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1 - Dalla musicologia comparata all'antropologia della musica: storia, campi,

obiettivi

2- Il concetto di World music oggi (incontri e ibridazioni nel terzo millennio)

3 - Quali sono le funzioni della musica (Merriam e Giannatasio)

4 - Disoteo individua 8 tematiche funzionali ai progetti interculturali nella scuola.


Scegline uno e progetta in breve un’attività.
Le tematiche sono:
- Rapporto tra musica e paesaggio sonoro
- Gli strumenti musicali
- La corporeità e la musica
- La voce
- Funzioni della musica
- Rapporto tra oralità e scrittura musicale
- Differenza di genere
- Stato sociale del musicista
Dalla musicologia comparata all'antropologia della musica: storia, campi, obiettivi
Per descrivere il passaggio dalla musicologia comparata all’antropologia della musica, bisogna accennare
brevemente alle origini della prima come area di studi, nata dall’interesse per le culture extraeuropee
connesso al Colonialismo degli ultimi decenni del XIX secolo. Questo interesse, non solo economico, ma
anche culturale, fece sorgere un nuovo campo di studi, poi definito antropologia, nel quale, uno degli
aspetti particolari risultò essere quello riguardante il modo di fare musica di quelle popolazioni che erano
venute a contatto con la civiltà europea. Diversi studiosi, sulla base di concezioni evoluzionistiche e
diffusionistiche allora molto in voga, si sforzarono di identificare e definire le costanti e le fasi evolutive
universali di questa musica. In particolare in Germania, e precisamente a Berlino, dove fin dal 1905 si erano
raccolte registrazioni fonografiche provenienti da Paesi esotici, studiosi come Hornbostel, Stumpf, Sachs e
Abraham ipotizzarono che i fenomeni musicali si fossero sviluppati da forme più elementari e
indifferenziate per passare a forme più complesse, secondo una successione di stadi analoga a quella
teorizzata da Darwin per le specie biologiche e ripresa dagli evoluzionisti per le società umane.
Queste tesi , comuni anche ad altri studiosi del tempo, si muovevano nell’ambito di quella che venne
successivamente definita come musicologia comparata, dove, appunto, si mettevano a confronto le
diverse musiche ed i sistemi musicali rilevati presso popolazioni indigene, soprattutto al fine di conoscere
le origini e la storia della musica europea; partendo dall’assunto che strutture universali della musica sono
presenti in qualsiasi cultura.
Ma uno dei limiti principali del metodo di studio della musicologia comparata si dimostrò essere il fatto che
non veniva eseguito nessun “ lavoro sul campo” diretto, ossia, i musicologi lavoravano semplicemente su
materiali raccolti da altre persone - spesso senza alcuna preparazione professionale - ottenendo quindi,
risultati completamente decontestualizzati e perciò falsati.
Inoltre, tale tipo di ricerca partiva, nella maggior parte dei casi, da un assunto posto a priori dallo studioso,
il quale, poi, si sforzava di trovare una conferma alla sua teoria; metodo – tra l’altro - che privilegiava
l’analisi del fenomeno musicale, trascurando invece quello che era il comportamento musicale.
Va detto che questo metodo di lavoro - sostanzialmente deduttivo, come osservato da Giannattasio - la
scelta cioè, di lavorare “ a tavolino” e di conseguenza formulare concetti teorici, senza dunque entrare a
“contatto diretto” con le popolazioni da cui erano originate le registrazioni fonografiche, è in parte
giustificata dalle difficoltà pratiche - esistenti al tempo - connesse agli spostamenti verso i Paesi
extraeuropei.
Soltanto quando i maggiori esponenti della Scuola di Berlino dovettero emigrare negli Stati Uniti, a metà
degli anni ’30, entrando a contatto con il mondo accademico dell’antropologia, il metodo comparativista
cominciò ad entrare in crisi.
In tal senso, l’opera dell’antropologo Franz Boas (altro esule tedesco di origine ebraica e maestro di M.
Mead), fortemente critico nei confronti del metodo comparativo ancora ampiamente diffuso nella sua
disciplina, influenzò significativamente anche la ricerca musicale, per la quale lui stesso dimostrò un
notevole interesse, introducendo anche l’aspetto musicale nelle ricerche antropologiche che stava
conducendo.
Fu poi, il suo allievo, Georg Herzog - nel corso degli anni ’40 - a riuscire nell’intento di fondere e sviluppare
l’esperienza comparativa tedesca e la pratica metodologica empirica americana, rifacendosi al concetto di
“particolarismo storico” definito da Boas.
Questo modo nuovo di studiare i fenomeni musicale, attraverso la raccolta di dati “sul campo”, verificabili
immediatamente nel loro contesto originario, venne definito, successivamente, come etnomusicologia.
Tale termine - "ethno-musicology” - comparve per la prima volta in uno scritto di Jaap Kunst, nel 1950,
riscuotendo un successo tale da determinare una nuova denominazione del campo di studi; stabilendo
formalmente il definitivo allontanamento da quei principi e obiettivi che avevano caratterizzato la
musicologia comparata, per concentrare, invece, la maggiore attenzione sull’aspetto etnologico della
disciplina.
Nell’ambito di questa, si precisano – nel corso degli anni ’50 – due concetti che si svilupperanno nel
decennio successivo, ossia, quello di “sistema musicale” e quello di “cultura musicale”; là dove si intende
per “sistema” le relazioni e/o le regole che caratterizzano un determinato linguaggio musicale, mentre con
“cultura”ci si riferisce a tutti quegli aspetti che permettono di riconoscere un determinato sistema, come
tipico di una specifica cultura, ovvero, che renda possibile identificare certe forme e comportamenti
musicali come specifici di una determinata società.
Ciò vuol dire che lo studio musicologico si concentra sull’analisi della musica nel suo contesto etnologico,
evidenziando il ruolo che la musica assume in una data cultura e delle funzioni che la stessa riveste
nell’ambito della stessa organizzazione sociale e culturale.
Il dibattito conseguente a questo nuovo approccio, che si sviluppa nel corso degli anni ’50 e 60’, portò Alan
Merriam a proporre un netto avvicinamento dell’etnomusicologia all’antropologia, postulando addirittura
una fusione tra queste due discipline, definendola: “antropologia della musica”.
Infatti, secondo lui, l'antropologia della musica non è altro che: "lo studio della musica nella cultura"; per
cui é di fondamentale importanza la conoscenza delle categorie di pensiero e delle valutazioni di coloro che
direttamente producono quella musica, senza questa conoscenza, l'analisi stessa non ha alcun valore.
Negli anni ’70, l’americano Steve Feld e il britannico John Blacking sono i maggiori protagonisti della scena,
convinti sostenitori dell’approccio antropologico alla musica, e della priorità dell’analisi comportamentale
rispetto a quella formale, allo scopo di comprendere la musica.
Questa, infatti, risulta essere un fenomeno umano che ha una sua giustificazione soltanto in termini di
interazione sociale, proprio perché è fatta da uomini per altri uomini…
Come afferma Merriam, la musica non può esistere per sé, ci dovranno sempre essere degli uomini che per
produrla, si dovranno comportare in determinati modi.
Il concetto di World music oggi (incontri e ibridazioni nel terzo millennio)

Il compito, o meglio, il campo d’azione o di studio dell’antropologia della musica, al giorno d’oggi è quello,
principalmente, di studiare gli incontri e le ibridazioni tra le musiche, che non sono stati mai così presenti
come in questi primi decenni del terzo millennio.
In effetti, la vasta produzione di concerti e di dischi riferibili genericamente alla world music, mette sotto gli
occhi di tutti, con straordinaria evidenza, processi di incontro e di ibridazione tra musiche provenienti da
paesi e tradizioni diverse, il che ha portato qualcuno a parlare di musiche “meticce”, per definire la grande
quantità di generi e stili apparsi in questi anni. In alcuni casi, tali incontri sono dettati dall’interesse dei
musicisti a sperimentarsi in nuovi territori, in altri, purtroppo, appare palese la spinta commerciale delle
grandi case discografiche, ma in ogni caso tali fenomeni sono sempre più largamente diffusi.
Di per sé, il fenomeno non è nuovo, in quanto incontri tra culture, genti e musicisti provenienti da diversi
Paesi, ci sono sempre stati nella storia dell’uomo; ed è perciò impossibile affermare l’esistenza di una
cultura musicale che possa definirsi veramente incontaminata ossia “autentica”.
Osservare, nel mondo di oggi, la quantità e la rapidità dell’informazione favoriscono enormemente
processi di ibridazione culturale, quindi della produzione musicale dal carattere “meticcio”, potrebbe far
venire a qualcuno il dubbio che possano esistere culture che - invece - godono ancora di uno statuto di
autenticità, o che almeno ne abbiano goduto in un recente passato.
Un tale approccio porta con sé, però, notevoli difficoltà teoriche circa l’esistenza di una cultura
'incontaminata', e, di conseguenza, su come sia possibile stabilirne il grado di purezza?
Assistiamo così a tentativi in cui si vuole presentare queste culture come prodotti culturali “autentici”, da
proteggere da qualsiasi tipo di contaminazione (non considerando che qualsiasi cultura è sottoposta a
normali fenomeni di trasformazione) con il risultato di creare dei veri e propri paradossi, dove ciò che è
considerato “autentico”, altro non è che un’immagine “costruita”, folkloristica e/o stereotipata.
Con il concetto 'contaminazione', si vuole convenzionalmente indicare un qualcosa che deriva dalla fusione
di elementi eterogenei, ricollegandosi quindi all'idea di un'entità pura, corrotta dall'intervento di elementi
estranei, determinando, nel caso di culture, quelle ibride, creole, sincretiche.
Merriam riferendosi a questi concetti, ed in particolare al sincretismo, lo definisce come "la fusione di
elementi provenienti da due culture, processo che comporta la modifica di valori e forme originali”,
utilizzando lo stesso per spiegare la fusione di elementi provenienti da due o più sistemi musicali diversi-
Successivamente, per indicare la sintesi di elementi provenienti da più culture è stato proposto l’uso, il
forse, più appropriato del termine “transculturazione”.
Poiché non è possibile individuare meccanismi specificamente musicali che favoriscano il sincretismo tra
culture musicali, risulta evidente che ciò che determina la transculturazione musicale debba essere
qualcosa di tipo extra-musicale.
Possiamo allora osservare che, in genere, i fattori che determinano un tale tipo di processo, ovvero di
fusione, possono essere ricondotte a condizioni di ordine tecnologico, economico, geopolitico e ideologico;
in seguito ai quali osserviamo fenomeni musicali in cui prevalgono l'eclettismo stilistico e l'ibridazione delle
forme, e che hanno condotto, in questo inizio del terzo millennio, verso una crescente fusione culturale.
L’attuale processo di globalizzazione dell'economia, in cui flussi finanziari e informativi percorrono il
pianeta, indifferenti alle tradizionali divisioni geopolitiche, non ha, tuttavia, prodotto un'omogeneizzazione
culturale completa, ma ha comportato una relativa redistribuzione della tecnologia, aprendo la strada alla
circolazione globale di prodotti culturali.
Così, l'aumento della mobilità di massa, per ragioni come emigrazione, lavoro stagionale, fuga da zone di
guerra e turismo, ha determinato in molti Paese, soprattutto europei, cresenti livelli di eterogeneità etnica,
favorendo così la nascita di forme musicali transculturali che combinano elementi di musica 'originaria'
con strutture tipiche di quella del paese ospitante.
Questi di cambiamenti demografici, sviluppo tecnologico e circolazione di musica a livello internazionale,
nonché la diversificazione del gusto del pubblico, ha portato - grosso modo alla metà degli anni ‘80 -
l'industria musicale a guardare allo sfruttamento commerciale delle musiche prodotte nei paesi non
occidentali e dalle minoranze etniche.
Ciò in virtù del fatto che, rispetto a quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, i pubblici di questi ultimi decenni
a cavallo del nuovo millennio, risultano molto frammentati, avendo a disposizione una massa di suoni
riprodotti mai accessibile prima; e che vi sia allo stesso tempo, un “consumo” di molteplici tipi di musica.
Pertanto, è logico che i musicisti stessi vengano coinvolti, influenzati, affascinati, ispirati da tutto questo, e
quindi portati a produrre musica “eclettica”…
E infatti, l’antropologia della musica pone, oggi, una maggiore attenzione su questi fenomeni di ibridazione,
cercando di cogliere gli aspetti significativi della “musica del terzo millennio”; per far ciò, è necessario,
tuttavia, conoscere le culture da cui originano strumenti e stili musicali, osservando gli aspetti specifici e
quanto vi è in comune con altre espressioni musicali, ed evidenziando le influenze reciproche.
Insomma, come dice Pelinsky, in questo campo, lo studioso deve interessarsi soprattutto delle mescolanze.
A tal proposito ricordiamo come, negli anni ’80 del secolo scorso, sia divenuto popolare il termine “world
music” per indicare la categoria commerciale per tutta quella musica “tradizionale”, non-occidentale (cosa
che non ha impedito che negli scaffali di certi negozi di dischi - soprattutto nell’Europa del Nord o negli USA
- sotto questa indicazione, si potessero trovare produzioni italiane, greche o spagnole…).
La categoria comprendeva anche tutti quei progetti musicali che, come abbiamo detto sopra, attingevano a
situazioni culturali diverse e che non era possibile far rientrare in classificazioni tradizionali, suddividendosi
a sua volta in diversi sottogeneri, tra cui quella definita ethnic fusion, ad indicare quei progetti che
utilizzano scale, modi o inflessioni musicali distintive ed esotiche, con spessissimo l’utilizzo di strumenti
tradizionali etnici come il sitar , steel drum, kora, ecc.  
Al di là della vaghezza circa cosa si debba intendere per “musica del mondo”, ci piace utilizzare il termine
per indicare culture musicali urbane extraoccidentali in cui elementi 'tradizionali' si coniugano con stili,
forme e tecnologie di influenza occidentale,
Ed è proprio lo sviluppo di tali tecnologie ad offrire prospettive nuove e imprevedibili fusioni culturali.
La recente produzione musicale digitale - i media elettronici - ha accresciuto enormemente la disponibilità
di campionamenti di musica etnica di alta qualità,  provenienti da ogni area del mondo, permettendone
l'utilizzo nella produzione commerciale che ha esposto un ampio spettro di tessuti musicali indigeni e artisti
indipendenti.
Possiamo osservare come l'impatto prodotto dalla circolazione di suoni riprodotti e la diffusione di nuove
forme di ascolto, ha fatto sì che quello “mediatizzato” abbia ampiamente ridimensionato l'ascolto 'dal vivo';
al contempo, determinando sia nuove dimensioni di consumo della musica, ma anche generi musicali in cui
mediatori culturali con competenze diverse da quelle musicali tradizionali - grazie ad un suono ripetibile e
commerciabile - mettono insieme (alla lettera “compongono”) musica, a volte dando vita a” riciclaggio di
materiali decontestualizzati”.
In una cultura di massa, come quella nostra, caratterizzata da un crescente eclettismo, sono dunque i
media elettronici a ricoprire un ruolo sempre più centrale, e questi sono lo strumento principale a
determinare gli incontri e le ibridazioni musicali nel terzo millennio.
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