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Organizzazione delle Risorse Umane

LEZIONE 1
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
Definizione di organizzazione: disciplina che studia fondamentalmente il CHI FA COSA, ovvero la divisione
del lavoro a diversi livelli all’interno dell’impresa. Questo sostanzialmente significa che studiamo la
divisione e organizzazione del lavoro a livello micro, cioè a livello dei singoli individui (progettiamo le
mansioni, assegniamo i compiti, distribuiamo le regole di controllo e supervisione, decidiamo i livelli di
varietà e autonomia delle mansioni); a livello meso, invece, studiamo la divisione del lavoro tra i gruppi o
all’interno di un gruppo; a livello macro parliamo invece di divisione del lavoro nel sistema impresa, quindi
tra le diverse unità organizzative.
A che cosa serve sostanzialmente l’organizzazione? A cosa serve dare una struttura organizzativa
all’impresa? Serve fondamentalmente per dare all’impresa il motore, per cui partendo da una strategia
l’impresa riesce ad ottenere dei buoni risultati. Per questo motivo si dice che l’organizzazione fa da ponte
tra la strategia e i risultati.

Come si distingue una buona organizzazione da una cattiva organizzazione? La buona organizzazione è
quella che cerca di fluidificare il percorso dalla strategia ai risultati, che facilita e non drena invece risorse,
che dalla strategia portano ai risultati. Pensate ai casi in cui c’è una divisione tra chi decide (i vertici che
hanno potere decisionale) e i nuclei operativi che eseguono il lavoro: come si fa a fare in modo da
catalizzare l’attività di ognuno in modo che vengano raggiunti i risultati dall’impresa? Di questo si occupa
l’organizzazione, di risolvere una serie di problemi organizzativi, di trovare ad essi soluzione. In che modo?
Per esempio bisogna decidere come incentivare il personale a lavorare per l’organizzazione, oppure come
disincentivare comportamenti opportunistici, a come suscitare dei comportamenti di collaborazione
all’interno del gruppo, a come evitare che nel gruppo le persone si nascondano (esempio del masso fatto
da Barnard: c’è un gruppo che spinge il masso, ma c’è sempre qualcuno che si nasconde nel gruppo e non
spinge il masso, non contribuendo al raggiungimento dell’obiettivo – sono i cosiddetti free riders).
Nel tempo l’obiettivo principale dell’organizzazione è stato quello di trovare quale fosse l’organizzazione
del lavoro più efficiente, cioè quella che fosse più produttiva per l’impresa e che permettesse più
velocemente di passare dalla strategia ai risultati in modo da ottenere il vantaggio competitivo. Su questo
argomento ci sono state diverse teorie nel tempo. Queste teorie si sono evolute, però, di fatto, come
osserva Anna Grandori (uno degli studiosi più importanti di organizzazione), queste teorie non sono da
vedersi in maniera sequenziale (cioè come superamento uno dell’altra), in realtà ognuna è nata nell’epoca
in cui si avevano determinati fattori contingenti che l’hanno fatta emergere. In generale quindi non si parla
mai di un’unica teoria, di una one best way, di una teoria cioè che sia valida per tutto per creare lavoro
efficiente, ma bisogna sempre immergersi nei fattori di contesto: considerare il contesto, la strategia,
l’ambiente, le persone, le istituzioni con cui si interagisce.
Il primo approccio alla divisione del lavoro si è avuto a livello macro con Adam Smith ( la teoria del valore
Smith). Smith voleva fare un’indagine per capire da che cosa deriva il valore, cioè qual è il fattore che più di
tutti contribuisce alla ricchezza di una nazione? (nel 1776 Smith scrive il libro “La ricchezza delle nazioni”).
Smith fa una serie di osservazioni per cui alla fine ciò che riesce a concludere è che ciò che contribuisce alla
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ricchezza delle nazioni non sono i fattori terra e capitale, ma è il lavoro umano. Come arriva a questa
conclusione, oltretutto in un periodo (‘700) in cui invece erano proprio la terra e i capitali fisici che avevano
più rilevanza nell’economia? Perché Smith afferma che se si deve scambiare 1kg di patate con un paio di
scarpe, devo assegnare un valore ai due oggetti, e come assegno questo valore? Si considera il tempo
impiegato per fabbricare un paio di scarpe, il tempo per coltivare 1kg di patate. Il tempo è impiegato
dall’uomo, il tempo attiene all’uomo perché è l’uomo che lavora nel tempo. Quindi Adam Smith afferma
che la ricchezza delle nazioni è determinata dal fattore uomo. Comincia ad addentrarsi in questo discorso
per capire come renderlo convincente e così fa il famoso esempio della fabbrica degli spilli.
Esempio fabbrica degli spilli: innanzitutto immergiamoci nell’epoca: siamo nel ‘700, quindi anche parliamo
di fabbrica non ce la immaginiamo come la catena di montaggio enorme, ma come una piccola capanna
dove sono stati importati i lavori artigianali abbiamo quindi una serie di artigiani che lavorano insieme e
che usufruiscono della disponibilità dei mezzi messi a disposizione dall’imprenditore, però il lavoro rimane
fondamentalmente artigiano. Smith divide la fabbricazione dello spillo in 18 operazioni che costituiscono
nell’insieme il processo produttivo. Se queste operazioni vengono eseguite da un solo individuo, la
conoscenza è in capo a una sola persona (artigiano); se invece abbiamo diversi individui la conoscenza è
suddivisa, cioè se ad ogni operaio viene assegnata una sola operazione, quell’operaio diventerà
specializzato in quella specifica operazioni, e quindi avrà una conoscenza molto specializzata e divisa tra
diversi individui. Questo comporta che nel primo caso, quando l’intera fabbricazione dello spillo è seguita
da un solo individuo, questo individuo avrà un maggior senso di contribuzione, perché inizia il processo
produttivo e vede anche l’output finale, e questo comporta una mansione molto ricca (una mansione di
definisce ricca quando è piena, quando cioè è caratterizzata da compiti molto diversi tra di loro e quando è
caratterizzata anche da un certo grado di autonomia decisionale l’artigiano che segue tutto il processo
produttivo decide i momenti, i tempi, i modi in cui svolgere il lavoro). Tuttavia Smith osserva che se il
processo produttivo è seguito da un solo individuo, si producono solo 20 spilli in un giorno, perché si hanno
degli sprechi di tempo e quindi una minor produzione. Invece quando c’è divisione e specializzazione del
lavoro, la conoscenza è spacchettata tra i diversi operai, ognuno dei quali diventa bravissimo in una sola
operazione, però questo comporta una serie di conseguenze: l’operaio ha una visione ristretta del processo
produttivo, cioè riesce a vedere solo l’inizio e la fine delle sue operazioni ma non l’output finale avrà
quindi un minor senso di contribuzione e conseguentemente una mansione povera, perché farà sempre un
unico compito, avrà sempre un’unica sequenza di attività da svolgere, non c’è variabilità né autonomia
decisionale. In questo secondo caso si riducono notevolmente gli sprechi di tempo (se l’operaio sa fare
bene la sua mansione si possono ottenere delle economie di specializzazione, che si distinguono in statiche
e dinamiche: si hanno le economie di specializzazione statiche quando si riesce a fare sempre meglio quello
che si fa, quando l’operaio riesce quindi a rendere sempre più efficiente il processo di lavoro che svolge e
quindi rende migliore il prodotto, si aumenta la qualità; si hanno invece economie di specializzazione
dinamiche quando l’operaio diventa talmente bravo nel processo di lavoro che svolge, tanto da riuscire ad
immaginare o nuovi modi a cui applicare la stessa tecnica che già si applica, oppure si inventano nuovi modi
per fare il lavoro quotidiano, e quindi si inventa un nuovo procedimento). In questo caso Adam Smith
diceva che attraverso la specializzazione del lavoro non si hanno più 20 spilli, ma si arriva a produrne 48000
in una giornata.
Tutte queste informazioni rientrarono negli studi di un ingegnere, Taylor, che opera tra la fine dell’800 e i
primi del ‘900. Taylor in quell’epoca si trovava di fronte a un problema organizzativo a cui doveva dare
soluzione: doveva risolvere il fatto che adesso la conoscenza apparteneva agli operai specializzati, che
erano operai comunque artigiani perché è sempre un modello che importa l’artigianato nella fabbrica
questo significa che avendo gli operai specializzati tutta la conoscenza del processo produttivo, avevano di
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conseguenza anche un forte potere contrattuale, che a sua volta si traduceva in una richiesta di maggior
salari, che si traducevano in maggiori costi di produzione e questo non permetteva di raggiungere l’intento
dell’epoca di espandersi sui mercati, e di adottare leadership di costo. Come risolve Taylor questo problema
organizzativo? Adotta il metodo dell’osservazione sperimentale (addirittura poi ad un certo punto Taylor
introdusse all’interno dell’organizzazione dell’azienda l’ufficio tempi e metodi): si mise ad osservare
puntualmente il lavoro degli operai, elencò tutti i movimenti che gli operai facevano, eliminò tutti quelle
sequenze che secondo lui erano degli sprechi di tempo che andavano ad intaccare l’efficienza del processo,
e individuò così la sequenza esatta di movimenti che poteva portare ad un maggior risultato con i minimi
sforzi. Questo concetto viene riconosciuto come ONE BEST WAY, cioè c’è un’unica sequenza ottimale per
svolgere un determinato lavoro. È chiaro che tutto questo portava ad un forte impoverimento della
mansione, perché gli operai adesso si vedevano restringere il campo di azione, però Taylor trovò anche il
modo di incentivarli, attraverso il cottimo, che consisteva in aumenti di retribuzione con l’aumentare della
produzione (più si produce, più si viene pagati).
In questa fase siamo nel c.d. “approccio ingegneristico” all’organizzazione del lavoro, che comprende:
- Taylor;
- Ford, e quindi il fordismo. Ford riprende l’organizzazione scientifica del lavoro, quindi una totale
razionalizzazione dell’organizzazione: si arrivò a definire che c’era una organizzazione razionale,
cioè c’era effettivamente un unico modo di fare le cose, che era il più efficiente. Tale
organizzazione scientifica del lavoro viene ripresa da Ford, il quale però introduce una innovazione
tecnologica: l’introduzione del nastro trasportatore (e quindi la catena di montaggio).
L’introduzione della catena di montaggio comportò le economie di scala, addirittura l’operaio non
si doveva più spostare perché il pezzo gli veniva recapitato davanti. Questo non soltanto comportò
la standardizzazione del lavoro, a cui aveva già fortemente contribuito Taylor, ma comportò anche
una forte standardizzazione del prodotto, e questo fu il grande successo di Ford Ford aveva
l’obiettivo di cavalcare l’espansione del mercato automobilistico; tutti gli americani volevano una
macchina, Ford riuscì a dargliela offrendo un unico modello, la “T” nera (unico prodotto
standardizzato che gli permise di avere grandi economie di scala si avvantaggiò della riduzione
del costo di produzione all’aumentare della scala produzione).
Il problema è che l’operaio veniva totalmente alienato nel lavoro che faceva; veniva concepito come
continuazione e propagazione della macchina, ecco perché si parla di approccio ingegneristico, ossia un
approccio meccanico in cui non si vede l’uomo, si vede la macchina e tutto è improntato sulla tecnologia: è
la tecnologia che imposta l’organizzazione del lavoro, è la catena di montaggio che determina il modo in cui
dividere il lavoro tra gli operai.
Per questo motivo a partire dagli anni 40 del ‘900 si sviluppò una nuova scuola di pensiero, che era
chiamata Scuola delle Relazioni Umane (Elton Mayo). Mayo fece un esperimento molto interessante per
vedere se i fattori ambientali in qualche modo aumentavano la produttività: divise gli operai di una fabbrica
in due gruppi, un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo. Nel primo gruppo andò ad aumentare la
luminosità, ed effettivamente all’aumentare della luminosità (che rappresenta il fattore di contesto) ebbe
un aumento di produttività. Per verificare se questa relazione fosse vera, passò a fare un altro esperimento
nel gruppo di controllo: se la luminosità e la produttività erano direttamente proporzionali, allora voleva
dire che riducendo la luminosità si sarebbe dovuta ridurre la produttività; invece accadde che, riducendo la
luminosità, la produttività aumentò. Mayo quindi scoprì che ciò che faceva la differenza non era il fattore di
contesto (in questo caso la luce) ma era il gruppo. Che cosa vuol dire questo e in che modo il gruppo agiva?
Secondo la psicologia sociale già la presenza stessa di un gruppo influenza il comportamento e, in
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particolare, Mayo vide che innanzitutto il gruppo sapeva di essere misurato in termini di produttività e
questo andava ad influenzare il modo in cui lavorava, ma c’era anche un altro fattore: la collaborazione. Il
gruppo, infatti, era stato messo nelle condizioni di collaborare a causa del buio quindi in una situazione
sostanzialmente disincentivante (la scarsa luminosità) il gruppo si era unito e aveva cominciato a
collaborare. Questa fu una grossa dimostrazione: per la prima volta Mayo riuscì a dimostrare, attraverso un
approccio psico – sociologico della scuola delle relazioni umane, che l’incentivazione economica e i fattori
di contesto sono insufficienti a incidere sulla produttività. Il lavoro non è solo un fatto meccanico, l’uomo
non è una propagazione della macchina, il lavoro è soprattutto un fatto umano e sociale si ha per la
prima volta un’attenzione specifica al fattore dell’umanità del lavoro, quello che poi inizialmente aveva
detto Adam Smith; si era dato spazio alla tecnologia e alle macchine e ci si era dimenticati nel frattempo
dell’uomo.
Con la Scuola delle relazioni umane non si riesce a superare il Taylorismo perché l’organizzazione del lavoro
non può nemmeno solo basarsi su fattori relazionali. Furono proposte dalla scuola delle relazioni umane
una serie di soluzioni relazionali, però il loro grande limite fu quello di concentrarsi sostanzialmente sempre
sugli studi di produttività (sempre per aumentare la produttività e non per favorire il benessere del
lavoratore) e ignorare completamente la tecnologia, che invece comunque va considerata quando si cerca
di impostare una forma di organizzazione del lavoro.
Allora fu importante il contributo di un’altra scuola che cercò di integrare questi due approcci, infatti si
parla di “approccio integrato” all’organizzazione del lavoro, ed è la scuola dei sistemi socio – tecnici di
Emery e Trist. Loro non analizzarono il lavoro di fabbrica ma quello di miniera per vedere come i fattori di
contesto incidevano sulla produttività. Notarono che in ambiente molto disincentivanti (come la miniera) i
minatori erano molto produttivi e, nel momento in cui venne introdotta un’innovazione tecnologica (in
questo caso era il taglio meccanico del carbone) mentre nella versione senza tecnologia il gruppo
collaborava in questo ambiente ostile e si autogestiva, ognuno contribuiva al raggiungimento del risultato,
quando fu introdotta la macchina che compiva gran parte del lavoro, questo equilibrio si spezzò e iniziarono
una serie di conflitti riguardanti l’assegnazione delle mansioni, si era perso lo spirito di collaborazione.
Questo dimostrò agli studiosi dell’approccio integrato che non si potevano considerare solo gli aspetti
umani – relazionali o solo gli aspetti tecnologici, ma che uomo e macchina erano due fattori
complementari, quindi si pone il punto della complementarietà tra uomo e macchina. Di fatto poi la teoria
dei sistemi socio – tecnici si basa su due principi fondamentali:
1. Non esiste un’organizzazione del lavoro che sia soltanto impostata sulla base della tecnologia: la
tecnologia non è l’unico fattore che determina l’organizzazione del lavoro;
2. In un sistema produttivo, per quando macro o micro sia, bisogna sempre considerare due tipi di
variabili: il subsistema sociale e il subsistema tecnico.
Neanche i sistemi socio – tecnici hanno superato il Taylorismo perché c’era una grande fallacia nel loro
modo di ragionare: loro dicevano che uomo e macchina erano due fattori complementari, ma in realtà
assumevano sempre che in qualche modo fosse l’individuo a doversi adattare all’organizzazione, quindi era
sempre l’individuo che in qualche modo subiva l’organizzazione. Questa prospettiva fu poi totalmente
capovolta dal c.d. “motivazionisti”, dalla Scuola Motivazionale.
I motivazionisti per la prima volta assunsero che non è soltanto l’uomo ad essere influenzato
dall’organizzazione, ma c’è un’influenza reciproca tra individuo e organizzazione. Lo studioso Argyris
impostò il modello della maturità : criticando il taylorismo, lui osservava che il taylorismo non permetteva
di fatto agli individui di cresce, di maturare e di poter esprimere la loro individualità; Argyris diceva che con
il taylorismo gli uomini lavoratori sono degli uomini rimasti psicologicamente dei bambini, perché Taylor
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assegnava compiti sminuzzando il processo produttivo e c’era un unico modo di fare le cose (gli operai non
potevano decidere e non avevano il senso della responsabilità o discrezionalità, come i bambini). Per la
prima volta sul piano teorico venne quindi affrontato a viso aperto il taylorismo; di fatto però sul piano
pratico bisognerà aspettare qualche altro anno e, in particolare, bisognerà aspettare il modello giapponese
del Toyotismo.
Il Toyotismo parte dalle basi assunte dai motivazionisti, che bisogna mettere l’individuo in condizioni tali da
farlo crescere, maturare, da valorizzare le sue capacità e competenze (per la prima volta i motivazionisti
parlavano di stile democratico, di clima organizzativo, di benessere psico – fisico e dimostravano quanto
fosse importante l’individuo per l’organizzazione, non soltanto la sua subordinazione e strumentalità
rispetto agli obiettivi dell’organizzazione). Il modello giapponese parte proprio da queste bai per sviluppare
un vero e proprio sistema di gestione delle risorse umane, che poi fu quello a determinare il successo
dell’impresa. Non tutti sanno che Toyota nei primi sui anni di attività voleva imitare il sistema fordista, però
non ci riuscì perché non aveva i numeri, non aveva la scala di produzione di Ford. Di conseguenza adattò la
sua strategia alla sua scala: non poteva essere una grande impresa, e quindi decise di adottare una strategia
“di piccoli”, una strategia di specializzazione flessibile. Riuscì a guadagnare terreno rispetto a Ford, e a
diventare un’impresa di successo rispetto a Ford, grazie all’organizzazione del lavoro, alla gestione delle
risorse umane.
Si passa dalla Scuola delle relazioni umane Motivazionisti alle risorse umane, cioè diventano parte
integrate delle risorse di cui è dotata l’impresa per raggiungere il suo vantaggio competitivo. Toyota fu la
dimostrazione tangibile che una buona gestione del personale può permettere di acquisire quote
interessanti di mercato anche partendo da una situazione di svantaggio. È da quel momento che si inizia a
parlare non più di gestione del personale ma di ruolo strategico delle risorse umane, di gestione delle
risorse umane (articolo dirompente di Raymond Miles del 1975, proprio perché dimostrò il passaggio
cruciale ala gestione delle risorse umane).
STRATEGIA, STRUTTURE E RISORSE UMANE
A questo punto possiamo introdurre il tema della relazione tra strategia, strutture e risorse umane.
Andiamo a vedere come la strategia va a determinare fortemente sia la struttura che la gestione delle
risorse umane.
Partiamo da fordismo e toyotismo.
Strategia di Ford: standardizzazione del prodotto, economie di scala che permettevano la riduzione dei
costi di produzione, e quindi la strategia di Ford è la leadership di costo (produrre qualcosa al minor costo
possibile). Questo comportava un adeguamento della struttura: Ford fece progettare degli impianti
giganteschi in cui articolare tutta la produzione, dall’inizio alla fine, ed inoltre, sempre nell’ottica della
strategia della riduzione di costi, si riforniva da diversi fornitori, anche degli stessi pezzi, mettendoli alle
volte in concorrenza tra di loro in modo che abbassassero i costi; inoltre poiché in questi impianti non si
poteva permettere di fermare la produzione, si dotava di grosse scorte di magazzino che permettevano di
nutrire il processo produttivo anche laddove si fosse avuto un guasto per esempio nella catena di
montaggio precedente. Tutto è orientato ad un unico obiettivo, quello di produrre in massa, di
standardizzare, di ridurre i costi. Come si traduceva la leadership di costo in termini di risorse umane?
Disciplina ferrea, rigida, osservazione e controllo, deprofessionalizzazione e incentivazione soltanto sul
piano economico (per raggiungere la scala bisognava produrre tanto, e quindi si incentivavano gli operai a
produrre tanto mediante incentivi economici).

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Passiamo al Toyotismo.
Strategia di Toyota: produrre prodotti di elevata qualità con la filosofia just in time, cioè con un processo di
tipo fluido che non prevedesse scorte di magazzino ma che cercasse di rispondere ai bisogni emergenti
della società dell’epoca (quindi anche in termini di diversificazione del prodotto e di qualità) nel minor
tempo possibile. Questo comportava un rapporto con i fornitori particolare: anche i fornitori dovevano
essere just in time, quindi vediamo come anche la catena si allarga al sistema la filosofia di produzione; a
livello di struttura prevedeva inoltre che non ci fosse il magazzino, perché la filosofia era non avere scorte,
non avere neanche difetti, quindi il lavoro non era organizzato secondo una catena di montaggio su cui
c’erano tanti operai specializzati (perché se si fosse ravvisato un problema nella catena bisognava bloccare
tutto) ma si creavano team di lavoro delle risorse, a cui è assegnata molta autorità decisionale, gli viene
lasciata molta responsabilità perché sono loro che detengono la conoscenza (si parla di conoscenza
socializzata), sono loro che determinano la conoscenza e che devono intervenire prontamente perché
l’obiettivo è la qualità e bisogna avere zero difetti. Tutto è molto fluido e consequenziale, strategia –
strutture – risorse umane.
Esistono tre tipi di approcci alla relazione tra strategia – struttura – risorse umane (domanda esame):
1. Approccio LINEARE;
2. Approccio INTERDIPENDENTE;
3. Approccio CONTESTUALE o EVOLUTIVO.

Possiamo studiare questi approcci in base al tipo di relazione, in base al tipo di ambiente in cui sono più
adatti, in base ai livelli di accentramento/decentramento di potere e conoscenza (nb: in genere il potere e
l’autorità vengono riconosciuti a chi detiene la conoscenza nel caso della Toyota il potere decisionale era
assegnato ai team perché loro avevano la conoscenza socializzata per poter intervenire sui guasti; in Taylor
e in Ford la conoscenza era ai vertici, e infatti ai vertici era dato il poter di autorità e controllo), in base alla
strategia.

LINEARE INTERDIPENDENTE EVOLUTIVO


Dinamica e
RELAZIONE Lineare Circolare
contestuale
Iperdinamico
AMBIENTE Stabile dinamico
(livelli di)
Accentrati decentrati Forte decentramento
POTERE/CONOSCENZA
Calata dal vertice
STRATEGIA Frutto di
(approccio top-down) Creativa e relazionale
interdipendenze

Approccio LINEARE (o sequenziale):

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La relazione è consequenziale: questo significa che ho una determinata strategia, per conseguirla mi doto di
una determinata struttura, in base alla struttura che ho definiscono il sistema HR. Questo significa che se
voglio perseguire una determinata strategia, di conseguenza avrò una determinata struttura e in base a
quella dovrò decidere la quantità e anche la qualità del personale (in termini di competenze di cui ho
bisogno per eseguire quella strategia faccio una programmazione del personale basata sulle esigenze
strategiche). Esempio università: l’obiettivo dell’università è incrementare la qualità della didattica (questa
è la strategia – obiettivo strategico); per quanto riguarda la struttura organizzo un ufficio di management
didattico (introduco la managerialità all’interno dell’università); una volta definite le competenze di questo
ufficio devo trovare le persone che lo compongono, in termini anche di competenze che mi servono per
raggiungere gli obiettivi e la quantità (devo decidere quante persone mi servono per riempiere quella
struttura che poi mi porterà ad attuare quella determinata strategia). Vediamo quindi come strategia,
struttura e gestione delle risorse umane sono consequenziali e lineari. Ovviamente questo è possibile
soltanto in ambienti molto burocratizzati e stabili, come l’amministrazione pubblica. Un ambiente stabile è
un ambiente che non cambia facilmente. Potere e conoscenza nel modello lineare sono accentrati. La
strategia è calata dal vertice (approccio top down). Tale approccio rivela tutti i suoi limiti in situazioni più
turbolente e complesse.
Approccio INTERDIPENDENTE

In questo approccio si considera un fattore di contesto, l’ambiente. All’intero della relazione S-S-RU non
esistono soltanto i fattori che noi vediamo ma esiste anche l’ambiente. Per esempio i cambiamenti
istituzionali che si possono avere, che possono richiedere un cambiamento della strategia. L’ambiente
influisce si una di queste tre variabili, le quali a loro volta possono determinare un cambiamento sulle altre.
Per esempio l’ambiente può portare un cambiamento della strategia che a sua volta incide a una struttura e
poi alle risorse umane. In questo si dice che la relazione è frutto delle interdipendenze, cioè l’ambiente in
qualche modo va ad influenzare uno dei tre fattori e questo determina delle reazioni a catena: si di che la
relazione è circolare. L’ambiente è in questi casi è molto dinamico. Potere e conoscenza sono decentrati,
perché quando l’ambiente è dinamico bisogna iniziare a delegare di più, per riuscire a captare i rischi in cui
si può incorrere o i cambiamenti in atto, in modo da poter agire subito. La strategia è frutto delle
interdipendenze, si diche che è “determinata” dall’ambiente, anche se questo scatenerebbe l’ira di molti
studiosi che hanno appunto criticato questo approccio come troppo deterministico, cioè in realtà non si
può dire che tutto dipende dall’ambiente; piuttosto che dire “determinato” dall’ambiente possiamo dire
che è la strategia è il frutto di interdipendenze.
In tutto ciò manca la considerazione a livello olistico, a livello di sistema, perché è vero che in questo caso si
considera l’ambiente, però si considera l’ambiente che determina dei cambiamenti e quindi si creano delle
interdipendenze.

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Approccio EVOLUTIVO

In realtà nell’approccio evolutivo (o coevolutivo) la concezione di relazione è molto contestuale, cioè


l’evoluzione è continua e può avere varie direzioni. Non è solo l’ambiente che determina un cambiamento
nella strategia, ma è anche la strategia che può intervenire sull’ambiente (ad esempio impattare sui livelli
istituzionali esempio legge sul welfare aziendale). La relazione in questo caso è coevolutiva, cioè
fortemente dinamica e contestuale. Ambiente iperdinamico (approccio tipico delle aziende globali). Potere
e conoscenza sono fortemente decentrati. La strategia è creativa e relazionale, perché non è più il frutto
delle interdipendenze singole, ma è frutto delle relazioni tra tutti gli stakeholder del sistema.
QUALE STRATEGIA?
La descrizione dei tre approcci, mette in luce il ruolo fondamentale giocato dalla definizione della strategia
nell’influenzare le scelte di gestione del personale.
Come faccio a decidere quale strategia implementare? Ci sono due modelli: il modello delle 5 forze
competitive di Porter (1985) ; l’altro è il modello della Resource Based View (cioè basato sulle risorse).
Domanda esame: i due modelli si possono distinguere in base alla prospettiva, all’unità di analisi, agli
strumenti che vengono utilizzati, sulla concezione sia di strategia che di vantaggio competitivo, sul ruolo del
management e sul ruolo delle risorse.
PORTER RBV
PROSPETTIVA Esterna Interna
UNITA’ DI ANALISI Settore Risorse e Impresa
Catena del valore e
STRUMENTI UTILIZZATI Analisi del portafoglio di risorse
Analisi settore
Valorizzazione delle risorse per
STRATEGIA Adeguamento rispetto al settore
avere vantaggio competitivo
Avere rendimenti maggiori Combinare risorse eterogenee e
VANTAGGIO COMPETITIVO
rispetto al settore non imitabili
RUOLO MANAGEMENT Subisce la strategia Proattivo e dinamico
RUOLO RISORSE Mancano – ruolo strumentale Costitutivo

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MODELLO DELLE 5 FORZE COMPETITIVE DI PORTER

L’impostazione di Porter privilegia l’analisi del settore e la posizione assunta dall’impresa al suo interno. Il
settore, che viene visto attraverso 5 forze competitive (i concorrenti, i possibili nuovi entranti, gli eventuali
prodotti sostitutivi, i clienti e i fornitori), determina il livello di redditività che l’impresa può realizzare
attraverso il proprio posizionamento.
Questo si può concretizzare in tre tipi di strategie competitive alternative:
- Leadership di costo: il prodotto è uguale a quello dei concorrenti, ma è ottenuto a un costo
inferiore (Ford);
- Differenziazione: il prodotto ha caratteristiche che lo distinguono da quello dei concorrenti e ho
fanno percepire come unico dal cliente, per cui è disposto a pagare un prezzo maggiore;
- Focalizzazione: il prodotto interessa un segmento ristretto del settore entro il quale compete con
una delle due alternative precedenti (leadership di costo o differenziazione).

Operiamo in un determinato settore: per Porter l’essenza della strategia è fare in modo che l’impresa si
posizioni in questo settore in modo tale da avere dei rendimenti sistematicamente superiori alla media del
settore stesso, e quindi superiore ai suoi competitor. L’approccio è quindi interamente focalizzato sul
settore, che è l’unità di analisi. La prospettiva è esterna, cioè va verso l’esterno (non guarda al suo interno)
perché l’impresa si deve posizionare all’esterno, in un settore. Si utilizza la catena del valore e l’analisi del
settore, attraverso la valutazione di nuovi entranti, prodotti sostituti ecc… La strategia consiste nel
mantenere un equilibrio dinamico tra i punti di forza e di debolezza dell’impresa e le opportunità e le
minacce che si presentano nel settore, attraverso un adeguamento costante delle politiche aziendali ai
mutamenti delle condizioni esterne e interne c’è un adeguamento continuo rispetto al settore. L’idea di
vantaggio competitivo secondo Porter è avere dei rendimenti maggiori rispetto al settore stesso. Il
management va a subire la strategia perché la strategia è determinata dalle condizioni del settore. Il ruolo
delle risorse umane, di fatto mancano, non compaiono hanno un ruolo soltanto strumentale al
perseguimento della strategia, una volta che è stata decisa attraverso il posizionamento. Di questo
approccio sono stati segnalati i limiti, derivanti da una sorta di determinismo ambientale che lascia poco
spazio alle scelte autonome dell’impresa, che può solo adattarsi alle condizioni del settore.

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RESOURCE BASED VIEW

Secondo questo approccio l’impresa è dotata di risorse tangibili (capitale fisico e finanziario), intangibili
(conoscenza, cultura) e umane (qualità del capitale umano, sistema relazione che c’è all’interno
dell’impresa). Quindi l’approccio è interno, cioè secondo questa prospettiva devo guardare al mio interno e
devo vedere di quali risorse sono dotato. La prospettiva è interna, perché va a guardare al suo interno e al
patrimonio di risorse di cui si dota l’impresa. L’unità di analisi sono le risorse e l’impresa stessa nella sua
unicità. Gli strumenti che adotta è l’analisi del portafoglio di risorse.
L’essenza della strategia è cercare di combinare e ricombinare le risorse attraverso la capacità organizzativa
dell’impresa, in maniera unica e difficilmente imitabile dai propri competitor: è questo che determina il
vantaggio competitivo secondo questo approccio. Esso secondo la rbv è dato dalla combinazione delle
risorse, competenze e capacità organizzative che abbiano 2 caratteristiche: poco imitabili (se trasferite ad
un’altra impresa perdono valore) e devono essere eterogenee (diverse dai concorrenti). Ma che cosa si
intende per risorse eterogenee e uniche? Le risorse comprendono “tutti gli asset, capacità, processi
organizzativi, conoscenze dell’impresa ecc. che le consentono di concepire e implementare strategie che ne
aumentano l’efficacia e l’efficienza” [Barney 1991]. In prima istanza, quindi, per risorse si intendono fattori
fisici, tecnologici, finanziari e umani impiegati nell’impresa. Per capacità si intendono saperi, conoscenze,
capacità operative formatisi all’interno dell’impresa attraverso un processo di apprendimento specifico.
Mentre le singole risorse sono, entro certi limiti, trasferibili e intercambiabili, l’insieme di queste risorse,
variamente combinate e rese reciprocamente complementari, si trasforma in competenze distintive che
sono difficilmente trasferibili all’esterno del contesto in cui si sono formate. In questa prospettiva, le
imprese competono non solo nel mercato dei prodotti, ma anche in quello delle risorse per attrarre le skills
e le competenze migliori, necessari ai proprio processi di crescita di valore.
Le risorse umane sono alla base del vantaggio competitivo, quindi hanno un ruolo costitutivo. Il
management si trova invece nella capacità organizzativa: è il management che deve avere la visone giusta
di combinare e ricombinare le risorse in base ai contesti che si evolvono quindi il management ha un
ruolo attivo, proattivo e dinamico nella combinazione delle risorse per ottenere un vantaggio competitivo.
Vantaggio competitivo che questa prospettiva definisce anche sostenibile, cioè siccome non è imitabile e
facilmente trasferibile, allora può essere sostenuto nel tempo. Per la prima volta, a differenza, di Porter, si
parla di vantaggio competitivo sostenibile.

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LEZIONE 2
Il cambiamento dall’approccio strumentale (Porter) all’approccio costitutivo (RBV) del ruolo delle risorse
umane è di fondamentale importanza perché, in genere, la funzione HR è sempre stata considerata una
funzione di staff (= di supporto), cioè significa che non rientrava nella linea operativa, che è quella linea che
incide sulla creazione del valore aggiunto; la funzione HR è sempre stata considerata una funzione di
supporto, quindi di fatto non contribuiva al valore, ma supporta la linea che crea valore.
Questo cambio di approccio (da strumentale a costitutivo) comporta che per la prima volta si afferma che la
funzione HR contribuisce alla creazione di valore reale per l’azienda e, in quanto tale, può essere valutata in
termini di performance e il suo contributo alle performance dell’azienda può essere misurato. Questo
ultimo aspetto è difficile perché: come si fa a capire in che modo si passa dalle persone al risultato
complessivo dell’azienda? Come faccio a calcolare il contributo che i singoli o un gruppo o una politica di
gestione (per esempio l’introduzione di politiche di welfare) hanno sulle performance dell’impresa? Si
mettono in genere delle variabili intermedie (soddisfazione del lavoro, sul commitment, sull’engagement) e
di conseguenza si fa l’assunzione che possano impattare sulle performance d’impresa.
Tutti gli studi che attengono alla relazione che unisce le politiche di gestione di gestione delle risorse umane
e il loro impatto sulle performance d’azienda vanno sotto il nome di Strategic human resources
management (gestione delle risorse umane strategica strategica perché impatta sui risultati d’azienda).

La relazione tra la gestione delle risorse umane e le performance dell’azienda può essere considerata sotto
diversi approcci (o prospettive):
1. Approccio UNIVERSALISTA: pioniere di questo approccio è uno studioso di organizzazione aziendale
contemporaneo che si chiama Pfeffer. Questo approccio afferma che esistono una serie di pratiche
di gestione HR, come ad esempio il lavoro di gruppo, che in qualsiasi contesto portano ad una
maggior soddisfazione del lavoratore (maggior commitment), e quindi di conseguenza impattano
positivamente sui risultati aziendali, tant’è vero che tali prassi sono state definite per esempio
come high commitment work practices, oppure prassi ad alto engagement, fino a parlare di veri e
propri sistemi di gestione delle risorse umane che portano ad alta performance (chiamati high
performance work system). Il difetto di questo approccio però è il seguente: il ragionamento in
base al quale il lavoro di gruppo possa portare sempre, in maniera universale, buoni risultati in
qualsiasi contesto, in qualsiasi azienda, è riduttivo, non è sempre vero. Un altro limite di tale
approccio è la presenza di ambiguità causali e da path dependency (=la loro efficacia dipende dalle
esperienze accumulate dall’impresa e i tempi di riproduzione non sono comprimibili)
Ambiguità causali = cioè non era chiaro in che modo e quali altre variabili potessero impattare nella
relazione tra, per esempio, il lavoro di gruppo e i risultati d’azienda, perché se il lavoro di gruppo è
inserito in un contesto come quello della cultura giapponese (che è portata alla collaborazione)
sicuramente potrà avere un effetto positivo poiché già nella cultura stessa del modello giapponese
c’è la predisposizione alla collaborazione, al coinvolgimento della comunità; non è sempre vero
invece questo, per esempio, nelle aziende spinte all’individualismo, che spingono molto sulla
competizione, che magari improntano la valutazione della performance a livelli individuali:
improntare la valutazione a livello individuale e poi fare i lavori di gruppo non ha senso, perché gli

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obiettivi sono diversi in questi casi quindi ci sono molti meccanismi di causa – effetto che
rimangono non chiari;
2. Approccio CONTINGENTE: ci sono stati diversi studi che hanno permesso un avanzamento della
teoria e che hanno assunto invece che può esistere un insieme di pratiche che si adattano in
particolari tipi di strategia (ad esempio pratiche che facilitano l’innovazione quando la strategia
d’impresa è completamente devoluta all’innovazione di prodotto), oppure che si adattano ad altri
fattori contingenti, per esempio la tecnologia. Quindi l’approccio contingente afferma che esistono
una serie di pratiche che devono essere implementate all’interno dell’azienda tenendo conto di una
serie di fattori contingenti (bisogna tener conto della strategia, tecnologia da adottare, ambiente,
contesto). Come suggerito da Delery e Doty (1996), la variabile contingente che dovrebbe essere
considerata nella progettazione di un sistema di gestione delle risorse umane è la strategia
dell’impresa. In altri termini, le attività di gestione del personale più efficaci dovrebbero essere
scelte in funzione, per esempio, del fatto che un’azienda adotti una strategia di riduzione dei costi
oppure di differenziazione.
In questi casi però si vedeva che era un approccio molto dispendioso in termini di risorse,
soprattutto temporali, perché gli studiosi (ma anche i practitioners che lavoravano in ambito HR) si
trovavano a dover considerare di volta in volta la coerenza di ogni singola pratica rispetto a tutti i
fattori contingenti, e questo è un processo che porta via molto tempo. Quindi anche l’approccio
contingente risultava limitato, perché ciascuna politica di gestione delle risorse umane doveva
essere resa coerente con tutti i fattori contingenti. Allora negli ultimi anni si è sviluppato un
ulteriore approccio, un approccio più olistico, che considera ogni singola parte del sistema in
considerazione del resto, quindi come inserito “in un tutto”: l’approccio configurazionale;
3. Approccio CONFIGURAZIONALE: tale approccio afferma che esiste una configurazione di pratiche
che posso portare ad alte performance se sono strettamente coerenti tra loro (si parla in questo
caso di coerenza interna o orizzontale esempio: non posso utilizzare una valutazione basata sulle
prestazioni individuali se poi l’organizzazione del lavoro è basata sul lavoro di gruppo non sono
coerenti e non daranno sinergie perché la valutazione della prestazione individuale generalmente
mette anche un po’ in competizione i colleghi, mentre il lavoro di gruppo deve essere improntato al
raggiungimento di un obiettivo comune) e coerenti con i fattori contingenti (quindi coerenti con la
strategia, tecnologia e ambiente in questo caso si parla di coerenza esterna o verticale). Il
problema di questa prospettiva è che nell’andare a considerare sia la coerenza interna che esterna
sembrerebbe quasi una teoria del tutto, molto complessa. È anche vero che dal punto di vista
soprattutto della ricerca, gli studiosi si stanno dotando di strumenti sempre più sofisticati per
riuscire a ridurre questa complessità e quindi gestirla meglio. Una cosa che considera l’approccio
configurazionale e che è molto interessante è che, se si riesce a trovare questa coerenza, allora si
possono creare delle sinergie, ottenendo risultati maggiori. Questo approccio cerca di
contemperare la coerenza orizzontale con la coerenza verticale, certamente con dei grossi problemi
legati alla gestione della complessità che questo tipo di approccio può comportare.
Nonostante la letteratura sia quindi generalmente concorde nell’individuare l’esistenza di un legame tra
gestione delle risorse umane e performance aziendale, alcuni autori sottolineano una mancanza di
chiarezza nel funzionamento di questo legame, tanto da definire il processo come una black box. Questa
critica è principalmente mossa dalla consapevolezza della “distanza” esistente tra attività di gestione del
personale, che coinvolgono singoli lavoratori e/o gruppo, e la misurazione della performance, che avviene
per l’intera organizzazione. Si suggerisce quindi di focalizzare l’attenzione a diversi livelli di analisi cercando

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di comprendere, prima, l’impatti delle attività di gestione sui comportamenti degli individui, e poi, come
questi influenzano l’andamento aziendale.
COME PROGETTARE LA DIREZIONE DELLE RISORSE UMANE (DRU) possibile domanda esame
(La Dru come servizio strategico)
Le variabili che generalmente si considerano per la progettazione delle attività della DRU sono 5+1.
Le prime 5 sono le variabili base che non possiamo non considerare quando ci approcciamo alla
progettazione di una funzione:
1. Il task della Dru, vale a dire le modalità con cui concepisce il proprio ruolo e i propri obiettivi, in
coerenza con la mission aziendale;
2. I destinatari delle attività della Dru che nell’ottica del servizio reso possono essere definiti “clienti”
si parla sia di clienti interni (colleghi, capi di altre funzioni) che clienti esterni (tutti gli altri
stakeholders esterni);
3. L’organizzazione della funzione e gli strumenti tecnico per la realizzazione del task: assetto
organizzativo della propria azienda per decidere dove è meglio collocare la funzione HR;
4. Indicatori di performance delle diverse attività svolte e della funzione nel suo complesso: se è vero
che la funzione HR contribuisce alla creazione di valore devo misurarne le performance;
5. Sempre nell’ottica della creazione di sistemi configurazionali coerenti devo considerare strategia,
cultura e valori dell’organizzazione in generale, e degli addetti alle risorse umane in particolare.
Il “+1” è rappresentato dai fattori contingenti che devono essere sempre considerati: il ruolo e il potere
della Dru, la collocazione organizzativa, lo sviluppo dimensionale, la complessità delle politiche adottate e
delle strumentazioni tecniche impiegate, sono fortemente influenzati da fattori contingenti quali la
tecnologia, la dimensione aziendale, il contesto istituzionale e sociale, il grado di internazionalizzazione.
Non si tratta di un rapporto deterministico, in grado di definire univocamente le caratteristiche e le
politiche della Dru. Molto dipende anche dal modo in cui gli attori aziendali interpretano il loro ruolo,
colgono le opportunità dell’ambiente interno ed esterno, entrano in relazione con altri ruoli, costruiscono
le loro strategie.
Il task della Dru
È il ruolo che viene assegnato alla direzione HR (= DRU). Da una vasta letteratura che sintetizza le grandi
opzioni disponibili possiamo enucleare tre tipologie di task:
a) Amministrazione del personale;
b) Gestione del personale;
c) Direzione e sviluppo delle risorse umane.
a )+ b) +c) = insieme dei processi che la Dru presidia o a cui partecipa.
Qual è la differenza? In generale quando si parla di amministrazione del personale, vuol dire che la funzione
HR ha una funzione meramente amministrativa, e consiste nella cura degli aspetti giuridici e contabili del
rapporto di lavoro. Quando invece si parla di gestione del personale, si fa riferimento all’aspetto
processuale, ossia agli aspetti amministrativi si aggiunge l’attenzione all’integrazione organizzativa delle
persone con l’introduzione di strumenti che perseguono l’efficienza e l’efficacia del loro impiego. La
definizione di direzione delle risorse umane è la seguente: è un’unità organizzativa che presidia tutti i
processi legati alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane, quindi una direzione in cui confluiscono
tutti i processi di input e output dell’attività che riguardano la gestione e lo sviluppo delle risorse umane
(cioè si occupa di selezione, reclutamento, valutazione, formazione, valorizzazione, compensation,
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organizzazione del lavoro, distribuzione di compiti e mansioni la DRU è l’unità organizzativa che presidia
tutti questi processi); quando le attribuiamo un valore gestionale stiamo quindi dicendo che più che degli
aspetti amministrativi e contabili si dovrà occupare dei processi, cioè della gestione operativa di tutti questi
processi che l’unità organizzativa presidia. Infine quando parliamo di direzione e sviluppo delle risorse
umane stiamo dicendo che la DRU non deve soltanto occuparsi della gestione operativa dei processi, ma
dovrà contribuire anche agli indirizzi politici, ossia dovrà contribuire alla definizione della strategia quindi
in questo caso la DRU ha un ruolo molto più strategico e gestionale, diventa un fattore costitutivo della
strategia e apporta il suo contributo alla costruzione del vantaggio competitivo.
I destinatari della Dru
A chi è rivolta l’attività della DRU? Sicuramente alle risorse, cioè ai dipendenti che sono i destinatari
principali. Però ci sono anche tutta un’altra serie di clienti interni, come per esempio i capi di altre funzioni
(per esempio il direttore generale della produzione coinvolge la funzione HR nei processi di valutazione,
perché deve essere supportato nella ricerca di criteri adeguati per la definizione dei piani di valutazione
delle performance). Ci sono anche clienti esterni, come i sindacati.
È importante inquadrare e riconoscere i destinatari delle attività perché in gran parte delle aziende sarà
necessario andare a segmentare le politiche in base alle caratteristiche dei clienti: innanzitutto in base ai
loro bisogni (esempio: se un’azienda vuole intraprendere dei piani di welfare aziendale molto
personalizzati, allora dovrà fare accordi con agenzie o fornitori di particolari servizi come la lavanderia,
dovrà considerare una serie di bisogni attraverso la profilazione del personale e vedrà quanti tipi di bisogni
emergono, quali sono i target a cui rivolgere la propria attività).
Come si fa la segmentazione? Innanzitutto bisogna tenere in considerazione i ruoli organizzativi perché,
per esempio, se si dovessero progettare dei piani di formazione è chiaro che questi piani saranno
personalizzati in base al ruolo che avrà il dipendente [se è un addetto alla produzione allora si farà un corso
di formazione in cui in primo piano c’è la sicurezza e si punterà molto sulle competenze tecniche e
specialistiche del lavoro (si dice che si punterà al contenuto del lavoro); se invece si deve programmare la
formazione per un addetto alle vendite, in questo caso si andrà a progettare una formazione che faccia leva
più sulla motivazione, sulle soft skills, sulla capacità di negoziare]. Altra possibile segmentazione è sulla
base della criticità che ha la risorsa nel contesto in cui opera: per esempio un consulente del lavoro ha un
diverso grado di criticità a seconda che questo lavori in uno studio di consulenza del lavoro (avrà una
valenza strategica maggiore perché contribuisce criticamente) o in un team di servizio legale che fa parte
della funzione di amministrazione di un’azienda (in questo caso la risorsa non è critica, non è molto
incidente sulla linea operativa). Infine un’altra possibile segmentazione è sulla base della motivazione:
bisogna capire il tratto motivazionale delle persone che si hanno di fronte. È diverso fare leva sulla sfera
motivazionale del manager rispetto a quella degli operai o degli impiegati, perché un manager sicuramente
avrà bisogno di implementare il suo status, mentre invece nel caso di operai e impiegati sicuramente la
motivazione forte è data dai colleghi, dal contesto di lavoro, dal rapporto con il capo che nell’80% dei casi è
la leva che più influisce sulla soddisfazione del lavoro, oppure al contenuto del lavoro, quindi si cercherà di
fargli variare i compiti, di aumentare il senso di contribuzione dell’operaio nel raggiungimento del risultato
finale.
È chiaro che la segmentazione eccessivamente spinta può portare a delle discriminazioni di iniquità, ad un
eccesso di individualismo e di frammentazione che rende difficile il perseguimento di una gestione equa e
coerente; in alcuni casi invece è una segmentazione indotta dalle politiche perché nel mercato del lavoro ci
sono ormai due tipi di lavoratori: i lavoratori core, che sono quelli su cui l’azienda punta e investe
maggiormente, e i lavoratori periferici che servono invece ad avere flessibilità nei momenti in cui aumenta
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la produzione e quindi si ha bisogno di più personale. Questo purtroppo è quello che è stato criticato in
tutte le riforme politiche, il fatto di acuire questa distanza e quindi il fatto di acuire la personalizzazione di
politiche che mirano molto ai lavoratori core e poco ai lavoratori periferici in altri paesi, soprattutto nel
nord Europa, come per esempio la Danimarca si parla di flex security, perché in realtà i lavoratori
indipendentemente dal fatto che siano a tempo determinato o indeterminato vengono formati quando
entrano in azienda, e quindi si parla di flessibilità sicura perché quella formazione e buona remunerazione
che danno permette una grossa flessibilità, perché permette alla successiva azienda che assumerà quelle
persone di essere un po’ più tranquilla nell’assumere il lavoratore perché è già stato formato questa
uguaglianza di politiche è un fatto positivo. Quando invece c’è un’eccessiva segmentazione tra i core e i
periferici la flessibilità diventa precarietà.
Organizzazione e strumenti della Dru
Bisogna decidere dove collocare la DRU, che tipo di autonomia darle e bisognerà anche scegliere quali
attività mantenere in azienda e quali esternalizzare (nella maggior parte dei casi le aziende esternalizzano i
servizi di amministrazione e contabilità).
Il modo in cui vengono definiti i ruoli della Dru in relazione ai diversi segmenti del personale si concretizza
nelle scelte relative alle caratteristiche professionali degli addetti alla funzione, alle strumentazioni tecniche
usate, alla collocazione organizzativa. Le forme organizzative adottate si differenziano molto nelle diverse
soluzioni. Si può andare dal caso in cui la Dru non ha alcuna autonomia funzionale al punto di confondersi
con la funzione amministrativa, al caso di totale integrazione nel vertice strategico. A ciascuna soluzione
corrispondono competenze tecniche e comportamentali dei professionisti delle risorse umane
significativamente diverse.
Recentemente, anche le Dru si sono confrontate con il tema dell’outsourcing, cioè dell’acquisizione
all’esterno di servizi relativi alla funzione. Diversi studiosi hanno fornito indicazioni relative a quali attività
dovrebbero essere esternalizzate. La maggior parte dei modelli proposti hanno orientamenti ispirati alla
teoria dei costi di transazione o alla RBV. Nel primo caso, le ragioni che guidano l’esternalizzazione sono da
ricondursi ad aspetti strettamente legati a una logica di minimizzazione dei costi. Nel secondo caso,
l’outsourcing risponde all’esigenza di acquisire un insieme di competenze che, sviluppate e combinate con
quelle già all’interno dell’impresa, permettano di creare delle risorse uniche difficilmente riproducibili dai
concorrenti. In entrambi i casi, vantaggi e svantaggi dell’esternalizzazione delle pratiche di gestione del
personale si bilanciano differentemente a seconda delle dimensioni dell’impresa e del tipo di processi dei
quali si occupa la Dru.
Misura della performance della Dru
La misura e il controllo delle attività di gestione delle risorse umane risentono della definizione del ruolo e
dell’orientamento strategico adottato. La posizione competitiva dell’impresa e quindi la sua idoneità a
mantenere nel tempo posizioni profittevoli potrebbero essere alla fine il solo criterio di valutazione delle
attività di gestione delle risorse umane. Tale criterio potrebbe però avere un passo impatto operativo e non
raggiungerebbe l’obiettivo di orientare i comportamenti. Porterebbe inoltre a un’indeterminazione delle
responsabilità, soprattutto in relazione ad attività più specifiche. Si può quindi affermare che, pur restando
la performance dell’azienda nel suo complesso (profitto) l’indicatore per eccellenza della performance di
lungo periodo delle politiche di gestione delle risorse umane, è necessario articolare gli strumenti di misura
in modo da cogliere, controllare e sollecitare il contributo delle varie attività.
La prima fondamentale funzione degli indicatori di performance è quella di orientare i comportamenti
verso i risultati desiderabili, soprattutto del middle management (= linea intermedia che poi va a gestire e
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coordinare le attività del nucleo operativo): è importante misurare le performance di queste persone
perché devo fare in modo che i loro comportamenti non siano orientati al raggiungimento di obiettivi di
breve termine, ma che siano lungimiranti nell’interesse dell’azienda (per evitare anche comportamenti
opportunistici da parte dei manager che gestiscono le risorse).
Quali performance misurare? Le performance aziendali ma anche quelle più strettamente legate alle risorse
umane, sia secondo una dimensione economica ( ad esempio l’impatto che ha sulla produttività del lavoro
e quindi sull’aumento della produzione, delle vendite, del fatturato) sia secondo una dimensione sociale,
cioè bisognerà stabilire degli indicatori per monitorare l’assenteismo, se c’è un turnover patologico come
esempio dei casi di mobbing. Gli indicatori permettono di valutare e controllare in ogni momento come
stanno andando le politiche attuate. È necessario evidenziare e, per quanto possibile, quantificare il valore
generato dalle attività della Dru, superando così l’erronea convinzione che l’utilità nei servizi di staff non sia
misurabile: la misura non è facile, i parametri possono essere ambigui, ma proprio per questa ragione
s’impone uno sforzo per uscire da un’indeterminazione che può servire da alibi di inefficienze e
insufficienze del management. È importante che gli indicatori di obiettivi e di risultati colgano tanto la
dimensione economica quanto quella “sociale”, equilibrando le esigenze di breve periodo con quelle di
medio-lungo.
Strategia, valori e cultura dell’impresa e degli addetti alla Dru
L’ultimo elemento del modello è relativo alla definizione delle caratteristiche della cultura organizzativa
all’interno della quale opera la Dru. Come per componenti precedenti, anche in questo caso è importante
valutare quanto essa sia coerente rispetto all’intero modello, in un’ottica sistemica.
I valori e la cultura dell’impresa costituiscono la variabile di confluenza della altre variabili analizzate e
rappresentano quella che è stata giustamente definita l’identità dell’impresa. I valori e la cultura di una
specifica impresa nascono dalla sua storia e sono il risultato del lavoro di tutti i suoi membri, presenti e
passati.
Pur facendo parte di un unico fenomeno, è necessario distinguere tra cultura aziendale in senso
antropologico (valori, simboli, riti) e la cultura aziendale intesa come competenza distintiva, come campo di
competenze applicative, come sapere dell’organizzazione che si articola nelle principali funzioni aziendali e
nei più significativi gruppi professionali presenti in azienda.
La Dru può essere vista in senso ampio come presidio della competenza distintiva aziendale, cioè del
patrimonio di un saper fare collettivo, sedimentato nel tempo e che dovrebbe mettere un’azienda in grado
di gestire i fattori critici del proprio business e di distinguersi dai concorrenti.
COMPETENZE DELLA FUNZIONE HR
Nel tempo le competenze della funzione HR si sono un po’ modificate, passando da un ruolo
amministrativo ad un vero e proprio ruolo strategico. Il primo studioso che ha approfondito il tema
dell’evoluzione delle competenze della funzione HR è stato David Ulrich che ha proposto un modello delle
competenze.
Ulrich parte da un presupposto: anche la funzione HR, al pari della line, deve contribuire alla contribuzione
di valore. Allora cerca di identificare il portafoglio di servizi che la funzione HR e tutte le persone che in essa
vi lavorano possano fornire in modo da contribuire alla creazione di valore. Considera due orientamenti: un
orientamento più rivolto ai processi e un orientamento più rivolto alle persone, e poi considera il focus che
deve avere la funzione HR: un focus più operativo oppure più strategico.

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Ulrich dice che quando l’orientamento è spostato sui processi e il focus è meramente operativo allora si
parla di ESPERTO FUNZIONALE (o administrative expert): questa è la prima competenza che Ulrich identifica
per la funzione HR.
ESPERTO FUNZIONALE: le persone che lavoreranno nella funzione HR avranno delle competenze molto
tecniche, orientate alla gestione dei processi, focalizzate sugli aspetti operativi del lavoro.
Quando l’orientamento è rivolto verso le persone e il focus è operativo, Ulrich parla di EMPLOYEE
CHAMPION (rappresentate lavoratore): in questo caso le competenze saranno molto più trasversali, quindi
la funzione HR è preparata nei confronti dell’ascolto, dell’accoglienza, quindi un’attenzione particolare alle
persone.
Quando il focus è più strategico ma l’orientamento rimane comunque rivolto verso le persone si parla di
funzione HR come AGENTE DEL CAMBIAMENTO, cioè la funzione HR deve supportare i vertici in tutte le
fase di cambiamento e trasformazione, ponendo sempre particolare attenzione alla gestione delle persone
in queste fasi di cambiamento.
Nb: orientamento rivolto verso le persone vuol dire che sono le persone che determinano la definizione
delle politiche, non tanto l’efficienza e l’efficacia dei processi di gestione.
Quando il focus è strategico ma si è più orientati ai processi e, più in generale, all’andamento efficace ed
efficiente della gestione, si parla di PARTNER STRATEGICO. In questo caso quindi la funzione HR è un vero e
proprio partner del business perché non soltanto da un supporto alla strategia, ma tiene sotto controllo
anche l’efficacia e l’efficienza dei processi.

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Limiti del modello delle competenze:
1. Guarda molto al suo interno;
2. Presuppone un trade – off tra processi e persone, e quindi tra azienda e persone, quando invece
l’ottica dovrebbe essere quella di integrare, perché le persone devono agire per l’impresa e
l’impresa deve agire per le persone (non ci dovrebbe essere questo trade – off). Questo limite è
stato presto superato da una definizione più ampia del ruolo della funzione HR, secondo cui la
funzione HR deve avere delle competenze integrate, cioè deve contemplare tutti e 4 gli aspetti,
deve cioè essere BUSINESS PARTNER deve essere un partner strategico ma allo stesso tempo
deve riuscire a guidare le persone verso il cambiamento, deve supportarle e rappresentarle nei
momenti di necessità e deve avere quelle competenze basi per capire tutti gli aspetti giuridici e
normativi che attengono alla gestione del personale. Però anche questa visione è molto
autoreferenziale, guarda sempre al suo interno, quindi negli ultimi anni si è detto che le
competenze della funzione HR non possono fermarsi ad una business partnership, ma devono
tenere conto di una serie di esigenze anche esterne all’azienda, e quindi la funzione HR deve essere
un MULTI – STAKEHOLDER PARTNER, cioè deve essere partner strategico di una serie di
stakeholder, non soltanto dell’azienda (per esempio deve essere contemporaneamente partner
dell’azienda ma anche dei dipendenti).
Modello di Ulrich possibile domanda esame.
STRUTTURA ORGANIZZATIVA DI MINTZEBERG
Facciamo un ripasso di organizzazione aziendale per capire come possono essere strutturate le aziende e
capire dove collocare la funzione HR.
In un’azienda generalmente la struttuta organizzativa serve a coordinare il lavoro delle diverse unità
organizzative, attraverso dei criteri di divisione del lavoro a livello orizzontale (si stabiliscono le competenze
specialistiche chi si occupa di produrre, chi di vendere, acquisto materie prime, ecc..quindi divido il
lavoro tra le unità), e verticale, cioè si distribuiscono i diritti di supervisione e controllo (scala gerarchica).
Secondo Mintzeberg la struttura organizzativa è così strutturata: esiste un vertice strategico che ha un
compito fondamentale perché deve dare l’ indirizzo politico, deve stabilire la strategia; c’è poi un nucleo
operativo che gestisce tutte le operazioni e permette il raggiungimento dei risultati (si occupa della
gestione operativa, ossia la gestione caratteristica dell’impresa). All’aumentare della complessità e delle
dimensioni dell’azienda il vertice non riesce più a gestire da solo il nucleo operativo, ed è per questo che
viene introdotta la linea intermedia (line – middle management). All’aumentare della complessità, la linea
intermedia non riesce a gestire tutti gli aspetti specialistici che riguardano ogni singolo comparto del nucleo
operativo, per cui si staffa la struttura, cioè vengono introdotti degli organi che vengono definiti “di staff”,
che generalmente si trovano ai lati e sono: le tecno-strutture e le staff di servizio entrambe non
partecipano alla definzione della gestione caratteristica, alla creazione della catena del valore, ma la
supportano (per questo motivo sono definiti organi di staff) in diversi modi:
- Le tecno-strutture sono degli organi dotati di competenze molto specialistiche che, pur non
rientrando nella gestione operativa, lo supportano e ne definiscono le regole, le procedure, le
modalità e i tempi quindi sostanzialmente definiscono le condizioni in cui il flusso di lavoro deve
essere svolto. Sono i c.d. “tecnocratici”, in cui rientra il servizio legale, amministrazione e
contabilità, il controllo di gestione tutti servizi molto specialistici;
- Le staff di servizio hanno competenze specialistiche che sono però più “di servizio”, quindi non
definiscono le regole e le procedure, ma offrono dei servizi alla linea intermedia e al nucleo

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operativo. Sono per esempio la mensa, il servizio paghe, i servizi di portineria tutti servizi che non
sono specifici e caratteristici dell’azienda ma che possono essere facilmente trapiantati da
un’azienda all’altra (si dice che sono competenze convertibili).
Rappresentazione grafica della struttura organizzativa di Mintzeberg:

Adesso, a partire dalla struttura di base, vediamo le diverse forme organizzative che si possono avere in
azienda. Quando un’azienda è molto giovane o molto piccola in generale si ha un forma organizzativa
elementare, cioè una forma organizzativa in cui è presente soltanto il vertice e il nucleo operativo in cui è il
piccolo imprenditore che gestisce tutti gli aspetti sia di decisione strategica che gestionali e amministrativi e
contabili (amministrazione e contabilità in questi casi sono esternalizzate).
Forma organizzativa elementare:

Se poi l’azienda decide, per esempio, di diversificare la gamma dei prodotti o aumenta le sue dimensioni
perché aumenta la scala di produzione, si viene a creare un problema, in quanto l’imprenditore non riesce
più a gestire tutto. In questo caso allora o si fa confluire nel vertice la futura generazione, e quindi si
aumenta il vertice in modo da dividere i compiti al suo interno, oppure si inserisce la linea intermedia.
Introdurre la linea intermedia significa sostanzialmente che si introduce un livello di delega e di
specializzazione decisionale, cioè si affida una specializzazione a determinati organi in materia di decisioni
che riguardano un certo settore di attività ( quindi delego controllo e supervisione ad una linea

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intermedia che va a controllare un certo settore di attività). Il settore di attività, a seconda della
conformazione che prende, può dar origine alle funzioni oppure alle divisioni.
Se il settore di attività è rappresentato da un insieme di processi che riguardano una determinata attività,
per esempio tutti i processi che riguardano la produzione, tutti quelli che riguardano il marketing, ecc..
allora si avrà l’evoluzione dalla struttura elementare alla struttura funzionale ( introduzione di organi che
hanno una specializzazione per settore di attività inteso come insieme di processi che attengono ad una
attività caratteristica dell’impresa). Struttura funzionale:

Si può avere anche un’altra situazione in cui la linea intermedia non è rappresentata da un insieme di
funzioni, ma da aree di business che sono strategiche per l’azienda (per esempio se l’azienda produce
biscotti e decide di diversificare si avranno due divisioni: biscotti e merendine; in genere si fa la
suddivisione per valore strategico, cioè se un’area di business è importante ed è strategico dividere in base
ai mercati oppure in base alle aree geografiche si possono scegliere vari criteri di divisionalizzazione della
struttura). In questi casi si aggiunge un ulteriore livello, quindi si sta facendo una piramide sempre più
strutturata (si aumentano i livelli gerarchici) perché poi a ciascuna divisione faranno capo le funzioni, quindi
ciascuna divisione gestirà marketing, acquisti e produzione, che a loro volta gestiranno il nucleo operativo.

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Dove mettiamo la funzione HR?
Nel caso della struttura elementare la funzione HR sarà inclusa nel vertice e avrà dei compiti orientati alla
contrattualistica e alla remunerazione:

Nella struttura funzionale possiamo avere 2 tipi di configurazione.


La prima configurazione è che nel dividere le unità in funzioni, includo tre le funzioni anche la funzione
amministrazione, che per esempio comprenderà la contabilità, il controllo di gestione e la funzione HR. In
questo caso si dice che la funzione HR è un’appendice della funzione amministrazione e si occupa degli
aspetti amministrativi e la gestione dei processi è demandata alla line con il supporto amministrativo
dell’amministrazione HR. Esempio: se il direttore generale della produzione deve assumere del personale,
la gestione HR gli darà un supporto amministrativo, ma sarà il direttore generale della produzione a gestire
il processo.
Struttura funzionale con funzione HR come appendice della funzione amministrazione:

La seconda configurazione che si può avere, invece, è il tipico ruolo della funzione HR, cioè messa in staff al
vertice. In questo caso l’indirizzo politico è sempre dato dal vertice per quanto riguarda la strategia, però la
funzione HR è in staff al vertice e supporta la linea operativa, e ha sia un’autonomia politica cioè può
decidere le politiche di gestione delle risorse umane sulla base della strategia, e ha un’autonomia anche
specialistica con autorità funzionale, cioè supporterà la line in virtù delle sue competenze specialistiche, e

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quindi ci saranno delle dipendenze di tipo funzionale (= si possono dare delle indicazioni in virtù delle
competenze specialistiche che si possiedono) e non gerarchico (= l’autorità di supervisione e controllo sono
esercitate in virtù della posizione e del ruolo) generalmente la distinzione si fa tra linea tratteggiata =
dipendenza funzionale, e linea continua = dipendenza gerarchica.
Staffare il vertice con la funzione HR ha due vantaggi: il primo è l’accentramento delle politiche, quindi
riduzione dei costi perché non si va a replicare la funzione amministrazione per ogni funzione ulteriore; il
secondo è che permette di mantenere un certo livello di omogeneità in termini di politiche perché non si
differenzierà in base a ciascuna funzione, ma si avrà un’unica politica che poi si implementa all’interno della
line grazie anche supporto dei professionisti che lavorano nella funzione HR.

Struttura funzionale con funzione HR in staff al vertice:

Nelle caso delle struttura divisionale si può riprodurre più o meno la stessa situazione che ho nella struttura
funzionale, e quindi staffare sempre il vertice, e in questo caso si avranno i vantaggi sopra riportati. Lo
svantaggio principale però è che non vengono assecondate le esigenze specifiche delle aree di business: si
ha un centro di competenza che fornisce supporto, come nel caso delle funzioni, ma non ha le competenze
specialistiche per fornire il supporto adeguato a ciascuna delle aree strategiche. Quindi in questo caso la
tipica soluzione che viene adottata è la forma divisionale pura, in cui si staffano le divisioni a supporto della
specifica area di business. Nella forma divisionale pura abbiamo però il problema della replicazione dei
costi, perché l’impresa deve considerare che avrà più funzioni HR (una per ogni divisione) e poi, pur
venendo privilegiata l’esigenza specifica dell’area di business, si crea disomogeneità, quindi c’è un grosso
pericolo di iniquità e di conflittualità tra le diverse divisioni.
Struttura divisionale con funzione HR in staff al vertice:

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Forma divisionale pura:

---- Fine ripasso ---


Adesso passiamo alle configurazioni della funzione HR. Sono possibili 3 configurazioni:
1. Amministrazione del personale
In questa configurazione il task è molto operativo, caratterizzato da una concezione di tipo
contabile – amministrativo, volta ad amministrare il rapporto di lavoro. La funzione del personale
ha scarse relazioni con il vertice strategico e con la line operativa, ai quali evidenzia i vincoli
amministrativi e dai quali si limita a ricevere gli input informativi necessari per tradurre le loro
scelte gestionali, in ordine al personale, in atti e rilevazioni coerenti con le norme legislative e
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contrattuali e con le procedure amministrative. La gestione del personale in termini sostanziali è
invece effettuata dal vertice strategico e dalla line, senza supporti specialistici, con strumenti
tecnici non professionali e politiche non formalizzate. Questa configurazione è frequente nelle
imprese piccole oppure piccole imprese di successo, in cui tutto ruota intorno alla forte leadership
del capo. Il modello si presenta anche in altri casi, come nelle grandi imprese burocratizzate o nelle
amministrazioni pubbliche (per esempio la Sapienza), dove la strategia non presenta particolari
connotazioni in termini di gestione delle risorse umane: la dimensione del personale finisce con
l’essere l’unica dimensione del rapporto con i lavoratori.
Dal punto di vista organizzativo, la funzione è confusa con la direzione amministrativa, di cui
costituisce un’appendice. La tecnologia è quella tipica dell’amministrazione. Il servizio fornito è di
tipo indifferenziato (cioè sarà un centro di competenze e servizi condivisi in cui tutti andranno ad
attingere per avere informazioni sugli aspetti più amministrativi del lavoro), senza segmentazione
del personale, se non nel limitato grado richiesto dalla classificazione dei lavoratori in alcune grandi
classe definite per via legislativa e contrattuale (per esempio dirigenti, impiegati, operai).
La professionalità degli addetti è generica sugli aspetti gestionali, mentre è normalmente molto
sviluppata sugli aspetti giuridico-amministrativi.
Possono riscontrarsi anche in materia amministrativa, soprattutto nelle dimensioni minori, supporti
di consulenze da parte di consulenti del lavoro e di associazioni imprenditoriali. Il limitato impatto
di una funzione così concepita sull’assetto organizzativo e sul sitema decisionale dell’azienda ne
hanno fatto l’oggetto principale di processi di outsourcing, anche in organizzazioni di rilevanti
dimensioni.
Il criterio dominante per valutarne la performance è definito dalla correttezza amministrativa e
dalla “legittimità” (rispondenza alla normativa legislativa e contrattuale). In questo caso gli
indicatori di performance che verranno utilizzati saranno quelli di efficacia ed efficienza dei
processi. La cultura, i valori di riferimento e gli orientamenti espressi dagli addetti al personale
possono essere diversi da quelli espressi dall’azienda nel suo complesso.
All’interno di questa configurazione la Dru gioca il ruolo che Ulrich definisce di administrative
expert, caratterizzato da un orientamento di breve periodo e una focalizzazione operativa sui
processi. In questo caso, il responsabile del personale è un esperto funzionale, la cui competenza è
limitata alla dimensione amministrativa e contabile. Questo ruolo richiede che i professionisti delle
risorse umane assicurino procedure efficienti ed efficaci che implicano un costante monitoraggio e,
ove necessario, frequenti riformulazioni dei processi.
Esempio configurazione “Amministrazione del personale”:

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2. Gestione del personale
Questa configurazione è tipica delle imprese che hanno una struttura funzionale e quindi che
pongono la HR in staff al vertice.
In questa configurazione il task è caratterizzato in termini gestionali e non solo amministrativi. La
direzione del personale definisce politiche specifiche e offre al vertice strategico e alla line
operativa i supporti tecnici per implementare le loro scelte in termini di personale. La focalizzazione
sugli aspetti gestionali non si contrappone a quella tipica della precedente configurazione, che
invece viene assorbita in una prospettiva più ampia.
Nella definizione e nell’implementazione delle proprie politiche specifiche la Dru gode di una certa
autonomia, che può essere distinta in:
Autonomia specialistica, che deriva da una collocazione organizzativa autonoma e
differenziata rispetto alla funzione amministrativa e alla line. Il suo compito è quello di
fornire, da una posizione di staff, senza potere e responsabilità diretti, supporti tecnici alla
line, in ambiti che richiedono strumenti professionali specifici (per esempio tecniche di
selezione, analisi motivazionali;
Autonomia politica, che conferisce ai responsabili del personale un potere diretto sulle
politiche delle risorse umane. Dal punto di vista organizzativo, la Dru risponde direttamente
ai vertici aziendali e ha un’autorità funzionale sulla line per tutti i problemi che attengono al
personale.
La professionalità degli addetti è normalmente generica per quanto riguarda gli aspetti di gestione
aziendale, mentre è elevata sugli aspetti tecnici di direzione del personale, con uso di
strumentazioni che possono essere anche molto sofisticate e formalizzate (quindi in questo caso le
competenze di chi lavora nella funzione HR gestionali, più rivolte agli aspetti gestionali dei processi
di gestione e sviluppo delle risorse umane).
La valutazione della performance della funzione si basa su criteri di efficienza e di efficacia
dell’impiego del personale, con una prevalenza di un’ottica di breve periodo e di soluzione di
problemi specifici. La cultura degli addetti è di tipo tecnocratico, con una forte identificazione
professionale. L’orientamento strategico è rivolto al costo e all’ottimizzazione del rapporto
costi/benefici delle diverse politiche del personale. Questa configurazione si presenta come
prevalente nelle imprese medie e grandi che hanno accumulato una certa esperienza nella gestione
del personale e hanno risorse da dedicare ad attività specialistiche.
In questa configurazione, usando la sistemazione di Ulrich, oltre al ruolo di administrative expert, la
Dru compre il ruolo di employee champion, caratterizzato da un orientamento di breve periodo, ma
con una focalizzazione sulle persone piuttosto che sui processi e sulle procedure. In questo caso, gli
addetti al personale gestiscono il contributo dei lavoratori assicurando lo sviluppo del loro
commitment e delle loro competenze. La copertura di questo ruolo richiede che i professionisti
delle risorse umane si impegnino personalmente nel rapporto con i collaboratori e preparino e
stimolino gli altri manager di line a fare altrettanto. Le attività connesse a questo ruolo
comprendono il dialogo e la ricerca di soluzioni ai problemi prospettati.
Esempio configurazione “Gestione del personale”:

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3. Direzione e sviluppo delle risorse umane:
Funzione che viene implementata tipicamente nei casi di strutture funzionali molto articolate o
strutture divisionali.
In questa configurazione le politiche del personale sono concepite ed evolvono con la strategia.
La funzione del personale è focalizzata sulle problematiche strategiche, direzionali e operative ed è
integrata nei massimi livelli decisionali dell’impresa. Partecipa al processo di programmazione
aziendale non solo ricevendo input, ma anche fornendone. Attraverso le politiche del personale,
vengono costruiti elementi importanti del vantaggio competitivo. In questa configurazione più
globale e integrata, le politiche del personale si collocano, rispetto alla strategia aziendale, in una
posizione proattiva e di anticipazione finalizzata a rimuovere vincoli e a sviluppare opportunità sia
per l’azienda sia per i lavoratori.
La segmentazione del personale è molto sviluppata ed è alla base di un vero e proprio marketing
interno. La segmentazione è pluridimensionale e procede in senso orizzontale (funzionale),
professionale e culturale, fino ad arrivare a politiche personalizzate per certi gruppi o per certe
figure chiave. In ordine alla collocazione organizzativa, da una parte c’è l’esigenza, per ragioni di
economie di scala e di unità di direzione, di concentrare certe funzioni, di renderle omogenee e
coerenti con la cultura aziendale, di affidarle a dirigenti dotati di un’elevata professionalità pratica;
da un’altra parte c’è l’esigenza, apparentemente contraddittoria rispetto alla prima, di
responsabilizzare la line, di dotarla di una capacità di iniziativa e di risposta autonoma e rapida, di
avvicinare il momento in cui sorgono i problemi e il momento della loro soluzione.
Il bilanciamento tra accentramento e decentramento è uno dei problemi più delicati della gestione
di questa configurazione. Le soluzioni più comunemente adottate sono (possibile domanda:
problemi nel rapporto tra line e funzione HR):
Coinvolgimento della line nel momento di elaborazione delle politiche del personale e
delega alla stessa di aspetti rilevanti della loro gestione operativa [chi è a favore sempre di
un accentramento delle competenze HR in una unità organizzativa che faccia da supporto
alla line];
Articolazione organizzata della direzione del personale con dislocazione presso la line di
supporti specialistici (per esempio l’assistente, per il problemi del personale, del direttore
di stabilimento area grigia della figura sotto) [staffare sempre la funzione HR al vertice e
poi mettere dei presidi HR in ciascuna divisione che tengano conto della specificità delle

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aree di business, anche se l’accentramento politico è in capo alla funzione HR mentre
l’autonomia specialistica è invece data ai presidi all’interno delle diverse divisioni];
Interventi di formazioni e di sensibilizzazione dei responsabili di line sulle problematiche del
personale, e degli addetti al personale sulle problematiche tecnologiche, economico-
finanziarie e commerciali affinché siano in grado di capire meglio le reciproche esigenze
si parla di formazione incrociata.
La professionalità degli addetti è elevata, tanto sugli aspetti di gestione aziendale, quanto su quelli
tecnici di gestione e sviluppo delle risorse umane, ma probabilmente senza esasperazioni
specialistiche che porterebbero a sofisticazioni autoreferenziali.
Il criterio dominante per valutare la performance della direzione del personale diventa la capacità
di alimentare il vantaggio competitivo, attraverso lo sviluppo di caratteristiche distintive delle
risorse umane aziendali. I professionisti della Dru devono conoscere il business e interpretarne, ma
spesso anticiparne, le esigenze. Essi hanno un ruolo centrale nel caratterizzare, consolidare e
diffondere la cultura aziendale e, quando necessario, gestirne il cambiamento. Tale configurazione
si riscontra più diffusamente nelle imprese di dimensioni medie e grandi, orientate all’innovazione
di prodotto e di mercato, operanti in contesti sociali sviluppati che affrontano mercati del lavoro
differenziati e ambienti anche molto perturbati che offrono molte opportunità agli innovatori.
In questa configurazione si esprime compiutamente il carattere multiruolo della Dru teorizzato da
Ulrich, che sottolinea il fatto che i professionisti delle risorse umane devono nello stesso tempo
assicurare la copertura di ruoli strategici e operativi, essere controllori e partner, assumere la
responsabilità su obiettivi qualitativi e quantitativi, di breve e lungo termine. Al ruolo di
administrative expert e di employee champion si aggiungono i ruoli di business partner e di agente
di cambiamento.
Il business partner (orientamento strategico di lungo periodo e focalizzazione sui processi)
contribuisce ad assicurare il successo dell’impresa aumentando la capacità dell’organizzazione in
implementare la strategia attraverso:
La riduzione dei tempi di passaggio dal concepito della strategia alla sua esecuzione;
Una migliore capacità di rispondere alle domande del mercato, in quanto le strategie di
servizio al cliente sono tradotte in politiche e procedure;
Il conseguimento di migliori risultati economici, grazie a una più efficiente esecuzione della
strategia.
L’agente di cambio (orientamento strategico ugualmente di lungo periodo ma focalizzato sulle
persone) svolge un ruolo di guardiano e di catalizzatore della cultura aziendale, che costituisce uno
dei principali “oggetti” di intervento nei processi di trasformazione e di cambiamento. I
professionisti delle risorse umane nell’interpretare questo ruolo devono migliorare la capacità
dell’azienda di progettare e implementare i cambiamenti e di ridurre i tempi di realizzazione di
tutte le attività organizzative. La capacità di cambiamento è il loro apporto alla strategia. La loro
attività consiste quindi nell’identificare e inquadrare i problemi, creare relazioni di fiducia, trovare
le soluzioni, preordinare e realizzare i piani d’azione.

Esempio configurazione “Direzione e sviluppo delle risorse umane”:

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È chiaro che non tutte le imprese adottano la configurazione, ad esempio, di direzione e sviluppo delle
risorse umane. Dipende dalla strategia e dal contesto istituzionale e competitivo. Un recente studio
americano ha individuato tre tipologie d’impresa:
- Le imprese low cost: imprese molte attente alla riduzione dei costi, che andranno a sminuzzare al
minimo le attività da assegnare alla funzione HR; sono imprese che non solo si propongono ai
consumatori con prezzi altamente competitivi, ma impiegano persone che avrebbero difficoltà a
trovare altre occupazioni e sono disposte/costrette ad accettare condizioni contrattuali molto
flessibili (esempio Wall-Mart);
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- Le imprese globali che mirano molto all’esternalizzazione e all’internazionalizzazione attraverso
forti investimenti in tecnologie, competenze e asset finanziari, sono attive nelle telecomunicazioni,
media, beni di largo consumo. Queste imprese quindi non hanno un’attenzione particolare allo
sviluppo e valorizzazione delle risorse umane: in particolare, hanno politiche diverse per i
permanenti, che gratificano con elevate retribuzioni e vantaggi addizionali, e i contingenti, che
impiegano su base contrattuale per fabbisogni specifici. Sono aziende che usano la delocalizzazione
in maniera spinta e, in generale, con il personale, anche quello permanente e di alto livello, la
relazione diventa sempre più di tipo contrattuale e meno di tipo fiduciario di lungo periodo, basata
sulla lealtà e sul senso di appartenenza;
- Le imprese ad alta integrazione in cui la configurazione prevalente è quella di direzione e sviluppo
delle risorse umane, in cui le risorse umane supportano il vertice nella definizione della strategia (il
direttore delle risorse umane partecipa ai consigli di amministrazione, al budgeting, alla
pianificazione strategica) e contestualmente gestiscono i processi. Queste imprese offrono
condizioni di lavoro e di carriera ricche e stimolanti, con forti opportunità di coinvolgimento e di
autonomia, con un impegno reciproco a una relazione di lungo periodo (basso tasso di turnover).
Queste imprese, secondo lo studio, hanno anche le performance migliori.
La domanda che ne consegue è la seguente: perché non c’è convergenza sul terzo modello? Evidentemente
la ricerca di flessibilità indotta dalla competizione di mercato suggerisce a certe imprese di non impegnarsi
nel lungo periodo e di tenere i costi del lavoro il più possibile reversibili e variabili. Questo atteggiamento
dell’impresa trova a volte un atteggiamento corrispondente, da parte dei lavoratori che ugualmente sono
restii a impegnarsi e a farsi coinvolgere. La flessibilità diventa disimpegno reciproco, con conseguenze sui
costi di turnover e di controllo della performance.

LEZIONE 3

IL CICLO DEL VALORE DELLE RISORSE UMANE

DALLE PERSONE AL VALORE


Il ciclo del valore delle risorse umane parte da un presupposto fondamentale, cioè che le persone sono il
punto focale della creazione di valore. È un modello di analisi e descrizione (modello analitico – descrittivo)

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delle dinamiche che legano in sequenza le attività della Dru con la strategia (non è dunque un modello
gestionale) ed è stato proposto dagli autori del libro, quindi è come si fosse un modello di interpretazione
che si articola intorno a 4 punti fondamentali: persone, relazioni, valorizzazione e prestazioni. Parte dalle
persone che sono portatrici di capitale umano e arriva a dimostrare che il valore immesso dalle persone si
trasforma in valore reale per l’azienda stessa.
Come sono legati tra loro questi elementi? Il ciclo del valore delle risorse umane non può che partire dalle
persone, che sono portatrici di capitale umano (= insieme di conoscenze, abilità, competenze e
caratteristiche che attengono alle persone). Il capitale umano si costruisce attraverso i processi di
socializzazione e di acculturazione, a livello di famiglia e comunità, di scolarizzazione, a livello di istituzioni
formative pubbliche e private, e, infine, di professionalizzazione, che avvengono soprattutto in aziende e
sono poi rinforzati attraverso la formazione continua. Ma il capitale umano è solo una potenzialità per
l’impresa, e non ancora un fattore produttivo: è un fattore potenziale perché è presente nel mercato del
lavoro, ma per acquisirlo l’azienda deve creare con le persone una relazione. Tale relazione assume la
forma di un contratto inteso sia in termini tecnico – giuridici sia in termini psicologici::
- Dimensione tecnico – giuridica: stipulazione del contratto di lavoro, oppure accettazione delle
condizioni poste nel contratto collettivo nazionale del lavoro);
- Dimensione psicologica: attiene al sistema di aspettative reciproche che si instaurano tra l’azienda
e l’individuo. Trattandosi di aspettative, si tratta di qualcosa di implicito, che non è dichiarato
all’interno del contratto (nel contratto di lavoro giuridico che si firma non è specificato che il datore
di lavoro debba avere cura alla mia formazione, oppure che debba motivarmi).
Una volta che le persone sono collegate all’azienda attraverso la relazione, entrano nell’organizzazione e
qui vengono loro fornite le condizioni necessarie per lo svolgimento della loro mansione e per
l’ottenimento della prestazione (in virtù del contratto). Per rendere efficace ed efficiente la prestazione è
necessario valorizzare le risorse. Come faccio a valorizzare una risorsa? Innanzitutto la devo retribuire ma
non solo, non mi possono fermare soltanto alla retribuzione nonostante questa sia l’obbligazione principale
del contratto di lavoro. Quindi oltre a garantire la retribuzione devo anche remunerare la prestazione.
Differenza tra retribuzione e remunerazione: retribuzione vuol dire, dal latino “dare addietro” in virtù di un
contratto (questa rappresenta l’obbligazione principale del contratto di lavoro da parte del datore); il
concetto di remunerazione invece è più ampio perché fa riferimento all’etimologia latina che divide la
parola in re – munerare (“re”= reciprocanza, munerare (da munus=regalo) = regalare, riconoscere), e quindi
attiene non solo alla sfera monetaria ma comprende un tipo di ricompensa che può essere anche di diversa
natura (non monetaria), e che magari va a far leva sulla motivazione dell’individuo. La valorizzazione della
prestazione prodotta è dunque funzione della capacità dell’impresa di inserire il prodotto dell’attività della
persona nella catena del valore aziendale, oltre che in quella dei clienti e degli altri stakeholder. Il processo
di valorizzazione si conclude con il ritorno di risorse economiche e di legittimazione, che rientrano nel ciclo
del valore remunerando i fattori di produzione, risorse umane comprese, e consentendo la riproduzione del
ciclo. La legittimazione si misura attraverso la reputazione, il consenso, l’accettazione sociale dell’impresa
che si sente responsabile dell’impatto di lungo periodo delle sue attività.
In sintesi: si parte dalle persone, con queste si instaura una relazione, le persone una volta impiegate danno
la loro prestazione, ma affinché sia efficace ed efficiente è necessario valorizzarla.
Le persone

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Le persone hanno caratteristiche individuali, fisiche, psicologiche e sociali che ne differenziano il
comportamento lavorativo e, quindi, il valore che potenzialmente sono in grado di apportare in una
relazione organizzativa.
Le competenze sono un insieme di motivazioni, tratti, atteggiamenti, conoscenze e abilità che permettono
a un individuo di coprire il proprio ruolo organizzativo fornendo una prestazione in linea con le aspettative
dell’azienda. Le competenze uno una parte del più ampio capitale umano degli individui, la cui formazione
coinvolge una varietà di soggetti: le famiglie, le scuole, gli ambienti nazionali e regionali, oltre che le
imprese e gli stessi individui. Le competenze devono essere scoperte, stimolate, indirizzate, conservate e
difese dall’obsolescenza.
I corrispondenti meccanismi utilizzabili dalle imprese riguardano da un lato tradizionali strumenti della
gestione delle risorse umane, come la selezione, la formazione, lo sviluppo; dall’altro strumentazioni di tipo
trasversale, come la gestione di un rapporto attivo con i mercati esterni e interni del lavoro, la
comunicazione, il coinvolgimento degli stakeholder nella progettazione dei percorsi di crescita dei
lavoratori.
La produzione interna di competenze non è l’unico modo per mantenere e sviluppare il vantaggio
competitivo dell’impresa. Anche l’acquisizione sul mercato può assicurare lo stesso obiettivo, purché il
rapporto con il mercato venga in qualche misura “organizzato” al fine di garantire la cooperazione, la
longevità della relazione e il reciproco sviluppo dei contraenti. L’esistenza di competenze all’interno e
all’esterno dell’impresa costituisce però una semplice potenzialità. Non significa ancora che esse possano
essere utilmente impiegate e valorizzate. È necessario entrare in relazione.

Le relazioni
Le relazioni comprendono la definizione del contratto in senso tecnico – giuridico, ma anche in senso
psicologico. Accanto al concetto di capitale umano è oggi spesso usato quello di social capital (capitale
sociale). Mentre il capitale umano è funzione di competenze, conoscenze e capacità delle persone, il social
capital è funzione delle relazioni che le persone attivano, di cui sono parte.
Tradizionalmente la Dru ha avuto un ruolo importante nella costituzione della relazione (attraverso le
attività di reclutamento e selezione, assunzione, inserimento) e un ruolo minore nella sua gestione, affidata
al rapporto diretto tra il lavoratore e il suo superiore gerarchico, intervenendo saltuariamente e per
eccezione a fronte di particolari procedure (per esempio valutazione, promozioni) o di particolari problemi
(per esempio conflitti, provvedimenti disciplinari). Più significativo il ruolo della Dru nelle relazioni
collettive, costituite in prevalenza dalle relazioni sindacali, di cui ha molto spesso la gestione esclusiva.
Le imprese si trovano a gestire una pluralità di relazioni con le persone e con le loro competenze. Gli anni
più recenti sono stati caratterizzati da una grande differenziazione delle tipologie di lavoratori da
considerare nella gestione e, di conseguenza, delle relazioni più appropriate da attivare. Cambiano anche le
relazioni giuridiche, non più riconducibili al solo contratto subordinato. Emergono infine nuove tipologie di
rapporti di lavoro: prestatori di servizi professionali, lavoratori a progetto, lavoratori in somministrazione e
così via.
Oltre al tipo di relazione, risulta fondamentale la sua qualità. La valutazione delle competenze non può
prescindere dalla qualità della relazione. Un’elevata qualità della relazione può, per esempio, sopperire a
un meno elevato livello di competenze individuali e conferire all’insieme dell’impresa una notevole
competenza, come è dimostrato da una miriade di piccole e medie imprese che hanno rivelato eccezionali
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capacità di sviluppo, valorizzando le limitate risorse umane disponibili. Per contro, elevate competenze
individuali associate a una relazione inadeguata danno luogo a una scadente competenza aziendale, come è
dimostrato dal declino di alcuni grandi imprese, un tempo considerate eccellenti.
Facciamo un attimo un focus su quelli che sono gli orientamenti alle relazioni tra organizzazione e
individuo, a proposito di capitale relazionale.

La relazione che l’organizzazione instaura con le persone può essere caratterizzata da due dimensioni: il
rispetto della persona, che attiene alla sfera della relazione giuridica (quindi il rispetto degli accordi
contrattuali) e il coinvolgimento emotivo (= dimensione psicologica), l’attenzione e il commitment, che è
quello che poi spinge le persone ad agire in nome e per l’impresa. La tradizionale Dru spesso cura
esclusivamente la prima dimensione e trascura del tutto la seconda. Combinando queste dimensioni
possiamo individuare quattro configurazioni:
- Organizzazione opportunista: un’azienda tipicamente opportunista ha bassi livelli in entrambe le
dimensioni, in quanto ne rispetta gli accordi giuridici (correttezza formale) ne si preoccupa di curare
l’intensità sostanziale della relazione (aspetti psicologici);
- Organizzazione tecnocratica/burocratica: un’azienda tecnocratica e burocratica spinge molto sul
rispetto delle procedure, dei processi e degli accordi contrattuali (le risorse in questo caso saranno
anch’esse orientate ad una visione molto tecnocratica dell’impresa per esempio le
amministrazione pubbliche, dove viene detto che una cosa non si può fare perché la procedura non
lo prevede)i, ma poco a quelli psicologici, creando un ambiente relazionale freddo e asettico;
- Organizzazione paternalista: quando invece c’è poco rispetto per gli accordi contrattuali e invece
c’è una grossa emotività nella relazione tra organizzazione e individuo allora si parla di
paternalismo, di azienda paternalista molto frequente nelle piccola azienda padronale;
- Organizzazione integrata: è quella più impegnata sia sul fronte giuridico – contrattuale sia sul
fronte psicologico – emotivo. Queste aziende puntano a valorizzare le caratteristiche dei prodotti e
l’immagine dell’impresa presso i clienti per creare un assetto organizzativo che incorpori i valori
aziendali (employer branding), attraverso i quali mirano ad attrarre, trattenere e svilpuuare
persone che “vivono il brand”. Si opera così un’integrazione tra marketing esterno, la
comunicazione interna e le politiche delle risorse umane, il caso Ferrari illustra bene questo tipo

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d’integrazione, un employer branding efficace aumenta la probabilità di aggiudicarsi le risorse più
brillanti.
La prestazione
Le persone selezionate e assunte vengono inserite nell’organizzazione per coprire un ruolo, svolgere una
mansione, fornire una prestazione, la prestazione è funzione delle competenze delle persone, della
relazione instaurata e del contesto organizzativo e tecnologico. A parità di competenze, una persona
fornisce una prestazione più o meno elevata a seconda non solo dell’impegno che profonde, ma anche
degli strumenti tecnologici, dei processi e delle procedure con cui è organizzato il suo lavoro.
La prestazione richiesta, nelle impostazioni tradizionali, discende da un’organizzazione del lavoro e da una
tecnologia relativamente stabili. I problemi sorgono con le attività che non sono stabilizzate e che
richiedono un continuo apporto innovativo delle persone. In queste situazioni la prestazione è il risultato
contingente di una combinazione unica e irripetibile di circostanze.
Il cambiamento continuo richiede una capacità di invenzione, se non d’improvvisazione, senza tener conto
di programmi di azione precedentemente stabiliti e che devono essere rapidamente adeguati. È qui che
emerge il ruolo creativo della persona, contrapposto a quello esecutivo della tecnologia e dei processi.
Problemi del genere si presentano non solo nella gestione di sistemi complessi tecnologicamente sofisticati,
ma anche in cotesti apparentemente semplici come la gestione di un call center. In questa situazione,
infatti, si manifesta una tensione tra personalizzazione (ogni cliente ha delle richieste specifiche e “uniche”)
e standardizzazione (le richieste ricorrenti possono essere codificate in una lista di Frequently Asked
Question) del servizio che può richiedere un contributo non solo del singolo operatore ma dell’intera
organizzazione.
L’attività direzionale e l’organizzazione del lavoro devono inoltre intervenire per permettere che la
prestazione venga erogata con uno spirito di collaborazione. La regolazione contrattuale non sempre riesce
ad assicurare la necessaria collaborazione: le clausole contrattuali, infatti, anche quando prescrivono
determinati comportanti oppure legittimano rispettivamente il rapporto di comando e quello di
subordinazione, non garantiscono quegli atteggiamenti di lealtà, flessibilità, orientamento al risultato utili
per l’altro contraente. Senza trascurare il fatto che la formalizzazione e la pressione gerarchica rischiano di
bloccare l’autonomia e l’iniziativa del lavoratore. Nasce quindi il problema della progettazione dei ruoli e
delle posizioni di lavoro e della loro integrazione con la tecnologia in continuo cambiamento.
La valorizzazione
Alla fine, come compimento e attuazione del ciclo, si colloca la valorizzazione delle risorse umane, che per
l’azienda significa l’incontro con il mercato, e quindi con il cliente, e per la singola persona significa la
riscossione del “premio”, sia nella sua forma monetaria sia nella sua espressione psicologica.
In passato, le funzioni relative all’organizzazione e al personale hanno rappresentato l’equivalente
aziendale della funzione di mediazione politico-istituzionale, e non solo e non tanto perché a più diretto
contatto con le organizzazioni sindacali. La reinterpretazione del loro ruolo in termini di servizio strategico
e, quindi, l’attenzione al cliente interno hanno costituito un’importante evoluzione, che si è accentuata con
l’inserimento del cliente finale nella concezione del servizio fornito.
La frammentazione funzionale e gerarchica è sottoposta a una brusca ricomposizione quando alla logica
specialistica e autoreferenziale di ciascuna funzione o di ciascun livello gerarchico si sostituisce la logica del
servizio al cliente esterno e interno. Cambiano le priorità tecniche e politiche, cambiano i criteri di
misurazione della performance.
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L’attenzione si sposta da una produttività misurata con criteri interni di rapporto costo/risultato, o
input/output, a una produttività misurata in termini di valore trasferito al cliente. La valorizzazione delle
risorse umane si risolve quindi nell’apporto alla catena del valore aziendale e da questa alla catena del
valore dei clienti e degli altri stakeholder esterni.
Il risultato di questa attenzione al mercato deve retroagire sulle stesse risorse umane che saranno chiamate
a partecipare ai benefici sia direttamente sia indirettamente. Direttamente, attraverso formule retributive
variabili basate sulla performance. Indirettamente, attraverso piano di crescita professionale, occasioni di
consolidamento e sviluppo delle proprie competenze.
VALORE E VANTAGGIO COMPETITIVO
Il vantaggio competitivo di un’impresa si basa sulla capacità di generare valore in misura maggiore dei
concorrenti. Questa capacità è funzione della dotazione di:
- Asseti fisici, quali impianti, stabilimenti, risorse finanziarie;
- Asset intangibili, sintetizzati nel cosiddetto capitale intellettuale.
Mentre per i primi la quantificazione del valore e del loro contributo al risultato aziendale può contare su
criteri largamente noti e condivisi, per il capitale intellettuale non è così facile la traduzione in valori
finanziari. La qualità del personale o la reputazione dell’azienda non dispongono di metodi universalmente
accettati per la loro valutazione, anche se i principi contabili definiscono regole e criteri per la valutazione
del capitale intellettuale. Essi necessitano di ulteriori affinamenti e sperimentazioni, per trovare il giusto
equilibrio tra dati quantitativi ed elementi qualitativi. I modelli di descrizione e di rappresentazione del
capitale intellettuale si differenziano, ma le impostazioni prevalenti sono comunque riconducibili alla
seguente articolazione:
- Social capital, che riguarda la dimensione relazionale dell’impresa ed è perciò chiamato anche
capitale relazionale. Esso comprende l’insieme di tutte quelle relazioni che l’impresa intrattiene sia
all’interno che all’esterno: l’intensità e la qualità del rapporto con i clienti, i fornitori, i partner
(contratti di franchising, di licensing, di ricerca);
- Capitale umano, che rappresenta il valore delle persone che operano nell’organizzazione ed è
espresso in termini di abilità e competenze, esperienza, motivazione, istruzione e così via;
- Capitale strutturale (o capitale organizzativo), che comprende la proprietà intellettuale, gli assetti
organizzativi, i sistemi gestionali e operativi, le routine e le procedure, il modello di management e,
in sintesi, la conoscenza raccolta e istituzionalizzata all’interno della struttura organizzativa.
Ciascuno di questi elementi può essere oggetto di valutazione da parte dell’impresa, non solo a fini
contabili ma anche per scopi di carattere gestionale. Il set di indicatori che verrà creato sarà contingente
rispetto al settore dell’impresa, alla sua struttura e alla strategia aziendale. Esempi di indicatori sono: livello
di scolarità, ore di formazione per addetto, turnover in uscita, fatturato derivante da nuovi clienti, ecc.. .
L’insieme del capitale umano (attiene alle persone), capitale sociale (attiene alle relazioni intraprese
all’interno dell’azienda) e capitale organizzativo (attiene al sistema impresa nel suo complesso, quindi
insieme dei sistemi di gestione, della cultura, brevetti) forma il capitale intellettuale.
𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐔𝐌𝐀𝐍𝐎 + 𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐒𝐎𝐂𝐈𝐀𝐋𝐄 + 𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐎𝐑𝐆𝐀𝐍𝐈𝐙𝐙𝐀𝐓𝐈𝐕𝐎 = 𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐈𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐓𝐓𝐔𝐀𝐋𝐄
Il valore introdotto dalle persone non solo ha alimentato il capitale relazionale dell’impresa, ma poi si è
inserito in un contesto che alimenta anche il capitale strutturale. A questo punto si ha allora che, andando
ad alimentare sia il capitale relazionale sia il capitale organizzativo, il valore immesso dalle risorse è

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restituito in misura maggiore rispetto a quanto è entrato, determinando una resa su quello che è definito
vantaggio competitivo creato.

Il sistema di gestione delle risorse umane rientrano nel capitale organizzativo d’impresa, che a sua volta fa
parte del capitale intellettuale, ossia tra gli asset intangibili che, insieme agli asset tangibili, vanno a
determinare il vantaggio competitivo d’impresa.
Ma affinché il vantaggio competitivo generato sia sostenibile è necessario che le risorse impiegate abbiano
diverse caratteristiche. In particolare, il sistema di gestione delle risorse umane è vero che contribuisce alla
creazione di valore, ma in che modo può farlo? Deve avere diverse caratteristiche:
- deve essere in grado di generare valore positivo per l’impresa: il valore è dato dalla capacità delle
pratiche di gestione delle risorse umane di ridurre i costi o di aumentare la qualità di prodotti e
servizi;
- deve essere raro, cioè non facilmente imitabile e/o trasferibile: se le pratiche di gestione delle
risorse umane fanno parte di un sapere manageriale correntie, difficilmente possono costituire un
vantaggio competitivo;
- deve essere inimitabile: rendere un sistema di gestione delle risorse inimitabile dipende dal
capitale organizzativo dell’impresa, dalla capacità dell’organizzazione di combinazione e
ricombinazione le risorse, attiene soprattutto alle capacità manageriali.
In generale si è osservato nella letteratura che il livello di inimitabilità di un sistema di gestione
delle risorse umane è dato da diversi elementi:
la storia e l’identità: è il contesto storico spesso che fa la differenza, o i livelli di identità che
raggiunge una organizzazione per esempio Olivetti, che è stato un caso unico (per
questo definito imprenditore illuminato). Olivetti aveva una concezione di impresa
integrata, di impresa anche come luogo di riqualificazione delle comunità; aveva un’idea
d’impresa che risollevasse il lavoratore dalla condizione in cui versava concezione di
welfare molto ampia (è stato il primo a dare esperienza pratica al concetto di welfare
aziendale = laddove lo Stato manca interviene l’azienda);
l’esistenza di ambiguità causali, che rendono difficilmente correlabile un certo risultato a
una data politica. Tali ambiguità causali possono generare valore per l’impresa perché sono

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un’organizzazione che spinge molto sulle competenze tecniche, competenze trasversali,
competenze dei talenti. Ma quale processo del sistema HR ha portato a generare valore?
Come le ho formate queste competenze o come le ho trovate? Il valore generato, per
esempio, è dato dal processo di selezione perché sono stato selettivo nel selezionare i
candidati? Oppure perché una volta introdotte le ho formate, curate, allargato le mansioni?
Ci si deve chiedere se il meccanismo causale che ha portato alla generazione di maggior
valore attiene di più alla formazione o al procedimento di reclutamento molto selettivo;
la complessità sociale: un vantaggio competitivo che si regge sulla complessità sociale delle
interazioni entro l’organizzazione è difficilmente imitabile. Si pensi all’adozione dei circoli di
qualità nelle imprese giapponesi, il cui successo, dovuto alla qualità delle interazioni sociali
tipiche del Giappone, non si è riprodotto nelle imprese occidentali (circoli di qualità =
incontri che si fanno tra lavoratori e manager per capire dov’è il problema e cercare di
risolverlo in una logica bottom – up).

COMPORTAMENTO INDIVIDUALE E MOTIVAZIONE


Iniziamo dal comportamento perché iniziamo dalle persone (sono il nostro focus). Il comportamento degli
individui deve essere studiato perché gli individui sono portatori di diverse personalità, atteggiamenti e
motivazioni, e quindi dobbiamo conoscere i meccanismi che determinano un comportamento se vogliamo
mettere su un sistema di gestione HR che sia in grado anche di incentivare o disincentivare determinati
comportamenti nelle persone. Quindi studiare da dove proviene il comportamento è importante per la
gestione dei processi (selezione, valutazione delle persone, gestione del lavoro di gruppo, gestione dei
conflitti, formazione, efficientamento dei processi decisionali). Per esempio è importante capire e
conoscere il comportamento nelle imprese dette “personality intensive”, che fanno molto leva sulle
caratteristiche e sui tratti della personalità dei lavoratori quelle aziende che hanno bisogno di manager
che siano in grado di prendere decisioni in contesti difficili, che reggano molto i livelli di stress, e che
abbiano comunque la capacità analitica di analizzare le situazioni complesse, dunque in questi casi è
estremamente studiare il comportamento di chi dovrò selezionare.
Il comportamento è definito come una reazione visibile e osservabile, che può essere più o meno verbale,
che deriva da due fattori: l’individuo e l’ambiente (= il contesto).

𝑪𝒐𝒎𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 = 𝒇 (𝒊𝒏𝒅𝒊𝒗𝒊𝒅𝒖𝒐, 𝒂𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆)


Quello che in realtà interessa a noi è lo studio del comportamento individuale all’interno delle
organizzazioni. C’è infatti tutto un filone di studi, chiamato Organizational Behavior (comportamento
organizzativo), che studia il comportamento degli individui all’interno di contesti organizzati (che possono
essere sia gruppi, sia unità in senso più ampio, sia sistema impresa in generale).
Il comportamento dunque dipende dall’individuo, dai suoi tratti della personalità, dagli atteggiamenti, dai
suoi processi cognitivi che mette in atto, dai suoi processi decisionali, motivazionali, oppure è funzione
dell’ambiente. In realtà è stato aggiunto anche un ulteriore livello, che è quello neuronale. Fino al 2010
c’era la consapevolezza che il comportamento organizzativo dipendesse da tre livelli: livello individuale, di
gruppo e organizzativo (gli ultimi due attengono all’ambiente). Facciamo un esempio per capire perché
l’ambiente determina il comportamento: il comportamento di uno studente in un’aula universitaria è
diverso rispetto a quello tenuto in una chiesa; anche gli oggetti materiali modificano il comportamento
(esempio aula in semicerchio o aula piatta). A partire dal 2010, grazie ai primi contributi di Becker e
Cropanzano, si è iniziato a parlare di neuroscienza organizzativa. Becker e Cropanzano hanno aggiunto un
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ulteriore livello di influenza del comportamento: il livello neuronale. Le neuroscienze sono quell’insieme di
scienze che studiano il sistema nervoso centrale e il cervello, e si era iniziato a vedere che il sistema
nervoso centrale - quindi i meccanismi neuronali - influiscono sul comportamento, e quindi rientrano nei
processi decisionali. Questo significa che tutti noi abbiamo un tratto comune, il livello neuronale, che può
determinare, al pari del livello individuale e ambientale, il comportamento degli individui.
LA PERSONALITA’
Definizione: la personalità è un insieme relativamente stabile delle caratteristiche psicologiche
dell’individuo che lo caratterizzano e quindi ne determinano l’unicità (= il modo di interagire con gli altri, di
decidere e di agire).
Nel tempo si sono contraddistinti negli studi della personalità due filoni:
- quello genetista, secondo il quale la personalità la ereditiamo geneticamente. In questo caso si dice
per esempio che, riguardo alla leadership, “leader si nasce, non si diventa!”. Chi è fortemente
convinto di questa visione non intraprenderebbe processi di formazione sulle soft skill per formare
un leader, se è convinto che una persona geneticamente non può essere leader. Questo
ragionamento si ricollega anche un po’ alla distinzione che si faceva fra leadership transazionale e
trasformazionale. La prima è tipicamente collegata agli uomini, i quali tendono ad essere più
competitivi, dominanti, desiderosi di potere e controllo. La seconda era invece tipicamente legata
alle donne che si considerano più collaborative, più orientate alla relazione, all’affiliazione, alla
collaborazione. Questo presuppone che in parte i caratteri della leadership dipendono appunto
dalla propria genetica, quindi dal fatto di essere maschi o femmine;
- quello cognitivista: tale filone afferma invece che la personalità non è ereditata ma è frutto dei
processi di educazione (partecipazione alla scuola) oppure dei processi di socializzazione. Quindi in
questo caso l’idea principale è che un tratto della personalità possa essere incentivato e formato.
Questo è importante perché è chiaro che le risorse sono portatrici di un determinato assetto di
tratti della personalità, ma compito dell’organizzazione è anche cercare di rafforzarli o smorzarli
per rendere efficiente la loro prestazione e inserirla bene all’interno di un contesto.
Quando osservare il comportamento determinato dalla personalità?
Questo è un tema importante perché annuncia l’influenza che ha il contesto sulla personalità. Come
principio base, per conoscere il comportamento reale, dettato dalla personalità, bisogna osservare le
persone in situazioni non strutturate (= informali). Nei colloqui, per esempio, l’azienda cerca di creare
situazioni più informali possibili in modo che emerga un comportamento non determinato, ma il
comportamento in situazioni informali risente molto di più della personalità (isola l’effetto che ha
l’ambiente). In un contesto molto formale è difficile capire la personalità dei singoli (si pensi a una parata
militare) si dice che nelle situazioni formali la personalità è un fattore minore nel determinare il
comportamento (la personalità è un poco determinante del comportamento). Invece nelle situazioni
informali la personalità ha un carattere prevalente nel formare il comportamento, quindi tra individuo e
ambiente prevale l’individuo con la sua personalità nella determinazione del comportamento.
Perché è importante capire la personalità? Perché può essere utile capire i tratti della personalità delle
persone in modo da far leva su di loro per i meccanismi di incentivazione motivazionale ed è importante
per esempio anche quando bisogna creare dei gruppi di lavoro per evitare situazioni di conflitto.
I BIG FIVE

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Negli ultimi anni i tratti della personalità sono stati classificati in 5, che vengono definiti i big five, ossia i 5
grandi tratti della personalità: nevroticismo, estroversione, apertura, amabilità, coscienziosità. Questo
modello è molto utilizzato, soprattutto nelle fasi di selezione e di valutazione delle persone, perché è un
modello molto attendibile per due ragioni:
1. C’è una totale sovrapposizione fra l’ autovalutazione (‘individuo si assegna dei punteggi) e l’
eterovalutazione (la valutazione viene fatta da un altro), cioè si procede in due step:
a. Si fa fare una autovalutazione all’individuo, che si assegna dei punteggi su una scala di tratti
di personalità;
b. Dopodiché la stressa espressione di valutazione viene fatta fare da un altro
(eterovalutazione).
Si è visto che queste valutazioni tendono sempre a sovrapporsi, quindi diciamo che danno l’idea di
una certa robustezza (=validità) del modello;
2. Il modello è molto valido perché predice dei tratti della personalità che di fatto sono stabili nell’età
adulta. Se è vero che la personalità, secondo anche il filone cognitivista, si forma nei processi di
educazione e socializzazione, vuol dire che evolve; quindi avere dei tratti relativamente stabili è
importante. Ecco perché il modello è ritenuto valido.

Il nevroticismo misura l’adattamento di un individuo: può essere un elemento positivo ma anche negativo
nel momento in cui la stabilità emotiva è fondamentale. L’estroversione è una caratteristica
particolarmente ricercata nei lavori che presuppongono un’interazione con gli altri. L’apertura valuta la
proattività. La coscienziosità è il criterio utilizzato quando serve una persona molto scrupolosa e molto
pignola, che porti a termine il lavoro rispettando tutte le procedure.
LOCUS OF CONTROL
Un altro tratto della personalità importante è il locus of control.
Definizione: è una dimensione della personalità che influenza l’opinione dell’individuo rispetto al fatto che i
suoi risultati siano determinati da fattori interni o esterni. Quando il locus of control è interno l’individuo
tende a sentirsi responsabile dei propri risultati raggiunti, quindi tende ad attribuire il controllo delle cose a
se stesso (internamente). Quando si ha un locus of control esterno l’individuo tende ad attribuire agli altri il
risultato dei suoi comportamenti.
Perché è importante capire questa dimensione della personalità, capire la tendenza al controllo delle
persone? È importante capire questa dimensione perché dobbiamo renderla coerente con l’ambiente di
lavoro in cui si trovano. Esempio: quando si ha locus of control interno vuol dire che si è molto
indipendenti, con ottime capacità di autonomia decisionale, con capacità di dominare ambienti di lavoro
destrutturati e affrontare elevati livelli di stress un ambiente di lavoro non strutturato in questo caso
motiva la persone che hanno un locus of control interno. Se invece queste persone vengono inserite in
ambienti molto strutturati, queste vengono demotivate o addirittura si possono innescare in queste
persone reazioni talmente negative che decidono di cambiare il lavoro nonostante siano persone con un
forte capitale umano, e questo implicherebbe una perdita per l’azienda.
Viceversa se si ha locus of control esterno la persona, messa in situazioni molto destrutturate, non sarà in
grado di gestirle perché non ha punti di riferimento e non riuscirà ad attribuire esternamente il controllo di
quello che deve fare. Queste persone avranno bisogno di formalizzazione, di procedure da rispettare,
routine e, solo in questo contesto, rendono il massimo. Non c’è bene e male nell’essere l’uno o l'altro,
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l’importante è rendere ciascuna persona con il proprio locus of control coerente con le mansioni che
svolge, con l’ambiente in cui opera. È chiaro quindi l’impatto che può avere una dimensione del genere per
esempio sulla progettazione delle mansioni.

TIPI PSICOLOGICI E PREFERENZE INDIVIDUALI - Teoria di Jung e di Myers-briggs


Questo modello si basa sulla teoria dei tipi psicologici.
Un tipo psicologico è un sistema di preferenze che si articola intorno a delle dimensioni bipolari e ciascuna
di queste dimensioni determina il modo in cui le persone raccolgono informazioni, le utilizzano e prendono
decisioni.
Come si articolano questi sistemi di preferenze?
Abbiamo una prima dimensione che è l’orientamento dell’energia psichica: dove concentro la mia energia
mentale? Esistono due orientamenti:
- L’ estroversione: oriento l’energia psichica verso il mondo esterno, cioè verso i fatti e gli oggetti;
- L’ introversione: oriento l’energia psichica verso il mondo interno, cioè verso il pensiero.
Questo modello poi include quattro funzioni psichiche, che sono quelle dimensioni che determinano il
modo in cui agiamo, decidiamo e raccogliamo le informazioni. Più esattamente:
- Pensiero e sentimento: come prendiamo le decisioni. Nel modello sono opposti. Entrambe sono
definite funzioni giudicanti perché entrambe permettono di prendere decisioni sulla base di giudizi,
con la differenza che il pensiero utilizza giudizi di tipo logico (principi logici – sto decidendo perché
secondo i miei principi logici devo agire in quella determinata maniera), mentre il sentimento
utilizza giudizi di valore (decido se agire o meno se per me quella cosa ha un valore, è importante o
meno);
- Sensazione e intuizioni: ci dice qualcosa su come raccogliamo e usiamo le informazioni. Sono due
funzioni percettive, perché attengono appunto alla percezione (percettive perché non sono basate
su giudizi di valore o giudizi logici, ma sulla percezione delle cose). In una persona molto sensitiva il
focus sarà sull’aspetto sensoriale (mi baso solo sui fatti che accadono, che posso vedere), mentre
l’intuizione attiene alle possibilità che vi possono essere dietro i fatti. Quindi come uso le
informazioni? Nel primo caso mi baso solo sui fatti, nel secondo invece penso alle possibilità che ci
sono dietro ai fatti.
Giudizio e percezione: come agiamo. Sono funzioni derivate dalle altre due ( “due” perché sono
dimensioni bipolari).

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Nella definizione del tipo psicologico una di queste funzioni prevarrà e prende il nome di “funzione
dominante”, mentre la seconda funzione psichica che si rileva viene definita “funzione di appoggio” e, per
esempio, se la funzione dominante è “pensiero”, la funzione di appoggio può essere solo “sensazione” o
“intuizione”, mai quella opposta (cioè “sentimento”).
Bisogna essere molto cauti nella formazione dei gruppi. Se voglio costruire un team che sia indirizzato
all’innovazione cercherò persone creative e che vadano oltre i fatti, sarà quindi un persona molto
estroversa e che sia pronta a mettere in campo la sua energia per innovare. Poi pero bisogna progettare e
pianificare, quindi dovrà contemperare con persone più analitiche che siano in grado di mettere in pratica
le idee esposte dai soggetti più creativi. Si parla a tal proposito di principio della reciproca utilità degli
opposti.
LEZIONE 4

LA MOTIVAZIONE
All’interno della definizione di motivazione sono inclusi sia gli aspetti legati al contenuto della motivazione
sia quelli legati al processo. Dei primi studieremo i modelli motivazionali di Maslow, di Herzberg e il
modello dei bisogni appresi, per quanto riguarda i modelli orientati più al processo analizzeremo quello
dell’aspettativa - valenza, il modello di Lock e il modello di Skinner (anche detto del rinforzo).
La motivazione, dal latino modere, modus ad azionem, cioè il movimento che porta ad agire, ci fa capire
come già nella definizione sia incluso un processo dinamico. La motivazione è l’insieme dei motivi che
spingono un individuo ad agire per ottenere diversi obiettivi o bisogni attraverso processi cognitivi ed
emotivi. Quindi è l’insieme dei motivi che ci porta ad agire spinti da determinati bisogni o obiettivi
attraverso processi decisionali che fanno capo alla sfera cognitiva ed emotiva.
Le differenze tra i modelli orientati al contenuti e quelli orientati al processo sono tre:
1. Domanda a cui rispondono: i modelli orientati al contenuto si focalizzano su quali bisogni, su quali
obiettivi, su quali interessi l’individuo vuole soddisfare ecco perché vengono definiti modelli
orientati al contenuto (che cosa voglio, che cosa mi spinge ad agire). Nei modelli orientati al
processo invece è un’altra domanda alla quale si deve rispondere ossia: perché agiamo? Qual è
quel processo decisionale che mi permette di scegliere tra le varie alternative che ho per soddisfare
i miei bisogni quindi questo modelli si concentrano maggiormente sulla condotta che si può
adottare per raggiungere i propri obiettivi processo decisionale.

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Il legame tra l’obiettivo che devo raggiungere e la condotta che devo mettere in atto per
raggiungerlo è il processo. Schematizzando:

Questa è una visione complessiva di quella che è la motivazione che spinge gli individui, se ci si
concentra sugli obiettivi da ottenere, si parla di contenuto, mentre se ci si sofferma sulla condotta,
si parla di processo che dagli obiettivi/bisogni/interessi mi porta a raggiungere il risultato.

2. I modelli orientati al contenuto di basano sulla teoria dei bisogni (Maslow e tutte le teorie che
fanno riferimento a bisogni innati e appresi). I modelli orientati al processo, invece, si basano sulla
teoria delle decisioni e i processi cognitivi che portano ad agire.

3. La natura: rispondendo a domande diverse anche il loro approccio lo sarà. Nei modelli
motivazionali orientati al contenuto avremo una natura descrittiva ossia i bisogni saranno descritti.
Nella teoria delle decisioni, ossia tutti i modelli motivazionali orientati al processo, la natura sarà
prescrittiva in quanto i modelli prescrivono la condotta ed il comportamento da adottare per
raggiungere il risultato migliore per noi.

Schematizzando:

Perché è importante capire la motivazione?


In generale, negli studi organizzativi, la motivazione è al centro di un circolo, definito virtuoso, per cui si
parte da alcuni bisogni, si attiva il processo motivazionale, attiva dei comportamenti che ci portano ad
ottenere una buona prestazione e dei buoni risultati; a fronte della prestazione e dei risultati otteniamo
delle ricompense di varia natura, che rafforzano ancora una volta la nostra motivazione. Si crea quindi un
circolo virtuoso.

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MODELLI ORIENTATI AL CONTENUTO
IL MODELLO DI MASLOW
Maslow parte dal presupposto che il contenuto della motivazione sia dato da uno stato di insoddisfazione,
ossia è la necessità di soddisfare un bisogno e che ciò ci porti ad agire. Come si manifesta? Si parte da uno
stato di quiete, si avverte un bisogno insoddisfatto: da questo bisogno nasce l’insoddisfazione che spinge
l’individuo ad agire e a mettere in atto un comportamento attraverso il quale poter soddisfare il proprio
bisogno, ritornando quindi in uno stato di quiete. Quindi quello che secondo Maslow attiva la motivazione,
che spinge al comportamento, è l’insoddisfazione (= percezione di un bisogno da soddisfare).
Maslow declina una piramide dei bisogni in cui abbiamo alla base i bisogni fisiologici (mangiare, bere,
dormire), i bisogni di sicurezza (Protezione dai pericoli, dalle minacce e dalle privazioni), di appartenenza
(Socialità, affetto, amicizia, accettazione, amore, gruppi sociali), di stima (sia Auto, fiducia in se stessi, che
Etero, riconoscimento ricevuto dai colleghi) e infine di autorealizzazione (Sviluppo delle proprie potenzialità
e del proprio progetto di vita). Secondo Maslow i bisogni sono legati da una gerarchia, e questo vuol dire
che non si possono soddisfare i bisogni che sono nella parte alta della piramide se prima non vengono
soddisfatti quelli della parte bassa. Maslow distingue i bisogni primari, ossia quelli fisiologici e di sicurezza,
da quelli secondari, stima appartenenza e autorealizzazione, definendo il meccanismo che li lega di
soddisfazione-progressione secondo il quale se l’individuo non soddisfa i bisogni primari non riesce a
percepisce quelli secondari, quindi più soddisfa quelli che si trovano alla base della piramide più
progredisce nel percepire gli altri.

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La principale critica mossa al modello di Maslow è rappresentata dal fatto che l’ordine e l’intensità dei
bisogni sono diversi a seconda degli individui e dei contesti (esempio dell’artista che nella sua totale
magrezza, malattia, preferisce il bisogno di autorealizzazione, e quindi dipingere il cibo piuttosto che
nutrirsene; per lui il nutrimento è dato dall’arta e non dai bisogni fisiologici). Inoltre i nostri bisogni
cambiano nel corso del tempo.
IL MODELLO DI HERZBEG
Un altro modello motivazionale orientato al contenuto è quello di Herzberg. Anche Herzberg parte da un
presupposto: egli è convinto che gli individui abbiano due anime: una parte animale che cerca sempre di
evitare il dolore fisico, la sofferenza e la privazione, l’altra parte umana che invece tende a crescere
psicologicamente (essendo umani abbiamo il bisogno di accrescere le nostre facoltà). Partendo da questo
presupposto Herzberg fa un esperimento coinvolgendo 200 persone a ciascuna delle quali chiede di
indicare una situazione in cui hanno provato una forte soddisfazione e una invece in cui hanno provato una
forte insoddisfazione nello svolgimento del loro lavoro. Scoprì che la soddisfazione non è il contrario
dell’insoddisfazione soddisfazione e insoddisfazione non sono due concetti opposti, bensì distinti e ciò
che determina questa distanza è il fatto che ognuno di questi concetti fa riferimento a diverse tipologie di
bisogni, per cui i fattori che provocano soddisfazione non sono il contrario di quelli che invece provocano
insoddisfazione. È come se avessimo due insiemi: l’insieme della soddisfazione, il cui complemento è
l’insieme della non soddisfazione, e l’insieme dell’insoddisfazione, il cui complemento è l’insieme della non
insoddisfazione.
Herzberg afferma inoltre che i fattori igienici sono quelli che sono attivi quando sono assenti, ossia sono
quei fattori che, se assenti, generano insoddisfazione (quindi si trovano nella sfera dell’ insoddisfazione).
Generalmente sono i fattori legati al contesto del lavoro, quindi tipicamente le procedure, le regole, la
retribuzione, e si definiscono attivi quando sono assenti in quanto legati al concetto di privazione, ossia se
l’individuo viene privato di questi allora sente l’insoddisfazione – tuttavia non si può dire che se sono
presenti l’individuo si sentirà soddisfatto. Nella sfera della soddisfazione troviamo i cosiddetti fattori
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motivanti, ossia fattori che sono attivi quando sono presenti , cioè se sono presenti generano una forte
soddisfazione - questi fattori sono legati al contenuto del lavoro (quanto è ricca una ricca, se viene data
responsabilità, potere decisionale). Questi fattori vengono definiti motivanti perché su questi l’azienda può
far leva per attivare la motivazione.
MODELLO DEI BISOGNI APPRESI (McClelland)
McClelland parte dal presupposto che i bisogni non sono innati, non soltanto almeno, perché in realtà ci
sono dei bisogni che apprendiamo (ecco perché si parla di modello dei bisogni appresi) mediante le nostre
esperienze, la cultura e il contesto in cui viviamo. McClelland classifica tre categorie di bisogni appresi:
1. Successo: si riferisce al bisogno di affermazione mediante il proprio sforzo. Gli individui che
avvertono questo bisogno sono anche più motivati nel momento in cui potranno autodeterminare
il proprio sforzo; ad essi devono essere assegnati degli obiettivi sfidanti la cui responsabilità deve
essere definita chiaramente in capo a se stesso; l’individuo deve percepire che il contributo al
raggiungimento di quell’obiettivo è dato dal suo sforzo. Tali personaggi hanno però bisogno di
continui feedback. In questo caso si fa una distinzione tra:
- Best performer (high achiver): molto ricercati dalle aziende, sono persone che hanno un
alto bisogno di successo, sono più difficili da gestire perché quando questo bisogno è
troppo spinto generalmente le persone cadono in una situazione di disagio, ossia per
essere motivate hanno bisogno di gradi sempre più elevati di predisposizione al
successo, e quindi ad un certo punto iniziano ad essere meno soddisfatte di se stesse e
iniziano a percepire di essere sempre meno in grado di raggiungere degli obiettivi
superiori;
- Low performer (low achiever): persone che hanno un basso bisogno di successo.
Anch’essi sono di difficile gestione in quanto sono per lo più persone svogliate con
molta difficoltà nel concentrarsi perché non riescono ad incanalare i propri sforzi verso
gli obiettivi, in quanto non sentono il bisogno di ottenere successo.
2. Potere: la capacità di avere controllo e influenza sugli altri in virtù della propria posizione e del
proprio status. Generalmente sono persone orientate alla competizione e che possono dare molto
in termini di risultati, ma anche qui ci vuole sempre molta cautela perché sono persone che
possono sviluppare comportamenti anche molto aggressivi laddove il loro bisogno di dominanza
dovesse prevalere. Quindi, nel momento in cui si assegnano gli obiettivi, bisogna stare molto attenti
nel capire bene la persona che si ha davanti e i bisogni che più possono motivarla;
3. Affiliazione: siamo animali sociali e quindi abbiamo bisogno di sentirci di far parte di un contesto.
Qual è il problema che può sorgere nel caso in cui si spinga molto sul bisogno di affiliazione? Il
desiderio di rimanere all’interno di un gruppo può far nascere comportamenti sbagliati come
assecondare l’opinione del gruppo oppure può succedere che il leader, fortemente spinto dal
bisogno di affiliazione, evita di prendere decisioni che possano contrastare il suo sistema di
riferimento, che possano andare contro il gruppo stesso, e non sempre prende delle decisioni
giuste.

MODELLI ORIENTATI AL PROCESSO


Sono importanti perché esaminano la dinamica decisionale, soffermandosi su quelli che sono i processi
cognitivi oppure emotivi che ci spingono ad avere una determinata condotta e quindi a mettere in atto un
comportamento che ci porta ad un determinato risultato.
MODELLO DELL’ASPETTATIVA – VALENZA (VROOM)

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Vroom parte da un presupposto molto importante: osserva che i bisogni sono manifestazioni di operazioni
cognitive, ossia non è sempre detto che agisco per l’istinto del bisogno ma in realtà sviluppo dei processi
cognitivi che mi portano ad agire. Questo significa affermare che la motivazione non è necessariamente
data dal bisogno, innato o appreso che sia, bensì è data da una valutazione di utilità o di valore atteso
dell’obiettivo che posso raggiungere, cioè si assegna un valore di utilità (= valenza) al risultato ed è quello
su cui si deve ragionare per decidere se attivare o meno la motivazione. Secondo lo studioso la motivazione
è data dalla valutazione del valore atteso che si può ottenere raggiungendo il proprio obiettivo (quanto vale
per me raggiungere quel risultato), moltiplicata per l’aspettativa, cioè una valutazione della probabilità che
mediante un determinato sforzo si riesca a raggiungere quel’ obiettivo. Quindi sostanzialmente la
motivazione non è soltanto data dalla percezione di un bisogno da soddisfare, ma da un processo cognitivo
che si fa per valutare se agire o meno:

𝑀 =𝑉∗𝐴

Successivamente si fa un’ulteriore distinzione l’aspettativa è suddivisa in due accezioni:


- Aspettativa sforzo-performance, ossia la probabilità che a fronte di un determinato sforzo si riesca
a raggiungere il risultato;
- Aspettativa performance-ricompensa (o outcome): questo è un giudizio sulla probabilità che
davvero al raggiungimento del risultato si avrà quella ricompensa; quindi sostanzialmente è un
giudizio di probabilità su quanto il raggiungimento del risultato sia strumentale ad avere la
ricompensa desiderata e alla quale si è attribuito un valore. Ecco perché questa seconda
dimensione dell’aspettativa è definita strumentalità.
La valenza ha valori compresi tra -1 e +1 compreso il valore nullo (0); l’aspettativa, essendo una probabilità,
varia sempre tra 0 e 1. Chiaramente basta che uno dei due valori tra valenza e aspettativa sia 0 perché la
motivazioni si annulli e l’individuo non è spinto ad agire. In questo caso si può agire sull’uno o sull’altro
fattore, per esempio la valenza, dal momento che rappresenta l’utilità attesa, la si può incrementare,
oppure si può agire sull’aspettativa e, dato che è una percezione dell’individuo della probabilità di
raggiungere il proprio obiettivo, si può agire per esempio sul locus of control, stabilendo un obiettivo che
dipende esclusivamente dalla persona stessa. Un’altra variabile che viene spesso chiamata in causa per
innalzare i livelli di aspettativa è l’autoefficacia e rappresenta il giudizio che una persona ha su quanto essa
sia efficace nel mettere in atto il proprio compito per raggiungere il risultato (per esempio posso far fare dei
corsi di formazione oppure una seduta di coaching per incrementare l’aspettativa, se mi occorre aumentare
la motivazione).
Esempio - Albero delle decisioni:
Come scegliere tra due alternative.
Obiettivo: incrementare le vendite
Ricompensa: 10000€ (incentivo economico)
Secondo il modello di Vroom si deve calcolare la valenza, lo sforzo da impiegare e le aspettative.
Dato che la ricompensa in denaro rappresenta un incentivo per il venditore, la valenza del bonus ha per lui
un valore positivo: +1
Il valore atteso sarà perciò 10000 * +1= +10000

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Lo sforzo: il venditore ha davanti a se due scelte:
- andare porta a porta a vendere i prodotti, sforzo 500€
- rimanere in ufficio e aspettare i clienti, sforzo 0
I giudizi di probabilità di successo vengono assegnati soggettivamente dall'individuo.

La probabilità di insuccesso indica la probabilità di non raggiungere l’obiettivo e conseguentemente il bonus


quindi la valenza si annulla e diventa 0.
L’individuo ha una maggiore motivazione ad andare porta a porta e perciò sceglierà questa opzione.
Limite modello è un modello molto tecnico.
TEORIA DEL GOAL SETTING (o modello di Locke)
Anche Lock parte dal presupposto che la motivazione di un individuo è attivata dal suo bisogno di
raggiungere gli obiettivi. Ecco perché secondo lo studioso è fondamentale definire accuratamente gli
obiettivi, la loro tipologia e difficoltà. Se il livello di difficoltà degli obiettivi è eccessivo si possono instaurare
nell’individuo delle situazioni di over stress, cioè situazioni in cui esso si sente messo eccessivamente sotto
pressione, percepisce di non riuscire a raggiungere i risultati e quindi rinuncia fin dall’inizio. Viceversa, se
l’obiettivo è poco stimolante in quanto facilmente raggiungibile, l’individuo sarà a priori poco stimolato e
quindi non applicherà nessuno sforzo aggiuntivo per raggiungere il risultato, anche qui motivazione zero.
C’è sempre questo concetto di tensione ottimale nella definizione degli obiettivi. Gli obiettivi devono avere
cinque diverse caratteristiche affinché si possano ritenere motivanti e sfidanti:
1. Difficili ma non impossibili;
2. Chiari e specifici (mi aspetto uno statement da cui derivano gli obiettivi): chiari vuol dire che gli
obiettivi devono essere facilmente individuabili, mentre la specificità riguarda la specificità
degli ordini, dei tempi, dei modi;
3. Univoci ossia devo poterli collegare univocamente alla persona, cioè ogni individuo deve avere
la responsabilità individuale di un obiettivo è importante perché nel momento in cui una
persona è inserita in un contesto di lavoro, bisogna riuscire a isolare il contributo personale da
quello del contesto o da quello del gruppo;
4. Condivisione e accettazione degli obiettivi: importante per i piani di performance management;

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5. Feedback, è importante darli sia negativi, in quanto si sprona la persona a fare meglio e a
crescere, sia positivi per aumentare il senso di autostima. Devono essere costanti.
Queste sono le caratteristiche che devono avere gli obiettivi per essere definiti davvero sfidanti, motivanti.
Se manca una di queste caratteristiche è difficile che attivino quell’energia necessaria per raggiungere i
risultati.
MODELLO DEL RINFORZO (o Modello di Skinner)
Questo modello, ideato da Skinner, parte da un presupposto che deriva da tutta una ricerca che c’era stata
in quel periodo e da tutti gli studi sui riflessi condizionati e incondizionati.
Contesto: in quel periodo il ricercatore Ivan Pavlov studiava il riflesso incondizionato, cioè le relazioni tra il
sistema nervoso e l’apparato digerente, ed è famoso e riconosciuto per l’esperimento sui cani: dimostrò
che le ghiandole salivari dei cuccioli rispondevano ad uno stimolo che nulla aveva a che fare con il sistema
digestivo ma ad uno stimolo sonoro. Come fece? Fece ascoltare il campanello al cane e chiaramente non
succedeva nulla; poi gli dava la ciotola col cibo e lì misurò la stimolazione delle ghiandole salivari quando gli
faceva vedere la ciotola. Successivamente gli fece vedere la ciotola, gli diede il cibo e contemporaneamente
suonò la campanella. Nell’ultimo esperimento vide che bastava suonare il campanello affinché si attivasse
nel cane la secrezione salivare. Questo esperimento rivoluzionò i canoni dell’epoca in quanto si dimostrò
per la prima volta che il sistema nervoso non solo era in grado di influenzare i comportamenti sociali ma
anche quelli fisiologici (apparato digerente). Era una risposta incondizionata, cioè risposta ad uno stimolo
che nulla aveva a che fare la con la conseguenza che ha determinato in me.
Questa contestualizzazione è importante perché il modello ideato da Skinner dice che la motivazione non è
tanto determinata da operazioni cognitive bensì è una risposta automatica. Tale risposta avviene sulla base
di rinforzi positivi e negativi che l’individuo ha avuto in passato rispetto ai comportamenti messi in atto.
Quindi secondo il modello del rinforzo ogni individuo può essere motivato mediante i rinforzi per produrre
dei comportamenti desiderati o per ridurre la frequenza di quelli non desiderati. Generalmente per
incentivare un comportamento desiderato si usano i rinforzi positivi o negativi; per disincentivare invece un
comportamento si usano invece le punizioni o le estinzioni.
Esempio: Puntualità e ritardi
Ogni volta che qualcuno entra in aula in orario la prof lo loda o gli da +3 punti all’esame ( rinforzo positivo
di comportamento desiderato); ogni volta che si arriva tardi si tolgono i punti ( punizione) ma ciò potrebbe
non incentivare il comportamento desiderato puntualità. Le punizioni disincentivano un comportamento
sbagliato ma non incentivano quello corretto quindi un rinforzo negativo sarebbe l’eliminazione di questa
punizione qualora venga messo in atto il comportamento desiderato.
In generale si dice che nel lungo termine le punizioni non hanno frutto sulla motivazione ma sono meglio
i rinforzi positivi o negativi. L’estinzione, invece, poiché disincentiva un comportamento, può portare poi
alla riproposizione di comportamenti non desiderati.
Se si vuole incentivare un comportamento desiderato si possono usare i rinforzi che possono essere positivi
o negati: se l’obiettivo è incentivare la puntualità, il rinforzo positivo è la lode o i punteggi, mentre quelli
negativi è l’eliminazione della punizione( penalizzazione all’esame). Se si usasse solo la punizione senza un
rinforzo negativo del comportamento desiderato si otterrebbe o che in aula non ci va più nessuno pur di
non rischiare di perdere punti oppure si instaurerebbe un rapporto negativo con la professoressa
danneggiando la nostra predisposizione all’apprendimento quindi bisogna sempre accompagnare una
punizione con un rinforzo.
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Per disincentivare un comportamento si può usare o la punizione o l’estinzione. Caso estinzione: se la prof
smette di lodare o di assegnare punteggi (= estinzione del rinforzo positivo) può aumentare la probabilità
della ripresentazione del comportamento indesiderato.
LEZIONE 5

Oggi parliamo di competenze, che si dividono in:

Competenze generiche del personale;


Competenze dei manager.

L’ultima volta abbiamo parlato di motivazione: abbiamo detto che l’individuo è portatore di alcuni tratti
della personalità, atteggiamenti, motivazione e competenze. Come si passa dalla motivazione alle
competenze? È chiaro una persona per quanto possa essere motivata, ha bisogno delle competenze
adeguate per dare una prestazione efficace.
Alla forte motivazione devono essere associate le competenze adeguate.
Questa attenzione particolare nei confronti delle competenze nasce a partire dagli anni ’70 più o meno,
grazie al contributo di McClennan, attraverso il Movimento delle competenze (ovviamente non era solo lui
ma un insieme di colleghi, studiosi, che si occupavano di studiare le competenze). Questi studiosi
osservarono che i tipici strumenti utilizzati per la valutazione delle competenze potevano non essere così
efficienti ed efficaci nella valutazione delle stesse. Se pensiamo ai test psicoattitudinali, questi valutano un
certo livello di competenze ma di sicuro non arrivano a valutare il livello profondo di queste competenze,
come ad esempio la capacità di analisi, la capacità di pensiero critico; oppure anche i titoli rientrano nelle
credenziali che i selezionatori utilizzano per fare una prima valutazione delle competenze e lì si era
osservato che c’era sempre una sorta di pregiudizio. Pensiamo ad un selezionatore che ha davanti due
curricula: un laureato in Economia alla Sapienza ed un laureato in Economia alla Luiss. Penserà che il
laureato in Economia alla Sapienza è migliore perché sicuramente si sarà dovuto sobbarcare in meandri,
disorganizzazioni… sicuramente quanto meno sarà già improntato allo spirito di sopravvivenza, allo stress…
però sto applicando un pregiudizio, per quanto positivo esso sia, sto facendo una distorsione. Quindi questi
strumenti tipicamente utilizzati potevano non essere così completi. Allora utilizzano un altro approccio, un
approccio botton up (partono dal basso) e cercano di capire le competenze a partire dagli individui. Come
fanno? Utilizzano la BEI, cioè l’intervista comportamentale o situazionale. Vanno dai lavoratori, in
particolare da quelli che loro definiscono i best performer, e gli chiedono di indicare delle situazioni di
successo ed insuccesso. Ad esempio chiedono: mi faccia un esempio di un situazione in cui ha applicato la
sua iniziativa per migliorare il suo processo di lavoro; oppure Mi descriva una situazione in cui si è trovato a
gestire un veneto molto stressante, un conflitto all’interno del suo gruppo di lavoro.
Interviste situazionali raccontare delle situazioni da cui gli studiosi rilevavano comportamenti e
competenze. Poiché i loro interlocutori erano i best performer, quali competenze rilevavano? Rilevavano le
competenze associate alle prestazioni migliori (approccio che parte dal basso riesce ad identificare le
competenze necessarie per avere le migliori prestazioni, per avere le best performance). Fanno una lista e
con questa lista l’azienda decide se andarle a prendere all’esterno o se formarle all’interno.
Limiti di questo approccio:
è basato sui comportamenti agiti, ovvero quelli messi in atto, non presagiti ovvero non previsti. Le
competenze e i comportamenti che andiamo a rilevare sono di fatto statici, non evolvono, non
sono dinamici. Sono poco evolutivi;
il limite principale è che sono orientati al passato. Si basano certamente sul presupposto valido che
i comportamenti passati siano i migliori comportamenti futuri. L’assunto di base è razionale, però il
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limite è che ci danno una visione statica, poco evolutiva, poco dinamica, perché nulla mi dicono su
quali comportamenti posso mettere in atto con le stesse competenze, oppure su diverse
combinazioni di comportamenti che mi possono portare ugualmente ad una prestazione efficace
ma che non sono emersi dalle interviste.
Cominciamo a definire cosa intendiamo per competenza. Nella letteratura ci sono tantissime definizioni di
competenza. Pensiamo anche alle accezioni: quando dico insegnare è di mia competenza vuol dire che
rientrano in qualche modo tra i compiti che attengono alla mia professionalità, in qualche modo io ho il
diritto/dovere di portare avanti quella mansione. Quando dico sono competente in quella materia, più che
dire che in virtù della posizione e ruolo che rivesto mi compete, sto dicendo che ho un bagaglio di
conoscenze che mi rendono particolarmente preparato su quella materia, di cui sono competente.

Per mettere in ordine tutta la materia sulle competenze, sono stati definiti dei criteri chiave per la
classificazione delle competenze.

Una prima macro distinzione si fa tra:


- Competenze professionali: sono contestualizzate nell’organizzazione. Significa che sono quelle
competenze, abilità tecniche, saperi, che mi permettono di ricoprire un rullo all’interno
dell’organizzazione. Essendo contestualizzate, le competenze assumono valore soltanto all’interno
dell’azienda. Es: la figura di un project manager che lavora in un’azienda petrolifera. In quanto
manager, le sue competenze potranno essere trasferite ad aziende il cui core business non è
sicuramente l’oil o il gas ma è per esempio la chimica verde, quindi che con il petrolio non ha a che
fare nulla. Perché posso impiegare queste competenze in un altro contesto? Perché io sto badando
alla figura del manager, che quindi avrà quelle competenze trasversali attinenti alla sfera
manageriale che possono essere impiegata anche in altri contesti. Le competenze tecnico-
professionali generalmente sono le più visibili e per questo si dice che sono le più codificabili, cioè è
possibile trasferirle in codici e quindi poi trasmesse, formate, codificate.

Nelle competenze professionali abbiamo le conoscenze, il sapere teorico, pratico, le meta


conoscenze, che si dice attengano alla sfera del saper e saper fare.

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In particolare le competenze professionali sono costituite da:
1. conoscenze: sapere teorico = sapere che e sapere come (svolgerlo). Parliamo cioè di un sapere
teorico generale, che ha carattere più nozionistico (sono le conoscenze che anche noi tutti i
giorni assimiliamo durante la frequenza ad esempio dei corsi all’università; sono di carattere
più enunciativo e ci permettono di apprendere, sapere teoricamente come svolgere
determinate attività o come utilizzare determinati strumenti esempio: sappiamo come si
utilizza teoricamente l’intervista comportamentale, ma non l’abbiamo mai fatta, restando per
ora un sapere teorico/enunciativo). Sono facilmente codificabili. Basta prendere un manuale di
RU e acquisire quelle conoscenze.
2. Sapere empirico: è dato dall’osservazione e quindi dall’esperienza. Tutte quelle skills che sono
apprese mediante l’esperienza. Sono più difficilmente codificabili. Si parla in alcuni casi di
sapere/conoscenza tacita perché sostanzialmente è più difficile trasferirle in codici, bisogna
provare, fare tentativi, imparare, osservare le routine e farle proprie. È un sapere che viene
trasferito più nel lungo termine. Abilità apprese in maniera esperenziale = saper fare.
3. Meta conoscenze: dal greco “conoscenza delle conoscenze”, essere consapevoli dei propri
livelli di conoscenza. È importante sapere i propri livelli di conoscenza perché dobbiamo essere
consapevoli di noi stessi per capire se dobbiamo fare dei corsi di aggiornamento, se dobbiamo
migliorare l’inglese perché ad esempio siamo carenti. Sapere dove dobbiamo dirigerci per
migliorare il nostro profilo professionale.
- Competenze comportamentali: sono trasversali, cioè quelle competenze che possono essere
utilizzate e trasferite da un contesto ad all’altro. Sono più invisibili e forse anche meno
attenzionate, le c.d soft skills. Non sono facili da formare, da cambiare, da modificare. Permangono
di più nel tempo e sono difficilmente codificabili.

Le conoscenze comportamentali attengono ai nostri comportamenti e sono il frutto anche della


nostra personalità. Sono molto legate a noi come persone, attengono al nostro essere e quindi alla
sfera del saper essere.

Le competenze comportamentali si dividono in diverse tipologie:


1. Competenze cognitive: vengono generalmente rilevati attraverso dei test attitudinali. Sono:
attenzione, capacità di analisi, capacità di calcolo… quindi tutte quelle competenze che fanno
capo alla sfera cognitiva;
2. Relazionali: racchiudono quelle capacità/abilità di interazione con l’altro;
3. Emotive: capacità/abilità di gestire le nostre emozioni e quelle altrui;
4. Realizzative: attengono all’area della gestione e quindi alle competenze gestionali che portano
alla realizzazione di un compito.
Come possiamo vedere le competenze gestionali rientrano in quelle comportamentali, ecco perché
un manager deve possedere le competenze gestionali che possono essere trasferite da un contesto
ad un altro in maniera trasversale. Attengo, come abbiamo detto, alla sfera del saper essere.

Poco tempo dopo è stato dato un altro contributo alla definizione delle competenze da Boyatzis nel 1982.
Fino ora abbiamo detto che le competenze attengono alla sfera tecnico-professionale e alla sfera
comportamentale. Boyatzis afferma una nuova concezione di competenza intesa come attributo personale.
Lui definisce la competenza come caratteristica intrinseca di una persona che è casualmente correlata ad
una prestazione efficace, quindi presuppone un collegamento di causa-effetto tra una prestazione efficace
e il nucleo di caratteristiche personali di un individuo. Distingue le competenze in due tipologie:

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1. Competenze di soglia: sono definite come quelle competenze che sono necessarie, indispensabili,
minime, per ricoprire un ruolo, per svolgere un determinato compito. Sono considerate
competenze soglia quelle professionali, cioè quelle che mi permettono di inserirmi nel contesto e di
svolgere il lavoro che devo svolgere;
2. Competenze distintive: sono quelle competenze che mi permettono di svolgere bene quel ruolo, di
raggiungere una prestazione efficace. Sono ad esempio le competenze comportamentali. Si da
molta importanza al ruolo che hanno i manager, alla loro capacità manageriali.

Partendo dal contributo di Boyatzis e quindi dalla caratteristica dell’individuo, Spencer e Spencer fanno un
modello più organico. Boyatzis dice una cosa fondamentale e cioè che la competenza attiene all’individuo e
quindi alla sua individualità, quindi attiene in qualche modo attiene ai suoi tratti della personalità. Spencer
e Spencer invece danno un’idea più integrata, aggiungendo le capacità e le competenze che si trovano nella
parte emersa, che definiscono conoscenze e skills.
Sul libro di testo sono riportati tre cerchi concentrici:

Noi lo rappresentiamo attraverso un iceberg in cui c’è una parte emersa caratterizzata dalle conoscenze e
dalle skills, e una parte sommersa in cui siamo noi con i nostri tratti, la nostra motivazione, i nostri
atteggiamenti e valori. Nella parte intermedia c’è un punto di collegamento (che nel libro di testo mette nel
circolo intermedio) e che è l’immagine di sé. I tratti che si trovano nella fase sommessa sono quelli più
difficilmente modificabili, invece le conoscenze e skills che sono nella fase emessa possono essere
modificabili. L’immagine di sé e al centro e fa quasi da connettore perché in parte dipende dalla percezione
che ho di me stesso e dai tratti della mia personalità, ma in parte dipende anche dal bagaglio di conoscenze
e abilità che riesco ad acquisire. Tanto più riesco ad acquisire, tanto più ho una buona immagine di me,
autostima. Il Modello ad Iceberg delle competenze (Spencer e Spencer 1993):

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VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE
In letteratura esistono due approcci generalmente utilizzati per la valutazione delle competenze:
1. Approccio psicologico individuale: in parte lo abbiamo già visto. È tipicamente un approccio
bottom up, è utilizzato da McLennan, Boyatzis.

Parte dagli individui per rilevare le competenze necessarie all’organizzazione. Come si fa? Rintraccio
quelli che sono i best performer, ma anche i performer medi (avarage performer), faccio le
interviste comportamentali/situazionali, rilevo quelle che sono le competenze di soglia tipicamente
dai performer medi (poiché sono quelle le competenze che mi servono per ricoprire quel ruolo) e le
competenze distintive dei best performer. Stilo una graduatoria ed ottengo le competenze e il
grado delle competenze che mi permettono di avere dei risultati efficaci all’interno
dell’organizzazione. Parto dall’individuo ed arrivo alle competenze necessarie per
l’organizzazione.
L’importanza centrale è attribuita agli individui best performer, cioè quelli con le prestazioni
migliori.
2. Approccio strategico organizzativo: abbiamo un approccio top down.

Parto dall’organizzazione ed arrivo a declinare le competenze necessarie, ovvero quelle che devono
avere gli individui per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione. Tipicamente si parte dalla
strategia, viene fatta una pianificazione strategica, vengono assegnati gli obiettivi ai diversi reparti,
tra cui anche alla direzione HR. Ho degli obiettivi da raggiungere e quindi devo capire quali
competenze mi permetteranno di raggiungere questi obiettivi. Esempio: nel piano di performance
del 2014/2016 la Sapienza ha inserito all’interno degli obiettivi strategici il miglioramento della
qualità della didattica, il miglioramento della qualità della ricerca (due macro processi che fanno
capo alla didattica). Tra gli obiettivi ha assegnato degli indicatori di performance: aumentare il
numero di corsi con doppi titoli, aumentare il numero di corsi in inglese… quindi una forte spinta
all’internazionalizzazione. Da lì ha iniziato ad individuare una serie di competenze fondamentali che
servissero per spingere molto sulla qualità della didattica, sulla qualità della ricerca. Da lì a cascata
ha iniziato a dotarsi di una serie di competenze (tra cui quelle del manager didattico, che prima era
una competenza manageriale completamente assente). L’obiettivo era di migliorare l’offerta
formativa in generale e la ricerca in particolare.
Qui, poiché le competenze necessarie per raggiungere gli obiettivi strategici vengono declinate
dall’alto, è fondamentale il ruolo del management perché io avrò un portafoglio di competenze
ma devo anche essere in grado di trovare il modo giusto di combinarle.

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Per scegliere tra i due approcci utilizziamo generalmente diversi parametri:
1. Obiettivi che ci poniamo;
2. Cultura della nostra organizzazione;
3. Caratteristiche dimensionali dell’organizzazione in generale (la caratteristica ad esempio
dimensionale). Esempio: se un’organizzazione è una grande organizzazione (es l’Università) non mi
posso mettere a fare interviste one to one per rilevare tutte le prestazioni più efficaci. Andare ad
intervistare tutti i best performer mi richiedere troppo tempo, si andrà allora ad usare l’approccio
top down. Oppure se l’obiettivo è cambiare la cultura della mia organizzazione, difficilmente
utilizzerò un approccio psicologico individuale perché le competenze che poi mi risulteranno
saranno le competenze che ho raccolto dal basso, quindi sto sostanzialmente raccogliendo la
cultura che già esiste. Non posso sviluppare un piano di cambiamento organizzativo che mi
comporta un cambiamento della cultura utilizzando questo approccio per capire le competenze che
mi servono per cambiare, perché questo approccio raccoglie quello che c’è, quindi adotterò un
approccio più top down oppure un approccio che va ad integrare sia gli aspetti strategici (obiettivi
calati dal basso e le competenze necessarie per supportarli) sia un approccio bottom up che mi
serve a capire quello che già c’è e quindi se devo acquisire dall’esterno o mi conviene fare un
cambiamento organizzativo dall’interno.

Applicazione dei modelli di gestione per competenze


Generalmente, soprattutto nel passato, le aziende hanno preferito una gestione per posizione o per carichi
di lavoro. Il nostro ateneo ad esempio ha adottato questo approccio (per carichi di lavoro nel momento
in cui si va a fare la programmazione, si vede quello che manca, controllo i carichi di lavoro e valuto
l’acquisizione o no di nuove risorse). Quando invece parliamo di modelli di gestione per competenze

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parliamo di un modello che non da tanto valore alla posizione e ruoli, quindi alla mancanza di una posizione
o di un ruolo, ma alla mancanza o meno di una competenza. I modelli di gestione delle competenze
possono essere utilizzati in diverso modo a seconda della prospettiva che adottiamo. Immaginiamo di dover
progettare un sistema di gestione HR e vogliamo usare un modello di gestione per competenze e non per
processi.
Una prima prospettiva in cui può essere applicata il modello di gestione per competenze è la prospettiva
culturale, per due ordini di ragione:
1. Mi serve creare un riferimento culturale comune. Significa, ad esempio, se per i miei obiettivi è
importante creare un modello di leadership comune, quindi gestire per competenze significa che
tutti i capi delle funzioni, delle aree di business, delle unità operative, middle manager, top
manager… devono avere un modello di leadership. Sto gestendo il personale su un modello
gestionale basato sulle competenze e sto creando un riferimento comune, un modello di leadership
comune;
2. Comunicazione esterna.

Una seconda prospettiva è la prospettiva organizzativa: viene generalmente applicata quando bisogna fare
la reingegnerizzazione dei processi (= dobbiamo cambiare la struttura/meccanismi operativi all’interno
della nostra organizzazione e quindi andiamo a fare un’analisi dei macro-processi, suddividiamo le attività e
dobbiamo ricombinare il tutto andando a ridistribuire le unità, le funzioni e le competenze, andando a
ridisegnare i ruoli) o quando si fanno i processi di ristrutturazione. In questo caso il modello di gestione per
competenze valorizza le famiglie professionali, quindi nell’analisi dei macro-processi andrà ad individuare e
a classificare i processi sulla base delle competenze tecniche comuni che tali macro-processi richiedono.
Dalle famiglie professionali si passa ai profili professionali. Per passare dalle famiglie professionali ai profili
professionali si individuano oltre che le competenze e le conoscenze comuni che bisogna avere in
quell’area, le competenze tecniche specifiche per un determinato settore o area di lavoro. Dopo di che si
passa alla definizione dei profili di ruolo.

L’ultima prospettiva è quella del people management, strumento di integrazione delle politiche HR. È una
prospettiva che è stata utilizzata da Aeroporti di Roma. Nel momento in cui bisognava ripensare alla
modalità di gestione delle risorse umane, Aeroporti di Roma ha pensato di creare un sistema di gestione HR
che fosse fortemente integrato e il cui filo conduttore fossero appunto le competenze. Era tutto incentrato
sulle competenze: come selezionarle, come valutarle, come formarle, come remunerale, come motivarle…
tutti i fattori che messi a fattor comune rappresentavano un vero strumento di integrazione di tutte le
politiche HR, di tutti i processi inclusi nell’ambito della gestione e sviluppo delle risorse umane.

Tipicamente quando si adottano questi modelli di gestione l’obiettivo è anche quello di fare le schede di
ruolo o profili di ruolo, in cui per ogni ruolo organizzativo emergono le competenze di base, le competenze
comportamentali (e quindi trasversali) e quelle gestionali/organizzative.

Adesso passiamo al contesto e all’importanza del contesto organizzativo. Le conoscenze non sempre sono
date, cioè non sono soltanto date, abbiamo detto che alcune conoscenze rientrano all’interno di un
contesto di lavoro, vuol dire che sono contestualizzate e quindi sono anche il frutto di una costruzione
sociale. È importante e fondamentale riuscire a contestualizzare bene le competenze, non solo attraverso
quella capacità combinatoria del management ma anche in relazione al contesto più direttamente in
riferimento del singolo individuo, della persona. Contestualizzare le competenze significa renderle
specifiche, aumentarne il grado di specificità. Una competenza si definisce specifica per l’organizzazione in

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cui opera quando il valore che quella competenza da all’organizzazione in cui opera è di gran lunga
maggiore rispetto al valore che darebbe se usata in contesti alternativi. Esempio: se sono particolarmente
competente nel fare progetti di ricerca, questo ha un valore per un istituto di ricerca, per un ente, ha meno
valore per una piccola azienda che produce biscotti, gli servirà invece qualcuno che produce biscotti.
Il contesto è fondamentale per garantire la specificità di alcune competenze.
Tipica domanda d’esame: qual è la differenza fondamentale tra specificità delle competenze e
specializzazione? La specificità è data dal contesto in cui è inserita e quindi quando quella competenza è
particolarmente di valore rispetto ai suoi usi alternativi in altri contesti, cioè quando in un determinato
contesto mi produce un valore maggiore che se applicata in altri contesti lavorativi. È specializzata una
competenza quando è specifica a livello di divisione del lavoro. Mentre la sfera della specificità attiene al
contesto in cui la utilizzo, la sfera della specializzazione attiene al livello di divisione del lavoro. Io sono
specializzato, ho una competenza specializzata per fare una determinata cosa, per svolgere un determinato
ruolo quando so farlo particolarmente bene perché è la mia area di competenza, cioè io faccio soltanto
quello. La specializzazione non è data tanto dal contesto ma dalla ripetitività, dalla qualità delle conoscenze
che posseggo relative ad un processo, ad un’attività da svolgere, che mi è data dall’esperienza,
dall’anzianità e dai livelli di divisione del lavoro dell’organizzazione.

COMPETENZE DEI MANAGER


Su queste sono state date diverse definizioni. È importante studiare le competenze dei manager perché è
necessario avere delle persone motivate, con determinate competenze (meglio se specifiche, così da avere
meno probabilità che queste abbandonino la nostra organizzazione). Tradizionalmente le competenze
specifiche, proprio perché radicate in un contesto specifico, sono difficilmente trasferibili, convertibili.
Tutte queste competenze devono essere gestite bene da altrettante competenze manageriali. È importante
riuscire a trovare il giusto modo di gestire questo patrimonio di competenze di cui l’azienda dispone.
Una frase di Barnard del 1938, sulla funzione del dirigente: poiché le finalità individuali non coincidono con
quelle organizzative è necessario che qualcuno guidi e gestisca efficacemente l’organizzazione al fine di
assicurare comportamenti cooperativi. Per Barnard la funzione fondamentale del dirigente è quella di
assicurare dei comportamenti cooperativi che convogliassero le energie, le risorse e le competenze delle
persone per il raggiungimento dei risultati organizzativi. Il presupposto è che sostanzialmente individui ed
organizzazione hanno sempre interessi opposti; questo giustifica anche in parte la presenza e la nascita
delle organizzazioni sindacali che cercano sempre di contemperare gli interessi.
Negli ultimi anni le competenze manageriali stanno assumendo sempre più un ruolo importante. Mentre
prima il ruolo del manager era di rispettare la linea di comando, avere una buona attitudine al comando,
alla gestione delle negoziazioni, in un’ottica di competizione, oggi cambiano tutti i livelli di controllo sociale
(se pensiamo anche ai social network) e le abilità richieste ai manager sono diverse. Non è più sufficiente
avere una buona attitudine al comando, ma sono richieste sempre maggiori soft skills ovvero competenze
trasversali che fanno capo a diverse dimensioni. Si parla di intelligenza multifattoriale del manager (o
intelligenze multiple): questo significa che l’intelligenza di cui devono dotarsi i manager deve esplicarsi su
più dimensioni:
Intelligenza Cognitiva;
Intelligenza Emotiva: è un costrutto che generalmente viene associato a Goleman (1998) ma che in
realtà viene da una teoria precedente, la Teoria di Mayer e Salovey del 1993. Loro affermano che
l’intelligenza emotiva è l’abilità di percepire e gestire le emozioni proprie e altrui, monitorarle e
utilizzarle per raggiungere gli obiettivi organizzativi. Quindi l’intelligenza emotiva faceva capo a tre

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sfere: capacità di gestire e controllare le emozioni, monitorarle (vedere gli effetti che producono,
senza necessariamente intervenire), incanalarle per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Intelligenza
emotiva

Gestire e Incanalarle per


controllare le Monitorarle raggiungere gli obiettivi
emozioni aziendali
Goleman aggiunge a questa capacità di gestire le emozioni, le competenze che vengono definite
personali e sociali. Questa è la Teoria dell’intelligenza emotiva che conoscono sostanzialmente i
più, però in realtà deriva dal modello precedente. Secondo il modello dell’intelligenza emotiva i
manager devono possedere innanzitutto delle caratteristiche personali, che attengono alla loro
sfera individuale. Tipicamente sono:
la consapevolezza di se: non si possono gestire le altre persone se prima non si gestisce se
stessi. Bisogna avere particolare riguardo alla consapevolezza di se e del contesto in cui si è
inseriti. Non bisogna mai perdere la consapevolezza del presente e di quello che si sta
facendo. Spesso si guarda troppo all’obiettivo e si perde di vista quello che si fa, come si fa
e nel momento in cui si fa;
la padronanza di sé: rientra in quello che gli altri due autori Mayer e Salovey dettavano nel
gestire le emozioni proprie e altrui, cioè sapere anche un po’ gli effetti che determinano le
proprie emozioni ed essere in grado in qualche modo di dominarle;
la motivazione: è stata già analizzata precedentemente.
Le competenze sociali invece attengono all’empatia e all’abilità sociale. L’empatia (ha un livello più
profondo e vuol dire riuscire ad immergersi nell’altro per percepirne le emozioni; immedesimarsi al
tal punto da sentirle, come se si fosse immersi totalmente in quella situazione) è diversa dalla
simpatia (essere vicino, essere accanto nel vivere determinate emozioni).

Intelligenza Relazionale.
Intelligenza Culturale dei manager. Si articola in diverse dimensioni:
1. Meta culturale o meta cognitiva: essere consapevoli dei propri livelli di conoscenza della
cultura altrui e degli eventuali stereotipi che si possono mettere in campo.
2. Motivazionale e Comportamentale: Ciò significa fare sempre attenzione ai modelli
comportamentali previste dalle altre culture e quindi adeguarsi/adottare dei
comportamenti verbali o non verbali coerenti con il sistema culturale di riferimento. Noi

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italiani siamo abituati a stringere le mani, a dare i baci quando ci si incontra, altre culture
non concepiscono il contatto fisico.
3. Dimensione cognitiva: attiene all’acquisizione pura delle norme, delle regole che
attengono alle altre culture. Informarsi, essere curiosi, sono queste le caratteristiche di un
buon manager. Se un team devo conoscere le abilità di ogni singolo individuo in modo da
non offendere nessuno, non offendere la sensibilità di nessuno.
Intelligenza Manageriale:
o Portare a termine i compiti;
o Lavorare con e attraverso le persone;
o Valutare se stessi.
Resilienza: capacità di adattamento. Attualmente la stabilità del lavoro sta venendo sempre meno,
un buon manager deve essere in grado non soltanto di riuscire ad adattarsi a quelli che sono gli
improvvisi cambiamenti dello status quo di una persona ma anche di se stesso. È una competenza
di non facile realizzazione.
Capacità di ascolto: è una competenza sociale prima che manageriale. Capacità di percepire,
ascoltare, gli altri prima che questi parlino. È una competenza molto apprezzata da parte anche
degli studenti. Riuscire ad interpretare quelli che sono gli schemi, i valori di una persona, senza che
questa persona gli espliciti.
Un’altra capacità manageriale è quella di gestire i team, la team leadership. Negli ultimi anni si sta
valorizzando molto il concetto di leadership trasformazionale, cioè una leadership che riesce a trasformare
le persone, cioè non è soltanto direttiva e unidirezionale (rapporto capo-subordinato), ma trasformazionale
cioè in grado di parlare ai subordinati/collaboratori per trasformare questi in leader. È una leadership più
dinamica, costruttiva nel suo modo di essere. Le competenze che deve avere un manager per gestire bene
un team sono:
1. Capacità di costruirlo: attiene alle varie sfere del team, c’è la sfera che attiene al lavoro (il
negoziatore, il controllore), alla qualità (il preciso, il pignolo) ai risultati (l’analitico); cioè le varie
figure che sono fondamentali per mettere su un buon team e quindi innanzitutto la capacità di
riconoscere i vari ambiti necessari per la costruzione di un team e di riconoscere nei suoi
collaboratori le competenze per ricoprire tutti quegli ambiti;
2. Deve parlare molto con i suoi collaboratori e condividere gli obiettivi e le loro conoscenze. Deve
essere attento al benessere dei lavoratori;
3. Mai appropriarsi dei meriti dei collaboratori e dei risultati che questi raggiungono: sempre
riconoscere il merito ai collaboratori.

L’ultima competenza dei manager che rientra sempre nella gestione dei team è quella di riuscire ad
orientare bene le performance per ottenere performance di successo. Come fare in modo che il
collaboratore con cui stiamo portando avanti un progetto mi dia le performance migliori? Le competenze
necessarie in questo contesto si esplicano soprattutto nei momenti di contatto con il nostro collaboratore.
Tipicamente si suggerisce ai manager di prevedere nell’ambito dei colloqui con il collaboratore, dei
momenti di feedback e di elogiare il proprio collaboratore soprattutto nella fase iniziale. In virtù delle
competenze che il leader possiede, solo dopo aver elogiato quello che di buono è stato fatto, si addentrerà
nei particolari, spiegando i motivi per cui alcune cose non sono andate bene, ma dare non soltanto la critica
ma anche la soluzione o le soluzioni alternative, anche per vedere come il proprio collaboratore tra diverse
soluzioni alternative sceglierà quella più idonea. Non esprimere giudizi negativi inaspettati, cioè bisogna
dare sempre dei feedback senza lasciare mai il collaboratore a se stesso, ma coinvolgerlo e stimolarlo a far
vedere i risultati del proprio lavoro durante il periodo, in modo che se ci sono degli aspetti negativi
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manifestarli subito in modo da non essere inaspettati il giorno prima della performance review. Infine
lasciar parlare e portare anche il collaboratore all’autovalutazione.

Nel film Sister Act, quando Suor Maria Claretta riceve la bacchetta, ci sono un po’ tutte le dinamiche della
team leadership e quindi nel riconoscere le competenze del leader precedente, prendere il comando,
attribuire i ruoli.

LEZIONE 6

LA PROGRAMMAZIONE DEL PERSONALE


Che cos’è il processo di programmazione delle risorse umane?
Definizione: La Programmazione delle RU (PRU) è l’attività di gestione del personale che ha l’obiettivo di
assicurare la disponibilità quantitativa e qualitativa di RU necessaria per la realizzazione della strategia
d’impresa garantendo, allo stesso tempo, la loro gestione in coerenza con la dinamica legislativa,
contrattuale, tecnico-economica e sociale.
La programmazione deve svolgersi sempre entro questi confini che cambiano molto da paese in paese e
spesso è ciò che determina l’istaurazione di una determinata sede operativa in un Paese piuttosto che in un
altro.
L’obiettivo della programmazione del personale
Qual è l’obiettivo della programmazione del personale?
Abbiamo 2 ordini di obiettivi:
1. Obiettivo generale La stima del fabbisogno del personale.
Ciò che serve in termini qualitativi o quantitativi.
Si hanno quindi due focus:
- Hard: conoscere il fabbisogno del personale da un punto di vista quantitativo e cioè bisogna
sapere quante persone, il numero esatto di organico che serve a coprire le posizioni scoperte e
quindi assicurare la normale operatività dell’organizzazione. Questo viene fatto anche
attraverso tecniche di tipo quantitativo quindi metriche, strumenti matematici, statistiche.
- Soft: conoscere il fabbisogno del personale da un punto di vista qualitativo l’obiettivo non è
capire quante persone ma quali persone, quindi le persone necessarie a completare le esigenze
di organico da un punto di vista di competenze.
In questo caso, a differenza del focus quantitativo, si utilizzano generalmente altri strumenti
più qualitativi. Si fanno delle interviste, dei focus group con degli interlocutori privilegiati. Ad
esempio pensiamo ai manager che hanno una visione più ampia delle aree specifiche che
supervisionano e quindi chi più di loro può dare indicazione a chi lavora nella funzione HR
rispetto alle competenze che servono e che vanno reperite o nei mercati interni o nei mercati
esterni del lavoro.
Nel focus qualitativo middle manager e manager in generale hanno un ruolo fondamentale, la
line ha un ruolo fondamentale e dovrà interloquire con la funzione HR per capire quali
competenze, quali persone.

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2. Obiettivi specifici
- Definizione del portafoglio di competenze Andare a vedere quello che si ha, fare una gap
analysis quindi vedere se c’è un gap tra la disponibilità interna e il nuovo fabbisogno, e adottare
conseguentemente delle necessarie politiche di intervento.
- Adottare delle politiche differenziate Nel processo di programmazione delle HR si parte
sempre da un sistema informativo che è una sorta di enorme database con tutti i dati relativi al
personale. Da questo database possono essere prese una serie di informazioni che danno idea
della composizione dell’organico. In base a questo si può decidere di differenziare alcuni tipi di
politiche, scegliere delle politiche ah hoc per ogni profilazione dell’organico.
- Controllo dei costi del personale e monitoraggio dello stato aziendale La programmazione
delle risorse umane, in particolare il sistema informativo del personale, nascono con obiettivi di
tenuta di contabilità per tenere a bada i costi. Sicuramente si parte dai costi che si sostengono
per definire una buona programmazione per valutare se bisogna fare dei piani di esubero
oppure se ci si può permettere un investimento maggiore e quindi fare un largo piano di
assunzioni.
- Indicatori e metriche (KPI) L’obiettivo della programmazione del personale è anche quella di
dare una serie di indicazioni sullo stato aziendale. In particolare in questo caso sono
fondamentali gli indicatori di turnover e di assenteismo.

Processo
Definizione Insieme di attività collegate (da un punto di vista tecnico o logico), in cui si ha generalmente
un input del processo che porta da un output.
Tipicamente si hanno una serie di dati, vengono valutati e poi si ottiene un output che può essere
l’identificazione di quello che è la disponibilità interna e quindi la rilevazione delle fabbisogno del personale
che poi, per esempio, porterà alla determinazione del budget che si ha a disposizione.
Luca Solari Secondo Solari il processo di programmazione del personale è un processo di flusso perché
attiene alla gestione della mobilità interna ed esterna del personale. Va a gestire i flussi in entrata, i flussi
interni e i flussi in uscita:
- Flussi in entrata: attengono all’identificazione dei piani di assunzione. L’azienda deve decidere
chi assumere e come assumerlo.
Le assunzioni andranno determinate su un piano quantitativo, qualitativo e temporale
(l’azienda deve decidere che tipo di relazione istaurare: contratto a tempo determinato o
indeterminato oppure si fa ricorso a società esterne).
- Mobilità interna: si deve valutare le possibili promozioni, trasferimenti (anche da una funzione
all’altra), quindi come internamente mobilitare il personale per coprire tutti i fabbisogni.
- Flussi in uscita: si parla di gestione di esuberi (si hanno quando l’organizzazione supera la
capacità massima di personale che può tenere all’interno rispetto alla sua possibilità) e quindi
la messa in atto di piani di riduzione pianificata dell’organico o di outsoucing (esternalizzare
alcune attività dell’organizzazione).
La gestione di questi flussi è influenzata da una serie di fattori:
- Fattori individuali;
- Fattori organizzativi;

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- Fattori di sistema.
Vediamo in che modo questi fattori possono incidere sulla gestione dei flussi in entrata, interni e in uscita.
Dal punto di vista individuale è chiaro che l’individuo ha sempre una certa dose di resistenza al
cambiamento, tende a resistere ai cambiamenti che gli vengono sottoposti.
A livello organizzativo per esempio si può venire a creare una situazione in base alla quale dagli indicatori
notiamo che c’è una forte ritenzione disfunzionale (= quando l’azienda è in grado di trattenere i suoi
lavoratori però in maniera disfunzionale, ossia quando i lavoratori di fatto andrebbero allontanati perché
sono persone che hanno basse performance, o non sono motivate e quindi più che apportare dei benefici
all’organizzazione creano delle disfunzioni).
A livello istituzionale ci sono dei vincoli legislativi. Non si potevano licenziare i lavoratori quando c’era l’art.
18. Adesso si ha più margine di manovra. Oppure non si può usufruire di quello che offrono i contratti di
apprendistato se si prevede di assumere persone con una certa dose di competenze.
È chiaro che non è uguale per tutti il modo di applicare la programmazione del personale, ma dipende da
una serie di fattori contingenti (di contesto) quali:
- La strategia Sarà diverso il valore che ha la programmazione delle risorse umane per
un’azienda orientata allo sviluppo piuttosto che in un’azienda che è in fase di maturità quindi
non ha necessità di fare grosse programmazioni in termini quantitativi e qualitativi.
- Contesto concorrenziale Se si pensa ad un contesto molto competitivo in termini di prezzi, le
organizzazioni dovranno agire molto sul contenimento dei costi, tra cui quelli del personale, e
quindi o si riduce il personale oppure si cerca di aumentare la produttività del lavoro.
- Contesto tecnologico A volte l’introduzione di una tecnologia, oppure in quei settori che
sono fortemente orientati al capitale umano, in questo caso si dovrà puntar ad una
programmazione del personale che punti molto sulle competenze che sono fondamentali nei
contesti ad alta tecnologia, quindi i settori hi-tech.
- Grado di flessibilità delle risorse esame!!!:
Distinzione tra:
- Flessibilità esterna (o flessibilità numerica)dell’organizzazione implica la capacità
dell’organizzazione di poter variare quantitativamente il numero di lavoratori.
Quindi la possibilità di poter assumere e licenziare.
- Flessibilità interna è la capacità dell’organizzazione di modificare gli input di lavoro
in termini di ore lavorate oppure di turni, orari di lavoro, ecc... Se, per esempio, in
una settimana ho una punta di produzione, non assumo altro personale, ma faccio
fare gli straordinari o cambio la turnazione di lavoro.
In questi casi se l’organizzazione è molto flessibile si dice che la programmazione del
personale ha una funzione reattiva ovvero reagisce, è in grado di far fronte a queste
esigenze di cambiamento in maniera quasi contestuale. Quando invece c’è una situazione di
totale rigidità, quindi poca flessibilità, la programmazione delle RU ha valore strategico,
viene inserita nella pianificazione strategica e non ha un ottica contestuale reattiva di breve
periodo ma ha un’ottica di lungo periodo (generalmente la programmazione viene fatta in
un anno) ed è tipica di quegli ambienti più stabili.
Gli approcci alla programmazione delle risorse umane
Sono 3 +1 approcci.

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1. Approccio implicito-sintetico Mero dimensionamento dell’organico, definito dallo stesso
imprenditore grazie alla sua esperienza. Fa leva sulla capacità intuitiva dell’imprenditore di capire
qualitativamente e quantitativamente di quante persone ha bisogno. Si basa sull’intuizione.
2. Approccio manpower-planning Le previsioni dell’organico si basano su dati storici e sono
ottenuti attraverso l’impiego di algoritmi. È fondamentale il calcolo su cui basarsi per poi attuare le
programmazione del personale.
Questi due approcci sono ugualmente limitati perché manca il collegamento con la strategia.
3. Approccio strategico È la strategia a determinare il dimensionamento dell’organico. Se si
vogliono aumentare le vendite del 10% è chiaro che bisogna aumentare l’organico del 10%.
Anche questo approccio è stato definito limitante perché considera la strategia (coerenza verticale) però
non è contestualizzato, non è integrato con tutte le altre politiche del personale che invece sono parte degli
obiettivi specifici della programmazione del personale.
4. Approccio strategico-integrato Tiene conto sia della strategia sia della coerenza con le altre
attività di gestione e sviluppo delle risorse umane.
Fasi del processo di programmazione del personale

1. Valutare la disponibilità che si ha, quindi andare a valutare le competenze delle persone che si
hanno all’interno dell’azienda.
2. Fare una previsione dei fabbisogni: a seconda della strategia, dei mercati di riferimento, dei livelli di
tecnologia, dell’aspetto concorrenziale si deve decidere quello di cui si ha bisogno. In questa fase è
importante sia guardare all’interno (dimensione interna dell’organico) sia dare uno sguardo
all’esterno e quindi vedere l’evoluzione che sta avendo il mercato del lavoro a livello nazionale ed
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internazionale (perché le politiche di programmazione del personale sono fortemente legate: se so
che c’è una grossa manodopera a basso costo in un altro paese sarà fortemente tentato di valutare
una programmazione del personale che tenga conto di trasferimenti tramite azienda, oppure
trasferimenti di sedi operative).
3. Identificazione del budget.
4. Decisione relative alle politiche da attuare e a cui destinare il budget che si è rilevato.
Ci sono due prospettive con cui guardare questo processo: una prospettiva lineare e sequenziale; in realtà
in ambiente dinamici è possibile che la programmazione del personale sia un’esigenza che derivi da una
modifica di una situazione intermedia, per esempio dalla modifica del budget.
Vediamo il processo nel dettaglio.
Da dove si parte?
INPUT: si parte dal SIP (Sistema informativo del personale).
Dalla definizione del SIP si ricava che è uno strumento di archiviazione e gestione, è un sistema informativo
attraverso il quale l’organizzazione riesce ad archiviare e gestire una serie di informazione che riguardano
le risorse umane impiegate e che può essere più o meno integrato in sistemi più ampi.
Obiettivi e utilità:
- Automatizzare per facilitare selezione, strutturazione e organizzazione dei dati relativi al personale:
In epoche lontane si stava ore e ore a passare dal cartaceo a caricare le informazioni sui computer
questo portava via tantissimo tempo a livello amministrativo. Invece grazie al SIP si ha una
piattaforma in cui davvero ci sono dati di ogni specie e genere.
- Supportare le attività di gestione del personale: Perché se si ha una forte necessità di cambiare
turnazione si consulta il SIP, di vedono i piani di ferie, se qualcuno è in malattia ecc… e questo da
una forte base per prendere decisioni.
- Risolvere con efficienza e tempestività i problemi del clienti interni riguardanti la gestione del
personale (problemi della line).
Ecco perché si dice che il SIP può essere adottato in diverse logiche:
- Logica di Automatizzazione Raccolta ed elaborazione dei dati. Chi necessità di un’informazione
va nel database e lo consulta. Logica di pura consultazione.
- Logica Informativa informazioni a supporto delle scelte manageriali. Quindi non soltanto un
contenitore di dati che sta li per essere consultato nel caso in cui si abbia bisogno ma un punto
dove trarre delle informazioni utili, un sistema che permette di elaborare i dati in esso contenuti
per prendere delle decisioni.
- Logica trasformazionale È una logica ben più complessa, si parla dei sistemi ERP (Enterprise
Resource Planning) in cui c’è un sistema informativo in cui ci sono diversi moduli, ogni modulo
attiene ad un processo, quindi questo sistema permette di gestire diversi processi core e di vedere
le risorse impiegate in ciascun processo. In questo caso il SIP non è solo un database da consultare
oppure un insieme di dati da aggregare, ma è una base che si può trasformare in supporto per altri
processi significa, cioè attraverso il SIP si possono trasformare i dati e farli rientrare in piani di
successione per fornire le risorse necessarie in un altro processo.
I dati All’interno del SIP possono essere di diversa natura:
- Dati personali (età, genere)

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- Dati sulla condizione professionale (livello di inquadramento, relativi alla professione svolta
dall’individuo)
- Dati sullo svolgimento delle prestazioni lavorative (malattia, ferie, trasferte, promozioni)
- Dati sul capitale umano presente nell’organizzazione (tipicamente piani di formazione e sviluppo
destinati ad una risorsa)
- Costi del personale: Il SIP nasce proprio con la necessità di monitorare i costi del personale.

I dati possono essere poi elaborati e trasformati in strumenti o in indici.


Strumenti:
- Configurazioni demografiche
- Portafoglio delle risorse umane
Indici:
- Di Turnover
- Di Assenteismo
- Di Produttività
STRUMENTI
Configurazioni demografiche Sono una fotografia dello status quo dell’azienda e delle caratteristiche
dell’organico.
Come si fanno le configurazioni demografiche? Generalmente si incrociano due tipi di variabili o una sola
variabile, ad esempio nel primo caso abbiamo una sola variabile che è l’età (vedi foto). Oppure si incrociano
due variabili generalmente una dicotomica (cioè che ha due possibilità per esempio il sesso) oppure
suddivisi per classi.

La prima configurazione ha una base molto ampia che include le persone con età inferiore ai 30 anni
significa che è un’azienda molto giovane. Però dice anche che il vertice è molto ristretto e quindi molto
probabilmente non si avrà la possibilità di fare molta carriera interna.
La seconda configurazione invece incrocia due variabili uomini e donne (quindi genere) ed età. È una palla
da rugby: è molto larga nella parte centrale, ci sono molte persone tra i 40-50 anni quindi c’è una forte
probabilità di crescita professionale e interna. Altra informazione importante è che sia la base che il vertice
sono praticamente tutti verdi (quindi c’è una maggioranza di uomini). Anche il fatto che minore di 30 anni

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quindi l’età in cui la donna magari ha esigenze di maternità, forse non è un’azienda che valorizza la diversità
dei generi.
Viceversa sulla piramide ci sono tanti maschi e poche donne, questo dà la dimostrazione del soffitto di
vetro e cioè che pochissime donne riescono poi a raggiungere i vertici aziendali.
Il terzo caso, la piramide rovesciata, è l’inverso della prima configurazione. In questo caso l’ulteriore
variabile oltre che all’età è la distinzione tra quadri e dirigenti.

Un altro strumento per analizzare la composizione dell’organico è quello che incrocia o le prestazioni con il
potenziale oppure la posizione con la prestazione. Si possono quindi avere due matrici.
Il portafoglio delle risorse umane Quando si incrocia il potenziale con le prestazioni si possono avere
quattro situazioni:

- Quando il potenziale e la prestazione sono entrambi molto bassi, questo gruppo di organico viene
definito pesi morti. Sicuramente si ha una situazione di ritenzione disfunzionale, ci sono delle
persone che pur avendo delle bassissime prestazioni e potenziale permangono all’interno
dell’azienda, andrebbero in qualche modo allontanate;
- Ragazzi difficili persone con alto potenziale e bassa prestazione e vuol dire che devo essere
contestualizzate. Avere un alto potenziale significa sostanzialmente avere tante competenze che
però devono esser rese fruibili dall’organizzazioni, quindi in questo caso sicuramente bisognerà
prevedere dei programmi ben delineati di inserimento, fare una programmazione forte
sull’inserimento del personale così che queste competenze riescano a fruttare.
- Campioni alto potenziale e prestazione elevata. Sono persone da tenere.
- Fondisti hanno un elevata prestazione ma un basso potenziale. Sono quelle persone che hanno già
svolto tutta la loro carriera, è per questo che hanno alte prestazioni, ma hanno ormai un basso
potenziale. Queste persone vanno motivate perché hanno una bassa motivazione.

Il limite del portafoglio delle risorse umane è la modalità di valutazione del potenziale perché si incrociano
potenziale e prestazione, la valutazione della prestazione è oggettiva nel senso che ho una prestazione da

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raggiungere se si fa bene (punteggio alto) se non si fa male (punteggio basso). Tutto sommato si ha un
parametro.
Valutazione del potenziale invece può essere una situazione in cui la soggettività può dare il meglio di se.
Bisogna essere consapevoli che nel momento in cui si va a valutare il potenziale bisogna essere certi di darci
dei parametri più oggettivi possibili e sicuramente due di questi parametri sono: le competenze (quindi si
valuta il potenziale di quella persona in termini di competenze che ha e che può ragionevolmente assumere
nel tempo) o su tratti della personalità che mi danno un’indicazione, anche minima, della capacità di
apprendimento della persona.
Altri incroci sono posizione e prestazione.
Quando una persona ricopre una posizione strategica è generalmente una persona che ha delle
competenze distintive che contribuiscono in maniera diretta ed evidente al raggiungimento degli obiettivi
aziendali. Ecco perché viene definita strategica. Viceversa le persone che si trovano in una posizione non
strategica sono quelle persone che hanno delle competenze assolutamente necessarie per la normale
operatività aziendale ma non distintive, cioè non strategiche, non sono persone che impattano
direttamente sul raggiungimento dei risultati aziendali.
Se invece si guarda alla prestazione generalmente l’organico viene suddiviso in tre classi:
- I giocatori di serie A Altissime prestazioni e altissimo commitment nei confronti dell’azienda. Si
impegnano aldilà di qualsiasi dovere contrattuale, sono quasi coinvolti emotivamente. La
percentuale di queste persone in media in un organizzazione è del 10/15%.
- I giocatori di serie B Sono la maggioranza, sono circa il 50% e sono quelle persone che pur
avendo alti livelli di commitment hanno prestazioni medio-basse.
- I giocatori di serie C Sono il 33%. Persone che hanno prestazioni molto molto basse.

Cosa deve evitare un’organizzazione?


Deve evitare che i giocatori di serie C si trovino in posizioni strategiche o viceversa che capitali umani
fondamentali (giocatori di serie A) si trovino in posizioni non strategiche.
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GLI INDICATORI DEL TURNOVER
Insieme all’assenteismo e alla produttività sono gli elementi fondamentali per chi lavora nella funzione HR.
Che cos’è? È il tasso di rigiro del personale. Da un’idea sulle entrate e uscite dell’organico in un determinato
periodo di tempo.
Può essere di due tipologie:
- Turnover Fisiologico Indica il naturale avvicendamento dell’organico in un determinato periodo di
tempo, cioè un tasso di rigiro che non mina né la funzionalità operativa ne va a variare il numero
dell’organico impiegato.
- Turnover Patologico L’avvicendamento tra entrate e uscite indica disfunzioni e forti malfunzionamenti
all’interno dell’organizzazione.
Entrambi possono avere carattere più o meno volontario.
Turnover fisiologico
Un turnover è volontario quando un dipendente si dimette o decide di aderire ad un piano di
pensionamento anticipato. È frutto della scelta del lavoratore.
Quello involontario è quello indotto quando il lavoratore subisce la fine del rapporto di lavoro
(licenziamento) oppure quando ha raggiungo l’età della pensione. È frutto della scelta dell’organizzazione.
La caratteristica fondamentale che contraddistingue il turnover fisiologico da quello patologico è che in
ogni caso apporta benefici sia al lavoratore che all’azienda. Questo significa che attraverso il naturale
avvicendamento dell’organico l’azienda può ricaricarsi di nuove competenze ed i lavoratori hanno la
possibilità di sfruttare delle nuove alternative che sono presenti all’esterno dell’impresa.
Turnover patologico
Il turnover patologico può essere volontario se è dato dalla volontà del lavoratore, perché soffre di un
malessere all’interno dell’organizzazione.
Questo malessere può dipendere da:
- Difficoltà nel contesto lavorativo: si dice che le persone non lasciano il proprio posto di lavoro ma i
propri capi e i colleghi;
- Caratteristiche del contenuto del lavoro;
- Mancata valorizzazione (contratto psicologico e contratto giuridico): non vengono attese le
aspettative.
Il turnover involontario invece attiene a scelte dell’organizzazione come:

Errori nella selezione (falsi positivi e negativi);


Piani di esubero (quando bisogna fare dei licenziamenti). Nel caso dei licenziamenti collettivi le
persone sono tutelate dalla cd. indennità di mobilità o dalla cassa integrazione guadagni. Poi ci
sono i casi di licenziamento individuale o licenziamenti individuali plurimi, in cui c’è l’indennità di
disoccupazione, quindi comunque in qualche modo il lavoratore è tutelato. Il caso invece della
pensione anticipata è una situazione diversa. Per esempio un’azienda che deve far fronte a dei
piani di esubero può proporre dei prepensionamenti. Prima accadeva più frequentemente ora è più
difficile perché nel tempo ci sono state diverse riforme. Dopo la riforma che ha fatto passare dal
sistema retributivo al contributivo le pensioni, le pensioni sono calcolate sugli anni di contribuzione

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ed è cambiato lo schema di anzianità: precedentemente alla riforma si poteva andare in pensione a
62 anni di età ed un minimo di 35 anni di contributi. Con la riforma Fornero si può andare in
pensione con un minimo di 66 anni, che diventerà 67 nel 2022, oppure si può optare per la
pensione anticipata (si può andare in pensione a 62 ma con 42 anni di contribuzione e un mese, e
c’è la penalizzazione dell’1% in meno per ogni anno di anticipo rispetto all’importo della pensione).
Questo in poche parole vuol dire che i lavoratori non accetteranno mai i piani di prepensionamento
perché ci vanno a perdere. Vediamo dunque come i vincoli istituzionali rientrano nei processi di
decisione di programmazione del personale.
CIG.

Indicatori per valutare l’impatto del turnover sull’organizzazione


Tasso di turnover complessivo Ci da un volume di quelle che sono le entrate e le uscite in un
determinato periodo di tempo. Questo tasso complessivo può essere disaggregato in positivo o in negativo
a seconda che si valuti o solo gli entrati o solo gli usciti. E questo da l’idea di quello che si è fatto per
adeguare l’organico, se si è optato più per le assunzioni o per le uscite.
Danno l’idea del volume. Focus quantitativo, dice quante persone non dice perché.

𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑖 + 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑛𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜 = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜

𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑛𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑛𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜

𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑛𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜 = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜

Tasso di compensazione del turnover Rapporta gli entrati sugli usciti. Dice che:
- Se il tasso è > 100 si è adottata una politica di estensione, di ampliamento dell’organico.
- Se il tasso è < 100 si è adottata una politica di riduzione dell’organico.

𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑡𝑢𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟 = 𝑥 100
𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜

Principali limitazioni:
- Vedere se queste politiche sono state più o meno deliberate. Se si ha una riduzione dell’organico
ma non è stata deliberata vuol dire che c’è qualcosa che non va.
- Forti problemi nell’interpretazione Si sta assumendo una quantità ma non si conoscono le cause
quindi per conoscere le cause e per poter adottare delle politiche di intervento devo andare a
disaggregare questi tassi di turnover.

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- Bisogna sempre considerarli in base al contento in cui ci si trova.

Quindi vanno disaggregati per capire le cause e vanno contestualizzati per capire se è un’eccezione o è la
regola e vanno sempre valutati in relazione alla strategia per capire se la politica è stata più o meno
deliberata.
Queste sono le disaggregazioni utili che si possono fare:
Tasso di turnover dei neo assunti
Dice quanti assunti sono usciti rispetto agli assunti di riferimento. Questo è già un dato importante. Se si
hanno tanti neo assunti che sono andati via, significa che non si è stati in grado di inserirli. Quindi come
prima politica di intervento si agirà sulla selezione (per vedere se ci sono falsi positivi o negativi) e
sull’inserimento.

𝑛𝑒𝑜 − 𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑡 + 𝑛


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑛𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑑𝑒𝑖 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑖 = 𝑥 100
𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑡

Tasso di sopravvivenza
Dice quanti assunti in un determinato anno sono rimasti nell’organizzazione anche l’anno successivo. Indica
se l’inserimento è andato a buon fine.

𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑡 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑖𝑛 𝑎𝑧𝑖𝑒𝑛𝑑𝑎 𝑖𝑛 𝑡 + 𝑛


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑧𝑎 = 𝑥 100
𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑡

Tasso di stabilità
Deve essere contestualizzato. Dice quante persone con un’anzianità aziendale superiore ad un determinato
periodo di tempo ci sono rispetto all’organico medio. Quindi è il rapporto tra persone con una certa
anzianità aziendale e l’organico medio. Dice quanto sono stabili queste persone all’interno dell’azienda.

𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑛𝑖𝑡à 𝑎𝑧𝑖𝑒𝑛𝑑𝑎𝑙𝑒 > 𝑡


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡à 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑛 = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑛

È chiaro che in una situazione di elevata stabilità anche dei mercati, un tasso elevato di stabilità è positivo,
ma se un’azienda mira allo sviluppo, all’innovazione dei prodotti ecc… non è buono un elevato tasso di
stabilità perché dice che c’è una forte generazione di persone piuttosto anziane. Quindi non c’è stato un
ricambio delle competenze. Tipica domanda esame!!
Per valutare l’impatto del turnover sicuramente dobbiamo fare una valutazione delle cause e queste
possono essere attinenti: al contenuto del lavoro, al contesto dell’organizzazione, agli esuberi, alle crisi
aziendali quindi a fattori che attengono a livello individuale, istituzionale e organizzativo però dobbiamo
necessariamente andare a valutare i costi che comporta il turnover.

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Solo da una valutazione attenta del volume generale del turnover, delle sue cause e del suo impatto quindi
dei costi che comporta posso adottare delle politiche di intervento. Quindi: in che modo si determinano le
politiche di intervento per arginare eventi di turnover? Si vanno a considerare le cause e i costi nonché il
volume complessivo. Sia fattori relativi all’organizzazioni sia fattori individuali. (domanda d’esame)
I costi del turnover
- Costi diretti Si sono assunte delle persone, si sono sostenuti una serie di costi per la selezione e il
reclutamento e di conseguenza si andrà ad avere una perdita nel caso di continue entrate ed uscite,
aumenteranno questi costi.
- Costi indiretti Sono tutti i costi che impattano indirettamente sull’operatività aziendale o sulla
produttività.
- Costi del non turnover Costi indiretti dovuti al fatto che i lavoratori insoddisfatti, non motivati,
permangono nell’organizzazione invece di uscire.

LEZIONE 7
L’ASSENTEISMO
Turnover ed assenteismo sono i due indicatori che nella funzione HR aiutano a monitorare lo stato
aziendale, il clima, lo stato delle relazioni aziendali. L’assenteismo è un fenomeno che identifica quelle
situazioni in cui il dipendente non si reca sul luogo di lavoro. Questo può avvenire generalmente o per la
normale morbilità del personale (malattia, infortuni, partecipazioni ad attività sindacali) oppure attiene a
delle cause organizzative che possono essere più o meno patogene, cioè in grado di generare delle
patologie.
Anche nel caso dell’assenteismo, così come nel turnover, possiamo avere un assenteismo fisiologico e un
assenteismo patologico. L’assenteismo patologico merita una certa attenzione, in particolare le sue cause,
infatti si è visto che l’assenteismo è minore quando il clima organizzativo è rilassato e vi sono stili di
leadership particolarmente collaborativi, dove il contenuto lavoro è ricco e stimolante, cioè le mansioni
sono in grado di generare una forte motivazione degli individui.
Assenteismo fisiologico: malattia, infortunio e attività sindacale
Assenteismo patologico: cause organizzative che si riversano sull’individuo mobbing e stress da lavoro
correlato.
Concentriamoci sull’assenteismo fiosologico.
La malattia è in tutti quei casi dove il lavoratore è assente per cause derivanti da una momentanea
disabilità, e questo periodo si esplica in due tipologie di periodi di malattia:
1. La carenza: sono i primi tre giorni in cui il lavoratore è malato. In questi tre giorni la retribuzione al
lavoratore è corrisposta al 100% ed è a carico dell’azienda;
2. Il periodo di comporto, va dal quarto giorno fino al 180° giorno della malattia. In questo caso la
retribuzione è corrisposta dall’ente previdenziale per una determinata percentuale, in base al
contratto collettivo di riferimento (solitamente tra il 50/80% della retribuzione). L’azienda può
decidere di integrare il contributo dell’ente previdenziale fino al raggiungimento del 100% (ad es.
l’ente previdenziale versa il 70% e l’azienda integra il restante 30%).

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Vi è poi uno strumento definito malattia tattica, ossia una malattia che avviene con una modalità molto
frammentata, caso Fiat a Pomigliano ad esempio, i c.d. week-end lunghi, le assenze tattiche, le malattie ad
intermittenza. In questi casi si potrebbe arrivare al licenziamento per eccessiva morbilità: è possibile perché
quando si verificano casi di malattia tattica generalmente succede che cade la corrispettività della
prestazione lavorativa (il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive a fronte della
retribuzione che da il datore di lavoro, la malattia tattica non permette al datore di usufruire della
controprestazione e, non potendone usufruire, è possibile intimare il licenziamento per eccessiva
morbilità). Questi sono i casi che attengono alla malattia.
L’infortunio sul lavoro invece è un’assenza determinata da una causa unica e violenta che determina una
impossibilità di invalidità temporanea oppure permanente. In questo caso, a differenza della malattia, per
la quale l’ente previdenziale preposto è l’INPS, per gli infortuni sul lavoro l’ente preposto è l’INAIL.
Infine vi è l’attività sindacale, sia attività svolta dai rappresentanti sindacali sia la partecipazione dei
lavoratori stessi a delle iniziative.
L’assenteismo patologico è una condizione soggettiva di rifiuto netto di recarsi a lavoro, generalmente
preceduto da uno stato di profonda disaffezione nei confronti dei contenuti e del contesto del proprio
lavoro. Le cause che vengono ricondotte all’assenteismo patologico sono il mobbing e lo stress lavoro-
correlato, che sono cause organizzative che si riversano sulle singole persone.

IL MOBBING
Il mobbing è un termine che è stato utilizzato per la prima volta negli anni ’70, per evidenziare uno specifico
fenomeno, da parte dello studioso C. Lorenz. Egli diceva che spesso negli animali si accumula uno stato di
forte aggressività che gli animali stessi sfogavano sugli animali della stessa specie, tendono quindi a
mobbizzare gli animali della stessa specie, cioè ad escluderli o aggredirli fino anche alla morte. Questo per
diverse ragioni (sopravvivenza dei migliori, delimitazione dei territori) che hanno come fine ultimo di
prevalere l’uno sull’altro. Lorenz utilizzò per la prima volta il termine to mob (aggredire) in riferimento a
questa condizione degli animali. Poi fece una ulteriore osservazione: gli uomini, avendo una natura
animale, tendono anche loro ad accumulare aggressività e a sfogarla sugli altri uomini. Per questo motivo fu
molto osteggiato dai suoi colleghi, i quali invece affermavano che l’uomo potesse controllare questa
aggressività e che non fosse positivamente caratterizzante per la persona assumere un’ipotesi del genere.
Lorenz continuava però con le sue convinizioni, affermando che l’unico deterrente per cui l’uomo teneva a
bada questa aggressività era l’uso delle armi.
Mobbizzare significa tipicamente aggredire. In che modo?
Definizione: il mobbing sono delle pratiche durature, intense, violente, degli schemi comportamentali che si
ripetono nel tempo deteriorando lo stato psicologico, professionale, sociale della persona fino a portarlo
all’isolamento o alla perdita del suo ruolo all’interno dell’organizzazione.
Leymann ha identificato le 5 pratiche persecutorie:
1. L’aggressione o la menomazione della capacità comunicativa, di relazione sociale e di immagine sociale:
si isola la vittima o la si circonda dal silenzio, si ridicolizza o si mette al centro di pettegolezzi;
2. Disconoscimento o compressione dei diritti. Si va a ledere la sfera professionale del lavoratore, il quale
viene demansionato oppure dei diritti, come le visite mediche, finiscono per diventare strumenti di
mobbing (il datore richiede al medico di sottoporre il lavoratore a continue visite).

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3. Attribuzione a mansioni dequalificanti.
Altre caratteristiche del mobbing per essere identificato come patogeno, sono gli elementi di cui si
costituisce:
Schemi di ruolo: mobber (colui che perseguita, che mette in atto questi schemi comportamentali e
possono essere non solo i capi ma anche i colleghi), mobbizzato (la vittima), spettatori;
Frequenza e ripetitività dell’azione persecutoria: a differenza dell’infortunio, che è determinato da
un evento unico che genera inabilità temporanea o permanente, nel mobbing non vi è un singolo
evento violento ma più eventi che si ripetono nel tempo e che determinano lo stesso effetto sulla
persona mobbizzata il mobbing nel 2004 è stato fatto entrare tra le malattie professionali che
l’INAIL fa rientrare nelle sue casistiche di assicurazione di malattia professionale nei luoghi di
lavoro;
Intensità emotiva: le pratiche di mobbing, essendo ripetute e violente nel tempo, generano una
crescente tensione che impatta sulla demotivazione, sulla disaffezzione e quindi su comportamenti
di rifiuto totale di recarsi a lavoro.
Natura del supporto dell’organizzazione: a seconda del supporto più o meno consapevole che può
dare il contesto organizzativo in termini di cultura in cui si verificano queste dinamiche, vi sono tre
tipologie di mobbing:
Strategico: quando parliamo di mobbing strategico, parliamo di una strategia deliberata del
datore di lavoro, dell’organizzazione, di escludere un certo individuo. Si agisce attraverso
demansionamenti, critiche sull’operato in quanto il datore di lavoro ha l’autorità di poter
fare queste azioni. In questo caso il supporto dell’organizzazione, se fatto dal top manager,
è consapevole;
Relazionale verticale: i fenomeni persecutori solitamente avvengono tra il capo e il
subordinato diretto (vittima). In questo caso si può agire sia sulla sfera professionale
perché il capo ha la delega, quindi ha il potere di cambiare i contenuti del lavoro, di lanciare
dei feedback trasformandoli in strumenti per mobbizzare, isolando la “vittima”. Poi vi è la
sfera sociale, dove vengono creati dei conflitti all’interno del gruppo di lavorativo, creare
delle dinamiche sociali all’interno del gruppo che portino piano piano ad escludere il
lavoratore mobbizzato. Il supporto in questo caso può essere consapevole o non
consapevole ed è qui rilevante la capacità di ascolto della, dei segnali deboli;
Relazionale orizzontale: tipico mobbing che avviene tra i co-workers, tra i colleghi, che non
potendo agire sulla sfera professionale, agiscono su quella personale.
Da un punto di vista giuridico il mobbing è stato riconosciuto dall’INAIL nel 2004 ed è stata data la seguente
definizione: insieme di disturbi psicofisici causati dalle costrittività organizzative. In generale, però, le
pratiche di mobbing sono perseguibili ai sensi dell’art. 2087 del c.c. che parla della tutela dei lavoratori da
parte di chi esercita l’impresa. L’articolo afferma che l’imprenditore, nell’esercizio dell’impresa, deve
mettere in atto tutte le azioni necessarie a tutelare la salute fisica e la personalità morale del dipendete,
azioni necessarie secondo la particolarità del lavoro, la sua esperienza e gli strumenti utilizzati durante lo
svolgimento del lavoro.
Il mobbing può quindi agire sia sulla protezione fisica che sulla personalità morale del lavoratore.
I costi e i possibili interventi contro il mobbing
Tra i costi vi è sicuramente il disagio organizzativo, la riduzione della produttività, i costi sostenuti per le
cause di mobbing contro il datore di lavoro e, costo indiretto, il danno d’immagine dell’impresa. Possibili
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interventi? Sicuramente la prevenzione, attraverso la creazione di ambienti distesi con leadership
adeguate. Bisogna prevenire perché una volta che le dinamiche sociali si distruggono è difficile avere
nuovamente fiducia nei confronti dell’organizzazione, dei colleghi, del management. L’unico modo per
prevenire è imparare ad ascoltare questi segnali deboli e conoscere bene tutti i meccanismi che si possono
generare. Fondamentale dunque è la prevenzione, la conoscenza e la capacità di ascolto.
Stress lavoro - correlato
In realtà la concezione di stress è positiva, nel senso che lo stress è una modalità di adattamento fisiologica
a dei cambiamenti esterni che hanno effetto sull’individualità. Questa modalità di adattamento diventa
negativa quando si è sottoposti ripetutamente a degli adattamenti oppure quando lo stress è ripetitivo ed
intenso. Oltre a ridurre la produttività, questo può generare dei fenomeni di malattia ed i fattori di rischio si
riferiscono al: 1) contesto lavorativo, sono tipicamente fenomeni riferiti alla gestione ed organizzazione del
lavoro, 2) contenuto, parliamo di mansioni varie e difficili da portare avanti per l’individuo, o azioni
ripetitive ed alienanti.
I COSTI DELL’ASSENTEISMO
L’impatto dell’assenteismo può generare dei costi diretti oppure indiretti. I costi diretti possono essere
divisi in proporzionali, che aumentano all’aumentare del numero delle persone assenti [es. costi retributivi
totali (retribuzione, 13esima, 14esima] o parziali (integrazioni del datore di lavoro rispetto alla retribuzione
erogata dall’ente previdenziale)], e non proporzionali, che restano costanti, non variano in proporzione
degli assenti (ad es. la riorganizzazione dei turni, i c.d. costi di gestione che devono essere comunque
effettuati). I costi indiretti, invece, sono tipicamente il deterioramento del clima e lo scarto tra i rendimenti
di produttività del lavoratore assente con il sostituto.
Indicatori dell’assenteismo
Li possiamo suddividere in indicatori che danno l’idea dell’impatto dell’assenteismo in termini di unità di
misura scelta (le ore, le giornate) oppure in modalità in cui si dispiega il fenomeno.
𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎
𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒𝑖𝑠𝑚𝑜 (𝑖𝑛 𝑜𝑟𝑒) = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑒 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖

𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎
𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒𝑖𝑠𝑚𝑜 (𝑖𝑛 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑡𝑒) = 𝑥 100
𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑡𝑒 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖

𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑡𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎


𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒𝑖𝑠𝑚𝑜 (𝑖𝑛 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖) = 𝑥 100
𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜

Oltre agli indicatori tradizionali, può essere utile calcolare altri indici per comprendere le modalità con sui si
dispiega il fenomeno, dai quali si possono trarre alcune indicazioni sulle modalità con cui si verificano i
fenomeni dell’assenteismo. Tra questi particolarmente significativi sono:
• L’indice di frequenza misura il numero medio di assenze effettuate da ciascuna persona in azienda;
• L’indice di durata misura la lunghezza media del periodo di assenza per ciascun caso d’azienda;
• L’indice di gravità misura il numero di assenti in una giornata media (questo tasso è analogo al tasso di
assenteismo espresso in giornate, ma assume un diverso significato).

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Il prodotto di questi tre indicatori permette di calcolare quello che viene definito il profilo dell’assenteismo
che moltiplicato per 100 ci fornisce il volume dell’assenteismo.

Azienda X. L’indice di frequenza ci dice che gli episodi in media sono due, la cui lunghezza media sono 20
giornate, come espresso dall’ indice di durata. Anche l’indice di gravità è molto basso: è una situazione di
assenteismo positiva, l’azienda conosce le ragioni e riesce a gestirli.
Azienda Y. L’indice di frequenza è molto alto, l’indice di durata è pari a una giornata e l’indice di gravità è
uguale a 0.12. Anche se il volume ed il profilo dell’assenteismo è lo stesso è possibile vedere come
l’eccessiva frequenza e la ridotta durata facciano pensare a qualche tipologia di malattia, di fenomeno di
assenteismo a singhiozzo.
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Come appena visto dall’esempio, a partire dalla stessa base, dallo stesso volume di giornate di assenza, in
realtà possono configurarsi diverse soluzioni e importante sarà disaggregare le cause rispetto agli indicatori
appena visti per riuscire a discernere e comprendere fenomeni (i segnali deboli) da dover monitorare.
Quanto costa il personale?
I costi del personale rappresentano la parte più importante del sistema informativo del personale che nasce
per tenere sotto controllo tutte le variabili relative al costo del lavoro, che nei bilanci ha sempre un forte
impatto. Sono dovuti alla forza lavoro impiegata, tipicamente i costi retributivi ed i costi di gestione del
personale, quindi i costi di impatto e di funzionamento, quei costi che bisogna sostenere per mantenere la
funzione HR.
I costi retributivi
Comprendono gli elementi di costo che entrano nel calcolo della retribuzione del lavoratore:
• Costi retributivi fissi (stipendio/salario, scatti di anzianità, mensilità aggiuntive);
• Costi retributivi variabili (indennità, reperibilità, trasferte, straordinario differenza lavoro straordinario
e supplementare: il lavoro supplementare è quel lavoro che, partendo dal part time va a raggiungere il
tempo pieno; il lavoro straordinario è quello che eccede l’orario pieno di lavoro);
• Trattamento di fine rapporto;
• Ferie due settimane devono essere immediatamente godute nei primi 12 mesi e le altre due nei
successivi 18 mesi;
• Premio di risultato;
• Benefit.
Queste voci derivano in parte da decisioni del management dell’impresa e sono in larga misura vincolante
dalla contrattazione collettiva e dalla legislazione. Il costo retributivo viene utilizzato per costruire alcuni
indicatori sintetici del costo del personale. Questi possono essere distinti tra: quelli che mettono in
rapporto il costo del personale con una misura di tipo produttivo (numero di addetti, ore lavorate, volumi
produttivi) e quelli che prendono a riferimento grandezze economiche ricavabili dal conto economico
(fatturato, valore aggiunto, margine lordo, valore della produzione, costo della produzione).
Indicatori di tipo PRODUTTIVO

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Ciascuno di questi indicatori può essere calcolato per l’intera popolazione aziendale oppure per funzione,
per qualifica professionale, per inquadramento contrattuale. Nel calcolo del costo medio del personale può
essere effettuata una distinzione tra organico medio espresso in numero di persone (headcount) ed
espresso in numero di lavoratori a tempo pieno (full time equivalent). Questo diverso conteggio è
necessario per aumentare l’attendibilità degli indicatori: si pensi alle possibili distorsioni nel caso in cui
vengano considerati insieme lavoratori con contratti part time e a tempo pieno. Nel caso infatti
dell’headcount, indipendentemente dalle modalità in cui è impiegata la risorsa (full o parti time) vengono
contate le “teste”, mentre nel caso del full time equivalent si contano solo i lavoratori a tempo pieno: due
lavoratori part time saranno “contati” come un singolo lavoratore “full time”. Il metodo più accreditato
sono le unità lavorative annue, l’ULA, dato da:
𝑝𝑎𝑟𝑡 𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑛° 𝑚𝑒𝑠𝑖 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖
𝑈𝐿𝐴 = 𝑛° 𝑎𝑑𝑑𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑥 𝑥
𝑓𝑢𝑙𝑙 𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑚𝑒𝑠𝑖

Indicatori di tipo ECONOMICO

Tre indicatori che rapportano i costi retributivi con i valori di bilancio sono: l’incidenza del costo del
personale sul valore aggiunto e il ritorno sugli investimenti del capitale umano (Human Capital Return on
investment, HCRoi).
Il primo indicatore tenta di cogliere in che modo la spesa del personale incide sulla capacità dell’azienda di
vendere i propri prodotti/servizi sul mercato. In base al settore nel quale opera l’azienda, alle politiche di
prezzo, al tipo di prodotto/servizio potranno essere individuati livelli di soglia differenti per questo
indicatore. Il secondo indicatore depura il valore del fatturato dagli effetti di politiche commerciali che
potrebbero invalidare il tentativo di confronti intertemporali e interaziendali. L’HCRoi misura invece il
ritorno, in termini di margine, degli investimenti effettuati per compensare il personale. Questo indicatore
è sensibile alle politiche di outsourcing: nel caso in cui, a parità di costi totali e ricavo dell’impresa,
diminuisca la percentuale di costi del personale (perché parte dell’attività è esternalizzata), di conseguenza
aumenterà il ritorno sui costi del personale.
Analoghi risultati possono essere raggiunti mantenendo sotto controllo la spesa del personale e, per
esempio attraverso interventi sull’organizzazione del lavoro, aumentando i ricavi.

I costi di gestione del personale


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Quando parliamo di costi di gestione del lavoro parliamo di costi di funzionamento della Dru e costi
d’impatto. I costi di funzionamento della Dru sono relativi alle attività di gestione delle risorse umane e alle
spese amministrative della funzione, Queste dipendono, per esempio, dal numero di persone che operano
nella Dru, dal grado di estensione delle attività e dei singoli costi di attuazione degli interventi. Questa
categoria di costi può essere distinta al suo interno in base alla “funzione” che hanno le spese sostenute:
• Costi di acquisizione, che si riferiscono ai processi di assunzione, di inserimento, di mobilità interna;
• Costi di mantenimento, correlati alla gestione dei sistemi di valutazione e ricompensa;
• Costi di sviluppo, originati dalla necessità di mantenere e rafforzare le competenze delle persone
attraverso processi di formazione, addestramento, organizzazione del lavoro;
• Costi di retention, legati alle procedure di turnover.

I costi di impatto fanno riferimento ai costi e ai benefici generati dall’implementazione (o mancata


attuazione) di attività di gestione delle risorse umane. Questi costi vengono raramente rilevati, ma spesso
rappresentano i valori più importanti, soprattutto in un’ottica di gestione integrata della funzione.

LEZIONE 8

DISPONIBILITA’ E FABBISOGNO DI PERSONALE


È importante stimare la disponibilità e il fabbisogno, e vedremo che ci sono diverse tecniche. Quando
parliamo di stima della disponibilità del personale facciamo riferimento a 4 tecniche:
- tavole di rimpiazzo;
- le catene di MARCOV;
- l’analisi di rinnovamento
- i modelli di programmazione lineare.
Quando invece parliamo di stima del fabbisogno, le tecniche che più utilizzate sono:
- metodo Delphi;
- indici di produttività;
- indici del personale (o staffing ratio);
- le analisi di regressione.
Valuteremo poi come si costituisce il budget del personale.
DISPONIBILITA’ DI PERSONALE
In generale stimare la disponibilità del personale vuol dire stimare dal punto di vista quantitativo e
qualitativo la variazione che subirà l’organico in un determinato periodo di tempo, che generalmente è il
periodo della programmazione (quindi è un anno). Essa ci serve per fare ad esempio i piani di successione
come in casi di pensionamenti, anche per incrementare l’organico che abbiamo o quando dobbiamo
decidere se apportare delle modificazioni nell’organizzazione del lavoro (se decido di ristrutturare
l’organizzazione del lavoro, devo partire da quello che ho, quindi dalla stima delle risorse disponibili e
valutare se sono in grado o meno, se ho rilevato una certa domanda e quindi dovrà andare ad acquisirla sul
mercato esterno). Questi sono gli obietti principali della stima della disponibilità del personale.
Le tavole di rimpiazzo
77
La prima tecnica sono le tavole di rimpiazzo: esse sono usate nei piani di successione. Grazie ad esse si
vengono a valutare i ruoli o le posizione che, durante il periodo di programmazione, risulteranno vacanti. A
partire da questi ruoli si stabiliscono generalmente almeno due rimpiazzi e si viene così a creare una vera e
proprio mappa dei ruoli esistenti e che in futuro saranno vacanti e dovranno essere così rimpiazzati. Ad
esempio se so che il responsabile dell’area Europa middle east andrà in pensione, già da subito mi dovrò
organizzare per stabilire i rimpiazzi. In questo caso vado a vedere i ruoli similari, vado a vedere i
responsabili delle vendite o nelle altre aree che ho o nella funzione vendite, cerco le persone che avranno
le caratteristiche per rimpiazzarlo e nel caso le sottopongo a formazione in modo che siano pronte per
tempo per rimpiazzare la figura che esce.
Come si procede? Ci sono 4 fasi da rispettare.
Fase 1: bisogna individuare il personale da inserire nel piano delle successioni, non solo in termini numerici
ma anche dal punto di vista della capacità e delle competenze che ha.
Fase 2: individuare e comunicare chiaramente quali saranno i criteri di selezione dei successori, quindi di
coloro che dovranno rimpiazzare chi esce. Per esempio i criteri per rimpiazzare il responsabile delle vendite
del middle east potrebbero essere l’anzianità aziendale, o se voglio puntare sul merito, ad esempio posso
utilizzare il criterio del raggiungimento almeno all’80% del risultato dell’anno precedente.
Fase 3: bisogna valutare l’orizzonte temporale (non basta infatti individuare le persone da rimpiazzare),
devo infatti valutare il tempo necessario affinché il rimpiazzo avvenga senza problemi. Ad esempio se la
risorsa ha bisogno di essere formata oppure se devo acquisirla dall’esterno perché all’interno non c’è.
Fase 4: inserimento, feedback e monitoraggio continuo.
Le tavole di rimpiazzo hanno vantaggi e svantaggi.
Vantaggi: ci permettono di avere una mappa dei ruoli, quindi permettono di monitorare, anche se in
maniera molto statica, le coperture che ho in ogni momento. Altro vantaggio è quello di far suscitare un
forte coinvolgimento, impegno, commitment nel personale perché se la risorsa sa di essere il primo
rimpiazzo, sarà fortemente motivata sul piano lavorativo dalla promozione, soprattutto quando il rimpiazzo
è di tipo verticale. Terzo vantaggio ci permette di ridurre i costi perché molto spesso, quando non si ricorre
a rimpiazzi interni ma si fa riferimento a risorse esterne può succedere che, soprattutto da un punto di vista
manageriale, si venga a creare il cosiddetto effetto rigetto, cioè la risorsa non è ben contestualizzata e non
riesce ad adattarsi nel microclima organizzativo e fa più danni di quanto potremmo immaginare, creando
costi a catena come riduzione produttività, disattenzione e molto altro.
Svantaggi: è parecchio statico, è una mappa ferma dei ruoli che è applicabile a livello teorico ma ad
esempio, quando c’è un incremento delle dimensioni dell’azienda in maniera sensibile, in questo caso si
può riservare l’utilizzo delle tavole di rimpiazzo solo per i ruoli strategici. Quando questo non è possibile
perché le dimensioni dell’azienda sono molto elevate, ci sono dei sistemi di rimpiazzo computerizzato. Altro
svantaggio è che, pur potendo generare commitment, tuttavia se le aspettative non dovessero essere
attese si possono creare forti delusioni e quindi si avrà un effetto completamente opposto.
Catene di Markov
La seconda tecnica sono LE CATENE DI MARKOV, definite anche analisi delle catene di transizioni perché, a
differenza delle tavole di rimpiazzo, in cui abbiamo una mappa di ruoli molto statica, esse ci permettono
invece di vedere la mobilità interna del personale che si sposta tra uscite (e quindi sostituzioni) e
promozioni in senso verticale oppure spostamenti in orizzontale. Si viene a creare così la matrice di
transizione.
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Queste catene si basano sulla stima di probabilità che ciascuna categoria di personale lascerà l’azienda,
sarà promossa o resterà nella posizione in cui si trova. Quindi vediamo che l’elemento fondamentale è la
determinazione delle probabilità (o tassi di mobilità interna del personale).

Il personale viene generalmente segmentato in base alla qualifica o competenze. Ad esempio segmento per
direttori generali, quadri e specialisti.

Ricordiamo che orizzontalmente la somma delle percentuali deve essere sempre 100.
Generalmente la probabilità e i tassi di mobilità vengono stabiliti sulla base di flussi storici, degli anni
precedenti. Quindi, ad esempio, se nell’anno precedente ho avuto il 10% di promozioni, mi aspetto che
l’anno prossimo avrò il 10% di promozioni. Ovviamente questo non è sempre vero perché vi sono diversi
fattori che dobbiamo considerare, ad esempio cosa succede se ho dei vincoli di bilancio stringenti e non
posso garantire un tasso del 10%. In questo caso li andrò a ridurre.

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Per poter trovare la domanda bisogna rapportare i totali che abbiamo ottenuto all’organico attuale, per
vedere se ci sono mancanze rispetto all’organico che ho.
Esercizio per casa: vedi pdf.
VANTAGGI E SVANTAGGI: Le catene di Marcov sono un metodo di stima push, è molto più dinamico perché
ci permettono di vedere come si muovono i flussi, però sono comunque basate su stime di dati storici e non
tengono molto in considerazione quelli che possono essere i miglioramenti dei processi interni. Per questo
il management deve affinare la capacità di analisi e intuizione nei confronti di particolari innovazioni
tecnologiche. Troppa staticità fa male.
Le analisi di rinnovamento (renewal analysis)
A differenza delle catene di Marcov non è un sistema di stima pull ma push, nel senso che non si basa su
flussi storici ma, al contrario, si basa sulle necessità che si ravvisano al termine del periodo di
programmazione. Quindi sostanzialmente si ci basa su quello di cui avrò bisogno nel futuro e a cascata(a
ritroso) si cerca di sistemare tutti i rimpiazzi. Come faccio? C’è una sorta di flusso a catena, per cui si crea
un ruolo vacante perché non risulta nel mio fabbisogno e decido di sostituirlo con una determinata risorsa
interna. Succede che questa risorsa mi libera un altro posto, ho un altro ruolo vacante e quindi dovrò
coprirlo, fino a quando non raggiungo un livello di saturazione della disponibilità di personale che ho. Finita
la disponibilità interna avrò il risultato di quello che mi serve, della domanda di lavoro che devo andare a
cercare all’esterno. Si crea così un effetto a catena tra i fabbisogni che si creano di volta in volta nel periodo
di programmazione e la disponibilità di personale con cui riesco a colmare questi fabbisogni; a catena arrivo
ad un livello di saturazione (vi sono alcuni programmi di software che fanno anche simulazione di analisi di
rinnovamento) ed alla fine ottengo un risultato che devo interpretare e in base a quello andrò a cercare o
ancora all’interno o all’esterno.

Modelli di programmazione lineare


Sono quelli più matematici e sono basati su algoritmi. Sono strumenti molto flessibili perché ci permettono
di determinare il livello ottimale dell’organico sulla base di una serie di variabili decisionali che si hanno.
Esempio: devo determinare il livello di organico considerando i vincoli di bilancio che ho. Costi del
personale( prima variabile). Devo considerare i tassi di turnover che ho all’interno dell’azienda (seconda
variabile), tassi di mobilità interna (terza variabile). Alla fine ho la cosiddetta funzione obiettivo, per cui i
livelli ottimali di organico dipendono da una serie di variabili. Il mio obiettivo è quello di massimizzare
questa funzione. Ecco perché programmazione lineare: cioè come combinazione lineare perché appunto il

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livello ottimo dell’organico è come se fosse una combinazione di fattori che io sto massimizzando
attraverso la funzione obiettivo.
VANTAGGI SVANTAGGI: in questo caso gli svantaggi sono sicuramente le stime di questi parametri, che
devono essere molto accurate; se sono accurate ci permettono poi di avere delle stime di fabbisogno del
personale abbastanza accurate. Quindi il SIP dovrà essere chiaro e preciso, con dati aggiornati.
Abbiamo con questo finito la stima della disponibilità di personale.
IL FABBISOGNO DEL PERSONALE
Anche qui bisogna valutare dal punto di vista quantitativo e qualitativo il fabbisogno di personale di cui avrò
bisogno al termine del periodo di programmazione con 3 scopi principali.
Obiettivi e utilità:
- Prendere decisioni di dimensionamento dell’organico in contesti di elevata complessità e
instabilità;
- Stima degli incrementi di organico derivanti da risultati aziendali;
- Identificazione del numero ottimale di supervisori per un dato numero di subordinati;
- Programmazione di cambiamenti nell’organizzazione del lavoro.
Commento: per implementare la strategia, quindi la stima del fabbisogno del personale deve
essere fatta dal punto di vista quantitativo e qualitativo per permettere l’implementazione della
strategia. Se decido di aumentare i profitti, questi devono essere sostenuti da alcune vendite, per
sostenere le vendite devo stimare anche il fabbisogno di personale che mi permette di sostenere
quel livello di produzione per avere quel livello di vendite. Come? Rispettando i vincoli economici.
Sarebbe bello poter assumere tutto il personale di cui si stima il fabbisogno ma molto spesso
bisogna prendere delle decisioni per tarare bene le posizioni più strategiche e meno strategiche.
Inoltre in base alle esigenze della struttura organizzativa. Sicuramente i fabbisogni aumentano
all’aumentare del dimensionamento dell’organico. Quindi generalmente la stima del fabbisogno del
personale viene fatta in presenza di alcuni vincoli economici, tenendo conto di dimensionamento e
della caratteristiche della struttura organizzativa. Generalmente infatti, quando aumenta il
dimensionamento dell’organico, quando si ampia la struttura organizzativa, bisogna stare attenti a
tenere costante il rapporto tra supervisori e subordinati diretti. Se dalle analisi del fabbisogno del
personale dovesse emergere la necessità di acquisire 40 risorse di staff in più, dovrò tenere
presente che a fronte di quella nuova assunzione, dovrò essere preparato e quindi avere
disponibile una risorsa che mi faccia da supervisor, che mi supervisioni i 40 nuovi assunti. Ecco
perché la stima del fabbisogno del personale spesso viene fatta unendo diversi metodi. Ad esempio
noi possiamo stimare il fabbisogno del personale partendo dal metodo delphi e magari affiancare
l’indice del personale di staffing ratio per vedere questo rapporto tra subordinati e supervisori.
Metodo Delphi
Questo metodo è molto utilizzato nelle aziende di grandi dimensioni che operano in situazione di forte
complessità e forte innovazione, in cui anche decisioni come il dimensionamento dell’organico possono
determinare il fallimento o il successo di una azienda.
Come funziona il metodo delphi? Il fabbisogno del personale viene deliberato sulla base della stima di
alcune grandezze, come ad esempio la stima di un aumento dei tassi di innovazione del settore oppure un
aumenta della domanda di quel prodotto,oppure in base a dei rapporti tra indicatori di produttività. Quindi
il fabbisogno di personale è stimato in base a queste grandezze. Come vengono determinate queste
81
grandezze? Si fa ricorso ad una reiterazione di questionari, appunto il metodo Delphi: si mandano dei
questionari ad un nucleo di persone massimamente esperte di un settore o della mia azienda o della
grandezza che voglio indagare e gli chiedo: quanto secondo lei aumenteranno le vendite nei prossimi 5
anni? Quanto aumenterà il tasso di innovazione nel nostro settore nei prossimi 2 anni? Quanto rimarrà
invariato o cambierà il tasso in rapporto tra il fatturato e organico nei prossimi 15 anni? Essendo persone
massimamente esperte, gli si danno dei range e questi esperti daranno delle indicazioni. Poi il questionario
viene poi rimandato con un range più piccolo, con delle classi di valori più piccoli, e così reiterando il
questionario di volta in volta si ottiene la convergenza dei valori: tutti gli esperti convergeranno verso i
valori e avrò una grandezza abbastanza attendibile su cui poter stimare il mio fabbisogno di personale. Ci
permette di avere molti feedback e correggere di volta in volta le nostre stime, i range ed è proprio in
questo dialogo, tra analista ed esperto, che si viene a determinare con sufficiente certezza una stima del
fabbisogno del personale necessario per assecondare la strategia e i cambiamenti del mercato.
Indici di produttività
Una seconda metodologia è quella di partire dagli indici di produttività e determinare i livelli di organico in
misura indiretta. Sappiamo che l’indice di produttività è dato dai livelli di output (come ad esempio il
volume della produzione, fatturato, soddisfazione clienti ecc.) e sotto l’organico. Di conseguenza per
determinare l’organico faccio la formula inversa:

È chiaro che in questi casi possiamo utilizzare questo indice di produttività quando è abbastanza costante il
tasso di produttività. Quindi generalmente questa non la troveremo mai ad esempio nelle aziende che
hanno un alto tasso di innovazione dei processi, innovazione incrementale, con nuove tecnologie. Infatti la
troviamo nella pubblica amministrazione per stabilire i carichi di lavoro. Quando vi fu la riforma della
pubblica amministrazione, questo metodo è stato fortemente criticato perché se devo già tenere costanti i
livelli di produttività( che sappiamo non essere il massimo nella P.A.) e vado a determinare l’organico in
base a quei livelli di produttività, avrò una produttività per sempre stagnante.
Esempio: se prendiamo l’esempio del venditore che abbiamo fatto già in passato e sappiamo che il
500000
venditore riesce a procurare 500.000 euro di vendite, quindi il mio rapporto di produttività sarà 1
.

82
Tenendo costante questo rapporto, l’obiettivo è quello di aumentare il fatturato (output) a 3 milioni. Di
𝑜𝑢𝑡𝑜𝑢𝑡 3000000
quanto organico avrò bisogno? Ricordando che l’organico è dato da 500000
. Avremo 500000
= 6. Avremo
bisogno quindi di 6 venditori in più per raggiungere fonti di vendite
Esercizio per casa: dato un indice di produttività pari a 2000 euro di fatturato per addetto, calcolare il
fabbisogno di organico necessario per ottenere un fatturato di 25000 euro.
Indice del personale (o staffing ratios)
Questo è quell’indice che ci serve per mantenere costante il rapporto tra diverse categorie di personale,
ecco perché indici del personale. Si può fare in due modi: o si può rapportare una specifica categoria del
personale sul totale dell’organico (esempio quanti operai ho su tutto l’organico impiegato) o posso
rapportare il numero di personale staff, per esempio, sul numero di supervisor. Come vediamo sono
sempre indici del personale perché le variabili che si trovano all’interno di questi indici sono legate a delle
caratteristiche del personale. Si dice generalmente che dimensionare la funzione HR, si debba avere un
addetto HR per 100 lavoratori. Questo è sempre vero? No! Non è sempre vero che un buon
dimensionamento della funzione HR preveda che ci sia almeno un professionista HR per 100 lavoratori
perché dipende dal valore e dal ruolo che do alla funzione HR. Se abbiamo che è un partner strategico io
posso anche prevedere di destinare due o più risorse ogni 100 lavoratori. In termini generali significa che
anche se vi sono rapporti ottimali per esempio tra supervisori e subordinati ma dipende anche dal contesto
e dai fattori contingenti.
Esempio in classe: un ospedale sta stabilendo lo staff. Dobbiamo stabilire la relazione tra la quantità
necessaria di staff che mi serve per ogni medico che ho in reparto. Quanto staff ha bisogno per ogni medico
che ho in reparto? Parto da quello che ho:
- 2 medici impiegati a tempo pieno a 40 ore;
- 2 neo medici a tempo parziale a 30 ore;
- 15 personale di staff (tutti a tempi pieno).
Calcolare i full time equivalent per i medici.
Full time equivalent = nell’organico andremo a considerare soltanto i corrispondenti al tempo pieno. Per
esempio considerando due part time al 50% come 1 full time.

30
40
= 0.75 0,75* 2(perché sono 2 medici a tempo parziale) = 1,5

Quindi il totale dei medici sarà di 2+1,5 medici (in termini di full time equivalent) = 3.5 medici
Per stimare quanti infermieri servono per ogni medico:
15
3,5
= 4,3 dovrò quindi avere 4 infermieri per ogni medico.

Analisi di regressione (semplice o multipla)


Tali analisi permettono di ottenere i livelli di organico come variabile dipendente da una serie di fattori
parametrici (infatti vengono dette anche regressioni parametriche, cioè basate sulla stima di parametri). In
questo caso l’organico sarà funzione, ad esempio, degli indicatori di carico di lavoro, oppure costo, vincoli,
fatturato, produzione. Quindi quanto organico mi serve in funzione della produzione che voglio ottenere.
Ad esempio: organico F(produzione, fatturato). In questo caso la difficoltà sta nella stima dei parametri che
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può portare facilmente ad errori. Tuttavia, quando si accetta che c’è una forte relazione tra due variabili,
allora questi modelli sono in grado di restituire delle stime ragionevolmente certe del fabbisogno di
personale che noi dobbiamo avere se vogliamo ad esempio aumentare il livello di produzione.
Generalmente questi modelli di regressione vengono accompagnati dai grafici a dispersione.
Sempre rimanendo nella problematica degli ospedali, accerto che si ha una relazione tra i posti letti
disponibili e il numero degli infermieri. E devo stabilire quanti infermieri ho.
Ho il numero dei letti, e quelli degli infermieri, ottengo una retta (se c’è la relazione) che interpola i vari
punti.

BUDGET DEL PERSONALE


Il budget è una funzione, costituito dall’insieme delle previsioni sui costi del personale, delle attività di
gestione da dedicare a questo personale e del fabbisogno di risorse stesse. Stimiamo il budget in base ad
una serie di variabili, per capire quanto ci costa ad esempio le politiche di gestione delle risorse umane e se
a fronte di un nuovo dimensionamento dell’organico, dovrà ridimensionare aumentare la produzione e
quindi avrò di conseguenza un impatto di nuovo sul budget. Quando abbiamo studiato all’inizio il processo
di programmazione del personale, abbiamo già accennato che ci sono diverse prospettive da cui noi
possiamo osservare la determinazione del budget che a volte è semplice, altre volte no. Ricordiamo che il
budgeting delle risorse umane non può essere scollegato dagli altri centri di costo e dagli altri centri di
responsabilità, in quanto è tutto a catena. Nella determinazione del budget del personale, il process owner
è sicuramente la funzione HR, ma che deve lavorare in stretta collaborazione con le altre funzioni
dell’azienda.
Obiettivi ed utilità:
- Strumento per correggere scostamenti tra quanto pianificato e quanto accaduto;
- Coordinamento con i budgeting di tutti gli altri centri di responsabilità dell’azienda.

HUMAN RESOURCE SCORECARD (HRS)


Una volta che si ha una definizione chiara delle politiche che si vogliono adottare, dei sistemi di gestione e
HR, del fabbisogno e quindi del dimensionamento della funzione HR, allora si può predisporre un cruscotto
di indicatori che ci aiutano a monitorare e tenere sotto controllo tutte le variabili che noi mettiamo in
gioco. La HRS infatti è un sistema integrato di gestione che ci permette di controllare l’implementazione
della strategia, attraverso una serie di indicatori di performance e che ci permette anche di valutare il
contributo che la funzione HR e le stesse risorse umane danno alla creazione di valore perché oltre alla HRS,
che è più concentrata sul contributo che da la funzione HR, c’è anche la WORKFORCE SCORECARD che

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invece valuta il contributo che danno le risorse umane. Chiaramente è un approccio che deriva dalla
BALANCED SCORECARD che è stata introdotta da KEPLAN E NORTON per superare i limiti delle misurazioni
fatte durante gli anni novanta, orientate al breve termine. In genere venivano prese ad esempio gli indici di
bilancio,gli indicatori dello stato patrimoniale per verificare la solvibilità, solidità dell’azienda o anche
indicatori come quello economico oppure mescolando come il ROI ROE, dati derivanti dallo stato
patrimoniale o conto economico. Spesso però gli indicatori usati erano troppo incentrati sul breve termine
e rischiavano di portare il management a decisioni sbagliate, perché spesso pur di aumentare l’indice ad
esempio di redditività, si usavano politiche che non favorivano la proprietà ma il management stesso. Si è
deciso quindi di allargare la prospettiva, adottando non solo una prospettiva fortemente quantitativa ma
anche qualitativa, non solo una prospettiva di breve termine ma anche di medio lungo termine e non solo
una prospettiva esterna ma anche interna. Perché tutto questo?
La BALANCED SCORECARD è fatta da 4 prospettive: la prima è la prospettiva economica finanziaria ( in cui ci
sono indicatori che monitorano la situazione economico finanziaria dell’azienda – è la prospettiva
tipicamente quantitativa come anche la quella del cliente e dei processi interni). Si aggiunge anche un’altra
prospettiva, che è quella di tipo qualitativa, che riguarda l’apprendimento e la crescita, ovvero tutti i
parametri indicatori che monitorano i comportamenti, la cultura organizzativa. Inoltre alla prospettiva
tipicamente esterna, vi è quella interna perché la prospettiva dei processi e dell’apprendimento e crescita
guardano ad aspetti interni dell’azienda (creare una cultura , un clima che favorisca davvero un vantaggio
competitivo sostenibile). Come riesce la BALANCED SCORECARD a garantire una coerenza tra tutti questi
diversi indicatori? Attraverso degli stringenti legami di causa ed effetto, che tra l’altro è la critica più grande
che viene fatta ai sistemi di BALANCED SCORECARD perché è un po’ deterministica, perché tutto deve
essere legato da un sistema di causa effetto; altri interventi meno logici e meno razionali non vengono
contemplati. È un sistema a cascata: si parte da diverse prospettive, economico finanziaria(ad esempio
l’azienda decide di aumentare i tassi di redditività). Come lo fa? La relazione di primo ordine di causa
effetto la deve riscontrare nella prospettiva dei clienti/mercato. Come faccio ad aumentare il fatturato?
Aumento la soddisfazione del cliente o la sua lealtà o la qualità dei prodotti. Quindi è una relazione di
causa-effetto. Il secondo ordine, vado dai processi interni: in questo caso per aumentare la soddisfazione
dei clienti devo portare delle innovazioni organizzative come ad esempio rendere i processi più fluidi. E
tutto questo lo faccio attraverso le persone, quarta prospettiva di apprendimento e crescita. Sicuramente
se devo agire sull’efficienza del processo non posso basarmi sulle soft skills che magari potrò usare
nell’interfaccia con il cliente, andrò invece a puntare sulle competenze tecniche. Vediamo che tutto legato
a relazione di causa effetto molto stretto. Per ogni prospettiva vengono poi identificati degli indicatori:
dovrò montare una serie di indicatori che mi vanno a monitorare l’aumento del reddito ecc.
A partire da questo modello è stato sviluppato quello della HUMAN RESOURCE SCORECARD che valuta il
contributo che da la funzione HR all’implementazione della strategia. Come lo fa? Misura il contributo delle
persone al risultato economico e soprattutto va a considerare la necessità di creare dei sistemi di gestione
del personale che siano fortemente coerenti al loro interno, perché dalla loro coerenza interna riescono a
generare degli effetti sinergici che avranno impatto maggiori sui risultati economici finali.
Nb: il nesso tra la BS e la HRS è dato dalla prospettiva di apprendimento e crescita è qui che entrano le
persone e da cui si sviluppa la HRS, che dovrà sempre impattare sugli indicatori economico – finanziari.
La prima prospettiva è quella di apprendimento e crescita, entrano le persone che sono la base su cui
partire per implementare la strategia. A partire dalla strategia, devo determinare quelli che sono i sistema
di gestione HR che devono essere coerenti e quindi in questo caso quali indicatori devo avere nel
cruscotto? Quelli che mi monitorano lo stato costante di allineamento delle politiche tra di loro. La terza
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prospettiva sono le politiche di gestione. Una volta che ho determinato il mio sistema di gestione e HR, sarò
in grado di decidere quali politiche attuare. Si usano indicatori di adeguatezza non rispetto alle altre
politiche ma rispetto alla strategia. In questo caso la prospettiva è sia esterna che interna. Ultima
prospettiva è quella del ruolo e delle competenze che deve avere la funzione HR, quindi degli indicatori che
sappiano monitorare se le competenze possono supportare il ruolo che vogliamo dare alla funzione HR.
I limiti: già abbiamo accennato che c’è molto determinismo metodologico e l’attenzione è sulle relazione di
causa effetto, poco spazio alla dinamicità e intuizione e soprattutto è un sistema molto integrato. Vi è
molta rigidità. Cosa succede se un obiettivo viene mancato? Questi indicatori saranno in grado di
monitorare i cambiamenti ed adattarsi ai cambiamenti? No, non molto. E per questo bisogna sempre
dotarsi di strumenti accessori per eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi programmati.
Ultimo accenno che non c’è sul libro: una delle ultime innovazioni che è stata fatta nella ricerca è quella di
trovare un ulteriore elemento di ricongiunzione. La BALANCED SCORECARD si unisce alla HRS tramite la
prospettiva di apprendimento e crescita Vi è anche una terza che è la WORKFLOW FORCE SCOREDCARD.
Essa non monitora solo il contributo che da la funzione HR ma anche il contributo delle persone stesse e si
caratterizza per 4 prospettive: è unita alla BALANCED SCORECARD mediante la prospettiva del contributo
che danno le risorse umane sulle performance economico finanziare e dall’altro lato è collegata alla HRS
tramite sempre il tassello dell’apprendimento e della crescita. Quindi le prime due prospettive sono queste.
La terza prospettiva è quella della leadership, con indicatori che vanno a monitorare lo stato o lo stile della
leadership interna all’azienda; la quarta prospettiva è quella delle competenze. Un sistema quindi che è
effettivamente integrato è un sistema che va a considerare il business con la BALANCED SCORECARD, il
ruolo delle risorse umane con la WORKFLOW SCORECARD e il contributo della funzione HR con la HRS.

LEZIONE 9

IL MERCATO DEL LAVORO

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Il mercato del lavoro è il luogo in cui si scambia il fattore produttivo “lavoro”. Il lavoro è uno dei fattori della
produzione.
Cosa distingue un fattore della produzione rispetto ai beni di consumo? Un fattore della produzione è in
grado di generare reddito in maniera continuativa nel tempo, i materiali di consumo no; questi ultimi
esauriscono la loro capacità di generare reddito nel momento in cui sono cedutio. Se cedo un bene,
acquisisco un reddito e finisce la capacità di quel bene di generare reddito. Questo è fondamentale perché
il lavoro è un servizio che, dato in maniera continuativa nel tempo, è in grado di generare una fonte
duratura di reddito.
La prima grande distinzione che si fa rispetto ai mercati del lavoro (MdL) è tra:
- Mercato del lavoro esterno: si tratta di un mercato in cui i livelli di salario e i livelli occupazionali
(numero di lavoratori occupati) sono determinati dalla domanda e offerta di lavoro che si esplica
all’interno del mercato. Sostanzialmente il MdL esterno rappresenta l’insieme delle risorse che
sono in concorrenza tra di loro esternamente all’impresa, quindi che concorrono per accaparrarsi
l’occupazione;
- Mercato del lavoro interno: si tratta di mercati non governati dalle forze della domanda e
dell’offerta di lavoro ma, e forse in tal senso non sono definibili propriamente come mercati, sono
un insieme di regole, di procedure amministrative che stabiliscono i livelli delle retribuzioni e i livelli
occupazionali (tipicamente i sistemi di carriera all’interno delle imprese). Infatti tipicamente si fa
coincidere il mercato del lavoro interno con l’organico di cui dispone un’azienda in un dato
momento; quindi, sostanzialmente, il numero di risorse impiegate internamente dalle aziende.
Questi due mercati sono collegati da alcuni porti, che si definiscono Porti di entrata e di uscita; questi porti
sono dei posti di lavoro in corrispondenza dei quali si hanno degli spostamenti da un mercato all’altro. Se ci
troviamo nel mercato interno del lavoro abbiamo un porto di entrata vuol dire che in quel momento sta
entrando una risorsa esterna, ossia proveniente dal mercato esterno del lavoro e attraverso questo porto di
entrata (nuova occupazione) entra nell’organico dell’azienda in un dato momento.
Modello di analisi (Costa, Gianecchini)
Un modello di analisi, proposto nel nostro testo, può essere quello di definire i mercati su tre livelli; questi
livelli definiti sulla base di due variabili: la vicinanza professionale e la vicinanza culturale. La definizione di
questi tre mercati è data in base alla vicinanza professionale dei lavoratori: ciò significa ad esempio che
definisce un mercato l’insieme dei lavoratori che hanno quelle competenze professionali che l’impresa sta
cercando. La vicinanza culturale fa riferimento invece a quanto siano i lavoratori portatori o meno di
determinati assets intangibili come la cultura o i valori, le esigenze che possano concordare con quelli
dell’azienda. Sulla base di queste due variabili si hanno quindi:
- Mercato del lavoro generale: coincide sostanzialmente con quello che precedentemente è stato
definito mercato esterno del lavoro, quindi un aggregato macroeconomico, in cui domanda e
offerta del lavoro si incrociano e da cui l’azienda può trarre le caratteristiche della forza lavoro che
ha a disposizione;
- Mercato del lavoro di riferimento: è una porzione di mercato esterno del lavoro, in cui l’azienda
deciderà di attivare effettivamente il suo processo di selezione e reclutamento;
- Mercato interno del lavoro: insieme di regole amministrative che stabiliscono i sistemi di carriera e
di promozione all’interno di un’azienda. Pertanto stabiliscono, da un lato, le retribuzioni che non
saranno di mercato bensì contrattate, talvolta anche a livello individuale, e dall’altro i meccanismi,

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le procedure di progressione, promozione e di carriera quindi di crescita professionale interna
(quindi non spostandosi attraverso il mercato esterno del lavoro).
Questo modello di analisi dei mercati del lavoro interni ed esterni ha molti vantaggi, in quanto permette di
considerare diverse caratteristiche del mercato del lavoro, in particolare i diversi segmenti in cui si
suddivide il mercato del lavoro. Si parla infatti di più mercati del lavoro per indicare la presenza di più
variabili che creano dei segmenti/gruppi di lavoratori in concorrenza tra di loro in ambiti locali. Tra le
variabili si individuano quelle:
- Territoriali: in base alla vicinanza fisica. È molto più probabile che in un’azienda che opera al Nord si
crei più concorrenza tra i lavoratori vicini a quella fabbrica rispetto ai lavoratori che sono al Sud.
- Professionali: se effettivamente i lavoratori detengono determinate competenze. Si creano mercati
di competenze specializzate. Sono un magazziniere specializzato (carrellista) allora competo nel
mercato dei magazzinieri specializzati carrellisti e non nel mercato generale degli operai. Ancora se
ho delle competenze specifiche, in quel caso vado a competere in un mercato interno poiché, come
detto, la specificità delle competenze è contestualizzata all’impresa in cui opera; se ho delle
competenze specifiche, i miei diretti concorrenti saranno i lavoratori impiegati internamente.
- Etniche, di genere, politiche: a volte creano dei mercati discriminati o discriminanti.
- Culturali e sindacali: a volte mettono dei veri e propri muri ai porti di entrata.

Come si vede dal grafico relativo al modello di analisi nel mercato del lavoro ci sono tutte le c.d. Forze
lavoro, mentre all’esterno si ritrovano le forze di non lavoro.
Le forze di lavoro sono la somma di occupati e disoccupati. Occupati con almeno 15 anni che nell’ultima
settimana hanno svolto o un’ora di lavoro retribuita oppure gratuita, ad esempio all’interno di aziende
familiari oppure che sono occupati, anche se sono assenti per malattia o per ferie, per un periodo inferiore
ai tre mesi oppure se continuano a percepire il 50% della retribuzione. Quindi oltre agli occupati che si
ritrovano nella aziende rientrano anche queste altre fattispecie. Si stabilisce la soglia dei 15 anni perché per
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la sottoscrizione del contratto la legge prevede che si abbia capacità giuridica (che si acquisisce alla nascita)
e capacità di agire (che si acquisisce ai 18 anni); però nel caso specifico della sottoscrizione del contratto di
lavoro è sufficiente l’assolvimento dell’obbligo scolastico, che si ha a 16 anni. 15 anni perché c’è un
contratto specifico, ossia il contratto di apprendistato qualificante che è qualificante proprio perché
permette di assolvere all’obbligo scolastico e quindi di avere il titolo di studio. I disoccupati sono tutti
coloro che non rientrano tra gli occupati, quindi tutte le persone che rientrano tra i 15 e i 64 anni che sono
disposte ad accettare il lavoro, quindi che stanno cercando lavoro o che inizieranno a lavorare entro breve
termine, generalmente entro due settimane. Queste forze lavoro sono presenti all’interno del mercato del
lavoro.
All’esterno si trovano tutte le forze di non lavoro corrispondono agli inoccupati, inattivi, ossia tutte le
persone che non rientrano nelle prime definizioni. Si tratta di: minori di 15 anni, inabili, pensionati
(rientravano anche coloro che svolgevano servizio di leva).
Le cause della disoccupazione - Teorie economiche
Ci sono tre teorie principali che spiegano la disoccupazione. Vediamo prima come si genera, andando poi a
vedere le cause.

W SALARIO
N LIVELLI DI OCCUPAZIONE
Nel mercato del lavoro , considerando W e N, si ottengono le curve di domanda (D) e offerta di lavoro (O).
All’aumentare dei salari (W) si riduce l’occupazione (N), ossia all’aumentare dei salari le imprese sono
disposte ad occupare un numero inferiore di lavoratori (questa rappresenta la curva di domanda del
lavoro). L’offerta di lavoro invece ragiona diversamente: più è alto il salario, più i lavoratori offrono lavoro.
Secondo i principi della teoria neoclassica, il punto di incontro tra D e O rappresenta un punto di equilibrio,
caratterizzato da W* (salario di equilibrio) e N* (livello di occupazione di equilibrio). I lavoratori hanno un
cosiddetto salario di riserva 𝑊 ̅ : si tratta di un valore soglia che i lavoratori utilizzano per decidere se
accettare o meno un impiego. Il salario soglia è quel valore del salario che eguaglia i benefici dell’accettare
un lavoro rispetto ai costi di continuare a cercarlo; sostanzialmente il lavoratore deciderà di impiegarsi
quando riceverà l’offerta di un salario appena maggiore al salario di riserva. Generalmente invece le
imprese hanno un salario massimo W, che è superiore al salario di mercato, poiché devono incentivare e
attrarre i talenti. Se l’impresa fissa un salario anche appena superiore a quello competitivo, la domanda
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generata dall’impresa corrisponderà al punto A. A questi livelli di salario i lavoratori disposti ad occuparsi
sono tanti; quindi l’offerta dei lavoratori, per un salario pari a W, sarà pari a B. Quando l’offerta è maggiore
della domanda si crea disoccupazione. Questo è il tipico meccanismo di quando un’eccessiva offerta sul
mercato non è corrisposta da altrettanta domanda e di conseguenza si crea una fetta di disoccupazione.
Esistono diverse cause che possono determinare questa fetta di disoccupazione.
Disoccupazione frizionale
Alcune cause sono dette fisiologiche, cioè relative alla normale entrata e uscita dei lavoratori in azienda (il
normale tournover) oppure a quelle che sono definite le frizioni presenti nel mercato del lavoro; queste
frizioni sono piccole imperfezioni che rendono il mercato del lavoro non perfettamente concorrenziale (da
qualcuno definito anche il più imperfetto di tutti). Queste cause generano quindi una disoccupazione
frizionale; si tratta di una disoccupazione quasi naturale, data quindi dal naturale tasso di disoccupazione
che generalmente si trova nei diversi sistemi economici intorno al 4%.
La teoria che supporta la disoccupazione frizionale è la Job Search Theory (Teoria della ricerca d’impiego).
Tale teoria ritiene che esistono delle asimmetrie informative all’interno del mercato del lavoro, quindi non
c’è razionalità assoluta bensì una razionalità limitata. La ricerca del lavoro è costosa, poiché non si
conoscono tutte le offerte disponibili e le curve salariali, quindi si dovranno impiegare risorse e tempo per
cercare lavoro. Si dice che cercare lavoro è economicamente e psicologicamente costoso. Inoltre, come
detto, ciascun lavoratore ha un salario di riserva pertanto questo accetterà il lavoro quando il salario sarà
appena superiore al salario di riserva. Ciò ci dice che i lavoratori sono disposti ad accettare anche lunghi
periodi di impiego fino a quando non raggiungono quella condizione e questo è dato dal fatto che cercare
lavoro è costoso. Ecco perché la situazione potrebbe peggiorare nel caso dei sussidi per la disoccupazione,
perché in quel caso risulta ancora più conveniente non cercare lavoro rispetto ad attivarsi invece per
ottenere i livelli appena superiori ai salari di riserva. Quindi la teoria della ricerca del lavoro afferma che
per cercare lavoro si devono impiegare delle risorse in termini di tempo, psicologici e monetari; ogni volta
un lavoratore è come se facesse davanti ad un’offerta di lavoro una scelta di ottimizzazione, quindi
confronta i costi rispetto ai benefici, li confronta con il salario di riserva e di volta in volta decide. Accade
quindi che anche per lunghi periodi si può avere un livello di disoccupazione; infatti fino a quando i salari
non raggiungono i livelli di riserva il lavoratore decide di non impiegarsi.
Disoccupazione volontaria
La disoccupazione volontaria è determinata da cause che attengono a scelte del lavoratore e la teoria di
riferimento è la Job Competititon Theory. Questa teoria sostiene che i lavoratori non scelgono di occuparsi
soltanto per il salario (quindi la teoria della Wage Competition) ma competono per la posizione in sé
complessivamente intesa, ecco perché Job Competititon. Ciò significa che i lavoratori considerano se
occuparsi in quella posizione non soltanto se il salario è maggiore a quello di riserva ma anche se quella
posizione rispecchia le loro aspettative in termini di crescita professionale o di competenze impiegate. Si
tratta di una considerazione molto più complessiva della loro occupazione.

Disoccupazione involontaria
In tal caso i lavoratori si trovano disoccupati per forza, quindi per cause che non attengono alla loro
volontà; generalmente queste cause sono un eccesso di offerta derivante da una domanda insufficiente o le
innovazioni tecnologiche; quest’ultime aumentano la produttività del lavoro e di conseguenza le imprese
avranno bisogno di meno lavoratori per raggiungere gli stessi livelli di quantità prodotta (anche in questo
90
caso si riduce la domanda di lavoro); ancora nel caso delle crisi aziendali accade che, dato un determinato
livello di lavoratori occupati, l’azienda non riesce a sopportare tutti i costi, però i salari sono fissi (non può
ridurre il salario) e di conseguenza l’azienda dovrà ridurre la domanda. Tutte queste situazioni sono
condizioni che non dipendono dalla volontà del lavoratore. Questa tipologia di disoccupazione è spiegata
dalla teoria dei salari di efficienza.
In un mercato perfettamente concorrenziale, secondo il principio efficientista della massimizzazione del
profitto, il salario deve corrispondere a quella quantità che massimizza il profitto, la c.d. quantità ottima. W
max π
La quantità che massimizza il profitto è quella quantità rispetto alla quale il costo aggiuntivo per produrre
tale quantità eguaglia il beneficio che ottengo dalla produzione di quella stessa quantità. È come dire: se
ottengono un’unità aggiuntiva di prodotto, quanto mi è costata l’unità aggiuntiva di prodotto? Confronto il
costo marginale sul ricavo marginale e quella è la quantità che mi massimizza il profitto. Cm (Costo
marginale)= Rm (Ricavo marginale). Secondo la teoria economica neoclassica, il salario che massimizza il
profitto è quel salario in corrispondenza del quale il costo aggiuntivo derivante dall’assunzione di un
lavoratore in più eguaglia il beneficio marginale derivante dalla quantità aggiuntiva prodotta grazie all’unità
addizionale di lavoro (il lavoratore impiegato in più). Si ha tipicamente la variazione delle quantità sulla
variazione del lavoro impiegato. In tal caso il costo marginale dell’impiegare un’unità aggiuntiva di lavoro è
il saggio di salario che io pago in più, quindi corrisponde al salario. Il beneficio marginale invece corrisponde
alla produttività marginale ossia quanta quantità ho in più di prodotto se impiego un’unità aggiuntiva di
lavoratore e corrisponde al valore del prodotto marginale. Secondo la teoria il salario che massimizza il
profitto è quello che eguaglia la produttività marginale del lavoro (W=Pm).
La teoria dei salari di efficienza afferma che questo è vero, però se tutte le imprese si comportassero così
come afferma la teoria del mercato del lavoro perfettamente concorrenziale, avremmo una situazione di
equilibrio in cui si ha un salario competitivo, per cui tutte le aziende utilizzando questo principio arrivano ad
una domanda di mercato complessiva e ad un valore di salario di equilibrio che è pari a W*. La teoria dei
salari di efficienza invece afferma che in realtà se l’impresa volesse davvero massimizzare il profitto, il suo
comportamento dovrebbe essere diverso, ossia dovrebbe scegliere i suoi livelli di salario che aumentano
effettivamente la produttività marginale indipendentemente dal salario competitivo di mercato.
Sostanzialmente afferma che se l’impresa vuole davvero massimizzare il profitto non deve scegliere il
salario competitivo di mercato ma scegliere quale salario dare ai lavoratori e come incentivarli. Se adotta
un livello di salario superiore a quello competitivo di mercato incentiverà il lavoratore, attrarrà i talenti; se
invece lo definisce sotto i livelli di equilibrio accade che magari attrare maggiore offerta, perde sicuramente
talenti (non è più attrattiva dal punto di vista economico), riuscirà ad inglobare più lavoratori ma non
riuscirà ad incentivarli (questa Pm ad un certo punto finirà di crescere). Quindi secondo la teoria dei salari
di efficienza, un salario è davvero efficiente quando è stabilito indipendentemente dai valori competitivi di
mercato ed è tale da incentivare i lavoratori in modo tale che i salari effettivamente eguaglino la
produttività marginale, tipicamente quando sono superiori al salario competitivo di mercato.
MERCATO DEL LAVORO GENERALE - secondo l’economia neoclassica
Secondo l’economia neoclassica, il mercato del lavoro è un mercato che si definisce perfettamente
concorrenziale, in cui i livelli di salario e i livelli occupazionali sono definiti dalle domande e dalle offerte di
lavoro e sono salari e livelli occupazionali di equilibrio; “di equilibrio” significa che non può essere
modificata quella condizione (di equilibrio) cambiando comportamento. In questo mercato i lavoratori
competono per il salario, le imprese competono per i lavoratori. Il numero di lavoratori che le imprese
vogliono impiegare è perfettamente uguale al numero dei lavoratori che ricercano impiego, quindi che
91
vogliono occuparsi. Vale la legge del prezzo unico, ossia c’è un unico salario, perché tutti i lavoratori sono
uguali e quindi in un mercato perfettamente concorrenziale per beni uguali/omogenei si paga lo stesso
prezzo. In questo caso quindi per lavoratori equivalenti si paga lo stesso salario.
Caratteristiche del mercato del lavoro secondo la teoria neoclassica
Secondo tale teoria vale un principio efficientistico di definizione dei salari; i salari sono definiti
dall’applicazione del principio efficientistico (efficientistico perché mira alla massimizzazione del profitto) o
anche di analisi marginalista (analisi fatta sui costi e ricavi marginali). Poiché tutte le aziende determinano
le proprie curve di domanda in base alla massimizzazione del profitto, l’insieme delle domande delle
imprese, che si comportano tutte allo stesso modo poiché sono uguali, generano la domanda di lavoro del
mercato complessivo. Il comportamento dei lavoratori, che si comportano tutti allo stesso modo, genera la
curva di offerta del mercato del lavoro complessivamente inteso. Una volta determinati i salari, secondo il
principio efficientistico, si determinano anche i livelli di occupazione che corrispondono a quei salari che
massimizzano il profitto. In questo modo sono determinati i livelli salariali e occupazionali di un mercato
perfettamente concorrenziale del lavoro. I livelli di occupazione dipendono esclusivamente dalle scelte
salariali di imprese e lavoratori.
- Quindi una prima caratteristica è che tutti i lavoratori sono uguali e omogenei e tutte le imprese
sono uguali e omogenee, questo significa che sostanzialmente non avvengono investimenti in
capitale umano, né generico né specifico. Non vengono realizzati gli investimenti in capitale
umano generico, perché essendoci un’elevata mobilità del lavoro le imprese concorrenti se ne
gioverebbero, pertanto a ciascuna impresa non conviene investire in capitale generico perché
creerebbe delle rendite per le imprese concorrenti. Non si investe neanche in capitale umano
specifico, perché l’elevata mobilità del lavoro non garantirebbe all’impresa di beneficiare della
rendita dovuta all’investimento fatto in capitale umano specifico.
- Un’altra caratteristica è che i salari e i livelli di produttività sono dati e corrispondono a quelli del
mercato in generale. Ciò significa che le aziende non hanno il potere di modificare i salari in modo
da rendersi più attrattive, poiché i salari appunto sono dati e corrispondono ai livelli di produttività
marginale dell’intero sistema dato. I lavoratori dal canto loro non hanno la possibilità di modificare
i salari perché non hanno potere contrattuale; l’impresa potrebbe facilmente sostituirli con altri
lavoratori.
- C’è informazione perfetta, non si cono asimmetrie informative, c’è razionalità assoluta. Tutti i
lavoratori conoscono tutte le offerte di lavoro e le curve salariali, tutte le imprese conoscono
perfettamente le caratteristiche dei lavoratori.
- I costi di mobilità sono nulli poiché la mobilità da un posto di lavoro all’altro è molto elevata. Non
si fanno investimenti in capitale specifico, quindi c’è molta flessibilità del mercato.
- Non ci sono vincoli istituzionali, ossia non ci sono presenze istituzionali come ad esempio i
sindacati o lo Stato, che possano in quale modo vincolare o i livelli salariali se pensiamo ai contratti
collettivi del lavoro oppure ai livelli occupazionali se pensiamo che la legge può incidere sui livelli
occupazionali (ad esempio quando la legge stabilisce che un’azienda che ha un numero di lavoratori
superiore ad un certo livello deve assumere una porzione di personale diversamente abile).
I LIMITI del modello economico neoclassico
In realtà il modello neoclassico è un modello molto limitante perché fa delle ipotesi che sarebbero
verificabili soltanto in caso di razionalità assoluta, quindi in casi assolutamente irrealistici. Non rispecchia le
situazioni reali perché sappiamo che il lavoratore e le aziende sono molto diversi tra di loro, quindi l’offerta
di lavoro è molto eterogenea, segmentata e la domanda di lavoro è molto composita, perché le aziende
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non fanno tutte le stese proposte di impiego ma hanno il potere di cambiare le condizioni di impiego (si
tratta di un potere di mercato). I lavoratori dall’altra parte hanno un certo livello di potere contrattuale e
quindi anche loro hanno il potere di cambiare i livelli di salario o i livelli di occupazione.
Le cause dell’imperfezione
Poiché i mercati del lavoro non sono perfetti, non è possibili applicare ad essi le leggi della concorrenza
perfetta; questo per una serie di imperfezioni dei mercati:
- Presenza di razionalità limitata e asimmetrie informative. I lavoratori ad esempio non conoscono
tutte le offerte di impiego presenti in un determinato momento; si causano sempre delle frizioni e
dei disallineamenti tra domanda e offerta di lavoro. Pensiamo ad esempio alle divergenze tra i vari
settori o tra collocazioni geografiche.
- Presenza di attori collettivi e dello Stato che influenzano soprattutto i livelli salariali e si dice che
addirittura i contratti collettivi nazionali hanno efficacia erga omnes, ossia che influenzano anche
coloro che non sono firmatari di quell’accordo. Molto vincolante è quindi il potere dei sindacati;
questi ultimi sottoscrivono dei contratti e degli accordi collettivi che valgono ad esempio per la
categoria per la quale stanno contrattualizzando la parte normativa o la parte salariale. Però accade
nella maggior parte dei casi quando ci sono delle vertenze di lavoro il giudice va a considerare come
livello base sempre il livello del contratto collettivo della categoria di riferimento e quindi accade
che, se anche a quell’azienda o a quel lavoratore non è applicato quel determinato contratto
collettivo, di fatto i contratti collettivi vengano comunque considerati come base di partenza.
Pertanto in tutti i casi in cui non vengano rispettati gli accordi il giudice può assumere dei
provvedimenti nei confronti delle aziende. Quindi nel mercato del lavoro si vengono a creare molte
rigidità.
- La natura del contratto di impiego, che è un contratto relazionale, incompleto ed implicito.
Questo ci fa pensare alla distinzione che abbiamo fatto all’inizio tra fattori della produzione e
materiali di consumo. Il contratto di impiego è un contratto che dura nel tempo, non è immediato,
non si esaurisce subito come una compravendita; dicevano gli istituzionalisti che è più simile ad un
matrimonio che ad un contratto di compravendita. Quindi il lavoro è un servizio offerto in maniera
continuativa che dà l’opportunità di generare un livello di reddito duraturo. Sono contratti
incompleti perché non riescono ad esplicare tutte le condizioni che si possono venire a creare e
sono impliciti perché, in realtà, includono una serie di aspettative inespresse nel contratto, ma che
sono tuttavia presenti.

Un CONTRATTO si dice COMPLETO quando:


- individua tutte le obbligazioni contrattuali che scaturiscono dal contratto, cioè quando specifica
tutti gli obblighi che fanno capo a ciascuna delle due parti;
- specifica chiaramente la distribuzione dei costi e benefici per ciascuna circostanza che si viene a
creare.
In realtà è difficile trovare contratti così completi, perché dovremmo essere in grado di riuscire ad
immaginarci tutti gli obblighi derivanti da un accordo (livello di razionalità assoluta infinito) e anche tutte le
circostanze che possono deviare da questi obblighi, e quindi le modalità, di volta in volta, per gestirle e
assegnare i costi e benefici alle parti in base alle circostanze che si vengono a creare. In realtà i contratti
d’impiego sono molto incompleti, non riescono a specificare tutti questi insiemi di condizioni e di obblighi
che si vengono a creare, per cui si genera molto spesso la possibilità che si vengano a creare
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comportamenti opportunistici, causati dalla presenza di razionalità limitata e non assoluta. I tipici
comportamenti opportunistici sono:
- AZZARDO MORALE, è tipicamente una forma di opportunismo che si definisce post contrattuale,
cioè quando vengono cambiate le condizioni contrattuali ex post, perché la controparte non ha la
possibilità di controllare; modifico, dopo aver formato il contratto, le condizioni contrattuali perché
la controparte non mi può osservare;
- SELEZIONE AVVERSA, che abbiamo quando modifichiamo le condizioni contrattuali a nostro
vantaggio, determinando una conseguenza negativa per l’intero sistema. Tipico esempio si ha con
le assicurazioni: se io stabilisco un premio alto sottoscriveranno il contratto soltanto i profili più
rischiosi, perché a quelli meno rischiosi non conviene sottoscrivere delle polizze così alte; però in
questo modo determino un innalzamento dei premi totali, perché i profili saranno più rischiosi,
quindi per perseguire dei miei vantaggi in realtà ho causato un danno al sistema nel suo complesso.
Selezione avversa: ho selezionato in maniera avversa all’intero sistema.
Questi sono i tipici comportamenti opportunistici che possono derivare da un contratto che dura a lungo
nel termine e che è incompleto, cioè che non riesce a specificare tutti gli obblighi che fanno capo alle
controparti, e che porta tipicamente a dei risultati che sono inefficienti. Questo accade perché:
- siamo in presenza di razionalità limitata quindi non possiamo prevedere tutte le circostanze che si
possono venire a creare;
- se anche potessimo prevederle, ciò avrebbe un costo immenso in termini di calcolo e di tempo
impiegato;
- anche se riuscissimo a prevedere e a sostenere questi costi in realtà la stessa codifica delle
condizioni contrattuali da rispettare potrebbe essere soggetta ad ambiguità a causa del linguaggio,
cioè delle non corrispondenze perfette tra linguaggi utilizzati.

Quali possibili interventi possono essere attuati per arginare questa incompletezza dei contratti di impiego?
Generalmente o si emulano i cosiddetti contratti completi quindi si fanno i contratti a pronti: questi
contratti cercano di simulare un contratto completo stabilendo una serie illimitata di clausole che cercano
di disciplinare, di indicare le condizioni da rispettare però nella circostanza che si viene a creare al di fuori
degli obblighi contrattuali. A parte la lunghezza del contratto, risulta abbastanza inverosimile che si possa
utilizzare questa soluzione per un contratto di lavoro. Infatti, generalmente, questi contratti si definiscono a
pronti, perché sono efficienti quando l’esecuzione del contratto avviene contestualmente alla sua
sottoscrizione, ossia quando non c’è un lasso di tempo così lungo per le controparti da poter modificare le
condizioni contrattuali a svantaggio dell’altra parte e quindi adottare un comportamento opportunistico.
Questo ad esempio avviene quando compriamo qualcosa (biglietto dell’autobus all’edicola), è un contratto
che si esaurisce subito; l’esecuzione è contestuale alla sottoscrizione del contratto, non c’è tempo per le
parti di mettere in atto dei comportamenti opportunistici.
Una seconda ipotesi è quella di stabilire dei contratti di relazione, così come nel caso del contratto di
impiego. I contratti di relazione sono dei contratti che non vanno a disciplinare mediante un numero
infinito di clausole le condizioni specifiche che di volta in volta si vengono a verificare, ma stabiliscono una
cornice a tali condizioni, cioè una cornice in base alla quale poi esplicitare meccanismi e procedure da
seguire in vari casi e che incorporano una serie di aspettative implicite ma condivise tra le parti, perché
sostanzialmente sono implicite ma anche attese. Come fare? Innanzitutto mediante l’assegnazione
dell’autorità; all’interno di un contratto di relazione per evitare comportamenti opportunistici, per definire
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quella cornice di regole e procedure, è necessario assegnare l’autorità. Questo è molto importante, perché
sarebbe molto costoso e dispendioso in termini di tempo dover andare a contrattare di volta in volta la
distribuzione di costi e benefici quando si vengono a creare delle circostanze particolari. Esempio: si ferma
un impianto; non è stabilito nel contratto chi debba intervenire, quindi bisognerebbe andare a vedere di chi
è la responsabilità, risalire al guasto, vedere di chi è, stabilire la distribuzione dei costi e dei benefici (molto
costoso); per tale motivo nei contratti di relazioni vi è l’assegnazione dell’autorità, per rinvenire di volta in
volta le responsabilità senza rinegoziare tutti gli obblighi.
Come diceva Marx, tipicamente, questa assegnazione di autorità rappresenta quella diversa distribuzione
del potere che si viene a creare tra il datore di lavoro, che usufruisce di un flusso di rendite, di guadagni,
sfruttando il lavoro.
Nell’ordinamento italiano il datore di lavoro ha 3 forme di autorità:
- POTERE DIRETTIVO, è il potere di indicare i tempi e le modalità di svolgimento del lavoro;
- POTERE DI VIGILANZA E CONTROLLO, quindi il datore di lavoro ha l’autorità di verificare che quella
prestazione sia eseguita secondo quei tempi e quei modi;
- POTERE DISCIPLINARE, ha l’autorità di sanzionare eventuali comportamenti che non rispettano
quella cornice di regole e di procedure.
Quindi le cause di imperfezione del mercato del lavoro sono:
- Razionalità limitata;
- Asimmetrie informative;
- Presenza di fattori istituzionali, sindacati e Stato;
- Natura dei contratti d’impiego; si tratta di contratti relazionali, (non a pronti), incompleti, perché non
sono in grado di esplicitare tutte le obbligazioni derivanti dal contratto e tutte le distribuzioni di costi e
benefici per tutte le circostanze che si vengono a creare al di fuori degli obblighi contrattuali, e sono infine
impliciti, cioè sono caratterizzati da una serie di aspettative non espresse esplicitamente all’interno del
contratto, e che sono auto applicabili, ovvero hanno una forza vincolante e autonoma, questo significa che
a nessuna delle due parti conviene non rispettare tali obbligazioni implicite, perché dovrebbero sopportare
i costi della violazione e quindi molto probabilmente della rottura del contratto.

Per far sì che queste obbligazioni siano effettivamente auto applicabili (self–enforcing), quindi auto
rinforzanti, auto vincolanti, sono necessarie 3 condizioni:
1. Osservabilità: i comportamenti messi in atto siano osservabili;
2. Consapevolezza: devo essere consapevole che queste obbligazioni derivino dal contratto; sono
consapevole, ad esempio, che la puntualità è una caratteristica apprezzata in un contratto di impiego o di
relazione, così come, anche, la diligenza. Non ho un obbligo contrattuale di puntualità o di diligenza
(obbligazione implicita), ma se faccio ritardo per 20 volte avrò delle sanzioni disciplinari e verbali o altri tipi
di intervento. Il datore di lavoro, non vedendo rispettate le sue aspettative, agirà di conseguenza, ad
esempio non dando la promozione; la promozione è un obbligazione implicita e non un obbligo
contrattuale del datore di lavoro, il quale la concede in virtù di una crescita professionale. Allo stesso
tempo il lavoratore avrà un’aspettativa implicita rispetto alla promozione ma non potrà esigerla in tribunale
(per tale motivo sono auto applicabili);

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3. Flussi di rendite: entrambe le parti devono avere dei flussi di rendite; per il lavoratore il flusso di rendite
ha la prospettiva di guadagni futuri, per le imprese è, ad esempio, la rendita derivante dall’applicazione di
quel capitale umano che, in una relazione di lunga durata, crea dei flussi di rendite. Perdere quel capitale
umano specifico sarebbe costoso per l’impresa in termini di costi di selezione, reclutamento, riformazione
oppure di riaddestramento sul lavoro; infatti determinate pratiche vengono apprese stando sul posto di
lavoro, mediante l’osservazione, la ripetizione, le routine, risulterà, pertanto, difficile accumularle di nuovo
e velocemente. Quindi entrambe le parti hanno dei flussi di rendite che rende vantaggioso stare nella
relazione e rispettare le aspettative implicite.
Le cause dell’imperfezione dei mercati indicano, quindi, l’impossibilità di applicare le leggi della
concorrenza perfetta al mercato del lavoro, che è un mercato imperfetto.

Nel tempo si sono susseguite diverse teorie classiche, che hanno cercato di spiegare queste imperfezioni
presenti nel marcato del lavoro. La critica fatta in merito a questo tipo di approccio è legata al fatto che si
tratti di un approccio eccessivamente razionale, efficientistico; non ci si può basare soltanto su principi di
ottimizzazione e massimizzazione del profitto. Si passa, quindi, ad una serie di teorie che cercano di
spiegare le caratteristiche peculiari del mercato del lavoro e sono tipicamente le Teorie sulla
discriminazione, sul capitale umano e sull’istruzione più in generale, e le Teorie di segnalazione.
TEORIA DEL CAPITALE UMANO (Becker 1964)
La teoria del capitale umano di Becker (1964) è stata sviluppata per spiegare quanto i lavoratori, a
differenza di quanto assunto secondo la Teoria Neoclassica, siano diversi tra loro in termini di aspettative e
decisioni di impiego. L’assunto di base di tale Teoria è che l’incremento di competenze, di capitale umano,
di conoscenze, di istruzione vada ad aumentare la capacità produttiva degli individui.
Quindi le decisioni di impiego dipendono da quanto siamo disposti ad investire nella nostra formazione;
questa è una decisione che varia al variare delle caratteristiche dei lavoratori, quindi i lavoratori non sono
tutti uguali in termini di decisioni di impiego.
Investire nella formazione è molto costoso, in termini di: costi da sostenere, tasse, trasporti, costi diretti e
indiretti, costi non monetari di impegno, di costanza, di caparbietà per raggiungere degli obiettivi. Questa
teoria afferma che la scelta di lavorare dipende dalla prospettiva di impiego: quanto più sono istruita,
quanto più aumenta la mia capacità produttiva, in ragione dell’aumento della mia istruzione, tanto più alta
è l’aspettativa rispetto all’impiego che avrò, magari è molto più alta del prezzo di riserva. Questo ci spiega
perché non a tutti i lavoratori è applicabile la Teoria del prezzo di riserva; non è detto che io sia disposta a
lavorare ad un salario appena maggiore del salario di riserva, magari le mie prospettive sono ben più ampie.
TEORIA DEL CREDENZIALISMO (Spence 1974)
Questa Teoria ha un assunto di base totalmente opposto a quello del capitale umano. In tal caso l’assunto
di base della Teoria, che rientra tra le teorie di segnalazione, è che il capitale umano non determina
l’aumento della capacità produttiva, ma è soltanto un segnale che le imprese adottano per stabilire le loro
decisioni di assunzione; quindi avere un titolo di studio sostanzialmente non corrisponde ad avere una
capacità produttiva ma corrisponde ad avere delle credenziali. Ad esempio: la verbalizzazione di un esame
certifica il possesso delle vostre conoscenze, ma nulla dice rispetto alla capacità di mettere in pratica quelle
conoscenze. La certificazione di un esame ha un valore legale, è un atto pubblico e sono delle credenziali su
cui le aziende si basano per fare le loro scelte in termini di assunzione. Si può vedere anche in questo caso

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che i lavoratori non sono tutti uguali in termini di capitale umano, ma avranno dei titoli diversi, delle
aspettative diverse, così come le decisione di assunzione delle imprese saranno diverse.

TEORIA DELLA DISCRIMINAZIONE STATISTICA (Phepls 1972; Arrow 1973)


Serve a spiegare un’altra peculiarità del mercato del lavoro, cioè che a gruppi diversi di lavoratori sono
pagati salari diversi, quindi differenziali salariali rispetto ai gruppi di lavoro. Come detto nel mercato del
lavoro ci sono delle asimmetrie informative per cui i datori di lavoro non possono conoscere le capacità
produttive di tutti, quindi fanno un po’ di inferenza, ecco perché discriminazione statistica, sulla base del
gruppo di appartenenza, cioè se si appartiene ad un gruppo etnico, oppure di genere, quell’appartenenza è
un driver per il datore di lavoro per fare una previsione della loro capacità produttiva. Quindi se, ad
esempio, ho un gruppo di lavoratori africani, dirò che avranno una capacità produttiva altissima perché
sono forti, sono robusti fisicamente; se avrò un gruppo di donne e sono un’azienda manifatturiera il datore
di lavoro sarà più incline a prevedere che le donne non avranno una forte capacità produttiva in termini di
stoccaggio dei prodotti, di immagazzinamento, quindi tende a non assumerle oppure a pagarle di meno.
Pertanto, secondo questa teoria, viene fatta una previsione in base all’appartenenza ad un gruppo o meno
e, sulla base dell’appartenenza a quel gruppo vengono prese diverse decisioni salariali; ciò spiega perché fra
uomini e donne nel sistema complessivo, per la stessa tipologia di impiego, le donne siano pagate di gran
lunga di meno rispetto agli uomini.
TEORIA DEI TORNEI (Lazear 1998)
Secondo tale teoria le carriere professionali ma anche le carriere scolastiche, non sono dei tornei
simmetrici; un torneo è simmetrico quando è giusto, cioè quando le regole sono applicate in maniera
eguale rispetto a tutti i concorrenti e quando è impari, cioè quando tutti i partecipanti hanno lo stesso
costo opportunità di intraprendere un attività; un costo opportunità è quanto siamo disposti a perdere, a
pagare per avere ciò che desideriamo.
Nelle carriere scolastiche, tipicamente, vengono avvantaggiate le donne perché, essendo pagate di meno
sul mercato del lavoro, hanno un costo opportunità più basso per proseguire la carriera. A parità di
posizione lavorativa solitamente le donne sono più titolate, quindi magari avranno laurea triennale,
magistrale, master, alta formazione, dottorato e il corrispondente uomo avrà soltanto il master. Questo
accade perché le donne hanno un costo opportunità più basso per continuare gli studi, perché sarebbero
comunque pagate di me. Viceversa nelle carriere professionali sono più svantaggiate, perché il costo
opportunità è più alto in quanto all’interno delle decisioni tra costi e benefici le donne dovranno
considerare una serie di fattori anche legati agli impegni di cura e di lavoro domestico. Si dice che in
entrambi i casi i tornei sono asimmetrici/impari. Nel caso relativo alle carriere scolastiche le donne sono
avvantaggiate, mentre nella carriere professionali sono svantaggiate, perché hanno un costo opportunità
più alto; quindi sostanzialmente studiano di più e lavorano di meno.
Queste Teorie classiche hanno cercato di spiegare le varie imperfezioni presenti nel mercato, quindi il
perché della diversità dei lavoratori in termini di decisioni di impiego, di istruzione, il perché delle diverse
scelte fatte dalle imprese in termini di assunzione, il perché della presenza di differenziali salariali
(esempio: non tutti i gruppi di lavoratori vengono pagati al salario di mercato).

In realtà il momento di rottura forte rispetto alle teorie neoclassiche fu il momento di svolta anti-
marginalista, quindi contro questi principi, dato dal contributo degli istituzionalisti. Gli istituzionalisti hanno
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cominciato a riconoscere una serie di elementi caratterizzanti il mercato del lavoro, in particolare il ruolo
delle istituzioni. Innanzitutto riconoscono che, poiché lavoratori e imprese sono diversi, il sistema
economico, in particolare il mercato del lavoro, non è dato dalla mera sommatoria delle domande e delle
offerte dei lavoratori e delle imprese. La presenza di sindacati che sono delle istituzioni sociali, politiche, fa
sì che i prezzi presenti all’interno del mercato del lavoro, quindi i salari, non siano salari di mercato
competitivi dati dall’incrocio tra domanda e offerta ma sono dei salari amministrati, ovvero contrattati, cioè
vincolati dalla presenza di alcuni contratti (contratti collettivi nazionali o anche le stesse leggi dello Stato).
Inoltre non è vero che i costi di mobilità sono nulli e che c’è un elevata mobilità dei lavoratori; la mobilità
dei lavorati da un’occupazione all’altra è molto scarsa, perché si creano dei mercati locali (segmenti di
mercato) in cui i lavoratori competono e non, quindi, un unico mercato in cui tutti i lavoratori sono in
concorrenza tra di loro. Questi sono i motivi, secondo il filone istituzionalista, dei disallineamenti che si
vengono a creare tra domanda e offerta di lavoro e della condizione di non perfetta concorrenza dei
mercati di lavoro stessi.
TEORIA DEI MERCATI SEGMENTATI (Kerr 1954)
Questa Teoria infatti viene poi elaborata ulteriormente da un importante istituzionalista C. Kerr (1954), che
parla della teoria dei mercati segmentati; in realtà, all’epoca, lui parlava di balcanizzazione dei mercati del
lavoro. Questa teoria dice che esistono dei lavoratori che non sono in competizione tra di loro ma che
competono soltanto per mercati locali, cioè per alcune specifiche posizioni, e che ci sono dei costi monetari
per passare da una posizione di lavoro all’altra che quindi determinano dei disallineamenti tra domanda e
offerta di lavoro. Questo è dovuto a quello che già i precedenti contributi istituzionalisti attribuivano alle
diverse preferenze dei lavoratori ,delle imprese e alla presenza delle istituzioni; ecco perché istituzionalisti,
loro danno un forte peso alla presenza delle istituzioni in termini di sindacati e Stato.
La Teoria dei mercati segmentati spiega anche perché all’interno del mercato del lavoro generale è
possibile trarre un segmento di lavoratori che va a definire, secondo il modello di Costa e Gianecchini,
quello che noi descriviamo come il mercato del lavoro di rifermento, cioè come quel segmento di mercato
del lavoro, in cui poi l’impresa effettivamente recluta e seleziona il suo personale.
Il mercato del lavoro di riferimento può essere definito sulla base di divere variabili:
- Professionale, le competenze che sta cercando l’impresa;
- Territoriale, la vicinanza geografica;
- Tipi di impiego, questa è una delle variabili che maggiormente segmenta il mercato, cioè si può
avere un tipo di impiego più strutturato all’interno dell’azienda oppure più flessibile.

TEORIA DEI MERCATI INTERNI DEL LAVORO (Doeringer e Piore, 1971)


Altra teoria importante è la teoria dei mercati interni del lavoro, sviluppata a partire dal 1971. Questa
Teoria mira a spiegare un ulteriore causa di imperfezione del mercato, cioè spiega le differenze salariali e di
condizioni di impiego diverse tra diverse imprese. Tale Teoria è differente rispetto alla Teoria del mercato
del lavoro duale, che invece spiega le differenze salariali, le differenze delle condizioni di impiego tra
lavoratori.
DOMANDA ESAME: Qual è la differenza fra la teoria di mercati interni del lavoro e la teoria del mercato del
lavoro duale? La prima spiega differenziali salariali e condizioni di impiego diverse tra diverse imprese; la
seconda differenziale salariale e condizioni di impiego diverse tra lavoratori.

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L’assunto di base, da cui deriva la teoria dei mercati interni del lavoro, è che il contratto di impiego sia
assimilabile più ad un contratto di relazione che ad un contratto di compravendita, quindi di scambio di
beni e servizi; il tipico esempio che si fa è quello dei nenko system che è un sistema presente all’interno
della maggiori società giapponesi in cui proprio il modo con cui sono strutturati i sistemi di carriera e di
promozione interni permettono alle persone di entrare in un’azienda e praticamente rimanerci fino al
perseguimento dell’età pensionabile (si tratta di un mercato molto rigido). È chiaro che ad oggi stanno
cambiando le condizioni di impiego, le aziende, infatti, stanno cercando sempre più flessibilità; tuttavia
anche se qualcuno afferma che ormai i mercati interni del lavoro stanno andando a scomparire sempre più,
in realtà vedremo come questi perdurano di fatto nel tempo.
Gli autori definiscono i mercati interni del lavoro come un’unità amministrativa, quindi un insieme di regole
e procedure amministrative, attraverso le quali stabilire l’allocazione delle risorse, delle procedure per
allocare le risorse umane e i livelli di retribuzione. Quindi emerge l’esistenza di:
- un’unità amministrativa definita che può essere identificata a diversi livelli: livello di un intera
impresa ad esempio multinazionale, oppure può essere anche di previsione, ci possono essere ad
esempio politiche di risorse umane e quindi anche di sistemi di carriera diversi tra una divisione e
l’altra, o tra una funzione e l’altra;
- regole amministrative, quindi reazione di meccanismi ben specificati e strutturati che vanno a
definire remunerazione e allocazione delle risorse. Poiché queste regole variano a seconda delle
diverse esigenze presenti all’interno delle singole unità amministrative, quindi all’interno di ogni
singolo mercato interno, allora si dice che ci sono diversi segmenti di lavoratore all’interno del
mercato interno del lavoro.
Le condizioni necessarie per generare un mercato interno del lavoro sono, innanzitutto, la specificità delle
competenze. Quando investo in capitale umano specifico creo delle competenze specifiche; in qualche
modo sto irrigidendo il mercato del lavoro, perché quelle competenze non sono facilmente trasferibili
all’esterno, quindi il lavoratore è incentivato a rimanere in azienda, infatti una competenza è specifica
perché è contestualizzata rispetto all’impresa in cui è impiegata, quindi ha il valore massimo in
quell’impresa; se spostata in altri contesti perde valore. Allo stesso tempo investire in capitale umano
specifico irrigidisce il lato dell’impresa, perché l’investimento incentiva l’impresa a mantenere la relazione
nel tempo per usufruire delle rendite degli investimenti in capitale umano specifico; si creano delle rigidità
che favoriscono un mercato interno del lavoro piuttosto che ricorrere al mercato esterno di volta in volta.
L’impresa fa degli investimenti e quindi si costruisce un proprio mercato interno. Il secondo elemento è
l’addestramento sul lavoro (training on job), che è strettamente legato al livello di specificità delle
competenze; più addestramento si realizza, più conoscenza tacita viene acquisita dal lavoratore, più
competenze specifiche egli svilupperà. C’è poi la presenza di leggi consuetudinari, cioè l’insieme delle
abitudini, degli usi e dei costumi che tendono a vincolare e ad irrigidire il mercato del lavoro, custodendo i
lavoratori impiegati internamente perché sono contestualizzati, ossia c’è più coerenza valoriale con la
cultura organizzativa.
Questi mercati interni per mantenersi devono essere efficienti, ossia presentare dei vantaggi per entrambi;
quindi, da un lato, sicuramente l’impresa ne giova perché ha un decremento dei costi dovuti alla fuori
uscita di un lavoratore su cui ha investito, in termini di addestramento, di formazione di capitale umano
specifico, dall’altro lato, protegge i lavoratori dalla concorrenza esterna. Immaginate un lavoratore che non
solo deve pensare a crescere internamente ma viene minacciato costantemente dalla presenza di una
possibilità di sostituzione immediata da un lavoratore proveniente dal mercato esterno. Quindi i mercati
interni si generano perché abbiamo tre caratteristiche: competenze specifiche, conoscenze tacite dovute
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all’addestramento sul lavoro, un livello di coerenza valoriale, con i lavoratori già impiegati, che fanno sì che
per l’azienda sia molto più vantaggioso detenere e consolidare il mercato interno del lavoro a scapito di
quello esterno, cioè è più incentivata a mantenere i lavoratori impiegati, a motivarli, ad aumentare la loro
produttività piuttosto che fare ricorso ogni volta al mercato esterno. Anche i lavoratori rispondono al
consolidamento dei mercati interni, perché ottengono in cambio protezione dalla concorrenza esterna.
Limiti: la presenza di tuti questi meccanismi, regole e procedure vincola fortemente la struttura
organizzativa, per cui è difficile reagire e affrontare diversi momenti, soprattutto di crisi economica, perché
siamo dotati di una struttura che non ci permette di flessibilizzare, in base alle nostre esigenze, l’organico
che abbiamo assunto internamente. Un altro limite della teoria dei mercati interni del lavoro è che ormai i
contratti di impiego non sono più improntati alla longevità; oggi i neolaureati entrano nel mercato del
lavoro, fanno 3/4 anni di esperienza e poi tendono a cambiare perché c’è un’esigenza di crescita, di
conoscenza, anche di crescita salariale, che si ottiene spostandosi da una posizione all’altra rispetto al fatto
di seguire un solo percorso di carriera. Nonostante ciò, la forma di contratto a tempo indeterminato è
sempre riconosciuta come comune forma di impiego; ad esso, nel frattempo, si sono affiancate diverse
tipologie di contratto che hanno permessa una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Anche nel mercato interno, quindi, si vengono a creare diverse condizioni di impiego, ossia si viene a creare
un DUALISMO INTERNO, cioè un dualismo tra lavoratori che sono caratterizzati da caratteristiche più
strutturate, quindi da contratti di relazioni più a lungo termine e da livelli di impegno e di commitment
maggiori nella relazione, rispetto invece a condizioni di impiego meno incentivanti. Da queste assunzioni
viene sviluppata la teoria del mercato del lavoro duale.
LEZIONE 10
Il contributo maggiore al superamento dell’approccio neoclassico viene sicuramente dal contributo degli
istituzionalisti perché danno grosso risalto alle istituzioni, quindi sostanzialmente ai sindacati e allo stato, i
quali riconoscono che non è vero che all’interno del mercato lavoratori ed imprese sono tutti uguali ma
hanno esigenze e comportamenti diversi.
Una teoria molto importante è la teoria dei mercati segmentati la quale afferma che non è vero che tutti i
lavoratori presenti nel mercato del lavoro sono tutti in concorrenza tra di loro ma, in realtà, si creano dei
mercati ben ristretti dove i lavoratori competono, non per il salario, ma per le singole posizioni quindi ciò
spiega anche perché all’interno del mercato si trovano dei salari differenti. Quindi il mercato del lavoro non
è un mercato perfettamente concorrenziale perché non garantisce affatto un prezzo unico, un unico salario
ma vengono pagati diversi salari per diverse posizioni; i mercati sono tanti e sono segmentati (Kerr). Se è
vero che il mercato del lavoro è segmentato per via di variabili territoriali, professionali, salariali, è anche
vero che l’impresa interagisce con uno specifico mercato del lavoro che si definisce mercato del lavoro di
riferimento, cioè quel mercato in cui l’impresa ricerca le caratteristiche di cui ha bisogno e in cui attiva i
processi di selezione e reclutamento delle risorse umane. Abbiamo detto che i mercati del lavoro di
riferimento si segmentano principalmente sulla base di tre variabili: la vicinanza quindi la variabile
geografica, la vicinanza fisica, territoriale e i livelli di professionalità quindi i lavoratori sostanzialmente
competono per le competenze che l’impresa ricerca e i tipi di impiego, ci sono alcuni lavoratori a tempo
determinato, a tempo indeterminato oppure l’impresa può ricorrere a dei lavoratori in somministrazione.
TEORIA DEI MERCATI INTERNI DEL LAVORO
Spiega un ulteriore livello di segmentazione cioè le differenze salariali e le diverse condizioni di impiego tra
diverse imprese e si differenzia dal mercato esterno del lavoro: mentre nel mercato esterno del lavoro,
salari e condizioni di impiego sono definiti da domanda e offerta del lavoro, nei mercati interni ci sono delle
100
regole amministrative. Come nascono i mercati del lavoro? Devono essere sostanzialmente convenienti per
l’impresa perché di fatto il mercato interno del lavoro che corrisponde ad un dato organico aziendale in un
dato momento può rappresentare per l’impresa un grosso vincolo, una grossa rigidità e allora affinché si
mantenga questo mercato interno piuttosto che ricorrere sempre al mercato esterno è necessario che sia
vantaggioso per l’azienda. I mercati del lavoro si generano perché l’impresa fa degli investimenti in capitale
monospecifico, da questi derivano dei flussi di rendita che l’impresa tende a massimizzare nel tempo quindi
tende ad incentivare la retantion del lavoratore su cui ha investito capitale umano specifico.
Il maggior limite della teoria dei mercati interni del lavoro è dato dalla forte rigidità che si trova ad
affrontare l’impresa nel momento in cui, di fronte a cali della domanda del prodotto, non può modificare
l’organico ricorrendo nel breve termine al mercato esterno del lavoro.
TEORIA DEL MERCATO DEL LAVORO DUALE
Tutto questo fa si che all’interno del mercato si creino due macro segmenti che generano un vero e proprio
dualismo, spiegato dalla teoria del mercato del lavoro duale. La prima differenza di tale teoria rispetto alla
teoria dei mercati interni del lavoro è che la prima spiega le differenze salariali e le diverse condizioni di
impiego tra i lavoratori, mentre la seconda tra le imprese. Esistono quindi, secondo tale teoria, elaborata da
diversi studiosi ma i contributi principali vengono da Osterman, due macro segmenti di mercato del lavoro
classificabili in base a due variabili cioè si differenziano sulla base della variabilità e dell’incertezza delle
economie moderne, cioè sostanzialmente abbiamo due fette di lavoratori che rispecchiano quello che è il
dualismo originale tra capitale (fattore fisso della produzione) e lavoro (fattore variabile della produzione).
Secondo la teoria dei mercati del lavoro duale c’è una parte di lavoratori che viene isolata e protetta
all’interno dei mercati interni del lavoro dalla variabilità/dall’incertezza e quindi finisce per essere
assimilata al capitale (fattore della produzione quasi fisso); invece, l’altra parte (residua) è esposta alla
variabilità/all’incertezza e continua a rappresentare un fattore variabile della produzione (si dice “fattore di
aggiustamento”) ed infatti, secondo tale teoria, questo dualismo è generato proprio dalla necessità di
aggiustamento che richiede l’organico aziendale rispetto alle fluttuazioni della domanda. Dunque c’è una
parte che fa parte del mercato interno isolata dalla concorrenza esterna, invece, l’altra parte si trova a
concorrere sul mercato che è molto soggetto alle fluttuazioni della domanda, un mercato dove i lavoratori
vengono presi o rilasciati in base a tali fluttuazioni.
Secondo questa teoria questi due mercati rappresentano il dualismo esterno cioè chi è dentro e chi è fuori
l’impresa, ovvero appartengono a due macro settori principali: il settore primario, suddivisibile in altri due
segmenti, e il settore secondario. Il settore primario è maggiormente caratterizzato dai mercati interni del
lavoro, suddiviso in:
- segmento inferiore in cui troviamo tutti quegli impieghi che sono abbastanza stabili, che danno
delle prospettive di carriera ottimali con remunerazioni medie o medio-elevate e che richiedono
conoscenze professionali medie o medio-elevate;
- il segmento superiore, invece, raggruppa tutti quei profili più alti quindi manageriali, dirigenziali le
cui competenze sono molto elevate e che hanno delle remunerazioni elevate; sono i tipici settori in
cui si vengono a creare i mercati interni comuni ma non necessariamente presenti perché non tutti
i lavoratori che appartengono al segmento superiore devono far parte dei mercati interni del
lavoro, ad esempio un medico non necessariamente è dipendente di un’azienda, non
necessariamente è all’interno del mercato ma può anche lavorare in proprio perciò si dice che in
questo segmento i mercati interni sono comuni ma non necessariamente presenti perché esistono
varie professionalità che non sono impiegate in azienda ma che possono svolgere la loro
professione anche autonomamente.
101
Invece il settore secondario è sicuramente quello in cui la concorrenza si dispiega maggiormente tra
lavoratori: salari bassi, competenze non specifiche, basso status sociale ed è il tipico mercato a cui l’azienda
ricorre come fattore di aggiustamento anche se è stato definito un vero e proprio mercato di transizione
soprattutto negli ultimi anni perché prima si tendeva ad entrare, come carriera, nel mercato inferiore e poi
piano piano in quello superiore, adesso, in realtà, persone anche con competenze elevate (es. neolaureati)
si trovano per un po’ di tempo a stazionare nel settore secondario e poi si spostano nel settore primario
passando dal segmento inferiore per poi arrivare a quello superiore.
Secondo questi studiosi il dualismo all’interno del mercato (sono istituzionalisti quindi una buona fetta di
responsabilità è attribuita all’esistenza dei sindacati) si genera attraverso l’esistenza dei sindacati perché
questi ultimi cercano di risparmiare i lavoratori più anziani, le cui competenze sono diventate molto
specifiche perché molto legate al contesto in cui per tanti anni hanno lavorato, dalla concorrenza dei
lavoratori più giovani con competenze più fresche e quindi si viene a creare un rigido segmento,
probabilmente fa parte del segmento superiore del settore primario, che si contrappone al settore
secondario. Questo dualismo si ha perché i sindacati cercano di contrattare per un impiego a lungo termine
o condizioni salariali abbastanza favorevoli favorendo il mercato interno del lavoro proprio per proteggere
chi ha impiegato il proprio tempo all’interno dell’azienda prima spiegazione. Un’altra spiegazione è che
questo dualismo è creato dai tentativi da parte dell’impresa di attrarre talenti attraverso l’offerta di
particolari piani di carriera o promozioni alimentando le aspettative dei lavoratori: dunque si crea un
mercato interno che si contrappone a quello esterno di facile ricambio.
Terza spiegazione (ipotesi più complottista): le imprese tendono ad ostacolare l’unità del mercato del
lavoro per evitare che i lavoratori assumono troppo potere contrattuale.
IMPATTO DEL DUALISMO SULL’AZIENDA: l’azienda quando va a considerare le sue scelte in termini di
reclutamento e selezione, dovrà tenere in considerazione le caratteristiche dei due mercati in termini di
competenze, aspirazioni perché ciò va ad impattare notevolmente sui costi; è diverso mantenere un
mercato interno del lavoro rispetto al ricorrere al mercato esterno del lavoro: non significa che rincorrere al
mercato esterno è sempre vantaggioso. Quando, invece, l’azienda ha delle esigenze di flessibilità, allora
può valutare diverse alternative: quando tale flessibilità è quantitativa (quando l’azienda ha necessità di
cambiare quantitativamente il suo organico), si farà ricorso al mercato secondario che diventa un fattore di
aggiustamento; quando invece le ragioni della flessibilità nascono internamente, si parla di flessibilità
funzionale, non si farà ricorso al mercato esterno perché si tratta di necessità di flessibilizzare la struttura
adeguando la predisposizione degli impianti, inserire nuove tecnologie e, in questo caso, si dovrà fare una
buona programmazione in termini di politiche di formazione e di sviluppo in modo da far fronte a questa
flessibilità funzionale ricorrendo al suo mercato , tipicamente al segmento inferiore e superiore del settore
primario.
Ci sono poi parecchie tendenze evolutive che stanno riguardando questo dualismo presente nel mercato
del lavoro e quindi in un certo senso stanno anche sfidando la teoria del mercato del lavoro duale perché
ormai i confini tra settore primario e secondario stanno diventando sempre più sottili; molto spesso i
lavoratori entrano dal settore secondario per poi ritornare nel segmento inferiore del settore primario e
infine risalire nel segmento superiore. Quindi viene meno una condizione fondamentale, che è quella della
teoria dei mercati interni del lavoro secondo la quale non è vero che tutti i lavoratori non sono in
competizione tra di loro, ma in alcuni casi lo diventano soprattutto quando le aziende si apprestano a
prendere delle decisioni ad es. di outsourcing, di trasferimento all’esterno dell’attività, quindi viene meno
l’ipotesi di base secondo cui i lavoratori appartenenti a questi due settori non risultano essere in
competizione tra di loro.
102
Un’altra tendenza evolutiva consiste nell’effetto spiazzamento che sta subendo il settore primario: molto
spesso le continue innovazioni tecnologiche con gli incrementi di produttività riducono sempre di più
l’importanza delle competenze specifiche oppure delle competenze formatesi nel tempo, dell’anzianità
aziendale, in quanto l’innovazione è sempre più veloce. Viene meno un importante assunto che è quello
della creazione della formazione dei mercati interni del lavoro, che appunto è il presupposto per la
contrapposizione tra i mercati duali.
Questo significa che i mercati del lavoro interni non sono più efficienti? Stanno scomparendo? No! I due
autori, Lindbeck e Snower, affermano che i mercati interni del lavoro sono longevi e perdurano nel tempo a
causa dei costi del turnover. I due autori affermano che vi sono tre tipologie di lavoratori:
- i lavoratori insider che sono quelli che stanno all’interno dell’azienda da parecchio tempo, quindi
hanno tutto quel capitale umano specifico, hanno le competenze tacite, fanno parte di una routine
e hanno il maggior potere contrattuale, perché per l’azienda la loro uscita rappresenterebbe una
forte perdita;
- i lavoratori entranti che sono quelli appena entrati e che non hanno potere contrattuale;
- i lavoratori outsider che sono quelli esterni all’impresa.
Secondo questa teoria i mercati interni del lavoro perdureranno nel tempo e quindi non saranno eliminati
dalle tendenze evolutive che si verificano perché in realtà ci sono dei costi di sostituzione molto alti dei
lavoratori interni che l’impresa generalmente decide di non affrontare; si tratta di costi di sostituzione delle
competenze specifiche create, ma vi sono anche costi di tipo indiretto come i comportamenti non
collaborativi che possono insorgere in queste persone, negli insider, nel momento in cui gli viene
comunicato che l’azienda farà ricorso al mercato esterno per alimentare nuove competenze o sostituirle;
succede che il lavoratore inizia a non collaborare e riproduce la propria produttività sul lavoro in quanto
sapendo di essere sostituito, riduce il suo impegno. La teoria degli insider/outsider afferma che l’azienda,
soprattutto quando si tratta di sostituire ruoli strategici, deve ragionare bene sui tempi e modi in cui
comunicare la sostituzione degli insider. Quindi secondo Lindbeck e Snower sono questi i principali motivi
(legati ai costi del turnover degli insider) che faranno perdurare i mercati interni del lavoro e che
sostanzialmente vanno ad alimentare questo eterno dualismo tra chi è dentro e fuori l’impresa.
SISTEMI DI CARRIERA
Sono un insieme di politiche che regolano lo sviluppo professionale delle risorse e la loro crescita verticale e
gerarchica all’interno dell’azienda. Il percorso di carriera vede il passaggio del lavoratore tra diversi
mansioni con crescenti livelli di autonomia e responsabilità, in realtà questa è la definizione classica di
sistema di carriera, perché in realtà vi sono diversi tipi di percorsi di carriera che si possono progettare in
base a diverse variabili.
Quali sono le variabili da considerare nel momento in cui dobbiamo progettare i percorsi di carriera? (tipica
domanda d’esame!!). La prima fa riferimento alla struttura allocativa, cioè dobbiamo allocare le risorse
stabilendo tre elementi: il grado di apertura del mercato, l’ampiezza e i criteri di mobilità interna, cioè su
che base promuovo una persona e non l’altra. Il grado di apertura di un mercato del lavoro è dato dal
numero di porti di entrate ed uscita che caratterizzano questo mercato (sono i porti che collegano il
mercato esterno con quello interno in corrispondenza dei quali l’azienda copre una posizione ricorrendo ad
una risorsa che si trova nel mercato esterno del lavoro; quanto più ampio è il numero di questi porti di
entrata, tanto più il mercato interno del lavoro è aperto quindi c’è molta possibilità di entrare in azienda sia
dal basso che dall’alto; quando, invece, l’azienda ha pochi porti di entrata e di uscita si dice che ha un grado
di apertura basso, quindi è molto chiusa, e in questo caso l’unico modo di entrare è quello di passare per i

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livelli più bassi della piramide); poi vi sono i criteri di mobilità, ovvero il modo in cui spostiamo le risorse;
l’ampiezza, infine, ci dice quanta possibilità/quanto spazio c’è per fare carriera all’interno del mercato.
A ciò si devono aggiungere considerazioni di tipo retributivo (politiche retributive), e si fa riferimento a tre
variabili: quanto pagare il lavoratore rispetto al mercato esterno (livello retributivo), le differenze salariali
interne all’azienda (struttura retributiva interna quanto diversamente pago un manager rispetto ad un
impiegato di livello A1) e la dinamica retributiva che attiene alle variazioni di retribuzione nel tempo. Tutti
questi criteri rientrano nella progettazione dei sistemi di carriera dei mercati interni del lavoro.
Secondo Brousseau e colleghi (1998) esistono quattro principali percorsi di carriera distinguibili su quattro
variabili: la direzione dello spostamento della promozione, la frequenza di tale spostamento, le motivazioni
e gli strumenti che può usare la direzione risorse umane per supportare questa crescita. I percorsi sono:
lineare, specialistico (o professionale), a spirale, oppure transitorio.

SPECIALISTICO
LINEARE A SPIRALE TRANSITORIO
(o PROFESSIONALE)
Verso l’alto ma più lento Orizzontale o
DIREZIONE Verso l’alto Laterale
con piccoli spostamenti laterale
FREQUENZA Variabile Bassa Elevata Molto elevata
Ambiente
STRUMENTI Tavole rimpiazzo, Job rotation e job
Promozioni lineari dinamico, carreer
DRU mentoring, coaching posting
counseling
MOTIVAZIONI Potere, prestigio, Competenze specialistiche, Crescita Indipendenza,
remunerazioni sicurezza. personale, autonomia
maggiori. creatività, visione lavorativa.
globale.

Percorso LINEARE: determina la crescita verticale all’interno dell’azienda, generalmente all’interno della
funzione o di un’area. La direzione dello spostamento è verso l’alto (crescita verticale); la frequenza dello
spostamento è variabile, dipende anche molto dal grado di burocratizzazione e rigidità dell’azienda stessa,
cioè per quanto tempo bisogna permanere all’interno di una posizione per poi essere ritenuti pronti per
passare alla posizione successiva, oppure può dipendere dalle successioni; infatti uno degli strumenti che
utilizza la DRU sono le tavole di rimpiazzo per stabilire i piani di successione e le carriere, altri strumenti
sono le iniziative di mentoring in cui il lavoratore viene affiancato da un mentore per un certo periodo di
tempo che lo accompagnerà nella sua crescita, fino a quando non sarà pronto per occupare la posizione,
per esempio, del mentore stesso. La motivazione che motiva le persone che sono inserite in questi piani di
carriera sono l’aumento della retribuzione, prestigio e potere.
Percorso SPECIALISTICO: definisce una crescita che è legata soprattutto alla professionalità svolta dal
lavoratore e che può più o meno essere accompagnata anche da una crescita in verticale. Generalmente lo
spostamento è sempre verso l’alto ma più lento perché il lavoratore deve avere il tempo di acquisire tutte
quelle competenze necessarie per poi passare alla funzione successiva. La frequenza di spostamento è
quindi bassa. Questi piani di carriera sono tipici delle imprese che lavorano per progetti ed infatti il tipico
esempio che si fa è quello di Finmeccanica, che consente ai project manager di acquisire un livello sempre
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crescente di professionalità nelle proprie mansioni. La motivazione principale che spinge i lavoratori ad
accettare questo percorso di carriera è il fatto di acquisire una sempre maggiore padronanza e sicurezza di
un’area professionale. Gli strumenti utilizzati sono le promozioni lineari, cioè viene proposto all’interno del
piano di carriera uno spostamento molto lineare nel tempo, quasi sequenziale. Esempio: dipendente
McDonald’s che potrebbe passare dal friggere patatine a diventare un manager o top manager.
Percorso A SPIRALE: permette una crescita professionale ma spostandosi in ruoli diverse dell’azienda che
però siano minimamente continuativi rispetto alla posizione precedenti, cioè devono avere dei punti di
contatto in modo tale che il lavoratore, in questi nuovi ruoli, possa sfruttare tutte le competenze acquisite
in precedenza. Lo spostamento è quindi orizzontale; la frequenza di spostamento è abbastanza elevata
perché generalmente le motivazioni a cui mirano questi percorsi sono di creatività, indipendenza, varietà
delle competenze. in questo caso si fa l’esempio di Bosch Italia, perché Bosch dà la possibilità ai laureati di
partecipare a dei programmi che mirano ad ottenere manager già all’età di trent’anni e adottano lo schema
dei 18 mesi divisi in tre momenti fondamentali della crescita professionale (6+6+6 svolti in diversi ruoli) in
modo tale che il lavoratore possa avere una visione globale del business dell’azienda. Tipicamente gli
strumenti che vengono utilizzati sono il job posting (utilizzato per le candidature spontanee) e la job
rotation. [NB: non posso utilizzare il job posting nei percorsi di carriera lineare perché in quel caso l’azienda
ha già creato delle aspettative nel lavoratore].
Percorso TRANSITORIO: più particolare, in cui la varietà è l’elemento principale; sono molto instabili e
generalmente prevedono dei periodi in aziende completamente diverse o in rami d’azienda collegati a
quelli dell’azienda precedente. Lo spostamento è orizzontale, con frequenza di spostamento elevata. Le
motivazioni su cui fa leva questo tipo di carriera sono la voglia di indipendenza e autonomia dei lavoratori.
In questi casi, proprio perché il desiderio di indipendenza è molto forte l’unico strumento che può utilizzare
la DRU è la consulenza per le carriere (cousenling predisporre un ufficio che dia ascolto alle esigenze
delle persone e pianifichi una carriera anche mediante i contatti stessi dell’azienda). Un esempio è HENKEL
che permette di fare un programma in cui i lavoratori hanno la possibilità di variare molto, di passare dalle
funzioni ai business oppure andare all’estero.
TENDENZE EVOLUTIVE
Quando si parla di percorsi di carriera, dopo il transitorio, si fa riferimento a percorsi di carriera senza
confine. Sono carriere stressanti che vanno sempre gestite con un certo grado di cautela. Un elemento
fondamentale di questo cambiamento è che si sta verificando uno spostamento dell’attenzione dal diritto
all’occupazione all’occupabilità dei lavoratori, cioè nella parte destra della matrice si mirava ad assicurare
l’occupazione, mentre nella parte destra si spinge più sulle competenze, sull’autonomia del lavoratore e
quindi non tanto al suo diritto di occupazione quanto più alla sua capacità di occupazione futura nel tempo.
Quindi bisogna dare al lavoratore nel suo piano di carriera la possibilità di acquisire conoscenze facilmente
convertibili, facilmente riusabili in altri contesti. È il modello della flex security, cioè non concentrarsi sul
posto fisso ma dare concretamente al lavoratore la capacità di occuparsi, quindi garantire la sua
occupabilità e nello stesso tempo garantire la flessibilità alle imprese.

105
LEZIONE 11

IL PROCESSO DI ASSUNZIONE
Il processo di assunzione sequenzialmente segue quello del fabbisogno del personale.
Che cos’è il processo di assunzione? In che cosa consiste? Consiste nell’insieme di attività che
l’organizzazione mette in atto per reclutare le persone e le competenze che servono a soddisfare
quantitativamente e qualitativamente il suo fabbisogno di personale. Selezionarle e poi inserirle
nell’azienda.
Vedete il processo di assunzione è costituito da diverse fasi:

Abbiamo detto che un processo si dota sempre di un input e di un output. Qual è l’input del processo di
assunzione? L’output del processo precedente, quindi del processo di programmazione del personale. Qual
era uno degli output? Era il fabbisogno di personale. Qual è invece l’output del processo di assunzione?
L’insieme di attività volte al reclutamento, alla selezione e all’inserimento, quindi all’assunzione delle
risorse di cui abbiamo bisogno.
Quindi le fasi interne che caratterizzano questo processo?
Descrizione del profilo: la descrizione del profilo dei candidati è fondamentale. In questa attività rientra sia
quella che è la definizione della job description, cioè della descrizione relativa alla posizione, sia della person
specification, cioè la specificazione delle caratteristiche attinenti al ruolo. Differenze: le caratteristiche
“hard” sono relative alla descrizione della posizione lavorativa (titolo, compiti, mansioni, livelli di
autonomia, varietà delle mansioni e gli strumenti da utilizzare); la person specification è invece la
componente “soft”, quindi attinente alle competenze, alle conoscenze delle persone.
Reclutamento: attraverso la fase di reclutamento l’azienda va sul mercato e manifesta la domanda di
lavoro per attivare l’offerta. Quindi in che cosa consiste il reclutamento? Nel palesare le posizioni vacanti
sul mercato del lavoro, che può essere sia esterno che interno, e quindi attivare l’offerta di lavoro.
Selezione del personale: in che cosa consiste la selezione? Nella valutazione dei candidati reclutati nella
fase precedente, quindi nella scelta del candidato da inserire
Assunzione/inserimento in azienda: questa fase è molto importante perché rappresenta l’output del nostro
processo, ed è quella che noi abbiamo definito la contestualizzazione delle risorse, cioè una volta acquisite
queste potenzialità in termini di risorse e competenze sul mercato dobbiamo poi contestualizzarle affinché
creino valore per la nostra azienda.
Chi è il process owner in questo caso? Chi è il responsabile del processo? Sempre la DRU. Che significa
essere process owner, essere responsabili del processo? Significa che diciamo la funzione HR ha un
mandato organizzativo per la progettazione, nel processo di assunzione, per la supervisione delle singole
fasi, e quindi ne ha la responsabilità totale (ha la responsabilità delle singole fasi e del processo in
generale). Che cosa significa che ha un mandato organizzativo? Perché la DRU non è la sola responsabile,
106
(formalmente ha questo mandato, nel funzionamento è responsabile del processo, è lei che lo coordina la
funzione HR), ma è coadiuvata dalla line. Perché è importante che sia coadiuvata dal management di linea?
Perché è chiaro che, abbiamo detto che la funzione HR offre servizi di supporto nella funzione di staff, e per
la valutazione delle competenze tecniche specifiche ha bisogno appunto di essere affiancata da persone
come i manager, responsabili dell’area, responsabili di funzione che possono aiutare a selezionare le
competenze professionali migliori.
Quindi l’HR valuta sicuramente tutte le competenze un pochino di soglia, valuta i titoli principali, valuta le
competenze trasversali, dopo di che la palla passa alla linea intermedia. Sia nella definizione del profilo,
quindi ex-ante, sia durante il processo di selezione si è disposto nella fase di inserimento, perché è chiaro
che una volta inserita la risorsa può essere supportata dalla funzione HR con i mansionari, con le politiche di
condotta, e con un’altra serie di attività che la funzione HR mette in campo, si chiamano generalmente
programmi di induction, cioè per favorire questo inserimento all’interno dell’azienda, però il lavoro sporco
sarà poi effettivamente del manager che dovrà inserirlo nel gruppo di lavoro, effettivamente rendere
specifiche le competenze del neoassunto e così via.
Quindi il process owner, responsabile del processo: DRU, coadiuvata dalla linea intermedia (TIPICA
DOMANDA D’ESAME)

FASE 1: DEFINZIONE DEL PROFILO


Abbiamo detto, job description, person specification e poi si aggiungono di solito una serie di requisiti
specifici che aiutano a restringere ancora di più il campo di reclutamento.
La job description fa riferimento alla descrizione delle caratteristiche relative alla posizione lavorativa, e
quindi sono dei connotati che attengono alla posizione. Che cosa significa? Significa, in termini pratici, fare
una scheda dove inserire il Job title, quindi il titolo del lavoro (per esempio Marketing specialist), poi i
compiti che la risorsa dovrà eseguire, eventuali strumenti che la risorsa dovrà saper impiegare per svolgere
questi compiti (per esempio i software di gestione di paghe, teamsystem e così via), i livelli autonomia e
responsabilità e, cosa più importante la collocazione organizzativa, sia interna che esterna. Che cosa
significa definire nel job descirption la collocazione organizzativa? Significa indicare tutto il set di relazioni
funzionali e gerarchiche attinenti a quella posizione, cioè sostanzialmente a chi riporto? Chi è il mio
supervisor? Chi sono i miei diretti colleghi/collaboratori? Quindi tutto il set di relazioni interne, la
collocazione organizzativa interna (insieme di relazioni funzionali e gerarchiche che l’individuo stabilisce
all’interno della propria struttura organizzativa). Inoltre, la job desctiption deve definire quelli che sono i
clienti, interni oppure esterni a chi è rivolto l’output del lavoro dell’individuo stesso.
La person specification invece è dato dalla descrizione dell’insieme di caratteristiche che attengono alla
persona in termini di competenze (quindi conoscenze abilità e comportamenti) ed in questo è la differenza
fondamentale con a job description perché le caratteristiche che descrive la personal specification non
attengono alla posizione quanto al ruolo.

TIPICA DOMANDA D’ESAME: DIFFERENZA TRA POSIZIONE E RUOLO/ DIFFERENZA TRA JOB DESCRIPTION E
PERSONAL SPECIFICATION
La posizione è l’insieme di tutte quelle caratteristiche che attengono ai compiti svolti dal lavoratore
all’interno dell’azienda (titolo che ha ai compiti, alle mansioni che deve svolgere, gli strumenti che deve
adoperare e soprattutto la collocazione organizzativa esempio prof: io all’interno dell’università ho una
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posizione accademica che è quella di ricercatrice in organizzazione aziendale, quella è la mia posizione, il
mio job title. Quali sono i miei ruoli? Possono essere diversi, io posso essere ricercatrice, quindi fare ricerca,
ma posso essere anche docente, ho ruoli diversi e rispetto a questi ruoli il mio gruppo di riferimento avrà
delle aspettative diverse, nel caso della docenza il mio gruppo di riferimento siete voi, quindi voi avete delle
aspettative nei miei confronti, aspettative comportamentali soprattutto, una cosa è che io vengo qui in aula
e faccio lezione, una cosa è che io vengo qui con la chitarra e comincio a cantare, non ve lo aspettate come
ruolo). Quindi job description attiene alla posizione, la posizione che cos’è? È l’insieme di tutte quelle
caratteristiche che attengono ai compiti che deve svolgere l’individuo all’interno dell’organizzazione, in
termini hard quindi in termini di job title, caratteristiche compiti, strumenti, collocazione organizzativa
interna ed esterna. La person specification invece attiene al ruolo, cioè va a specificare tutte le
competenze, quelle abilità quei comportamenti che attengono al ruolo svolto dalla persona. Ad una
posizione possono corrispondere diversi ruoli.
Per restringere ulteriormente il bacino di reclutamento, oltre alla job description e alla personal
specification si inseriscono negli annunci di lavoro una serie di requisiti specifici come ad esempio il
requisito dell’età. Quand’è che viene generalmente inserito il requisito dell’età? Quando l’azienda vuole
attivare dei contratti che magari sono di apprendistato e serve il requisito dell’età per l’assunzione. Nei
concorsi pubblici un requisito che spesso chiedono è che il voto di laurea sia maggiore o uguale a 105,
oppure un altro requisito è la disponibilità di fare trasferte, trasferimenti sono tutti requisiti che vanno a
restringere ancora di più localmente il campo, il bacino di ricerca.
Come viene fatta la descrizione del profilo? Dove si prendono tutte queste caratteristiche? Tipicamente da
quello che manca in azienda, quindi da quello che si aveva e che è venuto a mancare, quindi si vanno a
valutare tutte le competenze e le caratteristiche delle posizioni che erano presenti in azienda. Questa
metodologia per la definizione del profilo dei candidati in realtà è criticata spesso perché può risultare
essere un pochino statica: vedo quello che avevo e vado a cercarlo sul mercato, sia interno che esterno,
come ce lo avevo non faccio uno sforzo ulteriore di immaginare nuove competenze, quindi non cerco
potenziali, cerco quello che avevo ed è venuto a mancare. Le aziende ultimamente stanno cercando di
modificare questo atteggiamento nella definizione del profilo non tanto guardando più al loro interno, a
quello che avevano, ma cercando di fare questo sforzo ulteriore, cioè di cercare potenzialità, i cosiddetti alti
potenziali, i talenti.
FASE 2: RECLUTAMENTO
Che cos’è il reclutamento? Tutte quelle attività messa in atto dall’organizzazione per palesare sul mercato
esterno ed interno del lavoro la vacanza della posizione, quindi attivare le offerte di lavoro, attrarre
candidati. Può essere rivolta o all’interno o all’esterno. In realtà la fase del reclutamento e la fase di scelta
tra interno ed esterno è condizionata da una serie di variabili, per esempio la cultura: molte aziende
tendono a fare una forte di employer branding. Che cosa significa? manifestare fortemente i valori di cui si
fa portatrici e la cultura presente, in modo da attrarre già fin dall’inizio candidati che abbiano la potenzialità
di essere coerenti con questi valori e quindi di contestualizzarsi bene. Un’altra variabile che si deve
considerare necessariamente sono le condizioni di offerta di lavoro. Quali sono le caratteristiche
dell’offerta di lavoro? Riesco a far incrociare la mia domanda con l’offerta? Oppure devo fare io delle
iniziative volte a creare nuove competenze magari dall’interno? Un'altra variabile che influenza le scelte in
termini di reclutamento sono sicuramente i vincoli, i vincoli legislativi e sindacali, e la disponibilità di
risorse. È chiaro che nel momento in cui devo attivare una fase di reclutamento devo andare a considerare
se ho le risorse economiche, temporali e spaziali per farlo.

108
Per quanto riguarda i vincoli legislativi, forse questi sono quelli più strettamente vincolanti per l’azienda. Si
parla in questo caso di azioni positive, o di discriminazione positiva, di collocamento mirato, che sono delle
azioni che l’azienda mette in atto per rispettare dei vincoli proposti dalla legge. Per quanto riguarda le
azioni positive queste vengono dette anche di discriminazione positiva perché generalmente vengono
attivate per garantire pari opportunità a persone che sono svantaggiate, quindi si fa una discriminazione in
senso positivo (si va a discriminare chi è svantaggiato tipicamente le azioni positive vengono prese dalle
aziende nei confronti delle donne; da anni le direttive europee stanno molto spingendo su la necessità delle
organizzazioni di aumentare il numero delle donne presenti in azienda e in numero delle donne presenti nel
top management, ed infatti da qualche anno c’è l’obbligo per le aziende che hanno più di 100 dipendenti di
fare una relazione biennale sullo status quo dell’occupazione maschile e femminile in azienda e di
relazionare difronte alle rappresentanze sindacali e ai consiglieri regionali delle pari opportunità).
Un altro vincolo che è fortemente dato dalla legge, a livello nazionale ed internazionale, è il collocamento
mirato. Che cosa significa collocamento mirato? In capo alle aziende c’è l’obbligo di assumere un certo
numero di lavoratori con disabilità a un corrispondente altro numero di organico impiegato: tipicamente
dai 15 ai 35 dipendenti 1 lavoratore con disabilità, dai 36 ai 50, due lavoratori con disabilità, e dai 50 in poi
il 7% dell’organico, quindi già questo è un primo vincolo importante perché inserire un lavoratore con
disabilità in azienda deve determinare una serie di modificazioni, ristrutturazioni organizzative per
accogliere e contestualizzare bene questa risorsa, per valorizzarla al meglio. Però succede a volte che le
aziende non sono ben predisposte o comunque ben organizzate ad inserire, a contestualizzare queste
risorse. Addirittura, prima era ancora più vincolante il collocamento mirato perché c’era la cosiddetta
chiamata numerica, cioè il datore di lavoro non poteva nemmeno scegliere, come invece oggi accade con la
chiamata nominativa, scegliere le persone ma doveva comunicare in numero di persone con disabilità da
impiegare e queste venivano selezionate all’interno delle liste del collocamento, che era appunto il
collocamento pubblico mirato. Un altro vincolo legislativo sono le tipologie contrattuali che si possono
attivare: abbiamo fatto prima l’esempio dell’apprendistato. È chiaro che se l’azienda non vuole attivare un
contratto a tempo indeterminato ma vuole assumere una risorsa per un certo periodo di tempo, non può
andare sul mercato e reclutare mediante contratti di apprendistato, perché conoscendo bene le tipologie
contrattuali, di fatto il contratto di apprendistato è un contratto che terminato il periodo di formazione si
trasforma a tempo indeterminato, e quindi la vincolerebbe, non rispecchierebbe quello che l’azienda invece
avevo intenzione di fare. Quindi è chiaro come le tipologie contrattuali, i vincoli legislativi e sindacali
influenzano parecchio le scelte in termini di ricerca tra interno ed esterno delle aziende.
Tutte queste variabili, variamente combinate tra di loro, determinano appunto la scelta finale tra mercato
interno e mercato esterno, che non sono puntualmente esclusive, nel senso che possono essere adottati
strumenti che vanno a integrare due canali di reclutamento, uno rivolto all’interno e uno rivolto all’esterno.

MODELLO DI LEPACK E SNELL – scegliere tra mercato esterno e mercato interno


È un modello che può essere utilizzato per decidere se assumere all’interno o all’estero o effettuare altri
tipi di scelta in termini di reclutamento.

109
Lepack e Snell differenziano le risorse di cui necessita l’azienda per coprire il suo fabbisogno su due
variabili: l’unicità delle competenze possedute da queste persone, in termini di specificità o
specializzazione, e il valore strategico.
Dagli incroci di queste due variabili possono nascere 4 configurazioni di risorse sulla base delle quali andare
a definire le scelte di reclutamento.
Quando le risorse hanno elevati livelli di unicità, di specificità delle competenze, quindi sono ruoli
abbastanza importanti in termini di competenze possedute e sono ruoli che hanno allo stesso tempo un
elevato valore strategico perché impattano enormemente sul mantenimento e sull’accrescimento del
vantaggio competitivo, allora siamo difronte a quelle che vengono definite dagli studiosi le risorse
strategiche. Tali risorse hanno delle competenze fondamentali per l’organizzazione, sono tipicamente le
risorse su cui l’azienda ha investito di più. I cosiddetti knowledge worker, il top management e quelli
definiti come alti potenziali. Avendo investito molto su queste risorse, quindi avendo un elevata specificità
delle competenze, è chiaro che l’azienda non ricorrerà al mercato esterno per reclutarle, ma cercherà di
ricoprire questi ruoli, quindi cercare quelle competenze all’interno, nel mercato interno del lavoro.
Quando il valore strategico è sempre elevato, ma l’unicità è più bassa, perché più che essere specifiche
magari sono specializzate le competenze allora si parla di risorse o ruoli job-based: significa che le
competenze possedute sono specializzate rispetto alla propria area di lavoro, rispetto alla propria
posizione, non specifiche rispetto all’impresa, ed infatti hanno un livello di unicità più basso. Sono
specializzate rispetto al proprio settore professionale, ma non contestualizzate; sostanzialmente sono
risorse che possiamo trovare facilmente sul mercato esterno del lavoro, soprattutto nei mercati dei
professionisti, di coloro che svolgono una professione specialistica. In questo caso si ricorrerà al mercato
esterno. Sono la maggior parte delle risorse a cui ricorre l’impresa, soprattutto le risorse che sono più alla
base della struttura piramidale, come quelle sostanzialmente in cui ci sono gli psicologi, gli economisti, gli
aziendalisti, una serie di persone che hanno una professionalità e che hanno delle competenze relative a
quella sfera di professionalità, e quindi le collocano all’interno della propria azienda, non sono ancora
specifiche, hanno un livello basso di specificità per cui sono facilmente reperibili sul mercato esterno.

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Quando l’unicità è alta e il valore strategico invece è basso, stiamo parlando di ruoli con cui generalmente
l’impresa instaura rapporti di partnership o collaborazione e sono le cosiddette risorse partner. Qui stiamo
parlando di risorse che sono altamente specializzate rispetto al business in cui lavora l’azienda, quindi
hanno un certo livello di specificità delle competenze, ma non hanno un valore strategico. Che cosa
significa? Che impattano in modo minore sul mantenimento del vantaggio competitivo. Un tipico esempio
sono le società di consulenza che ai massimi livelli di carriera che impongono c’è la partnership: il partner
delle società di consulenza è una risorsa fondamentale perché conosce benissimo il business dell’azienda,
intrattiene relazioni nel tempo, quindi è importante per ampliare il bacino di relazioni che hanno le società
di consulenza. È strategica? Non troppo, nel senso che non fa più parte di quel management che grazie alla
sua capacità di combinare e ricombinare le risorse è in grado di innovare i processi, di dare prodotti di
qualità, e quindi di fornire servizi elevati di qualità ( è questo che abbiamo detto contribuisce
all’accrescimento del vantaggio competitivo); in questo caso si parla di mantenimento, o ampliamento del
mercato o del proprio bacino di affari, però impattano in minor misura su quello che è il vantaggio
competitivo in senso stretto, e quindi in questo caso si avranno dei rapporti di collaborazione.
Ultime risorse sono quelle che vengono definite ancillari, o risorse marginali, e qui si fa tipicamente
l’esempio dei call center, cioè competenze molto ancillari, molto basic, che possono essere facilmente
trovate sul mercato esterno del lavoro e su cui l’azienda, a differenza delle altre competenze dove decide di
investire, in queste decide di non investire e quindi decide di non reclutarle oppure di esternalizzare
l’attività relativa a quelle competenze, quindi i call center esternalizzati. In questo caso la decisione è di non
reclutamento o esternalizzazione di quelle attività relative alle competenze.
Questo è un tipico modello che si usa per farsi un’idea sulle risorse da investire e sui canali di reclutamento
da attivare.

Sulla base poi delle scelte che effettua l’impresa, si può scegliere se dirigersi verso il mercato interno
oppure all’esterno. Per ognuno di questi mercati abbiamo diversi strumenti da poter utilizzare e diversi
vantaggi o svantaggi.
RECLUTARE NEL MERCATO DEL LAVORO INTERNO
Strumenti che si possono attivare nel mercato del lavoro interno:
- Informazioni presenti nel SIP: un enorme bacino di informazioni sulle caratteristiche professionali,
personali del nostro organico, ma anche sui loro percorsi di carriera, sui livelli di retribuzione. Un
enorme bacino di informazioni che deve essere sempre aggiornato e ben gestito perché, proprio
nel caso appunto di vacanze improvvise, il primo passo che si fa è consultare il SIP per vedere se in
azienda c’è qualcuno in grado di coprire quel ruolo. Quindi in questo caso c’è qualche costo in
termini proprio di gestione delle informazioni, dei big data e dal database in generale;
- Passaparola informale: gratuito, molto efficace, ed è il tipico strumento utilizzato dalle piccole e
medie imprese. Perché è importante? Perché il passaparola ci permette anche di attivare quella
parte del mercato del lavoro che magari non sta cercando: se magari voi siete impiegati non state
cercando lavoro però vostra madre, una vostra amica vi dice che si è liberata una posizione nella
loro azienda, vedete che l’impresa in questo caso riesce ad attivare un nuovo canale di
reclutamento. Il vantaggio in questo caso è sicuramente la gratuità, l’assenza totale di costi;
- Il job posting: uno strumento con cui l’azienda va a palesare la vacanza di una posizione e quindi
stimola l’autocandidatura, dei candidati interni, quindi delle persone interne all’azienda. Questo
strumento è molto efficace, e molto trasparente (viene utilizzato solitamente nelle aziende molto
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piatte, molto fluide). Però è uno strumento che va utilizzato con attenzione e parsimonia perché
l’aspetto più critico risiede poi nella valutazione del candidato. Se non dovesse andare a buon fine
la valutazione del candidato per la copertura del posto vacante, posso poi avere dei problemi nella
prosecuzione dello svolgimento della sua prestazione lavorativa se io ricevo un feedback
negativo per ricoprire, magari i miei colleghi lo sanno, lo avevo già detto in famiglia, ecc. ho poi una
frustrazione abbondante se non riesco a superare la fase di valutazione.
Vantaggi e svantaggi
I vantaggi nel reclutare nel mercato interno del lavoro:
- Favorire le carriere interne e quindi favorire sostanzialmente la stabilità dei rapporti, rafforzare la
cultura interna;
- Rafforzare le relazioni sindacali: i sindacati tendono sempre a privilegiare il mercato interno, in
qualche modo a difendere la propria forza lavoro da quella che è la concorrenza esterna;
- Una forte motivazione, un forte impegno: si instaura quasi un commitment emotivo con l’azienda;
un’azienda che investe tanto, che ci tiene tanto alla mia crescita a me che sono interno, e quindi io
sono più motivato, mi identifico quasi nella mia azienda;
- Maggior ritorno in termini di investimenti di formazione perché si evita di drenare le risorse che si
sono investite. Se io ho investito in specificità delle competenze, favorendo il mercato interno del
lavoro evito che gli investimenti che ho fatto vadano a vantaggio di imprese concorrenti;
- Il risparmio dei costi: non dovendo reclutare su mercati esterni risparmia molto in costi di
attivazione di bacini di reclutamento esterni, di canali ad esempio online, la gestione di database, la
valutazione, i sistemi di valutazione dei candidati che vengono dall’esterno sono certamente più
onerosi, più lunghi in tempi anche temporali risetto a quelli interni.
Gli svantaggi: abbiamo detto che da un lato si rafforza la cultura e abbiamo una generale stabilità, un
rafforzamento dei rapporti, delle relazioni interne dell’azienda e con i sindacati. Però si crea un sistema
molto autoreferenziale, noi abbiamo competenze uniche, specifiche, distintive, però di fatto sono sempre
qui, le cerco all’interno non mi confronto mai all’esterno. Un sistema eccessivamente statico
eccessivamente autoreferenziale che mi crea troppa rigidità non mi permette tanto di cambiare cultura, di
innovare le mie competenze. La rigidità è strettamente collegata con il problema dell’obsolescenza tecnica
e professionale delle competenze.
Un altro svantaggio sono i costi dovuti all’attività di programmazione del personale. Diverso è affidarsi a
società di reclutamento esterno, per esempio voglio esternalizzare tutta l’attività di reclutamento, diverso è
reclutare all’esterno a rispetto a reclutare all’interno, questo comporta che la funzione HR dovrà dedicare
parecchio tempo e parecchie risorse proprio al processo di programmazione del personale, e quindi
determinare i fabbisogni le disponibilità che comunque richiede tempo ed energia.

RECLUTARE NEL MERCATO DEL LAVORO ESTERNO


Strumenti che si possono attivare nel mercato del lavoro esterno:
- L’autocandidatura: è la cosiddetta sezione del “lavora con noi”, dove le persone si possono
candidare spontaneamente caricando il proprio cv. Le aziende si stanno dotando molto da questo
punto di vista proprio perché sanno che la formazione di un buon database con tutte le info
all’interno può essere utile all’azienda stessa nel momento in cui sta cercando qualcuno per
ricoprire una posizione vacante;
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- Il passaparola: è uno strumento comune con il mercato interno del lavoro, già ne abbiamo detto il
vantaggio, assolutamente gratuito, un altro vantaggio è che permette alle aziende di andare ad
attivare qualche talento che è già occupato e non sta cercando lavoro, io grazie al passaparola,
grazie alle mie risorse interne che diffondono il verbo riesco a captare qualche talento che in quel
momento magari non stava cercando lavoro. Il passaparola si è molto sviluppato negli ultimi anni
anche grazie a internet e grazie ai portali di job networking;
- Servizi di placement di scuole e università (stage e tirocini): ultimamente le aziende fanno molto
ricorso agli stage curricolari, anche questi sono vivamente consigliati agli studenti, tramite la
piattaforma job soul. Stage curriculari che molto spesso sono anche finalizzati all’assunzione, cioè
l’azienda comincia ad assumere tramite questi stage anche perché le università e le scuole danno a
disposizione delle aziende (pensate ad Almalaurea), le caratteristiche, i profili dei neolaureati.
Tramite la possibilità di fare stage curricolare l’azienda forma inizialmente, da delle competenze
che poi può finalizzare successivamente all’assunzione, investe cioè minimamente per poi inserire
la risorsa in azienda;
- Ci sono poi una serie di servizi che sono offerti da associazioni datoriali o sindacati, cioè
tipicamente i sindacati, CGL CISL offrono anche una serie di servizi di placement per gli iscritti e di
incontro tra domanda e offerta per le aziende, quindi per esempio chi è iscritto a Unindustria, le
aziende che sono iscritte a Unindustria che diciamo è un’associazione datoriale a livello regionale di
Confindustria ha una serie di servizi tra cui appunto quello di avere a disposizione un bacino di
reclutamento con tutte le informazioni relative ai lavoratori;
- Centri per l’impiego: questa è un po’ una nota dolente per l’Italia, purtroppo in Italia non
funzionano benissimo però sono dei luoghi in cui sostanzialmente si tende a far incrociare la
domanda con l’offerta di lavoro (l’ex collocamento pubblico). Nei centri per l’impiego i lavoratori
vanno generalmente per dichiarare il loro stato di disoccupazione, che è il primo passo per poi
ricevere eventualmente dei sussidi, e rendersi altresì disponibili a partecipare a delle politiche di
formazione oppure a delle politiche attive. Era un po’ il modello che dicevamo della flex security
che garantisce in un certo senso la formazione di competenze per la poi occupabilità;
- Inserzioni di lavoro;
- Le agenzie per il lavoro (es. Adecco): sono agenzie che svolgono l’intermediazione privata tra
domanda e offerta di lavoro. Prima era vietata per legge perché il collocamento doveva essere
soltanto pubblico, invece adesso è possibile, dopo l’iscrizione ad un albo e dopo il riconoscimento
da parte del ministero svolgere l’attività di intermediazione privata tra domanda e offerta di lavoro.
Ultimamente, soprattutto nelle aziende manifatturiere, stanno spopolando i cosiddetti contratti di
somministrazione che sono delle figure contrattuali in cui ci sono due contratti e tre soggetti. I
soggetti sono il datore di lavoro, il lavoratore e l’agenzia del lavoro: si instaura prima un contratto
tra l’agenzia e il lavoratore, che può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato e dopo
di che un altro contratto tra l’agenzia e il datore di lavoro presso il quale il lavoratore andrà a
lavorare (questi sono i tipici contratti di somministrazione a volte proposti dalle agenzie per il
lavoro, che in realtà però adesso hanno un ruolo molto più ampio, proprio di servizi sia alle
imprese, sia ai lavoratori);
- Rreclutamento online: che si caratterizza per vari sotto-strumenti Web recruiting, sono i portali
di lavoro delle aziende; job board, come ad esempio monster oppure face 4 job (è un portale di
annunci di lavoro che offre servizi sia alle imprese che hai lavoratori, e permette ad esempio ai
lavoratori di registrare dei video talent o di mettere in ordine quelli che sono i 10 principali talenti
delle risorse e offre, dietro pagamento, alle imprese la possibilità di accedere a questi video talent,
a questi cv dei lavoratori che hanno fatto applicativo); carrier network, come ad esempio linkedin,
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dove si instaurano dei sistemi di referenze, dove praticamente vengono confermate le referenze
inserite dagli individui; social networking, nonché il social recruiting che ultimamente sta dando
qualche problema etico, quindi è molto criticato dal punto di vista etico perché sostanzialmente
molte aziende hanno come abitudine quella di andare a guardare i profili social, sia su twitter che
su facebook dei candidati prima di farli accedere al colloquio. È chiaro che il reclutamento online ha
molti vantaggi: l’automazione è di gran lunga un vantaggio soprattutto per le aziende di grandi
dimensioni che si trovano a gestire mole e molte di dati, però è chiaro che è vincolato, ha anch’esso
dei limiti il primo è la disposizione di internet e poi sicuramente è limitato dalla tipologia di ruolo
che stiamo cercando. Quindi il reclutamento online ha svariati vantaggi in termini di ampliamento
del bacino reclutamento però in termini di mole di dati da gestire di accesso ad internet e di
particolari profili da ricercare è limitante e vincolante;
- Borsa continua nazionale del lavoro;
- Società di executive search (vedi dopo).
Tutti questi strumenti si dice che sono alternativi e variamente combinabili: possiamo combinarli e
ricombinarli e unirli in base ai nostri obiettivi di ottimizzazione del processo di reclutamento in termini di
costi e di tempi, cioè tanto più vogliamo ottimizzare i costi e i tempi, tanto più saremo diretti a fare delle
particolari scelte sugli strumenti da utilizzare.
Quindi: qual è il criterio di combinazione degli strumenti di reclutamento del mercato esterno? Il principio è
quello dell’ottimizzazione dei costi e dei tempi. (TIPICA DOMANDA D’ESAME)
A tal proposito, soprattutto quando i profili da ricercare sono particolarmente distintivi, non è sufficiente
per l’azienda andare semplicemente a reclutare sul mercato esterno, deve scalfire le risorse interne nelle
aziende concorrenti, perché magari sono talenti che sono già stati acquisiti. Allora in questo caso non
potendo avere scienza di tutti i talenti che sono presenti e già impiegati all’interno di un settore di
riferimento, si fa supportare da alcuni consulenti esterni che sono le cosiddette società di head hunting,
quindi cacciatori di teste, o società di executive search. Che cosa succede? Questa società di consulenza
delinea con l’azienda di riferimento una job description, una person specification (client briefing); dopo di
che fa una target list, cioè va a considerare il suo target di riferimento, quindi o il settore o l’area geografica
o le aziende concorrenti e istituisce una long list, ovvero una lista di candidati che poi dovrà andare a
contattare; li contatta tramite interviste telefoniche, colloqui via skype e così via, e ottiene una short list
ovvero una lista di candidati che propone poi all’azienda che ha commissionato la ricerca. A questo punto,
una volta delineato il candidato ideale, si lascia sostanzialmente la palla all’azienda e quindi l’azienda
inizierà il suo processo di selezione del candidato. Durante questa fase di selezione, che continua l’azienda,
la società di consulenza continua a supportare, fornendo dei sistemi di referenze, l’azienda stessa per
facilitare il processo di assunzione e interviene laddove il candidato individuato o i candidati individuati non
siano all’altezza delle attese dell’organizzazione stessa e quindi si riattiva il processo di ricerca dei talenti.

Vantaggi e svantaggi
Tra i vantaggi c’è sicuramente una ibridazione della cultura: abbiamo detto se il principale svantaggio della
ricerca interna era quello di essere troppo statico e troppo autoreferenziale, qui il vantaggio è appunto
quello di avere un’iniezione di nuove competenze e un’ibridazione della cultura organizzativa. In realtà un
vantaggio estremamente importante per l’azienda è quello di andare ad attivare una concorrenza tra
coloro che fanno parte del mercato interno e coloro che invece sono nel mercato esterno del lavoro e

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quindi incentivano i lavoratori soprattutto interni a dare il massimo per evitare infiltrazioni di concorrenti
esterni.
Gli svantaggi sono tutti i costi. Costa tanto reclutare nel mercato esterno. Costa perché dobbiamo attivare
la gestione di una mole di dati, dobbiamo selezionare i candidati, quindi anche in termini di spazi, di risorse
economiche, di tempo da dedicare. Ci sono tanti costi amministrativi proprio per la gestione delle entrate e
delle uscite e i costi maggiori sono sicuramente quelli di contestualizzazione, quindi una volta che si assume
dall’esterno cercare di contestualizzare al meglio tramite sostanzialmente politiche ed iniziative di
formazione delle nuove risorse e programmi di introduction, quindi introdurre sia alle relazioni che al
lavoro in se.
La fase di reclutamento può essere valutata sulla base di 4 indicatori:
1. Indicatori di coerenza: in questo caso si parla di coerenza con la strategia; abbiamo detto più volte
che le politiche attivate dall’azienda devo necessariamente rendersi coerenti (vertical fit) con le
strategie adottate dall’azienda;
2. Indicatori di sintesi: sono sostanzialmente degli indicatori, in particolare un indicatore che è dato
dal rapporto tra il numero dei candidati da esaminare sul numero di posizioni da ricoprire, che ci
dice quanto siamo stati bravi nel raggiungere l’obiettivo del reclutamento. Qual è l’obiettivo del
reclutamento? Cercare di reclutare, attrarre quell’offerta di lavoro che abbia le caratteristiche
che più servono per ricoprire quelle posizioni. Quando questo rapporto tra il numero dei candidati
da esaminare e il numero delle posizioni da ricoprire è uguale a 1 vuol dire che per ogni posizione
vacante ho un solo candidato; quando è minore di 1 vuol dire che il processo di reclutamento,
sinteticamente inteso, forse ha avuto dei problemi perché ho meno di un candidato da valutare per
ciascuna posizione; quando è maggiore di 1 potrebbe significare che sono stato abbastanza efficace
perché ho attratto parecchia forza lavoro per ciascuna posizione da ricoprire, però devo stare
attento a contemperarlo con il mio budget, quindi devo stare attento ai costi che devo sostenere
perché è chiaro che più risorse ho da valutare rispetto alle posizioni che devo ricoprire richiedono
più tempo e più dispendio economico;
3. Indicatori di efficienza: possono essere valutati e intesi in termini di costi e di tempi. Che cos’è
l’efficienza? Quand’è che parliamo di efficienza? Quando sostanzialmente raggiungiamo il massimo
risultato impiegando il minimo delle risorse, perché le risorse sono scarse, quindi uno dei principi
economici fondamentali è l’allocazione efficiente delle risorse. In questo caso, per vedere quanto
siamo stati efficienti dal punto di vista economico, possiamo parlare di efficienza del processo di
reclutamento in termini di costi adottando l’indicatore di costo di reclutamento per assunto, cioè al
numeratore la somma dei costi relativi al reclutamento e al denominatore il numero dei candidati
assunti alla fine del processo.

Dal punto di vista dei tempi in questo caso si fa riferimento a quanto siamo stati tempestivi, cioè
alla tempestività del processo di selezione rispetto alla copertura delle esigenze dell’azienda e si

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parla o di tempi di copertura o di tempi di risposta. I tempi di copertura valutano i tempi intercorsi
da quando viene palesata la richiesta di assunzione, per esempio dalla line, fino a quando la risorsa
viene assunta, fino a quando si conclude il processo di assunzione. I tempi di risposta, invece, sono
più brevi e vanno a valutare il tempo intercorso tra quando si va sul mercato e si attiva quindi la
domanda di lavoro fino a quando inizia effettivamente il processo di assunzione (generalmente le
aziende non fanno mai passare tanto tempo da quando vanno a chiedere a quando inizia il
processo di assunzione);
4. Indicatore di efficacia: cerca di individuare quanto l’organizzazione è stata in grado di attirare non
solo un numero di candidati adeguato, ma di candidati che poi abbiano quelle specifiche
competenze per l’azienda stessa, quindi candidati che siano adeguati alle esigenze dell’azienda. In
questi casi generalmente si usa il tasso di screening che è il numero di candidati che hanno passato
lo screening preliminare (lo screening preliminare fa parte della fase di reclutamento perché rientra
in quello screening fatto attraverso i requisiti specifici) sul numero di candidati totale.

È chiaro che se poi l’azienda vuole valutare l’efficacia dei singoli canali di reclutamento può andare
a disaggregare questo indicatore e quindi magari valutare per ogni canale di reclutamento il tasso di
screening, per esempio il numero di candidati che ha superato lo screening preliminare sul numero
di candidati totali nel recluting online.

LEZIONE 12
FASE 3: SELEZIONE
Cos’è la selezione? La selezione è l’insieme di attività svolte al fine di individuare e scegliere il candidato che
avrà quelle caratteristiche di cui l’impresa ha bisogno (il candidato che sarà, quindi, in grado di colmare il
fabbisogno che emerge all’interno dell’impresa).
E’ una fase molto delicata, non è sicuramente una fase che prevede attività unidirezionali (a senso unico),
infatti la fase di Selezione viene definita uno scambio a due vie perché è un momento molto delicato in cui
non soltanto l’azienda valuta il candidato, ma è lo stesso candidato che comincia a raccogliere delle
informazioni rilevanti sull’azienda e tutte queste informazioni vengono messe a sistema, per poi prendere
la decisione finale. E’ un momento delicato perché è pieno di asimmetrie informative, da entrambi i lati! Da

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un lato l’organizzazione vede chi ha davanti ma non ha tutte le informazioni a disposizione, non sa le reali
caratteristiche del candidato; quindi, una persona che potrebbe inizialmente sembrare promettente, in
realtà poi, una volta inserito, si potrebbe dimostrare un perdi-giorno. Dall’altro lato il candidato ha una
prima impressione dell’azienda, ma non ha tutte le informazioni per capire qual è il reale profilo
dell’azienda. Quindi, che cosa potrebbe succedere? Che dalle sembianze di un’azienda molto aperta al
confronto, alle dinamiche relazionali, ben organizzata, in realtà si dimostra essere una organizzazione
strettamente piramidale, gerarchica, con una leadership molto autoritaria. Ecco, queste sono le tipiche
situazioni che si possono venire a creare; è in questo momento anche che cominciamo ad avere la
formazione delle prime aspettative che rientreranno in quello che definiamo il “contratto psicologico” (si
iniziano a formare le aspettative reciproche).
Il tipico comportamento opportunistico che deriva dall’asimmetria informativa è quello della Selezione
Avversa, che è un opportunismo che si verifica nel momento in cui una delle due parti cerca di cambiare le
condizioni contrattuali, nascondendolo alla controparte, cercando di avvantaggiarsi di questo
cambiamento, senza che la controparte lo sappia.
La fase di selezione, che è una micro-processo all’interno del più grande processo di assunzione, si
costituisce a sua volta di tre fasi:
- Screening (valutazione approfondita dei curricula o candidature);
- Valutazione (valutazione dei candidati);
- Scelta (individuazione dei candidati da inserire).

FASE DI SCREENING:
Qual è la differenza tra lo screening preliminare, che abbiamo visto l’ultima volta, rispetto invece a questa
fase che ritroviamo all’interno del processo di selezione? La differenza è che, lo Screening Preliminare va a
restringere il bacino di reclutamento sulla base di requisiti specifici che si trovano all’interno della
descrizione del profilo aziendale, ad esempio l’età (devi avere un minimo di 5 anni di esperienza) oppure la
collocazione geografica (deve essere geograficamente vicino al luogo di lavoro) oppure, ancora, la
disponibilità di trasferimento. Invece, nel momento in cui comincia la fase di selezione si ha uno Screening,
dei Curricula, e quindi si vanno sempre a valutare questi requisiti specifici ma da un punto di vista
qualitativo (ad esempio, un candidato ha superato il requisito di anni di esperienza, ma quale esperienza ha
fatto?): si cerca di individuare, tra tutti i requisiti, quelli che meglio rispondono qualitativamente alle
esigenze dell’organizzazione stessa.

FASE DI SELEZIONE E VALUTAZIONE DEI CANDIDATI


Come valutare i candidati? Ci sono tre principali tecniche di valutazione: i Test, i Colloqui e l’Assessment
Center.
1 - COLLOQUIO DI SELEZIONE: attraverso il colloquio di selezione, entrambe le parte hanno la possibilità di
avere uno scambio diretto, quindi c’è uno scambio diretto tra il selezionatore e il candidato. Quali sono gli
obiettivi del colloquio (si può dire anche Intervista di assunzione)? Sono sostanzialmente verificare tutte le
informazioni raccolte nelle fasi precedenti, come ad esempio nei curricula, oppure andare a vedere se c’è
corrispondenza tra le competenze che il candidato ha dimostrato nelle fasi precedenti (selezione, test e
nelle prove) e se effettivamente poi le riscontriamo nella realtà. Poi c’è quella fase importante di prima
formazione delle aspettative, cioè si scambiano i primi feedback. Ecco perché un colloquio deve essere
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sempre molto improntato alla assoluta verità! Questo significa che ci sono diverse distorsioni, come
vedremo, che possono nascere in un colloquio perché è condotto da soggetti, e quindi ci potrebbero essere
tante distorsioni soggettive, dovute appunto alla presenza di una forte discrezionalità e soggettività sia
dalla parte del selezionatore che dalla parte del candidato. La fase del Colloquio è fondamentale per quanto
riguarda la creazione di aspettative, difatti tante aziende, come ad esempio Google o anche McKinsey,
all’interno delle proprie pagine web danno dei consigli su come prepararsi a sostenere un colloquio: in
particolare, mentre Google dà consigli sulle domande, sui test di preparazione, McKinsey invece indica i
quattro elementi fondamentali che deve possedere un candidato per la buona riuscita di un processo di
selezione.
Criticità:
- sicuramente se ci sono molti candidati diventa dispendioso in termini di tempo interrogarli tutti, ci
dilaziona troppo i tempi di copertura, i tempi di risposta, ci allunga troppo il processo di selezione;
- le criticità maggiori sono legate alla forte soggettività: sono delle persone che mettono in campo
tutto il proprio set di valori, di pregiudizi che in qualche modo entrano nella fase di formazione del
giudizio del candidato e nella decisione di assunzione relativa al candidato stesso. Vediamo un po’
quali sono queste distorsioni:
o una prima distorsione è il tipico effetto framing, che si ha quando si fa un colloquio con un
candidato e ci si fa condizionare dalle sue caratteristiche fisiche, valoriali e così via, a cui noi
attribuiamo un valore, positivo o negativo. Se, ad esempio, attribuiamo un valore positivo
agli occhi chiari, allora tendiamo ad essere, in qualche modo, positivi nei confronti di quello
che dice e che fa, si crea un effetto di framing, proprio un frame, una cornice, positiva o
negativa, che va a condizionare il nostro giudizio, cioè all’interno della quale noi andiamo a
collocare i nostri giudizi.
o l’effetto di prima impressione: è stato dimostrato che il giudizio di un selezionatore su una
persona si forma nei primi 15 secondi di colloquio, quindi non c’è una seconda occasione
per fare una buona prima impressione. Il consiglio è che occorre sempre stare attenti a
dare, nelle fasi iniziali, una buona impressione. Questo è molto importante, anche perché
va poi ad impattare sull’ordine dei candidati: è stato dimostrato che un candidato ritenuto
appena sufficiente per il profilo ricercato ma che era stato esaminato dopo due o tre
candidati considerati completamente non idonei, riceveva una valutazione superiore
rispetto a quella che avrebbe ricevuto se fosse stato comparato con canditati migliori o di
pari livello. Quindi anche l’ordine con cui esaminiamo i candidati può condizionare le scelte
di un selezionatore.
o L’effetto recency, invece, è l’ultima impressione: molti selezionatori tendono a ricordare
più facilmente l’ultima parte del colloquio, quindi se anche la prima parte non è andata
tanto bene, tendono a dare più importanza alle fasi finali.
o Altre due distorsioni sono l’indulgenza e la severità: è stato dimostrato che l’indulgenza si
ha in tutte quelle situazioni in cui, per la necessità urgente di ricoprire un luogo vacante, il
selezionatore tende ad essere più indulgente, tende a non considerare in maniera troppo
negativa alcune caratteristiche che, invece, emergono in maniera nettamente contraria alle
esigenze dell’azienda. Viceversa, una caratteristica tipica nei colloqui per una posizione di
top management, oppure di profili particolarmente strategici, è che il selezionatore tende
ad essere eccessivamente severo, e quindi a ricercare in maniera puntuale tutte le singole
caratteristiche richieste dalla job description. Questo ci dice che i colloqui sono inefficienti?
NO, ma è importante che i selezionatori siano formati, ossia che siano consapevoli nel
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momento in cui andranno a fare la scelta, e che considerino l’andamento generale e non si
fermino alle prime o alle ultime impressioni.
o Enfasi in negativo: il selezionatore, molto spesso, tende a trovare degli aspetti negativi
all’interno del colloquio; quindi, anche in un quadro totalmente positivo, fa la tipica
domanda trabocchetto. Inoltre è più probabile che ci sia un cambiamento da un giudizio
positivo ad uno negativo che viceversa, cioè che partendo da un giudizio negativo si possa
giungere alla fine ad un giudizio positivo. Quindi il selezionatore dovrà tenere conto anche
di questi andamenti.
Parliamo del Candidato: anche il candidato può dare origine a diverse distorsioni, soprattutto negli
atteggiamenti, nei comportamenti. Due sono i comportamenti ritenuti distorsivi:
o Ingration: ossia quando una persona tende ad essere accondiscendente, e quindi anche se
non parla, quindi non tramite espressioni verbali ma tramite il linguaggio del corpo, tende
ad annuire e sorridere ad ogni cosa che dice il selezionatore, quindi mette in atto
atteggiamenti che tendono ad ingraziarsi l’interlocutore.
o Deception: la capacità del candidato di andare a nascondere quelle caratteristiche che non
ritiene possano aggradare il selezionatore.
Un'altra caratteristica molto apprezzata da parte dei candidati è la capacità di autoproporsi e di rendere
visibili le loro competenze e la loro adeguatezza rispetto al ruolo da ricoprire.
Le interviste
Le interviste possono essere:
- INTERVISTE DESTRUTTURATE: non c’è un ordine di domande ma tutto è lasciato molto alla
spontaneità del selezionatore e dell’intervistato.
Vantaggi: In questo caso il vantaggio maggiore è appunto dato dalla spontaneità, l’assenza di una
struttura standard che riesce a far fuoriuscire davvero le personalità. Abbiamo detto che la
personalità si manifesta nelle situazioni totalmente informali, quindi i colloqui destrutturati sono,
forse, lo strumento migliore per riuscire a ricavare questi tratti della personalità.
Svantaggi: Ma, dall’altro lato, comportano degli svantaggi, perché? 1-Innanzitutto non posso
comparare tra di loro i candidati perché se ad ognuno, in maniera spontanea, vengono proposte
domande diverse è chiaro che non si avrà una tabella di comparazione, non avrò proprio variabili su
cui comparare tutti i candidati in maniera omogenea. 2- aumenta di gran lunga la discrezionalità
soggettiva, quindi la possibilità che si vengano a creare tutte quelle distorsioni che abbiamo visto
(indulgenza, severità, effetto framing, ecc.).
Per arginare gli svantaggi si cerca di dare una maggiore “strutturazione” ai colloqui, ecco perché si
parla di Intervista Strutturata.
- INTERVISTE STRUTTURATE: prevede una serie di domande preventivamente specificate ed
accompagnate, generalmente, da quella che si definisce una griglia di valutazione; sostanzialmente
si pongono delle domande per valutare la presenza di determinate competenze, e quindi le risposte
dei candidati verranno valutate all’interno di queste griglie di valutazione.
Vantaggi: ho delle griglie di valutazione, ho dei punteggi, quindi posso comparare in questo caso i
candidati tra di loro. Tipicamente i selezionatori hanno una scheda con una cella con le domande, la
valutazione, ad esempio, da 1 a 5, ed eventuali note: sulla base di queste schede i candidati

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vengono comparati tra di loro, e sicuramente, ponendo su base omogenea tutte le persone con le
stesse domande è più facile effettuare la comparazione.
Svantaggi: Sicuramente ci sarà una perdita di spontaneità. Quindi i colloqui strutturati possono
essere, e generalmente lo sono, accompagnati da test che vanno a valutare la personalità, proprio
perché quando le domande sono molto strutturate si cerca di far leva sull’individuazione delle
competenze più che sulla personalità.
Le tipiche interviste che si possono fare in questi casi sono:
- le interviste comportamentali: la BEI, che si basa sull’assunto che i comportamenti passati
siano i miglior predittori di quelli futuri. Quindi che cosa succede in questi casi? Si va a chiedere
al candidato quale comportamento ha assunto in un determinato momento, in una
determinata situazione. Per esempio si potrebbe chiedere: “ le è mai capitato che un suo
subordinato sia arrivato in ritardo? se sì, come si è comportato?” e lì si valutano i
comportamenti e si vedono i primi tratti del carattere.
- le interviste situazionali: sono più particolari, perché si basano sull’assunto non che i
comportamenti passati siano i migliori predittori di quelli futuri, ma che siano le intenzioni a
predire i comportamenti futuri. Quindi cosa succede in questi casi? Si presenta una tipica
situazione che si potrebbe presentare a lavoro, e si chiede come ci si sarebbe comportati in
quella situazione. Ad esempio: “il suo subordinato arriva per tre giorni di fila in ritardo, come si
comporta? cosa fa?”.
Come si fa a scegliere tra le due? Generalmente si cercherà un approccio che integri (si utilizza
un approccio integrato),sicuramente anche questo vi capiterà: durante un colloquio ci saranno
dei momenti molto strutturati, in cui vi porranno delle domande specifiche più dirette, e dei
momenti invece, soprattutto nella parte centrale del colloquio, in cui il discorso darà molto più
discorsivo in cui si parlerà magari dei vostri interesse, delle vostre attitudini, e si fa coincidere,
generalmente, nella parte centrale, in modo da vedere anche come poi il candidato riesca a
rientrare nei temi più tecnici, quindi si valuta anche la capacità di gestione del colloquio in sé.
Quindi generalmente si utilizza un approccio integrato: anche in un colloquio che è strutturato,
ci sono dei momenti di interazione.

Oltre ai livelli di strutturazione delle domande, un’altra classificazione che si fa dei colloqui è in base al
numero di selezionatori e candidati:
(1) - intervista uno a uno: quando ci sono solo selezionatore e candidato.
(2) - intervista panel: sono svolte alla presenza di un candidato di fronte a più selezionatori
(3) - intervista in serie: quando si è valutati, in maniera sequenziale, da diversi valutatori che poi si
confrontano.
(4) - intervista in gruppo: più candidati che vengono valutati contemporaneamente. Questo serve molto a
capire il nostro modo di approcciarci agli altri, perché parte della nostra personalità si evidenzia anche nel
modo di stare con gli altri. Consiglio: non ci sono comportamenti giusti o sbagliati, l’importante è essere
sempre noi stessi.
I test

120
Sono la tipica forma di valutazione che si utilizza spesso con i giovani che non hanno molta esperienza in
ambito lavorativo, oppure quando servono competenze molto specifiche (si parla di elevata
professionalità). Si possono dividere in due gruppi:
- TEST COGNITIVI: mirano a identificare il rendimento di un individuo, sia a livello potenziale che
effettivo. Ci sono diverse tipologie:
a.1 test di conoscenza: sono quei test che mirano a rilevare le competenze che noi già
abbiamo e che già mettiamo in atto, cioè cosa sappiamo e cosa sappiamo fare.
a.2 test psico-attitudinali: mirano a identificare quelle competenze che abbiamo ma che
magari non abbiamo ancora messo in atto, quindi delle attitudini. In questo caso ci sono diverse
prove che si possono fare, ad esempio ci sono i test per valutare la mobilità e la velocità degli
arti superiori: quindi c’è un test specifico che viene fatto negli ambienti in cui serve questa
elevata mobilità degli avambracci e delle mani. Questo è un esempio di test attitudinale, cioè
serve a verificare se effettivamente il candidato mette in atto, nel tempo richiesto, quella
specifica serie di movimenti. Poi ci sono dei test utilizzati, soprattutto negli stati uniti, che
vedono l’attitudine agli incidenti: sono test di 130 domande, e in base al tipo di risposte si vede
se l’individuo ha più probabilità o meno di essere esposto a questi incidenti.
a.3 test di abilità generale (o di intelligenza): a differenza degli altri due non vanno a
verificare conoscenze o già possedute e messe in atto o possedute ma non ancora messe in
atto, ma dei tratti, delle conoscenze in senso ampio che diano la possibilità di acquisire ulteriori
conoscenze utili al lavoro e a contestualizzarsi all’interno del lavoro. Quindi sostanzialmente
sono i test di intelligenza largamente intesi, cioè la capacità, il possesso da parte del candidato
di quella intelligenza generale per essere in grado di apprendere le competenze che serviranno
a lavoro e di contestualizzarsi nell’ambiente lavorativo. In questo caso si tende ad utilizzare il
test del Q.I., che anch’esso non è privo di problemi perché, prima di tutto, non dà molta
varianza (questo è un problema in generale dei test cognitivi), è chiaro che tutte le persone che
fanno application per una determinata posizione avranno un set di conoscenze comuni.
Un’altra accusa forte che è stata fatta sull’utilizzo dei test sul Q.I. è che è un test di abilità
generale tipicamente sviluppato in virtù delle caratteristiche di un determinato popolo, di una
determinata cultura, e quindi potrebbe essere discriminante nei confronti di culture diverse che
magari danno importanza ad abilità e capacità di apprendimento diverse.
- TEST DI PERSONALITA’: a differenza dei test cognitivi, che tendono ad individuare i rendimenti
potenziali o attuali, i test di personalità vanno ad identificare i tratti della personalità che sono
immediatamente collegabili alle competenze di cui l’impresa ha bisogno. Valutano le caratteristiche
emotive e relazionali, i sistemi motivazionali e gli atteggiamenti degli individui che sono la base
dell’interazione con l’ambiente di riferimento. È importante ricordare che questo tipo di strumento
andrebbe usato con molta parsimonia e soprattutto magari usato soltanto laddove ci sia una
strettissima relazione tra le competenze da possedere e i tratti della personalità rilevati (ad
esempio il caso dell’estroversione, che inteso come direzionare all’esterno la propria energia
psichica). Tipi Psicologici - Myers-Briggs Type Indicator: (Raccogliere e usare le info:
sensazione/intuizione; Interagire con l’altro: introversione/estroversione; Prendere decisioni:
pensiero/sentimento; Agire: percezione/giudizio) i Big Five: (Nevroticismo/Stabilità emotiva,
Estroversione, Apertura, Amabilità, Coscienziosità)

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Vantaggi: si riesce ad ottenere davvero un buon profilo della personalità del candidato in
pochissimo tempo. Inoltre questo tipo di test ha il vantaggio di riuscire ad ottenere una buona
sovrapposizione tra autovalutazione ed eterovalutazione, e sono abbastanza stabili.

Assessment Center
È uno strumento di valutazione molto complesso perché prevede un processo di selezione che
generalmente coinvolge più candidati contemporaneamente e li coinvolge in più prove e anche in diversi
momenti. E’, quindi, uno strumento di selezione che prevede diversi momenti di valutazione, effettuati con
diverse tecniche, più prove (individuali e di gruppo) e da più valutatori.
Vantaggi: possibilità di riuscire a ridurre al minimo le distorsioni soggettive che possono derivare dal
colloquio, perché abbiamo anche più valutatori per diverse fasi, quindi abbiamo più confronti e,
soprattutto, più prove a cui sono sottoposti i candidati per vedere se effettivamente quelle competenze
emerse in una prova poi si ripetono anche in quelle successive.
Svantaggi: E’ una modalità molto dispendiosa, sia in termini di tempo che di risorse.
Quali strumenti si adoperano in questo caso? Generalmente se ne usano 3:
1. Leaderless group discussion (discussione di gruppo senza leader): i candidati vengono messi in un
gruppo, con diversi partecipanti, e gli viene assegnata una situazione da risolvere (ad esempio la
ripartizione del budget in un’attività). Tipicamente sono situazioni che non hanno soluzione, serve
soltanto a far vedere come i partecipanti si comportano tra di loro e il processo attraverso il quale
arrivano alla definizione della soluzione del problema posto. Non c’è il leader, quindi tipicamente
succederà che il gruppo, nel momento in cui occorrerà mostrare i risultati, eleggerà un leader che
andrà a comunicare come portavoce i risultati. Questo è nella generalità dei casi. In molti casi,
invece, i leader si autoproclamano (e quindi si vedrà la propensione alla leadership, all’autorità di
ciascuna persona). L’importante in questi casi è trovare una soluzione che sia di buon senso, non
dev’essere quella esatta (che molto spesso neanche esiste), così da far vedere il processo
attraverso cui si è giunti a definire quella soluzione.
2. In basket: va a valutare il comportamento dell’individuo in una situazione lavorativa: gli si dà un
raccoglitore, che è il suo basket, e gli si danno una serie di memorandum, note da scrivere,
rendicontazioni e gli si chiede di metterle “in basket”, di organizzarle. Questo tipo di strumento va a
valutare se si è portati o meno a quel tipo di lavoro, la capacità di organizzare in situazioni difficili e
in timing ristretti, quindi la gestione del tempo e l’assegnazione delle priorità. Ci sono proprio degli
strumenti, che servono ad assegnare la priorità ai compiti da svolgere. Quindi da un’ora, in cui
questi candidati devono mettere nel raccoglitore tutte queste cose, si possono vedere le attitudini
al lavoro, la gestione del tempo, la gestione dello stress, l’assegnazione delle priorità.
3. Role Play (giochi di ruolo): è stato dimostrato che nel momento in cui si assegnano dei ruoli, le
persone tendono a calarsi effettivamente in quei ruoli e, quindi, a metter in evidenza la loro
capacità o meno di gestire le aspettative legate a quel ruolo. Il tipico esempio che si fa è quello
dell’esperimento tra “poliziotti e prigionieri”: due ruoli che vengono assegnati a due gruppi distinti,
e si è visto che dopo due giorni è stato necessario sospendere l’esperimento perché effettivamente
i poliziotti erano entrati troppo nel ruolo e avevano cominciato ad avere comportamenti troppo
aggressivi nel confronti dei prigionieri i quali, dal canto loro, avevano cominciato ad avere dei
comportamenti di coalizzazione e ad avere comportamenti nocivi nei confronti di coloro che erano

122
al di fuori del gruppo. Quindi la capacità di organizzare bene dei giochi di ruolo permette di vedere
bene le attitudini a determinate aspettative che si hanno quando si entra nei ruoli.
Questi strumenti sono utilizzati anche nella valutazione del potenziale (nel testo di riferimento si trovano
più avanti)
Sono tanti strumenti, come si fa a scegliere quale di questi utilizzare? TIPICA DOMANDA D’ESAME: Quali
variabili si richiedono per valutare gli strumenti di selezione da mettere in atto? ---- N.B. è diversa dalla
valutazione del processo di selezione! Qui stiamo valutando gli strumenti.
1) VALIDITA’: tende a misurare il grado di accuratezza, cioè sostanzialmente ci dice quanto lo strumento
che stiamo utilizzando è in grado di misurare ciò che vuole valutare. Come si fa in questi casi? Si fa
riferimento o al contenuto di quello che si vuole valutare, quindi il contenuto delle prove di selezione,
oppure ai criteri utilizzati. Quando si fa riferimento alla validità rispetto al criterio, quindi sostanzialmente ci
stiamo chiedendo se abbiamo utilizzato un criterio valido di selezione, stiamo osservando se c’è una
relazione tra la prova di selezione che abbiamo utilizzato e le performance. Facciamo un esempio: se io
ritengo che per fare una didattica efficace sia necessaria la conoscenza della lingua inglese, faccio tutti i test
d’inglese ai docenti, ed è un criterio di selezione per valutare una performance efficace, quindi per valutare
se ho una didattica efficace. Questo criterio sarà valido quando tutti coloro che superano la prova saranno
considerati nella valutazione che fanno gli studenti dei bravi docenti. Non sarà invece altresì valido quando
tutti coloro che superano il test d’inglese hanno, alcuni una didattica efficace, ed altri risultati totalmente
negativi. E’ evidente che in questo caso lo stesso criterio utilizzato mi ha dato risultati diversi, quindi
probabilmente non è un criterio valido e andrà cambiato. Quando invece parliamo di validità rispetto al
contenuto, che cosa stiamo dicendo? “ma effettivamente la prova che io propongo, è una prova che mi va a
valutare il contenuto di quello che sto misurando?” se io propongo un test d’inglese, posso soltanto
prevedere delle parti che guardino allo speaking o devo anche andare a considerare il writing e il listeling?
Quindi il contenuto della prova deve essere in grado di rilevare tutti gli aspetti di competenza in una
determinata area di conoscenze che sto andando a valutare.
2) ATTENDIBILITA’: è generalmente intesa come la capacità dello strumento di selezione di evitare errori
casuali, cioè lo strumento deve essere attendibile: se io sottopongo lo stesso candidato alla stessa prova in
diversi momenti devo avere gli stessi risultati. Oppure, se sottopongo il candidato ad una prova con più
selezionatori, tutti i selezionatori dovranno dare lo stesso riscontro.
3) SENSIBILITA’: aspetti della poca varianza che caratterizza i test cognitivi, ossia un buono strumento di
selezione deve essere sensibile alle differenze, deve essere in grado di rilevare le differenze fra i candidati,
deve avere varianza. Se è piatto vuol dire che non è effettivamente in grado di rilevare le competenze
distintive.
4) ECONOMICITA’: forse il più importante! Si hanno degli strumenti più semplici, meno costosi, e altri più
complessi. In questi caso si dovrà andare a scegliere lo strumento più adatto considerando se
effettivamente il beneficio in termini della qualità della selezione che traggo eguaglierà il costo maggiore
che devo sostenere per mettere in atto, ad esempio, l’assessment center. Principio efficientistico che si
basa sul confronto tra costi addizionali e benefici addizionali che si ha nell’impiegare uno strumento
piuttosto che un altro.
VALUTAZIONE DELLA FASE DI SELEZIONE - Indicatori:
- Efficienza: massimo rendimento con il minimo sforzo economico. In questo caso la valutiamo in
termini di costo. Parliamo di costi di selezione per candidato: quindi al numeratore abbiamo la

123
somma di tutti i costi che sono necessari per mettere in atto il processo di selezione, e al
denominatore i candidati sottoposti al processo di selezione.

- Efficacia: ci dà una misura del modo in cui si è giunti all’obiettivo, di quanto siamo stati bravi a
raggiungere l’obiettivo. Il processo di selezione è efficace quando riesce a minimizzare gli errori
della selezione, quindi tutti i falsi positivi e i falsi negativi, e ad individuare le persone giuste, cioè
quelle che effettivamente avranno poi un elevato livello di successo lavorativo una volta inserite in
azienda, e che faranno anche un certo tipo di carriera, quindi si stabilizzeranno, diventeranno
specifiche per la nostra organizzazione. In questi casi si usano i tassi di selezione (Selection Ratio),
quindi al numeratore troviamo gli assunti, in tutti e due i casi, nel primo caso sul numero di
candidati totali e, nel secondo caso, sui candidati che hanno superato la fase di screening, quindi
solo quelli che hanno superato la fase di selezione in senso stretto:

Per valutare la validità generale del processo di selezione, ma anche la capacità di retention dell’impresa, si
possono utilizzare diversi tassi:
- TURNOVER DEI NUOVI ASSUNTI: evidenzia quante persone che ho assunto sono poi uscite in un
determinato periodo di tempo, sul totale delle persone che ho assunto in quello stesso arco
temporale. Che cosa ci dice? Sicuramente ci dice che ci sono stati degli errori, che probabilmente io
ho selezionato dei “falsi positivi”, ossia delle persone che sembravano potessero contestualizzarsi
bene e che in realtà sono uscite in brevissimo tempo;

124
- TASSO DI SOPRAVVIVENZA: si usa per valutare la capacità di retention gli assunti in un
determinato tempo t, che sono ancora presenti in azienda al tempo t+1, sul totale degli assunti
nell’anno.
- INDICATORE DI CARRIERA: ci dà una misura di quante persone sono state promosse in quel
determinato arco temporale sul totale delle persone assunte. Cosa ci dice? Ci dice che tanto
accurata è stata la mia selezione, che io effettivamente sono riuscita a trovare delle persone che
poi effettivamente hanno avuto delle competenze talmente distintive e delle performamce
talmente elevate, che hanno ottenuto una promozione, quindi ho fatto una selezione
particolarmente accurata.

FASE 4: INSERIMENTO
È una fase molto delicata perché, una volta assunte le competenze potenziali sul mercato del lavoro,
dobbiamo riuscire a contestualizzarle bene, quindi ad instaurare una buona relazione, e la fase iniziale è la
più importante, tant’è vero che ne è responsabile, sicuramente, la funzione HR ma coadiuvata anche da
tutti i manager di linea, che devono riuscire poi a fare entrare nel ruolo il lavoratore.
Ci sono una serie di strumenti che le aziende possono utilizzare:
- Welcome Kit: una serie di documenti, di indicazioni (come ad esempio il codice etico, i valori di cui
si fa portatrice l’azienda), un welcome kit che appunto dia delle indicazioni preliminari a chi entra in
azienda e a come interpretare le varie attività, le varie politiche che sono messe in atto all’interno
dell’azienda stessa.
- Programmi di inserimento (on-boarding oppure di induction).
- Molte aziende eleggono un buddy che è una persona incaricata di contestualizzare una nuova
risorsa all’interno di un’organizzazione, quindi di creare un contesto lavorativo, di far conoscere i
colleghi, le usanze, di introdurlo a tutti i piccoli aspetti che poi caratterizzano la comunità
lavorativa.
- La figura del mentore, quindi le politiche di mentoring, sono sempre delle persone che vengono
affiancate ai neoassunti ma non per far entrare la persona all’interno dell’organizzazione ma per
farla entrare nel ruolo.

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- Colazione con l’AD: alcune aziende organizzano le colazioni con l’amministratore delegato, cioè c’è
un giorno in cui l’amministratore incontra i neoassunti, oppure c’è un giorno dedicato ad ognuno
dei neoassunti, oppure una chiacchierata informale nel suo ufficio.
- Incontri formativi con i manager.

Errori che si possono verificare nella selezione

Questa matrice che vedete, valuta l’accuratezza della selezione su due variabili: da un lato abbiamo il
successo lavorativo, e dall’altro la decisione di assunzione del candidato. Quando si parla di Falsi Negativi
abbiamo successo elevato, ma una scelta poco accurata. Che cosa significa? Che in presenza di falsi negativi
abbiamo delle persone che il processo di selezione non ha selezionato, quindi ha lasciato nel mercato del
lavoro e che però hanno dimostrato di avere esperienze nel lavoro, in altre aziende, di particolare successo,
quindi che si sono mostrate vere quelle competenze che avrebbero potuto costituire parte di quel valore
aggiunto della persona stessa. Falsi Positivi quando l’organizzazione seleziona delle persone che poi, di
fatto, hanno una performance molto bassa, e che o non riescono a mettere in campo quelle competenze
rilevate oppure non riescono ad inserirsi bene nel contesto lavorativo, quindi in questo caso è opportuno
monitorare se c’è una retention disfunzionale, cioè se questi falsi positivi tendono a non abbandonare
l’organizzazione, ma a restare dentro e magari a causare anche delle conflittualità interne. Invece Selezione
Accurata negli altri due quadranti, quando non assumo persone con performance di successo lavorativo
basse e quando invece assumo persone con performance elevate. Una selezione si definisce accurata
quando non assume persone che manifestano una buona performance lavorativa bassa, e assume invece
persone che manifestano un elevato successo lavorativo.
OUTPLACEMENT
La selezione si fa soltanto in entrata? NO. Un’azienda lungimirante tende a prestare particolarmente
attenzione anche alla selezione in uscita, cioè a capire i processi e le ragioni che portano le persone a
lasciare l’azienda. Si parla in questo caso, ad esempio, di interviste in uscita. Ci sono poi tutta una serie di
azioni che possono essere messe in campo, una serie di strumenti che possono supportare il cosiddetto

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Outplacement, quindi la fuoriuscita dei lavoratori, e possono essere o rivolti ai singoli individui oppure
collettive, queste ultime si usano solitamente nei casi di ristrutturazione aziendale, quando si hanno le
casse integrazione guadagni, e sono generalmente contrattualizzate con i sindacati, sono i sindacati stessi
che a volte offrono dei servizi di ricollocamento professionale. Quando invece si parla a livello individuale
generalmente si fa riferimento ad un supporto, una consulenza fornita dall’azienda di supporto psicologico,
di riqualificazione professionale (di formazione), e anche di supporto nel cercare nel mercato del lavoro, le
posizioni che più si confanno al profilo del lavoratore (quindi un servizio che potrebbe aiutare molto i
lavoratori in uscita).

LEZIONE 13

IL RAPPORTO DI LAVORO
Come comincia il rapporto di lavoro? Comincia con la stipulazione del contratto di lavoro individuale.
Questo contratto è un contratto particolare perché si definisce, in senso giuridico, un contratto
sinallagmatico, a prestazioni corrispettive, il che significa che fa sorgere per le parti 2 obbligazioni principali:
- In capo al lavoratore l’obbligazione di erogare una prestazione di lavoro manuale o intellettuale;
- In capo al datore quella di corrispondere la retribuzione pattuita.
Questa è quella che va a definire la prima dimensione delle relazioni nel rapporto di lavoro, ovvero quella
economica, relativa allo scambio. Perché è uno scambio basato sull’utilità economica? Perché il fattore
lavoro è un fattore della produzione che differisce dai beni di consumo, perché genera reddito in maniera
continuativa nel tempo. Questa è l’utilità economica per il datore di lavoro. In quanto fattore di produzione
può essere scambiato. Ecco perché la prima dimensione fa riferimento al rapporto di lavoro come scambio.
La seconda utilità economica è a favore del lavoratore ed è rappresentata dalla retribuzione. Quindi la
prima dimensione dello scambio caratterizza la dimensione economica, ed è basata sul reciproco vantaggio
economico dei due soggetti . Si dice che è uno scambio parziale, parziale perché il fattore lavoro non è un
bene di consumo, non può essere scambiato in un’ unica transazione, è un fattore che genera reddito in
maniera duratura nel tempo e fornisce un servizio continuativo nel tempo, quindi può essere di fatto
scambiato solo attraverso un contratto che non può essere completo ma sarà incompleto e implicito, ecco
perché è uno scambio parziale - non si esaurisce in un’ unica transazione (quindi non possiamo intenderlo
come scambio in senso stretto). Ecco perché la dimensione dello scambio in realtà non è sufficiente a
caratterizzare il rapporto di lavoro: poiché il fattore lavoro può essere scambiato soltanto mediante un
contratto implicito e incompleto, ciò vuol dire che non può prevedere tutte le fattispecie di prestazioni o
comportamenti che si verranno a creare nel tempo, ma che sarà il datore di lavoro ad esigerle. Questo
significa che vi è un'altra dimensione nel rapporto di lavoro, ovvero il potere del datore di lavoro di esigere
in un determinato modo e tempo la prestazione, potere legittimato dalla presenza della gerarchia aziendale
ecco perché la seconda connotazione è quella politica, cioè relativa all’ esistenza di rapporti di potere
nel contesto organizzativo che sono legittimati dalla presenza di uno strumento di coordinamento che è
quello della gerarchia, la quale permette di stabilire chi decide in situazioni di complessità a decidere
non sarà il lavoratore ma il datore di lavoro che riuscirà a completare le prestazioni richieste dal contratto
grazie alla possibilità di esercitare il suo potere: direttivo, disciplinare e di vigilanza e controllo. Ricordiamo
che quello direttivo è quello di richiedere che la prestazione sia svolta in determinati tempi e modalità,
quello di vigilanza e controllo è quello di monitorare che questo accada e il potere disciplinare è quello di
sanzionare comportamenti che deviano rispetto alle indicazioni date dal datore di lavoro.

127
Le relazioni di scambio e potere non sono sufficienti a connotare quello che è il significato del rapporto di
lavoro perché non basta che il fattore lavoro sia scambiato, non è una merce. Non è sufficiente soltanto
gestirlo quindi direzionarlo. È necessario, affinchè la prestazione sia davvero utile per il datore di lavoro,
che ci sia un’ ulteriore dimensione, cioè una predisposizione del lavoratore ad agire nell’ interesse dell’
impresa. La terza dimensione è quindi quella psicologica sociale e culturale, che è l’anticamera di quelle
che vengono definite le relazioni di condivisioni tra impresa e lavoratore.
Concentriamoci sulle prime due, le relazioni di scambio e potere, perché è proprio dalle asimmetrie che si
vengono a generare tra capitalista e lavoratore, che nascono le relazioni sindacali largamente intese come
relazioni industriali. Guardando soltanto le dimensioni di scambio e potere, succede che il lavoro viene
contrattato tra impresa e lavoratore e quindi è oggetto di una transazione individuale tra essi. Inoltre il
rapporto di lavoro che si istituisce determina una situazione in cui è il lavoratore ad assorbire il potere del
datore. Questo crea una certa asimmetria tra le parti forti, cioè le organizzazioni, e i lavoratori.
LE RELAZIONI INDUSTRIALI
Secondo i coniugi Webb, che sono tra i fondatori del concetto di relazioni industriali , le relazioni di lavoro
nascono da squilibrio di reciprocità che si crea nelle transazioni individuali tra lavoratore e impresa. Cosa
dicono i coniugi Webb? Se il lavoro salariato è uguale agli altri contratti di compravendita perché ci si
aspetta dai lavoratori che non soltanto lavorino, ma che abbiano un comportamento, una certa deferenza
nei confronti del loro datore di lavoro. Questo ad oggi potremmo interpretarlo perché dal fattore lavoro
diciamo sono richiesti una serie di connotazioni anche di dimensioni più culturale sociale e psicologica che
ad altri fattori della prodizione non sono richiesti e c’era un autore, Plus Kaufman, che appunto diceva è
questo quello che connota il fattore lavoro rispetto a tutti gli altri fattore di produzioni, ecco perché non
esistono relazioni della terra o del capitale ma soltanto di lavoro, perché il lavoro per sua natura viene
esplicitato verso l’agire umano, è l’uomo che lo direziona e di fatto questa connotazione umana che lo
innesta in un sistema di relazioni. È da questa assenza di reciprocità che nascono le relazioni industriali
secondo i coniugi Webb.
Vediamo il significato delle relazioni industriali: le relazioni implicano che non esiste uno scambio, che
avviene in un'unica volta, ma presuppongono un rapporto continuativo nel tempo, e di natura volontaria (i
sindacati volontariamente parlano con le imprese che volontariamente le ascoltano per cercare di
raggiungere un accordo questo è il primo tratto che porta alla nascita di tali relazioni, sostanzialmente il
riconoscere lo squilibrio di reciprocità e l’impegno dei coniugi Webb e di chi ha seguito il loro lavoro che era
quello di riconoscere un diritto politico, attraverso il riconoscimento dei sindacati, a quella reciprocità,
quindi non soltanto reciprocare l’utilità economica ma i singoli diritti di partecipare ai tavoli e stabilire le
regole con cui il lavoro va scambiato). Si dice che nel tempo le relazioni industriali sono nate anche perché
si è passati da una logica di individualismo economico, in cui il lavoro era una merce scambiata al prezzo di
mercato, ad una logica di democrazia industriale che non soltanto permetteva ai lavoratori di partecipare ai
tavoli della definizione degli accordi, ma che potessero farlo anche mediante rappresentanza, ossia
mediante associazione sindacale. Ecco l’aspetto relazionale, viene riconosciuta la possibilità ai lavoratori di
associarsi e mettersi in relazione, sullo stesso livello dell’ impresa, in maniera continuativa nel tempo e su
base volontaria. Il termine industriale è in realtà una traduzione dell’industrial relations (termine
anglosassone) poiché le relazioni industriali nascono in fabbrica , le relazioni sindacali nascono in Inghilterra
nella rivoluzione industriale nel 1824. Però noi ad oggi intendiamo le relazioni industriali in senso più ampio
quindi industries più come settori che come industria manifatturiera.
Accostando questi due termini due giuristi Cella e Treo nel 1986 hanno dato una definizione univoca di cosa
si intende per relazione industriale (o relazione sindacale): “un’attività di produzione di norme relativa
128
all’impiego del fattore lavoro e alle controversie che possono nascere dall’ impiego di tale fattore che si
svolge tra soggetti collettivi che rappresentano gli interessi delle parti coinvolte (quindi associazioni datoriali
da un alto e sindacati dall’ altro)”. Questo significa che il contratto di lavoro individuale con cui parte il
rapporto di lavoro non è avulso dall’intero sistema in cui nasce ma è innestato in un contesto di norme,
contratti, regole molto più ampio, che si definisce sistema di transazioni di lavoro. Queste regole vanno a
regolare lo scambio del fattore lavoro.

Quindi il contratto di lavoro individuale si innesta in tale sistema più ampio fatto di soggetti collettivi, attori
sindacali , negoziazioni e norme e regole che si determinano con accordo tra le parti. Si parte dal contratto
individuale di lavoro, che è stipulato tra impresa e lavoratore (è la tipica transazione individuale in cui
abbiamo solo due soggetti - datore e lavoratore). Contemporaneamente il lavoratore può stipulare un’ altra
relazione con il sindacato di riferimento, ossia una transazione individuale tra sindacato e lavoratore
(significa che il lavoratore da mandato al sindacato di fabbrica, tipicamente alle rappresentanze sindacali
aziendali ma anche a livello categoriale pensate alle confederazioni, affinché il sindacato rappresenti i suoi
interessi nei tavoli delle trattative contrattuali). I sindacati aziendali, così come le imprese, si aggregano, si
associano a sindacati di più ampia portata, a livello categoriale o nazionale, mediante una associazione di
interessi questo è il terzo livello delle transazioni. Quando tali livelli parlano tra loro, cioè quando i
sindacati parlano con le associazioni datoriali a livello di categoria o intercategoriale, abbiamo le transazioni
collettive, che si definiscono così perché fatte da soggetti collettivi. Quindi transazione individuale tra
lavoratori e impresa, tra lavoratore e sindacato, e collettive tra associazioni che rappresentano interessi
delle parti, quindi sindacati dei lavoratori e associazioni datoriali.
All’ interno del sistema di transazioni poi vi è un terzo attore che è lo Stato. Come agisce in questo sistema?
Da un lato definisce le leggi che sono l’ ambito all’ interno del quale vengono regolati i rapporti tra sindacati
dei lavoratori e associazioni datoriali nonché i rapporti tra impresa e lavoratori. Da un altro lato lo Stato ha

129
anche un ruolo di mediatore perché partecipa ai tavoli della concertazione nei c.d. accordi triangolari, cioè
fa da mediatore tra le esigenze delle parti nonché come portatore di interesse proprio.
Vediamo come dalla stipulazione di un semplice contratto di lavoro , in realtà esiste un sistema a monte
che porta alla regolazione delle parti normative e retributive che caratterizzano la nostra lettera di
assunzione.
Ora possiamo definire i sistemi di transazione di lavoro come l’insieme di tutti quei rapporti economici,
organizzativi, culturali, politici che intercorrono tra l’impresa e il lavoratore, in maniera singola o collettiva.
Tutto questo insieme di rapporti tra le parti è regolato all’ interno di un quadro sia dalle norme prodotte
dallo stato legislatore sia dalle norme prodotte dal sistema stesso, ossia relative ai contratti collettivi che si
vengono a generare dalla contrattazione collettiva.
Chi agisce in questo sistema di transazioni di lavoro? Studieremo i diversi attori: il sindacato, le associazioni
datoriali, lo Stato. In che modo loro agiscono in questo sistema di transazioni di lavoro? Studieremo i
processi negoziali. Infine vedremo i risultati, cioè quali tipi di norme sono prodotte e qual è la gerarchia tra
queste norme.
Cominciamo con i lavoratori e i sindacati dei lavoratori – PARTE GIURIDICA.
Da un punto di vista giuridico il sindacato non ha una definizione nel nostro ordinamento, però è
disciplinato dall’art.39 della Costituzione che sancisce la libertà di associazione sindacale. Questo articolo è
importante perché nei tre comma successivi definisce il modo in cui deve operare il sindacato e gli elementi
che ne caratterizzano la rappresentatività, cioè la sua capacità di poter avere il mandato e quindi agire in
nome e per conto degli iscritti al sindacato e stipulare i contratti collettivi.
Cosa dice l’art. 39? L’associazione sindacale è libera, è un principio fondamentale riconosciuto ai lavoratori
e ai cittadini; secondo che non c’è obbligo altro per i sindacati che quello della registrazione la
registrazione deve essere effettuata presso dei pubblici uffici e può essere riconosciuta soltanto se il
sindacato è manifestamente organizzato su base democratica (l’unico requisito per il riconoscimento e per
la registrazione negli uffici pubblici da parte del sindacato è l’ordinamento democratico al suo interno). Una
volta avuto il riconoscimento e la registrazione su pubblici uffici, il sindacato acquisisce personalità
giuridica, e quindi autonomia patrimoniale perfetta. Soltanto in questo caso ha il mandato e quindi la
rappresentatività per poter stipulare contratti collettivi nazionali del lavoro con efficacia erga omnes, cioè
con efficacia rispetto a tutti i lavoratori.
Il grande problema di questa norma è che, a parte il primo comma, tutti i requisiti relativi alla registrazione
in realtà sono rimasti incompiuti per 60 anni, fino al 2011. Nel 2011 è stato stabilito come vedremo il
criterio per determinare la rappresentatività dei sindacati e quindi la loro capacità di stipulare contratti erga
omnes. Prima i sindacati non erano registrati, quindi seguivano un po’ quelle che erano le norme per le
associazioni non riconosciute (articoli 36 e successivi codice civile), e questo comportava che quelle norme
erano scritte per piccole associazioni, occasionali, ma non per sindacati che poi hanno raggiunto dimensioni
vaste, quindi per anni c’è stato un sistema molto precario di produzione di norme che di fatto ogni volta
erano contestuali. Che cosa ha determinato questa mancata attuazione per così tanto tempo? Le norme
venivano prodotte, anche se il sindacato non era legittimato in quanto non ritenuto rappresentativo,
perché non erano registrati, non era garantita la base democratica, allora cosa succedeva ? Le imprese
reclamavano continuamente la contrattazione in virtù del fatto che in realtà i sindacati non avendo
personalità giuridica, non avessero mandato per stipularli, e quindi si veniva a creare il solito conflitto fra
autonomia collettiva, cioè la capacità di stipulare delle norme da parte del sindacato in maniera autonoma,
e l’autonomia individuale, cioè la capacità delle imprese di poter stipulare contratti aziendali che esulassero
130
dal contratto collettivo nazionale del lavoro. Sostanzialmente come associazioni non riconosciute inoltre i
sindacati gestivano i propri patrimoni mediante fondo comune, un fondo indivisibile rispetto al quale poi di
fatto rispondevano i soci in maniera solidale anche questo impattava molto, l’autonomia patrimoniale
imperfetta, sul funzionamento e svolgimento delle attività del sindacato.
Il contratto collettivo è lo strumento, il risultato più alto di quella che è l’attività sindacale. Il contratto
collettivo che può essere stipulato a livello nazionale, quindi contratto collettivo nazionale del lavoro, e a
livello più decentrato, quindi sia contratti territoriali che aziendali. Tipicamente il CCNL è un contratto in cui
vi sono due parti, una normativa che disciplina le condizioni del lavoro (le ferie, i permessi, periodo di
prova, maternità, ecc..) e una parte retributiva che disciplina gli scatti salariali, i minimi salariali e le varie
parti della retribuzione che si aggiungono ai minimi salariali.
La contrattazione decentrata inizialmente non era prevista all’interno del nostro ordinamento, l’abbiamo
recepita anche grazie a esperienze europee, come Germania, ed è un tipo di contrattazione che si può
verificare a livello territoriale, quindi regionale o provinciale, oppure a livello della singola azienda, però
fino al 1993 non era prevista dal nostro ordinamento. Come incentivare allo sviluppo della contrattazione
decentrata? Perché è importante la contrattazione decentrata di secondo livello? Perché rispetto alle
norme che generalmente sono concordate dai sindacati a livello nazionale (per esempio cgl,uil,cisl che
parlano con confindustria , con conf esercenti, conf commercio), i contratti collettivi territoriali e aziendali
riescono a tenere più in conto quelle che sono le esigenze dei territori e delle singole aziende, e quindi
sostanzialmente si chiedeva al legislatore di normare la contrattazione decentrata in modo da poter
derogare alla contrattazione collettiva nazionale, poter utilizzare delle norme che potessero agevolare in
qualche modo le esigenze del territorio e delle singole imprese. Il legislatore non ha tardato ad intervenire
e sono stati sviluppati diversi accordi tra i sindacati, accordo del 1993, del 2009 e 2011 che avevano come
oggetto principale quello di favorire la diffusione della contrattazione collettiva.
Vediamo bene l’evoluzione.
Accordo 23 Luglio 1993
Che cosa succede nell’accordo del 1993? Prima cosa importante: viene introdotta la contrattazione
correttiva a livello decentrato, che prima non c’era perché tutta la contrattazione era accentrata a livello
nazionale. Questa introduzione viene supportata dalla previsione di una serie di norme che avrebbero
dovuto contribuire allo sviluppo di questa contrattazione mediante previsione di detassazioni o
decontribuzioni rispetto agli aumenti di produttività dovuti all’introduzione di queste nuove norme. I due
livelli , quello nazionale e decentrato, erano integrativi, nel senso che quello decentrato a livello territoriale
e aziendale doveva integrare, cioè poteva normare solo sulle materie non già regolate dal contratto
collettivo nazionale del lavoro. A livello nazionale la durata del contratto collettivo nazionale del lavoro era
suddivisa in: 2 anni per la parte retributiva , ricordiamo vi era la scala mobile, quindi era necessario e
importante rinnovare in brevi periodi gli aumenti salariali (quindi gli adeguamenti anche all’inflazione) e di
4 anni invece per la parte normativa che disciplina tutte le condizioni del lavoro.
Un'altra introduzione importante di questo accordo fu l’introduzione per la prima volta delle
rappresentanze sindacali unitarie, che sono delle rappresentanze sindacali all’interno dell’azienda che
fanno confluire in un unico rappresentante gli interessi delle varie sigle sindacali (quindi non abbiamo dei
rappresentanti per ogni sigla sindacale ma dei rappresentanti unitari che quindi rappresentano gli interessi
di tutti i lavoratori, anche se iscritti in sigle sindacali diverse, e che hanno mandato per stipulare contratti
collettivi a livello decentrato, quindi per parlare sostanzialmente con le imprese per stipulare gli accordi a
livello decentrato). Perché è importante l’accordo del 1993 ? Per la prima volta viene introdotto il livello

131
decentrato di contrattazione, quindi era possibile stipulare degli accordi che appunto normassero materie
che non rientrassero nel contratto collettivo nazionale del lavoro, e c’è l’introduzione delle rappresentanze
sindacali unitarie che avevano il mandato per parlare con aziende e stipulare accordi a livello decentrato.
Differenze tra RSU e RSA
Le rappresentanze sindacali unitarie (RSU) non sono da confondersi con le rappresentanze sindacali
aziendali (RSA):
- Le rappresentanze sindacali aziendali sono previste per legge, dall’articolo 19 dello Statuto dei
Lavoratori, che è la legge 300 del 1970. Lo statuto dei lavoratori è l’insieme delle norme che
rappresentano il frutto delle lotte sindacali a partire dagli anni ‘60 in poi, fino agli anni ‘70 . Le
rappresentanze sindacali unitarie, invece, nascono in virtù di contrattazione collettiva, quindi
accordo interconfederale del 1993.
- Le rappresentanze sindacali aziendali, dice l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, possono essere
stipulate (quindi sono sostanzialmente delle rappresentanze aziendali che ogni sindacato istituisce),
mentre le rappresentanze sindacali unitarie convogliano le rappresentanze in maniera unitaria delle
diverse sigle sindacali, qui ogni sigla sindacale ha la sua rappresentanza sindacale aziendale.
L’articolo 19 dello statuto dei lavoratori dice “le rappresentanze sindacali e aziendali possono
essere stipulate solo se aderiscono alle confederazioni nazionali maggiormente rappresentative,
quindi se aderiscono alle confederazioni ad esempio cgl cisl e uil e la lettera b dell’ articolo 19
diceva che possono essere istituite le rappresentanze sindacali aziendali che fanno riferimento ad
associazioni sindacali che sono firmatarie degli accordi stipulati a livello nazionale, quindi i contratti
collettivi stipulati a livello nazionali applicati nella fabbrica o nello stabilimento. Che cosa significa
questo? È molto limitata la rappresentanza sindacale di quei sindacati, come i Cobas, che possono
nascere in maniere autonoma e che ne fanno riferimento a confederazioni, ne tanto meno sono
firmatarie dei contratti collettivi a livello nazionale, perché non avendo un associazione sindacale
che li rappresenti a livello nazionale non possono istituire rappresentanze sindacali a livello
aziendale. Infatti questa articolo è stato poi riconosciuto incostituzionale nel 2013 nella sentenza
231 del 2013. È stata sancita l’ incostituzionalità perché di fatto andava a limitare molto la libertà
di associazione sindacale e da quel momento, dal 2013, le rappresentanze sindacali aziendali
possono essere istituite anche soltanto se fanno riferimento ad associazioni sindacali che hanno
fatto parte della trattativa, quindi anche se poi non hanno firmato il contratto collettivo del lavoro
ma hanno solo collaborato nella fase di trattativa. Infatti la Fiom all’epoca del rifiuto dell’accordo
con Fiat che cosa disse? Disse che il mandato del sindacato non è soltanto firmare il contratto
collettivo ma prendere parte alle trattative e poi anche rifiutarsi di firmare il contratto collettivo se
le esigenze dei lavoratori con il contratto non sono soddisfatte oppure se quei contratti vanno a
ledere i diritti dei lavoratori. Quindi diciamo dal 2013 si ha un sistema molto più aperto alle
iniziative sindacali che nascono anche più dal basso, pensate tipicamente alla Cobas.
Questa è una piccola digressione per far capire differenze tra rappresentanze sindacali unitarie, che sono
demandate alla contrattazione collettiva decentrata, e quelle invece aziendali previste per legge dall’
articolo 19, dichiarato poi incostituzionale e che è stato modificato in entrambe le sue lettere.
Accordo separato del 22 gennaio del 2009
Già “separato” ci fa capire che in realtà si viene a creare un sistema doppio. Che cosa succede? Ci si rende
conto che nonostante sia stata introdotta nel 1993 la contrattazione a livello decentrato, tale
contrattazione non riesce a diffondersi, anche un po’ per la cultura tipicamente italiana che è poco basata

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sul raggiungimento degli obiettivi di produttività, soprattutto negli anni ‘90. Allora nel 2009 si decide di fare
un accordo per dare maggiore slancio alla contrattazione a livello decentrato. Qual era il problema
principale? Sostanzialmente si poteva normare a livello di contrattazione collettiva decentrata ma soltanto
o su materie che non erano già regolate dal contratto collettivo nazionale oppure derogando il contratto
collettivo nazionale ma soltanto in meglio. Invece l’Accordo del 2009 introduce un’importante innovazione:
per la prima volta viene accordato tra le parti che era possibile istituire dei contratti a livello decentrato che
derogassero anche in peggio le condizioni stabilite nel contratto collettivo nazionale del lavoro, in caso ad
esempio di ristrutturazioni aziendali o in caso di progetti di investimento, o di rinnovamento industriale. In
tal caso la Cgil uscì dai tavoli della contrattazione, ecco perché si parla di accordo separato, perché fu
firmato dalle confederazioni principali come confindustria cisl e uil e invece fu rigettato dalla Cgil,
dall’associazione bancaria italiana, dalla Lega cooperative, dall’associazione nazionale delle imprese
assicuratrici. A quel punto si venivano a determinare due sistemi: c’era un sistema di contrattazione
decentrata che faceva riferimento all’accordo del 1993, e un livello del 2009, che prevedeva anche delle
modifiche in termini di durata a questa diversa contrattazione Per il livello nazionale fu fatta una media
tra la parte normativa e retributiva, non c’era più distinzione di durata (tutte e due le parti rimanevano
valide per tre anni, dopo di che era necessario avviare il rinnovo del contratto sindacale. Invece nel secondo
livello c’era sempre una durata di 3 anni.
Quindi l’innovazione introdotta: nel 2009 si da la possibilità alla contrattazione decentrata di derogare in
pejus al contratto collettivo nazionale del lavoro e a questo punto la cgil esce dai tavoli, non sottoscrive
l’accordo. Accordo separato perché abbiamo 2 sistemi in essere di contrattazione decentrata: da un lato
quello dell’ accordo del 1993, dall’ altro quello del 2009.
Accordo interconfederale del 28 Giugno 2011
Cosa succede nel 2011? La Cgil torna a contrattare perché nel frattempo numerose imprese avevano
lasciato l’Italia, molte si erano direzionate verso la Polonia e anche Marchionne aveva deciso di spostare la
produzione in Polonia se non avesse potuto sottoscrivere quel contratto che poi fu oggetto il referendum.
Che cosa succede ? I sindacati stessi cominciano a capire che è importante cominciare ad ascoltare anche le
esigenze delle imprese perché i mercati cambiano, competere diventa più difficile e bisogna venirsi
incontro, ma non nell’interesse della sola impresa ma dell’ impresa che sopravviva e mantenga vivi anche i
posti di lavoro. Quindi che cosa succede nell’ accordo del 2011? Si arriva ad un compromesso ovvero è
possibile derogare al contratto collettivo nazionale soltanto in caso di crisi oppure di ristrutturazione
aziendali e comunque lasciando alle parti sindacali, e non alla singola azienda, il compito e il mandato di
stabilire in che modo e quali termini inserire all’interno di questa contrattazione decentrata. Viene inserito
nel 2011 anche la detassazione al 10% dei salari di produttività che vengono raggiunti tramite questi
accordi decentrati, che rimarrà per molto tempo per agevolare da un punto di vista economico e fiscale la
messa in atto dei contratti al livello decentrato. Inoltre proprio per garantire la massima trasparenza ed
equità viene data la possibilità ai lavoratori di indire un referendum, perché poteva succedere che si
stipulava un contratto aziendale però questo contratto non era firmato da tutte le sigle presenti in azienda
quindi in tal caso succedeva che parte dei lavoratori potevano non soggiacere a tale contratto, quindi si
venivano a creare altri due sistemi in azienda e quindi è stato stabilito che i contratti aziendali possono
essere sottoposti a referendum. Se si supera il referendum allora quel contratto vale per tutti i lavoratori
dell’azienda in cui tal contratto è applicato, indipendentemente dal fatto che appartengono al sindacato
che ha sottoscritto o meno il contratto stesso.
Ultima novità del 2011 è in materia di rappresentatività che ancora non era stata risolta. Nel 2011 viene
stabilito un criterio per misurare la rappresentatività su due dati: su un dato associativo e su un dato
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elettorale. Il dato associativo indica quanti iscritti ha il sindacato come si fa a vedere quanti iscritti ci
sono in un sindacato? Attraverso le Uni- EMENS: le imprese, quando un lavoratore aderisce ad un sindacato
deve una quota sindacale, ad esempio due euro al mese, alla fine del mese le aziende devono denunciare i
contributi che hanno versato in nome dei lavoratori e quindi inviano delle denunce contributive all’Inps
attraverso queste sigle che si chiamano Uni- EMENS, che rappresentano tutte le denunce contributive che
le aziende inviano all’Inps. In queste rientrano appunto i contributi che sono trattenuti al lavoratore in
busta paga e che devono essere versati al sindacato. In tal modo si riesce a capire, su una base abbastanza
oggettiva, quanti associati ha un sindacato, attraverso le denunce Uni- EMENS che inviano mensilmente le
imprese all’Inps. Questo dato associativo però deve essere ponderato per un dato elettorale, cioè quanti
voti ha ricevuto la sigla nel momento in cui sono state elette le rappresentanze sindacali unitarie. Questo
come si fa a vedere? Grazie al Cnel, a cui le confederazioni inviano i dati rispetto alle elezioni delle
rappresentanze sindacali unitarie. Quindi si prende il dato associativo, si pondera per il dato elettorale e si
misura la rappresentatività; si dice che un sindacato è rappresentativo, cioè ha mandato per stipulare
contratti collettivi nazionali, se supera il 5% del numero dei lavoratori che appartengono ad una
determinata categoria, per il quale il sindacato si propone in rappresentanza.
Dopo questa digressione giuridica, torniamo sull’organizzazione e sulla definizione organizzativa del
sindacato inteso come associazione che rappresenta in forma organizzata gli interessi dei lavoratori o dei
datori di lavoro. In questo caso ci concentriamo sui lavoratori.
---- fine PARTE GIURIDICA ----
SINDACATO DEI LAVORATORI
I sindacati possono agire a livello accentrato o decentrato. Nella struttura delle organizzazioni sindacali
troviamo due livelli principali: un livello verticale che viene definito anche di categoria. Cosa significa?
Associazione che tutela gli interessi dei lavoratori che appartengono ad una categoria (ad esempio il
sindacato dei metalmeccanici, dei ferrovieri, dei chimici, sindacato dei ricercatori e cosi via); un’altra
dimensione è quella orizzontale (o intercategoriale), cioè delle organizzazioni sindacali che tutelano gli
interessi dei lavoratori su scala nazionale, regionale, provinciale, quindi a diversi livelli in maniera
intercategoriale, cioè producono norme che poi avranno valore per tutti i lavoratori senza distinzione di
categorie ma soltanto a livello di ampiezza territoriale, quindi a livello nazionale, territoriale, provinciale
oppure confederale.
Dal punto di vista degli obiettivi dell’azione sindacale abbiamo:
- Dimensione salariale: l’obiettivo principale del sindacato è quello di contrattare il salario;
- Dimensione normativa: contrattare le condizioni di lavoro, quindi tutto ciò che riguarda ferie,
permessi, malattie, maternità, paternità aspettativa e cosi via;
- Dimensione politica: aggregare gli interessi dei lavoratori che condividono la stessa ideologia
politica di cui il sindacato è portatore. Questo obiettivo sicuramente era prevalente all’origine della
funzione sindacale. Adesso sta venendo sempre meno la dimensione politica. Il fattore aggregante
non è tanto l’ideologia politica quanto invece gli interessi dei singoli associati.
In base a come agisce il sindacato (a livello più accentrato o a livello decentrato, e in base agli obiettivi
principali se vuole contrattare il salario oppure più la parte normativo o se agisce in nome di un’ideologia
politica), possiamo distinguere due forme di sindacalismo: il sindacalismo di competizione e il sindacalismo
di controllo. Qual è la differenza principale? Il sindacalismo di competizione tende sostanzialmente a
tutelare degli interessi di piccoli gruppi di lavoratori che sono omogenei tra di loro, quindi agisce a livello
molto decentrato, a livello anche di singole imprese, e il loro principale obiettivo è quello di contrattare il
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salario, quindi di massimizzare il guadagno per i lavoratori che lavorano per l’azienda. Pensate in tal caso ai
Cobas, che generalmente sono tipici delle rappresentanze dei settori secondari del mercato del lavoro, in
cui le mansioni sono molto ripetitive oppure mansioni poco ricche e salari bassi, lavori molto saltuari, e
lavorano sostanzialmente come comitati di base perciò Cobas, comitati di base, e sono gruppi di lavoratori
autonomi che non sono inseriti in un’organizzazione verticistica e lavorano dal basso quindi
rappresentando l’interesse dei lavoratori dal basso (rappresentano i primi comitati di fabbrica prima che si
strutturasse in tal modo il sindacato in realtà prima lavorava cosi, partendo dal basso e difendendo gli
interessi dei singoli gruppi di lavoratori). Quando invece la rappresentanza si sposta a livello di settore
primario, in tal caso si parla di professionalità con un potere contrattuale più ampio, come in caso dei
sindacati dei piloti, che hanno un forte potere nell’ambito della contrattazione perché sono gli stessi piloti
ad avere un forte potere contrattuale, sono pochi , hanno competenze e caratteristiche parecchio elevate e
quindi possono sviluppare un certo potere contrattuale.
Il sindacato di controllo agisce in maniera del tutto opposta, ovvero a livello assolutamente accentrato
perché non va a difendere gli interessi di piccoli gruppi di lavoratori, ma ha un compito più ampio ovvero
quello di difendere la più ampia categoria dei lavoratori generale, non quella dei ferrovieri, non quella dei
piloti, ma quella dei lavoratori in generale e quindi l’obiettivo in questo caso sicuramente attiene alla sfera
più normativa, quindi contrattare le condizioni di lavoro uguali per tutti i lavoratori oppure quella politica,
quando per esempio il sindacato si siede ai tavoli concertazione per contrattare i piani di sviluppo
economico e sociale.
Tendenze evolutive
Negli ultimi anni il ruolo del sindacato sta molto cambiando perché cambia la composizione del mercato del
lavoro: si pensi al rinnovato potere contrattuale di molte classi di lavoratori come i knowledge-worker o se
pensate al mercato dei manager, degli amministratori, che è un mercato che ha un forte potere
contrattuale nonché forti retribuzioni. Molti affermano che il ruolo del sindacato stia pian piano morendo
perché si è giunti ad un livello di saturazione dei diritti; altri con cui mi sento di concordare, invece
affermano che proprio nel momento in cui si fanno avanti tali concezioni è bene tener gli occhi aperti e non
mollare mai la corda, è proprio in tali momenti di modificazione del mercato del lavoro che è importante la
presenza del sindacato magari spostandone il focus, magari non a garanzia di quelle classi operaie o
impiegatizie che hanno un lavoro e che hanno dei diritti ma spostando il focus verso quelle classi che oggi
popolano il mercato del lavoro come lavori più saltuari, intermittenti che passano per il settore secondario
del lavoro prima di passare al settore primario e cosi via.
Queste modifiche hanno anche un impatto sul tipo di azione che poi di fatto esplica il sindacato: più che di
risoluzione del conflitto industriale è un sindacato che si è molto devoluto all’erogazione dei servizi per i
suoi iscritti, sicuramente vi è capitato di vedere dei caf che appunto hanno delle sigle sindacali ,sono
appunto dei servizi che i sindacati offrono anche gratuitamente ai propri iscritti, alle proprie famiglie
oppure altri servizi che erogano sono quelli relativi alla formazione, alle politiche attive per l’occupabilità
dei lavori, in questo caso sono molte le esperienze che vedono i sindacati mettersi in partnership con le
associazioni datoriali, nei c.d. enti bilaterali, per definire insieme le politiche di formazione da attuare in
modo da formare dei profili professionali che possono essere proficuamente messi sul mercato del lavoro e
possono essere davvero utili per le aziende.
Tipologie di rappresentanza del Sindacato dei lavoratori
Per quanto riguarda il tipo di rappresentanza si suole fare una differenza tra rappresentanza per
rispecchiamento e rappresentanza per l’azione.

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- La rappresentanza per rispecchiamento: è un tipo di rappresentanza che riesce a garantire la tutela
dei diritti dei lavoratori perché li si conosce molto bene perché essi sono omogenei, infatti è tipico
dei sindacati di competizione (generalmente tali sindacati hanno un tipo di rappresentanza che è
per rispecchiamento); in questo caso non serve interpretare i bisogni, li si conosce bene, perché i
sindacati di competizione operano a livello decentrato, sono vicini ai lavoratori quindi sanno bene
quello di cui hanno bisogno, ecco perché “per rispecchiamento”.
- Diversa è la rappresentanza per l’azione: è un tipo di rappresentanza più politica che non può
essere assolutamente basata sul rispecchiare i bisogni ma che richiede necessariamente una
interpretazione dei bisogni dei lavoratori, e come avviene questa interpretazione dei bisogni?
Tendenzialmente attraverso l’affinità politica che si ha. Se il gruppo dei lavoratori ha una certa
affinità politica allora il sindacato che ha la stessa riesce bene ad interpretarli, ecco perché questo
tipo di rappresentanza è tipico dei sindacati che operano a livello più alto e che fanno della
dimensione politica e normativa il loro principale obiettivo.
LE ASSOCIAZIONI DATORIALI
Rappresentano in forma organizzata e collettiva i datori di lavoro e tutelano i loro interessi negli accordi
triangolari, categoriali, intercategoriali.
Troviamo una struttura organizzativa che si articola su più livelli:
- Dimensione verticale: sempre riferito alla categoria, per esempio l’unione delle aziende
dell’industria (Confindustria a livello confederale), l’unione delle aziende per il commercio
(Confesercenti oppure Confcommercio), oppure quelle delle aziende agricole (Confagricoltura). La
comunanza è sempre la “conf”, confederazione.
- Dimensione orizzontale: tutela gli interessi delle aziende in maniera trasversale, quindi non di
categoria, a diversi livelli (livello territoriale oppure nazionale).
Gli obiettivi dell’azione dell’associazione datoriale possono essere diversi:
- Rappresentanza e lobby: uno degli obiettivi principali delle associazioni datoriale è quello di unire
le forze per riuscire a fare pressione sugli organi legislativi e decisionali in modo da poter ottenere
delle norme che agevolino la loro attività produttiva.
- Imprenditorialità collettiva: unire sempre gli sforzi e le forze per progettare insieme dei piani di
sviluppo economico e di sviluppo sociale. Imprenditorialità collettiva = imprenditorialità che ha
degli obiettivi nel progresso economico e sociale della collettività.
- Garantire servizi professionali: ad esempio molte associazioni datoriali garantiscono supporto alle
imprese nel momento in cui devono contrattare con i sindacati aziendali oppure a livello territoriale
dei contratti collettivi decentrati, oppure quando per tutta la gestione operativa del personale
quindi anche in tema di amministrazione del personale, o anche supporto informativo cioè grazie
alle associazioni datoriali le imprese sono sempre aggiornate sulla possibilità ad esempio di
partecipare a bandi europei, o anche a livello nazionale.
- Partecipare alle transazioni collettive e porre in essere la contrattazione.

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Come si comporta l’azienda sui tavoli della contrattazione? Le politiche contrattuali e di negoziazione con i
sindacati sono influenzate dalla concezione dell’impresa che hanno tali associazioni, ossia dall’idea che
hanno del potere affidato all’impresa. Ci sono nel panorama organizzativo due concezioni:
- Concezione unitaria: quando le associazioni datoriali utilizzano una concezione unitaria
dell’impresa sostanzialmente si sta dicendo che vedono il potere dell’ impresa derivare da un'unica
fonte di legittimazione, tendenzialmente il valore degli azionisti (shareholders), e quindi la capacità
di creare profitti. In questo caso come si pone l’impresa sui tavoli della contrattazione? Si pone in
maniera estremamente dura e conflittuale, adotta una logica esclusivamente transazionale, cioè il
conflitto è una transazione da risolvere, il lavoro è una transazione da portare a temine, e tutto il
potere all’interno del tavolo, tutte le risorse che acquisisce il sindacato l’azienda le interpreta come
tolte a se stessa, quindi è un conflitto distributivo, cioè a somma 0, ciò che prende l’impresa lo
toglie al sindacato, ciò che prende il sindacato è tolto all’impresa. Capite come su questi tavoli
contrattare può diventare molto difficile, vedremo poi nei processi negoziali cosa succede, e
tipicamente è una fase di stallo in cui le due parti hanno sempre paura di fare la prima mossa.
- Concezione pluralistica che deriva dallo studioso Fox che è il teorico per eccellenza del pluralismo.
La prospettiva pluralistica ha una concezione del potere come legittimato da diversi attori, quindi la
fonte del potere non è unitaria, ma proviene da diversi attori (stakeholders), cioè bisogna porre
attenzione a tutti i portatori di interesse (ai lavoratori, all’ambiente esterno, ai fornitori, ai
sindacati) perché è da ciascuno di essi che deriva una parte del potere e quindi di legittimazione
anche sociale dell’impresa. In questo caso l’azienda sicuramente adotta un atteggiamento più
integrativo al conflitto, si parla di conflitto integrativo, in cui l’azienda riesce a concepire che
ascoltare i bisogni del sindacato, scendere a compromessi con il sindacato, non è un gioco a somma
0 ma può dare un valore maggiore, e quindi anche un maggior controllo sulle risorse stesse (se io
riesco ad accattivarmi il sindacato, in un certo modo comunque riesco anche a controllare quella
risorsa perché entrambe siamo adesso vincolati, quindi è anche un modo per vincolare la
controparte).
LEZIONE 14
LO STATO
Lo Stato è il terzo attore nel sistema di transazioni di lavoro.
Lo Stato svolge un triplice ruolo nei sistemi di transazioni di lavoro:
- È un datore di lavoro del comparto pubblico, quindi stabilisce gli standard del mercato del lavoro;
inoltre, essendo datore di lavoro pubblico, partecipa ai tavoli di concertazione con i sindacati dei
lavoratori pubblici per contrattare le condizioni da garantire ai lavoratori pubblici.
- Svolge il ruolo di legislatore ovvero legifera affinché siano normate tutte le casistiche e le
controversie che possono nascere circa l’impiego della forza lavoro e nel rapporto tra i sindacati e
le associazioni datoriali, quindi detta le norme che regolano non solo l’impiego del fattore lavoro
ma anche le relazioni sindacali (quando si parlano soggetti collettivi tra di loro); ed inoltre in qualità
di legislatore decide anche la politica fiscale che impatta sull’attività di imprese e lavoratori. Oltre a
ciò, lo Stato decide anche la politica occupazionale: in questo caso può decidere di adottare
un’ottica produttiva, volta a tutelare gli interessi dello sviluppo economico del paese, o un’ottica
assistenzialista, volta a tutelare lo sviluppo sociale del paese.

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- Mediatore: lo Stato fa da intermediario nel momento in cui i sindacati si siedono ai tavoli della
concertazione, e cerca di tutelare contemporaneamente gli interessi delle parti e del sistema nel
suo complesso.
Nello svolgere questo ruolo può assumere due tipi di approccio: un approccio non interventista o
un approccio più interventista. L’approccio non interventista fa riferimento ad una concezione
economica estremamente liberalista, il laissez faire, lasciar fare, tutto scorre nel mercato, è il
mercato regola tutto; in realtà questa è una visione puramente teorica perché se soltanto lo Stato
entra a regolare i rapporti del mercato già sta intervenendo; di conseguenza una concezione di uno
Stato puramente non interventista non è possibile, possiamo solamente immaginarla a livello
teorico. Quando invece lo Stato assume un atteggiamento interventista, vuol dire che entra in
maniera preponderante nella regolazione dei contratti lavoro, dell’impiego della forza lavoro e lo fa
attraverso varie prospettive. Quando tenta di tutelare aspetti relativi alla distribuzione del reddito,
fa politiche di consumo sociale, ovvero politiche che redistribuiscono il reddito subito (si fa
l’esempio del reddito di inclusione o cittadinanza che sono forme di reddito che vengono garantite
o per il fatto di essere disoccupati o cittadini). Quando invece parliamo di politiche di investimento
sociale, stiamo parlando di politiche che non hanno una redistribuzione di reddito immediata ma
fanno un investimento, cioè invece che investire in indennità investono in politiche di formazione
affinché i lavoratori acquisiscano occupabilità nel mercato del lavoro e reddito (la ricchezza totale si
allarga e viene meglio redistribuita).
Abbiamo parlato dei sindacati che possono avere un ottica più o meno di competizione e più o meno di
controllo , che le associazioni datoriali hanno una ottica più o meno unitaria o pluralistica e che lo stato
può essere più o meno interventista. Dal modo in cui si configurano tra di loro le prospettive relative a
ciascun attore dei processi negoziali, possiamo avere diverse configurazioni dei sistemi di relazione
industriale. Escludiamo a priori quello individualista perché dal momento che si parla di relazioni sindacali
e industriali si parla di pluralismo ovvero che più attori si parlino tra loro e si accordino sulle regole del
gioco. Abbiamo perciò tre configurazioni :
- Pluralismo atomistico: “atomistico” perché vengano messe in gioco tutte le parti; ci sono tanti
gruppi diversi e tutti gli interessi sono rappresentati. Si ha un sindacalismo di competizione, lo Stato
non interviene e la concezione del potere adoperata dall’impresa è unitaria (c’è un’unica ragione
che vale per l’impresa ed è quella dell’acquisizione del profitto e del potere rispetto ai sindacati).
Cosa succede in questi casi? Si ha il c.d. stallo pluralista , cioè ci sono troppi interessi in gioco e non
si riesce a raggiungere un accordo per via dell’eccesiva frammentazione degli interessi. Si parla di
collettivismo liberale perché i soggetti che agiscono sono soggetti associati. Per arginare questa
frammentazione si può adoperare una configurazione che è definita di pluralismo organizzato;
- Pluralismo organizzato: è sempre un modello collettivista ma partecipativo. Gli interessi vengono
agglomerati in gruppi o associazioni più grandi e per interessi omogenei. In questi casi possiamo
avere sia un sindacalismo di competizione, che rappresenta gruppi omogenei di lavoratori, oppure
un sindacalismo di controllo che rappresenta insieme di interessi omogenei per la più larga parte
dei lavoratori. Lo Stato può assumere un atteggiamento più o meno interventista e la concezione
dell’impresa è pluralistica, cioè che riconosce la partecipazione di più attori ai tavoli della
concertazione, purché associati. Si parla di “pluralismo organizzato” in quanto è organizzato da
norme che possono essere o frutto della contrattazione collettiva stessa (accordo tra le parti - e in
questo caso si parla di pluralismo organizzato mediante accordi diretti) o se, invece, è la legge
statuale a regolare il sistema, si parla di pluralismo organizzato mediante le leggi dello Stato.

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- Corporativismo o neo-corporativismo: lo Stato ha un ruolo fondamentale ed è fortemente
interventista e il modello da partecipativo diventa concertativo, ovvero la forma principale di
regolazione delle relazioni di lavoro (a livello sia individuale che collettivo) è la concertazione, cioè è
lo Stato che deve sempre interviene e mediare tra le due parti (quindi non è previsto un accordo
diretto tra le parti come nel pluralismo organizzato).
I PROCESSI NEGOZIALI
Anna Grandori dà la seguente definizione di negoziazione (1995) “La negoziazione è un processo di
interazione e coordinamento tra due o più parti, aventi ciascuna propri (opposti) interessi, che cercano di
accordarsi su un risultato reciprocamente accettabile”
Da che cosa è influenzato il processo negoziale?
- Dal potere degli attori e dalle loro utilità attese. Le utilità attese sono i pay-off, ovvero il vantaggio
che trae ciascun agente mettendo in atto delle strategie durante la negoziazione. Il potere
contrattuale può variare nel tempo o in virtù dell’ambiente in cui si esercita la negoziazione o in
virtù delle interazioni precedenti tra le parti, ovvero dal fatto che il risultato di una negoziazione è
dovuto dai meccanismi di azione e reazione che si instaurano nelle relazioni ripetute. Pensiamo al
caso in cui nella trattativa tra azienda e sindacato si attuano “scaramucce “: in questo caso non è
questione di chi è più forte ma di chi è più competitivo. Usando il riferimento alla teoria dei giochi,
una negoziazione può essere caratterizzata da alcune mosse convergenti e quindi dar frutto ad una
reciproca collaborazione (si parla di conflitto integrativo): in questo caso le utilità saranno maggiori
rispetto al caso in cui vengono messe in atto delle mosse conflittuali o competitive (es. caso del
dilemma prigioniero): collaborando si ha utilità maggiore rispetto ad avere usato strategie
competitive tra loro . Per completezza la teoria dei giochi è un modello che studia l’interazione
degli agenti dove il risultato per ciascun agente non è dato solo dalla propria azione, ma dipende
anche dalla scelta dell’avversario. Teoricamente si dice che nella teoria del dilemma del prigioniero
le utilità individuali sono in conflitto con quelle collettive (i pay-off individuali entrano in conflitto
con il vantaggio che trae il sistema nel suo complesso).
- Dal conflitto. È proprio attraverso il conflitto che si riesce a selezionare i temi a cui dare la priorità e
su cui mettersi d’accordo. Nell’ambito delle relazioni industriali il conflitto può esplicarsi in due
modi:
il lavoratore può esercitare lo sciopero : lo sciopero è un diritto soggettivo, cioè è
riconosciuto al singolo lavoratore, che però non può esercitarlo individualmente ma solo in
maniera collettiva. Esistono diverse motivazioni di sciopero: lo sciopero volto alla
contrattazione delle condizioni di lavoro e di salario; sciopero più politico che viene fatto
per dare supporto a idee politiche, per esempio quando i lavoratori scioperano per il
riconoscimento di diritti civili a determinate categorie o diritti per le pari opportunità;
oppure sciopero di solidarietà è quando si dà supporto ad un’altra categoria di lavoratori .
Dalla parte del datore di lavoro c’è lo strumento della serrata: la serrata consente al datore
di lavoro di chiudere il locale aziendale nel momento in cui venga minacciata o possa
prevedere un’ azione da parte dei sindacati o dei lavoratori ed è lecita, anche se
l’ordinamento non riconosce la serrata , ma rientra nella libertà di iniziativa economica
privata del latore di lavoro, il quale può scegliere se aprire o meno lo stabilimento. Ciò che
non può fare il datore di lavoro è mettere in atto comportamenti che ledono l’esercizio del
diritto di sciopero o la libertà di associazione sindacale. Qualsiasi tipo di questo
comportamento rientra nella condotta antisindacale, disciplinata dall’art.28 dello Statuto
139
dei lavoratori. Qui i confini sono molto sottili perché la condotta antisindacale è qualsiasi
atto o comportamento attivo o omissivo che possa ledere l’esercizio del diritto di sciopero
o la libertà di associazione sindacale (ad esempio non mettere i locali aziendali a
disposizione per le riunioni sindacali può rappresentare un elemento di condotta
antisindacale).
Dal punto di vista della quantificazione dei livelli di conflittualità che ci sono all’interno di un processo
negoziazione, possiamo utilizzare tre indicatori:

- Indicatore di frequenza: la frequenza coincide con il numero di scioperi che si hanno e la possiamo
rapportare al numero dei lavoratori dipendenti che abbiamo nello stabilimento o nell’
organizzazione. Quindi o numero degli scioperi in senso assoluto o come rapporto tra gli scioperi e
l’organico (esempio: se ho un rapporto di 3 a 1 vuol dire che per ogni lavoratore ho tre casi di
sciopero).
- Indicatore di dimensione: parliamo del numero di lavoratori che scioperano sul numero di scioperi,
quindi quanti lavoratori partecipano a ciascun caso di sciopero.
- Indicatore di gravità: rappresenta le giornate di lavoro perse sul numero di lavoratori che
scioperano (cioè per ogni lavoratore che sciopera quante giornate di produzione perdo).
Tutto ciò moltiplicato insieme determina il volume della conflittualità.
I RISULTATI DEL PROCESSO NEGOZIALE
Le norme prodotte dalla negoziazione sono frutto della negoziazione stessa, che si esplica a più livelli, e che
è caratterizzata anche da una certa gerarchia tra queste norme prodotte. In linea generale le norme che
vengono dopo devono rientrare in quelle stipulate in precedenza, ma sappiamo anche che si può derogare.
Abbiamo diverse tipologie di accordi :
Gli accordi triangolari: sono gli accordi che sono messi in atto tra Stato, associazioni datoriali e
sindacali a livello confederale.
Gli accordi interconfederali: stabiliscono quelle materie che caratterizzano una determinata
categoria di lavoratori ai quali i contratti collettivi nazionali del lavoro (terzo livello) si devono
rifare a livello di categoria.
I contratti integrativi, a livello territoriale o aziendale, che possono derogare sia al contratto
collettivo del lavoro che alla legge a seguito di una manovra dell’estate del 2011 .
Il contratto individuale del lavoro (= la lettera d’assunzione), la quale fa riferimento al contratto
collettivo applicato e si inserisce la seguente dicitura “a questo contratto si applica il contratto
collettivo nazionale dei lavoratori del settore commerciale e che prevede le seguenti
caratteristiche..”. I contratti individuali non possono derogare alla legge o al contratto collettivo
140
nazionale dei lavoratori se non in meglio, mentre la contrattazione di prossimità, quella aziendale,
può derogare.
I risultati della negoziazione possono essere valutati con gli indicatori di efficacia ed efficienza.
L’efficienza misura il rapporto tra risorse servite per ottenere l’accordo e il risultato ottenuto in termine di
utilità. Se parliamo di efficacia si fa riferimento al grado di raggiungimento degli obiettivi della negoziazione
e si fa differenza tra efficacia soggettiva, cioè legata al raggiungimento degli obiettivi dei soggetti che fanno
parte alla negoziazione; efficacia oggettiva, invece, è un’efficacia che misura la qualità delle norme
prodotte, nel senso di raggiungimento di obiettivi che soddisfano le esigenze del sistema nel suo
complesso.

CASO FIAT
Nel 2009 Fiat aderiva a Federmeccanica, ovvero la federazione dei metalmeccanici. L’adesione a
Federmeccanica implicava che Fiat dovesse applicare il contratto collettivo nazionale che era stato stipulato
da Federmeccanica (associazione datoriale) con le federazioni Fimm, Fiom, Uilm . Quindi il primo contratto
applicato è quello dei metalmeccanici del 2008, firmato tra Federmeccanica e federazioni sindacali.
Federmeccanica era una federazione che aderiva alla confederazione Confindustria, così come Fim Fiom e
Uilm aderivano alle confederazioni Cigl Cisl Uil.
Confindustria aveva sottoscritto, nel frattempo, l’accordo del 1993 che introduceva il decentramento
contrattuale e aveva sottoscritto anche quello del 2009 che regolava il decentramento contrattuale
inserendo la possibilità di derogare in pejus il contratto collettivo nazionale applicato, in caso di crisi
aziendale o motivi di investimento e ristrutturazione.
Struttura quindi abbastanza complessa: abbiamo un livello di contrattazione elevato, in cui si applica il
contratto dei metalmeccanici, e poi la possibilità di aderire ad una contrattazione decentrata grazie alla
sottoscrizione da parte di Confindustria deli accordi del 1993 e 2009.
Nel 2010, in virtù della crisi del 2008, Marchionne propose un progetto industriale chiamato “progetto
fabbrica Italia” che prevedeva di ristrutturare il mercato automobilistico e aveva una durata dal 2010 al
2014. Il progetto prevedeva forti investimenti ma anche una forte ristrutturazione e razionalizzazione della
fabbrica, chiudendo gli impianti improduttivi come Pomigliano. Oltre a ciò si prevedeva l’introduzione di
una nuova modalità di produzione a ciclo continuo e di organizzazione del lavoro secondo i principi del
toyotismo (c.d. world class manufacturing) che Marchionne voleva applicare alla produzione della nuova
Panda, con l’obiettivo di trasferire a Pomigliano la produzione della nuova Panda, piuttosto che chiudere
quello stabilimento e spostare la produzione in Polonia (da molti questo atteggiamento fu ritenuto quasi un
ricatto). Nel frattempo a Pomigliano c’era la cassa integrazione guadagni da tre anni, con lavoratori che in
alcuni periodi soltanto lavoravano tre volte al mese; Pomigliano era simbolo di inefficienza e era lo
stabilimento con più alto numero di furti aziendali e malati e picchi di assenza nel week end o a ridosso
delle partite del Napoli. Inoltre c’era il record di invalidi e persone che facevano il doppio lavoro.
Marchionne per eliminare lo spettro della chiusura di Pomigliano propose di ridurre la pausa pranzo di
dieci minuti, quindi non più di quaranta ma trenta minuti e le pause non due da venti minuti ma 3 da dieci
minuti. Propose di legare gli aumenti salariali alla produttività , invece che all’inflazione, e ciò portò a
grossi risultati consentendo di avere fino a 2000 euro di bonus extra rispetto allo stipendio mensile. Si
prevedeva la riduzione del salario o sabato non pagato in caso di assenze anomale (come voleva
Marchionne monitorare queste assenze anomale? Attraverso una commissione paritetica dove fossero
rappresentate sia azienda che lavoratori, quindi una commissione in cui ci fossero dirigenti e sindacalisti).
141
Inoltre volle cambiare la turnazione con più turni da otto ore per sei giorni (incluso il sabato). Marchionne
volle inserire il mancato pagamento del periodi di carenza (sempre in caso di assenze sospette). Chiese
inoltre che ci fosse la possibilità di richiedere ai lavoratori fino ad 80 ore di straordinario senza la preventiva
comunicazione ai sindacati (oltre le 40 ore di straordinario è necessario chiedere una preventiva
autorizzazione ai sindacati).
Infine Marchionne chiedeva una clausola di responsabilità, cioè rendere lavoratori e sindacati ugualmente
responsabili, pena l’annullamento totale dell’accordo del piano di investimento e quindi la chiusura di
Pomigliano. Inoltre chiedeva anche una clausola di tregua sindacale, cioè la sospensione immediata di
qualsiasi tentativo di esercizio del diritto di sciopero per evitare che gli investimenti fatti andassero persi..
Quindi da un lato Fiat avrebbe investito ingenti somme per rendere Pomigliano una fabbrica moderna,
dall’altro era necessario inserire un contratto aziendale di prossimità integrativo (terzo livello) che
modificasse il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, al quale Fiat aderiva, in quanto faceva
parte di Federmeccanica. Bisognava, perciò, fare un contratto aziendale fra Fiat e le rappresentanze
sindacali aziendali, e derogare ai contratti collettivi nazionali del 2008. Questo causò un inasprimento dei
conflitti e a quel punto la Fiom decise di non partecipare ai tavoli della contrattazione e uscirne. La cosa
che spaventava di più la Fiom era il ricatto della clausola sindacale e soprattutto che si potesse derogare il
contratto collettivo nazionale anche in peggio. La Fiom diceva che il compito del sindacato non è solo
sottoscrivere il contratto, ma è anche di non sottoscrivere un contratto se le condizioni di lavoro proposte
possono peggiorare i diritti dei lavoratori.
Marchionne attuò una campagna mediatica forte, per acquisire consenso, per cercare di creare degli
schemi di interpretazione di quello che stava succedendo e lo fece attraverso uno spot al fine di far
capire ciò che si voleva fare, oggi, cosi che le condizioni future sarebbero state migliori per tutti.
Il 15 giugno 2010 si firma il contratto aziendale senza Fiom e il 22 giugno 2010 Marchionne indice un
referendum (il referendum in realtà è stato introdotto nel 2011). Che cosa poteva succedere? Siccome la
Fiom non aveva firmato il contratto aziendale, poteva accadere che le condizioni proposte in tale contratto
avrebbero potuto non applicarsi ai lavoratori iscritti alla Cgil. Invece, vincendo il referendum, le condizioni si
sarebbero applicate a tutti. Il risultato del referendum fu positivo: il 63% dei lavoratori era favorevole
all’applicazione piuttosto che rischiare alla perdita del lavoro.
Nel frattempo venne istituita da parte di Fiat una new company , che si chiamava Fabbrica Italia
Pomigliano spa, che non apparteneva a Confindustria. Per Fiat sarebbe stato un duro segnale all’epoca
lasciare Confindustria, perciò creo una nuova società che non faceva parte di Confindustria e, di
conseguenza, non recepiva gli accordi firmati da Confindustria, ovvero l’accordo 2009 e del 2011.
Il 29 dicembre 2010 viene siglato definitivamente il contratto, con non poche conseguenze sul piano della
lotta sindacale: ci fu un inasprimento del conflitto soprattutto mediatico per via della clausola di tregua
sindacale (quindi non si poteva scioperare).
Nel frattempo, nel 2011, le Confederazioni dei sindacati si resero consapevoli delle esigenze aziendali in
situazioni di crisi e stipulano l’ accordo del 2011, e lo stipularono anche con Confindustria, la quale quindi
fece un passo indietro rispetto al forte sostegno alla contrattazione decentrata che aveva assicurato a
Marchionne. Nel frattempo Federmeccanica disdisse il contratto collettivo del 2008 perché questo non
recepiva quello del 2009 , il quale permetteva alla contrattazione aziendale di derogare al CCNL . In tutto
ciò la Fiom fu completamente esclusa dalle rappresentanze sindacali aziendali .

142
(Siamo nel 2010: non è ancora arrivata la sentenza incostituzionalità delle lettere a e b dell’ art 19 dello
Statuto dei lavoratori che dicevano che potevano costituire le RSA solo colore che avessero firmato il
contratto applicato in fabbrica. Fiom non aveva firmato tale contratto e di conseguenza non poteva essere
rappresentata. Anche qui vi fu un conflitto che si risolse nel 2013, ben 3 anni dopo, un periodo durante il
quale la rappresentanza della Fiom in Fiat a Pomigliano non c’è stata, fino a quando l’art.19 non è stato
dichiarato incostituzionale).
Nel frattempo c’era stata la manovra economica bis, detta legge salva Fiat, che permetteva alla
contrattazione di prossimità di poter derogare non solo al CCNL ma anche alla legge , con il solo limite della
Costituzione, e questo è importante perché dava la possibilità all’azienda di derogare agli accordi triangolari
che erano stati presi tra tutte le associazioni sindacali di dover comunque contrattare le condizioni da
applicare nel contratto aziendale, di deciderle unilateralmente e sottoporle a referendum, così come fece
Marchionne (ecco perché fu chiamata legge salva Fiat).
Nel frattempo Confindustria sottoscrisse un accordo che recepiva l’accordo interconfederale del 28 giugno
2011 (lo sottoscrive a settembre) con le tre confederazioni. Perché fa questo Confindustria? Perché non
rappresentava solo gli interesse Fiat, ma del settore industria in generale, e quindi fa un piccolo passo
indietro perché si rese conto di essere andata troppo incontro agli interessi della Fiat. Confindustria torna
quindi a parlare con le confederazioni sindacali e con esse stabilisce che qualsiasi materia che riguardi la
contrattazione di prossimità deve essere frutto di accordo tra le parti, e le condizioni non potevano essere
scelte unilateralmente dall’azienda e poi sottoposte a referendum.
Di fronte al passo indietro di Confindustria, Marchionne annuncia l’uscita da Confindustria a partire dal
2012.

Questa manovra di Marchionne venne ritenuta lungimirante perché recepiva le tendenze evolutive che
avvennero in altri luoghi come l’America. Cosa succedeva all’epoca? Marchionne stava conducendo in
maniera ineccepibile la fusione di Chrysler nel 2009 e aveva un rapporto ineccepibile con i sindacati
(riusciva a comunicare in maniera collaborativa) e aveva cercato in tutti i modi di portare questo stesso
sistema in Fiat, ma ciò non era stato possibile; ecco perché ha dovuto poi utilizzare una struttura molto più
rivendicativa.
Di fatto i risultati su Pomigliano furono evidenti: extra bonus di 2000euro ai lavoratori e riduzione
assenteismo del 17% .
Confrontando i due spot: la differenza sostanziale sta nel fatto che lo spot Chrysler parla di “noi siamo
l’America” ovvero parla di un solo soggetto, mentre nello spot Fiat si parla di “quante Italie conosciamo”
ovvero che c’è un’Italia con Cgil e una con Marchionne, e quindi un’Italia divisa che vuole lavorare e far
sacrifici e una un po’ più “ svogliata” riferita a Pomigliano infatti troviamo il cartello che indica il nome della
città e con questo spot ci viene suggerito un messaggio ovvero che la Fiat sta facendo qualcosa per l’Italia
al fine di farla diventare una potenza industriale e non possiamo opporci a questo. Il messaggio contenuto
nello spot, venne recepito dai lavoratori.

143
LEZIONE 15

LE RELAZIONI DI CONDIVISIONE
Dimensione psicologica, sociale e culturale - Relazioni di condivisione.
La dimensione politica e la dimensione economica del rapporto di lavoro non sono sufficienti a garantire la
predisposizione interiore dell’individuo ad agire nell’interesse dell’organizzazione. È necessario attivare la
relazione di condivisione.
Cosa significa attivare le relazioni di condivisione? Sostanzialmente, andare ad incentivare un interesse nel
lavoratore ad agire e a mettere in atto comportamenti in maniera spontanea nell’esecuzione del proprio
lavoro, che non siano richiesti dal contratto giuridico, quindi che vanno al di là delle obbligazioni
contrattuali presenti nel contratto giuridico.
Le relazioni di condivisione sono influenzate da un serie di variabili che sono tra di loro collegate:
Contratto psicologico, quindi dalla tipologia di obbligazioni implicite che si vengono a creare.
Quando le aspettative implicite del contratto psicologico sono soddisfatte danno origine ad un
forte commitment da parte del lavoratore.
Commitment
Processi di identificazione organizzativa
Comportamenti di cittadinanza organizzativa
Attività collegate all’employer branding e ai canali di comunicazione scelti dall’organizzazione.
Tutto ciò va a determinare l’accordo di lavoro. Abbiamo detto che l’accordo di lavoro lo possiamo
generalmente intendere come l’insieme delle condizioni economiche, comportamentali e morali che
vincolano le due parti nella relazione e quindi ne determinano lo svolgimento. Ecco perché in senso più
ampio l’employment agreement fa riferimento alle 2 dimensioni: da un lato la stipulazione del contratto
giuridico (firma delle obbligazioni contrattuali), dall’altro il contratto psicologico, in questo caso il contratto

144
giuridico è stato già firmato, quindi nascono delle obbligazioni che sono implicite, tacite, non specificate in
un contratto che abbiamo definito incompleto e implicito.

CONTRATTO PSICOLOGICO
La definizione di contratto psicologico è stata data per la prima volta nel 1990 da Rosseau, uno studioso.
Rosseau definisce il contratto psicologico come: Componente implicita del contratto di lavoro (si
presuppone ci sia già un contratto giuridico di lavoro, poiché il contratto psicologico ne è la componente
implicita) che attiene ad una disposizione interiore ad adempiere ad un’obbligazione o a vivere una
relazione organizzativa o sociale con spirito di collaborazione, fiducia e forte impegno al fine di soddisfare le
attese, implicite ed esplicite, formali e informali, che le parti nutrono rispetto alla relazione di lavoro.
Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono questa definizione?
o Dimensione implicita attiene alla dimensione psicologica del rapporto di lavoro. Quando
abbiamo parlato di comportamento, abbiamo detto che il comportamento è funzione
dell’ambiente e della personalità degli individui la dimensione psicologica è in grado, anche se in
maniera meno osservabile, di orientare ugualmente i comportamenti, ecco perché è di natura
implicita. Pur essendo di natura implicita, questo contratto è in grado di porre in essere
obbligazioni che attengono alla sfera psicologica e che pure sono capaci di orientare ugualmente i
comportamenti, proprio perché, a monte, sappiamo da tutte le teorie studiate in precedenza, che il
comportamento in realtà è determinato da una serie di fattori di cui una parte dipendono dalla
sfera psicologica.
o Disposizione interiore il contratto psicologico è frutto di un processo mentale. È qualcosa che si
viene a generare nella mente delle parti coinvolte. In che modo? Si viene a creare dalle aspettative
consapevoli che gli individui elaborano rispetto al contenuto e al contesto del proprio lavoro (penso
delle cose, quindi ne sono consapevole, non riesco ad immaginare cose di cui non sono
consapevole, che non mi sono state comunicate ecco perché è importante la comunicazione
nella formazione del contratto psicologico).
o Impegno (commitment) il contratto psicologico è fortemente connesso al concetto di
commitment. Il contenuto del contratto psicologico è molto importante perché, se soddisfatto,
attiva automaticamente l’impegno spontaneo del lavoratore ad adempiere ai suoi obblighi, e quindi
ad agire nell’interesse dell’organizzazione.

145
CONTRATTO PSICOLOGICO - MODELLO DI ROSSEAU (1995)

Vediamo come avviene, secondo il modello di Rosseau, la formazione del contratto psicologico.
Abbiamo prima di tutto la comunicazione di un messaggio. Ad esempio, il messaggio di un’azienda in forte
espansione con opportunità di crescita molto rapida.
Cosa influisce sulla comunicazione del messaggio? Sicuramente le strategie di marketing e di employer
branding (che tipo di azienda siamo? Quale messaggio vogliamo trasmettere?). Dove trasmettiamo il
messaggio? Sito web della nostra azienda o attraverso la stampa giornalistica, ci sono tanti modi.
Questo messaggio viene trasmesso attraverso un codice (per essere trasmesso deve essere trasformato in
segni visibili e reinterpretabili da chi li riceve). Abbiamo quindi una codifica vera e propria del messaggio da
parte degli attori dell’organizzazione, delle loro politiche, tutte le attività che pongono in essere gli attori
dell’organizzazione non fanno altro che codificare questo messaggio. Ad esempio, la codifica può essere
“duro lavoro=rapida crescita” (continuando l’esempio: un’azienda per espandersi ha bisogno di persone
che lavorino sodo, ma allo stesso tempo è in grado di riconoscere e valorizzare questo lavoro attraverso il
riconoscimento di una rapida crescita).
Questo messaggio viene reinterpretato alla luce della propria predisposizione individuale. Immaginiamo il
caso in cui siamo in un processo di selezione, la stampa giornalistica parla dell’azienda come una realtà
fortemente in espansione, in cui si può crescere rapidamente; comincia il processo di selezione, dove ci
sarà uno scambio reciproco conoscitivo tra selezionatore e lavoratore, ed effettivamente il lavoratore
comincia a percepire messaggi che tutte le attività poste in essere sono particolarmente meritocratiche,
premiano l’impegno, ecc. allora che cosa succede a questo punto? Se la propria predisposizione individuale
è quella di una persona che vuole crescere rapidamente, allora accetterà questa proposta di valore
implicita; se invece una persona è un po’ più pigra o con caratteristiche professionali diverse, tenderà a
decodificare il messaggio in maniera diversa.
Quindi abbiamo detto che, in caso la predisposizione individuale della persona sia coerente con il
messaggio trasmesso, allora come questa persona decodifica il messaggio? “bene, vuol dire che lavorando
duramente sarò in grado di avere prestazioni elevate e quindi sarò promosso”. Nel caso in cui la
predisposizione individuale non fosse coerente, cosa può succedere? Che la decodifica potrebbe essere
“lavorare duro=forte stress” quindi non accetto la proposta.
146
Consideriamo il caso in cui la predisposizione individuale della persona lo abbia portato ad accettare la
proposta.
A questo punto l’individuo entra all’interno dell’organizzazione, ma non siamo ancora alla formazione di un
contratto psicologico, siamo alla formazione del contratto giuridico. Cosa succede? L’individuo comincia a
ricevere una serie di segnali che possono essere più o meno di rinforzo: ad esempio comincia a conoscere i
colleghi e tutti raccontano storie in cui c’è una relazione secondo cui ad un buon lavoro è sempre
corrisposta una buona valorizzazione, oppure un altro motivo di rinforzo è che dopo una settimana il
direttore delle Risorse Umane lo chiama nel suo ufficio e gli propone un piano di sviluppo personale e
professionale per 3 anni. Adesso è ragionevolmente certo che ciò che ha accettato nel contratto giuridico
accadrà, allora comincia a nutrire una serie di aspettative implicite e si impegna con obbligazioni tacite
affinché queste aspettative siano soddisfatte. Quindi a questo punto, secondo Rosseau, avviene la
stipulazione del contratto psicologico. Ora bisogna vedere qual è il contenuto del contratto psicologico: in
questo caso l’obbligazione tacita richiesta dal datore di lavoro sarà un forte engagement negli obiettivi
strategici dell’organizzazione, un forte lavoro e prestazioni elevate; le aspettative implicite del lavoratore
sono, appunto, la possibilità di fare carriera, ecc.
In realtà, inizialmente Rosseau aveva identificato solo 7 obbligazioni tipo che facevano capo soltanto al
datore di lavoro, come garantire delle buone relazioni, o la sicurezza sul posto di lavoro, ecc. poi sono state
ampliate anche al lavoratore. In realtà non è così semplice, a volte, la distinzione tra obbligazioni giuridiche
e obbligazioni tacite. Basti pensare agli obblighi di fedeltà che hanno i lavoratori nei confronti del datore di
lavoro.
EFFETTI DEL CONTRATTO PSICOLOGICO
Il contenuto del contratto psicologico (dato da obbligazioni tacite e aspettative implicite) può essere più o
meno soddisfatto.
Quando il contenuto del contratto è soddisfatto, avrò un diretto effetto positivo sui livelli di commitment,
cioè di impegno ad agire nell’interesse dell’organizzazione in maniera del tutto spontanea e volontaria.
Attraverso questo forte impegno, riesco ad ottenere prestazioni molto elevate, ma anche ad attivare dei
comportamenti, definiti di cittadinanza organizzativa, cioè dei comportamenti completamente
discrezionali, dovuti alla volontà del lavoratore e non legati ad una controprestazione implicita da parte del
datore di lavoro.
Quando il contenuto del contratto psicologico non viene sodisfatto si possono generare due situazioni,
quelle che Hirschman definiva di (in realtà Hirschman le riferiva ai comportamenti tipici di protesta e uscita
nel mercato dei prodotti):
Voice. È una forma di protesta che si ha, pensando al mercato dei prodotti, nel momento in cui i
clienti non acquistano più il prodotto; traslato nel mercato del lavoro, l’opzione voice si ha quando i
lavoratori mettono in atto comportamenti come assenteismo o disimpegno, e quindi ridotte
performance.
Exit. I lavoratori lasciano l’organizzazione (elevato turnover). Indicazione di deteriorazione ormai
non più reversibile della relazione di lavoro.
L’opzione più grave è l’opzione exit, perché è un’ opzione su cui non possiamo più agire perché il lavoratore
è già uscito, possiamo sicuramente iniziare ad adottare delle politiche che impediscono di ripetere questa
fuoriuscita da parte di altri lavoratori, ma nel frattempo coloro che sono già usciti cominceranno a
trasmettere messaggi negativi nei confronti dell’azienda e quindi influiscono su questo aspetto, che poi

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influisce anche su come vengono percepite le proposte, non più credibili e di conseguenza sulla perdita di
talenti non riesco più ad attrarre persone.
L’opzione voice sembra meno grave perché la reazione è ancora in essere, ma in realtà può essere ancora
più dolorosa per l’azienda nel momento in cui si scatenano campagne sui social network o attraverso canali
istituzionali che delegittimano completamente la credibilità dell’azienda in generale.

Un altro insieme di attività fondamentali che incidono sulla costruzione del contratto psicologico è l’attività
di employer branding. L’employer branding agisce direttamente sulla comunicazione del messaggio e poi
sulla formazione del contatto, ma anche sui comportamenti di identificazione organizzativa. Ed è proprio
quest’ultima che poi impatta sulla possibilità di soddisfare o meno il contratto psicologico.
Abbiamo 5 variabili in gioco (una già l’abbiamo vista ed è quella del contratto).
COMMITMENT ORGANIZZATIVO
Definito come Impegno; identifica la disponibilità del lavoratore a contribuire al funzionamento
dell’azienda. Gli elementi caratterizzanti, che il commitment condivide anche con altre variabili (ecco
perché poi si giustifica la stretta relazione tra queste variabili) sono:
o Adesione ai valori (si trova anche nell’identificazione organizzativa).
o Accettazione dei fini organizzativi: se non c’è una condivisione dei fini è difficile che il lavoratore si
impegni.
o Volontà a sostenere sforzi notevoli per l’organizzazione aspetto discrezionale del lavoratore
(comune con la variabile di cittadinanza organizzativa).
o Forte desiderio di appartenenza: appartenenza all’organizzazione.
Grazie alla presenza di questi requisiti, il commitment, generalmente inteso, è in grado di generare un
orientamento d’animo positivo, attivo e proattivo nei confronti del lavoro in generale e dell’organizzazione
in cui il lavoro è svolto.
In realtà troviamo diverse tipologie di commitment, di cui soltanto due possiamo definire propriamente
positive il commitment affettivo e quello normativo (sono le due forme di commitment su cui l’azienda
si concentra maggiormente).
- Commitment affettivo (concezione pura di commitment): impegno dettato da un forte
coinvolgimento emotivo nell’organizzazione che induce un desiderio a contribuire
spontaneamente al raggiungimento dei suoi obiettivi.
- Commitment normativo: impegno dettato da un forte senso di obbligazione morale e lealtà nei
confronti dell’organizzazione che porta ad operare nel suo interesse.
Le due sopracitate sono le forme positive di commitment, sulle quali l’azienda deve far leva per
suscitare comportamenti positivi a lavoro.
- Commitment calcolativo. Impegno dettato da un calcolo di convenienza che determina la
continuazione del rapporto di lavoro soltanto per evitare i costi di uscita dalla relazione o per
assenza di alternative.
GESTIRE IL COMMITMENT
Commitment professionale: si distingue dal commitment organizzativo (che si distingue in affettivo,
normativo e calcolativo) attiene ad una forma di impegno del lavoratore nei confronti dell’organizzazione. Il

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commitment professionale, invece, spiega l’impegno del lavoratore nei confronti del proprio ruolo ed è
questo il motivo per cui nella gestione del commitment professionale è fondamentale tener presente che
c’è una scala gerarchica tra i due diversi commitment. Al primo posto l’individuo metterà l’impegno nei
confronti del proprio ruolo perché per questi individui, generalmente professionisti che lavorano all’interno
dell’organizzazione (consulenti del lavoro, avvocati), è più importante il riconoscimento da parte della
propria associazione di riferimento professionale piuttosto che quello derivante dall’organizzazione
(differenza sostanziale). Al secondo posto, quindi, della scala gerarchica ci sarà l’impegno rispetto
all’organizzazione in cui il professionista sta operando.
È sempre positivo avere sempre lavoratori fortemente commited? Non sempre. Nei casi di
ridimensionamento degli organici, in cui è fondamentale, se le relazioni con il proprio personale sono molto
commited, riuscire a comunicare il disagio economico in cui versa l’azienda e quindi trasmettere bene i
criteri di selezione di coloro che sarebbero stati licenziati o messi in cassa integrazione, perché altrimenti si
rischia di suscitare discordie e conflitti. Il commitment è una variabile quasi sempre positiva ma che va ben
gestita, soprattutto nei casi in cui è necessario fare un piccolo passo indietro rispetto ai riconoscimenti
anche impliciti che sono stati dati ai propri collaboratori.
Chiaramente se si va a mettere in atto una serie di politiche che garantiscano il rafforzamento del
commitment positivo, possiamo ottenere dei comportamenti di cittadinanza organizzativa oppure dei forti
livelli di identificazione.

IDENTIFICAZIONE ORGANIZZATIVA
Cos’è? È un legame cognitivo tra individuo e organizzazione che si instaura quando l’immagine di sé di una
persona incorpora gli stessi elementi che essa attribuisce all’organizzazione. Qui si crea il trade off tra
l’identità sociale della persona e l’identità personale. Il processo di identificazione porta un individuo ad
incorporare nell’immagine che si ha di se, tutta una serie di elementi che si attribuiscono al gruppo di
riferimento.
Cosa succede nel processo di identificazione? C’è una fase in cui l’individuo si percepisce simile ai membri
del proprio gruppo di appartenenza (insider) e diverso dagli outsider.
Cosa succede quando si verifica l’identificazione? Avviene un vero e proprio ridimensionamento
dell’identità sociale rispetto all’identità personale. Abbiamo definito l’identità sociale come l’immagine che
l’individuo ha di sé stesso, che incorpora gli elementi associati al gruppo di riferimento. L’identità personale
è l’immagine che l’individuo ha di sé stesso legata alle sue caratteristiche personali (personalità, gerarchie,
preferenze, valori, …). Nel momento in cui un individuo si identifica in un gruppo, la parte sociale prevale su
quella personale. Quando ci si identifica nell’organizzazione l’immagine che si ha di se stessi in realtà ha le
stesse caratteristiche dell’organizzazione in cui si lavora (“lavoro in Trussardi…mi sento chic”).
Tanto maggiore è il livello di identificazione nelle caratteristiche dell’organizzazione, tanto più sarà
l’impegno.
L’identità sociale si esplica su tre dimensioni:
o Cognitiva. A livello cognitivo sono consapevole del fatto che le caratteristiche che vedo nell’altro le
posseggo, e quindi mi identifico in quel gruppo di riferimento.
o Valutativa. Do un valore a quelle caratteristiche.

149
o Emotiva. La più importante, è da qui si attiva il coinvolgimento emotivo che mi porta ad essere non
soltanto impegnato ma completamente coinvolto all’interno della relazione, perché sono
completamente identificato nella controparte.

CITTADINANZA ORGANIZZATIVA
Differenza rispetto al contratto psicologico: i comportamenti di cittadinanza sono completamente
discrezionali, invece nel caso del contratto psicologico i comportamenti sono determinati da delle
aspettative implicite che in realtà il lavoratore fa corrispondere a delle controprestazioni (obbligazioni
tacite).
Che cosa significa essere cittadini dell’organizzazione? Significa mettere in atto comportamenti
particolarmente favorevoli per l’organizzazione e il suo funzionamento, non prescritti dal ruolo né dalle
norme organizzative.

Questi comportamenti di cittadinanza organizzativa influenzano l’impegno. Più un individuo è cittadino


dell’organizzazione e più questo si impegna in essa; più si impegna e più ne diventa cittadino.
Sono sempre positivi i comportamenti di cittadinanza organizzativa? No! Esempio: la PUNTUALITA’, tutti in
ufficio arrivano prima del capo. Questo è sempre positivo? No, può generare dei conflitti all’interno del
gruppo. Se sono un padre di famiglia e devo accompagnare i figli a scuola, per me è difficile arrivare in
anticipo e quindi risulto l’unico che arriva o sempre all’ultimo o in ritardo. In questo caso i comportamenti
di cittadinanza organizzativa vanno ben monitorati bisogna incentivare ad avere un comportamento
sempre positivo ma che non metta in difficoltà altre risorse.
Fine variabili. Adesso andiamo a monte del processo di formazione del contratto psicologico. Abbiamo
detto che il contratto psicologico si forma nella mente, e parte dalla comunicazione di un messaggio che è
dovuto in gran parte alle politiche di employer branding che ha attuato l’azienda sia verso l’interno (nei
confronti dei collaboratori attuali) che verso l’esterno (nei confronti dei potenziali candidati futuri).

EMPLOYER BRANDING
L’Employer branding è nato dalla fusione di elementi provenienti da diverse discipline: prima di tutto
dall’applicazione dei princìpi di marketing all’organizzazione del lavoro e alla gestione delle risorse umane,
poi con l’integrazione di molti elementi che afferiscono alla sfera psicologica. Quindi l’E.B è l’unione di tre
discipline: marketing, gestione delle risorse umane e psicologia. Negli ultimi anni si è diffuso molto perché è
cambiata la concezione di selezione dei candidati (c’è la c.d. guerra dei talenti, per cui le aziende
competono molto sul piano comunicativo per attrarre i migliori talenti). Un altro motivo dello sviluppo
dell’E.B sono stati i cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro e nelle esigenze sia del lavoratore che
delle imprese.
150
Qual è il presupposto? Abbiamo detto che l’E.B nasce dall’applicazione dei principi del marketing all’interno
dell’organizzazione e gestione delle risorse umane. L’E.B quindi applica un principio di marketing nella
gestione delle risorse umane: se è vero che le scelte di acquisto dei potenziali acquirenti sono in parte
dettate dal brand, allora lo stesso meccanismo si ha anche nella scelta da parte di un individuo rispetto al
posto in cui lavorare e a come lavorare. Perché quearo? Il brand da un segnale all’acquirente, dice quanto è
affidabile l’azienda che lo ha prodotto. In questo caso parliamo di affidabilità dell’azienda in cui si va a
lavorare.
Quindi cos’è l’employer branding? Definizione: è l’attività di promozione nei confronti dei dipendenti
attuali e futuri di un’organizzazione di un prodotto particolare, che consiste in un’esperienza di lavoro
unica e specifica che le persone possono vivere in quel contesto lavorativo.
La filosofia dietro questa esperienza di lavoro “unica” è: sviluppare strategie di marketing e branding per
trattenere e motivare la forza lavoro con lo stesso impegno con cui si pongono in essere strategie per
attrarre nuovi clienti istituire rispetto a questa un employer brand, cioè un’immagine dell’azienda come
datore di lavoro che offre un’esperienza unica e irripetibile nell’azienda in cui si sta per andare a lavorare.
Dalla distinzione tra dipendenti attuali e futuri le attività di employer branding si possono dirigere più verso
l’interno (internal branding) oppure verso l’esterno.

PROCESSO DI DEFINZIONE DELL’ EMPLOYER BRAND


Il primo momento è la segmentazione: bisogna fare un’analisi del mercato del lavoro di riferimento
utilizzando diverse variabili che possono essere demografiche o professionali, possono essere più o meno
osservabili. Alcuni studiosi differenziano questa variabili su due livelli: variabili oggettive e osservabili si
segmenta il mercato sulla base di fattori demografici, come l’età, oppure in base a variabili professionali.
Il secondo passaggio è la costruzione del messaggio, perché attraverso quest’ultimo devo fare la mia
proposta di valore: cosa offre l’azienda? Cosa da specificità e unicità all’esperienza di lavoro?
Terzo passaggio è il posizionamento. Una volta definito cosa offro devo fare un ulteriore sforzo: bisogna
dimostrare che l’esperienza di lavoro che si sta offrendo è peculiare, caratteristico e distintivo rispetto a
tutto il resto che si trova sul mercato.
Infine ci sono le scelte relative alla comunicazione. Posso creare un luogo di lavoro sicuramente attrattivo
facendo leva su diverse caratteristiche però devo anche fare una comunicazione efficace, quindi bisogna
scegliere i canali giusti per comunicare il messaggio. Molte aziende usano come miglior canale di
comunicazione i propri dipendenti.
La definizione che Ambler e Barrow (1996) danno dell’employer branding è: «The package of functional,
economic, and psychological benefits provided by employment, and identified with the employing
company» (il pacchetto di benefici funzionali, economici e psicologici che derivano dall’impiego in
quell’azienda).
Quando il lavoratore sceglie di entrare all’interno di un’organizzazione, il livello di attrattività di
quell’organizzazione è data da due tipi di brand:
Corporate Brand. È l’immagine aziendale istituzionale.
Employer Brand. È l’immagine dell’azienda come ambiente di lavoro.

151
Incrociando queste due variabili si definisce una matrice che ci permette di capire il livello di attrattività
delle aziende come luoghi in cui lavorare.

STRONG COMPANY. Aziende molto conosciute anche per le loro politiche aziendali. Quindi alti livelli di
corporate ed employer brand.
BEST EMPLOYER. Migliori datori di lavoro. Hanno una forte employer brand ma scarsa corporate brand.
BEST CORPORATE. Immagine aziendale molto forte, ma employer brand a volte un po’ controversa.
WEAK COMPANY. Scarsi corporate e employer brand.

EMPLOYER BRANDING: CARATTERISTICHE CHE RENDONO ATTRATTIVO UN’ESPERIENZA DI LAVORO


Si può far leva su:

Caratteristiche simboliche serie di attributi che permettono di trasferire l’immagine dell’azienda.

152
Omofilia = “essere amico dell’uguale”, cioè scegliere di entrare in relazione con qualcuno perché si è simile
ad esso.
STRATEGIE DI EMPLOYMENT ADVERTISING
Ci sono tre tipologie di strategia:
1. Quando si fa leva sugli aspetti strumentali del lavoro (possibilità di carriera, di crescita, di
remunerazione alta, ecc.) si sta adottando una strategia di azienda internazionale: sulla base del
fatto che un’azienda è forte, sto cercando di attrarre candidati puntando su variabili strumentali.
2. Quando invece si fa leva su variabili simboliche del lavoro, si parla di strategia “missione su Marte”,
in questo caso a suscitare l’interesse non è tanto la stabilità contrattuale o la crescita interna, ma la
voglia di contribuire fortemente all’innovazione che propone l’azienda, quindi una missione che
ancora non si sa se andrà bene o andrà male, ma ci si sente pronti ad affrontala. In questo caso c’è
un’attenzione ad attrarre persone che siano disposte a sopportare anche un certo livello di rischi.
3. C’è, poi, una terza strategia che è tipicamente basata sui meccanismi di attrazione omofilici e sulla
somiglianza, la strategia di azienda locale. Si fa sentire alla persona quanto si è simili, quante
caratteristiche si hanno in comune e tipicamente lo si fa utilizzando le storie di lavoratori che sono
già occupati all’interno dell’azienda (testimonial). In questo caso si cerca di generare quelle che
sono le aspettative realistiche sul lavoro, quindi né di suscitare eccessive aspettative implicite, né di
essere eccessivamente stringenti sugli aspetti strumentali.

INTERNAL BRANDING
Tutto quello detto finora attiene all’employer branding esterno, cioè rivolto al mercato esterno del lavoro,
per indurre i meccanismi di attrazione che portino il lavoratore a scegliere l’azienda.
Quando parliamo, invece, di politiche di internal branding, stiamo parlando di una serie attività rivolte al
mercato interno del lavoro, quindi ai nostri collaboratori attuali. In questo caso, a cosa mira l’attività di
employer branding? Se nel mercato esterno del lavoro mirava all’attrattività, in questo caso mira a dare
un’immagine del datore di lavoro che incentivi la fedeltà del lavoratore, e quindi il fatto che il lavoratore
scelga continuamente quel datore di lavoro (retention dei lavoratori).
Il presupposto in questo caso è che i lavoratori sono considerati come dei clienti e l’esperienza di lavoro è
considerata come il prodotto su cui bisogna incrementare il senso di fedeltà.
Come si fa ad attivare questo tipo di comportamenti di retention? Sicuramente anche azionando le leve
relazionali a disposizione dell’azienda.

LA LEVA RELAZIONALE
Cosa significa far leva sulle relazioni? Significa gestire le relazioni in modo da potenziare le competenze
possedute dal capitale umano, trasformarle in capitale relazionale e alimentare le competenze
organizzative.
Le competenze degli individui sono incrementate dal sub-strato di relazioni sociali che ci sono all’interno
dell’organizzazione e grazie alla capacità di far leva su questo sub-strato di relazioni è possibile ampliare la
disponibilità totale di competenze organizzative. Partendo da questo presupposto stiamo dicendo che la
qualità delle relazioni può potenziare o depotenziare le competenze individuali.

153
Incrociando le due variabili, qualità delle relazioni e competenze individuali, possiamo ottenere diverse
configurazioni d’azienda:

- Azienda competente: basse competenze ma una qualità della relazione molto forti. Cosa succede
in questi casi? Si pensi per esempio ad un team di lavoro di una società di consulenza che fa una
riunione con dei clienti su una materia che però non conosce molto bene, quindi tutti i membri del
team hanno basse competenze, però sono un team affiatato e quindi durante la riunione non fanno
vedere che non hanno competenze, ma ciascuno cerca di supportare l’altro. Si instaura, quindi, un
clima molto positivo che fa sorvolare, magari, il cliente su dettagli tecnici della proposta
commerciale che stanno facendo, perché comunque trasmettono un senso di affidabilità, di fiducia
nel cliente. In questo caso l’immagine che da l’azienda è quella di un’azienda ugualmente
competente. Le competenze organizzative in questo caso sono valorizzate anche se le competenze
individuali sono basse, quindi facendo leva sulla qualità delle relazioni.
- Azienda incompetente: nel caso in cui abbiamo un team di lavoro molto competente ma con
pessima qualità della relazione, non posso far leva sulla relazione. In questo caso, durante la
riunione succede che ciascuno tende a mettere in difficoltà l’altro, tenderà a bocciare l’idea
dell’altro per far vedere, magari, che è più competente; allora in questo caso abbiamo competenze
tecniche elevate, eppure una bassa qualità delle relazioni. L’azienda da l’immagine di un’azienda
completamente incompetente.
- Azienda inconsistente: è un’azienda dove non si può far leva né sulla qualità delle relazioni, né
tantomeno sulle competenze degli individui.
- Azienda eccellente: la leva relazionale si attiva in quelle aziende che riescono ad ottenere elevati
livelli di competenze individuali, elevati livelli di qualità della relazione per ampliare le competenze
organizzative e dare un’immagine di azienda eccellente. Le aziende che possono essere collocate
nella sfera di azienda competente devono sempre tendere ad andare nel quadrante superiore.

LA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA
Attività di comunicazione rivolte sia verso l’interno che verso l’esterno dell’organizzazione, che sia in grado
di orientare i comportamenti degli individui e di trasmettere i tratti dell’azienda stessa (Invernizzi). Si
articola in:

154
Comunicazione funzionale. Comunicazione in grado di fluidificare i processi organizzativi (=gestione
operativa) (comunicazione tra i diversi dipartimenti, sulle linee di montaggio, con le sale operative,
ecc.).
Comunicazione informativa. Mira a far conoscere all’interno o all’esterno quelli che sono i valori
dell’azienda. Enel ha fatto una campagna comunicativa molto forte sui cosiddetti 4 valori di cui si fa
portatrice.
Comunicazione creativa. Fa riferimento a tutti i momenti di comunicazione intesa come knowledge
sharing, cioè come condivisione di conoscenza che porta poi all’innovazione e alla creazione
all’interno dell’organizzazione.
Comunicazione formativa. Tutte le attività di comunicazione volte alla formazione degli individui
sulle caratteristiche dell’azienda, sulle modalità di svolgimento del lavoro e così via.
In senso più ampio, la messa a sistema di tutti questi tipi di comunicazione permette di adottare quella che
viene definita la comunicazione strategica, cioè che sia in grado di orientare i comportamenti alla
soddisfazione degli obiettivi strategici dell’azienda stessa.
Come comunicare? Possiamo o adottare una comunicazione mediata dalle persone oppure, grazie allo
sviluppo negli ultimi anni degli strumenti tecnologici e dell’ICT, adottare una comunicazione mediata da
strumenti informatici.

Quando comunichiamo attraverso strumenti di questo tipo abbiamo un certo livello di efficientamento. Ci
sono però dei casi in cui si ha un sovraccarico informativo, cioè troppe informazioni sulla stessa cosa fanno
sembrare come se non ci fosse nessuna informazione perché non si riesce più a stabilire qual è la fonte a
cui far riferimento. Fondamentale è dunque sempre il ruolo delle persone e soprattutto il ruolo della linea
intermedia. Quando abbiamo parlato della struttura organizzativa, ci siamo soffermati sulla linea
intermedia e abbiamo detto che aveva un ruolo informativo importante sia nella direzione verso l’alto,
quindi nel raccogliere informazioni dalla linea operativa verso il top management, sia verso il basso, cioè nel
declinare gli obiettivi nella linea operativa. Ecco perché il ruolo informativo della linea intermedia continua
a rimanere un ruolo fondamentale.

LEZIONE 16
SVILUPPARE IL CAPITALE UMANO
Perché è diventata importante negli ultimi anni la formazione del capitale umano?
Come sappiamo noi ci troviamo nella knowledge-based economy, “economia basata sulla conoscenza”:
l’idea centrale di questi modelli economici è che sia la conoscenza a produrre valore, sia il capitale umano a
produrre valore perché è attraverso il capitale umano che in realtà noi abbiamo maggiori incrementi di
produttività all’interno del sistema produttivo. Ed ecco perché diventa sempre più importante la gestione
della conoscenza all’interno delle aziende. Che cosa significa? Che da ormai una ventina di anni a questa
parte le aziende non fanno altro che dotarsi, in misura sempre maggiore, più strutturata, di strumenti,
politiche rivolte al knowledge management, cioè alla gestione della conoscenza. Pensate alle comunità di
155
pratica e alla loro importanza, ai centri di competenza a livello istituzionale, alla condivisione della
conoscenza per l’innovazione dei prodotti e dei processi. Tutto questo si inserisce nella definizione più
ampia di quella che noi concepiamo come organizzazione che apprende, learning organization: un
apprendimento continuo, un’organizzazione in grado di partire dalle competenze individuali e trasformarle
in competenze organizzative. In che modo? Fornisce ai propri individui strumenti per incrementare i propri
asset, il proprio bagaglio di saperi, di abilità e competenze e l’individuo lo trasporta nel suo ambito
lavorativo, lo socializza, lo contestualizza quindi diventa specifico, e lo trasforma in competenza
organizzativa.
Che cosa sono le politiche di formazione?
Definizione: Insieme di attività finalizzate a far acquisire, mantenere e a sviluppare, nelle persone che
fanno parte dell’organizzazione, le competenze sia tecniche che trasversali necessarie per ricoprire il loro
ruolo organizzativo.
OBIETTIVI:
- accrescere il capitale umano;
- intervenire e far leva su quelle che sono le variabili di commitment, l’impegno nei confronti
dell’organizzazione, ad agire nell’interesse dell’organizzazione. Infatti la formazione rientra nel
contenuto del contatto psicologico e proprio per questo è in grado di incidere sull’accrescimento
dei livelli di commitment da parte del lavoratore. Un’azienda che investe su di me, che crede in me,
perché poi c’è sempre il duplice aspetto della formazione - è un costo per l’azienda ma un
investimento da parte della stessa. Quindi un lavoratore che si sente valorizzato è un lavoratore che
si impegna nella relazione.
SECONDA CARATTERISTICA: sono attività rivolte sostanzialmente ad un mercato del lavoro interno. Che tipo
di competenze? Delle competenze che siano sia tecniche, quindi competenze più hard, ovvero che hanno a
che fare con il contenuto del lavoro in senso stretto, quindi tecniche e professionali, sia soft intese come
competenze trasversali, che possono essere applicate in più contesti e che danno al lavoratore la capacità
di agire in maniera autonoma in contesti non strutturati. Se io formo al problem solving non sto dando una
competenza tecnica specifica, ma gli sto dando uno strumento per capire come deve fare in situazioni di
incertezza. E allora che cosa faccio? Lo formo su aspetti trasversali: problem solving, gestione dello stress,
e così via… Competenze tecniche e trasversali necessarie a ricoprire il ruolo.
Perché non si parla di posizione ma di ruolo?
Perché nella posizione ci possono essere più ruoli. Quindi non soltanto la posizione in senso stretto intesa
com’è (insieme di compiti e mansione) ma anche come comportamenti. Vi ricordate il ruolo è un insieme di
aspettative di comportamento che si ha rispetto ad una posizione. Ecco perché ci possono essere più ruoli.
Quindi “le competenze necessarie rispetto al ruolo”: ci dice sostanzialmente che la formazione è rivolta non
soltanto a trasferire nozioni teoriche come la conoscenza, abilità pratiche come le skills, ma anche
competenze comportamentali. Vedete proprio nella definizione ritroviamo un po’ tutto.
Tuttavia abbiamo detto che le politiche di formazione hanno una duplice veste: da un lato rappresentano
un costo dall’altro un investimento. Proprio per questa duplice natura purtroppo presentano una serie di
criticità come investimento:
- I risultati di questo investimento possono essere incerti. Non è detto che io formi una persona che
poi effettivamente attraverso il suo comportamento attivo trasformi quella conoscenza in
competenza applicata alla mia organizzazione.
156
- È molto probabile che possa abbandonare l’organizzazione quindi io perdo l’investimento (questa
era una delle cause principali di nascita del mercato interno del lavoro). Questo è dovuto al fatto
che i rendimenti dell’investimento in formazione non sono, si dice, interamente appropriabili
dall’impresa perché sono condivisi in parte con il lavoratore e presuppongono un comportamento
attivo del lavoratore per essere trasformato in rendimento. È il lavoratore che poi applicando la
competenza trasforma l’investimento in rendimento duraturo nel tempo.
- Sono politiche che purtroppo non possono essere messe in campo da tutte le tipologie di aziende.
Le PMI (aziende medio piccole) hanno difficoltà sia per disponibilità di strumentazioni di aule, di
risorse monetarie, perché poi la formazione costa. Gli investimenti in formazioni sono una delle
voci della contabilità delle risorse umane che conta di più.
- Un’altra criticità è il fatto che purtroppo molto spesso si creano dei comportamenti discriminatori.
In che senso? Proprio in virtù della ragion di esistere dei mercati interni del lavoro, le politiche di
formazione sono per lo più indirizzate ai lavoratori stabilizzati all’interno dell’azienda, ovvero quelli
assunti con contratti tipici, a tempo pieno e indeterminato. Per i lavoratori assunti con contratti
atipici, quindi pensate a tutto ciò che si discosta da questa tipicità, la formazione generalmente si
ferma a salute e sicurezza sul lavoro che è obbligatoria per legge. Si investe poco in sviluppo
personale e professionale per i lavoratori atipici.
Quali sono le condizioni che determinano se è conveniente o meno investire sulla formazione?
Sono principalmente 3:
1) indisponibilità sul mercato esterno del lavoro di persone che abbiano le competenze di cui
l’organizzazione necessita, e di qui la necessità di formarle internamente (preferisco formarle piuttosto che
ricorrere al mercato esterno del lavoro rischiando di non trovarle);
2) devono essere non facilmente trasferibili, perché è un investimento che da risultati incerti, che non è
interamente appropriabile e quindi dobbiamo avere quanto meno la sicurezza che non possano queste
competenze essere traferite in altri contesti altrimenti perdo tutto il rendimento, perdo tutto il potenziale
di valore che volevo generare attraverso l’investimento in formazione;
3) fondamentale punto e collegato alla seconda condizione è la capacità di trattenere il lavoratore con
politiche complementari e adeguate. Cioè che cosa significa? Non soltanto la mia decisione di investimento
dipende dalla possibilità di formare delle competenze molto specifiche in imprese e quindi distintive, ma
anche di dotarmi di sistemi di gestione HR che siano fortemente coerenti e che quindi premino le sinergie e
la complementarietà tra le politiche e la formazione. Che cosa significa? Se io faccio un elevato
investimento in formazione, ad esempio su tutti i PM ( product manager ) della mia azienda dovrò
complementariamente anche fornire delle retribuzioni adeguate proprio per evitare che abbandonino la
mia azienda e che quindi portino le competenze che io ho formato all’esterno, in altre aziende. E noi
sappiamo che soprattutto per le competenze manageriali la maggior parte delle competenze formate sono
trasversali, quindi sono facilmente trasferibili. Ecco perché la necessità di accompagnare la politica
retributiva che siano in grado di trattenere il lavoratore e quindi questo potenziale di rendimento
all’interno dell’azienda.
Riprendiamo la definizione di politiche di formazione e cerchiamo di capire meglio quali sono gli effetti
della formazione.
“Insieme di attività finalizzate a far acquisire, mantenere e a sviluppare, nelle persone che fanno parte
dell’organizzazione, le competenze sia tecniche che trasversali necessarie per ricoprire il loro ruolo
organizzativo.”
157
La formazione che cosa fa? Introduce dei cambiamenti negli individui. Quindi è un processo che introduce
dei cambiamenti in termini di trasformazione del capitale umano degli individui (insieme di conoscenze,
abilità e competenze comportamentali). Quando questa trasformazione del capitale umano si dice forte
vuol dire che noi stiamo formando delle competenze, delle abilità, generali, quindi che incidono sulla sfera
generale delle competenze del lavoratore e che sono anche facilmente trasferibili. Perché? Perché non
sono specifiche al contesto in cui vengono utilizzate, ecco perché si dicono forti. È questo il senso della
formazione in senso stretto: il trasferimento di competenze che non sono specifiche al singolo contesto ma
che servono all’individuo anche per gestire contesti incerti e destrutturati. Quando invece parlo di
trasformazione debole del capitale umano sto parlando di addestramento, in prevalenza. Perché in
generale la trasformazione debole del capitale umano comporta il trasferimento di abilità, conoscenze e
competenze che sono specifiche all’interno di un determinato contesto organizzativo, quindi sono
difficilmente trasferibili. Ecco perché in questi casi si parla prevalentemente di addestramento. Pensate per
esempio proprio all’addestramento militare: gli individui sono formati sul campo.
Che sia forte o che sia debole, questo cambiamento prodotto dalle politiche di formazione è sempre dovuto
all’esistenza di un processo di apprendimento che porta all’acquisizione di un nuovo comportamento
all’interno dell’individuo, proprio in virtù dell’acquisizione delle nuove competenze, conoscenze e abilità.
Nel tempo si sono susseguite diversi approcci teorici sulle modalità di apprendimento degli individui.
Adesso le vediamo più nel dettaglio perché questi approcci ci sono molto utili nel momento in cui andiamo
a definire i diversi modelli di apprendimento, che vanno ad incidere direttamente sulla riuscita di un buon
piano di formazione perché fanno molto leva su quelli che possono essere le eventuali criticità a livello
motivazionale dell’individuo, proprio perché ci dicono come gli individui apprendono e quindi dove
dobbiamo attivare le varie leve.
I) Una prima teoria su come gli individui apprendono è quella dello stimolo-risposta (es. Le teorie del
rinforzo). Siamo agli inizi del 900 e tipico esempio è quello del cane di Pavlov: allo stimolo del
campanello il cane apprende un comportamento e quindi soltanto sentendo il campanello, non
vedendo la ciotola con il cibo, attiva l’apparato digestivo. Che cosa si dice? In generale tutte le
teorie che fanno capo al Comportamentismo ci dicono che l’apprendimento non è altro che una
mera risposta ad uno stimolo. Tali teorie si limitano all’attivazione del livello sensoriale (campanello
o la vista della ciotola); è soltanto il livello sensoriale che attiva il processo di apprendimento,
quindi non abbiamo attivato il livello cognitivo: il cane sente il campanello, il cane vede la ciotola e
attiva un comportamento ma non elabora l’informazione ricevuta, per lui è più semplice rispondere
allo stimolo ricevuto.
Successivamente, a metà del 900, si comincia a capire un po’ la limitatezza di questa teoria sui
modelli di apprendimento e quindi si fanno avanti tutte le cosiddette teorie cognitiviste
sull’apprendimento. Sostanzialmente queste teorie dicono che non è vero che l’apprendimento è
soltanto una mera risposta ad uno stimolo, ma l’apprendimento è tale quando presuppone
l’interpretazione e l’elaborazione delle informazioni ricevute. Ecco che si attiva anche il livello
cognitivo, non solo il livello sensoriale. Come vengono elaborate queste informazioni ricevute? Alla
luce del set di informazioni pregresse che ha l’individuo. Ecco perché quando si fa un piano di
formazione è sempre bene essere consapevoli del livello di partenza delle competenze degli
individui e delle loro esperienze.

II) Costruttivismo: siamo negli anni 80. Secondo le teorie costruttiviste l’apprendimento avviene
mediante la partecipazione attiva del discente, cioè è il discente stesso che costruisce i significati e
158
quindi che partecipa alla costruzione attiva della conoscenza. Infatti l’apprendimento deve essere
più orientato alla conoscenza, più orientato all’apprendimento, piuttosto che alla materia da
trasmettere, alle nozioni da trasmettere. Questo tipo di apprendimento è contestualizzato. Che
cosa significa? Che il discente lo costruisce attivamente mediante la contestualizzazione alla sua
situazione. Quindi non soltanto recepisce informazioni e le elabora in virtù del suo set di
informazioni precedenti, ma anche applicandolo concretamente al suo contesto, quindi
contestualizzandolo. Da qui il termine costruttivismo proprio perché la prospettiva è di costruzione,
non solo di assimilazione.

III) Nel frattempo si erano sviluppate tutta una serie di teorie che appartenevano al filone della
cosiddetta andragogia: significa studiare l’apprendimento degli adulti. Precedentemente tutte le
teorie assimilavano l’apprendimento degli adulti a quello dei fanciulli, quindi non facevano una
grande differenziazione. A partire dall’affermazione di questa teoria si fa una netta differenza tra
quella che è la pedagogia, quindi l’apprendimento nei fanciulli, e l’andragogia ovvero come
apprendono gli adulti. Questa è stata la vera svolta degli anni 60 in termini di knowledge
management e degli stili e modelli di apprendimento, perché per la prima volti si è detto che gli
adulti interagiscono in maniera diversa dei fanciulli e quindi apprendono in maniera diversa perché
sostanzialmente sono caratterizzati da 4 elementi che li distinguono dai fanciulli:
1. La concezione che hanno di se stessi: i fanciulli concepiscono se stessi come dipendenti
rispetto ai genitori. Quindi hanno sempre un punto di riferimento. Hanno appreso dai
genitori mediante modalità di apprendimento fondate su questa dipendenza e quindi
traducono questo anche nell’apprendimento con i docenti. Viceversa gli adulti hanno una
concezione di se indipendente, quindi di responsabilità rispetto alle loro azioni, vogliono
sentirsi autonomi nella gestione della propria vita e delle proprie scelte, altrimenti non
sarebbero adulti. Fondamentale nella progettazione dei percorsi formativi per gli adulti è
tenere in considerazione il fatto che gli adulti vogliono gestire autonomamente la loro
formazione. Che cosa significa? Io non vi assegno dei compiti da fare a casa, non verifico
continuamente la vostra preparazione, vi do degli input, voi siete liberi di gestire
autonomamente il modo in cui lavorare, sul produrre il vostro apprendimento. C’è chi fa gli
schemi, chi ripete ad alta voce, chi sottolinea, chi studia da solo, chi studia in gruppo. Non
c’è un unico modo, ognuno è libero di gestire, approfondire e sorvolare ogni cosa. Alla fine
il confronto finale verifica l’apprendimento.
2. Bisogno di conoscere. Che cosa significa? Gli adulti apprendono meglio se sanno fin da
subito quali sono gli obiettivi di ciò che stanno imparando. Quindi fin da subito devono
avere consapevolezza degli obiettivi della formazione e della sua utilità, cioè come questi
contenuti saranno poi utili al loro contesto, utili a loro nel mondo del lavoro.
3. Il ruolo dell’esperienza. Questo è un ruolo fondamentale e può essere una leva
motivazionale fondamentale all’interno delle politiche di formazione, perché a differenza
dei fanciulli gli adulti entrano in aula con un’esperienza, con un bagaglio, loro sanno
determinate cose e hanno un bagaglio formativo iniziale molto molto più ampio e variegato
rispetto ai fanciulli, quindi sanno elaborare anche meglio e interpretare anche meglio,
hanno più prospettive da prendere in considerazione. Una modalità spesso utilizzata per
introdurre l’esperienza del discente all’interno del percorso formativo è proprio quella di
farla presentare dal discente stesso e poi mediante l’esperienza trarre da essa i concetti e le
nozioni teoriche da portare nell’aula in generale, oppure fare sempre richiami
all’esperienza che stanno vivendo o hanno vissuto in passato.
159
4. Disponibilità ad apprendere. Mentre i bambini apprendono come dato di fatto, in maniera
passiva, gli adulti hanno un forte interesse ad apprendere perché quello che apprendono gli
servirà sul lavoro, quindi hanno utilità stretta per le loro attività lavorative.

IV) Approccio sociale e situato. È uno dei più importanti e la maggiore esponente è Silvia Gherardi,
una delle studiose di Knowledge Management più conosciute in Italia. Che cosa dice questo
apprendimento? L’apprendimento non è soltanto un processo mentale, qualcosa che avviene nella
mente degli individui, ma che si costruisce socialmente. Ecco perché l’importanza di costruire reti
adeguate di supporto, reti tra colleghi. Questa è la teoria su cui si base la creazione delle comunità
di pratica costituite nelle aziende. Creare delle comunità che facilitino il processo di apprendimento
che non avviene nella mente ma avviene nelle interazioni, quindi nel contesto. C’è poi uno stadio
ulteriore di questa prospettiva che viene chiamata modello della socio-materialità di Ornikoski e
Lombardi che va dal 2000 ad oggi che dice che non soltanto l’individuo apprende interagendo con
gli altri e con il proprio contesto, ma apprende anche con il materiale (per materiale si intende la
tecnologia).

V) Approccio dell’apprendimento esperienziale. Maggiore esponente David Kolb. Questo modello


afferma che il processo di apprendimento avviene attraverso 4 fasi: 1) esperienza concreta 2)
osservazione riflessiva 3) formulazione di concetti astratti e generalisti 4) sperimentazione attiva.
Secondo Kolb il processo di apprendimento può partire da una qualsiasi di queste fasi ma, affinché
sia efficiente, deve necessariamente partire da una fase in particolare, cioè quella dell’esperienza
concreta. Che cosa significa? L’esperienza concreta sostanzialmente dà un’idea di quella che è
l’applicazione concreta dell’oggetto di apprendimento. Esempio: entro in aula e vi presento il caso
FIAT: vi sto dando un’esperienza concreta di un futuro oggetto di apprendimento. Affinché questa
esperienza sia trasformata in conoscenza e non venga dispersa è necessario un momento di
osservazione riflessiva, cioè è necessario un momento in cui riflettere sulle conseguenze e le
implicazioni che ha quella determinata esperienza. Riflettendo su queste conseguenze e sulle
implicazioni si astraggono in via sempre maggiore delle nozioni teoriche. Ultima fase è la
Sperimentazione attiva: affinché la conoscenza diventi competenza è necessario che l’individuo la
applichi in un contesto diverso da quello in cui l’ha appresa. Secondo questo modello questo è il
ciclo ideale di apprendimento. Si può sempre applicare? NO, soprattutto quando le aule sono molto
ampie è necessario prima dare concetti e poi fare degli esempi concreti e degli esempi pratici. Ecco
perché generalmente la tipica lezione frontale è la presentazione dei concetti teorici partendo dalla
formulazione dei concetti astratti, passiamo alle osservazioni riflessive e poi presentiamo un caso in
cui riscontro le implicazioni trovate e concetti teorici spiegati e talvolta si può aggiungere un lavoro
che è quello della sperimentazione attiva. In questo modo si possono combinare diverse modalità
di fare formazione. Questo modello non si esaurisce in queste fasi di apprendimento ma afferma
anche che i processi di apprendimento sono condizionati dagli stili di apprendimento, ed è questo
un altro motivo per cui non è sempre unica la logica di impostazione dei processi di apprendimento
in aula, perché ogni individuo ha il suo stile di apprendimento e per ogni individuo ci sarà una
sequenzialità che faciliterà o meno la posizione di determinate conoscenze. Per esempio un primo
stile di apprendimento è quello dell’accomodatore, che è la persona che trae maggiore esperienza
maggiore assimilazione dall’esperienza quindi quando viene a conoscenza del caso concreto
dell’oggetto di apprendimento. L’altro profilo è quello del convergente, che assimila attraverso la
160
sperimentazione attiva, cioè quando è egli stesso a mettere in campo una determinata competenza
appresa.
Qual è la differenza tra esperienza concreta e sperimentazione attiva? L’esperienza concreta è un
caso anche semplicemente ascoltato o analizzato quindi qualcosa a sé, mentre la sperimentazione
attiva è proprio qualcosa sperimentato dalla persona.
Altri due profili sono invece il divergente che ha uno stile di apprendimento in cui l’assimilazione
deriva sostanzialmente dall’osservazione continua e ripetuta di determinate situazioni e
implicazioni su cui riflette. È sostanzialmente un individuo che bisogno di più prove che con un
approccio deduttivo da queste prove trae l’astrazione dei propri concetti.
L’ultimo profilo è quello dell’assimilatore che è una persona che ha uno stile di apprendimento
prevalentemente induttivo. Tende fortemente al ragionamento, è una persona che soltanto prima a
livello logico deve capire le connessioni tra le cose e poi, dopo, sperimentarle. Bisogna avere prima
chiaro quella che è la nozione teorica, i meccanismi causali che legano le cose, fare un
ragionamento logico, con questa base posso affrontare gli altri step.
TIPOLOGIE DI APPRENDIMENTO
Le tipologia di apprendimento possiamo differenziarle su tre aspetti che sono: intenzionalità ad
apprendere, cioè quanto io ho consapevolezza del fatto che sto apprendendo; strutturazione del contesto;
presenza di un riconoscimento finale.
Quando parliamo di apprendimento formale stiamo parlando di quest’aula: c’è intenzione ad apprendere,
c’è una situazione strutturata (aula, microfono, lavagna, modalità di lezione, orario) ed è previsto un
riconoscimento finale.
Apprendimento non formale: ha una intenzionalità perché ha un momento di apprendimento(esempio: si
assegnano lavori di gruppo), non è formale perché siete voi a decidere la strutturazione del contesto. C’è
intenzionalità di apprendere perché mettete intenzioni e consapevolezza in quello che state facendo. C’è
riconoscimento finale dipende se il docente riconosce o meno il lavoro che state facendo.
Apprendimento informale: non richiede nessuno di questi elementi. È un apprendimento che avviene in
maniera completamente tacita ovvero non c’è intenzione ad apprendere, si apprende tacitamente dalle
esperienze quotidiane (learning by doing); non c’è un contesto strutturato; non c’è un riconoscimento
finale. Ecco perché poi si ha la necessità di riconoscere le conoscenze tacite perché talvolta sono gli stessi
individui che non hanno consapevolezza delle proprie conoscenze e quindi l’organizzazione cerca di farle
uscire dalle persone e trasformarle in codici: codificare la conoscenza.
Ultima notazione sul cambiamento che può avvenire attraverso le politiche di formazione (abbiamo detto
trasformazione del capitale umano forte e trasformazione del capitale umano debole), è la formazione
all’apprendimento: cioè formare all’apprendimento continuo, quindi mantenere sempre attivi i propri
processi di apprendimento. Essere consapevoli di quando si ha bisogno di mantenere vivi i processi di
apprendimento.

IL PROCESSO FORMATIVO
Si costituisce di 4 fasi fondamentali: 1) analisi dei fabbisogni; 2) progettazione: stabilire tutti gli elementi
che entreranno a fare parte del piano formativo; dobbiamo scegliere i docenti, scegliere le aule, scegliere i
destinatari e quindi fare una segmentazione, scegliere se fare un test preselettivo, scegliere una serie di
cose che entreranno a far parte del piano formativo; 3) realizzazione del piano formativo; 4) valutazione.

161
Siamo sempre interessati a conoscere quello che è il valore prodotto dalla DRU, quindi valutiamo ogni
singolo processo e lo valuteremo in termini di efficacia, efficienza e, in termini più generali, attraverso un
indicatore di sintesi che è il ROI della formazione.
Fase 1: ANALISI DEI FABBISOGNI FORMATIVI
Definizione: attività di ricerca e raccolta di dati ed informazioni utili a comprendere e definire le effettive
necessità di apprendimento degli individui e dell’organizzazione.
In questo caso l’obiettivo è duplice. L’organizzazione ha interesse a capire quali sono le esigenze formative
tanto dal lato degli individui quanto dal lato dell’organizzazione stessa.
Analisi fabbisogni organizzativi: che cosa significa? La DRU (process owner) verifica le esigenze formative
che sono necessarie a compiere quella che è la strategia di impresa. Come si fanno a rilevare questi
fabbisogni organizzativi? Tipicamente tramite delle survey di soddisfazione della clientela, oppure tramite
interviste ai manager o alla funzione HR. Esempio: ENEL in virtù del cambio di strategia che c’è stato e
hanno definito la loro strategia Open Power, da qui emergeva una cosa importantissima che c’era un
problema nella leadership dei capi: l’ostacolo maggiore alla trasformazione verso open power era ancora
questo vecchio stile di leadership ancorato alla vecchia concezione di ONE COMPANY cioè prima erano
un’unica impresa, chiusi al loro interno, tutto molto centralizzato, ora invece la strategia è opposta, open,
flessibilità, destrutturazione e quindi grazie alle indagini ENEL aveva capito che nei programmi di
formazione la prima linea da coinvolgere erano i capi per cambiare le loro competenze trasversali e quindi
gli stili di leadership.
Analisi fabbisogni professionali: in questo caso quale esigenza formativa che si va a rilevare? Quella che
nasce in relazione alle caratteristiche legate ai compiti della posizione lavorativa. Esempio di ENAV: ha
disposto una accademy interna che forma i controllori di volo, che forma sulle competenze e compiti
specifici legate ad una determinata professionalità; è come se si formasse un piccolo centro di competenza
all’interno dell’azienda.
Analisi fabbisogni individuali hanno due obiettivi: da un lato cercano di valutare le esigenze formative
rispetto alle caratteristiche della posizione che l’individuo ricopre; dall’altro cercano di individuare quelle
competenze necessarie al suo sviluppo professionale. In questo caso si può adottare un approccio di
adeguamento delle competenze possedute dall’individuo rispetto al contenuto della posizione, quindi si
valuta se c’è uno scostamento fra gli standard minimi che ci si aspetta da una posizione ricoperta e quelli
adottati dall’individuo. È una logica di mero adeguamento alla posizione, quindi rilevo le esigenze formative
per cercare di adeguare l’individuo alla posizione che deve ricoprire. Il secondo approccio invece è più
sfidante e dice che non è solo la logica di adeguamento a trainare le esigenze di formazione ma è una logica
molto più ampia, che guarda allo sviluppo professionale del lavoratore, quindi di che cosa ha bisogno
l’individuo per ampliare il suo baglio di competenze personali e professionali. Esempio BNL: c’è una pratica
molto positiva nei confronti della formazione in cui dopo la performance review, il colloquio di valutazione
delle performance che c’è tra capo e lavoratore subordinato, insieme questi decidono qual è il percorso
formativo più adatto rispetto alle esigenze di sviluppo professionale dell’individuo stesso.
Fase 2: PROGETTAZIONE DEL PERCORSO FORMATIVO
Insieme di attività volte alla specificazione delle esigenze formative emerse all’interno del piano di
formazione, in termini di:
- Creazione di un ambiente positivo alla formazione e all’apprendimento. Che cosa significa?
Rimuovere tutti gli ostacoli che in qualche modo dal punto di vista gestionale, del contesto sociale o
162
della motivazione individuale possano in qualche modo inficiare il processo di apprendimento, e
quindi bloccare la creazione di conoscenza nell’individuo. Dal punto di vista organizzativo bisogna
fare un’attenta valutazione, cioè verificare se dal punto di vista gestionale ci sono tutte le
opportunità per mettere in campo un piano di formazione quindi se ci sono le aule giuste, c’è il
tempo, c’è il budget da investire e anche dal punto di vista sociale, cioè verificare che ai lavoratori
effettivamente sia dato il tempo di partecipare alle iniziative di formazione evitando che la
formazione poi si innesti in un sistema che poi porta ad un maggiore stress al lavoratore. Bisogna
poi lavorare molto sulla motivazione individuale: creare contesti giusti, contenuti adeguati, far
capire quali sono gli obiettivi, le utilità, creare le reti tra i colleghi (è stato dimostrato che una
persona apprende maggiormente quando può fare affidamento sulla propria rete di supporto). Il
calo della motivazione individuale è ciò che maggiormente ostacola l’apprendimento.
- Definizione degli obiettivi dell’apprendimento. Decidere quali sono le competenze da trasmettere
in termini di conoscenze (sapere teorico), skills/abilità (sapere empirico, saper fare),
comportamento (saper essere) nb: quando parliamo di competenze parliamo sempre di
conoscenze, abilità e comportamenti.
- Scelta dell’approccio formativo. Che approccio adotto? Approccio deduttivo o induttivo? Deduttivo
ovvero che approccio che mette al centro l’insegnamento, mette al centro la materia da
trasmettere. Come organizziamo i contenuti? Li organizziamo prevalentemente mediante nozioni
teoriche e rappresentazioni di esperienze empiriche da cui il discente trae, deduce e apprende.
Induttivo, invece, non mettiamo al centro la materia ma l’apprendimento stesso, quindi il discente
e i suoi bisogni. In questo caso quello che voglio ottenere non è tanto un bagaglio di nozioni
teoriche che il discente deve apprendere quanto un insieme di competenze: capacità e
comportamenti attivi. In questo caso i contenuti della formazione sono generalmente basati su
sperimentazioni pratiche: innanzitutto l’esperienza concreta viene calata in quella che è la realtà
dell’azienda committente (quelle che pagano la formazione) e l’apprendimento è agevolato
mediante la sperimentazione attiva cioè mediante l’applicazione di determinate conoscenze alla
propria realtà di lavoro quotidiana.
- Metodologie didattiche e modelli di apprendimento (vedi avanti).

Scelta dei DOCENTI: ci rivolgiamo all’interno oppure all’esterno? In genere si ricorre a delle figure
interne (manager o dirigenti) quando o non riesco a reperire facilmente quelle competenze al di
fuori perché sono assolutamente contestualizzate e specifiche alla realtà aziendale oppure quando
devo valorizzare l’esperienza di un manager (magari questo manager ha partecipato negli ultimi
anni a dimostrazioni delle piattaforme petrolifere quindi soltanto lui può portare questa
esperienza), oppure quando si vogliono rafforzare i valori e la cultura aziendale. Si ricorre a docenti
esterni quando dobbiamo cambiare questi valori e cultura aziendale quindi abbiamo necessità di
persone con nuove competenze.
DESTINATARI: è impossibile declinare un unico piano di formazione per diversi destinatari. In
questo caso si ricorre alla segmentazione del personale in modo da trovare piccoli gruppi di
interesse rispetto ai quali applicare specifici piani di formazione. Esempio: segmentazione del
personale per unità organizzativa. Se introduco un nuovo prodotto, quale funzione dovrò formare
primariamente? Funzione marketing, vendite. Un altro criterio di segmentazione= rispetto alle
competenze da trasmettere: se devo formare la classe impiegatizia farò un piano formativo in cui
avrò le classiche lezioni frontali, apprendimento per assorbimento; se devo formare degli ingegneri
che devono lavorare sul campo li devo portare sul campo, mediante metodi esperienziali che
portano al di fuori delle aule. Anche a livello di management si può fare la segmentazione. Ad
163
esempio quando introduco un nuovo modello di valutazione quindi prendo tutti i capi (segmento
per ruolo) e li formo sul metodo della distribuzione forzata perché poi dovranno andare ad
applicare nei loro piani di performance management le valutazioni sulle loro risorse di cui sono
direttamente responsabili.
ASPETTI LOGISTICI-ORGANIZZATIVI: bisogna fare una serie di valutazioni rispetto anche al budget.
CRITERI DI VALUTAZIONE: devono essere ben chiari fin dall’inizio in modo che il discente durante il
processo di apprendimento sappia anche come organizzare la sua conoscenza. Se mi aspetto un
test a crocette è diverso da se mi aspetto delle domande a risposta aperta o colloquio orale.
Fase 3: REALIZZAZIONE
Somministrazione del programma di formazione attraverso lo svolgimento delle attività didattiche e
controllo degli esiti attraverso interventi di monitoraggio in itinere (mettere in campo quello che abbiamo
progettato e controllarne in itinere gli esiti).
Fase 4: VALUTAZIONE DELLA FORMAZIONE
Obiettivo principale e fondamentale è verificare se quel cambiamento che si proponeva il processo
formativo si è verificato, se effettivamente c’è stato un cambio dei livelli di conoscenza. Quali sono gli
obiettivi derivanti dalla valutazione, perché noi valutiamo un processo di formazione? È fondamentale per
verificare la qualità della formazione e quindi se ci devono essere degli interventi correttivi nelle
formazioni successive, decidere se replicarla o meno (se non mi ha dato gli obiettivi sperati è inutile che
continuiamo ad investire parte del nostro budget), accrescere la credibilità degli interventi formativi, cioè
far vedere che effettivamente producono un risultato e giustificare l’importanza degli interventi di
formazione.

La valutazione può essere fatta in diversi momenti:


- Valutazione ex-ante: vogliamo verificare se il programma di formazione è adeguato rispetto agli
obiettivi che mi propongo.
- Valutazione in itinere: per dare la possibilità di spingere su alcune cose positive ed eliminarne altre
(interventi correttivi in itinere).
- Valutazione ex-post: serve a valutare la buona riuscita del piano di formazione e l’impatto anche in
termini di competenze, obiettivi raggiunti.
Questo dal punto di vista qualitativo. Dal punto di vista quantitativo è più complesso riuscire a misurare
l’impatto della formazione. Ci ha provato la linea degli studiosi della contabilità delle RU: hanno provato a
mettere su una serie di strumenti per misurare l’impatto della formazione in termini sia di costi della
formazione che di benefici (=esiti).
COSTI della formazione
Per i costi è stata proposta una contabilizzazione in termini di:
- Costo storico: fa riferimento all’investimento sostenuto, in valore assoluto, per la formazione,
rinviando eventualmente dei costi di utilità pluriennale negli anni successivi.
- Costo di sostituzione: alcuni studiosi hanno suggerito di considerare come costo della formazione
quello che servirebbe per sostituire il lavoratore con lo stesso livello di capitale umano, quindi con
lo stesso livello di conoscenze e competenze.
ESITI della formazione
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Andando a vedere come quantificare gli esiti della formazione, sono stati proposti principalmente due
metodi:
- METODO DEL VALORE ECONOMICO AGGIUNTO, cioè tutto ciò che residua del reddito dopo aver
coperto il costo del capitale, è creato dal capitale umano. Quello è l’impatto della formazione.
Questo metodo è sostenuto prevalentemente da coloro che ritengono il capitale umano come
fonte principale della creazione di valore.
- METODO ECONOMICO REDDITUALE consiste nella attualizzazione di quella parte di ricavi che è
direttamente attribuibile ai lavoratori formati, cioè al contributo che hanno dato quei lavoratori che
sono stati formati, alla creazione di reddito attualizzato.
Questi modelli hanno dei limiti poiché è difficile quantificare la conoscenza, in quanto il capitale umano fa
parte degli asset intangibili, ma danno dei parametri di riferimento su cui fare dei ragionamenti.
MODELLO DI KIRKPATRICK (1996)
Uno dei modelli più utilizzati per la valutazione della formazione è il modello di Kirkpatrick costituito da 4
momenti:
1) Valutazione della reazione, cioè misurare il livello di gradimento rispetto al piano formativo proposto.
Questo è fondamentale perché generalmente una reazione negativa rispetto al piano di formazione riduce
l’apprendimento del discente, quando non si è d’accordo con i contenuti, con le modalità, con gli approcci
c’è uno stato d’animo di rifiuto dell’apprendimento. Tuttavia non sempre le reazioni positive generano
apprendimento, per questo sono necessarie le altre fasi. La reazione si rileva attraverso test di gradimento
dei discenti;
2) Valutazione del livello di apprendimento. Valutare se i contenuti sono stati appresi, sia in termini di
formazione di skills sia in termini comportamentali, se il docente è stato in grado di traferire conoscenze e
comportamenti;
3) Comportamenti. Devo verificare il comportamento attivo, cioè se quello che i lavoratori hanno appreso
viene poi applicato sul lavoro. In molti casi si fa una rilevazione dopo circa 3/6 mesi e si chiede a capi o
colleghi se effettivamente il piano di formazione è stato utile e se coloro che hanno partecipato al piano di
formazione vanno ad applicare quelle conoscenze acquisite;
4) Risultati. Valutare dal punto di vista dell’efficacia e dell’efficienza l’impatto della formazione (vedere se
sono stati effettivamente raggiunti gli obiettivi e se si è stati efficienti nel raggiungerli).
Come rilevare i risultati? Possiamo usare due tipologie di indicatori: da un lato abbiamo gli indicatori di
efficienza e dall’altro degli indicatori di efficacia.
L’efficienza della formazione può essere valutata in termini di ore di formazione erogate, grado di
copertura, quindi quante persone sono state coinvolte nel processo di formazione, e i costi sostenuti per
erogare questa formazione.

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Mentre l’efficienza valuta sempre quanto l’azienda è stata brava a fare dei progetti da un punto di vista
economico e quindi in rapporto all’analisi costi-benefici, l’efficacia della formazione ci dice sempre il grado
di raggiungimento dell’obiettivo, cioè quanto è stato efficace un determinato progetto. In questo caso
parliamo di valutazione dell’efficacia della formazione quando stiamo valutando se l’intervento formativo
ha più o meno prodotto i risultati sperati, in termini ad esempio di aumento della produttività dei
lavoratori (individuale), soddisfazione dei clienti e risultati della valutazione individuale.
Un indicatore invece sintetico, quindi che possiamo utilizzare per vedere se effettivamente questo
investimento è stato in grado di restituirci qualcosa, è il rapporto tra i benefici ottenuti dalla formazione e i
costi sostenuti per la formazione (ROI della formazione).

Per quanto riguarda i benefici questi si possono distinguere in:


- benefici hard (produttività individuale, soddisfazione del cliente), quindi qualcosa che è effettivamente
misurabile.
- benefici soft, quindi ad esempio in termini di miglioramento del clima, perchè magari abbiamo fatto una
formazione sugli stili di leadership, quindi abbiamo inciso su un miglioramento soft, che magari non è
misurabile ma ha ugualmente un effetto positivo.
Per quanto riguarda invece i costi, questi sono tutti quei costi che abbiamo sostenuto genericamente intesi,
come ad esempio il pagamento dei docenti, le aule di cui abbiamo usufruito, i sistemi informativi che
abbiamo utilizzato se per esempio parte del corso è stato fatto in modalità e-learning e cosi via.
LEZIONE 17

I MODELLI DI APPRENDIMENTO
Oggi ci concentriamo sulle metodologie didattiche, quindi sui modelli di apprendimento e sulle varie
modalità di trasmettere conoscenza (generare conoscenza e apprendimento negli individui). Come
facciamo a distinguere 3 modelli di apprendimento? Usiamo 3 fattori:

166
- lo scopo, quindi qual è l’obiettivo formativo, che cosa vogliamo trasmettere.
- il mezzo, lo strumento utilizzato, quindi che cosa attivo per far si che il soggetto discente apprenda.
- il risultato, che cosa ottengo, che tipo di apprendimento ho generato.
Dalla combinazione di questi 3 fattori possiamo ottenere 3 diversi modelli di apprendimento:
1) Learning by absorbing (apprendimento per assorbimento): in questo caso l’obiettivo è trasferire
conoscenza, quindi trasferire nozioni e concetti teorici. Infatti è un tipo di metodologia didattica che
normalmente porta ad un risultato che è quello di un apprendimento passivo è il soggetto docente
che è attivo e trasmette i contenuti, mentre il discente li acquisisce e li immagazzina (il discente è
passivo). Quindi in questo caso parliamo di trasmissione e immagazzinamento delle conoscenze, nulla
sappiamo però sulla loro acquisizione e cioè se sono state effettivamente acquisite. La cosa certa è che
sono state trasmesse dal soggetto attivo, che è il docente.
Il mezzo che utilizziamo per stimolare questo tipo di apprendimento è l’ascolto. Questo tipo di
apprendimento stimola l’ascolto e di conseguenza la memoria, i concetti che vengono trasmessi in
qualche modo, anche se in misura ridotta, vengono immagazzinati attraverso la memoria.
2) Il discente diventa attivo quando abbiamo un altro modello di apprendimento che è il Learning by
doing (imparare facendo). L’obiettivo di questo modello di apprendimento è far partecipare il discente
stesso in maniera attiva alla costruzione della conoscenza. Il mezzo attraverso cui questo avviene è il
fare empirico, infatti questo è uno dei metodi più utilizzati per trasmettere il saper fare. Nel primo
modello invece si parla di sapere teorico. Quindi in questo modello otteniamo un apprendimento
attivo, in cui è il discente stesso è parte attiva della costruzione delle conoscenze e dell’interpretazione
dei concetti trasmessi.

3) L’ultimo modello, che si basa sull’approccio teorico che abbiamo chiamato Sociale-situato, della
Gherardi, è il Learning by interacting (apprendimento per interazione). Nei primi due casi abbiamo un
soggetto attivo, nel primo caso abbiamo il docente attivo che trasmette la conoscenza, nel secondo
caso è il discente attivo che mette in pratica e quindi assimila mediante il fare. In questo caso
l’apprendimento non è soltanto attivo ma è interattivo (mezzo), quindi presuppone un approccio
collaborativo, cioè si basa sul presupposto che l’apprendimento non avvenga soltanto a livello
individuale come processo mentale, ma come processo sociale.

167
METODOLOGIE DIDATTICHE
Le metodologie didattiche vanno distinte su diversi elementi:
- Obiettivo formativo, che cosa voglio trasmettere. Se voglio trasmettere un saper fare utilizzerò una
lezione d’aula, che è basata più su un approccio di assorbimento; se invece voglio trasmettere un saper
essere allora utilizzo più un metodo relazionale, basato sull’approccio di apprendimento collaborativo,
partecipativo.
- Strategia: una volta conosciuto il nostro obiettivo (che tipo di apprendimento generare), dobbiamo
scegliere in che modo farlo.
- Destinatari: dobbiamo decidere il nostro target.
- Costi di realizzazione: consiste nel fare il budget.
- Applicabilità alla realtà lavorativa: magari mi piace tanto una metodologia, ad esempio l’outdoor training,
però farvelo fare in aula sarebbe un pò complicato perchè si tratta di uscire fuori, fare sport, quindi attività
molto stimolanti anche dal punto di vista fisico e noi purtroppo siamo limitati nei mezzi e nei tempi.

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LEZIONE D’AULA
La prima metodologia didattica più diffusa è la lezione d’aula. Essa consiste nella trasmissione di
conoscenze in forma già strutturata del docente, in base a quelle che sono le sue conoscenze e alla sua
personalità. L’elemento caratterizzante e distintivo di tale metodologia è che nella lezione d’aula la
conoscenza è strutturata dal docente e poi trasmessa.
Vantaggi:
E’ sicuramente uno dei metodi più efficienti perchè permette di raggiungere un ampissimo numero di
destinatari in pochissimo tempo, quindi ci permette di trasmettere gli stessi contenuti ad una platea ampia
e di ridurre i costi sia della formazione che in termini temporali, quindi di ridurre i tempi di trasmissione
della conoscenza.
Svantaggi:
Il problema è che tale metodologia non è sempre efficace, infatti non ci permette di raggiungere sempre gli
obiettivi perchè è basato su un modello di apprendimento per assorbimento, quindi sicuramente trasmette
ma nulla ci dice sull’acquisizione di quelle conoscenze. Inoltre nelle sessioni in aula molto lunghe, i rischi
maggiori sono la noia, i cali di attenzione, ecco perchè spesso si propongono multimedia, video, oppure si
utilizzano le slides per riattivare un minimo di attenzione.
Tale metodologia è particolarmente indicata per la trasmissione del sapere teorico.

ESERCITAZIONI E CASI
In questa seconda metodologia il docente assegna dei compiti oppure la risoluzione di un problema ai
discenti, i quali devono risolverlo mediante le nozioni che hanno appreso, quindi applicando le nozioni
che sono state apprese in aula. Queste esercitazioni possono essere di tipo:
- Nozionistico: in questo caso vanno a rafforzare quello che è il sapere teorico trasmesso, quindi abbiamo
una stabilizzazione dei contenuti teorici. Ad esempio si fa un’esercitazione sulla catena di Markov per
imprimere la conoscenza appresa.
– Addestrative: si concentrano sul sapere tecnico, empirico e mirano a far mettere in pratica il sapere di
tipo sperimentale; in questo caso pensiamo tipicamente all’addestramento militare.
Anche il metodo delle esercitazioni però ha ricevuto delle critiche, perchè quando viene assegnato un caso,
pensate alle catene di Markov, quindi un’esercitazione di tipo nozionistico, che cosa succede? In realtà
questo metodo è stato considerato da molti un pò artificioso, perchè è vero che sicuramente aiuta il
discente a prepararsi sul problem solving, quindi è in grado di allenare le capacità di risoluzione dei
problemi, la capacità di analisi tra le diverse alternative che si possono utilizzare, la capacità di sintetizzare
le informazioni, di applicare le nostre decisioni e la nostra conoscenza in maniera pratica, ma è anche vero
che poichè è il docente che propone e assegna l’esercitazione o il caso, in realtà si è già avuta una prima
strutturazione della complessità. Questa strutturazione consiste in un foglio scritto (ad esempio ci sono
tanti manager, i tassi di mobilità sono questi, si cerca di mantenere lo stesso livello d’impiego all’interno
dell’azienda, oppure l’azienda ha deciso di cambiare struttura nell’ambito della funzione HR, questi sono
stati i motivi, quale decisione prendete, come la strutturate): queste sono tutte informazioni che sono
presentate già in maniera strutturata e che non permettono al discente di passare dalla fase di
complicazione alla fase di complessità, cioè già gli sono date, ancorchè in maniera complessa però
strutturata. Quindi non è il discente che deve interpretare le informazioni dall’ambiente, deve sintetizzarle,

169
metterle per iscritto e poi decidere, perciò una prima fase dell’elaborazione delle informazioni già c’è, ed è
questa una delle maggiori critiche che viene fatta a questo tipo di esercitazione.
In ogni caso quando si fanno delle esercitazioni, il problema principale non è tanto arrivare alla soluzione
del problema, quanto mettere in pratica le conoscenze che si hanno (ad esempio per l’addestramento su
un software si fa una prima lezione teorica e poi si affianca un’esercitazione pratica, in quel caso l’obiettivo
non è risolvere il problema ma imparare ad applicare empiricamente nozioni teoriche).
Per quanto riguarda i casi, questi vengono proposti in 3 fattispecie: il metodo dei casi, il metodo incident e
poi l’autocaso.
- Metodo dei casi: è un metodo che prevede l’assegnazione di un caso al discente che poi deve essere
risolto mediante le competenze apprese. Esso va ad allenare tutta una serie di capacità di problem solving,
capacità di analisi e sintesi delle informazioni. Quindi rientra tra quei casi che appaiono limitati proprio
perchè in realtà parte delle informazioni sono state già date in maniera strutturata.
- Metodo incident: è una variante al metodo dei casi. Viene proposto in una situazione vera o verosimile in
cui si può trovare il discente: tutte le informazioni sono messe a disposizione del discente ma non sono
date in maniera strutturata, quindi è il discente stesso che deve riuscire a capire quale informazioni sono
utili oppure no alla risoluzione del caso. Tornando all’ esempio precedente, quando assegno un caso in cui
dico che bisogna cambiare la struttura HR ad una determinata azienda, è il discente che mi deve chiedere
cosa è successo, il motivo, se c’è stato un cambio di vertice ecc ponendo le domande il discente mostra
la sua capacità di conoscenza dell’argomento, quindi i parametri da tenere in considerazione nel momento
in cui bisogna affrontare una problematica lavorativa. In questo modo si evita quello che era il problema
principale dell’esercitazione dei casi, cioè di dare delle informazioni che fossero già immediatamente
disponibili. In questo modo è il discente stesso che deve, attraverso delle domande, riuscire a carpire quali
sono le informazioni utili da applicare poi all’interno della risoluzione del problema. Quindi in questo caso
abbiamo due fasi, la prima riguarda la riduzione della complicazione, si arriva all’area della complessità e
poi mano a mano si cerca di spacchettarla fino ad arrivare alla seconda fase che è quella risolutiva
(risoluzione del problema).
- Autocaso: metodologia didattica che prevede la presentazione di un caso da parte del discente stesso. Si
chiede all’aula un parere, un’esperienza su una determinata tematica e la si discute non soltanto con il
docente ma anche con il discente stesso. Questa è una leva motivazionale molto forte perchè fa sentire il
discente parte dell’insegnamento che si sta trasmettendo. Il discente da in qualche modo il suo contributo
fattivo e reale ai contenuti che vengono trasmessi.

SIMULAZIONI
A differenza delle esercitazioni e dei casi, in cui si proponeva la risoluzione di un caso mediante nozioni
apprese, nelle simulazioni si punta sui comportamenti. Infatti le simulazioni sono un insieme di tecniche che
pongono il discente in situazioni in cui poter mettere in atto dei comportamenti lavorativi. Ci sono 4
tipologie di simulazioni che possono essere applicate: le prime due si concentrano sul ruolo che hanno gli
individui, e quindi i comportamenti lavorativi da associare al ruolo stesso, gli altri due invece si basano
molto sulla gestione delle interdipendenze di tipo sia tecnico che relazionale.
- Giochi di ruolo o interpretazione di ruolo (role playing); in questo caso il docente presenta ai
discenti o ai partecipanti una situazione vera o verosimile che può verificarsi, pensate ad esempio a
una negoziazione oppure ad un colloquio di lavoro. Dopo aver esposto la situazione, il docente
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assegna dei ruoli che dovranno essere recitati dai partecipanti per arrivare poi alla soluzione della
situazione proposta. Questa è la tipica situazione di Role playing, cioè si presenta una situazione
verosimile, si attribuiscono i ruoli e poi i discenti devono arrivare alla soluzione del problema.
I vantaggi di questo metodo sono: quello di avere una maggior consapevolezza di sé, sviluppare una
grande capacità di analisi della situazione che si sta vivendo, sviluppare una forte capacità di
valutazione delle alternative che ci sono e sviluppare le capacità decisionali del discente (quindi
come mi comporto, perchè stiamo sempre parlando di comportamenti lavorativi che cerchiamo di
riprodurre).
Svantaggi: quando si usano questi metodi il docente esce dal processo di apprendimento che è
completamente delegato al gruppo e ai partecipanti del gruppo, i quali simulano dei ruoli. Talvolta
può succedere che non ci si cala troppo nel ruolo e quindi che rimanga un pò di distacco tra il ruolo
da interpretare e il discente, e questo può danneggiare la fruibilità della formazione rispetto a tutta
l’aula. Un esempio può essere un gruppo che non prendendo troppo sul serio il proprio lavoro non
apprende nulla, oppure un gruppo che ha lavorato bene ma che nel momento in cui deve
rappresentare concretamente quello su cui ha lavorato, non riesce a trasmettere i contenuti perchè
c’è una sorta di distacco rispetto al ruolo, cioè non riescono ad essere docenti. Questo significa che
a causa di una mancanza di competenze non riescono a riportare i risultati. Quindi il rischio
maggiore è il fatto che il distacco che ci possa essere tra un determinato ruolo e la persona del
discente possa in qualche modo ridurre l’apprendimento per tutta la platea o per la persona stessa.

- In basket: tale metodologia (già vista quando abbiamo parlato di assunzione, di valutazione dei
comportamenti). In questo caso vengono proposti all’individuo una serie di elementi tipici di una
giornata lavorativa ( e-mail a cui rispondere, i memo delle riunioni da fare, documenti da archiviare
ecc) e poi gli si dice di mettere nel basket tutte le cose da fare e che gli sono state assegnate.
Questa metodologia serve a vedere l’approccio al lavoro del dipendente, a vedere la sua capacità di
delega e quindi la consapevolezza del suo lavoro e della possibilità di poter delegare, quali materie
delegare oppure a quali materie assegnare la priorità, quindi permette di capire e di riprodurre
effettivamente dei comportamenti che poi l’individuo andrà a replicare tutti i giorni.

- Business game: a differenza dei precedenti che comunque si basano sui comportamenti lavorativi
dell’individuo, tale metodologia mira a porre l’individuo in situazioni in cui le scelte da porre in
essere in realtà non dipendono soltanto da se stesso e dal ruolo che interpreta ma anche dagli altri,
ecco perchè si dice che questo metodo è particolarmente adatto a trasmettere la capacità di
gestire le interdipendenze. Molto spesso la situazione tipica è quella in cui a ciascun discente viene
assegnato un ruolo di un’azienda, anche mediante il supporto di sistemi informativi e gli si da un
gioco di strategia tra aziende, chiaramente parliamo di strategia virtuale. In questo modo i discenti,
cosi come delle vere e proprie aziende, devono competere tra di loro. Questo permette di capire
come le azioni che svolge un individuo dipendono soltanto in parte da se stesso e in parte dalle
interdipendenze che si generano rispetto agli altri.

- Modelli comportamentali (behavioral modeling): sono dei modelli che favoriscono


l’apprendimento mediante la riproduzione esatta dei comportamenti e ciò significa che questi
integrano più metodologie didattiche. Il caso tipico dell’applicazione di un modello
comportamentale è la presentazione di una determinata situazione o di concetti teorici da parte

171
del docente, la visualizzazione di un filmato o di un film che riproduca in qualche modo il
comportamento oggetto di apprendimento (pensate alla leadership), una discussione su questo
filmato in modo da catturare le diverse opinioni e poi si propone ai discenti di riprodurre il
comportamento, chiaramente in una situazione diversa attraverso una situazione creata dal
docente stesso. Un tipico esempio della leadership è quello di far vedere il filmato di Sister act,
dove suor Maria Claretta viene eletta in qualche modo leader, perchè tutte le suore sapendo il suo
passato da superstar, le chiedono di guidare il coro. Tale situazione viene presa proprio come
esempio di leadership, perchè la protagonista è un leader eletto, decide con consapevolezza di
assumere il comando, ha responsabilità, riconosce il lavoro fatto in precedenza, quindi riconosce
l’autorità precedente e non la disconosce come fanno molte aziende e riconosce i ruoli all’interno
del gruppo e li armonizza, in modo non soltanto da valorizzare le caratteristiche di ognuno ma di
spingerli verso l’obiettivo finale. In sostanza si propone di riprodurre questi comportamenti
all’interno di un’altra situazione e proprio il comportamento che deve essere riprodotto, deve
richiamare quello che è stato presentato e di cui si è discusso in aula. La cosa fondamentale di
questa metodologia è il debriefing ( viene dato un feedback), quindi si fa capire dove ci sono stati
degli spetti controversi cercando sempre di ricondurre alla sfera teorica, quindi cosa è successo,
che cosa non è andato e cosa invece è andato bene all’interno della riproduzione
comportamentale.
Le simulazioni sono molto stimolanti dal punto di vista formativo però richiedono forte energia
nella loro messa in pratica, non tanto dal docente quanto dai discenti stessi, questo perchè sono
dei metodi che devono trasferire delle conoscenze.

TRAINING ON THE JOB


Si ispira al modello di apprendimento learning by doing (saper fare), cioè l’apprendimento sull’esperienza di
lavoro quotidiano. In questo caso il discente viene fatto affiancare da un lavoratore esperto. Tale modello
in una prima fase fa leva sull’osservazione ripetitiva dei comportamenti e delle tecniche della persona
esperta, nella seconda fase invece si fa riferimento alla sperimentazione attiva delle tecniche e di questi
comportamenti appresi. Il processo è chiaramente imitativo.
Vantaggi: non c’è separazione tra il lavoro effettivo e la formazione, ma si sovrappongono, e questo ci fa
guadagnare tanto in termini di costo e di tempo proprio perchè non dobbiamo separare i due momenti. Ad
esempio Ntv propone nella scuola per i macchinisti che la maggior parte della formazione sia fatta
mediante affiancamento, oltre chiaramente alle ore frontali. Quindi si fanno affiancare i giovani macchinisti
da quelli più anziani proprio per apprendere il mestiere. Questo è un tipico metodo che viene utilizzato
quando gran parte delle conoscenze da trasferire sono tacite, ad esempio nel caso dell’artigiano è molto
difficile trasferire la conoscenza tacita, cioè la conoscenza che le persone possiedono ma che non è
codificata. Tale conoscenza può essere appresa soltanto mediante osservazione, assimilazione e imitazione.
Svantaggi: è un modello che si basa sull’imitazione e che segna il passaggio dall’osservazione alla
sperimentazione attiva; quindi non si replicano soltanto gli aspetti positivi ma c’è anche il rischio di
replicare gli errori messi in campo dalla persona esperta. Quindi è sicuramente una metodologia che
permette di trasferire un pacchetto di conoscenze peculiari, specifiche, tecniche, però non è in grado di
promuoverne lo sviluppo, cioè sono quelle conoscenze che restano, non c’è un’innovazione per esempio
nel processo.
METODI RELAZIONALI

172
Si basano sul metodo che abbiamo definito apprendimento per interazione, che a sua volta si basa sulle
teorie teoriche dell’apprendimento sociale e situato. Questi metodi presuppongono che l’apprendimento
non avvenga a livello individuale ma mediante contestualizzazione e interazione tra gli individui di un
gruppo. Questo significa che in realtà la conoscenza non è soltanto una prerogativa dell’individuo ma è
qualcosa che si assimila soltanto se fatta fluire nelle interazioni fra gli individui, quindi nelle interazioni
sociali. Quante volte voi per apprendere davvero avete bisogno di confrontarvi con un gruppo di
riferimento? Soltanto quando il gruppo vi da delle intuizioni oppure vi da modo di trasmettere un parere
positivo o negativo su una determinata cosa allora vi sembra di paadroneggiarla, di conoscerla veramente.
In questo caso le metodologie sono molto interessanti: c’è il Training group che è la tecnica più utilizzata e
mira al saper essere, quindi a trasferire delle conoscenze relative ai comportamenti e ai tratti della persona;
le Comunità di pratica invece sono molto utilizzate per la formazione sul sapere teorico o il sapere empirico,
quindi il saper fare.
- Training group: è una tecnica che richiede tanta attenzione da parte dei docenti. In questo caso si
organizzano delle sedute di formazione all’esterno del contesto lavorativo, per esempio una seduta
di formazione di 3 giorni in un hotel oppure su un’isola e tutta la formazione è basata sul gruppo. Il
gruppo è l’oggetto dell’apprendimento stesso e le tematiche che vengono di volta in volta
affrontate sono apportate dal gruppo, cioè nascono all’interno della discussione di gruppo (si parte
da un’argomento, si arriva a parlare di lavoro, della famiglia, del tempo, dello sport, quindi una
serie di argomenti proposti dal gruppo stesso). In questo caso è fondamentale la destrutturazione
del contesto, significa che l’obiettivo principale non è solo quello di portare gli individui all’esterno
dell’ambiente di lavoro, inteso come ambiente fisico, ma di portarli all’esterno delle strutture
organizzative, cioè degli schemi di comunicazione, delle dinamiche di potere e di controllo che ci
sono all’interno dell’organizzazione. Inoltre questa destrutturazione deve essere totale, cioè non ci
devono essere schemi di comunicazione relativi al ruolo o al genere (ad esempio i codici di
cavalleria), non ci devono essere schemi di potere (ad esempio il capo e il subordinato), quindi tutti
devono essere liberi di esprimere le proprie opinioni e di trasmettere anche le proprie emozioni. E’
un metodo che fa molto leva sull’aspetto emotivo.
Una volta destrutturate queste situazioni, è possibile capire e analizzare le dinamiche relazionali,
motivo per cui viene definito proprio metodo relazionale. Affinchè tale metodo sia efficace bisogna
però rispettare dei criteri:
o Il primo principio fondamentale che deve essere rispettato dal trainer (docente) è
l’astinenza: il trainer non entra nel gruppo, sostiene gli argomenti e le discussioni ma non
entra, non direziona, non da in alcun modo un soggetto, perchè il soggetto
dell’apprendimento è il gruppo stesso e le dinamiche relazionali che si svolgono all’interno
del gruppo.
o La seconda regola è quella della spontaneità e della massima contemporaneità.
Spontaneità significa che bisogna essere spontanei e quindi essere liberi di esprimere le
proprie opinioni ed emozioni purchè siano vere e non patetiche, molto spesso quando si
esagera nello spingere l’emozione si rischia il patetismo. Contemporaneità invece significa
che non ci devono essere assolutamente strategie o tattiche utilizzate, quindi le
conversazioni devono essere molto contestuali, immediate, non bisogna avere il tempo di
pensare a delle tattiche o strategie magari per far colpo sul capo o sul collega.
o Regola della discrezione; tutto quello che avviene all’interno del gruppo non deve uscire
fuori, non deve influire sul contesto lavorativo. Ciò è molto difficile da mettere in pratica e

173
proprio per questo bisogna selezionare bene i partecipanti del gruppo, generalmente viene
fatto tra i colleghi o i capi diretti.
- Comunità di pratica: sono più orientate su una condivisione sempre di interazioni tra gli individui,
ma che mirano all’apprendimento di saperi teorici oppure pratici. Le comunità di pratica sono degli
agglomerati, dei gruppi che sono accomunati da specifici interessi professionali e che mettono in
comune tutto il sapere teorico e pratico che hanno su un determinato argomento. Affinchè i gruppi
d’interesse siano definibli comunità di pratica devono esserci 3 caratteristiche:
o Il dominio: un’area di interessi, un campo attorno al quale costruire la proprio identità,
quindi un mestiere.
o La presenza di una comunità, quindi di un’unione di intenti e di persone che va a stimolare
il senso di appartenenza alla comunità stessa.
o Condivisione della conoscenza: è necessario che le comunità creino un repertorio di
conoscenze condivise che altrimenti non avrebbero senso.
Ad esempio Tim ha creato nella proprio Intranet delle community online che monitora
costantemente per individuare quelli che sono i knowledge holders, cioè coloro che detengono la
conoscenza all’interno di queste comunità di pratica; lo fa non per monitorarli o per manipolarli ma
per assegnare poi a questi knowledge holders dei ruoli di mediatore all’interno della comunità di
pratica, cioè dei ruoli che portino la comunità ad essere viva, a condividere e ad animare la
comunità stessa.

METODI ESPERIENZIALI
Sono dei modelli che possiamo definire ibridi perchè in parte richiamano quelli che sono i modelli basati
sull’esperienza (learning by doing), in parte richiamano quelli che sono i metodi relazionali, quindi le
metodologie basate sui modelli di apprendimento di learning by interacting. Anche in tale metodo si porta
l’individuo al di fuori del contesto di lavoro presentandogli delle situazioni che portino poi a stressare
alcune caratteristiche fisiche o intellettuali, pensate per esempio alle organizzazioni delle cosiddette cene
con il delitto, in cui si cerca di far vivere all’individuo una situazione stressante anche a livello intellettuale,
per capire le dinamiche cognitive, le relazioni tra i processi e i meccanismi causali.
Dal punto di vista fisico si fa molto leva invece sul rapporto con la natura, sull’esercizio di uno sport, quindi
si pone l’individuo in situazioni di forte stress che però non hanno nulla a che fare con l’ambito lavorativo,
se non essere ricollegati ad esso in un momento successivo che è quello del debriefing. L’obiettivo è
appunto creare un forte coinvolgimento emotivo e psicologico che sia in grado di portare l’individuo ad una
maggiore consapevolezza di quelli che sono i suoi limiti, quindi una maggior consapevolezza di se stesso,
degli altri, del modo di interagire con gli altri, nonchè le sue capacità di adattamento alle situazioni che si
vengono a creare.
Per i manager del Corriere SDA vengono organizzate delle sedute sportive di golf, in cui più che stress fisico,
si gioca molto sulla tecnica, sulle tattiche, sulle varie strategie, però comunque sono delle ambientazioni
molto lontane dal lavoro che permettono all’individuo di esprimersi in tutta la sua individualità. In questo
caso è molto importante anche la fase di debriefing (quali comportamenti sono stati messi in atto, quale
reazione si è avuta), quindi si fanno una serie di domande per snocciolare tutte le situazioni che si sono
venute a creare e per discutere con il gruppo sulle dinamiche che sono poste in essere.
FORMAZIONE ONE TO ONE
Si esprime attraverso 3 tecniche principali:
174
- Coaching: insieme di tecniche che vengono utilizzate per favorire e facilitare lo sviluppo
professionale e soprattutto personale dell’individuo, cercando di tirar fuori da esso il meglio di sé.
Ci sono diverse tipologie di coaching che possiamo incontrare:
o What: molto dipende dal cosa, quindi quali obiettivi formativi si propone il coaching.
o Who: chi ha il ruolo di di coaching, quindi chi viene investito del ruolo di supporter.
o How: come, quindi quale tipo di approccio si sceglie.
Quando guardiamo all’obiettivo dell’apprendimento (what), quindi cosa cerchiamo di trasferire,
distinguiamo diverse tipologie di coaching: se quello su cui vogliamo puntare è un miglioramento in
termini di competenze, di abilità sul lavoro dell’individuo (per esempio insegnargli a gestire meglio
il tempo o lo stress), allora parliamo di skill coaching. Quando invece il nostro obiettivo è tirare
fuori il meglio dalle persone per avere un impatto sulle performance, allora parliamo di
performance coaching. Il life coaching, invece, presuppone un supporto non soltanto dal punto di
vista professionale ma anche un supporto in particolari fasi della vita del lavoratore stesso; magari
sto attraversando un periodo difficile che può avere dei riflessi sul lavoro e allora si può proporre al
lavoratore stesso una seduta di life coaching. L’executive coaching è quello riservato
prevalentemente ai profili di manager o top manager.
Il ruolo di coaching (who) può essere assunto generalmente da delle società di consulenza esterne
(coach esterno). Ci sono tantissime scuole di coaching e molte prevedono l’iscrizione ad un albo,
quindi tendenzialmente si verifica questo albo e si sceglie la società o la persona che propone il
piano di coaching più confacente alle nostre esigenze.
In alternativa si può puntare a supervisori interni (coach interno) che però devono essere
opportunamente formati, altrimenti si fanno più danni che risorse.
Per quanto riguarda il modo (how), ci sono diverse scuole su cui si basano queste politiche di
coaching, una scuola più umanistica che è orientata prevalentemente all’individuo e alla sua
interiorità; la scuola comportamentale cognitivista si basa sull’azione e sui comportamenti, ovvero
il coach interviene sulla modifica dei comportamenti della persona per cercare di migliorarla e
supportarla; invece negli approcci sistemici si tende ad integrare i due aspetti, dove in parte si fa
tutto uno sviluppo individuale, quindi ci si basa molto sull’individuo senza però andare a trascurare
il fatto che parte delle performance di esso siano dovute alle sue relazioni con il gruppo e quindi si
spinge anche sulla sfera relazionale e comportamentale.
Le fasi che caratterizzano un piano di coaching prevedono: la definizione degli obiettivi, cioè capire
che cosa stiamo andando a fare e su quali leve agire (quindi se stiamo parlando della sfera
personale, di un manager, di competenze o di performance), esplorare la vita lavorativa, cercare di
identificare e di rendere l’individuo consapevole che ci sono delle aree di miglioramento e su di
queste intervenire. E come si fa? sostanzialmente l’attività del coaching è quella di porre in essere
una serie di domande che siano chiare, semplici, che portino l’individuo a ragionare su se stesso,
sulla situazione che sta affrontando, aiutandolo poi a vedere tale situazione nel suo insieme da
un’altra prospettiva e individuando in ciascuna sfera, delle aree di possibile miglioramento.
E’ bene non confondere il coaching con la psicoterapia. La psicoterapia mira a porre in essere una
serie di domande che fanno ragionare un pò sulla situazione, essa però è strettamente legata alla
risoluzione di un disagio personale della persona. L’obiettivo del coaching invece è quello di creare
un miglioramento, un cambiamento della persona che poi sia strettamente legato all’ambito
lavorativo, quindi non alla risoluzione di un disagio personale.

- Mentoring: in questo caso parliamo dell’attività svolta da alcune persone in qualità di mentori, di
guida rispetto ad altre risorse che si trovano all’interno dell’ organizzazione, in particolare fasi della
175
vita lavorativa; ad esempio un tipico caso in cui si usa il mentoring è l’ingresso in azienda, nei
programmi di on boarding. L’obiettivo del mentoring è quello di trasferire tutte le conoscenze
relative alle modalità di lavoro, ai comportamenti da utilizzare, quindi trasmettere una serie di
informazioni che poi saranno utili a contestualizzarsi bene nell’ambiente lavorativo. Tutte queste
attività avvengono generalmente in maniera assolutamente informale, a tutti viene spontaneo nel
momento in cui arriva un nuovo collega oppure entra una persona all’interno del gruppo, di
portarlo a conoscenza di quello che c’è, di introdurlo e quindi di farlo ambientare. Quando si
formalizzano queste attività, quindi quando l’azienda vuole proporre dei programmi strutturati di
mentoring, allora deve puntare molto sulla formazione dei mentori, quindi di coloro che poi
avranno questo ruolo di guida e di forte contestualizzazione, perchè sappiamo che la
contestualizzazione è una fase determinante per trasformare le conoscenze, le competenze
individuali, portarle all’organizzazione, quindi farle diventare capitale dell’organizzazione. Molto
importante è l’abbinamento tra la risorsa e la sua guida, ci deve essere un’affinità, quindi l’azienda
in questo caso farà dei test per valutare il grado di affinità tra mentore e mentee.

- Counseling: a differenza delle prime due tecniche che sono attivate anche dalle aziende nel
momento in cui c’è bisogno di un supporto allo sviluppo professionale oppure di introduzione al
contesto lavorativo, il counseling viene attivato soltanto su esplicita richiesta degli individui. Esso si
definisce come un insieme di tecniche che cercano di aiutare un determinato soggetto a risolvere i
suoi problemi quando li esprime, quindi utilizzando le proprie risorse personali e di fronte a
specifiche difficoltà espresse. Quindi l’espressione delle difficoltà è una conditio sine qua non
(condizione indispensabile) per l’attivazione di programmi di counseling; l’azienda non può
arrogarsi il diritto di andare dal lavoratore, dirgli che non sta bene e che ha bisogno di un
consulente per avere un supporto dal punto di vista psicologico. Quindi bisogna sempre aspettare
la manifestazione del bisogno da parte dell’individuo.
Come agisce? Il counseling fa di tutto per far cercare di far leva su quelle che sono le risorse
personali, cioè l’individuo ha già degli strumenti al suo interno per poter affrontare queste
difficoltà, si tratta soltanto di farle uscire fuori per permettergli appunto di renderle attive.

TENDENZE EVOLUTIVE
Storytelling e Teatro per la formazione
Negli ultimi anni le aziende si stanno dotando di vere e proprie tecniche narrative per orientare la
formazione. Le tecniche narrative servono a far leva sul racconto delle storie (personali o d’azienda), per
determinare una serie di cambiamenti all’interno della persona, quindi in termini di apprendimento di
nozioni teoriche o pratiche. In particolare una tecnica che è stata molto utilizzata è il teatro per la
formazione. Questa è una tecnica che permette di stimolare molto quelle che sono le capacità
comunicative e di public speaking dei dipendenti, oltre che far leva anche sulle dinamiche relazionali che si
vengono a creare tra i partecipanti ad una rappresentazione teatrale. Ci sono diversi metodi che possono
essere applicati quando si vuole definire un’iniziativa di teatro per la formazione:
- Training lab: consiste nella messa a punto di alcuni laboratori teatrali in cui si cerca di far fare delle prove
ai partecipanti su determinati aspetti della vita lavorativa, quindi si cerca di far raccontare ai dipendenti
stessi delle storie di vita quotidiana e di riflettere con tutti gli altri partecipanti al gruppo su di esse.

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- Realizzazione di spettacoli: far scrivere la sceneggiatura oppure far recitare una rappresentazione teatrale
da parte dei lavoratori.
- Partecipazione a spettacoli formativi: in questo caso sono fatti da attori prefessionisti, infatti mentre
nella realizzazione degli spettacoli sono i lavoratori stessi a mettere in pratica un’opera teatrale (in questo
caso è fondamentale la figura di quello che viene definito il “forma attore”, cioè un attore esperto di
formazione che serve da mediatore e da canalizzatore di energie), nella partecipazione a spettacoli
formativi sono gli attori professionisti a recitare e i discenti a vedere la rappresentazione. Un tipico caso è il
Teatro per la sicurezza, un progetto fatto da Enel in cui gli attori professonisti raccontavano delle storie, a
volte anche di morte, proprio per far capire l’importanza della formazione.
Questa rappresentazione teatrale sulla sicurezza fatta da Enel, è un classico esempio in cui una
rappresentazione teatrale può suscitare dentro di noi delle emozioni che poi ci portano a ricordare, perchè
è quello l’obiettivo dell’utilizzo delle tecniche narrative nell’ambito della formazione, cioè riuscire a dare
significato, dare senso alle cose (sense-making). Bisogna sempre tener presente che la sicurezza è un
problema e che viene prima di tutto; quindi il senso che ci porta ad agire non è che non succede niente,
perchè può sempre succedere qualcosa ma dobbiamo far di tutto per non farlo succedere.
Formazione a distanza, e-learing e net-learning
Oltre all’introduzione delle tecniche narrative e dello story telling all’interno della formazione, sicuramente
distruttiva in senso positivo è stata la tecnologia come supporto alla formazione; è stata una distruzione
creativa in quanto ha portato una serie di novità e di vantaggi per lo sviluppo della formazione. Inizialmente
quando si è cominciato a parlare di insegnamento mediato attraverso la tecnologia, si faceva
sostanzialmente riferimento a quella che era la formazione a distanza e tipicamente venivano creati degli
spazi virtuali in cui si caricavano dei documenti (ad esempio moodle). Nel tempo però, a partire da questa
funzione della tecnologia di deposito soltanto di materiali didattici, si è fatta avanti una strada più attiva,
quella dell’e-learning, cioè dell’apprendimento mediato dalla tecnologia. Gli strumenti di apprendimento
online permettono non soltanto di far caricare i materiali ma anche l’interazione più o meno sincrona tra
docenti e discenti. Ad esempio, parliamo di interazione sincrona quando facciamo riferimento all’utilizzo
delle chat che avvengono nello stesso momento, oppure quando lasciate un messaggio e poi il docente vi
risponde dopo un pò. Il net-learning invece è un orientamento più avanzato, quindi non soltanto funzione
di deposito dei materiali didattici, di interazione tra docente e discente che può avvenire in qualsiasi
momento ma anche e soprattutto il contributo del discente alla costruzione della conoscenza stessa, e
quindi del processo formativo. Pensate ad esempio alla possibilità di caricare dei documenti in uno spazio
virtuale che poi possono essere modificati e integrati da tutti, oppure pensate alla gestione dei gruppi di
lavoro tramite piattaforme, in cui si può vedere e valutare il contributo di ognuno (se si mette un
documento online si vede come ognuno contribuisce per la sua parte), quindi gli spazi e le possibilità sono
infinite purchè vengano utilizzate sempre con l’obiettivo di far apprendere e trasmettere le conoscenze. Ad
oggi, soprattutto nelle aule universitarie, sicuramente è ancora uno strumento utilizzato come integrazione
ma allo stesso tempo è uno strumento di forti potenzialità.

177
LEZIONE 18

ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO


Che cos’è l’organizzazione del lavoro? Definizione: per organizzazione del lavoro s’intende un insieme di
scelte che definiscono i livelli di divisione di lavoro all’interno del contesto organizzativo, i requisiti e le
modalità di svolgimento del lavoro stesso, nonché i livelli di discrezionalità, controllo e responsabilità che
le persone posso esercitare sulle attività assegnate. Sostanzialmente l’organizzazione del lavoro consiste
nel rispondere alla domanda “chi fa cosa?”, quindi nell’assegnare compiti e mansioni alle persone che
lavorano in un’organizzazione. Allora chi fa cosa? Facciamo riferimento alla progettazione di compiti e
mansioni. Come? Attribuiamo in capo alle persone dei livelli di discrezionalità, autonomia e controllo nelle
decisioni relative a come svolgere un lavoro, quali strumenti utilizzare per lo svolgimento del lavoro. Dove?
Facciamo riferimento agli aspetti più spaziali. Quando? Facciamo riferimento agli aspetti temporali. Più in
generale nell’organizzazione, quando si parla di progettazione di mansioni, ruoli e compiti, si parla di job
design. Adesso definiamo nel dettaglio cosa si intende per compito, mansione e ruolo DOMANDA TIPICA
D’ESAME!
JOB DESIGN
Progettazione di ruoli, compiti e mansioni
Un compito è un insieme di attività o operazioni elementari che sono necessariamente collegate per la
presenza di vincoli tecnici oppure per la necessità di avere un significato minimo dal punto di vista
psicologico. Che cosa significa? Vincoli di natura tecnica: non posso dividere ulteriormente le attività per la
costruzione di un bullone, non ha senso dal punto di vista tecnico suddividere ulteriormente. Quindi la
costruzione di un bullone può essere uno dei compiti che mi è assegnato, perché comporta un insieme di
attività che sono necessariamente collegate dal punto di vista tecnico. Significato minimo dal punto di vista
psicologico: intendiamo un insieme di attività che ci diano un senso compiuto, per esempio faccio parte di
una redazione, tra le mie attività risulta la revisione degli articoli da mandare in stampa, non ha senso dal
punto di vista psicologico che io che revisiono gli articoli poi non sia io a decidere quali mandare in stampa,
ma magari questa attività è delegata ad un’altra persona non ha un significato dal punto di vista
psicologico.
La mansione è l’insieme ordinato dei compiti che vengono assegnati ad una persona all’interno
dell’organizzazione. È la cosiddetta job. Quando parliamo di job description stiamo parlando della
descrizione della mansione, cioè dell’insieme dei compiti.
La posizione è la collocazione organizzativa attribuita ad un soggetto che svolge una determinata mansione
all’interno dell’organizzazione, o un insieme di mansioni.
Che cos’è che distingue la posizione dal ruolo? La posizione indica la collocazione organizzativa di una
persona che svolge un insieme di mansioni, che a loro volta comprendono l’insieme di compiti; il ruolo
invece attiene alle aspettative che si generano nei confronti di una persona che occupa una determinata
posizione all’interno dell’organizzazione, aspettative che vengono da parte del suo gruppo di riferimento. In
questo caso possiamo parlare di ruolo formale o di ruolo sostanziale. Parliamo di ruolo formale quando
facciamo riferimento a tutte le aspettative, quindi ai comportamenti attesi dalla persona in termini di
obiettivi da raggiungere, relazioni da attivare, comportamenti messi in atto. Aspettative, quindi è un ruolo
atteso formalmente, che ci si aspetta proprio in base al ruolo. Ruolo sostanziale è invece il comportamento
agito, cioè quello che viene messo in atto, i comportamenti messi in atto dalla persona, gli obiettivi
raggiunti, le relazioni attivate.

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Le fasi
Come progettiamo queste mansioni? Passiamo attraverso le fasi del job design, che sono tre:
1. All’inizio dobbiamo fare un’analisi dei processi dell’ azienda. Dobbiamo analizzare i processi, le
attività, per vedere le connessioni di tipo tecnico. Quindi la prima fase è l’individuazione del
sistema primario di lavoro. Vuol dire che devo identificare un insieme di attività, interdipendenti
tra di loro, e che generino un output identificabile (o il bullone o la stampa degli articoli) in termini
di prodotto o servizio, a seconda dell’attività dell’azienda. Generalmente quando si va a progettare
il lavoro si parte da una base. Già abbiamo delle attività in essere, già abbiamo un processo
produttivo e quindi partiamo da quelle attività che sono già in essere e possiamo progettare le
nostre mansioni. Qual è il rischio in questo caso? Che l’organizzazione resta un po’ statica, per
questo a volte si applicano delle politiche di business process reengineering, si cambiano tutti i
processi operativi e da lì si riprogettano le mansioni, a partire dalle ridefinizione dei sistemi primari
di lavoro, dei macroprocessi e quindi delle nuove attività incluse nei macroprocessi.
2. Seconda fase è la segmentazione delle attività. Individuato questo nucleo di attività, che è il nostro
sistema primario di attività, ora dobbiamo segmentarle. Quali variabili utilizziamo per segmentarle
e quindi poi per definire il job design e progettare le nostre mansioni? Andiamo a vedere il
contenuto delle attività e le modalità di uso della conoscenza necessaria per lo svolgimento di
queste attività. Contenuto: fa riferimento al tipo di attività posta in essere le attività vengono
generalmente distinte tra attività di trasformazione e attività di interazione: le attività di
trasformazione sono tutte quelle che, partendo da un input, prevedono una fase di trasformazione,
fino alla definizione dell’output. Sono tipiche della produzione, si parte dalle materie prime,
vengono trasformate in semilavorati e alla fine si ha il prodotto compiuto; le attività d’interazione
non prevedono la trasformazione dell’ input in output ma prevedono un insieme di attività di
creazione e mantenimento di relazioni, con clienti interni ed esterni. Tipicamente un’attività del
genere prevale nei servizi. Anche le attività di interazione possono essere di due tipologie:
distinguiamo l’attività di interazione transnazionale, che è l’attività tipica svolta all’interno dei call
center. In questi casi la modalità d’interazione consiste nello scegliere una determinata attività da
svolgere sulla base di un repertorio di prassi già consolidato mediante la conoscenza e
l’apprendimento passato. È tipico dei call center perché potete immaginare che l’operatore deve
interagire, quindi siamo nell’ambito di attività d’ interazione (è quello il contenuto della mansione),
e di volta in volta avrà dei casi molto differenti. Come li risolve? Sceglie tra soluzioni che già ha,
quindi ha tutto un set a cui ricorrere. Quando invece parliamo di attività di interazione tacita, è un
tipo di attività di interazione che prevede che la soluzione non possa essere necessariamente presa
da un repertorio di prassi già esistenti ma deve essere di volta in volta creata. In questo tipo di
interazioni è fondamentale la capacità d’innovazione e di giudizio della persona che svolge la
mansione. Pensate al caso dei product manager, che devono sviluppare il prodotto dal punto di
vista tecnico, svilupparlo, creando innovazione e non basandosi su quanto già basato sulle prassi
consolidate, devono innovare, creare e devono inoltre sviluppare e promuovere il prodotto dal
punto di vista commerciale e quindi intessere relazioni per espandere nuovi mercati. Non possono
ricorrere ad un set predefinito di comportamenti, ogni cliente sarà diverso, se il cliente è un
distributore o un cliente finale.
Come impatta sulla progettazione della mansione il contenuto delle attività? Nelle attività di
produzione e generalmente in tutte le attività di trasformazione, quanto impatta sul risultato finale
la motivazione dei dipendenti, come contenuto dell’attività? Poco! Perché? Perché se l’intento è
179
quello di produrre una lavatrice, il risultato finale, cioè che la lavatrice funzioni o meno, non
dipende dal senso di motivazione e contribuzione del lavoratore, dipende dai dettagli tecnici della
lavatrice. Catapultiamoci invece in un’attività di erogazione di servizi, o tutte le attività di
interazione, in questo caso il contenuto del lavoro deve essere la motivazione stessa, perché
nell’interazione con i clienti è fondamentale il contenuto motivazionale della mansione. Quindi
quando andrò a progettare la mansione nel primo caso, non potendo agire molto sull’autonomia,
magari farò leva sulla varietà dei compiti assegnati, posso organizzare il lavoro in isole piuttosto che
in catena, posso far leva su incentivi monetari, però ho quello, non posso dare troppo rilievo
all’autonomia, sono vincolata nelle attività di produzione. Invece nelle attività in cui il contenuto
motivazionale è prevalente, come nelle attività di servizi, allora dovrò dare il giusto risalto e quindi
dare molti livelli di discrezionalità, soprattutto decisionale, a chi svolge questo lavoro.
La seconda variabile che dobbiamo tenere in considerazione è la modalità di uso della conoscenza
che applichiamo all’interno delle attività che svolgiamo. In questo caso parliamo di attività di
exploitation ed exploration. Nelle attività di exploitation facciamo riferimento ad una conoscenza
ben radicata. In questo caso la progettazione delle mansioni o, più in generale, l’organizzazione del
lavoro, mira, data una tecnologia, data una conoscenza applicata, dati degli obiettivi, ad ottenere il
massimo risultato in termini di efficacia ed efficienza. Nulla si crea, è tutto già dato. Quindi è tipico
di un’organizzazione molto statica. Nei casi invece di esplorazione, la conoscenza e la tecnologia
non sono date, vanno generate! Il compito dell’organizzazione del lavoro è proprio favorire la
l’innovazione e la creazione della conoscenza: questa è la grossa differenza tra le due tipologie di
attività. Questo impatta poi direttamente sulle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro e della
progettazione delle mansioni: nell’uno si tratta di trovare la combinazione migliore di tecnologia-
conoscenza-lavoro per ottenere il massimo risultato; nell’altro devo generare meccanismi di
interazione-apprendimento-miglioramento continuo all’interno dell’organizzazione.
3. Terza fase è la progettazione vera e propria delle mansioni in base agli indizi che abbiamo
individuato. Cosa significa progettare compiti, mansioni e ruoli? Significa definire i livelli di
ampiezza e autonomia delle mansioni, ovvero quante e quali attività deve svolgere il lavoratore.
Quindi per ampiezza delle mansioni intendiamo il numero di compiti ed il grado di diversità tra i
compiti assegnati al lavoratore. Come poi il lavoratore dovrà svolgere queste mansioni? Definiamo
l’autonomia. Che cos’è l’autonomia? È il grado di discrezionalità attribuito a ciascun lavoratore
nelle modalità di svolgimento del proprio lavoro o nella sua pianificazione e progettazione.
Adesso vediamo più nel dettaglio l’ampiezza e l’autonomia, perché dobbiamo studiare come mettere
insieme i pezzi per decidere la mansione.
Ampiezza delle mansioni: attiene alla dimensione orizzontale della divisione del lavoro; indica il numero ed
il grado di diversità tra i compiti assegnati ad ogni persona all’interno di una mansione. Quali sono gli
elementi che influenzano le scelte riguardanti l’ampiezza delle mansioni? Innanzitutto la possibilità di
sfruttare le economie di specializzazione. Le economie di specializzazione sono quell’insieme di vantaggi
che derivano dallo svolgimento di poche attività ripetute, che permettono all’individuo di acquisire
maggiore destrezza, maggiore velocità e quindi di essere più efficiente. È sempre possibile in ogni attività
avvantaggiarsi di economie di specializzazione? No, si può far leva sulle economie di specializzazione in due
casi: nel primo caso bisogna considerare la divisibilità tecnica del processo produttivo del prodotto/servizio,
intendiamo dire che il limite della specializzazione è dato dalla possibilità o impossibilità o dalla non
convenienza di dividere ulteriormente le fasi del lavoro (es. bullone); la seconda caratteristica è la
dimensione del mercato. La domanda del mercato di un determinato prodotto/servizio deve essere in
180
grado di saturare la capacità produttiva dell’azienda, posso produrre in scala ma poi il mercato deve
assorbire. Se ci pensate, nel piccolo di un ufficio postale quando ha senso specializzare uno sportello per le
raccomandate, uno per le pensioni, uno per gli assegni, quando ha senso? Ha senso solo se in una giornata
media il numero di richieste di raccomandate è in grado di saturare la capacità produttiva dello sportellista,
altrimenti se lo sportellista per il tempo che ha a disposizione può fare 70 raccomandate, ma al giorno ne
arrivano solo 10, lo sportellista è fermo e magari c’è la fila alla corrispondenza. Allora in questo caso serve
la polivalenza, non specializzazione della mansione. Vedete come incide sulla mansione? Nb: vedi esercizio.
La seconda variabile che può incidere sull’ampiezza delle mansioni è il livello di interdipendenza tra i
compiti inseriti all’interno della mansione. Per interdipendenza intendiamo i legami che sussistono tra
diverse attività, soprattutto in virtù della specificità delle conoscenze che serve per svolgere quelle
determinate attività. Se per svolgere le attività di revisione e stampa degli articoli sono necessari gli stessi
livelli di conoscenze, non ha senso dividere e quindi assegnare parte dei compiti a persone diverse, perché
genero dei costi di duplicazione ad esempio, costi di coordinamento, quindi conviene in questo caso
ampliare le mansioni così da dare un ulteriore compito (revisione e decisione di mandare in stampa).
La terza variabile che può incidere sull’ampiezza delle mansioni è il bisogno di identità e grado di
contribuzione. Come impatta questo sulla definizione dei livelli di ampiezza di una mansione? Sapete che
gli individui, lo ricordiamo dal Taylorismo, hanno bisogno di vedere il proprio contributo sul risultato finale.
Quanto maggiore è il senso di contribuzione, di identità, cioè il bisogno di dare senso compiuto alle proprie
attività, allora minore dovrà essere la specializzazione. Dovrò dargli più compiti, allargare le mansioni, in
modo che il lavoratore possa vedere il risultato finale delle sue operazioni.
Ricapitolando: nella progettazione delle mansioni considero una variabile che è l’ampiezza. Per valutare le
decisioni in termini di ampiezza delle mansioni , devo considerare ulteriori variabili. Abbiamo detto la
possibilità di fare economie di specializzazione, collegate negativamente all’ampiezza perché più una
mansione è specializzata, meno compiti svolgo, perché svolgo pochi compiti e ripetuti; seconda variabile
sono le interdipendenze, collegate positivamente all’ampiezza, più sono interdipendenti, più richiedono lo
stesso livello di specificità delle competenze, più dovrò ampliare i compiti assegnati ad una mansione;
grado di contribuzione e identità, collegato positivamente perché più sarà prevalente il bisogno
dell’individuo d’identità, di avere senso compiuto delle proprie azioni, maggiore sarà la necessità di
ampliare i suoi compiti per includere le attività che daranno un risultato contributivo dal punto di vista
psicologico.
Mentre l’ampiezza fa riferimento alla dimensione orizzontale del lavoro, l’autonomia fa riferimento alla
dimensione verticale del lavoro e quindi consiste sostanzialmente nella definizione di livelli di
discrezionalità tecnica e decisionale da attribuire ad un individuo che svolge una determinata mansione.
Parliamo di discrezionalità tecnica quando dobbiamo decidere con quali strumenti l’individuo deve svolgere
il proprio lavoro. Parliamo invece di discrezionalità decisionale quando dobbiamo decidere i livelli di
autonomia dell’individuo nella programmazione-assegnazione di priorità delle proprie attività da svolgere.
Si ottiene una situazione di massima autonomia quando, in capo alla persona, la mansione che svolge
prevede sia compiti di esecuzione sia i compiti di decisione sia di controllo relativo alle attività svolte. A
mano a mano che si riduce l’autonomia, aumenta la separazione tra esecuzione e controllo delle attività
poste in essere. Come avviene questa separazione tra le attività di decisione e le attività di esecuzione? O
attraverso l’inserimento di un supervisore che avrà il compito di decidere sulle mansioni esecutive oppure
attraverso l’introduzione di elevati livelli di formalizzazione e standardizzazione, cioè trasformo in
procedure tutte le attività da svolgere e ad esse faccio sempre riferimento (non c’è bisogno di un

181
supervisore). Più si amplia questo divario tra esecuzione e decisione, meno sarà autonoma la mansione
stessa.
Anche in questo caso abbiamo tre variabili per decidere i livelli di autonomia da attribuire agli individui che
ricoprono la mansione e sono:
- La varianza delle attività svolte: è l’insieme dei discostamenti imprevisti che ci possono essere
rispetto ad uno standard minimo individuato nel processo produttivo/di erogazione dei servizi;
quanto più è dinamico il processo, quanta più varianza c’è, tanto più sarà necessario intervenire
prontamente sugli strumenti da usare per risolvere gli imprevisti. In questo caso tanta più varianza
si presenta, tanta più autonomia dovrò dare a chi svolge delle mansioni, per fargli scegliere come
gestire quella varianza, quindi ci sarà una correlazione positiva;
- La complessità delle attività poste in essere. Mentre l’interdipendenza richiede lo stesso livello di
competenze specifiche perché le attività sono strettamente interdipendenti tra di loro, la
complessità delle attività richiede una visione olistica, d’insieme, di tutte le interdipendenze che si
possono generare, anche se non si hanno le competenze specifiche. Serve la capacità e la
conoscenza del sistema complesso in generale. Maggiore sarà la complessità delle attività da
gestire, maggiore sarà l’autonomia da dover dare agli individui che svolgono tali attività complesse,
quindi anche qui c’è una correlazione positiva. Non ha senso introdurre supervisori per, ad
esempio, mansioni che consistono nello sviluppo di nuovi mercati a livello manageriale, come
ricerche di partnership.
- Il bisogno di autonomia: bisogna considerare il contenuto motivazionale (pensare alle persone con
un locus of control interno, che non riescono a sottostare a procedure rigide e non può decidere
liberamente e che quindi si sentiranno soffocare): tanto più sarà forte questo bisogno di
autonomia, tanto più dovrò concederlo per le mansioni. Quindi per il job design è importante
considerare le variabili organizzative senza dimenticarsi dell’individualità.
C’è un legame tra i due livelli (autonomia e ampiezza della mansione): più sarà specializzata la mansione,
quindi quando ho pochi compiti ripetuti, meno autonomia potrò ricevere nel suo svolgimento perché la
visione che ho del processo è limitata a quella specifica attività che io svolgo. Quindi non mi sarà possibile
decidere, perché non so che impatto avrà la mia decisione sui fornitori, sulla distribuzione, ecc. Non sono
stato formato per una visione sistemica. Quanto più parcellizzate le mansioni, tanta meno autonomia si ha
nei compiti assegnati e nelle mansioni stesse. Legato a questo c’è anche una legge che viene definita legge
di Parkinson, che afferma che al di là della quantità di lavoro che viene svolta all’interno di
un’organizzazione, le organizzazioni nel tempo tendono a crescere verticalmente, cioè tendono sempre di
più a dividere la parte di decisione da quella di esecuzione, inserendo supervisori e procedure nella linea
intermedia. Questo ci dice che quando andiamo a progettare le mansioni dobbiamo stare attenti a non
cadere in questa trappola prevista dalla legge di Parkinson, perché molto spesso chi progetta le mansioni
crea un ufficio dove c’è un solo capo ed un solo dipendente che svolgono le stesse mansioni, soltanto che
uno è più esecutivo e l’altro più decisionale. In questo caso conviene non fare un ufficio apposito ma
inserire la funzione all’interno di un altro ufficio e attribuire esecuzione controllo e autonomia decisionale
in capo ad un solo soggetto senza creare una funzione apposita, perché tipicamente le organizzazioni
tendono comunque ad espandersi e ad inserire sempre un livello intermedio.
Approcci all’organizzazione del lavoro
Ripercorriamo velocemente gli approcci che si sono susseguiti nel tempo rispetto alla progettazione delle
mansioni.
182
1. Il primo approccio era quello meccanicistico, definito così perché sviluppatosi durante la
rivoluzione industriale, quando si spingeva molto sulla meccanicizzazione del lavoro. L’obiettivo
dell’organizzazione del lavoro in quel periodo era spingere sull’efficienza e sulla standardizzazione
del prodotto e sulla specializzazione del lavoro. Su questa matrice concettuale si è poi sviluppato
nel tempo il Taylorismo, per i cosiddetti “colletti blu” per il lavoro di fabbrica, ma anche il sistema
burocratico di Pepper per i cosiddetti “colletti bianchi”, quindi per i lavoratori impiegati negli uffici
della fabbrica, o per chi lavorava nella pubblica amministrazione. Che cosa avevano in comune
questi due modelli che si basavano sulla matrice meccanicistica del lavoro? Spinta divisione tra
mansioni di decisione e di esecuzione, spinta specializzazione, ovvero la ONE BEST WAY, un unico e
solo modo per far bene le cose, che è il più efficiente. Questo modello andò un po’ in crisi quando i
mercati cominciarono ad essere più dinamici e quindi serviva dare autonomia e contenuto
motivazionale alle mansioni assegnate.
2. Infatti si cercò di arginare a questo problema mediante un nuovo approccio, quello Neo Taylorista.
I teorici affermavano che era vero che bisognasse considerare nella progettazione del lavoro la
specializzazione (divisione tecnica e dimensione del mercato) ma, c’è anche una terza variabile da
considerare, ovvero le diseconomie generate da questo tipo di organizzazione del lavoro, ovvero
dai costi che si generano. È vero che si possono ottenere dei vantaggi dalle economie di
specializzazione ma si possono generare anche dei costi: i costi di coordinamento, infatti se separo
decisione ed esecuzione e controllo ho un consistente maggiore ammontare di costi di
coordinamento dati dai supervisori, dal controllo di più pezzi del processo; costi di comportamento,
c’era maggiore conflittualità all’interno della fabbrica e forte demotivazione che incideva sulla
produttività; costi di apprendimento nei momenti in cui la tecnologia cominciava a cambiare
come faceva chi era troppo specializzato? Pensiamo ad Olivetti che passò da una tecnologia
meccanica ad una elettronica. Lì si è dovuto fare un piano di riprogettazione del lavoro, infatti
Olivetti passò alle isole di produzione perché si generano dei costi di apprendimento, cioè non è
facile riconvertire gli operatori specializzati per tanto tempo in quel piccolo nucleo di compiti
ripetuti. Quando Olivetti riprogettò il lavoro accadde che capì l’importanza di dare senso compiuto
al lavoro degli individui e quindi propose la riorganizzazione in unità di montaggio integrate. Erano
lavoratori riuniti (circa 15-20 per isola) che svolgevano un insieme di attività e in circa un’ora
riuscivano ad avere un modulo finito della macchina, ed erano anche responsabili del collaudo di
quel modulo, mentre invece prima sulla catena di montaggio le attività di ciascun lavoratore
duravano max 2 minuti per ogni pezzo e, su di esso, nessuno aveva possibilità di decidere. Questo
passaggio, come è successo con la fabbrica di Pomigliano con l’inserimento del wcm, ebbe un
enorme successo e permise all’azienda di sopravvivere al cambio della tecnologia e quindi una
nuova organizzazione del lavoro che tenesse conto del contenuto motivazionale (cioè di vedere un
modulo finito e di essere responsabile del collaudo) per la gestione del modulo. Questa è una tipica
soluzione che viene definita di job redesign, cioè riprogettazione della mansione. Quali sono le 4
modalità di intervento del job redesign? Allora c’è il job enlargement che consiste nell’aumentare
in senso orizzontale i compiti inseriti in una mansione (ampiezza), questo permette di avere meno
alienazione, una mansione più ricca, evitando la ripetitività; secondo strumento è il job
enrichment, ovvero l’arricchimento della mansione sia a livello orizzontale sia verticale cioè, sia
ampliando i compiti attribuiti alla mansione sia associando ad essa dei maggiori livelli di autonomia;
il terzo è la job rotation, cioè la rotazione tra diverse mansioni che abbiamo visto nei percorsi di
carriera o per dare una visione più sistemica del business; infine c’è una modalità di lavoro
considerata molto innovativa negli anni ’70 cioè il lavoro di gruppo (work group), un tipo di lavoro

183
in cui non ci fossero gerarchie ma erano tutti gli operai erano polivalenti ed intercambiabili tra loro.
L’approccio Neo Taylorista non riuscì a risolvere il Taylorismo: in quell’epoca l’organizzazione
fordista basata sui principi del taylorismo era ancora molto conveniente perché si spingeva ancora
sui mercati di massa. Infatti questi interventi di riprogettazione delle mansioni erano visti con
criticità, per esempio alcuni studiosi criticarono le possibilità di sovraccarico delle mansioni, quindi
nel momento in cui si voleva evitare la ripetitività e si volevano dare più compiti possibili in modo
da poter gestire diversi aspetti connessi al lavoro. Il problema principale fu che nella maggior parte
dei casi, ancora oggi succede, quando si riprogettano le mansioni, si agisce sulla mansione ma non
si agisce contestualmente sull’arricchimento del ruolo: si dice alla persona “svolgerai più attività”
ma non le viene riconosciuto il ruolo rispetto allo svolgimento di quella mansione, quindi si ha uno
svuotamento del contenuto motivazionale che incide sull’autoefficacia, ovvero su quanto mi sento
capace di svolgere quelle attività se poi non mi viene riconosciuto il ruolo ad esse relativo.
3. La svolta si è avuta con l’approccio motivazionale: non bisogna considerare soltanto l’individuo
lavoratore come portatore di bisogni economici, ma soprattutto come portatore di bisogni sociali,
relazionali e psicologici. Il lavoro è un fatto umano e sociale. Questo suggeriva di dare maggior
valore al contenuto motivazionale delle mansioni stesse, perché i bisogni di consumo e la loro
realizzazione, portano ad ottenere delle ricompense estrinseche, cioè a concepire il lavoro non
come il contenuto ma come lo strumento per raggiungere i propri obiettivi o per evitare qualche
evento negativo. L’approccio motivazionale affermava invece che il lavoratore non ha bisogno solo
di ricompense estrinseche ma anche di ricompense intrinseche. Come si ottengono? Puntando alla
realizzazione dei bisogni sociali e relazionali dell’individuo, cioè i bisogni di appartenenza e di
autorealizzazione. Sono quelli attraverso cui l’individuo percepisce il lavoro come contenuto stesso
delle sue attività, cioè lavora non per raggiungere un obiettivo ma perché ha interesse, ha un senso
spiccato di competenza in quello che fa, vuole contribuire, ottenendo così delle ricompense
intrinseche (facendo leva sulla motivazione intrinseca). C’è un modello delle caratteristiche del
lavoro, sviluppato nel 1980 dagli studiosi Hackman & Oldham, che afferma che ci siano 5
caratteristiche in grado di generare motivazioni intrinseche e soddisfazione sul lavoro, quindi di far
leva sul bisogno di ricompensa intrinseca, e sono:

- La varietà dei compiti assegnati. L’individuo ha bisogno di svolgere compiti diversi e ciò
impatta sulla soddisfazione sul lavoro;

- L’autonomia, poter decidere sulle attività che si svolgono, questo impatta direttamente sulla
motivazione;

- L’identità, cioè il bisogno di svolgere compiti che portino un senso compiuto;

- Vedere il proprio contributo (contribuzione);

- Il feedback, cioè poter accedere alle informazioni relative all’efficacia del proprio lavoro.

4. L’approccio integrato considera un numero maggiore di variabili da tenere in considerazione


quando si progetta il sistema di lavoro. Bisogna considerare prima di tutto i mercati di sbocco: essi
184
incidono sul contenuto delle mansioni se il mio mercato di riferimento sono tutte le aziende che
operano nell’oil and gas e che hanno bisogno di prodotti anti-fouling allora, io che sono il product
manager dovrò essere in grado di svolgere un servizio oltre alla vendita del prodotto (devo svolgere
test, consulenze, ricerche). I mercati finali incidono anche sui tempi e sui modi di lavoro. Un’altra
variabile da considerare sono le caratteristiche del mercato del lavoro: cercare di creare
un’organizzazione del lavoro che risponda alle aspettative che abbiamo generato nel mercato di
lavoro di riferimento. Infine la tecnologia: secondo l’approccio integrato bisogna anche della
tecnologia che uso, e di tutte le interdipendenze che si vengono a creare.
5. Un approccio ulteriore, nato negli anni ’50 in Gran Bretagna e sintesi di diverse discipline,
l’approccio ergonomico che tiene conto della necessità di organizzare il lavoro in modo da ridurre il
più possibile i rischi di salute del lavoratore, lo sforzo fisico o anche le posture inadeguate.
L’obiettivo principale era minimizzare gli aspetti negativi dell’organizzazione del lavoro sul
lavoratore stesso.
Su cosa impatta quindi l’organizzazione del lavoro? Il modo in cui sono organizzati spazi-tempi-modalità del
lavoro impatta contemporaneamente sia sui risultati aziendali, perché incide sui livelli di produttività, sia
sulle persone, perché le dimensioni che tocca l’organizzazione del lavoro sono principalmente 3:

- Dimensione tecnica, secondo la quale l’organizzazione del lavoro mira ad ottenere un output;

- Dimensione economica, che ci dice che l’organizzazione del lavoro mira ad ottenere l’output nella
maniera più efficiente possibile;

- Dimensione comportamentale, rispetto alla quale l’organizzazione cerca di creare ambienti che
rispondano alle aspettative dei lavoratori.
Queste sono quindi le tre anime dell’organizzazione del lavoro.
Quali sono gli obiettivi finali da raggiungere?

- Efficienza organizzativa e aumento produttività del lavoro. La produttività del lavoro l’abbiamo
definita come l’output sull’input, cioè quanto prodotto finale riesco a creare data una quantità di lavoro
che ho immesso nel sistema per generare l’output. Su questa incidono due variabili: la qualità del
capitale umano, relazionale, organizzativo e tecnologico dell’azienda, ovvero la forza produttiva del
lavoro; l’intensità del lavoro, cioè la quantità di lavoro che immetto nel sistema.

- Qualità: efficacia e miglioramento continuo, non produrre solo un buon prodotto ma creare anche
un’organizzazione del lavoro che favorisca il miglioramento continuo e l’apprendimento continuo.

- Garantire dei buoni livelli di flessibilità all’azienda. Capacità dell’azienda di poter reagire a delle
variazioni della domanda di prodotto o servizio proveniente dal mercato. Possiamo incidere su dove
organizzare il lavoro, su come ampliare il contenuto delle mansioni o agire sui tempi di lavoro.

- Qualità della vita lavorativa, il work-life balance, la rete sociale che si viene a creare.

- Salute e sicurezza dei luoghi di lavoro. Conoscerete sicuramente il Decreto 81 del 2008, il Testo Unico
sulla salute e sicurezza dei lavoratori, quello ha un impatto fondamentale su come organizzare
l’ambiente di lavoro. In generale come ambiente di lavoro si intende l’insieme delle condizioni
nell’ambito delle quali si svolge il lavoro e che possono impattare sul benessere fisico e mentale del
lavoratore stesso. Come si può generare lo stress da lavoro correlato? Grazie al sovraccarico delle

185
mansioni che porta il lavoratore a non rispondere più agli stimoli, oppure se do un lavoro
eccessivamente complesso che l’individuo non è in grado di sopportare; stress da relazione con il capo.

LEZIONE 19

DOVE ORGANIZZARE IL LAVORO


Oggi parliamo di spazi e tempi: dove lavorare e in quali tempi, come organizzare la sede del lavoro.
Facciamo un piccolo cenno ad un organizzazione del lavoro particolare che è quella del distretto
industriale, perché è molto tipica della nostra realtà, basti pensare al polo farmaceutico di Latina, se
pensate al distretto alimentare dei salumi a Parma, distretto dell’occhiale in cui è nata LUXOTTICA. Che
cosa sono i distretti? Sono dei sistemi territoriali che concentrano un elevato numero di piccole e medie
imprese in un territorio, specializzate nella produzione di un prodotto.
Il distretto dell’occhiale è un caso particolare, perché non soltanto è costellato di molte pmi che si
occupano di tutta la filiera, quindi non solo delle lenti che in realtà venivano inizialmente dalla Germania e
quindi si concentravano a Belluno dover c’era tutta la filiera che intorno alle lenti costruiva gli astucci i
laccetti e le montature. Quindi ci sono tutta una serie di pmi che in questo distretto si occupano di servizi
specialistici, e poi ce ne sono altre più grandi che trattano tutto il distretto Luxottica.
Qual è il vantaggio di questi distretti? Sicuramente la rete che si viene a creare, perché il capitale sociale,
grazie all’effetto che ha sulle modalità di condivisione della conoscenza, affiancata ad adeguati livelli di
specializzazione, porta all’innovazione di prodotto e di processo; questo è il vantaggio più grande dell’
organizzazione del lavoro in distretti. Sicuramente un buon vantaggio deriva anche dalla possibilità di
preservare in qualche modo l’occupazione perché soprattutto in questi distretti, dove ci sono anche grandi
aziende che traiano i mercati, loro fanno la domanda ma non abbiamo una singola impresa, ma tante
imprese che dipendono dalla domanda di quelle più grandi, quindi in qualche modo il rischio è diversificato,
l’occupazione si riesce a preservare meglio.
Un'altra politica di organizzazione del lavoro è l’outsourcing. Che cosa significa esternalizzazione? Significa
cedere a un fornitore esterno, un attività che veniva prima svolta all’interno dell’impresa, quindi era
integrata all’interno dell’impresa. Quindi c’è una cessione dell’attività, vengono posti in essere degli istituti
di carattere civilistico di natura commerciale che permettono di esternalizzare a un fornitore esterno
attività che prima venivano svolte all’interno dell’impresa. Questa è la differenza fondamentale rispetto
all’offshoring, perché quest ultimo è soltanto una delocalizzazione, quindi un dislocamento di una fase
dell’attività produttiva in altri paesi diversi da quelli della casa madre, ma l’attività resta in capo all’azienda
mentre nell’esternalizzazione l’attività viene ceduta all’ esterno. Inoltre il fatto di porre in essere questi
diversi istituti civilistici, perché per accedere bisogna fare un contratto d’appalto, una sub-fornitura, un
trasferimento di un ramo di azienda, determinano una serie di effetti sull’organizzazione del lavoro e sulle
politiche di gestione del personale.
Quali sono gli obiettivi delle politiche di esternalizzazione ?
- Ridurre i costi, quindi puntare sull’efficientamento della struttura in generale;
- Rendere l’impresa snella (flessibilità della struttura); negli ultimi anni si è fatto uno spropositato
uso di questo outsourcing, infatti molti studiosi parlano di imprese anoressiche ossia imprese che
vengono spogliate di tutte le attività ritenute superflue, che vengono esternalizzate a fornitori
esterni, dove in capo all’azienda rimane solo il core business.

186
A cosa ci serve la flessibilità? Per rispondere meglio e senza troppi danni e perdite ai cambiamenti
della domanda. Le cause principali quali sono? Se io voglio fare efficienza e voglio avere flessibilità,
abbiamo detto o ricorro alla flessibilità funzionale o numerica, ossia licenzio, e allora l’outsourcing è
una valida alternativa a questi sistemi.
Generalmente si fa ricorso all’esternalizzazione quando non si vuole ricorrere alla cassa integrazione e
quindi poi ai licenziamenti collettivi.
Impatto: abbiamo detto che esternalizzare parte della produzione dobbiamo cedere l’attività e ci sono gli
istituti civilistici; se consideriamo il trasferimento di un ramo d’azienda, questo porta una serie di
conseguenze per i lavoratori come lo spostamento della sede di lavoro, ciò porta a una serie di problemi di
conciliazione tra vita e lavoro, ecco perché queste politiche vengono spesso gestite con intervento dei
sindacati e possono anche portare via tanto tempo, fino a far perdere i vantaggi dell’outsourcing stesso.
Abbiamo diverse tipologie di outsourcing che possono essere suddivise in base a due variabili:
- la complessità gestionale dell’attività che deve essere svolta dal punto di vista operativo-logistico-
finanziario.
- la strategicità dell’attività, ossia quanto questa attività che deve essere svolta è vicina al core
business dell’azienda.

Outsourcing tradizionale: quando le attività sono generalmente di staff, sicuramente non sono strategiche
ma sono quelle attività di servizio o di supporto; in questo caso parliamo di attività lontane dal core
business e di attività che possono essere gestite facilmente dal punto di vista operativo; pensate ai servizi di
vigilanza e sicurezza, molte impresa appaltano all’esterno e non assumono dipendenti, oppure per i servizi
di pulizie e le buste paga si fa riferimento a fornitori esterni. Perché? le attività sono semplici da gestire,
quindi potrebbero rimanere all’interno, sono lontane però al core business, quindi all’azienda non conviene
tenerle internamente, quindi per ragioni di efficienza le esternalizza.
Outsourcing tattico: quando le attività iniziano a essere un po’ più complesse dal punto di vista gestionale,
ma ancora lontane dal core business, si parla di outsourcing tattico. Quando le attività cominciano ad
essere un po’ più complesse dal punto di vista gestionale, quindi la complessità gestionale è elevata a

187
questo punto conviene ricorrere all’esterno, perché l’azienda non ha competenze tecniche per gestire
complessità. Questi sono in particolare servizi specialistici, l’azienda ricorre all’esterno proprio per ragioni
di qualità anziché di efficienza, pensate a tutti i servizi ICT, chi deve gestire e costruire queste piattaforme
conviene possedere un fornitore specializzato anziché svolgerle integralmente internamente.
Outsourcing di soluzione: la complessità gestionale delle attività è relativamente bassa, ma abbiamo
attività che si avvicinano molto al core business.
Outsourcing strategico: elevata complessità e attività molto vicine al core business. Perché esternalizzare
attività cosi importanti? Perché ricorrere ad un outsourcing anche delle attività core dell’azienda?
Sicuramente in questo caso molto è dato dalla mancanza di competenze adeguate per gestire queste
attività; pensate a tutti i casi in cui cambia la domanda, cambiano i bisogni del cliente, quindi ad esempio
tutte le attività core dell’impresa vanno affiancate da nuove emergenti (attività), l’impresa non ha tempo
per penetrare il mercato e quindi di fare formazione sulle nuove attività strategiche, allora conviene
esternalizzarle e continuare a concentrarsi su quello che stava facendo.

Grazie allo sviluppo delle tecnologie negli ultimi anni si stanno facendo largo nuove modalità di svolgimento
del lavoro da parte degli individui. Una di queste è il telelavoro. Se n’è cominciato a parlare negli anni 70 ed
era una modalità riservata a classi svantaggiate, cioè a quelle persone che dovevano essere incluse nel
mercato del lavoro ma non avevano la possibilità di recarsi in ufficio o avevano grosse difficoltà.
In realtà dopo si è visto che questo poteva essere uno strumento utile per aumentare la produttività,
l’efficienza della modalità di svolgimento del lavoro e quindi è stata estesa come modalità possibile di
lavoro a tutti i lavoratori. I primi ad utilizzarla sono stati i professionisti che potevano essere in contatto con
clienti e collaboratori ovunque, non soltanto in ufficio.
Nel 2002 in Europa è stato fatto un accordo quadro europeo: sono state date delle linee guida per
supportare lo sviluppo del telelavoro in tutti gli stati membri perché era necessaria flessibilità e cercare di
venire incontro alle nuove esigenze dei lavoratori in termini di conciliazione vita-lavoro, soprattutto per
favorire una rapida inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Questo accordo quadro viene recepito in
Italia soltanto nel 2004 grazie ad un accordo interconfederale.
In generale il telelavoro viene definito come una modalità di svolgimento del lavoro a distanza mediante
l’impiego di tecnologie dell’informazione e comunicazione.
Vediamo adesso in Italia come si dispiega questa modalità di lavoro. Allora innanzitutto per introdurre il
telelavoro in Italia è necessario fare un accordo collettivo che recepisca l’accordo interconfederale del
2004. La caratteristica fondamentale del telelavoro in Italia è la predeterminazione del luogo di lavoro dove
il lavoratore andrà a svolgere il suo orario di lavoro, quindi ci sono due vincoli: il luogo di lavoro deve essere
predeterminato, non per forza a casa ma deve essere stabilito prima, il lavoratore non può scegliere di
lavorare ovunque; secondo: non ha flessibilità di orario, deve svolgere il suo orario di lavoro. Quindi alla
fine è abbastanza vincolante come modello di svolgimento del lavoro. Altra caratteristica fondamentale che
ha per tanto tempo anche ostacolato lo sviluppo del telelavoro è come tutelare la salute e la sicurezza dei
lavoratori che lavorano da casa o da altro ufficio, quindi le aziende non se la sentivano di spingere molto su
questa modalità dato che solo generalmente vi era un vincolo di tutela riguardante salute e sicurezza senza
nulla di specifico al riguardo.
Il telelavoro può essere diviso in varie tipologie e a seconda della sede di lavoro predeterminata:

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Il Networking
Questa è una modalità di svolgimento del lavoro in rete; quando parliamo di networking facciamo
prevalentemente riferimento ad un networking di tipo strategico. Questo permette ai lavoratori di lavorare
in rete decidendo autonomamente le azioni da intraprendere, i piani di lavoro, permettendo al lavoratore
di gestire in autonomia le modalità e i tempi di coordinamento. Quindi in questo caso è una vera e propria
modalità di lavoro in rete dove i lavoratori comunicano grazie alla tecnologia e riescono a coordinarsi.
Cos’ è che distingue il networking strategico da quello non strategico che invece è assimilabile al
telelavoro? Quando sostanzialmente non si tratta di un lavoro in rete ma di una ricollocazione in rete del
lavoro abitualmente svolto (telelavoro). Quindi si ricorre al lavoro in rete o per ragioni di costo o per
velocizzare i tempi. Nel networking non strategico non cambia il contenuto del lavoro, i lavoratori non
hanno maggiore autonomia di scelta e organizzazione del lavoro, semplicemente il loro lavoro abituale
viene spostato in rete, ma non è un lavoro in rete nel senso stretto della parola, non vi è coordinamento e
dipendenza sequenziale nel lavoro come in un team, qui ognuno ha il suo compito da svolgere, ognuno
deve svolgere la sua mansione solo che le interazioni avvengono in rete o per ragioni di costo, o per ragioni
di velocità.
Smart working
È la nuova frontiera del lavoro. Vediamo come si differenzia dal telelavoro.
Il telelavoro necessita della predeterminazione della sede in cui il lavoratore deve svolgere il suo orario di
lavoro, mentre lo smart working è un concetto avanzato in cui il lavoratore può decidere i tempi, i modi, gli
spazi dove svolgere il suo lavoro, a patto che raggiunga poi gli obiettivi posti dall’organizzazione. Si tratta di
una modalità di svolgimento del lavoro molto innovativa, che sposta gran parte della responsabilità sul
lavoratore, che deve essere in grado di gestirsi, di autodeterminare le proprie azioni e che di fatto riesce a
rendere molto più flessibile la struttura e anche la vita e le esigenze delle persone che ne fanno parte; ma
un’organizzazione che non abbia la cultura per recepire questo enorme strumento di flessibilità, è difficile
che riesca poi a raggiungere un incremento della produttività, ovvero a realizzare il valore aggiunto che può
derivare dall’utilizzare questo tipo di strumento, perché è uno strumento che non punta alla presenza o alla
posizione, ma punta ai risultati.

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Nb: il contratto di lavoro rimane quello tipico di lavoratore subordinato. Questa modalità di lavoro è
riservata quindi sempre ai dipendenti dell’azienda.
Gestione degli orari di lavoro delle persone all’interno dell’organizzazione
Qual è l’orario a tempo pieno in Italia, ossia l’orario di lavoro normale in Italia? Non è 8 ore al giorno. Il
legislatore italiano non prevede come tempo pieno le 8 ore lavorative al giorno. Il decreto legislativo
63/2003 dice che il lavoratore può lavorare in una giornata al massimo 13 ore, garantendo però 11 ore di
riposo. Si dice che il vincolo sia di 8 ore al giorno perché c’è un orario normale di lavoro previsto dal
legislatore che è 40 ore settimanali; però, in realtà, vedremo che ci sono diverse forme di flessibilizzazione
che permettono anche di concentrare l’orario di lavoro in un minor numero giorni (settimana corta) e
lasciare liberi i gironi restanti.
Rispetto a questi vincoli legislativi, le aziende possono avere dunque un margine di flessibilità sia per venire
incontro alle esigenze organizzative aziendali, sia per venire incontro alle esigenze dei lavoratori in termini
di conciliazione.
Le forme di flessibilizzazione degli orari di lavoro sono:
- Il lavoro supplementare: l’orario che eccede l’orario contrattualizzato part-time. Se io per part-
time faccio 25 ore, tutto ciò che eccede le 25 ore e arriva al tempo pieno, cioè arriva alle 40 ore
settimanali. Anche per il lavoro supplementare è generalmente prevista dalla contrattazione
collettiva una maggiorazione di lavoro supplementare.
- Quando invece l’orario richiesto eccede quello normale di lavoro (40 ore settimanali) si parla di
lavoro straordinario: in questo caso viene prevista oltre la normale retribuzione, anche una
maggiorazione (prevista dal contratto collettivo).
- L’orario scorrevole: in questo caso l’ammontare dell’orario che deve essere svolto giornalmente
non cambia; però viene data la possibilità al lavoratore di slittare, quindi o uscire un poco dopo
oppure un po’ prima , a seconda delle esigenze del caso.
- Time sharing: è una forma di organizzazione dell’orario di lavoro che deriva da una tipologia di
contratto di lavoro che è il job sharing ( due persone part-timer che lavorano e che sono
responsabili dell’attività lavorativa in solido). Generalmente ci si divide con un collega l’orario di
lavoro che si svolge in totale autonomia/libertà, perché all’azienda non interessa questa partizione
ma il risultato del lavoro di cui sono, in solido responsabili, i due lavoratori in questione.
- Settimana corta: vi è la possibilità, consentita dalla legge, di concentrare più ore lavorative nei
primi giorni della settimana ( max 13 ore al giorno), per poi stare gli altri giorni a casa.
- Annualizzazione o mensilizzazione dell’orario di lavoro: significa cambiare lo standard, cioè non
considero più come orario normale di lavoro le 40 ore settimanali, ma ad esempio devo rispettare
48 ore di lavoro settimanali nell’arco di 12 mesi in media: faccio alcune settimane in cui lavoro 30
ore, alcune settimane in cui lavoro 50 ore, alcune in cui lavoro 38, ma l’importante è che nell’arco
dei 12 mesi (perciò annualizzazione dell’orario) io faccia 48 ore di lavoro settimanali in media.
Strumento utile per gestire i dipendenti con più flessibilità. Chiaramente l’azienda deve rispettare
sempre i riposi compensativi. Quindi per esempio se io decido che quello è il mio orario normale di
lavoro le 48 ore settimanali in media, ho più possibilità di gestire i miei dipendenti, senza
necessariamente ricorrere allo straordinario. Chiaramente poi molte aziende devono rispettare
riposi compensativi, quindi se per esempio il lavoratore lavora sei giorni, poi deve rispettare tutto
l’arco dei riposi compensativi nei giorni seguenti, se supera l’orario nuovo definito. Esempio se
supera le 48 ore settimanali in media alla fine dell’anno, dovrà garantire dei riposi compensativi.

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- Conto o Banca a ore: questo è uno strumento molto utilizzato perché anche in questo caso
permette di gestire meglio gli straordinari, ovvero se il lavoratore lavora di più, fa degli straordinari,
io non li monetizzo subito, li faccio mettere in conto, in banca. Li accantono in un conto virtuale
sostanzialmente, dove il lavoratore potrà andare a riprenderli sotto forma di permessi. Quindi se
lavora un’ora in più, otto ore in più, poi avrà otto ore a disposizione per: riposi compensativi,
permessi e così via. E’ un vero e proprio conto a ore. Chiaramente poi quello che residua deve
essere monetizzato oppure c’è la possibilità, da parte del lavoratore, di chiedere comunque la
monetizzazione degli straordinari.

Un’altra modalità di organizzazione dei tempi del lavoro è il part-time.


Il part-time può essere di tre tipologie:
1) part-time orizzontale cioè quando ogni singolo giorno viene svolto un numero ridotto di ore rispetto
all’orario normale di lavoro:
2) part-time verticale, in cui se otto ore al giorno è il tempo pieno dell’azienda, si fanno otto ore in tre
giorni. Vedete comunque in maniera complessiva l’orario di lavoro è sempre ridotto rispetto a quello
normale, rispetto alle 40 ore e ci sono diverse percentuali; ci può essere un part-time del 25%, del 50%,
in parte lo abbiamo già visto.
3) part-time misto è un forma di part-time che prevede l’unione delle due tipologie precedenti. Quindi io
posso avere alcuni giorni in cui diciamo lavoro soltanto in alcuni giorni, lunedì mercoledì e venerdì, in
quei giorni faccio un orario ridotto rispetto al tempo pieno.
Quali sono gli obiettivi del part-time? Sicuramente dare maggiore flessibilità agli individui, anche se ancora
oggi i lavoratori che più ricorrono al part-time sono le donne, è difficile che gli uomini ricorrano al part-
time, perché chiaramente il part-time, comportando un numero ridotto di ore lavorate, comporta una
minore retribuzione, minori contributi e a cascata anche una riduzione di tutti gli altri istituti che variano in
funzione delle ore lavorate.
Per esigenze sociali molto spesso si ricorre al part-time: per esempio ai casi di riduzione dell’orario di lavoro
congiunturale, così detti contratti di solidarietà, che vengono fatti dalle aziende, da parte dei lavoratori
delle aziende, èerché con i contratti di solidarietà si passa al part-time però si ha una minor riduzione della
paga, della retribuzione, perché con i contratti di solidarietà interviene la cassa integrazione che integra
appunto la retribuzione mancante, almeno in parte, almeno una certa percentuale. Quindi vedete una
riduzione dell’orario temporanea che si fa nel frattempo che l’attività economica si riprende, e l’azienda si
rivitalizzi. Quando invece si parla di una riduzione dell’orario strutturale, allora in quel caso si sta
cambiando proprio il piano di organizzazione del lavoro e stiamo cambiando in maniera strutturale in
definitiva tutti i turni, quindi si parla di ristrutturazione di riorganizzazione del lavoro in azienda, proprio per
evitare di ricorrere a licenziamenti, si riduce a tutti l’orario di lavoro e quindi magari quello che c’è da fare
lo si divide tra i lavoratori.
Per quanto riguarda l’azienda, anche in questo caso diciamo è possibile per le aziende riuscire a
raggiungere determinati livelli di flessibilità, però dipende, perché non é sempre conveniente per l’impresa
ricorrere al part-time. Questo è uno dei motivi per cui in Italia non è tanto sviluppato se non per
determinate categorie di lavoratori, perché in Italia il costo fisso del lavoro è molto alto per cui assumere
più lavoratori, che devono svolgere praticamente le stesse mansioni ma in part-time, mi aumenta di gran
lunga i costi fissi del lavoro. Infatti diciamo che il part-time è conveniente quando i costi di lavoro
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aumento in maniera proporzionale alle ore lavorate, cioè non sono costi fissi ma sono per lo più costi
variabili.
E’ più facile che l’azienda ricorra ad un lavoratore a tempo determinato full time, che a due lavoratori a
tempo indeterminato part-time, perché gli aumentano i costi fissi, inail, inps, assicurazioni, fondi
previdenziali, assicurativi e così via. Poi dipende anche dal livello di interdipendenza e di divisibilità del
processo lavorativo. Se due attività che svolgono due part-timer sono strettamente interdipendenti e
collegate tra loro, a me non conviene avere due lavoratori che svolgono così la stessa mansione
interdipendente perché poi dovrei coordinarli proprio perché queste attività da svolgere sono molto
interdipendenti tra loro, quindi mi conviene che tutta l’attività sia gestita da un unico lavoratore a tempo
pieno che la porti a termine dall’inizio alla fine.

Conciliazione vita e lavoro


Sul tema della conciliazione tra vita e lavoro, è stata dedicata tanta attenzione negli ultimi anni, sia
dall’Europa sia da varie iniziative che sono state intraprese proprio per agevolarne l’entrata e il
rafforzamento della presenza delle donne nel mondo del lavoro.
Come garantire la conciliazione tra vita e lavoro? Si può agire su diverse fronti: abbiamo visto le
articolazioni spaziali; dal punto di vista dell’orario abbiamo una serie di strumenti che possono facilitare la
conciliazione, oppure l’azienda può prevedere dei servizi di Welfare aziendali, quindi dei servizi alla
famiglia, per esempio un asilo nido proprio per cercare di ridurre il carico di cura soprattutto in capo alle
donne ma anche gli uomini, ai single che devono tenere a bada tutta la gestione della casa; servizi al
lavoratore.

Un’ultima osservazione che facciamo è rispetto ai lavoratori che si contraddistinguono nell’era dell’
economia della conoscenza: i professional e i knowledge worker. Sicuramente a questi lavoratori va
lasciata molta flessibilità nella progettazione della mansioni, nelle loro esigenze di conciliazione, anche
perché sono lavoratori che molto spesso sono sempre in trasferta, sempre in giro, persone con carichi di
lavoro abbastanza elevati dal punto di vista intellettuale, proprio perché il lavoro è bassato tutto sulla
conoscenza. Quindi in questo caso si cerca di agevolare la loro capacità innovativa, agevolare la loro
capacità di innovazione proprio garantendo un ampio pacchetto di strumenti di flessibilità e amplia
autonomia e discrezionalità ai lavoratori stessi, quindi in questo caso bisognerà agire su diverse leve, la
retribuzione per trattenerli in azienda, sicuramente buone condizioni di lavoro, buoni ambienti ma
l’autonomia e la flessibilità possono essere proprio una carta vincente per trattenere questa nuova
tipologia di lavoratori.

Esercitazione Poste.

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LEZIONE 20
PERFORMANCE MANAGEMENT

DEFINIZIONE: che cos’è il performance management?

È un sistema integrato (questa parola è fondamentale e distintiva) della gestione delle performance che
permette di allineare tali prestazioni a livello individuale, a livello di gruppo e a livello di organizzazione
complessiva

Che cosa significa? Stiamo parlando di un sistema di gestione molto ampio, molto articolato, che è in grado,
a partire dagli obiettivi indicati dai piani strategici, di allineare e integrare tra loro le performance di singoli
individui, di gruppi di lavoro e di organizzazioni nel suo complesso.

Ecco che allora c’è un duplice e fondamentale obiettivo:

- Mira a supportare, gestire, migliorare e rafforzare le performance individuali.


In che modo? Supportando lo sviluppo della persona, quindi cercando di capire quali sono le
aspettative della persona stessa rispetto al ruolo che occupa e fornendo all’individuo i risultati da
raggiungere e gli strumenti in termini di competenze da formare e comportamenti da tenere.
- Secondo obiettivo è legato alle prestazioni dell’organizzazione: il PM va ad agire, ad incrementare la
capacità organizzativa (la capacità organizzativa è definita come la capacità di combinare tra di loro
le varie componenti del sistema organizzativo di diversi fattori in modo da consentire un vantaggio
competitivo sostenibile RBW).

Da questi obiettivi cominciamo a parlare delle caratteristiche distintive.

In questo senso il performance management è definito come un sistema integratore, perché è in grado di
integrare le varie parti di un sistema per raggiungere performance superiori sia a livello di individuo sia a
livello di gruppo che a livello dell’organizzazione nel suo complesso e catalizzatore, soprattutto dei processi
HR (gestire una performance significa che in base a come io gestisco una performance allora dovrò
identificare diversi processi per esempio diversi sistemi di formazione e sviluppo). Com’è possibile che il
performance management riesca in questo intento? È necessario che vengano monitorate costantemente
le competenze e conoscenze degli individui (per vedere se ci sono dei gap ed eventualmente intervenire
con dei sistemi di formazione) oppure allineando i risultati, quindi rendere coerenti i risultati individuali con
quelli dell’organizzazione. Ad esempio con la Human Balance scorecard, in cui se uno degli obiettivi generali
dell’impresa è quello di aumentare le vendite e per farlo si vuol puntare sulla qualità dell’interazione fra i
commessi ed i clienti finali allora non avrebbe senso porre dei risultati che a livello individuale siano legati
al premio di presenza, devo invece dare degli obiettivi che puntino sul comportamento, il che vorrebbe dire
non essere coerenti con gli obiettivi dell’organizzazione.

Allora proprio per queste ragioni, per il forte ruolo di integratore e catalizzatore si dice allora che il
Performance Management non è una semplice valutazione delle prestazioni, ma è una gestione delle
prestazioni, quindi non si limita a valutare i risultati degli individui ma li orienta.

Vediamo come si differenzia rispetto alla valutazione della prestazione intesa in senso stretto. Abbiamo
diverse caratteristiche su cui differenziare fra le due (questa è tipicamente una domanda d’esame).

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Il primo elemento di differenziazione è la natura. La valutazione della prestazione è uno strumento
dell’amministrazione del personale che viene generalmente utilizzato per collegare ai risultati ottenuti dagli
individui il momento retributivo; quindi il momento valutativo è strettamente connesso con quello
retributivo. La natura del Performance Management invece è un sistema più ampio e più articolato della
semplice valutazione delle performance. In questo caso il momento valutativo non è connesso soltanto alla
retribuzione ma anche a tutti gli altri processi HR proprio perché ha quel ruolo di catalizzatore.

Chiaramente se cambia la natura cambia anche l’approccio alla valutazione e gestione della prestazione.
Nella valutazione della prestazione l’approccio è esclusivamente orientato al risultato, cioè bisogna valutare
quale risultato ha raggiunto l’individuo. Viceversa, nel Performance Management l’orientamento è alla
persona e non al risultato, quindi sicuramente si valuta il risultato ma si valuta anche come quel risultato è
stato raggiunto (con quali comportamenti? Con quali competenze?).

Questo cambia anche il contenuto della valutazione: abbiamo detto che se da un lato il contenuto della
valutazione è solo il risultato, dall’altro c’è risultato, competenze e comportamenti.

Ulteriore differenza è sull’orizzonte temporale: la valutazione della prestazione generalmente è a cadenza


annuale/biennale al massimo, e l’orientamento temporale quindi è sicuramente rivolto al passato “io
valuto quello che l’individuo ha fatto fino al momento in cui lo sto valutando” perché poi devo assegnare a
quel risultato un determinato emolumento retributivo/promozione.
Nel performance management invece, il feedback è continuo, quindi non c’è soltanto una/due volte l’anno;
è continuo perché mira ad un miglioramento continuo perché deve orientare e non soltanto valutare.

Per quanto riguarda l’orizzonte temporale invece è:

- In parte al passato (per verificare se devo fare delle correzioni mi rivolgo ai comportamenti passati)
- Proiezione della valutazione futura: valutare adesso quella che sarà la prestazione in un tempo n+1
e quindi decidere se e come sviluppare/modificare dei piani di sviluppo individuali.

Chiaramente, essendoci un feedback continuo, cambia il ruolo del capo: nella valutazione della prestazione
il capo stabilisce degli obiettivi da raggiungere. Quando invece parliamo di performance management
stiamo parlando di figure che fanno più riferimento ad un coach, un mentore, che assistono e supportano
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continuamente il lavoratore affinché i suoi sforzi siano giustamente incanalati verso il raggiungimento di
obiettivi organizzativi.

Cambia anche il rapporto con le altre politiche: nella valutazione della prestazione la politica con cui
interagisce il processo, con cui più interagisce chi fa la valutazione è sicuramente chi fa retribuzione perché
c’è una stretta connessione tra il momento valutativo e il momento retributivo. Invece nell’altro caso il
rapporto con le politiche HR è un rapporto sinergico, tutti i processi sono integrati strettamente fra loro.

Cambia anche la comunicazione: è più funzionale nel caso della valutazione strategica, è di tipo funzionale
perché permette il funzionamento del processo (domanda crocette!!!). Viceversa, la comunicazione nel
performance management serve ad ingaggiare le persone, motivarle perché raggiungano gli obiettivi e
quindi abbiano un valore più strategico.

In virtù di tutte questa caratteristiche possiamo individuare i tratti distintivi del PM:

- La presenza di una valutazione non soltanto della prestazione ma anche del potenziale (valutare il
potenziale vuol dire valutare cosa la persona sarà in grado di fare in un arco temporale di due anni
e quindi valutare bene le competenze che gli voglio fornire affinché raggiunga i suoi obiettivi);
- Non ci si concentra per valutare la prestazione sulle posizioni ma sulle competenze (le posizioni
attengono alla collocazione organizzativa del titolare di una mansione, ma la struttura organizzativa
è piuttosto statica - non posso valutare la persona solo in virtù della posizione che occupa, ma devo
valutarla in virtù dei comportamenti che tiene e delle competenze che ha);
- La metodologia di valutazione adottata è in parte data da metodologie di valutazione che sono
definite di breve periodo, perché sono misurate attraverso indicatori di breve periodo che hanno
sostanzialmente delle finalità retributive (ad esempio un aumento della produttività per il
pagamento del cottimo). Accanto a questi indicatori devo necessariamente predisporre degli
indicatori di misurazione della performance di lungo periodo perché soltanto nel lungo periodo si
può vedere lo sviluppo individuale della persona e il suo contributo agli obiettivi strategici
organizzativi; è soltanto nel lungo periodo che si possono valutare cambiamenti in termini di
accrescimento delle competenze comportamentali;
- Le relazioni: cambia il ruolo del capo che diventa coach, che diventa mentore, non definisce
soltanto gli obiettivi ma li orienta/supporta/guida il lavoratore; e proprio in virtù di questo è
fondamentale che nei piani di performance management i piani di azione (action plan) siano
strettamente condivisi tra capo e subordinato, difatti un obiettivo non condiviso è di per sé un
obiettivo perso in partenza.

Dati questi tratti distintivi, come è possibile progettare un piano di performance management che sia in
grado di avere successo/vantaggio competitivo ad un’impresa?

Ci sono quattro caratteristiche che dobbiamo sempre tenere in considerazione:

1) Coerenza/congruenza: sia con la cultura organizzativa dell’istituzione dove vogliamo impiegare il piano
di PM, sia con il contesto sociale. Se io voglio introdurre un piano di performance management in una P.A.,
in Sapienza ad esempio, secondo voi è coerente con la cultura organizzativa dell’ateneo? La risposta è
negativa perché tutto nella P.A. , almeno quella vecchio stampo dove la burocrazia è il pilastro portante,
l’attenzione non è rivolta ai risultati o alle prestazioni ma sulle procedure.

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- 1b) Coerente con il sociale: molti studi hanno evidenziato come alcuni piani del performance
management non possono essere applicati a qualsiasi tipo di cultura, ma soprattutto che cambia il
successo del piano a seconda del contesto sociale in cui è applicato il piano stesso; in particolare è
stato fatto uno studio tra un piano di performance management applicato a dei paesi anglosassoni
e un piano di performance management applicato in Cina; mentre nei paesi anglosassoni è
fondamentale/sfidante, è vista di buon grado la relazione con il capo, in Cina la revisione con il capo
della propria performance è vista con agitazione/sospetto/ansia. In Cina è molto più efficace la
valutazione da parte dei colleghi.

2) Pervasività: il PM è un sistema integrato non posso riservarlo ad alcune posizioni, non posso considerare
solo alcune prestazioni (per esempio solo quelle relative al risultato e non quelle relative a comportamenti
e competenze) e non posso considerare solo il breve periodo altrimenti non stiamo parlando di piani di
performance management.

3) Affidabilità: attiene alla percezione che l’individuo ha sulla correttezza in cui è stato applicato il piano di
performance management. Correttezza sia rispetto alla valutazione ricevuta sia rispetto alle procedure
impiegate, quindi parliamo di equità distributiva e giustizia procedurale. Quando parliamo di equità
distributiva stiamo dicendo che l’individuo deve percepire che la sua valutazione coincidere con la
prestazione che ha dato. La giustizia procedurale invece attiene alla percezione di correttezza che
l’individuo ha rispetto alle procedure impiegate durante la valutazione; bisogna quindi stare attenti che
vengano rispettate tutte le regole previste per tutti e soprattutto che queste procedure siano applicate
sempre in maniera corretta.

4) Economicità/realizzabilità (di un piano di PM): dobbiamo sempre tener conto del budget che c’è a
disposizione e quindi valutare se i benefici che ottengo dalla realizzazione di un piano di performance
management possano superare tutti i costi sostenuti.

LE FASI DEL PROCESSO

L’input di questo processo è la strategia, perché è da questa che otteniamo gli obiettivi organizzativi da
raggiungere.

Fase 1: una volta definiti gli obiettivi strategici è necessario progettare il sistema di performance
management. Il responsabile, il process owner, della progettazione del sistema di performance
management è la funzione HR, che ha il compito di recepire gli obiettivi strategici, progettare e coordinare
il piano di performance management e comunicare al management di linea, che poi agirà a livello locale,
valutando le prestazioni a livello di singola funzione, di divisione, di singola unità organizzativa, gli obiettivi,
gli strumenti da utilizzare, i criteri, le modalità di svolgimento e di implementazione del piano di
performance. La funzione HR è responsabile sia della formazione di tutta la linea manageriale che andrà a
gestire a livello locale i piani di performance management. Quindi la funzione HR è sia responsabile della
progettazione, del coordinamento dei piani di performance e della comunicazione ai manager di linea ma
anche della loro formazione, cioè deve formare tutti coloro che saranno coinvolti nella realizzazione, nella
gestione operativa del piano affinché un piano di performance managament abbia successo.

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Fase 2: dopo aver progettato e formato adeguatamente il management è necessario pianificare gli
obiettivi. Responsabile è il management di linea; obiettivi che ricordiamo non sono solo relativi ai risultati
ma comportamenti e competenze, orientati alle persone.

Gli obiettivi devono seguire l’acronimo SMART:

- S specifici (non basta dire aumentare le vendite, bisogna dire aumentare le vendite del 10%)
- M misurabili o a livello quantitativo o a livello qualitativo (purché sia applicabile un criterio di
misurazione)
- A raggiungibili (attainable) altrimenti si può incorrere nelle situazioni di overstress ottenendo
l’effetto contrario a fronte di un sovraccarico di lavoro; l’individuo si sente demotivato
- R rilevanti (relevant): perché devono dare all’individuo la percezione di dare il suo contributo
alla realizzazione dell’output finale
- T devono avere una scadenza (time – bound) altrimenti si ha l’effetto opposto, si ha una
situazione di understress.

Fase 3: la comunicazione strategica per l’ingaggio. In questa fase è necessario che i manager comunichino
cosa ci si aspetta dalle persone in termini sia di comportamenti che di risultati da raggiungere. È
fondamentale anche la comunicazione di tutti ti criteri che saranno utilizzati per attuare la valutazione,
perché è fondamentale che tutti conoscano le procedure che saranno impiegate (giustizia procedurale).

Fase 4: implementazione del piano, cominciano le attività. Le persone cominciano a svolgere i propri task, i
propri compiti, si ha una comunicazione con feedback continuo tra il manager ed i suoi collaboratori, ed il
manager prende appunti: verifica il raggiungimento dei risultati, i comportamenti tenuti, verifica eventuali
miglioramenti/peggioramenti nel tempo. Perché deve prepararsi al momento della performance review
formale con il collaboratore stesso.

Ricorda: parliamo delle caratteristiche del manager affinché abbia una performance review efficace:

- Arrivare preparati (annotarsi tutto durante lo svolgimento dei task)


- Parlare sempre di comportamenti osservati e concreti e non percezioni individuali (solitamente si
inizia parlando con gli elogi dei collaboratori, si cerca di discutere delle aree di miglioramento
cercando di portare l’individuo alla auto valutazione ed infine chiudere la performance review con
connotati sempre positivi, orientati al futuro).

Fase 5: misurazione delle performance. Abbiamo indicatori di breve e di lungo periodo.

La cosa fondamentale di questa fase è sviluppare indicatori di valutazione della prestazione che possano poi
essere direttamente connessi con indicatori di performance organizzative, per esempio la Balance
Scorecard, oppure l’activity based management, oppure indicatori che vadano a confluire sulla capacità
dell’azienda di relazionarsi con i fornitori. È fondamentale perché ci deve consentire di allineare
concretamente tramite indicatori le performance individuali e di gruppo a quelle organizzative.

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Fase 6: ricompense e feedback.

La ricompensa per la prestazione è data da una retribuzione data dal risultato ma anche in parte una
remunerazione per le competenze e i comportamenti, oppure sono previste forme miste per la ricompensa
delle prestazioni raggiunte.

Feedback: dialogo e condivisione delle aree di forza e di miglioramento.

L’IMPATTO ORGANIZZATIVO DEL PERFORMANCE MANAGEMENT

In che modo può impattare sia dal punto di vista hard che soft un piano di performance management sui
risultati organizzativi.

Un impatto fondamentale è sulla possibilità di garantire all’organizzazione un certo livello di flessibilità,


perché il performance management è in grado di aumentare la capacità organizzativa di combinare e
ricombinare tra di loro i fattori in modo da adattarsi a ciò che succede nell’ambiente esterno. Ma il vero e
proprio valore aggiunto del Performance Management sta nel carattere di integrazione, infatti si diche che
si passa da una flessibilità di tipo adattiva ad una flessibilità integrativa/sinergica, spieghiamo le differenze.

Flessibilità adattiva: capacità dell’organizzazione ad adattarsi agli eventi che intervengono nelle strategie
degli attori o nell’ambiente di riferimento. Questo vuol dire che l’organizzazione cambia al suo interno per
compensare dei cambiamenti che sono avvenuti in un altro sistema; si ha un effetto di sostituzione.

Flessibilità integrativa: l’organizzazione non solo reagisce ai cambiamenti ma è in grado di far fronte ai
cambiamenti in maniera quasi contestuale, adattando i processi in maniera strettamente integrata tra di
loro, avendo un risultato sinergico. Dunque, non si ha un effetto di sostituzione ma una sinergia vera e
propria tra le diverse componenti del sistema che sono in grado combinarsi e gestire le richieste di
flessibilità.

Un altro impatto sull’organizzazione è sicuramente il committment : lo fa assegnando degli obiettivi


individuali o anche a livello di gruppo, responsabilizzando ciascun individuo, ciascun lavoratore. E sappiamo
che la responsabilità e l’autonomia sono forti leve motivazionali nel contenuto del lavoro di un individuo.

Strettamente connessa all’aspetto del commitment è la questione dell’empowerment perché grazie ad una
responsabilizzazione degli individui, quindi praticamente l’assegnazione di obiettivi a tutti i livelli
dell’organizzazione si ha un sistema di delega che si appiattisce sempre di più.
Quindi quello che a noi ci restituisce il sistema di performance management è un’organizzazione molto più
flessibile ed agile che grazie a questi sistemi di delega verso il basso, grazie a questo senso forte di
responsabilizzazione di commitment, è in grado di dare elevata autonomia e discrezionalità a tutti i livelli
proprio perché ciascuno di questi livelli è strettamente integrato con obietti strategici nel complesso.

Un buon sistema di performance management riesce ad assicurare che tutti gli individui a tutti i livelli
riescano a contribuire perché ciascuno di essi è responsabile di una piccola fase.

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LEZIONE 21 E 22

LA VALUTAZIONE DEL PERSONALE


La valutazione è inserita nell’ambito della valorizzazione delle risorse umane perché la valutazione consiste
nell’assegnare un valore. È proprio questa assegnazione di valore al contributo che dà l’individuo al
risultato finale che permette di remunerarlo e valorizzarlo. La valutazione diventa la premessa
indispensabile per valutare il valore dell’individuo e, sulla base di questo, valorizzarlo.
Che cos’è la valutazione? È l’insieme di tecniche finalizzate all’assegnazione di un valore a posizioni,
competenze e potenziale o prestazione data. Già nella definizione troviamo le 3 diverse tipologie di
valutazione: la valutazione delle posizioni organizzative, la valutazione delle persone, la valutazione delle
prestazioni.
Finalità della valutazione
- Finalità strategico-organizzativa: valutare le persone, le posizioni, i potenziali, mi permette di
indirizzare tutti questi fattori verso il raggiungimento degli obiettivi strategici d’impresa.
- Finalità motivazionale: bisogna valutare le persone per vedere se ci sono dei punti su cui fare leva.
Magari una persona punta a fare carriera, quindi si valuta di più la prestazione in modo tale da
trovare stimoli adeguati. Magari una persona vuole essere motivata puntando sul suo sviluppo
personale. Bisogna valutare per trovare le leve su cui agire per attivare l’azione di una persona.
- Finalità di sviluppo: valutare serve a comprendere se la persona ha dei punti di forza su cui fare leva
per raggiungere i nostri obiettivi.
Dimensioni della valutazione
Che cosa significa dimensione della valutazione? Vogliamo identificare come la valutazione del personale
influisce sulle tre dimensioni della relazioni di lavoro che abbiamo studiato. La relazione di lavoro è
sicuramente una relazione di scambio. Qual è il valore della valutazione nell’ambito della dimensione di
scambio, della dimensione economica? La valutazione è il presupposto per verificare che la prestazione sia
stata eseguita. In questo caso il suo ruolo è legittimare lo scambio, quindi verificare che la prestazione sia
eseguita e legittimare la controprestazione.
Dimensione gerarchica. In questo caso la valutazione serve al controller, per valutare se la prestazione sia
eseguita secondo le direttive del datore di lavoro. Nell’ambito delle relazioni di condivisione, la valutazione
del personale incide sull’apprendimento con una serie di attese implicite ed esplicite, aspettative tacite, per
cui in questo caso valutate significa conoscere ciò su cui bisogna contare, apprendere, affinché queste
relazioni di condivisione generino il commitment che influisce positivamente sulla produttività.
La formalizzazione
Perché è importante formalizzare tutte le fasi relative al processo di valutazione? Perché valutare significa
ridurre le asimmetrie, significa tirar fuori tutte le informazioni, quindi questo processo deve essere
assolutamente chiaro e definito. La formalizzazione, dare dei codici, codificare, permette di mantenere
l’oggettività, permette a chiunque di verificare tutte le procedure che sono state eseguite.
COSA VALUTARE
Si fa una distinzione tra valutazione delle posizioni, delle persone e delle prestazioni:
Valutazione della posizione. A livello generale valutare significa assegnare un valore. Quando si
valutano le posizioni, si assegna un valore alla posizione organizzativa, quindi all’insieme di

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compiti, mansioni, responsabilità che confluiscono nella posizione di cui è titolare un individuo.
Questi sono dei metodi molto diffusi perché ritenuti molto oggettivi. Si valuta la posizione che
occupa la persona, non le sue prestazioni né le competenze della persona stessa. Generalmente si
assegnano dei pesi a dei fattori rilevanti per la posizione stessa.
Valutazione della prestazione. In questo caso l’obiettivo è valutare, quindi assegnare un valore, al
contributo dato dalla persona al risultato finale.
Valutazione della persona. In questo caso non si valuta né una caratteristica ex ante, la posizione
che occupa la persona, né una caratteristica ex post, ossia il risultato che produce, ma si valuta ciò
che sta nel mezzo, la persona stessa in quanto portatrice di capitale umano, competenze,
conoscenze e abilità. Ecco perché la valutazione della persona comporta l’assegnazione di un
valore o alle competenze (conoscenze, abilità, comportamenti) o di potenziale, cioè le sue
attitudini attuali che presagiscono delle potenzialità future (ciò che le persone potrebbero essere).
Posizione Valutazione statica, rigida
Prestazione Assegno un valore al risultato
Persona Assegno un valore alle competenze di una persona

Valutazione delle posizioni


È un metodo di valutazione ritenuto assolutamente oggettivo, che mira ad assegnare un valore al
contenuto del lavoro. È oggettivo in due sensi: perché utilizza delle tecniche di valutazione abbastanza
oggettive; l’oggetto della valutazione è oggettivo, perché è oggettivo il contenuto del lavoro.
La caratteristica fondamentale è che garantiscono una forte oggettività in termini di valutazione perché si
attribuiscono dei pesi, delle misure. Questo garantisce una maggiore equità perché i criteri vengono
applicati a tutte le persone che occupano delle posizioni all’interno dell’organizzazione. Essendo garantita
l’equità, c’è maggiore legittimazione dei differenziali retributivi che scaturiscono dalla valutazione delle
posizioni. Generalmente la valutazione delle posizioni viene fatta per poi stabilire i differenziali retributivi
tra le diverse posizioni all’interno dell’impresa, a seconda che una sia più importante o più strategica
dell’altra. Svantaggi: sono metodi che si basano su impianti analitici un po’ troppo rigidi; valutare le
posizioni significa non tener conto del contenuto differenziale che può dare individuo rispetto al contenuto
della posizione. Sostanzialmente si rischia di non valorizzare opportunamente la persona e di non riuscire a
far leva sull’engagement che possono fare la differenza nella prestazione. Un altro svantaggio è che una
volta che si determinano le posizioni è difficile tarare/cambiare la taratura dei pesi ogni volta se cambia
qualcosa all’interno della posizione. Questi metodi poco si adattano a quei contesti per esempio basati
sull’innovazione tecnologica, dove le posizioni cambiano frequentemente, magari nascono nuove
competenze, nuove posizioni, e si deve adottare un sistema che faccia da taratura delle posizioni in
maniera contestuale, da un anno all’altro. È un metodo non molto adatto in contesti dinamici. Non è un
metodo adatto nei casi in cui ci sono lavoratori con forte potere contrattuale, questo significa che: va bene
valutare la posizione per stabilire il differenziale di retribuzione, però i piani retributivi soprattutto di quella
tipologia di personale, ossia per i knowledge worker, i professional, che hanno un forte potere contrattuale
in virtù delle competenze che hanno , non si possono basare soltanto sulla posizione che occupano, perché
magari hanno anche un ruolo strategico, quindi hanno una retribuzione molto alta, ma in altri casi non è
così. Magari il knowledge worker era appena entrato, fa la differenza perché è la mente giovane, è la mente
innovativa, ma appartiene ad una posizione più bassa a livello strategico, allora se si valuta solo la sua
posizione, il differenziale si riduce e non si riesce a valorizzare la risorsa. Quindi, nel caso di lavoratori con
200
forte potere contrattuale è importante integrare una valutazione delle posizioni un po’ statica e oggettiva
con la valutazione delle persone, e vedremo che ci sono sistemi abbastanza diffusi di valutazione integrata.
Vediamo le diverse fasi. Sono 4 le fasi principali in cui si articola il processo di valutazione del lavoro, della
posizione, la job evaluation. La prima è la job analysis, cioè si analizza il contenuto del lavoro, quali
attività/compiti sono svolti. Poi c’è la fase descrittiva, che richiede la descrizione puntuale tutto ciò che è
stato analizzato e rilevato. La terza fase mira ad una specificazione, job specification: io devo specificare
rispetto alle posizioni i fattori che reputo rilevanti rispetto ai quali assegnare un valore, ad esempio la
responsabilità, lo sforzo fisico che richiede la posizione. Si individuano i fattori che considero rilevanti per
valutare la posizione e i criteri, pesi e misure su cui valutare la posizione. L’ultima fase, la job evaluation,
consiste nell’assegnazione del valore alla posizione, sulla base dei fattori individuati e dei criteri che ho
descritto.
Quali metodi possono essere scelti per valutare la posizione? Si distinguono generalmente 3 tipologie di
metodi:
1) METODI GLOBALI
2) METODI ANALITICI
3) METODI SINTETICI
Metodi globali. Sono i metodi che restituiscono una valutazione complessiva della posizione. Quindi non
entrano nel merito dell’ assegnazione puntuale e analitica del valore a ciascuna caratteristica della
posizione, ma danno un valore complessivo, un valore globale. Infatti generalmente si tratta di metodi di
valutazione qualitativi, basati sulla qualità, danno giudizi in termini di qualità. Tra questi metodi bisogna
distinguere:
Il metodo della graduatoria
Il Global grading system
Il metodo della classificazione
Metodi analitici. Questi metodi, a differenza di quelli globali che assegnano una valutazione complessiva, i
metodi analitici assegnano un valore alle caratteristiche puntuali della posizione (sono metodi quantitativi,
restituiscono una misurazione quantitativa).
Il metodo del punteggio
Il metodo Hay
Il metodo della comparazione dei fattori
Questi metodi hanno uno svantaggio: essendo basati sulle posizioni, non rispecchiano le esigenze di
lavoratori particolari, come i knowledge worker che magari richiedono dei piani di retribuzione non
soltanto basati sulla posizione che occupano ma anche sul contributo che danno.
Metodi sintetici. Per ovviare a questi problemi sono stati adottati dei metodi cosiddetti sintetici. Oltre a
valutare la posizione, integrano la valutazione della posizione con altre tecniche, come la valutazione della
persona. Sono i sistemi di broadbanding.
Metodo della graduatoria. In questo caso le posizioni vengono messe in classifica, cioè viene fatta una
graduatoria per capire l’importanza relativa dell’una rispetto all’altra, rispetto a dei parametri ritenuti
rilevanti dal metodo di valutazione, ad esempio il livello strategico, l’impatto che hanno sul risultato finale,
il contributo al processo produttivo. Però così facendo ne si conosce l’intervallo dei valori (qual è il livello
minimo e il livello massimo?), ne si conosce il valore assoluto della posizione, ma solo quello relativo, cioè
quanto è più/meno importante rispetto alle altre. Non si ha una misurazione quantitativa del valore
201
assegnato alla posizione. Ad esempio, facciamo gli esami e io non do un valore, un voto ad ognuno di voi,
ma vi metto in classifica, senza dirvi qual è il totale, se dire che il punteggio va da 0 a 30, senza specificare le
differenze. La differenza che c’è tra il primo e il secondo può essere uno scostamento piccolo o uno
scostamento grande. Anche i differenziali retributivi sono stabiliti in base alla posizione di importanza: se io
do il minimo contrattuale del ccnl al nuovo impiegato, neoassunto, il salario dell’impiegato senior stabilisco
che sarà del +10%, al capoufficio darò +15% e così via.
Metodo della classificazione. Domanda d’esame: differenza tra metodo della graduatoria e metodo della
classificazione. Nel primo caso (graduatoria) la graduatoria è data dalle posizioni, nel secondo caso
(classificazione) la graduatoria è composta da classi di posizioni. Le posizioni vengono raggruppate in classi,
e io faccio una classifica tra i diversi raggruppamenti di posizioni. Questa è la tipica classificazione che si
trova nel ccnl, contratto collettivo nazionale di lavoro. Se prendiamo quelle dell’università abbiamo in un
primo raggruppamento tutte le posizioni di elevata professionalità. In questo gruppo troviamo il manager
didattico, il referente per la didattica, il referente per la ricerca, il capo settore. Nel secondo
raggruppamento possiamo trovare gli esperti tecnici, come il capo laboratorio, il responsabile tecnico. Sto
classificando in maniera qualitativa, non sto dando giudizi quantitativi. Si definisce l’importanza relativa tra
le classi.
Global grading system. Il metodo del Global grading system è molto utilizzato dalle aziende. È un metodo
ideato da una società di consulenza, Tower Watson. Rientra nei metodi globali ma in realtà fa utilizzo anche
del metodo del punteggio. Si stabilisce una griglia di 25 classi, una matrice. All’interno di questa matrice si
definisce la classe più alta, per esempio nel caso dell’università ci sarà la classe dirigenziale. Di solito però in
questa matrice si esclude la dirigenza perché bisogna fare un discorso a parte. Si identificano le classi, si
inseriscono quelle fino alle elevate professionalità. Poi andiamo ad associare ad ogni classe tutte le
posizioni che abbiamo nella nostra organizzazione. Come si fa? Generalmente si utilizzano 5 domande
diagnostiche: quanto contribuisce questa posizione al raggiungimento dell’obiettivo strategico; quanto
contribuisce all’innovazione dei processi organizzativi; quali competenze questa posizione ha. Sono tipiche
domande diagnostiche che permettono di ricondurre ciascuna posizione in queste classi. L’ultima fase, che
è quella relativa all’assegnazione dei punteggi, va ad assegnare dei punteggi a dei fattori per ciascuna
posizione. Quindi tutte le posizioni sono caratterizzate da questi fattori. Il valore della posizione è dato dalla
somma dei punteggi.
Metodi analitici. Se i metodi globali vanno a dare una valutazione complessiva, i metodi analitici entrano
più nel merito dei contenuti della mansione. Generalmente questo avviene attraverso l’assegnazione di un
punteggio. Le posizioni vengono raggruppate in famiglie professionali. Poniamo il caso che tra i profili ad
elevata professionalità ci sia la famiglia professionale del management didattico, in cui ci sono diverse
posizioni: il manager didattico di ateneo, il manager didattico di facoltà ecc. Dopo, all’interno di questa
famiglia professionale, bisogna scegliere i fattori sulla base dei quali assegnare i punteggi a ciascuna delle
posizioni incluse nella famiglia professionale. È importante il peso del fattore sulla valutazione totale della
posizione. Si vanno poi a graduare i fattori. Una volta assegnato il peso, cioè quanto pesa quel fattore nei
meriti della valutazione della posizione, è chiaro che quel peso vale per tutta la famiglia. Ad esempio il peso
del manager didattico di ateneo può essere più alto rispetto a quello del manager didattico di facoltà.
Quindi se vado a graduare, nel caso del manager didattico di facoltà la responsabilità varrà 2, nel caso del
manager didattico di ateneo varrà 3.

202
Esempio.
FAMIGLIA OPERAIA FAMIGLIA IMPIEGATIZIA
1) RESPONSABILITÀ 12% 30%
2) CONTESTO DI LAVORO 8% 8%
3) CAPACITÀ MECCANICHE 30% 12%
4) COMPETENZE 50% 50%
TOTALE 100% 100%

Dobbiamo individuare i fattori che sono: responsabilità, contesto di lavoro, capacità meccaniche,
competenze. Dopo bisogna assegnare i pesi, le varie percentuali. Negli operai la responsabilità è minore
rispetto agli impiegati. Per la capacità meccanica invece è il contrario.
Il fattore responsabilità è uguale per tutte le tipologie di impiegati? No perché c’è il capoufficio, il capo
reparto, il responsabile di stabilimento, l’impiegato senior, l’impiegato neoassunto. In questo caso è vero
che il peso di ciascun fattore resta lo stesso per tutta la famiglia professionale, ma bisogna differenziare
l’importanza di ciascun fattore per ciascuna tipologia di posizione presente nella famiglia professionale.
Prendiamo ad esempio il caso degli impiegati.
1 2 3 4 5
Responsabilità/autonomia 30 75 112 150 -
Contesto di lavoro 8 26 40 - -
Capacità meccaniche 12 24 36 48 60
Competenze 50 100 150 200 250

Nb: sono punteggi già ponderati per il peso!!


Bisogna stabilire dei gradi di importanza. Vogliamo assegnare il valore della posizione all’impiegato senior e
al capoufficio. Dobbiamo quantificare quanto vale la posizione dell’impiegato senior e del capoufficio.
Come facciamo? Una volta stabiliti i pesi per la famiglia professionale, dobbiamo individuare i gradi. Per
esempio, io posso dire che la responsabilità e l’autonomia vanno in una scala da 1 a 4. Siccome per gli
impiegati deve pesare 30%, devo stabilire il sistema di punti, cioè se il punteggio massimo che posso
attribuire ad una posizione è 100 punti, allora questo fattore varrà 30. Se il punteggio massimo, facciamo
l’esempio del libro è 500 punti, allora il 30% di 500 sarà 150. Siccome io sto dicendo che la scala del fattore
va da 1 a 4, allora al punto massimo della scala (cioè 4) io devo attribuire al punteggio massimo il 30% di
500, ossia 150. Quanti punti massimi ho a disposizione? Devo stabilire il punteggio massimo: può essere
100, ma in genere si usa più di 100, nel libro è 500 punti. Una volta individuato il punteggio massimo, io
devo stabilire il grado del fattore perché è vero che ciascun fattore ha un determinato peso a seconda
dell’appartenenza della posizione della famiglia professionale, ma è anche vero che non tutte le posizioni
che appartengono alla famiglia professionale hanno un’importanza uguale dal punto di vista dei fattori
caratterizzanti. La responsabilità è molto più importante per il capoufficio rispetto all’impiegato senior.
Devo graduare i fattori. Come lo faccio? Stabilisco delle soglie. Per esempio, sul libro è portato che la

203
responsabilità e l’autonomia hanno una scala da 1 a 4. Tutte queste valutazioni sono generalmente fatte da
un nucleo di valutazione: ci sono delle persone, una che appartiene al gruppo HR, che vanno a stabilire le
griglie di valutazione. Poi c’è lo sforzo fisico (competenze meccaniche). In questo caso la valutazione va da 1
a 5. In questo caso, il 12% di 500, cioè 60, è il punteggio massimo conseguibile. La scala per il contesto
lavorativo va da 1 a 3, dove l’8% di 500, cioè 40, è il punteggio massimo conseguibile. Nella mia posizione,
io ritengo che il fattore contesto di lavoro ha un punteggio medio di 26. L’ultimo fattore, le competenze,
valgono il 50%. La scala utilizzata è da 1 a 5. Si può decidere di far crescere il punteggio in maniera
proporzionale, ad esempio 50-100-150 ecc, oppure stabilire il punteggio in maniera non proporzionale,
come 8-26-40. C’è tutto un comitato di valutazione che attribuisce i pesi, e una volta stabiliti i pesi, va
determinare la posizione. Quando andremo a valutare il capoufficio, stabiliremo che l’autonomia per lui
vale 3, quindi 112 punti; il contesto lavorativo ha un valore intermedio, quindi 26. I criteri possono essere
diversi purchè siano applicati a tutti. Una volta stabilito l’impianto metodologico e analitico, si può arrivare
ad un giudizio. Dove eravamo rimasti? Competenze 50%. La scala va da 1 a 5, il massimo è 250 e così a
scalare in modo proporzionale. Adesso dobbiamo identificare il valore delle due posizioni, dell’impiegato
senior e del capoufficio. Valore delle competenze dell’impiegato senior: io direi che in entrambi i casi il
valore delle competenze deve essere il massimo, quindi assegniamo il valore di 5 ad entrambi, cioè 250.
Stabiliamo che lo sforzo, la capacità meccanica, non è molto elevata per entrambi e quindi si assegna 2,
cioè punteggio 24. Finora il valore delle due posizioni è uguale perché per entrambi abbiamo dato lo stesso
grado del fattore, già ponderato per il peso. Responsabilità ed autonomia per l’impiegato senior si può
assegnare 3, quindi punteggio 112; mentre per il capoufficio è il massimo, quindi 150. Per chi sarà più
importante il contesto lavorativo? Forse di più per l’impiegato senior, a cui si assegna il valore 2, cioè 26. Si
assegna 1 invece per il capoufficio, quindi il punteggio è 8.
Capoufficio = 250+24+150+8 = 432
Impiegato senior = 205+24+112+26 = 412
Il valore della posizione per l’impiegato senior sarà di 412, mentre per il capoufficio sarà 432. Il massimo era
500, quindi ci ritroviamo. Per esempio all’esame può succedere che vi viene assegnata una tabella così e vi
viene chiesto di attribuire i punteggi in base ai gradi dei diversi fattori. Quindi bisogna individuare il fattore,
poi il punteggio, se il punteggio non è ponderato allora bisogna ponderarlo, e attraverso il sistema massimo
di punti assegnati io devo attribuire i valori alle posizioni. Per prima cosa, vi ho riportato degli esempi (slide
12 della valutazione) per farvi vedere che è tutto pratico. Bisogna specificare che la somma dei pesi deve
essere sempre pari a 100, mentre la somma dei punteggi dipende dal punteggio massimo che noi
stabiliamo, in questo caso era 500. Moltiplicando il punteggio della posizione per quello che viene definito
un parametro retributivo, si ottiene il valore della retribuzione e quindi otteniamo il differenziale
retributivo.
Vediamo altri metodi analitici. Comparazione dei fattori. Che cosa succede in questo caso? Abbiamo dei
fattori, e noi non assegniamo un valore a ciascun fattore, ma li raggruppiamo. Per esempio, raggruppiamo
la capacità meccanica con le competenze e la responsabilità con il contesto. Immaginate la funzione “unisci
celle” di Excel, è la stessa cosa. Quindi qui non avremo due valori diversi, ma uno.

OPERAI IMPIEGATI
CAPACITÀ MECCANICA/COMPETENZE 70% 30%
RESPONSABILITÀ/CONTESTO 30% 70%

204
I criteri che abbiamo utilizzato per raggruppare i fattori sono tutto sommato logici. Assegniamo per
esempio nel caso degli operai il 70% per lo sforzo fisico/competenze, di conseguenza per gli impiegati varrà
30%, perché la somma deve essere sempre 100%. Viceversa, responsabilità/contesto di lavoro avrà un
punteggio del 30% per gli operai, negli impiegati invece il 70%. È sempre valido questo criterio? No. Se
lavoro in un’azienda come Toyota, dove gli operai hanno molta responsabilità, non si può assegnare una
responsabilità del 30%, ma essendo un fattore critico deve essere più alta la percentuale. Si raggruppano i
fattori in ranghi e si assegna un peso ad ogni rango; assegnazione del punteggio salariale ad ogni rango;
individuazione dei differenziali retributivi.
Metodo Hay. Il metodo Hay è un metodo che viene utilizzato generalmente per la valutazione delle
posizioni dirigenziali. La valutazione della posizione è data dalla somma dei punteggi attribuiti a tre fattori
chiave. Bisogna quindi assegnare un punteggio a dei fattori chiave. Il primo sono le competenze che deve
avere una persona per svolgere un determinato lavoro. Queste competenze possono essere di carattere
tecnico, professionale, manageriale. Il secondo fattore è il problem solving, sostanzialmente il livello di
capacità di analisi, di ragionamento critico nella risoluzioni di problemi che si presentano a livello lavorativo.
Il terzo fattore è la responsabilità, significare assegnare un valore alla responsabilità che ha un individuo nel
raggiungimento di determinati obiettivi e di conseguenza anche i livelli di manovra di discrezionalità che
può affrontare un individuo. Anche in questo caso bisogna effettuare la ponderazione dei fattori,
considerando diverse fattispecie. Per esempio, consideriamo il personale di staff e il personale di linea. In
questo caso dobbiamo ponderare questi fattori. Sicuramente per il personale di staff è più importante, al di
là delle competenze, il problem solving, dare un supporto, risolvere i problemi. Invece per la line è la
responsabilità. Ad esempio un senior avrà un livello di responsabilità maggiore rispetto ad un neoassunto.
Per un ricercatore avrà più importanza la competenza, per un commerciale sarà invece maggiore la
responsabilità. Stesso ragionamento. Decidiamo i pesi, ponderiamo, assegniamo i punteggi a questi 3
fattori e stabiliamo il differenziale.
Metodi sintetici. Sia dal punto di vista qualitativo (i metodi globali) sia dal punto di vista analitico (i metodi
analitici) sono metodi che stabiliscono dei criteri precisi; sono particolarmente oggettivi, perché una volta
stabilito quel criterio, questo vale per tutti; hanno alti livelli di omogeneità, di equità. Hanno però anche
parecchi lati negativi. Ecco perché sono stati sviluppati dei metodi sintetici, ossia dei metodi che
generalmente utilizzano la valutazione delle posizioni come base da integrare poi con la valutazione della
persona, delle sue competenze e del suo potenziale. Generalmente la valutazione della posizione è la fase
da cui partono questi metodi. Sono i cosiddetti sistemi di broadbanding, sistemi di ampliamento delle classi.
Immaginate un sistema di classificazione a 5 classi. Ogni classe ha un determinato valore, tra una classe e
l’altra sono stati stabiliti dei differenziali retributivi. Questo vuol dire che all’interno di questa classe io
potrò raggiungere massimo 1000 di retribuzione. Questi sistemi di broadbanding ampliano la classe di
appartenenza. Ad esempio da 5 classi, diventano 2. E questo cosa significa? Significa che le persone che
occupano quella posizione non aspirano più soltanto a 1000, non sono relegate soltanto in questo
quadrante, ma possono aspirare anche a quest’altro quadrante, 3000. In questo modo, io utilizzo la
valutazione delle posizioni per stabilire in quale classe farla cadere, ma poi posso stabilire dei criteri che
vanno a valutare la persona per stabilire quanto questa persona possa aspirare tra 1000 e 3000. Quindi non
soltanto all’interno della classe a cui appartiene, ma nel raggruppamento più ampio della banda estesa.
Quindi utilizzo la valutazione delle posizioni per inserirle, e valutazione della persona, cioè stabilisco dei
criteri sulla base dei quali stabilire i differenziali retributivi, per permettere alla persona di avere un
riconoscimento che è compreso non più tra 1 e 1000, ma tra 1 e 3000, perché questa persona apparterrà
ad una classe più ampia. Si dice che in questi sistemi si ha un ampliamento delle classi, ma anche un
ampliamento dei valori della classe, e quindi delle retribuzioni ad esse associate. Nelle organizzazioni un
205
minimo di valutazione della posizione si fa, perché è un’analisi completa, realistica e oggettiva, poco
discrezionale, su cui ragionare per scegliere al meglio. Nei nostri contratti collettivi, quando si parla di
competenze, molto spesso, ci si riferisce al titolo di studi acquisito.

3000

1000

Valutazione delle persone


A che cosa si assegna un valore? O alle competenze o al potenziale. Allora si passa dalla job evaluation alla
skill evaluation, andiamo a valutare le competenze, le capacità, le abilità, quello che è la persona e quello
che sa fare. Infatti in questo caso si parla di qualità della persona, attribuzione di una qualifica,
generalmente in base alla formazione che ha conseguito l’individuo e all’esperienza lavorativa. Questi sono
i due criteri sulla base dei quali viene assegnata la qualifica.
Questi metodi, a differenza dei metodi delle posizioni, sono soggettivi in un duplice senso: perché valutano
il soggetto del lavoro, non il contenuto; e anche perché sono tecniche discrezionali, su cui vale molto la
soggettività del valutatore. In questi casi si può creare un disallineamento tra l’idea che ha il lavoratore di
sé e la valutazione che riceve. Ad esempio, che cosa succede se all’esame vi danno una valutazione che non
è in linea con il livello di preparazione che pensate di avere? Pensate di non essere stati valutati
adeguatamente. Succede la stessa cosa con il lavoro. Quando la valutazione è di gran lunga inferiore ai
livelli di prestazione che pensava di avere un individuo, allora in questo caso si può avere una
delegittimazione del valutatore. Che cosa succede invece nel caso in cui la valutazione che ricevete è
maggiore rispetto al vostro livello di preparazione? In questo caso il valutatore perde di autorità, perde
l’autorevolezza, non lo riconoscete più. Bisogna sempre stare molto attenti nel caso della valutazione della
persona proprio perché non abbiamo ancoraggi oggettivi. Se si verifica una di queste due circostanze,
piuttosto che raggiungere la finalità come la motivazione e lo sviluppo, raggiungiamo risultati strettamente
opposti, delegittimazione, insoddisfazione, conflittualità.
Come si fa la valutazione delle persone? L’abbiamo già studiato. Generalmente si fa uso dell’assessment
center, perché è uno dei metodi che riesce ad limitare la discrezionalità. Il modo di valutare la persona è
cercarla di vedere da più punti di vista, con diverse prospettive, in diversi momenti. Questo metodo è
famoso per arginare questa forte soggettività. Tra gli strumenti ricordiamo i giochi di ruolo, le discussioni di
gruppo senza leader.
Un altro metodo per valutare le persone è appunto valutare le competenze. Ci sono diversi modi che
abbiamo già visto, come l’approccio bottom-up, dove andiamo a rilevare dai best performer le
caratteristiche principali, rilevanti e da quelle andiamo a fare i profili di competenza attesa. Oppure
possiamo adottare un approccio top-down, in cui partiamo dagli obiettivi strategici, per poi trovare le
competenze necessarie per raggiungerli.
Per la valutazione delle competenze si possono adottare diversi criteri:

206
- Valutazione ex-post. In questo caso per valutare si fa un’intervista (es. BEI): come ti sei comportato
per raggiungere questo obiettivo? Da lì capisco le competenze che ha applicato.
- Dimensione individuale: posso andare a valutare l’individuo, con i suoi tratti e con la sua
personalità, e da lì carpire le attitudini che sono i precursori delle competenze.
- Dimensione istituzionale: competenze professionali; ci si basa sulle credenziali, titoli di studio,
certificazioni che l’individuo possiede.
- Dimensione integrata: andiamo a valutare le caratteristiche e le competenze della persona, quando
vengono contestualizzate all’interno dell’organizzazione, quindi più che personali, quelle
organizzative.
Un altro metodo di valutazione delle persone è la valutazione del potenziale. Qual è la caratteristica
fondamentale della valutazione del potenziale? E’ l’orientamento al futuro; con la valutazione del
potenziale viene a mancare l’ancoraggio alle prestazioni passate, perché è un metodo che serve a fare
inferenza sulle persone in modo da predire la loro prestazione futura all‘interno di un contesto diverso
oppure se messe all’interno di un progetto o un ruolo diverso. L’oggetto di valutazione è una prestazione
futura. Si dice che è un potenziale però relativo perché io non valuto il potenziale tout court della persona
ma lo valuto in relazione a un contesto, a un ruolo o ad un progetto. Quindi ho delle caratteristiche ben
chiare relative al contesto, ruolo, progetto e in base a quelle valuto il potenziale della persona. Qual è il
presupposto su cui si basa la valutazione del potenziale? il presupposto, come afferma Rebora, è che le
persone che lavorano in una organizzazione, gli individui, hanno una serie di capacità, di energie,
propensioni, attitudini che in realtà non impiegano totalmente nel lavoro che fanno, ne impiegano solo una
parte, allora si genera un surplus inespresso ed è questo che va ad indagare la valutazione, questo surplus
potenziale di capacità, di propensioni e energie che rimangono inespresse.
Quali sono le finalità della valutazione del potenziale? Andare a identificare questo surplus, ma perché
valutarlo? Innanzitutto per stabilire quali possibili accorgimenti possiamo prospettare in termini di sviluppo
e carriera all’individuo; secondo aspetto rilevante è la gestione del cambiamento: quando l’azienda si trova
ad affrontare un cambiamento è necessario che sappia quali sono le competenze che ha disposizione, non
si può scegliere che strategia adottare se non si conosce il potenziale che questa azienda ha, soltanto
conoscendo questo potenziale è possibile gestire il cambiamento in maniera produttiva. Questo è il motivo
principale per cui la valutazione del potenziale, a differenza della valutazione della prestazione, non è
considerato un assessment , quindi una valutazione in senso stretto ma viene considerato quasi come un
centro di sviluppo. Tuttavia ci sono delle criticità, perché? Perché devo fare inferenza manca l’ancoraggio ai
fatti(perché orientato al futuro), alle prestazioni, ai comportamenti agiti; mancando questo ancoraggio io
posso fare soltanto inferenze, posso raccogliere quello che vedo e fare inferenza; però questo espone a un
grosso problema di discrezionalità e soggettività del metodo, a differenza della valutazione delle posizioni
che è un metodo assolutamente oggettivo. Inoltre, richiede una forte cultura che è orientata allo sviluppo,
quindi evolutiva, orientata al futuro, non la tipica cultura manageriale che è molto pragmatica, i manager
generalmente decidono in base a fatti, risultati degli anni precedenti, a stime, è difficile che un manager sia
così lungimirante da applicare una valutazione del potenziale all’interno della valutazione del personale di
cui dispone. Per tutti questi motivi la valutazione del potenziale per essere davvero efficace, produttiva,
richiede una grossa formazione, quindi le persone che poi si occupano di questo devono conoscere tutti gli
aspetti negativi, tutte le criticità che possono nascere e prevenirle. Gli strumenti della valutazione del
personale sono quelli citati per la valutazione della persona, quindi assessment center, colloqui di
potenziale come interviste situazionali, questionari sui comportamenti. Entrambi i metodi cercano di
prospettare certe situazioni, di far sentire l’individuo in situazione relative al ruolo, progetto, contesto
futuro. Cercano di metterli in situazioni simili a quello che sarà il loro futuro lavoro per vedere che
207
comportamento adottano, perché quei comportamenti vanno a misurare le attitudini potenziali dell’
individuo, e quindi permettono di misurare il potenziale, questo è il presupposto fondamentale. Vi ho
riportato un esempio delle aree tipicamente indagate nel caso della valutazione del potenziale,
generalmente si valuta molto la predisposizione alla variabilità, cioè quanto un individuo è propenso al
cambiamento ed è ben predisposto all’apprendimento perché comunque la valorizzazione del potenziale
richiede di tirar fuori qualcosa che l’individuo attualmente non ha e non mette in pratica. Poi c’è tutta l’area
indagata che si dice intellettuale per capire se l’individuo ha quel set di capacità per individuare i problemi e
trovare le soluzione migliori (capacità analitica, di scelta prospetto delle alternativa, capacità di sintesi);
area manageriale sono le tipiche competenze trasversali, soft skills, che mirano a valutare se l’individuo ha
il potenziale quindi la predisposizione a gestire gli altri e svilupparli. Altra area indagata è quella relazionale,
quindi non soltanto la capacità di entrare in relazione, e la capacità di stare nell’interazione, ma anche poi
di integrare le diverse interazioni, a volte è semplice che il capo abbia buone relazioni one to one, difficile è
poi mantenere un clima che sia disteso all’interno del gruppo, non creare conflitti, avere sempre
comportamenti equi (non generare iniquità) bisogna saper integrare anche a livello interfunzionale quindi
tra le diverse funzioni.

Valutazione delle prestazioni


A cosa serve la valutazione delle performance? Sono tutte tecniche che vengono applicate per andare ad
stabilire i differenziali retributivi sulle base delle prestazioni raggiunte.
Quindi l’orientamento è al passato, comportamenti agiti, prestazioni passate, risultati ottenuti. Infatti se vi
ricordate avevamo detto che il momento valutativo in questo caso non è altro che la base da cui partire per
stabilire la retribuzione, per incentivare la produttività. Valutare la performance sicuramente richiede di
individuare i criteri da adottare, per stabilire quando e in che misure il risultato è stato raggiunto, e che tipo
di corrispettivo do al raggiungimento del risultato. Quindi questo metodo è molto standardizzato e
garantisce forte comparabilità e forte legittimazione dei differenziali retributivi perché parto dalle stesse
basi, utilizzo gli stessi criteri per valutare le prestazioni. Però ci sono elementi molto soggettivi, come ad
esempio i comportamenti che non ne giovano, perché andare a forzare una competenza così soggettiva per
renderla oggettiva ,quindi misurabile in termini di risultato, va a standardizzare il comportamento e non mi
permette di valorizzare il contributo che dà la persona, in maniera soggettiva (se è richiesto un determinato
stile di leadership allora la persona tenderà ad assumere quei tratti, lascio poca scelta, poca discrezionalità
vado a standardizzare un qualcosa che in realtà è difficilmente oggettivo).
Il metodo della valutazione delle prestazioni va a scoraggiare chi non riesce a rendere bene, perché
soprattutto quando non c’è la possibilità di cambiare, non ci sono tante alternative, una persona ,che vede
riconoscersi sempre risultati scadenti, che non riesce mai a raggiungere performance prestabilite può
sentirsi inadeguata, quindi comincia ad abbassare i suoi livelli di autoefficacia, a ritenere superfluo il suo
contributo e piano piano si genera una situazione di disimpegno, quindi è fondamentale tarare bene gli
obiettivi rispetto alle persone, non è sempre il metodo più adeguato, soprattutto per quelle posizioni che
rischiando di disincentivare in caso di ricevimento di una valutazione al di sotto degli standard.
V lutare le prestazioni può portare ad un aumento conflittualità nei casi in cui si vanno a cambiare i criteri,
quindi magari da un anno all’ altro cambia direttore hr, si cambiano i criteri, in questo caso l’anno prima si
era andati benissimo, cambiano valutazioni, diventano più severe in questo caso le mie aspettative
vengono deluse e quindi si generano iniquità, si creano conflitti.
Metodi: come valuto la performance? Abbiamo innanzitutto il metodo del confronto al coppie: non è un
metodo che richiede l’assegnazione di un punteggio in valore assoluto ma relativo, cioè si confronta la

208
prestazione di ciascun membro in relazione a un’ altra persona. Quindi è come se io valutassi ciascuno di
voi in relazione a un altro da un lato questo permette di non gonfiare troppo le valutazioni, perché il
massimo della valutazione sarà legato a chi avrà la prestazione maggiore nell’aula e quindi quello sarà il
punteggio massimo (non mi da troppa discrezionalità quanto assegnare) perché poi il grading è fatto a
coppie quindi io vado a valutare a coppie e quindi i differenziali saranno limitati ai vari gradi di
raggiungimento dei risultati di ognuno, quindi non ho molto margine di manovra nel valutare l’uno rispetto
all’altro, mi devo attenere quindi agli scostamenti.
Un altro metodo è quello della distribuzione forzata: questo è un metodo molto applicato nelle società,
perché “costringe” i manager a differenziare i risultati e quindi permette una buona differenziazione anche
delle retribuzioni, quindi dei premi riconosciuti. In genere, soprattutto quando si creano rapporti con i
subordinati, il manager tende a tende ad attuare un errore nella valutazione, ovvero l’errore della tendenza
centrale, tende a dare giudizi molto intermedi ,quindi a non dare giudizi estremi soprattutto in negativo.
Questo metodo invece ti costringe a prendere il proprio gruppo di riferimento e a determinare una
suddivisione, per cui il 20% delle persone che devo valutare rientrano nella classe più alta (coloro che
raggiungono le prestazioni migliori) quindi sono over, al di sopra dello standard; il 70% sono colore che
ottengono una buona performance quindi raggiungono l’obiettivo (mentre quelli di prima superavano
l’obiettivo) e il 10% sono quelli che non raggiungono obiettivo, quindi sono al di sotto.
Anche qui il fatto di dover distribuire i dipendenti all’interno di queste classi, contribuisce a rafforzare una
logica meritocratica, perché obbliga ad individuare e quindi a formalizzare degli standard di raggiungimento
dell’obiettivo; quindi io devo fissare lo standard (quando l’obiettivo è raggiunto) e poi definire i criteri
appunto per i quali si è sopra o al di sotto dello standard, questo permette di comparare tutte le
valutazioni.
Cosa può succedere però a livello di gestione della valutazione? Innanzitutto si tratta di un’ ottica
prevalentemente valutativa più che di sviluppo, cioè si valuta e si inserisce ogni dipendente in una classe,
come? Si favorisce l’aspetto competitivo della valutazione e non comparativo; pensate ad un gruppo di
lavoro, che fa capo ad un manager, che poi dovrà fare tutta la valutazione dei suoi subordinati e che dovrà
distribuirli tra il 70%,20%,10%. Cosa si genera all’interno del gruppo? Competizione, perché si cerca di
apparire di più agli occhi del capo, quindi si collabora di meno perché tutti mirano a rientrare in quel 70 o
20%, quindi questo è uno degli svantaggi maggiori che questo metodo comporta; un altro svantaggio è la
gestione di coloro che non hanno dei buoni risultati, perché questo metodo avvantaggia coloro che hanno
risultato tra mediocre e sufficienti perché riescono a raggiunge risultati e quindi hanno margine di
miglioramento, sono spronati, motivati; invece coloro che raggiungono risultati sempre al di sotto e non gli
viene riconosciuto il premio, se non c’è un adeguato turnover quindi non escono oppure se non vengono
ricollocate in posizioni più adeguate perché magari non riescono a dare il massimo perché non sono poste
nelle condizioni di dare il massimo, allora diventa molto difficile gestirli, possono rappresentare un po’ delle
mine vaganti.
Aspetti che dobbiamo tenere in considerazione per attuare una valutazione delle performance efficace:
sicuramente di fondamentale importanza è la definizione dei criteri di valutazione e la qualità dei valutatori,
devono essere formati, informati sui rischi degli errori che possono commettere, bisogna scegliere bene i
metodi di valutazione in base all’oggetto e all’obiettivo della valutazione, se ho un obiettivo più di sviluppo
o retributivo; devo considerare anche il fit valoriale, cioè quanto il metodo di valutazione della prestazione
che si è scelto sia poi in grado di essere coerente con la cultura organizzativa in cui questo metodo è
applicato (quando fu introdotto il performance management nella Pubblica Amministrazione dal decreto
Brunetta inizialmente ci furono non poche difficoltà, perché la Pubblica Amministrazione non era abituata a
209
ragionare in termini di performance, si davano premi sulla presenza e non i premi legati alla produttività, e
ci vollero anni per cercare di far radicare l’idea della performance all’interno della P.A.). Un’altra
problematica è quella delle collusioni: questo deriva un po’ dalla teoria dell’agenzia, per cui si ha un
principale che delega al sorvegliante il potere di vigilanza e controllo su un agente; cosa dice la teoria delle
collusioni elaborata da Taylor nel 1980? Che si possono creare delle strategie collusive tra sorvegliante e
l’agente, perché quando questi due si alleano (sorv e agente) possono creare delle rendite a loro favore e a
discapito dell’interesse del principale, quindi se hanno interessi in comune possono allearsi, possono
adottare strategie collusive. Allora questo cosa mi comporta? Se adotto una valutazione delle prestazioni
particolarmente incentrata sugli obiettivi che deve raggiungere il manager, quindi il sorvegliante, devo stare
molto attento perché vuol dire che molto probabilmente dovrò anche investire in costi di coordinamento e
controllo anche della sorveglianza. Quindi cosa può succedere? Che a volte vengono assegnati ai manager
dei piani di retribuzione variabile che puntano molto in alto, quindi dei bonus molto elevati per il
raggiungimento di determinati obiettivi. Quindi cosa può succedere? Per raggiungere i suoi obiettivi, quindi
aldilà degli obiettivi dell’organizzazione, il sorvegliante possa colludere con l’agente, quindi magari
immaginatevi anche una situazione molto semplice in cui il sorvegliante anche con atteggiamento
paternalistico fa finta di non vedere mancanze dell’agente: ritardi, compiti non consegnati e così via però lo
utilizza per raggiungere i suoi obiettivi individuali.
Es: per aumentare le vendite l’azienda vuole puntare sulla qualità del servizio offerto ai clienti finali e
assegna contemporaneamente, ai responsabili del negozio, degli obiettivi in termini di aumento del
fatturato, quindi se aumenti fatturato di un tot, ti assicuro il 120% (che è tantissimo) della retribuzione.
Allora cosa succede, succede che il sorvegliante prima di tutto può nasconde informazioni, e non si
interfaccia in modo adeguato con il cliente, perché punta soltanto a vendere per aumentare il fatturato
quindi magari si comporta male oppure non è leale sulla dinamica dei prezzi, scontistica, aspetti
promozionali quindi la persona arriva in cassa e si trova un conto alle stelle. Quindi questo mina la qualità a
cui minava il principale però soddisfa i risultati in termini di fatturato il sorvegliante.
La teoria delle collusioni dice che quando si adottano queste metodologie bisogna stare molto attenti tra i
rapporti tra sorvegliante e agente perché possono adottare strategie collusive che vanno a danno del
principale, e degli obiettivi dell’organizzazione.
Cause di fallimento
Quali sono le principali cause di fallimento?
- Mancanza di competenza del valutatore: per valutare bisogna essere formati e informati sui metodi
di valutazione e i metodi e sugli errori su cui si può inciampare.
- Mancanza di confronto: è fondamentale che la valutazione preveda un momento di confronto,
consegnare un foglio asettico al mio dipendente non produrrà nessun risultato; bisogna discutere
gli obiettivi, i risultati raggiunti.
- Situazioni di asimmetrie informative: è chiaro il manager quando deve valutare comportamenti non
può assicurare una sorveglianza continua, quindi si genera sempre asimmetria informativa.
- Disincentivazione: i manager non sono incentivati perché non gli viene fatto capire quanto è
importante il momento valutativo per la crescita e sviluppo del dipendente ma anche del sistema
organizzativo in senso lato, e quindi non si incentiva il manager, e di conseguenza è difficile che
abbia un processo valutativo efficace.
- La giustizia procedurale: tutte le procedure attuate nel processo di valutazione devono essere
chiare e trasparenti proprio per non generare iniquità, perché in base a quello si individua un
aspetto materiale molto importante: la retribuzione.
210
CHI VALUTA
Storicamente è il capo che ha sempre valutato, in virtù di quella relazione gerarchica, perché è il capo che
ha la diretta supervisione del proprio dipendente diretto e quindi è lui che ha le competenze e gli strumenti
adeguati per poter valutare effettivamente la prestazione lavorativa, se è stata attuata, se è stata attuata
bene, rispettando le richieste e aspettative del datore di lavoro.
Ultimamente però tutta la struttura valutativa delle aziende sta sempre di più evolvendo all’inclusione di
altri soggetti valutatori.
In genere si parla di valutazione a 360° quando appunto vengono coinvolti tutti i soggetti che ruotano
intorno alla persona di cui deve essere valutata la prestazione, quindi tipicamente sono il capo, i colleghi,
molto importante la valutazione da parte dei colleghi perché permette di avere tante valutazione
indipendenti tra di loro e quindi avere più punti di vista da matchare e da incrociare. Qual è l’aspetto
negativo? Magari se c’è qualche conflitto, oppure il contrario, rapporti amichevoli, anche possono
colludere, vedo che avete una visione sempre molto “positiva” del mondo del lavoro, comunque si, però si
può succedere anche, questo ma anche se sono tutti amici come diceva il collega possono mettersi
d’accordo oppure senza mettersi d’accordo in modo naturale.
Un altro soggetto da includere sono i collaboratori ( nella valutazione dei manager ) e a questi vengono
chiesti non tanto giudizi sulle competenze, o raggiungimento dei risultati, ma sui comportamenti, per
esempio sullo stile di leadership, sulla capacità di gestione del gruppo, capacità comunicative.
Poi c’è l’autovalutazione che appunto è il soggetto stesso che si valuta, e qui ci sono in letteratura molte
critiche, perché innanzitutto l’autovalutazione difficilmente incontra l’eterovalutazione quindi non si
sovrappongono perfettamente, e poi succede che soggetti hanno personalità, livelli di autoefficacia diversi
quindi qualcuno tenderà sempre a sovrastimare altri invece a sottostimare la propria prestazione e quindi è
uno strumento che va sempre integrato in un’ altra prospettiva.
Infine molto importanti sono i clienti: chi meglio di chi usufruisce del servizio può dare una valutazione.
È facile adottare una valutazione a 360 ? No, i vantaggi sono indiscussi, si ha la possibilità di avere tante
prospettive diverse, e quindi lo stesso individuo diventa più consapevole di se stesso e delle sue
competenze, quante volte vi è capitato che sono più gli altri a dirvi sei bravo a fare questo piuttosto che voi
stessi, quindi questo dà più consapevolezza del ruolo e permette anche di diffondere i valori che ci sono
nell’organizzazione perché si fanno conoscere a tutti i criteri, i fattori considerati all’interno della
valutazione, non è soltanto il capo che maneggia lo strumento, sono tutti, tutti sanno in base a cosa siamo
valutati, dal collega al collaboratore al cliente, e in base a quello possono regolarsi nella propria
prestazione. E’ chiaro che però questo tipo di strumento richiedere una grossa maturità organizzativa, cosa
significa? che non bisogna dare uno strumento in mano a chi non sa usarlo con criterio, perché la
valutazione è fondamentale per il raggiungimento di un risultato, migliorare la prestazione, quello è
l’obiettivo.
Raccogliere tutti questi punti di vista, metterli insieme e poi profilare e dare un risultato unico al soggetto
valutato, richiede una grossa gestione di dati, quindi l’azienda deve dotarsi di strumenti informativi.
COME VALUTARE
Adesso passiamo invece agli strumenti, quindi come valutare.

211
innanzitutto dobbiamo scegliere in base all’oggetto: se dobbiamo valutare la prestazione, la posizione o la
persona e in base al contesto in cui ci troviamo (ricordate l’esempio della valutazione nei paesi
anglosassoni rispetto a quelli di cultura cinese).
Tipologie:
- metodi basati sugli attributi, cioè su quelle caratteristiche che si ritengono importanti per lo
svolgimento di un determinato ruolo;
- metodi basati sul comportamento;
- metodi basati sul confronto;
- metodi basati sui risultati.
Come scegliere tra questi? in base all’oggetto, contesto in cui ci troviamo.
Metodi basati sugli attributi. Che cosa posso utilizzare per andare a dare un valore alle caratteristiche
rilevanti per svolgere un lavoro? Posso usare o delle scale grafiche di valutazione o delle scale basate su
degli standard. Le scale grafiche di valutazione richiedono l’espressione di un giudizio quantitativo su una
scala di tipo discreta o continua. Discreta abbiamo visto l’esempio ieri,1-2-3-4-5 io ho dei valori precisi,
oppure posso chiedere al soggetto, in caso di una scala di valutazione grafica continua, da un minimo a un
massimo di segnare il livello di soddisfazione o presenza dell’attributo che ritiene più adeguato. In questo
caso cosa è importante? Oltre alla scelta dei fattori, che siano effettivamente rilevanti e che effettivamente
siano ricondotti ad una buona prestazione, cioè che rappresentino davvero l’oggetto della valutazione, o
che perlomeno siano connessi, è importante la scelta di questi valori perché in una scala del genere molte
persone tenderanno a dare un valore centrale e in questi casi si può scegliere di eliminare valore
intermedio e trasformare la scala da 1 a 4 quindi si chiede al soggetto valutatore di prendere una decisione:
o non tanto soddisfatto o piuttosto soddisfatto, quindi eliminando il valore centrale. Le scale basate su degli
standard invece chiedono l’espressione di un giudizio rispetto ad uno standard di prestazione prestabilito:
si definisce uno standard e si chiede di esprimere un giudizio sul fatto che la prestazione ottenuta sia stata
maggiore uguale o minore allo standard stabilito (in questo caso non si ha una espressione di giudizio
puntuale, ma soltanto relativa rispetto ad uno standard e il fatto di determinare uno standard può
determinare una forte discrezionalità, quindi anche in questo caso bisogna scegliere dei criteri plausibili,
logici, condivisi, discussi).
Metodi basati sul comportamento sono: l’incidente critico, le liste di controllo, scale di valutazione dei
comportamenti (BARS), scale di osservazione comportamentale (BOS).
L’incidente critico richiede di segnare degli eventi comportamentali particolarmente critici, ovvero
particolarmente positivi o particolarmente negativi, per esprimere poi giudizio sul comportamento.
L’indiscusso vantaggio è che si ancora la valutazione a comportamenti agiti, a cose avvenute, ancorati alla
realtà; dall’altro lato però i comportamenti soffrono per loro natura di una difficile comparabilità tra le
diverse persone, perché il comportamento dipende dall’ambiente e dalle personalità, quindi molto difficile
da comparare.
Le liste di controllo: valutare il comportamento sulla base di una tipizzazione, quindi una serie di
comportamenti tipici descritti all’interno di queste liste, si scelgono quali comportamenti sono riconducibili
all’operato dell’individuo: le check list. In questo caso si tratta di una descrizione più che di una valutazione.
Le scale di valutazione dei comportamenti: richiedono di assegnare un punteggio al comportamento tenuto
dal lavoratore e a ciascun punteggio viene fatta corrispondere una particolare descrizione.

212
Le scale di osservazione comportamentale: richiedono un’ osservazione di frequenza. Sulla base di alcuni
comportamenti indicati si deve dare un giudizio sulla frequenza di come quel comportamento viene messo
in atto. Anche qui ci limitiamo a dire “questo comportamento è stato messo in atto molto spesso, o poco
spesso o quasi sempre, qualche volta” però non stiamo dicendo se lo standard è elevato se è più basso.
Metodi basati sul confronto (già visti): graduatoria semplice, confronto a coppie oppure il metodo della
distribuzione forzata perché comunque ci porta a dover comparare i diversi risultati per poi assegnare
ciascuno alle diverse classi. Impediscono di gonfiare la valutazione perché dobbiamo dare un giudizio
comparato, ma a volte non è sempre tutto comparabile.
Metodi basati sui risultati: tra quelli riservati ai manager c’è la direzione per obiettivi (MBO), tecnica
fondamentale per allineare gli obiettivi tra principale e sorvegliante. In cosa consiste? Vengono attribuiti
degli standard di risultato e poi viene stabilito il livello di riconoscimento del premio al raggiungimento di
questi risultati. È fondamentale prima stabilire obiettivi (finanziari, produzioni, organizzativi, innovazione
dei processi) poi bisogna individuare lo standard da raggiungere, che può essere sia in termini
assoluti(incrementare fatturato di 20 milioni) che percentuali (incrementare il fatturato del 20%).
Specificare le curve di risultato significa che dopo aver individuato lo standard in base al quale appunto
giudicare raggiunto l’obiettivo, bisogna identificare le diverse curve di risultato quindi bisogna identificare i
diversi livelli di risultati a cui corrispondono i diversi livelli di riconoscimento del premio. Generalmente
100%obiettivo target e 120% anche se si supera, obiettivi molto sfidanti, e infine la determinazione del
premio.
Sicuramente se ben determinati, questi obiettivi garantiscono una forte partecipazione del management al
raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione, tuttavia se vengono posti obiettivi troppo di breve
termine questo allineamento può non verificarsi, e si crea l’effetto opposto, cioè un disallineamento in cui il
manager pensa più a raggiungere i suoi risultati, al suo bonus, piuttosto che collaborare alla creazione di
valore da parte dell’impresa.
Errori di valutazione
- Errore di contrasto: quando si ha un gruppo particolarmente performante si tende a giudicare in
maniera meno negativa anche colui che ha lo standard peggiore, oppure può succedere che una
persona che ha una performance media però si trova in un gruppo di campioni, per contrasto viene
svalutata, risulta avere performance inferiore di quella che invece ha, perché si trova in un gruppo
di campione.
- Errore di somiglianza: può dare origine a delle discriminazioni perché si tende a giudicare un
soggetto, positivamente quando possiede caratteristiche simili a quelli che abbiamo noi o al
contesto in cui ci troviamo, quindi quanto più simile a noi, tanto più tendiamo a valutarla
positivamente.
- Errore nella distribuzione: si usa soltanto una parte della scala, cioè se una persona è molto
generosa tenderà ad usare solo una parte della scala quindi giudizi molto positivi, se una persona è
negativa dall’altra parte della scala quindi giudizi molto negativi.
- Errore della tendenza centrale: quasi tutto si concentra al centro, non mi sbilancio resto nella
situazione intermedia.
- Effetto alone: è molto simile a quello della somiglianza, ovvero una volta che si valuta, si ha un
primo impatto con una persona e la si valuta positivamente all’inizio è come se si generasse un
aurea e quindi tutto quello che dice o fa viene valutato positivamente, o viceversa. Bisogna essere
consapevoli e quindi valutatore deve adottare tecniche per minimizzare questo rischio.

213
- Effetto disponibilità: è la resency, cioè ricordarsi soltanto le informazioni più recenti, quindi la
situazione inversa, durante colloquio va tutto bene tranne l’ultima domanda, pregiudico tutto e
tendo valutare tutto male, perché l’ultima parte del colloquio è andata male, ecco perché è
importante l’informazione e la formazione.
Efficienza della valutazione
L’efficienza mira sempre a valutare gradi di copertura o l’incidenza dei costi, rispetto a quanto siamo stati
bravi a diffondere il processo.
Tra gli indicatori di efficienza vi segnali questi:

Ricorda: gli strumenti devono sempre rispettare gli elementi di economicità, quindi devono sempre
rientrare nel budget.

Efficacia della valutazione


L’efficacia mira a valutare il raggiungimento degli obiettivi che ci ponevamo, anche dal punto di vista
qualitativo.

214
1° indicatore: questa valutazione della prestazione è stata effettivamente efficace? mi ha portato a
migliorare la qualità della didattica? a migliorare la prestazione del servizio? a migliorare la soddisfazione
dei clienti?
Crescita del personale: tutti coloro che hanno ricevuto delle valutazioni poi sono stati effettivamente
promossi? gli è stata garantita una crescita o retributiva o di carriera?

LEZIONE 23

LA RETRIBUZIONE DEL PERSONALE


La retribuzione rappresenta la controprestazione derivante dal rapporto di lavoro, che viene riconosciuta ai
lavoratori in virtù della loro prestazione di lavoro come parte di un sistema più ampio di ricompense
(scambio complesso).
Infatti insieme alla retribuzione abbiamo parlato anche di remunerazione (remunerare, gratificare): si tratta
di un insieme di ricompense che vengono riconosciute ai lavoratori per gli sforzi da loro sostenuti per
raggiungere dei risultati anche superiori.
Contiene al suo interno:
1. Una parte fissa (la retribuzione)
2. Una parte variabile
3. Una parte di retribuzione non monetaria
4. Componenti non retributive
Il motivo per cui nei sistemi premianti vi sono tutte queste voci è dovuto al fatto che bisogna rispettare un
equilibrio tra contributi dati dal lavoratore e ricompense riconosciute dall’impresa; questo equilibrio deve
tenere conto di tutte le dimensioni presenti all’interno della relazione di lavoro, quindi non soltanto la
retribuzione economica ma anche quella psicologica e sociale. Dal punto di vista economico, sicuramente la
retribuzione fissa e la retribuzione variabile assicurano la dimensione economica del rapporto di lavoro. La
retribuzione non monetaria e le componenti non retributive invece assicurano l’altro aspetto, mirano al
benessere psicologico e sociale, in virtù del contributo da loro fornito. Quando però parliamo di politica
retributiva, proprio perché parliamo di retribuzione, ci soffermiamo sui primi tre elementi. A seconda della
combinazione di queste diverse parti possiamo ottenere tipologie di politiche retributive.
Ma quali elementi dobbiamo considerare per progettare una politica retributiva di successo?
1. Legittimità: dobbiamo rispettare le condizioni di impiego di lavoro dettate dal CCNL, quindi dalla
contrattazione collettiva e dalla legge dello Stato; deve essere un sistema premiante, un sistema di
ricompense, legittimato dalle leggi dello Stato e dalla contrattazione collettiva.
2. Economicità: dobbiamo strutturare un sistema premiante che sia in grado di produrre benefici
maggiori rispetto ai costi sostenuti per ottenere i benefici. L’azienda dovrà quindi fare una
valutazione generale della convenienza economica di una determinata politica retributiva. La
maggior parte del calcolo della convenienza viene giocato su quello che viene chiamato “cuneo
fiscale”, ovvero il rapporto tra l’ammontare di imposte pagati su un ammontare totale di costo del
lavoro sostenuto dall’impresa.

215
Quando si fa questa valutazione si parte sempre dalla retribuzione annuale lorda; guardando dal
lato dell’impresa alla retribuzione annuale lorda vengono aggiunti una serie di oneri, perché
l’azienda paga una retribuzione annuale lorda al lavoratore ma poi sappiamo che contestualmente
in base all’ammontate della retribuzione dovrà pagare un ammontare in termini di contributi e
tasse. Allora la retribuzione lorda riconosciuta al lavoratore, sommata a questi oneri sociali ci danno
l’ammontare del costo del lavoro.
Dal lato del lavoratore, si parte sempre dalla retribuzione lorda, a cui vengono sottratti i contributi
(i contributi a carico del lavoratore solitamente sono 1/3 e 2/3 a carico dell’impresa), da ciò
otteniamo il reddito imponibile su cui vengono calcolate le imposte, da cui otteniamo prima
l’imposta lorda a cui andiamo a sottrarre le detrazioni e si ottiene l’imposta netta, sottraendo
otteniamo la retribuzione netta. Quindi la retribuzione netta che entra in tasca al lavoratore è data
dalla retribuzione lorda al netto di una serie di imposte e contributi che il lavoratore deve versare.
Quando bisogna poi ragionare in termini di convenienza, l’impresa andrà a comparare l’ammontare
del costo del lavoro con gli aumenti di produttività, mentre il lavoratore nell’accettare un
determinato pacchetto retributivo comparerà la propria retribuzione netta con i propri bisogni
sociali che lo caratterizzano.
La distanza tra il costo totale iniziale sostenuto dall’impresa per pagare il lavoratore e quello che
realmente entra in tasca al lavoratore, cioè la sua retribuzione netta, rappresenta l’ammontare del
cuneo fiscale. Tanto maggiori sono le imposte e i contributi che devono essere versati, tanto
maggiore sarà tale divario. In Italia è quasi il 50%.
DOMANDA D’ESAME: quando l’azienda va a ragionare su dei possibili incrementi retributivi dovrà
considerare che tanto maggiore è questo divario (quindi il cuneo fiscale), tanto maggiore sarà
l’incidenza anche di un minimo aumento retributivo sul costo del lavoro. Viceversa, tanto maggiore
sarà questo divario, tanto minore sarà l’impatto di questi aumenti retributivi sulla retribuzione
netta, perché tutti gli aumenti retributivi vengono assorbiti dalla tassazione.
L’economicità deve rispettare sempre vincoli dell’equilibrio economico, non ci deve costare tanto,
deve essere sostenibile nel tempo per essere vantaggioso, cioè il costo del lavoro non deve
assorbire tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
3. Competitività esterna (attiene al posizionamento retributivo): quanto l’impresa con le sue politiche
retributive riesce ad attrarre, è competitiva all’esterno perché si posiziona meglio rispetto alle altre
imprese.
216
4. Equità interna: questo è legato alla struttura retributiva e cioè a quanto l’impresa è brava nello
strutturare bene i differenziali retributivi tra una posizione e l’altra.
5. Incentivazione e riconoscimento (dinamica retributiva): variazioni salariali concesse nel tempo, che
devono avere un potere incentivante e motivante nei confronti dei lavoratori.

Modello sforzo-prestazione-soddisfazione
Dal punto di vista teorico il modello sforzo-prestazione-soddisfazione ci da delle indicazioni su quali variabili
l’impresa deve considerare nel determinare una buna politica retributiva.
A determinare la prestazione è lo sforzo che l’individuo decide di impiegare per portare a termine un
compito. Questi livelli di sforzo sono commisurati a due variabili: da un lato il valore della ricompensa e
dall’altro la probabilità che lo sforzo sia poi riconosciuto. A questo sforzo corrisponderà un determinato
livello di prestazione. La prestazione sarà più o meno proporzionale allo sforzo profuso, ovvero sarà pari
allo sforzo più o meno potenziato dalla presenza di forti competenze del lavoratore e da una buona
percezione del ruolo.
A determinati livelli di prestazione vengono riconosciuti determinati livelli di ricompensa. Le ricompense
possono essere estrinseche oppure intrinseche. Secondo questo modello, la soddisfazione percepita dai
lavoratori va a confrontare il contributo dato con la prestazione e la ricompensa ricevuta, che a sua volta è
influenzata dall’equità (la conseguenza è adeguata rispetto al contributo dato? Giustizia procedurale e
distributiva).
Voci della retribuzione
La busta paga è un prospetto riassuntivo di tutto quello che accade nel mese precedente nella vita
lavorativa del soggetto.
Gli elementi essenziali della busta paga sono:
- Il minimo tabellare: il minimo previsto per quella posizione dal contratto collettivo nazionale del
lavoro – detto anche paga base.
- Super minimo collettivo aziendale: da molti contratti collettivi è definito elemento distinto della
retribuzione, ed è un super minimo che va a sostituire quelli che prima generalmente erano gli
scatti, ovvero gli adeguamenti dovuti all’inflazione, e viene riconosciuto alla generalità dei
lavoratori.
- Super minimo individuale: possibilità di averlo riconosciuto; sono erogazioni ad personam che
possono essere più o meno assorbibili. Quando il super minimo è assorbibile significa che si
riconosce un aumento della paga al lavoratore, ma questo minimo sarà nei mesi e negli anni
successivi via via assorbito dagli aumenti salariali previsti dal CCNL (es. se in un anno il CCNL
prevede un aumento salariale di 20 e io avevo un superminimo assorbibile di 50, 20 vengono
assorbiti e quindi poi si avrà un super minimo assorbibile di 30). Nel caso in cui non fossero
assorbibili allora si parla di super minimi fissi, cioè vengono riconosciuti per determinate prestazioni
di merito e restano invariati.
- Scatti di anzianità: sono delle progressioni economiche che vengono riconosciute in base la tempo
di permanenza in quella posizione.
- Retribuzione variabile, voci legate al rendimento.
- Voci legate a emolumenti straordinari, di rischio, di disagio (indennità).
La retribuzione viene classificata anche in diverse tipologie:

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- Rispetto al soggetto erogante: viene detta aziendale se erogata dall’azienda oppure sociale se
erogata dall’INPS.
- Rispetto al soggetto percettore: o è l’individuo in prima persona o, se il lavoratore sceglie la
cessione del quinto, la retribuzione non andrà al lavoratore ma verrà ceduta al soggetto indicato
dal lavoratore;
- Rispetto al tempo di erogazione: si parla di retribuzione attuale, la retribuzione mensile o annuale,
oppure si può parlare di retribuzione differita, ovvero quella retribuzione che è maturata nel tempo
(es: trattamento di fine rapporto).
- Rispetto alla prestazione: si parla o di retribuzione diretta, cioè io lavoro per determinate ore e
vengo pagata per quelle ore, la retribuzione indiretta è quando pago per i diritti maturati in virtù
delle ore lavorate( es: vengono pagate le ferie, festività).
- Rispetto alla variabilità: dipende se è fissa o variabile.
- Rispetto alla fonte: se è riconosciuta da fonte contrattuale, aziendale o individuale, cioè si fa
riferimento al documento su cui legittimare il riconoscimento retributivo.
Posizionamento retributivo
L’azienda deve decidere dove posizionarsi all’interno del mercato in termine di retribuzioni pagate, cioè
quanto pagare il lavoratore rispetto alle altre aziende presenti all’interno del mercato. Nell’effettuare
questa scelta l’azienda non può scendere al di sotto di un minimo della contrattazione collettiva.
Livello di mercato: livello di retribuzione media pagata da tutte le aziende che insistono in un determinato
mercato del lavoro di riferimento.

Se l’azienda decide di collocarsi a livelli minimi, allora assumerà la contrattazione di base; se decide di porsi
su un livello medio, rinuncia in qualche modo alla sua capacità di attrazione dei talenti, perché paga come
pagherebbero tutte le imprese; allora quello che può fare l’impresa per cercare di attrarre talenti è
collocarsi ad un livello superiore rispetto al livello medio di mercato. In questo caso dovrà però valutare la
sua di sostenere questo posizionamento retributivo nel tempo, perché è vero che posizionandosi al di sopra
dei livelli di mercato sarà più attrattiva però incide molto sul costo del lavoro, infatti il posizionamento
retributivo è una scelta strategica perché incide sul costo del lavoro e sulla competitività e attrattività nel
panorama del mercato del lavoro di riferimento.

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Come fanno le aziende a prendere questa decisione? Generalmente si basano su delle indagini retributive
svolte da società specializzate.
La struttura retributiva
Determina in maniera sostanziale i differenziali retributivi tra un ruolo e l’altro e la variabilità interna in
ciascuna classe di posizione, cioè quanto si può variare tra un minimo retributivo e un massimo retributivo
all’interno della stessa classe. Questo significa che bisogna individuare i criteri per la mobilità verticalmente
e orizzontalmente.
Il principio generale che si segue nella definizione della struttura retributiva è che per posizioni uguali
devono essere corrisposte retribuzioni uguali. Tuttavia non è sempre così, perché poi la carriera retributiva
di ciascuno sarà assolutamente differente da tutti gli altri perché ad incidere su ciascuna posizione sarà
anche l’individualità.
Una volta che l’azienda stabilisce la struttura retributiva, abbiamo tutto il quadro delle posizioni che sono
all’interno dell’azienda e i vari differenziali retributivi, abbiamo il quadro rispetto all’esterno, cioè sappiamo
come ci distinguiamo rispetto alle altre aziende e poi riusciamo ad avere anche un’indicazione di quanto i
differenziali vanno ad incidere effettivamente sulla distinzione tra una posizione e l’altra, perché ci sono
altri emolumenti che possono incidere su queste differenziazioni. Entità dei differenziali: ne troppi alti,
perché possono scoraggiare tutti quelli nelle classi inferiori, ne troppo bassi perché devono essere in grado
di stimolare i passaggi da una classe all’altra.

Dinamica retributiva
Variazioni salariali nel tempo. In questo caso l’azienda deve decidere quali sono i criteri e il quantitativo da
riconoscere agli individui in termini di variazione della retribuzione nel tempo.
Gli elementi che incidono sulla dinamica retributiva dei lavoratori sono:
- gli aumenti salariali previsti dal contratto collettivo nazionale;
- le politiche di reddito a livelli di legge dello Stato (se previste- es. adeguamenti all’inflazione);
- le scelte fatte dall’azienda per incentivare e motivare i lavoratori, agganciando la parte variabile
della retribuzione a dei parametri di rendimento.
Per fare questo l’azienda può utilizzare diversi strumenti che possono essere distinti su due dimensioni: la
prima variabile è l’orientamento, cioè a che cosa voglio agganciare le variazioni salariali, alla prestazione già
ottenuta (passato) oppure al futuro; la seconda variabile è il grado di variabilità e reversibilità dello
strumento gli strumenti possono essere distinti in reversibili e variabili, cioè variano in funzione di un
paramento e vengono riconosciuti soltanto al raggiungimento di un risultato; viceversa nel caso di
strumenti fissi e irreversibili, non sono riconosciuti sulla base di un risultato e restano fissi per tutta la
carriera del lavoratore (es. super minimi non assorbibili).

219
Cottimo: non è una retribuzione a tempo ma a rendimento, dove il lavoratore viene tanto più pagato
quante più unità di prodotto è in grado di produrre. Il cottimo può essere puro o misto: il cottimo puro
esisteva un tempo, ora generalmente esistono forme di cottimo misto, oppure definite a base standard,
dove viene prevista una base di paga standard integrato con un cottimo. Il cottimo non conviene sempre,
anche in questo caso bisogna fare una valutazione di convenienza: è necessario che sia misurabile e
significativa la relazione tra lo sforzo profuso dal lavoratore e il risultato ottenuto, quindi non possiamo
adottare il cottimo in tutti i casi in cui sul risultato finale incidono anche altri fattori (contesto, mercato); un
secondo elemento per valutare la convenienza economica del cottimo è la valutazione del rapporto tra i
benefici che si ottengono con un aumento dell’ output e l’aumento dei costi il cottimo conviene quando
l’aumento dell’output è tale per cui l’incidenza dei costi fissi decresce più di quanto non crescano i costi
variabili (domanda esame).
Gainsharing: è una forma di incentivazione che ha una natura collettiva, perché è riconosciuto
generalmente al gruppo, in base alla quali i bonus sono riconosciuti in base al raggiungimento di obiettivi di
produttività e efficienza. La caratteristica fondamentale che lo distingue dal cottimo è l’aspetto collettivo; il
cottimo generalmente è previsto come retribuzione variabile riconosciuta a livello individuale, invece in
gainsharing è in grado di convogliare tutti gli interessi del gruppo verso il raggiungimento di un obiettivo di
produttività comune. Le condizioni di successo sono: è necessario che ci possano essere queste variazioni di
efficienza, ed è anche fondamentale che ci sia una cultura comunitaria. Le criticità sono: la presenza di
persone che si camuffano nel gruppo, cioè si approfittano dei risultati raggiunti dal gruppo per non
contribuire in alcun modo, oppure quando c’è il rischio di incrementare la competizione nel gruppo o tra i
gruppi; poi ci sono le formule che sono rigide nel calcolare il bonus e non considerano gli aspetti singolari di
contesto in cui operano gli individui; un’altra criticità è quella di incentivare chi ha bisogno di migliorare ma
disincentivare chi già ha dei risultati ottimi.
Quindi: le caratteristiche che accomunano tutti i piani di incentivazione basati sul gainsharing sono la
capacità di generare cooperazione e collaborazione tra i lavoratori. I bonus, invece, a seconda del piano che
viene scelto possono essere diversamente calcolati. La forma più diffusa di gainsharing è quella basata sulla
determinazione del bonus secondo il Piano Scalon, in cui il bonus è dato dalla differenza tra il costo del
lavoro previsto (calcolato come una percentuale del valore della produzione) dall’impresa e il costo
220
effettivo del lavoro che l’impresa ottiene alla fine del periodo di riferimento. Tutto il risparmio che si
ottiene viene distribuito tra i dipendenti e l’impresa: generalmente un 25% all’impresa e tutto il restante
viene in parte accantonato per tutti i periodi in cui il costo del lavoro effettivo sarà maggiore di quello
previsto e per la parte restante 75% distribuito tra tutti i lavoratori.
Piano Lincoln: prevede una diversa distribuzione dei bonus, cioè il calcolo è lo stesso ma i bonus non
vengono distribuiti in maniera egualitaria, ma in base ad una graduatoria di merito.
Piano Rucker: il bonus viene calcolato non in base al valore della produzione, ma in base al valore aggiunto,
rapportato sempre al costo del lavoro. Quindi il bonus è una funzione dell’incremento del rapporto tra il
valore aggiunto e il costo del lavoro nell’anno N rispetto all’anno N-1. (gestione operativa).
Profitsharing: piani di incentivazione individuali che si caratterizzano per la presenza di premi che sono
collegati ai risultati economico-finanziari dell’impresa. Questa è la differenza sostanziale rispetto ai piani di
gainsharing (domanda esame). Ci sono diversi tipi di piani di profitsharing; sostanzialmente stiamo dicendo
che la dinamica retributiva dei lavoratori è legata al raggiungimento di risultati d’azienda, e questa è già una
prima criticità, perché è difficile riuscire a isolare il contributo del singolo rispetto al risultato complessivo
d’azienda questo impone una condivisione dei rischi d’impresa tra i lavoratori.
Possono essere dei piani correnti, cioè possono essere dei piani con riconoscimenti ricorrenti (ogni anno
oppure semestralmente vengono riconosciuti ai dipendenti i bonus sulla base dei risultati ottenuti
dall’impresa), oppure differiti (come nel caso degli esop): una parte dei rendimenti che dovrebbero essere
riconosciuti ai lavoratori sulla base dei risultati ottenuti dall’azienda vengono accantonati in fondi pensione,
che saranno usufruiti dai lavoratori in un secondo momento (quando andranno in pensione).
Possono essere basati sul riconoscimento di denaro, oppure forme di partecipazione che prevedono
l’acquisto gratuito di azioni o obbligazioni da parte dei lavoratori (cash-based, share-based, bond-based).
Criticità: oltre a quella già citata (distanza tra prestazioni individuali e risultati d’impresa); inoltre se si
considera che non sono basati sui risultati della gestione operativa ma sui risultati finali, in cui incidono
diverse gestioni (finanziaria, fiscale,ecc..), diventa limitato il controllo che si può avere sui risultati; bassa
focalizzazione sui risultati strategici.
Condizioni di successo: elevata interdipendenza tra le varie unità organizzative; elevata diffusione di tale
strumento nel mercato del lavoro di riferimento.
Bonus/premio: ha una caratteristica di reversibilità e variabilità proprio perché il bonus viene riconosciuto
in maniera occasionale per il raggiungimento di determinati obiettivi; sono riconosciuti una tantum e non in
maniera fissa nel tempo (reversibilità), e in maniera variabile rispetto al grado di raggiungimento degli
obiettivi (variabilità). La reversibilità è la caratteristica che distingue il bonus dagli aumenti di merito,
riconosciuti per tutta la carriera del lavoratore e si differenziano in base all’orientamento: da un lato
abbiamo gli aumenti di merito basati sulla prestazione, che vanno a premiare una prestazione erogata
(orientamento al passato – mirano a premiare quanto è stato fatto ); dall’altro abbiamo aumenti di merito
basati sul potenziale, che mirano ad incentivare una prestazione futura (orientamento al futuro – ruolo da
svolgere).
Benefit: i benefit sono inquadrati nell’abito degli strumenti reversibili e variabili poiché dipendono da una
serie di parametri, però hanno un orientamento più al futuro perché cercano di far leva sull’assicurare al
lavoratore un determinato status (es: auto aziendale), cerano di incentivare la prestazione futura del
lavoratore puntano a farlo sentire appagato il lavoratore sulla base dei servizi di cui riesce ad usufruire.

221
Abbiamo dei benefit propriamente detti, che sono degli emolumenti che vengono riconosciuti al lavoratore
ma di cui il lavoratore usufruisce soltanto in un secondo momento, come ad esempio accantonamenti ad
assicurazioni. Vi sono poi i perquisites, che sono una serie di servizi immediatamente usufruibili dal
lavoratore e generalmente ad uso promiscuo (telefono, computer, auto). A ciò si aggiungono i pacchetti di
welfare aziendale: generalmente le imprese si affidano a società esterne per garantire al lavoratore di
trasformare la sua retribuzione variabile in una serie di servizi che il lavoratore può scegliere tra quelli messi
a disposizione dall’impresa e vengono gestiti da alcuni portali.
Progettazione dei sistemi di retribuzione variabile
Quando andiamo a progettare dei sistemi di retribuzione variabile dobbiamo tener conto di diverse
variabili.
Cos’è che incide sulla progettazione di questi sistemi?
- la dimensione dell’impresa: le piccole imprese è difficile che ne facciano uso;
- organico (qualità e quantità): numero dei lavoratori;
- le caratteristiche del management;
- organizzazione del lavoro;
- le relazioni sindacali;
- ability to pay dell’azienda;
- la cultura: incide fortemente sulla definizione dei piani e progettazione degli strumenti di
retribuzione variabile;
- scelta dei parametri e della modalità di distribuzione del premio;
- comunicazione ai beneficiari;
- feedback.
Quale approccio adottare?
- approccio algoritmico, basato su formule e procedure standardizzate da applicare e questo ci da
una forte garanzia di equità e oggettività, però siamo molto più rigidi e quindi non riusciamo molto
a far fronte alle situazioni di cambiamento;
- approccio situazionale: è un approccio contestualizzato, che tiene conto delle esigenze contestuali,
dei fattori contingenti che incidono sul raggiungimento dei risultati; però talvolta risulta poco
obiettivo (è soggettivo) e può essere causa di discussioni;
- approccio misto: quello che si suggerisce alle imprese da parte delle società di consulenza è di
avere un approccio integrato in cui si stabiliscono delle basi algoritmiche su cui poi si ragiona;
oppure il contrario: se la cultura è aperta e flessibile e si vuole dare ai lavoratori un messaggio
diverso, si parte da un approccio contestuale per l’assegnazione dei bonus, però legando ogni
bonus in minima parte ad un calcolo algoritmico.

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Scelta dei livelli di aggregazione
Quando scegliere il singolo e quando scegliere il gruppo? Dipende dal tipo di cultura in cui ci troviamo.

La retribuzione dei dirigenti


Un elemento fondamentale da considerare nei sistemi di progettazione di retribuzione variabile è la
retribuzione di quelle persone che hanno compiti di massima responsabilità all’interno dell’impresa. Questo
perché in primo luogo è importante assicurarsi manager migliori; un altro aspetto molto importante è come
configurare tutto il pacchetto da proporre alla dirigenza. Ma l’aspetto più cruciale è la struttura degli
incentivi perché devono essere strutturati in maniera da far allineare gli interessi dei manager, dei dirigenti
rispetto a quelli della proprietà (teoria delle collusioni).
Un altro aspetto importante è come collegare il contributo dato dai dirigenti alle performance. Quali
performance scegliere? Quelle di breve periodo o di lungo periodo? Se si scelgono quelle di breve periodo
si incentivano i comportanti opportunistici, e si scelgono quelle di lungo periodo il dirigente se ne va. Allora
nel tempo si è sviluppata nella azienda una prassi: non si devono collegare i premi ai risultati quanto creare
dei sistemi di incentivazione a lungo termine, perché così facendo si evitano una serie di comportamenti
opportunistici. Ciò ha portato come vantaggio sicuramente l’allineamento tra gli interessi

223
dell’organizzazione e gli interessi dei dirigenti, riduce il turnover dei dirigenti, riduzione dei comportamenti
opportunistici.
Tutte queste caratteristiche sono rispettate dai piano di stock option, che sono dei piani di incentivazione
riconosciuti a manager, che danno la possibilità di acquistare delle azioni in un determinato periodo di
tempo e ad un determinato prezzo. I destinatari di questi piani sono i manager, in fatti vengono detti
narrow-based, ma non mancano esempi di piani di stock option riconosciuti alla generalità dei lavoratori,
broad-based.
Il prezzo di esercizio può essere variamente configurato: quando i piani vengono utilizzati come semplice
forma di retribuzione aggiuntiva dei lavoratori, allora generalmente si fanno allo sconto, quando devono
invece fidelizzare i lavoratori o dirigenti allora si fanno alla pari o in sovrapprezzo.
In molti casi i piani di stock option riconosciuti ai manager prevedono dei periodi di indisponibiltà (holding
period), in cui non è possibile vendere le azioni, altrimenti una volta raggiunti i risultati il dirigente potrebbe
rivendere subito le azioni e abbonare l’organizzazione.
Differenza tra il periodo di esercizio e il periodo di maturazione.
Il vesting period è il periodo che intercorre tra quando viene concessa l’opzione e quando questa diventa
esercitabile.
L’excercise period è il periodo riconosciuto ai manager o ai lavoratori entro il quale si può esercitare
l’opzione, quindi acquistare o sottoscrivere.
LEZIONE 24

LA PARTECIPAZIONE DEL PERSONALE


Per partecipazione intendiamo un insieme di politiche che vogliono valorizzare la relazione di condivisione
presente nel rapporto di lavoro, rendendo partecipi i dipendenti a tutte le dinamiche che coinvolgono la
vita d’impresa (di tipo sociale, ambientale, economico-finanziarie, relazionali). È un modo per valorizzare la
relazione di condivisione. Il rapporto di lavoro non è solo scambio economico, non è solo gerarchia,
scambio politico ma è anche condivisione e partecipazione.

Prospettive
Come rendiamo partecipi i lavoratori?
- Partecipazione diretta si entra in relazione con loro (transazioni individuali), quindi con forme di
partecipazione che prevedono un rapporto diretto tra impresa e lavoratore. Si pensi all’azionariato,
in cui ciascun lavoratore individualmente ha una partecipazione diretta nell’attività dell‘impresa.
- Partecipazione indiretta stiamo parlando dei processi negoziali, quindi stiamo parlando di quello
che abbiamo definito negoziazione sindacale, quindi una forma di partecipazione garantita ai
lavoratori mediante una rappresentanza collettiva, quindi transazione collettiva che coinvolge i
lavoratori. Tipicamente una transazione collettiva è quella che avviene tra confederazioni e
sindacati oppure tra sindacati e azienda.
Orientamenti
L’impresa può limitarsi semplicemente a integrare (orientamento integrativo) gli interessi dei propri
stakeholder interni ed esterni, tra questi quindi anche i lavoratori, nelle proprie dinamiche aziendali,

224
oppure può adottare un approccio collaborativo, di larga partecipazione in cui i dipendenti condividono le
scelte con il management.
Forme di partecipazione
Combinando prospettive e orientamenti otteniamo diverse forme di partecipazione: anticipata;
contrattuale; istituzionale; finanziaria.
La partecipazione nell’ordinamento italiano
In Italia la Costituzione prevede il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, poiché
nell’idea della costituente c’era una sorta di economia sociale di mercato, quella che poi di fatto ha trovato
applicazione nel nord Europa, quindi un’idea di emancipazione economica e sociale dei lavoratori in modo
tale che anche i lavoratori potessero partecipare attraverso la cogestione delle aziende agli indirizzi
economici e produttivi del nostro paese. Era un’idea molto alta di partecipazione. Tuttavia questa idea
purtroppo è rimasta incompiuta e non ha trovato riscontro e l’organo preposto alla realizzazione di questa
idea di partecipazione doveva essere il cnel che attraverso una convergenza delle diverse ideologie
politiche doveva portare a una norma di legge che potesse disciplinare le modalità in cui i lavoratori
potessero partecipare a questa gestione delle aziende. La personalità che più si è dedicata a questo
obiettivo è stato Enrico Mattei che ha fatto la storia del nostro paese. Enrico Mattei è stato colui che
dall’Agip ha creato il colosso Eni. Mattei voleva tradurre in realtà questo modello. Cos’è che poi ha
ostacolato questo forte sviluppo della partecipazione? Sicuramente la prospettiva anacronistica di
Confindustia che negli anni 60 vedeva la partecipazione dei dipendenti come un esproprio. Quindi anche la
conflittualità tra confindustria e sindacati, quest’ultimi invece che giovavano molto in quegli anni degli alti
livelli di conflittualità. Questi sono i motivi che hanno spinto a lasciare incompiuto l’art. 46 della
Costituzione.
Però negli ultimi anni le cose stanno cambiando e molte leggi danno la possibilità di usufruire anche di
incentivi fiscali per la realizzazione di piani di partecipazione dei dipendenti all’azionariato o ad altre forme
di partecipazione di tipo contrattuale.
Partecipazione anticipata
È una partecipazione che prende le mosse dall’azienda, è una sorta di spirito volontario dell’azienda a
includere e tener conto di diverse dinamiche che riguardano i diversi stakeholder, rendendoli partecipi delle
proprie performance, non intese solo in senso stretto (economiche) ma in senso lato (impatto ambientale,
sociale, impatto delle esternalità negative), quindi un insieme di strategie e strumenti che l’impresa
elabora spontaneamente per accogliere tutti gli interessi e le attese che vanno al di la degli obblighi
giuridici.
Quali sono le motivazioni?
- Reputazione: quasi ottenere una legittimazione ad operare.
- Fare il punto tra i costi sociali, ambientali, economici e i benefici che ha prodotto l’impresa. Se
questo a livello ambientale è piuttosto fattibile, a livello sociale è più complicato.
- La gestione del personale: una sorta di trasparenza di comunicazione delle forme di gestione del
personale.
La partecipazione anticipata da un lato prevede l’adesione a quelli che sono i principi della responsabilità
sociale d’impresa (tener conto delle attese più o meno implicite degli stakeholder dell’impresa) e a quel
punto si tratta di una forma rendicontazione che fa l’azienda dei risultati che ottiene e dei comportamenti
che pone in essere. Per quanto riguarda la gestione delle risorse umane è addirittura possibile ottenere una
225
sorta di certificazione che le prassi poste in essere dall’azienda rispettino effettivamente i principi della
responsabilità sociale d’impresa. Dall’altro lato parliamo di bilanci sociali e bilanci di sostenibilità che
hanno una funzione informativa, integrando il bilancio d’esercizio, ponendo l’attenzione sulla dimensione
sociale e della sostenibilità.
Partecipazione contrattuale
Sono un insieme di strumenti che garantiscono la partecipazione dei lavoratori alle decisioni in materia di
organizzazione del lavoro, quindi per tutto ciò che concerne la dimensione organizzativa d’impresa. In
questo caso le motivazioni principali sono due: da un lato c’è una sorta di captatio benevolentiae da parte
del management che cerca di trovare consenso poiché è stato più volte dimostrato che il consenso dei
lavoratori e dei rappresentati sindacali è una conditio sine qua non del successo d’impresa, in quanto gli
obiettivi devono essere assolutamente condivisi e poi raggiunti. Dall’altro è che anche il sindacato, a fronte
di una partecipazione intensa e di un ascolto continuo delle esigenze dei lavoratori, cede sulla prospettiva
della conflittualità. Come si estrinseca questa forma di partecipazione? Attraverso il riconoscimento ai
lavoratori e alle loro rappresentanze dei diritti di informazione e consultazione sulle materie riconosciute
dalla legge.
Circa i diritti di informazione, i lavoratori e i loro rappresentati devono essere informati, quindi hanno il
diritto a chiedere report periodici, dati e analisi svolte o di analisi che hanno portato a scelte di
investimento o di dimensionamento degli organici.
Circa i diritti di consultazione, questi richiedono una consultazione preventiva ovvero una discussione
preventiva con i sindacati rispetto ad alcune materie di particolare spessore, come le scelte politiche
occupazionali dell’impresa, scelte in materia di organizzazione del lavoro, gli investimenti effettuati.
Partecipazione istituzionale
Prevede il coinvolgimento dei dipendenti negli organi istituzionali d’impresa. Questa forma di
partecipazione ha avuto più successo nel nord Europa, soprattutto in quelle economie che hanno una
configurazione di tipo renano o consociativo (Francia e Germania).
Nel caso della Germania si parla di Mitbestimmung, che viene tradotto con “co-gestione”, ma in realtà non
si tratta di cogestione perché i lavoratori non fanno parte di un organo che ha poteri di gestione, ma
semplicemente di elezione del consiglio direttivo che ha poteri di amministrazione e gestione, quindi di
fatto si tratta di una co-determinazione della gestione d’ impresa.
Innanzitutto, tutti i lavoratori, anche i non iscritti al sindacato, possono partecipare alle elezioni del
consiglio di azienda, che a sua volta il consiglio d’azienda nomina il 50% dei membri del consiglio di
sorveglianza. Il consiglio di sorveglianza non ha poteri di gestione però può decidere in particolari situazioni
previste dalla legge dello stato tedesco e in generale ha poteri di vigilanza e controllo, ma il potere più
importante è quello di eleggere il consiglio direttivo, il quale ha obblighi di amministrazione e controllo,
dunque si condetermina la gestione d’ impresa. Gli effetti positivi sono molteplici e sono stati testimoniati
da numerosi studiosi. Di fatto la codeterminazione porta ad un aumento del commitment, dunque da
questo ne deriva una maggior produttività e crescita dell’impresa.
Dal lato francese più che una situazione di codeterminazione si hanno delle forme di partecipazione
istituzionale, cioè previste per legge, che sono una forma di ascolto continuo degli interessi dei lavoratori.
In realtà anche in Germania l’introduzione delle forme di codeterminazione non è stata semplice, è
sicuramente molto antica, infatti le prime testimonianze risalgono alla fine dell’800, ma per arrivare alla
configurazione attuale bisognerà aspettare il 1951, in quanto accadde che la corrispondente della nostra
226
Confindustria, si opponeva poiché vedevano questa forma di co-gestione come un’invasione del diritto di
proprietà; è successo che la nostra corrispondete confederazione dei sindacati del settore siderurgico
propose ai suoi iscritti un referendum sulla possibilità di scioperare se non fosse stata introdotta questa
forma di cogestione. Alla fine si scoprì che il 95% dei lavoratori era disposto a scioperare (= blocco totale del
settore siderurgico e dell’economia tedesca). A quel punto si decise per l’introduzione della
codeterminazione. Quindi non è stato un processo fluido.
Tornando al caso francese, in questo caso l’introduzione è stata davvero istituzionale, ovvero è stato un
processo di convergenza degli interessi per cui la legge dello stato francese prevede che nelle aziende che
superano un determinato numero di lavoratori siano istituiti questi comitati di impresa come presidio di
ascolto e considerazione continua degli interessi dei lavoratori e da qui l’obbligo dell’azienda di consultare e
dialogare con i lavoratori e i loro rappresentati su diverse materie (es. introduzione di nuove tecnologie,
materie strettamente legate agli organici, turnazioni e orari).
Per agevolare la diffusione di questa forma di partecipazione, anche nel diritto comunitario sono state
inserite norme al fine di incentivare il riconoscimento dei diritti di consultazione e di informazione dei
lavoratori da un punto di vista istituzionale. In particolare, il diritto comunitario afferma che laddove
vengano istituite delle società per azioni europee c’è tempo fino a 6 mesi per trovare degli accordi con un
comitato di negoziazione sindacale sui diritti di consultazione e informazione e partecipazione dei
lavoratori. Se l’accordo non viene trovato allora la società non può essere costituita è un vincolo che
incentiva molto al raggiungimento degli accordi di partecipazione.
Partecipazione finanziaria
Sono tutti quegli strumenti che permettono all’azienda di determinare piani di partecipazione dei lavoratori
alla proprietà d’impresa, ovvero al capitale di rischio. In Italia la determinazione dei piani di partecipazione
finanziaria viene generalmente attuata mediante degli accordi collettivi, quindi è la contrattazione collettiva
che stabilisce le modalità del come e quanto della distribuzione di azioni e altre forme di partecipazione
finanziaria dei dipendenti. Anche qui sicuramente tra i vantaggi c’è un aumento del committment (se io
detengo azioni della mia impresa è plausibile che faccio di tutto affinché quell’impresa vada bene).
Condizioni di successo : la presenza di un mercato efficiente (il lavoratore che detiene azioni deve avere la
possibilità di venderle in un mercato azionario che sia abbastanza efficiente e trasparente); imprese di
grandi dimensioni (motivo per cui questo tipo di partecipazione è poco sviluppata in Italia).
Strumenti Come possiamo garantire la partecipazione finanziaria ai lavoratori?
Acquisto di azioni a condizioni agevolate. Da un lato c’è la possibilità di garantire delle forme di azionariato
al personale con forme agevolate, e questo può essere più o meno incentivato dalla presenza di incentivi
fiscali. Quando ci sono incentivi fiscali generalmente le aziende vendono le azioni a prezzi agevolati al
personale o ad un prezzo simbolico e in questo caso è un’ottica di investimento, in quanto l’impresa ha
incentivi fiscali. In Italia abbiamo avuto leggi di bilancio che hanno stanziato forme di incentivazione
all’azionariato dei dipendenti ma con misure particolarmente ridotte, quindi molte aziende non erano
molto fiduciose ad attuare piani di azionariato poiché poi temevano di non poter accedere alle risorse, cioè
le risorse si sarebbero esaurite. Oppure si possono avere casi di azionariato senza incentivi (es. casi di
privatizzazione come Telecom). In questo caso l’ottica è di coinvolgimento poiché le operazione di
privatizzazione non sono sempre ben viste, quindi riuscendo a coinvolgere i dipendenti nelle sorti d’impresa
si ottiene un maggior impegno poiché le persone lavorano per uno scopo comune.

227
L’altro strumento che si può utilizzare ma di natura prettamente previdenziale sono gli esop (forme di
azionariato che hanno una valenza previdenziale). Quali sono le caratteristiche di questi piani di
partecipazione? Innanzitutto le aziende concedono ai lavoratori le azioni dell’impresa a livello gratuito o ad
un prezzo simbolico; queste azioni vengono poi gestite da un fondo chiuso che si occupa solo di gestire le
azioni dei lavoratori, e al massimo può investire in altre azioni dell’azienda; la terza caratteristica è la
presenza di incentivi fiscali generalmente gli esop sono fatti quando la legge dello Stato permette di
ottenere degli incentivi fiscali, altrimenti diventano particolarmente gravosi per l’impresa. Finalità
previdenziale degli esop = tutto quello che viene ricavato dal valore delle azioni viene accantonato a fondi e
viene usufruito in maniera differita, magari attraverso un fondo pensione.
La valutazione della partecipazione
La partecipazione e l’implementazione dei piani di partecipazione può essere valutata sotto il profilo
dell’efficienza: in questo caso parliamo di costi e quante risorse abbiamo impiegato e i risultati che abbiamo
ottenuto (l’impresa dovrà rendicontare tutti i costi sostenuti per l’analisi dei dati, ma anche i costi per gli
eventuali lavoratori che partecipano agli organi istituzionali); dal lato dell’efficacia parliamo di qualità
ovvero del raggiungimento degli obiettivi. Per esempio, se vogliamo valutare un buon piano di
partecipazione di azionariato andremo a vedere la copertura, ovvero quante persone hanno sottoscritto
azioni di impresa; oppure se le informazioni sono arrivate effettivamente dove volevamo (grado e
direzione) oltre che, nel caso della partecipazione contrattuale, una riduzione forte dei livelli di
conflittualità in azienda.

LEZIONE 25

DIVERSITY MANAGEMENT
Che cosa significa diversity management? Più che di “diversità” si preferisce tradurre in italiano con il
termine “pluralità” perché diversità fa assumere che ci sia uno standard rispetto al quale ci si differenzi. In
realtà l’intento degli ultimi anni è proprio quello di scardinare questa convinzione. Gestire questa pluralità
vuol dire cercare di valorizzare le specificità dei singoli per raggiungere i risultati organizzativi. Chi si occupa
di diversity management ha il compito di convogliare tutta questa pluralità ai fine della creazione di valore.

Il concetto di genere
C’è una differenza sostanziale tra sesso e genere: il primo comporta una classificazione basata sulla
diversità fisica dovuta alle specificità biologiche che contraddistinguono i maschi dalle femmine; il secondo
si basa su una classificazione socialmente e culturalmente costruita. Il genere è considerato uno «stato
psicologico» di sentirsi maschio o femmina si dice che il genere è un’istituzione sociale perché è
costruito socialmente; il genere si crea attraverso i processi di educazione, socializzazione, formazione. È
chiaro però che c’è una base di costruzione dell’identità sociale che parte dal sesso, ma non vuol dire che
l’identità sessuale possa coincidere sempre con l’identità di genere. È stato dimostrato che il genere si crea
da una certa età in poi: giovani bambine non fanno inizialmente distinzioni tra l’essere uomo e l’essere
donna. È nella fase della pubertà che questa differenziazione si accentua, cosa che invece non succede nei
bambini, i quali sin da piccoli sono portati a fare differenziazioni di genere video “What does it mean to
do something <<like a girl>>?”.
Stereotipi di genere, discriminazione e segregazione del mercato del lavoro

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Che cosa comporta la discriminazione di genere? Da che cosa è causata? Quali sono le conseguenze e
l’impatto anche a livello organizzativo? La discriminazione di genere porta con sé tre conseguenze
fondamentali, c’è la segregazione dei mercati del lavoro e vedremo non soltanto questo.
Si parla di discriminazione occupazionale quando, considerato il sistema del mercato del lavoro nel suo
complesso, c’è una forte minoranza di donne occupate all’interno del mercato del lavoro. Scendendo più
nel dettaglio: parliamo di discriminazione orizzontale quando questa differenziazione è visibile tra i settori
economici (vi ricordate dicevamo proprio l'altro giorno a proposito di Covestro e della poca parità di genere
nell’occupazione di Covestro, che uno dei possibili motivi poteva essere appunto questo, la discriminazione
orizzontale , cioè il fatto che siano le caratteristiche dei settori ad avvantaggiare di più gli uomini rispetto
alle donne); la discriminazione verticale invece è una discriminazione e quindi un tipo di segregazione che si
ha nel momento in cui le donne non riescono a raggiungere le posizioni di Top Management, quindi in
questo caso si parla di “soffitto di vetro” (glass ceiling), loro possono vederlo perciò è di vetro, hanno tutte
le capacità, tutto il potenziale, però di fatto ci sono degli eventi o degli stereotipi che non permettono di
arrivare fino all’apice della loro carriera (pensate ad eventi personali, come la maternità che è un fattore
fortemente discriminante purtroppo ancora all’interno delle aziende, o ad alcuni stereotipi che sono legati
per esempio al fatto di essere emotive non è vista come una buona leadership, e invece a volte è proprio
l’emotività che può fare la differenza in quella capacità sensoriale, di sentire le persone). Infine un altro
scoglio è la differenza di retribuzione, ancora oggi , soprattutto in Italia, le donne guadagnano a parità di
posizione, almeno il 25% in meno degli uomini e infatti sono tipicamente le donne a essere ipertitolate, cioè
che restano per più tempo nel mondo della formazione, quindi investono molto di più su se stesse, proprio
per poter riuscire a raggiungere, a parità di posizione, lo stesso stipendio ma non a parità di età perché
magari hanno impiegato più tempo per prepararsi. Poi pensate che in genere il periodo di maggiore crescita
a livello di carriera di una donna coincide con il periodo di maggior fecondità e quindi in genere le donne
sono sempre portate a fare questo trade off, a dover scegliere, in realtà non è proprio vero. E’ proprio
questa convinzione che porta le donne a stare a lavoro e a pensare continuamente alle loro mancanze nella
sfera personale o viceversa. Se le soluzioni di welfare fossero meno discriminanti, per esempio garantissero
anche ai padri di andare in paternità, le donne potrebbero continuare la loro carriera. Ad oggi sono
pochissimi gli uomini, almeno in Itali,a che chiedono il part time, e che chiedono la paternità, quindi di
usufruire dei congedi previsti per i genitori, e quindi non quelli esclusivi della madre, in genere è una
prerogativa che continua ad essere assegnata alle donne, questo perché in genere sono pagate al 30% ,
quindi già le donne guadagnano poco, tanto vale allora rinunciare allo stipendio della donna rispetto a
quello dell’uomo. Vedete è tutto un po’ il cane che si morde la coda.
Cause
Tratti individuali: abbiamo detto che il sesso è il primo punto di riferimento su cui noi costruiamo le nostre
caratteristiche, i nostri tratti. Ed è vero! Siamo diversi, l’uomo è diverso dalla donna anche nei suoi tratti. È
sempre vero? No. Ci sono molte donne che hanno prevalentemente tratti mascolini, e questo è tanto vero
a livello fisico quanto comportamentale, a livello di personalità, quindi vedete è naturalissima la diversità,
solo che non è sempre netta, ci sono delle sfumature.
Gli stili di leadership: sono molto differenti? Si. Allora diciamo generalmente alle donne viene assegnata
una Leadership trasformazionale , cioè una leadership che viene esercitata in ottica di servizio nei confronti
del proprio gruppo di riferimento (team) e quindi riesce a trasformare gli interessi dei singoli negli interessi
della collettività, del gruppo di riferimento, ecco in quest’ottica si parla di leadership trasformazionale.
Viceversa gli uomini, i cui tratti sono sempre associati a competitività, aggressività, assertività, sono

229
associati ad una leadership transazionale, cioè la transazione, il conflitto, la competizione, questi sono i
tratti tipicamente associati agli stili di leadership caratterizzati da più mascolinità.
Discriminazione organizzativa: da che cosa deriva? Una studiosa, Williams, diceva che la discriminazione
organizzativa deriva da un conflitto fondamentale, cioè un conflitto tra la norma prescrittiva del lavoratore
ideale, che è full time, completamente dedicato al lavoro, che entra in conflitto con la norma prescrittiva
del genitore ideale, cioè il genitore dedicato completamente alla famiglia, ai suoi compiti di cura nei
confronti della famiglia. Quando queste due norme entrano in conflitto si genera la discriminazione
organizzativa, perché il mondo del lavoro - sebbene negli ultimi anni le cose stiano cambiando grazie allo
smartworking e al telelavoro - è sempre stato costruito intorno ad una figura di una persona
completamente devota al lavoro.
Un'altra causa di discriminazione la troviamo a livello istituzionale, cioè è lo Stato che essendo costituito
ancora oggi prevalentemente da uomini, adegua le sue leggi allo schema in cui sono gli uomini a dettare
legge e se ci pensate ciò si riversa tipicamente sui sistemi di Welfare (i sistemi di welfare sono pensati per
tutelare le persone in difficoltà, ma che cosa fanno di fatto? finiscono per alimentare la discriminazione
se pensate agli obblighi di cura, alle previsioni sulla maternità: in Italia il padre ha diritto obbligatoriamente
ad uno, massimo due, giorni di Congedo Obbligatorio; in altri paesi come la Germani,a almeno 14 giorni,
Svezia e Finlandia non esiste distinzione tra padre e madre, ma entrambi possono scegliere fin dal primo
momento di andare in congedo, e infatti si parla di congedo non di maternità ma “Genitoriale”, ed infatti
sono questi i paesi che hanno una prevalenza di donne in Top Management position in CdA, le donne al
vertice, quindi anche nelle carriere politiche.
Possibili Interventi
Non so quanti di voi siano d’accordo o meno con l’introduzione delle quote di genere. Le Quote di Genere
sono una forma di discriminazione positiva, che servono a supportare quella parte di popolazione meno
rappresentata, generalmente si parla di quote rosa, perché la parte di popolazione meno rappresentata
sono appunto le donne.
Prof: Chi è d’accordo con l’introduzione delle “Quote di Genere”? Tutti contro? Come mai questa reticenza?
Risposta: Perché non ci dovrebbe essere un obbligo da parte delle istituzioni, dovrebbe avvenire
naturalmente senza imporla, l’apertura.
Prof: esattamente, questo è uno dei dilemmi dell’introduzione o meno delle quote di genere.
C’è da dire una cosa: le quote sono sicuramente un elemento che scardina, cioè obbligare a riservare una
quota al sesso minoritario, che non vuol dire per forza le donne, sicuramente può iniziare a portare più
donne nei contesti dove il potere conta, dove si può contribuire contando e dando il proprio contributo,
questo diciamo nei paesi in cui vengono introdotte le quote di genere si pensa poi a cascata possa
determinare una serie di cambiamenti nelle altre istituzioni, quindi nel mercato del lavoro, anche perché è
stato dimostrato che le Aziende condotte da donne sono ad esempio più devote al Welfare. C’è tuttavia da
dire una cosa: se io introduco le quote per assicurare una rappresentanza egualitaria di genere, sto
discriminando tutte le altre pluralità: razze, le culture, vedete è difficile.
Paper scritto dalla professoressa: le quote di genere possono dare un contributo, ma non sono ne una
condizione necessaria ne sufficiente per avere più donne nelle posizioni di top management perché
rischiano di non apportare benefici nel momento in cui le discriminazioni coesistono in tutti gli altri contesti
istituzionali, quindi lavoro, Welfare, leggi dello Stato.

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Quindi tra gli interventi organizzativi si può optare per una gestione che tenga più in considerazione il work-
life balance, quindi un’ottica che punti sugli obiettivi, sui risultati, sulla presenza, formare tanto i manager,
formare il personale che assume le persone affinché non sia vittima di stereotipi che inconsciamente
portano a fare delle scelte errate, pianificare la maternità e il rientro dalla maternità. (c’è una legge che
prevede che al rientro dalla maternità la donna debba essere adibita alle mansioni a cui era adibita
precedente, ma in realtà non è sempre così perché spesso si crea un vuoto, soprattutto se la risorsa era
posta su progetti ed è stata sostituita, per è difficile ricontestualizzarla; ci sono quindi degli strumenti, come
i sistemi informativi, che consentono alle donne di essere aggiornate anche durante tutto il periodo della
maternità sulle cose che stavano seguendo, in modo da pianificare un buon rientro nelle mansioni a cui
erano adibite).
La gestione dei senior
Un tratto fondamentale soprattutto per come si sta caratterizzando negli ultimi anni il mercato del lavoro
sono i conflitti che si vengono a creare a livello intergenerazionale e soprattutto la gestione delle persone
che hanno un certo livello di anzianità in azienda. Che cosa succede? Tipicamente si creano i c.d. paradossi
di Matusalemme: dopo i 45 anni l’azienda smette di investire in queste persone. Queste persone si sentono
inutili, poco valorizzate e contribuiscono a creare conflittualità all’interno dell’azienda. Cosa fare? Il primo
consiglio è sicuramente quello di valorizzare il ruolo di queste persone cambiando o integrando il loro
ruolo, affidando loro cariche di mentori o coach rispetto alle risorse giovani proprio per attutire il conflitto
intergenerazionale che si viene a creare.
La varietà culturale
In realtà durante tutto il corso abbiamo esposto casi in cui la diversità culturale poteva essere un elemento
determinante che andasse ad influenzare le politiche che mettevamo in atto. Nella tema della
“valutazione”, nei paesi latini, anglosassoni, l’ottica del leader, visto anche come guida, permette di
applicare delle logiche di valutazione che prevedano il confronto con il capo. In culture più comunitarie,
come la Cina, questo è più difficile: il confronto con il capo è vissuto male, e quindi in questo caso bisognerà
adeguare le politiche di valutazione ad una gestione diversa, per esempio includendo i colleghi nella
valutazione della risorsa. Anche in questo caso si parla di segmentazione etnica: ci sono dei settori in cui
prevalgono determinate etnie, come le industrie di trasformazione in cui sono i cinesi a prevalere ecc… In
questo caso qual è l’intervento principale che si può adottare per integrare queste persone? Sicuramente
cercare degli espedienti per adattarsi alla loro cultura, come le persone che hanno un educazione ebraica,
in quel caso dovrò ragionare in modo che il sabato sia lasciato libero e non la domenica, prevedere delle
politiche che favoriscano l’esercizio della loro vita sociale. Questa è una premessa fondamentale: garantire
la vita sociale dei propri lavoratori è fondamentale per avere un contesto organizzativo.
I manager internazionali
Uno dei problemi maggiormente diffusi soprattutto nelle multinazionali è relativo ai manager che attuano
delle carriere internazionali. Questo è tanto più vero nei settori che prevedono la gestione di progetti su
cantieri, su costruzioni di impianti a lungo termine. Sono tutte aziende che vanno a costruire in altri paesi
ed hanno esigenza di avere delle persone in loco o assunte li o importate dal proprio paese di provenienza
che riescano a garantire un minimo di passaggio tra la casa madre e la sede distaccata. In questo caso si
parla di carriere internazionali che riguardano persone che stanno lì per lungo tempo lontano dalla propria
sede di lavoro per periodi brevi (si parla di carriere internazionali pendolari) o possono diventare dei veri e
propri nomadi, cioè tornare alla sede di base solo dopo tanti mesi. Cosa si consiglia in questo caso? Si parte
dall’assunzione: si deve identificare durante tutto il processo di assunzione che i lavoratori abbiano le

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competenze adeguate in termini di adattabilità, flessibilità e soprattutto competenze politiche cioè devono
essere bravi ad creare una rete, delle relazioni e ad avere influenza ed essere accettati, perché senza una
contestualizzazione diventa difficile portare a termine il proprio lavoro.
Successivamente è importante la formazione: se si deve mandare un lavoratore in Giappone lo si deve
formare, aspetti che un lavoratore non conosce e che deve conoscere per riuscire ad integrarsi. Gestire
tutto il processo di adeguamento: significa che i manager che conducono questo tipo di carriera sono
sottoposti a diversi shock. C ’è una prima fase “luna di miele” perché come noi quando andiamo in viaggio
vediamo tutte cose nuove, siamo rapiti ed è la fase più bella delle carriere internazionali. Però dopo cosa
succede? La persona comincia a rendersi conto che mancano dei punti di riferimento fondamentali del
proprio modo di vivere e si ha lo “shock culturale”, mancano i punti di riferimento della propria cultura. Già
tutto questo è traumatico per il manager; se a questo si associa uno shock “da realtà” o di “ruolo” le cose
possono diventare davvero drammatiche da gestire. Ecco perché bisogna seguirli molto da vicino. Uno
shock “da realtà” si ha nel momento in cui il manager che si era creato delle aspettative di crescita, di
risultati da raggiungere, rimane deluso. Questo succede anche in parte ai lavoratori neoassunti, che dopo
un po' che si inseriscono nella realità lavorativa hanno lo shock “da realtà”, in quanto cominciano a
scontrarsi con delle logiche che mai pensavano potessero esistere. Lo shock di “ruolo” è quando è il proprio
ruolo ad essere messo in discussione; la persona non ha più consapevolezza e di conseguenza si ha un
crollo motivazionale che molto spesso spinge i manager ad abbandonare e tornare in patria. Anche il
rientro in patria a volte non è semplice perché si può avere lo shock “culturale inverso” perché una volta
che ci si era abituati ad una nuova cultura, si torna e si trova tutto diverso, mancano i punti di riferimento
anche nella vita sociale e in questo caso bisogna seguire il processo di rientro dall’esperienza che si ha
avuto all’estero.

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