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Premessa

L’architettura oggi è più che mai un’architettura di relazioni anziché di oggetti, di spazi relazionali
dinamici anziché di scene statiche. Ancor più questo vale per l’architettura del paesaggio, una
disciplina che conosce un nuovo grande successo, grazie alle emergenze ambientali della nostra
epoca e soprattutto grazie alla dissoluzione sempre crescente delle forme urbane tradizionali, anche
in ambito europeo.
Architettura di relazioni significa necessità di progettare organicamente i nessi spaziali e fisici, fra
suolo e edificio, fra spazi interni e esterni, fra usi pubblici e usi privati, fra aperto e coperto, fra
natura e artificio, e di fare di questi nessi il significato primario del progetto medesimo.
L’architettura contemporanea è sempre più frequentemente un progetto di geografia, un progetto
topografico, che dialoga direttamente con i caratteri orografici e idrografici del sito, è sempre più
frequentemente un progetto interstiziale, di mediazione e legame fra contesti morfologici (urbani o
territoriali) differenti, spesso è un progetto di relazione fra strati sotto o sopra-imposti al piano di
campagna, capace di istituire forti relazioni in sezione verticale con gli strati o i sub-strati del
terreno.
Se la stagione moderna dell’architettura è stata inaugurata dal libro-cult di Siegfried Giedion
intitolato Spazio tempo architettura (19..), l’attuale stagione dell’architettura contemporanea si
dovrebbe forse intitolare Spazio tempo terra architettura e il tema del paesaggio pertanto vi diviene
centrale come nozione che – con tutte le ambiguità del caso – è in grado di proporre una
coniugazione di quelle quattro parole-chiave.
Le figure dell’argine, del solco e dell’incisione, del muro di contenimento e terrazzamento, della
linea di orizzonte, del diaframma, così come quelle delle quinte murarie, delle piastre, dei
basamenti, delle membrane sottili, delle trasparenze, delle dissolvenze, delle porosità, delle
vibrazioni, degli spazi cavi, del vuoto medesimo, sono sempre più figure-chiave dell’architettura
contemporanea, elementi-chiave della composizione architettonica, accanto e oltre i tradizionali
elementi dell’architettura “trilitica”, e in stretta sintonia e collaborazione con gli strumenti
dell’architettura del paesaggio, dell’arte (prefissata land o environmental o che dir si voglia), della
stessa ingegneria del territorio e delle infrastrutture (1).
L’esperienza del pittoresco – inteso come categoria critica in senso lato piuttosto che come
designazione di un movimento localizzato nella storia e nella geografia – ritorna, in rapporto a
questi fenomeni, di estrema attualità e può costituire un riferimento di grande utilità teorica e pratica
per l’innovazione disciplinare dell’architettura (2).

La riflessione sul “pittoresco contemporaneo” può aiutare a fissare alcuni modi secondo cui l’arte e
l’architettura contemporanea si rivolgono al paesaggio: un paesaggio vissuto ed esperito, e non più
semplicemente guardato o contemplato; un paesaggio interpretato rivelandone linee di forza
attraverso il movimento di scoperta, concepito quindi come spazio deambulatorio e secondo una
“visione peripatetica”; un paesaggio interpretato, dunque, non tanto con l’imposizione di un ordine
geometrico di pianta quanto con il disegno di sezione e di veduta prospettica, con la modellazione,
l’incisione, la definizione di quinte, il montaggio, con l’ubicazione di elementi secondo principi
topologici e secondo il gioco del parallasse, con la dialettica fra geometrie cartesiane e geometrie
dell’informale.
Tale riflessione apre anche ad una collaborazione attiva della progettazione architettonica e urbana
con la disciplina della moderna architettura del paesaggio, là dove indaga, fenomenologicamente,
sui processi generativi delle forme e sui processi evolutivi delle forme.
La modernità estrema, infatti, del fare paesaggi è in questo progettar processi generativi di forme in
continuo divenire piuttosto che di forme finite.
La modernità del formare paesaggi si coniuga all'incessante muoversi del nostro tempo, che cerca
mutevolezza e cambiamento, che cerca spazi di relazione e relazione tra spazi più che spazi finiti e
cristallizzati. La modernità – è noto - preferisce i riti di passaggio, lo scorrere nello spazio e nel
tempo. Di qui lo spazio al processo, al continuo mutamento.
Ma il processo non deve significare rinuncia alla forma, piuttosto indagine sulla forma dinamica,
del crescere, del maturare, del germogliare, del morire e del rifiorire.
Progettare forme di vita e il loro evolversi è ovviamente dentro l'anima del paesaggista. Prestare
attenzione ai modi di esprimersi delle cose, alle istanze imprescindibili dell’ecosistema, in
un’immersione feconda nel paesaggio, fa parte del suo approccio, della sua sensibilità. Sempre più
queste prerogative sono richieste anche all’architetto che opera sulla città e sul paesaggio.
L’atteggiamento “pittoresco”, nell’accezione lata che qui si discute, non è certo l’unica risposta, ma
sicuramente denota un avvicinamento al tema dell’architettura e del paesaggio tra i più sensibili e
fertili di soluzioni.
1. Il pittoresco secondo Smithson e Serra.

“Il pittoresco, lungi dall’essere un movimento interno della mente, si fonda sul terreno reale,
precede la mente nella sua materiale esistenza esterna. Entro questa dialettica, non possiamo
prendere posizione unilaterale sul paesaggio. Un parco non può più esser visto come una cosa in
sé, ma piuttosto come un processo di relazioni in divenire che sussistono in una regione fisica – il
parco diventa una cosa-per-noi.” (Smithson 1979).
“Che cosa dice Smithson? Che il parco pittoresco non è la trascrizione sul terreno di un pattern
compositivo pre-fissato nella mente, che i suoi effetti non possono essere determinati a priori, che
esso presuppone un vagabondo che passeggia, qualcuno che ha più fiducia nel movimento reale
delle sue gambe che nel movimento fittizio dello sguardo. Questa nozione sembrerebbe contraddire
le origini pittoriche del pittoresco… Anzi, di più, essa implica una rottura fondamentale con il
‘pittorialismo’.” (Bois 1983).

Smithson, dunque, ci propone una nozione di pittoresco assai meno convenzionale di quella usuale,
che è in genere legata alle qualità “pittoriche”, quindi bidimensionali, di un’opera: e nello specifico
al rapporto figura-sfondo tipico della pittura di paesaggio.
Propone invece una nozione di “pittoresco” legata alla molteplicità delle vedute e all’esperienza
vissuta del paesaggio mediante il concreto attraversamento in movimento.
In questo, Smithson sembra tener conto più o meno implicitamente degli insegnamenti di Merleau-
Ponty, quando critica la coppia gestaltica di figura-sfondo introducendo, nella definizione di uno
spazio sempre meno euclideo-cartesiano e sempre più topologico, il tema dell’orizzonte e
successivamente quello del movimento:
“Per quanto concerne la spazialità, il corpo proprio è il terzo termine, sempre sottinteso, della
struttura figura e sfondo, e ogni figura si profila sul duplice orizzonte dello spazio esterno e dello
spazio corporeo. Si deve quindi respingere come astratta ogni analisi dello spazio corporeo che
tenga conto solo di figure e punti, giacché, senza orizzonti, le figure e i punti non possono né essere
concepiti, né essere…Considerando il corpo in movimento, risulta più chiaro come esso abiti lo
spazio (e del resto il tempo), poiché il movimento non si accontenta di subire lo spazio e il tempo,
ma li assume attivamente, li riprende nel loro significato originario che, nella banalità delle
situazioni acquisite, scompare.” (Merleau-Ponty 1945, pp.154-156).

Pittoresca, in questa accezione, è la fruizione del paesaggio esperita attraversando l’opera: “Il sito è
ridefinito, non affatto rappresentato… La collocazione di tutti gli elementi strutturali nel campo
aperto porta l’attenzione dell’osservatore alla topografia del paesaggio tramite il cammino dentro
il paesaggio stesso … La dialettica del camminare e del guardare verso il paesaggio stabilisce
l’esperienza della scultura” (Serra 1982).
La qualità pittoresca che Smithson evoca è dunque la qualità di uno spazio deambulatorio e di una
visione peripatetica del paesaggio, come la definisce Yve-Alain Bois, rintracciandola più
precisamente per l’appunto nell’opera di Richard Serra e riconducendola alla frequentazione da
parte dello scultore dei giardini zen giapponesi (3).

Nel lavoro di Serra più significativo in tal senso, Shift, i confini dell’opera sono definiti dalla
distanza massima che due persone possono coprire senza perdersi di vista. “Scoprimmo che due
persone che camminano lungo i lati del campo, restando l’una in vista dell’altra malgrado i
dislivelli, determinano uno spazio topologico definito… L’orizzonte dell’opera fu perciò stabilito
dalle possibilità di mantenere questa reciproca visibilità” (Serra 1980).
E’ questo movimento duale, questa doppia identità, a decidere della spazialità dell’opera e
dell’interpretazione in chiave pittoresca che essa realizza del paesaggio.

2. Lo spazio topologico nel Moderno


La nozione di pittoresco contemporaneo come visione peripatetica incarnata dall’opera di Serra (4)
rimanda a una nozione delle geometrie del paesaggio fondata su concetti topologici e
fenomenologici (genius loci, spazio esperienziale), di movimento, di spazio corporeo, che a loro
volta rimandano alla fenomenologia della percezione.
Ma questa attenzione allo spazio topologico e allo spazio corporeo – a differenza di quanto
sostenuto da Corboz in un famoso e importante articolo su Casabella (5) – è ben presente in alcune
esperienze cardine dell’architettura moderna: nella fattispecie in Le Corbusier e in Mies van der
Rohe.
Già Vincent Scully ebbe modo di sottolineare la grande innovazione contenuta in embrione nei
giardini pittoreschi del Settecento e, in architettura, nella rivoluzione spaziale di Piranesi, “le cui
Carceri rompevano con lo spazio simmetrico e gerarchico del Barocco aprendo a un girovagare
spaziale complesso, in cui l’obiettivo del viaggio non è mai esplicito” (Scully 1965).
La “transitività” (secondo la definizione di Rosalind Krauss e di Yve-Alain Bois), o se si vuole il
cinematismo, dello spazio piranesiano è non a caso un riferimento importante per il regista
Eisenstein e per la sua teoria del montaggio, dimostrato dalla comparazione che egli propone fra le
Carceri piranesiane e la famosa sequenza filmica di Ottobre (6).

Ma la tecnica di montaggio di Eisenstein si sviluppa a sua volta, per sua stessa ammissione, a
partire dai testi di Le Corbusier e dai suoi riferimenti in Vers une architecture all’analisi
dell’Acropoli proposta da Auguste Choisy (7).
Questo interesse di Le Corbusier per lo “spazio topologico” e per la “visione peripatetica” è
ampiamente documentato. In Vers une architecture, alla rilettura dell’Acropoli di Atene sulla scorta
della ricostruzione di Choisy affianca quella delle domus pompeiane, in esplicita funzione di
polemica anti-accademica (8).
Il concetto lecorbusieriano di promenade architecturale e la sua messa in opera nella villa La
Roche, in villa Savoye o, più tardi, negli edifici indiani e nella casa Currutchet a La Plata, si può
considerare allora il risultato conseguente di quell’antica attenzione alla “visione peripatetica” dello
spazio, e al cinematismo che essa comporta nella composizione dell’architettura. La promenade
architecturale è – com’è noto - il meccanismo con cui si sviluppa il movimento sequenziale e
ascensionale all’interno degli edifici, in grado di collegare visivamente e percettivamente gli spazi
della casa e l’interno con l’esterno; essa mette in gioco i rapporti tra pianta e sezione, fa leggere i
rapporti tra le diverse altezze dei vani, rompe la rigidità spaziale sia in pianta sia soprattutto in
alzato e quindi in sezione; in una parola, introduce il movimento come categoria di definizione
spaziale.
Allo stesso modo Le Corbusier riporta il suo interesse per la visione dinamica dello spazio e per la
sua composizione attraverso la giustapposizione e il montaggio di corpi distinti nell’ambito del
paesaggio urbano. Si pensi per esempio al progetto per il palazzo dei Soviet a Mosca e alla famosa
comparazione che Le Corbusier ne propone con la Piazza dei Miracoli di Pisa: lo spazio è risolto da
un sistema di tensioni interne fra i corpi distinti delle singole architetture e dal loro rapportarsi a un
orizzonte che li raccorda (il muro del camposanto a Pisa, il fiume a Mosca) ed è di nuovo uno
spazio topologico, non misurabile con categorie euclidee. Si potrebbe parlare – con Christian
Norberg-Schulz (1971) – di “centri di massa” interni allo spazio, istituenti relazioni di prossimità, di
“percorsi,assi,direzioni” che attraversano lo spazio, istituenti relazioni di continuità o sequenze
spaziali, e infine di “domini, recinti”, che involucrano lo spazio.
Il centro spaziale del paesaggio, come dell’opera architettonica o scultorea (nel caso di Serra), non è
più un centro geometrico, ma il luogo più frequentato dal passante, il luogo di massimo passaggio.
L’opera viene così costruita per montaggio e per sequenze, e vissuta in movimento.
Ma c’è un altro maestro della modernità in architettura che può ben testimoniare un’alta sensibilità
alla dinamica spaziale, fino al punto di realizzare una vera e propria “corporeità” dello spazio
atmosferico, ed è Mies van der Rohe.
La "pianta libera" di Mies, più ancora di quella di Le Corbusier, di fatto libera lo spazio dalla
struttura e conseguentemente libera lo spazio dall'involucro. In questo lo spazio diviene fluido: non
c'è più corrispondenza o simbiosi tra contenuto (spazio) e contenitore (involucro). Per questo anche
non ha più ragione d'essere la distinzione netta fra esterno e interno. Per questo sparisce il concetto
di facciata nel senso proprio del termine. Per questo lo spazio è la materia prima della
composizione. Ma c'è di più: lo spazio non è più simmetrico né assiale: assume un ordine "altro"
rispetto ai principi della classicità, è letto e realizzato come uno spazio dinamico, come una materia
fluida (9). E questo è eccezionalmente interessante per comprendere il possibile ruolo di Mies e in
generale delle avanguardie storiche del Novecento nelle ricerche dell'architettura contemporanea.
La tensione verso la periferia del nuovo spazio - la perdita del centro - spinge da un lato
all'esplosione dell'"oggetto" e alla compromissione interno-esterno, dall'altro alla percezione dello
spazio non più come vuoto ma come materia, "corporea".
Il movimento a spirale con cui è percepito e vissuto lo spazio del moderno, in una concezione
spazio-temporale, riconduce infine il discorso allo spazio suprematista, cui Mies è certamente
debitore (10). La riscoperta dello spazio vuoto come vera materia costruttiva, “corporea”, della
composizione architettonica è di fatto un merito del suprematismo e del costruttivismo sovietici ed è
realizzata compiutamente, in perfetta continuità, dagli edifici di Mies, dagli spazi fluidi e dinamici
del padiglione barcellonese e di casa Tugendhat fino ai casi-limite delle scatole di cristallo della
casa 50x50 e di casa Farnsworth, gabbia di osservazione calata entro il bosco, montata su una
piattaforma artificiale, intesa a captare un ordine astratto del paesaggio, una costruttivistica
“impalcatura" che tende a "caratterizzare" e “ordinare” il paesaggio stesso (11).

3. La parallasse e l’architettura di Steven Holl

Nel panorama dell’architettura contemporanea un autore centrale, per l’attenzione ad un’architettura


di relazioni che forse non è troppo improprio far risalire alle categorie del pittoresco fin qui
richiamate, è l’americano Steven Holl.
Non a caso la sua opera fa continuo riferimento alle teorie della fenomenologia della percezione di
Maurice Merleau-Ponty e al tentativo di riportarle nell’opera architettonica, collocandosi
pienamente nel filone di ricerca attento a ritrovare all’architettura dei contenuti di dinamismo
spaziale e di percezione in movimento, in una sintesi stretta fra le categorie di spazio e di tempo.
Alberto Perez Gomes (12) colloca Holl, insieme a John Hejduk, fra gli architetti contemporanei che
– in una linea di “resistenza” (come quest’autore la definisce) - proseguono il filone di
un’architettura “dinamica” o “multisensoriale”, proveniente da Piranesi e che ha attraversato il
Moderno con Le Corbusier e poi con Lewerentz e Aalto.
Egli collega questa concezione dell’architettura e dello spazio con il concetto platonico di Chora:
“La natura della chora – scrive – è leggibile come un’opera architettonica paradigmatica. Essa è
simultaneamente l’opera e lo spazio, il suo terreno o la sua illuminazione; è ciò che è svelato, la
verità intrinseca all’arte e lo spazio fra la parola e l’esperienza. E’ sia uno spazio per la
contemplazione sia un tempo trovato per la partecipazione. Spazio per la danza, coreografia:
questa è l’origine ancestrale dell’opera architettonica, un’approssimazione del suo invisibile
significato…L’opera di architettura come chora è una materia-spazio, domanda una sintesi delle
immaginazioni materiali e spaziali.” (Perez Gomes 1994).

La ricerca di Holl, per questo, è molto vicina alla riscoperta dei principi del pittoresco che Yve-
Alain Bois attribuisce all’opera dello scultore Richard Serra – e non è affatto casuale, credo, che
alcuni spazi d’interno progettati da Holl richiamino con sorprendente fedeltà la deformazione
percettiva dello spazio che si può vivere dentro le grandi sculture in acciaio corten di Serra. Né può
pensarsi casuale che anche Holl come Serra si richiami esplicitamente al principio geometrico della
parallasse per descrivere l’essenza della sua ricerca architettonica (Parallax è per l’appunto il titolo
del suo ultimo libro).
Ricordo quanto scrive Bois a questo proposito: “Questa è esattamente la posizione in cui la scultura
di Serra si trova nei confronti dell’architettura moderna: la sua scultura mantiene una connessione
che ci permette di criticare l’architettura. Entrambe hanno un comune denominatore che permette
loro di comunicare. Che cosa è quest’elemento comune? Serra non lo dice esplicitamente, ma i suoi
accenni attorno alla sua opera lo lasciano intendere implicitamente: l’elemento in comune è il
gioco della parallasse. La parallasse, dal greco parallaxis, “cambiamento”: ossia “il cambiamento
apparente nella posizione di un oggetto risultante dal cambio nella posizione da cui è osservato”.
Serra usa la parola solo una volta, a proposito dell’opera Spin Out, ma tutta la sua descrizione ne
tiene conto costantemente.” (Bois 1983).
E’ facile confrontare l’intuizione di Bois con quanto scrive Holl in Parallax:
“La parallasse – ossia il cambiamento della disposizione di superfici che definiscono lo spazio
come risultato del cambiamento della posizione dell’osservatore – si trasforma quando gli assi del
movimento lasciano la dimensione orizzontale. La definizione spaziale viene ordinata dagli angoli
della percezione. Spostamenti verticali e obliqui sono la chiave per nuove percezioni spaziali.
Le esperienze in sequenza dello spazio nella parallasse, con il suo flusso luminoso, possono solo
esaurirsi in una percezione personale. La nostra facoltà di giudizio è incompleta senza l’esperienza
dell’attraversamento degli spazi. La motilità e il soggetto-corpo sono gli strumenti per misurare lo
spazio architettonico.” (Holl 2000).

L’architettura di Holl – lontana da una ricerca stilistica e di linguaggio e parimenti lontana da una
ricerca di tipo scultoreo-oggettuale – si fonda soprattutto sulla creazione di spazi a percezione
complessa e su un uso raffinato e altrettanto complesso dei materiali, della luce, delle textures, per
raggiungere un senso percettivo multiplo, multisensoriale.
“La sintesi architettonica di primo piano, piano intermedio e sfondo, insieme a tutte le qualità
soggettive dei materiali e della luce – scrive Holl - forma la base di una percezione completa. La
logica concettuale che guida un progetto è legata alla sua percezione finale. Dobbiamo
considerare spazio, luce, colore, geometria, dettaglio e materiale come esperimento continuo. Un
collegamento complesso tra tempo, luce, materiale e dettaglio, crea il “tutto” cinematico
all’interno del quale non riusciamo più a distinguere i singoli elementi” (Holl 2000).
E’ del tutto conseguente, perciò, che tutte le architetture di Holl siano continuamente cangianti nei
loro caratteri formali sia che vengano percepite in movimento dall’esterno sia che vengano percorse
nei loro spazi interni: si pensi, ad esempio, alla caleidoscopicità di un edificio come la casa a Y.
Il museo Kiasma a Helsinki è probabilmente l’esempio più esplicito di questa ricerca.
“Il Kiasma di Helsinki – scrive l’autore stesso - dimostra come il corpo sia la vera misura dello
spazio sovrapposto. L’incrocio tra il concept dell’edificio e l’intrecciarsi del paesaggio, della luce
e della città segnano molte strade attraverso il museo, implicano spostamenti del corpo e la
parallasse di spazi che si aprono.” (Holl 2000)
Il concetto di chiasmo su cui si fonda il progetto prevede l’intreccio tra la massa dell’edificio e la
geometria della città e del paesaggio che si riflettono nella forma dell’edificio stesso (13). Il
sistema di relazioni con il contesto urbano e paesistico non solo decide della collocazione
dell’edificio ma impronta la forma stessa dell’edificio, imprimendole una torsione determinante nel
costituirsi sia dell’oggetto architettonico d’esterno sia dell’articolazione spaziale di interno (14).
Il rapporto dell’edificio con il paesaggio per Holl è decisivo, ma non si tratta di una semplice
considerazione “contestualista”, si tratta di un fattore costitutivo della forma stessa: l’edificio
introietta e rappresenta dentro di sé, quasi in un’operazione sincretica, le complessità del paesaggio
urbano e naturale che lo circonda.
Il Kiasma, in questo, rappresenta un passaggio in avanti nella stessa opera di Holl, da un’attenzione
ai processi di radicamento al luogo che contraddistingue le sue prime opere e che è descritta nel suo
primo trattato, intitolato all’ancoraggio, al radicamento appunto (Anchoring), verso un’attenzione
alla logica relazionale che definisce l’opera architettonica descritta nel suo secondo trattato,
intitolato all’intreccio (Intertwining) (15).
Questo rapporto tra “radicamento” (architettura come strumento per spiegare il paesaggio),
“intreccio”, fino alla logica della “parallasse”, che descrive la traiettoria teorica di Holl, è – io credo
– un contributo-chiave della sua opera al tema dei rapporti tra spazio paesaggio architettura.

4. La metamorfosi pittoresca proposta da Abalos

“Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se
non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me. In altri termini: guardare un
oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli
rivolgono. Ma, nella misura in cui le vedo, tali cose rimangono dimore aperte al mio sguardo, e,
situato virtualmente in esse, io scorgo già sotto differenti angoli l’oggetto centrale della mia visione
attuale. Ogni oggetto è pertanto lo specchio di tutti gli altri… Io posso quindi vedere un oggetto in
quanto gli oggetti formano un sistema o un mondo, e ciascuno di essi dispone degli altri attorno a
sé come spettatori dei suoi aspetti nascosti e garanzia della loro permanenza… L’oggetto compiuto
è traslucido, è penetrato da tutti i lati da una infinità attuale di sguardi che si incontrano nella sua
profondità e non vi lasciano nulla di celato. “ (Merleau-Ponty 1945, pp.114-115).
Di nuovo la fenomenologia della percezione suggerisce una lettura dello spazio e del paesaggio che
va oltre il quadro di una statica vista prospettica e induce un rapporto mutuo tra spettatore e
paesaggio, in cui gli oggetti tendono a trasformarsi essi stessi in soggetti e lo sguardo stesso dello
spettatore si allarga ad un’esperienza sensoriale più totalizzante, fino all’esperienza del dimorarvi
dentro.
Sulla stessa linea di pensiero lavora la traccia offerta dalle recenti interessanti speculazioni di Iñaki
Abalos, l’ultimo e più impegnato tra i rivalutatori del pittoresco nella contemporaneità (16).

“La modernità – scrive Abalos - ha costruito e istituito la nozione di paesaggio-oggetto, un tipo di


paesaggio che si guarda, si utilizza e si sfrutta, ma con il quale non si stabilisce mai un rapporto di
uguaglianza” (Abalos 2004)
Un paesaggio-oggetto fondato su un rapporto puramente visibilistico, guardato con totale distacco e
con un senso costante di astrazione.
A questo concetto Abalos contrappone un rapporto più soggettivo e perciò sensitivo, che “ascolta”
il paesaggio, oltre che guardarlo, invitando a “immaginare il paesaggio-soggetto come un processo
conoscitivo più complesso, che reclama una via traversa verso la comprensione del vero
monumento ancora da costruire: lo spazio pubblico contemporaneo” (Abalos 2004).
“E’ necessario – aggiunge - sviluppare un nuovo rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente, e che
l’ambiente si trasformi da oggetto a soggetto, non perché glielo lasciamo fare ma perché abbiamo
imparato ad ascoltare e parlare. Dir questo significa che il paesaggio ci costruisce e ci ascolta, che
è necessario attraversare una profonda mutazione per potere poi ristabilire qualcosa così come
una comunicazione democratica e affettiva fra gli umani e le cose, gli umani e i non umani… Il
paesaggio non è un bello sfondo su cui si stagliano belli oggetti scultorei chiamati architettura, ma
il luogo dove può installarsi una nuova relazione fra i non umani e gli umani: un foro cosmico da
cui ridescrivere tutta l’eredità che abbiamo ricevuto: la democrazia estesa alle cose, pattuita. Il
paesaggista è oggi colui che attraversa il cristallo, si proietta nell’ambiente, lo ascolta e gli parla”.
(Abalos 2005, p.143)

Un punto centrale della riflessione di Abalos, proiettata verso una sorta di simbiosi fertile fra
approccio architettonico e approccio paesaggistico-ambientale, mi pare riposare sul necessario
aggiornamento dello strumentario dell’architetto in base a una considerazione degli aspetti
biologico-processuali connessi agli ecosistemi su cui si opera – operazione in nuce già presente in
alcune esperienze-cardine dell’architettura moderna (da Le Corbusier a Aalto fino a Holl o a Elias
Torres, per citare solo alcuni degli autori menzionati dallo stesso Abalos nel suo libro). Un punto
che apre un’interessante finestra sulle possibilità di dialogo tra un’architettura che si sporge verso il
cinematismo e il processuale e un paesaggismo che accoglie apporti dell’architettura costruita.
Un altro punto centrale sta nella proposta di concepire il paesaggio – nella sua accezione ecologica
quanto estetica – come il vero e proprio nuovo “spazio pubblico contemporaneo” e di farlo
diventare esso stesso il soggetto del progetto di trasformazione del territorio: un paesaggio-soggetto,
da ascoltare e non soltanto da guardare e da analizzare, un paesaggio-soggetto che rivendica una sua
vita propria, da esperire attraversandolo, vivendolo.
L’architettura che si prefigura su questa scia non è più l’autoreferenziale architettura griffata che va
di moda oggi, ma un’architettura interprete dei nuovi luoghi e dei nuovi paesaggi, come forse fra
breve ci verrà imposta di necessità dalle nuove emergenze, non solo ambientali ma anche sociali,
che stanno esplodendo nella nostra società.
Un’architettura di relazione che recuperi, attraverso un rapporto stretto con l’architettura del
paesaggio, la possibilità di costruire un significativo paesaggio dell’architettura (17).
Abalos cerca una risposta accostando provocatoriamente due immagini del Central Park di Olmsted
e della Ville Radieuse di Le Corbusier, due visioni disciplinarmente e ideologicamente antitetiche
del rapporto architettura-paesaggio che conducono tuttavia ad un’immagine quasi identica, in cui
figura e sfondo, paesaggio e architettura, invertendo i consueti rapporti del vedutismo settecentesco,
dialogano strettamente, al punto da costituire un unicum in cui paradossalmente Le Corbusier si dà
come “giardiniere trionfante” e Olmsted come “trionfante costruttore”, in cui l’architettura impara
dal paesaggismo nuove regole per conoscere e progettare un mondo di forme viventi e in cui il
paesaggismo impara dall’architettura le regole dell’astrazione formale.
Architettura del paesaggio e paesaggio dell’architettura si propongono così in una simbiosi nuova
e promettente.

RENATO BOCCHI

NOTE

1. Per le considerazioni di questa premessa rimando al mio scritto “La città-paesaggio”(in


Bonometto-Ruggiero 2006), che costituisce in certo modo anche il ragionamento ispiratore di tutta
la collana “Spazio Paesaggio Architettura” da me diretta presso l’editore Gangemi di Roma.
Ma il lettore interessato a questi temi non potrà trascurare la ben più importante collana diretta da
Daniela Colafranceschi per l’Editorial Gustavo Gili al titolo Land&ScapeSeries, che nei suoi primi
cinque titoli disegna già un intrigante tracciato di contributi multidisciplinari, in qualche modo
“eretici”, attorno al paesaggio, dai Walkscapes di Careri ai Waterscapes di Izembart e Le Boudec,
agli Artscapes di Galofaro, a The same Landscapes di Teresa Galì, fino ai Groundscapes di Ruby.

2. Il presente saggio, senza la pretesa di scoprire alcunché di nuovo, riflette – quasi come un saggio
bibliografico - attorno ad alcuni contributi critici recenti che hanno fornito linee di interpretazione
convergenti rispetto ad una rivalutazione del concetto di “pittoresco” nell’architettura
contemporanea e ad una proposta di utilizzazione strumentale di tale categoria nell’avanzamento
disciplinare, in particolare nelle strette relazioni con la disciplina consorella
dell’architettura del paesaggio.
Si riferisce principalmente – in ordine cronologico inverso – al libro Atlas pintoresco di Iñaki
Abalos (2006), al libro Parallax di Steven Holl (2000), al precedente libro dello stesso Holl, con
Perez Gomez e Pallasmaa, intitolato Questions of Perceptions (1994), al fondamentale saggio
sull’opera di Richard Serra di Yve-Alain Bois al titolo “A Picturesque Stroll around Clara-Clara”
(1983) e – come fonte primaria di pensiero – al trattato Phénoménologie de la perception di
Maurice Merleau-Ponty (1945).
Ma si riferisce anche ad una naturale immersione dello scrivente nei dialoghi più o meno sotterranei
con l’elaborazione teorica di una parte della scuola di Venezia negli ultimi decenni (in particolare
con quella di Gianugo Polesello, filtrata in parte attraverso Piotr Barbarewicz), alimentati e
accresciuti da personali incontri con personalità internazionali dell’arte, dell’architettura e del
paesaggio quali Juhani Pallasmaa, Eduardo Chillida, Arnaldo Pomodoro, Carme Pinos, Joao Nunes,
Iñaki Abalos ed altri, coinvolti occasionalmente in un informale dibattito sfociato di recente a
Venezia nel varo del corso di laurea magistrale in “architettura per il paesaggio” e nei relativi due
convegni internazionali al titolo Dessiner sur l’herbe (cfr gli atti, a cura di Sara Marini, in via di
pubblicazione presso Il Poligrafo, Padova 2006). Dialoghi ed elaborazioni, questi ultimi, che
trovano una significativa sintonia con una purtroppo poco nota, ma precorritrice, dissertazione di
dottorato in composizione architettonica prodotta sul tema da Pisana Posocco a Venezia nel 1999
(cfr. la sintesi pubblicata col titolo Il pittoresco e la modernità, in “Revista de critica
arquitectonica”, n.4, Barcelona 2000).

3. Cfr. per questo Bois 1983, p.60.

4. A questo riguardo è interessante richiamare anche il bel libro di Francesco Careri, Walkscapes. El
andar como practica estetica, G.Gili, Barcelona 2002, ora finalmente pubblicato anche in italiano
da Einaudi.

5. Cfr. André Corboz, “Avete detto “spazio”?”, in Casabella 597-598, 1993, ripubblicato anche, a
cura di Paola Viganò, in André Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il
territorio, F.Angeli 1998. Nel suo saggio Corboz cita esplicitamente l’opera Shift di Serra come un
punto di svolta decisivo per la stessa ricerca architettonica, ma nega che quest’interesse ad uno
spazio fruito in movimento sia presente e fondativo nell’esperienza dell’architettura moderna,
nonostante alcune affermazioni di principio in tal senso dei maestri di quell’architettura. Su
quest’argomento si confronti anche il recente libro di Roberto Zancan, Spazialismi italiani,
Gangemi, Roma 2005.

6. “Questo effetto è costruito sulla capacità del nostro occhio di continuare per inerzia il
movimento, una volta avviato. La collisione di questo movimento suggerito con un altro percorso
improvvisamente sostituito produce l’effetto di un sobbalzo. E’sull’analoga abilità di mantenere le
impronte di una impressione visuale che si costruisce il fenomeno del movimento cinematico”
(Eisenstein 1977).

7. “Eisenstein trova nelle vedute prospettiche attentamente messe in sequenza da Choisy l'unione
dell'effetto della ripresa cinematografica con quello del montaggio, dove l'effetto è ottenuto dalla
giustapposizione sequenziale delle riprese. Il regista medita sulla durata temporale più desiderabile
per ciascun quadro scoprendo la possibilità che ci possa essere una relazione netta tra la velocità del
movimento dello spettatore e il ritmo degli edifici stessi con una solennità temporale data dalla
distanza tra ciascuna costruzione”. (Anthony Vidler, “Viste frammentarie di ricorrenti spazi
urbani”, in archinfo.it - magazine, s.d.). Per una più diffusa trattazione cfr. Manfredo Tafuri,
“Dialectics of the Avant-Garde: Piranesi and Eisenstein”, in Oppositions 11, 1977. Si ricorda per
inciso che Choisy parlava esplicitamente nella sua trattazione di un “pittoresco greco”.

8. “ L'architetto assegna degli scopi agli assi. Questi scopi sono il muro (il pieno, sensazione fisica)
o la luce, lo spazio (sensazione fisica). Nella realtà, gli assi non si percepiscono a volo d'uccello, ma
si individuano sul terreno; l'uomo sta in piedi e guarda davanti a sé. L'occhio vede lontano e,
obiettivo imperturbabile, vede tutto anche al di là delle intenzioni e delle volontà. L'asse
dell'Acropoli va dal Pireo al Pentelico, dal mare alla montagna. Dai Propilei, perpendicolare
all'asse, lontano all'orizzonte, il mare. Dai Propilei nell'altro senso la statua colossale di Atena,
sull'asse, e il Pentelico sul fondo. Questo è importante. E essendo al di fuori di questo asse
perentorio, il Partenone a destra e l'Eretteo a sinistra, avete la possibilità di vederli di tre quarti, nel
loro aspetto globale. Non bisogna sempre mettere le architetture sugli assi, dal momento che
sarebbero come persone che parlano tutte in una volta… Nella Casa del Poeta Tragico a Pompei
ecco le raffinatezze di un'arte consumata. Tutto è costruito intorno all'asse, ma difficilmente
potrebbe esservi tracciata una linea retta. L'asse è nelle intenzioni e il fasto da esso prodotto si
estende alle cose umili che con un gesto abile (i corridoi, il passaggio principale, ecc) investe
mediante l'illusione ottica. L'asse non è qui aridità teorica, ma collega dei volumi portanti e
nettamente iscritti e differenziati gli uni dagli altri… Bisogna tenere conto che gli elementi
architettonici di interno non sono che delle superfici che si incastrano per ricevere la luce e mettere
in evidenza i volumi. Si deve pensare in termini di spazio” (Le Corbusier 1921).

9. Per l’analisi dello spazio dinamico e dell’equilibrio asimmetrico in Mies il rimando d’obbligo è
agli illuminanti scritti di Colin Rowe, The Mathematics of the ideal Villa and other Essays, MIT,
Cambridge 1976, trad.it. di P.Berdini, Zanichelli, Bologna 1990.

10. "Nel Proun viene in luce in modo nuovo la sintesi delle risultanti delle singole forze. Vediamo
che la superficie esterna del proun cessa di essere un dipinto, diviene una costruzione che si deve
osservare girando da tutti i lati, guardarla da sopra, esaminarla da sotto. La conseguenza è che
viene distrutto l'asse unico del dipinto, perpendicolare all'orizzonte. Girando ci avvitiamo nello
spazio. Abbiamo messo in moto il proun e otteniamo così un maggior numero di cose in proiezione;
noi vi stiamo in mezzo e le separiamo tra loro. Stando nello spazio su questa impalcatura, dobbiamo
cominciare a caratterizzarla. Il vuoto, il caos, l'innaturale, diviene allora spazio, vale a dire: ordine,
determinatezza, configurazione, se introduciamo segni caratterizzanti d'un certo tipo e in
proporzione determinata in e tra loro. La costruzione e la scala della massa di segni caratterizzanti
dà allo spazio una determinata tensione. Cambiando i segni caratterizzanti, mutiamo la tensione
dello spazio che è costituito da uno stesso e medesimo vuoto."(El Lisitskij 1922).

11. Per uno sviluppo di questo ragionamento circa lo spazio nell’architettura di Mies, rimando a un
mio vecchio scritto “Principi compositivi dell’architettura per l’abitazione nell’opera di Mies van
der Rohe”, in Renato Bocchi, Architettura per l’abitazione, Il Campiello, Venezia 1995, ripreso
parzialmente nel più recente saggio “A proposito del concetto di spazio in architettura”, in
A.Pratelli (a cura di), Provare con l’architettura, Forum, Udine 2004.

12. Alberto Perez-Gomes, in Questions of Perception. Phenomenology of Architecture,


Architecture and Urbanism: July 1994 Special Issue

13. “Una “linea culturale” implicita disegna una curva che connette l’edificio alla Finlandia House
di Aalto e al tempo stesso determina anche una “linea naturale” che lo connette al paesaggio
circostante e alla Baia di Toolo”. (Holl 1996).
Dall’intreccio di queste due linee origina la forma dell’edificio a chiasmo.

14. “L’asimmetria - scrive ancora Holl a proposito del Kiasma - definisce il movimento attraverso
una serie di sequenze spaziali, così che il progetto complessivo diventa una galleria di spazi
leggermente distorti. Il visitatore si trova invece ad affrontare un dispiegarsi continuo di prospettive
mutevoli che collegano l’esperienza interna al concetto generale di intreccio.” (Holl 1996).
Di nuovo non appare affatto casuale come Rosalind Krauss faccia riferimento al concetto di
chiasmo a proposito dell’opera di Serra, il che ripropone implicitamente un parallelismo fra i due
autori: “Chiasmo è una relazione di traversamento e di scambio. Può essere usata linguisticamente
per tracciare le intersezioni riflessive fra le parole o può essere usata per descrivere una
transitività spaziale, come nell’interazione mutua fra vedente e veduto, sicché entrambi nello
scambiare posizione attraverso lo spazio visuale lascino un marchio l’uno sull’altro. Negli anni ’70
questo nodo formale, questa traiettoria chiasmatica, è diventata il soggetto di molta parte del
lavoro di Serra.” (Krauss 1986).

15. “La dinamicità e l’interattività sono le qualità dell’architettura contemporanea – insiste Holl -
Lo spettatore e lo spazio architettonico non sono più opposti; l’orizzonte comprende il soggetto che
vede….Le idee di Merleau-Ponty hanno un ruolo fondamentale nei nostri metodi architettonici. Egli
afferma che gli ambienti contengono modelli, “linee di forza” e (se riusciamo a leggerli)
significati…. Il passaggio del tempo; luce, ombra e trasparenza, i fenomeni cromatici, la texture, il
materiale e il dettaglio tutti partecipano nella completa esperienza dell’architettura…. L’edificio
parla attraverso il silenzio dei fenomeni percettivi.” (Holl 2000)

16. Mi riferisco ai due successivi scritti di Abalos del 2003 e 2004 citati nelle note bibliografiche e
in particolare al primo volume del suo Atlas pintoresco, uscito da Gili nel 2005.

17. In un suo intervento all’Iuav, durante il convegno Dessiner sur l’herbe, Joan Roig notava – con
la sua consueta graffiante ironia – che la migliore architettura contemporanea è quella che deriva le
sue forme dal paesaggio mentre la peggiore architettura del paesaggio è proprio quella fatta dagli
architetti. “L’architettura – scriveva dal suo canto Holl in Anchoring - è soggetta alle circostanze. A
differenza delle altre arti, una costruzione che poggia sul suolo è anche il risultato dell’esperienza di
un luogo. Il sito di un edificio non è una semplice componente della sua concezione: è un
fondamento fisico e metafisico… L’architettura non è tanto un inserimento nel paesaggio quanto lo
strumento per spiegarlo” (Holl 1991) .

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Le Corbusier, Vers une architecture, Paris 1921, trad.it. Longanesi, Milano 1979

El Lisitskij, Proun, in "De Stijl" n.V/6 giugno 1922

Siegfried Giedion, Space, Time and Architecture. The Growth of a new tradition, Cambridge
(Mass.) 1941, trad. it., Hoepli, Milano 1954

Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, trad.it. di


A .Bonomi, Bompiani, Milano 2003

Vincent Scully, Modern Architecture, Braziller, New York 1965

Christian Norberg-Schulz, Existence, Space and Architecture, Oslo 1971, trad.it. Officina, Roma
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Sergej M. Eisenstein, “Piranesi, or the Fluidity of Forms”, in Oppositions 11, 1977

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Richard Serra, Interviews, etc. 1970-1980, Yonkers, New York, 1980

Richard Serra, “Notes from Sight Point Road”, Perspecta 19, 1982
Yve-Alain Bois, “A Picturesque Stroll around Clara-Clara”(1983), in Hal Foster (a cura di),
Richard Serra, October Files, MIT Press, Cambridge Mass. 2000

Rosalind Krauss, “Richard Serra: Sculpture”(1986), in Hal Foster (a cura di), Richard Serra,
October Files, MIT Press, Cambridge Mass. 2000

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1991

André Corboz, “Avete detto “spazio”?”, in Casabella 597-598, 1993

Steven Holl, Juhani Pallasmaa, Alberto Perez-Gomes, Questions of Perception. Phenomenology of


Architecture, Architecture and Urbanism: July 1994 Special Issue

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2006

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