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2013/2014
Il Decostruttivismo
Enrico De Panicis
N° matricola: 1039986
Rem Koolhaas/OMA, mappa dell’Europa trasformata in funzione dei tempi di percorrenza ferroviari.
2
3
Decostruzione, Decostruttivismo: le origini del codice decostruttivista
in architettura.
Il Decostruttivismo in architettura; le prime definizioni del codice decostruttivista
La nascita “ufficiale” dell’architettura decostruttivista viene fatta risalire da molti critici alla vittoria
dell’architetto Zaha Hadid al concorso The Peak a Hong Kong, nel 1983 (fig.1); in realtà la questione è
più complessa, in quanto atteggiamenti progettuali già de facto decostruttivisti possono essere rintracciati
nelle prime opere di Frank O. Gehry e di Peter Eisenman (la cui prima House costruita risale al 1967),
oppure in opere ancora precedenti gravitanti nell’orbita della Corrente Informale.
del programma architettonico, attuata attraverso un riassemblaggio degli elementi del programma secondo
una stratificazione di volumi lineari con differenti destinazioni d’uso. Il risultato è una messa in discussione
del programma stesso, del quale l’architetto reinterpreta in modo originale non solo le relazioni gerarchiche
tra gli elementi, ma anche la stessa “ideologia” che informa il programma stesso.
La “decostruzione” in architettura investe allora simultaneamente le qualità formali del progetto e il modo di
interpretare il programma architettonico e funzionale dello stesso; è dunque una “pratica” di interrogazione
del programma, di reinterpretazione dei principi formali e ideologici che lo ispirano secondo punti di vista
inaspettati, di scomposizione e ricomposizione degli elementi del programma in seguito all’attività
interpretativa del progettista. Di decostruttivismo come codice linguistico autonomo si può allora parlare nel
momento in cui gli architetti d’avanguardia, che rifiutano i compromessi neo-storicistici e populisti del
nascente movimento post-moderno, colgono nelle ricerche dei filosofi post-strutturalisti – o in quelle degli
artisti d’avanguardia – una possibile via d’uscita dall’impasse nella quale sembrava essere caduto il
Movimento Moderno.
Ma se gli architetti più interessati a un rapporto diretto con le ricerche di Jacques Derrida e della filosofia
della decostruzione, come Peter Eisenman, Bernard Tschumi e Daniel Libeskind, orientano il loro lavoro a
partire da un’attitudine filosofica e critica ben dichiarata, altri architetti, come Frank Gehry, muovono la loro
ricerca a partire da un confronto diretto con le contemporanee correnti artistiche d’avanguardia; altri ancora,
come Rem Koolhaas e Zaha Hadid, pervengono al decostruttivismo attraverso una riattivazione delle
ricerche delle avanguardie europee degli anni venti, in particolare di quella costruttivista russa e di quella
1
- Arata Isozaki, Zaha M. Hadid, in G.A. n.5, A.D.A. Edita, Tokyo 1986, p. 7.
4
neoplastica olandese, traendone strategie teoriche e progettuali in grado di confrontarsi con la realtà
mutevole e complessa della città contemporanea.
Pertanto, già nel corso degli anni ottanta del Novecento i critici d’architettura si erano posti il problema della
definizione di un codice linguistico autonomo, nel quale poter includere gli esiti progettuali di ricerche
teorico-formali a prima vista così differenti. I critici Philip Johnson e Mark Wigley (il primo già
organizzatore, nel 1932, della prima mostra dedicata allo Stile Internazionale) organizzarono così nel 1988
un’esposizione al MOMA di New York, intitolata Deconstructivist Architecture, con l’intento di mostrare al
pubblico l’esistenza di un codice architettonico autonomo, definito come “decostruttivista”, e di
caratterizzarlo in senso linguistico ancor prima che teorico o filosofico, rintracciando un codice semantico2
comune a tutti i progetti presentati.
Per Mark Wigley, il termine Decostruttivismo denota un codice architettonico autonomo, ovvero
caratterizzato da soluzioni spaziali e tipologiche originali, nato dalla rilettura delle strategie compositive del
Costruttivismo russo. Come scrive nel catalogo della mostra del 19883, il Decostruttivismo è un codice che
letteralmente «distorce il Costruttivismo» («twists Constructivism»). Questa “distorsione” consiste in un tipo
diverso di alterazione delle soluzioni architettoniche tradizionali: il Costruttivismo infatti giungeva a
configurazioni spaziali instabili e dinamiche attraverso “esplosioni” e “frammentazioni” che «aggredivano la
forma pura dall’esterno» trasformandola; gli architetti decostruttivisti, al contrario, realizzano «una
sovversione ancor più profonda della tradizione architettonica», producendo la distorsione «dall’interno delle
forme» stesse:
Se dunque il Costruttivismo alterava gli spazi facendoli confliggere tra loro, in modo da ottenere
configurazioni dinamiche che potessero accogliere le nuove attività collettive di una società rivoluzionaria, il
Decostruttivismo si libera dalle pastoie storiche di una poetica “esplosiva”, che si sarebbe poi spenta in una
mera “retorica” dei valori rivoluzionari nelle effettive realizzazioni della Russia post-leninista. Del
Costruttivismo vengono così colte le acquisizioni linguistiche, ma il legame ideologico con le aspirazioni
sociali e politiche degli architetti russi viene interrotto; la ricerca architettonica è ora diretta verso un
“sovvertimento” della forma che diviene «il sintomo di una repressa impurità». Gli esiti progettuali del
Decostruttivismo mirano, nelle parole di Wigley, a «denunciare i crimini» nascosti sotto la volontà di
perfezione formale, che era stata fino ad allora comune sia all’architettura tradizionale che a quella moderna,
attraverso un processo di “straniamento” dei rapporti codificati tra segni e significati, che Wigley chiama
«psicanalizzazione dell’architettura»5.
2
Per la definizione dei livelli di codificazione nell’architettura, vedi: Umberto Eco, La Struttura Assente, Bompiani,
Milano 1968 (1a ediz.), p. 223.
3
Mark Wigley, Deconstructivist architecture, Little, Brown & Co., Boston 1988.
4
Deconstructivist architecture, cit.
5
Ibidem.
5
approccio interpretativo nei confronti della produzione del Movimento Moderno, che ne liberi le potenzialità
espressive ancora inesplorate.
Per Eisenman, dunque, occorre eseguire una rilettura formale delle opere del modernismo, astraendo però da
ogni semantizzazione immediata dei segni costituenti l’oggetto architettonico. È ciò che egli compie già a
partire dal 1961, anno in cui scrive la sua tesi di dottorato a Cambridge in Inghilterra, The Formal Basis of
Modern Achitecture. In questo e in altri scritti coevi si avverte l’influenza del professore e critico inglese
Colin Rowe, del quale Eisenman era stato allievo; ma in polemica con il formalismo di matrice
purovisibilista di Rowe, che sostiene una preminenza dello schema ottico leggibile in pianta e in alzato
nell’analisi dell’opera architettonica, l’architetto americano rifiuta una lettura che fissa l’architettura in
determinati «scorci prospettici», e afferma che l’ordine della forma si costituisce anzitutto dalle «molteplici
esperienze» (necessariamente contraddittorie e ambigue) che la forma può generare6.
Lo scopo di questa operazione è duplice: da un lato si vuole eliminare ogni relazione immediata tra segno
architettonico e referente, in modo che si elida qualsiasi intento “connotativo” delle forme; dall’altro, il
risultato finale non sarà una sintesi nella quale le esigenze strutturali, funzionali e simboliche trovino il loro
equilibrio, bensì sarà la manifestazione della sequenza delle operazioni formali che hanno alterato il dato
geometrico di partenza: un’espressione cioè del processo (process) di alterazione della forma.
Se le prime quattro case, progettate tra il 1967 e il 1971, mostrano una ridondanza degli elementi
architettonici (muri, pilastri e travi) ottenuta per mezzo di traslazioni e rotazioni (fig. 2), che nell’insieme
produce un effetto che ricorda le opere del Neoplasticismo, nella House VI a Cornwall nel Connecticut
(1972-75, fig. 3) si ha un approccio ancor più radicale: la già indebolita intelligibilità del Nine Square Grid è
ora corrosa e resa irriconoscibile da un elemento estraneo, una forma “a L” che contiene gli spazi di
distribuzione e che si inserisce con violenza nella griglia di base, erodendo gli altri spazi della casa. In
quest’opera lo spazio assume un valore “residuale”, essendo nient’altro che il risultato di operazioni formali
arbitrarie, che lasciano irrisolti contrasti e dissonanze.7
6
P. Eisenman, Towards an Understanding of Form in Architecture, in «Architectural Design», n.10, 1963; citato in
Peter Eisenman, tutte le opere, a cura di Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi e Franco Purini, Electa, Milano 2007, p.
14.
7
Peter Eisenman, tutte le opere, cit., p. 17.
6
Nella House VI si coglie
dunque il recupero di una
dimensione comunicativa
dell’architettura, così come
nella successiva House X
(progetto, 1975). In
quest’ultimo progetto la
vorticosità del
Neoplasticismo lascia il
posto a un senso di
incompletezza formale e di
labilità.
3 Peter Eisenman, House VI, Cornwall, Connecticut, 1972-75; piante dei piani terreno e primo.
Il recupero di un contenuto simbolico nell’architettura è ormai esplicito nel progetto della House 11a (1978):
una serie di volumi cubici dalla forma simile “a L” trasparenti e non, disposti in verticale, viene inserita in
uno scavo nel terreno, la cui forma è il negativo di quella del suddetto volume-tipo. Qui Eisenman introduce
una nuova dialettica tra elementi concavi e convessi, e scopre il potenziale simbolico e formale offerto dal
sito.
Il 1978 è l’anno in cui l’architetto olandese Rem Koolhaas pubblica il suo primo libro-manifesto: Delirious
New York, il risultato di 6 anni di studi e ricerche dopo il suo
trasferimento negli USA. A quell’anno Koolhaas aveva già
accumulato molteplici esperienze: le attività giovanili nel
cinema e nel giornalismo, gli studi alla Architectural
Association-School of Architecture di Londra e alcuni progetti,
nei quali è passato da una visione utopico-apocalittica dello
spazio urbano (progetto Exodus, 1971-72) a un diverso
approccio alla città, basato sullo studio dei rapporti tra
architettura moderna e società di massa.
Tra il 1975 e il 1976 l’OMA è impegnata nella partecipazione al suo primo concorso: la riqualificazione
della New Welfare Island a New York (fig. 4). Koolhaas e Zenghelis propongono una serie di progetti, nei
quali alle suggestioni tipologiche tratte dal lavoro di Oswald Mathias Ungers vanno via via affiancandosi
8
Le informazioni su Koolhaas sono tratte da: Roberto Gargiani, Rem Koolhaas/OMA, Laterza, Bari 2006.
7
nuovi temi compositivi e urbanistici: in particolare, nell’ultimo progetto Koolhaas utilizza in modo esplicito
il cosiddetto “metodo paranoico-critico” inventato da Salvador Dalì, che consiste, secondo la definizione di
Koolhaas, in un «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale fondato sulle oggettivazioni […] delle
associazioni e delle interpretazioni deliranti»9.
L’idea alla base del progetto per la Welfare Island sarà allora fondata sul riconoscimento del rapporto
stabilitosi ai primi del ’900 tra New York e la penisola di Coney Island, quest’ultima sede dei primi parchi
divertimenti del mondo, tra i quali il celeberrimo Luna Park (1903). Per Koolhaas questi parchi costituiscono
un fenomeno che anticipa il “Manhattanismo”:
“[…] Un’urbanistica basata sulla nuova Tecnologia del Fantastico: una persistente
congiura messa in atto contro il mondo esterno.[…] Il sito è diventato ora un mondo in
miniatura; il programma la sua ideologia; l’architettura il dispositivo di un apparato
tecnologico in grado di compensare la perdita di fisicità del reale.”10
Coerentemente a questi assunti, Koolhaas propone di trasformare la punta meridionale dell’isola in una
nuova Coney Island: una griglia ripresa da quella di Manhattan viene applicata sull’isola, dividendola in
isolati rettangolari, che ospitano grattacieli in stili diversi, alcuni ispirati all’Architecton di Malevič, altri
invece agli edifici del Rockefeller Center di Raymond Hood. La disposizione dei grattacieli mira a
trasformare il progetto in un “racconto simbolico” che narra ai
newyorkesi la storia della loro città.
Il libro del 1978, Delirious New York (fig. 5), rappresenta un tentativo di sistematizzazione dell’ideologia
del Manhattanism. Come riconosce Marco Biraghi nella postfazione dell’edizione italiana11, DNY
rappresenta un’applicazione delle teorie derridiane di decostruzione di un testo. A differenza di Derrida,
Koolhaas decostruisce non un testo scritto, ma la cultura urbana di una città; e lo fa attraverso una vera e
propria “costruzione” storica, che riesamina i suoi presupposti ideologici – che per Koolhaas sono quelli del
capitalismo più sfrenato e della concezione americana della democrazia liberale – e analizza le
contraddizioni che nascono nel momento in cui queste due forze si contendono il territorio concreto della
città.
9
Rem Koolhaas, Delirious New York [1978], Mondadori Electa, Milano 2001, p. 224.
10
Delirious New York, cit., p. 56.
11
Ivi, p. 292.
8
Risultato di questa contesa è, per l’appunto, il Manhattanismo; una soluzione di compromesso tra economia
capitalista, senso di appartenenza alla comunità e desiderio di creazione di una «Realtà artificiale», che
produce una nuova cultura urbana: la «Cultura della Congestione»12.
Alla base di questa cultura è, secondo Koolhaas, una scelta fondamentale, operata alle origini della storia di
New York: la «Griglia di Manhattan», che promuove una «polemica utilitarista» contro la città tradizionale e
mostra una «totale indifferenza alla topografia»13.
A questa scelta si aggiungerà più tardi l’“invenzione” del grattacielo newyorkese: risultato dell’applicazione
di innovazioni tecnologiche all’edilizia (struttura metallica e ascensore) per soddisfare la richiesta di spazi
per uffici, il grattacielo promette una «perpetua instabilità programmatica», un’interscambiabilità di funzioni,
derivata dalla possibilità di ripetere la superficie del lotto per un numero di volte potenzialmente «infinito».
Conseguentemente, «ogni lotto urbano potrà accogliere una combinazione imprevedibile e instabile di
attività simultanee»14, e ogni edificio potrà assumere le caratteristiche di una «Città nella Città», che
rappresenti «uno stile di vita e un’ideologia differenti» e offra «un’aggressiva realtà alternativa» a quella del
resto della città.15
E’ a partire da tali assunti che Koolhaas e l’OMA elaborano i progetti di questo periodo, caratterizzati
dall’assemblaggio di “pezzi” di architetture tratte dalla modernità, secondo logiche simboliche e metaforiche.
Nel progetto per l’ampliamento della
sede del Parlamento all’Aja (1977-78, al
quale collabora una giovane Zaha Hadid)
e in quello per l’estensione della
residenza del primo ministro irlandese
a Dublino (1978-79, fig. 6), la
composizione procede per frammenti
disarticolati, ma fortemente caratterizzati
secondo volumetrie stereometriche, che
intersecandosi creano un sistema di spazi
fluido e articolato.
6 Rem Koolhaas, progetto per l’estensione della residenza del primo ministro
.a Dublino, 1977-78.
Gehry compie i propri studi di architettura a Los Angeles, la città nella quale si era trasferito con la famiglia
in giovane età. Nel 1961 compie un viaggio in Europa, dove studia l’architettura romanica francese, gli
edifici di Le Corbusier e le chiese barocche tedesche; torna a Los Angeles l’anno successivo, dove apre il
proprio studio di architettura.
La ricerca di Gehry parte da suggestioni a prima vista contraddittorie: da una parte, è colpito dalla
complessità spaziale dell’architettura storica europea, così come dalla capacità di sintesi delle architetture di
12
Ivi, p. 115.
13
Ivi, pp. 16-17.
14
Ivi, p. 79.
15
Ivi, p. 115 e p. 89.
16
La definizione è di Germano Celant: cfr. Frank Gehry, architetture, testimonianze, testo allegato al DVD Frank
Gehry, creatore di sogni (di Sydney Pollack), a cura di Monica Bruzzone, Feltrinelli, Milano 2007, p.58.
9
Le Corbusier e Richard Neutra (suo professore all’Università); dall’altra, egli si rende conto di come le
condizioni storiche e sociali della realtà in cui opera siano profondamente diverse da quelle degli esempi
storici sopra citati.
Los Angeles è infatti una città per molti aspetti simile alla New York di Rem Koolhaas: come scrive Rafael
Moneo, «tutto a Los Angeles, incluso il costruito, è in continuo movimento […] L’architetto si trova senza il
supporto che, in genere, fornisce il contesto»17. Gehry sa che in una realtà urbana caratterizzata dalla
transitorietà di ogni edificio, occorre giocare una diversa strategia progettuale; e questa strategia chiamerà in
causa l’opera di quegli artisti nordamericani che, già a partire dagli anni ’60, hanno cercato di fondere
insieme l’indeterminatezza della vita moderna con le tecniche artistiche tradizionali. Artisti come Jasper
Johns e Robert Rauschenberg avevano ripreso la poetica dadaista dei Merzbau di Kurt Schwitters,
aggiornandola ai tempi della neonata cultura di massa; in particolare, Rauschenberg aveva integrato scultura,
pittura e materiali “trovati”, consumati e logori, in oggetti artistici nuovi, da lui chiamati combine paintings.
Gehry comincia a mettere a punto, già a partire dalla fine degli anni ’60, un inedito modo di progettare;
assumendo la sfida del confronto tra la propria architettura e il disordine dei sobborghi losangelini, cercherà
di “smembrare” il progetto in più elementi autonomi, in modo da poter soddisfare il programma edilizio in
maniera più libera. Questi elementi si concretizzano in volumi semplici, ma “tagliati” in modo irregolare,
trattati come “frammenti” tolti da altri oggetti, e accostati tra loro in modo da evocare un accumulo
spontaneo e casuale di objets trouvés. La natura “povera” di tali frammenti è denotata dal frequente utilizzo
di materiali dell’edilizia corrente: griglie metalliche, cartone bituminato, lamiere ondulate.
L’interesse di Gehry per i materiali umili lasciati a vista appare già nella Casa-studio per Ron Davis
(Malibu, California, 1968-72), realizzata per un suo amico pittore. Nella sede della Gemini G.E.L. a Los
Angeles (1976-79) e nel progetto per casa
Familian (1978, fig. 7) Gehry prova per la
prima volta a frammentare il volume compatto
dell’edificio: sia attraverso l’operazione di
“ritaglio” di grandi fori rettangolari sulla sottile
superficie di rivestimento intonacata, che
mettono in mostra la struttura retrostante a
ballon frame; sia attraverso l’estroflessione di
elementi funzionali come scale e lucernari,
ruotati e inclinati secondo giaciture arbitrarie in
modo da intersecare obliquamente i volumi
chiusi dell’edificio.
7 Frank Gehry, progetto per casa Familian, Santa Monica, California,
1978.
Il «processo di frammentazione e rottura»18 e la poetica informale che caratterizzano queste prime opere
trovano la loro piena espressione nella sopracitata Casa Gehry a Santa Monica (1977-78, fig. 8), un
intervento di ristrutturazione e ampliamento di un’abitazione precedentemente acquistata dalla moglie Berta.
L’intervento suscita l’apprezzamento dei critici d’architettura più progressisti: tra di essi il fondatore dello
studio d’architettura SITE, James Wines, che mette in relazione il progetto di Gehry con l’“anarchitettura” di
Gordon Matta-Clark19.
17
Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori
Electa, Milano 2005, p. 212.
18
R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale, cit., p.225.
19
AA.VV., Deconstruction. Omnibus Volume, Academy Editions, Londra 1989, p.137.
10
In questo progetto Gehry si
confronta per la prima volta con una
preesistenza storica (un bungalow a
due piani risalente agli anni ’20); tale
confronto si risolve in una
ricontestualizzazione dell’edificio
esistente, che viene circondato su tre
lati da un corpo a C, alto un piano,
contenente la zona pranzo e la
cucina. Il corpo aggiuntivo è
realizzato con la solita struttura
leggera in legno, rivestita in lamiera
ondulata; le aperture diventano tagli
8 Frank Gehry, casa Gehry, Santa Monica, California, 1977-78.
irregolari che eliminano parti del volume, creando dei vuoti successivamente “riempiti” con lucernari dalle
facce inclinate, o coperti da reti metalliche. In quest’opera Gehry mostra un approccio alla progettazione che
può ben dirsi decostruttivo: rifiutando il ricorso a riferimenti storici o metaforici, definisce una poetica
orientata a un’espressione ruvida e immediata del “fare” architettonico, declinata però nella direzione
dell’incompiutezza e del movimento. Come dice lo stesso Gehry, commentando la propria opera:
“[…]Credo di essere interessato nel non finito, la qualità che si trova, per esempio, nei
quadri di Pollock, di De Kooning, di Cézanne, dove la pittura sembra appena
completata. L'architettura troppo rifinita, perfettamente eseguita, mi sembra che non
possegga quelle qualità. […] A tutti piacciono gli edifici in costruzione molto più che
gli stessi ultimati.”20
20
Peter Arnell, Ted Bickford, Germano Celant, Frank Gehry. Buildings and projects, Rizzoli International, New York
1985.
21
U. Eco, La Struttura Assente, cit., p. 229.
22
Peter Eisenman, The Futility of Objects: Decomposition and Processes of Differentiation, in «Lotus International»,
n.42, 1984, p.79.
11
Eisenman sperimenta l’efficacia del metodo nel progetto per l’area di San Giobbe a Cannaregio
(Venezia): rifiutando di simulare l’irripetibile architettura della città esistente, il progetto reinventa il
contesto, applicandovi un insieme di scavi che riprendono la maglia del non realizzato ospedale di Le
Corbusier.
Una simile strategia informerà il successivo progetto, realizzato, dell’edificio residenziale al Checkpoint
Charlie a Berlino (1981-85, fig. 9): gli strati orizzontali dei volumi dell’edificio seguono ciascuno una trama
diversamente orientata, che riprende quella della
città in un particolare momento della sua storia. La
logica è spinta alle estreme conseguenze nel
Wexner Center for the Visual Arts a Columbus in
Ohio (1983-89): qui Eisenman attraversa gli edifici
del Campus con una rete di percorsi orientata
secondo la griglia stradale della vicina città, e
riedifica alcuni frammenti delle torri di un’antica
caserma demolita durante la costruzione del campus.
I progetti successivi risentono dell’influenza di
Derrida e del concetto di “testualità generale”:
Eisenman non si limita più alla reinterpretazione
“archeologica” del contesto, ma introduce nel
progetto stesso strategie compositive e formali che
simbolizzano le acquisizioni della scienza e rendono
ambigua la percezione delle forme architettoniche.
Nel progetto per l’istituto di ricerca Carnegie Mellon a Pittsburgh (1988-89) la ripetizione di due cubi
intersecati tra loro e con gli spigoli smussati alterano la percezione dell’edificio, che nei prospetti appare
come l’assonometria di un edificio immaginario. Nell’Aronoff Center for Design and Art dell’Università
di Cincinnati (1988-96, fig. 10-11) Eisenman usa per la prima volta il computer, sperimentandone la capacità
di manipolazione delle forme. Gli edifici esistenti vengono ricontestualizzati, analogamente a quanto fa
Gehry, dall’introduzione di una forma libera che li avvolge: una stecca curvilinea ottenuta dalla rotazione di
una serie di moduli rettangolari. Questa forma tridimensionale subisce un processo di sdoppiamento e di
disassamento, che introduce
nell’architettura un nuovo
procedimento compositivo: quello del
blurring,23 ovvero “sfocamento”, che
dà alle forme costruite un carattere di
instabilità, facendole “vibrare” nello
spazio. Una tematica dunque di origine
futurista, che viene ripresa nello stesso
periodo da altri architetti
decostruttivisti, tra i quali Gehry e Zaha
Hadid.
23
Peter Eisenman et al., Blurred Zones. Investigation of the Interstitial, Eisenman Architects 1988-1998, The Monacelli
Press, New York 2003, pp. 6-9.
12
Il Parc de la Villette: tra “congestione” e “derive metropolitane”
12 Bernard Tschumi, progetto vincitore per il Parco della Villette, Parigi, 1982.
Nel diagramma è rappresentata la sovrapposizione di “punti, linee e superfici”.
24
R. Gargiani, Rem Koolhaas/OMA, cit., pp. 57-58.
25
Luigi Prestinenza Puglisi, Bernard Tschumi – Architecture and Disjunction, http://prestinenza.it/2014/04/bernard-
tschumi-architecture-and-disjunction/
13
somiglianza superficiale di tali
“giocattoli” con l’“architettura
disegnata” di un Černichov o di un
Leonidov26. Il progetto costituisce
comunque un’importante passo in
direzione di un’architettura del
paesaggio che superi il “pittoresco”,
introducendo al contempo una
componente ludica e coinvolgente nel
disegno degli spazi e dei padiglioni.
13 Bernard Tschumi, progetto vincitore per il Parco della Villette, Parigi, 1982.
Vista di due folies e di un passaggio pedonale aereo.
Una nuova fase della produzione di Koolhaas si apre con il progetto per la Kunsthal a Rotterdam (1987-92);
un edificio prismatico a base quadrata, nella quale un sistema di piani orizzontali e inclinati si dispone a
spirale e accoglie molteplici funzioni; il prisma è attraversato da due percorsi ortogonali (di cui uno
carrabile) e da una torre costruttivista contenente i collegamenti verticali. In questo progetto, come in quelli
non realizzati della Biblioteca di Francia a Parigi (fig. 15) e del terminal marino a Zeebrugge (entrambi
del 1989), Koolhaas introduce un nuovo principio, che costituisce l’evoluzione di quelli del Manhattanismo:
il concetto di Bigness, che Koolhaas definisce in un nuovo libro-manifesto, S,M,L,XL28 (pubblicato nel
1995).
26
William J. R. Curtis, L’architettura moderna dal 1900 [3a ediz. 1996], Phaidon, Londra 2006, pp. 665-666.
27
R. Gargiani, Rem Koolhaas/OMA, cit., p. 81.
28
Rem Koolhaas, Bruce Mau, S,M,L,XL, The Monacelli Press, New York/010 Publishers, Rotterdam 1995. I passi citati
di seguito sono tratti dalla raccolta italiana: Junkspace, edita da Quodlibet, Macerata 2006, che contiene i saggi Bigness,
or the problem of Large e The Generic City, entrambi contenuti in S,M,L,XL.
14
Nel libro, che raccoglie quattro saggi scritti tra il 1993 e il 1994, Koolhaas costruisce una nuova teoria
urbana che, come in DNY, nasce da un’analisi delle “reali” forze economiche e sociali che muovono le
metropoli contemporanee. Il nietzschianesimo latente
di Koolhaas sembra qui prevalere sulle suggestioni più
propriamente decostruzioniste, dal momento che
l’interesse si rivolge verso gli esempi più radicali di
sviluppo urbano, come le città asiatiche e
latinoamericane. Queste città costituiscono per
Koolhaas dei tentativi che vanno in direzione della
Generic City, nuovo modello di città «liberata dalla
schiavitù del centro»29, «comoda» e «superficiale» in
ogni sua parte; in questo tipo di città la griglia di strade
e isolati scompare, sostituita da una rete infrastrutturale
che collega tra loro grandi edifici multifunzionali.
La Bigness è appunto la nuova teoria del grande edificio, elemento base della Città Generica: essa «può
accogliere in un unico contenitore» le varie attrezzature della città e determina la «perdita di autonomia»
dell’architettura, definendo un nuovo «paesaggio post-architettonico»30.
Nel progetto City Edge per Berlino (1987) e in altri progetti coevi Libeskind attinge all’Espressionismo e al
Dadaismo tedeschi nel presentare edifici stretti e lunghi su esili pilastri, ricoperti di simboli e
rappresentazioni astratte, quasi l’edificio fosse un collage tridimensionale. Il celebrato Museo Ebraico di
Berlino (1989-99, fig. 16) è una riflessione che trasforma il “vuoto” architettonico in metafora: un edificio
stretto e dall’andamento a zig zag contenente gli spazi espositivi è attraversato da un taglio longitudinale, che
scava l’edificio creando una serie di corti interne impraticabili, simbolo del vuoto lasciato dall’Olocausto.
Suggestioni espressionistiche si fondono a un gusto per il simbolismo criptico e onirico, come negli episodi
29
Junkspace, cit., p.31.
30
Ivi, pp. 21 e 24.
15
della Torre dell’Olocausto, completamente “vuota”, e del giardino artificiale composto da 49 prismi inclinati
di cemento, che rinchiudono altrettanti alberi31.
Questo metodo compositivo lascia gradualmente il posto a un nuovo filone di ricerca, che nasce
dall’interesse di Gehry per le forme
libere proprie di animali come serpenti
e pesci. Nel Vitra Design Museum a
Weil-am-Rhein in Germania (1987-
89, fig. 17) i volumi irregolari
vengono uniti tra loro in un unico
edificio, creando un complesso gioco
di compenetrazioni; in quest’opera
l’edificio ambisce a diventare un puro
fatto plastico, portando alle estreme
conseguenze le intuizioni dell’ultimo
Le Corbusier e di Alvar Aalto.
17 Frank Gehry, Vitra Design Museum, Weil-am-Rein, 1987-89.
31
Luigi Prestinenza Puglisi, Storia dell’architettura 1905-2008 [2013], http://presstletter.com/2013/07/storia-
dellarchitettura-1905-2008-testo-completo-di-lpp/, p.348.
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nucleo centrale più alto. Le superfici sinuose e a curvatura complessa e la
qualità materica del titanio ricordano gli esperimenti plastici dei Futuristi e
l’idea di Boccioni di “riverberazione” dell’opera nello spazio circostante: in
questo modo Gehry dà vita a una nuova spazialità “barocca”, che rende
dinamici e “liquidi” gli spazi interni del museo32.
19 Frank Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao, 1991-97: vista interna dell’atrio d’ingresso.
Instabilità: intesa sia come chiave interpretativa della città contemporanea, che come modalità di
caratterizzazione formale, che predilige configurazioni centrifughe e dinamiche, oppure (come nel
caso di Koolhaas) aleatorie e indefinite.
Processo: la generazione delle forme prescinde dalla tradizione locale così come da prefigurazioni
utopiche; le configurazioni spaziali sono il risultato di processi compositivi di alterazione di morfemi
iniziali, o sono il risultato di “contaminazioni” con elementi di origine extra-architettonica.
Eteronomia: l’architettura non è legata alla società da relazioni immediate e lineari. Nella
definizione dell’opera possono intervenire considerazioni extra-architettoniche, legate ad esempio
alla cultura di massa e all’economia (come in Koolhaas); l’opera raccoglie suggestioni da altri campi
del sapere, scientifici o artistici, che ne mettono in crisi l’autonomia disciplinare.
Manierismo: il duplice rifiuto del post-modernismo e delle utopie funzionaliste e megastrutturali
conduce spesso il progettista a citare, alterandoli, moduli formali o intere parti di opere del
Movimento Moderno. Tale manierismo è sovente accompagnato da un atteggiamento ironico o
velatamente nostalgico (ancora Koolhaas) nei confronti dello spirito utopico dei primi modernisti.
Distonia: se l’architettura moderna proponeva delle “metafore costruite” prefiguranti un futuro più
equo e democratico, gli architetti decostruttivisti concentrano la loro energia creativa perlopiù sui
disastri delle “grandi narrazioni” del recente passato e sulle contraddizioni del presente. La
comunicazione di contenuti univoci è bollata come “ideologica”, e ad essa si sostituisce una
profusione di informazioni sovrapposte che rendono ambigua e instabile ogni decodificazione . Di
conseguenza la stessa definizione del progetto tende a includere distorsioni e incongruenze strutturali
e formali, spesso arbitrariamente inserite. Come scrive Ruggero Lenci,
“Per chi le compone, tali pagine [le opere dei decostruttivisti, N.d.A.] risultano
essere perfettamente coerenti, ma per il "lettore medio" poco comprensibili:
esse assumono i caratteri di un forte segnale radiofonico o televisivo mal
sintonizzato al punto da perdere quasi del tutto di significato.”33
32
Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna [4a ediz.], Zanichelli, Bologna 2008, p. 421.
33
Ruggero Lenci, Decostruttivismo, http://www.ruggerolenci.it/Didattica/didattica.html
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