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Nozioni Metrica Cardillo
Nozioni Metrica Cardillo
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La bibliografia sull’argomento è molto vasta e, per i testi più complessi, è accessibile a specialisti; mi limito
a segnalare: Raffaello Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Patron, Bologna 1966; Mario Fubini,
Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane. Dal Duecento al Petrarca. Vol. I, Feltrinelli, Milano
19753; Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Il Mulino, Bologna 1976; Ladislao Galdi,
Introduzione alla stilistica italiana, Patron, Bologna 1984; W.Theodor Elwert, Versificazione italiana dalle
origini ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 19917; Aldo Menichetti, Metrica italiana, Antenore, Padova 1993;
Sandro Orlando, Manuale di metrica italiana, Bompiani, Milano 1994; Mario Pazzaglia, Manuale di metrica
italiana, Sansoni, Milano 1994; Francesco De Rosa-Giuseppe Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana,
Sansoni, Milano 1996; Gabriella Sica, Scrivere in versi. Metrica e poesia, Pratiche Editrice, Parma 1996;
Giorgio Bertone, Breve dizionario di metrica italiana, Einaudi, Torino 1999; Antonio Pinchera, La metrica,
Bruno Mondadori, Milano 1999; Pier Vincenzo Mengaldo, Prima lezione di stilistica, Laterza, Bari 2001;
Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino, Bologna 20024 (1a ed. Bologna 1991); Giuseppe Sangirardi,
Francesco De Rosa, Breve guida alla metrica italiana, Sansoni, Milano 2002.
1
Il termine verso (versus, da vertere, <<volgere, voltare, ritornare indietro>>) sta ad indicare un segmento di
scrittura che, obbedendo a determinate regole, si presenta visivamente sul foglio come uno o più righi
spezzettati e frammentati, di varia lunghezza; al contrario della prosa (prosam [orationem], aggettivo
femminile di prosus, variante di prorsus, <<che va in linea retta>>) in cui i righi di scrittura sono continui e la
loro lunghezza è determinata non dalle intenzioni dell’autore ma dallo spazio della superficie scrittoria usata.
2
Le norme che regolano la versificazione non sono né tassative, come quelle grammaticali, né universali;
sono indicative di un modo di intendere da parte dei poeti la versificazione, modo che talvolta si discosta
dalla norma rientrando nella assoluta individualità del linguaggio poetico. Fubini scrive: <<Quello che importa
sempre tener presente è che altro è il metro dei trattatisti di metrica, altro il verso nella sua concretezza, la
cui vita è data appunto dalla varietà che il poeta porta nel suo discorso, varietà che contrasta con lo schema
costante>> (Metrica e poesia cit., p. 29).
3
Metriche′ [techne′] : la radice di tale termine è metron, misura; il verso classico era costituito da più
misure e da rapporti di misure studiati dalla metrica con il concorso della prosodia (prosodia, <<modulazione
della voce>>) che stabilisce la lunghezza delle sillabe, la loro quantità nel corpo delle parole. Nella metrica
moderna il termine prosodia si riferisce alle regole del verso legate alla fonetica, come accento, sillabismo,
rima ecc.
4
Nell’accostarsi alla metrica classica si tengano presenti i seguenti testi: Carlo Del Grande, La metrica
greca, SEI, Torino 1960; Armando Salvatore, Guida allo studio della civiltà romana antica, diretta da
Vincenzo Ussani e Francesco Arnaldi, II edizione, vol. II, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1961,
pp.247-271; M.Lenchantin De Gubernatis, Manuale di prosodia e metrica latina, Principato, Milano-Messina
1965; Carlo Del Grande, Elementi di metrica latina e cenni di ritmica e metrica greca, V edizione, Loffredo,
Napoli 1972; Bruno Snell, Metrica greca, La Nuova Italia, Scandicci 1997 rist.; Sandro Boldrini, La metrica
dei romani, Carocci, Roma 2000.
A. Cardillo
della lunghezza o della brevità delle sillabe da cui erano formate, anche nel rispetto di
esigenze musicali.
Si distingueva tra sillaba breve e sillaba lunga: convenzionalmente due tempi brevi
corrispondevano ad uno lungo. Sillabe brevi e/o lunghe, da sole o insieme, formavano una
unità metrica, il piede, costituito da due a quattro sillabe, con una parte accentata detta
tesi ed una parte debole detta arsi;5 il verso era formato da più piedi nei quali l’alternanza
di sillabe lunghe e sillabe brevi, opportunamente disposte, determinava una speciale
cadenza o modulazione detta ritmo.
L’accento ritmico, dunque, diversamente dall’accento tonico o grammaticale, segna
la maggiore intensità, ovvero il particolare rilievo che la voce conferisce ad una sillaba
rispetto alle altre. Esso non interessa la parola in quanto tale ma la cadenza che le sillabe
acquistano nel verso a seconda della loro lunghezza e posizione; l’accento tonico o
grammaticale invece indica la caduta della voce all’interno di una parola su una
determinata sillaba.
La lettura piana dell’esametro
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
(Eneide, I, 1)
è segnata dalla cadenza della voce secondo l’accento grammaticale di ogni parola; la
lettura metrica, cioè secondo la caduta e il ritmo degli accenti metrici, evidenzia un
andamento ritmico a cadenza costante determinato da accenti non sempre coincidenti con
quelli tonici:
Árma vi | rúmque ca | nó, || Troi | aé qui | prímus ab | óris.
Questa diversità di accentazione delle parole di un verso a seconda della posizione
(o quantità) delle sillabe che le compongono spiega il significato di una versificazione
classica su base quantitativa, cioè fondata sulla quantità delle sillabe e sul ritmo scandito
dall’alternanza di sillabe lunghe e brevi.
La versificazione italiana ha seguito, come nelle altre lingue neolatine, l’evoluzione
del volgare, acquisendo una peculiarità fondamentalmente diversa da quella classica:
nella nostra poesia, infatti, definita accentuativa, gli accenti grammaticali e ritmici
normalmente coincidono; ciò vuol dire che il verso consta di parole formate da un numero
di sillabe obbligato disposte in modo che l’accento tonico determini il ritmo del verso.
5
Questi termini si possono incontrare riferiti ad una funzione inversa rispetto a tali indicazioni, per cui arsi sta
per tempo forte e tesi per tempo debole.
A. Cardillo
La versificazione italiana, inoltre, presenta la rima che la differenzia ulteriormente
da quella classica.
I versi
O garzó3ne,^amabil fì7glio
di famó3si^e grandi^erò7i,
sul fiorìr3 de gli^anni tuò7i
questa sòr3te^a te verrà7.
( G.Parini, Le Nozze, 41-44)
sono ottonari (i primi tre piani, il quarto tronco) formati di otto sillabe con accenti fissi di 3a
e 7a; gli accenti metrici in 3a e 7a coincidono con gli accenti tonici nelle parole garzóne e
fìglio, famósi ed eròi, fiorìr e tuói, sòrte e verrà; da notare, inoltre, la rima eroi : tuoi nei
versi centrali.
* * *
6
Salvatore Battaglia, Formazione e destino della lirica, Liguori, Napoli 1967: <<[…]appare oggi più storica e
reale la spiegazione ‘evolutiva’: cioè, in seguito al processo generale della struttura linguistica, che da
quantitativa passa a fortemente tonica e intensiva, anche la metrica classica si va tramutando in ‘ritmica’ e
‘sillabica’. Vale a dire: non si ha più la nozione della quantità, e perciò le sillabe che sono chiamate a
costruire il verso non possono più fondarsi su una differenza che non era più sentita: e sono tutte uguali, e
l’una vale l’altra. E, perciò, mentre i latini potevano costruire i loro ‘piedi’ prosodici valendosi di questa
alternativa di lunga e breve, lo scrittore medievale non dispose che d’un solo tipo di sillabe (onde la nascita
del principio ‘sillabico’ della versificazione). Inoltre: i latini avevano una particolare sensibilità dell’accento
tonico, che era fondamentalmente musicale, sicché l’accento ‘prosodico’ poteva e non coincidere con quello
tonico, in quanto tutte le sillabe di una parola erano avvertite dalla coscienza del poeta latino sullo stesso
piano di accentuazione. Ma allorché la sillaba tonica, nell’evoluzione del latino, acquistò un predominio nel
corpo della parola, non era più possibile trattare le parole nel verso con un duplice accento: quello tonico e
quello prosodico. E, quindi, poco per volta, l’accento prosodico dovette coincidere con quello tonico, se non
si voleva far violenza alla naturale condizione della lingua. E da qui, il principio della versificazione ‘ritmica’>>
(ivi).
A. Cardillo
È impossibile stabilire il momento in cui ciò sia avvenuto, perché l'evoluzione di una
lingua è legata a fenomeni che si manifestano a seguito di lenta gestazione; certi indizi,
tuttavia, concorrono a chiarire la questione.
Il poeta Commodiano vissuto tra il III e il V secolo, nel Carmen apologeticum e nelle
Istructiones abbandona gli schemi classici della versificazione e <<rifacendosi all’uso
volgare>>7 punta decisamente sul numero delle sillabe e sull’accento. Lo stesso avviene
nell’opera Psalmus contra partem Donati di S. Agostino scritta nell’ultimo decennio del IV
secolo8.
La strada della versificazione ritmica ormai era spianata. Dopo qualche esitazione
determinata dalla resistenza dei modelli classici durante l’età carolingia, essa prende il
volo nell’undicesimo secolo <<grazie anche ai suoi rapporti con la musica, e trionfa nel
secolo XII con una fioritura meravigliosa di produzioni svariatissime nel contenuto e nella
forma […]>>.9 Il Canto delle scolte modenesi, i Canti goliardici, il Dies irae segnano il
definitivo abbandono della versificazione su base quantitativa e la definitiva
caratterizzazione del verso per il numero costante delle sillabe e per la rima.10
* * *
7
Antonio Rostagni (Storia della letteratura latina, III edizione a cura di Italo Lana, vol. III, L’Impero, UTET,
Torino s. d., p. 374) sottolinea a proposito di Commodiano il termine ‘poeta’ ritenendo gli altri ‘semplici
versificatori’. Cfr. anche Michael Von Albrecht, Storia della letteratura latina. Da Livio Andronico a Boezio,
vol.III, Einaudi, Torino 1996, pp. 1322, 1335n.
8
Manlio Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni-Accademia, Firenze 1969, p. 368.
9
Luigi Alfonsi, La letteratura latina medievale, Sansoni-Accademia, Firenze 1972, p. 164.
10
In taberna, parte dei Canti goliardici, presenta strofe di ottonari rimati: <<In taverna quando sumus, / non
curamus quid sit humus, / sed ad ludum properamus / cui sempre insudamus […]>>, vv. 1-4; il Dies irae
presenta un ritmo d’andamento trocaico reso con ottonari monorimi: <<Dies irae, dies illa / solvet saeclum in
favilla: / teste Davide cum Sybilla. // Quantus tremor est futurus / quando judex est venturus / cuncta striate
discussurus>> (vv. 1-6); nel Canto delle scolte modenesi il ritmo è dato da un quinario piano più un senario
piano o sdrucciolo: <<O tu qui servis armis ista moenia / noli dormire, moneo, sed vigila […]>>, vv. 1-2.
A. Cardillo
col suo sangue la tinta darà.
(G.Berchet, Il giuramento di Pontida, 56)11.
* * *
presenta tredici sillabe grammaticali che diventano undici secondo le regole metriche.
Infatti tra -se e -il interviene una figura detta sinalefe (nell’esempio proposto ricorre due
volte: tra -se e e tra e -il) per la quale le tre sillabe si fondono in una sola: -s’ il); quindi
Can1 to2 l’ar3 mi4 pie5 to6 se^e^il (= s’il)7 ca8 pi9 ta10 no11.
I casi in cui il computo metrico delle sillabe è diverso da quello grammaticale sono
la dieresi che divide in due un dittongo, indicata in genere con il segno grafico (..) posto
sulla prima delle due vocali, e la sineresi che si ha quando due vocali che si incontrano in
iato all’interno di una o tra due parole costituiscono una sillaba sola.
Esempi di dieresi conclamata:
Dolce color d’orïental zaffiro
(Purgatorio, I, 13);
O settentrïonal vedovo sito!
(ivi, 26).
In mancanza del segno grafico il lettore deve riconoscere i casi di dieresi guidato
dalle regole che disciplinano tale figura e dalla propria esperienza.
L’incontro di due o più vocali all’interno di una parola o alla fine e all’inizio di due
parole di seguito possono dar luogo a più soluzioni dal punto di vista metrico.
Incontro di vocale tonica con vocale atona.
All'interno del verso tale nesso (mai, mia, mie, lei, voi, io, rea, reo, suo, sua, sue, fui,
ecc.) normalmente vale una sillaba; due alla fine di parola. Si registrano, tuttavia, specie
nella poesia dantesca e petrarchesca, casi particolari nei quali il nesso nel corpo del verso
è considerato due sillabe; si tratta di dieresi d'eccezione.
Incontro di a, e, o con vocale tonica.
11
Le parole sono bisdrucciole quando l’accento cade sulla quartultima sillaba (consìderano), trisducciole se
l’accento cade sulla quintultima (comùnicamelo), quadrisdrucciole se l’accento cade sulla sestultima
(fàbbricamicelo); difficilmente, però, questi casi si incontrano nei componimenti in versi.
A. Cardillo
Di norma tale incontro dà luogo ad un bisillabo: paese, paura, maestro, beato, leale,
leone. Lo stesso avviene quando due vocali sono separate da i consonantica: gioia, noia,
ecc.
la i e la a di Lucia valgono due sillabe perché in fine verso non c’è sineresi.
La sinalefe è la fusione, per evitare iato, ai fini fonetici e metrici della vocale o delle
vocali finali di una parola con la vocale o le vocali iniziali della parola seguente; nel verso
Ahi quanto^a dir qual era^è cosa dura
(Inferno, I, 4)
A. Cardillo
ricorrono due sinalefi: la prima tra -to^a e la seconda tra -ra^è; in questo caso la fusione
delle vocali determina il conteggio delle sillabe (-to^a e -ra^è valgono rispettivamente una
sola sillaba) .
La dialefe è l’inverso della figura precedente; si ha quando la vocale o le vocali
finali di una parola non si fondono (cioè non si integrano foneticamente e metricamente)
con la vocale o le vocali iniziali della parola seguente:
L’acqua era buia_assai più che persa
(Inferno, VII, 103).
L'elisione si ha quando una parola che termina per vocale si incontra con una che
inizia con vocale e la vocale della parola che precede si elimina:12
Parev’_a me che nube ne coprisse
(Paradiso, II, 31);
se delle due vocali è accentata quella che precede, non può esserci elisione:
E tu che se’ costì, anima viva
(Inferno, III, 88).
La protesi o prostesi si ha quando l’autore aggiunge all’inizio di una parola una
consonante, una vocale o una sillaba per ragioni eufoniche:
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella
L’epentesi vocalica (o anaptissi) si ha quando una vocale in più è inserita nel corpo
della parola:
similemente il mal seme d’Adamo
(Inferno, III, 115).
La paragoge (o epitesi) si ha quando è aggiunta una sillaba alla fine della parola:
Vuolsi così colà dove si puote
(Inferno, III,95).
L’aferesi è la caduta di una sillaba o di una lettera all’inizio di parola:
che durerà del verno il grande assalto;
(Dante, Rime, C, 58).
12
Secondo Elwert: <<Occorre distinguere nettamente l’elisione dalla sinalefe, che fonologicamente è
tutt’altra cosa: infatti in caso di sinalefe le vocali vengono pronunciate tutte e due, ben distinte nel loro suono,
e perfino vocali omofone non si fondono insieme. […] Nel verso italiano l’elisione non serve ad eliminare
sillabe metricamente eccedenti; ciò avviene normalmente con la sinalefe. L’elisione può servire a sopprimere
un incontro di vocali, ma ciò deve avvenire solo nei casi in uso nella lingua parlata (io t’ho visto); poiché due
vocali vicine appartenenti a due parole diverse non offendono la sensibilità del lettore, - infatti anche nel
A. Cardillo
La sincope consiste nella caduta di una vocale nel corpo di una parola:
Mentre che l’uno spirto questo disse
(Inferno, V,139).
L’apocope si ha quando in una parola cade la sillaba finale:
colui ch’a tutto ‘l mondo fe' paura;
(Paradiso, XI, 69)13.
L’allitterazione è la ripetizione di suoni o di sillabe per ottenere un risultato
acustico; può essere vocalica o consonantica:
esta selva selvaggia e aspra e forte
(Inferno, I, 5).
La tmesi nella versificazione italiana si ha quando una parola di fine verso è divisa
in due parti, di cui una è incipitaria del verso successivo:
così quelle carole differente
mente danzando, della sua ricchezza
(Paradiso, XXIV, 16-17).
L’antitesi fonetica si ha quando il poeta, per esigenza di rima o per altro cambia
una vocale o una consonante (ferute per ferite, savere per sapere, lome per lume):
Qual savesse qual era la pastura
(Paradiso, XXI, 19).
* * *
linguaggio comune vengono fuse insieme - si possono conservare ambedue, se esse sono necessarie per
ottenere il numero esatto di sillabe>> (Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri cit., pp. 30-31).
13
Va ricordato, come avverte Elwert, che l’aferesi, l’apocope, la sincope, la protesi, l’epentesi, la paragoge
sono impropriamente considerate figure metriche perché esse <<[…] non hanno nessun rapporto con il
computo delle sillabe e con la prosodia. Sono fatti fonetici, che riguardano la forma della parola stessa,
senza toccarne la valutazione metrica>> (Versificazione italiana cit., p.39).
A. Cardillo
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
(Paradiso, XXXIII, 133).
* * *
A. Cardillo
l’ultima tonica è la 6a seguita da due sillabe; il verso è un settenario (6+1=7) come il precedente,
ma sdrucciolo perché mòrbide è parola sdrucciola (le due sillabe dopo l’ultima tonica non
interferiscono nel conteggio complessivo);
in
dal1 l’u2 no^al3 l’al4 tro5 mar6
(A.Manzoni, La Pentecoste, 8)
l’ultima tonica è la 6a (6+1=7), che non è seguita da altra sillaba perché mar è parola tronca. Il
verso è ugualmente un settenario, ma tronco.
* * *
A seconda del numero delle sillabe i versi possono essere pari (parisillabi) o dispari
(imparisillabi).
I parisillabi sono: Gli imparisillabi sono:
- quaternari o quadrisillabi - ternari o trinari o trisillabi
- senari - quinari
- ottonari - settenari
- decasillabi - novenari
- (bisillabi, molto rari). - endecasillabi.
A questi vanno aggiunti i versi doppi risultanti dall’unione di due di alcuni dei versi sopra
elencati: si avrà, quindi, il doppio quinario, il doppio senario, il doppio settenario (detto anche verso
alessandrino o martelliano), il doppio ottonario.14
* * *
15
E' un ternario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 2a. E' poco usato; si trova spesso
in combinazione con altri versi (Pascoli lo abbina al senario o al novenario) o in alternanza con
essi.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
romore
di sorta,
che forse…
che forse
sia morta?
Orrore!
(A.Palazzeschi, La fontana malata, 26-33).
14
Il bisillabo è un verso molto raro; nella poesia antica era alternato con il ternario. Questo che segue è un
esempio moderno di soli bisillabi:
Dietro qualche qualche qualche
qualche viso riso gesto
vetro, bianco stanco, lesto, […]
(G.A. Cesareo, La locomotiva).
15
Nella definizione di un verso per sillaba è da intendersi sillaba metrica.
A. Cardillo
E' un quinario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 4a; può avere accenti di 1a o
2a, eccezionalmente di 3a; le prime due sillabe prendono il nome di base.
E’ fosco l’aere,
il cielo è muto
ed io sul tacito
veron seduto,
in solitaria
malinconia
ti guardo e lagrimo,
Venezia mia!
(A.Fusinato, A Venezia, 1-8).
E' un settenario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 6a; un altro accento cade
in posizione libera:
Sogno d’un dì d’estate.
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule per filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate
(G.Pascoli, Patria, 1-6).
E' un novenario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è l'8a; generalmente ha
accenti secondari di 2a e di 5a:
[…]
non altro. Essi fuggono via
da qualche remoto sfacelo;
ma quale, ma dove egli sia,
non sa né la terra né il cielo.
(G.Pascoli, Scalpitio, 9-12).
E' un endecasillabo un verso in cui l’ultima tonica è la 10a. E' il verso più usato
nella nostra poesia ed è quello che conta più varianti.16
L'endecasillabo è canonico o a minore in presenza di accento di 4a e/o di 8a; in tal
caso inizia con un quinario. E' a maiore quando ha anche accento di 6a ed inizia con un
settenario.
Lo schema ideale è considerato il seguente:
Amor2 e 'l cor4 gentil6 sono^u8na co10sa
(Dante, Vita Nova, 11).
Qualche variante:
16
Dante nel De Vulgari Eloquentia (II,V,3-4) afferma:«Quorum omnium endecasillabum videtur esse
superbius, tam temporis occupatione, quam capacitate sententie, constructionis et vocabulorum; quorum
omnium specimen magis [multiplicatur] in illo, ut manifeste apparet; nam ubicunque ponderosa multiplicatur
et pondus.[Trad.] Dei quali tutti l’endecasillabo appare il più superbo, sia per durata ritmica, sia per capacità
di pensiero, di costrutti e di vocaboli; ed il decoro di ciascuna di queste cose si moltiplica in esso, come
A. Cardillo
Ca1ntami, o Di4va, del Peli8de Achi10lle
(V.Monti, Iliade, I, 1);
scalpita3nti su gli è6lmi a' moribo10ndi
(U.Foscolo, Dei sepolcri, 211);
risplenderà4 su le sciagu8re uma10ne
(ivi, 295).
E' un quaternario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 3a. E' poco usato da
solo nella poesia italiana; si accompagna spesso con l'ottonario:
Il poeta, o vulgo sciocco,
un pitocco
non è già, che a l' altrui mensa
via con lazzi turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.
(G.Carducci, Congedo. 1-12)
E' un senario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 5ª; presenta accento
secondario di 2ª ma si trova anche con accento di 1ª e 3ª; è usato assai di rado anche dai
poeti italiani antichi.
Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch'io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!
(G.Giusti, Il Re Travicello, 1-8).
E' un ottonario un verso in cui l'ultima sillaba tonica è la 7a; nella forma moderna
ha accento secondario di 3ª; anticamente si adoperava nelle varianti di accento di 1ª, 3ª,
5ª.
Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in quest'orror.
appare manifestamente; ché dovunque si moltiplicano le cose che han peso, anche il peso si moltiplica»
(Testo e traduzione secondo l’edizione Marigo).
A. Cardillo
E' un decasillabo (da distinguere dal quinario doppio) un verso in cui l'ultima sillaba
tonica è la 9a; può avere accenti secondari di 3ª e 6ª:
Soffermati sull'arida sponda,
volti i guardi al varcato Ticino,
tutti assorti nel novo destino,
certi in cor dell'antica virtù,
han giurato:non fia che quest'onda
scorra più tra due rive straniere:
(A.Manzoni, Marzo 1821, 1-8).
L'ipermetro è un verso che supera di una sillaba la misura degli altri di una stessa
strofa; in alcuni casi la sillaba finale si fonde, per sinafia, con quella iniziale del verso
successivo:
E' l'alba: si chiudono i peta-li A
un poco gualciti; si cova, B
dentro l'urna molle e segreta, A
non so che felicità nuova. B
(G.Pascoli, Il gelsomino notturno, 21-24)
dove il verso 21 è ipermetro; la sillaba in più -li di petali si fonde con la prima del verso
seguente, un, consentendo anche la rima tra il primo e il terzo verso.
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Per questi abbinamenti valgono alcune norme: tra il primo e il secondo verso semplice non può esserci
elisione e pertanto il secondo verso deve iniziare sempre per consonante; il primo verso non può essere
A. Cardillo
Il settenario doppio detto anche tetradecasillabo o verso martelliano, conserva la
struttura dei due settenari che lo compongono che sono sempre piani; si può trovare un
emistichio sdrucciolo, come nell’esempio tratto da Carducci (verso 2):
Su i campi di Marengo || batte la luna; fosco
tra la Bormida e il Tanaro || s'agita e mugge un bosco;
un bosco d'alabarde, || d'uomini e di cavalli,
che fuggon d'Alessandria || da i mal tentati valli.
(G.Carducci, Su i campi di Marengo la notte del Sabato Santo 1175, 1-4).
Il Contrasto di Cielo d'Alcamo presenta una particolare struttura dei due settenari:
sdrucciolo il primo, piano il secondo:
- Rosa fresca aulentis[s]ima ch 'apari inver' la state,
le donne ti disiano, pulzell' e maritate:
(Cielo d'Alcamo, Rosa fresca aulentissima , 1-2).
* * *
La rima - elemento caratterizzante la poesia italiana - è l'identità di suono,
dall'accento tonico in poi, di due parole in fine verso:
tronco; tra i due versi talvolta c’è una linea di divisione, ma capita spesso di non trovare alcun segno. Negli
esempi sopra riportati il segno di cesura è mio.
18
I versi 2 e 4 sono irregolari perché mancanti di una sillaba nel secondo emistichio; non così gli altri.
A. Cardillo
dimani, al di' di festa, il petto e il crine.
(G.Leopardi, Il sabato del villaggio, 5-7).
La rima vera e propria va distinta dalle cosiddette rime imperfette che sono l'assonanza e
la consonanza; la prima si ha quando due parole hanno uguali soltanto le vocali dalla
tonica in poi (bèllo e sénno, decòro e stuòlo); la seconda invece, detta pure assonanza
atona, si ha tra due parole che hanno uguali consonanti ma vocali diverse dall'accento
tonico in poi (temùto e lasciàto, stìlla e stélla) .
La rima caratterizza in modo determinante una composizione poetica a seconda del
modo in cui viene articolata e concorre, assieme ad altri elementi, ad evidenziarne suoni
ed immagini.
Le rime possono essere:
a) baciate, caratteristiche del distico, se si succedono l'una dopo l'altra secondo lo schema
AA BB ...
de' miei mali ti toglie A
la favella, e discioglie A
in lagrime furtive il tuo dolore. B
Ma datti pace, e il core B
A. Cardillo
mi ritrovai per una selva oscura, B
ché la diritta via era smarrita. A
e) rinterzate se tre versi rimano con tre successivi, nello stesso ordine, in ordine inverso o in ordine misto
(ABC ABC oppure ABC CBA oppure ancora ABC BAB ecc.);
Mostrasi sì piacente a chi la mira, A
che dà per li occhi una dolcezza al core, B
che 'ntender no la può chi no la prova: C
dove –la- di canicola non si considera e pertanto si ripristina la rima BB dei versi 6-7, amico:canico-la.
Sciolti si dicono i versi che non presentano la successione della rima (il carme Dei Sepolcri di
Foscolo è costituito da 295 endecasillabi ‘sciolti’); liberi si dicono quelli che non rientrano in uno schema
metrico fisso o non seguono in modo regolare le norme della versificazione. I versi liberi, caratteristici della
poesia del Novecento, talvolta ripropongono strutture che, solo apparentemente, sono al di fuori dei canoni
metrici.
* * *
Lassa è l’insieme di versi senza uno schema fisso, in numero variabile, rimati o assonanzati. In
tempi relativamente vicini l’hanno riproposta Carducci, Pascoli e d’Annunzio.
Esempio di lassa del XII secolo:
Salva lo vescovo senato, lo mellior ch’umque sia na[to]
[che da l’] ora fue sagrato, tutt’allumma ‘l chiericato.
né Fisolaco né Cato non fue sì ringraz_ato,
e ‘l pap’ hall[ -ato] per suo drudo plu privato.
Suo gentile vescovato ben’è cresciuto e melliorato.
(Ritmo Laurenziano, 1-5, da Spongano, op.cit. p.196).
A. Cardillo
tale struttura può ripetersi più volte nel testo. Una strofa si compone di un vario numero di
versi rimati o non.
Nella versificazione italiana ricorrono varie tipologie di strofe.
Il distico è composto di due versi (di varia misura metrica, dal settenario
all'endecasillabo, all'otto-novenario, all'endecasillabo) per lo più con rima baciata:
"O cavallina, cavallina storna A
che portavi colui che non ritorna; A
(G.Pascoli, La cavalla storna, 11-12).
La terzina (detta anche terza rima ) è costituita da tre versi (esempio classico sono
le terzine della Commedia), comunemente con rime incatenate.
La quartina presenta quattro versi, con rima alternata o chiusa (ABAB oppure
ABBA):
S'è rifatta la calma A
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta. B
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma A
a pena svetta . B
(E.Montale, Maestrale, 1-4);
oppure
Il gigantesco rovere abbattuto A
l'intero inverno giacque sulla zolla , B
mostrando, in cerchi, nelle sue midolla B
i centonovant'anni che ha vissuto . A
(G.Gozzano, Speranza, 1-4).
Dal punto di vista metrico la quartina può presentare varietà di combinazioni: può essere
costituita di endecasillabi oppure di endecasillabi e settenari alternati, novenari e settenari,
quinari ecc.
La quinta rima presenta strofe di cinque versi, di misura uguale o non, nelle quali il
quinto spesso ha la stessa rima:
Io sono una lampada ch' arde A
soave! B
nell' ore più sole e più tarde, A
nell'ombra più mesta, più grave , B
più buona, o fratello! C
A. Cardillo
e dall'obbligo schifoso A
di legarsi a quel rosticcio. B
Con quest'osso per la gola C
si ficcò tra le lenzuola . C
(G.Giusti, La scritta, Parte seconda,1-6).
Si possono trovare anche le rime ABBAAB, come in Gozzano:
Signorina Felicita, a quest'ora A
scende la sera nel giardino antico B
della tua casa. Nel mio cuore amico B
scende il ricordo. E ti rivedo ancora, A
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora A
e quel dolce paese che non dico. B
(La Signorina Felicita, 1-6).
Un antico schema, riproposto da Gozzano, prevedeva la rima ABABAB:
Signorina Felicita, è il tuo giorno! A
A quest'ora che fai? Tosti il caffè: B
e il buon aroma si diffonde intorno? A
O cuci i lini e canti e pensi a me, B
all'avvocato che non fa ritorno? A
E l'avvocato è qui: che pensa a te. B
(Idem, 7-12).
Altre varianti di rima sono: ABBACC oppure AABCCB .
L'ottava (ottava rima o stanza) è formata di otto endecasillabi, i primi sei in rima
alternata e gli altri due in rima baciata (ABABABCC); tale è lo schema della cosiddetta
ottava toscana:
Piacciavi, generosa Erculea prole, A
ornamento e splendor del secol nostro, B
Ippolito, aggradir questo che vuole A
e darvi sol può l'umil servo vostro. B
Quel ch'io vi debbo, posso di parole A
pagare in parte, e d'opera d'inchiostro; B
né che poco io vi dia da imputar sono; C
ché quanto io posso dar, tutto vi dono. C
(L.Ariosto, Orlando Furioso, I, 3).
L'ottava siciliana, di epoca posteriore rispetto alla precedente, presenta rima
alternata anche negli ultimi due versi (ABABABAB):
Da poi che la speranza m'è mancata, A
male aggia Amore e quando mai mi prese B
la fé che a toe lusinghe hai' donata ! A
Sia maledette le mie prime imprese B
e tu che cruda me te si' mostrata! A
Sia maledetta tua voglia scortese ! B
Ma tristo quel che serve a donna ingrata, A
ch'al fin si perde l'opere e le spese . B
(Anonimo del XV sec., cit. da Spongano, p.357).
Quando dopo l'ottavo verso vi è un nono che rima col sesto (e quindi col quarto e
col secondo) si ha la nona rima, strofa molto rara nella nostra poesia (ABABABCCB):
Come colui che naviga a seconda A
A. Cardillo
per correnti di rapide fiumane, B
che star gli sembra immobile, e la sponda A
fuggire e i monti e le selve lontane; B
cosi' l'ingegno mio varca per l'onda A 5
precipitosa delle sorti um-ane: B
e mentre a lui dell'universa vita C
passa dinanzi la scena infinita, C
muto e percosso di stupor rim-ane. B
(G.Giusti, A Gino Capponi [1847], 1-9)
La settima e la decima rima, componimenti a struttura rarissima nella poesia
italiana, presentano rispettivamente sette e dieci versi con rime ABABCC più verso
sdrucciolo senza rima dopo il quinto oppure ABABABCCCB.
La canzone19 è un componimento poetico esemplato dai Siciliani e dai Toscani sul
modello della cansò20 provenzale e portato a perfezione da Dante; è costituita da un
numero variabile di strofe che prendono il nome di stanze.
Nella canzone antica le strofe sono in numero variabile (fino ad un massimo di
nove), tutte rispondenti al medesimo schema; chiude il componimento un congedo che è
una strofa di minore lunghezza.
Le strofe sono composte prevalentemente di endecasillabi e di versi di varia misura
metrica, in genere settenari o quinari; al posto degli endecasillabi si possono avere
settenari seguiti da quinari. I versi generalmente sono tredici per ogni strofa.
La stanza si divide in due periodi: fronte e sirma (o sirima).
La fronte è costituita da due raggruppamenti di versi di uguale numero (due, tre,
quattro ecc.) e con lo stesso schema rimico; i due raggruppamenti prendono ciascuno il
nome di piede.
Un secondo raggruppamento di versi, detto volta, anch’esso uguale per numero di
versi e per schema rimico, costituisce la sirma.
Fronte e sirma sono unite da un verso che rima con quello precedente e che
prende il nome di chiave o diesi.
Lo schema classico è il seguente:
1 A a
1o piede 2 B b
3 C c
… … …
19
La struttura della canzone e della ballata è ampiamente analizzata e descritta da Pietro G. Beltrami, La
metrica italiana, cit., pp. 211-236 e 248-258.
20
Per la derivazione trobadorica di canzone e ballata si veda il Dizionario di linguistica diretto da Gian Luigi
Beccaria, cit., ad vocem.
A. Cardillo
fronte 4 A a
2o piede 5 A a
6 B b
…
chiave 7 C c
8 D d
1a volta 9 E e
10 E e
… … …
sirma 11 D d
a
2 volta 12 F f
13 F f
… … …21
A. Cardillo
b) canzone leopardiana;
c) sestina lirica;
d) canzone pindarica.
La canzone leopardiana dapprima conserva la struttura tradizionale ma con alcune
varianti (All'Italia); poi diventa un componimento libero per quel che riguarda la struttura
delle stanze, il loro numero e le rime.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare 5
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta 10
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
21
I tre punti indicano che la strofa può essere ampliata con un ulteriore variabile numero di versi. Lo stesso
schema metrico e rimico è ripetuto per quante sono le strofe; chiude il componimento un congedo. Le lettere
minuscole indicano i versi di misura metrica minore; le maiuscole quelli di misura metrica maggiore.
A. Cardillo
che parla e sente come fosse donna . F
(Antìstrofe)
O tanto in Ciel gradita E
A. Cardillo
suora di Marta, io senza frode ascolto, F
che una stagion tua vita E
ver' gli abissi trascorse a fren disciolto; F
e poscia in un momento G
formasti in sulla terra orme novelle, H
e con piume di vento G
ti rivolgesti a sormontar le stelle. H
(Epòdo)
Che fu ciò? come avvenne? Alta mercede I
talor comparte il gran Monarca eterno; L
perché l'uomo, ver' lui rivolto il piede, I
mai non si prenda la mercede a scherno. L
Sovra l'alme ostinate egli s'adira, M
ed è caro di lui chi ben sospira. M
(G.Chiabrera, Per santa Maria Maddalena, 1-22)
* * *
La ballata è un componimento dalla struttura complessa e varia, di origine fiorentina
e bolognese, risalente all’incirca alla metà del ‘200 e praticato dagli stilnovisti che lo
portarono ad un alto grado di perfezione.
Si compone generalmente di una ripresa o ritornello cantato e danzato da un coro tra
una stanza e l’altra e di una strofa o stanza cantata da un solista22 (uomo o donna). La
stanza è costituita da una o più coppie di versi a ciascuna delle quali è dato il nome di
mutazione o piede: si ha una prima mutazione, una seconda mutazione e così di seguito;
un elemento terminale della prima strofa formata da uno o più versi a cui si dà il nome di
volta introduce il ritornello il cui ultimo verso rima con l’ultimo della stanza. Il numero di
stanze è vario; i versi possono essere endecasillabi o settenari o gli uni e gli altri.
La ballata è detta maggiore, mezzana, minore, piccola in base al numero dei versi che
compongono la ripresa; stravagante quando la ripresa ha più di quattro versi, minima
quando la ripresa è costituita da un settenario o da un ottonario.
Lo schema può essere il seguente:
1 x
2 y
3 y
ritornello 4 x
…
5 a
1a mutazione 6 b
7 a
A. Cardillo
stanza 2a mutazione 8 b
9 a
10 b
11 b
12 x
1 x
2 y
3 y
ritornello 4 x
…
5 c
1a mutazione 6 d
7 c
stanza 2a mutazione 8 d
9 c
10 d
11 d
12 x
e così di seguito23.
A. Cardillo
leggieramente ti faria disnore. X
[…]
(Dante, Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore).
A. Cardillo
vien pe’ istar con voi,
partit’è da Colui24 35
che fu servo d’Amore>>.
Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente,
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente. 40
Voi troverete una donna piacente,
di sí dolce intelletto
ch’e’ vi sarà diletto
davanti starle ognora.
Anima, e tu l’adora 45
sempre, nel su’valore.
A. Cardillo
La struttura del madrigale (poesia per musica) risale al XIV secolo: una, due o tre
terzine seguite da uno o più distici. Nel corso del '500 la sua composizione fu affrancata
da rigide regole. In base alla lunghezza i madrigali prendono il nome di madrigaloni,
madrigalesse, madrigalini.
Un esempio di madrigale classico:
Pallidetto mio sole, A
ai tuoi dolci pallori B
perde l'alba vermiglia i suoi colori. B
Pallidetta mia morte, C
a le tue dolci e pallide vïole D 5
la porpora amorosa E
perde, vinta, la rosa. E
Oh piaccia a la mia sorte C
che dolce teco impallidisca anch'io, F
pallidetto amor mio! F 10
(G.B. Marino, dalla Lira, Pallore di bella donna).
Lo strambotto siciliano presenta otto versi e schema rimico ABABABAB; era
accompagnato dal suono di uno strumento musicale:
Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti, A
e la lucerna i biondi capi indora: B
i biondi capi, i neri occhi stellanti , A
volgono alla finestra ad ora ad ora: B
attendon esse a cavalieri erranti A
che varcano la tenebra sonora? B
Parlan d'amor, di cortesie, d'incanti: A
così parlando aspettano l'aurora. B
(G. Pascoli, Notte).
Il rispetto toscano è simile allo strambotto ma le rime sono diverse (ABABABCC,
oppure ABABCCDD); può essere di sei o di otto versi:
Più che lo mele hai dolce la parola, A
saggia e onesta, nobile e insegnata; B
hai le bellezze della Camiola, A
Isotta la bionda e Morgana la fata; B
se Biancifiori ci fossi ancora, A
delle belezze la giunta è passata. B
Sotto le ciglia porti cinque cose: C
amore e foco e fiamma e giglio e rose. C
(Anonimo del XIV secolo cit. da Spongano, p.259).
Lo stornello è una strofa di tre versi, di cui il primo di solito è un quinario e gli altri
due sono endecasillabi uniti da consonanza atona. Il secondo endecasillabo rima col
quinario e il verso intermedio in assonanza atona rima con gli altri due secondo lo schema
ABA:
Fior tricolore,
Tramontano le stelle in mezzo al mare
E si spengono i canti entro il mio cuore.
24
<<voi : Colui>>, rima siciliana; cfr. Spongano, op. cit., p. 101n.
A. Cardillo
(G.Carducci, da Rime e ritmi, Congedo, 1-3).
Il polimetro è un insieme di versi pari e/o dispari che si avvicendano senza una
regola precisa e con rime costituite di volta in volta in vario modo .
I tentativi di riprodurre nei versi italiani il ritmo di quelli classici iniziarono a partire
dal Quattrocento ma trovarono qualche realizzazione nel corso del Rinascimento. Si
trattava, comunque, di forzature in forte contrasto con una poesia di tipo accentuativo.
Carducci, Pascoli e d'Annunzio hanno realizzato compiutamente quell’idea facendo
rivivere forme di versificazione – opportunamente adattate – tratte dal repertorio classico.
Con metrica barbara comunemente s'intende il complesso dei versi ad imitazione –
quanto a struttura e a dinamica del ritmo – dei metri greci e latini.
L'esametro, il verso latino per eccellenza, in italiano è reso con un
settenario più novenario;
settenario più ottonario;
senario più novenario;
quinario più novenario;
quinario più decasillabo;
ottonario più novenario.
Ri1 cor2 do3. Ful4 vo^il5 so6 le7 || tra^i1 ros2 si3 va4 po5 ri^e6 le7 nu8 bi9
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando, poi cade.
[settenario più novenario]
(G. Carducci, Una sera di San Pietro, 1-3).
Tra1 le2 bat3 ta4 glie^,O5 me6 ro7, || nel1 car2 me3 tuo4 sem5 pre6 so7 nan8 ti9
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
[settenario più novenario]
(G.Carducci, Sogno d'estate, 1-3).
Il pentametro è reso in genere da un
quinario più settenario;
settenario più settenario;
quinario più senario sdrucciolo;
A. Cardillo
settenario tronco più ottonario tronco.
L’esametro ed il pentametro insieme costituiscono il distico elegiaco:
Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
La strofa alcaica è formata da quattro versi di cui due quinari doppi (un quinario piano
ed uno sdrucciolo); un novenario piano; un decasillabo (accento secondario di 6ª o 7ª);
oppure due quinari piani.
Gelido il vento pe' lunghi e candidi
Intercolonnii feria, su tumuli
Di garzonetti e spose
Rabbrividian le rose
Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,
Sottil, da un grigio cielo di maggio
Battea con faticoso
Metro il piano fangoso;
(G.Carducci, Primavere Elleniche, III Alessandrina, 1-8);
A. Cardillo
Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, s'abbandona l'anima
del tuo parlar su l'onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.
(G.Carducci, Fantasia, 1-4).
L'asclepiadea III ha due coppie di quinari sdruccioli, che si alternano con due
settenari sdruccioli:
Sull'età giovane, ch'avida suggere
suol d'amor tossico, simile al nettare,
quando il piangere è dolce,
e dolcissimo l'ardere
A. Cardillo