Tirocinio Formativo Attivo - Università degli Studi Roma Tre - A.A. 2011/2012
Obiettivi formativi
In questa unità di studio impereremo a:
1. Delineare l'evoluzione della Pedagogia Speciale nel corso della storia
2. Identificare le ragioni che sono a fondamento della nascita della Pedagogia Speciale in un
preciso contesto e momento storico
3. Operare una distinzione tra gli atteggiamenti assunti da Jean Marc Itard nei confronti della
disabilità rispetto a quella assunta da illustri studiosi suoi contemporanei
4. Attribuire al concetto di educabilità la funzione di aver favorito lo sviluppo della civiltà
nelle società occidentali
5. Comprendere il significato del concetto di Pedagogia Speciale e le sue funzioni
6. Cogliere il significato dell’espressione Pensare Speciale
7. Riconoscere le caratteristiche dei concetti di multicausalità e di multimodalità
8. Identificare il legame che intercorre tra Pedagogia Speciale e Scienze dell'Educazione
9. Riconoscere le caratteristiche peculiari del modello scolastico dell'integrazione
10. Identificare le diverse criticità mosse da alcuni studiosi al modello dell'integrazione
11. Distinguere in cosa si differenzia la prospettiva dell'integrazione da quella dell'inclusione
12. Argomentare le diverse posizioni che sono alla base dell'attuale dibattito in corso in Italia
circa i tempi e i modi di attuare il passaggio dal modello/sistema dell'integrazione a quello
dell'inclusione.
13. Riconoscere le diverse fasi che hanno caratterizzato il processo di integrazione/inclusione
in Italia.
14. Contraddistinguere le peculiarità delle diverse normative che hanno segnato sia a livello
sincronico sia a livello diacronico il processo di integrazione/inclusione in Italia
Indice
Introduzione
1. Le origini della Pedagogia Speciale. Prodromi di un atteggiamento culturale e scientifico
1.1 Le ragioni a fondamento della nascita della Pedagogia Speciale
1.1.1 La prima ragione
1.1.2 La seconda ragione
1.2 Essenzializzando il discorso
2. La pedagogia speciale: significati e funzioni
2.1 Il concetto di Pedagogia Speciale
2.2 Il Pensare Speciale
2.3 La multicausalità e la multimodalità
2.4 La Pedagogia Speciale e l’integrazione di qualità
2.5 La Pedagogia Speciale e la Scienza dell’Educazione
2.6 Essenzializzando il discorso
3. La scuola italiana dall'integrazione all'inclusione
3.1 Il modello scolastico dell'integrazione: criticità e limiti
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3.2 La via dell’inclusione
3.3 I tempi di attuazione del modello inclusivo: sintesi di un dibattito in corso
4. L'evoluzione della normativa sull'integrazione degli allievi con disabilità in Italia
4.1 La fase dell'esclusione (fino al 1960)
4.2 La fase della medicalizzazione (dal 1960 al 1970)
4.3 La fase dell'inserimento (dal 1970 al 1977)
4.4 La fase dell'integrazione (dal 1977 al 1994)
4.5 La fase dell'inclusione (dal 1994 ad oggi)
Breve glossario
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Introduzione
Nel dare avvio ad un Corso di Pedagogia Speciale destinato ad docenti di scuola secondaria già in
possesso di abilitazione o in procinto di conseguire l’abilitazione sembra opportuno,
preliminarmente, operare alcune specificazioni riguardanti l’ambito di studio che si propone di
prendere in esame.
Il primo punto da affrontare concerne la necessità di collocare storicamente (in un preciso momento
e in un dato contesto) la nascita della Pedagogia Speciale cogliendo quelle che sono le ragioni alla
base della sua fondazione, così come di delineare, seppur brevemente, quelle che sono le linee
evolutive di questo ambito della Scienza dell'Educazione. In modo particolare si farà riferimento al
pensiero e alle opere di studiosi come Jean Marc Gaspard Itard, Edourad Séguin e Maria
Montessori, grazie ai quali ha preso corpo l'idea/valore di perfettibilità, quindi di educabilità, di tutti
gli esseri umani a prescindere dalla loro condizione di partenza.
Successivamente, sulla base di quanto introdotto nel primo capitolo, si affrontano alcune questioni
concernenti la definizione di Pedagogia Speciale, il significato e le funzioni che caratterizzino tale
ambito disciplinare. In modo particolare si sofferma l'attenzione sul rapporto che intercorra tra la
Pedagogia Speciale e le Scienze dell’Educazione (anche nella sua declinazione al singolare di
Scienza dell’Educazione come viene applicata da alcuni studiosi).
Infine, nel terzo capitolo si analizza uno dei nodi cruciali che investe oggi il sistema formativo
nazionale e la società tutta: il passaggio epocale dal modello dell'integrazione – che ha
caratterizzato gli ultimi trent'anni della nostra storia scolastica, dalla Legge 517/77 ad oggi, per
intenderci – a quello dell'inclusione, che dovrebbe rappresentare l'attuale sfida che la scuola italiana
si trova ad affrontare per garantire a tutti e a ciascuno il successo formativo (anche nell'ottica dei
documenti internazionali come Europa 2020) .
Corredano l'UD un breve glossario, quattro esercitazioni per il consolidamento degli apprendimenti
e una serie di quesiti per l'autoverifica di alcuni punti chiave trattati nell'ambito della dispensa.
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Siamo in presenza di uno di quei paradossi – spesso dettati da serendipità – che generano una svolta
epocale. La posizione innovativa (istituente, secondo la concettualizzazione di Andrea Canevaro,
1999) assunta da Itard scardina, infatti, un certo atteggiamento consolidato nella tradizione medica
del tempo (l'istituito) incarnata da Pinel aprendo le porte a un processo pedagogico che fondandosi
sul valore e sull'ideale dell'educabilità e della perfettibilità di tutti gli esseri umani giunge fino ai
nostri giorni.
Naturalmente la svolta inaugurata da Itard non è l'esito di semplice casualità (per questa ragione
abbiamo parlato di serendipità).
Itard è uno studioso in ricerca. Figlio dell'illuminismo e della rivoluzione francese, appassionato
delle teorie sensiste di Condillac, lo studioso – che nel momento storico che stiamo esaminando si
occupa di sordità, campo nel quale è autore di un poderoso trattato) intuisce nel ritrovamento del
selvaggio una straordinaria opportunità per avvalorare le proprie posizioni teoriche (Crispiani,
1998).
Questa sottolineatura è fondamentale per comprendere l'origine scientifica della Pedagogia Speciale
e il suo discostarsi – sin dagli albori – da qualsiasi forma di filantropismo.
Cerchiamo di comprendere meglio questo passaggio che è alla base dell'impostazione scientifico
culturale che ancora oggi – con tutti i dovuti sviluppi che sono propri di una scienza o di un ambito
scientifico – orienta il lavoro dei pedagogisti speciali.
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Con Itard, dunque, assistiamo a una netta divaricazione tra l'atteggiamento filantropico e quello
scientifico.
La vocazione filantropica ha a lungo ispirato l'educazione dei sordi e dei ciechi condotta presso
ospizi e ricoveri gestiti da religiosi, per poi indirizzarsi, grazie all'azione di figure come Pèreire, De
L'Epée, Hauy, Braille, Pendola, ecc…(Zappaterra, 2003) verso lo studio sistematico dei metodi
ritenuti più idonei per istruire coloro i quali hanno un deficit sensoriale.
L'atteggiamento scientifico, invece, nasce sotto gli auspici e gli influssi della riflessione teoretica e
dello sperimentalismo, entrambi finalizzati non solo a verificare gli effetti (la ricaduta pratica)
quanto a precisarne l'impianto epistemologico. Lo pone in evidenza con acutezza Giovanni
Genovesi: «Itard imposta un processo che è educativo non tanto per gli effetti – peraltro non
soddisfacenti – che sortisce, ma per il quadro teorico che lo sorregge, che è un quadro pedagogico,
di teoria dell’educazione. Itard “crea” il rapporto educativo, l’oggetto educazione, immaginandolo
come un costrutto teorico costituito dall’intreccio sensi-idee-linguaggio (significati). E per stimolare
tale intreccio e produrre significati, Itard escogita mezzi e strategie d’intervento a livello
sperimentale: giochi, marchingegni i più disparati, controllandone costantemente la funzionalità per
i fini da raggiungere. Si pongono così le basi della pedagogia e dello sperimentalismo in pedagogia.
Itard [...] è soprattutto colui che rimette in moto il cammino della pedagogia come scienza»
(Genovesi, 2000, p. 146).
Un cammino ereditato e ulteriormente sviluppato dall'allievo di Itard, ossia Edouard Séguin, il quale
nel rivolgere l'attenzione agli idioti e alla loro educazione (speciale), compie un attento lavoro di
ripensamento della pedagogia generale, come non manca di sottolineare in un celebre passo del suo
trattato: «Se tutti i metodi che ho passato in rassegna mi son sembrati adatti per i bambini normali,
o meglio, se lo sviluppo intellettuale dei bambini normali li rende eccellenti, con gli idioti essi
perdevano il loro prestigio man mano che ne provavo l’applicazione; nessuno teneva sufficiente
conto delle anomalie psicologiche e fisiologiche d cui l’individuo umano è suscettibile, perché me
ne potessi contentare; procedendo così sempre per eliminazione, man mano che andavo avanti
nell’esame critico dei metodi, mi sono ritrovato non soltanto isolato nel mio tentativo di cura degli
idioti, ma anche nel lavoro di pedagogia generale che ero costretto a formulare ogni giorno con
maggior precisione» (Séguin, 1970, p. 30).
Séguin, intuisce un vulnus nella concettualizzazione pedagogica del suo tempo (che, per molti versi,
è ancora oggi attualissimo): fino a che punto possiamo dirci sicuri che siano i metodi e l'offerta di
istruzione erogata dai nostri sistemi scolastici e formativi a determinare l'apprendimento e il
successo scolastico degli allievi, se tali metodi e sistemi pongono come soggetto che ne è
idealmente destinatario proprio coloro i quali sono conformi/ati a rispondere positivamente alla loro
natura intrinseca? Siamo certi che tali soggetti – considerata l'assenza di deficit, svantaggi e
difficoltà che li caratterizza – non apprenderebbero anche in assenza di questa offerta?
Non a caso Canevaro, riflettendo sul pensiero e sull'opera di Séguin, afferma che «i problemi posti
dall'educazione di bambini handicappati mettono alla prova e verificano la validità o meno
dell'educazione generale» (Canevaro, 1988, p. 95).
Si tratta di una consapevolezza presente anche in Maria Montessori, a sua volta allieva di Séguin,
avendone tradotto per prima dal francese la voluminosa opera dello studioso introducendola in Italia
(Bollea, 1970).
L’intervento pedagogico immaginato, messo a punto e attuato da Maria Montessori si fonda su un
approccio scientifico, razionale, non episodico (Frabboni, 1974), fondato sull’osservazione del
fanciullo deficiente e organizzato in modo tale da favorire il suo percorso formativo: «Io stessa,
usando soltanto ciò che è chiamato studio dell’individuo per mezzo di strumenti scientifici e di test
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mentali, avevo trasformato i deficienti espulsi dalle nostre scuole perché inetti ad essere educati, in
individui che potevano sostenere nelle scuole il confronto con gli alunni normali: cioè essi erano
diventati persone socialmente utili ed educate come esseri intelligenti. L’educazione scientifica, era
quella che, pur basata sulla scienza, modificava e migliorava l’individuo […] Questi effetti
meravigliosi avevano quasi del miracolo, per coloro che li osservavano. Ma per me, i ragazzi del
manicomio raggiungevano quelli normali agli esami pubblici, solo perché guidati lungo una via
diversa. Essi erano stati aiutati nello sviluppo psichico...» (Montessori, 1999, pp. 29-32; si vedano
anche: Tornar, 1990; Piazza, 1998).
Sono chiare le implicazioni e le attualizzazioni derivabili da quanto detto fino ad ora (le
riprenderemo più avanti): l'atteggiamento scientifico di Itard e, soprattutto, di Séguin e Montessori
(sviluppate anche da altri studiosi, naturalmente, basti pensare a Decroly, De Sanctis, Montesano,
Pizzoli, ecc…cfr: Babini, 1996; Bocci, 2011a; Mura, 2012) sembrano anticipare la fondamentale
importanza di definire il profilo di funzionamento dell'allievo, di redigere un progettazione
commisurata alle condizioni interne ed esterne (Gagné, Briggs, 990) dell'allievo e, quindi, di
individualizzare e, laddove richiesto, personalizzare (Baldacci, 2006; Ianes, Canevaro, 2008) il
processo di insegnamento apprendimento.
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L'esito non cambia se accostiamo Séguin ai suoi illustri contemporanei. Séguin accusa soprattutto la
classe medica di non cogliere l'essenziale bisogno di cui gli idioti sono portatori, che è un bisogno
di educazione, mentre i clinici sono più che altro interessati a classificarli o – peggio – a escluderli
dalle loro rigorose categorizzazioni. In merito a ciò le considerazioni di Séguin sono puntuali:
«Magari l’idiozia fosse soltanto come l’ingrata natura l’ha fatta! Se il bambino nato male ricevesse
nei limiti delle sue capacità, quella parte di cultura senza la quale i bambini meglio dotati non
potrebbero mai arrivare alla dignità di uomo! Ma ce ne vuole ancora poiché un soccorso tanto
comune, e più necessario a loro che a tutti gli altri, sia loro prodigato: per loro nessuna previdenza
caritatevole, nessuna affettuosità illuminata, nessun piano di educazione, nessun programma di
cura […]
L’idiozia è aggravata da tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non è stato fatto per ridurla o farla
scomparire […]
Tutti sono complici, per così dire, nello stupido complotto che condanna l’ignorante all’ignoranza,
l’inerte all’inerzia, l’idiota all’idiozia in perpetuo. Si è tanto detto (e i sapienti l’hanno gridato
alto) che l’idiozia era incurabile, che non c’era nulla da fare, che bisognava lasciar fare alla
natura (come se si cambiasse la natura insegnando agli altri il greco e il latino) che i genitori che
disperano, come quelli che sperano, che quelli che abbandonano i loro bambini, come quelli che li
circondano di cure cieche, non hanno trovato meglio che rivolgersi agli oracoli d’una scienza
ancora inesistente.
Sì, tutti sono complici in questo complotto inetto, che ha avuto per risultato la scomunica scientifica
dell’idiozia, e la scomunica civile dell’idiota; padri, madri, filosofi, filantropi, medici, tutti quelli
che non hanno voluto e avrebbero potuto sia trattare il problema fisiologico e psicologico
dell’idiozia, sia curare loro stessi degli idioti negli ospizi e nelle famiglie e non l’hanno fatto; tutti
quelli che curando un bambino atrofizzato dall’idiozia non hanno tentato di strapparlo alla sua
infermità, sono colpevoli: gli uni di aver perpetuato il male nella specie umana, gli altri di averlo
aggravato e di avergli lasciato prendere radice nell’individuo.
Ma lo ripeto, i fautori del male sono più in alto: sono quelli che hanno sfilato impassibili per anni
davanti a migliaia di idioti che la carità pubblica gli affidava. Sono quelli che hanno accettato,
quasi gratuitamente, è vero, immense responsabilità, e che ne hanno adempiuto solo una parte;
sono i medici che hanno degli idioti in cura e che non si sono occupati né degli idioti né
dell’idiozia.
Sono soprattutto i medici, per fortuna poco numerosi, che non essendo mai stati un quarto d’ora di
fronte a un idiota hanno preteso, non so con quali informi rapporti, discorsi o dissertazioni, di aver
trattato, curato, educato, guarito degli idioti; in presenza di tale infermità l’indifferenza è forse una
colpa, ma la menzogna è senz’altro un crimine» (Séguin, op. cit., pp. 149-151)
Séguin fa riferimento, in modo particolare, a Jeanne-Ètienne D. Esquirol (1772-1840) e Félix
A.Voisin (1794-1972) figure importanti nel panorama scientifico francese del tempo che
rimproverano all'educatore di impostare la propria riflessione teorica su basi non scientifiche, ossia
non mediche (Séguin conseguirà la laurea in medicina solo negli Stati Uniti, dopo aver abbandonato
la Francia per inconciliabili divergenze con l'ambiente accademico). L'approccio pedagogico di
Séguin, infatti, è considerato poco credibile e tale valutazione travalica le Alpi e influenza anche
l'atteggiamento della medicina (la psichiatria o, meglio alienistica) italiana, tanto che sia Itard che
Séguin a lungo restano sconosciuti (o non sono deliberatamente citati) dagli studiosi nostrani
(Babini, 1996). Come detto è Maria Montessori che nel suo soggiorno di studi a Parigi (essendovi
stata inviata dai suoi maestri Bonfigli, De Sanctis e Montesano) presso l’istituto di Bicêtre
(all'epoca diretto da Bourneville) viene in contatto e traduce i lavori di Séguin e, tramite questo,
quelli di Itard portandoli all'attenzione della comunità scientifica italiana e assegnando loro i
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meritati riconoscimenti: «Il merito di aver completato un vero sistema educativo per fanciulli
deficienti, spetta a Edouard Séguin, dapprima maestro e poi medico, il quale partendo dalle
esperienze di Itard, le applicò modificandole e completando il metodo, durante dieci anni di
esperienze sui fanciulli che erano stati tolti dal manicomio e riuniti in una piccola scuola di Via
Pigalle a Parigi. Tale metodo fu esposto la prima volta in un volume di oltre seicento pagine,
pubblicato a Parigi nel 1846 col titolo Traitement moral, hygiène er éducation des idiots»
(Montessori, 2000, p. 116).
Una scoperta destinata a modificare radicalmente la prospettiva da assumere nel rivolgere l'azione
di cura (care) e di presa in carico educativa dei bambini e dei ragazzi deficienti o frenastenici (nel
corso del tempo denotati e connotati come ritardati, insufficienti mentali, inadattati, disadatti,
disadattati, svantaggiati, handicappati mentali, con disabilità intellettiva, con deficit cognitivo,
ecc…). Lo ricorda la stessa Montessori evidenziando il carattere innovativo della sua intuizione
derivata dall'influenza ricevuta dalla lettura di Itard e Séguin: «Il fatto che la pedagogia dovesse
unirsi alla medicina nella terapia era la conquista pratica del pensiero dei tempi e su tale indirizzo
si diffondeva la Kinesiterapia. Io però, a differenza dei miei colleghi, ebbi l'intuizione che la
questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e
mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico-pedagogico per la cura e
l'educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al congresso
Pedagogico di Torino, nel 1898; e credo di aver toccato una corda molto vibrante poiché l'idea,
passata dai medici ai maestri elementari, si diffuse in un baleno come questione viva, interessante
la scuola» (Montessori, 1999, p. 23).
La breve analisi delle ragioni che abbiamo posto a fondamento della nascita della Pedagogia
Speciale ci permettono di ricavare alcune precise indicazioni in merito ai prodromi scientifico-
culturali che sono alla base e caratterizzano oggi la Pedagogia Speciale come ambito scientifico e
l'azione dei pedagogisti speciali. Indicazioni che decliniamo in forma di sintesi nel successivo
paragrafo che si pone da raccordo tra questa primo capitolo di taglio storico e le questioni che
caratterizzano il significato, il senso e le funzioni della pedagogia speciale contemporanea.
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– consente una visone dell’uomo centrata sulle potenzialità di sviluppo, di crescita, di
emancipazione, le quali sono insite nella stessa condizione di umanità (si pensi, tra i tanti
studiosi italiani che si sono soffermati su questi aspetti, al contributo di Mario
Mencarelli);
– si palesa come la categoria fondamentale mediante la quale si può e si deve affermare –
per tutti e per ciascuno – l’appartenenza al genere umano;
– scardina l'artificiosa concezione di normalità, esito delle decisionalità dei contesti
culturali, delle ideologie dominanti ( e per questo presentata come esito di natura) per
aprire la possibilità del riconoscimento infinito dell'altro, dell'essere umano concepito
come espressione di espressioni possibili .
Si tratta di principi universali che ritroviamo nel pensiero e nell'opera di molti studiosi che hanno
dato vita al lungo processo che oggi denotiamo con il nome di integrazione scolastica e sociale (e,
più recentemente, con quello di inclusione, come vedremo nel capitolo terzo della presente UD).
Basti pensare, soffermandoci al nostro Paese, ai nomi di Augusto Tamburini, Giuseppe Sergi,
Clodomiro Bonfigli, Antonio Gonnelli-Cioni, Sante De Sanctis, Giulio Cesare Ferrari, Ugo Pizzoli,
Giuseppe Ferruccio Montesano, oltre che, naturalmente, di Maria Montessori (per quel che
concerne l'educazione dei deficienti o frenastenici, o insufficienti mentali, ritardati, e così via
nell'evoluzione del lessico). Oppure a quelli di Tommaso Pendola, Tommaso Silvestri, Giovanni
Battista Assarotti, Antonio Provolo e Giulio Tarra (per l'educazione dei sordi) e di Luigi Vitali e,
soprattutto, Augusto Romagnoli (per l'educazione dei ciechi).
Pensieri e opere che hanno lasciato una traccia indelebile nella costituzione della Pedagogia
Speciale contemporanea, come cercheremo di illustrare nel prossimo capitolo.
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difficoltà. Essa vuole in tal modo realizzare la dignità dell'uomo, qualunque sia il disadattamento
dal quale è colpito (Zavalloni, 1967, pp. 26-40).
Analizzando la riflessione operata da Zavalloni si evincono alcuni elementi di sicuro interesse per
focalizzare il fine ultimo dell’azione della Pedagogia Speciale. Essa non ha il solo scopo di far
scomparire le anomalie, ma quello di promuovere l’individuo secondo le sue potenzialità e di
contribuire alla realizzazione della dignità della persona, al di là della condizione di difficoltà che
la caratterizza (ciò, tra l’altro, è anche alla base dell’odierna impostazione assunta
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per mezzo dell’ICF – International Classification of
Functioning.
Questa prima puntualizzazione consente di asserire che la Pedagogia Speciale non si identifica né
coincide con l’insegnamento speciale, ma opera in senso più ampio (De Anna, 1998; Caldin, 2001;
Gelati, 2004; Cottini, 2004; d'Alonzo, 2008; Mura, 2011). In effetti, focalizzando l'attenzione sui
problemi derivanti dalla presenza a scuola e nella società di persone con bisogni speciali –
attraverso una lettura attenta e mirata e contestualizzata delle condizioni interne ed esterne che
caratterizzano la persona in un preciso momento finalizzata a individuare risposte adeguate in
rapporto al bisogno espresso e non in funzione del deficit, della difficoltà di apprendimento, del
disturbo – la Pedagogia Speciale contribuisce con la sua riflessione e con la sua azione alla
precisazione e alla continua costruzione dell'oggetto proprio della Scienza dell'educazione (di cui è
parte integrante), ossia l'educazione.
Precisiamo ulteriormente con Montuschi: «La caratteristica più propria di questo approccio
disciplinare sembra consistere nel cogliere il problema là dove può sfuggire all'attenzione comune,
nell'interpretarlo nei suoi termini corretti e nell'elaborare ipotesi di intervento con offerte di aiuto
significativo per consentire alla persona di riprendere, nel modo più umanamente ricco, la propria
esperienza di esistenza: il proprio fare significativo e il proprio essere motivato [...] Il compito
della Pedagogia Speciale è dunque quello di rendere sempre più speciale ogni forma di intervento
educativo, facendo in modo tale che diventino patrimonio comune la capacità di cogliere i
problemi e la competenza nell'affrontarli, la padronanza nell'ipotizzare opzioni nelle risposte
educative» (Montuschi, 1997, p. 161-164).
É importante sottolineare questa propensione della Pedagogia Speciale a rendere patrimonio
comune – con la pedagogia tout court, ma anche con altri settori delle scienze umane (la
neuropsichiatria infantile, la psicologia e la riabilitazione, ad esempio) – tali capacità e competenze
nell'identificazione, nell'analisi e nella gestione dei problemi, così come nell'individuazione delle
opzioni d'intervento possibili. Si tratta, come abbia visto e detto in precedenza, di una costante
nell'evoluzione di ciò che attiene all'educativo. Basti pensare a Itard e a Séguin, le cui intuizioni
pedagogiche nel lavoro con gli idioti hanno fornito un contributo fondamentale alle Scienze
Pedagogiche; o, ancora, a Maria Montessori, che ha elaborato il proprio metodo – ampiamente
applicato sugli allievi normodotati, benché svantaggiati sul piano culturale e socio-economico –
proprio sulla base dell'esperienza compiuta con i bambini e i ragazzi deficienti. Ma ciò non deve
sorprendere, in quanto come rileva Canevaro: «una buona pedagogia speciale è parte di una buona
pedagogia generale e i problemi posti dall'educazione di bambini handicappati mettono alla prova e
verificano la validità o meno dell'educazione generale» (Canevaro, 1988, p. 95).
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provvisoria e non sempre ripetibile; lo schema operativo che risulta appropriato in una situazione,
in altre situazioni, anche solo parzialmente diverse o realizzate da persone diverse, non sarà
altrettanto efficace e rispondente. Non si può vivere di “vantaggi di posizione” acquisiti una volta
per sempre. La risposta educativa “speciale” va dunque inventata in ogni momento e sembra
richiedere una speciale capacità di “pensare” che inizia dalla percezione globale, unitaria e
contestuale del problema da elaborare in ogni situazione. Cogliere il problema là dove emerge è un
altro aspetto del “pensare speciale”. A volte è più difficile cogliere i termini corretti con cui si pone
un problema che elaborare la soluzione. Cogliere i termini significa contestualizzare il problema
socialmente ma anche storicamente per non fare ricorso a soluzioni già sperimentate e ritenute
superate, per non iniziare sempre dal nulla, per valorizzare quanto finora conquistato con l'aiuto
della esperienza acquisita e con il sussidio delle discipline che hanno favorito l'integrazione»
(Montuschi, 2004, pp. 511-513).
É bene soffermarsi brevemente su queste riflessioni focalizzando l’attenzione su tale assunto di
fondo: la pedagogia speciale non solo non agisce come se fosse solamente una scienza pratica
(quindi una non scienza che ha bisogno di derivare i propri postulati teorici altrove o che vive dei
soli esiti applicativi del suo agire) e, proprio per la ragione appena espressa, non opera neppure
secondo dettami consolidati una volta per sempre (i vantaggi di posizione), poiché, storicamente, si
è visto come le risposte uniformate sulle tipologie di deficit (si pensi dapprima agli istituti medico-
pedagogici, poi alle classi differenziali o alle scuole speciali) non corrispondano alla
capacità/possibilità di elaborare buone prassi per l’integrazione (Ianes, Tortello, 1999; Canevaro,
Ianes, 2001) le quali devono essere calibrate sulle effettive necessità educative dell’allievo, che
sono presenti in un preciso momento e sono sempre in rapporto a determinate condizioni interne o
esterne alla persona stessa.
In conclusione e a completamento di questo ragionamento sembra utile riportare il pensiero di
Andrea Canevaro, quando afferma che: «la pedagogia speciale è una scienza che ha bisogno della
riflessione e dell'azione, della ricerca e dell'operatività, e non può permettersi il lusso di chiudersi
alla ricerca pura, né perdere l'aspetto concettuale attraverso una esaltazione della pratica. Le due
dimensioni si devono intrecciare, e questo può avvenire solo nell'ambito di una comunità
scientifica allargata e in continuo contatto con le comunità scientifiche di altri Paesi» (Canevaro,
1999, p. 10).
In altri termini, la Pedagogia speciale – in quanto modo di essere della Scienza dell'Educazione – è
in grado di (e deve) precisare, in riferimento al proprio oggetto di studio, ciò che attiene all'ideale e
ciò che fa riferimento alla realtà concreta nel loro reciproco interpellarsi. In effetti, come rileva
Genovesi, il momento ideale e quello concreto «sono entrambi necessari se si vuole impiantare una
scienza: uno ne rappresenta l'aspetto teorico e l'altro quello di verifica, sperimentale. L'uno
presuppone l'altro: riflettere e dire sul dover essere, sull'ideale, esige una conoscenza e un'analisi
sull'essere, sulla realtà concreta così come il discorso su quest'ultima, se non vuole essere mera
descrizione, comporta la messa a punto di un modello ideale che comprenda tutte le situazioni che
coinvolgono questa realtà concreta senza esaurirsi e identificarsi in nessuna di esse. In questa
prospettiva l'ideale e il reale si richiamano l'un l'altro» (Genovesi, 2005, p. 41).
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della Pedagogia Speciale: «Le strutture speciali consentono di poter considerare l'individuo con
handicap appartenente a una categoria speciale. Individuare i bisogni di un individuo in questa
prospettiva è certamente più vantaggioso, perché basta definirlo secondo il deficit che lo
caratterizza (“insufficiente mentale”, ad esempio). Nella prospettiva dell'integrazione invece, la
caratterizzazione secondo il deficit, pur essendo importante, né obiettivamente trascurabile, è solo
uno degli aspetti da prendere in considerazione. D'altra parte, anche la semplice accettazione
dell'altro come cittadino a pieno titolo non annullerebbe le differenze. Nella nostra analisi, non va
dimenticato che le differenze corrispondono anche a bisogni particolari. Dunque, se la categoria di
“insufficienti mentali” dava licenza di pensare a tutti coloro che ne costituivano l'insieme come a
coloro che avevano gli stessi bisogni (o addirittura lo stesso bisogno), con l'ovvia conseguenza che
potesse essere fornita un'unica e omologabile risposta per tutti, nella prospettiva dell'integrazione
per contro dovrebbero emergere le necessità individuali, la necessità di integrare i bisogni specifici
causati dal deficit con la persona considerata nella sua globalità» (Canevaro, 2004, pp. 22-23).
In altri termini, il contributo offerto dalla Pedagogia Speciale alle scienze umane è quello di
individuare e riformulare risposte «da inserire in un contesto integrato in modo tale da garantire la
scomparsa di un unico strumento o modalità specifici di risposta. E questa è forse proprio la
peculiarità della Pedagogia Speciale moderna, cercare di affrontare problemi non comuni secondo
un ottica che non preveda la “specialità”, pur mantenendo la propria specificità. In effetti la
Pedagogia Speciale vuole esistere in quanto tale ma operare il meno possibile secondo sterili
pratiche, in modo da poter rappresentare una risposta adeguata e competente nei diversi contesti
ordinari»(Canevaro, 2004, pp. 22-23; si veda anche Canevaro, 2006).
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2.5 La Pedagogia Speciale e la Scienza dell’Educazione
Chiudiamo questo capitolo soffermandoci sul rapporto che intercorre tra Pedagogia Speciale e
Scienza dell'Educazione. In proposito è significativa la riflessione operata da Luigi d’Alonzo:
«Come scienza che studia l’educazione [la Pedagogia Speciale] è strettamente correlata alla
pedagogia generale, come questa trae origine e fondamento dalla necessità di rispondere ai vari
aspetti e bisogni dell’educabilità umana e pone l’educazione al centro del proprio pensiero, nella
consapevolezza che, come afferma Vico, “pensare all’educazione significa in ultima istanza
elaborare una ‘teoria’ sull’educazione, intesa quest’ultima nella sua peculiarità e complessità.
L’educazione è un evento che disvela qualcosa di sempre più profondo e che i ‘protagonisti’, i
‘contesti’, gli ‘orizzonti di senso’, i ‘tempi dell’educare’, i ‘fini’ e i ‘metodi’ possono consentire ad
ogni uomo e a tutti gli uomini di attingere i traguardi pensati, voluti e perseguiti”» (d'Alonzo, 2003,
pp. 14-15; citazione interna Vico, 2002).
Dunque, come evidenzia anche Elena Marescotti (2006), la Pedagogia Speciale non rappresenta una
ramificazione, un sentiero secondario, derivato, aggiuntivo oppure opzionale della Pedagogia, ma
ne costituisce la cartina tornasole del suo valore e significato autentico.
Possiamo riscontrare in questa asserzione una convergenza con quanto precedentemente affermato
da Canevaro (cfr. paragrafo 2.1), un pensiero che, a sua volta, si trova in linea di continuità con
quell’ideale pedagogico più volte ribadito da Maria Montessori per cui la pedagogia o è speciale o
non è (Piazza, 1998). In altri termini: l’educazione o è la medesima per tutti o non é educazione
(almeno in una prospettiva scientifica).
Tale assunto, che come abbiamo appena visto rappresenta una costante nel dialogo fra educazione
speciale ed educazione tout court, è plausibile in quanto «l’assetto teoretico della scienza
dell’educazione contempla la diversità come sua struttura intrinseca e costitutiva e, pertanto,
ineliminabile pena il suo decadere come scienza [Di conseguenza] la pedagogia speciale, studiando
la diversità studia quello che è un modo di essere dell’educazione, concentrandosi, appunto, su una
sua caratterizzazione che non le deriva dall’esterno ma che muove e che fa muovere quei suoi stessi
ingranaggi che la costruiscono come tale» (Marescotti, 2006, p. 19).
Questo rapporto di identità/alterità della Pedagogia Speciale con la Pedagogia costituisce, a ben
vedere, una posizione di forza, poiché connota la dimensione epistemologica della Pedagogia
Speciale stessa al di sopra delle contingenze, delle mode, delle dominanze culturali e politiche, dei
flussi e dei riflussi (spesso di ordine meramente economico).
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sua propensione al dialogo progettuale con altre discipline [...] illustri, con cui deve garantire un
contatto permanente, orientato alla realizzazione di un corpo solidale di scienze dell'uomo»
(Pavone, 2010, p. 15).
A nostro avviso «il proporsi come modello a vocazione interdisciplinare della Pedagogia Speciale
non equivale automaticamente a essere una disciplina scientifica interdisciplinare (la qual cosa può
far correre il rischio di avere, o di essere percepiti con, una identità labile). Semmai, la peculiarità
della Pedagogia Speciale è quella di saper abitare con competenza l'interdisciplinarietà: e questo
accade in/nel nome della Pedagogia e, storicamente, come si è detto, spesso in anticipo sulle altre
sensibilità di cui la Scienza dell'Educazione è portatrice. Tale caratteristica della Pedagogia
Speciale denota/connota, quindi, il suo biglietto da visita (e quindi la sua identità). Il saper costruire
una rete di interconnesioni con altre scienze, infatti, significa per la Pedagogia Speciale assumere su
di sé la funzione di frontiera della Pedagogia, quindi della Scienza della Educazione, nei confronti
di problematiche complesse e delicate (come quelle intitolate al riconoscimento dei bisogni
educativi, ma non solo, delle persone più svantaggiate e vulnerabili) la cui presa in carico chiama
in causa diversi ambiti scientifici. Avere la funzione di frontiera significa per la Pedagogia Speciale
essere quella parte-espressione della Scienza dell’Educazione che è maggiormente esposta (meglio
sarebbe dire pre-disposta) al contatto con le scienze psicologiche, sociologiche, antropologiche e
medico-riabilitative. É, in tal senso, un avamposto e, per questa sua caratteristica, più sensibile a
cogliere aspetti dell’educazione (dell’educativo) che possono sfuggire ad altri» (Bocci, 2011c, pp.
66-67).
Siamo all'interno di quella che Patrizia Gaspari definisce pedagogia della complessità. Una
pedagogia che «non può esimersi dal fare riferimento ad un pensiero complesso, in grado di non
chiudere mai i concetti, di rompere gli schematismi, le simmetrie, di cogliere possibili articolazioni
fra elementi apparentemente disgiunti [...] Muoversi nel paradigma della complessità rappresenta
una difficile avventura di tutta la scienza contemporanea, ma, allo stesso tempo, non accettarne la
sfida significherebbe rinunciare alla possibilità di collegare la scienza al cambiamento e la ricerca al
flusso degli eventi» (Gaspari, 2001, p. 567).
Una sfida che la Pedagogia Speciale ha accolto e fatta propria agendo nell'ottica del cambiamento.
Basti pensare a quel suo modo di porsi costantemente in ricerca, come tra l’altro ha posto benissimo
in evidenza Roberta Caldin quando fa riferimento all’abitare familiare e insolito della Pedagogia
Speciale (Caldin, 2011). Abitare familiare e insolito che l’ha portata e la porta costantemente a ri-
discutersi nel ri-cercare di affrontare i problemi non comuni che la società via via le ha sottoposto (e
le sottopone incessantemente) mantenendo la propria specificità ma rinunciando (come si è detto
più volte quasi sempre in anticipo sui tempi, quindi precorrendo e orientando il proprio tempo) alle
risposte speciali, consuete, prevedibili.
É quello che sta accadendo anche ora con il passaggio epocale dal modello dell'integrazione a
quello dell'inclusione, del quale diamo conto nell'ultimo capitolo di questa U.D..
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In effetti, dopo aver sperimentato per oltre trenta anni il modello dell'integrazione totale degli alunni
con disabilità (un tempo definiti portatori o in situazione di handicap) nella scuola di tutti si
affaccia con insistenza e con un sempre più elevato grado di consapevolezza (soprattutto in chi è
parte attiva del sistema formativo) la necessità di dare vita a una seconda rivoluzione socio-
culturale del sistema stesso.
Se la prima grande rivoluzione «è stata infatti caratterizzata dalla chiusura delle scuole speciali e
delle classi differenziali sancita dalla Legge 517/77, che ha determinato il passaggio epocale da un
sistema escludente a un sistema integrante, la seconda rivoluzione (o la seconda fase di un processo
che sta sviluppandosi senza soluzione di continuità) dovrebbe prevedere ed essere caratterizzata
dalla realizzazione di un sistema formativo inclusivo, ossia capace di garantire (non solo sul piano
valoriale) la piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, fornendo a tutti –
nessuno escluso, quindi al di là dei repertori di abilità posseduti in partenza, della presenza di deficit
o difficoltà, dell'appartenenza di genere, socio-culturale e religiosa, dell'origine etnica ecc... – uguali
opportunità di successo formativo rimuovendo tutti quegli ostacoli che, se non identificati
preventivamente dal sistema, potrebbero invece determinare discriminazione e, quindi, fallimento»
(Bocci, 2013). Tutto ciò, naturalmente, in sintonia con quanto previsto anche dai documenti
internazionali (si vedano a titolo esemplificativo: European Agency For Development in Special
Needs Education, 2009; UNESCO, 2008; UNESCO, 2009; UNESCO, 2009; Commissione
Europea, 2010; World Health Organization, 2011).
Detto in altri termini, l'inclusione viene a configurarsi come una nuova visione paradigmatica della
società, una visione della quale la scuola costituisce l'immagine più emblematica o, meglio, la
cartina di tornasole del suo concreto attuarsi. Infatti, se è vero che l'inclusione è una modalità
esistenziale «un diritto base che nessuno deve guadagnarsi» (Stainback e Stainback, 1990) è
altrettanto vero che tutti, nessuno escluso, hanno il diritto morale di essere educati e formati nella
scuola di tutti: l'inclusione, pertanto «è il contesto ideale per realizzare questo obiettivo» (Stainback
e Stainback, 1990).
Affermato ciò, restano aperte due questioni piuttosto significative che sostanziano questo processo
innovativo: la prima concerne la puntualizzazione delle critiche mosse al sistema dell'integrazione,
ossia la stigmatizzazione dei limiti che alcuni studiosi hanno rilevato dall'analisi dell'ormai più che
trentennale esperienza italiana; la seconda, una volta puntualizzato in cosa si differenzi il modello
dell’inclusione da quello dell’integrazione, riguarda i tempi e le modalità di realizzazione di questo
cambiamento.
È nostra intenzione analizzarle nei prossimi paragrafi.
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individualizzata e facilitata, secondo il modello tecnologico dell'istruzione di Bloom e del Mastery
Learning).
La scuola dell'esclusione, selettiva e meritocratica, si fonda su una elevata prevedibilità delle
caratteristiche di cui sono portatori gli attori principali che danno vita al processo d'insegnamento-
apprendimento attuato nella pratica didattica: a) l'insegnante o l'insegnamento; b) il soggetto
apprendente o l'apprendimento; c) l'oggetto dell'apprendimento. Tale prevedibilità è essenzialmente
«basata su uno scarso interesse all’individuazione e alla conoscenza delle peculiarità degli stessi.
Tale concezione si fonda su un elevato grado di predittività del prodotto dell’apprendimento (ossia
della distribuzione gaussiana dei risultati utilizzata come strumento di merito-selezione) e su una
totale assenza di considerazione della perturbabilità del sistema da parte degli elementi. Anzi, è
prevista e auspicata l'esclusione degli elementi perturbanti (qualsivoglia sia la scaturigine di tale
perturbabilità: difficoltà di apprendimento, difficoltà comportamentali, socio-economiche,
provenienza etnica, ecc..)» (Bocci, 2011b; Bocci, 2013).
Diversamente, la scuola dell'integrazione – che ha fatto proprio il modello dell'individualizzazione
(la Legge 517/77 non chiude solo la stagione delle scuole speciali ma introduce un radicale
mutamento dell'assetto pedagogico-didattico della scuola italiana) – apre le porte all'accettazione
della perturbabilità del sistema (scolastico e didattico) «attraverso l'individuazione e l'analisi delle
caratteristiche peculiari degli elementi del sistema stesso e mediante il controllo del processo
d'insegnamento-apprendimento (si pensi al modello di Bloom)» (Bocci, 2011b; Bocci, 2013). Ciò
vale in modo particolare per gli allievi con disabilità: il modello italiano di integrazione scolastica,
infatti, si fonda «sull'accoglienza della perturbabilità del sistema da parte di un elemento
perturbante accettato dal sistema» (Bocci, 2011b; Bocci, 2013).
L'adozione di questa nuova e per moltissimi versi rivoluzionaria prospettiva – frutto anche della
stagione politico culturale che ha caratterizzato la società tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del
Novecento (Canevaro, 1999; 2007; Pavone, 2011) – richiede e conduce «alla necessità di
individuare le caratteristiche peculiari dell’elemento perturbante e dei dispositivi di accorgimento-
accomodamento degli altri elementi in funzione della sua normalizzazione» (Bocci, 2011b; Bocci,
2013).
Benché sia indiscutibile il valore sociale, politico, culturale, economico e scientifico
dell’integrazione, lo straordinario beneficio che l’adozione di questo modello/sistema abbia
apportato alla società italiana (e non solo alla scuola) sul piano della ricerca di una maggiore equità
e giustizia, è proprio sul concetto di normalizzazione che sembrano addensarsi le criticità mosse dai
diversi studiosi che, sia in ambito internazionale sia in ambito nazionale, hanno analizzato gli effetti
e i livelli di qualità (in termini di efficacia ed efficienza) raggiunti dalla scuola mediante il modello
dell'integrazione.
Ad esempio Dovigo, introducendo in Italia il lavoro di Booth e Ainscow sull'index for inclusion,
rileva come il modello dell'integrazione sia incentrato su una concezione che «nell’intento di offrire
più ampie opportunità ai soggetti “speciali”, interviene attraverso una serie di interventi di modifica
che si susseguono all’interno del sistema scolastico senza però mai mettere effettivamente in
discussione il paradigma della normalizzazione, che continua a rimanere il modello di riferimento
indiscusso» (Dovigo, 2008, p. 13).
In altri termini, l'integrazione non modifica radicalmente il paradigma della scuola selettiva ma
adotta strategie di ri-adattamento per la compensazione. Si tratta, però, pur sempre di una
compensazione ex-post, susseguente al riconoscimento della difficoltà, del disturbo, del deficit (di
qui, ad esempio, lo scaturire di tutto il dibattito sulla certificazione) che determina categorie
speciali bisognose di educazione speciale (con l’attribuzione di risorse aggiuntive: vedi insegnante
di sostegno).
Secondo l’analisi critica si tratta di un evidente limite del modello/sistema dell’integrazione che può
essere superato dal passaggio a un sistema capace di rispondere a tutte le differenze presenti nella
scuola attraverso una azione globale che ne modifica la struttura e la filosofia di fondo.
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3.2 La via dell’inclusione
Come abbiamo appena detto coloro i quali intravedono dei limiti nel modello dell’integrazione ne
individuano il più evidente limite nel suo tendere alla normalizzazione, ossia nell’assumere una
prospettiva assimilazionista. Tale prospettiva è (sarebbe) un derivato del paradigma biomedico, il
quale si fonda su un costrutto teorico che inquadra il deficit, la difficoltà o il disagio come
caratteristiche strettamente individuali. Diversamente, come rileva ancora Dovigo, l’idea di
inclusione si fonda «non sulla misurazione della distanza da un preteso standard di adeguatezza, ma
sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i
soggetti. Se l’integrazione tende a identificare uno stato, una condizione, l’inclusione rappresenta
piuttosto un processo, una filosofia dell’accettazione, ossia la capacità di fornire una cornice dentro
cui gli alunni – a prescindere da abilità, genere, linguaggio, origine etnica o culturale – possono
essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità a scuola» (Dovigo,
2008, p. 13).
Siamo all’interno di una visione sociale del disturbo o della disabilità, che sono soprattutto l’esito
dell’interazione tra il soggetto e il contesto in cui si trova a vivere. È dunque il contesto culturale (a
sua volta determinato dalle molteplici microculture che lo compongono) a determinare
«quell’insieme di norme più o meno visibili che definiscono la normalità, e così facendo facilitano
o impediscono l’accesso a determinati gruppi di persone, trasformando la differenza in devianza»
(Dovigo, 2008, p. 19).
Come affermano Booth e Ainscow, quindi, disabile non è l’individuo, ma la situazione, la qual cosa
spinge alcuni studiosi (Mura, 2012) ad avvalersi della dizione di persona in situazione di disabilità
e a superare anche la locuzione – oggi molto in voga – di BES Bisogni Educativi Speciali (Special
Educational Needs). Come è noto la dizione/concezione di Special Educational Needs è stata
introdotta dal Rapporto Warnock nel 1978 come primo tentativo di superamento del modello Bio-
Medico, ma per molti esperti del settore attraverso la sua adozione si continua a proporre una
visione categorizzata delle diverse situazioni di bisogno (ampliandole ma spesso anche
confondendole) con il risultato di reiterare l'idea che il problema riguardi solo il singolo soggetto e
la sua famiglia.
Se, dunque, è la situazione ad essere disabile e non l'allievo, nella scuola dell'inclusione «non è il
soggetto che deve adattarsi al sistema (che lo accoglie, lo accetta e ne richiede la normalizzazione)
ma è il sistema che deve essere change friendly, ossia culturalmente e socialmente pre-disposto al
cambiamento. La permeabilità alla perturbabilità non deve essere susseguente alla presenza
dell’elemento perturbante, ma organica al sistema. Essere inclusi, in ultima analisi, significa essere
parte integrante di un sistema che contempla l’inclusione come una dimensione del diritto di
esistere, giammai come qualcosa che il soggetto (chiunque esso sia e qualunque sia la sua
condizione) deve richiedere nella speranza di vedersi riconosciuto, magari come una elargizione,
una concessione, un prestito o, peggio ancora, un dazio» (Bocci, 2013).
La sfida che investe il sistema formativo – e la società tutta – è dunque quella di dare vita – con
sistematicità e con sempre maggiore convinzione – a una scuola che, nello spirito costituzionale, sia
pre-disposta alla funzione che gli è propria: la rimozione degli ostacoli all’apprendimento e la
promozione della partecipazione di tutti e di ciascuno, nessuno escluso.
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Resta tuttavia aperta la questione sui tempi e sui modi di attuazione del passaggio dal modello
dell'integrazione a quello dell'inclusione, oggetto di un dibattito quanto mai attuale e significativo.
Sostanzialmente le posizioni prevalenti, emergenti dal confronto, si collocano su due versanti: un
primo che ritiene auspicabile una nuova rivoluzione scientifico-culturale che determini una netta
cesura con il passato; un secondo versante che auspica un passaggio più graduale e guarda
all'inclusione come a una seconda fase, più evoluta e migliorativa, del processo già in atto.
La prima posizione è quindi rintracciabile in quegli studiosi (ad esempio Fabio Dovigo, Roberto
Medeghini e Simona D’Alessio) che, in continuità con il modello affermatosi soprattutto nei paesi
anglosassoni e ravvisando i limiti da noi riferiti nel paragrafo 2.1, suggeriscono di superare con
decisione le attuali politiche speciali per le disabilità (e per i BES), così come di passare dalla
pedagogia dell’integrazione alla buona pedagogia inclusiva (Good pedagogy- Inclusive
pedagogy)» (Hollenweger, Haskell, 2002; Caldin, 2012)
La seconda posizione accomuna quegli studiosi che prediligono un iter più graduale che conduca
alla trasformazione del sistema/modello dall'integrazione all'inclusione. Una sorta di road map –
come la definisce Dario Ianes – caratterizzata dalla coesistenza di diverse dimensioni che possono
e «devono coesistere, rinforzarsi vicendevolmente e non opporsi in nome di una presunta
“superiorità” di una sull’altra» (Ianes, 2010, p. 21).
Secondo Ianes la prima dimensione concerne l’integrazione: è indirizzata agli allievi con disabilità
e finalizzata al raggiungimento del «massimo possibile degli apprendimenti e della partecipazione»
grazie all'allestimento di «un ambiente di apprendimento e di partecipazione più adatto anche per
tutti gli alunni».
La seconda riguarda il primo gradino dell’inclusione: la scuola risponde «in modo efficacemente
individualizzato a tutti i Bisogni Educativi Speciali degli alunni». L'attenzione, dunque, non è
rivolta solo agli allievi con disabilità ma anche a tutti quelli che manifestano difficoltà nel/di
funzionamento (si pensi, ad esempio alla Legge 170 sugli allievi con DSA).
La terza dimensione, infine, concerne la piena inclusione: il sistema formativo risponde
«adeguatamente a tutte le diversità individuali di ogni alunno, non soltanto a quelle degli alunni con
Bisogni Educativi Speciali. Una scuola che non pone barriere, ma anzi valorizza le differenze
individuali di ognuno e facilita la partecipazione sociale e l’apprendimento di tutti» (Ianes, 2012,
pp. 22-24).
Fermo restando che l'adozione/adesione di/a una delle due posizioni comporta certamente una
diversa ricaduta operativa sul piano delle culture, delle politiche (soprattutto in senso di policies) e
delle pratiche inclusive, resta valido – soprattutto in questa fase storica contrassegnata da una crisi
che taluni definiscono, a ragione, epocale) quanto suggeriscono Booth e Ainscow quando
affermano che l’inclusione prende vita quando si inizia a praticarla e, aggiungiamo, forse «anche
quando si inizia a immaginare di volerla praticare» (Bocci, 2012). Un compito questo che deve
riguardare tutti, nessuno escluso, a partire da chi vive quotidianamente la scuola e da chi ha fatto
dell'educazione l'oggetto di elezione dei propri studi e della propria ricerca scientifica.
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delle innovazioni avvenute ma anche il senso che sottende la realizzazione di un cambiamento
all'interno della società.
Per quanto concerne le fasi queste sono:
• l'Esclusione (fino al 1960)
• la Medicalizzazione (dal 1960 al 1970)
• l'Inserimento (dal 1970 al 1977)
• l'Integrazione (dal 1977 al 1994)
• l'Inclusione (dal 1994 ad oggi)
Per quel che riguarda il modello di riferimento, questo è ripreso, con un adattamento, da un
pregevole saggio di Carlo Pascoletti e Anna Gardin apparso nel 1997 in un volume di Paolo
Meazzini (1997). Gli autori (cfr. fig. 1) vi delineano quello che è l'incessante rapporto tra tradizione
e innovazione ossia, dal nostro punto di vista, la inesauribile sinergica interazione tra sincronico e
diacronico (Bocci, 2008).
“NUOVA
TRADIZIONE INNOVAZIONE TRADIZIONE”
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Assumendo questa prospettiva, ribadisce Schiavon «la società civile, non solo lo Stato è il termine
di riferimento principale dell’azione politica […] In questo modo si rafforza il legame dialogico tra
Stato e società generando un gioco di scambio che rende il potere più permeabile ai valori e
aumenta la sua capacità riflessiva riguardo ai valori etici e ai bisogni individuali» (Schiavon, 2007).
Tale considerazione, a nostro avviso, può condurre a riattualizzare tre note riflessioni di Don
Lorenzo Milani:
• Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.
• Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori.
• Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica,
sortirne da soli è l’avarizia.
Ciò significa che lo sguardo diacronico sulle singole tappe che hanno scandito il processo
dell'integrazione devono essere considerate come radici ineludibili che permettono di proiettare lo
sguardo verso le prospettive dell'inclusione, avendo anche la consapevolezza che vi è sempre una
coesistenza delle componenti sincroniche in/accanto a quelle diacroniche. In altri termini occorre
fare i conti con la coesistenza di diverse culture che non sono solo quelle indicate nel precedente
capitolo intitolate al dibattito tra integrazione e inclusione ma fanno riferimento anche (e, nelle fasi
di crisi, soprattutto) a spinte regressive, caratterizzate dal fatto che chi ne è fautore quando è posto
dinanzi alla scelta tra ciò che è facile (ad esempio il ritorno a luoghi speciali) e ciò che è giusto
(investire risorse per dare vita ad una scuola davvero inclusiva) finisce con lo scegliere la prima
opzione per ragioni che sono facilmente intuibili. Quindi è bene conoscere anche l'iter normativo
che ha segnato la via dell'integrazione/inclusione in Italia per mantenere alto il livello di vigilanza e
di consapevolezza su quanto avviene nel nostro tempo.
1963-64 2.247
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1972/73 6.470 + 304
1974/75 6.692 - 98
Queste sono le leggi maggiormente significative da richiamare/ricordare per quel che concerne la
fase della medicalizzazione:
CM 4525 del 09.07.1962 “La segnalazione della minorazione sarà fatta dall’insegnante,
con relazione scritta al direttore didattico, il quale, dopo che le competenti autorità
sanitarie (medico scolastico, o ufficiale sanitario, o medico condotto) avranno accertato
il tipo di minorazione, avvierà l’alunno alla scuola corrispondente.
Gli articoli 11 e 12 della Legge 1859 del 1962 (la legge della Scuola Media unificata)
che prevedono rispettivamente l'istituzione di classi di aggiornamento per gli alunni con
difficoltà di apprendimento e di classi differenziali per allievi disadattati.
La Legge 444/1968, che avvia le sezioni speciali presso le scuole materne statali per i
bambini affetti da disturbi dell'intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche
o sensoriali (nei casi più gravi è previsto l'inserimento in scuole materne speciali).
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all'occorrenza, i tecnici della riabilitazione. Partecipano inoltre: il medico scolastico, il
direttore didattico o il preside e gli insegnanti nominati. L'équipe definisce la diagnosi,
collabora con gli organi collegiali della scuola e stabilisce il programma di lavoro.
La C.M. 227/75, che individua gli interventi necessari da realizzarsi a favore di alunni
portatori di handicap ribadendo, comunque, il ruolo delle «scuole speciali statali [...] per
l'educazione e la riabilitazione dei casi più gravi» (come si evince dalla Tabella 1).
Il D.P.R. 970/75 che istituisce i corsi biennali per insegnanti di sostegno.
La Relazione conclusiva della Commissione Falcucci (Gennaio 1975), concernente i
problemi scolastici degli alunni handicappati. Secondo gli estensori: «il superamento di
qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di
concepire e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni
adolescente per favorirne lo sviluppo personale, precisando peraltro che la frequenza di
scuole comuni da parte di bambini handicappati non implica il raggiungimento di mete
culturali minime comuni. Lo stesso criterio di valutazione dell’esito scolastico, deve
perciò fare riferimento al grado di maturazione raggiunto dall’alunno sia globalmente sia
a livello degli apprendimenti realizzati, superando il concetto rigido del voto o della
pagella».
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4.5 La fase dell'inclusione (dal 1994 ad oggi)
É probabilmente una forzatura parlare di fase dell’inclusione per due ragioni:
a) la prima riguarda il fatto che taluno potrebbe affermare, anche a ragione, che questa è ancora
la fase dell’integrazione, visto che la legge guida è la 104 del 1992;
b) la seconda ragione concerne la difficoltà di categorizzare o tipizzare (anche se solo
cronologicamente) come una fase storica ben definita ciò che è ancora in corso.
Ma se prendiamo, come abbiamo fatto all’inizio del capitolo, a modello guida la struttura dinamica
elaborata da Pascoletti e Gardin, allora possiamo affermare che la Legge Quadro 104 e l'Atto di
indirizzo del 1994 sono i punti nodali di arrivo della fase dell'integrazione. A partire da quel
momento, siamo necessariamente transitati in una nuova fase che, per convenienza e per chiarezza,
chiamiamo dell’inclusione, visto anche l’attuale dibattito sull’opportunità di avvalersi di questo
concetto proprio in luogo del termine integrazione.
Sul piano normativo questi sono i riferimenti maggiormente significative da richiamare/ricordare
per quel che concerne l’attualità.
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livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionali fondamentali dei soggetti portatori
di handicap. La Corte precisa anche che l’art. 12 della Legge 104/92 attribuisce allievo
disabile il diritto soggettivo all’educazione ed all’istruzione a partire dalla scuola materna
fino all’università e che il diritto del disabile all’istruzione si configura come un diritto
fondamentale. Il godimento di tale diritto è pertanto garantito attraverso misure di
integrazione e sostegno idonee a garantire ai portatori di handicap la frequenza degli
istituti d’istruzione.
La legge 170/2010 inerente le Nuove norme in materia di disturbi specifici di
apprendimento in ambito scolastico. La legge sancisce che le istituzioni scolastiche
«provvedono ad attuare i necessari interventi pedagogico-didattici per il successo formativo
degli alunni e degli studenti con DSA, attivando percorsi di didattica individualizzata e
personalizzata e ricorrendo a strumenti compensativi e misure dispensative».
Il D. M. 5669 del 12 luglio 2011 indicante Le Linee guida per il diritto allo studio degli
alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento. Le Linee Guida «presentano
alcune indicazioni, elaborate sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche, per
realizzare interventi didattici individualizzati e personalizzati, nonché per utilizzare gli
strumenti compensativi e per applicare le misure dispensative. Esse indicano il livello
essenziale delle prestazioni richieste alle istituzioni scolastiche e agli atenei per garantire il
diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA».
La Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 concernente gli Strumenti d'intervento per
alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica
nella quale si declina e precisa «la strategia inclusiva della scuola italiana al fine di
realizzare appieno il diritto all'apprendimento per tutti gli alunni e gli studenti in situazione
di difficoltà»
La C.M. n. 8 del 6 marzo 2013 che contiene indicazioni operative inerenti la D.M. del 27
dicembre 2012.
Come si è detto non è possibile operare un bilancio è una analisi distaccata di questa fase, sia perché
la stiamo vivendo, sia perché le variabili in campo sono numerosissime e talune in netto contrasto
tra loro: i tagli al personale insegnante (e non solo), l’elevata precarietà degli insegnanti, il ritorno al
maestro unico, l’incertezza sui modelli di formazione degli insegnanti, la validità e l'efficacia dei
Master sui diversi disturbi, sindromi ecc... limiti della certificazione come modello da seguire per la
presa in carico degli allievi in difficoltà, le pressanti richieste dei genitori di avere risposte
competenti, ecc...
La comunità scientifica, in modo particolare la Società Italiana di Pedagogia Speciale, ha il compito
– e lo sta svolgendo – non solo di monitorare e accompagnare il presente momento storico quanto di
orientare, attraverso la qualità del dibattito scientifico culturale e il rigore della ricerca scientifica e
della riflessione teorica, le scelte che ci apprestiamo a compiere.
Breve Glossario
DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO: Il termine Difficoltà di apprendimento si riferisce a
qualsiasi difficoltà riscontrata da uno studente durante la sua carriera scolastica (Cornoldi, 1999).
Tali situazioni, varie e diverse, sono fatte risalire a un complesso variegato di cause individuali e
contestuali: «Le difficoltà scolastiche sono di tanti tipi diversi e spesso non sono la conseguenza di
una causa specifica ma sono dovute al concorso di molti fattori che riguardano sia lo studente sia il
contesto in cui egli viene a trovarsi». Ciò che caratterizza questi alunni non è tanto una diagnosi
medica o psicologica (una «certificazione») ma una qualche situazione di difficoltà che richiede
interventi individualizzati.
Tirocinio Formativo Attivo - Università degli Studi Roma Tre - A.A. 2011/2012
DEFICIT. Si utilizza questo termine per definire la condizione di chi, a causa di un evento
traumatico o morboso, abbia subito una menomazione della propria sfera biologica o psichica con
conseguente minorazione organica che comporta difficoltà di apprendimento e di relazioni
interpersonali. Andrea Canevaro, propone una fondamentale distinzione fra HANDICAP e deficit.
Il deficit è un dato oggettivo, una mancanza certificata, ad esempio la sordità, mentre l'HANDICAP
è la difficoltà, lo svantaggio che il deficit procura alla persona, interagendo con gli ostacoli che
questa incontra nell'ambiente esterno. A partire da questa distinzione, è possibile identificare due
classi fondamentali di parole che storicamente hanno designato la persona con deficit: la prima
(handicappato, portatore di handicap, persona in situazione di handicap) ha posto in evidenzia
l'HANDICAP; la seconda (disabile, non vedente, motu-leso, ecc.) ha sottolineato il deficit.
FRENASTENIA. Questo termine è stato coniato dall'Alienista Milanese Andrea Verga nel 1877
per differenziare la debolezza mentale dalla follia (scopo precipuo della nascente Psichiatria italiana
a cavallo tra fine Ottocento e primi del Novecento). Secondo lo studioso il frenastenico non
presenta una ragione smarrita o traviata, come nel caso del pazzo che delira ma, piuttosto, è un
soggetto con una ragione debole e inevoluta. Pertanto, se il folle ha idee esaltate, disordinate,
esagerate, il frenastenico, al contrario, ha idee pallide, scarse o addirittura assenti. Siamo in
presenza di una sorta di paralisi, di una sonnolenza di tutte le funzioni dell’intelletto e delle affezioni
morali, come già sostenuto da Pinel. Il trattamento dei frenastenici, secondo Verga, non è compito
del clinico quanto del filosofo o del teratologo.
IDIOTA. Con tale termine, pregiudizialmente, nell'Ottocento e nei primi del Novecento sono
chiamate e considerate le persone in odor di debolezza mentale o di diversità o con qualche
eclatante problema intellettivo che non sia follia o meglio, malattia mentale.
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PEDAGOGIA EMENDATIVA. La pedagogia emendativa (termine preferito in Italia rispetto a
quello di ORTOPEDAGOGIA maggiormente usato all’estero) è considerato un settore della
pedagogia che si occupa dell’educazione dell’infanzia minorata, irregolare o anormale (questi
termini negli anni Venti e Trenta sostituiscono quelli medici come deficiente, cretino, IDIOTA,
FRENASTENICO, ritardato, insufficiente mentale. Tali locuzioni, a loro volta, sono sostituite fino
agli anni Settanta da termini come inadattato, disadatto, disadattato; poi, con le indicazioni della
commissione Falcucci e con la legge 517/77 da HANDICAPPATO e svantaggiato e, infine, a
partire dalla legge 104/92 con disabile e con Bisogni Educativi Speciali). Secondo Cervellati (1978)
la pedagogia emendativa, attinge alle scienze biologiche, psicologiche e neurologiche applicate
all’educazione dei disabili per realizzarsi pienamente nella didattica differenziale e perciò la
collaborazione con i medici è molto importante; ma la prospettiva clinica dell’A. porta subito a
chiarire che anche l’insegnante deve poter svolgere delle attività d’osservazione e di verifica-
valutazione, nonché di emendazione con i necessari strumenti suoi propri.
SENSISMO. Il termine sensismo designa quelle dottrine filosofiche che riducono ogni contenuto e
atto del conoscere al sentire, ovvero a un processo trasformativo della sensazione, senza ricorrere ad
altri principi o facoltà non sensibili. Il maestro più rappresentativo del sensismo è Condillac il quale
tenta di dimostrare che memoria, attenzione, giudizio, valutazione, desiderio, volontà non sono che
“sensazioni trasformate”.
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