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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE


CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA

IL RUOLO DELLA MUSICA NELLE


SUBCULTURE GIOVANILI

di Simone Parmeggiani

ANNO ACCADEMICO 2008-2009


INDICE:

INTRODUZIONE Pag. 1

CAPITOLO PRIMO – COS’E’ LA MUSICA? Pag. 3

CAPITOLO SECONDO – LE SUBCULTURE Pag. 7

1. Premessa Pag. 7
2. Cos’è la cultura? Pag. 7
3. Cultura e comunicazione Pag. 11
4. Le subculture: la scuola di Chicago Pag. 13
5. La funzione delle subculture Pag. 18
6. Specificità: un concetto chiave Pag. 20
7. Le fonti dello stile Pag. 22
8. Integrazione Pag. 23
8.1. forma merce Pag. 24
8.2. forma ideologica Pag. 24
9. Lo stile e l’abbigliamento: il bricolage Pag. 25

CAPITOLO TERZO – LA MUSICA NELLA SOCIOLOGIA Pag. 29

1. La sociologia della musica Pag. 29


2. Tipi di comportamento musicale Pag. 32
3. La musica leggera Pag. 40
4. Il ruolo della musica Pag. 47

CAPITOLO QUARTO – SOTTOCULTURE GIOVANILI: I PUNK Pag. 51


1. Premessa: il punk nella storia Pag. 51
2. La nascita del movimento punk e la sua proliferazione Pag. 53
3. Declino e rinascita? Il punk oggi Pag. 57

CONCLUSIONI Pag. 61
BIBLIOGRAFIA Pag. 64

[0]
INTRODUZIONE

Arte e sociologia sono sempre andate a braccetto. Charles Wright Mills ci


parla di immaginazione sociologica, ossia quella parte di pensiero che,
date certe condizioni, ci permette di immaginare un determinato scenario.
Si tratta di un atteggiamento mentale che porta ad una sociologia capace
di collegare le esperienze individuali e le relazioni sociali.
L’immaginazione sociologica dà a chi la possiede l'abilità di vedere, al di
là del suo proprio ambiente e della sua individuale personalità, le più
ampie strutture sociali e la relazione tra storia, biografia, struttura sociale.
Marshall McLuhan parla invece degli artisti descrivendoli come coloro che
vedono più avanti degli altri, anticipando i media e immaginandosi il
futuro per come sarà, rappresentandolo. “L‟artista serio è l‟unica persona
in grado di affrontare indenne la tecnologia, perché è un esperto
consapevole delle mutazioni nel campo della percezione sensoriale”. Gli
artisti, quindi, sono davvero in grado di aiutarci a comprendere la
tecnologia e a migliorare il rapporto con i suoi prodotti?
È facile sopravvalutare l’importanza degli artisti come “precoci sistemi di
allarme” per la società, come li definiva McLuhan, ma è anche molto
facile sottostimarne la capacità di capire le implicazioni delle tecnologie e
delle tendenze emergenti, di commentarle e di generare intorno a esse
pubblica consapevolezza. Qual è, dunque, la giusta chiave interpretativa
in ottica sociale? Che ruolo giocano gli artisti e l’arte all’interno di
particolari situazioni di vita, quali possono essere le subculture?
Questa breve tesi vuole cercare di approfondire questi ultimi temi
trattando una forma d’arte particolare: la musica. La scelta dell’oggetto di
analisi è nata innanzitutto da una mia attitudine personale verso la
stessa: la musica è da sempre parte imprescindibile della mia vita e ho
voluto cercare di introdurla - per quanto fosse possibile - in uno studio
delle subculture giovanili, particolare riferimento ai punk, altro aspetto che
ha condizionato non poco sia la mia adolescenza e, seppur in modo più
indiretto, tutta la mia vita seguente. Ritengo questi due concetti
sociologicamente rilevanti in quanto il primo, la musica, è una forma
d’espressione dalle mille sfaccettature, e forse non tutte sono ancora

[1]
state sviscerate; la seconda, i punk, in quanto lo ritengo il fenomeno
culturale giovanile più importante della storia, sicuramente lo è dal
dopoguerra in poi.
Ringrazio il prof. Bonazzi e tutti i suoi collaboratori per l’incoraggiamento
iniziale e i suggerimenti che hanno impreziosito questa tesi. Grazie infine
a tutti i miei famigliari e ai miei amici, questo lavoro è per loro.

[2]
CAPITOLO PRIMO

COS’ E’ LA MUSICA?
“La vita senza la musica sarebbe uno sbaglio”
- F. Nietzsche -

Il significato del termine “musica” non è univoco ed è molto dibattuto tra gli
studiosi per via delle diverse accezioni utilizzate nei vari periodi storici.
Etimologicamente deriva dal greco mousikos, relativo alle Muse (figure
della mitologia greca e romana) e viene accostato al termine sottinteso
tecnica, che a sua volta deriva dal greco techne. In origine il termine
musica non indicava una particolare arte, bensì tutte le arti delle Muse, e
si riferiva a qualcosa di "perfetto" e "bello".

La musicologia, intesa come studio del fenomeno della musica, nasce


come disciplina vera e propria nel 1750 per opera di Jean Jacques
Rousseau, il quale sosteneva che musica e linguaggio parlato fossero nati
nel medesimo momento e per scopi analoghi. Secondo il suo punto di
vista il canto non è altro che un’intensificazione delle funzioni della parola.
Non c'è stata popolazione o persona che non abbia iniziato a creare del
ritmo con qualunque oggetto trovato sottomano, forse perché il ritmo
riproduce i primi suoni che ogni essere umano abbia avvertito, nella sua
vita, quando eravamo ancora nel ventre materno: il battito cardiaco ed il
respiro. Su questa linea di pensiero si collocavano anche gli Evoluzionisti,
tra cui Charles Darwin, che - all’interno della sua “teoria
dell’evoluzionismo” - paragonava la musica al canto degli uccelli,
sostenendo che essa si sia sviluppata per scopi rituali all’interno dei
processi di seduzione tra i due sessi.

Sin dal diciannovesimo secolo, periodo nel quale sono iniziati gli studi
scientifici sulla relazione tra suono e percezione, una delle definizioni più
comuni di musica è quella di “arte del suono organizzato”, ossia un
assemblamento volontario di suoni e silenzi in grado di produrre significati
e sensazioni più o meno complessi.

[3]
Le scienze cognitive sono poi arrivate a definire la musica non come un
semplice suono, o la sua percezione, ma come “una rappresentazione
interna che percezione, azione e memoria contribuiscono a creare”.
Se stiamo parlando di una rappresentazione, allora è possibile parlare di
linguaggio. Se guardiamo al susseguirsi dei vari stili musicali dal
diciannovesimo secolo ad oggi, ci accorgiamo di come la conquista di
nuove tecniche e sonorità, unite all’ abbattimento di schemi pre-esistenti,
seguano un filo evolutivo proprio che modificano a loro volta i gusti e le
abitudini degli ascoltatori. Tale concetto è più vero che mai proprio nei
giorni nostri, dove la vastità delle tecnologie emerse negli ultimi decenni
ha cambiato radicalmente il modo di produrre e ascoltare musica, così
come sono cambiati i tipi di sonorità che suscitano certi tipi di emozioni, o
addirittura - in certi casi - anche le emozioni stesse hanno subito
cambiamenti, o ne sono subentrate di nuove.

A tal proposito sono degne di menzione le tesi post-moderne che


definiscono la musica a partire dal suo contesto sociale. Secondo queste
interpretazioni, musica è tutto ciò che viene inteso come tale, dunque
anche il silenzio può essere considerato una forma di musica.
Prendendo spunto dalla lezione kantiana secondo cui non si può
distinguere, percettivamente, tra fenomeni naturali, originari, ed artefatti, si
afferma che ogni percezione è frutto di una sintesi; in quanto sintesi
contiene già di per sé un potenziale giudizio, e una potenziale analisi. A
questa premessa si accodò poi Nietzsche sostenendo che ogni
percezione dipende nella sua struttura dal sistema di senso e di valore
che la accoglie e nella quale essa si concreta. Giudichiamo in base al
senso che ci ricaviamo dai valori che abbiamo; possiamo interpretare il
valore come il diapason, con il quale battiamo le pietre per poter
esprimere un giudizio sul suono che emettono: quel suono è il senso. Ora,
se si interpreta, come doveroso, lo schema nietzschiano, dobbiamo
concludere che chi giudica la natura è la natura stessa, perché i valori
altro non sono che il risultato delle differenze che la natura lascia agire tra
lo spazio e il tempo. Chi giudica, chi ascolta, chi suona, è questa monade,
questa concezione di valori e di senso che nella sua chiusura, nel suo

[4]
agire necessariamente, kantianamente, nel tempo, rimanda sempre
all’altro da sé, al suo di-fuori, alla natura che lo circonda. Già questo
basterebbe ad asserire che la musica non è universale e, allo stesso
tempo, che l’universalità è ciò a cui ambisce. La musica vuole essere
universale, ma non può, e in questo doppio stato sta forse il segreto della
sua potenza espressiva, superiore a quella di tutte le altre arti, la sua
capacità primitiva di indurre allo stato di trance. La musica occidentale
vive in questo ibrido, tra la funzione che definisce “primitiva” (e che io
definirei “originaria”) di creare uno stato universale attraverso la trance, e
la razionalizzazione, che Max Weber ha mostrato molto bene nel suo
saggio “I fondamenti razionali e sociologici della musica”, la quale tende a
riprodurre linguisticamente quelle stesse funzioni, semioticamente, come
suo materiale espressivo: “noi dobbiamo qui ricordare il dato di fatto
sociologico per cui la musica primitiva è stata sviata in misura rilevante, fin
da uno stadio iniziale del suo sviluppo, dal puro godimento estetico, ed è
stata subordinata a scopi pratici, soprattutto magici, in particolare a scopi
1
di scongiuro ed esorcismo” come se quel “puro godimento estetico” non
fosse già di per sé una funzione sociale.
Da tali presupposti teorici nasce una delle opere più famose dello
statunitense John Cage, intitolata 4’33”. Cage, visitando una camera
anecoica (una stanza completamente insonorizzata) nell’università di
Harvard, riesce a sentire comunque dei suoni: il battito del cuore, il
sangue in circolazione, il respiro. Ciò che ne ricava è la consapevolezza
dell'impossibilità del silenzio assoluto, da cui deriva che il silenzio è una
condizione del suono, è materia sonora: sottolinea e amplifica i suoni, li
rende più vibranti, ne preannuncia l'entrata, crea suggestivi effetti di attesa
e sospensione. Il silenzio è un mezzo espressivo, è pieno di potenziale
significato. L'opera 4’33” che ne scaturisce, consiste infatti nel non
suonare lo strumento (4’33” sta per 4 minuti e 33 secondi, 273 secondi,
forse un richiamo alla temperatura dello 0 assoluto, fissata a -273,15°C).
La sostanza dell’opera di Cage è più un’operazione teatrale che musicale,
e se in un primo momento si può pensare di aver buttato via 5 minuti della

1
Weber, Max, Economia e società – I fondamenti razionali e sociologici della musica, Torino, Einaudi/Edizioni
di comunità, 1995, pag. 65

[5]
propria esistenza, dopo una più profonda riflessione ci si rende conto che
il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia
alla centralità dell'uomo. Il silenzio non esiste, c'è sempre il suono. Il
suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni
ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in
un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle
auto in mezzo al traffico. Cage vuole condurre all'ascolto dell'ambiente in
cui si vive, all'ascolto del mondo. È un'apertura totale nei confronti del
sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può
essere musica. Io decido che ciò che ascolto è musica. È l'intenzione di
ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera.
John Cage ha colto meglio di ogni altro compositore questo ragionamento,
ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, scindendo l’atto
performativo dall’atto compositivo. Ha cambiato l'atteggiamento nei
confronti del sonoro, ha messo in discussione i fondamenti della
percezione e ha persino influenzato altre branche dell’arte (ne è un
esempio il pittore Robert Rauschenberg, autore di una serie di tavole
completamente bianche che cambiano a seconda delle condizioni di luce
e ambiente d’esposizione); sintomo di quanto l’opera di John Cage vada al
di là dei puri aspetti musicali, come lui stesso afferma: “La ragione per cui
sono sempre meno interessato alla musica non risiede nel fatto che trovo i
suoni e i rumori dell’ambiente circostante più utili dei suoni prodotti dalle
culture musicali del mondo, ma anche nel fatto che un compositore è
semplicemente qualcuno che dice ad altri cosa fare. Ritengo che questo
sia un modo di fare poco attraente” [Cage, intervista del 1975, IX, trad.
mia].

[6]
CAPITOLO SECONDO

LE SUBCULTURE

1. Premessa

Prima di addentrarci pienamente nel discorso che intendo affrontare, è


necessario fare un’ introduzione alle subculture, per capire cosa sono,
come sono state gestite nel corso degli anni, e come sono viste da coloro
che non ne fanno parte.
Subcultura, o sottocultura, è un termine che già a prima vista dimostra di
essere coperto da un alone di mistero. Ci riconduce automaticamente ai
concetti di segretezza, mondi sotterranei, patti da società segrete.
Contiene inoltre al suo interno la parola “cultura”, il che fa pensare che
una definizione precisa del termine può essere fatta se prima si cerca di
definire quest’ultimo concetto, nondimeno ambiguo e di difficile
delimitazione.

2. Cos’è la cultura?

La cultura è un concetto notoriamente ambiguo, che fin dal XVIII secolo si


è trovato al centro di un acceso dibattito tra intellettuali e letterati inglesi
per focalizzare l’attenzione su una serie di tematiche controverse, come la
“qualità della vita”, la divisione del lavoro e altri.
Raymond Williams parla di questo dibattito nel suo “Cultura e Società”. E’
stato attraverso questa tradizione critica che si è tenuto in vita il sogno di
una società organica, intesa come insieme integrato dotato di significati.
Questo sogno aveva due traiettorie di base. Una riconduceva ad un
passato ordinato gerarchicamente nel quale la cultura svolgeva un ruolo
2
quasi sacrale, la cui “perfezione armoniosa” veniva contrapposta alla
terra desolata della vita contemporanea.

2
Arnold, Matthew, Cultura e anarchia (ed. orig. 1869) , Torino, Einaudi, 1975

[7]
L’altra traiettoria conduceva verso il futuro, verso un’utopia socialista in cui
la distinzione tra lavoro e tempo libero non sarebbe esistita.
Da tale tradizione emergevano due definizioni di cultura. La prima,
essenzialmente classica e conservatrice, rappresentava la cultura come
un livello massimale di qualità estetica, “il meglio di ciò che è stato
pensato e scritto nel mondo” 3. La seconda affondava le proprie radici
nell’antropologia e si riferiva “ad un particolare stile di vita che esprime
certi significati e valori non solo nell’arte e nell’altra cultura, ma anche
nelle istituzioni e nel comportamento quotidiano. L’analisi della cultura […]
consiste nella chiarificazione dei significati e dei valori impliciti ed espliciti
di uno stile di vita particolare, di una cultura particolare” 4.
Questa seconda definizione aveva un’estensione molto maggiore della
prima, e andava ad approcciare tutte le attività e gli interessi che
caratterizzano un popolo.
Come nota Williams, tale definizione poteva essere sostenuta solo se la
teoria della cultura avesse compreso lo “studio delle relazioni esistenti tra i
vari elementi di uno stile particolare di vita” 5.
Williams proponeva quindi una formulazione più ampia dei rapporti tra
cultura e società che, attraverso l’analisi di “specifici significati” e “valori”,
cercasse di svelare le “leggi generali” e le vaste “tendenze sociali”
nascoste sotto alle apparenze manifestate dalla “vita quotidiana”.

Il dizionario della lingua italiana definisce la cultura nel seguente modo:

“1- sf qualità di chi è colto; 2- sf l'insieme della tradizione e del sapere


scientifico, letterario e artistico di un popolo o dell'umanità intera; 3- sf
Vedi coltivazione”
Chiaramente la definizione pertinente a questa tesi è la numero 2
“l’insieme della tradizione e del sapere scientifico, letterario e artistico di
un popolo”. Il concetto moderno di cultura, dunque, può essere inteso

3
Ibidem, pag. 70
4
Williams, Raymond, La lunga rivoluzione (ed. orig. 1961), Roma , Officina, 1980, pag. 72
5
Ibidem, pag. 77-78

[8]
come quel bagaglio di conoscenze ritenute fondamentali e che vengono
trasmesse di generazione in generazione. Tuttavia, riprendendo quanto
scritto su Williams, nella nostra lingua è possibile denotare due significati
principali, sostanzialmente diversi:

1. Cultura come formazione individuale, un’attività che consente di


“coltivare” l’animo umano (deriva, infatti, dal verbo latino colere); in
tale accezione classico – umanistica essa assume una valenza
quantitativa, per la quale una persona può essere più o meno colta.
2. Una concezione antropologica che presenta la cultura come il
variegato insieme di costumi, credenze, atteggiamenti, dei valori,
degli ideali e delle abitudini delle diverse società del mondo.
Concerne sia l’individuo, sia le collettività di cui egli fa parte. In
questo senso il concetto è ovviamente declinabile al plurale,
presupponendo l'esistenza di diverse culture, e tipicamente viene
supposta l'esistenza di una cultura per ogni gruppo etnico o
raggruppamento sociale significativo, e l'appartenenza a tali gruppi
sociali è strettamente connessa alla condivisione di un'identità
culturale.

Nella seconda accezione, culturale è tutto ciò che riguarda la nostra vita
quotidiana: una partita di calcio, il biliardino nei bar, il prosciutto crudo, la
palestra, le sagre di paese, le case popolari …
Successivamente Williams, in “La lunga rivoluzione”, si occupa di studiare
le (allora) nuove comunicazioni di massa, considerandole delle “prove” utili
allo studio della società, ma tentava di stabilire anche criteri estetici e
morali per distinguere i prodotti validi dalla “spazzatura”. Gli assunti
impliciti di questi studi erano stati precedentemente dettati da Hoggart,
che nel 1966 col suo saggio intitolato “literature and society” sostiene che
è fondamentale possedere una certa sensibilità letteraria, necessaria a
“leggere” la società con la debita sottigliezza, e che le due idee di cultura
trovano alla fin fine una certa conciliazione: “prima di tutto, senza

[9]
apprezzare la buona letteratura, nessuno capirà veramente la natura della
società” 6.

Emile Durkheim parla di cultura in senso lato nel suo “La divisione del
lavoro sociale” del 1893 in cui cerca di definire un ordine sociale sulla
base dei principi economici borghesi. Durkheim presuppone, infatti,
l’esistenza di un elemento non riducibile all’individualismo, e che lui
chiama con il termine di solidarietà. Essa è a fondamento di ogni società,
anche quelle basate sulla concorrenza e sul contratto, quindi
sull’individualismo; anzi, in quest’ultimo caso abbiamo una forma di
solidarietà più evoluta, che Durkheim chiama “solidarietà organica”.
Distinguendola dalla “solidarietà meccanica”, quella cioè delle società
semplici in cui non c’è divisione del lavoro, la solidarietà organica è quella
in cui ogni individuo svolge una singola mansione e, proprio come un
singolo organo del corpo, contribuisce al funzionamento di tutto il sistema.
Questo processo non sarebbe possibile in assenza di solidarietà, in
quanto nessun individuo sarebbe disposto a svolgere una singola
mansione se sapesse di non poter contare su altri individui che svolgono
altri compiti necessari alla vita.
Con il suo “Il suicidio” Durkheim dimostra poi come la cultura condivisa
contribuisca a mantenere la coesione degli individui nella società.
Sostenendo, infatti, che al calare della coesione sociale il tasso di suicidi
aumenta, ed individuando i tre classici tipi di suicidio (egoistico, altruistico
e anomico), Durkheim individua anche tre tipi di società e riesce a
dimostrare che, rimanendo inalterati gli altri fattori, il tasso di suicidi varia
al variare della religione presente in una determinata società. La religione
protestante, infatti, si dimostra essere quella che presenta il più alto tasso
di suicidi, e ciò è dovuto, secondo Durkheim, al maggior margine di libertà
individuale concesso. Ancora in rapporto con l’integrazione va intesa la
bassa percentuale di suicidi tra gli ebrei: “la riprovazione con cui il
cristianesimo li ha per tanto tempo perseguitati, ha creato tra gli ebrei
sentimenti di solidarietà particolarmente forti. La necessità di lottare contro

6
Hoggart, Richard, Literature and society, in American Scholar, primavera 1966

[10]
la generale animosità, la stessa impossibilità di comunicare con il resto
della popolazione li ha costretti a tenersi strettamente uniti tra loro” 7.
Durkheim studia poi il suicidio egoistico in relazione ad altri fattori come
quello famigliare e quello politico, giungendo al principio generale per cui il
suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione in tutte e 3 queste
società (religiosa, domestica, familiare).
Lo studio sul suicidio di Durkheim non è solo uno studio sociale che ci
spiega le condizioni secondo cui avvengono questo tipo di episodi, ma è
più in generale un discorso sul ruolo della cultura all’interno di una società.
Secondo questo autore, infatti, ogni società si stabilisce e permane solo
se si costituisce come comunità simbolica. Nei suoi studi hanno una
grande importanza le rappresentazioni collettive, cioè insiemi di norme e
credenze condivise da un gruppo sociale, sentite dagli individui che ne
fanno parte come obbligatorie. Esse sono considerate da Durkheim vere e
proprie istituzioni sociali che costituiscono il cemento della società,
consentendo la comunicazione tra i suoi membri e mutando nel tempo con
il cambiamento sociale.
Emile Durkheim è stato il primo a considerare l’aspetto sociale della
cultura, che fino a quel momento era stato oggetto d’analisi soprattutto
degli antropologi. Dalla sua opera hanno preso le mosse molte delle
scuole di sociologia che hanno trattato questo aspetto della vita dell’uomo,
in particolare la scuola ecologica di Chicago, di cui parleremo più avanti.

3. Cultura e comunicazione

Dopo anni di scarso interesse da parte dei sociologi, è Talcott Parsons a


riprendere il tema della cultura, considerandolo come un sottoinsieme del
suo sistema dell’azione, lo schema AGIL. Col suo approccio struttural-
funzionalista, Parsons si propone di fornire una teoria generale e
sistemica della relazione sociale. Per fare questo considera la relazione
sociale come una funzione (sociale). La relazione è interdipendenza,
ovvero sia la relazione tra le componenti di un sistema che il loro effetto

7
Durkheim, Emile, Il suicidio (ed orig. 1897), a cura di Luciano Cavalli, Torino, UTET, 1969, pag. 201

[11]
emergente. Per esprimere al meglio questo concetto, Parsons elabora il
suo celebre schema AGIL in cui racchiude le componenti della relazione
sociale:

A: Adaptation (i mezzi)
G: Goal attainment (gli scopi)
I: Integration (le norme)
L: Latency (i valori)

Tutte e 4 queste componenti sono in relazione tra di loro, ma esistono 2


assi principali:

-Asse strutturale: relazione tra mezzi (A) e norme (I)


-Asse referenziale: relazione tra scopi (G) e valori (L)

La cultura, in AGIL, occupa la “casella” L e costituisce l’ago della bussola


rispetto al quale si articolano mezzi, obiettivi e norme. Ispirandosi
chiaramente a questa impostazione Grinswold, attraverso il suo
“diamante”, arriva a stabilire una relazione tra l’aspetto culturale (asse L –
G dello schema) e l’aspetto comunicativo (asse A – I dello schema) e
giustifica questa scelta affermando che “solo quando gli oggetti passano
nel circuito del discorso umano, essi entrano a far parte della cultura e
diventano oggetti culturali” 8. Creatori e ricevitori sono entrambi attivi
produttori di significato, e questo significato è sempre ancorato ad un
determinato contesto sociale.
Questa definizione ci è utile per definire il ruolo della comunicazione nel
processo di formazione di cultura ma non dice nulla sul processo di
formazione di significati.
Archer ha illustrato la dialettica tra soggetto e le dimensioni strutturali e
culturali della società a cui appartiene, mostrando una interdipendenza
reciproca. Se non esistessero i soggetti, non esisterebbe la società, che
l’autrice divide in 2 aspetti fondamentali: proprietà emergenti strutturali e

8
Grinswold, Wendy, Sociologia della cultura, Bologna, Il mulino, 1997, pag. 30

[12]
proprietà emergenti culturali. Il soggetto è inserito nella società, ma è
anche una parte integrante di essa e da essa eredita il linguaggio che è
alla base della riflessione personale, ossia quel processo che la Archer
chiama “internal conversation” e che permette di rielaborare i concetti
offerti dalla sua vita sociale e trasformarli in proprietà emergenti personali,
elaborando un personale modus vivendi, orientato sulla base delle proprie
premure fondamentali.

4. Le subculture: la scuola di Chicago

Ora che abbiamo definito cos’è la cultura, e analizzato alcune delle più
importanti teorie sociologiche al riguardo, è possibile addentrarci più a
fondo nell’argomento e studiare cosa si intende per subcultura.
Subcultura (o, più semplicemente, sottocultura) è un termine usato per
riferirsi a un gruppo di persone o ad un determinato segmento sociale che
si differenzia da una più larga cultura di cui fa parte per stili di vita,
credenze e/o visione del mondo.
Ogni subcultura si differenzia dalle altre per le caratteristiche che
accomunano le persone che ne fanno parte. Queste caratteristiche sono
molteplici e di natura diversa: età, etnia, sesso, credo religioso,
orientamento politico, ecc e costituiscono il tratto distintivo della subcultura
presa in esame. Ogni subcultura presenterà dunque dei concetti e dei
valori diversi rispetto alle altre, oppure un’interpretazione diversa dello
stesso concetto espresso in un’altra subcultura.
Sebbene non tutti i sociologi siano in accordo al riguardo, le subculture
possono essere stabilite in contrapposizione ad una cultura più grande,
nella quale si trovano come immerse. Si rivela necessaria, dunque, una
coesistenza tra la subcultura e la cultura di cui essa fa parte.
A partire dalla fine della prima guerra mondiale, fino agli anni ’30, i
sociologi dell’Università di Chicago costituirono la cosiddetta “scuola
ecologica”, che costituisce il primo esempio di studio sociologico urbano
moderno. L’aggettivo “ecologico” è dovuto al taglio metodologico che il
direttore dell’istituto, Robert Park, e i suoi colleghi, decisero di dare

[13]
all’enorme volume di ricerche prodotte in quei 20 anni di attività, le cui
caratteristiche peculiari furono fondamentalmente tre:

1. La scelta dell’ambiente urbano come oggetto di ricerca e


“laboratorio sociologico”
2. L’adozione dell’ecologia umana come struttura teorica di riferimento
3. L’ampio utilizzo di tecniche di ricerca di tipo qualitativo
(osservazione partecipante, interviste, biografie, ecc)

E’ soprattutto il taglio ecologico di queste ricerche ad essere interessante


per questa tesi, in quanto grazie al lavoro di Thomas e Znaniecki intitolato
“The polish peasant in europe and America” (1918 – 1920) si realizzano
alcuni passaggi importanti nella definizione di sottoculture. In questo
lavoro, gli autori vogliono affermare una differenza semantica tra
“attitudini” e “valori”. Nel volume, realizzato come ricerca sui problemi delle
comunità di immigrati (in questo caso, polacchi), Thomas definisce i valori
come “qualsiasi dato che abbia un contenuto empirico accessibile ai
membri di qualche gruppo sociale ed un significato in riferimento al quale
esso sia o possa essere un oggetto di azione. Un utensile, una moneta,
una teoria scientifica, sono valori sociali” 9. Ad essi si affiancano le
caratteristiche dei soggetti appartenenti al gruppo sociale, le attitudini,
ossia “un processo alla coscienza individuale che determina azioni reali o
possibili dell‟individuo nel mondo sociale. […] L‟attitudine è la controparte
10
individuale del valore sociale” . Il concetto di attitudine emerge quando
cose che dovrebbero avere lo stesso significato per tutti gli interessati,
risultano avere significati diversi da individuo a individuo. Possiamo
pertanto intendere una subcultura come un gruppo ristretto di persone che
parlano tutte lo stesso “linguaggio”, questo linguaggio è una determinata
attitudine nei confronti di qualcosa.

9
Thomas e Znaniecki, The polish peasant in Europe and America (ed orig. 1918), Dover, New York, 1958, pag
21
10
Ibidem, pag 22

[14]
Un ulteriore stimolo allo studio delle subculture arriva da Robert Park,
preside della Scuola Ecologica di Chicago nei suoi anni d’oro. Di
impostazione durkheimiana, il lavoro di Park fu la prima sistematizzazione
del pensiero sociologico ad essere offerta agli studiosi americani, e il suo
primo testo, “Introduction of the science of sociology” , scritto insieme a
Burgess, rimase il testo base della sociologia americana per moltissimo
tempo. Con Park, la città divenne il laboratorio dei sociologi: secondo
l’autore essa rappresenta il luogo nel quale i processi storici mondiali si
manifestano prima e in modo più evidente, quindi la città è l’ideale per lo
studioso della società. Ricorrendo al paradigma dell’ecologia umana Park
risolve il problema del passaggio dal livello empirico, ossia lo studio dei
fenomeni che avvengono nella città (in questo caso Chicago), al livello
teorico, ossia trarre da questi studi un insieme di conoscenze
generalizzabili “La città è un‟entità con una organizzazione caratteristica e
una tipica storia di vita. […] le diverse città sono abbastanza simili tra loro
e perciò quello che uno apprende riguardo ad una data città può, entro
certi limiti, essere considerato vero anche per le altre” 11.
In base a questo quadro di riferimento, l’autore riesce a suddividere la città
in diverse aree funzionali - chiamate “naturali” - sulla base del concetto
fondamentale di tutta la sua ricerca, quello di “comunità”. “Una società
insediata ed organizzata su un territorio è comunemente descritta come
12
comunità” . Le aree naturali sono dunque il corrispettivo territoriale delle
comunità e sono – come dice il nome stesso - il prodotto di forze naturali e
non pianificate, quindi l’ordine che mostrano è la manifestazione delle
tendenze radicate nella città presa in considerazione; tendenze che sono
tenute sotto controllo dai progetti urbanistici messi in atto dalle
amministrazioni politiche locali.
L’ordine ecologico è basato sulla competizione e sul reciproco aiuto (o
reciproca utilità), ossia sulla capacità di azione comune. Questo richiede
necessariamente che sia messo in atto un processo di comunicazione tra i
membri di una comunità, motivo che spinge Park a proporre una
distinzione tra ordine biotico ed un superiore ordine culturale, capace di

11
Park, La città (ed. orig. 1952), Comunità, Milano, 1967, pag 198
12
Ibidem, pag 241

[15]
garantire coesione e consenso necessari alla costituzione di una società
vera e propria. L’autore non riesce però a sbrogliare il problema della
coesistenza di questi due ordini sociali, il che lo porta a riconoscere che di
fatto non esiste una comunità umana fondata su un ordine biotico nella
quale non coesistano processi comunicativi - culturali.

Tra gli studi di maggior interesse svolti in quegli anni, presenta


caratteristiche particolarmente interessanti per questa tesi il lavoro di
Whyte, intitolato “Street corner society” e pubblicato nel 1927.
All’apparenza uno studio semplice e dettagliato sulle comunità italo-
americane di Boston, la ricerca di Whyte in realtà è “un‟opera che fornisce
la materia per importanti progressi nella comprensione della realtà
sociale”13, in particolare per quanto riguarda le dinamiche interne dei
gruppi e il loro interagire con l’ambiente sociale circostante (istituzioni,
gruppi concorrenti ecc.) e, ancora di più, ha rappresentato a lungo un
modello di ricerca per l'etnografia urbana.
La forza e l’originalità del lavoro di Whyte sta sia nella dimensione
relazionale e dinamica affrontata nello studio sia nell’approccio
metodologico utilizzato. La ricerca è, infatti, un resoconto etnografico
profondo della vita di una comunità italo-americana in uno slum di Boston,
che egli chiamerà Cornerville, attraverso il metodo dell’osservazione
partecipante.
La tecnica non era affatto nuova nelle scienze sociali, già qualche anno
prima Eduard C. Lindeman aveva definito l’osservazione partecipante
distinguendola dall’osservazione obiettiva.
Inoltre, già altri studiosi, tra i quali Malinowski e P. Anderson , avevano
adottato tale approccio nelle loro ricerche.
Anche Whyte nel suo libro giunge a definire come necessario per la
comprensione del vivere sociale il metodo dell’osservazione in profondità,
che prevede una totale immersione nel contesto che si vuole studiare fino
a divenirne un suo componente. Per questo entra in contatto con Doc, un
ragazzo del quartiere tra i più noti e in gamba, e per questo decide di

13
J. Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia, Bologna, Il Mulino, 2000, pag 45

[16]
affittare casa a Cornerville grazie alla famiglia dei Martini, dove abiterà per
circa due anni della sua vita, ossia il periodo durante il quale si svolgerà la
sua ricerca.
Nella seconda edizione del 1955, questa convinzione metodologica viene
elaborata in un’appendice al libro sui metodi di indagine utilizzati. Quello
che ne risulta, così, non è solo un affascinante racconto della vita in uno
slum, bensì anche un resoconto di come e perché impostare una ricerca
attraverso l’osservazione partecipante, con considerazioni interessanti
sugli aspetti pratici della ricerca. Una delle sue scoperte, ad esempio, fu
che l’accettazione da parte di un gruppo che si vuole studiare non dipende
dalla spiegazione razionale che si fornisce riguardo quanto si sta facendo,
bensì dalle relazioni personali instaurate con i membri, in particolare con i
leader del gruppo.
L’approccio qualitativo dell’osservazione partecipante deriva in Whyte da
un apparato teorico che pone al centro dello studio l’interesse a studiare le
persone comuni così come si presentano, ponendo su un secondo piano
la comunità ed enfatizzando le relazioni e le interazioni dei soggetti nel
loro vivere quotidiano. Ciò che lo interessa è il piccolo sistema sociale
locale: come si strutturano i gruppi, quali sono le relazioni intra-gruppo e
inter-gruppo, come si formano i leaders ed in cosa consistono. E cerca di
rilevare questi aspetti entro un approccio dinamico: i sistemi sociali, infatti,
sono per Whyte in continua evoluzione ed il tempo è una variabile
fondamentale per la comprensione di quanto si va a studiare. Come
sostiene lo stesso Whyte alla fine del libro, infatti, “quantunque non
potessi studiare tutto Cornerville, ne stavo ricostruendo la struttura e il
funzionamento attraverso un attento esame di alcune delle sue parti – in
azione. […] Il mio tentativo di fare della sociologia basandola
sull‟osservazione di eventi interpersonali, mi sembra costituisca il
principale significato che questo libro può avere sul piano della teoria e
della metodologia sociologiche” 14.

14
W. F. Whyte, Little Italy. Uno slum italo-americano, Bari, Laterza, 1968, pag 81

[17]
5. La funzione delle subculture

Uno dei principali teorici della subcultura, Dick Hebdige, ha cercato di


individuare i caratteri che accomunano tutti i membri di una subcultura
arrivando a teorizzare che gli individui che ne fanno parte usano, per
distinguersi dal resto della società, dei simboli. Questi simboli possono
essere un particolare capo d’abbigliamento, uno stile di vita, o anche
l’ascolto di un determinato tipo di musica piuttosto che un altro.
Lo studio delle subculture consiste proprio nello studio di questi
simbolismi, che spesso assumono anche il ruolo di “segnali” nei confronti
dei propri simili, i quali si possono così riconoscere e accettare all’interno
della loro subcultura, condividendo così una parte di loro stessi. Lo stile
quindi è principalmente comunicazione: verso noi stessi, verso i nostri
simili e verso il mondo che ci circonda.
Le varie subculture si differenziano molto tra di loro, assumendo anche
contrasti molto aperti, ciononostante fanno tutte parte della stessa cultura.
Basti pensare ai conflitti tra chiesa e movimenti omosessuali, o per
rimanere in un ambito più pertinente all’oggetto della tesi, tra rocker e
mods degli anni ’60.
Spesso è difficile identificare una subcultura a causa del fatto che il suo
stile è stato assorbito dalla cultura di massa per scopi commerciali. È
questo il caso, ad esempio, di alcuni movimenti giovanili come il Punk o
l'Hip Hop, i cui simboli sono stati ormai ampiamente commercializzati e
inseriti con successo nella società.

E’ diventato quasi un cliché, ormai, parlare del periodo successivo alla


seconda guerra mondiale come sconvolto dal conflitto al punto da
sovvertire i precedenti modelli tradizionali di vita, spazzati via da un
sistema nuovo e meno ancorato alle classi. I sociologi hanno insistito in
particolare sulla disgregazione della comunità operaia e hanno dimostrato
come la scomparsa dell’ambiente tradizionale, fatto di vita di quartiere e
piccoli negozi, sia segno di più profondi mutamenti sociali.
Tuttavia nell’Inghilterra del dopoguerra, nonostante i proclami di una
nuova era di benessere e uguaglianza, la classe non scomparve. Le

[18]
maniere in cui veniva “vissuta” – le forme in cui l’esperienza di classe
trovava espressione nella cultura – comunque cambiarono drasticamente.
L’avvento dei mass media, i mutamenti degli assetti famigliari,
dell’organizzazione del lavoro, dell’istruzione, il cambiamento del rapporto
lavoro - tempo libero, tutto serviva a polarizzare la comunità operaia.

Molti autori tendono ad attribuire un eccessivo significato all’opposizione


tra giovani e vecchi, figli e genitori, tirando fuori i rituali di passaggio che,
anche nelle civiltà più primitive, vengono praticati per segnare il passaggio
dall’infanzia all’età matura. Quello che manca in queste spiegazioni di
taglio prevalentemente psicologico, però, è una specificità storica che
dimostri perché queste forme particolari dovrebbero verificarsi proprio in
questo momento particolare. Si cade, perciò, nel diffuso errore dell’olismo
metodologico.
Penso quindi che l’evoluzione della cultura giovanile dovrebbe essere
vista proprio alla luce del processo storico di polarizzazione di cui si
parlava in precedenza. Basti pensare all’incremento del potere d’acquisto
dei giovani della working class inglese, o alla creazione di un mercato
volto ad assorbirne il conseguente surplus; tutti fattori che hanno
contribuito all’emergere di una coscienza generazionale tra i giovani del
dopoguerra. Questa coscienza è ancora radicata ad una esperienza di
classe, uguale per tutti ma che veniva espressa in modi diversi, in certi
casi antitetici, rispetto alle forme tradizionali.
Negli ultimi anni, la comparsa di stili giovanili particolarmente appariscenti
come i punk, o il fenomeno del glam, o ancora più recentemente il rap, ha
portato alcuni osservatori a parlare dei giovani come di una nuova classe,
vedendo in loro una comunità indifferenziata di consumatori. Questo mito
venne messo in discussione negli Anni Sessanta, quando Peter Willmott
arrivò alla conclusione che l’idea di una cultura giovanile priva di
connotazioni di classe fosse senza senso. Osservò invece che gli stili che
caratterizzavano il tempo libero e che erano accessibili ai giovani, erano
modulati in base alle contraddizioni e alle divisioni intrinseche alla società
classista.

[19]
Phil Cohen studiò i gruppi giovanili dell’East End di Londra, interessandosi
anche ai legami tra cultura giovanile e cultura dei genitori interpretando i
vari stili giovanili come adattamenti parziali in risposta ai mutamenti. Egli
definì la sottocultura come una “soluzione di compromesso fra due bisogni
contraddittori tra loro: il bisogno di creare e di esprimere un‟autonomia e
una diversità dai genitori […] e il bisogno di mantenere una forma di
15
identificazione con gli stessi” . Per Cohen la funzione “latente” della
sottocultura era di “esprimere e risolvere, benché magicamente, le
contraddizioni che rimanevano nascoste o irrisolte nella cultura dei
16
genitori” . Si ebbe così una lettura che teneva conto dell’interdipendenza
tra fattori ideologici, economici e culturali. “Cohen, più che mostrare la
classe come un insieme di determinanti esterne, la mostrava in atto nella
17
pratica, come forza materiale, avvolta nel vissuto ma esibita nello stile” .
Lo studio di Cohen rappresenta ancora il modello più adeguato di lettura
dello stile sottoculturale, anche se, allo scopo di sottolineare l’importanza
e il significato della classe, egli fu costretto a porre eccessiva enfasi sui
legami tra cultura dei giovani della working class inglese e cultura degli
adulti della medesima classe.

6. Specificità: un concetto chiave

Prendendo come spunto la definizione di cultura utilizzata in Resistance


Through rituals, ossia “quel livello in cui i gruppi sociali sviluppano modelli
diversificati di vita e danno forma espressiva alla propria esperienza
sociale e materiale”, possiamo anche dire che ciascuna subcultura
consiste in un diverso trattamento della “materia prima dell’esistenza
sociale”. Questa materia, cioè i rapporti sociali, che continuamente viene
trasformata in cultura non può mai essere del tutto “prima” bensì, come ci
dice anche Marx, essa è sempre mediata dal contesto storico in cui ci si

15
Cohen, Phil, Subcultural Conflict and Working Class Community, In Working Papers in Cultural Studies 2,
Birmingham, Centre for Contemporary Cultural Studies, 1972, pag. 4
16
Ibidem, pag. 5
17
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 85

[20]
trova: “gli uomini fanno la propria storia, ma non in modo arbitrario […]
bensì nelle circostanze […] determinate dai fatti e dalla tradizione” 18.
Lo stesso concetto viene esposto da Hebdige quando analizza le
differenze tra lo stile dei primi teddy boy (siamo agli inizi dei ’50) e quelli
degli anni ’70. Egli attribuisce la causa di questa differenza storica ai
mutamenti socioculturali avvenuti in quel ventennio: nonostante il clima di
austerity e crisi fosse, per larghi tratti, il medesimo, le differenze nelle due
epoche erano ancora più marcate delle somiglianze. La presenza nel
periodo più vicino al nostro di una cultura giovanile alternativa come i già
citati punk, impediva alla seconda ondata di teddy boys di essere
universalmente vilipesi, sia dalla stampa che dagli adulti, cosa che invece
era capitata negli anni ’50. Questo “revival” chiamava alla memoria un
periodo sorprendentemente remoto (anche se erano passati meno di vent’
anni) e, al confronto, sicuro. Fu così che questi nuovi teddy boy, non
dovendo più dipendere dal contesto di quel periodo, potevano permettersi
di fluttuare sull’onda della nostalgia e paradossalmente, quella cultura che
in origine aveva fornito segni tanto drammatici di cambiamento, finì col
promuovere una specie di comunità una volta riesumatasi sulla falsa riga
del Fonzie di Happy Days.
Possiamo dire che le due soluzioni teddy boy erano risposte diverse a
condizioni storiche particolari, formulate in climi del tutto diversi. “Per
queste ragioni portare una giacca lunga nel 1978 non significava le stesse
cose che nel 1956, nonostante i due raggruppamenti di teddy boys
venerassero gli stessi identici eroi (Elvis, James Dean…), portassero lo
stesso ciuffo e occupassero la stessa posizione sociale. I concetti gemelli
di congiuntura e di specificità sono perciò indispensabili per uno studio
dello stile sottoculturale” 19.

18
Marx, Karl, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (ed orig. 1852), Roma, Editori Riuniti, 1974, pag. 12
19
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 91

[21]
7. Le fonti dello stile

L’esperienza, che trova la sua rappresentazione nelle subculture, si forma


in una grande varietà di luoghi: lavoro, famiglia, scuola, ecc. Ciascuno di
questi referenti simbolici possiede la propria struttura, le proprie regole, i
propri significati e i propri valori. Sebbene siano relativamente autonome,
tali strutture rimangono, nelle società capitaliste, articolate intorno alla
20
“contraddizione generale” fra capitale e lavoro. Il gioco tra i vari livelli
della formazione sociale è riprodotto nell’esperienza sia dei gruppi
dominanti che di quelli subalterni, ed è la “materia prima” di cui si parlava
prima, la quale trova la propria espressione nella cultura o nella
subcultura. In questo senso i media svolgono un ruolo centrale, ai giorni
d’oggi, nella definizione della nostra esperienza in quanto sono
principalmente queste fonti a fornirci le categorie per la definizione del
mondo che ci circonda. E’ tramite la stampa, la televisione, il cinema, ecc,
che l’esperienza viene interpretata e resa coerente. E’ quello che Stuart
Hall chiama “l’effetto ideologico dei media”, attribuendo loro un ruolo
fondamentale per il mantenimento del consenso. “I media servono, in
società come la nostra, a compiere incessantemente l‟opera ideologica e
critica di classificazione del mondo entro il discorso delle ideologie
dominanti. Ciò avviene mediante il continuo spostamento della linea di
divisione tra le letture favorite e quelle escluse, fra il significativo e
l‟insignificante, fra il normale e il deviante” 21.
I media hanno progressivamente colonizzato la sfera culturale - ideologica
e poiché i gruppi e le classi sociali conducono una vita frammentata in
diversi settori, spetta principalmente a loro a) provvedere una base sulla
quale i gruppi si costruiscano un’immagine della vita, dei significati, dei
valori degli altri gruppi e b) provvedere alle immagini, rappresentazioni e
idee attorno alle quali sia possibile una totalità sociale.
Così i media forniscono ai gruppi le immagini essenziali degli altri gruppi.
Le sottoculture sono, almeno in parte, rappresentazioni di queste

20
Althusser, Louis, Lenin e la filosofia, Milano, Jaka, 1972, pag. 8
21
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 99

[22]
rappresentazioni. Gli appartenenti ad una sottocultura in parte accettano e
in parte rifiutano le definizioni dominanti su chi o cosa essi siano, e
22
condividono una parte consistente di “territorio ideologico” con la cultura
dominante.

8. Integrazione

Le sottoculture rappresentano, quindi, una rottura parziale delle nostre


23
aspettative, “una sfida simbolica all‟ordine simbolico” e l’emergere di
una subcultura è inevitabilmente accompagnata da un periodo di
destabilizzazione a cui seguirà, come vedremo, una fase di integrazione.
E’ ancora lo stile, sempre secondo Hebdige, a stimolare le risposte più
evidenti. L’abbigliamento, la musica e solo in seguito gli atti devianti o
“antisociali” vengono, di volta in volta, o celebrati o ridicolizzati. Qualunque
sia l’evento che dà il via alla diffusione del fenomeno (e.g. gli scontri del
1964 nel caso dei mods, o l’ “avvento” dei sex pistols per i punk), la
risultante è una propagazione della subcultura, e questo comporta anche
una riduzione di tensione tra lo stile sottoculturale e il resto della società.
Quando la sottocultura è inquadrata in una serie di atteggiamenti, quando
il suo linguaggio (verbale o non) diventa più famigliare, allora il quadro di
riferimento si fa sempre più nitido ed è possibile integrare la sottocultura,
collocarli nella “mappa di una realtà sociale problematica” 24.
In tutto questo processo sono sempre i media a ricoprire il ruolo più
importante. Sono loro infatti, secondo Stuart Hall, a registrare la
resistenza, ma anche la posizione entro il sistema dominante dei
significati. E’ attraverso questo processo che si ripristina l’ordine scosso.
Questo procedimento di recupero può verificarsi in due modalità:
1. La trasformazione dei segni sottoculturali (abbigliamento, musica,
ecc) in oggetti di consumo di massa (forma merce).
2. La ridefinizione del comportamento deviante da parte dei gruppi
dominanti (forma ideologica).

22
Ibidem pag. 93
23
Ibidem pag. 102
24
Ibidem pag. 103

[23]
8.1 La forma merce

E’ la forma di integrazione più ambigua tra le due indicate. La sottocultura


si manifesta soprattutto attraverso il consumo, ed è grazie ad esso,
attraverso le merci, che esso comunica, anche se spesso i significati degli
oggetti vengono distorti o invertiti 25.
Risulta quindi difficile mantenere una distinzione netta tra sfruttamento
commerciale da una parte e originalità del consumatore dall’altra, anche
perché la creazione di nuovi stili è legata in modo inscindibile ai processi
di produzione e pubblicizzazione, che inevitabilmente portano ad una
caduta delle potenzialità sovversive di una sottocultura (le innovazioni
stilistiche punk, per esempio, costituirono e costituiscono tutt’ora un
feedback molto importante sia per l’alta moda che per l’industria
discografica).
Comunque sarebbe un errore considerare solo questo aspetto. Le merci,
infatti, possiedono già un loro significato nel momento in cui giungono sul
mercato, come direbbe Marx esse sono “geroglifici sociali”, ed i loro
significati sono modificati in base all’uso che se ne fa. Così, una volta
prodotte su larga scala, le merci escono dal panorama “privato” della
sottocultura e vengono codificate, rese comprensibili e trasformate in
merce che dà profitto.

8.2 La forma ideologica

Come abbiamo già visto, i media rendono le sottoculture sia più esotiche
che più terra a terra allo stesso tempo. Questo paradosso ci viene esposto
molto bene da Roland Barthes quando parla di identificazione,
descrivendo il piccolo borghese come “una persona incapace di
26
immaginare l‟Altro […], l‟Altro è uno scandalo che attenta all‟essenza” .
Per affrontare questa minaccia, esistono due possibili risposte: la prima è
rendere “banale” l’Altro. In questo caso ci si limita semplicemente a
25
E‟ qui lampante l‟esempio dell‟utilizzo della svastica nazista per adornare le giacche da parte dei punk, i
quali utilizzavano di proposito quel simbolo per suscitare sdegno e scalpore e non per sostenere un‟ideologia
filo-nazista. Questo piccolo aneddoto creò non poche incomprensioni tra stampa e personaggi punk che
comparivano in televisione o sulle riviste.
26
Barthes, Roland, Miti d‟oggi, Torino, Einaudi, 1974, pag. 231

[24]
negare la diversità, riducendo ogni Altro all’identico. L’alternativa è
trasformare l’Altro in qualcosa di insignificante, un “puro oggetto,
spettacolo, clown” 27 allo scopo di ridurne la potenziale minacciosità.
Tutto questo in attesa che la sottocultura venga assimilata, “digerita” dalla
società e resa accettabile. E’ necessario stabilire una distinzione molto
marcata tra la “manipolazione” ideologica e quella commerciale di una
sottocultura, ma è inevitabile che i due processi si sviluppino
parallelamente. “La restituzione simbolica delle figlie alla famiglia, dei
devianti all‟ovile, fu intrapresa nel momento in cui la estesa capitolazione
dei musicisti punk alle forze del mercato venne impiegata da parte di tutti i
media per illustrare il fatto che i punk erano „soltanto degli umani,
dopotutto“ 28.

9. Lo stile e l’abbigliamento: il bricolage


“I capelli sono fondamentali: bisogna
assolutamente tenerli dritti come spilli”
– Marco Philopat –

Abbiamo visto che ogni sottocultura è soggetta ad un ciclo che conduce


dall’opposizione iniziale all’integrazione e come i media e il mercato
entrino in questo ciclo, ma non abbiamo ancora parlato di cosa comunichi
lo stile sottoculturale in sé. Per fare questo dobbiamo rivolgere alla
sottocultura due domande: Che senso ha “sottocultura” per i suoi membri?
In che modo si fa sì che essa significhi disordine?
Per rispondere a queste domande, apparentemente paradossali tra di
loro, è necessario definire meglio cosa significhi il termine “stile”. Roland
Barthes contrappone l’immagine pubblicitaria “intenzionale” alla fotografia
di cronaca, apparentemente “innocente”. Entrambe sono complesse
articolazioni di codici e pratiche specifici, ma la foto di cronaca appare più
29
naturale e trasparente della pubblicità” . La stessa distinzione che fa
Barthes può essere usata analogamente per esporre la differenza tra stile

27
Ibidem p.232
28
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 108
29
Ibidem pag. 113

[25]
sottoculturale e stile “normale”. Lo stile sottoculturale – gli abiti, il ballo, il
gergo, la musica, ecc … – ha lo stesso rapporto verso forme più
tradizionali di quello che la pubblicità ha nei confronti della fotografia di
cronaca in Barthes: esso è deliberatamente costruita ed enfatizzata, e
appare quindi meno “naturale” rispetto ad uno stile “normale”.
Ovviamente, come indicano i semiologi, questa significazione non è
intenzionale, ma ogni oggetto può essere visto come segno e, in quanto
tale, portatore di significato. Per esempio l’abito portato da un uomo medio
viene scelto in base a diversi criteri (gusto personale, possibilità
economiche, ecc …), tutti quanti indubbiamente significativi. “Ciascun
apparato occupa un posto in un sistema interno di differenze che
30
corrisponde ad una serie parallela di ruoli e scelte prescritte dal sociale”
e queste scelte contengono un insieme di messaggi che vengono
trasmessi tramite distinzione tra una quantità di apparati differenti. Si tratta
di una comunicazione non intenzionale e sono espressioni della normalità,
intesa come opposto della devianza, che “risalta” proprio per la loro
“invisibilità”. Questo è ciò che distingue gli apparati visivi delle sottoculture
spettacolari da quelli privilegiati della cultura che sta loro intorno: essi
mettono in mostra i loro codici, si veda per esempio la maglietta stracciata,
autentico simbolo punk. Questo va in controtendenza rispetto alla cultura
principale, la cui caratteristica essenziale è, per dirla con Barthes,
“costituita da una tendenza a mascherare la natura, a sostituire forme
normalizzate a forme storiche, a tradurre la realtà del mondo in
un’immagine del mondo che a sua volta si presenta come composta
31
secondo le leggi evidenti di un ordine naturale” .
E’ in questo senso che possiamo dire che le sottoculture trasgrediscono le
leggi dell’ “uomo secondo natura”, tramite la ricontestualizzazione di
oggetti tramite il sovvertimento dei loro usi convenzionali e l’invenzione di
usi nuovi e alternativi. “I capelli sono fondamentali – bisogna
assolutamente tenerli dritti – in piedi – come spilli – borchie – sono un
simbolo importante – Le punte rigide significano odio – i capelli devono
stare in piedi – incazzati con il mondo intero […] ecco adesso sei un vero

30
Ibidem, pag 114
31
Ibidem, pag 115

[26]
32
punk da strada – non certo una moda […]” . E’ così che ci spiega Marco
Philopat, coi suoi trattini, cos’è un vero stile sottoculturale, la
comunicazione di una diversità significativa, di un’identità di gruppo, è
questa la qualità essenziale di tutte le sottoculture spettacolari.

Ma torniamo alla precedente analogia: se la sottocultura spettacolare è


comunicazione intenzionale, che cosa viene con precisione comunicato e
pubblicizzato?
E’ tramite lo stile che la sottocultura rivela la propria, segreta, identità e
comunica i propri significati proibiti. E’ dal modo in cui gli oggetti sono
utilizzati nella sottocultura che la sottocultura stessa si distingue dalle altre
formazioni culturali. Si rivelano pertanto utili le scoperte fatte dagli
antropologi, in particolare il concetto di “bricolage”, che può essere usato
per spiegare molto al riguardo degli stili sottoculturali.
Lèvi-Strauss nel suo “il pensiero selvaggio” studia le usanze magiche dei
popoli primitivi, arrivando a “dimostrare come esse possano essere
considerate come sistemi di connessione coerenti fra cose che forniscono
ai loro utenti i mezzi atti a “pensare il loro mondo” 33. Questi sistemi magici
hanno tutti in comune la capacità di estendersi all’infinito, in quanto i loro
elementi possono essere usati in diverse combinazioni improvvisate per
generare nuovi significati. Questa pratica viene definita appunto bricolage
e viene descritto come una scienza associativa del concreto. E' un
bricoleur colui che arrangia e riarrangia un insieme di materiali ben
conosciuti, “è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati,
ma […] egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi
concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto:
il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste
nell'adattarsi sempre all'equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme
via via finito di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti [...]. Egli interroga
tutti quegli oggetti eterocliti che costituiscono il suo tesoro, per
comprendere ciò che ognuno di essi potrebbe "significare", contribuendo

32
Philopat, Marco, Costretti a sanguinare, Einaudi, Torino, 2006, pag.1
33
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 116

[27]
così alla definizione di un insieme da realizzare che alla fine, però, non
differirà dall'insieme strumentale se non per la disposizione interna delle
34
parti.” Quando il bricoleur ricolloca un oggetto significante in una
posizione diversa all’interno di un discorso, usando lo stesso repertorio di
segni, o quando quell’oggetto è disposto in un insieme differente nella sua
totalità, si costituisce un discorso nuovo, un messaggio differente.
Dato per assunto questo concetto, possiamo dire che i teddy boys, i mods,
gli skinhead e (soprattutto!) i punk erano tutti quanti dei bricoleur. I
contrassegni convenzionali erano spogliati delle proprie connotazioni
originarie e trasformati in feticci “vuoti”. Hebdige utilizza un’espressione di
35
Umberto Eco per descrivere queste pratiche: “guerriglia semiologica” .

Nei suoi manifesti, Andrè Breton aveva già teorizzato i moduli del discorso
anarchico tipico dei punk, teorizzando le premesse del surrealismo e le
sue pratiche estetiche radicali, come il collage: una nuova realtà (ma forse
sarebbe meglio parlare di “surrealtà”) sarebbe emersa dallo
stravolgimento del senso comune, dal collasso delle categorie e delle
opposizioni logiche predominanti e dalla celebrazione dell’anormale.
Nella “crisi dell‟oggetto” Breton teorizza questa estetica, dimostrando che
tale attacco alla vita quotidiana, inciterebbe ad una rivoluzione totale
dell’oggetto, che avverrebbe tramite una “mutazione di funzioni” 36.
Naturalmente queste pratiche surrealiste trovano il loro corollario nel
bricolage. Come sostiene Max Ernst “Il bricoleur sottoculturale, come
l’autore del collage surrealista, attua in maniera abbastanza tipica
l’accoppiamento di due realtà in apparenza non accoppiabili su un piano in
apparenza estraneo […] ed […] è qui che avviene una congiunzione
esplosiva” 37.

34
Lévi-Strauss, Claude, Il pensiero selvaggio( ed .orig. Parigi, Plon, 1962), Milano, EST, 1996, pp. 29-31,
35
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag. 117
36
Breton, Andrè, Andrè Breton e il surrealismo, Milano, Margoni, 1976, pag. 597-598
37
tratto dal numero 6-7 della rivista Cahiers d‟Art, 1937, (trad. it. Ernst, Max, scritture, cit., p.264)

[28]
Scegliendo una sottocultura come il punk e prestandogli maggiore
attenzione, nei dettagli, potremo capire più dettagliatamente i problemi e le
tematiche da affrontare nella lettura di uno stile.

CAPITOLO TERZO

LA MUSICA NELLA SOCIOLOGIA


“Non si può capire la musica senza capire la
società, ma soprattutto non si può capire la società
senza capire la musica, senza una musicologia
della cultura. Non è ora di provarci?”
-F. Fabbri, 2001, pag. 11-

1. La sociologia della musica

Gli albori della sociologia della musica sono stati bollati come facenti
parte di una disciplina disordinata e dai confini incerti. Negli ultimi periodi,
grazie anche ai recenti studi culturali di cui la musica fa indubbiamente
parte, hanno visto questa disciplina acquistare nuova vita e visibilità.
Le prime ricerche empiriche sulla popular music contemporanea prendono
avvio negli anni Cinquanta, in coincidenza con il crescente interesse verso
il mondo giovanile dato dalla comparsa sulle scene della figura del
teenager, concetto coniato dal marketing per identificare il nuovo target di
consumatori.
Si viene, così, a costituire un solido legame tra giovani e musica pop: “nel
momento in cui, per la prima volta nella storia, i giovani si presentano
come soggetti autonomi di consumo incontrano sonorità, ritmiche,
coreografie di uno stile musicale che rappresenta una netta rottura rispetto
alle tradizioni dell’Occidente bianco, offrendosi come fertile territorio
simbolico che fornisce stimoli e risposte per i bisogni di identificazione e
appartenenza e per agire le diverse componenti del conflitto
38
intergenerazionale” . Il medium musicale è, infatti, per i giovani uno

38
Torti, 2000, pag. 292

[29]
strumento di contrapposizione e di differenziazione dal mondo adulto e,
allo stesso tempo, integra il loro stile di vita definendone gli ambiti di
appartenenza simbolica e culturale. Emerge, dunque, come il legame tra i
giovani e la musica sia profondo e come quest’ultima rappresenti “un vero
e proprio agente di socializzazione in quanto produce e veicola specifiche
cornici di rappresentazione della realtà, di archetipi valoriali e culturali, di
modelli di interazione tra individuo e società e fra individuo e individuo” 39.
Dal rapporto fra popular music e socializzazione giovanile, investigato
attraverso la dimensione dominante del consumo, si sviluppa la
prospettiva del mio studio che arriva ad analizzare come tramite
connessioni di stile di vita, musica, età, classe sociale e specifiche
circostanze storiche, nascano e si formino delle sottoculture giovanili, la
cui analisi non è mai scontata.

Il concetto di sociologia della musica può sembrare stridente nei confronti


di un concetto di sociologia intesa come materia scientifica e sistematica,
eppure qui si cercherà di avanzarne una idea di settore “specializzato”, in
compartecipazione con la musicologia, della disciplina più ampia.
Per musicologia si intende quella disciplina che studia il fenomeno della
musica nel mondo e la sua branca meno contaminata dalle altre discipline
ritiene tutto ciò che non è ricerca storico-biografica, più spesso chiamata
“analisi”, deve essere guardato con sospetto, così come la musicologia
stessa non dovrebbe impegnarsi nello studio di un passato remoto,
precedente alle opere di Mozart.
In questo ambito la musica si rivela nuovamente una forma d’arte sui
generis, in quanto sono sempre stati filosofi, letterati e musicisti ad
occuparsi di “filosofia della musica”, mai musicologi nel senso stretto,
come invece avviene in altri ambiti come la storia dell’arte, da sempre
orientata verso una fenomenologia culturale della stessa e in cui la ricerca
sociologica doveva avere (e ha anche oggi) un ruolo determinante.
Il sociologo che più di tutti si è avvicinato a questo obiettivo è stato
Theodor W. Adorno che nelle sue dodici lezioni, da lui presentate come

39
Ibidem, pag 203

[30]
“introduzione alla sociologia della musica”, cerca di trattare l’argomento,
senza però fornire una metodologia ben definita e quindi negando i
caratteri di sistematicità alla ricerca. Adorno rifiuta sia la sociologia
empirica e relativista, sia quella statistico-descrittiva, la prima in quanto ha
il difetto di limitarsi unicamente ad una descrizione della realtà sociale nel
suo insieme, la seconda in quanto fornisce protocolli statici “buoni,
40
semmai, per l’industria culturale” ; Adorno però non fa una critica
negativa tout court come troppo spesso gli è stato imputato, bensì
sostiene che i tempi non siano ancora maturi per questo genere di attività,
che effettivamente portano pochi contenuti utili per definire il rapporto tra
musica, cultura e classi sociali.
Questo triplice rapporto è alla base della ricerca adorniana. Infatti la sua
attenzione non è rivolta a considerare solo l’aspetto storico dell’opera
musicale, ma vuole concentrarsi anche e soprattutto sugli effetti attuali,
quindi nei significati e nelle funzioni che la musica assume in una civiltà
dei consumi come la nostra, caratterizzata dai mass media e dall’industria
culturale. Adorno sogna “una sociologia musicale in cui la musica significhi
più di quanto le sigarette o il sapone significhino nelle inchieste di
mercato”, essa “necessita non solo di essere conscia della società e della
sua struttura, […] ma ha bisogno di intendere a fondo la musica in tutte le
sue implicazioni. Una metodologia che non tenesse conto di tale
comprensione […] e la ritenesse troppo soggettivistica, finirebbe essa sì
vittima del soggettivismo, del valore medio delle opinioni accertate” 41.
Per Adorno, che sosteneva che la musica fosse ideologia solo nella
misura in cui è generatrice di falsa coscienza, la sociologia musicale
dovrebbe partire “dalle fratture dell’accadimento musicale nel momento in
cui queste non sono esclusivamente da imputare all’insufficienza
soggettiva di un singolo compositore: la sociologia musicale è critica
sociale che si svolge attraverso la critica artistica” 42.

40
Adorno, Theodor W., Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, pag. VIII
41
Ibidem, pag. XXI
42
Ibidem, pag. 77

[31]
In questo capitolo andremo ad analizzare alcune delle lezioni del
sociologo tedesco, scegliendo tra le dodici quelle che sono indicate per
l’oggetto della tesi.

2. Tipi di comportamento musicale

Per impostare una corretta analisi sociologica della musica, Adorno parte
giustamente dal considerare il principale attore sociale dell’argomento
ossia l’ascoltatore, o meglio parte dal “rapporto tra gli ascoltatori di
43
musica, intesi come individui socializzati, e la musica stessa” , fissando
così anche le basi per una psicologia sociale dell’ascolto. Non è una
scelta facile in quanto, ovviamente, indagare scientificamente ciò che è
una esperienza soggettiva è un ostacolo non da poco, infatti Adorno
specifica che la sua non vuole essere una classificazione assoluta,
tuttavia ritiene possibile ricavare uno schema utile all’indagine sociologica
semplicemente basandosi sul comportamento dell’ascoltatore nei differenti
ambienti musicali che frequenta e sulle sue preferenze relative al
consumo di musica. Le tesi di Adorno non sono pregiudiziali, egli intende
gli ascoltatori come “profili con valore qualitativo, attraverso i quali è
possibile intendere qualcosa sull’ascolto musicale inteso come indice
44
sociologico, e magari anche sulle sue differenziazioni e determinanti” .
Arriva così a definire sei tipi ideali di comportamento musicale che, in
quanto tali, escludono le sfumature esistenti tra una tipologia e l’altra.

La prima tipologia che Adorno analizza è l’esperto, ossia l’ascoltatore che


in ogni momento sa rendersi conto di ciò che ha ascoltato e lo fa sempre
nel modo adeguato. “Egli assomma nell’ascolto il susseguirsi di vari
momenti […] in modo che gli si configura un senso compiuto, e sa cogliere
distintamente anche complessità simultanee […]. Tale comportamento
45
pienamente adeguato andrebbe definito come ascolto strutturale” . Si
tratta, in pratica, di un ascoltatore con grandi conoscenze tecniche che gli

43
Ibidem, pag 3
44
Ibidem, pag 4
45
Ibidem, pag 7

[32]
permettono di comprendere la logica e la struttura musicale più
complessa. Potremmo dire che, al giorno d’oggi, questa tipologia di
ascoltatore è limitata ai musicisti di professione, quindi dal punto di vista
quantitativo sono quasi trascurabili.
Il secondo tipo è il buon ascoltatore, che potremmo quasi considerare un
ascoltatore esperto ma meno dotato di conoscenze tecniche. Anche questi
ascolta andando oltre il singolo dettaglio, realizzando spontaneamente i
nessi e giudicando a ragion veduta e non solo secondo criteri di gusto
personale. Egli non è, però, del tutto conscio delle implicazioni tecniche e
strutturali e “capisce la musica all’incirca come uno capisce la propria
46
lingua anche se sa poco o niente della grammatica o della sintassi” .
Questa attitudine alla musicalità si è formata storicamente attraverso una
certa omogeneità della cultura musicale e tramite una certa compattezza
della situazione generale, almeno per quanto riguarda quella dei gruppi
sociali in grado di “accedere” alle opere d’arte. Adorno suppone che, in
proporzione con il crescente imborghesimento della società, l’aumentare
dei consumatori di musica e con l’aumentare degli scambi, la categoria del
buon ascoltatore sia sempre più rara. “Si manifesta una polarizzazione
verso le manifestazioni estreme della tipologia: di massima oggi un
individuo capisce tutto o non capisce niente” 47.

Il terzo tipo studiato da Adorno, praticamente raccoglie l’eredità dei due


tipi precedenti. Si tratta dell’ascoltatore colto o consumatore di cultura. Egli
ascolta molto ed è ben informato, rispetta la musica in quanto bene
culturale, spesso come qualcosa da conoscere per il proprio prestigio
personale. Il rapporto diretto e nozionistico con la musica, insieme alla
capacità dell’interpretazione strutturale, vengono sostituiti da una grande
quantità di informazioni sulla musica, con particolare riferimento ai fatti
biografici degli interpreti. Questo tipo di ascoltatore possiede di ampie
nozioni sulla letteratura musicale, ma sono nozioni che gli permettono
unicamente di canticchiare un tema, o riconoscerlo velocemente durante
un ascolto. “Il suo rapporto con la musica ha nel suo insieme qualcosa di

46
Ibidem, pag 8
47
Ibidem, pag 9

[33]
48
feticistico” , egli consuma secondo il metro del piacere del consumo, di
ciò che la musica gli “dà”. Egli supera il piacere della musica intesa come
opera d’arte, il più delle volte è interessato a ciò che egli chiama il “suono”
e non alla struttura musicale nel suo insieme. Egli non è tanto distante
dall’ascolto massificato, oggi largamente diffuso, eppure si atteggia a
nemico della massa, a uomo d’èlite. Si tratta di una categoria fortemente
conservatrice in senso reazionario. Quasi sempre costoro sono ostili alle
novità, alla musica avanzata, e dimostrano a se stessi il proprio livello
infuriando contro “questa robaccia”. Per Adorno, anche questo gruppo
risulta quantitativamente irrilevante, come il precedente, ma con la
differenza che in questo caso si tratta di un gruppo “determinante, che
decide in larga misura della vita musicale ufficiale. […] Essi pilotano quel
gusto reificato che a torto si reputa superiore al gusto dell’industria
culturale: i beni culturali musicali amministrati da questo tipo sociologico si
mutano […] in beni del consumo manipolato” 49.

A questo tipo di ascoltatore, Adorno accosta un altro tipo, il quarto, che a


sua volta non obbedisce alla relazione con la natura di ciò che ascolta, ma
alla propria mentalità: l’ascoltatore emotivo. Il suo rapporto con la musica
è meno rigido del consumatore di cultura ed è più diretto, ma in un certo
senso il suo approccio lo rende ancora più distante di ciò che percepisce.
L’ascolto di musica gli pare essenziale per liberare stimoli istintuali
altrimenti tenuti a bada dalle norme sociali, e spesso la musica è una fonte
di irrazionalità. Ciò ha ben poco a che vedere con la musica ascoltata,
dato che la funzione di questa è prevalentemente la funzione liberatrice di
cui si è appena detto. Questo tipo di ascoltatore reagisce alla musica
come fa per le energie fisiche (si avverte la luce solo quando se ne è
colpiti sull’occhio). Come in campo musicale, questo tipo ideale è ingenuo
anche nel comportamento generale: “l’immediatezza delle sue reazioni fa
tutt’uno con un accecamento a volte caparbio nei confronti della cosa a cui

48
Cfr. Adorno, Theodor W., Dissonanze, Milano, Feltrinelli, 1959, pag 7, saggio: il carattere di feticcio nella
musica e la regressione dell‟ascolto
49
Adorno, Theodor W., Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, pag 11

[34]
50
reagisce” . Secondo Adorno, rimane comunque un tipo difficile da
identificare dal punto di vista sociale; gli si deve concedere che forse egli è
veramente meno indurito e soddisfatto di sé rispetto al consumatore di
cultura, ma potrebbero appartenere a questa categoria proprio quelli che
51
Adorno chiama gli ottusi professionisti , che cercano compenso per ciò
cui devono altrimenti rinunciare in un campo che resta privo di
conseguenze per la loro vita. L’ascolto cosciente viene considerato un
comportamento freddo e il tipo emotivo resiste al tentativo di condurlo
verso un ascolto strutturale, forse in modo ancor più forte del consumatore
di cultura.

Adorno passa poi ad analizzare un fenomeno tipico della Germania della


sua epoca, ma penso sia riconducibile anche al resto della comunità
occidentale. E’ L’ascoltatore risentito, una categoria che nasce in
contrapposizione all’ascoltatore emotivo e che, invece di liberarsi nella
musica dalla proibizione del sentimento impostagli dalla civiltà, se ne
appropria eleggendola a propria norma del comportamento musicale. Egli
disprezza la vita musicale ufficiale, in quanto illusoria, e si rifugia in
epoche del passato che ritiene al sicuro della mercificazione dilagante. Il
suo è quindi un ideale di ascolto statico – musicale. L’ascoltatore risentito
che, protestando contro la routine musicale convenzionale, è
apparentemente non conformista, simpatizza in tal modo con ordinamenti
e con collettività solo in quanto tali. Nella loro sfera specifica, gli ascoltatori
risentiti sono esperti, e sanno anche far musica attivamente. Insomma,
tutto liscio come l’olio, se non fosse che essi ignorano interi settori
musicali che invece sarebbe importante conoscere e approfondire.
L’assoluta fedeltà a questo settore specifico diventa fine a se stessa:
all’ascoltatore risentito non interessa tanto presentare e cogliere in modo
adeguato il significato delle opere, quanto “vigilare zelanti che non ci si
discosti nel minimo particolare da ciò che ritengono essere stata la prassi
52
esecutiva di epoche passate” . L’ascoltatore risentito “mira a un falso

50
Ibidem, pag. 12
51
Ibidem, pag. 12
52
Ibidem, pag. 14

[35]
rigore che realizza l’oppressione meccanica dei propri stimoli in nome di
53
un’intima partecipazione alla sua collettività” . In Germania, continua
Adorno, costoro erano chiamati “musikanten” e rappresenta l’opposto di
quello a cui gli ascoltatori risentiti in realtà ambiscono, infatti questa
categoria di ascoltatori mira a “realizzare nell’arte stessa il primordiale
54
tabù della civiltà relativo all’impulso mimetico di cui l’arte vive” . Adorno
però conclude qui la sua analisi di questo idealtipo, affermando che
questo tipo di ascoltatore non è stato ancora analizzato a fondo in sede
sociale. Ipotizza però che esso sia per lo più reperibile tra gli strati della
piccola borghesia di grado più elevato, che mira a posti più alti della scala
sociale ma allo stesso tempo ha il timore di subire una “proletarizzazione”
in ambito del mondo borghese. Questo conflitto tra situazione sociale e
ideologia porta alla coscienza e alla posizione nei confronti della musica
dell’ascoltatore risentito.

Adorno prosegue la sua analisi parlando di un tipo ideale di ascoltatore


che ha parecchie affinità con quest’ultima categoria, si tratta dell’ esperto
di jazz (o fan di jazz) che presenta analogie con gli ascoltatori risentiti sul
piano della protesta - socialmente integrata, e divenuta quindi innocua -
contro la cultura ufficiale e nel carattere di setta. Il tipo dell’ascoltatore di
jazz ha in comune con l’ascoltatore risentito anche l’avversione contro
l’ideale di musica classico – romantica, solo che gli manca il gesto
ascetico – sacrale. Data la sua giustificata avversione verso i paroloni
culturali, preferirebbe sostituire il comportamento estetico con un
comportamento sportivo – tecnicizzato. Si ritiene (sbagliando) ardito e
d’avanguardia, mentre anche le sue punte estreme sono state superate
dalla musica seria da più di cinquant’anni. Adorno rileva in questa
incapacità di pensare la musica in modo dinamico un carattere di individuo
legato al principio di autorità, nella fattispecie coi caratteri del complesso
di Edipo freudiano. Per la coscienza sociale questo tipo è ritenuto di
massima progressivo e, ovviamente, si trova per lo più tra i giovani, anche
se viene collocato e sfruttato anche dal mercato dei teenager. Difficilmente

53
Ibidem, pag. 14
54
Ibidem, pag. 15

[36]
proteste di questo tipo durano a lungo, mentre in molti durerà a lungo la
disposizione ad integrarsi. Gli ascoltatori di musica jazz sono in
disaccordo tra loro e ogni gruppo coltiva le sue varietà specifiche. Infine,
per completare il quadro va aggiunta l’incapacità dilettantistica di render
conto dei fenomeni musicali con concetti musicali esatti, un incapacità che
viene giustificata tirando in ballo la difficoltà di cogliere esattamente il
segreto delle irregolarità del jazz.

Da un punto di vista strettamente qualitativo, Adorno osserva che


l’ascoltatore di musica per passatempo rappresenta la stragrande
maggioranza dei consumatori di musica, il che potrebbe far sorgere la più
che lecita domanda sul perché, di fronte alla più che evidente
preponderanza di questa tipologia, valga la pena che la sociologia sviluppi
tipologie che vadano molto più in la. La risposta appare più chiara non
appena si considera la musica non solo come un “Per Altro, come una
funzione sociale, ma come un A Sé, e se si collega la problematica sociale
della musica proprio con la sua socializzazione” 55.
L’ascoltatore per passatempo è un oggetto dell’industria culturale, sia che
essa vi si adegui, sia che la stessa lo plasmi, e per questo andrebbe
56
messo in rapporto con “il fenomeno […] di un’ideologia unitaria livellata” .
Bisognerebbe pertanto analizzare se le differenze sociali di questa
ideologia si verifichino anche negli ascoltatori per passatempo. Adorno
avanza l’ipotesi che esista uno “strato inferiore” che si abbandona al
passatempo passivamente, mentre uno “strato superiore” lo adatta
idealisticamente, come spirito e come cultura, facendo poi una scelta: a
questa tipologia risultante dal compromesso tra ideologia e ascolto
corrisponderebbe la musica leggera di buon livello. “Il tipo di ascoltatore
per passatempo è anticipato in quello del consumatore di cultura: la
57
musica per lui non è nesso significante ma fonte di stimoli” .
Adorno poi parla di coloro che ascoltano la radio senza ascoltare sul serio,
facendo un parallelo con la morbosità. In genere un comportamento

55
Ibidem, pag. 19
56
Ibidem, pag. 19
57
Ibidem, pag. 19

[37]
morboso ha delle componenti sociali, in quanto è una possibile reazione
all’atomizzazione che va di pari passo con l’infittirsi della rete sociale.
Peraltro la tendenza alla morbosità è innata alle costruzioni sociali e non
può essere repressa facilmente. L’individuo morboso si rassegna così alla
situazione di oppressione sociale e alla propria solitudine, aggiustandole
come se fossero realtà che possiedono una propria specifica natura.
Dicendo “lasciatemi stare” egli si crea un mondo privato dove (crede di)
poter essere se stesso. Ma, come ci si può aspettare quando manca ogni
rapporto con la cosa (come in questo caso), anche quello spazio privato è
vuoto, astratto. La risultante di questo conflitto sono tutti quegli schemi
comportamentali che soddisfino moderatamente la necessità maniacale
senza però pregiudicare eccessivamente la morale lavorativa e la
sciabilità; a tal proposito Adorno porta come esempio l’atteggiamento
indulgente che la società ha nei confronti del consumo di alcolici, o
58
l’approvazione del fumare. La “mania della musica” di una certa
porzione di ascoltatori potrebbe avere lo stesso significato, il carattere di
compromesso di cui si è parlato non potrebbe essere più nitido nel
comportamento di colui che lavora con la radio accesa.
In virtù di quanto detto è evidente che risulta difficile collegare l’ascoltatore
per passatempo a un determinato gruppo sociale, esso può essere
descritto adeguatamente soltanto in relazione ai mass media. Dal punto di
vista psicologico, invece, è abbastanza evidente la debolezza del suo io:
l’ascoltatore per passatempo è colui che applaude entusiasta all’apparire
dei segnali luminosi durante le trasmissioni televisive. “Scettico solo nei
riguardi di ciò che lo costringe a pensare con la sua testa, egli è pronto a
solidarizzare con la propria veste di cliente, ed è ostinatamente convinto
della facciata della società quale gli si presenta sulle copertine dei
rotocalchi” 59. Questo tipo di ascoltatore non ha un preciso profilo politico e
si adegua, in campo musicale come nella realtà quotidiana, a qualsiasi
forma di dominio non pregiudichi troppo apertamente il suo standard di
consumatore.

58
Ibidem, pag. 20
59
Ibidem, pag. 22

[38]
Adorno conclude poi la sua analisi sui diversi tipi di comportamento
musicale analizzando l’ ascoltatore indifferente o antimusicale riuniti in un
solo tipo. Si tratta, per l’autore, non di una mancanza di predisposizione
naturale, ma di processi psicologici verificatisi nella prima infanzia: Adorno
ipotizza che in quell’epoca della vita, “un’autorità estremamente brutale ha
60
causato in questo tipo delle deficienze” . Questo tipo di ascoltatore
procede evidentemente di pari passo con una mentalità realistica
eccezionale, quasi patologica. Non sorprenderebbe però nemmeno che
esso si trovasse per reazione entro gruppi che per privilegio di educazione
e per situazione economica siano esentati dalla cultura borghese. Ma il
discorso non è semplice da sviscerare in quanto non è ancora stato
studiato cosa significhi, in senso sociologico, l’essere insensibili all’arte: in
questo c’è ancora molto da imparare.

Nel quadro dello schema adorniano di classificazione, le differenziazioni


sociali non hanno un peso determinante e i vari tipi ideali, o almeno molti
di essi, compenetrano vari strati sociali. Sarebbe insufficiente voler
ricondurre i vari tipi, e la preminenza in essi del tipo dell’ascoltatore per
passatempo, al concetto della massificazione. Nell’ascoltatore per
passatempo, indipendentemente da ciò che v’è in lui di falso, le masse
non si uniscono nella rivolta contro una cultura che viene loro occultata
nella fase dell’offerta. Il loro moto è un moto di riflesso, è il disagio della
cultura diagnosticato da Freud che si rivolta contro questa. Di fronte a tali
complicazioni, però, non si può puntare il dito verso nessuno dei milioni di
uomini angosciati, irretiti, spremuti, dicendo loro che dovrebbe capire
qualcosa di musica, ma l’incapacità dimostrata di fronte alla cultura
obbliga a trarre conclusioni sull’incapacità della cultura di fronte agli
uomini e su ciò che il mondo ha fatto di essi. “La contraddizione tra la
libertà nei riguardi dell’arte e le diagnosi dell’uso che di tale libertà si deve
fare, è nella realtà stessa e non soltanto nella coscienza che analizza la
realtà per contribuire in minima parte a trasformarla.” 61

60
Ibidem, pag. 22
61
Ibidem, pag. 25

[39]
3. La popular music

Nel 1937 e dopo un lungo pellegrinaggio che lo ha portato lontano dalla


sua Germania, prima a Parigi e successivamente ad Oxford, Adorno
approda in America, dove continua il suo lavoro di ricerca assieme ai
colleghi della ex scuola di Francoforte. Tra questi vi è anche l’amico-
collega Max Horkheimer, che gli offre il posto nel Princeton Radio
Research Project diretto dall’austriaco, anch’esso esule, Paul Lazarsfeld.
Adorno accettò l’incarico, anche se non aveva nessuna idea di cosa si
trattasse, tant’è che trent’anni dopo dichiarò “l‟uso americano corrente
della parola project mi era sconosciuto. Ero sicuro soltanto che il mio
amico [Horkheimer] non mi avrebbe fatto questa proposta se non fosse
stato convinto che io, da specialista di filosofia, potessi assolvere a quel
compito”. E’ necessario ricordare, infatti, che per larga parte della sua
carriera Adorno si è considerato un filosofo e non uno scienziato sociale, e
che per tutti gli anni Trenta fu più attratto dal lavoro di Walter Benjamin
che dalle indagini socio-psicologiche dell’ Istituto. Tuttavia la fama di
Adorno al momento del suo arrivo in America era da attribuirsi in gran
parte a due brevi studi, in cui la teoria critica veniva applicata proprio alla
sfera della musica, intesa nelle sue diverse espressioni. In uno di questi
studi Adorno, non ancora trentenne e con ancora qualche ambizione per
una carriera da compositore, esaminava la situazione sociale della musica
del suo tempo, avanzando alcune delle sue tesi interpretative che
avrebbero poi caratterizzato il suo lavoro futuro, a cominciare da quella
sulla mercificazione della musica nell’era del capitalismo e la sua
crescente alienazione dalla società. Teorie ricavate da un’estensione della
reificazione di Lukacs alla sfera musicale, che lo portarono a scrivere: “Il
ruolo della musica nel processo sociale è esclusivamente quello di una
merce: il suo valore è quello determinato dal mercato […]. Attraverso
l’assorbimento totale della produzione come del consumo musicale nel
processo capitalistico, l’alienazione della musica dall’uomo è divenuta
62
completa” . L’alienazione della musica dalla società moderna aveva

62
Adorno, Theodor W., Sulla popular music, Roma, Armando, 2004, pag. 14

[40]
radici, secondo Adorno, nella condizione alienata di quest’ultima nella sua
forma capitalista. Nella misura in cui la musica fosse riuscita a sottrarsi a
questo processo, essa avrebbe soddisfatto le sue funzioni sociali, ma a
prezzo di esiliarsi in uno spazio ermetico che l’avrebbe privata delle sue
responsabilità verso la collettività. Questa analisi adorniana del ruolo
contraddittorio della musica nella nostra società intrigò Lazarsfeld che,
sebbene fosse consapevole degli aspetti controversi di questo lavoro,
intrigato dalle sue idee considerava una “sfida” indurre Adorno a tradurre
queste idee in una ricerca empirica.
Scrive ancora Adorno: “cos’è la buona musica? E’ forse quella musica che
viene distribuita e accolta come buona secondo gli standard correnti? […]
Non possiamo accettarla come buona solo sulla base dei nomi dei grandi
compositori, cioè, per una convenzione sociale. Inoltre, è la bontà della
musica invariabile o è qualcosa che può mutare nel corso della storia con
la tecnica a nostra disposizione? […] e per quanto riguarda il vasto
numero di persone che ascoltano la buona musica: come l’ascoltano?
Ascoltano una sinfonia di Beethoven con concentrazione? Sono davvero
63
in grado di farlo, se lo volessero fare?” . A queste e altre domande, che
nascevano da una riflessione sull’obiettivo del Radio project, e cioè offrire
buona musica a un pubblico il più vasto possibile, non sarebbe stato
possibile secondo Adorno rispondere con una ricerca di tipo
amministrativo, mancando a questa la capacità di collegare lo studio dei
singoli atteggiamenti degli ascoltatori alla struttura della società. Una
impostazione critica, invece, non avrebbe potuto non considerare che non
solo viviamo in una società di beni di consumo per cui la soddisfazione dei
bisogni umani è solo incidentale rispetto al fine ultimo, cioè il profitto, ma
anche che in questa stessa società vi è una tendenza generale ad una
forte concentrazione di capitale che limita il mercato libero a favore di una
produzione monopolistica di massa di beni di consumo standardizzati.
Il concetto, cruciale in Adorno, di standardizzazione, porta a studiare i
64
fenomeni legati alla cosiddetta “musica leggera”, o popular music , il cui

63
Ibidem, pag. 18
64
Adorno utilizza spesso il concetto di popular music, che nelle traduzioni in italiano viene spesso tradotto con i
termini di “canzonetta” o “musica leggera”. Ho deciso di lasciare da parte il più possibile questi due termini in
quanto non esattamente coincidenti con il concetto in argomento, e di lasciare il termine non tradotto per

[41]
prototipo è definito dalla canzone di successo. La melodia e il testo di una
canzone di questo tipo devono mantenersi entro uno schema rigoroso,
mentre gli altri settori della musica permettono al compositore di usare una
veste più libera, autonoma. Il che era già stato ammesso già prima delle
ricerche di Adorno attraverso un manuale su come scrivere e vendere
canzoni di successo, nel quale si concede alla popular music l’auto
definizione di custom built. La regola principale, secondo la prassi
americana, è che il ritornello sia di trentadue battute con al centro un
bridge, ossia una parte che riconduce alla ripetizione, una caratteristica
che possiamo benissimo riscontrare anche nei prodotti di oggigiorno.
Il rapporto tra la musica superiore e le sue forme storiche è dialettico.
Essa le rifonde, le fa scomparire e ritornare. La popular music, invece, usa
le forme come vasi vuoti in cui la materia viene compressa senza
interazione tra sé e le forme. In pratica l’efficacia delle “canzonette”, o per
dirla con Adorno la loro “funzione sociale”, è quella di costituire uno
schema di identificazione, paragonabile quindi a quella del divo del
cinema o di certi slogan pubblicitari. Le canzonette, oltre a far appello ad
una massa isolata, a individui atomizzati, si rivolgono a individui immaturi,
che non sono padroni dell’espressione delle proprie emozioni ed
esperienze sia perché manca loro qualsiasi capacità d’espressione, sia
perché questa è intristita per effetto dei tabù dettati dalla nostra civiltà.
Esse forniscono agli individui impegnati dal lavoro, la sostituzione di
sensazioni purchessia. Scrive Adorno “le canzonette canalizzano
sentimenti – il che significa ammetterli – oppure adempiono l’aspirazione
65
verso questi ponendosi al loro posto” . Le popular songs diventano tali
grazie alla capacità di assorbire o fingere emozioni assai sparse; hanno la
loro parte in ciò le formulazioni reclamistiche del testo, specie dei versi
salienti, i cosiddetti “ritornelli”. Ma, stando a ricerche condotte in America,
la loro importanza è comunque inferiore alla musica stessa. Per rendersi
conto di questo, Adorno suggerisce di pensare a processi analoghi di altri

rispettare l’assenza di un suo esatto equivalente in lingua italiana. La traduzione che verrebbe più spontanea,
infatti, sarebbe “musica popolare”, ma tutti quanti sanno che questo concetto in inglese coincide con “folk
music” e risulta, quindi, inadatto al nostro scopo.
65
Adorno, Theodor W., Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, pag. 33

[42]
mezzi di comunicazione di massa che fanno uso di parole o immagini. Un
individuo che ricorda e riconosce una canzone sentita alla radio, infatti,
diventa il soggetto ideale della canzone stessa: egli si sente meno solo in
quanto inserito nella comunità dei fan; chi fischietta tra sé e sé una
canzone si inchina a un rituale di socializzazione.
La banalità della musica leggera odierna ci da una misura di quello che è il
suo aspetto decisivo, che Adorno individua nella volgarità. “Si potrebbe
quasi sospettare che gli ascoltatori siano interessati nella maniera più
fervida proprio a questo aspetto: la loro mens musicale ha davvero come
massima la frase brechtiana <<ma io non voglio affatto essere un
uomo>>. Riesce loro penoso tutto ciò che, musicalmente, gli ricorda loro
stessi, la problematicità e la possibile elevazione della loro esistenza; e
proprio perché in realtà sono separati da ciò che potrebbero essere,
66
vengono presi d’ira quando l’arte glielo ricorda” . Tutto questo ha radici
sociali: la volgarità consiste nell’identificazione con l’avvilimento, dal quale
la coscienza prigioniera, vittima di esso, non riesce ad uscire. E se la
cosiddetta arte inferiore del passato ha provveduto a tale avvilimento,
rendendosi sempre disponibile ad individui avviliti, oggi si organizza e
amministra l’avvilimento stesso. Questa è l’ignominia della popular music,
non quello che viene solitamente rimproverato ad essa con frasi fatte
come “mancanza di spiritualità”.
La standardizzazione della musica, su cui Adorno preme forte, non deve
essere interpretata da un punto di vista strettamente compositivo,
musicale, quanto da un punto di vista sociologico. Essa mira a reazioni
standardizzate, e il successo che incontra conferma che l’operazione è
riuscita; ipotesi rafforzata se si va a considerare anche la violenta
avversione dei seguaci per tutto ciò che potrebbe essere diverso dalla
musica in argomento. L’ascolto della popular music non è manipolato
tanto dagli interessati che la producono e diffondono, quanto da essa
stessa, dalla sua natura. Essa stabilisce nella sua “vittima” un insieme di
riflessi condizionati che portano all’ ideal tipo dell’ascoltatore per
passatempo. “Condizionato allo schema, l’ascoltatore risolve

66
Ibidem pag 34

[43]
immediatamente la digressione nella familiarità delle sue reazioni già
condizionate. La composizione <<ascolta>> per l’ascoltatore,
lontanamente paragonabile in ciò alla tecnica del film in cui la
rappresentanza sociale dell’obiettivo della macchina da presa si inserisce
da parte della produzione tra il prodotto e il frequentatore del cinema,
anticipando le sensazioni con cui questi deve guardare. La musica
leggera, che proclama come sua unica norma la necessità di distendere
gli ascoltatori dopo il faticoso processo lavorativo, non esige, e quasi
neppure tollera, spontaneità e concentrazione all’ascolto […]. La passività
incoraggiata si inserisce nel sistema dell’industria culturale inteso come
67
sistema di istupidimento progressivo” . Questo non significa che ciò arrivi
direttamente dai singoli pezzi, ma che il fan viene “ammaestrato” dal
sistema della popular music ad una passività che probabilmente straripa
anche nel suo modo di pensare e nei suoi atteggiamenti sociali extra-
musicali. La standardizzazione, che scaturisce inevitabilmente dalle
condizioni dell’economia contemporanea, costituisce dunque uno dei
mezzi per conservare la società di consumo ad uno stadio in cui ha perso
la sua ragione d’essere. In altre parole, il modo di produzione e
distribuzione capitalistico del materiale musicale svolge anche una
funzione conservatrice dell’ordine esistente nella misura in cui riesce a
trattenere gli ascoltatori dal criticare le realtà sociali e a promuovere l’idea
che il meglio è alla portata dell’uomo comune. Questo effetto ideologico si
realizzava, secondo Adorno, indipendentemente dalle intenzioni dei
funzionari radiofonici, ma per il meccanismo stesso del modo di
produzione.

Altro tema ricorrente negli studi di Adorno è la pseudo individualizzazione:


il produttore di popular music si trova ad affrontare il problema della
contraddizione tra lo scrivere qualcosa che sia incisivo e banale allo
stesso tempo. Inoltre l’ascoltatore deve sempre avere la sensazione di
essere trattato come se il prodotto, destinato alle masse, fosse invece
rivolto a lui personalmente. Il mezzo per ottenere questi due scopi

67
Ibidem, pag 36-37

[44]
consiste, appunto, nella pseudo individualizzazione del compratore, che
sceglie liberamente al mercato secondo i suoi bisogni, coprendo con un
aura di spontaneità una scelta che invece sussiste sempre alle regole
della standardizzazione. L’ascoltatore infatti, credendo di fare una libera
scelta, non si rende conto che sta consumando prodotti già digeriti a
dovere.
La prevalenza del carattere di merce della musica prevarica ogni
caratteristica estetica del prodotto, rendendo ogni canzonetta la reclame di
se stessa. Questo aspetto è evidente nel cosiddetto fenomeno del
plugging, cioè una prassi che consiste nella continua e insistita
proposizione di un brano da parte dei media. Il principio fondamentale che
sta alla base di questo processo, da ricollegarsi alla standardizzazione, è
che sia sufficiente ripetere qualcosa per far si che venga accettata; gli
ascoltatori, infatti, devono riconoscere le canzoni proposte e, secondo i
calcoli degli psicologi della pubblicità, arrivare ad amarle. Fanno parte del
fenomeno del plugging anche le istituzioni delle borse della canzone,
altresì note come hit parades. Infatti difficilmente è possibile distinguere
quello che è merito veramente delle canzoni, e che pertanto viene
presentato al pubblico come il prodotto favorito, da quello che deriva solo
da una presentazione che fa come se il risultato fosse già raggiunto.
Infatti, sebbene alcuni studi hanno apparentemente dimostrato che il
successo di una canzone possa spiegarsi con i desideri del pubblico (ha
successo ciò che piace), altri condotti nell’ambito dello stesso progetto di
ricerca suggeriscono proprio il contrario, cioè che “la ripetizione continua
dei brani non segue la reazione che essi [cioè i brani] suscitano, bensì gli
68
interessi costituiti degli editori musicali” . L’identificazione delle canzoni
di maggior successo con quelle suonate più frequentemente è perciò un
illusione; un illusione, però, che ha il potere sociale di far credere agli
ascoltatori che quella sia la folla, in modo da giungere a costituirne una.

Da questa argomentazione potrebbe sembrare che si pensi che le canzoni


di successo siano semplicemente “costruite” grazie ai mezzi di
68
Adorno, Theodor W., Sulla popular music, Roma, Armando, 2004, pag 21

[45]
comunicazione di massa senza che il gusto dell’ascoltatore giochi un ruolo
attivo. Questa idea sarebbe, però, troppo semplicistica. Certo,
l’esecuzione radiofonica, l’incisione su disco, la realizzazione di video
promozionali sono una condizione necessaria perché una canzone di
successo diventi tale: se non c’è modo di raggiungere una vasta cerchia di
ascoltatori, sarà difficile averne il favore. Ma questa condizione è
necessaria, non sufficiente: in primo luogo le canzoni devono soddisfare le
regole correnti del gioco. Il materiale che, per carattere e natura,
trasgredisce la normalità corrente, dunque tutto ciò che non appartiene
alla moda del momento, viene eliminato. Per quanto sia certo che le
mode normative vengono manipolate in partenza, esse hanno tuttavia la
tendenza a trasferirsi sulle reazioni del pubblico, il quale si rende conto
quasi spontaneamente di cosa gli viene imposto. Ma oltre a questo fatto,
anche nelle popular songs (cioè in una musica che praticamente non fa
parte dell’arte) v’è una qualità specifica che viene rispettata e amata da un
grandissimo numero di ascoltatori. Questa caratteristica divide i singoli di
successo momentaneo dai cosiddetti evergreens, canzoni che sembrano
invecchiare e passano attraverso le mode, i decenni, le generazioni.
L’esistenza di questi evergreen è la prova che esiste quella qualità innata
di cui si parlava in precedenza e forse varrebbe la pena di provare a
studiare la storia di queste canzoni e degli autori che le hanno prodotte, di
controllare fino a che punto esse siano state create attraverso un
processo da attribuire all’industria culturale e fino a che punto si sono
conservate con le proprie forze, grazie a qualità che li distinguono dai
prodotti comuni. Naturalmente questa resistenza negli anni è da attribuire
principalmente al predominio dell’effetto rispetto alla cosa stessa. Gli
evergreens mobilitano in ogni singolo ascoltatore le associazioni erotiche
private, i ricordi della giovinezza e, in generale, tutte quelle esperienze
passate che allietano il nostro animo. Le nostalgia songs sono dunque
destinate a tutti quei consumatori che credono di conquistare nel ricordo di
un passato fittizio la vita che è loro negata, ma oltre a questo vi è una
capacità di cogliere musicalmente un che di specifico e inconfondibile,
servendosi di un materiale del tutto livellato. Nella popular music, quindi,
“trova rifugio una qualità andata persa in quella superiore ma una volta

[46]
sostanziale anche per essa […]: il fattore del momento singolo
relativamente autonomo e qualitativamente differenziato entro la totalità”69.
Per concludere mi rifaccio ancora una volta alle parole di Adoro che
riassume nel seguente modo: “il fenomeno di massa della musica leggera
seppellisce l’autonomia e il giudizio autonomo, qualità di cui una società di
uomini liberi avrebbe bisogno, mentre presumibilmente la maggioranza di
tutti i popoli si indignerebbero se la musica leggera venisse loro tolta,
considerando questo come un intromissione non democratica nei diritti
loro garantiti: è una contraddizione che rinvia alla condizione sociale
stessa” 70.

4. Il ruolo della musica

Parlare della funzione che la musica svolge nella nostra società è una
cosa tutt’altro che ovvia, nonostante per molti individui essa costituisca
una vera e propria routine, e nonostante sia il costante sottofondo che ci
accompagna, sulle strade, in televisione, al lavoro, ecc. A mio avviso il
discorso si complica poi ulteriormente quando ci addentriamo in
particolare all’interno dell’altro argomento di questa tesi, ossia le
subculture giovanili.
La musica è considerata un’arte come le altre in quanto in passato è stata
capace di maturare la pretesa di una sua autonomia estetica. Se però il
tipo di coloro che intendono la musica come passatempo è di gran lunga
più diffuso e si preoccupa poco dell’esigenza di autonomia estetica, ciò
significa che una zona quantitativamente rilevante della cosiddetta vita
spirituale ha una funzione sociale diversa da quella che le spetterebbe.
Avvertire che questa funzione sarebbe quella appunto del passatempo
non basta, bisognerebbe chiedere come possa servire sia pure da
passatempo qualcosa che non è più percepita affatto per quello che è.
Cosa significa, a questo punto, “passatempo” ? Cosa significa socialmente
un fenomeno che non giunge per nulla alla società per quello che è?

69
Adorno, Theodor W., Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, pag 45
70
Ibidem, pag 46-47

[47]
Per non compiere analisi sommarie e correre il rischio di imputare alla
musica una funzione assurda, è necessario partire dalle incomprensioni di
cui soffrono tutti gli elementi della musica. Alcuni valori elaborati dalla
musica, come i timbri, sono al tempo stesso elementi di attrazione
sensoriale, hanno cioè in se stessi già qualcosa che può essere
apprezzato da una conoscenza non competente in materia. Lo stesso
dicasi per il ritmo, o la melodia. Del linguaggio artistico autonomo della
musica è rimasto solo un linguaggio teso alla comunicazione immediata e
che permette una sorta di funzione sociale, da questo si ricostruisce una
sorta di secondo linguaggio musicale che potremmo definire “di massa”.
Domandarsi qual è la funzione della musica oggi nella società significa
quindi domandarsi quali risultati raggiunge in questa sfera questo secondo
linguaggio musicale. Adorno individua un aspetto ideologico che non è
specificamente musicale, ma che definisce il luogo occupato dalla musica,
che è quello in cui si esercita in lungo e in largo la chiacchiera. Difficile
non notare quanto sia diffusa la convinzione che problemi non risolti e non
risolvibili vengano risolti attraverso la loro semplice discussione: questa
idea spiega l’afflusso di pubblico ai dibattiti sull’arte organizzati in ogni
dove, o il fatto che per molti uomini di cultura sembra che, dopo tutto,
parlare e leggere di musica sia più importante della musica stessa. Queste
tendenze sono sintomatiche del fatto che la musica non viene affatto
percepita come tale, ma solo come un fenomeno che dispensa
dall’occuparsi del vero e del non vero. Essa è fonte di conversazione
irresponsabile. E’ un linguaggio, ma un linguaggio senza concetti.
Un'altra funzione della musica è quella di conforto, che Adorno descrive in
questo modo: “La musica come funzione sociale è affine alla truffa, è
fallace promessa di gioia che pone se stessa al posto della gioia […]. Le
opere di Wagner furono le prime che miravano a una funzione d’ebbrezza
in grande stile, e in esse Nietzsche scoprì che la musica è l’ideologia
dell’inconscio, vincolata a un pessimismo che ancora in Schopenhauer
stava in un rapporto ambiguo con la società […].La musica diventa
71
conforto mediante il pleonasmo con cui essa infrange il silenzio” .

71
Ibidem, pag 55

[48]
Chi possiede una volta per tutte dei rimedi contro la noia non ha nessuna
intenzione di sopportarla oltre, ciò contribuisce al formarsi della base di
massa del consumo musicale. Questa base attesta una sproporzione tra
condizione esistente e potenziale, tra la noia di cui gli uomini continuano
ad essere vittime e una possibile, ma fallita, impostazione di vita che
farebbe scomparire la noia. “Gli uomini temono il tempo, e così inventano
72
delle metafisiche del tempo che fanno da compenso” , questo perché
addossano al tempo la colpa di non sentirsi più vivere realmente nel
mondo. La musica li distoglie da questo, essa sanziona la società cui
serve da passatempo. L’aspirazione della vera musica, che era di
tracciare l’immagine di una pienezza del tempo, di una durata intensa o,
per dirla con Beethoven, del “momento glorioso”, viene parodiata dalla
musica funzionale: anche questa va contro il tempo, ma non
attraversandolo, bensì attaccandosi al tempo come un parassita,
adornandolo.
La forma del lavoro della produzione industriale di massa è la forma della
ripetizione di processi sempre identici: sostanzialmente non avviene mai
nulla di nuovo. Ma i comportamenti che si sono venuti formando sulla
catena di montaggio si estendono potenzialmente a tutta la società e
anche a settori nei quali non si lavora affatto direttamente secondo quegli
schemi. Di fronte a questo strozzamento del tempo, la funzione della
musica si riduce a far credere che succede pur sempre qualcosa.
Mediante la sua semplice forma astratta, che è quella dell’arte temporale,
la musica produce una sorta di immagine del divenire.
La funzione della musica di oggi, poi, non è tanto diversa da quella dello
sport. Non a caso abbiamo definito il tipo ideale dell’intenditore di musica
affine al tipo del tifoso sportivo; studi approfonditi sui frequentatori abituali
degli stadi e sugli ascoltatori della radio che hanno la mania della musica
potrebbero portare ad analogie sorprendenti. La musica, infatti, ricorda
agli ascoltatori che essi hanno ancora un corpo e che non sono poi del
tutto separati da esso. Si può rapportare tale constatazione alla teoria
psicanalitica secondo la quale la musica è un meccanismo di difesa legato

72
Ibidem, pag 59

[49]
alla dinamica istintuale che si opporrebbe alla paranoia, alla mania di
persecuzione, alla monade assoluta e privo di ogni relazione la cui energia
libidica viene ingoiata dal suo io. Ma il consumo di musica produce in lui
non tanto la difesa da questa condizione quanto la sua neutralizzazione, o
la sua socializzazione. Dire però che la musica restituisce all’individuo una
parte delle funzioni corporee che di fatto esso ha perso, significa dire una
mezza verità: le funzioni corporee riprodotte dal ritmo sono, esse stesse,
nella rigidità meccanica della loro ripetizione, identiche a quelle dei
processi produttivi che hanno spogliato l’individuo di parte delle sue
funzioni corporee primordiali.
La musica conferma gli uomini in se stessi per educarli alla connivenza, e
in tal modo fa il gioco dello status quo, che potrebbe essere modificato
solo da chi riflettesse criticamente sul mondo e su se stesso. La musica è
più adatta rispetto alle altre arti tradizionali, grazie ad alcune proprietà
inscindibili. La differenza antropologica dell’orecchio dall’occhio si adatta
al suo ruolo storico di ideologia. Mentre l’occhio viene chiuso dalla
palpebra, e per vedere bisogna aprirlo, l’orecchio è sempre aperto e
recettivo per cui non serve rivolgersi coscientemente a determinati stimoli,
quanto semmai difendersi da essi. Mentre gli altri sensi sono, per così
dire, “volontari”, mentre il senso dell’odorato è venuto indebolendosi sotto
la pressione dei tabù della civiltà, l’organo auditivo è stato quello che tra i
sensi registrava senza fatica gli stimoli. La passività dell’udito diventa,
quindi, il contrario del lavoro e l’ascolto diventa un oasi tollerata entro il
mondo razionalizzato di questo. Sottraendosi temporaneamente allo
sfruttamento della società totalmente socializzata, si può ancora essere
rispettati come uomini di cultura.
“La funzione della musica non è ideologica solo nella misura in cui dà agli
uomini l’illusione di un irrazionalità priva di qualsiasi potere sulla disciplina
della loro esistenza, ma anche nella misura in cui essa rende simile
73
questa irrazionalità ai modelli di lavoro razionalizzato” . Gli uomini
tentano quindi di fuggire da qualcosa che non dà loro tregua e nella

73
Ibidem, pag 64

[50]
musica di consumo questo aspetto viene rimarcato ulteriormente.
Nessuna strada conduce fuori dalla totale immanenza della società.
Al giorno d’oggi, però, le ideologie non consistono in idee concrete sulla
società, esse scivolano in forme soggettive di reazione che
psicologicamente si trovano più in profondità rispetto ai contenuti
ideologici manifesti, e la funzione della musica si adegua a tale tendenza
addestrando l’inconscio a riflessi condizionati.

CAPITOLO QUARTO

SOTTOCULTURE GIOVANILI: I PUNK


“Non so cosa voglio, ma so come ottenerlo”
- Sex pistols, Anarchy in Uk -

1. Premessa: Il punk nella storia

Nessun altro movimento ha mai influito in modo così determinante sugli


sviluppi del rock, del suo immaginario e del suo costume come quello che
ha avuto tra i suoi primi e più significativi esponenti artisti quali Ramones,
Richard Hell, Germs negli Stati Uniti e Buzzcocks, Clash, Damned, Sex
pistols, Stiff Little Fingers nel Regno Unito.
Al di la delle implicazioni stilistiche di cui abbiamo già ampiamente
discusso, si pensi alla rinascita delle autoproduzioni discografiche, al
fermento scatenato dalla rivelazione che chiunque potesse imbracciare
una chitarra elettrica e incidere un disco conoscendo pochi accordi (o
nessuno!), al messaggio di “svecchiamento” diretto verso multinazionali
del disco e mezzi d’informazione. E nel caso tali dichiarazioni sembrino
eccessivamente entusiastiche, basterebbe soffermarsi un attimo a
verificare quanti personaggi fondamentali della storia del rock affondino le
loro radici, nel punk o adiacentemente ad esso: Blondie, Sting, Billy Idol,
John Lydon, Patty Smith. Radici senza le quali, ovvio, non sarebbero
quelli che conosciamo oggi.

[51]
Il punk dunque non è stato solo un fenomeno sociale alquanto bizzarro e
delimitato ad un arco di tempo piuttosto ridotto, è un fenomeno sociale
carico di significati che si sono propagati in tutto il mondo, ed evoluti nel
corso degli anni fino ai giorni nostri. Nel 1977 i media italiani e inglesi si
soffermarono sui caratteri più superficiali del punk, tralasciando
completamente i motivi che ne portarono alla nascita. A differenza delle
precedenti generazioni dilagava un tono disperato e autodistruttivo, i
giovani irrequieti erano disillusi spettatori e artefici al tempo stesso del
crollo dei miti sociali. L'avvento del punk fu un autentico concentrato di
ribellione, rabbia, creatività: divenne un movimento dove la parola d'ordine
era No Future.
Più di quindici anni fa Marco Philopat, un ex attivista del circolo sociale
“Virus” di Milano, cominciò a scrivere il suo “costretti a sanguinare”
circondato da tantissimi punti interrogativi, tra i quali figurava la domanda:
“A chi mai interesserà il punk, oggi?”. Era da poco caduto il muro di
Berlino e il mondo si crogiolava nell’ottimismo, qualcuno si azzardò pure a
dire “è finita la storia”, alludendo al fatto che tutto sarebbe stato pacificato,
le contrapposizioni ideologiche risolte, ognuno accordato alle stesse
parole d’ordine.
“Proprio in quell’estate scoppiò la scintilla della prima guerra del Golfo”
racconta lo stesso Philopat nella sua postfazione al libro, e proprio questo
fatto fu la scintilla che lo convinse di continuare a lavorare. Qualche
destinatario c’era. “Costretti a sanguinare” uscì nel 1997 e la sua storia,
che narra dagli albori del movimento punk milanese fino all’occupazione e
alla successiva chiusura del Centro Sociale Virus, ha trovato decine di
migliaia di lettori interessati. Nel testo non v’ è punteggiatura, solo qualche
trattino, un effetto voluto per riprodurre il più fedelmente possibile una
esposizione orale della storia, “per dare più importanza alle parole, dove il
sangue poteva realmente scorrere tra le righe”. A dieci anni di distanza
dalla prima edizione, il libro viene ristampato, era il 2007 e il conflitto si
era spostato dal Golfo ai più vicini Balcani, la riproposizione di “costretti a
sanguinare” è il segnale che i segnali di quegli anni non si sono ancora
esauriti e forse, oggi, le nuove generazioni vi sono interessate proprio
perché considerano il loro precario futuro morto da un pezzo.

[52]
2. La nascita del movimento punk e la sua proliferazione

“Noi siamo dentro il caos, non dentro la musica”, Così sentenziò un


semiubriaco Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, nel corso di un
intervista; i punk si definivano semplicemente degenerati,
rappresentavano la condizione atrofizzata dei giovani. Queste posizioni
erano costruite attraverso le più bizzarre espressioni: la musica
elementare, l’abbigliamento costruito secondo il principio del do it yourself,
le punkzine ingarbugliate, i manifesti fatti con pezzi di giornale, il ballo
aggressivo (il cosiddetto “pogo” che ancora oggi si vede in qualche
discoteca), tutti elementi che attirarono decine di migliaia di giovani nel
mondo. “I punk non solo rispondevano direttamente all‟aumento della
disoccupazione, al mutamento delle basi morali, alla riscoperta della
miseria, ecc., ma teatralizzavano quello che si era giunti a chiamare la
decadenza dell‟Inghilterra, costruendo un linguaggio che era, in
contrapposizione alla retorica predominante nell‟establishment del rock,
incontestabilmente di grande rilievo e ben radicato a terra. I punk usavano
la retorica della crisi che aveva saturato le onde radio e gli editoriali per
tutto quel periodo e la traducevano in termini tangibili e visibili […] era
74
giusto che i punk si presentassero come degenerati” . Ciò spiega
l’appropriatezza della metafora che il punk ha rappresentato in Inghilterra,
ma non solo, sul finire degli anni ’70, sia per gli appartenenti alla
sottocultura in questione, sia per i suoi oppositori: la sua capacità di
75
essere “sintomo di un intero agglomerato di problemi contemporanei” .
Questo ci fa capire anche il perché questa sottocultura riesca tutt’oggi ad
attirare a sé nuovi adepti, o a fornire le necessarie (per i giovani) risposte
oltraggiose a genitori, insegnanti, datori di lavoro e a tutti quegli “agenti
morali che si erano assunti la responsabilità di condurre la crociata contro
76
di essa” . Per fare ciò, però, il linguaggio doveva comunque essere
selezionato, anche se per essere sovvertito; possiamo allora cominciare a
capire il perché il culto della figura di David Bowie fosse basato su

74
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag 94
75
Ibidem, pag 95
76
Ibidem, pag 95

[53]
questioni di tipo sessuale piuttosto che di classe. I seguaci di Bowie non si
scontrarono direttamente con i problemi con cui si poteva aver a che fare
normalmente, ma tentarono una via intermedia di comunicazione, posta
tra la cultura dei padri e l’ideologia dominante. “I seguaci di Bowie
affrontarono lo sciovinismo più ovvio e cercarono di eluderlo, di sovvertirlo
oppure di abbatterlo. […] In breve sfidarono a livello simbolico
77
l‟inevitabilità, la naturalità degli stereotipi di classe e di sesso” . Per la
prima volta nella storia delle culture giovanili si affermava la parità di
genere, lo stile punk aveva un aspetto androgino e negava totalmente la
tensione machista. Gli uomini si truccavano, si mettevano calze a rete,
gonne, scarpe coi tacchi, al contempo le donne rifiutarono il ruolo di
subalterne ai propri compagni, anzi si riappropriarono dei simboli della
sottomissione al maschio, ribaltandoli. Anche dal punto di vista musicale le
cose subirono una svolta, “quello che mi importa è l’anima di chi suona e
non la qualità dello strumento” era il concetto espresso da Giovanni Lindo
Ferretti, allora leader dei CCCP fedeli alla linea, uno dei maggiori gruppi
punk della scena italiana, concetto che possiamo ritrovare anche nei
dischi delle prime band punk italiane, come i Jumpers o i 198X, per
arrivare agli HCN del già discusso Marco Philopat. La musica era l’unica
forma di comunicazione a cui ci si poteva avvicinare in quegli anni. I
gruppi, professionalmente nulli e incapaci anche di copiare, producevano
rumore, mentre i cantanti urlavano come ossessi, dimostrando che il palco
era un simbolo da smitizzare e che ognuno poteva calcarlo per qualche
mezz’ora. La base di partenza di tutto questo furono le cosiddette garage
bands, che negli anni ’60 erano veramente numerose, e in molte di esse si
stavano facendo le ossa anche quelli che sarebbero stati i padri ispiratori
del Punk più conosciuto: le Iguanas di Iggy Pop, The Earwigs di Alice
Cooper e The Shades di Lou Reed.
Rispetto alla vastità del fenomeno ed alla sua ragguardevole durata
(almeno 5 anni che per un boom musicale non sono pochi) i successi
discografici non furono moltissimi, ma sicuramente qualcuno va citato: la

77
Ibidem, pag 96

[54]
celeberrima "Louie Louie" dei Kingsmen (1963), "Groovin" dei Rascals
(1967), "Gloria" degli Shadows of Knight.
In sostanza: sia per la sua larga diffusione, sia per il look comune a tutti gli
attori sociali (spesso derivativo, ma pur sempre un look), sia per
caratteristiche della sua produzione discografica e almeno in parte, per le
tematiche trattate, ce n'era abbastanza per dotare tutto questo fermento
musicale di una definizione convenzionale che passasse alla storia.
Ne vennero fuori due: una motivata dai connotati spesso underground dei
vari gruppi e fu "Garage Rock". Intanto, nel 1966, accade ancora qualcosa
di straordinario nel momento in cui il genio di Andy Warhol decise di
associare al suo "Plastic Show Inevitable" un gruppo di quattro musicisti
semisconosciuti, i Velvet Underground, che nelle loro canzoni trattavano di
travestitismo, droga, sesso, aggressioni e degrado urbano, su ritmi e
melodie particolarmente ossessivi e violenti. Quasi contemporaneamente,
arrivano anche Patti Smith, gli Stilettoes di Debbie Harry (futuri Blondie) e,
dal Queens, i Ramones. Inizia insomma a rendersi evidente, da parte di
una nuova generazione, il bisogno di un linguaggio più duro e diretto da
contrapporsi all'adolescenziale ingenuità delle garage bands. Prese quindi
vita la seconda definizione, quella di “Punk rock”, termine nato dalla mente
del grafico John Holstrom che creò in onore una fanzine a fumetti con
questo nome per celebrarne le gesta e per seguire tutti gli spettacoli del
movimento, che avrebbe poi trovato sfogo solo 10 anni più tardi. Grazie
alle Garage Bands quindi, il termine "Punk" iniziò ad essere utilizzato non
solo per valutare un atteggiamento spettacolare, ma per circoscrivere
precisamente un vero e proprio movimento musicale ed estetico riferito
alla zona di New York. A questo punto sarebbe stato praticamente
automatico associare il nome della neonata fanzine a quello dei suoi
protagonisti, ma qualcosa non funziona. Il termine "punk" viene
misteriosamente traslocato oltreoceano per diventare in breve tempo
connotativo dell'esordiente subcultura inglese. Il genio che riuscì a
compiere questo epico trasloco fu un tale Malcolm McLaren, allora
manager delle New York Dolls e gestore di un negozio di abbigliamento
mod in King's Road, a Londra. Senza troppi complimenti, McLaren fiutò
immediatamente le potenzialità del nuovo stile e, lasciate le Dolls al loro

[55]
destino, ne importò in Inghilterra la moda, la musica e il nome.
Il tutto con buona pace di Holstrom e dei suoi beniamini: la wave
americana dei Television e dei Ramones sarebbe diventata "Pre-Punk" e il
Garage di lontana memoria, "Proto-Punk".

Il punk britannico ha dunque un origine stilistica dubbia: elementi derivati


da David Bowie si mischiarono ad altri derivanti dal proto-punk americano
dei Ramones e di Iggy pop, da quella fazione che si ispirava alla cultura
mod degli Anni Sessanta, dal northern soul e dal reggae. Tutti questi
elementi minacciavano costantemente di separarsi e tornare alle proprie
forme originarie, non c’è quindi da sorprendersi se la miscela che ne
nacque, il punk per l’appunto, risultasse altamente instabile. Questa
improbabile “alleanza” di tradizioni musicali diverse e incompatibili in
superficie, trovò una propria ratifica in uno stile di abbigliamento altrettanto
eclettico che riproduceva, a livello visivo, la stessa cacofonia prodotta
dalla loro musica. Il punk in questo modo riuniva e teneva letteralmente
allacciate con le spille tutta la storia stilistica delle culture giovanili
appartenenti alla working class, e lo faceva attraverso la tecnica del “cut
up”, combinando cioè elementi appartenuti originariamente ad epoche del
tutto diverse.
Il punk esplose a Londra nel 1977 nel corso di una estate caldissima che
aveva “sostituito” tutte le altre “cattive notizie”. La sintesi “innaturale” di
questo processo fu proprio questo fenomeno: “l’apocalisse era nell’aria e
78
la retorica del punk era imbevuta di apocalisse” . In verità, però, il punk
racchiudeva in sé due linguaggi ben distinti e radicalmente differenti quali
quello del reggae e quello del rock. Nel punk l’alienazione era espressa in
modo quasi tangibile, si offriva alle macchine fotografiche nella propria
“inespressività” la rimozione dell’espressione, il rifiuto di parlare o di
essere collocati. Ma quasi ogni volta i dettami di questa estetica erano
annullati dai gusti di un’altra forma musicale: il reggae, che occupa l’altra
estremità dell’ampio spetto di influenze che abbiamo visto appartenere al

78
Hebdige, Dick, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (ed. orig. 1973), Genova, Costa & Nolan, 2008,
pag 28

[56]
punk. Fra i gruppi più celebri, i Clash furono quelli più pesantemente
influenzati, sia musicalmente che nell’iconografia estetica, dalla cultura di
strada dei negri della Giamaica. Benchè apparentemente separate ed
autonome, dunque, il punk e le sottoculture inglesi negre trovarono una
connessione profonda, ma il dialogo tra queste due forme non può essere
compreso a dovere finchè non saranno capiti la composizione interna e il
significato del reggae e delle altre subculture giovanili della working class
inglese, tra cui skinheads e mods, in quanto sia il primo che le seconde
avevano preceduto il punk. Per far questo bisognerà svolgere due compiti
principali: il primo è quello di riportare il reggae alle sue radici, ossia ai
carabi, il secondo è quello di reinterpretare la storia delle culture giovanili
inglesi del dopoguerra come una successione di risposte differenziate alla
presenza dell’immigrazione di colore in Gran Bretagna, iniziata intorno agli
Anni Cinquanta. Questa valutazione deve però essere fatta con
un’attenzione minore alle normali aree di interesse presenti in studi come
questo, per favorire la dimensione razziale e i rapporti inter-razziali tra i
giovani. Per capire cosa abbia significato il punk in Inghilterra negli anni
della sua nascita, quindi, sarebbe necessario innanzitutto capire cosa
abbia significato per i punk stessi ogni singolo pezzo del puzzle che hanno
composto.

3. Declino e rinascita? Il punk oggi


“Il punk è morto. Il punk è ancora vivo,
lunga vita al punk!”
-CCCP fedeli alla linea-

All'inizio del 1978, i Sex Pistols partono per un tour negli Stati Uniti che
dura soltanto 14 giorni perché interrotto dalle dimissioni di Johnny Rotten.
La band si disintegra, Steve Jones e Paul Cook portano Malcolm McLaren
in tribunale, per una lunga ed estenuante causa economica, mentre
fervono le riprese del film "The great rock'n'roll swindle", documentario-
testamento del gruppo diretto da Julien Temple e destinato ad uscire nel
1979. Dal canto suo Vicious, legato da una burrascosa relazione all'ex-
groupie Nancy Spungen, entra in pieno nel vortice dell'eroina. Proprio

[57]
sotto gli effetti della droga uccide Nancy a coltellate nell'ottobre del 1978,
prima di chiudere per sempre la sua partita per overdose nel febbraio del
1979. Aveva 21 anni.
La morte di Sid Vicious mette la parola fine all'epopea del punk così come
era stata intesa al suo nascere, e non solo per la scomparsa fisica di uno
dei suoi protagonisti nonché principale martire assieme a Darby Crash,
leader della band statunitense dei Germs, morto nel 1980. Un moto di
ribellione giovanile cresciuto con foga e governato a stento perché troppo
potente e irresistibile si stava trasformando, anzi, si era già trasformato, in
qualcosa che, all'interno del sistema contro cui era nato, non faceva più
paura a nessuno.
La parabola dei Sex Pistols aveva dimostrato a tutti quanti soldi potessero
essere nascosti dietro atteggiamenti e comportamenti "in linea" con la
provocazione. Il punk diventa quindi un'industria, e muore proprio perché,
in quanto industria, nega se stesso e le proprie premesse, sostenute da
motti come "no future", e "I don't care". Ciò non significa che esso non
avrà una sua coda fisiologica negli anni successivi, fino al 1981, prima di
ritornare in auge, sotto ben altre spoglie, dall'altra parte dell'oceano,
intorno ai primi anni '90.
Non si può però dire che il punk non lasci traccia di sé: è proprio dai semi
gettati dal punk, dalla sua esasperazione sonica e ritmica, che prende
corpo un genere destinato ad avere grande successo nel corso di tutti gli
anni '80 soprattutto negli Stati Uniti: l'hardcore. Con basi potenti in
California e in città come New York, Washington e Boston, l'hardcore - e
tutte le sue correnti sotterranee tra cui l’emocore, lontano progenitore
dell’odierno stile emo di cui si sente tanto parlare - diventerà il punto di
riferimento della scena underground per parecchio tempo, preparando il
terreno per l'esplosione del rock alternativo di inizio anni '90 (e anche del
grunge, almeno sul fronte di una certa attitudine e di un certo suono).
Accanto all'hardcore e spostandoci in Gran Bretagna e in Europa non si
può poi dimenticare tutta la dimensione dark che acquisterà peso sulla
scena musicale, ben incarnata da gruppi come Joy Division e Cure,
entrambi influenzati dal punk ai loro albori, tant’è che spesso viene
utilizzato il termine “post punk”. La stessa new wave, così come

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rappresentata da uno spettro di gruppi che vanno dai Talking Heads agli
stessi Clash dell'ultimo periodo, non potrà che citare il proprio debito nei
confronti di quel grande moto di rottura degli schemi che fu il punk a metà
degli anni '70.
Dal punto di vista stilistico possiamo quindi affermare che la sottocultura
spettacolare del punk è stata il crocevia per tutti gli stili che si sono
sviluppati in futuro: dark, grunge, indie-rocker, shoegazer e altri ancora
fanno tutti capo ad un pacchetto che è possibile ricondurre a quel
fenomeno nato in Inghilterra dalla fusione delle subculture della working
class locale e delle culture negre provenienti dai caraibi.
Ma come per tutti i fenomeni che subiscono un processo integrazione
nella società, o “socializzazione”, nel corso degli anni si verificano dei veri
e propri colpi di coda stilistici: Ed è proprio a metà degli anni '90 che negli
Stati Uniti prende piede una sorta di terza età del punk, successiva al
post-punk degli anni ’80 e simboleggiata dal successo milionario - in
termini di copie vendute - di gruppi come Offspring, Pennywise, Green
Day e Rancid. E' la punta dell'iceberg, o forse potremmo dire la crema, di
un movimento che ha vissuto in incubazione per quasi un decennio,
sostenuto soltanto dall'appassionato lavoro di etichette come la Epitaph e
la Lookout!. Il punk rock californiano viene quindi fuori all'improvviso dalla
scena underground, attirandosi, parallelamente al successo, le critiche dei
duri e puri del movimento, che accusano questi gruppi di
commercializzazione. Effettivamente manca tutto quello che ha
caratterizzato il punk negli anni ’70: rabbia, disordine, sovversione fanno
posto ad atteggiamenti fin troppo posati che lasciano pensare quanto si
sia lontani dai vertici oltranzisti del 1976. ma del resto sono passati 20
anni da allora, il mondo è cambiato, e oggi la parola punk riveste più un
significato di feticcio che una condivisione reale di valori e intenti. Essere
punk, per gruppi come Green Day o Offspring, è richiamare in una parola
la vecchia scuola, la tradizione, è come tributare un saluto a qualcuno che
non c'è più. La loro musica, invece, è decisamente più ruffiana e meno
iconoclasta, molto meglio suonata e meglio incisa. La filosofia del "no
future", grazie alle contingenze economiche, oggi non è più sbandierata
ma interiorizzata dai singoli, e quindi maggiormente condivisa senza

[59]
nemmeno il bisogno di essere esplicitata: la riprova è che le band punk
degli anni '90 sono ancora ben salde in sella, e che proprio dopo "Dookie",
del 1994, il grande successo commerciale dei Green Day è arrivato quasi
10 anni dopo con "American idiot", album dalle pretese artistiche e formali
che una volta sarebbero state inconcepibili per una punk band.
Il punk, nel suo senso originale, fu una piroetta pura e disperata di fronte
allo show-biz che provocò morti e feriti (reali), soprattutto perché inattesa e
imponderabile, e che implose in se stessa perché non proponeva alcun
tipo di valore antagonista a quelli che era nata per distruggere e
sbeffeggiare: niente di quanto è successo dopo, dai primi anni '80 all'arrivo
di band come i Green Day, ha nemmeno lontanamente a che fare con
quel mondo. Tutto è programmato, tutto è anzi fortissimamente voluto
proprio da quel music business, da quel sistema, che il punk aveva
contribuito a rivoluzionare per una breve stagione. Il "no future" dei punk
oggi è accantonato in soffitta, insieme ad ogni tipo di comportamento
politicamente scorretto: il punk è solo un simulacro, come evocare il fuoco
e la fiamma di qualcosa che non c'è più per crearsi una discendenza in
qualche modo nobile con quanto - sotto la supervisione del proprio
commercialista - si può fare adesso. I tempi sono cambiati, del resto. E
quella purezza, seppure non priva delle sue zone d'ombra, rimane una
sorta di isola (in)felice lontana anni luce dalla MTV generation.
Così oggi, per quanto si possa parlare di nuova ondata punk - che in verità
è un fenomeno esistente per l'appunto da almeno 10 anni - ha più senso
considerare questa stagione come una delle ennesime incarnazioni del
post punk, l'era arrivata a chiudere i giochi alla fine del 1977, all'indomani
dell'esaurimento di quella spinta che per un anno aveva cambiato tutto.
Nel caso ci si imbattesse, oggi, in un vero e proprio punk, come è nel caso
di Marco Philopat – ancora scrittore e opinionista di discreto successo –
sarebbe più opportuno parlare di controcultura anziché di subcultura.
Questo termine è da preferire a quello di cui abbiamo abusato in questa
tesi in quanto con esso ci si riferisce a movimenti o gruppi di persone i cui
valori e modelli culturali e di comportamento sono molto differenti (e
spesso opposti) da quelli del paradigma dominante nella società (il
cosiddetto mainstream).

[60]
Le controculture possono essere viste come l'espressione culturale di
alcune componenti minoritarie della società che esprimono un rifiuto più o
meno radicale alla visione del mondo e allo stile di vita comunemente
condiviso. Su questa particolare “derivata” delle subculture ci sarebbe
tanto da dibattere e da scrivere, e credo sia meglio riservargli uno spazio
esclusivamente riservato a sviscerare tutte le sfaccettature del caso in un
altro studio diverso da questo, a noi basta considerare il relegamento di
quella che un tempo era la subcultura punk, a vero e proprio alieno sociale
dei giorni nostri.
Qui ci basti ricordare che il punk fu un lampo, a metà degli anni '70, un
lampo nel quale si intravide qualcosa di effettivamente nuovo, mai visto e
mai ripetuto. Come ha scritto Gino Castaldo su Repubblica, fu "l'ultima
occasione in cui sentirsi liberi". Questo resta in definitiva, ancora oggi, il
grande valore - insuperato - del punk.

CONCLUSIONI

Quando ho deciso di intraprendere questo percorso ero molto


disorientato e privo di informazioni: la disciplina che studio si è spesso
concentrata su altri fatti sociali diversi dalla musica e la letteratura in
materia è scarsa e disordinata, oltre a non venir mai trattata nel percorso
di studi che uno studente di sociologia affronta. Questa situazione è stata
fonte di stimoli e al tempo stesso mi ha fatto rendere conto di quanta
strada si debba ancora fare nello studio del rapporto tra l’uomo e le sue
percezioni sensoriali del mondo, di cui l’ascolto è una parte
rilevantissima.

Siamo partiti da un tentativo piuttosto complicato quale quello di definire


cosa sia la musica. La musicologia da sempre rincorre questo obiettivo,
con risultati assai scarsi e discordanti tra di loro: di fatto, definire con
esattezza cosa sia una forma d’arte che è in costante evoluzione e
ricomposizione è pressoché impossibile, specialmente se si considera la

[61]
re-interpretabilità delle opere musicali, caratteristica in questa sede
tralasciata ma che rende di fatto la musica una forma d’arte unica tra le
forme d’arte (un quadro o una scultura riprodotti sono “falsi d’autore”,
mentre una interpretazione di Mozart odierna è, appunto, una
reinterpretazione). Tentare di definire che cosa sia la musica, o meglio
definire cos’è l’ascolto musicale, anche se in modo molto sintetico come è
stato fatto, è però necessario per aprire le porte verso uno studio della
società, o di una parte di essa, in termini del rapporto che ha con la
musica. Perciò ho deciso di prendere in esame il concetto di subcultura e
di analizzare le varie formulazioni che la letteratura sociologica ha fornito
nel corso degli anni. In questo ci sono venute particolarmente incontro le
teorie della scuola di Birmingham, in particolare nella figura di Dick
Hebdige che con la sua formulazione del concetto di “specificità” inquadra
alla perfezione il ruolo che le subculture giovanili ricoprono nella società
odierna. Specificità è un concetto che sottende anche un preciso criterio di
consumo, ed essendo il consumo una forma comunicativa, anche un
preciso linguaggio delle subculture stesse. Abbiamo visto che lo stile,
quindi, è una forma di comunicazione col mondo esterno, e abbiamo visto
anche come il mondo risponda a questi linguaggi, assorbendoli e facendoli
propri della cultura dominante, oppure riadattandoli per riproporli sul
mercato in una forma socializzata accettabile dai più; queste modalità di
integrazione sono la forma merce e la forma ideologica.
La musica è tra i fattori che meglio si prestano a questo processo,
essendo tra le forme di espressione quella più incline a subire un
processo di industrializzazione, quindi ad una sua conversione in forma di
merce. Gli studi di sociologia della musica condotti da Adorno, in
particolare quelli riguardanti le tipologie di ascoltatori e quelle riguardanti
la musica popolare, sono l’ideale per cercare di identificare quale sia la
funzione della musica all’interno di una subcultura, ossia il ruolo ideologico
che la musica ricopre; un ruolo ricoperto tanto bene quanto la musica si
identifica come produttrice di falsa coscienza.
E’ stato sufficiente osservare la nascita e lo sviluppo di una particolare
subcultura (e lo abbiamo fatto analizzando la più spettacolare ed
energetica della storia, i punk) per corroborare queste ipotesi e farci un

[62]
idea di quanti passi in avanti si siano fatti negli ultimi 40 anni riguardo lo
studio delle culture giovanili. Già il fatto stesso di essere arrivati a coniare
un termine quale quello di “cultura giovanile” in modo credibile è un passo
importante che denota una accresciuta considerazione delle fasce sociali
più estreme e per certi versi più problematiche, come sono appunto i
giovani; se poi si considera quanti decenni ha attraversato la musica punk,
sebbene estratta dal suo habitat culturale, e quanti ancora ne attraverserà
in futuro, possiamo capacitarci di quanto i giovani possano rappresentare
una forza sociale importante e condizionante. Questa forza dovrebbe
essere capita ancora meglio di quanto sia già stato fatto, allo scopo di
incanalarne le risorse per ottenere un profitto in termini sociali. Per fare ciò
è necessario analizzare tutte le componenti che fanno parte di uno stile
sottoculturale, e la musica è senza ombra di dubbio uno degli aspetti più
rilevanti tra questi.

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