singolo individuo, la partecipazione ad un reato
associativo ritenuto sussistente.
Riguardo al primo profilo, si è sovente sostenuto che, essendo
l’art. 416 c.p. espressivo di un reato a forma libera, e quindi suscet-
tibile di manifestarsi nelle maniere più disparate, ai fini della sussi-
stenza dell’associazione per delinquere, non è richiesta una distribu-
zione gerarchica di funzioni, né l’esistenza di un rapporto di subor-
dinazione della base rispetto ad uno o più soggetti apicali, quasi che
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100 capitolo iii

possano esistere delle associazioni o, in genere, delle organizzazioni


umane, puramente orizzontali. Secondo questa ricostruzione, infatti,
l’esistenza di capi – così come, del resto, quella di promotori, costi-
tutori od organizzatori – sarebbe considerata come meramente even-
tuale dalla struttura della norma incriminatrice in questione, per al-
tro configurando un’autonoma e più grave fattispecie criminosa.
A dimostrazione dell’assunto, in giurisprudenza si evidenzia che
la disposizione riguardante i capi è prevista soltanto al terzo comma
dall’art. 416 c.p, dov’è posta sullo stesso piano, per quanto riguarda
la pena, di quella dei promotori, costitutori od organizzatori di cui
al primo comma, il che costituirebbe un segno evidente, anche sotto
il profilo meramente testuale, del carattere eventuale della presenza
di un vertice del sodalizio criminale, che non potrebbe, pertanto,
rappresentarne un elemento strutturale imprescindibile1.
Tale prospettazione dell’associazione per delinquere acefala, tutta-
via, non convince del tutto, anche perché urta contro la constata-
zione che, in ambito non criminale, strutture organizzate puramente
orizzontali, semplicemente, non esistono: francamente, anche qui po-
trebbe riferirsi di un’inesistenza addirittura in rerum natura, per al-
tro nel senso più proprio dell’espressione, in considerazione del fatto
che perfino un branco di animali o un alveare d’insetti può vantare
un proprio leader. Ovviamente, ciò è valido a fortiori per le asso-
ciazioni (umane) non criminali che, per quanto possano avere un’or-
ganizzazione semplificata, necessitano sempre e comunque di un pro-
prio presidente, ovverosia di un soggetto che possa rappresentare
l’associazione medesima all’esterno.
Anche questo punto, infatti, è connaturato al concetto stesso di
associazione, né si deve ritenere che un’associazione, solo perché fi-
nalizzata a commettere delitti sia qualcosa di completamente diverso
da un’associazione che persegue un fine non delittuoso. Se un’asso-
ciazione davvero esiste, infatti, se esiste cioè – diversamente dal caso
del mero concorso di persone, magari nel reato continuato –, un
soggetto che è distinto, ulteriore e autonomo rispetto ai suoi singoli
componenti, tale soggetto deve potere, non solo agire, ma anche co-
municare e, eventualmente, accordarsi, con l’esterno, sia con altre as-

1
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 14 ottobre 2016, n. 52590, in Ced Cass., n. 268485.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 101

sociazioni che con singoli, e, per far questo, c’è bisogno di un capo,
ovverosia di una persona che sia autorizzata a parlare «in nome e
per conto» dell’associazione – o che possa delegare altri a fare al-
trettanto –, impegnando, con la propria parola, non solo se stesso,
ma tutti i sodali o, per meglio dire, l’intera associazione.
Si può dunque concludere che la presenza di un capo, a prescin-
dere dalla previsione normativa di cui all’art. 416 c.p., e, più in ge-
nerale, dalla presenza (o meno) della menzione di tale figura quali-
ficata all’interno della singola fattispecie descrittiva, sia imprescindi-
bile: si può anche prescindere, cioè, dalla sua individuazione positiva
in concreto (in altri termini, non è detto che se individui l’identità),
ma non si può riferire di un’associazione per delinquere, se si è
escluso che vi fosse un vertice, perché si è constatato un rapporto
assolutamente orizzontale tra i vari sodali.
Ad es., né l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti né
quella sovversiva contemplano la figura qualificata del capo, ma solo
quella della direzione, che però è cosa diversa, perché si può diri-
gere e/o organizzare senza essere capi2, senza, cioè, avere quella pos-
sibilità di vincolare gli altri – almeno se dell’associazione vogliono
continuare a far parte – alle proprie decisioni; e tuttavia anche in tali
ipotesi, se si accerta che trattavasi di un gruppo di persone che era
priva di un capo, bisognerebbe propendere per l’ipotesi del concorso
di persone nel reato.
Non si ritiene che sia un caso, del resto, che tra le figure quali-

2
«In tema di associazione di tipo mafioso, le condotte di partecipazione e di dire-
zione o di organizzazione, se consumate in tempi diversi, non integrano due distinti
reati in continuazione tra loro, ma un unico delitto riconducibile al paradigma del reato
progressivo; ne deriva che, ove il soggetto abbia dismesso il ruolo apicale per assumere
quello di partecipe, non può farsi decorrere un autonomo termine di prescrizione, che
deve, invece, essere correlato alla cessazione della intera condotta penalmente rilevante
(in motivazione, la corte ha precisato che, per stabilire a quale fattispecie debba farsi
riferimento ad ogni effetto sostanziale, deve aversi riguardo alla condotta assorbente
che, di norma, è quella tenuta per ultimo – in quanto espressiva di una progressione
all’interno del sodalizio – laddove invece, ove risulti il contrario» deve procedersi ad
un confronto tra il trattamento sanzionatorio previsto al momento della cessazione della
condotta partecipativa e quello vigente al momento della cessazione della condotta api-
cale, dovendosi applicare il più grave dei due)», così Cass. pen., sez. VI, 12 maggio
2016, n. 44667, in Cass. pen., 2017, 2763.

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102 capitolo iii

ficate del concorso di persone nel reato, ex art. 111 c.p., ci siano i
direttori, gli organizzatori, i promotori (quest’ultimi, però, diversa-
mente da quanto avviene nell’associazione, limitati alla fase genetica),
e non i capi. Ciò accade, infatti, perché un gruppo di concorrenti in
un medesimo reato non ha ragione alcuna di dotarsi di un capo, che
è più di un dirigente o di un organizzatore, proprio perché il diri-
gente o l’organizzatore rivolgono la loro attività solo verso l’interno
– e di questo possono avere bisogno pure dei meri concorrenti, spe-
cie nel caso in cui siano in numero considerevole: e il numero in sé,
anche ex art. 111 n. 1) c.p.3, non comporta il passaggio dal concorso
all’associazione –, mentre il capo ha in più, rispetto a tali altre fi-
gure qualificate, la possibilità di rivolgere la propria attività anche
verso l’esterno, ponendosi come interlocutore con i terzi.
Ancora una volta, quindi – proprio come già si è illustrato con
riferimento alla questione dell’apertura dell’accordo all’adesione di
terzi –, è nella capacità di proiettarsi all’esterno, di interagire con i
terzi, che sia per cooptarli o, semplicemente, per collaborare con
loro, che emerge l’in sé dell’associazione, e dunque la sua differenza
con il concorso di persone.
La mancanza di un capo, per altro, spesse volte si traduce, nella
pratica, nella mancanza di un’organizzazione, e quindi, da parte della
Pubblica Accusa, nella contestazione solo strumentale del delitto di
cui all’art. 416 c.p., a persone che hanno sì avuto, tra loro, rapporti
e intersezioni nella commissione di reati, ma alle volte autonoma-
mente, altre in mero concorso di persone, senza che possa ritenersi
esistente alcuna associazione per delinquere.
Un caso emblematico ha riguardato la contestazione dell’esistenza
di un’associazione finalizzata al compimento del delitto di cui al
primo comma dell’art. 9 della l. n. 376 del 2000, c.d. legge antido-
ping, con riferimento alla vendita di anabolizzanti a dei bodybuil-
der4: più in generale, del resto, si tratta di un fenomeno criminale

3
Cfr. Pazienza, Riflettendo sui nuovi artt. 111 e 112 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen.,
1992, 1091 ss.
4
Tale articolo prevede che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito
con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 5 milioni a lire 100 mi-
lioni chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 103

relativamente recente, ma in ascesa, e che, in ogni caso, non dev’es-


sere sottovalutato, sia per i seri danni che crea alla salute di una va-
sta cerchia di persone, che per il significativo giro di affari sotteso
che, immancabilmente, almeno per quanto riferito dalle cronache, ha
finito per interessare anche le associazioni di tipo mafioso.
Nel caso di specie, la sussistenza del reato associativo era stata
negata dal GUP di Trento, che pure aveva ritenuto la ricorrenza dei
reati-fine, ma la Corte d’Appello, poi, aveva ribaltato tale decisione.
La Cassazione, quindi, aveva ripercorso gli elementi di prova utiliz-
zati (principalmente, intercettazioni telefoniche) e gli argomenti svi-
luppati dalla Corte d’Appello per sostenere l’esistenza dell’associa-
zione per delinquere negata, invece, dal primo Giudice.
In definitiva, risultava che un soggetto noto, addirittura, quale
«atleta di fama internazionale», ovverosia il Fo. che da tempo svol-
geva l’attività di preparatore atletico in diverse palestre, ed era esperto
nell’uso delle sostanze dopanti, appunto sfruttando la propria fama,
aveva assunto il ruolo di «elemento di spicco», «catalizzatore», «ful-
cro», «motore propulsore», di un intenso traffico di pericolosi ana-
bolizzanti (oggetto di sequestro), nell’ambiente dei culturisti trentini.
Il Fo. per altro, «visitava» i propri clienti nel negozio del S., e
per essi predisponeva tabelle di allenamento, con le relative diete
comprensive, ovviamente, di integratori anabolizzanti, che poi i cul-

farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi


previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e
siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine
di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i ri-
sultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze». È interessante notare che, come
per gli stupefacenti, anche per le sostanze vietate dalla legge antidoping esistono ap-
posite tabelle ministeriali, e tuttavia: «In tema di legislazione «antidoping», deve attri-
buirsi carattere meramente ricognitivo alle tabelle ministeriali contenenti la classifica-
zione delle sostanze vietate, di tal che la loro mancata acquisizione non impedisce al
giudice di merito di riconoscere comunque la riconducibilità di una determinata so-
stanza al novero di quelle da considerare illecite, avuto riguardo alle sue oggettive ca-
ratteristiche (principio affermato, nella specie, con riguardo alla ritenuta responsabilità
dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 9, 7º comma, l. n. 376/2000, consistito
nel commercio illegale di farmaci a base di testosterone, dotati, quindi, di proprietà
anabolizzanti)», così Cass. pen., sez. III, 27-03-2014, n. 36700, in Dir. pen. proc., 2014,
1333, con nota di Bonini, Il commercio di farmaci dopanti: coinvolti i principi di ri-
serva di legge, determinatezza e offensività.

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104 capitolo iii

turisti potevano comodamente acquistare presso lo stesso negozio


del S. che, per quanto si comprende, era anche lui un culturista che
utilizzava gli stessi prodotti, e quindi il suo vantaggio consisteva an-
che nel poterli ottenere senza esborsi. Completavano l’associazione
due farmacisti che procuravano al S. i farmaci in questione.
Ovviamente, l’interesse che univa queste persone – sodali, sia per
la Corte di Appello che per la Cassazione – era di natura econo-
mica, consistente nei profitti immediatamente ricavabili dalla vendita
degli anabolizzanti sia per i farmacisti che per il S., mentre Fo. traeva
un vantaggio, per così dire, indiretto, consistente nell’aumento della
propria clientela, tanto è vero che – come aveva affermato nel corso
di una conversazione del gennaio 2012 intercorsa con il S. – nono-
stante la crisi del settore, era riuscito a raddoppiare i propri guada-
gni rispetto all’anno precedente.
Ebbene, secondo la giurisprudenza, proprio la sussistenza di un
fine comune – ovverosia, appunto il commercio di sostanze anabo-
lizzanti, destinate all’utilizzo da parte di culturisti –, di un programma
indefinito, di un accordo stabile che regola collaudati meccanismi, e
di altrettanto stabili rapporti tra fornitori e venditori delle sostanze,
la comunanza delle strutture logistiche utilizzate, nonché la consa-
pevolezza, propria di tutti i soggetti coinvolti, di concorrere al per-
seguimento di questo scopo5, emersa anche dal linguaggio criptico
usato nelle conversazioni telefoniche, rappresenterebbero gli elementi
costitutivi del reato associativo contestato.
Gli elementi che, invece, avevano portato il primo giudice all’as-
soluzione degli imputati (per altro, con riferimento al solo reato as-
sociativo), erano: la diversità degli scopi perseguiti da ciascuno di essi
(l’acquisizione di nuovi clienti e palestre per il Fo., il successo del
proprio negozio e la possibilità di utilizzare a sua volta prodotti ana-
bolizzanti senza esborsi il S., i ricavi delle forniture per i farmacisti
coinvolti), la mancanza, tra gli stessi, di una struttura gerarchica e di

5
«Ai fini della configurabilità del delitto di associazione per delinquere, è necessa-
ria la predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e
mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consa-
pevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di es-
sere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma criminoso co-
mune», così Cass. pen., sez. II, 3 aprile 2013, n. 20451, in Ced Cass., n. 256054.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 105

una cassa comune, la differente durata delle singole condotte di par-


tecipazione.
Secondo chi scrive, questo è un caso paradigmatico di come i nor-
mali criteri giurisprudenziali – invero, solo quantitativamente, e non
qualitativamente, diversi da quelli dottrinari – falliscano nel distin-
guere, in modo corretto e convincente, i due distinti fenomeni del
concorso di persone nel reato continuato e dell’associazione per de-
linquere. Nella specie, infatti, si era di fronte ad un gruppo «chiuso»,
di certo caratterizzato da una sinergia tra le diverse attività delin-
quenziali svolte dai veri componenti, ma che non aveva alcun inte-
resse ad espandersi e acquisire nuovi associati, e quindi, proprio per
questo, non era una realtà associativa «aperta» o, per meglio dire,
non era una realtà associativa tout court.
Per apprezzare la giustezza di quanto fin qui sostenuto, si consi-
deri che un nuovo soggetto che fosse entrato in quello stesso giro,
e avesse svolto, ad es., la medesima attività di «consulente» del Fo,
magari sempre presso il negozio del S, giustamente sarebbe stato
considerato dal Fo. un diretto concorrente – ma nel senso commer-
ciale, e non penalistico, del termine –, perché gli avrebbe tolto una
fetta di mercato, e dunque un soggetto da contrastare, e non un so-
dale, e neppure un concorrente nel senso di cui all’art. 110 c.p. E lo
stesso può dirsi se si fosse inserito un terzo titolare di un’attività
commerciale analoga a quella dell’S., nei confronti di quest’ultimo,
o si fossero aggiunti nuovi fornitori, in relazione ai farmacisti che
già rifornivano l’S.
Nonostante le opposte pretese6, quindi, tanto la mancanza di un
capo – circa la quale si è fin qui riferito –, quanto l’assenza di una
cassa comune, e quindi di una suddivisione successiva degli introiti
criminali inizialmente ritenuti comuni, sono segnali inequivocabili

6
«Il delitto di associazione per delinquere (e di conseguenza quello di cui all’art.
75, l. sugli stupefacenti), si sostanzia nel permanere nel tempo di un collegamento di
fatto tra persone, anche se tra loro non conosciute diretto alla commissione di una se-
rie di reati, a nulla rilevando che gli interessi e le funzioni siano diversi, i guadagni
non siano comuni, difetti la comunione dei mezzi materiali e non vi siano gerarchie,
sempreché sussista un pericolo immanente per la collettività, dato dal permanere nel
tempo di questa colleganza gravida di potenzialità nocive per l’ordine pubblico», così
Corte Appello Trento, 11 ottobre 1986, in Giur.mer., 1987, 954.

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106 capitolo iii

che non si è di fronte ad un’associazione per delinquere. Attenzione,


però, che non è necessariamente vero il contrario: nel senso che la
presenza di tali elementi è sì condizione necessaria, ma non per que-
sto sufficiente, perché possa riferirsi di un reato associativo, anche
in considerazione del fatto che entrambi gli elementi possono ri-
scontrarsi pure in ipotesi di concorso di persone nel reato conti-
nuato; mentre è solo la natura aperta dell’accordo a costituire una
distinzione certa trai due fenomeni.
Secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché consolidato,
invece, se è vero che l’elemento distintivo, tra il delitto di associa-
zione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato,
è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, non per questo
si distingue affatto tra accordo «chiuso» o, al contrario, «aperto» al-
l’adesione di terzi, ma si ritiene che, nel concorso di persone, l’ac-
cordo – essendo diretto alla commissione di uno o più reati, anche
nell’ambito di un medesimo disegno criminoso, con la realizzazione
dei quali si esaurisce – si concretizza in via meramente occasionale
ed accidentale e, col termine, con l’esaurimento, dell’accordo mede-
simo, cessa ogni motivo di allarme sociale7.
Nel caso del reato associativo, viceversa, l’accordo risulterebbe di-
retto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la
commissione di una serie indeterminata di delitti (il che, tuttavia,
come abbiamo normativamente dimostrato, non è in realtà coessen-
ziale alla nozione di reato associativo), con la permanenza di un vin-
colo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di
fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati.
Questa ricostruzione ha portato ad escludere la sussistenza del
reato associativo anche in ipotesi di programma criminoso partico-
larmente vasto, ma comunque definito, come nel caso dello spoglio
della Biblioteca Statale Oratoriale annessa al Monumento Nazionale
dei Girolamini di Napoli, da cui erano stati già sottratti ben 2000
volumi di valore storico-artistico, in ragione del fatto che il pro-
gramma criminoso, per quanto vasto (la Biblioteca contava 170.000
volumi), era comunque determinato8.

7
Cfr. Cass. pen., sez. V, 7 dicembre 2018, n. 1964, in Ced Cass., n. 274442.
8
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 16 aprile 2013, n. 19783, in Ced Cass., n. 255471.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 107

Allora, però, si deve ribadire che un’associazione – sia per delin-


quere che lecita – non cessa di essere tale perché ha un programma
definito (al limite, ex art. 305 c.p., costituito dal compimento di un
solo reato), e che il raggiungimento dello scopo è uno dei casi in
cui fisiologicamente, ex art. 27 c.c., le associazioni si estinguono. Per
altro, non essendo limitati i reati associativi a particolari tipologie di
reati-fine che, una volta compiuti, creano allarme sociale (omicidi,
furti, rapine, etc.), anche il riferimento a questo aspetto della lesione
dell’ordine pubblico, inteso in senso materiale, non coglie davvero
nel segno, mentre appare più fondata una ricostruzione, come quella
proposta in questa sede, per cui l’ordine pubblico in senso materiale
sarebbe offeso per l’attività di proselitismo e di reclutamento che
un’associazione per delinquere, se è davvero tale, non può non svol-
gere.
Per quanto riguarda, poi, l’altra questione di cui si è riferito in
apertura del presente paragrafo, ovverosia ciò che è necessario (o,
meglio, non necessario) affinché possa contestarsi al singolo la con-
dotta di partecipazione – che, ovviamente, tra le condotte associa-
tive è quella la meno determinata9 –, la giurisprudenza è attestata
sulla posizione – in astratto, anche condivisibile – per cui, in ragione
dell’autonomia del reato associativo nei confronti dei delitti-scopo,
la mancanza di contestazione di alcuno di essi ad un determinato
soggetto, non esclude la possibilità di ritenerlo partecipe dell’asso-
ciazione stessa, potendo evidentemente la prova della partecipazione
essere ricavata aliunde10.
A livello di principio, una simile ricostruzione è corretta, per al-
tro anche da un punto di vista del suo rovescio, costituito dall’i-
nammissibilità di considerare automaticamente ogni associato, anche
se in posizione apicale, concorrente in ciascun-reato fine, e, soprat-
tutto, dall’impossibilità di ritenere un concorrente in uno dei reati-
fine (o, perfino, in più reati-scopo), per ciò solo, partecipe dell’as-
sociazione, anche se, a fronte di plurime commissioni, in concorso

9
Secondo una proposta recentemente avanzata in dottrina, agli effetti della legge
penale, dovrebbe considerarsi partecipe «chi è incaricato di un ruolo nella struttura del-
l’organizzazione». Così Panebianco, op. cit., 262.
10
Cfr. Cass. pen., sez. III, 5 marzo 2015, n. 40749, in Ced Cass., n. 264826.

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108 capitolo iii

con altri sodali, di fatti integranti reati-scopo dell’associazione, si as-


sisterebbe ad una sorta di inversione dell’onere della prova, in quanto
graverebbe sul singolo la prova che il suo contributo non è dovuto
ad un vincolo preesistente con gli altri associati, e, nonostante la na-
tura permanente del reato associativo, tale prova non può consistere
nella limitata durata nel tempo dei rapporti intercorsi11.
Da questo ultimo punto di vista, però, vi sono pure alcune pro-
nunce che meritano di essere segnalate per l’attenzione ai profili di
garanzia. Ad es., nel caso di un’associazione transnazionale finaliz-
zata alla vendita di carburanti sottratti al pagamento dell’accisa12, ha
trovato accoglimento la tesi del ricorrente, che revocava in dubbio
l’idoneità e la sufficienza degli elementi raccolti a suo carico (in sede
cautelare), per ritenere il suo coinvolgimento nei reati di acquisto del
carburante, per contestargli altresì la gravita indiziaria in ordine alla
partecipazione al reato associativo (la cui sussistenza, in sé, non era
oggetto di confutazione da parte del ricorrente medesimo), occor-
rendo a tal fine significativi elementi fattuali, nella specie insussistenti,
dai quali poter dedurre che, da parte sua, vi fosse la volontà di con-
correre al raggiungimento degli scopi associativi, e non quella di ten-
dere all’eventuale raggiungimento di un utile esclusivamente perso-
nale.
Torna alla ribalta, in questo senso, la questione della cassa co-
mune. Se, cioè, è ben possibile che dei meri complici, concorrenti in
un medesimo e affatto determinato reato (ad es., una rapina), ab-
biano una cassa comune, nel senso di un ricavo comune, appunto il
bottino della rapina, che successivamente venga suddiviso dai correi,
eventualmente anche tenendo conto, a livello di rimborso, di chi do-
vesse aver anticipato delle somme per il raggiungimento del fine co-
mune (ad es., per l’acquisto delle armi), continua a non apparire ve-
rosimile il contrario, ovverosia che in un’associazione per delinquere
– per altro, di criminalità del profitto –, ognuno ottenga solo dei be-
nefici economici individuali e autonomi (in definitiva: propri), e non
comuni (e quindi associativi), da suddividere trai vari sodali. Per que-
sta via, del resto, si arriva al paradosso: si assume, cioè, che possa

11
Cfr. Cass. pen., sez. III, 3 febbraio 2015, n. 42228, in Ced Cass., n. 265346.
12
Cfr. Cass. pen., sez. III, 4 marzo 2015, n. 26724, in Cass. pen., 2016, 983.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 109

esistere un’associazione per delinquere finalizzata al compimento di


reati di profitto, che però, dal compimento di tali reati, in sé, come
associazione, non trae alcun profitto13.
Un’altra argomentazione interessante, addotta del ricorrente per
negare la sua qualità di partecipe, era relativa alla circostanza che il
suo eventuale ritiro dalle attività delinquenziali di cui in oggetto non
avrebbe creato alcuna difficoltà al sodalizio delinquenziale, che in-
fatti avrebbe perpetuato il traffico illecito con le stesse modalità ed
utilizzando altri canali già noti, il che avrebbe escluso ogni e qual-
siasi partecipazione del ricorrente stesso al sodalizio delinquenziale,
ancora una volta in ragione del fatto che l’acquisto del carburante,
da parte sua, era assolutamente indifferente nell’ottica del raggiungi-
mento dei fini associativi.
Secondo la Corte, il ricorso era fondato nella misura in cui non
era rintracciabile, nel provvedimento impugnato, alcuna adeguata mo-
tivazione circa la condotta di partecipazione del ricorrente, tanto che
non poteva ritenersi dimostrato neppure che quest’ultimo fosse a co-
noscenza dell’esistenza dell’associazione, e quindi, a fortiori, non po-
teva affermarsi che lo stesso fosse consapevole di contribuire, con
l’acquisto del carburante, al perseguimento degli scopi dell’organiz-
zazione criminale.
La Corte ha affermato, in definitiva, che la condotta di parteci-
pazione non poteva essere desunta dal solo fatto dell’accordo stipu-
lato, tra il ricorrente ed i sodali, per il reperimento e l’acquisto del
carburante illecito, anche perché era perfettamente logica la spiega-
zione alternativa offerta dal ricorrente medesimo, che al proposito
aveva sostenuto che le sue attività di reperimento e di acquisto del
carburante (peraltro successivamente dismesse, mentre l’associazione
era ancora operativa) trovassero fondamento non nella sua parteci-
pazione ad un’associazione per delinquere, di cui addirittura igno-

13
«Il delitto di associazione per delinquere è fattispecie idonea a generare un pro-
fitto sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente in via autonoma ri-
spetto a quello prodotto dai reati fine, costituito dal complesso dei vantaggi attribuibili
ad uno o più associati, anche non identificati, in ragione del fatto che la societas sce-
leris è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del pro-
gramma criminoso», Cass. pen., sez. III, 4 marzo 2015, n. 26721, in Cass. pen., 2016,
584.

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110 capitolo iii

rava l’esistenza, ma, più banalmente, nel perseguimento di un suo


personale profitto.
Nella specie, cioè, la Corte non ha ritenuto di discostarsi dagli
orientamenti risalenti, che andavano condivisi anche perché non ri-
sultavano smentiti da successive pronunce, ed ha affermato che «non
risponde del delitto di associazione per delinquere, di cui all’articolo
416 cod. pen., colui che partecipi alla commissione di uno solo o di
più reati qualora ignori l’esistenza dell’associazione stessa, mentre, in-
vece, nell’ipotesi in cui egli sia a conoscenza dell’esistenza del sodali-
zio può rispondere del reato associativo anche nel caso che il reato –
scopo sia rimasto a livello di meri atti preparatori e non abbia rag-
giunto lo stadio della consumazione (Sez. 2, n. 1934 del 14/12/1985,
dep. 11/03/1986, Muia, Rv. 172055)».
Tale assunto è stato ritenuto in base alla condivisibile considera-
zione che occorre la dimostrazione chiara e certa della sicura volontà
del soggetto di entrare a far parte, come membro, dell’associazione,
per recare un contributo concreto al raggiungimento dello scopo so-
ciale, al fine di poter ritenere sussistente la compartecipazione di un
soggetto al delitto di associazione per delinquere.
La condotta di partecipazione, invece, dev’essere esclusa quando
la volontà del singolo non è diretta alla realizzazione del programma
di delinquenza per cui l’associazione è stata costituita, e la sua atti-
vità criminosa può essere ricondotta alla sussistenza di un accordo
circoscritto alla realizzazione di uno o più delitti nettamente indivi-
duati (ma, secondo chi scrive, ciò sarebbe vero anche se si trattasse
di un programma di delitti non determinati nel numero), per cui, in
tali casi, la responsabilità penale del soggetto non eccede quella per
i singoli delitti compiuti.
Purtroppo, però, al proposito non manca giurisprudenza più ri-
gorista, secondo la quale «Una volta dimostrata l’esistenza di una
associazione per delinquere e individuati gli elementi, anche indiziari,
sulla base dei quali possa ragionevolmente affermarsi la cointeres-
senza di taluno nelle attività dell’associazione stessa e quindi la par-
tecipazione alla vita di quest’ultima, non occorre anche la dimostra-
zione del ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell’am-
bito dell’associazione, potendosi la partecipazione al sodalizio crimi-
noso, per sua stessa natura, realizzarsi nei modi più svariati, la cui
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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 111

specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice e non può,


quindi, essere richiesta nemmeno nella sentenza di condanna14».
Secondo quest’ultima ricostruzione, cioè, basta un interesse co-
mune per fare di un singolo un partecipe all’associazione, mentre la
natura di reato a forma libera renderebbe addirittura possibile il non
doversi interessare dell’esatta individuazione della modalità di parte-
cipazione, il che vorrebbe significare, mutatis mutandis, che essendo
l’art. 575 c.p. espressivo di un reato a forma libera, si dovrebbe po-
ter condannare un soggetto per omicidio doloso senza aver descritto
a livello di capo di imputazione, e, quindi, senza aver dimostrato in
sentenza, mediante quale condotta abbia volontariamente cagionato
la morte di un uomo.
Per quanto riguarda, invece, il suaccennato caso opposto, ovve-
rosia quello di mancata commissione e/o contestazione di reati-scopo
a un soggetto che, tuttavia, la prospettazione accusatoria ritiene con-
corrente nel reato associativo, o si è di fronte al capo – o, comun-
que, ad un soggetto apicale – di un’associazione dotata di un’orga-
nizzazione complessa (il che, però, evidentemente dev’essere oggetto
di prova), che quindi non ha bisogno di «sporcarsi le mani» con la
commissione di singoli delitti attuativi del programma criminoso, op-
pure, nel caso in cui sia contestata la mera partecipazione, la prova
ricavata aliunde dovrebbe risultare, quantomeno, particolarmente ri-
gorosa.
Anche in un recente provvedimento in tema di associazione fi-
nalizzata al traffico di stupefacenti15, la Cassazione ha ribadito il pro-
prio orientamento secondo il quale la condotta di partecipazione è
strutturalmente impermeabile alla consumazione del reato-fine, così
come, specularmente, la circostanza che taluno rivesta il ruolo di par-
tecipe o, perfino, risulti una figura apicale dell’associazione, posta in
posizione gerarchicamente dominante nella struttura organizzativa
criminale, non è sufficiente a far presumere che quel soggetto sia au-
tomaticamente responsabile di ogni reato, sia pure riferibile all’orga-
nizzazione e inserito nel quadro del programma criminoso, com-
messo da altri appartenenti all’associazione, perché ciò rappresente-

14
Cfr. Cass. pen., sez. V, 7 giugno 2010, n. 35479, in Ced Cass., n. 248171.
15
Cfr. Cass. pen., sez. III, 6 novembre 2015, n. 9459, in Ced Cass., n. 266710

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112 capitolo iii

rebbe un inammissibile ed approssimativo criterio di semplificazione


probatoria dell’accertamento della responsabilità concorsuale.
Secondo la Corte, infatti, in base ai comuni principi in tema di
concorso di persone nel reato, dei delitti-scopo dell’associazione ri-
spondono soltanto coloro che vi hanno dato un effettivo contributo,
sia esso materiale o morale, ma comunque causalmente rilevante, vo-
lontario e consapevole all’attuazione della singola condotta delittuosa,
risultando esclusa, invece, dall’ordinamento vigente, la configurazione
di qualsiasi forma di responsabilità di «posizione» o da «riscontro
d’ambiente», che del resto non rappresenterebbe altro che una pos-
sibile declinazione del canone del versari, con la quale si pretende
di riferire all’associato ogni reato, compreso nel programma generico
dell’organizzazione, e quindi collegato all’associazione.

2. Associazione, partecipazione e tentativo

Diversa questione riguarda, poi, la possibilità che il reato asso-


ciativo in sé e/o la singola condotta di partecipazione al reato asso-
ciativo stesso possano essere contestate a livello di delitto non con-
sumato, ma tentato. Sul punto, la giurisprudenza più risalente rite-
neva che fosse possibile il tentativo di associazione per delinquere,
in relazione alle condotte compiute prima della costituzione dell’as-
sociazione, e che a tal fine fossero dirette.
Col tempo, tuttavia, la progressiva valorizzazione giurispruden-
ziale, pur non priva di oscillazioni, dell’elemento organizzativo, a
volte ancora sminuito da quelle sentenze che riferiscono della suffi-
cienza di un’organizzazione rudimentale, e, correlativamente, la cre-
scente considerazione dell’elemento rappresentato dall’idoneità del-
l’organizzazione stessa, rispetto il raggiungimento dei fini sociali –
esplicitato, come noto, con la legge sui reati d’opinione del 2006, al-
meno con riferimento all’associazione sovversiva di cui all’art. 270
c.p., ma applicabile più in generale16 –, ha indotto ad una valutazione

16
Cfr. «Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 270 bis, c.p., non è ne-
cessario il compimento dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre comun-
que l’esistenza di una struttura organizzativa che presenti un grado di effettività tale

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 113

più rigorosa in materia, limitando così di fatto, a livello applicativo,


prim’ancora che di diritto, e cioè in via di principio, i margini delle
contestazioni, a titolo di tentativo, dei reati associativi17.
A tal proposito, risulta interessante una recente sentenza in cui,
trattandosi di «mafia cinese», ovverosia di un’associazione per de-
linquere – operante in Italia – costituita da cittadini cinesi e finaliz-
zata al compimento di gravi reati (usura, sequestri a scopo di estor-
sione, etc.), la Cassazione, da un lato, ha analizzato sia la questione
della possibilità di un tentativo di associazione mafiosa che, più in
generale, quella del tentativo di un reato associativo, nonché, dal-
l’altro, si è espressa sulla possibilità, da parte del singolo aspirante
sodale, di un tentativo di partecipare ad una associazione già costi-
tuita e operante.
Nella specie18, la Pubblica Accusa aveva contestato il tentativo di
associazione di tipo mafioso, la cui configurabilità era stata negata
dal primo Giudice e, in effetti, quando trattasi di un reato a forma-
zione progressiva, come appunto quello di associazione mafiosa, gli
spazi di ammissibilità del tentativo diminuiscono ancora, perché, o
il metodo mafioso risulta operativo, e la fattispecie deve ritenersi
consumata, oppure no, e allora delle due l’una: o non esiste alcuna
associazione, oppure esiste sì un’associazione, ma è semplice, e rile-
vante solo ex art. 416 c.p19, e non come tentativo di associazione di
tipo mafioso.
Anche la Corte d’Appello, del resto, aveva respinto la tesi accu-
satoria, poi riproposta nel ricorso per Cassazione, della configurabi-
lità del tentativo nel delitto di associazione mafiosa. Questo in base
alla considerazione che, nonostante l’articolo 416 bis c.p. rappresenti
un reato di pericolo, per la cui perfezione non si richiede la consu-

da rendere almeno possibile l’attuazione di tale programma e che giustifichi la valuta-


zione legale di pericolosità, correlata all’idoneità della struttura stessa al compimento di
una serie indeterminata di reati per la cui realizzazione l’associazione si è costituita»,
Cass. pen., sez. I, 22 aprile 2008, Fabiani, in Ced Cass., n. 240075.
17
Cfr. Tona, I reati associativi e di contiguità (artt. 416 – 418), in Trattato di di-
ritto penale, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Parte speciale III, To-
rino 2008, 1063 ss., e, spec., 1125 s.
18
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 9 ottobre 2014, n. 4294, cit.
19
Cfr. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, 3a ed., Milano, 2015, 126.

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114 capitolo iii

mazione dei reati-fine, l’avvalersi del metodo mafioso, utilizzando la


forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, integra, tuttavia,
un elemento essenziale della fattispecie, che dev’essere accertato in
concreto, e non può rimanere un dato meramente intenzionale, proiet-
tato nel futuro, secondo il paradigma del delitto tentato.
Su tale tesi, espressa dalla Corte territoriale, si è poi trovata d’ac-
cordo anche la Cassazione, in quanto, nella specie, l’accordo inter-
venuto tra i promotori del sodalizio era sì relativo, quasi certamente,
all’intento di organizzare un gruppo criminale destinato ad operare
con metodo chiaramente mafioso, ma il progetto in questione non
era stato portato, poi, a compimento, perché le indagini dell’autorità
giudiziaria erano intervenute nella quasi immediatezza, stroncando
sul nascere l’attività criminosa programmata, per cui non si era pro-
dotta, neppure nella comunità di più immediato riferimento, la si-
tuazione di assoggettamento prescritta dalla norma, il che, però, esclu-
deva sia la consumazione che il tentativo di associazione mafiosa.
La sentenza di cui trattasi, successivamente, passa a considerare la
situazione di un’associazione per delinquere «non-mafiosa» in fieri,
cogliendo l’occasione per ribadire la perdurante validità della prece-
dente giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’articolo 416 c.p. ha
natura di reato di pericolo, già perfetto non appena si è creato il vin-
colo associativo e si è concordato il piano organizzativo per l’attua-
zione del programma delinquenziale, e risulta indipendente dalla con-
creta esecuzione dei singoli delitti programmati.
Come per tutti gli altri reati di pericolo, tuttavia, proprio tale na-
tura non consentirebbe, già in astratto, l’ipotizzabilità del tentativo,
poiché gli eventuali atti diretti alla formazione dell’associazione cri-
minale, o sarebbero meramente preparatori, e quindi si porrebbero
al di fuori dell’ambito della penale rilevanza, oppure assumerebbero
il carattere dell’idoneità e della inequivocità a determinare la consu-
mazione del delitto, e, conseguentemente, la loro stessa esistenza già
comprometterebbe l’ordinato svolgimento della vita sociale e inte-
grerebbe l’offesa al bene giuridico tutelato, perché minaccerebbe l’or-
dine pubblico.
Sempre secondo la Cassazione, poi, si potrebbe addurre un ulte-
riore argomento, stavolta di ordine puramente dogmatico, che atter-
rebbe alla struttura stessa del reato associativo, per escludere la pos-
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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 115

sibilità del tentativo. L’art. 416 c.p., infatti – preso, dalla Corte, come
esempio paradigmatico di reato associativo –, rappresenterebbe una
deroga espressa al principio di irrilevanza penale dell’accordo per
commettere un reato, di cui al primo comma dell’articolo 115 c.p20.
Allora, però, atteso che il nucleo indefettibile dell’associazione per
delinquere consiste nella conclusione di un accordo fra almeno tre
persone, volto alla generica commissione di più delitti, mentre, nella
specie, l’accordo era intercorso solo tra i due componenti originari
e promotori del sodalizio, prima dell’associazione di un terzo sodale
non potrebbe mai ritenersi configurata, non solo la consumazione,
ma neppure il tentativo, pena la violazione proprio dell’articolo 115,
co. 1, c.p., costituente presidio del principio di necessaria offensività
della condotta, riscontrabile anche nell’architettura originaria del co-
dice Rocco, come dimostrato dall’art. 49, co. 2, c.p.
La Corte, tuttavia, si premura di aggiungere che occorrerebbe di-
stinguere tra il reato associativo in sè e le condotte di partecipazione

20
«Pure se l’accordo può costituire elemento comune sia al concorso di persone nel
reato sia all’associazione per delinquere, i due fenomeni restano caratterizzati da aspetti
strutturali e teleologici profondamente differenziati; dal primo punto di vista, l’accordo
che designa la fattispecie plurisoggettiva semplice (sia essa necessaria ovvero eventuale)
è funzionale alla realizzazione di uno o più reati, consumati i quali l’accordo si esau-
risce o si dissolve; del resto, l’accordo, in tanto diviene rilevante nei confini della mera
ipotesi concorsuale in quanto pervenga ad una concreta realizzazione dell’assetto divi-
sato, ad un’attività esecutiva, dunque, che non si arresti alle soglie del tentativo; di con-
seguenza, il mero accordo allo scopo di commettere un reato, non traducendosi in un’at-
tività di partecipazione al reato stesso resta assoggettato al principio di ordine generale
stabilito dall’art. 115 c.p.; a tale regola il 1º comma dell’art. 115 enuncia un’espressa
eccezione ma sempre relativa all’ipotesi in cui «due o più persone si accordino allo scopo
di commettere un reato e questo non sia commesso»; cosicché i criteri interpretativi de-
stinati a risolvere le (solo apparenti) antinomie tra accordo non punibile e reato asso-
ciativo non possono essere compiutamente individuati chiamando in causa il solo prin-
cipio di specialità; e ciò per la mancanza di un vero e proprio rapporto di genere a spe-
cie, postulando il reato associativo una base plurisoggettiva qualificata, non richiesta,
invece, nell’ipotesi di accordo; una constatazione che vale anche ai fini della distinzione
tra fattispecie meramente concorsuale e fattispecie associativa, rappresentando il mini-
mum soggettivo richiesto dalla legge relativamente alla seconda categoria dei reati un
dato non richiesto, invece, per l’attività di mera partecipazione, così da consentire l’u-
tilizzazione del medesimo criterio interpretativo pure – quel che più interessa – nel di-
scriminare le categorie ora ricordate (fattispecie di associazione per delinquere finaliz-
zata al traffico illecito di sostanze stupefacenti)», Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1995,
in Ced Cass., n. 202036

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116 capitolo iii

ad esso, in relazione alle quali, infatti, la giurisprudenza della mede-


sima Corte di Cassazione ha affermato, invece, almeno in astratto,
la possibile configurabilità del tentativo.
Lo spazio operativo del tentativo di partecipazione ad un’asso-
ciazione per delinquere già esistente sarebbe limitato, tuttavia, alla
fase antecedente la realizzazione delle condizioni per il mantenimento
della situazione antigiuridica di partecipazione, ovverosia prima del-
l’organico inserimento del singolo nel sodalizio, una volta avvenuto
il quale, infatti, le condotte di volontario allontanamento dal con-
sesso criminale potrebbero rilevare soltanto quali espressioni di rav-
vedimento post-delittuoso e sintomi di cessazione della permanenza21,
mentre non possono integrare, ex art. 56, co. 3, c.p., la desistenza
volontaria.
Nell’affermare questo, la Corte, sotto altro e decisivo profilo, ha
ribadito altresì che il tentativo di partecipazione ad una associazione
per delinquere sarebbe ipotizzabile solo in relazione ad una strut-
tura associativa già esistente. Questo perché, essendo il requisito cen-
trale della condotta punibile ancorato all’attualità del contributo alla
vita dell’associazione, si potrebbe considerare partecipe dell’associa-
zione solo chi si attivi materialmente e consapevolmente per perpe-
tuare l’esistenza di una struttura già costituita in precedenza, e per
favorirne il conseguimento dei fini.
Al proposito, resta solo da aggiungere che ad una medesima con-
clusione – secondo chi scrive condivisibile solo nel senso di conse-
guente, in base alle premesse da cui si è partiti –, parte della dot-
trina è arrivata anche senza qualificare i reati associativi come reati
di pericolo ma, comunque, quali illeciti a consumazione anticipata,

21
«La desistenza dalla partecipazione ad un’associazione criminosa, per assumere
positiva rilevanza, pur non dovendo necessariamente essere spontanea, né essere deter-
minata da motivi di ordine morale, deve nondimeno essere comunque volontaria, ra-
gion per cui detta rilevanza va esclusa quando risulti che il soggetto sia stato costretto
ad appartarsi (nella specie, recandosi all’estero), solo per sottrarsi a persecuzioni interne
poste in essere a suo carico nell’ambito della medesima organizzazione, continuando,
peraltro, ad interessarsi della vita di quest’ultima, con il partecipare a riunioni e con
l’intrattenere rapporti con altri associati», così Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, in
Cass. pen., 1993, 1679.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 117

che possono essere caratterizzati anche da attività meramente prepa-


ratorie, incompatibili col tentativo22.
Se, viceversa, si intendono – se non de iure condito, almeno de
iure condendo – i reati associativi come reati di danno, e non di pe-
ricolo (il riferimento, qui, è ai reati associativi «puri», perché quelli
«misti», come l’art. 416 bis c.p. sono più chiaramente di danno), nei
confronti dell’ordine pubblico materiale, considerando, tuttavia –
come fatto in questa sede – la lesione del bene giuridico tutelato spe-
cificatamente in relazione alla natura aperta, all’adesione di terzi, del-
l’accordo associativo (la cui stessa esistenza rappresenta un forma di
istigazione a delinquere, essendo molto più comodo e sicuro farlo
all’interno di un’associazione che come singolo), si dovrebbe ritenere
configurabile il tentativo, e non solo in linea del tutto teorica.
Il reato associativo «puro», infatti – in base ad una riformulazione
del concetto di associazione, da inserirsi in una norma definitoria va-
levole ai fini della legge penale –, dovrebbe ritenersi solo tentato
quando i sodali originari (che devono essere almeno tre, perché il
fatto sia penalmente rilevante, ma ben possono essere in numero
maggiore) abbiano svolto un’attività, anche non necessariamente com-
prensiva della commissione dei delitti oggetto del programma cri-
minoso, tale da istigare – indirettamente o direttamente, tramite con-
dotte di promozione e proselitismo –, in modo univoco e idoneo,
anche solo un soggetto terzo ad aderire al sodalizio; mentre, per la
consumazione del reato, sarebbe necessaria almeno una nuova ade-
sione, successiva e ulteriore a quelle originarie.
Insomma, in caso di vis expansiva solo potenziale del numero de-
gli aderenti, l’associazione dovrebbe ritenersi tentata, mentre in quello
di vis expansiva effettiva, che abbia conseguito, cioè, un risultato an-
che minimo (ovverosia l’adesione, successiva all’accordo originario,
di almeno un soggetto), l’associazione dovrebbe considerarsi consu-
mata. Se poi, invece, si è di fronte ad un gruppo criminale che non
è diretto, oltre che a delinquere, anche ad espandere la propria com-
pagine, bisognerebbe riferire di mero concorso nel reato continuato,

22
Cfr. Cavaliere, Associazione per delinquere, in Aa.Vv., Trattato di diritto pe-
nale, Parte speciale V, a cura di Moccia, Napoli, 2007, 262 ss.

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118 capitolo iii

nonostante la possibile ruolizzazione, organizzazione e indetermina-


tezza del programma oggetto dell’accordo «chiuso».
Viceversa, per la giurisprudenza, il criterio distintivo trai reati as-
sociativi e il concorso di persone nel reato nel reato continuato con-
siste sì, essenzialmente, nel carattere dell’accordo criminoso, ma nel
senso che, nel concorso di persone nel reato, l’accordo si manifesta
in maniera occasionale ed accidentale, perché è diretto alla commis-
sione di uno o più reati determinati, che possono essere ispirati dal
medesimo disegno criminoso, mentre, nei reati associativi, l’accordo
è diretto all’attuazione di un programma criminoso diretto alla com-
missione di una serie indeterminata di delitti.
Proprio da tale indeterminatezza del programma criminoso, poi,
deriverebbe la permanenza del vincolo associativo tra i sodali, cia-
scuno dei quali, perché sia integrato il dolo23 – in difetto del quale,
ovviamente, il singolo dev’essere assolto dal reato associativo, anche
se concorrente nei reati fine24 –, deve avere la consapevolezza di es-
sere associato all’attuazione del programma criminoso indeterminato
(nel numero dei delitti da compiersi).
Conseguentemente, qualora, anche a seguito di apposita specifi-

23
«Per quanto riguarda il dolo del delitto di associazione per delinquere è necessa-
rio che vi sia da parte dell’agente la coscienza e la volontà di compiere un atto di as-
sociazione, cioè la manifestazione di affectio societatis scelerum come tale e la com-
missione di uno o più delitti programmati dall’associazione non dimostra automatica-
mente l’adesione alla stessa; tuttavia l’attività delittuosa conforme al piano associativo
costituisce un elemento indiziante di grande rilevanza ai fini della dimostrazione della
appartenenza ad essa quando attraverso le modalità esecutive e altri elementi di prova
possa risalirsi all’esistenza del vincolo associativo e quando la pluralità delle condotte
dimostri la continuità, la frequenza e l’intensità dei rapporti con gli altri associati; an-
che la partecipazione ad un episodio soltanto della attività delittuosa programmata può
costituire elemento indiziante dell’appartenenza all’associazione, ma in tal caso il va-
lore di tale indizio è sicuramente ridotto ed è necessario che dalla partecipazione al sin-
golo episodio sia desumibile l’affectio societatis dell’agente, e che essa sia fonte di pe-
nale responsabilità a carico di chi la mette in atto; quando infatti il soggetto abbia for-
nito un contributo alla realizzazione di un unico episodio rientrante nel programma
associativo e a tale contributo non venga riconosciuta rilevanza penale, il valore indi-
ziante ai fini dell’appartenenza all’associazione diventa minimo ed insufficiente ad un
riconoscimento di responsabilità», Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 1994, in Ma ss.Cass.
pen., 1995, fasc. 6, 86.
24
Cfr. Cass. pen., sez. V, 22 febbraio 1999, in Ced Cass., n. 213096.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 119

cazione legislativa, si richiedesse espressamente la necessaria natura


aperta dell’accordo associativo, non v’è dubbio che tale caratteristica
dovrebbe essere coperta, poi, dal dolo, e che, conseguentemente, bi-
sognerebbe assolvere dal reato associativo il soggetto che non avesse
la consapevolezza di aver aderito ad un gruppo e ad un accordo
aperti all’adesione di terzi, e anche a tali adesioni finalizzato, oltre
che specificatamente diretto alla commissione di reati25.
Questo tipo di requisito ulteriore, di primo acchito, può apparire
difficile da accertare nella pratica, ma si tratta, in realtà, di un ele-
mento coessenziale al concetto di associazione e, quando viene ne-
gletto, si corre il rischio di scambiare per associazioni anche realtà
che costituiscono meri gruppi chiusi, in cui non solo non sussiste
alcun interesse all’adesione di nuove persone all’accordo intercorrente
tra le parti originarie, ma può essere presente addirittura un interesse
contrario, nel senso che tale adesione comporterebbe una diminu-
zione dei profitti del singolo aderente, in questi casi spesso solo in-
dividuali, e mai comuni, da poi suddividere.

3. Cospirazione politica mediante accordo o associazione

Al fine di enucleare ulteriormente la distinzione tra mero accordo


concorsuale e associazione per delinquere, per come è intesa dalla
giurisprudenza, può essere utile riferire di alcune sentenze che hanno
trattato la differenza trai reati di cui agli artt. 304 e 305 c.p.26 Se-
condo un’interpretazione risalente27, infatti – e sostanzialmente mai
modificata –, in primo luogo è la diversa natura, consistenza e du-

25
«Poiché i delitti di cui agli art. 416 e 416 bis c.p. sono caratterizzati dal dolo spe-
cifico, e deve conseguentemente sussistere la volontà del “partecipe” o del concorrente
di contribuire a realizzare gli scopi in vista dei quali è costituito ed opera il sodalizio
criminoso, non può ipotizzarsi «una partecipazione» o un concorso nel delitto associa-
tivo a titolo di dolo eventuale», così Cass. pen.,sez. I, 14 ottobre 1994, Cavallari, in
Cass. pen., 1996, 2177.
26
Cfr.: Bricola, voce Cospirazione politica mediante accordo o associazione, in
Enc. dir., XI, 1962, 121 ss. De Balzo, Cospirazione politica, in Enc. giur., vol. XI,
Roma, 1988.
27
Cfr. Cass. pen., 26 giugno 1981, Agenllini, in Giust. pen., 1982, II, 615.

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120 capitolo iii

rata del pactum sceleris eversivo, che differenzia la cospirazione po-


litica mediante accordo da quella mediante associazione.
Questo nel senso che, ex art. 304 c.p., è sufficiente il semplice ac-
cordo, ovverosia il momentaneo incontro di volontà, circa l’attua-
zione di un determinato proposito criminoso, a scopo politico-ever-
sivo. Ex art. 305 c.p., invece, si punisce una vera e propria associa-
zione, che opera con proprie direttive e con mezzi autonomi che
prescindono da quelli dei consociati, per cui risulta di particolare im-
portanza l’aspetto organizzativo e permanente della società.
Al proposito, in particolare, la Cassazione ha chiarito che la prima
figura criminosa si sostanza in un semplice accordo che intercede tra
individui, che sono uniti soltanto da una intenzione criminosa co-
mune. Trai correi, tuttavia, non sussiste un’organizzazione unitaria,
che disciplini e diriga le volontà individuali, per cui – e questo, si
ritiene, è il passaggio fondamentale – non si ha un’entità collettiva
distinta, autonoma e ulteriore, rispetto le persone dei singoli.
La seconda fattispecie incriminatrice in questione, invece, è costi-
tutiva di una classica societas sceleris – al quale concetto, quindi, vi-
sta la lettera dell’art. 305 c.p., non è consustanziale quello di pro-
gramma criminoso indeterminato –, la quale ha come elemento es-
senziale e caratteristico l’organizzazione della impresa criminosa.
Soprattutto, poi, l’associazione risulta separata, come entità delit-
tuosa, dai singoli delitti che ne formano il programma, e costituisce,
di per se stessa, un così grave pericolo per l’ordine pubblico da es-
sere considerata reato per sé stante, ma questo è valido, questa volta
in piena deroga all’art. 115 c.p., anche nel caso della cospirazione
mediante accordo, sia che i delitti-fine rimangano allo stato di pro-
getto, sia, invece, che codesti delitti vengano effettivamente commessi:
nel qual ultimo caso, tuttavia, l’accordo per commetterli, proprio per-
ché non è espressivo di un disvalore autonomo, ma solo di un’an-
ticipazione della soglia di punibilità, rimane assorbito.
Una più recente sentenza della Cassazione28 ha riguardato, invece,
la derubricazione – compiuta dal Giudice di prime cure, confermata
dalla Corte d’Appello, e oggetto di ricorso da parte del P.G. – del
contestato reato di cui all’art. 270 bis c.p., nella meno grave ipotesi

28
Cfr. Cass. pen., sez. I, 29 gennaio 2014, n. 16714, in Ced Cass., n. 262325.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 121

di cospirazione politica mediante accordo, nei confronti di imputati


«nostalgici» aderenti, ormai nel terzo millennio, ad un autoprocla-
matosi gruppo di brigate rosse per il partito comunista combattente.
La Corte, ritenendo il ricorso del P.G. infondato, al proposito ri-
corda che, secondo la propria giurisprudenza consolidata, ai fini della
configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo an-
che internazionale o di eversione dell’ordine democratico, di cui, ap-
punto, all’art. 270 bis c.p., è richiesta sia l’esistenza di un programma,
attuale e concreto, di atti di violenza a fini di terrorismo o di ever-
sione dell’ordine democratico, che quella di una struttura organizzata,
anche elementare, che presenti però un grado di effettività tale da ren-
dere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso.
Conseguentemente, secondo la Corte, tra il reato di costituzione
di banda armata, cui all’art. 306 c.p.29, e quello proprio dell’origina-
ria contestazione accusatoria, non esiste un rapporto di genere a spe-
cie, ma di mezzo a fine. La banda armata, infatti, sarebbe caratte-
rizzata dalla finalità di commettere uno dei delitti contro la perso-
nalità internazionale o interna dello Stato, tra i quali rientra quello
di cui al citato art. 270 bis c.p., e potrebbe ritenersi integrata indi-
pendentemente dal raggiungimento di tale finalità; mentre, nell’e-
ventualità in cui la finalità venga raggiunta, il reato fine concorre-
rebbe con quello di banda armata30 (il che, tuttavia, appare franca-
mente eccessivo).

29
Cfr. Ronco, Banda armata, in Enc. giur., Roma, 1988, vol. IV. «Ai fini della
configurabilità del delitto di banda armata si richiede l’esistenza di una struttura or-
ganizzata capace di qualificare un gruppo come banda e nell’ambito di tale organiz-
zazione la sussistenza non di un generico e vago vincolo fra i componenti, bensì l’esi-
stenza di un momento unificante più intenso, una maggiore adesione, un’unità di pro-
positi e di azione; il rapporto organizzativo deve essere, comunque, dotato di una no-
tevole intensità perché possa ritenersi integrante la fattispecie prevista dall’art. 306 c.p.,
in cui sia ravvisabile sia il vincolo di collegamento tra i componenti la banda, sia la
consapevole volontà di ciascuno di agire per lo stesso scopo comune agli altri parteci-
panti, che pur non senza giungere alla fusione con le altre volontà, sia comunque spon-
taneamente in comunanza il fine ultimo della banda; infine è necessario il dolo speci-
fico consistente nello scopo di commettere, non già un numero indeterminato di delitti
comuni, sibbene uno dei delitti contro la personalità dello stato previsti dall’art. 302
c.p.», così Cass. pen., 14 ottobre 1988, Balestri, in Riv. pen., 1990, 288.
30
Cfr. Cass. pen., sez. I, 27 giugno 2007, Lioce, in Ced Cass., n. 237768.

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122 capitolo iii

L’ipotesi delittuosa descritta all’articolo 304 c.p., invece – nella spe-


cie ritenuta sussistente –, ricorre quando più soggetti, che secondo
una risalente e consolidata giurisprudenza posso essere anche solo
due (com’è, del resto, nel normale concorso eventuale di persone),
raggiungono l’intesa per attuare un determinato proposito criminoso,
a scopo politico eversivo. Al fine dell’integrazione della fattispecie,
quindi, non è necessaria la costituzione di una struttura organizza-
tiva di uomini e mezzi, che deve ritenersi strutturalmente impre-
scindibile solo per la configurabilità del diverso, e più grave, delitto
di cospirazione politica mediante associazione, di cui all’articolo se-
guente.
Per quanto precisato in sentenza, nell’ipotesi di cui all’art. 304 c.p.
mancherebbe una vera e propria societas sceleris, perché l’accordo tra
quanti sono coinvolti nella condotta criminosa si sostanzierebbe in
una mera intenzione delittuosa comune: il che, però, rischierebbe di
confliggere col principio cogitationes poenam nemo patitur. Sarebbe
assente, quindi, un’organizzazione unitaria che, da un lato, disciplini
e diriga le volontà individuali e, soprattutto, dall’altro, costituisca una
entità collettiva distinta dalle persone dei singoli.
Allora, però, secondo la sentenza in questione, correttamente ap-
plicando i principi giurisprudenziali consolidati menzionati, i Giu-
dici di merito, nel caso di specie, avevano valorizzato proprio la man-
canza, nelle vicende dedotte in giudizio, di una struttura organiz-
zata, non solo complessa, ma neppure elementare. La dizione «per
il comunismo-BR», infatti, compariva soltanto nella rivendicazione
dell’attentato alla caserma Vannucci di Livorno, che costituiva l’u-
nica azione riferibile a tale sigla.
A questo punto, tale atto terroristico è stato interpretato, dai
Giudici che si sono succeduti nei diversi gradi, come atto di propa-
ganda armata, nell’ambito dell’accordo cospirativo intercorso tra tre
originari soggetti (vecchi brigatisti anni ’70) che, da quel momento
in poi, per circa tre anni, hanno svolto azione di proselitismo e re-
clutamento di militanti, contattando gli altri coimputati, i quali, tut-
tavia, non si aggregheranno mai in gruppo terroristico, tanto che solo
uno di questi tre originari correi aveva contatto con tutti gli impu-
tati.
Di qui la deduzione, corretta per la Cassazione (e anche secondo
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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 123

chi scrive), in forza della quale è stata esclusa la sussistenza, nel caso
di specie, dei reati di cui agli articoli 270 bis e 306 c.p., appunto per
via dell’assenza, nella vicenda di cui trattasi, di un gruppo organiz-
zato, individuabile come distinto ed autonomo rispetto i suoi com-
ponenti, e strutturato, ancorché in forme semplici e non particolar-
mente articolate.
Avverso la conclusione raggiunta dal giudice di seconde cure (con-
fermativa della prima sentenza), il P.G. aveva presentato un ricorso
basato su di una «certosina» lettura dei documenti sequestrati agli
imputati (e quindi, forse, fin troppo «in fatto», per il contenuto di
un ricorso per Cassazione31), i cui contenuti avrebbero dimostrato
l’esistenza di un gruppo armato, e strutturato per la consumazione
di azioni terroristiche, appunto come quella dell’attentato di Livorno.
I documenti ritrovati presso i tre originari soggetti aggregatisi, tut-
tavia – espressivi di dibattiti riservati, in quanto non soltanto mera-
mente ideologici, ma proiettati all’azione rivoluzionaria sviluppando
dialettiche interne di chiara matrice eversiva –, non sono stati tro-
vati in possesso pure degli altri coimputati, i quali sono stati evi-
dentemente tenuti all’oscuro di quei dibattiti riservati, e che, a loro
volta, si sono mantenuti lontani da profili di carattere operativo, e
da contributi apprezzabili alla realizzazione di una societas scelleris32.
La tesi del procuratore ricorrente, quindi – probabilmente, a ra-
gione –, è stata ritenuto viziata da genericità ed incompiutezza del

31
Cfr. Gaito, Il ricorso per Cassazione, in Aa.Vv., Procedura penale, Torino, 2015,
823 ss.
32
«In tema di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di ever-
sione dell’ordine democratico, di cui all’art. 270 bis c.p., la condotta di partecipazione
è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il
tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di apparte-
nenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato «prende
parte» al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento
dei comuni fini criminosi (in motivazione, la corte ha osservato che l’affermazione di
penale responsabilità dell’agente a titolo di partecipazione presuppone la dimostrazione
dell’effettivo inserimento del medesimo nella struttura organizzata attraverso condotte
univocamente sintomatiche, le quali possono consistere, oltreché nell’assunzione di un
ruolo concreto nell’organigramma criminale, anche nello svolgimento di attività prepa-
ratorie rispetto all’esecuzione del programma)», Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2017,
n. 25452, in Ced Cass., n. 270171.

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124 capitolo iii

sillogismo logico. Questo perché la mera elencazione di affermazioni


e concetti contenuti in documenti politici, di per sé, non risultava
idonea a contrastare la complessa argomentazione impugnata. Sa-
rebbe stato onere del procuratore ricorrente, infatti – nella specie,
secondo la Corte, non assolto –, dimostrare come e perché i conte-
nuti dei documenti politico-eversivi fossero dimostrativi dell’esistenza
di una banda armata, ovvero di una condotta riferibile al promuo-
vere, costituire, organizzare, dirigere, finanziare una associazione che
si proponga il compimento di atti di violenza terroristica ed ever-
siva dell’ordine democratico ex art. 270 bis c.p.
Secondo chi scrive, tuttavia, nella specie non si sarebbe potuto ri-
tenere sussistente neppure il delitto di cui all’art. 304 c.p. Tale reato,
infatti, non essendo espressivo di un disvalore autonomo, ma rap-
presentando solo una forma di anticipazione della tutela rispetto ai
reati di cui all’art. 302 c.p., rimane assorbito nel caso di commis-
sione di uno dei summenzionati reati.
Allora, però, l’attentato alla caserma di Livorno del 2006 rappre-
senta, appunto, il commesso reato che assorbe e rende non punibile
in sé l’accordo per commetterlo. La sentenza ritiene, tuttavia, che
tale singolo attentato terroristico non abbia valenza in sé, quanto
piuttosto in una prospettiva promozionale, per l’acquisizione di fu-
turi associati: in definitiva, per consentire agli originari correi di at-
trarre nella loro cerchia nuovi soggetti; fatto che poi, però, non av-
viene.
La circostanza, tuttavia, che tale azione di promozione e proseli-
tismo risulta non essere andata in porto, nell’ottica qui accolta (se-
condo la quale, per altro, la condotta qualificata di promozione, nei
reati associativi, diversamente che nel concorso di persone di reato,
andrebbe riferita solo ad un momento successivo alla costituzione
dell’associazione), escluderebbe la ricorrenza del reato consumato di
cui all’art. 270 bis c.p., ma, visto che il gruppo originario aveva com-
piuto atti – almeno ex ante idonei, secondo il concetto logico di pro-
babilità33 – e diretti in modo non equivoco a reclutare nuovi soci,
non il tentativo di tale delitto: ammissibile, beninteso, solo nella mi-

33
Cfr. Cfr Giacona, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, To-
rino, 2000, 131 ss.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 125

sura in cui, magari anche a seguito della qui ipotizzata modifica le-
gislativa, si intendano i reati associativi come di danno.
Forse, cioè, il combinato disposto degli artt. 56 e 270 bis c.p.,
nella specie, poteva essere ritenuto a ragion maggiore sussistente, che
non l’art. 304 c.p., il quale delitto – in relazione al reato associativo
in questione: che in ogni caso poco si presta a costituire un reato
scopo – al limite poteva ritenersi integrato fino a quando i tre sog-
getti originari si erano limitati ad accordarsi per commetterlo, ma,
in una fase successiva, quando gli stessi sono andati oltre il semplice
accordo, e, magari, il compimento di meri atti preparatori, e hanno
svolto attività promozionali – autonomamente costitutive di reato,
come l’attentato di Livorno, o meno – il delitto di cui all’art. 270
bis c.p. deve ritenersi ormai tentato, con esclusione conseguente della
rilevanza di quello previsto all’art. 304 c.p. (la cui ricorrenza, lo si
ribadisce, è per altro verso controversa con riferimento ad un de-
litto-scopo a sua volta associativo, che risulta quasi un ossimoro).
Nonostante la mancanza di un’espressa previsione al riguardo, in-
fatti, si deve ritenere che il tentativo, non diversamente dalla consu-
mazione, assorbe il mero accordo (eccezionalmente) punibile ex art.
304 c.p., trattandosi di norma che, appunto, fa eccezione all’art. 115
c.p., e non al 56 c.p., e come indirettamente dimostrato anche dalla
causa di punibilità di cui all’art. 308 c.p., per cui non è punibile –
questa volta in deroga alla disciplina del recesso attivo, di cui all’art.
56, co.4, c.p. – colui che impedisce comunque che sia compiuta l’e-
secuzione del delitto per cui l’accordo è intervenuto.
Neppure si deve ritenere, poi, che, in questo caso, l’art. 308 si ri-
ferisca ad una non punibilità ex art. 304, perché invece trattasi di
una non punibilità a titolo di tentativo, ché altrimenti non avrebbe
senso la previsione di cui al n. 2, del primo comma, dello stesso ar-
ticolo, che chiede solo il recesso – e non l’impedimento –, e appunto
si riferisce ad una non punibilità ex art. 304 c.p.
Ciò si desume, per altro, anche dai Lavori preparatori al codice
Rocco, in cui si spiega che, quando sia commesso il delitto oggetto
dell’accordo, cessa la ragione della eccezione all’art. 115 c.p., e de-
vono essere applicate le normali disposizioni sul concorso di più per-
sone nello stesso reato. Nel caso speciale in cui, invece, uno dei col-
pevoli impedisca l’evento costitutivo del reato oggetto dell’accordo,
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126 capitolo iii

quest’ultimo non soggiacerà alla pena stabilita per il delitto tentato


(che quindi, evidentemente, si applica agli altri correi, che appunto
rispondono a titolo di tentativo di uno dei delitti di cui all’art. 302
c.p., e non di accordo punibile ex art. 304 c.p.), sia pure ridotta da
un terzo alla metà secondo le norme ordinarie sul recesso attivo, tale
istituto, infatti, rispetto alla cospirazione mediante sia accordo che
associazione, ha una disciplina speciale nella disposizione dell’ultimo
capoverso dell’art. 308 c.p. (rectius: art. 312, corrispondente, appunto,
all’attuale art. 308 c.p.), la quale esclude, in tal caso, la punibilità del-
l’autore del fatto34.

4. È davvero possibile che sussista un’associazione per delinquere tra


corruttori e corrotti?

Come già si è avuto modo di evidenziare, il momento di mas-


sima crisi del delitto di associazione per delinquere è stato rappre-
sentato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite che faceva rientrare,
nel concetto di criminalità organizzata, l’art. 416 c.p., e, conseguen-
temente, riteneva lecito l’utilizzo, appunto in ogni procedimento ex
art. 416 c.p., degli intrusori informatici e delle relative intercettazioni
ambientali ambulanti.
Nell’allora quadro normativo e giurisprudenziale, la Cassazione35,
in sede cautelare, è stata chiamata a pronunciarsi su di un ricorso,
avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Taranto, confer-
mativa di quella del GIP, a sua volta applicativa della custodia cau-
telare in carcere, in un procedimento per associazione per delinquere
finalizzata alla corruzione e alla turbativa di gare d’appalto, in cui i
gravi indizi di colpevolezza emergevano, prevalentemente, dalla ri-
sultanze delle intercettazioni ambientali svolte con i captatori infor-
matici.

34
Cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol.
IV (Atti della commissione ministeriale incaricata di dare parere sul progetto prelimi-
nare di un nuovo codice penale), I (Relazione introduttiva di S.E. Giovanni Appiani
Presidente della Commissione), Roma, 1929, 258.
35
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 28 febbraio 2017, n. 15573, in Cass. pen., 2018, 276.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 127

Tal ultima circostanza non è di poco momento, in quanto si può


essere indotti a ritenere, da un lato, che la contestazione dell’art. 416
c.p., da parte degli inquirenti, sia stata strumentale, appunto, alla pos-
sibilità di utilizzare i captatori informatici, nonché, dall’altro, che la
contestazione del reato associativo «avesse retto» dinanzi al Tribu-
nale del Riesame, perché, ove fosse venuta meno, avrebbe compor-
tato l’illegittimità dell’utilizzo dei c.d. trojan, e, conseguentemente, il
venir meno dell’intero impianto accusatorio, non solo con riferimento
al reato associativo, ma anche in relazione ai singoli reati-fine di cor-
ruzione.
Avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame, però, proponeva
ricorso per Cassazione uno degli imprenditori coinvolti, sostenendo
che sarebbe stata manifestamente illogica l’ipotesi di una partecipa-
zione ad un sodalizio criminoso volto a pilotare gli appalti della P.A.,
nonostante il presunto partecipe avesse dovuto pagare per ottenere
gli appalti di cui trattasi. Si aggiungeva, per altro, che tale questione
giuridica non aveva ricevuto risposta dal Tribunale – dinanzi al quale,
pure, era stata prospettata –, e che la stessa, se accolta, avrebbe avuto
un’efficacia dirompente, in quanto l’esclusione della configurabilità
del reato di cui all’articolo 416 c.p. avrebbe inciso, necessariamente,
sulla legittimità delle captazioni.
Secondo la Cassazione, inoltre, la doglianza relativa alla giuridica
ammissibilità di un’associazione per delinquere finalizzata a «pilo-
tare» gli appalti della P.A., nonostante l’asserito partecipe imprendi-
tore avesse dovuto «pagare» i pubblici ufficiali coinvolti, per otte-
nere l’assegnazione delle commesse, pur formulata da uno solo dei
ricorrenti (imprenditore), con riferimento alla propria specifica posi-
zione, proiettava la sua valenza su tutte le altre posizioni, in consi-
derazione del fatto che, nel procedimento di cui trattavasi, la conte-
stazione dell’associazione per delinquere risultava costruita proprio
sull’esistenza di uno stabile legame, fra imprenditori e pubblici uffi-
ciali, che era diretto ad assicurare la ripartizione degli appalti pub-
blici della Marina Militare di Taranto, all’interno di una cerchia de-
limitata di operatori economici «amici» ed «affidabili», dietro corre-
sponsione di compensi illeciti versati dai primi ai secondi.
Al proposito, la Corte ricorda che tale questione giuridica era
stata già esaminata dalla giurisprudenza di legittimità, e che, nei pre-
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128 capitolo iii

cedenti massimati che avevano espressamente affrontato il tema, era


stato ritenuto configurabile l’esistenza, tra corrotto e corruttore, del
vincolo associativo necessario per la sussistenza del delitto di cui al-
l’articolo 416 c.p36, invece del concorso di persone nel reato conti-
nuato. Nei (due) precedenti specifici, infatti, era stato evidenziato che
anzi il vincolo associativo, attraverso un più stretto ed ancora più
compromettente collegamento interpersonale, sortisce l’effetto di
rafforzare il mero accordo criminoso, nonché la stessa struttura della
organizzazione delinquenziale.
La Cassazione, in ogni caso, non ha ritenuto di discostarsi dal
suo precedente orientamento. Anzi, la motivazione evidenzia come
tale orientamento, specifico in tema di corruzione, trovi corrispon-
denza pure nella giurisprudenza in tema di associazioni finalizzate
al traffico di stupefacenti, generalmente ritenuta possibile anche tra
fornitori ed acquirenti di droga, perché tali soggetti, nonostante la
diversità degli scopi e degli utili personali perseguiti, realizzano l’u-
nitario interesse di immettere la sostanza stupefacente nel mercato37.
Avverso quest’ultimo argomento, tuttavia, può facilmente osser-
varsi che il fine dei venditori (magari, proprio iniziali produttori) e
degli acquirenti (evidentemente, all’ingrosso, ai fini di ulteriore ri-
vendita) di droga non è affatto quello di immettere la sostanza stu-
pefacente nel mercato, ma è quello del proprio personale profitto.
Una volta, ad es., che il produttore ha venduto la droga al «grossi-
sta», si disinteressa totalmente di quanto avviene dopo, che sia l’im-

36
«È configurabile l’esistenza, tra corrotto e corruttore, del vincolo associativo ne-
cessario per la sussistenza del delitto di cui all’art. 416 c.p. (fattispecie relativa alla ri-
conosciuta esistenza di un sodalizio criminale gestito da operatori obitoriali cui sono
stati ritenuti partecipare i rappresentanti delle imprese di onoranze funebri, le quali,
pagando una tangente ai primi, avevano stabilmente accesso ad un sistema di turna-
zione nell’orientamento della potenziale clientela)», Cass. pen., sez. VI, 3 febbraio 2010,
n. 10032, in Ced Cass., n. 246284.
37
«Ai fini della configurabilità del delitto di associazione per delinquere finalizzata
al traffico di stupefacenti è sufficiente l’esistenza tra i singoli partecipi di una durevole
comunanza di scopo, costituito dall’interesse ad immettere sostanza stupefacente sul mer-
cato del consumo, non essendo di ostacolo alla costituzione del rapporto associativo la
diversità degli scopi personali e degli utili che i singoli partecipi, fornitori ed acquirenti
si propongono di ottenere dallo svolgimento della complessiva attività criminale», Cass.
pen., sez. IV, 16-12-2015, n. 4497, in Ced Cass., n. 265945.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 129

missione nel mercato, l’uso personale o, in ipotesi di scuola, la di-


struzione della sostanza venduta.
Bisogna considerare, soprattutto, che acquirente e venditore, in
genere, non hanno un interesse in comune, ma due diversi interessi,
per altro in diretto conflitto, perché maggiore sarà il margine di gua-
dagno per il venditore, minore sarà quello dell’acquirente, e vice-
versa. Nonostante questo argomento, che dovrebbe risultare, per così
dire, auto-evidente, la Cassazione, in linea generale, ritiene che i con-
tinuativi rapporti di compravendita ad oggetto illecito, nel caso in
cui risultino oggettivamente funzionali alla realizzazione di un du-
revole scopo comune, non rappresentino un ostacolo giuridico alla
ipotizzabilità di un’associazione per delinquere, fra soggetti tra i quali
tali rapporti continuativi intercorrono.
Con riferimento al caso oggetto di impugnazione, poi, la Corte spe-
cifica che il ricorso sistematico all’attività corruttiva, nell’ambito di una
situazione di stabile compravendita dell’esercizio di funzioni pubbliche,
risulta dimostrativo di una durevole comunanza di scopo tra soggetti
pur portatori di interessi individuali diversificati, e può assumere, da
un punto di vista logico-fattuale, la valenza di strumento utile a sot-
trarre indebitamente, programmaticamente e strutturalmente risorse alle
casse pubbliche, e quindi a ripartire, sulla base delle «provvista» così
formata, illeciti vantaggi tra pubblici ufficiali ed imprenditori.
La tesi risulta invero suggestiva, ma, almeno secondo chi scrive,
non merita eccessivo credito; ed anzi, se analizzata senza peccare di
ingenuità, finisce per dimostrare l’esatto contrario di quanto preteso.
Nel caso di specie, infatti – come in tutti quelli analoghi –, ciò che
manca è proprio una cassa in comune. Un’operatività per cui il prezzo
della corruzione percepito dal pubblico ufficiale è il «dividendo» del-
l’utile, per altro aggiuntivo rispetto a quello fisiologico, ottenuto dal-
l’imprenditore corruttore, sembrerebbe, a sommesso avviso di chi
scrive, quasi di pura fantasia.
Nella corruzione, generalmente il prezzo viene versato al pub-
blico ufficiale prima (per stare al caso di specie) dell’aggiudicazione
dell’appalto, e comunque molto prima dei primi utili percepiti dal-
l’imprenditore corruttore38: utili che, per altro, potrebbero anche es-

38
«Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall’art.

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130 capitolo iii

sere, in sé, del tutto fisiologici, nel senso che la circostanza che un
imprenditore abbia vinto un appalto grazie ad un accordo corrut-
tivo, non implica che poi debba svolgerlo in modo da ottenerne van-
taggi illeciti.
In tutti queste ipotesi, piuttosto, siamo di fronte a presunte as-
sociazioni per delinquere espressive di una criminalità del profitto,
che risultano prive, però, di una cassa comune, ovverosia con pro-
fitti solo divisi – il che è anche possibile –, e mai comuni – il che,
invece, non è possibile – dei presunti sodali che, per giunta, hanno
interessi in conflitto: in quanto, meno il corruttore riuscirà a pagare
il corrotto, più alto sarà il suo profitto, e viceversa.
Ancora una volta, inoltre, si è davanti ad accordi chiusi da un
punto di vista della compagine associativa, in quanto, sia gli im-
prenditori non hanno interesse – ed anzi, hanno un interesse con-
trario – all’ingresso, nell’accordo, di nuovi imprenditori, che i pub-
blici ufficiali non hanno interesse all’intervento, nel medesimo ac-
cordo, di ulteriori pubblici ufficiali con cui dividere «la torta»; e dun-
que queste presunte ipotesi associative non superano il banco di
prova dell’associazione «aperta».

5. La Cassazione italiana compara l’associazione per delinquere con


quella di malfattori del codice penale francese

La sentenza di cui trattasi39 è stata emessa a seguito del ricorso


avverso un provvedimento, della Corte d’Appello di Bari, con il
quale era stata disposta la consegna – alle Autorità francesi, richie-
denti tramite MAE40 – di un cittadino italiano. Il ricorso si basava

322 ter c.p., presuppone che l’imputato abbia già conseguito il profitto illecito del reato
(nella specie, la corte ha annullato il decreto di sequestro preventivo, disposto nell’ambito
di un procedimento per corruzione connessa all’aggiudicazione di pubblici appalti, in un
caso in cui l’appalto era stato aggiudicato ma non vi era stato effettivo affidamento e
svolgimento dei lavori da parte del corruttore con conseguente riscossione del pagamento)»,
Cass. pen., sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 4297, in Giust. pen., 2013, III, 449
39
Cfr. Cass. pen., sez. VI, 3 luglio 2017, Leone, n. 33070, inedita.
40
Cfr. Gaito, Mandato d’arresto europeo ed estradizione, in Aa.Vv., Procedura
penale, cit., 985 ss.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 131

– per quanto qui più direttamente rileva – sulla violazione del di-
vieto di doppia incriminazione – nonostante alcune eccezioni, giu-
stamente ancora sussistente41 –, per sostanziale non sovrapponibilità
dell’art. 450-1 del c.p. (francese) – contestato al capo n. 2 del sum-
menzionato MAE – con l’art. 416 c.p. (italiano).
Secondo il ricorrente, infatti, in Francia l’associazione di malfat-
tori avrebbe anche la funzione – che l’art. 416 c.p. (italiano), invece,
non possiederebbe – di anticipare la soglia di punibilità a fatti com-
messi in concorso persone che, altrimenti, non sarebbero punibili,
fino alla punizione del mero accordo per commettere un reato o,
quantomeno, al compimento di atti preparatori, quando si tratti di
delitti puniti con almeno cinque anni di reclusione: l’associazione è
aggravata, invece, qualora gli atti preparatori riguardino crimini o,
come nella specie, delitti, punibili con almeno dieci anni di reclu-
sione.
Sempre secondo la tesi difensiva, non sarebbe un caso, del resto,
che il delitto in questione sia previsto in un’unica sezione del codice
penale (francese) assieme ad altre due figure: l’attentato («politico»,
contro le istituzioni democratiche, etc.) e il complotto (che è, addi-
rittura, un’anticipazione della punibilità dell’attentato «politico»). Si
tratterebbe, infatti, di tre ipotesi che sono previste assieme, appunto
nella stessa sezione del codice, perché sono tre figure che hanno ri-
guardo allo stesso istituto di parte generale, cioè il tentativo, preve-
dendone deroghe anticipatorie. L’associazione di malfattori francese,
proprio per questo, diversamente da quella a delinquere italiana, si
riferisce anche ad un solo delitto (non compiuto, nemmeno a livello
di tentativo), e non necessita del requisito della pluralità dei delitti
scopo.
Nel caso in cui il delitto scopo dell’associazione di malfattori, in-
vece, sia commesso, almeno a livello di tentativo, non potrebbe più
applicarsi l’art. 450-1 c.p. (francese), ma dovrebbe applicarsi solo (o,
almeno, dovrebbe applicarsi solo, per non violare il principio del ne
bis in idem) la circostanza aggravante della banda organizzata, di cui
all’art. 132-71 – che infatti era contestato al «capo» n. 1 del MAE,

41
Cfr. Gualtieri, Mandato d’arresto europeo: davvero superato (e superabile) il
principio di doppia incriminazione?, in Dir. pen. proc., 2004, 115 ss.

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132 capitolo iii

relativo a furti tentati e consumati –, rendendo applicabili, sia per i


furti che per i tentativi di furto (in Francia, diversamente che in Ita-
lia, il tentativo è punito con la stessa pena del reato consumato), i
quindici anni di reclusione, invece dei cinque previsti per il vol (cioè,
appunto, il furto) aggravato (ma non commesso da un’associazione).
La lettera delle due disposizioni in questione (artt. 450-1 e 132-
71 c.p.), in effetti, è quasi sovrapponibile42, per cui l’operatore pra-
tico del diritto italiano è comprensibile che possa rimanere diso-
rientato. Secondo il ricorrente, però, sarebbe la disposizione di cui
all’art. 132-71 c.p. (francese) a corrispondere, in qualche modo, a
quella di cui all’art. 416 c.p. (italiano), e non quella (anticipatoria) di
cui all’art. 450-1 c.p., né ci si dovrebbe far trarre in inganno dal fatto
che la prima disposizione sia un’aggravante, mentre la seconda inte-
gra un reato autonomo.
Al proposito, inoltre, si specifica che, per giurisprudenza conso-
lidata, il requisito dell’organizzazione, imprescindibile ex art. 416,
c.p., sarebbe un elemento costitutivo dell’aggravante prevista dall’art.
132-71 c.p. (francese), e non del delitto stabilito dall’art. 450-1 c.p.43,
che in tale ordinamento, infatti, viene utilizzato per rendere punibile
il mero accordo per commettere un delitto, magari seguito – come
nell’ipotesi che riguardava il ricorrente – da atti solo preparatori,
quando ci sia il requisito, appunto, del concorso di persone, cioè di
almeno due correi, che infatti bastano perché possa ritenersi confi-
gurata l’associazione di malfattori francese, ma non per quella a de-

42
Ai sensi dell’art. 132-71, infatti, «Constitue une bande organisée au sens de la
loi tout groupement formé ou toute entente établie en vue de la préparation, caracté-
risée par un ou plusieurs faits matériels, d’une ou de plusieurs infractions», mentre, ex
art. 450-1, «Constitue une association de malfaiteurs tout groupement formé ou entente
établie en vue de la préparation, caractérisée par un ou plusieurs faits matériels, d’un
ou plusieurs crimes ou d’un ou plusieurs délits punis d’au moins cinq ans d’emprison-
nement». Le differenze testuali tra le due norme sono minime. L’aumento di pena in
caso di banda organizzata, definita dalla citata norma di parte generale, è stabilito dalle
singole disposizioni di parte speciale (ad es.: art. 311-9 c.p., per il furto; 224-5-2, per
il sequestro; art. 312-6, per l’estorsione; etc.). Effettivamente, il requisito espresso del-
l’organizzazione si riscontra solo nel testo dell’art. 132-71 c.p., e non in quello del-
l’associazione di malfattori.
43
Cfr. Cour de Cassation, Chambre criminelle, 8 luglio 2015, n. 14-88329, in le-
gifrance.fr.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 133

linquere italiana, che necessita di un’organizzazione, sia pur rudi-


mentale, e di almeno tre sodali.
La tesi del ricorrente potrebbe trovare una conferma indiretta, in
linea di diritto, nel caso di scuola risolto dal Pradel, in cui Tizio paga
Caio per sfregiare la propria fidanzata con l’acido, ma, successiva-
mente, quest’ultimo non tiene fede all’accordo, e non commette il
delitto (in Italia, secondo la stessa giurisprudenza, si tratterebbe di
un’istigazione non accolta44, rispetto alla quale può porsi solo una
questione di applicazione della misura di sicurezza45). In tal caso, in-
fatti, secondo l’autorevole voce della dottrina d’oltralpe:
«Non vi è dunque tentativo di violenza a carico di Caio, e dun-
que non vi è complicità di Tizio. In alcune celebri sentenze, la giu-
risprudenza ha considerato che gli atti corrispondenti alla definizione
della complicità sfuggono alla repressione, allorché l’azione principale
non possa essere considerata, a motivo del fallimento del suo autore,
come costitutiva di un principio di esecuzione. La soluzione si impone
giuridicamente poiché l’art. 121-7 del codice penale (sul tentativo,
n.d.r.) parla di <complice di un crimine o di un delitto>.
Questa soluzione è tuttavia immorale (sic!, n.d.r.), poiché il com-
plice sfugge ad ogni repressione se ha la fortuna che la persona isti-
gata, dopo aver promesso di agire, si astiene dal farlo.
È per tal motivo che la giurisprudenza ha tentato di colmare tale
lacuna, facendo appello al delitto di associazione a delinquere previ-
sto dall’art. 450-1 del codice penale, che trova applicazione nel caso
di specie. Tizo potrà dunque essere condannato, in quanto capo di
un’associazione per delinquere»46.

44
«Non costituisce tentato omicidio, bensì istigazione non accolta a commettere un
delitto (ai sensi e per gli effetti dell’art. 115, 4° comma, c.p.) la condotta di chi, avendo
conferito ad altri l’incarico di cagionare la morte di una persona, fornisce informazioni
a tale scopo e corrisponde in anticipo del prezzo pattuito denaro e altre utilità, qualora
emerga in giudizio che l’incaricato non ha posto in essere atti idonei e univoci alla rea-
lizzazione dell’accordo criminoso e che ha aderito solo simulatamente all’accordo stesso»,
così GUP, Tribunale Ferrara, 22 dicembre 2017, in Riv. pen., 2018, 613.
45
Cfr. Martufi, Nulla periculositas sine actione? Pericolosità sociale e materialità
del fatto alla prova delle fattispecie di quasi reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 818.
46
Così Pradel, Caso IX – Concorso di persone, Francia, in Aa.Vv., Casi di di-
ritto penale comparato, Milano, 2005, 208. Il caso in questione è tratto dalla nota de-
cisione Cour de Cassation, Chambre Criminelle, 30 aprile 1996, Bull.Crim., n. 176.

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134 capitolo iii

Secondo il ricorrente, in definitiva, il reato di associazione di mal-


fattori francese costituirebbe una forma di tutela anticipata, in de-
roga al principio dell’inizio dell’esecuzione del reato, di atti mera-
mente preparatori e/o dell’accordo a cui non segua l’esecuzione, nel
caso in cui ci siano almeno due complici, e si tratti di reati gravi:
ovverosia crimini o, almeno, delitti puniti con cinque anni di reclu-
sione.
Il reato in questione non corrisponderebbe, dunque, al delitto di
associazione per delinquere italiano, che avrebbe, invece, il suo cor-
rispondente francese (per altro non diretto, appunto perché trattasi
di un’aggravante e non di un reato autonomo) nell’art. 132-71 c.p.,
sulla banda organizzata, appunto perché, secondo la giurisprudenza
francese, sarebbe tal ultima disposizione, e non quella sull’associa-
zione di malfattori, che richiederebbe il requisito dell’organizzazione.
Secondo la tesi difensiva, quindi – con riferimento al «capo» n. 2
del MAE in questione –, ci sarebbe stata, nei confronti del ricor-
rente, una palese violazione del principio – ancora previsto dalla
legge, salve espresse eccezioni47 – di doppia incriminazione, perché,
rispetto al ricorrente stesso, gli unici indizi riguardavano un singolo
episodio, in cui il soggetto si è era recato in Francia e – secondo la
stessa prospettazione accusatoria, che non veniva revocata in dubbio
– aveva iniziato, assieme alle persone con cui si era accordato, un
lungo giro di perlustrazione dei vari sportelli bancomat che, in una
fase successiva, il ricorrente e dei suoi complici avrebbero voluto sva-
ligiare. Ovviamente, però – e su questo si deve convenire –, trattasi

47
«In tema di mandato di arresto europeo, l’elencazione dei reati che danno luogo
a consegna indipendentemente dalla doppia incriminazione, contenuta nel modello al-
legato alla decisione quadro del consiglio del 13 giugno 2002, non è indicativa di una
specifica qualificazione giuridica del fatto, quanto piuttosto dell’appartenenza ad una
categoria di delitti, secondo una tecnica descrittiva che tiene conto della necessità di
rendere comprensibile l’oggetto del procedimento penale nei rapporti tra ordinamenti
dei diversi paesi dell’Unione europea (in motivazione, la suprema corte ha chiarito che,
ai sensi dell’art. 2 della predetta decisione quadro, i reati elencati nel modello allegato
alla decisione stessa – se puniti nello stato emittente con pena uguale o superiore a tre
anni – danno luogo ad un preciso obbligo di consegna, indipendentemente dalla dop-
pia incriminazione)», così Cass. pen., sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 43536, in Ced Cass.,
n. 260441.

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 135

di un attività che in sé, almeno secondo il diritto penale italiano, non


sarebbe punibile
Anche chi scrive deve confermare, del resto, che l’accordarsi con
alcune persone per svaligiare sportelli bancomat, incontrarsi apposi-
tamente in albergo, perlustrare la zona e, poi, tuttavia, non proce-
dere all’attuazione del piano, per qualsiasi motivo, in Italia non co-
stituisce reato, in virtù dell’art. 115 c.p., e anche dell’art. 56 c.p., in
base al quale gli atti meramente preparatori non sono punibili; men-
tre, in Francia, evidentemente lo sono, appunto ex art. 450-1 c.p.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha rigettato il ricorso, in base
alla considerazione, quantomeno controversa, che, tra il delitto di as-
sociazione di malfattori francese e quello di associazione per delin-
quere italiana, ci sia sostanziale identità. Entrambi i delitti, infatti,
punirebbero un’attività di accordo per commettere una pluralità in-
definita di reati, così anticipando la soglia di punibilità rispetto a
condotte che non sono ancora integranti il tentativo dei program-
mati reati-fine. In questo modo, tuttavia, la Cassazione svilisce l’au-
tonomia del bene giuridico dell’associazione per delinquere, che non
ha una mera funzione anticipatoria della punibilità dei reati-fine, che
infatti, non assorbono il reato associativo qualora siano compiuti.
Secondo la Corte, l’apparente diversità delle due previsioni, che
non si concreterebbe in una radicale differenza, come preteso del ri-
corrente, riguarderebbe il modo in cui il codice francese risolve il
problema del rispetto del principio di materialità, che si pone nei
reati che sanzionano un mero accordo per delinquere. In particolare,
poi, anche in applicazione della norma francese non si può ritenere
che sia sufficiente il mero accordo, perché è necessario che siano
commessi «un ou plusieurs fait matériels», e l’individuazione di al-
meno un reato-fine.
La diversità consisterebbe, quindi, nel fatto che nell’art. 416 c.p.
non si richiede che vi sia stata già l’individuazione di alcun reato-
fine, e, proprio per questo, tale norma sarebbe stata interpretata, nel
rispetto del principio di materialità, appunto aggiungendo il requi-
sito implicito dell’organizzazione, che quindi, pare di capire, secondo
la Cassazione (italiana) non sarebbe necessario nell’associazione di
malfattori francesi, proprio perché, in tale previsione, vi è l’aggancio
con uno o più delitti determinati.
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136 capitolo iii

Vi sarebbe una corrispondenza, cioè, tra il requisito dell’organiz-


zazione, se pur minima e rudimentale, dell’associazione per delin-
quere nostrana, e quello dei fatti materiali di cui all’art. 450-1 c.p.
(francese): elementi che, infatti, rappresenterebbero solo due diversi
modi di risolvere il principio di materialità; anzi, l’ambito di opera-
tività dell’art. 416 c.p. sarebbe addirittura più ampio di quello del
suo omologo francese (anche se la motivazione non spiega perché,
né in cosa si concretizzerebbe tale maggiore ampiezza).
Rinviando ulteriori considerazioni sulla succitata normativa fran-
cese (e quindi, indirettamente, la soluzione del caso in questione) al
prossimo capitolo, in questa sede si vuole sottolineare come, in realtà
– e nonostante quanto affermato nella sentenza oggetto d’analisi –, i
reati associativi non costituiscano una vera e propria eccezione alla
previsione di cui all’art. 115, co.148, c.p., che altrimenti, per questa via,

48
«L’accordo tra più soggetti di realizzare uno o più reati è un elemento comune
alla fattispecie associativa ed a quella concorsuale, ma in tale ultima ipotesi esso deve
pervenire alla concreta realizzazione del reato, quanto meno a livello di tentativo, se-
condo quanto previsto dall’art. 115, 1° comma, c.p.; il discrimine tra la fattispecie plu-
risoggettiva e quella concorsuale non è qualificabile come rapporto di specialità, bensì
deve essere individuato nella necessaria qualificazione dell’accordo associativo come una
struttura permanente, nella quale i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei
propri compiti assunti od affidati – parti di un tutto, con il fine di commettere una se-
rie indeterminata di delitti», così Cass. pen., sez. VI, 5 dicembre 2003, in Ced Cass.,
n. 228482. In senso analogo, già in precedenza, Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1995, in
Ced Cass., n. 202036, secondo la quale: «Pure se l’accordo può costituire elemento co-
mune sia al concorso di persone nel reato sia all’associazione per delinquere, i due fe-
nomeni restano caratterizzati da aspetti strutturali e teleologici profondamente differen-
ziati; dal primo punto di vista, l’accordo che designa la fattispecie plurisoggettiva sem-
plice (sia essa necessaria ovvero eventuale) è funzionale alla realizzazione di uno o più
reati, consumati i quali l’accordo si esaurisce o si dissolve; del resto, l’accordo, in tanto
diviene rilevante nei confini della mera ipotesi concorsuale in quanto pervenga ad una
concreta realizzazione dell’assetto divisato, ad un’attività esecutiva, dunque, che non si
arresti alle soglie del tentativo; di conseguenza, il mero accordo allo scopo di commet-
tere un reato, non traducendosi in un’attività di partecipazione al reato stesso resta as-
soggettato al principio di ordine generale stabilito dall’art. 115 c.p.; a tale regola il 1°
comma dell’art. 115 enuncia un’espressa eccezione ma sempre relativa all’ipotesi in cui
«due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia com-
messo»; cosicché i criteri interpretativi destinati a risolvere le (solo apparenti) antinomie
tra accordo non punibile e reato associativo non possono essere compiutamente indivi-
duati chiamando in causa il solo principio di specialità; e ciò per la mancanza di un vero
e proprio rapporto di genere a specie, postulando il reato associativo una base plurisog-

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i reati associativi nella prassi giurisprudenziale 137

finirebbe per rappresentare una regola del tutta svuotata di signifi-


cato, a seguito della frequenza e dell’entità delle relative deroghe.
L’unica previsione che realmente deroga al principio di cui all’art.
115, co.1, c.p., è quella prevista dall’art. 304 c.p., e, del resto, la ra-
tio dell’eccezione è fin troppo evidente, specie se si considera che
trattasi di previsioni originarie del codice Rocco. Solo sganciando i
reati associativi dai reati-fine, invece, si riesce ad interpretarli in modo
rispettoso non solo del principio di materialità, ma anche di quello
di offensività, sempre considerando che, nella normativa italiana, l’e-
ventuale successivo compimento dei delitti-fine, non assorbe in al-
cun modo il disvalore dei reati associativi che, infatti, rimangono au-
tonomamente punibili.
Le sentenze fin qui commentate, tuttavia, sembrano dimostrare
che, nonostante lo sforzo compiuto per distinguere l’associazione dal
concorso di persone nel reato continuato e dal mero accordo per
commettere un delitto (punibile solo ex art. 304 c.p.), la giurispru-
denza non sia riuscita ad enucleare un requisito idoneo a differen-
ziare in modo netto le ipotesi in cui si è realmente di fronte al fe-
nomeno associativo, perché si è creata una «identità di gruppo», nel
senso che i singoli aderenti perdono la loro individualità divenendo
«parti di un tutto»49: ipotesi che, in realtà, sono solo quelle caratte-
rizzate dalla natura aperta (e diretta) all’adesione di terzi, dell’accordo
intercorso tra i concorrenti necessari originari.

gettiva qualificata, non richiesta, invece, nell’ipotesi di accordo; una constatazione che
vale anche ai fini della distinzione tra fattispecie meramente concorsuale e fattispecie as-
sociativa, rappresentando il minimum soggettivo richiesto dalla legge relativamente alla
seconda categoria dei reati un dato non richiesto, invece, per l’attività di mera parteci-
pazione, così da consentire l’utilizzazione del medesimo criterio interpretativo pure –
quel che più interessa – nel discriminare le categorie ora ricordate».
49
«L’accordo tra più soggetti di realizzare uno o più reati è un elemento comune alla
fattispecie associativa ed a quella concorsuale, ma in tale ultima ipotesi esso deve perve-
nire alla concreta realizzazione del reato, quanto meno a livello di tentativo, secondo
quanto previsto dall’art. 115, 1º comma, c.p.; il discrimine tra la fattispecie plurisogget-
tiva e quella concorsuale non è qualificabile come rapporto di specialità, bensì deve es-
sere individuato nella necessaria qualificazione dell’accordo associativo come una strut-
tura permanente, nella quale i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei pro-
pri compiti assunti od affidati – parti di un tutto, con il fine di commettere una serie in-
determinata di delitti», così Cass. pen., sez. VI, 5 dicembre 2003, in Ced Cass., n. 228482.

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Capitolo IV

Spunti comparativi e prospettive di riforma

Sommario: 1. Il tentativo, l’associazione di malfattori, la banda organiz-


zata e il «one man bad» (o «loup solitaire»). – 2. La multiforme fattispe-
cie incriminatrice spagnola di associazioni illecite e il successivo delitto di
organizzazione criminale. – 3. Il concetto di banda e quello di associazione
criminale in Germania, prima e dopo la riforma, tra irrilevanza penale delle
associazioni gerarchiche ed esigenze sovranazionali di tutela. – 4. La con-
spiracy (l’attempt e la solicitation) negli USA. – 5. Rilievi conclusivi e pro-
spettive di riforma.

1. Il tentativo, l’associazione di malfattori, la banda organizzata e il


«one man bad» (o «loup solitaire»)

Come già riferito, l’art. 450-1 del codice penale francese prevede
e punisce il reato – se vogliamo, «storico», quantomeno a livello di
denominazione, rimasta immutata dai tempi del codice napoleonico
– di associazione di malfattori1. L’elemento materiale del reato in
questione si ritiene integrato in presenza di tre requisiti:
1) un gruppo formato o un accordo stabilito anche tra sole due
persone;
2) la preparazione di uno o più crimini o di uno o più delitti pu-
niti con la reclusione non inferiore a cinque anni (com’è noto, il si-

1
In argomento, nella dottrina italiana, si veda Bernardi, La disciplina prevista nel
nuovo codice francese, in Aa.Vv., Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata
nella prospettiva di diritto comparato, Padova, 2002, 33 ss., e, spec., 55 ss.

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140 capitolo iv

stema dei reati francese è tripartito, appunto, in crimini, delitti e con-


travvenzioni);
3) la preparazione di uno di questi crimini o delitti caratterizzata
dal compimento di uno o più fatti materiali, anche solo preparatori.
Se si confronta questa disposizione con quella sul tentativo, di cui
all’art. 121-5 c.p., secondo la quale «La tentative est constituée dès
lors que, manifestée par un commencement d’exécution, elle n’a été
suspendue ou n’a manqué son effet qu’en raison de circonstances indé-
pendantes de la volonté de son auteur», risulta piuttosto evidente che
l’associazione per delinquere francese richiede più del mero accordo,
perché necessita del compimento di fatti materiali («caractérisée par
un ou plusieurs faits matériels») anche non ancora esecutivi, ma meno
del tentativo, in quanto tale istituto è ancorato, invece, ad un prin-
cipio di esecuzione, e dunque al compimento di atti esecutivi.
Per la configurazione dell’associazione, quindi, risulta sufficiente
il compimento di atti materiali diretti alla preparazione di uno o più
crimini – testualmente: «qualsiasi gruppo formato o accordo stabilito
ai fini della preparazione…di uno o più crimini» –, ovverosia il com-
pimento di quelli che, comunemente, si definiscono atti preparatori2.
Ciò che, tuttavia – almeno secondo chi scrive –, deve ritenersi
piuttosto ingiustificato, nella descrizione di tale autonomo reato «osta-
colo», è la mancanza di una previsione espressa, analoga, se si vuole,
a quella di cui all’art. 304 c.p. italiano, che escluda la punibilità del
reato in questione, nel caso in cui il reato per cui ci si è accordati,
e rispetto al quale si sono compiuti atti preparatori, sia giunto, poi,
fino allo stadio del tentativo o, addirittura, sia stato realizzato.
Tale mancanza, infatti, risulta apertamente violativa del principio
del ne bis in idem sostanziale, anche in considerazione del fatto che
nessuno degli elementi presenti nella fattispecie legislativa francese,
o frutto della successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale,
appare indicativo della violazione di un bene giuridico autonomo
(non si richiede, ad es, la presenza di un’organizzazione), mentre la
circostanza che la pena – diversamente da quanto avveniva con l’art.
265 del vecchio codice3 – dipenda direttamente da quella prevista per

2
Cfr. Pradel – Danti-Juan, Droit pénal spécial, 6a ed., Parigi, 2014, 766.
3
Art. 236 (così come modificato nel 1981) – Association de malfaiteurs – «Qui-

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spunti comparativi e prospettive di riforma 141

il reato preparato, conferma la natura, appunto, di mero reato «osta-


colo», dell’associazione di malfattori, con l’ulteriore elemento di ir-
ragionevolezza (anche rispetto al succitato art. 304 c.p. italiano) rap-
presentato dalla mancanza di una diminuzione della pena medesima
– come dovrebbe avvenire, appunto, in un reato «ostacolo» –, ri-
spetto a quella prevista per i reati «ostacolati».
Sarebbe errato ritenere, tuttavia, che l’ordinamento francese non
prenda in considerazione la nozione di organizzazione di gruppi cri-
minali, perché, come ricordato, vi è una circostanza aggravante, ap-
plicabile non a tutti i crimini e delitti, ma solo ad alcuni particolar-
mente gravi, elencati all’art. 706-73 del codice di rito (omicidio, furto
aggravato, tortura, traffico di stupefacenti, tratta di esseri umani, etc.),
che, ex art. 132-71 c.p., punisce proprio la banda organizzata.
Secondo la giurisprudenza4, infatti, la differenza tra le due dispo-
sizioni consiste proprio negli elementi aggiuntivi richiesti per inte-
grare l’aggravante di cui trattasi, rispetto a quelli propri dell’associa-
zione, che sarebbero, appunto, l’organizzazione strutturata tra gli
aderenti, e, in modo piuttosto inaspettato, la premeditazione dei reati:
da tale giurisprudenza consolidata, cioè, si evince che l’associazione
di malfattori può essere applicata anche agli atti preparatori di un
delitto non premeditato compiuti da (almeno) due persone, per cui
– nonostante le opposte considerazioni svolte dalla Cassazione ita-
liana, nel provvedimento commentato in chiusura del precedente ca-
pitolo – tale fattispecie incriminatrice non appare in alcun modo as-
similabile all’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.
L’unico elemento favorevole di tale disciplina è che la stessa giu-
risprudenza, in caso di reato consumato, non ritiene di poter appli-
care entrambe le disposizioni di cui trattasi (associazione e banda or-
ganizzata). Se è vero, cioè, che la consumazione del reato «ostaco-
lato» non assorbe il reato «ostacolo», come sarebbe pure ragione-
vole aspettarsi, nel caso in cui il reato consumato sia aggravato dalla

conque aura participé à une association formée ou à une entente établie en vue de la
préparation, concrétisée par un ou plusieurs faits matériels, d’un ou de plusieurs crimes
contre les personnes ou les biens, sera puni d’un emprisonnement de cinq à dix ans et
pourra être interdit de séjour»
4
Cfr. Cour de Cassation, Chambre Criminelle, 8 luglio 2015, cit.

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142 capitolo iv

circostanza della banda organizzata, non potrà applicarsi – per lo


stesso fatto – anche l’autonomo reato dell’associazione di malfattori5.
Non diversamente da quanto avvenuto in Italia, comunque, la
maggiore forma di anticipazione della soglia di punibilità si è avuta
con la recente normativa anti-terrorismo. In particolare, con la legge
n. 1353, del 13 novembre 2014, al fine dichiarato di reprimere il fe-
nomeno dei c.d. lupi solitari, è stato introdotto, all’art. 421-2-6 c.p.6,
un reato anticipato «associativo-individuale», che ovviamente appare
come un ossimoro, ma che, proprio per questo, si presta a ben spie-
gare come la funzione della previsione dell’associazione di malfattori

5
Cfr. Cour de Cassation, Chambre Criminelle, 16 maggio 2018, n. 17-81.151, in
www.dalloz.fr.
6
Art. 421-2-6 – «I. – Constitue un acte de terrorisme le fait de préparer la com-
mission d’une des infractions mentionnées au II, dès lors que la préparation de ladite
infraction est intentionnellement en relation avec une entreprise individuelle ayant pour
but de troubler gravement l’ordre public par l’intimidation ou la terreur et qu’elle est
caractérisée par:
1° Le fait de détenir, de se procurer, de tenter de se procurer ou de fabriquer des
objets ou des substances de nature à créer un danger pour autrui;
2° Et l’un des autres faits matériels suivants:
a) Recueillir des renseignements sur des lieux ou des personnes permettant de me-
ner une action dans ces lieux ou de porter atteinte à ces personnes ou exercer une sur-
veillance sur ces lieux ou ces personnes;
b) S’entraîner ou se former au maniement des armes ou à toute forme de combat,
à la fabrication ou à l’utilisation de substances explosives, incendiaires, nucléaires, ra-
diologiques, biologiques ou chimiques ou au pilotage d’aéronefs ou à la conduite de na-
vires;
c) Consulter habituellement un ou plusieurs services de communication au public
en ligne ou détenir des documents provoquant directement à la commission d’actes de
terrorisme ou en faisant l’apologie;
d) Avoir séjourné à l’étranger sur un théâtre d’opérations de groupements terrori-
stes.
II. – Le I s’applique à la préparation de la commission des infractions suivantes:
1° Soit un des actes de terrorisme mentionnés au 1° de l’article 421-1;
2° Soit un des actes de terrorisme mentionnés au 2° du même article 421-1, lorsque
l’acte préparé consiste en des destructions, dégradations ou détériorations par substan-
ces explosives ou incendiaires devant être réalisées dans des circonstances de temps ou
de lieu susceptibles d’entraîner des atteintes à l’intégrité physique d’une ou plusieurs
personnes;
3° Soit un des actes de terrorisme mentionnés à l’article 421-2 lorsque l’acte pré-
paré est susceptible d’entraîner des atteintes à l’intégrité physique d’une ou plusieurs
personnes».

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spunti comparativi e prospettive di riforma 143

sia quella, appunto, di anticipare la punizione agli atti preparatori,


in una logica di tutela rafforzata dei delitti preparati, e non della pro-
tezione di un bene giuridico autonomo, rispetto a quello tutelato dai
delitti-fine.
Ciò implica che, quando la necessità di porre un ostacolo alla rea-
lizzazione del reato preparato è massima, perché tale reato è di tipo
terroristico, l’anticipazione della punizione, non solo non necessita
– come nel citato art. 450-1 c.p., e pure nel più specifico art. 421-
2-1 c.p.7 – della presenza di un’organizzazione, se pur minima, ma
può perfino fare a meno del requisito delle (almeno) due persone,
applicandosi, testualmente, alle «imprese individuali».
A tal proposito, è interessante notare che la Cour de Cassation,
con ordinanza del 25 gennaio 2017 n. 347, ha rimesso al Conseil con-
stitutionnel – ritenendola «seria» – la questione che era stata avan-
zata, circa la costituzionalità dell’articolo in questione, in relazione
all’art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (prin-
cipio di legalità), perché il fatto di far dipendere l’incriminazione da
comportamenti non direttamente attentatori all’integrità delle per-
sone, né in relazione immediata con la commissione di un atto di
terrorismo, ma solo riferibili alla supposta intenzione di un indivi-
duo isolato di commettere tale atto, violerebbe le esigenze costitu-
zionali di chiarezza, prevedibilità, necessità e proporzionalità della
legge penale8.
Il Conseil constitutionnel, tuttavia – con la sua decisione n. 625,
del 7 aprile 2017 –, ha valorizzato la circostanza che gli atti prepa-
ratori in questione, per essere penalmente rilevanti, devono essere ca-
ratterizzati dall’unione di due fatti materiali. Da un lato, cioè, il sog-
getto agente deve detenere, cercare, procurarsi o fabbricare oggetti o

7
Art. 421-2-1 – «Constitue également un acte de terrorisme le fait de participer à
un groupement formé ou à une entente établie en vue de la préparation, caractérisée
par un ou plusieurs faits matériels, d’un des actes de terrorisme mentionnés aux arti-
cles précédents» (tradotto: Costituisce ugualmente un atto di terrorismo il fatto di par-
tecipare a un gruppo formato o a un accordo stabilito per la preparazione, caratteriz-
zata da uno o più fatti materiali, di uno degli atti di terrorismo menzionati negli ar-
ticoli precedenti).
8
L’ordinanza è reperibile – così come, del resto, la successiva decisione del Con-
siglio – sul sito istituzionale www.conseil-constitutionnel.fr.

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144 capitolo iv

sostanze che possano creare un pericolo per gli altri; dall’altro, poi,
lo stesso soggetto agente deve aver compiuto uno dei seguenti fatti:
1) avere raccolto informazioni su luoghi o persone per svolgere
un’azione in quei luoghi o danneggiare tali persone o aver sorve-
gliato quei luoghi o quelle persone;
2) allenarsi o addestrarsi all’uso di armi o di qualsiasi forma di
combattimento, nella fabbricazione o nell’uso di sostanze esplosive,
incendiarie, nucleari, radiologiche, biologiche o chimiche o nell’eser-
cizio di aeromobili o nella conduzione di navi;
3) consultare regolarmente uno o più servizi di comunicazione
pubblica online o detenere documenti che provochino direttamente
la commissione di atti terroristici; essere rimasto all’estero in un tea-
tro di operazioni di gruppi terroristici.
Il Conseil constitutionnel, dunque – pur ammettendo che le di-
sposizioni impugnate non puniscono l’esecuzione o l’inizio dell’ese-
cuzione di un atto criminale, ma gli atti preparatori per esso –, ha
evidenziato che il legislatore ha limitato la portata del reato in que-
stione ad atti preparatori rispetto alla commissione di reati contro la
persona umana con volontà terroristica, perciò assai gravi. Il reato
punibile con la disposizione impugnata, inoltre, può ritenersi inte-
grato solo se sono stati accertati diversi fatti materiali, e se è stato
altresì acclarato che questi fatti caratterizzano la preparazione di un
reato terroristico.
Nonostante questo, sulla base di fatti materiali che possono co-
stituire un atto preparatorio, il legislatore si è riferito anche al mero
fatto di «cercare… oggetti o sostanze di natura tale da creare un pe-
ricolo per gli altri», senza definire meglio gli atti che possono costi-
tuire tale ricerca nel quadro di un’impresa terrorista individuale, e,
così facendo, ha permesso la criminalizzazione di fatti che non espri-
mono, in sé stessi, la volontà di preparare un crimine.
Conseguentemente, il Conseil constitutionnel ha ritenuto che l’e-
spressione «cercare», di cui al comma 1, del paragrafo I, dell’art. 421-
2-6 c.p., risulta chiaramente contraria al principio della necessità di
reati e sanzioni, per cui dev’essere dichiarata altresì contraria alla Co-
stituzione. Viceversa, in considerazione della peculiare gravità che,
per loro stessa natura, possiedono gli atti di terrorismo, e anche se
la disposizione impugnata punisce semplici atti preparatori alla com-
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spunti comparativi e prospettive di riforma 145

missione di un reato, lo stesso Conseil constitutionnel ha considerato


che, per il resto, l’articolo 421-2-6 non viola il principio della ne-
cessità di reati e sanzioni9.
Sempre secondo il Conseil constitutionnel, inoltre, prevedendo una
pena detentiva di dieci anni e una multa di 150.000 euro, per la pre-
parazione di atti suscettibili di costituire un’offesa contro le persone,
in relazione a un’impresa individuale destinata a turbare gravemente
l’ordine pubblico per intimidazione o terrore10, il legislatore non ha
istituito una condanna manifestamente sproporzionata. La censura
relativa alla violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni,
quindi, è stata respinta.
A questo punto, rispetto alla decisione in commento, è facile evo-
care l’immagine della «montagna che partorisce il topolino», visto
che è stata ritenuta incostituzionale solo una delle molteplici con-
dotte alternative previste, al riguardo, dalla norma (procurarsi, cer-
care, detenere, fabbricare). Tale «topolino», per altro, è subito stato
«ucciso» dal successivo legislatore. Fuor di metafora, infatti, a con-
clusione di questa vicenda, bisogna riferire che il legislatore, con la
recentissima legge n. 222, del 23 marzo 2019, ha modificato l’arti-
colo in questione, inserendo, accanto all’originaria condotta di pro-
curarsi (oggetti o sostanze di natura tale da creare un pericolo per
gli altri), anche quella di tentare di procurarsi (tali oggetti o sostanze):
condotta che a chi scrive, tuttavia, appare analoga, se non sovrap-
ponibile, a quella di «cercare».

9
Come sottolineato anche dalla dottrina italiana, tuttavia «Inoltre la legge del 2014
ha introdotto due ulteriori misure fortemente liberticide: una prescrizione che impedi-
sce al soggetto ritenuto pericoloso (non colpevole) di abbandonare il territorio nazio-
nale, al di fuori di qualsiasi vaglio di quelli che noi chiameremmo «gravi indizi di col-
pevolezza»; e una prescrizione che semplifica le procedure di perquisizione e intercet-
tazione a distanza e le procedure di autorizzazione relative agli agenti infiltrati di cui
all’art. 706-87-1 sempre in deroga alle garanzie processuali previste», così Corneli,
Francia emergenza terroristica: un diritto penale del nemico?, in Osservatorio AIC, n.
1/2015.
10
Sulla legittimità costituzionale della nozione di «impresa individuale destinata a
turbare gravemente l’ordine pubblico per intimidazione o terrore», si veda già la de-
cisione del Conseil constitutionnel n. 86 del 3 settembre 1986.

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146 capitolo iv

2. La multiforme fattispecie incriminatrice spagnola di associazioni il-


lecite e il successivo delitto di organizzazione criminale

Nel primo capitolo del presente volume, si è già sottolineato come


la restrittiva formulazione sulla libertà di associazione, di cui all’art.
22 della Costituzione spagnola del 1978, in base alla quale sono vie-
tate le associazioni, non solo segrete, paramilitari e finalizzate al com-
pimento di delitti, ma anche che perseguono fini leciti con non me-
glio specificate modalità delittuose, ha comportato la conseguenza
della previsione di un’ampia fattispecie incriminatrice, di cui all’art.
515 c.p., di associazioni, testualmente, illecite (non per delinquere)11.
Il delitto previsto dal succitato articolo punisce, infatti, diversi tipi
di associazioni illecite (ma, dal 2010, all’art. 515 c.p. è stata eliminata
la previsione relativa alle bande armate, le organizzazioni o i gruppi
terroristici), ed è contenuto nel titolo XXI del codice penale (dei de-
litti contro la Costituzione), capitolo IV (dei delitti relativi all’eser-
cizio dei diritti fondamentali e delle libertà pubbliche), sezione 1^
(concernente i delitti commessi, appunto, nell’esercizio di tali diritti
e libertà garantiti dalla Costituzione).
In particolare, attualmente sono ritenute associazioni illecite quelle:
1) il cui scopo è commettere un delitto (o più delitti) o che, dopo
essere state costituite, promuovono la commissione di un delitto (o
più delitti);
2) il cui scopo è lecito, ma usano mezzi violenti o di alterazione
o controllo della personalità per raggiungerli;
3) che sono caratterizzate da un’organizzazione paramilitare;
4) che fomentano, promuovono o incitano direttamente o indi-

11
Articolo 515 – «Son punibles las asociaciones ilícitas, teniendo tal consideración:
1.º Las que tengan por objeto cometer algún delito o, después de constituidas, pro-
muevan su comisión.
2.º Las que, aun teniendo por objeto un fin lícito, empleen medios violentos o de
alteración o control de la personalidad para su consecución.
3.º Las organizaciones de carácter paramilitar.
4.º Las que fomenten, promuevan o inciten directa o indirectamente al odio, hosti-
lidad, discriminación o violencia contra personas, grupos o asociaciones por razón de su
ideología, religión o creencias, la pertenencia de sus miembros o de alguno de ellos a
una etnia, raza o nación, su sexo, orientación sexual, situación familiar, enfermedad o
discapacidad».

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spunti comparativi e prospettive di riforma 147

rettamente all’odio, all’ostilità, alla discriminazione o alla violenza


contro persone, gruppi o associazioni a causa della loro ideologia,
religione o credo, appartenenza dei loro membri o di qualcuno di
loro a un gruppo etnico, razza o nazione, sesso, orientamento ses-
suale, situazione familiare, malattia o disabilità.
Tra le varie ipotesi elencate, senza dubbio, la più problematica è
quella relativa alle associazioni lecite che, tuttavia, usano mezzi di al-
terazione o controllo della personalità. Si tratta di una norma «anti-
sette», ma, come giustamente è stato osservato in dottrina12, sembra
davvero complesso stabilire quali siano i mezzi di riferimento, così
come risulta altresì difficoltoso scoprire quale sia la vera personalità
della presunta vittima, e cosa, invece, sia stato alterato, nonché de-
terminare con precisione in quali casi i mezzi utilizzati per alterare
la personalità siano stati imposti al soggetto stesso.
La personalità umana, del resto, non è statica ed immutabile: anzi,
fisiologicamente si modula e si evolve in contatto con gruppi di per-
sone; e non v’è dubbio che un’intensa relazione con un gruppo, a
fortiori se religioso o spirituale, avrà inevitabilmente un’influenza, be-
nigna o maligna che sia, sulla personalità del soggetto aderente. Si
tratterebbe, in definitiva, di accertare sottigliezze «pericolose» per il
diritto penale, rendendo arbitro il giudice della fattispecie, in viola-
zione del principio di determinatezza.
Quantomeno – ad avviso della stessa dottrina succitata –, si im-
porrebbe al riguardo un’interpretazione restrittiva, per cui, ai fini
della penale rilevanza ex art. 515 c.p., i mezzi sopra menzionati non
dovrebbero essere episodici o occasionali, ma dovrebbero risultare
parte dell’attività ordinaria dell’associazione. Sempre in senso restrit-
tivo, poi, bisognerebbe considerare bene la possibilità di una vitti-
mizzazione ulteriore, da parte del diritto penale, dei soggetti già vit-
time dell’associazione.
Ciò avverrebbe, in particolare, nel caso in cui si estendesse la con-
danna penale a tutti i membri attivi della setta, senza alcuna distin-
zione, magari includendo quei membri che, precedentemente, hanno

12
Così Tamarit Sumalla, El derecho penal ante el fenómeno sectario, in Eguzki-
lore, 2004, n. 18, 269 ss., e, spec., 277. Nella dottrina italiana, si veda Del Re, Culti
emergenti e diritto penale, Napoli, 1982.

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148 capitolo iv

subito i trattamenti di alterazione o controllo della personalità per


cui si procede. Viceversa, bisognerebbe almeno distinguere i mem-
bri attivi che si dedicano alle attività lecite della setta, da quelli che
compiono i comportamenti da cui discende il carattere illecito del-
l’associazione,
In ogni caso, l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale sull’art.
515 c.p.13, almeno per quanto riguarda il concetto di associazione,
non si discosta molto da quella propria dell’associazione per delin-
quere italiana. Affinché possa essere integrata la norma, infatti, si ri-
chiede che: vi sia una pluralità di persone associate per svolgere una
determinata attività; esista un’organizzazione più o meno complessa
a seconda del tipo di attività pianificata; sussista la coerenza o per-
manenza dell’associazione, nel senso che l’accordo associativo deve
essere durevole e non puramente transitorio; l’associazione rientri in
una delle quattro ipotesi tipiche di cui all’articolo in questione.
La norma incriminatrice, in realtà – almeno stando alla sua let-
tera –, non offre alcun criterio per stabilire il numero minimo di
persone necessarie, per cui, se non altro in linea di principio, anche
solo due persone potrebbero ritenersi sufficienti, ma, secondo la giu-
risprudenza, una certa organizzazione è pur necessaria (e riferire il
requisito in questione a sole due persone appare una «forzatura»),
com’è necessario che l’accordo associativo sia durevole e non mera-
mente transitorio, mentre l’illegalità dell’associazione deriva essen-
zialmente dal suo scopo criminale (anche sopravvenuto rispetto alla
sua iniziale costituzione) o dai mezzi violenti, o comunque illeciti,
utilizzati per raggiungere uno scopo in sé lecito.
Pure in questo caso, si è di fronte ad un’incriminazione associa-
tiva autonoma e indipendente rispetto al delitto, o ai delitti, che poi,
eventualmente, si commettono attraverso l’associazione stessa. Di-
verso è l’istituto della cospirazione, o accordo per commettere un
delitto, di cui all’art. 17 c.p., che infatti prevede l’assorbimento in
caso di consumazione o tentativo del delitto-scopo, ed è comunque
punito in modo meno grave rispetto alla consumazione, come pre-

13
Cfr. Garcìa, Asociaciones y organizaciones criminales. Las disfunciones del art.
515.1º CP y la nueva reforma penal, in Aa.Vv., La adecuación del derecho penal
español al ordenamiento de la Unión Europea, Valencia, 2009, 725ss

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spunti comparativi e prospettive di riforma 149

visto dalle puntuali norme di parte speciale che lo applicano: visto


che, fortunatamente, trattasi di una forma di responsabilità sì disci-
plinata dalla parte generale del codice, ma applicata solo ad alcuni
gravi delitti – appunto, secondo la previsione espressa di parte spe-
ciale –, come, ad es., la cospirazione di omicidio o assassinio di cui
all’art. 141 c.p.
Tornando all’art. 515 c.p., bisogna evidenziare che la giurispru-
denza ha applicato in modo piuttosto restrittivo il reato di associa-
zione illecita, ritenendo, ad es. – secondo chi scrive a ragione –, che
l’esistenza di un’associazione presuppone che la pluralità delle per-
sone che la costituiscono deve essere indipendente ed autonoma ri-
spetto a ciascuno degli individui che la compongono. D’altra parte,
i gruppi e le organizzazioni criminali non sono in realtà associazioni,
nell’accezione privatistica del termine, ma gruppi di natura criminale
originaria e intrinseca, il più delle volte privi di qualsiasi forma o
aspetto legale, tranne nei casi in cui ne hanno adottato uno solo
come schermo, o scudo, per la propria attività criminale14.
Conseguentemente, il legislatore spagnolo, con la «legge organica»
n. 5, del 22 giugno 2010, ha ritenuto che fosse preferibile che l’art.
515 c.p. continuasse a sanzionare esclusivamente la «perversione» del
diritto legale associativo, tutelato dall’art. 22 della Costituzione15 (che
però, a ben considerare, al suo numero 5 pone un divieto anche per
le associazioni segrete, di cui il legislatore penale sembra essersi di-
sinteressato), espungendo da tale articolo, come già accennato, il ri-
ferimento alle bande armate e alle organizzazioni o gruppi terrori-
stici, e introducendo il nuovo art. 570 bis c.p16.

14
Cfr. Ruiz Bosch, Organizaciones y grupos criminales, in Noticias Juridicas, 1
settembre 2015.
15
Contra, ma minoritari nella stessa dottrina spagnola e, comunque, prima del-
l’introduzione dell’art. 570 bis c.p., Gonzàlez Rus, Palma Herrera, Trattamento pe-
nale della criminalità organizzata nel diritto penale spagnolo, in Le strategie di con-
trasto alla criminalità organizzata nella prospettiva di diritto comparato, cit., 95 ss. e,
spec., 108-
16
Articolo 570 bis – 1. Quienes promovieren, constituyeren, organizaren, coordi-
naren o dirigieren una organización criminal serán castigados con la pena de prisión
de cuatro a ocho años si aquélla tuviere por finalidad u objeto la comisión de delitos
graves, y con la pena de prisión de tres a seis años en los demás casos; y quienes par-
ticiparen activamente en la organización, formaren parte de ella o cooperaren econó-

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150 capitolo iv

Questo nuovo reato codicistico di organizzazione criminale, che


corrisponde all’associazione per delinquere italiana in modo più strin-
gente, rispetto al fin qui analizzato art. 515 c.p., è stato introdotto
nell’ambito di un nuovo ed apposito capitolo VI (appunto, delle or-
ganizzazioni e gruppi criminali), all’interno del titolo XXI (sui de-
litti contro l’ordine pubblico).
Per quanto in questa sede più direttamente interessa, il secondo
comma dell’articolo in questione definisce l’organizzazione criminale
come un gruppo finalizzato a commettere delitti («delitti» al plurale,
invece l’associazione illecita potrebbe essere finalizzata anche al com-
pimento di un solo delitto), formato da più di due persone (men-
tre, come accennato, ex art. 515 c.p., teoricamente, potrebbero ba-

micamente o de cualquier otro modo con la misma serán castigados con las penas de
prisión de dos a cinco años si tuviere como fin la comisión de delitos graves, y con la
pena de prisión de uno a tres años en los demás casos (tradotto: 1. Coloro che pro-
muovono, costituiscono, organizzano, coordinano o dirigono un’organizzazione cri-
minale sono puniti con la reclusione da quattro a otto anni se ha lo scopo o l’oggetto
della commissione di reati gravi e con la pena della reclusione da tre a sei anni in al-
tri casi; coloro che partecipano attivamente all’organizzazione, ne fanno parte o coo-
perano economicamente o in qualsiasi altro modo con essa saranno puniti con la re-
clusione da due a cinque anni se ha lo scopo di commettere gravi crimini, e con la
pena di carcere da uno a tre anni negli altri casi).
A los efectos de este Código se entiende por organización criminal la agrupación
formada por más de dos personas con carácter estable o por tiempo indefinido, que de
manera concertada y coordinada se repartan diversas tareas o funciones con el fin de
cometer delitos (tradotto: Ai fini del presente Codice, si intende un’organizzazione cri-
minale come un raggruppamento formato da più di due persone con un carattere sta-
bile o per un periodo di tempo indefinito, nel quale, in modo concertato e coordi-
nato, sono assegnati a vari compiti o funzioni, allo scopo di commettere reati).
2. Las penas previstas en el número anterior se impondrán en su mitad superior
cuando la organización:
a) esté formada por un elevado número de personas.
b) disponga de armas o instrumentos peligrosos.
c) disponga de medios tecnológicos avanzados de comunicación o transporte que por
sus características resulten especialmente aptos para facilitar la ejecución de los delitos
o la impunidad de los culpables.
Si concurrieran dos o más de dichas circunstancias se impondrán las penas superio-
res en grado.
3. Se impondrán en su mitad superior las penas respectivamente previstas en este
artículo si los delitos fueren contra la vida o la integridad de las personas, la libertad,
la libertad e indemnidad sexuales o la trata de seres humanos».

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spunti comparativi e prospettive di riforma 151

starne due), con un carattere stabile o per un periodo indefinito, nel


quale, in modo concertato e coordinato, vengono distribuiti vari com-
piti o funzioni al fine di commettere reati (in mancanza di uno di
questi requisiti, può ritenersi integrato, ex art. 570 ter c.p., il mero
gruppo criminale).
Trattandosi di elementi – l’organizzazione, la divisione di funzioni,
la stabilità – che la giurisprudenza aveva già inserito, in via inter-
pretativa, nell’art. 515 c.p., ci si potrebbe domandare in cosa consi-
sta l’effettiva differenza tra le due norme incriminatrici, che infatti
non può apprezzarsi in pieno da un punto di vista della fattispecie
descrittiva, ma principalmente con riferimento al diverso bene giu-
ridico tutelato.
L’art. 515 c.p., cioè, dev’essere applicato quando ci si trova di-
nanzi ad associazioni (nel senso giuridico-formale) lecite che perse-
guono anche finalità illecite, o sono caratterizzate da modalità ille-
cite o ancora sono portatrici di un’ideologia considerata illecita (per-
ché razzista, discriminatoria, etc.), e per questo rappresentano una
forma, appunto, di «perversione», della libertà di associazione costi-
tuzionalmente garantita.
L’art. 570 bis c.p., invece, è rivolto alla repressione delle organiz-
zazioni, per così dire, geneticamente criminali, prive di finalità an-
che lecite e di caratterizzazione ideologica, a meno che non si tratti
di associazioni terroristiche (naturalmente caratterizzate ideologica-
mente), per cui si applica lo specifico art. 571 c.p., che comunque,
nel definire l’organizzazione terroristica, rinvia agli elementi struttu-
rali di cui al secondo comma dell’art. 570 bis c.p.
Come giustamente osservato dalla dottrina17, tuttavia, non è possi-
bile distinguere l’associazione dall’organizzazione in base alla forma
giuridica istituzionalizzata, propria della prima e mancante nella se-
conda. Per quanto, infatti – dal punto di vista sociologico –, il con-
cetto di organizzazione sia più ampio di quello dell’associazione, che
ha un contenuto più formale-legale, e può riferirsi sia alle strutture
formali (come chiese, partiti politici, sindacati, società commerciali) che

17
Così Faraldo Cabana, Organizaciones criminales y asociaciones ilícitas en el có-
digo penal español, in Revista de Estudios de la Justicia, 2013, n. 19, 13 ss., e, spec.,
39.

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152 capitolo iv

informali (gruppi giovanili, gruppi di amici, famiglie mafiose), e alle


stesse persone giuridiche che sono lecite, bisogna considerare che, fino
alla riforma del 2010, all’interno del concetto legale di associazione il-
lecita erano incluse bande armate e gruppi terroristici, che ovviamente
non sono formalmente costituiti né posseggono personalità giuridica.
La verità, dunque, è che il concetto di associazione, in sé, si pre-
sta a comprendere anche realtà originariamente ed esclusivamente cri-
minali, mentre è solo la presenza di una norma concorrente (nel
senso del concorso apparente di norme), come appunto quella di cui
all’art. 570 bis c.p., che comporta una limitazione del concetto in
questione – a livello sia di fatti sussumibili nella fattispecie prevista
dall’art. 515 c.p., che di bene giuridico di riferimento (pure nel senso
della sua maggiore determinatezza) –, anche perché il concorso ap-
parente delle due fattispecie incriminatrici di cui trattasi dev’essere
risolto a favore della seconda, almeno in base alla disposizione di cui
al quarto comma dell’art. 8 c.p.18, per cui il precetto penale più grave
esclude (assorbe) quello meno grave che punisce lo stesso fatto.

3. Il concetto di banda e quello di associazione criminale in Germa-


nia, prima e dopo la riforma, tra irrilevanza penale delle associa-
zioni gerarchiche ed esigenze sovranazionali di tutela

In Germania, il § 129 dello StGB prevede il delitto di formazione

18
Art. 8 – «Los hechos susceptibles de ser calificados con arreglo a dos o más pre-
ceptos de este Código, y no comprendidos en los artículos 73 a 77, se castigarán obser-
vando las siguientes reglas:
1.ª El precepto especial se aplicará con preferencia al general.
2.ª El precepto subsidiario se aplicará sólo en defecto del principal, ya se declare ex-
presamente dicha subsidiariedad, ya sea ésta tácitamente deducible.
3.ª El precepto penal más amplio o complejo absorberá a los que castiguen las in-
fracciones consumidas en aquél.
4.ª En defecto de los criterios anteriores, el precepto penal más grave excluirá los
que castiguen el hecho con pena menor» (in sintesi, nel caso di fatti suscettibili di qua-
lificazioni giuridiche multiple: il precetto speciale deroga al generale; la disposizione
sussidiaria, espressa o tacita, sarà applicata solo in assenza della principale; il precetto
complesso assorbe quello semplice; e, in assenza dei suddetti criteri, il precetto più
grave assorbe quelli puniti più lievemente).

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spunti comparativi e prospettive di riforma 153

di associazioni criminali19 (per altro, con una prospettiva inversa ri-


spetto a quella elaborata dalla giurisprudenza italiana – ma assonante
con quella proposta in questa sede –, il tentativo è espressamente ri-
tenuto punibile in relazione alla sola condotta di formazione, e non

19
§ 129 – Bildung krimineller Vereinigungen
(1) Mit Freiheitsstrafe bis zu fünf Jahren oder mit Geldstrafe wird bestraft, wer
eine Vereinigung gründet oder sich an einer Vereinigung als Mitglied beteiligt, deren
Zweck oder Tätigkeit auf die Begehung von Straftaten gerichtet ist, die im Höchst-
maß mit Freiheitsstrafe von mindestens zwei Jahren bedroht sind. Mit Freiheitsstrafe
bis zu drei Jahren oder mit Geldstrafe wird bestraft, wer eine solche Vereinigung un-
terstützt oder für sie um Mitglieder oder Unterstützer wirbt.
(2) Eine Vereinigung ist ein auf längere Dauer angelegter, von einer Festlegung von
Rollen der Mitglieder, der Kontinuität der Mitgliedschaft und der Ausprägung der
Struktur unabhängiger organisierter Zusammenschluss von mehr als zwei Personen zur
Verfolgung eines übergeordneten gemeinsamen Interesses.
(3) Absatz 1 ist nicht anzuwenden,
1. wenn die Vereinigung eine politische Partei ist, die das Bundesverfassungsgericht
nicht für verfassungswidrig erklärt hat,
2. wenn die Begehung von Straftaten nur ein Zweck oder eine Tätigkeit von un-
tergeordneter Bedeutung ist oder
3. soweit die Zwecke oder die Tätigkeit der Vereinigung Straftaten nach den §§ 84
bis 87 betreffen.
(4) Der Versuch, eine in Absatz 1 Satz 1 und Absatz 2 bezeichnete Vereinigung zu
gründen, ist strafbar.
(5) In besonders schweren Fällen des Absatzes 1 Satz 1 ist auf Freiheitsstrafe von
sechs Monaten bis zu fünf Jahren zu erkennen. Ein besonders schwerer Fall liegt in
der Regel vor, wenn der Täter zu den Rädelsführern oder Hintermännern der Verei-
nigung gehört. In den Fällen des Absatzes 1 Satz 1 ist auf Freiheitsstrafe von sechs
Monaten bis zu zehn Jahren zu erkennen, wenn der Zweck oder die Tätigkeit der Ve-
reinigung darauf gerichtet ist, in § 100b Absatz 2 Nummer 1 Buchstabe a, c, d, e und
g bis m, Nummer 2 bis 5 und 7 der Strafprozessordnung genannte Straftaten mit Au-
snahme der in § 100b Absatz 2 Nummer 1 Buchstabe g der Strafprozessordnung ge-
nannten Straftaten nach den §§ 239a und 239b des Strafgesetzbuches zu begehen.
(6) Das Gericht kann bei Beteiligten, deren Schuld gering und deren Mitwirkung
von untergeordneter Bedeutung ist, von einer Bestrafung nach den Absätzen 1 und 4
absehen.
(7) Das Gericht kann die Strafe nach seinem Ermessen mildern (§ 49 Abs. 2) oder
von einer Bestrafung nach diesen Vorschriften absehen, wenn der Täter
1. sich freiwillig und ernsthaft bemüht, das Fortbestehen der Vereinigung oder die
Begehung einer ihren Zielen entsprechenden Straftat zu verhindern, oder
2. freiwillig sein Wissen so rechtzeitig einer Dienststelle offenbart, daß Straftaten,
deren Planung er kennt, noch verhindert werden können; erreicht der Täter sein Ziel,
das Fortbestehen der Vereinigung zu verhindern, oder wird es ohne sein Bemühen er-
reicht, so wird er nicht bestraft.

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154 capitolo iv

nei confronti di quella di partecipazione), mentre il seguente § 129a


punisce, più gravemente, il delitto di formazione di associazioni ter-
roristiche. Il reato di cui al § 129 StGB, inoltre, è stato recentemente
riformato – non senza riflessi su quello di associazioni terroristiche,
che lo richiama –, con la legge n. 54, del 24 ottobre 201820.
Il legislatore tedesco si è dovuto attivare perché era in corso una
procedura di infrazione contro la Germania, per la mancata, piena
attuazione della già citata Decisione Quadro 2008/841/GAI del Con-
siglio europeo – la scadenza per conformarsi alla Decisione Quadro
era l’11 maggio 2010, alla quale è seguito un periodo transitorio di
5 anni, in cui non è stato possibile iniziare la procedura d’infrazione
ex art. 258 TFUE21 –, in quanto l’interpretazione offerta dal BGH
del termine associazione risultava restrittivo, rispetto a quanto pre-
visto dall’art. 1 della summenzionata Decisione Quadro, relativa alla
lotta contro la criminalità organizzata.
La giurisprudenza tedesca, infatti, era nel senso di richiedere, per-
ché potesse ritenersi integrata l’associazione, la subordinazione della
volontà dei singoli alla volontà associativa. Requisito che, del resto,
è solo un altro modo per significare – com’è in effetti necessario,
per distinguere il reato associativo dal concorso di persone nel reato
continuato – che l’associazione dev’essere qualcosa di diverso, di
«terzo», rispetto ai suoi associati.

20
Cfr Selzer, Organisierte Kriminalität als kriminelle Vereinigung – Eine kritische
Auseinandersetzung mit der Reform des § 129 StGB, in KriPoZ, n. 4/2018, 224 ss.
21
La Decisione Quadro, infatti – per definizione, visto che il c.d. terzo pilastro è
poi venuto meno –, era un atto precedente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
a cui si applicavano i commi 1 e 3, dell’art. 10, del protocollo n. 36 (sulle norme tran-
sitorie) del TFUE, secondo i quali, rispettivamente:
«1. A titolo di misura transitoria e in ordine agli atti dell’Unione nel settore della
cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale adottati prima
dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, le attribuzioni delle istituzioni alla data
di entrata in vigore di detto trattato sono le seguenti: le attribuzioni della Commis-
sione ai sensi dell’articolo 258 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea non
sono applicabili e le attribuzioni della Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi
del titolo VI del trattato sull’Unione europea, nella versione vigente prima dell’entrata
in vigore del trattato di Lisbona, restano invariate, anche nel caso in cui siano state
accettate in forza dell’articolo 35, paragrafo 2 di detto trattato sull’Unione europea»;
«3. In ogni caso la misura transitoria di cui al paragrafo 1 cessa di avere effetto
cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona»

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spunti comparativi e prospettive di riforma 155

La presenza del succitato requisito, di creazione giurisprudenziale,


aveva comportato, tuttavia, alcune difficoltà – secondo chi scrive,
però, del tutto ingiustificate, e comunque superabili, come si illu-
strerà in sede di conclusioni – in riferimento alle ipotesi di «capi au-
toritari», la cui volontà era indistinguibile da quella dell’intera asso-
ciazione (con presunto venir meno conseguente della c.d. «identità
di gruppo»), tanto che si riteneva addirittura inapplicabile il § 129
alle associazioni mafiose, appunto perché fortemente gerarchizzate.
Secondo la definizione della Decisione Quadro, invece, si intende:
da un lato, per organizzazione criminale, un’associazione organiz-
zata di più di due persone, duratura nel tempo, che è diretta alla
commissione di reati punibili con una pena detentiva non inferiore
a quattro anni, al fine specifico di ricavarne, direttamente o indiret-
tamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale;
mentre, dall’altro, per associazione strutturata, un’associazione che
non si è costituita fortuitamente per la commissione estemporanea
di un reato, ma che, non per questo, deve necessariamente preve-
dere una ruolizzazione per i suoi membri, né continuità nella com-
posizione sociale o una struttura articolata.
Allora, però, per quanto qui più direttamente interessa, con la
riforma in questione è stato innanzitutto introdotto un limite mi-
nimo, se pur affatto modesto, di pena detentiva massima propria dei
delitti-scopo, ovverosia due anni di reclusione (come è facile rilevare,
la previsione della Decisione Quadro, allo specifico proposito, è più
restrittiva: ma nulla vieta agli Stati membri di punire «di più» di
quanto previsto in tale sede). Bisogna ricordare, poi, che a tal ri-
guardo il progetto del Ministero federale di giustizia e tutela dei con-
sumatori, del 28 giugno 201622, prevedeva una limitazione più signi-
ficativa, alle sole associazioni dirette alla commissione di reati puniti
con la pena detentiva massima di almeno cinque anni.
Il parere dell’associazione tedesca dei giudici (Deutschen Richter-
bunds23 – DBR: si tratta della più grande organizzazione professio-
nale di giudici e pubblici ministeri in Germania, fondata nel 1909)
del luglio 2016, tuttavia, ha criticato tale opzione – ottenendo un ri-

22
Reperibile sul sito istituzionale www.bmjv.de.
23
Cfr. www.dbr.de.

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156 capitolo iv

pensamento del limite dei cinque anni –, perché avrebbe comportato


l’esclusione della rilevanza penale di associazioni finalizzate alla com-
missione di reati rilevanti come, ad es., l’istigazione all’odio mediante
attività di propaganda, di cui al § 130, par. 2, StGB, che infatti è pu-
nito con un massimo di tre anni di reclusione.
Per completezza, del resto, bisogna riferire che il § 129 StGB già
conteneva – e, tutt’ora, ha mantenuto – una previsione di non pu-
nibilità per le associazioni, in definitiva, prevalentemente lecite, ov-
verosia «quando la commissione di reati è solo uno scopo o un’atti-
vità di secondaria importanza» dell’associazione stessa; ma, eviden-
temente, trattasi di una clausola piuttosto discrezionale, come quella
di cui si è già riferito nel primo capitolo del presente volume che,
assieme a quelle, lato sensu, di recesso attivo, è stata già oggetto di
attenzione da parte della dottrina italiana:
«Il quinto comma del § 129 dello StGB introduce quindi, con un
margine di valutazione invero assai ampio (la colpa minima ovvero
l’importanza secondaria della collaborazione), la possibilità di ap-
prezzare questa sostanziale differenza nella gamma di modalità con
cui può esprimersi la partecipazione al delitto associativo, giungendo
fino alla esclusione della pena per il gregario.
Si può in conclusione osservare come nella legislazione tedesca la
previsione del delitto di associazione per delinquere sia accompagnata
da una gamma di disposizioni (quelle dei commi quinto e sesto –
oggi sesto e settimo, n.d.r.-) capaci di ritagliare e differenziare in ma-
niera articolata sia le varie tipologie di partecipazione, sia quelle di
recesso e collaborazione con l’autorità. In quest’ultima direzione giun-
gendosi alla possibilità di prescindere dalla pena per il delitto asso-
ciativo, nel caso di chi si adoperi spontaneamente e seriamente per
impedire la perpetrazione di un reato-scopo, quand’anche questo non
si realizzi per altra causa»24.
La principale novità della riforma è rappresentata, in ogni caso,
dal par. 2 del § 129 StGB (espressamente richiamato dal § 129a), che
contiene la definizione di associazione, caratterizzata da elementi sia
positivi che negativi: quest’ultimi sono negativi non nel senso che
non devono sussistere, ma solo che non sono necessari, perché possa

24
Così Insolera, L’associazione per delinquere, cit., 301.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 157

ritenersi integrato il reato. Gli elementi positivi sono la presenza di:


più di due persone; un raggruppamento o gruppo (testualmente, «Zu-
sammenschluss») organizzato; un piano a lungo termine; un interesse
comune sovraordinato (elemento su cui si tornerà, perché di grande
interesse ai sensi del presente studio, e, per altro, originale: nel senso
che non proviene dalla definizione della Decisione Quadro).
L’espressa disposizione legale «negativa» – questa sì mutuata dalla
definizione propria della Decisione Quadro – che l’esistenza di un’as-
sociazione non richiede né una definizione formale dei ruoli per i
suoi membri, né la continuità della loro appartenenza, né alcuna
forma particolare della loro struttura, renderebbe l’attuale definizione
di associazione diversa, rispetto a com’era delineata dalla giurispru-
denza formatasi sulla base della formulazione originaria del § 129
StGB.
L’attuale formulazione, infatti, ridurrebbe le esigenze in termini di
strutture organizzative e, soprattutto, di formazione della volontà so-
ciale, nel senso che – ma sarà interessante osservare in che direzione
si consoliderà la giurisprudenza del BGH – si ritiene che, appunto
a seguito di tale modifica, non sarà più necessario il requisito della
c.d. «identità di gruppo», con penale rilevanza conseguente anche
delle associazioni con leader autoritario, e, in genere, fortemente ge-
rarchizzate, come spesso avviene nella vera e propria criminalità or-
ganizzata in senso stretto.
Il concetto di associazione, tuttavia – se pur così diminuito strut-
turalmente – deve continuare ad essere distinto da quello di banda,
che si trova, ad es., al § 244 StGB25, per cui il furto risulta aggra-

25
«Eine Bande im Sinne der §§ 244 Abs. 1 Nr. 2, 244a Abs. 1 StGB ist der Zu-
sammenschluss von mindestens drei Personen, die sich mit dem Willen verbunden ha-
ben, künftig für eine gewisse Dauer mehrere selbständige, im Einzelnen noch ungewisse
Diebes – oder Raubtaten zu begehen (BGH – Großer Senat –, Beschluss vom 22. März
2001 – GSSt 1/00, BGHSt 46, 321; Fischer, StGB, 62. Aufl., § 244 Rn. 34 ff.). Erfor-
derlich ist eine – ausdrücklich oder konkludent getroffene – Bandenabrede, bei der das
einzelne Mitglied den Willen hat, sich mit mindestens zwei anderen Personen zur Be-
gehung von Straftaten in der Zukunft für eine gewisse Dauer zusammenzutun (BGH,
Urteil vom 14. April 2011 – 4 StR 571/10). Dabei genügt es nach der Rechtsprechung
des Bundesgerichtshofs, dass sich die Bandenmitglieder für einen überschaubaren Zei-
traum von nur wenigen Tagen zur «fortgesetzten» Begehung von Raub oder Dieb-
stahl verbunden haben (BGH, Urteil vom 9. Dezember 1992 – 3 StR 431/92, BGHR

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158 capitolo iv

vato se commesso in qualità di componente di una banda costitui-


tasi per la commissione continuata di rapine o di furti, con la coo-
perazione di un altro componente della banda. La differenza tra l’as-
sociazione per delinquere, così come riformata, e la banda – venuta
meno la questione della subordinazione della volontà del singolo a
quella associativa, sulla quale, in precedenza, si basava la giurispru-
denza per distinguere i due fenomeni26 – dovrebbe consistere nella
presenza nella prima (e, viceversa, nell’assenza nella seconda) di una
struttura organizzativa, se pur rudimentale, e di un interesse comune
sovraordinato.
In effetti, però, la questione della mancanza di una struttura or-
ganizzativa minima non coglie davvero nel segno, tanto perché il re-
quisito negativo della mancanza di ruolizzazione svilisce l’organiz-
zazione, se pur intesa in senso rudimentale, propria della stessa as-
sociazione, quanto in ragione dell’espressa pretesa di cooperazione,
nel delitto commesso, di almeno due membri della banda, che im-
plica la necessità che i due soggetti agenti si coordinino in qualche
modo nella commissione del reato, non fosse altro per evitare di
ostacolarsi a vicenda.
Allora, però, la più significativa differenza tra reato di associa-
zione criminale e (aggravante della) banda, ovverosia, in altri termini,

StGB § 244 Abs. 1 Nr. 3 Bande 1). Daraus ergibt sich zugleich, dass es weder einer
«gewissen Regelmäßigkeit» noch der Absprache einer «zeitlichen Dauer» der zu be-
gehenden Straftaten bedarf (BGH, Urteil vom 11. September 1996 – 3 StR 252/96,
NStZ 1997, 90, 91). Die Beschränkung auf eine bestimmte Begehungsart (BGH, Ur-
teil vom 18. April 1978 – 1 StR 815/77, bei Holtz, MDR 1978, 624) gegen denselben
Gewahrsamsinhaber (RG, Urteil vom 18. Dezember 1923 – 4 D 875/23, JW 1924, 816
f.; NK-StGB/Kindhäuser, 4. Aufl., § 244 Rn. 39) oder nach Zeit, Ort und zu erbeu-
tenden Gegenständen (BGH, Urteil vom 29. August 1973 – 2 StR 250/73, GA 1974,
308; Fischer, aaO, § 244 Rn. 40) steht der bandenmäßigen Begehung nicht entgegen»,
così HGB, 3 giugno 2015 – 4 StR 193/15, in openjur.de.
26
«Der bloße Wille mehrerer Personen, gemeinsam Straftaten zu begehen, verbin-
det diese, solange der Wille des Einzelnen maßgeblich bleibt und die Unterordnung
unter einen Gruppenwillen unterbleibt, noch nicht zu einer kriminellen Vereinigung.
Dies gilt selbst dann, wenn eine Person als Anführer eingesetzt wird, nach dem sich
die anderen richten. Der Erfassung krimineller Erscheinungsformen dieser Art dienen
Strafbestimmungen, welche die bandenmäßige Begehung bestimmter Straftaten mit
höherer Strafe bedrohen», così BGH, 8 agosto 2006 – 5 StR 273/06, in www.hrr-stra-
frecht.de.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 159

tra reato associativo e concorso di persone nel reato continuato, è


rappresentata dallo speciale requisito dell’interesse comune sovraor-
dinato, e, in effetti, è proprio per il raggiungimento di tale interesse
comune sovraordinato che l’associazione, se è davvero tale, è natu-
ralmente aperta e diretta all’adesione da parte di terzi sopravvenuti.
Tutto al contrario, la banda (che sia finalizzata alla commissione
di delitti contro il patrimonio o, per portare altri esempi espressi, al
contrabbando o al traffico di stupefacenti) è un gruppo tendenzial-
mente «chiuso» – che magari può anche essere occasionalmente in-
teressato dalla sostituzione, o dall’aggiunta, di un componente, ma
di certo non si pone l’obiettivo strumentale dell’aumento indefinito
dei propri aderenti –, in cui non sono presenti interessi comuni, ma
solo divisi, ovverosia distinti e specifici per ogni aderente (spesso in
conflitto, nel senso che l’aumento dei profitti di un aderente com-
porta la diminuzione di quelli degli altri, e viceversa), e, general-
mente, un contro-interesse diretto, da parte di tutti o, almeno, di al-
cuni degli aderenti all’accordo originario, all’ingresso di nuovi sog-
getti con cui dover suddividere ulteriormente i profitti.

4. La conspiracy (l’attempt e la solicitation) negli USA

In generale, nei sistemi di common law, la conspiracy è un ac-


cordo tra due o più persone per commettere uno o più reati, carat-
terizzato dall’intento di raggiungere l’obiettivo dell’accordo. Non si
tratta di una forma di responsabilità generale, ma specifica in rela-
zione a taluni reati o gruppi di reati (storicamente, in epoca medie-
vale, nasce in relazione al delitto di calunnia27). Nella maggior parte
dei casi, la conspiracy comporta una penalità autonoma: alcuni sta-
tuti prevedono, per la cospirazione, la stessa pena del reato oggetto
della cospirazione stessa, mentre altri, in modo più ragionevole e
proporzionato, comminano una pena diminuita.
La conspiracy, inoltre, con un meccanismo che rischia di collidere
con il principio di personalità della responsabilità penale, non solo

27
Anche per una ricostruzione storica dell’istituto, si rinvia a Papa, Conspiracy, in
Dig.pen., vol. III, Torino, 1989, 94.

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160 capitolo iv

sub specie di mancanza della colpevolezza, ma, addirittura, quale


forma di responsabilità penale per fatto altrui, in taluni casi consente
la responsabilità derivata, nel senso che i cospiratori possono essere
puniti anche per i reati compiuti da altri aderenti all’accordo, per-
fino se non sono stati coinvolti direttamente nella commissione dei
reati stessi. Nell’ipotesi in cui, cioè, uno o più membri della cospi-
razione hanno commesso reati per raggiungere gli obiettivi comuni
della cospirazione, ne possono essere chiamati a rispondere tutti i
membri della medesima cospirazione.
Negli USA, ovviamente, la conspiracy è oggetto di una previsione
differenziata nel codice federale (che, lo si ricordi, ha una compe-
tenza limitata e residuale, appunto per i crimini federali) e nei di-
versi codici dei vari Stati, anche se la maggior parte delle giurisdi-
zioni non si accontenta più del mero accordo per commettere un
delitto (ché, alla fine, è di questo che si tratta), secondo il paradigma
classico della conspiracy inglese, ma richiede anche il compimento di
un atto esplicito (testualmente, «over act») diretto a promuovere l’ac-
cordo, commesso da parte di almeno uno dei cospiratori28: si veda,
ad es., l’art. 184 del codice penale dello Stato della California, per il
quale nessun accordo equivale ad una cospirazione, a meno che qual-
che atto, ulteriore rispetto all’accordo stesso, sia commesso per con-
seguirne l’oggetto, da una o più parti dell’accordo medesimo.
La conspiracy rappresenta forse l’istituto meno determinato dalla
legge criminale anglo-americana. I suoi termini sono più vaghi e più
elastici di qualsiasi concezione che si possa trovare nei codici di ci-
vil law. Fortunatamente, però, almeno negli USA, sia la previsione
federale che quelle dei singoli Stati sulla conspiracy, in occasione delle
varie riforme succedutesi nel tempo, sono state fortemente influen-
zate, in senso tipizzante e restrittivo dell’area del punibile, dal Mo-
del Penal Code del 196229: trattasi, com’è noto, di un ambizioso pro-
getto di codice elaborato dall’American Law Institute, un’organiz-

28
Nonostante questo, secondo la dottrina, la conspiracy rimane un istituto affatto
controverso secondo. Cfr. Morrison, The System of Modern Criminal Conspiracy, in
Catholic University Law Review, 2014, 271 ss.
29
Cfr. Buscemi, Conspiracy: Statutory Reform Since the Model Penal Code, in Co-
lumbia Law Review, 1975, 1122ss,

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spunti comparativi e prospettive di riforma 161

zazione indipendente composta da avvocati, giudici e professori di


diritto, il cui scopo è quello di chiarire, modernizzare e altrimenti
migliorare la legge30.
Sebbene il Model Penal Code non sia mai divenuto legge, infatti,
molte delle sue previsioni e, per quanto qui più direttamente inte-
ressa, quella di cui alla sezione 5.03, appunto sulla criminal conspi-
racy31, hanno avuto una forte influenza sul legislatore successivo, e

30
Cfr. Packer, The Model Penal Code and beyond, in Columbia Law Review,
vol. 63, n. 4, 594 ss.
31
Section 5.03. Criminal Conspiracy.
(1) Definition of Conspiracy. A person is guilty of conspiracy with another person
or persons to commit a crime if with the purpose of promoting or facilitating its com-
mission he:
(a) agrees with such other person or persons that they or one or more of them will
engage in conduct which constitutes such crime or an attempt or solicitation to commit
such crime; or
(b) agrees to aid such other person or persons in the planning or commission of such
crime or of an attempt or solicitation to commit such crime.
(2) Scope of Conspiratorial Relationship. If a person guilty of conspiracy, as defined
by Subsection (1) of this Section, knows that a person with whom he conspires to com-
mit a crime has conspired with another person or persons to commit the same crime,
he is guilty of conspiring with such other person or persons, whether or not he knows
their identity, to commit such crime.
(3) Conspiracy With Multiple Criminal Objectives. If a person conspires to commit
a number of crimes, he is guilty of only one conspiracy so long as such multiple crimes
are the object of the same agreement or continuous conspiratorial relationship.
(4) Joinder and Venue in Conspiracy Prosecutions.
(a) Subject to the provisions of paragraph (b) of this Subsection, two or more per-
sons charged with criminal conspiracy may be prosecuted jointly if:
(i) they are charged with conspiring with one another; or
(ii) the conspiracies alleged, whether they have the same or different parties, are so
related that they constitute different aspects of a scheme of organized criminal conduct.
(b) In any joint prosecution under paragraph (a) of this Subsection:
(i) no defendant shall be charged with a conspiracy in any county [parish or di-
strict] other than one in which he entered into such conspiracy or in which an overt
act pursuant to such conspiracy was done by him or by a person with whom he con-
spired; and
(ii) neither the liability of any defendant nor the admissibility against him of evi-
dence of acts or declarations of another shall be enlarged by such joinder; and
(iii) the Court shall order a severance or take a special verdict as to any defendant
who so requests, if it deems it necessary or appropriate to promote the fair determina-
tion of his guilt or innocence, and shall take any other proper measures to protect the
fairness of the trial.

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162 capitolo iv

anche sull’interpretazione, fornita dai giudici, della normativa esistente,


se pur non riformata32. Nonostante questo, il compimento di un atto
manifesto, forse la principale novità della succitata sezione 5.03, ri-
mane un eventuale requisito del singolo statuto (o della specifica pre-
visione statutaria, nel senso che, all’interno del medesimo codice, pos-
sono convivere previsioni di conspiracy che prevedono, o meno, il re-
quisito in questione), e non possiede rilevanza costituzionale.
La giurisprudenza della Corte Suprema33, infatti, si è rifiutata di

(5) Overt Act. No person may be convicted of conspiracy to commit a crime, other
than a felony of the first or second degree, unless an overt act in pursuance of such
conspiracy is alleged and proved to have been done by him or by a person with whom
he conspired.
(6) Renunciation of Criminal Purpose. It is an affirmative defense that the actor,
after conspiring to commit a crime, thwarted the success of the conspiracy, under cir-
cumstances manifesting a complete and voluntary renunciation of his criminal purpose.
(7) Duration of Conspiracy. For purposes of Section 1.06(4):
(a) conspiracy is a continuing course of conduct which terminates when the crime
or crimes which are its object are committed or the agreement that they be commit-
ted is abandoned by the defendant and by those with whom he conspired; and
(b) such abandonment is presumed if neither the defendant nor anyone with whom
he conspired does any overt act in pursuance of the conspiracy during the applicable
period of limitation; and
(c) if an individual abandons the agreement, the conspiracy is terminated as to him
only if and when he advises those with whom he conspired of his abandonment or he
informs the law enforcement authorities of the existence of the conspiracy and of his
participation therein.
32
«The Model Penal Code’s influence has not been confined to the reform of state
codes. Thousands of court opinions have cited the Model Penal Code as persuasive
authority for the interpretation of an existing statute or in the exercise of a court’s oc-
casional power to formulate a criminal law doctrine. (As is well known, while Ameri-
can courts have authority to interpret a code’s ambiguous provisions, they generally are
bound to follow what they know to be the legislative intention, and bound by inter-
pretation decisions of a higher court.) Even the Model Penal Code’s official commen-
taries have been influential. Many states have little legislative history available for their
courts to use in interpreting a state code provision. Where the state code provision was
derived from or influenced by a Model Penal Code provision, the Model Penal Co-
de’s commentary often is the best available authority on the reasoning behind the pro-
vision and its intended effect», così Robinson, Dubber, The American Model Penal
Code: a brief overview,in New Criminal Law Review, vol. 10, n.3, 2007, 319 ss., e,
spec., 327.
33
Cfr. US Supreme Court, Whitfield v. US, 543 U.S. 209 (2005), in supreme.ju-
stia.com.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 163

ritenere il requisito dell’over act implicito nel reato di conspiracy re-


lativo al riciclaggio di denaro, di cui al §1956(h) del codice penale
federale (punito con la stessa pena del riciclaggio), nonostante tale
requisito sia incluso nel principale reato di conspiracy dello stesso
codice, cioè quello di conspiracy to commit offense or to defraud Uni-
ted States, di cui al §37134.
In ogni caso, tornando alla definizione del Model Penal Code,
essa prevede che una persona è colpevole, assieme ad una o più per-
sone, di cospirazione per commettere un crimine se concorda, con
tale altra persona (o tali altre persone), che uno o più di loro si im-
pegneranno in una condotta che integra il crimine che costituisce og-
getto dell’accordo cospirativo, o, almeno, un tentativo (Section 5.01.
Criminal Attempt) o un’istigazione (Section 5.03. Criminal Conspi-
racy) del crimine in questione, oppure accetta di aiutare gli altri co-
spiratori nella pianificazione o commissione del medesimo crimine
o in un tentativo o in un’istigazione di tale crimine.
Dalla succitata definizione, inoltre, risulta che, nell’ambito della
relazione cospiratoria, se uno dei cospiratori è a conoscenza del fatto
che una delle persone con cui cospira, a sua volta, ha cospirato con
un’altra persona (o con altre persone) per commettere lo stesso cri-
mine, è colpevole di aver cospirato con tale altra persona (o con tali
altri persone), anche se non ne conosce l’identità. Se l’oggetto della

34
§371 – Conspiracy to commit offense or to defraud United States.
If two or more persons conspire either to commit any offense against the United
States, or to defraud the United States, or any agency thereof in any manner or for
any purpose, and one or more of such persons do any act to effect the object of the
conspiracy, each shall be fined under this title or imprisoned not more than five years,
or both.
If, however, the offense, the commission of which is the object of the conspiracy, is
a misdemeanor only, the punishment for such conspiracy shall not exceed the maxi-
mum punishment provided for such misdemeanor.
(tradotto: Se due o più persone cospirano per commettere un reato contro gli Stati
Uniti, o per frodare gli Stati Uniti, o qualsiasi sua agenzia in qualsiasi modo o per
qualsiasi scopo, e una o più di tali persone compiono qualsiasi atto per effettuare l’og-
getto di tale cospirazione, ognuno deve essere multato ai sensi di questo titolo o im-
prigionato per non più di cinque anni, o entrambe le cose.
Se, tuttavia, il reato, la cui commissione è l’oggetto della cospirazione, è solo un
reato minore, la punizione per tale cospirazione non deve superare la pena massima
prevista per tale reato minore).

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164 capitolo iv

cospirazione riguarda molteplici obbiettivi criminali, il cospiratore è


colpevole di una sola cospirazione, fintanto che tali crimini multipli
sono oggetto dello stesso accordo o della relazione cospiratoria con-
tinuata nel tempo.
Soprattutto, poi – come si è già accennato –, la novità della de-
finizione di conspiracy proposta dal Model Penal Code, che si di-
scosta dall’originario modello inglese35, è quella per cui nessuna per-
sona può essere condannata per cospirazione finalizzata a commet-
tere un reato, diverso da un crimine di primo o secondo grado, a
meno che un presunto atto manifesto («over act»: da tradurre come
atto preparatorio; mentre il compimento di un «substantial step» –
se si vuole, di un passo sostanziale o decisivo, e quindi di un atto
esecutivo – è requisito del tentativo) in tal senso non sia stato com-
piuto da lui o da una persona con la quale ha cospirato.
Altre disposizioni di particolare interesse riguardano la dissocia-
zione, l’abbandono e la durata della cospirazione. La dissociazione
– che è una «affirmative defense», e, quindi, esclude la responsabi-
lità – si concreta quando il soggetto attivo, dopo aver cospirato per
commettere un crimine, ha ostacolato il successo della cospirazione,
in circostanze che manifestano una completa e volontaria rinuncia al
suo scopo criminale.
La conspiracy, inoltre, è una condotta continuata, e la commis-
sione del crimine oggetto della cospirazione ne segna l’ultimo mo-
mento consumativo, da cui inizia a decorrere la prescrizione; ma si
può presumere l’abbandono della cospirazione, se nessuno dei co-
spiratori compie un over act nell’intervallo di tempo tra l’assunzione
dell’accordo cospirativo e il tempo necessario a prescrive quella con-

35
«In ogni caso, il fulcro dell’offesa risiede nel puro sodalizio criminoso stipulato
tra due o più soggetti il quale è ritenuto meritevole di pena, indipendentemente dal
compimento di alcun atto esecutivo anche prodromico (over act) o dalla realizzazione
di un fatto materiale esterno. (…) La possibilità contemplata dal diritto inglese di in-
criminare una persona per il solo fatto di essersi accordata con taluno allo scopo di com-
piere un fatto illecito, a prescindere poi dalla effettiva commissione dello stesso è, da
sempre, oggetto di ampie critiche», così Mancuso, Recenti tendenze di riforma del
reato di conspiracy: ai confini della responsabilità penale nel diritto inglese, in
Riv.trim.dir.pen.econ., 2009, 79 ss., e, spec., 80. Tra i contributi della dottrina italiana
dedicati specificamente all’argomento, si ricordano: Grande, Accordo criminoso e con-
spiracy, Padova, 1993; Papa, Conspiracy, in Dig.pen., vol. III, Torino, 1989, 94 ss.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 165

spiracy. L’abbandono, tuttavia, può essere anche unilaterale, ovvero-


sia compiuto da un solo soggetto che fuoriesce dall’accordo, e, in
tali casi, la cospirazione termina per lui solo, se e quando informa
coloro con i quali ha cospirato del suo abbandono, oppure notizia
le forze dell’ordine dell’esistenza della cospirazione e della sua par-
tecipazione ad essa.
Sempre riguardo la previsione del Model Penal Code, è interes-
sante rilevare infine che, per evitare violazioni del principio del ne
bis in idem sostanziale, alla sezione 5.05. risulta previsto che una
stessa persona può rispondere, in relazione alla commissione di uno
stesso reato, solo o di istigazione o tentativo o di cospirazione. La
stessa sezione prevede, in via generale, che la cospirazione per com-
mettere un crimine (ma lo stesso vale per il tentativo e l’istigazione)
è considerata un crimine dello stesso grado e dello stesso livello del
reato più grave che viene tentato, istigato o cospirato. Nel caso in
cui si tratti di un reato particolarmente grave, però, cioè di una fe-
lony di primo livello, la cospirazione, il tentativo o l’istigazione sono
felony di secondo livello.
A parte il merito di tale disciplina unitaria per i tre istituti, ap-
pare molto interessante, nel metodo, che, all’interno del Model Pe-
nal Code, cospirazione, istigazione e tentativo siano disciplinati allo
stesso modo; il che, del resto, risulta coerente con la loro colloca-
zione sistematica, come sezioni di uno stesso, più ampio, «articolo»
5, che riguarda i crimini nella prima fase di avanzamento o di svi-
luppo (inchoate crimes: testualmente, crimini incipienti). Ciò dimo-
stra, infatti, che la conspiracy – secondo chi scrive, non molto di-
versamente dall’attuale associazione di malfattori, nel diritto francese
–, anche se non è aliena da una funzione di contrasto alla crimina-
lità organizzata, è molto più vicina alle questioni relative al tenta-
tivo, che non a quelle proprie dei reati associativi italiani36.

36
«Criminalization of conspiracy performs two functions. The first function is that
performed by any inchoate offense the interruption of criminal activity prior to its com-
pletion. At least in theory, conspiracy subjects the defendant to criminal sanctions at a
stage earlier than any other offense, even attempt. Every criminal conspiracy is not an
attempt. One may become guilty of conspiracy long before his act has as so dange-
rously near to completion make him criminally liable for the attempted crime. The
courts rarely have stated the rationale for this early sanction, although a few com-

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166 capitolo iv

5. Rilievi conclusivi e prospettive di riforma

Prima di procedere oltre, e trarre – anche confortati dall’indagine


comparatistica appena svolta – le ultime conclusioni del presente vo-
lume, può essere utile ricapitolare le principali considerazioni fin qui
svolte. In primo luogo, si è illustrato come la stessa evoluzione sto-
rica della libertà di associazione, pur differente nei Paesi di civil law
e di common law, sembra confermare la giustezza della concezione,
che si propone, dell’associazione «aperta». La libertà in questione,
del resto, non si è rivolta mai ad un gruppo ristretto, e determinato
una volta e per sempre, di associati, ma sempre ad un novero aperto
di partecipi, attuali e futuri.
La caratteristica principale di tutte le associazioni, infatti – lecite,
illecite o, addirittura, criminali –, è quella di essere entità dinamiche
nella propria composizione, nonché naturalmente dirette all’espan-
sione della relativa compagine sociale, come dimostrato anche dalla
giurisprudenza costituzionale italiana, estera e sovranazionale, sia in
tema di obbligo, per alcuni individui, di adesione a particolari asso-
ciazioni, che di diritto, delle associazioni, di allontanare (o rifiutare)
dei soci (o aspiranti tali) indesiderati.
Per quanto riguarda, invece, la questione della pluralità o unità
dei reati associativi (almeno di quelli «non politici»), si è preso atto
che, in Italia, le due principali fattispecie incriminatrici associative
«non politiche», ulteriori rispetto a quella «base» di cui all’art. 416
c.p., ovverosia l’associazione di tipo mafioso e quella finalizzata al
traffico di stupefacenti, sono di un’importanza sistemica e di un’ap-
plicazione giurisprudenziale troppo considerevoli37 – tant’è vero che,

mentators have offered justifications for it, arguing that individuals who band together
have expressed, immediately upon their agreement, a clear intent to violate society’s
laws. Also, it is argued that when more than one person to engage in the criminal ac-
tivity, the likelihood of the accomplishment of the crime is increased. The second func-
tion is protection against group criminality; many have argued that a conspiratorial
agreement itself creates grave dangers for society that should give rise to criminal sanc-
tions», così Marcus, Conspiracy: The Criminal Agreement – in Theory and in Prac-
tice, in The Georgetown Law Journal, 1976-77, vol. 65, 924 ss., e, spec., 929.
37
Cfr. Rizzardi, La verifica probatoria delle fattispecie associative: un’analisi casi-
stica in tema di artt. 74 d.P.R: 309/1190 e 270bis, in Aa.Vv., I reati associativi: para-
digmi concettuali e materiale probatorio, cit., 215 ss.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 167

non senza evidenti forzature, la giurisprudenza non le ritiene alter-


native, ma le applica in concorso di reati –, perché si possa seria-
mente immaginare il ritorno – magari, in linea di principio, anche
auspicabile – ad un modello unico; mentre, rimane valida la pro-
spettiva di studiare la tematica in maniera trasversale, per giungere a
risultati, magari da cristallizzare in norme di parte generale, che pos-
sano essere applicati a tutti i reati associativi (politici o meno).
A tal proposito, il tema centrale è rappresentato del rapporto dei
reati associativi, da un lato, con il concorso di persone nel reato con-
tinuato, nonché, dall’altro, con l’accordo non punibile ex art. 115
c.p.: soprattutto in considerazione del fatto che, diversamente da
quanto avviene in alcune eccezioni a tal ultimo articolo (in primis,
quella di cui all’art. 304 c.p., sulla cospirazione politica mediante ac-
cordo), nelle ipotesi associative, la commissione del reato-scopo (o
dei reati-scopo) non assorbe il disvalore dei reati associativi stessi,
che infatti rimangono autonomamente punibili.
La clausola «se il delitto non è commesso», infatti – propria del-
l’art. 304 c.p. –, non è prevista nella susseguente fattispecie incrimi-
natrice associativa di cui all’art. 305 c.p., che è l’unica delle due fi-
gure di cospirazione politica a cui, conseguentemente, si deve attri-
buire una dimensione offensiva propria, autonoma e distinta, rispetto
a quella che caratterizza il delitto (o i delitti) scopo. Proprio la di-
stinzione tra gli artt. 304 e 305 c.p., del resto, dimostra che l’accordo
alla base del reato associativo non è un accordo qualsiasi, ma pos-
siede caratteristiche sue proprie, tali da renderlo espressivo, diversa-
mente dagli altri accordi criminosi, di un disvalore autonomo.
La caratteristica di cui trattasi, tuttavia, non può consistere – come
generalmente sostenuto – nell’indeterminatezza del programma cri-
minoso, che infatti, da un lato, può essere propria anche di bande
«chiuse», e cioè del diverso fenomeno del concorso di persone nel
reato continuato, mentre, dall’altro, non risulta indispensabile per la
nozione di associazione. Tal ultimo assunto, per altro, risulta nor-
mativamente dimostrato dal diritto sia civile (si pensi, ad es., all’art.
27, sull’estinzione dell’associazione per raggiungimento dello scopo38:

38
Cfr. Di Berardino, Scioglimento, estinzione e liquidazione delle associazioni non
riconosciute, in Dir.fam., 1995, 63 ss.

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168 capitolo iv

norma applicabile, evidentemente, solo in caso di scopo determinato)


che anche penale, visto che la cospirazione mediante associazione, in
base alla lettera della legge, può essere finalizzata anche al compi-
mento di un solo delitto.
È la natura tendenzialmente aperta, e diretta, all’adesione da parte
di terzi, che caratterizza, invece, l’accordo proprio delle associazioni
(anche per delinquere): accordo che infatti deve includere – almeno
in linea di massima – pure le modalità con cui i nuovi soci devono
essere ricercati, selezionati, e, nel caso positivo, accolti a far parte del
sodalizio.
Da questo speciale punto di vista, poi, il requisito della stabilità
dell’organizzazione diviene davvero qualificante del concetto di as-
sociazione: non, però, perché la compagine sociale non debba mu-
tare, ma in quanto l’associazione deve rimanere un’entità distinta dai
soci – e, quindi, stabile –, nonostante il fisiologico ricambio dei soci
stessi.
Non si deve ritenere, inoltre, che il carattere criminoso dell’asso-
ciazione escluda la finalità strumentale di aumento della compagine
sociale, in quanto tale carattere renderebbe impossibile ricorrere a
forme pubbliche di proselitismo. Anche le associazioni segrete39, in-
fatti – si pensi, in modo paradigmatico alla massoneria – sono di-
rette, come tutte le altre (ad es., i partiti, i sindacati, ma anche le as-
sociazioni culturali, di volontariato o categoria, etc.), oltre che alla
realizzazione dei propri fini istituzionali, anche, in modo strumen-
tale rispetto al raggiungimento di tali fini, all’aumento indefinito del
numero dei propri aderenti. Conseguentemente, risulta piuttosto evi-
dente, da un lato, che proselitismo e segretezza posso ben convivere,
e, dall’altro, che l’indeterminatezza propria degli accordi associativi
non riguarda tanto il programma, ma il numero e l’identità degli as-
sociati.
È nella capacità di proiettarsi all’esterno e interagire con i terzi,
inoltre, che emerge l’in sé dell’associazione, e dunque la sua diffe-
renza qualitativa, e non meramente quantitativa, con il concorso di

39
Cfr. De Francesco, Associazioni segrete e militari nel diritto penale, in Dig.pen.,
vol. I, Torino, 1987, 316 ss.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 169

persone (anche nel reato continuato), e col mero accordo criminoso


a cui non sia seguito un inizio di esecuzione.
Da tale differenza qualitativa, poi, consegue l’opportunità di una
punizione autonoma, per via della lesione dell’ordine pubblico, in-
teso in senso materiale. In un determinato contesto sociale, infatti,
l’essere a conoscenza dell’esistenza di un’associazione per delinquere
a cui, volendo, poter aderire (o, almeno, tentare di farlo), rappre-
senta una sorta di «istigazione a delinquere» – per altro non solo
idonea40, ma particolarmente efficace –, perché la possibilità di dedi-
carsi al crimine, non autonomamente, ma all’interno di una realtà as-
sociativa, appare affatto più agevole e allettante.
A proposito del bene giuridico di riferimento, ci si è espressi nei
termini di una vera e propria lesione, e non di un’offesa, ma la que-
stione necessità di una precisazione. In prospettiva di riforma, infatti
– nel caso in cui si faccia emergere espressamente il requisito, se-
condo chi scrive comunque già implicito, della natura «aperta» del-
l’associazione –, nell’ipotesi in cui gli aderenti originari all’accordo
abbiano svolto un’attività diretta ed idonea ad istigare un terzo ad
aderire all’accordo medesimo, il reato associativo dovrebbe ritenersi
solo tentato, mentre, qualora la vis expansiva potenziale dell’asso-
ciazione si sia tradotta nell’effettiva adesione, successiva all’accordo
originario, di almeno un nuovo soggetto, il reato dovrebbe conside-
rarsi consumato.
Si è dimostrato, dopo, che, se si è veramente dinanzi ad un fe-
nomeno associativo, ovverosia ad un ente che è terzo, distinto, ul-
teriore ed autonomo, rispetto ai suoi singoli componenti, non po-
tranno mancare soggetti, lato sensu dei capi, dotati di «rappresen-
tanza»: in modo che l’ente possa comunicare e, eventualmente, ac-
cordarsi, con l’esterno, sia con altre associazioni che con singoli; men-
tre un rapporto assolutamente orizzontale, tra i diversi aderenti ad
un accordo criminoso, è indice della mancata formazione di una
«identità di gruppo».
Un altro elemento di grande rilievo, poi, è rappresentato dalla
presenza di una cassa comune. Con questo non si vuole escludere

40
Cfr. Gallo, Il principio di idoneità nel reato di pubblica istigazione, in Dir. pen.
proc., 1996, 1514 ss.

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170 capitolo iv

che la cassa comune possa essere presente anche al di fuori di casi


propriamente associativi, cosa che è invece ben possibile, ma si vuole
affermare che, nelle ipotesi di criminalità del profitto, qualora vi sia
l’assenza di una cassa comune e di profitti altrettanto comuni, e in
presenza di soli profitti divisi (ovverosia individuali, propri dei vari
partecipi), sicuramente non si è dinanzi ad un’associazione per de-
linquere: la quale, per altro, dal compimento di tali reati, in sé, come
associazione, non trarrebbe alcun profitto; il che, però, nel caso di
criminalità del profitto, risulterebbe piuttosto contraddittorio.
È questo, per altro, il vero motivo per escludere la possibilità di
un’associazione per delinquere, finalizzata alla commissione di delitti
tributari, tra soggetti emittenti ed utilizzatori di fatture (o altri do-
cumenti) per operazioni inesistenti41. Il punto, cioè, non è tanto che
l’art. 9 del d.lgs. n. 74/2000, in espressa deroga all’art. 110 c.p., pre-
vede che l’emittente non è punibile per concorso nel reato dell’uti-
lizzatore (di cui all’art. 2), e quest’ultimo non è punibile per con-
corso in quello dell’emittente (di cui all’art. 8), dato che la norma
ha evidente funzione di evitare una duplicazione della punizione per
il medesimo fatto, in ossequio al principio del ne bis in idem so-
stanziale.
Si deve considerare, piuttosto, che non è possibile immaginare
un’associazione per delinquere finalizzata ai reati tributari che, in sé,
non ottenga alcun profitto dalla commissione dei reati-scopo (che
infatti, nella specie, produrrebbero solo profitti divisi; sub specie, ri-
spettivamente, di mancati versamenti al fisco o di corrispettivo per
i falsi documenti emessi, per le due opposte parti dell’accordo).
La succitata contraddizione, del resto, si manifesta in modo piut-
tosto evidente, nonostante le opposte pretese della giurisprudenza,
ad es. nelle ipotesi della sussistenza di un’associazione per delinquere
tra corruttori e corrotti o tra produttori e «grossisti» di droga42, in

41
In argomento, si veda. Salcuni, La parte generale dei reati tributari, in Manna
(a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, 2^ ed., Milano, 2018, 675 ss., e, spec.,
724 ss.
42
In effetti, la questione ha spesso riguardato, in giurisprudenza, anche presunte
associazioni tra «grossisti» e venditori «al minuto», che si riforniscano stabilmente dal
medesimo «grossista». Per una critica, si rinvia a Rizzardi, op. cit., 220 ss.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 171

cui non solo si è di fronte a profitti esclusivamente divisi, ma, ad-


dirittura, a presunti sodali che, in realtà, hanno un interesse in con-
flitto, perché più guadagnerà una parte (i corruttori o i produttori
di stupefacenti), meno lo farà l’altra (i corrotti o i «grossisti» di stu-
pefacenti), e viceversa.
A ben considerare, poi, pure in questi casi trattasi di accordi chiusi
all’adesione di terzi, perché ciascuna parte non ha interesse, ma, piut-
tosto, un contro-interesse, all’ingresso, nell’accordo criminoso, di
nuovi soggetti che svolgano la propria stessa funzione, con i quali,
infatti, si troverebbe a dover irrimediabilmente competere.
È proprio per questo, d’altronde, che negli accordi chiusi non si
verifica quella «fusione» delle individualità in una realtà superiore,
quella sintesi delle parti in un tutto, che rappresenta la vera cifra
identificativa del fenomeno associativo: cifra che, in una certa mi-
sura, fin qui sembra essere non essere stata colta appieno, dall’ela-
borazione, sia giurisprudenziale che dottrinaria, in materia di reati
associativi.
La ricerca di una più esatta definizione dei reati associativi, quindi,
si è inevitabilmente intrecciata con quella corrispondente, ma rela-
tiva al concetto di criminalità organizzata. Al proposito, si è ritenuto
che la soluzione più valida sia quella di limitare tale concetto alle as-
sociazioni per delinquere di tipo mafioso ed a quelle, se «non ma-
fiose», armate.
Non si crede, cioè, alla possibilità di una «criminalità organizzata
disarmata», e, se si propone di far rientrare in ogni caso le associa-
zioni mafiose nel concetto di criminalità organizzata, è perché – no-
nostante l’art. 416 bis c.p. preveda, al proposito, un’apposita aggra-
vante – si crede ancor meno all’idea di una «mafia disarmata»: che,
d’altro canto, la stessa giurisprudenza inizia ad ipotizzare solo in re-
lazione alle – a volte, «fantomatiche» – nuove mafie, mentre quelle
classiche le ritiene armate «per definizione».
L’indagine comparatistica, infine, ha confermato la giustezza delle
considerazioni svolte. Sono chiaramente emersi, infatti, due diversi
modelli:
il primo, proprio della conspiracy (intesa all’americana, e non al-
l’inglese, e quindi col requisito ulteriore del «over act»), ma anche,
secondo chi scrive, dell’associazione di malfattori francese, specie nella
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172 capitolo iv

sua attuale formulazione, che è più vicino alle tematiche del tenta-
tivo – o, se si preferisce, degli «inchoate crimes» –, rappresentando
più che altro uno strumento di anticipazione della tutela alla fase de-
gli atti preparatori, nel caso in cui il compimento di tali atti rientri
nell’accordo tra almeno due persone, senza emersione di un bene
giuridico autonomo;
il secondo, caratteristico in parte dell’ordinamento spagnolo e, so-
prattutto, di quello tedesco, che invece si sforza di intendere il reato
associativo come qualcosa di distinto da un mero accordo criminoso,
e portatore di un disvalore ulteriore, rispetto a quello dell’offesa ai
beni giuridici tutelati dai delitti-scopo dell’associazione.
Non v’è dubbio, tuttavia, che per il rispetto delle garanzie pro-
prie del diritto penale del fatto, e non dell’infedeltà all’ordinamento
e del disvalore di mera intenzione, che caratterizza il nostro sistema,
non solo costituzionale (art. 25, co. 2, Cost.), ma anche codicistico
(artt. 4943, 59 e 115 c.p.), è nelle previsioni che si ispirano al secondo
modello che si devono cercare conferme e spunti.
Sotto questo punto di vista, è interessante rilevare come, tanto nel
sistema spagnolo che in quello tedesco, vi siano disposizioni distinte,
da un lato, sulle vere e proprie associazioni criminose (§ 129 StGB
e art. 570 bis c.p. – più che art. 515 c.p.-), e, dall’altro, sulle mere
bande (§ 249 StGB) o gruppi criminali (570 ter c.p.), che invece ri-
chiamano piuttosto la tematica del concorso di persone nel reato
continuato o, per altro verso, quella dell’accordo per commettere un
delitto.
Il punto è: nella pratica, come distinguere i diversi fenomeni? Si
è illustrato come la necessità di una volontà dell’associazione distinta
da quella dei suoi singoli componenti aveva portato la giurisprudenza
tedesca ad escludere il reato associativo, nel caso di capi autoritari e
associazioni fortemente gerarchizzate (come, ad es., quelle mafiose),
e dunque di sostanziale coincidenza tra la volontà del capo e quella
dell’associazione. Si ritiene, viceversa, che in ambito criminale ciò sia
piuttosto normale, e non faccia affatto venir meno il requisito, sem-
pre elaborato dalla giurisprudenza tedesca, della «identità di gruppo».

43
Cfr. De Rosa, Reato putativo e disvalore di intenzione, in Ind. pen., 2010, 509 ss.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 173

Le associazioni criminali, cioè, non sono qualcosa di completa-


mente distinto, da un punto di vista strutturale, rispetto a quelle le-
cite, nel senso che entrambe possono rientrare in un concetto supe-
riore di associazione, ma non si può pretendere davvero che in am-
bito criminale ci sia il rispetto del requisito della democraticità delle
associazioni: requisito che, ad essere sinceri, alle volte può non es-
sere rispettato pienamente perfino nelle associazioni lecite, e che in
alcuni casi, se violato, genera contenzioso civile (o, a seconda dei
casi, pure tributario)44.
L’identità di gruppo, quindi, sussiste anche nel caso di capi auto-
ritari, perché l’importante, al fine della sua sussistenza, è che i com-
ponenti dell’associazione agiscano come un solo uomo, e ciò non
viene meno se la volontà comune – che, comunque, nella specie esi-
ste – coincide, casualmente o, più spesso, causalmente, con quella del
leader.
Allora, però, abbandonato, per le ragioni esposte nell’apposito pa-
ragrafo, questo concetto di volontà comune, il legislatore tedesco ha
precisato, tuttavia, che, affinché si possa ritenere sussistente un’asso-
ciazione (per delinquere), è necessaria la sussistenza di un interesse
comune; anzi, meglio, di un interesse (sociale) superiore, nel senso
di sovraordinato a quello dei singoli partecipi.
Da un punto di vista strutturale, tuttavia, l’esistenza di un inte-
resse superiore come si riflette sull’accordo associativo? Secondo chi
scrive, il riflesso strutturale, a livello di accordo, dell’esistenza di un
interesse superiore, è rappresentato, appunto, dall’apertura, e dalla
direzione, dell’accordo stesso, all’adesione da parte di nuovi soci.
Quando questa apertura e questa direzione mancano, infatti, è ap-

44
«In tema di Onlus, l’art. 10, 1º comma, lett. h), d.leg. 4 dicembre 1997 n. 460,
impone che lo statuto preveda espressamente l’effettività del diritto di voto per gli as-
sociati ed i partecipanti in relazione alla nomina degli organi direttivi, a garanzia della
democraticità dell’associazione, che costituisce condizione essenziale per potersi avvalere
delle agevolazioni tributarie (nella specie, la suprema corte ha ritenuto che la previ-
sione statutaria di due membri di diritto nel consiglio di amministrazione dell’Onlus e
la conseguente accertata impossibilità, da parte di tale organo, di adottare decisioni in
mancanza del voto di almeno uno di tali membri violasse il principio di democraticità
di cui all’art. 10 citato d.leg. n. 460 del 1997)», così Cass. civ., sez. trib., 24 ottobre
2014, n. 22644, in Ma ss., 2014, 792.

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174 capitolo iv

punto perché ogni componente rimane distinto, non si «fonde» in


un tutto che lo supera, e, quindi, continua a coltivare esclusivamente
il proprio interesse individuale, che può essere anche in parte con-
trastante con quello di altri propri concorrenti (come nei citati casi
di corrotti e corruttori oppure di produttori e «grossisti» di stupe-
facenti), e che può risultare compromesso dall’eventuale adesione al-
l’accordo di ulteriori soggetti, con i quali finirebbe per entrare in
competizione, perché diventerebbero sì suoi concorrenti, ma nel senso
commerciale del termine.
La via migliore, dunque, per restringere l’ambito di applicazione
dei reati associativi ai soli casi di reale esistenza di una «identità di
gruppo», di un interesse sovraordinato, e, quindi, in definitiva, di un
reale disvalore autonomo rispetto a quello tutelato dai delitti-scopo,
che dia significato alla punizione altrettanto autonoma – e che, pure
qualora i delitti-scopo siano commessi, non rimane assorbita – dei
reati associativi, è quella di aggiungere espressamente, a livello di
parte generale, il requisito – secondo chi scrive, comunque già im-
plicitamente presente nel concetto stesso di associazione – dell’aper-
tura e della direzione, dell’accordo associativo, all’adesione di terzi.
Per quanto esposto, poi, il concetto di associazione, così final-
mente ben delineato, potrebbe essere utilizzato anche per definire,
senza il bisogno di ricorrere al deprecabile metodo casistico, i con-
torni del rilevante concetto di criminalità organizzata, che infatti do-
vrebbe coincidere con quello di associazione (punibile) armata: in ef-
fetti, bisognerebbe pure prendere atto che, così come non esiste la
«criminalità organizzata disarmata», non esiste neppure la «mafia di-
sarmata»45, ma questo implicherebbe modifiche all’art. 416 bis c.p.
che, per quanto forse necessarie, anche per arginare l’attuale tendenza
espansiva della fattispecie in questione, si preferisce non ipotizzare

45
«Il reato di associazione per delinquere armata non costituisce delitto autonomo
rispetto a quello di associazione mafiosa di cui al 3º comma dell’art. 416 bis c.p.: come
risulta infatti dal successivo 5º comma, la fattispecie incriminatrice di associazione ar-
mata si distingue dal reato base esclusivamente per l’elemento accessorio ed accidentale
della disponibilità, da parte degli associati, di armi e materie esplodenti per il conse-
guimento dei fini del sodalizio criminoso», così Cass. pen., sez. II, 17 ottobre 1995, in
Ced Cass., n. 203689.

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spunti comparativi e prospettive di riforma 175

espressamente in questa sede, perché si porrebbero al di fuori dei


confini del presente studio.
In definitiva, si propone di introdurre delle norme definitorie di
parte generale, interpolando l’art. 115 c.p., e, in particolare, aggiun-
gendo un nuovo terzo comma, in virtù del quale:
«Ai fini della legge penale:
1) l’accordo tra tre o più persone costituisce un’associazione quando
è aperto e diretto anche all’aumento, in modo indeterminato, del nu-
mero degli aderenti all’accordo medesimo;
2) la criminalità organizzata è costituta da ogni associazione pu-
nibile i cui partecipi, per il conseguimento dei fini sociali, hanno a di-
sposizione armi o materie esplodenti».

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Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.
Visconti, «La mafia è dappertutto» Falso!, Bari, 2016.

ISBN 978-88-495-3974-5 © Edizioni Scientifiche Italiane


Nella stessa collana:

1. Antonino Sessa, Infedeltà e oggetto della tutela nei reati contro la pubblica
amministrazione. Prospettive di riforma, 2006.
2. Gianluca Denora, Condotta di agevolazione e sistema penale, 2006.
3. Giuseppe Maria Palmieri, Contributo ad uno studio sull’oggetto della tutela
nel diritto penale dell’ambiente, 2007.
4. Mario Griffo, Volontà delle parti e processo penale, 2008.
5. Vasco Fronzoni, Obbligatorietà dell’azione penale e cooperazione giudizia-
ria internazionale, 2010.
6. Antonio Nappi, La crisi del sistema delle sanzioni penali. Prospettive di
riforma, 2010.
7. Giuseppe Tabasco, Prove non disciplinate dalla legge nel processo penale, 2010.
8. Carlo Longobardo, Causalità e imputazione oggettiva, 2011.
9. Vincenzo Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione interna-
zionale, 2012.
10. Cristiano Cupelli, La legalità delegata. Crisi e attualità della riserva di legge
nel diritto penale, 2012.
11. Maria Novella Masullo, Colpa penale e precauzione nel segno della com-
plessità. Teoria e prassi nella responsabilità dell’individuo e dell’ente, 2012.
12. Valentina Masarone, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al ter-
rorismo internazionale, 2013.
13. Sylva D’Amato, Profili di legalità e legittimità del diritto internazionale pe-
nale, 2013.
14. Giuseppe Maria Palmieri, La tutela penale della libertà di iniziativa econo-
mica, 2013.
15. Cristiano Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra, 2013.
16. Carlo Longobardo, L’infedeltà patrimoniale. Profili sistematici e di politica
criminale, 2013.
17. Mario Caterini, Effettività e tecniche di tutela nel diritto penale dell’am-
biente. Contributo ad una lettura costituzionalmente orientata, 2017.
18. L’incidenza di decisioni quadro, direttive e convenzioni europee sul diritto pe-
nale italiano, a cura di Antonio Cavaliere e Valentina Masarone, 2018.
19. Politica e giustizia nella postmodernità del diritto, a cura di Clelia Iasevoli,
2018.
20. Antonio Nappi, Principio personalistico e ‘binomi indissolubili’. Il primato
dell’essere nell’incessante divenire della tutela penale, 2018.
21. Valentina Masarone, Contributo ad uno studio sulle condizioni obiettive di
punibilità. Profili di teoria generale del reato, 2018.
22. Antonino Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili
dommatici e di politica criminale, 2018.
23. Clelia Iasevoli, La Cassazione penale ‘giudice dei diritti’, 2018.
24. Alì Abukar Hayo, I molteplici aspetti della funzione di garanzia della fatti-
specie penale, 2019.
LA BUONA STAMPA

Questo volume è stato impresso


nel mese di giugno dell’anno 2019
per le Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a., Napoli
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Tel. 0817645443 - Fax 0817646477
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Nuove Ricerche di Scienze Penalistiche, 25

Il volume contiene un’indagine – anche in chiave storica, sovranazionale


e comparata – sulla libertà di associazione prima, e, poi,
più approfonditamente, circa i profili strettamente penalistici,
dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale sui reati associativi.
L’obiettivo della ricerca è quello di formulare, ad esito della suindicata
indagine, una nozione più determinata di reato associativo, anche
per distinguere tale fenomeno – come doveroso, considerate le notevoli
differenze di disciplina –, da quelli del concorso di persone nel reato
continuato e del mero accordo non punibile, con riflessi favorevoli pure
in relazione al rilevante concetto di criminalità organizzata.

Vito Plantamura è professore associato di diritto penale presso il Dipartimento di Scienze Poli-
tiche dell’Università di Bari; dottore di ricerca, assegnista di ricerca e vincitore – per l’area socio-
giuridica – del premio “giovani ricercatori”, presso l’Università di Foggia, è autore di numerosi
articoli su riviste di fascia A, di molteplici contributi in prestigiosi volumi, e di tre precedenti mo-
nografie: Diritto penale e tutela dell’ambiente: tra responsabilità individuali e degli enti, Bari, 2007;
L’omicidio preterintenzionale, anche come species del genus omicidio improvviso, Pisa, 2016; Do-
micilio e diritto penale nella società post-industriale, 2017.

In copertina:
Asger Jorn, Komposition, 1960

Questo volume, sprovvisto del tal- ISBN 978-88-495-3974-5


loncino a fronte, è da considerarsi
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