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INDICE

Prefazione
Introduzione

Parte prima

IL CONTESTO EDUCATIVO

1. Profilo storico dell’IRC in Italia (EMILIO BUTTURINI)


1. Dall’inizio del Regno d’Italia alla Riforma Gentile del 1923
2. Dal Concordato del 1929 ai dibattiti della Costituente (1946-47)
3. Influssi sull’IR dei dibattiti e interventi sulla scuola nei primi decenni della
Repubblica e degli orientamenti conciliari
4. Dal Concordato del 1984 allo Stato giuridico dei docenti di religione del 2003
Indicazioni bibliografiche

2. Religione e società contemporanea (FLAVIO PAJER)


Società postmoderna e fattore religioso
Società secolare e fattore cristiano
Fattore religioso ed educazione
Riferimenti bibliografici

3. Il mondo giovanile e la religione (ZELINDO TRENTI)


1. L’educazione chiamata a «voltare pagina»
1.1. Il grido dei giovani
1.2. La coscienza giovanile segnata da una complessità inedita
2. La provocazione: Giovani, pianeta inesplorato
2.1. Contestazione o insofferenza?
2.2. Un’identità in evoluzione
2.3. Le spinte più innovative assecondate
2.4. Un rapporto stemperato con gli adulti
2.5. Una «casa» dove abitare
2.6. Un’appartenenza rispettosa dell’individualità
3. Le costanti attraverso la varietà delle mode e dei simboli
4. Le scelte educative che si impongono
5. Lo spazio ai giovani
5.1. È saltato il sistema educativo tradizionale
5.2. Il nuovo orizzonte educativo
5.3. La funzione della religione nel nuovo contesto educativo
6. L’ambito specifico della scuola: l’educazione religiosa nel quadro della riforma
Indicazioni bibliografiche

4. La riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione.


Da Berlinguer alla Moratti (CARLO NANNI - GUGLIELMO MALIZIA)
1. I precedenti
2. Le ragioni della riforma
3. Il mosaico e la delega
4. La legge delega 53/2003 (la Legge Moratti)
5. Indicazioni e interrogativi di percorso
5.1. Le «parole» e le «cose»
5.2. Curricolo e piani di studio personalizzati
5.3. Soggetto che apprende e scuola comunità di apprendimento
5.4. La «formazione spirituale e morale»
5.5. La pedagogia del Profilo «alto»
6. Un percorso da aprire: l’istruzione e la formazione professionale
7. Conclusione: la riforma prima ed oltre la legge delega
Riferimenti bibliografici

5. Riforme e IRC. La situazione attuale (SERGIO CICATELLI)


1. Le finalità della scuola
2. Una pluralità di riforme
3. Riforma degli ordinamenti e autonomia
4. La riforma della Costituzione
5. Il principio di sussidiarietà
6. Da Berlinguer alla Moratti
7. Il Profilo dello studente
8. La pedagogia della riforma
9. La condizione dell’IRC
10. Prospettive
Riferimenti bibliografici

Parte seconda

L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE COME DISCIPLINA

6. Natura e finalità (ZELINDO TRENTI)


1. La religione
1.1. La religione come «fenomeno» universale
1.2. La ricerca religiosa si porta sul dato esistenziale
2. La funzione educativa della religione
3. La religione nel progetto scolastico
3.1. Richiamo alle fonti normative
3.2. L’elaborazione della disciplina e le scienze di riferimento
4. L’obiettivo educativo
4.1. I riferimenti strutturali dell’IRC
4.2. La funzione strutturante della religione
4.3. Il processo interiore da sollecitare
5. L’esercizio attuale: disponibilità e resistenze
5.1. Per un bilancio di sintesi a partire dall’esercizio disciplinare
5.2. Educazione religiosa e progetto scolastico in prospettiva
6. Il futuro dell’IRC come disciplina nell’impatto con la Riforma della Scuola
6.1. Il principio educativo che orienta la Riforma
6.2. Orientamenti recenti assunti dalla CEI risultano disponibili alla Riforma
7. Quali prospettive?
Indicazioni bibliografiche

7. Lo studente dell’IRC: il protagonista e lo scenario (VITTORIO PIERONI)


1. Chi è lo studente che si avvale dell’IRC?
1.1. I genitori degli avvalentisi a confronto con la famiglia italiana
1.2. Lo stile di vita dello studente dell’IRC
1.3. «Barcollo ma non mollo»: fragilità e protagonismo sullo sfondo dei valori giovanili
2. La scelta dell’IRC nel contesto della scuola italiana. Problemi e provocazioni
Riferimenti bibliografici

8. Il docente (LUCILLO MAURIZIO)


1. La figura del docente educatore nella scuola attuale
2. La funzione del docente
3. Il profilo professionale del docente
3.1. Competenze disciplinari
3.2. Competenze psico-pedagogiche
3.3. Competenze metodologico-didattiche
3.4. Competenze organizzativo-relazionali
3.5. Competenza di ricerca
4. Attività di insegnamento
5. Attività funzionale all’insegnamento
6. Il particolare stato giuridico dell’insegnante di religione cattolica.
Riferimenti bibliografici

9. La comunicazione educativa (ANNA RITA COLASANTI)


Introduzione
1. La comunicazione nei processi formativi
2. La comunicazione educativa: caratteristiche, condizioni e competenze
2.1. Aspetti peculiari
2.2. Condizioni
2.3. Competenze
3. Conclusioni
Riferimenti bibliografici

10. L’esperienza e il processo di educazione religiosa (ZELINDO TRENTI)


1. L’esperienza nella ricerca recente
1.1. Esperienza nella riflessione pedagogica
1.2. L’esperienza nell’IRC attuale
2. Linee di interpretazione dell’esperienza
2.1. L’analisi dell’esperienza
2.2. L’esperienza nella comunicazione educativa
2.3. L’esperienza si esprime in linguaggio
3. L’esperienza come riferimento privilegiato di elaborazione pedagogica
3.1. Nelle indicazioni «normative» della recente riforma
3.2. Nelle esigenze pedagogiche della ricerca ermeneutica attuale
4. Aconclusione
Indicazioni bibliografiche

11. Linguaggio e IRC (GIUSEPPE MORANTE)


Premessa
1. La dimensione comunicativa delle verità cristiane
1.1. Un «parlar per simboli»
1.2. Le caratteristiche della Parola rivelata
1.3. La sintonia comunicativa
2. L’uso specifico delle categorie interpretative della religione
2.1. Il «mito»
2.2. Il rito
3. L’uso delle moderne categorie del linguaggio
3.1. Il linguaggio delle relazioni interpersonali
3.2. Il linguaggio della libertà
3.3. Il linguaggio della creatività
3.4. Il linguaggio della solidarietà e della partecipazione
3.5. Il linguaggio del futuro e della speranza
3.6. Il linguaggio dell’esperienza
Bibliografia essenziale

12. IRC e confronto con le religioni (CYRIL DE SOUZA)


1. Alcune premesse
1.1. I cambiamenti nella scuola e nella società
1.2. La caratteristica dell’IRC
1.3. Quale educazione religiosa
2. I compiti dell’IRC per un confronto con le altre religioni
2.1. Riconoscere le differenze
2.2. Scoprire i valori delle religioni
2.3. Conoscere le varie religioni
2.4. Scoprire l’etica nelle religioni
2.5. Suscitare lo spirito ecumenico
2.6. Importanza delle esperienze vissute
3. Il contenuto dell’IRC e il confronto con le religioni
3.1. Storia delle religioni
3.2. La dottrina teologica e i precetti morali
3.3. Lavorare per un mondo migliore
4. Le abilità da sviluppare nell’IRC
4.1. Superamento dei pregiudizi
4.2. L’interesse per l’altro
4.3. Guardare in profondità
5. L’itinerario metodologico pedagogico
5.1. Accettazione del «diverso»
5.2. Accoglienza del «diverso»
5.3. Convivenza con il «diverso»
Indicazioni bibliografiche

13. Fonti e tradizioni: La Bibbia. La storia della Chiesa (CESARE BISSOLI)


1. Fonti per la conoscenza del cristianesimo
1.1. Quali sono
1.2. Nella Riforma della scuola
2. La Bibbia, grande codice del cristianesimo
2.1. Un contesto ricco di impulsi
2.2. La Bibbia negli attuali programmi di IRC
2.3. Elementi di didattica biblica
2.4. Appendice
3. La storia della Chiesa come fonte
4. Conclusione
Indicazioni bibliografiche

Parte terza
LA GESTIONE DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO

14. Gli obiettivi (LUCILLO MAURIZIO)


1. Il quadro generale
2. Obiettivi istituzionali
3. La personalizzazione degli obiettivi
4. Gli obiettivi dell’IRC nei diversi gradi di scuola
4.1. Obiettivi dell’IRC nella Scuola dell’Infanzia
4.2. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Primaria
4.3. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Media
4.4. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Secondaria Superiore
Indicazioni bibliografiche

15. Il sapere religioso (ZELINDO TRENTI)


0. La dimensione religiosa della cultura e «i saperi di base»
1. La legittimità del sapere religioso: sortite recenti e preoccupanti
1.1. Il dibattito recente sui «saperi» dell’ambito della scuola
1.2. L’attuale discussione attorno alla Costituzione dell’Europa, nel dibattito culturale
2. Il sapere esplorato dalla ricerca religiosa
2.1. La coscienza del mistero
2.2. I grandi temi della coscienza umana
3. Per una caratterizzazione del sapere religioso scolastico
3.1. L’apprendimento religioso
3.2. La suggestione evocativa del contesto
3.3. Un linguaggio appropriato per capire
4. Il sapere religioso nella logica della recente riforma
5. Le scelte della CEI
5.1. Il sapere nei programmi di Religione Cattolica del 1987 e la prassi disciplinare
5.2. Le scelte operate nella recente sperimentazione
6. Alcune considerazioni conclusive
Indicazioni bibliografiche

16. I metodi (ROBERTO ROMIO)


1. Dalla didattica empirica alla metodologia didattica
2. Metodologia, metodi e modelli didattici
3. Le scelte metodologiche della scuola della riforma
4. La condizione metodologica dell’IRC
4.1. L’IRC modello di organizzazione scolastica della riforma
4.2. L’IRC nel modello curriculare della riforma
4.3. Il carattere ologrammatico dell’apprendimento
5. Le metodologie di apprendimento: il metodo deduttivo, induttivo ed ermeneutico
6. Alcuni modelli di istruzione
6.1. L’istruzione comportamentista
6.2. Modello R. Gagné e L. J. Briggs
6.3. Il modello dell’elaborazione dell’informazione
6.4. La teoria algo-euristica dell’istruzione
6.5. Il modello di insegnamento erotetico
6.6. Il modello di insegnamento socratico
6.7. Il modello di istruzione diretta
6.8. La discussione come metodo di apprendimento
6.9. Il modello di Mastery Learning
7. Alcuni modelli di programmazione
7.1. Modello di programmazione lineare per obiettivi
7.2. La programmazione per concetti
7.3. La programmazione per situazioni
7.4. La programmazione per sfondi
7.5. La programmazione modulare
7.6. La post-programmazione
8. Conclusione
Indicazioni bibliografiche

17. La programmazione: Piano Offerta Formativa e programmi CEI (GIUSEPPE


MORANTE)
1. La programmazione .
2. Competenze specifiche degli Enti coinvolti
2.1. Documenti elaborati dallo Stato per la Scuola
2.2. Documenti interni elaborati dalla scuola
3. L’IRC e l’IdR nella nuova scuola
3.1. Chiavi di lettura
3.2. Dalle Indicazioni nazionali alle Raccomandazioni
Indicazioni bibliografiche

18. Programmi CEI per la Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria: le scelte


pedagogico-didattiche (GIUSEPPINA ZUCCARI)
Presentazione
Analisi comparativa
Scuola dell’Infanzia
Scuola Primaria
Elementi di novità dei «Testi CEI-MIUR» per la Scuola dell’Infanzia e la Scuola
Primaria
Il POF come strumento essenziale nella progettazione scolastica

19. Il progetto IRC nella Scuola dell’Infanzia (GIUSEPPINA ZUCCARI)


Prima parte: I Programmi sperimentali CEI
Orientamenti generali e finalità
Obiettivi - aree di intervento
I Nuclei Tematici
Il Progetto annuale della RC nella Scuola dell’Infanzia
La costruzione di percorsi didattici
Seconda parte: Gli Obiettivi specifici di Apprendimento propri della RC nell’ambito
delle Indicazioni nazionali...
La progettazione annuale delle attività di IRC
Dagli obiettivi specifici di RC alla organizzazione di obiettivi formativi
e di Unità di Apprendimento
Strategie di realizzazione dei percorsi didattici

20. Il progetto IRC nella Scuola Primaria (GIUSEPPINA ZUCCARI)


Prima parte: I Programmi Sperimentali per la Scuola Primaria
1. I programmi sperimentali CEI
Orientamenti generali, natura e finalità
Obiettivi
Nuclei tematici
Criteri metodologici ed organizzativi
2. Il progetto annuale della religione cattolica nella scuola primaria
La costruzione di percorsi didattici
Seconda parte: Gli Obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della
RC nell’ambito delle indicazioni nazionali...
La progettazione annuale delle attività di IRC
Dagli obiettivi specifici agli obiettivi formativi ed alla organizzazione di Unità di
apprendimento

21. La programmazione nella Scuola Secondaria di primo grado (FLAVIO PAJER)


Le variabili di contesto
Gli obiettivi dello studio della religione nel quadro degli obiettivi generali
del processo formativo
Gli obiettivi specifici dell’apprendimento della religione
22. La programmazione nel secondo ciclo. I licei (LUCILLO MAURIZIO)
1. I riferimenti nel contesto della riforma e della sperimentazione CEI
1.1. Lingua e linguaggi
1.2. Analogicità del concetto di scienza
1.3. Unità della cultura
1.4. Interdisciplinarità
1.5. Storicità e storicizzazione
1.6. Problematicità
2. Struttura dei licei
3. Le tipologie dei licei
3.1. Liceo artistico
3.2. Liceo classico
3.3. Liceo economico
3.4. Liceo linguistico
3.5. Liceo musicale e coreutico
3.6. Liceo scientifico
3.7. Liceo delle scienze umane
3.8. Liceo tecnologico
Riferimenti bibliografici

23. Il sistema di istruzione e di formazione professionale (MARIO TONINI)


Introduzione
1. L’evoluzione della formazione professionale in Italia…
1.1. La FP nella legge-quadro n. 845 del 21 dicembre 1978: i corsi di FP
1.2. Il percorso formativo rinnovato dalla legge 144 del 1999: l’avvio dell’obbligo
formativo
1.3. Il percorso formativo rinnovato dalla legge 53/03: il sistema dell’istruzione e della
formazione professionale
2. La Religione Cattolica nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale
2.1. La dimensione etico-religiosa nella «cultura generale»: la fase della legge 845/78
2.2. La dimensione religiosa negli standard formativi dell’area comune: la fase della
legge 144/99
3. Le altre attività complementari e il valore aggiunto dell’ambiente educativo
4. Prospettive: la «dimensione etico-religiosa» o l’insegnamento della Religione
Cattolica?
Riferimenti bibliografici

24. Testo e strumenti didattici (ROBERTO ROMIO)


Introduzione
1. Gli strumenti didattici
2. Gli strumenti della valutazione
3. Gli strumenti didattici della riforma
4. Gli strumenti della didattica multimediale
5. Il libro di testo
6. Quale uso degli strumenti didattici nell’IRC?
7. L’IRC nella società dei nuovi media informatici
8. Gli strumenti e i materiali dell’IRC
9. Conclusione
Bibliografia

25. Pianificazione unitaria dell’IRC: articolazione lungo l’intero sistema di


istruzione e formazione (ROBERTO REZZAGHI)
1. Alla ricerca di una pianificazione unitaria dell’IRC
1.1. Il pluralismo e la frammentazione
1.2. Gli alunni e la crisi della «persona»
1.3. La scuola dell’autonomia e la flessibilità organizzativa
2. La bussola e i punti cardinali
2.1. Il primato della persona
2.2. L’essenzializzazione dei saperi
2.3. La definizione delle competenze
2.4. La ciclicità
2.5. La correlazione
2.6. Interdisciplinarità, intercultura ed educazione alla convivenza civile
2.7. Attenzione alla coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale,
nazionale ed europea
3. Dai principi didattici alla programmazione
3.1. Le matrici progettuali
3.2. Insegnare per obiettivi
3.3. I livelli e la valutazione
3.4. La formazione in servizio degli IdR
4. Conclusione
Bibliografia di riferimento

Parte quarta

CONDIZIONI PECULIARI DELL’ESERCIZIO DISCIPLINARE

26. Educazione scolastica e azione ecclesiale. La distinzione tra insegnamento


della religione nella scuola e catechesi della comunità cristiana (EMILIO ALBERICH)
L’eredità dell’epoca moderna
La svolta del Concilio Vaticano II
Distinzione e complementarità tra IR e catechesi ecclesiale
Il problema aperto della confessionalità
Nuove possibili prospettive
Riferimenti bibliografici
27. IRC e pastorale della scuola (BRUNO STENCO)
1. Principi ispirativi e finalità della pastorale della scuola
1.1. La correlazione tra l’educazione umana e cristiana
1.2. La finalità educativa della scuola
1.3. I soggetti responsabili dell’educazione e della scuola. Il ruolo dei genitori
nell’educazione morale e religiosa a scuola
1.4. L’IRC in Italia e la sua presenza nella scuola
2. Pastorale della scuola, comunità cristiana e territorio nel contesto della riforma del
sistema di istruzione e di formazione professionale
2.1. L’autonomia basata sul principio di sussidiarietà orizzontale
2.2. La pastorale della scuola come promozione del patto educativo tra famiglia -
scuola - comunità, quale punto integrante e centrale del progetto culturale ispirato al
Vangelo
2.3. Comunità ecclesiale, famiglia, IRC: quale fruttuosa comunità educativa
3. L’educazione, la scuola e l’IRC oggi, in riferimento alle sfide e prospettive poste
dalla modernità e dal trapasso culturale in atto
3.1. Il primato dell’educazione
3.2. L’IRC nel ruolo educativo e culturale della scuola
Indicazioni bibliografiche

28. IRC e scuola cattolica (GUGLIELMOMALIZIA - SERGIO CICATELLI)


1. I dati disponibili
1.1. L’IRC nelle scuole Fidae
1.2. L’IRC nelle scuole materne della Fism
1.3. Considerazioni conclusive
2. L’IRC nelle scuole pubbliche, statali e paritarie
3. L’impegno della scuola cattolica per l’educazione religiosa
4. IRC concordatario e scuola cattolica
5. La significatività dell’IRC per l’educazione di scuola cattolica
Riferimenti bibliografici

29. Educazione religiosa e disagio scolastico (GIUSEPPE MORANTE)


1. Le situazioni scolastiche di «disagio»
2. La risposta dell’educazione religiosa
3. Interventi didattici
3.1. La conoscenza dei presupposti per l’adattamento
3.2. Le caratteristiche didattiche dell’adattamento
3.3. Interventi concreti e mirati
4. Atteggiamenti educativi
Indicazioni bibliografiche

Conclusioni

Bibliografia generale
PREFAZIONE

L’Istituto di Catechetica dell’Università Salesiana di Roma nei suoi cinquant’anni


di vita, oltre il servizio alla catechesi, ha fatto una scelta di campo a favore
dell’insegnamento religioso nella scuola, impegnandosi seriamente con le risorse
della Facoltà di Scienze dell’Educazione di cui fa parte.
Per una intelligente fedeltà alle indicazioni dei responsabili istituzionali
(Conferenza Episcopale Italiana e governo italiano) abbiamo cercato di
comprenderle dentro il processo culturale ed istituzionale evolutivo che, a partire
dal Vaticano II, ha investito questa importante quanto a volte tormentata materia,
ascoltando, valutando, proponendo il proprio punto di vista, senza chiusure e
senza rotture, sempre a servizio dell’alunno e della scuola.
L’interesse che ha fatto da guida è stato triplice: precisare sempre meglio la
natura della disciplina, rafforzare le competenze, l’attrezzatura pedagogica
didattica, curare in misura qualificata la formazione degli insegnanti di religione.
I corsi accademici, il dialogo continuo con docenti di Università europee e le
loro pubblicazioni (segnatamente dell’area tedesca), le ricerche sociologiche
sull’IR in Italia (1991, 1996), le iniziative di formazione portate avanti nel periodo
estivo a Col Fosco e Corvara in Val Badia, poi a Vigo di Fassa e attualmente a
Chianciano, ci hanno consegnato un insieme di esperienze e di riflessioni, che
abbiamo a varie riprese elaborate in diverse pubblicazioni.
In questo solco si situa il presente Manuale. Nell’Introduzione si ha il quadro di
obiettivi e proposte che compaginano il volume. Qui interessa notare che l’opera
è nata all’interno dell’Istituto, con la collaborazione dei suoi membri e di tanti
colleghi ed amici di assodata competenza.
pag. 5
Non si poteva dire tutto e la bibliografia rimanda a possibili ulteriori sviluppi, ma
ci eravamo prefissati di toccare i punti strategici, quelli che in un certo modo,
mentre riguardano l’oggi e giovano ad una formazione aggiornata, dicono anche
la traiettoria di questo insegnamento verso il domani, avendo presenti cambi
rilevanti come la riforma della scuola, la riconosciuta parità giuridica dei docenti
di religione, i mutamenti notevoli legati al pluralismo molteplice, religioso, etnico e
più globalmente culturale.
Spetta al Docente avvalersi del servizio e magari reagire in conseguenza.
L’esperienza altrui è sempre una preziosa lezione.
Questa pubblicazione per gli Insegnanti di Religione vuol esprimere anche
quella stima sincera, diciamo pure affetto, che abbiamo verso questi colleghi,
donne e uomini, laici e presbiteri, che servono i giovani – referenti indimenticabili
del nostro lavoro –, esplicitando la dimensione religiosa come componente di vita,
con la capacità persuasiva che proviene dal confronto con la tradizione e cultura
cristiana del nostro Paese .

Cesare Bissoli

pag. 5
INTRODUZIONE
L’Insegnante di Religione (IdR) entra finalmente a pieno titolo nella scuola
italiana.
Questo studio intende accompagnarlo nel prendere autorevolmente il suo posto
fra i Colleghi, con un apporto specifico e qualificante. Il Manuale vuole fare il
punto su un cammino lungo travagliato e sotto molti aspetti tuttora in atto.
Nella Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma si
è ritenuto questo il momento felice per chiamare ad una puntuale verifica gli
studiosi più accreditati nell’ambito specifico dell’educazione religiosa scolastica,
naturalmente dando il dovuto rilievo alla situazione concreta che vede il
progressivo affermarsi della disciplina Insegnamento di Religione Cattolica (IRC)
e assumere man mano chiara identità nella scuola.
Ne è uscito un disegno complessivo semplice e ci auguriamo esemplare, che
proponiamo nelle grandi linee, collocandolo in quello sfondo di problematicità e di
evoluzione che caratterizza la scuola, prima ancora e più profondamente che la
disciplina.
L’articolazione delinea quattro grandi settori.
Il primo riguarda il contesto educativo.
La Riforma si porta finalmente su un orizzonte unitario, pensato nella sua
globalità e disegnato con organicità e coerenza. Naturalmente ogni innovazione
presta il fianco a riserve: anche quella attuale risulta discutibile, appunto almeno
in quanto merita di venire seriamente discussa; con quello sguardo vigile che
sa discutere per valorizzare e integrare la proposta; con l’intento di offrire
suggestioni che la sappiano promuovere precisamente delineando una prassi
operativa e un’azione didattica avvertite delle radici del cambiamento e del
significato delle scelte che si vanno operando.

pag. 7
Donde una considerazione attenta del contesto, preso nella sua ampiezza.
Gli interventi risultano elaborati quasi a cerchi concentrici a partire da una
vasta panoramica storica ragionata, passando per il cambiamento sociale, e
specificamente per la condizione giovanile; l’attenzione portata sulla Riforma
situa immediatamente la collocazione della disciplina, ne misura le resistenze e
le opportunità.
Il quadro risulta problematico con una forte connotazione evolutiva, di cui si
tenta di sondare le prospettive. L’intento è quello di abilitare l’IdR non solo a
collocarsi con consapevolezza e specificità di apporti nel progetto della scuola,
ma anche di renderlo avvertito degli orientamenti che si profilano nel futuro non
troppo lontano.
Il secondo momento è dedicato alla comprensione della disciplina.
L’IRC come disciplina è recente: nella scuola italiana viene da una lunga e
controversa tradizione. Per un ventennio negli anni settanta, a ridosso della
riflessione conciliare e a fianco dei diversi tentativi di ripensare la scuola, ha
alimentato un dibattito singolarmente vivo e stimolante. Riviste specializzate nel
settore ne portano ampia documentazione. Oggi si può dire che la disciplina ha
individuato le proprie linee portanti, le va perseguendo e verificando. Soprattutto
le componenti costitutive della disciplina sono esplorate e «saggiate» nella
ricerca teorica e nell’esperienza concreta educativa.
La composizione non è facile. La religione come fatto universale, il cattolicesimo
come patrimonio caratterizzante il vissuto religioso in Italia, risultano un primo
nodo sempre in dialettica. Tanto più che la religione viene esplorata oggi
da scienze molteplici, particolarmente decisive per i processi educativi che
impegnano la disciplina.
Non meno fervido di suggestioni e di innovazioni si presenta il versante della
ricerca educativa: l’attenzione ai processi, e di conseguenza ai processi di
maturazione religiosa è terreno fecondo di indagine, di ipotesi, di orientamenti
pag. 7/8
spesso dialettici fra di loro.
Temi specifici come quelli della comunicazione educativa, dell’esperienza,
del linguaggio che la esprime; il confronto con molteplici tradizioni religiose, il
richiamo sempre forte alla Bibbia come codice portante della nostra cultura
costituiscono riferimenti obbligati da far interagire in una disciplina che man
mano avverte l’angustia della propria organizzazione e va dilatando i riferimenti,
naturalmente interrogandosi sul modo corretto di esplorarli e di introdurli
nell’analisi concreta scolastica.
L’IdR scopre un compito singolarmente stimolante di raccordo nel progetto
scolastico: la sua disciplina esplora un mondo segnato dall’espressione artistica,
dalla riflessione filosofica, dalla vicenda storica: la religione permea la cultura
e chiede all’IdR di elaborare criteri corretti di interpretazione. L’insegnante
è sollecitato a competenze affinate e dilatate: s’interroga sulla sua reale
competenza, ripensa alla sua formazione, si rende conto dell’urgenza di
aggiornamenti puntuali, di una nuova e appropriata qualificazione.
Il terzo momento affronta la vera sfida portata dall’evoluzione della scuola
sull’IRC.
Cambia la filosofia della scuola. La logica dell’apprendimento investe le
strutture organizzative e l’impianto pedagogico: soprattutto dove il processo di
apprendimento è assunto nelle sue intrinseche esigenze educative l’elaborazione
pedagogico-didattica segue piste inedite.
L’IRC come disciplina e l’insegnante che la promuove sono obbligati a
confrontarsi con un’evoluzione del «sistema scuola» molto flessibile, orientato
all’autonomia, alla ricerca di progressivi adattamenti e ritocchi sia a livello
strutturale che didattico.
Alla sua confluenza la Riforma sta mettendo a punto soluzioni educative di
raccordo e di progettazione unitaria, misurata prima sulle esigenze di contesto
(POF) e in ultima analisi sulla stessa progressiva maturazione dell’allievo (PSP).
pag. 8
Addirittura nella elaborazione più recente l’intero processo è comandato da un
«profilo» dell’alunno che tende a proporsi come orizzonte unitario e organico di
riferimento.
La tradizione più recente dell’IRC, quale emerge anche dalla «sperimentazione
CEI» è preoccupata fondamentalmente dell’incontro con il Cattolicesimo e le sue
più significative espressioni culturali. La disciplina ha un suo spazio riconosciuto,
ma anche definito e tendenzialmente rigido.
Date le condizioni concrete che la identificano troverà configurazione adeguata
nel profilo generale della scuola o costituirà una proposta a parte, inevitabilmente
marginalizzata, rischiando in definitiva di risultare irrilevante? L’ultima
elaborazione dei «programmi» e la sottesa riflessione portata sulla scuola
dell’infanzia e del primo ciclo tenta l’impresa piuttosto impegnativa di delineare
un IRC solidale con il progetto generale della scuola: impegna di conseguenza
l’IdR ad un’azione vigile e costante di condivisa partecipazione. Vuol essere un
contributo all’orientamento dell’insegnante, cui resta tutta la fatica e soprattutto la
fantasia per «inventare» una solidarietà, che resta difficile.
C’è dunque un’area singolarmente impegnativa di verifica della compatibilità
dell’IRC con il progetto della scuola. Comporta una rielaborazione della
disciplina al suo interno da modulare sulla diversità e sulle convergenze: a
partire dal linguaggio, dai concetti fondamentali di matrice biblico-teologica,
dalle consuetudini educative che caratterizzano l’esperienza ecclesiale e il suo
patrimonio educativo catechistico-liturgico.
Sono aspetti che il Manuale ha voluto accostare e ci auguriamo che abbia
saputo impostare. Naturalmente meritano approfondimento e verifica concreta
nell’esercizio educativo. Come meritano attenta considerazione, oltre gli accenni
del manuale, provocazioni particolarmente emergenti in ambito pluriculturale e
multireligioso.
Soprattutto resta da verificare la provocazione che il pluralismo religioso, sempre
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più palese ed agguerrito, sottende per la credibilità della proposta cattolica.
Un quarto orizzonte di riflessione è dato da alcune situazioni educative peculiari
quali il rapporto con l’educazione ecclesiale, la specificità dell’educazione
religiosa nella scuola cattolica e a confronto con situazioni educative
disagiate: vengono richiamate e se ne abbozza la problematica, se ne delinea
l’impostazione.
Restano aspetti peculiari che non è sembrato opportuno affrontare
compiutamente in un manuale che tende a delineare la figura dell’IdR nella sua
identità qualificante e nelle provocazioni più urgenti, cui è chiamato a rispondere.
E da ultimo alcune annotazioni organizzative.
Le scelte operate nell’articolazione dei contributi.
Quella fondamentale riguarda la coerenza interna del Manuale, quale emerge
dalla organicità delle quattro parti appena presentate e in esse dei singoli
contributi, richiesti ai Collaboratori, cui siamo grati sia per la disponibilità che per
la tempestività del loro intervento.
Per quanto, sullo sfondo di una visione pedagogica sostanzialmente condivisa e
sulla base di una previa e precisa intesa, si è voluto rispettare e anzi sollecitare
l’originalità dell’apporto di ciascuno, data anche la rispettiva, riconosciuta
competenza.
Soprattutto nell’attuale fase di «ri-fondazione» è sembrato importante tener
fermo un doppio versante:
– quello di una chiara consapevolezza della situazione attuale;
– quello di una vigile attenzione ai problemi e alle prospettive che guardano
risolutamente al futuro.
Il Manuale tende così a sollecitare una lucida presa d’atto da parte dell’IdR di
una situazione in movimento, in cui la sua iniziativa e perfino la sua fantasia
possono coprire o aprire spazi inediti di efficace intervento educativo.
La bibliografia è naturalmente molto diversa per i singoli contributi, alcuni
pag. 9/10
dei quali hanno assunto la responsabilità di un’elaborazione propria, perché
chiamati ad esplorare aspetti poco studiati o del tutto nuovi, specialmente
nell’identificazione di specifici processi di apprendimento ai vari livelli di scuola.
Alla fine si è ritenuto comunque utile riportare una bibliografia essenziale per
documentare l’orizzonte globale di analisi operata nel Manuale e come unitaria
piattaforma di studio offerta all’IdR, curata dal Prof. U. Gianetto.
Le note esplicative sono molto contenute; vengono tuttavia inserite per rispettare
le diverse sensibilità e la specifica competenza dei singoli Collaboratori.
Alcuni riferimenti
– fonti normative, riforma, orientamenti pedagogico-didattici, esperienza degli
allievi...
– ritornano necessariamente in diversi contributi; tuttavia in elaborazioni peculiari
che ne esplorano le molteplici potenzialità educative e ne approfondiscono la
comprensione.
Il Manuale è collegato con il sito specifico www.rivistadireligione.it
– per garantire l’aggiornamento e la formazione permanente;
– per qualificare l’intervento educativo .

Zelindo Trenti

pag. 10
PARTE PRIMA

Il contesto educativo
Tende ad evidenziare l’orizzonte di interpretazione, in cui si situa l’intervento
dell’IdR.
Mette a fuoco soprattutto risonanze e provocazioni molteplici, a cui l’IdR è
chiamato a dare attenta considerazione:
– L’evoluzione storica dell’Insegnamento della Religione (Butturini);
– L’impatto inedito della Religione con la società contemporanea (Pajer);
– L’atteggiamento che caratterizza il mondo giovanile nei confronti della religione
(Trenti);
– La visione unitaria della riforma del sistema formativo di istruzione e di
formazione (Nanni-Malizia);
– Il rapporto che si delinea fra Riforma e IRC nella situazione attuale (Cicatelli).

pag. 11
CAPITOLO 1

PROFILO STORICO DELL’IRC IN ITALIA


Emilio Butturini

Tra gli scopi del lavoro culturale vi è quello di aiutare a uscire dall’attualità
immediata dei problemi studiati per far prendere coscienza della loro dimensione
storica, contribuendo a meglio definirli e analizzarli e forse anche a offrire
qualche stimolo in più per la loro soluzione. Certo, in un discorso storico
sull’insegnamento della religione (IR) si sarebbe potuto – in omaggio anche alla
«lunga durata» teorizzata da Fernand Braudel (1902-1985) – risalire molto più
indietro, magari fino ai primi secoli cristiani, quando si distingueva nettamente
tra iniziazione religiosa da attuare nella comunità ecclesiale (quella domestico-
familiare e quella territoriale) e formazione tecnica e professionale, da ricercare
nella scuola pagana (non si avvertì nei primi secoli la necessità di istituire scuole
cristiane di materie profane, come hanno mostrato gli studi del Marrou e del
Cantalamessa), anche perché «senza le scienze profane non si può accedere
neppure alle scienze sacre» (TERTULLIANO, De idolatria, 10,4). Oppure si sarebbe
potuto risalire almeno all’inizio dell’epoca moderna, quando la nuova cultura
umanistica tendeva a contrapporsi alla società sacrale del Medioevo e la Chiesa,
pur continuando a considerare la confessionalità una dimensione fondamentale e
ineludibile di ogni tipo di scuola, cominciava a preoccuparsi di un insegnamento
specifico di religione, da impartire nella scuola delle sempre più numerose e
diffuse istituzioni religiose, che, sia in area cattolica che protestante, avrebbero
mantenuto alla scuola un’impronta religiosa di fondo per almeno altri due secoli,

Capitolo 1 pag. 13
prima delle rivendicazioni, da parte dei prìncipi «illuminati», di una competenza
statale sulla scuola.
Dopo il periodo delle soppressioni, confische, prevaricazioni varie, dell’ultimo
Settecento, che si chiude con la vicenda napoleonica, si giunge all’età della
Restaurazione, con il reinserimento del catechismo nella scuola, diverso a
seconda delle diocesi e dei... regimi, col rischio di fare dei docenti di religione dei
«pubblici funzionari», in grado di controllare ogni deviazione religiosa e morale e
capaci di contribuire a formare «buoni cristiani e fedeli sudditi», come diceva, ad
esempio, il Regolamento scolastico del Regno Lombardo-Veneto del 1818.

1. Dall’inizio del Regno d’Italia alla Riforma Gentile del 1923

La particolare situazione di lacerazione profonda fra le istituzioni civili ed


ecclesiastiche per le modalità del processo di unificazione nel nostro paese
si riflette in modo illuminante sul problema dell’IR, come su quello del
riconoscimento di una parità effettiva fra scuole statali e scuole «a gestione non
statale», con un caratteristico intreccio di preoccupazioni politiche e di istanze
culturali e pedagogiche, pur in presenza anche di posizioni «più dialogiche», che
sembrano precorrere impostazioni attuali del problema.
Significativo al riguardo è il volume: Il Vaticano e lo Stato (1876) di un autorevole
studioso «laico», Giovanni Maria Bertini, dell’Università di Torino, dove si può
già trovare la proposta di due insegnamenti, gestito l’uno dalla Chiesa e l’altro
dallo Stato, non necessariamente destinati a contraddirsi o a scontrarsi «come
due locomotive che si movano in senso contrario su due binarii paralleli» (p.
143), anticipando, in qualche misura, analoghe proposte di anni più recenti, ma
rispecchiando anche le posizioni separatiste del cavouriano «Libera Chiesa in
libero Stato», che, al dire dell’hegeliano napoletano Augusto Vera, potevano
Capitolo 1 pag. 13/14
preparare solo la «pace della tomba» con un’«anima libera in corpo libero»
(cf Jemolo, 1965, 47-48). Erano gli anni della Circolare del ministro Correnti
(29 settembre 1870), con cui si introduceva l’obbligo di un’esplicita domanda
di partecipazione all’IR nelle elementari da parte dei genitori, e della legge di
soppressione delle Facoltà teologiche di Stato (26 gennaio 1873), tenacemente
voluta dallo stesso Ministro (anche se non realizzata da lui), ma assai gradita ad
ampi settori ecclesiastici, come i Gesuiti de «La Civiltà Cattolica», i quali «non
sapevano dolersi» dell’approvazione di quella legge (cf Ferrari, 1968, specie 95-
96 e 164-166).
Seguì la Legge del giugno 1877 che di fatto abolì l’IR nelle secondarie e, un
mese dopo, la Legge Coppino sull’obbligo scolastico, che sembrò sostituire
nelle elementari all’IR non più menzionato le «prime nozioni dei doveri dell’uomo
e del cittadino» e che aprì un contenzioso destinato a durare per decenni tra
«laici » e cattolici. Non mancarono «laici» come Aristide Gabelli, che si chiedeva
insistentemente perché non si potesse continuare a insegnare, specie ai futuri
maestri, almeno la storia sacra e quella cultura religiosa che è «necessaria per
intendere i poeti nostri o pittori scultori, ecc.», o come Pasquale Villari (1872,
486-487), il quale notava che «discutere la propria fede sembra a noi Italiani
una contraddizione ne’ termini; ammettere che ci sia un senso religioso, anche
indipendentemente da ogni religione positiva, pare un assurdo».
Nell’età di Giolitti e della «crisi modernistica» emersero poi le posizioni dei
cattolici vicini alla «Lega Democratica», come Antonio Fogazzaro e il suo
biografo Tommaso Gallarati Scotti, che, rivendicando la libertà della Chiesa come
diritto, non come privilegio, sostenevano una nuova presenza culturale, sociale e
politica dei cattolici, di cui assumere direttamente responsabilità, come persone
e come gruppi, poiché «niente è più fatale alla religione che il farne monopolio
di un partito politico». Venne, in particolare, espressa l’esigenza di una netta
distinzione fra «catechesi» e «cultura religiosa», escludendo la prima dalla
Capitolo 1 pag. 14
scuola e ribadendo – come scrisse Fogazzaro in una lettera aperta a Filippo
Crispolti de «L’Avvenire d’Italia» (1 ottobre 1904) – «l’alta importanza civile e
politica» della seconda, poiché «il fanciullo che ignori la risposta religiosa data
dai suoi padri alle questioni più importanti per l’uomo, le regole di vita ch’essi
accettarono come legge universale e suprema, il significato dei fenomeni religiosi
[...], ch’egli incontra ad ogni passo, il nome, la storia, gli insegnamenti di Cristo,
non può dirsi elementarmente istruito».
Ne conseguiva la proposta, presentata da Gallarati Scotti al Congresso
della Lega del settembre 1908, di abolire l’insegnamento confessionale dalle
elementari, ridando questo compito alla Chiesa «perché essa direttamente
[...] ripenetri di cristianesimo le giovani generazioni» e di reintrodurre
nell’insegnamento superiore e universitario la cultura religiosa poiché «essa è
così strettamente collegata a tutta la vita del pensiero che non la si può stralciare
[...] senza impoverire la cultura nel suo complesso». Parallelamente si sarebbe
dovuto puntare su un’effettiva libertà della scuola, sottratta a ogni monopolio e
impossibile neutralità, rivendicando lo stesso diritto per tutti, nella considerazione
del «valore anche delle fedi più opposte, quando sono profonde e operose» e del
progresso derivante «da una più forte affermazione di ciascuno» (Gallarati Scotti,
1909).
Ben diversa la posizione di Gentile (cf 1921, 79-139) che nel settembre del
1907 (VI Congresso della FNISM) aveva per la prima volta sostenuto la tesi
della religione quale «forma prima e necessaria dell’idealismo e della moralità
individuale », un «inizio di sapienza» capace di dare unità e organicità al sapere,
superando l’ingenua pretesa di neutralità della «laicità negativa», propria della
cultura positivistica. Certo, la scuola è laica perché «non ammette altre leggi
che quelle della sua natura e si scrive da sé, essa stessa, giorno per giorno, il
suo catechismo », ma un tale catechismo della ragione è un punto d’arrivo, e
intanto che ci si predispone a raggiungerlo è necessario «che fin dalla scuola
Capitolo 1 pag. 14/15
elementare si miri a formare una coscienza e promuovere il senso vero della vita.
E questo senso della vita, dacché mondo è mondo, l’ha dato all’uomo la religione
o la filosofia; sicché dove non può entrare la filosofia, dev’essere, deve restare la
religione».
Minoranza, i primi, tra i cattolici, ma ancor più minoritaria forse la posizione
gentiliana fra i «laici» che, proprio in quel tempo, avevano riaffermato la piena
facoltatività dell’IR con l’approvazione del Regolamento Rava (6 febbraio
1908), sia pure bocciando la mozione Bissolati che avrebbe voluto «vietato
sotto qualsiasi forma» l’IR, nonostante i dati presentati allora in Parlamento dal
«cattolicodeputato » Alessandro Stoppato (cf Aquarone, 1961, 224-262) sulle
altissime percentuali di richieste da parte delle famiglie (praticamente quelle
attuali del 90-95%, anche se con grandi differenze fra Nord e Sud).
Poi ci fu la guerra e il primo dopoguerra con la nascita del Partito Popolare di
Luigi Sturzo e del suo ideale di libertà, teso non a disorganizzare lo Stato, ma
a inserire in esso i cattolici e a diffondere fra questi i principi democratici, con
posizioni di «sana laicità», che portarono ad accentuare la rivendicazione della
libertà della scuola e nella scuola piuttosto che quella relativa all’IR. Accanto
al movimento socialista sempre più consistente, ma anche sempre travagliato
al proprio interno da conflitti e lacerazioni, veniva affermandosi, con alleanze
politiche spregiudicate e la violenza squadristica, il movimento fascista, con il
quale finì per confluire il gentiliano «partito della scuola», portatore di istanze
culturali e pedagogiche di carattere conservatore ed elitario, spesso in contrasto
con il confuso demagogismo fascista. Prevalsero dapprima tali istanze con
la gestione dell’istruzione affidata a Gentile, che diede il via alla complessa
e organica riforma che da lui giustamente prese il nome, vista l’impronta
chiaramente idealistica data alla scuola.
Rivela questa impronta, in modo emblematico, la decisione di inserire l’IR
solo nelle elementari, essendo per Gentile la religione «una forma del ritmo
Capitolo 1 pag. 15
spirituale» destinata a essere dialetticamente superata «nella vita normale
dello Spirito », ma in modo organico, così da «pervadere» l’intera attività
scolastica. «L’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta
dalla tradizione cattolica » veniva posto dall’art. 3 del regio decreto dell’1
ottobre 1923 «a fondamento e coronamento dell’istruzione elementare in ogni
suo grado», e l’ordinanza applicativa dell’11 novembre successivo precisava,
con esempi desunti dalle varie materie, che alla religione si faceva «un posto
notevole in molti insegnamenti, in quanto essa li investe necessariamente col
suo spirito» e che «le ore speciali dedicate alla religione [...], sono come il
punto di concentrazione di tutti gli elementi di cultura religiosa sparsi nei vari
insegnamenti».
Religione poi esplicitamente cattolica perché non ha senso – come precisò nel
dicembre 1922 al Consiglio Superiore della P.I. il ministro Gentile (cf Gozzer,
1986, 76) – dire «religione sì, ma non una data religione [...]. Sarebbe come dire:
poesia sì, ma né Omero, né Dante, né Shakespeare, né altri». In nome dell’unità
didattica, ma anche per la realistica considerazione di quanto sarebbe costato
all’erario un insegnamento impartito da personale esterno alla scuola a tre o
quattro milioni di alunni, si decise di affidare normalmente ai maestri l’IR, non
senza difficoltà e resistenze da parte della Chiesa, nonostante si fosse affidato
ad essa il compito di giudicare dell’idoneità dei maestri e dei testi.

2. Dal Concordato del 1929 ai dibattiti della Costituente (1946-47)

Era intanto iniziata la politica dei «ritocchi» alla Riforma, non senza interventi
relativi anche all’IR, consentito, almeno per corsi facoltativi, anche oltre le scuole
elementari, come avvenne con un decreto del 30 aprile 1924 sull’istruzione
media in generale e con una circolare ministeriale del 7 giugno, per favorire
Capitolo 1 pag. 15/16
corsi facoltativi di religione cattolica per gli allievi degli istituti magistrali nei locali
scolastici, anche se fuori dall’orario normale, così da facilitare il riconoscimento di
idoneità da parte dell’Autorità ecclesiastica ai futuri maestri.
Doveva questa essere l’ultima «concessione» di Gentile, che in quello stesso
mese di giugno 1924 fu sostituito nell’incarico di ministro da Alessandro Casati,
già collaboratore della rivista modernista «Rinnovamento» e della «Critica»
crociana, in occasione del «rimpasto» governativo seguito all’assassinio dell’on.
Giacomo Matteotti (10 giugno). In quell’occasione Gentile disse di non voler
creare difficoltà aggiuntive al capo del governo per le critiche venute a vari punti
alla sua Riforma, non assumendo la franca posizione del suo direttore generale
per l’istruzione elementare Giuseppe Lombardo Radice, che nel numero di
settembre 1924 della sua rivista «L’Educazione nazionale» scrisse: «Rimanere
dopo quel tristissimo episodio [...] significava vivere nella menzogna».
Non mancarono tentativi di popolari e «liberal-democratici», come Alcide
De Gasperi e Giovanni Amendola, di offrire sbocchi alternativi alla crisi del
governo Mussolini, ma nel giro di pochi mesi avvenne invece la ricomposizione
del blocco di forze politiche, economiche, militari e anche ecclesiastiche, che
consentirono a Mussolini la famosa dichiarazione alla Camera del 3 gennaio
1925 dell’assunzione di ogni responsabilità «politica, morale, storica» di quanto
era accaduto, dando il via al vero e proprio regime.
Di qui, progressivamente, lo scioglimento dei partiti e sindacati, la nomina
dei podestà al posto dei sindaci nei comuni, l’istituzione del tribunale speciale,
l’ordinamento corporativo e la decisa politica di riconciliazione con la Chiesa.
Questa, nel giro di pochi anni – nonostante nuove difficoltà e tensioni, a causa
della fondazione dell’Opera nazionale Balilla nell’aprile 1926 e alle pressioni
esercitate per arrivare all’«autoscioglimento» delle associazioni scautistiche
(1927-28) – portò ai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, con l’articolazione
in Trattato, Concordato e Convenzione finanziaria. Mentre con il primo la Chiesa
Capitolo 1 pag. 16/17
rinunciava ai suoi territori, accontentandosi del piccolissimo «Stato della Città del
Vaticano », con la Convenzione finanziaria otteneva significativi riconoscimenti,
specie a favore di vescovi e parroci, a titolo di risarcimento dei notevoli beni
sottratti alla Chiesa, e con il Concordato vedeva ribadite le sue posizioni
tradizionali, relative specialmente alla famiglia e alla scuola, fra cui appunto
l’IR. Riguardo a quest’ultimo così si esprimeva l’articolo 36: «L’Italia considera
fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina
cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente
che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari
abbia un ulteriore sviluppo nella scuola media, secondo programmi da stabilirsi
d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato».
La legge applicativa n. 824 del 5 giugno 1930 prevedeva l’istituzione dell’IR
in tutti gli istituti medi, con la facoltà di esonero su semplice richiesta, con la
determinazione dell’orario (un’ora normalmente e due ore solo per le prime due
classi del magistrale superiore), la valutazione tramite una speciale nota da
inserire nella pagella e la possibilità di revoca, anche ad anno scolastico inoltrato,
dell’incarico per i docenti.
Accanto alle «manifestazioni di giubilo» del Papa, di molti vescovi, degli uomini
della Università Cattolica e dell’Azione Cattolica o anche dei Gesuiti e alle
scontate critiche di «laici» (Croce, ad esempio) e socialisti, dentro e fuori l’Italia,
vi furono riserve di «fascisti» come Gentile, Alfredo Rocco o Gioacchino Volpe
e di cattolici come Giulio Bevilacqua, De Gasperi, Sturzo, Giuseppe Donati,
Francesco Luigi Ferrari, Guido Gonella, Arturo Carlo Jemolo, Igino Righetti,
Primo Mazzolari, Giovanni Battista Montini, che sarebbe stato «liquidato» dopo
i fatti del 1931, anche per il modo con cui impartiva l’IR nella Fuci romana (cf
Butturini, 1979).
Occorre però anche ricordare che subito dopo i discorsi di Mussolini del 13 e
25 maggio 1929 vi furono vivaci e risentite prese di posizione di Pio XI (Discorso
Capitolo 1 pag. 17
agli allievi del Collegio gesuitico di Mondragone del 14 maggio e Lettera al card.
Gasparri del 30 maggio), prodromo di profondi atteggiamenti critici espressi
dal papa, dopo gli attacchi dei fascisti a sedi ecclesiali e dell’Azione Cattolica
in particolare nel 1931 (quarantennio della Rerum Novarum, in occasione di
celebrazioni ed incontri osteggiati dal Regime), specie attraverso l’enciclica
Non abbiamo bisogno del 29 giugno 1931. Queste posizioni critiche furono
ribadite con ancor più forza per l’avvicinamento del fascismo al nazismo (bollato
con l’enciclica Mit brennender Sorge del 14 maggio 1937, cinque giorni prima
della Divini Redemptoris contro il comunismo ateo), soprattutto nel 1938 per
l’estensione all’Italia delle leggi razziali.
Alle polemiche seguirono inizialmente gli «accomodamenti» del settembre 1931,
«poco dignitosi e rassicuranti», al dire di Montini (cf Moro, 1979, 193-194), come
quello che portò alla Circolare del 15 marzo 1932 per lo svolgimento di lezioni
supplementari di catechismo nelle elementari «ogni quindici giorni ai Balilla e
Piccole italiane delle classi terza, quarta e quinta [...], nei locali scolastici, al
principio o al termine dell’orario di scuola» per la durata di circa mezz’ora.
La disposizione, dopo essere stata ribadita al tempo di Bottai (1939 e 1940), fu
riconfermata, naturalmente con altre parole, dopo la caduta del fascismo da altre
circolari, del ministro Vincenzo Arangio Ruiz (9 febbraio 1945) e di Guido Gonella
(12 aprile 1947), che sancirà, praticamente fino al Concordato del 1984, la
presenza delle venti mezz’ore di catechismo tenute da «sacerdoti proposti dalla
competente autorità ecclesiastica [...], alla presenza dell’insegnante della classe,
durante l’orario scolastico».
Una certa politica «accomodante» sembrò riprendere nel momento di passaggio
fra la morte di Pio XI (10 febbraio 1939) e l’elezione di Pio XII (1 marzo),
come mostra anche la benevola accoglienza della «Carta della Scuola» del
ministro Giuseppe Bottai, approvata dal «Gran Consiglio» il 15 febbraio 1939 e
sollecitamente pubblicata come «documento storico» da «La Civiltà Cattolica».
Capitolo 1 pag. 17/18
La VII Dichiarazione sulla collaborazione scuola-famiglia «ai fini dell’educazione
e dell’orientamento degli alunni [...] sulle vie della religione dei padri e dei destini
d’Italia» venne interpretata con un discorso radiofonico di Bottai della sera di
Pasqua 1939 come conferma e rafforzamento dell’art. 36 del Concordato, in
quanto riferita non solo all’insegnamento, ma a tutta «una formazione sui principi
della dottrina cattolica». Adare maggior forza di insegnamento curricolare all’IR
giunse la Legge sulla «Scuola media unica» (1 luglio 1940), che ammise la
presenza del docente di religione negli scrutini dei singoli anni e dell’esame
finale, mentre la Circolare del 29 marzo 1941 pose la religione come materia
d’esame.
Ma si era ormai alla guerra e al crollo del Fascismo e della «Carta della Scuola»
in particolare, che ci si affrettò, con singolare premura (Circolare min. del 27
luglio 1943, n. 30), a considerare «come non più esistente» (Butturini, 1987, 122-
126).
Un cenno, almeno, prima di affrontare il tema dei dibattiti svoltisi nell’Assemblea
costituente (1946-1947) sull’IR, ai nuovi Programmi delle elementari del febbraio
e maggio 1945, elaborati da una Commissione di cui faceva parte il deweyano
Carleton Washburne della Sottocommissione alleata per l’educazione, dove si
avverte l’influsso di Una fede comune di Dewey (1934), con l’accentuazione della
«religiosità» come «funzione» piuttosto che della «religione» come «contenuto»,
pur mantenendo la religione come disciplina specifica, per una decisione
autonoma dell’autorità statale, senza riferimenti concordatari e con intimi legami
con l’educazione morale e civile e con tutti gli altri insegnamenti, per il principio
dell’unità educativa e didattica.
Si trattava di contribuire a promuovere il libero sviluppo dell’alunno, suscitando
in lui «un vivo sentimento di fraternità che superasse l’angusto limite dei
nazionalismi » e «una serena volontà di lavorare e di servire il Paese con
onestà di propositi» e con la progressiva acquisizione di un «costume di vita
Capitolo 1 pag. 18
democratica».
In particolare nelle Avvertenze relative allo specifico insegnamento si diceva che
«l’educazione religiosa» doveva ispirarsi «alla dolce figura di Gesù, quale risulta
dai Vangeli», così «da suscitare nei fanciulli l’amore verso Dio e verso il prossimo
» (cf Lombardi, 1987, 436-440).
Molto interessante alla Costituente fu il dibattito sull’IR, con il tentativo di
inserire un’esplicita garanzia di tale insegnamento in uno dei primi articoli
della Costituzione, analogamente a quanto sarebbe avvenuto con l’art. 7 della
Costituzione della Repubblica federale tedesca del 1949. È noto che il dibattito
sui problemi della scuola si svolse sulla base di due relazioni, una di Concetto
Marchesi per il PCI e i partiti «laici» (cf «Rinascita», 1946, n. 9) e l’altra di Aldo
Moro per la DC (cf «Humanitas», 1947, n. 1).
La prima contestava l’IR «in nome non della scienza, ma della stessa religione,
in quanto non può essere veramente tale quella che entra in un programma
scolastico», con un catechismo che rischia di fare «uno stagno per ranocchi»
invece di «insegnare a navigare per il mare aperto». La religione entra comunque
nella scuola ma «solo attraverso la religiosità del maestro, che la diffonde
non per obbligo, ma perché così gli detta la coscienza». Quella di Marchesi
riecheggiava impostazioni gentiliane («La realtà è solo quella che lo Spirito fa
essere e non presuppone»!) e non era molto distante dal testo Una fede comune
di Dewey, per il quale contava la fedeltà al metodo e non a un nucleo di verità,
essenziale fin che si vuole, da trasmettere e da accogliere, dato appunto come
presupposto.
Moro sostenne invece l’astrattezza giuridica di una indifferenza dello Stato in
tema di religione, che poteva servire a «mascherare la volontà di distruggere
la coscienza religiosa del nostro popolo, sostituendovi una religione laica della
libertà o una mistica collettiva». Proprio accettando un concetto di uno Stato
che non ha alcuna verità da insegnare né in materia religiosa né altrove, non si
Capitolo 1 pag. 19
poteva negare l’esigenza che esso accogliesse democraticamente i contenuti
educativi proposti dalla coscienza sociale, in modo che l’«orientamento spirituale
della maggioranza » costituisse «la sostanza spirituale della scuola, con le
dovute garanzie per le minoranze non cattoliche». Ignorare nella scuola le
problematiche religiose significava «negare un rapporto reale dello Stato e delle
sue istituzione con le esperienze morali dei cittadini e con le correnti vive della
società». Diverso era il discorso se si considerava il problema dal punto di vista
dei singoli cittadini, dei quali doveva essere garantita la piena libertà di scelta,
come intendeva appunto fare Moro con la sua proposta del 18 ottobre 1946 così
formulata: «Nelle scuole di ogni ordine, escluse quelle universitarie, lo Stato
assicura agli studenti che vogliono usufruirne l’insegnamento religioso, nella
forma ricevuta dalla tradizione cattolica».
Quella proposta, che conteneva le due fondamentali innovazioni del nuovo
Concordato del 1984 (l’assicurazione dell’IR da parte dello Stato e l’affermazione
del diritto di libera scelta) fu lasciata cadere, anche per pressioni della Santa
Sede, preoccupata, fra l’altro, di mantenere altre garanzie previste dal
Concordato del 1929. Pochi mesi dopo, nella notte fra il 25 e il 26 marzo 1947,
con il voto di democristiani, di «qualunquisti», di alcuni liberali ed indipendenti,
ma soprattutto dei comunisti, «costretti» da Togliatti a «convertirsi» nel voto
dell’aula parlamentare rispetto a quello della Commissione (si era al tempo del
governo «tripartito », Dc, Pci, Psi), si decise di inserire i Patti Lateranensi, con
tutte le conseguenti contraddizioni, nel testo stesso della Costituzione, sia pure
precisando che le modificazioni di tali patti non avrebbero richiesto procedimento
di revisione costituzionale.

Capitolo 1 pag. 19/20


3. Influssi sull’IR dei dibattiti e interventi sulla scuola nei primi decenni
della Repubblica e degli orientamenti conciliari

Dalla «Inchiesta nazionale per la riforma della Scuola» (1947/49) del ministro
Guido Gonella, che aveva chiesto «suggerimenti» anche «circa l’insegnamento
religioso nell’ambito delle norme costituzionali», usciva la conferma dell’IR
come «fondamento e coronamento», anche se «il meno possibile dottrinario e
dogmatico» e con il massimo rispetto di ogni espressione religiosa, anche di
quella delle minoranze, come apparirà nel disegno di legge n. 2100, approvato
in sede governativa il 28 giugno 1951, ma mai discusso in Parlamento, che
considerava l’IR «non una materia fra uguali materie scolastiche», ma la «fonte
più alta e autorevole per l’intera concezione dell’opera educativa» in pieno
accordo «con le premesse etiche e sociali della Costituzione».
La formula della Religione come «fondamento e coronamento» venne
poi esplicitamente ripresa nei Programmi delle elementari del 1955 e, sia
pure con un accenno più cauto e discreto, alla «particolare disciplina
prevista dal Concordato» nella Legge di riforma della scuola media del 31
dicembre 1962. Questa formulazione fu per la prima volta abbandonata negli
Orientamenti educativi per la scuola materna statale del 1969, nei quali si
proponeva un’educazione religiosa aperta realmente a tutti i bambini, non più
specificamente confessionale, anche se si manteneva una certa «pervasività»
della Religione in tutta l’azione educativa.
Si doveva non tanto rafforzare o introdurre una determinata pratica religiosa
quanto «portare il bambino ad una prima apertura verso Dio e ad una vissuta
esperienza di fraternità, di amore e di non violenza», educando a un rispetto
profondo di tutte le posizioni, anche di quelle non religiose, e favorendo «il
superamento di atteggiamenti religiosi ispirati più a timore che ad amore,
ingeneranti [...] sentimenti di discriminazione e forme di pregiudizio, di
Capitolo 1 pag. 20
intolleranza e di fanatismo».
Vi erano state nel frattempo la contestazione giovanile del ’68 e dintorni, che
coinvolse la Chiesa e, in parte, lo stesso IR, e, prima ancora, la svolta segnata
nella vita ecclesiale da papa Giovanni XXIII e dal Concilio Ecumenico Vaticano
II (1962-1965), proseguito poi e concluso da papa Paolo VI. Questi aveva
accettato di accogliere l’eredità giovannea di un Concilio promosso per «un balzo
innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in
corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina, studiata ed esposta
secondo le forme del pensiero moderno», per riprendere parole famose del
discorso di apertura dell’11 ottobre 1962.
Possiamo schematicamente indicare alcune nuove impostazioni su sei
dimensioni fondamentali della fede cattolica, che hanno finito per influire
profondamente sulla formazione degli insegnanti di religione (IdR),
sull’elaborazione dei libri di testo e sulla pratica quotidiana dell’IR:

1. Rivelazione, non tanto come «dottrina», quanto come «storia della salvezza
», fondata anzitutto sulla Parola di Dio e saldamente intrecciata con le concrete
vicende degli uomini. È significativo che la «Costituzione dogmatica su la Divina
Rivelazione» si chiamerà semplicemente «Dei Verbum».

2. Chiesa non più identificata col Regno di Dio e non tanto intesa come «società
perfetta», quanto come «mistero», «popolo di Dio», «segno e strumento
dell’unione con Dio e dell’unità fra gli uomini», radicata nelle Chiese particolari,
«nelle quali e a partire dalle quali esiste». Prima ancora vi è la «rivoluzione
copernicana » nella concezione della Chiesa, alla cui costruzione partecipa
ogni fedele, come sacerdote, profeta e re, nella comune vocazione alla santità
(Lumen Gentium, 10-13, 34-36 e 39-41).

Capitolo 1 pag. 20/21


3. Vita di fede e di preghiera meno individualistica e «clericale», più aperta alla
Parola di Dio e alla vita degli uomini, meno velata da misteri supplementari e
con la possibilità, aperta dalla Costituzione su la Sacra Liturgia (Sacrosanctum
Concilium), per tutte le lingue e le culture di «esprimere la parola degli uomini a
Dio e di Dio agli uomini», per dirla con papa Paolo VI nel discorso del 7 dicembre
1965.

4. Libertà non come male inevitabile da tollerare, ma come espressione della


dignità personale d’ogni uomo, come suo diritto fondamentale che «perdura
anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad
essa » (Dignitatis Humanae, 2).

5. Ecumenismo come capacità di distinguere la sostanza della fede dal suo


«rivestimento », di affermare una «gerarchia nelle verità della dottrina cattolica,
essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» e di aprirsi
al dialogo con gli altri cristiani «poiché molti e segnalati beni possono trovarsi
fuori dai confini visibili della Chiesa cattolica» (Unitatis Redintegratio, 3 e 11). Il
discorso si estenderà anche al dialogo interreligioso, con nuove aperture verso
le religioni non-cristiane, l’Islam e l’ebraismo in particolare (Nostra Aetate, 3 e 4),
nella convinzione che in ogni posizione è possibile trovare «un raggio della luce
di Dio che risplende in ogni uomo che viene a questo mondo».
6. Rapporti Chiesa/Mondo fondati sulla solidarietà con le sofferenze e le
conquiste di tutti gli uomini e sul riconoscimento dell’autonomia delle realtà
terrene, della cultura e della libera ricerca scientifica. La Chiesa intende
sollecitare «in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio
il messaggio di Cristo », promovendo «uno scambio vitale con le diverse
culture dei popoli» (Gaudium et Spes, 44). Essa è anche disposta a rinunciare
«all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove costatasse che il loro uso
Capitolo 1 pag. 21
potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza» (Gaudium et Spes,
76).
Sullo specifico problema dell’IR influirà anche la precisa indicazione della
Gravissimum educationis, 5 sulla scuola intesa «come un centro, alla cui attività
ed al cui progresso devono insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti e vari
tipi di associazioni a finalità culturali, civiche e religiose, la società civile e l’intera
comunità umana». Coerente con questa impostazione fu in Italia il documento
ufficiale della CEI del 1970, Il rinnovamento della Catechesi, con l’importante
riconoscimento da parte della Chiesa che «la scuola fa parte propriamente
delle strutture civili» e che «nella scuola la catechesi deve caratterizzarsi in
riferimento alle mete e ai metodi propri di una struttura scolastica moderna», che
è un primo importante passo per giungere alla precisa distinzione fra catechesi
e IR scolastico, che ritroveremo in documenti e interventi della metà degli anni
Ottanta.
Frattanto, importanti eventi di politica culturale e scolastica degli anni Settanta
e dei primi Ottanta (Legge e referendum sul divorzio e sull’aborto, Legge-delega
e decreti-delegati sulla gestione della scuola, nuovi programmi delle medie e
delle elementari, ecc.) erano destinati ad avere ripercussioni sull’IR e sugli IdR in
particolare, talora generosamente impegnati nella realtà scolastica in movimento,
ma più spesso «isolati e in fuga», anche per decisioni penalizzanti sul piano
retributivo, che portarono alla progressiva sostituzione dei docenti sacerdoti o
religiosi con laici e, soprattutto, con laiche.
L’isolamento dell’IR si rifletté anche nell’elaborazione dei programmi in
occasione dei nuovi Programmi delle medie del 1979, nonostante che
«l’educazione religiosa» fosse stata inserita dalla Commissione ministeriale
di esperti di ogni orientamento «nelle finalità della scuola» e «proposta – per
usare le parole della Premessa generale – nei suoi metodi specifici ed autentici
di esigenza e di esperienza spirituale ed umana e nei suoi aspetti affettivi,
Capitolo 1 pag. 21/22
intellettuali, etici e sociali ordinati a promuovere la fratellanza, la giustizia e la
pace tra gli uomini, illuminate dal trascendente».
Più interessante e complessa – anche perché contestuale all’ultima fase del
processo di revisione del Concordato – fu la vicenda dei nuovi programmi delle
elementari, approvati dalla Commissione ministeriale – a firma ormai avvenuta
del nuovo Concordato – con una relazione di maggioranza favorevole a una
«Conoscenza dei fatti religiosi», da affiancare all’insegnamento concordatario.
Poteva essere la prima affermazione storica dell’ipotesi del «doppio binario» o
della «doppia cattedra», per usare un’espressione dell’area tedesca, riemersa
anche nel colloquio interideologico dei Salesiani del 1971 e riproposta da vari
Autori e da Associazioni e Movimenti negli anni successivi. Di fronte a questa
ipotesi di soluzione si accese una doppia ostilità: da parte di ambienti «laici»,
che vi vedevano un pretesto per moltiplicare insegnamenti a sfondo religioso e
riciclare eventuali insegnanti «perdenti posto», e da parte di autorevoli ambienti
ecclesiali, preoccupati sia di un pericoloso riduzionismo degli specifici contenuti
religiosi, sia dell’affermarsi di un insegnamento non direttamente controllato dalla
Gerarchia ecclesiastica.
Sta di fatto che il testo approvato dalla maggioranza anche del Consiglio
Nazionale della P.I. fu, prima della definitiva promulgazione del febbraio 1985,
pesantemente rielaborato dal Ministero. Si parlò ancora di una disciplina
«Religione » (non più di «Conoscenza dei fatti religiosi»), quasi a ribadire una
funzione di «alfabetizzazione culturale» della scuola anche a questo proposito,
non precisando però contenuti, obiettivi specifici e indicazioni didattiche, ma
parlando di una «graduale riflessione sulla realtà religiosa nella sua espressione
storica, culturale, sociale», nel senso, sembrerebbe, auspicato dalla minoranza
della Commissione e del CNPI, di un «insegnamento diffuso» nelle varie
discipline (essendo lo «specifico programma di religione» quello previsto dal
Concordato o dalle Intese).
Capitolo 1 pag. 22
Analoghe vicende si ebbero per la scuola media superiore, dove però non
si approdò a risultati definitivi. L’ultimo testo, approvato dal Senato nel 1985,
faceva esplicito riferimento all’IR concordatario e, pur ribadendo interesse
per «le religioni » a livello di «area comune» di tutti gli indirizzi di scuola,
vincolava con un odg a far sì che «le religioni» non diventassero oggetto di
un’autonoma disciplina, mentre veniva bocciato l’emendamento del senatore
Pietro Scoppola tendente a rendere un insegnamento di storia delle religioni
alternativa obbligatoria all’IR concordatario per gli allievi che non si avvalessero
di quest’ultimo.

4. Dal Concordato del 1984 allo Stato giuridico dei docenti di religione del
2003

Nei primi anni dopo la promulgazione della Costituzione si parlava piuttosto di


abolizione del Concordato, anche se, generalmente, nell’ambito di ristretti gruppi
«laici». Il dibattito si allargò dopo il pontificato giovanneo e il Concilio a gruppi
e a riviste cattoliche, talora con nuove radicalizzazioni del problema. Con la
votazione però dell’ottobre 1967 il Parlamento optò per la linea della revisione
e nel novembre 1968 creò la prima Commissione, per lo studio dei problemi
concordatari.
Nel luglio 1969 la Commissione aveva concluso i suoi lavori, ma solo il 7 aprile
1971 il capo del governo Emilio Colombo ne illustrò in Parlamento i risultati,
sostanzialmente per chiedere tempo, dato il turbamento del clima dei rapporti
con la Chiesa, verificatosi dopo l’approvazione della Legge sul divorzio nel
dicembre precedente.
Dopo la celebrazione del referendum del 1974 poté riprendere l’iniziativa politica,
anche se solo nel 1976 furono costituite le due delegazioni (italiana e vaticana) e
Capitolo 1 pag. 23
si arrivò alla prima bozza di Concordato, sulla cui base fu votata, a grandissima
maggioranza, una risoluzione che autorizzava la continuazione delle trattative.
Rimanevano grossi nodi soprattutto in relazione agli enti ecclesiastici, mentre
relativamente all’IR non emersero novità di rilievo dalle rimanenti bozze – alcune
delle quali mai rese pubbliche – fino al testo firmato dalle due parti il 18 febbraio
1984, ratificato a grandissima maggioranza dal Senato il 3 agosto 1984 e dalla
Camera il 20 marzo 1985 e trasformato nella Legge 25 marzo 1985, n.
121.
Nell’art. 9, comma 2, viene affrontato il tema dell’IR, con significative innovazioni:
«La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo
conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del
popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola,
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di
ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità
educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi
o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro
genitori esercitano tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la
loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione».
Seguiva all’articolato dell’accordo di revisione concordataria un Protocollo
addizionale per «evitare ogni difficoltà di interpretazione», che «di comune
intesa » dichiarava anzitutto «non più in vigore il principio [...] della religione
cattolica come sola religione dello Stato italiano» e, in relazione all’IR, ribadiva
che doveva essere «impartito in conformità alla dottrina della Chiesa [...] da
insegnanti riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa
con essa, dall’autorità scolastica», rimandando ad una successiva intesa la
determinazione dei programmi, delle modalità organizzative, dei libri di testo e
dei profili professionali degli IdR.
Questa Intesa fra Conferenza Episcopale Italiana e Ministero della Pubblica
Capitolo 1 pag. 23/24
Istruzione veniva sancita nel dpr 16 dicembre 1985, n. 751, che prevedeva per
l’insegnamento di religione cattolica «dignità formativa e culturale pari a quella
delle altre discipline» (4.1), programmi scolastici curricolari, su proposta del
Ministero, d’intesa con l’Episcopato (1.2), insegnanti che «fanno parte della
componente docente, con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti» e con
una qualificazione – almeno a partire dall’anno scolastico 1990/91 – pari a
quella degli altri insegnanti (2.7 e ancora il punto 4), così da poter arrivare ad
una «nuova disciplina dello stato giuridico degli insegnanti di religione». Essa
è stata parzialmente rivista attraverso numerose Circolari ministeriali e alcuni
pronunciamenti dell’Alta Corte, come quelli del 1989 e 1991, che hanno ribadito,
relativamente agli utenti, la piena facoltatività dell’insegnamento, così da non
richiedere alcuna forma di opzionalità e da non vincolarlo ad alcuna «materia
alternativa», col rischio, purtroppo ben reale, di ridurre la libertà a pura «libertà di
ignoranza».
Volendo ora commentare gli importanti accordi del 1984-85 diciamo anzitutto
che è stato positivo l’impegno di assicurare i diritti della coscienza religiosa,
garantendo uno spazio curricolare ai temi religiosi e della religione cattolica in
particolare, «nel quadro delle finalità della scuola», ben distinto dunque da quello
di un IR «catechistico» e «pervasivo» (capace cioè di «impregnare» tutti gli
altri insegnamenti), che è stato nei nostri Paesi proprio dei tempi di «cristianità
costituita ». Il silenzio della scuola sulle tematiche religiose avrebbe finito per
essere un giudizio ideologico di irrilevanza esistenziale e culturale della religione,
che è contraddetto nei fatti e contraddice nella sua intima essenza l’istanza di
«laicità» della scuola, propria di ogni tipo di scuola, a gestione pubblica o privata.
Se è vero, forse, quanto osservava nell’opera ottocentesca citata Bertini («A
molti dogmi della Chiesa i più fra i credenti s’immaginano di credere perché non
ne dubitano e non ne dubitano perché non vi pensano»), compito della scuola è
proprio quello di far pensare, portando a consapevolezza critica ogni posizione di
Capitolo 1 pag. 24
pensiero e di vita.
Non si è trattato di una concessione fatta ai cattolici, ma di un’opportunità offerta
a tutti e non imposta a nessuno, con il diritto/dovere di esprimere la propria scelta
di avvalersi o meno di tale insegnamento, nell’ambito di una scuola realmente
pluralistica. Essa non può essere più un luogo di trasmissione e di riproduzione
di una cultura già data, ma piuttosto di analisi delle diverse espressioni
culturali esistenti nella società e di elaborazione degli strumenti necessari per
una mediazione critica, che renda le persone capaci delle scelte più libere e
responsabili.
Non nego difficoltà e contraddizioni presenti nei nuovi accordi, ma dico che
occorre capire le une e le altre, le contraddizioni per comprendere il significato
che ad esse sottende, le difficoltà, perché è sempre arduo calare in sistemi
burocratici le scelte di libertà, come sono, nonostante tutto, quelle dei nuovi
accordi, diciamo almeno di maggiore libertà. La contraddizione più evidente
emerge là dove si parla di un IR assicurato «nel quadro delle finalità della
scuola», per «il valore della cultura religiosa» e la pertinenza dei «principi del
cattolicesimo» con il «patrimonio storico del popolo italiano», e nello stesso
tempo si offre la libertà di avvalersene o meno, «nel rispetto della libertà di
coscienza».
L’appello ad una tale libertà non ha molto senso di fronte ad un’attività di
prevalente scambio culturale come è quella scolastica, dove semmai ci si
dovrebbe appellare alla libertà di pensiero e al pluralismo culturale, cioè al
«confronto di diverse posizioni culturali», come è previsto dall’art. 1 del vigente
decreto n.
417/1974 sullo stato giuridico dei docenti. È singolare che lo Stato si impegni a
tutelare i cittadini da ciò che ha appena riconosciuto come valore, che fa parte
del loro patrimonio storico! Evidentemente si è trattato di un compromesso, forse
l’unico politicamente possibile, come si è detto da più parti, considerando la
Capitolo 1 pag. 24/25
natura di tale insegnamento, esistenzialmente tanto impegnativo da non poter
essere mantenuto obbligatorio e culturalmente tanto importante da non poter
essere trascurato, dato che si può giungere anche a negare l’esistenza di Dio,
ma non l’esistenza di un diffuso vissuto religioso tra gli uomini.
Resta in particolare rilevante la decisione di inserire l’IR «nel quadro delle finalità
della scuola», con un duplice riconoscimento da parte dello Stato e della Chiesa
e con un impegno assunto da entrambi di fare dell’IR qualcosa di nuovo.
Si tratta da parte dello Stato di non emarginarlo, facendone, ad esempio,
un’attività «aggiuntiva», per la quale non ci sarebbe stato bisogno di un accordo
«internazionale », che attribuisce, fra l’altro, l’attivazione del diritto di scelta non
agli utenti, ma alla scuola, dato che genitori e studenti lo esercitano «su richiesta
dell’autorità scolastica». Da parte della Chiesa poi si tratta di non farne un
doppione della catechesi parrocchiale o di gruppo o movimento, dato che non
appartiene alle finalità della scuola sollecitare o rinforzare l’adesione a una fede,
come neppure a un’ideologia.
Da questo punto di vista mi sembra importante nella Lettera alla CEI del Papa
(1 maggio 1984) il riferimento ad un «competente e appropriato insegnamento
religioso», distinto chiaramente dalla catechesi e «caratterizzato rispetto agli
obbiettivi ed ai criteri propri di una struttura scolastica moderna» («L’Osservatore
Romano», 9 maggio 1984). Forse, per un chiarimento dei termini del problema
si potrebbe dire che vale per la catechesi l’indicazione tomistica (S. Th. IIa,
IIae, q. 1, art. 2, ad 2um e Quaestio de veritate 14, art. 8) relativa all’atto di
fede che non si ferma alla formula, ma tende verso la Realtà che ogni formula
trascende (Actus credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem), mentre
per un insegnamento scolastico della religione – tendente quindi ad un’omologia
strutturale con le altre discipline – il discorso non verte tanto sull’Alterità
radicale in sé e sugli appelli che la sua esistenza pone ineludibilmente alla
coscienza, ma sugli elementi che postulano l’esistenza e l’azione di tale Alterità
Capitolo 1 pag. 25
(Preambula fidei) e sul significato storicoculturale delle formule e dei testi a cui
essa rimanda. Ne consegue uno sforzo leale e dichiarato di autolimitazione nel
campo della mozione della volontà, senza negare, comunque, la necessità di
una comunicazione corretta ed efficace di conoscenze autentiche, per cui una
certa «confessionalità» è inevitabile, non solo a livello di contenuti, ma anche di
rapporto interpersonale, pena l’inautenticità della comunicazione educativa.
È di fatto avvenuto dagli anni del nuovo Concordato ad oggi che – contro tante
previsioni di «laici» ed anche di cattolici – della libertà di avvalersi si sono serviti
e si servono genitori (più del 95% anche secondo i dati relativi al 2002/2003)
e studenti (87,5% per il 2002/2003, cf Battistella-Olivieri, 2003), con scelte
«plebiscitarie », che mal si conciliano con la diffusa indifferenza religiosa, ma
che tuttavia esprimono anche la ricerca di valori comuni e di spazi di dialogo e di
confronto nella scuola su temi e problemi vicini al tempo storico e psicologico dei
ragazzi e dei giovani.
Non si può quindi che apprezzare la decisione di arrivare finalmente ad una
definizione dello Stato giuridico degli IdR con la Legge 18 luglio 2003, n. 186,
nonostante non manchino ancora una volta difficoltà e contraddizioni. Il ruolo
finalmente disponibile anche per i docenti di religione conferma la curricolarità
di un insegnamento, assicurato per i genitori e gli studenti che intendono
avvalersene, salvaguardando, ad un tempo, la competenza della Chiesa e i diritti
costituzionali dei docenti, in quanto lavoratori. Resta per questi ultimi il problema,
insolubile per un insegnamento concordatario, della duplice «ubbidienza» sia
verso lo Stato che verso la Chiesa, con le inevitabili complicazioni e conflittualità
che ne deriveranno. Rispetto a questa sorta di reviviscenza della medievale
«doppia investitura», forse era meglio ripensare al «doppio binario», già caro al
prof. Giovanni Maria Bertini, o alla «doppia cattedra» presente in alcuni Länder
tedeschi, che invano si è tentato di realizzare anche in Italia nei primi anni
Ottanta del secolo scorso con le discussioni e le delibere delle Commissioni
Capitolo 1 pag. 25/26
ministeriali e del Consiglio nazionale della PI per i nuovi programmi delle
elementari.
Pur impegnandosi a chiedere alla formula concordataria tutto quello che può
dare, pensiamo, in particolare, che occorra farsi carico fino in fondo di coloro che
non si avvalgono dell’insegnamento di religione cattolica (il 12,5% degli studenti
a livello nazionale, con percentuali ben più alte nelle grandi città del Centro
e del Nord del Paese) non rinunciando all’idea di un secondo insegnamento,
gestito autonomamente dagli istituti scolastici, nell’ambito del Piano di offerta
formativa (POF). Oggetto di tale insegnamento dovrebbe essere lo studio in
chiave storicofenomenologica dei problemi religiosi e lo studio critico-scientifico,
aconfessionale ed ecumenico, della Bibbia e dei testi fondamentali delle altre
religioni, dal momento che un IR diffuso e stemperato nelle altre materie finirebbe
col far apparire la religione come una «sovrastruttura» riconducibile ad altre
forme di esperienza umana e rischierebbe di rendere la maggior parte dei giovani
chiusi a ogni vera problematica religiosa.
Diventerà inevitabile riproporsi anche il tema della restaurazione delle Facoltà
teologiche di Stato, emerso a più riprese anche in ambito cattolico, come
al tempo del dibattito sulla Deus scientiarum Dominus del 1931, ad opera,
particolarmente, del Rettore dell’Università Cattolica Agostino Gemelli, o delle
proposte del 1941 di mons. Giuseppe De Luca o quelle più recenti avanzate nel
Convegno «Evangelizzazione e promozione umana» (Commissione n. 4) del
1976 o ancora quelle del XLVII Corso di aggiornamento culturale dell’Università
Cattolica del 1977, specie nel caloroso intervento dell’allora Rettore Giuseppe
Lazzati (Butturini, 1978, 11-12 e 1987, 117-118).
Resta nel testo della nuova legge l’impressione di una certa freddezza
burocratica, preoccupata sì giustamente dei diritti dei lavoratori, ma anche
tendente ad una forma di separatezza fra Stato e Chiesa, senza vera
collaborazione e senza profonda attenzione ai protagonisti primi dell’azione
Capitolo 1 pag. 26/27
educativa, genitori e studenti, per cui risultano alla fine deluse le attese di una
nuova «collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese», di cui
parlava l’art. 1 del nuovo Concordato, una collaborazione aperta anche ad un
confronto sui valori. Questi sono da riconoscere e apprezzare nella loro stessa
«diversità» e, comunque, da non rivendicare in esclusiva, come ha fatto Giovanni
Paolo II – nel discorso rivolto al presidente Craxi il 3 giugno 1985, in occasione
dello scambio degli strumenti di ratifica degli accordi (cf «L’Osservatore
Romano», 3-4 giugno 1985, p. 4) – affermando che la comunità cristiana è «ben
conscia di non poter essere la sola promotrice di valori nella società civile. Essa
dà, ma, al tempo stesso, riceve in una sorta di dialogo esistenziale».

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CAPITOLO 2

RELIGIONE E SOCIETÀ CONTEMPORANEA


Flavio Pajer

Società postmoderna e fattore religioso

1. Il fenomeno religioso è entrato in forza nel villaggio globale e ne costituisce


indubbiamente una delle componenti sociologicamente più rilevanti. E, per certi
versi, più inquietanti. Come osserva coloritamente un sociologo americano (Kurtz,
2000,13), gli ebrei possono mandare le loro preghiere al Muro del pianto via fax
da tutte le parti del mondo; i predicatori cristiani e i maestri buddisti raggiungono
milioni di ascoltatori via televisione e internet; gli indovini cinesi forniscono
tabelle astrologiche prodotte e diffuse al computer; comunità religiose isolate agli
estremi confini della terra possono collegarsi tra loro via satellite; il Parlamento
delle religioni (Chicago, 1993) rilancia l’ipotesi di un’etica mondiale; Assisi
assurge a icona transconfessionale delle religioni alla ricerca di un dialogo...
Chiari segnali di un nuovo protagonismo delle religioni erano venuti sul finire
del XX secolo da contesti geo-politici tra loro apparentemente distanti e isolati,
come la rivoluzione islamica in Iran, il movimento Solidarnosc in Polonia, il
coinvolgimento dei cristiani nelle lotte di liberazione socio-politica in America
Latina, il risveglio del fondamentalismo protestante nell’America del Nord. E
anche molte lotte interetniche in culture tribali africane o asiatiche, o nella vicina
ex-Iugoslavia, o tuttora in Israele, hanno trovato nella identità/alterità religiosa
una miccia esplosiva supplementare. L’11 settembre, infine, non ha fatto che
da detonatore mondiale di processi che covavano da tempo nel subconscio
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collettivo di larghi strati dell’umanità.
Ma oltre a questo insorgente protagonismo delle religioni storiche, da anni
gli studiosi registrano e analizzano il fenomeno religioso attuale anche come
religiosità diffusa: dalla «religione invisibile» di T. Luckmann alla «religione civile»
di R.N. Bellah, dalla Common Religion di R. Towler e dalle analisi sulle «nuove
spiritualità e movimenti religiosi» di J. Vernette fino al «religioso implicito» o alla
«religione diffusa» dei nostri A. Nesti e R. Cipriani, la saggistica specializzata è
prodiga di letture interpretative che si rincorrono, si confrontano, si verificano (o
si falsificano) a vicenda da una regione all’altra del pianeta (Romanelli, 2002, 77-
89).
Mentre l’età moderna aveva abituato le società, almeno quelle occidentali, a
relegare tendenzialmente la religione nel privato delle scelte personali e al riparo
da coperture politiche, l’età postmoderna ributta il peso delle religioni – e della
religiosità – nel pubblico, là dove le strutture politiche della società civile sono
chiamate a rinegoziare e a gestire i principi e i valori della comune convivenza.
Ieri era il processo di secolarizzazione quello che teneva banco nei media
e nella saggistica, e che sembrava guadagnare spazio nel comportamento
quotidiano della gente comune; al presente invece sembra innegabile un
processo ulteriore, ma di segno contrario, quello di una de-secolarizzazione
(Martelli, 1995) o di una deprivatizzazione della religione (Casanova, 2000,
379). Ciò che sembrava un esito consolidato e irreversibile della modernità, la
secolarizzazione appunto, viene sorprendentemente rimesso in questione. Ma
da più parti si è subito avvisati che sarebbe errore leggere questo fenomeno
come un semplice ritorno al passato; semmai è da leggere alla stregua di uno
dei classici «corsi e ricorsi della storia» in senso vichiano. La deprivatizzazione
odierna della religione non è da considerare come una sconfessione della
teoria della secolarizzazione, ma piuttosto come una sua nuova tappa, che si
differenzia dal passato per almeno due valenze complementari e speculari:
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quella di introdurre il «pubblico», cioè le norme intersoggettive, nella sfera
privata (in analogia con il detto femminista «il personale è politico »), e quella di
introdurre la moralità nella sfera pubblica dello stato e dell’economia (è il principio
del «bene comune» come criterio normativo della convivenza civile).

2. Di fatto, chiunque oggi analizzi i mutamenti sociali si imbatte nella visibilità


pubblica della variabile religiosa e soprattutto nel suo peso politico. Il fattore
religioso diventa una presenza trasversale all’agire collettivo, una presenza non
più solo interstiziale ma istituzionale, che finisce per provocare riposizionamenti
di gruppi, di istituzioni e persino di governi nazionali e di organismi sovranazionali
di fronte a problemi planetari come quelli decisivi della pace e della salute, dei
diritti umani e dello sviluppo sostenibile, dell’ecologia e dell’educazione...
Gli esiti di questo reinvestimento religioso nello spazio pubblico non sono per
nulla scontati. Restano anzi altamente problematici. Infatti, se da una parte
le società umane stanno dandosi strutture globalizzate e multiculturali, dove
mercato e comunicazione, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, possono
in qualche modo convergere in un unico sistema planetario (con risultati
d’altronde notoriamente ambigui e paventati da più punti di vista), dall’altra, in
tale «villaggio globale » non è altrettanto prevedibile, almeno a breve e medio
termine, che possano armonizzarsi quei patrimoni simbolici che i diversi popoli
hanno costruito, difeso e trasmesso per secoli mediante le loro specifiche
tradizioni religiose, patrimoni simbolici che solo nel nostro tempo, proprio in
forza della globalizzazione, entrano in contatto continuato e permanente tra
loro, aprendo intuibili dilemmi di portata storica: conoscersi reciprocamente
tra religioni o continuare a ignorarsi nel sospetto? Confrontarsi nel dialogo o
affrontarsi in nuove fatali guerre di religione e di (in)civiltà? Le religioni, che
spesso hanno costruito comunità umane e dato un’identità a popoli millenari,
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possono oggi diventare causa di divisione tra gli stessi popoli. La stessa forza
che, in certe condizioni di tempo e di cultura, tiene insieme una comunità, in altre
condizioni può anche dividerla. Non solo, ma è noto che alcune grandi tradizioni
religiose – dal buddismo al cristianesimo all’islam – non sono immuni da
retaggi di divisioni storiche e da divergenze dottrinali, che minano i loro rapporti
interni e indeboliscono la loro forza persuasiva verso l’esterno. Certi fenomeni
contemporanei di fondamentalismo sembrano comuni a diverse tradizioni
religiose, antiche e nuove: si verificano spesso irruzioni sulla scena politica di
movimenti collettivi che pretendono di ricondurre le ragioni della politica a quelle
dello «spirito religioso» (Pace-Stefani, 2000, 8). Anche il terrorismo, quando
ha matrici religiose, non conosce confini geografici né barriere culturali. Lo
stesso imperversare mediatico del/sul religioso è sintomo di una volontà tattica
di conquista di consenso dell’opinione pubblica (proselitismo), anche se poi, a
lungo andare, l’eccesso di spettacolarizzazione di fatti o personaggi religiosi
finisce per indurre indifferenza da consumo quotidiano e, peggio ancora, per
ottundere la capacità critica di comprendere e interpretare fatti e messaggi del
mondo religioso .

Società secolare e fattore cristiano

3. Quella dell’Europa occidentale, ricorda P. Berger (1994, 31s), a differenza


delle altre società industrializzate come gli Stati Uniti, il Giappone o l’Australia,
sarebbe l’unica area a livello mondiale in cui si siano compiutamente realizzate le
classiche ipotesi della secolarizzazione e della scristianizzazione come processi
di progressiva irrilevanza sociale della religione istituzionale. Il cristianesimo non
costituisce più il collante sociale delle identità nazionali, come ci ricordano ormai
innumerevoli analisi e controanalisi (Bottoni, 2002; Forte, 2000; Pace, 1997;
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Rémond, 1999). Ciò significa che se l’identità nazionale di ieri ha potuto attingere
a piene mani ai valori veicolati prevalentemente dalla tradizione ebraico-cristiana,
grazie a una solidarietà, se non sempre coscientemente vissuta almeno implicita,
con quell’universo normativo di credenze e riti religiosi (Rigo, 2003), l’identità
nazionale di oggi, sospinta oltretutto a trascendersi sempre più in un orizzonte
transnazionale, è sempre meno alimentata da quelle radici tradizionali: essa
viene a mancare di quei riferimenti stabili, socialmente plausibili ed eticamente
vincolanti forniti un tempo dalla complicità del politico e del culturale con il
religioso.
È noto in proposito come non solo la costituzione italiana, ma la quasi totalità
delle costituzioni dei paesi europei abbiano attinto più o meno ampiamente – pur
senza dichiararlo o forse senza averne consapevolezza – ai principi e ai valori
della tradizione ebraico-cristiana, coniugandoli ovviamente, in termini di cultura
politica e giuridica, ai valori moderni della libertà di coscienza e della laicità delle
istituzioni. Ma queste radici culturali ed etiche che hanno ispirato i testi base
del convivere civile occidentale sono pressoché ormai totalmente usciti dalla
memoria collettiva dei contemporanei. Si parla allora volentieri di una diffusa
«amnesia culturale dell’Occidente» (Ch. Duquoc), di una «religione ormai priva
di memoria » e di secolarizzazione come «crisi della memoria religiosa» (D.
Hervieu-Léger), di «religione senza più tradizione» (R. Campiche).
Si tratta di un’amnesia che non è solo disconoscenza del dato culturale
storicofenomenico, che non è solo ignoranza del testo biblico come «codice
della cultura occidentale» (N. Frye), ma è una rimozione, a sua volta effetto di un
(pre)giudizio di valore: «per molti dei nostri contemporanei, il cristianesimo non
è altro che un monumento arcaico alla stessa stregua della musica gregoriana,
dell’arte romanica o della tragedia greca. Può essere bello, ma non ha più verità
per noi» (Duquoc, 1999,158). Non si spiegherebbero d’altronde le polemiche
che si sono accese in questo tempo intorno alla opportunità di inserire o meno
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nel testo costituzionale europeo anche una menzione alle radici cristiane del
continente.

4. Uno dei problemi seri che la multireligiosità postmoderna pone alla coscienza
degli individui è quello della verità della religione e nelle religioni. Ogni religione,
per sua natura, rivendica una verità valida, unica e assoluta, altrimenti verrebbe
meno la sua stessa ragion d’essere. Ma quando in una società convivono più
religioni, e ciascuna continua a rivendicare la propria esclusiva verità, quale può
essere il significato di «verità assoluta», di «religione vera»? Verità assolute
diverse sono una contraddizione, com’è assurda la pretesa di ciascuna religione
di essere l’unica vera negando valore di verità a tutte le altre (De Vita, 2003,
149).
Di fatto, nella storia, i rapporti tra le religioni possono catalogarsi in una tipologia
di almeno quattro modelli (Dulles, 2002, 6-8):
– il modello della coercizione, quando in molte epoche storiche le autorità
politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro
giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del
conquistatore (è il principio del cuius regio eius religio, ma forme di teocrazia
politica sono esistite dalle antiche civiltà fino ai giorni nostri);
– il modello della convergenza, basato sul presupposto che l’impulso religioso
è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutte le culture, e che quindi
le religioni concordano oggettivamente negli aspetti essenziali e differiscono
solo esteriormente, propone delle ipotesi di accordi interreligiosi sulla base, per
esempio, di un comune teocentrismo (J. Hick) o del soteriocentrismo (P. F.
Knitter);
– il modello del pluralismo eleva il fatto empirico della multireligiosità a principio
qualitativo e arricchente della convivenza tra religioni, sul presupposto che
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ogni religione riflette determinati aspetti del divino, tutti parzialmente veri, ma
bisognosi di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si
trovano nelle altre religioni;
– il modello della tolleranza, o della reciproca compatibilità «politica» tra religioni,
da perseguire a prescindere dalla loro insuperabile diversità teologica, propugna
la loro coesistenza pacifica sul piano della convivenza civica o dell’ordine
pubblico, impegnando ciascuna religione a rinunciare ad ogni iniziativa volta
a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse (cf in
proposito i diversi concetti storici di laicità alla francese, di secularization in senso
anglicano, di civil religion all’americana...).
Nel nostro tempo si è alla ricerca di possibili correttivi o aggiustamenti di tali
modelli, tutti più o meno discutibili, datati e contestuali a situazioni contingenti.
Di fatto la direzione maestra, indicata dalle chiese cristiane e non solo, è
quella del dialogo interreligioso. Dialogo – concetto peraltro esposto a derive
semantiche e ideologiche – che si sviluppa a diversi livelli delle società religiose:
per esempio, a livello di incontri al vertice tra rappresentanti istituzionali e/
o carismatici delle religioni (come nel caso, ormai collaudato, di Assisi), di
assemblee interreligiose qualificate per promuovere azioni specifiche a favore
dell’umanità (ad esempio, le riunioni mondiali della World Conference on Religion
and Peace (WCRP), il Parlamento delle Religioni per un’etica comune...), di
ricerche teologiche ed ecumeniche da parte di specialisti delle varie fedi per
superare visioni esclusiviste e offrire argomenti di plausibilità al credere comune,
e infine a livello più pragmatico, ma certo non meno essenziale, dell’incontro
quotidiano tra cittadini anonimi in una società multireligiosa, che, volendo
essere fedeli alla propria identità religiosa, sentono di dover anche reimparare
a convivere nella diversità delle appartenenze e delle convinzioni (De Vita-Berti,
2001, 17-61).
Ai vari livelli, questo dialogo tra «certezze religiose» diventa in fondo un
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confronto tra identità chiare e aperte, disponibili ad apprendere la verità dell’altro
senza rinunciare a tratti essenziali della propria identità. In ogni religione vi è un
assoluto soggettivo, che rimane tale per chi vi aderisce, ma in ogni religione vi
è pure relatività, che consiste nel riconoscimento che altre fedi sono a loro volta
considerate assolute dai rispettivi seguaci (De Vita, 2003, 150). «Non è utile
né autenticamente dialogico gettar via, in nome di una mal intesa generosità
spirituale, quanto è peculiarmente cristiano. [...] È finito il tempo del sedicente
liberalismo del tardo XX secolo (di fatto una strategia intellettuale, tanto
imperialistica quanto quelle che l’hanno preceduta), che si proponeva di trovare
l’identità comune di tutte le religioni, riducendole ad un pio pacciame condiviso»
(Soskice, 2003, 15).
Abbiamo molto da imparare dagli altri, ma ciò non vuol dire che essi debbano
guidarci in ogni cosa. I cristiani, per esempio, professano che Gesù Cristo è il
mediatore unico e universale, ma gli stessi cristiani non sono obbligati, e non lo
sono mai stati, a dire che non c’è verità nelle altre fedi, o in persone di altre fedi.

5. «Il cristianesimo: una religione tra le altre?», si chiedeva il teologo e cardinale


K. Lehmann nel titolo della relazione di apertura dell’assemblea plenaria dei
vescovi tedeschi nel settembre 2002. La risposta viene da lui articolata in una
sequenza di argomenti che vale la pena almeno elencare, per la ricchezza
di ricadute che questa analisi teologica offre anche agli operatori culturali e
pastorali (Lehmann, 2003, 42-53):
– intanto, conviene ricordare la storia del concetto di religione che oggi utilizziamo
comunemente per indicare anche la fede cristiana: nasce nel XVII secolo
europeo, in un clima filosofico di «teologia naturale» o di teodicea; si sviluppa in
pensatori illuministi, razionalisti e romantici interessati più che altro a far rientrare
ogni religione negli schemi della ragione e del sentimento; con l’influsso dei
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metodi di ricerca storica, etnologica, antropologica delle religioni, si passa quindi
a un concetto funzionale della religione; finché, durante il XX secolo, con le teorie
fenomenologiche ed esistenzialistiche, al seguito di Feuerbach, il concetto di
religione finisce per smarrirsi nell’antropocentrismo, senza che si producesse una
resistenza teologica, se non quella di Karl Barth con la sua ben nota opposizione
radicale tra religione e fede. Interviene poi il concilio che, nella Nostra aetate, n.
1, richiama descrittivamente ciò che le religioni hanno in comune e le risposte
differenziate, e tuttavia contigue, che esse offrono di fronte «agli enigmi oscuri
della condizione umana»;
– una rilettura, oggi, della Nostra aetate sorprende per le posizioni ardite dei padri
conciliari, ma anche per l’insufficiente ed ineguale riflessione teologica suscitata
dalla dichiarazione in questi decenni, segno evidente di una sua ricezione
esitante e divaricante nei vari contesti ecclesiali, e che ha portato infine alla
discussa (ed ecumenicamente problematica!) dichiarazione Dominus Iesus;
– la ricerca di una definizione normativa per il rapporto della fede cristiana con le
religioni non cristiane si fonda sulla concretezza storica della persona di Gesù,
ma senza dimenticare l’antefatto storico fondamentale della rivelazione biblica e
la radice abramitica delle tre fedi monoteiste (cf Ferrari, 2002; Rigo, 2003);
– su questa base è possibile individuare una criteriologia per l’incontro fra le
religioni nell’attuale contesto socio-culturale: il presupposto di un orizzonte
universale dell’umano cui ogni religione storica fa riferimento; la forma di servizio
che ciascuna di esse deve assumere rispetto ai problemi fondamentali della vita
personale e sociale; la riconoscibilità nel loro attuarsi che Dio è la meta ultima
della vita umana; il rispetto per la dignità dell’uomo e della donna nella loro
situazione concreta; una visione onnicomprensiva della libertà di religione e la
sua realizzazione pratica in ogni contesto culturale e politico.

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Fattore religioso ed educazione

6. Una società pluralista, e per certi versi «post-cristiana» (E. Poulat), come
quella si delinea al presente in Occidente, è nella necessità di dover ridefinire
il ruolo del fattore religioso nel curricolo della formazione umana. In particolare,
la società italiana, caratterizzata da un «singolare pluralismo etico e religioso»
(Garelli-Guizzardi-Pace, 2003), deve ripensare il profilo culturale ed educativo
da assegnare alla istruzione religiosa nel curricolo scolastico, dopo che sono
cadute o mutate le condizioni che avevano reso possibile un certo modello di
insegnamento religioso sotto il primo (1929) e anche sotto il secondo concordato
(1984).
È chiaro che, in quest’ambito specifico di riflessione, il fattore religioso può e
deve venir inteso:
– non solo come giacimento di un prezioso patrimonio culturale ereditato dalla
tradizione e da tramandare alle generazioni presenti come memoria di un
passato che non esiste più (sarebbe una concezione riduttiva di religione, solo
museale o archeologica, perché identificata solo con i reperti culturali delle sue
tracce passate);
– ma anche come legittima chiave di lettura
– riconosciuta e valorizzata anche laicamente da non poche filosofie e scienze
umane – per interpretare tante zone del mistero dell’uomo e della cultura umana;
– e inoltre come possibile risposta alla permanente sete di senso e alle attese di
salvezza dell’uomo contemporaneo, che spesso è tentato – non senza qualche
ragione plausibile – di cercare risposte esistenziali e riferimenti valoriali anche
fuori dalle religioni istituite. Comportamento assai diffuso, quest’ultimo, che può
spiegarsi sia come reazione a un certo formalismo impersonale della religione
tradizionale cui appartiene per nascita (Bottoni, 2002, 141-159), o come banale
cedimento alla seduzione psicologica di qualche nuova forma di spiritualità,
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tra le molte disponibili nel supermarket delle esperienze religiose (Vernette,
2003,188); ma a volte anche come approdo personale e sofferto a significati
nuovi dell’esistere, non necessariamente radicati in una rivelazione storica e
men che meno in una «religione di chiesa» (Garelli in De Vita-Berti, 2001, 141-
150). E anche se l’individuo continua ad attribuire rilevanza sociologica alle
risposte della religione di chiesa, concernenti le proprie domande di senso, non
è disposto spesso ad accettarne gli imperativi etici e le argomentazioni dottrinali
(De Vita, 2003, 145). Egli non intende più comportarsi da «fedele » sottomesso
ad un’autorità, ma rivendica il diritto di poter determinare l’oggetto del credere
e gestire i margini della propria libertà di coscienza, anche se questo può
comportare facili derive di relativismo, di eclettismo, di sincretismo.
Tanto l’«appartenere senza credere» quanto il «credere senza appartenere» (G.
Davie) provano la plausibilità di quelle tesi ben note che, dai classici É.
Durkheim e da M. Weber fino a Th. Luckmann e P. Berger, identificano nella
religione una chiave decisiva per la comprensione dell’individuo e della società.
La tesi che afferma che «la conoscenza delle religioni serve a conoscere il
mondo» oggi non ha più bisogno di essere dimostrata, se si accetta da una
parte l’indissociabilità storica tra religioni e culture, dall’altra l’indissociabilità
antropologica tra cultura e senso della vita, e dall’altra ancora l’indissociabilità
teologica tra senso della vita e fede in una salvezza ultramondana. La
conoscenza delle religioni può legittimarsi quindi, anzi imporsi, per una ragione
anzitutto funzionale: esse forniscono strumenti concettuali e materiale simbolico
per poter comprendere in modo significativo il mondo e se stessi.
Conoscere la religione è necessario «perché essa offre le categorie filosofiche
per comprendere l’esperienza sempre problematicissima che noi facciamo in
questo mondo. Offre categorie interpretative, figure mitologiche, strutture di
senso, senza le quali noi non capiremmo la situazione problematica nella quale
versiamo » (Givone, 1998, 10-11). In termini di progressione storica, G. Gusdorf
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aveva tracciato la traiettoria della coscienza occidentale in tre tappe: nella prima,
l’uomo accoglie una parola originaria che gli si impone dal di fuori, spettatore
com’è del mistero insondabile del cosmo, una parola da cui è dominato e
sedotto: è il tempo lunghissimo della coscienza mitica; nella seconda, è l’uomo
che elabora una parola, che viviseziona la realtà in tante conoscenze settoriali
fino a fargli perdere il contatto con la parola originaria e a dimenticare quindi
le sue radici e il senso delle cose: è la stagione recente dell’imperialismo delle
scienze, della coscienza razionale, dei saperi strumentali negatori del sacro;
nella terza, una più matura e sensata conquista della razionalità, capace di
restare aperta al mistero, induce a recuperare la parola primordiale dimenticata
e a evolvere dunque verso una nuova forma di coscienza: è la coscienza che
Gusdorf, cinquant’anni fa, chiamava «esistenziale» e che H. G. Gadamer traduce
più modernamente con «coscienza ermeneutica».
Lo studio della religione non è dunque importante solo per le conoscenze
che veicola (e possono essere tante e di varia natura: conoscenze storiche,
linguistiche, etiche, politiche...), ma anche e soprattutto per l’utilizzazione
seconda di tali conoscenze nel processo di alfabetizzazione e acculturazione
scolastica. Sia che si tratti di analizzare il patrimonio classico della cultura umana,
sia che ci si alleni a confrontarsi con i grandi temi della condizione umana, sia
che si impari ad acquisire una capacità di giudizio critico ed autocritico, o che
ci si educhi al vivere democratico in una società pluralistica, la conoscenza del
fattore religioso acquista una rilevanza irrinunciabile, se si accetta il principio
umanistico che l’educazione scolastica, oltre che a dare saperi e competenze
spendibili nella vita professionale, deve contribuire anche a dare saperi e
competenze critiche per la costruzione di senso.

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7. La scuola, come e più di altre agenzie pubbliche operanti nella società
postmoderna, è chiamata a una nuova consapevolezza critica del legame
intrinseco, seppur mutevole e polivalente, tra questa società e il fattore religioso.
Essa, anzi, è in posizione privilegiata per svolgere un ruolo insostituibile di
interfaccia tra società civile e tradizioni religiose, tra conoscenza dei saperi
strumentali e accesso al patrimonio simbolico. Questo resta vero anche nel caso,
oggi comunque improbabile almeno in Occidente, in cui la società civile fosse
coestensiva alla società religiosa.
Ma, di fatto, di fronte alla scomposizione-ricomposizione del mondo religioso
tradizionale (tramonto del regime di cristianità) e soprattutto di fronte al fenomeno
irrompente del pluralismo religioso, e ai relativi insorgenti rischi di intolleranza,
di pregiudizio, di fondamentalismo, frutti quasi sempre di un’ignoranza acritica
sul fatto religioso proprio e altrui, diventa urgente che la scuola pubblica, nel
quadro del suo specifico compito formativo e con gli strumenti che le sono propri,
elabori un percorso strutturato di studio del fatto religioso, sia in quanto fatto
sociale, inerente e interagente cioè con la storia, la cultura, il costume, l’etica
della propria come delle altrui società (Debray, 2002), sia in quanto dimensione
educabile della persona umana bisognosa di senso, e di valori, e di strumenti
adeguati per confrontarsi con delle precise proposte di senso, a cominciare
da quelle offerte dalla tradizione religiosa della propria famiglia o del paese
(Malavasi, 2002, 223-230). Nascono di qui le ragioni oggettive della vistosa
evoluzione già avvenuta, e in parte ancora in corso, dei profili giuridico-didattici
degli insegnamenti religiosi variamente presenti nei sistemi educativi occidentali.
Ed è qui che anche il nostro modello di insegnamento concordatario, se privo di
quei normali correttivi che pur funzionano in situazioni analoghe di altri contesti
nazionali, può mostrare molti suoi limiti.
Senza entrare qui nel merito di questi attesi correttivi istituzionali, e cercando di
tirare solo qualche conclusione minima da questa schematica panoramica sul
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religione e società contemporanea, non sembra fuori luogo richiamare un’ipotesi
di lavoro per una futura riarticolazione dei contenuti culturali dei corsi scolastici di
religione (cf Pajer, 2002, 787). Intanto appare con sempre maggior evidenza che
quello che la scuola può e deve oggi insegnare è la «religione» intesa secondo
una gamma di alcune delle accezioni più accreditate nella comunità scientifica
e teologica, per esempio: religione come fatto storico universale e locale, come
fenomeno trasversale a tutte le culture, come patrimonio culturale significativo di
linguaggi, simboli, credenze, come fattore di costruzione e istituzione di senso
per individui e comunità umane, ecc.
Possono allora far parte di questo studio sia un approccio linguistico ai testi
fondatori di una o più religioni, sia l’approccio antropologico ed etico ai loro
messaggi, sia l’approccio culturale alla storia dei loro effetti, sia l’approccio
comparativo tra la tradizione religiosa di appartenenza e altre tradizioni di
maggior rilevanza.
In particolare, con l’unificazione europea che riavvicina e rimescola popoli
e nazioni di diversa tradizione cristiana, si impone nei curricoli scolastici una
conoscenza più articolata delle tre o quattro principali figure dei «cristianesimi
europei », sia per superare una visione provinciale ed etnocentrica della
propria tradizione nazionale, sia per contrastare segnali fin troppo evidenti di
fondamentalismo identitario. Strettamente connessa con questo primo cerchio di
studio si impone – per ragioni storiche e persino ontologiche – una conoscenza
relativa agli altri due monoteismi abramitici, la cui attualità nel mondo odierno non
è più da dimostrare.
In posizione più periferica, ma da non sottovalutare, un terzo cerchio (da
attraversare almeno a grandi linee fenomenologiche) è costituito dalle altre
religioni storiche mondiali e dalle religioni tribali o naturali, la cui presenza sul
territorio italiano ed europeo non cessa di intensificarsi con i flussi migratori. Una
quarta area di studio – che va a intercettare inevitabilmente la prima – è infine
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quella degli umanesimi non religiosi, dei sistemi etici e valoriali non confessionali
o transconfessionali.

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Capitolo 2 pag. 38
CAPITOLO 3

IL MONDO GIOVANILE E LA RELIGIONE


Zelindo Trenti

La «condizione giovanile» di cui si parla (L’intervento è elaborato sulla base di un ampio


studio sull’educazione religiosa giovanile, da cui attinge liberamente: Z. TRENTI, La fede dei giovani,
Leumann (TO), Ellledici, 2003.) è considerata nel suo aspetto qualificante, quella in cui
un giovane va definendo la propria identità.
Può durare anni e per lo più attraversa situazioni complesse, dai risvolti e dagli
esiti imprevedibili: costituisce un processo che coinvolge la persona in tutta la
sua progettualità dinamica, centrata su una responsabilità non delegabile.
Inoltre l’analisi è portata sugli atteggiamenti, nell’intento di esplorarne
specificamente la disponibilità religiosa, soprattutto nelle aspirazioni che segnano
la giovinezza.
La religione, specialmente dov’è assunta con consapevolezza, come matura
esperienza interiore, rappresenta una risorsa decisiva alla piena realizzazione
della persona. Comporta un processo che chiama in causa i principali soggetti
dell’educazione: la scuola fra i primi.
Lo studio intende esplorare e svolgere precisamente una funzione della
religione: quale lettera di promozione della giovinezza.
Naturalmente la religione è anche altro, ma questo «altro» in quest’intervento
che concerne l’ambiente scolastico non viene preso in considerazione esplicita,
né viene tematizzato.

Capitolo 3 pag. 39
1. L’educazione chiamata a «voltare pagina»

1.1. Il grido dei giovani

Il grido dei giovani (È più bello il titolo originale, Cris de Jeunes. È comunque interessante
lo spirito che anima il rapporto con i giovani nelle diverse età e situazioni. Un breve stralcio può
documentarlo: «Quando dico a un ragazzo: “Hai un grande avvenire davanti a te”, questi mi
risponde spesso: “Mi prendi in giro! Ho quattordici anni, e a dieci ho smesso di andare a scuola...”.
Io non demordo: “Hai un grande avvenire, perché sei ancora abbastanza giovane per poter
rimettere tutto a posto. Se prendi coscienza di quello che sei, del tuo valore, e se lavori sodo, potrai
cancellare questi anni di merda in cui non hai combinato niente di buono. E poi, anche se la tua
scheda mi dice che sei nero come la pece, per me non è vero”.
Lo guardo con gli occhi nuovi dell’amore e della speranza: non c’è niente di più forte di uno
sguardo di speranza e di amore. Tutti i giovani hanno bisogno di uno sguardo così» (Gilbert,
2002, 234) ) è il titolo originale di un saggio recente. Grido di aiuto che la società
giovanilista soffoca. Essere, mantenersi giovane è l’aspirazione e spesso l’assillo.
La giovinezza è un simbolo.
Ma la giovinezza è anche una condizione precisa, esposta alla violenza o
all’abbandono a livello familiare e sociale; soprattutto esposta alla veemenza di
passioni e di istintualità per nulla dominate, né facilmente disciplinabili.
I giovani ne risultano spesso travolti; per incuria o sopraffazione, perché ingenui
e disarmati.
I versanti più esposti sono quelli della violenza e della sessualità. Un giovane
aspira spontaneamente alla giustizia, dove la vede conculcata si ribella, diventa
violento: paga con l’emarginazione, il carcere, l’umiliazione la sua ribellione.
Anche nell’ambito delle prime esperienze relazionali e sessuali la delusione
incombe.
Istintivamente il giovane vuole tutto e subito: nessuno lo educa – certo non
Capitolo 3 pag. 39/40
i media – al dominio di sé, all’incontro rispettoso con l’altro, a portarsi dalla
violenza alla tenerezza. Paga con la frustrazione, la noia, il rifiuto la sua irruenza.

1.2. La coscienza giovanile segnata da una complessità inedita

È nella prima giovinezza che affiora chiara la coscienza di una responsabilità


non delegabile su tutti i fronti, quello religioso compreso: veemente e fragile,
appassionata e perciò esposta, irruente e perciò generosa quanto inaffidabile.
È sincera e trasparente: per la prima volta consapevole di sé; carica di solitudine,
talora di angoscia.
Alla ricerca del confidente – di qualcuno di cui fidarsi – in cui riversare i
sentimenti più diversi: il peso dell’incertezza, la gioia del successo, l’amarezza
della delusione, l’esaltazione dell’incontro, la trepidazione dell’accoglienza, della
sintonia...
È percezione della propria singolarità, forse unica e irrepetibile; è volontà di
parteciparne, di verificarne la tenuta, di instaurare il confronto. Il mondo che
circonda il giovane ha il suo spessore ruvido, rude, impenetrabile con cui fare i
conti, con cui misurarsi e lasciarsi misurare. Le occasioni di evadere sono tante e
sollecitano, cercate dopo le delusioni frequenti e scontate: non sempre scontate
tanto da ammaestrare. I momenti di lucidità sono pochi e sfuggenti.
Gli anni, le scelte, gli sbocchi si susseguono: il ritmo delle cose che urgono non
lascia spazio alla riflessione pacata e alla verifica puntuale.
Vince il sogno e l’utopia: comunque la rincorsa di tutti i richiami.
Dio è assente; quando s’affaccia è solo di sfuggita, quasi per caso. Solo qualche
volta irrompe e s’impone: interlocutore sorprendente, ospite gradito e pacificante,
ammonitore autorevole, confidente atteso.
L’esperienza di un giovane cos’ha di religioso? Esplicitamente, poco; letta
Capitolo 3 pag. 40
nell’aspirazione, molto. A partire dalla pienezza con cui si offre, dallo slancio che
lo anima, la sua è già un’esperienza implicitamente religiosa: totalizzante.
Per nulla religiosa perché l’intento è portato sulle cose, sulle persone; per
rifiutarle, possederle, volerle, amarle: con passione e con slancio, per lo più
spuntati e delusi.
Un’esperienza dunque fortemente ambivalente. Singolarmente disponibile al
richiamo religioso, quando questo la investe nella forza di cui una religione
autentica è portatrice.
La situazione dei giovani è di sua natura mutevole e sfuggente.
Tuttavia l’atteggiamento fondamentale nei confronti della religione si lascia
interpretare, almeno nelle grandi linee. Naturalmente vengono tenute in attenta
considerazione le analisi molteplici sulla religiosità giovanile: sul piano della
pratica e ancor più nell’ambito delle aspirazioni.

2. La provocazione: Giovani, pianeta inesplorato

2.1. Contestazione o insofferenza?

Nell’immaginario collettivo «giovani», specialmente se presi come gruppo, sono


sinonimo di contestazione. La contestazione nel senso «storico» è lontana e alle
spalle – molti giovani ne hanno appena sentito parlare. Ma i giovani con quella
lontana esperienza hanno rotto gli argini della convivenza sottomessa: si sono
dati la parola e la conservano, con quell’aria irruente e irrispettosa che sconcerta
o irrigidisce le generazioni più avanzate in età.
Guardato più da vicino il mondo giovanile è un... mondo di contrasti e di fermenti,
di contestazione e di ribellione, di aspirazione e di attesa.
Forse è più giusto definirli insofferenti delle contraddizioni della vita quotidiana di
Capitolo 3 pag. 40/41
cui sono vittime e a cui naturalmente si ribellano.
Si può dire che un certo clima di rottura per alcuni, di rassegnazione disincantata
per altri identifichi il loro rapporto con il mondo adulto, che magari subdolamente
li blandisce e li strumentalizza; le mode e il consumismo corrispondente ne sono
il segno più provocante.
Risultano comunque immersi in una situazione di instabilità nei rapporti di lavoro,
di amicizia, di coppia; la sollecitazione alla droga, all’emarginazione, il rischio del
carcere rasentano palesemente la condizione giovanile.
E tuttavia è sotto gli occhi di tutti la disponibilità dei giovani dovunque una
calamità ha devastato un paesaggio, ha distrutto abitazioni, ha messo persone a
repentaglio.
Le fila di un volontariato anche quotidiano e impegnativo sono ingrossate da
giovani di ogni condizione.
Se tratti con un giovane hai la sensazione che l’idealità e l’utopia abitano ancora
il nostro pianeta.

2.2. Un’identità in evoluzione

Il mondo dei giovani non cessa di essere sollecitante: costituisce una


provocazione, soprattutto quando si tende a decifrare il contesto in cui si vive e
le spinte che lo qualificano. Non che i giovani siano più consapevoli; sono più vivi,
più irrequieti, spingono su tracce inedite, non previste; spesso premonitrici.
Da tempo la pretesa di capire il mondo giovanile come dato globale e unitario
– e per capirlo di stringerlo in una cornice dai contorni definiti e precisi – ha
lasciato il campo a indagini più differenziate, dagli obiettivi circoscritti. Anzi vanno
cambiando le scelte culturali e metodologiche soggiacenti alle stesse indagini sui
giovani; spesso dichiarate esplicitamente: ad es. il Rapporto Italia ’94 dichiara di
Capitolo 3 pag. 41
«non cedere al fascino di un punto di vista forzosamente unificante ».(EURISPES,
Rapporto Italia ’94, Percorsi di ricerca nella società italiana, Roma, Koinè, 1994 . (L’EURISPES,
ISPES fino al gennaio del 1993, è un istituto di studi sociali senza fini di lucro ed opera dal 1982
nel campo della ricerca politica, economica e sociale).) E tuttavia anche la recente rincorsa
delle mode giovanili sottende la presenza di un loro mondo sostanzialmente
condiviso, almeno nelle emergenze e nelle rivendicazioni più clamorose.

2.3. Le spinte più innovative assecondate

Allo sbocco finale l’onda giovanile sembra ormai sospinta alla deriva, secondata
anche dalla blanda condiscendenza del mondo adulto, che sembra preferire la
pacifica convivenza, all’irruenza dello scontro.
I giovani vengono sospinti sulla spiaggia piuttosto «cattivante» di una larga
soddisfazione dei bisogni e dei desideri più effimeri, alla portata di un diffuso
benessere.
Sullo scorcio degli anni ’80, rivisitando la storia recente uno studioso rilegge
con esemplare chiarezza l’evoluzione della società; l’Editore ne sintetizzava in
«copertina» il punto di vista: «Per una paradossale eterogenesi dei fini, mentre
i cattolici si scontravano nelle piazze con la presenza comunista, considerata il
pericolo maggiore per la fede degli italiani, o contestavano nello Stato i residui
spazi del laicismo risorgimentale, il nemico vero è venuto alle spalle, silenzioso e
a lungo inavvertito, nelle forme della società consumistica, destinata a corrodere
in profondità la fede del popolo italiano» (Scoppola, 1985).
I giovani risultano spesso la punta avanzata, non di rado strumentalizzata, di
questa vicenda. Appare comunque chiaro che le «mode» sottendono e in parte
inalberano sensibilità in rapida evoluzione e spesso ideologie ricorrenti: spingono
tuttavia la ricerca antropologica a «razionalizzazioni» semplificatrici, che spesso
Capitolo 3 pag. 42
enfatizzano l’aspetto più clamorosamente emergente in ciascuna di esse:
esasperando di volta in volta la rivendicazione politica, l’istanza esistenziale, la
piega individualistica e narcisistica, la stanchezza, l’apatia, il consumo...
I giovani oggi sembrano portare il peso di una esperienza che ha accumulato
troppe provocazioni in troppo poco tempo: non hanno avuto lo spazio
indispensabile per misurarvisi e verificarle. Sembrano comunque propensi a
prendere le distanze e a procrastinare a tempo indeterminato le valutazioni e le
scelte che valgano a qualificarli.
L’annotazione di un attento osservatore del mondo giovanile pare pertinente:
R. Mion definisce i giovani anni ’90 «una generazione che non ha fretta».
Sintetizzando quindi le conclusioni emerse nella ricerca IARD ’92, sottolinea lo
stile di una generazione di giovani adulti «dilazionatori»: «Passa più tempo a
scuola, approda più tardi al lavoro, al matrimonio e ai figli. Vive più a lungo in
famiglia e non si decide, se non alla soglia dei trent’anni, a lasciare la casa dei
genitori» (Mion, 1993).
L’ultima ricerca IARD è in grado di puntualizzare meglio gli aspetti rilevati.
Sui settori più importanti della scuola, della famiglia, del lavoro, della
partecipazione sociale, della politica ha condotto un’analisi puntuale: la
conclusione che ne tira accentua esplicitamente la condizione di incertezza:
«La dimensione dell’incertezza è oggi quella che meglio definisce la condizione
giovanile» (IARD, 2002, 520).
La documentazione più recente che riguarda la situazione religiosa ci sembra
connotata da un’incertezza anche più profonda dovuta a cause molteplici, che
vanno esplorate, almeno nelle linee emergenti.

2.4. Un rapporto stemperato con gli adulti

I giovani dunque sono insicuri: gli adulti offrono sicurezza? Ricerche recenti
Capitolo 3 pag. 42/43
e attuali risultano piuttosto allarmanti. Volendole riportare ad uno dei nodi
problematici si può dar ragione ad un noto studioso: «Quello che chiede la
gioventù, mi sembra, non è un’assoluta permissività, ma piuttosto nuovi modi di
affrontare le cose che veramente contano.
Assisteremo certamente ad una tragica rivalutazione dei primi tentativi della
gioventù di ritualizzare la vita per se stessi e da loro stessi e contro di noi;
assisteremo anche al modo con cui, di fronte ad una siffatta, provocante sfida, gli
anziani abdicheranno al loro ruolo vitale di giustizieri e di critici.
Infatti senza una guida – una guida, tra parentesi, che potrà incontrare vivace
opposizione – i giovani umanisti corrono il rischio di perdere importanza e
di rimanere soffocati – ogni individuo ed ogni cricca – in una “espansione di
consapevolezza” puramente episodica» (Erikson, 1992, 41).
Del resto non sono pochi gli studiosi che danno un giudizio piuttosto severo
circa il rapporto giovani-adulti nel contesto attuale. Una valutazione di sintesi
può interpretarli: «Gli adolescenti e i giovani hanno sempre più a che fare con
adulti con un’identità scarsamente definita. Vivere senza poter mai risolvere il
“problema dell’identità”...
sembra il carattere più diffuso tra gli uomini e le donne nella società
contemporanea. Essi soffrono, si potrebbe dire, di una cronica mancanza delle
risorse necessarie a costruire un’identità davvero solida e definitiva, ad ancorarla
saldamente e a impedirle di andare alla deriva.
Cosicché oggi abbiamo genitori che appaiono incerti, spaesati, senza una chiara
idea della famiglia, del mondo in cui si trovano, dell’etica da trasmettere. Ciò li
rende carichi di sensi di colpa nei confronti dei figli e quindi da questi facilmente
ricattabili» (Castellazzi, 2001, 67).
Un ruolo dunque fortemente affievolito, che vede gli adulti intimiditi o assenti,
privando i giovani di indicazioni autorevoli e orientative, indispensabili alla
maturazione equilibrata di personalità consapevoli.
Capitolo 3 pag. 43
2.5. Una «casa» dove abitare

Le mode nella loro sfuggente evasività rappresentano per l’incontro con i giovani
un terreno minato.
È facile denunciarne la precarietà effimera. Mentre si impongono sono già al
tramonto e chi le rincorre rischia di trovarsi vedovo lo stesso giorno in cui celebra
il matrimonio.
Le mode tuttavia veicolano la piattaforma di incontro con i giovani. Lì ci sono e si
possono incontrare. Fuori di lì non ci sono ed è velleitario incontrarli.
Ma in maniera più profonda e permanente le mode veicolano spesso simboli di
alta suggestione; per lo più rapidamente «consumati» e disertati, perché la loro
gestione è tenuta da mercanti che rincorrono il «guadagno» e quindi puntano al
«consumo». Ciò non toglie che i filoni, esplorati dalle mode incrocino esigenze
umane e in particolare giovanili di grande richiamo.
Anzi sarebbe interessante verificarne e potrebbe risultare proficuo dilatarne la
risonanza ed elaborare risposte esistenzialmente significative: potrebbe dare
credito e credibilità a molte proposte specificamente religiose.
Un esempio clamoroso si può trovare nella canzone, nella musica: lo spazio
e l’ascolto che i giovani vi danno. L’indifferenza o la sottesa ostilità con cui
la chiesa la combatte o la denigra; la conseguente estraneità o addirittura il
rifiuto con cui i giovani considerano la chiesa legittimano una nota dolente
nell’osservazione perfettamente pertinente di F. Pasqualetti. («Dal nostro breve
percorso emergono tuttavia alcuni punti interessanti.
Dagli anni Sessanta a oggi, come era prevedibile, il modo di percepire Dio, il suo volto, il rapporto
con i gestori del sacro e le istituzioni è cambiato. Sembra di poter dire, senza offendere nessuno,
che le chiese in generale non abbiano saputo leggere e interpretare i segni che provenivano e
provengono dalla cultura popolare in maniera tempestiva e adeguata. Come conseguenza si è
creato un divario sempre più netto tra ciò che viene proposto a livello ufficiale e il modo con cui le

Capitolo 3 pag. 43/44


nuove generazioni vivono la loro esperienza religiosa.
La musica, nel suo genere più popolare della canzone, ha spesso captato ed espresso questi
mutamenti che puntualmente sono stati poi confermati anche da indagini di carattere scientifico. La
musica, al pari di altri linguaggi presenti nella cultura popolare, tende a farsi interprete di ciò che
palpita nei cuori della gente» (Pasqualetti, 2001, 30))
Insomma mode giovanili ed educazione religiosa sembrano esigere riflessione
e disponibilità diversa. La cautela si giustifica; la preclusione potrebbe risultare
pericolosa. E perdere occasioni preziose non solo di accostamento giovanile, ma
anche di intuizioni nuove che l’immediatezza delle mode – tanto più delle canzoni
– di fatto sottende.
Nella sensibilità attuale, nella fondamentale dispersione e sconcerto
che la caratterizzano, i giovani sembrano perdere la bussola e chiedere
provocatoriamente, ma anche sinceramente, qualche riferimento, se non proprio
la garanzia di un approdo.
Jovanotti consciamente o inconsciamente fotografa la situazione pluriculturale,
multietnica e multireligiosa di fine millennio interpretando la complessità
dell’esperienza di un giovane che si pone il problema di Dio: «O Signore
dell’universo ascolta questo figlio disperso / che ha perso il filo che non sa
dov’è / e che non sa neanche più parlare con te / ho un Cristo che pende sopra
il mio cuscino / e un Buddha sereno sopra il comodino / conosco a memoria il
Cantico delle Creature / grandissimo rispetto per le mille sure del Corano / c’ho
pure un talismano / che m’ha regalato un mio fratello africano / e io lo so che tu
da qualche parte ti riveli / che non sei solamente chiuso dietro ai cieli / e nelle
rappresentazioni umane di te / a volte io ti sento in tutto quello che c’è / e giro per
il mondo tra i miei alti e bassi / e come pollicino lascio indietro dei sassi / sui miei
passi per non dimenticare la strada che ho percorso / fino ad arrivare qua e ora
dove si va / adesso si riparte per un’altra città...
Voglio andare a casa LA CASA DOV’È ??? / la casa è dove posso stare in

Capitolo 3 pag. 44/45


pace...
(3 volte) con te / in pace con te...» (Pasqualetti, 2001, 39).
Insomma annunciano una «diversa presenza», instaurano un nuovo stile con la
generazione adulta; aspirano ad un diverso rapporto anche con Dio. E lo dicono
apertamente nelle esperienze di chiesa che danno loro la parola: «Desideriamo
vivere il nostro tempo al meglio delle nostre possibilità... Desideriamo che questo
sia un mondo dove stare e starci bene. Un mondo che sia una casa dove abitare,
come se ogni luogo fosse casa propria». («Il Regno-Documenti» 47 (2002) 11, 346.)

2.6. Un’appartenenza rispettosa dell’individualità

È chiaro che la casa è l’appartenenza. Ma quale appartenenza? La tendenza


all’uniformità negli atteggiamenti e al consenso nelle convinzioni che la religione,
in quanto istituzione, tende a promuovere ha certo una funzione securizzante e
quindi anche di stabilità psicologica, di serenità interiore.
Ma è pur vero che l’originalità della persona rischia di venirvi stemperata. Ciò
che è più qualificante, che caratterizza il singolo, tende ad essere smussato
e finalmente livellato per garantire un comportamento condiviso e sottomesso
– ubbidiente –, che giustamente il sociologo denuncia.
«Invece di favorire in ciascun individuo, soprattutto se giovane,
l’approfondimento della propria esperienza esistenziale nel suo carattere unico
e irripetibile, la religione istituzionalizzata propone un modello astratto, fondato
sulla negazione di sé, sulla rimozione dei propri desideri, delle proprie emozioni,
della propria spontaneità, che non può che avere esiti distruttivi nei confronti
della crescita della personalità individuale» (Bajzek J., 2001, 94).
Un atteggiamento che il giovane rifiuta visceralmente per ragioni psicologiche
di maturazione e di età; ma anche per ragioni sociali e culturali, tipiche del
Capitolo 3 pag. 45
nostro contesto, refrattario all’aggregazione ideologica, segnato da una evidente
divaricazione di posizioni e da una rivendicazione chiara di responsabilità
individuale, non delegabile.
E tuttavia è anche evidente che una maturazione autentica non può prescindere
da un contesto: da una «casa», in cui il giovane si senta a suo agio, accolto
e sollecitato ad esprimere in pienezza la novità e la freschezza della propria
esperienza.
Il problema è quindi la composizione equilibrata della doppia esigenza: di
conseguenza, quale criterio privilegiare nella difficile composizione. In ambito
ecclesiale è evidente la tendenza ad indurre il giovane alla sottomissione e
all’adesione più che alla responsabilità e all’iniziativa.
In una riflessione antropologica attenta è chiaro l’equivoco. La persona tende
a venir dimensionata sulla struttura, ad essere configurata all’istituzione: è
questa che rappresenta la verità, cui la persona è orientata. Ma la verità afferma
precisamente il primato della persona, cui struttura e istituzioni sono mirate e al
cui servizio dovrebbero tendere.

3. Le costanti attraverso la varietà delle mode e dei simboli

Naturalmente le analisi si possono protrarre indefinitamente: consentono


di decifrare sempre più da vicino un mondo in continua evoluzione, dalle
diramazioni per lo più imprevedibili, e spesso indecifrabili.
Dalle poche annotazioni che sono state addotte, come dalle moltissime che si
potrebbero addurre, è legittimo trarre una prima conclusione: il mondo giovanile
non è riconducibile ad un cliché statico, unitario e onnicomprensivo.
È tuttavia legittimo identificare alcune linee di tendenza che consentano
di introdurre l’aspetto etico-religioso, più direttamente sotteso da queste
Capitolo 3 pag. 45/46
annotazioni.
Il mondo giovanile è stato in questi ultimi decenni spettatore, e talora
protagonista, di uno scontro ideologico palese; avvenuto per lo più in tempi
bruciati, con soluzioni più intuite che elaborate, di cui restano stralci non integrati
nella coscienza delle giovani generazioni.
Contemporaneamente la molteplicità dei riferimenti, la frammentazione dei
richiami, se da una parte hanno sollecitato l’attenzione e la reazione dei giovani,
dall’altra non hanno offerto lo spazio per una integrazione equilibrata e credibile.
Cosicché questi sembrano «sostare» indecisi o forse sconcertati; comunque
senza l’affanno di dover optare per una qualunque soluzione; un «attendismo»
disincantato, piuttosto comodo e profittatore sembra identificarli: magari all’ombra
di una sottesa connivenza del mondo adulto.
Oltre quest’atteggiamento di fondo si possono raccogliere alcune costanti che
sembrano incontrare e forse sollecitare il loro mondo.

1. C’è innanzitutto un’identità in fase di ricomposizione, i cui connotati non


risultano ancora chiari; che anzi fanno problema agli stessi analisti più attrezzati.
Già le ricerche degli anni ’90 lo sottolineano: «Si sono annebbiati i tradizionali
riferimenti simbolici e culturali e i consueti modelli di appartenenza, e si mostra
nudo il disagio di dover e non saper definire nuove identità» (CENSIS, 1994, 39).
Nella vasta indagine condotta da EURISPES, Rapporto Italia ’94, la situazione
appare così fluida e incerta che la stessa struttura del Rapporto si preoccupava
di impostare l’intero progetto sulla base di una scelta metodologica e culturale
che viene definita «la dialettica degli opposti».
È chiaro che qui gli studiosi hanno privilegiato la tensione per evidenziare sia
l’intreccio complesso delle reciproche relazionalità, sia la difficoltà effettiva
di identificare una soluzione standard in qualche modo applicabile in termini
generalizzati.
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2. Man mano una riscoperta della persona e della sua dignità, sembra
progressivamente guadagnare terreno, anche sull’onda di rivendicazioni vaste di
cui si misura la legittimità: il ruolo della donna nella società, il diritto al lavoro, la
solidarietà col povero, l’attenzione all’emarginato, all’emigrato, al diverso...
Sollecita una solidarietà che trova i giovani particolarmente disponibili: il servizio
civile, le varie iniziative di volontariato, un atteggiamento diffuso di dialogo e di
tolleranza ne sono i segni più palesi. Naturalmente registrano incoerenze, battute
d’arresto per lo più situate e parziali, ma anche generali e condivise: un recente
confronto rileva ad esempio fra i «valori in declino» la generosità, la solidarietà
collettiva, la responsabilità che altra volta appaiono come richiami notevolmente
condivisi dai giovani; e documenta come «valori emergenti» l’impegno
professionale, la capacità di rischiare, la creatività e la fantasia.
Sembrano rappresentare piuttosto un ritorno individualistico.
L’interpretazione più recente coglie forse nel segno quando registra un nuovo
tipo di solidarietà sociale, più ristretta e personale, comandata da scelte e
motivazioni più personali, estranee alla spinta ideologica e agli orientamenti
politici.

3. L’atteggiamento dei giovani resta ad ogni modo provocato su orizzonti


diversi e per lo più aperti: il pluralismo delle culture, delle religioni, comunque
delle visioni della vita, possono indurli ad un atteggiamento di fondamentale
tolleranza e sollecitarli al confronto. Le differenze si impongono ed esigono
rispetto: possono sollecitare un dialogo e una verifica continui, in grado anche di
ridimensionare la suggestione di attrattive a portata di mano più immediata.
Di fatto una certa consapevolezza e responsabilità personali sembrano in
crescita proprio là dove la stessa spinta al consumo viene verificata e lascia
trasparire aspirazioni ulteriori, esistenzialmente qualificanti e socialmente
innovative.
Capitolo 3 pag. 46/47
Spingono cioè il soggetto a riappropriarsi della propria esperienza umana,
aprendosi al confronto anche dialettico; tuttavia non per ribadire un’ostilità
irrecuperabile, quanto per valorizzare una diversità magari conflittuale, eppure
orientata ad una nuova qualità di vita. In definitiva sembra delinearsi un
atteggiamento di nuova e più costruttiva razionalità interpersonale e comunitaria.
Nell’introduzione al Rapporto G. M. Fara rileva di fatto una certa aspirazione ad
oltrepassare l’assillo consumistico in una condizione di conflittualità più ampia
che «impedisce l’ossificazione della società e diventa fattore di innovazione, di
trasformazione, di creatività e quindi di cambiamento sociale» (EURISPES, 1994,
38).

4. Lo stesso «attendismo» e una certa selettività critica che sembrano definire


l’atteggiamento delle giovani generazioni possono risultare un segno di più
maturo confronto con il mondo delle consuetudini e dei valori, di cui l’adulto è
portatore.
Di fatto, una cultura sostanzialmente unitaria può facilitare la percezione della
gerarchia di valori che la permea; il giovane è stimolato a misurarsi con un’unica
proposta: ad accettarla o a rifiutarla. È sollecitato al consenso. In una cultura
pluralista le proposte sono molte e si differenziano; perfino si contraddicono. Il
giovane prima che al consenso è sollecitato al confronto: a misurare la validità
– la significatività – di ogni singola proposta. Egli deve far precedere all’assenso
una valutazione critica, intuitiva o ragionata, singolarmente vigilante e matura,
pena l’adesione occasionale e magari incoerente a singoli aspetti fra loro
incompatibili.

5. Un atteggiamento che in definitiva verifica valori e significati: sollecitando a


responsabilità e consapevolezza critica. Forse proprio su questa traccia il mondo
giovanile prende parte, talora con irruenza, a quella faticosa elaborazione di
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una «Carta» dei diritti dell’uomo che trova consenzienti tutti i grandi organismi
internazionali e finisce coll’identificare alcuni valori e inculcarne l’assunzione.
Con un briciolo di ottimismo si può ravvisare un progressivo sforzo di scavare
alle radici della dignità definitiva dell’uomo per garantirla con l’elaborazione di un
ethos che tende sempre più chiaramente ad un riconoscimento mondiale.

6. In questo atteggiamento trova singolare risonanza la sensibilità ermeneutica


che caratterizza il nostro contesto culturale. Mette a fuoco un nuovo stile di
incontro col mondo giovanile. La cultura non può ridursi a fatto trasmissivo:
s’impone un rapporto circolare in cui giovani e adulti si muovono di fronte
a provocazioni inedite del nostro tempo: ne cercano e ne sperimentano la
comprensione e la soluzione in una dialettica rispettosa di risorse diverse e
complementari. Il protagonismo giovanile non dovrebbe risolversi in affermazioni
cattivanti ma in contributo prezioso, irrinunciabile. Un protagonismo che un
giovane rivendica soprattutto quando sono in gioco le condizioni future.

7. Parlare di giovani vuol dire riferirsi a quanti hanno la vita davanti; guardano
quindi al futuro.
A proposito appare legittimo il bilancio piuttosto severo, documentato
nell’ultima indagine IARD, sopra accennata: vede il futuro segnato da grande
incertezza: «Nella condizione giovanile assume quindi una rilevanza essenziale
la dimensione temporale e in particolare l’immagine del futuro. Qui regna una
grande incertezza. C’è chi vive l’incertezza come opportunità (“bisogna saper
cogliere le occasioni se e quando si presenteranno”), c’è invece chi la vive con
paura e sospetto (“bisogna prepararsi al peggio, chi sa quali rischi si nascondono
dietro l’angolo”).
Per entrambe il futuro è comunque difficilmente prevedibile. La dimensione
dell’incertezza è oggi quella che meglio definisce la condizione giovanile» (IARD,
Capitolo 3 pag. 48
2002, 520).
A conclusione. Naturalmente ogni tentativo di sintesi presta il fianco ad obiezioni
palesi. Tuttavia qui non si presume di dare un’interpretazione definita; anzi per sé
più che l’interpretazione dello stato di fatto è in gioco l’intuizione delle emergenze
come «disponibilità» aperte all’intervento educativo. La documentazione offerta
vuole solo darvi sufficiente legittimazione e concretezza.
In questo senso le annotazioni tendono a indicare piste sulle quali in parte sono
incamminate, ma soprattutto possono venir incamminate, le giovani generazioni:
ipotesi dunque ragionevolmente fondate per intuire esigenze emergenti, per
evidenziare spazi educativi in tanta parte inediti; per rilevare uno sfondo sul quale
capire disponibilità o resistenze e proiettare l’intervento educativo, soprattutto in
ambito morale e religioso.
Educare al consenso in questa situazione è esporsi all’insignificanza: la
strada ancora percorribile è quella di un dialogo libero, magari di un confronto
trasparente sulle cose che contano. Per quanto il rischio del consumismo abbia
pericolosamente incrinata la percezione esatta delle cose che contano e quindi
ne renda più ardua anche la verifica.
E tuttavia non poche esperienze richiamate dicono che una verifica seria e
franca è ancora possibile; che forse ormai i giovani l’attendono; anzi sembra che
dove è stata condotta con rigore e fiducia abbia dato buoni risultati.

4. Le scelte educative che si impongono

Naturalmente le riflessioni proposte costituiscono lo sfondo sul quale ripensare


una ipotesi educativa in grado di incontrare il mondo giovanile.

1. Il richiamo della soggettività sembra il più pressante. I sociologi lo rilevano


Capitolo 3 pag. 48/49
come un fatto. Il risalto dato alla soggettività nel nostro contesto culturale,
provoca e segna anche l’atteggiamento religioso. Merita attenzione il suo
richiamo a valorizzare correttamente una tendenza che comporta inevitabili
rischi: «In effetti, specialmente parlando con i giovani (...), si capisce che la
società moderna, restringendo gli orizzonti alla soggettività dei singoli (...), rende
i singoli prigionieri di se stessi, della propria esistenziale solitudine come della,
altrettanto esistenziale, mancanza di senso».
Ma perfettamente a proposito sottolinea pure che «nella soggettività non c’è solo
il pericolo del soggettivismo (quasi dell’egoismo) ma c’è anche un accresciuto
riconoscimento della potenzialità dell’uomo come essere unico e irripetibile » (De
Rita, 1995, 16 e ss.).
Le matrici culturali recenti lo esplorano come un filone privilegiato. Risulta in
realtà a perno delle ricerche sull’esistenza, sulla persona, sulla relazionalità, sui
processi ermeneutici. Trova sorprendenti applicazioni nei processi educativi della
scuola.

2. La persona nella sua singolarità e progettualità è decisamente a perno della


riflessione pedagogica attuale. Il richiamo alla religione si giustifica in questa
prospettiva, per l’apporto che vi offre, per l’orizzonte che vi apre.
Di sua natura nell’esperienza religiosa lo stesso concentrarsi sulla soggettività
proprio della sensibilità contemporanea non costringe entro l’armatura angusta
dell’individualità, ma presagisce ed esplora l’orma e il richiamo d’una presenza
trascendente, fonte ultima di pienezza umana, che all’origine è vocazione e
chiamata e solo successivamente risulta compito e impegno.

3. La religione sembra così provocata proprio dove la persona cerca


l’orientamento e il senso sia della quotidianità come della globalità della propria
esperienza.
Capitolo 3 pag. 49
Precisamente dove il significato situato e il senso totale si frammentano o
addirittura si dissolvono la religione è chiamata in causa, non tanto per se stessa,
quanto per una sottesa ricerca di identità che urge soprattutto nell’età giovanile.
E proprio in quanto la religione fa riferimento ad un orizzonte trascendente e
definitivo si accredita quale riferimento irrinunciabile, forse risolutivo, fra i tanti
che il contesto propone, oltre la ridda delle interferenze, delle ambiguità e delle
contraddizioni.
La religione si rivela una delle risorse risolutive dell’esistenza, situata nel cuore
di questa e significativa precisamente là dove riscopre la propria funzione
umanizzante per la vita personale e comunitaria.

4. Restano oscurità e resistenze, segnate precisamente dagli aspetti


richiamati: riguardano l’accento portato sul soggetto con tutto il rischio di
arbitrarietà, di chiusura, di incomunicabilità che lo insidia; riguardano il contesto
immediatamente sollecitante al possesso e al consumo; riguardano in modo
particolare la religione stessa privata di sufficiente visibilità sociale e culturale.
Se una soluzione si vuole ragionevolmente ipotizzare sembra indispensabile
tener conto di alcuni fattori che man mano si sono manifestati come obbliganti:
• l’orizzonte interpretativo della religione, non considera un quadro di riferimento
oggettivo, dogmatico da assumere; tende piuttosto all’elaborazione di un
orizzonte personale, dai contorni per lo più soggettivi, se non arbitrari;
• la religione conserva una base razionale, ma tende a caricarsi di intensità
emotiva, di relazionalità interpersonale, di istanza amicale.
In una parola sembra chiamata ad interpretare l’utopia dei giovani e ad
alimentarla; su questa lunghezza d’onda viene assunta anche con viva
partecipazione ed entusiasmo. Le grandi manifestazione di massa, di cui
il giubileo romano ha dato spettacolo, offrono una documentazione assai
significativa.
Capitolo 3 pag. 49/50
5. La spinta attuale sembra dunque spostare l’asse e portare la religione sul
fronte dell’educazione integrale della persona: da una visione cristiana coerente
da trasmettere e da inculcare alla ricerca e all’esplorazione della dimensione
religiosa che unifichi e risignifichi l’esistenza.
Una svolta segnata dalla caduta o comunque dalla svalutazione delle «pratiche
religiose» e dunque dalla perdita della «tradizionale visibilità» della religione; e
perciò dallo smarrimento del suo significato culturale ed educativo.
Che evidenzia il problema di fondo dell’educazione religiosa attuale: la domanda
è come ridare significato e come attingere alle risorse umanizzanti di una
religione di cui vanno perdendosi o svuotandosi i segni e i richiami; comunque
le tracce visibili. La provocazione è evidente: suscita apprensione e spinge a
soluzioni magari affrettate.
Si possono richiamare le due tracce, piuttosto divaricate, su cui va
configurandosi il diverso itinerario educativo.
La prima impegnata a ridare vitalità e a rinnovare la consuetudine educativa,
rivisitandola nei metodi e nelle strategie. Per lo più facendo leva sulla verità
della proposta e la sua corrispondente risorsa persuasiva. Una pista per lo più
privilegiata dall’autorità ecclesiale.
L’altra prende atto della radicalità della svolta culturale, assume come vincente
la scelta pedagogica recente, incentrata sulla persona di cui asseconda i
dinamismi e le condizioni di sviluppo. Fa leva quindi sulle aspirazioni e sulle
risorse interiori, ne promuove lo sviluppo anche in ambito religioso: asseconda
insomma la promozione dei processi educativi.
È chiaro che la scuola è chiamata a percorrere la seconda traccia.

In sintesi

La questione preliminare riguarda specificamente come ricostruire una


Capitolo 3 pag. 50/51
«socializzazione religiosa» da tempo fortemente intaccata proprio nelle sue
premesse.
Ma la sfida che si delinea sembra portarsi sul rapporto che la religione è in grado
di instaurare con il progetto esistenziale. Al cuore dell’educazione attuale sta la
realizzazione del singolo. La religione quale ruolo vi gioca? In ambito educativo
non è l’analisi della religione in sé, ma la verifica del suo apporto umanizzante.
Allora le domande orientative sono due:
– quale parte ha la religione nell’esperienza individuale e collettiva?
– come si innerva nei dinamismi che promuovono il progetto personale e la
consapevolezza culturale?
Le varie discipline che studiano la religione – Scienze della religione – si
muovono in una circolarità complessa che tuttavia ha individuato i passaggi
essenziali: vanno dalla fenomenologia del fatto religioso alla sua interpretazione
e finalmente al suo valore umanizzante. L’apporto che viene dalla rivelazione
e dalla tradizione cristiana non è disatteso: a livello di ricerca non è neppure
privilegiato.
Si accredita per l’apporto – spesso chiarificatore e illuminante – che lo distingue.
Anzi la singolarità del contributo che offre s’impone precisamente nel confronto
con le altre tradizioni religiose.
In ogni caso la ricerca religiosa nel suo complesso è oggi in grado di ridare
plausibilità al fatto religioso e di accreditarne il contributo alla maturazione
umana.
In altre parole l’analisi corretta del fatto religioso, quale viene perseguito
dalle diverse e complementari scienze della religione, sembra oggi costituire
il presupposto indispensabile della «socializzazione religiosa», decisivo per
suscitare attenzione, magari per un’adesione alla comunità credente, in cui
assecondare e promuovere una più specifica educazione alla fede.

Capitolo 3 pag. 51
5. Lo spazio ai giovani

5.1. È saltato il sistema educativo tradizionale

La revisione s’impone a partire da una situazione complessa e almeno


apparentemente contraddittoria.
La rilevanza del sacro, l’attenzione al fenomeno religioso assume proporzioni
singolarmente evidenti. La ricerca offre alla religione approfondimenti e
legittimazione ineccepibili, che sembrerebbero garantirne una percezione più
matura e articolata; d’altra parte appare evidente che la struttura pubblica
e le istituzioni laiche liquidano la religione: cosicché una certa iniziazione
all’esperienza religiosa mediata dal contesto sociale è oggi fuori gioco.
Si è progressivamente imposta una condizione educativa nuova; alcune
considerazioni previe ne possono segnalare le proporzioni.

a. In tutte le grandi tradizioni culturali e religiose il rito di iniziazione introduce


l’adolescente o il giovane alla piena responsabilità e alla partecipazione integrale
della vita sociale e comunitaria. In forme diverse anche nelle società più
avanzate riti consimili introducono alla vita civile: l’età per i diciottenni, l’esame di
maturità per gli studenti, la professione o comunque il lavoro per tutti.
Nell’ambito ecclesiale – constatazione piuttosto amara – il sacramento
dell’iniziazione per eccellenza – la confermazione – apre l’ingresso e con lo
stesso gesto dà il commiato alla vita comunitaria per molti adolescenti.

b. Per quanto concerne il contesto educativo generale la persistenza di una


certa pratica religiosa sottende una provocazione non meno sconcertante. Resta
un residuo di partecipazione, di cui è difficile vedere la presa reale sull’esistenza
singola e sulla vita collettiva.
Capitolo 3 pag. 51/52
Tanto che si è potuto definire recentemente «religione di scenario» (F. Garelli)
il complesso di manifestazioni che accompagnano riti e pratiche di vaste zone
dell’Italia. Altre interpretazioni hanno preferito il tema della «religione diffusa» (R.
Cipriani), rilevando una religiosità ramificata e pervasiva che subentra ad una
pratica tradizionale più organizzata e condivisa.
La religione cerca nuovi spazi, per lo più disancorati dalle strutture confessionali
tradizionali. Percorre filoni inconsueti e diramazioni inedite, si avvale dei
movimenti, aggrega da condizioni umane diverse. Affiora come sensibilità
«diffusa », predilige situazioni emotivamente cariche, ma religiosamente
generiche.

c. Il mondo giovanile è alla confluenza di questa evoluzione. Anche più


clamorosamente che l’adulto il giovane va perdendo il contatto con la traccia
precisa e magari illuminante della religione, anche nella sua espressione più
chiara e obbligante del cattolicesimo.
Il suo atteggiamento rasenta spesso l’indifferenza e non di rado l’arbitrarietà.
Quando ancora dà importanza al fatto religioso, si ritiene autorizzato ad
elaborarlo secondo prospettive proprie, dedotte con una certa disinvoltura dai
filoni religiosi che gli sono pervenuti, spesso piuttosto occasionalmente. Ne
risulta una religione «à la carte», ritagliata sui gusti dei singoli; o meglio una
«religione alla rinfusa » che accumula quello che più aggrada.

d. Per dirla in sintesi.


Nel giro di alcuni decenni è cambiato il contesto culturale ed è
contemporaneamente saltato il «sistema» che inquadrava l’educazione religiosa.
Di questo sistema restano ancora in piedi taluni frammenti; magari conservano
un loro richiamo, sufficiente ad alimentare in taluni la nostalgia che il tutto si
possa ricomporre.
Capitolo 3 pag. 52
In realtà il sistema è saltato perché le condizioni di vita che lo alimentavano si
sono progressivamente sfaldate.
Accanto ai frammenti della concezione tradizionale affiorano man mano elementi
nuovi; si manifestano atteggiamenti diffusi, impreveduti: suscitano di volta in
volta sconcerto e speranza; impegnano ad ogni modo analisi e riflessione. Il
dibattito sulla secolarizzazione ha avuto almeno il merito di darvi larga risonanza
e renderli di pubblica consapevolezza .

5.2. Il nuovo orizzonte educativo

Un progetto articolato e organico, attuato efficacemente per decenni è ormai alle


spalle.
Al momento attuale l’educazione alla fede fa i conti con condizioni sempre più
complesse e interdipendenti.
Il fronte pedagogico-didattico, che si è imposto negli anni sessanta, poteva
allora sembrare la spiaggia più importante per ridare significatività alla proposta
cristiana.
Mentre tuttavia si affinavano le metodologie di intervento e si tendeva ad
articolarle in una proposta organica e proporzionata, si andava dilatando la
distanza fra la concezione cristiana e la concezione laica e secolarizzata.
La contestazione giovanile ha evidenziato l’insufficienza di questa prospettiva,
com’è stato sopra rilevato. Man mano il problema si andava spostando e
contemporaneamente si dilatava a dismisura: l’elaborazione corretta dei
metodi, la formulazione rinnovata della proposta, l’accessibilità del linguaggio
costituivano un compito indilazionabile; di cui tuttavia si andava misurando
l’inefficacia.
Oggi la consapevolezza si fa più avvertita: mentre si va elaborando un contesto
Capitolo 3 pag. 52/53
educativamente coerente, attento e disponibile alle esigenze del soggetto, la
vera minaccia all’efficacia e alla credibilità proviene dal versante più vasto e
incontrollabile dell’evoluzione culturale.
Nel tentativo di rispondervi si va progressivamente definendo l’obiettivo. Si
ricercano nuovi principi teologici e pedagogici per mediare la divaricazione fra la
dottrina e il vissuto concreto.
In ambito teologico si assume il principio dell’incarnazione; in ambito
antropologico-pedagogico si privilegia l’accentuazione ermeneutica, di cui si
esplora l’applicazione
• sia a livello culturale
• che a livello pedagogico-didattico.
Il rischio di insignificanza che compromette la stessa credibilità della proposta
cristiana appare nell’atteggiamento diffuso e sempre più consueto nel mondo
giovanile.
Ci si rende conto che prima del processo educativo s’impone la verifica culturale:
solo dove la religione risulta significativa per la vita vale la pena impegnarsi in un
itinerario di comprensione nella scuola e di adesione nella comunità.
Si tratta di intuire quali siano le piste da privilegiare. Alcune considerazioni
appaiono comunque del tutto legittime.

a. L’orizzonte culturale in rapido cambiamento, aperto al confronto con nuove e


autorevoli tradizioni anche religiose, si impone ormai alla verifica educativa. È in
gioco la credibilità della proposta stessa: la valenza esistenziale della dimensione
religiosa; la solidarietà con la più vasta ricerca religiosa universale; la corretta
articolazione fra religione e rivelazione; la funzione della religione nel confronto
con le sfide decisive del nostro tempo.

b. Secondo la nuova accentuazione ermeneutica l’esperienza è a perno di


Capitolo 3 pag. 53
ogni elaborazione culturale. La proposta religiosa non è tanto considerata per
la sua oggettiva verità, quanto per il significato esistenziale che sottende. Va
evidenziato il ruolo profetico e utopico della religione, in grado di definire la
speranza, di annunciare l’utopia, di illuminare l’orizzonte; di elaborare i grandi
simboli che illuminano l’esistenza per garantire la dignità dell’uomo.

c. Il vuoto lasciato dalla caduta delle opposte ideologie sembra portare


l’attenzione e l’interesse sulla religione come fonte e matrice di valore e di
significato.
Religione e fede non appaiono più antagoniste delle scelte ideologiche; cade
il «sospetto» sulla loro spinta alienante e disumanizzante; vengono prese in
considerazione per il ruolo e la funzione che esercitano in ambito personale e
sociale: sono appunto verificate sulla loro significatività.

d. Anche riferimenti tradizionalmente centrati sulla proposta cristiana quali fede,


trascendenza, rito... assumono valenza esistenziale e storica; vengono rivisitati
su uno sfondo culturale più vasto e differenziato. Di conseguenza un’educazione
centrata esclusivamente sul dato rivelato appare parziale e inaffidabile, fino a
quando non abbia aperto e portato il confronto con le grandi tradizioni religiose
presenti ormai anche nel nostro Paese.
e. Religione e fede tendono ad essere esplorate da una pluralità di approcci
che cercano convergenza e unificazione. Da una parte allargano le basi di
legittimazione anche della fede cristiana; dall’altra la relativizzano, già col
presumere di sottoporla a verifica.
Restano comunque piste interessanti: i giovani le incrociano nell’ambito della
cultura e della divulgazione, ne restano sollecitati e magari suggestionati.
L’educazione dovrebbe attrezzarli al confronto, predisponendo una
strumentazione analitica e critica, che la scuola potrebbe favorire, che per lo più
Capitolo 3 pag. 53/54
la comunità disattende.

5.3. La funzione della religione nel nuovo contesto educativo

Nell’insieme è evidente che la religione cambia, anche perché cambiano la


cultura e la società di cui è parte integrante; e cambiano le domande poste alla
religione: causa non ultima della sua continua evoluzione, appunto per ritrovare
oltre la propria verità, anche la propria funzione.
Per un primo orientamento si possono rilevare i riferimenti salienti, in cui la
religione viene chiamata in causa, soprattutto dalla stessa situazione di vita dei
giovani.
a. C’è innanzitutto un’esigenza di significatività esistenziale: quale ruolo e quale
funzione compete alla religione nell’ambito di una faticosa elaborazione di valori
e di significati? In particolare dove è in gioco il senso definitivo dell’esistenza, la
religione sembra custodire e suggerire indicazioni preziose per la risposta o per
la direzione nella quale cercarla.
Inoltre il tessuto sociale di relazionalità e di solidarietà cerca nuove vie di
realizzazione e di legittimazione; anche là dove le motivazioni risultano
indispensabili per ricreare un tessuto sociale umanizzato, la religione si ripropone
come riferimento qualificato di fondazione.
b. Di conseguenza la «visibilità» della religione non sembra più tanto da
riscoprire nelle «pratiche religiose»; soprattutto i giovani riscoprono la religiosità
su altri versanti, quali l’associazionismo, il volontariato, l’esperienza religiosa
condivisa con il gruppo, l’aggregazione, il movimento, l’impegno per una diversa
qualità di vita...
Richiami molteplici che sembrano avere un comune denominatore,
particolarmente manifesto nelle istanze giovanili. Infatti nel riferimento più
Capitolo 3 pag. 54/55
o meno esplicito e consapevole alla valenza «secolare» ed «esistenziale»,
la religione viene restituita alla sua verità e alla sua funzione prioritaria di
fermento orientativo dell’esperienza anche consueta, fino a situarsi, nei casi
in cui è vissuta con piena disponibilità, quale asse portante dell’intero progetto
esistenziale.
c. Pure il richiamo a fare i conti con l’esperienza concreta, quotidiana, a
verificare cioè la funzione della religione nella significatività della situazione
consueta è pertinente; senza tuttavia disattendere lo spazio alla simbolizzazione
e all’idealità.
È lì che viene valorizzato il ruolo specifico della religione, che elabora le
motivazioni: e tuttavia, riferendole alla quotidianità, preserva dall’astrattezza e
dall’illusorietà incombenti, dove mancasse la presa sull’esperienza concreta. La
religione può risultare così in grado di unificare progressivamente l’esistenza;
di cooptare attorno ad un’opzione fondamentale scelte e interessi parziali,
organizzandoli in una gerarchizzazione interiore e consapevole, integrandoli in
una visione unitaria, saldamente motivata.
d. Il risalto dato alla soggettività nel nostro contesto culturale provoca e segna
anche l’atteggiamento religioso. Specialmente nell’ambito giovanile la spinta
rischia di rendere prigionieri di se stessi, della propria solitudine esistenziale, di
una affiorante mancanza di senso; per quanto il rischio di soggettivismo sottenda
anche una nuova consapevolezza di responsabilità e una percezione acuta
dell’originalità del singolo, che il giovane rivendica.
Resta il fatto che la religiosità giovanile documenta labilità e genericismo;
attenzione e interesse si portano su aspetti esoterici, veicolati da tradizioni
estranee al cristianesimo, spesso accostati quali mode magari eccentriche, più
che assunti quali fonti di un progetto di vita.

e. Una chiara consapevolezza del ruolo orientativo della religione appare


Capitolo 3 pag. 55
urgente soprattutto nel momento in cui un giovane progetta il proprio futuro e vi
concentra le proprie aspirazioni. Proprio dove la persona cerca l’orientamento
e il senso sia della quotidianità come della globalità della propria esperienza,
soprattutto quando il significato situato e il senso totale si frammentano o
addirittura si dissolvono, la religione è chiamata in causa, non tanto per se stessa,
quanto per una sottesa ricerca di identità che urge soprattutto nell’età giovanile.
E precisamente in quanto la religione fa riferimento ad un orizzonte trascendente
e definitivo si accredita quale riferimento irrinunciabile, forse risolutivo, fra i tanti
che il contesto propone, oltre la ridda delle interferenze, delle ambiguità e delle
contraddizioni.
In una prospettiva di sintesi.
La religione può risultare una delle risorse risolutive nell’elaborazione
del progetto personale precisamente là dove riscopre la propria funzione
umanizzante.
Cosicché il problema educativo non riguarda solo il fatto religioso, ma più
integralmente la totalità della persona; anche quando si prende in considerazione
l’aspetto specifico bisognerà tener conto che nella sensibilità attuale
– l’attenzione alla religione è subordinata al fatto che un giovane vi intuisca un
apporto reale alla propria maturazione, riesca a capire dove e come la fede vi
contribuisce;
– a sua volta la stessa proposta educativa è sollecitata a scoprire nella religione
un riferimento di alto significato per un progetto integrale, da elaborare per i
giovani e soprattutto con i giovani.
In altre parole:
– è di fondamentale importanza rilevare l’orizzonte nuovo e dilatato
dell’educazione cristiana;
– contemporaneamente avvertire l’apporto di una corretta valorizzazione della
tradizione che dilati il proprio obiettivo fino a comprendere la promozione
Capitolo 3 pag. 55/56
integrale della persona.

6. L’ambito specifico della scuola: l’educazione religiosa nel quadro della


riforma

Per quanto concerne l’elaborazione tipicamente scolastica dell’educazione


religiosa sia nell’ambito della disciplina specifica IRC, sia nel più vasto progetto
che la scuola persegue rimandiamo ad altri contributi di questo studio, riguardanti
lo studente e l’identità della disciplina...
Sullo sfondo degli orientamenti e delle innovazioni in atto nella scuola italiana
si tratta di definire lo spazio specifico della religione nel processo educativo e di
identificarne le dinamiche proprie e qualificanti.
Nell’ambito specifico scolastico si tratta di esplorare quali siano
– le strutture specifiche dell’apprendimento religioso;
– le motivazioni esistenziali e sociali che la religione alimenta;
– l’apporto alla prospettiva unitaria, cui avvia il progetto del singolo...;
– il ruolo insomma della religione nell’educazione, evidentemente accanto e ad
integrazione delle altre discipline.
Soprattutto due prospettive di ricerca andranno tenute in attenta considerazione:
– il rapporto religione e maturazione umana, come legittimazione della stessa
presenza ed elaborazione disciplinare della religione;
– l’identificazione delle strutture peculiari di apprendimento religioso.

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Capitolo 3 pag. 57
CAPITOLO 4

LA RIFORMA DEL SISTEMA EDUCATIVO DI


ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE
Da Berlinguer alla Moratti
Carlo Nanni - Guglielmo Malizia

I rapporti internazionali, sia a livello mondiale (l’Unesco) sia sul piano europeo
(l’Unione Europea), sottolineano che rispetto alle sue tradizionali funzioni
la scuola oggi ha da far fronte a nuovi compiti, dovuti all’emergenza della
società della conoscenza, della società complessa, della società pluralistica e
multiculturale, della mondializzazione e della globalizzazione. Anche in Italia si
è cercato di fornire una risposta articolata a questi processi di mutamento e di
innovazione, ridisegnando l’architettura del sistema di istruzione e di formazione
e provando a rinnovare i contenuti e i modi della vita scolastica.
La riforma è stata ed è portata avanti direttamente dal Ministero della Pubblica
Istruzione: ciò non è stato e non è senza problemi, sia in rapporto al cambio dei
governi e sia soprattutto in ordine al coinvolgimento e alla compartecipazione
corresponsabile delle parti sociali interessate, a cominciare dal mondo della
scuola e della formazione professionale.

1. I precedenti

È da oltre cinquant’anni che nel nostro paese si discute della esigenza di


Capitolo 4 pag. 58
riformare l’istruzione e la formazione pubblica.
Messo fine al fascismo, si è cercato di dare corso a varie iniziative specifiche
di riforma scolastica, formativa e più largamente educativa, nel contesto della
ricostruzione democratico-repubblicana (nuove elementari, scuola media unica,
scuola materna e relativi programmi). Durante gli anni ’70 e ’80 si sono avute
una serie di «micro-riforme» (decreti delegati, organi collegiali, integrazione
degli handicappati, nuovi programmi della media, delle elementari e della
materna), che hanno cercato di dare qualità democratica alla vita scolastica,
respiro all’innovazione culturale, stimolo alla sperimentazione, impulso alla
creatività personale e alle soggettività locali. Nel corso dei primi anni ’90 per un
verso si è cercato di collegare scuola, famiglia, società, problemi giovanili, ad
evitare il disagio, la devianza, il malessere e ricercare la buona qualità della
vita (cf il Progetto giovani, educazione alla salute, lotta alla tossicodipendenza),
per altro verso si è provato a riformare le medie superiori attraverso la via
della sperimentazione innovativa (cf i Programmi sperimentali Brocca, scuole
sperimentali).
Verso la metà degli anni ’90, nei programmi dei nuovi schieramenti politici
(l’Ulivo di centro-sinistra e il Polo delle Libertà di centro-destra), il problema
della scuola e della formazione è diventato un punto di primaria importanza,
espressamente enfatizzato nei programmi e nella propaganda elettorale. In effetti
era emersa con chiarezza l’inadeguatezza del sistema di istruzione a rispondere
a una domanda in rapida crescita che esprimeva i bisogni di una realtà familiare
e sociale e di un mondo produttivo in profondo cambiamento.
Ma, mentre durante gli anni ’80 la priorità era stata data alla riforma della
secondaria superiore (senza però che si riuscisse a varare un provvedimento che
ottenesse il consenso dei due rami del Parlamento), nella decade ’90 si è andata
diffondendo nell’opinione pubblica la convinzione che non bastasse intervenire
sull’uno o l’altro dei livelli dell’istruzione per risolvere i problemi alla radice, ma
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che si dovesse procedere a una ridefinizione dell’intera struttura.

2. Le ragioni della riforma

L’esigenza di una riforma e di una nuova architettura del sistema si nutriva e si


nutre di svariate ragioni, non sempre globalmente condivise da tutti.
Una prima considerazione nasce dalla riflessione sulle trasformazioni in atto
nella società, soprattutto in rapporto al mondo delle professioni e alle esigenze
dello sviluppo economico, del mercato internazionale, della partecipazione
all’Unione Europea. La scuola e la formazione professionale sono chiamate
ad adeguarsi alle nuove tecnologie dell’informazione e alla strumentazione
computerizzata dei servizi, al carattere internazionale dell’imprenditoria e della
produzione.
Di fronte alle dinamiche di cambiamento e di innovazione, più che pensare a
insegnare conoscenze e abilità definitive, si è invitati a formare le capacità di
«apprendere ad apprendere» per tutta la vita, ad abilitare ad essere efficienti
ed efficaci grazie all’acquisizione di competenze di base solide e culturalmente
fondate, capaci di flessibilità e di autosviluppo.
Un secondo tipo di ragioni – forse quello più pubblicamente enfatizzato insieme
a quello dell’adeguatezza al mondo del lavoro e della produzione – è collegato
alla prospettiva democratica che si intende imprimere alla vita e allo sviluppo
del paese. Ci si muove, cioè, nella linea del profilo di umanità che disegna la
Costituzione: una comunità fatta di membri che sono al contempo persone,
cittadini, lavoratori. Lo sviluppo e le attese di una vita effettivamente pacifica
e democratica impongono una congruente educazione alla cittadinanza per
formare cittadini che siano capaci di controllo critico e di sviluppo creativo delle
informazioni, di competente partecipazione cosciente, attiva, responsabile e
Capitolo 4 pag. 59
solidale alla vita comune, vincendo per un verso la tentazione del conformismo
passivo e per altro verso l’imposizione delle ideologie intolleranti.
Ora è proprio la Costituzione che stabilisce che la Repubblica garantisca
«il pieno sviluppo della persona umana» e «rimuova gli ostacoli» che ne
impediscono la fattiva partecipazione alla vita del paese. La scuola e la
formazione professionale sono, pertanto, considerate una via di realizzazione di
questi fini costituzionali.
Ma oltre questo tipo di motivazioni, piuttosto funzionalistico allo sviluppo
economico e a quello civile, la riforma si nutre anche di un terzo ordine di
ragioni, di carattere più globalmente umano, vale a dire relative al poter vivere,
tutti ed ognuno, come persone e come gruppi o comunità sociali, un’esistenza
umanamente degna. L’istruzione e la formazione professionale pubblica sono
investite di una funzione educativa «forte»: a tal punto che si prende a parlare
non più di «sistema sociale di istruzione e di formazione», ma di «sistema sociale
educativo di istruzione e di formazione».
Infatti, di fronte alla complessità e alle novità di quella che con termine generico
e multivalente diciamo «globalizzazione», appare urgente che le persone
vengano abilitate a gestire situazioni complesse dagli sviluppi imprevedibili;
a confrontarsi con una crescente differenziazione, culturale, etnica, religiosa;
a saper utilizzare le risorse offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione
e della comunicazione; a sapersi districare e prendere posizione rispetto al
bombardamento di informazioni frammentarie e al «conflitto delle interpretazioni»,
fatte circolare dal sistema della comunicazione sociale. Al sistema sociale
educativo, di cui la scuola è considerata l’agenzia portante, si chiede che apra
la strada all’intelligenza del mondo, fornendo gli strumenti e le competenze
necessarie per leggere la realtà, orientarsi in essa, comprenderla anche in
funzione creativa, sapendo dare un giudizio soppesato e ragionato su fatti, eventi,
persone, situazioni, spesso inattesi e magari conflittuali (Morin, 2001).
Capitolo 4 pag. 59/60
C’è infine un quarto ordine di ragioni, collegate più direttamente all’istituzione
scolastica e alle azioni di formazione professionale.
La riforma si è venuta sempre più raccomandando per superare la discontinuità
esistente tra i diversi livelli della scolarizzazione pubblica; per togliere l’eccessiva
parcellizzazione degli indirizzi dell’attuale scuola superiore e la loro pesante
rigidità; per raccordarsi non solo con l’università, il mondo del lavoro e delle
professioni, ma anche con i diversi vissuti culturali delle persone, che si muovono
tra i poli opposti dell’analfabetismo di ritorno e l’esigenza di una sempre più
incisiva educazione permanente, fra divari non solo economici ma globalmente
vitali fra nord e sud, fra una generazione e l’altra, fra sviluppo crescente e
nuove povertà, fra faticosi e lenti processi di integrazione e rinnovate forme di
esclusione e disagio.
Gli ultimi anni sembrano aver dato a tali esigenze un carattere di impellenza del
tutto nuovo. In effetti, nel passaggio di secolo, si è fatto evidente il mutamento
della cultura e della vita privata e pubblica di giovani ed adulti rispetto ai decenni
immediatamente precedenti.
In tal senso, scuola e formazione richiedono una incisiva riforma perché sta
cambiando notevolmente il modo di pensare e di vivere l’esistenza singola e
sociale a tutti i livelli (Nanni, 2003).

3. Il mosaico e la delega

In questo clima, con i governi guidati dal raggruppamento politico di


centrosinistra dell’Ulivo, praticamente dal 1997, si è messo mano alla riforma.
Essa è stata ripresa nelle grandi linee, modificata in alcuni punti e «reimpostata»
politicamente dal nuovo Governo di centro-destra del Polo delle Libertà, guidato
da Berlusconi, dopo le elezioni del 2001.
Capitolo 4 pag. 60
Nel periodo del centro-sinistra, con il Ministro Luigi Berlinguer (e il suo
successore Tullio De Mauro) è prevalso uno stile di riforma «a mosaico»; nel
periodo del Governo di centro-destra del Ministro Letizia Moratti la riforma ha
preso invece il ritmo della «legge delega».
«I giochi» non sono ancora del tutto «fatti»; ma indubbiamente l’orizzonte
generale, pur nelle diversificazioni che il processo di riforma ha dovuto subire
nel cambio di Governo, con la promulgazione della Legge delega proposta dal
Ministro Letizia Moratti ha ormai assunto dei contorni abbastanza precisi.
Di quello che è appunto stato detto il «mosaico» delle riforme sono stati portati
avanti i «tasselli» riguardanti il nuovo assetto degli esami di Stato (L. 10.
12.1997, n. 425, parzialmente modificata dal Ministro Moratti); la disciplina
della qualifica dirigenziale dei capi di istituto (DL 6.3.1998, n. 59, quella che
è stata pubblicizzata come la prospettiva del dirigente «manager»); lo statuto
delle studentesse e degli studenti (DPR 25.6.1998, n. 249); il prolungamento
dell’obbligo scolastico a quindici anni (L. 20.1.1999, n. 9), a cui si è aggiunto
l’obbligo formativo fino a diciotto anni (L. 17.5.1999, n. 144); l’autonomia delle
istituzioni scolastiche (L. 15.3.1997, n. 59, art. 21 e il DL 31.3.1998, n. 112,
relativi al decentramento di diverse funzioni amministrative, e il DPR 8.3.1999, n.
275, che regolamenta l’autonomia delle istituzioni scolastiche); il riordino dei cicli
scolastici (L. 10.2.2000, n. 30); la parità scolastica e le disposizioni per il diritto
allo studio (L. 10.3.2000, n. 62).
Con il nuovo Governo guidato da Berlusconi, il Ministro Moratti, sulla base del
lavoro di una Commissione guidata dal pedagogista Giuseppe Bertagna (che
ha cercato, attraverso il metodo dei «focus group» e delle audizioni, di «sentire
la base »), dal settembre 2001 ha preso a riformulare e prospettare in maniera
diversificata l’attuazione della precedente legge sul riordino dei cicli e i vari
provvedimenti ad essa collegati. Ha, inoltre, impiantato una commissione per la
definizione degli standard nazionali di valutazione e una seconda commissione
Capitolo 4 pag. 61
per il codice deontologico degli insegnanti; contemporaneamente si è preso a
lavorare per la definizione dei piani della scuola primaria e delle superiori. È
anche in discussione in Parlamento la ridefinizione degli Organi Collegiali della
scuola dell’autonomia.
Sono in Parlamento due proposte di legge per la definizione dello Stato giuridico
degli insegnanti.
È subito da tenere a mente che molte cose sono da riconsiderare in rapporto alla
modifica del Titolo V della Costituzione, concernente la concezione istituzionale
della Repubblica ed in particolare i rapporti tra comuni, Province, Regioni e
Stato, perché vengono a riconfigurare in maniera nuova la gestione della scuola
e della formazione professionale. Infatti, il comma 3, punto «n» del nuovo art.
117 della Costituzione, introdotto con legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001,
mutando l’espressione del Titolo II, art. 33 della Costituzione del 1948, riserva a
legislazione esclusiva dello Stato «le norme generali sull’istruzione». Introduce,
poi, una distinzione tra «istruzione», che colloca a legislazione concorrente tra
Stato e Regioni, e «istruzione e formazione professionale», che è legislazione
esclusiva delle Regioni. Invero, la «concorrenza» legislativa tra enti locali e
regionali e Stato è tutt’altro che chiara e precisa; ed inoltre, tutta la materia
rischia di essere ulteriormente modificata dalle proposte dell’attuale Governo
in materia di quello che è stato detto «federalismo» (in cui si sente forte la
pressione localistica della «devoluzione», cara alla componente politica della
Lega padana) (Capaldo-Rondanini, 2002).

4. La legge delega 53/2003 (la Legge Moratti)

La legge 30/2000 fu dal TAR ritenuta inapplicabile nelle forme previste dal
piano attuativo proposto dal Ministro De Mauro, succeduto al Ministro Berlinguer
Capitolo 4 pag. 61/62
nell’ultimo Governo di centro-sinistra. Peraltro, già nel programma politico del
Polo delle Libertà si dichiarava di voler rivedere, e caso mai rifare, la legge sul
riordino dei cicli. Sicché – come si è accennato – dopo la vittoria delle elezioni
del maggio 2001, il Governo Berlusconi per il tramite del Ministro Letizia Moratti
ha subito intrapreso l’azione di riforma del sistema educativo di istruzione e di
formazione.
Dopo gli Stati Generali dell’Istruzione (19-20 dicembre 2001), il 10 gennaio 2002
fu presentata per la prima volta in Consiglio dei Ministri una proposta di legge
sostitutiva da parte del Ministro Moratti, che teneva conto sia delle indicazioni
della Commissione Bertagna sia delle risultanze degli Stati Generali, ma sia
anche delle istanze dei partiti, dei rappresentanti delle forze sociali e di quelle
delle regioni. La complessità del tema, i tempi stretti della seduta, la necessità
di chiarire meglio alcuni punti ed in particolare i risvolti finanziari, suggerirono
di prendere tempo e di rinviare il testo della proposta di legge ad altra data. Nel
frattempo si era affermata l’ipotesi di una legge delega e il relativo disegno fu
approvato dal Consiglio dei Ministri il 1° febbraio 2002. In tale occasione i partiti
della maggioranza governativa inserirono le loro osservazioni, modificando
l’originaria proposta del Ministro. Così ricomposto, in Parlamento il testo poté
godere dell’appoggio incondizionato della maggioranza, sicché poté procedere
piuttosto speditamente. Avuta l’approvazione del Senato, il 13 novembre 2002,
la stessa maggioranza alla Camera ritirò i suoi emendamenti pur di arrivare
al più presto alla approvazione definitiva (avvenuta dopo un ritorno al Senato
per ritocchi riguardanti gli aspetti finanziari, il 12 marzo 2003), permettendo
così al Ministro di dare subito avvio ai decreti attuativi in connessione con gli
stanziamenti previsti dalla finanziaria.
Avuta l’approvazione del Presidente della Repubblica, il 28 marzo 2003, la legge
delega fu pubblicata come legge 53/2003.
Ne diamo una sintesi con qualche rilievo di carattere generale.
Capitolo 4 pag. 62
Il sistema educativo di istruzione e di formazione si articola nella scuola
dell’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola
secondaria di primo grado, e in un secondo ciclo di cui fanno parte il sistema
dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale. Quanto alla
scuola dell’infanzia che rimane triennale, rispetto alle finalità indicate dalla legge
30/2000 è stata data importanza alle potenzialità di relazione, allo sviluppo
psicomotorio e soprattutto a quello morale e religioso; ma la novità più discussa
riguarda la possibilità di iscrizione per i bambini che compiono i 3 anni di età
entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento.
La scuola primaria dura 5 anni ed è articolata in un primo anno teso al
raggiungimento della strumentalità di base e in due periodi didattici biennali.
Un’altra novità è l’anticipo dell’iscrizione per cui possono frequentare il primo
anno anche i bambini che compiono i 6 anni entro il 30 aprile dell’anno di
riferimento. È prevista, sin dall’inizio, l’alfabetizzazione in almeno una lingua
dell’Unione Europea e nelle tecnologie informatiche. Scompare, inoltre, l’esame
di quinta.
La scuola secondaria di primo grado si rafforzerà sotto il profilo delle discipline: è
prevista una seconda lingua comunitaria obbligatoria e un approfondimento delle
tecniche informatiche. Nei tre anni, che si concluderanno con un esame di Stato,
verrà anche progressivamente sviluppata nei ragazzi la capacità di scelta del
percorso successivo.
Una novità che riguarda l’intero primo ciclo consiste nell’intento di valorizzare
la tradizione culturale insieme all’evoluzione sociale, culturale e scientifica della
realtà contemporanea.
Asua volta nel secondo ciclo dovrà essere data un’attenzione costante alla
crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il
fare e l’agire e la riflessione critica su di essi. Quanto ai licei, sono confermati
gli assi culturali tradizionali, classico, scientifico e artistico; al tempo stesso ne
Capitolo 4 pag. 62/63
nascono dei nuovi, economico, tecnologico, musicale, linguistico, delle scienze
umane.
Essi hanno durata quinquennale: l’attività didattica si sviluppa in due periodi
biennali e in un quinto anno che prioritariamente completa il percorso
disciplinare e prevede inoltre l’approfondimento delle conoscenze e delle abilità
caratterizzanti il profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi.
Si concludono con un esame di Stato il cui superamento rappresenta titolo
necessario per l’accesso all’università.
Ferma restando la competenza regionale, il sistema dell’istruzione e della
formazione professionale realizza profili educativi, culturali e professionali ai
quali conseguono titoli e qualifiche professionali di differente livello, valevoli su
tutto il territorio nazionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione definiti
su base nazionale. Inoltre, i giovani che seguono questi percorsi non soltanto
si vedranno garantita anno dopo anno una passerella per trasferirsi nei licei,
ma avranno anche modo di proseguire dopo i quattro anni per un quinto, un
sesto e un settimo anno, così da acquisire una qualifica professionale superiore.
Potranno altresì disporre di un quinto anno per affrontare l’esame di Stato per
l’iscrizione all’università.
In ogni caso, da un sistema all’altro sono sempre possibili passaggi interni.
Dopo i 15 anni sia i diplomi che le qualifiche possono essere conseguiti in
alternanza scuola-lavoro o attraverso l’apprendistato.
In tutto il sistema educativo di istruzione e di formazione i piani di studio si
organizzano intorno a un nucleo fondamentale, omogeneo su base nazionale,
che rispecchia la cultura, le tradizioni e l’identità nazionale. In aggiunta, è
prevista una quota riservata alle Regioni, relativa agli aspetti di loro interesse
specifico, anche in collegamento con le realtà locali.
In queste disposizioni trova compimento un’altra trasformazione significativa del
nostro sistema educativo di istruzione e di formazione. La riforma Berlinguer/ De
Capitolo 4 pag. 63
Mauro aveva già realizzato il passaggio dalla logica dei programmi a quella del
curricolo, cioè dalla centralità del Ministero alla progettualità della scuola e dei
docenti; la legge delega Moratti porta in primo piano il principio della personale
responsabilità educativa degli alunni e delle famiglie mediante l’introduzione dei
piani di studio personalizzati.
Il tratto distintivo dei programmi era l’idea dell’applicazione. Il Ministero emanava
centralisticamente i suoi testi e alla scuola e ai docenti era attribuito il compito
di svolgerli diligentemente e in maniera uniforme in tutte le classi e di adeguarsi
scrupolosamente alle loro indicazioni. L’atteggiamento che viene esigito dagli
insegnanti è quello impiegatizio dell’applicazione e dell’esecuzione. E sono le
indicazioni dei programmi a prevalere sulle esigenze degli alunni.
Con le indicazioni curricolari per dirla secondo la riforma Berlinguer/De Mauro,
il Ministero fornisce valori e vincoli nazionali e a ogni scuola è attribuito il
compito di interpretarli e di adattarli autonomamente alle esigenze specifiche del
proprio contesto educativo. Pertanto, i docenti sono chiamati a concretizzare gli
orientamenti nazionali in modo creativo attraverso la progettazione del Piano
dell’Offerta Formativa. In questa operazione, può capitare che gli insegnanti e le
scuole non coinvolgano i giovani e i genitori che, pertanto, restano dei destinatari,
non assurgano cioè a protagonisti della co-costruzione del curricolo.
Questo non dovrebbe essere più possibile con la riforma Moratti. I piani di studio
personalizzati segnano una svolta di mentalità, il riconoscimento effettivo della
centralità dell’allievo. Ovviamente non vengono aboliti i valori e vincoli nazionali
che tutti devono osservare e che lo Stato ha il dovere costituzionale di indicare.
Rimane anche il principio della progettualità della scuola e dei docenti che
devono delineare itinerari educativi, ma viene affermata con decisione l’idea
della personale responsabilità educativa degli allievi, dei genitori e del contesto
territoriale nello sceglierli, nel percorrerli e soprattutto nel costruirli insieme, in un
dialogo costante.
Capitolo 4 pag. 64
È confermata la valutazione periodica e annuale, effettuata dai docenti: essa
riguarderà sia gli apprendimenti sia il comportamento. Sembra che venga
abbandonata la norma secondo la quale gli alunni sono promossi o respinti
ogni due anni che era stata introdotta per assicurare agli studenti il tempo di
colmare eventuali lacune; l’ordine del giorno approvato in Senato alla fine di
marzo, che sarà fissato definitivamente da un decreto attuativo, comporta infatti
il ripristino della valutazione tradizionale a cadenza annuale. Comunque, nella
primaria – sembra – non ci dovrebbe essere ripetenza. Con scadenza biennale
l’Istituto nazionale di valutazione misurerà con verifiche nazionali la qualità
complessiva dell’offerta formativa e dei livelli di apprendimento per monitorare il
livello culturale degli studenti. L’esame di Stato conclusivo dei cicli di istruzione
– quindi anche quello della secondaria di primo grado – si svolgerà sia sulle
prove organizzate dalle commissioni di esame sia su quelle predisposte e gestite
dall’Istituto nazionale di valutazione.
La formazione iniziale degli insegnanti è di pari dignità e durata per tutti i docenti
e si svolge nelle università presso i corsi di laurea specialistica: quest’ultima
ha valore abilitante e consente l’accesso nei ruoli organici previa stipula di un
contratto di formazione-lavoro e la partecipazione a specifiche attività di tirocinio.
I docenti torneranno all’università per frequentare corsi di formazione in servizio
finalizzati all’assunzione di competenze che serviranno a esercitare funzioni di
supporto, di tutorato e di coordinamento all’interno della scuola, in vista dello
sviluppo della carriera.

5. Indicazioni e interrogativi di percorso

Promulgata la legge, il ministero non è riuscito per l’inizio dell’anno scolastico


2003-2004, se non a continuare la sperimentazione iniziata già nel 2002,
Capitolo 4 pag. 64/65
provando – non senza contrasti da parte sindacale – a introdurre nei primi anni
del primo ciclo la lingua inglese e l’iniziazione all’informatica. Nel settembre 2003,
è stato reso pubblico il primo decreto attuativo della legge delega per il primo
ciclo, che però è soggetto ad un iter di controllo tale che non se ne potrà vedere
l’applicazione se non per l’anno scolastico 2004-2005.
Per intanto è ormai di dominio pubblico la documentazione relativa alla
sperimentazione (Il profilo del primo ciclo, le indicazioni nazionali, le
raccomandazioni).
Circola in bozza il profilo del secondo ciclo.
Proviamo su questa base documentaria ad evidenziare alcune indicazioni e
interrogativi di percorso.

5.1. Le «parole» e le «cose»

La legge e la documentazione relativa delle indicazioni nazionali per i piani


di studio ha messo in circolo parole nuove, che intendono «dire» l’idea e
la prospettiva sottese all’azione politica di riforma. E così, se nel periodo
Berlinguer-De Mauro, abbiamo aggiornato il vocabolario pedagogico con le
parole «magiche» dell’autonomia, del curricolo, del POF, delle funzioni obiettivo,
della trasversalità, del laboratorio, della multimedialità, degli istituti comprensivi
e tant’altro (cf Fiorin e Cristanini, 1999), la presente «via» di riforma ci offre
le «nuove» parole: piani di studio personalizzati (PSP o anche PPAE, vale a
dire Piani Personalizzati delle Attività Educative), profilo educativo, culturale
e professionale (Pecup), Indicazioni nazionali, Raccomandazioni, funzioni
strumentali, convivenza civile, ologramma, poliarchia, sussidiarietà orizzontale e
verticale, tutta una serie di aggettivazioni per gli obiettivi, o generali del processo
educativo, o specifici dell’apprendimento (OSA), o formativi (OF), e per le
Capitolo 4 pag. 65
conoscenze (c. dichiarative, condizionali, procedurali) unità di apprendimento
(UA), competenze (specifiche e trasversali), gruppo classe e gruppo laboratorio,
portfolio, laboratorio e Larsa, maestro prevalente, tutor, valutazione esterna (a
cura dell’Invalsi) e valutazione interna (cf Sacristani Mottinelli, 2003, ma anche
l’inizio delle Raccomandazioni per il primo ciclo).
Ovviamente non si tratta di mere parole o di termini codificati. Essi veicolano
in qualche modo la teoria dell’apprendimento e la teoria della scuola che sono
sottese e guidano l’azione di riforma; e per altro verso, nella loro concertazione,
sono anche allusivi delle scelte strategiche e delle metodologie generali secondo
cui si vuole attuare e operare per la riforma. In tal senso traghettano scelte forti
circa questioni rilevanti per il futuro delle persone e della Repubblica. Per questo
meritano attenzione e vigilanza critica: a cominciare dalla parola chiave che
regola e coordina con funzione, appunto, ologrammatica, tutte le altre: la parola
«persona».

5.2. Curricolo e piani di studio personalizzati

È stato detto a più riprese e in più sedi che la riforma Moratti intende andare
oltre la logica stessa dei curricoli, ancora troppo istituzionale ed ufficiale e quindi
ancora distante dai mondi vitali personali dei «soggetti che apprendono». La
centralità di quest’ultimi, già conclamata nella riforma Berlinguer-De Mauro,
sarebbe da tale logica piuttosto messa in questione, in quanto ridotti o ricondotti
ad «oggetto» di insegnamento e comunque a «destinatari» dell’azione scolastica.
Ma l’enfasi sui piani di studio personalizzati può risultare (e far rimanere in)
una posizione puramente reattiva, in quanto si presta a cadute di cui si accusa
il principio della teoria della Qualità Totale («la soddisfazione del cliente prima
di tutto »), vale a dire una visione della scuola-servizio, della scuola-mercato,
Capitolo 4 pag. 65/66
della scuola-bazar. Il POF, da «documento fondamentale costitutivo dell’identità
culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche» (Regolamento dell’autonomia,
a.
3, c. 1) rischia di scadere a «cartello pubblicitario di offerta»; la «progettazione
curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole
adottano nell’ambito della loro autonomia» (Ibidem) può essere estenuata
dalla contrattazione «particolare» (e magari non sempre «illuminata» o
orientativamente «capace») dei giovani e delle famiglie (assurti al ruolo di
«utenti» e di «clienti»); mettendo pericolosamente a rischio la intrinseca e storica
funzione propositiva culturale e democratica della scuola e degli istituti/centri di
formazione professionale.

5.3. Soggetto che apprende e scuola comunità di apprendimento

Indubbiamente la documentazione ministeriale di attuazione della legge delega


attesta una chiara scelta personalistica, altamente encomiabile soprattutto a
fronte di paventati scivolamenti funzionalistico-economicistici di tutto il sistema
educativo pubblico.
Tuttavia tutto (e i due profili in particolare) sembra essere centrato sul soggetto
persona individuo che apprende, che ha da costruire la sua autonomia e la
sua maturazione, anche se è chiamato ad essere responsabile, a collaborare
e cooperare con gli altri, a convivere civilmente con gli altri. Il focus è sempre
sull’individuo, non su un noi (gruppo, classe, scuola) che apprende. Il «contesto»
sembra solo «con-tornare» il «testo»: è un soggetto che apprende in contesto
e in situazione, non dei soggetti, una comunità di studenti, un popolo che
apprendono! Non c’è il rischio di una sorta di neo-liberismo pedagogico, reattivo
rispetto al «collettivismo» e al «soggettivismo socializzante» del recente passato?
Capitolo 4 pag. 66
Nei profili sembra aver vinto questa prospettiva personalistico-individualistica,
meno quella personalistico-comunitaria. Si intende dire che è stata data poca
attenzione alla scuola e agli istituti e a qualsiasi altro luogo di istruzione e
formazione pubblica nel loro essere – non solo e non tanto materialmente
ma in primo luogo come comunità di persone – «comunità educativa di
apprendimento», in cui i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto
loro compete, interagiscono e agiscono «insieme» per il conseguimento dei fini
istituzionali, sociali e individuali, del sistema educativo di istruzione e formazione
pubblica. Una tale prospettiva comunitaria è, invece, prefigurata nell’art. 1 dello
Statuto delle studentesse e degli studenti (DPR 25 giugno 1998, n. 249). E
più largamente, era, del resto, una prospettiva presente nella Premessa dei
Programmi rinnovati delle medie del 1979, dove si diceva che «la scuola media
risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione
personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano». Può essere
interessante, in proposito, evidenziare il nesso che nel Titolo V, a. 118, viene
posto tra cittadino-singolo e cittadino-associato, tra autonomia e interesse
generale, tra autonomia e sussidiarietà (orizzontale e verticale): «Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà».
Alla fin fine si tratterebbe di assumere a principio motore pedagogico
dell’attuazione della legge delega l’espressione di P. Freire: «nessuno educa
nessuno, nessuno è educato da nessuno; ci si educa insieme». In fin dei
conti si tratterebbe di dare maggior corpo a quell’«insieme». Esso sarebbe da
tener presente non solo nella «convivenza» con l’altro (e con le molte forme di
«alterità»), ma da allargare oltre le dinamiche e le interrelazioni del tipo io-tu in
quelle più ampie del «noi» personale, storico, sociale, istituzionale, professionale.
In questa linea di corresponsabilità compartita dei soggetti (e degli interessi)
Capitolo 4 pag. 66/67
del sistema educativo a tutti i livelli (che trova la sua figura-luogo nella
«comunità educativa di apprendimento»), acquisterebbero tutto il loro senso le
strategie invocate del gruppo classe, del gruppo laboratorio, dei Larsa, della
personalizzazione.
Ma si potrebbe evitare anche il punto morto della «quotizzazione» nazionale,
regionale e scolastica, che nella sua pesantezza quantitativa, potrebbe rendere
molto faticosa (se non vana) l’opera «autonoma» delle istituzioni scolastiche e
formative; e alla fin fine gli stessi piani di studio personalizzati.

5.4. La «formazione spirituale e morale»

Un altro ambito che valeva la pena di evidenziare e tradurre in «indicazioni» (e


esplicitarlo maggiormente nei Profili), anche e proprio ai fini dell’apprendimento,
era quello della «formazione spirituale e morale» il cui conseguimento si dice di
volere promuovere (L. 53/2003, a. 2, c. 1 lettera b).
Si tratta, indubbiamente di una bella novità, rispetto alla legge Berlinguer/De
Mauro.
Pensarla «appaltata» all’IRC, sarebbe riduttivo. Se si credesse, cioè, che essa
è attuata attraverso l’IRC sarebbe troppo poco e non risponderebbe all’ampiezza
che l’idea sembra comportare.
Tacerne, come si fa, nell’ambito dell’educazione alla convivenza civile non è
molto utile pedagogicamente e didatticamente.
Ariguardo dell’educazione alla convivenza civile ci sarebbe da precisare meglio
quale destino disciplinare essa ha; vale a dire, brutalmente, «chi la fa?»: perché
pensarla unicamente come «trasversale» è rischiare che resti solo sulla carta e
nelle pie intenzioni o lasciata esclusivamente all’impegno di «privati» insegnanti,
come è accaduto in passato con l’«educazione civica» o con l’«educazione alla
Capitolo 4 pag. 67
convivenza democratica».
Ma andando sullo specifico, sembra che nell’ambito dell’educazione alla
convivenza civile sia sottovalutata la rilevanza delle religioni e della religiosità
nella società multiculturale (ma anche multietnica e multireligiosa) dell’era della
globalizzazione; e non sia «sfruttata» la valenza formativa di una spiritualità e di
una moralità che vada oltre l’ambito della moralità pubblica e di un’etica civile.
Inoltre, non coltivare adeguatamente la formazione spirituale e morale, come
«aspetto diffuso» e trasversale del processo di apprendere, depriva di una
risorsa anche «epistemologica» di prim’ordine: proprio in vista della costruzione
di quella crescita personale ricca e competente, responsabile ed aperta, ma
anche profonda e critica, che pure viene prefigurata nel Profilo. E ciò, soprattutto
se si pensa la dimensione spirituale nella sua globalità (che si allarga oltre la
dimensione propriamente religiosa o morale verso quella intellettuale, estetica,
contemplativa, estatica, mistica, come è nel termine tedesco «Geist» e
nell’«esprit de finesse» francese).
Infatti l’evidenziazione della dimensione spirituale permetterebbe di cogliere
meglio le possibilità di continuità/discontinuità, di sutura o di interruzione che
sussistono tra conoscenze, comportamenti ed atteggiamenti personali di fondo.
Una maggiore evidenziazione della dimensione spirituale nella sua vasta
gamma di movenze ed espressioni, avrebbe inoltre meglio dato ragione di una
«valutazione degli apprendimenti e del comportamento», voluta dalla 53/2003, a.
3, c.
1 lettera a), evitando che venisse o venga vista e magari praticata quasi solo
come ritorno del punitivo «voto di condotta». E avrebbero permesso di superare
la logica della separazione tra apprendimento e complessiva maturazione
della personalità e cogliere meglio l’intrinseca connessione degli aspetti e di
profonda interazione tra conoscenza e azione, comportamenti ed atteggiamenti,
individualità e socialità, personalizzazione e collaborazione: in un quadro di
Capitolo 4 pag. 67/68
scuola-comunità democratica dell’apprendimento.

5.5. La pedagogia del Profilo «alto»

Da parte degli estensori si è ripetuto il carattere di «bussola» dei Profili e di


«materia prima» delle «Indicazioni». Si è messo in evidenza il primario senso
di «normatività morale e pedagogica» che tali documenti hanno (vale a dire di
ispirazione dell’azione, di unificazione delle intenzioni e degli sforzi di tutti, non
di esecutività materiale e passiva, quasi si fosse ancora nella logica «vecchia»
dei programmi) (cf anche Lupidi Sciolla, 2003, XV). Ma l’impressione che le cose
possano risultare più dure del voluto intenzionalmente, viene a galla quando
si pensa al possibile peso che avranno al momento della valutazione finale
degli esami di stato (altro ambito di decretazione attuativa da determinare) le
«definizioni degli standard minimi formativi» (L. 53/2003, art. 7, c. 1 lettera c). Qui
si innesta la questione più vasta dell’interconnessione tra valutazione interna
di istituto e valutazione esterna (a cura dell’Invalsi) dell’apprendimento, che
potrebbe ingenerare una «selezione artificiosa» del ciò che è più e meno valido
apprendere, avendo per criterio non tanto la formatività personale quanto la
spendibilità economico-sociale.
Entrambi i Profili dimostrano un disegno «alto», specie quello del secondo ciclo.
Ma proprio per questo rischiano di risultare «sopradimensionati» rispetto alle
movenze vitali dei preadolescenti, adolescenti e giovani italiani, ragazzi e
ragazze, di queste ultime generazioni, che nel bene e nel male pagano lo scotto
della complessificazione e della globalizzazione.
Non si rischia il «bello, ma impossibile»? Quanto dei due profili è all’altezza
delle possibilità della crescita personale di appartenenti ad un’«età negata»,
ad una generazione «X», ad una «generazione senza», compressa e dilatata
Capitolo 4 pag. 68/69
insieme, infantilizzata e adultizzata allo stesso tempo, «allungata» nella sua
giovinezza, blandita a muoversi in maniera «soft» tra le pieghe dell’esistente,
con una identità debole e a basso tasso di progettualità, quasi solo a raggio di
quotidianità? Anche volendo sognare alla grande, un Profilo non dovrebbe tener
conto di queste movenze dell’attuale condizione adolescenziale e giovanile,
differente da quella che fu di Gentile o anche da quella dei difficili anni ’70?
Trovare i modi adatti di esprimerlo in un Profilo, aiuterebbe a tradurre in maniera
operativa i compiti specifici che la scuola di oggi ha rispetto al passato: si pensi
ad esempio al fatto di parlare oggi di sistema educativo (modo inconcepibile
o passibile di essere bollato come «fascista» solo trenta o venti anni fa); o si
pensi al modo di concepire oggi la funzione dell’orientamento, più personalistica
e esistenziale (rispetto ad una concezione di qualche decennio fa, puramente
informativa e relativa al futuro lavorativo). Una specificazione e articolazione
differenziata non eviterebbe che si abbiano risultanze discriminative e di
esclusione, piuttosto che di inclusione e di ricerca della «pari opportunità» di
successo formativo? E non aiuterebbe a capire meglio il lavoro educativo di
dirigenti, insegnanti, tutor, personale non docente, ecc.? Infatti, mai come
oggi, alla scuola è chiesto di mediare, sostenere, stimolare, attivare relazioni,
portandosi alle strutture profonde della personalità, ai «livelli di soglia»
dell’umano, là dove nasce l’impulso alla libertà creativa o dove si muore alienati
e conformisti; dove maturano le decisioni responsabili o dove ci si lascia
andare ai giochi ripetitivi dell’individualismo; dove il cuore si apre agli altri, alla
comunità, all’umanità (e a Dio), o dove ci si chiude negli egoismi individuali, di
gruppo o in quelli etnici o nazionalistici; dove le volontà si assumono gli impegni
e le conseguenze dei propri atti o dove ci si abbandona alla passività e alla
deresponsabilizzazione totale.
Un Profilo – lo si dice soprattutto per quello del secondo ciclo – non doveva
almeno accennare a questo «laborioso» modo di diventare persone, cittadini,
Capitolo 4 pag. 69
lavoratori, oggi, pur non rinunciando ad un pizzico di utopia dell’«eccellenza»?
Ma si vorrebbe insinuare un interrogativo più sottile. La pedagogia del Profilo
evidenzia il ciò che dovrebbe sapere, saper fare, saper essere (e «saper agire»,
come specifica il Profilo del secondo ciclo) lo studente «alla fine» del ciclo.
Insistere sul «alla fine», non rischia di bruciare il senso umano ed educativo del
cammino di crescita? Nella polivalenza del termine «fine», non si accentuerebbe
l’aspetto di «al-termine», di traguardo, di conclusione di percorso, piuttosto che
dell’aspetto di «orizzonte», di guida del cammino, di sole e di cielo di spazi e di
percorsi storici? Non sarebbe un ricadere nei limiti della pedagogia degli obiettivi
rispetto ad una pedagogia del fine? Non sarebbe un sofisticato richiedere di
«dover essere» (magari funzionalmente a intenzionalità del contesto) piuttosto
che di stimolo «ad essere» pienamente ed integralmente? Se così fosse – e
sinceramente si vorrebbe pensare che tale rischio non sussista e che non gli si
dia inintenzionalmente spago – non si tradirebbero le prospettive indicate nella
«Premessa» del Profilo del secondo ciclo, che parlano di uno spostamento di
accento dal prodotto al processo («non conta tanto la padronanza di determinati
contenuti o mansioni [...] quanto l’attivazione dei processi intellettuali, morali,
sociali, operativi, estetici, emotivi») e dai contenuti alla persona (il sapere, il
saper fare, l’agire, e la consapevolezza critica su di essi sono visti «come mezzi
ed occasioni per promuovere al massimo livello possibile la crescita personale
di ciascuno» in risposta alle «sfide della società tecnologica ed industriale
avanzata, della globalizzazione e dei suoi effetti, della società multiculturale e
della multimedialità»)?

6. Un percorso da aprire: l’istruzione e la formazione professionale

La legge delega intende assicurare a ognuno il diritto all’istruzione e alla


Capitolo 4 pag. 69/70
formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una
qualifica entro il diciottesimo anno di età. In altre parole, la legge si muove nella
linea della tendenza che è emersa recentemente in Europa al superamento del
concetto stesso di obbligo scolastico (Bertagna, 15 giugno 2003; Nicoli, 2002 e
2003).
In una società complessa come l’attuale la focalizzazione scolasticistica
– peraltro espressione dell’esigenza di pari formazione – perde di cogenza. I
percorsi con cui si consegue il successo formativo possono essere i più vari.
Inoltre, l’istruzione e la formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della
persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni
che le garantiscono devono operare in rete, in una prospettiva di solidarietà
cooperativa piuttosto che come alternative che si escludono tra loro. In questo
orizzonte di senso si parla, piuttosto, di promozione dell’apprendimento in tutto
l’arco della vita, nel senso che, come sottolineato dal rapporto Delors (1997), al
centro non c’è più il processo di insegnamento e il docente, ma il processo di
apprendimento dell’alunno e l’esigenza di renderlo capace di autoformarsi. Asua
volta, l’intervento didattico-formativo riguarda tanto le dimensioni diacronica
(l’intera esistenza) e sincronica (il formale, il non formale e l’informale), quanto
la promozione di tutta la persona, perché dovrà favorire la formazione culturale,
professionale ed emozionale, spirituale e morale e lo sviluppo della coscienza
storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla
civiltà europea (e noi aggiungiamo: mondiale e umana).
Anche l’iniziativa di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione
professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che
porti all’acquisizione di qualifiche e titoli, è in piena linea con le tendenze più
diffuse e avanzate del nostro continente. Infatti, la formazione professionale non
viene più concepita nella gran parte di paesi europei come un addestramento
finalizzato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, ma piuttosto
Capitolo 4 pag. 70
come un percorso capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della
persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla
riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di
costruzione dell’identità personale.
In tal senso, la legge Moratti, secondo alcuni, interromperebbe una deriva
delle politiche di riforma della secondaria superiore che ha dominato la scena
dal 1971 al 2001 e che si basava su quattro pilastri: una concezione del lavoro
non bisognoso di istruzione/formazione, l’educatività come caratteristica
esclusiva della scuola, la natura «ospedaliera» della formazione professionale,
la dissociazione tra cultura e professionalità. Essa supererebbe, invece, la
tradizionale gerarchizzazione e separatezza tra sistema dei licei e sistema
dell’istruzione e della formazione professionale; eviterebbe ogni confusione tra i
due, affermandone la pari dignità culturale; riscoprirebbe la cultura del lavoro e
delle professioni (Bertagna, 15 giugno 2003).
Il documento del Miur su «I licei nel secondo ciclo del sistema educativo di
istruzione e formazione», distingue tra «istituti» dell’istruzione e formazione
professionale e «licei». I primi «promuovono “sapere” e “cultura” attraverso le
conoscenze e le abilità necessarie per impadronirsi di determinate competenze
tecnico-professionali più o meno consolidate. I licei intendono raggiungere la
medesima finalità attraverso le conoscenze e le abilità necessarie per poter
esercitare le competenze teoretiche funzionali, da un lato, ad un’ulteriore
specializzazione conoscitiva da realizzare nell’ambito dell’università, dall’altro,
all’acquisizione di successive competenze tecnico-professionali complesse da
promuovere nei corsi di laurea, nella formazione professionale superiore, nell’alta
formazione e anche direttamente nel lavoro.
Ma come si concretizzeranno queste prospettive, tenendo conto che per l’art.
117 del titolo V l’istruzione e la formazione professione è di spettanza delle
Regioni? Ci permettiamo di avanzare alcune ipotesi (Malizia, 2003). Anzitutto
Capitolo 4 pag. 70/71
vanno chiaramente riaffermati i principi, non per tutti evidenti: vale a dire
che il sistema della istruzione e formazione professionale è finalizzato alla
formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento
e le realtà economiche e del lavoro e va dotato di strategie specifiche mirate
a una pedagogia del successo. Il nuovo canale dovrebbe possedere, rispetto
ai licei, una peculiare metodologia formativa basata su compiti reali, una vera
didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza anche tramite
tirocinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di
riferimento. Inoltre, gli dovrà essere assicurata rilevanza orientativa, in modo
da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il
progetto personale, il percorso intrapreso, comprese quindi le capacità personali
quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la
disposizione all’autonomia, alla responsabilità ed alla soluzione dei problemi, il
rispetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza.
Carattere fondamentale della metodologia da adottare è una forte integrazione
tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di
favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività
di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sapere teorico dovrà trovare
continuo collegamento ed applicazione in azioni concrete.
A monte andranno garantite una serie di condizioni di sistema che possano
assicurare una offerta formativa diffusa su tutto il territorio nazionale e che
raccolga una percentuale vicina alla metà di una leva d’età. Per il principio di
sussidiarietà l’appartenenza al nuovo canale non significa l’adesione a un unico
modello gestionale predeterminato, ma è consentita una varietà di soluzioni
operative. Il modello di offerta delinea un percorso formativo progressivo, che
è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai precludere
la possibilità di proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al
termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio
Capitolo 4 pag. 71/72
cammino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione
della realtà, seguendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di
qualifica (certificato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione
professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale
superiore). Al nuovo canale vanno garantite stabilità di organici, autonomia,
distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei
bandi, trattandosi di attività formative destinate a minori per cui vale l’obbligo
formativo. Ciò coinvolge competenze differenziate a livello nazionale, regionale e
locale.
Il quadro appena delineato ci permette di avanzare una prima valutazione
dell’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (Accordo Stato-Regioni su
istruzione e formazione, 2003).
È senz’altro positivo che l’attivazione dei corsi di istruzione e di formazione
professionale, rivolti alle ragazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di studi,
manifestino la volontà di accedervi, non sia troppo rimandata. Il raggiungimento
dell’accordo e l’emanazione del testo hanno evitato la perdita di un altro anno
scolastico-formativo. In questa stessa linea è da considerare un passo avanti
l’affermazione che i percorsi appena citati debbano avere una durata almeno
triennale.
Inoltre, ai fini dei passaggi fra sistemi vengono riconosciuti i crediti formativi,
acquisiti non solo negli itinerari appena ricordati, ma anche sull’apprendistato;
in aggiunta si conviene sull’esigenza di attivare un percorso articolato di
partenariato istituzionale a livello nazionale, entro il 15 settembre 2003, in
raccordo con il livello regionale, per la definizione degli standard formativi minimi.
Il problema sarà, anche qui, in primo luogo, il rispetto dei tempi tecnici.
Ma ad un livello pedagogico più profondo non sembra superata
nell’impostazione dell’accordo la natura di «crocerossa» che viene attribuita
ancora preminentemente al canale di istruzione e di formazione professionale
Capitolo 4 pag. 72
(cioè di puro salvataggio di «drop-out»). Sembra inoltre che continui a essere
messa in primo piano una idea di «integrazione» che riduce la formazione
professionale a laboratorio tecnico della scuola. L’accordo pare anche legittimare
unicamente l’impostazione disciplinare a scapito di quella di area. Inoltre, vanno
sottolineate due assenze: delle azioni di personalizzazione e della continuità
formativa verso la formazione superiore.
Peraltro, su questa materia c’è da fare i conti con prassi ed opinioni piuttosto
distanti dall’impostazione ministeriale: si allude per un verso alla legge Bastico
dell’Emilia Romagna che di fatto tende ad accreditare solo la formula della
integrazione sopraddetta, e peraltro verso alle proposte della Confindustria che
chiedono di situare l’aristocrazia dell’istruzione tecnica tra gli indirizzi del liceo
tecnologico (Sacchi, 2003; Confindustria, 2003). Questa seconda opinione circola
anche tra operatori scolastici, che pretendono di pensare gli istituti tecnici come
licei tecnologici e al tempo stesso intenderebbero mantenere una impostazione
da istruzione/formazione professionale (continuando l’anacronismo di parlare di
istruzione tecnica invece che di istruzione e formazione professionale).

7. Conclusione: la riforma prima ed oltre la legge delega

Al punto in cui ci si trova, dando uno sguardo indietro a quanto è stato attuato
– almeno a livello legislativo – e al molto che rimane da fare, si ricava l’immagine
di un processo di riforma con ampi aspetti innovativi, non solo nel linguaggio; e
neppure solo per la volontà di arrivare ad una scuola che assicuri il «successo
formativo» rapportato alle necessità dell’esistenza contemporanea, alla sua
complessità e alle esigenze «rivoluzionarie» delle nuove tecnologie informatiche
e telematiche. Pur nel composito gioco della compromissione politica, sembra
abbastanza chiaro che si vada oltre un sistema educativo pubblico solo
Capitolo 4 pag. 72/73
funzionale allo sviluppo economico e a chi pretende di cavalcare la tigre del
mercato internazionale.
L’educatività della scuola, la finalizzazione dell’istruzione e della formazione al
pieno sviluppo delle persone, la centralità dei soggetti che apprendono, la chiara
impostazione prospettica di educazione permanente, la ricerca dell’integrazione
tra teoria e prassi nella didattica: sono acquisizioni pedagogiche precise, per
quanto ideali. Forse, come si accennato, è meno chiara una prospettiva
collaborativa e solidaristica dello stesso apprendere.
Ma, di là delle iniziative ordinamentali, appare molto urgente la formazione
dell’opinione pubblica e la ricerca del consenso di genitori e studenti, al
fine di superare le posizioni puramente reattive e pregiudizialmente inerziali
all’innovazione e al cambio di impostazione e di mentalità che la riforma, quella di
ieri e quella di oggi, richiede da tutti, dentro e fuori della scuola e delle istituzioni
formative.
Verosimilmente, da molta parte dell’opinione pubblica, sono ancora da «digerire»
varie prospettive di fondo connesse con la riforma della scuola: l’impostazione,
che deriva dal nuovo titolo V della Costituzione di una istruzione e di una
formazione basate sull’autonomia e la sussidiarietà, in un sistema poliarchico; la
pari dignità formativa dell’istruzione e della istruzione/formazione professionale;
una impostazione «ologrammatica» dell’apprendere; e più largamente l’idea
di un sistema educativo di istruzione e di formazione «della società» e della
«Repubblica», non dello Stato o delle Regioni o dei privati. Altrettanto è da dire
per una idea largamente diffusa di una certa equivalenza di «pubblico» con
«statale»; e fors’anche di un certo modo di intendere – rispetto al «privato»
– il «pubblico» (non molto considerato nelle sue aggregazioni di società
civile, di associazionismo, di movimenti, di organizzazioni non governative, di
volontariato).
In aggiunta è da dire che al di là ed oltre le critiche alle leggi o alle proposte
Capitolo 4 pag. 73
di riforma, è da evidenziare, quasi previamente, che persistono gravi difficoltà
strutturali, di servizi, di finanziamento. E, primo tra tutti, risulta ancora più
complicato il problema della formazione, del reclutamento, dell’aggiornamento
e della carriera degli insegnanti e dei formatori. Mentre, infatti, tutti ribadiscono
che gli insegnanti e i formatori sono la chiave di volta della riforma, non sembra
che li si aiuti molto a entrare nella logica della riforma o che si permetta loro di
aggiornarsi e a non avere, invece, sulle spalle un peso ulteriore al loro già non
facile compito civile di dare corpo al diritto di tutti all’educazione, all’istruzione
e alla formazione per essere persone, lavoratori e cittadini di qualità, come la
Costituzione auspica e richiede di attuare.
E dispiace anche che le scelte dei tempi e dei modi attuativi siano pesantemente
subordinati dalle scelte economiche: perché viene a galla qual è l’ordine delle
priorità che il governo ha in testa, al di là delle proclamazioni propagandistiche.

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pp. 4.

Capitolo 4 pag. 75
CAPITOLO 5

RIFORME E IRC.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Sergio Cicatelli

1. Le finalità della scuola

La scuola italiana sta attraversando una complessa fase di riforme, che si


ripercuote necessariamente sull’IRC per il legame che esso ha con il sistema
all’interno del quale si trova ad essere inserito. Le vicende del sistema scolastico
non possono infatti rimanere estranee all’IRC, che è una realtà storica in
continua evoluzione, al pari della scuola e del mondo in cui viviamo.
Punto di partenza per motivare il confronto tra riforme e IRC è l’impegnativa
affermazione del secondo Concordato, che vuole l’IRC inserito «nel quadro delle
finalità della scuola». Queste finalità devono essere in primo luogo ricavate dalla
Costituzione e, in secondo luogo, dalla legislazione scolastica.
La finalità più importante della scuola può essere individuata nello sviluppo della
persona umana, che è senz’altro uno dei valori principali posti alla base della
nostra Costituzione. La Repubblica italiana, infatti, «riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo» (Cost., art. 2), attribuendo a tutti i cittadini pari dignità,
«senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali» (Cost., art. 3) ed impegnandosi a rimuovere gli

Capitolo 5 pag. 76
ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (ibidem).
Il legislatore ha applicato questa linea di pensiero alla scuola, finalizzandone
l’attività alla «piena formazione della personalità degli alunni» (DLgs 297/94,
art. 1) e ribadendo con l’ultima legge di riforma che il sistema di istruzione e
formazione italiano ha il «fine di favorire la crescita e la valorizzazione della
persona umana» (legge 53/03, art. 1).
L’IRC deve dunque fare proprio questo principio, che peraltro retroagisce sullo
stesso IRC, in quanto il pieno sviluppo della persona non può fare a meno
dell’attenzione alla sfera religiosa, non per una discutibile scelta confessionale o
per un malcelato intento proselitistico, ma per la constatazione di un innegabile
dato di fatto, costituito dalla presenza della religione nella storia dell’uomo, e
della religione cattolica nella storia degli italiani.

2. Una pluralità di riforme

Il mondo della scuola è un sistema articolato che non si presta ad un esame


analitico ma richiede uno sguardo sintetico per essere valutato nel suo insieme e
nella sua complessità. Gli interventi riformatori di questi anni stanno modificando
in maniera significativa il volto della scuola italiana e rivelano ancora una volta
come sia difficile isolare un singolo aspetto dal contesto nel quale si colloca: è
sempre più difficile infatti agire su un settore senza produrre conseguenze in tutto
il resto del tessuto scolastico nazionale.
Ancora più difficile è poi orientarsi in una fase di transizione come l’attuale, in
cui alcune azioni riformatrici sono compiute dal punto di vista del legislatore
(la legge 53/03) ma non da quello dell’amministratore (mancano tutti i decreti
attuativi), altre riforme appena concluse attendono già una nuova revisione
(il Titolo V della Costituzione, appena riformato, dovrebbe subire una nuova
Capitolo 5 pag. 76/77
modifica nella direzione di un più spinto federalismo amministrativo), e altre
riforme apparentemente consolidate (l’autonomia) devono già fare i conti con
disposizioni che ne possono ridimensionare in qualche modo la portata. Sarebbe
dunque più corretto parlare di riforme al plurale, anche se il processo in corso
mira ad un disegno unitario. L’ex ministro della pubblica istruzione Berlinguer
aveva usato l’immagine del «mosaico» per rendere efficacemente la pluralità
e complessità degli interventi progettati per la scuola. La metafora è stata poi
abbandonata ma il quadro si presenta ancora come un puzzle cui mancano dei
frammenti e che solo alla fine dell’intero processo potrà risultare comprensibile.
Nell’impossibilità di proporre una sinossi completa, si adotta qui una chiave di
lettura che individua nell’autonomia e nella riforma Moratti i due poli intorno ai
quali si sta ricostruendo la scuola italiana. I punti di riferimento giuridici sono
sostanzialmente il regolamento dell’autonomia, il Dpr 275/99, e la legge di
riforma degli ordinamenti, la legge 53/03. Con una ulteriore metafora possiamo
dire che la legge 53 è la rete stradale sulla quale si circola grazie al codice
dell’autonomia: da una parte il sistema delle strutture, dall’altra il sistema delle
regole.
L’autonomia ha determinato alcune modalità di ricostruzione del sistema
scolastico (come il codice stradale condiziona la costruzione di strade e
automobili), ma anche la riforma scolastica ha agito sull’autonomia, quanto meno
precisando alcune interpretazioni ancora incerte (come lo sviluppo tecnologico
nella costruzione delle strade e delle auto impone revisioni al codice stradale).

3. Riforma degli ordinamenti e autonomia

Già la legge 30/00, legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione,
approvata dalla maggioranza di centrosinistra nella scorsa legislatura, aveva
Capitolo 5 pag. 77
istituito il «sistema educativo di istruzione e di formazione», coniando una
locuzione che è stata mantenuta anche nella legge 53/03, approvata in questa
legislatura da una maggioranza di centrodestra. È importante sottolineare
questo fattore di continuità per concentrare l’attenzione su aspetti strutturali
che non sono legati alla mutevolezza della politica italiana ma corrispondono
all’evoluzione fisiologica dell’universo scolastico.
Va dunque ricordato che la scuola italiana costituisce un sistema, cioè una
struttura complessa le cui singole parti interagiscono necessariamente fra loro
con una logica sostanzialmente unitaria. Rispetto alla condizione precedente
e tuttora vigente, in cui la scuola si è andata costruendo per stratificazioni e
aggiunte successive, l’intento è oggi quello di dar vita a un unico intervento che
su diversi livelli possa far nascere un insieme coerente, articolato e funzionale.
Ma se da un punto di vista formale la legge 53/03 è un testo unitario che si
articola in varie direzioni, deve pur sempre tenere conto – come si vedrà – di altri
condizionamenti giuridico-istituzionali.
Il sistema si qualifica innanzitutto come educativo, cioè finalizzato alla crescita
integrale della persona e allo sviluppo delle sue potenzialità, e si articola nei
due sottosistemi dell’istruzione e della formazione: all’istruzione corrisponde
l’insegnamento (e il correlativo apprendimento) che viene realizzato nelle
scuole di ogni ordine e grado; alla formazione corrisponde invece l’azione svolta
nei centri di formazione professionale con una più specifica e diretta finalità
professionalizzante.
I due versanti della cultura teorica (la mente) e della cultura applicata (il braccio)
si trovano dunque riuniti, con pari dignità, in un unico sistema che esprime
una sensibilità educativa attenta ad ogni aspetto del vivere quotidiano. Le
dichiarazioni di principio, però, attendono ancora una concreta realizzazione.
Da parte sua, l’autonomia delle istituzioni scolastiche ha dato vita a un vero e
proprio sistema di autonomie, policentrico e plurale, che lascia al potere centrale
Capitolo 5 pag. 77/78
solo funzioni di indirizzo per assicurare comunque l’unitarietà del sistema
educativo nazionale.
Lo spirito dell’autonomia scolastica può essere ricondotto a due concetti
fondamentali: flessibilità e integrazione. La flessibilità è il principio ispiratore di
tutti quegli interventi che puntano a superare la tradizionale rigidità del sistema
scolastico italiano, fin dalle origini caratterizzato da un accentuato centralismo.
L’integrazione è in un certo senso la conseguenza e la manifestazione del
decentramento che va a correggere quel centralismo e che si concretizza nel
passaggio da un sistema verticale di relazioni (vertice-base, centro-periferia)
ad un sistema orizzontale di relazioni reticolari tra agenzie formative e sedi
istituzionali.
La flessibilità si manifesta in scelte didattiche ed organizzative più rispondenti
alle esigenze del servizio scolastico e consente di costruire percorsi di
insegnamento/ apprendimento individualizzati o quanto meno attenti alle
differenti caratteristiche degli alunni. L’insegnante non è più l’esecutore
(non lo è più da tempo) di programmi stabiliti centralmente ma l’adattatore
di indirizzi generali ed obiettivi di apprendimento al contesto effettivo in cui
opera (la tipologia di scuola, la classe, l’alunno), mostrando così tutte le sue
caratteristiche di vero professionista della scuola. La rigida specializzazione
disciplinare della scuola tradizionale deve lasciare il posto (ed anche questo
lo sta già facendo da tempo) ad una ricostruzione dei saperi a partire dalle
esigenze e competenze reali degli alunni, che si muovono in una dimensione
molto più inter- o pluridisciplinare di quanto le partizioni disciplinari vorrebbero.
La logica dell’integrazione perciò impone il dialogo tra le materie scolastiche,
tra il curricolare e l’extracurricolare, più in generale tra la scuola e l’extrascuola
(scuola e famiglia, scuola e mondo dei pari, scuola e altre agenzie educative), e
più istituzionalmente tra la scuola e il territorio, tra scuola ed enti locali, tra scuola
e società civile, tra scuola statale e scuola non statale, tra scuola e scuola: tutto
Capitolo 5 pag. 78
ciò per realizzare una maggiore sintonia tra il mondo dell’alunno e la proposta
educativa che gli viene presentata.

4. La riforma della Costituzione

L’autonomia scolastica ha avuto anche un importante riconoscimento con la


legge costituzionale n. 3 del 18-10-2001 di riforma del Titolo V della Costituzione.
Il nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione riconosce infatti esplicitamente
l’autonomia delle istituzioni scolastiche e ne costituzionalizza l’esistenza.
Ciò che è più importante però è il sistema di rapporti istituzionali che si
sono venuti a creare, sempre in materia di istruzione, tra il legislatore statale
e il legislatore regionale, oggi titolari di potestà di legislazione esclusiva e
legislazione concorrente (cioè complementare) su diverse materie.
Spettano esclusivamente allo Stato le «norme generali sull’istruzione»; spettano
invece esclusivamente alle Regioni l’istruzione e la formazione professionale;
sono infine oggetto di legislazione concorrente delle Regioni tutte le norme che
non appartengono a nessuna delle due categorie sopra indicate, fatta salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche che rientra ovviamente tra le competenze
esclusive dello Stato.
Il quadro non è semplice ma rischia di complicarsi ancora di più con le
prospettive di ulteriore riforma che spingono verso un più accentuato
federalismo amministrativo, con l’intento di semplificare il sistema attribuendone
completamente la gestione alle Regioni anche per quanto riguarda importanti
aspetti didattici.
Nel gioco delle attribuzioni di poteri non è facile orientarsi a prima vista e
sarà inevitabile prevedere un periodo sufficientemente lungo di assestamento.
La legge 53/03 descrive una condizione senz’altro nuova per l’istruzione
Capitolo 5 pag. 78/79
professionale, finora gestita dallo Stato, che si andrà ad aggiungere alla
formazione professionale, fin dall’origine di competenza regionale. L’abbinamento
dei due settori darà vita probabilmente a una terza realtà dall’identità e dalla
consistenza ancora indefinite e imprevedibili, con conseguenze rilevanti sul
restante sistema di istruzione, che a livello secondario si vedrà ridotto al solo
sottosistema liceale (peraltro ampliato).
Non c’è solo il problema del personale, che dovrà trovare una collocazione tra
il versante statale e quello regionale, ma anche l’identità del secondo canale
formativo non è ancora ben chiara e proprio la posizione dell’IRC potrebbe
contribuire a rivelarla, dato che esso è presente nell’istruzione professionale
statale ma è assente nella formazione professionale regionale, a testimonianza
di due diverse intenzionalità educative, più generale nel primo caso e più
specifica nell’altro.

5. Il principio di sussidiarietà

In mezzo a tanti interventi innovativi, una possibile chiave di lettura unitaria


delle riforme in corso è il loro esplicito e ripetuto riferimento al principio di
sussidiarietà, che appartiene da tempo alla dottrina sociale della Chiesa e trova
ora riconoscimento e applicazione ufficiale in numerosi testi di legge.
Il principio di sussidiarietà può essere enunciato con le parole di Pio XI nella
Quadragesimo anno (n. 80): «siccome è illecito togliere agli individui ciò che
essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla
comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che
dalle minori e inferiori comunità si può fare». Più volte citato e richiamato nel
magistero sociale della Chiesa, detto principio è stato riformulato in tempi recenti
da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (n. 48) nei termini seguenti: «una
Capitolo 5 pag. 79/80
società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di
ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla
in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre
componenti sociali, in vista del bene comune».
La legge 59/97 è la prima ad applicare esplicitamente il principio di sussidiarietà
nell’impegnativa riforma della pubblica amministrazione. Al comma 3 dell’art. 4
(nell’art. 21 si istituisce l’autonomia scolastica) l’intera operazione di riforma
è posta sotto l’insegna di vari principi fondamentali, primo dei quali è proprio
«il principio di sussidiarietà, con l’attribuzione della generalità dei compiti e
delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane,
secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con
l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime,
attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento
di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni
e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini
interessati».
Sulla stessa lunghezza d’onda si pone la riforma costituzionale (legge 3/01)
che fa concludere il nuovo art. 118 affermando che «Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base
del principio di sussidiarietà». Ed anche il nuovo art. 120 cita espressamente lo
stesso principio.
La legge 53/03 non esplicita tale riferimento, ma l’intero impianto della legge
può in qualche modo rinviare a questo principio, per esempio quando dichiara di
perseguire la fondamentale finalità dello sviluppo della persona «nel rispetto...
delle scelte educative della famiglia, nel quadro della cooperazione tra scuola
e genitori, in coerenza con il principio di autonomia delle istituzioni scolastiche
e secondo i principi sanciti dalla Costituzione» (art. 1, c. 1). È la fine, o quanto
Capitolo 5 pag. 80
meno il tendenziale superamento, della scuola-istituzione, del movimento
discendente dal centro alla periferia, in nome di una scuola-comunità che dal
basso, o quanto meno tenendo conto delle realtà locali o familiari, ridefinisca la
propria identità.
Coerentemente con il contenuto stesso del principio enunciato, non si tratta di
una imposizione dall’alto ma della naturale evoluzione di una scuola che fin dai
decreti delegati del 1974 era stata definita «una comunità che interagisce con la
più vasta comunità sociale e civica» (Dpr 416/74, art. 1).

6. Da Berlinguer alla Moratti

Visto il quadro istituzionale nel quale si va a collocare la riforma (o le


riforme) della scuola italiana, non meno complesso è il tentativo di ridefinire
concretamente gli stessi modi del fare scuola, la sua organizzazione, i ruoli e le
competenze degli insegnanti.
Se la scuola è soprattutto insegnamento/apprendimento, relazione educativa,
didattica efficace, una riforma della scuola affidata a interventi legislativi che
incidano solo sull’architettura del sistema sarebbe probabilmente poca cosa, in
quanto restyling superficiale. Se il fare scuola quotidiano non fosse intaccato
dalla riforma, vorrebbe dire che questa non ha realmente riformato la scuola.
Ma d’altra parte, la didattica è un’attività tecnica affidata alla competenza degli
insegnanti, e una «didattica di stato» sarebbe una pericolosa invasione di campo
ai danni della libertà di insegnamento. Nel delicato equilibrio tra questi due
estremi si muove la legge 53/03 per rinnovare nei fatti la scuola, ricercando il
difficile consenso dei suoi operatori.
L’impianto pedagogico della riforma Moratti è in gran parte ricavabile dalla
sperimentazione promossa nel settembre 2002. Il testo della legge 53/03 è
Capitolo 5 pag. 80/81
infatti avaro di particolari per chi voglia capire come davvero funzionerà la
scuola di domani, ma i documenti allegati al DM n. 100 del 18 settembre 2002
contengono i passaggi salienti del rinnovamento ordinamentale e didattico e
possono soddisfare la curiosità di chi si sia dedicato ad una loro lettura attenta.
Si recupera in questi testi buona parte del lavoro compiuto dalla Commissione
Bertagna nel 2001, i cui risultati erano sembrati in un primo momento archiviati
subito dopo gli Stati Generali della scuola del dicembre 2001.
Tra tutti gli allegati al DM 100/02 (Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia
e per la scuola primaria, Raccomandazioni per la scuola dell’infanzia e per la
scuola primaria, Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla
fine del primo ciclo di istruzione e Guida alla lettura) solo Profilo e Indicazioni
nazionali per i diversi tipi di scuola figurano tra gli allegati al decreto legislativo
approvato dal Consiglio dei ministri il 12 settembre 2003 per l’applicazione della
legge nel primo ciclo di istruzione. Ed è soprattutto il Profilo a meritare una
particolare attenzione perché la sua stessa presenza è indicativa del metodo che
caratterizza la riforma. Il Profilo vorrebbe essere infatti il fondamento dell’intera
nuova costruzione, ma proprio la sua strutturale novità sta costringendo a un
rallentamento del processo applicativo.
Coerentemente con l’intento di dar vita a una riforma di sistema che modifichi
struttura e modalità operative dell’intera scuola italiana, la scelta è quella
di seguire una procedura deduttiva nella costruzione del nuovo panorama
scolastico: fissare innanzitutto i principi generali o gli obiettivi di riferimento e
su di essi modellare applicazioni ed articolazioni successive. La centralità della
persona, dichiarata in apertura della legge 53/03, conduce quindi a definire
innanzitutto proprio la persona che si vuole realizzare attraverso i piani di studio,
gli obiettivi generali e specifici, le unità di apprendimento e le stesse discipline.
Finora invece – forse perché siamo tutti già passati, come alunni e come
insegnanti, attraverso la scuola preesistente – ci risultava più spontaneo seguire
Capitolo 5 pag. 81
una procedura induttiva: a partire dalle discipline costitutive di ogni curricolo di
studio si cercava di identificare e ricostruire a-posteriori il progetto educativo
sottostante alla scuola o ad un certo tipo di scuola, e quindi la persona che quella
scuola intende formare.
È questo un passaggio importante, quantunque non dichiarato, per segnare
il processo teorico dai principi ispiratori della riforma Berlinguer a quelli della
riforma Moratti. Se infatti andiamo a riprendere il documento di sintesi prodotto
dalla Commissione Maragliano nell’aprile 1998 sui cosiddetti «saperi essenziali»
(operazione mediatica preliminare a quella riforma, che possiamo considerare
equivalente agli Stati Generali), troviamo in premessa la dichiarazione di due
principi che sono presentati come condivisi da tutti i membri del gruppo (R.
Maragliano, C. Pontecorvo, G. Reale, L. Ribolzi, S. Tagliagambe, M. Vegetti):

«1. nella definizione dei fondamentali occorre muovere non da un a-priori


ideologico, dall’immagine di un individuo ideale, ma dall’esigenza di definire
saperi e valori che possano risultare comuni a tutti i cittadini, indipendentemente
dalla religione, dall’etnia, dallo stato sociale, dal sesso, al termine del percorso
della scolarità obbligatoria (quale che sia l’ambito in cui avviene), su una durata
probabile di dieci anni;

2. è opportuno ragionare non tanto di materie o di programmi, quanto delle attese


delle componenti della società civile (ragazzi, famiglie, mercato del lavoro), e
anche delle attese dei professionisti della scuola».

Mentre nel secondo punto (che per certi aspetti può costituire un motivo di
continuità tra le due prospettive riformatrici) si dichiara di non avere di mira le
materie scolastiche ma le attese sociali nei confronti della scuola (la legge 53/03
però privilegia le esigenze della persona sulle richieste della società), nel primo
Capitolo 5 pag. 81/82
comma si intende partire proprio da saperi e valori comuni a tutti, che si presume
debbano contribuire a costruire il profilo dello studente al termine della scuola
dell’obbligo.
In altre parole, prima i contenuti e poi la persona, mentre ora il processo sembra
invertirsi con la definizione preliminare di un Profilo dello studente, che non è
comunque un tipo ideale o un a-priori ideologico. Rispetto a una scuola che
avrebbe voluto incidere poco sull’educazione delle persone, lasciando spazio ad
altre agenzie educative, la riforma Moratti intende attribuire alla scuola una nuova
centralità, pur se in dialogo consapevole con i sistemi informali (vita sociale,
mass media, ecc.) e non formali (associazioni, Chiesa, ecc.) di educazione,
secondo la logica della sussidiarietà che si è prima richiamata.

7. Il Profilo dello studente

Nella versione allegata al DM 100/02, il Profilo del primo ciclo di istruzione è


stato presentato come l’esplicitazione di «ciò che un ragazzo di 14 anni dovrebbe
sapere e fare per essere l’uomo e il cittadino che è lecito attendersi da lui in
questo momento della sua crescita globale». In una parola, il Profilo vorrebbe
definire le «competenze» del quattordicenne medio, cioè la rielaborazione
personale di conoscenze e abilità acquisite nel corso degli studi scolastici e non
solo.
Il Profilo propone quindi un repertorio abbastanza ampio di azioni, espresse
per lo più con i classici verbi all’infinito della tradizionale programmazione per
obiettivi e articolato in quattro sezioni:
1) Identità ed autonomia: operare scelte personali ed assumersi responsabilità;
2) Orientamento: fare piani per il futuro, verificare e adeguare il proprio progetto
di vita;
Capitolo 5 pag. 82
3) Convivenza civile: coesistere, condividere, essere corresponsabili;
4) Strumenti culturali per leggere e governare l’esperienza.
Le prime due parti investono la costruzione della personalità stessa dell’alunno,
la terza rinvia alla dimensione trasversale delle «educazioni» contenuta nelle
Indicazioni, la quarta contiene abilità facilmente riconoscibili come proprie delle
principali discipline scolastiche e dunque costituisce una sorta di elenco di
obiettivi didattici.
Da questo Profilo si dovrebbero poi dedurre gli obiettivi generali e quelli specifici
per costruire le unità di apprendimento corrispondenti alle Indicazioni. I passaggi
sono forse complessi, ma sicuramente sarà difficile arrivare al risultato finale se
si incontrano problemi nell’interpretare il punto di partenza, che appare ancora
segnato – nella percezione sociale – dalla logica delle specializzazioni disciplinari
che invece si vorrebbe superare in nome di una prospettiva più olistica.
Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo
ciclo di istruzione ancora non esiste, se non nella versione provvisoria che è
stata sottoposta all’attenzione di un’apposita commissione di esperti. Come
quello del primo ciclo, ma con una variazione significativa, il Profilo del secondo
ciclo dovrebbe mettere in luce «come, indipendentemente dai percorsi di
istruzione e di formazione frequentati, le conoscenze disciplinari e interdisciplinari
(il sapere) e le abilità operative apprese (il fare consapevole), nonché l’insieme
delle azioni e delle relazioni interpersonali intessute (l’agire), siano la condizione
per maturare le competenze che arricchiscono la personalità dello studente e lo
rendono autonomo costruttore di se stesso in tutti i campi dell’esperienza umana,
sociale e professionale ». È facile notare come al sapere e al fare si sia aggiunto
l’agire come passaggio intermedio per raggiungere l’essere, racchiuso nella
competenza finale.
La struttura interna del secondo Profilo è più o meno la stessa: una prima
sezione dedicata all’identità e articolata in conoscenza di sé, relazione con gli
Capitolo 5 pag. 82/83
altri, orientamento; una seconda sezione riservata agli strumenti culturali, che
delineano abilità spesso riconducibili a discipline tradizionali; una terza parte
sulla convivenza civile, che riprende i temi delle «educazioni». Tutto è formulato
con i soliti verbi all’infinito, ma può essere interessante notare una variante
nella reggente dell’intero elenco di «obiettivi». Rispetto alla consueta formula
«al termine del percorso scolastico lo studente è in grado di...», si è preferita
la più complessa locuzione «dopo aver frequentato qualsiasi liceo, i giovani
sono stati posti nella condizione di incontrare attività didattiche che li hanno
aiutati a...». È evidente che l’intento non è quello di stilare una lista di obiettivi
didattici o educativi immediatamente verificabili nelle prestazioni degli alunni,
ma di descrivere una situazione o un contesto educativo nel quale si lascia
ampio spazio alla responsabilità dello studente nel far fruttare le opportunità
educative che la scuola gli offre. Da un lato non sono più obiettivi che gli alunni
devono realizzare ma occasioni che la scuola deve saper costruire; dall’altro, la
corresponsabilità educativa dello studente è uno stimolo a rinnovare la prassi
didattica.

8. La pedagogia della riforma

Nei documenti citati ricorre spesso un’immagine sintetica con cui si cerca di
esprimere l’impianto pedagogico-didattico della nuova scuola. La metafora
è quella dell’ologramma, tecnica fotografica che per mezzo della luce laser
permette di riprodurre immagini tridimensionali. La suggestione che ne
deriva è quella di puntare ad una conoscenza a tutto tondo dell’alunno, ma la
caratteristica che più interessa è forse il fatto che la lastra olografica contiene
in ogni sua parte una completa descrizione dell’oggetto riprodotto e dunque
consente di avere il tutto in ciascuna parte (ovviamente con minore definizione).
Capitolo 5 pag. 83
Una scuola «ologrammatica» dovrebbe quindi procedere non per successione
o giustapposizione di conoscenze ma per progressivo sviluppo di competenze
elementari presenti fin dall’inizio: un progetto ambizioso di ribaltamento della
tradizione didattica non solo italiana; un ritorno alla pedagogia personalistica in
versione aggiornata e sotto il segno della tecnologia.
Le realizzazioni però non sembrano corrispondere alle intenzioni, dato che il
disciplinarismo continua a emergere prepotentemente in molti dei documenti
finora usciti, mentre l’attenzione alla persona nel suo insieme rimane spesso
solo un’affermazione di principio. Per quanto riguarda il secondo ciclo, per
esempio, costituito non dal solo sottosistema dell’istruzione ma anche dal
sottosistema dell’istruzione e formazione professionale, non c’è ancora una
riflessione organica sull’eventuale profilo dello studente del secondo canale,
mentre l’attenzione si è concentrata soprattutto sul sottosistema dei licei, in
relazione al quale la riflessione si è suddivisa tra gli otto licei previsti (artistico,
classico, economico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, delle scienze
umane, tecnologico). L’attenzione al particolare, al singolo indirizzo, in contrasto
con l’istanza ologrammatica dichiarata, fa prevalere la dimensione disciplinare
su quella formativa generale, come se – in contrasto con la procedura deduttiva
prima individuata – si dovesse ricavare l’identità dello studente liceale dalla
presenza di alcune discipline chiave nell’indirizzo.
Poste le premesse teoriche dichiarate, comunque, la pedagogia sottesa alla
legge 53/03 si può ricavare, a ritroso, dalle procedure didattiche e dalle tappe
che scandiscono l’azione della scuola. In tale processo si è voluto istituire un
lessico nuovo di cui forse si poteva anche fare a meno in quanto enfatizza
la novità ma complica inutilmente la comprensione da parte di docenti che
sono ancorati a processi e terminologie più consolidati. Per una più immediata
familiarizzazione con il nuovo vocabolario si propone qui perciò una sorta di
grossolana equivalenza con la tradizionale programmazione curricolare, fermo
Capitolo 5 pag. 84
restando che deve essere chiara la consapevolezza del tradimento che così si va
ad operare nei confronti dell’operazione innovativa promossa dalla riforma.
Punto di partenza è senz’altro il Profilo, nel quale dovrebbe essere possibile
rinvenire gli «obiettivi generali del processo formativo» (Dpr 275/99, art. 8,
c.1), più o meno corrispondenti agli obiettivi formativi (o educativi) raggiungibili
attraverso gli obiettivi specifici di apprendimento (i tradizionali obiettivi didattici)
e le unità di apprendimento (dette un tempo unità didattiche). Tutto ciò è
contenuto nelle Indicazioni nazionali per i diversi livelli scolastici, che vanno a
sostituire i tradizionali programmi, presentandosi per ogni disciplina o ambito
disciplinare (fatta eccezione per la scuola dell’infanzia che conserva le sue
inevitabili peculiarità) sotto forma di repertori paralleli di conoscenze (i tradizionali
contenuti) e abilità (equivalenti ai vecchi obiettivi).
Ciò che più conta, però, non sono questi passaggi procedurali espliciti quanto
le premesse e i risultati che sono a monte e a valle dell’azione didattica, cioè le
capacità (che differenziano ciascun alunno e conducono alla personalizzazione
dell’offerta formativa) e le competenze (che descrivono a tutti gli effetti il profilo
di studente che si è attuato). L’azione della scuola rimane un mero strumento
rispetto a fini che vanno oltre i confini scolastici: la persona presenta una
complessità irriducibile nelle sue potenzialità iniziali e nelle sue realizzazioni
finali (che peraltro non possono mai essere considerate definitive).
La centralità dell’alunno, infine, è tutta nella personalizzazione del suo Piano
di studio (più o meno corrispondente al curricolo), che lo vede protagonista
sia come destinatario dell’azione didattica, sia come attore delle scelte
che conducono alla composizione di detto Piano. Il coinvolgimento e la
responsabilizzazione dell’alunno e della famiglia nella progettazione del percorso
formativo si ritrovano anche nel momento valutativo, che dovrebbe avvalersi del
nuovo strumento del Portfolio (qualcosa di più e di diverso del vecchio libretto
dello studente). La difficoltà starà nel non trasformare questa collaborazione e
Capitolo 5 pag. 84/85
questo confronto in una banale contrattazione per fini strumentali: il dialogo tra i
due lati della cattedra può rivelarsi un fecondo fattore di rinnovamento della vita
scolastica, ma può anche risolversi in una fonte di equivoci.

9. La condizione dell’IRC

In tutto questo contesto istituzionale e pedagogico si va ad inserire l’IRC, che


della scuola e del suo rinnovamento deve condividere regole e finalità.
La storia degli ultimi decenni ha mostrato quanto la prassi didattica di questa
disciplina abbia saputo adattarsi alla realtà della scuola e anticipare, per certi
versi, le soluzioni formali che poi ne hanno ratificato l’evoluzione. Dall’IR si è
passati all’IRC, dal «fondamento e coronamento» si è passati alle «finalità della
scuola », dal docente incaricato si è passati all’IdR (insegnante di religione) di
ruolo. È da immaginare che il processo non possa concludersi e debba rimanere
aperto a sempre nuovi sviluppi.
Una difficoltà può essere però costituita proprio dai fondamenti istituzionali,
dato che l’IRC è stato pensato, anche nella sua definizione neoconcordataria, in
funzione di una scuola diversa da quella che si va disegnando. Per l’IRC la sfida
attuale è quella di riuscire ad integrarsi anche nel nuovo assetto scolastico senza
perdere la sua specifica identità concordataria, disciplinare e scolastica.
Nel 1984 l’Accordo di revisione del Concordato lateranense aveva previsto per
l’IRC una rinnovata identità caratterizzata da motivazioni storiche e culturali e
dal rispetto delle finalità della scuola. L’insegnamento ha retto alla prova dei
fatti, ma il sistema concordatario, attuato con l’Intesa tra la Cei e il Mpi del
1985, si basa su una serie di prescrizioni abbastanza rigide che possono creare
qualche difficoltà nel momento in cui la scuola sceglie di percorrere la strada
della flessibilità e della deregulation. Se l’orario e il gruppo classe assumono
Capitolo 5 pag. 85
una configurazione più mobile, rischiano di incrinarsi certi riferimenti al divieto di
discriminazione legato alla composizione della classe e alla collocazione oraria.
Se il POF si può arricchire di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi, la
facoltatività dell’IRC rischia di confondersi con quella totalmente diversa delle
attività accessorie, perdendo il senso della propria effettiva curricolarità. Se
l’intera scuola, con tutti i suoi insegnanti, si riorganizza per competenze che
superano i confini disciplinari, l’IRC potrebbe faticare ad integrarsi nel nuovo
contesto in quanto legato a una configurazione esclusivamente disciplinare
(programmi, libri di testo ed insegnanti specificamente approvati dall’autorità
ecclesiastica).
Ma l’identità disciplinare dell’IRC è un valore al quale non è lecito rinunciare,
soprattutto per il rischio che esso venga percepito come attività dai confini
abbastanza incerti, o per la debolezza pratica dei programmi di insegnamento
o per la fragilità istituzionale di una disciplina priva di valutazione e sottoposta
continuamente alla scelta dell’utenza. L’identità ologrammatica della nuova
scuola tende a fondere insieme le discipline o quanto meno a concentrare
l’attenzione sui loro punti di contatto più che sui contenuti distintivi, sulla capacità
di collegamento e integrazione più che sulle specificità, nella ricerca di un sapere
organico e sintetico che dovrebbe essere il risultato finale del percorso scolastico-
formativo. L’IRC dovrebbe quindi valorizzare i raccordi con le altre discipline, non
per subordinarsi ad esse né per riproporsi quale coronamento unitario del sapere
ma per integrarsi a pieno titolo nella cultura di ogni alunno e diventare sua vitale
competenza.
Il problema si pone su più livelli. In primo luogo si tratta di riconoscere la cultura
religiosa come componente della cultura personale e sociale; ma questo è un
aspetto che non può dipendere dalla scuola, anche se la scuola può dare un
suo importante contributo. La società multiculturale e multireligiosa, proprio nel
momento in cui sembra attutire e relativizzare l’importanza della religione, ne
Capitolo 5 pag. 85/86
riconosce il valore identitario e sollecita (o dovrebbe sollecitare) una maggiore
attenzione non solo alle culture e alle religioni «altre» ma anche alla religione
«propria », in quanto humus all’interno del quale si costruisce inevitabilmente
l’universo di significati propri di ognuno.
In secondo luogo occorre ricollocare l’IRC nel contesto pedagogico-didattico
della nuova scuola, mediante programmi o indicazioni compatibili e coerenti
con tale impianto. Non è pensabile un superamento della facoltà riconosciuta
agli utenti di avvalersi o non avvalersi della materia, ma sarà sempre più difficile
tenere separato il contributo dell’IRC al piano di studio personalizzato e al profilo
educativo dello studente. D’altra parte, proprio l’assetto concordatario dell’IRC
mostra l’insufficienza di una proposta didattica e culturale per certi aspetti
«unilaterale »: la scuola deve farsi carico della cultura religiosa di tutti e quindi
progettare un’offerta formativa che soddisfi la domanda religiosa di ognuno,
senza con ciò ridursi a supermarket delle religioni o a lottizzazione religiosa, ma
affrontando seriamente il problema in termini ordinariamente curricolari o quanto
meno rivedendo la condizione delle attività alternative all’IRC.
In terzo luogo, proprio il nuovo stato giuridico degli Idr contribuisce a sanare la
condizione di minorità dell’insegnamento prima ancora che dell’insegnante.
L’appartenenza strutturale degli IdR all’organico della scuola è la migliore
testimonianza della curricolarità dell’IRC e della scolarizzazione della disciplina.
Quanto più l’IdR è un insegnante come gli altri, tanto più l’IRC è un
insegnamento come gli altri. E, viceversa, nel momento in cui l’IRC sarà
percepito come un insegnamento ordinario avranno minore ragione di esistere
certe discriminazioni oggi interpretate come costitutive del suo essere, come per
esempio la valutazione (proprio l’adozione del Portfolio dovrebbe aprire nuove
prospettive in campo valutativo, con il superamento di certe restrizioni non più
giustificabili nel nuovo contesto).
L’IRC non può non condividere la pedagogia della legge 53/03: la centralità
Capitolo 5 pag. 86
e l’integralità della persona, il dialogo tra le componenti, la sussidiarietà, la
personalizzazione dei percorsi formativi sono tutti fattori che da sempre hanno
caratterizzato l’IRC e la sua didattica. Si tratta ora di trasformare l’apertura
empirica in condivisione formale.

10. Prospettive

Accanto al confronto complessivo con le riforme, nello specifico dell’IRC sono


da valutare, a breve e medio termine, gli effetti dei nuovi programmi e del nuovo
stato giuridico.
Nell’immediato, la proposta di nuovi programmi didattici (o Indicazioni nazionali)
vuole confermare la natura della materia attraverso l’identificazione e l’adozione
di contenuti e metodi commisurati alle logiche dell’autonomia e all’impianto
pedagogico della riforma Moratti. Non un programma da applicare rigidamente
ma un modello da interpretare intelligentemente sulla base del contesto
reale di esercizio. Non una sbiadita interdisciplinarità derivante dal desiderio
affannoso di venire incontro a domande diverse ed estemporanee ma uno
statuto epistemologico che si colloca al punto di incontro di differenti competenze
specialistiche (teologiche, bibliche, etiche, storiche, psicologiche, ecc.) riunite in
una sintesi originale dal lavoro dell’insegnante. L’IdR, oltre al passaggio di stato
giuridico, dovrà adeguarsi alla nuova identità di professionista che gli richiede
la scuola dell’autonomia. La responsabilità e discrezionalità che oggi vengono
riconosciute a tutti i docenti ben si conciliano con la libertà di insegnamento e
con le prospettive interdisciplinari, ma fanno più fatica a combinarsi (più da un
punto di vista teorico che pratico) con i vincoli concordatari e con il controllo
ecclesiastico sui diversi aspetti dell’insegnamento.
Tra le prospettive a breve scadenza c’è poi l’applicazione del nuovo stato
Capitolo 5 pag. 87
giuridico, che non può esser visto solo come una questione occupazionale degli
IdR ma come un’occasione importante per riqualificare il loro ruolo scolastico.
La logica di sanatoria in cui si colloca la legge 186/03 non deve far dimenticare
questo aspetto: l’IdR ha sempre avuto due fedeltà, allo Stato e alla Chiesa, ma
spesso, vista l’avarizia del primo, si è rifugiato nella seconda. L’appartenenza
dell’IdR alla scuola deve essere fuori discussione, senza con ciò rinnegare
i legami ecclesiali, ma la scuola è oggi più esigente di un tempo con i suoi
insegnanti, e l’IdR deve essere disponibile a un impegno supplementare (che
peraltro di solito non gli è mancato).
D’altra parte, l’attuale disponibilità dello Stato potrebbe generare una fuga dalla
Chiesa, soprattutto là dove il rapporto con l’autorità ecclesiastica è stato poco
leale (da entrambe le parti). L’immissione in ruolo non significa la rottura dei
legami ecclesiali, quanto meno perché idoneità e nomina d’intesa continuano
ad esistere come requisiti concordatari. Sono però da reinventare le forme di
collegamento fra gli IdR e la comunità ecclesiale.
È una scommessa sul futuro, ma (soprattutto se le scelte degli avvalentisi
troveranno ancora conferma) potrebbe avviarsi un processo di ridefinizione
dell’identità dell’IRC, che potrebbe produrre i suoi effetti anche sul piano
valutativo. Alla prova dei fatti ci sarà la tenuta degli IdR di ruolo: se la mobilità
professionale (per revoca o per soprannumerarietà) sarà ridotta a pochi casi
isolati, si confermerà la posizione di un corpo docente stabilmente incardinato a
servizio della scuola; se invece dovessero crescere i casi di mobilità (ricercata
o subìta), troverebbe conferma la concezione strumentale che molti hanno
voluto attribuire all’IRC quale momento di passaggio verso altre e più prestigiose
sistemazioni professionali.
Quanto ai nuovi programmi, la loro verifica sul campo sarà data soprattutto
dalla professionalità degli insegnanti e dalla qualità dei libri di testo. Gli uni e
gli altri devono misurarsi con una scuola che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe
Capitolo 5 pag. 87/88
essere più integrale e integrata nelle sue procedure didattiche. Bisognerà vedere
innanzitutto se le promesse della riforma saranno mantenute per l’intero assetto
scolastico, e poi si potrà verificare come la prassi didattica dell’IRCsi sarà saputa
inserire in questo quadro. In un contesto così decentrato e affidato alla creatività
delle singole scuole, la responsabilità dei singoli docenti (compresi quelli di RC)
cresce enormemente: ad ogni IdR è quindi affidata la sorte dell’IRC molto più di
quanto non sia stato fino ad oggi.
Più lontano, all’orizzonte, c’è il nuovo spazio che la cultura religiosa potrebbe
andare ad occupare nei curricoli scolastici. I concordati sono costruzioni storiche
contingenti, la cultura religiosa è una componente ineliminabile della vita umana.
Il cammino percorso in tanti anni dall’IRC potrebbe tornare un giorno a vantaggio
del più generale IR, se esso (l’IRC) riuscirà ad essere un autentico servizio alla
scuola e alla formazione religiosa e umana dei giovani e non un’esclusiva della
Chiesa in conflitto o in alternativa con altre confessioni.
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore,
produce molto frutto» (Gv 12,24). Il servizio che l’IRC rende alla scuola e ai suoi
alunni non deve essere autoreferenziale ma aperto ai possibili sviluppi derivanti
dall’evoluzione della nostra cultura, che è senz’altro cristiana e cattolica, ma con
la capacità di dialogare con altre culture e di costituire un punto di incontro per
tutte le esperienze religiose.

Riferimenti bibliografici

AA.VV. (1998), I contenuti essenziali per la formazione di base. Documento


elaborato da R. Maragliano, C. Pontecorvo, G. Reale, L. Libolzi, S. Tagliagambe,
M. Vegetti (marzo 1998), in «Annali della Pubblica Istruzione», XLIV, 1-2, pp. 137-
146.
Capitolo 5 pag. 88
AA.VV. (2000), L’educazione religiosa in tempo di transizione culturale-
pedagogica, in «Orientamenti pedagogici», Numero monografico, XLVII (2000),
n. 3.
G. BERTAGNA (a cura di) (2001), L’ipotesi elaborata dal gruppo ristretto di lavoro,
in «Annali dell’Istruzione» - Numero speciale Stati Generali dicembre, XLVII
(2001), 1-2, pp. 21-77.
CICATELLI S. (1997), Prospettive di autonomia, in «Religione e scuola», XXV
(1997), 6, pp. 55-66.
CICATELLI S. (2002), La riforma della riforma, in «Religione e scuola», XXX
(2002), 4, pp. 68-75.
CICATELLI S. (20036), Prontuario giuridico Irc, Brescia, Queriniana.
NANNI C. (2003), La riforma della scuola. Le idee, le leggi, Roma, Las.
TRENTI Z. (1990), La religione come disciplina scolastica. La scelta ermeneutica,
Leumann, Elledici.

Capitolo 5 pag. 88
PARTE SECONDA

L’Insegnamento della religione come


disciplina
La professionalità è naturalmente giocata sulla consapevolezza della
molteplicità dei riferimenti e delle condizioni che danno o sottraggono efficacia
all’insegnamento della Religione Cattolica.
Vengono quindi elaborati contributi specifici
– per identificare la natura e le finalità della disciplina (Trenti);
– per individuare l’atteggiamento dello studente (Pieroni);
– per definire il ruolo del docente (Maurizio).
L’intervento educativo fa i conti con:
– Le condizioni della comunicazione (Colasanti);
– L’esperienza concreta degli allievi (Trenti);
– Il linguaggio specifico religioso (Morante).
E in definitiva si misura con
– Le provocazioni che vengono dalle religioni (De Souza);
– La significatività delle fonti cristiane: Bibbia e Tradizione (Bissoli).

pag. 89
CAPITOLO 6

NATURA E FINALITÀ
Zelindo Trenti

Questo intervento è inteso a rilevare il significato educativo della Religione


e le condizioni della sua elaborazione a disciplina scolastica. Viene dunque
richiamata l’importanza dell’educazione religiosa nella scuola e le finalità generali
che è chiamata a perseguire.
In quanto si riferisce specificamente all’insegnante è inteso a dargli chiara
consapevolezza delle competenze da maturare negli alunni lungo la traccia che
i diversi profili vanno definendo: quello del 1° ciclo, già formulato, quello del 2°
ciclo, ancora in fase di elaborazione.
Vengono invece rimandati ai diversi contributi specifici gli aspetti riguardanti i
singoli gradi di scuola. Le Indicazioni nazionali orientano di fatto l’insegnante
nei passaggi procedurali espliciti per conseguire «gli obiettivi generali del
processo formativo» (Dpr 275/99, art. 8, c. 1): dovrebbero sostenerne la prassi
nelle molteplici strategie di apprendimento, soprattutto nel conseguimento degli
obiettivi specifici formativi (pedagogici) e di apprendimento (didattici), come sarà
evidenziato nella terza parte del Manuale.

Capitolo 6 pag. 91
1. La religione

1.1. La religione come «fenomeno» universale

L’uomo si è da sempre interrogato sulla propria vita; su ciò che lo distingue in un


universo che pure lo sovrasta.
Con lucidità fin dall’origine la riflessione occidentale ha ravvisato nella capacità
di stupirsi e quindi di interrogarsi, la prerogativa più alta dell’uomo. La domanda
affiora di fronte a provocazioni molteplici: il mondo e la sua origine, l’esistenza
e il suo destino, il dolore e la felicità, la morte e l’immortalità... Per lo più sono
le condizioni storiche e gli accenti culturali a dare preponderanza ad un aspetto
piuttosto che ad un altro.
Si può dire che nella prima riflessione greca la ragione contempla stupita
l’universo, ma all’inizio della riflessione moderna a cominciare da Pascal si sente
«sperduta» a confronto con l’universo.
La riflessione più recente ha tematizzato lo sconcerto – lo spaesamento – o
più profondamente ha percepito una singolare solidarietà che misura un
coinvolgimento sotto molti aspetti insondabile – misterioso –; in cui presagisce
una responsabilità inedita.

1.2. La ricerca religiosa si porta sul dato esistenziale

La religione è chiamata ad interpretare l’anelito interiore, a rendere ragione di


un’inquietudine che attanaglia la vita. Il secolo XX ha visto studiosi accreditati
impegnarsi con grande intuito e consapevolezza sul significato umanizzante
della religione.
Capitolo 6 pag. 91/92
Già R. Otto e M. Scheler manifestano una eccezionale attenzione al soggetto,
alle sue emozioni, alla dimensione comunque esistenziale. Non ne tirano le
conseguenze in ambito di finalità conferita alla ricerca religiosa.
Altri lo faranno con risolutezza, prendendo consapevolmente in analisi il richiamo
interiore alla trascendenza: fra gli altri M. Buber, G. Marcel, E. Levinas.
Marcel in particolare si concentra sull’esperienza religiosa e cristiana; punta a
decifrare non più l’oggetto dell’incontro religioso, ma l’atteggiamento esistenziale
che lo qualifica e lo identifica.
Qui non interessa seguire elaborazioni sotto molti aspetti ancora esemplari:
importa rilevare lo spostamento di orizzonte culturale sull’aspetto esistenziale.
L’atto religioso a perno della ricerca non è tanto esplorato nei contenuti che lo
orientano, quanto nelle connotazioni esistenziali che lo qualificano.
La stessa ricerca religiosa cambia di prospettiva.
Non è il sacro, ma la percezione del sacro che interessa; non è Dio ma
l’invocazione propria di un gesto umano che lo attende e lo incontra.
Costituisce quel filone di ricerca antropologico-culturale che ha segnato i
decenni centrali del secolo XX e ha imposto una sensibilità culturale che
potremmo largamente definire esistenziale.
Nella sua ricaduta pedagogico-didattica questa nuova sensibilità ha alimentato
un rinnovamento metodologico che coerentemente prendeva le distanze
dalla preoccupazione dei contenuti, dalla priorità dell’esposizione dottrinale,
per portarsi con una certa risolutezza – non priva di ambiguità e comunque
fatalmente provocante – sul soggetto, la sua dimensione religiosa, i dinamismi e
le condizioni che ne potevano consentire l’interpretazione e la maturazione.
Ne è risultata evidenziata la valenza educativa della religione.

Capitolo 6 pag. 92
2. La funzione educativa della religione

In ambito culturale e pedagogico alcuni fattori concomitanti e convergenti


hanno riproposto in termini perentori il tema della religione. A partire dalla
riflessione antropologica autori di indiscussa serietà scientifica hanno
rivendicato autorevolmente la rilevanza irrinunciabile della religione in ogni
cultura. Anzi, hanno rilevato che proprio la religione elabora per lo più i grandi
simboli interpretativi della vita, conferendovi razionalità e significato; per cui è
precisamente nella dimensione esistenziale che sembra riaffacciarsi e imporsi
l’interesse religioso.
Si profila così un diverso incontro con la religione, meno legato alla tradizione;
forse anche meno preoccupato dell’autenticità delle fonti e dell’ortodossia
dottrinale; più sensibile alla percezione del significato esistenziale e all’apporto
che reca al proprio progetto personale. L’interpretazione corretta della religione
si impone come compito educativo primario, perfino rispetto alla pratica religiosa:
al punto da urgere una riflessione anche circa il rapporto di integrazione e di
complementarità fra educazione ecclesiale (catechesi) e scolastica (IRC). (Una
elaborazione organica di queste premesse per l’educazione religiosa scolastica specifica è
stata proposta recentemente nell’opera Religio (Trenti, 1998) dove, sulla base di presupposti
pedagogico-didattici esplicitamente elaborati, è stato proposto un itinerario peculiare per la
scuola.) La religione si rivela una delle risorse decisive dell’esistenza, situata nel
cuore di questa e significativa precisamente là dove riscopre la propria funzione
umanizzante per la vita personale e comunitaria.
La tendenza attuale sembra dunque spostare l’asse e portare la religione sul
fronte dell’educazione integrale della persona: meno preoccupata di trasmettere
una visione cristiana per se stessa, più impegnata all’esplorazione della
dimensione religiosa che unifichi e dia significato all’esistenza. Soprattutto due
aspetti meritano particolare attenzione:
Capitolo 6 pag. 92/93
1. Va verificata la funzione della religione nella maturazione della persona. La
risonanza che la religione assume nell’esperienza personale e collettiva non è
esente da ambiguità. È fin troppo facile documentare strumentalizzazioni della
religione nei rapporti interpersonali e collettivi. Proprio per la sua costitutiva
esigenza di totalità e di radicalità la religione si presta a molti abusi. C’è inoltre
una tendenza a rifarsi alle origini, a garantire stabilità e sicurezza con una fedeltà
al passato che può diventare anche spinta alla conservazione e resistenza al
processo irrinunciabile della storia.

2. Va evidenziata in particolare la sua funzione «strutturante». Sotto il profilo


pedagogico è importante rilevare gli elementi che emergono dalle analisi
fenomenologiche e psicologiche. Sembra che l’apporto più significativo stia nella
risorsa unificante di cui la religione è portatrice. Per richiamare sinteticamente gli
aspetti che la qualificano si può notare: l’atteggiamento religioso autentico muove
sempre da ragioni interiori: è consapevolezza di una presenza interpellante,
con cui comunque può essere intessuto un dialogo singolarissimo; tanto da
instaurare un rapporto che tende a farsi totalizzante; comunque si confronta con
un orizzonte definitivo e trascendente, da cui le diverse considerazioni, magari
più assillanti e concrete dovrebbero attingere senso.
È evidente che l’attuale rinnovamento della scuola, che privilegia la maturazione
del soggetto, trova l’educazione religiosa singolarmente disponibile e attrezzata.

Capitolo 6 pag. 93
3. La religione nel progetto scolastico

3.1. Richiamo alle fonti normative

L’accordo concordatario (1984) fra Chiesa e Stato in Italia e l’Intesa (1987)


che ne regolamenta l’applicazione hanno impresso una svolta all’educazione
religiosa scolastica e l’hanno risolutamente orientata ad assumere i caratteri di
una disciplina a tutti gli effetti (Trenti, 1990, 60ss).
L’elaborazione che proponiamo fa riferimento anzitutto agli aspetti salienti
e più significativi dell’evoluzione profonda e rapida che l’IR ha attraversato.
Apartire dal rinnovamento conciliare si è insistito sull’autonomia della scuola e
sulla conseguente necessità di elaborare una proposta religiosa che vi risulti
rispettosa e proporzionata. Gli anni ’70 documentano un dibattito vivace attorno
all’indicazione del Magistero: la catechesi scolastica deve caratterizzarsi «in
riferimento alle mete e ai metodi propri di una struttura scolastica moderna»
(RdC 154).
Nel febbraio 1984, sempre sotto la copertura del Concordato del 1929, si
giunse ad un Accordo di revisione che modificava l’antica normativa in modo
significativo.
Il testo centrale dice da sé la nuova prospettiva che veniva emergendo: «La
Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo
conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del
popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola,
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di
ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità
educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi e
non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro
Capitolo 6 pag. 93/94
genitori esercitano tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la
loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione» (art. 9.2).
Nel Protocollo addizionale (n. 5) si ricorda che l’IRC va impartito in conformità
alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni, da
insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica e nominati
dall’autorità scolastica. Interpretazioni autorevoli sono date progressivamente sia
da parte dello Stato che da parte della Chiesa. (Fa da perno l’Intesa tra il Ministero della
Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) del 1985, rivista in parte nel 1990.
Ad essa va affiancata una continuata normativa statale espressa per lo più da Circolari Ministeriali
(75 fino a luglio del 2001) che riguardano tutti i singoli aspetti, mentre la normativa canonica o della
CEI si esprime con delle Delibere, Messaggi ed una Nota «Insegnare religione cattolica oggi» (CEI,
1991)) Vale la pena richiamare le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale
(Roma, 11 aprile 1989) che potrebbero trovare risonanza adeguata nella scuola
del futuro: «Esaurito il ciclo storico [...] la Repubblica può proprio nella sua forma
di Stato laico, fare impartire l’insegnamento della religione cattolica in base a
due ordini di valutazioni: a) il valore formativo della cultura religiosa, sotto cui
si iscrive non più una religione, ma il pluralismo religioso della società civile;
b) l’acquisizione dei principi del cattolicesimo al “patrimonio storico del popolo
italiano”. Il genus (“valore della cultura religiosa”) e la species (“principi del
cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano”) concorrono a descrivere
l’attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati o
astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi
dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di
concrete istanze di coscienza civile e religiosa dei cittadini» (n. 7).
Parole che ribadiscono il significato che la religione può legittimamente
rivendicare nella scuola e che contemporaneamente sottolineano le
responsabilità della società civile nelle sue istituzioni scolastiche. Su queste
premesse si delinea con chiarezza la natura dell’IRC come è disegnato nelle
Capitolo 6 pag. 94/95
ragioni culturali giuridiche e pedagogiche dell’attuale assetto disciplinare.
Le considerazioni che ora proponiamo tendono ad evidenziare il ruolo effettivo
che la religione assume nella scuola, soprattutto a partire dalla sua funzione
umanizzante e in un orizzonte educativo più vasto. Naturalmente non è l’aspetto
definitivo che accredita la religione: ma sembra quello da privilegiare, date le
condizioni odierne e l’orientamento assunto dalla pedagogia scolastica.

3.2. L’elaborazione della disciplina e le scienze di riferimento

In ambito scolastico l’attenzione ai processi educativi mette a fuoco l’apporto


delle scienze dell’educazione. La preoccupazione per l’integrità della dottrina
si sposta man mano all’interesse prevalente per l’alunno e la sua maturazione
religiosa.
Il tradizionale orientamento dottrinale-sistematico fa spazio a procedimenti
storico-esegetici; si avverte l’istanza induttiva e se ne tenta l’elaborazione
organica.
Una esigenza di rigore scientifico (sentita soprattutto in ambito tedesco) affiora
anche nel dibattito teorico e nell’esercizio concreto didattico in Italia.
Più recentemente il confronto con le grandi tradizioni religiose e i più aggressivi
e settoriali movimenti religiosi sposta l’interesse oltre la tradizione confessionale
cattolica e anche oltre il più ampio orizzonte cristiano. La ricerca propria delle
scienze della religione s’impone a fondamento interpretativo del fenomeno
religioso e qualifica un approccio innovativo di più vasto respiro alla tematica
dell’IR, oggi indotto a verifica anche all’interno della scelta concordataria.
Si tratta di interpretare, rispettando il contesto italiano, una triplice componente
che fermenta l’attuale educazione religiosa scolastica: lo studente e i processi
di maturazione religiosa, verificati dalle scienze dell’educazione; la dottrina
Capitolo 6 pag. 95
cattolica e i suoi riferimenti indispensabili alle scienze teologiche; la religione e le
sue condizioni interpretative, quali si lasciano esplorare dalle varie scienze della
religione.
In concreto: l’IRC come disciplina scolastica assume i dati che pervengono da
versanti molteplici e li elabora in dimensione scolastica. La scuola – in quanto
operatore epistemologico – impone il punto di vista dell’analisi sui dati offerti dalla
religione e dalla rivelazione.
In quanto l’istanza di trascendenza emerge dall’analisi dell’esperienza e
s’impone come spazio educativo non eludibile, la religione che tematizza tale
istanza entra di pieno diritto nella scuola con l’apporto che attinge dai vari
versanti della ricerca religiosa: dalla ricerca storico-fenomenologica, che mette a
fuoco gli interrogativi esistenziali e formula risposte che meritano considerazione;
dalla ricerca teologica che esplora il significato della rivelazione; dalle scienze
dell’educazione in quanto garantiscono i processi pedagogico-didattici propri
della disciplina scolastica.
In conclusione: l’IR assolve la sua funzione educativa precisamente dove
interpreta l’attesa e l’aspirazione dell’uomo e dove esplora la tradizione religiosa
che ne costituisce la risposta o offre elementi significativi per elaborarla.
Naturalmente senza la pretesa di sostituirsi alle varie scienze antropologiche
nell’esplorazione dell’esperienza, o alle diverse scienze teologiche
nell’elaborazione della risposta. Ha solo il compito di raccoglierne le indicazioni
più significative, di vagliarne la reciproca congruenza; e con ciò di costituire un
itinerario educativo in cui viene tematizzato con chiarezza e verificato con rigore
il fatto religioso, soprattutto all’interno della tradizione cattolica.

Capitolo 6 pag. 95/96


soprattutto all’interno della tradizione cattolica.
Uno schema grafico può mettere in evidenza gli aspetti richiamati.
Uno schema grafico può mettere in evidenza gli aspetti richiamati.

Il fenomeno: L’analisi: L’indicatore La disciplina:


epistem.:
Religione  Scienze  Scuola  IRC: elaborazione
• naturale storico-fenomen. obiettivi culturale
• rivelata teologiche contenuti pedagogica
pedagogiche metodi didattica

Esplicitando
Esplicitando i vari
i vari ambiti
ambiti delladella ricerca
ricerca di cuidisicui si avvale
avvale la disciplina
la disciplina si puòsi può sot-
tolineare:
sottolineare:
a. La ricerca storico-fenomenologica, in quanto rileva a livello culturale e con-
a. La ricerca storico-fenomenologica, in quanto rileva a livello culturale e
valida nelle attese interiori interrogativi esistenziali ineludibili, costituisce lo sfon-
convalida nelle attese interiori interrogativi esistenziali ineludibili, costituisce
do antropologico di legittimazione obbligante per l’impegno scolastico, proprio
lo sfondo antropologico di legittimazione obbligante per l’impegno scolastico,
dove risponde alle domande reali degli allievi; siano domande diffuse nella cultura
proprio dove risponde alle domande reali degli allievi; siano domande diffuse
o radicate nell’esistenza del singolo.
nella cultura o radicate nell’esistenza del singolo.
b. Le scienze pedagogiche sono chiamate ad elaborare i processi di progressi-
b. presa
va Le scienze pedagogiche
di coscienza sono chiamate
e di matura padronanza ad delle
elaborare i processiculturali
provocazioni di progressiva
e delle
presa di coscienza e di matura padronanza delle provocazioni culturali e
esigenze personali. Risultano a perno di un itinerario che attraversa l’intero piano delle
esigenze personali.
educativo Risultano
della scuola, a pernoalla
dall’infanzia di un itinerarioe che
maturità, vieneattraversa
scanditol’intero piano
con rispetto
educativo
dell’età della capacità
e delle scuola, dall’infanzia alladell’alunno.
interpretative maturità, e viene scandito con rispetto
dell’età e delle capacità interpretative dell’alunno.
c. La ricerca religiosa si è svolta nella tradizione all’ombra della riflessione cri-
stiana. Ma la scuola
c. La ricerca è oggi
religiosa sollecitata
si è svolta nella al confronto
tradizione con la più
all’ombra universale
della attenzio-
riflessione
ne alle grandi
cristiana. tradizioni extraeuropee. Inoltre le scienze della religione vanno
esplorando il fenomeno religioso per se stesso, dai diversi punti di vista, che qua-
Capitolo 6i pag.
lificano 96 metodi di analisi. Offrono così un apporto straordinariamente
singoli
Ma la scuola è oggi sollecitata al confronto con la più universale attenzione alle
grandi tradizioni extraeuropee. Inoltre le scienze della religione vanno esplorando
il fenomeno religioso per se stesso, dai diversi punti di vista, che qualificano i
singoli metodi di analisi. Offrono così un apporto straordinariamente innovativo
alla consuetudine educativa.

d. La rivelazione, sia nelle fonti che nella loro elaborazione storico-razionale,


rappresenta un apporto singolarmente ricco e spesso illuminante, soprattutto
nell’ambito del senso dell’esperienza umana, in tutto l’alone di mistero e di
provocazione in cui è immersa; per lo più in grado di integrare l’apporto della
tradizione religiosa sopra richiamata.
In ambito nazionale la tradizione cattolica resta una matrice fondamentale che
permea l’elaborazione delle espressioni culturali più significative, dall’arte alla
letteratura alla riflessione filosofica: insomma allo spirito che distingue il nostro
essere italiani.

L’apprendimento religioso assume allora la logica di ogni apprendimento:


– interpreta le esigenze esplicite e sottese dell’allievo e ne promuove la
maturazione al confronto con i contributi più significativi che la tradizione
culturale e la riflessione attuale è in grado di offrirgli;
– instaura un processo ermeneutico che consente di prendere chiara coscienza
del dato religioso e del suo significato culturale ed esistenziale;
– imposta correttamente il rapporto fra domanda e risposta e ne propone
una adeguata applicazione all’IRC, quale legittimo processo di matura
consapevolezza che lo studente assume della dimensione religiosa.

Capitolo 6 pag. 96/97


adeguata applicazione all’IRC, quale legittimo processo di matura consape-
volezza che lo studente assume della dimensione religiosa.
4. L’obiettivo educativo
4. L’obiettivo educativo
4.1. I riferimenti strutturali dell’IRC
4.1. I riferimenti strutturali dell’IRC
I riferimenti che
I riferimenti che sembrano
sembrano iningrado
gradodididefinire l’identità
definire dell’IR
l’identità si possono
dell’IR si possono
raccogliere attorno a tre poli che ne costituiscono, per così dire, l’ossatura
raccogliere attorno a tre poli che ne costituiscono, per così dire, l’ossatura strut-
strutturale;
turale; la loro corretta
la loro corretta articolazione
articolazione ne garantisce
ne garantisce l’obiettivo.
l’obiettivo.
Graficamente potrebbero essere raffigurati secondo lo schema seguente:
Graficamente potrebbero essere raffigurati secondo lo schema seguente:

Studente Religione-cattolicesimo

Obiettivo
IRC

Scuola

Nella
Nellascuola
scuoladunque,
dunque, studente,
studente, proposta religiosa-cattolica
religiosa-cattolicae eambito
ambito scolasti-
scolastico
risultano i tre cardini di riferimento. Ciascuno di questi mette in
co risultano i tre cardini riferimento. Ciascuno di questi mette in gioco scienzegioco scienze
diverse
diverse che offrano
che offrano presupposti
presupposti e condizioni
e condizioni educative
educative rilevanti.Ma
rilevanti. Maèèchiaro
chiaro che
che le varie scienze vanno commisurate e finalizzate alla elaborazione
le varie scienze vanno commisurate e finalizzate alla elaborazione della discipli- della
disciplina scolastica, alla sua identificazione e organicità, com’è stato
na scolastica, alla sua identificazione e organicità, com’è stato sopra richiamato. sopra
Capitolo 6 pag. 97
richiamato.

4.2. La funzione strutturante della religione

L’obiettivo della scuola è centrato attorno allo sviluppo della personalità; la


religione si giustifica per l’apporto che è in grado di darvi. Secondando la
suggestione che viene dalla lucida analisi di Bergson potremmo dire che la
religione si raccomanda a due livelli diversi.
Il primo riguarda la sua tendenza conservatrice – quella che Bergson chiama
religione statica. Raccogliendo in sintesi il suo apporto Bergson rileva: «È una
reazione difensiva della natura contro quanto potrebbe esserci di deprimente per
l’individuo e di dissolutivo per la società, nell’esercizio dell’intelligenza» (Bergson,
1967, 217).
L’altro, che interpreta la religione dinamica, esplorato nel misticismo – riguarda
invece l’aspetto alternativo, di spinta al rinnovamento, di tensione al futuro:
«Ai nostri occhi la confluenza nel misticismo è una presa di contatto e di
conseguenza coincidenza parziale, con lo sforzo creatore che manifesta la
vita. Tale sforzo è da Dio, se non è Dio stesso. Il grande mistico sarebbe una
individualità che trascende i limiti assegnati alla specie con la materialità, che
così continuerebbe e prolungherebbe l’azione divina» (Bergson, 1967, 233).
L’analisi di Bergson coglie in sintesi due componenti costitutive della religione,
vere e in tanta parte dialettiche; con cui fare i conti.
Volerle applicare correttamente alla formazione della personalità significa tener
conto anche della resistenza e del rischio. Nella religione statica Bergson legge
una funzione equilibratrice della religione. L’intelligenza lasciata a se stessa
e alla sua spinta innovativa sarebbe un ostacolo alla serenità. «Guardata da
questo punto di vista, che è quello della genesi e non più dell’analisi, tutto quello
Capitolo 6 pag. 97/98
che l’intelligenza applicata alla vita comporterebbe di agitazione e di scacco,
con tutto quello che la religione vi apporta di pacificazione, diventa una cosa
semplice.
Perturbazione e “fabulazione” si compensano e si annullano. Aun Dio che
guardasse dall’alto, il tutto apparirebbe indivisibile, come la fiducia dei fiori che
sbocciano a primavera» (Bergson, 1967, 220).
La religione rasserena: è un fatto che la psicologia conferma; che magari
l’ideologia, specie quella innovativa e rivoluzionaria, rifiuta con passione, come il
marxismo ha ampiamente documentato.
La religione, in quanto è istituzione e si organizza mantiene una tendenza
conservatrice; ha una funzione individuale e sociale importante e, a livello di
equilibrio umano esistenziale e sociale, irrinunciabile. Certo anche pericoloso: la
scuola è bene che lo sappia, se non altro per esorcizzarlo.
Ma il vero apporto alla personalità in formazione è dato dalla religione dinamica:
proprio lì dove richiede costantemente di trascendere i limiti, di non appagarsi
dello stadio conseguito; dove sollecita la persona a tendere al superamento
di ogni limite; e con ciò a superarsi sempre e instancabilmente. Sotto questo
aspetto viene individuata la risorsa dinamica che qualifica la religione: l’apporto
educativo che offre, soprattutto al momento dell’adolescenza, quando la
personalità cerca, un po’ a tentoni, di organizzarsi in una specifica individualità, di
strutturarsi.

4.3. Il processo interiore da sollecitare

A livello educativo la risorsa interiore è dunque risolutiva.


Vale la pena segnalare alcuni criteri per un intervento pedagogico corretto:
• la religione non si esplora a prescindere dal presagio esistenziale: anzi
Capitolo 6 pag. 98
dovrebbe costituirne un’interpretazione severa;
• la prima tappa è perciò costituita da una interpretazione della «dimensione
religiosa » della vita;
• l’apporto delle scienze di riferimento, che esplorano l’esperienza umana,
risulta indispensabile: soprattutto dove analizzano i processi di sviluppo e di
maturazione della persona;
• di fatto e coerentemente la ricerca religiosa recente si svolge per lo più come
ermeneutica dell’esperienza, sia individuale che culturale e storica: raccoglie
elementi molteplici per garantirsi un’esplorazione autentica del fenomeno
religioso;
• gli studi recenti sulla religione, spartiti su versanti molteplici – scienze della
religione – offrono una singolare ricchezza di apporti;
• il riferimento alla rivelazione per risultare credibile si muove sul presupposto sia
delle scienze umane, sia delle scienze della religione; anche quando intende
evidenziare l’apporto straordinariamente significativo di cui la rivelazione è
depositaria: la Bibbia resta ad ogni modo una grande epopea religiosa, da
decifrare;
• anche il confronto fra l’immagine di Dio che offre la ricerca religiosa e il volto
di Dio che presentano le fonti bibliche, il rapporto che instaura con l’uomo, il
significato che assume il suo intervento per la storia personale e collettiva
esigono procedimenti vigili e criticamente avvertiti, a garanzia del rigore razionale
delle acquisizioni conseguite.

5. L’esercizio attuale: disponibilità e resistenze

Non ci sono ricerche recentissime. Tuttavia possiamo fare riferimento autorevole


a due ricerche in ambito nazionale a cinque anni e a dieci anni dagli Accordi
Capitolo 6 pag. 98/99
Concordatari. (Cf MALIZIA G. - Z. TRENTI (edd.), Una disciplina in cammino. Rapporto
sull’Insegnamento della Religione Cattolica nell’Italia degli anni ’90, Torino, SEI, 1991; MALIZIA
G. - Z. TRENTI (edd.), Una disciplina al bivio. Ricerca sull’insegnamento della religione cattolica in
Italia a dieci anni dal Concordato, Torino, SEI, 1996.) Ribadite da due ricerche più settoriali,
che tuttavia offrono una significativa conferma. (VIT M., L’ora complessa. Rapporto
sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole del Triveneto, Padova, Messaggero, 1993;
CANTA C. C., L’ora debole, Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 1999) La situazione
attuale della disciplina offre luci ed ombre.
Stando ai dati che la più recente ricerca nazionale (Malizia-Trenti, 1996, 294 e
ss.) lascia emergere e da annuali monitoraggi dell’UCN alcune considerazioni
sembrano legittime.
Nell’insieme il bilancio mette in conto rilevanti aspetti positivi della soluzione
concordataria – non ultima la partecipazione massiccia degli allievi e
l’elaborazione in atto della disciplina scolastica –; registra tuttavia anche
resistenze e ambiguità.

5.1. Per un bilancio di sintesi a partire dall’esercizio disciplinare

a. L’esercizio corretto dell’IRC è provocato su fronti molteplici, difficilmente


componibili:
– la disciplina da garantire e l’esperienza di fede da rispettare: tanto più che
questa resta per tutti la ragione di fondo per cui la stessa disciplina viene
scelta; – l’interesse da tener vivo senza cedere sull’impegno: da una parte per
non svuotare la classe degli avvalentisi, dall’altra per non stemperare l’istanza
culturale in nome dell’accondiscendenza agli studenti;
– risposta alle esigenze in tanta parte legittime degli studenti e fedeltà ai
programmi della disciplina;
Capitolo 6 pag. 99/100
– lealtà all’autorità ecclesiale e scolastica
– programma e progetto scolastico
– e attenzione ai genitori più preoccupati dell’aspetto morale e genericamente
educativo che specificamente religioso.
Considerazioni tutte che dicono la dispersione su una molteplicità di fronti fra
loro difficilmente compatibili cui la disciplina è sollecitata e allo stesso tempo
esposta a stemperare la propria identità.
Senza parlare del disagio indotto nell’IdR, impegnato su troppi fronti con obiettivi
divaricati e dispersivi. Tanto più che la minaccia sempre incombente di vedersi
«disertato» ha sull’IdR un suo peso reale, soprattutto psicologico, con l’inevitabile
affiorare di perplessità circa le proprie capacità di saper interessare e persuadere
gli studenti dell’importanza e del significato della disciplina insegnata.

b. Le ricerche evidenziano inoltre un calo di credibilità educativa che rischia di


deludere le stesse attese degli studenti, in partenza piuttosto rilevanti.
Nell’esercizio concreto della disciplina s’instaura una spirale di logoramento,
difficile da contenere: la debolezza intrinseca dell’impianto scolastico, fa perdere
quota all’autorevolezza della disciplina; l’IdR è indotto al ribasso nelle richieste
di impegno e quindi a compromettere la effettiva significatività della propria
proposta; non va sottovalutata la denuncia esplicita, da parte degli IdR e degli
stessi studenti, di un clima conseguente di disimpegno e di superficialità che
compromette la «disciplina» in aula.
Anche l’elaborazione teologica e il linguaggio specifici dell’IRC, distanti dalle
matrici consuete della cultura laica e della società secolarizzata possono indurre
sottese resistenze. Con la conseguenza di rendere faticosa l’integrazione del
processo educativo perseguito dall’IdR rispetto al progetto scolastico della
scuola.

Capitolo 6 pag. 100


c. Il pericolo che l’IRC venga progressivamente sospinto ai margini e venga
compromessa la sua stessa identità scolastica risulta tutt’altro che impensabile.
Si delinea una sempre più evidente minaccia sul progetto coraggioso e
innovativo innescato negli anni ’70, tendente a fare della religione una materia
scolastica a pieno diritto.
Gli indici che le ricerche offrono sono più che sufficienti per affermare che
la «disciplina» resta palesemente esposta ad una gamma di resistenze, di
inadempienze e di ambiguità che rendono «singolarmente incomprensibile» la
sua sostanziale «tenuta»; il cui futuro tuttavia nessuno può ragionevolmente
garantire alle condizioni attuali di esercizio.
Meraviglia anzi «la tenuta» degli studenti e delle famiglie che continuano ad
avvalersi. E sotto molti aspetti è singolare la considerazione che l’insegnante
di religione va ottenendo da parte dei colleghi e delle autorità scolastiche che
spesso lo chiamano a responsabilità impegnative nell’elaborazione e nella
messa in atto del Piano di Offerta Formativa delle singole scuole.

d. E proprio questa condizione sotto molti aspetti paradossale mette a fuoco gli
aspetti controversi della religione nella scuola.
Da una parte sembra estranea all’ordinamento di una scuola laica per tante
ragioni, soprattutto di ordine strutturale, per il linguaggio, per la formazione degli
insegnanti, per la condizione didattica...
Dall’altra sia la considerazione data ai docenti, come la percentuale
singolarmente alta di libera partecipazione degli studenti sottolineano l’interesse
e il significato della disciplina.
Meritevole soprattutto lo sforzo dei docenti di inserirsi, con strategie operative
diverse, quali la ricerca di collaborazione interdisciplinare, la disponibilità
all’elaborazione dei piani formativi, nel vivo del progetto scolastico a dare
visibilità alla propria disciplina.
Capitolo 6 pag. 100/101
È lo spazio che potrebbe risultare promettente nel corso dell’attuale riforma.

5.2. Educazione religiosa e progetto scolastico in prospettiva

Precisamente queste ultime osservazioni introducono al significato della


religione nel progetto globale della scuola e al ruolo dell’educazione religiosa
nella maturazione integrale dell’alunno. In una riflessione attenta vanno misurate
le prospettive cui la scuola è orientata proprio dalla sua stessa evoluzione in atto.
Si possono abbozzare alcune considerazioni.

a. Le conquiste del Concordato sono state la disciplina e lo sforzo conseguente


per metterla in atto con rispetto delle metodologie e degli obiettivi di una scuola
laica.
Ma proprio questi sforzi hanno paradossalmente logorato dall’interno la
disciplina come il Concordato l’ha configurata, centrata fondamentalmente sul
Cattolicesimo nella sua interpretazione teologica.
La scuola ha costretto a fare i conti seriamente con metodologie scolastiche
che privilegiano i processi educativi e le condizioni interpretative e critiche
della proposta; sollecitando una serie di riferimenti a scienze lontane dalla
preoccupazione teologica, impegnate alla comprensione e all’analisi critica
del fenomeno cristiano, esplorato nel linguaggio specifico e nella costitutiva
dimensione religiosa.
Con ciò hanno chiamato in causa le scienze della religione che incontrano
i grandi temi del cristianesimo e li analizzano secondo metodologie diverse,
complementari; con certo rigore critico e certa preoccupazione oggettiva.

b. Su questo sfondo di ordine culturale generale si delineano poi alcune


Capitolo 6 pag. 101
situazioni nuove che potremmo chiamare congiunturali:
– va rapidamente cambiando la fisionomia della popolazione scolastica, sia per
la «diversa» attenzione e interpretazione al dato religioso, sia per la presenza di
religioni «diverse»;
– il fenomeno sociale religioso assume valenze e modalità interpretative inedite,
spesso distanti dall’esperienza cattolica;
– la ricerca religiosa si porta su versanti molteplici, studia il fenomeno religioso
da punti di vista differenziati e complementari; va man mano offrendo strumenti
e spazi complementari e talora alternativi a quelli teologici per l’analisi stessa del
cristianesimo;
– di conseguenza richiama a competenze nuove e fondamentalmente laiche sul
dato religioso; sollecita lo Stato a riprendere la propria responsabilità anche in
ambito religioso.

c. Le riforme scolastiche dilatano lo spazio dell’autonomia; richiamano


l’educazione scolastica sul versante del progetto della scuola; sollecitano la
religione ad entrare nel più vasto orizzonte del «piano di offerta formativa» (POF)
con specifici contributi per elaborarlo. Già al momento attuale, come è stato
appena richiamato, l’Insegnante di Religione spesso è sollecitato a coordinare
o comunque ad assumersi ruoli di notevole responsabilità in questi nuovi
orientamenti che la scuola va predisponendo.
In ogni caso si vanno dilatando gli spazi della collaborazione interdisciplinare
anche per le opportunità che l’autonomia va esigendo: oltretutto chiamano in
causa una presenza diffusa della dimensione religiosa che attraversa anche le
altre discipline: alcune in maniera addirittura preponderante; in Italia l’arte e la
letteratura ne offrono ampia documentazione.

Capitolo 6 pag. 101/102


6. Il futuro dell’IRC come disciplina nell’impatto con la Riforma della Scuola

6.1. Il principio educativo che orienta la Riforma

L’intero progetto scolastico – la nuova scuola – è retto da un principio preciso:


l’allievo è al centro del processo di apprendimento.
Anzi, se si vuole uscire da ambiguità sempre latenti, bisogna identificare il
processo di apprendimento come il cuore dell’innovazione di cui la riforma tenta
di farsi interprete.
Di conseguenza l’orizzonte di ricerca si profila chiaro; si possono identificare gli
obiettivi che orientano la ricerca teorica e l’azione pedagogica:
– le dinamiche interiori del soggetto che apprende;
– le condizioni che le promuovono o le attardano;
– le metodologie pedagogiche in grado di darvi progressiva attuazione;
– le strumentazioni pedagogico-didattiche che le interpretano.
L’asse strategico si sposta; la nuova concezione dell’educazione sembra trovare
la pista da perseguire:
– dalle nozioni alla capacità di assumerle, di valutarle, di applicarle;
– dalle conclusioni all’itinerario per arrivarci;
– dalla qualità delle nozioni alla qualità dell’apprendimento delle strutture
portanti e delle conoscenze fondamentali per misurarsi con le diverse situazioni,
decifrarle, metterle a frutto;
– dalla ripetitività di strade battute all’apertura di piste di cui sperimentare
l’efficacia e la rispondenza;
– dalla scuola come percorso solitario e avulso dalla vita, a laboratorio
sperimentale per qualificare e orientare la vita. (Cf Statuto degli studenti e delle
studentesse, approvato dal Consiglio dei Ministri, il 29 maggio 1998. ) Si delineano compiti

Capitolo 6 pag. 102/103


urgenti per la riflessione pedagogica, in tanta parte consapevole della novità e
della complessità dei fattori in gioco, per ripensare il ruolo e la funzione della
scuola; chiamata a promuovere un’educazione che fa i conti col processo
peculiare e qualificante di crescita per il singolo. La scuola cerca nell’autonomia
la struttura operativa in grado di darvi attuazione: per la funzione che le compete
si potrebbe identificare in un’autonomia progettuale.
Il cambiamento di governo (maggio 2001) ha favorito e di fatto promosso una
tappa di riflessione sull’insieme delle riforme e la loro applicazione.
L’apporto finora più significativo (dicembre 2001) è offerto da un gruppo di
lavoro presieduto dal Prof. Giuseppe Bertagna cui il Ministro ha dato l’incarico di
verificare e di aggiornare le condizioni della riforma in atto e in particolare della
riforma dei cicli scolastici. (Il Gruppo è chiamato a «svolgere una complessiva riflessione
sull’intero sistema di istruzione e, nel contempo, di fornire concreti riscontri per un nuovo piano di
attuazione della riforma degli ordinamenti scolastici, ovvero per le eventuali modifiche da apportare
alla legge 30 del 10 febbraio 2000» (Introduzione)).

6.2. Orientamenti recenti assunti dalla CEI risultano disponibili alla Riforma
(La CEI di intesa con il M.P.I. ha promosso negli anni scolastici 1998-99 e 1999-2000 una
«Sperimentazione nazionale biennale sui programmi di religione cattolica nella prospettiva
dell’autonomia scolastica e di nuovi programmi di religione cattolica» i cui risultati sono stati
pubblicati nel Notiziario U.C.N., 16 (2002) 5.)

Le innovazioni richiamate restano alla base anche dell’educazione scolastica: il


documento conclusivo della sperimentazione nazionale dell’IRC ne prende atto e
sembra voler interpretare spazi e disponibilità effettive che la riforma della scuola
va predisponendo.
Al punto in cui siamo con la sperimentazione conclusa, la legge già emanata,
Capitolo 6 pag. 103
i programmi di IRC in fase di elaborazione conclusiva è legittimo rilevare una
sostanziale solidarietà e una volonterosa integrazione.
La disciplina IRC dove sappia interpretare il contributo effettivo della religione ha
tutte le carte in regola per qualificarsi con un apporto prezioso alle finalità della
scuola: come del resto risulta dall’impegno concreto che molti insegnanti già
vanno assumendo per dare attuazione alle innovazioni più urgenti.
Condivido la valutazione lucida di G. Sandrone, una delle collaboratrici della
«Proposta Bertagna».
«L’insegnamento della Religione Cattolica s’inserisce a pieno titolo, con
tutte le altre discipline, in questo processo teso al raggiungimento del Profilo
educativo, culturale e professionale dello studente sia alla fine del primo
sia alla fine del secondo ciclo di istruzione e di istruzione e formazione
professionale. Come tutte le altre discipline ha il dovere di non perdere di
vista mai il carattere di ologrammaticità dell’apprendimento, forte anche della
sua specificità nella ricerca di senso che accompagna gli studenti, prima, e gli
uomini, poi, e conduce alla ricomposizione di brandelli di realtà in un quadro
completo, vivificato dalla presenza di Chi ci guida alla ricerca della Verità e alla
sua conquista». (G. SANDRONE, La filosofia della Riforma, 3 in www.rivistadireligione.it/
Ricerche in archivio/Insegnamento della religione.) Mentre questo studio va alle stampe
sono approvati d’intesa fra CEI e MIUR gli «Obiettivi specifici di apprendimento
propri dell’insegnamento della religione cattolica nell’ambito delle indicazioni
nazionali per i piani personalizzati delle attività educative». (Roma, 23 ottobre 2003.)
Riguardano, per adesso, gli obiettivi specifici di apprendimento della scuola
dell’infanzia e della scuola primaria.
La volontà di inserirsi coerentemente nel progetto attuale della scuola è evidente
e, ci sembra, con buona riuscita: in questi primi obiettivi resta nettamente
accentuata la dimensione cattolica.

Capitolo 6 pag. 103/104


7. Quali prospettive?

Pare importante richiamare il significato della religione nel rinnovamento che la


scuola si propone.
Vale la pena partire dalle conclusioni della Ricerca del ’96.
«Se una considerazione s’impone dalla lettura dei risultati è che l’IRC si
accredita precisamente per la sua valenza esistenziale. È la vera ragione
soggiacente all’interesse che gli studenti vi dimostrano; ma in tanta parte anche
all’opzione per questo insegnamento degli stessi docenti.
Il richiamo esistenziale si concentra sull’IRC.
Lo studente cerca fra i banchi di scuola le tracce d’una identità personale,
vaglia obiettivi e prospettive che si vanno profilando all’orizzonte umano. L’IR
nell’immaginario degli studenti, ma non solo, sembra situarsi in questa ricerca
spesso occasionale e approssimativa. Lo studente sembra presagire nel dato
religioso e cristiano una certa sintonia con aspirazioni indefinite e tenaci che
porta con sé e sollecita l’IRC in questa direzione. Una spinta che non cessa di
essere indicativa per la scuola; certamente né l’IRC e forse neppure la scuola
dispongono di spazi adeguati: dove però lascia presagire una solidarietà decisiva
fra identità personale e proposta culturale spalanca una prospettiva di rilevanza
tutt’altro che trascurabile » (Malizia-Trenti, 1996, 302-303).
Dunque l’esercizio concreto scolastico incontra il fulcro della Riforma. In
quanto lo studente si sente interpretato dalla religione, l’IRC scopre il perno per
perseguire quell’elaborazione della stessa disciplina – sia pure fra resistenze e
ambiguità – che la Ricerca documenta.
Anche a livello di metodo, l’attenzione all’esperienza effettiva degli alunni,
come la disponibilità e una certa consuetudine al dialogo con l’insegnante,
risultano presupposti importanti per accompagnare l’alunno alla progressiva
Capitolo 6 pag. 104
consapevolezza del mondo religioso e alla padronanza delle chiavi che gli
consentono di interpretarlo – competenze da perseguire –. Da questo punto
di vista l’azione sul campo si è di fatto portata sulla lunghezza d’onda del
rinnovamento metodologico.
L’attenzione poi ad un apprendimento che sappia integrare adeguatamente una
«formazione spirituale e morale», quale la Riforma intende promuovere (L.
53/2003, a. 2, c 1 lettera b), prefigura per la religione un terreno privilegiato: che
non sarà appannaggio di una disciplina ma può offrire all’IRC l’occasione di un
apporto qualificante e orientativo.
Sullo sfondo di considerazioni del genere l’impegno strutturale e organizzativo
della disciplina resta importante. È stato sopra richiamato il rischio tutt’altro
che teorico in un’organizzazione scolastica comandata dall’autonomia: l’IRC
è disciplina facoltativa, l’autonomia apre il varco ad una pluralità indefinita di
discipline facoltative; l’IRC finirà come una di queste, disperso fra queste? Di qui
l’accentuazione che questo studio ha privilegiato: la natura e la funzione della
religione non è facoltativa. La religione resta una matrice fondamentale della
cultura. Il cristianesimo lo è nella cultura europea e italiana in particolare, per cui
la sua presenza nella scuola è irrinunciabile.
La disciplina per rendersi credibile deve fare i conti con la religione sia a livello
esistenziale che storico-culturale; la figura del cattolicesimo in ambito nazionale
può risultare prioritaria e condizione reale di incontro e di esplorazione della
stessa dimensione religiosa: alla conclusione dei due cicli lo studente deve
rendersi conto della dimensione religiosa dell’ambiente nel quale respira e del
richiamo religioso che urge nella propria esperienza interiore.
È penoso constatare il dibattito in corso sul «Preambolo» della costituzione
europea. Potrebbe costituire un monito questa resistenza a decifrare e
riconoscere i segni del cristianesimo in una civiltà occidentale che si analizza e si
interpreta ad es. a partire dalla nascita di Cristo. Un recente saggio di G. Reale
Capitolo 6 pag. 104/105
(Reale, 2003) su cui avremo modo di ritornare fa giustizia di preclusioni tenaci.
La valenza culturale della religione e in particolare del cristianesimo per l’Europa
non può ragionevolmente esser messa in discussione; né la più specifica figura
cattolica per l’Italia.
L’elaborazione della disciplina, l’obiettivo formativo generale cui ha richiamato
hanno inteso sottolineare la prospettiva in grado di orientare l’insegnante nel
processo di rinnovamento che attraversa la scuola, anche con un proprio
specifico contributo per decifrare la dimensione religiosa della cultura e
dell’esistenza.
L’IRC in quanto disciplina curricolare – e dunque parte integrante del progetto
scolastico – non può assumersene tutta la responsabilità; ha tuttavia il compito
di elaborare strumenti e linguaggio di accesso e di esplorazione rigorosa del
«fenomeno » religioso, come di fatto si esprime in Italia.
Costituisce quasi la premessa e per un’analisi attenta del «sapere religioso» e
per una precisazione adeguata di obiettivi formativi peculiari che i singoli gradi di
scuola esigono o privilegiano: compito di successivi interventi.

Indicazioni bibliografiche

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Capitolo 6 pag. 106


CAPITOLO 7

LO STUDENTE DELL’IRC:
IL PROTAGONISTA E LO SCENARIO
Vittorio Pieroni

1. Chi è lo studente che si avvale dell’IRC?

Le indagini sull’IRC documentano che in genere è più femmina che maschio ed


ha un’età tra 15 e 17 anni.
Aloro volta il sesso e l’età esercitano una parte non indifferente nella scelta e
nelle modalità di partecipazione dei giovani all’IRC:
– i maschi sono più concentrati negli indirizzi tecnici e professionali, mentre le
femmine hanno un’estrazione culturale soprattutto di tipo umanistico;
– inoltre durante il biennio si rilevano indici ancora apprezzabili circa le modalità
di partecipazione attiva, mentre non si può dire altrettanto del triennio, dove non
solo il tasso di non scelta dell’IRC è più elevato, ma anche la partecipazione
appare più scadente e si nota una contemporanea tendenza a «concordare » gli
argomenti.

1.1. I genitori degli avvalentisi a confronto con la famiglia italiana

Lo studente dell’IRC proviene per lo più da famiglie di classe sociale media


e di altrettanta estrazione culturale media. La quasi totalità dei genitori, infatti,
Capitolo 7 pag. 107
possiede un titolo di studio superiore all’obbligo, ha un’età tra 30 e 40 anni ed
occupa posizioni in qualità di dipendente tra le categorie impiegatizie: lavora
prevalentemente nel settore terziario, del commercio e dei servizi alla persona o
alle imprese (insegnanti, impiegati, agenti commerciali, commercianti...).
Metà di loro ha dichiarato di avere un solo figlio ma, in considerazione della
ancora giovane età, il dato potrebbe essere provvisorio, seppure in presenza di
uno dei tassi di natalità tra i più bassi in Europa.
I genitori degli avvalentisi si distinguono anche per possedere un livello di
credenza e pratica religiosa leggermente più elevato rispetto alla media italiana,
per essere soddisfatti per la scelta dell’IRC, del programma, della disciplina e
della partecipazione scolastica del figlio.
Contestualmente anche la scelta dell’IRC è determinata, soprattutto nelle
elementari e nelle medie, dal livello di credenza e pratica religiosa dei genitori e
dal significato attribuito all’appartenenza alla propria religione.
Due genitori su tre si dichiarano credenti e praticanti; a sua volta un più alto
livello di credenza e pratica ben si correla con la condizione femminile/materna,
con chi abita in piccoli centri, con chi possiede titoli di studio più elevati.
Le motivazioni che spingono i genitori a sceglierc l’IRC, in particolare nei
confronti dei figli che stanno nei livelli scolastici più bassi, sono prioritariamente
di natura ideologico-educativo-religiosa, e si possono dividere in tre categorie:
1. quelle che hanno a che vedere con i requisiti scolastici dell’IRC (perché
«formativo », perché «contribuisce» all’educazione, perché «patrimonio culturale
»...); 2. quelle che si fondano sull’appartenenza (in quanto «credente», per
«tradizione familiare»...); 3. quelle che toccano le relazioni interpersonali (la
«fiducia» nell’insegnante, i «suggerimenti» del parroco...).
In tutti questi casi fa da comun denominatore il fattore «appartenenza religiosa
». Ossia, scegliere l’IRC corrisponde a qualificarsi ideologicamente, appartiene
all’impegno di identificarsi, sta ad indicare da quale contesto si proviene, in
Capitolo 7 pag. 107/108
pratica significa «affermare chi si è». Ciò permette di ritenere che l’IRC viene
interpretato oltre che come portatore di formazione per se stessi (ossia nei
confronti di coloro che lo hanno scelto), anche come elemento distintivo nei
confronti degli altri, ossia attesta l’identità culturale di estrazione/appartenenza.
La famiglia degli avvalentisi va poi vista sullo sfondo del più ampio scenario che
caratterizza la famiglia italiana.
Una delle funzioni principali della famiglia è quella di garantire ai propri membri
il soddisfacimento di alcuni bisogni primari: il bisogno psicologico di sicurezza, di
stare insieme, di soddisfare le esigenze del sesso, di procreare.
Ma oltre ad essere il luogo della risposta ai bisogni psicologici e biologici
tipicamente umani, la famiglia è anche l’area della riproduzione del sistema
sociale sia a livello della conservazione che della cultura sociale, intesa come
insieme dei codici e delle tecniche del vivere. Infatti è all’interno della famiglia
che si realizza il primo e più rilevante stadio dei processi di socializzazione e
di inculturazione, attraverso i quali avviene l’interiorizzazione dei valori sociali
e degli stili di vita che sono tipici di un certo sistema sociale. Ciò significa che
all’interno della famiglia si gioca gran parte della possibilità del nuovo individuo
di adattarsi al sistema sociale e di elaborare un progetto di vita evolutivo o
regressivo.
Al tempo stesso la famiglia svolge anche un ruolo primario nel provocare forme
di disagio. In particolare la famiglia nucleare manifesta una forte fragilità dal
punto di vista educativo in quanto, potendo contare solo su uno o due ruoli
educativi adulti al proprio interno, quando va in crisi uno di essi, o addirittura
entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventano immediatamente
rilevanti. Secondo la «relazione sull’infanzia e l’adolescenza 2000» (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, 2001), normalmente le famiglie i cui figli si trovano in
condizioni di disagio sono connotate da una o più delle seguenti caratteristiche:
– svantaggio economico;
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– basso livello di istruzione dei genitori;
– disoccupazione o occupazione precaria dei genitori;
– coppia genitoriale separata o conflittuale;
– assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori;
– comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei confronti dei figli;
– famiglie che non pongono limiti ai figli;
– famiglie in cui genitori sono iperprotettivi nei confronti dei figli;
– famiglie in cui il ragazzo è oggetto di conflitti parentali;
– famiglie in cui i minori sono vittime del maltrattamento da parte dei genitori .

1.2. Lo stile di vita dello studente dell’IRC

Tornando nuovamente al personaggio studente, le modalità più frequenti


di consumo quotidiano del tempo libero di chi si avvale dell’IRC appaiono
condizionate, come per tutti i suoi coetanei, dalle opportunità presenti nel luogo
di residenza ma anche dalla variabile di genere, e vanno da quelle programmate
a quelle variamente disimpegnate, queste ultime caratterizzate dal «parcheggio»
per strada, in piazza o su muretti (i maschi) o dalla privacy nel chiuso della
propria cameretta (le ragazze).
Nel programmare il proprio tempo libero lo studente dell’IRC in genere è portato
ad iscriversi ad associazioni di carattere soprattutto sportivo, seguite da quelle
culturali ed espressive; percentuali più modeste manifestano anche la volontà
di impegnarsi in gruppi/associazioni di carattere religioso e di volontariato,
quest’ultimo vissuto nelle espressioni più variegate che vanno da quelle a
scopo prosociale (educativo, socio-assistenziale...) a quelle naturalistico-
ambientalistiche.
Mentre le attività a carattere prevalentemente evasivo ed effimero rientrano tra
Capitolo 7 pag. 108/109
le opportunità infrasettimanali (discoteca, concerti, gite, shopping...). È un dato
di fatto, tuttavia, che tutti si lamentano del poco tempo libero a disposizione e
se a qualcosa bisogna pur rinunciare non sono certo gli svaghi ed i luoghi di
divertimento che vengono messi in discussione.
Dal mondo adulto ci si chiede spesso quanti soldi abbiano in tasca questi
giovani per permettersi uno stile di vita all’insegna di un non indifferente
consumismo (mantenimento del motorino, capi d’abbigliamento firmati, acquisto
di CD, di stereo e di strumenti vari per l’ascolto della musica, discoteca, gite/
viaggi, hobbies, fumo, bar/pizzeria...).
Le risposte che, a seguito di questo interrogativo, sono emerse sempre dalle
precedenti indagini lasciano piuttosto perplessi: solo pochi accettano di far
conoscere la paghetta settimanale, che in genere a detta loro si aggirerebbe
attorno agli attuali 25-50 euro; i più dichiarano invece una disponibilità di soldi
legata alle richieste del momento, ciò che lascia supporre un dispendio di denaro
basato sull’occasionalità ma che, se assommato ai sempre più numerosi bisogni
che vengono espressi parallelamente alla crescita evolutiva, potrebbe superare
abbondantemente la quota indicata.
Di quali amici si circondano? E poi, sono tutti «veri» amici? Come per i loro
coetanei, anche per gli studenti dell’IRC il gruppo serve da valvola di sfogo
nei confronti dei problemi e delle esperienze del quotidiano, ad acquistare
sicurezza ed identità, a trasmettere valori e stili di vita, a consolidare i legami di
appartenenza; se tutto questo contribuisce di per sé a completare quel processo
di socializzazione che ha avuto inizio tra le mura parentali, al tempo stesso non
si può non trascurare il pericolo di una omologazione di comportamenti a rischio,
derivante dalla eventuale presenza nel gruppo di «mele bacate».
La strada, la piazza, la palestra, la discoteca, il bar, la pizzeria, l’ascolto della
musica, il fare shopping... diventano quindi il luogo della «gruppolizzazione
identitaria » e/o fanno parte integrante dello scenario su cui si sviluppano e si
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coagulano le relazioni amicali: importante è stare assieme, poi si vedrà cosa fare.
In genere si tratta di gruppi «chiusi», dove agli adulti non è concesso di entrare,
genitori compresi.
Dal canto loro i valori-guida che lo studente dell’IRC riceve dalla famiglia di
estrazione si collocano per lo più nell’ordine delle relazioni umane e sociali
(onestà, rispetto, senso di responsabilità...), prima ancora che religiosi. E
comunque nelle famiglie degli avvalentisi la norma morale sembra avere ancora
per preadolescenti e adolescenti una funzione di contenimento nei confronti
di azioni autolesive come le droghe pesanti ed il suicidio, mentre per quanto
riguarda le droghe cosiddette «leggere» si rileva un atteggiamento di maggiore
permissività; invece a questa età gli studenti dell’IRC non sanno prendere ancora
una precisa posizione in merito al divorzio e all’aborto, forse perché considerati
eventi che per il momento non li riguardano troppo da vicino.
Anche le risposte su fede e pratica religiosa non fanno storia: quasi tutti si
dichiarano credenti, mentre sulla pratica la quota si dimezza. Su credenza
e pratica inoltre gioca la variabile di genere, dove i maschi a differenza
delle ragazze assumono uno scontato atteggiamento di indifferenza ed
insoddisfazione nei confronti della dimensione religiosa.
Gran parte dei giovani dichiara espressamente di voler approfondire le
proprie conoscenze religiose, tuttavia nei più appare un bisogno limitato a
«parlarne», mentre l’impegno a calarlo nella vita pratica attraverso forme varie di
coinvolgimento in attività a scopo religioso-formativo è riservato a una minoranza,
caratterizzata dalla minore età e da una componente prevalentemente femminile.
Si crede in Dio ma non nella stessa misura in Gesù Figlio di Dio; nell’anima
e meno nella resurrezione del corpo; nel paradiso, ma non in ugual misura
nell’inferno; una maggioranza inoltre dichiara di essere attanagliata da forti dubbi
nei confronti dell’Eucarestia e dei miracoli.
Nella Chiesa crede solo la metà degli avvalentisi ed il senso di appartenenza
Capitolo 7 pag. 110
è manifestato da ben pochi; tanto meno vengono condivisi i suoi insegnamenti;
in particolare in materia di sessualità la Chiesa viene definita conservatrice,
repressiva, contraddittoria; quasi tutti ammettono la possibilità di avere rapporti
sessuali prima del matrimonio, che sembrano non rientrare più nel concetto che
questi giovani conservano di trasgressione morale.
Al generalizzato sentimento di appartenenza alla Chiesa Cattolica fa eco una
pratica religiosa scarsamente sostenuta, parallelamente all’innalzarsi dell’età e
dello stato di indifferenza dei genitori nei confronti del vissuto religioso.
Il vissuto religioso ovviamente ha poi una diretta ricaduta sull’interpretazione
dell’ora di religione in termini di interesse/coinvolgimento, tanto più se con alle
spalle una famiglia sintonizzata su tali dimensioni.

1.3. «Barcollo ma non mollo»: fragilità e protagonismo sullo sfondo dei


valori giovanili

Non può passare inosservato che questi studenti appartengono tuttavia al più
vasto mondo giovanile che li ingloba e da cui attingono valori e stili di vita che li
fanno assomigliare in tutto e per tutto ai loro coetanei.
Sullo scenario che fa da sfondo alle caratteristiche che attraversano la più
generale condizione giovanile, «barcollo ma non mollo» (uno dei tanti messaggi
anonimi che i giovani lasciano scritti un po’ dappertutto su quegli spazi di cui si
appropriano abusivamente per manifestare il loro disagio interiore) sembrerebbe
raffigurare meglio di altri l’attuale stato di fragilità dei giovani, combinata al tempo
stesso con una determinata volontà a trasformarsi in risorsa vincente a fronte
delle continue incursioni predatorie (o, se vogliamo, dei «miraggi») che subisce
da parte del mondo dell’effimero e del consumismo.
Questo sentimento di fragilità che il giovane avverte sembrerebbe scaturire a
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sua volta dal sentirsi scarsamente protetto da scudi valoriali a tenuta stagna e/o
garantiti nel tempo, e contestualmente minacciato da una variabilità di eventi che
quotidianamente lo investono su fronti differenziati, a cominciare dalle stesse
trasformazioni fisiche a cui è soggetto in questo particolare periodo della vita.
Durante l’adolescenza, infatti, la «carta d’identità» viene giocata soprattutto
sulla «visibilità» esteriore e/o sulla corporeità: il corpo diviene oggetto di
sperimentazione, rivestito con abbigliamenti personalizzati, colorato, tatuato,
traforato; basti pensare al ricorso a tatuaggi, piercing, trucco, acconciature,
abbigliamenti vari. La necessità di darsi prove iniziatiche di coraggio scaturisce
dal bisogno stesso di convalidare il passaggio dal corpo di bambino a quello di
giovane; una conquista spesso preceduta da un variegato numero di condotte
a rischio, nei cui confronti la conoscenza e l’informazione, filtrate attraverso
interventi di prevenzione, non sono sufficienti a scoraggiare dal metterle in atto.
Dal canto suo, il sempre più facile ricorso a differenziate forme di violenza fa
parte di quel «linguaggio» che serve a comunicare il proprio disagio interiore e/o
uno stato d’animo attraversato da mille bisogni di senso opposto, che spesso
portano il soggetto in evoluzione a vivere una sofferta confusione di sentimenti e
valori.
Per lui gli amici occupano il primo posto e il gruppo è la nuova famiglia che lui
stesso si è scelto in alternativa e/o in concomitanza con quella che gli è stata
imposta o comunque non ha potuto scegliere. Il futuro gli appare fumoso e,
piuttosto che passare il tempo a progettare, preferisce «presenziare» in quella
città virtuale che lo condiziona a pensare con gli occhi mentre viaggia per le
sconfinate autostrade informatico-massmediali, all’origine di sempre nuovi
modelli di apprendimento basati su una logica reticolare del sapere.
La musica stessa assume un significato che trascende il semplice consumo per
diventare una forma di espressione di sé e di appartenenza, in quanto divide i
giovani in tante ideologie e fedi: metallari, punk, tecno, ecc., non sono solo dei
Capitolo 7 pag. 111
generi musicali ma acquisiscono nel mondo giovanile un valore espressivo del
proprio modo di percepirsi e di adottare stili di vita personalizzati. Legato alla
musica e all’espressione corporea vi è poi il ballo, ricco di riti, significati, finalità
(sono tipici nei giovani i rituali preparatori che precedono l’andata in discoteca).
Infine un’attenzione particolare merita la «notte», interpretata come momento-
spazio di appropriazione del «possibile» e del «trasgressivo», fuori dal controllo
del mondo adulto e, di conseguenza, vissuta in contrapposizione al «giorno»,
inteso come spazio del mondo adulto.
Atutto questo la mente del minore in trasformazione, che ripercorre le normali
tappe di un processo evolutivo, deve comunque arrivare a dare prima o poi
risposte di senso, al fine di ottenere una sufficiente integrazione tra mente e
corpo, tra io-identità ed io-relazionalità, tra auto- ed etero-gestione della propria
personalità, pur attraversando esperienze difficili/sofferte. Tuttavia la non perfetta
assimilabilità del minore di oggi alle precedenti generazioni invita a tener conto
che si è di fronte ad un modo sempre nuovo di diventare adulti, e di conseguenza
anche i riti d’ingresso nell’assunzione dei ruoli sociali/attivi avvengono
conseguentemente, cambiano.
L’ultima indagine dello IARD (C. Buzzi - A. Cavalli - A. De Lillo, 2002), effettuata
su 3.000 giovani tra 15 e 34 anni, ha evidenziato la presenza di un nucleo forte
di valori che rappresentano il punto centrale per la costruzione del loro sistema
di vita: famiglia, amore, amicizia, autorealizzazione e lavoro. Successivamente,
raggiunta la sicurezza su questo nucleo centrale, ci si può dedicare a quel
mondo che dà «visibilità» (lo sport, il successo e la carriera, la vita agiata, il
divertimento) oppure al mondo dell’impegno che arricchisce la vita interiore
(religione, impegno sociale, studio e cultura).
Il rapporto arriva così a suddividere la mappa dei valori giovanili in 4 categorie:
1. valori connessi alla vita individuale, coincidenti con la famiglia, il lavoro,
l’amicizia, l’amore, la carriera, l’autorealizzazione, la vita confortevole e agiata;
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2. valori di tipo evasivo, collegati alle attività sportive, allo svago nel tempo libero,
al divertirsi e godersi la vita;
3. valori della vita collettiva, associati alla solidarietà, all’eguaglianza sociale, alla
libertà e democrazia, alla patria;
4. valori legati all’impegno personale, identificati dall’impegno religioso,
dall’attività politica, dall’impegno nel sociale, dallo studio e dagli interessi culturali.
Inoltre l’indagine, nel tentativo di focalizzare l’attenzione in particolare sul
quadro concettuale della religiosità giovanile, ha portato ad evidenziare che la
stragrande maggioranza dei giovani dichiara di credere e di riconoscersi in una
religione monoteista. Al tempo stesso tuttavia la maggior parte di questi giovani
tende ad affiancare a tale credenza una o più credenze parallele, estranee alla
tradizione cattolica. Tutto ciò lascia intendere il progressivo affermarsi tra le
giovani generazioni di una tendenza a costruirsi un’identità religiosa personale,
caratterizzata dalla presenza di credenze eterogenee e formalmente incompatibili
con il cattolicesimo, sintomo di un processo di affermazione di un pluralismo
religioso fondato su scelte personalizzate.
Un’altra recente indagine condotta su 6.000 studenti delle ultime classi delle
scuole superiori (R. Cartocci, 2002) ha portato a costatare che in generale gli
studenti cattolici praticanti manifestano una maggiore apertura verso gli altri, più
fiducia nelle istituzioni, risultano anche quelli più severi verso le trasgressioni
e più critici verso l’arte di arrangiarsi. Su queste dimensioni la pratica religiosa
marca le differenze più profonde: sono gli studenti praticanti a identificarsi con
le istituzioni e a contribuire in misura più ampia al capitale valoriale della nostra
società.
Sulle ragioni di questa maggiore identificazione degli studenti cattolici con
le istituzioni si può ritenere quindi che la scelta dell’IRC introduca elementi
di arricchimento dei punti di vista sul mondo, in buona misura dissonanti sia
rispetto ai messaggi dei media, sia anche rispetto alle materie scolastiche.
Capitolo 7 pag. 112/113
Di conseguenza si può ritenere che chi vive con impegno la disciplina, tanto
più se ben inserito nella rete del mondo cattolico, si avvale di una forma di
«mobilitazione cognitiva » capace di rompere certi modelli culturali trasmessi dal
conformismo dei media e dall’astrattezza dei programmi scolastici.

2. La scelta dell’IRC nel contesto della scuola italiana.


Problemi e provocazioni

Se diamo per buono quanto hanno dichiarato nelle indagini sull’IRC i genitori
delle elementari e medie e gli studenti delle superiori, secondo i quali nessuno
ha interferito nella scelta di avvalersi della disciplina, se ne deduce che la scelta
dell’IRC viene fondata su motivazioni valide, come la convinzione del valore
e dell’importanza della propria fede religiosa, la ricerca di una soluzione ai
problemi della vita, l’urgenza in una società pluralistica di essere adeguatamente
preparati a sostenere il confronto con chi la pensa diversamente. Si tratta di
ragioni prevalentemente culturali, che riprendono quell’atteggiamento comune
alla popolazione italiana secondo cui il Cristianesimo viene considerato parte
integrante del patrimonio storico-culturale.
In altri termini, coloro che si avvalgono dell’IRC lo fanno quindi essenzialmente
perché credenti, per trovare risposte ai problemi della vita, perché ritengono
importante confrontarsi con chi la pensa diversamente, per la conservazione del
Cristianesimo come patrimonio e/o parte integrante della cultura di appartenenza;
mentre non sembrano avere un peso decisivo nella scelta motivazioni di tipo
affettivo legate all’influenza di genitori e amici o alla figura dell’IdR.
D’altro canto, la non scelta dell’IRC e/o il progressivo abbandono negli anni della
disciplina si verifica invece prevalentemente tra le fila dei maschi e nell’indirizzo
tecnico-professionale al momento del passaggio dal biennio al triennio, e le
Capitolo 7 pag. 113
motivazioni collegate alla non scelta riguardano la non credenza religiosa, le
esperienze negative previe, il considerare l’IRC un’ideologia, il voler usufruire di
un’ora libera; mentre non sembrano esercitare un’influenza negativa né la figura
dell’IdR né la preferenza per l’ora alternativa.
Un IRC interpretato come fattore «totalizzante» tuttavia non è esente dal
provocare all’interno della scuola schieramenti radicalmente opposti: le indagini
portano a rilevare che l’IRC è «tutto» per chi ci crede e «nulla» (o meglio una
cultura «privata» e «di parte») per chi ha deciso di non avvalersene. Vengono
così adottati atteggiamenti specularmente rovesciati, a seconda della posizione
di appartenenza.
Ma come reagiscono gli studenti durante l’ora di religione? Qual è il loro grado
di apprezzamento nei confronti della disciplina e/o delle proposte formative
rivolte loro dagli insegnanti durante i lavori in aula? In linea generale i giudizi
positivi da parte di chi si avvale dell’IRC emergono nettamente e dappertutto su
quelli negativi; al tempo stesso il «praticare» gli insegnamenti ricevuti appare
un fenomeno meno segnalato rispetto al fatto di «creare collegamenti» tra la
disciplina ed altri insegnamenti: si rileva infatti un chiaro aumento, con gli anni,
delle interazioni tra studenti e docenti sulle tematiche di maggiore attualità, e ciò
porta indubbiamente ad innalzare l’indice di gradimento, ma al tempo stesso non
può essere esente da equivoci di «patteggiamento».
La sagra degli equivoci si spiega attraverso il sottile gioco delle reciproche
interdipendenze tra studenti e insegnanti. L’IRC ottiene una partecipazione
gratificante degli studenti per i gradi informali dell’attività educativa: porre
domande, promuovere discussioni, agitare il confronto su temi socialmente ed
esistenzialmente rilevanti, trascurati dalle altre discipline, ma piuttosto fragili
dal punto di vista disciplinare e soprattutto trattati in forma non sistematica e
discontinua.
Al tempo stesso gli studenti manifestano un diffuso interesse per
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l’approfondimento delle tematiche religiose, ma si tratta di un’attesa diversificata,
tra formale e informale, individuale e comunitaria, culturale e globale, che tuttavia
esige risposte puntuali e complementari, a scuola e fuori, ma coordinate fra loro.
Che fare? Rischiare l’emarginazione dalla cultura scolastica oppure mantenere
l’attuale posizione di sapere elettivo ma informale? Nell’insieme si può affermare
che l’ora di religione è «animata» dalla dinamica degli interessi, per lo più
concentrati su tematiche/problematiche esistenziali e/o su questioni rilevanti sul
piano dei sentimenti e dell’attenzione alle dinamiche relazionali (con particolare
attenzione a quelle amicali e intrafamiliari); tuttavia, quando si passa ad
affrontare il nucleo contenutistico e formale della disciplina si registra una caduta
della partecipazione e/o del rendimento. Ma questo sembrerebbe appartenere
ad un generalizzato «sfondo di insoddisfazione» nei riguardi dell’insegnamento
disciplinare di cui è fatto carico l’intero sistema scolastico nazionale.
Questa situazione di fatto ha scatenato inevitabilmente una problematica di
fondo: è la scuola che deve cambiare cultura e metodologia d’insegnamento
per far fronte a istanze fondamentali nella formazione delle nuove generazioni,
oppure spetta all’IRC indossare una veste più scolastica, adeguandosi alla
cultura formale della scuola? In quest’ultimo caso, il prezzo che l’IRC deve
pagare per una maggiore integrazione nella scuola non va a scapito delle sue
valenze educative? In attesa di poter dare risposte più esaustive in materia, al
momento non rimane altro che costatare che l’interesse per l’IRC è superiore a
quello mostrato per altre discipline.
Stando poi alle dichiarazioni di coloro (genitori e studenti) che hanno confermato
di avvalersi della disciplina anche per gli anni successivi, attualmente la
posizione dell’IRC nella scuola si può considerare stazionaria, non si prevedono
improvvisi cedimenti, e l’interesse di cui è circondata la disciplina rappresenta un
ulteriore sostegno a tale ipotesi.
Al tempo stesso il punto di maggiore fragilità/criticità è sotteso proprio ai fattori
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che determinano un tale interesse. La domanda di formazione religiosa è plurima,
formale e informale insieme, scolastica ed extrascolastica, personalizzata e
comunitaria. A queste condizioni anche l’IRC scolastico ne potrebbe risultare
confermato. Ma anche in questa situazione si celano delle insidie: l’equivoco
della confusione sulla natura scolastica dell’IRC sembra toccare un po’ tutti,
insegnanti, genitori e studenti; se questa indeterminatezza si confronta con una
domanda essa stessa disorientata, l’affermazione scolastica dell’IRC non ne
potrà risultare che svantaggiata e, alla lunga, compromessa.
Contestualmente, l’attenzione riservata alla realtà vissuta degli adolescenti
dell’IRC non può essere separata dal più vasto contesto scolastico di
appartenenza.
È un mondo che presenta attualmente un elevato tasso di problematicità, dovuta
anche alla situazione di transizione che non riesce ad approdare ad una chiara
identificazione della riforma in atto. Così, all’interno di una realtà incerta, gli
studenti vivono spesso situazioni variamente disorientanti e talora conflittuali.
Lo spazio della scuola, in non poche situazioni, diventa una trincea in cui si
esprime rabbia e impotenza da parte degli insegnanti e disinteresse ed estraneità
da parte dei genitori. Per quanto riguarda poi gli studenti, già ai livelli di scuola
elementare e media non sono infrequenti episodi di bullismo; ai livelli superiori
il clima è appesantito dall’indifferenza e/o da una quotidiana e diffusa violenza,
spesso mascherata sotto le forme più varie (fisiche, relazionali, disciplinari,
valutative...).
Inoltre non va sottovalutato il peso della dispersione scolastica. Sovente
proprio i giovani che avrebbero un maggior bisogno dell’attività formativa della
scuola, vuoi per gli svantaggi sociali e familiari di cui sono portatori, vuoi per
motivi personali, sono quelli che spesso sono precocemente espulsi da essa o
marginalizzati in essa. Molti itinerari di disagio o di devianza giovanile hanno alle
spalle un’esperienza scolastica negativa. La dispersione scolastica è, infatti, un
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fenomeno sociale fortemente correlato con i percorsi del disagio e della devianza
giovanile.
Una ricerca del Labos già a suo tempo aveva evidenziato l’esistenza di un
nesso, anche se in modo non deterministico, tra la dispersione scolastica e le
varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali
giovanili.
«La sottolineatura del modo non deterministico vuole indicare che mentre
in moltissime situazioni di disagio o di devianza giovanile sono riscontrabili
esperienze di insuccesso scolastico, non tutti coloro che sono vittime della
dispersione scolastica entrano in situazioni di disagio o di devianza. Nonostante
questa doverosa precisazione, rimane il fatto che la ricerca ha evidenziato
che la dispersione scolastica è uno dei maggiori fattori di rischio presenti nella
condizione giovanile in Italia, specialmente quando è concomitante con altri
fattori di rischio come quelli costituiti dalle scadenti situazioni familiari, dal gruppo
dei pari deviante, dal degrado urbano e così via» (Labos, 1994, 29-30).
Per questi motivi, e forse ancor più per l’incapacità di rinnovarsi a livello
contenutistico, didattico e tecnologico, la scuola non è vista più come il luogo
centrale per l’elaborazione e la formazione culturale dei giovani. Tutto questo
contribuisce a sminuirne il valore e l’interesse. È una realtà, questa della scuola,
che investe, anche se con diversa intensità, un po’ tutti gli stadi studenteschi.
Quando, tuttavia, l’istituzione scolastica riesce a superare la sua identità
autoritaria e costrittiva e attiva in modo significativo nuove «dimensioni
educative», il clima diventa diverso e proliferano le iniziative che trovano
l’interesse dei giovani.
Tornando al rapporto tra scuola e IRC, i nodi problematici legati alla disciplina
comunque rimangono, e sono individuabili paradossalmente in quegli stessi
elementi che la rendono desiderabile e/o interessante alla quasi totalità dei
giovani: in altre parole, la possibilità di dialogare e di scambiare opinioni con
Capitolo 7 pag. 115/116
l’insegnante e con i compagni su contenuti esistenziali e di vita quotidiana fa
dell’ora di religione un tempo e uno spazio di gradimento, ma al tempo stesso
anche di contrattazione e di abuso nel patteggiamento.
Resta comunque un dato di fatto che la peculiarità dell’IRC, rispetto alle
altre discipline scolastiche, consiste nel poter essere scelto; a sua volta tale
scelta diventa «una scelta di campo», ossia equivale ad una dichiarazione
di appartenenza: chi se ne avvale ha motivazioni «forti» a favore della sua
decisione, come pure ne ha altrettante chi non intende avvalersene; quindi si è
posti di fronte ad una posizione totalizzante: tutto pro o tutto contro, a seconda
dell’angolo visuale da cui si guarda e/o dell’appartenenza attraverso cui ci si
identifica.
In definitiva sembra essere questo il nodo della questione: i giovani dichiarano
di essere soddisfatti e di trovarsi bene con questo tipo di insegnamento, perché
risponde sostanzialmente alle loro esigenze esistenziali e al tempo stesso
permette di acquisire maggiore consapevolezza dei valori e dei principi del
Cristianesimo, oltre che un approfondimento della fede; al tempo stesso le
accuse più frequentemente rivolte agli insegnanti ed alla scuola sono di non
considerare le esigenze ed il punto di vista degli studenti.
Da cui appunto il ricorso al patteggiamento ed alla contrattazione. Asua volta tale
ricorso costituisce un analizzatore formidabile delle istanze pedagogiche poste
alla scuola dal mondo dei giovani. Si tratta di una più o meno esplicita richiesta
di relazionalità che si esprime nella volontà e sempre più acquisita capacità di
dialogo da parte degli studenti, che aumenta con l’elevarsi del livello degli studi e
che si sostanzia nella capacità di saper proporre obiettivi, mete e ideali adeguati,
funzionali allo sviluppo della maturità personale.
Non è escluso perciò che questa attenzione alla relazionalità così fortemente/
frequentemente richiesta dagli studenti se saputa gestire in modo equilibrato
possa costituire un fattore di merito e quindi diventare una metodologia da
Capitolo 7 pag. 116
incoraggiare/ applicare anche nelle altre discipline scolastiche. Tutto questo
contribuirebbe a cambiare poco alla volta l’immagine di una scuola ancora oggi
considerata prevalentemente dai giovani come ambito di acquisizione di una
cultura piuttosto generica ai fini dell’inserimento nella vita attiva e dove i rapporti
con gli adulti restano comunque problematici.
Per quanto riguarda infine gli aspetti educativo-religiosi, il docente di religione
nella relazione con gli studenti che si avvalgono dell’IRC più che collocarsi nella
posizione asimmetrica tipica dell’insegnamento disciplinare si deve mettere a
fianco degli studenti, impegnato in attività che più che di insegnamento è fatta
di ricerca e di sperimentazione, di ipotesi, per aiutare i giovani a trovare risposte
praticabili.
In questo particolare momento storico di passaggio ad un nuovo status dell’IdR,
come previsto dalla riforma e, di conseguenza si suppone anche della disciplina,
i nodi da sciogliere restano ancora molti, anzi probabilmente aumenteranno,
per cui per la loro soluzione si richiederà forse di avviare iniziative in grado di
sperimentare e/o «aprire» percorsi formativo-disciplinari innovativi.
Momentaneamente tuttavia la posizione ancora da assumere potrebbe essere
sintetizzata in questo appello rivolto agli studenti: «Tu sei studente. Ovviamente
mi dirai che con Dio non ci sono esami! Ma sappi che la tua religione la devi
sviscerare.
[...] Che sguardo hai verso le altre religioni? È bello studiare la religione dell’altro,
ma non fermarti ai luoghi comuni. Devi cercare di conoscere gli assi portanti
delle altre religioni: è interessante. [...] Non fare un cocktail di tutto. Ci sono molti
giovani che parlano contemporaneamente di reincarnazione e di resurrezione.
I Buddisti credono nella reincarnazione, i cristiani nella resurrezione.
Reincarnazione significa passare attraverso più stadi di vita prima di diventare
un essere perfetto. Noi cristiani non abbiamo che una sola vita e saremo
giudicati in base ad essa. Oggi c’è la tendenza a prendere qualcosa dal
Capitolo 7 pag. 116/117
Buddismo, dall’Islam, dalla Torah, dal Vangelo. Tu hai bisogno di un’unica fede.
Approfondiscila e va’ fino in fondo a quello in cui credi. Studia le altre religioni,
d’accordo! Ma sgobba sulla tua fede fino in fondo. [...] Nella tua religione non
selezionare. Molti ragazzi lo fanno: “la confessione mi scoccia, ne faccio a meno”.
Bisogna che tu accetti la tua religione così com’è, studiandola bene, capendo la
fondatezza delle sue richieste. Sii vigilante. Non essere una pecora che accetta
tutto passivamente, scuoti la tua Chiesa, interpellala. Non giudicarla, ma aiutala
a progredire» (G. Gilbert, 2002, 246-247).

Riferimenti bibliografici

BUZZI C. - A. CAVALLI - A. DE LILLO (2002), Giovani del nuovo secolo. Quinto


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CARTOCCI R. (2002), Diventare grandi in tempi di cinismo, Bologna, Il Mulino.
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Edizioni T.E.R.
GILBERT G. (2002), Il grido dei giovani. Nessuno è perduto, nessuno è
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PIETROPOLLI CHARMET G. (2000), I nuovi adolescenti. Padri e maestri di fronte a
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PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DIPARTIMENTO PER GLI AFFARI SOCIALI,
OSSERVATORIO NAZIONALE PER L’INFANZIA, CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE
E ANALISI PER L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA (2001), Non solo sfruttati o violenti.
Bambini e adolescenti del 2000. Relazione sulla condizione dell’infanzia e
dell’adolescenza in Italia, Firenze, Istituto degli Innocenti.

Capitolo 7 pag. 117


CAPITOLO 8

IL DOCENTE
Lucillo Maurizio

1. La figura del docente educatore nella scuola attuale

La figura dell’insegnante è oggi più che mai centrale nella vita della scuola,
almeno a livello di percezione da parte dell’opinione pubblica.
Ciò dipende anche dalla sovrabbondante burocratizzazione e dal
ridimensionamento al rialzo delle istituzioni scolastiche.
Il dirigente e i suoi immediati collaboratori si dedicano sempre più in esclusiva
alla funzione amministrativa, al reperimento delle risorse, alle relazioni esterne.
L’insegnante è l’unico referente, per gli studenti e per i genitori, in condizione di
realizzare un rapporto interpersonale.
Tuttavia, il processo di riforma del sistema educativo di istruzione e di
formazione ha più correttamente individuato un altro centro nella scuola. Essa ha,
infatti, la finalità «di favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana»,
ossia del bambino, del fanciullo, del preadolescente, dell’adolescente.
La centralità della figura dello studente comporta che tutta l’azione educativa
e didattica sia finalizzata a lui, sia organizzata e gestita sulle sue dimensioni,
debba essere misurata e valutata in base ai risultati che lo studente consegue.
Quale ruolo può essere allora riconosciuto al docente? Egli è certamente
l’operatore centrale della scuola, anche se la sua presenza è da considerarsi in
funzione dell’istruzione e della formazione dello studente.
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Si parte dal presupposto che lo studente abbia «attitudini e vocazioni» che lo
orientano e lo dirigono nella costruzione del suo progetto di vita.
Al docente è affidato il compito di affiancarsi al giovane per aiutarlo a scoprire e
a identificare le proprie attitudini e vocazioni, in modo che egli possa definire che
cosa vuole fare della propria vita, anzi che cosa egli voglia essere.
L’insegnante si configura, allora, come un adulto, professionalmente preparato,
che si pone accanto e facilita il processo di autocomprensione e autoformazione
del giovane studente.
Possiamo prefigurare una funzione di tutoring.
Riferendo questo termine alla funzione del docente, si vuole intenderlo in una
prospettiva di professionalità e di disponibilità personale, entro un rapporto
fiduciale empatico, ma nel quale i ruoli rispettivi di giovane in età evolutiva e di
adulto educatore restano precisamente identificati e distinti.
Affermare che il docente è un educatore non vuol significare che egli debba
stemperare la propria attività didattica disciplinare in un generico discorso
educativo, in cui affrontare problematiche adolescenziali o di attualità
cronachistica.
Si vuole invece affermare che egli è chiamato ad assumere nel suo
insegnamento disciplinare la prospettiva di offrire un contributo alla costruzione
del progetto personale che lo studente un po’ alla volta costruisce e tende a
realizzare.
Questa prestazione educativa è professionale, nel senso che fa parte della
preparazione specifica del docente, da ricercare e da acquisire allo stesso titolo
della competenza disciplinare.
In altre parole l’apprendimento della disciplina non è fine a se stesso o bagaglio
di erudizione da esibire, ma parte costitutiva della cultura personale e della futura
professionalità.
Tutto ciò richiede, da parte del docente, disponibilità personale, ossia un
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atteggiamento della persona dell’educatore, che non può commisurare i tempi
e la quantità dell’intervento in maniera oggettiva, ma che deve tenere presenti i
ritmi di apprendimento e di maturazione di ciascuno dei propri studenti.
È, indubbiamente, una prestazione professionale atipica e personalmente
esigente.
Si tratta di stabilire un rapporto fiduciale empatico.
Sia il giovane che la sua famiglia entrano in rapporto con quella precisa persona
che avrà una influenza estremamente rilevante nel formarne la personalità.
Viene, dunque, richiesto un rapporto di fiducia.
Certo, innanzitutto, la competenza disciplinare, ma anche la consapevolezza
da parte del docente delle implicanze educative dell’incontro interpersonale,
nell’accoglienza, nello stimolo alla motivazione, nel linguaggio, nella scelta dei
contenuti, nello stile valutativo.
Gli studi, anche recenti, sul clima in classe confermano la significativa incidenza
del rapporto interpersonale tra studenti e docenti.
Da ultimo, sembra si debba ribadire che un rapporto disteso e collaborativo
non deve comportare commistione di ruoli o falso cameratismo: il docente resta
docente e lo studente resta studente.
Si deve, tuttavia, riconoscere che queste considerazioni sul docente come
presenza educativa nella scuola non sempre sono condivise da tutti i docenti e
rappresentano piuttosto una tensione ideale che una realtà diffusa.

2. La funzione del docente

Nel proporre queste considerazioni non si può non seguire quanto è stabilito
nella parte normativa del contratto collettivo nazionale di lavoro vigente, al quale
sono riferite le citazioni seguenti.
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1. «La funzione docente realizza il processo di insegnamento/apprendimento
volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli
alunni, sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici
definiti per i vari ordini e gradi dell’istruzione» (art. 24, c. 1).
Coerentemente con le acquisizioni pedagogiche più attuali e col disegno di
riforma, l’attività del docente si configura come insegnamento/apprendimento.
Deve dunque essere messa in atto un’azione didattica nella quale il docente
insegna avendo come finalità di produrre apprendimento. In altre parole, deve
insegnare in maniera tale che lo studente apprenda.
Lo studente va quindi posto nella condizione di rendersi attivo, facendo proprio il
sapere, il saper fare, il saper essere.
La funzione didattica non consiste solo nel programmare l’insegnamento, ma nel
motivare e aiutare gli studenti a programmare il loro percorso di apprendimento.
L’insegnante tutor, a seconda delle diverse fasi di età e dei diversi ordini di
scuola, si affianca allo studente nella costruzione del proprio processo di
apprendimento, studiandone la personalizzazione in base alle sue caratteristiche
ed attese personali.

2. «La funzione docente si fonda sull’autonomia culturale e professionale dei


docenti; essa si esplica nelle attività individuali e collegiali e nella partecipazione
alle attività di aggiornamento e formazione in servizio» (art. 24, c. 2).
L’autonomia culturale e professionale dei docenti trova la sua garanzia nella
Costituzione, che all’art. 33 afferma: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è
l’insegnamento».
L’autonomia culturale e professionale riconosciuta alla funzione docente
comporta il riconoscimento alla libertà di ricerca scientifica e alla libertà di
metodologia didattica, ovviamente presupponendo che la serietà professionale
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sia sostenuta da onestà intellettuale.
Per questa ragione si richiede la partecipazione alle attività di aggiornamento e
formazione in servizio.
Nessun professionista oggi, ma a maggior ragione chi svolge un servizio sociale
ed educativo, può prescindere dal continuo aggiornamento e dal confronto col
mondo circostante.
Come si entra nell’insegnamento con i titoli culturali previsti e si supera un
concorso pubblico, così si permane nella corretta professionalità adeguando il
proprio sapere e il proprio saper fare al procedere delle scienze e delle tecniche
operative.
Autonomia culturale e professionale non possono coincidere con arbitrio e
disimpegno, ma richiedono lavoro personale, rigoroso e responsabile.
Da ultimo si deve ricordare che la funzione docente si esplica sia nelle attività
individuali che collegiali, per cui si rendono necessarie sia l’accettazione culturale
e psicologica del lavoro in équipe, sia la traduzione operativa consistente
nell’elaborare progetti comuni e nel gestirli collegialmente.

3. «In attuazione dell’autonomia scolastica i docenti, nelle attività collegiali,


elaborano, attuano e verificano, per gli aspetti pedagogico-didattici, il piano
dell’offerta formativa, adattandone l’articolazione alle differenziate esigenze degli
alunni e tenendo conto del contesto socio-economico di riferimento» (art. 24, c.
3).
L’autonomia delle istituzioni scolastiche comporta l’attribuzione di nuove funzioni
al collegio dei docenti.
In base alle norme generali, ai livelli essenziali e alle indicazioni nazionali, la
singola istituzione scolastica è chiamata ad elaborare il proprio piano dell’offerta
formativa.
Esso si configura come una prestazione professionale collegiale.
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Del POF si parla in altro intervento; qui è necessario ricordare che esso
coinvolge la professionalità docente nella dimensione della collegialità e richiede
ai singoli certe competenze e certe prestazioni.

3. Il profilo professionale del docente

Il contratto collettivo nazionale ha individuato cinque campi nei quali si esplica la


professionalità (art. 25).

3.1. Competenze disciplinari

Questo comporta per tutti i docenti il sapere di livello universitario relativo alla
propria disciplina di insegnamento.
Per quanto riguarda l’IRC gli accordi istitutivi (Concordato, Intesa) fanno
riferimento alla dottrina della Chiesa.
Pertanto si tratta di sapere teologico, articolato in conoscenze bibliche,
conoscenze storiche, conoscenze sistematiche.
Tenendo conto che i saperi scientifici devono essere in funzione della prassi
didattica, si dovranno studiare tenendo conto delle condizioni scolastiche. Dal
punto di vista contenutistico saranno evidenziati: il problema della ricerca di
senso e del significato della vita umana; la natura e la funzione della religione; la
ricerca di Dio nella storia, in particolare ebraica e cristiana; la persona di Gesù e
il suo messaggio; la comunità cristiana nella storia; i problemi morali personali e
sociali.

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3.2. Competenze psico-pedagogiche

In questo ambito la preparazione riguarda:


– lo studio delle motivazioni in ordine all’apprendimento;
– le modalità di apprendimento in base alle diverse intelligenze;
– le relazioni e le dinamiche che si creano nel gruppo classe di apprendimento;
– il retroterra socioculturale e il suo apprezzamento nei riguardi della scuola;
– la creazione di un clima favorevole all’interno del gruppo classe.
Anche in questo caso la preparazione non può che essere di livello universitario
e le discipline afferenti devono entrare nel curriculum di studi richiesto per
accedere all’insegnamento.

3.3. Competenze metodologico-didattiche

Possono comprendere due aspetti:


– competenze nel tradurre i contenuti della disciplina in processi di
apprendimento che siano coerenti e funzionali rispetto al curriculum;
– competenze nell’usare gli strumenti comunicativi adatti all’apprendimento degli
studenti in base al loro sviluppo in età e in cultura.
L’insegnante acquisisce queste competenze attraverso l’esperienza di stage e di
laboratorio durante la propria formazione previa e, successivamente, le affina e
perfeziona attraverso la riflessione sulla prassi quotidiana. Periodicamente, però,
devono essere promossi corsi di aggiornamento e deve essere favorito anche
l’autoaggiornamento, per il quale sono state previste risorse finanziarie.

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3.4. Competenze organizzativo-relazionali

L’organizzazione è, indubbiamente, un’esigenza di ogni attività umana


finalizzata.
Poiché l’insegnamento/apprendimento è finalizzato, esso abbisogna di
organizzazione.
La competenza organizzativa comporta la capacità di individuare le varie
funzioni da svolgere e di attribuire ciascun compito ad organi differenziati.
Nella prassi didattica l’insegnante si trova di fronte:
– al gruppo classe, che egli deve saper organizzare distribuendo compiti,
assistendo all’esecuzione, verificando i risultati ottenuti;
– all’équipe dei colleghi del consiglio di classe e del collegio docenti, con i quali
condivide i compiti collegiali.
Alla competenza organizzativa si affianca quella relazionale.
Il docente, per la specifica socialità delle sue condizioni operative, deve essere
in grado di relazionarsi con gli studenti e con i colleghi.
Le competenze organizzativo-relazionali si acquisiscono attraverso la
preparazione previa e, soprattutto, attraverso la prassi della vita scolastica
concreta.

3.5. Competenza di ricerca

La formazione accademica di tutti i docenti comporta come elemento essenziale


della formazione superiore la competenza alla ricerca.
Essa è considerata esplicitamente un aspetto della professionalità, anche
se il suo esercizio rientra nella libertà di scelta personale che la Costituzione
garantisce.
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Ciascun insegnante dovrebbe, dunque, svolgere una qualche ricerca, secondo
la sua inclinazione, che riguardi:
– o il proprio ambito scientifico disciplinare;
– o l’ambito pedagogico e psicologico;
– o la metodologia didattica.

4. Attività di insegnamento

L’art. 26 del contratto collettivo nazionale determina le condizioni di esercizio


delle attività di insegnamento.
«Le istituzioni scolastiche adottano ogni modalità organizzativa che sia
espressione di autonomia progettuale e sia coerente con gli obiettivi generali e
specifici di ciascun tipo e indirizzo di studio, curando la promozione e il sostegno
dei processi innovativi e il miglioramento dell’offerta formativa».
I riferimenti rilevabili sono i seguenti.
L’istituzione scolastica deve dotarsi di una organizzazione. Non è più vincolata
da una tipologia prefissata. L’autonomia garantisce il diritto alla progettualità.
Si tratta, però, di una competenza professionale collegiale da acquisire
attraverso lo studio, la ricerca, la sperimentazione.
Il secondo riferimento è dato dagli obiettivi generali e specifici pertinenti
all’indirizzo di studi.
In terzo luogo l’assetto non deve essere considerato staticamente e perciò
fissato una volta per tutte, ma animato da processi innovativi che consentano il
raccordo con la realtà sociale e culturale in movimento.
Le prestazioni di lavoro che rientrano negli obblighi dell’insegnante sono così
definite.
«Gli obblighi di lavoro del personale docente sono articolati in attività di
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insegnamento ed in attività funzionali alla prestazione di insegnamento.
Prima dell’inizio delle lezioni, il dirigente scolastico predispone, sulla base
delle eventuali proposte degli organi collegiali, il piano annuale delle attività e
i conseguenti impegni del personale docente che possono prevedere attività
aggiuntive.
Il piano, comprensivo degli impegni di lavoro, è deliberato dal collegio dei
docenti nel quadro della programmazione dell’azione educativa e con la stessa
procedura è modificato, nel corso dell’anno scolastico, per far fronte a nuove
esigenze» (art. 26, c. 4).
«L’attività di insegnamento si svolge in 25 ore settimanali nella scuola
dell’infanzia, in 22 ore settimanali nella scuola elementare e in 18 ore settimanali
nelle scuole e istituti d’istruzione secondaria ed artistica, distribuite in non meno
di cinque giornate settimanali. Alle 22 ore settimanali di insegnamento stabilite
per gli insegnanti elementari, vanno aggiunte 2 ore da dedicare, anche in modo
flessibile e su base plurisettimanale, alla programmazione didattica da attuarsi in
incontri collegiali dei docenti interessati, in tempi non coincidenti con l’orario delle
lezioni. Nell’ambito delle 22 ore di insegnamento, la quota oraria eventualmente
eccedente l’attività frontale e di assistenza alla mensa viene destinata, previa
programmazione, ad attività di arricchimento dell’offerta formativa e di
recupero individualizzato o per gruppi ristretti di alunni con ritardo nei processi
di apprendimento, anche con riferimento ad alunni stranieri, in particolare
provenienti da Paesi extracomunitari. Nel caso in cui il collegio dei docenti non
abbia effettuato tale programmazione o non abbia impegnato totalmente la quota
oraria eccedente l’attività frontale di assistenza alla mensa, tali ore saranno
destinate per supplenze in sostituzione di docenti assenti fino ad un massimo di
cinque giorni nell’ambito del plesso di servizio» (art. 26, c. 5).
«Negli istituti e scuole di istruzione secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli
istituti d’arte, i docenti, il cui orario di cattedra sia inferiore alle 18 ore settimanali,
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sono tenuti al completamento dell’orario di insegnamento da realizzarsi
mediante la copertura di ore di insegnamento disponibili in classi collaterali non
utilizzate per la costituzione di cattedre orario, in interventi didattici ed educativi
integrativi...» (art. 26, c. 6).
«L’orario di insegnamento, anche con riferimento al completamento dell’orario
d’obbligo, può essere articolato, sulla base della pianificazione annuale delle
attività e nelle forme previste dai vigenti ordinamenti, in maniera flessibile e su
base plurisettimanale, in misura, di norma, non eccedente le quattro ore» (art. 26,
c. 9).

5. Attività funzionali all’insegnamento

L’attività funzionale all’insegnamento è costituita da ogni impegno inerente


alla funzione docente, previsto dai diversi ordinamenti scolastici (v. art. 27 del
contratto).
Essa comprende tutte le attività, anche di carattere collegiale, di
programmazione, di progettazione, di ricerca, di valutazione, di documentazione,
di aggiornamento e formazione, di preparazione al lavoro degli organi collegiali,
di partecipazione alle riunioni, di attuazione delle delibere degli organi stessi.
Gli adempimenti individuali che rientrano nelle attività funzionali sono:
– preparazione delle lezioni e delle esercitazioni;
– correzione degli elaborati scritti e pratici;
– rapporti individuali con le famiglie.
Le attività collegiali che riguardano tutti i docenti sono costituite da:
– partecipazione alle riunioni del Collegio dei docenti, comprese l’attività di
programmazione e di verifica di inizio e di fine anno, l’informazione alle famiglie
dei risultati degli scrutini intermedi e finali, e, rispettivamente, le informazioni
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sull’andamento delle attività educative nelle scuole dell’infanzia e nelle istituzioni
educative; il tutto per una durata totale di 40 ore annue;
– partecipazione alle attività collegiali dei consigli di classe, di interclasse, di
intersezione; gli obblighi relativi a queste attività sono programmati secondo i
criteri stabiliti dal collegio dei docenti; nella programmazione si dovranno tenere
in considerazione gli oneri di servizio degli insegnanti con numero di classi
superiore a sei, in modo da prevedere un impegno massimo non superiore alle
40 ore annue;
– svolgimento degli scrutini e degli esami, compresa la compilazione degli atti
relativi alla valutazione.
Per assicurare un rapporto efficace con le famiglie e con gli studenti, il Consiglio
di Istituto, sulla base delle proposte del Collegio dei Docenti, definisce le modalità
e i criteri per lo svolgimento dei rapporti con le famiglie e con gli studenti,
assicurando la concreta accessibilità al servizio, attraverso incontri e modalità di
comunicazione scritta e/o telematica.
Per assicurare l’accoglienza e la vigilanza degli alunni, gli insegnanti sono tenuti
a trovarsi in classe cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni e ad assistere
all’uscita degli stessi.

6. Il particolare stato giuridico dell’insegnante di religione cattolica

Con la Legge 18 luglio 2003, n. 186, «Norme sullo stato giuridico degli
insegnanti di religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado»
è stata data una nuova configurazione giuridica alla posizione dell’insegnante di
religione cattolica e data attuazione a quanto previsto dall’Accordo di revisione
del Concordato del 1984 e dall’Intesa tra Ministero della P.I. e CEI del 1985.
Le considerazioni che seguono non riguardano le province autonome di Trento
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e di Bolzano della Regione Trentino-Alto Adige.

1. Vengono istituiti i ruoli degli insegnanti di religione cattolica in base a tre


parametri: regionali, per cicli, articolati per ambiti territoriali corrispondenti alle
diocesi.
La regionalizzazione corrisponde alla struttura decentrata del MIUR e alla
prevedibile estensione delle competenze delle regioni sul sistema scolastico.
La distinzione in due cicli corrisponde al nuovo ordinamento che discende dalla
Legge 53, benché la fisionomia e la composizione delle cattedre della scuola
primaria e della secondaria di I grado siano accentuatamente dissimili. Si deve,
tuttavia, rilevare la diffusione degli istituti comprensivi dei due gradi di scuola, che
potrà comportare l’attribuzione ad un unico insegnante sia dell’insegnamento
nelle classi della primaria (due ore settimanali) sia della secondaria di I grado
(un’ora settimanale).
L’articolazione in ambiti territoriali diocesani mantiene lo stretto legame tra l’IdR
e l’ordinario locale competente. Ci saranno problemi con la mobilità e con la
condizione a scavalco interregionale di alcune diocesi (art. 1, c. 1).

2. Gli IdR inseriti nei ruoli identificati, godranno della completa parità di
trattamento con gli altri docenti (art. 1, c. 2).

3. Nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria gli insegnanti di sezione o


di classe potranno insegnare anche religione purché riconosciuti idonei dalla
competente autorità ecclesiastica.

4. La dotazione organica, sempre calcolata su base regionale, corrisponde al


70% dei posti di insegnamento complessivamente funzionanti.
Il Dirigente scolastico regionale, per quanto riguarda la scuola secondaria, dovrà
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effettuare il calcolo del 70% sui posti funzionanti in ciascuna diocesi, mentre per
quanto riguarda la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, dovrà tenere conto
della presenza degli insegnanti di sezione o di classe che impartiscono anche
l’insegnamento della religione.

5. Coloro che aspirano ad accedere al ruolo di IdR devono superare un concorso


per titoli ed esami.
I titoli sono quelli previsti dal punto 4. dell’Intesa (DPR 751/1985) e successive
modificazioni.
«Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado l’insegnamento della
religione cattolica può essere affidato a chi abbia almeno uno dei seguenti titoli:
– titolo accademico (baccalaureato, licenza o dottorato) in teologia o nelle altre
discipline ecclesiastiche, conferito da una Facoltà approvata dalla Santa Sede;
– attestato di compimento del regolare corso di studi teologici in un Seminario
maggiore;
– diploma accademico di magistero in scienze religiose, rilasciato da un Istituto di
scienze religiose approvato dalla Santa Sede;
– diploma di laurea valido nell’ordinamento italiano, unitamente a un diploma
rilasciato da un Istituto di scienze religiose riconosciuto dalla Conferenza
Episcopale Italiana» (4.3.).
«Nella scuola materna ed elementare l’insegnamento della religione cattolica
può essere impartito, ai sensi del punto 2.6, dagli insegnanti del circolo didattico
che abbiano frequentato nel corso degli studi secondari superiori l’insegnamento
della religione cattolica, o comunque siano riconosciuti idonei dall’Ordinario
diocesano.
Nel caso in cui l’insegnamento della religione cattolica non venga impartito
da un insegnante del circolo didattico, esso può essere affidato: a) a sacerdoti
e diaconi, oppure a religiosi in possesso di qualificazione riconosciuta dalla
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Conferenza Episcopale Italiana in attuazione del can. 804. par. 1, del codice
di diritto canonico e attestata dall’Ordinario diocesano; b) a chi, fornito di titolo
di studio valido per l’insegnamento nelle scuole materne ed elementari, sia in
possesso dei requisiti di cui al primo comma del presente punto 4.4. oppure a
chi, fornito di altro diploma di scuola secondaria superiore, abbia conseguito
almeno un diploma rilasciato da un Istituto di scienze religiose riconosciuto dalla
Conferenza Episcopale Italiana» (4.4.).
I concorsi vengono indetti dal MIUR su base regionale con frequenza triennale.
Per poter partecipare al concorso è necessario che il candidato sia in possesso
del riconoscimento di idoneità rilasciato dall’ordinario diocesano competente
per territorio e può concorrere soltanto per i posti disponibili nel territorio di
pertinenza della diocesi (art. 3, c. 4).
Le prove d’esame prevedono l’accertamento della preparazione culturale
generale e didattica come quadro di riferimento complessivo, e con esclusione
dei contenuti specifici dell’insegnamento della religione cattolica (art. 3, c. 5). Il
riferimento alla cultura generale e didattica non può che riferirsi alla conoscenza
del sistema scolastico, ai diritti e ai doveri dei docenti, alla funzione e alla
partecipazione agli organi collegiali, alla competenza nella programmazione e
nella gestione delle attività didattiche, analogamente a quanto richiesto per gli
esami delle altre classi di concorso.
La commissione giudicatrice del concorso per titoli ed esami compila «l’elenco
di coloro che hanno superato il concorso, valutando, oltre al risultato delle prove,
esclusivamente i titoli di cui al comma 3. Il dirigente regionale approva l’elenco
ed invia all’ordinario diocesano competente per territorio i nominativi di coloro
che si trovano in posizione utile per occupare i posti delle dotazioni organiche di
cui all’art. 2, commi 2 e 3. Dall’elenco dei docenti che hanno superato il concorso
il dirigente regionale attinge per segnalare all’ordinario diocesano i nominativi
necessari per coprire i posti che si rendano eventualmente vacanti nelle dotazioni
Capitolo 8 pag. 126
organiche durante il periodo di validità del concorso» (art. 3, c. 7).

6. La risoluzione del rapporto di lavoro, oltre che per i motivi previsti dalle
disposizioni vigenti, avviene con la revoca dell’idoneità da parte dell’ordinario
diocesano competente per territorio divenuta esecutiva a norma dell’ordinamento
canonico. In questo ultimo caso è previsto un meccanismo di salvaguardia del
posto di lavoro attraverso la mobilità.

7. La mobilità assume, dunque, una rilevanza particolare. Si possono


considerare tre casi.
Un IdR può passare per il medesimo insegnamento da un ciclo ad un altro di
scuola, purché sia incluso nell’elenco di cui si è parlato, sia riconosciuto idoneo
dall’ordinario diocesano e ci sia l’intesa col medesimo ordinario.
La mobilità territoriale da una diocesi ad un’altra è subordinata al possesso del
riconoscimento di idoneità rilasciato dall’ordinario diocesano competente per
territorio e all’intesa col medesimo.
L’IdR con contratto di lavoro a tempo indeterminato può trovarsi in condizione
di revoca dell’idoneità oppure in esubero a seguito della contrazione dei posti
di insegnamento. In questi due casi può fruire della mobilità professionale nel
comparto del personale della scuola, con le modalità previste dalle disposizioni
vigenti e subordinatamente al possesso dei requisiti prescritti per l’insegnamento
richiesto, ed ha inoltre titolo a partecipare alle procedure di diversa utilizzazione e
di mobilità collettiva previste dall’art. 33 del decreto legislativo 165/2001.

Riferimenti bibliografici

BISSOLI C. - Z. TRENTI (1988), Insegnamento della Religione e professionalità


Capitolo 7 pag. 126/127
docente, Leumann (Torino), Elledici.
CICATELLI S. (2003), «Il nuovo stato giuridico degli IdR», in Agenda dell’IdR 2003-
2004, Torino, SEI.
Contratto Collettivo Nazionale del Comparto Scuola (2003), in «Scuola e
Formazione » (CISL Scuola), 6 (2003) 5.
DAMIANO E. (1997), «Insegnante», in PRELLEZO J.M., C. NANNI, G. MALIZIA (edd.),
Dizionario di Scienze dell’Educazione, Torino-Roma, LAS, SEI, Elledici, pp. 536-
539.
Legge 18 luglio 2003, n. 186, «Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di
religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado».
MAURIZIO L. (2002), Scoprire e condividere la dimensione educativa nella
secondaria superiore, in «Insegnare Religione» 15 (2002) 4, 23-28.

Capitolo 8 pag. 127


CAPITOLO 9

LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA
Anna Rita Colasanti

Introduzione

La professione insegnante ha subito e sta subendo nel corso degli ultimi


anni delle drastiche trasformazioni, pervenendo ad una sempre maggiore
articolazione e complessità.
Infatti, se forse è vero che all’insegnante non è mai stato chiesto solo di
insegnare, d’altra parte è innegabile che le esigenze alle quali un insegnante è
chiamato a rispondere oggi sono talmente diversificate e mutevoli da richiedere,
oltre ad una notevole flessibilità sul piano cognitivo, anche un insieme di
conoscenze e di abilità in grado di coprire aree e dimensioni differenziate.
Prescindendo qui da una disamina delle diverse tassonomie che sono state
elaborate recentemente (Meazzini, 2000) per ordinare le conoscenze e le
competenze che dovrebbero caratterizzare la professionalità docente, e
tralasciando ogni riferimento al patrimonio conoscitivo afferente allo specifico
ambito disciplinare, in questo contributo prendiamo in considerazione quelle
abilità del docente di qualità che fanno riferimento alla dimensione comunicativa
e, in particolare, al rapporto educativo con il singolo allievo e con il gruppo classe.
Tali abilità, che, come avremo modo di specificare, caratterizzano la persona,
ancor prima dell’insegnante, sono da considerarsi basilari per chiunque desideri
intraprendere la strada dell’insegnamento e la loro assenza, anche se parziale,
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rischia di pregiudicare seriamente le finalità educative alle quali è orientata una
simile attività.

1. La comunicazione nei processi formativi

Il tema della comunicazione nei processi formativi ha occupato da sempre un


posto di grande rilievo divenendo spesso oggetto privilegiato della riflessione
pedagogica.
È un dato ormai acquisito che tanto la produttività scolastica, quanto la positività
del clima d’aula, risentono fortemente della capacità del docente di realizzare e
attivare comunicazioni efficaci e significative (Franta-Colasanti, 2002).
Non a caso il saper comunicare è riconosciuto tra le prime abilità educanti del
docente di qualità (Meazzini, 2000).
La competenza dell’insegnante dal punto di vista della comunicazione può
essere esaminata secondo diversi aspetti coerentemente alla complessità del
ruolo che questi riveste e alle diverse funzioni comunicative che è chiamato ad
espletare.
Onde evitare di entrare in sistemi di classificazione che rischiano di confondere
e di disorientare, in questo nostro contributo operiamo una distinzione tra
comunicazione didattica, avente come alveo l’istruzione, e comunicazione
educativa il cui quadro referenziale è la formazione. La prima, pone il docente in
relazione all’allievo visto essenzialmente nella sua dimensione cognitiva ed ha
come oggetto i contenuti propri di una determinata disciplina; la seconda, invece,
pone il docente in relazione all’allievo visto nella sua dimensione personale ed ha
come oggetto la crescita integrale di quest’ultimo. L’una richiede all’insegnante
essenzialmente competenze di natura linguistica (per formulare correttamente
atti verbali e comunicare in modo comprensibile) e comunicativa (per creare
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una positiva piattaforma apprenditiva); l’altra richiede competenze di natura
relazionale (per stabilire un rapporto personalizzato e controllare le dinamiche
sociali).
Tanto la comunicazione didattica quanto quella educativa risultano, tuttavia,
pedagogicamente valide se fanno riferimento primario ed immediato al soggetto
e se sono finalizzate al suo sviluppo personale.
Così, la comunicazione didattica non potrà essere impostata unicamente
come processo centrato sull’informazione, in cui diventano basilari la cura della
forma e dell’organizzazione del messaggio da parte del docente e la capacità
attentiva e la riduzione del rumore da parte dello studente; ma dovrà considerare
quest’ultimo come soggetto che apprende i contenuti trasmessi a partire dalle
conoscenze e dalle capacità acquisite sino a quel momento e quindi capace di
trasformare, interpretare e riorganizzare i messaggi ricevuti.
La professionalità del docente nella comunicazione didattica si esprime, pertanto,
nella capacità di tener conto delle diverse condizioni culturali e cognitive che
ogni singolo allievo presenta per attivare, partendo da esse, tutte le operazioni
mentali che lo mettano in grado di apprendere uno specifico contenuto. Lo scopo
della comunicazione didattica, infatti, non è quello di promuovere un semplice
atteggiamento recettivo da parte dell’allievo, bensì quello di accrescere la
consapevolezza di come il proprio sapere sia presente ed organizzato e di quali
processi sviluppare per facilitare ulteriori apprendimenti.
La centralità del soggetto emerge ancora più chiaramente nella comunicazione
educativa. Quest’ultima può essere definita tale quando stimola nell’allievo una
capacità di pensiero centrato non solo sul piano dei significati, ma anche su
quello del senso, sollecitandolo a porsi e a porre domande oltre che nell’ordine
del vero/falso, anche nell’ordine del giusto/ingiusto, bello/brutto, buono/cattivo,
accettabile/ inaccettabile. In essa, pertanto, lo studente è coinvolto non solo sul
versante cognitivo, ma anche psicologico, sociale, morale, umano (Massaro,
Capitolo 9 pag. 129
2003).
Ne deriva che le competenze richieste all’insegnante nella comunicazione
educativa sono di gran lunga più complesse di quelle implicate nella
comunicazione didattica.
I contenuti in oggetto fanno, infatti, riferimento ad atteggiamenti, comportamenti
e valori e non all’universo più o meno formalizzato, unitario e strutturato di una
disciplina; inoltre, il docente stesso è chiamato a coinvolgersi come persona
mettendo a rischio la propria credibilità.
Nella parte che segue prescindiamo dal trattare la comunicazione didattica, che
come abbiamo visto è essenzialmente in funzione dei processi di istruzione,
per soffermarci sulla comunicazione educativa e sulle competenze che ne
consentono la realizzazione.
Con tale scelta non intendiamo sottovalutare l’importanza della comunicazione
didattica, ma semplicemente focalizzare l’attenzione su quegli aspetti
dell’interagire in classe che risultano rilevanti non solo per l’instaurarsi di un
positivo clima di lavoro, ma per la loro intrinseca funzione formativa.

2. La comunicazione educativa: caratteristiche, condizioni e competenze

Prima di presentare le competenze che permettono all’insegnante di realizzare


un’efficace comunicazione educativa, riteniamo utile mettere in evidenza alcuni
elementi che la caratterizzano e alcune condizioni che ne supportano la validità
pedagogica.

2.1. Aspetti peculiari

Un primo elemento caratterizzante la comunicazione educativa è il suo essere


Capitolo 9 pag. 129/130
eminentemente riflessiva. Ciò significa che essa non scaturisce spontaneamente,
né rispetto ai fini della relazione educativa, né rispetto al rapporto quotidiano con
gli allievi; al contrario, richiede all’insegnante la capacità di essere costantemente
presente a se stesso, alla condizione soggettiva dell’altro, all’intenzione formativa
che intende perseguire.
La comunicazione educativa, inoltre, può definirsi tale quando realizza il
principio della pari dignità. Ciò sta ad indicare che nonostante la superiorità di
competenza, di ruolo, di esperienza che l’insegnante riveste e nonostante il
carattere asimmetricamente dipendente della relazione educativa, egli riconosce
l’allievo come partner significativo e come fonte importante di comunicazione e di
informazione.
Un terzo elemento, strettamente connesso al precedente, che caratterizza
la comunicazione educativa è il suo essere reversibile. Ciò vuol dire che
l’insegnante nel suo relazionarsi agli allievi adotta forme verbali e comportamenti
che possono essere a loro volta utilizzati dagli allievi verso gli insegnanti o verso i
propri compagni senza incorrere in una mancanza di rispetto. Non va dimenticato
che è proprio la reversibilità a sostanziare l’efficacia del modello educativo e a
rendere i comportamenti dell’insegnante effettivamente imitabili.
Infine, un ultimo elemento che merita di essere menzionato, quale aspetto
peculiare della comunicazione educativa, è il suo essere dialogica. In tal senso,
essa è da intendersi come uno scambio reciproco, un confronto di idee, pensieri,
informazioni, esperienze, conoscenze, desideri e bisogni. Ciò implica che
l’insegnante non si pone come detentore della verità, che intende dimostrare la
validità dei propri ragionamenti e della propria esperienza, ma come persona
sinceramente interessata a comprendere con l’altro e ad apprendere dall’altro. La
comunicazione educativa si configura, pertanto, come un gioco a somma positiva,
in cui lo scambio reciproco arricchisce la condizione individuale, promuovendo
processi di crescita non solo dell’allievo, ma dello stesso docente.
Capitolo 9 pag. 130
2.2. Condizioni

La possibilità che la comunicazione educativa si realizzi senza intralci è legata


alla presenza di alcune condizioni di natura personale e situazionale.
Tra le condizioni di natura personale meritano di essere menzionate la struttura
motivazionale e la maturità psichica dell’insegnante.
Per quanto concerne la struttura motivazionale è importante che siano presenti,
ai fini di un interagire competente e costruttivo, atteggiamenti autentici di rispetto,
considerazione positiva, benevolenza, calore umano, responsabilità e che
l’insegnante non sia animato da pseudomotivazioni, quali bisogno di potere, di
autoaffermazione, di esibizione, di superiorità (Franta, 1988).
Inoltre, poiché la comunicazione educativa coinvolge l’insegnante come persona
totale, è indispensabile che questi disponga di una buona maturità psichica.
Quest’ultima si esprime fondamentalmente nella capacità di entrare in contatto e
di gestire responsabilmente i propri vissuti, nella capacità di integrare le diverse
dimensioni personali (cognitiva, affettiva, conativa, spirituale), nella capacità di
vivere il decentramento e l’allocentrismo (Heath, 1977).
La maturità affettiva si rivela indispensabile per la realizzazione di un’autentica
comunicazione educativa, in quanto è grazie ad essa che l’insegnante può
stabilire relazioni umane significative, favorire un clima di vicinanza e supporto
vicendevole, rispettare la singolarità di ognuno.
Al contrario, quando l’insegnante è vittima di conflitti non risolti, possiede un
concetto di Sé vulnerabile, è afflitto da abiti ansiosi o dispone di uno scarso
grado di tolleranza all’ambiguità e alla frustrazione, facilmente è portato a
stabilire rapporti difensivi che minano alla base la possibilità di realizzare una
comunicazione educativa che promuova la crescita integrale degli allievi.
La comunicazione educativa è condizionata, oltre che da variabili legate alla
personalità dell’insegnante, anche da fattori di natura situazionale. Tra questi
Capitolo 9 pag. 131
meritano particolare attenzione le disposizioni organizzative presenti nel contesto
scolastico. Talvolta, infatti, sono proprio esse ad ostacolare la possibilità di un
rapporto soddisfacente tra insegnanti e allievi.
Esaminando il sistema scolastico attuale si può rilevare, relativamente alla
dimensione organizzativa, l’esistenza di un ordine gerarchico tra i diversi membri
che compongono la comunità educativa (direttore/preside, insegnanti, personale
non docente, allievi), ordine che stabilisce, per ogni livello della gerarchia,
rispettivi doveri e diritti e che prevede precise norme e regole per garantire la
disciplina e lo svolgimento delle attività.
Naturalmente le norme e le regole del contesto scolastico esercitano un
consistente influsso sul comportamento interattivo dell’insegnante, in quanto,
come osserva Vopel-Kirsten (1974, 153), esse stabiliscono «chi, come, che cosa,
quando, se, in che maniera» le persone devono comunicare.
Fortunatamente al gruppo insegnante-allievi viene lasciato, per la realizzazione
dei compiti educativo-didattici, uno spazio relativamente libero di interazione per
cui, laddove esiste una certa flessibilità nel sistema, l’insegnante può attenuare,
con opportune strategie, gli influssi sfavorevoli derivanti dall’organizzazione
scolastica.
Ma vediamo di esaminare i fattori organizzativi che hanno maggiore incidenza
nella comunicazione in classe.
Innanzitutto l’elevato numero di allievi spesso rende difficile l’integrazione di
ciascuno di essi nel processo apprenditivo e porta l’insegnante a disperdere
molte energie in questioni di carattere disciplinare, legate all’impossibilità di
controllare adeguatamente le dinamiche interattive.
In secondo luogo, il tempo trascorso in classe è relativamente breve per
consentire un’interazione personalizzata. Il contatto con molti allievi, di classi
diverse, magari per poche ore alla settimana, comporta l’instaurarsi di relazioni
impersonali, anonime, dirette quasi esclusivamente al conseguimento di obiettivi
Capitolo 9 pag. 131/132
apprenditivi.
Infine, ad incidere significativamente nell’interazione in classe, sono i rituali
scolastici (interrogazioni, compiti in classe, appello, ecc.). Il loro carattere, spesso
formale e rigido, la loro accettazione acritica, la semplice compartecipazione
ad essi da parte degli allievi, favoriscono una comunicazione convenzionale,
stereotipata, poco riflessiva.
Ne deriva che il tipo di atmosfera che si crea tra insegnante e allievi è
strettamente legato a fattori di carattere istituzionale e non può essere compreso
o modificato a prescindere da essi.
Pertanto, a condizionare la qualità della comunicazione educativa intervengono
non solo variabili connesse alla persona dell’insegnante, ma anche fattori esterni
e particolarmente la flessibilità o meno del sistema scolastico a rivedere e
riadattare la propria organizzazione funzionalmente alle finalità e agli obiettivi che
intende perseguire.

2.3. Competenze

Come espresso in precedenza mentre la comunicazione didattica richiede


essenzialmente competenze di natura linguistica e comunicativa, la
comunicazione educativa richiede prevalentemente competenze di natura
relazionale. In tal senso, essa rappresenta una sorta di cartina di tornasole per
cogliere lo stile relazionale del docente, per individuarne la capacità di tradurre
nella concretezza dell’agire educativo la sua intenzionalità formativa, per valutare
effettivamente la sua competenza nel guidare il processo di crescita di ogni
singolo allievo.
La trattazione delle competenze di natura relazionale si presenta piuttosto
complessa, sia per la scarsità di contributi relativi alla loro realizzazione, sia per
la diversificazione di modelli interpretativi che si riscontra nei contributi stessi.
Capitolo 9 pag. 132
In questa parte, presentiamo una sistematizzazione delle competenze relazionali
del docente che scaturisce dall’esame degli elementi ricorrenti nei diversi apporti
e da una maturata esperienza di formazione del personale docente.
In essa le competenze relazionali sono ordinate secondo un livello di
complessità crescente e si distinguono in qualità processuali di contatto, abilità
interpersonali di base, abilità complesse o strategie.

2.3.1. Qualità processuali di contatto


Le qualità processuali di contatto riguardano gli atteggiamenti mediante i quali
l’insegnante manifesta, in forma di metacomunicazione, la sua definizione del
rapporto con gli allievi.
Secondo le ricerche empiriche, tale definizione del rapporto vicendevole fa
riferimento fondamentalmente a tre dimensioni: controllo (C), emozionale (E),
congruenza/ trasparenza/autenticità (A) (Franta, 1988).
La dimensione C concerne quei comportamenti dell’insegnante che stabiliscono
i confini di competenza nell’interazione scolastica.
Al polo negativo di tale dimensione collochiamo l’insegnante autoritario che
impone una disciplina rigida, si occupa poco dei bisogni degli allievi, ha una
concezione più ristretta del comportamento socialmente accettabile, utilizza
forme verbali direttive (ordini, confronti, moralizzazioni, domande accusatorie,
colpevolizzazioni, promesse-ricatti), usa il suo potenziale di gratificazione in
modo direttivo-repressivo.
Al polo positivo, abbiamo l’insegnante autorevole che incoraggia negli allievi la
responsabilità sociale, la stima di sé, l’iniziativa individuale, la partecipazione
attiva al processo di apprendimento, pur mantenendo la guida, la direzione e
una ragionevole disciplina. Dispone del proprio potenziale di gratificazione in
modo sociale-integrativo favorendo la corresponsabilità e la collaborazione. Nel
comunicare fa uso di forme verbali (inviti, proposte, parafrasi, chiarificazioni,
Capitolo 9 pag. 132/133
informazioni) che riflettono il valore e la dignità degli allievi e ne stimolano
l’autodeterminazione, il libero impegno, la corresponsabilizzazione.
Mentre la dimensione C riguarda il comportamento di guida dell’insegnante, la
dimensione E fa riferimento al suo comportamento socio-affettivo ed include
quell’insieme di modalità relazionali tramite le quali l’allievo sperimenta il tipo di
percezione e di valutazione che il docente ha nei suoi confronti.
Al polo negativo di questa dimensione troviamo l’insegnante freddo, distaccato,
svalutante e rifiutante; al polo positivo l’insegnante caloroso, incoraggiante,
valorizzante, sensibile ai bisogni individuali. Le qualità processuali proprie
della dimensione E sono: l’accettazione incondizionata, la stima, il rispetto, la
gentilezza, la cordialità, la bontà.
La dimensione A concerne il grado di congruenza insito nel comportamento
relazionale del docente. Al polo positivo di tale dimensione collochiamo
l’insegnante costruttivamente autentico, che è in contatto con le proprie
esperienze e che è capace di comunicarle adeguatamente valutandone
l’opportunità per l’andamento dell’interazione.
Al polo negativo di questa dimensione abbiamo, invece, l’insegnante difensivo,
che interagisce a partire dal ruolo, strategico, che trattiene le informazioni o le
manipola, irresponsabilmente schietto, che esprime le sue esperienze senza
calcolare gli effetti della propria autopresentazione.
Affinché si crei un’atmosfera favorevole ai processi apprenditivi e alla crescita
integrale degli allievi, si richiede all’insegnante di interagire secondo le polarità
positive delle tre dimensioni considerate.
Dal punto di vista del controllo è importante che egli realizzi una guida
autorevole attuando interventi regolativi e orientativi legittimati non dal suo
status o ruolo, ma da un’esigenza oggettiva. In particolare, ciò si esplica nel
promuovere la partecipazione attiva degli allievi alla gestione della vita scolastica,
nell’accrescere le loro capacità di relazionarsi responsabilmente verso le proprie
Capitolo 9 pag. 133
scelte immediate e future, nel favorire l’autodisciplina.
Dal punto di vista socio-affettivo è importante che l’insegnante abbia cura
dell’individualità di ciascun allievo e la rispetti, nutra fiducia nelle possibilità
e nelle potenzialità che questi ha di apprendere e di svilupparsi, affini la sua
sensibilità nel coglierne i sentimenti e i pensieri.
Dal punto di vista della congruenza è importante che l’insegnante si impegni a
rendere il più possibile nota l’intera situazione educativa agli allievi, si introduca
nella comunicazione in modo diretto e chiaro e si assuma la responsabilità delle
proprie imperfezioni e dei propri limiti.
È auspicabile, infine, che l’insegnante sia aperto all’esperienza, ossia sia
disposto a cambiare conformemente al mutare dei bisogni e delle situazioni,
anziché aderire rigidamente a piani predeterminati.
Quando l’insegnante si rapporta secondo le polarità positive delle dimensioni
C, E ed A, si instaura un clima di autorevolezza e partnership, per cui gli allievi
sviluppano sentimenti positivi verso se stessi e verso la situazione interattiva e si
sentono più disposti e motivati a partecipare e a collaborare.
Prima di concludere l’argomento relativo agli atteggiamenti educativi
dell’insegnante, vogliamo precisare che sebbene siano individuabili nelle polarità
positive delle dimensioni menzionate, i comportamenti relazionali ottimali, lo
stesso insegnante può avere, come è facile prevedere, efficacia diversa con
allievi di tipo diverso.
Per ogni discente, infatti, il modo di percepire il docente e di reagire nei suoi
confronti, dipenderà necessariamente dall’organizzazione cognitiva ed emotiva
del discente stesso.
Così, ad esempio, gli allievi il cui rendimento negli studi è superiore alle loro
attitudini tendono a considerare i propri insegnanti calorosi, affabili e attenti ai
bisogni individuali; mentre gli allievi con rendimento inferiore alle proprie capacità
valutano gli stessi insegnanti freddi, distaccati, noncuranti (Bledsone et al., 1971).
Capitolo 9 pag. 134
Inoltre, gli allievi con attribuzione interna tendono ad avere un’idea più
favorevole dei loro insegnanti e a sentirsi meglio compresi da questi ultimi
rispetto agli allievi con attribuzione esterna (Bryant, 1972).
Tuttavia, nonostante tali innegabili differenze nella percezione dello stile
interattivo dei docenti, riteniamo di poter concludere che la maggior parte dei
discenti renda meglio sotto la guida di insegnanti autorevoli, ben preparati,
incoraggianti, empatici ed autentici.

2.3.2. Abilità interpersonali di base


Mentre le qualità processuali delle dimensioni controllo, emozionale, congruenza
concernono la definizione del rapporto vicendevole, le abilità interpersonali
di base fanno riferimento all’espletamento dei ruoli comunicativi di ricevente
e di emittente e consentono all’insegnante di stabilire una buona piattaforma
interattiva con i suoi allievi.
Tali abilità sono considerate di base, in quanto il possesso di esse rappresenta
una condizione fondamentale per l’acquisizione e l’espletamento di tutte le altre
(Franta-Colasanti, 2002).

Ascolto attivo
Nel proprio relazionarsi agli altri, le persone sono spinte e sostenute da unità
motivazionali (bisogni, interessi, ecc.) e costantemente sperimentano vissuti
che influenzano, più o meno consapevolmente, il loro agire e il loro modo di
rapportarsi alle diverse situazioni.
Per il buon esito dell’interazione è importante che le persone prendano contatto
con tali vissuti e se ne responsabilizzino.
Nell’interazione scolastica non è infrequente che gli allievi vivano esperienze che
possono avere un carattere interferente per la situazione in atto.
Talvolta, pur vivendole, non le discriminano con chiarezza, altre volte, pur
Capitolo 9 pag. 134/135
discriminandole, non sono in grado di verbalizzarle. Per questo assume
particolare rilievo la capacità dell’insegnante di aiutare gli allievi a coscientizzare
e ad esternare i loro vissuti, per poi fornire il necessario supporto.
Una tecnica che può risultare di notevole utilità è quella dell’ascolto attivo che
consiste essenzialmente in una risposta replicativa in cui l’insegnante palesa di
aver colto i contenuti e/o le emozioni presenti nel messaggio dell’allievo. Grazie
ad essa, quest’ultimo può sentirsi facilitato a comprendersi cognitivamente ed
emotivamente e ad affrontare con più consapevolezza le diverse situazioni.
Quando l’insegnante è sensibile alle esperienze e ai bisogni degli allievi e li aiuta
a comprenderli più differenziatamente, metacomunica accettazione e rispetto e la
stessa comunicazione scolastica acquista una maggiore significatività.

Enunciati constatativi
Un’altra importante competenza che si richiede all’insegnante è quella di
comunicare circa la realtà relazionale facendo ricorso ad enunciati descrittivi,
non valutativi o interpretativi. Ciò significa limitarsi ad una verbalizzazione
fenomenologica dei fatti osservabili rinunciando ad esprimere giudizi, valutazioni,
impressioni soggettive.
La comunicazione non valutativa della realtà relazionale offre agli allievi la
possibilità di conoscere i fenomeni così come si presentano, permettendo loro di
arrivare a formulare un proprio giudizio.
Essa, inoltre, incrementa la fiducia degli allievi nei confronti dell’insegnante,
in quanto rende evidenti lo sforzo e l’interesse che questi pone nel fornire
informazioni obiettive e nello scindere i dati di fatto dalle proprie interpretazioni.
Affinché l’insegnante sia in grado di realizzare una comunicazione descrittiva
si richiede che questi si impegni unicamente ad osservare come la realtà
si manifesta, senza interrogarsi sulle cause, sul suo sviluppo o sulle sue
conseguenze.
Capitolo 9 pag. 135
Come afferma McLeod (1951, 226), «la questione fenomenologica si ferma
molto semplicemente al “che cosa è qui?”, senza domandarsi “perché?”, “da
dove?” o “a che cosa?”».
Ciò vuol dire che l’insegnante dovrebbe constatare e confrontare l’allievo
soltanto con ciò che è riscontrabile, così come è, anche se è inconsueto,
inaspettato, illogico, evitando categorizzazioni, letture personali, spiegazioni
interpretative.
Atale riguardo possono essere utili alcuni suggerimenti:
– l’osservazione e la comunicazione dei fenomeni relazionali sono facilitate dalla
presenza di atteggiamenti che riflettono un approccio idiografico alla realtà.
Così, quanto più l’insegnante si avvicina agli allievi cercando di coglierne la
singolarità e l’individualità e quanto più considera ogni gruppo diverso dagli altri,
tanto più si rende consapevole dell’interazione in atto e capace di stabilire un
vero contatto con la sua classe;
– la realtà relazionale diventa plasticamente presente quando gli eventi che
la caratterizzano non sono estrapolati, presi isolatamente, ma inseriti nel loro
contesto.
Così, nel descrivere il comportamento di un allievo l’insegnante non può
limitarsi ai fatti che concernono la sua persona, dovrebbe piuttosto estendere le
informazioni e, pertanto, aver diretto la sua attenzione anche ai fenomeni della
dinamica socio-interattiva della classe;
– la considerazione fenomenologica della realtà relazionale è più ricca quando si
cerca di guardare quest’ultima secondo i diversi punti di vista. In tal senso, è utile
che l’insegnante colga anche la possibile prospettiva dei suoi allievi, per rendersi
conto che i contrasti che sorgono rispetto ad alcune situazioni, altro non sono
che due modi diversi, altrettanto validi, di guardare lo stesso fenomeno.

Enunciati assertivi
Capitolo 9 pag. 135/136
L’interazione nella classe si sviluppa più favorevolmente quando insegnante ed
allievi sono consapevoli degli avvenimenti relazionali reciproci e sono in grado
di introdursi nella comunicazione facendo presenti le loro esperienze al riguardo,
in modo tale da soddisfare i bisogni socio-affettivi propri ed altrui e costruire, al
contempo, rapporti di collaborazione.
Gli enunciati assertivi sono espressioni comunicative dirette tramite le
quali l’insegnante si rivela come portatore di esperienze di cui si assume la
responsabilità.
Tali esperienze fanno per lo più riferimento all’interagire reciproco e alle
aspettative relazionali.
Gli enunciati assertivi possono distinguersi in base all’indice referenziale. Si
hanno, così, enunciati di tipo prospettivo-ipotetico, espressivo, appellativo.
Gli enunciati prospettivo-ipotetici consistono nella comunicazione di pensieri,
idee, convinzioni che scaturiscono dalla riflessione sull’interazione reciproca.
Gli enunciati espressivi riguardano la manifestazione dei propri stati emozionali
sperimentati nel corso dell’interazione.
Gli enunciati appellativi concernono l’espressione delle aspettative personali e
sociali, ossia degli interessi propri ed altrui.
Così, tramite gli enunciati prospettivo-ipotetici l’insegnante comunica la
sua visione soggettiva dell’interagire reciproco, offrendo un contributo sulla
dimensione contenutistica; attraverso gli enunciati espressivi e appellativi cura,
invece, la dimensione emozionale, in quanto manifesta il proprio vissuto e gli
interessi personali e dei suoi allievi.
Elemento comune agli enunciati assertivi è che l’emittente parla di sé e delle
sue esperienze circa la realtà sociale, senza avere la pretesa di parlare in nome
di altri o di giudicare l’interagire reciproco secondo criteri oggettivi di valutazione.
Il ricorso ad essi permette, quindi, all’insegnante di introdursi personalmente
nell’interazione scolastica e di attuare interventi volti a curare la significatività dei
Capitolo 9 pag. 136/137
rapporti vicendevoli.

2.3.3. Abilità complesse o strategie


Le abilità comunicative fin qui esaminate costituiscono le competenze cardine
della professionalità docente. Esse concernono, come abbiamo visto, la capacità
di utilizzare un codice linguistico descrittivo, di rendere espliciti pensieri, idee,
convinzioni, stati emozionali e aspettative e di alternare opportunamente il
momento della produzione dei messaggi con quello dell’ascolto.
Atali abilità, che rappresentano, in un certo senso, l’asse portante dell’agire
regolativo-cooperativo dell’insegnante, vanno annesse quelle che potremmo
definire di secondo livello, vale a dire le abilità complesse.
Si tratta di strategie di azione che fanno più direttamente riferimento alla
conduzione del gruppo classe e che implicano l’osservazione di determinate fasi
o processi.
Esse riguardano specificamente il mantenimento della disciplina, la soluzione
comune dei problemi, la gestione delle situazioni di conflitto.

Promozione e mantenimento della disciplina: comunicazione regolativa


La dimensione regolativa o disciplinare rappresenta un fattore importante per
una positiva comunicazione scolastica. Infatti, comunicare vuol dire anche
partecipare ad una serie di regole riguardanti l’interagire. Quanto più tali
regole sono conosciute, concordate e accettate, tanto più è facilitato il rapporto
reciproco. Al contrario, quando esse sono implicite, unilaterali o imposte si
creano difficoltà sul piano relazionale che vanno poi a riflettersi, inevitabilmente,
su quello apprenditivo, compromettendo il clima e la produttività della classe.
L’agire dell’insegnante, per la promozione e il mantenimento della disciplina
nella classe, prevede interventi di carattere preventivo e correttivo.
I primi mirano a favorire negli allievi lo sviluppo di atteggiamenti positivi verso
Capitolo 9 pag. 137
la disciplina nonché l’acquisizione di un sufficiente livello di autocontrollo
nell’osservanza delle norme.
Gli insegnanti possono aiutare gli allievi a raggiungere questi obiettivi se nella
comunicazione scolastica prestano attenzione a:
– rendere esplicite le regole nei contenuti e nelle funzioni;
– formulare norme informali significative, cioè osservabili, stabilite
– per quanto possibile
– consensualmente e costruttive, ossia capaci di agevolare lo sviluppo dei singoli
e la dinamica della classe;
– promuovere l’autodisciplina, offrendo agli allievi la possibilità di trattare
criticamente le regole, di esaminarne la validità, di metacomunicare
sull’esperienza personale rispetto ad esse;
– provvedere un flusso continuo nei processi scolastici, organizzando le attività
didattiche in modo tale da stimolare gli allievi ad essere attivamente partecipi
e produttivamente presenti. Infatti, quando questi ultimi sono inattivi o perché
hanno finito il loro lavoro o perché l’insegnante non ha ancora preparato il
materiale didattico o perché stanchi e sovraffaticati, è molto probabile che
incorrano in comportamenti disturbanti. L’insegnante può ridurre la possibilità che
ciò si verifichi programmando accuratamente le sue attività e sensibilizzandosi
a cogliere le esperienze che gli allievi sperimentano rispetto ad esse, così da
intervenire con misure adeguate.
Sebbene gli interventi preventivi fin qui descritti agevolino consistentemente la
comunicazione nella classe, possono comunque verificarsi delle infrazioni o dei
comportamenti disturbanti, per cui è necessario che l’insegnante disponga anche
di misure correttive appropriate.
Queste ultime variano per livello di direttività e la loro scelta dipende dalla natura
e dalle cause dell’infrazione, dal grado di responsabilità dell’allievo e dagli effetti
che, se adottate, produrrebbero sul singolo e sull’intera situazione (Franta, 1987).
Capitolo 9 pag. 137/138
Tali misure correttive si caratterizzano per essere moderatamente direttive,
formulate in modo rispettoso e costruttivo, focalizzate sul comportamento
disturbante concreto e non sull’allievo. Esse comprendono:
– tecniche semidirettive, cioè interventi che, senza interrompere il flusso
della comunicazione o delle attività, portano l’attenzione dell’allievo sul suo
comportamento disturbante, riuscendo così a bloccarlo. Tra questi abbiamo:
interferire con un segnale (avvicinarsi, alterare il tono della voce, stabilire un
contatto di sguardo), fare domande aperte, inviti o proposte che richiamino alla
collaborazione;
– ristrutturazione della situazione didattica quando il processo attuale non viene
recepito (per es. gli allievi sono annoiati, frustrati, confusi). In tal caso è utile
effettuare dei cambiamenti a livello contenutistico o metodologico, così da
catturare nuovamente l’attenzione degli allievi;
– tecniche di feedback e di punizione nei casi in cui gli allievi persistono nei
comportamenti disturbanti. Tramite esse è possibile confrontare gli allievi con
le aspettative alle quali corrispondere, metacomunicando, al tempo stesso,
comprensione e rispetto.

Soluzione comune dei problemi


È inevitabile che nella quotidianità della vita scolastica si creino problemi di
ordine didattico, metodologico, relazionale, emozionale che necessitano di
essere affrontati e risolti.
Non a caso da molti autori la capacità di risolvere problemi è considerata
un’abilità fondamentale della professionalità docente, che funge da supporto per
molte altre (Meazzini, 1984).
Volendo esporre con sistematicità tale competenza dell’insegnante abbiamo
scelto di far riferimento non tanto ai problemi che questi sperimenta
personalmente nella vita scolastica (provvedimenti disciplinari, gestione del
Capitolo 9 pag. 138/139
tempo in aula, scelta dei contenuti, ecc.), sebbene la strategia proposta possa
utilmente applicarsi ad essi, quanto invece ai problemi che si presentano nel
gruppo classe, rispetto ai quali l’insegnante può funzionare da facilitatore.
Riteniamo, infatti, che mentre ci si è relativamente dedicati all’insegnante in
quanto solutore di problemi, si è del tutto trascurato l’insegnante in quanto
facilitatore nella soluzione dei problemi.
Le situazioni che il gruppo classe sperimenta come problematiche non vanno
nascoste o, peggio ancora, lasciate covare sotto la cenere di un’illusoria
normalità, ma devono essere manifestate, valutate e possibilmente risolte.
Solo la loro esplicitazione, infatti, ne consente un opportuno controllo,
impedendo che danneggino il morale e l’efficacia del gruppo.
L’insegnante può essere di notevole aiuto nell’incoraggiare gli allievi ad
esprimere i problemi che sperimentano nella vita scolastica e nell’offrire loro
modalità adeguate per affrontarli insieme.
Una strategia elettiva per affrontare cooperativamente la soluzione di un
problema è quella del problem solving (Meazzini, 2000; Becciu-Colasanti, 1997,
2004).
Si tratta di una strategia, articolata in più fasi, in cui l’insegnante aiuta gli allievi
a definire la situazione problematica, ad individuare i fattori che la determinano e
la mantengono, a generare alternative di soluzione, ad assumere una decisione
operativa, ad attuare la soluzione concordata.
Gestione delle situazioni di conflitto Poiché il gruppo classe riunisce persone
diverse per idee, temperamento, formazione, è del tutto normale e naturale che
al suo interno si creino delle tensioni e delle conflittualità.
Queste ultime possono svilupparsi tra allievo e allievo, tra allievo e gruppo, tra
allievi ed insegnante, tra sottogruppi di allievi.
Qualunque sia la loro forma, le tensioni sono vissute con malessere e
l’atteggiamento spontaneo è quello di sopprimerle o di negarle, come se fossero
Capitolo 9 pag. 139
intrinsecamente un male.
In realtà gli studi sulle relazioni umane mettono in luce come la frequenza di
attriti e conflitti non si correli al mancato benessere e all’insoddisfazione in una
relazione; viceversa sono importanti il numero di conflitti irrisolti e i metodi usati
per risolverli (Gordon, 1991).
Il problema è, dunque, di affrontare adeguatamente le tensioni e le contrarietà,
affinché non risultino distruttive, ma costruttive della relazione.
Ne deriva che i contrasti che si originano nel gruppo classe non sono qualcosa
da soffocare, ma da gestire attenuandoli e umanizzandoli.
Essi, infatti, permettono di prendere coscienza della realtà, di migliorarla,
di innovarla, contribuendo in modo significativo al benessere e alla salute
della classe stessa. In quanto leader della classe, l’insegnante è chiamato a
riconoscere i disturbi che in essa si creano e ad affrontarli in modo tale da ridurre
al minimo le perdite e portare al massimo i guadagni (Jandt, 1990).
Preziosa, in questi casi, si rivela la capacità dell’insegnante di metacomunicare,
creando occasioni e spazi in cui sia possibile chiarificare e situare ciò che sta
avvenendo, e di facilitare la negoziazione aiutando le parti coinvolte nel conflitto
a riconoscere l’esistenza del problema, ad essere consapevoli dei bisogni e
degli scopi reciproci, a discutere il problema e le possibili soluzioni, a risolvere il
problema cercando soluzioni di mutuo vantaggio (Edelmann, 2000).
Una simile gestione dei contrasti incrementa la possibilità di un’interazione
matura, responsabile, caratterizzata da fiducia e stima reciproca.

3. Conclusioni

Da quanto espresso finora è facile comprendere come la comunicazione


educativa non possa esplicarsi se non all’interno di una matrice relazionale
che ne costituisce la condizione necessaria. Essa, pertanto, oltre a richiedere
Capitolo 9 pag. 139/140
all’insegnante una capacità di riflessione a tutto campo sui problemi che gli allievi
possono sperimentare, esige anche una dimensione di autenticità personale,
nonché la disponibilità a contribuire alla crescita non solo intellettuale, ma anche
umana e valoriale delle nuove generazioni.
Tuttavia, sono proprio il mettersi in gioco come persona e l’assumersi una
responsabilità educativa a porre sulla difensiva molti insegnanti che preferiscono
impegnarsi in un rapporto di istruzione e a limitarsi a forme di comunicazione
didattica, mente a mente, piuttosto che coinvolgersi in un rapporto totale, come
quello educativo, in cui nessuna scelta è mai garantita in partenza in ordine alla
sua efficacia formativa.
D’altra parte, se – come viene continuamente ribadito – la scuola non ha solo
una funzione istruttiva, ma formativa nessun docente può realmente permettersi
di scotomizzare dal suo agire la dimensione pedagogico-relazionale che – tra
l’altro – dovrebbe costituire l’orizzonte di senso della stessa comunicazione
didattica. Semmai il problema è quello di offrire agli insegnanti l’opportunità di
un’adeguata formazione in tal senso.
Purtroppo, le iniziative che sporadicamente vengono promosse dagli istituti
regionali o dalle singole scuole, pur costituendo importanti momenti di
sensibilizzazione, rappresentano, proprio per la loro sporadicità e brevità, una
risposta parziale al bisogno di qualificazione degli insegnanti. Inoltre, rimane
del tutto scoperta la formazione accademica, che a tutt’oggi non prevede un
addestramento sistematico dei neo-docenti, i quali, potendo contare unicamente
sul loro buon senso, corrono facilmente il rischio del burnout.
Infatti, se è certamente gratificante per un insegnante poter contribuire alla
crescita e all’arricchimento di un altro essere umano, è, d’altra parte, molto
frustrante e deludente scoprire che al proprio entusiasmo di insegnare non
corrisponde sempre nei ragazzi un altrettanto entusiasmo di imparare.
Fenomeni di scarsa motivazione, attenzione sporadica, disinteresse, resistenza
Capitolo 9 pag. 140
ostinata disarmano facilmente il giovane insegnante che, sprovvisto di strumenti
idonei, è portato a scoraggiarsi e a rimettere in discussione il proprio operato.
Frequentemente un’alta percentuale del tempo che dovrebbe essere
dedicata all’insegnamento-apprendimento viene assorbita dai problemi degli
allievi, che non sempre trovano un docente in grado di aiutarli, o dai problemi
dell’insegnante che con certi allievi, particolarmente difficili o indisciplinati, non
trova adeguate modalità di gestione.
L’attenzione ai processi relazionali e l’uso di determinate strategie educative
possono costituire un importante strumento di prevenzione e di controllo
delle difficoltà scolastiche, siano esse degli allievi o del docente, agevolando
notevolmente l’insegnamento e l’apprendimento.
Riteniamo, quindi, che una formazione sistematica sotto il profilo
pedagogicorelazionale, sia negli anni in servizio sia durante l’iter accademico,
debba costituire parte integrante della professionalità docente e non essere
lasciata all’impegno sporadico o alla sola iniziativa dei singoli.

Riferimenti bibliografici

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Capitolo 9 pag. 141/142
CAPITOLO 10

L’ESPERIENZA E IL PROCESSO DI EDUCAZIONE


RELIGIOSA
Zelindo Trenti

1. L’esperienza nella ricerca recente

Il termine dalla radice semantica greca «peiro» indica un passare attraverso;


dunque fondamentalmente un vivere e un prendere coscienza del vissuto.
Si potrebbe dire che un’esperienza si dà ogni qualvolta c’è partecipazione
vissuta e significativa ad una qualunque provocazione. Il carattere umano e
umanizzante dell’esperienza è dato quindi dal rapporto obbligato con un dato
oggettivo, ma anche dalla consapevolezza con cui lo si assume e lo si interpreta.
L’esperienza assume oggi una singolare rilevanza; viene esplorata da scienze
diverse, sotto aspetti complementari.
La ricerca attuale, anche nella sua elaborazione più esigente – filosofica –,
si è concentrata sull’esperienza concreta: ne ha sondato lo spessore, ne ha
perseguite le ramificazioni.
«Andare alle cose» è stato uno dei canoni condivisi della fenomenologia.
Benché questo piegarsi sulla realtà per lasciarla trasparire nella sua scarna
nudità sia apparso ben presto semplicistico.
L’esistenza dell’uomo, in cui la realtà si rivela, ha un proprio spazio interpretativo

Capitolo 10 pag. 143


e offre una sua irrepetibile risonanza. Anzi, dove l’approfondimento si affina,
il dato obiettivo – il reale – lungi dall’emergere in una vuota essenzialità,
s’arricchisce di rapporti innumerevoli, sottende rimandi spesso difficilmente
interpretabili: la verità delle cose chiama una relazionalità pressoché indecifrabile,
affonda in radici lontane, appare fasciata di mistero. L’esperienza s’afferma
perciò come una traccia singolarmente allusiva e sollecitante: pista privilegiata
all’incontro con la verità dell’uomo e contemporaneamente alla scoperta di
rapporti complessi che lo relazionano a tutto il reale e lo espongono al richiamo
sottile e imperioso che gli giunge dal versante della trascendenza.

Le connotazioni che qualificano l’esperienza.


L’esperienza è termine abusato. La riflessione fenomenologica ed esistenziale
l’ha attraversata in tutte le direzioni. Ha tenuto fermi due poli opposti e
complementari: l’esperienza comporta rapporto obbligato con l’oggetto; anzi,
nell’istanza più rigorosa husserliana, ha preteso di lasciar affiorare intatta
l’essenziale verità delle cose. E tuttavia una verità si dispiega – si svela – sempre
ad una coscienza, e perciò chiama in causa la responsabilità del soggetto. Per
quanto il soggetto stesso si interpreta in situazione di intercomunicazione con il
proprio habitat.
Anche sulla base di questi scarni richiami è evidente che l’esperienza non si
riduce al dato grezzo e immediato: ha un suo spessore pressoché indecifrabile.
Si tratta di esplorarla, di predisporne l’analisi e la comprensione con strumenti
adeguati.

1.1. Esperienza nella riflessione pedagogica

Il dibattito più interessante e significativo attorno all’esperienza e alla sua


Capitolo 10 pag. 143/144
elaborazione pedagogica e scolastica si è vivacemente imposto negli anni ’70
nell’ambito della pedagogia religiosa – Religionspädagogik – nella Germania
Federale.
Richiamo le linee portanti della ricerca nella attenta elaborazione proposta da W.
H. Ritter (Ritter, 1989). I riferimenti fondamentali di una comprensione integrale
dell’esperienza sono ricondotti ad alcuni nodi qualificanti:
– costituzione dell’esperienza nella visione della vita e della scienza;
– l’esperienza: razionalità, unità e molteplicità;
– esperienza e annotazioni ermeneutiche.
Vi viene discussa un’interpretazione rivisitata del concetto, passando per le
provocazioni della ricerca esistenziale ed ermeneutica urgenti particolarmente a
partire dagli anni ’60.
Su quella base vengono analizzati alcuni modelli di pedagogia religiosa elaborati
per l’educazione della religione nella scuola in base alla scelta privilegiata
dell’esperienza.
– Modelli «disgiuntivi»: annuncio-esperienza;
– Modelli «relazionali»: fede «nella» esperienza
• D. Zillessen: La fede si elabora nell’esperienza
• E. Feifel: Fede... non altrimenti interpretabile che in relazione all’esperienza.
– Modelli «integrati»: esperienza «con» l’esperienza
• K. E. Nipkow: Dall’esperienza all’esperienza
• P. Biehl: L’esperienza come categoria ermeneutica, teologica, pedagogica.
Lo studio di Ritter conclude con un paragrafo lucido sull’interpretazione
dell’esperienza nella pedagogia religiosa in Germania.
Naturalmente la Germania Federale poteva avvalersi di un dibattito
singolarmente vivo: sollecitato da notevoli correnti di pensiero che avevano
fatto dell’esperienza il riferimento portante della ricerca filosofica e religiosa: da
E. Husserl a M. Heidegger in filosofia, da M. Scheler a M. Buber nell’ambito più
Capitolo 10 pag. 144
specificamente religioso.
Si muovevano dunque in terreno preparato e potevano avvalersi di un linguaggio
ricco e sostanzialmente condiviso; ha frenato la loro ricerca la preoccupazione
fondamentalmente teologica, che ha portato l’accento sulla elaborazione dei
contenuti cristiani, disattendendo in tanta parte i processi di maturazione umana.
Anche il riferimento a teologi più che a pensatori – la frequentazione quasi
ossessiva di Tillich è emblematica – ha accentuato l’interesse per la dottrina più
che per la persona.
In Italia il clima culturale era ed è molto diverso.
Soprattutto profondamente diversa è la situazione dell’educazione religiosa
nella scuola.
La disciplina si è andata «timidamente elaborando» in un clima di precarietà, di
resistenze strutturali e pedagogiche conosciute; e tuttavia con una disponibilità
impensata degli alunni e uno sforzo generoso, per quanto non sempre garantito
da formazione adeguata, degli insegnanti.
Una essenziale ricognizione sulla base delle ricerche recenti dà la misura
del riferimento all’esperienza da parte dell’insegnante e della vasta richiesta
di attenzione al vissuto concreto da parte degli studenti, specialmente delle
secondarie superiori.

1.2. L’esperienza nell’IRC attuale

Le due ricerche nazionali (Malizia-Trenti, 1991, 1996) concordano


sostanzialmente su alcune constatazioni, che richiamiamo in sintesi.
L’IdR tende a dare un’impostazione disciplinare al suo intervento. Si preoccupa
di garantire contenuti e obiettivi specifici; la disponibilità a temi d’interesse
e gradimento per gli studenti dice anche l’intento pedagogico preoccupato
Capitolo 10 pag. 144/145
di suscitare partecipazione. Opta per l’impostazione disciplinare finché gli
è possibile; ripiega sulla contrattazione e degli argomenti e dei metodi man
mano che l’allievo assume autonomia di decisione e si orienta su interessi più
esistenziali e morali che religiosi.
Nel triennio lo spazio ad un esercizio disciplinare esigente appare
realisticamente piuttosto angusto. La contrattazione si impone all’insegnante
suo malgrado per garantire la presenza e la partecipazione, rese estremamente
precarie dalla possibilità perfino di assentarsi dalla scuola. Il dato strutturale
sembra così pesare gravemente sulla serietà disciplinare:
– forzando le esigenze scolastiche, l’IRC rischia di venir disertato;
– accedendo alle istanze degli allievi, l’IRC rischia di venir svuotato come
disciplina.
Non di rado lo spazio dato alla contrattazione appare preponderante, data la
precarietà strutturale della disciplina; l’IdR rischia di svilirla in una condizione di
sostanziale dipendenza dagli allievi, cui spetta di avvalersi o meno.
I temi privilegiati toccano l’esperienza concreta, sollecitata da situazioni
contingenti, fatti di cronaca (32% nelle superiori) o da problemi di ordine
esistenziale (48% nelle superiori).
Dall’insieme risulta che l’IRC trova in tutti i gradi di scuola accoglienza
soddisfacente, su base sempre più «concordata» e degli argomenti e del modo
di trattarli.
Nella ricerca del ’91 veniva ipotizzato e in larga parte documentato che
l’accostamento alle problematiche esistenziali e sociali venisse fatto sulla base
di un confronto con le fonti cristiane: prefigurando un approccio ermeneutico
corretto e una metodologia induttiva in fieri.
Si delineava chiaramente l’ipotesi avanzata in quella ricerca e in parte
confermata nel ’96 con perplessità dichiarate dagli IdR circa la possibilità di
elaborare con correttezza un metodo induttivo che sembrava imporsi. Si può dire
Capitolo 10 pag. 145/146
tuttavia che si andavano man mano definendo i riferimenti strutturali ad orientare
l’intervento educativo dell’IdR:
– accetta di portare l’attenzione sull’esperienza concreta degli allievi, accoglie o
sollecita il dialogo con loro;
– è comunque impegnato a non perdere di vista il contenuto dottrinale; in
particolare a mantenere un costante riferimento al dato cattolico;
– per lo più accostato sulle fonti, bibliche soprattutto, magisteriali in piccola
parte...
Si va quindi delineando una metodologia induttiva che si sforza di incontrare
gli allievi – dalle risposte degli studenti sembra anche riuscirci –; e però sulle
sollecitazione che affiorano è continua la preoccupazione di evidenziare ed
enucleare la dottrina cattolica. Gli insegnanti sono a perno di questa mediazione:
sembrano impegnati a non perdere di vista nessuna delle due diverse sponde:
quella esperienziale e quella dottrinale. Resta difficile appurare se e quanto
il processo induttivo che affiora venga perseguito adeguatamente. Se cioè il
ricorso alle fonti venga giustapposto all’esperienza e ai suoi interrogativi o metta
in atto un corretto processo ermeneutico (Malizia-Trenti, 1996, 253).

2. Linee di interpretazione dell’esperienza

Dunque la scuola italiana nella documentazione di cui disponiamo accentua il


riferimento all’esperienza concreta degli alunni attraverso tutta la sua non lunga
vicenda.
Gli accenni conclusivi dedotti dalle ricerche sembrerebbero anche confermare
l’intenzione di abbozzare un processo metodologico organico e impegnativo.
L’aspetto debole di tutta questa vasta e sostanzialmente condivisa azione
educativa sta nella scarsa padronanza con cui l’insegnante elabora il processo
Capitolo 10 pag. 146
che parte dall’esperienza; anche perché ha dell’esperienza una concezione
piuttosto approssimativa e la sua formazione non l’ha preparato a condurre
autorevolmente il processo di approfondimento e di applicazione specificamente
religiosa.
Si tratta dunque di chiarire il concetto di esperienza e di individuare le linee di un
metodo che sappia valorizzarla adeguatamente. La recente Riforma della scuola
offre a proposito indicazioni notevoli, come avremo modo di richiamare.

2.1. L’analisi dell’esperienza

L’esperienza riguarda prima di tutto il vissuto.


Naturalmente il vissuto conscio: per quanto l’aspetto cosciente sia solo la punta
dell’iceberg. La dimensione inconscia si protende a profondità indecifrabili;
conserva tuttavia una risonanza difficilmente calcolabile nel corso della stessa
interpretazione cosciente, segnata di precomprensioni o di pregiudizi sotto molti
aspetti determinanti: la loro importanza è imponderabile e comunque alta.
La comprensione avviene, infatti, sulla base di un orizzonte interpretativo che
precede l’esperienza immediata e diretta. Una certa percezione più o meno
profonda dello stesso fatto o dello stesso valore è comandata da una storia
sinuosa e non più ripercorribile dalla persona che l’ha vissuta.
Senza naturalmente negare l’importanza della situazione attuale e i richiami di
cui è esplicitamente portatrice: è chiaro comunque che restano condizionati e per
lo più proporzionati all’itinerario che l’ha preceduta.
Cosicché l’interpretazione che, di fatto, si realizza si muove per così dire
su un duplice piano: dei solchi già aperti e magari approfonditi nella storia
passata; delle provocazioni attuali, immediatamente avvertite e urgenti. La loro
composizione comporta una logica che è difficile decifrare. Orientativamente si
Capitolo 10 pag. 146/147
può dire che l’intensità e chiarezza delle sollecitazioni attuali giocano un ruolo
tanto più risolutivo quanto più alta è la maturità della persona e più risoluti sono i
suoi obiettivi.
Cosicché il richiamo alla dimensione cosciente, apparentemente semplice,
si manifesta estremamente complesso e consente di avvertire lo spessore
proprio dell’esperienza umana. Non è merito piccolo della psicanalisi l’aver dato
straordinaria rilevanza al vissuto, magari remoto; il suo torto, caso mai, è quello
di darvi considerazione enfatizzata o di rivisitarlo esclusivamente sotto il profilo
sessuale: rudimentalizzando così lo spessore e la dignità dell’esperienza umana.
Ma è chiaro che già la ricerca delle matrici e delle diramazioni dell’esperienza
ne mette in gioco la dimensione propriamente umana: la riflessione. Il cammino
dell’interpretazione, la chiarezza con cui si realizza, è segnato dalla forza con cui
opera la riflessione, intesa come ritorno consapevole sul vissuto, per identificarlo
e possibilmente chiamarlo per nome. Anche solo a seguire una convinzione
precisa, di cui siamo consapevoli nella sua elaborazione progressiva e nel
suo faticoso compaginarsi risulta evidente l’itinerario sinuoso e in tanta parte
imprevedibile che le nostre idee percorrono.
Soprattutto vi impongono quelle esigenze di verifica vigile e critica che
un orizzonte ampio di conoscenza sembra comportare. La novità di una
situazione non si somma all’esperienza vissuta: tende a configurarsi cercando
una composizione, spesso difficile, nella compagine del vissuto personale
precedente.
Sullo sfondo affiora il bagaglio acquisito dalla tradizione, dalla consuetudine,
dagli interessi... Appunto perché si sono compaginati in una certa unità hanno
anche delineato le prospettive, gli ideali, i valori: in una parola il «progetto» della
persona.
Il loro ricupero consapevole è anche segnato da una capacità di valutazione
critica affidata a criteri che ancora una volta costituiscono il bagaglio prezioso
Capitolo 10 pag. 147
di cui una persona è portatrice. È chiaro che la cultura, la tradizione, hanno
a questo punto un peso determinante; si compongono con la dimensione più
originale, propria della persona, che in ultima istanza è chiamata a selezionare,
ad assumere e a fare proprie quelle che risultano proporzionate al proprio
progetto: donde la singolare dialettica che segna il processo dell’esperienza e
la formulazione della domanda quale chiave interpretativa reale della situazione
che la persona vive.
Di fatto la domanda non è mai ovvia. È sollecitata dalle condizioni in cui
ciascuno è immerso; e tuttavia queste stesse condizioni sono assunte secondo
angolature e accentuazioni che la persona privilegia, in base a obiettivi e a scelte
che le sono propri. In definitiva l’esperienza viene ad essere contrassegnata da
una sostanziale accentuazione originale in cui i dati oggettivi non sono trascurati:
sono decifrati e orientati. La loro elaborazione che pure si avvale del patrimonio
cui ha attinto è la novità propria di ogni esperienza umana autentica; che di per
sé non si ripete mai: rappresenta un evento.
Naturalmente si pone il problema dell’oggettività dell’interpretazione.
Un’oggettività che il positivismo ha rivendicato ed esasperato; ne ha fato un
miraggio di cui oggi si misura l’impraticabilità. Tuttavia ne ha fatto anche un
riferimento importante, che del resto la tradizione ha sempre sottolineato.
Nella sensibilità attuale, sia di fronte alla tradizione che di fronte alla
rivendicazione della più recente cultura neopositivista, è stata vigorosamente
ridimensionata la presunzione all’oggettività totale. Resta tuttavia vivo e
irrinunciabile il dovere della verifica attenta e critica: dell’analisi rigorosa dei
dati, magari perseguita con diversità di metodologie e di approcci; che lungi
dall’evadere il tema dell’oggettività lo inquadrano e tentano di definirne i contorni
precisi.
In questo processo laborioso e continuo apparentemente ciò che si impone
è il tema, il contenuto, i problemi che man mano vengono svolti e dibattuti. E
Capitolo 10 pag. 147/148
sotto un certo aspetto è vero. Tuttavia è evidente che tutto si svolge all’interno
dell’esperienza che la persona vive. È precisamente questa che di continuo è
messa sotto verifica; si modifica, si dilata, si rinnova. È dialettica, come già Hegel
ha magistralmente evidenziato.
Cosicché la matrice del processo conoscitivo resta il soggetto nella sua verità
storica. La vera modifica non sta nell’accumulo delle nozioni e delle conoscenze;
sta nel cambiamento continuo cui è soggetta la sua esperienza È questa che
progressivamente tende ad essere piena e realizzata. Anche il ritorno riflessivo e
critico riguarda certo le novità incontrate nelle acquisizioni fatte; ma il significato
decisivo è dato dallo spessore e dall’autenticità dell’esperienza vissuta e portata
a maturazione. Insomma le conoscenze assunte non sono solo conosciute, ma
sono fatte proprie e sono diventate parte costitutiva della propria personalità e
del proprio modo di essere. (L’accentuazione ologrammatica del Gruppo Ristretto di Lavoro,
coordinato da G. Bertagna, trova in questa esigenza di elaborazione personale unitaria la sua
matrice antropologica e la sua traccia di approfondimento ermeneutico.) Il fatto sembra tanto
più vero quanto più si fa riferimento ad un mondo spirituale che si è accostato,
conosciuto e finalmente condiviso. Il confronto ha dilatato l’orizzonte, ha dato
spessore all’esistenza. Le analisi di Gadamer che tematizzano il rapporto con la
tradizione sono pertinenti. Come pertinente è la sua conclusione, che sfocia nella
piena consapevolezza della finitudine di ogni umano esperire.
Citando Eschilo Gadamer ribadisce la consapevolezza delle finitudine.
Conferma all’esperienza umana un orizzonte singolarmente vasto, però anche
insoddisfacente (Gadamer, 1972).
Proprio il gioco delle condizioni parziali e inadeguate sembra sollecitare
l’esperienza oltre l’orizzonte della finitudine: rappresentano una constatazione
di fronte a cui lo studioso tedesco sembra sostare, se non pago, almeno
consapevole che il limite non è valicabile. Perciò va accettato. Definisce
l’itinerario concreto cui ogni esperienza umana resta obbligata e
Capitolo 10 pag. 148
contemporaneamente sollecitata a porre con lucida consapevolezza il tema della
trascendenza.
Schematizzando si possono rilevare le connotazioni irrinunciabili:
• anzitutto è indispensabile trasferirsi dal vissuto alla consapevolezza del vissuto
– dimensione cognitiva;
• per lo più sollecitare una presa di coscienza in grado di prender le distanze dal
vissuto, per misurarlo sulla base di criteri autentici di valutazione – dimensione
critica;
• soprattutto perché l’esperienza dice necessario riferimento a dati oggettivi con
cui è costitutivamente in rapporto, pure da analizzare ed accogliere nella loro
intrinseca verità – dimensione veritativa;
• per quanto sia importante avvertire che il dato oggettivo è sempre assunto
dal soggetto, secondo una propria irrinunciabile prospettiva: un punto di vista
parziale e interpretativo – dimensione ermeneutica;
• naturalmente l’analisi di questi diversi aspetti non trascura la lezione di Hegel
che ne rileva la – dimensione dialettica;
• né sottovaluta l’aspetto irriducibilmente parziale e finito – dimensione
trascendente. L’esperienza è dunque un processo che rielabora in un
superamento mai concluso i singoli momenti che attraversa e che la sostanziano;
costituisce la risorsa qualificante dell’esistenza. L’esperienza puntuale, fissata
in una certa situazione offre essa stessa una singolare visione di sintesi, una
concentrazione istantanea – come già Aristotele ha sottolineato – di cui la stessa
riflessione mette in atto di continuo il superamento.

2.2. L’esperienza nella comunicazione educativa

L’esplorazione dell’esperienza umana sembra essersi portata recentemente su


Capitolo 10 pag. 148/149
alcune direttrici fondamentali:
– la ricomposizione del senso e la conseguente riinterpretazione dell’identità
personale;
– l’apertura all’altro e l’esplorazione del rapporto interpersonale;
– la consapevolezza di un presagio ineludibile, che fonda la ricerca religiosa.
Quindi il rapportarsi al mondo e agli altri è certo situazione: ma a livello umano
autentico è anche sempre decisione. La pienezza dell’esistenza sta nella gamma
complessa dei rapporti che la fondano; ma il carattere definitivamente umano
è dato da un gesto libero, da un’opzione morale. La dignità dell’uomo si radica
nella partecipazione, ma si qualifica in quanto è partecipazione voluta nella
libertà: è comunicazione cercata e voluta.
Il problema della comunicazione è quindi fondamentalmente un’esigenza della
persona come tale; è tuttavia anche una scelta che però nel contesto attuale è
assediata e assillata da continue sollecitazioni, palesi o nascoste, leali o subdole,
con cui è giocoforza misurarsi.
In un’applicazione non priva di suggestione l’intervento recente dell’UNESCO
ha giustamente sollecitato ad aprire l’esperienza, dilatandola in un rapporto
fecondo e indispensabile: Imparare a vivere insieme, imparare a vivere con gli
altri (Delors, 1997, 85).
In questa prospettiva il tema della comunicazione si impone con una urgenza
inedita.
Nello sfondo educativo soprattutto è evidente quanto l’apertura all’altro sia
straordinariamente sospinta dai mezzi di comunicazione che hanno fatto del
nostro mondo un «villaggio globale». Coloro stessi che sono deputati ad educare
l’esperienza umana sono chiamati a valorizzare «un momento in cui il mondo sta
invadendo sempre di più la scuola, particolarmente attraverso i nuovi mezzi di
comunicazione e di informazione» (Delors, 1997, 24).

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2.3. L’esperienza si esprime in linguaggio

Il tema del linguaggio è oggi centrale ed investe anche l’educazione scolastica.


Vi viene data attenzione esplicita nel capitolo successivo. Qui è opportuno
almeno sottolinearne l’importanza.
Di fatto l’esperienza immediata che si può vivere a partire da ogni sensazione
sottende la percezione indefinita di sentirsi in un mondo; quasi in una casa di cui
non si sono ancora individuati bene i contorni, che tuttavia sembra singolarmente
accogliente e lasciare la vaga impressione di sentirsi protetti, quasi immersi in un
elemento che avvolge e rassicura.
È tuttavia un mondo a cui si è sollecitati a dare un nome. Uno dei passi
illuminanti sulla verità dell’uomo è data nella descrizione geniale che ne fa
l’autore della Genesi.
«Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli
uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come gli avrebbe chiamati:
in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello
doveva essere il suo nome» (Gn 2,19).
È un’intuizione che qualifica la natura dell’uomo, il linguaggio, che le risulta
costituivo e originario. L’uomo chiama per nome le cose, ordina il mondo in un
cosmo, gli conferisce un nome: gli dà volto, con piena autorità.
Nella primordiale immagine biblica la parola di Dio crea, la parola dell’uomo
«nomina» la creazione.
Affiorano già le linee portanti del linguaggio umano.
Il mondo è già dato: ma l’uomo lo riporta ad un proprio orizzonte organizzativo in
base al quale ricompone le linee della creazione, conferisce ordine e chiama per
nome le cose. Il linguaggio è dunque in questa funzione originaria e costitutiva
che l’uomo instaura con la realtà.
Capitolo 10 pag. 150
Sulla traccia di questa fondamentale intuizione si può capire la progressiva
presa di coscienza, e il singolare processo interiore con cui l’uomo guarda il
mondo, man mano lo va interpretando, fino a darvi un volto ed un nome.
Il linguaggio gli consente di definire e identificare il proprio orizzonte
interpretativo, di capire la propria cultura.
In sintesi.
Nella ricerca recente l’esperienza è il fulcro di un’analisi rigorosa che ha
impegnato soprattutto scuole e pensatori di matrice fenomenologica, esistenziale,
personalista. La ricchezza e la novità degli apporti risultano sorprendenti; hanno
consentito di esplorare lo spessore dell’esistenza e di percepirne una risonanza
inedita. L’attenzione più recente ha anche evidenziato una relazionalità
complessa, mediata da strumenti potenti e sempre più onnipervasivi.
Questa stessa esplorazione molteplice offre un terreno arato e fecondo di
applicazione educativa, ormai avvertita e valorizzata. In particolare la riflessione
ermeneutica ha posto le basi di una rivisitazione soprattutto dei processi di
progressiva elaborazione dell’esperienza.

3. L’esperienza come riferimento privilegiato di elaborazione pedagogica

3.1. Nelle indicazioni «normative» della recente riforma

La legge delega (’03, 53, art. 1.&1) è chiara: «Al fine di favorire la crescita e la
valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle
differenze e dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia...
», sottolineando di conseguenza la volontà di rispettare la singolarità delle doti e
dei ritmi degli studenti.
Capitolo 10 pag. 150/151
Già il Rapporto Bertagna (Premessa) (Rapporto finale del Gruppo Ristretto di Lavoro
costituito con D.M. 18 luglio 2001, n. 672. Parte I. L’ipotesi elaborata dal Gruppo Ristretto di Lavoro
(a cura di Giuseppe Bertagna).) aveva richiamato l’importanza di creare condizioni
opportune.
Nella quinta delle otto leve da utilizzare per innalzare la qualità complessiva di
tutto il sistema educativo afferma: «mentre non trascurano l’importanza dello
sviluppo generale della persona, nelle sue dimensioni creative e relazionali, di
problem solving e, soprattutto, di problem raising (far emergere un problema da
risolvere dove gli altri vedono solo un compito da svolgere), sottolineano come
si debba porre a piena ragione questo titolo nell’alveo dei diritti di base della
cittadinanza ».
Nella divulgazione ampia che gli estensori del documento hanno dato alla
loro proposta c’è anche una specifica connotazione che il processo educativo
dovrebbe assumere.
G. Sandrone ad esempio, intervenendo ad una giornata di studio alla Pontificia
Università Salesiana, il 16 novembre 2002 rileva con chiarezza esemplare il
carattere ologrammatico dell’insegnamento/apprendimento.
«Le Indicazioni Nazionali rammentano anche che, per quanto formulati in
maniera piattamente elencatoria, quindi atomizzata, gli Obiettivi specifici
di apprendimento, prima, e a maggior ragione gli Obiettivi formativi, poi,
obbediscono, ciascuno, al principio dell’ologramma. In questa direzione,
ricordano che sarebbe sbagliato attribuire agli uni e agli altri il carattere di risultati
da realizzare deterministicamente con appositi interventi tecnici.
Essi devono piuttosto apparire eventi che si formano (nel senso che assumono
forma) e si conformano (nel senso che assumono la loro forma insieme, ovvero
in una relazione educativa interpersonale) durante il processo di maturazione
dell’allievo, che la scuola è tenuta a sollecitare, sostenere, promuovere.
L’insegnamento, in questa prospettiva, è dichiarato educativo, perciò, quando
Capitolo 10 pag. 151/152
è più l’attesa e la sollecitazione di un’autonoma maturazione dell’allievo che un
intervento tecnico del docente che pretenda di crearla; più un avvento (qualcosa
che avviene per forza propria e sviluppo contestuale) che un prodotto da
costruire e raggiungere che, proprio per questo, può suscitare ansia.
Insomma, quando è un processo frutto della libertà delle persone, piuttosto
che un procedimento artificiale che imprigiona le persona nel determinismo di
qualsivoglia necessità, fosse anche quella di essere così padroni delle tecniche
retoriche e motivazionali da condizionare un allievo ad apprendere ciò che
vogliamo noi, al posto di ciò che, pur voluto da noi, è però, anche scelto da lui:
scelto insieme ».
Vale la pena concludere con una citazione delle Indicazioni nazionali che
sintetizzano bene l’obiettivo educativo della Riforma, e richiamano in maniera
puntuale: «Il “cuore” del processo educativo si ritrova, quindi, nel compito
delle istituzioni scolastiche e dei docenti di progettare Unità di Apprendimento,
caratterizzate da obiettivi formativi adatti e significativi per i singoli allievi che
si affidano al loro servizio educativo, compresi quelli in situazione di handicap,
e volte a garantire la trasformazione delle capacità di ciascuno in reali e
documentate competenze ». (Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella
Scuola Secondaria di 1° grado.)

3.2. Nelle esigenze pedagogiche della ricerca ermeneutica attuale

La riforma introduce una pedagogia dell’apprendimento, offre stimoli e


indicazioni molteplici e va delineando un modello centrato sul rispetto dei
processi di maturazione dell’alunno.
Naturalmente le indicazioni proposte restano «indicazioni».
Si potrebbero ripensare in una logica ermeneutica rigorosa che ne trasferisca
Capitolo 10 pag. 152
lo sfondo ampio e assodato della ricerca teoretica e antropologica in prospettiva
pedagogica.
Un accenno alle tappe essenziali può riuscire orientativo.
a. Rispettare il primato della domanda
La ricerca ermeneutica ha portato l’attenzione su aspetti importanti della
comprensione.
Quando l’accento dalla nozione si sposta sull’assimilazione e sull’interpretazione
non è più la chiarezza dell’esposizione che risolve, ma la curiosità, l’interesse per
il problema, in qualche modo presagito ed affiorante.
La meraviglia nella prima riflessione greca è avvertita come fonte del sapere.
La domanda spacca la crosta dell’ovvietà e lascia intravedere uno spazio non
ancora esplorato, sopra cui di continuo si discorre la chiacchiera – quasi fosse
perfettamente conosciuto, quando in realtà resta inavvertito. Pone la domanda
in modo autentico solo chi ha presagito la dimensione ancora inesplorata della
realtà e si rende conto che resta sottratta alla sua conoscenza – sa di non
sapere –; sull’ingenua e vuota presunzione degli interlocutori che neppure hanno
avvertito lo spazio da esplorare.
b. Abilitare all’uso corretto delle fonti
È chiaro che con considerazioni del genere si tende a metter in luce il processo
dell’interpretazione, come rapporto obbligato con le conoscenze acquisite nel
passato. Tuttavia la tradizione non si è posta le nostre domande e perciò non ha
la risposta che attualmente cerchiamo. La tradizione però nei testi qualificati che
la riferiscono può offrire indicazioni decisive: rappresenta un immenso cantiere
in cui sono sparsi gli elementi risolutivi: non ha dunque la risposta; offre apporti
insostituibili per elaborarla.
La ricerca religiosa obbedisce agli stessi criteri. L’apprendimento passa
attraverso interrogativi consapevoli e l’interesse che questi suscitano: sono
questi che orientano e verificano il ritorno al passato. Il primato della domanda
Capitolo 10 pag. 152/153
resta vero anche nell’educazione religiosa.
Si tratta perciò di instaurare un rapporto corretto con la tradizione. Tocca a noi
formulare le domande: sulla base di provocazioni che impediscono di vederci
chiaro e che tuttavia consentono di veder abbastanza chiaro da individuare
l’interrogativo che le fonti non conoscono e a cui non possono aver dato
soluzione.
Tocca inoltre a noi rivisitare le indicazioni sparse nella tradizione e ricomporle in
un organico e attuale tentativo di risposta.
Resta così evidenziata la risorsa risolutiva dell’apprendimento che vale anche
in ambito religioso. Anzi in quanto la religione attinge la dimensione più profonda
e interiore della persona è illusorio che una proposta le parli per forza d’urto, per
così dire, esteriore. Risulterà parlante nelle proporzioni in cui ha fatto breccia, ha
destato attenzione, suscitato interesse, sollecitato domande e ha di conseguenza
messo in moto le risorse dell’apprendimento.
c. Le tappe qualificanti
Sinteticamente si possono richiamare i momenti salienti: – Il contesto solleva
interrogativi complessi dentro cui si tratta di elaborare la domanda autentica:
quella che di fatto porta al cuore dei problemi ed è in grado di dipanare il groviglio
delle provocazioni. Ricorrere alla tradizione significa andarvi a rintracciare
situazioni simili che hanno avuto risposta.
– La risposta è stata tuttavia elaborata sulla base di specifiche domande del
tempo ed è stata espressa in linguaggio proprio dell’epoca e della cultura.
– Nella risposta della tradizione si possono identificare stimoli e indicazioni per
elaborare ponderatamente la risposta alle provocazioni attuali: in un processo di
interpretazioni e di ipotesi che possono anche trovar adeguata formulazione per
successive approssimazioni e conseguenti verifiche. L’ipotesi è suscitata dalla
domanda insita nell’odierna situazione storico-esistenziale ed è orientata dalla
risposta indagata nella tradizione.
Capitolo 10 pag. 153
Uno
Unoschema
schemagrafico puòcontribuire
grafico può contribuire a meglio
a meglio illustrare
illustrare le tappe
le tappe del del procedi-
mento ermeneutico:
procedimento ermeneutico:

SITUAZIONE CONCRETA INTERPRETAZIONE


provocazioni delle provocazioni

FORMULAZIONE ELABORAZIONE
degli interrogativi della risposta

LA DOMANDA ISTANZE ATTUALI


posta alla tradizione cui confrontarsi

RICERCA ELEMENTI
sulle fonti della tradizione significativi

d. Nell’educazione
d. Nell’educazione religiosa
religiosa
Anche nella rivelazione, nella considerazione del rapporto con una presenza
Anche nella rivelazione,
trascendente nella considerazione
la logica del processo educativo non del rapporto con una presenza
cambia.
trascendente la logica del processo educativo non cambia.
Innanzitutto va risvegliata la domanda su Dio: sul presupposto che tale domanda
Innanzitutto va risvegliata
sia almeno implicita la domanda
nell’esperienza su Dio: sul presupposto che tale do-
dell’uomo.
L’incontro con le scienze antropologiche esplora
manda sia almeno implicita nell’esperienza dell’uomo. anche le condizioni in cui la
domanda sulla
L’incontro contrascendenza si affaccia all’orizzonte
le scienze antropologiche esplora dell’esistenza.
anche le condizioni in cui la
Si delinea un itinerario educativo da mettere in atto perché
domanda sulla trascendenza si affaccia all’orizzonte dell’esistenza. nella consuetudine,
Si delinea
Capitolo un itinerario
10 pag. 154 educativo da mettere in atto perché nella consuetudi-
magari dispersa ed evasiva del vivere quotidiano, l’interpretazione religiosa non
sia soffocata od evasa; né venga stemperata in prospettive pseudoreligiose,
quali l’attribuire valore definitivo a dati contingenti – l’ideologia, il sesso, il
denaro... –.
È inoltre indispensabile lasciar emergere o far presagire il significato del ricorso
religioso per dar compimento ad interessi ed aspirazioni sentiti come qualificanti
e decisivi per la propria esistenza.
Aquesto punto s’impone il riferimento alla tradizione religiosa, quale risposta
che la riflessione passata mette a disposizione. Per sé tutta la tradizione
religiosa merita considerazione. Privilegiare quella cattolica è inizialmente un
fatto storicoculturale: lo studente vive in un contesto connotato dal cattolicesimo.
Successivamente può emergere e imporsi all’attenzione e alla ricerca scolastica
la novità che qualifica il cristianesimo come religione rivelata, accreditata da
un’esperienza storica d’incontro singolarissimo con Dio; da una lunga e profonda
elaborazione dottrinale.
È in definitiva possibile evidenziare la solidarietà e la complementarità fra
ricerca religiosa e rivelazione. È inoltre possibile constatare che la religione e
il cattolicesimo in particolare camminano sulla stessa lunghezza d’onda della
ricerca umana: si propongono per lo più come esplicitazione e approfondimento
di questa: anzi si può dire che la stessa rivelazione si muove in una polarità
ermeneutica, storicamente documentabile, con la ricerca umana.
Resta solo da sottolineare che nell’elaborazione specificamente scolastica i poli
del rapporto ermeneutico sono anche commisurati alla progressiva maturazione
dell’allievo; domanda e risposta si elaborano quindi tenendo conto del grado
e dell’indirizzo di scuola: per un principio pedagogico fondamentale di rispetto
dell’allievo, previo anche al processo ermeneutico.

Capitolo 10 pag. 154/155


4. Aconclusione

L’esperienza ha trovato nella riflessione attuale e in particolare nella ricerca


ermeneutica approfondimento singolare.
Anche su questo presupposto risulta riferimento privilegiato nell’elaborazione
della proposta educativa; la riflessione pedagogica ne ha preso atto. Le linee su
cui la stessa Riforma si muove sono impegnate ad accompagnare l’allievo in un
processo personalizzato di maturazione culturale ed umana, in cui l’esperienza
del singolo è riferimento centrale.
L’IdR risulta particolarmente sollecitato, oltretutto dalla condizione della sua
stessa disciplina e comunque da stimoli molteplici che lo hanno di fatto reso
straordinariamente sensibile all’esperienza dei suoi allievi, come le ricerche
recenti documentano.
Cosicché anche nell’educazione religiosa scolastica, in atto in Italia, il tema
dell’esperienza e della sua valorizzazione educativa si delinea in tutta la sua
importanza, merita approfondimento e verifica.

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Capitolo 10 pag. 157


CAPITOLO 11

LINGUAGGIO E IRC
Giuseppe Morante

Premessa

Il linguaggio è uno strumento dalle multiformi espressioni che serve per


comunicare dei messaggi tra persone. Con questa facoltà nativa l’uomo
stabilisce un insieme di segni che sono codici attraverso cui comunica. Tale
comunicazione si realizza a tre condizioni: ci deve essere corrispondenza tra il
segno comunicante (= linguaggio o codice) e il suo significato; è necessario un
accordo vicendevole su tale corrispondenza; si richiede l’uso cosciente e voluto
del segno in funzione comunicativa.
Segni comunicativi diversi della stessa natura si possono concretizzare
in un codice comune, se viene riconosciuto come tale. Vi sono linguaggi
che coincidono con un codice e vi sono linguaggi in cui confluiscono
contemporaneamente diversi codici (verbale, gestuale, mimico...).
I linguaggi, allora, sono degli strumenti diversificati di «conoscenza» attraverso
i quali si attua il processo di apprendimento di valori-messaggio, comunicati
attraverso un codice:
– si può trattare di comunicazioni (come conoscenze da apprendere) che portano
ad una esecuzione operativa: tale apprendimento si realizza attraverso l’azione
relativa ad una serie specifica di conoscenze;

Capitolo 11 pag. 158


– possono essere messaggi trasmessi attraverso codici iconici: qui un
apprendimento della conoscenza trasmessa avviene utilizzando le
rappresentazioni sensoriali e percettive della persona che riceve il messaggio;
– si può trattare di codici simbolici: in questo caso l’apprendimento del messaggio
si realizza attraverso linguaggi formati da segni che rimandano per analogia alla
realtà che significano.
Passando all’insegnamento religioso nella scuola si fa riferimento ad una
«disciplina » che contiene un complesso di messaggi che hanno bisogno di
essere comunicati mediante dei linguaggi adatti. Linguaggi che possono essere
comuni in ogni insegnamento disciplinare, o tipici e specifici della disciplina
«religione cattolica ». Per quanto concerne quest’ultima, il linguaggio più tipico
è quello del segno-simbolo, perché è quello più accreditato per parlare di Dio
e della religione cattolica che comunica le verità rivelate per mezzo di «segni e
simboli variamente efficaci» (RdC 77).
In tale prospettiva allora, l’insegnante deve conoscere le categorie interpretative
del cristianesimo che sono «sistemi di significato» che rimandano, nella
giustificazione scolastica della disciplina, a dei concetti organizzatori che servono
a decodificare la realtà religiosa stessa: il mito, il rito, il simbolo, il segno... La
conoscenza di queste categorie comunicative favorisce la qualità del rapporto
conoscenza-apprendimento dell’alunno col proprio ambiente; sollecita il
passaggio dal segno al significato; apre l’allievo agli universi di significato che
consentono una interpretazione corretta di ogni realtà religioso-trascendente.
Perciò i programmi di religione, anche nella nuova stesura e soprattutto nei
processi descritti sia nelle «Indicazioni» che nelle «Raccomandazioni» operative
(Nell’ottobre del 2003 sono stati promulgati i nuovi programmi di IRC per la scuola dell’Infanzia
e della Primaria. Di seguito saranno promulgati quelli relativi alla scuola secondaria di I grado e
quelli della scuola dei licei. Essi sono appunti formulati e proposti in due parti: le «Indicazioni per
i Piani Educativi Personalizzati» che contengono i nuclei tematici con i processi didattici relativi;

Capitolo 11 pag. 158/159


le «Raccomandazioni» che contengono le possibili modalità di applicabilità nei vari passaggi
scolastici.) incoraggiano a dare inizio ad una azione didattica che sappia:
– abilitare gli allievi a comunicare dei messaggi religiosi, acquisendo una
competenza «religiosa» comunicativa ed espressiva;
– far socializzare gli allievi con la dimensione religiosa «umana» (perché
appartiene alla sua esperienza personale) fatta scoprire dentro la propria
persona e nell’ambiente esterno come interazione, conoscenza, scambio;
– sviluppare quella creatività personale che entra nel concetto didattico dei «Piani
Educativi Personalizzati», e che sia correttamente intesa come potenzialità della
persona e quindi come tale educabile nello specifico del «religioso».
Gli insegnanti di religione perciò devono acquisire «competenze» linguistiche
(generali e specifiche) che sono relative all’esperienza religiosa e alla disciplina
«religione», per far scoprire significati nuovi, per aiutare a interpretare situazioni
ed esperienze storiche delle espressioni religiose, per facilitare confronti critici
come acquisizione di indipendenza nella decodifica di stimoli e di proposte
relative a fatti ed a situazioni descrittive della realtà religiosa personale ed
ambientale.

1. La dimensione comunicativa delle verità cristiane

L’Insegnamento Religioso (secondo la normativa vigente) ha come principale


nucleo tematico la «Religione Cattolica», anche se è aperto alla dimensione
religiosa della vita e alle esperienze delle varie religioni. Perciò, nella sua valenza
scolastica esso deve far riferimento a quel tipo di linguaggio che oltre ad essere
codice di comunicazione di un messaggio, è anche specifico di tale «disciplina».
È questa la condizione per assicurare l’apprendimento, e per non ingenerare
confusione circa la comprensione dei fatti religiosi storicamente connotati.

Capitolo 11 pag. 159


La Religione Cattolica ha come fondamento la rivelazione biblica detta
comunemente «Parola di Dio». È un’espressione usata nel cristianesimo per
intendere un fatto: il linguaggio globale di cui Dio si serve nel comunicare
all’uomo il suo progetto di vita.

1.1. Un «parlar per simboli»

Il termine simbolo ha vari significati (dal latino symbolus = segno di


riconoscimento; symbola = contributo in danaro per un banchetto; symbolum = il
credo del linguaggio della fede). Esistono anche differenze fra segno e simbolo,
anche se si riscontra sempre una certa correlazione fra i due termini. Il segno
è statico indicatore di riconoscimento e legame; il simbolo è dinamico perché
mostra esperienze di contraddizione e/o attività di riunificazione, cogliendone il
senso profondo.
Nel mondo antico, il problema del simbolo e della sua interpretazione è
collegato inscindibilmente al problema del mito e della sua ermeneutica. La
simbolica cristiana è un patrimonio di simboli (letterari, iconografici, gestuali)
in cui si condensano i significati e attraverso cui si esprime il senso profondo
dell’esperienza cristiana.
La moderna ricerca ha origine normativa, come reazione al razionalismo
illuministico; l’approccio al problema del simbolismo è diversificato, e si avvale
del contributo delle molte scienze della comunicazione. (LEVER F. - P. C. RIVOLTELLA
- A. ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, Leumann (Torino),
Elledici - Roma, Rai-ERI - Roma, LAS, 2002.) Il simbolo quindi è parola-chiave del
linguaggio religioso, espressione di linguaggio relazionale che interpella l’uomo
in prima persona. Nella storia delle religioni il simbolo è lo strumento che, per
la sua funzione di immagine rappresentativa della realtà, risulta adeguato ad

Capitolo 11 pag. 159/160


esprimere sensibilmente il non-visibile, cioè il divino. Storicamente, basti riferirsi
a questa tipologia progressiva:
– per le religioni primitive, che tendono a dare alle idee e valori religiosi una
visibilità concreta, il simbolo giunge quasi a identificarsi con la realtà;
– per le antiche religioni misteriche, la cui dottrina ha per oggetto una certa
realtà trascendente espressa con concetti astratti, il simbolo ha un significato
fondamentalmente reale; il rito di iniziazione, che congiunge l’uomo al dio,
avviene attraverso un atto sensibile che si realizza attraverso i sensi: il toccare
un oggetto ritenuto sacro, il porre un gesto, il fare una degustazione sacra... sono
modalità che mettono in relazione al «divino»;
– per le religioni evolute verso forme più spirituali, il simbolo perde il senso della
sua materialità, esprimendo, al di fuori degli schemi conoscitivi usuali, la realtà
dell’infinito. Rappresenta così, in modo non descrittivo ma evocativo, una realtà
misteriosa, inaccessibile all’analisi razionale;
– per la religione cristiana, il simbolo è un linguaggio totale: entra nella
professione di fede esigita per l’ammissione al battesimo e come segno di
riconoscimento dell’appartenenza alla comunità; rappresenta, nell’approccio
ai testi sacri, quella categoria essenziale senza la quale sarebbe impossibile
attribuire senso agli aspetti religiosi; favorisce l’approccio ai testi biblici per
comprenderne la ricchezza del messaggio come «narrazione» simbolica;
rende comprensibile il patrimonio artistico che nella scrittura e nei suoi simboli
espressivi ha avuto il suo repertorio iconografico fondamentale, il suo vocabolario
linguistico.
Per la moderna riflessione sul linguaggio, anche su quello specificamente
religioso, il simbolo acquisisce alcune caratteristiche che potrebbero essere così
riassunte:
– è un’immagine attraverso cui si esprime l’interiore con l’esteriore, l’astratto con il
concreto, l’infinito con il finito;
Capitolo 11 pag. 160/161
– è la suprema espressione della capacità immaginativa. A differenza
dell’allegoria, esso si apre sempre con un fondamento: l’idea, che trascende il
suo rivestimento concreto. I suoi caratteri sono: l’inesauribilità, l’istantaneità, la
totalità; non può mai essere decifrato e interpretato una volta per tutte;
– interessa soprattutto la sua funzione sociale, perché la esprime in unità
materiale, la rende cioè più percepibile a tutti. Il simbolo è un aspetto costitutivo
del fatto sociale non solo perché permette a un gruppo di prendere coscienza
di sé; ma anche perché nella riproduzione simbolica si assicura la continuità di
questa coscienza e della comunità che vi si identifica;
– costituisce il mezzo di comunicazione privilegiata dei sogni, il principale veicolo
attraverso cui l’inconscio comunica con il conscio;
– non è un’allegoria né un segno, ma un’immagine atta a designare nel modo
migliore possibile la natura, oscuramente intuita, dello spirito;
– non è un investimento accidentale del pensiero, riproduzione o copia
dell’essere; è una forma spirituale di espressione, un modo di comunicazione;
– è consustanziale all’essere umano. Precede il linguaggio e la ragione perché
rivela gli aspetti più profondi della realtà. È un modo autonomo di conoscenza.
Porta in sé la nostalgia delle origini. Il simbolo per eccellenza è il simbolo
religioso.
Esso trasmette le manifestazioni del sacro. Il simbolo rivela una realtà sacra e
cosmogonica che nessun’altra manifestazione è capace di rivelare (M.
Eliade).
Dal punto di vista della rivelazione biblica i simboli hanno il loro vertice proprio
in Cristo, il massimo simbolo possibile: egli infatti unisce in sé i due poli estremi
in dialogo (Dio il trascendente e l’Uomo storicizzato) e tutti i significati possibili
relativi al suo essere «uomo» e al suo essere contemporaneamente «figlio di
Dio».
Dal punto di vista didattico i simboli sono pregni di istanze psicologiche, etico-
Capitolo 11 pag. 161
sociali, culturali in senso lato, ma anche in senso molto profondo: aprono lo
spazio del vissuto alla conoscenza e alla ricerca, all’esplorazione dell’ignoto e
alla scoperta; rafforzano l’identità nella diversità, la stabilizzazione del carattere,
il senso di appartenenza a una determinata cultura; creano mondi fantastici e
inventano mondi possibili, alternativi a quelli della realtà sperimentata; saldano la
rete relazionale nel processo di socializzazione comunitaria.
Per questi motivi il linguaggio simbolico entra a pieno titolo nel panorama
pedagogico scolastico. Le attività didattiche (chiarificazione, decodificazione,
ricerca, interpretazione, confronto, organizzazione dei vissuti secondo i parametri
cognitivi, logico-formali, estetici, operativi ed etico-sociali della conoscenza) se
realizzate attraverso relazioni e connessioni significative e aperte, costituiscono
l’asse portante dello svilupparsi e dell’ampliarsi delle possibilità di comunicazione-
comprensione di ogni tipo di realtà, e rientrano a pieno titolo nell’opera di
intelligente mediazione didattica. Perché queste attività, se sono correttamente
interpretate, si centrano davvero sulla persona nella sua essenzialità, nella sua
interiorità, ossia nelle sue articolate dimensioni.
Il linguaggio simbolico quindi fa riferimento «a Dio che non si vede e non si
tocca». Perciò di lui si può parlare per allusioni e rinvii, facendo riferimento a
realtà che «si vedono e si toccano». È il concetto di «analogia». Il simbolo è
il tramite privilegiato per parlare di Dio, tant’è vero che in Matteo si legge che
«Gesù fuori delle parabole non diceva nulla» (13,34) e la parabola non è che un
simbolo narrato. (RAVASI G., nell’Introduzione a «Dizionario delle immagini e dei simboli»,
di M. LURKER, Milano, Edizioni Paoline, 1990.) La Bibbia stessa è piena di simboli, di
paragoni, di allegorie, di immagini poetiche, di metafore...
Diventa quindi decisivo per l’insegnante di religione ritornare alla forza dei
simboli, perché per la Bibbia, tutto è simbolo di Dio: le cose, gli animali, l’uomo:
– chi non conosce la simbologia non può sapere di teologia in modo completo,
perché essa è nient’altro che riflessione ermeneutica (interpretazione e
Capitolo 11 pag. 161/162
spiegazione) del linguaggio simbolico della rivelazione. Purtroppo, sia nei
Catechismi che nei Testi didattici della scuola non si è ancora data sufficiente
attenzione al peso determinante che il linguaggio figurato ha nel parlare biblico di
Dio;
– il Dio che emerge dalle pagine bibliche è un Dio rivolto all’uomo e alla sua
storia; un Dio che si esprime nel modo e nel linguaggio dell’uomo. Per cui la
Bibbia non solo è il fondamento rivelato della Religione Cattolica e del suo
insegnamento scolastico, ma è anche in certa misura un testo di aggiornata
metodologia: difende dalla smania di riempire le menti degli alunni con idee
astratte, incomprensibili ed evita il pericolo di avere ragazzi con teste piene di
contenuti più che con teste ben fatte; diventa un linguaggio adatto ai ragazzi di
oggi impregnati più di stimoli visivi che uditivi.
Allora la conclusione didattica potrebbe esprimersi in queste linee operative:
– comunicare è naturale. L’uomo nasce dialogico. Da sempre, il bambino brama
guardare tutto e tutti ed essere guardato da qualcuno;
– comunicare bene è da imparare. L’uomo impara a parlare da qualcuno che gli
parla; impara spontaneamente, anche senza averne coscienza;
– comunicare da professionisti è da studiare. Ogni scienza, ogni sapere ha un
suo linguaggio proprio: linguaggio che va studiato. Anche l’insegnante di religione
ha bisogno di professionalità; ed in questa prospettiva diventa importante la
conoscenza dei linguaggi religiosi nell’IRC.

1.2. Le caratteristiche della Parola rivelata

Il testo conciliare Dei Verbum evidenzia tre caratteristiche della «Parola di Dio»
che ogni comunicazione religiosa dovrebbe poter realizzare:
– la «Parola di Dio» ha una dimensione interpersonale (perché Dio è persona e
Capitolo 11 pag. 162
vuole parlare agli uomini come amici). La comunicazione del messaggio richiede
un procedimento che realizzi un «dialogo relazionale» che va da persona a
persona; che intenda la rivelazione di Dio come comunicazione tra persone; che
aiuti a interpretare la rivelazione come «parola» che rivela l’identità di Dio che
vuole parlare agli uomini come ad amici. Conseguenza: ogni comunicazione
della parola da Dio deve evitare ogni forma di comunicazione impersonale, ogni
messaggio anonimo;
– la «Parola di Dio» ha una dimensione storica (perché Dio è Spirito, ma vuole
parlare agli uomini, che sono spiriti incarnati nel tempo e nello spazio del mondo).
«Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente
connessi» (DV 2). Questa concreta comunicazione viene realizzata da Dio
attraverso la storia del popolo eletto e la presenza del Figlio di Dio nella storia
dell’umanità; nonché con l’esperienza (= storia personale) di ogni uomo,
esperienza come «storia da salvare». Conseguenza: ogni comunicazione della
parola di Dio deve rispettare il principio della concretezza storica: una persona
concreta in un ambiente preciso, in un tempo determinato, per evitare frasi fatte,
contesti astratti, linguaggi aerei ed anacronistici...;
– la «Parola di Dio» ha una dimensione dinamica (perché vita è dinamismo
di crescita verso la maturità). La rivelazione è parola continuamente detta, e
suppone il suo svelamento attraverso una provvida e progressiva gradualità
dentro la storia umana, mediante una sua traduzione culturale, un suo parlare
adattandosi alle persone. Il che si traduce in un rapporto personalizzato che porti
progressivamente l’uomo verso la sua piena maturità relazionale con Dio.
Conseguenza: il nostro insegnamento religioso rispetta le caratteristiche delle
persone in ogni età della loro vita...
Dalla dimensione interpersonale, storica, dinamica della Rivelazione consegue
un primo compito didattico: interpretare in modo coerente il messaggio
comunicato attraverso una linguaggio specifico che esprime relazionalità tra le
Capitolo 11 pag. 163
persone, si riferisce alla concretezza della esistenza umana, suscita una forza
dinamica che porta a trasformare la vita.

1.3. La sintonia comunicativa

Perché nella comunicazione ci sia sintonia tra chi «parla-comunica»


(insegnante) e chi «riceve-ascolta» (allievo) è necessaria una sintonia, che si
realizza a determinate condizioni:
– ci vuole una motivazione che sia comune sia al comunicatore (l’insegnante) che
al destinatario (l’allievo). Devono cioè essere motivati ad interagire tra loro, sulla
base di una reciproca stima e di un comune interesse per l’argomento trattato.
Quando si verifica questa condizione il comunicatore è attento sia alle condizioni
concrete in cui avviene il dialogo, sia alle attese dei destinatari.
Da parte loro, questi partecipano con creatività all’incontro tutte le volte che si
sentono accolti e rispettati, e riconoscono nel messaggio che viene loro offerto
una possibile risposta ai propri interrogativi;
– è necessaria una codificazione e decodificazione corretta. Il processo si realizza
se si usano gli stessi codici e se il ricevente dispone di tutte le informazioni
necessarie per la comprensione del messaggio. La comunicazione è tanto più
facile quanto più il codice è costituito da esperienze comuni;
– bisogna assicurare una parità di potere nel processo della comunicazione.
Quando ambedue i dialoganti sono garantiti da una adeguata elaborazione dei
significati, attraverso il confronto si fanno emergere gli errori e si svelano possibili
malintesi a livello di utilizzazione dei codici e a livello di metamessaggio.
Non si deve sottovalutare il fatto che la riconosciuta parità evita o riduce le
eventuali tensioni a livello di relazione;
– occorre far spazio al mistero del messaggio. Comunicatori e destinatari non
Capitolo 11 pag. 163/164
devono imporre una loro verità ma collaborano per giungere alla comprensione
di un messaggio più ricco di quanto non lo sia inteso dagli uni e dagli altri.

2. L’uso specifico delle categorie interpretative della religione

L’IRC deve trovare nelle forme espressive la sua pregnanza formativa, nell’uso
di un linguaggio che fa da orientatore dell’esistenza, capace di interpretare e
superare le esperienze del quotidiano, per collocarle nell’ambito più vasto dei
valori trascendenti.
È stato già sufficientemente chiarito che l’approccio simbolico è fondamentale
ai fini dell’intervento della scuola, in quanto rappresenta la chiave di lettura della
realtà religiosa come modalità strategica di intervento didattico.
Tale approccio richiede una particolare attenzione pedagogica e sensibilità
riferita alle età degli alunni ed ai cicli di scuola. Non si tratta di utilizzare in modo
adeguato i termini, ma di utilizzare il tipo di linguaggio che è più adatto a spiegare
fatti e fenomeni religiosi. L’uso corretto della parola è importante, in quanto, nella
misura in cui fa penetrare nella realtà, consente una rappresentazione, una
formalizzazione, e si afferma nella coscienza umana.
Oltre al linguaggio simbolico espresso nelle forme di segno e di significato, le
parole più specifiche del linguaggio tipicamente religioso sono anche il mito, il rito
di cui si offrono degli elementi interpretativi fondamentali.

2.1. Il «mito»

Mito è un termine sia filosofico che religioso, perché enuncia in forme


immaginative fantastiche alcune verità morali, storico-sociali, religiose. Nelle
Capitolo 11 pag. 164
varie espressioni culturali assume progressivamente significati quali il parlare, il
dire, il narrare, l’enunciare un progetto nativo della storia religiosa dell’umanità.
Sia nel mondo greco che in quello di altri popoli dell’antichità, il mito ha talora
anche valenze esistenziali e non solo teologiche, cioè centrate sulla divinità, in
quanto interessano l’uomo e il suo destino e narrano dell’origine del dolore e
della morte.
I miti possiedono due tratti distintivi: sono organizzati in una logica diversa
rispetto al linguaggio razionale perché contengono una profonda verità interna
alla persona; hanno poi delle conseguenze sulla strutturazione della cultura
religiosa di una società.
L’elaborazione scientifica del mito, come linguaggio simbolico religioso, lo
considera come concetto organizzatore caratterizzato da un aspetto narrativo
e da alcuni elementi di verità profonda. Queste verità, sempre presenti nel
mito, non sono certamente intese in senso storico, ma come verità vissute
che rappresentano la fonte di una particolare identità religiosa e culturale.
Perciò, nella sua interpretazione, il mito non è pura invenzione o favola, ma
è fondamentalmente una «storia » vera per il suo contenuto: è espresso nel
racconto di fatti realmente accaduti, a cominciare da quello delle origini della
vita e della morte, delle specie umane e vegetali, della caccia e dell’agricoltura,
del fuoco, dei riti iniziatici; di eventi lontani nel tempo, dai quali ebbe principio e
fondamento la vita presente e dai quali procede anche la struttura attuale della
società e tuttora ne dipende.
I personaggi divini o super-umani, attori del mito, le loro imprese straordinarie,
le loro singolari avventure rappresentano una realtà trascendente che non può
essere messa in dubbio in quanto antecedente e condizione dell’esistenza della
realtà attuale. Perciò esso si colloca come storia vera perché è «storia sacra»:
cioè verità intesa non in senso logico né storico, ma religioso, ossia verità che è
tale perché «rivelata».
Capitolo 11 pag. 164/165
Il mito narra una storia sacra e riferisce un avvenimento che ha avuto luogo
nel Tempo Primordiale, quello favoloso delle origini. Funziona da ponte fra
passato e futuro: esso è narrazione di un evento accaduto «alle origini», il cui
scopo è quello di fondare un evento analogo da inaugurare nel presente e che
si manifesta, in quanto «sporgenza sul futuro». Il mito dell’eterno ritorno che,
attraverso riti di rigenerazione, propone e accentua la ripetizione della creazione.
Con questo schema si vuole rappresentare il processo che l’uomo, tramite il
mito, realizza a livello di religiosità: il pensiero mitico, presente nella religiosità
dell’uomo di ogni cultura, viene appunto rappresentato con una freccia che parte
dall’uomo stesso; l’uomo proietta nell’aldilà una divinità (mito), e attraverso il rito
si sforza di avere potere su di essa per metterla al suo servizio.
Il pensiero religioso dell’uomo della Bibbia si può rappresentare, al contrario, con
una freccia che va in senso inverso: Dio interpella l’uomo attraverso la parola e la
rivelazione, e l’uomo risponde attraverso il rito, che diventa espressione di fede
gratuita e disinteressata.
Avolte si confonde e si assimila il mito ai generi letterari quali la leggenda,
la fiaba, la favola, la saga: non è un’interpretazione corretta, in quanto, pur
contenendo il mito elementi di ciascuno di essi, non se ne identifica.
Mentre il mito è portavoce di contenuti di verità coinvolgenti sul piano
esistenziale e religioso, non si può affermare altrettanto per i generi letterari
richiamati, che rappresentano ciascuno particolari aspetti.
Così, la leggenda è un racconto estrapolato dalla storia con aggiunta di elementi
fantastici, volti a idealizzare vicende o personaggi di un’epoca lontana, sovente
determinabile sul piano storico; la fiaba è un racconto fantastico senza intenzioni
edificanti perché i suoi personaggi sono sovente figure dalle capacità magiche
(fate, gnomi, maghe...); la favola è una fiaba il cui scopo è di mostrare la vittoria
delle forze del bene su quelle del male; la saga è analoga alla leggenda mentre
narra le vicende epiche di un popolo attraverso una lunga concatenazione di fatti;
Capitolo 11 pag. 165
è tipica delle culture nordiche.
In questi generi letterari si possono cogliere elementi frantumati di miti
precedenti i quali, una volta dissolto l’universo religioso di cui erano portanti,
sono sopravvissuti nelle tradizioni popolari e folkloristiche.
Il linguaggio mitologico ha anche applicazione nel contesto attuale. Le sue
moderne utilizzazioni hanno in comune con la sua funzione originaria il carattere
di coinvolgimento esistenziale ed emotivo; sono però prive di ogni referente
religioso.
Oggi assumono spessore mitologico anche esperienze umane come i miti
della libertà, del progresso, della razza, del socialismo, del pacifismo. Possono
presentarsi come fattori di conservazione sociale o come utopie volte a far
compiere un salto di qualità alla situazione politica e culturale del presente, ma
non sono certo valori mitologici radicati nell’esperienza religiosa dell’uomo.

2.2. Il rito

Il termine indica un complesso di norme che regolano le cerimonie di un


particolare culto religioso, anche se è collegato ad eventi non religiosi. I riti sono
sempre in rapporto con i miti religiosi o sociali che simboleggiano e mantengono
in vita, mentre questi sostengono, spiegano e giustificano il rito stesso.
Il rito richiede alcuni comportamenti visibili esteriormente e destinati a
coinvolgere più di una persona; si caratterizza per un insieme di norme che ne
regolano la sequenza procedurale, a cui i partecipanti debbono attenersi con
scrupolo; ha un carattere ripetitivo, costituito da segmenti la cui sequenza non è
soggetta a varianti.
Non esiste una religione senza riti in quanto alla teologia di riferimento subentra
la necessità di strutture liturgico-culturali che non hanno valore utilitario, ma
Capitolo 11 pag. 166
essenzialmente simbolico. L’insieme strutturale dei riti costituisce il culto.
E comunque c’è sempre un rapporto tra rito e mito: il rito religioso è un insieme
di azioni simboliche mediante le quali l’uomo coltiva i propri «dei» manifestando
in tal modo la sua sottomissione nei loro confronti.
La ripetitività del rito rimanda sovente a un mito: l’evento descritto dal mito viene
riutilizzato nei gesti e nelle parole che concorrono alla strutturazione del rito
stesso. Il mito dà vita e contenuto al rito. Ogni rito richiede una giustificazione
ideologica che ne esprima il quadro di riferimento e le finalità. Ad esempio, nella
religione cristiana il rito eucaristico non è comprensibile, da parte di un credente,
se non in relazione alla morte e alla risurrezione di Gesù Cristo: in questo evento
«mitico» risiede la sua validità teologica ed esistenziale.
Esistono riti positivi (con carattere commemorativo e propiziatorio) che si
possono distinguere in:
– riti manuali, nei quali il comportamento e l’uso degli oggetti sono finalizzati a
stabilire un rapporto tra mondo e meta-mondo; di essi fanno parte tutti i riti legati
al tempo (festa, consacrazione dell’anno...);
– riti sacrificali a carattere cruento, durante i quali viene versato sangue di animali
o di uomini e si stabiliscono così dei contatti con le divinità attraverso il fumo che
sale dal luogo sacrificale;
– riti di passaggio, consistenti in una serie di prove condivise e fissate dalla
tradizione alle quali viene sottoposto l’individuo, che gli permettono di passare da
uno status a un altro (matrimonio, cerimonie di iniziazione...).
Esistono anche riti negativi che si fondano essenzialmente sui divieti, sui tabù,
sulle azioni da compiere (digiuno quaresimale; togliersi le scarpe entrando in una
moschea...); e ci sono anche riti magici che si propongono di ottenere risultati
immediati e che contengono elementi ben differenziati dai riti religiosi, perché
fanno riferimento all’immanenza, alla manipolazione e al privato.
I riti sono riscontrabili anche nella vita quotidiana, con comportamenti
Capitolo 11 pag. 166/167
ripetitivi, quali le celebrazioni della nascita e della morte di persone importanti,
le commemorazioni di eventi fondamentali della storia (la liberazione, la
costituzione...); i passaggi di status (maggiore età, festa delle matricole, le
consuetudini dell’apparato burocratico, le buone maniere a tavola, le mode di
massa, gli atteggiamenti che contraddistinguono l’appartenenza a certi ceti...), i
quali si presentano semplicemente come aspetti legati alla vita quotidiana, privi
di ogni caratterizzazione religiosa.
I riti hanno forte capacità di coinvolgimento delle masse; sono momenti od
occasioni in cui la comunità ritrova la propria unità e identità. Il rito rappresenta
uno dei modi con cui una comunità si pone al riparo dall’angoscia, dall’incertezza
e dal timore di ciò che minaccia l’ordine della propria esistenza.
Tuttavia, quando i riti si manifestano come meccanismi di routine, cioè privi di
un contenuto di verità, perdono il motivo del loro stesso esistere. Al massimo,
per alcuni di essi, si può dire che sono osservati religiosamente, volendo
in ciò sottolineare la scrupolosità e la fedeltà al modello tradizionale che
presiede alla loro esecuzione: la tradizione, infatti, tende, per sua natura, a
fissare i comportamenti, a istituire liturgie. Quindi, poiché si manifestano come
meccanismi di azioni regolate da norme e fondate sulla ripetizione o sul ciclo,
vengono chiamati riti, seppur in modo improprio.

3. L’uso delle moderne categorie del linguaggio

La comunicazione avviene attraverso un linguaggio ed il linguaggio è soggetto


ad un logoramento oggi molto più accentuato che in passato.
Le parole che esprimono la realtà si trasformano e si logorano rapidamente fino
a non fornire più informazioni; in tal caso l’invecchiamento del codice linguistico
non offre più le chiavi della decodificazione.
Capitolo 11 pag. 167
Non pensiamo immediatamente ai linguaggi in senso didattico (che pure
necessitano di un arricchimento, in sintonia con l’espressività e la cultura della
comunicazione sociale, come il linguaggio dei gesti, delle immagini, del suono,
delle parole, della narrazione...). Ma sarà bene riflettere sui linguaggi che
scaturiscono proprio antropologicamente dalla cultura sociale entro cui pure
dobbiamo collocare la comunicazione del messaggio cristiano.

3.1. Il linguaggio delle relazioni interpersonali

Se la persona è «relazione»; se la rivelazione parla della comunicazione in Dio


(il mistero trinitario), della comunicazione su Dio (la storia della salvezza), della
comunicazione secondo Dio (la vita della chiesa nello spirito delle beatitudini),
il suo linguaggio non può che essere il linguaggio della comunicazione
interpersonale. Perciò didatticamente può risultare inefficace o poco
comunicativo quel linguaggio che racconti la verità rivelata in termini dottrinali o
dogmatici, o la presenti con un linguaggio filosofico o teologico.
Il linguaggio della relazione si esprime sempre in termini di incontro, di
comunione, di dialogo, di confronto, di accoglienza o rifiuto, di amore, di fedeltà o
infedeltà, di tiepidezza o generosità, di gratuità... che sono i tipici linguaggi biblici
della relazione. La comunicazione religiosa, in questo modo, deve far respirare
quell’atmosfera che mette l’allievo a proprio agio e che è tipica di chi si trova in
presenza di persone... che apprendono.
Il discorso vale quindi anche per la comunicazione religiosa scolastica. Senza
questo rapporto personalizzato ogni messaggio può apparire come estraneo alle
persone.

Capitolo 11 pag. 167/168


3.2. Il linguaggio della libertà

Se è vero che sia dal punto di vista psicologico (la crescita verso la propria
autonomia e indipendenza), che da un punto di vista culturale l’uomo di oggi vive
il culto della libertà, anche la verità rivelata non può essere espressa se non con i
termini della libertà.
Prima di tutto perché la risposta di fede richiesta all’uomo è fondamentalmente
libera e poi perché la comunicazione religiosa deve rispettare questa coscienza
acuta della libertà di cui l’uomo è profondamente geloso. Se l’uomo non tollera
di essere forzato, attraverso il linguaggio della libertà è necessario portarlo a
riflettere sul suo valore più profondo.
La comunicazione religiosa deve mostrare un linguaggio estremamente
rispettoso della libertà; per il credente stesso l’atto di fede è espressione
massima di libertà. Infatti più una risposta è di ordine spirituale, più esige di
essere scelta. E senza libertà non ci può essere scelta. Anche nella comunità
cristiana si deve respirare il clima maturativo della libertà, il cui linguaggio
favorisce la crescita di autonomia contro il conformismo e l’infantilismo.

3.3. Il linguaggio della creatività

Se c’è una parola che meglio esprime la mentalità dell’uomo moderno è quella
di essere costruttore di se stesso. Da un punto di vista psicologico l’uomo vive
l’esperienza dell’autonomia in cui individua i termini del proprio futuro...
Per rispondere a questa dinamica esistenziale, la comunicazione religiosa non
può usare il linguaggio del dogmatismo e della tradizione fissata storicamente,
salvo a recuperarla successivamente come momento di confronto culturale
(scuola) e di dimensione di fede personale. Del resto la creatività si riscontra nel
Capitolo 11 pag. 168
mistero di Dio: la creazione, l’incarnazione, la comunità cristiana.
È chiaro che la creatività non può ridursi a forme di riduzione e di spontaneismo,
ma è necessario non limitarla a compiti solo terreni, per essere aperti anche ai
possibili doni della trascendenza rivelata. In questo modo il linguaggio religioso
globale diventa veicolo di un messaggio che è capace di umanizzare l’universo e
di liberare l’uomo da tutte le sue schiavitù e alienazioni.

3.4. Il linguaggio della solidarietà e della partecipazione

L’uomo oggi viaggia su una direttrice planetaria e impara a proprie spese che
non può risolvere i problemi culturali, economici, tecnici... individualisticamente:
gruppi, sindacati, partiti, organismi nazionali ed internazionali... Il mondo oggi
avverte fortemente il bisogno della solidarietà.
Non ci può essere solidarietà nella folla anonima e l’uomo ne ha una acuta
coscienza personale. La solidarietà è assente da tutto ciò che ostacola la
personalità del singolo.
La solidarietà umana e cristiana è il frutto di una coscienza libera e responsabile.
La vera solidarietà per il cristiano è la carità. La solidarietà (= alleanza tra Dio e
l’uomo) è la molla di tutta la storia della salvezza.
A proposito della solidarietà si deve dire la stessa cosa che si è detta del
linguaggio della partecipazione: la conseguenza dell’essere insieme è parte di
una comunità.
Ogni insegnamento deve appropriarsi di questo linguaggio, perché mira a fare
vere esperienze di comunità (classe, gruppo), consolidandosi dal basso, nella
serena coscienza che ogni membro attivo di un gruppo deve portare il suo
contributo.

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3.5. Il linguaggio del futuro e della speranza

L’uomo moderno appare sempre più come «progetto»; è rivolto verso il futuro,
rifiuta una tradizione concepita come riproduzione o copia del passato. Proposta
che provoca subito l’atteggiamento della chiusura e del rifiuto di ogni offerta che
appare stantia e quindi poco appetibile.
D’altra parte la verità cristiana non è dietro al credente... ma in lui e avanti a lui.
La Bibbia non narra belle storie del passato, ma impegna in un processo di
interpretazione e di attualizzazione del messaggio salvifico.
Il linguaggio della comunicazione religiosa non può che essere un linguaggio
molto concreto e umano, fortemente radicato nella vita ma rivolto alla ricerca
di quei valori che avanzano all’orizzonte, ma di cui non si ha ancora il pieno
possesso.
Ogni insegnamento religioso si fa, in questo modo, proposta da verificare,
ricerca che conquista, scoperta che rinforza; il suo modello si confronta con i veri
modelli senza fissismi e senza conformismi: la sua verità si fa ricerca di valori
che rispondono ai bisogni autentici ed ai desideri più duraturi.

3.6. Il linguaggio dell’esperienza

La cultura del nostro tempo vede l’uomo sempre più attestato sui valori concreti
dei fatti e dell’esperienza umana. Quante volte si sente dire: più fatti, meno
parole. Ma la vera esperienza umana totale dice relazione ai diversi livelli, per
non imprigionarsi in allenamenti da piccolo cabotaggio. Dice relazione agli
altri per arricchirsi di una varietà di esperienze; dice relazione all’universo per
sentirsi dentro il respiro del mondo; propone relazione a Dio per dare uno sbocco
Capitolo 11 pag. 169
di liberazione ai limiti spesso insuperabili della ristrettezza della vita dentro il
ristretto limite storico.
L’insegnamento religioso (e quello di fede) non può prescindere da questa
esperienza umana globale, anche perché la vita cristiana è soprattutto
esperienza di testimonianza. E la testimonianza è la rivelazione di una
esperienza. II linguaggio dell’esperienza è allora il linguaggio del quotidiano, del
concreto, del limitato, eppure linguaggio capace di dare uno sbocco alla vita oltre
il quotidiano, oltre il concreto, oltre il limitato.
In conclusione, si deve affermare che il messaggio rivelato, pur essendo
trascendente perché dono gratuito di Dio all’uomo, viene comunicato attraverso
un linguaggio che può essere comprensibile. Perciò nella comunicazione
religiosa, se il linguaggio non si colloca nel piano della sintonia tra chi trasmette
(Dio, Educatore) e chi riceve (l’uomo, l’allievo), il suo messaggio non è veicolato
e quindi non può essere recepito. Il messaggio salvifico deve incarnarsi nel
tempo. Solo incarnandosi in esso salva l’uomo. Ed il linguaggio ne diventa una
mediazione essenziale.

Bibliografia essenziale

BETZ A. (1991), I simboli per comunicare l’esperienza e la fede, Milano, Ed.


Paoline.
GEORGES J. (1994), Il linguaggio dei segni. La scrittura e il suo doppio, Parigi, Ed.
Italiana by Electa-Gallimard.
GRUN A. (1998), I rituali della vita. Vie per trovare sicurezza e gioia, Brescia,
Queriniana.
La Prima Bibbia (1998), Testo ufficiale CEI, Guida didattica illustrata. Atlante
storico-geografico. La Bibbia nell’arte e nella cultura... nella letteratura e nel
Capitolo 11 pag. 170
linguaggio. La Bibbia nella vita cristiana. Vocabolario biblico, Cinisello B.
(Mi), San Paolo.
LASCONI T. (ed.) (1990), L’arte di comunicare. I linguaggi della catechesi, Roma,
Paoline.
MCKAY M. et al. (1998), Messaggi. Tutte le abilità della comunicazione, Bologna,
Calderoni.
MONACA I. e G. (1994), Alla scoperta dei segni religiosi, Leumann (Torino),
Elledici.
RUTA G. (ed.) (1999), L’Insegnamento della religione cattolica nel mondo dei
simboli. Attualità, fondamenti e sviluppi, Messina, Coop. S. Tommaso.

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CAPITOLO 12

IRC E CONFRONTO CON LE RELIGIONI


Cyril De Souza

L’insegnamento della religione, come disciplina scolastica, è una realtà


acquisita nelle scuole statali d’ogni ordine e grado, dopo l’Accordo di Revisione
del Concordato tra Stato Italiano e Santa Sede del 1984, nel quale tale
insegnamento è legittimato «nel quadro delle finalità della scuola» e connotato
come «cattolico». Tale insegnamento ha assunto l’identità di disciplina scolastica
a tutti gli effetti, non soltanto in Italia, ma anche in alcuni paesi europei, anche
se con caratteristiche e modalità diverse secondo il contesto storico, culturale
e politico di ciascun paese (Pajer, 1987, 349). Ciò risulta chiaro dalla stessa
denominazione con cui tale insegnamento è indicato nelle diverse lingue
europee: Religious Education (in inglese), Religionsunterricht (in tedesco),
Enseñanza Religiosa (in spagnolo), Enseignement Religieux (in francese),
Schoolkatechese (in olandese), Ensino Religioso (in portoghese), Insegnamento
della Religione Cattolica (in italiano = IRC).
In Italia, l’IRC, pur qualificandosi come confessionale, diversamente da altri
paesi, è trattato a scuola come oggetto culturale e non come oggetto catechistico
di cui l’alunno dovrebbe fare esperienza diretta; la religione cattolica rappresenta
per l’Italia un rilevante patrimonio culturale le cui tracce sono ancor oggi presenti
in diversi settori (storia, arte, letteratura, musica...), per questo l’istituzione

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scolastica non può ignorarla se non vuole ignorare con essa la sua stessa storia
culturale oltre che religiosa; l’IRC entra, pertanto, nella scuola, in un’ottica e
con gli strumenti propri della ricerca culturale. In questo senso lo studio della
Religione, come quello delle altre discipline rappresenta una chiave di lettura
«utile per interpretare la realtà storico-culturale in cui gli alunni si trovano a
vivere» (Programmi, 1987, I, 2). L’IRC configurandosi come un insegnamento
che fa proprie le finalità della scuola, persegue gli obiettivi formativi propri di tale
agenzia educativa e comuni a tutte le discipline, di conseguenza è proposto a
tutti gli alunni, perché offre un contributo specifico allo sviluppo della persona,
prescindendo dall’appartenenza religiosa.
Lo scopo di questo contributo è di esaminare come l’IRC possa rapportarsi alle
nuove sfide della società moderna, caratterizzata sempre più da un pluralismo
religioso e in che modo tale insegnamento possa liberarsi da una limitante
concezione disciplinare attestata sull’oggettività confessionale, per adattarsi alla
nuova situazione soggettiva degli alunni e della scuola.
In questa prospettiva sono analizzati alcuni aspetti particolari dell’IRC, i suoi
contenuti e gli itinerari didattici che sappiano aiutare i ragazzi ad acquisire le
conoscenze, le competenze e gli atteggiamenti per relazionarsi, in maniera
corretta, con chi professa religioni diverse.

1. Alcune premesse

Prima di entrare nello specifico della tematica è bene precisare alcuni punti per
caratterizzare meglio il ruolo dell’insegnamento dell’IRC nella scuola d’oggi.

Capitolo 12 pag. 171/172


1.1. I cambiamenti nella scuola e nella società

• La scuola, come tutta la società, ha subito negli ultimi decenni continue e


significative trasformazioni che hanno interessato non solo gli aspetti giuridici
o istituzionali (passaggio da un sistema scolastico centralizzato ad un sistema
reticolare d’autonomie), ma soprattutto gli aspetti socio-culturali che hanno
cambiato il volto della scuola, non più caratterizzata come monoculturale bensì
come scuola multiculturale e multireligiosa. L’IRC va quindi collocato, nell’ambito
di questo cambiamento culturale che trasforma la scuola in un organismo
educativo d’istruzione e di formazione più complesso, e va quindi ripensato a
livello concettuale, nelle sue finalità, nella sua metodologia e anche nei suoi
contenuti.
• Recenti riforme hanno reso il sistema scolastico più flessibile e aperto
all’incontro con le molteplici realtà presenti nel territorio, superando quello
tradizionale, caratterizzato da una certa rigidità e chiusura in se stesso; per
l’IRC è un’opportunità per dilatare l’unica ora settimanale collaborando con altri
soggetti educativi.
• Il fenomeno della secolarizzazione e il rapido sviluppo tecnologico hanno
affievolito se non, a volte, accantonato del tutto l’interesse per il fatto religioso,
con la conseguenza che, data l’opzionalità dell’IRC fissata dal Concordato,
diversi giovani decidono di non avvalersi dell’ora di religione (fenomeno che
si riscontra per lo più nelle scuole superiori delle grandi città). L’influsso dei
coetanei e la cultura contemporanea dell’effimero sorretta da un’aggressività
pubblicitaria e mediatica hanno certamente una rilevanza in una scelta del
genere.

Capitolo 12 pag. 172


1.2. La caratteristica dell’IRC

L’IRC è fondamentalmente una disciplina scolastica, perciò deve rispondere a


criteri di sistematicità e di rigore, come tutte le altre discipline, sia nella fase di
programmazione sia di sviluppo dei contenuti e di verifica; deve inoltre essere
aperto alla cultura e agli altri saperi, pur restandone libero, perché nel trasmettere
il messaggio cristiano l’IRC ha la sua originalità, perché presenta il Vangelo non
come verità da credere ma in un processo personale d’interpretazione e di critica
della cultura stessa (DGC n. 73).
È proprio nel contesto culturale della scuola che gli alunni hanno la possibilità di
interiorizzare le conoscenze apprese nelle altre materie e confrontarle con i valori
religiosi proposti dall’insegnante di religione, così da «raggiungere realmente gli
altri elementi del sapere e dell’educazione, in modo che il Vangelo penetri nella
mente degli alunni sul terreno della loro formazione e l’armonizzazione della loro
cultura sia fatta alla luce della fede» (CT n. 69).
La dimensione pedagogica dell’IRC deve favorire la maturazione della
personalità dell’alunno, la valorizzazione dell’esperienza personale, sociale,
culturale, come punto di partenza per l’acquisizione dei criteri fondanti l’identità
cristiana e come elemento di confronto con le altre religioni, da cui far emergere
interrogativi che promuovano atteggiamenti d’apertura e dialogo.

1.3. Quale educazione religiosa

Il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni e per evitare
che si giunga a degli scontri, come purtroppo la storia anche recente ci insegna,
occorre promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso. È questa
la sfida che interpella anche la scuola e l’insegnamento della religione.
Capitolo 12 pag. 172/173
Di qui l’interrogativo: quale educazione religiosa promuovere dove vige il
pluralismo culturale e religioso? L’IRC nella scuola di tutti è il luogo dove è
possibile realizzare in concreto il dialogo e l’incontro tra la proposta cristiana,
definita nella sua specificità cattolica, e la ricerca della verità, della visione del
mondo, della vita, dell’uomo presente nelle altre religioni.
I programmi di religione cattolica facevano già intravedere delle aperture
verso forme di religiosità diverse affermando che «nel processo didattico gli
alunni saranno avviati a maturare capacità di confronto tra il cattolicesimo, le
altre confessioni cristiane, le altre religioni ed i vari sistemi di significato, a
comprendere e rispettare le diverse posizioni che le persone assumono in
materia etica e religiosa » (Programmi, 1987, III, 3).
L’esigenza di un confronto e di un dialogo costante tra cristianesimo ed altre
religioni è esplicitata chiaramente anche negli ultimi documenti della Conferenza
Episcopale Italiana, elaborati per i nuovi programmi, e non si limita solo alla
trattazione di alcune tematiche o unità didattiche, ma l’attenzione interculturale e
interreligiosa è presente in tutto il percorso contenutistico.
Certamente in un contesto pluralistico, dove convivono culture e religioni diverse,
non si può insistere su un’educazione monoculturale che ha come scopo la
conoscenza e l’approfondimento di una sola cultura o di una sola religione senza
prendere in considerazione la presenza dell’«altro», del «diverso». Sarebbe
antieducativo imporre una cultura, o una religione a tutti, specialmente quando
in una classe sono presenti alunni d’altre culture e religioni, anche se l’IRC si
riferisce alla religione e alla cultura della maggioranza.
Non è pensabile neppure un’educazione pluriculturale poiché questa strategia
didattica che consiste in un semplice accostamento delle culture, corre il rischio
di trasformarsi in una pedagogia a-culturale, praticamente neutra e dal punto di
vista pedagogico inefficace a superare le diversità; tale educazione sostenendo
la legittima autonomia e irrepetibilità di ciascuna cultura, favorisce l’intolleranza e
Capitolo 12 pag. 173
il fanatismo religioso.
È anche da escludere un’educazione transculturale, un insegnamento in altre
parole della religione che fonda la sua pedagogia sugli elementi e sui valori
perenni comuni a tutte le religioni. Un’educazione siffatta porta ad ignorare le
differenze, le particolarità e i contributi di ogni specifica religione, sfociando nel
sincretismo religioso.
L’IRC nella scuola deve favorire, invece, un’educazione interculturale, capace
di aprirsi e confrontarsi con le altre religioni. La pedagogia interculturale pone
infatti al centro della sua attenzione educativa tre atteggiamenti fondamentali:
l’accettazione, l’accoglienza e la convivenza pacifica e democratica.
L’educazione interculturale facilita anche il dialogo interreligioso che ha come
finalità la conoscenza della propria religione e delle altre fedi, lo sviluppo di
un atteggiamento positivo nei confronti di altre persone, riconoscendo ciò che
hanno in comune, rispettando il diritto di avere idee diverse ed apprezzando
la ricchezza che la pluralità delle religioni apporta alla società. Un IRC in
dimensione interreligiosa non implica la rinuncia all’identità cattolica, anzi
deve partire da essa, perché i ragazzi, attraverso un cammino di conoscenza
e scoperta imparino a conoscere e ad apprezzare sia le differenze sia i valori
comuni delle altre religioni.

2. I compiti dell’IRC per un confronto con le altre religioni

L’IRC nella scuola di tutti ha soprattutto il compito di suscitare e favorire


atteggiamenti che promuovano un clima di reciproca accoglienza per preparare
i giovani a vivere nella società, in armonia con tutti gli altri uomini, favorendo il
superamento di ogni forma di intolleranza e di fanatismo culturale e religioso.
In un tempo in cui persone di diverse religioni si incontrano e interagiscono
Capitolo 12 pag. 173/174
quotidianamente, più che in qualunque altro periodo della storia umana, si
avverte l’urgenza di iniziare i giovani cristiani alla conoscenza delle altre religioni,
spronandoli ad una riflessione approfondita sul cristianesimo (Camminare
Insieme, 1999, p. 5).
Compito dell’insegnante di religione, di fronte a questo nuovo scenario, è quello
di fare scelte didattiche e metodologiche che attivino le interrelazioni tra persone
di altre religioni e culture, in modo tale che gli alunni siano in grado di recepire i
propri modelli culturali e religiosi né come gli unici né come i più validi in assoluto.
La riflessione ecclesiale post-conciliare fa esplicito riferimento al pluralismo
religioso presente nella società, considerando la diversità come ricchezza e non
come un limite. Perciò la Chiesa auspica che alle nuove giovani generazioni
sia offerta un’educazione capace di dare conoscenze adeguate per vivere in
armonia questa diversità.
Già il Concilio Vaticano II aveva avviato un rapporto con i seguaci delle altre
religioni, non soltanto per una convivenza pacifica ma soprattutto per sviluppare
rapporti religiosi ed esistenziali attraverso un dialogo interreligioso. Il papa
Paolo VI, nella sua enciclica Ecclesiam Suam (1964), ha espresso in modo
chiaro le linee per attuare tale «dialogo», come un cammino che la Chiesa deve
percorrere (ES n. 60). Cerchiamo di elencare alcune di queste linee.

2.1. Riconoscere le differenze

La scuola ha come finalità educativa quella di formare delle personalità mature,


capaci di scelte libere, sia a livello personale sia sociale, al fine di essere un
domani artefici di una società migliore. Riconoscere l’altro nella sua diversità
è un primo passo perché tale obiettivo si realizzi, perché accettare la diversità
comporta il superamento del proprio punto di vista e la capacità di confrontarsi
Capitolo 12 pag. 174/175
con le differenze; mentre osserviamo la diversità altrui, allo stesso tempo
comprendiamo meglio chi siamo, la nostra cultura intesa come patrimonio vitale
del gruppo di appartenenza, che vive in un determinato territorio e in un periodo
storico definito; favorire un interscambio e un’interazione tra le diversità culturali
e religiose è un cammino verso la tolleranza religiosa e culturale.

2.2. Scoprire i valori delle religioni

Il confronto con altre religioni, specialmente con quella ebraica, da cui trae
origine il Cristianesimo, sollecita gli allievi a scoprire i valori umani e religiosi
presenti in esse e ad approfondire le conoscenze per poterne considerare
l’importanza che anch’essi hanno avuto e hanno per l’uomo e per la società.
Sarebbe auspicabile quindi che nella scuola si approfondisse di più lo studio
della Bibbia come testo sacro comune a ebrei e cristiani.

2.3. Conoscere le varie religioni

Uno studio approfondito delle varie religioni favorisce negli allievi non solo la
maturazione di atteggiamenti di rispetto, perché scoprono valori umani, religiosi,
spirituali e morali significativi per tutti, ma anche la consapevolezza che è insito
nell’uomo il bisogno di Dio. La narrazione della vita dei fondatori e di quella di
alcune personalità rilevanti che hanno vissuto i valori religiosi con coerenza e
fedeltà, fa comprendere il valore della testimonianza presso i seguaci di tutte le
religioni.

Capitolo 12 pag. 175


2.4. Scoprire l’etica nelle religioni

L’IRC in dimensione interreligiosa ha la possibilità di mettere in evidenza


i principi etici e i valori morali su cui si fondano altre religioni, così da far
comprendere come alcuni elementi siano comuni a tutte credenze. Ogni fedele
di ogni religione può essere testimone di questa realtà ed insieme, contribuire a
migliorare la qualità della vita in una società pluralista.

2.5. Suscitare lo spirito ecumenico

La finalità educativa prioritaria dell’IRC, in una società caratterizzata dal


pluralismo culturale e religioso è quella di assicurare un futuro pacifico ed
armonioso che si può raggiungere solo con un’apertura autentica verso le
altre religioni, facendo scoprire che, anche se in modi diversi, tutte hanno a
fondamento valori comuni.
Su questi valori è possibile costruire una grande famiglia che ha come Padre
comune Dio, suscitando nei ragazzi uno spirito ecumenico e offrendo occasioni
per un dialogo interreligioso capace di suscitare azioni di riconciliazione e di
pace.

2.6. Importanza delle esperienze vissute

Per facilitare un’educazione interreligiosa costruttiva ed efficace è necessario


partire da esperienze vissute. Ogni volta che due persone, due civiltà o due
religioni si incontrano e si confrontano, il risultato è sempre di reciproco
arricchimento.
Capitolo 12 pag. 175/176
L’alunno cattolico può ricevere molto dal compagno di diversa fede e viceversa.
L’insegnante di religione deve impegnarsi perché ciò avvenga, sensibilizzando
gli alunni a conoscere e comprendere le differenze etniche e culturali, a superare
i problemi legati al pluralismo religioso, in modo tale da eliminare pregiudizi
e intolleranze, discriminazioni razziali e religiose, creando atteggiamenti di
tolleranza e mutuo rispetto.
Per attuare tutto ciò è necessaria una didattica dell’IRC che favorisca nei ragazzi
la condivisione esistenziale dell’esperienza di ogni religione, pur mantenendo,
ciascuno, l’identità di appartenenza, oltrepassando la semplice conoscenza
storica e dottrinale delle religioni. Nella scuola superiore è importante orientare
l’alunno verso un confronto tra il cattolicesimo, le altre confessioni cristiane,
le altre religioni ed altri sistemi di significato perché sia in grado di fare scelte
consapevoli; la scuola deve offrire ai ragazzi gli strumenti didattici per attuare
tale confronto e per far sì che un’adeguata conoscenza aiuti a superare luoghi
comuni, guardando più a ciò che unisce che a ciò che divide, invitando alla
collaborazione nel rispetto dell’identità di ciascuna religione d’appartenenza,
evitando ogni forma di sincretismo.
La formazione al dialogo implica due aspetti: la trasmissione di conoscenze
fondamentali e lo sviluppo di diverse abilità per poter entrare in dialogo. L’IRC
dovrebbe fornire sia le acquisizioni intellettuali (il contenuto dell’IRC) come pure
le capacità operative (le abilità dell’IRC) per il confronto con le diverse religioni.

3. Il contenuto dell’IRC e il confronto con le religioni

L’IRC è il luogo dove si promuove la ricerca della verità mediante il dialogo sui
significati, sulle fonti, sul vissuto della religione cattolica in rapporto alle altre
confessioni e religioni. Nel delineare i contenuti dell’IRC nella scuola è opportuno
Capitolo 12 pag. 176
ricordare che tale insegnamento si situa in una scuola laica; pertanto essi vanno
selezionati in modo che permettano l’incontro con i punti salienti ed essenziali
del cristianesimo tenendo anche presenti i sistemi di valore presenti nell’attuale
società pluralista. Sul piano dei contenuti e su quello delle finalità, l’IRC
scolastico non è identificabile con la catechesi ecclesiale perché pur essendo un
insegnamento confessionale non ha come fine l’adesione alla fede. Caratteristica
di tali contenuti deve essere l’essenzialità e la significatività, elementi validi
anche per le altre religioni.
Più che parlare di contenuti in termini di conoscenze teoriche o dottrinali, è
opportuno parlare di contenuto in termini operativi esistenziali. L’IRC aperto alle
altre confessioni religiose deve tendere alla formazione di atteggiamenti, capaci
di rispettare il diverso e di sviluppare relazioni positive con esso. In questo senso,
il contenuto dell’IRC è operativo e educativo, poiché si aiutano gli alunni a vivere
con i seguaci di altre religioni, sapendosi confrontare con le dottrine religiose
diverse dalla religione cattolica.
Tutti gli interventi educativi, nella scuola, sono mirati ad educare gli alunni
ad una convivenza democratica, dove l’uguaglianza dei diritti non conosce la
diversità.
Perciò, l’insegnante di religione è chiamato a garantire agli alunni l’acquisizione
delle conoscenze sul patrimonio cristiano cattolico, ad aiutarli a comprendere le
radici bibliche della religione cattolica, le sue dimensioni antropologiche ed etiche,
per trovare i punti comuni con le altre religioni affinché si realizzi un processo
di integrazione in un contesto plurireligioso, evitando così qualsiasi forma di
fanatismo e di intolleranza.
Gli orientamenti presentati nel Concilio Vaticano II indicano gli elementi basilari
per descrivere il profilo del cristiano nel mondo contemporaneo. Alcune di queste
linee guida che devono accompagnare il credente cristiano a vivere nella società
pluralista culturale e religiosa sono presenti in due documenti conciliari: Gaudium
Capitolo 12 pag. 176/177
et spes e Nostra aetate come in altri simili del post-concilio.

3.1. Storia delle religioni

«La storia delle religioni è (...) uno degli aspetti più ricchi d’insegnamenti, e più
avvincenti, sotto cui si presenta la storia stessa della società» (Donini, 1991,
p. 12). Proprio per questo, in un momento storico contrassegnato da una certa
sacralità diffusa (culti di derivazione orientale, movimenti) e dal pluralismo
religioso, la scuola deve farsi carico di un’alfabetizzazione religiosa necessaria
per comprendere i processi culturali di altri popoli.
Attraverso un approccio metodologico e contenutistico alla storia delle religioni,
infatti, gli alunni possono scoprire come l’uomo da una situazione esistenziale
vicina all’animalità (fase pre-religiosa), sia passato con gradualità a quella del
«totemismo», e successivamente a quella della magia, momento questo, in cui
si può intravedere il germe di una prima forma di religione. Solo più tardi con il
senso della colpa e della grazia, ed il bisogno di essere protetto da un essere
superiore, nasce il concetto del Dio personale.
La conoscenza della storia delle religioni evidenzia che al centro di questa storia
c’è l’uomo in ricerca di Qualcuno – in senso letterale – fuori di questo mondo,
con doti superiori. A questo Altro ed in suo onore celebra riti, lo rappresenta
con simboli, lo adora con gesti, posture ed azioni, per esprimergli i sentimenti
più profondi. Lo studio del fatto religioso fin dalle origini, affonda, quindi, le sue
radici in un desiderio profondamente umano, antropologico e questo aiuterà a
riconoscere che simili sentimenti sono all’origine di tutte religioni.

Capitolo 12 pag. 177


3.2. La dottrina teologica e i precetti morali

Il confronto con le altre religioni rende inoltre consapevole l’alunno che molti dei
precetti morali e degli elementi dottrinali presenti in altre religioni non differiscono
molto da quanto la religione cattolica propone. Secondo il Vaticano II, la Chiesa
è chiamata a considerare con sincero rispetto quello che i fedeli di altre religioni
credono e praticano, nonostante questa diversità morale e dottrinale (NA n. 2).
I fedeli di tutte le religioni, nonostante le diversità dottrinali, si trovano ad
affrontare gli stessi problemi e le sfide che il mondo pone a tutti gli uomini
(povertà, razzismo, inquinamento ambientale, materialismo, guerre e
proliferazioni delle armi...). Questa considerazione fa comprendere come
una didattica dell’IRC in dimensione interreligiosa, attraverso un approccio
antropologico, possa riunire gli alunni su tematiche comuni di ordine etico,
ecologico, sociale. Le risposte delle religioni su questi temi possono essere
diverse, ma non opposte, e di conseguenza non offrono motivo di controversia e
dissenso.
La realtà multireligiosa della società non deve pertanto spaventare anche
se deve essere considerata adeguatamente per evitare che alcuni cristiani,
più di nome che di fatto, possano cadere in una sorta di ingenua confusione
relativistica o sincretistica, o abbandonare il desiderio di condividere la fede
cristiana con gli altri.

3.3. Lavorare per un mondo migliore

Il mondo sta diventando sempre più una realtà difficile e differenziata. I problemi
che affliggono il mondo sono talmente complessi che da soli non si è in grado di
risolverli. C’è quindi bisogno di una collaborazione interreligiosa per unire forze
Capitolo 12 pag. 177/178
diverse che lavorano però per lo stesso fine, avendo in comune gli stessi ideali.
L’intento dell’IRC, anche se il tempo a disposizione è poco, è quello di aiutare
i ragazzi ad aprirsi alle altre confessioni religiose, senza per questo rinunciare
o compromettere l’essenza della propria fede, per stabilire con altri credenti
un rapporto di comprensione, solidarietà e di accoglienza perché già ora sono
i loro vicini di casa (Camminare Insieme, 1999, p. 10). Aquesto riguardo, la
dottrina e la tradizione della Chiesa hanno espresso la loro posizione, in maniera
propositiva.
Gli ideali che caratterizzano tutte le religioni rappresentano una base comune
per unire le forze al fine di creare un mondo più giusto dove la convivenza civile
possa essere assicurata a tutti gli uomini.

4. Le abilità da sviluppare nell’IRC

Di fronte ad un panorama sociale così articolato quale abilità privilegiare per


favorire la maturazione di un’educazione interreligiosa? Nei contenuti stessi della
disciplina possiamo trovare la risposta, perché la proposta cristiana, anche se
fatta in ambito laico, è in fondo nell’ordine dell’operatività, della testimonianza.
Un attento progetto educativo, anche a carattere interdisciplinare, diretto
propriamente a maturare atteggiamenti per una convivenza civile, aiuterà i
ragazzi ad acquisire adeguate competenze ed abilità.

4.1. Superamento dei pregiudizi

La collaborazione tra le diverse religioni deve fondarsi sul rifiuto di ogni forma
di fanatismo e dei reciproci antagonismi che conducono solo alla violenza,
Capitolo 12 pag. 178
allontanando di conseguenza da atteggiamenti religiosi.
Il primo passo da compiere è il superamento dei pregiudizi che si nutrono
inconsapevolmente, verso le altre religioni e verso coloro che le professano. Le
origini di questi pregiudizi sono diverse: i commenti che si sentono in famiglia, nel
gruppo di coetanei, a scuola, nei mezzi sociali, qualche volta anche tra gli stessi
fedeli...
I pregiudizi sono assimilati senza una proposta formale, in modo del tutto
irrazionale e soprattutto si fondano sull’ignoranza, intesa come non conoscenza
delle altre religioni. Questo rende il confronto con le altre religioni problematico e
l’educazione verso le altre religioni abbastanza ardua.
Ogni alunno, per maturare capacità per un dialogo interreligioso o
semplicemente per stare insieme con amici di altre religioni, deve prima di
tutto liberare la propria mente da ogni forma di pregiudizio. La motivazione più
forte per abbandonare qualsiasi pregiudizio è far comprendere che le varie
religioni sono espressioni viventi dell’anima dei popoli e ognuna di esse è la
testimonianza che da migliaia di anni l’uomo è alla ricerca di Dio.
Queste abilità richiedono tre successivi passaggi per orientare i ragazzi
all’acquisizione di atteggiamenti positivi.
• Il primo consiste nel far prendere coscienza dei propri pregiudizi. Solo un attento
esame dei nostri sentimenti riguardo alle altre religioni può aiutare a definire il
nostro atteggiamento verso di loro.
• Il secondo consiste nel promuovere un desiderio sincero e decisivo di non
nutrire tali sentimenti negativi verso le religioni. Dobbiamo trovare nella nostra
religione stessa le motivazioni per fare questo passaggio; ricordare che
l’insegnamento di Gesù chiama ad amare tutti come fratelli, perché abbiamo Dio
come il nostro unico Padre.
• Il terzo, infine, consiste nel sostituire i pregiudizi con atteggiamenti di profondo
rispetto sia per la religione sia per chi la professa. Questo rispetto deve essere
Capitolo 12 pag. 179
tale da sviluppare una relazione interpersonale e stabilire vincoli di amicizia
onesta e sincera con chi ha una fede diversa: il desiderio di imparare l’arte del
dialogo interreligioso è già un’abilità significativa per realizzarlo.

4.2. L’interesse per l’altro

La pedagogia religiosa deve favorire l’apprendimento interculturale e


interreligioso, e la comprensione di altre religioni e culture, in modo tale che la
conoscenza oggettiva diventi la base per un confronto serio con le altre religioni
(Ziebertz-Leimgrüber, 2000, 253-264). Gli alunni quotidianamente si trovano in
classe o nella scuola con compagni appartenenti a diverse culture e religioni e
si rendono conto, grazie anche all’informazione massmediale, che è in atto un
cambiamento sociale che unifica sempre più paesi e culture in un’unica famiglia.
È necessario perciò sviluppare nei ragazzi una mentalità aperta e interessata
alle altre culture e religioni.

4.3. Guardare in profondità

L’itinerario educativo dell’IRC deve infine aiutare le giovani generazioni a


formare la loro coscienza in modo che siano in grado di guardare i problemi
in profondità, capaci di riflettere sul senso vero dei problemi senza fermarsi
all’apparenza.
In questo modo potranno comprendere che l’esigenza religiosa è insita
nell’uomo stesso .

Capitolo 12 pag. 179/180


5. L’itinerario metodologico pedagogico

Il processo metodologico dell’IRC in prospettiva interreligiosa come fin qui si


è detto, deve avviare gli allievi all’incontro con le differenze accompagnandoli
con adeguate riflessioni a maturare atteggiamenti positivi e aperti nei confronti
dell’alterità. In diverse parti del mondo, varie sono le linee di pedagogia religiosa
nella scuola per aiutare gli allievi ad affrontare situazioni multireligiose.
In Sud Africa, per esempio, con la nuova situazione politica e con l’abolizione
dell’apartheid, le scuole pubbliche sono diventate multiculturali e multireligiose;
per evitare situazioni problematiche in queste scuole, il ministero per
l’educazione nel 1997 ha proposto un nuovo modello scolastico, chiamato
«Outcome-based Education» (= educazione basata sui risultati) (Roux, 1999-
2000, 173-180), che consiste nello sviluppare abilità per una convivenza nel
rispetto di individui, comunità e culture diverse. L’accento posto sui valori comuni,
per stabilire la conoscenza e la comprensione di comportamenti e religioni
diverse è diventato la parte importante del curricolo.
Gli allievi analizzando i propri atteggiamenti e attitudini verso l’altro, sono invitati
a fare delle proposte a se stessi e ad adottare atteggiamenti positivi verso quelli
che sono diversi. Anche gli insegnanti di religione fanno la stessa analisi dei loro
allievi, traducendo poi quanto emerge in obiettivi operativi nei confronti delle
seguenti tematiche didattiche (Morante, 1996, 1087-1088):
1. individuare le differenze, cercando di uscire da un certo modo di considerare
le altre religioni partendo ciascuno dalla propria matrice, vale a dire negando
qualsiasi diversità religiosa. Si tratta di evidenziare nel processo didattico le
conoscenze sulle religioni attraverso l’informazione, il contatto, il dialogo; e di
descriverle non solo in termini di fatti e di cose concrete, ma facendo riferimento
ai loro valori. Per fare questo ci si riferisce ai testi, ai rapporti con chi professa
altre religioni e a persone competenti;
Capitolo 12 pag. 180
2. riconoscere e rilevare i riferimenti alle altre religioni presenti nel curricolo, nelle
altre discipline, nei contenuti e nei riferimenti didattici. Nel ricercare le differenze,
si cerchi di evitare che i propri comportamenti e riferimenti siano intesi come la
norma rispetto alle altre religioni;
3. gestire le differenze in modo maturo e genuino con relazioni ed amicizie
autentiche; cercare di evitare quegli atteggiamenti pregiudiziali o quelle
contrapposte posizioni che fanno scivolare verso il relativismo o il sincretismo;
accettare di queste religioni, ciò che hanno di esotico e di accattivante.
Per elaborare un percorso didattico del genere è necessario prendere in
considerazione alcuni punti: l’attenzione ai destinatari, il tema e gli argomenti
proposti dai testi di religione, il messaggio che si intende comunicare in
vista degli obiettivi previsti; i diversi punti di vista sul tema sviluppato; le
modalità di realizzazione, le proposte didattiche, le possibili articolazioni e gli
approfondimenti, i materiali e i testi utilizzati, le fonti.
L’itinerario didattico per l’educazione interreligiosa, come anche nel caso
dell’educazione interculturale, si snoderà attorno a tre concetti chiave – accettare,
accogliere, convivere – parole che rivestono una valenza non solo pedagogica e
antropologica, ma anche interreligiosa.

5.1. Accettazione del «diverso»

La prospettiva pedagogica dell’insegnamento religioso deve partire dalle


persone, con la loro cultura, ideologia ed appartenenza religiosa. Non sempre
la convivenza ha dato esiti positivi, anzi spesso ha generato atti di intolleranza e
violenza.
Quindi creare le basi psicologiche per l’accoglienza da parte dell’insegnante è
utile e doveroso; ma come? L’IRC e la scuola in genere possono fare molto in
Capitolo 12 pag. 180/181
questo senso, a partire da una pedagogia che miri all’eliminazione dei pregiudizi
razziali. Questi ultimi si riferiscono solo alle diversità culturali e non a ciò che
sta alla base, ossia il valore della persona con tutti i suoi diritti. Se si lavora per
far comprendere pienamente all’alunno che a ciascun uomo devono essere
riconosciuti i suoi diritti, a prescindere dalla razza e religione, forse sarà possibile
una più concreta accettazione del «diverso».
È giusto sottolineare la difficoltà di capire e conoscere le diverse culture, e
la necessità di una pedagogia che metta al centro la persona. È necessario,
quindi, partire da una prospettiva pedagogica che abbia come fine principale
quello di suscitare mentalità e atteggiamenti di accettazione, di accoglienza
e di convivenza con il «diverso». Contrariamente si compie un semplice
«accostamento» pluriculturale.

5.2. Accoglienza del «diverso»

L’accoglienza del diverso comporta la destrutturazione mentale dei ragazzi


da ogni pregiudizio, cosa non facile perché fortemente presenti nei giovani.
Solo dopo questo esercizio educativo sarà possibile far scoprire il valore
dell’accoglienza dell’altro in quanto persona, qualunque sia il suo credo religioso
e la sua cultura.
Educare ad accogliere l’altro significa riconoscergli gli stessi diritti e la stessa
dignità. Evidenziare una tale uguaglianza, nel senso più ampio del termine,
permetterà di fare i primi passi verso una pacifica convivenza.
È necessario far capire ai giovani che accogliere l’altro significa riconoscergli
anche il diritto di essere «diverso» e di vivere rispettando i valori culturali
e religiosi propri, contributo fondamentale per arrivare ad una autentica
integrazione culturale.
Capitolo 12 pag. 181
5.3. Convivenza con il «diverso»

Per convivere con l’altro «diverso» da me, è necessario capire il suo punto di
vista, cercare di entrare nella sua cultura per capire il suo modo di essere e i suoi
bisogni. Tutto ciò non dovrà avere come fine la fusione di culture e religioni ma
il capire l’uguaglianza, pur riconoscendo le diverse identità. La scuola in questo
senso può fare molto per educare i giovani ai rapporti e agli aspetti relazionali.
La conoscenza di più culture evita che queste vengano assolutizzate impedendo
così mentalità etnocentriche. In questo senso può essere d’aiuto fare maggiori
riferimenti all’antropologia e alla storia delle religioni, alla conoscenza dei diritti
dell’uomo, analizzando criticamente i diversi pregiudizi, per individuare le diverse
origini dell’intolleranza.
Là dove complessivamente ci si preoccupa del «diverso», della sua cultura
e religione e della libertà di poterle manifestare, là si ha una autentica
convivenza democratica, ormai essenziale nella nostra società caratterizzata dal
pluriculturalismo.
La convivenza con il diverso, terzo concetto chiave attorno a cui si snoderà
l’itinerario didattico, sarà tanto più pacifica quanto più le componenti della
comunità educativa collaboreranno per una educazione alla uguaglianza nella
diversità.
Il confronto con altre religioni è da considerarsi ormai qualcosa di essenziale.
Non è più una scelta facoltativa, ma un nuovo stile di essere religiosi e quindi
una pratica doverosa. L’espressione concreta di essere riusciti a realizzare un
giusto confronto con le religioni, è il dialogo interreligioso, su cui la Chiesa poggia
la sua missione, l’evangelizzazione, le istanze ecumeniche, insomma, il futuro
della Chiesa cattolica.
La società moderna o post-moderna è, o lo sarà ancor più nei prossimi anni,
Capitolo 12 pag. 181/182
pluralista in ogni campo: etnico, religioso, culturale, economico. In campo
religioso, in particolare, si impone la necessità di dialogare con gli altri di fede
diversa, per evitare chiusure pericolose, integralismi beceri.
Sui principi nulla da eccepire: tutti i documenti della Chiesa degli ultimi decenni,
a cominciare da Nostra Aetate, sono chiarissimi, e nel loro insieme costituiscono
un corpus dottrinale completo, un ampio trattato sul dialogo interreligioso.
Ma i cattolici sono preparati e pronti a dialogare? Le altre confessioni e le
altre religioni sono disposte al dialogo? Diversamente, si rischia il monologo! Il
confronto con le religioni, ed il dialogo interreligioso sono indubbiamente difficili,
almeno con le sole forze umane. È facile imporre, è molto arduo convincere
dialogando. Il dialogo interreligioso è possibile se il cattolicesimo conserva la
propria identità allontanando ogni tentazione di irenismo e di relativismo religioso.
E per questo, un grande aiuto al riguardo è l’IRC che prepara i suoi allievi a tutti i
livelli – cognitivo, affettivo e operativo – a confrontarsi con le altre religioni.

Indicazioni bibliografiche

A. Documenti ecclesiali

CONCILIO VATICANO II (1966), Nostra Aetate. Sulle relazioni della Chiesa con le
religioni non-cristiane, 28 ottobre 1965, in AAS 58 (1966), pp. 740-744.
CONGREGAZIONE PER IL CLERO (1997), Direttorio generale per la catechesi, Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana.
GIOVANNI PAOLO II (1979), Catechesi Tradendae. Educare alla fede oggi.
Esortazione Apostolica, 26 ottobre 1979, in AAS 71 (1979), pp. 1277-1340.
PAOLO VI (1964), Ecclesiam Suam. Per quali vie la Chiesa cattolica debba oggi
Capitolo 12 pag. 182/183
adempire il suo mandato. Enciclica, 6 agosto 1964, in AAS 56 (1964), pp.
609-659.
PONTIFICIO CONSIGLIO PER ILDIALOGO INTERRELIGIOSO (1999), Camminare Insieme.
La Chiesa cattolica in dialogo con le altre tradizioni religiose del mondo, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999.

B. Studi

ALIOTTA M. (ed.) (1999), Cristianesimo, religione, religioni. Unità e pluralismo


dell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, Cinisello Balsamo (Milano),
Edizioni San Paolo.
BISSOLI C. (ed.) (1996), Insegnare religione nel pluralismo. Indicazioni per l’IRC
nella scuola elementare, Leumann (Torino), Elledici.
DONINI A. (1991), Breve storia delle religioni, Roma, Newton.
MORANTE G. (1996), L’Insegnamento della religione cattolica in dimensione
interculturale ed interreligiosa, in «Orientamenti Pedagogici» 43 (1996) 5, pp.
1083-1102.
PAJER F. (1987), «Insegnamento della Religione (fondazione e natura)», in J.
GEVAERT (ed.), Dizionario di catechetica, Leumann (Torino), Elledici, pp. 349-352.
ROUX C. (1999-2000), Multireligious Education. An Option for South Africa in
the New Education System, in «British Journal of Religious Education» 22 (1999-
2000) 3, pp. 173-180.SHARMAA. (ed.) (1996), Religioni a confronto. Induismo,
buddismo, confucianesimo, taoismo, ebraismo, cristianesimo, islam, Vicenza,
Neri Pozza Editore.
ZIEBERTZ G. - S. LEIMGRÜBER (2000), Interreligiöses Lernen, in «Münchener
Theologische Zeitschrift» 51 (2000) 3, pp. 253-264.

Capitolo 12 pag. 183


CAPITOLO 13

FONTI E TRADIZIONI
LA BIBBIA. LA STORIA DELLA CHIESA
Cesare Bissoli

1. Fonti per la conoscenza del cristianesimo

1.1. Quali sono

1. La religione cattolica (RC) si presenta come una religione storica,


oggettivamente iniziata e che ancora avviene, dotata di documentazione plurima
(fonti).
Alle sue fonti occorre perciò riferirsi per una corretta comprensione. Tali fonti
sono molteplici: sono principali e secondarie, delle origini (o radici) o di tempo
posteriore, scritte e non scritte, religiose e non religiose.
Così i Vangeli sono certamente una fonte scritta, religiosa, delle origini o radicale,
di valore primario. Una Chiesa come S. Pietro a Roma è una fonte non scritta
(archeologica), religiosa, posteriore alle origini cristiane, di valore secondario
(che non vuol dire di poco conto). La testimonianza di Tacito sui cristiani nel I
secolo è una fonte scritta, profana, di valore primario, del tempo delle origini. I
documenti del Concilio Vaticano II sono una fonte scritta, religiosa, del tempo
presente, di valore primario per gli argomenti che sono trattati (e che non sono
tutti i contenuti della fede e cristiana).

Capitolo 13 pag. 184


Sarà conoscenza più adeguata della RC quella che per sé attinge dai diversi
canali che ne trattano, nel rispetto della gerarchia di valore e della specificità di
essi.

2. Abitualmente si procede rapidamente dicendo che la Bibbia o Sacra


Scrittura è la fonte per eccellenza della RC. È vero, purché non la si comprenda
isolatamente e perciò non ci si fermi soltanto ad essa. In realtà la RC si lascia
conoscere – usando il rigoroso linguaggio teologico – attraverso due grandi
canali: la Bibbia e la Tradizione. La Bibbia ha il pregio singolare di presentare
il cristianesimo nelle sue origini primordiali o radicali, in forma organica e
aperta a tutti, garantita da eventuali manipolazioni come è proprio della forma
scritta (pur dovendosi fare una previa indagine assicurativa della autenticità del
testo che si consulta). La Tradizione, ossia la globalità della RC trasmessa e
vissuta lungo i secoli, con personaggi, avvenimenti, istituzioni, testi scritti..., ha
il pregio di mettere in risalto il valore vitale o esistenziale che la RC ha avuto
lungo i tempi. E siccome la Tradizione cristiana si riferisce doverosamente alla
Bibbia come testimonianza massimamente autorevole, ecco che si parla di una
documentazione di pregio rappresentata dalla «storia degli effetti» biblici.
Pur con molta semplificazione, giustamente si procede mettendo insieme
Bibbia e storia della Chiesa come i due canali che portano per vie sicure alla
conoscenza della identità della RC.
Due conseguenze importanti:
• Avvertiamo lo stretto nesso che va mantenuto tra Bibbia e storia della Chiesa:
questa riceve dalla Bibbia la sua regolazione intrinseca, ma a sua volta permette
di comprendere meglio la ricchezza del Libro Sacro, di riconoscere le tante
attualizzazioni che si sono avute, per cui l’identità della RC è veramente colta
quando la si comprende nella sua globalità, nella sua evoluzione, con le luci e
le ombre di ogni specifico contesto storico (antichità, medioevo, modernità, età
Capitolo 13 pag. 184/185
contemporanea).
• Lo studio delle fonti della RC si manifesta pertanto non come pura raccolta
materiale di dati biblici e storico-ecclesiali, ma richiede un fondamentale esercizio
ermeneutico o interpretativo, lo studio cioè del dato biblico in correlazione con
l’esperienza storica cristiana, sia quella oggettiva della Chiesa, sia anche quella
personale del soggetto.

3. Volendo radunare insieme in maniera organica i materiali di identificazione


della RC, le sue fonti legittime, in ordine di importanza culturale e tenendo
conto del contesto scolastico con le nuove Indicazioni nazionali per i piani
personalizzati, proponiamo qui gli elementi essenziali di insegnamento della
Bibbia e della Storia della Chiesa nell’ottica sopra indicata. In verità ha diritto
di essere documentazione più o meno diretta della RC, ogni dato che ne
favorisce la corretta intelligenza. E quindi almeno per via indiretta sono tutte
quelle informazioni che provengono da altri saperi anche non religiosi (storia
civile, sistemi di pensiero, mondi culturali...). Se ci limitiamo alla Bibbia e alla
Storia della Chiesa è per il senso stretto che diamo alla parola fonte, cioè ci
riferiamo a quel tipo di informazione che ha in sé la qualità di essere originale o
radicale e di essere coestesa al farsi della RC, diventandone la testimonianza
intima e profonda più di ogni altra, il Libro Sacro dunque e la vita della Chiesa
nella storia. Di ciascuna area si daranno le informazioni essenziali in vista di
una alfabetizzazione culturale consona al ciclo di scuola (infanzia, primaria,
secondaria di primo e secondo grado).
Obiettivi saranno insieme la conoscenza della RC alle fonti della Bibbia e
Tradizione (Storia della Chiesa), ma anche l’abilità al loro uso corretto e alla loro
reciproca interazione.

Capitolo 13 pag. 185


1.2. Nella Riforma della scuola

4. L’accenno ai cicli scolastici or ora fatto, apre la porte ad uno scenario fin
qui inedito introdotto dalla grande Riforma della scuola. Come è noto, questa
riforma non comprende formalmente la componente religiosa come disciplina di
studio (questo compete all’Insegnamento di Religione Cattolica, IRC, secondo le
indicazioni del Concordato), ma ne permette la valorizzazione culturale formativa,
come testificano diversi richiami. Altrove nel Manuale si parla della Riforma e
delle sue implicanze per l’IRC. Qui sostiamo per i possibili riflessi, per quanto
concerne le fonti bibliche e storico-ecclesiali. (Ci riferiamo alle tre categorie di testi
(DM 100/02): Indicazioni nazionali per i piani personalizzati delle attività educative nelle scuole
dell’infanzia, Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola Primaria, ...nella
Scuola Secondaria di 1° grado, ...nella Scuola Secondaria di 2° grado; Raccomandazioni per lo
svolgimento delle attività educative e didattiche e per l’attuazione delle Indicazioni nazionali...;
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istruzione
(6-14 anni), ...alla fine del secondo ciclo (dal Ministero dell’Istruzione: www.istruzione.it)) Ad esse
infatti si accenna con risvolti interessanti. Raccogliamo i punti di maggior rilievo
ed interesse: a. La «storia degli effetti» come prospettiva Tra gli «strumenti
culturali per leggere e governare l’esperienza» si propone «l’essere consapevoli,
sia pur in modo elementare, delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie
e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità
spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa» (Profilo educativo I ciclo e II ciclo).
(Con altre parole, si invita ad «un’attenzione particolare alla religione ebraico-cristiana e al ruolo
da essa ricoperto all’incontro tra Romani e i “popoli barbari” sia nella nascita sia nella idea di
Europa » (Raccomandazioni Scuola Primaria, Storia); «Scoprire radici storiche antiche classiche
e cristiane della realtà locale» (Indicazioni Scuola Primaria II biennio)) b. Le origini della
religione cristiana come contenuto In tale ottica, anche se il richiamo esplicito alla
Bibbia non compare mai, si raccomanda specificamente «la conoscenza della
Capitolo 13 pag. 185/186
nascita della religione cristiana, le sue peculiarità e il suo sviluppo» (Indicazioni
Scuola Primaria II biennio) e si citano la «narrazione biblica ed evangelica» come
modelli dell’arte del racconto quale dimensione della storia (Raccomandazioni
Scuola Primaria, Storia).
c. Una serie di conoscenze e competenze valoriali come obiettivo (1) Un ordine
esplicito di obiettivi riguarda la dimensione storica della realtà: conoscere la
storia come insieme di dati umani passati che ci pervengono come racconto
meritevole di discussione e confronto, e partendo dal dato storico e giungere alla
maggior consapevolezza che cosa sia la storia come tale (Raccomandazioni
Scuola Primaria, Storia). Occorre pervenire ad «avere memoria del passato,
riconoscerne la permanenza nel presente e far tesoro di queste consapevolezze
per la soluzione dei problemi che si incontrano e per la progettazione del futuro »
(Profilo II ciclo).
Come esempio si richiama la narrazione biblica e evangelica accennata qui
sopra. Viene da arguire legittimamente che affrontare la Bibbia vuol dire fare
scuola di buona memoria delle radici italiane ed europee.
(2) Un altro ordine di obiettivi riguarda una serie di valori umani che incrociano
facilmente il discorso biblico cristiano. Si parla così di mettere l’alunno «in
condizione di distinguere il diverso grado di complessità che caratterizza i diversi
temi, tra cui “la problematica religiosa”», «avvertire interiormente la differenza
tra il bene e il male ed essere in grado di orientarsi nelle scelte di vita», «porsi
le grandi domande sul mondo, sulle cose, sul sé e sugli altri, sul destino di ogni
realtà», «essere in condizione di distinguere il diverso grado di complessità
che caratterizza i diversi temi, tra cui “la problematica religiosa”», «avvertire
interiormente la differenza tra il bene e il male ed essere in grado di orientarsi
nelle scelte di vita», «porsi le grandi domande sul mondo, sulle cose, sul sé e
sugli altri, sul destino di ogni realtà» (Profilo I ciclo, II ciclo).
(3) Qualche conclusione.
Capitolo 13 pag. 186/187
• Non compare – nonostante tante insistenze del mondo laico – un riferimento
esplicito allo studio della Bibbia, ma se ne riconosce equivalentemente il valore
culturale in quanto si afferma che «la religione ebraico-cristiana ha un ruolo “sia
nella nascita sia nell’idea di Europa”».
• Con la Bibbia la storia della Chiesa è contenuto imprescindibile.
• È centrale dunque l’ottica della storia degli effetti, cioè si considera importante
il nesso di causalità tra le fonti ebraico-cristiane, che come tale va perseguito a
tre livelli: per capire l’identità di Italia ed Europa, per giungere alla comprensione
della dimensione storica come dimensione di realtà, come possibile aiuto (anche
se non citato) alle domande di senso.
• Vi è dunque un ponte levatoio abbassato tra mondo della nuova scuola e fonti
della RC. Sarà importante da parte dell’IdR condividere questi contatti, magari
approfondendoli, partecipando alla redazione dei Piani di studio personalizzati e
del Portfolio.
Si può concludere che nel quadro della Riforma sarebbe impoverita una
presentazione della Bibbia e della storia cristiana isolata e chiusa in se stessa.

2. La Bibbia, grande codice del cristianesimo

2.1. Un contesto ricco di impulsi

5. Ricerche recenti dicono che la conoscenza ed uso che l’uomo (giovane) di


oggi, anche sedicente credente, ha della Bibbia sono deplorevoli tante sono le
lacune dell’ignoranza, della confusione, degli stereotipi.
D’altra parte si assiste ad un affermarsi dell’interesse per la Bibbia, minoritario di
numero, ma vivace e in crescendo nella doppia direzione confessionale (si pensi
Capitolo 13 pag. 187
ai gruppi di ascolto della Bibbia) e culturale laica (la considerazione della Bibbia
come testimonianza basilare della cultura occidentale, tanto da invocarne la
presenza di studio nella scuola come tale, ad es. in Francia).

6. Afavorire un rinascimento biblico, di cui anche l’IRC è chiamato ad essere


fruitore e promotore stanno alcuni fattori costruttivi.
a. Il Vaticano II, con il documento Dei Verbum, offre un doppio impulso, di
contenuto e di metodo. Quanto al contenuto riporta oggettivamente al centro
come criterio primario di comprensione della fede cattolica, la Parola di Dio nel
segno biblico, per cui voler conoscere la RC senza primario riferimento al Libro
Sacro è come trovarsi ad esplorare un paesaggio senza punti cardinali.
Quanto al metodo, la mens cattolica ha pienamente recepito l’approccio
scientifico alla Bibbia come legittimo e doveroso prima di giungere a sensi mistici
che coglie la sola fede. E di fatto la Chiesa mette a disposizione propri esperti,
istituzioni e strumenti per lo studio del Libro Sacro. Soltanto ricorda che la
comprensione credente è più che culturale, e che tra approccio storico-critico ed
approccio spirituale non vi è a priori contraddizione (PCB, 1993).
b. Secondo fattore propulsivo è dato dalla rinnovata intelligenza culturale
della Bibbia, chiamata a questo scopo il «Grande Codice» (Frye, 1984). È
certo che chi ne parla rischia la retorica se non sa dimostrare cosa voglia dire.
Personalmente ho l’impressione che questo «Grande Codice» sia incartato e
tenuto in mano da pochi specialisti. Qui il passo avanti nel processo formativo,
sia scolastico che extra, si chiama interesse per la storia degli effetti della Bibbia.
Come abbiamo visto, è l’ottica privilegiata nella Riforma della scuola.
c. Altro fattore di spinta è rappresentato dal versante ecumenico, inteso nel
senso stretto che la Bibbia fa oggi da maggiore coefficiente di dialogo fra le
chiese, e si sa come l’Europa sia segnata da questa presenza pluralistica; ma
qui intendiamo versante ecumenico in un senso largo, che si fa sempre più
Capitolo 13 pag. 187/188
stretto, e cioè l’arrivo dei Libri Sacri di altre religioni, in cui essi svolgono un ruolo
normativo essenziale. Pensiamo in particolare alle tre religioni per eccellenza
del Libro: ebraismo, cristianesimo, islamismo, non dimenticando i testi sacri
dell’induismo, buddismo...
d. Di un quarto impulso proveniente dalla Riforma della scuola abbiamo già
detto.

7. Facciamo uno stacco su un fattore che assicura per sé una spinta propulsiva
nell’incontro con la Bibbia: la rinnovata didattica biblica e l’ampia disponibilità di
sussidi.
a. Il soffio del rinnovamento si fa sentire: maggiore dimestichezza
dell’insegnante di religione con il Testo Sacro, assimilazione di informazioni
di base corrette per certi passi tanto celebri quanto fraintesi (es. i racconti di
creazione di Gn 1-3, la natura dei vangeli...), capacità di elaborare percorsi
didattici imperniati sulla correlazione fra Bibbia ed esperienza, capacità di lettura
strutturale elementare del testo, uso della narrazione e del metodo della ricerca...
Purtroppo non si può dire che sia pane condiviso da tutti. Si è osservato invece
un certo arretramento di stima e dunque di impiego della Bibbia, specie dell’AT.
Ed anche quanto alla pista «storia degli effetti» biblici, siamo alle prime armi.
b. Circa i sussidi bisogna distinguere quelli penultimi che cioè apprestano
materiale biblico per essere elaborato, e sono tanti, segnatamente sulla figura
di Gesù, e sussidi ultimi, quelli che si propongono come itinerari didattici già
elaborati.
Sono tali quelli proposti dal testo di religione, ma anche i diversi modelli esposti
su Riviste come L’ora di religione, Elledici. La necessaria riflessione didattico-
metodologica a seguito della nuova comprensione del termine «programma»
nella Riforma, dovrà portare un profondo rinnovamento in ordine ai sussidi.

Capitolo 13 pag. 188/189


2.2. La Bibbia negli attuali programmi di IRC

8. Se non altro come sguardo retrospettivo di verifica di un ventennio e nella


certezza motivata che quanto è stato detto sulla dimensione biblica trovi
continuità nella nuova normativa, merita richiamare i tratti comuni dei programmi
ancora in uso. Troviamo la affermata centralità della Bibbia come componente
costitutiva e non accessoria dell’IRC, ed anzi prioritaria nell’ordine delle fonti;
peculiare attenzione viene riservata ai Vangeli; specifico rilievo riceve la figura
di Gesù secondo i vangeli; tutti i nuclei tematici (contenuti) devono essere
compresi alla luce della Bibbia; la Bibbia stessa va conosciuta nella sua identità
di storia, letteratura, messaggio, e nei punti nodali del suo tracciato: gli inizi
della creazione, la svolta dell’esodo e della pasqua di Gesù, la Chiesa nel
tempo e l’approdo alla vita eterna; si richiede un accostamento ed uso effettivo
del testo biblico, con le metodologie tipiche dello studio dei documenti: ricerca,
spiegazione, comprensione, confronto...
Chiaramente nel passaggio dalla scuola primaria alla secondaria superiore
l’accostamento alla Bibbia assume un’ampiezza proporzionale alle capacità degli
alunni. (Pur non diventando testo di programma, ma testo raccomandato, conviene ricordare che
nel Documento conclusivo della sperimentazione nazionale sull’IRC, la Bibbia svolge il consueto
ruolo di fonte dei nuclei tematici, diventando essa stessa oggetto di studio. La novità sta nella
collocazione all’interno delle cosiddette «matrici progettuali», sul versante per lo più dei «contenuti
specifici » (teologici), in correlazione con «riferimenti ad altri ambiti e discipline», in una prospettiva
di pronto all’uso, ma anche con il rischio di una parcellizzazione e funzionalizzazione al tema
trattato.) E soprattutto va tenuto presente l’assetto della scuola che esce dalla
Riforma (v. sopra n. 4).

Capitolo 13 pag. 189


2.3. Elementi di didattica biblica (Bissoli, 1982)

L’IRC per sua identità richiede una così ampia e centrale presenza della Bibbia,
da profilarsi in certa misura anche in corso di introduzione ad essa, grazie ad un
graduale, metodico, effettivo contatto e uso del Libro Sacro. Non diciamo che
questo sia automatico, ma nemmeno così arduo, date le possibilità che ci sono
date. Distinguiamo un quadro teorico globale e le conseguenze applicative.

9. UN QUADRO DI RIFERIMENTO
È una serie di affermazioni che uniscono insieme le esigenze di una corretta
presentazione della Bibbia nella scuola.
a. I diritti e modalità di partecipazione della Bibbia nell’IR non sono determinabili
a priori o da una concezione di fede, ma per quello che essa legittimamente
rappresenta, e secondo come lo rappresenta, nell’insegnamento della religione
cattolica espletato nella scuola, secondo i fini e i processi della scuola, e dunque
in una prospettiva culturale e formativa, non automaticamente assimilabile
– anche se non contraria – ai fini e processi della comunità credente.
b. Ruolo della Bibbia nell’IRC è di essere documento religioso motivante radicale
del fatto ebraico-cristiano, sia quanto alle sue origini (protologia), sia quanto ai
suoi sviluppi storici, sia quanto all’esito conclusivo (escatologia).
La Bibbia non è una sorta di banca dati, un inventario della religione cristiana,
ma l’ispirazione di fondo originaria, come le radici per i frutti di una pianta. Essa
non dà risposte tecniche come una ricetta di cucina, ma indica una scelta di
campo, una direttiva di marcia a riguardo delle grandi domande dell’uomo. Per
questo è intrinsecamente un riferimento religioso, manifesta, secondo il suo
stesso linguaggio, una rivelazione di Dio, una sua Parola a proposito dell’uomo,
del mondo e di Dio stesso.
c. La Bibbia svolge il suo ruolo di documento religioso nella scuola attraverso
Capitolo 13 pag. 189/190
diverse funzioni che si possono ricondurre a quattro più una: (1) La Bibbia va
incontrata in quanto è testimonianza primaria e insostituibile della religione
ebraico-cristiana.
Tramite la Bibbia si conoscono le origini del popolo ebraico, di Gesù, della
prima comunità cristiana con il loro mondo di persone, avvenimenti, istituzioni,
pensiero...
È il ruolo basilare e dunque preliminare ad ogni altro. Fonda la conoscenza
della Bibbia come avvio alla conoscenza della RC. È quanto esigono di norma i
programmi e abitualmente si realizza (UCN, 1996; Bissoli, 1997; 1998).
(2) La Bibbia va incontrata in quanto è matrice originale ed ampia di storia
postbiblica (storia degli effetti).
Grazie alla Bibbia non si conosce soltanto... la Bibbia, ma ciò che essa
ha prodotto lungo venti secoli, nell’area nord occidentale anzitutto, ma
successivamente va producendo nel Terzo mondo tramite la diffusione del
cristianesimo e della cultura europea. Tali influssi ricadono in effetti religiosi
(come è una chiesa), ma anche laici (come sono i fondamenti delle tante
Dichiarazioni dei diritti dell’uomo), e si trovano codificati in opere letterarie,
artistiche, in istituzioni e in particolare in persone viventi (la comunità dei credenti
che si ispira alla Bibbia come libro di vita). Non si vuol dire che gli effetti prodotti
siano sempre in piena corrispondenza alla fonte biblica, ma ne risentono per
qualche aspetto l’ispirazione.
Oggi è un percorso specificamente raccomandato (v. sopra 1.2: Indicazioni della
Riforma della scuola) (Pellettier A.M., 1999; Salvarani B., 2001; Stefani P., 2003).
(3) La Bibbia va incontrata in quanto è criterio ermeneutico vasto ed accreditato
dell’esistenza.
Frutto essa stessa di tante esperienze umane lungo diversi secoli, la Bibbia
ha il pregio di entrare facilmente in dialogo con esperienze fondamentali
dell’uomo, quelle che immancabilmente si propongono, collegate alle domande
Capitolo 13 pag. 190
di senso, sulla vita e la morte, sul bene e il male, sulla origine e sulla fine... Porta
in sé una tale saggezza e profondità di risposta, collaudata dall’esperienza
millenaria di generazioni che vi si sono accostate (v. la storia degli effetti), da
essere universalmente stimata un capolavoro dell’umanità, il «Grande Codice»,
meritevole di essere ascoltato, dai credenti per convinzione di fede, da tutti per
la ricchezza di umanità. (Questo potenziale ermeneutico della Bibbia è oggi molto studiato in
lavori teorici (H.G. Gadamer, E. Levinas, P. Ricoeur...) e reso utilizzabile dalle «teologie bibliche»
dell’AT e NT e dalle specifiche riflessioni di ordine spirituale e antropologico (E. Bianchi, B. Forte,
A.J. Heschel, C.M. Martini, S. Quinzio, GF. Ravasi...)) (4) La Bibbia va incontrata in quanto
deposito di un ricco e prestigioso linguaggio espressivo.
È tipico della grande letteratura coniugare strettamente quello che dice con
il come lo dice. Alla Bibbia, per la sua antichità e diffusione mondiale, viene
riconosciuto il pregio di un linguaggio affascinante del tutto omogeneo al
contenuto, mediazione essenziale al messaggio. Tale sono le grandi scelte del
racconto, del simbolo, del linguaggio figurato come le parabole, delle riletture...,
in una parola dei generi letterari adoperati. Si può considerare la più grande
eredità linguisticoreligiosa dell’umanità, con evidenti effetti postbiblici nell’area del
pensiero, della poesia, della narrazione (CEI, 1995).(Qui l’approccio si situa a livello di
esegesi del testo. Ma meriterebbe un’attenzione specifica come hanno fatto E. Auerbach, N. Frye,
L.A. Schoekel, D. M. Turoldo.) A queste quattro funzioni che sono proprie della Bibbia
nella scuola, va aggiunta una quinta che ha una sua rilevanza peculiare dal
punto di vista culturale: la Bibbia come libro dei credenti.
(5) La Bibbia va incontrata in quanto è fonte teologica o di fede della religione
ebraica e cristiana.
Chiaramente non si intende proporre la Bibbia da credenti, secondo le
dinamiche partecipative proprie della fede, ma venire a conoscere come i
credenti intendono la Bibbia, cioè nella logica che deriva dalla Rivelazione e nel
contesto della fede della comunità dei cristiani, facendo questo percorso secondo
Capitolo 13 pag. 190/191
un procedimento specificamente scolastico, accostando cioè come oggetto
culturale la stessa fede dei credenti. Che lo meriti, basta ricordare che la Bibbia
è il libro più diffuso al mondo perché due religioni lo condividono e lo diffondono,
ebraismo e cristianesimo. È grazie soprattutto ad esse che la Bibbia esprime i
valori di fonte sopra enunziati, cui si connette, come motivo causante, questa
comprensione teologica della Scrittura intesa, accolta e vissuta come Parola di
Dio, con una straordinaria ricchezza speculativa ed operativa, in campo etico,
spirituale, artistico...
(PCB, 1993; CEI, 1995; Maggioni, 2001). (Su questo livello si pongono i pronunciamenti
di chiesa, tra cui Dei Verbum del Vaticano II, la riflessione teologica sulla Bibbia, l’uso liturgico, la
pratica pastorale e segnatamente la Lectio Divina.
Testi di riferimento sono da attingere da tali aree).

10. ESIGENZE DIDATTICHE

a. La Bibbia nella scuola va protetta da diffuse deformazioni.


– Un uso strumentalizzante avviene ogni qual volta il testo viene compreso non
per quello che intende dire, ma per quello che il lettore gli vuol far dire. Tale è la
lettura ideologica, ma anche quella moralistica, edificante, ingenua.
– Una scorrettezza metodologica è di servirsi della Bibbia per frasi, avulse dal
contesto e senza attenzione alla forma letteraria, quindi senza base critica. Il
fondamentalismo, ossia prendere il testo così come suona, è una grave e
frequente deformazione.
– Non valido è l’approccio ermeneuticamente povero e senza attenzione al lettore,
dove cioè lo studio esegetico diventa arida esplorazione di nomi e date senza
messa in luce dell’avventura umana che la Bibbia esprime.
– Dannosa è pure la confusione dei compiti, ossia un trattare la Bibbia nella
scuola con le stesse modalità della catechesi, sui presupposti ed esperienze

Capitolo 13 pag. 191/192


proprie del credente (Bibbia come Parola di Dio all’interno della comunità
ecclesiale).

b. Espresse al positivo raduniamo così le fondamentali esigenze didattiche di


una Bibbia nella scuola di religione.
– Che la Bibbia dica se stessa, ossia possa esprimere il suo senso reale, che
soltanto il metodo storico-critico permette di assodare.
– La scelta dei testi, che necessariamente si impone, va fatta secondo criteri
di rilevanza del contenuto, di perspicuità nell’espressione, di significatività per
l’alunno, di pertinenza alla tematica da svolgere.
– La Bibbia va incontrata secondo la logica di un documento: quindi con la
frequentazione dei testi originali fedelmente tradotti, e non con parafrasi e
parole altrui; con un’ampiezza non frammentata e ampia pari al tema sviluppato;
quindi con una propria relativa autonomia di tempo e di metodo all’interno dei
programma.
Ciò tanto più si esige data la estrema scarsità dell’orario scolastico e la sua
parcellizzazione.
– Questo comporta un ben congegnato itinerario di conoscenza della Bibbia in se
stessa nella sua identità di storia, letteratura, messaggio, secondo un piano che
comprende momenti espliciti di studio della Bibbia, e altri di conoscenza della
medesima mentre la si studia a proposito dei nuclei tematici che via via vengono
trattati. Certamente per l’IRC diventano nuclei centrali, oltreché l’identità della
Bibbia, la figura di Gesù Cristo, quindi la natura dei Vangeli, l’origine della Chiesa,
il rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Vengono di seguito i grandi temi, quali
creazione, esodo, alleanza, messianismo, escatologia...
– Infine, anche la componente biblica va studiata in dialogo interdisciplinare
specie per ciò che riguarda punti affini nella storia, nella letteratura, nella filosofia,
nelle scienze... In tal modo lo studio biblico contribuisce al raggiungimento degli
Capitolo 13 pag. 192
obiettivi comuni della scuola e di quelli previsti per le singole discipline (v. sopra
n. 4).
– La via migliore di un approccio scolastico alla Bibbia, in considerazione dei
programmi esistenti, si avvale del principio di correlazione tra Bibbia, esperienza
e dati postbiblici (v. sopra n. 2).
– Il principio didattico del coinvolgimento attivo si realizza secondo gli abituali
metodi della ricerca: contatto diretto con il testo, esercizi proporzionati di
rinvenimento del materiale, prove guidate di lavoro sul testo: lettura, spiegazione,
accostamento con altri testi biblici, collegamento con segni e significati di
esperienza, di cultura, di costume, stimoli a reagire personalmente e in gruppo...
– Va assunta abitualmente la prassi della valutazione: di partenza con test
adeguati sul tema che si vuol svolgere; di conclusione in rapporto a quanto
studiato (test, componimenti scritti, altre espressioni creative di reazione...).
– L’insegnamento della componente biblica esige una qualche sussidiazione,
come la carta geo-storica del Medio Oriente antico, della Palestina, del bacino
del Mediterraneo. Quanto a diapositive e film biblici, occorre saperli usare
didatticamente, altrimenti scadono nel consumo. Dotarsi di materiali che mostrino
i collegamenti tra dato biblico e postbiblico (es. le grandi rappresentazioni
evangeliche del Natale e della Passione, ma quei testi letterari e filosofici che
hanno uno specifico addentellato con la Bibbia).

11. INDICAZIONI ATTUATIVE


La fonte biblica entra di diritto nell’itinerario globale della programmazione in
una misura che le compete, partecipando alla organizzazione dei piani di studio
personalizzati secondo i diversi cicli e le rispettive articolazioni. Non potendo
giungere a determinazioni specifiche raduniamo sotto forma di conoscenze e
abilità quelle che maggiormente corrispondono all’esigenza della materia, alle
capacità degli alunni e alla attuazione del portfolio come criterio di verifica. Le
Capitolo 13 pag. 192/193
raccogliamo entro le funzioni che abbiamo riconosciuto alla Bibbia come fonte
dell’IRC.

a. Possedere le nozioni di base della Bibbia come documento che è alle origini
della religione ebraica e del movimento cristiano.
Ciò comporta:
– Conoscere i tratti essenziali del mondo storico-geografico-culturale di Israele, di
Gesù, degli inizi della Chiesa.
– Possedere informazioni elementari ma aggiornate sulla Bibbia come letteratura,
particolarmente la varietà dei generi letterari e la genesi della Torah o Pentateuco
e dei Vangeli.
– Acquisire una comprensione del messaggio della Bibbia nelle grandi linee: il
modo di leggere e di esprimere l’esperienza da parte dell’uomo biblico; la genesi
e formazione del credo religioso; lo schema della historia salutis; termini-chiave
dell’intelligenza biblica della realtà (promessa, alleanza, regno, esodo...).

b. Saper cogliere il legame tra il dato biblico ed alcune espressioni maggiori


dei suoi effetti, segnatamente il contribuito dato al farsi dell’identità dell’Italia e
dell’Europa.
Ciò comporta:
– Disporre di informazioni adeguate sulla rilevanza che oggi ha la Bibbia nel
mondo religioso cristiano (accoglienza, impiego, valorizzazione, collaborazione
ecumenica).
– Rendersi «consapevoli, sia pur in modo elementare, delle radici storico-
giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e
giudaico-cristiano» (Profilo educativo I ciclo e II ciclo).
– Cogliere concretamente l’influsso della Bibbia sul mondo etico-umano (carte
costituzionali, processi storici, grandi sistemi di pensiero...) e globalmente nella
Capitolo 13 pag. 193/194
cultura occidentale (letteratura, teatro, pittura, cinema...).

c. Saper vedere la realtà dell’uomo, personale e collettiva, in correlazione con


l’humanum biblico.
Si può anche esprimere così: saper leggere biblicamente l’esperienza ed
esistenzialmente la Bibbia, illuminare cioè con il significato biblico problemi di
vita, ed illuminare la Bibbia con esperienze attuali di vita; oppure, riconoscere
che la Bibbia è un mondo di esperienze umane fondamentali ed universali, tali
da essere significative per ogni uomo che riflette sul senso ultimo della vita, od
anche, riconoscere che la vita dell’uomo porta un insieme di esperienze, di
domande, di tentativi di risposta che convergono con analoghe problematiche
dell’uomo biblico.
Ciò comporta:
– Avere la capacità di confrontarsi con la Bibbia a livello di qualche problema
esistenziale dell’uomo: lavoro, potere, conflitto, eros, morte, gioco...
– Discernere tale relazione a più livelli: la convergenza nella domanda, il genuino
pensiero dell’uomo biblico, la sua specificità in rapporto ad altre risposte religiose,
la traccia di motivi biblici incarnati nell’esperienza delle persone.
– Pervenire ad una lettura esistenziale o di attualizzazione della Bibbia: dalla
Bibbia alla vita, dalla vita alla Bibbia; la necessaria mediazione culturale.

d. Saper cogliere le maggiori espressioni linguistiche nella Bibbia ed individuare


il loro rapporto con i contenuti religiosi che trasmettono.
Articoliamo questo obiettivo globale in questa terna: a) comprendere almeno
elementarmente che il linguaggio biblico offre delle obiettive possibilità
di esprimere il trascendente religioso; b) a causa di ciò, riconoscere la
pluridimensionalità di tale linguaggio grazie alla percezione delle forme
elementari della tradizione letteraria della Bibbia; c) essere in grado di accostare
Capitolo 13 pag. 194
i testi percorrendo la via linguistica con cui vengono fino a noi.
Ciò comporta:
– Esercitarsi ad individuare alcune funzioni del linguaggio di un testo (prima,
seconda, terza persona) e ricavarne la diversità di incidenza in analogia alle
esperienze quotidiane.
– Riconoscere le forme letterarie maggiori e la loro forza di mediazione in
rapporto ai contenuti. Ad es. la parabola, il racconto, la storia-saga, la narrazione
di miracolo...
– Lasciarsi toccare, per meglio comprenderli, dai simboli maggiori della Bibbia
(luce, acqua, pane...).
– Conoscere convergenza e differenza tra linguaggio biblico, linguaggio religioso
e linguaggio umano (scientifico, pratico, poetico).

e. Saper usare materialmente il testo biblico.


Ciò comporta:
– Saper trovare un passo citato, riconoscere le sigle tradizionali, leggere con
senso un determinato brano, possedere una Bibbia personale.
– Lasciarsi interrogare dal testo; saper lavorare su di esso; saper reagire ad esso.
– Saper ridire in termini attuali, propri, i significati maggiori colti da parole e
fatti della Bibbia, utilizzando tutti i linguaggi convenienti (verbale, non verbale,
figurato, drammatico...).

f. Sapere gli elementi che caratterizzano una lettura credente della Bibbia.
Ciò comporta:
– Riconoscere i tratti costitutivi l’incontro di fede con la Bibbia e sapervi darne le
ragioni motivate dalla stessa Bibbia.
– Sapere del rapporto tra Bibbia e movimento ecumenico dalla Riforma
protestante ai nostri giorni.
Capitolo 13 pag. 194/195
– Distinguere la comprensione ebraica e cristiana delle Scritture.
– Riconoscere identità e differenza tra i Libri Sacri delle grandi religioni.

12. CONCLUSIONE
Più di una volta presentando la componente biblica dei Programmi di IRC
abbiamo percepito negli insegnanti un certo malessere, come di fronte a
qualcosa di eccessivo, di troppo elevato e ancor peggio di estraneo agli interessi
degli alunni. Non si rischia di scadere nel biblicismo, che comprometterebbe
la verità della disciplina medesima, e nell’indifferenza e noia degli allievi? Può
essere un duplice pericolo. Da quanto abbiamo fin qui esaminato ci sembra di
poter concludere così:

a. La Bibbia è una dimensione dell’IRC, non è tutto l’IRC, e quindi è chiamata


a operare in un contesto più ampio sia pedagogico (interessi degli alunni) che
didattico (possibilità e risorse della scuola).

b. Quindi la Bibbia gioca il suo ruolo assieme ad altre componenti, come quella
esperienziale, storica, fenomenico-religiosa, che hanno diritto di farsi sentire.

c. Riteniamo anzi che la Bibbia in una realistica comprensione della situazione


pedagogica venga dopo altre componenti, soltanto nel momento che le spetta.
In partenza è l’esperienza, la domanda, la ricerca di senso, il confronto culturale
che fanno da battistrada. Ma qui si noterà come la Bibbia stessa sia un grande
libro di esperienze e di grandi esperienze.

d. La Bibbia entra con il diritto di documento o fonte primaria nella logica di un


IR cattolico, quindi in quella fase del processo didattico in cui il documento deve
svolgere il suo ruolo, secondo gli obiettivi da perseguire, le funzioni riconosciute
Capitolo 13 pag. 195
a tale documento e con l’ampiezza di trattazione necessaria.

2.4. Appendice

Quali sono i testi biblici più adeguati e significativi nel corso scolastico di
insegnamento religioso? È una domanda legittima, ma la risposta non può
essere che ipotetica, da verificare e da formulare nella propria pratica. Vi sono
però dei «punti di riferimento» che meritano attenzione.

1. Un corso di IRC che va teoricamente dalla scuola dell’infanzia fino alla


secondaria superiore per un complesso di 14-15 anni, e secondo una organicità
di sviluppo, dovrebbe produrre un certo patrimonio biblico di base. È da chiedersi
perché questo purtroppo avvenga ancora troppo poco.

2. Nei testi di religione attuali, la componente biblica appare modulata su quattro


argomenti:
– La legittimazione della Bibbia all’interno della fede cristiana nel quadro della
Rivelazione e/o nella prospettiva di Libro Sacro dell’ebraismo-cristianesimo nel
contesto delle grandi religioni.
– Elementi più o meno ampi di conoscenza della Bibbia in se stessa (coordinate
storiche, letterarie, teologiche), dei Vangeli e della Chiesa delle origini, grandi
temi biblici: creazione, esodo, la figura di Gesù e il suo messaggio, concezione
antropologica ed etica...
Appaiono meno sviluppati «la storia degli effetti» della Bibbia, il confronto
culturale (non solo interreligioso), il mondo del linguaggio biblico.
Superficialità ed acriticità si manifestano a riguardo della storicità attribuibile al
testo biblico, al rapporto fra AT e NT, alla dimensione escatologica e messianica
Capitolo 13 pag. 196
come criterio interpretativo del tempo postbiblico e nostro.

3. È stato cercato di individuare quelli che si possono chiamare testi alti o testi-
guida della Bibbia (Buzzetti, 1999).
Qui proponiamo una serie di testi che riteniamo più significativi per conoscere la
Bibbia nella scuola (non in corsivo i testi più rilevanti).
DALL’ANTICO TESTAMENTO DAGENESI 1–11
• La creazione e la caduta (Gn 1-3) - Caino-Abele (Gn 4); Diluvio ed Arca di Noè con
arcobaleno (Gn 6-9)
DALCICLO DEI PATRIARCHI
• La vocazione di Abramo (Gn 12,1-3) - L’apparizione dei tre a Mambre (Gn 18,1-15)
• Il sacrificio di Isacco (Gn 22,1-19) - Lotta di Giacobbe con l’angelo (Gn 32,23-33)
DALCICLO DELL’ESODO
• Il roveto ardente (Es 3)
• La celebrazione della Pasqua (cf Es 12-13)
• Il passaggio del mare (Es 14)
• Alleanza e tavole della legge sul Sinai (cf Es 19-24) - Le acque di Meriba (Nm 20,1-13)
DALCICLO DELLA CONQUISTA
• L’assemblea di Sichem (Gs 24) - La caduta di Gerico (Gs 6)
DALCICLO DELLAMONARCHIA
• La vocazione di Samuele (1 Sam 3)
• Davide e Golia (1 Sam 17)
• Davide porta l’arca dell’alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6) - Il peccato di Davide e il
monito del profeta (cf 2 Sam 11-12)
• Salomone consacra il Tempio di Gerusalemme (cf 1 Re 6-8)
• La caduta di Gerusalemme (2 Re 25)
DALCICLO DEI PROFETI
• La denuncia di Elia contro Acab (1 Re 21) - Elia sull’Horeb incontra Dio (1 Re 19)
• Il libro dell’Emmanuele (Is 7-12)
• Giona: conversione e missione

Capitolo 13 pag. 196/197


• Il sogno di Nabucodonosor (Dn 4)
DALCICLO DEI SALMI
• Sal 8: Chi è l’uomo?; 22: Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ? 23: Il buon pastore;
104: Lo splendore della creazione; 136: Il grande ringraziamento
DALCICLO DEI SAPIENZIALI
• Il lamento di Giobbe (Gb 3); la risposta di Dio (Gb 38-39)
• Il mistero dell’amore umano (Cantico dei Cantici)
DAL NUOVO TESTAMENTO DALLAVITADI GESÙ Si può seguire un Vangelo per
intero, in particolare Marco, studiandolo nel suo profilo storico e nella sua costruzione
teologica, facendo conoscere contemporaneamente la figura di Gesù, la visione specifica
di Marco, la natura e l’origine del Vangelo. Qui proponiamo una serie di testi significativi a
riguardo della esistenza di Gesù attinti dai quattro vangeli.
• Annunciazione a Maria (Lc 1,26-38) e/o a Giuseppe (Mt 1,18-25). La visita di Maria ad
Elisabetta (Lc 1,39ss)
• La nascita di Gesù a Betlemme (Lc 2,1-20). La fuga in Egitto (Mt 2,1-12)
• La predicazione del Battista e Battesimo di Gesù (Mt 3)
• Gesù guarisce un cieco (Mc 10,46-52)
• Gesù moltiplica il pane per la gente (Mc 6,33-44)
• La parabola del seminatore (Mt 13,3-9)
• L’Ultima Cena (cf Mc 14,1-31)
• L’agonia di Gesù (Mc 14,32-42)
• Il cammino della croce (cf Mc 15,21ss)
• La crocifissione con a fianco Maria (Gv 19,25-27)
• La sepoltura (Mc 15,43-47)
• La risurrezione (Lc 24,1-5)
• Gesù e i due di Emmaus (Lc 24,13-35)
• L’ascensione di Gesù (cf At 1,6-11)
• La Pentecoste (At 2,1-13)
DALCICLO DEGLI APOSTOLI
• Pietro predica al popolo (cf At 3)
• La conversione di Paolo a Damasco (At 9)
Capitolo 13 pag. 197/198
DALCICLO DI PAOLO
• Sofferenza e gioia (2 Cor 11-12)
• Il discorso della croce (1 Cor 2)
• L’inno della carità (1 Cor 13)
• L’inno della speranza (Rm 8)
DALCICLO DELL’APOCALISSE
• Il veggente che vede il libro sigillato (cf Ap 1)
• La guerra della donna e del serpente (Ap 12)
• La Gerusalemme celeste (cf Ap 21-22)

3. La storia della Chiesa come fonte

Per esigenza di spazio riserviamo l’attenzione ad alcuni aspetti dell’argomento


più congrui al tema.

13. Come è noto, la Chiesa è presente nell’IRC come oggetto di studio, in


quanto fa parte dei contenuti costitutivi della religione cristiana, al seguito della
figura di Cristo.
La sua conoscenza avviene a due livelli: sistematico dottrinale, ossia la verità
della Chiesa secondo la riflessione teologica, e storico, ossia come la Chiesa si è
manifestata lungo i secoli ed oggi ancora si manifesta.
È secondo questo livello storico che la Chiesa viene abitualmente presentata
nei testi di religione, quasi sempre nel ciclo della scuola media e secondaria
superiore, con una ampiezza assai diversificata, con una impostazione più
approfondita (attenzione alle idee) o più aneddotica. La sequenza seguita è
quella abituale: origini cristiane, espansione dei primi secoli, il medioevo, l’età
moderna, l’età contemporanea.

Capitolo 13 pag. 198


14. Ma sarebbe depauperante considerare la Chiesa soltanto come oggetto
di studio a se stante, spingendosi tutt’al più ad una presentazione apologetica
a riguardo di certi aspetti della sua vicenda. In realtà proprio in forza della sua
natura di istituzione nel tempo, la Chiesa favorisce la comprensione di una
componente fondamentale del cristianesimo, la sua qualità storica, quindi la sua
identità dinamica, differenziata ed insieme continuativa.
L’approccio storico infatti per sua natura porta alla luce la realtà della Chiesa nel
concreto di una situazione temporale, locale e culturale. Ciò permette di cogliere
l’interazione tra la Chiesa e il contesto umano (culturale, sociale), gli influssi di
ambiente, dati e ricevuti, e dunque il profilo specifico che assume lungo i tempi la
fede cristiana, ed insieme l’impatto culturale che si provoca nel mondo civile.
In quest’ottica, la Chiesa va compresa nel solco della «storia degli effetti» al
seguito della Bibbia e sotto la Bibbia.
Le Indicazioni della Riforma della scuola, se un po’ inspiegabilmente tacciono
della Chiesa come entità storica, almeno implicitamente la coinvolgono quando
raccomandano «la conoscenza della nascita della religione cristiana, le sue
peculiarità e il suo sviluppo» richiamando il ruolo ricoperto dal cristianesimo
nell’incontro tra romani e barbari e dunque nella nascita e nell’idea stessa di
Europa.
Per questa ragione la Chiesa non potrà non affacciarsi sullo scenario delle
diverse età (v. sopra n. 4).

15. La fonte biblica si prolunga dunque nella fonte storico-ecclesiale.


Se la prima rappresenta il codice scritto come regola di ogni sviluppo, la
seconda dice la Tradizione, ossia come il seme biblico si è sviluppato nelle
diverse epoche storiche, come il credo biblico originario compare attualizzato nel
credo ecclesiale, come i grandi personaggi della storia biblica trovano riscontro,
positivo o negativo, nelle figure eminenti (i «santi» o «peccatori») che popolano
Capitolo 13 pag. 198/199
la storia della Chiesa...
La Chiesa nella storia si fa dunque documentazione significativa della RC in
quanto ne evidenzia periodicamente la coscienza viva, con luci ed ombre. Tale
coscienza la Chiesa abitualmente codifica in testi magisteriali e la esprime in
testimonianze di vita. Entrambe le forme – come abbiamo potuto accennare (n.
3) – costituiscono la Tradizione, che con la Scrittura diventa il canale secondo ed
interconnesso, della RC. Valorizzarla è non solo una ricchezza, ma un compito.
16. Volendo articolare la documentazione postbiblica in relazione all’IRC, alla
luce anche dei programmi vigenti, possiamo distinguere tre categorie, avendo
presente di mantenerle tra loro connesse, e a loro volta leggerle in collegamento
con la Bibbia.
a. Per la loro oggettiva precisione e agibilità, oltreché per l’intrinseco valore
di atti ufficiali recepiti come normativi dalla coscienza credente, vengono i
documenti del Magistero, di cui i più importanti sono quelli prodotti dal Concilio
Vaticano II, ovviamente assunti secondo l’intrinseco peso. Beninteso, non
mancherà nella presentazione delle varie fasi storiche, il riferimento a testi
fondamentali, come testi dei grandi Concili delle origini e del Concilio di Trento.
Una scuola di religione che è attenta alla contemporaneità non può trascurare
certi documenti che testimoniano i problemi di un’epoca, come le grandi
questioni sociali. Per cui il riferimento al Magistero sociale dei Papi (Giovanni
XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II) non dovrebbe mancare. Sulla stessa linea, per
l’autorevolezza che viene riconosciuta, fanno buon servizio di documentazione i
Catechismi ufficiali (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992; Catechismi italiani,
1970-1995). (Dai documenti magisteriali citati si realizzerà una sintesi dottrinale sulla identità
della Chiesa.)
b. Una seconda categoria di documentazione, meno precisa dei testi ufficiali, ma
più avvincente e convincente, è data dalle «persone che hanno vissuto o vivono
in maniera significativa i valori religiosi». I vigenti programmi di scuola primaria
Capitolo 13 pag. 199/200
ricordano «Maria di Nazaret, S. Benedetto, i santi Cirillo e Metodio patroni di
Europa, S. Francesco, S. Caterina da Siena patroni d’Italia, altre figure di Santi,
particolarmente quelli locali e di testimoni viventi». Le ultime parole allargano
l’orizzonte, potendo attingere dai contesti reali di vita degli alunni.
c. Una terza categoria si può radunare nell’insieme di segni di vita cristiana
presenti nell’ambiente: espressioni artistiche e letterarie; arti figurative, canto,
musica; tradizioni, usi e costumi; ricorrenze e feste legate all’anno liturgico;
simboli e segni liturgici...
Tali segni rientrano nell’alveo della storia degli effetti, che hanno dalla Bibbia
l’ispirazione e ricevono nella mediazione ecclesiale, la loro espressione effettiva
e dunque lo spessore culturale.

4. Conclusione

17. Per garantire un reale servizio di IRC compreso alla fonte, superando il
rischio di dispersione in una rassegna superficiale di notizie più o meno curiose
fini a se stesse, si profilano indispensabili alcune indicazioni didattiche: a. È
necessario valorizzare la componente storica nell’approccio alla RC, non
limitandosi alla presentazione logica del tipo «domanda religiosa-risposta
delle religioni – rivelazione ebraico-cristiana – articoli fondamentali del Credo
e della morale cristiana...». Una tale trattazione senza sviluppo storico, rischia
l’irrigidimento formale ed una assolutizzazione concettuale, teologica o
antropologica che sia, che deforma la RC rinchiudendola nella perfezione di
verità astratte. E d’altra parte una pura esposizione storica, senza momenti
di sintesi concettuale organica, espone il dato cristiano ad una comprensione
relativistica, riduttiva ed estrinseca.
La componente storica dell’IRC si inserisce così opportunamente nell’ottica degli
Capitolo 13 pag. 200
obiettivi che la Riforma della scuola propone come strumento per approfondire
la identità propria e collettiva, segnatamente quella dell’Italia e dell’Europa (v.
sopra n. 4). E con un contributo certamente ricco ed interessante. Il dialogo
interdisciplinare con la storia diventa una proposta sollecitante.
b. Trattare di documenti storici in funzione dell’IRC richiede evidentemente
conoscenze adeguate, onestà intellettuale e competenza pedagogica e didattica,
mancando le quali si cade nella falsificazione manipolatoria o in percorsi noiosi.
Si tratterà dunque di fare una scelta con cura dei contenuti, di portare ad una
effettiva conoscenza del documento (biblico), sapendolo leggere e spiegare,
di evidenziare il valore intrinseco delle fonti per la religione cattolica che si va
studiando, e più ampiamente, e di riflesso, per la cultura dell’uomo (alunno) di
oggi.

Indicazioni bibliografiche

BISSOLI C. (1982), La Bibbia nella scuola, Brescia, Queriniana.


BISSOLI C. (1997), Viaggio dentro la Bibbia, Leumann (Torino), Elledici.
BISSOLI C. (1998), Una Bibbia sempre giovane. Tracce per un incontro,
Leumann (Torino), Elledici.
BUZZETTI C. (ed.) (1999), La Bibbia a piccole dosi, Leumann (Torino), Elledici.
FRYE N. (1984), Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, Einaudi.
MAGGIONI B. et alii (2001), Commento alla «Dei Verbum», Padova, Messaggero.
PELLETTIER A. M. (1999), La Bibbia e l’Occidente, Letture bibliche alle sorgenti
della cultura occidentale, Bologna, EDB.
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA (1993), L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa, Roma, Libreria Editrice Vaticana.
SALVARANI B. (2001), A scuola con la Bibbia. Dal libro assente al libro ritrovato,
Capitolo 13 pag. 200/201
Bologna, EMI.
STEFANI P. (2003), La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura
occidentale, Milano, Bruno Mondadori.
UCN (1996), Incontro alla Bibbia. Breve introduzione alla Sacra Scrittura, Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana.
In particolare per la storia della Chiesa può essere utile: ERBA A. - P. L. GUIDUCCI
(2003), La Chiesa nella storia. Duemila anni di Cristianesimo, Leumann, Elledici.
Cf anche le annate delle Riviste: «Insegnare Religione», Elledici, 1994-1998;
«Religione e Scuola», Queriniana, 1995-1996.

Capitolo 13 pag. 201


PARTE TERZA

La gestione del processo di


apprendimento

Nel cuore dell’impegno educativo sta la gestione del processo di apprendimento.


Si sono voluti esplorare i riferimenti fondanti – per così dire, strutturali – dell’IRC:
– Gli obiettivi (Maurizio);
– Il sapere religioso (Trenti);
– I metodi (Romio).
La programmazione è stata da prima impostata su linee generali:
– La programmazione - Piano Offerta Formativa e Programmi CEI (Morante);
– Infanzia e Primaria: Le scelte didattiche generali (Zuccari).
E quindi nelle sue elaborazioni specifiche:
– per la scuola dell’infanzia (Zuccari)
– per il primo ciclo nella scuola primaria (Zuccari) nella scuola secondaria di 1°
grado (Pajer)
– per il secondo ciclo nei licei (Maurizio) nel sistema di istruzione e di formazione
professionale (Tonini).
Un’attenta puntualizzazione è stata offerta
– per il testo e gli strumenti didattici (Romio);
– per la sperimentazione CEI (Rezzaghi).

pag. 203
CAPITOLO 14

GLI OBIETTIVI
Lucillo Maurizio

1. Il quadro generale

Per molti docenti singoli e per i collegi, nelle loro varie articolazioni, di consigli
di classe, di coordinamenti per discipline, la definizione degli obiettivi costituisce
uno dei passaggi della programmazione educativa e didattica.
Nella nostra pratica didattica italiana la programmazione si è imposta negli anni
’70 in concomitanza con la pubblicazione dei decreti delegati (1974).
La programmazione fu sentita come esigenza di applicare anche alla scuola
la rigorosa metodologia dell’organizzazione della produzione e del lavoro che
aveva caratterizzato l’attività industriale dall’inizio del XX secolo.
I due riferimenti classici sono: «L’organizzazione scientifica del lavoro» di
Frederic W. Taylor del 1903 e «La teoria dell’amministrazione generale d’impresa
» di Henri Fayol del 1920.
Apartire, dunque, dagli anni ’70 si impone il convincimento che anche la scuola
è un’attività produttiva, che deve essere considerata con gli strumenti della
razionalità al fine di ottenere un risultato oggettivamente misurabile e valutabile.
Si abbandona, dunque, una comunità di insegnamento e di apprendimento
basata sul rapporto e sulle doti personali di un insegnante che soggettivamente
impartisce un insegnamento e valuta l’apprendimento in base alla propria
sensibilità ed esperienza, senza dichiarare esplicitamente gli elementi oggettivi di
Capitolo 14 pag. 205
risultati e di prestazioni.
Si passa ad una programmazione che si configura come progetto razionale, che
definisce che cosa si deve apprendere, quali abilità devono essere conseguite,
quali relazioni educative devono essere instaurate.
Il tutto viene tradotto in termini oggettivi, che risultino osservabili, misurabili,
valutabili.
Programmare per obiettivi comporta una nuova impostazione, che è mentale e
culturale, e che si deve tradurre in operazioni esplicite, dichiarate, pubblicate.
Dal punto di vista sociologico è un altro dei classici passaggi da uno stile di vita
comunitario (Gemeinschaft) ad uno stile societario (Gesellschaft), con i vantaggi
e con gli svantaggi che tutto ciò comporta, sia in termini relazionali e produttivi,
che in rapporto alla condizione tipica e unica dell’età evolutiva.
L’attività didattica, concepita come processo di produzione, meglio, di
riproduzione del sapere, del saper fare, del saper essere, non può che essere
programmata, definendo qual è la sua funzione, quali risultati si prefigge di
ottenere, come li può verificare in termini di raggiungimento, come li può rendere
socialmente plausibili.
Ma una simile operazione pone il problema di chi decide e determina quale
dev’essere il processo didattico.
Il più recente cammino di riforma complessiva del sistema educativo di istruzione
e di formazione ha posto l’accento su due aspetti:
– la centralità della persona nel processo di apprendimento
– e la spendibilità sociale della formazione acquisita.

1. La persona dello studente costituisce il centro dell’attività educativa scolastica:


– è il punto di partenza, con la definizione dei bisogni formativi che la persona ha;
– ed è il punto di arrivo, col profilo educativo, culturale e professionale, da
realizzare in uscita.
Capitolo 14 pag. 205/206
La scuola ha la sua ragion d’essere in funzione della persona dello studente in
crescita.
Essa, perciò, si deve interrogare su che cosa comporti mettere lo studente al
centro del processo didattico di insegnamento e di apprendimento.
Viene superata la concezione illuministica dello Stato che obbliga tutti i cittadini
ad un percorso di istruzione:
– che trasmetta loro una cultura ufficiale, la quale favorisca il consenso sui valori
che reggono la compagine sociale;
– e una preparazione professionale in funzione del sistema produttivo
consolidato.
Si parte, invece, dalla persona perché essa, attraverso la scuola cresca e maturi;
– diventando capace di conferire senso e progettualità alla propria esistenza;
– e inserendosi responsabilmente in una società civile nella quale legittimarsi
anche attraverso l’esercizio della professionalità.
La Legge 53 art. 1 c. 1 parla infatti di «crescita e valorizzazione della persona»,
tenendo conto di alcuni aspetti.

1.1. Il rispetto dei limiti dell’età evolutiva La scuola tradizionale spesso offre un
sapere codificato e sistematizzato nel tempo e frutto della ricerca di studiosi
di elevata specializzazione, espresso in un linguaggio rigoroso e adatto alle
capacità di analisi e di sintesi proprie di una persona adulta.
Didatticamente questo sapere si traduce in un programma disciplinare da
insegnare agli studenti e che essi devono apprendere.
Il rispetto dei ritmi dell’età evolutiva comporta una programmazione della
didattica che faccia propri gli stili e i gradi dell’apprendimento cognitivo e lo
sviluppo degli strumenti espressivi corrispondenti ai diversi stadi della crescita e
alle diverse intelligenze, motivazioni, stimolazioni di cui ciascuno può godere.

Capitolo 14 pag. 206


1.2. Le differenze e le identità di ciascuno Le differenze presenti nelle persone
non sono da considerarsi secondo le categorie di normalità e di anormalità,
ma di peculiarità di ciascuno/a, per cui l’identità è connotata anche da ciò
che differenzia e che deve essere valorizzato nella costruzione del proprio
apprendimento personalizzato.
Differenze e identità comportano accentuazioni sia di ordine sociologico che di
ordine psicologico.
Nel primo caso si tratta di tenere in considerazione l’ambito socio-culturale in cui
vive lo studente. Le differenze sono piuttosto risultato delle condizioni sociali e
culturali relative al singolo studente o alla classe scolastica.
Nel secondo caso è rilevante comprendere come lo studente si autopercepisce,
in termini di adesione alla scuola, di motivazione all’apprendimento, di autostima.

1.3. Le scelte educative delle famiglie e la cooperazione tra scuola e genitori Per
quanto riguarda le scelte della famiglia, si presume che esse siano di carattere
valoriale. In altre parole si tratta di tenere presente a quali valori la famiglia crede
e come essi possano essere promossi dall’apprendimento scolastico oppure
come possano essere messi in crisi senza creare traumi affettivi e conflittualità
tra famiglia e scuola.
La cooperazione tra scuola e famiglia comporta:
– da parte della scuola la conoscenza del livello culturale che la famiglia offre e
la considerazione e l’apprezzamento che la famiglia ha nei riguardi della scuola
stessa;
– da parte della famiglia la conoscenza della natura della scuola e del contributo
che essa può dare a vari livelli educativi.

2. La Legge 53 attribuisce allo Stato il compito di definire:


– le «norme generali sull’istruzione»
Capitolo 14 pag. 206/207
– e i «livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione
professionale».
Il consolidamento della comunità statale italiana e il procedere dell’unione
europea, col diritto alla mobilità e a svolgere ovunque attività di impresa ed
esercizio di professione, richiede degli standard omogenei di istruzione e di
formazione professionale, che siano spendibili sia nell’esercizio della cittadinanza
italiana ed europea e della partecipazione alla vita sociale, sia nell’attività
professionale.
Si legittimano, così, le norme generali e i livelli essenziali delle prestazioni
definiti dallo Stato sovrano.
Accanto alla rilevanza della persona nel processo educativo scolastico, la Legge
pone l’accento sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche.
Per autonomia possiamo intendere la capacità che è conferita ad una istituzione
scolastica di raggiungere le finalità assegnatele, in base ad un proprio piano
dell’offerta formativa, fruendo delle risorse che le sono messe a disposizione, nei
limiti delle competenze sue proprie.
L’istituzione scolastica diventa il luogo dove si elabora la proposta educativa
concreta, con attenzione
– ai soggetti dell’apprendimento,
– al contesto socio-culturale,
– alle famiglie.
In concreto, la scuola offre un curriculum che è frutto di un’esperienza
plurisecolare ed è, a sua volta, articolato in ambiti, aree, discipline, a seconda del
grado di scuola.
La sensibilità pedagogica attuale sta tentando una mediazione tra esigenze
istituzionali ed esigenze della persona. Di fatto ha scelto la strada della
personalizzazione del curriculum.
È, indubbiamente, una scelta forte, ma che va concretamente definita e
Capitolo 14 pag. 207/208
razionalmente declinata.
Bisogna, in termini elementari, dire che cos’è e come può venir praticata
nell’attuale contesto scolastico.
Propongo di distinguere tra individualizzazione e personalizzazione.
L’individualizzazione comporta interventi messi in atto dal singolo insegnante o
da un consiglio di classe per adeguare l’insegnamento a condizioni particolari
dello studente.
La personalizzazione parte dall’assunto che lo studente sia il soggetto e il
protagonista del processo di apprendimento.
La Legge 53 art. 2, a proposito della Scuola Media, dice che essa «sviluppa
progressivamente le competenze e le capacità di scelta corrispondenti alle
attitudini e vocazioni degli allievi».
Si parte, dunque, dal presupposto che lo studente abbia certe attitudini e
vocazioni, ossia che si percepisca come predisposto a fare bene alcune cose,
perfezionando il suo operare col procedere dell’esperienza scolastica; e, inoltre,
che egli aspiri a realizzarsi facendo qualcosa, divenendo qualcuno, vivendo in un
certo modo.
Il compito educativo della scuola è, allora, quello di affiancarsi allo studente in
maniera tale che egli comprenda e renda esplicite quali sono le sue attitudini,
quali sono le sue aspirazioni, che cosa egli si prefiguri di fare, anzi di essere,
nella sua vita.
La titolarità del vederci chiaro nella propria vita non può che competere al
soggetto che la vive.
Il compito educativo e didattico consiste nell’essere accanto, con gli strumenti
della scuola, per aiutare lo studente a rendere concreta la progressiva
consapevolezza delle proprie attitudini e del proprio progetto.

Capitolo 14 pag. 208


2. Obiettivi istituzionali

Da quanto detto, si desume che l’istituzione pubblica (nel nostro caso: lo Stato,
le regioni e le province autonome) si assume il compito di stabilire obiettivi
generali per due ragioni, una di livello pratico contingente ed una di livello più
ideale.
La ragione pratica consiste nel fatto che istruzione e formazione siano spendibili
in un’area vasta, data oggi dal contesto italiano ed europeo (Legge 53 art.
1 c. 1).
La seconda ragione (ideale) consiste nel garantire e promuovere una identità
culturale nazionale, che per molte forme di manifestazioni non sembra per nulla
scontata (Legge 53 art. 2.1.b.).
Nel caso dell’IRC, tuttavia, si deve rilevare che esso rientra in una fattispecie
particolare: quella individuata dall’Accordo di revisione del Concordato, stipulato
il 18.02.1984.
L’art. 9, c. 2 contiene tre affermazioni:
– il riconoscimento del «valore della cultura religiosa»; – «i principi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano »;
– l’insegnamento della religione cattolica rientra «nel quadro delle finalità della
scuola».
Il Protocollo addizionale al n. 5 parla di «insegnamento della religione cattolica...
in conformità alla dottrina della Chiesa».
La Legge applicativa è stata frutto di un’Intesa tra il Ministero della P.I. e la CEI
ed è stata firmata il 14.12.1985. Essa dichiara al n. 1 che i programmi – «devono
essere conformi alla dottrina della Chiesa e – collocarsi nel quadro delle finalità
della scuola».
La CEI si è tempestivamente attivata ed ha prodotto nuovi programmi, che sono
stati pubblicati tra il 1985 e il 1987 con DPR.
Capitolo 14 pag. 208/209
Al concretizzarsi di un disegno complessivo di riforma di tutto il sistema
scolastico e della formazione professionale, la CEI, d’intesa col Ministero della
P.I., ha dato vita ad una «Sperimentazione negli anni scolastici 1998-99 e
1999-2000 sui programmi di religione cattolica nella prospettiva dell’autonomia
scolastica e di nuovi programmi».
I risultati definitivi sono stati resi noti nell’agosto 2002.
Nella sua elaborazione, la CEI, mi pare, si è mossa sulle seguenti linee.
Dal punto di vista formale è rilevante il continuo riferimento al «quadro delle
finalità della scuola». Questo comporta che l’IRC deve operare nella scuola
con la stessa qualità di presenza delle altre discipline; quindi rientrare nella
metodologia della programmazione, nella quale devono essere dichiarate le
finalità da raggiungere e declinate secondo obiettivi chiari e precisi, verificabili e
misurabili.
Dal punto di vista materiale contenutistico:
– il riferimento obbligante è alla dottrina della Chiesa;
– cui si aggiunge il riferimento al contributo dato dal cattolicesimo al patrimonio
storico italiano, sia per quanto riguarda l’imponente lascito culturale artistico, sia
per quanto concerne i principi valoriali e morali.
Più dettagliatamente, la scuola non può disconoscere che la religione è una
componente dell’esperienza culturale umana universale, non solo occidentale o
italiana.
I campi di sua pertinenza sono:
– il senso dell’esistenza;
– il linguaggio, come interpretazione, come comunicazione, come partecipazione;
– i valori, che reggono la vita personale e collettiva;
– la legittimazione storica di molte istituzioni;
– l’impegno morale.
Certo, in una società e in una cultura laiche e pluraliste non è pensabile
Capitolo 14 pag. 209
l’imposizione di una linea culturale. Tuttavia ogni linea ha il diritto di esistere, di
proporsi, di legittimarsi in base ad una razionalità di argomentazioni.
Per il peso e lo spessore della sua storia, la religione ed il cattolicesimo non
possono non essere riconosciuti come una componente fondamentale della
cultura italiana.
Da queste considerazioni, la CEI ha ricavato un modello di itinerario didattico
che porti all’acquisizione di specifiche «competenze fondamentali».
Esse sono:
– conoscere le fonti del cristianesimo e le sue verità fondamentali;
– saper elaborare e giustificare, secondo l’età, le proprie scelte esistenziali, in
rapporto alla conoscenza della religione cristiana e dei suoi valori;
– saper esporre, documentare e confrontare criticamente i contenuti del
cattolicesimo con quelli di altre confessioni cristiane, delle religioni non cristiane e
di altri sistemi di significato;
– saper entrare in dialogo con chi ha convinzioni religiose o filosofiche diverse
dalle proprie;
– saper riconoscere il contributo della fede in Cristo e della tradizione della
Chiesa al progresso culturale e sociale del popolo italiano, dell’Europa e
dell’intera umanità.

3. La personalizzazione degli obiettivi

Il raggiungimento delle competenze di cui si è parlato comporta, certo, la


definizione degli obiettivi da raggiungere, ma a questa operazione deve essere
premessa l’analisi delle condizioni per la personalizzazione. Sono da tenere
presenti aspetti sia di carattere psicologico sia di carattere sociologico.
In primo luogo si dovrà porre la motivazione soggettiva all’apprendimento.
Capitolo 14 pag. 210
Se lo/la studente non è motivato, ben difficilmente si metterà in condizione di
apprendimento.
L’insegnante, dopo aver diagnosticato l’eventuale carenza motivazionale, dovrà
elaborare una strategia per motivare all’apprendimento.
L’obiettivo educativo sarà dunque: motivare lo studente all’apprendimento.
In secondo luogo deve essere posta attenzione sulle modalità di percezione, di
memorizzazione, di apprendimento.
Le ricerche di psicologia dell’apprendimento hanno dato un grande contributo
per poter conoscere e comprendere il percorso che ciascuno, nelle diverse fasi di
età e secondo le peculiarità proprie, compie per acquisire un apprendimento.
La definizione degli obiettivi dovrà, dunque, tenere conto delle diverse modalità
di apprendimento della persona.
Dal punto di vista sociologico sarà necessario rilevare quali stimolazioni, in
termini positivi o negativi, provengono dall’ambito socio-culturale della famiglia e
della collettività di appartenenza.
Gli obiettivi cercheranno forme di intervento che conducano ad analizzare
criticamente, in base cioè a criteri valoriali, i condizionamenti ambientali, allo
scopo di maturare scelte che valorizzino l’attività educativa scolastica.
Tutto ciò premesso, il rapporto tra istanze istituzionali e personalizzazione dei
curricula ha raggiunto la seguente attuale configurazione.
Il MIUR ha elaborato il Profilo educativo, culturale e professionale che
concretamente esplicita ciò che ogni studente, alla fine del Primo ciclo e,
rispettivamente, del Secondo ciclo deve:
– sapere (le conoscenze disciplinari e interdisciplinari),
– saper fare (le abilità operative o professionali),
– saper essere, come uomo, cittadino, lavoratore.
Nel Profilo, il culturale e il professionale confluiscono nell’educativo personale,
in modo che le conoscenze (sapere), le abilità operative (saper fare), le capacità
Capitolo 14 pag. 210/211
relazionali (saper essere) diventano competenze acquisite, con convinzione e
criticità, dalla persona.
Il Profilo educativo, culturale e professionale, diventa il riferimento per la
determinazione degli obiettivi generali, ma anche degli obiettivi specifici
dettati dalle Indicazioni nazionali a riguardo dei diversi periodi didattici che
caratterizzano i gradi scolastici di ciascun ciclo.
La scuola e i docenti sono chiamati a trasformare il Profilo e gli obiettivi generali
e specifici in obiettivi didattici formativi relativi alla concreta situazione di
apprendimento.
Tutti i programmi di insegnamento finora vigenti, pur nell’ampiezza della
discrezionalità, dovevano essere applicati e domandavano ai docenti
l’atteggiamento professionale dell’esecutività.
Le Indicazioni nazionali sono una specie di materia prima a cui i docenti e le
scuole sono chiamati a dare la propria forma, in base alle esigenze degli studenti,
delle famiglie, del territorio.
Sono, perciò, da farsi due operazioni:
– interpretazione scientifica,
– operazionalizzazione didattica.
Vengono indicati i livelli essenziali delle prestazioni.
La scuola e i docenti devono individuare le modalità per il raggiungimento.
Si esige, dunque, la prestazione professionale della progettazione, della
creatività, dell’autonomia, nel senso sopra definito.
L’obiettivo deve concretizzarsi nella costruzione di un’unità di apprendimento
specifica e deve essere finalizzato all’acquisizione di una competenza.

Capitolo 14 pag. 211


4. Gli obiettivi dell’IRC nei diversi gradi di scuola

L’IRC, come detto, ha percorso una propria strada attraverso la Sperimentazione


1998-2000.
Il documento conclusivo (2002) può essere assimilato formalmente
alle Indicazioni nazionali del Ministero. Esso però ha un carattere più
pronunciatamente prescrittivo.
Tenendo conto di queste prescrizioni e dei riferimenti generali sopra enunciati,
si propone ora una mappa di obiettivi che hanno il carattere della generalità e
che, perciò, abbisognano di essere tradotti dall’IdR nella concreta situazione di
insegnamento in cui si trova ad operare.
Si opera una suddivisione secondo i gradi di scuola presenti e previsti dalla
Legge 53.

4.1. Obiettivi dell’IRC nella Scuola dell’Infanzia

Il 23 ottobre 2003 la CEI e il MIUR hanno approvato di comune intesa gli


«Obiettivi specifici di apprendimento propri dell’IRC nell’ambito delle indicazioni
nazionali per i piani personalizzati delle attività educative», concernenti la Scuola
dell’Infanzia.

Capitolo 14 pag. 211/212


Scuola dell’Infanzia.
Li riportiamo integralmente
Li riportiamo nellanella
integralmente tabella di seguito.
tabella di seguito.

RELIGIONE CATTOLICA
Obiettivi specifici di apprendimento

SCUOLA DELL’INFANZIA
– Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religio-
si dono di Dio Creatore.
– Scoprire la persona di Gesù di Nazaret come viene presentata dai Vangeli e come
viene celebrata nelle feste cristiane.
– Individuare i luoghi di incontro della comunità cristiana e le espressioni del co-
mandamento evangelico dell’amore testimoniato dalla Chiesa.

Tenendo
Tenendo conto
conto di quanto
di quanto stabilito
stabilito prescrittivamente,
prescrittivamente, vengono
vengono proposti
proposti alcuni
alcuni
suggerimenti per la programmazione concreta dell’insegnante.
suggerimenti per la programmazione concreta dell’insegnante.
PerPer stabilire gli obiettivi
stabilire delledelle
gli obiettivi attività educative
attività relative
educative all’IRC
relative nella Scuola
all’IRC nella Scuola
dell’Infanzia sarà necessario tenere conto dei seguenti
dell’Infanzia sarà necessario tenere conto dei seguenti aspetti: aspetti:
––non nonè possibile
è possibileprescindere
prescinderedaldalcontesto
contestoesperienziale
esperienziale delle
delle bambine
bambine ee deidei bam-
bambini
bini da tre a sei anni, per cui l’esperienza costituirà il punto di partenza didiogni
da tre a sei anni, per cui l’esperienza costituirà il punto di partenza
ogniattività
attivitàdidattica,
didattica,che
chedovrà
dovràcondurre
condurreall’osservazione
all’osservazionedelladellaloro
loro realtà
realtà per
perco-
cogliere in essa aperture alla curiosità, all’esplorazione, all’interrogazione, allo
gliere in essa aperture alla curiosità, all’esplorazione, all’interrogazione, allo
stupore, all’ascolto del racconto-spiegazione;
stupore, all’ascolto del racconto-spiegazione;
– il linguaggio non può che essere concreto: le astrazioni sono improponibili, in
– il linguaggio non può che essere concreto: le astrazioni sono improponibili, in
quanto letteralmente il bambino/a non è in grado di concettualizzare in modalità
quanto letteralmente il bambino/a non è in grado di concettualizzare in moda-
Capitoloastratte;
lità 14 pag. 212
astratte;
– il mondo familiare di provenienza rappresenta anche l’orizzonte dell’esperienza
e il riferimento affettivo per la sicurezza della persona del bambino/a come
individuo/a;
– il bambino/a è disponibile alla scoperta e alla meraviglia;
– esso/a si apre gradualmente al rapporto con i pari età.
Un accorgimento.
Si può partire dai perché dei bambini/e per sviluppare una esplorazione del
vissuto.
Bisogna, tuttavia, mettere in evidenza che i perché dei bambini non sempre
sono posti per il desiderio di sapere, e, quindi, di avere una risposta di carattere
cognitivo, ma spesso costituiscono una richiesta di attenzione o, addirittura, si
configurano come forma di esibizione.
Di conseguenza, più che favorire i perché spontanei, l’insegnante, attraverso
l’invito all’osservazione e attraverso il racconto, suscita la domanda che egli
ritiene didatticamente importante.
Ciò posto i possibili obiettivi sono i seguenti.
Obiettivo 1 Con l’osservazione della natura il bambino/a sia in grado di provare
la sensazione di stupore e di meraviglia.
Obiettivo 2 Il bambino/a osservando la propria crescita sia in grado di cogliere la
vita come continua novità.
Obiettivo 3 Il bambino/a riconosca e conosca gli eventi che riguardano Gesù,
l’attesa, il Natale, Pasqua.
Obiettivo 4 Il bambino/a riconosca alcuni segni della vita religiosa: chiesa edificio,
preghiera, presepe, celebrazioni liturgiche.
Obiettivo 5 Sviluppare atteggiamenti di ringraziamento e di lode, che possono
portare a comprendere il significato della preghiera.
Obiettivo 6 Essere capaci di vivere con gli altri, nel rispetto di alcune regole di
Capitolo 14 pag. 212/213
comportamento stabilite in base a valori.

4.2. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Primaria

Il 23 ottobre 2003 la CEI e il MIUR hanno approvato di comune intesa gli


«Obiettivi specifici di apprendimento propri dell’IRC nell’ambito delle indicazioni
nazionali per i piani di studio personalizzati» relativi alla Scuola Primaria.
Li riportiamo integralmente nella tabella di seguito.

RELIGIONE CATTOLICA
Obiettivi specifici di apprendimento

SCUOLA PRIMARIA

CLASSE 1a
– Dio Creatore e Padre di tutti gli uo- – Scoprire nell’ambiente i segni che ri-
mini. chiamano ai cristiani e a tanti creden-
– Gesù di Nazaret, l’Emmanuele «Dio ti la presenza di Dio Creatore e Padre.
con noi». – Cogliere i segni cristiani del Natale e
– La Chiesa, comunità dei cristiani della Pasqua.
aperta a tutti i popoli. – Descrivere l’ambiente di vita di Gesù
nei suoi aspetti quotidiani, familiari,
sociali e religiosi.
– Riconoscere la Chiesa come famiglia
di Dio che fa memoria di Gesù e del
suo messaggio.
Capitolo 14 pag. 213/214
di Dio che fa memoria di Gesù e del
suo messaggio.

CLASSE 2a E 3a
– L’origine del mondo e dell’uomo nel – Comprendere, attraverso i racconti
cristianesimo e nelle altre religioni. biblici delle origini, che il mondo è
– Gesù, il Messia, compimento delle opera di Dio, affidato alla responsa-
promesse di Dio. bilità dell’uomo.
– La preghiera, espressione di religio- – Ricostruire le principali tappe della
sità. storia della salvezza, anche attraver-
– La festa della Pasqua. so figure significative.
– La Chiesa, il suo credo e la sua mis- – Cogliere, attraverso alcune pagine
sione. evangeliche, come Gesù viene in-
contro alle attese di perdono e di pa-
ce, di giustizia e di vita eterna.
– Identificare tra le espressioni delle re-
ligioni la preghiera e, nel «Padre No-
stro», la specificità della preghiera
cristiana.
– Rilevare la continuità e la novità del-
la Pasqua cristiana rispetto alla Pa-
squa ebraica.
– Cogliere, attraverso alcune pagine
degli «Atti degli Apostoli», la vita del-
la Chiesa delle origini.
– Riconoscere nella fede e nei sacra-
menti di iniziazione (battesimo-con-
fermazione-eucaristia) gli elementi che
costituiscono la comunità cristiana.

Capitolo 14 pag. 214


214
CLASSE 4a E 5a
– Il cristianesimo e le grandi religioni: – Leggere e interpretare i principali se-
origine e sviluppo. gni religiosi espressi dai diversi po-
– La Bibbia e i testi sacri delle grandi poli.
religioni. – Evidenziare la risposta della Bibbia
– Gesù, il Signore, che rivela il Regno alle domande di senso dell’uomo e
di Dio con parole e azioni. confrontarla con quella delle princi-
– I segni e i simboli del cristianesimo, pali religioni.
anche nell’arte. – Cogliere nella vita e negli insegna-
– La Chiesa popolo di Dio nel mondo: menti di Gesù proposte di scelte re-
avvenimenti, persone e strutture. sponsabili per un personale progetto
di vita.
– Riconoscere nei santi e nei martiri, di
ieri e di oggi, progetti riusciti di vita
cristiana.
– Evidenziare l’apporto che, con la dif-
fusione del Vangelo, la Chiesa ha da-
to alla società e alla vita di ogni per-
sona.
– Identificare nei segni espressi dalla
Chiesa l’azione dello Spirito di Dio,
che la costruisce una e inviata a tutta
l’umanità.
– Individuare significative espressioni
d’arte cristiana, per rilevare come la
fede è stata interpretata dagli artisti
nel corso dei secoli.
– Rendersi conto che nella comunità
Capitolo 14 pag. 215
fede è stata interpretata dagli artisti
nel corso dei secoli.
– Rendersi conto che nella comunità
ecclesiale c’è una varietà di doni,
che si manifesta in diverse vocazioni
e ministeri.
– Riconoscere in alcuni testi biblici la
figura di Maria, presente nella vita
del Figlio Gesù e in quella della
Chiesa.

Le Le
considerazioni
considerazioni cheche
seguono,
seguono,nelnel
rispetto delle
rispetto disposizioni
delle disposizionidi cui sopra,
di cui sopra, vo-
vogliono offrireun
gliono offrire uncontributo
contributoalla
allamediazione
mediazionedidattica.
didattica.
La scuola primaria (elementare) abbraccia il periodo della fanciullezza, che
generalmente è caratterizzato
La scuola primaria da unaabbraccia
(elementare) crescita abbastanza tranquilla,
il periodo della sempre che
fanciullezza,
legata all’ambiente
generalmente familiare, ma
è caratterizzato da anche caratterizzata
una crescita abbastanzadall’acquisto
tranquilla,disempre
una lega-
crescente autonomia.
ta all’ambiente familiare, ma anche caratterizzata dall’acquisto di una crescente
L’attività didattica può svolgersi tranquillamente e senza contestazioni
autonomia.
significative
L’attivitàche mettano
didattica puòinsvolgersi
difficoltà.tranquillamente e senza contestazioni signi-
L’entrata in questo ordine di
ficative che mettano in difficoltà. scuola comporta un graduale e progressivo
approccio ad un’attività didattica organica, che ha di mira l’acquisizione di alcuni
saperi 215
Per quanto concerne l’IRC, saperi e competenze riguardano i seguenti nuclei di
contenuto:
– ricerca della verità che dà senso all’esistenza umana;
– confronto con i grandi perché della vita;
– analisi delle risposte offerte dalla religione cristiana, dalle altre religioni, dalle
diverse visioni della vita;
– conoscenza della storia della salvezza contenuta nella Bibbia;

Capitolo 14 pag. 215/216


– conoscenza della figura di Gesù Cristo, del suo messaggio rivelatore del volto
di Dio;
– riferire a Gesù l’origine della Chiesa e del movimento cristiano nella storia;
– la definizione dei valori morali fondamentali alla luce della fede cristiana e in
rapporto alle scelte di vita che vanno lentamente maturando.
Ciò premesso, gli obiettivi possono essere così definiti.
Obiettivo 1 A partire dall’esperienza personale e sociale, saper ricavare
domande e risposte sul senso dell’esistenza.
Obiettivo 2 Conoscere gli eventi e i personaggi principali della storia della
salvezza.
Obiettivo 3 Conoscere le coordinate geografiche, storiche e culturali degli eventi
della storia della salvezza.
Obiettivo 4 Conoscere nell’essenziale la persona, l’opera e il messaggio di Gesù
di Nazaret.
Obiettivo 5 Saper ricercare, leggere e comprendere alcuni testi del Nuovo
Testamento.
Obiettivo 6 Conoscere e comprendere l’evento centrale della Pasqua e il suo
significato.
Obiettivo 7 Conoscere alcuni personaggi ed eventi della vicenda cristiana nella
storia.
Obiettivo 8 Riconoscere ed apprezzare valori morali e saperli riferire
all’ispirazione cristiana.

4.3. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Media

L’uscita dalla fanciullezza e l’entrata nella preadolescenza si manifestano:


– nelle prime espressioni del senso critico;
Capitolo 14 pag. 216
– in un inizio di autonomia di gestione del proprio tempo e del proprio spazio;
– nelle espressioni di un’affettività che decisamente esce dall’ambito parentale e
allaccia rapporti di importante riferimento con i pari.
La riforma portata dalla Legge 53 afferma l’importanza dell’approccio disciplinare
specifico, anche se non lo considera come esclusivo, ma come uno degli
elementi che consente la conoscenza di un oggetto di indagine in forma rigorosa
e complementare con le altre discipline e tale da contribuire all’unicità del
soggetto che apprende.
L’approccio disciplinare definisce:
– un oggetto o meglio un ambito di conoscenza ed
– una metodologia di esplorazione, di acquisizione di conoscenze, e di abilità, di
verifica di esse.
Per quanto riguarda l’IRC, secondo le linee programmatiche che derivano dalla
Sperimentazione CEI, le conoscenze e le competenze acquisite sono in funzione
della scoperta della propria identità religiosa.
Non si tratta, perciò, di un sapere con finalità scientifica, organica, sistematica,
ma con finalità educativa, capace di formare la persona dal punto di vista
cognitivo, ma anche esistenziale.
Saranno accentuati i seguenti aspetti, già enunciati a proposito della scuola
primaria: –
la valorizzazione dell’esperienza personale, sociale, culturale dello studente;
– l’uso graduale del vangelo, di altri testi biblici e della tradizione credente;
– l’approccio ai segni e al linguaggio del vissuto e del patrimonio religiosi;
– la conoscenza degli eventi e dei personaggi significativi della storia religiosa del
proprio paese;
– il confronto con altre esperienze religiose.
Aquesto punto possono essere dedotti i seguenti obiettivi.
Obiettivo 1 Essere capace di analizzare le varie esperienze che si succedono
Capitolo 14 pag. 216/217
– nella vita individuale e collettiva del preadolescente,
– nelle forme della cultura, della storia, della scienza che si incontrano,
– nelle problematiche comportamentali che la vita concreta propone.
Obiettivo 2 Saper accostare, leggere, interpretare alcuni testi evangelici e della
tradizione biblica ed ecclesiale.
Obiettivo 3 Riconoscere e interpretare i segni della religione presenti nella realtà
propria e più in generale italiana: chiese, persone religiose, conventi, edicole,
immagini...
Obiettivo 4 Riconoscere e interpretare i sacramenti ricevuti o che si stanno per
ricevere: battesimo, confessione, comunione, cresima.
Obiettivo 5 Conoscere alcuni eventi e alcuni personaggi significativi della storia
cristiana italiana ed europea.
Obiettivo 6 Riconoscere, accostare e stabilire confronti con altre forme religiose
presenti nel proprio ambiente.

4.4. Obiettivi dell’IRC nella Scuola Secondaria Superiore

Il secondo ciclo dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale si


presenta in forma piuttosto complessa ed in attesa di più precise determinazioni.
Esso si suddivide in due canali che appaiono più proiettati verso la reciproca
divergenza che verso la convergenza.
Il canale dell’istruzione e formazione professionale è divenuto di competenza
esclusiva delle regioni e province autonome e prevede la determinazione di
alcune prestazioni omogenee a livello nazionale, ma soprattutto prevede figure
professionali differenziate a seconda delle esigenze regionali e locali. Per quanto
riguarda le discipline più specificamente culturali la prospettiva non è per nulla
chiara.
Capitolo 14 pag. 217
Per il canale liceale, al momento, il riferimento più sicuro, dal quale sono tratte
alcune delle seguenti considerazioni, è costituito dal Documento di Fiuggi, citato
in Bibliografia.
I nuovi licei che emergono dai documenti citati – accentuano l’orientamento alla
teoria, ossia al conoscere fine a se stesso, in quanto formazione della persona;
– il ricorso alla techne, intesa come complesso di strategie razionali che portano
a produrre, operare, costruire qualcosa, è fatto in funzione della teoria, perché
senza tecniche non è possibile accreditare la certezza e l’affidabilità di una
qualsiasi conoscenza.
È questa una scelta cruciale della riforma.
Essa richiede un paziente e rigoroso lavoro di motivazione e di cooperazione da
parte degli studenti.
Lo studente deve passare dalla struttura psicologica dell’imparare per rendere
conto all’insegnante che lo valuta, alla matura consapevolezza di apprendere per
esser più se stesso, acquisendo una cultura personale, sociale, professionale
propria.
Trattandosi di un destinatario adolescente,
– che percorre una prima fase più di riflessione su se stesso e di ricerca di scelte
di vita (primo biennio),
– che in una seconda fase si apre alla socialità e alla costruzione di un progetto di
sé culturale e professionale (secondo biennio),
– che, infine, prende decisioni abbastanza definitive per la sua vita, l’intero
periodo di cinque anni è di grande importanza e delicatezza nel rapporto che si
instaura con gli insegnanti.
Per quanto riguarda l’IRC, la proposta didattica può avere i seguenti riferimenti
caratterizzanti.

1. Privilegiare la scelta esperienziale La vita di tutti i giorni, con le relazioni


Capitolo 14 pag. 218
familiari, sociali, scolastiche, amicali, costituisce non solo il vissuto, ma anche
l’oggetto della riflessione spontanea.
Talvolta per frammenti, si prende coscienza di quello che si è, del rapporto che
si instaura con gli altri. Ma anche si interpretano le esperienze stesse. Si pone la
domanda sul perché degli eventi, delle sensazioni, delle attese. Si diventa capaci
di affrontare un sacrificio o una situazione difficile in vista di un progetto futuro.
Prendere sul serio l’esperienza non costituisce un espediente o un aggancio per
procedere ad un discorso sulla religione. C’è un discorso religioso, là dove noi
crediamo che i problemi possono essere aperti ad un andare al di là e dunque ad
un incontro anche con l’esperienza credente.

2. La scelta culturale L’attenzione alla cultura, specialmente del nostro mondo


occidentale, nelle sue più svariate espressioni letterarie, artistiche, musicali,
filosofiche, scientifiche, saggistiche, folkloristiche, permette di incontrare
una permanente produzione che attiene al senso dell’esistenza, all’analisi
esistenziale, all’introspezione individuale, alla responsabilità personale e
all’impegno sociale.
Anche tutta questa documentazione apre ad una trascendenza rispetto alla pura
constatazione fattuale.
Noi consideriamo la cultura, per lo meno implicitamente, aperta al religioso.

3. La condizione interculturale Il processo di globalizzazione sociale e culturale


impone la compresenza di più culture nel nostro contesto di vita sociale.
La conoscenza e il confronto con documenti di diverse tradizioni culturali
permette di rilevare: la presenza delle problematiche antropologiche comuni e le
peculiari risposte date da ciascuna cultura alle domande di senso.
L’analisi di questa documentazione amplia la conoscenza e la comprensione
della problematica religiosa.
Capitolo 14 pag. 218/219
4. La condizione interreligiosa Dalle considerazioni generali sull’interculturalità
discende quella particolare sull’interreligiosità.
La presenza di una pluralità di culture comporta anche la presenza di una
pluralità di religioni, le cui interazioni costituiscono la condizione interreligiosa.
Anche in questo caso, l’accostamento ai documenti delle altre religioni
contribuisce alla comprensione: delle costanti dell’esperienza religiosa universale
e, nello stesso tempo, delle peculiarità dei diversi cammini intrapresi dalle
tradizioni storiche.
L’approccio vuole favorire la comprensione vicendevole, non la contrapposizione,
né il sincretismo.

5. La conoscenza dei contenuti della fede cristiana cattolica Essa costituisce il


contributo irrinunciabile e specifico dell’IRC.
Preferibilmente deve venir presentata come esperienza di donne e di uomini che,
singolarmente o collettivamente, incontrano il religioso nella loro vita concreta, a
partire dai loro problemi, dalle loro attese, dai loro progetti.

Dalle considerazioni fatte possono essere ricavati i seguenti obiettivi.


Obiettivo 1 Saper analizzare svariate esperienze di vita aperte alla ricerca di
senso.
Obiettivo 2 Effettuare confronti tra le risposte di senso e la religione cristiana.
Obiettivo 3 Analizzare le manifestazioni della ricerca di Dio nelle espressioni
culturali, religiose e, in particolare, nell’esperienza dell’AT e del NT.
Obiettivo 4 Conoscere la figura storica di Gesù di Nazaret, la principale
documentazione che lo riguarda, il suo messaggio, il significato della sua figura
per la fede del credente.
Obiettivo 5 Conoscere i punti nodali dell’esperienza cristiana nella storia.
Capitolo 14 pag. 219
Obiettivo 6 Riconoscere e valutare i valori morali proposti dal cristianesimo.

Indicazioni bibliografiche

DAMIANO E. (1997), «(Analisi degli) Obiettivi», in J. M. PRELLEZO, C. NANNI, G.


MALIZIA (edd.), Dizionario di Scienze dell’Educazione, Roma-Torino, LAS, Elledici,
SEI, pp. 759-761.
MAURIZIO L. (2003), Prospettive per l’IRC nella Scuola Media, in «Insegnare
Religione » 16 (2003) 2, pp. 4-7.
MAURIZIO L. (2003), Profilo dell’alunno della Scuola Media e piani di studio
personalizzati, in «Insegnare Religione», 16 (2003) 3, pp. 19-22.
MIUR (2003), I licei nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e
formazione, Fiuggi (dattiloscritto).
NOTIZIARIO dell’Ufficio Catechistico Nazionale, 31 (2002) 1, in «Quaderni della
Segreteria Generale CEI», 6 (2002) n. 5.
NOTIZIARIO dell’Ufficio Catechistico Nazionale, 31 (2002), n. 5 Agosto 2002
(XXXI), in «Quaderni della Segreteria Generale CEI», 6 (2002), n. 16.
PELLEREY M. (1994), Progettazione didattica, Torino, SEI.
PELLEREY M. (1997), «Obiettivi», in J. M. PRELLEZO, C. NANNI, G. MALIZIA (edd.),
Dizionario di Scienze dell’Educazione, Roma-Torino, LAS, Elledici, SEI, pp.
756-759.
SANDRONE BOSCARINO G. (2002), La filosofia della riforma, Roma, UPS
(dattiloscritto).
SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC DELLA CEI (2003), Obiettivi specifici di
apprendimento propri dell’IRC nell’ambito delle indicazioni nazionali per i piani
personalizzati delle attività educative. Approvato d’intesa tra la CEI e il MIUR il 23
ottobre 2003 (Scuola dell’Infanzia).
Capitolo 14 pag. 220
SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC DELLA CEI (2003), Obiettivi specifici di
apprendimento propri dell’IRC nell’ambito delle indicazioni nazionali per i piani di
studio personalizzati. Approvato d’intesa tra la CEI e il MIUR il 23 ottobre 2003
(Scuola Primaria).

Capitolo 14 pag. 220


CAPITOLO 15

IL SAPERE RELIGIOSO
Zelindo Trenti

0. La dimensione religiosa della cultura e «i saperi di base»

L’esposizione che proponiamo non affronta i contenuti specifici dell’insegnamento


di religione cattolica, successivamente esposti con chiarezza e competenza dai
relatori dei singoli gradi di scuola.
Piuttosto vengono richiamati criteri e orientamenti per una consapevole
valorizzazione educativa dell’incontro con il fenomeno religioso che l’alunno
persegue nella scuola.
E quindi viene ribadita
– la legittimità del «sapere religioso»,
– il suo significato nell’interpretazione della cultura,
– il suo valore per la piena maturazione della persona,
– la sua funzione nell’appropriazione di uno specifico patrimonio linguistico.
Si tratta di acquisire una competenza interpretativa ed espressiva che renda
l’allievo consapevole della dimensione religiosa nel contesto e nella sua stessa
esperienza interiore.

Capitolo 15 pag. 221


1. La legittimità del sapere religioso: sortite recenti e preoccupanti

1.1. Il dibattito recente sui «saperi» nell’ambito della scuola

La cultura e di conseguenza la pedagogia odierna parte dall’uomo; nella scuola


parte dallo studente. Con la «presunzione» di aiutarlo a crescere: gli garantisce
le condizioni di sviluppo armonico e integrale, naturalmente tenendo conto che
integrale non significa totale. La cultura, di cui la scuola sollecita il confronto,
opera obbligatoriamente delle scelte sulla base delle credenziali che «i saperi» in
campo offrono allo sviluppo integrale della persona.
La scuola si interroga sui «saperi».
Nella precedente legislatura l’impegno di identificare «i saperi» che la scuola era
chiamata a veicolare aveva indotto il Ministro a costituire una commissione di
«saggi»: è interessante rilevare che fra i saperi accreditati dai «saggi» la religione
quasi non figura.
Il fatto merita una breve riflessione.
Per escluderne la religione bisogna presupporre che questa dimensione della
vita sia marginale e irrilevante: dove risultasse evidentemente rilevante e
significativa va messa fra «i saperi», al posto che le compete. E la sua presenza
dovrebbe essere sollecitata con la stessa risolutezza e da parte di chi la ritiene
umanizzante e da parte di chi la ritiene disumanizzante: in un caso e nell’altro
la scuola ha il compito di consentirne la verifica critica, con tutti gli strumenti di
cui dispone, esattamente come avviene al confronto come ogni altro «sapere»
significativo.
Nel dibattito, del resto interessante, L. Ribolzi, che, quale membro della
commissione dei sei saggi, a giustificazione del silenzio sul «sapere religioso»
osservava che «il cristianesimo è ben altro: è un incontro con una Persona
Capitolo 15 pag. 221/222
che genera una vita e una cultura, e non passa dai programmi di una scuola,
nemmeno di una scuola cattolica... considerare il cristianesimo come un “sapere”
è una visione “riduttiva” » (Ribolzi, 1998, n. 19, 17). (Citiamo l’intervento che evidenzia
il senso del dibattito.) Annotazioni in tanta parte pertinenti, ma evasive di un compito
preciso che la scuola è chiamata ad assumere ed assolvere.
a. D’accordo: il cristianesimo è ben altro che un «sapere»; però è anche un
«sapere» che ha segnato la cultura italiana in una forma così profonda da
riuscire una delle matrici qualificanti della nostra identità. Del resto la studiosa
giustamente rileva – un incontro con una Persona che genera una vita e una
cultura –. A nostro parere proprio quest’aspetto che appunto riguarda la cultura
chiama in causa la scuola; appunto non in quanto cristianesimo; ma in quanto
«sapere» fondamentale senza di cui la nostra cultura non si capisce e la nostra
identità risulta svilita e svisata.
b. Che poi questo accostamento al cristianesimo risulti nella scuola «riduttivo » è
ancora verissimo: ma tutti i contenuti che la scuola accosta li accosta in maniera
riduttiva: qualunque esperienza umana trova nell’elaborazione scolastica
una «riduzione» obbligata; e tuttavia anche una sua interpretazione parziale:
quell’interpretazione che viene ritenuta indispensabile al «sapere di base». La
scuola non presume di essere e neppure di esprimere la vita: ma di esplorarne
quell’aspetto scolastico, parzialissimo, appunto «ridotto» che le compete.
Riteniamo che la scuola debba accostare il cristianesimo così, precisamente in
forma ridotta e tuttavia obbligata, per tutto lo spazio con cui il cristianesimo segna
la cultura italiana.
L’invito del Ministro che con una lettera aperta agli estensori rileva: «...Va
da sé che in questo contesto la nostra identità culturale verrebbe a dir poco
dimidiata se, anche in astratto, si volesse prescindere da quel coagulo di storiche
sedimentazioni e di messaggi consolidati che affondano le proprie secolari radici
nella civiltà classica e nella tradizione cristiana.
Capitolo 15 pag. 222
Con questa oggi si intrecciano anche nella nostra società quella molteplicità di
tradizioni e di culture religiose che hanno avuto e che hanno un grande peso
nella storia dell’umanità e che la definizione di una nuova grammatica dei saperi
dovrà valorizzare....» (Ibidem, 16).

1.2. L’attuale discussione attorno alla Costituzione dell’Europa, nel dibattito


culturale

Più attuale e vibrante è la diatriba in atto attorno al significato della religione e in


particolare del cristianesimo nell’elaborazione della costituzione europea.
Il bersaglio si è concentrato sulla stesura del «preambolo». Il riferimento alla
matrice cristiana sembra a molti d’obbligo. Una recensione della risonanza
data dalla stampa alla questione è lucidamente raccolta nell’Avvertenza e nella
Prefazione ad un saggio di notevole spessore culturale, proposto da G. Reale:
«Come molti hanno subito rilevato manca qualsiasi riferimento al “Cristianesimo”,
che – come vedremo nel corso del volume, sulla base di una precisa
documentazione – è stato l’asse portante spirituale da cui è nata e secondo cui si
è sviluppata l’Europa...
Nel corso del volume si vedrà in che senso e in che misura si possa anzi si
debba dire che, senza il Cristianesimo, l’Europa non sarebbe nata e, anzi, non
sarebbe neppure pensabile» (Reale, 2003, XII-XIII).
Aconferma vengono portate testimonianze illustri, cui rimandiamo.
Ma una si deve pure riportare, anche per l’autorevolezza dello storico Federico
Chabod, che in Storia dell’idea d’Europa afferma: «Noi siamo cristiani, e non
possiamo non esserlo: lo ha luminosamente provato, ora è poco, Benedetto
Croce. Non possiamo non esserlo, anche se non seguiamo più le pratiche di
culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare

Capitolo 15 pag. 222/223


in guisa incancellabile» (Ibidem).
È evidente che F. Chabod e altri molti e illustri interpreti del nostro contesto
culturale, che vengono ampiamente citati da G. Reale, hanno avvertito che «la
fisionomia cristiana» ci identifica; pensare ad una scuola che non si preoccupa
di decifrarla e di offrire agli studenti la strumentazione adeguata per decifrarla
contraddice se stessa.
La lucidità e il coraggio degli estensori del preambolo si sono esauriti presto:
hanno saputo a fatica riconoscere: «Consapevoli che l’Europa è un continente
portatore di civiltà; che i suoi abitanti, giunti ad ondate successive fin dagli albori
dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base
dell’umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione:
Ispirandosi ai retaggi culturali, religiosi e umanistici (Il corsivo è nostro.) dell’Europa
i quali, sempre presenti nel suo patrimonio, hanno ancorato nella vita della
società la sua percezione del ruolo centrale della persona umana, dei suoi diritti
inviolabili e inalienabili e del rispetto del diritto...».
Naturalmente il dettato della costituzione è importante: e però assai più decisiva
resta la realtà di un patrimonio che ci definisce; e questa eredità, che molti hanno
rivendicato, per quanto non esplicitamente affermata, qualifica la presenza
dell’Europa e del suo spirito nel mondo contemporaneo: e perciò impegna anche
la scuola.

2. Il sapere esplorato dalla ricerca religiosa

Se dall’aspetto storico-sociale ci si porta sulla più rigorosa riflessione razionale


e sulle elaborazioni, spesso suggestive di cui è portatrice, ci si trova di fronte a
proposte di grande impegno, perseguite dalla religione attorno agli interrogativi
più profondi che attanagliano la vita.

Capitolo 15 pag. 223/224


2.1. La coscienza del mistero

L’intero mondo della tecnica porta una singolare suggestione: sollecita alla
ricerca, sostiene la fatica dell’esplorazione nella fiducia, legittima, di trovare la
soluzione: di svelare il segreto.
Ma quando la domanda dalle cose si porta sull’esistenza e si interroga sulla vita
– sulla mia vita – perché la vivo qui e ora, perché all’inizio del secondo millennio
invece che all’inizio del primo.
Chi l’ha deciso, cosa si aspetta? Si aspetta qualcosa – con che diritto? Ho
dei doveri nei suoi riguardi? Posso rifiutarmi: ne ho il diritto? C’è un margine di
responsabilità che compete a me – a me solo? E le domande non finiscono mai.
La religione con queste e simili domande non ha cessato di confrontarsi: talora
vi ha dato risposte illuminanti o indicazioni decisive a cercarle nella direzione
giusta.
Il mistero è la casa dell’uomo: non l’ha inventato lui; né sarà lui ad eliminarlo.
Certo precisamente in quanto radicato nell’esistenza l’ha avvertito; come
capacità illimitata di domanda, ne ha subito la suggestione e ne ha intrapreso
l’esplorazione.
La morte è il limite contro cui ogni progetto umano s’infrange.
Una lettura corretta dell’esistenza manifesta risvolti non riducibili al progetto
terreno o alla spiegazione che la ragione è in grado di offrire.
Lo sguardo più acuto e penetrante oltre questo progetto terreno verso un
orizzonte alternativo è da sempre l’oggetto della ricerca religiosa. L’attesa e
la speranza che la religione ha interpretato e contemporaneamente suscitato
costituiscono un patrimonio prezioso che la scuola ha il compito di verificare.

Capitolo 15 pag. 224


2.2. I grandi temi della coscienza umana

Anche tenendo nel debito conto perentorie valutazioni dei cultori della ricerca
religiosa. Nota un grande studioso della religione: «Il più sicuro sostegno, la
suprema dignità, la maggiore ricchezza, la più perfetta serenità di un uomo si
fondano sulla religione, cioè sul rapporto con la realtà ultima e più profonda»
(Heiler, 1985, 9).
L’affermazione trova nella cultura attuale indicazioni di segno contrario: sull’onda
dell’ideologia la religione è spesso considerata con sospetto, accusata di alienare
e illudere.
Resta il fatto che la religione accompagna il cammino dell’uomo e lo sostiene in
quel confronto mai risolto con il mistero che l’avvolge, con il destino che l’attende.
Osserva Nietzsche: «Per indovinare e per stabilire ciò che fino ad oggi vi
sia stato nell’anima degli homines religiosi, al fine di tracciare una storia del
problema della scienza e della coscienza, si dovrebbe forse essere così profondi,
così rassegnati, così portentosi come lo fu la coscienza intellettuale di Pascal;
e tuttavia sarebbe sempre necessario quel vasto cielo di chiara, avveduta
spiritualità, che dall’alto sapesse calcolare, ordinare e costringere in formule un
tale brulichio di eventi pericolosi e dolorosi» (Nietzsche, 1968, 68-69).
I temi fondamentali dell’esistenza trovano nella sensibilità e nella ricerca
religiosa una delle matrici illuminanti. Per quanto le tracce lungo le quali la sua
incidenza sui processi di maturazione personale e di evoluzione socio-culturale
si iscrivano in forme imprevedibili, secondando situazioni diverse e spesso
incomparabili.
In ogni caso interessa rilevare quale presenza abbia la religione nel nostro
contesto, metterne in luce le radici, identificare i punti di forza e di debolezza che
sottende; prendere in analisi seria i temi fondamentali che richiama e verificare
Capitolo 15 pag. 224/225
con rigore le elaborazioni che propone. A questo compito è chiamata la scuola;
su questo fronte è difficilmente sostituibile.

3. Per una caratterizzazione del sapere religioso scolastico

3.1. L’apprendimento religioso

Temi e problemi che la ricerca religiosa ha privilegiato restano naturalmente


oggetto del sapere scolastico come è stato appena richiamato.
Ma la scuola va accentuando ormai soprattutto i processi di apprendimento
e di conseguenza verifica le capacità dello studente e ne promuove la sicura
padronanza nei diversi ambiti della consapevolezza personale. Dove privilegia
l’apprendimento indica una pista sollecitante anche per la pedagogia religiosa
attuale.
Di fatto la logica dell’apprendimento religioso non differisce da quella di ogni
apprendimento.
Si distingue tuttavia per alcuni connotati che la caratterizzano. Per una
legittimazione di quanto proponiamo rimandiamo ad uno studio specifico (Trenti,
2001) che ne ha perseguito le fila in termini di analisi fenomenologica.
Il punto chiave sta nel definire la specificità religiosa dell’apprendimento.
Dove si impianta o donde affiora l’esigenza religiosa? Quanto dipende dalle
condizioni che la sollecitano, quale responsabilità e spazio vi trova l’esigenza
interiore della persona? Nella tradizione la suggestione della natura, la sua
potenza arcana, la maestà fascinosa delle sue imprevedibili manifestazioni,
hanno richiamato il mistero, hanno segnalato una presenza in grado di darne
spiegazione.
Capitolo 15 pag. 225
Nella ricerca recente per lo più si fa ricorso al problema del senso, alla
comprensione radicale delle diverse esperienze umane, per verificare
l’autenticità e la legittimità dell’istanza religiosa.

a. La natura conserva un richiamo e una suggestione ineludibili. Alcuni contesti


sono naturalmente più rivelativi: sono segno e richiamo alla trascendenza.
Il silenzio immoto della montagna, la vastità dell’orizzonte, la molteplicità dei
rilievi, la vertigine dell’altezza rappresentano un richiamo potente. Il mare ha
altre suggestioni. Ma chi analizza la vita di una pianta, lo sbocciare di un fiore;
chi entra nel mondo sorprendente della vita è sollecitato alla contemplazione;
a presagire, oltre la crosta rude e apparentemente impenetrabile della realtà
materiale, un proprio mondo spirituale: attestazione perentoria e provocante di
dimensioni insondabili, su cui ciascuno è sollecitato.
L’arte e la poesia, la letteratura e la filosofia offrono testimonianze mirabili;
confluiscono verso l’intuizione persistente che il mondo è grande e mirabile:
tuttavia non si spiega, non dà ragione di se stesso.
A questo punto l’educazione arriva almeno a porre con chiarezza l’interrogativo
sul problema del senso definitivo.

b. Per quanto, nel contesto odierno, l’interrogativo si porta più immediatamente


sull’esperienza propria e personale, che la riflessione più avvertita ha insegnato
a decifrare. A questo punto è importante evidenziare dove l’esperienza umana
si apre alla trascendenza, quali segni riesce a decifrare, quali garanzie sa
perseguire.
Alcune considerazioni possono orientare:
– l’interrogativo che si impone in una lettura rigorosa dell’esperienza umana
non si esaurisce nell’orizzonte storico. L’esistenza è sospinta dalla sua stessa
esigenza di risposta oltre la vastità, per quanto immensa dell’universo; in
Capitolo 15 pag. 225/226
definitiva porta la domanda sulla propria vita e il suo significato: mette in
questione l’universo, ma in ultima istanza mette in questione se stessa;
– né sa rassegnarsi fino a quando un riferimento ultimo e trascendente non si
profila all’orizzonte, come risposta appagante, di cui per lo più non si distinguono
i lineamenti. Che quindi si impone come presenza e mistero da decifrare;
– anzi non soddisfa una trascendenza con cui non sia legittimo entrare in dialogo,
che non conosca e riconosca: un Tu capace di accogliere nella sua pienezza e
nella sua unicità la vita di ciascuno, che si erga come unico e definitivo garante di
valore e di significato.

c. Dunque un orizzonte ultimo s’impone.


L’educazione è chiamata a suggerire le piste per tenerlo aperto, per inventare
strategie proporzionate a tale scopo. La ricerca di senso è certamente una di
queste, spesso privilegiata. Non è l’unica e anzi rischia di percorrere una traccia
di razionalità poco familiare alla gran parte di chi è interessato all’esperienza
religiosa, per sé aperta a tutti.
Più immediate e parlanti potrebbero riuscire sensazioni spontanee di pienezza
e di gioiosa partecipazione a diversi momenti che affiorano alla vita di tutti, per
cogliervi il richiamo ad una stabilità che invece vi risulta insidiata.
Il procedimento educativo specifico della religione si porta quindi sul
versante della trascendenza: ma per riuscire coerente con tutto il discorso
sull’apprendimento, l’incontro con la trascendenza non è diverso o alternativo
all’incontro con l’esperienza nella sua serietà umana; anzi tende precisamente ad
esplorarla in tutto il suo spessore, a ricuperarla dalla precarietà che la minaccia.
A questo patto la religione si situa correttamente a fianco delle diverse discipline
che esplorano il vissuto, lo vogliono capire e se ne propongono la piena
valorizzazione.

Capitolo 15 pag. 226/227


3.2. La suggestione evocativa del contesto

L’educazione scolastica fa i conti con allievi che vivono in un certo contesto,


sono chiamati a decifrarlo: in Italia l’ambiente è «segnato» da richiami religiosi
continui.
Molti giovani ad esempio sono stati ad Assisi; o ne hanno sentito parlare, anche
per le frequenti iniziative giovanili che in quel contesto vengono proposte.
I recenti dissesti causati dal terremoto delle Marche e dell’Umbria hanno
riportato l’attenzione sulla Basilica di Assisi e sull’opera di Giotto.
La basilica è testimone di un’epopea religiosa singolare.
Francesco muore, distaccato da tutto, nella più assoluta povertà; la celebrazione
delle sue gesta si ammanta di fasto e di grandiosità. La basilica si erge man
mano e sovrasta imponente tutto il paesaggio all’intorno; come il ricordo di
Francesco.
In quel clima di intensa partecipazione e di corale celebrazione l’artista respira
una religiosità profonda e coinvolgente. Giotto porta la risonanza di quel mondo;
la sua arte lo trasfigura in scene di una verità umana e religiosa sorprendenti.
Il mondo che gli sta attorno è attraversato da un’esaltazione diffusa; lui la
percepisce e la trasfigura. I suoi affreschi danno voce all’epopea francescana;
come l’epopea francescana offre al suo genio lo stimolo vibrante per cogliere
la pienezza dell’umano nella fede e la trasparenza del religioso nell’umanità di
Francesco.
Gli affreschi di Giotto dicono di più di quello che Francesco è stato, di quello
che i suoi contemporanei hanno vissuto; celebrano la persona di Francesco,
trasfigurano la sua epoca e il suo ambiente. Le figure proiettate sulle pareti
parlano un linguaggio che oltrepassa il tempo, e la vicenda singolare di un uomo
per quanto eccezionale.
L’artista guarda certo la gente di Assisi, ma la sua intuizione attinge a radici più
Capitolo 15 pag. 227
profonde: il suo genio si spinge oltre l’orizzonte di una vicenda memorabile e
apre su versanti trascendenti, dove sembra radicarsi l’utopia dell’uomo – che
pure una figura singolare ha evocato – e che l’artista ha saputo chiamare per
nome.
Ha offerto uno sguardo nuovo sulle vicende del proprio tempo; ha conferito
anche una statura straordinaria alla propria vita: ha trasfigurato i fatti in un evento
che riporta l’uomo ad una matrice inesausta e trascendente, di cui si fa interprete
originale e geniale.
La basilica sembra in grado di conferire volto alla realtà e allo stesso tempo
consente all’artista di trovare e di esprimere se stesso.
Non ci vuole molto per rendersi conto che la suggestione e lo stimolo che
possono giungere ad uno studente nella rivisitazione di un monumento come
quello evocato comporta una conoscenza adeguata non solo dell’epoca storica
e della figura di Francesco, ma anche della tensione spirituale e religiosa che
emanava ed emana dalla sua figura.

3.3. Un linguaggio appropriato per capire


(Per un’esplorazione esplicita del linguaggio religioso cf Trenti, 2001.)

Recentemente, non tanto la religione, quanto l’esperienza religiosa s’è trovata a


perno di una ricerca vasta e articolata. Dai settori più diversi della cultura, dalla
fenomenologia alla storia, dall’antropologia alla sociologia la ricerca religiosa
prende forma, consistenza, dignità... elabora gli strumenti per una credibilità
culturale a tutto campo.
A fondamento del suo lento e progressivo affermarsi sta l’elaborazione d’un
linguaggio proprio e qualificante, che prende consapevolmente le distanze da
altri ambiti di ricerca. Precisamente sulla base che la distingue e la qualifica, la
Capitolo 15 pag. 227/228
religione non entra in contrasto, né in competizione, ma piuttosto in solidarietà
e integrazione con i molteplici aspetti della ricerca umana. Anzi proprio
l’affinamento di taluni settori di ricerca offre apporti inediti e sollecitanti alla
comprensione dello stesso fenomeno religioso.
Al cuore della religione sta un rapporto a tu per tu con Dio: per quanto resti
indispensabile prendere atto che Dio resta avvolto di indicibilità e di mistero:
segni eventuali - tracce della sua presenza non autorizzano ad usarne con
disinvoltura e padronanza il nome.
Dovunque entra in gioco un rapporto diretto con lui resta un margine di
mistero e di oscurità che il linguaggio può annunciare ma non decifrare. Il
linguaggio religioso, appunto perché per definizione si situa in tale rapporto
non è mai manifestativo ed esauriente, è allusivo e appellante: ne persegue
l’interpretazione lungo quella traccia sottile e insidiata che è la sua risorsa
evocativa.
Esplora e comprende la realtà – anche quella materiale – animata e fermentata
da una trascendenza che l’attraversa e la vivifica. «La natura è piena di dei»; il
«logos» anima la realtà materiale già nell’originaria riflessione occidentale. «I cieli
narrano la gloria di Dio / e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» nella
più consapevole e perentoria attestazione biblica (Sal 19).
L’uomo può sentirsi «spaesato» in questa immensa dimora che lo accoglie; ma
può anche sentirsi «ospitato» in una casa fatta sulla sua misura e che tuttavia
non è opera delle sue mani. Perciò l’intera realtà è invito suadente a riconoscervi
una presenza misteriosa e ad invocarla.
Il linguaggio religioso instaura dunque un rapporto nuovo con il mondo: vi abita
in attesa di un incontro, per prepararlo. Nell’immagine suggestiva che la Bibbia
ci ha tramandato considera l’universo come un immenso giardino che gli è stato
affidato, su cui ha piena signoria, per quanto la fatica di dissodarlo e di asservirlo
non riempia la sua attesa né le sue aspirazioni.
Capitolo 15 pag. 228
4. Il sapere religioso nella logica della recente riforma

L’intera riforma dal ’97 in poi si muove in un’ottica innovativa.


Privilegia la centralità dell’allievo, porta l’accento sull’apprendimento e sui
processi che lo garantiscono. In questo senso si può dire che elabora un
orizzonte unitario e sottende una pedagogia rispettosa del soggetto e della sua
progressiva maturazione.
Inoltre la Riforma Moratti sembra avvalersi di una pedagogia più coerente ed
imprimere maggiore incisività educativa all’intero processo educativo.
Richiamo alcuni punti qualificanti e rivelatori, attorno alla scelta del profilo.
La priorità data al profilo dell’allievo obbliga a spostare l’asse della scuola dalla
tradizionale attenzione per i «saperi» al soggetto portatore e destinatario di
tali saperi. Definendo il profilo come compito fondamentale si obbliga la scuola
a verificarsi sulle conoscenze e competenze che è in grado di garantire allo
studente.
Correttamente i profili fanno riferimento ad una scelta ologrammatica, nella
consapevolezza che la scuola non può accontentarsi di comunicare un sapere
«parcellizzato ». La competenza cui l’allievo tende è unitaria e suppone l’apporto
delle diverse discipline, mirate tuttavia appunto alla sua progressiva e unitaria
rielaborazione.
Anzi a prendere sul serio la prospettiva assunta della legge 53/03 e dal DM
100/02 l’accentuazione ologrammatica andrebbe approfondita. Non si tratta solo
di muoversi sulla base di competenze iniziali da dilatare. Più radicalmente è
in gioco una concezione ermeneutica della cultura che la scuola è chiamata a
tradurre.
Nel suo nodo qualificante la concezione attuale della persona è progettuale.
Capitolo 15 pag. 228/229
Il che significa che le successive acquisizioni sono conseguite solo in quanto
entrano a far parte in forma unitaria e correttamente articolata con il bagaglio di
cognizioni precedenti.
Non è quindi solo una questione di «competenze» da dilatare; è un orizzonte
interpretativo da riassestare, secondo una concezione che parte da Hegel
per arrivare a Gadamer: una nuova conoscenza non si giustappone ma si
compone a quelle che il soggetto già possiede e gli consente una visione e una
interpretazione rinnovate della propria concezione di vita.
Resta naturalmente vero che la prassi educativa offre dati parziali di analisi:
i contenuti sono sempre proposti sotto forma parzializzata, e, nella scuola,
elaborati per lo più dalle diverse discipline. Una pedagogia ermeneutica corretta
fa appunto i conti con la parcellizzazione dell’apprendimento, preoccupata di
affinare le capacità intepretative per consentire all’allievo quella padronanza
che può ricostruire l’unità interiore degli aspetti particolari appresi. Torna il
protagonismo concreto dell’allievo a garanzia della ricomposizione del sapere e
torna il compito della scuola di secondare e promuovere appunto le sue capacità
interpretative, le sue competenze.
Una pedagogia scolastica fa naturalmente i conti con le strutture organizzative
e gli strumenti di cui la scuola dispone; ma l’aver puntato al profilo rappresenta
una scelta innovativa e presumibilmente una traccia feconda. In termini operativi
si tratterà di verificare quanto il Profilo saprà tradursi in «obiettivi generali del
processo formativo» (Dpr 275/99, art. 8, c.1), conseguire gli obiettivi specifici di
apprendimento attraverso le unità di apprendimento, come vogliono le Indicazioni
nazionali per i diversi livelli scolastici.
La conclusione logica di tale impostazione pedagogica comporta un
ripensamento assai impegnativo dell’attuale struttura, centrata sui «contenuti
disciplinari ». Sembra che la scuola intenda ripensarsi, per quanto i tempi che si
delineano e le difficoltà risultino notevoli.
Capitolo 15 pag. 229/230
Comunque la provocazione per l’IRC come disciplina «centrata sui contenuti » è
evidente.
Certo resta il problema di contenuti da apprendere – ma si impone il compito
più arduo di maturare e garantire la capacità di apprendere i saperi – e perciò il
sapere religioso di cui l’IRC è primo responsabile.

5. Le scelte della CEI

5.1. Il sapere nei programmi di Religione Cattolica del 1987 e la prassi


disciplinare

Una scorsa rapida ai Programmi del 1987 offre conferma della chiara
consapevolezza che il legislatore assume dello spazio specifico del sapere
religioso.
Qualche stralcio dal dettato più esigente circa i nuclei tematici della scuola
secondaria superiore è dimostrativo.
«A - IL PROBLEMARELIGIOSO – I grandi interrogativi dell’uomo che suscitano
la domanda religiosa: il senso della vita e della morte, dell’amore, della
sofferenza, della fatica, del futuro... ...
E - IL PROBLEMAETICO – I tratti peculiari della morale cristiana in relazione
alle problematiche emergenti:
• una nuova e più profonda comprensione della coscienza, della libertà, della
legge, dell’autorità;
• l’affermazione dell’inalienabile dignità della persona umana, del valore della vita,
dei diritti umani fondamentali, del primato della carità...» (Notiziario, 16 [1987] 3-
4).
Naturalmente l’esercizio concreto nell’aula comporta uno scarto, magari notevole
Capitolo 15 pag. 230
e angustiante dovuto a fattori molteplici anche di impianto organizzativo della
disciplina.
L’ultima ricerca nazionale a dieci anni di distanza dalla revisione degli accordi
concordatari ha documentato la misura della rispondenza ai programmi nello
svolgimento dei contenuti.
«La fedeltà piena (“molto”) al programma ufficiale dell’IRC passa dal 60% circa
delle maestre specialiste, alla metà degli IdR della SMI, al 40% di quelli del
biennio, ad appena il 15,8% degli IdR del triennio. L’andamento opposto, come
era da aspettarsi, si riscontra a proposito delle integrazioni al programma in
quanto la percentuale di chi ha ritenuto opportuno farle, cresce dalla metà delle
specialiste, al 60% degli IdR della SMI, fino ai tre quarti di quelli della SSS;
l’integrazione, poi, avviene preferibilmente su problematiche esistenziali, morali
e di attualità. Inoltre, la contrattazione con gli alunni aumenta da neppure il 15%
segnalato dalle specialiste, a più del 40% nella SMI, sino al 60% degli IdR del
triennio (mentre nel biennio si riscontra una leggera attenuazione del fenomeno,
35%); gli studenti lo sottolineano nel 70% dei casi...
Il complesso dei dati evidenzia un’accoglienza soddisfacente dell’IRC; tuttavia,
tale risultato positivo viene raggiunto a condizione di muoversi su una base
concordata di argomenti e di trattarli in modo dialogico. Se i risultati vengono
esaminati secondo una linea evolutiva, si nota che l’iniziale adesione allo stile
scolastico nella media e nel biennio viene gradualmente sostituita nel triennio da
uno stile che sa di animazione.
L’IdR si adegua ai dettami dell’impostazione curricolare finché gli è possibile.
Successivamente e man mano che lo studente acquisisce possibilità di
decisione autonoma, ricorre sempre di più alla contrattazione e tende a
privilegiare gli aspetti esistenziali e morali piuttosto che religiosi» (Malizia-Trenti,
1996, 297-298).
La ricerca documenta le tematiche preferite nell’esercizio didattico concreto e
Capitolo 15 pag. 230/231
rileva anche lo stile e il clima dell’analisi che l’insegnante è in grado di proporre
nella scuola.

5.2. Le scelte operate nella recente sperimentazione

Meritano di venir segnalate le scelte di fondo operate nella sperimentazione.


«3.1. L’essenzializzazione dei saperi e lo sviluppo delle competenze.
Nel contesto scolastico che si va delineando grande importanza è “data ai saperi
essenziali”, da precisare in tutte le discipline e alle competenze...
Il nostro documento aiuta ad affrontare ogni contenuto dell’IRC alla luce di Cristo,
in relazione con il suo mistero, come sviluppo del suo evento.
3.2. Trattazione dei contenuti con attenzione interculturale, interreligiosa,
interdisciplinare.
...L’intenzione che sta alla base dei nuovi documenti è esattamente quella di
favorire un insegnamento confessionale aperto al confronto e al dialogo. In essi
infatti non ci si limita a prevedere tematiche specifiche per la trattazione delle
altre religioni, ma attraverso la struttura della matrice progettuale si orienta a
trattare con costante attenzione interculturale, interconfessionale e interreligiosa
tutti i contenuti del cristianesimo, anche i più specifici.
3.3. La “correlazione”.
...nel rapporto didattico nessun contenuto disciplinare è comunicato perché il
soggetto semplicemente lo registri e lo ripeta. Lo scopo dell’insegnamento, di
qualunque disciplina è quello di offrire stimoli alla crescita dell’alunno: mentre
egli impara, attiva un processo di formazione che affina le sue capacità critiche e
valutative» (Notiziario, 2002, 155-159).
Ulteriori scelte di fondo riguardano la progressività ciclica, l’uso delle matrici
progettuali, l’attenzione alla coscienza storica e di appartenenza alla comunità
Capitolo 15 pag. 231
locale, nazionale ed europea.
I nuclei tematici proposti per i singoli gradi di scuola identificano i contenuti
fondamentali in cinque aree, sostanzialmente ricorrenti; il dettato della scuola
secondaria superiore legge: I - Il mistero della vita: le domande di senso, la
domanda religiosa, le religioni; II - La rivelazione di Dio in Gesù Cristo; La storia
della salvezza nella S. Scrittura; III - L’identità umana e divina di Gesù; IV - La
Chiesa fondata da Gesù: popolo della Nuova Alleanza; V - La vita nello spirito: i
valori del cristianesimo.
Per quanto le conclusioni che immediatamente se ne traggono, legittimando
una specifica metodologia centrata sulle matrici progettuali, possano suscitare
legittime perplessità: «Nell’esigenza di essenzializzazione dei contenuti si
è ritenuto opportuno articolare la proposta disciplinare secondo contenuti
prescrittivi, ritenuti importanti per tutti, e secondo contenuti opzionali, che
permettono di disegnare percorsi differenziati per i diversi indirizzi scolastici
previsti dalla riforma. Con le matrici progettuali vengono offerti criteri di qualità
per una trattazione didattica flessibile e adattabile ai diversi contesti locali»
(Notiziario, 2002, n. 5, & 4).
Scorrendone l’articolazione proposta, scandita secondo i diversi gradi ed indirizzi
di scuola, salta subito agli occhi la scelta di metodo, incentrata sul principio
della correlazione che vi viene privilegiata; del resto apertamente dichiarata
nello Strumento per la sperimentazione nella scuola dell’infanzia. («Per favorire un
graduale passaggio dal livello antropologico-esperienziale dei vissuti, a quello più propriamente
religioso, viene assunto – quale criterio metodologico – il “principio di correlazione” scolasticamente
inteso» (Appendice). Quaderni della Segreteria Generale CEI, 2 (1998) 23, p. 22.
Per la pianificazione che ne è risultata dalla sperimentazione della CEI è offerto un quadro lucido
e chiaro dall’intervento di R. Rezzaghi.) I programmi in elaborazione presso l’Ufficio
Scuola della CEI sembrano ricalcare le scelte di fondo, appena richiamate. Lo si
può ricavare dagli orientamenti proposti nei Nuovi Programmi, appena emanati:
Capitolo 15 pag. 231/232
«Obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della religione
cattolica nell’ambito delle indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati».
Per ora riguardano la Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria.
Di fatto mentre diamo alle stampe queste pagine sono stati sottoscritti da parte
del presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), S.Em. il Card. Camillo
Ruini e il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) Dott.ssa
Letizia Moratti i programmi della Scuola dell’Infanzia e della Scuola Primaria:
«Con questo primo accordo si perviene alla definizione degli obiettivi per la
Scuola dell’Infanzia e per la Scuola primaria, in attesa delle ulteriori definizioni
per la Scuola secondaria di primo grado e di secondo grado. Si tratta di un passo
decisivo per assicurare il pieno collegamento tra IRC e riforma della Scuola,
esigito da un IRC che vuole essere a tutti gli effetti inserito nella Scuola, ma
richiesto anche dalla stessa riforma scolastica che propone una didattica dove la
convergenza fra le discipline, per un’attività interdisciplinare, è uno degli aspetti
qualificanti » (Comunicato stampa del MIUR. Roma, 23 ottobre 2003).
Pare che ci sia una presa di distanza netta dalla struttura organizzativa delle
matrici progettuali; non è altrettanto chiara la distanza dal metodo che le matrici
tendevano a veicolare; né risulta adeguatamente sposata la priorità del soggetto
sui contenuti.

6. Alcune considerazioni conclusive

Negli orientamenti proposti dalla CEI i contenuti sono evidenziati soprattutto


nella struttura proposta dalle matrici progettuali. Proprio in riferimento a queste
vale la pena introdurre un seguito di annotazioni che diano risalto ad alcuni rischi.

1. L’attenzione all’allievo è certamente presente e costante. Anche quando ci si


Capitolo 15 pag. 232/233
porta sulla sponda dei contenuti la preoccupazione di salvaguardare la centralità
e il primato dell’allievo rimane prioritaria: «Nell’esigenza di essenzializzazione dei
contenuti si è assunta un’attenzione particolare al passaggio dai programmi alla
programmazione, avendo un costante riferimento alla centralità della persona in
crescita, alle variabili del contesto socio-culturale dell’alunno e ai nuclei tematici
essenziali della religione cattolica » (4).
Significativo anche il richiamo sopra riportato: «Lo scopo dell’insegnamento, di
qualunque disciplina, è quello di offrire stimoli alla crescita dell’alunno: mentre
egli impara, attiva un processo di formazione che affina le sue capacità critiche e
valutative».
E tuttavia l’attenzione ai contenuti, nella loro accentuazione confessionale,
caratterizza l’articolazione del procedimento che le matrici vanno privilegiando.
Il contenuto cattolico è introdotto dalla considerazione sociale, culturale o
esperienziale; le conclusioni sono chiaramente affermate: per lo più è saltato o
sotteso il processo di apprendimento che dovrebbe rendere l’alunno capace di
impadronirsi non solo delle conclusioni ma dei percorsi e delle condizioni per
giungervi: è importante affermare il processo di apprendimento; più importante
e consono all’orientamento di una scuola attuale rimane il compito di elaborarne
i processi di apprendimento e di qualificare le capacità e le competenze che
abilitino l’allievo a esplorare e comprendere i fenomeni, anche religiosi.

2. Il principio di correlazione cui ci si rifà costituisce certamente una acquisizione


fondamentale della pedagogia religiosa recente. Vi sono tuttavia molteplici modi
di intendere sia la sua radice teologica che la sua elaborazione pedagogica e
scolastica.
È nato d’altra parte in un contesto culturale in cui la dimensione teologica
restava la finalità prevalente e gli stessi autori, cui si faceva riferimento erano
teologi, preoccupati di evidenziare che l’elaborazione cristiana rispondeva alle
Capitolo 15 pag. 233
esigenze dell’esistenza: non erano preoccupati – né avevano la competenza – di
evidenziare il processo educativo.
Il contesto tedesco degli anni ’70 che ne ha perseguita l’esemplarità più severa
e rigorosa, muoveva da preoccupazioni fondamentalmente contenutistiche e
trasmissivo-interpretative: la stessa ricerca di essenzializzazione dei contenuti, la
correttezza dell’analisi esegetica dei testi, che hanno impegnato il dibattito lungo
quel decennio, documentano questa preoccupazione.
Per la sperimentazione CEI la posizione è stata richiamata nel paragrafo
precedente.
Alle matrici va riconosciuto il merito di aver seriamente orientato i docenti e
gli estensori dei testi di religione ad una struttura organica e coerente della
proposta che elaborano nella scuola; come di aver richiamato all’esigenza di
identificare tematiche irrinunciabili; di “articolare la proposta disciplinare secondo
contenuti prescrittivi, ritenuti importanti per tutti, e secondo contenuti opzionali,
che permettono di disegnare percorsi differenziati per diversi indirizzi scolastici
previsti dalla riforma”» (Premessa, n. 4).
L’interpretazione di R. Rezzaghi che incontreremo salva anche le matrici
progettuali dalle accuse più vistose e sostanzialmente ingiuste: «In altri termini
essa aiuta ad operare con attenzione a quattro criteri:
– all’esperienza dell’alunno e alle sue domande;
– ai possibili rapporti interdisciplinari, interreligiosi, interculturali;
– alla chiarezza del contenuto confessionale;
– alla realizzazione di una coerente sintesi conclusiva».
E tuttavia le matrici progettuali non mi sembrano in grado di assumere tale
autorevolezza da diventare criterio fondamentale per le scelte pedagogico-
didattiche dell’intera nazione, anche perché non abbastanza avvertite e
consapevoli delle scelte di fatto operate nell’ambito della scuola italiana.

Capitolo 15 pag. 233/234


3. Negli anni novanta, alcune ricerche di raggio nazionale (Malizia-Trenti,
1996) e di contesto più locale hanno evidenziato a chiare lettere le tendenze
metodologiche privilegiate dalla prassi pedagogico-didattica: si può dire in
termini generali che il principio della correlazione resta a sfondo di un processo
educativo che tuttavia vi conferisce una gamma di peculiari accentuazioni,
singolarmente attente allo studente, alle sue esigenze culturali, ai suoi interessi;
talora così vivi da rendere alta la frequenza e attiva la partecipazione al lavoro-
dibattito di classe.
Soprattutto documentano uno sforzo notevole da parte dei docenti di secondare
non solo gli interessi ma anche la progressiva presa di coscienza, il faticoso
processo di apprendimento attorno ai contenuti religiosi e al linguaggio specifico
che li caratterizza.
Vi vengono documentati atteggiamenti e aspettative di ordine esistenziale, di cui
la stessa scuola europea si va preoccupando da qualche anno e che la Riforma
ha assunto a fondamento di un nuovo modo di pensare la scuola, come luogo
privilegiato di apprendimento, e come condizione di interpretazione della vita.
La sperimentazione non sembra averne piena consapevolezza. Sembra sposare
una forma di procedimento pedagogico-didattico e presumere di estenderla come
l’unica, disattendendo elementi preziosi di pedagogia didattica che la scuola
e la sperimentazione di sussidi molteplici è andata ampiamente elaborando:
restringendo così tracce educative e impoverendo vistosamente strategie,
percorsi, iniziative che nello spirito dell’autonomia andrebbero costantemente
sollecitati e dilatati.
Gli «Obiettivi specifici» che si stanno elaborando, per quanto è possibile
dedurre da quelli emanati, sopra menzionati, sembrano in grado di prendere le
distanze da contenuti strutturati nelle matrici progettuali e portarsi su un piano di
essenzializzazione più rigoroso e consono al dettato dei programmi.
Disponiamo per ora solo del dettato fino al primo ciclo; tuttavia sufficientemente
Capitolo 15 pag. 234/235
indicativo di una diversa sensibilità, che affida all’inventiva e alla responsabilità
pedagogico-didattica l’elaborazione disciplinare puntuale dei contenuti.
Resta ribadita l’attenzione prioritaria ai contenuti e specificamente ai contenuti
cattolici.

Concludendo

Osservazioni del genere tendono solo ad evidenziare un pericolo tutt’altro che


inconsistente di emarginazione progressiva, cui l’Insegnamento di Religione
Cattolica va incontro. Aggravato dalla constatazione penosa che i saperi di cui la
scuola si preoccupa non danno voce alla religione.
La sperimentazione ha il merito di preoccuparsi dell’elaborazione della disciplina,
ma può incorrere nel rischio di emarginarla nel momento stesso in cui intende
qualificarla: se qualificarla significa sottovalutare le esigenze della scuola attuale,
degli allievi reali che la frequentano, del clima culturale, multietnico, multireligioso
che la caratterizza e di cui la stessa sperimentazione ha richiamato l’importanza.
Giustamente il Cardinal Ruini nell’indirizzo inviato al Ministro nell’avvio stesso
della sperimentazione si augurava che la collaborazione fra Ministero e
Conferenza Episcopale potesse sfociare nella «costituzione di un Osservatorio
della sperimentazione, composto di membri del Ministero della Pubblica
Istruzione e di membri della Conferenza Episcopale Italiana, avente il compito di
seguire il processo di sperimentazione e di attivare il monitoraggio dell’iniziativa».
(Lettera del Cardinale C. Ruini, in «Notiziario...» 3 (1999) 2, p. 5.) Iniziativa per altro ben
accolta dal Ministro. (Ivi, p. 7.) Merita di costituire una suggestione interessante
e sotto molti aspetti indispensabile per orientare e verificare in continuità un
processo innovativo che qualifica oggi la scuola italiana e dovrebbe sollecitare
l’iniziativa di quanti sono impegnati alla corretta ed efficace presenza della
Capitolo 15 pag. 235
religione nel processo di rinnovamento che la stessa scuola persegue.

Indicazioni bibliografiche

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Capitolo 15 pag. 236


CAPITOLO 16

I METODI
Roberto Romio

1. Dalla didattica empirica alla metodologia didattica

Il processo di insegnamento-apprendimento è generalmente condotto dagli


insegnanti ponendo in essere una «didattica empirica», cioè un insieme di
concetti e teorie, ma soprattutto di abitudini, che costituiscono il retroterra di ogni
intervento didattico. Questo insieme di teorie, concetti e abitudini è generalmente
privo di quei caratteri di sitematicità e formalizzazione propri del sapere
scientifico.
È questo «buon senso pedagogico», formato da credenze, convinzioni, schemi
d’azione condivisi, che normalmente orienta e dà significato agli interventi
formativi resistendo ai mutamenti ed alle innovazioni.
I metodi didattici fanno, invece, riferimento ad una disciplina didattica
che si configura come un sapere strutturato e garantito, anche se sempre
modificabile. I metodi sono il frutto di un rigoroso lavoro di ricerca che è costituito
dall’elaborazione teorica e dalla osservazione analitica dei dati empirici. Nessun
metodo, tuttavia, è immodificabile e assolutamente certo, ma tutto si può
sempre rivedere. La solidità e scientificità del metodo è data appunto da questo
incessante lavoro di ricerca (Maragliano, 2000, 63-66).
È anche però altrettanto vero che la metodologia didattica si fonda su postulati
che possono condizionarla e renderla inadeguata ai nuovi compiti educativi che
Capitolo 16 pag. 237
le mutate condizioni storiche impongono. Il rigore del metodo deve essere, allora,
mediato dalla saggia e creativa esperienza dell’educatore che guida il processo
educativo. Nella concreta situazione educativa i tre elementi fondamentali
della didattica: la persona che apprende (il soggetto), gli oggetti del conoscere
(i contenuti), le strategie dell’apprendimento (i metodi), debbono trovare una
opportuna integrazione nelle scelte dell’educatore (Fabbroni, 2001, 671-673).
Intorno al modo di combinare la domanda del soggetto che apprende, con i
contenuti e i metodi dell’apprendimento, si sono moltiplicati nella storia recente
gli sforzi dei didatti e sono nati diversi modelli e metodologie didattiche. Daremo
qui di seguito innanzitutto una precisazione terminologica dei concetti in campo,
disegneremo quindi l’attuale scenario metodologico della Riforma e dell’IRC, per
passare infine ad alcune indicazioni sulle metodologie dell’apprendimento e sui
modelli di programmazione oggi più conosciuti in Italia. Rinviamo fin d’ora, per
una conoscenza sistematica, ai manuali di didattica generale ed alla letteratura
specifica sull’argomento.

2. Metodologia, metodi e modelli didattici

La didattica, nei suoi cinquanta anni di vita, ha dovuto ritagliarsi, in quanto


scienza, un preciso «oggetto» o ambito di riflessione e di progettazione
ed insieme ha dovuto scegliere la sua «natura formale» cioè la sua veste
metodologica e la specificità del suo «linguaggio pedagogico».
In seguito a questo sforzo l’oggetto, cioè i contenuti specifici, della didattica
sono stati individuati nei due ambiti: dell’organizzazione scolastica e del curricolo
formativo.
Per quanto concerne l’aspetto metodologico, la didattica è la scienza che indaga
il concreto far scuola, con la razionalità antidogmatica e la criticità plurale proprie
Capitolo 16 pag. 237/238
di ogni scienza.
In altre parole la didattica si propone di indagare con una metodologia razionale
e critica gli ambiti dell’organizzazione scolastica e del curricolo formativo
(Frabboni, 2001, 60-66). La «metodologia didattica» deve, dunque, regolare il
rapporto tra le finalità, gli obiettivi e le attività educative in modo da raggiungere
la realizzazione del progetto pedagogico stabilito (Bertoldi, 1990, 52-54). Essa
è l’insieme di quelle dottrine che definiscono l’universo della didattica e la logica
che lo governa.
La pratica e la ricerca educativa di questi anni, hanno evidenziato
insieme al moltiplicarsi delle metodologie anche i limiti di ciascuna teoria
dell’apprendimento.
E tuttavia se vogliamo uscire, come è in realtà avvenuto, dai limiti della
teoria astratta e dai rischi dell’esperienza personale diretta, è indispensabile
l’elaborazione di metodi e modelli flessibili di istruzione attraverso la
«progettazione didattica».
La progettazione didattica può essere definita come «lo sforzo e il tentativo
di comprendere e migliorare l’apprendimento ideando strumenti e metodi
per raggiungere i fini desiderati» (Comoglio, 1998, 3-5). Essa ha lo scopo di
ottimizzare i risultati dell’azione educativa mediante la produzione di conoscenze
sui metodi di istruzione.
Il «metodo didattico» si può, invece, definire come «l’organizzazione di un
sistema di relazioni che mette in reciproca connessione tre strutture: la struttura
conoscitiva dell’alunno; la struttura della conoscenza da acquisire; l’insieme delle
operazioni da mettere in atto da parte dell’alunno per incorporare gli elementi
della conoscenza proposta nella sua matrice cognitiva» (Pellerey, 1982, 172-
175).
Il metodo ha quindi la finalità di favorire l’apprendimento creando le condizioni
migliori affinché i diversi stili cognitivi degli alunni si incontrino, nel modo più
Capitolo 16 pag. 238
idoneo, con i materiali di apprendimento. Ogni metodo indica in modo descrittivo
le condizioni che consentono di conseguire dei risultati ed in modo prescrittivo
come si possono in date condizioni ottimizzare i risultati desiderati.
Con il termine «modello», indicheremo in questo studio «la descrizione operativa,
concreta e semplificata di un certo fenomeno», e con la dicitura «modello
didattico» un insieme integrato di elementi che «prescrivono la sequenza
di eventi e funzioni per il compito che conduce ad una istruzione efficace»
(Comoglio, 1998, 7-9). Il modello semplifica, miniaturizza e riduce alla sua forma
essenziale il processo didattico. La sua funzione è quella di aiutare l’educatore a
interpretare, valutare, mettere ordine, programmare interventi educativi coerenti
e sistematici.
Il modello indica i passi necessari per raggiungere i risultati desiderati. I modelli
didattici sono in continuo miglioramento e continuamente si aggiornano in base
alle nuove conoscenze.
In questi ultimi dieci anni sono stati proposti molti metodi e modelli, e sono state
effettuate diverse categorizzazioni, sia sul versante dell’organizzazione didattica,
sia su quello del curricolo formativo. La molteplicità esistente evidenzia che non
si dispone di un elenco completo dei metodi e modelli didattici e che la ricerca
didattica continuamente arriva a risultati che aprono spazi per nuove integrazioni
e sintesi. Ma la molteplicità è indice non tanto di fragilità ed inutilità dei modelli
proposti, quanto della complessità dell’interazione delle variabili in gioco.
La diversità dei metodi non deve mettere in difficoltà l’insegnante, al contrario
egli deve sentirsi più sicuro nelle sue scelte poiché può scegliere in funzione
del risultato desiderato la metodologia più idonea a lui ed agli studenti. Alcuni
studenti imparano meglio in un contesto altamente strutturato, altri in un
ambiente più aperto e centrato sullo studente. Alcuni vogliono scoprire da soli
la verità, altri sono a loro agio se le soluzioni vengono offerte. Alcuni studenti
pensano in modo deduttivo, altri in modo induttivo.
Capitolo 16 pag. 238/239
L’insegnante che usa una varietà di approcci raggiunge più studenti e li
incoraggia ad apprendere in una varietà di modi. Egli deve saper padroneggiare
un repertorio di strategie per affrontare specifici problemi di apprendimento e
dopo averle applicate potrà personalizzarle, adattarle alle diverse situazioni
passando dall’una all’altra con libertà. Nessun singolo modello è completamente
adeguato.
Occorre sviluppare la flessibilità ed accrescere creatività e immaginazione
per generare soluzioni efficaci al vasto repertorio di problematiche che
l’insegnamento presenta (B. Joyce - M. Weil, 1986, 20-21).
Tenteremo, in questa sede, di disegnare un quadro essenziale dei metodi
e modelli didattici tenendo come riferimento i docenti di Religione cattolica
impegnati nel contesto della scuola italiana.

3. Le scelte metodologiche della scuola della riforma

Si sta chiudendo con la prossima approvazione dei decreti attuativi della legge n.
53 lo sforzo di dettare le nuove regole del rinnovamento della scuola italiana.
Questo grande sforzo è stato determinato dal tentativo di superare alcune
gravi carenze della didattica tradizionale fondata su modelli cognitivi «inattuali,
sfasati e senescenti», su un’istruzione riproduttiva, mnemonica, enciclopedica,
nozionistica e dunque improduttiva, ed infine su un profilo individualistico-
privatistico.
La scuola, che ancora oggi viviamo, trasmette spesso un sapere immutabile ed
infrangibile lontano dai fermenti esistenziali, frantumato «in materie scollate e
gerarchizzate, spesso in conflitto epistemologico» e prive di relazioni reciproche
(Frabboni, 2001, 126-128).
La riforma prende atto, innanzitutto, della crisi del modello tradizionale scolastico
Capitolo 16 pag. 239
centralista e della perdita del primato educativo della scuola inserita, oggi, in un
sistema educativo complesso che va dall’educazione formale (Stato, Regioni,
Enti locali), a quella non formale (volontariato, istituzioni varie, ecc.), a quella
informale (mezzi di informazione e comunicazione, manifestazioni sociali, ecc).
L’ipotesi della riforma è l’integrazione tra i vari sistemi all’interno di quello formale
e l’integrazione, nel sistema formale, dell’istruzione e formazione.
Integrazione che si realizza attraverso il riconoscimento nell’intero sistema dei
debiti e dei crediti custoditi nel portfolio delle competenze.
A livello didattico la Riforma pone fine alla stagione dei programmi rigidi e
centralisti e a quella della programmazione curricolare che declina il nazionale
nel locale. Essa dispone la gestione diretta ed in prima persona dell’istituzione
scolastica locale da parte del «capitale sociale» (famiglie, studenti, territorio)
anche se all’interno di una direzione nazionale del sistema educativo.
Ma il cambiamento fondamentale voluto dalla riforma è la traduzione, in
scelte metodologiche concrete, della centralità dell’alunno nel processo di
insegnamento-apprendimento. Un sistema educativo centrato sulla domanda
educativa dell’alunno e non più sui programmi. Tale centralità si traduce nella
costruzione dei «Piani di studio personalizzati» e del «Portfolio delle competenze
individuali » per ciascun alunno.
Lo Stato non elabora più, allora, i programmi ma:
– il «Profilo educativo, culturale e professionale» dello studente,
– le «Indicazioni nazionali», con carattere prescrittivo,
– le «Raccomandazioni», con carattere orientativo, per guidare l’attuazione delle
«Indicazioni nazionali».
Le «Indicazioni nazionali» esplicitano i livelli essenziali di prestazione che tutte le
istituzioni scolastiche del sistema educativo nazionale di istruzione e formazione
sono tenute ad assicurare. Esse contengono, obbligatori per tutti i docenti:
– gli «obiettivi generali» del processo formativo
Capitolo 16 pag. 240
– gli «obiettivi specifici di apprendimento» (Osa), espressi in termini di
conoscenze, abilità e competenze.
Gli Osa guidano la progettazione delle «Unità di Apprendimento», l’insieme delle
quali va a costituire i «Piani di Studio Personalizzati».
Il «Piano di Studio Personalizzato» è costituito dalle «Unità di Apprendimento
» predisposte dai docenti per ciascun allievo, dopo aver individuato insieme allo
studente ed alla sua famiglia i punti di forza, di debolezza e le prospettive di
approfondimento e di recupero. Esso può essere costantemente aggiustato sui
risultati dello studente al fine di promuovere la sua piena realizzazione.
Le «Unità di Apprendimento» si strutturano negli obiettivi formativi, le attività,
i metodi, le soluzioni organizzative previste per trasformare gli obiettivi in
competenze individuali ed infine le modalità di verifica e valutazione delle
competenze raggiunte.
Il «Portfolio delle competenze individuali» è una «collezione strutturata,
selezionata e commentata-valutata dei materiali prodotti dall’allievo che
consentono di conoscere il livello delle competenze e la pertinenza degli
interventi didattici adottati». Accompagna lo studente nel suo percorso
di maturazione e verrà utilizzato per la ricerca di lavoro, la riconversione
professionale e la formazione continua. Il Portfolio comprende una sezione per
la valutazione, una per l’orientamento e contiene i materiali prodotti, le prove
scolastiche, le osservazioni dei docenti e della famiglia, i commenti sui lavori
più significativi, indicazioni che emergono dalla osservazione sistematica del
percorso formativo.
La figura di riferimento in tutto il processo educativo è il «docente coordinatore-
tutor» a cui vengono affidati i singoli allievi, in un numero corrispondente alla
classe, che egli seguirà per l’intera durata del periodo formativo. Il tutor ha
una funzione di guida e stimolo (coaching), di sostegno affettivo (holding) e di
consiglio (counselling). Suo compito è quello di: rendere consapevole lo studente
Capitolo 16 pag. 240/241
e la famiglia degli obiettivi terminali e intermedi del ciclo, illustrare i contenuti,
tempi e modalità previsti, consigliare orari e programmi di lavoro. Egli progetta,
nell’ambito del POF, insieme ai colleghi, all’alunno ed alla famiglia, tenendo
presenti le indicazioni nazionali, il percorso formativo dell’allievo che si realizzerà
attraverso la sua partecipazione ad un «gruppo classe» ed ai «laboratori».
Per «gruppo classe» si intende la classe tradizionale cioè un gruppo numeroso
di allievi chiamato a svolgere insieme attività prevalentemente omogenee ed
unitarie. Mentre per «laboratorio» si intendono gruppi di livello, di compito ed
elettivi, trasversali ai gruppi classe (Sandrone Boscarino, 2003, 7-14).
Dopo il primo biennio della scuola primaria il «laboratorio» diviene il luogo
privilegiato dell’apprendimento in cui vengono svolti, in una dimensione operativa
e progettuale che mobiliti l’intero sapere, compiti unitari e significativi per l’alunno.
In esso si scopre la complessità e l’unità del reale, si sviluppa la relazione
interpersonale e la collaborazione, si percorre un itinerario di lavoro che integra
tutti gli ambiti della persona (teoria e prassi, esperienza e riflessione, corporeo e
mentale, emotivo e razionale, ecc.).
Tutte queste indicazioni metodologiche, a volte così dettagliate, subiranno nei
prossimi anni degli aggiustamenti e probabilmente, come è già accaduto, degli
stravolgimenti, ma le linee portanti rimarranno nel tempo poiché traducono
orientamenti che, da anni, tutto il sistema scolastico nazionale ed internazionale
aveva individuato e codificato nei suoi documenti principali, basti per tutti
vedere il rapporto sull’educazione dell’UNESCO (Delors, 1997). Possiamo
individuare i seguenti orientamenti metodologici fondamentali generalmente da
tutti riconosciuti: la centralità nel processo di insegnamento-apprendimento del
soggetto che apprende, la localizzazione delle istituzioni educative con l’apertura
al contesto che le circonda, l’accoglienza delle problematiche emergenti dal
vissuto esistenziale e dall’attualità, la essenzializzazione dei contenuti con la
ridefinizione di una nuova enciclopedia dei saperi, il superamento degli steccati
Capitolo 16 pag. 241
disciplinari verso un sapere unitario più vicino alla realtà, l’apertura ai nuovi
linguaggi, non solo multimediali, la costruzione di un sistema educativo integrato
per un’educazione permanente che duri tutta la vita.
Il secolo XXI si è aperto con queste domande educative, che ci
accompagneranno nei prossimi decenni ed alle quali la didattica dovrà dare una
risposta metodologica, nel suo continuo aggiustamento, sempre più adeguata.

4. La condizione metodologica dell’IRC

Per delineare un quadro della condizione metodologica dell’IRC ci rifacciamo ai


risultati dell’ultima ricerca nazionale sull’IRC (G. Malizia - Z. Trenti, 1996, 98-100)
confermati dalla successiva elaborazione e ancora oggi attuali.
Dai dati raccolti risulta che il programma ufficiale dell’IRC viene tenuto
presente dalla maggior parte degli insegnanti anche se poi viene generalmente
«concordato » con gli studenti e diviene dominante l’area di senso rispetto a
quelle più caratterizzanti la disciplina. Sia negli obiettivi che nei contenuti, nella
scuola media e nella secondaria, le tematiche esistenziali, di attualità e di morale,
assumono chiara preponderanza, sono concordate con gli alunni e trattate in
forma dialogica.
Viene, così, confermato quanto già prefigurato nella precedente ricerca
nazionale del 1990 (G. Malizia - Z. Trenti, 1991) e cioè il delinearsi, sempre
più chiaro, di una scelta preferenziale degli IdR per la metodologia induttiva.
L’insegnante sembra, però, preoccupato di mediare e salvaguardare sia l’istanza
esperienziale che quella dottrinale. Evidente è lo sforzo di incontrare l’esperienza
degli allievi, ma insieme anche continua è la preoccupazione di salvaguardare la
prospettiva dottrinale di tipo più deduttivo. Sembra che l’insegnante non riesca
ad armonizzare bene le due istanze, induttiva e deduttiva, e che il ricorso alle
Capitolo 16 pag. 241/242
fonti venga giustapposto all’esperienza ed ai suoi interrogativi. Risulta dunque
necessario un chiarimento sulle metodologie educative che vengono utilizzate
spesso senza consapevolezza.
Aquesto proposito dobbiamo aggiungere che la preparazione pedagogico-
didattica degli IdR risulta ancora carente. Essa è sostanzialmente assente
nelle facoltà teologiche e, anche se presente negli ISSR, non assume quel
rilievo che dovrebbe avere per un professionista dell’educazione religiosa. La
preparazione degli IdR è ancora incentrata in modo determinante sulle discipline
teologiche. Lo stesso accade per la formazione in servizio in cui dominano le
tematiche biblicoteologico-morali. È pur vero, tuttavia, che in questi ultimi anni, in
seguito alla Riforma, la dimensione pedagogico-didattica ha trovato un discreta
considerazione ed interesse.
Quando, nella programmazione, viene usato un modello didattico, generalmente
gli IdR scelgono quello lineare per obiettivi, che risulta ormai inadeguato alle
nuove condizioni educative.
Nella scuola media e nel biennio della Secondaria il procedimento didattico più
utilizzato, secondo la ricerca del 1996, è quello di partire dal libro di testo e di
spiegarlo, mentre nel triennio della Secondaria si usano altri sussidi didattici per
trattare tematiche di attualità.
Nonostante il ricorso all’esperienza ed all’attualità, scarso seguito trovano,
tra gli IdR, le metodologie induttivo-ermeneutiche, forse perché, formati con
metodologie deduttive, essi tendono a riproporre i modelli seguiti nella loro
formazione.
Riguardo alla collaborazione interdisciplinare, gli IdR collaborano in genere con
gli altri docenti e sono disponibili ad entrare nei progetti pluridisciplinari.
In conclusione si può dire che nell’IRC vi è più una didattica dell’insegnare
che dell’apprendere, una didattica dell’accoglienza, dell’accompagnamento,
dell’interpretazione delle esigenze giovanili, ma non una didattica
Capitolo 16 pag. 242
dell’apprendimento (G. Malizia - Z. Trenti, 1996, 210-224).
L’ultimo tentativo posto in atto dalla CEI in accordo con il MPI, la
Sperimentazione nazionale per i nuovi programmi di IRC, preoccupato
soprattutto di dare ordine e sistematicità ai contenuti da trattare nei diversi
cicli, non ha esplicitamente voluto affrontare questioni metodologiche. Dalla
proposta emergono tuttavia chiaramente alcune scelte di metodo: la scelta
della correlazione tra esperienza di vita e contenuti, la ciclicità progressiva del
processo di acquisizione dei contenuti, la essenzializzazione delle tematiche nel
nucleo centrale Gesù e la sua espansione in cinque nuclei tematici fondamentali
(Area di senso, Dio, Gesù Cristo, Chiesa, Morale), l’accentuazione della
dimensione interculturale ed interdisciplinare, la proposta dello strumento di
programmazione delle matrici progettuali ed infine l’indicazione dello strumento
del laboratorio.
La sperimentazione nazionale, al di là della sua forte rigidità, che risulta il limite
più grave in una situazione di accentuata flessibilità educativa, non ha affrontato i
veri nodi della educazione religiosa scolastica che sono principalmente sul piano,
non dei contenuti, ma della collocazione dell’IRC nella nuova scuola che esce
dalla riforma. Iniziata e terminata troppo presto, la sperimentazione è rimasta
tagliata fuori da quel sofferto ripensamento che ha attraversato la riforma della
scuola ed ha trasformato profondamente il contesto dell’educazione in Italia .

4.1. L’IRC modello di organizzazione scolastica della riforma

La riforma ha raccolto la spinta che da vari anni muoveva la didattica verso un


nuovo modello organizzativo della scuola aprendola «verso il fuori» e «verso il
suo interno».
Verso il fuori la scuola dovrà costruire un rapporto di reciprocità formativa con le
Capitolo 16 pag. 243
offerte culturali presenti nel territorio: artistiche, civili, sociali, paesaggistiche, ecc.
Verso il suo interno la scuola aprirà le classi all’alternanza tra attività di classe, e
interclasse nei laboratori. Il rompersi della rigidità del gruppo classe permetterà
l’aggregazione, la disaggregazione e la riaggregazione degli alunni in gruppi
mobili ed eterogenei di conoscenza, ricerca, attività. È il contesto ideale per
promuovere esperienze personalizzate di socializzazione e di apprendimento.
Nel gruppo di allievi omogeneo, per motivazione e rendimento cognitivo, venutosi
così a formare, troverà piena realizzazione il cammino di individualizzazione dei
processi di relazione e di conoscenza.
L’interclasse faciliterà l’allestimento di nuovi «angoli didattici» in cui le discipline
potranno lavorare insieme e consentirà la formazione di «assi disciplinari » di tipo
linguistico, letterario, storico, scientifico, religioso, artistico, musicale, ecc. per
il conseguimento di nuove abilità e competenze. È una vera rivoluzione in una
scuola ancora ingessata dalla burocrazia e dagli steccati disciplinari, finalizzata
alla conservazione e trasmissione di saperi inossidabili fissati nei programmi
ministeriali. Si apre la strada al sapere «ologrammatico», unitario e totale che si
costruisce trasversalmente alle discipline attraverso l’analisi-sistematizzazione-
ricostruzione-reinvenzione delle conoscenze canoniche. E pure trasversali alle
discipline saranno i progetti didattici e le competenze alla fine acquisite nei
laboratori (Frabboni, 2001, 89-122).
In questo nuovo contesto l’IRC e l’IdR devono interagire dinamicamente
uscendo con coraggio dalla parziale emarginazione della loro condizione
professionale e disciplinare.
Verso il «fuori la scuola» l’IdR dovrà allacciare rapporti di reciprocità formativa
con le opportunità presenti nel territorio: le tradizioni popolari, i segni della
memoria storico-religiosa, la produzione artistica, i valori religiosi di carattere
civile e sociale, il messaggio culturale-religioso trasmesso nelle caratteristiche
paesaggistiche, ecc.
Capitolo 16 pag. 243/244
Verso l’«interno la scuola» l’IdR dovrà aprirsi alla flessibilità personale e
disciplinare.
La disponibilità dell’IdR alla frammentazione del gruppo degli avvalentisi ed alla
disaggregazione e riaggregazione degli alunni in gruppi mobili ed eterogenei,
significa per lui rinunciare ad una didattica più sicura e protetta dal regime
concordatario. Entrare nei nuovi «angoli didattici» e nella formazione di nuovi
«assi disciplinari» significherà affrontare il rischio del confronto con i colleghi
e gli altri saperi. Entrare nella ricostruzione e reinvenzione delle conoscenze
canoniche vorrà dire, per l’IRC e per l’IdR, mettere a confronto i margini
della tradizione cattolica con la logica critico-razionalistica e problematicista
degli altri saperi. In più la proposta dei nuovi programmi di IRC, frutto della
sperimentazione nazionale, chiusa all’interno del sapere disciplinare da
trasmettere, non sembra favorire la progettualità interdisciplinare e la flessibilità
richiesta dal sapere ologrammatico.
Si delineano dunque un IdR e un IRC che scendono in campo aperto senza
tutele e protezioni, forti solo dello statuto epistemologico della disciplina e della
competenza professionale nel sapere religioso dell’IdR. Su questi due aspetti
la recente approvazione dello statuto giuridico degli IdR ha dato una maggiore
solidità, ma proprio su di essi, in particolare sulla consapevolezza negli IdR
dell’identità disciplinare dell’IRC, l’ultima ricerca del 1996 gettava delle lunghe
ombre (G.
Malizia - Z. Trenti, 1996, 107-114; 225-229; 297-304). Non così per il grado
di flessibilità degli IdR, che la ricerca stimava invece più che positivo in base
alla presenza di alcune caratteristiche come: «una moderata assunzione del
programma; un’articolata integrazione dei contenuti; una proposta educativa
promozionale dell’autocomprensione degli alunni oltre che della conoscenza
oggettiva della religione cattolica; una consapevole attenzione educativo-
didattica ai soggetti destinatari per la scelta dei temi» (G. Malizia - Z. Trenti, 1996,
Capitolo 16 pag. 244
212).
Certamente siamo di fronte ad una sfida che richiede, non solo agli IdR, ma a
tutti i livelli, anche a quelli istituzionali ed accademici che si occupano dell’IRC,
un nuovo impegno di chiarificazione e di adeguamento .

4.2. L’IRC nel modello curricolare della riforma

Il «curricolo» in didattica è «un tentativo di comunicare i principi e le


caratteristiche essenziali di una proposta educativa», o anche,«il mezzo con
cui l’esperienza fatta per mettere in pratica la proposta educativa diventa di
dominio pubblico» (Frabboni, 2001, 224). Esso investe sia i contenuti che i
metodi e fornisce la base per la pianificazione di un corso di studi. Attraverso di
esso si possono conciliare le istanze del soggetto che apprende con il sapere
da apprendere e le indicazioni programmatiche generali con il vissuto scolastico
particolare. In questo modo si può mediare il dentro con il fuori scuola, il dentro
con il fuori classe, l’individualizzazione con la non individualizzazione dei percorsi,
le unità di apprendimento con i progetti didattici, le procedure aperte e chiuse di
valutazione.
Il curricolo si costruisce grazie alla programmazione educativa e didattica che
adegua, alle variabili concrete della scuola particolare, tutte quelle indicazioni
programmatiche nazionali, più o meno prescrittive, che in questi ultimi anni
hanno preso forma.
La programmazione educativa, riservata al collegio docenti di un plesso,
rapporterà alle indicazioni educative nazionali: la cultura antropologica e le
ricchezze naturali del territorio, i livelli di partecipazione dei genitori e delle forze
sociali, l’ideologia pedagogica e gli stili degli insegnanti, ecc.
La programmazione didattica, che è compito del docente tutor con i suoi colleghi
Capitolo 16 pag. 244/245
e che è stata dalla legge 53 fortemente individualizzata, dovrà sagomare e
coordinare: gli spazi, le risorse finanziarie, le apparecchiature scolastiche, i livelli
culturali, capacità e competenze disciplinari degli allievi, le attese della famiglia e
del singolo studente, ecc. (Frabboni, 2001, 130-131).
Nel curricolo, che l’autonomia scolastica consente di disegnare a misura del
territorio e della singola scuola, trova forza, dignità e coordinamento il vasto
repertorio delle strategie metodologiche educative e didattiche di un itinerario
formativo.
Il curricolo regolerà il sapere sistematico e quello asistematico extrascolastico,
il dentro e il fuori classe, le strategie individualizzate e non, le unità ed i progetti
didattici, le modalità di misurazione e valutazione.
L’ultima stagione della Riforma ha posto fine alla logica del programma
nazionale da realizzare attraverso la programmazione ed è passata
alla «programmazione curricolare», cioè fine dei programmi da applicare
esecutivamente in tutte le classi della penisola, e passaggio ai «valori/vincoli
nazionali che ogni scuola è chiamata autonomamente ad interpretare e ad
adattare alle esigenze della propria realtà formativa» (Sandrone Boscarino,
2003, 7). Compito del Ministero sarà quello di dettare gli ordinamenti del sistema
educativo di istruzione e formazione, gli obiettivi generali e specifici, gli standard
di prestazione e i criteri generali di valutazione. Spetterà, invece, alle singole
scuole e al docente la concretizzazione di tempo, luogo, azione e qualità dei
valori/vincoli astratti attraverso una creativa progettazione di scelte educative e
didattiche che nascano dal coinvolgimento attivo di genitori, studenti e territorio.
La legge 59/97, seguita poi dalla riforma del Titolo V, chiede al «capitale sociale»
(famiglie, studenti, territorio) di «gestire direttamente ed in prima persona
l’istituzione scolastica locale», all’interno di un «governo nazionale» del sistema.
Resta la responsabilità progettuale della scuola e dei docenti che deve però
coniugarsi con la responsabilità educativa dei ragazzi, della famiglia e del
Capitolo 16 pag. 245
territorio, nella scelta della costruzione e acquisizione dei percorsi formativi.
Famiglia e studenti vengono chiamati in causa sia nella realizzazione dei valori
nazionali, attraverso la costruzione dei piani di studio personalizzati, sia nella
implementazione e autenticazione di tali vincoli, attraverso le informazioni da
fornire al Sistema Nazionale di Valutazione.
Si tratta di una svolta di mentalità richiesta a tutte le componenti scolastiche,
alle famiglie, agli studenti, al personale amministrativo, ma in particolare ai
dirigenti scolastici ed ai docenti abituati ad essere meri funzionari ed esecutori di
ordinamenti, indirizzi e programmi calati dall’alto.
Appare evidente quanto sia stonata e fuori luogo, in questo modello curricolare,
quella rigidità e prescrittività ancora presente nell’IRC. Ugualmente è fuori luogo
ogni pretesa di salvare una nicchia per condurre autonomamente il processo di
educazione religiosa. Solo un IdR, padrone della sua disciplina, ma capace di
agire con grande libertà nell’area del sapere religioso potrà operare in questo
nuovo contesto senza essere travolto.

4.3. Il carattere ologrammatico dell’apprendimento

Il processo di insegnamento-apprendimento è concepito dalla Riforma


secondo il principio dell’ologramma Non si tratta cioè di raggiungere obiettivi
o di trasmettere contenuti, elencati nelle Indicazioni nazionali, ma di realizzare
un evento educativo in cui prende forma un insieme di elementi che andranno
a costituire il processo di maturazione dell’allievo. Un processo educativo
autonomo che la scuola deve sollecitare, sostenere, promuovere, ma che
l’allievo deve liberamente e autonomamente scegliere. Il processo di autonoma
maturazione dell’allievo, sollecitato e atteso dall’insegnante, deve essere
condotto in modo unitario, non frammentato nei compartimenti stagni delle
Capitolo 16 pag. 245/246
molteplici discipline scolastiche. L’esperienza di apprendimento deve essere
unitaria, sia sul piano psicologico che didattico.
All’interno di questa unità l’alunno scoprirà la diversità di lettura che le
prospettive disciplinari possono offrire. I docenti devono abbandonare lo
specialismo autoreferenziale e aprirsi ad un sapere unitario, ad una cultura
legata da connessioni «ologrammatiche, ontonomiche, olistiche».
Già i saggi, chiamati a consulto dal Ministro Berlinguer all’inizio della Riforma,
nel definire il volto della scuola del nuovo millennio avevano parlato della
necessità di ridisegnare la nuova enciclopedia dei saperi per la nuova scuola e
avevano preannunciato l’inevitabile superamento degli steccati disciplinari verso
un nuovo sapere unitario e globale, più vicino alla realtà della vita ed ai giovani.
Il loro auspicio trova conferma in questa indicazione programmatica del sapere
ologrammatico che però dovrà trovare spazi e concreta volontà di realizzazione.
Non sarà facile e non sarà certamente un traguardo a breve termine, ma
certamente una prospettiva verso cui orientare tutti gli sforzi delle componenti
della scuola e del fuori scuola.
L’IRC, gli IdR, il sapere e la cultura religiosa non hanno nulla da temere in
questo orientamento unitario poiché la religione è una dimensione fondamentale,
ineludibile della persona e la religiosità pervade, più o meno palesemente, tutte
le manifestazioni della cultura di ieri e di oggi. Compito dell’IRC e dell’IdR sarà
quello di far prendere consapevolezza della dimensione religiosa e far emergere
il religioso nascosto e confuso nelle manifestazioni anche banali della vita. La
domanda di senso che ogni studente porta con sé troverà certamente nell’IRC
e nell’IdR quello spazio per la identificazione e la costruzione di una risposta
unitaria.

Capitolo 16 pag. 246/247


5. Le metodologie di apprendimento: il metodo deduttivo, induttivo ed
ermeneutico

Le metodologie educative che interessano il processo di insegnamento-


apprendimento si possono differenziare in base al loro modo di mettere in
relazione le componenti del processo: l’allievo, l’insegnante, il libro o strumento,
i valori reali. In base alla centralità data ad uno degli elementi costitutivi
del processo di apprendimento possiamo distinguere tre metodologie di
apprendimento: deduttiva, induttiva ed ermeneutica.
Il metodo deduttivo si rifà alla concezione classica del processo di insegnamento-
apprendimento, di tipo lineare, gerarchico e sistematico. La trasmissione del
sapere si pone al centro del processo, mentre passano in secondo ordine
la domanda e l’interesse del soggetto che apprende. Ciò che conta è che
l’allievo apprenda in tutta la sua sistematica organicità la dottrina. Conoscere
significa appropriarsi in modo completo e sistematico, attraverso un progressivo
allargamento dal semplice al complesso, dell’edificio del sapere. Alla fine l’alunno
saprà ridisegnare l’intero sistema di conoscenze a partire dalle verità centrali,
ritenute fondanti.
La metodologia didattica deduttiva pone al centro del processo didattico il libro
con i suoi contenuti sistematicamente ed organicamente presentati.
L’insegnante spiega il libro; l’allievo segue sul libro la lezione e tornerà su di
esso per la preparazione; il libro segue il programma stabilito; i valori reali sono
lontani; la finalità è la conoscenza dei contenuti; la didattica si occupa del come
trasmetterli.
Il metodo induttivo è quello tipico del processo scientifico che si fonda
sull’esperienza diretta e sulla verifica sperimentale delle proprie conclusioni.
Chiunque in qualsiasi luogo, può verificare la correttezza delle conclusioni a cui
lo sperimentatore è giunto. Basta rifare il cammino indicato dal ricercatore: si
Capitolo 16 pag. 247
parte dal dato di esperienza e attraverso l’analisi critica e la verifica sperimentale
si arriva all’accertamento della verità.
La metodologia didattica induttiva pone al centro del processo didattico la realtà.
L’insegnante informa e stimola; l’allievo ricerca; il libro offre percorsi e piste
possibili; i valori reali sono a portata di mano; la finalità è il coinvolgimento diretto
dell’allievo nella ricerca della verità; la didattica si occupa del che cosa fare sulla
realtà.
Il metodo ermeneutico nasce da quel vasto movimento di pensiero che pone
al centro di ogni ricerca il soggetto con la sua domanda di verità e di senso. Il
processo di ricerca della verità è di tipo circolare (circolo ermeneutico) parte
cioè da un cammino di chiarificazione della domanda, incontra la risposta
che la tradizione o il sapere codificato ha elaborato, costruisce una personale
significativa risposta che però risulta di nuovo portatrice di una ulteriore domanda
che riavvia il circolo ermeneutico. La domanda e la risposta sono già presenti
nell’esperienza del soggetto, vanno cercate e costruite in un processo continuo
di comprensione.
La metodologia didattica ermeneutica pone al centro del processo didattico la
persona.
L’insegnante interroga e suscita la domanda; l’allievo riflette e cerca la risposta;
il libro offre stimoli e contributi; i valori reali sono l’esperienza di vita vissuta; la
finalità è fare esperienza personale; la didattica si occupa di accompagnare la
persona.
Senza dubbio la metodologia didattica più rispondente alla cultura odierna ed ai
bisogni educativi degli allievi di oggi è quella ermeneutica, anche se ancora non
molto praticata. L’insegnante deve però saper utilizzare tutte le metodologie e
sceglierle secondo le necessità dei suoi allievi.
Come abbiamo già rilevato, scarso seguito trova ancora nell’IRC la metodologia
induttivo-ermeneutica, anche perché gli IdR trovano più consona la metodologia
Capitolo 16 pag. 247/248
deduttiva già seguita nella loro formazione. La richiesta degli studenti ed il
contesto culturale spingono però verso metodologie di carattere induttivo-
ermeneutico più centrate sull’esperienza e sulle tematiche esistenziali .

6. Alcuni modelli di istruzione

Vari studiosi hanno proposto forme di classificazione dei modelli di


insegnamento distinguendoli in base a differenti categorie. Abbiamo pertanto
modelli: personalistici, sociali, comportamentali, prescrittivi, procedurali.
Altri modelli sono attenti ai risultati educativi, allo studente, all’elaborazione
dell’informazione, alle abilità e conoscenze professionali, concettuali. Aqueste
si affiancano ancora altre classificazioni che distinguono i modelli in base ai
contenuti o alle teorie psicologiche a cui fanno riferimento, agli obiettivi e risultati
che intendono conseguire, o infine alla forma in cui vengono presentati.
Abbiamo scelto di presentare un quadro molto semplificato e schematico della
modellistica per dare un’idea del complesso scenario esistente che naturalmente
lasciamo alla curiosità e all’approfondimento personale del singolo docente.

6.1. L’istruzione comportamentista

Questo modello nasce durante la seconda guerra mondiale e identifica con B.


F. Skinner (1953) le due condizioni necessarie per l’apprendimento: la pratica
attiva ed il rinforzo. A partire dal 1960 inizia «un’analisi comportamentale»
dettagliata e sistematica degli obiettivi e delle materie di studio. Nacquero così
vari modelli didattici (T.F. Gilbert, 1962; Mechner, 1967; R.M. Gagné, 1970; G.L.
Gropper, 1975), vicini alla tradizione behaviorista, che si proponevano la
Capitolo 16 pag. 248
prescrizione di interventi per un insegnamento efficace. Afondamento di questo
modello c’è «l’esigenza che gli studenti raggiungano una risposta progettata dalla
presenza di uno stimolo che deve controllarla». Lo studente deve discriminare
gli elementi rilevanti del comportamento, provare l’associazione tra stimolo e
risposta e infine imparare ed esercitare la sequenza totale (Comoglio, 1998, 15-
58).

6.2. Modello R. Gagné e L. J. Briggs

In questo modello l’istruzione è un insieme di eventi che riguardano gli


allievi e che facilitano il loro apprendimento. Il più importante di tali eventi è
l’insegnamento.
L’istruzione per essere efficace deve essere programmata in modo da
attivare e supportare l’apprendimento del singolo studente. Questo modello
ha una applicabilità molto ampia che include: l’educazione di atteggiamenti,
l’insegnamento di attività motorie, tre modelli per il campo cognitivo. Il
modello per l’insegnamento delle abilità intellettuali è quello più utilizzato ed
è caratterizzato dalla: selezione del contenuto (obiettivo del corso), sequenze
del contenuto, prescrizione di nove eventi didattici e di strumenti per insegnare
l’obiettivo.
La definizione degli obiettivi va fatta in modo preciso in modo da comunicare
cosa il soggetto deve saper fare per raggiungere la finalità prevista. Per far
questo si debbono usare verbi che indicano: azioni (elencare, scrivere, ecc.),
abilità intellettuali (distinguere, relazionare, integrare, ecc.), strategie cognitive
(trovare, ricordare, richiamare, ecc.), abilità motorie (eseguire, pronunciare,
disegnare, ecc.), atteggiamenti (scegliere, impegnarsi, preferire, ecc.).
La sequenza degli obiettivi e dell’azione didattica va determinata mediante
Capitolo 16 pag. 249
l’analisi del compito da svolgere che deve individuare i prerequisiti essenziali
distinguendoli dai prerequisiti di supporto.
Gli eventi didattici che caratterizzano una situazione di apprendimento sono:
ottenere l’attenzione, comunicare all’allievo l’obiettivo, richiamare le attività
prerequisite, presentare il materiale stimolo, offrire una guida all’apprendimento,
sollecitare la prestazione, feedback sulla correttezza dell’esecuzione, verificare le
prestazioni, migliorare la ritenzione ed il transfer.
Gli strumenti didattici vanno scelti in base ad alcune variabili: il compito, l’allievo,
l’ambiente, l’economia e la cultura, i fattori pratici (Comoglio, 1998, 59-86).

6.3. Il modello dell’elaborazione dell’informazione

Il modello, che è stato elaborato da C.M. Reigheluth e F.S. Stein, si riallaccia


a R. Gagné per il rilievo che dà ai prerequisiti dell’apprendimento e tenta
di integrare il più possibile i contenuti da apprendere con la struttura delle
conoscenze già acquisite. Propone un tipo di sequenza cognitiva che va dal
semplice al complesso per aiutare a costruire strutture cognitive stabili, offrire un
contesto significativo alla conoscenza ed una applicazione dell’apprendimento
fin dalle prime lezioni. Punta a costruire una macro-struttura, cioè una vasta
rete di concetti tra loro relazionati. Per far questo è necessario: selezionare,
sequenzializzare, ridurre e sintetizzare i contenuti. L’istruzione inizia con uno
sguardo generale per l’apprendimento delle idee fondamentali e si sviluppa
nella presentazione delle idee più dettagliate che precisano la struttura generale.
All’interno della sequenza semplice-complesso sono richieste alcune sequenze
prerequisite. Vengono sistematicamente usate revisioni e sintesi (Comoglio,
1998, 87-113).

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6.4. La teoria algo-euristica dell’istruzione

L’insegnamento deve puntare alla formazione negli studenti di competenze ed


abilità a partire da conoscenze. Questa teoria analizza i processi conoscitivi e le
relazioni tra apprendimento, prestazione e istruzione costruendo dei modelli dei
processi conoscitivi generalmente inosservabili. I processi conoscitivi complessi
vengono spezzettati in operazioni elementari e vengono fornite prescrizioni per la
crescita di un’istruzione efficace che superi i limiti della didattica tradizionale.
Generalmente si insegnano agli studenti conoscenze non processi e se si
insegnano processi cognitivi essi sono incerti, vaghi e ambigui. Proprio per
questo attraverso la scoperta dei processi consci e inconsci, sottostanti alle
abilità che forniscono prestazioni di alto livello, la teoria algo-euristica cerca di
descrivere, controllare e ottimizzare modelli che stabiliscano le procedure per
abilitare i non esperti a fornire prestazioni di alto livello (Comoglio, 1998, 161-
205).

6.5. Il modello di insegnamento erotetico

Questo modello, elaborato da C.J.B. Macmillan e J.W. Garrison, ritiene che


la scuola non è primariamente l’assimilazione di contenuti di conoscenza,
ma un’interazione quotidiana tra l’insegnante e gli studenti e che quindi il
rapporto insegnante-studente sia l’elemento fondamentale e il più importante
dell’insegnare.
Ciò che conta è il dialogo educativo dell’insegnante e la sua capacità di
rispondere alle domande dello studente. Il dialogo è un’interazione tra
l’insegnante, lo studente e la materia. L’erotetica spiega la logica interna di
Capitolo 16 pag. 250
questa interazione e le cause della riuscita e del fallimento. L’insegnante deve
guidare epistemologicamente la domanda in modo da prevedere le domande,
capire quelle inespresse, i presupposti falsi, le domande diverse, per condurre il
dialogo in classe verso una domanda giusta ed una risposta completa (Comoglio,
1998, 209-225).

6.6. Il modello di insegnamento socratico

A. Collins ed A.L. Stevens hanno elaborato questo metodo studiando i dialoghi


avuti con una grande varietà di insegnanti e studenti, su tematiche e materie
più disparate, in una grande varietà di situazioni. La loro proposta consiste
in un set di obiettivi per l’insegnante, in un set di strategie per raggiungere
questi obiettivi ed in una «struttura di controllo» che precisa come selezionare
e sequenzializzare le strategie in funzione degli errori da correggere. Vengono
fornite anche strategie per selezionare e graduare gli obiettivi. Un’agenda
consente di ubicare efficientemente il tempo tra i vari obiettivi. Il metodo ha il
vantaggio di modellare il pensiero scientifico, coinvolge e motiva, individualizza
l’insegnamento, approfondisce la comprensione, insegna a fare predizioni
(Comoglio, 1998, 227-251).

6.7. Il modello di istruzione diretta

Questo metodo si fonda sul principio, enunciato da J.F. Baumann, che


l’insegnante «è al comando della situazione dell’insegnamento e dirige la
lezione». Insegnare significa fornire un insegnamento diretto, dimostrare
chiaramente come si svolge un’attività, creare le condizioni per l’apprendimento,
Capitolo 16 pag. 250/251
assistere gli studenti nel cambiamento del loro comportamento o atteggiamento.
L’insegnante è il protagonista principale dell’insegnamento, egli dirige, modella,
controlla, riceve e fornisce feedback correttivi, ma il fine ultimo è che lo studente
sia responsabile del proprio apprendimento e capace di usare abilità e strategie.
Per B.V. Rosenshine le principali caratteristiche di questo insegnamento sono:
strutturare l’apprendimento, procedere a piccoli passi, dare istruzioni dettagliate
e ridondanti, presentare molti esempi, porre ampio numero di domande,
feedback e correzioni all’inizio dell’apprendimento, dividere compiti in piccole
unità, richiedere una continua pratica. All’insegnante è richiesto lo svolgimento
di sei funzioni: la revisione dell’insegnamento della lezione precedente e se
è necessario il ri-insegnamento, la presentazione o dimostrazione del nuovo
materiale, la pratica guidata, feedback e correzioni, la pratica indipendente, la
revisione settimanale o mensile. Questo metodo risulta efficace soprattutto per gli
studenti scarsi e se il materiale didattico è nuovo, difficile e complesso (Comoglio,
1998, 287-309).

6.8. La discussione come metodo di apprendimento

Il metodo condivide l’ideologia sottostante al metodo cooperativo di


apprendimento e si fonda sulla convinzione che sia più facile e produttivo un
apprendimento attraverso la collaborazione con gli altri che da soli. Questo
metodo sviluppa le abilità sociali (ascolto, ordine, rispetto, ecc.), il livello di
partecipazione, la riflessione, la verbalizzazione, l’analisi, la valutazione critica.
Gli obiettivi sono essenzialmente tre: rafforzare i livelli dell’apprendimento,
coltivare le abilità sociali, sviluppo del giudizio etico. L’applicazione del metodo
in classe richiede tre momenti significativi: la preparazione della discussione, lo
svolgimento ed il periodo successivo (Comoglio, 1998, 335-370).
Capitolo 16 pag. 251
6.9. Il modello di Mastery Learning

J.B. Block, H.E. Efthim e R.B. Burns costatando i deludenti risultati educativi
della scuola americana sono stati spinti a proporre una serie di attività
didattiche pratiche e individualizzate per raggiungere il successo educativo.
Ogni due settimane gli studenti che incontrano difficoltà ricevono un’istruzione
supplementare più personalizzata, mentre quelli che progrediscono hanno
un’istruzione arricchente. Dopo questa correzione e arricchimento tornano tutti al
corso di studi.
Gli insegnanti hanno quattro compiti: definire, pianificare, insegnare, valutare
il possesso effettivo di un contenuto o processo. Per definire il possesso vanno
identificati gli standard in base ad alcuni valori universalmente riconosciuti.
La pianificazione può essere prereattiva, nel periodo di corso, nell’unità di
apprendimento, nella lezione o segmento di lezione. Nell’attuazione del processo
di insegnamento è necessario svolgere quattro attività fondamentali: orientare
gli studenti, applicare il piano programmato, controllare come il piano si sviluppa,
prendere le decisioni derivate dal controllo. Nella valutazione gli insegnanti
devono tener presente di: verificare ciò che gli studenti hanno veramente
appreso, tradurre i dati in voti significativi per gli studenti, considerare il ritmo
individuale di apprendimento (Comoglio, 1998, 373-435).
Si può concludere che non esiste un metodo efficace in tutte le situazioni. Per
questo l’IdR dovrà possedere una adeguata preparazione metodologica di
base accompagnata da una ricca esperienza di metodi da applicare nel corso
dell’attività didattica. La varietà dei metodi è nata proprio dalla necessità di dare
risposta alle esperienze quotidiane degli insegnanti impegnati a perseguire
determinati obiettivi didattico-pedagogici nelle più varie condizioni di lavoro.
Capitolo 16 pag. 251/252
7. Alcuni modelli di programmazione

La programmazione è l’adattamento a livello locale delle «Indicazioni Nazionali


» di carattere generale. Essa comporta una serie di operazioni che gli insegnanti
da soli o in gruppo compiono per organizzare concretamente l’attività didattica:
scelta delle finalità e degli obiettivi, selezione dei contenuti, strategie di intervento,
mezzi e strumenti, verifica e valutazione. Negli ultimi venti anni si è sviluppata in
Italia un intensa riflessione sui modi di programmazione. Sono nati così alcuni
modelli di programmazione a cui gli insegnanti fanno ancora oggi riferimento nel
loro sforzo di organizzare l’attività di insegnamento. Ricordiamo ancora una volta
che la Riforma ha spostato anche il centro della programmazione dal gruppo
classe alla persona del singolo alunno e pertanto questi modelli vanno rivisitati
in questa nuova prospettiva. Diamo qui alcune sintetiche indicazioni su alcuni
modelli di programmazione rimandando per l’approfondimento alla letteratura
specializzata.

7.1. Modello di programmazione lineare per obiettivi

In questo modello l’insegnamento è concepito come un insieme di attività


strutturate che debbono portare ad un cambiamento di comportamento. Per
questo i contenuti sono stati subordinati alla scelta degli obiettivi che vengono
organizzati gerarchicamente secondo una progressione lineare. La selezione
dei contenuti e delle metodologie viene, dunque, effettuata in coerenza con
gli obiettivi che il docente si propone di realizzare. Con il tempo sono state
identificate tre aree di sviluppo: cognitiva, affettiva, psicomotoria.
Capitolo 16 pag. 252
Questo modello per la sua notevole controllabilità si è capillarmente diffuso
in Italia ed ancora oggi risulta, anche tra gli IdR, il modello più diffuso. Merito
di questo modello è stato quello di porre un limite allo spontaneismo e
all’improvvisazione prima dominanti nella scuola italiana. I limiti sono da ritrovare
nell’efficentismo e tecnicismo pragmatico che può arrivare, a volte, a porre in
secondo piano le esigenze educative della persona (Zuccari, 1997, 69-72).

7.2. La programmazione per concetti

Elio Damiano ha elaborato questo modello attraverso una diffusa ricerca


operativa.
Per lui il concetto è «l’atto del vivere e dell’affermarsi nell’ambiente» e pertanto
in ogni età la persona elabora «schemi di relazioni fra le informazioni».
Schemi «ripetibili e applicabili a situazioni diverse» in cui il nuovo è reso
«simile al già noto». La didattica per concetti consiste nel «favorire negli
scolari la rappresentazione degli oggetti culturali prescelti, nella situazione
protetta della scuola». Tale azione è connotata da due fattori: il distacco dal
bisogno immediato della risposta per una più precisa e cosciente «messa a
fuoco» e il ritardo che allontana l’immediatezza del presente per motivare e
problematizzare la conoscenza mediante l’esercizio dell’analizzare, scomporre,
classificare, interpretare, anticipare. In questo modo il soggetto può percorrere
itinerari formativi centrati su contenuti selezionati e organizzati chiaramente
per portare gli alunni alla concettualizzazione intorno ai «concetti organizzatori»
già presenti nella loro mappa concettuale. Il modello è centrato su tre elementi
portanti: l’attenzione al soggetto, l’attenzione allo specifico dei saperi disciplinari,
l’attenzione alle strategie metodologiche e ai mediatori didattici (attivi, iconici,
analogici, simbolici) (Zuccari, 1997, 75-78).
Capitolo 16 pag. 252/253
7.3. La programmazione per situazioni

W. Fornasa ha costruito questo modello basandosi su una concezione reticolare


del sapere, convinto che l’alunno costruisce la propria conoscenza in una
continua interazione tra aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, sociali, ludici, ecc.
Ogni conoscenza è provvisoria e si realizza in una continua riorganizzazione
di elementi che assumono configurazioni sempre diverse. La conoscenza è
un processo di interazione continua tra osservatore e osservato, una continua
costruzione di mondi possibili. L’alunno diviene competente allora non per
trasmissione di sapere, ma se diviene costruttore attivo della propria conoscenza.
La progettazione per situazioni si articola così in tre fasi: l’osservazione, l’offerta
e lo sviluppo della situazione, la sintesi e l’interpretazione.
La situazione viene creata artificialmente dall’insegnante attraverso un racconto,
un gioco, materiali stimolo e si sviluppa in seguito alla continua interazione delle
osservazioni che indicheranno possibili direzioni di sviluppo. La valutazione viene
fatta sull’evoluzione del soggetto nelle situazioni incontrate e si basa sulle azioni
dell’osservare, descrivere, sintetizzare, interpretare (Zuccari, 1997, 78-80).

7.4. La programmazione per sfondi

Questo modello, formalizzato agli inizi degli anni ’80 da P. Zanelli in seguito
ad una ricerca nella scuola materna ed elementare, concepisce lo «sfondo
integratore » come una modalità per sostenere i processi di «autoorganizzazione
cognitiva degli alunni». Lo sfondo è la struttura che connette la nostra esperienza
del reale attraverso regole condivise, un’organizzazione dei materiali e delle
Capitolo 16 pag. 253
istituzioni.
Con la creazione dello sfondo si cerca di «perturbare» il quadro cognitivo
dell’alunno per costringerlo a nuove sperimentazioni e costruzioni del conoscere.
Nel nuovo scenario maturano le conoscenze, i processi di integrazione e la
percezione di sé, della realtà e degli altri. Vi sono due accezioni di sfondo: lo
sfondo istituzionale che consiste nella particolare organizzazione del contesto
e lo sfondo narrativo-semantico che è il tessuto connettivo che conferisce
legami di senso all’esperienza. In una prospettiva coevolutiva, docenti e alunni
riorganizzano in un itinerario aperto i vari elementi del sistema (spazi, materiali,
arredi, tempi, tecniche, contenuti, relazioni, competenze, ecc.). Gli eventi
imprevisti e la complessità delle situazioni sono accolti nella programmazione
come potenzialità educative evolutive che dinamizzano il percorso creando
interesse e partecipazione.
Lo sfondo narrativo con il punto costante di riferimento nel monotema dà
continuità e unità alle varie attività. Nella sua «struttura organizzata ma non
totalmente prevedibile» si manifesta concretamente la programmazione e si dà
agli studenti il senso del loro percorso formativo. La programmazione non è gia
scritta ma si costruisce in collaborazione sotto la regia dell’insegnante, ma anche
con la partecipazione degli allievi (Zuccari, 1997, 80-83).

7.5. La programmazione modulare

Il modulo è una unità standardizzata costitutiva di un insieme. Un blocco


autonomo, significativo, altamente omogeneo e unitario di un più esteso
percorso formativo disciplinare, multidisciplinare o interdisciplinare, in grado di
conseguire precisi obiettivi cognitivi e di promuovere conoscenze e competenze
che modifichino la rete dei saperi posseduti in precedenza. I moduli sono
Capitolo 16 pag. 253/254
percorsi brevi divisibili al loro interno in unità di apprendimento, ma chiusi
in sé, con un significato compiuto, verificabili, certificabili e capitalizzabili. Si
relazionano secondo una logica di propedeuticità e puntano all’acquisizione
di nuove competenze a partire da competenze d’ingresso. A scuola, i moduli
vengono definiti in termini di competenze da acquisire, di tempi, in relazione
al curricolo ed alle esigenze organizzative dell’istituto. L’alunno entrando in
un percorso modulare deve possedere conoscenze, competenze e abilità
richieste per l’accesso e al termine deve dimostrare di padroneggiare le
conoscenze, le competenze e le abilità previste in uscita. La modularità comporta
trasformazioni sul piano: organizzativo, contenutistico e metodologico. Sul piano
organizzativo la modularità comporta la rottura della rigidità dei gruppi classe e la
responsabilità collegiale dei docenti.
Sul piano contenutistico i moduli richiedono una diversa organizzazione e
distribuzione dei contenuti delle discipline. Sul piano metodologico il modulo
è centrato sull’allievo e non più sui contenuti disciplinari. Con i suoi rischi
di frammentarietà e asistematicità la modularità risponde meglio alle nuove
esigenze poste dalla riforma (Romio, 2002, 12-19).

7.6. La post-programmazione

Questo modello costituisce il passaggio dalla cultura della programmazione a


quella della domanda radicale e problematica del soggetto sul senso di sé e
della realtà. Il modello si rifà alla visione fenomenologico-ermeneutica di Husserl-
Heidegger - Gadamer e alla teoria dell’ipercomplessità di E. Morin. Accogliendo
gli apporti della fenomenologia e dell’ermeneutica, G. Boselli descrive questo
modello come il superamento dell’idea stessa di programmazione. L’uomo è
visto come «soggetto di saperi in fieri e dunque non descrittivi, ma narrativi». Un
Capitolo 16 pag. 254/255
soggetto che interagisce e comunica in situazione, ma libero di dire e fare fuori
della tradizione. La condizione di ipercomplessità in cui l’allievo vive richiede
una capacità di riorganizzazione concettuale continua e dunque l’accoglienza di
una cultura debole. Si tratta, in conclusione, di un modello di programmazione
nato all’interno della cultura postmoderna che vuol parlare il linguaggio della
«pedagogia del soggetto», non quello della «pedagogia del cliente». In questa
prospettiva l’educazione è incontro di un soggetto con un altro soggetto e la
scuola è il luogo non della socializzazione e dell’insegnamento delle discipline,
ma luogo della formazione dell’autonomia intellettuale, morale ed estetica. La
tecnica che realizza questo modello è quella «dell’inter-rogarsi» per individuare
tra insegnanti le «linee di sviluppo», cioè i contenuti e le metodologie che
possono meglio aiutare gli alunni nella loro crescita. I contenuti rappresentano
l’occasione, il pretesto che facilita il dialogo alunno-insegnante e sono finalizzati
«all’incontro tra il mondo dell’alunno e l’universo della cultura entro le trame
della lingua». La verifica-valutazione è la ricostruzione «esplicita della globalità
dell’esperienza del ragazzo » attraverso momenti di condivisione tra insegnanti
circa le rispettive interpretazioni (Zuccari, 1997, 83-85).

8. Conclusione

I metodi non sono fine a se stessi, ma vengono elaborati per dare risposte alle
problematiche che emergono dai diversi contesti educativi. A perno di tutto c’è
sempre la persona dell’allievo che deve essere accompagnato nel suo sforzo
di piena realizzazione. Si deve sempre evitare sia la rigidità applicativa sia la
superficialità acritica che segue le mode del momento. I metodi devono essere
conosciuti e sperimentati dagli educatori, ma la loro funzione è solo quella di
contribuire alla ricerca e all’individuazione di soluzioni coerenti, ragionevoli e
Capitolo 16 pag. 255
praticabili nella particolarità dei contesti educativi.
In questo capitolo si è voluto solo disegnare un limitato scenario dei metodi
educativi per offrire un’idea della complessità di questa area ed insieme
della necessità di dare più rilievo nella formazione degli IdR all’aspetto della
metodologia educativa. Le indicazioni che sono state date risultano insufficienti
sul piano operativo, ma sono un primo passo nella selezione di quel personale
spazio di ricerca che dovrà accompagnare costantemente gli IdR lungo tutto
l’arco della loro professione.

Indicazioni bibliografiche

BERTOLDI F. (1990), Metodologia e didattica nel discorso educativo, in C. SCURATI,


Realtà e forme dell’insegnamento, Brescia, La Scuola.
COMOGLIO M. (1998), Metodi di insegnamento, Roma, UPS, Istituto di Didattica.
DAMIANO E. (1993), L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Roma,
Armando.
DELORS J. (1997), Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando.
FRABBONI F. (2001), Manuale di didattica generale, Bari, Editori Laterza.
JOYCE B. - M. WEIL (1986), Models of teaching, NJ: Englewood Cliffs, Prentice-
Hall, 3rd ed.
MALIZIA G. - Z. TRENTI (1996), Una disciplina al bivio, Torino, SEI.
MALIZIA G. - Z. TRENTI (1991), Una disciplina in cammino, Torino, SEI.
MARAGLIANO R. (2000), Nuovo manuale di didattica multimediale, Roma-Bari,
Laterza.
PELLEREY M. (1982), Progettazione didattica, Torino, SEI. Nuova ed. 1994.
ROMIO R. (2002), La didattica modulare nell’IRC, in «Insegnare Religione» 4
(2002) 12-19.
Capitolo 16 pag. 255/256
SANDRONE BOSCARINO G. (2003), Riforma scolastica e IRC. La filosofia della
riforma - Aspetti qualificanti, Roma, UPS (Corso di aggiornamento IdR scuola
Secondaria) (dattiloscritto).
ZUCCARI G. (1997), Metodologia e didattica dell’insegnamento della religione
cattolica nella scuola, Leumann (Torino), Elledici.

Capitolo 16 pag. 256


CAPITOLO 17

LA PROGRAMMAZIONE: PIANO OFFERTA


FORMATIVA E PROGRAMMI CEI
Giuseppe Morante

La riforma scolastica, che si sta faticosamente costruendo da qualche anno, e


che per tutti i cicli scolastici sta promulgando anche i «nuovi programmi», offre
occasioni anche agli Insegnanti di Religione (IdR) di rivedere il proprio ruolo
docente con effetti immediati sulla programmazione, alla luce dei principi della
centralità dello Stato e dell’autonomia degli Enti Territoriali.
In realtà le novità più evidenti vengono dalla legge dell’autonomia (Dpr n.
275/1999) che autorizza la scuola a passare da un modello fondato su
prerogative statali ad un modello integrato tra diverse competenze: Stato,
Regioni ed Enti Territoriali, Istituzioni scolastiche autonome.
Le scuole si avvalgono di libertà di iniziativa, al fine di rendere il servizio
educativo più rispondente alle esigenze degli allievi, delle famiglie e del territorio.
Perciò, servendosi delle attività degli organi collegiali, esse esercitano:
– un’autonomia organizzativa, che tende a valorizzare le risorse del personale, le
caratteristiche e la qualità complessiva del servizio;
– un’autonomia didattica, con ricadute sugli insegnamenti, sui programmi didattici
e sulla stessa articolazione degli interventi formativi;
– un’autonomia di ricerca e sviluppo, che mira a fare delle scuole dei laboratori

Capitolo 17 pag. 257


per il rinnovamento della didattica.
Le decisioni e le scelte dei singoli istituti scolastici vengono pensate e descritte
nel Piano dell’Offerta Formativa (POF) alla cui elaborazione concorrono
le diverse componenti scolastiche. Le caratteristiche e le specificazioni
dell’autonomia scolastica sono indicate nel regolamento che attua e concretizza i
principi e i criteri fissati nell’art. 21 della legge n. 59/1997.
La legge n. 3/2001 ha incluso nell’articolo 117 della Costituzione il titolo:
«autonomia delle istituzioni scolastiche», riconoscendo alla stessa una
eccezionale rilevanza giuridica. La legge n. 53/2003 si prefigge di riformare
il sistema scolastico italiano «in coerenza con il principio di autonomia delle
istituzioni scolastiche».
Tutto questo ricade sia sulla professionalità docente, che sulla capacità di
formulare una buona programmazione. Con essa anche gli IdR si devono
misurare ogni anno, facendo riferimento alle fonti che costituiscono il contenuto
della riforma.

1. La programmazione

Con la legge 59/1997 (art. 21) il sistema scolastico italiano è entrato in una
nuova fase denominata di «autonomia scolastica funzionale» che equivale alla
riorganizzazione, a diversi livelli, dell’intero sistema formativo.
In modo particolare, nella fase attuale, bisognerà fare molta attenzione al POF,
che a livello di programmazione educativa e didattica rappresenta un centro
unitario di energie, di risorse, di progettazioni, e di azioni per tutti i docenti. Esso
darà la possibilità di programmare l’azione formativa delle diverse discipline e,
quindi, anche dell’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC), in modo nuovo e
situato, cioè legato realmente ai bisogni e alle esigenze del territorio.
Capitolo 17 pag. 257/258
In effetti il POF, come documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale
e progettuale delle istituzioni scolastiche, si configura come un vero e proprio
«luogo» dove si deve pensare, progettare, confrontare idee, ipotesi, realizzazioni,
ma il tutto in una prospettiva di «programmazione» che si esprime nella capacità
di rendere coerenti tutte le scelte, le risposte ai bisogni, gli obiettivi programmati,
di far apparire credibili e verificabili tutti i processi formativi progettati perché sono
realmente il frutto di una progettazione realistica, fattibile e misurabile, di favorire
l’integrazione di tutte le attività formative provenienti dal territorio.
L’IdR deve sapere che dovrà dare il proprio contributo all’interno di questo
strumento unitario; dovrà condividerne e comprenderne la logica di fondo che, in
ultima analisi, poggia su un nucleo portante di ogni azione educativa/formativa: la
persona.
Con lui, tutti gli altri docenti sono chiamati alla progettazione e alla realizzazione
di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della
persona. Questo riconcentrarsi su un nucleo essenziale – la persona – deve
stimolare specie gli IdR a fare una programmazione di interventi formativi
espressivi della particolare visione dell’uomo come immagine e somiglianza di
Dio, poggiata cioè sui veri valori umani.
Il rispetto per la persona umana, per la sua dignità, potrà essere esperibile solo
se egli saprà:
– programmare la sua azione formativa portando a scuola bisogni reali legati alla
domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti.
Per tale aspetto di ricognizione-progettazione, egli già parte da un osservatorio
privilegiato, perché spesso vive nel territorio dove insegna, conosce
personalmente i suoi alunni (molti di loro fanno parte della comunità ecclesiale
che è espressione di una pluralità di offerte formative con le quali la scuola deve
interagire e integrare la propria offerta formativa); legge e interpreta i bisogni del
territorio in atteggiamento di osservatore partecipante, diretto, attento, in modo
Capitolo 17 pag. 258
particolare, alle richieste di significato della vita e della visione del mondo;
– offrire la sua specifica competenza in relazione ad un patrimonio di cultura
(religiosa cristiano-cattolica) che rappresenta ancora il tessuto vivo e vitale
di ogni comunità locale. È in tale ottica di nuova capacità di programmazione
educativa e didattica, parte integrante del POF, che l’IdR dovrà situare la sua
collocazione disciplinare educativo-formativa.
Perciò nella sua programmazione dovranno entrare non solo le caratteristiche
della disciplina IRC (strutturata come materia da insegnare, adattata al ritmo
individuale ed al coinvolgimento e partecipazione degli alunni nel processo di
insegnamento-apprendimento alla verifica delle risposte), ma anche gli elementi
desunti dai vari documenti della riforma offerti dallo Stato e dalla Scuola.
Programmazione didattica designa perciò l’insieme delle attività, a carattere
formale e tecnico, attraverso cui assume concretezza una determinata ipotesi
didattica.
Essa suppone:
– che si abbia una conoscenza analitica del contesto in cui si interviene, sia
per ciò che riguarda le caratteristiche degli allievi, che per quelle riferentisi
all’ambiente-territorio ed alle sue dinamiche socioculturali, ecc.;
– che siano definiti in modo esplicito gli obiettivi (educativi/didattici) del suo
specifico apprendimento. Ciò vuol dire individuare i comportamenti che possono
considerarsi collegati al possesso di determinate abilità e competenze;
– che si precisi la modalità processuale della proposta «insegnamento-
apprendimento », quali materiali si intendono utilizzare tra quelli disponibili, quali
si vogliono realizzare ex novo, ecc.;
– che si metta a punto la strumentazione di verifica.
In realtà, se si vuole rendere razionale un insegnamento, due cose sembrano
essere indispensabili: stabilire fin dall’inizio dove si vuole arrivare, e constatare
alla fine se ci si è arrivati. Fuor di metafora, bisogna stabilire gli obiettivi
Capitolo 17 pag. 258/259
dell’azione educativo-didattica per poterne valutare i risultati.
La programmazione deve tener conto di tutte le condizioni ambientali e personali
dei discenti e dei docenti, dei traguardi assegnati dai programmi, delle risorse
disponibili per raggiungerli, della scansione dei tempi di lavoro. In base a ciò
viene stilato un programma di interventi o trattamenti didattici, secondo metodi
accettati dal consiglio dei docenti ed eventualmente dai genitori che fossero
coinvolti; devono essere previste anche le modalità di valutazione intermedia
e finale, cui si attribuisce differente funzione (formativa, sommativa), con uno
sbocco finale che verifica l’acquisizione di conoscenze e competenze.

2. Competenze specifiche degli Enti coinvolti

Ognuna delle entità coinvolte nell’attuale riforma (Stato, Regioni, Enti Territoriali)
svolge un ruolo specifico che produce effetti per una buona programmazione
pedagogica e didattica. Soprattutto lo Stato e la Scuola hanno, in senso
più diretto, il compito di elaborare documenti relativi al processo scolastico
(insegnamento-apprendimento) precisando compiti istruttivi e formativi ed
obiettivi generali che faranno da base alla programmazione educativa scolastica
e a quella didattica disciplinare.

2.1. Documenti elaborati dallo Stato per la Scuola

Allo Stato compete un’azione di governo, di controllo e di sostegno. Aquesto


scopo produce dei documenti per la scuola: il «Profilo educativo, culturale e
professionale »; le «Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati
di attività Educative (PPAE) e per i Piani di Studio Personalizzati (PSP)»; le
Capitolo 17 pag. 259
«Raccomandazioni per lo svolgimento delle attività educative e didattiche e per
l’attuazione dei PPAE e dei PSP».
Il sistema di governo si esercita attraverso i primi due documenti fondamentali
che sono appunto prescrittivi. Il terzo ha valore orientativo.

1°. Il PECP (cioè il profilo educativo, culturale e professionale) esplicita ciò che
ogni allievo, alla fine del I e del II ciclo deve sapere (= conoscenze disciplinari-
interdisciplinari) e fare (= abilità operative o professionali) per essere quell’uomo
e quel cittadino che è lecito attendersi, in condizioni di normalità, e che sia
possibile raggiungere a 14 e a 18-19 anni.
Questo profilo mette in luce come il culturale e il professionale siano le occasioni
e gli strumenti per l’educativo personale e come le conoscenze disciplinari e
interdisciplinari (il sapere) e le abilità operative (il fare) apprese ed esercitate
non solo nel sistema formale (la scuola), ma anche in quello non formale (le altre
istituzioni educative) e informali (la vita sociale nel suo complesso), siano e siano
state, per l’allievo, davvero formative nella misura in cui sono effettivamente
diventate sue competenze personali.
Con la precisazione del profilo appare chiaro che la riforma non parte dalle
discipline o dai saperi ma dalla riflessione educativa, ribadendo un principio
pedagogico già noto: quello della centralità dell’alunno. Si chiarisce il compito
della scuola e si precisa che il suo ruolo fondamentale è quello di concorrere a
realizzare la «persona umana».
Il profilo così inteso ed espresso con il linguaggio classico degli obiettivi,
definisce le competenze dell’allievo medio, stabilendo ciò che essi dovrebbero
sapere e saper fare, le conoscenze e le abilità che dovrebbero aver fatto proprie,
valorizzando le capacità personali per essere «persona» e «cittadino» di domani.
Vengono formulate sette competenze che l’alunno deve essere aiutato ad
acquisire.
Capitolo 17 pag. 260
I verbi riportati all’infinito presente, indicano le «azioni» che dimostreranno se e
come l’alunno ha raggiunto gli obiettivi prefissati:
– esprimere un personale modo di vedere e proporlo agli altri;
– saper interagire con l’ambiente naturale e sociale che lo circonda, e influenzarlo
positivamente;
– risolvere i problemi che di volta in volta incontra;
– riflettere su se stesso e gestire il proprio progetto di crescita, anche chiedendo
aiuto, quando occorre;
– comprendere per il loro valore, la complessità dei sistemi simbolici e culturali;
– maturare il senso del bello;
– conferire senso alla vita.
Si tratta di traguardi da maturare negli ambiti della identità personale
(costituita dalle dimensioni della conoscenza di sé, della relazione con gli altri e
dell’orientamento), degli strumenti culturali da acquisire e della convivenza civile.
Se si passa alle Indicazioni nazionali per i Piani di Studio personalizzati nella
Scuola Primaria, si ha modo di entrare nel linguaggio didattico della riforma
per quanto riguarda i ragazzi dai 6 agli 11 anni. Vi sono dichiarati, tra l’altro, gli
Obiettivi generali del processo formativo e gli Obiettivi specifici di apprendimento.
Con l’espressione Obiettivi generali del processo formativo ci si riferisce
a principi ispiratori dell’attività di una Scuola e cioè a finalità educative che
riguardano l’apporto di tutte le discipline, ma anche ai processi da attivare e alle
consapevolezze da acquisire da parte degli alunni:
– ad esempio, per la Scuola Primaria si dice di valorizzare l’esperienza del
fanciullo e la sua corporeità come valore; di esplicitare idee e valori presenti
nell’esperienza, ecc.;
– per la Scuola Secondaria di 1° grado si parla di educazione integrale della
persona, collocarsi nel mondo, realizzare una messa a fuoco dell’identità,
motivare e offrire significati alla vita, coltivare dei rapporti...
Capitolo 17 pag. 260/261
Il Documento poi fa riferimento agli Obiettivi specifici di apprendimento e agli
Obiettivi formativi:
– gli obiettivi specifici di apprendimento si riferiscono all’ordine epistemologico
della disciplina; sono redatti sulla base del principio della sintesi e dell’ologramma
(cioè ciascun elemento rimanda al tutto compreso delle discipline); sono espressi
in modo elencativo come conoscenze e abilità relative ad ogni disciplina;
– gli obiettivi formativi sono elaborati dai docenti tramite un responsabile
giudizio professionale e si collocano sul piano psicologico e didattico. Come
gli altri, anch’essi si articolano in conoscenze e abilità e si ispirano al principio
dell’ologramma.
È attraverso le Unità di apprendimento che, sulla base delle capacità
possedute dagli alunni, si acquisiscono conoscenze e abilità, riconoscibili come
competenze.
L’insieme delle Unità di apprendimento costituiscono i Piani di studio
personalizzati.
Vanno chiariti comunque alcuni termini che potrebbero sembrare troppo tecnici:
– la capacità è una potenzialità o una propensione dell’essere umano a fare,
pensare e agire in un certo modo; ma non è ancora potere di trasformazione
della realtà;
– le competenze indicano quello che si è veramente in grado di fare, di pensare e
agire, qui e ora, di fronte a problemi e situazioni concrete. Nel linguaggio comune
«competenza» (legge n. 53/2003) è la «piena capacità di orientarsi in un dato
campo». In ambito scolastico, invece, questo termine ha un’interpretazione molto
sfaccettata. In generale si può dire che le competenze sono sviluppo di capacità
potenziali personali, mediante l’acquisizione delle conoscenze e abilità operative
che ogni soggetto in formazione riutilizza al meglio il proprio progetto educativo.
La scuola, così, è il luogo privilegiato dove le competenze si consolidano, tramite
un’offerta formativa fatta agli alunni. Una caratteristica delle competenze è
Capitolo 17 pag. 261
la loro disponibilità a venire certificate, per quanto riguarda la presenza, la
qualità e la quantità. Affinché ciò possa accadere, occorre che siano individuate
con chiarezza, e che si riesca a mettere a punto degli strumenti in grado di
riconoscerne il reale possesso. Una funzionale certificazione delle competenze
acquisite è fondamentale perché consente l’autocontrollo e il controllo dei
percorsi formativi in atto, l’adattamento di interventi didattici, il riconoscimento dei
crediti conseguiti;
– le conoscenze sono il prodotto dell’attività teoretica dell’uomo ricavate dalla
ricerca scientifica ma vi fanno parte anche principi, regole, e concetti etici relativi
alle discipline che sono insegnate;
– le abilità corrispondono al saper fare, alla razionalità tecnica dell’uomo;
– la «convivenza civile» è la finalità generale dell’azione scolastica dell’istruzione
e formazione (legge n. 53/2003). Essa offre al comportamento i riferimenti di
natura morale. Grazie a questa dimensione fondante, il concetto di convivenza
civile rappresenta la sintesi di tutte le differenti «educazioni», e dà senso
compiuto a tutta l’esperienza scolastica;
– il principio della sintesi e dell’ologramma si riferisce ad una caratteristica degli
obiettivi specifici di apprendimento e degli obiettivi formativi: gli uni rimandano
agli altri, non sono mai chiusi in se stessi ma sono sempre in un rimando
continuo al tutto. Per quanto riguarda raggruppamenti da utilizzare si dice che
l’offerta formativa obbligatoria, opzionale e facoltativa può fruire della dinamica
del Gruppo-classe (in proporzione più alta fino al primo Biennio) e di quella dei
Laboratori. Essi possono essere svolti per Classe, per Gruppi elettivi, per Gruppi
di compito, per Gruppi di livello, tutti in composizione numerica variabile.
Va considerato il valore attribuito a questi documenti. Le Indicazioni sono
prescrittive ma non assimilabili ai Programmi o agli Orientamenti da applicare in
aula, come si diceva un tempo; sono cioè da considerare una specie di materia
prima a cui i Docenti e la Scuola sono chiamati a dare forma propria tenendo
Capitolo 17 pag. 261/262
conto delle esigenze della famiglia, del territorio e dei ritmi evolutivi dei ragazzi.
In altre parole le Indicazioni devono essere accostate con mentalità e
atteggiamento di progettazione, creatività e autonomia, in modo da essere
tradotte in un piano psicologico e didattico concreto e specifico.
Per quanto riguarda l’attività che i docenti dovranno mettere in atto per il
concreto esercizio della loro funzione educativa e didattica si indicano tre livelli di
intervento, alla cui costruzione i responsabili delle istituzioni scolastiche devono
attenersi:
– il Piano dell’Offerta Formativa (POF): contiene l’ispirazione culturale-
pedagogica elaborata dai gruppi dei docenti, i collegamenti con gli enti territoriali
di competenza e l’articolazione didattica dei Piani di studio personalizzati;
– il Piano di Studio Personalizzato (PSP): non necessariamente si riferisce
ad un piano elaborato per ogni singolo allievo ma all’insieme delle Unità di
apprendimento predisposte dal docente e realizzate con le differenziazioni che si
sono rese necessarie per i singoli alunni;
– le Unità di apprendimento (UA): si compongono degli obiettivi formativi, delle
attività, dei metodi e delle soluzioni organizzative necessarie a trasformare gli
obiettivi in competenze individuali. E questo si realizza nel quadro degli Obiettivi
generali del processo formativo e degli obiettivi specifici di apprendimento; non
nella meccanica trascrizione degli obiettivi generali e degli obiettivi specifici di
apprendimento, ma nell’attenzione alla realtà di allievi, famiglie e territorio ed
anche discostandosi, se ce n’è ragione, dalle Indicazioni;
– il Portfolio (o cartella) delle competenze personali: è un materiale compilato
dal tutor, in collaborazione con i docenti e prevede la partecipazione attiva degli
allievi e dei loro genitori;
– la figura del tutor costituisce una vera novità della riforma. È una persona
che «dà sicurezza» ed è il compito di chi svolge una funzione educativa, quella
di accompagnare l’allievo nell’affrontare i problemi che la vita, a seconda dei
Capitolo 17 pag. 262/263
momenti, gli presenta. Si tratta di un docente appositamente individuato e messo
in grado di conoscere gli allievi più a fondo ed essere in grado di ascoltarli,
orientarli, aiutarli ad apprendere. Coordina l’azione didattica dei colleghi (l’équipe
pedagogica costituita dai docenti di una classe), ed entra in contatto con gli allievi
svolgendo funzione di tutore dei medesimi, accompagnandoli nella costruzione
dei Piani di Studio Personalizzati, tenendosi in costante rapporto con le famiglie
e con il territorio per la scelta delle attività opzionali, curando la formazione del
Portfolio.

2°. Le Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati esplicitano i livelli


essenziali di prestazione che tutte le istituzioni scolastiche del sistema educativo
nazionale di istruzione e formazione sono tenute ad assicurare, per garantire
il diritto personale, sociale e civile all’istruzione e alla formazione di qualità
dell’allievo. La necessità di indicare tali livelli essenziali scaturisce dal combinato
disposto dagli articoli 4, 8, 13 del Dpr 275/99 e dal disegno di legge delega che,
riferendosi all’art. 117 della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, parla,
appunto, di «livelli essenziali di prestazione» da assicurare a tutti i cittadini per
il godimento dei «diritti sociali e civili»; tra questi va collocato, in prima linea, il
diritto all’istruzione e alla formazione.

3°. Le «Raccomandazioni per lo svolgimento delle attività educative e didattiche


e per l’attuazione dei PPAE e dei PSP» sono un documento non prescrittivo ma
orientativo. Consta di due parti:
– raccomandazioni generali. Questa prima parte offre precisazioni per i diversi
aspetti culturali, metodologici e didattici, in modo da apparire come testo
base di formazione dei docenti che vuole introdurre nel lessico e nelle scelte
fondamentali della riforma. Ci sono anche precisazione sui «Laboratori didattici»,
intesi come luogo privilegiato in cui si realizza una situazione di apprendimento.
Capitolo 17 pag. 263
Coniuga conoscenze e abilità specifiche su compiti unitari e significativi per
gli alunni, possibilmente in dimensione operativa e progettuale che li metta in
condizione di dovere e poter mobilitare l’intero sapere esplicito e tacito di cui
dispongono;
– raccomandazioni specifiche. Questa seconda parte presenta delle linee
didattiche evolutive per le singole discipline e per la convivenza civile. Sono
anche rimarcati per ogni disciplina due livelli di proposta didattica: nel primo
biennio della scuola primaria si punta su alcune prime forme di organizzazione
delle conoscenze, su una prima consapevolezza di alcune categorie
significative per la vita (il livello pre-disciplinare). Nel secondo biennio si mira
alla consapevolezza del linguaggio come elemento ordinatore e formale
dell’esperienza.
Lo schema si riferisce ai materiali della scuola primaria, e quindi disponibili.
Quelli relativi agli altri cicli di scuola che vedranno progressivamente la luce
seguiranno la stessa impostazione ma avranno necessariamente gli adattamenti
relativi alle età degli alunni.

4°. Il sistema di controllo tocca all’Istituto Nazionale per la Valutazione (INVALSI),


mentre il sistema di sostegno avviene mediante l’impegno delle istituzioni
territoriali: gli IRRE (Istituti Regionali per la Ricerca e l’Educazione), il corpo
ispettivo e le Direzioni Regionali del MIUR (Ministero dell’Istruzione, della
Università e della Ricerca).

2.2. Documenti interni elaborati dalla scuola

Cessando il «Programma nazionale» alla scuola vengono demandati gli


impegni delle competenze che provengono dalla riforma dell’autonomia per cui
Capitolo 17 pag. 263/264
gli insegnanti diventano elaboratori di progetti che nascono dall’interno delle
esigenze scolastiche; e la scuola stessa passa dai programmi ai curricoli.
Si tratta di un ribaltamento di logica che ha conseguenze profonde riguardo
al profilo professionale dei docenti e dei dirigenti scolastici: da esecutori di
programmi da applicare sono chiamati ad essere elaboratori responsabili
della progettualità che nasce dal basso. Lo strumento importante per questa
progettualità è il POF e al suo interno il curricolo didattico: «ogni istituzione
scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il
Piano dell’Offerta Formativa che diventa il documento fondamentale costitutivo
dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la
progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le
singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia» (Dpr 275/99).
Perciò alla scuola tocca il compito di programmare l’itinerario
pedagogicodidattico per arrivare al Piano di Studio Personalizzato che richiede
la precisazione del profilo (= chi), tenendo conto delle Indicazioni Nazionali (=
che cosa), rispondendo con il POF (Progetto Offerta Formativa) alle condizioni
organizzative.

1°. IL POF (ART. 128 DELTU N. 297/4/97) Ogni istituzione scolastica predispone
il Piano dell’Offerta Formativa che costituisce il documento costitutivo di ogni
scuola che è chiamata ad esplicitare il curricolo e a prevedere le condizioni per la
sua attualizzazione.
Si tratta di un documento «localizzato» che rispecchia l’identità culturale e
progettuale, elaborato dal Collegio dei docenti e adottato dal Consiglio di Circolo
o di Istituto (Dpr 275/99, art. 2). Tratti costitutivi sono:
– l’identità della scuola, le sue caratteristiche storiche e culturali nel contesto
sociale, il suo specifico «progetto pedagogico». È l’aspetto che meglio esprime
il superamento della cultura centralistica. L’identità ha a che fare con il profilo
Capitolo 17 pag. 264
pedagogico che una scuola deve saper esprimere, comprende l’individuazione
delle «missioni» che si intendono perseguire e che orientano l’intero curricolo
nella dimensione pedagogica e didattica. Alla sua costruzione concorrono i
diversi soggetti non solo gli insegnanti e non solo il consiglio dell’istituzione
scolastica. In realtà qui si colloca un aspetto molto problematico: offerta formativa
relativa alla domanda delle famiglie e della stessa comunità sociale. «Le
istituzioni scolastiche, al fine di realizzare la personalizzazione dei piani di studi,
organizzano, nell’ambito del piano dell’offerta formativa e tenendo conto delle
polivalenti richieste delle famiglie, delle attività e degli insegnamenti...
» (art. 10, cap. IV, decreto attuativo, Legge 53/2003);
– il rapporto relazionale intersoggettivo. La scuola autonoma è inserita all’interno
di un sistema più ampio, nel quale agiscono altri soggetti istituzionali e non, con
i quali è chiamata ad interagire. Le competenze sono distribuite ed è forte la loro
interdipendenza: tutti hanno potere, nessuno ha tutto il potere. Le varie relazioni
(l’ente locale, gli uffici regionali, i centri culturali, l’associazionismo, le parrocchie)
sono fortemente sollecitate. Agli insegnanti ed ai dirigenti scolastici si richiede
capacità di incontro, di negoziazione, di dialogo, ma anche di difesa dei propri
spazi di competenza e di responsabilità;
– la localizzazione. Il POF è davvero radicato in una concreta realtà territoriale.
Il radicamento riguarda numerosi aspetti e tocca in maniera particolare il piano
della didattica. Ma è anche importante domandarsi: fino a che punto inserire
nella progettazione delle unità di apprendimento contenuti socialmente rilevanti,
problemi presenti in maniera caratterizzante nella realtà in cui si opera? Come
evitare il rischio di localismi deteriori, di banalizzazione, di ripiegamento in
logiche privatistiche? È importante nel POF la presenza delle famiglie degli allievi
per poterle coinvolgere sia nelle risposte alle richieste, come nella stesura del
profilo pedagogico della scuola, sia come corretto rapporto tra la domanda e
l’offerta formativa.
Capitolo 17 pag. 264/265
Gli insegnanti favoriscono il dialogo e l’incontro, precisano il proprio spazio di
competenze, il superamento e il rigetto dei ricatti. Il profilo dimostra competenze
diverse per ricchezza di professionalità e pluralità di valori nell’interpretare al
meglio il proprio impegno professionale in una scuola che deve essere costruita
sempre di più come una comunità che apprende (con riferimento alle radici
rivisitate e al futuro da costruire) nello sforzo di superare modelli ideologici,
burocratici e tecnologici spersonalizzanti.
Perciò il POF, (Dpr 8 marzo 1999, n. 275, Regolamenti. Norme in materia di autonomia delle
istituzioni scolastiche ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 3.1) con le sue
caratteristiche, esplicita la progettazione sia curricolare che extracurricolare,
educativa ed organizzativa. Deve essere coerente con gli obiettivi educativi
dei diversi tipi e indirizzi di studi; deve riflettere le esigenze del contesto
culturale, sociale ed economico del territorio; deve riconoscere le diverse
opzioni metodologiche anche di gruppi minoritari; deve valorizzare le relative
corrispondenti professionalità.
Il POF va visto come strumento per programmare attività che l’istituzione
scolastica intende realizzare per rispondere ai bisogni educativi e formativi degli
alunni. Lo stesso può essere integrato e/o modificato per adeguarlo in corso
d’anno ad eventuali nuove esigenze. Il piano dell’offerta formativa svolge i
seguenti compiti:
– deve rendere concreta ed esplicita sia la progettazione curricolare ed
extracurricolare che quella educativa ed organizzativa della scuola;
– deve riflettere le esigenze concrete e particolari del contesto;
– deve essere coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e
indirizzi di studi;
– deve contenere le scelte di flessibilità dell’orario e dell’organizzazione del
lavoro, le scelte metodologiche e degli strumenti coerenti con il piano, le modalità
e i criteri della valutazione degli studenti, sia periodica che finale, i criteri per
Capitolo 17 pag. 265/266
il riconoscimento dei crediti e il recupero dei debiti formativi, le iniziative di
recupero, le modalità di impiego del personale.
E, per quanto riguarda gli aspetti formativi e organizzativi della didattica e
dei servizi scolastici, contiene anche delle eventuali attività aggiuntive di
insegnamento e di supporto, di responsabilità di eventuali attività o incarichi, di
partecipazione a commissioni e gruppi di lavoro, di altre scelte di organi collegiali.
Per ogni attività aggiuntiva funzionale all’insegnamento e/o di supporto, il POF
deve esplicitarne il perché, il suo percorso organizzativo, il numero di ore per
insegnamento ad essa funzionali, per ogni persona coinvolta nell’attività.
Inoltre, deve prevedere la presenza continua di figure funzionali
all’insegnamento che vengono riunite nelle figure di sistema. Rientrano nella
procedura tanto le analisi dei bisogni, quanto le attività dei vari organi e persone:
– il Consiglio di circolo/istituto definisce gli indirizzi generali per le attività della
scuola e le scelte generali di gestione ed amministrazione;
– il Collegio dei docenti definisce le linee generali delle attività formative
curricolari ed extracurricolari;
– il Dirigente scolastico consulta il Direttore dei servizi generali e amministrativi e
informa il personale ATA(Personale amministrativo-tecnico-ausiliario);
– il Dirigente scolastico predispone la proposta del piano delle attività;
– il Dirigente scolastico informa le RSA/RSU (Rappresentanza Sindacale
Aziendale o Territoriale e la Rappresentanza Sindacale Unica - dal dicembre
2000) del piano delle attività e degli impegni del personale docente e ATA;
– il Collegio dei docenti, in seduta plenaria approva il piano delle attività;
– il Consiglio di circolo/istituto associa alle attività i compensi e delibera l’utilizzo
del fondo dell’istituzione scolastica;
– il Dirigente scolastico, sulla base delle delibere, attribuisce le funzioni «obiettivo
», le attività aggiuntive e funzionali all’insegnamento, le attività aggiuntive al
personale ATA;
Capitolo 17 pag. 266
– il Dirigente scolastico informa le RSA/RSU sugli incarichi al personale docente,
educativo ed ATA(art. 26-32 integrativo del CCNL 1998/2001).
In pratica, il POF viene elaborato dal Collegio dei docenti sulla base degli
indirizzi generali definiti dal Consiglio di circolo o d’istituto, tenuto conto delle
proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori
e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti; ed è adottato dal Consiglio
di circolo o di istituto. Successivamente viene reso pubblico e consegnato agli
alunni e alle famiglie all’atto dell’iscrizione.

2°. IL PIANO DI STUDIO PERSONALIZZATO (PSP) È il risultato delle Unità di


apprendimento predisposte dai docenti per gli allievi.
Diventa lo strumento di collegamento con i documenti esterni e precisa gli
obiettivi formativi adatti e significativi per i singoli allievi che sono stati affidati al
servizio educativo di ogni istituto. Si tratta di un modello di processo educativo.
Il suo obiettivo formativo focalizza un contenuto di apprendimento con alcune
caratteristiche:
– unitario: l’obiettivo formativo consente di enucleare un Apprendimento unitario,
un «intero» di apprendimento, il suo nucleo centrale, che ne fissi cioè il centro e
le sue parti;
– articolabile: l’offerta formativa deve esplicitare e rendere trasparenti le
capacità su cui intende operare, le competenze teoriche e concrete che intende
promuovere, le conoscenze e le abilità con cui intende farlo;
– organico: l’offerta formativa dice ciò che c’è da imparare e da assimilare con la
sua trasformazione in competenza o in un saper fare personalizzato; specifica
la descrizione degli standard di prestazione rispetto alle abilità e conoscenze;
descrive il modello di condotta esperta, che è termine di riferimento per
apprezzare la qualità della competenza;
– sensato e motivante: una possibile struttura formale di un obiettivo formativo
Capitolo 17 pag. 266/267
deve contenere l’enunciazione del compito unitario, la descrizione della
competenza attesa, una individuazione dei saperi e delle abilità strumentali, gli
indicatori di standard di prestazione;
– adatto e significativo: l’offerta formativa è adatta se interseca le capacità
disponibili dell’alunno, del gruppo-classe o del gruppo di compito, di livello, di
elezione; è significativa se mette in tensione queste capacità, indirizzandole
verso competenze delimitate e concrete.
Nell’obiettivo formativo è possibile ipotizzare la presenza di due fasi: quella
ideativo-creativa, nella quale i riferimenti orientativi sono il Pecup, gli obiettivi
generali del processo formativo, gli obiettivi specifici di apprendimento; e quella
logico-analitica, nella quale si verifica che l’obiettivo formativo sia unitario, riferito
ad una prassi reale, adatto alle capacità degli allievi, motivante, articolabile in
parti organiche.
Le Unità di apprendimento devono essere costituite dalla combinazione tra la
struttura logica ed epistemologica della disciplina, la struttura cognitiva degli
allievi, gli orizzonti di senso di entrambe, il contesto relazionale e logistico-
organizzativo per acquisire conoscenze ed abilità e trasformarle in competenze.
Il PSP non può essere predisposto e definito a priori, perché si deve
commisurare sulla realtà presente alla scuola e agli allievi; si completa e, se
necessario, si modifica in itinere, tenendo conto delle nuove variabili intervenute;
si «chiude» solo alla fine del percorso; sfocia nel Portfolio delle competenze
personali.

3°. IL PORTFOLIO DELLE COMPETENZE PERSONALI (Cf COMOGLIO M., Insegnare e


apprendere con il portfolio, Milano, Fabbri Editori, 2003.) È una raccolta di prodotti mirata,
sistematica, selezionata, organizzata. Documenta il percorso formativo degli
alunni ed i progressi compiuti in relazione al piano di studio personalizzato.
Consta di una funzione orientativa e di una valutativa, descrivendo i percorsi
Capitolo 17 pag. 267
seguiti e i progressi raggiunti con la documentazione più significativa (prove
scolastiche, osservazioni di docenti e famiglia, commenti su lavori ed elaborati
significativi scelti da un alunno, indicati dalla famiglia e dalla scuola, elementi
di sintesi che sorgono da osservazione sistematica, colloqui, test). Il «Portfolio»
può avere forme diverse (cartella, busta, raccoglitore ad anelli...). È un
metodo di valutazione coerente con la centralità della persona e consente di
responsabilizzare i protagonisti del processo educativo-didattico favorendo
anche forme di autovalutazione, offre opportunità di dialogo e collaborazione tra
la scuola e la famiglia.

3. L’IRC e l’IdR nella nuova scuola

Attestato che l’autonomia consente alle scuole di pensare l’attività didattica in


termini di grande flessibilità, occorre sottolineare che 1’IRC è legato ad alcuni
vincoli rigidi che devono garantire il rispetto di fondamentali principi giuridici come
espressamente indicati dal Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede.
Secondo questo accordo che a suo tempo ha modellato la disciplina dell’IRC
cui ha fatto seguito l’intesa tra il MPI e CEI recepita con Dpr 23.06.1990 e sulla
scorta di successivi ed autorevoli pronunciamenti è oramai pacifico che l’IRC:
– continua ad essere disciplina curricolare e non può essere complementare o
extra curricolare; appartiene alla quota nazionale obbligatoria del curricolo nelle
scuole di ogni ordine e grado;
– la sua facoltatività è ben diversa da quella degli insegnamenti opzionali,
facoltativi o aggiuntivi previsti dalla scuola dell’autonomia. Facoltativo per gli
alunni, esso non lo è per lo Stato, che con il Concordato si è impegnato ad
assicurarlo;
– deve essere comunque assicurato in tutte le scuole e la sua facoltatività
Capitolo 17 pag. 268
attiene solo alla facoltà di scelta da parte degli alunni e genitori, ma non la sua
appartenenza strutturale all’ordinamento scolastico;
– la sua collocazione oraria deve essere quella ordinariamente prevista per tutte
le altre materie, non potendosi attuare un trattamento diverso tale da porre in
essere discriminazioni a carico degli alunni avvalentisi o non avvalentisi (cf CM n.
9/91);
– i suoi docenti fanno parte, con i medesimi diritti e doveri degli altri insegnanti,
del Consiglio di Classe. Partecipano a pieno titolo alla valutazione finale degli
alunni avvalentisi, alla determinazione del credito.
Ne consegue una serie di impegni per l’IdR:
– collocarsi, con lo studio e la sperimentazione, nel nuovo contesto pedagogico
e didattico e nella nuova organizzazione scolastica assumendo, eventualmente,
anche i nuovi ruoli (tutor, responsabile di laboratorio, ecc.). È importante far ciò
con spirito critico sul valore delle scelte, sulla collaborazione con altri colleghi,
con l’offerta di apporti riflessivi e di esperienza;
– valorizzare al massimo i punti di integrazione e di contatto con le altre discipline
(cf la prospettiva ologrammatica della nuova scuola) e tradurre in scelte
didattiche quanto la riforma afferma sul rapporto tra convivenza civile e discipline;
– pensare propri interventi sia nell’ottica del Laboratorio che nella documenta
zione della propria esperienza;
– continuare a coltivare identità disciplinari confrontandosi con le Indicazioni, le
Raccomandazioni, i Nuovi programmi di IRC;
– ipotizzare nuovi sviluppi a lungo termine, compresa la messa a punto e
ridefinizione della stessa identità dell’IRC, ma non senza il contributo di
riflessione e sperimentazione dei docenti.

Capitolo 17 pag. 268/269


3.1. Chiavi di lettura

Gli «obiettivi specifici di apprendimento» della RC (per la Scuola dell’Infanzia


e la Scuola primaria), dopo la firma congiunta del Presidente (S. E. il Card.
Camillo Ruini) e del Ministro (On.le Letizia Moratti) del 23 ottobre 2003, fanno
parte integrante delle Indicazioni Nazionali per i piani personalizzati delle attività
educative per quanto riguarda quei due cicli di scuola.
Evidenziano le caratteristiche della continuità nella discontinuità. La fase a cui
si è giunti si pone in continuità con l’ampia riflessione che ha visto impegnati, per
oltre quindici anni, numerosi esperti e operatori scolastici. Le esperienze di studio
e di lavoro accumulate nelle aule in questi anni si sono confrontate con le diverse
fasi della riforma scolastica.
La CEI con il suo Servizio per l’IRC non ha temuto di impiegare energie e
persone perché l’insegnamento della religione, da subito, fosse presente nella
scuola della riforma. Molti sono stati i vantaggi di questo «esserci»: creare
opinione e movimento, incoraggiare gli IdR, rendere visibile l’IRC facendolo
apprezzare per il suo apporto formativo e culturale.
L’impegno più significativo è stato quello di aver avviato un iter riflessivo
convalidato dalla prassi in vista di una riconfigurazione dell’insegnamento
stesso che, pur proponendosi sempre con il suo carattere di confessionalità, ha
dimostrato di quante risorse di apertura e di dialogo sia portatore, grazie alla
trattazione dei nuclei tematici affrontati in modo interdisciplinare, interculturale e
interreligioso.
Tutto questo ha permesso di dialogare, sempre più alla pari, con la recente
legge 53/2003. Le ultime fasi di lavoro hanno mirato a definire il testo degli
«Obiettivi specifici di apprendimento». La sua stesura ha tenuto conto del
lavoro fatto dalla Commissione CEI e di ulteriori apporti che, puntualmente e
ripetutamente, sono arrivati al Servizio Nazionale IRC.
Capitolo 17 pag. 269
Bisogna anche premettere che nella stesura degli «obiettivi specifici» si è tenuto
conto anche della natura propria delle «Indicazioni Nazionali» che si propongono
alle scuole come linee indicative per i curricoli delle diverse istituzioni scolastiche
in vista dei Piani di apprendimento personalizzati.
Più concretamente, si indicano i criteri che hanno guidato la stesura:
– uno stile sintetico che obbedisce al principio organico ed unitario
dell’ologramma, cioè all’unità del sapere, per cui gli obiettivi si rimandano gli
uni agli altri; non sono mai chiusi in se stessi, ma sono sempre un complesso,
continuo rimando al tutto;
– l’articolazione degli «Obiettivi specifici» in conoscenze (colonna di sinistra)
e in abilità (colonna di destra) che, nella mens della riforma, non chiede
precisa corrispondenza tra le due colonne. Il confronto si pone più sul versante
dell’operatività e, pertanto, è riservato ai soggetti delle singole Istituzioni
scolastiche, come vuole l’autonomia;
– l’attenzione alla gradualità pedagogica, con il rispetto dovuto ai diversi
stili e modalità dell’apprendere propri del bambino della scuola dell’infanzia
(valorizzazione dei sensi); del bambino della 1a classe (attenzione alle categorie
specifiche della religione più vicine all’alunno tra cui i segni del bello, del buono,
della festa); dell’alunno del 1° biennio in stretto raccordo con il soggetto dell’età
precedente (riferimento alle categorie dell’ascolto, dell’osservare, dello scoprire,
del conoscere, del comunicare); dell’alunno del 2° biennio (dal vissuto all’avvio
delle abilità riflessive).
Come richiesto dalle «Indicazioni», si passa gradatamente dall’«esserci»
al «prendere coscienza» dell’esperienza; dalla «coscientizzazione» alla
«riflessione» sul vissuto, cercando di valorizzare gli strumenti culturali propri della
religione cattolica.
L’accoglienza delle diverse religioni che per l’IRC comporta una «confessionalità
» aperta ai segni religiosi di ambiente e a quelli di altri popoli e al relativo
Capitolo 17 pag. 269/270
confronto, il tutto naturalmente proporzionato all’età, alla classe, al contesto di
vita degli alunni... È implicita qui l’attenzione anche alla multiculturalità da cui non
si può prescindere in questa società in cambiamento.
Si tiene anche conto della pedagogia religiosa che deve saper valorizzare i
processi formativi in sinergia tra loro, quali:
– l’attenzione all’esperienza umana e culturale dei bambini e dei ragazzi (la
persona, il gruppo, l’agire etico...), anche se per loro natura gli obiettivi non
consentono esplicitazioni più di tanto;
– la fedeltà ai nuclei fondanti del dato cristiano: l’uomo che incontra Dio, Gesù
Cristo, la Chiesa, l’agire cristiano nell’orizzonte della speranza cristiana. Nuclei
tematici espressi con attenzione alla scuola e allo specifico religioso cattolico con
tutta la valenza culturale. Ciascun nucleo a cui rimandano gli «obiettivi specifici»
è comprensivo di altri elementi e aspetti collegati al sapere religioso: il bisogno
di Dio insito nel cuore umano e che si esprime nei segni-simbolo delle religioni;
le figure-simbolo dell’Antico e del NT (persone ed eventi); la comunità cristiana
con le immagini misteriche e ministeriali di famiglia e di popolo di Dio nelle sue
diverse espressioni delle feste liturgiche (la Pasqua-domenica, il Natale, ecc., la
preghiera, l’annuncio, la celebrazione, la testimonianza della carità);
– la pedagogia del documento della religione cattolica: la Bibbia, documento
fondante (con particolare attenzione ai Vangeli), non è vista solo in se stessa,
ma negli effetti prodotti e nei documenti che da essa scaturiscono (gli stili di vita
evangelici, i testimoni di ieri e di oggi, alcune espressioni del pensiero cristiano,
le espressioni artistiche, la vita e gli eventi forti della comunità cristiana, testi del
magistero della Chiesa);
– la scelta pedagogico-didattica della progressività ciclica che, mentre rispetta
il graduale progredire della crescita dell’alunno ed i processi di apprendimento,
assicura anche l’organicità e l’integrazione dei contenuti essenziali della religione
nel più vasto orizzonte del sapere e del saper fare che l’alunno va assimilando e
Capitolo 17 pag. 270
trasformando in competenze;
– l’interdisciplinarità che ha richiesto attenzione alla scansione nel tempo dei
diversi saperi propri degli ambiti disciplinari della scuola primaria, considerando
che anche le altre discipline vengono scandite con delle varianti rispetto ai
programmi precedenti.
Un filo rosso percorre questi criteri. Esso si esprime nella dinamica di un
processo che va dall’umano, all’umano religioso, al religioso cattolico, con
l’accoglienza e l’apertura verso chi professa un credo diverso.

3.2. Dalle Indicazioni nazionali alle Raccomandazioni

Le «Indicazioni nazionali» hanno carattere di prescrittività. Le


«Raccomandazioni » offrono le chiavi di lettura del testo prescrittivo e indicano
linee significative per una giusta collocazione della religione nella scuola.
Le Raccomandazioni perciò aiutano a comprendere la portata degli obiettivi
specifici della religione cattolica all’interno del testo ministeriale in relazione
con gli obiettivi delle altre discipline, con quelli delle educazioni (convivenza
civile) e dei laboratori. Si prevedono anche ulteriori materiali del Servizio IRC
per la formazione degli insegnanti nei quali si valorizzeranno varie metodologie
didattiche.
Si intuisce allora la significatività del documento delle Raccomandazioni
che dovrà costituire una vera opportunità per la chiarificazione del contributo
scolastico della religione all’interno dell’educazione integrale degli alunni, ma
si comprende anche la discrezione che si dovrà avere. Bisogna valutare
che si opera all’interno di scuole autonome, specie sotto il profilo didattico e
organizzativo. All’IdR perciò spetta tener conto delle variabili in gioco nell’attività
scolastica e fare delle scelte mirate.
Capitolo 17 pag. 271
Indicazioni bibliografiche

BERTAGNA G. et al. (2001), POF. Autonomia delle scuole e offerta formativa,


Brescia, La Scuola.
FRABBONI F. (2000), Il Piano dell’offerta formativa. Un curricolo di nome POF,
Milano, Bruno Mondadori.
TENUTA U. (2002), Flessibilità della scuola e centralità degli alunni. La scuola
dell’autonomia come scuola della flessibilità, Roma, Anicia.
TORIELLO F. (2001), Per una didattica dell’Insegnamento della religione, Leumann
(Torino), Elledici.
ZUCCARI G. (2003), L’insegnamento della religione cattolica. Aspetti
psicopedagogici e strategie metodologico-didattiche, Leumann (Torino), Elledici.

Capitolo 17 pag. 271


CAPITOLO 18

PROGRAMMI CEI PER LA SCUOLA


DELL’INFANZIA E LA SCUOLA PRIMARIA: LE
SCELTE PEDAGOGICO-DIDATTICHE
Giuseppina Zuccari

Presentazione

Prima di introdurci nell’ambito della programmazione dell’IRC per la Scuola


dell’Infanzia e la Scuola Primaria, (Proprio in questi giorni – 23 ottobre 2003 – è stato
siglato fra la CEI ed il MIUR l’accordo per i nuovi «obiettivi specifici per la Scuola dell’Infanzia e
la Scuola Primaria».) credo sia indispensabile considerare il «contesto scolastico»
entro il quale tale programmazione deve trovare la sua dignitosa collocazione.
Quattro sono in particolare i documenti giuridico-pedagogici che hanno fatto
la storia di questi ultimi anni; essi hanno rappresentato e rappresentano tuttora
lo «sfondo» delle esperienze-attività di IRC, che, riferendosi a tali documenti, li
ha in qualche misura attraversati tutti, camminando spesso di pari passo, senza
tuttavia esserne mai «rimorchiati» o «dipendenti», ma elaborando in proprio
quelle «finalità-scelte» che sembravano maggiormente congrue all’IRC.
È infatti all’interno di queste esperienze che vi è stata una continua attenzione
alle sollecitazioni emergenti dai progetti nazionali di Riforma del sistema
scolastico ed ai necessari collegamenti, per poter inserirsi in essi in modo
Capitolo 18 pag. 272
congruente e significativo, e conferire sempre maggior dignità ed identità alla
disciplina Religione Cattolica.
Per questo mi sembra importante rivisitarli con attenzione, sia pure in modo
sintetico, (Questa mia analisi tiene conto dei documenti per quegli aspetti che sono di ordine
generale, ponendo tuttavia particolare attenzione alle loro specificazioni per la Scuola dell’Infanzia
e la Scuola Primaria. Per gli approfondimenti di carattere generale ed «impostativo» di ciascun
argomento che necessariamente viene qui toccato in modo essenziale, si rimanda ai capitoli
precedenti di questo testo: in particolare, il 4°: G. MALIZIA e C. NANNI, La riforma del sistema
educativo di Istruzione e di Formazione. Da Berlinguer alla Moratti; il 5°: S. CICATELLI, Riforme e
IRC. La situazione attuale.) in quanto in essi si riscontrano le coordinate essenziali per
poter progettare interventi di RC scolasticamente connotati e flessibili, entro un
contesto riformatore ancora di grande mobilità.
Tali documenti riguardano, nello specifico:
1. La Sperimentazione Nazionale CEI;
2. La Legge di Riordino dei Cicli Scolastici n. 30/2000;
3. La Legge Delega n. 53/2003;
4. Gli «obiettivi specifici» per l’IRC nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola
Primaria sottoscritti dal Card. C. Ruini e dal Ministro L. Moratti il 23 ottobre 2003 .

Capitolo 18 pag. 272/273


maria sottoscritti dal Card. C. Ruini e dal Ministro L. Moratti il 23 ottobre 2003.

Mappa dei documenti di riferimento


per la progettazione dell’IRC
D.P.R. 275/99 Legge 30/2000
Legge n. 53/2003
CEI
ta zione
n
rime
Spe
CURRICOLI:
Propongono «valori, PIANI DI STUDIO
PROGRAMMI vincoli nazionali» che PERSONALIZZATI:
SPERIMENTALI CEI: ogni scuola è chiamata Definiscono i Nuclei
Definiscono la natura, autonomamente ad interpretare, Nazionali e quelli
le finalità, i compiti dell’IRC secondo le esigenze Regionali e sono collegati
scolastico. Presentano della propria realtà locale. al concetto di
lo strumento Matrice POF - Piano «centralità»
progettuale dell’Offerta dell’alunno
Formativa

OBIETTIVI SPECIFICI DI RELIGIONE CATTOLICA


PER LA SCUOLA DELL’INFANZIA E LA SCUOLA PRIMARIA

1. La Sperimentazione Nazionale CEI:3 si tratta di una importante esperienza,


iniziata
1. nella sua fase preparatoria
La Sperimentazione Nazionale CEI: nel 1997, e proseguita come attività propria-
mente sperimentale nel biennio 1998-2000,
(Si fa presente che la fase di Sperimentazione Nazionale conavviata
il coinvolgimento
e realizzata dalladi una rappre-
CEI,
sentanza significativa
corrisponde di insegnanti
a quella della Riforma diapprodata
Berlinguer, ogni ordinenellaeLegge
grado e di ogni
30/2000, che livello regio-
nella storia delle
nale. I lavori
istituzioni si sono
scolastiche conclusi
italiane nelper
affrontava luglio 2000,
la prima e gli
volta esiti sono
la questione stati
della pubblicizzati
riforma del sistema in
un progetto
scolastico entroed offertiunitaria,
un’ottica alle scuole per eessere
sistemica verificati
complessa. Non piùalla luce dellee Programmi
Ordinamenti concrete espe-
rienze delle
concepiti scuole
per ogni gradostesse.
scolastico, riformati in tempi non correlati (vedi le leggi di ordinamento e
Tale progetto
di Programmi è costituito
che ineriscono in una
a ciascun gradoprima parte
scolastico essenziale
– es. di «indirizzo»,
Legge 444/68 in cui
istitutiva della scuola
vengono esplicitate le ragioni e le scelte di fondo in esso contenute, con la propo-
sta di un18percorso
Capitolo pag. 273 didattico continuo e flessibile – dalla scuola dell’infanzia alla
materna, Orientamenti del 1969, Nuovi Orientamenti 1991)... ma una «re-visione architettonica»,
con l’abbandono lessicale di termini quali «ordini e gradi», e l’assunzione di «ciclo» come
ordinatore della nuova scuola (Scuola dell’Infanzia /tre anni – Scuola Primaria/ sette anni – Scuola
Secondaria/cinque anni). Ragione per cui occorre aver presente quel clima culturale, quel contesto
lessicale e semantico e quella concezione dell’architettura del sistema scolastico italiano, sui quali
si è confrontata la sperimentazione, nel rispetto della propria autonomia e specificità.)
si tratta di una importante esperienza, iniziata nella sua fase preparatoria nel
1997, e proseguita come attività propriamente sperimentale nel biennio 1998-
2000, con il coinvolgimento di una rappresentanza significativa di insegnanti di
ogni ordine e grado e di ogni livello regionale.
I lavori si sono conclusi nel luglio 2000, e gli esiti sono stati pubblicizzati in
un progetto ed offerti alle scuole per essere verificati alla luce delle concrete
esperienze delle scuole stesse.
Tale progetto è costituito in una prima parte essenziale di «indirizzo», in cui
vengono esplicitate le ragioni e le scelte di fondo in esso contenute, con la
proposta di un percorso didattico continuo e flessibile – dalla scuola dell’infanzia
alla scuola superiore – «che muove dall’evento Gesù Cristo, considerato in
cinque iniziali nuclei tematici progressivamente sviluppati, per livelli e gradi di
scuola diversi, fino a diventare aree tematiche di studio e approfondimento.
Col progredire degli anni scolastici si costruisce sempre sulle basi essenziali
precedentemente acquisite, secondo il principio della “progressività ciclica”,
(La progressività ciclica va intesa nell’ottica sistemica ed interpretata in due forme diverse ma
complementari:
1. come attenzione alla centralità dell’alunno ed al suo farsi progressivo, espansivo;
2. come attenzione all’offerta formativa della scuola, che attraverso una organizzazione «ciclica»
apre un percorso scolastico che inizia a tre anni di età e termina a 18, con nove anni di obbligo
scolastico.
Un percorso unitario dunque, ma con articolazioni interne, attraverso nervature, leggere ma certe,

Capitolo 18 pag. 273/274


in grado di percorrerlo dall’inizio alla fine dei cicli del sistema formativo, allo scopo di realizzare
la «continuità processuale».) e lo si fa con attenzione diversificata all’alunno, alle sue
esigenze di crescita, alle caratteristiche dell’indirizzo scolastico e alla storia di
fede locale, attraverso la stima dei suoi prodotti culturalmente rilevanti». (D. R.
REZZAGHI, Saperi essenziali ed esiti conclusivi nell’Insegnamento della Religione Cattolica.
Materiale presentato al corso di aggiornamento per insegnanti di R.C., CEI-MIUR, Palazzo dei
Congressi, Riva del Garda, 25-28 ottobre 2002.) A questa prima parte fa seguito uno
«strumento attuativo» che comprende l’articolazione delle unità – aree tematiche
– e le rispettive matrici progettuali. La matrice progettuale è uno strumento
utilizzato dalla CEI per organizzare in modo «scolastico» i «nuclei-aree
tematiche».
Questa seconda parte è fondamentale, complementare al documento: essa
contiene strumenti operativi per attuare l’IRC secondo i principi generali della
prima parte, ed è organizzata in tre fasce di scolarità: scuola dell’infanzia - scuola
primaria - scuola secondaria. Le due parti della matrice vanno usate insieme, nel
senso che si completano a vicenda.
Questa sperimentazione si è connotata come esperienza molto positiva. Essa,
infatti, non si è limitata a produrre materiali e strumenti da calare «dall’alto», ma
si è offerta come una possibilità di ulteriore ricerca anche da parte delle scuole,
proprio per poter conferire all’IRC stesso quella «qualità» che deriva dalle
possibilità di accostarsi ai materiali costruiti e di apportare i propri contributi per
eventuali modificazioni ed aggiustamenti, in attesa che la Riforma scolastica
approdi al suo definitivo completamento.

2. La Legge di Riordino dei cicli scolastici, n. 30/2000: si tratta di una legge il


cui iter parlamentare e la cui approvazione hanno rappresentato un importante
riferimento per la CEI, che, pur nel rispetto della propria peculiarità di studio e

Capitolo 18 pag. 274


di ricerca, si è tuttavia tenuta strettamente connessa alle vicende riformatrici
della scuola. La sperimentazione, infatti, non è stata impostata e condotta dalla
CEI in modo autoreferenziale, ma è stata realizzata d’intesa con il M.P.I. e con
un «Osservatorio della sperimentazione» costituito anche da quattro Ispettori
ministeriali, nominati dall’allora Ministro L. Berlinguer (Faccio riferimento in particolare
al fatto che la Sperimentazione Nazionale CEI è stata accolta e seguita con interesse dal M.P.I.,
che era in attesa della elaborazione della legge di riordino dei cicli.
Il modulo sperimentale, infatti, è stato «calibrato» sull’ipotesi del riordino dei cicli, che prevedeva la
seguente suddivisione: scuola dell’infanzia 3-6 anni; scuola primaria 6-13; scuola secondaria 13-18.
La Legge «Moratti» sconvolge questa struttura, e prevede la seguente organizzazione: scuola
dell’infanzia 2,5-5,5; scuola primaria 5,5-10,5; scuola secondaria di primo grado 10,5-13,5; scuola
secondaria secondo grado 13,5-18,5. Si è comunque in attesa della definizione dei Decreti
applicativi.)
Questa legge, ora abrogata, presentava un assetto pedagogico ed organizzativo
basato sui «curricoli scolastici», specificati per ogni grado, indicanti «vincolivalori
essenziali», da rispettare a livello nazionale, con la possibilità di una loro
organizzazione locale attraverso il POF – Piano Offerta Formativa – tuttora
valido.(Il POF, presente nell’art. 3 del D.P.R. n. 275/99, rappresenta, all’interno dell’autonomia, il
documento di base di ogni istituzione scolastica, e ne costituisce l’identità culturale e progettuale. In
una corretta programmazione scolastica, non si può dunque prescindere dal POF, quale struttura
essenzialmente processuale e dinamica, che riassume in sé decisioni e azioni coordinate all’interno
di un progetto di Istituto, organico e coerente.)

3. La Legge Delega n. 53/2003, che utilizza un lessico «nuovo» e parla non


più di «curricoli» ma di Piani di Studio Personalizzati (PSP).(Piani di Studio
Personalizzati: percorsi finalizzati all’apprendimento deciso di comune accordo fra lo studente-
alunno e i docenti. Sono costituiti da unità di apprendimento che possono essere svolte o con le

Capitolo 18 pag. 274/275


tradizionali modalità d’aula o attraverso i laboratori.) Tali Piani, già presenti nel Disegno di
legge Moratti prima della sua approvazione, sono stati «declinati ed articolati»
attraverso la Sperimentazione nella Scuola dell’Infanzia e Primaria, (Attualmente
è in corso la Sperimentazione Nazionale di cui al D.M. 100/2002, e la bozza del D.M. 15 luglio
2003 avente come oggetto il «progetto di innovazione relativo agli obiettivi di apprendimento per i
primi due anni della scuola primaria»; sottoposta al parere del C.N.P.I., si pone come obiettivo la
prosecuzione della sperimentazione e l’allargamento alla seconda classe elementare per l’anno
scolastico 2003-2004. La sperimentazione, naturalmente, avrà durata transitoria, come tutte le
sperimentazioni, in attesa della definizione dei decreti attuativi della Legge delega n. 28/2003. Se
si confronta il «Documento conclusivo della sperimentazione nazionale sull’IRC» e il «Progetto
nazionale di sperimentazione», è possibile riscontrare molti punti in comune. Ciò non deve stupire,
in quanto la cultura dell’innovazione ha ormai investito scuole ed istituzioni, e sta diventando
una «forma mentis» che porta anche i «revisori istituzionali» a misurarsi con la scuola reale, che
ha problemi e presenta situazioni oggettive ineludibili per chiunque.) con D.M. n. 100/2002,
iniziata con l’anno scolastico 2002/2003. (È disponibile presso il MIUR, la «Relazione
di sintesi sugli esiti della sperimentazione della riforma nella scuola dell’infanzia e nella prima
classe della scuola elementare», che focalizza alcuni aspetti «nucleari» della sperimentazione
stessa, quali l’anticipo scolastico nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, la continuità
educativa e didattica, la didattica laboratoriale, l’équipe pedagogica, la flessibilità organizzativa, il
portfolio delle competenze individuali, i piani di studio personalizzati, l’alfabetizzazione informatica,
la lingua inglese, la formazione alla sperimentazione.) Si è dato vita, in tal modo, ad
una serie di azioni e di strumentazioni tecniche relative ai contenuti, ai nuovi
curricoli, ai nuovi orari di lezione, al portfolio, ai laboratori... (vedi strumenti di
realizzazione dei Piani di Studio Personalizzati), focalizzando così l’attenzione
su essenziali aspetti di ordine pedagogico, con particolare riferimento alle
«modalità» di personalizzazione dell’insegnamento-apprendimento, alle strategie
di realizzazione del porfolio delle competenze, alle forme della alfabetizzazione
informatica e della lingua inglese...

Capitolo 18 pag. 275


È su questi Piani Personalizzati che la scuola dovrà sempre più misurarsi,
tenendo conto degli strumenti tecnico-realizzativi già presenti in via sperimentale,
che hanno lo scopo di realizzare la «centralità dell’alunno nel processo
educativo» richiamata dai PSP stessi, con particolare attenzione al portfolio
delle competenze individuali ed all’articolazione delle attività di apprendimento in
momenti di gruppo classe e di gruppo-laboratorio.
Dal punto di vista pedagogico l’aspettativa essenziale della sperimentazione
– avviata con C.M. 18 settembre 2002, n. 101 – è quella di individuare
concretamente modalità operative che imprimano davvero alla didattica il
«carattere ologrammatico » dell’insegnamento/apprendimento, grazie al quale
l’insegnamento educativo diviene attesa e sollecitazione piuttosto che azione
tecnica dell’insegnamento stesso.
Le Indicazioni nazionali, in questa ottica, vanno concepite come «eventi che si
formano» e si «con-formano» durante il processo di maturazione dell’alunno, che
la scuola deve sollecitare, promuovere, sostenere...
L’attuale situazione giuridico-istituzionale definita dall’approvazione della Legge
Moratti, rappresenta dunque il primo passo di un cammino ancora lungo da
percorrere per la sua completa attuazione. La concezione della scuola nelle sue
articolazioni istituzionali e pedagogico-didattiche che emerge sia dalla Legge n.
53/2003 sia dal D.M. 100/2002, assume delle conseguenze importanti anche sul
piano dell’insegnamento della religione cattolica. Una volta completato il quadro
delle riforme scolastiche, attraverso i decreti attuativi, la CEI intende infatti
necessario rivedere l’Intesa ed allineare l’IRC alle nuove strutture curricolari,
organizzative e didattiche. (Afferma D. R. REZZAGHI, che ha curato per conto della CEI
le fasi della sperimentazione, che una volta recepito l’impianto di un curricolo continuo che
attraverserà i diversi gradi scolastici, e di un documento articolato, funzionale alle flessibilità
richieste dalla nuova situazione riformata, che intende favorire itinerari differenziati, addirittura
«personalizzati» come si insiste nei recenti documenti ministeriali, anche la CEI si adeguerà.

Capitolo 18 pag. 275/276


D’altronde il riordino dei cicli non è (e non è mai stato neppure in passato) un problema decisivo per
la sperimentazione nazionale CEI, né per i documenti conclusivi che ne hanno raccolto gli esiti. Per
questo l’adeguamento dell’ultimo testo al riordino dei cicli voluto ultimamente dalla Moratti per la
sperimentazione nazionale, che prevede 3 anni di Scuola dell’Infanzia, 5 di scuola Primaria (1+2+2)
e 3 di Scuola Media (2+1) ha comportato soltanto piccoli aggiustamenti. Tanto che le diocesi che
per i loro docenti hanno acquistato il Documento 2001, possono operare ancora con quello, in
attesa che si passi dalla sperimentazione ai documenti definitivi, e di conseguenza anche per
l’IRC si possano stendere documenti ugualmente definitivi.) Caratterizzare scolasticamente
l’IRC significa organizzare i contenuti disciplinari confrontandosi con gli aspetti
psicopedagogici, metodologici, didattici ed organizzativi connessi al fare scuola.
Questo compito è attribuito in particolare all’insegnante, che rimane sempre il
decisivo «mediatore» fra l’alunno e la cultura. Al docente è dunque richiesto di
guardare con «professionalità» alle proposte nazionali, per poter interpretare in
modo intelligente il proprio mandato educativo, che si sostanzia nella capacità
di sviluppare «processi di apprendimento» dentro i «concreti contesti scolastici»
attraverso congruenti modalità e strategie operative, per rendere efficace e
significativo il proprio intervento.
Una «mediazione», quindi, pensata come un continuo «procedere verso», come
«tattica contestualizzata» e funzionale all’evento educativo, che rende l’IdR
competente non solo dal punto di vista della disciplina, ma capace anche di
gestire le varie sfaccettature del suo agire, con vera intelligenza educativa, senza
tecnicismi esasperati ed inefficaci.

Capitolo 18 pag. 276


4. Gli «obiettivi specifici» per l’IRC nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola
Primaria sottoscritti dal Card. Camillo Ruini e dal Ministro Letizia Moratti il
23 ottobre 2003

Gli Obiettivi Specifici dell’IRC riguardano esplicitamente la Scuola dell’Infanzia


e la Scuola Primaria. Sono stati elaborati da un’apposita Commissione di Studio
della CEI, sistematizzati in due testi essenziali – rispettivamente per la Scuola
dell’Infanzia e per la Scuola Primaria – e concordati d’intesa fra CEI e MIUR.
I due testi ricalcano, nella loro formulazione ed organizzazione, le modalità
«nuove» della Riforma Moratti – con particolare riferimento al D.M. 100/2002
– attraverso le quali vengono offerti i nuovi strumenti del far scuola.
La scelta della CEI quindi si configura su due aspetti essenziali: confermare
la «natura» della disciplina IRC ed «inserirla» dentro le logiche dell’autonomia
e dell’impianto della riforma Moratti. In tale modo «...sarà sempre più difficile
tenere separato il contributo dell’IRC al profilo educativo dello studente... l’IRC
non può pertanto non condividere la pedagogia della Legge 53/03: la centralità
e l’integralità della persona, il dialogo tra le componenti, la sussidiarietà, la
personalizzazione dei percorsi formativi sono tutti fattori che da sempre hanno
caratterizzato l’IRC e la sua didattica. Si tratta ora di trasformare l’apertura
empirica in condivisione formale».(S. CICATELLI, Riforme e IRC. La situazione attuale.
Cap. 5 di questo Manuale.) Gli OSA rappresentano dunque il nuovo «testo» di IRC per
la Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria, e si raccordano con le «Indicazioni»
e con il «Profilo educativo». Tengono conto degli esiti della Sperimentazione
Nazionale CEI 1988-2000, nonché di tutte le esperienze più significative
realizzate anche a livello locale, che hanno portato ad una sempre maggiore
consapevolezza della necessità di una revisione dei Programmi di IRC,(Gli
accordi concordatari contemplavano la possibile modifica dei programmi, da farsi d’Intesa fra le
parti - Protocollo addizionale, punto 5, lettera b, n. 1.) per collocarli in linea con i profondi

Capitolo 18 pag. 277


mutamenti dell’intera istituzione scolastica.
Non vi è peraltro «rottura» alcuna rispetto ai Programmi IRC vigenti, quanto
piuttosto un maggior collegamento, sia sotto il profilo contenutistico sia sotto
quello metodologico-didattico.
«Con questo primo accordo si perviene alla definizione degli obiettivi per la
Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria, in attesa delle ulteriori definizioni per
la Scuola Secondaria di primo e di secondo grado. Si tratta di un passo decisivo
per assicurare il pieno collegamento tra IRC e Riforma della scuola, esigito da
un IRC che vuole essere a tutti gli effetti inserito nella scuola, ma richiesto anche
dalla stessa riforma scolastica che propone una didattica dove la convergenza
fra le discipline, per un’attività interdisciplinare, è uno degli aspetti qualificanti...
La collaborazione fra MIUR e CEI intende favorire la “convivenza civile”, “il
conseguimento di una formazione spirituale e morale” e lo “sviluppo affettivo,
psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale” che la Riforma considera
scopi principali della “comunità” scolastica, e a promuovere un IRC ancora più
inserito nella Scuola e più efficace nella sua proposta educativa, in modo che
tale insegnamento aiuti in maniera decisiva i bambini ed i ragazzi a costruirsi
una vita ben riuscita, dentro una prospettiva ricca di senso».(Comunicato stampa CEI-
MIUR del 23 ottobre 2003, in occasione della sottoscrizione degli «obiettivi specifici» per l’IRC nella
Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria.) Per poter operare un’analisi dei due nuovi
testi – Scuola dell’Infanzia - Scuola Primaria – occorre entrare nel «lessico» della
Legge Delega n. 53/2003 e del D.M. 100/2002.
Non sempre le «parole chiave» sono «parole nuove»; molto spesso, come
accade per la riforma in questione, sono «parole note» che assumono però
nuovi significati e nuove sfumature nell’ambito di nuovi contesti: per questo è
necessario conoscerle, condividerle, padroneggiarle, se non si vuole incorrere in
una loro interpretazione deformata.
«Piani di Studio Personalizzati»: la nuova legge stabilisce la predisposizione
Capitolo 18 pag. 277/278
di PSP, che richiedono un impegno specifico delle scuole e dei docenti i
quali, progettandoli e realizzandoli, esercitano le attribuzioni loro riconosciute
dalle norme sull’autonomia. Essi sostituiscono i vigenti programmi didattici
nazionali per le scuole di ogni ordine e grado; sono lessicalmente, ma non
sostanzialmente, sostitutivi del «curricolo», entrato giuridicamente nella scuola
attraverso il D.P.R. 275/99, art. 8.
Il «curricolo» infatti rappresenta e delinea tuttora lo sfondo pedagogico dei
programmi nazionali, comunque essi si esprimano, in quanto rimane il modello
basilare entro cui vengono tracciate le coordinate epistemologiche, didattiche ed
organizzative che connotano nel loro specifico ciascun grado di scuola.
Oggi lo si individua in maniera diversa: tuttavia va salvaguardata la sostanza,
che è quella che nel lessico attuale lo identifica nei PSP i quali, «nel rispetto
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo fondamentale,
omogeneo su base nazionale, che rispecchia la cultura, le tradizioni e l’identità
nazionale, e prevedono una quota, riservata alle Regioni, relativa agli aspetti di
interesse specifico degli stessi, anche collegata con le realtà locali».
Come si può capire, in tali Piani rimangono, rispetto ai «programmi-curricoli»
precedenti, i valori-vincoli nazionali, con l’aggiunta di una quota regionale; essi
richiamano la responsabilità progettuale della scuola e dei docenti, ed offrono
«percorsi formativi finalizzati all’apprendimento deciso di comune accordo fra
studenti-alunni e docenti». Essi sono costituiti da unità di apprendimento che
possono essere svolte o con le tradizionali modalità dell’aula o attraverso i
laboratori.
Attualmente l’unico riferimento disponibile, per la loro concretizzazione, è
la documentazione allegata al D.M. 100/2002 sulla sperimentazione nella
Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria, che parla di «Indicazioni nazionali
per l’attuazione dei Piani Personalizzati delle attività educative nella Scuola
dell’Infanzia » ed «Indicazioni nazionali per l’attuazione dei Piani di Studio
Capitolo 18 pag. 278
Personalizzati nella Scuola Primaria».
Tali «indicazioni» si articolano in sei punti, che vengono rappresentati attraverso
tabelle sintetiche e comparate relative ai due distinti gradi scolastici:

Scuola dell’Infanzia Scuola Primaria


Vengono precisate le finalità gene- Vengono precisate le finalità gene-
rali e le caratteristiche di questa rali e le caratteristiche di questa
scuola: educazione armonica e in- scuola: quelle di natura «psicolo-
1. tegrale dei bambini che, attraverso 1. gica», finalizzate a valorizzare ogni
Finalità le famiglie, scelgono di frequentar- Finalità potenzialità dell’alunno attraverso
della la dai due anni e mezzo fino all’in- della l’alfabeto dell’integrazione affetti-
Scuola gresso della scuola primaria; am- Scuola va della personalità ed una imma-
dell’Infanzia biente educativo di esperienze con- Primaria gine realistica ma positiva del sé;
crete e di apprendimenti riflessivi culturali, che promuovono e ga-
che integra le differenti forme del rantiscono un sufficiente livello di
fare, del sentire, del pensare... padronanza delle conoscenze e
delle abilità, attraverso l’esperien-
za del fare e dell’agire; quelle so-
ciali, volte a raggiungere i possibi-
li traguardi della giustizia e dell’in-
tegrazione sociale; quelle «etiche»,
volte a superare forme di egocen-
trismo e ad aprirsi invece alla coo-
perazione, alla responsabilità e al-
la solidarietà...

Vengono ribaditi quelli già espres- Valorizzare l’esperienza del fan-


si dagli Orientamenti ’91, e cioè: ciullo, tenendo presenti i livelli di
rafforzare l’identità personale – sti- maturazione raggiunti nel campo
2. ma di sé, sensibilità verso gli altri 2. del sapere, anche il più comples-
Obiettivi –; conquistare l’autonomia – orien- Obiettivi so, apprezzando il patrimonio co-
generali tarsi, aprirsi alla scoperta –; svilup- generali noscitivo, valoriale e comporta-
pare278/279
Capitolo 18 pag.
del competenze – consolidare le del mentale. Va dedicata particolare
perazione, alla responsabilità e al-
la solidarietà...

Vengono ribaditi quelli già espres- Valorizzare l’esperienza del fan-


si dagli Orientamenti ’91, e cioè: ciullo, tenendo presenti i livelli di
rafforzare l’identità personale – sti- maturazione raggiunti nel campo
2. ma di sé, sensibilità verso gli altri 2. del sapere, anche il più comples-
Obiettivi –; conquistare l’autonomia – orien- Obiettivi so, apprezzando il patrimonio co-
generali tarsi, aprirsi alla scoperta –; svilup- generali noscitivo, valoriale e comporta-
del pare competenze – consolidare le del mentale. Va dedicata particolare
processo capacità sensoriali, motorie, socia- processo attenzione alla considerazione,
educativo li, linguistiche –; predisporre alla educativo esplorazione e discussione su: «La
produzione di messaggi, testi; av- corporeità come valore inscindibi-
viare le prime forme di lettura del- le dalla personalità; il passaggio
le esperienze personali... dal mondo delle categorie empiri-
che al mondo delle categorie for-
mali; la diversità delle persone e
della cultura come ricchezza; la
pratica dell’impegno personale e
della solidarietà sociale».

Attraverso l’intervento della scuola Attraverso l’intervento della scuola


debbono essere trasformati in com- debbono essere trasformati in com-
petenze di ciascun allievo, nella petenze di ciascun allievo, nella
prospettiva della maturazione del prospettiva della maturazione del
3. Profilo educativo, culturale e pro- 3. Profilo educativo, culturale e pro-
Obiettivi fessionale per la conclusione del Obiettivi fessionale per la conclusione del
specifici primo ciclo di istruzione. Essi sono specifici primo ciclo di istruzione. Essi sono
di elencati in quattro categorie: di ordinati sia per discipline sia per
appren- – il sé e l’altro; appren- educazioni, e trovano la loro sinte-
dimento – corpo, movimento e salute; dimento si nell’unitaria educazione alla
– fruizione e produzione di mes- convivenza civile. Si trovano nelle
saggi; tabelle allegate e vanno concepite
– esplorare, conoscere e proget- come occasione per formulare gli
tare. «obiettivi formativi personalizzati»
e le unità di apprendimento pro-
grammate dai docenti per promuo-
vere le competenze personali di
ciascun allievo.
Capitolo 18 pag. 279
L’identificazione degli obiettivi for- Il «cuore» del processo educativo
4. mativi deve scaturire da due per- 4. della scuola primaria si situa nel
Obiettivi corsi: Obiettivi compito delle istituzioni scolasti-
formativi – l’esperienza degli allievi; formativi che e dei docenti di individuare gli
e piani – gli obiettivi specifici di appren- e piani obiettivi formativi adatti e signifi-
di studio dimento. di studio cativi per i singoli allievi che si af-
persona- Nell’uno e nell’altro caso essi sono persona- fidano al loro peculiare servizio
lizzati dotati di una intrinseca carica pro- lizzati educativo, compresi quelli in si-
blematica e dinamica. tuazione di handicap, e di proget-
tare le Unità di Apprendimento ne-
cessarie a raggiungerli e a trasfor-
marli, così, in reali competenze di
ciascuno.

Il portfolio delle competenze indi- Il portfolio delle competenze indi-


viduali: è costituito da una cartella viduali comprende una sezione
in cui raccogliere le osservazioni dedicata alla valutazione – redatta
occasionali e sistematiche dei sulla base degli indirizzi generali
bambini e la documentazione del- circa la valutazione degli alunni e
le loro attività. Comprende: una il riconoscimento dei crediti e de-
5. descrizione essenziale dei percorsi 5. biti formativi (D.P.R. 275/99, art. 8)
Il seguiti e dei progressi educativi Il –; e un’altra riservata all’orienta-
portfolio raggiunti e una documentazione portfolio mento. Le due dimensioni sono
delle che offra indicazioni di orienta- delle continuamente interrelate ed in-
competenze mento. È compilato ed aggiornato competenze trecciate: l’unica valutazione posi-
dai docenti di sezione in coopera- tiva per l’alunno di qualsiasi età è
zione con tutte le altre figure che quella che contribuisce a conosce-
sono impegnate nell’educazione re l’ampiezza e la profondità delle
dei bambini. Assume particolare sue competenze e ad apprezzare
valore nell’ultimo anno della scuo- sempre meglio le capacità poten-
la dell’infanzia. ziali di ciascuno.

Sono costituiti da: La Scuola Primaria definisce i Piani


– l’organico dell’istituzione scola- dell’Offerta Formativa e provvede
stica assegnato; alla realizzazione dei Piani di Stu-
Capitolo
6. 18 pag.
– le280
opportunità dell’autonomia 6. dio Personalizzati, tenendo conto
valore nell’ultimo anno della scuo- sempre meglio le capacità poten-
la dell’infanzia. ziali di ciascuno.

Sono costituiti da: La Scuola Primaria definisce i Piani


– l’organico dell’istituzione scola- dell’Offerta Formativa e provvede
stica assegnato; alla realizzazione dei Piani di Stu-
6. – le opportunità dell’autonomia 6. dio Personalizzati, tenendo conto
Vincoli didattica ed organizzativa; Vincoli degli aspetti che costituiscono ri-
organizzativi – un docente coordinatore dell’é- organizzativi sorsa e vincolo per l’attività educa-
quipe pedagogica; tiva e didattica.
– un orario annuale;
– eventuali convenzioni.

Ritengo questa analisi pertinente al tema IRC e quindi non «fuori campo»; la
sua importanza sta nel fatto di consentire un «ingresso significativo», attraverso
Ritengo
congrue questa
chiavi analisinella
di lettura, pertinente
nuova al temacon
forma IRC cuie sono
quindistati
nonpresentati
«fuori campo»;
i due la
sua importanza
testi. sta nel
Infatti, a partire fatto
dalla di consentire
struttura un «ingresso
delle «Indicazioni significativo»,
nazionali attraverso
per l’attuazione
dei Piani Personalizzati delle attività educative nella Scuola dell’Infanzia»ied
congrue chiavi di lettura, nella nuova forma con cui sono stati presentati due te-
sti. Infatti, aNazionali
«Indicazioni partire dalla struttura delle
per l’attuazione dei «Indicazioni
Piani di Studio nazionali per l’attuazione
Personalizzati nella
dei Piani
Scuola Personalizzati
Primaria», delle attività
è possibile entrareeducative
nel meritonella Scuola dell’Infanzia»
e comprendere ed «In-
il senso degli
dicazioni specifici
«Obiettivi Nazionali di per l’attuazione dei
apprendimento Piani di Studio
di Religione Personalizzati
Cattolica», che andrannonella Scuo-
la Primaria»,
appunto è possibile
ad inserirsi in talientrare
Piani. nel merito e comprendere il senso degli «Obiet-
tivi specificiora
Prendiamo di apprendimento
in considerazione di Religione
il punto «3» Cattolica»,
presentato che andranno
negli schemiappunto
di cui ad
inserirsi
sopra, perinpoter
tali Piani.
realizzare una ulteriore riflessione ed un’analisi comparativa,
Prendiamo
stavolta ora in
fra il testo considerazione
MIUR il punto «3»
e quello CEI-MIUR presentato negli schemi di cui so-
del 23/10/2003.
Ilpra,
termine «obiettivi
per poter specifici
realizzare unadiulteriore
apprendimento» non
riflessione edèun’analisi
esclusivo comparativa,
del linguaggiosta-
della
voltaRiforma Moratti;
fra il testo MIURloesiquello
riscontra per la prima
CEI-MIUR volta, in un documento ufficiale,
del 23/10/2003.
il D.P.R. n. 275/1999, che contiene il regolamento attuativo dell’autonomia
scolastica,
280 che impegna il Ministero dell’Istruzione a definire «gli obiettivi generali
del processo formativo», nonché gli «obiettivi specifici di apprendimento relativi
alle competenze degli alunni».
Parlare di «obiettivi specifici di apprendimento» significa pertanto, anche nella
letteratura specializzata, riferirsi alle «conoscenze, abilità e competenze» alle
Capitolo 18 pag. 280/281
la letteratura specializzata, riferirsi alle «conoscenze, abilità e competenze» alle
quali gli
quali glialunni
alunnieelele alunne
alunne pervengono,
pervengono, tramite l’azione educativa
tramite l’azione educativa ee didattica
didattica del-
la scuola, progressivamente appropriandosi dei contenuti, dei
della scuola, progressivamente appropriandosi dei contenuti, dei metodimetodi interpreta-
tivi, delle regole
interpretativi, dellediregole
funzionamento e dei principi
di funzionamento costitutivi
e dei principi delle discipline
costitutivi delle inte-
grate nei Piani di Studio personalizzati.
discipline integrate nei Piani di Studio personalizzati.
Il «modello-contesto»
Il «modello-contesto» entro
entro cuicollocano
cui si si collocano e realizzano
e realizzano gli «obiettivi
gli «obiettivi speci-
specifici di
fici di apprendimento» potrebbe essere così
apprendimento» potrebbe essere così rappresentato: rappresentato:

Profilo educativo, Portfolio delle competenze


culturale e professionale (Collezione strutturata,
(PECUP) selezionata e commentata)
Esplicita ciò che l’alunno
Una sezione per la valutazione
deve sapere,
ed una per l’orientamento
saper fare e saper essere

Piani di Studio
Obiettivi Formativi Passaggi Personalizzati
(Ordine psicologico e didattico) procedurali (Insieme delle Unità
finalizzati alla di apprendimento)
Compiti di apprendimento definiti «centralità dell’alunno»
in relazione a un alunno concreto, nei processi Contributi formativi
percepiti dall’alunno stesso educativi delle discipline,
come significativi ed importanti scolastici laboratori, educazioni

Obiettivi Unità di apprendimento


Specifici (Insieme della progettazione
di Apprendimento di uno o più obiettivi formativi)
(Indicati nelle
Attività, contenuti, metodi,
Tabelle allegate
modalità organizzative, tempi,
al D.M. 100/2002)
verifica, valutazione

Capitolo 18 pag. 281


In sostanza, si potrebbe affermare che gli Obiettivi Specifici di apprendimento
rappresentano l’«occasione, il pre-testo» offerto dalle «tabelle» del D.M.
100/2002 per formulare gli «Obiettivi Formativi Personalizzati» da organizzare e
realizzare con modalità «mediative» da parte degli insegnanti, per promuovere le
«competenze» personali di ciascun alunno.
• Per la Scuola dell’Infanzia, essi sono indicati come «livelli essenziali di
prestazioni » a livello nazionale, che consentono ai bambini ed alle bambine la
possibilità di maturare nei modi adatti alle loro età tutte le dimensioni tracciate
nel «profilo educativo, culturale e professionale». Rimane compito esclusivo di
ogni scuola autonoma e dei docenti, che vivono nel concreto della propria storia
e del proprio territorio, assumersi la libertà di «mediarli, interpretarli, ordinarli,
distribuirli ed organizzarli in obiettivi formativi», considerando, da un lato, le
capacità complesse di ogni bambino e, dall’altro, le teorie pedagogiche e le
pratiche più adatte a trasformarle in competenze. Allo stesso tempo, tuttavia, è
compito di ciascuna scuola e dei docenti assumersi la responsabilità di «rendere
conto» delle scelte fatte e di porre le famiglie e il territorio nella condizione di
conoscerle e di condividerle. Per quanto presentati in maniera elencatoria, gli
OSA obbediscono al principio della sintesi e dell’ologramma: l’uno rimanda
sempre funzionalmente all’altro e non sono mai, per quanto possano sembrare
minuti e parziali, rinchiusi su se stessi, ma al contrario sono aperti ad un
complesso, continuo e unitario rimando reciproco.

Capitolo 18 pag. 281/282


rio rimando reciproco.

Scuola dell’Infanzia
Obiettivi
Specifici
di Apprendimento Portfolio delle competenze
(Indicati nelle (Collezione strutturata,
Tabelle allegate selezionata e commentata)
Mo al D.M. 100/2002)
da
Profilo educativo, lità di
culturale rea
lizz
e professionale o

Religione Cattolica
Il sé e l’altro Piani di Studio
Corpo, movimento, salute Personalizzati
Fruizione e produzione di messaggi (Insieme delle Unità
di apprendimento)
Esplorare, conoscere, progettare
Obiettivi Formativi

Unità di apprendimento
(Insieme della progettazione
di uno o più obiettivi formativi)

• Per la Scuola Primaria, gli OSA sono organizzati attraverso «tabelle» che
vengono
• Per accluse
la Scuola al Primaria,
D.M. 100/2002 e rappresentano
gli OSA sono organizzatiil «pre-testo»
attraversoper formulare
«tabelle» che
gli «obiettivi
vengono formativi
accluse personalizzati»
al D.M. da realizzare attraverso
100/2002 e rappresentano il «pre-testo»la scansione
per formulare gli
in «Unità diformativi
«obiettivi Apprendimento» che vengono
personalizzati» programmate
da realizzare attraversodailadocenti,
scansionei quali
in «Unità
esercitano in tal modo
di Apprendimento» chelavengono
loro «mediazione
programmatedidattica», finalizzata
dai docenti, i qualiaesercitano
promuovere le
in tal
«competenze» personali di ciascun alunno.
modo la loro «mediazione didattica», finalizzata a promuovere le «competenze»
personali di ciascun alunno.
Capitolo 18 pag.
Gli OSA 282 Scuola
della Primaria sono organizzati sia per «discipline» sia per
Gli OSA della Scuola Primaria sono organizzati sia per «discipline» sia per
«educazioni», le quali educazioni trovano la loro sintesi unitaria nell’«educazione
alla Convivenza Civile».
Tale «organizzazione» rispetta tre dimensioni che sono state tenute in
considerazione:

1. Le modalità organizzative: nella presentazione delle «tabelle degli OSA» si


individuano due «modalità» che non vanno confuse fra loro: si parla infatti di
«ordine epistemologico» e di «ordine psicologico». L’ordine epistemologico si
riferisce alla disciplina, ovvero alla «mappa culturale, semantica e sintattica» di
ciascuna disciplina stessa, che i docenti debbono possedere e padroneggiare
anche nei dettagli, tenendola continuamente aggiornata, per poter esplicare in
modo significativo la loro professionalità. L’«ordine psicologico» trova il suo focus
di attenzione negli alunni, i quali, attraverso i contenuti e le strategie mediative
degli insegnanti, hanno la possibilità di accrescere le loro competenze e i loro
saperi, divenendo in tal modo «attori principali» del proprio apprendimento.
Questi due aspetti vanno di pari passo, e l’uno non può soverchiare od essere
subordinato all’altro.
Questo richiamo è estremamente importante per evitare ogni forma ossessiva e
meccanica del far scuola.

2. L’unitarietà dell’insegnamento: il secondo aspetto richiama l’attenzione


all’unitarietà dell’insegnamento-apprendimento. È vero che gli OSA sono
presentati in maniera analitica secondo le diverse discipline od educazioni;
tuttavia vige sempre il principio della sintesi e dell’ologramma: gli uni rimandano
agli altri, perdendo così ogni autoreferenzialità ed ogni forma di chiusura. Dentro
la «disciplinarità, anche la più specifica e spinta, va sempre rintracciata l’apertura
«inter e transdisciplinare»: la parte che si lega al tutto e il tutto che non si dà se
Capitolo 18 pag. 282/283
non come parte».

3. L’unità nazionale ed il rispetto delle realtà locali: il terzo punto lo si potrebbe


così formulare: perché la presentazione così dettagliata delle tabelle? La
possibile risposta è: anzitutto per mantenere l’Unità Nazionale ed impedire
ogni forma di frammentazione e di polarizzazione del sistema; in secondo
luogo per consentire a ciascun alunno/alunna la possibilità di maturare la
propria personalità attraverso tutte le dimensioni che vengono tracciate dal
Profilo Educativo Culturale e Professionale previsto per la conclusione del
primo ciclo di studi; in terzo luogo per consentire alle scuole ed ai docenti,
nell’ambito dell’autonomia scolastica, di compiere scelte autonome e responsabili
nell’esercizio della propria professionalità, e poter così essere significativi
ed efficaci, capaci di «rendere conto» delle proprie scelte alle famiglie, per
coinvolgerle sempre più e renderle realmente partecipi dei processi educativo-
scolastici entro i quali i loro figli camminano e crescono.

Capitolo 18 pag. 283


La seguente tabella evidenzia la realtà sopradescritta.

Scuola Primaria
Obiettivi
Specifici
di Apprendimento Portfolio delle competenze
Mo (Indicati nelle (Collezione strutturata,
da Tabelle allegate selezionata e commentata)
lità
Profilo educativo, di al D.M. 100/2002)
culturale rea
liz
e professionale zo Classe 1a.
1° Biennio
line
discip Religione Cattolica - Italiano 2° Biennio
Inglese - Storia
Geografia - Matematica - Geometria Piani di Studio
Scienze - Musica - Tecnologia e Informatica Personalizzati
Arte ed Immagine - Attività motorie e sportive (Insieme delle Unità
di apprendimento)

zioni alla cittadinanza - ambientale - stradale - alla salute


educa alimentare - all’affettività

Obiettivi Formativi

Unità di apprendimento
(Insieme della progettazione
di uno o più obiettivi formativi)

Va tenuto naturalmente presente che questi accostamenti di studio fra i testi


Capitolo 18 pag. Moratti
della Riforma 283/284 ed i testi IRC sono validi e necessari per comprendere il
«contesto scolastico attuale» entro cui si realizzano i processi formativi, e per for-
nirsi di alcune significative chiavi interpretative; va tuttavia ribadito che non c’è
Va tenuto naturalmente presente che questi accostamenti di studio fra i testi
della Riforma Moratti ed i testi IRC sono validi e necessari per comprendere il
«contesto scolastico attuale» entro cui si realizzano i processi formativi, e per
fornirsi di alcune significative chiavi interpretative; va tuttavia ribadito che non
c’è ancora nulla di definitivo, anche se ormai i processi riformatori si sono avviati
e sarà impossibile fermarli. Questo per cautelarsi ed evitare pericolose fughe in
avanti o posizioni di retroguardia.

Analisi comparativa

Scuola dell’Infanzia

Come si può osservare dallo schema della pagina a fianco, gli obiettivi
specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della Religione Cattolica
nell’ambito delle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati delle
Attività Educative per la scuola dell’Infanzia, si raccordano, nella forma, con
quelli previsti dal D.M. n. 100/2002. Nella sostanza, tuttavia, si mantengono sui
contenuti dei Programmi precedenti di IRC per la Scuola dell’Infanzia, anche se
formulati in modo diverso e davvero essenziale.

Capitolo 18 pag. 284


Scuola dell’Infanzia

Osservare il mondo
che viene
riconosciuto dai
cristiani e da tanti
uomini religiosi dono Attraverso l’intervento della
Obiettivi specifici di Dio Creatore scuola debbono essere trasfor-
di apprendimento mati in competenze di cia-
propri Scoprire la Persona scun allievo, nella prospettiva
dell’insegnamento di Gesù di Nazaret della maturazione del Profilo
della Religione come viene Obiettivi educativo, culturale e profes-
presentata dai specifici sionale per la conclusione del
Cattolica primo ciclo di istruzione. Essi
nell’ambito delle Vangeli e come viene di
celebrata nelle sono elencati in quattro cate-
indicazioni apprendimento gorie:
feste cristiane
nazionali D.M. 100/2002 – il sé e l’altro;
per i Piani – corpo, movimento e salute;
Individuare i luoghi – fruizione e produzione di
Personalizzati di incontro della messaggi;
delle Attività comunità cristiana – esplorare, conoscere e pro-
Educative e le espressioni gettare.
del comandamento
dell’amore
testimoniato
dalla Chiesa

Scuola
Scuola Primaria
Primaria

AlloAllo stesso
stesso modomodo
delladella Scuola
Scuola dell’Infanzia,
dell’Infanzia, si presenta
si presenta un’analisi
un’analisi comparati-
comparativa su
va su «gli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento
«gli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della Religione della Re-
ligione Cattolica
Cattolica nell’ambito
nell’ambito delle Indicazioni
delle Indicazioni nazionali nazionali
per i Pianiper i Piani Personalizzati
di Studio di Studio Per-
sonalizzati
della Scuoladella Scuolache
Primaria», Primaria», che si raccordano,
si raccordano, nelle modalitànelle modalità di presenta-
di presentazione, con
quelli previsti dal D.M. n. 100/2002, e nella sostanza invece, coninvece,
zione, con quelli previsti dal D.M. n. 100/2002, e nella sostanza con i pre-
i precedenti
cedenti Programmi
Programmi di IRC. di IRC.
Viene fatta una suddivisione per classi secondo il piano ministeriale: 1 classe; a

Capitolo 18 pag. 285 e terza classe; 2° biennio-quarta e quinta classe.


1° biennio-seconda
sonalizzati della Scuola Primaria», che si raccordano, nelle modalità di presenta-
zione,
Viene con
fattaquelli previsti dal D.M.
una suddivisione n. 100/2002,
per classi secondoeilnella
pianosostanza invece,
ministeriale: con i pre-
1a classe; 1°
cedenti Programmi di IRC.
biennio-seconda e terza classe; 2° biennio-quarta e quinta classe.
Viene fatta una suddivisione per classi secondo il piano ministeriale: 1a classe;
1° biennio-seconda e terza classe; 2° biennio-quarta e quinta classe.

Scuola Primaria - Classe 1a


Attraverso l’intervento della scuola debbono essere trasformati in competenze di ciascun al-
Obiettivi lievo, nella prospettiva della maturazione del Profilo educativo, culturale e professionale
specifici per la conclusione del primo ciclo di istruzione. Essi sono ordinati sia per discipline sia per
di apprendimento educazioni, e trovano la loro sintesi nell’unitaria educazione alla convivenza civile. Si tro-
D.M. vano nelle tabelle allegate e vanno concepiti come occasione per formulare gli «obiettivi for-
100/2002 mativi personalizzati» e le unità di apprendimento programmate dai docenti per promuovere
le competenze personali di ciascun allievo.

Dio Creatore – Scoprire nell’ambiente i segni che richia-


Obiettivi specifici mano ai cristiani e a tanti credenti la pre-
di apprendimento e Padre
di tutti gli uomini senza di Dio Creatore e Padre.
propri
dell’insegnamento – Cogliere i segni cristiani del Natale e del-
della Religione Gesù di Nazaret, la Pasqua.
Cattolica l’Emmanuele, – Descrivere l’ambiente di vita di Gesù nei
nell’ambito delle il «Dio con noi» suoi aspetti quotidiani, familiari, sociali e
indicazioni religiosi.
nazionali
per i Piani La Chiesa, comunità – Riconoscere la Chiesa come famiglia di
di Studio dei cristiani aperta Dio che fa memoria di Gesù e del suo
Personalizzati a tutti i popoli messaggio.

285

Capitolo 18 pag. 285


Scuola Primaria - 1° biennio Classe 2a e 3a

– Comprendere, attraverso i racconti biblici


delle origini, che il mondo è opera di Dio,
L’origine del mondo affidato alla responsabilità dell’uomo.
e dell’uomo
nel cristianesimo – Ricostruire le principali tappe della storia
e nelle altre religioni della salvezza, anche attraverso figure signi-
Obiettivi specifici ficative.
di apprendimento
propri – Cogliere, attraverso alcune pagine evangeli-
Gesù, il Messia, che, come Gesù viene incontro alle attese di
dell’insegnamento compimento delle perdono e di pace, di giustizia e di vita eterna.
della Religione promesse di Dio
Cattolica – Identificare tra le espressioni delle religioni
nell’ambito delle la preghiera e, nel «Padre Nostro», la speci-
La preghiera, ficità della preghiera cristiana.
indicazioni espressione
nazionali di religiosità – Rilevare la continuità e la novità della Pa-
per i Piani squa cristiana rispetto alla Pasqua ebraica.
di Studio La festa della Pasqua – Cogliere, attraverso alcune pagine degli «At-
Personalizzati ti degli Apostoli», la vita della Chiesa delle
origini.
La Chiesa, il suo credo – Riconoscere nella fede e nei sacramenti di
e la sua missione iniziazione (battesimo - confermazione - eu-
caristia) gli elementi che costituiscono la co-
munità cristiana.

Scuola Primaria - 2° biennio Classe 4a e 5a

– Leggere e interpretare i principali segni religiosi


espressi dai diversi popoli.
Capitolo 18 pag. 286 – Evidenziare la risposta della Bibbia alle domande
di senso dell’uomo e confrontarla con quella de-
e la sua missione iniziazione (battesimo - confermazione - eu-
caristia) gli elementi che costituiscono la co-
munità cristiana.

Scuola Primaria - 2° biennio Classe 4a e 5a

– Leggere e interpretare i principali segni religiosi


espressi dai diversi popoli.
– Evidenziare la risposta della Bibbia alle domande
di senso dell’uomo e confrontarla con quella de-
Il cristianesimo le principali religioni.
e le grandi religioni: – Cogliere nella vita e negli insegnamenti di Gesù
Obiettivi specifici origine e sviluppo proposte di scelte responsabili per un personale
di apprendimento progetto di vita.
propri La Bibbia e i testi sacri
– Riconoscere nei santi e nei martiri, di ieri e di og-
dell’insegnamento delle grandi religioni gi, progetti riusciti di vita cristiana.
della Religione – Evidenziare l’apporto che, con la diffusione del
Cattolica Gesù, il Signore, che Vangelo, la Chiesa ha dato alla società e alla vi-
nell’ambito delle rivela il Regno di Dio ta di ogni persona.
con parole e azioni
indicazioni – Identificare nei segni espressi dalla Chiesa l’a-
nazionali zione dello Spirito di Dio, che la costruisce una e
I segni e i simboli inviata a tutta l’umanità.
per i Piani
del cristianesimo, – Individuare significative espressioni d’arte cri-
di Studio anche nell’arte
Personalizzati stiana, per rilevare come la fede è stata interpre-
tata dagli artisti nel corso dei secoli.
La Chiesa popolo di
Dio nel mondo: – Rendersi conto che nella comunità ecclesiale c’è
una varietà di doni, che si manifesta in diverse
avvenimenti, persone vocazioni e ministeri.
e strutture
– Riconoscere in alcuni testi biblici la figura di Ma-
ria, presente nella vita del Figlio Gesù e in quel-
la della Chiesa.

Capitolo 18 pag. 286


Elementi di novità dei «Testi CEI-MIUR» per la Scuola dell’Infanzia e la
Scuola Primaria

Volendo spostare in avanti l’approfondimento sui documenti già esaminati, si


può evidenziare come gli elementi innovativi dei «nuovi testi» di IRC siano
configurabili essenzialmente in due punti:
– il riferimento al linguaggio
– nella sua dimensione lessicale e semantica – ed agli strumenti dei documenti
della Riforma «Moratti»;
– una diversa modalità nell’organizzazione dei contenuti, più aperta allo spazio di
intervento dei docenti.

1. Il linguaggio: per quanto attiene al primo punto, una delle parole chiave
significative da sottolineare è quella di «ologramma», che concepisce la
progettazione dell’intervento scolastico come un’attività che coinvolge in primis i
docenti ma anche gli alunni come «persone» che, attraverso i «contenuti propri
della scuola», realizzano l’unitarietà del sapere-conoscere. Le conoscenze che
entrano nel cuore e nella testa delle persone agiscono sulle persone stesse e le
«modellano », rappresentando nel contempo occasioni di esercizio intellettuale,
emozionale e spirituale che approda alla significatività ed alla crescita personale.
L’unitarietà del sapere-conoscere è pertanto l’obiettivo primario della
progettazione, e si realizza mediante azioni facilitanti l’incontro del soggetto-
alunno con l’oggetto culturale: è sempre la persona, tuttavia, a qualunque età
appartenga – ed ai più differenziati livelli – che con la sua umanità e la sua
capacità si incontra con i «saperi» nei loro «nodi essenziali», li elabora e li
integra nei propri quadri concettuali, rendendosi in tal modo sempre più capace
di «comprendere e dominare » la realtà esterna ed interna.
L’IRC, come tutte le altre discipline, non può mai perdere di vista il carattere
Capitolo 18 pag. 287
«olistico» (OLISMO = tutto intero. Il termine deriva dalla biologia, ed afferma il concetto di
«totalità» che risulta di primaria importanza nell’ambito della biologia stessa, in quanto consente
una corretta comprensione dei fatti naturali. Tale termine, nel suo aspetto semantico, viene oggi
applicato anche al campo dell’educazione, evidenziando in tal modo la necessità di non perdere
mai di vista la persona e nella sua totalità e nei processi di crescita che la caratterizzano.)
dell’insegnamento-apprendimento, a cominciare dagli alunni della Scuola
dell’Infanzia e per tutti quelli degli altri gradi scolastici.
Gli strumenti: un’altra dimensione da considerare è quella di raccordare
significativamente la «formulazione» dei «testi CEI» per la scuola dell’infanzia
ed elementare entro il nuovo linguaggio che si esprime attraverso gli «strumenti
tecnici prescrittivi ed orientativi» del D.M. 100/2002.
Gli «Obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della Religione
Cattolica nell’ambito delle indicazioni nazionali per i Piani Personalizzati
delle Attività Educative» per la scuola dell’Infanzia, e gli «Obiettivi specifici di
apprendimento propri dell’insegnamento della Religione Cattolica nell’ambito
delle indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati» per la Scuola
Primaria, assumono infatti il linguaggio proprio della L. 53/2003 e del D.M.
100/2002, per cui diviene importante evidenziarne la «struttura», attraverso i
seguenti schemi:

Capitolo 18 pag. 287


Gli strumenti prescrittivi ed orientativi - D.M. 100/2002

Indicazioni
Esplicitano nazionali
PROFILO i livelli essenziali e Profilo sono
INDICAZIONI NAZIONALI: di prestazioni che tutte elaborati dagli esperti
prescrittive nei le istituzioni e dagli organi tecnici
percorsi formativi; scolastiche sono del Ministero dell’Istruzione,
RACCOMANDAZIONI: tenute ad assicurare in collaborazione
orientative nelle scelte ad ogni alunno, con altri Ministeri
metodologiche e culturali nel rispetto del diritto e, a regime,
all’istruzione della Conferenza
e alla formazione. Stato-Regioni.

Sono documenti «esterni» alle Istituzioni scolastiche che si collocano però in prospettiva professionale,
come assunzione di responsabilità rispetto a compiti formativi.

Indicazioni nazionali
per i Piani Personalizzati Obiettivi specifici Obiettivi specifici
delle Attività Educative di apprendimento di apprendimento IRC
nelle Scuole dell’Infanzia Scuola Infanzia
Capitolo 18 pag. 288
come assunzione di responsabilità rispetto a compiti formativi.

Indicazioni nazionali
per i Piani Personalizzati Obiettivi specifici Obiettivi specifici
delle Attività Educative di apprendimento di apprendimento IRC
nelle Scuole dell’Infanzia Scuola Infanzia

Indicazioni nazionali Obiettivi specifici


per i Piani di Studio Obiettivi specifici di apprendimento IRC
Personalizzati nella di apprendimento Scuola Primaria
Scuola Primaria

Questo schema evidenzia le correlazioni esistenti fra le Indicazioni nazionali...


gli obiettivi specifici di apprendimento della Scuola dell’Infanzia e della Scuola Primaria,
gli obiettivi specifici di apprendimento dell’IRC nella Scuola dell’Infanzia e Primaria.

2. Lo spazio di intervento degli insegnanti. Questo è uno degli aspetti che può
2. Lo spazio di intervento degli insegnanti. Questo è uno degli aspetti che può
davvero risultare qualificante l’intervento di IRC realizzato nelle nuove forme,
davvero risultare qualificante l’intervento di IRC realizzato nelle nuove forme,
che amplificano di molto gli spazi di intervento dei docenti. Scrive S. Cicatelli (S.16
che amplificano di molto gli spazi di intervento dei docenti. Scrive S. Cicatelli a
CICATELLI, Riforme e IRC. La situazione attuale. Cap. 5 del presente Manuale.) a tal proposito:
tal proposito: «...la verifica sul campo sarà data soprattutto dalla professionalità
«...la verifica sul campo sarà data soprattutto dalla professionalità degli
degli insegnanti che devono misurarsi con una scuola che, almeno nelle intenzio-
insegnanti che devono misurarsi con una scuola che, almeno nelle intenzioni,
ni, vorrebbe essere più integrale e integrata nelle sue procedure didattiche. Biso-
vorrebbe essere più integrale e integrata nelle sue procedure didattiche.
gnerà vedere innanzitutto se le promesse della riforma saranno mantenute per
Bisognerà vedere innanzitutto se le promesse della riforma saranno mantenute
per l’intero assetto scolastico, e poi si potrà verificare come la prassi didattica
dell’IRC si sarà saputa inserire in questo quadro. In un contesto così decentrato
16
S. CICATELLI
e affidato , Riforme edelle
alla creatività IRC. La situazione
singole attuale.
scuole, Cap. 5 del presentedei
la responsabilità Manuale.
singoli docenti
(compresi quelli di RC) cresce enormemente: ad ogni IdR è quindi affidata la
288
Capitolo 18 pag. 288/289
sorte dell’IRC molto più di quanto non sia stato fino ad oggi... Questo perché
non vi è un programma da applicare rigidamente, ma un modello da interpretare
intelligentemente sulla base del contesto reale di esercizio. Non una sbiadita
interdisciplinarità derivante dal desiderio affannoso di venire incontro a domande
diverse ed estemporanee, ma uno statuto epistemologico che si colloca al
punto di incontro di differenti competenze specialistiche (teologiche, bibliche,
etiche, storiche, psicologiche, ecc.) riunite in una sintesi originale dal lavoro
dell’insegnante.
L’IdR, oltre al passaggio di stato giuridico, dovrà adeguarsi alla nuova identità
di professionista che gli richiede la scuola dell’autonomia. La responsabilità e
discrezionalità che oggi vengono riconosciute a tutti i docenti ben si conciliano
con la libertà di insegnamento e con le prospettive interdisciplinari... È una
scommessa sul futuro, ma (soprattutto se le scelte degli avvalentisi troveranno
ancora conferma) potrebbe avviarsi un processo di ridefinizione dell’identità
dell’IRC, che potrebbe produrre i suoi effetti anche sul piano valutativo».

Il POF come strumento essenziale nella progettazione scolastica

Dentro questo nuovo scenario scolastico, è ancora possibile parlare di POF


– Piano dell’Offerta Formativa –? Questo sembra essere un interrogativo
legittimo, che ci aiuta ad entrare con maggiore significatività nel tema dell’odierna
organizzazione e strutturazione scolastica. Il POF infatti è una «struttura»
di natura essenzialmente processuale e dinamica, fondata su tre elementi
concettuali: la progettazione scolastica; la proposta in modo manifesto ed
evidente di una identità scolastica; l’amministrazione dei propri beni e del proprio
budget.
Sembra evidente che possa funzionare anche in questo nuovo assetto
Capitolo 18 pag. 289
scolastico; anzi, se non lo si concepisce come un insieme di atti «burocratici»,
può davvero oggi, nel contesto dell’autonomia scolastica, aiutare molto a
progettare interventi flessibili e significativi, secondo le indicazioni nazionali e
avendo presenti le realtà locali.
La costruzione del POF, infatti – quale esercizio e compito che qualifica la
professione docente ed impegna tutti gli operatori scolastici –, assume come
coordinate di riferimento le linee guida dei documenti programmatici nazionali,
adottando tutte le forme di «flessibilità» organizzativa e didattica che si rendono
necessarie al buon funzionamento della scuola ed alla qualità dell’offerta
formativa.
È dentro questa ottica, dunque, che si evidenzia e si chiarisce il senso del POF
nella vita scolastica, anche nella situazione attuale.
Che rapporto esiste fra il Piano dell’Offerta Formativa e l’autonomia?
Sostanzialmente questa: i Programmi, concepiti come una struttura predefinita,
calata dall’alto, uguale per tutti, non rappresenteranno più la fonte regolativa
dei comportamenti professionali dei docenti; essi vanno «essenzializzati»,
ossia organizzati nei loro concetti-chiave e nei loro principi organizzatori, per
poter collegare i vari saperi e conferire loro «senso». «Essenzializzare» vuol
anche dire ricercare gli elementi fondanti dell’organizzazione e della gestione
scolastica, aprirsi nei confronti della realtà che cambia per fornire agli individui-
alunni non tanto conoscenze in senso nozionistico, quanto la possibilità di
sviluppare l’attitudine a «contestualizzare» e «globalizzare» i saperi, attraverso
la costruzione di una rete di concetti, di strutture mentali in grado di governare le
reti culturali.
Il POF quindi rappresenta lo strumento con cui la scuola nel suo complesso
compie le scelte fra contenuti, competenze essenziali per il proprio sapere e la
propria struttura, secondo gli assi disciplinari o macrodisciplinari.
Il «focus» del POF di una scuola è l’organizzazione di un suo curricolo e la
Capitolo 18 pag. 289/290
sua traduzione in termini operativi. Certamente occorre superare due forme di
azione non promettenti: quella «esecutiva» all’insegna del «dimmi che cosa devo
fare», e quella «antagonista» all’insegna del «che cosa vuoi da me?». Sono
due estremi in cui la scuola perde la sua identità... La ritrova al contrario in un
intelligente radicamento nella comunità scolastica, all’interno della più vasta
comunità che si esprime nelle diverse articolazioni ed organizzazioni.
Per quanto riguarda gli aspetti di relazioni con l’esterno, la scuola ha bisogno
oggi di acquisire maggiore identità rispetto al passato, proprio per poter mettersi
nelle condizioni di attivare un rapporto dialettico ed equilibrato con le altre
istituzioni, senza sensi di inferiorità o di superiorità. È infatti il tipo di percezione
del sé e dei propri compiti e funzioni che consente veramente di «uscire» più
sicuri, corroborati, e che permette davvero di costruire reti di rapporti, a partire
dalle necessarie negoziazioni: di significati da attribuire alle parole usate per
comunicare, di progetti, di attività... In tal modo si opera il passaggio dalla
«passività» o dalla «autoreferenzialità» al coinvolgimento e alla coevoluzione
mobilitante le risorse profonde, i valori attivi delle persone e dei mondi che
stringono patti ed alleanze.
Per quanto riguarda invece la costruzione del rapporto frontale con gli alunni,
il POF rappresenta uno strumento nel quale inserire le programmazioni dello
specifico «ambito disciplinare» o «campo» che realizza i Profili educativi, che
si connettono con tutti i progetti presenti nel POF stesso e conferiscono senso
all’agire scolastico di tutti gli operatori. Costituiscono in tal modo una «carta»
della scuola che diviene riferimento importante per i docenti perché negoziato sia
all’interno della scuola sia con le forze sociali di contesto; sostiene le motivazioni
all’agire e detta le coordinate del processo educativo-scolastico.
La costruzione del POF non rappresenta quindi un fatto meramente tecnico, ma
un aspetto di grande rilievo valoriale e processuale: per questo ha necessità di
«inverarsi» con l’azione... e da qui si intuisce come l’agire continuo diventi uno
Capitolo 18 pag. 290
dei criteri più importanti, se si vuole evitare uno scollamento fra teoria e prassi.
Rimane sempre dunque per l’insegnante il problema di realizzare, nell’incontro
«frontale» con gli alunni, quel rapporto «mediativo» che lo pone a mezzo fra il
soggetto e l’oggetto culturale, attraverso una intelligente animazione.
Questi ragionamenti, rintracciabili dai documenti che regolano i processi
scolastici dell’autonomia, sono dunque validi per tutti gli insegnanti, compresi
quelli di religione cattolica: dal momento in cui tali insegnanti entrano nella scuola,
ne assumono pienamente regole, diritti e doveri, e realizzano il loro intervento di
«mediazione-animazione culturale» rimanendo dentro le coordinate generali del
Piano dell’Offerta Formativa della scuola e contribuendo, attraverso i contenuti
specifici dell’IRC, alla formazione integrale della persona.
L’IRC, per sua natura ed attraverso i suoi linguaggi specifici, è per «antonomasia
» la disciplina che più di ogni altra si preoccupa ed occupa di mettere al centro
del processo educativo la persona con i suoi problemi, le sue domande di senso,
la sua ricerca, e ne fa oggetto di studio e di approfondimento.
L’insegnante di RC si inserisce dunque professionalmente in questo piano
scolastico, tenendo conto sia degli aspetti organizzativi e di rapporto con
tutto il personale della scuola, sia della specificità e peculiarità dei contenuti
confessionali, attraverso i quali contribuisce a migliorare la qualità dell’offerta
formativa della scuola in cui opera.
La progettazione scolastica, con riferimento al POF, si potrebbe rappresentare
attraverso il seguente modello:

Capitolo 18 pag. 290/291


re attraverso il seguente modello:

POF e progettazione scolastica

Asse interno, specifico A B

– Scelte educative e didatti- Autonomia;


che in riferimento alle li- Professionalità;
nee programmatiche na- Progettazione di
itinerari formativi rapporti;
zionali;
– organizzazione del conte- negoziazioni;
sto scolastico; integrazioni
– organizzazione delle atti- Attivazione
vità di laboratorio, proget- di ogni forma
ti centrati su esperienze di relazioni
A Asse esterno, e cooperazioni
significative... B integrativo interne/esterne,
– organizzazione delle «di- congruenti
scipline scolastiche»; con le finalità
– organizzazione della di- della scuola.
sciplina «IRC».

ComeCome si può
si può evincere
evincere daldal modello,
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attività di IRCdi IRC
nellanella
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altrediscipline.
discipline. Pertanto,
Pertanto, all’inizio del-
all’inizio
l’anno scolastico,
dell’anno l’insegnante
scolastico, l’insegnante didireligione
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progettazione
ne e presenta, eentro
presenta, entro
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organizzative e didattichee del
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istituto, il pro-
istituto,
prio pianoil proprio piano
annuale annuale diper
di intervento intervento
ciascuna per ciascuna
classe, classe,
tenendo tenendo
presenti le indica-
presenti le indicazioni
zioni Nazionali, Nazionali,l’articolazione
che prevedono che prevedono l’articolazione
dell’attività dell’attività
di religione di
cattolica in
religione
«obiettivicattolica in di
specifici «obiettivi specifici dida
apprendimento» apprendimento» da sviluppare
sviluppare nell’arco dell’anno nell’arco
scola-
dell’anno
stico. scolastico.
Capitolo 18 pag. 291
Tenendo conto di tali principi, viene presentato, nelle sue linee essenziali, un
«progetto annuale» di Religione Cattolica per la Scuola dell’Infanzia e per la
Scuola Primaria, da collocare all’interno del POF di ogni singola istituzione
scolastica.

Capitolo 18 pag. 291


CAPITOLO 19

IL PROGETTO IRC NELLA SCUOLA


DELL’INFANZIA
Giuseppina Zuccari

In relazione a quanto esplicitato al capitolo 18, il progetto viene presentato


in due parti e secondo due approcci: 1. I Programmi Sperimentali CEI; 2. Gli
obiettivi Specifici di Apprendimento propri della Religione Cattolica nell’ambito
delle Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle attività educative per la
Scuola dell’Infanzia.

PRIMA PARTE: I Programmi Sperimentali CEI

Orientamenti generali e finalità


(Si fa presente che questi Programmi sono da leggersi nel contesto della Riforma Berlinguer - L.
30/2000.)

La scuola dell’infanzia si colloca con la sua specificità e peculiarità dentro


il quadro riformatore in atto, e realizza il proprio compito innovativo in un
«contesto ludico», flessibile. Essa si connota come «luogo privilegiato» in grado
di stimolare ogni strategia di apprendimento per una pluralità di percorsi e di

Capitolo 19 pag. 292


esplorazioni, nel rispetto delle singole età dei bambini, lontana da preoccupazioni
«scolasticistiche » o di «preconizzazione» degli apprendimenti, ed attenta invece
a predisporre ed organizzare situazioni formali ed informali di apprendimento,
entro le quali tutti i piccoli, nessuno escluso, possano crescere al loro ritmo ed
esprimere in modo sempre più maturo ed adeguato la propria identità, autonomia
e competenza in ordine al sé ed al mondo.
Va tenuto presente quanto la ricerca odierna va esprimendo, ovvero come
nella scuola dell’infanzia, che è la «prima» a fornire esperienze «scolastiche
istituzionalizzate », il bambino matura e costruisce le sue «matrici» emozionali,
sociali, morali, intellettuali, della religiosità..., sulle quali modula, organizza,
incorpora ed interiorizza le proprie esperienze ed i saperi che via via incontra.
È sulla costruzione di tali matrici che va rivolta tutta l’attenzione educativa e
didattica, proprio per garantire la realizzazione vera e significativa di tali matrici e
la formazione di stili personali.
Certamente il curricolo triennale della religione va specificato in ogni sua distinta
annualità, per rispondere alle esigenze di ogni singola età ed allo scopo di
realizzare una vera continuità nella processualità formativa.
Va attivata poi ogni forma di relazione tra i vari cicli scolastici, attraverso un
rapporto di «integrazione» tra l’ultimo anno della scuola dell’infanzia ed il
primo anno della scuola primaria, per consentire che la maggior specificazione
dell’ultimo anno faciliti il raccordo con il ciclo successivo.
Tutto ciò al fine di evitare la ripetizione di contenuti a favore di percorsi che
prevedono invece maggiori attenzioni di arricchimento e di approfondimento.
Una particolare cura va posta a valorizzare ogni forma di «diversità» presente
oggi nella scuola dell’infanzia (etniche, religiose, culturali, bambini portatori
di handicap...)... perché a nessuno manchi quell’apporto umano, basilare
all’apertura al Trascendente, al Religioso.

Capitolo 19 pag. 292/293


Obiettivi - aree di intervento

In coerenza con la natura e le finalità dell’insegnamento scolastico della


religione cattolica nella scuola dell’infanzia, che trova nel Campo di Esperienza
«Il sé e l’altro» (Cf Orientamenti ’91, Cap. III Par. 2-f «Il sé e l’altro». In questo campo, articolato
internamente su quattro fondamentali aspetti (sviluppo affettivo ed emotivo, sviluppo sociale,
sviluppo etico-morale, sviluppo di un corretto atteggiamento nei confronti della religiosità e delle
religioni e delle scelte dei non credenti...) confluiscono tutte le esperienze ed attività che ineriscono
alla sfera dei significati (del sé, del sociale, dell’etico-morale, della religiosità). «...In questo
contesto può verificarsi il ricorrere di interessi ed interrogativi (il senso della propria esistenza, della
nascita e della morte; le origini della vita; i motivi di fatti ed eventi; le ragioni delle diverse scelte
degli adulti; il problema dell’esistenza di Dio) dal preciso spessore esistenziale, culturale, etico,
metafisico e religioso: il bambino, infatti, si pone e pone domande impegnative per ogni persona,
e che per lui hanno anche una rilevanza cognitiva, alle quali si sono date e si continuano a dare
differenti risposte, nei cui confronti è indispensabile sviluppare un atteggiamento di attenzione,
comprensione, rispetto e considerazione.
Pertanto, lungi dall’impedirle, dallo scoraggiarle o dal sentirsene turbati, occorre impegnarsi ad
aprire con lui un dialogo franco, sincero ed ispirato ad una chiara sensibilità interculturale...». Ho
riportato questo «pezzo» del testo per sottolineare come l’attenzione allo sviluppo della religiosità
infantile, intesa in senso antropologico-pedagogico, è compito della scuola dell’infanzia rivolto
a tutti i bambini che la frequentano; per quanto attiene invece l’intervento scolastico di religione
cattolica, che si realizza attraverso le forme previste dall’Intesa, il compito dell’insegnante che dà
la propria disponibilità o che ne viene incaricato, è quello di organizzare e realizzare interventi
specifici, certamente congruenti con le età dei bambini ed i loro specifici bisogni. Questo aspetto,
d’altronde, viene sottolineato anche nel D.M. n. 100/2002, nelle Indicazioni Nazionali per i Piani

Capitolo 19 pag. 293


Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia, laddove si parla di «obiettivi
specifici» di apprendimento, punto «Il sé e l’altro».) la base di riferimento comune a tutti
i
bambini che frequentano la scuola e rappresenta l’area privilegiata per l’apertura
al religioso e per lo sviluppo e l’accrescimento della religiosità infantile, l’impianto
progettuale che viene tracciato intende far leva su nuclei tematici coerenti e
congruenti con le età dei bambini, per una prima apertura ed intuizione dei
significati che sono propri della religione cattolica.
Dentro la nuova architettura scolastica disegnata dalle riforme, la scuola
dell’infanzia, con particolare attenzione al quinto anno per collegarsi in modo
più stretto alla scuola primaria, ricava lo specifico per l’intervento di religione
cattolica, evidenziandone natura e finalità, nuclei tematici, aree di obiettivi,
opzioni metodologico-didattiche.
Le esperienze-attività della religione cattolica pertanto:
– si collocano nel quadro delle finalità della scuola dell’infanzia, che
specificatamente riguardano la «maturazione dell’identità, la conquista
dell’autonomia e lo sviluppo delle competenze dei bambini e delle bambine»;
– assumono, in aderenza agli Orientamenti ’91 ed in continuità col campo di
esperienza «Il sé e l’altro» degli Orientamenti stessi e delle «Indicazioni nazionali
» del D.M. n. 100/2002, gli aspetti universali della religiosità e quelli specifici dei
valori cristiano-cattolici, che fanno parte del patrimonio storico e culturale del
popolo italiano;
– sono offerti agli insegnanti e con essi ai genitori perché possano presentare con
responsabilità e liberamente, nella comunità scolastica, il messaggio evangelico
dell’amore, della fratellanza, della pace, come risposta religiosa al bisogno
di significato dei bambini e delle bambine, nel rispetto delle loro esperienze
personali, delle responsabilità della famiglia nel segno della continuità educativa,
e della impostazione pedagogica della scuola dell’infanzia;
– assumono come base di partenza le esperienze ed i bisogni specifici dei

Capitolo 19 pag. 293/294


bambini e delle bambine di 3-4-5 anni, per fornire loro quegli «strumenti»
necessari a cogliere i segni della vita cristiana, ad intuirne i significati, ad
esprimere e comunicare con le parole, i gesti, i segni ed i simboli la loro
incipiente esperienza religiosa.
Partire dai «vissuti» dei bambini come primo essenziale approccio ad ogni
intervento, significa rendere davvero il bambino stesso attivo, partecipe, capace
di organizzare e strutturare l’insieme delle sue conoscenze, di sviluppare abilità,
di affinare strutture basilari, di incontrarsi con le forme della «cultura».
Dalla semplice attività al «senso» dell’esperienza prende corpo il rilievo culturale
dell’attività stessa non solo per quanto il bambino apprende o può apprendere,
ma soprattutto per i meccanismi di pensiero ed emozionali che si attivano;
prendono corpo e sostanza i «significati» che il bambino associa all’attività,
proprio per la risonanza interiore dell’azione e dell’iniziativa (Se faccio capisco...).
Si realizza, in tal modo, quel «principio di correlazione» scolasticamente
inteso, che rappresenta un criterio metodologico importante: tale principio
infatti consente il rispetto della specificità dell’intervento di IRC, il cui contenuto
disciplinare è costitutivo della rivelazione cristiana, e mette in relazione il
raggiungimento delle finalità della scuola, mirate alla formazione della persona
attraverso l’«esperienza culturale», che si concretizza nella riflessione, nel
confronto e nella rielaborazione di contenuti culturali, con particolare attenzione
alle forme e ai modi possibili nell’età della scuola dell’infanzia.

I Nuclei Tematici

Sono contenuti selezionati ed organizzati in base a criteri di essenzialità, di


significatività e di congruenza educativa. Attengono, nello specifico, a quei
«nuclei esperienziali» particolarmente significativi per le età della scuola
Capitolo 19 pag. 294
dell’Infanzia, che consentono al «soggetto-bambino» di 3-4-5 anni di incontrarsi
con l’«oggetto » della religione cattolica, nel proprio ambiente di riferimento, oggi
e nella tradizione cristiana.
Non si può prescindere, infatti, nell’intervento scolastico di religione cattolica
nella scuola dell’infanzia, dalle esperienze concrete dei bambini: a questa età,
l’aspetto esperienziale è insieme «contenuto-contenitore dell’oggetto culturale».
Apartire dalle esperienze dei bambini è possibile dunque, per analogia e
contrasto, realizzare percorsi di indagine sulla realtà, e ricercare risposte alle
domande di senso dei bambini stessi, secondo criteri progressivi ed ordinati.
Si realizza così, nell’arco dei tre anni, la possibilità di un incontro ed una prima
intuizione del messaggio evangelico di Gesù: per il bambino è l’umano a fornire

Capitolo 19 pag. 295


ma intuizione del messaggio evangelico di Gesù: per il bambino è l’umano a for-
nire le possibilità
le possibilità di scoperta
di scoperta e comprensione
e comprensione del divino.
del divino. Per questo
Per questo occorre
occorre dare dare
senso pieno all’umano, per realizzare un intervento «Cristocentrico», capace di
aprire all’intuizione della figura e dell’opera di Gesù.
I Nuclei tematici sono dunque i seguenti:

NUCLEI TEMATICI SCUOLA DELL’INFANZIA

3 anni 4 anni 5 anni

I II III
livello livello livello

I - Il mondo del bambino, la vita e il suo mistero.

II - Il Natale di Gesù nei segni-simboli culturali e nei loro significati.

III - La vita e il messaggio di Gesù nei Vangeli.

IV - La Pasqua di Gesù nei segni-simboli culturali e nei loro significati.

V - La vita della comunità cristiana.

L’organizzazione e l’articolazione dei nuclei tematici nell’esperienza della


Sperimentazione CEI tiene conto sia della forma sincronica (nel caso della pre-
Capitolo 19 pag. 295
senso pieno all’umano, per realizzare un intervento «Cristocentrico», capace di
aprire all’intuizione della figura e dell’opera di Gesù.
I Nuclei tematici sono dunque i seguenti:
L’organizzazione e l’articolazione dei nuclei tematici nell’esperienza della
Sperimentazione CEI tiene conto sia della forma sincronica (nel caso della
presenza di gruppi di bambini di età eterogenea), sia di quella diacronica
(in presenza di gruppi di bambini di età omogenea): si è voluto in tal modo
sottolineare l’importanza di poter adottare approcci diversificati, a seconda
delle situazioni concrete in cui si opera, e la necessità di progettare interventi
flessibili, in grado di «adattarsi» a quelle situazioni contingenti che caratterizzano
l’organizzazione e la gestione di questa scuola.
Lavorare sullo stesso nucleo tematico, pertanto, consente un primo importante
approccio per tutti i bambini delle diverse età, e sviluppi diversificati per gruppi di
età omogenea.

Il Progetto annuale della RC nella Scuola dell’Infanzia

Il progetto annuale delle attività di Religione Cattolica nella Scuola dell’Infanzia


va collocato all’interno del POF di Istituto, dove trova una sua più piena
legittimazione dal punto di vista pedagogico e metodologico-didattico.
All’inizio dell’anno scolastico il collegio dei docenti realizza tutte le possibili
iniziative progettuali, come Piano di riferimento valoriale ed educativo delle
attività del quotidiano scolastico, e sul quale si confronta in itinere per eventuali
aggiustamenti.
All’interno del POF, dunque, vanno collocate, in modo essenziale, le
«macroattività » che via via vanno poi declinate nel corso dell’anno scolastico.
Questa progettazione è molto importante, in quanto disegna le coordinate
Capitolo 19 pag. 295/296
valoriali, pedagogiche, epistemologiche ed organizzative della scuola concreta
nella quale si opera. Non è pertanto un semplice esercizio burocratico, ma
assume valore di «fondamento» di ogni attività, che va quindi articolata e
realizzata nella quotidianità del vivere scolastico.
Per la scuola in genere, e per la scuola dell’infanzia in specie, questo si
connota come aspetto particolarmente significativo ai fini educativi. Un contesto
scolastico intenzionalmente predisposto, infatti, facilita l’esperienza positiva dei
bambini e rappresenta il primo riferimento per l’intervento educativo-didattico
dell’insegnante.
È chiaro che la concreta realizzazione di tale contesto educativo esige un
continuo intrecciarsi di azioni bambini-adulti, e che il compito degli insegnanti
assume caratteristiche educative peculiari. La centralità del bambino nel
processo educativo, che rappresenta il nodo innovativo portante della
progettazione scolastica odierna, postula infatti una visione dell’insegnamento/
apprendimento di tipo dialettico, in continua e reciproca interconnessione
bambino-insegnante, per la realizzazione dell’incontro bambino-cultura, movendo
in due direzioni di fondo:
• sulla consapevolezza, da parte dell’insegnante, dell’esistenza di una molteplicità
sterminata di modi diversi di pensare, di sentire, di agire, di relazionare di
ciascun bambino, per cui va tenuta sempre presente la base profonda su cui egli
articola il pensiero, le conoscenze ed i suoi comportamenti, per poter predisporre
con efficacia un repertorio di esperienze-attività facilitanti l’accesso al mondo
simbolico-culturale di ciascun campo del sapere, con particolare riferimento alla
religione cattolica;
• avere presente che l’esperienza, i linguaggi e le strategie relazionali e cognitive
che ciascun bambino attiva sono sottoposti a continui «processi di aggiustamento
», allo scopo di riequilibrare la «qualità» dell’adattamento del pensiero e degli
atteggiamenti ai fatti, anche in forza delle maggiori consapevolezze acquisite.
Capitolo 19 pag. 296
È sempre l’esperienza che guida e governa i processi di conoscenza! Questo
te dell’insegnante, ma che deve tuttavia poter essere fruito dal bambino attra-
assunto va rispettato soprattutto nell’intervento di IRC nella scuola dell’Infanzia,
verso le modalità che caratterizzano e facilitano il suo «farsi», ovvero attra-
un intervento che va organizzato e sistematizzato da parte dell’insegnante,
verso l’esperienza diretta e concreta del bambino stesso, al quale l’adulto non
ma che deve tuttavia poter essere fruito dal bambino attraverso le modalità
potrà mai sostituirsi. Nel campo della religione cattolica, in particolare, è facile
che caratterizzano e facilitano il suo «farsi», ovvero attraverso l’esperienza
cadere in forme «dogmatiche», anche se a volte molto subdole, per cui occor-
diretta e concreta del bambino stesso, al quale l’adulto non potrà mai sostituirsi.
re davvero da parte dell’insegnante molta preparazione psicologica e molta
Nel campo della religione cattolica, in particolare, è facile cadere in forme
sensibilità educativa!
«dogmatiche», anche se a volte molto subdole, per cui occorre davvero da parte
dell’insegnante molta preparazione psicologica e molta sensibilità educativa!
La costruzione di percorsi didattici
Dentro questodiquadro
La costruzione progettuale
percorsi didatticiessenziale, ed in sintonia con l’impegno spe-
cifico della scuola dell’infanzia, ogni itinerario dell’IRC va costruito attraverso
una
Dentroarticolazione didattica
questo quadro capace essenziale,
progettuale di conferire ed
concretezza
in sintoniaecon
significato
l’impegnoalle atti-
vità proposte.
specifico della scuola dell’infanzia, ogni itinerario dell’IRC va costruito attraverso
unaQuali sono dunque
articolazione le azioni
didattica capacedell’insegnante? In primo luogo
di conferire concretezza deve aver
e significato allechiari
gli obiettivi educativi
attività proposte. da perseguire, con particolare attenzione alla centralità del
soggetto, ed i contenuti da sviluppare, per facilitare l’incontro soggetto-oggetto
Quali sono dunque le azioni dell’insegnante? In primo luogo deve aver chiari
culturale.

Soggetto Oggetto
Alunno Culturale

Attività mediativa del docente

Capitolo 19 pag. 296/297


Per realizzare efficacemente questo rapporto insegnamento/apprendimento, è
gli obiettivi educativi da perseguire, con particolare attenzione alla centralità del
soggetto, ed i contenuti da sviluppare, per facilitare l’incontro soggetto-oggetto
culturale.
Per realizzare efficacemente questo rapporto insegnamento/apprendimento,
è necessario che l’insegnante segua un iter di tipo «epistemologico» che ne
garantisca la correttezza formale e sostanziale. Pertanto:
• seleziona il contenuto specifico che intende sviluppare;
• organizza le sue conoscenze, ossia i suoi «saperi» in relazione a tale contenuto,
in modo da padroneggiare bene l’argomento per poterlo «mediare» con i bambini
attraverso approcci diversificati. L’insegnante infatti tiene sempre conto che
l’esigenza primaria è quella di «mediare» una «visione interpretativa » della
realtà religiosa, che diventa una «realtà trascendente», non attuale, immediata,
senza tuttavia mai dimenticare che occorre sempre partire dalla realtà attuale del
bambino. In altri termini, il lavoro «mediativo» dell’insegnante consiste in primo
luogo nell’aver esso stesso compreso bene i contenuti sui quali lavorare con
i bambini, ed in secondo luogo nel comprendere concretamente quali sono le
modalità e le strategie esperienziali, linguistiche, relazionali, semantiche... che il
bambino attiva nel suo incontro con il contenuto che gli viene proposto;
• organizza il contesto (tempi, spazi, modalità di raggruppamento dei bambini,
strumenti didattici...);
• verifica, (È una sorta di «valutazione ante factum», una «indagine preliminare», per capire qual
è il grado di conoscenza dei bambini relativamente al contenuto che si vuole sviluppare. Questa
azione è molto importante perché realizza veramente la «centralità dell’alunno» nei processi di
apprendimento e soprattutto sollecita l’insegnante alla concretezza delle sue attività, evitando
forme ripetitive o vuoti di conoscenza.) attraverso le forme disponibili (es. interazione
verbale, protocollo di osservazione, disegni...) quali sono le esperienze-
conoscenze dei bambini in relazione all’argomento. In assenza di questa
importante attività, il rischio potrebbe essere quello di partire da due “visuali”
Capitolo 19 pag. 297/298
diverse, su piani paralleli che non si possono mai incontrare: quella del bambino
e quella dell’adulto. Il bambino assegna dei significati alle parole ed alle azioni, e
l’insegnante deve capire ed inserirsi in questi significati, pena l’incomunicabilità;
• sceglie il tipo di approccio più consono (es. materiale-stimolo, lettura di brani,
racconto vivo, attività ludica...). Per quanto riguarda i materiali «simbolici» o
comunque il ricorso ad approcci di tipo simbolico, occorrono molta prudenza ed
attenzione, nel senso che certi simboli utilizzati vent’anni fa oggi non esistono
più nell’esperienza del bambino, vuoi perché è diminuito un certo tipo di abitudini
delle famiglie, vuoi perché la televisione massifica le simbologie stesse. (Non
dobbiamo mai dimenticarci della «sorella televisione»... e degli odierni contesti
famigliari e sociali);
• realizza l’attività con i bambini, sia a livello collettivo sia individuale. Nel gruppo
si sviluppano tutte quelle attività che consentono la ricerca dei bambini (immagini,
ritaglio, incollo, costruzione di cartelloni...); si realizzano rappresentazioni,
ricostruzioni grafiche del percorso, costruzione di mappe che consentono forme
di connessioni fra un concetto e l’altro, e vari collegamenti con altri di ordine
espansivo;
• progetta trame di relazioni «multicampo»,(Si parla di attività «multicampo» in quanto gli
Orientamenti del ’91, tuttora vigenti, organizzano le attività «formalizzate» in «campi di esperienze
educative». Tali campi sono: Il corpo ed il movimento; I discorsi e le parole; Lo spazio, l’ordine e la
misura; Le cose, il tempo e la natura; Messaggi, forme e media; Il sé e l’altro. È molto importante
tenere collegamenti con tali campi, soprattutto durante attività specifiche – es. la narrazione si rifà
al campo dei discorsi e delle parole... – tuttavia questo non significa affatto «con-fondere» tutto:
i contenuti dell’IRC si raccordano mantenendo sempre la propria specificità e chiarezza.) come
forma di collegamento-integrazione con le attività-esperienze degli altri campi,
soprattutto di quello «Il sé e l’altro»;
• organizza attività di verifica-valutazione, attraverso strategie finalizzate a
«captare» ogni segnale che il bambino invia ed a percepire l’eventuale vicinanza-
Capitolo 19 pag. 298
distanza tra la concreta realtà dei bambini e la congruenza del contenuto stesso,
anche in vista di eventuali aggiustamenti;
• rende «visibile» ai bambini stessi ed anche ai genitori, attraverso la

Criteri metodologici
L’azione dell’insegnante si connota come capacità di «allestire» le condi-
L’INSEGNANTE zioni di apprendimento degli alunni.

Seleziona il contenuto che intende sviluppare.


Organizza le sue conoscenze in relazione al contenuto scelto, in modo da «pa-
droneggiare» bene l’argomento.
Verifica, attraverso le forme disponibili, le esperienze-conoscenze degli alunni in
relazione all’argomento che andrà sviluppato (materiale-stimolo, attività di brain-
storming...).
Organizza il contesto (tempi; spazi, modalità di raggruppamento alunni, strumenti di-
dattici...).

Realizza l’attività con gli alunni, sia a livello collettivo sia a livello individuale.
Progetta attività «multicampo», ossia di collegamento con le attività-esperienze degli altri
campi del sapere.

Organizza attività di verifica-valutazione, attraverso strategie finalizzate a cogliere ogni «segnale» che l’a-
lunno invia; e rende visibile agli alunni e ai genitori, mediante la documentazione nelle sue svariate for-
me, le tappe dei percorsi realizzati.

Per la realizzazione di questi aspetti basilari, è necessario assumere anche cri-


teri di tipo organizzativo,5 che consentono la realizzazione dell’intervento educa-
tivo.
Il documento di revisione dell’Intesa del 13 giugno 1990, al punto 2.4., stabi-
lisce che l’organizzazione dell’orario – per un ammontare complessivo di 60 ore
Capitolo 19 pag. 298/299
documentazione nelle sue svariate forme (esposizione di disegni, di materiali
realizzati, raccolta in cartelle dei lavori...).

Per la realizzazione di questi aspetti basilari, è necessario assumere anche


criteri di tipo organizzativo, (L’organizzazione viene intesa come un importante aspetto della
didattica. Il Cap. quarto degli Orientamenti ’91 infatti parla di «organizzazione per l’educazione»
e ne sottolinea la connotazione di «curricolo implicito».) che consentono la realizzazione
dell’intervento educativo.
Il documento di revisione dell’Intesa del 13 giugno 1990, al punto 2.4., stabilisce
che l’organizzazione dell’orario – per un ammontare complessivo di 60 ore
annuali – dovrà essere gestita secondo i criteri di flessibilità e di adattabilità alle
situazioni particolari.
Ciò si realizza, in concreto, nella misura in cui l’intervento si coordina, si
raccorda e si sintonizza con il lavoro svolto dall’intero team docenti. Aparità di
impegno l’intervento di religione cattolica assume senso educativo diverso a
seconda dei momenti scolastici e dei contesti entro i quali si sviluppa. (Va posto
in evidenza il fatto che, a livello nazionale, vi sono molte realtà monosezionali o bisezionali, con
obbligate presenze delle tre età; ma anche nel caso di plessi a tre e più sezioni, è prevalente la
costituzione delle sezioni per età eterogenee, con la tendenza, che va sempre più consolidandosi,
di lavorare, nei tempi della compresenza delle insegnanti, per gruppi di età omogenea. Nel caso
dell’intervento dell’insegnante «incaricata» non sempre è possibile un’articolazione oraria dentro
le compresenze, e quindi non sempre si riesce a suddividere i bambini in gruppi intersezione.
Per questo si rende necessario anche saper organizzare l’attività su uno stesso contenuto,
che consente un primo approccio per tutti i bambini delle diverse età, e successivi sviluppi
diversificati per gruppi di età omogenea, che vanno appositamente organizzati all’interno di una
stessa sezione.) Assicurare un buon livello di integrazione al progetto educativo
complessivo della scuola è un impegno di tutti i docenti, compresi quelli di
religione, in quanto finalizzato all’unitarietà e significatività delle esperienze.
Capitolo 19 pag. 299
Integrare non significa certo «giustapporre » ma intessere reti di significato che
possano rendere coerente ed unitario il progetto complessivo.

SECONDAPARTE:
Gli Obiettivi specifici di Apprendimento propri della Religione Cattolica
nell’ambito delle Indicazioni nazionali per i Piani Personalizzati delle attività
educative per la Scuola dell’Infanzia

Perché aggiungere una seconda parte ed affrontare un argomento i cui sviluppi


sono ancora tutti da individuare, sperimentare, articolare?... È pur vero che
l’Intesa tra la CEI ed il MIUR è stata stipulata il 28/10/2003 ed è una «realtà»;
tuttavia viene inserita dentro un contesto istituzionale ancora «sperimentale» (Si
fa presente che gli Obiettivi specifici di Apprendimento propri della Religione Cattolica nell’ambito
delle Indicazioni nazionali per i Piani Personalizzati delle attività educative per la Scuola
dell’Infanzia vengono inseriti, nell’attuale situazione ancora «sperimentale», nell’ottica del D.M.
100/2002 predisposto dal MIUR per avviare la Sperimentazione Nazionale, entro cui poter attuare
un’attenta applicazione di quei contenuti e di strategie didattiche sui quali saranno articolati e
dettagliati i provvedimenti attuativi della nuova legge di riforma del sistema scolastico formativo - L.
53/2003.) per cui ad una prima superficiale analisi si rimane un po’ sconcertati,
nel senso che ci si ritrova ad avere obiettivi specifici per l’IRC nella scuola
dell’infanzia essenzializzati in «tre argomenti» ed apparentemente messi lì, in
maniera spuria... Da qui l’esigenza di inquadrare la situazione della Scuola
dell’Infanzia, alla luce di questi avvenimenti, per poterne comprendere la «ratio»
ed avviare esperienze e ricerche.
Facciamo alcune considerazioni di «quadro», a partire dalla L. 53/2003, punto d:
– nel sistema educativo di istruzione e formazione..., la scuola dell’infanzia,
di durata triennale, concorre all’educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio,
cognitivo, morale, religioso e sociale delle bambine e dei bambini, promovendone

Capitolo 19 pag. 299/300


le potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento.
Assicura l’integrale formazione delle bambine e dei bambini, e nella sua
autonomia e unitarietà didattica e pedagogica, realizza la continuità educativa
con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria...;
– dal punto di vista delle finalità educative, il testo della legge «Moratti»
ripercorre sostanzialmente quello della L. 30/200, con l’aggiunta degli aspetti
morale e religioso dello sviluppo e con una modificazione per quanto riguarda
la titolarità educativa della famiglia: dal rispetto dell’orientamento educativo dei
genitori al rispetto della loro primaria responsabilità educativa. Questa è una
dimensione dell’educare che comunque va interpretata nel senso di una comune
fattiva collaborazione, in nome della centralità dei diritti educativi e formativi dei
bambini, escludendo forme sia di ingerenza sia di disinteresse reciproci scuola-
famiglia;
– l’IRC della scuola dell’infanzia si inserisce ed assume queste finalità
educative, concorrendo in modo significativo attraverso i contenuti
presentati negli «obiettivi specifici», e le strategie metodologiche congruenti,
organizzandole ed articolandole attraverso le «modalità» del D.M. 100/2002 a
un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative; nel rispetto della primaria
responsabilità educativa dei genitori, essa contribuisce alla formazione.
In questa logica, le attività che i bambini della scuola dell’infanzia hanno il diritto
di esperire e di realizzare, anche nell’ambito della Religione Cattolica, si debbono
configurare come un «processo di progressiva, attiva e creativa rielaborazione
dell’esperienza immediata del bambino nell’incontro con gli strumenti ed i
linguaggi della cultura, orientato all’acquisizione, in un clima di naturalezza
guidata, delle competenze fondamentali (cognitive, prassiche, relazionali),
che verranno poi progressivamente promosse in senso sempre più articolato
e formalizzato nei successivi gradi e momenti dell’esperienza scolastica. Il
«curricolo» che vi si realizza, pertanto, ben lungi dal costituire una sorta di
Capitolo 19 pag. 300/301
verranno poi progressivamente promosse in senso sempre più articolato e forma-
lizzato nei successivi gradi e momenti dell’esperienza scolastica. Il «curricolo»
segmento autoreferenziale e quasi chiuso in se stesso dell’itinerario formativo,
che vi si realizza, pertanto, ben lungi dal costituire una sorta di segmento autore-
ne rappresenta invece, nella sua apertura al divenire progressivo della persona
ferenziale e quasi chiuso in se stesso dell’itinerario formativo, ne rappresenta in-
e nella sua capacità di costruirne i germi fondamentali di successo, il primo tratto
vece, nella sua apertura al divenire progressivo della persona e nella sua capacità
di qualità». (C. SCURATI, in AA.VV., Come cambia la Scuola Primaria. Indicazioni Nazionali e
di costruirne i germi fondamentali di successo, il primo tratto di qualità».8 Dentro
Raccomandazioni per la Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria, Napoli, Tecnodid Editrice 2003,
tali orizzonti culturali, si può pertanto ipotizzare un «modello» di progettazione di
pp. 48-49.) Dentro tali orizzonti culturali, si può pertanto ipotizzare un «modello»
RC,
di avendo particolare
progettazione attenzione
di RC, avendo a «significare»
particolare attenzionein senso squisitamente
a «significare» educa-
in senso
tivo i termini che vengono utilizzati:
squisitamente educativo i termini che vengono utilizzati:

Profilo educativo, Portfolio delle competenze


culturale e professionale Documentazione delle esperienze
(PECUP) «emblematiche» e significative,
Esplicita ciò che l’alunno deve sapere, anche in funzione della creazione
saper fare e saper essere del documento di «passaggio».
al termine del 1° ciclo di istruzione.
Scuola dell’infanzia
Obiettivi Formativi Generali Passaggi Piani di Studio
O.G. procedurali Personalizzati
Compiti di apprendimento finalizzati alla Dalle esperienze spontanee infantili
espressi nelle forme di attività «centralità dei bambini» il collegamento con aspetti peculiari
e di atteggiamenti da sollecitare, di 3-4-5 anni della realtà, attraverso proposte
promuovere ed affinare, nei processi educativi di attività didattiche
per la maturazione dell’identità, scolastici. di esplorazione del mondo.
dell’autonomia e delle competenze.

Obiettivi Unità di apprendimento


Specifici Esperienze di apprendimento
di Apprendimento che vanno pensate ed attuate
di RC attraverso congruenti percorsi
Intesa CEI-MIUR e strategie didattiche.
28/10/2003

Capitolo 19 pag. 301


La progettazione annuale delle attività di IRC

Il progetto annuale di IRC va configurato all’interno del POF, (La C.M. 194/1999
presenta il POF non tanto come un ennesimo progetto, ma come «il progetto » nel quale si
sostanzia il complessivo processo educativo promosso dalla scuola dell’autonomia.) che
rappresenta una «struttura» di progettazione educativa e di identità della scuola.
Fra i tanti elementi che entrano in questa struttura – nell’asse dell’organizzazione
interna e dei rapporti con l’esterno – assumono particolare rilevanza educativa
quelli che si riferiscono all’alunno ed alla organizzazione delle attività
formalizzate e di routine, che contribuiscono al raggiungimento delle finalità
proprie di ciascun grado scolastico. Il progetto RC si inserisce nel contesto del
POF di Istituto, raccordandosi alle attività che costituiscono il progetto generale
della scuola, e realizza tale progetto per la scuola dell’infanzia nel concreto delle
attività di sezione, così come previsto dalla normativa vigente – documento
di Revisione dell’Intesa del 13 giugno 1990 – che al punto 2.4., stabilisce che
l’organizzazione dell’orario – per un ammontare complessivo di 60 ore annuali
– dovrà essere gestita secondo i criteri di flessibilità e di adattabilità alle situazioni
particolari.
Questo richiede certamente il coordinamento e la sintonia con il lavoro dei team
docenti.

Capitolo 19 pag. 301/302


docenti.

POF e progettazione annuale RC scuola dell’infanzia

Asse interno, Obiettivi specifici di RC


specifico A B
Obiettivi
Autonomia; Formativi
Professionalità; Offerta di
Progettazione Esperienze
di itinerari formativi situazioni significative Asse esterno,
di apprendimento B integrativo
– Scelte educative e didatti-
Acquisizione di competenze
che in riferimento alle li-
nee programmatiche na-
zionali CEI-MIUR; Piani di studio Personalizzati rapporti;
– organizzazione del conte- negoziazioni;
sto scolastico: attività for- A Portfolio delle integrazioni.
malizzate e di routine; competenze
– organizzazione dei gruppi individuali
sezione, intersezione, la-
boratori delle attività di RC Attivazione di ogni forma
finalizzate alla fruizione di di relazioni e cooperazioni
esperienze significative... interne/esterne, congruenti
con le finalità della scuola.

Dagli obiettivi specifici di RC alla organizzazione di obiettivi formativi e di


Unità di Apprendimento
Dagli obiettivi specifici di RC
Si può
alla ora ipotizzaredi
organizzazione il passaggio, attraverso
obiettivi formativi e diun esempio,
Unità dagli obiettivi specifici
di Apprendimento
alla costruzione di unità di apprendimento.
Si può ora ipotizzare il passaggio, attraverso un esempio, dagli obiettivi spe-
Si parla di «ipotesi», perché non abbiamo ancora a disposizione esperienze di
cifici alla costruzione di unità di apprendimento.
supporto. Certamente qui si aprono importanti spazi di studio, di approfondimento
Si parla di «ipotesi», perché non abbiamo ancora a disposizione esperienze di
Capitolo
supporto.19Certamente
pag. 302 qui si aprono importanti spazi di studio, di approfondimento
e soprattutto di attività di laboratorio dei docenti, per sperimentare esperienze e
realizzare strumenti adeguati alla piena realizzazione degli obiettivi che questa
nuova proposta si pone.

Obiettivi specifici di apprendimento di Religione Cattolica


Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio
Creatore.
Scoprire la persona di Gesù di Nazaret come viene presentata dai Vangeli e come viene ce-
lebrata nelle feste cristiane.
Individuare i luoghi di incontro della comunità cristiana e le espressioni del comandamento
evangelico dell’amore testimoniato dalla Chiesa.

Prendendo in considerazione
Prendendo in considerazioneil primo
il primo«obiettivo
«obiettivospecifico» «Osservare
specifico» «Osservareil il mon-
mondo
do che che viene
viene riconosciuto
riconosciuto daidai cristianie edadatanti
cristiani tantiuomini
uomini religiosi
religiosi dono
donodidi Dio
Dio Creatore» si può ipotizzare una organizzazione in unità di apprendimento
Creatore» si può ipotizzare una organizzazione in unità di apprendimento secon-
secondo una scansione
do una scansione per bambini
per bambini di tre, di
di tre, di quattro
quattro e di cinque
e di cinque anni: anni:

Esempio Bambini 3 anni

Portfolio delle competenze


(Osservazioni dell’insegnante
Obiettivi Formativi: Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
Il bambino, mediante Specifici in una cartella)
la partecipazione attiva di Apprendimento
e le esperienze di ricerca,
coinvolgenti, Piani Personalizzati
Osservare il mondo
si apre all’intuizione delle attività educative
che viene riconosciuto
del valore del mondo creato
Capitolo 19 pag. 302/303
e sviluppa atteggiamenti
dai cristiani
Prendendo in considerazione il primo «obiettivo specifico» «Osservare il mon-
do che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio
Creatore» si può ipotizzare una organizzazione in unità di apprendimento secon-
do una scansione per bambini di tre, di quattro e di cinque anni:

Esempio Bambini 3 anni

Portfolio delle competenze


(Osservazioni dell’insegnante
Obiettivi Formativi: Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
Il bambino, mediante Specifici in una cartella)
la partecipazione attiva di Apprendimento
e le esperienze di ricerca,
coinvolgenti, Piani Personalizzati
Osservare il mondo
si apre all’intuizione delle attività educative
che viene riconosciuto
del valore del mondo creato
dai cristiani
e sviluppa atteggiamenti
e da tanti uomini religiosi
di ringraziamento e di lode
dono di Dio Creatore. Esperienze attività
al Creatore.
di narrazione,
di manipolazione,
ienze
esper collage, disegno...
Unità di apprendimento:
nuti
conte Il mondo creato

Il sole, la luce, Il cielo, la luna, Il mare, Gli animali amici


i colori le stelle la montagna delle persone

Capitolo 19 pag. 303


Esempio Bambini 4 anni
Portfolio delle competenze
(Osservazioni dell’insegnante
e Raccolta dei lavori dei bambini
Obiettivi Formativi: Obiettivi in una cartella)
Il bambino, mediante Specifici
le esperienze e le attività proposte di Apprendimento
dalla scuola, diviene più attento
alla realtà che lo circonda Piani Personalizzati
Osservare il mondo delle attività educative
e capace di entrare in rapporto che viene riconosciuto
sereno e attivo con il creato, dai cristiani
aprendosi così alla meraviglia
e alla lode e da tanti uomini religiosi
per la sua stupenda varietà. dono di Dio Creatore. Esperienze attività di narrazione,
ricerca di immagini, ritaglio,
collage, disegno, cartelloni...
ienze
esper
Unità di apprendimento:
i Le cose create
enut
cont le cose fatte dall’uomo

Lo splendore Il giorno I maestosi Gli animali amici


del cielo e la notte monti delle persone

Esempio Bambini 5 anni


Portfolio delle competenze
(Osservazioni dell’insegnante
e Raccolta dei lavori dei bambini
Capitolo Obiettivi
19 pag.Formativi:
304 Obiettivi in una cartella)
Esempio Bambini 5 anni
Portfolio delle competenze
(Osservazioni dell’insegnante
e Raccolta dei lavori dei bambini
Obiettivi Formativi: Obiettivi in una cartella)
Il bambino, mediante Specifici
la partecipazione attiva di Apprendimento
e le esperienze di narrazione Piani Personalizzati
Osservare il mondo delle attività educative
e di ricerca coinvolgente, che viene riconosciuto
si apre all’intuizione del valore dai cristiani
del mondo creato e sviluppa e da tanti uomini religiosi
atteggiamenti di ringraziamento dono di Dio Creatore. Esperienze, attività di narrazione,
e di lode al creatore. di comparazione, di ricerca
di immagini, di collage, di disegno...
ienze
esper ...fratello sole
Unità di apprendimento:
e nuti ...luna e stelle
cont
...giorno e notte
Il mondo Scoperte... Alla scoperta ...vento e acqua
intorno a noi in giardino con S. Francesco:
...animali e piante

Strategie di realizzazione dei percorsi didattici


Strategie di realizzazione
Seguendo dei percorsi
sempre un’ipotesi didattici
di concreta realizzazione di ciascun percorso di-
dattico, la prima attenzione è volta all’acquisizione di precise consapevolezze, da
Seguendo
parte sempre un’ipotesi
dell’insegnante, di concreta
in ordine ai contenutirealizzazione di ciascun
ed alle strategie percorso
di «appropriazione»
didattico, la prima
dei contenuti stessiattenzione è volta
da parte del all’acquisizione
bambino di precise
e della bambina dellaconsapevolezze,
scuola dell’infan-
da
zia, ovvero alle strategie di «insegnamento-apprendimento». di
parte dell’insegnante, in ordine ai contenuti ed alle strategie
«appropriazione» dei contenuti stessi da parte del bambino e della bambina della
scuola
304 dell’infanzia, ovvero alle strategie di «insegnamento-apprendimento».
Capitolo 19 pag. 304
Per realizzare dunque in modo efficace il rapporto «insegnamento/
apprendimento », è necessario che l’insegnante segua un iter di tipo
«epistemologico» che ne garantisca la correttezza formale e sostanziale.
Pertanto egli è chiamato, in prima battuta, a selezionare il contenuto specifico
che intende sviluppare, per poter organizzare le sue conoscenze, ossia i
suoi «saperi» in relazione a tale contenuto, in modo da padroneggiare bene
l’argomento e poterlo «mediare» con i bambini attraverso approcci diversificati e
a misura di ciascun bambino stesso.
L’insegnante infatti tiene sempre conto che l’esigenza primaria è quella di
«mediare» una «visione interpretativa» della realtà religiosa, che diventa una
«realtà trascendente», non attuale, immediata, senza tuttavia mai dimenticare
che occorre sempre partire dalla realtà attuale del bambino. In altri termini, il
lavoro «mediativo» dell’insegnante consiste in primo luogo nell’aver esso stesso
compreso bene i contenuti sui quali lavorare con i bambini, ed in secondo
luogo nel comprendere concretamente quali sono le modalità e le strategie
esperienziali, linguistiche, relazionali, semantiche... che il bambino attiva nel suo
incontro con il contenuto che gli viene proposto.
Rimanendo nell’ambito del contenuto esposto negli schemi soprariportati, si
presenta un esempio di analisi, studio e approfondimento preliminare da parte
dell’insegnante, come «proprio sapere», organizzato in una mappa concettuale.
Nella prima parte di tale mappa viene fatta un’analisi del testo della Genesi 1,1-
31; 2,1-4 secondo il paradigma esegetico, e nella seconda parte l’analisi ricalca il
paradigma ermeneutico, interpretativo e di attualizzazione.

Capitolo 19 pag. 305


Nella prima parte di tale mappa viene fatta un’analisi del testo della Genesi 1,1-
31; 2,1-4 secondo il paradigma esegetico, e nella seconda parte l’analisi ricalca il
paradigma ermeneutico, interpretativo e di attualizzazione.

Esempio analisi esegetica - sapere adulti

Obiettivo specifico:
Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani
e da tanti uomini religiosi dono di Dio Creatore
I verbi con cui le cose Il linguaggio biblico
vengono messe in ordine Genesi 1,1-31; 2,1-4
sono «creare» = «bara’ – VI 1,24-31 La terra produca esseri
verbo usato solo da Dio. Dio ha messo viventi secondo la loro specie:
I «verbi» del linguaggio ordine nel mondo bestiame, rettili, bestie selvati-
biblico nella creazione: = Creare che... Dio creò l’uomo a sua
Genesi 1,1-31 immagine: maschio e femmina
Dio li creò. Li benedisse e disse loro:
1,1-5 In principio «Siate fecondi e riempite la ter-
I creò il cielo ra... soggiogatela e dominate
e la terra VII 2,1-4 Così furono portati sui pesci del mare e sugli uccel-
a compimento il cielo, la li del cielo e su ogni essere vi-
1,6-8 Sia il firmamento terra e tutte le loro schie- vente...»
II il mezzo alle acque re... Dio benedisse il setti-
per separare le acque mo giorno e lo consacrò...
dalle acque... 1,20-23 Le acque brulichino di
esseri viventi e gli uccelli volino
1,9-13 Le acque che sono V sopra la terra, davanti al firma-
sotto il cielo, si raccolgano mento del cielo...
in un sol luogo
III e appaia l’asciutto...
La terra produca germogli, IV 1,14-19 Ci siano luci nel firmamento
erbe che producono seme del cielo, per distinguere il giorno
e alberi da frutto... dalla notte... E fu sera e fu mattina...

305

Capitolo 19 pag. 305


Esempio analisi ermeneutica - sapere adulti

Dio
Genesi 1,1-31; 2,1-4 ha messo ordine Attualizzazione
nel mondo

Il bambino prende coscienza


Il nostro Dio è un Dio creatore... Abitare via via del suo spazio vitale
il Dio di tutti, il Dio che ha inventato il tempo... il tempo e lo e del tempo, che rappresentano
che crea lo spazio e lo va ad abitare... spazio due aspetti-cardine per orientarsi,
capire, vivere...
Creare significa biblicamente
«mettere ordine - porre - benedire - separare - Mettere ordine esterno significa
Identità/ un po’ alla volta creare un
porre limiti... includere cielo e terra... Responsabilità ordine interno, acquisire
porre una grande cornice...» un senso del sé nel mondo...

Dio entra nella storia umana, dentro le L’adulto-educatore


strategie umane e le cambia – non le butta via. Co-respon- entra in sintonia con gli alunni,
Dio non distrugge mai, ma costruisce sabilità rispettandoli nelle loro strategie
con l’uomo, dentro la sua storia umana... di manifestazione...

Dopo aver creato tutte le cose e l’uomo, Non L’attività di «accompagnamento»


Dio cammina con lui, lo accompagna nelle sue «imperare» dell’insegnante è oggi più che mai
dimore con amore, dandogli dei limiti ma non ma necessaria, nella forma e sostanza
in forma «imperativa»... non si lascia scalfire «indicare» del «narrare» piuttosto
dall’infedeltà del suo popolo... ha pazienza... che in quella del «comandare»!

Una volta chiariti i propri quadri concettuali, occorre organizzare il contesto


(tempi, spazi, modalità di raggruppamento dei bambini, strumenti didattici...); ed
attivare le forme e le modalità di relazione «d’aula».
Una19
Capitolo delle
pag.forme
306 della comunicazione e della relazione scolastica ritenute og-
Una volta chiariti i propri quadri concettuali, occorre organizzare il contesto
(tempi, spazi, modalità di raggruppamento dei bambini, strumenti didattici...); ed
attivare le forme e le modalità di relazione «d’aula».
Una delle forme della comunicazione e della relazione scolastica ritenute oggi
importanti è quella della «narrazione», considerata strategia fondamentale
per coinvolgere vivamente ogni bambino e dargli la possibilità di inserirsi
significativamente nel contesto e nel contenuto.
Il raccontare e raccontarsi è ritenuta oggi, grazie alle conoscenze scientifiche di
cui possiamo disporre, la modalità più coinvolgente e significativa di approccio al
sapere.
Grazie a tale modalità, infatti, è possibile creare uno speciale rapporto tra
narratore e ascoltatore che si arricchisce continuamente di interesse e di
attenzione reciproci.
La funzione narrativa va anche oltre l’aspetto propriamente linguistico ed
assume una funzione psicologica e cognitiva in quanto fornisce al soggetto gli
strumenti per imparare a dirsi, a dire il mondo, oltreché a vederlo, capirlo ed
interpretarlo.
«Il bambino che sa ascoltare con attenzione mette in moto processi mentali
molto simili a quelli che usa un lettore esperto: egli recepisce ed elabora
mentalmente il flusso del linguaggio per dar ordine alle idee di cui seleziona le
più importanti, conservando quelle di sostegno, sopprimendo quelle irrilevanti e
dare a tutte il giusto ruolo per riuscire a comprendere appieno il messaggio». (A.
MELUCCI, La lettura nell’età dell’informatica, in Leggere/Ascoltare, Messina, Armando Siciliano
Editore, 1988, p. 19.)
Partire come primo approccio dalle «narrazioni» dei bambini costituisce davvero
una strategia motivazionale molto interessante. Chi ha esperienza di rapporti
scolastici con bambini di questa età sa che parlare loro di natura, di animali, di
piante, del mondo, del creato e del Creatore... è come spalancare una grande
Capitolo 19 pag. 306/307
porta e andare a toccare le corde delle loro emozioni ed esperienze più profonde,
vere e sentite... Non occorre tanta fantasia all’insegnante per realizzare queste
Unità di apprendimento e raggiungere gli obiettivi formativi previsti, a patto che
l’insegnante stesso sappia dare libero corso ed ascolto alle «narrazioni» che
i bambini sono capaci di fare, dentro le quali mettono tutto il loro esserci! Con
questo non si pensa affatto ad esperienze disorganizzate, spontaneistiche:
l’insegnante ha il compito della «regia educativa», come recitano gli Orientamenti
’91, che si traduce concretamente nella capacità di allestire tutte le condizioni
affinché ogni bambino e tutti i bambini possano davvero divenire «attori e
protagonisti del proprio apprendere e divenire».
Allestire le condizioni significa pensare ad approcci significativi, accattivanti
– una breve lettura - qualche immagine - una poesia - domande-stimolo - attività
di brainstorming... – e «coordinare» con intelligenza i vari passaggi, facendo
attenzione alle reazioni di ciascun piccolo.
È importante poi anche raccogliere ed organizzare, durante le attività ed alla
fine di ogni percorso, quei materiali che documentano e raccontano le fasi del
percorso stesso, anzitutto per i bambini che godono sempre quando il loro lavoro
viene valorizzato, ed anche per le famiglie, che possono in tal modo verificare il
cammino di acquisizione delle competenze dei loro figli.
Questo aspetto è particolarmente rilevante per l’IRC, perché i genitori hanno
modo di entrare nelle «dinamiche educative» che animano gli insegnanti
nell’esercizio della loro funzione, e si rendono conto di persona che questo
insegnamento concorre davvero alla formazione integrale dei loro figli, accanto
alle altre attività, scalzando in tal modo concretamente ogni «pregiudizio» che
vede talvolta in questo intervento una volontà di «indottrinamento precoce» da
parte della scuola, a nome della Chiesa.
Per questo l’insegnante che si rende «disponibile» all’IRC, ed ancor più
l’insegnante «specialista» di RC assumono, in questa loro decisione, la
Capitolo 19 pag. 307
responsabilità di connotare culturalmente le esperienze-attività dei bambini...
che vuol dire, in concreto, la volontà di operare in tutti i modi affinché i bambini
possano fare esperienze, agire e soprattutto «capire» quello che stanno facendo
e perché lo fanno.
Questo è non solo possibile, ma doveroso da parte dell’IdR!

Capitolo 19 pag. 307


CAPITOLO 20

IL PROGETTO IRC NELLA SCUOLA PRIMARIA


Giuseppina Zuccari

In relazione a quanto esplicitato al capitolo 18, in riferimento sia alla Scuola


dell’Infanzia e sia alla Scuola Primaria, il progetto viene presentato in due parti e
secondo due approcci:
1. I Programmi Sperimentali CEI per la Scuola Primaria;
2. Gli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della religione
cattolica nell’ambito delle indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati .

PRIMA PARTE: I Programmi Sperimentali per la Scuola Primaria

1. I programmi sperimentali CEI

Orientamenti generali, natura e finalità

L’insegnamento della RC si inserisce nel quadro delle finalità della scuola, e


contribuisce alla formazione integrale degli alunni, con particolare attenzione alla
loro dimensione religiosa, attraverso contenuti di valenza culturale.
È realizzato con specifiche e autonome attività, in base alle esigenze dell’alunno,
del suo sviluppo socio-affettivo, psicologico e spirituale, letto e interpretato
secondo i principi del cattolicesimo. L’insegnamento della religione cattolica
Capitolo 20 pag. 308
negli anni della scuola elementare e della scuola media inferiore (Si fa presente
che il documento è stato redatto in prima battuta nel 1998, e poi rivisto durante il biennio della
Sperimentazione, in concomitanza con i lavori parlamentari sulla Legge di riordino dei Cicli
Scolastici, approvata dal Senato nel 2000 – L. n. 30 – ora abrogata. Il Riordino dei Cicli prevedeva
la «fusione» dell’attuale scuola elementare e media in un unico ciclo «primario», comprendente
l’età 6-13 anni. La Legge Delega n. 53 del 2003 supera questa struttura e prevede il quinquennio
della scuola primaria, così suddiviso: 1° anno (prima classe); 1° biennio (seconda e terza classe);
2° biennio (quarta e quinta classe). Il documento CEI per il momento rimane invariato, in attesa
di una più chiara definizione del quadro architettonico del sistema scolastico italiano. Nell’analisi
pertanto si fa riferimento al documento programmatico, con particolare attenzione alla fascia di
età della scuola primaria.) si svolge secondo criteri di continuità e di progressività tra
la scuola dell’infanzia e del ciclo secondario, attraverso percorsi che prevedono
arricchimenti e approfondimenti.
In continuità e in collaborazione con l’azione educativa della famiglia, delle
altre istituzioni e delle agenzie che collaborano con la scuola e la famiglia, tale
insegnamento offre il suo specifico contributo affinché la scuola realizzi appieno
il suo progetto educativo e concorre, unitamente agli altri insegnamenti, al
raggiungimento dei successi formativi, con particolare attenzione agli alunni in
difficoltà.
Sempre più l’IRC assume e dovrà assumere, nel sistema scolastico italiano,
la stessa dignità delle altre discipline, per il suo peculiare carattere di
«significatività».
Viene evidenziato il valore pedagogico e didattico della continuità educativa,
intesa sia in senso orizzontale – all’interno delle singole scuole – sia in senso
verticale – in continuità con la scuola dell’Infanzia e la Scuola Media, e nei
rapporti con l’esterno – famiglia, comunità sociale e civile... –.
La disciplina Religione Cattolica con i suoi contenuti specifici viene considerata
una componente essenziale della cultura italiana; essa è infatti presente nelle
Capitolo 20 pag. 308/309
sue forme ed espressioni letterarie, artistiche, storiche; rappresenta inoltre uno
dei tratti costitutivi della vita civile e umana degli italiani.
Il suo insegnamento deve essere conforme alla dottrina della Chiesa ed in
coerenza con lo sviluppo psicologico, culturale e spirituale degli alunni che si
aprono all’interesse religioso. Nella scuola primaria è fondamentale aiutare
l’alunno a porre attenzione alla realtà ed a leggerla in chiave religiosa, attraverso
i segni dell’ambiente, cercando anche di stabilire un confronto fra il dato cattolico
e gli altri credo religiosi.

Obiettivi

Gli obiettivi (La legge «Moratti» non dà indicazioni circa l’impianto curricolare (se non per
l’accenno ai piani di studio personalizzati). In attesa dell’emanazione dei decreti legislativi
attuativi della legge delega, dovrebbero valere le Indicazioni (e le Raccomandazioni) che già
hanno costituito il quadro di riferimento della sperimentazione promossa con il D.M. n. 100 del 18
settembre 2002. L’impianto è il seguente:
• il MIUR definisce (secondo quanto previsto dall’art. 8 del Regolamento sull’autonomia DPR 275/
1999): gli obiettivi generali del processo formativo e gli obiettivi specifici di apprendimento relativi
alle competenze degli alunni (attualmente i documenti di riferimento in tal senso sono Il profilo
educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione (6-14 anni)
e le più volte citate Indicazioni;
• la scuola, anzi l’équipe pedagogica di classe, interpreta gli obiettivi specifici di apprendimento in
base alla situazione generale e addirittura in base alla situazione specifica di ciascun alunno e li
riformula come “obiettivi formativi”; nelle Indicazioni si afferma che gli obiettivi sono formativi nella
misura in cui possono essere percepiti dall’alunno e dalla sua famiglia come traguardi significativi e
importanti per la propria crescita individuale.
La scuola, ispirandosi agli obiettivi formativi, predispone i Piani di Studio Personalizzati (PSP),

Capitolo 20 pag. 309


costituiti da Unità di Apprendimento; non si tratta di unità didattiche mirate al conseguimento di
singoli obiettivi, come nella tradizione della programmazione per obiettivi classica; nelle Indicazioni
si avverte che l’ordine di presentazione degli obiettivi non corrisponde all’ordine con cui poi
verranno svolti con gli allievi; inoltre, la metafora dell’ologramma suggerisce l’idea di percorsi unitari.
Viene riportato, per ulteriore chiarezza, qualche significativo passaggio delle Raccomandazioni.
«...Nella prima classe e nel primo biennio della Scuola Primaria i fanciulli iniziano a sperimentare
le prime forme di organizzazione delle conoscenze, utilizzando il loro personale patrimonio,
ricco di precomprensioni dei fenomeni e delle azioni, di conoscenze ed abilità. In questi anni,
essi vengono accompagnati, senza fare riferimento allo statuto delle discipline, nel passaggio
da una visione del mondo legata ad un patrimonio di cultura e di comportamenti strettamente
legati alla loro esperienza ad una prima consapevolezza delle categorie presenti nelle discipline
di studio che raccolgono e danno significato a ciò che essi vivono e che via via apprendono...
Introdurre gradualmente gli alunni e le alunne alle discipline significa, quindi, aiutarli a passare
senza forzature dalla loro modalità di leggere la propria ed altrui esperienza ad una modalità più
intersoggettiva e condivisa. Significa, inoltre, abituarli a cogliere e ad usare modi e strumenti
logici per loro nuovi ma altrettanto significativi, di elaborare curiosità, esperienze, conoscenze,
inquadrandoli in un sistema all’interno del quale la parte si lega al tutto e il tutto non si dà se non
come parte».
indicati dal testo CEI sono in sintonia con la natura e le finalità educative della
scuola primaria; sono volti in particolare alla sfera della personalità degli alunni
negli aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, sociali e spirituali, che i contenuti della
religione cattolica contribuiscono in maniera positiva ed efficace a sviluppare e
maturare. Essi riguardano: I - La maturazione della ricerca di verità che dà senso
all’esistenza umana, nel confronto con i grandi perché della vita, con le risposte
offerte ad essi dalle religioni, in particolare dalla rivelazione cristiana, nel rispetto
di coloro che fanno scelte religiose e di vita diverse dalle proprie.
II - La padronanza delle conoscenze fondamentali, delle linee essenziali e degli
avvenimenti importanti della storia della salvezza, con particolare attenzione al

Capitolo 20 pag. 310


documento biblico e alle sue coordinate geografiche, storiche e culturali.
III - La consapevolezza che la religione cristiano-cattolica ha come centro la
persona, l’opera e il messaggio di Gesù Cristo, rivelatore del mistero trinitario,
sulla base della testimonianza della Bibbia e dell’insegnamento della Chiesa.
IV - La comprensione del rapporto esistente tra il mistero pasquale di Gesù,
le origini della Chiesa e la sua vita nella storia, in rapporto alle fonti della fede
cristiana.
V - La conoscenza dell’azione dello Spirito Santo nella storia, e l’apprezzamento
dei valori morali, delle scelte di vita e dei comandamenti cristiani, in quanto
capaci di contribuire alla realizzazione del bene delle persone e della società.

Nuclei tematici

Sono nuclei-contenuti (Nel documento Raccomandazioni, troviamo scritto: «...Al fine di


mantenere la maggior coesione possibile tra i vari percorsi di apprendimento, possono essere
utilizzati alcuni nuclei esperienziali unitari dai quali far scaturire le conoscenze e le abilità
presenti nelle Indicazioni Nazionali e attorno ai quali via via poi collocarle ed ordinarle fino a
quando non raggiungeranno l’autonomia dell’ordinamento disciplinare... Nel secondo biennio
della Scuola Primaria si definisce il passaggio che porta alla consapevolezza del linguaggio
della disciplina come elemento ordinatore e formale dell’esperienza... Concluso l’itinerario
formativo che ha avviato i fanciulli a scoprire riflessivamente, all’interno della loro esperienza
personale e socio-ambientale, la funzione interpretativa e ordinatoria delle diverse discipline è
possibile, a partire dal secondo biennio, cominciare a coniugare senso globale dell’esperienza
e rigore disciplinare, organicità interdisciplinare e analisi sistemica delle singole discipline...».)
fondamentali del messaggio cristiano. Sono presentati ed organizzati tenendo
conto della «continuità-progressività», che significa centralità del soggetto-alunno
nell’apprendimento, nell’approfondimento, nello sviluppo e consolidamento delle
Capitolo 20 pag. 310
conoscenze acquisite.
Contenuto fondamentale della religione cattolica è la figura e l’opera di Gesù
Cristo, testimoniata dalla Scrittura e dalla Tradizione. L’impostazione dell’ipotesi
sperimentale è pertanto «cristocentrica»: ogni contenuto viene affrontato a partire
da Gesù Cristo.fondamentale della religione cattolica è la figura e l’opera di Gesù
Contenuto
Cristo, testimoniata dalla Scrittura e dalla Tradizione. L’impostazione dell’ipote-
si sperimentale è pertanto «cristocentrica»: ogni contenuto viene affrontato a par-
Criteri
tire da metodologici
Gesù Cristo. ed organizzativi

Nuclei tematici Scuola Primaria

I
I grandi perché della vita aprono alla scoperta di Dio che per i cristiani è il Dio rivelato in Cristo

II
Il significato della nascita di Gesù secondo i Vangeli e nella storia della salvezza

III
La vita terrena di Gesù e l’annuncio del suo Vangelo rivelano il volto di Dio

IV
La Pasqua: morte e risurrezione di Gesù centro dell’anno liturgico e della religione cristiana

V
La comunità dei credenti in Gesù Cristo risorto animata dallo Spirito Santo
è inviata nel mondo a diffondere un messaggio che cambia la storia

Nella programmazione delle attività è necessario mantenersi costantemente


agganciati alle finalità proprie della scuola primaria, volte alla crescita della
Criteri metodologici
persona, attraverso una ed didattica
organizzativi
capace di valorizzare il confronto e il
coinvolgimento
Nella programmazione delle attivitàeèdelle
degli alunni, dei genitori agenziemantenersi
necessario educative presenti sul
costantemente
agganciati alle finalità proprie della scuola primaria, volte alla crescita della
Capitolo
persona,20attraverso
pag. 311 una didattica capace di valorizzare il confronto e il coinvol-
territorio.
La costruzione di percorsi didattici coerenti con le finalità, gli obiettivi e i nuclei
tematici richiede opportuni momenti di verifica e di valutazione. I criteri da
privilegiare nella programmazione sono i seguenti:
– valorizzazione dell’esperienza personale, sociale, culturale dell’alunno;
– uso graduale dei documenti della religione cattolica: la Bibbia, in particolare i
Vangeli, integrati da opportuni testi della Tradizione, con attenzione ai principali
documenti del Concilio Vaticano II;
– approccio significativo ai segni e ai simboli della cultura religiosa della Chiesa e
del nostro Paese;
– incontro con testimoni della storia o dell’oggi che propongano in modo
significativo i valori religiosi;
– conoscenza e confronto con altre tradizioni religiose.
I criteri indicati consentono quindi una costante correlazione tra esperienza
personale e insegnamento della religione cattolica. Essi rivelano la dimensione
religiosa del vissuto e permettono di cogliere la portata umanizzante della cultura
cristiana; pertanto contribuiscono alla realizzazione graduale e responsabile del
progetto di vita degli alunni.
Per quanto riguarda l’organizzazione delle attività, tenendo conto dell’attuale
oganizzazione scolastica, (Si fa presente che in questo ultimo decennio la scuola
elementare ha cambiato in modo strutturale la sua organizzazione interna, in relazione soprattutto
al mutamento della concezione degli insegnamenti da impartire e della conseguente mutata
concezione del rapporti insegnamento/apprendimento.
Il cambiamento più significativo si registra con la L. 148/90, che introduce una pluralità di figure
docenti con compiti per aree disciplinari. La riforma della L. 148 ha rappresentato una svolta
«epistemologica» per la scuola elementare, ed ha richiesto molto tempo e grandi investimenti
per entrare nella cultura professionale degli insegnanti. In seguito alla Legge delega n. 53/2003 e
soprattutto al D.M. n. 100/2002 si prevede un ulteriore cambiamento nell’organizzazione scolastica,

Capitolo 20 pag. 311


con interventi nel gruppo-classe per il «curricolo comune» (docenti di ambiti disciplinari), ed in
attività di laboratorio che richiede la collaborazione fra docente tutor e responsabile di laboratorio.
In questa nuova prospettiva, l’insegnante di Religione Cattolica e quello della lingua straniera
rimangono gli unici veri «specialisti» e operano in tutte le classi.)
l’IRC si inserisce nel contesto con la sua specificità, e segue anche una propria
organizzazione oraria – due ore settimanali per ogni classe.
Il testo CEI prevede che il percorso di ogni livello – classe – sia costituito da
una quota nazionale di curricolo di 5 nuclei tematici, per la trattazione dei quali
sono fornite le matrici progettuali, e da altri nuclei tematici, fino al massimo di
tre, da dedicare alla quota locale obbligatoria, con attenzione alla storia di fede
e al patrimonio artistico-religioso locale. Alla sua costituzione potrà contribuire la
Comunità diocesana, attraverso gli organismi competenti per l’IRC, suggerendo
la trattazione di nuclei tematici particolarmente importanti, da trattare con
adeguate matrici progettuali.
Gli aspetti di «contesto» e di «struttura» del progetto di IRC per la scuola
primaria, che vanno considerati «fuochi» basilari sui quali dover lavorare, sono
pertanto:

1. il riferimento al «contesto scolastico»


2. il riferimento alle fonti ed ai sistemi simbolico-culturali dell’IRC
3. gli approcci metodologico-didattici.

Capitolo 20 pag. 312


3. gli approcci metodologico-didattici.

La centralità dell’alunno
nei processi scolastici
postula dal docente di IRC
attenzione:
Al contesto
scolastico Alle fonti e ai sistemi Agli approcci
come luogo dove le azioni simbolico-culturali metodologico/didattici
educative-istituzionali dell’IRC considerati
si realizzano nonché agli intrecci sia sotto il profilo
nell’intreccio dinamico interculturali ed interreligiosi delle «competenze mediative»
dei rapporti fra i vari soggetti. che si realizzano del docente
Se l’IRC non trovasse negli incontri culturali, sia sotto quello
collocazione sensata e che offrono contenuti dell’offerta di strumenti di lavoro,
all’interno per l’argomentazione, da concepirsi
del contesto scolastico, il confronto, la sintesi finale, come «facilitatori»
risulterebbe un qualcosa dai quali possa emergere dei processi
di avulso, di estraneo, in modo più chiaro e specifico dell’insegnare-apprendere.
di non pertinente, l’identità stessa dell’IRC.
di non sensato.

2. Il4 Si
progetto annuale
fa presente della
che in questo religione
ultimo decenniocattolica nella scuola
la scuola elementare primaria
ha cambiato in modo struttu-
rale la sua organizzazione interna, in relazione soprattutto al mutamento della concezione degli in-
segnamenti
Il progettodaannuale
impartiredell’IRC
e della conseguente mutata
va collocato concezionedel
all’interno delPOF
rapporti
perinsegnamento/appren-
qualificarlo
dimento. Il cambiamento più significativo si registra con la L. 148/90, che introduce una pluralità di
maggiormente e connotarlo in senso scolastico. Attraverso lo schema
figure docenti con compiti per aree disciplinari. La riforma della L. 148 ha rappresentato una svolta
predisposto,
«epistemologica» è possibile
per la scuolaricavare le ed
elementare, iniziative progettuali
ha richiesto molto tempoche, soprattutto
e grandi all’inizio
investimenti per en-
dell’anno scolastico, il collegio dei docenti realizza, come piano di riferimento
trare nella cultura professionale degli insegnanti. In seguito alla Legge delega n. 53/2003 e soprattutto
valoriale, educativo
al D.M. n. 100/2002 e didattico
si prevede delle cambiamento
un ulteriore quotidiane attività scolastiche,
nell’organizzazione e sul quale
scolastica, si
con inter-
venti nel gruppo-classe
confronta per ileventuali
in itinere per «curricolo comune» (docenti di ambiti disciplinari), ed in attività di la-
aggiustamenti.
boratorio chedel
All’interno richiede
POF,ladunque,
collaborazione
vanno fracollocate,
docente tutorin emodo
responsabile di laboratorio.
essenziale, le In questa
nuova prospettiva, l’insegnante di Religione Cattolica e quello della lingua straniera rimangono gli
unici veri20
Capitolo «specialisti»
pag. 312/313e operano in tutte le classi.
ta in itinere per eventuali aggiustamenti.

POF e progettazione annuale scuola primaria

Programmi
– organizzazione del conte- di Religione Cattolica
sto scolastico, concepito
nei suoi elementi struttu-
rali; Asse interno, specifico
– organizzazione dei gruppi
classe, secondo le disposi- A B
zioni dell’autonomia orga-
nizzativa e didattica e le
norme dell’Intesa; Autonomia;
Centralità dell’alunno; rapporti;
– organizzazione delle atti- Professionalità
vità di Religione Cattolica negoziazioni;
con particolare attenzione
alle fonti ed ai sistemi sim- integrazioni.
Attivazione
bolico-culturali propri, spe- di ogni forma
cificatamente per ciascuna A di relazioni
delle cinque classi della Asse esterno,
B e cooperazioni
scuola primaria, secondo i integrativo interne/esterne,
«nuovi Programmi»; congruenti
con le finalità
– attivazione di congruenti della scuola.
approcci metodologico-
didattici.

«macroattività » che verranno poi via via sviluppate in percorsi didattici durante
All’interno
l’anno delQuesta
scolastico. POF, dunque, vanno collocate,
progettazione in modo essenziale,
è molto importante, le «macro-
in quanto disegna le
attività» che verranno poi via via sviluppate in percorsi didattici durante l’anno
coordinate valoriali, pedagogiche, epistemologiche ed organizzative della scuola
scolastico.
concreta Questa
nella progettazione
quale è molto
si opera, senza importante,
enfatizzazioni in quanto disegna le coordi-
o banalizzazioni.
nate valoriali, pedagogiche, epistemologiche ed organizzative della scuola con-
creta nella quale si opera, senza enfatizzazioni o banalizzazioni.

La costruzione di percorsi didattici


Capitolo 20 pag. 313
La costruzione di percorsi didattici

La sperimentazione CEI ha realizzato esperienze significative a partire dalle


«matrici progettuali» nell’organizzazione di un percorso didattico, in quanto esse
sono state considerate «strumento intermedio fra il programma-indirizzi e la
programmazione».
Nella realizzazione didattica dei percorsi l’insegnante si può riferire a vari
modelli: l’importante è impostare il lavoro secondo i criteri pedagogici esigiti dalla
scuola primaria e rispettare la necessaria gradualità, non perdendo mai di vista la
finalità ultima del suo intervento, che è quella di consentire a ciascun alunno un
«apprendimento significativo».
In un contesto scolastico che cerca di divenire sempre più luogo e centro di
elaborazione e costruzione dei saperi da parte del soggetto-alunno, diviene,
soprattutto per l’intervento di RC, priorità didattica fare in modo che gli alunni
si «rendano conto» del proprio apprendimento – «metacognizione» – e
mantengano così sempre molto alta la loro motivazione ad apprendere. Imparare
infatti significa non solo acquisire nuovi elementi di conoscenza, ma anche capire
qualcosa della situazione di apprendimento.
La metacognizione viene infatti definita dagli studiosi come la facoltà che ha
la persona di riflettere sui propri atti di pensiero; nell’ottica scolastica è molto
importante, in quanto presiede alla capacità di studiare e di apprendere.
Il modello metacognitivo viene concepito come «...uno spazio - uno spazio
teorico - uno spazio di ricerca - uno spazio applicativo per gli insegnanti». (R. DE
BENI, in G. PICCOLI (a cura di), Metacognizione e processi cognitivi, Atti del Convegno, Verona
23-24 maggio 1997, Caselle di Sommacampagna, Verona, Cierre Grafica, 1999, p. 26.) Fra
metacognizione ed apprendimento esiste un rapporto di stretta connessione, in
quanto il soggetto che apprende diviene capace di riflettere sul «suo processo di
apprendimento».
Capitolo 20 pag. 313/314
Riferirsi al modello metacognitivo può risultare davvero importante per l’IRC, in
quanto tale modello si fa carico non solo di ciò che è «esternabile» ma anche
e soprattutto dell’interiore che cresce e si modifica: esso entra nell’intimità del
soggetto che diviene «attivo-protagonista» del proprio apprendere in tutte le
possibili dimensioni.
Cornoldi, (C. CORNOLDI, in Metacognizione e processi cognitivi, cit., pp. 11-17.) presenta
importanti riflessioni sul modello teorico e didattico della metacognizione;
sintetizzo in modo essenziale gli elementi base che strutturano tale modello:

a. la riflessione sulle proprie strategie di apprendimento;

b. il controllo sui processi di apprendimento: riflessione e controllo


rappresentano i due grandi poli dell’ambito metacognitivo;

c. l’analisi degli errori, non tanto focalizzata sull’errore in sé, di nozione, quanto
sull’errore di procedure; è fondamentale, per l’insegnante, prevenire questi
errori innanzitutto sul piano personale e in secondo luogo nei confronti degli
alunni, a partire dai più piccoli. È risaputo e scientificamente attestato, infatti,
come l’apprendimento di una cosa sbagliata sia difficilissimo da correggere. È
veramente importante capire come si è prodotto l’errore, e soprattutto mettere in
atto ogni strategia relazionale e comunicativa positiva per aiutare a comprendere
questi errori di procedura;

d. la cattura dell’attenzione dell’alunno sulle strategie didattiche che si adottano


per un apprendimento significativo, anticipando modalità, difficoltà... In questa
ottica, «la strategia è un esempio sistematico di processo di controllo; il controllo
generale è rappresentato dal fatto che io controllo le operazioni cognitive che sto
facendo»; (C. CORNOLDI, in Metacognizione e processi cognitivi, cit., p. 14.)
Capitolo 20 pag. 314
e. riferire obiettivi, comportamenti e risultati ai processi mentali implicati.
Questa modalità consente al soggetto alunno un impatto positivo su nuovi
apprendimenti, attivando strategie di transfert significative che gli consentiranno
di sfruttare i benefici degli apprendimenti precedenti per estenderli su situazioni
nuove ed aperte (scuola, extrascuola...);

f. rendere la comunicazione interattiva: «...più interattività c’è più si sviluppa


la capacità di apprendere... di mettersi nella testa degli altri per capire il
funzionamento “altro”... più aumenta la capacità di analizzare come la mente
funziona e lavora... non esiste un unico modo di imparare...)»; (C. CORNOLDI, in
Metacognizione e processi cognitivi, cit., p. 15.)

g. promuovere l’autoregolazione: nell’autoregolazione si richiede di sviluppare


abilità di controllo fini, sensibili ai cambiamenti. Diventa una sorta di «termostato
» psicologico che rende il soggetto stesso sensibile ai cambiamenti negli stati dei
suoi processi di apprendimento, per cui si rende accorto quando sta imparando
per procedere in quella direzione, e s’accorge quando sta entrando in difficoltà
per cui cambia modo di imparare.

«Un soggetto che ha buona autoregolazione riconosce la strategia giusta,


riconosce quando il suo sistema cognitivo/emozionale è in empasse, riconosce
cosa può fare per cambiare il suo stesso processo di apprendimento». (C.
CORNOLDI, in Metacognizione e processi cognitivi, cit., p. 16.) Nel modello metacognitivo
è incluso anche l’aspetto della narratività, teorizzato in modo importante dallo
stesso Bruner, (J. BRUNER, La mente a più dimensioni, Bari, Laterza, 1988.) il quale
sottolinea come la ricerca del significato, nei processi della metacognizione,
si fonda e si stratifica nella mente umana in corrispondenza dell’avanzare e
dell’evolvere del pensiero narrativo.

Capitolo 20 pag. 314/315


SECONDA PARTE:
Gli obiettivi specifici di apprendimento propri dell’insegnamento della
religione cattolica nell’ambito delle indicazioni nazionali per i piani di
studio personalizzati

La CEI, d’Intesa con il MIUR, ha presentato alla Scuola Primaria questi «obiettivi
specifici», inserendoli con «organicità» nel più ampio progetto che specifica la
Scuola Primaria stessa. (Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla parte di presentazione
generale del progetto, dal titolo: Programmi CEI per la Scuola dell’Infanzia e la Scuola Primaria:
le scelte pedagogico-didattiche, in questo testo.) L’IRC è entrato così, dalla «porta
centrale», nel complesso del curricolo scolastico di questa scuola, assumendone
pienamente gli obiettivi educativi e formativi e proponendosi come «concorrente»
con il proprio specifico alla formazione degli alunni di questo grado scolastico.
Esso si offre infatti come disciplina curricolare, in grado di favorire esperienze
che aprano al «senso esistenziale» ed alle aperture della propria vita interiore,
spirituale.
Per questo è importante fare alcune sottolineature in riferimento alla L.
53/2003 e all’IRC, soprattutto negli aspetti della didattica e dell’organizzazione
dei percorsi scolastici:

– Struttura-contesto della scuola primaria:


la scuola primaria, della durata di cinque anni, si inserisce nel 1° ciclo del
sistema educativo di istruzione e formazione, assieme alla scuola secondaria di
primo grado; assume formalmente la denominazione di «scuola primaria», e si
articola in un primo anno – prima classe –, ed in due «periodi didattici» biennali:

Capitolo 20 pag. 315/316


primo biennio – classe seconda e terza; 2° biennio – classe quarta e quinta. Il
primo anno viene finalizzato in particolare – anche se non in modo esclusivo
– all’acquisizione delle strumentalità di base; per i due bienni si pone il problema
del rapporto fra il ruolo dell’esperienza dell’alunno e quello delle discipline, e
quindi la necessità di prevedere gradualmente il passaggio dall’esperienza
direttamente vissuta alla sua ricostruzione intellettuale, mediante gli strumenti
offerti dalla cultura, in una logica progressione che va dalla prima alla quinta
classe. Nel testo della legge non si parla di discipline, mentre questo aspetto lo
si trova nelle ipotesi del D.M. 100/2002 sulla sperimentazione, che prevede un
primo emergere delle discipline nel secondo biennio. Anche gli Obiettivi specifici
di RC si inseriscono in questo quadro organizzativo e didattico;

– Le attività didattiche della classe prima


debbono contemperare l’esigenza di assicurare un soddisfacente livello di
acquisizione delle abilità strumentali di base con quella di proseguire nella
costruzione delle «fondamenta» dell’alfabetizzazione culturale, già avviata
nella scuola dell’infanzia attraverso le attività-esplorazioni proprie di ogni
campo di esperienza. Per l’IRC, gli OSA forniscono la mappa degli obiettivi
di apprendimento da far acquisire ai bambini a partire dal proprio mondo di
esperienze. I percorsi didattici pertanto vanno pensati ed ideati allo scopo di
realizzare una efficace sintesi fra l’apporto della «disciplina» e l’esperienza degli
alunni. Attraverso l’attività della programmazione, inserita all’interno del più vasto
progetto del POF, occorre procedere alla definizione mirata degli obiettivi, alla
selezione dei contenuti e delle esperienze, alla ideazione dei percorsi, alla scelta
degli strumenti e degli stili didattici maggiormente adeguati alla specificità di
questa età di bambini di prima classe. Nell’ambito dell’IRC è importante attivare
la «didattica dello stupore del bello, del buono, della festa» per promuovere la
Capitolo 20 pag. 316
motivazione, l’interesse e la partecipazione di ciascun alunno;

– Le attività didattiche del primo biennio – classe seconda e terza –


si debbono caratterizzare come modalità-possibilità offerte agli alunni di
introdursi gradualmente dagli ambiti disciplinari alla «disciplina» – «obiettivi
specifici di apprendimento», per sviluppare capacità graduali di passaggio dai
loro modi soggettivi di leggere la propria ed altrui esperienza ad una modalità più
intersoggettiva e condivisa. Questo significa, in concreto, approntare tutte quelle
situazioni didattiche capaci di attivare ascolto, osservazione, scoperta, curiosità,
esperienze, conoscenze, che vanno inquadrate in un sistema all’interno del quale
la parte si lega al tutto e il tutto non si dà che come parte. Queste «strategie
» sono particolarmente significative e connaturate alla disciplina IRC, e vanno
quindi adottate senza riserve, sempreché si mantengano davvero «dentro » i loro
più autentici significati;

– Le attività didattiche del secondo biennio – classe quarta e quinta:


in questi ultimi due anni si propone il problema della «comparsa» delle discipline.
L’allievo approda sempre più alla consapevolezza che ogni disciplina si dice
attraverso i suoi «specifici linguaggi», che rappresentano elementi ordinatori
e formali dell’esperienza ricavata dalla disciplina stessa. In altri termini:
l’esperienza rimane sempre il momento fondamentale per l’attribuzione di
senso all’apprendimento; tuttavia all’esperienza stessa si aggiunge la capacità
di utilizzare adeguatamente i diversi «linguaggi disciplinari» come strumenti
di comprensione della realtà circostante e come possibilità di comunicazione
e di rappresentazione intellettuale ed emozionale che ne deriva. Con questo
non si vuole affermare assolutamente che l’impostazione didattica dev’essere
Capitolo 20 pag. 316/317
rigidamente disciplinaristica; al contrario, si vuole evidenziare come la disciplina
diventi sempre più «contenuto» essenziale alla formazione delle proprie idee,
dei propri quadri concettuali, della propria visione della vita; essa alimenta il
pensiero ed offre le necessarie «grammatiche e sintassi» per la sua costruzione
ed elaborazione. L’IRC, consapevole dell’importanza ed irrinunciabilità dei
suoi contenuti specifici, che debbono tuttavia diventare «pre-testi - strumenti di
pensiero e di formazione» per l’alunno, adotta tutte quelle strategie didattiche
congruenti a queste età; potrebbe essere importante una didattica «laboratoriale
» o per «problemi» o per «progetti», che richiede comunque l’apporto specifico
della disciplina nei suoi contenuti, e che favorisce il passaggio dal «vissuto»
alle «abilità riflessive» In questo modo la combinazione di psicologia ed
epistemologia, di esperienza e di «formalizzazione», di vita e di sapere, diventa
un progetto concreto da realizzare, nel contesto gruppo-classe o gruppo-
laboratorio, anche per l’IRC.
Agli insegnanti di IRC è oggi più che mai richiesto di essere persone significative,
capaci di suscitare interesse, emozione, positività negli alunni, attraverso il
ricorso intelligente e sensato agli Obiettivi specifici di religione cattolica, così
come sono stati presentati alle Scuole Primarie italiane.

La progettazione annuale delle attività di IRC

Viene ipotizzata una progettazione che, a partire dal POF, utilizzi tutti gli elementi
– culturali, educativi, organizzativi e didattici – come aspetti essenziali della
progettazione stessa, tenendo conto dei criteri sopra espressi.

Capitolo 20 pag. 317


POF e progettazione annuale RC scuola primaria

Asse interno, Obiettivi specifici di RC


specifico A B
Obiettivi Formativi
Autonomia;
Professionalità; Offerta di Esperienze
Progettazione situazioni significative di apprendimento
di itinerari formativi Asse esterno,
B integrativo
– scelte educative e didatti- Acquisizione
che in riferimento alle li- di competenze
nee programmatiche na-
zionali CEI-MIUR; Piani di Studio Personalizzati rapporti;
– organizzazione del proget- negoziazioni;
to nell’organizzazione del A Portfolio delle integrazioni
contesto scolastico; competenze
– organizzazione dei gruppi individuali
classe, dei gruppi labora-
torio e delle strategie di- Attivazione di ogni forma
dattiche per la realizzazio- di relazioni e cooperazioni
ne delle attività di R.C. fi- interne/esterne, congruenti
nalizzate alla fruizione di con le finalità della scuola.
esperienze significative...

Dagli
Dagli obiettivi
obiettivi specifici
specifici agli obiettivi formativi ed alla organizzazione di
Unità di apprendimento
agli obiettivi formativi ed alla organizzazione di Unità di apprendimento
Vengono presentati gli obiettivi specifici per ciascuna classe della scuola pri-
Vengono presentati gli obiettivi specifici per ciascuna classe della scuola
maria elaborati
primaria dalla
elaborati CEI.
dalla CEI.

CLASSE 1a
Capitolo 20 pag. 318
maria elaborati dalla CEI.

CLASSE 1a

– Dio Creatore e Padre di tutti gli uomini. – Scoprire nell’ambiente i segni che richiamano ai
– Gesù di Nazaret, l’Emmanuele «Dio con noi». cristiani e a tanti credenti la presenza di Dio Crea-
– La Chiesa, comunità dei cristiani aperta a tutti i tore e Padre.
popoli. – Cogliere i segni cristiani del Natale e della Pasqua.
– Descrivere l’ambiente di vita di Gesù nei suoi
aspetti quotidiani, familiari, sociali e religiosi.
– Riconoscere la Chiesa come famiglia di Dio che fa
memoria di Gesù e del suo messaggio.

1° Biennio - Classe seconda e terza

– L’origine del mondo e dell’uomo nel cristianesi- – Comprendere, attraverso i racconti biblici delle
mo e nelle altre religioni. origini, che il mondo è opera di Dio, affidato alla
– Gesù, il Messia, compimento delle promesse di responsabilità dell’uomo.
Dio. – Ricostruire le principali tappe della storia della sal-
– La preghiera, espressione di religiosità. vezza, anche attraverso figure significative.
– La festa della Pasqua. – Cogliere, attraverso alcune pagine evangeliche,
– La Chiesa, il suo credo e la sua missione. come Gesù viene incontro alle attese di perdono e
di pace, di giustizia e di vita eterna.
– Identificare tra le espressioni delle religioni la pre-
ghiera e, nel «Padre Nostro», la specificità della
318 preghiera cristiana.
– Rilevare la continuità e la novità della Pasqua cri-
stiana rispetto alla Pasqua ebraica.
– Cogliere, attraverso alcune pagine degli «Atti degli
Apostoli», la vita della Chiesa delle origini.
– Riconoscere nella fede e nei sacramenti di inizia-
zione (battesimo-confermazione-eucaristia) gli
elementi che costituiscono la comunità cristiana.

Capitolo 20 pag. 318/319


2° Biennio - Classe quarta e quinta

– Il cristianesimo e le grandi religioni: origine e svi- – Leggere e interpretare i principali segni religiosi
luppo. espressi dai diversi popoli.
– La Bibbia e i testi sacri delle grandi religioni. – Evidenziare la risposta della Bibbia alle domande
– Gesù, il Signore, che rivela il Regno di Dio con di senso dell’uomo e confrontarla con quella del-
parole e azioni. le principali religioni.
– I segni e i simboli del cristianesimo, anche nel- – Cogliere nella vita e negli insegnamenti di Gesù
l’arte. proposte di scelte responsabili per un personale
– La Chiesa popolo di Dio nel mondo: avvenimenti, progetto di vita.
persone e strutture. – Riconoscere nei santi e nei martiri, di ieri e di og-
gi, progetti riusciti di vita cristiana.
– Evidenziare l’apporto che, con la diffusione del
Vangelo, la Chiesa ha dato alla società e alla vita
di ogni persona.
– Identificare nei segni espressi dalla Chiesa l’azio-
ne dello Spirito di Dio, che la costruisce una e in-
viata a tutta l’umanità.
– Individuare significative espressioni d’arte cristia-
na, per rilevare come la fede è stata interpretata
dagli artisti nel corso dei secoli.
– Rendersi conto che nella comunità ecclesiale c’è
una varietà di doni, che si manifesta in diverse vo-
cazioni e ministeri.
– Riconoscere in alcuni testi biblici la figura di Ma-
ria, presente nella vita del Figlio Gesù e in quella
della Chiesa.

Prendendo in considerazione uno degli obiettivi specifici di RC per ciascuna


delle cinque classi, ho cercato di ipotizzare un «modello» di organizzazione che
tenga conto dei vari «passaggi procedurali» che portano dagli obiettivi specifici
al portfolio delle competenze. Tale modello rappresenta graficamente, in modo
Capitolo 20 pag. 319/320 319
sintetico ed essenziale, tutti gli elementi «strutturali» che l’insegnante dovrà poi
sviluppare in percorsi didattici, attraverso quelle strategie metodologiche che
sono più vicine all’esperienza professionale di ciascuno, purché siano congruenti
con gli obiettivi formativi posti, e realizzino davvero la «centralità dell’alunno» nei
processi di apprendimento e di appropriazione dei significati.
È un’operazione cha va comunque rivista e sperimentata, per poter
comprendere in modo corretto e significativo la nuova modalità che viene
proposta dalla riforma in atto.
Leggendo e rileggendo documenti – e riferendoli anche alle mie esperienze
– ho dunque organizzato gli «obiettivi specifici» secondo questa articolazione:
- obiettivi specifici - obiettivi formativi - articolazione in unità di
apprendimento concepite nelle due forme - epistemologica e psicologica;
ovvero: contenuto ed esperienze - Piano di Studio Personalizzato; Portfolio
delle competenze.

Capitolo 20 pag. 320


tenze.

Esempio 1a Classe

Portfolio delle competenze


(Osservazioni dell’insegnante
Obiettivi Formativi: Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
Il bambino, mediante Specifici in una cartella)
la partecipazione attiva di Apprendimento
e le esperienze della scuola,
ricostruisce la storia del Natale Gesù di Nazaret,
e ne individua i segni-simboli, Piani di Studio
l’Emanuele Personalizzati
arricchisce la sua emozionalità «Dio con noi».
ed affettività Leggere e interpretare
e si apre all’intuizione i segni cristiani del Natale
dei valori umani e cristiani Esperienze, attività di narrazione,
dell’amore, della fratellanza di comparazione,
e della solidarietà. di ricerca di segni e immagini,
di collage, di disegno...
ienze
esper
Natale, festa
Unità di apprendimento: dei cristiani e di tutti
nuti
conte
La grande La nascita
attesa a Betlemme
L’annuncio
Il censimento Il viaggio
verso Gerusalemme

Capitolo 20 pag. 320


320
Esempio 1° biennio - Classe seconda

Portfolio delle competenze


Obiettivi Formativi: Obiettivi (Osservazioni dell’insegnante
L’alunno, attraverso le attività Specifici e Raccolta dei lavori dei bambini
di studio e ricerca, comprende di Apprendimento in una cartella)
gli episodi significativi Gesù, il Messia, compimento
della vita di Gesù: delle promesse di Dio.
la chiamata degli apostoli; Cogliere, attraverso alcune Piani di Studio
il linguaggio usato per parlare pagine evangeliche, come Personalizzati
alle persone; le sue parabole; Gesù viene incontro alle
i suoi miracoli, e ne ricava attese di perdono e di pace,
un’esperienza ricca Esperienze, attività di narrazione,
di giustizia e di vita eterna di comparazione,
di significati umani e spirituali.
di ricerca di segni e immagini,
di collage, di disegno...
ienze
esper
Unità di apprendimento: Il figliol prodigo
i
enut
cont
Il seminatore
Gesù inizia ...Sceglie degli Racconta
la vita pubblica amici che lo parabole: Il buon pastore
aiuteranno...
Il buon samaritano

Capitolo 20 pag. 321


Esempio 1° biennio - Classe terza

Portfolio delle competenze


Obiettivi Formativi: (Osservazioni dell’insegnante
L’alunno, Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
attraverso le esperienze-attività Specifici in una cartella)
della scuola, sa «cogliere» come di Apprendimento
la crescita della comunità
cristiana non abbia semplici La Chiesa, il suo credo Piani di Studio
motivazioni umane, ma sia frutto e la sua missione. Personalizzati
dell’azione dello Spirito Cogliere, attraverso alcune
che continua la sua presenza pagine degli Atti degli
nella Parola annunciata. Apostoli, la vita della
Chiesa delle origini. Esperienze, attività di narrazione,
Questa realtà della Chiesa di comparazione, di studio,
primitiva diventa paradigma di ricerca, di socializzazione,
per la Chiesa di ogni tempo. di contestualizzazione...
ienze
esper
Unità di apprendimento: La Chiesa continua
enuti questa missione
cont iniziata dagli Apostoli...
La vita della
comunità iniziale: ...nell’unione ...nella frazione
erano assidui fraterna... del pane...
nell’ascolto... ...nelle preghiere

321

Capitolo 20 pag. 321


Esempio 2° biennio - Classe quarta
Portfolio delle competenze
(Osservazioni dell’insegnante
Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
Obiettivi Formativi:
Specifici in una cartella)
L’alunno comprende
che l’insegnamento di Gesù di Apprendimento
e i valori da lui proposti La Bibbia ed i testi sacri Piani di Studio
orientano la vita di un cristiano. delle grandi religioni. Personalizzati
Conosce i valori e le norme Evidenziare la risposta
che regolano la vita di chi della Bibbia alle domande
appartiene a religioni diverse di senso dell’uomo Esperienze,
e sa confrontarle e confrontarla con quella attività di narrazione,
con la proposta cristiana. delle principali religioni di comparazione,
di studio, di ricerca,
ienze
esper di socializzazione,
di produzione
Unità di apprendimento: di materiali congruenti...
i
enut
cont
I principi Cristianesimo Islamismo
che orientano
la vita degli uomini, Induismo
presenti nel: Ebraismo Buddismo

Capitolo 20 pag. 322


Esempio 2° biennio - Classe quinta

Portfolio delle competenze


(Osservazioni dell’insegnante
Obiettivi e Raccolta dei lavori dei bambini
in una cartella)
Specifici
Obiettivi Formativi: di Apprendimento
L’alunno, attraverso le attività
di studio e di ricerca, conosce, La Chiesa popolo di Dio Piani di Studio
attraverso i documenti nel mondo: avvenimenti, Personalizzati
del Magistero della Chiesa, persone e strutture.
il suo impegno Rendersi conto che nella
comunità ecclesiale Esperienze, attività di narrazione,
per la costruzione c’è una varietà di doni, di comparazione, di studio,
di un mondo che si concretizza che si manifesta in diverse di ricerca, di socializzazione,
in diverse forme, vocazioni e ministeri. di produzione
ministeri e testimonianze.
di materiali congruenti
ienze
esper
Unità di apprendimento: Giovanni XXIII
i
enut
cont
...attraverso Madre Teresa
Chiesa, ...a servizio ministeri
popolo di Dio... dell’uomo... e testimoni... S. Francesco
Persone significative locali...

322

Capitolo 20 pag. 322


Questa è solo una «prova» di una rappresentazione «schematica» di possibili
sviluppi di un «obiettivo specifico» in «percorsi di apprendimento», attraverso
unità e strategie didattiche, attente alla centralità dell’alunno in questi processi.
È quindi solo un modello «esplicativo», che non ha nessuna pretesa di divenire
di riferimento, proprio perché mancano esperienze significative, dovute anche
al fatto che non c’è ancora stato il tempo per sperimentare. Va anche sottolineto
che siamo ancora in attesa delle «Raccomandazioni» della CEI, che sono in via
di elaborazione e che costituiranno documenti di chiarificazione del contributo
scolastico della religione cattolica all’interno dell’educazione integrale degli alunni
della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, nonché modalità operative più
chiare, nel rispetto delle scelte didattiche degli insegnanti.
Si sta ora cominciando ad attivare laboratori di ricerca in merito, e vedremo
se sarà possibile, sulla base di queste ipotesi, realizzare in modo corretto gli
interventi di IRC all’interno del nuovo contesto riformatore, e quali eventuali
aggiustamenti apportare.
Ci sarà molto lavoro da fare a livello di gruppi di studio e di ricerca didattica,
per poter «padroneggiare» sempre più e sempre meglio le innovative modalità
proposte, fermo restando che occorre fare tesoro anche delle esperienze
e competenze professionali acquisite, che sono basilari per poter operare i
necessari aggiustamenti che via via si impongono e si imporranno al fare scuola
di ogni giorno.

Capitolo 20 pag. 323


CAPITOLO 21

LA PROGRAMMAZIONE NELLA SCUOLA


SECONDARIA DI PRIMO GRADO
Flavio Pajer

Le variabili di contesto

Per ogni insegnante, programmare una attività didattica nella scuola significa
anzitutto connettersi con le altre componenti educative del contesto interno ed
esterno alla scuola. Lo prevede ordinariamente il progetto educativo d’istituto,
lo esige la natura democratica e comunitaria dell’educazione pubblica, lo
presuppone ancor più esplicitamente il recente ordinamento sull’autonomia della
scuola.
L’insegnante di religione non fa eccezione. Semmai, le molteplici implicanze
educative e sociali della sua disciplina, più esposta di altre a un processo di
negoziazione multilaterale, vincolano ancor più l’insegnante a coinvolgere gli
altri partners dell’educazione e, nel contempo, a lasciarsene coinvolgere, in
quanto una corretta definizione del contratto formativo – anche e soprattutto sul
piano della educazione religiosa del preadolescente – non può prescindere da
un’intesa di fondo tra le diverse agenzie educative cointeressate alla crescita
della persona.
Il tradizionale modello umanistico della educazione scolastica privilegiava quasi
esclusivamente il referente «alunno», soggetto immediatamente coinvolto nella
Capitolo 21 pag. 324
relazione educativa, circoscrivendo ed esaurendo sostanzialmente sulla sua
persona e sul gruppo-classe tutta l’iniziativa dell’insegnante. «Conoscere l’alunno,
partire dalla sua situazione e dai suoi problemi, commisurare su di lui contenuti e
ritmi della didattica»: erano questi, e simili, gli imperativi prevalenti della stagione
pedagogica di questi ultimi decenni. Le correnti pedagogiche ispirate al classico
personalismo cristiano, si sa, hanno dato man forte in questa direzione.
Questo modello pedagogico conserva indubbiamente il suo valore, andrebbe
anzi ulteriormente potenziato nei suoi aspetti migliori o ancora inesplorati, non
senza però prendere atto oggi di una triplice crescente esigenza – culturale
prima che organizzativa – che va acutizzandosi nella società complessa e
globalizzata:
a) l’esigenza che la scuola lavori in rete con gli altri soggetti sociali e i diversi enti
territoriali, pur nel rispetto delle specifiche competenze educative;
b) l’esigenza che essa sappia progettare una educazione unitaria della persona
dell’alunno, ma che sappia tener conto anche della pluralità delle visioni della
vita (o del cosiddetto politeismo valoriale), facendone oggetto di lettura critica,
comparativa e orientativa;
c) e l’esigenza che gli stessi contenuti disciplinari vengano offerti non come
blocchi isolati di conoscenze settoriali, ma come elementi tra loro complementari
e interagenti dentro il complessivo sistema dei saperi.
Il modello sistemico, senza essere alternativo a quello umanistico, aiuta – anzi
impegna – chi lavora nella scuola d’oggi a rimanere collegato alle agenzie
educative dell’extra-scuola presenti sul territorio (contesto pluri-istituzionale),
a vagliare criticamente la gamma delle diverse visioni della vita coesistenti
evitando l’elaborazione ideologica di una sola visione (contesto pluri-culturale),
a gestire didatticamente una disciplina ma sapendo guardare anche accanto e
oltre la propria materia (contesto pluri-transdisciplinare). Il contratto formativo
scolastico coinvolge questi tre livelli di contestualizzazione e di interazione. Ne
Capitolo 21 pag. 324/325
consegue che la programmazione di ogni attività didattica – a livello di collegio
d’istituto e di classe come di singolo insegnante – prende necessariamente le
mosse da questo triplice sfondo.
In pratica la prima fase della programmazione – l’analisi della situazione di
partenza – impegna l’insegnante di religione a prendere conoscenza, o ad
aggiornarla:
– sul contesto culturale e socio-religioso del territorio e in particolare quello
delle famiglie di appartenenza dei suoi alunni, conoscenza che gli consente di
«situare» e capire molti degli atteggiamenti, interessi, motivazioni, reazioni che
l’alunno può manifestare in fatto di religione;
– sul contesto educativo-didattico della scuola, che in linea di principio dovrebbe
essere quello già definito e aggiornato dal POF locale, in base anche agli
orientamenti della legge sull’autonomia;
– ma sul piano operativo il contesto scolastico più prossimo è quello formato, da
una parte, dalle competenze disciplinari e relazionali dell’intero corpo docente,
e dall’altra dalle risorse tecniche e materiali disponibili (spazi, attrezzature,
tecnologie didattiche...).
Va da sé che l’analisi della situazione contestuale è mirata alla conoscenza
e alla relazione con il vero fulcro dell’azione educativa, che rimane la persona
dell’alunno.
Di quest’ultimo serve all’insegnante, in sede di programmazione, conoscere
sostanzialmente:
– i livelli di sviluppo delle dimensioni principali della personalità (affettivo-
relazionali, linguistico-espressivi, esperienziali e cognitivi...);
– gli stili e i ritmi di apprendimento (cf per es., la tipologia dell’«intelligenza
multipla» di H. Gardner, che distingue intelligenza linguistica, logica, spaziale,
musicale, interpersonale, ecc.);
– gli atteggiamenti istintivi e motivati di fronte al vissuto proprio e altrui
Capitolo 21 pag. 325
dell’esperienza religiosa e, più tardi, di fronte al problema religioso.
L’insegnamento curricolare della religione, nella misura in cui rientra
oggettivamente nel piano dell’offerta formativa della scuola, va programmato
sulla base dei criteri suggeriti da quest’ottica sistemica, che si traducono in
maggior rispetto e valorizzazione delle istituzioni e delle persone coinvolte
dentro e fuori la scuola, in una integrazione più funzionale delle risorse umane
e materiali, in un approccio più attento al patrimonio simbolico della cultura
ambiente, alla sua storia, e quindi anche in una scelta più circostanziata degli
stessi contenuti culturali della disciplina.
Un esempio concreto, in proposito, viene proprio dall’applicazione della legge
sull’autonomia scolastica: obiettivi e contenuti del curricolo «religione cattolica »
andranno articolati tenendo presente sia la reale situazione demografico-religiosa
o plurireligiosa del territorio, sia il capitale di beni culturali-religiosi presenti nella
regione, dal momento che in sede di programmazione si dovrà «giocare » sul
dosaggio tra un nucleo disciplinare comune a tutto il territorio nazionale e una
quota regionale elettiva di contenuti prevista dalla legge. In pratica – solo per
citare un dato di fatto ormai macroscopico – l’incremento numerico di alunni
di altra confessione o di altra religione o di nessuna appartenenza religiosa
potrebbe far presagire, in determinate zone geografiche prima o più che in
altre, una evoluzione dell’attuale corso mono-confessionale verso altri profili
più appropriati alla domanda conoscitiva della effettiva popolazione scolastica
e delle rispettive famiglie. Certo, il vigente quadro giuridico concordatario non
favorisce questa transizione della prassi verso approcci pluri/inter-confessionali
o semplicemente a-confessionali. E tuttavia va ricordato che normalmente sono
proprio le prassi innovative – che inizialmente possono apparire trasgressive
– quelle che precedono e invocano una nuova definizione legislativa, e non
viceversa.

Capitolo 21 pag. 325/326


Gli obiettivi dello studio della religione nel quadro degli obiettivi generali
del processo formativo

Nell’attuale ordinamento scolastico come in quello futuro del riordino dei cicli,
ora alle sue prime fasi attuative, l’insegnante di religione sa che la sua disciplina
è inserita nell’organico dei saperi scolastici per conseguire obiettivi educativi
che si inseriscano «nel quadro delle finalità educative della scuola». Ovvio
dunque che occorra individuare quantomeno le correlazioni, esplicite o implicite,
tra finalità e obiettivi generali della scuola (nel nostro caso, della scuola media,
ora chiamata scuola secondaria di primo grado) e gli obiettivi specifici della
nostra materia. Nell’individuare tali correlazioni vanno rintracciati i luoghi in cui
i testi legislativi, dall’uno e dall’altro versante, esprimono non solo una affinità
materiale (desumibile dall’uso di concetti identici o di sinonimi) ma soprattutto
una coerenza formale, una affinità di intenzione pedagogica che non può non
attraversare l’intero progetto educativo.
Per istituire tale correlazione esistono chiaramente almeno due livelli di
osservazione: anzitutto il livello dei principi generali o delle dichiarazioni
programmatiche, e poi quello delle singole discipline o almeno di aree
disciplinari significative; anzi, nei futuri Piani di studio personalizzati gli obiettivi
specifici di apprendimento sono ordinati, da un lato, per Discipline, e dall’altro
per «Educazioni » (civica, stradale, ambientale, medica, alimentare, affettivo-
sessuale...), che trovano la loro sintesi nell’unitaria educazione alla Convivenza
civile.
L’IdR ha il compito di proporre un curricolo di apprendimento di cultura religiosa
che, in base alle variabili contestuali sopra ricordate e alle indicazioni nazionali
per i Piani di studio personalizzati (PSP), contribuisca «in modo originale e
specifico, alla formazione dell’uomo e del cittadino, favorendo lo sviluppo della
personalità dell’alunno nella dimensione religiosa» (Dpr 21.7.1987 n. 350, I,1).
Capitolo 21 pag. 326
La finalità di «formare l’uomo e il cittadino» – formula che può forse suonare
retorica e abusata – è di per sé impegno assunto in solido da tutte le discipline
scolastiche ed è quindi responsabilità comune a tutto il corpo docente. Ogni
insegnante però lavora con specificità di materia e di metodo. Il che significa
che nell’espletare la propria attività didattica ciascuno dovrà mirare a conseguire
obiettivi specifici alla sua area disciplinare, ma nel contempo e possibilmente con
una certa priorità, deve mirare a soddisfare obiettivi formativi trasversali, comuni
a più discipline. Alcuni esempi di obiettivi trasversali sono i seguenti:
– L’educazione del senso critico, o avvio alla capacità di discernimento, o prima
iniziazione al ragionare corretto. Le diverse discipline concorrono dal loro punto
di vista ad avvicinare gli alunni a questa meta. Lo studio della religione non
fa eccezione: anch’esso stimola la crescita del senso critico e autocritico su
quell’area di fatti-esperienze-saperi-valori chiamata religione e in particolare
religione cattolica. Rientrano in questo compito, per esempio, l’attenzione a
una informazione documentata sui fenomeni religiosi, il superamento di diffusi
stereotipi in ambito etico-religioso, l’avvio a un primo incontro «oggettivo» con il
documento biblico, un’iniziale capacità interpretativa dei vissuti religiosi personali
o sociali, la competenza minima a decodificare simboli e riti per scoprirne il senso
oltre l’apparenza, e via elencando.
– L’educazione del senso storico, inteso come capacità di collocare personaggi
e avvenimenti e idee sulla linea evolutiva del tempo, come capacità di cogliere
la dimensione spazio-temporale dei fenomeni e dei nessi di causa ed effetto tra
fenomeni.
L’educazione religiosa dà un chiaro e insostituibile contributo per affinare il
senso storico: infatti, non è solo questione di conoscere elementi di storia delle
religioni o di storia ebraica o di storia ecclesiastica (cose tutte che si potrebbero/
dovrebbero studiare anche nel normale corso di storia civile dei popoli), ma qui è
questione di appropriarsi specificamente del punto di vista della religione ebraico-
Capitolo 21 pag. 326/327
cristiana sulla storia, di conoscere cioè il significato che la tradizione religiosa
prevalente in Occidente ha dato e dà non solo al tempo cronologico ma all’intera
vicenda umana: l’origine dell’uomo, la sua condizione terrena, il suo destino oltre
il tempo...
– L’educazione linguistica: lungi dall’essere un obiettivo esclusivo dell’insegnante
di lettere, ogni altra disciplina aiuta l’alunno a conquistare una padronanza di
linguaggio sulle diverse aree dell’esperienza umana e del sapere codificato. Si
sa come l’esperienza religiosa, per la natura stessa del suo oggetto (inverificabile,
indicibile, infinito...), abbia dato origine a un ricchissimo linguaggio fatto di
simboli iconici e aniconici, verbali e gestuali, collettivi e personali, linguaggio la
cui ignoranza comporterebbe un reale analfabetismo linguistico e l’incapacità
di decodificare gran parte della propria cultura nella misura in cui essa si ispira
a un codice fondamentale religioso, com’è il caso della Bibbia per la cultura
occidentale.
Quanto agli obiettivi disciplinari specifici per la religione, la fonte cui attingerli
resta per ora sostanzialmente il testo dei Programmi neoconcordatari approvati
nel 1987, in attesa di una loro annunciata ristesura che dovrebbe far tesoro
anzitutto della lezione desumibile dalla pratica pluriennale di detti programmi
(ma è esistito, almeno localmente, un monitoraggio continuo e sistematico della
prassi, che possa costituire oggi una base plausibile per decidere su una nuova
ristesura?), e far tesoro poi dei suggerimenti, ancorché interlocutori, emersi dal
recente tentativo di sperimentazione nazionale (cf Documento conclusivo della
sperimentazione nazionale sull’IRC, agosto 2002).
Mettendo in parallelo i diversi testi disponibili alla data attuale – in parte de jure
condito, in parte tuttora de jure condendo – ne deriva uno schema sinottico degli
obiettivi generali del triennio, che può servire all’Idr come piattaforma di partenza
per l’ulteriore formulazione degli obiettivi operativi annuali e infra-annuali, da
definire necessariamente in rapporto ai contenuti disciplinari e ai metodi, e cioè
Capitolo 21 pag. 327/328
alle Unità di apprendimento. Queste ultime infatti, secondo le indicazioni offerte
dal documento ministeriale PSP sopra citato, partono da obiettivi formativi adatti
e significativi per i singoli allievi, si sviluppano mediante appositi percorsi di
metodo e di contenuto, e valutano alla fine sia il livello delle conoscenze e delle
abilità acquisite, sia se e quanto esse abbiano maturato le competenze personali
di ciascun allievo.

Capitolo 21 pag. 328


sonali di ciascun allievo.

Tabella 1 - Le fonti normative degli obiettivi generali dell’istruzione religiosa


per la scuola secondaria di I grado

Riordino Piani di studio Programmi IRC 1987 Sperimentazione nazionale


dei cicli scolastici personalizzati (DPR 21.7.1987 (doc. conclusivo UCN
(legge-delega 12.3.2003) (Doc. MIUR 18.9.2002) n. 350) 2002)

– sviluppare la coscienza Obiettivi generali – accostarsi oggettivamente – padroneggiare le cono-


storica e di appartenenza del processo formativo: al fatto cristiano e alle sue scenze fondamentali della
alla comunità locale e na- – educare la personalità in fonti; «storia della salvezza»: il
zionale e alla civiltà euro- dimensione etica, religio- – apprezzare i valori morali documento biblico, le sue
pea; sa, sociale, intellettuale, af- e religiosi e la ricerca della coordinate geografiche,
– acquisire e sviluppare co- fettiva, operativa, creati- verità; storiche e culturali;
noscenze e abilità di base va...; – acquisire atteggiamenti – maturare la ricerca di ve-
fino alle prime sistemazio- – acquisire un’immagine che permettano di affron- rità che diano senso alla vi-
ni logico-critiche, e in re- chiara ed approfondita del- tare la problematica reli- ta, nel confronto: con i
lazione alla tradizione cul- la realtà sociale e storica; giosa, il problema di Dio: grandi perché della vita,
turale e alla evoluzione so- – definire, conquistare e maturando il gusto del ve- con le risposte offerte dalle
ciale; orientare la propria identità; ro e del bene, superando religioni, con la risposta
– conseguire una formazio- – maturare motivazioni e do- forme di intolleranza e fa- della rivelazione cristiana;
ne spirituale e morale, ispi- manda di senso; natismo, rispettando cre- – apprezzare i valori morali,
rata alla Costituzione; – impadronirsi delle cono- denti di altre fedi o i non le scelte di vita e le norme
– valorizzare le capacità re- scenze (sapere) e delle abi- credenti, solidarizzando di vita cristiana;
lazionali; lità (fare) e trasformarle in con i più svantaggiati; – maturare il rispetto verso
– rafforzare le attitudini alla competenze personali. – comunicare sul piano dei coloro che fanno scelte re-
interazione sociale. valori fondamentali della ligiose e di vita diverse dal-
Obiettivi specifici vita, anche in dialogo con le proprie.
di apprendimento: differenti credenze e cul-
ture. Obiettivi specifici
a)relativi alle discipline: di apprendimento:
– vedi programmi del primo
biennio; a)in base alla articolazione
– v. programmi del terzo an- dei 5 nuclei tematici:
no; – del IV livello (11-13 anni).
Capitolo 21 pag. 328 – del V livello (13-14 anni).
lità (fare) e trasformarle in
– rafforzare le attitudini alla competenze personali. – comunicare sul piano dei coloro che fanno scelte re-
interazione sociale. valori fondamentali della ligiose e di vita diverse dal-
Obiettivi specifici vita, anche in dialogo con le proprie.
di apprendimento: differenti credenze e cul-
ture. Obiettivi specifici
a)relativi alle discipline: di apprendimento:
– vedi programmi del primo
biennio; a)in base alla articolazione
– v. programmi del terzo an- dei 5 nuclei tematici:
no; – del IV livello (11-13 anni).
b)relativi alle «educazioni» – del V livello (13-14 anni).
trasversali, in particolare:
– educazione alla cittadi-
nanza;
– educazione ambientale;
– educazione all’affettività.

328
Gli obiettivi specifici dell’apprendimento della religione

L’attenzione deve spostarsi ora sui contenuti essenziali del sapere religioso
proponibile alla fascia di età anagrafica che qui ci interessa. La domanda da
porsi è la seguente: in vista di far conseguire i predetti obiettivi generali, che cosa
possono e debbono apprendere a scuola i pre-adolescenti italiani d’oggi in fatto
di religione? E in quale ampiezza semantica va preso qui il termine «religione»:
solo come religione cattolica, come storia religiosa occidentale e italiana, o anche
come fenomeno religioso universale, come sguardo alle religioni dell’umanità di
ieri e di oggi, come dimensione della persona umana da aprire al trascendente?
La risposta cui in Italia si era finora abituati era quella – scontata e inevitabile
– dello studio del cattolicesimo, o, più esattamente, dei contenuti dottrinali e
morali della fede cattolica. La revisione del Concordato – si sa – ha spostato
di poco l’ottica di questo approccio, che da approccio catechistico è diventato

Capitolo 21 pag. 328/329


formalmente approccio culturale, anche se poi la prassi didattica di questi anni
– stando agli esiti verificati da indagini empiriche – non ha sempre saputo dare
una interpretazione univoca e convincente di questa distinzione di principio. Ma
quand’anche tale principio riuscisse ad essere correttamente tradotto in atto,
non c’è chi non avverta obiettivamente oggi in Italia la palese insufficienza di un
approccio ai saperi religiosi essenziali, che rimanesse chiuso nel perimetro della
sola religione cattolica. È ben evidente ormai che un’Italia «cattolica» aggregata
a una Unione Europea allargata, viene di fatto a fondersi culturalmente con
altre declinazioni del cristianesimo. E la stessa Europa d’oggi nel suo panorama
socioreligioso ed etico non offre solo culture cristiane, per poco che si osservi
con realismo, da una parte, l’incremento esponenziale della non-credenza degli
europei «post-cristiani», e dall’altra l’affluire via via più consistente di tradizioni
religiose non cristiane a forte protagonismo sociale, nonché il nascere spontaneo
di tante cosiddette neo-religioni... Certo, la tradizione ebraica e cristiana, in
quanto uno dei codici decisivi della cultura occidentale, merita un posto centrale
e prioritario nella scuola italiana, e tuttavia nemmeno uno studio di tale tradizione
è ancora entrato correttamente ed efficacemente nei programmi della scuola
pubblica.
Questo significa che bisognerà porre mano quanto prima ad almeno due
emergenze nel progettare un sistema di livelli minimi di cultura religiosa
(emergenze che qui accenniamo appena, non essendo questo il luogo per
approfondirle):
1. ripensare decisamente non solo il dosaggio quantitativo di conoscenze
relative al cattolicesimo inglobando eventualmente conoscenze minime su altre
religioni (come sembrano invitare i «nuovi programmi sperimentali»), ma va
ripensata l’architettura grammaticale e sintattica stessa del «sapere religioso
scolastico », ossia la sua natura epistemologica, che non può dipendere solo
da una teologia confessionale, ma deve ovviamente tener conto anche dei punti
Capitolo 21 pag. 329
di vista aconfessionali sul fatto religioso, in particolare proprio su quello biblico,
se non si vuole privare la formazione scolastica di quegli innegabili patrimoni di
conoscenze e di ipotesi che le scienze religiose non teologiche hanno maturato e
che continuano a produrre;
2. ripensare di conseguenza lo stesso profilo giuridico-professionale
dell’insegnante di religione, perché dovrà pur essere superata in qualche
modo l’attuale incongruenza (oggi forse ancora sostenibile, ma che lo sarà
sempre meno domani) di un docente bisognoso di una dichiarazione di idoneità
ecclesiastica per poter insegnare «religione cattolica», ma che nel contempo
può permettersi di insegnare anche elementi, per esempio, di religione islamica
o buddhista senza avallo alcuno delle rispettive autorità. Ciò vorrebbe dire forse
che il suo insegnamento ha due livelli di credibilità, a seconda delle religioni
di cui parla? E, d’altra parte, la «religione cattolica», se vista come materia
formativa come le altre qual è di fatto, risulterebbe snaturata se ad insegnarla
fosse un docente normalmente preparato in curricoli accademici statali?
Tornando sul compito della programmazione, e precisamente sulla tappa degli
obiettivi specifici di apprendimento, conviene qui richiamare alcune «precauzioni
didattiche» soprattutto per quegli insegnanti più giovani che fossero ancora poco
familiarizzati con le tecniche della programmazione.
Una prima attenzione da avere è quella ricordata anche dalle indicazioni
nazionali per i PSP, e cioè che «l’ordine epistemologico di presentazione
delle conoscenze e delle abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di
apprendimento non va confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico
e didattico con gli allievi ». Mentre infatti, l’ordine epistemologico vale per i
docenti e disegna una mappa culturale, semantica e sintattica, che essi devono
padroneggiare anche nei dettagli e mantenere sempre viva e aggiornata
sul piano scientifico al fine di poterla poi tradurre in azione educativa e
organizzazione didattica coerente ed efficace, l’ordine psicologico e didattico
Capitolo 21 pag. 329/330
vale per gli allievi, ed è ovviamente affidato di volta in volta alla determinazione
collegiale e/o personale dei docenti. Proprio in questa determinazione avviene
di fatto il passaggio dagli obiettivi specifici di apprendimento (definiti in termini
di conoscenze oggettive) agli obiettivi formativi (definiti in termini di capacità-
abilità soggettive dell’allievo). Per questo, ricorda ancora il citato documento
ministeriale, non bisogna cadere nell’equivoco di impostare le attività didattiche
quasi in una corrispondenza biunivoca con ciascun obiettivo specifico di
apprendimento, perché si cadrebbe in un insegnamento meccanico, artefatto,
privo di quel respiro educativo e di quel margine di creatività che legittimano e
qualificano l’autonomia didattica del docente.
Una seconda attenzione riguarda il duplice livello di obiettivi di apprendimento
proposti nel documento conclusivo (2002) della sperimentazione in vista di nuovi
programmi per l’IRC: alcuni obiettivi di apprendimento sarebbero proposti con
valore prescrittivo, altri con valore opzionale (si legge a p. 5 del documento).
La scelta è strategica e pedagogica, nel senso che anche lo studio della
religione cerca ora di adeguarsi alla logica disciplinare degli altri saperi scolastici,
come per sentirsi a pieno titolo materia tra altre materie, e nel senso che tale
studio si propone ora di evitare uno dei grossi handicap antipedagogici che
ha discreditato non poco l’«ora di religione» fino ai nostri giorni, e cioè il suo
perenne bisogno di dover ritornare di anno in anno, di ciclo in ciclo, su temi che
dovevano essere acquisiti per tappe progressive nel momento prescritto dal
curricolo e che invece sono stati acquisiti poco o male, se non a volte del tutto
disattesi. Ben venga quindi anche nello studio della religione – in analogia con
ogni altro apprendimento curricolare – il vincolo di una normale e ragionevole
prescrittività su un pacchetto minimo di conoscenze-competenze religiose, da
scandire e garantire entro i cicli istituzionali ora previsti della scuola riformata.
Sorge tuttavia un grosso dubbio in proposito: se l’attuale indifferenziata
distribuzione oraria del corso di religione all’interno dei cicli (in particolare la
Capitolo 21 pag. 330/331
singola ora settimanale nei cicli della secondaria di primo e secondo grado, che
manifestamente obbedisce a soli criteri organizzativi dell’impiego del personale
docente), sia una scelta che agevoli la dichiarata efficacia pedagogica della
disciplina religione o non ne ostacoli piuttosto in radice ogni velleità educativa.
Una terza osservazione riguarda l’adozione, anche in pedagogia religiosa, dello
strumento teorico-didattico della matrice progettuale (che altri, in altri contesti,
chiamano procedimento modulare). Questa matrice consente di organizzare lo
sviluppo didattico di ogni nucleo tematico in funzione di quattro criteri ritenuti
rilevanti dagli estensori del progetto: il riferimento all’esperienza dell’alunno e
alle sue domande – il raccordo a possibili temi analoghi in discipline scolastiche
o in altre religioni e culture – la presentazione dei contenuti di religione cattolica
– l’elaborazione conclusiva di una sintesi da parte dell’allievo. Vien da fare
subito un paio di riserve. La prima riguarda il criterio della correlazione iniziale
all’esperienza e alle sue domande. L’attenzione all’esperienza personale è
sì didatticamente plausibile, ma andrebbe accompagnata, nel caso specifico
della psicologia preadolescenziale, da una non minore attenzione parallela
alle esperienze extrasoggettive, quelle che il preadolescente osserva oggi nel
mondo a lui circostante o che coglie nella storia del passato. L’età psicologica
e mentale dell’alunno, almeno nel primo biennio inferiore, più che consentirgli
un affondo, ancora prematuro o tutt’al più possibile solo a livello nominalistico,
sui «grandi perché della vita», lo invita piuttosto a «leggere» con curiosità
oggettiva ed estroversa i piccoli-grandi eventi dell’uomo religioso, dalla preistoria
ad oggi. Iniziare il preadolescente a leggere correttamente il linguaggio delle
esperienze religiose dell’umanità – mediante un approccio morfologico e
genetico, ma mirato e significativo, a reperti archeologici, manufatti, simboli,
immagini, miti, ecc. – significa in fondo insegnargli l’«alfabeto religioso» perché
a sua volta l’allievo arrivi a porsi anche personalmente le stesse domande
radicali dell’uomo di sempre e a cogliere il valore esistenziale delle sue risposte.
Capitolo 21 pag. 331
Analoga osservazione si potrebbe muovere al quarto criterio della matrice, quello
della prevista «elaborazione di una sintesi conclusiva» di quanto appreso nello
studio del nucleo tematico. Il principio, in sé ottimo, di segnare dei punti fermi
a conclusione di un percorso cognitivo, può prestarsi, specialmente proprio
nel caso della ricerca religiosa, ad applicazioni superficiali ed ambigue, nella
misura in cui la sintesi conclusiva col buon pretesto di far registrare all’allievo
il guadagno che ha realizzato in termini di conoscenze e capacità nuove, lo
abituasse a considerare chiusi o risolti anche gli interrogativi suscitati dai vari
nuclei tematici. Uno dei segni di maturazione critica in fatto di religione, infatti,
è l’habitus a tenere aperti man mano che si cresce gli interrogativi di fondo,
cercando risposte ma senza soddisfarsi troppo facilmente di risposte conclusive,
sia che vengano dalla ricerca scientifica sia che vengano dalFatte queste premesse
magistero di di meto
un’autorità. Fatte queste premesse
creta di di metodo,
annualizzazione può essereo
degli
Fatte queste
creta premesse
di di metodo,
annualizzazione
stione (cf puòobiettivi
degli
tabella essere
2). Si opportun
format
tratta di u
Fatte queste premesse di metodo, può essere opportuno tentare un’ipotesi
creta di annualizzazione
stione (cf tabella degli
2). Si
meno obiettivi
tratta di –formativi
esclusivo undielenco per
appro
conoscenze it
concreta di annualizzazione degli obiettivi formativi
stione (cf perSii tre
2). anni un
tratta delelenco
ciclo in
tabella
meno esclusivo – di diconoscenze,
acquisire approssimativ
capacità opera
progressivamente nel
questione (cf tabella 2). Si tratta di un elenco
meno approssimativo
esclusivo
acquisire – noncapacità
– diprogressivamente
conoscenze, esaustivo operative La
nel triennio. e co«
obiettivo indica:
e tanto meno esclusivo – di conoscenze, capacità
acquisireobiettivo operative
progressivamente
indica: e
– l’annocompetenze
nel triennio.
nel qualeLa quel «taratura»
preciso
«religiose» da acquisire progressivamente
obiettivonel triennio.
l’anno nelLa
–indica: quale«taratura»
quel marginale
 );preciso obiettivo è pres
per ciascun obiettivo indica: – l’anno– nel quale
l’anno nelquel
qualepreciso
 ); obiettivo
quel –preciso
l’anno in ècui siè può
obiettivo presumibilme
comincia
presumibilmente raggiungibile (segno   );–); –l’anno l’annoinincui cuisi gno
si può
può cominciar
cominciar
); a conseguirlo
a conseguirlo o continuare a perfezionarlo
– l’anno (segno
ingno
cui si
 ););cominciar
può –– l’anno
l’annoain cui
inconseguirlo o contin
cui quell’obiettivo
quell’obiettivo è da considerarsi prematuro );
gno o–tardivo
l’anno (segno   ).).
in cui quell’obiettivo è da consider
– l’anno incui  quell’obiettivo
). è da considerarsi prem
  ).
Obiettivi formativi Tabella
annuali2
Tabella 2 (ipotesi di
Obiettivi formativi annualizzati
Obiettivi formativi annualizzati
NUCLEI TEMATICI(ipotesi di tassonom
con relativi OBIETTIVI FORM
NUCLEI TEMATICI con relativi OBIETTIVI FORMATIVI
NUCLEI TEMATICI con relativi OBIETTIVI FORMATIVI
Il fatto religioso universale ed extra-biblico
Capitolo 21 pag. 331/332 Il fatto religioso universale ed extra-biblico
  ).

Tabella 2
Obiettivi formativi annualizzati (ipotesi di tassonomia esemplificativa)
NUCLEI TEMATICI con relativi OBIETTIVI FORMATIVI biennio anno
1° 2° 3°

Il fatto religioso universale ed extra-biblico

1. elencare alcuni comportamenti «religiosi» dell’uomo preistorico   

2. apprezzare nel loro significato simbolico immagini e gesti «religiosi» delle civiltà antiche   

3. conoscere, a livello lessicale elementare, il significato di termini come: mito e mitologia, sa-
crificio e sacerdote, tempo e spazio sacri, culto dei morti, divinizzazione e divinazione, po-
liteismo   

4. distinguere alcuni tratti caratteristici elementari delle religiosità assiro-babilonese, egizia,


greco-romana, celtico-germanica, meso-americana   

5. individuare una continuità tra le religiosità primitive e certi tratti della religiosità di popoli mo-
derni non occidentali   

La Bibbia: storia e messaggio

6. ricostruire le grandi tappe della storia del popolo ebraico, da Abramo a Gesù di Nazaret   

7. conoscere il significato delle principali componenti della cultura ebraica (la legge, il tempio
e la sinagoga, il culto, le feste...) e di alcuni simboli (l’arca, il candelabro, l’agnello pasqua-
le, la stella...)   

8. discernere alcuni caratteri specifici del Dio biblico rispetto alle divinità extrabibliche   

9. individuare nei principali racconti biblici delle origini il messaggio che intendono proporre   
Capitolo 21 pag. 332
8. discernere alcuni caratteri specifici del Dio biblico rispetto alle divinità extrabibliche   

9. individuare nei principali racconti biblici delle origini il messaggio che intendono proporre   

10. riconoscere e apprezzare i valori morali di cui la cultura ebraica è portatrice, superando
eventuali pregiudizi o stereotipi antisemiti   

11. raccordare alcuni dati della cultura italiana e occidentale alla loro radice biblica (es.: locu-
zioni italiane provenienti dalla letteratura biblica, opere d’arte ispirate a scene bibliche, ecc.)         

12. saper utilizzare il testo biblico, individuandone i libri e versetti e un’approssimativa colloca-
332zione nel tempo e nello spazio sociale   

Gesù di Nazaret e il suo vangelo

13. situare la persona di Gesù nel contesto della società civile e religiosa del suo tempo   

14. saper collocare geograficamente la Palestina e le principali località connesse con la vita di
Gesù   

15. conoscere le principali fonti su cui si basano le notizie sulla persona e sull’attività di Gesù   

16. conoscere il Nuovo Testamento nei suoi principali aspetti storici e letterari (genesi orale-scrit-
ta dei vangeli, Atti, lettere paoline...)   

17. leggere per pericopi selezionate uno dei Vangeli, sapendo riconoscere personaggi, eventi, lo-
calità geografiche, usi sociali... citati nel testo   

18. ricostruire, con approssimazione cronologica, gli avvenimenti fondamentali della vita pub-
blica di Gesù e del suo gruppo di discepoli   

19. conoscere il racconto di alcune parabole e individuarne il significato simbolico o etico   

20. evocare alcuni racconti evangelici di miracolo, sapendovi riconoscere segni di salvezza ope-
rata da Gesù, più che prove di potenza magica   

21. motivare
Capitolo 21lapag.
differenza radicale tra le resurrezioni operate da Gesù e la sua stessa resurrezione
332/333   
19. conoscere il racconto di alcune parabole e individuarne il significato simbolico o etico   

20. evocare alcuni racconti evangelici di miracolo, sapendovi riconoscere segni di salvezza ope-
rata da Gesù, più che prove di potenza magica   

21. motivare la differenza radicale tra le resurrezioni operate da Gesù e la sua stessa resurrezione   

La storia dei cristiani

22. descrivere a grandi linee la nascita e il comportamento delle prime comunità cristiane, se-
condo il racconto degli Atti   

23. conoscere per sommi capi la figura, i viaggi, l’opera missionaria di Paolo di Tarso   

24. individuare le principali differenze che distinguevano la fede dei cristiani sia dalla tradizio-
ne ebraica che dai culti contemporanei della civiltà greco-romana   

25. conoscere le principali cause e conseguenze delle persecuzioni mosse ai cristiani nei primi
secoli   

26. conoscere i principali effetti positivi e negativi della «svolta costantiniana» nella Chiesa   

27. conoscere alcuni grandi meriti culturali e religiosi del monachesimo occidentale   

28. conoscere le cause e le conseguenze dello scisma d’Oriente   

29. motivare la reciproca ostilità, ma anche il reciproco arricchimento, avvenuto fin dall’origine
tra cristianesimo e islam   

30. ricostruire le figure storiche di Francesco d’Assisi e Caterina da Siena come testimoni della lo-
ro epoca e come operatori di pace sociale ed ecclesiale   

31. elencare eventi e personaggi principali che portarono l’Europa cristiana del Cinquecento al-
le riforme della Chiesa (riforma luterana, anglicana, cattolica...)   

333
Capitolo 21 pag. 333
32. documentare i tratti del volto rinnovato della Chiesa cattolica uscita dal concilio di Trento   

33. illustrare alcune grandi figure moderne di missionari che hanno evangelizzato gli altri conti-
nenti   

34. illustrare le principali innovazioni introdotte nella vita dei cristiani dal concilio Vaticano II ad
oggi, alla luce dei suoi principali protagonisti: Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II         

Cristiani nel mondo, cristiani per il mondo

35. individuare e motivare le tappe del «come si diventa cristiani» (il processo della iniziazione
cristiana com’era e com’è praticata nella Chiesa cattolica e nelle altre Chiese cristiane)   

36. conoscere per elementi essenziali i segni materiali e rituali e il significato salvifico annesso
ai vari sacramenti praticati nella tradizione cattolica   

37. comparare i sacramenti cristiani ad analoghi riti tipici delle culture non cristiane, relativi al-
la nascita, all’iniziazione degli adolescenti, alle nozze, ai riti funerari   

38. conoscere i principi basilari dell’etica biblico-cristiana: la condizione dell’uomo come crea-
tura, la dignità della persona e di ogni persona, la coscienza libera e responsabile, peccato e
redenzione   

39. conoscere il carattere specifico della morale del vangelo: le beatitudini e il regno di Dio co-
me nucleo del messaggio di Gesù ai suoi discepoli   

40. illustrare come alcuni personaggi della storia cristiana di ieri e di oggi abbiano saputo incar-
nare l’ideale delle beatitudini   

41. documentare, per esemplificazioni storiche, alcuni influssi dello stile cristiano di vita nella vi-
ta della società civile occidentale, in particolare italiana: nella famiglia, nel lavoro, in politi-
ca, nella difesa dei diritti umani, nella salvaguardia del creato, ecc.   

42. elencare e documentare alcune grandi azioni svolte dalla Chiesa o da singoli cristiani per la
Capitolo 21 pag.
promozione 334sociale e interreligiosa nel nostro tempo
della pace   
ta della società civile occidentale, in particolare italiana: nella famiglia, nel lavoro, in politi-
ca, nella difesa dei diritti umani, nella salvaguardia del creato, ecc.   

42. elencare e documentare alcune grandi azioni svolte dalla Chiesa o da singoli cristiani per la
promozione della pace sociale e interreligiosa nel nostro tempo   

43. riconoscere i motivi per cui i cristiani, nel lottare per la giustizia, propongono insieme il va-
lore della carità e del perdono   

Una terra, molte religioni

44. documentare, anche con dati empirici, il fenomeno della pluralità di fedi religiose nella pro-
pria regione e a livello nazionale ed europeo, riconoscendo in tal fenomeno rischi e nuove
opportunità   

45. saper leggere la carta geografica dell’Europa religiosa di oggi, dando le ragioni della diffusione
delle diverse confessioni cristiane, del processo moderno di scristianizzazione, della pre-
senza crescente di altre religioni storiche e di «nuove religioni»   

46. conoscere i principi base e qualche importante azione del movimento ecumenico nell’ulti-
mo secolo e la posizione della Chiesa cattolica nei confronti delle altre confessioni cristiane         

47. conoscere il significato di concetti correnti come: ecumenismo, dialogo interreligioso, fa-
natismo, fondamentalismo, libertà religiosa, nonviolenza, proselitismo, settarismo, tolle-
ranza   
48. saper individuare alcune principali differenze e affinità tra fede cristiana e fede musulmana   
334
49. saper individuare alcune principali differenze e affinità tra fede cristiana e religioni orientali         

50. comprendere alcune spiegazioni che gli esperti danno del fenomeno della secolarizzazione
o dell’indifferenza religiosa, presente nelle società italiana ed europea   

51. conoscere le ragioni principali per cui la Chiesa cattolica, a partire dall’ultimo concilio, ri-
conosce e apprezza le altre grandi religioni   

52. conoscere, anche solo a livello locale o nazionale, movimenti e persone che lavorano per il
Capitolo 21ecumenico
dialogo pag. 334/335
e interreligioso   
50. comprendere alcune spiegazioni che gli esperti danno del fenomeno della secolarizzazione
o dell’indifferenza religiosa, presente nelle società italiana ed europea   

51. conoscere le ragioni principali per cui la Chiesa cattolica, a partire dall’ultimo concilio, ri-
conosce e apprezza le altre grandi religioni   

52. conoscere, anche solo a livello locale o nazionale, movimenti e persone che lavorano per il
dialogo ecumenico e interreligioso   

53. conoscere i principali focolai di conflitto interreligioso che minacciano tuttora la pace tra po-
poli e ipotizzare vie di soluzione pacifica secondo i casi analizzati   

54. saper dialogare con compagni di altra fede, confrontando nel reciproco rispetto le proprie
convinzioni religiose e i propri valori morali con quelli altrui   

Capitolo 21 pag. 335


CAPITOLO 22

LA PROGRAMMAZIONE NEL SECONDO CICLO.


I LICEI
Lucillo Maurizio

1. I riferimenti nel contesto della riforma e della sperimentazione CEI

La programmazione è oggi, decisamente, attività professionalmente propria


dell’insegnante, sia a livello individuale disciplinare, che a livello collettivo
educativo.
Essa presuppone, perciò, conoscenza specialistica delle finalità dell’azione
educativa e didattica e possesso dei requisiti scientifici e pedagogici per poterla
condurre efficacemente.
I suoi riferimenti istituzionali sono:
– il Profilo educativo, culturale e professionale (Pecup) e
– le Indicazioni nazionali.
Si tratta di riferimenti quadro che non hanno carattere di esecutività, ma
costituiscono la meta da raggiungere attraverso la mediazione della
programmazione.
Per quanto riguarda l’IRC, oltre ai riferimenti comuni a tutta l’attività scolastica,
si deve tener conto del documento conclusivo della Sperimentazione 1998-2000,
pubblicato nell’agosto 2002, che ha un carattere più prescrittivo.
Con l’occasione dell’immissione in ruolo degli IdR, è prevista una seconda Nota
Capitolo 22 pag. 336
della CEI che prenda in esame la nuova situazione creata, oltre che dallo stato
giuridico degli insegnanti, anche dalla riforma, dalle competenze delle regioni e
province autonome e dall’applicazione dell’autonomia.
Prendiamo in considerazione, in un primo momento, l’istanza proveniente dal
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Esso ha elaborato il Profilo educativo, culturale e professionale che
concretamente esplicita ciò che ogni studente, alla fine del secondo ciclo deve:
– sapere, in termini di conoscenze disciplinari e interdisciplinari,
– saper fare, ossia le abilità operative o professionali,
– saper essere, come uomo, cittadino e lavoratore.
Nel Profilo, il culturale e il professionale confluiscono nell’educativo personale,
in modo che le conoscenze (sapere), le abilità operative (saper fare), le capacità
relazionali (saper essere) diventano competenze acquisite, con convinzione e
criticità, dalla persona.
Il Profilo diventa il riferimento per la programmazione degli obiettivi generali
e degli obiettivi specifici, così come sono declinati dalle Indicazioni nazionali
riguardo ai diversi periodi didattici che caratterizzano i gradi del percorso
scolastico.
La scuola e i docenti sono chiamati a trasformare il Profilo e le Indicazioni
in programmazione per obiettivi formativi relativi alla concreta situazione di
apprendimento.
Tutti i programmi di insegnamento finora vigenti, pur nell’ampiezza della
discrezionalità, dovevano essere applicati e domandavano ai docenti
l’atteggiamento professionale dell’esecutività.
Le nuove Indicazioni nazionali sono una specie di materia prima a cui i docenti e
la scuola sono chiamati a dare la propria forma, in base alle esigenze degli allievi,
delle famiglie, del territorio.
Si esige, dunque, la prestazione professionale della progettazione e della
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creatività nell’ambito dell’autonomia.
Il Documento di Fiuggi 2003 ha individuato le seguenti dimensioni
metodologiche e culturali unitarie, comuni a tutti i licei e pervasive di ogni
intervento didattico .

1.1. Lingua e linguaggi

L’aspetto linguistico appartiene a tutte le espressioni simboliche della cultura


umana. Esso rappresenta il rapporto di reciproco riferimento tra la cosa e il
segno (parola) che la rappresenta concettualmente.
La religione, da questo punto di vista, è strutturalmente «segnica», in quanto
sistema linguistico di rappresentazione e di comunicazione col trascendente.
Il sapere linguistico della disciplina è parte irrinunciabile dell’IRC.

1.2. Analogicità del concetto di scienza

La scientificità dipende dai criteri e dalle condizioni attraverso le quali vengono


affermate la certezza e l’affidabilità delle conoscenze.
Ci sono metodologie scientifiche diverse per le diverse scienze, ma il carattere di
scientificità non può che essere analogo.
La religione si sottopone alla scientificità in quanto rende ragione della realtà che
studia e di ciò di cui sono portatori i credenti.

Capitolo 22 pag. 337


1.3. Unità della cultura

Si tratta di far scoprire allo studente che senza un senso generale unitario
attribuito al nostro mondo, non esiste nemmeno la possibilità di coltivare le
singole prospettive che lo possono comporre.
Ciò è vero anche per il fenomeno religioso.
Innanzitutto esiste la religione ed esistono donne e uomini religiosi. La loro
rilevanza è tale da aver avuto storicamente una notevole incidenza sulla vita e
sulla cultura nel loro complesso.
L’approccio religioso esplora il significato che la religione ha per il credente, le
relative modalità di espressione, gli effetti nella condizione umana.
L’approccio storico esplora l’incidenza che la religione ha nelle vicende delle
collettività umane.
L’approccio sociologico esplora i modelli di comportamento che la religione ha
creato, le dinamiche di aggregazione che il religioso ha originato nelle istituzioni,
le manifestazioni che creano consenso e legittimazione.
L’approccio letterario esplora la forza espressiva del sentimento religioso che si
traduce in composizioni epiche, liriche, celebrative, rituali.
L’approccio artistico esplora le espressioni estetiche della vita e dei sentimenti
religiosi.
Tutti questi approcci vanno ricondotti all’unità del fenomeno religioso e non
devono costituire fine a se stessi, ancorché legati ad una singola disciplina.
Più in generale, il documento di Fiuggi ribadisce che tutti gli approcci disciplinari
non sono fine a se stessi, ma mirano alla comprensione interdisciplinare dello
stesso oggetto conoscitivo.

Capitolo 22 pag. 337/338


1.4. Interdisciplinarità

È il corrispettivo formale e metodologico delle considerazioni relative all’unità


della cultura.
La divisione dei campi di indagine e la specializzazione sempre più spinta
sono state feconde a livello di ricerca scientifica, ma a livello didattico sono oggi
difficilmente sostenibili, in quanto danno luogo ad apprendimenti a compartimenti
stagno, e non promuovono, ma disturbano la capacità di sintesi nell’unità del
sapere personale.
L’interdisciplinarità parte dai problemi non dalle discipline e considera queste
ultime come funzionali ad un apprendimento unitario.

1.5. Storicità e storicizzazione


Qualsiasi metodologia disciplinare è il risultato di precise condizioni storiche:
è nata in un certo tempo, in una certa modalità, in un contesto, da certe
motivazioni, da certi scopi conoscitivi.
Lo studio culturale della Religione Cattolica nasce in un preciso contesto
contemporaneo, a seguito di certi eventi politici, sociali, culturali; si sviluppa in
certe modalità date da una tradizione e da una istituzione.

1.6. Problematicità

La problematicità è nel reale ed è nella metodologia pedagogica.


L’età evolutiva, ma non solo essa, è tutta pervasa dall’interrogazione, che parte
dal vissuto e che ricerca risposte sentite come esistenzialmente significative.
A questa disposizione «naturale» si aggiunge una problematicità «indotta»
Capitolo 22 pag. 338
dall’attività pedagogica. Essa mira ad abilitare al senso critico, alla capacità
argomentativa, alla capacità di ricercare risposte nelle diverse visioni del mondo
e, nel caso dell’IRC, nel patrimonio culturale ebraico-cristiano.

2. Struttura dei licei

I licei restano di durata quinquennale e sono articolati in:


– primo biennio,
– secondo biennio,
– anno conclusivo e di passaggio ad altri percorsi formativi.

Il primo biennio organizza l’attività didattica secondo due riferimenti:


– affinare gli strumenti disciplinari,
– iniziare a lavorare per nuclei di aggregazione.
Il primo aspetto dovrebbe essere prevalente. Lo studente apprende ad
individuare il preciso campo di indagine conoscitivo e la metodologia propria
della disciplina, con le abilità che essa comporta.
Nel nostro caso il campo di indagine dovrebbe essere costituito:
– dalla problematicità dell’esistenza umana,
– dalla ricerca di un senso e di una ragione,
– dalla ricerca, ancora, del fine e del corretto percorso della vita,
– dalla affermazione dell’esistenza di Dio e dal rapporto da instaurare con lui,
– oppure dalla negazione di Dio, dall’agnosticismo, dalla solitudine umana,
– dall’identità della fede cristiana e dalla sua radice nella persona di Gesù Cristo,
– dalla vicenda biblica e dai suoi effetti nella cultura e nell’impegno morale,
– dalla storia della comunità credente e dal suo complesso rapporto con la
società, con la cultura, con la politica, col diritto, con l’economia, con la scienza,
Capitolo 22 pag. 338/339
con lo sviluppo tecnologico,
– dal problema del bene e del male, della coscienza morale, della responsabilità
personale e collettiva, della giustizia.
Per quanto riguarda la metodologia pedagogica, si rinvia a quanto detto
nell’intervento sugli obiettivi dell’IRC nella secondaria superiore al n. 3.1., ossia:
– riferimento all’esperienza che gli studenti hanno rispetto ai contenuti proposti;
– accostamento a documenti specifici della tradizione cristiana;
– confronto con documenti culturali di varie angolature (interculturalità);
– confronto con documenti di altre tradizioni religiose (interreligiosità).
Il secondo aspetto è complementare al primo.
Il documento di Fiuggi lo richiama: valorizzare i nuclei di aggregazione
interdisciplinare (tematici, problematici, progettuali).
Le esperienze al riguardo non sono mancate negli ultimi anni.
Nel primo caso si è partiti da contenuti o, meglio, da oggetti di studio comuni e
si sono sviluppati approcci da parte di una pluralità di discipline del curriculum,
realizzando spesso solo uno studio pluridisciplinare senza approdare ad
una sintesi conoscitiva unitaria, ma ci sono stati anche casi di autentica
interdisciplinarità.
In secondo luogo la posizione di un problema ha comportato l’aggregazione di
più discipline e la conduzione di un’attività didattica in parte parallela e in parte
convergente.
Nel terzo caso, specialmente dall’era della sperimentazione Brocca, si sono
proposti progetti coerenti con l’indirizzo di studi intrapreso, per far confluire
i saperi e le abilità conseguite nelle diverse discipline in un unico compito
specialistico da realizzare.
Si tratta, tuttavia, di inizi di lavoro per nuclei di aggregazione.

Il secondo biennio irrobustisce la competenza ad orientarsi all’interno delle


Capitolo 22 pag. 339/340
griglie concettuali e metodologiche delle singole discipline, ma al fine di
ricondurle ad una prospettiva sintetica che ne favorisca il dialogo e l’integrazione
reciproca.
Qui i nuclei di aggregazione assumono maggiore importanza.
Ciò comporta, per quanto riguarda l’IRC, l’accostamento alle aree di contenuto
individuate dalla Sperimentazione CEI con un approccio non solo descrittivo
ed esplicativo, ma nella prospettiva dell’approfondimento e del confronto
interculturale e interreligioso.
Amodo di pura esemplificazione, si offrono alcune suggestioni.

Area 1 La problematicità della vita umana.


La problematicità nell’esperienza adolescenziale matura.
La problematicità nelle espressioni musicali.
La problematicità nella cultura contemporanea.
La prospettiva nella storia del pensiero.
La prospettiva nelle religioni.
La prospettiva cristiana.
La prospettiva nell’AT.

Area 2 L’immagine di Dio.


L’esperienza adolescenziale matura.
Le espressioni della cultura giovanile.
La via delle aspirazioni esistenziali.
La via della razionalità.
Le vie delle religioni.
La tradizione dell’AT.
La tradizione cristiana.

Capitolo 22 pag. 340


Area 3 La figura di Gesù di Nazaret.
La percezione contemporanea (culturale, esistenziale, politica, artistica).
I diversificati percorsi nel NT.
Il confronto con le altre religioni.

Area 4 La comunità credente.


Chiesa e attese giovanili.
Problemi contemporanei e esperienza di chiesa (povertà, immigrazione,
solidarietà, guerra e pace).
La comunità credente nella sua fase sorgente.
La comunità credente in alcuni decisivi snodi storici.
La riflessione del Concilio Vaticano II e l’incontro col mondo contemporaneo.
Chiesa e rapporto con l’ambiente naturale.

Area 5 Valori e progetti di vita.


Il problema morale.
La centralità della persona.
Individualità e responsabilità collettiva.
Responsabilità per il futuro dell’umanità.

L’anno conclusivo favorisce il lavoro personale dello studente, in quanto:


– porta a maturazione la coscienza di sé e del mondo col passaggio dai saperi al
sapere;
– orienta e consolida la preparazione alla cultura e alla formazione professionale
superiore.
Quest’ultimo aspetto viene accentuato dalla natura propedeutica all’università
che caratterizza la licealità.
Conclusione, dunque, e contestuale apertura verso il futuro.
Capitolo 22 pag. 340/341
È questa, tra l’altro, una caratteristica del processo di riforma prefigurato
dalla Legge 53. Nessun ciclo di istruzione e di formazione è definitivamente
conclusivo, ma costantemente proiettato verso traguardi successivi, includendo
l’«apprendimento in tutto l’arco della vita» (art. 2).
Ciò riconosciuto, e per mantenere l’aderenza alla realtà di questa proposta,
viene preso in considerazione innanzitutto il Pecup relativo ai licei in generale e
successivamente si passa agli indirizzi particolari.
Nell’ultimo anno dei licei dovrebbero essere raggiunti i seguenti obiettivi generali.

1. Riconoscere le caratteristiche specifiche dell’indagine scientifica nell’ambito


disciplinare studiato.

2. Mostrare i criteri di certezza e di affidabilità delle conoscenze acquisite.

3. Possedere un vocabolario in grado di esprimere e di comunicare i concetti


fondamentali.

4. Comprendere messaggi e testi tipici del fenomeno considerato.

5. Produrre testi orali, scritti, multimediali.

6. Riconoscere in tratti e dimensioni della cultura e del vivere sociale


contemporanei le radici che li legano al mondo ebraico-cristiano.

7. Riconoscere nello svolgimento storico-culturale dell’Italia la sua identità


spirituale.

L’anno terminale dovrebbe essere dedicato a questo bilancio.


Capitolo 22 pag. 341
Si può proporre agli studenti il quadro degli obiettivi contenuto nel Pecup e
studiare con loro come portarlo a maturazione e come verificarlo.
Inoltre dovrebbero essere ricavati orientamenti per la formazione futura anche in
campo religioso.

3. Le tipologie dei licei

La licealità viene presentata dai documenti finora pubblicati nella sua unitarietà,
ma essa comprende, contestualmente e secondo una tradizione plurisecolare,
la individuazione di otto tipologie diversificate, con l’ulteriore possibilità di
suddivisione in più indirizzi.
Per ciascuno dei tipi di licei viene offerta una traccia specifica per l’IRC.
Può essere tenuta presente lungo l’intero curriculum oppure concentrata nel
periodo terminale.
I singoli licei vengono elencati in ordine alfabetico!

3.1. Liceo artistico

La CEI nella Sperimentazione 1998-2000 ha insistito molto sull’attenzione alla


presenza rilevante di contenuti religiosi cristiani nella produzione artistica italiana.
In certi periodi la produzione artistica è stata completamente assorbita da finalità
religiose e dalla religione ha attinto i suoi contenuti.
La presenza di un Liceo artistico consente all’IRC una collocazione
particolarmente congeniale.
Bisogna, tuttavia, tener presente che nel profilo dello studente che esce da
questo liceo vengono privilegiati gli aspetti formali, attinenti alle modalità
Capitolo 22 pag. 341/342
espressive e alle metodologie artistiche operative.
L’IRC può dare un proprio contributo specifico e coerente con la propria
disciplinarità facendo riferimento ai contenuti e alle problematiche religiose
presenti nelle espressioni artistiche.
A titolo di esemplificazione assolutamente non esaustiva, in ordine
storicocronologico.
Nell’architettura e nell’edilizia sacra: le prime domus ecclesiae e le antiche
basiliche; i monasteri e le chiese abbaziali; le cattedrali e le collegiate; i conventi
e le relative chiese.
Nella pittura e nella scultura: le raffigurazioni di Cristo; le storie bibliche e i loro
personaggi; le vite dei santi; gli eventi significativi.
Dare rilevanza anche a mosaici, vetrate, capitelli ed edicole.
Si suggerisce di dare attenzione alle rilevanti tracce delle religioni precristiane
che hanno lasciato insigni monumenti in varie città e regioni d’Italia.
Per la ricerca si possono porre domande:
– quali funzioni religiose avevano ed hanno le singole espressioni artistiche
osservate?
– come esse si rapportano ai diversi contesti storico-sociali?
– quali esperienze religiose personali o collettive consentono?

3.2. Liceo classico

Questo liceo è, nella riforma, il punto di riferimento principale, anche se questa


posizione non raccoglie il consenso nella maggioranza del mondo della scuola.
Anche in questo caso la Sperimentazione CEI ha fatto spesso riferimento alla
classicità e alle problematiche umane aperte al religioso che essa evoca.
L’IRC, in effetti, trova nell’universo culturale classico molti temi della
Capitolo 22 pag. 342
problematica religiosa:
– il problema dell’origine dell’uomo e del mondo;
– il destino dell’uomo;
– l’esistenza di Dio e il suo rapporto con l’uomo e con la natura;
– il problema del bene e del male.
La classicità coincide col tempo e con l’ambiente culturale nel quale è nata e si è
sviluppata l’esperienza cristiana e, prima ancora, quella ebraica.
La Bibbia ha assunto il linguaggio e le problematiche dell’uomo antico e le ha
ridette e reinterpretate alla luce della propria fede religiosa.

3.3. Liceo economico

È un liceo che eredita l’esperienza di due secoli nell’istruzione tecnica


economica, giuridica, aziendalistica e, ultimamente, turistica.
Trattandosi di istruzione tecnica lo scopo istituzionale era quello di formare
figure professionali intermedie capaci di gestire funzioni amministrative. Per cui
il curriculum prevedeva e prevede tuttora una gestione delle discipline più in
prospettiva professionale che culturale.
La licealizzazione vorrebbe operare una inversione della prospettiva.
I due filoni che caratterizzeranno il curriculum saranno quello economico e
quello giuridico.
Per l’IRC sembra profilarsi, come contributo specifico, l’attenzione alla
problematica morale.

3.3.1. Per quanto concerne l’aspetto economico, la riflessione disciplinare


nell’antico, nel medioevo e nel moderno è stata condotta all’interno della più
generale riflessione morale. Solo alla fine del XVIII secolo l’economia diventa
Capitolo 22 pag. 343
scienza autonoma dalla morale.
I temi che possono coinvolgere l’IRC sono:
– il senso dell’attività economica rispetto al significato complessivo dell’esistenza
umana;
– la natura e la funzione della ricchezza;
– il valore economico dei beni e dei servizi;
– lo scambio e il rapporto creditizio;
– l’accumulo, il risparmio e l’impiego della ricchezza;
– la distribuzione della ricchezza all’interno del sistema economico;
– il problema dell’occupazione e delle fonti di autosostentamento;
– risorse limitate e sviluppo demografico;
– liberalizzazione e globalizzazione del mercato.

3.3.2. Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, possiamo ugualmente fare


riferimento al passaggio da una visione sacrale della legge presente fino alla
modernità e alla visione laicale e autonoma nella contemporaneità.
L’IRC può trovare agganci nei valori che sono soggiacenti all’enunciazione dei
principi generali della Costituzione:
– lavoro, come diritto e dovere di cittadinanza;
– dignità della persona;
– libertà di espressione delle opinioni;
– uguaglianza di tutti di fronte alla legge;
– libertà di associazione.
Nel diritto fallimentare si può evidenziare che, pur nella precarietà della
condizione di fallimento dell’imprenditore, la legge salvaguarda la dignità
personale e le condizioni minime di sopravvivenza della famiglia.
Il diritto del lavoro sorge e si sviluppa per tutelare la parte debole e garantirla
nella propria dignità e nel proprio lavoro. In particolare l’orario di lavoro, il rispetto
Capitolo 22 pag. 343/344
della festività, il diritto al riposo, la tutela della donna e della maternità, la giusta
causa nel licenziamento.

3.3.3. Se ai due filoni si aggiungerà, come pare, quello dell’economia aziendale,


l’IRC potrà valorizzare il concetto di collaborazione nella creazione e nella
gestione dell’azienda, la comunanza dei fini, la solidarietà.

3.3.4. Potrebbe anche essere creato un indirizzo turistico che permetterebbe


all’IRC lo sviluppo di comportamenti di accoglienza e di comunicazione. Inoltre,
l’approccio alla fruizione dei beni culturali religiosi, per il quale vale quanto
proposto a proposito del Liceo artistico.

3.4. Liceo linguistico

Il Liceo linguistico eredita due strutture precedenti: il liceo linguistico e l’istituto


tecnico per il turismo.
Questo liceo dovrebbe svilupparsi in forma parallela e complementare rispetto
al Liceo classico. Il classico interessato alle lingue e alle culture antiche, il
linguistico alle lingue e alle culture moderne.
L’esperienza dell’ITT, invece, pur presentando un curriculum di tre lingue
moderne, si è più sviluppato nel campo della comunicazione in situazioni
professionali.
Due sono, perciò, le prospettive da valorizzare per l’IRC:
– la valorizzazione degli elementi culturali religiosi presenti nelle diverse
letterature e culture europee;
– l’apertura alla comunicazione tra i diversi popoli, specialmente attraverso
il turismo, in vista di una convivenza nell’accettazione delle diversità e nella
Capitolo 22 pag. 344
costruzione della pace.

3.5. Liceo musicale e coreutico

Per questo liceo possono essere riprese le considerazioni fatte a proposito del
Liceo artistico.
L’IRC esplorerà le modalità attraverso le quali sono stati espressi a livello
musicale e coreutico i contenuti e le aspirazioni religiose.
Inoltre, l’IRC può promuovere i nuclei di aggregazione interdisciplinare,
riproponendo esperienze musicali religiose dalla tradizione monastica fino ai
nostri giorni.
Allargando l’orizzonte, possono essere affrontate esperienze di teatro e di danza
legate a forme di religione di altre culture.
Può essere promossa la composizione di una breve opera musicale e coreutica
di contenuto religioso, secondo il gusto dei giovani.

3.6. Liceo scientifico

È necessario premettere che esiste una difficoltà di rapporto tra ricerca


scientifica e linguaggio matematico da una parte e ricerca di senso e apertura al
trascendente da un’altra parte.
È questo problema preliminare che deve essere esplorato e approfondito tramite
l’IRC, anche, possibilmente, in modalità interdisciplinare.
Si deve chiedere alla religione come essa intende affrontare la cultura scientifica.
E chiedere alla scienza come essa intende considerare la fede e il linguaggio
religiosi.
Capitolo 22 pag. 344/345
Il compito dell’IRC può sembrare arduo. Non si tratta di cercare le concordanze
tra fede e scienza, ma di definire il metodo e la razionalità della conoscenza
religiosa e di saperli confrontare col metodo e la razionalità scientifici.
L’IdR dovrà promuovere, perciò, attività didattiche interdisciplinari.
Ci sono, poi, alcuni nodi critici da affrontare:
– il problema di Dio e la ricerca scientifica;
– il problema dell’origine del mondo e la fede in Dio;
– il problema dell’origine dell’uomo e il linguaggio biblico;
– la scienza di fronte al problema morale.
La proposta didattica non deve essere condotta con mentalità controversista e
polemica, ma con spirito critico e costruttivo.

3.7. Liceo delle scienze umane

Questo liceo eredita l’antico Istituto Magistrale e le sue successive


ristrutturazioni: quinquennio psico-pedagogico Brocca, liceo delle scienze sociali,
liceo della comunicazione.
Gli studenti, in gran parte ragazze, sono spesso motivati a questo percorso
di studi dall’interesse per professionalità attinenti all’educazione dei bambini e
dei fanciulli, all’assistenza sociale, all’animazione dell’associazionismo e del
volontariato.
Le discipline caratterizzanti sono: le scienze dell’educazione, la psicologia, la
sociologia, l’etno-antropologia culturale.
L’IRC può inserirsi agevolmente nell’aspetto educativo sviluppando il tema del
contributo dell’educazione religiosa alla formazione completa della persona.
Dal punto di vista psicologico, possono essere sviluppati temi come:
– la motivazione e il suo rapporto con l’educazione religiosa;
Capitolo 22 pag. 345
– le modalità della conoscenza religiosa;
– il contributo della religione all’equilibrio psicologico della persona.
Dal punto di vista sociologico possono essere esaminati:
– i modelli di comportamento religioso;
– i gruppi e le aggregazioni religiose;
– il rapporto tra istituzione e persona;
– la pressione di conformazione sociale e la libertà di scelta individuale.
Dal punto di vista antropologico-culturale:
– possono essere esaminate le diverse concezioni dell’uomo, della famiglia, del
rapporto uomo-donna, le modalità di espressione del religioso e del rapporto col
sacro, le mitologie, i riti, le credenze nell’al di là;
– e stabilire confronti con la cultura ispirata al cristianesimo.

3.8. Liceo tecnologico

È prevedibile che confluiscano in questo liceo le esperienze degli Istituti Tecnici


Industriali.
La cultura industriale è fondata sull’esperienza del dominio sulla materia e sulla
capacità di trasformazione di essa in prodotti utili all’uomo.
È, indubbiamente, una mentalità e una cultura lontane dai problemi dello spirito
e dalla cultura umanistica.
L’IRC si trova in una situazione simile a quella del Liceo scientifico.
Deve condurre il confronto tra la mentalità tecnica e la mentalità di fede religiosa.
Non può cercare improbabili collegamenti con la tecnica, ma facilitare l’approccio
complementare ai problemi di senso, che anche l’uomo tecnologico non può non
porsi.
Qualche approccio specifico può essere dato:
Capitolo 22 pag. 345/346
– dall’analisi critica dei limiti della tecnica;
– dalla valutazione morale dei progressi tecnici.
Saranno utili riferimenti ad eventi di immediato impatto con l’opinione pubblica.

Riferimenti bibliografici

HEMEL U. (1990), Introduzione alla pedagogia religiosa, Brescia, Queriniana.


MIUR (2003), I licei nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e
formazione, Fiuggi 2003, dattiloscritto.
PAJER F. (2003), «Percorsi scolastici di cultura religiosa», in Agenda dell’IdR
2003-2004, Torino, SEI.
ROLL E. (1967), Storia del pensiero economico, Torino, Boringhieri.
SANDRONE BOSCARINO G. (2002), La filosofia della riforma, Roma, UPS,
dattiloscritto.
La storia delle chiese (2002), in «Il Mondo della Bibbia» (2002) n. 64.
TOSONI G. (2003), «Riforma della scuola e nuove prospettive per l’insegnamento
della religione», in Agenda dell’IdR 2003-2004, Torino, SEI.

Capitolo 22 pag. 346


CAPITOLO 23

IL SISTEMA DI ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE


PROFESSIONALE
Mario Tonini

Introduzione

La scuola di ogni ordine e grado prevede l’insegnamento della Religione


Cattolica (IRC) disciplinato dal Concordato tra Santa Sede e Stato Italiano
(18.02.1984). L’art. 9, comma 2, ne giustifica la presenza: «La Repubblica
Italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i
principi del Cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano,
continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e
grado».
La medesima norma non si applica al sistema della formazione professionale
(FP) di competenza regionale. Ciò significa che i Centri di formazione
professionale (CFP) non curano l’insegnamento della religione cattolica? Pur in
assenza di tale applicazione, gli Enti, nel sistema della FP, hanno sperimentato
e maturato una precisa proposta per la formazione della persona anche nella
dimensione religiosa.
Nella FP in Italia si sono introdotti, soprattutto in quest’ultimo decennio, molti e

Capitolo 23 pag. 347


profondi cambiamenti sia istituzionali che organizzativi. Riteniamo utile pertanto
offrire nella prima parte del presente contributo una breve panoramica sulla FP
in Italia, mettendone in evidenza, dal punto di vista storico, alcune caratteristiche
proprie, che sono quella professionalizzante, legata alle politiche attive del
lavoro, sancita dalla legge-quadro n. 845 del 21 dicembre 1978, quella più
specificatamente culturale, in risposta ai nuovi diritti dei cittadini, delineata più
recentemente dalla legge n. 144 del 17 maggio 1999 e quella di appartenenza a
pieno titolo al sistema educativo di istruzione e di formazione, voluta dalla legge
n. 53 del 28 marzo 2003. Nella seconda parte, entrando nel merito della tematica,
descriveremo innanzitutto i tratti essenziali della proposta per la formazione
della persona nelle dimensioni culturale e religiosa, sperimentata a partire dalla
legge-quadro 845/78 e successivamente aggiornata a seguito della legge 144/
99; in secondo luogo richiameremo l’attenzione su altri aspetti, ugualmente
importanti, della proposta formativa, quali le azioni di personalizzazione e di
evangelizzazione e la cura dell’ambiente educativo che ne sono il naturale
completamento. Concluderemo solamente con qualche indicazione ricavata
dalle sperimentazioni in atto sui percorsi del sistema educativo di istruzione e
formazione poiché, al momento della stesura del presente contributo, le Regioni
stanno organizzando modelli di FP molto differenziati e si è in assenza dei
decreti legislativi attuativi della legge 53/03.

1. L’evoluzione della formazione professionale in Italia: dalla formazione


professionale al sistema educativo di Istruzione e Formazione

Per cogliere la specificità della FP in Italia, è utile richiamare l’attenzione su


alcuni testi legislativi.

Capitolo 23 pag. 347/348


1.1. La FP nella legge-quadro n. 845 del 21 dicembre 1978: i corsi di FP

Il primo organico provvedimento in materia di FP in Italia è la Legge-quadro in


materia di formazione professionale n. 845 del 1978. La legge rappresenta la
prima scelta culturale nell’alternativa tra addestramento e formazione del giovane
al lavoro, introduce per la prima volta la dizione «formazione professionale» ed è
a fondamento dei vari sistemi formativi regionali.
Di questo testo legislativo evidenziamo solo due questioni: l’oggetto della FP e il
soggetto abilitato ad erogare il servizio.
La risposta alla prima questione si trova già all’articolo 1: «La Repubblica
promuove la formazione e l’elevazione professionale in attuazione degli
articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione, al fine di rendere effettivo il diritto
al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità
dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale». Il testo
legislativo, nel medesimo articolo, afferma che la formazione professionale è
«strumento di politica attiva del lavoro», si svolge «nel quadro degli obiettivi della
programmazione economica», tende a favorire «l’occupazione, la produzione e
l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico
e tecnologico ».
In sintesi, diritto al lavoro e alla sua libera scelta, percorsi formativi imperniati su
fasce di mansioni e di funzioni professionali omogenee, crescita della personalità
del lavoratore attraverso l’acquisizione di una cultura professionale, nel rispetto
dell’unitarietà metodologica tra contenuti tecnologici, scientifici e culturali sono gli
aspetti salienti di un progetto che, progressivamente, ha dato vita ad un sistema
formativo di competenza regionale, distinto da quello della scuola secondaria
superiore.
Sulla seconda questione, la legge promuove nel sistema formativo professionale
Capitolo 23 pag. 348
regionale il pluralismo dei soggetti basati sulle rispettive proposte formative.
All’articolo 3, infatti, la legge-quadro fissa i principi cui le regioni devono
uniformarsi per esercitare la potestà legislativa in materia di orientamento e di
formazione professionale. «Le regioni esercitano, ai sensi dell’articolo 117 della
Costituzione, la potestà legislativa in materia di orientamento e di formazione
professionale in conformità ai seguenti principi: ... c) organizzare il sistema di
formazione professionale sviluppando le iniziative pubbliche e rispettando la
molteplicità delle proposte formative». L’articolo 7, ultimo comma, stabilisce che
«I programmi, che devono fondarsi sulla polivalenza, la continuità e l’organicità
degli interventi formativi, devono poter essere adattati alle esigenze locali ed
assicurare il pieno rispetto della molteplicità degli indirizzi educativi».
I vari soggetti, quindi, erogatori del servizio della formazione professionale,
hanno trovato in questa legge lo spazio per elaborare, per gli allievi che
frequentavano i loro centri, specifiche «proposte formative» e «piani didattici»
coerenti con la loro natura di enti, rispettosi della normativa nazionale e regionale
e rispondenti alla domanda formativa degli utenti.
Questo sistema, pur diverso in tanti aspetti in quanto rispondente ai vari bisogni
territoriali, convergeva progressivamente su alcuni punti. Nella maggioranza delle
regioni si delineava un percorso formativo:
– unitario, pur articolato in varie aree (l’area pratico/operativa, l’area tecnologica,
l’area scientifica, l’area culturale, l’alternanza formazione / lavoro o stage);
– breve ed essenziale (4 cicli della durata massima di 600 ore ciascuno) e
centrato su fasce professionali omogenee, connotate da polivalenza, organicità e
continuità;
– strettamente connesso alle politiche attive regionali del lavoro;
– certificato mediante un attestato di qualifica, utile per l’inserimento nel mondo
produttivo.
Nasceva anche in Italia, secondo una suggestiva immagine di Filippo Hazon,
Capitolo 23 pag. 348/349
una vera «scuola del lavoro», alternativa alla scuola secondaria superiore, –
connotata da interventi centrati sulla professionalità e flessibilità dal punto di vista
organizzativo, in quanto capace di formare a ogni tipo di lavoro; – dotata di un
itinerario didattico imperniato soprattutto sull’alternanza tra formazione e lavoro;
– caratterizzata da una metodologia fortemente induttiva; – legata strettamente
al mercato del lavoro; – attenta, oltre che alle esigenze delle imprese, anche alle
esigenze educative dei suoi utenti, ossia dei giovani che l’avrebbero frequentata
(Hazon, 1985).
Gli studi effettuati sulla FP, nei decenni successivi alla legge, hanno dovuto
registrare purtroppo che non tutte le istanze iniziali si sono realizzate. Si è
più volte sottolineato soprattutto che questa «scuola del lavoro» si è diffusa
progressivamente nelle varie regioni in modo disomogeneo, «a macchia di
leopardo». Ancora recentemente, un rapporto ISFOL sottolinea che il sistema
formativo è oggi più diffuso nelle aree del Nord (Ovest ed Est) e nel Centro,
mentre è più contenuto nel Sud (ISFOL, 2001-02).

1.2. Il percorso formativo rinnovato dalla legge 144 del 1999: l’avvio
dell’obbligo formativo

Dopo quasi due decenni di relativa stabilità, a partire dalla seconda metà degli
anni Novanta, l’Italia ha iniziato a vivere – e vive tuttora – un profondo e talvolta
disomogeneo processo di riforme che ha coinvolto sia le istituzioni educative che
l’ordinamento dello Stato.
La legge 144 del 1999, pur confermando il legame tra azioni formative e
politiche attive del lavoro (legge 845/78), colloca la FP in un «sistema» educativo,
indicando l’obbligo di frequenza di attività formative fino al 18° anno di età come
la fase iniziale di un percorso che può proseguire nella formazione superiore e
Capitolo 23 pag. 349
nella formazione continua. La legge introduce anche il concetto di «integrazione
dei sistemi formativi». La FP usciva così dal suo pluridecennale isolamento per
collocarsi a pieno titolo all’interno del sistema educativo; pur conservando la
sua peculiare fisionomia, la funzione professionalizzante, ha assunto, a pieno
titolo, anche la funzione più specificatamente culturale in risposta ai nuovi bisogni
dei saperi di base, necessari per essere cittadini attivi nell’attuale società della
conoscenza.
Con la legge 144/99, infine, la FP non si limita più alla erogazione di singoli
corsi ma diviene una azione complessa in cui interagiscono politiche formative,
di orientamento e del lavoro. Così i vecchi corsi di formazione professionale
biennali vengono sostituiti da «percorsi formativi», articolati in azioni corsuali
dirette e in misure di personalizzazione, quali l’accoglienza, l’orientamento, le
misure di accompagnamento in itinere e finale.
Circa il soggetto la normativa di quegli anni si limita ad allargare la platea dei
potenziali soggetti erogatori del servizio formativo, purché in possesso di specifici
requisiti (legge 196 del 1997).

1.3. Il percorso formativo rinnovato dalla legge 53/03: il sistema


dell’istruzione e della formazione professionale

La legge 53 del 2003, detta anche Legge Moratti, colloca la formazione


professionale iniziale (FPI) nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione
e di formazione (art. 2, lettera d). Dopo la frequenza della scuola secondaria di
primo grado, l’allievo può scegliere tra il sistema dei licei e quello dell’istruzione e
della formazione professionale. (La riforma del titolo V della Costituzione, attuata con legge
costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, stabilisce che l’istruzione e la formazione professionale
sono di competenza legislativa esclusiva delle Regioni. Il precedente testo costituzionale affidava

Capitolo 23 pag. 350


alle Regioni «l’istruzione artigiana e professionale», interpretata sempre in modo restrittivo
solo come «formazione professionale», e lasciava allo Stato l’istruzione professionale. Il nuovo
testo ha voluto riportare ambedue i termini, istruzione e formazione professionale, per indicarne
con chiarezza le specifiche competenze.) Recepisce, in secondo luogo, i due aspetti
della formazione professionale regionale: la formazione della persona al lavoro
per facilitarne l’inserimento indicata dalla legge 845/78 e la formazione della
persona nei suoi aspetti culturali, civili e sociali indicata dalla legge 144/99.
Pone, in terzo luogo, a fondamento dell’intera normativa un preciso principio
educativo personalistico, che riguarda direttamente anche la formazione
professionale. Esso viene espresso chiaramente nell’articolo 1: il sistema
educativo di istruzione e formazione favorisce «la crescita e la valorizzazione
della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e
dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia, nel quadro della
cooperazione tra scuola e genitori, in coerenza con il principio di autonomia delle
istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione». Ed inoltre
nell’articolo 2 si afferma che «è promosso l’apprendimento in tutto l’arco della
vita e sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali
e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità,
generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate
all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle
dimensioni locali, nazionale ed europea». Prospetta una nuova lettura e, sotto
molti aspetti, un vero e proprio superamento del principio dell’obbligo scolastico e
formativo a favore dell’affermazione del diritto/dovere formativo, quando dice «è
assicurato a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni
o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno
di età; l’attuazione di tale diritto si realizza nel sistema di istruzione e in quello
di istruzione e formazione professionale». Prefigura, infine, anche per i giovani
che optano per la formazione professionale, un percorso di pari dignità culturale,

Capitolo 23 pag. 350/351


educativa e professionale rispetto a quello dei licei, della durata di tre anni, con
possibilità di proseguire ulteriormente fino ai 21 anni.

2. La Religione Cattolica nel sistema dell’istruzione e della formazione


professionale

Per l’IRC nell’Istruzione rimando al contributo di Lucillo Maurizio.


Le considerazioni che seguono fanno riferimento solo alla formazione
professionale di competenza regionale.
Come anticipato, nella scuola l’IRC è, a tutti gli effetti, una disciplina scolastica
che non è mossa da finalità catechistiche, ma si qualifica come proposta
culturale offerta a tutti, credenti e non, per ragioni di ordine pedagogico e storico
sociale.
Questa impostazione non ha trovato applicazione nella FP di competenza
regionale.
Molti Enti, infatti, in particolare quelli di ispirazione cristiana, a partire dalla legge-
quadro 845/78 che stabiliva l’unitarietà metodologica tra contenuti tecnologici,
scientifici e culturali (articolo 7, comma 2 in particolare), hanno impostato il
problema dell’IRC, anziché come disciplina autonoma, come «dimensione etico-
religiosa» inserita nell’area culturale, considerando questa parte integrante della
più ampia proposta della cultura professionale.
Esporremo la proposta elaborata nei suoi obiettivi, contenuti e metodologia
fondamentali, facendo riferimento alle tappe della legislazione analizzate nella
prima parte. Ci serviremo per la trattazione di questa seconda parte soprattutto
degli studi di Carlo Nanni, pubblicati periodicamente in «Rassegna CNOS» per
la cultura generale nella FP, dei progetti elaborati dalla Sede Nazionale CNOS-
FAP e sostenuti dal coordinamento scientifico di Guglielmo Malizia e Dario Nicoli
Capitolo 23 pag. 351
per l’obbligo formativo e per l’attuale processo di riforma del sistema scolastico
e formativo e di Giuseppe Ruta per lo studio realizzato per conto del CNOS-FAP
sulla specifica dimensione etico-religiosa nella FP.

2.1. La dimensione etico-religiosa nella «cultura generale»: la fase della


legge 845/78

In base alle indicazioni della legge n. 845/78, ogni tipo di curricolo formativo
della FP prevedeva, oltre alla fase dell’alternanza o stage, tre aree di supporto
all’esercitazione operativa e pratica: un’area tecnologica, un’area scientifica
e un’area culturale. L’area culturale era maggiormente assimilabile, quanto a
contenuti, a quella che nella scuola secondaria era l’area antropologico-sociale e
l’area linguistico-letteraria.
Nella FP è stata l’area che ha presentato maggiore disomogeneità di
impostazione.
In molti casi, infatti, quest’area è stata ridotta ad un recupero ed un supporto
linguistico-espressivo, che promuove le abilità fondamentali del leggere, scrivere,
esprimersi, relazionarsi, discutere e dialogare in modo corretto, incisivo e
ragionato.
In altri casi si è focalizzato l’aspetto conoscitivo su elementi di economia o
leggi e norme attinenti la vita sociale e politica, oltre che conoscenze di storia
operaia e lavorativa. Globalmente possiamo affermare che l’area della cultura
ha spaziato dalla comunicazione interpersonale e sociale alle informazioni
socioeconomiche fino ad una vera e propria area linguistico-umanistica
di carattere letterario, antropologico, sociale e giuridico. Queste diverse
accentuazioni sono state il frutto sia degli indirizzi di singole regioni che del
regime di pluralismo, di autonomia e di libertà lasciati agli enti di FP. Più che nelle
Capitolo 23 pag. 351/352
altre aree, «si sono fatte risentire in essa le tradizioni educative proprie degli
enti gestori o le prospettive ideologiche di riferimento che prevalgono nelle forze
sociali e politiche, operanti a livello locale o che comunque gestiscono attività
pubbliche di formazione professionale» (Nanni, 1991).
Dopo l’approvazione della legge 845/78, in molte regioni, sono state attuate
sperimentazioni promosse sia da enti pubblici (Regione Piemonte, Regione
Lazio, Regione Veneto) sia da enti del privato sociale (come il CNOS-FAP). Le
indicazioni di seguito riportate sull’area culturale fanno riferimento soprattutto alla
sperimentazione del CNOS-FAP.

2.1.1. La dimensione «etico-religiosa» nella «Cultura Generale»


La dizione «Cultura Generale» era stata intesa tenendo conto del senso
antropologico-pedagogico del concetto di cultura, intendendo con tale parola
l’insieme di idee, valori, modelli di comportamento, tecniche espressive ed
operative attinenti la FP. Era detta anche generale perché era considerata di
supporto alle altre aree formative (specialmente nelle abilità conoscitive di base e
nelle metodologie di studio e di ricerca) e perché assumeva la finalità specifica di
esplorare l’area cosiddetta del «significato» della FP, vale a dire le idee e i valori
ispiratori di fondo di tale formazione. Posta nell’insieme del percorso formativo
di qualificazione professionale, la cultura generale rispondeva, dunque, a due
finalità: aveva innanzitutto una intenzionalità formativa, cioè funzionale alla
globalità delle problematiche attinenti la professionalità e non riducibile ad un
asettico insieme di informazioni socio-economiche; assumeva, in secondo luogo,
un contenuto proprio, la prospettiva culturale del lavoro, vista sia nella sua faccia
oggettiva di produzione, che nella faccia soggettiva di professionalità.

2.1.2. Gli obiettivi, i contenuti e le strategie didattiche della «cultura generale»


Insieme alle altre aree del curricolo formativo, la Cultura Generale proponeva un
Capitolo 23 pag. 352
itinerario di formazione culturale/professionale che mirava a:

a) umanizzare la formazione al lavoro e alla scelta professionale nel quadro del


progetto di vita personale e sociale, secondo prospettive di valore, oltre il puro e
semplice quadro economico-produttivo;

b) integrare l’esperienza lavorativa nell’insieme di vita di relazione (amicale,


familiare, sociale, civile ed ecclesiale);

c) personalizzare la scelta e la pratica professionale, per vivere entrambe


secondo modi e stili personali;

d) inserire in forma attiva e partecipativa gli utenti nel mondo del lavoro e nella
società civile ed ecclesiale nella prospettiva di una cultura della corresponsabilità
e della solidarietà.

L’area della Cultura Generale tendeva così ad offrire agli allievi informazioni
solide e critiche; ne motivava le conoscenze e le abilità che venivano apprese;
stimolava l’apertura ad interessi ampi di ordine professionale, culturale,
personale, sociale, morale e religioso, nella flessibilità e nella disponibilità
all’aggiornamento e all’innovazione, al mutamento, pur nella ricerca di una
consolidata identità e continuità culturale, personale, sociale ed ecclesiale;
suscitava atteggiamenti, prese di posizione personale e forme di presenza
professionale, civile e cristiana, che sanno coniugare sapere, saper fare e saper
essere.
Dal punto di vista dei contenuti l’area prevedeva un miglioramento linguistico ed
espressivo (sia sotto forma di recupero, sia sotto forma di supporto alle altre aree
curricolari, sia come sviluppo delle personali capacità linguistiche ed espressive);
Capitolo 23 pag. 352/353
promuoveva competenze comunicative e relazionali adeguate ai modi e alle
esigenze della professione cui si intendeva formare; offriva contenuti attinenti
una aggiornata e critica cultura del lavoro e della professionalità; stimolava
ad un approfondimento ragionato e solidamente fondato dei rapporti tra vita
professionale, dimensione etico-religiosa, impegno civile ed ecclesiale.
I pochi cenni sono sufficienti per comprendere come la dimensione etico-
religiosa sia stata ritenuta, sin dalle prime sperimentazioni, parte integrante
della cultura generale. Così inquadrata, questa dimensione aveva l’obiettivo
di aiutare l’allievo a cogliere le ragioni profonde e il significato plenario
dell’attività lavorativa, della vita professionale e della formazione ad esse. Non
riconducendola a disciplina autonoma, si è potuto evitare il pericolo di incrinare
l’organicità del progetto formativo e di indurre l’allievo a pensare tale dimensione
come un corpo estraneo agli intenti della formazione professionale.
Circa le strategie didattiche adottate è sufficiente osservare che l’azione
formativa trovava il suo punto di partenza nella individuazione e nell’analisi dei
bisogni formativi e professionali specifici degli utenti; organizzava i contenuti
in moduli ed unità didattiche, scanditi lungo il decorso dei cicli formativi a
disposizione; privilegiava il riferimento alle fonti, ai documenti e stimolava
alla ricerca, al lavoro e alla discussione di gruppo; faceva uso di molteplici
strategie didattiche disciplinari e interdisciplinari, di sussidi tradizionali e di
mezzi multimediali; controllava e valutava sistematicamente il processo di
apprendimento mediante forme di valutazione formativa e di valutazione finale.
Questo approccio è stato analizzato mediante attenti studi e ricerche soprattutto
da parte della Federazione CNOS-FAP. Due sondaggi nazionali (1991, 1995-
96) hanno monitorato l’efficacia del progetto formativo nella sua globalità. Le
conclusioni confermavano che l’impostazione si rivelava globalmente adeguata
alle attese degli allievi che frequentavano in quei decenni i vari CFP (CNOS-FAP,
1991; CNOS-FAP, 1995-96).
Capitolo 23 pag. 353
2.2. La dimensione religiosa negli standard formativi dell’area comune: la
fase della legge 144/99

L’introduzione dell’obbligo formativo imponeva una revisione del progetto di


formazione e, quindi, anche della parte attinente il nostro tema. All’articolo 68 la
legge recita che «al fine di potenziare la crescita culturale e professionale dei
giovani, ferme restando le disposizioni vigenti per quanto riguarda l’adempimento
e l’assolvimento dell’obbligo dell’istruzione, è progressivamente istituito, a
decorrere dall’anno 1999-2000, l’obbligo di frequenza di attività formative fino
al compimento del diciottesimo anno di età. Tale obbligo può essere assolto in
percorsi anche integrati di istruzione e formazione:
a) nel sistema di istruzione scolastica,
b) nel sistema della formazione professionale di competenza regionale,
c) nell’esercizio dell’apprendistato».
La peculiarità dei diversi sistemi che concorrevano all’assolvimento dell’obbligo
formativo era sancita anche dalla diversità delle soluzioni: nel sistema scolastico,
l’obbligo si intendeva assolto con il conseguimento del diploma di scuola
secondaria superiore; nel sistema di formazione professionale veniva assolto
con il conseguimento di una qualifica professionale; nel canale dell’apprendistato
l’assolvimento era legato alla frequenza di corsi di formazione di 120 ore annuali
fino ai 18 anni di età.

2.2.1. L’area delle scienze umane


Il progetto, pur profondamente rinnovato e aggiornato, conserva l’impostazione
già sperimentata nei decenni precedenti. Recupera, infatti, il concetto di cultura
sperimentato nella cultura generale, riformulandolo e aggiornandolo nella
Capitolo 23 pag. 354
nuova area dei saperi o, diversamente chiamata, area delle scienze umane;
quest’area, insieme alle competenze professionali, le iniziative di promozione
delle capacità personali, l’alternanza formativa (o stage) costituiscono l’ossatura
del nuovo percorso formativo, che però si arricchisce anche di ulteriori azioni:
la personalizzazione (moduli di accoglienza, iniziative di orientamento, moduli
propedeutici, interventi di recupero e di approfondimento) e le misure di
accompagnamento al lavoro volte a favorire l’inserimento professionale dei
giovani tenendo conto delle peculiarità occupazionali locali.
Anche nel nuovo progetto la dimensione etico-religiosa resta all’interno dell’area
dei saperi o area delle scienze umane. Come già ricordato, tale dimensione,
posta all’interno del percorso formativo e fortemente connessa ad esso, aiuta i
giovani a cogliere gli aspetti della «religiosità» e della «religione» (in particolare
cristiano cattolica) che caratterizzano la cultura italiana. La sua intenzionalità
formativa, pertanto, non è tanto quella di sviluppare la religiosità nel soggetto,
quanto di aiutare l’allievo nella conoscenza e nell’apprezzamento della sfera
religiosa, dei suoi valori, dell’ethos, con le sue molteplici manifestazioni
all’interno della vita personale, sociale e professionale del giovane.(La riflessione
fa riferimento alle seguenti distinzioni: per «religiosità» si intende la dimensione «soggettiva»
dell’uomo che percepisce il senso del suo limite e del trascendente; per «religione» invece la
dimensione «oggettiva», cioè il sistema di credenze e di pratiche che stanno alla base di una
istruzione religiosa; la «fede», nella accezione cristiana, è chiamata di Dio alla comunione
con sé e degli uomini tra di loro e risposta personale dell’uomo alle sue iniziative.) In ordine
alla maturazione del soggetto, la dimensione etico-religiosa offre stimoli per
risvegliare gli interrogativi profondi dell’esistenza umana, per dilatare la visione
della realtà che lo circonda e per approfondire la lettura della storia umana come
ambito in cui ogni uomo sperimenta la sua libertà, la reciprocità con gli altri
uomini, la responsabilità comune di costruire un mondo più umano e la posizione
da assumere nei confronti del Trascendente. In ordine all’oggetto proprio,
Capitolo 23 pag. 354/355
l’approccio etico-religioso si fonda soprattutto su un’indagine culturalmente
fondata dell’esperienza storica del cristianesimo, secondo la tradizione cattolica
che, nel nostro contesto territoriale nazionale, è la «forma religiosa» più
importante, oltre che la più diffusa. In ordine all’ambiente CFP, la dimensione
etico-religiosa, facendo uso degli strumenti propri della FP, contribuisce all’opera
culturale d’analisi, di ricognizione critica e d’interpretazione, di promozione di
capacità progettuali che devono contraddistinguere l’apprendimento specifico e
diversificato da altre esperienze d’educazione dell’uomo.
In sintesi, il percorso formativo rinnovato mira a far sì che gli allievi si esprimano
e comunichino in lingua italiana in forma corretta ed adeguata alle esigenze
di interazione sociale, di inserimento professionale, di espressività individuale,
utilizzando in modo efficace le principali modalità dei registri comunicativi;
partecipino responsabilmente alla vita sociale e pubblica, in relazione allo
sviluppo del proprio progetto personale e professionale, interagendo con
l’amministrazione ed i servizi pubblici e privati nella considerazione dei
propri diritti e dei propri doveri; conoscano i fondamenti legislativi a tutela del
lavoro, del lavoratore e delle lavoratrici e le norme contrattuali di riferimento,
rapportandosi con le organizzazioni e le istituzioni sociali del mondo del lavoro;
apprendano le leggi fondamentali che regolano l’economia e il funzionamento
dei sistemi economici, conoscendo gli elementi costitutivi e la natura giuridica di
un’azienda, individuando le diverse tipologie di organizzazione; acquisiscano la
consapevolezza di possedere e sviluppare una mappa di valori etici significativi
per affrontare le condizioni di vita presenti nella società e nel lavoro, sviluppando
la capacità di leggere e interpretare gli elementi religiosi della cultura,
apprezzando i valori del cristianesimo e delle altre appartenenze religiose.

2.2.2. Obiettivi e contenuti dell’area delle scienze umane


Le finalità sopra richiamate sono state declinate in obiettivi centrati su alcune
Capitolo 23 pag. 355
aree formative che sono di seguito descritte. Gli estensori del progetto
sperimentale hanno individuato quelle aree che hanno come centro la
formazione della persona, del cittadino, del lavoratore e del cristiano. Ogni area è
stata articolata in unità formative di apprendimento.

Area formativa della PERSONA


L’area mira a far acquisire agli allievi la consapevolezza della propria realtà
personale e sviluppare una mappa di valori etici significativi per affrontare le
condizioni di vita presenti nella società e nel lavoro.
L’area si articola in varie unità formative.
Nell’unità formativa «Identità e relazione» l’allievo focalizza il problema della
propria identità ed enuclea alcune linee guida sull’identità dell’uomo e sui valori
della persona in riferimento alla propria maturazione umana; esamina gli aspetti
fondamentali della relazione umana; analizza e confronta il problema della
religiosità dell’uomo e la sua rilevanza per la cultura e la storia.
Alivello di contenuti l’unità formativa indica temi quali l’identità e il mistero
della persona, i valori e l’etica della persona, la relazione con gli altri e l’istanza
religiosa.
Nell’unità formativa «La comunità» l’allievo enuclea le caratteristiche e i diritti
della famiglia come soggetto sociale, cogliendone gli aspetti che fanno problema;
analizza e confronta gli aspetti fondamentali e la dimensione comunitaria delle
grandi religioni; individua i punti essenziali della dottrina sociale della Chiesa.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce come temi l’identità sociale
e relazionale della persona, la dimensione comunicativa civile e culturale dei
soggetti sociali, i valori comunitari e sociali.
Nell’unità formativa «Il senso della vita» l’allievo individua gli elementi costitutivi
del senso progettuale dell’uomo, cogliendone risorse e limiti; analizza i diversi
orientamenti etici diffusi nella società e le principali caratterizzazioni etiche per la
Capitolo 23 pag. 355/356
propria esperienza personale.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce i temi della vita e della morte
nel contesto culturale e religioso odierno, le traiettorie etiche e la prospettiva
cristiana.

Area della CITTADINANZA


L’area mira a far acquisire agli allievi il senso della partecipazione responsabile
alla vita sociale e pubblica, in relazione allo sviluppo del proprio progetto
personale e professionale e il saper interagire con l’amministrazione ed i servizi
pubblici e privati nella considerazione di propri diritti e dei propri doveri.
L’area si articola in varie unità formative.
Nell’unità formativa «Il cittadino» l’allievo acquisisce gli strumenti per
comprendere i caratteri fondamentali della Repubblica Italiana e i suoi organi
(la Costituzione, le sue origini, i diritti fondamentali, civili e sociali, i suoi
poteri); prende coscienza della valenza della dimensione europea e cosa
significhi essere cittadini europei, dell’esistenza dell’ONU e di altri organismi
soprannazionali; acquisisce consapevolezza degli strumenti di partecipazione
alla vita dello Stato.
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce temi quali l’Unione Europea,
l’ONU, gli organismi soprannazionali, la Repubblica e i suoi organi, le modalità di
partecipazione.
Nell’unità formativa «Diritti e doveri» l’allievo acquisisce gli strumenti necessari
per la comprensione del concetto di norma, è in grado di individuare la violazione
dei diritti, è consapevole delle sanzioni relative al mancato adempimento dei
doveri.
Alivello di contenuti l’unità formativa prevede le norme e le loro applicazioni, i
diritti e doveri individuali e sociali.
Nell’unità formativa «Diritti umani» l’allievo conosce i contenuti fondamentali
Capitolo 23 pag. 356/357
della Carta Universale dei diritti umani, è consapevole dei conflitti attualmente
aperti nel mondo, è in grado di comprendere la dimensione multiculturale della
società attuale, valuta le pari opportunità.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce stimoli sui diritti universali
dell’uomo, i conflitti nel mondo, la multiculturalità e interculturalità, aspetti sulle
pari opportunità.
Nell’unità formativa «Territorio e storia» l’allievo acquisisce le conoscenze
per una lettura in chiave storico-geografica del proprio territorio, è in grado di
collegare la propria micro realtà al contesto nazionale e internazionale.
Alivello di contenuti l’unità formativa prevede elementi di cultura e storia del
proprio territorio e raccordi di storia nazionale e internazionale.

Area dell’ECONOMIA e della SOCIETÀ


L’area mira a far acquisire agli allievi la capacità di conoscere e utilizzare gli
elementi fondamentali dell’economia e il saper operare gli atti amministrativi
fondamentali della vita quotidiana, conoscere le leggi fondamentali che regolano
l’economia ed il funzionamento dei sistemi economici, conoscere gli elementi
costitutivi e la forma giuridica di un’azienda, individuandone le diverse tipologie di
organizzazione.
L’area si articola in varie unità formative.
Nell’unità formativa «Il budget» l’allievo conosce gli elementi costitutivi del
documento budget a diversi livelli ed è in grado di applicarne le regole per la
gestione dei documenti amministrativi.
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce temi quali il budget personale,
gli atti amministrativi, il budget aziendale.
Nell’unità formativa «Il sistema economico» l’allievo individua il ruolo dei
diversi soggetti economici e i loro rapporti, sapendo utilizzare il corretto lessico
economico.
Capitolo 23 pag. 357
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce spunti sulle leggi fondamentali
dell’economia, il sistema famiglia, il sistema impresa e il sistema Stato.
Nell’unità formativa «Organizzazione dell’impresa» l’allievo conosce gli elementi
costitutivi e la natura giuridica di un’azienda e ne individua le diverse tipologie di
organizzazione.
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce il tema dell’azienda e la sua
struttura organizzativa.
Nell’unità formativa «Creare e gestire un’impresa» l’allievo conosce il concetto
e il contenuto del piano di un’impresa (dall’idea al progetto), conosce il concetto
di fabbisogno finanziario individuando le modalità di finanziamento in base
all’attività economica scelta, riproduce fedelmente la struttura e le funzioni di
un’impresa reale, in tutti gli aspetti che riguardano l’organizzazione, i tempi di
lavoro, gli ambienti, la documentazione, gli aspetti relazionali interni ed esterni
all’impresa.
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce i temi del Business Plan,
del fabbisogno finanziario e appropriato finanziamento, delle dinamiche
organizzative ed economiche tipiche della gestione di un’impresa.

Area del LAVORO


L’area mira a far acquisire agli allievi la capacità di conoscere i fondamenti
legislativi a tutela del lavoro, del lavoratore e delle lavoratrici e le norme
contrattuali di riferimento e a sapersi rapportare con le organizzazioni e le
istituzioni sociali del mondo del lavoro.
L’area si articola in varie unità formative.
Nell’unità formativa «Il lavoro» l’allievo conosce i fondamenti legislativi del
lavoro e della formazione, valuta gli aspetti etici del lavoro in relazione alle
caratteristiche della società contemporanea.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce stimoli sui diritti del lavoro e
Capitolo 23 pag. 357/358
della formazione, etica del lavoro.
Nell’unità formativa «Il lavoro: problemi e opportunità» l’allievo conosce alcuni
aspetti dell’evoluzione subita dal lavoro nell’arco della storia, definisce le nuove
professioni che contraddistinguono la società contemporanea, conosce le regole
di funzionamento del mercato del lavoro, valuta l’incidenza del processo di
«globalizzazione» sul lavoro.
Alivello di contenuti l’unità formativa prevede i temi del mercato del lavoro, delle
trasformazioni del lavoro e delle professioni.
Nell’unità formativa «Contratto di lavoro. Tutela e sviluppo» l’allievo conosce
i fondamenti legislativi del rapporto di lavoro, le forme e i principali contratti di
lavoro, approfondisce le modalità di gestione del processo di ricerca attiva del
lavoro.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce stimoli sul rapporto di lavoro e la
ricerca attiva del lavoro.

Area della COMUNICAZIONE


L’area mira a far acquisire agli allievi la capacità di esprimersi e comunicare in
lingua italiana in forma corretta ed adeguata alle esigenze di interazione sociale,
di inserimento professionale, di espressività individuale, utilizzando in modo
efficace le diverse modalità dei registri comunicativi.
L’area si articola in varie unità formative.
Nell’unità formativa «Comunicare» l’allievo conosce ed applica in modo
corretto le regole grammaticali e compositive della lingua italiana, identifica le
caratteristiche essenziali dei mezzi di comunicazione di massa e i criteri di lettura
dei vari codici.
A livello di contenuti l’unità formativa suggerisce modalità operative per applicare
regole grammaticali e compositive nel sistema linguistico, codici e canali della
comunicazione verbale e non verbale.
Capitolo 23 pag. 358/359
Nell’unità formativa «Comprendere testi orali e scritti» l’allievo individua e
comprende i concetti essenziali presenti nei testi orali e scritti, produce e
presenta una sintesi scritta da testi che si riferiscono al contesto territoriale e
lavorativo.
Alivello di contenuti l’unità formativa prevede l’analisi delle modalità comunicative
dei differenti mass-media, la lettura e comprensioni dei quotidiani, lettura e
comprensione dei testi informativi e tecnici, organizza appunti, tecniche di lettura
e sintesi di un testo, schemi.
Nell’area formativa «Cultura linguistica» l’allievo conosce le caratteristiche
culturali significative del proprio territorio, conosce ed esprime proprie valutazioni
critiche su testi di autori contemporanei significativi.
Alivello di contenuti l’unità formativa suggerisce temi quali ricerche sulle
tradizioni linguistiche e folkloristiche del territorio, elementi di produzione
letteraria contemporanea, linguaggi specialistici di settore.

Area dell’INGLESE
L’area mira a far acquisire la capacità di comunicare adeguatamente in situazioni
quotidiane e di comprendere testi tecnici.

2.2.3. Criteri metodologici ispiratori per la gestione delle unità formative di


apprendimento
Le unità descritte intendono dotare il giovane che frequenta il CFP di strumenti
e di opportunità che gli consenta di valorizzare al meglio l’approccio peculiare
della FP, che è centrato sulla scoperta e sull’aiuto alla realizzazione del progetto
personale imperniato sull’identità lavorativo-professionale e sulla base di una
proposta tesa a formare il cittadino, il lavoratore, il cristiano. Le varie unità
formative di apprendimento per questo si basano sulla centralità dell’esperienza
e della competenza, sul metodo induttivo per ricerca e scoperta, sul legame
Capitolo 23 pag. 359
motivante e funzionale tra le risorse offerte, le competenze da possedere e i
risultati ottenuti dal giovane nel suo percorso (esperienze di successo). Esse
coniugano in un insieme armonico l’approccio esperienziale e l’astrazione,
anch’essa necessaria, presupposto fondamentale per costruire un percorso di
autonomia nell’apprendimento. Il percorso formativo è sostenuto anche dalle
nuove tecnologie educative (NTE). Ciò che si persegue non è infatti l’abilità fine
a se stessa, quanto lo sviluppo di una professionalità piena, fatta di competenze
(sapere teorico ed abilità applicate nella risoluzione di un compito professionale)
e di atteggiamenti e comportamenti congruenti accompagnati dalla maturazione
nell’allievo di una mentalità che assuma i compiti di lavoro entro un quadro
non solo funzionale ma anche ideale, per il cui perseguimento si prevede una
disposizione interiore tesa al bene. Quanto detto è sufficiente per sottolineare
che le unità di apprendimento indicate non sono un «programma formativo»
ma indicazioni da rielaborare in percorsi formativi centrati su un approccio per
esperienze e non per contenuti (i contenuti sono recuperati lungo il percorso)
ed i titoli alludono non tanto al contenuto quanto alla performance e quindi alla
«dotazione personale» dell’allievo.

3. Le altre attività complementari e il valore aggiunto dell’ambiente


educativo

Sin dalle prime sperimentazioni, il CNOS-FAP ha collocato l’azione formativa


corsuale in una azione educativa più ampia, attivando anche iniziative
complementari e integrative alla FP ma ugualmente importanti per la crescita
globale del giovane, iniziative che ambiscono a trasformare il Centro di
formazione professionale in «scuola a tempo pieno». Si tratta della attenzione
Capitolo 23 pag. 359/360
che tutta la comunità educativa destina all’ambiente perché sia «educativo» in
tutti i suoi aspetti.
Si segnalano, nella lunga tradizione educativa del CNOS-FAP, alcune iniziative
ormai consolidate.
Ogni giovane beneficia del «buon giorno».
L’iniziativa arricchisce un concetto di «accoglienza» dominante oggi che si
riduce, nell’esperienza più comune, alla sola fase iniziale del percorso formativo.
Il concetto di «buon giorno», nell’esperienza del CNOS-FAP, vuole essere una
«accoglienza quotidiana del giovane» con tutto il suo vissuto, per educarlo a
leggere in profondità la sua vita quotidiana sotto tutti gli aspetti.
Ogni CFP si sta dotando di un operatore che cura, in modo particolare, la
promozione delle capacità personali del giovane. Si tratta di una azione
squisitamente personalizzata e tesa alla promozione di quelle capacità
legate soprattutto alla maturazione della persona. L’attenzione ruota intorno
all’identità personale, all’aspetto relazionale, all’aspetto progettuale e all’aiuto
all’inserimento nella società.
Ogni CFP, infine, coniuga la scansione temporale del percorso formativo con
la scansione temporale dei tempi liturgici, invitando i giovani a vivere le feste
cristiane.
Per rendere il CFP una «scuola a tempo pieno» molti Centri si sono organizzati
per offrire ai giovani anche proposte di attività culturali, di servizio nella società
civile ed ecclesiale, forme associative (ex allievi) e coinvolgimento delle famiglie
anche in forme strutturate.

Capitolo 23 pag. 360


4. Prospettive: la «dimensione etico-religiosa» o l’insegnamento della
Religione Cattolica?

Dopo questo breve excursus tratteggiamo le caratteristiche fondamentali delle


attività proprie della formazione professionale oggi, in fase di sperimentazione
secondo la legge 53/03. (Quanto viene indicato in questa parte ha un valore indicativo perché
alla legge 53/2003 dovranno fare seguito i regolamenti di attuazione. Le caratteristiche indicate
fanno riferimento sia alle sperimentazioni attuate in questi anni in Italia a seguito di appositi
protocolli di intesa tra i Ministeri e le Regioni sia alle indicazioni contenute nell’accordo tra il MIUR,
il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano,
le Province, i Comuni e le Comunità montane sottoscritto nella Conferenza unificata il 19.06.2003.)
La nuova FP dovrà tenere conto del profilo educativo, culturale e professionale
che indica – in linea generale e specificamente per ogni comunità professionale
prevista – le competenze attese alla fine dei percorsi previsti, cioè ciò che ogni
allievo, alla fine del secondo ciclo deve sapere (le conoscenze disciplinari e
interdisciplinari) e fare (le abilità operative o professionali) per essere l’uomo
e il cittadino che è lecito normalmente attendersi che sia, a 18-19 anni. Ogni
percorso di qualifica si collocherà in una «comunità professionale» entro cui si
delineano più figure professionali aventi una cultura del lavoro comune.
In secondo luogo dovrà fare riferimento alle future Indicazioni regionali –
specifiche per le diverse comunità professionali previste – concernenti gli obiettivi
generali del processo formativo, gli standard professionali, gli obiettivi specifici di
apprendimento, taluni vincoli (es.: tecnologici ed organizzativi).
Confermerà l’adozione della strategia pedagogica della personalizzazione, già
ampiamente sperimentata, che consiste nel costante riferimento del percorso
educativo-formativo alla specifica realtà personale dell’allievo. Personalizzare
significa delineare differenti percorsi di trasferimento-acquisizione delle
conoscenze, abilità e competenze, in base alle caratteristiche personali degli
Capitolo 23 pag. 360/361
allievi: stili di apprendimento, metodi di studio, caratteristiche peculiari. La
personalizzazione così intesa permette di trasformare le capacità (ovvero le
potenzialità della persona) in vere e proprie competenze agite e valutate che
consentono alla persona di realizzare tendenzialmente il suo progetto di vita/di
lavoro.
I percorsi si svilupperanno mediante unità di apprendimento – disciplinari e
interdisciplinari – che vengono concordate dall’équipe dei formatori. Valorizzerà,
secondo la peculiarità maturata in questi decenni di attività, la metodologia attiva,
centrata sulle competenze e sul profilo personale e sociale del destinatario.
Ciò significa realizzare il più possibile laboratori di apprendimento (culturali,
sociali, professionali), specificati in compiti che richiedono una integrazione delle
diverse discipline o aree formative coinvolte. La metodologia attiva permetterà
di realizzare un approccio amichevole che valorizza l’esperienza dei giovani e
conduce in modo induttivo verso traguardi di sapere soddisfacenti orientati a
compiti concreti, valutati sulla base di specifiche performance.
La nuova FP si doterà di una organizzazione flessibile, prevedendo la figura
del coordinatore-tutor in grado di favorire l’intesa nell’équipe, delineare i
piani formativi personalizzati, sviluppare una costante attività di sostegno ed
accompagnamento degli allievi, realizzare una coesione con le imprese e con gli
altri soggetti coinvolti nel progetto formativo, monitorare costantemente l’attività
ed intervenire nei momenti critici ai fini del miglioramento della stessa.
Farà riferimento ad una prassi di valutazione «autentica» che mira a verificare
non solo ciò che uno studente sa, ma ciò che «sa fare con ciò che sa», fondata
su una prestazione reale e adeguata dell’apprendimento che risulta così
significativo, poiché riflette le esperienze di apprendimento reale ed è legato
ad una motivazione personale. Scopo principale della valutazione autentica
è far agire tutti in regime di qualità. Ciò comprende l’autovalutazione ed il
miglioramento del processo di insegnamento/apprendimento. Essa mira pertanto
Capitolo 23 pag. 361
alla dimostrazione delle conoscenze tramite prestazioni concrete, stimolando
l’allievo ad operare in contesti reali con prodotti capaci di soddisfare precisi
obiettivi.
Introdurrà, infine, il «portfolio/libretto formativo» ovvero – accanto alla
documentazione che illustra il percorso dell’allievo – la raccolta significativa dei
lavori dell’allievo che racconta la storia del suo impegno, del suo progresso o del
suo rendimento: si tratta pertanto di materiali che documentano ad altri una serie
di prestazioni eseguite nel tempo e di cui l’allievo è orgoglioso.
Giunge così a maturazione un modello di percorso formativo che oggi è di durata
triennale, aperto ad una eventuale prosecuzione verso il diploma di formazione
ed il diploma di formazione superiore, nella logica dei «livelli essenziali delle
prestazioni», sanciti dalla Costituzione.
Hazon, nel capitolo finale «Prospettive per una scuola del lavoro», già nel
lontano 1985 auspicava che la FP doveva agire sui giovani con modalità inedite:
«Alla disaffezione per gli studi si può contrapporre l’affezione per il lavoro; alla
stessa disaffezione per il lavoro si può rispondere con una concezione del lavoro
liberatoria e gratificante, da vivere già embrionalmente ma significativamente
nella scuola stessa e nei momenti di alternanza. Sono dunque i giovani che
postulano una salda congiunzione tra teoria e pratica nella matematica, nella
lingua, nei principi scientifici; una cultura professionale per “fasce omogenee” che
li cali criticamente nella realtà mostrandone loro tutte le dimensioni; una cultura
dell’uomo, che ne riveli le caratteristiche e potenzialità vitali e sociali, nella storia
del lavoro e della tecnica, nell’economia e nella politica economica, nella storia
del movimento operaio, nell’etica e nella spiritualità del lavoro» (Hazon, 1985,
240-241).
Ci sembra che la panoramica, pur sommaria, evidenzi l’arricchimento del
concetto di formazione professionale avvenuta in questi decenni in Italia, fino
alla formulazione compiuta della legge 53 del 2003. All’interno di questo quadro
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anche l’IRC dovrà trovare una sua collocazione: come «disciplina specifica» o
come «dimensione educativa»? Al momento possiamo solamente affermare che
l’esperienza finora maturata ha dato buoni frutti.

Sigle

CFP – Centro di formazione professionale


FP – Formazione professionale
FPI – Formazione professionale iniziale
IRC – Insegnamento della Religione Cattolica

Riferimenti bibliografici

Leggi fondamentali di riferimento

Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’Istruzione e


dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di Istruzione e Formazione
professionale, legge n. 53 del 28 febbraio 2003.
Legge-quadro in materia di formazione professionale, legge n. 845 del 21
dicembre 1978.
Modifiche al titolo V, parte seconda della Costituzione: Regione, Province,
Comuni, legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001.
Norme in materia di promozione dell’occupazione, legge n. 196 del 1997.
Obbligo di frequenza di attività formative, legge n. 144 del 17 maggio 1999.

Capitolo 23 pag. 362/363


Studi e Progetti

BECCIU M. - A. R. COLASANTI (2003), La promozione delle capacità personali.


Teoria e prassi, Roma, Tipografia Pio XI.
CNOS-FAP (2003), La carta dei valori salesiani nella formazione professionale,
Roma, Tipografia Pio XI.
CNOS-FAP (1991), La qualità della formazione professionale del CNOS-FAP.
Sondaggio nazionale, dattiloscritto.
CNOS-FAP(1995-96), La qualità della formazione professionale del CNOS-FAP.
Secondo sondaggio nazionale, dattiloscritto.
CNOS-FAP - CIOFS/FP (edd.) (2002), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla
formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, Tipografia
Pio XI.
CNOS-FAP - CIOFS/FP (edd.) (2003), Dossier per la realizzazione del
nuovo percorso dell’Istruzione e della formazione professionale, a seguito
dell’approvazione della legge 53/2003, dattiloscritto.
CNOS-FAP - CIOFS/FP (edd.) (2003), Linea guida per la realizzazione di
percorsi organici di istruzione e formazione professionale, dattiloscritto 2003.
CNOS-FAP - CIOFS/FP (edd.) (2000), La nuova formazione professionale
iniziale: il progetto del CNOS-FAP e del CIOFS/FP per l’obbligo formativo,
dattiloscritto.
FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN (2003), Etica e deontologia dell’operatore
della FP, Roma, Tipografia Pio XI.
HAZON F. (1985), Introduzione alla formazione professionale. Manuale per
docenti ed operatori, Brescia, La Scuola.
ISFOL (s.d.), Terzo Rapporto sull’offerta di formazione professionale in Italia,
Anno 2001-02, Sintesi generale, dattiloscritto.
Capitolo 23 pag. 363
MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (edd.) (2002), Ricerca azione di supporto
alla sperimentazione della formazione professionale iniziale secondo il modello
CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, Roma, Tipografia Pio XI.
NANNI C. (1985), «Area comune e cultura generale», in «Rassegna CNOS», 1, n.
2, 9-33.
NANNI C. (1991), «La “Nuova Guida di Cultura Generale” per i CFP del CNOS/
FAP», in «Rassegna CNOS», 7, n. 3, 89-105.
RUTA G. (2001), Saperi di base. Etica della persona e del lavoro. Volume 1,
dattiloscritto.
RUTA G. (2001), Saperi di base. Etica della persona e del lavoro. Volume 2,
dattiloscritto.
RUTA G. (2001), Saperi di base. Etica della persona e del lavoro. Volume 3,
dattiloscritto.
TACCONI G. (ed.) (2003), Insieme per un nuovo progetto di formazione, Roma,
Tipografia Pio XI.

Esperienze nella FP

CNOS-FAP (ed.) (2000), Il «Buon giorno». Accogliere quotidianamente i giovani,


Roma, Tipografia Borgo Ragazzi Don Bosco.
CNOS-FAP (ed.) (2000), Centro risorse educative per l’apprendimento (CREA).
Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, Roma, Tip. Pio XI.
CNOS-FAP PIEMONTE (ed.) (2003), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per
l’accoglienza, Roma, Tipografia Pio XI.
CNOS-FAP PIEMONTE (ed.) (2003), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per
l’accompagnamento in itinere, Roma, Tipografia Pio XI.
CNOS-FAP PIEMONTE (ed.) (2003), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per
Capitolo 23 pag. 363/364
l’accompagnamento finale, Roma, Tipografia Pio XI.
CNOS-FAP PIEMONTE (ed.) (2003), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la
gestione dello stage, Roma, Tipografia Pio XI.

Capitolo 23 pag. 364


CAPITOLO 24

TESTO E STRUMENTI DIDATTICI


Roberto Romio

Introduzione

Il processo di insegnamento-apprendimento si serve di uno specifico


campionario di apparecchiature didattiche e di un repertorio di ferri del mestiere
che la tradizione ci ha consegnato e la ricerca didattica va continuamente
perfezionando e ampliando.
La scuola tradizionale si reggeva sull’architrave educativa dell’insegnante
singolo, sull’architrave spaziale dell’aula, sulla rigidità delle classi, sulla
segregazione degli alunni dentro i banchi: ciascun alunno nel proprio banco,
in silenzio, immobile con lo sguardo fisso sul quaderno-testo-lavagna-bocca
dell’insegnante.
Classe, sedia, banco, cattedra, quaderno, penna, testo, lavagna, bocca
dell’insegnante, sono gli strumenti didattici della scuola tradizionale.
Già da tempo i tentativi di rinnovamento della scuola e ancora di più la recente
apertura al dentro e al fuori scuola della Riforma, hanno messo in crisi la
strumentazione didattica tradizionale e la centralità in questa strumentazione
del libro di testo e della parola dell’insegnante. Se lo spazio didattico si allarga
all’intero territorio e le aule/classi si aprono alle aule/laboratorio, alle aule/
progetto, ai Box/lavoro, ecc., la strumentazione didattica si arricchirà, come
Capitolo 24 pag. 365
già sta avvenendo, di una notevole varietà di strumentazione. All’interno della
scuola cadrà il binomio cattedra/lavagna e la simmetria dei banchi allineati in fila.
Arriveremo a creare un effettivo ambiente di studio/lavoro, attrezzato di materiali,
angoli strutturati, ecc. La strumentazione si distinguerà in quella per l’istruzione
di base, la ricerca e per l’espressione mediante i linguaggi grafico-figurativi,
plastico-manipolativi, teatrali e musicali, ludici, ecc. Inoltre, l’apertura al territorio,
arricchirà la strumentazione scolastica delle enormi potenzialità presenti,
all’esterno della scuola, nei centri produttivi, commerciali, culturali, ludici, sportivi,
ecc. e nell’ambiente naturale (boschi, prati, monti, fiumi, mare, ecc.), e sociale
(storia, tradizioni, linguaggi, ecc. (Frabboni, 2001, 187-196).
In questo capitolo intendiamo innanzitutto dare una sintetica classificazione
degli strumenti didattici, e di quelli maggiormente utilizzati nella valutazione del
processo di insegnamento-apprendimento. Lanceremo una rapida occhiata a
quello che la Riforma scolastica ha detto degli strumenti didattici. Daremo quindi,
uno sguardo sommario al nuovo scenario che la multimedialità ha disegnato
nella strumentazione didattica e nei riguardi del libro di testo. Infine analizzeremo
gli strumenti ed i materiali dell’IRC .

1. Gli strumenti didattici

Spesso si confondono nella normale prassi educativa i materiali, i mezzi e gli


strumenti didattici. In questa sede distingueremo i mezzi o apparecchiature
più o meno complessi che ci consentono di far funzionare i materiali didattici,
dai materiali che vengono usati nel processo di insegnamento-apprendimento.
Indicheremo, allora, con l’espressione «strumenti didattici» le diverse categorie
di macchine e materiali di cui la scuola si serve nel condurre il processo didattico.
Con il termine «apparecchiature», ci riferiremo alle macchine che producono e
Capitolo 24 pag. 365/366
il termine «apparecchiature», ci riferiremo alle macchine che producono e fanno
funzionare i materiali. Ed infine sotto il termine «materiali», elencheremo l’in-
fanno funzionare i materiali. Ed infine sotto il termine «materiali», elencheremo
sieme dei sussidi didattici al vertice dei quali campeggia ancora, anche se minac-
l’insieme dei sussidi didattici al vertice dei quali campeggia ancora, anche se
ciato nel suo primato, il testo scolastico.
minacciato nel suo primato, il testo scolastico.
Nello schema che segue presentiamo una sintetica classificazione:
Nello schema che segue presentiamo una sintetica classificazione:
STRUMENTI APPARECCHIATURE MATERIALI
A stampa: tipografia, macchine da scrivere, libri-testi, monografie, dizionari,
mezzi di riproduzione, ecc. giornali, riviste, documenti, schede, ecc.
visivi: lavagna, lavagna luminosa, episcopio, fotografie, cartelloni, diapositive,
proiettore per diapositive e film, ecc. illustrazioni, lucidi, film, ecc.
sonori: radio, registratore, walkman, registrazioni, dischi, cassette,
strumenti musicali,ecc. trasmissioni radio, ecc.
audiovisivi: apparecchi di ripresa e proiezione, videocassette, Cd, trasmissioni
televisore, videoregistratore, ecc. televisive, registrazioni, ecc.
adattivi: macchine per insegnare, laboratori programmi lineari, ramificati,
linguistici, ecc. programmi in lingua straniera, ecc.
interattivi: computer, masterizzatori, scanner, programmi didattici, Cd, Dvd,
lettori Dvd, ecc. ecc.
Web: computer, modem, reti siti educativi, videoconferenze,
telefoniche e digitali, ecc. documentazione on line, ecc.

Questa classificazione
Questa molto
classificazione generale
molto nonnon
generale esaurisce
esauriscetutta la la
tutta grande
grandevarietà
varietàdegli
de-
strumenti che ogni metodo educativo e modello didattico ha codificato
gli strumenti che ogni metodo educativo e modello didattico ha codificato e propone.
e pro-
In genere
pone. ogni strumento
In genere non è non
ogni strumento usato da solo,
è usato da ma
solo,inma
svariate combinazioni
in svariate ed
combinazioni
ed adattamenti
Capitolo alla concreta situazione.
24 pag. 366
adattamenti alla concreta situazione.
In via esemplificativa presentiamo la classificazione degli strumenti che viene
proposta nel modello della didattica per concetti. La didattica per concetti,
muovendosi in una prospettiva di didattica attiva che pone al centro l’attività
dell’allievo, parla non di strumenti ma di «mediatori didattici» che consentono di
affrontare in modo adeguato il lavoro di aula e di laboratorio. Vengono indicati
quattro tipi di mediatori didattici: attivi, iconici, analogici, simbolici (E. Damiano -P.
Todeschini, 1994, 151-159).
Mediatori attivi sono quelli che consentono una maggior «presa di contatto» tra
l’immediatezza dell’esperienza e la riflessione su di essa. Vengono usati per
lavorare direttamente sull’esperienza delle cose e degli eventi e comprendono:
una serie di obiettivi e criteri base da raggiungere, schede di osservazione e
informazione, tabelle di raccolta dati, griglia di domande, strumenti tecnici di
rilevazione e misura, ecc. (Zuccari, 1997, 114-120).
Mediatori iconici servono a rappresentare la realtà mediante immagini fisse
o mobili e scale e comprendono: schemi, tabelle, diagrammi, matrici, mappe,
reti, serie di domande, cartelloni di assemblaggio, segni grafici, scalette di titoli,
schematizzazioni con parole chiave.
Mediatori analogici consistono in giochi ed esercizi di simulazione per la
comprensione di realtà complesse e sono: giochi di gruppo e di assunzione
di ruoli, simulazione delle conseguenze delle scelte e strumentali,
drammatizzazione, linguaggio mimico-gestuale, elaborazione di dialoghi,
ambientazioni, esercizi di verifica dei risultati, ecc.
Mediatori simbolici consistono nell’esposizione ed ascolto di informazioni e
concetti organizzati e sono ad esempio: lezioni, esposizioni di testi, griglie di
lettura, appunti, test, questionari di inchiesta e intervista, dialogo, scelta di
opinioni e di oggetti con espressione della motivazione, ecc. (Romio, 1996, 42-
43).
Capitolo 24 pag. 366/367
2. Gli strumenti della valutazione

La valutazione è un atto educativo che inizia, accompagna e conclude il


processo di insegnamento-apprendimento. Di questo processo si può misurare
l’efficacia, verificare i passaggi previsti e le difficoltà incontrate, valutare il grado
di maturazione raggiunta dagli allievi. Lo strumento di misurazione e valutazione
rileva delle informazioni sulle conoscenze, abilità e competenze raggiunte dagli
allievi in seguito ad un insegnamento.
Naturalmente gli strumenti di misurazione e valutazione fanno riferimento ad
una programmazione e ne controllano la coerenza con la situazione di partenza,
lo svolgimento e gli esiti finali. La valutazione viene sempre fatta sulla base
di alcuni indicatori (le abilità intellettive, le strategie cognitive, le conoscenze
linguistiche verbali, le abilità operative motorie, gli atteggiamenti interiori, ecc.)
che individuano determinate caratteristiche dell’azione educativa del docente e
dei conseguenti comportamenti degli allievi. Gli strumenti possono essere:
– non strutturati, se hanno sia la domanda che la risposta aperta,
– strutturati (tema, interrogazione, riassunto, ecc.), se hanno un argomento
stabilito,
– semistrutturati, cioè prove (colloquio orale, brevi saggi, relazioni, riassunti,
questionario, intervista, ecc.) che presentano domande chiuse ed hanno criteri
prefissati per la correzione ed il punteggio,
– misti (test di profitto, saggio scritto, riassunto, questionario, interrogazione,
colloquio intervista, ecc.), se presentano diversi tipi di domanda (Morante, 2000,
111-120).
Le prove tradizionali di valutazione erano in genere non strutturate e in certo
qual modo inutili poiché dominava in esse la soggettività dell’esaminatore. Al
Capitolo 24 pag. 367
polo opposto si trovano le prove strutturate (test), molto valide sotto il profilo
valutativo, che puntano ad una valutazione oggettiva. È tuttavia necessario
trovare una mediazione tra il testing che ci fornisce, in breve tempo, il polso della
situazione oggettiva dell’apprendimento di ciascuno ma non riesce a rilevare
«molte e importantissime tipologie di conoscenze, competenze e abilità» e le
forme più tradizionali di rilevazione. Le prove semistrutturate, con i «loro stimoli
chiusi e risposte aperte» coprono quelle esigenze che nascono dal bisogno
di diversificare e adeguare le prove alle esigenze individuali e agli obiettivi più
generali dell’istruzione scolastica (Domenici, 2001, 159-164).
Diamo ora una breve descrizione degli strumenti di valutazione più usati:
– Prova orale: stimola l’alunno ad esprimersi di fronte ai compagni consentendo
ad essi di ripassare l’argomento. Dovrebbe essere guidata da una griglia
precostituita per non divenire troppo soggettiva ed essere sempre combinata
con prove più oggettive. Perché sia efficace si dovrebbe: instaurare un clima
di fiducia, chiamare l’alunno per nome, fare domande brevi e chiare, chiedere
un concetto alla volta, fare una pausa dopo ogni domanda, ascoltare la
risposta anche se inesatta, sottolineare le risposte esatte, dare un giudizio
sull’interrogazione.
– Prova scritta: consiste nel tema, problema, saggio, relazione tecnica, ecc.
Elimina il problema del parlare in pubblico e lo scarso tempo a disposizione del
docente, ma richiede molto lavoro per la correzione e un ritmo di apprendimento
abbastanza veloce dell’alunno. In ogni caso non supera la soggettività del
giudizio.
– Prova oggettiva: è una raccolta articolata di domande e può essere considerata
un’interrogazione scritta ben strutturata. Privilegia risposte chiuse e stabilisce
prima i criteri di valutazione ed il punteggio delle risposte. I quesiti esigono:
la produzione di una risposta o la scelta tra molte risposte, l’abbinamento, la
scelta vero/falso, la caccia all’errore o il completamento. Può essere utilizzata
Capitolo 24 pag. 368
per: richiamare nozioni apprese (quesiti a risposta unica, a frasi mancanti,
ecc.), verificare il riconoscimento delle informazioni (completamento di frasi con
risposte date, scelta della riposta giusta tra due o tra molte risposte, scelta della
risposta migliore, ricerca dell’errore, associazioni di conoscenze, ecc.). Con
questa prova si può accettare il grado di possesso di uno specifico contenuto o
concetto disciplinare e misurare il raggiungimento di un obiettivo cognitivo. Va
utilizzata sia per la valutazione iniziale che finale evidenziandone le differenze.
– Prova pratica: verifica il saper fare e quindi il grado di professionalità raggiunto
in un campo operativo. Può essere ben definita e quindi dare un risultato
più oggettivo. Richiede adeguata preparazione del docente, strumentazione
appropriata, è difficile da organizzare in gruppo numeroso, ha bisogno di tempi
lunghi di esecuzione.
– Saggi scritti: misurano gli aspetti più personali e meno oggettivabili della
formazione.
Vanno determinati preventivamente le prestazioni da compiere, i criteri di
correzione ed il punteggio della valutazione. Consistono in un tema o relazione
su una specifica ricerca o discussione di cui si dà traccia precisa in base agli
obiettivi previsti ed ai criteri di verifica da applicare. La risposta è aperta, ma la
domanda è chiusa e deve indicare chiaramente le prestazioni da svolgere.
– Il riassunto: può essere una prova semistrutturata per accertare comprensione
e capacità di sintesi di un testo, secondo chiavi di lettura e stili di scrittura
prestabiliti.
Verifica le capacità di lettura, comprensione, decodifica, interpretazione,
intuizione, riespressione. Necessita di informazioni chiare sulle prestazioni da
richiedere agli allievi e la definizione in anticipo di una scaletta di riferimento con
il relativo punteggio per la valutazione finale.
– Il questionario: consiste in una serie di domande scritte e formalmente
strutturate per la rilevazione e la raccolta di dati (notizie, idee, concetti, valori,
Capitolo 24 pag. 368/369
ecc.) su una situazione d’ingresso o finale del processo di insegnamento. Le
domande possono essere a risposta chiusa (risposte limitate e predeterminate
da selezionare) o in forma aperta (si esprime liberamente il pensiero). Si tratta di
uno strumento pedagogico diverso da quelli di tipo sociologico.
– Il colloquio e l’intervista: serve a dare informazioni sul profitto raggiunto
in seguito ad un intervento didattico. Vanno stabiliti prima: gli obiettivi da
raggiungere, le domande ed il punteggio, un griglia per la registrazione delle
risposte.
Vanno evitati i rischi del condizionamento dei pregiudizi, effetto alone, rapporto
interpersonale, ecc. Nell’applicazione dello strumento si deve procedere in
modo da: comunicare argomento e finalità, partire da domande generali per
arrivare alle specifiche, ascoltare positivamente, rispettare le pause, sollecitare o
puntualizzare le risposte, ritornare sull’argomento, stimolare l’approfondimento e
la riflessione.
– Prove di simulazione: servono ad evidenziare abilità specifiche, interessi
particolari e a far acquisire una maggiore percezione di sé e del proprio progetto
di vita. Richiedono l’analisi e la discussione di documenti ed altre fonti di
informazione, al fine di prendere decisioni, improvvisare situazioni e assumere
uno o più ruoli. Consentono l’osservazione sistematica di atteggiamenti,
aspettative e comportamenti.
– Prove con il computer: le nuove tecnologie informatiche stanno sempre più
perfezionando programmi per la preparazione, somministrazione e valutazione
di strumenti semistrutturati di misurazione e valutazione. Questa strumentazione
consente di poter controllare in ogni momento la situazione della classe e
dell’alunno e valutare progressi, regressi o stasi in un tempo preciso e su
specifici ambiti disciplinari. Queste prove vanno comunque integrate con altre
per superare i limiti di questa rilevazione che possono essere: elaborazione
di punteggi e non di giudizi, esagerata quantificazione oggettiva dei risultati,
Capitolo 24 pag. 369
necessità di strumentazione appropriata (Pc per l’insegnante, aule informatizzate,
un Pc per alunno, programmi di gestione, capacità di gestire i programmi, ecc.)
(Domenici, 2001, 186-189).

3. Gli strumenti didattici della riforma

La Riforma ha voluto con decisione aprire una nuova stagione didattica: quella
della personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento. Nel
far questo non ha solo indicato i traguardi da raggiungere attraverso il Profilo
educativo culturale e professionale, le Indicazioni nazionali, le Raccomandazioni
per l’attuazione. Essa ha anche indicato nel Piano personalizzato delle attività
formative o Piano di studio personalizzato e nel Portfolio delle competenze
individuali, le due modalità che personalizzeranno gli obiettivi generali e specifici
di apprendimento previsti nelle Indicazioni nazionali. Tali modalità troveranno
concreta attuazione attraverso il docente tutor e l’articolazione delle attività di
apprendimento in momenti di gruppo classe e di gruppo laboratori (Sandrone
Boscarino, 2003, 7-14).
La personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento determinerà,
dunque, un nuovo equilibrio nella selezione ed uso degli strumenti didattici,
anche in seguito all’ingresso nella stanza della programmazione: dell’alunno,
della famiglia, degli altri insegnanti, delle istituzioni locali e del sistema educativo
non formale e informale.
La Riforma però, nei documenti fino ad ora pubblicati, non dice nulla di specifico
degli strumenti didattici, accogliendo in pratica quanto afferma la tradizionale
prassi didattica. Ma sia il portfolio che i laboratori introducono delle novità nella
strumentazione didattica.
Il portfolio dello studente, come «collezione strutturata, selezionata e
Capitolo 24 pag. 369/370
commentata/ valutata di materiali prodotti dall’allievo» è indubbiamente uno
strumento per l’orientamento, per la valutazione del processo didattico e
delle competenze raggiunte dall’allievo. Ciò è confermato dalle due sezioni,
per l’orientamento e per la valutazione, che compongono il portfolio. Quello
che costituisce indubbiamente una novità rispetto al passato è il rilievo dato
dalla Riforma a questo strumento che viene a costituire uno dei più importanti
documenti prodotti dalla scuola che accompagnerà il cittadino nella ricerca di
lavoro, nella riconversione professionale e nella formazione continua.
L’altra grande novità sul piano degli strumenti didattici sono i laboratori, voluti
dalla Riforma per il miglior apprendimento di alcune conoscenze e abilità.
Se attraverso i laboratori si vogliono sviluppare le conoscenze linguistiche, le
attività espressive, motorie, informatiche, operative ed il recupero/sviluppo di
conoscenze specifiche è evidente che la scuola dovrà dotarsi di una nuova e
molto più ricca strumentazione.
Infine molto significativa è l’accentuazione data dalla Riforma all’Unità
di Apprendimento che è pensata come lo strumento per personalizzare
l’insegnamento, per trasformare gli obiettivi in competenze dell’allievo e per
costruire il Piano di Studio Personalizzato. All’interno di questa unità dovrebbe,
anche, concretizzarsi il passaggio dai saperi disciplinari al sapere unitario
e ologrammatico che costituisce il fine di tutto il processo di insegnamento-
apprendimento.

4. Gli strumenti della didattica multimediale

Ogni nuova tecnologia, introdotta per risolvere alcuni problemi, ha prodotto


sempre effetti secondari imprevisti al suo ingresso. Tali effetti secondari sono
ad esempio: il monopolio delle informazioni per il telegrafo, la musicalizzazione
Capitolo 24 pag. 370
della vita per la radio, l’invasione gratuita delle immagini nella nostra casa per
la televisione, ecc. Anche l’informatica sta aprendo una vasta gamma di nuove
opportunità: fornitura di servizi domestici in una rete intelligente, uso di personal
computer per l’editoria, sistemi per il trattenimento domestico, combinazioni voce-
musica, produzione di supporti grafici e scritti, fornitura a distanza di istruzione e
addestramento, applicazione dell’informatica a campi medici, ecc.
Il volto antropologico, culturale ed educativo del nostro vivere quotidiano è stato
ridisegnato, in questi ultimi anni, dalla penetrazione dirompente dell’economia
immateriale (informatica, telematica, robotica) e dalla diffusione della cultura
simbolica che ha promosso una nuova alfabetizzazione che trasformerà
radicalmente le strutture sociali ed i modelli culturali nei prossimi decenni.
Le nuove tecnologie informatiche stanno sempre più entrando in dialogo e
offrendo i loro servizi alle due principali agenzie educative: la famiglia e la scuola.
Ambedue queste agenzie, se non vogliono rischiare l’analfabetismo informatico
e l’emarginazione culturale ed educativa, debbono fare i conti con la nuova
strumentazione.
L’introduzione in molte scuole sia di aule di informatica, che di aule multimediali
per la creazione e non solo per l’utilizzo di prodotti multimediali, annuncia un
cambiamento veramente epocale. Le nuove aule di informatica sono attrezzate
per televideoconferenze, con lavagne tecnologiche, ripetitori di schermo di
computer, ascolto in cuffia, ecc. Si moltiplicano i supporti didattici innovativi:
videocassette per presentazioni, compact disk, Cd rom, DVD, ecc.
Alla scuola, le nuove tecnologie possono offrire molti servigi: qualificare
il curricolo scolastico, documentare meglio i livelli di conoscenza, elevare
la qualità e la flessibilità dell’istruzione, trasformare le dinamiche di
relazione interpersonale e di gruppo, ridurre i tempi dell’alfabetizzazione
primaria, promuovere la progettazione ed il lavoro interdisciplinare, facilitare
l’individualizzazione dei processi didattici, rendere più agevole il recupero e la
Capitolo 24 pag. 370/371
gradualità dei percorsi didattici, promuovere l’integrazione dei linguaggi attivo,
iconico e simbolico, facilitare la misurazione e la valutazione, ecc. (Frabboni,
2001, 196-200).
Ma le nuove tecnologie hanno anche prodotto profondi e rischiosi cambiamenti.
Il cambiamento più radicale è il passaggio da una cultura scritta basata sulla
stampa e sulla composizione manuale dei testi, in cui la scuola è concepita
come il luogo della condensazione della cultura scritta gutemberghiana, ad una
cultura e scrittura elettronica, molto più flessibile, in cui domina la multimedialità
della comunicazione che pone parola scritta e orale in forte comunicazione. I
nuovi software offriranno alla scuola strumenti aperti a nuove forme di scrittura
che integreranno la logica testuale lineare, sequenziale e strutturata della civiltà
tipografica con quella reticolare e flessibile della civiltà multimediale (Maragliano,
2000, 137-142).
Nel processo educativo il computer ha reso possibile la simulazione cioè
costruire una realtà a partire dalla descrizione ricavata dalla sua analisi. Ciò è
estremamente utile nella scuola, che per sua natura si distanzia dalla vita reale
per poterla analizzare e comprendere, ma è insieme profondamente rischioso
per la possibilità di accrescere la distanza dal mondo reale. Le simulazioni non
hanno alcun senso reale, ma appaiono assolutamente accettabili e vanno via via
perfezionate per renderle il più vicine possibile alla esperienza reale (Domenici,
2001, 199-207).
Le nuove tecnologie producono, anche, una grande amplificazione
dell’informazione attraverso la rete, a cui è possibile accedere con estrema
facilità ed in modo interattivo, ricevendo, modificando producendo informazione.
La navigazione su Internet è l’esempio più lampante di questo cambiamento.
Una grande sfida si preannuncia per la scuola in seguito all’affermarsi di nuovi
linguaggi, nuovi atteggiamenti, nuove competenze e una natura sempre più
multimediale (testi, immagini, animazioni, filmati, suoni, ecc.) dell’ambiente.
Capitolo 24 pag. 371/372
Ma «il rumore di fondo», cresce a dismisura rendendo sempre più difficile
raggiungere l’informazione desiderata nella moltiplicazione incontrollata dei dati e
delle fonti.
Si calcola che numerosissimi siti presenti nel Web, circa il 70%, siano di natura
educativa, ma costituiscono una rete estremamente fluida e mutevole in cui
entrano aziende, scuole, università, istituzioni, agenzie educative, ecc. (Domenici,
2001, 183-193).

5. Il libro di testo

La generazione digitale, spinta alla conquista del ciberspazio, con un linguaggio


fatto di «ipertesto, compressione dati, larghezza di banda e bit», a suo agio «nel
mondo virtuale, tridimensionale creato dal computer» utilizzerà ancora il libro di
testo? (M. Clavo-Platero - M. Calamandrei, 1996, 58).
Nel progressivo estendersi dell’immensa autostrada di internet, su cui viaggia
una incalcolabile quantità di informazioni, il libro di testo conserverà la sua
centralità nel processo di insegnamento-apprendimento? I figli delle nuove
tecnologie sempre più incapaci di riflessione astratta e analitica, sempre più
balbettanti nella dimostrazione logica e nella deduzione razionale, ma fortificati
nel senso del vedere e nel fantasticare (Sartori, 1997, 100-102) ameranno ed
utilizzeranno ancora il testo scolastico? Se un Cd rom può contenere un’intera
enciclopedia, estremamente ingombrante, di decine di volumi, ha ancora senso il
ricorso ai libri di testo? Tutti questi legittimi interrogativi nascono dalla possibilità
di avere facilmente a portata di mano una grande quantità di informazioni. Ma
avere più informazioni non significa avere più conoscenza. Certamente il testo
scritto conserverà ancora nei prossimi anni la sua importanza, anche se l’avvento
sempre più massiccio del computer e di internet, nelle nostre case e nella scuola,
Capitolo 24 pag. 372
ridimensionerà profondamente il testo scolastico.
Il testo oggi ridondante di una quantità esagerata ed inutile di informazioni, dovrà
essere fortemente essenzializzato. Al fianco del computer, il testo assolverà alla
funzione di introduzione, guida e orientamento nella nuova «nazione di tribù» che
si va costituendo (D. Nimmo - J. Combs, 1983).
Nell’attuale condizione della scuola italiana, il libro di testo conserva ancora una
posizione centrale e rimane lo strumento principale di riferimento del processo di
insegnamento-apprendimento.
In nome di una concezione privatistica dell’insegnamento, che si esprime nel
principio della «libertà d’insegnamento», la scelta del libro di testo viene, però,
effettuata dal docente della disciplina e approvata, meccanicamente, dal Collegio
Docenti. Tale prassi, fondata sulla quasi totale autonomia del singolo insegnante
nella gestione del processo di insegnamento-apprendimento, è oggi messa in
forte crisi dalle indicazioni della Riforma.
Nella scelta del testo il docente si fa spesso condizionare da motivazioni
estrinseche ed improprie come ad esempio: la simpatia o antipatia per l’autore
del testo o verso chi lo presenta, le relazioni con l’apparato commerciale, le
impressioni avute al primo impatto, ecc. Sarebbe, invece, opportuno che il
docente tenesse presenti altre considerazioni: le caratteristiche didattiche del
testo, il progetto educativo da realizzare, il contesto della scuola in cui opera, la
corrispondenza tra le caratteristiche del testo e quelle di chi lo dovrà utilizzare,
ecc.
Ogni testo nasce da una visione culturale, disciplinare ed educativa che ha
guidato gli autori e che risulta, in genere, soggiacente ed oscura, ma che
si esprime in alcune scelte: educative (le metodologie educative: induttiva,
deduttiva, ermeneutica, ecc.), didattiche (i metodi di insegnamento, i modelli
di programmazione, l’interdisciplinarità, la scelta delle immagini, gli strumenti
di valutazione, ecc.), contenutistiche (le aree di sapere, i nuclei tematici, i
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contenuti, ecc.) e strutturali (l’organizzazione del testo, la disposizione di
contenuti, immagini, strumenti e sussidi, ecc.). Nella scelta del testo il docente
deve quindi attentamente considerare: la corrispondenza tra la prospettiva
culturale-educativa scelta dagli autori e la sua; le modalità pedagogico-didattiche
a lui più consone e quelle privilegiate nel testo; i contenuti presenti nel testo
e quelli indicati dai documenti di programmazione nazionali, locali, di istituto,
di classe; l’organizzazione strutturale delle diverse parti realizzata nel testo e
la programmazione da lui effettuata; la coerenza tra le varie scelte realizzate
nel testo; l’efficacia dello strumento nello specifico contesto di classe in cui si
realizzerà il processo di insegnamento-apprendimento; le modalità di sviluppo
delle tematiche e una loro eventuale integrazione con altri documenti più attuali e
appropriati, ecc.
Se scelto bene, il testo, pur non essendo assolutamente necessario al
corretto sviluppo di un processo didattico, e potendo essere sostituito da una
strumentazione selezionata liberamente dall’insegnante, è sicuramente una
garanzia di risultato sia per il docente che per gli allievi. Si tratta di uno strumento
di riferimento, non indispensabile, ma molto utile e sicuramente il più importante
nei modelli didattici che si basano su una programmazione iniziale.
Gli IdR non di rado scelgono male il testo da adottare, lo usano saltuariamente
nella loro quotidiana prassi didattica e raramente fanno riferimento ad esso.
Nessuna sorpresa, allora, se gli studenti non lo acquistano e non lo usano.
Nessuna meraviglia se l’IRC è valutato come un’ora del nulla, in cui si
chiacchiera di tutto e l’attualità domina incontrastata. Le discipline scolastiche
sono l’incontro tra il sapere codificato dalla tradizione culturale e la domanda
educativa e formativa dello studente. Il testo è lo strumento garantito in cui lo
studente può incontrare il sapere codificato e costruire la sua risposta educativa.
Anche l’IRC, disciplina scolastica a tutti gli effetti, deve avere, se vuol rimanere
nella scuola con pari dignità, il suo riferimento in un testo scolastico .
Capitolo 24 pag. 373
6. Quale uso degli strumenti didattici nell’IRC?

Le rilevazioni statistiche, effettuate nella ricerca «Una disciplina al bivio»,


evidenziano che gli IdR usano molteplici strumenti didattici.
Lo strumento principale è il libro di testo, che viene utilizzato regolarmente,
anche se mai in modo esclusivo. Nelle medie inferiori (95,8%) e nel biennio delle
superiori (77,9) è lo strumento più usato, mentre nel triennio della secondaria
(41,5%) viene al terzo posto dopo gli audiovisivi ed i testi biblici e magistrali.
Lo usa sempre l’80,8% nella scuola media, il 52,7% nella scuola elementare
e nel biennio della secondaria, mentre la metà degli IdR del triennio lo usa
solo qualche volta e il 21% mai. Usano integralmente il testo il 31,2% degli IdR
della scuola media, il 18,6% della scuola elementare, il 27,5% del biennio della
secondaria ed il 7,7% del triennio della secondaria (G. Malizia - Z. Trenti, 1996,
116-17).
Il testo viene spesso letto e spiegato e nella scuola media si afferma come
sussidio sistematico. Quasi la metà degli IdR delle medie e delle superiori
si serve del testo nella costruzione della programmazione e lo utilizza come
principale riferimento.
Una esigua percentuale usa il testo come serbatoio di documentazione.
Quasi la metà degli IdR in tutti i gradi di scuola integra il testo con altra
documentazione.
Le strumentazioni più diffuse tra gli IdR sono i documenti, le fonti alternative ed i
mediatori iconici (audiovisivi e disegno). I limiti emergono soprattutto nel tollerare
che gli studenti non acquistino il libro di testo (nel triennio della secondaria solo
nel 7,5% delle classi lo comprano tutti), nel non assegnare i compiti a casa, nel
non affinare la selezione degli strumenti didattici in relazione al grado di scuola e
Capitolo 24 pag. 373/374
alle tematiche trattate.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione, su tutti eccelle, in tutti i gradi di
scuola, il colloquio individuale. Nella scuola elementare ed anche nella media i
disegni vengono frequentemente impiegati. Le prove oggettive vengono usate
da più della metà degli IdR della scuola media, da quasi la metà di quelli della
scuola elementare e da un terzo di quelli delle superiori. I questionari sono
maggiormente utilizzati dai due terzi degli IdR della scuola media, mentre nella
scuola elementare gli IdR usano in ugual misura questionari, osservazione
sistematica e attività espressive (drammatizzazione, ecc.). Nella secondaria si
preferiscono le scale di atteggiamento. Un certo rilievo acquista nella scuola
media e di più nella secondaria l’uso dei brevi saggi (G. Malizia - Z. Trenti, 1996,
221-223).
In questi ultimi anni, soprattutto in seguito all’ingresso delle nuove tecnologie
ed alla volontà istituzionale di informatizzare il sistema scolastico italiano, una
profonda trasformazione ha rinnovato la dotazione strumentale delle scuole
italiane.
Alcuni indirizzi scolastici, in particolare nell’area tecnico professionale, sono oggi
dotati di strumenti molto sofisticati. Anche l’IRC e gli IdR sono coinvolti in questa
trasformazione. Gli IdR sono chiamati ad acquisire rapidamente padronanza
delle nuove tecnologie e della strumentazione che esse mettono a disposizione.
I Corsi di aggiornamento informatico e multimediale si sono moltiplicati e la
quasi totalità degli IdR sono oggi informatizzati. Da qualche anno i testi di IRC
cominciano ad essere corredati da Cd e si stanno moltiplicando i siti internet
che si occupano di educazione religiosa. Il segnale inequivocabile che IRC ed
IdR sono entrati in pieno nella nuova didattica multimediale sono i molteplici
materiali multimediali che numerose classi hanno prodotto con il loro insegnante
di religione.

Capitolo 24 pag. 374


7. L’IRC nella società dei nuovi media informatici

La virtualità dilagante, che oscura e distrugge il corretto rapporto tra sé e il


mondo, ripropone anche all’IRC lo sforzo di una ricomposizione del rapporto tra
materia, storia, memoria e spirito, che la tradizione aveva risolto a favore dello
spirito e la modernità a favore della materia bella, sana, innocente.
La virtualità interroga anche su altri piani l’IRC e chiede una revisione educativa
a livello antropologico per includere anche le relazioni virtuali; a livello ontologico
per rivisitare il concetto di verità nel confronto con la derealizzazione prodotta
dalle immagini di sintesi; a livello epistemologico per accogliere il principio della
relatività dei punti di vista e dei sistemi di significato (Religio, 1998, 402-406).
Tutto ciò richiede agli IdR e alla disciplina IRC di assumere l’ottica della globalità,
della pluralità dei punti di vista, della valutazione critica, della progettualità. Si
richiede il superamento di un IRC trasmissivo, distanziato, fenomenologico,
neutrale, pastorale e confessionale.
La presenza accanto al linguaggio alfabetico del linguaggio degli impulsi
elettronici e dell’immagine determinerà la crisi delle categorie tradizionali
di spazio, tempo, causalità, linearità e l’ingresso di quelle di istantaneità,
contemporaneità, reticolarità, coinvolgimento a spirale. L’IRC dovrà muovesi al
di fuori della sistematicità, organicità, prescrittività a cui è abituato ed entrare
in contesti artificiali, magmatici, senza punti di riferimento. L’IRC dovrà anche
ricostruire le sue immagini di sintesi, ritrovare i suoi simboli di riferimento e i suoi
itinerari disciplinari.
I nuovi media dovranno trovare nell’IRC confronto, mediazione e utilizzazione; in
particolare dovrà trovare una verifica critica la nuova mentalità religiosa veicolata
dai nuovi media elettronici.
In particolare l’IRC dovrà affrontare e tentare di dare risposta ad alcune
Capitolo 24 pag. 375
problematiche:
– lo stemperarsi delle radici, della memoria, dell’appartenenza religiosa,
– l’ingresso delle nuove religioni elettroniche, l’avvento della «Gerusalemme
sintetica» che si raggiunge vivendo negli spazi virtuali,
– la nuova virtualità che reinterpreta esperienze, feste e riti religiosi,
– i nuovi profeti e sacerdoti televisivi con i loro interventi terapeutici e catartici,
– il diffondersi delle tribù elettroniche, via internet, in cui le persone cercano di
riconoscere se stesse e la propria fede, ecc. (Romio, 2001, 16-18).

8. Gli strumenti e i materiali dell’IRC

Gli strumenti di lavoro nell’IRC non si distinguono da quelli delle altre discipline.
L’IdR preparato e motivato conosce le apparecchiature didattiche e sovente ne
possiede una sua personale dotazione. Spesso, però, è proprio l’inadeguatezza
delle strutture scolastiche che scoraggia o non consente di utilizzare
apparecchiature anche molto semplici. Sulla carta la Riforma sembra, soprattutto
con la proposta dei laboratori, indicare un diverso orientamento, ma la scarsità di
mezzi economici di cui dispone non lascia ben sperare.
I materiali utilizzabili nell’IRC sono, invece, tra loro molto differenziati e
li troviamo disseminati nei prodotti delle scienze di riferimento dell’IRC.
Normalmente nei diversi testi di religione si possono trovare vari materiali, ma
deve essere cura dell’IdR raccogliere e catalogare i materiali che incontra. La
caratteristica fondamentale che tali materiali debbono avere è la significatività
esistenziale.
Essi vanno distinti per area tematica in cinque aree fondamentali:
– l’area di senso, il linguaggio religioso e le religioni;
– Dio;
Capitolo 24 pag. 375/376
– Gesù Cristo;
– la Chiesa;
– la morale.
I materiali si possono poi distinguere e organizzare a seconda della loro finalità e
utilizzazione nel processo didattico in:
– materiali di ingresso: hanno lo scopo disegnare la situazione di partenza e di far
emergere e precisare la domanda,
– materiali di confronto e verifica: forniscono ciò che il sapere scientifico e la
tradizione religiosa hanno prodotto sul tema della domanda,
– materiali di proposta: servono a favorire la rielaborazione personale e la
formulazione della risposta.
Tra i materiali più comunemente usati nell’IRC possiamo indicare:
– materiali parlati: lettura, spiegazione, commento di testi, dialogo diretto,
discussione e conversazione, lezione, ecc.;
– materiali scritti: testi, riflessioni, didascalie, termini tecnici, nomi, legenda, titoli,
libri, giornali, ipertesti, ecc.;
– materiali visivi: disegni, schizzi, immagini fotografiche, illustrazioni, diapositive,
stampe, fumetti, riproduzioni, libri e riviste illustrati, film muto, materiali per
episcopio, carte geografiche, inserti iconografici a tema, ecc.;
– materiali uditivi: canzoni, testi recitati, trasmissioni radiofoniche, registrazioni di
lezioni, commenti e spiegazioni, dischi, cassette, Cd rom, ecc.,
– supporti: schede, cartelloni, schemi, grafici, segni convenzionali, simboli, ecc.
– materiali occasionali: di uso quotidiano, oggetti particolari, esotici o tradizionali,
ecc.;
– materiali strutturati: modelli, plastici, schede, eserciziari, test, questionari,
blocchi logici, ecc.;
– risorse umane: testimonianze, esperienze dirette, interviste, tradizioni popolari,
ecc.;
Capitolo 24 pag. 376
– giochi didattici: comportamenti liberi e creativi individuali e di gruppo, ecc.;
– materiali attivi: visite guidate, escursioni esplorative, esperienze dirette, ecc.
(Romio, 1996, 40-41).

9. Conclusione

Mentre dalla società sale sempre più pressante la richiesta di innovazione e le


nuove tecnologie continuamente propongono nuove strumentazioni, la scuola
della Riforma si scontra ancora con una diffusa inadeguatezza delle strutture,
con una cronica penuria di mezzi e con una generale disillusione del corpo
docente.
Sarà in grado la scuola italiana di raccogliere la sfida e di dare una risposta
convincente per rimanere nel sistema integrato di istruzione e formazione come
l’agenzia educativa di riferimento? Per poter qualificare la scuola e dotarla di una
scorta di strumenti didattici sarebbe molto utile un sistema di archivi centralizzati
con il compito di raccogliere e conservare la memoria materiale e simbolica del
far scuola. Sarebbe importante realizzare dei centri con il compito di: raccogliere,
conservare e divulgare le varie strumentazioni di cui la scuola è dotata; stimolare
e sostenere la conoscenza, acquisizione e produzione di nuova strumentazione
didattica; promuovere la formazione permanente degli insegnanti nell’uso della
nuova strumentazione didattica (Frabboni, 2001, 209-211).
Anche l’IRC e gli IdR, sempre più inseriti, a pieno titolo, nella scuola,
possono e debbono contribuire a dare una soluzione vincente alla sfida di
ammodernamento e qualificazione che la scuola dovrà inevitabilmente affrontare.

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Bibliografia

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ZUCCARI G. (1997), Metodologia e didattica dell’insegnamento della religione
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Capitolo 24 pag. 377
CAPITOLO 25

PIANIFICAZIONE UNITARIA DELL’IRC:


ARTICOLAZIONE LUNGO L’INTERO SISTEMA DI
ISTRUZIONE E FORMAZIONE
Roberto Rezzaghi

Ogni riforma della scuola è figlia del suo tempo e risente delle esigenze, degli
stimoli e delle pressioni che scaturiscono dal contesto socio-culturale in cui viene
concepita e realizzata.
La riforma in atto in Italia procede lentamente, tra molte difficoltà, che mettono
a dura prova gli insegnanti di tutte le discipline, anche quelli di IRC. Tra tentativi
di innovazione e ripensamenti che hanno caratterizzato gli ultimi anni, è tuttavia
possibile intravedere binari ormai tracciati e coordinate di riferimento attendibili,
che consentono di elaborare una prima riflessione plausibile sulla possibile
organizzazione globale degli itinerari didattici.
Cerchiamo di offrire qualche direttrice di marcia, che possa orientare il lavoro
degli IdR, impegnati a riconfigurare la loro disciplina con attenzione a ciò che è
richiesto dalla riforma in atto. Lo faremo attraverso un approccio, che ci permetta
di fare memoria selettiva e mirata delle acquisizioni maturate fino ad oggi e di
indicare proiezioni di sviluppo per il futuro. La storia recente della disciplina,
infatti, ci ha insegnato a considerare le acquisizioni raggiunte in modo dinamico
e sempre suscettibile di evoluzione; nello stesso tempo però ci ha fatto toccare
con mano la solidità di alcuni punti fondamentali, che col mutare degli scenari
Capitolo 25 pag. 378
sociopolitici o del linguaggio pedagogico-didattico restano validi, perché legati
per un verso alla domanda educativa oggi emergente e alle concrete possibilità
di assumerla, che nessun amministratore può ignorare, e per un altro alla natura
stessa della disciplina concordataria, che presenta caratteristiche specifiche, non
facilmente manipolabili o barattabili senza che si perda la sua identità e quindi si
rischi il suo dissolvimento.
Nel 1998, dopo che l’allora ministro Luigi Berlinguer aveva annunciato di por
mano alla riforma radicale della scuola italiana, la CEI, d’intesa con il Ministero
della Pubblica Istruzione, aveva iniziato una sperimentazione nazionale biennale
sui programmi di religione cattolica. Questa esperienza è il crogiuolo privilegiato,
anche se non esclusivo, al quale attingeremo per configurare il nostro contributo.

1. Alla ricerca di una pianificazione unitaria dell’IRC

Parlare di «pianificazione unitaria dell’IRC» oggi può sembrare inopportuno.


Molti infatti sono gli elementi che orientano a concepire la disciplina nella
prospettiva della diversificazione e della flessibilità. Da quando i mutamenti
degli ultimi anni hanno messo in crisi una concezione di scuola concepita in
modo centralistico e monolitico, e nella didattica si è abbandonata la logica
del «programma » disciplinare, da svolgere invariato su tutto il territorio
nazionale, si è aperto uno scenario che orienta più al pluralismo che non all’unità.
Richiamiamo alcuni suoi aspetti, che incidono non poco nella configurazione
della riforma scolastica.

Capitolo 25 pag. 378/379


1.1. Il pluralismo e la frammentazione

Negli ultimi anni lo scenario sociale, etico e religioso italiano è cambiato


notevolmente e continua a mutare, a seguito dei noti flussi migratori, con
conseguenze non indifferenti in ordine sia alla tenuta culturale di una tradizione
religiosa cattolica sia al confronto con nuove religioni presenti in modo sempre
più significativo sul territorio nazionale.
Ciò si è accompagnato ad una sorta di implosione dei sistemi di significato
tradizionalmente forti, sostenuti in passato dalla presenza di ideologie che oggi
hanno lasciato il posto ad un pensiero debole e frammentato.
In una società in evoluzione non si affermano solo nuovi saperi, ma anche nuovi
strumenti concettuali, che orientano in modo diverso l’interpretazione della realtà,
della vita umana, dei suoi significati, e quindi anche l’organizzazione della scuola.

1.2. Gli alunni e la crisi della «persona»

In questo contesto si assiste sempre più ad un uso equivoco di alcune categorie


filosofiche importanti per la pedagogia, come ad esempio quella di «persona »,
che assume spesso significati diversi, fino a rendere il concetto debole e fonte di
incomprensioni.
È noto, ad esempio, come oggi ci siano correnti culturali che identificano la
«persona» in base al possesso di alcune, poche facoltà, che possono essere
anche di qualche animale. Per cui non tutti i membri della specie «homo sapiens»
sono persone, e non tutte le persone sono membri della specie «homo sapiens».
Questa concezione è ormai molto diffusa, al punto che gli animali hanno diritti
come gli uomini, se non di più, in certi casi. È possibile constatare come a volte
sia più facile mobilitare campagne di solidarietà a favore di animali in via di
Capitolo 25 pag. 379
estinzione che non a favore di popoli in grave stato di indigenza.
A causa di matrici di pensiero del tipo che abbiamo rievocato, si sentono
circolare espressioni molto forti, che fanno riflettere e forse disorientano chi è
abituato ad occuparsi di problemi educativi, tradizionalmente legati allo sviluppo
e alla formazione della «persona». Infatti si parla di «destrutturazione della
soggettività », di «post-umano», di «identità plurime» e altro ancora: la nostra è
una cultura che avverte un forte disagio di fronte al problema dell’identità umana.
È un disagio che i soggetti in età evolutiva vivono con grande sofferenza.

1.3. La scuola dell’autonomia e la flessibilità organizzativa

Sul piano della organizzazione sociale e scolastica i citati mutamenti culturali,


insieme ad altri, hanno contribuito alla formazione di un contesto scolastico più
flessibile e diversificato. Lo si è visto già con la legge «Bassanini» del 15 marzo
1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali,
per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 17 marzo 1997.) che ha coinvolto in modo significativo
anche il mondo della scuola (cf art. 21). In essa si definiscono i criteri per la
riforma del sistema scolastico attraverso il riconoscimento dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche. Ciò comporta la possibilità di un maggior decentramento
e di una più spiccata diversificazione della scuola sul territorio nazionale, con
conseguenze sia amministrative sia didattiche.
La tendenza è andata sviluppandosi nella normativa successiva. La legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 relativa a «Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione» (In Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001.) ha
delineato un quadro di collaborazione tra Stato, Regioni ed enti locali, Istituzioni
scolastiche autonome, che supera in modo definitivo il modello statalista e
Capitolo 25 pag. 379/380
delinea uno scenario diverso per il sistema educativo nazionale di istruzione e
formazione.
Se il nuovo assetto organizzativo viene incontro certamente alle legittime
aspirazioni di configurare itinerari didattici adeguati alle diversificate esigenze
di alunni e famiglie, nei diversi contesti territoriali del Paese, è indubbio che
espone maggiormente anche al rischio di creare disparità tra i livelli dell’offerta
formativa, favorendo la creazione di scuole di eccellenza e di altre più scadenti.
In questo modo le risorse dell’autonomia diventerebbero complici di nuove forme
di discriminazione e di emarginazione sociale.

2. La bussola e i punti cardinali

Il contesto nel quale ci muoviamo, dunque, non è facile da gestire, perché per
un verso è caratterizzato da esigenze di diversificazione e per un altro da quelle
di ricondurre ad unità i percorsi scolastici per garantire a tutti un servizio equo.
Questa del resto è stata la sfida, percepita in forme ben più ampie, di fronte alla
quale si sono trovati gli esperti della Commissione Internazionale sull’Educazione
per il XXI secolo, espressa nel rapporto all’UNESCO. Consapevoli del fatto che i
moderni mezzi di comunicazione mettono a disposizione delle nuove generazioni
informazioni e conoscenze che non trovano precedenti nella storia; ma anche
che, nello stesso tempo, l’educazione deve fornire punti di riferimento che
consentano agli individui di non essere sommersi dal flusso delle informazioni,
affermano che l’educazione deve «offrire simultaneamente le mappe di un
mondo complesso in perenne agitazione e la bussola che consenta agli individui
di trovarvi la propria rotta». (Cf J. DELORS, Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando
Editore, 1997, p. 79.)
L’immagine della mappa e della bussola calza bene anche per la configurazione
Capitolo 25 pag. 380
della nostra disciplina nel contesto della riforma in atto, e volendo subito indicare
il punto cardinale verso il quale è diretto l’ago della bussola, che orienta nel
contempo la riforma e l’IRC, possiamo dire che è l’attenzione alla persona, intesa
inequivocabilmente con le caratteristiche che le attribuisce la ricca tradizione
pedagogica ispirata ai valori cristiani.

2.1. Il primato della persona

La scelta fondamentale che sta alla base della recente letteratura ministeriale
e dei nuovi documenti per l’IRC è la centralità della persona, che riceve dalla
scuola un contributo peculiare per la sua crescita.
Nella lettera dell’aprile 2002, che il ministro Letizia Moratti ha indirizzato a
studenti, genitori e docenti, con la quale si apre il fascicolo dal titolo «Una scuola
per crescere», stampato dal «Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca», si leggono espressioni molto significative ed impegnative in tal senso.
Afferma il Ministro: «La scuola che abbiamo in mente è un modello di comunità
di studenti, famiglie e docenti, che sappia formare i ragazzi prima di tutto come
persone, rafforzando nella scuola la sua essenziale funzione educativa. Ciò
che proponiamo è un patto tra la scuola e la famiglia che ci consenta di formare
identità individuali forti, persone dotate di capacità critiche, coscienze libere
legate ai valori del rispetto umano, della solidarietà, della giustizia» (p. 2).
Se questa è davvero la persona che si intende educare attraverso la scuola,
l’impegno profuso per la riforma non può trascurare la cura e la promozione degli
aspetti etici e religiosi, contro ogni tentativo di ridurre il suo compito alla semplice
«informazione» culturale, ad addestramento professionale o a formazione
tecnica, funzionale alla produttività. La scuola pertanto si configura come servizio
specifico all’alunno, lo aiuta ad inserirsi nella vita offrendogli i necessari contenuti
Capitolo 25 pag. 381
culturali, attraverso un’azione didattica attenta alle dinamiche di apprendimento
funzionali alla sua crescita umana integrale: è intorno alla persona e alle sue
esigenze di crescita in tutte le dimensioni che si costruisce l’unità dei diversi
itinerari didattici che la scuola progetta e realizza.
Per questo l’IRC, disciplina tradizionalmente attenta a questi aspetti, si
inserisce a pieno titolo nell’organizzazione didattica più generale della scuola,
rispettandone i modelli e le categorie, e dunque si configura in conformità con
le indicazioni dell’attuale riforma, contribuendo, per quanto di sua competenza,
alla maturazione del «Profilo educativo, culturale e professionale» dell’alunno,
previsto dalla normativa attuale.
Per far questo gli IdR avranno a disposizione, come quelli delle altre discipline,
«Obiettivi specifici di apprendimento» in rapporto ai quali definire «obiettivi
formativi» adatti e significativi per i singoli alunni, e potranno così progettare
le «unità di apprendimento» secondo le indicazioni fornite anche agli altri
insegnanti.
Così la disciplina contribuirà in modo proprio alla realizzazione del «Piano di
studio personalizzato», dal quale si ricava anche la documentazione utile per la
compilazione del «Portfolio delle competenze individuali».
Questo strumento, oltre ad una sezione dedicata alla valutazione, ne contiene
una che in sintonia con la precedente è riservata all’orientamento, ed è pertanto
utile a stimolare lo studente alla conoscenza valutativa di se stesso, in vista della
costruzione di un personale progetto di vita. Esso non potrà essere appiattito
e limitato alla definizione del possibile sbocco professionale per il futuro e l’età
adulta, ma nella proclamata ottica di una educazione integrale della persona,
comprenderà anche le implicanze esistenziali, gli aspetti etici e religiosi, per i
quali il contributo dell’IRC potrà essere particolarmente prezioso.
Lo sarà nella misura in cui la sua organizzazione didattica saprà evitare
l’episodicità e l’improvvisazione, configurandosi in modo sistematico. Ciò implica
Capitolo 25 pag. 381/382
la capacità di sviluppare in forma continuata e progressiva, nel corso degli
anni, i nuclei fondamentali del cristianesimo e la promozione, negli alunni, di
competenze etico-religiose sempre più sicure e raffinate, come orienta a fare la
normativa più recente della riforma.
La sperimentazione nazionale IRC 1998-2000 ha dato precisi contributi in
questa direzione. Ne ricordiamo alcuni, tra quelli che consideriamo più utili per far
crescere l’unità e la qualità dell’IRC.

2.2. L’essenzializzazione dei saperi

Fin dall’inizio, nella riforma della scuola italiana si è prestata grande attenzione
ai contenuti delle diverse discipline. Si è subito capito che il recente, enorme
sviluppo scientifico e tecnologico, legato alle dinamiche della specializzazione,
non permette di coltivare il mito del sapere enciclopedico. Per questo uno
dei primi impegni affrontati dai riformatori, ancora al tempo del ministro Luigi
Berlinguer, fu quello di definire i «saperi essenziali» per ogni ambito e disciplina.
Il lavoro di ricerca fu impegnativo e per certi aspetti rimase inconcluso, perché
non sempre furono chiari i criteri in base ai quali definire un sapere «essenziale»
rispetto ad un altro per un itinerario didattico-educativo.
La riflessione coinvolse anche l’IRC. In continuità con le scelte della più recente
tradizione religioso-pedagogica italiana, oltre che con la natura stessa della
rivelazione cristiana, la sperimentazione nazionale 1998-2000 identificò, quale
evento centrale e generatore di ogni contenuto di insegnamento disciplinare
«la figura e l’opera di Gesù Cristo, secondo la testimonianza della Bibbia e
la comprensione di fede della Chiesa», come del resto già si affermava nei
precedenti programmi.
Con ciò si definiva che ogni contenuto dell’IRC va didatticamente mediato alla
Capitolo 25 pag. 382
luce di Cristo, in relazione con il suo mistero, come sviluppo del suo evento:
nulla dovrebbe essere trattato senza riferimento al Cristo, anche i contenuti
metaconfessionali, relativi ad altre religioni o ad altri sistemi di significato, trovano
qui l’ottica specifica che rende la loro trattazione pertinente in un’ora di IRC.
In questo modo la disciplina viene pensata e organizzata didatticamente nella
logica di un curricolo unico, che per successivi approfondimenti, articolazioni
e integrazioni, sviluppa alcuni nuclei tematici fondamentali che scaturiscono
dall’evento Cristo e lo rendono accessibile agli alunni per alcune sue implicanze.
Gli itinerari didattici organizzati con questo criterio attraversano i livelli diversi e
progressivi dei singoli gradi scolastici e pongono le basi per una formazione che
travalica i confini temporali della scuola per continuare nella vita, in un’ottica di
formazione permanente. Come si ricorda nei documenti della riforma, infatti, il
processo educativo individuale ha inizio con la vita e cessa solo con essa.
Come è facile immaginare, per questo tipo di didattica servono strumenti
adeguati, che mentre aiutano a declinare tutti i saperi essenziali, permettano
di farlo con attenzione alle esigenze degli alunni e del loro contesto di vita
scolastica, e nello stesso tempo siano capaci di valorizzare i contributi storici e
culturali della fede locale.

2.3. La definizione delle competenze

Oltre ai saperi, la riforma ha prestato grande attenzione allo sviluppo delle


«competenze». Nel «Profilo educativo, culturale e professionale dello studente
alla fine del Primo ciclo di istruzione (6-14 anni)» si afferma che un ragazzo «è
riconosciuto “competente” quando, facendo ricorso a tutte le capacità di cui
dispone, utilizza le conoscenze e le abilità apprese» per fare alcune cose, tra
le quali «conferire senso alla vita». L’auspicio è che al termine del primo ciclo di
Capitolo 25 pag. 382/383
istruzione il ragazzo, a quattordici anni, sia in grado di conoscersi con sufficiente
obiettività, approdando ad una personalità unitaria e armonica in rapporto all’età,
sia capace di relazione con gli altri, e di pensare al proprio futuro dal punto di
vista umano, sociale e professionale.
Tra gli strumenti culturali che gli permettono di approdare a questa auspicata
situazione il documento contempla anche la «consapevolezza, sia pure in modo
introduttivo, delle radici storico-giuridiche, linguistico-lettterarie e artistiche che ci
legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale
dell’Italia e dell’Europa».
La normativa specifica dell’IRC si inserisce in questo ambito di competenze
previste dalla normativa generale, per accompagnare progressivamente
l’alunno a maturare la capacità di dominare con padronanza i contenuti del
cristianesimo, acquisendo precise competenze fondamentali, che nel corso della
sperimentazione sono state così definite: Sapere:
– conoscere le fonti del cristianesimo e le sue verità fondamentali;
– saper riconoscere il contributo della fede in Cristo e della tradizione della
Chiesa al progresso culturale e sociale del popolo italiano, dell’Europa e
dell’intera umanità.
Saper essere:
– saper elaborare e giustificare, secondo l’età, le proprie scelte esistenziali, in
rapporto alla conoscenza della religione cristiana e dei suoi valori.
Saper fare:
– saper esporre, documentare e confrontare criticamente i contenuti del
cattolicesimo con quelli di altre confessioni cristiane, religioni non cristiane e altri
sistemi di significato.
Saper stare con:
– saper entrare in dialogo con chi ha convinzioni religiose o filosofiche diverse
dalle proprie.
Capitolo 25 pag. 383/384
Queste competenze generali, ovviamente, vanno declinate in rapporto all’età dei
ragazzi e con attenzione alla loro situazione ambientale, familiare e ai possibili
rapporti interdisciplinari.

2.4. La ciclicità

I documenti ministeriali insistono sull’importanza della «continuità educativa


e didattica» tra i diversi gradi scolastici. Lo sviluppo didattico, infatti, procede
attraverso il raggiungimento di «livelli» successivi, garantiti dall’uso di «obiettivi
specifici di apprendimento» definiti nelle tabelle relative ai diversi passaggi, che
«hanno lo scopo di indicare, con la maggior chiarezza e precisione possibile, i
livelli essenziali di prestazione che le scuole paritarie della Repubblica sono
tenute in generale ad assicurare ai cittadini». (Indicazioni nazionali per i Piani di
studio personalizzati nella Scuola Secondaria di 1° grado.) Lo sviluppo avviene in modo
«ciclico », perché i fanciulli, come si legge nelle «Indicazioni nazionali per i
“Piani di studio personalizzati” nella Scuola Primaria»: «“accomodano” sempre
i nuovi apprendimenti e comportamenti a quelli già interiorizzati». (Obiettivi
generali del processo formativo, in Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati
nella Scuola Primaria.) La ciclicità è un principio didattico di carattere generale,
funzionale alle dinamiche dell’apprendimento del soggetto, che sempre impara
assimilando nuove acquisizioni ad altre che già possiede, attraverso processi
di approfondimento, sviluppo e ampliamento. Essa è richiesta dalla scelta di
rinunciare al sapere enciclopedico per addizione nozionistica, per puntare su
saperi essenziali nel senso di elementari e fondamentali, che devono essere
progressivamente approfonditi e arricchiti per assimilazione, così da produrre
vere competenze.
La riforma insiste sull’importanza del «porre le basi» della crescita, per
Capitolo 25 pag. 384
permettere ad ogni alunno di affrontare con competenza i diversi livelli
dell’itinerario didattico nel passare da un ciclo all’altro, fino ad approdare
all’autonomia. Si tratta dunque di costruire in modo ordinato, muovendo dalle
acquisizioni già sicure, considerate come prerequisiti fondamentali per ulteriori
approfondimenti e arricchimenti. Lo si può verificare leggendo in successione le
tabelle degli «obiettivi specifici di apprendimento» ed osservando la cura con cui
si cerca di riprendere con opportuni e progressivi ampliamenti i saperi essenziali
delle singole discipline.
Resta da definire, dal punto di vista organizzativo scolastico, l’interpretazione
di questo processo. Infatti si può immaginare una ciclicità breve o una ciclicità
lunga, magari pluriennale. La sua definizione non può non far riferimento al
riordino dei cicli e allo sviluppo delle altre discipline scolastiche.
La sperimentazione 1998-2000 aveva portato alla identificazione di un
percorso didattico continuo e progressivo, dalla scuola dell’infanzia alla scuola
superiore, che muovendo dall’evento Gesù Cristo, considerato in cinque iniziali
nuclei tematici, li sviluppava progressivamente, nel corso degli anni, fino a
diventare aree tematiche di studio e approfondimento alle Superiori. Lo sviluppo
successivo della riforma potrà portare a modifiche e calibrature, ma non
all’abdicazione del principio didattico.

2.5. La correlazione

Ogni insegnamento, per essere efficace, deve essere interessante, cioè deve
coinvolgere l’alunno, il suo vissuto, e intercettare le sue domande, le sue
esigenze di crescita, così da promuovere tutte le sue capacità e le sue risorse di
sviluppo.
Come si sottolinea nella letteratura ministeriale, l’educazione «è nemica di ogni
Capitolo 25 pag. 384/385
parzialità ed esige costantemente uno sviluppo armonico, integrale ed integrato
di tutte le dimensioni della persona e in tutti i momenti della vita». (Premessa. In
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istruzione
(6-14 anni)) Una scuola attenta alla persona, che intende educare i giovani per
prepararli alla vita, sarà particolarmente attenta alle loro domande di senso,
per rispondere alle quali è in grado di offrire stimoli e contributi culturalmente
qualificati.
A scuola, dunque, la dimensione educativa e quella culturale sono
inevitabilmente «correlate» e si sostengono a vicenda: non avrebbe senso un
sapere culturale ridotto a informazioni e avvertito dagli alunni come marginale
rispetto alla vita e ai suoi significati, e d’altra parte non esiste una autentica e
qualificata ricerca di senso individuale che non avvenga in un contesto storico
concreto, nel confronto e in dialogo con le diverse proposte di valori, di significati,
di modelli di comportamento e conoscenze che formano la cultura specifica del
mondo in cui i ragazzi vivono.
Per questo la scuola oggi è sempre più chiamata a promuovere un dialogo
autentico tra il percorso formativo dell’alunno, il suo sviluppo psicologico
e sociale, e i contenuti culturali di cui è portatrice, con le sue specifiche
metodologie didattiche.
In questo impegno, che è di tutta la scuola, l’IRC è chiamato a contribuire in
modo originale e specifico, in coerenza con la sua natura, allo sviluppo della
personalità dell’alunno nella dimensione religiosa. Infatti è specifico della nostra
disciplina, nel suo svolgersi concreto, aiutare gli alunni a comprendere come la
dimensione religiosa e la dimensione culturale, proprie della vita e della storia
umana, siano intimamente legate e complementari, capaci di contribuire allo
sviluppo della libertà, della responsabilità e della convivenza democratica.
Afferma con chiarezza la nota CEI del 1991 Insegnare religione cattolica
oggi: «L’insegnamento della religione cattolica non è (...) un corpo estraneo o
Capitolo 25 pag. 385
qualcosa di aggiuntivo o di marginale al processo scolastico, ma si inserisce
armoniosamente nel contesto della vita della scuola, rispettandone e
valorizzandone le finalità e i metodi propri». (CEI, Insegnare religione cattolica oggi, n.
6.) E aggiunge: «(L’IRC) offre il suo specifico contributo al pieno sviluppo della
personalità degli alunni, promuovendo l’acquisizione della cultura religiosa,
secondo le esigenze proprie di ciascun ordine e grado di scuola» (n. 6).
Tutti i contenuti dell’insegnamento di religione vanno coniugati con le finalità
educative della persona, e quindi con il compito primario della scuola, chiamata
a formare soggetti maturi e responsabili. Rievocando quanto si afferma
nel rapporto Delors (Cf J. DELORS, Nell’educazione un tesoro..., pp. 79-90.) anche il
«sapere» della fede cristiana cattolica deve servire allo sviluppo del «saper
fare», del «saper vivere con gli altri» e del «saper essere». L’IRC infatti
insegna un «sapere» religioso e culturale che attiene al mondo dei valori e
dei significati, e lo fa con l’intento di contribuire alla formazione di personalità
criticamente consapevoli delle proprie convinzioni esistenziali, capaci di operare
scelte responsabili nella vita e nella società civile, nel rispetto del pluralismo e
nell’accoglienza dei diversi, in particolare dei più svantaggiati.
In virtù del principio di correlazione, in IRC i contenuti sono didatticamente
mediati al servizio di un itinerario di crescita culturale e umana dell’alunno.
Pertanto non va confuso con la correlazione catechistica, di cui spesso si parla
all’interno di un orizzonte di fede. A scuola infatti non si richiede la presenza di
credenti, ma di alunni interessati a misurarsi seriamente con la religione cattolica,
perseguendo finalità di formazione personale. Lo affermano con chiarezza i
vescovi italiani nella nota del 1991: «Scegliere di avvalersi dell’IRC, da parte
dell’alunno e della sua famiglia non significa necessariamente dichiararsi
credente e cattolico, ma essere impegnato a misurarsi criticamente con una
proposta religiosa confessionale, che ha grande valore sia per la comprensione
della storia e della cultura del nostro paese sia per il suo attuale sviluppo civile
Capitolo 25 pag. 385/386
e democratico». (Cf CEI, Insegnare religione..., n. 15.) L’esito di questo processo non è
la fede, ma la conoscenza seria del cristianesimo e la maturazione consapevole
e critica delle proprie posizioni esistenziali di fronte alla vita e ai suoi grandi
interrogativi esistenziali.

2.6. Interdisciplinarità, intercultura ed educazione alla convivenza civile

Un altro criterio ineludibile, nella scuola della riforma, è il superamento degli


steccati tra la scuola e la vita, e tra le singole discipline.
Il Piano dell’Offerta Formativa, che identifica e caratterizza una istituzione
scolastica nelle dinamiche dell’autonomia, tende a promuovere il radicamento
della scuola sul territorio, e quindi ad aprirla al dialogo e alle possibili sinergie
con le famiglie, le istituzioni, le forze sociali e anche le risorse economiche. Ciò
comporta il definitivo superamento di una scuola chiusa e autoreferenziale, a
favore di una istituzione flessibile, che si modella ed elabora gli itinerari educativi
con attenzione alla situazione culturale, sociale e lavorativa.
Essere scuola in un contesto pluralistico e multietnico, dunque, non è
indifferente ai fini delle scelte didattiche, ed è rilevante anche per l’IRC, chiamato
a confrontarsi con religioni, credenze, convinzioni esistenziali di diverso tipo con
la capacità di entrare in dialogo, senza preclusioni che potrebbero configurare
forme di integralismo. Nella misura in cui saprà operare in tal senso, l’IRC
potrà dare un grosso contributo alla crescita della «convivenza civile», una
delle categorie sintetiche dell’impegno educativo espresso dalla scuola. Essa
appare nelle Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati della
Scuola Primaria e, come ci ricordano le Raccomandazioni per l’attuazione delle
stesse Indicazioni, è assunta come sintesi delle «educazioni» alla cittadinanza,
ambientale, stradale, alla salute, alimentare, all’affettività, e nel contempo come
Capitolo 25 pag. 386/387
risultato dell’apprendimento delle conoscenze e delle abilità che caratterizzano le
differenti discipline di studio.
Questo compito presuppone la capacità dell’IdR di collaborare con gli altri
insegnanti, e di confrontarsi con essi in modo critico e costruttivo.
Atal fine risulta molto utile il citato principio di correlazione. Esso infatti offre
un criterio prezioso per elaborare i rapporti interdisciplinari, interculturali e
interreligiosi, evitando il rischio di confusioni. Avolte infatti con l’intento di entrare
in dialogo con altre discipline o altre religioni l’IdR si improvvisa esperto di saperi
che non possiede e si avventura in percorsi didattici dispersivi, che rendono vane,
perché usate male, le già scarse ore di insegnamento di IRC.
L’eclettismo che spesso caratterizza queste trattazioni, e in particolare quelle di
religioni non cristiane o di confessioni non cattoliche nelle ore di IRC, è superato
attraverso l’applicazione del principio di correlazione, perché esso fornisce un
criterio attorno al quale ricondurre ad unità i contributi che possono provenire
da ogni proposta disciplinare, religiosa o ideologica: è l’antropologia cristiana.
Muovendo dai grandi interrogativi esistenziali che essa illumina ci si può aprire
ad altre proposte per un confronto, una valutazione, un arricchimento non
dispersivo.
In rapporto ad essi risulterà più chiara l’originalità della risposta religiosa
cattolica.
In questo modo si eviterà la dispersione enciclopedica, sia sugli aspetti descrittivi
delle diverse religioni sia sugli altri contenuti ideologici o culturali non pertinenti
con lo specifico dell’IRC.

Capitolo 25 pag. 387


2.7. Attenzione alla coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale,
nazionale ed europea

L’attenzione alla persona del ragazzo, che la scuola è impegnata a far crescere,
comporta una seria considerazione dell’ambiente umano in cui vive, di tipo
familiare, sociale, culturale e anche religioso.
L’Italia, come è noto, è caratterizzata da fenomeni locali molto diversificati tra
loro. Se ci si limita alle tradizioni religiose è facile constatare come la comune
fede cristiana abbia prodotto nei secoli forme e consuetudini liturgiche, popolari e
sociali molto diverse.
L’esigenza di unità che si avverte nelle scuole non può mortificare la ricchezza
di questo patrimonio, che deve invece essere valorizzato. La sfida è quella
di saper coniugare lo specifico di una comune tradizione culturale, che viene
garantita attraverso i saperi essenziali, le competenze di base e tutto ciò
che è riconosciuto nei documenti della riforma come patrimonio comune del
popolo italiano, con il portato delle tradizioni culturali locali, che arricchiscono
l’offerta formativa della scuola e permettono agli alunni di crescere e di inserirsi
armonicamente nel contesto di vita quotidiana.
In questa prospettiva appare evidente come il legame tra la scuola, l’IRC, e la
comunità cattolica presente sul territorio sia di vitale importanza, perché l’IRC
non risulti come la trasmissione di una cultura lontana ed estranea alla vita.
Avolte può capitare che gli alunni, nell’accostarsi alla Bibbia o alla morale
cristiana a scuola, li avvertano come insipida erudizione, perché non sono
aiutati a comprendere che ciò di cui si parla non riguarda solo gente vissuta nei
millenni trascorsi, ma interpreta le convinzioni e le scelte di oggi, presenti nel loro
contesto di vita, non di rado anche familiare e personale.

Capitolo 25 pag. 387/388


3. Dai principi didattici alla programmazione

I più recenti documenti ministeriali illustrano ampiamente la novità che


caratterizza la scuola della riforma, insistendo sul cambio di mentalità nel
passaggio dalla logica dei «programmi» a quella dei «piani personalizzati»,
passando attraverso la fase intermedia dei «curricoli».
I programmi hanno accompagnato lo strutturarsi della scuola italiana fin
dalle sue origini, nell’Ottocento, e sono caratterizzati dal fatto di designare
«contenuti di insegnamento dettati centralisticamente, da parte del Ministero, e
da svolgere in maniera uniforme in ogni classe del paese». Nei loro confronti
non si risparmiano giudizi alquanto pesanti. Si lamenta che con la mentalità dei
programmi «l’allievo perde la sua centralità», «i ragazzi e le famiglie devono
addirittura subire un adeguamento alla seconda potenza» dovendosi adattare ai
loro dettami, e i docenti sono costretti ad avere «un atteggiamento impiegatizio
dell’applicazione e dell’esecuzione». (Dai Programmi ai Curricoli ai Piani di Studio
Personalizzati. In Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni nazionali per i Piani di
studio personalizzati nella Scuola Primaria. Raccomandazioni generali. Questioni di lessico.)
Diversa è la mentalità suggerita dalla logica dei curricoli, introdotta in Italia dal
mondo anglosassone, caratterizzato per tradizione dalla autonomia delle scuole
e dalla mancanza, almeno fino ai tempi più recenti, della nozione di curriculum
nazionale.
Il «curricolo» si è diffuso nel nostro paese per sostenere l’esigenza di prestare
attenzione alle scelte educative e didattiche concretamente adottate dai docenti,
impegnati a rispondere alle esigenze che derivano dalle differenze territoriali,
sociali e culturali degli allievi. Per ovviare all’astrattezza dei programmi, si è
affermata la logica della «Programmazione curricolare», con attenzione al
concreto contesto formativo, ma senza rinunciare al positivo che il programma
porta con sé, e cioè la garanzia di unità dell’istruzione, garantendo a tutti una
Capitolo 25 pag. 388
omogenea alfabetizzazione culturale di base. Il Ministero, secondo l’art. 8 del
Dpr 275/99, detta gli elementi di carattere generale che garantiscono l’uniformità
tra i processi e gli itinerari didattici elaborati nelle singole istituzioni scolastiche,
vale a dire gli ordinamenti del sistema educativo di istruzione e di formazione, gli
obiettivi generali del processo educativo, gli obiettivi specifici di apprendimento,
gli standard di prestazione del servizio, i criteri generali per la valutazione.
Resta tuttavia la responsabilità delle singole scuole e dei docenti di definire
concretamente, in modo creativo e responsabile, tempo, luogo, azione, quantità
e qualità di questi vincoli astratti. Aloro compete la delicata funzione di declinare il
generale-nazionale («ciò che vale per tutti») nel particolare-locale («ciò che vale
per me, per ciascuno»). Questa nuova logica richiederebbe il coinvolgimento di
genitori, ragazzi e territorio. Ciò tuttavia, come si lamenta nei documenti, fino ad
oggi è avvenuto in modo solo formale, dal momento che si sono maggiormente
valorizzati i contributi dei docenti e dei professionisti dell’educazione, ma non
si è riusciti a coinvolgere in modo significativo le famiglie e gli alunni. Pertanto
anche la programmazione curricolare va superata, attraverso i «Piani di Studio
Personalizzati ». Con la loro affermazione si intende abbandonare «l’uniformità
delle prestazioni progettate a priori» per rovesciare la prospettiva: «Sul piano
della professionalità, ai docenti è richiesto non più di transitare “dal generale
culturale al particolare personale”, ma di operare “dal particolare personale al
generale culturale” ». Ciò ovviamente non comporta l’abbandono dei vincoli
nazionali garantiti dallo Stato attraverso «livelli essenziali di prestazione» e tutto
ciò che è necessario, dal punto di vista organizzativo, per promuovere l’unità
culturale del paese; ma crea nuovi spazio alla responsabilità di alunni, famiglie e
docenti. I Piani di Studio Personalizzati, infatti, dovrebbero essere personalizzati
«sia nella progettazione e nello svolgimento (cf le Unità di Apprendimento)
sia nella verifica (cf il Portfolio delle competenze)». (Ibid.) In questa logica
di organizzazione didattica si inserisce a pieno titolo l’IRC, disciplina la cui
Capitolo 25 pag. 388/389
tradizione didattica è stata sempre molto attenta al destinatario, al vissuto, alle
domande e agli interessi degli alunni, a volte anche fino al punto da allontanarsi
dai programmi ufficiali più di qualunque altra disciplina.
Il nuovo assetto organizzativo consente ai docenti di continuare a coltivare
l’attenzione alla persona degli alunni e a contribuire alla elaborazione dei loro
percorsi didattici con alcuni precisi punti di riferimento esterni. Essi sono il Profilo
educativo, culturale e professionale dello studente e le Indicazioni nazionali, con
le relative Raccomandazioni.
Con essi, ogni Istituzione scolastica, in regime di autonomia, è chiamata ad
elaborare il proprio Piano dell’Offerta formativa e, per ogni alunno, il Piano
di studio personalizzato, la cui realizzazione è documentata dal Portfolio, e
accompagnata da un insegnante Tutor.
Come è facile capire, l’IdR è chiamato ad operare con la metodologia della
scuola e ad aiutarla a perseguire i suoi fini educativi con il contributo specifico
del suo insegnamento. Per far questo egli non avrà più bisogno del tradizionale
programma di religione, ma di nuovi strumenti, simili a quelli di cui dispongono
gli insegnanti delle altre discipline, che permettano l’elaborazione di unità di
apprendimento adeguate al nuovo contesto: flessibili e diversificate, ma nello
stesso tempo fedeli ai criteri comuni, che garantiscono la qualità e l’unitarietà
dell’insegnamento.

3.1. Le matrici progettuali

Uno strumento particolarmente utile per questo scopo, nato dalla


sperimentazione, può essere la matrice progettuale, purché se ne comprenda
bene la natura e la si usi con competenza. L’esperienza insegna che essa
può facilmente essere fraintesa, perché confusa con uno schema operativo di

Capitolo 25 pag. 389/390


programmazione e come tale subìta come una gabbia che costringe e vincola
l’insegnante, limitando la sua libertà didattica. Con il suo abituale utilizzo, invece,
si impara che essa è ben altra cosa: serve ad orientare l’insegnante nell’uso
dei modelli didattici che ritiene più validi ed opportuni, aiutandolo ad applicare
in modo sistematico i criteri di qualità richiesti dalla riforma e selezionati dalla
sperimentazione nazionale.
La matrice progettuale, infatti, non è una griglia di programmazione legata ad
una specifica didattica, ma è concepita come uno strumento concettuale che
orienta e sostiene la programmazione del docente, aiutandolo ad osservare i
seguenti quattro «criteri di qualità», indipendentemente dal modello didattico
scelto.
In altri termini essa aiuta ad operare con attenzione a quattro criteri:
– all’esperienza dell’alunno e alle sue domande;
– ai possibili rapporti interdisciplinari, interreligiosi, interculturali;
– alla chiarezza del contenuto confessionale;
– alla realizzazione di una coerente sintesi conclusiva.
I criteri non vanno intesi con vincolo di successione. Se ad esempio un docente
sceglie di usare un modello di comunicazione didattica di tipo kerygmatico, e in
classe decide di partire direttamente dalla lettura della parola di Dio, la matrice
lo aiuta a non esaurire la sua trattazione rimanendo solo sul testo biblico, ma
movendo da esso lo orienta ad intercettare in qualche punto dello svolgimento
didattico l’esperienza e gli interrogativi dell’alunno; lo stimola ad aprirsi al
confronto con l’insegnamento di altre religioni, sistemi di significato, documenti
artistico-letterari o altre manifestazioni culturali presenti nell’ambiente, ecc.;
lo impegna inoltre a condurre gli alunni ad operare una sintesi ordinata delle
acquisizioni maturate durante il percorso didattico svolto, che sarà un importante
punto di partenza per le unità didattiche successive, secondo il principio di
ciclicità.
Capitolo 25 pag. 390
Per applicare ciascuno di questi criteri di qualità, nella matrice progettuale
il docente trova indicazioni e suggerimenti diversi, che potrà selezionare
con attenzione a ciò che è più opportuno e funzionale nel suo indirizzo di
insegnamento.
Per una maggiore comprensione della sua natura, e per reperire matrici
progettuali già predisposte all’uso per i diversi argomenti da trattare si rimanda
al Documento conclusivo della sperimentazione (2000) o agli aggiornamenti
successivi.

3.2. Insegnare per obiettivi

Uno degli aspetti caratterizzanti i nuovi documenti della riforma è la


configurazione di una scuola che opera per obiettivi. L’impianto didattico, che si
ripercuote anche sull’organizzazione dell’IRC, prevede la distinzione tra «obiettivi
specifici di apprendimento» e «obiettivi formativi».
Gli «obiettivi specifici di apprendimento» sono presenti in tutte le scuole
(dell’Infanzia, Primaria e Secondaria) e hanno un duplice scopo, che riguarda
sia il versante del servizio che la scuola svolge agli alunni, sia il versante della
crescita effettiva degli alunni stessi.
Sul versante del servizio scolastico essi indicano i «livelli essenziali» di servizio
che le scuole sono tenute a garantire, intesi come «standard di prestazione del
servizio» che le scuole sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini, per
mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione.
(Cf Obiettivi specifici di apprendimento. In Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati
nella Scuola Secondaria di 1° grado.) In questo modo si auspica di impedire la
frammentazione e la polarizzazione del sistema.
Sul versante della crescita effettiva degli alunni, essi permettono la formulazione
Capitolo 25 pag. 390/391
degli «Obiettivi formativi», che i documenti indicano come mete concretamente
raggiungibili dall’alunno, per fissare le quali l’insegnante deve tener conto della
loro situazione e delle loro esigenze di crescita.
Per la definizione degli obiettivi formativi, dicono i documenti, è necessario
combinare armonicamente due tipi di percorsi: (Cf ad es. Obiettivi formativi e Piani
di Studio Personalizzati, in Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola
Primaria.)
– quello che parte dall’alunno, nel quale gli obiettivi formativi debbono essere
«alla portata degli allievi» ma anche «coerenti con il Profilo educativo, culturale
e professionale, nonché con il maggior numero possibile di obiettivi specifici di
apprendimento»;
– quello che parte «direttamente» dal «Profilo educativo, culturale e professionale
» e dagli «obiettivi specifici di apprendimento».
Allo stesso modo si farà per l’IRC. Non meno dei suoi colleghi l’IdR sarà
chiamato a indicare obiettivi formativi di tipo disciplinare in rapporto a precisi
obiettivi specifici di apprendimento, fissati nei nuovi documenti per l’IRC.

3.3. I livelli e la valutazione

Da questo tipo di impianto «per obiettivi» deriva sia l’importanza


dell’insegnamento per «livelli» sia quella della valutazione.
Per ogni disciplina è necessario avere tabelle con contenuti certi: saperi e
relative abilità-competenze da far maturare. Essi saranno poi declinati con
le dovute flessibilità nella elaborazione delle unità di apprendimento, che
rispondono alla logica di livelli diversi e successivi di complessità.
Nella scuola dell’infanzia essi vanno appena «descritti più che misurati e
compresi più che giudicati», ma non sono assolutamente ignorati né sottovalutati.
Capitolo 25 pag. 391
Ciò è tanto vero che si prevede addirittura la possibilità di costituire «Laboratori
per lavorare, a seconda delle esigenze di apprendimento individuali dei bambini»
anche in «gruppi di livello». Del resto è difficile immaginare che sia possibile
fissare obiettivi «formativi» per le unità di apprendimento senza che ci sia una
valutazione del «livello» dell’alunno in ordine a mete auspicate per lui dalla
scuola. (Cf Indicazioni nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole
dell’Infanzia.)
La scuola elementare, per parte sua, è definita «primaria» anche perché intende
portare il bambino ad un «primo livello di padronanza delle conoscenze e delle
abilità», e prevede di aiutare «il passaggio dal “sapere comune” al “sapere
scientifico”». Dunque punta ad accompagnare gli alunni al raggiungimento di un
livello preciso, attraverso la mediazione di opportune «Unità di Apprendimento
». È bene mettere in evidenza che il loro compito, espressamente detto e
rafforzato con un preciso riferimento normativo, è anche valutativo. Si legge nel
documento che le unità di apprendimento «valutano, alla fine, sia il livello delle
conoscenze e delle abilità acquisite, sia se e quanto esse abbiano maturato
le competenze personali di ciascun allievo (art. 8 del Dpr. 275/99)». (Obiettivi
specifici di apprendimento. In Indicazioni nazionali per i «Piani di studio personalizzati » nella
Scuola Primaria.) Le stesse parole e lo stesso riferimento normativo ritornano nel
documento per la scuola secondaria di primo grado.
La scuola secondaria di primo grado prevede che le unità di apprendimento
siano organizzate anche per «gruppi di livello», che gli «obiettivi formativi» siano
«definiti anche con i relativi standard di apprendimento, riferiti alle conoscenze e
alle abilità coinvolte»; che, oltre a ciò, prevedano «modalità con cui verificare sia
i livelli delle conoscenze e delle abilità acquisite, sia se e quanto tali conoscenze
e abilità si sono trasformate in competenze personali di ciascuno». (Vincoli e risorse,
in Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di 1° grado.)
Per i livelli raggiunti dagli studenti ci sarà anche un momento di valutazione
Capitolo 25 pag. 391/392
esterna, fatta dal Servizio Nazionale di Valutazione all’inizio del primo biennio.
Essa sarà «riferita sia agli elementi strutturali di sistema, sia ai livelli di
padronanza mostrati dagli allievi nelle conoscenze e nelle abilità raccolte negli
obiettivi specifici di apprendimento indicati per la fine della Scuola Primaria».

3.4. La formazione in servizio degli IdR

L’impegno al quale tutta la scuola oggi è chiamata comporta la disponibilità non


solo a cambiare il modo di insegnare, ma lo stesso approccio alla didattica. Si
tratta cioè di far crescere nei docenti una nuova mentalità, capace di elaborare
percorsi didattici personalizzati in modo creativo, flessibile e partecipato, pur
nella fedeltà alla scuola di tutti e alla natura di un insegnamento concordatario
che non cessa di essere confessionale.
Questo obiettivo non può essere raggiunto in tempi brevi, con qualche corso di
aggiornamento, ma esige che anche gli IdR assumano per se stessi la logica
della formazione permanente e «in servizio», e si attrezzino di conseguenza con
metodologie che li abituino alla riflessione critica sul proprio operato.
Un valido contributo, a tal fine, è offerto della Sperimentazione CEI 1998-2000,
nel corso della quale è stata messa a punto una metodologia di laboratorio che
può utilmente essere usata.
Si tratta di esperienze formative che stimolano negli IdR la rielaborazione
sistematica delle loro cognizioni didattiche e contenutistiche in contatto diretto
con l’esperienza di insegnamento che svolgono. Il fine generale del laboratorio,
infatti, viene raggiunto mediante la produzione di progetti didattici; il confronto e
la collaborazione con i colleghi, anche di altre discipline; l’impegno ad operare
una riflessione critica sul proprio vissuto didattico personale; l’acquisizione di
nuovi repertori concettuali ed operativi richiesti dalla scuola dell’autonomia e
Capitolo 25 pag. 392/393
dal lavoro in rete. Nel lavoro di laboratorio ogni partecipante è nel contempo
«docente» e «discente», nel senso che offre agli altri il contributo della propria
esperienza e creatività e da essi apprende modalità operative nuove, spunti,
stimoli o apporti critici per migliorare il suo insegnamento.
La metodologia dei laboratori di IRC è ampiamente descritta in schede
specifiche, contenute nei documenti conclusivi della Sperimentazione CEI.

4. Conclusione

Nonostante le lentezze con cui la riforma scolastica va avanti, in questi


anni l’impegno per riqualificare la nostra disciplina è stato notevole e si è
accompagnato a quello della riqualificazione dei docenti. Ecco alcuni importanti
esiti di questo lavoro.
– Una definizione più precisa dei saperi specifici ed essenziali dell’IRC.
– La definizione di una didattica disciplinare di qualità, rispettosa della natura
e delle finalità sia della scuola sia della disciplina, concepita in modo aperto e
flessibile, ma con precisi criteri generali che la salvano dall’anarchia applicativa
e dal dissolvimento. In passato ciò non è sempre accaduto, e si è rischiato che
l’IRC fosse identificato come insegnamento non pienamente scolastico, perché
nella didattica reale o non aveva un contenuto specifico o ne aveva uno non
compatibile con l’ambiente scolastico.
– L’attenzione sistematica per gli aspetti interdisciplinari, interreligiosi e
interculturali dell’IRC, promossa dall’utilizzo della matrice progettuale, promuove
un insegnamento che, mentre non cessa di rimanere confessionale, viene
concepito e didatticamente svolto in modo aperto, in dialogo con la cultura. In
questo modo rinuncia a essere zona franca all’interno della scuola, e si gioca nel
confronto educativo in modo positivo e propositivo.
Capitolo 25 pag. 393
– Infine i nuovi documenti promuovono il rapporto tra IRC e territorio,
considerato con le sue possibili sinergie e con la sua ricchezza culturale ed
educativa, non esclusa quella che deriva dal patrimonio di fede della tradizione
ecclesiale locale.
Ora si auspica che l’investimento fatto per il rinnovamento dell’IRC serva a
promuovere la diffusione sul territorio di laboratori per la formazione in servizio
dei docenti, e quindi per lo sviluppo di una riflessione critica e progettuale
sull’IRC.
La situazione diversificata tra insegnanti ormai esperti ed altri ancora in
fase di formazione fa intravedere la possibilità e l’opportunità di promuovere
e coordinare sul territorio nazionale un certo numero di persone, capaci di
costituire una rete di formatori a sostegno della crescente domanda delle scuole.

Bibliografia di riferimento

Testi di riferimento della Sperimentazione CEI 1998-2000:


CEI-UCN SETTORE INSEGNAMENTO RELIGIONE CATTOLICA, Sperimentazione
nazionale biennale sui programmi di religione cattolica nella prospettiva
dell’autonomia scolastica e di nuovi programmi di religione cattolica. Anno
scolastico 1998/99, in: Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale II (1998) 23
e Anno scolastico 1999-2000, in: Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale
III (1999) n. 24. Gli esiti conclusivi della sperimentazione sono stati stampati in:
Documento conclusivo della sperimentazione negli anni scolastici 1998-99 e
1999-2000 sui programmi di religione cattolica nella prospettiva dell’autonomia
scolastica e di nuovi programmi, in: Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale
IV (2000) n. 20. Lo stesso documento, aggiornato alla luce di una consultazione
Capitolo 25 pag. 393/394
dei Vescovi e degli sviluppi della riforma, è stato stampato col seguente
titolo: Documento conclusivo della sperimentazione nazionale sull’IRC per
la formazione dei docenti di religione della Scuola dell’Infanzia, della Scuola
Elementare e della Scuola Media inferiore, e della Scuola Secondaria superiore,
in: Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale V (2001) n. 16; Documento
conclusivo della sperimentazione nazionale sull’IRC per la formazione dei
docenti di religione della Scuola dell’Infanzia, della Scuola elementare, della
Scuola media inferiore, della Scuola secondaria superiore, in: Notiziario
dell’Ufficio Catechistico Nazionale, n. VI (2002).

Testi ministeriali di riferimento per la Riforma scolastica in atto:


I nuovi piani di studio (bozze pubblicate sul sito del Ministero): Testo e contesto
dei documenti.
Guida alla lettura; Profilo educativo, culturale e professionale dello studente
alla fine del Primo Ciclo di istruzione (6-14 anni); Indicazioni nazionali per
i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Secondaria di primo grado (30
luglio 2003); Indicazioni nazionali per la Scuola Secondaria di primo grado
(24 dicembre 2002); Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati
nella Scuola Primaria (6 novembre 2002); Indicazioni nazionali per i Piani
Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia (6 novembre
2002); Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni nazionali per
i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia;
Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni nazionali per i Piani di
studio personalizzati nella Scuola Primaria (9 ottobre 2002); Ipotesi di modelli
organizzativi della Scuola Primaria (9 ottobre 2002).

Capitolo 25 pag. 394


PARTE QUARTA

Condizioni peculiari dell’esercizio


disciplinare

Questa sezione risulta complementare.


Analizza settori rilevanti e tuttavia tangenziali alla professionalità del docente;
meriterebbero adeguato e specifico approfondimento.
Il manuale tende almeno a delineare l’impostazione da dare ai nodi più avvertiti
e dibattuti:
– Educazione scolastica ed educazione ecclesiale - IRC e catechesi (Alberich);
– IRC e pastorale scolastica (Stenco); – IRC e scuola cattolica (Malizia-Cicatelli);
– Educazione religiosa e disagio scolastico (Morante).

pag. 395
CAPITOLO 26

EDUCAZIONE SCOLASTICA E AZIONE


ECCLESIALE
La distinzione tra insegnamento della religione nella
scuola e catechesi della comunità cristiana
Emilio Alberich

La storia dell’insegnamento della religione (IR) nella scuola e del rinnovamento


catechetico, nella seconda metà del sec. XX, hanno portato a una progressiva
differenziazione della propria identità e alla quasi generale accettazione del
principio della distinzione e complementarità tra IR e catechesi della comunità
cristiana.
Vediamone alcuni principali sviluppi.

L’eredità dell’epoca moderna

Il problema dell’IR nella scuola è sempre stato fortemente condizionato dal


peso della storia. Sappiamo che l’epoca moderna ha visto in Europa la presenza
pacifica e scontata di un IR concepito come vera catechesi o socializzazione
religiosa, all’interno della scuola. Difatti, la scuola in Europa è nata e si è

Capitolo 26 pag. 397


sviluppata ordinariamente per iniziativa e sotto controllo delle chiese cristiane.
Oltre alla ricca eredità dei secoli medievali, ha avuto il suo peso determinante
nell’epoca moderna il forte processo di «confessionalizzazione» delle nazioni
europee avvenuto nei secoli XVI-XVII, quando le denominazioni cristiane,
cattolica o protestante, si sono praticamente identificate con l’istituzione statale
e hanno plasmato un insieme indissolubile di leggi, tradizioni, credenze, norme
etiche e patrimonio culturale fortemente segnato dall’appartenenza confessionale.
(Cf R. RÉMOND, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Bari,
Laterza, 1999.) In questo contesto, l’IR ha potuto mantenere per molto tempo e
in forma indiscussa il suo carattere confessionale e «catechistico»: sia per i
contenuti (generalmente formulati nei «catechismi»), sia per le modalità di
conduzione (gestione ecclesiastica). Il catechismo a scuola, forma pacifica di
«chiesa nella scuola», è stato considerato strumento principale di socializzazione
religiosa, ma anche – in molte situazioni – di alfabetizzazione e di promozione
culturale, costituendo un fatto educativo di indiscussa rilevanza culturale e
sociale.
Guardando con attenzione lo sviluppo storico di questa concezione è possibile
scorgere alcune costanti che ne spiegano la consistenza e la durata:
– la concezione dell’IR come strumento privilegiato di socializzazione religiosa
all’interno delle diverse confessioni;
– l’esistenza di un rapporto inscindibile tra religione e istituzione confessionale,
per cui si ritiene che quanto concerne l’ambito religioso sia materia propria ed
esclusiva delle chiese, uniche gestori del fatto religioso;
– la convinzione che l’appartenenza religiosa di ogni persona, essendo una
componente essenziale della propria identità, costituisca un bene da promuovere
attraverso un’educazione che eviti accuratamente ogni confronto con altre
posizioni, ritenute minacciose per la propria crescita umana e religiosa.
Con l’affermarsi dell’illuminismo e del progressivo sviluppo del processo di
Capitolo 26 pag. 397/398
secolarizzazione, soprattutto durante il secolo XIX, la situazione è diventata
problematica, man mano che veniva rivendicata l’autonomia delle istituzioni civili,
e in particolare della scuola, spesso in polemica con l’istituzione ecclesiastica. E
questo spiega, almeno in parte, l’atteggiamento difensivo che non poche volte
ha caratterizzato la reazione del mondo cattolico, inteso a difendere le proprie
istituzioni (specialmente le scuole cattoliche) e la propria presenza nelle scuole
pubbliche (specialmente per mezzo dell’IR).
Gli sbocchi concreti di queste tensioni sono stati molto diversi, a seconda
dei fattori storici e culturali propri di ogni nazione. (Cf ISTITUTO DI CATECHETICA
DELL’UNIVERSITÀ SALESIANA (ed.), Scuola e religione. 1. Una ricerca internazionale. Situazione,
problemi, prospettive, Leumann (Torino), Elledici, 1971; F. PAJER (ed.), L’insegnamento scolastico
della religione nella nuova Europa, Leumann (Torino), Elledici, 1991.) Avolte si è potuto
instaurare una collaborazione pacifica tra Stato e Chiesa. Altrove si è arrivati alla
rottura o a forme diverse di pattuizioni più o meno soddisfacenti, come nel caso
dei concordati.
Da parte cattolica, là dove bisognava legittimare la presenza nella scuola dell’IR
confessionale, si è fatto ricorso generalmente all’affermazione del diritto della
Chiesa di svolgere la propria missione e ruolo pastorale anche nelle istituzioni
civili e, in linea più pedagogica, a due tradizionali argomenti: il diritto dei genitori
a scegliere ed assicurare ai figli il tipo di educazione desiderato e l’importanza
della dimensione religiosa (identificata sempre confessionalmente) come parte
integrante di un’educazione globale rettamente intesa.

La svolta del Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha significato un’importante svolta nella


considerazione del nostro tema, sia per le nuove prospettive emerse sulla
Capitolo 26 pag. 398
Chiesa e la sua missione, sia per la nuova sensibilità creatasi nei confronti dei
valori della modernità (laicità, libertà religiosa, senso democratico, insofferenza
verso ogni forma di privilegio o di indottrinamento). È nato così, nel periodo
postconciliare, un vasto movimento di insofferenza e di critica di fronte alla
presenza della religione nella scuola nella sua forma tradizionale. (Cf G. MILANESI,
Religione e liberazione, Torino, SEI, 1971, 9-17; Dibattito sull’insegnamento della religione, Zürich,
PAS-Verlag, 1972.) L’IR confessionale è stato accusato di indottrinamento e di
violenza alle coscienze, di essere un privilegio ingiustificato, di strumentalizzare
la scuola a favore di una confessione religiosa, ecc. È apparsa ingiustificata una
presenza della religione nella scuola come «concessione » fatta alla Chiesa,
come «Chiesa nella scuola», come esercizio della missione evangelizzatrice,
quasi una parentesi sacra all’interno di un’istituzione laica.
Si è venuta consolidando così la convinzione che, in una società pluralista e
democratica, non può essere invocata la missione evangelizzatrice della chiesa
per mantenere nella scuola di tutti, in forma istituzionalizzata, un insegnamento
catechistico confessionale. In Italia si è spesso parlato peraltro dell’ambiguità di
un insegnamento che è scolastico da una parte, ma non del tutto, essendo anche
attività gestita dalla chiesa. E quest’ambiguità investe anche necessariamente
la figura dell’insegnante, in quanto appartenente da una parte alla scuola ma
rappresentante allo stesso tempo dell’istituzione ecclesiastica.
Questo ripensamento ha portato, non solo in Italia ma un po’ dappertutto,
all’affermarsi della fondazione pedagogico-scolastica dell’IR e quindi alla
convinzione che, se ha diritto di cittadinanza la religione nella scuola, il suo
insegnamento dovrà rispondere alle esigenze della scuola stessa ed entrare
nel quadro delle sue finalità educative e culturali. Solo all’interno della logica
scolastica e di un discorso pedagogico si potrà giustificare, se mai, la presenza
di un insegnamento o momento di formazione religiosa dentro della scuola. (Cf
F. PAJER, Per uno statuto laico dell’insegnamento religioso scolastico, in «Religione e scuola », 7

Capitolo 26 pag. 398/399


(1978-79) 8-9, 350-359; E. ALBERICH, «Laicità della scuola e insegnamento religioso: prospettive
teologico-pastorali», in ISTITUTO DI CATECHETICA DELL’UNIVERSITÀ SALESIANA (ed.),
Scuola e religione, vol. 2. Leumann (Torino), Elledici, 1973, 199-235.) E si è arrivati così alla
distinzione, oramai praticamente pacifica, tra IR scolastico e catechesi della
comunità cristiana.
Anche il linguaggio è cambiato: invece che in termini catechistici si parla oggi
dell’IR in termini di approccio culturale, di offerta libera ai giovani, di proposta
educativa, di contributo alla formazione integrale, di apporto originale alla
missione della scuola. In Germania si sottolinea molto il carattere «diaconale»
dell’IR (Cf N. METTE, Religionspädagogik. Düsseldorf, Patmos, 1994, 211; J. WERBICK, Heutige
Herausforderungen an ein Konzept des Religionsunterrichts, in «Katechetische Blätter», 118 (1993)
7, 451-465.) e il suo deciso orientamento verso l’alunno, che deve rimanere sempre
al centro dell’interesse.
In questa prospettiva l’IR è visto come parte integrante del progetto didattico
della scuola e deve assumerne perciò le esigenze e le caratteristiche: serietà di
programmazione, impostazione scientifica, apertura alla ricerca, qualificazione
adeguata degli insegnanti, ecc. Il carattere specifico dell’IR tra le discipline
scolastiche non deve mai portare a disattenderne i requisiti didattici e pedagogici,
come in ogni attività appartenente alla scuola.

Distinzione e complementarità tra IR e catechesi ecclesiale

Ecco allora che la concezione pedagogico-scolastica dell’IR ha portato a un


consenso, pur differenziato nelle sue concrete modalità, sulla convenienza di
distinguere chiaramente tra IR nella scuola e catechesi della comunità cristiana.
(Questo principio viene oggi ampiamente recepito nei documenti ufficiali della catechesi. Cf
CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi, Città del Vaticano,

Capitolo 26 pag. 399


LEV, 1997, 73; Insegnare religione cattolica oggi. Nota pastorale della CEI sull’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole pubbliche [24.5.1991], Roma, Paoline, 1991, 13; COMISIÓN
EPISCOPAL DE ENSEÑANZAY CATEQUESIS, Orientaciones pastorales sobre la enseñanza
religiosa escolar, Madrid, PPC, 1979, 58-65; SINODO NAZIONALE DELLE DIOCESI
DELLAGERMANIA FEDERALE, Scuola e insegnamento della religione, Leumann (Torino), Elledici,
1977, 1,4; Catequese renovada. Orientaçôes e conteúdo.
Documento aprovado pelos Bispos do Brasil, São Paulo, Edições Paulinas, 1983, 125; A. P.
PURNELL, Our Faith Story, London, Collins, 1985, 72-75. Il principio della distinzione viene
anche riaffermato nella scuola cattolica: cf CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA,
Dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica, Bologna, Dehoniane, 1988, 68.)
Non si tratta propriamente di contrapposizione, ma di complementarità nella
distinzione. Concretamente, la distinzione riguarda sia gli ambienti (la scuola
pubblica e la comunità cristiana, rispettivamente), sia i destinatari (gli alunni da
una parte e i credenti dall’altra), sia i compiti (confronto responsabile col fatto
religioso e maturazione della fede), sia le metodologie, ecc. Come si vede, la
distinzione non intacca tanto i contenuti dell’insegnamento quanto soprattutto la
collocazione e l’intenzionalità di prospettiva. E si tratta in fondo di un chiarimento
destinato a recare vantaggio, sia all’esercizio dell’IR, sia allo svolgimento del
ministero catechistico nei diversi ambiti dell’azione pastorale della Chiesa.
È quindi soprattutto a livello di finalità e di obiettivi che può essere colta la
distinzione tra IR e catechesi. La catechesi, in quanto educazione della fede nella
comunità cristiana, si qualifica come azione ecclesiale che punta al risveglio della
conversione, all’interiorizzazione di atteggiamenti di fede e alla maturazione della
fede stessa. (Cf CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi, Città
del Vaticano, LEV, 1997, n. 77-90; E. ALBERICH, La catechesi oggi, Leumann (Torino), Elledici,
2001, 146-156.) Gli obiettivi dell’IR, invece, rispecchiano le motivazioni pedagogiche
che ne giustificano la presenza nella scuola e possono venire raccolti attorno a
un triplice compito: informazione, formazione, educazione alla pace:

Capitolo 26 pag. 400


– Informazione: permettere ai giovani una conoscenza seria e articolata del
fenomeno religioso, nella sua natura e nelle sue manifestazioni. Questo
obiettivo riveste oggi un’urgenza tutta speciale, date le proporzioni allarmanti
dell’ignoranza religiosa nella nostra società.
– Formazione: permettere ai giovani un confronto serio coi problemi di fondo del
senso della vita e delle ultime realtà umane, per aiutarli a fare libere e mature
scelte in campo religioso e a integrare le conoscenze religiose nel proprio
patrimonio culturale.
– Educazione alla pace: in una società complessa e plurireligiosa, è urgente
educare alla convivenza pacifica e al dialogo specialmente tra appartenenti a
culture e confessioni religiose diverse. La scuola può offrire, a questo riguardo,
un ambiente privilegiato di azione educativa.

Il problema aperto della confessionalità

La distinzione tra IR e catechesi potrebbe sembrare risolutiva del problema


tradizionale e portare a un superamento delle tensioni esistenti a proposito
della religione nella scuola. Ma in realtà non è così. Ci si può domandare:
sono effettivamente cambiati i presupposti su cui poggiava in qualche modo la
posizione tradizionale della catechesi a scuola? Parlando in termini generali
si deve ammettere che tali presupposti sono rimasti nella coscienza collettiva
e in particolare nella mentalità dei più diretti responsabili del problema: politici,
autorità religiose, intellettuali.
– Sembra rimasta in fondo, nonostante solenni dichiarazioni di principio, la
concezione «catechistica» della presenza della religione nella scuola. Difatti, la
nuova visione scolastica e pedagogica dell’IR si trova a dover coesistere con la
tradizionale confessionalità della disciplina e della sua gestione da parte delle
Capitolo 26 pag. 400/401
chiese. E qui si trova una delle radici delle discussioni che hanno preceduto la
revisione del Concordato in Italia. Negli anni ’70 e ’80, prima del 1984, erano
state fatte in campo cattolico diverse proposte di un IR laico, ma sono rimaste
totalmente fuori considerazione. Il Concordato del 1984, pur introducendo
motivazioni e modalità nuove, è rimasto in fondo ancorato a una soluzione di
compromesso, in certo senso contraddittoria, tra le «due anime» del problema.
(Si possono ricordare le posizioni di P. Braido, G. Groppo, E. Alberich, N. Galli, L. Pazzaglia, P.
Scoppola, F. Pajer: cf E. ALBERICH, L’insegnamento della religione tra catechesi e approccio
culturale, in «Orientamenti pedagogici», 33 (1986) 6, 1026-1037.)
– Rimane sempre molto radicata la tradizione, che del resto ha anche dato i suoi
buoni frutti, che affida tutto l’ambito dell’educazione religiosa alla responsabilità
delle istituzioni confessionali. Questo fa sì che, nel caso venga ipotizzata la
presenza dell’IR nella scuola, si pensi anzitutto alle chiese come ai naturali
gestori di tale insegnamento (con il conseguente pericolo di odiosità e di
discriminazione).
– Ed è anche presente la convinzione che, per la propria crescita umana e
religiosa, sia importante proteggere la propria identità e appartenenza da ogni
contatto o dialogo con altre posizioni culturali e religiose, ritenute sempre come
una minaccia.
Rimane perciò una certa ambiguità di fondo per la presenza in qualche modo
di «due anime» nel modo di concepire e attuare l’IR scolastico. Ed è forse la
coesistenza di queste due anime il nodo centrale e lo schema interpretativo di
fondo che sta alla base di molte situazioni concrete. La permanenza, insieme
alla concezione «scolastica» e «pedagogica» dell’IR, di una sua connotazione
«catechistica » (o di «socializzazione religiosa») spiega molte modalità concrete
di presenza (o assenza) della religione nella scuola, anche in casi di evidente
adattamento e sensibilità per le nuove situazioni culturali e religiose. Così,
per esempio, in alcuni paesi l’IR continua a essere concepito come catechesi
Capitolo 26 pag. 401
scolastica (Austria, Irlanda, Polonia, diverse nazioni americane, ecc.), mentre in
altri è stato escluso dalla scuola pubblica in nome della laicità (Francia, Olanda,
Slovenia). (Cf F. PAJER, L’insegnamento scolastico della religione nella nuova Europa, Leumann
(Torino), Elledici, 1991; TH. H. GROOME, Catechesis and Religious Education, in «The Living
Light», 29 (1992/93) 1, 40-46.)
Sempre concepito come catechesi scolastica, l’IR è stato anche escluso
dalla scuola pubblica negli USA e trasformato in un IR non confessionale in
Inghilterra, non tanto per polemica antireligiosa quanto per evitare nella scuola
la conflittualità e molteplicità delle confessioni presenti nella società. È anche
coerente con questa prospettiva, per rispetto delle appartenenze religiose, la
moltiplicazione degli insegnamenti confessionali all’interno della scuola pubblica,
come, per es., in Croazia o in Belgio, dove possono essere aperte forme diverse
di IR nella stessa scuola (cattolico, protestante, ortodosso, ebraico, musulmano,
umanistico).
Si può percepire anche la presenza di questa «doppia anima» nella formula,
concordataria o costituzionale, di un IR confessionale presente nella scuola, ma
reso facoltativo, o opzionale, o con possibilità di esonero. È la situazione ben
nota presente in Italia, Spagna, Germania, Austria, ecc. In questi contesti emerge
non di rado il paradosso e la contraddizione tra due concezioni di IR che stanno
sullo sfondo e che fanno fatica ad andare insieme. In Italia si constata una
certa contraddizione, nella revisione del Concordato, tra le affermazioni da una
parte del «valore della cultura religiosa» e «che i principi del cattolicesimo fanno
parte del patrimonio storico del popolo italiano» e dall’altra l’introduzione della
facoltatività, e quindi della possibilità di ignorare un patrimonio culturale e storico
così importante.
In Spagna ci troviamo di fronte a un vero e proprio paradosso, quando si afferma
ufficialmente che «la religione, in quanto offerta di senso ultimo, pur essendo
la disciplina scolastica più importante, è anche quella che meno può essere
Capitolo 26 pag. 401/402
imposta». (COMISIÓN EPISCOPAL DE ENSEÑANZAYCATEQUESIS, Orientaciones pastorales
sobre la enseñanza religiosa escolar, Madrid, PPC, 1979, n. 19.) Si può dire che molti aspetti
dei problemi oggi esistenti a riguardo del nostro tema sono legati a questa
concezione dell’IR come strumento di socializzazione religiosa confessionale.
E forse questa sua connotazione, pur temperata da preoccupazioni culturali e
pedagogiche, può portare l’IR a venire o escluso, o garantito, o reso facoltativo,
ma sempre in tensione di fronte alla laicità e limitato nella sua dichiarata
intenzionalità educativa, in quanto legato a una determinata confessione e
appartenenza religiosa. Tutto questo rende molto difficile portare alle sue ultime
conseguenze le nuove e pressanti urgenze educative della scuola e rispettare
adeguatamente la rilevanza culturale e pedagogica di un accostamento di tutti al
fatto religioso.

Nuove possibili prospettive

Queste difficoltà possono spiegare, a livello internazionale, la situazione


fluttuante e la necessità sentita di riformulare il problema. Difatti, chi osserva
con attenzione il panorama presente in molte nazioni, si trova di fronte a
una situazione in movimento. In molte parti si sente il bisogno di ripensare
l’identità e la funzione di una presenza della religione nella scuola. Per ciò che
concerne l’Europa, l’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni può essere
così riassunta: «In linea generale, lo spostamento avviene dal kerigmatico al
culturale, dal confessionale al trasconfessionale e l’etico, dal religioso cristiano
all’interreligioso e all’approccio fenomenologico e/o storico al fatto religioso». (F.
PAJER, «L’enseignement scolaire de la religion en Europe. Vue panoramique d’une mutation»,
in BULCKENS J. - H. LOMBAERTS (edd.), L’enseignement de la religion catholique à l’école
secondaire.

Capitolo 26 pag. 402/403


Enjeux pour la nouvelle Europe, Leuven, University Press/Uitgeverij Peeters, 1993, 37.)
In diverse nazioni sono state fatte proposte o sono state introdotte forme
non confessionali o transconfessionali di IR, il più delle volte con carattere
obbligatorio per tutti.(Una documentata e ricca panoramica si trova in F. PAJER, Scuola
e istruzione religiosa. Nuova cittadinanza europea, in «Il Regno-Attualità», 47 (2002) 22, 774-
788.)Troviamo significative esperienze nei Paesi Scandinavi, nella Gran Bretagna,
in Svizzera, Olanda, Brasile, Canada, USA. (Cf F. PAJER (ed.), L’insegnamento
scolastico della religione nella nuova Europa, Leumann (Torino), Elledici, 1991.) In Spagna,
una nuova legge prevede una area o materia chiamata «Società, Cultura e
Religione», con due possibili opzioni: l’insegnamento tradizionale confessionale
o uno aconfessionale sul fatto religioso e sull’educazione ai valori. (Cf C. ESTEBAN
GARGÉS, Sociedad, Cultura y Religión, un área con dos modalidades, in «Religión y Escuela»,
(2002) 161-162, 17-31; Un nuevo paradigma para la enseñanza del hecho religioso en el sistema
educativo, in «Religión y Escuela», (2003) 166-167-168, 21-42; 19-28; 23-31.) In Francia,
dove in nome della laicità l’IR è stato sempre bandito dalla scuola pubblica, si è
sviluppato un interessante dibattito negli ultimi anni, favorevole a una revisione
critica del concetto di laicità e all’introduzione del tema religioso nei programmi
delle diverse discipline.
(Cf R. DEBRAIS, L’Enseignement du fait religieux dans l’école laïque [Rapport au ministre
de l’Éducation nationale], Paris, Éd. Odile Jacob, 2002; C. DAGENS, Le fait religieux dans
l’enseignement, in «Études», tome 385 (1996) 5, 471-80; F. PAJER, Laicità, educazione morale,
cultura religiosa in Francia, in «Pedagogia e Vita» (1999) 2, 79-115.) In Germania, dove
rimane sempre viva la discussione sulla confessionalità e sul futuro dell’IR, ci
sono proposte di revisione della sua struttura giuridica, nonché di introduzione
di forme non confessionali o di cooperazione ecumenica. (Cf E. FEIFEL, Die
Konfessionalität des Religionsunterrichts, in «Religionsunterricht an höheren Schulen» 37 (1994)
6, 355-366; Konfessioneller Religionsunterricht - wohin?, in «Katechetische Blätter» 118 (1993)
12, 810-832; F. SCHWETZER, Konfessioneller Religionsunterricht in ökumenischer Kooperation

Capitolo 26 pag. 403


- Dritte Weg für die Europäische Schule der Zukunft, in «Theologische Quartalschrift », 179 (1999)
2, 110-118.) Tutta questa situazione fa vedere l’esistenza di un sentito bisogno
di impostare su basi rinnovate la presenza della religione nei sistemi scolastici
e di spingere con maggior coerenza e vigore la distinzione tra IR e catechesi
delle chiese. Cresce la consapevolezza che esiste qui un problema educativo e
culturale che non può essere lasciato, come nel passato, ai processi tradizionali
di socializzazione religiosa delle diverse confessioni. Si delinea così l’emergenza
di un approccio educativo alla religione di segno nuovo, che chiede attenzione da
parte della società e del mondo scolastico e pedagogico.

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Capitolo 26 pag. 404/405


CAPITOLO 27

IRC E PASTORALE DELLA SCUOLA


Bruno Stenco

La responsabilità della comunità cristiana per l’IRC è parte di quel vasto e


consolidato impegno che i cristiani hanno sempre profuso per la scuola e
nella scuola. Si tratta, soprattutto oggi, di un compito di animazione cristiana
dell’ambiente scolastico che, mentre rispetta l’identità della scuola e la sua
legittima autonomia, valorizza e stimola in maniera esigente i suoi dinamismi
culturali, pedagogici e didattici perché meglio servano le persone, specialmente
le più svantaggiate.

1. Principi ispirativi e finalità della pastorale della scuola

Con quale atteggiamento si è elaborata e sviluppata questa attenzione, lo dicono


gli indirizzi del Magistero in materia i quali risultano ancora particolarmente attuali
(Gravissimum Educationis, 1965; La scuola cattolica, oggi, in Italia, 1983; Fare
pastorale della scuola oggi in Italia,1990; Insegnare religione cattolica oggi in
Italia, 1991; Per la scuola, 1995).
Val la pena di ripercorrere brevemente i principi e le fonti ispiratrici del magistero
e confrontarsi con essi per comprendere meglio ciò che è essenziale per
l’impegno educativo ecclesiale di fronte ai compiti che investono il sistema di
istruzione e di formazione. La Dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano
Capitolo 27 pag. 406
II sulla Educazione Cristiana «Gravissimum Educationis» promulgata il 28
ottobre 1965 costituisce un fondamentale punto di riferimento. Senza pretesa di
esaustività, ci si limita a richiamare schematicamente alcuni principi fondamentali
per la pastorale dell’educazione e della scuola derivanti dalla Dichiarazione.

1.1. La correlazione tra l’educazione umana e cristiana

Accanto all’affermazione dei diritti educativi dell’uomo (in particolare si


sottolinea il diritto all’educazione morale, quale «capacità di apprezzamento
e personale adesione ai valori morali», e religiosa «conoscere e amare Dio
sempre più perfettamente»), vengono tratteggiati in modo più analitico il diritto, il
soggetto, il fine, i compiti dell’educazione cristiana. Precisato che la vocazione
di quest’ultima è far sì che «...i valori naturali, assunti entro la visione completa
dell’uomo redento da Cristo, giovino al bene di tutta la società», quello che va
sottolineato è l’affermazione del valore intrinseco dell’educazione umana. Si
può affermare che sta proprio in questo l’apporto della Gravissimum Educationis
soprattutto se la si confronti con l’Enciclica di Pio XII Divini Illius Magistri (1929).
Tra questi due documenti l’elemento profondo di continuità consiste
essenzialmente nel loro opporsi ad ogni teoria tendente alla netta separazione
tra processo educativo umano e formazione cristiana della persona. Nella Divini
Illius Magistri peraltro si tende ad accentuare la sostanziale unità del processo
educativo dell’uomo e del cristiano. La formazione del cristiano è anche, per ciò
stesso, formazione dell’uomo e del cittadino. Di conseguenza anche la scuola
non solo deve prevedere e comprendere un’adeguata formazione morale e
religiosa, ma «...è necessario che tutto l’insegnamento e tutto l’ordinamento
della scuola: insegnanti, programmi e libri, in ogni disciplina, siano governati
dallo spirito cristiano... per modo che la Religione sia veramente fondamento e
Capitolo 27 pag. 406/407
coronamento di tutta l’istruzione » (n. 26). (Si ritrova qui la stessa espressione usata nel
Concordato tra la S. Sede e lo Stato Italiano dell’11 febbraio 1929.) Al centro dell’attenzione
della Divini Illius Magistri non è il valore dell’educazione o della scuola in
sé, ma dell’educazione cristiana senza la quale quella umana risulterebbe
deleteriamente chiusa in se stessa e senza la propria finalizzazione. Pertanto,
anche nel delineare i compiti e i diritti e doveri dei soggetti dell’educazione e
della scuola, l’Enciclica segue questo ordine: la Chiesa (per diritto positivo e
soprannaturale), la famiglia (per diritto naturale di procreazione), lo Stato (in
ordine al bene comune in base al principio di sussidiarietà).
L’esigenza che viene indicata non è quella di un rifiuto totale del diritto educativo
dello Stato, ma della sua subordinazione ai diritti nativi della famiglia e della
Chiesa, per cui la scuola «deve non soltanto non contraddire, ma positivamente
accordarsi con gli altri due ambienti nell’unità morale più perfetta che sia
possibile tanto da poter costruire insieme con la famiglia e con la Chiesa un
solo santuario sacro dell’educazione cristiana» (n. 24). Si tratta di indicazioni
magisteriali che si spiegano in un contesto storico in cui l’affermarsi di Stati
totalitari faceva profilare la tendenza a monopolizzare tutta l’educazione
laicizzandola e sottraendola non solo alla Chiesa, ma anche alla famiglia. La
Gravissimum Educationis non nega la Divini Illius Magistri, la considera sempre
la Magna Charta dell’educazione cristiana, ma lo scenario mondiale in cui la
Dichiarazione Conciliare si colloca è profondamente mutato e l’atteggiamento
è quello dialogante e propositivo con il contesto sociale e culturale. Come si è
visto, anche la Gravissimum Educationis parla di educazione cristiana, ma lo
fa all’interno di una concezione educativa che appartiene a tutti gli uomini e si
configura come diritto dovere in quanto tale in forza della loro dignità di persona.

Capitolo 27 pag. 407


1.2. La finalità educativa della scuola

Per essere autentica la scuola dovrebbe essere orientata a finalità educative.


Essa «...mentre matura le facoltà intellettuali, sviluppa la capacità di giudicare
rettamente, introduce nel patrimonio culturale..., promuove l’apprezzamento
dei valori, prepara alla vita professionale, genera anche una convivenza di
amicizia». È come un centro al cui progresso contribuiscono le famiglie, i docenti,
le associazioni culturali, civiche e religiose, la società civile e l’intera comunità
umana (n. 5). Anche la scuola è considerata innanzitutto in se stessa, nella sua
dignità civile, nel riconoscimento del valore intrinseco della sua missione istruttiva
ed educativa.
Si riconosce che c’è una legittima autonomia e valore delle realtà e autorità
terrene che «...non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è
conforme al volere del Creatore» (Gaudium et Spes, n. 36). È nella prospettiva
della intima solidarietà con l’uomo e la sua storia e della centralità della persona
umana come fonte di diritti e doveri che si iscrive la concezione aperta e positiva
della Gravissimum Educationis nei confronti dell’educazione e della scuola.
Formazione umana e cristiana si articolano in modo distinto, ma non separato
e ciò giustifica una pastorale dell’educazione e della scuola ispirata in termini di
servizio e di rispetto dei diritti di libertà di coscienza e religiosa delle persone.

1.3. I soggetti responsabili dell’educazione e della scuola.


Il ruolo dei genitori nell’educazione morale e religiosa a scuola

Il n. 3 della Gravissimum Educationis riguarda i responsabili dell’educazione sia


umana che cristiana a cui il testo si riferisce con questo ordine: i genitori (primi
e privilegiati titolari dell’educazione personale e sociale umana e cristiana), la
Capitolo 27 pag. 407/408
società civile (società intermedie e Stato cui spetta difendere i diritti e doveri dei
genitori, operare in base al principio di sussidiarietà e inoltre nella misura in cui lo
richieda il bene comune «fondare scuole e istituti propri»), la Chiesa (educatrice
per l’uomo e per il cristiano). Come si configurano i compiti e la presenza dei
genitori e dello Stato nella scuola? I genitori in forza del diritto dovere educativo
primario e irrinunciabile debbono usufruire di una reale possibilità di scelta della
scuola: le pubbliche autorità pertanto sono tenute a far sì che le sovvenzioni
pubbliche siano erogate in modo tale che i genitori possano esercitare questo
diritto secondo coscienza. Da parte sua lo Stato deve provvedere perché a tutti
sia garantita la partecipazione alla cultura e all’esercizio dei diritti e doveri civili;
tenendo presente il principio di sussidiarietà escluderà ogni forma di monopolio
scolastico contrario ai diritti della persona, all’avanzamento della cultura, alla
pacifica convivenza e anche al pluralismo presente in molte società. Ai cattolici
compete il dovere di aiutare positivamente questa scuola nel realizzare i suoi
compiti e in particolare quello dell’educazione morale (n. 6).
Nelle scuole statali o comunque nelle scuole diverse dalle cattoliche come la
Chiesa può farsi presente per far sì che sia garantita l’educazione morale e
religiosa? E ciò nel rispetto della laicità di tali istituzioni.
Certamente spetta ai genitori «predisporre ogni cosa» e anche «esigere» che
i loro figli in armonia con la formazione profana possano progredire anche in
quella cristiana. La Chiesa elogia quelle autorità e società civili che assecondano
le famiglie in modo che l’educazione dei loro figli possa aver luogo secondo i
principi morali e religiosi che esse fanno propri e professano.
Da parte sua la Chiesa non farà mancare la sua assistenza attraverso la
testimonianza di vita degli educatori e docenti, e attraverso sacerdoti e laici
che secondo le circostanze (nel caso dell’Italia si veda l’accordo di revisione
del Concordato del 18 febbraio 1984 e la successiva Intesa con l’attivazione
dell’insegnamento della religione cattolica) insegnano la dottrina della salvezza
Capitolo 27 pag. 408
(n. 7).

1.4. L’IRC in Italia e la sua presenza nella scuola

Non si può dunque impostare correttamente il tema della presenza nella scuola
di un IRC senza tenere conto – delle finalità educative – delle finalità culturali
della scuola nel cui contesto l’IRC si inserisce con uno specifico apporto – delle
responsabilità in ordine all’educazione della famiglia, dello Stato, della Chiesa
– del diritto dei soggetti e delle famiglie che tale insegnamento sia corrispondente
ai principi morali e religiosi che professano – del rispetto che si deve verso tutti
i soggetti e tutte le famiglie e quindi anche alla pluralità delle appartenenze
valoriali e religiose.
Da parte sua, mediante l’IRC, la Chiesa cattolica italiana non si è limitata ad
affermare la propria inalienabile responsabilità educativa, ma ha voluto dare
la sua piena disponibilità ad offrire un servizio che è assicurato dallo Stato ed
è richiesto dalle famiglie e dagli alunni. Questo elemento caratterizza in modo
originale il nostro Paese. Infatti a questo servizio la Chiesa viene accreditata
dalla sua collaudata capacità di concorrere alla promozione dell’uomo e del
cittadino mediante la cultura religiosa, dal fatto oggettivo di un patrimonio storico
e attuale di memorie, di valori, di esperienze, di cultura che è interpretato,
tramandato e vissuto dalla comunità cattolica in Italia. Il carattere popolare e
l’incidenza che il Cattolicesimo ha avuto e continua ad avere nel nostro Paese
sono, infatti, un dato di conoscenza e di studio non eludibile nel bagaglio
formativo e culturale che la scuola è chiamata ad offrire alle nuove generazioni.
Si tratta di un elemento che caratterizza l’identità del nostro popolo, nelle sue
radici storiche e culturali e nel suo essere una comunità cementata e unificata
specialmente dai valori cristiani.
Capitolo 27 pag. 409
E d’altra parte occorre anche ricordare che questo fatto assume un rilievo
del tutto singolare nella peculiare situazione del nostro Paese, dove la scuola
pubblica costituisce il luogo dell’istruzione di gran lunga preponderante e dove
non trova ancora piena attuazione il pluralismo delle istituzioni scolastiche, che
invece è presente in larga parte dei paesi europei.
Dunque la scelta fatta dalla Chiesa italiana va compresa tenendo conto di tutti
questi elementi culturali e pastorali. Si tratta di un servizio reso su richiesta di
chi ne è il titolare (l’alunno e i suoi genitori), da parte di chi si ritiene pienamente
accreditato a darlo e in quanto tale viene riconosciuto dallo Stato. La proposta
è quella che consente il libero avvalersi delle famiglie di un IRC svolto «in
conformità alla dottrina della Chiesa» e da docenti da essa riconosciuti, ma
rivolto a tutti e giustificato con taglio culturale. Lo Stato ha riconosciuto e
riconosce che tale IRC corrisponde ai compiti istituzionali propri della scuola
pubblica, che è chiamata a favorire negli alunni l’attitudine al confronto, alla
tolleranza, al dialogo e alla convivenza democratica.

2. Pastorale della scuola, comunità cristiana e territorio nel contesto della


riforma del sistema di istruzione e di formazione professionale

In senso stretto, intesa come una specifica forma di pastorale d’ambiente,


la pastorale della scuola è stata e continua ad essere l’espressione del
contributo qualificato dato dal mondo cattolico alla riflessione pedagogica, alla
sperimentazione educativa e quindi al rinnovamento della scuola e del sistema
nazionale di istruzione e di formazione professionale. Soggetti attivi e diretti sono
i laici e in particolare gli studenti, i genitori e i docenti e le associazioni laicali,
professionali, familiari e studentesche che li rappresentano e che operano nella e
per la scuola.
Capitolo 27 pag. 409/410
Ma in realtà è tutta la comunità ecclesiale corresponsabile nell’animazione
cristiana della scuola finalizzata alla piena promozione culturale della persona
e al bene del paese. Il Vangelo, infatti, offerto nella sua autenticità, contiene un
messaggio profondamente umanizzante, promuove la dignità e la libertà della
persona umana, ne orienta la crescita, anche culturale, verso valori di grande
impegno religioso e civile. Nel contesto del rapporto tra Chiesa e mondo, si
può dire che la comunità cristiana, attraverso la pastorale della scuola, opera
un costante e puntuale discernimento dei segni dei tempi e attua una presenza
critica e progettuale dentro la scuola. E in questo senso anche l’IRC, con la
specifica proposta di valori cristiani, insieme originali e profondamente umani,
è compito di una animazione pastorale della scuola da parte della comunità
cristiana finalizzata alla promozione/elaborazione critica della vocazione stessa
della scuola.
Questa distinzione tra pastorale della scuola come pastorale d’ambiente e
come corresponsabilità dell’intera comunità ecclesiale in quanto presente
anche istituzionalmente nel territorio non è posta a caso e contribuisce a
contrassegnare anche l’IRC. In effetti è lo stesso processo di riforma della scuola
che chiama in causa in modo inedito la società civile e religiosa e richiede nuove
forme di corresponsabilità educativa. C’è in particolare un elemento dinamico
che è costituito dalla riforma dell’autonomia scolastica che sembra irreversibile. E
quindi va individuata la possibile «novità» nella valenza pastorale del riferimento
all’autonomia scolastica, in quanto essa, ridisegnando progressivamente la
scuola nel contesto del territorio, propone un’ottica nuova e nuovi appelli per la
missione della Chiesa nei confronti della scuola stessa.

Capitolo 27 pag. 410


2.1. L’autonomia basata sul principio di sussidiarietà orizzontale

In seguito alla riforma del Titolo V per la prima volta, e in maniera formale, le
istituzioni scolastiche e formative sono riconosciute autonome dalla nostra
Costituzione e non solamente da una legge ordinaria, come la legge n. 57/1997
(Malizia, 2002). Finora l’autonomia in materia di istruzione e di formazione era
attribuita alle istituzioni di alta cultura, università e accademie; invece, nel nuovo
articolo 117 della Costituzione, sono dichiarate autonome anche le istituzioni
scolastiche.
In proposito una concezione adeguata implica il passaggio dell’attività scolastica
e formativa da attività dello Stato-persona ad attività autonoma per cui le singole
istituzioni statali assumono la fisionomia di enti pubblici a sé stanti, parti di un
servizio pubblico a rete.
Gli articoli 117 e 118 della Costituzione permettono ulteriori precisazioni nella
direzione soprattutto della sussidiarietà. Anzitutto, l’attività scolastica e formativa
è soggetta alla libera iniziativa dei cittadini entro le norme generali di competenza
dello Stato e le leggi ordinarie di iniziativa regionale. In secondo luogo, le scuole
statali, che sono autonome, vengono disciplinate dai due gruppi di norme appena
citate e risultano sussidiarie alla libera iniziativa dei cittadini, mentre anche le
istituzioni scolastiche non statali godono di piena libertà entro le norme generali
sull’istruzione. In altre parole il riconoscimento dell’autonomia della scuola
come principio inserito nella Costituzione non è primariamente il frutto di una
logica di bilanciamento dei poteri pubblici quanto piuttosto l’accoglimento del
principio dell’autogoverno della comunità e della società civile, della sussidiarietà
orizzontale. Essa è mirata in primo luogo a valorizzare le forze interne della
scuola in un’ottica di responsabilizzazione e di autopromozione della comunità
scolastica (Astrid, 2003). Non delinea una impostazione autoreferenziale o
aziendalistica, ma qualifica la scuola come una istituzione aperta al contesto e
Capitolo 27 pag. 410/411
integrata in esso, al servizio della società, agente di sviluppo socio-culturale e
luogo di mediazione tra le istanze locali e le esigenze nazionali.
Nonostante nella Costituzione del 1948 il principio di sussidiarietà non risulti
espressamente menzionato, a differenza di altri principi come quello di solidarietà
o di eguaglianza, è tuttavia possibile ritenere che esso sia stato implicitamente
tenuto presente dai Costituenti (Palma, 2002).
Ed infatti, vi è coincidenza tra la concezione della persona che emerge dal
quadro costituzionale ed il presupposto antropologico sul quale il principio
di sussidiarietà si fonda. Nella Costituzione, infatti, la persona è vista nella
concretezza del suo legame sociale e nella sua possibilità di apporto libero
e creativo all’edificazione del bene comune: il valore della dignità umana è
costantemente affermato e l’imputazione dei diritti è fatta all’individuo considerato
nella concretezza del suo esistere, a un soggetto, cioè, che così come non
è considerato al di fuori della relazione sociale, tantomeno è sublimato nella
dinamica organizzativa della persona statale.
La complessità dell’innovazione in corso, che si può riscontrare soprattutto nelle
due leggi principali approvate nell’ultima legislatura (autonomia e parità) e nella
Legge delega Moratti sulle norme generali dell’istruzione e sul riordino dei cicli,
introduce una trasformazione di sistema che rimarrà caratterizzata da almeno tre
elementi fondamentali.
Dal punto di vista delle dinamiche macrosociali: il passaggio della scuola da
istituzione che monopolizza il compito della formazione, gestita e controllata
dallo Stato, ad agenzia che esercita un ruolo di mediazione e coordinamento
all’interno di un sistema formativo integrato (nel triplice significato che comprende
sia scuole statali che non statali, formazione professionale e altre agenzie
formative diverse dalla scuola e che connette in rete tutte le agenzie educative
formali, informali e non formali).
Dal punto di vista dell’organizzazione: il passaggio del modello organizzativo
Capitolo 27 pag. 411
da una forma centralistica, gerarchica e burocratizzata ad una forma basata
sulla presenza di unità scolastiche autonome, che operano all’interno di regole
condivise e fissate dal centro, ma sono direttamente responsabili della qualità
del servizio che erogano. Con la riscrittura del Titolo V della Costituzione sul
federalismo diventano rilevanti il ruolo e le competenze degli Enti Locali e in
particolare delle Regioni.
Dal punto di vista funzionale: il passaggio da una centratura della scuola sulle
finalità e gli interessi del «gestore» (lo Stato) e dei «funzionari» (gli insegnanti)
ad una attenzione sistematica ai bisogni dell’utenza, in primo luogo gli studenti
e le famiglie, ma in senso più vasto la comunità che le ha delegato il compito di
formare i suoi giovani membri e i gruppi che la compongono.
Il processo innovativo è solo all’inizio; al di là delle valutazioni tecniche,
la comunità ecclesiale dovrà contribuire a creare nelle famiglie e in tutti i
protagonisti diretti e interessati alla vita della scuola e ai processi educativi un
atteggiamento diffuso di partecipazione attiva, critica, motivata e responsabile.

2.2. La pastorale della scuola come promozione del patto educativo tra
famiglia - scuola - comunità, quale punto integrante e centrale del progetto
culturale ispirato al Vangelo

La Costituzione italiana (artt. 30 e 31) come pure i numerosi documenti


del magistero della Chiesa ribadiscono che il dovere-diritto dell’educazione
appartiene ai genitori, i quali non possono mai rinunciare ad esercitarlo. Certo,
i genitori condividono questa responsabilità educativa con altre persone e
istituzioni, fra le quali un posto di particolare rilievo lo ha la scuola; ma questa
condivisione deve avvenire secondo il principio di «sussidiarietà» e nel rispetto
della diversità dei compiti e delle responsabilità.
Capitolo 27 pag. 412
Un punto qualificante e specifico del progetto culturale cristianamente ispirato
(ma dovrebbe divenire uno degli aspetti da inserire in ogni «progetto educativo
diocesano»), insieme alle diverse pastorali di settore, dovrà essere quello di
sviluppare un patto educativo tra scuola, famiglia e comunità cristiana, secondo il
modello della sussidiarietà e della relazionalità. Ci si dovrà muovere nel contesto
di una rete di soggetti in relazione, nella quale ci sono varie autonomie in gioco
che devono instaurare delle relazioni sinergiche, cooperative, fra loro, rispettando
le reciproche competenze, alla luce di un principio di sussidiarietà che è anche
pedagogico, perché impone di aiutare l’altro a crescere senza sostituirvisi.
L’educazione stessa diventa un lavoro di rete.
Da un lato c’è la famiglia, che è il centro decisore fondamentale: è lei che
deve decidere come allocare le sue risorse per il migliore interesse del figlio.
Naturalmente in questa scelta entra anche il figlio, con un potere che cresce al
crescere della sua età e maturità umana.
Dall’altro, c’è la scuola che deve aggiungere valore all’educazione familiare,
specie sul piano delle conoscenze e della comunicazione, ma essendo
sussidiaria alla famiglia, nel senso di sostenerla nelle sue proprie valenze e
funzioni educative.
La scuola deve orientarsi non al singolo individuo, ma alla persona dell’alunno in
quanto individuo-nel-contesto-familiare.
Le comunità intorno, e in particolar modo le istituzioni politiche, dovrebbero
agire da garanti di questo patto, senza mai sostituirsi alle parti in gioco. In questo
contesto si pone il contributo specifico che la Chiesa intende offrire, attraverso
la pastorale della scuola, intesa come servizio alla promozione integrale della
persona, con particolare attenzione alla centralità dell’educazione morale,
religiosa, civica.

Capitolo 27 pag. 412/413


2.3. Comunità ecclesiale, famiglia, IRC: quale fruttuosa continuità educativa

L’affermazione della piena valenza educativa della scuola e la stessa riforma


dell’autonomia richiedono una scuola attenta non solo a recuperare il rapporto
con i mondi vitali del territorio, ma a diventarne l’espressione dinamica. Richiede
anche una comunità ecclesiale più diffusamente consapevole delle sue risorse e
anche delle sue responsabilità.
Ad esempio, come non evidenziare che di fatto esiste una distinzione ma anche
una continuità educativa tra Comunità ecclesiale, IRC e offerta formativa della
scuola che ha non solo e non tanto nell’alunno o nel giovane studente il suo
punto chiave di raccordo ma proprio nel genitore e nella famiglia. Di questa
distinzione e continuità sono titolari (per tanti aspetti) proprio i genitori; in Italia
tale continuità educativa è ancora significativamente presente (anche se in
modo spesso non consapevole) date le «percentuali elevate» che interessano
sia l’IRC sia la richiesta di catechesi (almeno fino alla conclusione del ciclo
primario); si tratta di evidenziare tutto ciò come una risorsa superando le
dicotomie, ma soprattutto aiutando i genitori ad assumere atteggiamenti più
motivati e autenticamente educativi e a maturare la domanda della fede, dell’IRC
e dell’educazione scolare consci delle differenze, ma anche degli elementi di
continuità. La consapevolezza di una piena responsabilità educativa nella scuola
dell’autonomia non sopporta separazioni, ma solo distinzioni-nella-continuità
pena la riduzione della fede alla sfera privata o l’assunzione inconscia e acritica
di atteggiamenti fideistici o il riproporsi di una laicità malintesa delle istituzioni
pubbliche.
Il tema del rapporto pastorale tra IRC, comunità ecclesiale e scuola, nel
territorio, è molto di più di un puro e semplice invito alle famiglie ad essere
consapevoli nel momento in cui scelgono di avvalersi dell’IRC e a non assumere
atteggiamenti passivi di delega nel momento del suo insegnamento. Nel contesto
Capitolo 27 pag. 413
della riforma dell’autonomia significa invece un recupero della coscienza della
titolarità educativa dei giovani e dei genitori rispetto all’offerta formativa della
scuola e dello stesso IRC. Tutto ciò non potrà avvenire se si confina la pastorale
della scuola in un ambito circoscritto agli esperti e se viceversa non cresce
nella coscienza storica delle comunità ecclesiali la consapevolezza delle loro
responsabilità rispetto alla valenza sociale, culturale, civile della fede che le
anima.
Le comunità ecclesiali devono considerare l’IRC parte integrante del loro servizio
alla piena promozione culturale dell’uomo e al bene del Paese. Tutto ciò sollecita
la responsabilità delle Chiese locali perché offrano se stesse come segno storico,
concreto e trasparente di quanto viene insegnato nella scuola.
Ma quali sono le priorità pastorali che la Comunità Ecclesiale dovrà impegnarsi
ad assegnare oggi alla pastorale della scuola e all’IRC?

3. L’educazione, la scuola e l’IRC oggi, in riferimento alle sfide e alle


prospettive poste dalla modernità e dal trapasso culturale in atto

L’indicazione di fondo che emerge come denominatore comune delle


trasformazioni che sono sottostanti alle riforme prospettate è l’esigenza di
ripensare e rimettere l’uomo al centro della politica, dell’economia, della cultura e,
perciò, anche dell’azione educativa.

3.1. Il primato dell’educazione

Se è tanto urgente che la società e le sue diverse istituzioni possano contare


su persone consapevoli e responsabili, formate in un cammino ad alta tensione
Capitolo 27 pag. 413/414
morale e con una forte passione per l’uomo e i suoi destini, discende di qui
l’esigenza che la scuola non dia soltanto istruzione e competenze, ma sia anche
luogo di educazione, di maturazione della coscienza morale, religiosa, civile.
Per questo è indispensabile, oggi, investire in educazione, anche sotto il profilo
pastorale, secondo linee progettuali chiare relativamente ai fini da perseguire, ai
valori da promuovere e ai protagonisti da sostenere.
Sono ancora di estrema attualità le riflessioni contenute nella Lettera Per la
scuola della Commissione Episcopale competente, quando invitava a ripensare
globalmente e profondamente il «senso dell’educare», non con un richiamo
moralistico o astratto, ma per rispondere a un’esigenza concreta ed urgente
imposta dai mutamenti storico-sociali in corso. Molte trasformazioni in atto
interrogano direttamente la scuola e chi in essa opera:
– il fenomeno della scolarizzazione di massa, che interessa tutti i livelli di scuola
(compresa l’università)
– e che ha portato con sé nuove istanze e nuove sfide, fra le quali un più diffuso
bisogno di sapere e di partecipazione al mondo della scuola;
– il fenomeno della moltiplicazione delle agenzie educative, le quali hanno
potenziato la loro efficacia penetrativa ed hanno introdotto nuovi strumenti e
modelli per la trasmissione del sapere (vedi, ad esempio, i mass media e gli
strumenti telematici...) (Commissione Episcopale, 1995, n. 8);
– il fenomeno della globalizzazione intesa, in questo ambito, non soltanto sotto il
profilo della interattività economica e delle grandi strategie di conquista planetaria
dei mercati, ma sul piano della risonanza nelle coscienze umane della massa di
informazioni che sono oggi disponibili in tempo reale, con gli interrogativi che ne
scaturiscono sul piano della padronanza critica e della formazione del consenso;
– gli emergenti fenomeni migratori;
– il pluralismo religioso, morale e delle relative appartenenze.
È necessario, dunque, ritrovare la fiducia nella ragione pedagogica che pensa e
Capitolo 27 pag. 414
progetta nel contesto di un pluralismo culturale povero di evidenze condivise, a
partire dalla persona e dalle formazioni educative a lei prossime a partire dalla
famiglia.
Primato dell’educazione di fronte a queste sfide significa (per la pastorale della
scuola) anche testimoniare in un contesto fortemente pluralistico una chiara
visione antropologica che diventa servizio di verità e di carità teso a impedire al
pluralismo di smarrirsi nella confusione. È un contributo culturale insostituibile
che ha lo scopo di aiutare a fondare, ad aggiornare e a rimotivare l’impegno
educativo soprattutto per quanto riguarda le mete ultime, le grandi domande
di senso, l’apertura alla trascendenza e a sconfiggere la cultura della banalità,
purtroppo diffusa anche nel mondo della scuola (CEI, 1996; CEI, 2002, nn. 46 e
50; Servizio Nazionale per il Progetto Culturale, 2002).
Naturalmente il primato dell’educazione non è un compito solo della scuola.
Lo è anche della Chiesa e in particolare della sua azione pastorale oggi
impegnata a rinnovare l’evangelizzazione attraverso la riflessione sulla
iniziazione cristiana e sulla catechesi. Si avverte l’esigenza di recuperare la
dimensione educativa (altrimenti l’evangelizzazione non si rapporta alla persona
e diventa quasi una forma statica di socializzazione o addirittura di proselitismo)
e anche culturale dell’annuncio della salvezza in quanto centrato sulla persona.
Il primato dell’educazione significa quindi porre la persona al centro relazionando
ad essa ogni elemento culturale ed esistenziale, ma anche considerandone
le relazioni (sempre dinamiche e anche critiche) intersoggettive primarie e
fondamentali (la famiglia, gli ambiti di riferimento e di appartenenza) per lo
sviluppo del suo progetto di vita.
Il primato dell’educazione richiede soprattutto la consapevolezza che proprio
nel contesto culturale odierno occorre creare le migliori condizioni per garantire
l’unità dell’atto educativo che, nella coscienza della persona e nelle istituzioni
permetta di porre in rapporto di continuità dinamica e critica le dimensioni della
Capitolo 27 pag. 414/415
fede, quelle della scienza e della cultura e quelle della vita.

3.2. L’IRC nel ruolo educativo e culturale della scuola

È apprezzabile che nella Legge delega (L. 53/2003, n. 1) si dichiari che


i contenuti dell’apprendimento sono finalizzati non solo ad assicurare per
tutti elevati livelli culturali e a sviluppare capacità e competenze adeguate
all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, ma anche a favorire
«...la formazione spirituale e morale, lo sviluppo della coscienza storica e di
appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà
europea». È apprezzabile anche l’attenzione alla persona espressa attraverso
il riferimento ai piani personalizzati di apprendimento a cui sono finalizzati le
Indicazioni nazionali e i relativi obiettivi specifici. È anche molto positivo che si
sia voluto delineare il Profilo educativo e culturale di riferimento delle Indicazioni
Nazionali e dei piani personalizzati di apprendimento. Solo ci sentiamo di
evidenziare, proprio nell’attuale contesto sociale pluralistico, l’importanza della
dimensione religiosa in funzione educativa e culturale che avrebbe meritato un
più marcato rilievo come dimensione trasversale significativa per la formazione
dei ragazzi e dei giovani.
L’IRC si fa interprete di questa componente fondamentale dell’educazione
personale colta anche nella sua valenza sociale, culturale e interculturale. Se
la scuola è luogo di orientamento al significato, non può mancare in essa
un’occasione di educazione al «saper essere». Secondo le parole del Papa,
pronunciate al Convegno di Palermo, l’approccio al mistero di Dio è generativo di
ogni cultura, e questo ci fa comprendere come l’educazione religiosa non è una
questione che riguarda solo i cristiani. L’insegnamento della religione nella scuola
offre un originale e specifico contributo per la crescita in umanità e in libertà del
Capitolo 27 pag. 415/416
ragazzo e del giovane. Per tale ragione questo insegnamento è una presenza da
rilanciare e riqualificare per una sua adeguata collocazione nel nuovo contesto
scolastico riformato.
L’attenzione alla dimensione religiosa dovrebbe tradursi in obiettivi di ordine
culturale, finalizzati alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, nel
rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno, nel
quadro della cooperazione tra scuola e genitori, in coerenza con le disposizioni in
materia di autonomia delle istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla
Costituzione e dalla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» (art. 1). Lo
può fare, considerando anche come riferimento educativo il Profilo educativo e
culturale dell’alunno (Testo e contesto, 2003; Profilo educativo, 2003):
– rintracciando ed evidenziando segni e fatti religiosi non solo nelle altre discipline
della scuola, ma anche nel contesto di vita degli alunni (territorio);
– riconoscendo la dimensione religiosa come componente presente nella vita
dell’uomo, influente nel suo modo di pensare, agire, parlare;
– evidenziando come fattori fondamentali della convivenza, quali la giustizia,
la solidarietà, la pace, e la salvaguardia del creato possono ricevere un
fondamentale contributo dalla religione cristiana (rapporto tra religione ed etica);
– rendendo consapevoli che il pluralismo religioso e culturale va affrontato
come possibilità di ricchezza e di civile convivenza (la visione cristiana viene
considerata come proposta di dialogo, di rispetto della persona, di mantenimento
della propria identità).
Ovviamente, si tratta di istanze che non possono essere soddisfatte in modo
esclusivo ed esauriente dal solo IRC. Nel contesto della riforma Moratti
questi obiettivi vanno progettati e perseguiti nel contesto di quella intenzione
ologrammatica che si propone di tenere dinamicamente intercorrelati particolare
e universale, specifico e globale, disciplinare e trasversale, specialistico e
generalistico, sia a livello epistemologico che didattico (Sandrone Boscarino,
Capitolo 27 pag. 416
2002). È una condizione necessaria non solo per attivare una formazione e un
apprendimento adeguati alla crescita personale dello studente, ma anche perché
qui si realizza e si può misurare la fecondità del rapporto tra IRC e pastorale
della scuola come servizio alla persona e al bene comune.

Indicazioni bibliografiche

ASTRID - ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI E LE RICERCHE SULLARIFORMA DELLE


ISTITUZIONI DEMOCRATICHE E SULL’INNOVAZIONE NELLEAMMINISTRAZIONI PUBBLICHE, Il
documento, in «Nuova Secondaria», vol. XX, n. 9, 15 maggio 2003, pp.
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CEI (1983), La scuola cattolica oggi in Italia, Torino, Elledici.
CEI (1991), Insegnare religione cattolica oggi, Nota pastorale sull’insegnamento
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CEI (1996), Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa Italiana dopo il
Convegno di Palermo. Nota pastorale, Notiziario CEI.
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PALMAA. (2002), Sussidiarietà e formazione in Italia: profili giuridici, in S. VERSARI,
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PROFILO EDUCATIVO, CULTURALE E PROFESSIONALE DELLO STUDENTE ALLA FINE DEL
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allegati/sperimentazione/profilo_terminale.pdf, 31 luglio 2003, pp. 7.
PROFILO EDUCATIVO, CULTURALE E PROFESSIONALE DELLO STUDENTE ALLA FINE
DEL SECONDO CICLO DI ISTRUZIONE E DETERMINAZIONE DEI LIVELLI ESSENZIALI DI
PRESTAZIONE PER GLI ISTITUTI DELL’ISTRUZIONE E DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE,
Fiuggi, 27-28 febbraio 2003.
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UFFICIO NAZIONALE CEI PER L’EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ (1990), Fare
pastorale della scuola oggi in Italia, Sussidio, Bologna, EDB.

Capitolo 27 pag. 417


CAPITOLO 28

IRC E SCUOLA CATTOLICA


Guglielmo Malizia - Sergio Cicatelli

Scuola cattolica e IRC hanno evidenti punti di contatto. Da un punto di vista


giuridico convivono all’interno dell’articolo 9 dell’Accordo di revisione del
Concordato lateranense, il cui paragrafo 1 si occupa della scuola cattolica mentre
il paragrafo 2 tratta l’IRC. Da un punto di vista sostanziale, è fin troppo evidente
la comune dipendenza dalla Chiesa cattolica, di cui sono per aspetti diversi
diretta emanazione. Eppure la condizione dell’IRC nella scuola cattolica presenta
aspetti controversi, a partire dal fatto che alcune scuole cattoliche comprendono
l’IRC nella propria offerta formativa al pari delle scuole statali ed altre ne sono
invece prive. Questa situazione diversificata non è frutto di casuale disattenzione
ma corrisponde a una concezione della scuola che attribuisce all’insieme della
proposta formativa la cura dell’educazione religiosa, al di là di vincoli formali.
In ogni caso, prima di affrontare le problematiche istituzionali, educative e
pastorali, è opportuno premettere alcuni dati sulla situazione dell’IRC nella
scuola cattolica.

1. I dati disponibili

L’unica indagine nazionale di una certa consistenza è quella condotta nel 2001

Capitolo 28 pag. 418


dal CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica) (Malizia e Stenco, 2002). Ne
presentiamo qui di seguito i risultati principali, (I dati sono ricavati dai questionari cui
hanno risposto i responsabili della direzione delle diverse scuole.) distinguendo tra scuole
della Fidae (elementari, medie e superiori) e scuole della Fism (materne) e
offrendo al termine una breve sintesi trasversale.

1.1. L’IRC nelle scuole Fidae

Il campione di scuole su cui è stato condotto il sondaggio risulta ben


proporzionato nel senso che riproduce la distribuzione territoriale e l’articolazione
per livelli dell’universo: più in particolare sono state raggiunte 438 scuole pari a
circa un quinto del totale (19.3%), una percentuale che assicura una sufficiente
rappresentatività dell’universo. Inoltre, si può qualificare come casuale corretto
perché in esso sono leggermente sovrarappresentati i plessi migliori: da questo
punto di vista l’indagine ha un valore più qualitativo che quantitativo.
Complessivamente, la maggioranza relativa (40.1%) degli insegnanti di religione
(IdR) è composta da religiose; i sacerdoti e religiosi ammontano a un quinto,
mentre i laici sono complessivamente quasi il 40%. Va notato che nella scuola
statale gli IdR laici sono quasi il 90%. Al tempo stesso va sottolineato che nella
scuola cattolica la distribuzione varia notevolmente per livello e circoscrizione
territoriale per cui ad esempio nelle elementari prevalgono le donne, nelle medie i
religiosi/e e nelle superiori i sacerdoti/religiosi, mentre sul piano territoriale il Nord
si caratterizza per una sovrarappresentazione di laici/che e di sacerdoti/religiosi e
per una sottorappresentazione di religiose, ma nel Centro e nel Sud sono queste
ultime a prevalere.
Dal punto di vista del titolo di studio, più dei due terzi degli insegnanti possiede
solo un diploma di secondaria superiore: il dato mette in evidenza che la
Capitolo 28 pag. 418/419
situazione non è del tutto soddisfacente, anche se non va dimenticato che la
maggioranza delle scuole sono elementari e che i docenti possono contare
anche sul titolo ecclesiastico in aggiunta al diploma secondario statale. Gli
intervistati hanno giudicato la formazione degli insegnanti come soddisfacente,
anche se al riguardo va tenuto presente che si tratta di un’autovalutazione per
cui esiste il pericolo di una sovrastima.
Intorno al 30% delle scuole elementari, medie e superiori che impiegano più di
un insegnante di religione può contare su un incaricato per il loro coordinamento.
Più positivo è il dato che oltre il 40% delle scuole ha attivato delle iniziative
di aggiornamento per i docenti dell’IRC, ma neppure nelle elementari in cui si
raggiunge la percentuale più alta si riesce a superare il 50%. Nel 70% e oltre
l’offerta consiste in incontri promossi dalle Diocesi, in più del 30% in convegni
all’esterno dell’istituto, mentre gli incontri periodici di istituto oscillano tra il 44.8%
delle elementari, il 30.9% delle medie e il 24.5% delle superiori.
La percentuale delle scuole che dedica due ore all’IRC va dall’80% delle
elementari al 44.7% delle medie al 41.5% delle superiori. Negli ultimi due
livelli il dato sembra piuttosto insoddisfacente. Nel 50% circa delle scuole la
programmazione viene effettuata individualmente, tra il 30 e il 40% circa la fa
collegialmente e fra il 10 e il 20% per classi parallele. Inoltre, si situa appena tra
il 15 e il 20% il numero dei plessi che organizzano una verifica specifica per l’IRC
oltre ai normali canali di valutazione scolastica.
La percentuale delle scuole che è frequentata da alunni di Religione diversa
dalla Cattolica oscilla fra il 30.8% delle elementari, il 33.3% delle medie e il 37.3%
delle superiori; il numero degli allievi è modesto, 2 per plesso. Nell’ 80/90%
circa dei casi la loro educazione religiosa consiste nella partecipazione all’IRC
come tutti gli altri; solo una percentuale marginale di scuole introduce nell’IRC
degli adattamenti, offre un IRC a carattere interreligioso o prevede momenti di
formazione nella religione degli alunni.
Capitolo 28 pag. 419
I responsabili Fidae degli istituti che hanno risposto al questionario ritengono
l’IRC impartito nelle scuole cattoliche soddisfacente.

1.2. L’IRC nelle scuole materne della Fism

Al questionario hanno risposto di propria spontanea iniziativa 2.258 scuole


materne e cioè il 25.8% del totale. Comunque riguardo al campione si possono
ripetere le considerazioni avanzate sopra.
Quali sono i documenti «ufficiali» o testi con valore normativo da cui si attingono
le indicazioni e da cui dipendono i criteri assunti per la programmazione dell’IRC?
Dall’indagine emerge che si tende a impostare l’IRC basandosi su una sintesi
delle indicazioni degli Indirizzi e degli Orientamenti, ma che integri anche le
istanze che vengono richiamate nel Catechismo dei bambini.
Per quanto riguarda l’attività formativa, sono stati considerati tre livelli o
ambiti: educare il bambino ad un corretto atteggiamento verso: la religiosità;
le religioni; la religione cattolica. L’86.5% delle scuole valuta soddisfacente
(44.3%) e pienamente soddisfacente (42.2%) lo svolgimento del loro programma
per quanto riguarda la religione cattolica, mentre solo il 3.1% lo ritiene non
soddisfacente (4.7% al Centro). Anche per quanto riguarda l’educazione
del bambino alla religiosità viene espressa dall’87% una valutazione di
apprezzamento che si colloca tuttavia più verso il livello della soddisfazione
media che non verso quella più elevata. Il giudizio è decisamente meno
omogeneo, invece, per quanto riguarda la realizzazione del percorso formativo
finalizzato a educare il bambino ad un corretto atteggiamento nei confronti delle
religioni. Si dichiara soddisfatto il 36.4% delle scuole e molto soddisfatto il 6.4%
delle scuole, mentre il 20.2% esprime la propria insoddisfazione (il 37% non
risponde).
Capitolo 28 pag. 419/420
Concludendo si può dire che i dati rilevati segnalano una situazione che le
educatrici considerano positiva, ma che necessita di ulteriori integrazioni nel
senso che richiede di trovare un equilibrio più avanzato tra l’esigenza di offrire
un IRC connotato cristianamente, distinto ma non separato dal contesto familiare
ed ecclesiale, e quella di una sua apertura alla dimensione interreligiosa con gli
opportuni adattamenti del caso.
Nella quasi totalità (92.1%) delle scuole materne l’IRC è impartito da tutte le
educatrici di sezione. Tuttavia va segnalato che in un certo numero di scuole
(13.9%) l’IRC è affidato ad educatrici appositamente incaricate e in possesso
di dichiarazione di idoneità rilasciata dall’Ordinario locale e che si tratta
mediamente di interventi didattici di 2,2 ore alla settimana.
Per quanto riguarda il titolo di idoneità all’insegnamento dell’IRC il 38.6% delle
scuole segnala che in esse una o più educatrici (in media 2 per scuola) sono
in possesso di tale certificazione. Si nota che tali scuole realizzano anche un
miglior coordinamento rispetto alle altre, più aggiornamento e una particolare
verifica dell’IRC. Pertanto si può dire che la presenza di educatrici in possesso di
apposito titolo non costituisce un elemento puramente formale, ma ha un effetto
positivo sulla qualità dell’IRC.
L’esistenza di uno specifico coordinamento a livello diocesano a favore delle
educatrici e a sostegno del loro compito educativo per quanto riguarda l’IRC è
segnalato solo dal 29.9% delle scuole. Dove esiste questo coordinamento si
svolgono anche iniziative di aggiornamento, si effettua una verifica particolare
dell’IRC e sono presenti educatrici in possesso di titolo idoneo.
Se si considerano le iniziative di aggiornamento specificamente rivolte ai docenti
per quanto riguarda l’IRC si riscontra che hanno coinvolto il 40.3% delle scuole.
L’aggiornamento sull’IRC consiste nella partecipazione a incontri promossi dalla
Diocesi nel 65.7% dei casi. Iniziative periodiche organizzate all’interno della
propria scuola si riscontrano nel 30.3% dei casi, mentre il 34.7% delle scuole
Capitolo 28 pag. 420
riferisce che l’aggiornamento consiste nella partecipazione a convegni esterni.
Oltre ai normali canali di valutazione scolastica, una verifica particolare per l’IRC
viene attuata dalle educatrici nel 25.6% delle scuole, mentre nel 62% dei casi
non è stata predisposta alcuna iniziativa specifica di valutazione.
Bambini di religione diversa dalla cattolica sono presenti nel 40.2% delle scuole,
ma al Nord si raggiunge la percentuale del 54.9% con una media di tre bambini
per scuola.
Solo in pochissime scuole (1.1%) vengono previsti per loro dei momenti di
formazione nella loro religione. Nel 78.3% dei casi la loro educazione religiosa
consiste nel partecipare insieme a tutti gli altri bambini a tutte le attività previste
nell’ambito di una educazione alla religiosità che prevede anche l’esplicito
riferimento ai segni e alla vita della religione cattolica. Il 17% delle scuole
precisa che anch’essi partecipano all’IRC, ma con opportuni adattamenti. Il
14% delle scuole precisa che l’IRC ha una chiara connotazione interreligiosa e
ciò si verifica maggiormente nei plessi che possono avvalersi di uno specifico
coordinamento, di iniziative di aggiornamento e dove viene svolta una particolare
valutazione dell’IRC.

1.3. Considerazioni conclusive

I due campioni rispecchiano in maniera adeguata la distribuzione sul territorio e


quello Fidae anche l’articolazione per livelli. Al tempo stesso in ambedue sono
sovrarappresentate le scuole più attente e interessate per cui da questo punto di
vista i risultati hanno un valore più qualitativo che quantitativo.
I fattori che in generale si associano con un IRC più adeguato si possono
identificare nei seguenti aspetti:
– l’esistenza di un coordinamento dell’IRC;
Capitolo 28 pag. 421
– l’organizzazione di iniziative di aggiornamento;
– la previsione di una verifica particolare per l’IRC.
Sia pur nei modi ristretti in cui è stata condotta, l’indagine è stata un primo
contributo per illuminare una realtà, quella dell’IRC nella scuola cattolica, che
fino ad oggi non è stata oggetto di tutta quella attenzione che invece avrebbe
richiesto sia per i suoi risvolti sociali e pedagogici sia per quelli istituzionali nel
quadro anche dei nuovi rapporti tra scuola statale e paritaria derivanti dalla
riforma dell’autonomia e soprattutto dal riconoscimento della parità.

2. L’IRC nelle scuole pubbliche, statali e paritarie

Da un punto di vista istituzionale, come è noto, l’IRC trova il suo fondamento


nella normativa concordataria, che nel 1929 prevedeva l’estensione alle
scuole medie dell’insegnamento religioso già impartito «nelle scuole pubbliche
elementari ». L’Accordo di revisione del 1984 continua ad assicurare l’IRC «nelle
scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado». L’IR e l’IRC sono
stati dunque sempre pensati come operanti all’interno della scuola «pubblica».
Chiarire il significato di questo aggettivo comporta una riflessione che si allarga
alla natura stessa della scuola: è facile sostenere che non c’è scuola che non
sia pubblica, visto che il servizio offerto produce effetti di chiara rilevanza sociale,
nell’interesse di tutta la collettività, a prescindere dal soggetto gestore. Nell’uso
corrente, però, per quanto possa trattarsi di un’accezione equivoca e talora
strumentale, scuola pubblica è sinonimo di scuola statale. Ed è altrettanto facile
sostenere che i sottoscrittori del primo e del secondo Concordato avessero in
mente tale equivalenza parlando di scuole pubbliche.
La legge 62/00, sulla parità scolastica in Italia, ha introdotto alcune importanti
precisazioni sul concetto di sistema scolastico. Essa infatti parla di un «sistema
Capitolo 28 pag. 421/422
nazionale di istruzione... costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie
private e degli enti locali» (art. 1, c. 1). Non si utilizza la dizione «scuole
pubbliche», ma il chiaro riferimento a diverse tipologie di gestori (Stato, privati,
enti locali), tutte riunite nell’unico sistema nazionale di istruzione, può facilmente
indurre ad attribuire a tutte queste scuole un carattere pubblico, del resto
esplicitato al successivo comma 3 dell’art. 1, dove si riconosce che le scuole
paritarie svolgono «un servizio pubblico ». Dunque si deve concludere che le
scuole cattoliche paritarie sono scuole pubbliche al pari di quelle statali e quindi
rientrano nella legislazione concordataria.
Altro discorso può essere fatto per le scuole cattoliche che non hanno chiesto
il riconoscimento della parità e che quindi non rientrano in questo quadro
normativo.
Esse possono rivendicare un’estraneità al sistema concordatario e quindi
trascurare l’IRC come tale, ritenendo che esso sia di fatto sostituito dall’insieme
del progetto educativo della scuola, esplicitamente ispirato a finalità o motivazioni
religiose cattoliche. È qui in gioco l’identità stessa della scuola cattolica, che
deve essere considerata innanzitutto scuola; la qualifica di «cattolica», però,
non si aggiunge dall’esterno bensì è un fattore caratterizzante che la anima
dall’interno come attenzione all’educazione integrale della persona anche e
soprattutto in prospettiva religiosa: «Qui sta il carattere cattolico specificamente
suo e si radica il suo dovere di coltivare i valori umani nel rispetto della legittima
autonomia» (Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, 1977, n. 35). La
caratterizzazione cattolica di una scuola non è dunque ricavabile dalla presenza
di attività aggiuntive nel curricolo; la sua specificità sta innanzitutto nel criterio
ispirativo unificante il progetto educativo che si fonda su Gesù Cristo. Ciò fa
sì che l’intenzionalità pedagogica della scuola cattolica sia sempre data non
dalla sostituzione o subordinazione ma dalla simultaneità e coordinamento dei
due ordini di elementi che entrano in gioco: fede e cultura, formazione della
Capitolo 28 pag. 422
personalità umana e formazione della personalità cristiana, scienza e sapienza.
Come si vede, il problema è complesso e tocca rilevanti questioni di carattere
pedagogico, educativo, istituzionale e giuridico. È troppo facile risolvere le
difficoltà sopra esposte con la sola distinzione tra scuole cattoliche paritarie (cui
si applicherebbe la normativa concordataria) e scuole cattoliche non paritarie
(estranee a tali vincoli e peraltro ridotte a un’assoluta minoranza), anche perché
– come si vedrà – la distinzione nei fatti non è così netta.
Per completare il quadro va poi ricordata l’evoluzione che l’intero sistema
scolastico italiano sta attraversando in questi anni con l’introduzione
dell’autonomia e la riforma degli ordinamenti. L’autonomia ha riconosciuto
la dignità di istituzioni autonome alle singole scuole che, pur mantenendo il
loro carattere statale, interagiscono con enti locali e altre istituzioni secondo
una logica di rete ben diversa da quella burocratico-centralistica del sistema
scolastico previgente. La legge 53/03 (la cosiddetta riforma Moratti) ha da parte
sua ridisegnato un sistema integrato di istruzione e formazione che modifica la
precedente legislazione sull’obbligo e trasforma significativamente il secondo
ciclo di istruzione abbinandovi l’inedito canale dell’istruzione e formazione
professionale, che in relazione all’IRC pone l’ulteriore problema di una sua
eventuale presenza negli istituti che saranno di competenza regionale (quindi
pubblici ma non statali).
Insomma, la scuola con la quale ci troviamo oggi a dover fare i conti è
sensibilmente diversa da quella del 1984, all’epoca della revisione concordataria.
Ma, a prescindere dall’articolazione del sistema scolastico, è sempre «nel quadro
delle finalità della scuola» che si deve andare a collocare l’IRC; e queste finalità
non possono essere diverse tra scuola statale e scuola paritaria. La legge 62/
00 prevede infatti che, pur tenendo conto del progetto educativo della scuola,
l’insegnamento debba essere «improntato ai principi di libertà stabiliti dalla
Costituzione repubblicana» (art. 1, c. 3), i quali non impegnano formalmente la
Capitolo 28 pag. 422/423
Chiesa cattolica ma sono certamente condivisibili nella sostanza.
Sotto il profilo formale, poi, non si deve dimenticare che, proprio secondo la
Costituzione, «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce
scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (art. 33, c. 2), e agli alunni della scuola
non statale «la legge... deve assicurare... un trattamento scolastico equipollente
a quello degli alunni di scuole statali» (art. 33, c. 4, Cost.). La stessa formula
si ritrova nell’art. 9.1 del secondo Concordato, che garantisce agli alunni delle
scuole che abbiano ottenuto la parità «un trattamento scolastico equipollente a
quello degli alunni di scuole statali». E un trattamento scolastico equipollente non
può esaurirsi nel riconoscimento del valore legale dei titoli conseguiti nelle scuole
non statali (o nel risarcimento delle spese sostenute), ma deve comprendere
anche un’equipollenza reale nei livelli essenziali di prestazione che gli alunni
ricevono, cioè nel curricolo progettato dalle scuole paritarie in piena aderenza ai
requisiti minimi fissati dalle norme generali per il sistema scolastico nazionale.

3. L’impegno della scuola cattolica per l’educazione religiosa

Per delineare l’identità della scuola cattolica può essere utile uno sguardo ai
documenti del Magistero, prendendo le mosse dal Concilio Vaticano II, che nella
dichiarazione Gravissimum educationis al n. 8 afferma che la scuola cattolica
«al pari delle altre scuole, persegue le finalità culturali proprie della scuola e la
formazione umana dei giovani. Ma suo elemento caratteristico è di dar vita ad
un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà
e carità; di aiutare gli adolescenti perché nello sviluppo della propria personalità
crescano nello stesso tempo secondo quella nuova creatura che in essi ha
realizzato il battesimo; di coordinare, infine, l’insieme della cultura umana con
il messaggio della salvezza, in modo che la conoscenza del mondo, della vita,
Capitolo 28 pag. 423
dell’uomo, che gli alunni via via acquisiscono, sia illuminata dalla fede».
Le indicazioni conciliari sono state tradotte in primo luogo nel documento
della Sacra Congregazione per l’educazione cattolica su La scuola cattolica
(1977), che mette in luce «la fondamentale differenza che esiste tra una
scuola il cui insegnamento è permeato di spirito cristiano e una scuola che
si limita ad aggiungere la religione alle altre materie scolastiche» (n. 43).
Pur con questa premessa e «senza entrare nel merito della problematica
relativa all’insegnamento della religione nella scuola va sottolineato che tale
insegnamento, pur non esaurendosi nei “corsi di religione” che rientrano nei
programmi scolastici, deve essere impartito nella scuola in maniera esplicita
e sistematica, perché nella mente degli allievi non si crei uno squilibrio tra
cultura generale e cultura religiosa» (n. 50). Da un punto di vista formale, inoltre,
«l’autorità gerarchica ha la missione di vigilare sulla ortodossia dell’insegnamento
religioso» (n. 73), confermando così implicitamente nella scuola cattolica una
configurazione concordataria dell’Ir, che all’epoca in Italia non era ancora
passato per l’Accordo di revisione.
L’applicazione di queste indicazioni al nostro contesto è rinvenibile nella nota
pastorale dell’episcopato italiano su La scuola cattolica, oggi, in Italia (1983),
in cui, con riferimento al problema che qui ci occupa, troviamo scritto che
«dimensione particolarmente importante del progetto educativo della scuola
cattolica è l’educazione cristiana e, specificamente, l’insegnamento della
religione. Tale dimensione è qualificante per l’identità della scuola cattolica» (n.
22).
La problematica della formazione religiosa dei giovani nello specifico ambiente
di scuola cattolica è stata poi oggetto nel 1988 di un nuovo documento
della Congregazione per l’educazione cattolica su La dimensione religiosa
dell’educazione nella scuola cattolica. Sempre con riferimento all’educazione
religiosa, tale documento ricorda che nella scuola cattolica «il coordinamento
Capitolo 28 pag. 423/424
tra universo culturale umano e universo religioso si produce nell’intelletto e
nella coscienza del medesimo uomo-credente. I due universi non sono parallele
incomunicabili.
I punti di incontro, da individuare nella persona umana, protagonista della
cultura e soggetto della religione, quando si cercano, si trovano. Trovarli non è di
competenza esclusiva dell’insegnamento religioso. Ad esso è dedicato un tempo
limitato. Gli altri insegnamenti dispongono di molte ore ogni giorno» (n. 51).
Tuttavia, non si può per questi motivi abdicare ai compiti propri dell’IRC o
alla sua stessa presenza. Vale in proposito l’ammonimento già contenuto
nella Catechesi tradendae (n. 69), ove ci si domandava: «meriterebbe
questa [la scuola cattolica] ancora un tale nome se, pur brillando per un
livello d’insegnamento assai elevato nelle materie profane, le si potesse
rimproverare, con fondati motivi, una negligenza o una deviazione nell’impartire
l’educazione propriamente religiosa? Né si dica che questa sarebbe sempre data
implicitamente, o in maniera indiretta! Il carattere proprio e la ragione profonda
della scuola cattolica, per cui appunto i genitori cattolici dovrebbero preferirla,
consistono precisamente nella qualità dell’insegnamento religioso integrato
nell’educazione degli alunni». Il documento del 1988 della Congregazione
vaticana insiste quindi nel descrivere una scuola cattolica in cui sia ben presente
uno specifico IRC, impartito da un apposito insegnante, con programmi didattici
sui quali si forniscono anche ampi suggerimenti.
Da questa sommaria ricognizione risulta quindi evidente quale debba essere
per il Magistero la risposta all’alternativa tra uno specifico IRC ed una presenza
diffusa ma non identificabile dell’educazione religiosa nella scuola cattolica: un
insegnamento religioso deve essere riconoscibile ed è da considerare fattore
qualificante dell’identità della scuola cattolica.

Capitolo 28 pag. 424


4. IRC concordatario e scuola cattolica

Se è vero quanto è stato appena ricordato come orientamento educativo e


pastorale, altra è la questione relativa alla completa e diretta applicabilità della
normativa concordataria alla scuola cattolica. Essa dovrebbe discendere dalla
convinta adesione della scuola cattolica (almeno di quella paritaria) al paradigma
scolastico fissato dalle leggi per il sistema nazionale di istruzione e precisato
dalla legge 62/00.
Il riconoscimento della parità impegna le scuole cattoliche al rispetto dei principi
costituzionali, tra i quali figura la libertà di coscienza che è invocata dall’Accordo
del 1984 per motivare la facoltatività del nuovo IRC. Il sistema della scelta di
avvalersi o non avvalersi di questo insegnamento deve perciò essere mantenuto
anche nella scuola cattolica, per quanto paradossali possano esserne le
conseguenze, dato che un alunno potrebbe scegliere la scuola cattolica evitando
però di frequentarvi l’IRC, che ne è fattore qualificante.
Si scontano qui, come del resto nella scuola statale, le contraddizioni del
sistema neoconcordatario, che da una parte fonda l’IRC su motivazioni
oggettivamente storico-culturali e dall’altra difende la libertà di coscienza con
la facoltatività della disciplina che, a rigor di logica, non dovrebbe interpellare
soggettivamente l’alunno. Nonostante le migliori intenzioni, agisce qui il
retaggio della vecchia confusione tra insegnamento religioso e catechesi, che è
ampiamente discussa e risolta dai testi del Magistero citato nonché da numerosi
altri pronunciamenti ufficiali che si occupano di IRC.
Dobbiamo perciò forse rassegnarci a fare i conti con i paradossi che possono
derivare dall’incontro fra regime concordatario e scuola cattolica, avvertendo
che le difficoltà non sono solo teoriche ma reali, anche se, come si vedrà,
percentualmente limitate.
Il primo paradosso è la già accennata possibilità di sottrarsi all’IRC pur avendo
Capitolo 28 pag. 425
scelto la scuola cattolica. In proposito la legge 62/00 è chiara: l’iscrizione ad una
scuola paritaria implica l’accettazione del suo progetto educativo, che nel caso
della scuola cattolica si specifica anche e soprattutto nell’IRC. Di fatto il caso
non dovrebbe presentarsi, ma di principio non può essere escluso, e certamente
non perché sempre la legge 62/00 impone come non obbligatorie «le attività
extracurricolari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata
ideologia o confessione religiosa» (art. 1, c. 3). Potrà essere questo il caso
della partecipazione a preghiere o liturgie, ma non è il caso dell’IRC che non
presuppone alcuna adesione all’oggetto dell’insegnamento da parte degli alunni.
Un secondo paradosso non riguarda tanto la scuola cattolica quanto le scuole
paritarie eventualmente di altre confessioni. Se il paradigma concordatario
dovesse applicarsi loro incondizionatamente, anche scuole non cattoliche
dovrebbero prevedere l’IRC nei loro curricoli, salvo poi dover constatare che la
totalità dei propri alunni sceglie di non avvalersene.
Un terzo paradosso deriva dai dati di fatto, che mostrano come diversi IdR di
scuola cattolica siano privi di idoneità ecclesiastica. È questa la conseguenza
dell’autonomia dalla legislazione concordataria, ma almeno quella canonica
andrebbe rispettata, a meno che si voglia rivendicare una totale peculiarità
dell’insegnamento religioso nella scuola cattolica, che a questo punto non ci
sentiamo di qualificare tecnicamente come IRC. Ma la legge 62/00 impone che
nella scuola paritaria il personale docente sia fornito del titolo di abilitazione (e
l’idoneità ecclesiastica è da tempo equiparata giuridicamente a un’abilitazione).
Ulteriori problemi possono quindi sorgere in relazione alla formazione degli IdR,
che potrebbero non essere in possesso dei titoli di qualificazione professionale
previsti dall’Intesa, proprio mentre la legge 53/03 sta tentando di elevare il
livello della formazione iniziale dei docenti italiani, sollecitando così anche una
revisione dei titoli di accesso all’IRC.
Il nodo fondamentale è quello della natura della scuola paritaria: se essa debba
Capitolo 28 pag. 425/426
essere un «clone» della scuola statale (ferma restando la sua facoltà di adottare
un progetto educativo di stampo religioso) o possa elaborare un percorso
formativo originale (fermo restando l’obbligo del rendiconto in sede di esame
finale per assicurare il valore legale del titolo di studio). Non tutte le scuole
cattoliche sono paritarie, ma quelle che hanno chiesto e ottenuto la parità sono in
un certo senso impegnate a rispettare sicuramente i parametri fissati dalle norme
generali sull’istruzione.
Infine, le diversificazioni che presenta la scuola cattolica in materia di IRC si
manifestano spesso nella stessa quota oraria ad esso destinata. Come si è visto
sopra, vi sono scuole che svolgono un orario inferiore a quello ordinario ed altre
che propongono invece ore aggiuntive. Questo secondo caso non crea problemi,
visto che ormai i curricoli nazionali possono essere interpretati come «livelli
essenziali di prestazione», secondo la terminologia della legge 53/03; ma il primo
risulta sicuramente incomprensibile per le motivazioni già esposte in precedenza.
In qualche scuola le ore aggiuntive di IRC sono destinate ad attività di
formazione spirituale o di vera e propria catechesi e/o liturgia. Ma ciò contrasta
con le prescrizioni già citate oltre che con la ripetuta raccomandazione del
Magistero di mantenere un rapporto di distinzione e complementarità tra i due
ambiti. È senz’altro possibile arricchire il curricolo di istituto con ore aggiuntive,
ma queste devono conservare il loro carattere di disciplina curricolare (quale
è l’IRC) e non sconfinare in attività diverse, sostanzialmente extracurricolari.
Insomma, un’ora in più di IRC deve essere anch’essa IRC e non altro.
Un’eventuale catechesi è perfettamente legittima all’interno di una scuola
cattolica ma solo come attività aggiuntiva extracurricolare non obbligatoria.
Il problema nasce, evidentemente, per la contiguità tra i motivi ispiratori delle
scuole cattoliche e i contenuti dell’IRC, che attengono entrambi alla fede
cattolica.
Ma la distinzione deve essere attentamente mantenuta. In altre parole, per
Capitolo 28 pag. 426
quanto possa suonare paradossale, la scuola cattolica può educare alla fede,
l’IRC no. L’IRC appartiene al curricolo scolastico e, nonostante la vicinanza
anche istituzionale alle motivazioni della scuola cattolica, non può perdere questa
sua caratteristica di curricolarità modellata sul paradigma della scuola statale.
Per usare il linguaggio dell’autonomia, il Piano dell’offerta formativa può essere
cristianamente orientato, ma l’IRC non può per questo trasformarsi in catechesi o
diventare obbligatorio.

5. La significatività dell’IRC per l’educazione di scuola cattolica

L’IRC condensa ed esprime sia i problemi di una disciplina scolastica a sé


stante, e per di più a statuto epistemologico «misto», sia la religiosità cristiana
come dimensione trasversale delle discipline e perciò del rapporto razionalità
immanente-razionalità trascendente (Malizia-Cicatelli-De Giorgi-Monni, 2002).
Comunque si risolva questo problema, è importante per la identità di scuola
cattolica avere presenti gli indicatori culturali dell’IRC. Ma dopo l’autonomia e la
parità che offrono un nuovo quadro istituzionale a questo problema è altrettanto
importante avere presenti gli indicatori ecclesiali e civili che concorrono a
determinare un più completo e perciò più corretto profilo dell’IRC nella scuola
cattolica.
Gli indicatori ecclesiali di un IRC nella scuola cattolica sembra che debbano
essere almeno i seguenti:
– l’educazione di scuola cattolica è primariamente educazione di ambiente e
ambiente permeato di spirito evangelico di libertà e carità;
– la razionalità umana che cerca di dare senso alla vita attraverso una ricerca che
parte dai fatti non può non fare i conti con un senso che nella storia si presenta
come «donato» da parte del trascendente;
Capitolo 28 pag. 426/427
– ogni alunno ha diritto a una fondazione critica della propria religione di
appartenenza.
Gli indicatori civili vanno rilevati nella logica della riforma della scuola. Questa,
ovviamente, persegue istanze di rinnovamento globale, ma proprio per questo
è indicativa dei bisogni e delle attese della società in materia di educazione
scolastica, e l’IRC nella scuola cattolica ne viene direttamente interpellato e
provocato.
L’esigenza che sta alla base delle riforme generali della scuola sembra toccare
in maniera particolare lo stesso modo di essere dell’IRC nella scuola cattolica.
Con la parità, la scuola cattolica, pur continuando a mantenere la coerenza con
una sua tradizione, assume volontariamente la prospettiva della educazione alla
cittadinanza, come prospettiva educativa «sua».
L’IRC va, quindi, ripensato e ripreso dalla scuola cattolica come strumento per
una collaborazione convergente con la scuola di Stato, nel comune obiettivo
della crescita del cittadino, in un pluralismo di opinioni anche in materia di
religione.
Questo potrebbe diventare uno dei punti nodali della identità della scuola
cattolica e perciò della sua funzione rispetto alle altre agenzie e forme di
educazione: la dimensione religiosa come base per la «educazione civica» alla
cittadinanza.
Volere che nella scuola cattolica la dimensione religiosa trasversale diventi
disciplina scolastica a sé stante, significa che l’IRC viene assunto come simbolo
e testimonianza della «scolasticità» della educazione di scuola cattolica. La
religione, insomma, non solo come opzione di senso delle persone, o come
coagulo critico di una più o meno diffusa sensibilità religiosa, ma come evento
culturale oggettivo, costituente anch’esso la razionalità umana, capace, quindi, di
dare un suo contributo specifico e significativo alla formazione della razionalità
dell’alunno (Malizia-Cicatelli-De Giorgi-Monni, 2002).
Capitolo 28 pag. 427
Se la prospettiva sopra accennata libera l’IRC dalla solitudine culturale perché
lo risolleva dalla sottovalutazione razionale in cui è stato tenuto, il far parte della
scuola cattolica di un sistema nazionale integrato e il diventare di tutte le scuole
«centri culturali» sul territorio, impone all’IRC un nuovo tipo di impegno e perciò
una nuova funzione. L’IRC, soprattutto nella scuola cattolica, non acquista quindi
una posizione privilegiata per l’esistenza di una domanda specifica e/o per la
presenza di una offerta qualificata, ma per la coerenza culturale che dimostra di
avere rispetto a tutto il piano della offerta formativa.
Il ripensamento, quindi, della dimensione religiosa come disciplina fra le
discipline da parte del docente di religione, esige un parallelo ripensamento delle
altre discipline da parte degli altri soggetti professionali di scuola cattolica nel
confronto con una dimensione che attraversa tutte le discipline e tutte le supera.
La funzione del dirigente, in questo caso, diventa la capacità di porre in rapporto
educativo le varie espressioni delle due razionalità, immanente e trascendente.

Riferimenti bibliografici

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cattolica; i dati disponibili, in AA.VV., Per un progetto unitario di scuola cattolica:
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Capitolo 29 pag. 428


CAPITOLO 29

EDUCAZIONE RELIGIOSA E DISAGIO


SCOLASTICO
Giuseppe Morante

Parlare di allievi che vivono un disagio esistenziale con ricadute


sull’apprendimento scolastico significa riferirsi a una serie di fenomeni complessi,
influenzati da molti fattori sia interni alla persona che negli ambienti della loro
vita.
Le modalità di insegnamento dovranno necessariamente partire da un
presupposto di tipo relazionale con l’attivazione di processi capaci di facilitare
l’integrazione delle energie psicologiche (personali e interpersonali), e di
sviluppare la qualità delle stesse relazioni inter-soggettive.
L’insegnamento della religione cattolica rientra nella dimensione antropologica
per lo sviluppo affettivo, cognitivo, sociale degli alunni e della loro sensibilità
religiosa, rispondente sia alla loro crescita personale che al bisogno istituzionale
della scuola.

1. Le situazioni scolastiche di «disagio»

Il disagio nella scuola si può manifestare con limiti che evidenziano le difficoltà di
Capitolo 29 pag. 429
apprendimento degli allievi, con ricadute sia sugli insegnanti e genitori che sulle
conseguenze della vita scolastica:
– alunni che hanno specifiche difficoltà di apprendimento. Lo svantaggio
manifesta una discrepanza tra il potenziale cognitivo stimato e le modalità di
funzionamento a livello di apprendimento scolastico. Si tratta di allievi che pur
avendo delle normali capacità mostrano difficoltà che derivano da uno scarso
utilizzo delle proprie risorse cognitive, dipendenti da cause diverse, che in fase di
programmazione vanno diagnosticate;
– alunni con deficit di motivazione. Si tratta di soggetti con deficit di attenzione
e quindi poco capaci di concentrarsi su un contenuto da apprendere. Se la
motivazione aumenta, l’apprendimento migliora;
– alunni svantaggiati per cause socio-culturali. Si tratta di quel disagio che
proviene da povertà ambientali, degrado sociale, limiti culturali. Si riscontra
spesso in tali soggetti una mancanza di fiducia nella vita ed una grande distanza
dagli altri. Le conseguenze sono: poca vitalità umana, scarsa motivazione
personale, vulnerabilità relazionale, difficile formazione della personalità,
disturbata percezione di norme di comportamento, basso livello culturale;
– alunni che soffrono di difficoltà relazionali, dovute anche a motivi di disabilità
mentale. Si esprimono in forme di aggressività di tipo fisico o verbale rivolta
a compagni, insegnanti, oggetti; iperattività e bisogno continuo di muoversi;
incapacità di portare a termine compiti o esperimenti comuni; iperimpulsività,
passaggio repentino da un interesse ad un altro; incapacità di non farsi distrarre
da qualsiasi stimolo incostante; stato di continua ricerca di qualche altra cosa;
scarsa capacità di inibizione dei propri impulsi;
– alunni che sono affetti da disabilità varie e menomazioni specifiche, soprattutto
nel deficit di comprensione, limiti che evidenziano una discrepanza tra il
potenziale cognitivo e la riuscita scolastica;
– alunni con disagio come forma diffusa di sofferenza, come malessere con senso
Capitolo 29 pag. 429/430
di frustrazione, angoscia, apatia, nausea verso la realtà circostante, compresa la
scuola;
– disagio dell’insegnante, derivante dalla distanza tra il reale e l’ideale e da
fattori di contesto quali le relazioni interpersonali, i risultati che si ottengono, le
condizioni di lavoro, l’organizzazione scolastica;
– disagio della famiglia, che è conseguente al disagio del proprio figlio, che
spesso può portare i genitori ad allontanarsi dalla scuola per evitare ulteriori
frustrazioni;
– dispersione scolastica, come situazione tipica di reale marginalità in quanto
esclude il soggetto dalla possibilità di darsi strumenti culturali necessari per un
adeguato inserimento nella società;
– disfunzione (del sistema scolastico), inteso soprattutto come una dispersione
della propria produttività educativa e come inefficacia negli interventi didattici;
– devianza comportamentale, riferita ad un certo modo di agire o di essere
difforme dagli standard socialmente accettati;
– disattenzione da parte della scuola agli alunni disabili; non si fa nulla per
orientarli ad integrarsi e sviluppare le particolari potenzialità nell’apprendimento,
nella comunicazione, nella socializzazione e nel raggiungimento dell’autonomia
personale.

2. La risposta dell’educazione religiosa

L’educazione religiosa deve assumere una particolare valenza proprio nei


confronti degli alunni che soffrono di un particolare disagio, aiutandoli ad
integrarsi a tutti gli effetti nella vita di relazione della comunità scolastica.
La dimensione religiosa della personalità può aiutare ad integrare alcune
limitazioni della personalità e favorire una migliore comprensione di sé e del
Capitolo 29 pag. 430
mondo, a partire proprio dalla scuola, che mira a «favorire la crescita della
persona» attraverso un percorso didattico che rispetti alcuni fattori tipici della
scuola:
– fattori cognitivi: aiutano a rispondere alla loro comprensione del senso della vita;
sviluppano un linguaggio più ricco per comprendere meglio la realtà umana e
religiosa; permettono di superare l’isolamento di una realtà esistenziale limitante;
stimolano il bisogno di conoscere e rafforzano la memoria;
– fattori dinamico-affettivi e relazionali: ben interpretati e coltivati da un punto di
vista metodologico, rendono più flessibile il rapporto interpersonale ed aiutano il
soggetto a trovare fonti di sostegno del proprio concetto di sé;
– fattori relativi al processo metodologico-didattico: faranno acquisire le
competenze fondamentali o abilità che dovranno essere poste a fondamento
degli esiti formativi previsti nei gradi scolastici, in modo diversificato, aiutando
la persona a crescere nella dimensione religiosa, che può aiutare proprio
ad integrare in sé il proprio limite, dal momento che essa concorre al
raggiungimento delle finalità generali della scuola in modo originale e specifico.
È proprio dell’educazione religiosa insegnare un sapere religioso che si riferisce
anche al mondo dei valori e dei significati, e aiutare gli alunni a comprendere
come la dimensione dell’esperienza religiosa, propria della vita e della storia
umana, sia intimamente capace, per sua natura, di contribuire allo sviluppo della
libertà, della responsabilità, della solidarietà e della convivenza democratica.

3. Interventi didattici

La didattica richiede l’applicazione di quattro criteri metodologici fondamentali:


la correlazione; il dialogo interdisciplinare; la fedeltà al contenuto confessionale;
l’elaborazione di una sintesi concettuale.
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L’impegno della scuola si esprime con particolare efficacia nella
programmazione educativa e didattica che valorizza, nei piani educativi
personalizzati, il confronto ed un vero coinvolgimento dei genitori e delle agenzie
educative presenti sul territorio.
In base al principio di correlazione e in obbedienza alla natura e alle finalità della
scuola, il contenuto disciplinare dell’educazione religiosa è trattato in rapporto
alle esigenze di educazione, istruzione e formazione, per favorire il più possibile
un vero apprendimento delle conoscenze, la rielaborazione personale di ogni
alunno, la sua crescita umana culturale.
Perciò nella normativa viene sempre precisato che bisogna avere una
«particolare attenzione» agli alunni in difficoltà di apprendimento, perché
incontrano più ostacoli degli altri nella maturazione della propria personalità in
crescita e nell’inserimento sociale. Per essi «integrazione» significa individuare
mezzi di comunicazione adeguati per la comprensione dei contenuti proposti e
valorizzare le potenzialità e le diversità come risorse educative alla convivenza
per l’intera classe.
I linguaggi sono quelli della tradizione religiosa e culturale cristiana,
adeguatamente integrati con i nuovi linguaggi della comunicazione e le sue
moderne tecnologie, soprattutto quelle massmediali e multimediali, con cui
sempre più spesso vengono elaborate e trasmesse le proposte culturali anche di
significato esistenziale e religioso.
L’adattamento agli alunni con difficoltà di apprendimento ha senso solo se si
parte dal presupposto che ogni insegnante è invitato a predisporre un piano
di insegnamento basato su un apprendimento commisurato alle condizioni dei
soggetti.
E questo principio didattico vale sia per gli allievi normali – che così vengono
messi nella condizione di essere considerati soggetti attivi ed al centro del
processo didattico –, sia per quegli allievi disagiati che possono usufruire di
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uguali possibilità, sia pure con la condizione di un apprendimento condizionato
dal proprio limite.
L’insegnamento individualizzato è un modo di intervento didattico caratterizzato
dal sistematico e flessibile impiego di tecniche scelte ogni volta per ottimizzare
l’apprendimento in funzione delle varianti specifiche ed individuali dell’allievo.
Come per tutte le discipline, quindi anche per l’educazione religiosa,
l’integrazione e l’adattamento degli allievi con difficoltà di apprendimento nelle
classi normali suppone che si verifichino le stesse condizioni: programmi e testi
didattici uguali per tutti, resi essenziali a seconda della capacità di comprensione;
coinvolgimento di tutti gli insegnanti; preparazione e richiesta di collaborazione a
tutti i compagni di classe in cui sono inseriti questi allievi con le loro difficoltà di
apprendimento; facilitazione di attività a seconda delle esigenze e delle singole
necessità.

3.1. La conoscenza dei presupposti per l’adattamento

Anche l’insegnante di religione, come gli altri, deve essere informato sulle
difficoltà che l’allievo presenta, sulle sue eventuali crisi o momenti difficili; deve
conoscere i metodi di approccio e con delicatezza portarli a conoscenza degli
allievi; non deve aver paura delle deficienze dimostrate, accogliendo con fiducia
e serenità i ragazzi, senza pretendere ciò che essi non possono dare.
La didattica dell’adattamento parte dal rispondere alle esigenze caratteristiche
degli allievi con difficoltà di apprendimento:
– ci sono allievi che hanno difficoltà che si manifestano nella incapacità di
percezione di un contenuto disciplinare (i cui motivi possono essere o la
distrazione psicologica, o una disabilità comunicativa dovuta a difetti e limiti
sensoriali, o per carenze che provengono da situazione ambientali...);
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– esistono scolari limitati nella capacità di elaborazione di un messaggio ricevuto.
Non vi è dubbio che in questi soggetti vi è anche carenza di comunicazione
interpersonale per difficoltà intrinseche: possono esservi problemi nel linguaggio,
nella capacità di comprendere le ordinarie modalità dei concetti, nella possibilità
di mantenere l’attenzione focalizzata. A volte può anche capitare che la
menomazione intellettiva induce comportamenti che non sono conformi alle
regole della convivenza sociale, rendendo difficile il rapporto interpersonale.
Il percorso educativo, le tappe, i contenuti dell’insegnamento esigono itinerari
progressivi, essenzializzati, trasmessi con linguaggi e metodi appropriati:
sentimenti, gesti, immagini, simboli (musicali, corporei, grafici, pittorici, plastici);
– vi sono allievi limitati nella capacità di ri-espressione del messaggio percepito
ed elaborato: sono coloro che soffrono disabilità neurologiche; cioè della
parola e dei disturbi affettivi. Si tratta di condizioni che rendono difficoltosa
la partecipazione alle occasioni della presenza in classe. Per questi soggetti
è importante utilizzare un metodo attivo con strumenti che facilitino la
comunicazione e l’apprendimento (computer, impugnature speciali, leggi,
materiali concreti che sviluppino possibilità espressive, drammatizzazione,
linguaggio grafico e musicale...);
– esistono allievi affetti da limiti psichici di comprensione, che sono vere e proprie
malattie mentali, che costituiscono una realtà molto diversificata, complessa e di
difficile inquadramento. Secondo la prospettiva finora adottata, i disturbi mentali
(rappresentati specie da disturbi della personalità, disturbi nevrotici come fobie
e ossessioni, da disturbi depressivi e schizofrenici) costituiscono innanzitutto
delle infermità che manifestano inadeguatezze in ordine alle normali esigenze di
vita psicologica e relazionale, carenze di autonomia e di efficienza intellettiva; di
difficile rapporto tra libertà e responsabilità.
In conclusione, si può affermare che pur nella grande varietà dei disturbi mentali,
la patologia psichica implica in generale una coartazione della persona, che è
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obbligata a rapportarsi in modo rigido con il mondo esterno e con se stessa.

3.2. Le caratteristiche didattiche dell’adattamento

In particolare l’adattamento ai bisogni del disagio scolastico comporta la


conoscenza delle caratteristiche psico-pedagogiche e didattiche in confronto
di partenza con la diagnosi funzionale personale (cioè il documento sanitario
rilasciato dall’équipe medico-psico-pedagogico) che precisa il tipo di limite
e descrive le possibilità che la persona è in grado di sfruttare, per un
apprendimento per lei significativo.
In ordine a queste specifiche indicazioni, per allievi limitati nella capacità
percettiva è necessario:
– favorire la comunicazione interpersonale, attraverso un clima attivo e
coinvolgente di presenza, che li aiuti a superare l’isolamento dovuto al deficit;
– rendere visibile l’esperienza religiosa attraverso la narrazione visuale dei fatti
che si riferiscono ad ambienti e persone possibilmente conosciuti;
– usare un linguaggio comunicativo che espone e descrive in maniera semplice;
– realizzare molto la relazione di aiuto incoraggiante, che potrà aiutare a «vedersi
» o «sentirsi» in maniera diversa nei confronti dei coetanei e degli adulti da cui
affettivamente si dipende.
Per gli allievi limitati nella capacità di elaborazione dei messaggi ricevuti e
compresi, è necessario:
– aiutare a superare la distanza che passa tra la comunicazione del messaggio e
la risposta personale con stimoli semplici, riferimenti a fatti concreti, ad esempi
significativi;
– favorire lo sforzo della comprensione-memoria, anche su soglie minime,
attraverso l’uso di linguaggi concreti «compresi» per mezzo di strumenti pratici e
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possibilmente da loro «manipolati»;
– fare riferimento ad un gruppo religioso concreto, che sia evocato alla memoria
perché già a conoscenza del soggetto.
Per gli allievi limitati nella ri-espressione del messaggio e della capacità di
relazione è necessario:
– sdrammatizzare inizialmente con ogni mezzo il deficit, valorizzando tutto quello
che il soggetto offre in positivo su altri versanti della personalità;
– creare nella classe un clima di calda accoglienza e di facilitazione scolastica
che sia di incoraggiamento a vivere in altro modo le esperienze di apprendimento
comuni.
Per gli allievi affetti da disabilità psichiche è necessario:
– superare la rigidità iniziale dovuta al limite psichico disturbante, per mezzo
di una buona accoglienza comunitaria della classe, in cui tutti vanno così
incoraggiati e guidati;
– facilitare di più l’integrazione sociale ed affettiva del soggetto che insistere su
soglie di conoscenze di segni religiosi specifici;
– fare riferimento ad esperienze religiose vissute da persone da essi conosciute
ed apprezzate a vari titoli di dipendenza affettiva.

3.3. Interventi concreti e mirati

L’insegnante trova un punto importante di partenza per la propria


programmazione didattica nella diagnosi funzionale. È quella scheda che
l’équipe medico-psico-pedagogica è incaricata di offrire su richiesta delle autorità
scolastiche.
Lo strumento precisa il tipo di limite, ne descrive i disagi e le possibilità, ne
indica le prospettive di intervento sia a carattere riabilitativo che come possibilità
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di apprendimento in generale.
Relativamente all’apprendimento scolastico, rimane importante che ogni
intervento sia svolto precocemente, nel periodo in cui lo sviluppo offre una
facilitazione naturale più plastica, cioè quando offre maggiori garanzie di riuscita
o almeno di esito più sicuro. Perciò, ogni qualvolta si prende in esame un caso,
bisogna tenere presente il tipo di disagio, l’età del soggetto, la gravità del danno
subito, le potenzialità residue, le caratteristiche soggettive.
Il quadro va tenuto presente come utile riferimento al fine di selezionare
le possibilità di intervento didattico-curricolare. Ogni intervento va svolto
considerando sia la tipologia differenziata delle disabilità che il quadro di
riferimento differenziato.
Per valorizzare utilmente sia la tipologia che il quadro differenziato d’intervento
è necessario considerare alcuni livelli di potenzialità residue che, a loro volta,
possono offrire possibilità di intervento sia sul piano della metodologia (sussidi,
materiali, attività), che su quello della didattica quotidiana. Si possono indicare
almeno quattro livelli di possibilità d’intervento:
– il primo doveroso intervento va diretto verso chi ha delle potenzialità residue
buone, sia sul piano della motricità, che del linguaggio e del pensiero. Si tratta
cioè di soggetti che possono aver subito dei danni cerebrali localizzati, non
gravi, tali comunque da non alterare i campi delle proprie esperienze, se non
in forma lieve. In questo primo livello è possibile far rientrare anche tanti casi
di sottocultura, di disagio ambientale e di problematiche familiari e sociali che
hanno inciso sullo sviluppo e sul rendimento del soggetto, ma non ancora sulle
strutture organiche;
– il secondo livello comprende i casi di limite motorio di media gravità, come
alcuni casi di cerebrolesi, in particolare i discinetici (spastici) e i miopatici, con
potenzialità residue relative alla gravità del danno, ma ricuperabili con sussidi
metodologici appropriati. Si tratta di un livello che andrebbe considerato nella
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prospettiva di superare la visione della situazione del momento, apparentemente
compromessa in modo irrimediabile, per cogliere quella futura del ricupero delle
risorse potenziali;
– il terzo livello comprende i casi in cui la menomazione è soprattutto di tipo
mentale, oltre che (eventualmente) motoria. Rientrano in questo quadro i
trisomici e coloro che, per varie diverse ragioni, hanno subito alterazioni
intellettive che non consentono aspettative di possibile successo in un prossimo
futuro. Va aggiunto però che vi sono casi in cui la trisomia si presenta in forma
solo apparentemente grave, per cui le potenzialità esistenti permettono un lavoro
che può dare con il tempo degli ottimi risultati;
– il quarto livello è quello didatticamente più basso: i disabili mentali gravi. Si
tratta di soggetti il cui danno (di tipo generalmente genetico) offre poche garanzie
anche di parziale successo. Ricevono più sostegno dal rapporto emotivo e
sociale che dai sussidi didattici. In questi casi si deve parlare della scuola come
ambiente formativo, più che di una agenzia che trasmette nozioni culturali.
Nello sviluppo dei nuclei tematici si faccia il raccordo degli obiettivi definiti per gli
alunni in situazione di disagio con quelli della classe con una essenzializzazione
progressiva del materiale didattico e una mediazione più impegnativa ai fini
dell’apprendimento.
Ciò che conta non è il fatto che questi alunni trovino una collocazione dentro
la classe, quanto che le persone che intervengono nella relazione educativa
sappiano rispondere alle loro esigenze: l’accoglienza è reale se comporta
adattamenti e il processo di insegnamento è efficace quando si adatta agli
individui a cui si rivolge.
Ogni insegnante perciò deve verificare la presenza, nella programmazione
educativa fatta dal Consiglio di classe:
– di obiettivi educativi specifici per la classe, tenendo presenti eventuali
diversificati livelli di partenza degli alunni e una possibile scaletta graduale del
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loro raggiungimento (con l’individuazione di specifici obiettivi essenzializzati per
gli alunni con disagio scolastico);
– della differenziazione e flessibilità degli obiettivi formativi per gli alunni della
classe ed il rispetto dell’identità personale e socioculturale;
– delle iniziative didattiche suggerite, indicate, intraprese... con interventi
differenziati di sostegno, attività compensative e di arricchimento, percorsi
didattici integrativi;
– della differenziazione di metodologie e tecniche didattiche indicate, adattandole
alle diverse situazioni degli allievi.

4. Atteggiamenti educativi

Per le varie categorie di svantaggio, l’educazione in generale e l’educazione


religiosa specificamente si devono assumere il compito di:
– sviluppare quei fattori motivazionali che sono alla base dei comportamenti,
– promuovere rapporti personali capaci di coinvolgere in scelte di vita,
– favorire il rinforzo delle energie latenti della persona, facendo leva sullo
sviluppo delle capacità, la coscienza e l’assimilazione delle norme attraverso la
testimonianza vicina della comunità scolastica,
– recuperare la base di atteggiamenti umani che sono veicolo di esperienze
positive,
– motivare l’accoglienza della verità totale dell’uomo mettendosi benevolmente al
loro fianco.
Si tratta di atteggiamenti educativi che permettono di evitare altre forme di
intervento più deleterie; ad esempio il rimprovero rivolto in pubblico che spesso
non è in riferimento al contesto da cui è scaturito un disordine, e che fa pesare la
negatività dell’azione sul soggetto che l’ha commessa, con una ricaduta di una
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valenza negativa sulla persona, mentre l’azione è quasi subito dimenticata.
Invece un colloquio privato con l’insegnante durante la ricreazione o in un
momento di tranquillità, può far capire al ragazzo che si vuole aiutarlo e non
semplicemente giudicarlo. È più probabile allora che nasca un sentimento di
fiducia, dal quale partire per costruire o ri-costruire un rapporto.
Poco utili sembrano anche i rimproveri collettivi come le note date a tutta la
classe, poiché esse hanno l’effetto di coalizzare il gruppo nei confronti del
docente.
Sembra migliore l’ipotesi di inviare i ragazzi, anche in piccolo gruppo o
attraverso dei loro rappresentanti, dal Dirigente scolastico. Quest’ultimo può
essere visto come elemento neutro e super partes.
I comportamenti negativi degli alunni possono essere manifestazione di
semplice maleducazione ma a volte essi nascondono delle vere e proprie
situazioni di disagio, che, per essere affrontate, vanno preliminarmente
riconosciute nel comportamento dei ragazzi.
Si rispettino anche i seguenti criteri didattici con ricadute pedagogiche:
– per gli allievi con ritmi più lenti di apprendimento non ci sarà riduzione di
obiettivi, ma si preciseranno interventi di recupero e di sostegno, con attività di
gruppo fra allievi della classe, rispettando una differenziata scansione dei tempi.
Diventa un segno incoraggiante per la persona;
– per gli allievi con deprivazioni socio-culturali non ci sarà nessuna riduzione
degli obiettivi di apprendimento, ma si organizzerà l’itinerario a tappe progressive
tenendo conto di metodologie differenziate. La scelta favorisce l’interesse
specifico per la persona;
– per gli allievi con limiti motori o sensoriali non ci saranno riduzioni di finalità
generali, ma ci saranno riduzioni più essenzializzate degli obiettivi specifici,
facendo uso di differenti metodi di adattamento e usando più sussidi audiovisivi
ed informatici. Questo li coinvolge e li interessa;
Capitolo 29 pag. 436
– per gli allievi con limiti intellettivi di comprensione si farà un’adeguata riduzione
degli obiettivi, sostituzione di contenuti disciplinari, richiesta di tempi diversi
di applicazione didattica, orientando all’acquisizione di obiettivi formativi nelle
direzioni rese possibili dalla disponibilità degli stessi allievi. Questo li stimola di
più;
– sul piano didattico si deve affermare l’esigenza di essenzializzazione
dei contenuti, una attenzione particolare al passaggio dai programmi alla
programmazione, avendo costante riferimento alla centralità della persona in
crescita, alle variabili del contesto socio-culturale e ai nuclei tematici essenziali
della religione cattolica. Nella logica della essenzializzazione dei programmi si
deve ritenere opportuna la proposta disciplinare secondo contenuti prescrittivi,
ritenuti essenziali per tutti e contenuti opzionali che permettono percorsi
differenziati per indirizzi scolastici e bisogni personalizzati previsti dalla riforma.

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Capitolo 29 pag. 437


CONCLUSIONI

Alla conclusione di questo dialogo piuttosto libero e dialettico fa i vari esperti


ci chiediamo se le domande da cui l’IdR è assillato hanno trovato la giusta
risonanza e hanno avuto, non tanto la risposta, quanto indicazioni significative
per la risposta.
L’insegnante di religione ha un suo status che gli conferisce stabilità e dignità;
come ogni altro docente è sulla pista della contrattazione futura e resta, come
ciascuno di loro, alla ricerca di una «dignità professionale» sempre ambita e
insidiata.
Ma l’IdR ha una gamma di caratterizzazioni che il manuale ha avvertito e
puntualmente segnalato. La sua è una figura «debole».
Soprattutto perché la sua disciplina resta «diversa»: nel bene e nel male.
Nel male, è evidente. Non solo perché una partita a tennis o una chiacchierata al
bar può essere l’alternativa data allo studente, ma anche perché la religione – e
soprattutto la «confessione» religiosa, il cattolicesimo –, rappresenta un versante
singolarmente ambivalente, difficilmente riportato alla considerazione asettica e
oggettiva propria dello studio scolastico: si carica inevitabilmente di una valenza
emotiva ed esistenziale che non può essere disattesa.
Ma questa valenza emotiva è solo un handicap? Non rappresenta anche una
singolare opportunità? Le precedenti ricerche hanno dato a proposito indicazioni
di grande interesse. È evidente che si tratta di interpretare cos’è religione. E
naturalmente a proposito la scuola non ha una definizione: ne ha tante quanti
sono i docenti che la fanno e gli allievi che la frequentano. E tuttavia un paio di
considerazioni sembrano imporsi.
pag. 439
Lo studente può avvalersi o non avvalersi dell’ora di religione: non può esimersi
da un confronto personale e sociale con il dato religioso. Dopo e oltre la scuola
può esimersi dal fare i conti, mettiamo con la chimica o la lingua straniera, non
può sottrarsi alla verifica del significato della religione; per lo più neppure a
livello esistenziale. Ma è chiaro che il confronto con la religione s’impone in
ambito culturale per tutta l’ampiezza che il termine comporta. I fondamentalismi
che spaccano l’esperienza mondiale di oggi hanno una matrice religiosa: capirli
significa decifrarli anche da questo punto di vista.
Un coro di proteste ha indotto gli estensori, piuttosto restii, a citare la religione
nel preambolo alla Costituzione europea: la storia dell’Europa, anche quella più
sanguinosa e intollerante è anche storia della religione cristiana: certo storia
di «un cristianesimo». Che però andrà studiato perché non torni a dividere, ma
costituisca una matrice che amalgama e unisce proprio in nome dei grandi
simboli di civiltà che lo qualificano.
La scuola oggi, non solo quella italiana, ma, possiamo ben dirlo, quella italiana
in particolare, fatica a darvi spazio di esplorazione seria e di verifica critica
adeguata.
L’IdR è una figura soverchiata da resistenze tenaci.
Timidi tentativi di superarle attraverso la collaborazione inter o pluridisciplinare
hanno aperto uno spiraglio; la scuola del futuro sembra spalancarsi su questo
versante dell’intervento educativo concertato e coordinato. L’esperienza di questi
anni dice quanto l’IdR sia disponibile e volenteroso; ma anche quanto sia impari
a garantire una solidarietà e una integrazione della sua disciplina con il progetto
scolastico, se non viene sostenuto e incoraggiato da condizioni strutturali e
organizzative adeguate.
La conclamata ologrammaticità, se non vuole restare pura retorica, dovrà
escogitare condizioni concrete di esercizio didattico che la rendano possibile
almeno per tutte quelle discipline che toccano aspetti irrinunciabili dell’esperienza
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singola e collettiva.
Se stiamo all’esperienza recente, in questa faticosa elaborazione dell’IRC come
disciplina e in questo contrastato iter per il pieno riconscimento professionale
del suo insegnante, è evidente il dissidio fra le paludate affermazioni di principio,
a cominciare da quelle espresse nel rinnovamento del Concordato, e gli spazi
assolutamente angusti e pedagogicamente contraddittori che condizionano e
forse svuotano l’esercizio concreto della disciplina.
I contributi proposti ne hanno preso atto. Soprattutto hanno inteso prendere
posizione. Non in termini conclamati e polemici; ma attraverso una riflessione
pacata e una gamma di suggestioni operative elaborate per tutte le tappe del
processo educativo che va dalla scuola dell’infanzia a tutto il 2° ciclo.
Naturalmente tentano di offrire un quadro d’insieme organico e integrale, almeno
nell’ambito del progetto della scuola. La Riforma è sembrata un’occasione
propizia per individuare e incominciare a tessere le fila di un confronto più maturo
e libero fra l’IdR e la scuola; a partire dalla consapevolezza che l’esplorazione
della matrice religiosa e cristiana del nostro vivere individuale e sociale è un
impegno che la scuola è chiamata ad onorare. Naturalmente siamo consapevoli
che gli spazi occupati a fatica e sempre precariamente dalla disciplina sono stati
e restano angusti e insidiati.
Questo studio ha inteso sottolineare che l’Insegnante di Religione Cattolica è
presente nella scuola quale richiamo esplicito alla dimensione religiosa: quale
competenza specifica nell’esplorare ed interpretare il codice linguistico specifico
di questa stessa dimensione religiosa, che alimenta la cultura italiana, dalle
sue più eminenti espressioni artistiche alle consuetudini radicate nel vivere
quotidiano.

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2. LEGGI E DOCUMENTI

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dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di Istruzione e Formazione
professionale (2003), legge n. 53 del 28 febbraio 2003.
Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Primaria (6
novembre 2002). In http: www.istruzione.it /news/2002/allegati/sperimentazione/
indicazioni_061102.pdf, 31 luglio 2003, pp. 36.
Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Secondaria
di 1° grado (30 luglio 2003). In http: www.istruzione.it,/normativa/ 2003/allegati/
indicazioni_media_05_03.pdf, 31 luglio 2003, pp. 36.
Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle
Scuole dell’Infanzia. (6 novembre 2002). In http: www.istruzione.it/news/ 2002/
allegati/sperimentazione/indicazioni_infanzia_061102.pdf, 31 luglio 2003, pp. 8.
Legge 18 luglio 2003 n. 186, «Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di
religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado».
Legge-quadro in materia di formazione professionale, legge n. 845 del 21
dicembre 1978.
Modifiche al titolo V, parte seconda della Costituzione: Regione, Province,
Comuni, legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001.
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo
Ciclo di istruzione (6-14 anni). In http:// www.istruzione.it/news/2002/allegati/
sperimentazione/profilo_terminale.pdf, 31 luglio 2003, pp. 7.
Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Secondo
Ciclo di istruzione e determinazione dei livelli essenziali di prestazione per gli
pag. 445
Istituti dell’istruzione e della formazione professionale, Fiuggi, 27-28 febbraio
2003.
Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio
personalizzati nella scuola primaria (9 ottobre 2002). In http://www.istruzione.
it/news/2002/allegati/sperimentazione/raccomandazioni_prima-ria.pdf, 31 luglio
2003, pp. 83.
Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni Nazionali per i Piani
Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia. In http://www.
istruzione.it/news/2002/allegati/sperimentazione/raccomandazioni_infanzia.
pdf, 31 luglio 2003, pp. 47.
Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D.M. n. 672 del 18 luglio
2001 (2002), in «Annali dell’Istruzione», 47 (2002) n. 1/2, 3-176.
Testo e contesto dei Documenti. Guida alla lettura. In http: // www.istruzione.
it/news/2002/allegati/sperimentazione/guida_lettura_061102.pdf, 31 luglio 2003,
pp. 4.

Testi di riferimento della Sperimentazione CEI 1998-2000:

CEI-UCN SETTORE INSEGNAMENTO RELIGIONE CATTOLICA (1999), Sperimentazione


nazionale biennale sui programmi di religione cattolica nella prospettiva
dell’autonomia scolastica e di nuovi programmi di religione cattolica. Anno
scolastico 1998/99, in «Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale» 2 (1998)
n. 23 e Anno scolastico 1999-2000, in «Notiziario dell’Ufficio Catechistico
Nazionale» 29 (1999) n. 24, in «Quaderni della Segreteria Generale CEI» 3
(1999).
Gli esiti conclusivi della sperimentazione sono stati stampati in: Documento
conclusivo della sperimentazione nazionale sull’IRC per la formazione dei
pag. 446
docenti di religione della Scuola dell’Infanzia, della Scuola Elementare e della
Scuola Media inferiore, e della Scuola Secondaria superiore, in «Notiziario
dell’Ufficio Catechistico Nazionale» V (2001) n. 16; Documento conclusivo della
sperimentazione nazionale sull’IRC per la formazione dei docenti di religione
della Scuola dell’Infanzia, della Scuola elementare, della Scuola media inferiore,
della Scuola secondaria superiore, in «Notiziario dell’Ufficio Catechistico
Nazionale» 31 (2002) n. 4, in «Quaderni della Segreteria Generale CEI» 6 (2002)
n. 4.

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