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1.

Morte e metafisica della persona: dualismo contro fisicalismo


(Kagan 2019, capp. II e VI).
Capitolo II “Dualismo contro Fisicismo (fisicalismo)”

Esiste vita dopo la morte? Esisto io dopo la morte? Per rispondere bisogna chiarire: cosa sono io,
cos’è una persona? E cosa significa sopravvivere alla morte?

Il problema dell’identità personale, cosa significa per una persona esistere nel tempo?

Esiste la vita dopo la morte? Si parte dalla definizione di morte, se la morte è la fine della vita
domandarsi: “esiste la vita dopo la fine della vita?” non ha alcun senso. Basta riflettere
brevemente per capire quanto questo quesito, ritenuto uno dei grandi misteri, non sia altro che
un’illusione.

Posso sopravvivere alla mia morte? Ovvero: “posso continuare a vivere dopo la fine delle mia
vita?”, la risposta è di nuovo banale se ci si ragiona per qualche istante.

Cos’è la morte del corpo? Un processo dall’istante C1 all’istante Cn. Prima di C1 il corpo funziona
normalmente, alla fine di Cn il corpo è morto. Il percorso da C1 a Cn è la morte del corpo.
Quando ci si domanda se si può sopravvivere alla morte si sta sottintendendo la morte del corpo

Posso continuare ad esistere dopo la morte del mio corpo? Per rispondere bisogna capire cosa
sono io stesso.

La questione relativa alla metafisica della persona si dipana in due posizioni fondamentali. La
posizione dualista che pone due componenti fondamentali della persona, corpo sostanza
materiale ed anima sostanza immateriale. La seconda posizione è monista per cui esiste soltanto
il corpo, un oggetto fisico, da ciò fisicalismo. (esiste anche l’idealismo per cui esiste solo l’anima,
ed il monismo neutrale secondo il quale anima e corpo sono solo percezioni differenti della
medesima sostanza).

Il dualismo vede una mente immateriale, o anima che influenza e viene influenzata dal corpo.
L’ubicazione dell’anima non è un aspetto fondamentale. L’esistenza dell’anima permette la
speranza in una sua sopravvivenza successiva al momento Cn, per cui la morte sarebbe la
separazione tra anima e corpo e l’impossibilità dei due ad influenzarsi. Tuttavia se la persona è la
coppia anima-corpo, venendo meno il corpo viene meno anche la coppia, ovvero la persona. I
dualisti rispondono a questa critica: la persona non è coppia, ma solo anima, e sopravvive alla
morte del corpo. C’è un’intima relazione tra anima e corpo ma la persona è specificatamente
solo anima. Un’altra possibilità è che il corpo sia una parte della persona, ma non sia una parte
essenziale, e così come una macchina continua ad esistere senza portiere così la persona
continua ad esistere senza corpo, mutata ma ancora avente tutte le sue parti essenziali. La
sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo, rimane per il dualismo mera possibilità.

Dualismo interazionale vedere una strettissima connessione tra corpo ed anima, la puntura
fisica è connessa al dolore nell’anima. Il processo C1-Cn della morte corporale può quindi
accompagnarsi al processo A1-An della distruzione dell’anima. Il processo materiale fisico che
distrugge il corpo non può però applicarsi ad un’entità immateriale quale l’anima, ma tale
obiezione senza prove contrarie non può dare certezza. In conclusione l’esistenza dell’anima non
permette di escludere definitivamente la morte, l’anima potrebbe morire col corpo, come
sopravvivere mutata, per breve tempo od essere immortale, sono possibilità che si aprono non
certezze che vengono date.

Fisicalismo

Secondo i fisicalisti la persona è soltanto un corpo, un semplice oggetto materiale. Ma ciò non
significa sia un corpo qualsiasi come gli altri, vi sono differenze fondamentali tra oggetti
differenti per quanto siano entrambi materiali. Una persona in quanto individuo ha dele capacità
particolari che la differenziano da meri oggetti. Le capacità che fanno di qualcosa una persona
sono le capacità o Funzioni P. Per il fisicalismo una persona è un corpo che possiede varie
Funzioni P, un corpo che agisce come P (P=Persona). Le mente è l’insieme delle capacità che il
corpo ha di fare varie cose, ma non è una cosa aggiuntiva o esterna al corpo, ma un insieme
delle sue funzioni. La mente non coincide col cervello, ma con le funzioni P, alcune delle quali
possono aver luogo nel cervello, ma il cervello è un organo che produce funzioni, non l’insieme
di quelle funzioni. Parlare della mente in ottica fisicalista vuol dire parlare delle funzioni P del
corpo.

La morte fisicalista avviene quando la capacità di funzionare del corpo viene distrutta, e quindi
anche la mente subisce il medesimo destino. La mente, che si può comunque chiamare anima
anche nel fisicalismo, non è un’illusione, ma un insieme di funzioni effettive del corpo. Il
sentimento d’amore che si prova lo si prova effettivamente nel proprio corpo, ed essendo una
funzione P è anche parte dell’anima, ma prima di tutto è originata dal corpo.

Capitolo VI “L’identità personale”

Non ci sono ragioni sufficientemente valide per dimostrare che l’anima esiste, dunque a detta di
Kagan essa non esiste. Non serve dimostrare a partire dalla visione fisicalista che l’anima non
esista, serve invece confutare le prove a favore della sua esistenza.

Cosa significa sopravvivere? Affinché chi sarò la prossima settimana sia effettivamente io, la
persona deve essere la stessa. Questo è il problema dell’identità personale, definire cosa
significhi essere la stessa persona in tempi diversi. Una mera differenza fisica non deve portare
alla conclusione di essere persone diverse. (Esempio del treno: un treno molto lungo alle sue
due estremità vede un vagone e locomotiva, che siano diversi ed abbiano funzioni diverse, non
significa non siano parte dello stesso treno, non siano il medesimo treno. Lo sono). (Esempio del
treno in galleria: medesima situazione ma la parte centrale del treno è celata da una galleria,
locomotiva e vagone non sono identiche, la domanda è se siano parte dello stesso treno. Ma
essendoci la gallerie a coprirci la vista non possiamo giungere ad una conclusione). (Esempio
dell’automobile: compro un’auto nel 1990, nel 2000 è piena di ammaccature, nel 2006 cessa di
funzionare, comprando l’auto nel 90 non sto comprando solo la “fetta” in buone condizioni, ma
anche le sue future fasi più malconce, dicendo di aver posseduto l’auto del 2006 per 16 anni non
ci si sta riferendo a quella specifica fetta distrutta, ma all’auto nel suo intero ciclo vitale. Ci si
riferisce all’oggetto nella sua estensione nel tempo). (Esempio dell’automobile con intervallo
temporale: venduta l’auto allo sfasciacarrozze nel 2006 la rivedo nel 2010, è ancora quella stessa
auto o no? Non la fase o fetta, ma l’entità nella sua estensione attraverso il tempo è la
medesima? Le possibilità sono che sia la stessa auto più malconcia di prima, o che la mia sia
stata effettivamente rottamata e quella sia un’altra auto. Si ha a che fare con un solo bruco
spazio-temporale o sono due distinti? Se il treno era un sandwich composto da vari strati
connessi tra loro, l’automobile è piuttosto un salame metafisico che può essere tagliato a fette,
ma che rimane sostanzialmente uno.)

Fino ad adesso si è equiparato tempo a spazio, come se fossero due visioni complementari,
come un oggetto si estende nello spazio così si estende anche nel tempo. C’è differenza tra un
bruco o salame nella sua interezza e le sue varie fasi. Ma cosa fa da collante tra queste fasi? Il
collante metafisico per la macchina ad esempio è l’essere costituita dalla medesima materia
nelle sue varie fasi. Ma ciò differisce comunque da fase a fase, una gomma cambiata, un
finestrino riparato. Quanto si può sostituire prima di avere qualcos’altro? Fino a quando
l’ammasso di materia nel complesso è il medesimo medesimo è l’oggetto.

Prendiamo due fasi di una persona come SK (Shelly kagan). Nel 2055 si trova una persona simile
a Shelly Kagan 2011, ma questo Mr X è effettivamente Shelly kagan? Cosa deve tenere insieme
queste due persone affinchè facciano parte del medesimo bruco metafisico.

Supponiamo che Kagan 2011 arrivi a SK2040 ancora vivo e nel 2041 muoia, nel 2045 ci sarà
ancora un SK, una fase del medesimo bruco spazio-temporale degli altri?

La teoria dualista dell’identità personale. Per un dualista SK è la stessa persona tra una
settimana perché, anche se il corpo sarà diverso, l’anima sarà la medesima. Quindi nel caso un
demone scambi la mia anima con quella di qualcun altro, il corpo tra una settimana non sarò io,
perché sarà privo dell’anima, la chiave per l’identità personale. L’esistenza dell’anima apre la
possibilità ad una vita dopo la morte.

(Esempio Dio scambia l’anima di una persona con un’altra che modifica in modo che sia uguale
all’anima precedente: la persona che si sveglia non è la stessa, perché l’anima è diversa, e non ha
modo di sapere che sia una nuova anima. Quindi la persona precedente è morta ed una nuova è
nata, la quale crede di essere quella precedente, ma non lo è. Come si può essere sicuri che ciò
non accada a noi ogni giorno? Non si può, così sosteneva John Locke, concludendo quindi che
questa argomentazione contraddica la teoria dualista dell’identità personale, che non è
sussistente.

La teoria fisicista dell’identità personale. Questa teoria non implica accogliere il fisicalismo in
toto e rinunciare al dualismo, ma è una possibilità per i dualisti e l’unica possibilità per i fisicalisti.
Secondo tale teoria la chiave dell’identità personale è il corpo. Affinché si sia la stessa persona il
corpo deve essere lo stesso, ed il corpo è più facile da seguire di un’anima, ed è più facile capire
se sia effettivamente il medesimo corpo o no. Apparentemente alla morte non c’è
sopravvivenza, essendo il corpo, e venendo il corpo sgretolato alla morte così si muore anche
noi. Tuttavia la resurrezione può cambiare le carte in tavola.

(Esempio si porta a riparare un orologio dall’orologiaio: l’orologio viene smontato e


successivamente rimontato coi medesimi pezzi. Così una persona al giorno del giudizio può
essere riassemblata coi medesimi atomi che la componevano da Dio. Così come si tratta dello
stesso orologio così si tratta della stessa persona). (Esempio di Peter van Inwagen, il figlio monta
una torre di mattoncini numerati, la torre crolla e il padre la rimonta esattamente come prima e
la mostra alla madre: la torre, per quanto identica, composta dalle medesime parti, non è la
stessa torre, ma un duplicato. Stesso discorso si applica alla resurrezione dei corpi, non si tratta
degli stessi corpi, ma di duplicati) Due esempi apparentemente complementari che portano a
conclusioni diverse, serve un teoria metafisica in grado di decidere in merito. Fino a quel
momento però non si può sapere con certezza, e si aprono ambo le possibilità di una
resurrezione della persona come di una morte definitiva.
La teoria fisicalista prevede che si sia la stessa persona fino a quando il corpo è il medesimo. Ma
quando il corpo cessa di essere tale? Una perdita di qualche atomo per sfregamento non porta
ad essere un’altra persona, perdere trenta chili neppure, ma vedere il proprio corpo interamente
sostituito si. Ragionando in merito a quale parte del corpo possa essere eliminata affinché si sia
ancora la stessa persona si giunge alla conclusione che il cervello sia la parte più importante di
sé, in quanto custodisce la nostra personalità. Si è ancora se stessi ad un trapianto di cuore, ma
si è un’altra persona al trapianto di un cervello, e non è neanche l’intero cervello, ma quella
parte che contiene la personalità.

La teoria personalistica dell’identità personale prevede che una persona rimanga tale non se
preserva corpo o cervello, ma se preserva la propria personalità. Ed in linea teorica e
fantascientifica si può avere la medesima personalità per avendo un cervello diverso,
impiantandola in quest’ultimo. Tale teoria si accorda anche col dualismo, sempre secondo Locke,
anche se Dio sostituisse ogni due per due la mia anima con un’altra, impiantando la medesima
personalità la persona sarebbe la stessa. La teoria personalistica, se non si acconsenta al morire
ogni istante, non prevede una personalità sempre identica a se stessa ma una a cui sia permesso
cambiare certe credenze. Un’analogia interessante è quella della corda formata da diverse fibre
di diversa lunghezza, nessuna delle quali è tanto lunga quanto la corda nella sua interezza. Così
ci si deve approcciare alla personalità, non è un fascio di istanze sempre identiche, ma un
insieme di istanze che mutano nel tempo.

4. Dualismo platonico (T9) (Kagan 2019, cap. V)


T9 Dualismo platonico (a) Pl. Phd. 64c «Che altro è se non la separazione dell’anima dal corpo? E
pensiamo che consista in questo l’esser morto: il corpo, separato dall’anima, se ne sta solo con
se stesso, mentre l’anima, una volta separata dal corpo, se ne sta sola con se stessa. Null’altro
che questo sarebbe la morte?». «Null’altro che questo», disse. (Trad. Martinelli Tempesta 2011)

(b) Pl. Phd. 117a4-118a17 E Critone, udite queste parole, fece cenno a un suo servo in piedi
vicino a lui. E il servo uscì e rimase fuori un po’ di tempo; e tornò conducendo con sé l’uomo che
doveva dare la pozione, che portava dopo la pestatura in una coppa. Socrate, vedutolo: – Bene,
disse, brav’uomo, tu che te ne intendi, che cosa si deve fare? – Nient’altro, rispose, che, dopo
aver bevuto, camminare per la stanza, finché tu non senta pesantezza alle gambe; [117b] dopo
rimanere sdraiato; così farà effetto da sé. E così dicendo porse la coppa a Socrate. Ed egli la
prese con vera letizia, Echecrate, senza un tremito, senza la minima alterazione né del colore né
del volto, ma guardando in su verso l’uomo con quei suoi occhi da toro, come era solito: – Che
dici, disse, di questa bevanda, se ne può fare una libagione a qualche divinità oppure no? – Noi,
Socrate, ne pestiamo, disse, giusto quanto crediamo sia sufficiente a bere. [117c] – Capisco,
disse Socrate. Ma almeno è permesso, credo, ed è anzi un dovere, pregare gli dèi che questo
trasferimento da qui a là avvenga felicemente; ed è questa appunto la mia preghiera; e così
possa avvenire. E detto ciò, levò la coppa alle labbra e, senza segno di disgusto, bevve di buon
grado tutto d’un fiato. E la maggior parte di noi fino a quel momento erano riusciti alla meglio a
trattenere le lacrime; ma appena vedemmo che beveva, e che aveva bevuto, non fu più
possibile; ed anche a me, malgrado ogni mio sforzo, le lacrime scesero a fiotti, dimodoché mi
nascosi il volto e piansi me stesso – giacché certamente non lui piangevo, ma la mia sventura,
[117d] di tale amico restavo privato. E Critone, ancor prima di me, incapace di trattenere le
lacrime, si era alzato per uscire. E Apollodoro, che anche prima non aveva mai smesso di
piangere, allora poi scoppiò in grida, gemendo e rammaricandosi, al punto che non ci fu tra noi lì
presenti chi non si sentì spezzare il cuore; ad eccezione di lui, Socrate. Ed anzi egli: – Strano
modo di comportarvi questo, cari amici, disse. È soprattutto per questa ragione che ho mandato
via le donne, perché non [117e] facessero simili stonature. E poi ho anche sentito che bisogna
morire con parole di buon augurio. State dunque calmi e siate forti. E noi a sentirlo, provammo
vergogna e ci trattenemmo dal piangere. Socrate camminava per la stanza; e quando disse che le
gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino – giacché così gli raccomandava l’uomo –; e
intanto costui, l’uomo che gli aveva dato la pozione, lo andava toccando e a intervalli gli
esaminava i piedi e le gambe; e poi, premendogli forte un piede, gli domandò se sentiva; [118a]
ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette le gambe; e così risalendo via via ci mostrava che
si raffreddava e si irrigidiva. E continuava a toccarlo, e ci disse che quando si fosse giunti alla
regione del cuore, allora se ne sarebbe andato. E ormai le parti intorno al basso ventre si erano
quasi raffreddate; ed egli si scoprì – giacché si era coperto – e parlò, – e furono le ultime parole
che pronunciò: – Mio caro Critone, disse, siamo in debito di un gallo ad Asclepio; dateglielo e
non ve ne dimenticate. – Sì, disse Critone, sarà fatto. Ma guarda se hai altro [118a10] da dire. A
questa domanda Socrate non rispose più; passato poco tempo ebbe un movimento e l’uomo lo
scoprì, ed egli restò con gli occhi fissi. E Critone, vedutolo, gli chiuse le labbra e gli occhi. Questa,
mio caro Echecrate, fu la fine dell’amico nostro, un uomo, possiamo ben dirlo, tra quelli che
allora conoscemmo il migliore, e inoltre il più saggio e il più giusto. (Trad. Fabrini 1996)

Kagan Cap V “Platone sull’immortalità dell’anima”


Pur accettando il dualismo non è detto che l’anima sia immortale o possa sopravvivere alla
morte corporale. Per capire se ci sia qualche ragione per credere che l’anima esista Kagan
analizza il dialogo platonico Fedone. Per semplicità Kagan prenderà ogni affermazione socratica
come sostenuta anche da Platone. Il Fedone si svolge durante l’ultimo giorno di vita di Socrate,
che trascorre discutendo coi suoi amici dell’immortalità dell’anima. L’esistenza dell’anima è data
per assodata, la vera questione è se essa sopravviva al corpo e sia immortale. Socrate accoglie la
morte con allegria, infatti crede nella sopravvivenza dell’anima e al paradiso. Una cosa può
essere bella o giusta, ma niente può essere perfettamente bello o giusto, ciò nonostante si può
pensare alla bellezza perfetta o alla giustizia perfetta. Le cose, entità fisiche, partecipano di
queste eidos o idee (che tuttavia non si trovano nella nostra testa, quindi chiamate anche
forme). Noi possiamo concepire le forme, afferrarle con la mente, ma gli oggetti ordinari
potranno solo parteciparvi, mai coincidere con le forme. Possiamo quindi concepire le Forme,
ma siamo distratti dal tumultuoso divenire, il filosofo deve cercare di separare il corpo dalla
mente, e con la morte l’anima di Socrate andrà nel paradiso platonico dove dimorano le Idee. Le
Forme, a differenza degli oggetti materiali non esistono nel regno empirico, ma in un regno
distinto al di fuori di spazio e tempo. Esse sono dotate di perfezione, sono eterni, immutabili.
Paragonato alla perfezione delle Forme, il mondo empirico sembra follemente contradditorio, e
come quando si sogna non ci si accorge delle contraddizioni, così non ce ne si accorge del mondo
empirico. Il mondo è in costante scorrimento da una forma all’altra, e non si riesce ad afferrarlo,
la mente invece è in grado di afferrare saldamente le Forme, che sono stabili.

La mente, o anima, è quindi capace di cogliere le forme, ma solo se non viene distratta dalle cose
mondane. Colui che riflette sulle forme e si allontana dal corpo alla propria morte vedrà la
propria anima raggiungere il regno celeste con dei e anime immortale e riflettere sulle forme.
Chi non si allontana dai desideri alla morte finirà per reincarnarsi. L’obbiettivo platonico della
vita è praticare la morte, e avendolo fatto, Socrate non ha timore. Kagan si occuppa delle due
argomentazioni principali esposte da Socrate/Platone)
L’argomentazione fondata sulla natura delle forme

Si struttura così:  Le Forme sono eterne e immateriali.

 La mente può afferrare le Forme.


 Ma ciò che è eterno e immateriale può essere afferrato soltanto da ciò che è eterno e
immateriale.
 Di conseguenza, la mente deve essere eterna e immateriale.
 E quindi, in particolare, la mente deve essere immateriale, vale a dire essere un’anima.
 E quest’anima deve essere eterna.
Strutturasd La metafisica platonica fornisce le prime due premesse, aggiungendo la terza si
arriva alla conclusione principale, e da questa conclusione si ricavano due corollari: la mente
dev’essere un’anima, in quanto immateriale, l’anima deve essere eterna, immortale. La terza
premesse è quella più problematica, accettando la metafisica platonica le prime due vengono
date, ma non la terza. Platone non espresse mai la terza premessa in tale maniere, Socrate disse:
“L’impuro non può raggiungere il puro”, che può essere inteso come i corpi fisici, corruttibili, non
possono giungere alle Forme eterne. Il simile si conosce con il simile, ed essendo noi in grado di
conoscere le forme eterne, o meglio la nostra mente, anch’essa deve essere eterna, cioè
un’anima immortale. Tuttavia non c’è motivo per cui siamo tenuti a credere a questa terza
premessa, né in Platone né al di là di lui, si può reputarla vera, ma non c’è dimostrazione che
regga, quanto piuttosto svariati controesempi che la smentiscano. Dunque tale argomentazione
in favore dell’immortalità dell’anima per Kagan non può essere accettata.

L’argomentazione fondata sulla semplicità

Platone accosta altre dimostrazioni alla prima, forse perché non sufficiente all’intento maieutico
dell’autore. Socrate nel Fedone quindi, dimostra come l’anima, dimostrata esistente, debba
anche sopravvivere alla morte del corpo. Qualcosa può essere distrutto se è composto da parti
che possono essere separate le une dalle altre. Qualcosa di indistruttibile sono le Forme, che
essendo semplici, non composte da parti separabili, non possono essere distrutte. Che genere di
cose sono quelle distruttibili? Quelle che mutano, una cosa che muta è fatta di parti (come una
barra che si piega, le parti possono mutare la propria posizione). Quindi le cose che mutano son
fatte da parti, e le cose fatte da parti sono distruttibili. Esistono cose invisibili che non mutano, le
Forme. Il ragionamento che segue è questo, interpretato e semplificato da Kagan:

 Soltanto le cose composte possono essere distrutte.


 Soltanto le cose che mutano sono composte.
 Le cose invisibili non cambiano.
 Quindi le cose invisibili non possono essere distrutte.
 Ora, l’anima è invisibile.
 E quindi l’anima non può essere distrutta.

Tuttavia nel Fedone Socrate conclude che “l’anima sia indistruttibile, o quasi” lasciando aperta
una porta per la sua distruzione. Al che l’allievo Cebes, preoccupato da questo chiarimento,
obbietta che quindi l’anima è distruttibile, impiega solo più tempo del corpo, ma Socrate/Platone
non risponde a questa osservazione. Un altro discepolo, Simmia, sostiene che anche le cose
invisibili possano essere distrutte, come l’armonia, rifacendosi alla nota similitudine dell’anima
come armonia del corpo. Socrate risponde dimostrando come l’anima non sia l’armonia del
corpo, ma non confuta la critica più essenziale alla propria posizione, ovvero che l’armonia pur
essendo invisibile è distruttibile.
Kagan riflette sui tre significati di invisibile: non visibile agli occhi, non percepibile, non
individuabile in alcun modo. La critica di Simmia regge se Platone crede alla prima definizione di
invisibile, non regge invece se crede alla seconda ma rimangono altre cose non percepibili, come
le onde radio, che possono essere distrutte (allargando la critica di Simmia). La terza definizione
di invisibile sembra quindi quella corretta, ma in tal caso si può effettivamente dire che l’anima
sia invisibile, ovvero non sia in alcun modo individuabile? In realtà l’anima è individuabile, per
quanto non percepibile, partendo ad esempio dagli effetti che ha sul corpo. Quindi la posizione
di Platone non regge.

Inoltre Platone varie volte ha sostenuto la tripartizione dell’anima. E poi anche se l’anima fosse
invisibile, perché dovrebbe essere necessariamente immutabile? L’anima muta, ed è tripartita,
quindi non semplice, quindi distruttibile. Inoltre la distruzione come sottrazione di parti che non
si può riferire a cose semplici, può declinarsi come una distruzione in toto, la cessazione di
esistere di un ente semplice.

La mente intesa come armonia del corpo

Un’analogia apprezzata da Kagan, che riflette la posizione fisicalista sull’anima/mente. Le


obiezioni platoniche sono:

- L’armonia non precede lo strumento, mentre l’anima precede il corpo. Ma Platone non
dimostra perché ciò debba essere dato per assodato
- L’armonia può variare, l’anima no. Ma Kagan sostiene che l’anima invece possa avere diverse
gradazioni. Gradi di intelligenza, di creatività, di ragionevolezza.
- L’anima può essere buona o malvagia. Un’anima buona è armoniosa, ovvero è l’armonia del
corpo armoniosa, il che non ha senso. Tuttavia nessuno ha mai voluto far coincidere l’anima
con l’armonia, ma solo enunciare una similitudine, e comunque come ci sono armonie più
dolci di altre così ci sono anime più buone di altre.
- L’anima si può opporre al corpo, l’armonia non può opporsi allo strumento, è creata da esso.
Ciò mette in crisi la teoria fisicalista, perché in questo caso l’anima non può influenzare il
corpo. La risposta data da Kagan è che la mente è l’insieme di varie funzioni del corpo che si
influenzano a vicenda.

In conclusione rispetto a Platone per aver esposto anche la dottrina fisicalista, ma i suoi
argomenti non sono convincenti.

Argomenti epicurei contro la paura della morte (Testi T11-T12 e


Kagan 2019, cap. X): (A) Anestesia (Insensibilità). (B) Contrari (vita e morte). (C) Contro
la Tesi della Deprivazione. (D) A favore della Simmetria Temporale. Quali ti
convincono/persuadono e perché? Quali non ti convincono/persuadono e perché

Kagan Cap X

La tesi della privazione

Partendo dalla propria posizione fisicalista per cui la morte è la propria fine Kagan si domanda
come essa possa essere un male. La morte è un male, in quanto incognita, per chi crede
nell’anima. La morte è un male per chi rimane. Ma per chi muore? A chi sostiene che il male
della morte coincida con la separazione dai propri cari Kagan porta un esempio, un amico
astronauta che parte per un viaggio da cui non farà più ritorno. Nel primo caso l’amico vive tutta
la sua vita, ma irraggiungibile dai suoi cari, nel secondo muore, rimanendo comunque
irraggiungibile. Il male del secondo caso è maggiore del primo, ma la separazione è la stessa, i
cari soffrono del morto perché qualcosa di male è successo in particolare a lui, ma cosa?
Il male della morte può essere dovuto al suo essere fisicamente dolorosa, ma non tutte le morti
lo sono, e tutte comunque rimangono male.
Il male della morte può essere la prospettiva del dover morire, il pensiero intrinseco in noi di
giungere ad una fine. Ma se non si ha paura di un regalo futuro che verrà dato per certo, allora la
paura della morte sta si nel sapere che arriverà, ma anche nel sapere che sarà un male.
Il male della morte sta nel non esistere, ma come si può provare male quando non si esiste?
Ci sono tre tipi di male: - il male assoluta, totale, intrinseco: un male per sua stessa natura,
come un mal di testa, da evitare per la sua stessa essenza, un male intrinseco.
- il male strumentale: non è un male in sé ma in virtù di cosa causa, ciò a cui conduce
- il male comparativo: ovvero una cosa che è male a causa di ciò che non riesci ad avere mentre
la subisci, pur non essendo intrinsecamente un male, e pur non portando direttamente ad un
male.

La morte non è un male intrinseco e non è neanche un male strumentale, non conducendo ad
alcun male intrinseco. La non esistenza può essere però un male comparativo, in quanto ci priva
della possibilità di vivere e fare tante belle esperienze. Questa è la tesi della privazione ovvero
che il male della morte stia nel fatto che ci priva delle cose buone che la vita potrebbe offrirci.

Epicuro

Kagan riporta la critica alla tesi della privazione relativa al collocamento temporale del male, se
qualcosa è un male deve essere un fatto avvenuto, collocabile nel tempo, in quale momento
temporale la morte è male, non mentre si è vivi, e neanche mentre si è morti. Il brano di Epicuro si
colloca in una linea simile:
”Dunque la morte, il più terrificante di tutti i mali, per noi non è nulla, perché, finché esistiamo, la
morte non è con noi; e quando arriva la morte, noi non ci siamo più. Non preoccupa né i vivi né i
morti, perché, quanto ai primi, la morte non è ancora arrivata, e quanto ai secondi, essi stessi non
esistono più.”
Epicuro sembra chiedersi proprio questo, in quale momento temporale la morte è un male? In
nessuno. Riflettendoci la morte risulta essere un male, in quanto ci priva di tanti bei momenti,
proprio quando si è morti, ovvero quando nulla può più essere un male per noi. Il ragionamento
epicureo semplificato da Kagan è il seguent: A) Qualcosa può essere per me un male soltanto se io
esisto. B) Quando sono morto, non esisto. C) Quindi la morte non può essere per me un male.
Per rigettare tale ragionamento bisogna rigettare la premessa A, il requisito dell’esistenza. Qalcosa
può essere un male per me sono se io esisto? Pensando al male comparativo la morte, essendo
privazione, ci priva della vita, anche se in quel momento non esistiamo più, ed in questo senso è un
male. Ma arrivati a questo punto, in cui la morte è un male per chi non esiste più, si può forse dire
che la morte è un male anche per chi è soltanto potenzialmente una persona. Una persona
potenziale, Larry Larry, avendo rifiutato il requisito dell’esistenza può subire del male in quanto non
è nato, ovvero non avendo ma potuto esistere. Ma come può un individuo che mai è esistito e mai
esisterà provare del male. Inoltre Larry è stato privato della vita nella sua totalità, non solo di una
sua parte, dovremmo sentirci ancora più dispiaciuti per lui. E dovremmo dispiacerci di quell’enorme
numero di individui che ogni secondo si vede negata la nascita. Una conclusione assurda, perciò va
accettato il requisito dell’esistenza, ed anche la conclusione che la morte non sia un male quando si
è morti.
Kagan senza arrendersi formula due versioni diverse del requisito dell’esistenza: 1) Moderata e
circoscritta: qualcosa per me può essere un male soltanto se io esisto in un qualche momento nel
flusso infinito del tempo.

2) Radicale e totalizzante: qualcosa per me può essere un male solo se io esisto nello stesso
momento in cui esiste tale cosa. La prima interpretazione è moderata, qualcosa è un male per me
ammesso che io esista in un qualche momento (il povero Larry non soffre in questo caso), la seconda
prevede che io esista nello stesso momento in cui quella cosa sta avvenendo perché sia un male. La
morte non è un male secondo la seconda interpretazione, non si coesiste mai, ma la morte può
essere un male per la prima senza mettere in mezzo Larry e cugini. Secondo la prima ’interpretazione
la morte è un male per tutti coloro che sono esistiti, anche se per poco. Tuttavia rimane una bega, un
uomo di novant’anni vede la propria vita ridotta a 50, che peccato, a 20, povero, ad un 1 anno,
dannazzione, ad un secondo, che sorte orribile, ma se non è mai esistito non c’è alcun male. Tale
implausibile conclusione si ricava dalla più plausibile tra le varie possibilità.

Lucrezio

Lucrezio parla di un altro momento di non esistenza oltre a quello posteriore alla vita, la morte,
ovvero della non esistenza anteriore alla vita, la pre-nascita. Essere angosciati da tale eternità di non
esistenza non ha alcun senso. Le possibilità sono: essere d’accordo con Lucrezio come non c’è nulla
di negativo nell’eternità dell’inesistenza precedente alla nascita così non c’è niente di male in quella
posteriore, oppure si può concordare parzialmente con Lucrezio ovvero essendoci qualcosa di male
nella morte ci sarà anche nella prenascita. Si potrebbe rimanere fedeli alla tesi della deprivazione per
cui il tempo anteriore della nostra vita è un tempo privatoci in cui avremmo potuto far altro.

C’è un’assimmetria tra queste due eternità, dopo la morte ho perduto la vita, nel tempo precedente
alla nascita non sono nella condizione di avere qualcosa che sono destinato ad avere. Si ha perduto
qualcosa che non si ha più, e non si ha qualcosa che si avrà in futuro. C’è una simmetria quindi tra la
perdita e la schmoss ovvero un concetto senza termine. Perché una ci preoccupa più dell’altra?
Thomas Nagel risposte a questo dubbio con la constatazione del fatto che la nascita non sia un fatto
contingente che sarebbe potuto avvenire prima, fosse avvenuto prima non saremmo stati noi a
nascere, non c’è possibilità metafisica di una nascita che precede quella effettiva. Ma basta munirsi
di un ovulo ed uno spermatozoo in provetta per superare questa difficoltà. La critica di Feldman
consiste nel constatare come nascere prima non coincida con una vita più lunga, ma con una vita
vissuta in un altro tempo, non c’è quindi privazione, ma solo uno spostamento temporale, e quindi
non c’è male. Ma si può anche pensare ad una catastrofe naturale inevitabile per la quale essere nati
prima avrebbe corrisposto ad una vita più lunga.

Derek parfit risponde che ci preoccupiamo del futuro molto di più che del passato.

Kagan conclude che la tesi della deprivazione sia la più valida, il male della morte consiste nel privare
delle cose buone della vita.

T11 (A) Argomento dell’Anestesia o Insensibilità: Epicur. Ep. Men. 124 Abituati8 a ritenere che la
morte non è nulla per noi,9 perché ogni bene e ogni male risiedono nella sensazione e la morte è
privazione della sensazione.
(B) Argomento dei Contrari (Vita e Morte): Epicur. Ep.Men. 125 Quello dei mali che più fa
rabbrividire, la morte, non è dunque nulla per noi,11 poiché invero quando noi ci siamo, la morte
non è presente, quando invece la morte è presente, allora noi non ci siamo.
(C) Argomento contro la Tesi della Deprivazione: Lucr. III 830-842 Nulla è dunque la morte per noi,
non ci tocca per nulla se la natura dell’animo è da ritenersi mortale. e come nel tempo passato non
abbiamo provato dolore quando i Cartaginesi son venuti da dovunque all’attacco ed il mondo,
squassato dal tumulto di guerra, ha tremato rabbrividendo sotto le alte volte del cielo e fu in dubbio
sotto quale dei due popoli dovesse cadere sia in terra che in mare tutto il genere umano, così,
quando più non saremo e si sarà ormai compiuto il distacco del corpo e dell’anima dalla cui unità
siamo formati, nulla - stanne certo – a noi, che più non saremo, potrà mai accadere e commuovere i
nostri sensi, neppure se la terra si confondesse col mare e il mare col cielo. (Trad. Dotti 2015)
(D) Argomento a favore della Simmetria Temporale: Lucr. III 972-977 7 Bene = piacere, male =
dolore. 8 Cfr. 131 (abituarsi a una dieta). Abituarsi a pensare la morte (meditatio mortis). 9 Cfr. RS II
= SV 2 («ciò che è dissolto»; Lucr. III 830; Cic. Fin. II 31.100 [fr. 338 Us.]; S.E. P. III 229; 61.6, 71.6 Us.
10 Guarda del resto come nulla sia stata per noi la distesa del tempo eterno prima che noi si
nascesse: è questo lo specchio che la natura ci offre del tempo che ancora sarà dopo la nostra
scomparsa. Compare forse, in esso, qualcosa di orrendo, qualcosa di triste o non ci sembra uno stato
più sereno di qualsiasi riposo? (Trad. Dotti 2015) T12 (a) [Pl.] Ax. 369b5-c7 SO. […]SO. […] Una volta
ho sentito Prodico dire che la morte non riguarda né i vivi né i defunti. AS. Come dici, Socrate? SO.
Dico che la morte non riguarda12 i vivi e che i morti non ci sono più. Perciò al momento non ti
riguarda ‒ giacché non sei ancora morto ‒ né ti riguarderà, se ti dovesse succedere qualcosa, perché
tu non ci saresti più. Vano dunque è il dolore di Assioco che si lamenta di ciò che né riguarda né
riguarderà Assioco […]. Ciò che fa paura, infatti, è per coloro che sono; ma per coloro che non sono
come potrebbe essere? (b) [Pl.] Assioco 369d8- I patimenti non sono alleviati dai sofismi, ma li
conforta solo ciò che è capace di toccare l’anima.

6. Obbligatorio • Morte, paura della morte, immortalità intriseca ed


estrinseca (Diagramma D2).
Ritieni che l’immortalità sia un bene o un male? Perché? (Vedi Čapek 1971 e Kagan 2019, cap. XI.)

Kagan Cap XI “L’immortalità”

La morte è un male perché ci priva delle cose belle della vita, sembra seguirne allora che essere
immortale sia la cosa migliore. Morire ad 80 anni è meglio che a 50, morire a 150 è meglio che
morire a 80, d’altronde vivendo di più si ottengono altre cose belle dalla vita, essere immortali
appare quindi essere la cosa migliore. Viene da porsi due domande, la prima è: “accettare la tesi
della privazione e negare il valore dell’immortalità è contraddittorio?”. Secondo la tesi della
deprivazione la morte è un male in quanto ci priva delle cose buone della vita, ma se la vita non
avesse più cose buone da offrire? Se la vita che mi rimane da vivere, nel suo complesso, sarà
negativa, non meritevole di essere vissuta, ecco che la morte non sarà un male. Si potrebbe dire che
come mangiare cioccolatini sia piacevole fino ad un certo punto, così la vita sia per noi un bene in
quantità limitata, quando è troppa non è più un bene e morire non è un male. Una popolazione di
persone immortali come nei viaggi di gulliver, che tuttavia continuano ad invecchiare, vede, superata
una certa età, una vita piena di dolori e la morte come auspicabile benedizione. Allora si può pensare
che vivere in una condizione di eterna giovinezza, ricchezza e perfetta saluta sia invece auspicabile.
Vivere per l’eternità in paradiso è una cosa buona, ma ecco che anche qui se si comincia a riflettere
su questa eternità la vita eterna non pare più tanto buona. L’immortalità è quindi un male, ma ciò
non significa che la morte sia un bene. La morte è un bene solo quando arriva quando la vita non è
più degna di essere vissuta, quando arriva prima è un male. Una vita immortale infatti implica una
ripetizione per l’eternità delle medesime cose, anche molteplici variazione poste in un tempo eterno
diventano eterni ripetizioni di cui ci si stufa, dallo scopare a fare filosofia a contemplare Dio. Kagan fa
l’esempio di dei tempi in grado di controllare i proprio orgasmi, che andavano avanti a provare
piacere fino a morire di fame, fossero stati nutriti via endovenosa avrebbero potuto vivere per
l’eternità soddisfatti del piacere provato. Kagan non riesce ad immaginarsi un essere umano
soddisfatto in questa condizione, il nostro pensiero astratto interverrebbe anche in situazione di
gran piacere domandosi se quello fosse quanto di più fosse desiderabile. La possibilità di vedere il
proprio cervello ridotto ad un topo per avere orgasmi eterni non è auspicata da nessuno. Si potrebbe
riscontrare in un’eternità accompagnata da periodiche perdite di memoria e cambi di gusto e
personalità la chiave per godere dell’immortalità, ma come individui non si ha alcun interesse nel
sopravvivere, anche per sempre, come persone totalmente diverse. In conclusione l’immortalità è un
male, e la tesi della deprivazione viene appoggiata, la vita è bene fino a che ha da offrire, poi la
morte non è più un male.

• Regole di Citazione dei Presocratici, di Platone e di Aristotele [→ Norme di Redazione, § 8.3.2-3].


• Descrivi a memoria e commenta un diagramma a scelta fra D1, D2 e D3.

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