Sei sulla pagina 1di 606

This is a reproduction of a library book that was digitized

by Google as part of an ongoing effort to preserve the


information in books and make it universally accessible.

https://books.google.com
Informazioni su questo libro

Si tratta della copia digitale di un libro che per generazioni è stato conservata negli scaffali di una biblioteca prima di essere digitalizzato da Google
nell’ambito del progetto volto a rendere disponibili online i libri di tutto il mondo.
Ha sopravvissuto abbastanza per non essere più protetto dai diritti di copyright e diventare di pubblico dominio. Un libro di pubblico dominio è
un libro che non è mai stato protetto dal copyright o i cui termini legali di copyright sono scaduti. La classificazione di un libro come di pubblico
dominio può variare da paese a paese. I libri di pubblico dominio sono l’anello di congiunzione con il passato, rappresentano un patrimonio storico,
culturale e di conoscenza spesso difficile da scoprire.
Commenti, note e altre annotazioni a margine presenti nel volume originale compariranno in questo file, come testimonianza del lungo viaggio
percorso dal libro, dall’editore originale alla biblioteca, per giungere fino a te.

Linee guide per l’utilizzo

Google è orgoglioso di essere il partner delle biblioteche per digitalizzare i materiali di pubblico dominio e renderli universalmente disponibili.
I libri di pubblico dominio appartengono al pubblico e noi ne siamo solamente i custodi. Tuttavia questo lavoro è oneroso, pertanto, per poter
continuare ad offrire questo servizio abbiamo preso alcune iniziative per impedire l’utilizzo illecito da parte di soggetti commerciali, compresa
l’imposizione di restrizioni sull’invio di query automatizzate.
Inoltre ti chiediamo di:

+ Non fare un uso commerciale di questi file Abbiamo concepito Google Ricerca Libri per l’uso da parte dei singoli utenti privati e ti chiediamo
di utilizzare questi file per uso personale e non a fini commerciali.
+ Non inviare query automatizzate Non inviare a Google query automatizzate di alcun tipo. Se stai effettuando delle ricerche nel campo della
traduzione automatica, del riconoscimento ottico dei caratteri (OCR) o in altri campi dove necessiti di utilizzare grandi quantità di testo, ti
invitiamo a contattarci. Incoraggiamo l’uso dei materiali di pubblico dominio per questi scopi e potremmo esserti di aiuto.
+ Conserva la filigrana La "filigrana" (watermark) di Google che compare in ciascun file è essenziale per informare gli utenti su questo progetto
e aiutarli a trovare materiali aggiuntivi tramite Google Ricerca Libri. Non rimuoverla.
+ Fanne un uso legale Indipendentemente dall’utilizzo che ne farai, ricordati che è tua responsabilità accertati di farne un uso legale. Non
dare per scontato che, poiché un libro è di pubblico dominio per gli utenti degli Stati Uniti, sia di pubblico dominio anche per gli utenti di
altri paesi. I criteri che stabiliscono se un libro è protetto da copyright variano da Paese a Paese e non possiamo offrire indicazioni se un
determinato uso del libro è consentito. Non dare per scontato che poiché un libro compare in Google Ricerca Libri ciò significhi che può
essere utilizzato in qualsiasi modo e in qualsiasi Paese del mondo. Le sanzioni per le violazioni del copyright possono essere molto severe.

Informazioni su Google Ricerca Libri

La missione di Google è organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e fruibili. Google Ricerca Libri aiuta
i lettori a scoprire i libri di tutto il mondo e consente ad autori ed editori di raggiungere un pubblico più ampio. Puoi effettuare una ricerca sul Web
nell’intero testo di questo libro da http://books.google.com
– 2S 2
5 ,
uo??
D I S C O R SI
D E L LA
BUON A M O RTE
D E L P A D R E

GIUSEPPE ANTONIO BORDONI

D E LL A coM PAGNI A D? GE s U'


ANNO QUAKTo, ToMO QUARTo.

per apprezzarla
IN i 3. Traffi,
Nella Stamperia di ſº R O N T.

º .CA TERZA DELL'AVVENT


s

ca
ºn 2.dovuto a Criſtº
sofferente, "iº
3. Coſtante.
2A -

N
º
eº. - A

4, e- / o 2 ; 2 - e

- -

4 672 l
-

-
º º
-
3 2z ga
-
- Zº Za
- Z %
-

- l .

Bl



(32=4 - - - -

ANN

li Sat
º? i
D I SC O R S I
PER L' E S E RC I ZIO
D E L LA
B U O N A M O R TE
D E L P A D R E

GIUSEPPE ANTONIO BORDONI

D E L L A coM PAGNI A D? GE s U'


ANNO QUAKTo, ToMO QUARTo.
g -

Nella Stamperia di l
-
a

Con

N
-

. Pº
ºrici:isizi:4iiiii º
R3 Risiº,
i4 º " 4 º
#
I N D I C E
D E' D I S C O R S I
P E R L' E S E R C I z 1 o
DEL LA BUONA MORTE.
ANNO QUARTO.
PER LA DOMENICA PRIMA DELL'AVVENTO.

DiscoRso Iº penſier della morte. 1. Ci mode


ra ne noſtri ecceſſi. 2. Ci diſingan
ma ne noſtri errori. 3. Ci dirige ne noſtri dubbi.
PER LA DOMENICA SECONDA DELL'AVVENTO.
Correndo la feſta dell'Immacolata Concezione della
Santiſſima Vergine.
Disc. II. Grazia ſantificante. 1. Dobbiamo eſſer
ne giuſti conoſcitori per apprezzarla. 2. Vigi
º lanti cuſtodi per conſervarla. 3. Trafficanti in
duſtrioſi per accreſcerla.
PER LA DOMENICA TERZA DELL'AvvENTO.
Disc. III. L'amore dovuto a Criſto convien che
ſia. 1. Operoſo. 2. sofferente, 3. Coſtante.
- - 2,
FRA L' OTTAVA DEL SANTISSIMO NATALE.
Correndo in tal giorno la feſta de'Santi Innocenti.

DIsc. IV. Lo ſcandaloſo è gran nimico. 1. Di


Dio. 2. Del Proſſimo. 3. Di ſe medeſimo.
PEL GIORNO DELL'OTTAVA DE'SANTI INNOCENTI,

Disc.V. La conformità ai divini voleri è ſagri


fizio tra tutti. 1. Il più nobile. 2. Il più van
tagiaſo. 3. Il più ſoave.
NELL'OTTAVA DELL'EPIFANIA.

Disc. VI. A cagione degli umani riſpettivi ſi fa


una grave perdita. I. In riguardo a noi. 2. In
riguardo al mondo. 3. In riguardo a Dio.
PER LA DOMENICA PRIMA DOPO L'EPIFANIA
Disc. VII. Viver nel mondò, in cui ſi vive da i
più, è un diſordine. 1. Che inſenſibile s'intro
duce nell'anima ſenza rimorzo. 2. Che inemen
dabile s'innoltra ſenza riparo. 3. Che ineſcuſa
bile termina ſenza perdono.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO L'EPIFANIA.
Correndo la feſta della converſion di S. Paolo 25 Gennajo.
Disc. VIII. Chi ſi converte a Dio laſciar dee ad
imitazion di San Paolo. 1. L'antico intelletto,
ed inveſtirſi di nuove, e ſante maſſime. 2. L'an
tica volontà, ed inveſtirſi di nuovi, e ſanti vole
ri. 3. L'antico cuore, ed inveſtirſi di nuovi, e
ſanti affetti. -

PER LA DOMENICA TERZA DOPO L'EPIFANIA.

Disc. IX. Pianto d'inferno doloroſiſſimo, perchè


pianto. 1. Senza riparo. 2. Senza ſollievo. 3. Sen
z,A l C7 7221726', Per
PER LA DOMENICA QUARTA DOPO L'EPIFANIA.

Disc. X. Le paſſioni. 1. Debbono conoſcerſi. 1. Deb


Abono combatterſi. 3. Debbono ſterminarſi.
PER LA DOMENICA QUINTA DOPO L'EPIFANIA.
Disc. XI. L'ozio rende quaſi impoſſibile. 1. All'
innocente il fuggir dal peccato. 2. Al peccatore
il ſorgere dal peccato. 3. Al ravveduto il ſoddis
fare per lo peccato,
PER LA DOMENICA SESTA DOPO L'EPIFANIA.
Correndo la feſta della Purificazione della Santiſſima Vergine,
- o ſia della Candelaja.

DISC, XII. Il peccator moribondo vedrà. 1. La va


nità di quel mondo, che tanto amò. 2. La povertà
di quell'anima, che tanto traſcurò. - 3. La gra
vezza di que” peccati, che tanto moltiplicò.
PER LA DOMENICA DI SETTUAGESIMA,

Disc. XIII La Caſa dell'eternità è noſtra vera caſa.


1. Perchè unicamente in grazia di eſſa noi ſia
mo fatti. 2. Perchè a noi ſta il fabbricarcela a
modo noſtro. 3. Perchè allogiati, che vi ſaremo
una volta, non ne uſciremo mai più.
PER LA DOMENICA DI SESSAGESIMA.

Disc. XIV. La perdita del tempo. 1. E' in ſe ſteſ


ſa graviſſima, 2. E a noi dannoſiſſima. 3. E' in
giurioſſima a Dio.
NELL'OTTAVA DI PASQUA.

Disc. XV. Vita megliore, che ſperar deeſi dalla


morte, giacchè eſſa ci toglie. 1. Una vita pe.
ricoloſa, per darcene una ſicura. 2. Una vita
- - A 3 travaglio
travaglioſa per darcene una contenta. 3. Una
vita breve, per darcene una eterna.
PER LA DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA.

Disc. XVI. Pace della coſcienza. 1. In queſta vi


ta, non può bramarſi bene, nè più grande, nè
più ſicuro. 2. Al punto della morte non può bra
marſi conforto, nè più ſoave, nè più efficace.
3. In ordine alla beata eternità non può bramarſi
pegno, nè più chiaro, nè più certo.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA.
Disc. XVII. L'amore, che Dio ci porta, ci fa
ſperare, che morrenno bene, atteſo che ci ama.
i. Con ſincerità. 2. Con fortezza. 3. Con tene
i rezza. -
PER LA DOMENICA TERZA DOPO PASQUA.
Disc. XVIII. La vita è breve, dunque è neceſſario.
1. Uno ſconto prontiſſimo de'noſtri peccati. 2 Un
pronto diſtaccamento da tutto il ſenſibile. 3. Una
pronta provviſione d'opere buone.
PER LA DOMENICA QUARTA DOPO PASQUA.
Correndo la feſta della Santiſſima Sindone 4. Maggio.
Disc. XIX. La ſantiſſima Sindone ci renderà ine
ſcuſabili. 1. Come Evangelio viſibile, ch'ella è,
ſe troveraſſi men giva la noſtra Fede. 2. Come
pegno certiſſimo, ch'ella è, ſe troveraſſi men fer
ma la noſtra ſperanza. 3. Come ritratto ammira
bile, ch'ella è, ſe troveraſſi men fervida la
noſtra carità.
NELL'OTTAVA DI PENTECOSTE.

Disc. XX. Il ſanto timor di Dio. 1. Conſola. 2. Av- .


valora. 3. Aſſicura. Per
PER L'OTTAVA DEL COBPUSDOMINI.
Disc.XXI. Il Santiſſimo Viatico. 1. Ne dolori dell'
infernità è conforto efficaciſſimo. 2. Nelle batta
glie dell'agonia è fortiſſimo ſcudo. 3. Nel gran
viaggio dell'eternità è ſicuriſſima guida.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO LA PENTECOSTE.
Disc. XXII. L'affare della ſalute è il ſolo. 1. Che
prºpriamente ſi poſſa dir noſtro. 2. Che ci venga
raccomandato più eſpreſſamente da Dio. 3. Che
eſsa più giuſtamente le noſtre ſollecitudini
TER LA DOMENICA TERZA DOPO LA PENTECOSTE.
ºrrendo la feſta di S. Luigi Gonzaga della Compagnia
di Gesù, 21 Giugno.
Disc. XXIII. Per eſſere Santi anche in mezzo al
Mondo, ſi ami da noi ad imitazione di S. Luigi.
* La ritiratezza. 2. La mortificazione. 3. L'o.
7 A21072e.

PER LA DOMENICA QUARTA DOPO LA PENTECOSTE.


Pisc. XXIV. Tre accuſatori al Giudizio. 1. Il De
ºio, che metterà in chiaro ciò, che ſi è fatto,
º º dovea farſi. 2. L'Angelo tutelare, che fa.
º ºedere ciò, che non ſi è fatto, e doveafarſi.
3. La coſcienza, che moſtrerà, come in ciò, che
Per colpa ſi è fatto, e non ſi è fatto, non v'èſcuſa.
PER LA DOMENICA QUINTA Dopo LA PENTECOSTE.
ºrrendo in tal giorno la feſta de Santi Appoſtoli
Pietro, e Paolo.

Pº XXV. La Chieſa vuol eſſere da noi onorata.


º Sela ch'ella è con l'oſſequio ſincero della no
ºrº ſtima. 2. Vera ch'elli è con la profeſſion gene
- A 3 roſa
-

roſa di noſtra Fede. 3. Santa ch'ella è con l'inne


cenza illibata di noſtra vita,
PER LA DOMENICA SESTA DOPO LA PENTECOSTE.
DISC XXVI. Dee farſi temer da noi ſteſſi. 1. La
noſtra ignoranza. 2. La noſtra fiacchezza. 3. La
noſtra incoſtanza. - -

PER LA DOMENICA SETTIMA DOPO LA PENTECOSTE.

Disc. XXVII. Non far del male non baſta. I. All'


obbligo, che la Legge ci addoſſa. 2. Al fine, che
la Legge pretende. 3. Al premio, che la Legge
promette,
PER LA DOMENICA OTTAVA DOPO LA PENTECOSTE.
- Correndo la feſta di Sant'Anna.
Disc. XXVIII, Separazione de'reprobi nel giorno
eſtremo. 1. Dalla compagnia de giuſti, e però ob
brobrioſa. 2. Dall'amicizia del giuſti, e però do
loroſa. 3. Dalla gloria de'giuſti, e però ſpaventoſa.
PER LA DOMENICA NONA DOPO LA PENTECOSTE.

DIsc. XXIX. Abuſo delle divine iſpirazioni. 1. Com


tro le anime, che ſi abuſano delle divine iſpira
zioni, Iddio ſi ſdegna. 2. Dalle anime, che ſi a:
buſano delle divine iſpirazioni, Iddio ſdegnatº ſº
ritira. 3. Ritiratoſi iddio dalle anime, che ſi aha
ſano delle divine iſpirazioni, le conſegna in ba
lìa de loro nemici.
PERLA DOMENICA DECIMA DOPO LA PENTECOSTE.

Disc. XXX. La memoria d'aver peccato aſſicura.


.1. Il dolore d'aver peccato. 2. La ſoddisfazione
che
curarſi dal peccato.
prº
deeſi a Dio pel peccato. 3. La fuga daPer
PER LA DOMENICA XXII. DOPO LA PENTECOSTE.
Correndo la feſta di Santa Eliſabetta Regina d'Ongheria,
19 Novembre.

DIsc. XXXI. L'umiltà ci ſi perſuade dal peccato.


1. In cui ſiamo nati. 2. In cui ſiamo viſſuti.
3. In cui poſſiamo morire.
PER LA DOMENICA XXIII. DOPO LA PENTECOSTE.
In occaſione del funerale ſolito farſi ogni anno in ſuffragio
de Fratelli e Sorolle della Compagnia della Buona Morte
defunti.
Disc. XXXII. Tre morti diverſe per quella parte di
vita. 1. Che già è paſſata, 2. Che ſtà paſſando,
3. Che reſta a paſſare, -

DI

5
ieri i 4 tiziº
i viºli
i " º
,t si sta streº
zizzzzzzzzzzzzzzzzzzi
I N D I C E
D E' D I S C O R S I
P E R L' E S E R CI Z 1 o
DELLA BUONA MORT E.
ANNO QUARTO.
PER LA DOMENICA PRIMA DELL'AVVENTO.
DiscoRso Iº penſier della morte. 1. Ci mode
ra ne noſtri ecceſſi. 2. Ci diſingan
ma ne noſtri errori. 3. Ci dirige ne noſtri dubbi.
PER LA DOMENICA SECONDA DELL'AVVENTO.
Correndo la feſta dell'Immacolata Concezione della
Santiſſima Vergine. -

Disc. II. Grazia ſantificante. 1. Dobbiamo eſſer


ne giuſti conoſcitori per apprezzarla. 2. Vigi
lanti cuſtodi per conſervarla. 3. Trafficanti in- s
duſtrioſa per accreſcerla.
PER ELA DOMENICA TERZA DELL'AVVENTO.

Disc. III. L'amore dovuto a Criſto convien che


ſia 1. operoſo. 2. sofferente, 3.2,
Coſtante. l
FRA L'OTTAVA DEL SANTISSIMO NATALE.
Correndo in tal giorno la feſta de'Santi Innocenti.
Disc.IV. Lo ſcandaloſo è gran nimico. 1. Di
Dio. 2. Del Proſſimo. 3. Di ſe medeſimo.
PEL GIORNO DELL'OTTAVA DE SANTI INNOCENTI,

Disc.V. La conformità ai divini voleri è ſagri


fizio tra tutti. 1. Il più nobile. 2. Il più van
tagiaſo. 3. Il più ſoave.
NELL'OTTAVA DELL'EPIFANIA.

. Disc. VI. A cagione degli umani riſpettivi ſi fa


una grave perdita. I. In riguardo a noi. 2. In
riguardo al mondo. 3. In riguardo a Dio.
PER LA DOMENICA PRIMA DOPO L'EPIFANIA.
Disc. VII. Viver nel mondò, in cui ſi vive da i
più, è un diſordine. 1. Che inſenſibile s'intro
duce nell'anima ſenza rimorzo. 2. Che inemen
dabile s'innoltra ſenza riparo. 3. Che ineſcuſa
bile termina ſenza perdono.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO L'EPIFANIA.
Correndo la feſta della converſion di S. Paolo 25 Gennajo.
Disc. VIII. Chi ſi converte a Dio laſciar dee ad
imitazion di San Paolo. 1. L'antico intelletto,
ed inveſtirſi di nuove, e ſante maſſime. 2. L'an
tica volontà, ed inveſtirſi di nuovi, e ſanti vole º

ri. 3. L'antico cuore, ed inveſtirſi di nuovi, e


ſanti affetti. -

PER LA DOMENICA TERZA DOPO L'EPIFANIA.

Disc. IX. Pianto d'inferno doloroſiſſimo, perchè


pianto. 1. Senza riparo. 2. Senza ſollievo. 3. Sen
2,4 l Crºtºla'. Per
PER LA DOMENICA QUARTA DOPO L'EPIFANIA.

Disc. X Le paſſioni. 1. Debbono conoſcerſi. 1. Deb


bono combatterſi. 3. Debbono ſterminarſi.
PER LA DOMENICA QUINTA DOPO L'EPIFANIA.
Disc. XI. L'ozio rende quaſi impoſſibile. 1. All'
innocente il fuggir dal peccato. 2. Al peccatore
il ſorgere dal peccato. 3. Al ravveduto il ſoddis
fare per lo peccato.
PER LA DOMENICA SESTA DOPO L'EPIFANIA.
Correndo la feſta della Purificazione della Santiſſima Vergine,
o ſia della Candelaja.

DISC, XII. Il peccator moribondo vedrà. 1. La va


nità di quel mondo, che tanto amò. 2. La povertà
- di quell'anima, che tanto traſcurò.- 3. La gra
º vezza di que peccati, che tanto moltiplicò.
PER LA DOMENICA DI SETTUAGESIMA,

DISC. XIII La Caſa dell'eternità è noſtra vera caſa.


1. Perchè unicamente in grazia di eſſa noi ſia
mo fatti. 2. Perchè a noi ſta il fabbricarcela a
modo noſtro. 3. Perchè allogiati, che vi ſaremo
una volta, non ne uſciremo mai più.
PER LA DOMENICA DI SESSAGESIMA.

Disc. XIV. La perdita del tempo. 1. E' in ſe ſteſe


ſa graviſſima, 2. E a noi dannoſiſſima. 3. E' in
giurioſſima a Dio.
NELL'OTTAVA DI PASQUA.

Disc. XV. Vita megliore, che ſperar deeſi dalla


morte, giacchè eſſa ci toglie. 1. Una vita pe.
ricoloſa, per darcene una ſicura. 2. Una vita
- A 3 travaglio
travaglioſa per darcene una contenta. 3. Una
vita breve, per darcene una eterna.
PER LA DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA.

Disc. XVI. Pace della coſcienza. 1. In queſta vi


ta non può bramarſi bene, nè più grande, nè
più ſicuro. 2. Al punto della morte non può bra-.
marſi conforto, nè più ſoave, nè più efficace
3. In ordine alla beata eternità non può bramarſi
pegno, nè più chiaro, nè più certo.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA.
Disc. XVII. L'amore, che Dio ci porta, ci fa
ſperare, che morrenno bene, atteſo che ci ama.
- . M
i. Con ſincerità. 2. Con fortezza. 3. Con tene
i rezza. -
PER LA DOMENICA TERZA DOPO PASQUA.

DIsc. XVIII. La vita è breve, dunque è neceſſario.


1. Uno ſconto prontiſſimo de'moſtri peccati. 2 Una
pronto diſtaccamento da tutto il ſenſibile. 3. Una
pronta provviſione d'opere buone.
PER LA DOMENICA QUARTA DOPO PASQUA.
Correndo la feſta della Santiſſima Sindone 4. Maggio.
Disc. XIX. La ſantiſſima Sindone ci renderà ine
ſcuſabili. 1. Come Evangelio viſibile, ch'ella è,
ſe troveraſſi men giva la noſtra Fede. 2. Come
pegno certiſſimo, ch'ella è, ſe troveraſſi men fer
ma la noſtra ſperanza. 3. Come ritratto ammira
bile, ch'ella è, ſe troveraſſi men fervida la
noſtra carità.
NELL'OTTAVA DI PENTECOSTE.

Disc. XX. Il ſanto timor di Dio. 1. Conſola. 2. Av- -


valora. 3. Aſſicura. Per
PER L'OTTAVA DEL COEPUsDOMINI.
Disc. XXI. Il Santiſſimo Viatico. I. Ne dolori dell'
infermità è conforto efficaciſſimo. 2. Nelle batta
glie dell'agonia è fortiſſimo ſcudo. 3. Nel gran
viaggio dell'eternità è ſicuriſſima guida.
PER LA DOMENICA SECONDA DOPO LA PENTECOSTE.

DISC, XXII. L'affare della ſalute è il ſolo. I. Che


propriamente ſi poſſa dir noſtro. 2. Che ci venga
raccomandato più eſpreſſamente da Dio. 3. Che
eſiga più giuſtamente le noſtre ſollecitudini.
PER LA DOMENICA TERZA DOPO LA PENTECOSTE.
Correndo la feſta di S. Luigi Gonzaga della Compagnia
di Gesù, 21 Giugno.
Disc. XXIII. Per eſſere Santi anche in mezzo al
Mondo, ſi ami da noi ad imitazione di S. Luigi.
1. La ritiratezza. 2. La mortificazione. 3. L'o-
raztone.
PER LA DOMENICA QUARTA DOPO LA PENTECOSTE.
Disc. XXIV. Tre accuſatori al Giudizio. 1. Il De
monio, che metterà in chiaro ciò, che ſi è fatto,
e non dovea farſi, 2. L'Angelo tutelare, che fa.
rà vedere ciò, che non ſi è fatto, e dove a farſi.
3. La coſcienza, che moſtrerà, come in ciò, che
per colpa ſi è fatto, e non ſi è fatto, non v'è ſcuſa.
PER LA DOMENICA QUINTA DOPO LA PENTECOSTE.
Correndo in tal giorno la feſta de Santi Appoſtoli
Pietro, e Paolo.

Disc. XXV. La Chieſa vuol eſſere da noi onorata.


*: Sola ch'ella è con l'oſſequio ſincero della no
fra ſtima. 2. Vera ch'ella è con la profeſſion gene
A 3 roſa
roſa di noſtra Fede. 3. Santa ch'ella è con l'inne
cenza illibata di noſtra vita.
PER LA DOMENICA SESTA DOPO LA PENTECOSTE.
Disc XXVI. Dee farſi temer da noi ſteſſi. 1. La
noſtra ignoranza.
incoſtanza. 2. La noſtra fiacchezza. 3. La
s

PER LA DOMENICA SETTIMA DOPO LA PENTECOSTE.


Disc. XXVII. Non far del male non baſta, I. All'
obbligo, che la Legge ci addoſſa. 2. Al fine, che
la Legge pretende. 3. Al premio, che la Legge
promette. -

PER LA DOMENICA OTTAVA DOPO LA PENTECOSTE.


- Correndo la feſta di Sant'Anna.

Disc. XXVIII. Separazione de'reprobi nel giorno


eſtremo. 1. Dalla compagnia de' giuſti, e però ob
brobrioſa. 2. Dall'amicizia dei giuſti, e però de
loroſa. 3. Dalla gloria de'giuſti, e però ſpaventoſa.
PER LA DOMENICA NONA DOPO LA PENTECOSTE.
Disc. XXIX. Abuſo delle divine iſpirazioni, i Cº
tro le anime, che ſi abuſano delle divine iſpira
2ioni, iddio ſi ſdegna 2 Dalle anime, che ſi a
buſano delle divine iſpirazioni , Iddio ſdegnato ſe
ritira. 3. Ritiratoſi Iddio dalle anime: che ſi abu
ſano delle divine iſpirazioni, le conſegna in ba
lìa de loro nemici.
PER LA DOMENICA DECIMA DOPO LA PENTECOSTE
Disc. XXX. La memoria d'aver peccato aſſicº:
1. Il dolore d'aver peccato º La ſoddisfazione
che deeſi a Dio pel peccato. 3. La fuga da proc
curarſi dal peccato. Per
PER LA DOMENICA XXII. DOPO LA PENTECOSTE.
Correndo la feſta di Santa Eliſabetta Regina d'Ongheria,
- 19 Novembre.

Disc. XXXI. L'umiltà ci ſi perſuade dal peccato.


1. In cui ſiamo nati. 2. In cui ſiamo viſſuti,
3. In cui poſſiamo morire.
PER LA DOMENICA XXIII. DOPO LA PENTECOSTE.
In occaſione del funerale ſolito farſi ogni anno in ſuffragio
i efunti.
e Sorolle della Compagnia della Buona Morte

Disc. XXXII. Tre morti diverſe per quella parte di


vita. 1. Che già è paſſata, 2. Che ſtà paſſando,
3. Che reſta a paſſare, -

DI
S C O R SO
P R I M O
PER LA DOMENICA PRIMA
-

D E L L' A V V E N T O.
Penſier della Morte.

Reſpice, ci levate capita veſtra, quia appropin


quat redemptio veſtra. Luc. 21.
ºra e' 'Egli è vero ciò, che diſſe il Mo
iº, Sºl. rale, che di malgrado alla mente
ºi richiamaſi ciò, che non può ri
J3 º i5. chiamarſi ſenza tormento: Nemo Ep. s.,
º º libenter ad id redit, quod non ſine
i FSi tormento cogitaturus eſt, con qua
- le ſperanza di gradimento poſſo
º queſta ſera ricondurre ſu queſto pulpito, c
rinnovare alla voſtra memoria il penſier della
morte? Che ſia queſto un penſier di rammari
º di orrore, di affanno, quando io il negaſſi,
º fitne fede, parlerebbe natura, che alla rimem
- branza
I2 Diſcorſo Primo.
branza ſola di morte ſtranamente riſenteſi, nè
può ſenza ribrezzo rappreſentarſi un taglio, che
ſepara da tutto, e rammentarſi una tomba, che
riduce preſſo che al nulla. Ma per altra parte,
ſe perchè meſto, ſe perchè doloroſo ſi eſclude
dall' animo il penſier della morte, qual ſarà
mai, quale la noſtra vita? Quanto ingombra
da inganni, quanto ſconcertata da vizj, quanto
tiranneggiata dalle paſſioni? Troppo è difficile,
che diaſi al vivere giuſta la regola, ſe queſta dalla
morte non pigliaſi. Ond'io più che al voſtro di
letto, mirando al voſtro vantaggio: Reſpicite,
dirò a voi parlando del giorno ultimo di voſtra
vita, ciò che parlando dell'ultima giornata del
Mondo diſſe Criſto a diſcepoli, reſpicite, e le
vate capita veſtra, quia appropinquat redemptio
veſtra. Stia pur fiſſo mai ſempre l'occhio della
mente in quel giorno, che con iſciogliere i le
gami del corpo, invierà libero al ſuo Creatore
lo ſpirito, reſpicite, reſpicite ; e vi aſſicuro, che
da queſto penſiero guidati, correranno feliciſſi
mi i voſtri giorni. E qual vita in fatti può ſu
queſta terra bramarſi più felice di quella, che
dubbio non inquieta, error non abbaglia, ec
ceſſo non altera ? Vita di moderazione in ciò
che brama, vita di verità in ciò che penſa, vita
di ſicurezza in ciò che opera. Or queſta, miei
Dilettiſſimi, queſta appunto è la vita di cui ci
fa vivere il penſier della morte, perchè penſier
che ci modera nel noſtri ecceſsi, come il vedre
mo nel primo punto ; perchè penſiero che ci
diſinganna ne noſtri errori come il vedremo nel
ſecondo punto, perchè penſiero, che ci dirige ne
noſtri dubbi, come il vedremo nel terzo punto.
Beato pertanto, chi bramoſo di regola ai af
tetti
Per la Domenica prima dell'Avvento, 13
fetti di verità ne giudici, di rettitudine nelle opera
zioni, ſaprà col penſier della morte rattriſtar
ſantamente la ſua vita. Cominciamo. ---

Il penſier della morte ci modera me noſtri ecceſſi. PUN


Quella via di mezzo, che ſola è via di virtù, quanto To L.
maiella è difficile a batterſi? Troppo è pronto ad
eccedere ne' ſuoi paſsi il noſtro piede, cda trarlo di
ſtrada più non vi vuole, ſe non che o alla ſiniſtrale
inſidj l'avverſità, o alla deſtra la proſperità lo ſolle
tichi: Se bionda è l'età, daſsi a ſcorrere ſviata pe'
prati piacevoli del diletto, e ſe canuti ſono gli an
ni, l'avarizialitorce ai tricoſi ſpinetti dell'intereſſe:
S ella è nobile la condizione, l'ambizion la tra
ſporta avegheggiare le cime ſplendide degli onori;
e ſe abbietto è lo ſtato, la povertà lo inabiſſa nel cu
pofondo di nera diſperazione, or l'albagia ſi fa
traviare dal ſentiero dell'umità, ora lo ſdegno ſi
ſpinge a traſgredire i confini della manſuetudine,
ora amor ſoverchio del noſtri comodi ci fa ſpezzar
i cancelli della mortificazione Criſtiana: Se il natu
ral è focoſo, Dio! in quante fiamme ſi sfoga di ac
ceſi riſentimenti; ſe ſquiſiti, ſe rari ſono i talenti,
eccointruderſi al poſſeſſo del cuore la vanità, ſeti
mida è l'indole, ora diffidenze abbandonaſi, ora
triſtezze: In ſomma o ſia ſpinta di paſsione, che
ci combatta al di dentro, o ſia attrattiva di og
getto, che ci luſinghi al di fuori, o ſia forza
d'eſempio, che dietro alle altrui orme ci tira,
certo è , che facilmente ſi eſce dai giuſti limiti
ed ora in un altro traſcorreſi fuor di ſentiero.
Un freno pertanto richiedeſi, che ci contenga
in dovere, ed a noſtri paſsi dia la miſura e la
legge: e queſto d'onde meglio può prenderſi,
che dalla morte, la quale ricordandoci con le
ſue ceneri la viltà del noſtro eſſere abbatte i fu
Ilì l
14 , Diſcorſo Primo.
mi del noſtro capo, e ci diſinamora di que
ſti beni col rammentarci lo ſpoglio ch'ella ne
fa.
- Tale appunto è il documento, che ci dà nel
Ieb. s.libro di Giobbe lo Spirito ſanto: Viſitans ſps
ciem tuam, non peccabis : Viſita di quando in
quando con il penſier la tua ſpecie, e omai non
ſarà, che tu dia in ecceſsi, non peccabis. Per ben
intendere queſto ricordo, diſtinguete, Uditori,
in ogni uomo, e le ſpecie per cui cogli altri
confondeſi, e gli accidenti per cui dagli altri
diſcerneſi: Se ſi conſidera nell' uomo la ſpecie,
l'uno è ſimile all'altro, perchè a tutti ugual
mente convien l' eſſer uomo, l'eſſer mortale,
l'eſſer un fragil compoſto di creta e di ſpirito;
ſe ſi conſideran gli accidenti, l'uno è diſſomi
gliante dall'altro, l'uno gode tra gli agi, l'al
tro geme fra ſtenti; l'uno naſce tra gli ſplen
dori di caſa illuſtre, l'altro tra l'ombre di igno
bil capanna; l' un brilla in poſti cccelſi, l'altro
giace in umil fortuna. Ecco però, dice Dio,
ecco come accertare ſi dee la moderazione ne
gli affetti: Non vi fermate, no a conſiderare ciò,
che vi diſtingue dagli altri, non la ſapienza
madre dell'orgoglio, non la ricchezza fomento
dell'avarizia, non l'avvenenza, argomento di
vanità, non la nobiltà, nodrice dell'ambizio
ne: No, accidenti ſono queſti dell'uomo, atti
a portare ad ecceſsi, ove di ſoverchio ſi apprez
zino. Se giuſte volete le voſtre idee, ſe giuſti gli
affetti, fiſſate nella voſtra ſpecie lo ſguardo:
Conſiderate, che uomini ſiete come tutti gli
altri mortali, deſtinati come tutti gli altri ad
un ſepolcro. Allora sì, che lungi da ogni ecceſſo
tra i cancelli della moderazione ſi tratterrà il
voſtro
Per la Domenica Prima dell'Avvento 15
voſtro cuore: Viſitans ſpeciem tuam, non pecca.
ſbis. Ed e così, miei Dilettiſsimi: Se colui di
ſtinto dalla natura ſopra degli altri col chiaror del
caſato, penſaſſe, ch'egli è, come ogn'altro,
un pugno di ſozza polvere, non è già vero,
ch'ei farebbe ſervire all' alterigia, ed alla pre
potenza lo ſplendor del ſuo ſangue: Viſitans
ſpeciem ſuam, non peccaret. E ſe colei, che ha
ricevuto da Dio più di grazia nel volto, più di
garbo nel tratto, più di vivacità nell' indole,
rifletteſſe, che come ogn'altra ſarà ancor ella
un giorno il ſudiciume d' una tomba, non an
derebbe già sì gonfia di ſe medeſima; e anzi,
che darſi a credere una diva di queſta terra,
porterebbeſi con più di modeſtia avanti agli uo
mini, e con più di umiltà avanti a Dio: Vi
iſitans ſpeciem ſuam, non peccaret.
Sì, Dilettiſſimi, diciamla pur francamente,
che troppo diſdice a chi parla da queſto luogo
diſsimular i diſordini. Se ſi penſaſſe alla morte,
averebbono i tavolieri tanti avventori, che vi
paſſano i giorni e le notti con diſcapito enorme
della famiglia, e dell' anima ? Se ſi penſaſſe alla
morte, regnerebbe a dì noſtri, come purtrop
po regna, quel tanto genio di divertirſi, che
togliendo ogni tempo, ogni affetto alle pre
ghiere, ed ai Sagramenti; tutto l'animo, tutti i
penſieri rivolge a viſite, a giuochi, a ſpaſsi,
a veglie, a teatri? Se ſi penſaſſe alla morte,
sfoggierebbeſi in pompe come ſi sfoggia, ſen
za riguardo ad accreſcere debiti, che a gran
pregiudizio de creditori, o per dir meglio a
dannazione certiſsima del debitori, mai non ſi
pagano, nè forſe mai pagheranſi? Se ſi penſaſſe
alla morte s' introdurrebbono tuttodì "
abull1
16 Diſcorſo Primo.
abuſi nel tratto, nuova libertà nei diſcorſi, ntio
ve indecenſe nelle mode, nuovi ſcandali nelle
amicizie? No, che queſti ecceſsi non ſi vedrebbo
no, ſe ſi penſaſſe alla morte. -

Ma pur troppo ſi avvera anche a dì noſtri


ciò, che a ſuoi tempi ebbe a piangere il reale
Profeta: Quia non eſt reſpectus morti eorum, o
ºſ. 72.
come anco più chiaro al mio propoſito legge
dall' Ebreo il Dottor Maſsimo: Quia non conſi
derant homines mortem ſuam, ideo tenuit eos ſu
perbia, operti ſunt iniquitate, ci impietate ſua.
Alla morte non ſi penſa, e però qual maravi
glia ſe tanti ſi veggono gli ecceſsi, in ogni gra
do, in ogni età, in ogni ſtato! Non vi ſi penſa
dai giovani, e danno in ecceſsi di libertà; non
ſi penſa dai ricchi , e danno in ecceſsi di te
nacità, non ſi penſa dai grandi, e danno in ec
ceſsi di ſuperbia, non ſi penſa dalle donne, e
danno in ecceſsi di vanità : Non conſiderant ho
mines mortem ſuam, ideo tenuit eos ſuperbias
perchè il penſier della morte va eſcluſo della
mente, regnan tranquille nel cuore le paſſioni, e
l'iniquità vi trionfa: Quia non eſt reſpectus morti
eorum operti ſunt iniquitate, di impietate ſua,
No; cari Uditori, non permettiamo, che dalla
memoria mai non ci sfugga un penſiero sì van
taggioſo ſe bramiamo, che non c'infatui ſu
perbia, che avarizia non ci avviliſca, che invi
dia non ci divori, che ira non ci precipiti, pen
ſiamo alla morte: Hec conſideratio, dice Agoſti
no, eſt deſtructio ſuperbi e, extinctio invidie :
medela maliti e, evacuatio vanitatis. Le ceneri
della morte ben meditate ſpegneranno ogni fiam
ma men pura: raffreneranno ogni brama men
regolata, ripareranno ogni diſordine, modere
ran flO
Per la Domenica prima dell'Avvento. 17
ogni ecceſſo. Scioglieraſſi ogni attacco a queſta
terra ſe penſeremo, che ſi ha preſto a laſcia
re: Deporaſſi ogni affetto a queſto corpo, ſe ri
fletteremo, che tra breve marcirà in un ſepolcro.
Debbo morire: Sì, miei Dilettiſſimi, diciamlo
pure ſpeſſo tra noi e noi : Debbo morire, e non
ſo quando; forſe preſtiſſimo: Debbo morire, e
non ſo come; forſe all'improvviſo: Debbo mo
rire, e non ſo dove; forſe in quel luogo dove
averò men d'aſſiſtenza: Debbo morire, c que
ſto è certiſſimo: fede lo dice, ragione lo in
ſegna, ſperienza lo moſtra. E con un tal pen
ſiero, miei Dilettiſſimi, com'è poſſibil, che vi.
vaſi tra i diſordini che vivaſi tra le licenze º che
vivaſi ſenza penſiero dell'anima, ſenza penſiero
della ſalute !
O Gesù caro, ſe intendeſſimo bene una verità
per altro sì chiara, non viverebbeſi no, non
viverebbeſi come ſi vive, ma non s'intende pur
troppo, perchè alla morte ſi penſa poco; ne fug
giam la memoria, perchè ci ſpiace ; e intanto
per paura, che un tal penſiero c'inquieti, ci pri
viamo de' ſuoi vantaggi. Deh ! caro Gesù, illu
minateci queſta ſera: Ve ne preghiamo per quel
le piaghe ſantiſſime, che adoriamo ne' voſtri
piedi, e fateci conoſcere che non vi ha miglior
regola per ben vivere, che il penſare alla morte:
Sicchè vivendo lontani da ogni ecceſſo col pen
ſiero d'avere un giorno a morire, aſſicuriamo
con la moderazione della vita, la ſantità della
Im Ortc. . -

Il penſier della morte ci diſinganna me noſtri -


errori. I noſtri ecceſſi naſcono d ordinario da e
- - - e - UN

noſtri errori, onde ſe da queſti il penſier della roti,


morte non ci diſinganna, indarno ſperaſi, che
Tom. IV. Anno IV. B in
I8 Diſcorſo Primo
in quelli ci moderi. Quell'attaccamento ſovver
chio, che a queſti beni ſi ha, quell'andarne con
tanta ſollecitudine in traccia, quell'accorarſi ſe
mancano, quell' invanirſi ſe abbondano, deriva
(e chi nol vede) da una falſa ſtima, che ſe ne
ha: Malavezzi, che ſiamo a giudicar delle coſe,
diciam beato è, chi sfoggia tra le ricchezze, e
chi brilla tra gli onori , e chi diverteſi nei pia
ceri, e chi ſovraſta nei comandi, e chi ſigno
reggia tra le grandezze. Quindi non è da ſtu
pire, ſe a giudici ſtravolti ſuccedono brame di
ſordinate, e ſe ingannato nelle ſue maſſime l'in
telletto eccede ne' ſuoi affetti la volontà. Forza
è però torre gli errori per moderare gli ecceſſi,
e per dar legge alla volontà diſingannar l'intel
letto: E queſto appunto, ſe crediamo a S. Lo
renzo Giuſtiniano, è il frutto ſtimabiliſſimo,
Delig. che dal penſier della morte ritraeſi: Conſideretur
º º vita terminus, o non erit in hoc Mundo quid
ametur. Abbiano quanto ſi voglia di attrativa
quei beni, che il Mondo a chi promette, a chi
dona; la morte ben meditata ne ſpegnerà nel
cuore ogni amore, perchè ne toglierà dalla
mente ogni ſtima.
Ed in verità, miei Dilettiſſimi, donde meglio
che dalla noſtra mortalità trar ſi poſſono lezio
ni di diſinganno ? Chi ci può ſcoprire più chiaro
il nulla di quei titoli, di cui l'orgoglio ſi pa
ſce? Chi ci può ſcorgere meglio la vanità di
quella gloria di cui l' ambizion è sì vaga ? Chi
può darci a conoſcere più manifeſta la caducità
di quel beni, di cui l'avarizia è sì ingorda. Si
ſpinga un penſiero a quella tomba, che col
chiuderci tra le ſue ombre, ci torrà dagli oc
chi ugualmente, e dalla memoria degli ".
- quale
Per la Domenica prima dell' Avvento. 19
quale ſtima ſi farà più degli applauſi, e delle
comparſe di queſta terra ! Si meditin quell' oſſa
ſpolpate, e verminoſe, a cui un giorno ci ri
durremo, e poi in qual concetto terremo noi
più quelle tante delicatezze con cui ſi carezza
no i ſenſi! Eh, che non può a meno, dice Gi
rolamo, di non mirar con diſprezzo quanti beni
dalla noſtra cecità falſamente ſi apprezzano, chi
li conſidera in viſta della ſua morte: Facile con
temnit omnia qui ſe cogitat moriturum. .
Con ragione però, diſſe il Griſoſtomo, eſſere
il ſepolcro una gran ſcuola, perchè ſcuola, in
cui ſi apprende la vera ſapienza: Scuola, in cui
s'impara dove impiegar ſi debba la noſtra ſtima,
dove il noſtro diſprezzo; ſcuola, in cui all'intel
letto noſtro s'inſegna a penſar giuſto, ed a giu
dicar delle coſe ſecondo il lor merito. E fu ſn
queſto il rifleſſo, che lo ſteſſo Santo Dottore,
diſcorrende dell' uſo, che anticamente correa
di dare a cadaveri ſepoltura fuor delle mura
delle città: ſappiate, dicea, che non è ſenza
noſtro grande ammaeſtramento un tal coſtume.
Il mettere in viſta di chi entra nelle città pri
ma d'ogni altra coſa i ſepolcri, è un premunire
l'animo dei paſſaggieri contra la vana ſtima delle
mondane magnificenze; ſi moſtrano prima i mor
ti, e poi i palagi, che loro dierono ſontuoſo
albergo, ed i giardini, che loro ſervirono di
amero diporto, ed i tribunali, che lor porſero
ſede autorevole, affinchè nel tempo in cui ſi
ammirano le grandezze, che il Mondo coranto
ſtima, ſi vegga parimente il loro fine; e dalle
ceneri de poſſeſſori s'impari a non far caſo del
poſſeduto: Ante civitatis ingreſſum ſepulchra vi
des, ut priuſquam amplitudinem & di vitias civi
B 2 t/gt15
2O Diſcorſo Primo
tatis conſideres, agnoſtas omnium illorum finem,
così il Boccadoro. Nè di minor noſtro profitto
vuol, che ſia Agoſtino l'uſo di poi introdotto,
che ſieno per lo più nelle Chieſe i ſepolcri. Que:
ſto è, dice il Santo, perchè all'entrarvi, ed all'
uſcirne, più ſpeſſo in noi ſi rinnovi la memoria
della morte, e la veduta frequente della caſa, che
ci aſpetta, caſa di tenebre, di obblivione, di orrore,
c'inſegnianon apprezzar quelle coſe, checolaggiù
non ſi portano: Ut ingredientes, o egredientes
mortis admoveamur & ſic ad Deum convertamur.
Ed ora intenderete il perchè, divino infalli
bile oracolo ci ammoniſca, di gran lunga eſ
ſer meglio porre il piè in una caſa, che pian
ga in triſto lutto, che in una, che rida in lieto
convito: Melius eſtire ad domum luttus quam ad
domum convivii i perchè in una caſa, dove a lau
tacena ſi ſiede, che maſſime poſſono mai appren
derſi, ſe non maſſime di libertà, di diſſolutezza, e
talora anche maſſime d' empietà, tanto ſono
in tali occaſioni inverecondi i geſti, oſceni i mot
ti, ſcompoſte le riſa, immodeſte le canzoni, e
applaudite le intemperanze; laddove in una caſa,
dove la morte ha portato il lutto, tutto è com
poſtezza, tutto è modeſtia, tutto è ſaviezza: en
trano amici, entrano conoſcenti, entrano con
iunti, e nel conſolare, che fanno, chi è af.
itto, non altro ſi ode ſe non diſcorſi di Cri
ſtiana filoſofia: chi rammemora la padronanza,
che ha Dio di darci, e di toglierci ciò che abbiam
di più caro, chi ricorda eſſere queſta la ſtrada,
che tardi o toſto abbiamo a far tutti, chi ſog
giunge non eſſere queſta terra paeſe, per cui
ſiam fattis che queſta vita, e queſto Mondo un
dì, o l'altro ſi hanno a laſciare, e che " V”
la
Per la Domenica prima dell'Avvento. 21
ha nulla di meglio, che penſar a ſtar bene, o
ve eterno è il ſoggiorno. E a chi ſi debbono
diſcorſi così ſenſati, e maſſime così giuſte, non
ad altri certamente, che alla morte! Queſta è,
che col mettere ſotto gli occhi le fredde ſpo
glie di un morto, di quel marito, di quella
ſpoſa, di quel figliuolo, porta il diſinganno nei
vivi, e col rappreſentare il fine altrui, fa, che
ognun penſi a se ſteſſo: In illa finis cuntforum Ibid,
admonetur hominum, ci vivens cogitat quid fu.
turum ſit. Tanto egli è vero, che ad iſnidare
dalla noſtra mente ogni errore, più non vi
vuole, che aver preſente la morte.
Ma il male ſi è, mici dilettiſſimi, che aman
ti, che ſiamo del noſtro inganno, alle lezioni,
che la morte ci dà, noi non applichiamo la
mente, avverandoſi pur troppo, non ſenza ſtu
pore del Boccadoro, che con la morte tuttodì
ſotto agli occhi non ſe ne intendono i docu
menti : Mortem omnes vident, pauci intelligunt.
La veggono i giovani in altri giovani, e non
perciò ſi perſuadono eſſer follia perdere in di
vertimenti ed in amori quegli anni, che mor
te immatura può troncare ſul fior più bello; la
veggono i grandi in altri grandi, e non perciò
intendono, che s'ingannano a partito chi più,
che quelle del cielo ſtima, e cerca le grandez
ze di queſta terra: Mortem omnes vident, pauci
intelligunt. Cari miei uditori, intendiamola al
men noi, e col penſarvi ſeriamente, e ripen
ſarvi, uſciamo una volta del noſtro inganno:
Faccia in noi la morte antipenſata ciò che vo
gliam o no, farà un dì la morte preſente; non
è egli vero, miei dilettiſſimi, che giunti, che
ci vedremo al fine del noſtri giorni , ſcorgere
B 3 Il C
22. Diſcorſo Primo \

me, che non altro furono, che vanità gli o


nori, vanità i titoli, vanità i corteggi, vanità
le pompe, vanità gl' impegni, vanità i be
ni tutti di queſta terra: Vanitas vanitatum,
& omnia vanitas. Non è egli vero, che fatti
in quell'eſtremo avveduti, avremo in gran com
to gli atti virtuoſi, le opere ſante, gli eſercizj,
di divozione, le mortificazioni, le orazioni
le penitenze ? Or quel diſinganno, che cagio
ma la morte, quando è preſente, lo cagioni
adeſſo il penſier della morte; e riflettendo ſpeſ
ſo che un di ol'altro morremo , ſtimiamo ciò
che in quel punto ſi ſtima; ſprezziamo ciò che
in quel punto ſi ſprezza. Che ſe per non con
triſtare col penſier della morte il noſtro animo
amiamo di vivere ne'noſtri errori, ſi viva pure,
ſi viva. Ma il diſinganno, che or non voglia
mo, l'averemo un dì, sì, l'avremo, ma ſenza
pro, perchè troppo tardi.
Ah nò, Gesù caro, non permettete, che por
tiamo ſino alla morte la vana ſtima di queſto
Mondo. Fate, che ce ne diſinganniamo adeſſo,
e adeſſo ne conoſciamo la vanità. Quel lume
di verità, che in noi ſi avviverebbe, ma ſenza
pro dalla morte preſente, ci ſi avvivi ora con
utile dal penſier della morte. Dateci pertanto gra
zia, che ſia queſto un de penſieri noſtri più
famigliari: Ve ne preghiamo per le piaghe
ſantiſſime delle voſtre mani, che umilmen
te adoriamo, affinchè giudicando delle coſe
appunto come ſe ne giudica in morte, ſprez
ziamo adeſſo quei beni, che in morte ſi di
ſprezzano, e quei ſoli ſtimiamo, che in mor
te ſi ſtimano,

Il
Per la Domenica prima dell'Avvento. 23 -
Il penſier della morte ci dirige ne moſtri dubbi. P
Egli è pur troppo vero, e lo proviam tutto-º-
dì, che nelle noſtre deliberazioni pieni ſiamo
di dubbietà. E' sì ſcarſo quel lume, che la ra
gion naturale in noi accende, che dove trattaſi
di riſolvere, titubiamo, eſitiamo, e temiamo
ſempre, ſe ſia bene ciò che vogliamo, o ſe ſia
male, ſe ſia il meglio, o ſe ſia il peggio, ſe
l'eſito ſortiraſſi felice, o ſe infauſto; e quindi
è, che ora ſi vuole ciò che non ſi volea poc'
anzi; ora più non ſi vuole ciò che poc'anzi vo
leaſi: Cogitationes mortalium timide, tale ap-ºp. 9
punto è la pittura, che delle noſtre incer
tezze già fece il Savio, ci incerte providen
tie noſtre. Or qual ſarà in tante perpleſſità il
conſigliero, che ci diriga ? quale in tanta oſcu
rità la guida, che il buon ſentiero ci additi? Non
altra, miei dilettiſsimi, che il penſier della mor
te. Chiamiamo nelle noſtre determinazioni la
morte a conſiglio , ed ella ci ſcuoprirà delle
noſtre idee quali ſieno le giuſte, quali le falſe;
delle noſtre vie quali le rette, quali le ſtorte;
delle noſtre operazioni quali da eleggerſi, qua. Eee
li da riprovarſi: O mors, dice per bocca dell' ,
Eccleſiaſtico lo Spirito ſanto, bonum eſt judicium
tuum. Tu ſei, o morte, la madre del buon
conſiglio: e parlando Abacuc Profeta di chi
ſtampa nel cammino della ſalute orme ſicure,
dice, che non dà paſſo, ſenza ch' egli abbia
in viſta la morte: Ante faciem eius ibit mors; Atac.,
e quì notate, che dove nella vulgata leggiamo
ibit mors, voltano i ſettanta ibit ratio , quaſi
per iſpiegarci, che quando nel noſtro operare
Va innanzi la morte, va innanzi ancora il buon
lume, e ſi opera con ſicurezza, perchè ſi ope
B 4 Id
24 Diſcorſo Primo
ra con la ragione: ibit mors, ibit ratio: ende
ne ſiegue, che il conſiglio, che dalla morte ſi
piglia, non può non eſſere ottimo, perchè con
ſiglio ſuggerito dalla ragione; O mors bonum eſt
judicium tuum: bonum eſt. Anzi ella è sì accer
tata ne ſuoi conſigli la morte, che Dio mede
ſimo alle ſue voci la ſoſtituiſce per noſtro in
dirizzo. Oſſervatelo in Abramo. Infino a tanto
che il ſanto Patriarca fabbricato non ſi ebbe il
ſepolcro, Dio mai non ceſsò d'iſtruirlo: ed ora
egli medeſimo con la ſua voce, ora per mez
zo d'Angioli ſuoi meſſaggeri lo dirigeva dub
bioſo, afflitto lo conſolava; timido lo incorag
giva; e con promeſſe, con favori, con benedi
zioni ne animava la ſperanza, e ne promovea
la fedeltà, ma deſtinata ch'egli ebbe nella ſpe
lonca di Ebron la tomba, più non ſi legge ,
Lib.6
che dal cielo a lui ſcendeſſe o una voce, o una
ſinGen visita, che lo iſtruiſſe : Ulterius, ella è di Ru
perto Abbate la rifleſsione, Deus Abrah e appa
ruiſe non legitur: quaſi che inutile foſſe ogni
altro conſiglio, a chi già avea per conſigliero
il ſepolcro, nè mancar più poteſſe di direzione,
chi avea per direttrice la morte. E queſta ſteſſa,
al dir di Agoſtino, è la ragione, per cui il
Redentore ſolito a dar ricordi a quelli, cui ren
dea la ſanità, niun che ſi ſappia, ne diede mai
a quelli, cui reſe la vita, perchè ad ammae
ſtramento di queſti, in luogo di Crifto parla
va la morte: pro Domino loquebatur mortis af
fectio,
Ora ſe Dio medeſimo per darci a conoſcere
quanto accertato ſia nel ben guidarci il penſie
ro della morte, lo ſoſtituiſce all'efficacia della
ſua voce; poſſiamo noi dubitare, che un tal
pen
Per la Domenica Prima dell'Avvento 25
penſiero, ſe trovaſſe in noi ricetto, non ci ad
diterebbe con ſicurezza le vie da batterſi ? Ah
cari uditori, ſe nelle occaſioni il conſultaſsimo,
credetemi, che per oſcuro, che ſembrici il cam
mino di noſtra vita, non ſi farebbono que paſ
ſi falſi, che pur ſi fanno. Riſolverebbeſi ciò ,
che oneſtà, che giuſtizia, che ragione richieg
gono; nè rimarrebbe più luogo a tanti penti
menti, che c'inquietano, ora di avere intra
preſo ciò che dovea ommetterſi; ora di avere
ommeſſo ciò che dovea intraprenderſi : Sì, ſe
quel giovine, ſe quella giovane quando trattaſi
di ſcegliere uno ſtato di vita, ſeriamente pen
ſaſſero quale vorrebbono in punto di morte a
ver preſo non è già vero, che ſeguirebbono
più gl'inviti del ſecolo, che gl'impulſi di Dio?
E voi, che ite ſollecito in traccia d'impiego,
ſe con la morte vi configliaſte, non cerchere
ſte già quello di maggior luſtro, avvegnachè
vi manchino le abilità, piuttoſto che quell'altro
di minor nome, ma più adattato alle voſtre
forze? Con quanto più di cautela vi portereſte
o mercatante ne' voſtri traffichi: che miglior
uſo fareſte del voſtri beni, o facoltoſo, ſe l'uno
circa le ſpeſe; l'altro circa i guadagni chiede
ſte dalla morte il conſiglio! Che lealtà vi ſareb
be ne' contratti, che giuſtizia vi ſarrbbe nelle
liti, che innocenza ne divertimenti, che oneſtà
nelle amicizie, ſe entrando prima ciaſcun in ſe
ſteſſo, diceſſe: di queſto contratto, di queſta
lite, di queſti divertimenti, di queſte amicizie
avrò io mai a pentirmi, quando io mi trove
rò all'orlo dell'eternità? O qnanti a un tal ri
eſſo hanno ſepolti tra gli eremi i lor talenti !
Quanti hanno preferita a lor agi, a lor teſori
l'Evan
26 Diſcorſo Primo
l'Evangelica povertà ! O come, diceano tra ſe e
ſe, come in punto di morte ſarò contento di
aver così riſoluto, di aver eſeguito così ! E que
ſto pure è il rifleſſo, che in faccia del reo co
ſtume mantiene anche a di noſtri in più di un
giovine l'orrore alla libertà; queſto che in più
d'una dama fomenta il diſtaccamento dal Mon
do in mezzo del Mondo ſteſſo, queſto, che in
più di un nobile a diſpetto delle maſsime dell'
alterigia conſerva un'eſatta ſoggezione al Van
gelo. E queſto parimente, miei dilettiſsimi, ſe
abbiamo ſenno, ha da effere il rifleſso, che dia
d'or avanti alle noſtre operazioni la norma.
Avrò io a caro , andiam fra noi ſteſſi dicendo,
avrò io a caro in punto di morte di avere
impiegato il mio tempo più in ozioſi tratteni
menti, che in eſercizi divoti ? goderò io in
punto di morte di aver dato del mio denaro
più aſſai al giuoco, che alle limoſine ? Sarò io
contento in punto di morte di aver ſervito
più al Mondo, che a Dio, di avere penſato
più al corpo che all'anima; di aver amata più
la terra, che il cielo ? In ſomma in ciò che ſi
fa, in ciò che riſolveſi interroghi ognuno ſe
ſteſſo, e dica: di ciò che io fo , di ciò che ri
ſolvo, in punto di morte ne avrò conſola
zione, o diſguſto ? l' approverò allora, o il
condannerò è ne goderò , oppure ne piangerò?
vorrò averlo fatto, o averlo ommeſſo? e udita
la riſpoſta chiara, certa, infallibile, che farà la
morte, faccia , e riſolva ciò che di fare, e
riſolvere ella ſuggerirà. E che di meglio, di
lettiſſimi, poſſiam bramare, che avere in noi,
e con noi, in ogni tempo, in ogn' incontro
un conſigliero fidiſsimo, che accerti le noſtre
C
Per la Domenica prima dell'Avvento, 27
miſure; che regoli i noſtri paſsi, che ſcopra i
noſtri pericoli, che aſsicuri la noſtra ſorte! Che
e per orrore di un tal penſiero, non ci vaglia
mo del ſuo conſiglio, cari miei uditori, di
chi ſarà la colpa, ſe ſi eleggono ſtati di vita,
che non convengono, ſe ſi pigliano riſoluzio
ni, che ci rovinano, ſe ſi abbraccian partiti che
poi diſpiacciono, ſe ſi torce dal buon ſentiero,
ſe ſi vive alla cieca tra mille diſordini, e ſe in
fine ſi trova irreparabile il precipizio, dite, miei
dilettiſsimi, la colpa di chi ſarà?
Ah, Gesù caro, mia pur troppo, mia tutta
è la colpa, ſe nel mio operare mi dilungo dal
giuſto. Se non faccio ciò che dovrei, e come
il dovrei, ſi è perchè non penſo alla morte ,
e non voglio da queſta prender la regola del
la mia vita: Deh mio Gesù, per quella piaga,
che adoro nel ſagroſanto voſtro coſtato, con
cedetemi, vi ſupplico, che io ſappia nell' av
venire prevalermi di quel buon lume, che dal
penſier della morte mi può venire: Sicchè ri
flettendo con ſerietà a ciò che in morte vor
rei aver fatto, impari adeſſo, e riſolva quel ,
che far debbo.
D I S C O R S O I I.
PER LA DO M E NIC A SE C O N D A
DELL' AVVENTO
Correndo la feſta della Immacolata Concezione
della Santiſſima V E R G 1 N E.

Grazia Santificante,
a

Jacob autem genuit Joſeph virum Marie,


de qua natus eſt Jeſus. Matth. I.
Sulti pure, che ben ne ha ragione, la
pietà, e l'oſſequio verſo Maria. Il ſan
to e glorioſo impegno di tante, e si
i famoſe Accademie, di tanti, e sì dot
ti ſcrittori, di tanti e sì pii Monarchi
già vede riverito da popoli, e onorato dagli
oracoli del Vaticano quel punto, che fu alla
divina infante il primo della ſantità ugualmen
te che della vita. Alla Concezione di quella gran
donna, ch'ebbe l'eccelſa ſorte d' eſſer vivo tem
pio di umanata divinità, già più non ſi ode chi
contenda il pregio d'immacolata, e al ſolo leg
gere queſte brevi, ma incffabili parole, de qua
natus eſ Jeſus, non vi ha chi non le accordi
con Agoſtino eſenzion da ogni macchia, anche
di ſola origine. Inde enim ſcimus, quod ei tan
to plus grati e collatum fuit ad vincendum omni
ex parte peccatum, quia, concipere & parere me
ruit eum, quem conſtat nullum habuiſſe i ".
Oſl
Per la Domenica ſeconda dell'Avvento. 29
Nou vorrei però, Uditori miei cari, che pa
ghi di una ſterile gioja, punto poi non vi cu
raſte di convertire in pro de' figliuoli le glorie
della Madre. E' vero, che in un miſterio, in
cui le prerogative non ammettono ſimile, non
vi può eſſere imitazione; ma ſe render non ſi
poſſono ſimili a quei di Maria i noſtri principj,
vorrei almeno, che al primo iſtante dell' eſſer
ſuo proccuraſſimo ſimile l'ultimo del viver no
ſtro; ſicchè la grazia divina, che fe ſanta la
di lei Concezione, faceſſe ſanta pure la no
ſtra morte. E tanto appunto voglio ſperare,
che otteniremo, ſe dal preſente miſterio, che
ben può chiamarſi il trionfo della grazia ſan
tificante , impareremo a formare una giuſta
idea della medeſima grazia. Che però ſcorgen
do nell'odierna ſolennità Dio per una parte ,
che con la grazia vuole abbellita Maria nel pri
mo iſtante, e Maria per l' altra, che ſin dal
primo iſtante ſollecita corriſponde alla grazia ,
che l'abbelliſce, prendo io ad eſporvi tre cor
riſpondenze, che alla grazia dobbiamo: la pri
ma con eſserne giuſti conoſcitori per apprez
zarla, la ſeconda con eſserne vigilanti cuſtodi
per conſervarla: la terza con eſſere trafficanti
induſtrioſi per accreſcerla. Vediamo pertanto
nel primo punto la ſtima, che dobbiam fare
della grazia : Vediamo nel ſecondo punto la
cuſtodia, che dobbiamo aver della grazia: Ve
diamo nel terzo punto l' accreſcimento, che
dobbiamo proccurar della grazia. Così avver
rà, che ſtimandola, conſervandola, accreſcen
dola, finiremo in grazia i noſtri giorni, como
Maria cominciò i ſuoi,

Dob
3O Diſcorſo II.
se Dobbiamo eſſerne giuſti conoſcitori per apprez
PUN-zarla. Ella è cecità ben deplorabile della miſera
ro I. noſtra mortalità, miſurare col giudizio del ſenſi
il merito della ſtima. Se un oggetto non luſinga
col piacere, o non alletta con lo ſplendore, o
mai più non trova nè mente, che lo apprezzi,
nè cuor, che l'ami. E quindi è, che i beni di
grazia, che ſuperiori alla natura non ſoggiaccio
no a i ſenſi, raro è, che trovino appreſo l'uo
mo affetto, e ſtima: Ma ben tutt'altro è il giu
dizio, che a noſtro diſinganno ne forma nell'o-
dierno miſterio il Divin Verbo. Poteva egli ( e
chi nol ſa) formare a ſuo talento una Madre,
illuſtre per diadema, venerabile per impero, ſplen
dida per ricchezze 5 Madre a cui nulla mancaſſe,
o di grandezza per ſuo decoro, o di delizie per
ſuo piacere i poteva egli colmarla di onori, di
autorità, di potenza, e fornirla a dovizia di tutti
que'beni, che ſoli appagano le ingorde brame
di un Mondo ingannato, eppure nulla di queſto.
A preparare una Madre degna di un Dio im
piegò l'onnipotenza ogni ſuo sforzo in queſto
ſolo, che in quell'iſtante in cui tutti compajono
deformi per colpa, ella brillaſſe luminoſa per gra
zia. Queſta sì, queſta fu la prerogativa, per cui
Maria fu innalzata ſopra il comune degli uomi
ni: queſto fu il pregio, per cui ella comparve
più grande d'ogni grande di queſta terra: que
ſto fu il carattere nobiliſſimo della deſtinatale Di
vina Maternità; e con queſto fà l'Eterna Sapien
za conoſcere qual foſſe la ſtima ſua, e qual eſ.
ſer debba la noſtra di quella grazia, che ci ſan
tifica.
E vaglia il vero, Uditori, ſe mirar vogliamo
la grazia con uno ſguardo di fede, che non vi
ſcor
Per la Domenica ſeconda dell'Avvento. 3 I
ſcorgeremo di grande! Mirate quant'ella è pre
zioſa; ove di queſta portin l'impronto le noſtre
azioni, diventano ſubito prezzo baſtevole per
l'acquiſto del Cielo; e dove ſenza la grazia an
che le più eroiche impreſe ſono in ordine al pre
mio eterno di niun valore, con la grazia le ope
re anche più picciole, anche più abbiette, tanto
vagliono, quanto il Paradiſo medeſimo. Mirate
quant ella è bella; ove di eſſa vadane ammantata
un'anima, più non vi vuole, perchè ella ſia og
getto di compiacenza agli occhi di Dio, e tutto
che racchiuſa ella ſi trovi in un corpo o vile per
naſcita, o putrefatto per piaghe, o per macchie
deforme, contuttociò dà ella di ſe viſta sì vaga,
che Dio, non ſapendo per dir così finir di mi
rarla: Quam pulchra es! va ſclamando, amica Cant.,
mea, quam pulchra es. Mirate, quant'ella è no
bile s ognun ſa di quant'umile ſchiatta noi ſia
mo, o ſe ne conſideri il nulla da cui fummo
tratti, o il loto, di cui fummo compoſti, o il
peccato, con cui vennimo a queſta luce; eppure
ove all'eſſer noſtro un grado ſolo di grazia ſi
uniſca, innalzati veniamo a ſtato sì eccelſo, che
ſormonta, quantº ha d'illuſtre natura tutta ; ed
è tale l'onore, tale la dignità, ch'ella ci confe
riſce, ch' egli è poco l'eſſere con tutto rigore
di verità chiamati amici di Dio, poco l'eſſere
riconoſciuti figliuoli addottivi di Dio, poco l'eſ
ſere dichiarati legittimi credi di Dio. Che più ?
Giungiamo a tanto di nobiltà, che con una co
municazion di ſoſtanza la più maraviglioſa, e
inſieme la più ſublime, che concepir mai ſi poſ
fa, ſiam fatti partecipi della natura ſteſſa di Dio:
Divin e conſortes natura. Chi l crederebbe, ſe la 1.Pet,
fede medeſima con la penna di S. Pietro non
l'atteſtaſſe, - Or
32 Diſcorſo II.
Or quale ſtima non merita un ben sì grande,
un ben sì nobile, un ben sì prezioſo? Maggiore
ch' egli è, e infinitamente maggiore d'ogni be
ne di queſta terra, non è egli giuſto, che ad
ogni bene di queſta terra ſi preferiſca ? Eppure
diciamlo un poco con iſchiettezza, quale ſtima
ne abbiamo noi fatta? L'abbiamo noi preferito,
com'egli merita, ad ogni altro di queſti miſeri
mondani beni? Ah, che ſe ho mai deſiderate le
lagrime di Geremia, egli è certamente nel gior
no d'oggi, per deplorare, non dico ſolo la
ſcarſa ſtima, ma il poſitivo diſprezzo, che della
grazia ſi moſtra ! Qual bene omai vi ha tra i
Fangoſi di queſta terra, che non la vinca in con
fronto alla grazia? Dica pur quanto vuole l'An
gelico S. Tommaſo, che di quanto vi ha di ric
co nella natura, più vale un grado ſolo di gra
1. 2. 7 zia: Bonum grati e unius, majus eſt quam bonum
I 13art.
9.ad 2.
natura totius univerſi s laſcia perciò quel cuore
intereſſato di antiporre alla grazia un un vile gua
dagno? Ha bel dire S. Cirillo, che chi vuole vera
nobiltà, e ſoda grandezza, la cerchi per mezzo
della grazia nella figliuolanza eccelſa di Dio: Fa
ſtigium nobilitatis eſt interfilios Dei computaris
ſi aſtien egli perciò quello ſpirito vano di an
dar in traccia per vie anche inique degli cfimeri
ingrandimenti di queſta vita, meglio, che figlio
di Dio, amando vivere ſchiavo del Mondo? E
gli è pur certo, che adunate in una quante ſono
al preſente, e poſſon eſſere doti naturali negli
Angioli, ſarebbono di gran lunga men belle di
quel, che ſia la grazia, chiamata perciò dal Dot
tore Serafico: Primum & excellentiſſimum inter
dona creata: Eppure quanti, quante con iſca
pito della grazia o coltivano in ſe, o idolatra
mO
Per la Domenica ſeconda dell'Avvento. 33
no in altri tutt'altra bellezza. Si ha pur nella
grazia il pegno più certo dell'amicizia di Dio, e
il dono più ſplendido della ſua beneficenza: Om
mium Dei beneficiorum, come la chiamò S. Dio
nigi, praclariſſimum, quanti nulla dimeno, e quan
te preferiſcono alla grazia divina le vane, e ſpeſ
ſo ancora le impure ſperanze di un'amicizia crea
ta! O Santo Giobbe, ben aveſte ragione di dire,
che l'uomo non ne conoſce il ſuo prezzo: Ne- io,si
ſcit homo pretium eſus ! Tanta ſtima delle gran
dezze del Mondo, degli onori del Mondo; delle
amicizie del Mondo; e della grazia, che porta
ſeco amicizia di Dio, figliuolanza di Dio, par
tecipazione di Dio, poſſeſſo eterno di Dio, sì po
ca, o per dire più giuſto, niſſuna ſtima: Neſcit,
neſeit homo pretium eſus. O lagrimevole inſenſa
tezza ! Quis dabit, sì ch'egli merita, che più
con le lagrime, che con le parole deploriſi un
sì luttuoſo
quam, diſordine:
ci oculis Quis lacrymarum,
meis fontem dabit capiti meo a Jer.
d plo- y3
rabo die ac notte. Sebbene, ah che il diſordine piut
toſto che pianto chiede riparo. Un'occhiata per
tanto, cari Uditori, un'occhiata vi chieggo a
queſto Gesù: Miratelo ſu queſto tronco per voi
crocifiſſo, morto per voi, e imparate una volta
qual della grazia eſſer debba la noſtra ſtima. Ve
dete voi queſti ſquarci, che sì lo sformano? Sap
piate, ch'ei gli ha tollerati per abbellir voi con
la grazia ; vedete voi queſta Croce, ſu cui lan
guiſce ? Sappiate, che ivi è ſalito per innalzare
voi alla grazia; vedete voi queſto prezioſiſſimo
Sangue, che ſino all'ultima goccia ſparge dalle
ſue vene ? Sappiate, ch'egli è lo sborſo, che ha
fatto per comperarvi la grazia; e voi della ſua
grazia ne fate sì poco conto, che per un ca
Anno IV. Tomo l/, C priccio
34 Diſcorſo II.
priccio, per un piacere, per uno sfogo, per un
guadagno, per colui, per colei la rinunziate, la
diſprezzate, la buttate da voi. Criſto la ſtima
tanto, e noi sì poco! E chi, dilettiſſimi, chi dei
due s'inganna ? Noi, o Criſto? noi, che prefe
riamo alla grazia beni viliſſimi, o Criſto, che
tanto la ſtima, quanto il ſuo ſangue, quanto
la ſua vita, quanto i ſuoi meriti. Chi dunque,
dite, dilettiſſimi, chi dei due s'inganna ?
Ah Gesù caro, gl'ingannati ſiam noi, noi che
acciecati dalle noſtre paſſioni, facciamo sì poca
ſtima di quella grazia, di cui ſono prezzo le
voſtre pene, e il voſtro Sangue. Riconoſciamo
confuſi l'inganno noſtro, e pel voſtro Sangue me
deſimo, per le voſtre pene, vi ſupplichiamo ad
averci pietà. Più non ſarà, no: più non ſarà, vel
promettiamo di tutto cuore, più non ſarà, che di
ſprezziamo nell'avvenire un bene, che tanto va
le, quanto la vita di un Dio. Voi intanto coi
voſtri lumi fate, che ne conoſciamo ſempre più
il prezzo; ve ne preghiamo per quelle piaghe
ſantiſſime, che ne voſtri Piedi adoriamo; affin
chè creſcendo con la cognizione la ſtima, ſia
mo ſempre diſpoſti a perder piuttoſto qualun
que altro bene, che mai perder la voſtra gra
nezia.
Pgs- Dobbiamo eſſerne vigilanti cuſtodi per conſer
To II. varla. S'egli è vero, Uditori, com'è veriſſi
mo, che un teſoro con tanto più di cautela ſi
cuſtodiſce, quanto maggiore è il riſchio di per
derlo, chi di voi mi negherà, che ſomma non
debba eſſere l'attenzion noſtra nel cuſtodire la
grazia, ch'è tutta la ricchezza della noſtr'ani
ma: Date ſolo un'occhiata a quella creta, che
ci compone, e poi dite a me, ſe un s" S1
- - C
Per la Domenica ſeconda dell'Avvento. 355
degno, racchiuſo in un vaſo sì fragile, non corre
di continovo un grande pericolo di ſmarrimen
to: Habemus theſaurum iſtum ( così ne ſcriſſe, cora
l'Appoſtolo per riſvegliare in noi col timore di
perderlo la cautela nel cuſtodirlo ) in vaſis fi
filibus. Aggiungete, che con un pegno per una
parte sì ricco, per l'altra sì mal difeſo: abbiamo
a camminare per vie, lubriche per paſſioni, che
ci luſingano, oſcure per ignoranza, che ci ac
cieca, ſoſpette per inclinazioni, che ci tradiſcono,
mal ſicure per nimici, che c'inſidiano, per vie
in ſomma, nelle quali più che i paſſi ſono i pe
ricoli. Qual vigilanza pertanto richiedeſi, affin
chè un teſoro di tanto prezzo mai non ſoggiac
cia alla rapina di un qualche ladro dimeſtico, o
al ſacco di un qualche aſſalitore ſcoperto.
Io non ſaprei, Uditori, d'onde meglio, che
da Maria prender l'idea d'una cuſtodia così im
portante. Ma prima rammentivi ciò, che dell'
odierno miſterio le ſcuole c'inſegnano: che mer
cè i privilegi fatti oggi da Dio alla Concezion
di Maria, ella andò libera da quell'orrida cat
tività, in cui tutta geme la diſcendenza di Ada
mo, libera da quel fomite, che dalla concupi
ſcenza in noi ſi accende, ſorgente funeſta d'o-
gni noſtro diſordine, libera da quelle rivolte in
teſtine, che dentro di noi ſi ſollevano dalla car
ne contro lo ſpirito: Ma queſto è il meno; ram
mentivi, che Maria non ſolo nel ſuo primo i
ſtante fu Santa, ma confermata eziandio nello
ſtato della ſantità, ſicchè come fu ella per fa
vore ſingolariſſimo reſa impeccabile, così la gra
zia di cui apparve sì riccamente abbellita, fu gra
zia punto non ſoggetta, non dico a perderſi,
ma nè pure a ſcemarſi. Udite ora, e ſe potete,
- C 2 - tratto
36 Diſcorſo II.
trattenete le maraviglie: Così com'ella era ſicu
riſſima di non mai perdere il bel teſoro, che
poſſedea, cuſtodillo nulla dimeno mai ſmpre con
tal vigilanza, con tale attenzione, che di più
non avrebbe potuto, s'ella in verità foſſe ſtata la
più in pericolo di ſmarrirlo. Sempre himica d'o-
gni pompa di Mondo, lontana ſempre da ogni
commerzio del ſecolo, amò a tal ſegno la riti
ratezza, che fin turbolla la comparſa di un Angio
lo in forma d'uomo. Chi può ridire qual foſſe la
ſua parſimonia nel cibo, quale negli occhi la ſua
modeſtia, quale nelle parole la ſua cautela, qua
le in ogni ſuo portamento la compoſtezza! Avre
ſte detto al vederla, che mal ſicura di ſe, temeſ
ſe di tutto; tanta era in tutto la ſua circoſpezio
ne. Argomentate ora, e dite, ſe Maria tutto che
immune da ogni ſtimolo, che l'inchinaſſe al
peccato, vegliò nulla dimeno sì attenta ſu ſe me
deſima, come, e quanto dobbiamo noi vegliar
ſu noi, noi dalle paſſioni si combattuti, noi dal
ia malizia così acciecati, dalla concupiſcenza sì
ſpinti al male? Se Maria fornita di una grazia inal
terabile, ineſpugnabile, e per parlar con le ſcuole
inamiſſibile, pure la cuſtodi con attenzione sì ſol
lecita; noi, che tante volte poſſiamo perderla,
quanti ſono i pericoli, che ci aſſediano, quante le
tentazioni, che ci ſorprendono, quanti i nimici,
che dentro e fuori ci fanno guerra, potremo noi
mai per conſervarla moſtrarci abbaſtanza ſolleciti?
Ma che farebbe, dilettiſſimi, ſe mentre Ma
ria è sì attenta a cuſtodire una grazia, che non
può perdere, noi sì ſoggetti ad iſmarrirla; an
zichè ſottrarla dai riſchi, ai riſchi medeſimi la
eſponeſſimo ? Ah, cari uditori, convien pure
ch'io lo dica, e piaccia almen a Dio i il
1IlO
Per la Domenica ſeconda dell'Avvento. 37
dirlo ſia di profitto per più d'uno forſe, e per
più d'una, che quì mi aſcoltano. E può ella
co..ſervarſi la grazia in quelle converſazioni,
dove i motti, dove le occhiate, dove le dime
ſtichezze, dove le indecentiſſime ſgolature, fan
no della modeſtia ſpietatiſſimo ſcempio? Può
ella conſervarſi con quelle amicizie fomentate
non meno con ſegrete corriſpondenze, che con
paleſi corteggi? Può ella conſervarſi in quei ri
dotti, in quel circoli, ne'quali vanne con detra
zioni e con ſatire sì sfregiata la carità ? Può lla
conſervarſi in quelle partite di giuoco così vizio
ſo; e di giuoco, in cui con profuſion enormiſſi
ma tanto ſi butta e di denaro, e di tempo? Può
ella conſervarſi con avere ſotto agli occhi quei
libri, che o infettano la religione con le lorno
vità, o avvelenano co' loro amori i coſtumi ? Io
non ſo, dilettiſſimi, ciò che voi nel voſtro cuore
ve ne diciate; ſo ben ciò che ne laſciò ſcritto
gregorio il Grande: Depredari deſiderat qui the Hon.
ſaurum publice portati in via L'eſporre a sì fatti ".
pericoli il teſoro ineſtimabile della grazia, è un
cercar chi lo involi, e un volerlo perdere a bella
poſta, egli è un evidentiſſimo farne getto.
Almen ſi moſtraſſe, dopo averlo perduto, ſol
iecitudine di riacquiſtarlo. Ma quanti (o Dio!)
quanti paſſano nel miſero loro ſtato le ſettima
ne, ed i meſi, ſenz'avvederſi, o almen ſenza
cruciarſi della funeſtiſſima loro ſciagura ? Ah ſe
mai aveſs io queſta ſera preſente talun di coſtoro:
imparate, gli vorrei dire, dall'odierno miſterio,
che triſto, che deforme ſtato ſia il voſtro. Il
divin Figlio non può nè pure per un momento
ſoffrire ſenza grazia la madre. Non rifiuta egli
di venire alla luce in una ſordida ſtalla: non ri
- C 3 fiuta
38 Diſcorſo II.
fiuta di paſſare i ſuoi giorni in poveriſſimo al
bergo : non rifiuta di laſciare la vita ſopra tron
- co infamiſſimo: Ma naſcere da una madre, che
per un iſtante ſolo ſia ſtata infetta da colpa, o
queſto no, o queſto no: tanto ha egli in orrore
un'anima ſenza grazia; e voi, o miſero, ve la
paſſate ridendo, ſordo ai rimproveri, che ve ne
fa la coſcienza, inſenſibile alle minacce d'un
Dio ſdegnato, ſenza pietà di voi medeſimo, che
già già ve ne ſtate con un piè nell'Inferno! O
ſe ſapeſte qual teſoro vi manca, or che vi man
ca la grazia : Si ſcires donum Dei, ſi ſci
res. Ma io non poſſo credere, che in un gior
no di sì diſtinta pietà, tra voi ſi trovi un'ani
ma sì diſgraziata; onde tutto lo zelo rivolgo
ad inculcar la cuſtodia del bel teſoro, che poſ
ſedete. Deh, miei dilettiſſimi, ſe per conſerva
re la roba, la ſanità, la riputazione, non vi
ha induſtria, che non ſi adoperi; perchè non mo
ſtreraſſi premura uguale di conſervare un bene
tanto più degno, qual è la grazia ? Lungi per
tanto dalla voſtra lingua quegli equivoci: lungi
dalle voſtre mani que viglietti: lungi dal voſtro
cuor quegli amori: lungi quegli odj. Prontezza
in iſcacciar que penſieri: vigilanza in ribattere
quelle tentazioni: coraggio in reprimere quella
paſſione, e ſopra tutto, fuga coſtantiſſima, fu
ga delle occaſioni pericoloſe. E non baſta, U
ditori, che il noſtro nimico tenti ogni arte per
involarci la grazia, ſenza che noi medeſimi lo
invitiamo a rapircela? Non baſta, che i pericoli
ſi preſentino non cercati, ſenza che noi medee
ſimi andiamo ſpontanei ad incontrarli ? O gra
zia, bella grazia, ſe foſſi tu conoſciuta, non è
già vero che ſareſimo nel cuſtodirti sì poco
attenti !
Per la Dom. ſeconda dell'Avvento. 39
O Gesù mio, quanto io mi confondo della
poca premura, con cui ho finora cuſtodita la
voſtra grazia ! Inorridiſco al penſier dei perico
li, ai quali l'ho eſpoſta. Sì, mio Gesù, ne inor
ridiſco qualor vi rifletto. Un teſoro sì bello,
un teſoro così prezioſo, oh Dio come l'ho tra
ſcurato! Conoſco il mio torto, Gesù mio ca
ro, e lo confeſſo, e lo deteſto; ma ſon riſolu
to vegliar d'or avanti più attento alla cuſtodia
di sì gran bene: Fuggirò i pericoli, frenerò i
miei ſenſi, mortificherò le mie paſſioni. Voi aſ
ſiſtetemi col voſtro ajuto; ve ne prego per
quelle Piaghe, che adoro nelle voſtre Mani
ſantiſſime. Voglio, sì, ad ogni coſto lo voglio,
che in me ſi conſervi queſto bel pregio di bea
ta eternità. Sicchè con queſto nel cuore viven
do, con queſto ancora nel cuore mi meriti di e
mOrll C. - PUN
Dobbiam eſſerne trafficanti induſtrioſi per ac-,i.
creſcerla. Queſta terza corriſpondenza, che la
grazia richiede, ſpiccò pur bene in Maria. Avea
ella ricevuta nel primo iſtante dell'eſſer ſuo
grazia così copioſa, che potea dirſi pienezza di
grazia: non perchè giunta già al ſommo, capa
ce più non foſſe di accreſcimento: ma perchè
l'abbondanza fu tale, che più ella ricevette di
grazia in quel primo momento, di quello, che
ne aveſſero mai conſeguito, o foſſero mai per
conſeguirne tutti inſieme i Cori degli Angioli,
e tutte inſieme le ſchiere de Santi: ond' ebbe a
ſcrivere S. Girolamo: Ceteris per partes, Marie
ſe infundit tota plenitudo gratiae. Eppure in tan
ta pienezza di grazia credete voi, che Maria
contenta di nulla ſminuire di capitale sì vaſto,
non ſi deſſe penſiero di assier Tante"
4 ll
4O Diſcorſo II.
fu paga di ſolo cuſtodire il già ricevuto, che al
tra mira non ebbe mai, che di creſcere ſempre
di merito in merito, e di ſantità in ſantità:
qual potè mai noverarſi momento di vita ſua,
che impiegato non foſſe o in ſanti penſieri, o
in affetti ferventi, o in operazioni virtuoſe ? Fi
no gli anni dell'infanzia più tenera, fino i me
ſi, che paſsò tra le ombre del ſen materno, fin
le ore, che diede al neceſſario riſtoro del ſon
no, non andarono ſenza frutto di meriti. Tan
to fu ella intenta a far della grazia continovo
traffico, bramoſa tanto più di arricchirſene, quan
to ſe ne ſcorgea più ricca. Nè dee recarci ſtu
pore, Dilettiſſimi, che a Maria ſteſſe sì a cuo
re un accreſcimento sì vantaggioſo. Sapea ben
ella, che la grazia ci ſi dà eſpreſſamente da
Dio, perchè ſe ne faccia commerzio: Sapea,
che la grazia è un fondo, da cui eſige Dio mol
tiplicato il frutto: Sapea in ſomma, che la
grazia è un capitale, a cui non può farſi torto
maggiore, che col laſciarlo in ozio. E però vol
le col ſuo eſempio inſegnarci il traffico, che
haſſene a fare, non meno in oſſequio di chi la
dà, che in vantaggio di chi la riceve.
E in verità, cari Uditori, avete voi mai ri
flettuto a quel negotiamini, dum venio, che il
Lue. 19
Redentore c'ingiunge? Con queſto traffico, a s
cui ci obbliga, che credete voi ch'egli pretenda?
Ch ogni induſtria noſtra ſi occupi in aggiugne
re comodi a comodi, ricchezze a ricchezze, o
nori ad onori? Penſate. Pretende, come tutti
ad una voce i Santi Padri ci accertano, preten
de, che mettaſi per dir così a banco, e quan
to ſi può ſi moltiplichi il talento prezioſiſſimo del
lagrazia, ch'ei ci ha rimeſſo. Queſto egli pretende,
queſto
Per la Dom. ſeconda dell'Avvento. 41
queſto egli vuole in maniera, che a chi lo traffica
bene promette premj, e quai premj! e a chi lo ſcia
lacqua, minaccia gattighi, e quai gaſtighi! Sic
chè ove a far della grazia un buon impiego
non ci veniſſe dagli eſempi di Maria la ſpinta,
ci vien queſta, e ci vien gagliardiſſima dal co
mando di Criſto. Or qual è, Dilettiſſimi, l'uſo,
che noi facciamo? Non parlo già di quella
grazia, che nel ſanto Batteſimo ci fu data: Ah
miſeri! Quanti di noi hanno a piangerne la
perdita lagrimevole, che ne hanno fatta pec
cando! Parlo di quella, che la Divina Miſe
ricordia nella Sagramental Penitenza ci ha ri
donata: di queſta sì, qual è l'uſo, che ne fac
ciamo? Si penſa, ſi ſtudia, ſi travaglia per ac
creſcerla? Se dò d' ogni intorno un'occhiata ,
veggo induſtrie, veggo fatiche, veggo ſolleci
tudini: ma, oimè ! Fatiche, induſtrie, ſollecitu
dini, che mirano a tutt'altri accreſcimenti, che
della grazia. Veggo chi ſi affaccenda per cre
ſcer di poſto, veggo chi ſi ſtrugge per creſcere
in facoltà, veggo chi ſi lambicca per creſcere
in dottrina, veggo chi ſi conſuma per creſcer
di ſtima, e veggo perfino chi ſi rovina per cre
ſcere in faſto. Ma per creſcere nella grazia, dove
ſono le induſtrie, dovele fatiche, dove le ſollecitudi
ni? Se ne farebbe pure un bel traffico con la pie
tà verſo Dio, con la carità verſo i poveri, con
la frequenza de Sagramenti, con le opere di
ſalutar penitenza. Ma queſte dove ſono, Dilet
tiſſimi, dove ſono ? Poſſibile dunque, che ſi
abbiano tutto giorno a vedere moltiplicate le
pompe, e non la grazia, moltiplicate le mode,
e non la grazia, moltiplicati fino nei giorni più
ſagroſanti dell'Avvento i giuochi, i
-
º" y NC .
1.
42 Diſcorſo II. -

divertimenti, e non la grazia: O Fede, o Re


ligione, o Vangelo! e quale onta dee mai eſ
ſere la moſtra al vedere nel Criſtianeſimo, che
dove ſi tratta di temporali guadagni, tutto è fer
vore, e dove ſi tratta di ſpirituali vantaggi, tut
to è freddezza! Troppo avrei, che dire, Udi
tori, ſe voleſſi a queſto confronto permettere
allo zelo un po di sfogo: Ma laſcio tutto, e ſol
domando: qual dei due acquiſti ſia più per con
ſolarvi nel punto di voſtra morte, acquiſto di
grazia, o acquiſto di denaro sacquiſto di gra
zia, o acquiſto di titoli; acquiſto di grazia, o
acquiſto di fondi? Se l'acquiſto di denaro, di
titoli, di fondi, via, dirò, creſcaſi alla buon'o-
ra in denaro, in titoli, in fondi: Ma s'egli è
vero, come niun di noi certamente ne dubita,
che queſti ſi hanno in punto di morte a laſcia
re, e che la ſola grazia Divina è quel capitale,
che ſi può recare con noi al Tribunale di Dio,
chi non vede, che dal ſolo acquiſto di queſta ſi
può in quel momenti ſperare conforto? Che
follia dunque ella è mai, che ſtupidezza, pen
ſar tutto dì ad acquiſti, che in quell'ora vi
mancheranno, e di quello, che mancar non
potrebbevi, non darvene alcun penſiero?
Se almeno non curandovi di accreſcimento
di grazia, foſte ſicuri di mantenervi nel capita
le in cui ſiete, pazienza, tutto il male finirà in
vedere a ſcarſi meriti corriſpondere ſcarſo pre
mio, e a poco di grazia poco di gloria. Ma
la coſa non va così, Dilettiſſimi, non va così.
Il capitale della grazia egli è di queſt'indole,
so, s. che ſe non ſi accreſce, ſi ſcema ; e ne perde
de Paſi un poco chi nulla vi aggiunge: Qui non pro
ficit, udite ſe può parlare più chiaro
-
".
tCſ1CC
Per la Dom, ſeconda dell'Avvento. 4;
tefice S. Leone: qui non proficit, deficit, c qui
nihil acquirit, non nihil perdit, e l'imparò il
Santo Pontefice dal Redentore medeſimo, il qua
le inſegnò, che abbonderà nella grazia, chi di
quella, che ha, ne fa un buon uſo: e che all'
oppoſito, chi non accreſce quel poco, che ha,
di quel poco medeſimo anderà privo: Habenti Mith.
dabitur & abundabit, ei autem qui non habet, ”
& quod videtur habere, auferetur ab eo. Quin
di è, che S. Pietro eſortando alla perſeveranza
i primi Fedeli, non ſi contentò di dir loro, che
conſervaſſero vigilanti la grazia, ma diſſe, che
ogni sforzo faceſſero per accreſcerla: Creſcite in 2 Petr.
gratia, affinchè noi ancora intendeſſimo, che º
grazia non trafficata preſto ſi perde.
Dove ora ſono quel pigri Criſtiani, che van
dicendo: a me baſta d' eſſere in grazia: che poi
queſta accreſcaſi, o nò, poco importa. O ce
cità, o ſtupidezza ! Importa tanto, quanto o lo
andarne ben ricchi, o l'andarne del tutto pc
veri. Anche quel ſervo infingardo, dicea tra sè:
a me baſta, che il talento dal Padrone rimeſſo
mi non ſi ſmarriſca: che poi non mettaſia frut
to, nè ſi moltiplichi, poco importa: Ma ben
gli fè provare quanto importaſſe al ſuo arrivo
il Padrone, che ſcopertane la pigrizia: ſervo in
degno, gli diſſe, così hai trafficato il talento,
che ti ho rimeſſo. Io mi aſpettava di vederlo
dalla tua induſtria moltiplicato, e tu codardo
hai meglio amato ſeppellirlo nell'ozio ! Su, mi
niſtri dell'ira mia, togliete a coſtui l'abuſato ta
lento, e vada il vigliacco ad iſcontare tra gli
orrori di buio carcere la ſua ſpenſieratezza:
Tollite ab eo talentum, 6 inutilem ſervum eſi. Mºtih.
cite in tenebras eſteriores. Cari miei us" io º 5°
C11
44 Diſcorſo II.
den ero, e ſa quei Dio, che ci è preſente, con
quanto ardore deſid ro, che ſia ſantificato dal
la grazia l'eſtremo voſtro reſpiro: Ma quanto
temo, che per più d'uno ſiano vani, ed in u
rili i miei deſiderj Troppo in molti, ah troppo
in ella è grande la traſcuranza nel trafficare
con ſante operazioni la grazia ! Ora ſi ſpaccia,
che non ſi puo, ora che non ſi ſa, ora che non s
ſi ha tempo, ed ora che non ſi ha il modo;
la realtà ſi è, che mai non mancano di prete
ſti per ſottrarſi dal ben operare. E non avrò io
a temere, che ſervi così diſutili, così ſcioperati
non ſieno per eſſere nel punto della lor morte
confinati nel baratro di eterne tenebre? Sì, miei
Dilettiſſimi, che lo temo ; lo temo, e piaccia
a Dio, che p r colui, per colei sì ſpenſierati,
sì tiepidi il mio timor non ſi avveri.
Ah nò, mio buon Gesù, non permettete,
che vi ſia tra noi alcuno, che debba qual ſervo
inutile morire privo di voſtra grazia ! Voi, che
voleſte, che foſſe in grazia il primo iſtante
della vita di Maria Santiſſima ; deh concedete a
me, e a quanti quì ſiamo, che ſia in grazia
l'ultimo cella vita noſtra. So, ch'io non meri
- to, nè meritar mai potrò benefizio sì grande ,
ſpero contuttociò d' ottenerlo, perchè l'implo
ro, e lo domando per quella Piaga ſantiſſima,
che adoro nel voſtro Coſtato; e l'imploro al
tresì, e lo domando per i meriti della voſtra
puriſſima M dre, e per la ſua Immacolata Con
cezione. Affinchè più ſicuramente l'ottenga, fa
te, vi ſupplico, ch'io ben conoſca il prezzo
ella voſtra grazia, e la ſtimi quant'ella me
rita, ch'io la cuſtodiſca con vigilanza, e la con
ſcavi fino alla morte. Fate, ch'io la ta" COII
- - ant C
Per la Dom, ſeconda dell'Avvento. 45
ſante induſtrie, e ſempre l'accreſca: Sicchè do
po un teſoro copioſo di grazia raunato in que
ſta vita, meriti di paſſare nell'altra al poſſeſſo
di un teſoro copioſo di gloria.

D I S C O R S O I I I.
PER LA D o M E N I CA T E R ZA
D E L L' A V V E N T O.
Amore dovuto a Criſto,
-

Dirigite viam Domini. Joan. 1.

s": - 'egli è vero Uditori, che amor chie:


:º; de amore, io non ſo intendere,
i S . 3 come avvenir mai poſſa, che nell'
i sx, º amare Gesù il noſtro cuor non ſi
º grS ſtrugga. Portatevi col penſiero a
Betlemme, e mirate ſe potea Gesù
darci dell'amor ſuo prove più chiare. Fattoſi per
noi bambino, eccolo in rozza, e vil capanna
cominciare tra patimenti una vita, che tutta do
vrà impiegarſi a pro noſtro. Indubitabile fede ci
dice pure, che ſoto tenere membra incompara
bile Divinità ſi naſconde: Eppure mirate a che
l'amor l'ha condotto; quì non vedete nè ap
parato di magnificenza, che metta in ſogge
zione l'acceſſo ; nè lampi di maeſtà, che iſpi
rin terrore, più che riſpetto. Umiliazioni, pa.
il IXAC1ìt1
46 Diſcorſo III.
timenti, povertà, ſolitudine, ecco tutto il cor
teggio, con cui fa nel Mondo la ſua prima com
parſa un Dio fatt Uomo, e ſe di naſcita si pe.
noſa, e sì umile ne chiedete il perchè, vi di
rà Pier Griſologo, che così Gesù nacque, per
chè preteſe così di accendere coll'amor ſuo verſo
di noi l'amor voſtro verſo di lui: Sic naſci voluit, qui
voluit amari. Or come va mai, cari Uditori, che in
viſta d'un amore sì acceſo verſo di noi, non arda di
bell'amore il cuor noſtro verſo di Criſto! Come va,
che avendo Gesù cominciato ad amarci ſin da'
primi momenti di ſua vita, noi dopo tanti an
ni di vita non cominciamo una volta ad amar
io da vero! Avraſſi dunque a veder ſempre tra
Criſto, e noi diſcrepanza sì moſtruoſa! Sebbe
ne nò, che temer non poſſo in Udienza sì pia
diſcordanza sì luttuoſa. So, che non avvi tra voi
alcuno, che a ſuo gran pregio non rechiſi d'
amar Gesù, e prova mi è del voſtro amore il
ſeguir, che oggi fate l'invito di Chieſa Santa,
che in queſti giorni con le voci del Precurſore
di preparare v'intima al Divino Infante conde
gno albergo: Dirigite viam Domini. Ciò ſolo
di che forſe temer io poſſo, ſi è, che l'amor
voſtro verſo Gesù non ſia, qual Gesù ſteſſo da
voi lo brama, e vale a dire, che non ſia un a
more, che a quel di Criſto ſi raſſomigli. E
però contentatevi, ch'io queſta ſera per diſpor
vi a porgere in queſti giorni a quel Dio, che
naſce tributi d'amor gradito, vi eſponga le pre
rogative, che giuſta l'idea dell'amor di Gesù
verſo di noi, aver dee l'amor noſtro verſo di
lui. L'amor di Gesù verſo di noi fu in primo
luogo amor, che operò, e operò molto per
noi fu in ſecondo luogo amor, che "i C
OliIl
Per la Dom. terza dell'Avvento. 47

ſoffrì molto per noi: fu in terzo luogo amore,


che qual cominciò in Betlemme, tale manten
neſi ſino al Calvario: ed eccovi con ciò deſcrit
to qual eſſer debba l'amor noſtro verſo di Cri
ſto. Debb'eſſere amor operoſo, lo vedremo nel
primo punto: debb'eſſere amor ſofferente; lo
vedremo nel ſecondo punto: debb'eſſere amor
coſtante, lo vedremo nel terzo punto: Co
minciamo.
morIl operoſo.
noſtro amor verſo Criſto
So, Uditori, eſſer debbe
che ognun un in-
di voi, a-PUN
To I.

terrogato ſe ami Gesù, con tutta franchezza ri


ſponderebbe, sì, ch'io l'amo, e come nò? Egli
è il mio Legislatore, il mio Redentore, il mio
Dio, e può cader in dubbio s'io l'ami! Eppu
re perdonatemi, cari Uditori; ma ſe ho da par
lare con iſchiettezza, o quanto temo, che più
d'uno, più d'una, che si francamente riſpon
dono d'amar Gesù, in verità non lo amino !
E che? credereſte voi forſe, che l'amore a Ge
sù conſiſta in certe proteſte, quanto ſpecioſe,
altrettanto infeconde , che di quando in quando
ſi fanno ? In certe offerte, quanto ampie, al
trettanto inefficaci, con le quali l'anima ſi of.
feriſce tutta a Gesù, ma ſenza dargli mai nul
la ? Certamente che nò, perchè a dar prova
d'amor ſincero vi vuol altro, che belle parole:
Nè in inganno punto minore ſareſte, ſe di ve
ro amor vi pregiaſte, ad ogni ſoſpiro, che vi
eſca, affettuoſo dal petto, ad ogni affetto, di cºri
ne vada intenerito il cuore, ad ogni lagrimuz
za, che vi ſgorghi dolce dagli occhi, ad ogni
fiammella di cui vi ſentiate ardere l'anima :
uanto è facile, che un'affezion naturale ſi
creda impulſo della grazia che impulſo della
grazia
48 Diſcorſo III.
grazia ſi giudichi corriſpondenza del cuore che
prendaſi per amore l'iſpirazion ad amare! che
certe tenerezze infuſevi nell'anima dalla divi
na liberalità, ſi ſtimino sfoghi amoroſi di volon
tà infervorata! Nò, miei Dilettiſſimi. Se nell'a-
more, che dobbiamo a Gesù non vogliamo
prendere abbaglio, non d'altronde abbiamo a
trarne l'indizio, che dalle opere s ove man
chino queſte, ſembri a noi ciò, che ſi vuole
THomil dell'amor noſtro, Gregorio il grande ce lo da
" per falſo; Nec tamen ſibi aliquis credat, quid
Evang. quid ſibi animus ſine operis atteſtatione reſpon
derit. Amor, che non opera, è un ombra, una
Homil. maſchera, un fantaſma di amore: Si operari re
º nuit, amor non eſt.
E con ragione, perchè l'amore è come il fuo
co, e al fuoco appunto nelle ſagre carte ſi raſ
ſomiglia. Or chi non ſa, che il fuoco nulla più
abborre, che l'ozio ? Sempre in movimento,
ſempre in azione, c arde, e ſplende, e illumi
na, e accalora , infin che può ſi ſolleva, e quan
to più può ſi diſtende. Seppellito ſi diſſoterra, e
con qual impeto ! trattenuto vince ogni oſta
colo, e con qual forza ! imprigionato ſi apre l'u-
ſcita, e con quale violenza! ſempre moſtran
doci, che ozio, e fuoco mai non ſi accordano.
Or tale, dice il citato Pontefice, ſi è l'amore:
idibid. Nunquam eſt Dei amor otioſus, e tanto non può
trovarſi un amor, che non operi, quanto è im
poſſibile un fuoco, che non riſcaldi, che non
illumini, che non divampi dilectio vacare non
poteſi : Fu ſentimento ancor di Agoſtino. E for
ſe non fu così l'amor, che Gesù portò a noi?
Non fu egli già pago, che ſi fermaſſe il ſuo a
more, dirò così a fior di labbra; Più che º
C
Per la Domenica terza dell'Avvento. 49
le parole, dimoſtrarcelo volle con opere. Nacque
per noſtro amore, e per noſtro amor egli viſſe,
per noſtro amore morì , quanti paſſi " diede,
e furono ſenza poſa, quanti ſudori egli ſparſe,
e furono ſenza miſura, quanti prodigi operò, e
furono ſenza numero; tutti ebbero dalla ſua carità
verſo noi il moto, la ſpinta, e l'anima. Per dat
ci in più maniere a conoſcere il ſuo bel cuore,
di quante ſembianze, e tutte amorevoli ei ſi ve
ſtì ? or di Padre, che ci carezza, or di Maeſtro,
che c'inſtruiſce, or di Medico, che ci riſana, or
di Paſtore, che ci governa. Lo ſanno le contra
de della Giudea, che lo videro indefeſſo ſcorrere
que villagi, e dove paſcer famelici, dove con
vincere increduli, dove con la luce della dottri
na ſgombrar errori, dove con l'efficacia dello zelo
ſterpare abuſi, dove ad afflitti porger conforto,
dove ad infermi recar ſalute, dove ai peccatori
rimetter colpe, dove ai morti render la vita. Que:
ſto sì, dilettiſſimi, ch'egli è amare, perchè dell'
amore ſono altrettante le prove, quante ſono
della vita le operazioni. - -

Ora io ritorno a voi, Uditori miei dilettiſſimi,


e domando: Se voi, come andate dicendo, a
mate veramente Gesù, dove ſono le opere, che
diano dell'amor voſtro un atteſtato ſincero? do
ve ſono? Queſta è la pietra di paragone, con
cui a parere del citato Gregorio ſi dee diſcerne
re l'amor vero dal falſo : Probatio dilectionis ex
hibitio eſt operis. Che voi amiate la voſtra prole,
io lo ſcorgo e dalla tenerezza, con cui la ca
rezzate, e dall'attenzione, con cui la cuſtodite,
e dagli ammaeſtramenti, coi quali la educate;
che amiate la voſtra caſa, io lo ſcorgo, e dalla
ſollecitudine, con cui ne promovete gl'intereſſi,
Tomo IV, Anno IV, D e dalle
5o Diſcorſo III.
e dalle ſpeſe, con cui ne ſoſtenete il decoro, e dai
titoli, con cui vi sforzate di accreſcerne il luſtro:
Ma del voſtro amore a Gesù, che ſaggio ne date
voi, o ne avete voi dato fin ora ? Non occorre,
nò, dice il Griſoſtomo, che tutto di proteſtiate,
che lo amate più di voi ſteſſi. Queſte ſono pa
role, ed io domando fatti: Ne mihi dicas : aili
go Deum etiam pluſquam me ipſum: verba ſunt
iſta: oſtende hoc ipſis operibus. Taccia per un po
co la lingua, e parlin le opere: dove ſono le li
moſine a ſuoi poveri? Sapete pure, che Criſto è
di queſti ſommamente ſollecito, e che riconoſce
come fatto a ſe ſteſſo, ciò che ad eſſi vien fatto:
dove ſono le viſite a ſuoi altari? Sapete pure, che
gli ſono care, che le brama, e che le aſpetta, e
che ſi duole della ſolitudine, in cui ſi laſcia: dove
è l'acceſſo frequente alla ſua menſa ? Sapete pure
gl'inviti premuroſi, ch'egli vi fa, bramoſiſſimo
d'eſſere e voſtro paſcolo, e voſtra vita; dove in
ſomma ſono gli eſercizi di pietà ad onor ſuo in
trapreſi ? dove ſono ? Si chiamate a ſcrutinio la
vita voſtra paſſata, e fate di tutte le voſtre opera
zioni un giuſto calcolo, ſottraetene quelle, che ſi
ſono date agl'intereſſi, quelle che ſi ſono date al
piacere, all'ambizione, al genio, al Mondo, e poi
dite a me: Reſtano elleno molte le impiegate
a queſto fine di dare a Gesù una prova fede
le di un cuore amante?
Io ſo, dilettiſſimi, che una tal rifleſſione cavò
già dirottiſſime lagrime dagli occhi di S. Bernar
do. Ma per verità con quanto più di ragione a
vremo noi a confonderci, ſe a ſua imitazione en
traſſimo di quando in quando in noi medeſimi
e diceſſimo tra noi e noi : Io mi vo luſingando
di amar Gesù: ma in realtà, che ho fatt'io fino
I di
Per la Domenica terza dell'Avvento. 31
ra per dargli dell'amor mio contraſſegni non dub
bj: Sono già ſcorſi della mia vita tanti anni, do
ve ſono le ſettimane, dove i giorni, dove le ore
impiegate per lui? Se io lo amaſſi davvero non
ne imitarei gli eſempi, non ne ſeguirei i conſi
glj? e quel ch'è più, ſe lo amaſſi, l'offenderei
tuttodì, come purtroppo l'offendo? Ah, miei di
lettiſſimi, ſe la diſcorreſſimo così, ben ci avvedreſ
ſimo, che ſiamo illuſi, quando ſenza opere ci
perſuadiamo di amare, e dareſſimo un po più
di orecchio all'Evangeliſta S. Gioanni, il quale
ci avviſa, che a dar prove di amore non ci con
tentiamo di belle eſpreſſioni, di belle proteſte,
ma che con la ſincerità delle azioni diamo a ve
dere, che la lingua, e cuore, e mano vanno d'ac
cordo: Filioli non diligamus verbo, neque lin- .ro,
gua, ſed opere, o veritate. Ma il male ſi è, che
godiamo del noſtro inganno, e per timore, che
il vero amore troppo ci coſti, ci aduliamo col
falſo. Ma giorno verrà, cari Uditori, in cui que
ſto ſteſſo Gesù al lume veridico dell'eſtrema can
dela ci farà ben conoſcere il molto, che ſi è ſa
puto far pel Mondo, il molto che ſi è ſaputo
fare pei propri comodi, il molto, che ſi è ſaputo
fare per le vanità, ed il poco o nulla, che ſi è
ſaputo, che ſi è voluto fare per lui. Sembra a
voi, Uditori, che vorrà egli in que momenti,
moſtrar co fatti il ſuo amore a chi co fatti non
ha moſtrato in vita di amarlo ?
Io non ſo ciò che voi nel voſtro cuore giu
dichiate ; ma io certamente al ſol penſiero ne
innoridiſco, nè trovo altro partito, che di get
tarmi a voſtri Piedi o mio Gesù, e deteſtare que
ſta ſera la ſterilità del mio amore verſo di voi.
Voi per mio amore non vi ſiete riſparmiato in
D 2 nulla
52 Diſcorſo III. -

nulla, e dal primo momento del viver voſtro in


fin all'ultimo vi ſiete impiegato per me: E io
(o confuſione!) per amor voſtro ho fatto sì po
co, e queſto ſteſſo poco, sì male. Ah poteſſi io
richiamare gli anni traſcorſi, che mi ſono paſſa
ti sì ſterili, sì ozioſi, sì vuoti! Ma giacchè tanto
non poſſo, ricevete, o mio Gesù, in contraccam
bio il dolore, che ſento di non averli impiega
ti per voi. Più non ſarà, Redentor amabiliſſimo,
che l'amore, che vi profeſſo ſi fermi ſulle ſole
labbra, voglio, che paſsi dal cuore alla mano:
voglio che dalle parole paſsi alle opere. Voi aſ
ſiſtetemi con la voſtra grazia, che imploro per
e quelle piaghe, che adoro ne voſtri Piedi ſantiſsimi,
TF
UN
Il noſtro amor verſo Criſto eſſer dee un amor
ro II. ſofferente. Notaſte voi mai, Uditori, la circo
ſtanza del tempo, in cui Criſto con replicate do
mande accertar ſi volle dell'amor di S. Pietro?
Leggete l'Evangeliſta S. Gioanni, e troverete,
che fu allora, quando il Sant'Appoſtolo avve
dutoſi, che ſe ne ſtava in ſulla riva vicina il
divin ſuo Maeſtro, toſto dalla navicella, in cui
era, gettoſsi in mare per gire a lui: Cum audiſ
Ioan, ſet quia Dominus eſt, miſii ſe in mare. E potea
S. Pietro dar meglio a conoſcere, qual verſo
Criſto foſſe il ſuo cuore ! qual ſaggio più certo
potea egli dare dell'amor ſuo, che un diſprez
zo sì generoſo d' ogni pericolo, e un'impazieri
za sì ſanta d'eſſer con Criſto! Eppure chi l'a-
vrebbe creduto! di queſta prova, che pur ſem
brava sì chiara, Criſto non ne fu pago; ma ſape
te perchè ? perchè fu quella un' azione corag
gioſa sì; ma precipitoſa: E però non fu ſaggio
baſtevole d'amor ſineero. In certi eſtri d'im
provviſo fervore con facilità s'intraprende i"
-
Per la Domenica terza dell'Avvento. 53
ſe paſſato il bollor dello ſpirito, ſi trova dell'ar
duo, con l'iſteſſa facilità ſi tralaſcia l'impreſa:
Quante volte proviamo ancor noi, che una Pre
dica, che ci muova, una Comunione, che ci
conſoli, un ritiramento, che ci compunga, por
taci a generoſe riſoluzioni, e a dare eziandio ad
una vita fervente un ſanto principio ! e poi, ap
pena ſi affaccia una difficoltà, appena s'incon
tra un incomodo, che l'incominciato corſo ral
lentaſi, e ſi rattiepidiſce il conceputo fervore;
Sia pertanto, ſia pure, dice Criſto, un bell'atto
d'amor generoſo l'eſſerſi Pietro gettato in mare
per venirſene a me, ma a darmi prova d'un
vero amore, queſto non baſta ; che fa però è
Tre volte ſe lo amaſſe, interrogatolo, e uditone
tre volte il sì, bene ſoggiunſe Criſto, ſe mi ami,
o Pietro, ecco a che dei ridurti : Hai a contrad- “
dire inchinazioni, hai da inghiottir ripugnanze,
hai da gradire umiliazioni e patimenti: Cum eſ
ſes junior, cingebaste, ci ambulabas ubi vole
(bas, cum autem ſentieris, extendes manus tuas,
c alius te cinget, 6 ducet quo tu non vis. Igno
minie, catene, perſecuzioni, e croci metteranno
alla prova il tuo amore: così mi ama, chi di
vero cuore mi ama.
Ed ecco l'idea, riflette ſu queſto racconto A
goſtino, ecco l'idea di quell'amore, che Criſto
vuole da noi. Vuole un amore, che riceva non
ſolamente dall'opere, ma da patimenti ancora il
ſuo luſtro: Interrogatur amor, ci imperatur la- Or As.
bor. Ma queſto amor tollerante quanto mai e-º
gli è raro! Inſino a tanto che il far per Gesù
qualche coſa ci rieſce comodo, pur pur ſi trova
chi ſi riſolve; ma ſe il biſogno porti, o di far
fronte a contraddizioni, o di fois umani
L 3 Il
54 Diſcorſo III.
riguardi, o di ſoffrire dicerie maligne, ecco toſto
più della neve venire freddo quel cuore, che pre
tende a poc'anzi di ardere al pari di un Mongi
bello. Vorrebbeſi, che l'amore non ci coſtaſſe
mai nulla: Mai l' annegazion di un volere, mai
il ſagrifizio d'un comodo, mai la privazion di
un piacere, mai il diſturbo di un ripoſo; e un
amore di natura sì delicata, e sì molle, può egli
dirſi amor vero? Nò, che non l'è, dilettiſſimi,
non vi adulate, non l'è. Chi di cuore ama Cri
ſto, non ammette riſerve, non prefiggeſi condi
zioni. Pronto a patire, e tutto, e ſempre, nè per
difficoltà ſi rallenta, nè per incomodo ſi atteriſce,
nè per tempo ſi affliggs; raſſegnato nelle diſdette,
che lo ſorprendono, paziente nelle infermità, che
lo affliggono, manſueto tra le perſecuzioni, che
lo moleſtano: offeſo perdona, diſguſtato ſop
ma porta, tentato ſi umilia, deriſo non parla, con
i traddetto non ſi riſente: Ardenter Chriſtum di
ligenti nihil difficile videtur, così ne ſcriſſe S.
Lorenzo Giuſtiniano, ignem, ferrum, vincula,
carceres, perſecutiones, flagella, adverſaque om
mia Chriſti amor tolerare facit. Intendetela, ani
me delicate, che tanto amate la divozione, quan
to queſta può unirſi co voſtri comodi: voi, che
a farvi perdere ogni contegno, baſta un motto,
che un pò vi punga ; voi, che a tenervi lon
tane dalla divina parola, baſta il timore di un
pò di freddo, o pur caldo i voi, che a tratte
nervi ſchiave d'un reo coſtume, baſta la paura e
di un che diranno; l'intendete: ignem, ferrum,
vincula, ºrc. ſono bugiarde quelle proteſte di
amore, che voi fate a Gesù, ſe l'amore, che
proteſtate, o non vuol ſoffrir nulla, o vuol ſo
lo ſoffrir ſino ad un certo ſegno, e non più.
E, per
Per la Domenica terza dell'Avvento. 55
E per verità, cari Uditori, come poſſiamo noi
negare a Criſto un amore, che ſoffra, ſe ri
flettiamo, ch'egli ci ha amati a coſto di tante
pene! Scorrete col penſiero quant'ella durò la
vita di Criſto, trovate voi, ch'egli abbia paſſato
pur un momento ſenza patire! Volve, ci volve
vitam boni Jeſu ( egli è il Serafico Bonaventura,
che vorrebbe pur che imparaſsimo il vero mo
do di amare), o non invenies eam niſi in Cru
ce; ex quo enim carnem aſſumpſit, ſemper in pana
fuit. Interrogatene la capanna di Betlemme, che
il vide tremar bambino, l'Egitto, che lo accolſe
ramingo, ed eſule ; la bottega di Nazaret, che
lo allevò povero e ſconoſciuto sla Giudea, la
Paleſtina, la Samaria, che ſantificata da viaggi
ſuoi, il videro grondar ſudori, e languire per
iſtanchezza; il Getſemani dove ſvenne accorato,
il Pretorio dove ſpaſimò tra i flagelli, il Calva
rio dove agonizzò, e ſpirò crocifiſso, e tutti ri
ſponderanno ad una voce, ſemper, ſemper in
paena fuit. E per chi, cari Uditori ? per chi? Per
voi, per me, per noſtro bene, per noſtra ſal
vezza. E non era già duopo no, che per noſtro
riſcatto ſi addoſſaſſe un faſcio di tante pene. Un
ſolo ſoſpiro, che uſcito foſſe da quel cuore a
moroſo, una lagrima ſola, che foſſe caduta ſu
quelle guancie divine, una ſola goccia di ſangue,
che tratta ſi foſſe da quelle vene prezioſe era
più che baſtevole a trarci di ſchiavitù, e a ri
comprarci la perduta eredità, ma quod ſufficie
bat redemptioni, dirò anch'io col Boccadoro, non
ſatis erat amori. Miſurò egli il patire non dal
noſtro biſogno, ma dal ſuo amore, e perchè
a mò immenſamente, immenſamente pati,
D 4 Or
'56 Diſcorſo III,
Or dite a me, cari Uditori, non chiede egli
e orriſpondenza un amore sì tollerante è non è
egli giuſto, che ſe Gesù tanto per amor noſtro
ha ſofferto, ſofferiamo noi qualche coſa pera
mor ſuo? Maſſimamente che non ii già
Criſto da noi, che divoriamo affronti, ed igno
minie uguali alle ſue, non domanda, che ſom
mettiamo gli omeri a Croci peſanti, qual fu
la ſua; domanda un poco di ritegno a quella
lingua, un poco di freno a quegli ſguardi, un
poco di pazienza tra quei dolori; domanda,
che ſi mortifichi quel genio ingordo di libertà,
che tanto regna ai di noſtri ; domanda, che ſi
ricevano con umile raſſegnazione quelle piccole
Croci, ch'egli ci porge; domanda ( o Dio! può
egli chieder di meno! ) domanda, che tanto al
meno ſi ſoffra per amor ſuo, quanto ſi ſoffre
per amor del Mondo. Quanto s'incontra d'in
comodo per compiacere agli amici, quanto
per eſaltar la famiglia, quanto per adattarſi
al coſtume, quanto per un pò di gloria mon
dana. Ah, miei Dilettiſſimi, diaſi ognuno del
la mano al petto, e conſideri da una parte quan
to egli ſoffre pel Mondo, conſideri dall'altra
quanto ſoffre per Criſto; e ſe trova, ch'egli
più ſoffra pel Mondo, che per Gesù, o quel
che ſarebbe ancor peggio, ſe trova che per a
more del Mondo ſoffra moltiſſimo, e per amor
di Gesù non ſoffra mai nulla, confeſſi pur ſuo
mal grado ch'egli ama il Mondo, e non Gesù,
Ah pur troppo, Redentore mio caro, pur
troppo ſono anch'io un di coloro, che vorreb
bono amarvi, ma ſenza coſto ! Pronto a ſoffrir
tutto dove il genio mi porta, ritroſo ad ogni
pena dove ſi tratta del voſtro sito Erri" ul,
-
Per la Domenica terza dell'Avvento. 57
fu già così l'amor voſtro verſo di me, quelle
ſpine, que chiodi, quella Croce, ben mi mo
ſtrano chiaro il peſo enorme del patimenti, che
per amor mio portaſte. Deh ! Crocifiſſo mio
bene, per quelle piaghe, che adoro nelle voſtre
mani ſantiſſime, fate, ch'io intenda una volta,
che non è vero amore un amor delicato: Fate,
ch' io intenda, che ſe voglio amare debbo patire:
Fate, ch'io intenda, che non avrò mai luogo nel
voſtro cuore, ſe non ho parte nella voſtra =
Croce. PUN

Il noſtro amor verſo Criſto eſſer dee un amor co- ro III.


ſtante. Ordinò già Dio nell'antica legge, che nel
ſuo altare il fuoco mai non mancaſſe ; non ſi
curò, che ſempre ſi ſcannaſſero vittime: che
ſempre ſi bruciaſſero incenſi : che ſermpre ſi
offeriſſero doni: ma il fuoco lo volle mai .. .
ſempre acceſo : Ignis autem in altari ſem- iº,
per ardebit. Non è , Uditori, ſenza miſtero
queſto precetto. Il fuoco, come avete udito nel
primo punto, è ſimbolo dell' amore: l'altare,
dice Gregorio il grande, è figura del noſtro cuo
re; il fuoco dunque, che nell'altare ſi vuol perpe
tuo, è l'amore, che nel cuore ſi vuol durevole:
Altare Dei eſt cor noſtrum, in quo jubetur ignis Mi -

ſemper ardere, quia neceſſe eſt ex illo ad Domi-º


num charitatis flammam indeſinenter aſcendere.
Se così è, eſca d' inganno, chi ſi crede di dar
ſaggio baſtevole dell'amor ſuo, qualora per Ge
sù opera per un poco, e poi ſi ſtanca, ſoffre
per un poco, e poi ſi annoia: Un dì tutto fuo
co, e tutto gelo nell' altro. Vampe ſono queſte,
efimere vampe di un cuor iſtabile, che non ſi
preſentan gradite agli occhi di Criſto. Se l'amore,
che ſi profeſſa non è fuoco, che ſempre duri,
ſiccome
58 Diſcorſo III.
ſiccome non è quello, che ha moſtrato Criſto
per noi, cosi ancor non è quello, di cui noi
ſiamo in dovere verſo di Criſto. -

Ralleatoſſi egli mai l' amore di Criſto verſo


di noi ? Illanguidili egli mai ? Con quell'ardore
con cui cominciò ad amarci, non continuò egli
ſempre, ſenza che mai ne veniſſe, o rattiepidita
dalla ingratitudine umana la ſua bontà, o ſtan
cata dalla fierezza giudaica la ſua pazienza ?
Jo. 13. Cum d.lexiſet ſuos (uditene regiſtrata nell'Evan
gelio a noſtra iſtruzione la ſua coſtanza) qui eranº
art Mundo, in finem dilexit eos, che vale a dire,
giuſta la ſpiegazione di Agoſtino, e dell'Ange
lico, uſaue ad finem, uſque ad mortem, dilexie
eos. Anzi non ſolo non iicemò egli mai il ſuo
anore, ma ſempre lo accrebbe, operando ſem
pre più, ſempre più ſofferendo per noi, ſino a
quell'ecceſſo ineffabile di laſciare ſopra infame
patibolo la prezioſa ſua vita: Cum dilexiſſet, uſº
que ad finem, uſque ad mortem dilexit, e quaſi
queſto foſſe ancor poco, nello ſteſſo partire da
noi, trovar volle maniera di reſtare con noi. Iſti
tuì con invenzione tutto propria di un amorin
ſaziabile il Sagramento Eucariſtico, e là in quell'
Oſtia adorata laſciò tra noi il ſuo corpo, nel
ſuo corpo il ſuo cuore, nel ſuo cuore l'amore :
quaſi dicendo: Parto è vero, parto dagli occhi
voſtri, ma non parto da voi, ſarò nel Cielo, e ſarò
ſu la terra vi amerò di laſsù, e vi amerò di quag
giù, e infino a tanto, che il Mondo non avrà fine,
a au, non avrà fine nel Mondo il mio ſoggiorno: Ecce e
28. go vobiſcum ſum uſque ad conſumnationem ſerali.
Sì, uſque ad conſummationem ſeculi ſarovvi preſen
te nelle afflizioni per conſolarvi, nelle neceſſita per
ſoccorrervi, ne Perico. Per liostarvi, a-ria vita,
se
Per la Dom. terza dell'Avvento. 5o
e nella morte per ſempre aſſiſtervi, uſgue ad con
ſummationem ſeculi, vi voglio riſtorar col mio
ſangue, vi voglio nodrir col mio corpo, voglio
farvi miei con tutto me; in ſomma uſque ad
conſummationem ſeculi vi amerò, e dell' amor
mio ne avrete in perpetuo pegno il mio corpo.
O immenſo, o ecceſſivo, o incomprenſibile
amore !
Ecco Criſtiano, ſclama quì attonito, tutto amo
re, e tutto zelo Bernardo, ecco il cuore a cui
dee conformarſi il tuo cuore, ecco l'amore a
cui dee conformarſi il tuo amore: Diſce, o Chri-s
ſtiane, a Chriſto, quomodo diligas Chriſtum. Tu,
che per tanti titoli ſei tenuto ad amare Gesù,
impara da Gesù ſteſſo il modo di amarlo diſte
a Chriſto e c. Confronta amor con amore, e
mira ſe l'amor di Gesù fu come il tuo, vario,
fragile, incoſtante. Tu, nell'amarlo sì languido:
Tu, nel ſervirlo sì freddo: Tu, nel pregarlo
sì diſſipato: Tu nelle pratiche di pietà sì reſtio
a comunicarle i sì pronto ad interromperle, sì
facile a tralaſciarle: ſono elleno queſte le pro
ve che dai a Criſto dell'amor tuo? ſono eglino
queſti gli eſempj, che dall' amor ſuo ti ha Cri
ſto laſciati? Deh ! impara una volta dall'amore
di Criſto, che l' amor ſe non è durevole, ſe
non è coſtante, ſe non è uſue ad finem, uſiae
ad mortem, uſque ad conſunmationem, non è
amor.vero: Diſce, o Chriſtiane, a Chriſto, quomodo
diligas Chriſtim.
Dall'amore di Criſto appreſe sì bene ad amare
il cuore di Paolo, che non temè di sfidare le
creature tutte a far prova di ſua coſtanza: Quis Roma.
nos ſeparabit a charitate Chriſti ? Chi potrà dar
ſi il vanto di aver ſu me forza tale ia ſcior quei
legani
6o Diſcorſo III
legami di carità, che mi ſtringono a Criſto?
Chi? Tribulatio, an anguſtia, an fames, an nu
ditas, an periculum, an perſecutio, an gladius ?
No, che non pavento, che povertà o ricchezza,
eſaltazione o abbaſſamento, vita o morte, cielo
o inferno, ſminuiſcan giammai, di una ſola
ſcintilla la bella mia fiamma : Armiſi il Mondo
inferociſca la tirannia, ſi ſcateni l'abbiſſo: non
temo, non temo; ſinchè il mio cuore avrà vi
ta! viverà nel mio cuore l'amore a Criſto. O
queſto sì, Dilettiſſimi, ch'egli è amore ſincero,
amore, che non cede punto al difficile, amore
che non ſi rallenta per noia, amore che nulla
perde di ſua fermezza, o proſperità ci eſalti, o
avverſità ci deprima. - -

Ma è egli in fatti così il noſtro amore? Se


Criſto ſi faceſſe queſta ſera ad interrogarvi ſe voi
lo amate con queſto amore, pare a voi, che
potreſte francamente riſpondergli con le parole
dette già da S. Pietro: Etiam, Domine, tu ſeis quia
amo te ? Sì, mio Signore, io vi amo, camo con
tal fermezza, che niuno mai dall' amarvi mi di
ſtorrà: E voi, che vedete il mio cuore, ben lo
ſapete, tu ſeis quia amo te: dite, potreſte voi
riſpondere così? Ognun ſa ciò che il ſuo cuore
gli dice: Io intanto ſoggiungo, che queſta in
terrogazione ſi farà a ciaſcuno di noi in punto
di morte da Criſto Giudice. Sì, ci dimanderà
quali verſo di lui in tutto il corſo di noſtra vita
abbiam dati contraſſegni di amore. Anime ozio
ſe, che paſſate le voſtre ore in divertimenti, in
giuochi, in converſazioni, in teatri, che riſ
ponderete? Anime delicate, che per ogni leg
giero incomodo mancate a voſtri proponimenti,
cd abbandonate gli eſercizi di pictà, che riſpon
- - - dcrete ?
Per la Dom, terza dell' Avvento. 6I
derete? Anime volubili, che ora ferventi, ora
tiepide, or penitenti, or peccatrici, ora in corſo,
ora in ozio, mai non date due paſſi ſeguiti nella
via della virtù, che riſponderete? E noi, cari
Uditori, che riſponderemo quando il tremendo
Giudice a rimprovero del noſtro diſamore ci
metterà ſotto gli occhi, e le opere, che per
noſtro amor egli ha fatte, e la coſtanza, con cui
a coſto della ſua vita, e del ſuo ſangue ha per
noſtro amore condotto a termine il grande affare
del noſtro riſcatto, che riſponderemo? Io leg
go, Uditori, che apparſo Criſto alla venerabile
Margherita Alacoque, e con lei dolendoſi della
ingratitudine del ſuoi Criſtiani: mira le diſſe,
mira, o figlia, queſto mio cuore, mira di qual
amor egli è acceſo: mira ſe a pro degli uomi
nipotea l'amor mio ſpiccar di più. Eppure dalla
maſſima parte tanto non ottengo d'eſſer corriſ.
poſto, che anzi altro tutto di non ricevo,
che oltraggi. Or queſto, che fu non altro, che
un dolce sfogo di Gesù amante, con un'anima
ſua diletta, ſarà uno sfogo terribile di Gesù adi
rato contro le anime diſamorate nel giorno ea
ſtremo. Mira, dirà il divin Giudice al Criſtiano,
che non lo amò, o ingrato, mira queſto mio
cuore. Mira di qual amor egli avvampa: Mira
ſe in contraſſegno di amarti potea per te far di
più ; eppure tanto non ho ottenuto, che tu mi
amaſſi, che anzi non ho da te ricevuto altro,
ehe ſtrappazzi ed ingiurie; queſta, o sleale, è la
corriſpondenza, che al mio amor, al mio cuore
hai moſtrata ? E ad un tale rimprovero, che do
vrà mai aſpettarſi un diſamorato Criſtiano ? Se
per ſentenza di Paolo Appoſtolo, è fulminato
anche in vita con maledizioni ed anatemi, chi
- nQ) A
62 Diſcorſo III.
1. Cor.
I 6. non ama Gesù: Si quis non amat Dominum ns
ſtrum Joſum Chriſtum ſit anathema , penſate
voi, che ſarà per ſentenza di Criſto in punto di
ll OftC.
Dilettiſſimi, mctriamci al ſicuro da queſti ful
mini con amare chi tanto merita d'eſſere ama
to, il Salvatore, il Redentore noſtro Gesù, ma
perchè ſia il noſtro amore qual eſſer dee, ſia
amor che operi, amor che ſoffra, amor che
duti. Amiamo, Dilettiſſimi, amiamo Gesù, per
chè egli ha amati noi, amiamolo molto, per
ch'egli ci ha amati molto, amiamolo ſempre
perch'egli ci ha amati ſempre. Ah giovine, gio
vine, amore a Gesù, e non al piacere, non al
giuoco; amore a Gesù, o donna, e non alle va
nità, non al Mondo; amore a Gesù, o voi miſe
rabile, che amori men puri nel cuor nodrite:
amore a Gesù. Ah, cara mia Udienza, quando ſarà,
che con prontezza generoſa, e ſincera ſi profeſſi
a Gesù qui preſente un vero amore? Quando?
Queſta ſera, mio buon Gesù, sì, non più tardi
di queſta ſera. Tutti e con tutto lo ſpirito ſu le
labbra ci proteſtiamo di amarvi, e io fra tutti,
che pur nell'amarvi ſono ſtato fino ora sì tiepido:
sì, amabiliſſimo Redentore, io vi amo con tutto
il cuore, con tutta l'anima mia, vi amo ſopra
ogni coſa creata : Etiam, Domine, tu ſcis quia
amo te. Tu ſcis. Sì, Gesù caro, vi amo, e in prova
della ſincerità con cui parlo, ardiſco chiamarne
teſtimonio quel lume, con cui voi penetrate il più
profondo de cuori: Tu ſcis quia amo te. Ma per
chè il mio cuore di ſua natura è sì freddo;
cuore, bel cuore del mio Gesù a voi ricorro,
e per quella piaga d'amore, che in voi adoro,
vi ſupplico a vibrar ſul mio cuore una di
-
º".
C
Per la Dom. terza dell'Avvento. 63
le fiamme, di cui voi ardere. Accendete nel petto
mio un amore, qual io lo bramo, degno di voi;
e ſia un amor operoſo, un amor ſofferente, un
amore coſtante, ſia un amore, che dall' amarvi
ardentemente in queſta vita, mi porti ad amar
vi eternamente nell'altra.

D I S C O R S O I V.
N E L L' OTTAVA D E L SANTISSIMO
NATALE,
Correndo in tal giorno la Feſta de Santi Innocenti.
Scandalo.
i s

Tune Herodes mittens occidit omnes pueros, qui


erant in Bethleem. Matth. 2.

33-ast: On può a meno, Uditori, che nel rin


N i novarſi la memoria di quella ſtrage
- lº crudele, che riempì di dolor, e di pian
i Ris to i confini di Betelemme, non vi rina
ſca nel cuore, un giuſto ſdegno contro dell'em
pio Erode, che con fierezza mai più non udita ne
diè il comando. Barbaro! Sembrami di udirvi
dire: contro un popolo d'innocenti armar furio
ſa la mano, e condannare al crudo taglio di
morte innumerabili vite, ree ron d'altro, che
d'eſſer bambine ! Inondar con le lagrime di ma
dri afflitte, e col ſangue di pargoletti ſvenati,
tutto un diſtretto, ſol perchè l'onora con la ſua
naſcita il Re del Cielo! Moſtro ſpietato, forza C
64 Diſcorſo IV. «
è pur che ſi dica, che o un covile di tigri ti di:
alla luce, o una rupe del Caucaſo ti formò il
cuore! Lodo, Uditori, lo sfogo dell' indegna
zione voſtra giuſtiſſima, ma ſe ho a dirla con
iſchiettezza, perchè prendervela con tanto ardore
contro un Erode, ch'è morto, e non più toſto
contro gli Erodi dei noſtri di O quanti, ſe ſa
peſte, quanti fanno anche adeſſo ſtrage barbara
d'Innocenti, con queſto lagrimevol divario tra
quell'Erode, e queſti, che quello fece ſtrage di
corpi, e queſti la fanno d'anime: quello inviò
Martiri al Cielo: queſti popolan di dannati l'in
ferno! Non fia dunque più lodevol penſiero,
rivolgere contro queſti i più zelanti rimprove
ri: e giacchè riparar non ſi può una ſtrage
già fatta, porre almeno un qualche argine a
quella, che va tutt'ora facendoſi. Sì, miei Dilet
tiſſimi, contro di queſti voglio io prendermela
queſta ſera contro di queſti. Già vi avvedete, che
il mio dire prende di mira gli ſcandaloſi. O che
Erodi, che triſti Erodi ſono coteſti, che cruda
guerra muovono coſtoro a Dio, che orrido
ſcempio fanno coſtoro dell'innocenza, con mino
re ſtrepito, è vero, di quel ch'eccitò in Betlem
me l'antico Erode, ma non già con minor dan
no; più di rovina recando queſti con un eſempio
perverſo, di quel, che l'altro apportaſſe con mille
ſpade deſolatrici. Ma infieriſcano pure, quanto
a lor piace, coteſti Erodi Criſtiani: Giorno verrà,
in cui la finiranno alla peggio, come alla peg
gio finilla l'Erode Giudeo, che roſo da vermini,
che gli divorarono le vive carni, e tormentato
da dolori, che gli ſtraziaron le viſcere, morì con
la rabbia in volto, e la diſperazione nel cuore.
Io voglio ben credere, che di coteſti i" IOCl1
Nell'Ottava del santiſſimº Natale. 65
Erodi non ve ne ſia tra voi, pure perchè il divenir
lo è sì facile, voglio iſpirarvene quel più, che
poſſo di orrore, affinchè non ricopiandone in
voi la lor vita pernizioſiſſima, vi liberiate altresì
dal pericolo della loro ſpaventoſiſſima morte. Mi
fo pertanto a moſtrarvi eſſere lo ſcandaloſo il
grande univerſale nimico di tutti. Gran nimico
di Dio in primo luogo, e lo vedremo nel pri
mo punto. Gran nimico in ſecondo luogo del
proſſimo, e lo vedremo nel ſecondo punto. In
terzo luogo gran nimico di ſe medeſimo, e lo
vedremo nel terzo punto. Cominciamo. . -
Lo ſcandaloſo gran nimico di Dio. Un attenta- Pun
to ben temerario, ben moſtruoſo, ben diabolico, º
forza è pur ch'egli ſia quello, per cui può giun
gere un uomo ad eſſere chiamato il gran nimico
di Dio. Eppure tant'è, queſto è il titolo, che
porta in fronte lo ſcandaloſo, e gli conviene sì
giuſto, che nulla più. , E quì notate, che ſcan
, daloſo io chiamo non ſolo chi o coll'invito,
, o col conſiglio, o coll' eſempio induce altri
, a far male, prendendo eſpreſſamente di mira
, il mal medeſimo, a cui induces ma chi an
, cora o parla, od opera in modo, che porge
, al proſſimo occaſione d'inciampo, tutto che -
, non abbia di mira l'inciampo, di cui è occa
, ſione; ſcandaloſo chiamaſi l'uno, e ſcanda
, loſo l'altro, perchè l'uno, e l'altro ſpinge il
, proſſimo alla caduta dall'uno voluta diretta
, mente, indirettamente dall'altro: ond'è, che
, sì all'uno, che all'altro dico dovuta la taccia
, obbrobrioſa di gran nimico di Dio , . E per
moſtrarvelo con tutta chiarezza io vi domando:
non direſte voi gran nimico d'un eccellente archi
tetto, chi diſtruggeſſe quante più può delle ſue
Tom. IV. Anno IV. E opere ;
66 piſcorſo IV,
opere; gran nimico di un dipintore famoſo,
chi ſconciaſſe quante più può delle ſue pitture,
gran nimico d'un eſimo ſcultore chi sfregiaſſe
quanto più può delle ſue ſtatue 'E chi può dubi
tarne ? Or che altro fa uno ſcandaloſo in riguardo
a Dio, che altro fa, ſe non de lavori a lui più
cari sfigurarne quanti più può. Sappiamo pure,
che tra i lavori, che ha dati a luce l'Onnipoten
za creatrice, i ſuoi più diletti ſono le anime; la
vori sì belli, che portano improntata l'immagi
ne del ſuo medeſimo Artefice: lavori si mobili,
che vantano con Dio medeſimo participazion di
natura: lavori di sì eccellente ſtruttura, che
tempo non li conſuma: lavori di sì gran prezzo,
che per ricuperargli ſmarriti, il Figlio ſteſſo di
Dio, è ſceſo dal cielo in terra, ed ha fatto uno
sborſo di tutto il ſuo ſangue: Sangue, che in
ogni goccia contiene un valore infinito. Or di
queſti lavori non è egli vero, che tanti ne gua
ſtano gli ſcandaloſi, tanti ne diſtruggono, quan
te ſono le anime, ch' eſſi pervertono? Così è pur
troppo, dice il Salmiſta, queſto è appunto il
mal genio di coſtoro; diſtruggere quelle opere,
che dalle voſtre mani, o gran e Iddio, uſcite ſon
Pſ. I Oe più perfette: Que perfeciſti deſtruxerunt.
Tanto baſtar potrebbe, Uiitori, per intende
re il gran nimico,ch'egli è di Dio uno ſcandaloſo:
Eppure queſto è il meno, dice il Griſoſtomo.
Volete vedere a qual ſegno di inimicizia contro
Dio giunga uno ſcandaloſo. Fing te, che ſiavi
un moſtro tale di ſcelleratezza, che dovunque
ſcorga Altari, e Tempi, là porti e le rovine,
e gl'incendj. Scorra le campagne col ferro e ne
atterri quante Chieſiuole accolgano i voti fervidi
del ſemplice paſtorello. Entri nelle Città, e gº
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 67
le fiaccole in pugno avvampi, ed inceneri le Ba
ſiliche più maeſtoſe, nè ſiavi luogo dalla pubbi
ca o dalla privata pietà conſecrato all'Altiſſi
mo, contro cui non isfoghi il ſuo empio furo
re: Chi non direbbe, aver coſtui giurata contro
Dio implacabile inimicizia? Ora ſappiate ſog
giunge il citato Dottore, ſappiate, che più
di coſtui ſi moſtra nimico di Dio uno ſcanda
loſo, perchè ſe la piglia ancor egli contro il
Tempio di Dio, giacchè al dir dell'Appoſtolo,
Tempio di Dio, è ognun de fedeli: Vos eſtis 2. Cor:
Templum Dei vivi; ma Tempio di gran lunga a.
più degno, perchè del Tempio materiale è più
pregevole lo ſpirituale; Tempio più venerabile,
perchè dove gli altri ſono Tempi morti, queſto è
Tempio vivo, Tempio più maeſtoſo, perchè abi
tato dallo Spirito ſanto medeſimo per mezzo
della ſua grazia; onde ſe moſtra ſarebbe di
llna i" nimicizia con Dio il rovinar quelle
Chieſe, che ſopra baſi di marmo, ed a regole
d'arte ſi conſacrano a Dio Ottimo Maſſimo, che
dovrà dirſi di chi ſtermina, e abbatte que Tem
pj tanto più auguſti, che hanno per fondamento
la fede, per ornamento la grazia, e Dio ſteſſo per
oſpite? Si ergo, conchiude il Santo, Eccleſiam Hom.
deſtruere grave eſt, d ſceleſtum, multo magis ſi , i
templo ſpirituali hoc fiat: Anguſtior enim eſt ho i"
mo, magiſaue venerandus quam Eccleſia.
Finiſſe almen quì la guerra, che muove a Dio
lo ſcandaloſo, e contento di prenderſela contro
i lavori di Dio, e contro i Tempi di Dio, non
volgeſſe contro Dio medeſimo i maligni ſuoi col
pi. Ma purtroppo è vero, grida Paolo, che il
furor voſtro, o ſcandaloſi, a Criſto medeſimo non
la perdona: Peccantes in fratres & percutientes iº»
E 2 conſcientiam
63 Diſcorſo IV. --

eonſcientiam eorum infirmam, in Chriſtum pecca


tis, in Chriſtum. In Chriſtum, che come capo non
può a meno, che non riſentaſi nello ſtrazio, che faſſi
delle ſue membra. In Chriſtum, che come paſtore
non può a meno, che non ſi affligga nel vederſi rapi
rele pecorelle ſue care. In Chriſtum, che come Re
dentore riceve lo ſmacco di veder buttato a male
il prezzo infinito del ſuo riſcatto. In Chriſtum pec
catis, in Chriſtum. Con ragione però può d'o-
gni ſcandaloſo dolerſi Criſto, come già ſi dolſe
di Saullo: Quid me perſequeris ? fe pur dir non
vogliamo con Santo Bernardo, che non ſol
iù di Saullo, ma più de crocifiſſori mede
imi di Gesù, ſi moſtra ſuo nimico lo ſcandalo
ſo, perchè ſe queſti ſparſero il di lui ſangue; il
di lui ſangue però andò in riſcatto dell'anime;
laddove queſto nell' oltraggio, che gli fa, gli
ruba quelle anime ſteſſe, che col ſuo ſangue ha
redente: Ond'è che attonito per l'orrore il San
to Abate: Horrendum, eſclama, penitus ſacrile
gium, quod & ipſorum videtur excedere facimus,
qui Domino majeſtatis manus ſacrilegas injece
ruºlf,
Ma ſe lo ſcandaloſo è sì gran nimico di Dio,
non ſarà Dio ancora gran nimico dello ſcandalo
ſo? Sì, che lo è se lo è di tal maniera, dice il
Griſoſtomo, che dove in altri diſſimula colpe
anche graviſſime, nello ſcandaloſo nè pur diſſi
mula le più leggere: Tam Deo odibile eſt ſcanda
lum, ut peccata graviora diſſimulet, in quibus rui
ma fratris non eſt, non autem levia, in quibus fra
ter offenditur, ci ſcandalizatur. Sì, sì, avete
bel dire, o ſcandaloſi, che quei tratti, che voi
uſate sì liberi non ſono, che ſcherzi, e che que
gli equivochi, che voi dite sì malizioſi, non
- - - - - hanno
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 6o
hanno fine cattivo sche quelle parole, che vi
eſcono di bocca oſceniſſime, le profferite per abi-.
to, e ſenz'avverdervene; che quei baciamani così
frequenti non altro ſono, che convenienze di ci
viltà; ſono ſcandali, e tanto baſta, tutto è meſſo
a libro, di tutto ne darete conto ſtrettiſſimo, e
ſe di que falli, che voi contate per nulla, ſe ne
fa da Dio caſo sì grande, levia non diſſimulat;
penſate poi, che ſarà di que regali donati con
intenzione sì rea, di quel conſigli ſuggeriti con
tanto ſcapito dell'oneſtà, di quelle viſite conti
novate con tante dicerie del vicinato, di que” di
ſcorſi fatti con tanto sfregio della modeſtia, della
carità, della religione, di que vanti vituperevoli,
con cui fin giungete a gloriarvi delle ree voſtre
corriſpondenze. Che ſe Dio con voi nel perdon
delle colpe va contanto riſerbo, che neppure diſſi
mula le più minute ſarà egli poi nella diſtribuzion
delle grazie sì liberale, che vi accordi le più
importanti, e quella ſingolarmente di ben mo
rire ? Follia ſe vel credete: temerità ſe lo ſpe
rate. E che pare a voi, che ſia Dio per accordare
a ſuoi maggiori nimici quella grazia, che an
che a più cari amici ſuoi non accorda, ſe non
a coſto di fervidiſſime ſuppliche? E che tanto
non avete a ſperarla, che anzi io vi ſo dire,
che a quell' ora appunto, a quell'ora eſtrema
vi aſpetta quel Dio, contro cui ſe la pigliano i
voſtri ſcandali ; sì, a quell'ora vi aſpetta. Voi
gemerete, ed egli inſulterà ai voſtri gemiti, voi
ricorrerete, ed egli ributterà i voſtri ricorſi: Sì, te
merario, dopo la guerra fin'ora fattami vorreſti
adeſſo la pace! Che pace? Viveſti da mio nimi
co, muori pure da mio nimico, Eh, cari miei
Uditori, ſe mai di queſti nimici ve ne
di Dio foſſe
s. - - E 3
76 Diſcorſo IV.
foſſe tra voi alcuno, ſe mai talun di noi aveſſe
dato, o deſſe ancora al ſuo proſſimo un qual
che ſcandalo, deh! non aſpetti a chieder pace
da Dio, quando la pace non ſi dà più. Sebben,
che diſſi, ſe mai vi foſſe! Sì, che vi è , e ſono
io, e ſiete voi. Ah, cari Uditori, e chi è di noi,
che o con qualche parola men cauta, o con qual
che eſempio men buono, o con qualche tratto
men guardingo, o con qualche conſiglio men
retto, chi, diſſi, chi non ha dato al ſuo proſſi
mo un qualche ſcandalo, o domeſtico, o pub
blico? Chi non ha data una qualche moſtra di
queſta nimicizia con Dio ? Se così è, ecco il
tempo di chieder pace, e di ottenerla. Cor
rono giorni di ſalute , giorni di miſericor
die, giorni di grazia, Criſto è nato, per da
re appunto a ſuoi nimici la pace, ed a voce
d'Angioli ce l'eſibiſce: In terra pax hominibus
bona voluntatis. Chiediamola, miei Dilettiſsimi,
ccco Gesù pronto a darcela.
Sì, Gesù caro, io che men di tutti la me
rito, primo di tutti ve la domando. Ecco a
voſtri piedi il peggiore del voſtri nimici: quell'
indegno, quell'ingrato, che ha dati al proſſi
mo tanti ſcandali. Pace vi chieggo, pace a
queſt'anima, che vi ha moſſa una guerra sì
ingiuſta. Deteſto i mali eſempi, che ho dati, e
per quelle piaghe, che adoro ne' voſtri piedi
ſantiſſimi imploro col cuor più contrito il per
dono. Deh mio Gesù, fate, che provi ancorio
gli effetti della voſtra venuta nel Mondo, e
che giacchè ſiete nato per dar la pace ai voſtri
nimici, accordatela ancor a me, indegno sì di
riceverla, ma riſoluto di non romperla più, c
di mantenerla coſtante ſino alla morte. L
- - 0
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 71 -
Lo ſcandaloſo gran nimico del ". Quan Pos
do quel padron Evangelico inteſe nata nel ſuo roli.
campo inſieme col grano la zizzania, queſto,
diſſe ſubito, queſto è un colpo di man mimica: Matth.
Inimicus homo hoc fecit. Con molto più di ra 13e
gione poſſiamo noi dir lo ſteſſo, Uditori, ri
flettendo alla zizzania maligna, che nel campo
fecondiſſimo della Chieſa a cagion degli ſcanda
li pur troppo alligna: Inimicus homo hoc fecit.
E in fatti egli è del ſuo proſsimo sì fier nimi
co lo ſcandaloſo, che di tutti que mali, che a
danno del proſsimo ordir ſi poſſono da un cuor
maligno, niuno ve n'ha, niuno che poſſa in
gravezza venire al confronto con quelli, che
da uno ſcandaloſo derivano. Togliere a chi vive
negli agi la roba, cd obbligarlo a paſſare in
miſera povertà miſeri giorni, egli è un gran
male, e nol niego: un gran male sfregiare con
nere calunnie un nome illuſtre, e a ſpinte d'im
poſture sbalzar da un ſeggio onorevole chi l'
occupa con tutto il merito: un gran male all'al
trui vita tramare inſidie, e ſaziare col ſangue
innocente una ſete crudele. Tutto vero: eppu
re lo credereſte? Men dello ſcandalo nuocomo
le rapine, men le calunnie, men le ucciſioni: ed
eccone la ragione. Chi ruba , chi calunnia :
chi uccide, non toglie ſe non beni di fortuna,
o di natura: laddove chi ſcandalizza toglie be
ni di grazia: Or ſiccome queſti ſecondi ſono de
primi incomparabilmente più grandi, più eccel
ſi, più nobili, così più di gran lunga ne ſof
fre chi de ſecondi è ſpogliato, che chi de pri
mi. Eh, ch'ella è ben altra diſdetta perdere la
grazia divina, che le ricchezze terrene, perde
re l'amicizia di Dio, che la ſtima del Mon
E 4 - do,
72 - Diſcorſo IV.
do, perdere la vita dell'anima, che la vita del
corpo. Se nimico del proſſimo giuſtamente ſi
giudica chi ne invola le ſoſtanze, nimico del
proſsimo chi ne ſcredita il nome, mimico del
proſsimo chi ne toglie la vita, non dovrà dirſi
gran nimico del proſsimo lo ſcandaloſo, au
tore di perdite ſenza paragone più lagrime
Voli?
Cosi è purtroppo, o ſcandaloſi, nimici voi
ſiete del voſtro proſsimo, peggiori d'ogni ladro
più ingordo, peggiori d'ogni calunniator più
maligno, peggiori d'ogni aſſaſsino più ſcellera
to; e ſe ſi ha da trovare un pari a voi, non
non occorre nò, che ſi cerchi ſu queſta terra,
perchè non v'è, forza è, che cerchiſi nell'In
ferno, ed è il demonio medeſimo: queſto è il
ſolo, che al par di voi è nimico dell' anime,
e voi i ſoli, che lo ſiete al par di lui. E che
ſia così, mettete, Uditori, al confronto ciò,
che a pregiudizio delle anime fa il demonio ,
e ciò che fa lo ſcandaloſo, e ſcorgerete, che
l'uno e l'altro cerca lo ſterminio della divozio
ne, e il trionfo dell'iniquità ; l' uno e l'altro
tenta di alienare dal bene, chi vi è propen
ſo, ed indurre al male, chi n'è ritroſo: l'uno,
e l'altro ha di mira ſovvertire innocenze, corrom
per coſtumi, introdurre abuſi, toglierſeguaci al
la virtù, e dargli al vizio : Tanto in tutti e due
ſono conformi genio e carattere, ſe non che in
qualche maniera può, e dee dirſi peggior del
demonio lo ſcandaloſo: peggiore, perchè il de
monio è un nimico ſcoperto, e da un nimico ſco
perto ognun ſe ne guarda. Lo ſcandaloſo è un
mimico naſcoſto , ed un nimico naſcoſto più
facilmente tradiſce : Peggiore perchè il demo
- e - Il 1O
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale 73
mio ſuggeriſce bensì il male, ma non lo in
ſegna; lo ſcandaloſo, e lo ſuggeriſce, e lo
inſegna: peggiore perchè il demonio s'inſinua,
all'interno del cuore, non all'eſterno dei ſen
ſi; lo ſcandaloſo s'inſinua e al cuore e ai ſen
ſi, ed è ſempre tentazion più gagliarda quel
la, che per mezzo dei ſenſi aſſale il cuore. O
1a io così la diſcorro, Uditori: ſe tra i mimici
dell' uomo, ſembra, che il peſsimo debba dir
ſi il demonio, che dovrà dirſi dello ſcandalo
ſo peggiore ancora del peſsimo.
Aggiungete, che da uno ſcandaloſo non ſola
mente ne vengono rovine all'anima, ma ai
corpi ancora, ancora alle ſoſtanze, alle fami
glie, alle Città, e ciò pei flagelli divini, che
gli ſcandali traggono. O quante volte piovon
diſgrazie ſopra una caſa per domeſtici ſcanda
li, e per pubblici ſcandali piovono pure ſo
pra di un regno ! Andate adeſſo, o ſcandalo
ſi, e dite ancora ſe vi dà l'animo, che non ſo
no un gran male quelle burle, con cui ritrae
te dalla divozione chi vi ſi ſente propenſo, quel
conſigli, con cui animate alla vendetta chi in
oſſequio del Vangelo vuol diſsimulare le ingiu
rie: quegli inviti, con cui ſtimolate alla liber
tà chi ama la ritiratezza , quelle mode, con
cui promovete l'inverecondia in chi guſta del
la modeſtia. Voi con queſto rovinate coſcien
ze, appeſtate città, e fin tirate ſu gl'innocenti
dal Cielo i fulmini, e ne parlate come di un
male da nulla? Ah non ne parla già così, chi
da queſto vi ravviſa per i più arrabbiati nimi
ci del voſtro proſſimo!
Che ſe bramaſte ſapere, Uditori, quali poi
di queſti nimici ſieno i più dannoſi, ve lo di
- - - IQ,
A
74 Diſcorſo IV.
rò : e piaccia a Dio, che non ſia a grande on
ta di più di un che mi aſcolta. Sono quelli,
che avendo obbligazione maggiore di dar buon
eſempio, lo danno cattivo. Queſti , sì, queſti
ſono i più dannoſi, perchè i loro ſcandali con
più di ficilità ſi ricevono, e ricevuti laſcian nel
cuore l'impreſſion più profonda. Padri, che in
vece d'iſpirare a figliuoli carità, e manſuetu
di ne, date ſu gli occhi loro in mille ſmanie :
Madri, che invece di riprovar nelle figlie la va
nità, ſiete le prime a praticarla con faſto, che
ſtrage voi fate nella voſtra prole , che or
renda ſtrage! Padroni, che anzi che invigilare
ſu la divozione de' voſtri famigli, date loro a
vedere, che voi ne avete pochiſſima : Padro
ne, che anzi che avere l'occhio ſu i portamen
ti delle voſtre ſerve, le fate complici de' voſtri
intrighi: Capi di bottega, che anzi che inſegna
re con la voſtra pietà la ſantificazion delle feſte
a chi vi è ſoggetto, voi i primi le profanate
con l'ozio, con le intemperanze, co giuochi;
o ſe ſapeſte, che profonde ferite fanno nelle lor
anime i voſtri eſempi ! Che dirò poi di voi, o
lumi del Mondo, Eccleſiaſtici venerabili, nei
quali come idee di ſantità ſtà fiſſo l'occhio del
popolo Ah ſe mai dalla voſtra bocca eſce un
motto men caſto, ſe mai ſi ſcorge nel voſtro
converſare un tratto men ritenuto, ſe mai ſi
oſſerva nel voſtro vivere un tenore men rego
lato, chi può eſprimere gl'influſsi peſtiferi, che
da voi, come da maligni pianeti ſul baſſo vol
go diſcendono. E voi anime più timorate, che
fate a faccia ſcoperta profeſsion di virtù, ſap
iate, che con certi voſtri difetti fate ancor voi
alta piaga nello ſpirito del voſtro proſsimo. I
- difetti
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 75
difetti ſono piccioli, vel accordo, ma non ſo
no di picciole conſeguenze. Da quel poco ma
le, che fate voi, prendono cuore gli altri a
farne molto di più , ed è un più , a cui date
voi occaſione col voſtro poco. Deh guardiamci
cari uditori, di non far mai numero con sì
dannoſi nimici del noſtro proſsimo, e per guar
darcene con ſicurezza, appigliamci all' avviſo
dell' Appoſtolo, il quale ſin dalle coſe di ſua
natura permeſſe, vuol, che i fedeli ſi aſtenga
no, quando da quelle ne può naſcere ſcanda- .
lo: ond' è, che ſcrivendo ai Corinti, mai non
ſarà, dice loro, che io faccia coſa, che poſſa
in qualche modo eſſere a miei fratelli occa
ſion di rovina, e ſe il paſcerſi di quel cibi,
che a falſi numi ſi ſono offerti, può dar nell'
occhio, ſieno queſti quanto ſi voglia permeſſi,
non me ne paſcerò in eterno: Si eſca ſcanda. 1 Cor.B
lizat fratrem meum , non manducabo carnem
in eternum. Ecco, Uditori la regola, ecco la
riſoluzione, che ci dee ſtar fiſſa nell' animo:
coſa che rechi ſcandalo, mai in eterno: Poſſo
no certe mode eſſer d' inciampo a un occhio
caſto, tanto baſta : Sieno permeſſe quanto ſi
voglia, non le ſeguirò mai in eterno; quell'
appartarſi nelle aſſemblee a parlare da ſolo a
ſola, può eccitar ſe non fuoco, almeno fumo,
e fumo tale, che offenda anche l'occhio di chi
l'oſſerva, tanto baſta: Sia pur vero, che l'in
tenzione non è cattiva; non lo farò mai in e
terno. Certe viſite poſſono dar luogo a ſoſpet
ti, tanto baſta: Sia pur vero , che non vi è
male, non le farò , non le riceverò io mai
in eterno. Così, dilettiſſimi, dee ſentirla ogni
Criſtiano, così la dee diſcorrere; e non ſa ".
l
76 Diſcorſo IV,
ſi pace l'Appoſtolo, che verſo il proſſimo non
ſi nodriſcan ſentimenti sì giuſti: Che durezza,
dic'egli, che crudeltà è codeſta ? Avrà dunque
a perire per tua cagion un tuo fratello, per cui
ſalute Criſto è nato, per cui riſcatto Criſto è
Ibid, morto ? Et peribit infirmus in tua ſcientia,
frater, propter quem Chriſtus mortuus eſt: Cri
ſto ha fatto quanto ha potuto per dargli vita,
e tu, crudele, fai quanto puoi per dargli mor
te? Contro un fratello un tratto sì barbaro? e
qual nimicizia vi può mai eſſere al par di que
ſta? Ah, cari Uditori, ſe a queſte voci non
prendiam orrore allo ſcandalo, quando lo pren
deremo? quando, miei dilettiſſimi, quando?
O Gesù caro, non permettete, che di un
male sì grande non ſe ne abbia l'orrore, che
merita. Recare al proſſimo un danno tale, che
il demonio medeſimo non gliene può recare
un maggiore; e non ſarà queſto un male da
inorridirne? Ah sì, mio Gesù, sì, che al ſolo
penſarvi ne inorridiſco, e non ſo come ancora
io abbia cuore di ſtarmene avanti a voi: Che
non avete voi fatto per ſalvare il mio proſſimo,
e io co miei ſcandali, che non ho fatto per
perderio! Nò, mio Gesù, non dovrei più com
parire alla Divina voſtra preſenza; ma animato
dalla bontà voſtra infinita, mi preſento al Tro
no della voſtra clemenza, inorridito, confuſo,
pentito dei paſſati miei ſcandali. Deh per quelle
Piaghe, che adoro nelle voſtre Mani ſantiſſime,
concedetemi, vi ſupplico, un miſericordioſo
perdono. Vi prometto, che quanto per lo paſ
ſato ſono ſtato facile a ſcandalizzare il mio
roſſimo, altrettanto ſarò attento ad edificarlo
nell'avvenire,
Lo
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 7 rrrra
Lo ſcandaloſo gran mimico di sè medeſimo, Pt: N -
Tutto che ogni peccatore debba dirſi nimico TO IIIa

di sè medeſimo, ciò però più che d'ogni al


tro, ſi avvera di un peccator, che dà ſcandalo.
Imperocchè, queſto non ſolo arma di sè la ma
no ſua propria, ma quella ancora degli altri,
e di tante ferite ſi carica, quante ſono e le ſue
colpe, e le altrui da sè cagionate. Quindi chi
può ridire le innumerabili piaghe, di cui va
lordo. Quanti diſordini naſcono da un ſolo e
ſempio cattivo ! e tutti cadono ſu chi lo diede;
da una rea maſſima quante peſſime conſeguen
zel e tutte attribuiſconſi a chi ſuggerilla; quan
te impuriſſime fantaſie da una pittura immo
deſta! e n'è di tutte colpevole, chi la tien in
veduta; quante fiamme d'indegno amore da un
poema laſcivo, o da un luſinghevol romanzo!
tutte ſono imputabili a chi lo preſtò, quante
diſſenzioni da un rapporto maligno ! ed è reo
di tutte chi lo fece, quante ommiſſioni di ſante
opere da un motteggio ſatirico, ed empio ! e
van tutte a conto di chi lo diſſe. Or qual mag
gior moſtra può uno dare di nimicizia contro
sè ſteſſo, che il far che militi a ſuo proprio ſter
minio l'altrui malizia; e quaſi che a fabbricar
ſi la ſua rovina non baſtaſſero le proprie colpe,
volere in ajuto le altrui.
Foſſero almeno facili a rimarginarſi coteſte
piaghe, che vengono allo ſcandaloſo dall'al:
trui mano. Ma quì è, dove più ancora fa egli
conoſcere quanto ſia nimico di sè, perchè il
male, che per mezzo de' ſuoi ſcandali ſi cagio,
na, difficilmente riparaſi. Infino a tanto che
il peccato tutto ſi ferma in chi lo commette,
il riparo è più facile: Uri ravvedimento ſinee
IO,
a v
73 Diſcorſo Ipº -

ro, un dolor efficace, un contrito Peccavi ſal


da la piaga, ma quando paſſa anche in altri la
colpa, quanto è malagevole il porvi rimedio!
Un incendio, che con poco ſi accende, non ſi
eſtingue con poco se ſe a trarre un'Anima
fuor del retto ſentiero una parola è più che ba
ſtevole, non baſtan mille a ricondurvela. Che
ſe lo ſcandalo ſi è diramato nella moltitudine,
ſe ha sfiorato il candore di tradita innocenza,
ſe ſi è radicato in chi l' appreſe, con qualche
mal abito, qual riparo vi può mai eſſere, qual
riparo ! Ah non ſenza ragione tremava nel pun
to della ſua morte quel Berengario già ereſiar
ca famoſo, e poi compuntiſſimo penitente: De'
peccati, diceva, che ho io commeſſi, la peni l
tenza, che ne ho fatta, mi fa ſperare il perdo
noi ma de peccati, ch'altri han commeſſi per
cagion mia, o quanto temo d'averne a rende
re ſevero conto! Ed è pur troppo così, ſog
giunge quì il Belluacenſe: Scoſſo già il peſo
delle tue dolpe, può accader, che ti opprima
il carico delle altrui: Fortaſſe peccatum te gra
vabit alienum, cum deletum fuerit tuum. Giu
dicate ora, Dilettiſſimi, ſe non è un farla da
gran nimico di sè, il renderſi che fa lo ſcan
daloſo reo di un male, non ſolo graviſſimo,
ma preſſo che irreparabile. -

Eppure vi è ancora di più, e di peggio: ed


è la pena, che dee lo ſcandaloſo aſpettarſi, pe.
ma proporzionata, non dico già ſolo a peccati
ſuoi perſonali, ma a tutti ancora gli altri pec
cati, che avranno avuta da ſuoi ſcandali in qual
che maniera l' origine. Leggiamo nell'Eſodo
regiſtrata una legge, con cui Dio ordinava,
che ove mai in mezzo al campo avvi"
Q11G
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 79
foſſe la bionda matura meſſe, dov ſe in pena
rifarne il danno chi aveſſe o per incuria, o per
fxod,
malizia acceſo il fuoco. Si egreſſus ignis com a ha
prehenderit ſtantes ſegetes in agris, reddet da
mnam, qui ignem aetenderit. Or ſul tenore d'u-
na legge conſimile ſarà giudicato, ſarà condan
nato lo ſcandaloſo. Per la tua lingua entrò in
caſa la diſſenzione, diſſenzione, che poi produſſe
mille freddezze nel parentado, mille mormora
zioni nel vicinato, mille dicerie per la Città, di
tutto foſti l'autore di tutto hai a portarne la pena?
Reddat damnum, qui ignem accendit. Per l'im
modeſtia del tuo veſtire ſpiccaronſi dagli occhi
altrui tanti ſguardi licenzioſi. Si annidarono nell'
altrui mente tanti penſieri lordiſſimi. Si acceſi
ſero nell'altrui cuore tante impuriſſime bramet
Tu foſti d'incendio sì rovinoſo il mantice in
degno, tu pagane il fio: Reddat damnum. Mira
laggiù quelle anime, che tra fiamme deſolatri
ci diſperanſi; quella fu ſovvertita da tuoi eſem:
i: quell'altra da tuoi diſcorſi: quella laſciò il
n che faceva, perchè derideſti la ſua pietà:
i" altra vacillò nella fede, perchè metteſti in
ubbio punti di religione: Ardono le infelici, e
arderanno per ſempre; ma tu come ſei della
lor colpa, e della lor pena l'iniqua cagione,
ne farai dell'una, e dell'altra a tue ſpeſe lo
ſconto: reddat, reddat damnum. Miſri ſcanda
loſi! Se aveſte a ſcontare i ſoli voſtri peccati già
ſarebbe graviſſima la voſtra pena: or che ſarà
dovendone ſcontare ancora tanti altri, de qua
li ſolo Dio ne ſcorge l'immenſo numero. Ep.
pure tant'è, vedete. Nel proceſſo che un dì ſi
farà, troverete ſcritto di voi quei due capi d'
accuſa, che leggiamo ſcritti di Geroboamoi
Pecoa
35 Diſcorſo II.
3. Reg. Peccavit, di peccare fecit: e ſiccome quell'emº

l
pio Re
chè fu daquia
peccò, Diopeccavit,
rigoroſamente
e moltopunito, e per
più perchè
-- -

fu cagion di peccato; quia peccare fecit: così


ancor voi piombar vi ſentirete ſul capo un dop
pio fulmine, l'uno che punirà in voi i pec
cati, che commetteſte, l'altro che punirà in voi
i peccati, che faceſte commettere, -

Ne fia ſtupore, Uditori, che andar ne deb


ba dallo ſdegno divino sì malconcio lo ſcan
daloſo; nimico ch egli è di tutti, ha tutti al
tresì nimici di sè, e come già d'Iſmaello, così
ancora di lui ſi può dire: Manus ejus contra o
Gen 12 mnes, manus omnium contra eum. Sì, manus o
mnium contra eum, perchè tutti contro di lui
gridan vendetta; la gridano le anime ſovvertite;
la grida la Chieſa lor Madre, la gridano gli
Angiolilor tutelari; la grida Criſto lor Redento
re: e la vendetta, che contro lui da tutti ſi gri
da, già per bocca di Oſea ha Dio giurato di
farla nel punto della ſua morte: Occurram eis
oſ º quaſi urſa raptis catulis. In quella guiſa, dice
Dio, che un orſa tutta furia ſi avventa contro
chi le ha rapiti i ſuoi teneri parti, e lo afferra,
e lo addenta, e lo sbrana, tale mi farò io all'in
contro dello ſcandaloſo, che muore, e tutto
ſdegno nella voce, e nel volto, e nel cuore,
fulminerò l'anima micidiale, e la precipiterò
negli abiſſi: Occuram ei quaſi urſa raptis catu
lis. Ora ſe tali ſono i tuoni delle minacce, che
all'orecchio dello ſcandaloſo rimbombano, ſe
tali ſono i fulmini de gaſtighi, che ſul di lui
capo ſi ſcagliano, non ho io ragion di dirlo,
e di crederlo il maggior nimico di sè medeſimo?
Eppure quanti ve n'ha di queſti mimici di ſe,
- - - che
l
Nell'Ottava del Santiſſimo Natale. 31
che nulla badando alle colpe, di cui ſi aggra
vano, nè alle pene, a cui condannanſi, nè ai
gaſtighi, che loro ſovraſtano, mai non ceſſa
no di appeſtare col loro ſcandali le caſe, in cui
albergano, le compagnie, con cui trattano, e
fin le Chieſe, in cui entrano. O ciechi , che
non veggono l'orrido precipizio, che ſi lavo
rano ! Ben altrimenti la ſente chi è ſcorto da
miglior lume. S. Pier Damiani, perchè talvol- , . .
ta uſcito gli era di bocca qualche motto pia- fi:
cevole, che meſſo avea ne' circonſtanti riſa in
nocenti, o mio Dio, dicea piangendo, che
ſarà mai di me nel tremendo voſtro giudizio !
Se a chi ride voi minacciate guai terribili: Ve
vobis, qui ridetis, che ſarà di me! che ſarà di
me, che non ſolo ho riduto, ma fatto ridere
ancora gli altri! Ah, dilettiſſimi, ſe ad un'om
bra di ſola ſcandalo tanto tremano i Santi, come
non tremerà chi porge al proſſimo veri ſcan
dali, o con iſconcie parole, o con equivochi
motti, o con liberi tratti, o con mode immo
deſte, o con traſporti furioſi, o con deridere la
pietà, o con vantarſi del vizio, o con diſſua
dere le opere buone, o con perſuader le catti
ve: Come non tremerà ? Con qual fronte po
trà preſentarſi al Tribunale divino ? Quale ſcam
po ſperar potrà dall'ira, implacabile del divin
Giudice? Deh, cari uditori, riconoſciamo una
volta, riconoſciamo il gran male, ch' egli è lo
ſcandalo; e co ſentimenti di S. Bernardo dicia
mo ancor noi: Morire piuttoſto, morire piut
toſto, che dare mai uno ſcandalo.
Sì, mio Gesù, morire piuttoſto, che dare
mai uno ſcandalo, ah, che fin ora non ho mai
ben conoſciuti i diſordini di un sì gran male!
Tomo IV. A nno IV. E Nò,
82. Diſcorſo IV.
Nò, mio Gesù, non gli ho mai ben conoſciu
ti. Ora sì li conoſco, e buon per me, che li
conoſco prima di preſentarmi al Tribunale di
voi, mio Giudice. Vi ringrazio, mio buon Ge
sù, dei lumi datimi queſta ſera. Deteſto di tut
to cuore i paſſati miei ſcandali, e per la piaga,
che adoro nel ſagroſanto voſtro Coſtato, vi
ſupplico a perdonarmi non men le mie, che le
altrui colpe, di cui ſon reo: Ab occultis meis
munda me, e ab alienis parce ſervo tuo. So
no pronto prontiſſimo a morire piuttoſto, che
mai più dare uno ſcandalo. Si, mio Gesù, ve
lo proteſto con tutta la ſincerità del mio cuo
re: Morire piuttoſto, che mai più dare uno
ſcandalo. -

o(S&ESSESS&s=SS 3S S-SES)o
D I S C O R S O V.
PEL GIORNO DELL'OTTAVA DE SANTI
IN NO CE NT I.

Conformità a voleri divini.


o(=)o
Angelus Domini apparuit in ſommis Joſeph, dicens:
ſurge, ci accipe puerum, 6 Matrem eſus, cº
fuge in AEgyptum. Matth. 2.
S.S, SA E mai altra volta, uditori, vi ho ac
-

3 S ; cennato mezzo ſicuro di accertar ſan


A ta in un con la vita la morte, egli
ºa º S è certamente queſta ſera, in cui da
un'eroica ſommiſſione ai divini vo
leri, traggo con l'argomento del mio
- - - - -
sitº
l
Pel giorno dell'Ottava dess Innocenti e,
il trattenimento della voſtra pietà. Ecco là nel
la povera caſa di Nazaret tra le notturne più
ſolte tenebre meſſaggero celeſte, che intima in
un ſogno a Giuſeppe, eſſer voler di Dio, che
col pargoletto Gesù, e la ſua tenera Madre fug
ga ſenza indugio in Egitto : Angelus Domini
& c. e quel ch'è più, ſenza che ſi prefigga alla
benoſa dimora alcun termine, ſe gl'ingiunge
li non penſare al ritorno ſino nuovo ordine: E
ſto ibi, uſque dum dicam tibi. Dura intimazio
ine dover partir dalla patria, e partir ſubito,
ſenza neppur aſpettar un raggio di Sole, che
riſchiari la via, dover eſporre agli incomodi di
un lungo travaglioſiſſimo viaggio un bambino
sì tenero, e una madre sì delicata; doverſi cer
car ricovero in paeſe ſtraniero, ſconoſciuto, i
dolatra, ſenza ſaper quando avrà termine il di
ro eſiglio! Giuſeppe contuttociò non ſi ſcuſa,
non moſtra difficoltà, non frappone dimora :
Sommette alle ordinazioni del cielo umile il
capo ; e volendo null'altro, che quel che Dio
vuole, ſtringe al ſeno il caro pegno alla di lui
cura commeſſo, e in compagnia della vergine
ſpoſa, con la provvidenza per guida, al gran
de viaggio ſi accinge. Gran virtù di Giuſeppe,
ma inſieme grande iſtruzione, che queſto San
to protettore, ch' egli è della buona morte ,
ha col ſuo eſempio laſciata a chiunque brama
di ben morire. La raſſegnazione, uditori, ai di
vini voleri è ſtata mai ſempre uno de mezzi
e più ſicuri, e più facili per ſantificare il cor
ſo ugualmente, che il termine dei noſtri gior
ni: e di queſta vorrei, che ad imitazione del
Santo noſtro Avvocato ne proccuraſſimo nelle
vicende sì varie di noſtra vita, coſtante più che
R 2 poſſia
34 Diſcorſo V. -

poſſiamo la pratica. So, che il conformarſi mai


ſempre alla volontà ſovrana di Dio ci obbliga a
fare della noſtra volontà un ſagrifizio continuo:
Lo ſo, ma queſto ſagrifizio medeſimo, che del
la noſtra volontà faſſi all'Altiſſimo, tanto non
dee ritrarci, che anzi debb'eſſere a noi il più ef,
ficace motivo di raſſegnarci in tutto, e ſempre
ai divini voleri. Primo, perchè non può farſi
ſagrifizio più nobile, lo vedremo nel primo pun
to: Secondo, perchè non può farſi ſagrifizio più
vantaggioſo, lo vedremo nel ſecondo punto:
"Terzo, perchè non può farſi ſagrifizio più ſoa
ve, lo vedremo nel terzo punto. Cominciamo.
Pe Non può farſi ſagrifizio più nobile. Non può
"i negarſi, Uditori, che non ſia tanto più nobile
º “ un ſagrifizio quanto quel bene, che a Dio ſi
offre, ſi è più pregievole. Così più di quel di
Caino fu nobile il ſagrifizio d'Abele, perchè più
di quelle del primo erano pregievoli le vittime
del ſecondo; e più ancora di quel di Abele fu
nobile il ſagrifizio di Abramo, perchè incom
parabilmente più di un Agnello era pregievole
un figlio unigenito. Ora egli è certo, che tra
i beni, che ha l' uomo, quel che più merita
pregio ſi è la volontà: perchè queſta dotata,
ch'ella è di libertà perfettiſſima, la fa nell'uo
mo da ſovrana, che regna; ella riſolve, ella co
manda, ella accetta, ella rifiuta, ella ama, ella
odia: e di tutti gli altri beni sì eſteriori, che
interiori dell'uomo, ella come arbitra ne diſpo
ne. Sicchè ove queſta con pienezza di ſommiſ
ſione alla divina volontà talmente conformiſi,
che ſpogliandoſi d'ogni ſuo volere, altro voler
più non abbia, che quel di Dio; chi non ",
GhG
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 85
che viene con queſto a farſi a Dio un ſagrifizio il
più degno, che far ſi poſſa dall'uomo, perchè
fagrifizio della miglior parte dell'uomo. Sebbe
ne, che diſſi, della miglior parte dell'uomo,
doveva dire di tutto l'uomo. Imperocchè chi
altro non vuole, che quel, che vuol Dio, dà
chiaramente a conoſcere, che de' ſuoi beni, de
ſuoi ſenſi, delle ſue potenze altro uſo non vuole
ſe non quello, che vuole il medeſimo Dio; ſic
chè qualora con cuor ſincero diciamo a Dio,
facciaſi, o Signore, il voler voſtro, in realtà gli
diciamo, che di quanto noi ſiamo, di quanto
abbiamo ne diſponga come a lui piace. Prova
chiariſſima, che a Dio con un ſagrifizio il più
nobile, che idear mai ſi poſſa, tutto l'uomo con
ſagraſi. Un bel ſagrifizio, non lo niego, ſi è
quello dell'oro, qualora ſi ſoccorrono poveri:
Un bel ſagrifizio quel dell'onore, qualora ſi ſof
fre pazientemen e un'ingiuria: Un bel ſagrifizio
quel della roba, qualor ſe ne tollera generoſa
mente la perdita; ma queſti ſono ſagrifizi di coſe,
che ſono bensì dell'uomo; ma non ſono l'uomo
medeſimo: Un bel ſagrifizio ſi è quel dell'oc
chio, quando raffrenaſi negli ſguardi, quel della
lingua, quando ſi modera nelle parole, quel del
la mano, quando ſi regola ne ſuoi tratti, quello
del corpo, quando ſi affligge con penitenze,
quello dell'intelletto, quando cattivaſi in oſſe
quio della fede, ma queſti ſono ſagrifizj dell'uo
mo sì, ma non più, che d'una parte dell'uo
mo: Il ſagrificare all'Altiſſimo tutto l'uomo,
egli è vanto unicamente d'una volontà, ch'è oſ.
ſequioſa a quanto Dio diſpone; tutto adora con
umiltà, tutto accetta ſenza riſerva; onde forza
è confeſſare, che fra tutti i ſagrifizj, che dall'
F 3 ll OIIl Q
36 Diſcorſo V.
uomo ſi fanno, queſt' è il più bello, il più de
gno, il più riguardevole.
Ma più ancora ne ſcorgerete il ſuo pregio, ſe
rifletterete, che con queſto ſagrifizio della no
ſtra volontà daſsi a Dio la moſtra più generoſa
dell'amor noſtro. Non aver mente, che per Id
dio, non aver cuore, che per Iddio, non aver
lingua, non aver occhio, non aver mano, che
per Iddio, non è egli il ſommo a cui giunger
poſſa l'amore: Or chi altro non vuole, che quel
che vuol Dio, non è egli vero, che al divino
beneplacito tutti ſubordina i ſuoi penſieri, i ſuoi
affetti, le ſue parole, le ſue azioni? Dove Dio
vuole, che ſi ami, egli ama, dove vuol, che
ſi odj, egli odia, dove vuol, che ſi fugga, egli
fugge, dove vuol, che ſi operi, egli opera. Sono
doloroſe le malattie, ma ſe Dio vuol, che le
ſoffra, le ſoffrirò; è penoſa la povertà, ma ſe
Dio vuol, che in caſa mia l'alberghi, l'alber
gherò; ſono moleſte le traverſie, ma ſe Dio vuol,
che le accetti, le accetterò: Voglio in ſomma
quel, che Dio vuole, e quel, che Dio non vuo
le, neppur io lo voglio. E qual prova, Udito
ri, qual maggior prova può darſi di amor ſin
cero? Eadem velle, ſcriſſe Girolamo, eadem
molle, ea demum firma amicitia eſt. Carità più
fina, e più ſoda non può trovarſi di quella,
che ha il volere medeſimo, ed il medeſimo non
volere di quel Dio, che amaſi. E ſe al dire di
Gregorio il grande, il ſaggio più indubitabile
dell'amore ſi dà coll'opere: Probatio dilectionis
exhibitio eſt operis; chi più coll'opere moſtra di
amare, che colui, che in tutto quello, che fa,
che dice, che penſa, altro ſcopo, altra mira
non ha, che d'incontrare, che d' eſeguire il di
- V1n
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 87
vin volere ! quanto però forza è dir, che ſia no
bile quel ſagrifizio , che dalla più nobile delle
virtù , che lo anima, prezzo e luſtro riceve !
In fatti tal fu la ſtima, che di sì nobile ſagri
fizio fece mai ſempre l'Incarnata Sapienza, che
con queſto cominciò la ſua vita mortale, pro
ſeguilla con queſto, con queſto la terminò. Oſ
ſervate: era in impegno di placar l'ira del divin
Padre, e ripararne l'onore involatogli dalla ribel
lione dell'uomo. Che fece pertanto? Giacchè al
tre vittime non eran valevoli al grande intento;
preſo che appena ebbe ſu queſta terra l'albergo,
gli fè della ſua volontà un generoſo compitiſſi
mo ſagrifizio: In capite libri, così con ſenſi pro-Pſ 29:
fetici parlò a di lui nome il Salmiſta, ſcriptum
eſt de me, ut facerem voluntatem tuam. Con
queſta medeſima conformità , con cui die le
moſſe al vivere, corſe poi tutto l'arringo dei
giorni ſuoi, e ſe bambino vagì tra faſce, ſe paſsò
nell'Egitto l'infanzia, ſe occupò tra i lavori d'u-
na officina l'adoleſcenza, ſe faticò, ſe ſudò,
ſe ſoffrì, tutto fu in dipendenza del voleri del
Padre: Que placita ſunt ei, facio ſemper, con º
eſpreſſa proteſta di mai non cercare in che che
ſia la ſua propria volontà: Non quero volunta Id. so
tem meam, ſed voluntatem eſus, qui miſit me.
Anzi tanto eragli a cuore il fare non altro, che
la volontà del ſuo Padre, che chiamava queſto
il ſuo cibo: Meus cibus eſt, ut faciam volunta º º
tem eius, qui miſit me. E ſe inſegnò le doman
de, che far doveanſi a Dio, una delle prima
rie volle, che foſſe : Fiat voluntas tua. Se di Matth.
a conoſcere chi più avrebbe impegnati gli af º
fetti ſuoi; qui fecerit, diſſe, voluntatem Patris Iaia,
tici, qui il calis eſt, ipſe vº,frater, ci ſoror,
- - --
- 4, &
33 piſcorſo IV.
& mater eſt. Se additò a chi cercolla la ſtrada
vera del Cielo: Qui fecerit, riſpoſe, voluntatem
Id. 7e Patris mei, qui in carlis eſt, ipſe intrabit in re
gnum celorum : Che più ! lo ſteſſo ſagrifizio, che
fè ſulla Croce con laſciarvi tra mille ſpaſimi la ſua
vita, intanto lo volle, in quanto lo volea il ſuo
Id. 26. Padre: Non ſicut ego volo, ſed ſicut tu, e il ſuo
finire di vivere altro non fu, che un dar termi
ne a quel ſagrifizio, a cui dato avea princi
pio nel cominciar della vita: Factus obediens
a. Phil.
3. uſque ad mortem. Neghi ora chi può, ch ei non
ſia il ſagrifizio più nobile, che far ſi poſſa quel
lo, di cui l'eterno Unigenito con volerlo ſem
pre in ſe ſteſſo, ne moſtrò ſtima sì grande.
E ſe è così, ſaravvi, Uditori, tra noi chi non
ſi animi a fare a Dio un ſagrifizio sì degno ?
ſaravvi chi non riſolva d'interamente ſommet
tere alla volontà divina la ſua è Noi andiamo ta
lor cercando, che coſa far ſi potrebbe di gloria
di Dio, di ſervigio di Dio, di piacere di Dio.
Eccolo, miei dilettiſſimi, in poche parole : Di
ciamogli, ma di vero cuore con tutta la ſince
rità: Fiat voluntas tua, Signore, ſi eſeguiſcano
circa di me i ſovrani voſtri voleri, e credetemi,
che in queſto, che pare a prima viſta sì poco,
avremo detto, e fatto moltiſſimo: diſſi di cuore,
e con tutta la ſincerità ; perchè chi vi ha, che
non dica, e più volte ancora ogni giorno: Fiat
voluntas tua. Ma quanto è dalla lingua diverſo
il cuore! Dio non vuole le vanità, e voi le vo
lete; Dio non vuole certe libertà, e voi le vo
lete; Dio non vuole quell'antipatia, e quelle
avverſioni, e voi le volete; Dio non vuole quel
la vita sì diſſipata, e voi la volete, e poi ſi ha
da credere, che voi dite con tutta la fin" C
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innuoenti. so
del voſtro animo: Fiat voluntas tua. Queſto è
burlar Dio, cari Uditori, mentre con opere to
talmente contrarie alle parole, nel tempo ſteſ.
ſo, che moſtriam di bramare, che ſi faccia la
ſua volontà , ſiamo più che mai ſaldi in fare
la noſtra. Chi parla ſinceramente , ſapete, che
intende egli dire, qualora dice: Fiat volun
tas tua ? Intende dire: Signore, ſi faccia in o
gni tempo, in ogni occaſione, in ogni coſa il
voler voſtro, non ſi riguardi nè a ciò, che chie
dono le mie paſſioni, nè a ciò, che deſidera il
mio amor proprio: Altro riguardo non bramo,
che ſi abbia, ſe non quello del piacer voſtro;
ſano, che mi vogliate, o infermo, in povertà,
o in ricchezze, tra proſperità, o tra diſgrazie,
in allegrezza, o in lutto, a me baſta ſapere qual
ſia il voler voſtro, perchè ſarà ſubito il mio.
Voglio quel ſolo, che voi volete: E per que
ſto appunto lo voglio, perchè voi lo volete:
Fiat voluntas tua. O queſto sì, dilettiſſimi, ch'e-
gli è parlare con ſincerità; queſto è cercare con
iſchiettezza il ſolo voler divino. Queſto è quel
degno, quel nobile ſagrifizio, che ſi fa di noi
all'Altiſſimo, ma in realtà la penſiam noi così,
quando diciamo fiat voluntas tua? Sono queſti
i ſentimenti del noſtro cuore ? Eſaminiamoci un
poco, miei dilettiſſimi, mettiamo un poco al
confronto il cuor con la lingua: Vanno o non
vanno d'accordo è ciò che a voi ne ſembri, io
nol ſo.
So bene, o mio Gesù, che io ho non poco a
confondermi a un tal confronto, dico, è vero,
e dico ſpeſſo, che la volontà voſtra ſia fatta: Fiat
voluntas tua: ma intanto, ſe ben rifletto, voglio
fatta la volontà mia, e non la voſtra, ºCSll ,
buon
9e Diſcorſo V.
Gesù, quando ſarà ch'io vi faccia di me un ſa
rifizio perfetto! quando, quando ſarà, che alle
ſovrane voſtre diſpoſizioni interamente ſommet
tami! Deh, per quelle piaghe, che adoro ne'
voſtri piedi ſantiſſimi, datemi grazia, ch'io co
minci queſta ſera a non cercare, a non bramare
mai altro, che il ſanto voſtro volere. Sicchè ſpo
gliandomi affatto della mia volontà per fare uni
camente la voſtra, dir poſſa nell'avvenire, come i
mi protetto di dirlo adeſſo col cuore ugual
mente, che con la lingua: Fiat voluntas tua, fiat,
sa-fiat.
Pos. Non può farſi ſacrifizio più vantaggioſo. Pri
iro II, ma, che in queſto punto m'inoltri, è da ſup
porſi, Uditori, quel principio indubitabile di no
ſtra fede, che quanto in queſto Mondo avviene,
eſcluſone ſolo il peccato, tutto avviene per diſ
poſizione ſovrana di Dio. Se quello è ſano, quell'
altro infermo; ſe quello è povero, quell'altro
ricco; ſe quello giunge a pel canuto, e muore
quell'altro nell'età bionda, tutto a Dio dee at
a Eccl.tribuirſi, perchè di tutto n'è Dio l'autore: Bona S
mala, vita, 6 mors, paupertas, 6 honeſtas
a Deo ſunt, ne fa fede infallibile l'Eccleſiaſtico,
Quelle coſe medeſime, che a noſtro giudizio
effetti ſono del caſo, poſſono bensì dirſi caſuali a
riguardo di noi, ma non già mai a riguardo di º
Dio: Che vi ha di più caſuale, che un elezio
ne fattaſi a ſorte, qual già fu l'elezione di Saul
lo al Regno, e di Mattia all'Appoſtolato. Ep
pure ogni elezione fattaſi a ſorte, è elezione vo
luta da Dio, che maneggia com'egli vuole le
Prov, ſorti: Sortes mittuntur in ſinum, ſed a Domino
temperantur, lo diſſe il Savio. Che più º quel
mali medeſimi, che ci avvengono per altrui
- colpa,
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 91
colpa, tutto che Dio non li voglia come col
pa, che ſono degli altri, li vuole però come
mali, che ſono di noi. Quel mal umor vi mole
ſta, quel maligno vi perſeguita, quel ſuperbo
vi opprime, quell'avaro vi anguſtia, quel vendi
cativo vi colpiſce, Dio è, che vi manda quella
moleſtia, quella perſecuzione, quell' oppreſſio
ne, quell' angheria, quel colpo, e tutto, che
non voglia egli, ma ſol permetta l'altrui pec
cato, vuol però dell' altrui peccato ſervirſi a
voſtri afflizione, ſia in prova dalla voſtra vir
tù, ſia in gaſtigo de' voſtri falli. Tanto che, ſia
ſi qual ella ſi voglia la cagione immediata
del voſtro male, è ſempre vero, dice Amos Pro
feta, che eccettuato il peccato non vi è ma
le , che non venga da Dio: Si eſt malum in ci -
vitate, quod non fecerit Dominus. Nè ſolamente”
avviene per la divina ordinazione ogni coſa,ma av
viene in modo, che il diſpoſto da lui, non è punto
in man moſtra l'impedire, che avvenga. Si ricalci
tri quanto ſi vuole ; vogliaſi, o nò, ciò che Dio
ha ordinato ha da eſſere: In ditione tua cunctaº -
ſunt poſita, º nemo eſt, qui poſit tua reſiſtere
voluntati. Ciò ſuppoſto, Uditori, che non ſi può
in verun conto metter in dubbio, non è egli van
taggio noſtro, e gran vantaggio, il far della no
ſtra volontà un ſagrifizio all'Altiſſimo? Se quanto
ci avviene tutto è diſpoſto da Dio, e diſpoſto
in modo, che l'impedirlo non è in noſtro arbi
trio, non tornaci a conto, miei Dilettiſſimi, far
cene un merito, con accettarlo dalla ſua mano,
e raſſegnarci ſubito a ſuoi voleri ? Perchè vo
gliamo noi con una inutile ripugnanza perdere
quell'immenſo guadagno, che far poſſiamo con
tina puntual ſommiſſione? E chi può epi"
- gli
\
92 Diſcorſo V.
gli acquiſti grandi, che far ſi poſſono; e di gra
zia in queſta vita, e di gloria nell' altra, qua
lora o al giungerſi di un diſguſto, o al ſorpren
derci d'una diſgrazia, anzi, che vendicarci del
Proſſimo, o brontolar contro Dio, diciam con
Giobbe: Sicut Domino placuit ita fattum " , ſit
fob, I» nomen Domini benedictum. Così Dio ha diſpoſto,
ſien benedette per ſempre le ſue giuſtiſſime ordi
nazioni: Or pare a voi, Uditori, piccol van
taggio il far sì, che la neceſſità paſſi in virtù , e
che un oggetto, che non è di noſtra elezione,
divenga argomento di noſtro merito?
Ma queſto è poco: dico di più, che tanto ſi
dee premere il ſommettere a Dio ogni noſtro vo
lere, quanto l'aſſicurare in ogni coſa il vero
noſtro vantaggio; perchè ſebbene tutto ci av
venga per diſpoſizione divina, nulla però ci av
viene, che non ſia da Dio ordinato a pro no
ſtro. E chi non ſa, che quella Provvidenza ſo
vrana, che veglia al governo univerſale di tutti,
e particolar di ciaſcuno, altra mira non ha, nè
può avere, che la pubblica, e la privata felicità,
Se queſto è proprio d'ogni governo ben regolato
di queſta terra, quanto più dee ciò dirſi di quel
governo, ch'è fra tutti il più ſaggio, il più giu.
ſto, il più provvido: Maſſimamente, che il go
verno, che ha Dio di noi non ſolo ha per mente
una ſapienza infinita, ma ha ancora per cuore
una infinita bontà: Sicchè quanto è certo, che º
ſa ciò, che al bene di tutti, e di ciaſcuno con è
viene, altrettanto non può dubitarſi, che non lo
voglia. E' vero, che all' occhio noſtro, che mal
diſcerne molte coſe , ch'egli ci manda, non ſem
bran buone, ma il bene, che in eſſe noi non
vediamo, lo vede ben cgli, e perchè erº" Q
Pel giorno dell'ottava de' SS. Innocenti 53
lo veda, ce lo proccura. Quella indiſpoſizione vi
crucia, e non ſapete darvene pace: ma Dic la
vuole, perchè vuole con queſta diſtaccare dal
Mondo il voſtro cuore; quel trattato ſi è rotto,
e voi piangete, avete torto: o ſe ſapeſte quanti
guai, quanti diſguſti vi ha Dio riſparmiati con
queſto colpo! chi non avrebbe creduto diſgrazia
to al ſommo Giuſeppe, quando venduto fu a
Madianiti: Eppure quella vendita fu da Dio or
dinata al ſuo maggiore innalzamento. Chi non
avrebbe giudicata vicina allo ſterminio Betulia,
quando aſſediata fu dal ſuperbo Oloferne: Ep
purequell' aſſedio fu da Dio ordinato a gloria
maggiore del di lei nome. Eh, ch'ella è così, cari
Uditori, Dio con le ſue incomprenſibili diſpoſi
zioni non mira, che al noſtro bene, e noi volen
do quel ch'egli vuole, ſiam ſicuri di voler ſem
ſtre il noſtro vantaggio. -

Anzi tanto ne ſiam ſicuri, che più aſſai, che


la noſtra volontà, tornaci a conto far quella di
Dio: Ed eccone chiariſſima la ragione. Dio nel
ben, che ci vuole, non può ingannarſi; laddo
ve noi, tra per l'ignoranza, che ci accieca, tra
per l'amor proprio, che ci tradiſce, nel bene,
che ci vogliamo, ſoggetti ſiamo ad abbaglio :
e avvien non di rado, che vogliamo il noſtro
male, perchè l' apprendiamo per bene, o non
vogliamo il noſtro bene, perchè l'apprendiamo
per male; ma non così certamente non così
avviene, quando ſenza riguardo a quello che
noi vorreſſimo pienamente ci rimettiamo a quei
che vuol Dio: incapace, ch'egli è di errore, non
può ſe non accertare il ben, che ci vuole, e tutto
che ci guidi talora per vie o penoſº al noſtro ſen
ſo, o contrarie alle noſtre idee, ſempre però
- hanno
a- . . . . . .

94 Diſcorſo V. -

hanno queſte per termine il noſtro vantaggio:


Tanto non può dubitarſi, Uditori, che ſe abbia
mo noi ſenno, più aſſai, che la noſtra volontà,
premer ci dee, che facciaſi la divina.
E ciò, è sì vero, Uditori , che il ben medeſi
mo, che facciamo non ci può eſſere vantaggio
ſo, ſe non in quanto ſi fa con dipendenza da vo
leri di Dio; ove queſta non ſiavi, ciò che ſem
bra virtù, non lo è, e con tutta l'apparenza,
che ha di bene, non merita lode, ma biaſimo.
Leggete Eſaia, e troverete, che gli Ebrei ſi dol
ſero già, che Dio non moſtraſſe di gradire i lor
digiuni, le loro umiliazioni, le loro penitenze:
I ss.Jejunavimus, & non aſpexiſti, humiliavimus ani
mas noſtras, e neſciſti. Ma ſapete, che riſpo
ſta di loro a nome di Dio il Profeta : In die je
junii veſtri, diſſe loro, invenitur voluntas veſtra i
la ragione, per cui Dio non gradiſce i voſtri di
giuni, ſi è, perchè fate la volontà voſtra, e non
la ſua. Egli vuole da voi più di compunzione nel
cuore, e non l'ottiene, più di carità verſo il proſ
ſimo, e non l' ottiene; e non volendo voi quel
ch'egli vuole, ha egli poi a gradire quel ſolo,
che voi volete? Eh, che non è queſta nò, l'u-
miliazione, che plachi, è proſunzione che oltrag
ia. Così, il Profeta: O quanti anche a dì no
# meriterebbono un tal rimprovero, vorreb
bono far del bene, ma a modo ſuo, a genio
ſuo, non a modo, non a genio di Dio. Sanno be
niſſimo, che la volontà di Dio ſarebbe, che
deponeſſero quell' avverſione, che reprimeſſero
quell'orgoglio, che laſciaſſero, o almeno almeno
che moderaſſero quella moda: ma di queſto non
ne voglion far nulla. Li vedrete bensì paſſar le
ore in Chieſa, quando forſe più ſarcbbe neceſſa
IIO ,
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 95
fio, che per attendere alla famiglia, le paſſaſſero
in caſa. Li vedrete obbligarſi con voto a far la
tal feſta, portare in tal abito, quando a Dio aſſai
più caro ſarebbe, che combatteſſero quella paſ.
ſione, che troncaſſero quell' amicizia. Li ve
drete oſſervare digiuni di loro, direi piuttoſto,
capriccio, che divozione, quando meglio, che
dal cibo ſarebbe aſtenerſi dalla converſazione, e
dal giuoco. Or come mai ſperar poſſono coſto
ro, che ſien lor di vantaggio coteſte lor opere,
ſe a farle s inducono non per volontà, che ne
conoſcano in Dio, ma per volontà ſolamente lor
propria: Nò, miei, Dilettiſſimi, in fino a tanto
che ſarà vero, che in die jejunii veſtri, invenitur
voluntas veſtra, non ſarà mai, che il ben che
ſi fa, ſia grato a Dio, e utile a voi: Tanto non
può dubitarſi, che ſe amiamo il noſtro vero
vantaggio, dobbiamo in tutto fare a Dio della
noſtra volontà un pien ſacrifizio, -

Se così è, cari Uditori, avvi coſa, che più pre


mer ci debba, che l'abbandonarci interamente
a Dio, ed il far regola del noſtro volere il vole
re divino? Se da una parte l'opporſi a ciò che
Dio vuole, non è poſſibile, ſe dall' altra ſiam
certi, che Dio ſempre vuole il ben noſtro, e ſe
di più le ſteſſe opere di virtù intanto ſono di virtù,
in quanto ſi fanno, e come, e quando, e per..
chè Dio le vuole; poſſiamo noi meglio pro
muovere i noſtri vantaggi, che con un pieno ri
metterci nelle ſue mani, e dirgli ancor noi con le
parole di Criſto afflitto nell'orto. Non mea, ſedi
taa voluntas fiat ? E vero, che a ciò che Dio vuo
le, ripugna talora il noſtro amor proprio, il
quale mai non vorrebbe nè dolori, che cruciaſſe
to il corpo, nè afflizioni, che tormentaſſero l'ae
Illll 1O
96 Diſcorſo P.
nimo: E' vero altresì, che il demonio, qualora
per diſpoſizione divina ſoffrir ci vede o nella ſa
nità, o nella roba, o nell' onore, ſubito ci ſug
geriſce ſentimenti d'impazienza, di malinconia,
di diſperazione, e portar ci vorrebbe o a dolerci
di Dio, o a mormorare del proſſimo: Ma noi
fiſſando lo ſguardo in quella mano divina, da cui
viene il colpo, che ci addolora, diamo all'uno,
e all'altro quella riſpoſta, che diede già il Re
Joa.18. dentorea S. Pietro: Calicem, quem dedit mihi Pa
ter, non vis ut bibam illum? Queſto Calice, che
mi amareggia, mi vien da Dio, da quel Dio,
che come buon Padre non mira, che a miei van
taggi, e avrò io cuore di rifiutarlo? Non mel
terrò molto caro, e nol tracannerò ſino all'ulti
ma goccia: Non bibam illum? Eh, lungi da me
luſinghieri nimici, lungi da me, Dio vuol così;
lo voglio anch'io. Calicem, quem dedit mihi Pa
ter, non bibam illum? -

O Gesù caro, ſe inveſtir ci ſapeſſimo di ſen


timenti sì giuſti, che felicità ſarebbe la noſtra!
Che bella dovizia di grazie ci pioverebbe in ſe
no dal Cielo! Che bei teſori di meriti ci ac
quiſtereſſimo ſu queſta terra ! Ma perchè ſpeſſe
volte ſecondiamo piuttoſto le noſtre ripugnanze,
che i voſtri voleri, ci priviamo pur troppo
de gran vantaggi, che una ſanta raſſegnazione
ci porterebbe. O buon Gesù, voi che foſte ai vo
leri del Divin Padre così ſommeſſo, dateci gra
zia, che al voſtro eſempio pratichiamo anche
noi una ſommeſſione sì neceſſaria per una par
te, per l'altra si vantaggioſa. Ve ne preghia
mo per quelle Piaghe, che adoriamo nelle vo
ſtre ſantiſſime Mani; ſicchè volendo non altro,
ſe non quello, che voi volete, accertiamo noi
- allCQI di
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 97
ancora que beni, che voi volete a chi altro v
non cerca, che il voler voſtro.
PUN
Non può farſi ſagrifizio più ſoave. Sembra, TO III,
Uditori, un paradoſſo incredibile, che accoppiar
ſi poſſa con la ſoavità un ſagrifizio, con cui l'
uomo ſi ſpropria di quel, che ha più di caro,
della ſua propria volontà. Che ſia queſto un ſa
grifizio di molto pregio, che ſia di gran vane
taggio, s'intende, ma che il ſagrificare quel
bene, che più d'ogni altro ſi ama, ſia coſa
dolce, come può intenderſi! Eppure tant'è,
miei Dilettiſſimi, e lo intenderete beniſſimo,
ſe vi farete meco a riflettere, che in queſto
ſagrifizio conſiſte il più dolce di tutti i beni,
la pace del cuore. Queſta pace, Uditori, è quel
bene, che tutti amano, che tutti cercano, e
pochi ottengono: Ma ſapete perche? perchè
appunto ritroſi ai Divini voleri, non cercano, che
di appagare i ſuoi propri. Vorrebbono quel che
non hanno: ed intanto mentre dura o la pri
vazione del bene, che ſi vorrebbe, o la pre
ſenza del male, che non vorrebbeſi, non può
a men che non paſſino giorni inquietiſſimi. Nò,
Uditori miei cari, il mezzo di conſeguire l'in
terna pace non è ſecondare la propria volon
tà, è lo ſpogliarſene per fare unicamente quel
la di Dio. Allora sì, che nel ſeno di dolce pa
ce ripoſerà tranquillo lo ſpirito.
E vaglia il vero, Uditori, qual coſa vi è mai,
che turbar poſſa quel cuore, che da una parte
è perſuaſo, che tutto viene da Dio, ed è fiſſo
dall'altra in volere ſempre quel che Dio vuo
le? Inquieterallo forſe perdita di ſoſtanze? Ma
nò, perchè alza ſubito al Cielo gli occhi con
Giobbe, e ſcorgendo, che la man, che il col
Anno IV. Tomo IV. G piſce
98 Diſcorſo V.
Job.io piſce è quella di Dio, manus Domini tetigit me,
raſſegnato la bacia, e la benedice. Attriſterallo
forſe ſorpreſa di malattia ? ma nò, perchè riflet
te, che non lo avrebbe queſta raggiunto, ſe
inviata non l'aveſſe Dio ſteſſo, onde accoglien
dola come una viſita, che Dio gli manda, non
fe ne crucia, come non crucioſi della ſua ce
Iob, a cità il buon Tobia: Non eſt contriſtatus quod
plaga cacitatis eveniſſet ei. Lo faranno forſe
ſmarrir di cuore i tradimenti, le perſecuzioni,
le ingiurie? Ma nò, perchè ſa, che Dio anche
dall'altrui male può, e vuole ritrarne il ſuo
bene: onde ſenza punto alterarſi fa ſervire all'
eſercizio di ſua pazienza lo sfogo dell'altrui
malizia, imitando il manſueto David, che ma
ledetto dall' ingratiſſimo Semei, non ſolo non
vendicoſſi, ma impedì ancora la vendetta, che
a i Res
6,
prender ne voleano le fedeli ſue guardie: Di
mittite, ut maledicat juxta preceptum Domini:
Scorrete in ſomma ad una ad una ſe pure ſcor
rer tutte ſi poſſono, perchè innumerabili le mi
ſerie, che inondano queſta valle di pianto, non
ne troverete pur una, che in un animo piena
mente raſſegnato ai Divini voleri ſollevar poſſa
Prov.
l 2e
una nuvola di triſtezza: Non contriſtabit juſtum
quidquid ei acciderit, è lo Spirito Santò, che
lo aſſicura. Lite improvviſa minacci lo ſtermi
nio del patrimonio, non contriſtabit; Nera
calunnia ſcemi al buon nome lo ſplendor, che
lo illuſtra, non contriſtabit; Morte immatura
tolga in un con l'erede le ſperanze della fa
miglia, non contriſtabit; Inondiſi dal fiume il
campo, flagelliſi dalla grandine la bionda meſ
ſe, vadane in una notte involato da man ra
pace il guadagno di molti luſtri, ſconvº" la
- caſa
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. 99
caſa o il marito collerico, o la moglie inquie
ta, o il figlio diſcolo, o il congiunto maligno:
Non contriſtabit, nò: non contriſtabit, juſtum
quidquid ei acciderit. Perchè fiſſo ſempre in
queſto penſiero, che Dio è quello, che ordina
tutto, alle Divine diſpoſizioni china umile il
capo, e volendo ſempre quel , che Dio vuole:
Ita Pater, dice ancor egli con le parole inſe
gnateci dal noſtro Divin Maeſtro, ita Pater quo- Manh.
miam ſic fuit placitum ante te. Io non voglio
già dire, Uditori, che la raſſegnazione, di cui
vi parlo render ci debba inſenſibili ai dolori, ai
diſguſti, alle traverſie: Nò, miei Dilettiſſimi, la
raſſegnazione non cambia nè in marmo, nè in
bronzo la noſtra carne: Si ſentono i dolori , i
diſguſti ſi ſentono, ſi ſentono le traverſie, ma con
tutto il ſentirſi non tolgono l'interna pace, perchè
nel tempo medeſimo, che ſi ſentono, ſi accettano
di buon grado, e ſi vogliono, e per queſto ap
punto ella è un ſagrifizio la raſſegnazione ai
divini voleri, perchè va congionta con ſofferen
za; ma è un ſagrifizio ſoaviſſimo, perchè la
ſofferenza non toglie la tranquillità, e l'una
con l'altra in bella lega mirabilmente ſi ac
coppiano. -

Che ſe il dolore d'un mal preſente punto non


turba un cuore ai divini voleri ſantamente con
forme, penſate poi ſe turbarlo potrà il timore
d' un mal futuro. Queſto, Uditori, è quel timo
re, che, padre di mille affanni, rieſce non di rado
più nocivo del male medeſimo, che ſi teme. Ve
drete più d'una volta certuni, che ſecondo lo
ſtato loro preſente paſſar dovrebbono con tutta
tranquillità i loro giorni: Eppure per alta loro
diſdetta non godonodº" momento di pace, e
2 per
IOO Diſcorſo V.
perchè ? perchè ſi affannano ſull'avvenire. Quel
teme un roveſcio di fortuna, che rovini il nego
zio; teme quell'altro una trama dell' emolo,
che lo sbalzi dal poſto; quella ha il figlio lonta
no, ed è ſempre in timore, di qualche triſta no
vella, quell'altra ſi trova incinta, e vive ſem
pre in paura d'un parto infelice; chi ſi affanna
ſull'aſpettazione d'una ſentenza, chi ſull' eſito
di un trattato, chi ſulla riuſcita di un maneggio:
ed intanto ecco il cuore in tempeſta. Anguſtielo
ſtringono, malinconie l'opprimono, ſollecitu
dini lo conturbano, e per l'apprenſione di un
male, che forſe mai non ſarà, perdeſi un ben
sì pregievole, che aver potrebbeſi, la tranquil
lità, e la pace. Or egli è certo, Uditori, che da
un sì affannoſo timore, va immune una volontà
raſſegnata ai divini voleri: perchè ſapendo, che
non può avvenir nulla, che diſpoſto non ſia da
Dio, la diſcorre così: O avverrà il male di cui
ſi tratta, o non avverrà; ſe non avverrà, ella è
follia turbarſi di un male, che non ſarà; ſe poi
vverrà, ſarà queſto ſteſſo un indizio, che Dio
o vuole, e ſe Dio lo vuole, lo voglio anch'io.
Egli è il padrone: mandi pure ciò, che a lui pia
ce: Dominus eſt, quod bonum eſt in oculis ſuis,
faciat. - - -

Ma perchè ciò, che inquieta il cuor dell'uo


mo, non è ſolamente il timore dei mali di que
ſta vita, ma il deſiderio ancora dei beni; ag
giungerò a prova maggiore di quella pace,
ch'è dolce frutto d'una intera conformità ai
Divini voleri. Aggiungerò, diſſi, che un cuor
raſſegnato va libero affatto da coteſti inquietiſ
ſimi deſiderj. E come nò, ſe l'unica ſua bra
ma ſi è , che il Divin volere ſia fatto ! Indiffe
rentiſſimo
Pel giorno dell'Ottava de'SS. Innocenti. Io 1
rentiſſimo a tutto il reſto; d'altri beni non cu
raſi, ſe non di quelli, che Dio vuole, ch'egli
abbia ; e perchè quelli, che Dio vuole, ch'e-
gli abbia, mancar non gli poſſono, punto non
s inquieta nella ricerca degli uni, più che degli
altri: Se pur dir non vogliamo, che non deſi
derando egli mai nulla, ſe non quel che Dio
vuole, niun più di lui ha i ſuoi deſiderj appa
gati; sì perchè Dio più abbandona con chi a
lui più rimetteſi, sì perchè non avendo egli al
tra volontà, che quella di Dio, ſiccome è ſicu
ro, che la volontà di Dio ſi fa ſempre scosì
ancora è ſicuro, che ſi fa ſempre la ſua. Che
bei giorni pertanto, che giorni lieti, che gior
ni ſereni, forza è dire, che paſſi chi non ha
nè dolor, che lo turbi, nè timor, che lo af,
fanni; nè brama, che lo inquieti; e in ogni
coſa, che avvenga, perchè vi ſcorge il voler
di Dio, vi trovi ſubito l'appagamento del
CllOre.

Deh, cari Uditori, proccuriamci ancor noi


uu bene sì dolce, e cercando la noſtra pace,
dove unicamente ſi trova, facciamo a Dio un
ſagrifizio compito d'ogni noſtro volere. Voglia
mo una volta quel, che dee volerſi, con volere
quel ſolo, che vuole Dio, e proveremo anche
noi, che paſſerà tranquiliſſima la noſtra vita. E quel
che più importa, che dolce, che cara morte
ſarà la noſtra, ſe preparata vi avremo con una
ſanta raſſegnazione la ſtrada! Non ſarà già di
meſtieri, che ſi miſurino le parole, per darce
ne negli eſtremi giorni l'annunzio; ah nò, di
rà ogni anima raſſegnata, nò, non mi adulate,
paleſatemi pure lo ſtato, in cui ſono, e perchè
non morirò io volentieri, ſe Dio vuole, che io
G 3 muora ?
ro2 Diſcorſo V.
muora ? Ho fatta quant ho potuto la ſua vo
lontà in vita, voglio farla anche in morte. -

Sì, mio Dio, ſi adempia pure ciò, che avete


di me diſpoſto: Paratum cor meum Deus, pa
Pſ.s6. ratum cor meum. Soſcrivo di buon grado al vo
ſtro decreto, compiſcaſi pure per man della
morte il ſagrifizio,
volontà, mi è ſtata che
cara vila ho fatto
vita, dellaa tan-
infino mia s
al

to, che la vita ſi è voluta da voi; or che vo


lete la morte, mi è cara la morte: Fiat, sì,
fiat voluntas tua. Queſti ſono, miei Dilettiſſimi,
i ſentimenti, che avremo in morte, ſe in via
ta avremo voluto non altro, che il volere di
Dio, ed a ſentimenti sì giuſti ben vi avvedete,
ſe morte più prezioſa bramar ſi poſſa. Avvez
ziamci pertanto,
conformità, cari Uditori,
rendiamei familiare aqueſto
queſtabelſanta
ſa- t

crifizio; e in tante occaſioni, che ſi preſenta


no, non miriamo mai altro, ſe non Dio,
che vuol così, e con ſommiſſione perfetta di
figlio al ſuo Padre, di ſervo al ſuo Padrone, a

di ſuddito al ſuo Sovrano: Fiat, diciamogli


ſempre, fiat voluntas tua.
Sì, mio Gesù, fiat fiat. Mi ſottometto di queſt'
ora per ſempre ad ogni voſtro volere. Tutto quel
lo, che voi vorrete, mi proteſto fin d'ora di vo
lerlo ancor io. Nelle voſtre mani ſtà la mia vita,
e ſtà la mia morte. Viverò ſe volete, e ſe volete
morrò:
rendo laA volontà
me baſtavoſtra
di fare, e vivendo,
fantiſſima. Deh,e Gesù
mo- º
e,

caro, per quella piaga, che adoro nel ſagro


ſanto voſtro coſtato, fate vi ſupplico, che non
abbia mai più altra volontà che la voſtra, e che
la faccia di tal modo ſu queſta terra, che mi me
riti di paſſare un giorno a farla per ſempre rºgiº º
to3

a FFFFFFFS
Siczieri ieri ieri: ieri 24
D I s C o Rs o v I.
NELL' O TTAVA DELL'EPIFANIA.
Riſpetti umani.

Ubi eſt, qui natus eſt Rex Judeorum. Matth. 2.


% FN
2 On iſperi di trovar Dio chi nol cerca
- 1 anche in mezzo di chi nol cura. Tale
te N - N i p - º-

2 gºl ſi è l' ammaeſtramento, che coll'e-


S 2% ſempio loro queſta ſera ci porgono i
Santi Re Magi. Eccoli entro Geruſalemme girare
anfioſi di via in via , di piazza in piazza, e inter
rogare ſolleciti del nato Re de' Giudei: Ubi eſt,
qui natus eſt Rex Judeorum. Niſſuno ſa darne
loro contezza, anzi all'udire la naſcita di un nuo
vo Principe, ne fa ognuno le meraviglie. Ma non
perciò deſiſtono dall'impreſa i nobili pellegrini;
e riſoluti di trovare chi cercano, non temono
d'infoltrarſi fin nella Reggia dello ingeloſito Ti
ranno. O quì sì, che la mondana prudenza: fer
mate, o Principi, avrebbe lor detto, fermatel'in
cauto piede: Come! nella Metropoli di un Re
altiero, e crudele, anzi nella ſua medeſima Corte
andare in traccia di un nuovo Re, e dichiararvi
con proteſte non dubbie d'eſſer venuti a ricono
ſcerlo con tributi, e ad inchinarvili con adora
zioni: Venimus cum muneribus adorare eum ! Ap
- G 4 pena
Io4 Diſcorſo VI.
pena potrebbe andarne ſcuſato un rozzo villanel
lo, che allevato tra boſchi non ſa, che ſia ra
gion di ſtato, e geloſia di regno. Ma che Princi
pi di naſcità, letterati di profeſſione, di men
te accorta, di ſenno maturo, di lunga ſpe
rienza, in paeſe ſtraniero, in corte barbara
chieggan conto di un nuovo Sovrano, bramoſi
di bacciarne lo ſcettro, o di adorarne il ſolio,
chi la può intendere? Così avrebbe, Uditori,
parlato loro, chi prende da riguardi di Mondo
le miſure dell' operare. Ma tutt'altra fu la rego
la, che ſi prefiſſero que Santi Re. Fiſſi, e fermi
in cetcare quel Dio, che a caratteri di nuova luce
gli avea invitati, punto non ſi curarono di quan
topotea di loro penſarſi, e dirſi da una città in
turbazione, e da una corte in geloſia: e ſupe
rlori ad ogni umano riſpetto fino a tanto, che
non ottennero l'intento loro, mai non ſi dieron
poſa. O queſto sì, cari Uditori, ch' egli è cercar
Dio da vero! Ove ſi tratta di andare a Dio, non
vi ha da eſſere riſpetto umano, che ci trattenga.
Eppure, o lagrimevole obbrobrio del Criſtiane
ſimo! omai nulla più ſi teme, che il dichiarar
ſi di cercar Dio. Per paura di una diceria, di una
burla, di un motto, o ſi laſcia il retto ſentiero,
o per lo meno non vi ſi fanno progreſſi: E in
tanto, che ne ſiegue? Il peggio, che ſeguir poſe
ſa : Si muore male con i molti, perchè non ſi
ardiſce di viver bene con i pochi. Come farò io
dunque queſta ſera a mettere un pò di cuore a
chi ne manca, ed iſpirare coll'eſempio del ſag
gi Re un ſanto ardire a chi laſciati abbattere
da queſti vani timori! Eccovi il mio penſiero.
Moſtrerò, che col vincere i riſpetti umani non ſi
perde nulla, e all'oppoſto ſi perde moltiſſimo ſe
i - Il CIl
Nell'Ottava dell'Epifania. lo 5
non ſi vincono, perchè ſi fanno tre conſiderabili
perdite: la prima in riguardo a noi, e la vedre
mo nel primo punto; la ſeconda in riguardo al
Mondo, e la vedremo nel ſecondo punto; la
terza in riguardo a Dio, e la vedremo nel terzo
punto. Cominciamo.
Per cagion degli umani riſpetti ſi fa una gran
PUN
perdita in riguardo a noi. Ed o qual perdita! per To I.
dita graviſſima, perdita vergognoſiſſima. Per
deſi la libertà: può darſi per noi perdita più gra
ve? e perdeſi in ordine alla religione, che pro
feſſiamo: può darſi perdita più vergognoſa ? Ep
pure tanto è, cari Uditori miei, chi ſi arrende
vigliacco ad umani riſpetti condanna a catene,
a ſchiavitù quell' arbitrio, che natura ci ha dato
libero: Imperocchè, come c'inſegna S. Pietro ,
tanto è darſi per ſervo, quanto il darſi per vin z Pct.a
to: A quo qui, ſuperatus eſt, hujus & ſervus eſt,
chiaro è, che altrettante volte noi ci diamo per
ſervi dell'altrui capriccio, quante all'altrui ca
priccio ci diamo per vinti. E allora certamente
ci diam per vinti, quando temendo o la cri
tica dell'altrui occhio, o i pungoli dell' altrui
lingua, o i ſentimenti ſtravolti dell'altrui opi
nione, facciamo ciò che il buon lume ci ſug
geriſce di ommettere, ed ommettiamo ciò che
il buon lume ci ſuggeriſce di fare. Ora che di
più ſi può perder dall'uomo, quando giunge
ſi a perdere il più bel pregio, ch'egli habbia,
la libertà ? Perdita poi la più obbrobrioſa, che
concepir mai ſi poſſa, perchè ove trattaſi di
religione, ſe ne volle mai ſempre in ogni età,
e da qualſivoglia nazione in tutta liberrà l' e
ſercizio: Eppure in queſto ſteſſo non ſi vergo
gna di farſi ſchiavo chi ſi laſcia vinente vin
- QSIC
Io6 Diſcorſo VI.
cere da riguardi di Mondo. Vedete, uditori, a
che dura neceſſità il miſero ſi riduce, e a qua
li ſtrettezze la ſua vil ſervitù lo condanna. Pro
feſſa, è vero, profeſſa il Vangelo, ma con ta
le riſerbo, che per timore di dar nell'occhio,
vuole, che la profeſſion del Vangelo punto non
iſminuiſca il commerzio col Mondo : Dà di
quando in quando contraſſegni di religione ,
ma a que ſoli ſi attiene, che meno eſpor lo
poſſono alle dicerie de libertini. Vorrebbe pure
che le maſſime della Fede foſſero quelle, che
al ſuo operare deſſer la regola; ma non oſa ſe
guirne ſcopertamente la guida, perchè non ſen
teſi di far fronte alle critiche, che a riprovare
la ſua condotta ben toſto ſi ecciterebbono. Si
avvede beniſſimo, che Dio da lui domanda una
vita più ritirata: l'abbraccierebbe, ma non ar
diſce, perchè teme, che un operar più aſſeſta
to gli tiri la taccia di ſingolare. Sente, che la
coſcienza con interni rimbrotti gl'intima di ac
cordare un po meglio alla ſua fede i ſuoi co
ſtumi: lo farebbe; ma lo trattiene l' apprenſion
de motteggi, con cui dagli amici accolto ſa
rebbe il ſuo cambiamento di vita. Tali in ſom
ma ſono le anguſtie, dalle quali ſi laſcian co
ſtoro ſtrignere il cuore in ciò che riguarda e
ſercizio di religione, e profeſſion di virtù, che -

nulla riſolvono di bene, nulla intraprendono , a


i"
ſe non conſultato prima tra ſe e ſe l'altrui ge
nio, l'altrui capriccio ; e comparir vogliono º
Criſtiani tanto ſolo e non più, quanto può ac º

cordarſi con l'approvazion di quel Mondo, di


cui temono l'occhio ſindacatore. Or qual ſer
vitù può idearſi più infame, più obbrobrioſa,
che nei più cſenziali noſtri ſagroſanti doveri ri
CeVcrG
Nell'Ottava dell'Epifania. Io7
cevere dal Mondo la legge; e da ciò ch' egli
può dirne, da ciò ch' cgli ne può penſare, pren
dere del ſuo operare la regola. O vituperio trop
po indegno, non ſol di chi ha fede, ma di chi
pregiaſi di aver ſenno! Venundati ſunt, cade i Mac.
pur bene ſopra coſtoro il rimprovero fatto già “
dallo Spirito Santo a quel miſcredenti del po
polo Ebreo, ut facerent malum : Ed in che mai
dee ſtarci più a cuore la libertà, che in ciò che
riguarda religione, fede, ſalute, anima, eter
nità ! Che ſia da ceppi, dicca l'Appoſtolo, ri
ſtretto il piede, e tra gli orrori di oſcuro car
cere gema il corpo tra le catene, poco rilieva:
ma ſchiavitù, che mi impediſca la profeſſione
generoſa della mia fede, o queſta non mai
non mi arroſſiſco, nè mi arroſſirò giammai in
faccia al Mondo di quel Vangelo, di cui mi
pregio e banditor e ſeguace: Non erubeſco E- Rom.
vangelium. Così Paolo, e così con Paolo do
vrebbeſi proteſtare ogni fedele pronto a ſoffrir
in tutt'altro la ſoggezione, fuorchè in ciò che
ſpetta ai doveri del ſuo Batteſimo.
Ma queſto è purtroppo il diſordine del noſtri
dì. In tutto il reſto, fuorchè nella pratica del
Vangelo, ſi vuol ſerbata con geloſia la libertà:
Ditemi in fatti, le voſtre entrate non le ſpen
dete voi come meglio vi ſembra? Non regola
te la voſtra famiglia come vi torna più a conto ?
Non maneggiare gli affari voſtri come giudi
cate, che più convenga? Non vi fate già ſchia
vo in queſto dell'altrui fare, dell'altrui dire?
Se ſi rideſſe taluno della voſtra cconomia , v”
indurreſte però a fare ſpeſe ſuperflue è Se mot
teggiaſſe tal altro la voſtra puntualità, l'atten:
zion voſtra ne' voſtri negozj, li traſcurereſte voi
per
I O8 Diſcorſo VI.
perciò ? So di certo, che nò: Laſciereſte dire,
e ſeguitereſte a fare. Solo dove ſi tratta di adem
pire con cſattezza i doveri Criſtiani, ſi ha ri
guardo, che non ſi dica, che non ſi burli : e
meglio ſi ama farſi ſchiavo di un mal coſtume,
che mantenerſi in una ſanta libertà , e di far
ciò che deeſi. In quello, che meno importa,
non ſi vuol ſervitù, in ciò che più di tutto dee
premere, ed in che conſiſte l'onor, e la gloria
di un vero Criſtiano, la libertà non ſi cura! O
Santo David con quanto più di ragione direſte
!
ºadeſſo: Homo cum in honore eſſet, non intellexit;
ſollevato il Criſtiano mercè il ſuo Batteſimo al
la libertà dei figliuoli di Dio, non conoſce, e
non intende il pregio, che più di ognaltro lo
Pſ. 4s. illuſtra : Cum in honore eſſet, non intellexit. E
per verità, è egli intendere, cari uditori, il ſe
guire nell' operare non già il lume del buon
conſiglio: ma le orme del mal eſempio ? E'e-
gli intendere, il recarſi ad onta quel bene, di
cui un Criſtiano pregiar dovrebbeſi; e recarſi
a gloria quel male, di cui dovrebbe un Criſtia
mo ſommamente arroſſirſene? E'egli intendere ,
eleggere quaſi per creanza il peccato, che forſe
non ſi vorrebbe per genio? Dir equivochi con
chi ne dice per non moſtrare di voler far lo
ſpirituale con chi vuol far lo ſpiritoſo ? Farſi reo
al par di ogni altro per timore di comparire
da men degli altri? Dite, è egli queſto un'in
tendere, che ſia onore, che ſia gloria, che ſia
libertà ? Non è piuttoſto un avvilirſi, un diſo
morarſi, un farſi il ſommo de torti? Eh , sì ri
petiamolo pure, che pur troppo è così. Homo
cum in honore eſſet, non intellexit.
Eſſi
Nell'Ottava dell'Epifania, Io9
Eſſi sì, che l'inteſero i Criſtiani del primi ſe
coli. Con quale generoſità profeſſavano eſſi il
Vangelo in faccia dell'idolatria medeſima, che
ne ſmaniava: pronti a perdere e beni, e vita
piuttoſto che la Criſtiana loro libertà ! Sentivan
ſi ora ſcherniti quai vigliacchi ſenza onore,
ſenza ſpirito, ſenza cuore, perchè manſueti
corriſpondeano con benefizj alle ingiurie; ora
vilipeſi come infami, perchè faceano oggetto
de' ſuoi amori l' obbrobrio di un Crocifiſſo ;
ora inſultati quai milenſi, perchè recavanſi a
pregio l'eſſer umili, ed umiliati: Ubicumque in
venerint Chriſtianum, uditene da Agoſtino il
racconto, ſolent inſultare, exagitare, irridere,
vocare hebetem, inſulſum, nullius cordis, nul
lius peritie; ma non perciò laſciavanſi eſſi at
terrire, ſicchè rallentaſſero nè pure un punto
dal fervor della vita, o dalla modeſtia del por
tamento, o dall'amor della Croce; anzi da
gli ſcherni medeſimi prendean cuore a profeſ
ſare con impegno maggiore la Fede ſanta. Se
coli fortunati dove ſiete ſpariti! Facciaſi oggidì
un ozioſo, un maligno, un diſſoluto a taccia
re di milenſagine, di ruſtichezza, d' inciviltà
chi per torſi da pericoli fugge il giuoco, il ri
dotto, il teatro; o di viltà, e di niun cuore
chi o per ubbidire al comando di Criſto per
dona un'ingiuria, o non accetta una sfida: Vo
care hebetem, inſulſum, nullius periti e 5 qual
cuore mai vi ha, che ad una tal batteria non
ſi dia per vinto! Eppure non trattaſi già ne tem
pi noſtri di profeſſar la pietà a fronte della ſu
perſtizione, e a diſpetto della barbarie: Trat
taſi di non arroſſirſi di eſſere Criſtiano nel cuo
re del Criſtianeſimo : trattaſi di adempi -

Q
1 to Diſcorſo Vi.
obblighi del Batteſimo in mezzo del battezzati:
O ſchiavitù troppo indegna di un cuor Criſtia
no! O diſonore troppo ſenſibile dell'Evangelio,
e della Fede! Deh non ſi laſciamo, cari udito
ri miei, addoſſare un giogo sì infame 5 non
permettiamo, che ci ſi tolga il più bel pregio,
che abbiamo, la libertà Criſtiana. Se il Mon
do ha le ſue leggi, ſe i ſuoi uſi, le ſue con
venienze, ei vuol, che ſi oſſervino; tanto ſi oſ
ſervino, quanto ſi accordano con la virtù , e
non più. Ove il maligno pretenda di ſtendere
il ſuo imperio fin dentro il Santuario, e di
preſcrivere limiti al Vangelo, ed alle ſue maſ
ſime, ſi deridano i ſuoi comandi , e facciaſi
fronte al ſuo ardire. Se ſchiavi abbiamo adeſ
ſere, non mai del Mondo, nò; ſchiavi voſtri, ºra

o mio Gesù, o queſto sì.


Di voi sì, che poſſiamo eſſere ſchiavi, anzi
di voi dobbiamo eſſerlo. La ſchiavitù, che a
voi ſi profeſſa, tanto non toglie la libertà no
ſtra, che anzi la perfeziona, e perchè quanto i
più ci obbliga ad eſſere ſoggetti a noi , tanto
più ci aſſicura dalla tirannia del Mondo. Que
ſta dunque è la ſchiavitù, ch'io mi eleggo,
nobiliſsima, glorioſiſſima ſchiavitù, queſta io
voglio, non quella del Mondo, vile, indegna,
ed obbrobrioſa. Dica il Mondo ciò che vuole,
mai non abbandonerò le voſtre maſſime, il vo
ſtro Vangelo, i voſtri eſempi. Mi metto per.
tanto, o Gesù caro, unico mio Signore, mi
metto qual umile voſtro ſchiavo a voſtri pie
di, e adorandone le ſantiſſime piaghe vi ſup
plico a darmi grazia, che impari da eſsi a ſem
pre più calpeſtare con libertà generoſa ogni u. º
mano riſpetto, - è
Si
Nell'Ottava dell'Epifania. i sera
Si fa una gran perdita in riguardo al Mondo. P.
Il motivo, per cui certe anime fiacche ſi laſcia-roir,
no sì facilmente guidare dalla opinion vana
del Mondo, ſi è perchè temono di ſcolorar la
ſua fama, o di ſcadere di ſtima, ſe così non ſi
guidano. Errore, pernizioſiſsimo errore! Appreſº
ſo chi, domando io, appreſſo chi temete voi
d' incontrar nella ſtima qualche diſcapito, ſe
con ſanta libertà apertamente vi dichiarate per
la virtù 3 ditemi appreſſo chi? Diamo intorno
intorno un'occhiata, e vediamo, quali ſieno
que perſonaggi, che sì vi mettono in appren
ſione. Non farebbe già quella ſaggia matrona,
che ſoſtiene con nobil contegno lo ſplendor
della naſcita º quella nò, che anzi apprender
da eſſa potete, come ben ſi accordino nobiltà,
e religione, decoro , e pietà. Sarebbe forſe
quel Cavaliero ſenſato, che colla gentilezza del
tratto, e maturità del conſiglio ſa sì ben con
ciliarſi appreſſo tutti venerazione, ed affetto ?
quegli nò : che anzi col ſuo eſempio v'inſe
i gna, che la virtù ſoſtenuta in faccia del con
tradditori è il più bel pregio di ſangue illuſtre.
Perſone ſagge, quante ne ſcorgo di autorità »
di prudenza, di ſenno, eſſe non lo ſono: che
anzi nulla più diſapprovano, che il regolare le
proprie azioni non ſecondº i principi dell'ope
ſtà, ma ſecondo le bizzarrie dell'altrui genio;
e col ſentimento di Sant'Ambrogio non altro
ci replicano, ſe non che apud omnem Chriſtia
º num prima honeſtatis debet eſſe militia. Sicchè
nell'opinione del più ſenſati, tanto è falſo .
che s'incontri diſcapito , qualor ſi opera con
º franchezza evangelica, che anzi allora vi ſi per
º de; quando per vani riguardi ſi travia dal ret
- tO
E I2 Diſcorſo VI.
to. Chi ſono dunque coſtoro, appreſſo a qua
li ſi teme tanto di perdere? Sono, ſe la verità
non vuol naſconderſi, ſono quattro capi ſven
tati, pieni di fumo, gonfi di vanità, di poco
ſenno, di niuna legge; uno ſtuolo di libertini,
di morta fede, di perduta coſcienza, di avve
lenati coſtumi. Sono perſone, che di religione
altro non han che l'apparenza, e ingolfate ſi
no agli occhi nel Mondo, appena ſanno che
ſia Vangelo. E queſte han tanta forza da farvi
torcere il piè dal ſentiero della virtù º Queſte
hanno a dar legge al viver voſtro? Di queſte
haſſi a temere, che diranno, che penſeranno ?
Ma, Dio immortale! Se non ſi vuol far torto
al buon diſcorſo, ditemi per vita voſtra; quan
do convenienza, o neceſſità ci ponga tra i due,
o di ſcapitare nel concetto de buoni, o di
ſcapitare nel concetto del malvaggi , l'otti
mo lume, quale di queſte due perdite dee
farci preſcegliere? Qual è ſvantaggio maggiore,
perdere la ſtima del ſaggi, o quella degli in
ſenſati? Quella di chi opera con giuſtezza, o
quella di chi vive a capriccio? Per ſomiglianza
di coſtumi eſſere apprezzato dagli empi, è una
ſtima, che fa diſonore, e non fu mai perdita
l'eſſerne privo: eſſere apprezzato da buoni, o
queſta sì, ch'è lode, ed è perdita da piangerſi
amaramente, l'andarne ſenza.
Sebbene credete voi, anime ſchiave, ſe mai
quì ſiete, degli umani riſpetti, credete voi, che
coll'addattarvi più che al Vangelo al genio al
trui, ſiate per incontrare la ſtima di que me
deſimi, a quali cercate di compiacere? V in
gannate a partito. Penſate ſe gente avvezza a
burlare, a morteggiare, a dir male, vuole ſul
- COIltO
Nell'ottava dell'Epifania. I 19
conto voſtro mutar linguaggio. In faccia, può
eſſere, vi applaudiranno: Ma dietro le ſpalle
faranno in pezzi la voſtra fama. Moſtreranno
all'eſterno ogni riſpetto per voi, ma interna
mente faranno di voi quel giudizio, che me
ritate. Voi per incontrare il loro gradimento per
dete alle Chieſe il riſpetto, corriſpondendo al
le loro con le voſtre occhiate; or bene, aſpetta
tevi pure, che fuor di Chieſa facciano chioſa
non favorevole a voſtri ſguardi. Per un lieve
motteggio sbandiſte la modeſtia, grazia la più
bella , che vi rideſſe ſul viſo, e ſulle labbra ;
ora ſappiate, che ſe dicevano prima, che trop
po prezioſe facevate le voſtre grazie; or già
ſi ſpaccia, che divenuta ne ſiate liberale più del
dovere. Per paura di diſguſtare colui, colei,
non avete cuore d'interrompere quella partita,
quando la divozione vi vorrebbe altrove. Ed io
vi ſo dire, che quei medeſimi già dicono nel
ſuo cuore, che voi per un'ora di giuoco ri
nunziereſte un anno di Paradiſo; in ſomma, ſe
quando per un vano timore vi conformate al
mal coſtume, udir poteſte come di voi ſi par
la, vi avvedreſte, che più aſſai è deriſa la vi
le voſtra condiſcendenza, di quel che il ſareb
be l'umiltà, la ritiratezza, la divozione. Eh,
che la virtù compar bella anche ai vizioſi, e
ſe l' accolgono talora con burla, non è per
chè non l'apprezzino, nò; è perchè vaghi di
licenza veggono di mal occhio l'altrui pietà,
e nella via, che pur vogliono battere del mal
fare, non vorrebbono l'onta di eſſere ſoli, on
de per liberarſi dal continuo rimprovero, che
ricevono dagli altrui buoni eſempi, pigliano il
partito di porre in deriſo la ſantità: Remedium
Tom. IV. Anno IV. H pena
I 14 Diſtorſo VI.
pane ſue arbitrantur, ſi nemo ſit ſanctus . . . .
... ſi turba ſit pereuntium , ſi multitudo peccan
tium: Così ſcoprinne Girolamo la rea loro in
tenzione. Per altro non ſono sì ciechi, che non
conoſcano anch' eſſi i pregi di una vita ben re
golata: anch'eſſi la ſtimano; e quando a di
ſpetto del loro inſulti la ſcorgono ſalda, malgra
do, che ne abbiano, la riſpettano.
Ecco però il bel guadagno, che fate, Ani
me puſillanimi, co voſtri indegni riſpetti; voi
perdete con la ſtima de buoni, quella ancor
de'cattivi: laddove al merito di una virtù co
raggioſamente abbracciata, ſi renderebbe dagli
uni e dagli altri la dovuta giuſtizia. Mi ſi nie
ghi pertanto, ſe ancor ſi può, che il traviare
dal giuſto per umani motivi non porti ſeco
graviſſime perdite in riguardo ancora a quel
Mondo medeſimo, per cui riſpetto traviaſi. Ed
è in fatti pena ben giuſta, che chi per paura
degli uomini non ubbidiſce a Dio , non ſolo
non trovi negli uomini il ben, che ſpera, ma ri
porti dagli uomini medeſimi il mal, che teme,
e più ancora di quel che teme. Siame teſtimo
nio Sedecia ultimo tra i Re di Giuda. Intimoſ
ſi a queſto Re da Geremia di uſcire da Gero
ſolima, ed abboccarſi co' Generali del Re Na
bucco, venuti a ſtringerlo con aſſedio. Tal eſ
ſere il volere divino, e non altrimenti poter
egli liberar ſe dal ferro, e Geruſalemme dal
fuoco. A tal riſpoſta combattuto Sedecia da un
umano riſpetto, come? riſpoſe, e volete, o
Profeta, che io mi eſponga alle burle di quel
Giudei, che fuggiti da me hanno abbracciato
il partito de'miei nimici? che diranno al ve
dermi chiedere con umiltà da Caldei la pace?
Per
Nell'Ottava dell'Epifania. 115
Perdonimi Dio: ma io non ho cuor di ubbi
Jer.3º
dire: Solicitus ſum propter Judaeos, qui transfu
gerunt ad Caldaos, ne forte tradar in manus eo
rum, ci illudant mihi. Così diſſe, così fece,
così non ubbidì. Schivò egli con ciò le mal te
mute deriſioni? Nullameno. Eſpugnataſi la Cit
tà da nimici, il Re fu colto nella ſua fuga, e
toſto acciecato, condotto fu carico di catene in
Babilonia a piangere in dura ſchiavitù tra gra
viſſime perdite, degli occhi, della libertà, del
Regno. Va, Re infelice, e dì ancora, ſe ti dà
l'animo: Solicitus ſum.... ne illudant mihi. E
noi da lui impariamo, cari uditori, che con
la diſubbidienza a Dio, non ſi fuggono le de
riſioni, ma s'incontrano, e s'incontrano ezian
dio molto maggiori di quelle, che ſi fuggono.
Non temiamo pertanto di alcune perdite con
l'ubbidire a Dio, dove ſi tratta d'incontrare il
ſuo genio, e di dichiararci apertamente per lui,
facciamci cuore, non temiamo nulla : perchè
nulla ſi perderà. Peraltro quand'anche ſi temeſ.
ſe, anzi quand'anche foſſe inevitabile appreſſo
il Mondo qualche perdita ; ah, cari uditori,
non dobbiamo eſſere pronti a farla, piuttoſto
che per piacere al Mondo, diſpiacere a Dio!
"uò una burla, che a noi ne venga, metterſi
º, confronto di un'offeſa, che a Dio ſi faccia º
Quando debba o a noi , o a Dio venire un di
" ; è egli dovere, che ſia di Dio piutto
º, che di noi? Che Dio ſia il vilipeſo piuttoſto
"e noi i deriſi? E dov'è il riſpettº ad un Dio
º grande º Dove il timore di un Dio sì giuſto?
" fedeltà a un Dio sì benefico? Dove i
nime co" Dio sì buono? Anime timide, a
3.

º codarde, ſe mai º" ſiete, ſu riſpondete.


2. 2
II6 Diſcorſo VI.
Ah, che altra riſpoſta non v'è, caro Gesù:
che con la confuſione ſul volto confeſſare il gran
torto, che abbiamo, quando per riſpetto del -

Mondo, manchiamo al riſpetto dovuto a voi.


uand'anche foſſe vero, che ſi ſcapitaſſe avanti
al Mondo col profeſſare apertamente le voſtre
maſſime, che ci dee importare del Mondo, dove
ſi tratta del voſtro onore, del voſtro guſto. Non
è egli dovere, che diſpiacciaſi agli uomini piut
toſto che a voi ? Ah sì Gesù mio, così dee farſi,
così farò. Non voglio più, no, laſciarmi gui
dare da vane apprenſioni: Voglio fare ciò, che
il voſtrº onore, e la gloria voſtra da me richieg
gono, e poi ne giudichi il Mondo, come a lui -

piace, poco m'importa. Pregovi intanto, mio


buon Gesù, per le piaghe ſantiſſime delle voſtre
mani, che riverentemente adoro, ad avvalorare
col voſtro aiuto la mia fiacchezza, affinchè mi
mantenga inalterabilmente ſino alla morte in .

quella fedeltà, che con tutta giuſtizia vi debbo,


ºr e con tutta ſincerità vi prometto.
in. Si fa una gran perdita in riguardo a Dio. Sup
poniamo, Uditori, che col cedere a riſpetti u
mani nulla ſi perda in riguardo a noi, nulla in
riguardo al Mondo; la ſola perdita, che ne vie
ne in riguardo a Dio, ella è sì grande, che que
ſta ſola dee baſtare non ſolamente a farci ſprezza
re, ma ancora a farci avere in orrore ogni vana ap
prenſione. Imperocchè ſe vi ha coſa, che alienare
poſſa da noi il dolce cuore di Dio, e farci perdere
la ſua più benevola protezione sì in vita, che in
morte, ella è certamente quella viltà, con cui per
un meſchino riguardo ſi giunge ad arroſſirſi del
ſuo ſervizio, o a farſi cuore ad offenderlo. E
perchè ne andiate perſuaſi, altro da voi no"
O2
Nell'Ottava dell'Epifania. 117
do, ſe non che riflettiate al torto, o per dir
meglio, agl'innumerabili torti, che Dio riceve
da condiſcendenza sì vile. Egli è pur certo, che
da queſte anime di niun cuore affrontaſi Dio ne'
ſuoi Sagramenti, con lo ſmentire, che fanno il
carattere di Criſtiano impreſſo loro nel Batteſi
mo, e l' eroica fortezza iſpirata loro nella Cre
ſima; affrontaſi nel ſuo Vangelo, di cui ſi ver
gognano, quando recar ſi dovrebbero a gloria
di portarlo ſcolpito non ſolo in cuore, ma in
fronte, affrontaſi nella ſua Fede, perchè al dire
di S. Cipriano, l'abbandonare per rifleſſi vaniſ
ſimi il partito di Dio è una ſpecie di apoſtasia:
In his omnibus apoſtaſia quedam fidei eſt; affron
taſi nelle ſue grazie, mentre per timore di far
parlare di ſe, non corriſpondono alle interne
chiamate, con le quali le invita a cambiare, o a
migliorare coſtumi; più di tutto però affrontaſi
Criſto nella ſua vita, perchè Criſtiani poco più
che di nome, ſi arroſſiſcono di ricopiarne in
faccia del Mondo gli eſempi: Criſto umile, ed
eſſi perchè temono d'incontrare con l'umiltà
l'altrui diſprezzo, meglio amano di ſecondare
con la ſua l'altrui ſuperbia: Criſto modeſtiſſimo,
ed eſſi per paura, che le converſazioni più non
gli accolgano con gradimento, ſi addattano ad
ogni immodeſtia di moda, e ad ogni licenza di
di tratto: Criſto amantiſſimo della ritiratezza,
ed eſſi perchè non dicaſi, che non ſanno vivere
al Mondo, ad altro non penſano, che a viſite,
ed a comparſe: Criſto manſuetiſſimo, ed eſſi,
perchè non credaſi, che non s'intendono di o
nore, d' ogni menoma ingiuria ne giurano, e
ne vogliono la vendetta. Nel diſprezzo medeſi
mo d'ogni umano
-
riesi,, 3 generoſi"
che
1C
I 18 Diſcorſo VI.
diè Criſto a conoſcere, che coſtanza? Sapea, che
ſarebb'egli ſtato il berſaglio del dileggiamenti,
Luc.., delle ſatire, degli ſcherni: Signum, cui contra
dicetur: Sapea, che la ſua naſcita sì abbietta,
la ſua vita sì ſconoſciuta, la ſua morte sì addo
lorata ſarebbe ſtata da Giudei creduta ſcandalo,
1 Cor. da Gentili pazzia: Judaeis quidem ſcandalum,
gentibus autem ſtultitia. Laſcioſi egli perciò at
terrire? mutò egli diſſegno? Si ſotteraſs'egli nè
pur un apice da voleri del divin Padre? Ma
di eſempi sì belli laſciati da Criſto per no
ſtra iſtruzione non ſi fa caſo, e per non perde
re un'amicizia, per non contriſtare un compa
gno, per non diſguſtare una perſona di qual
che autorità, ora i tralaſcia una divozione, ora
ſi fa plauſo a un moto indegno, ora ſi tien ma
no a un diſcorſo mordace, ora ſi acconſente ad
un invito fuor di ragione. E potranno coſtoro
ſperare, che ſia Dio per mirarli con occhi di
parzialità ! Vergognarſi di comparire in faccia
agli uomini, come comparve il Figliuol di Dio,
e poi pretendere d'eſſere quai ſuoi figliuoli ac
colti da Dio con carezze, e provveduti a dovi
zia di grazie! A voi ne rimetto, Uditori, con
un paragone il giudizio. Se un voſtro ſervo per
onta di darſi a conoſcer per voſtro, vi ſerviſſe
più che poteſſe da lontano: ſe ſi vergognaſſe di
comparire in pubblico con la voſtra livrea: ſe
proccuraſſe a tutto potere di naſconderla se quel
che ſarebbe ancor peggio, ſe nelle più belle com
parſe depoſta per roſſore la voſtra, veſtiſſe quel
la di un voſtro nimico, lo mirereſte con par
zialità d'affetto, ſeguitereſte voi a dargli alber
go in caſa voſtra, a paſcerlo della voſtra menſa,
a ſtipendiarlo col voſtro ſoldo? Ah, lo
-

CliC
Nell'ottava dell'Epifania. I 19
reſte diſpettoſi di caſa, e tutta vi vorrebbe la
voſtra manſuetudine a non caricarlo di villanie,
e di colpi: Indegno, infame, tu vergognarti di
me ? tu ? Dite ora voi qual trattamento da Cri
ſto ſi meriti, chi in mezzo al Mondo ſi vergogna
di comparir ſuo ſeguace, chi nelle occaſioni,
che pur ſono tante, non ardiſce di ſoſtenere il
ſuo partito, e le ſue maſſime, chi in ſomma ſi
arroſſiſce di ſpiegare in faccia di chi che ſia quel
la divina livrea, di cui andonne pompoſamente
veſtito nel ſagro Fonte.
Io intanto da quel molto, che dee temere in
vita, paſſo a quel peggio, che dee aſpettarſi in
morte; che fiducia in quegli eſtremi momenti
potrà egli avere nel Crocifiſſo, unico conforto di
un moribondo ! Al mirarlo, allo ſtringerlo, rea
coſcienza gli rinfaccerà le cento, e mille volte,
che ha poſpoſte le ſue iſpirazioni, i ſuoi conſi
gli, i ſuoi precetti, il ſuo merito al genio di
un amico, all'autorità di un maggiore, all'ap
prenſion di un motteggio, alla corruttela di un
mal coſtume: Quindi con che cuore, con qual
fronte potrà egli chiedergli ajuto nelle tentazio
ni, e ſollievo nelle ſue agonie: qual ſarà il bat
ticuore dell'infelice al penſare, ch'entro a pochi
momenti dovrà veder quel Gesù, di cui ſi è tam
te volte arroſſito, ed averlo per Giudice: E per
verità ſarà ben giuſto il timore: perchè Criſto
medeſimo ſi è proteſtato di volere nel ſuo giu
dizio rendere a coſtoro la pariglia: Qui me Lue.s.
eruhuerit, o meos ſermones, hunc filius hominis
erubeſcet, cum venerit in majeſtate ſua: Sì, dirà
Criſto, vi ſei pur giunta al mio Tribunale, ani
ma vigliacca: vi ſei pur"a Ti versosi
2 4. l
I2o Diſcorſo VI.
di me, della mia dottrina, de' miei eſempi, ora
io ti voglio rendere roſſor per roſſore, e vitupe
ro per vitupero. In faccia al Mondo ti arroſſi
ſti di me, ed io in faccia al Cielo mi arroſſiſco
di te. Va, ſervo indegno, aveſti ad onta il dichia
rarti per mio; mio non ſarai in eterno. O ani
ma Criſtiana, eſclama quì pien di ſpavento A
goſtino; Ubi eris tu, quid facies, ſi te attendat
alle excelſus, ci dicat tibi : erubuiſti de humili
tate mea, non eris in claritate mea. Che farete
allora, che direte, ove vi rivolgerete? Addurrete
per iſcuſa, che non ardivate eſſere il ſolo a ſof
frire ingiurie ſenza vendetta º che non ardivate
eſſer la prima a veſtir più modeſta ? che il co
ſtume portava così ? che così facean gli altri ?
che non ſi poteva altrimenti ſenza diſcapito ? E
ual diſcapito maggiore, che udirvi dire: Eru
i", de humilitate, non eris in claritate mea.
O queſta sì, cari Uditori, ch'ella è perdita da te
merſi: perdita della protezione di Criſto in vita:
perdita dell'aſſiſtenza di Criſto in morte: per
dita della benedizione di Criſto al Giudizio. Deh
non ci eſponiamo di grazia a perdite sì luttuoſe!
Via una volta coteſti riſpetti di Mondo; non più
coteſta verecondia vizioſa, che ci fa arroſſire del
Vangelo; veggaſi una volta una ſanta sfaccia
tezza, perchè ſoſtenga in faccia al Mondo l'o-
nor di Dio, e della ſanta ſua Legge: Diſcedat,
proſiegue Agoſtino, mala verecundia, 6 acce
dat ſalubris imprudentia. O noi felici, ſe arri
viamo a ſegno di metterci ſotto a piedi ogni u
mano riguardo! Salvus ſum, dicea Tertulliano,
e vorrei, che con lui ne andaſſe ancora perſua
ſo ognun di noi, ſalvus ſum, ſi non confundar
de Deo mèo. S'io giungo a tanto di non arroſº
ſirmi
Nell'Ottava dell'Epifania. 121
ſirmi del mio Dio, io ſon ſalvo: sì, ſalvus ſum,
perchè ſe non mi arroſſiſco del mio Dio, lo ſervi
rò con fedeltà a diſpetto di tutte le dicerie. Se non
mi arroſſiſco del mio Dio, praticherò con eſattez
za, che che il Mondo ne dica, le maſsime di mia
Fede: ſalvus ſum, perchè ſe dagli uomini riceverò
beffe, da Dio riceverò grazie, ſe gli uomini mi ri
fiuteranno, Dio mi aſsiſterà, Dio mi accoglierà,
Dio mi benedirà; ſalvus ſum, perchè Criſto ſi è
impegnato di parola ad eſſere mio glorificatore in
faccia agli Angioli, s'io ſarò ſuo glorificatore
in faccia agli uomini: Quicumque confeſſus fue- Lucia
rit me coram hominibus, o filius hominis confite
bitur illum coram Angelis Dei. E con un impe
gno sì certo di mia ſalute eſito ancora a dichia
rarmi apertamente per lui?
Ah nò, che non eſito punto, Gesù mio caro.
Odami pure il Mondo, e lo ſappia, ch'io ſono
tutto per voi, pronto a profeſſare in faccia di
chi che ſia il voſtro Vangelo. Non mi arroſſirò
certamente di voi, perchè in voi ho tutta la mia
fiducia: Deus meus, in te confido, non erubeſcam, Pf. ss
E ſe la fedeltà, che vi prometto, ecciterà contro
di me maldicenze, deriſioni, motteggi; non per
ciò recherommi ad onta il continuare a ſervirvi,
anzi mi conſolerò anch'io con Davidde, che ſe ſa
rò beffato dagli altri, ſarò da voi benedetto: Ma pſies
ledicent illi, 3 tu benedices. Sì sì, maledicent illis
ma il loro dir male finirà preſto. Tu benedices,
e le voſtre benedizioni dureranno in eterno. Co
minciate, Gesù mio, a benedir queſta ſera que
ſta mia riſoluzione, e per la piaga ſantiſſima del
voſtro Coſtato, che adoro con tutto l'oſſequio,
concedetemi, che come il dico adeſſo di tutto
cuore, così ancora lo dica per ſempre: In te, Do
mine, ſperavi, non confundar in aternum. Dl
12 2
se srec srec srec sresa
iD I S C O R S O V I I.
PER LA DO M EN I CA PR IM A
D O P O L' E P I F A N I A.

Viver nel modo, con cui ſi vive dai più.

In his, qua Patris mei ſunt, opportet me eſſe.


Luc 2. -

ºrº SºgHE il fare ciò, che fan gli altri non


5 S ſia la giuſta regola dell' operare,
3, C 3 quando altra prova non ve ne foſ
2S º ſe, ſarebbe più che baſtevole a per
3 N di ſuadercelo l'eſempio, che nell'o-
dierno Vangelo ce ne ha Criſto la
ſciato. Terminata la ſolennità della Paſqua par
te da Geruſalemme Maria, parte Giuſeppe, par
ron gli amici, partono i conoſcenti: Gesù ſolo
non partes e tutto, che vegga, che la ſua di.
mora ſia per eſſere di rammarico a ſuoi parenti,
che fanciullo com'egli è, lo temeranno ſmarrito,
pure ſi ferma, e intento ſolo al rifleſſo, che
la gloria del Divin Padre così richiede, punto
non bada a ciò, che gli altri ſieno per dirne;
In his, que Patris mei ſunt, queſto è tutto il
motivo, che lo trattiene in viſta degli altri,
che partono, oportet me eſſe. Sì, cari Uditori,
queſto ſolo baſtar dovrebbe per far ins".
CIMC .
Per la Domen, prima dopo l'Epifania. 11;
che ad operar con giuſtezza mirar non dobbia
mo a ciò, che dagli altri ſi fa, ma ſolo a ciò,
che Dio vuol, che ſi faccia. Eppure, corre pur
troppo l'oppoſta maſſima di fare più , che quel
che ſi dee, quel che ſi vede, e ſenz'altro ri
guardo, che di addattarſi a ciò, che faſſi dai
più, punto non ſi bada al come bene ſi operi,
purchè ſi operi ſecondo il coſtume. E fia poi
meraviglia, che chi vive come vivono i più, muo
ja altresì, come muoiono i più, e con la mol
titudine ſi precipiti, chi vuol per guida la mol
titudine! Ah, cari Uditori, io vorrei pure, che
voi almeno per accertarvi una ſanta morte pren
deſte dall' eſempio di Criſto, e non dall'attratti
va del coſtume la regola dell' operare, e ſen
za badare a ciò, che dagli altri ſi faccia, quel
ſolo faceſte, che il ſervizio di Dio domanda,
governandovi ancora voi con queſto ſolo prin
cipio: In his, que Patris mei ſunt, oportet me
eſe. Contentatevi pertanto, che ad aſſicurarvi
un vantaggio si rilevante io vi eſponga il di
ſordine luttuoſiſſimo, ch' egli è il far regola
del ſuo vivere il modo con cui ſi vive dai più;
diſordine, che s'introduce nell'anima ſenza ri
morſo: diſordine, che inemendabile s'innoltra
ſenza riparo: diſordine che ineſcuſabile termi
na ſenza perdono; Diſordine però luttuoſiſſimo
ne' ſuoi principi, come il vedremo nel primo
punto: Luttuoſiſſimo ne ſuoi progreſſi, come
il vedremo nel ſecondo punto: Luttuoſiſſimo
nel ſuo termine, come il vedremo nel terzo
punto. Cominciamo. e
E' un diſordine, che inſenſibile s'introduce PoN
nell'anima ſenza rimorſo? Dio ci liberi da una º ”
paſſione, che trovi nel cuore un pacifico alber
gO,
I 24 , Diſcorſo VII.
go. Non contenta queſta di alzarvi trono di
Regina, ergevi ancora Cattedra di Maeſtra ; e
ſollecita di ſecondare i ſuoi movimenti, porge
con tutta franchezza regola di giudicare, di de
cidere, di conchiudere. Quante ragioni ella tro
va per giuſtificare ogni coſa, che la luſinghi,
e quante per rigettare ogni coſa, che la inquie
ti! Quindi a danno ineſplicabile di chi l'aſcol
ra, vienſi a formare una coſcienza a capriccio,
che ſtabiliti a ſuo modo i principi dell'opera
re, ravvolge chi opera, ſenza che ſe ne avveg
ga, tra mille vizj. Ed eccovi appunto ciò, che
avviene a chi ſi laſcia guidare dalla corrente
del Mondo. O ſia timore, che non ardiſce far
fronte ai mali eſempi, che lo circondano, o ſia
orgoglio, che anche nel vizio ſdegna di appa
rire da men degli altri, o ſia ſovverchio amor
di sè ſteſſo, che di buon grado ſi addatta a tut
to ciò, che ſolletica l'inchinazion naturale ;
certo è, che ogni ſtudio ſi adopera per colo
rire coll'oneſtà il conformarſi coll'uſo. Si co
mincia ad iſtabilire per maſſima: che nel Mon
do ſi dee vivere col Mondo; niuna coſa più
odiarſi in chi vive tra i molti, che la ſingolari
rà s che non può non eſſere prudenza regolare
le ſue azioni, dalle azioni delle perſone del ſuo gra
do medeſimo: della ſua medeſima condizione; eſſer
in ſomma una ſpecie di neceſſità laſciarſi condur
dalla folla, a chi per obbligazione di ſtato vi
ſi trova nel mezzo. Da principi di queſta fatta,
ecco formarſi una coſcienza tutta a genio del
piacere, dell'intereſſe, dell'ambizione, e ſtabi
lirſi con una morale affatto nuova, che leci
tamente può farſi, quanto comunemente ſi fa:
Capit licitum eſſe (così l' oſſervò S. cp") -

- quo
Per la Domen, prima dopo l'Epifania. 125
l
-
quod publicum eſt. Quindi con una dialetica ap
v preſa nella ſcuola dell'amor proprio ſi forma
è queſto diſcorſo: Gli altri fanno così, dunque
ſenza ſcrupolo, ſenza rimorſo così può farſi.
Se ciò ſia vero, Uditori, io me ne rapporto
alla ſperienza, che di continovo ci moſtra un
sì abbominevole accordo della coſcienza col reo
coſtume. Quelle liti sì prolungate rovinano con
iſpoſe gravoſiſſime le famiglie: E voi, o Curia
º,
le, con qual coſcienza per mezzo di ſofiſtiche
ſottigliezze le fomentate? Con qual coſcienza
le tirate in lungo con dilazioni affettate ? Con
qual coſcienza ? riſponde, io non ne ho un me
nomo ſcrupolo, ſi è ſempre fatto così. E voi,
o Giovane, non vi arroſſite di ſtarvene con un
ginocchio a terra, e l'altro nò, nelle Chieſe,
e nelle ſale: in queſte vile idolatra di un volto,
in quelle adoratore irriverente di un Dio! Riſ
ponde, che gliene toglie ogni rimorſo il farſi
così dagli altri ſuoi pari. E quel trattare, o
Donna, sì poco guardingo, pare a voi, che
convenga al voſtro ſeſſo, al voſtro grado, e all'
età voſtra ? riſponde, che la coſcienza è in ſi.
curo, perchè l'uſo così permette. Così ſcuſa il
Mercante con lo ſtil del commerzio quegli inte
reſſi così ecceſſivi: Così il Soldato col coſtume
della milizia le ſue licenze: Così il Nobile con
le leggi della Cavalleria i ſuoi puntigli; ed in
tanto paſſeggiano per le Città battezzate con
maſchera d'innocenza, paſſaporto d'oneſtà le
ingiuſtizie, le uſure; le immodeſtie, le alteri
gie, e gli ſcandali. Il coſtume ſi è fatto diret
tore della coſcienza, e la coſcienza ingannata
ne riceve con piacere le leggi, Capit licitum
eſſe, quod publicum eſt. Ch
C
Y26 Diſcorſo VII.
Che luttuoſo diſordine ſi è coteſto! Non vi ha
certamente tra voi chi non lo vegga, ma io a
dir il vero non ne ſtupiſco, perchè la voglia di
fare ciò, che fan gli altri, o eſtingue del tutto,
o offuſca di molto quel buon lume, che dee di
ſcernere il ben dal males e guida cieca, ch'ella è,
purchè ſi vada dove gli altri vanno, nè vede, nè
laſcia vedere i precipizj ai quali conduce. E quin
di è, Uditori, che ci laſciò il Redentore nel ſuo
Vangelo l'avviſo di vegliare attentamente ſopra
di noi, acciocchè quel lume interno, che dee
eſſere la regola pratica del noſtro operare, non
Lue, venga ingombrato da tenebre: Vide ne lumen,
quod in te eſt, tenebre ſint. Perchè infino a tanto
che queſto lume, che altro non è, che la noſtra
coſcienza, mantienſi puro ſenza offuſcamento di
errori, le azioni regolate da eſſo ben poſſono
chiamarſi con la fraſe dell'Appoſtolo: frutti di
Eph. s.luce, fructus lucis ; ma ove queſto dall' ingan
no ſi oſcuri, che altro aſpettar ſi può, ſe non
quelle, che lo ſteſſo Appoſtolo chiama opera
zioni di tenebre, opera tenebrarum. Ed o quali,
o quante di queſte opere tenebroſe produce una
Matth coſcienza, che abbia ſpoſato il coſtume! Si lu
º men quod in te eſt, dice Criſto, tenebre ſint,
ipſa tenebrae quante, quanta erunt. Cammina la
miſera, e ad ogni paſſo, che dà, eſce di ſtra
da, ma perchè cammina nel buio, nè ſi avvede
del ſuo traviare, nè ſe ne duole.
Quindi chi può ridire il numero immenſo di
colpe, che come da ſorgente avvelenata deri
va da una coſcienza si pervertita ? Il Santo Aba
te di Chiaravalle per darcene in qualche modo un
idea, preſo dalle parole del Salmiſta il confron
to, paragona una coſcienza ſchiava degli uſi ad
llll
Per la Domenica prima dopo l'Epifania 127
un gran mare, in cui guizzan tranquilli rettili ſen
za numero: Mare magnum & ſpatioſum, illic rep
tilia quorum non eſt numerus. O che vaſto, che ſter
minato mar di peccati! ma peccati,che come rettili
s'inſinuano inſenſibili, e vi dimoran pacifici: Ma
re magnum & ſpatioſum. Quanti equivochi giun
gono con applauſo all'orecchio, ed eſcono per
vivacità dalla lingua per non parere tra compa
gni un milenſo: quante corriſpondenze di occhia
te, e dimeſtichezze di tratto, perchè ſi dica, per
chè ſi vegga, che ſi ſa vivere al Mondo: quante
ſpeſe ſoverchie, ſmoderate, e ſuperiori fors'
anche al proprio ſtato per pareggiare con gli altrui
sfoggi: quanti giuochi, perchè dagli altri ſi giuo
ca, quante detrazioni, perchè dagli altri ſi parla,
quanti perdimenti di tempo, perchè dagli altri
ſi vive in ozio: Mare magnum & ſpatioſum, pec
cati ſenza numero : reptilia quorum non eſt nu
merus: peccati malizioſamente non conoſciuti,
perchè non voluti conoſcere, peccati, che vi
vono in pace nel cuore, perchè dall'uſo ſov
vertitore della coſcienza ricoperti col manto dell'
oneſtà. Ah, che purtroppo, cari Uditori, que
ſto è l'incanteſimo del coſtume; col lungo mi
rare i diſordini ſe ne perde l'orrore, poi comin
ciano ad iſcuſarſi, poi a piacere, poi ad ammet
terſi: e più non ſembrano biaſimevoli, ſolo per
chè ſono comuni; ed ecco, Uditori, come dal
uſo a poco a poco perverteſi la coſcienza, e ſen
za che punto ſe ne riſenta di mille colpe ſi ag
grava. - -

Conobbe queſti pericoli il Re David, e rivol


to al ſuo Dio: ah, Signore, dicea reggete vi
prego, co voſtri lumi i miei paſſi! Miro d'ogni
intorno, e più non ravviſo ſantità in Iſraello:
Salvum
I 23 Diſcorſo VII.
º “Salvum me fac, Domine, quoniam d effecit Sani
ctus. Alla legge ſanta prevale il rio coſtume, e
dove prima prendeaſi dalla voſtra voce la regola
ora ſi prende dall' altrui opere ; le noſtre maſſi
me non hanno più credito, e ſi eccliſſa nel vo
Ibid. ſtro popolo la bella luce delle voſtre verità: Di
minuta ſunt veritates a filiis homunem. Piaccia
a Dio, che imitatori del Salmiſta apriamo gli oc
chi ancor noi, e non ci laſciamo incauti dalla
traviata moltitudine trarre di ſtrada. Nè ci ſarà
punto difficile il tenerci contro la corrente ben
ſaldi, ſe fiſſato nella divina Legge lo ſguardo,
queſta piglieremo per unica regola del noſtro
operare. Così fece quel generoſo padre de Ma
cabei, che vedendo gli altri ſeguir vigliacchi i
comandi ſacrileghi del perfido Antioco, eſecran
do la lor viltà: ſiegua, diſſe, chi vuole i co
mandi dell'empio Re, mai non ſarà, che ne io,
E • Ma
nè i miei figliuoli ci ſcoſtiam dalla legge de padri
scab. 2 noſtri: Et ſi omnes gentes obediunt Antiocho, ego,
& filii mei obediemus legi patrum noſtrorum; ſen
timenti degni veramente d' imprimerſi in ogni
cuore Criſtiano; Nò, dite ancor voi, ſe ſiete
capo di caſa, no, non ho altra regola, che la
legge divina. Stia chi vuol ſu i puntigli, perda
chi vuole in divertimenti il ſuo tempo, ſiegua
chi vuole le uſanze, e le leggi del Mondo: Io, e
i miei figliuoli non ci dilungheremo giammai dai
dettami dell'Evangelio: Ego, di filii mei obedie
mus legi: Nò, dite anche voi, ſe ſiete madre di
famiglia, io non ho altra regola che la legge di
vina. Amino le altre, quanto a lor piace, le
pompe, pratichin mode poco decenti, corra
no a veglie, a feſtini, a teatri, e facciano a
lor talento di notte giorno, di giorno notte s io,
C
Per la Domenica prima dopo l'Epifania. 125
e le mie figlie ameremo mai ſempre la ritira
tezza, la pietà, la modeſtia: Ego e fili e mea obe
i diemus legi e c. Nò, dite anche voi, quanti quì
i ſiete, Uditori miei amatiſſimi: Io non ho altra
i regola, che la legge divina? Facciano gli altri
ciò, che vogliono, dicano, ciò che vogliono
i motteggino alla libera, converſino alla dimeſti
ca, corrano di viſita in viſita, di piacere in pia
cere, di giuoco in giuoco, io non voglio far
nulla, che non ſi accordi appunto con la legge
ſanta di Dio: O ſe ci appigliamo una volta ad
una regola sì giuſta, miei dilettiſſimi, non cor
reremo più riſchio, nò, che la coſcienza ci tra
i diſca ingannata, non correremo più riſchio,
che ſi cammini alla cieca, e ſi corra fra tenebre
º al precipizio.
è O Gesù caro, imprimeteci voi nell'animo
: ſentimenti si giuſti, e fate, che guidata da que
ſti la noſtra coſcienza dia mai paſſo fuori del
buon ſentiero. Ah, che troppo è facile, che le
uſanze del Mondo ſovvertano il noſtro cuore, e
º lo avvolgano ſenza avvederſene in mille diſor
dini. Fate pertanto, per quelle piaghe ſantiſſi
i me, che ne voſtri piedi adoriamo, fate che
º altra regola mai non abbiamo del noſtro ope
i rarc , fuorchè la legge voſtra ſantiſſima, nè
º mai miriamo a quel, che dagli altri ſi fa, ma uni
i camente a quello, che da voi ſi comanda: Sic
chè ſicuri da ogni inganno giungiamo un giorno
: a quel feliciſſimo termine, a cui la voſtra legge
conduce, chi fedelmente la ſiegue. e
; E' un diſordine, che inemendabile s'innoltra P
ſenza riparo. Nulla vi ha di più facile, che il di i
i venire ſenza rimedio un male, che ſi ammette
, nel cuore ſenza rimorſo. In fatti quand' è, che
riconduceſi ſul ſentiero della ſalute un pecca
Tomo IV. Anno IV. I tOrC

l
13o Diſcorſo VII. x

tore traviato, ſe non allora, che con inter


ni latrati la ſua ſteſſa coſcienza lo inquieta, e
lo perſeguita, e rinfacciandogli ad ogni momento
il ſuo peccato: miſero, gli va dicendo, che hai
fatto! Per un piacere, per uno sfogo, per un nulla
ribellato ti ſei dal tuo Dio, e ne hai provocato
lo ſdegno. Ah infelice, più non è per te il Pa
radiſo! la divina vendetta or or ti raggiunge,
l' Inferno or or t' ingoja; e con sì fatti rim
brotti tanto lo tormenta , tanto lo agita ,
che ſpreme alla fine dal di lui cuore un vi
vo dolor del ſuo fallo. Ma quando tace ogni ri
morſo, e la coſcienza addormentata nelle ſue
colpe non ha chi la ſcuota, quale ſperanza vi
può mai eſſere di ravvedimento, ditemi, quale ?
Chi ha da ſcoprirle lo ſtato miſero in cui ſen
giace? Chi ha da rimproverarle le macchie ſor
dide di cui va lorda è Forza è però, che col man
car del rimorſo, manchi ancora il rimedio, e che
il male inſenſibile prima nei ſuoi principi, diven
ga poſcia irreparabile nei ſuoi progreſſi. E non
lo diſſe appunto il Griſoſtomo, che non vi ha più
luogo a riparo quando il vizio divien coſtume:
Deſinit eſſe remedio locus, ubi qua fuerunt vitia,
mores ſunt. Or quànd'è, miei dilettiſſimi, che
paſſa il vizio in coſtume, ſe non all'ora, che la
coſcienza col rimirarlo di continovo negli altri,
più nol ravviſa per deſſo, e ricopiandolo in ſe,
gli accorda come ad amico un tranquillo ſog
giorno, ed intanto peccando con tutta pace, e
ripeccando tanto non penſa ad emendarſi, che nè
pur ſi avvede d'eſſer colpevole. Penſate però ſe º,
v,
riparar mai ſi potrà un male, che paſſato in uſan
za più non ſi ricognoſce per male, deſinit eſſe
remedio locus, ubi que fuerunt vitia, mores ſunt.
Quindi
Per la Domenica prima dopo l'Epifania. 131
Quindi zelino pure quanto a lor piace i Mi
niſtri Evangelici, e riprovino il rilaſſamento de'
coſtumi, la vanità delle pompe, lo ſcialacqua
mento del tempo, la morbidezza del vivere, l'ec
ceſſo del giuochi, l'indecenza di certe mode,
non pertanto otterranno circoſpezione, mode
ſtia, ritiratezza ; moderazione, perchè niſſuno
mira come rimproverato a ſe quel coſtume,
ch ei vede comune negli altri: E' vero, dice co
lui, ch'io perdo non men di tempo, che di da
naro ſu tavolieri, ma non fanno lo ſteſſo tanti
altri dell' età mia , e del mio grado: E' vero,
dice colei, che con pace maggior della caſa po.
trei riſparmiare certe ſpeſe, ma veggo finalmen
te che le altre non le riſparmiano. E così, di
ſcorrendo, appena troverete, chi ſi faccia col
pevole di un abuſo rimproverato da ſagri per
gami, ſol tanto che lo ſcorga protetto e pra
ticato da molti; e con una ſomma indifferenza
di animo riſponde dentro di ſe: Il Predicatore
non dice a me, perchè io non faccio coſa, che
non ſi faccia da tutto il Mondo.
Che ſe per porre alla radice la ſcure, ſi rap
preſenti ai ſeguaci degli uſi, che queſto ſteſſo
è il loro gran male, voler fare ciò, che faſſi
da tutto il Mondo, ſapete che riſpondono ? Riſ
pondono ciò, che diſſe Mosè a Faraone, quan
do gli chieſe la permiſſione di portarſi a ſagri
ficar nel deſerto: Si mattaverimus ea, que º Exod
lunt AEgyptii coran eis, lapidibus nos obruent. Se
noi, dicea Mosè tra mezzo agli Egizi, ſagrifi
cheremo al noſtro Dio quelle divinità, ch'eſſi
adorano, ci ſeppelliranno vivi tra i ſaſſi: Ora
con un ſimile ſentimento, benchè in caſo diſ
ſimile, penſate, riſpondon coſtoro, s'egli è poſ
- - l 2 ſibile,
132 Diſcorſo VII,
ſibile, che noi in mezzo al Mondo ſagrifichia
mo a Dio quell' Idolo, che il Mondo adora,
i ſuoi coſtumi, i ſuoi uſi; quante ſarebbono le
dicerie, quanti i motteggi, quante le ſatire, che
ſi ſcaglierebbono contro di noi? Come compa
rir potremo nelle aſſemblee ſenza eſſer deriſi !
Come paſſeggiar per le ſtrade ſenza eſſere mo
ſtrati a dito ? Eh, che non ſi può in verun mo
do, non ſi può, chi vuol pace, forza è, che
viva nel Mondo come ſi vive. Ed ecco uditori,
ſempre più irreparabile loro male, perchè di
venuta nell'ingannata lor opinione mal neceſſa
rio; con queſta orribile conſeguenza, che dila
tandoſi d'età in età il male non riparato, in
volge chi ſuccede nella rovina di chi è prece
duto, e paſſando in eredità anche le uſanze,
fanno, che dove caddero i padri, cadano anco
ra i figliuolis dove caddero le madri, cadano
ancora le figlie, dove caddero i vecchi, cadano
ancora i giovani, avverandoſi pur troppo ciò,
che ſu queſto propoſito ſcriſſe il morale di Ro
ma, che traſmettendoſi da una generazione all'
altra il reo coſtume, ſi ammucchiano cadute ſo
pra cadute, ſopra le cadute degli avi le cadute
de' nipoti: Praecipitataue per manus traditus er
ror aliorum ſuper alios mentium. Giudicate ora
voi, dilettiſſimi miei, ſe dove il male, e male
di conſeguenze sì rilevanti, non ammette rime
dio, ſperar ſi poſſa ſalvezza. Eh, ch: purtrop
po ſi periſce coi più, perchè coi più ſi vuol vi
vere, e ſi va ſenza ribrezzo al precipizio, per
chè vi ſi va in compagnia ben numeroſa.
Io però non ſo indurmi a credere, che ſi tro
vi pur uno in udienza sì pia cieco ſettator del
coſtume; anzi ſembrami di ravviſare in ognuno
- di
Per la Domenica prima dopo l'Epifania. 133
di voi un vivo ritratto del fervoroſo Tobia, il
quale ſottrandoſi dalla moltitudine, che piega
va ſacrilega fronte ai vitelli d'oro alzati dall'
empio Geroboamo, non arroſſivaſi d'eſſere il
ſolo, che porgeſſe fedele omaggio al vero Dio:
Solus fugiebat conſortia hominum, C pergebat in Tob. 1,
Jeruſalem ad templum Domini.
Così ſaggiamente dee farſi, ove trattaſi di ſchi
vare un male, che non ammette riparo. Che
però affinchè le uſanze del guaſto ſecolo mai vi
ſmovano dalla Criſtiana voſtra riſoluzione, ſiavi
mai ſempre fiſſo nell'animo il bel conſiglio di
Sant'Eucherio, di mirar ſempre come obbrobrio,
non mai come eſempio il malcoſtume: Semper
ut oppro brium, nunquam ut exemplum. Sì, cari
uditori, ut opprobrium, non ut exemplum, ſi han
no a mirar certe mode, che riportano l'applau
dimento de licenzioſi, ma non ſi accordano con
la modeſtia Criſtiana, ut opprobrium, non ut e
xemplum, certe dimeſtichezze, che portano il
nome di vivacità innocente, e ſono ſcandaloſe
licenze, ut opprobrium, non ut exemplum, certe
maſſime, che con la fraſe del Mondo ſi chiaman
politiche, e nel concetto di Dio ſono ſtoltezze,
ſono empietà, ut opprobrium, non ut exemplum,
que libertinaggi di motti, di tratti, di canzoni,
che in certi conviti, in certe cene laſcian in
dubbio, ſe più vi trionfi l'intemperanza, o
l'immodeſtia, Corra in ſomma , corra la turba
ove vuole, ed inſenſata ſi affolli attorno ai pia
ceri, ai divertimenti, alle mondane allegrie: Noi
ſottrandoci dal numero, per ſottrarci dalla rovina,
miriamo il folle ſuo impegno:Semper utopprobrium
nunquam ut exemplum. Si sforzerà il reo coſtu
me di tirarci con mendicati isti al ſuo r"
I 3 O1
I 34, - Diſcorſo VII.
Noi riſpondiamogli con S. Bernardo, che la veri
tà, e non l'uſanza debb'eſſere la noſtra regola:
Debet nos judicium veritatis ducere, non privi
legium conſuetudinis. Ci aſſorderà la moltitudi
ne con le ſue voci ora d'invito, ora di burla:
Noi porgiamo orecchio all'avviſo di S. Gio
vanni Climaco, che dee ſu queſta terra vivere
tra i pochi, chi vuole tra i pochi regnare :
Vive cum paucis, ſi vis regnare cum paucis. Bia
ſimerà il Mondo la ſingolarità d'una vita,
aliena dalle ſue uſanze ; biaſimi quanto vuole:
non fia meglio, cara mia udienza, ſingolariz
zare con chi ſi ſalva, che accomunarſi con chi
ſi perde ?
Sì, ch'egli è meglio, Gesù mio caro, nè ſo
lamente meglio, ma indiſpenſabile, ma neceſ
ſario. Che follia ella è mai per non volerſi di
ſcoſtare dai più, volerſi perdere coi più! No,
mio buon Gesù, nol farò mai. Sieno pur pochi
quei, che non ſeguono gli uſi del Mondo; io
voglio eſſere tra queſti pochi, perchè voglio eſ.
ſere tra quei, che ſalvanſi. Deh per quelle pia
ghe, che adoro nelle voſtre mani ſantiſſime, ot
tenetemi, vi ſupplico, dal divin voſtro Padre una
di quelle grazie, che mantennero giuſto un Noè
in mezzo alle iniquità di tutta la terra, caſto un
Giuſeppe tra le impurità dell'Egitto, innocente
un Loth tra le diſſolutezze di Sodoma, fedele
un Tobia tra le Idolatrie del popolo: Sicchè la
forza d l coſtume contrario a voſtri ſanti det
tami, mai non mi tragga a dar un paſſo fuori
de' miei doveri.
E' un diſordine, che ineſcuſabile termina ſenza
il non
perdono. Perſuadere a chi vive nel Mondo, che
ſiegua gli uſi del Mondo, io lo " ll
ItOIl ,
Per la Domen. prima dopo l'Epifania. 135
ditori, io lo confeſſo, è difficile impreſa. Per
quanto a convincerlo ſi adoperi ogni arte, non
vuol intenderla, e a lui ſembra, che ſe pure vi
ha male nell'adattarſi al coſtume, non può non
eſſere un mal degno di ſcuſa, perchè ſe, come
diceaſi, s'inſinua ſenza rimorſo, pare che igno
ranza lo ſcuſi: e ſe innoltrandoſi non ha rime
dio, pare che lo ſcuſi neceſſità. Convien per
tanto, uditori, che conduciam l'oſtinato a quel
tribunale di verità, a cui dovrà preſentarſi dopo
la morte, e giacchè ignoranza e neceſſità ſono
le due tavole, a cui nel pericolo di un eterno
naufragio ſi affida ; vediamo ſe queſte trar lo
potranno a ſalvamento, quando sfaſciataſi que
“ſta ſpoglia mortale troveraſſi l'anima nel gran
de Oceano dell'eternità.
E in primo luogo, come può egli mai con
l'ignoranza difenderſi un appaſſionato ſeguace
degli uſi, ſe a diſarmar queſta ſcuſa con dop
pio lume ſi avventano ragion, e fede! Come
può mai darſi a credere di operar con giuſtez
za, chi altro motivo del ſuo operare non ha,
che conformarſi alla turba: Direſte voi, ch'e-
gli ha ſenno, chi in un cammino pericoloſo,
e ſdrucciolo, per ſua guida ſceglieſſe un cieco?
Direſte voi, ch' egli è viandante avveduto ,
chi pago di andar accompagnato, nulla poi ba
daſſe, ſe buona ella ſiaſi, o ſe falſa la ſtrada ?
Eppure che altro è vivere ſecondo l'uſo, ſe
non un camminare alla cieca ſenza riflettere ,
ſe ciò che ſi fa, ſia ciò appunto, che far ſi dee?
L'inteſe pure dal lume ſolo della ragione il
Morale, che tra le coſe più da ſchivarſi, una
è il ſeguire la moltitudine: Quid tibi vitandum senee,
precipue exiſtimem quaris ! Turbam. Turbam. E b"eat. c
I 4 tal ltO z.
136 Diſcorſo VII.
tanto era appreſſo lui operare coi molti, che
operare alla peggio. Argumentum peſſimi turba
eſt; onde iſtruendo il ſuo Lucilio: mirate, di
ceagli, dove dovete andar voi, non dove va
dono gli altri. E che di più non avrebbe egli
detto, ſe come in noi, così in lui, accoppiata
ſi foſſe alla ragione la Fede: O queſta sì, che
abbatte affatto ogni preteſa ignoranza. Imperoc
chè qual maſſima più ci s'inculca nelle ſagre
carte, che non tener dietro alla turba, nè dar
ſi ſchiavo alle uſanze! Ella è pur voce di Dio
quella dell'Eſodo, che della moltitudine, che
ſempre prevarica, non ſe ne debbono ſeguir
Exod. le orme: Non ſequeris turbam ad faciendum ma
º lum. Ella è pur voce di Dio quella di Paolo
a Romani, che vieta il conformarſi ai coſtu
Fomrz mi del ſecolo : Nolite conformari huic ſeculo.
Diſſe pur Criſto di bocca ſua propria, ch ella
è ſtrada da non tenerſi la più battuta, la più
Matth comune: In viam gentium non abieritis. Diſſe
“ pur che la via della moltitudine è via di per
Matth. dizione : Lata porta di ſpatioſa via eſt, qua
z. ducit ad perditionem , o multi ſunt, qui in
trant per eam. Diſſe pure, che la porta ſtret
tiſſima della ſalute non ſi trova ſe non da po
Ibid. chi: Pauci ſunt, qui inveniunt eam. Si ſcuſi dun
que, ſe può, con l'ignoranza chi ha contro
di ſe due irrefragabili teſtimonj, che lo ſmen
tiſcono: la ragione co ſuoi dettami: e la fede
co ſuoi oracoli.
Meno poi, e aſſai meno a difendere un o.
perare sì fuor del giuſto, vale il preteſto di ſo
gnata neceſſità. Imperocchè io dimando , chi
vi coſtringe a conformarvi ai coſtumi del gua
ſto ſecolo ? Chi? Il voſtro ſtato, no, perchè
tIO
Per la Domen. prima dopo l'Epifania. 137
ioverete perſone del voſtro ſtato fedeliſſime a
Dio. La voſtra età, no, perchè non mancano
tempi di chi pari a voi nell'età non ſi laſcia
perVertire dal Mondo. Il tempo, che corre, no,
perchè anco in queſto tempo vi è chi in faccia
del Mondo ſoſtiene intrepido il partito di Dio.
Chi dunque vi coſtringe? Chi vi mctte in co
la preteſa neceſſità ? Ditelo, chi? E'inpoſſi
bile, voi dite, che io frequenti quell'aſſemblea,
ſenza che dia in ecceſſo di giuoco; e chi vi ob
bliga a frequentarla ? E' impoſſibile, ch' io vi.
i quelle perſone ſenza, che nel cuor mi ſi ec
ci o fiamma, o fumo; e chi vi obbliga a vi
itale? Ma gli altri viſitano, gli altri frequen
tano; ed io ripiglio: chi vi obbliga a fare ciò,
che fan gli altri? Se pochi ſono quei, che ſi
contengono tra i limiti del dovere, e molti
quelli, che li traſcorrono, non è egli in vo
tra mano il gettarvi nel partito come de'mol
ſi così de pochi ? Diſingannatevi pertanto, dice
Tertuliano, diſingannatevi, non è neceſſità, che vi
ſcuſi, quella che tanto ſolo visſorza, quanto volete
Voi. Nulla neceſſitas excuſatur, que poteſi non eſſe ne
telitas. Infatti dove trattaſide temporali voſtri inte
teſſi, che vuol dire, che ſe altri gettano per impru
denza il ſuo, voi non ne ſeguitegli eſempi? Sapete
pur dire allora, che non volete rovinarvi con
ci ſi rovina; dunque ſolo dove ne va di mez
20 l'onor di Dio, ſolo dove ne ſcapita il van
taggio dell'anima, vi ſarà indiſpenſabile neceſ
ſia di fare quel, che fan gli altri? O miſera
ºſa, che ſolo accreſce il reato; o fievole apo
logia, che più vi condanna!
Per verità ſarà pure un bel difendervi al Tri
ºstile Divino, quando per voſtra diſcolpa: Si
gliore
i 38 Diſcorſo VII.
gnore, direte, ſe io non vi ho ſervito con la
fedeltà, che doveva, mia non è la colpa, ella è
tutta del coſtume, che regna. E' vero, che be
ne ſpeſſo mi ſono uſciti di bocca motti poco
decenti, ma queſto era il linguaggio, che tra
miei pari correva, e ſarei ſtato tacciato di trop
po timido, di poco accorto, ſe non aveſſi ſa
puto intrecciare alle altrui laidezze le mie. Ho
perduta gran parte delle mie ore nelle conver
ſazioni, ne' circoli, ne teatri, in giuochi, in
allegrie, in detrazioni, ma era queſto divenuto
l'impiego ordinario del tempo, nè io vedeva,
che gli altri della mia condizione, ſe 'l recaſſe
ro a ſcrupolo. Pocchiſſima è ſtata nel mio ve:
ſtir la modeſtia, e ben mi avvedeva dello ſcan si,

dalo, che ne ſeguiva, ma le mode portavan


così, e fummi una ſpecie di neceſſità l'altrui e
ſempio. Sono ſtate frequentiſſime alle perſone
di mio genio le viſite; rariſſime a ſagri Altari:
più che le corone, ho manneggiate le carte;
pe'miei divertimenti non mi è mancato mai
tempo, cd ho penato ſolo a trovarne per le pre
ghiere, per la parola di Dio, per la frequenza
de' Sagramenti; ma che ne poſs'io, ſe così vi
vevaſi dai più degli altri: O inſenſati, così gl'
interrompe tutto zelo il Griſoſtomo, e non vi
avvedete, che in vece di produrre difeſe, ag
gravate le accuſe ! Sapevate pure, che Criſto
avea ſempre mai riconoſciuto per ſuo nimico il
Mondo con le ſue uſanze, e perchè dunque ſe
guite il Mondo, e non Criſto ? Sapevate pur dal
Vangelo, che il gregge degli eletti era piccolo,
ſcarſo, e perchè dunque per divertirvi tra i mol
ti vi ſotraeſte dai pochi? Ah miſeri, vi con
dananno le ſcuſe voſtre medeſime, c siasi VO
lcito
Per la Domen, prima dopo l'Epifania. 139
leſte guida al fallire la moltitudine, ben vi ſtà,
ſe con la moltitudine non trovate pietà. Così par
la il Boccadoro, e così ſenza dubbio parlerà
Criſto. Che pietà, che perdono ſperar può mai,
chi a difendere i ſuoi diſordini ſi affida a ſcuſe
sì frivole! Nò, dicea S. Paolino, mai non ſarà,
che fondar ſi poſſano ſugli eſempi della molti
tudine giuſte difeſe: Nihil omnino agimus, qui
nos per multitudinis exempla defendimus; nè mai
ſi otterrà, ſoggiunge Girolamo, che il peccato
con la turba porti al peccato l'impunità: Multi
tudo ſociorum, impunitatem non facit criminum.
Guardivi però il Cielo, miei dilettiſſimi, dal
mai regolare con sì ſtrami principi le voſtre a
zioni, ed ove fiſſar vogliate negli altrui eſempi
lo ſguardo, ah non ne mancan de'buoni, da
gui prendere la giuſta idea! Se queſti ſon pochi,
ſe ſono i meno, non importa. Meglio è atte
nerſi con pochi al buon ſentiero, che traviare
con molti. E' meglio, o quanto meglio, trovar
coi pochi nel divin tribunale buone accoglien
ze, che riportare coi molti rimbrotti ſeveri. E
quand'anche nè pur queſti pochi vi foſſero, va
le per tutti queſto Gesù, che ad alta voce ſic
chè tutti l'intendano ci ſtà dicendo. Ego, ego ſum Joa.14
via; Io ſono la vera ſtrada, che ſi dee da tutti
tenere: a me ſi volga lo ſguardo, in me ſi fiſſi
la mira: Ego ſum via. Io e non il coſtume, io
e non la moltitudine, io e non la libertà, io
e non il Mondo, io ſon la via ſicura. Solo chi
cammina per queſta ſtrada giunge a ſalvezza:
Ego ſum via, ego, ego. Non più dunque, miei
dilettiſſimi, non più ſi miri ciò, che facciano
gli altri: Sinite mortuos ſepelire mortuos ſuos. Luc.9.
Mirate unicamente ciò, che ha fatto Gesù 5 la- -
- - ſciate,
I 46 Diſcorſo VII.
ſciate, che altri mirino il faſto, voi amate l'umil
tà di Gesù; laſciate, che altri vogliano libertà,
voi amate la ritiratezza di Gesù; laſciate, che
altri perdano il ſuo tempo in trattenimenti ge
miali, voi imitate in Gesù la modeſtia; la puri
tà, la cuſtodia de ſenſi. Gli altrui eſempi ( ah
diſgrazia miei dilettiſſimi! ) gli altrui eſempi
non ci tolgano Gesù di viſta: egli guidi i no
ſtri paſſi, egli governi i noſtri affetti, egli di
riga i noſtri penſieri. Gesù ſia con noi, e tanto
baſta: viveremo felici, morremo ſanti.
Ah Gesù, amabiliſſimo Gesù, ed è poſſibile,
che un cuor Criſtiano cerchi altra guida, che
voi, ſeguiti altri eſempi, che i voſtri! Ah nò,
mio Divino Eſemplare, non ſia mai vero, ch'
io vi perda di viſta, dicane il Mondo ciò, che
vuole, io voglio ſeguire voi ſolo. Il Mondo
con le ſue uſanze non può ſe non perdermi. s
Voi coi voſtri eſempi non potete ſe non gui
darmi alla mia eterna ſalute. Vi ſupplico per
tanto, per quella Piagha, che adoro nel ſagro
ſanto voſtro coſtato, vi ſupplico a concedermi
una generoſa vittoria d'ogni riſpetto del Mon
do: ſicchè ſenza badare a ciò, che facciano gli
altri, penſi unicamente a conformare alle voſtre
operazioni le mie. Perdonatemi intanto le in
fedeltà, che per l' addietro vi ho uſate con ſe
guire più gli uſi del Mondo, che i dettami dell'
Evangelio. Riconoſco il mio errore, e col più
vivo dolor del mio cuore io lo deteſto, riſolu
to, riſolutiſſimo di non voler d'cr avanti altra
norma del viver mio, che le maſſime voſtre, ei
voſtri eſempi. -
:ſ, ea
º
3:: DI
i4i
- pr - 3r . 38 3 -- - - n

iS G 3 ESC 2G
º2G EG GR DG ECR
X,E XI,
D3

D I S C O R S O VI II.
PER LA DO M E NIC A SE CON DA
D O P O L' E P I F A N I A.

Correndo la feſta della Converſion di S. Paolo,


25 Gennajo.

Converſion di S. Paolo eſemplar della noſtra,


s - -

Ecce nos reliquimus omnia. Matth. 19.


i Arebbe pure a bramarſi, che quante
º sº", ſono le anime, che a tribunali di pe
º
-

º siil nitenza ſi accoſtano, tante ancora foſ.


i sei ſero quelle, che a Dio di vero cuor
ſi convertono. Se ad una ſola, che ſe
riamente ravveggaſi, tutto ſi riempie di bella
gioja l'empireo, quale ſarebbe in certe ſolenni
tà la ſua feſta, il ſuo giubilo, ſe tutti foſſero in
realtà convertiti quelli, che all'apparenza ſem
brano penitenti: ma perchè il dirſi, o il cre
derſi convertito, non è certamente lo ſteſſo, che
l'eſſerlo; quindi è, che pur troppo le conver
ſioni ſon rare, anche quando le confeſſioni ſon
molte. Facilmente ſi dice: voglio darmi a Dio,
facilmente proponeſi; ma chi diaſi da dovero,
non sì facilmente ſi trova. Quel cambiamento
totale, che di legge indiſpenſabile forza è, che
- - - - - - - Vi
i 42 Diſcorſo VIII.
ſia in chi a Dio con verità ſi rivolge, quanto,
o qnanto egli è raro a vederſi ! Vorrebbono al
cuni nel darſi a Dio ritenere per ſe una parte di
ſe, e non ſi avveggono i miſeri, che a Dio non
dà nulla, chi non dà tutto. Ora io per far co
ſtoro avveduti, voglio queſta ſera metter loro
ſotto all'occhio l'idea di tutte le converſioni,
la converſion dell'Appoſtolo delle genti. Santa
Chieſa nel rinnovarcene, che fa la memoria,
ſembra, che ce ne accenni ancor la maniera:
mentre nel Vangelo, che ci fa leggere, ci pro
pone un intero abbandonamento di tutto: Ecce
nos reliquimus omnia: E in verità di chi laſcia
tutto ſe ſteſſo, ben ſi può dire con ragione,
che laſci tutto, perchè, al dire di S. Gregorio,
aſſai più ha dell'arduo il laſciar tutto ſe, che il
laſciar tutto il ſuo: Fortaſſe laborioſum non eſt
homini relinquere ſua sſed valde laborioſum eſt
relinquere ſemetipſum. Ora queſta appunto, udi
tori, fu la converſione di Paolo, e ſul modello
di queſta, s ella è ſincera, ha da eſſer ancor la
noſtra: Paolo laſciò tutto, perchè laſciò tutto
il ſuo eſſere di prima; laſciò l'intelletto di pri
ma, perchè mutò maſſime, laſciò la volontà di
prima, perchè mutò voleri; laſciò il cuore di
prima, perchè mutò affetti: Mutò maſſime; per
chè altre maſſime più non ſeguì, ſe non quelle
dell'Evangelio: mutò voleri ; perchè altri voleri
più non ammiſe, che quei di Dio: mutò af
fetti; perchè altri affetti più non nodrì, che per
Gesù. Cari uditori miei, chi nel darſi a Dio a
queſta idea non ſi conforma i non ſi luſinghi
di converſione ſincera, perchè non l'è. Chi ſi
converte da vero, dee ad imitazione di Paolo
laſciare tutto il ſuo eſſere antico: e in primo
luogo
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 143
luogo dee laſciare l'antico inteletto con inve
ſtirſi di nuove, e ſante maſſime: lo vedremo nel
primo punto. Dee in ſecondo luogo laſciare l'an
tica volontà con inveſtirſi di nuovi, e ſanti
voleri: lo vedremo nel ſecondo punto. Dee in
terzo luogo laſciare l'antico cuore, con inveſtir
ſi di nuovi, e ſanti affetti: lo vedremo nel ter
zo punto. Cominciamo,
Chi ſi converte dee laſciare l'antico intelletto, e,
ed inveſtirſi di nuove maſſime. Facciamci, U- ro 1.
ditori, ſulla via di Damaſco a dare un occhia
ta al noſtro Appoſtolo, giacchè con la ſua con
verſione ha egli da porgere queſta ſera il mo
dello alla noſtra. Ma, e che veggo? Eccolo sbal
zato di ſella giacere a terra ? e chi ve l'ha ſpin
to! Chi ? un raggio di luce ſceſo dal Cielo!
Circumfulſit eum lux de Carlo, e cadens in ter Act.sa
ram audivit vocem. Rialzatelo toſto turba, che
lo ſeguite, e tu intanto dimmi o Paolo: tra tan
sta luce, che ti circonda, dimmi, che vedi? Apre
gli occhi, e non vede: Apertis oculis nihil vi- Ibid.
debat. Che prodigio è mai coteſto º che ſigni
ſica mai queſto miſto di cecità, e di luce? Bel
ſimbolo, Uditori, di una vera converſione, ſe
dalla lettera paſſar vogliamo al miſtero. Luce,
e cecità formano in chi ſi converte da vero la
mutazion dell'intelletto: luce, che lo riſchiari
co luminoſi raggi di ſante maſſime: cecità, per
cui più non veggaſi ciò, che al falſo lume di
ſtorte maſſime malamente vedeaſi. Cecità ben
felice, dice il Santo Abate di Chiaravalle, per
chè accoppiandoſi con la luce toglie unicamen.
te il veder male: Faelix ca citas, qua oculi male Incon,
quondam illuminati in prevaricationem, tandem"
in converſione ſalubriter excecantur. In fi chie-Ser. s.
Cte
I44. biſcorſo VIIt. -

dete a Paolo, che giudichi egli adeſſo delle tra


dizioni paterne, per le quali moſtrava poc'anzi
sì ardente l'impegno: che della Sinagoga, per
cui era sì furioſamente zelante: che delle ceri
monie legali, che ſoſtenea con tanto fuoco ?
Quì è, uditori, ove non vede più, più non ravº
viſa equità nel ſuo zelo, e come ingiuſto lo ri
prova, e lo condanna. E di Criſto e del Vange
lo, e del fedeli, de quali poco fa perſeguitava,
non che le perſone, il nome ſteſſo, e la memo
ria, or che ſente? Che ne ſente! Ne ſcorge al
nuovo lume l'eccelſo merito, li cerca non più
come prima per carcerarli, e diſtruggerli, ma
per iſtrignerli al ſeno, e venerarli, e già non
parla più d'altro, che di quel Gesù, di cui
prima non volea udirne a parlare. Eccovi l'in
telletto cambiato: ſtima ciò, che prima ſprezza
va ; e ciò, che prima ſtimava, ora lo ſprezza.
Io vi preſento ora, uditori, l'intelletto di
Paolo, come uno ſpecchio, in cui vi mirates
oſſervate di grazia, ſe ella è abbozzata ſu que
ſti lineamenti medeſimi la noſtra converſione:
che ne dite? ſi è cambiato intelletto? ſi fon
cambiati ſentimenti e principj? avvi luce, per
cui ſi vegga quel bene, che prima non ſi ve
dea ? avvi una lodevole cecità, per cui più non
veggaſi quel che mal ſi vedeva? In una paro
la durano ancora le maſſime antiche del Mon
do, o ſottentrate ſono in lor vece le maſſime
ſante dell'Evangelio ? Non è già difficile, ſe non
volete adularvi, il riconoſcervi appieno. Circa
le ingiurie, chi prevale nella voſtra ſtima, il per
dono, e la manſuetudine comandati dall'Evan
gelio; o la vendetta, e il riſentimento voluti dal
Mondo? Stimate Voi beato coll'Evangelio, chi
ſoffre,
Per la Domen. ſeconda dopo l'Epifania. 145
ſoffre, chi ſi umilia, chi ſi mortifica, oppure
col Mondo chi sfoggia tra le pompe, chi ſi di
verte tra i paſſatempi, chi grandeggia tra gli
onori, chi brilla tra le comparſe ? Nelle voſtre ri
ſoluzioni chi ſi conſulta? Il Vangelo, o il Mon
do? Da queſto, o da quello ſi prendon le re
gole dell'eleggere, dell'intraprendere, dell'ope
rare ? Cari uditori miei, ſe mai per diſgrazia
ſtimaſte ancora col Mondo ciò, che dal Van
gelo ſi ſprezza, o ſe col Mondo ſprezzate ciò,
che dal Vangelo ſi ſtima, non vi luſingate di
converſione ſincera, perchè non vi è, nè vi
può eſſere converſione, ſe il primo a cambiar
faccia non è l'intelletto; ed è chiariſſima la ra
gione. L'intelletto è la guida, che dee dirigere
la volontà cieca di ſua natura; ora com'è poſ.
ſibile, che queſta al retto ſentiero ſi appigli, ſe
quello, che la indirizza pervertito da ſtravolti
principi, fa paſſi falſi: No, miei dilettiſſimi ;
infino a tanto, che l' intelletto a miglior luce
non apra gli occhi, non iſperate di battere con
vertiti il cammino della ſalute.
E quì vorrei pure, che ſcorgeſſero il poco ca
pitale, che della ſua converſione hanno a fare
certuni, che con maſſime di Mondo ſempre fiſſe
nel capo, ſi danno a credere d'eſſerſi dati a Dio,
ſolo perchè hanno depoſte a piè di un Confeſe
ſore le colpe, e appigliati ſi ſono ad una qual
che pratica di divozione: O ſe ſapeſſero quan
to poco ella vale coteſta lor converſione ! Si ac
coſtano, è vero, con qualche maggior frequen
za a Sagramenti, ma niun penſiero ſi danno di
riformare la libertà ſoverchia del tratto, con di
re, che l'uſanza porta così. Maſſima di Mondo:
la converſion val poco, chi ſi converte da vero,
Tom. IV. Anno IV. S Il Oſl
246 Diſcorſº VIII,
non mira l'uſanza, mira il dovere. Viſitan tal
volta qualche Santuario, e recitan qualche pre
ghiera, ma poi vogliono divertirſi quanto mai
poſſono, con dire, che così vuole l'età, così
il tempo, che corre. Maſſima di Mondo: chi ſi
converte da vero, in ogni età, in ogni tenopo,
ai divertimenti mondani preferiſce la mortifica
zione Evangelica. Aſcoltano di quando in quan
do la divina parola, e fanno qualche limoſina:
ma deporre quel rancore, che covano, e ſalu
tar chi gli ha offeſi, o queſto no, dicono, che
convien far conoſcere, che chi fa loro la prima,
non farà loro la ſeconda. Maſſima di Mondo:
chi ſi converte da vero, perchè brama da Dio
perdono, e pace i perdono, e pace dà volontie
ri al ſuo proſſimo. Sì, miei dilettiſsimi, con
tutte le moſtre di eſterior divozione, abbiaſi pur
per ſoſpetta la converſione, infino a tanto, che
nella mente avran luogo dettami di Mondo,
perchè queſti ſono un contraſſegno chiariſsimo,
che gli occhi chiuſi ancor ſono alla vera luce:
e chi con gli occhi ancor sì chiuſi ſi luſinga ad
eſſere a nuova vita riſorto, a gran partito s'in
ganna.
Uditene dalla Scrittura un ſimbolo ben eſpreſ.
ſivo. Pregato Eliſeo dalla Sunamitide afflitta a
richiamare da morte a vita il di lei eſtinto uni
genito, alla grande impreſa toſto ſi accinſe, e
offerte prima fervoroſe ſuppliche a Dio, corpo
a corpo ſi ſteſe ſopra il cadavero del fanciullo:
Ed ecco a quel fiato profetico rientrar il calore
nelle membra gelate di quel eſanime corpicciuo- i
lo; Calefatta eſt caro pueri. Che bella, che pronta
grazia voi quì direte: eppure no, il figlio non
vive ancora. In fatti rinnova il Profeta le ſup
pliche,
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 147
Pliche, e con le ſuppliche l'atteggiamento di
prima, o adeſſo sì, che il miracolo può dirſi
compito: ha il fanciullo aperta ben ſette volte
la bocca: Oſcitavit puer ſepties. Piano, ripiglia Ibid
il Profeta, non è ancor tempo di gridare mira
colo. Tanto è, allora ſolo diede Eliſeo per otte
nuta la grazia, quando ſi avvide, che il figlio
aprì gli occhi: Aperuit oculos, ora sì, egli diſſe,
che il contraſſegno di vita è ſicuro: ſe ne rechi
pure alla dolente madre il lieto annunzio. Il
fatto, uditori, cade sì acconcio al mio argomen
to, che quaſi non abbiſogna di applicazione :
Voi talvolta vi credete, dilettiſsimi miei, d'eſ
ſere dalla morte della colpa ritornati alla vita
della grazia; o perchè da una qualche fervoro
ſa brama ſentito vi ſiete riſcaldar il cuore, o
perchè aperte avete più d'una volta le labbra alla
confeſsion delle colpe, e alla recitazion di certe
preci: ma ſe gli occhi ſono ancora chiuſi, v'in
gannate, credetemi, v'ingannate. Se ancora non
riconoſcete per quel nulla, che ſono i beni di
queſta terra, i piaceri di queſta vita, la vanità
di queſto Mondo, ſappiate pure, che la voſtra
non è ancor vita, o non è più, che vita eff
mera. Allora sì, che conſolar vi potrete con ſi
curezza, quando aperto alla luce di ſante maſ
ſime l'occhio dell'intelletto: Abſit, direte an
cora voi con l'Appoſtolo convertito, abſit glo dal c.
riari niſi in Cruce Domini noſtri Jeſu Chriſti. Sti- -

mi il Mondo le ſue comparſe, i ſuoi onori, le


ſue pompe, le ſue grandezze i io altro non pre
gierò, nè d'altro mi glorierò, che del Vange
lo, e della Croce; umiltà, modeſtia, mortifi
cazione, ritiratezza, manſuetudine voi avete la
mia ſtima, perchè voi ſiete le ſtimate da Criſto.
K 2 Mon
148 Diſcorſo VIII.
Mondo mi hai ingannato abbaſtanza, abbaſtan- ,
za tu mi hai tradito. Conoſco, ah, troppo tar
di! la falſità delle tue maſſime, e le abbomino,
c le abbandono. Ma quanto pochi, o Dio, quan
to pochi la diſcorron così? E potremo poi ſenza
queſti ſentimenti nel cuore crederci convertiti ?
Potremo poi luſingarci ſenza queſta maſſima in
capo d'eſſerci dati a Dio ?
Deh, luce, caro Gesù, date luce alla noſtra
mente, perchè troppo ne abbiſogna, Domine,
vi dirò ſupplichevole, anch'io, Domine ut vi
deam, Signore, fate ch'io vegga. Le maſſime
del Mondo mi acciecano: Deh, ſgombrate dal
la mia mente tenebre sì luttuoſe. Un raggio di
quella luce chieggo, e ve lo chieggo per le pia
ghe, che adoro nei voſtri piedi ſantiſſimi, un
raggio di quella luce, con cui ſulla via di Da
maſco illuminaſte l'intelletto di Paolo, e ne fa.
ceſte d'un voſtro perſecutore un voſtro Appoſto
lo. Deſidero ancor io di mutar vita, di darmi a
voi, di farmi del tutto voſtro. Fate pertanto, che
da voi riſchiarato, altre maſſime più non ſiegua,
che quelle del voſtro Vangelo; onde ſtimando
quello che voi ſtimaſte, ſprezzando quello che
voi ſprezzaſte dia una volta felice principio ad
-
una converſione ſincera.
1PUN
tro II.
Dee laſciare l'antica volontà, ed inveſtirſi di
nuovi, e ſanti voleri. Non eraſi ancora rizzato
da terra il noſtro Appoſtolo, che già fe cono
ſcere di avere coll'intelletto antico laſciata anco
ra l'antica volontà: Imperocchè le prime ſilla
be, nelle quali ravveduto proruppe, furono una
proteſta ſincera di ſommiſſione interiſſima ai divi
ni voleri: Domine quid me vis facere ? O parole
(ſclama quì ſorpreſo dallo ſtupore il divotiſſimo
e
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 149
S. Bernardo) brevi parole, ma quanto piene di
efficacia, e di vita, quanto degne d'incontrare il
gradimento del Cielo, ſpettatore lietiſſimo dell'
ammirabile mutazione! O verbum breve, ſed
plenum, ſed vivum, ſed efficax, ſed dignum om
mi acceptione. O queſto sì, ch'egli è convertirſi
da vero ſoggiunge il Santo, perchè in realtà niu
no con più di ſincerità donaſi a Dio, che chi
a ſovrani ſuoi cenni interamente rimetterſi: Hac
ſane perfectae converſionis eſt forma.
In fatti, che altro è ribellarſi da Dio, ſe non
un ſottrarſi da ſuoi voleri per far i noſtri; e che
altro ſe non la noſtra propria volontà ſi odia
da Dio, e ſi puniſce quando da Dio ſi odia, e ſi
puniſce il peccatto? Quid odit aut punit Deus,
ſiegue a diſcorrerla il Santo Abate, niſi propriam
voluntatem, nelle voſtre diſſolutezze o inconti
nente, ne'voſtri riſentimenti o vendicativo, nelle
voſtre cupidigie o avaro, nelle voſtre albagie o ſu
perbo, ciò che Dio con minacce perſeguita, e con
gaſtighi, e la voſtra volontà rubelle alla ſua; que
ſta è che fabbrica contro di voi nel Cielo i fulmi
ni, queſta che multiplica ſulla terra le voſtre di
ſgrazie, queſta che accende giù negli abiſſi le fiam
me vendicatrici, ſe queſta ſpiegaſſe una volta l'or
goglioſo ſuo capo, deporrebbe le armi la divina
giuſtizia, e ad un tratto ſi ſpegnerebbe la for
nace ſpaventevole dell'Inferno: Ceſat, conchiu
de il Santo, voluntas propria, ci Infernus non
erit. Ora ſe il peccare altro non è, che un di
ſordinare dal divino volere per ſeguire il ſuo
proprio; chi non iſcorge, che altro ancora non
può eſſere il convertirſi, che laſciare il proprio
volere per umiliarſi al divino, e dire in conſe
guenza con la ſommiſſione di Paolo: Domine,
quid me vis facere ? I 3 Ecco
15o Diſcorſo VIII.
Eccovi adunque, dilettiſſimi, la pietra di pa
ragone, con cui avete a diſcernere dalla vera
coverſione la falſa. Quando avete preteſo di dar
vi a Dio, gli avrete voi fatto della voſtra vo
lontà un ſagrifizio compito, gli avete voi detto
con la prontezza, e ſommiſſione dell'Appoſtolo:
Domine, quid me vis facere? Che volete, o Si
gnore, che d'oravanti, io faccia: altra regola
più non voglio de' miei voleri, che i voſtri ?
Ah, che ſarebbe, ſe in voi ardeſſero le ſteſſe vo
glie di prima, oſtinate come prima, e come prima
diſordinate! No, dilettiſſimi, non prendiamo ab
baglio: vi vuol altro per dirci convertiti da vero,
che qualche picchiamento di petto, o qualche la
grimuccia dagli occhi: mai non ſaremo di Dio, ſe
a Dio non umilieremo ogni noſtro volere. E quì
oſſervate, che la ſommiſſione ai voleri divini ſe
ha da eſſere qual ſi ricerca, debb eſſere come
quella dell' Appoſtolo, pieniſſima e ſenza riſer
ve: Se aveſſe avuto S. Paolo a convertirſi nel
Mondo, con cui non pochi a dì noſtri ſi con
vertono, ſembrami, che detto avrebbe: Signore
eccomi pronto a fare la voſtra volontà: Volete
eh'io più non perſeguiti i voſtri diſcepoli, non
li perſeguiterò : volete ch'io giuri fedeltà al vo
ſtro Vangelo, la giurerò: No, non farò più co
ſa, che ſia contraria o a voi, o ai voſtri: ma
ſovvengavi, che ho preſo impegno e pubblico.
Che dirà il ſommo Sacerdote, che mi ha fida
te ſue lettere ? Che dirà Geroſolima tutta, che
mi ha tenuto mai ſempre per uomo di onore ?
Permettetemi, ch'io ſu queſti principj mi ritiri
a poco a poco dall'impegno, che ho preſo :
Inventerò ben io miniera d'eſſer de' voſtri , e
di non incontrare nel tempo ſteſſo di si la
lIl 2 -
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 151
Sinagoga lo ſdegno. Ma no, uditori, non vol.
le l' Appoſtolo una converſione ſmezzata ; la
volle intera: e però Signore, diſſe, ſon pronto
a tutto: Quid me vis facere ? Parlate, aſcolte
rò : comandate, ubbidirò : ſuggerite, eſeguirò.
Così dilettiſſimi ſi dà, chi a Dio ſi dà. La con
verſione s'ella è ſincera, non preſcrive confini
al divino ſervigio : non cerca mezzi termini di
conciliar Dio col Mondo; ſarebbe ſpediente che
io laſciaſſi quell'aſſemblea; ma la civiltà vuol,
ch'io vi vada : vi anderò, ma mi porterò con
cautela. La ſicurezza di mia coſcienza vorrebbe,
ch'io non degnaſsi pur d'un'occhiata chi è ſta
to la cagion di mia rovina; ma il più non ve
derlo darebbe forſe da ſoſpettare: lo vedrò, ma
parlerò con riſerbo, e ſtarò ſulla mia. L'abban
donar quegli amici darebbe troppo nell'occhio:
ſeguiterò a praticarli, ma non farò caſo del loro
eſempj, e molto meno del loro conſigli. No,
miei dilettiſsimi, queſte non ſono converſioni
ſincere ; ſono maſchere di converſioni, e non
più ; dicaſi francamente: Signore, che volete da
me? Quid me vis facere? Volete ch'io tronchi
quell'amicizia, ſenz'altro la tronco: volete che
io laſci quel giuoco, lo laſcio ſenz'altro: vole
te ch'io frequenti Chieſe, prediche, Sagramen
ti: così ſenz'altro farò, dica il Mondo, ciò che
vuole, e burli ancora ſe vuole : Dio vuol que
ſto da me, queſto ha da farſi. O queſta sì, ch'è
ſommiſsione pieniſsima ai divini voleri !
Ma ciò ancora non baſta; queſta pienezza di
ſommiſsione in chi ſi converte , non ſolo ha da
moſtrarſi nell'abbracciare il ben , che Dio vuole,
e nel fuggire il male, che Dio non vuole; ma
nell'accettare ancora con prontiſsima volontà,
K 4 ſia
I 52 Diſcorſo VIII.
ſia proſperità, ſia traverſie, ſecondo che a Dio
piaccia diſporre. Tale appunto fu la ſommiſsio
ne di Paolo, pronto agli onori, pronto alle infa
mie, pronto alla libertà, pronto alle catene, pron
alla vita, pronto alla morte, in tutto bramoſo
di far ſempre il voler del ſuo Dio, e la ragio
ne, uditori, ſi è, ch'eſſendo la converſione un
riſtabilimento dell'amicizia con Dio, e non po
tendovi eſſere vera amicizia, ſe non vi è, al dir
di Girolamo, uniformità di volere, e non vo
lere: Eadem velle, eadem nolle ea demum fir
ma amicitia eſt; in conſeguenza ne viene, che
non vi può eſſere converſione ſincera, ſe non
vi è una volontà ſempre pronta ad eſeguire o
gni ordinazione divina. E s'è così, ditemi o s
voi, che nel ritornare, che fate al voſtro Dio,
con tenera proteſta, e talora non ſenza lagri
me, gli dite ſpeſſo, ſon tutto a voi: tutto ſon
voſtro. Come va poi, che ſe vi proſpera, lo
benedite, ſe vi affligge, vi lamentate! Conſo
lazioni quante vuol darvene, volontieri le rice
vete: dolori ſe ve ne manda, non ſolo non gli ac
cogliete con guſto, ma nè pur con pazienza!
Se vi vuol ſani, ſe facoltoſi, ſe onorati, facil s
mente addattate al ſuo il voſtro genio; e ſe vi
vuole infermi, poveri, umiliati date con cento
contorcimenti prove non dubbie d'un animo
reſtio, e mal contento : Quì dunque vanno a s
a

finire quelle bell'eſpreſſioni: ſon pronto a tutto,


ſon tutto voſtro? Così ſi ſoſtengon con le ope
re le proteſte, che a Dio ſi fanno ? Deh, cari
uditori, ſe ſiamo a Dio ritornati di vero cuore,
ſe a ſuoi piedi abbiam depoſta con le noſtre col
pe la volontà noſtra caparbia, laſciamci, com'è
dovere, governare da lui, e in qualunque io
Cgil
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 153
egli ci voglia, o di afflizione, o di contento, ado
riamo i ſuoi voleri; e perchè ſuoi facciamlino
ſtri. Sia una volta qual eſſer dee la noſtra con
verſione: non più reſtrizioni con Dio, non più
riſerve: Diciamo ancor noi con l'Appoſtolo,
ma con generoſità pari alla ſua: Domine quid
me vis facere ? Tanto, dilettiſſimi, queſta ſera
Gesù aſpetta da me, tanto aſpetta da voi. E
chi di noi, cari uditori, chi avrà cuore di non
dirglielo? chi ? -

Ah Gesù mio, io non voglio differire di più.


A piedi del voſtro trono depongo adeſſo per ſem.
pre la mia volontà origine funeſta di tutti i miei
diſordini. Ditemi voi ciò, che volete ch'io fac
cia : Domine quid me vis facere ? Eccomi pron
to a voſtri cenni, parlate, Gesù mio caro, par
late al mio cuore: Fatemi intendere i voſtri vo
leri ; io vi proteſto, che queſti hanno ad eſſere
nell'avvenire anche i miei, fuggirò ciò, che a
voi piace, ch'io fugga ; laſcierò ciò, che a voi
piace, ch'io laſcis ſoffrirò ciò, che a voi pia
ce, ch'io ſoffra ; farò ciò, che a voi piace,
ch'io faccia. Voglio in ſomma quello, che voi
volete, e perciò appunto, perchè voi lo volete,
anch'io lo voglio. Voi aſſiſtetemi con la voſtra
grazia: ve ne prego per quelle piaghe, che ado
ro nelle voſtre mani ſantiſſime: affinchè nè per
riſpetti di Mondo, nè per luſinghe di ſenſo, nè
per tentazion del Demonio non ſi ribelli mai più
la mia volontà dalla voſtra.
Dee laſciare l'antico cuore con inveſtirſi di P
nuovi, e ſanti affetti. Quando l'Appoſtolo non ro III.
reggendo all'aſſalto della grazia ſi die per vin
to, e ſottoſcriſſe la reſa col Domine quid me vis
facere; non ſolamente depoſe a piè di Gesù vit
- torioſo
i 54 Diſcorſo VIII.
torioſo l'intelletto ſuo antico, e la ſua antica
volontà; ma vi depoſe ancora, al dire di S. Ber
nardo l'antico cuore: Suam ita objecit volunta
tem, ut nee etiam proprium cor haberet ; ſicchè
egli medeſimo potè poi dire, che quanto v'era
Rom,s, in lui d'uomo antico, tutto fu diſtrutto : Vetus
homo noſter crucifixus eſt, e di lui un uomo nuo i
vo ſe ne formò , ſecundum imaginem eius qui
creavit illum, ubi non eſt Gentilis, & Judaeus,
circumciſio , ci preputium ... ſed onnia, & in
omnibus Chriſtus : Nuovo nelle maſſime, nuovo
ne voleri, e nuovo ancor negli affetti, che tutti a
Criſto ſi portarono, tutti ſi occuparono in Criſto:
Omnia, o in omnibus Chriſtus: E quindi poi fu,
che di tutto il ſuo operare, di tutto il ſuo vivere,
l'amore a Criſto fu ſempre l'anima. Se viaggiò ,
l'amore a Criſto di moto ai paſſi : ſe ſoffrì , l'a-
more a Criſto di coraggio al ſuo ſpirito: L'amo
re a Criſto guidò la mia o, qualora ſcriſſe, l'amo
re a Criſto infervorò la lingua, qualor parlò, e a
dir tutto, e dir breve parve, che quel fervido
cuore, ſiccome non aſpirò più ad altro, che a
Criſto; così altro ancora non reſpiraſſe, che Cri
, ſto , com'egli medeſimo lo atteſtò a Filippeſi:
º Mihi vivere Chriſtus eſt. - -

Così va, cari udirori, chi vuol ſincera la con


verſione, laſciar dee col cuore antico gli anti
chi affetti, e dar toſto a conoſcere un cuore
nuovo, e nuovi affetti. In fatti può ella in altra
nmaniera effettuarſi la converſione di un cuore,
ſe non col cambiamento del ſuo affetti, di mo
dotale, che ſantamente ſi ami quel, che poc'anzi
malamente abborrivaſi, e ſantamente abboriſcaſi
quel, che poc'anzi malamente ſi amava. La mor
tificazione abborrivaſi, e amavaſi la is" 3 ab
QIl
Per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania 15;
borriſcaſi la licenza, e la mortificazione ſi ami: ab
borrivafi la pietà, e amavaſi la diſſipazione; ſi ab
borriſca la diſſipazione, e amiſi la pietà: Tutti in
ſomma eran rivolti gli affetti all'amor proprio,
e al Mondo, non alla virtù, non a Dio: ſi ri
volgano alla virtù, ſi rivolgano a Dio, non più
al Mondo, non più all'amor proprio. Queſto,
uditori, è in chi converteſi il cambiamento del
curoe: queſta è l'idea, che ci ha laſciata l'Ap
poſtolo: queſto è il modello, a cui dobbiam con
formarci. Ora dite a me, quando uſcite da tri
bunali di penitenza, pare a voi di ſentirvi nel
cuore un cambiamento sì neceſſario ? Provate
voi mutati gli affetti º gli ſcorgete rivolti dal
Mondo a Dio ? Ah quanto temo, che di non
pochi Criſtiani nell'uſcir dal peccato ſi avveri
ciò, che degli Ebrei nell'uſcir dell'Egitto: Ri
traſſero coſtoro il piede, ma vi laſciarono il
cuore: dell' Egitto erano i loro penſieri, e dell'
Egitto i diſcorſi ; e quel che ancora è peggio,
erano dell'Egitto i coſtumi: Totum Egyptum (co
sì ne parla con bell'enfaſi l'autore dell'imper
fetto) in moribus bajulabant. Così pur troppo
può dirſi di molti, che nello ſcuotere la ſchia
vitù del peccato, proteſtano di rivolgere dal
Mondo a Dio il loro cuore. Ma intanto non al
tro, che Mondo ſi ode ne' loro diſcorſi: non al
tro, che Mondo ravvolgeſi nel loro penſieri: non
altro, che Mondo ſi ſcorge nel loro portamenti,
ne loro coſtumi, ne' loro affetti: Comparſe di
Mondo, grandezze di Mondo, intrighi di Mon
do, divertimenti di Mondo, balli, teatti, giuo
chi, feſtini, queſto è l'impiego de loro affetti:
queſta l'occupazione del loro cuore. E queſto,
uditori, può dirſi cambiamento di cuore
- -
i".
OlìO
I 56 Diſcorſo VIII.
ſono que nuovi affetti, che hanno a vederſi in
chi ſi converte? queſta potrà, queſta dovrà
chiamarſi converſione ſincera ? No, miei dilet
tiſſimi, non occorre adularſi: non lo è , nè
mai lo ſarà. Se il cuore laſciati gli antichi affetti
tutto non portaſi quant'egli è a quel bene, da
cui partì: ditela pure, e avrete ragione, ditela
ombra, ditela ſchelletro di converſione.
Diſſi tutto quant'egli è, per torre d'inganno
certuni, che ſi perſuadono d'eſſer dati a Dio,
perchè a Dio, e alle coſe di Dio han cominciato
a moſtrar qualche affetto: per altro, parte del
cuore ancor la ritiene l'amore de paſſatempi,
parte il genio di comparire, parte l'ingordiggia
di avere, parte la ſimpatia delle amicizie, parte
l'attacco ai propri comodi. Inganno, ſolenniſſi
mo inganno. Coſtoro con un cuore così diviſo
convertiti! convertiti con pretendere di accoppia
re Dio col Mondo, il Mondo con Dio! Nò,
dilettiſſimi, non vel laſciate per avventura dar
ad intendere; anzi ſe volete dar fede a S. Baſilio,
queſta è la cagion principale, per cui pochiſſimi
ſon quei, che da vero convertonſi: Pauci ſunt
qui Dei amici appellantur, quoniam non ex toto
corde diligunt, ſed amorem ſuum dividunt, cº
in multa vana attue inutilia diſpertiunt. Eppure
tanto non hanno coſtoro a luſingarſi di conver
ſione ſincera, che anzi dovrebbe loro iſpirare un
ſalutevol ribrezzo l'infelice Samaria, la quale
perchè volle ne' ſuoi ſagrifizja i riti Ebrei accop
piare ancora i Gentili, amareggiò di modo il
cuor di Dio, e a sdegno tale lo moſſe, che in
pena dell'eſecrabile accoppiamento fulminata ne
andò per bocca di Oſea con ſentenza di perdizio
ºſº ne, Pereat Samaria, quoniam ad amaritudinem
- (0tº
per la Dom. ſeconda dopo l'Epifania. 157
concitavit Deum ſuum. Nò, miei cari uditori,
Dio non vuol diviſioni, e non riconoſce per ſuo,
chi non è tutto ſuo. Dall'Appoſtolo convertito
non cercoſſi più altro che Dio, e Dio in tutto ſi ha
da cercare da noi: Omnia, o in omnibus Chriſtus.
Quindi ne ſeguirà ciò, che ad ogni converſio
ne è l'indizio più certo, e inſieme il pregio più
bello, che avanti agli occhi di Dio, e del Mon
do, ſi potrà dire, come lo diſſe in fatti S. Paolo,
di più non eſſere quel di prima: Vivo jam non ego, Gal. 2.
Sì, miei dilettiſſimi, a queſto ſegno ha da giu
gnere, chi ſi converte da ſenno; che chi l'oſſer
va, poſſa, e debba dire: non è più quello. Chi
vi ſcorſe, o Giovane, libero ne' voſtri ſguardi,
malizioſo ne' voſtri equivochi, diſſoluto nel vo.
ſtro vivere; ha da vedervi nelle parole sì miſura
to, nel tratto si guardingo, nelle Chieſe sì ri
ſpettoſo, a Sagramenti si frequente, che debba
dire: non è più quello: E chi, o donna, vi oſ
ſervò una volta in traccia delle mode più sfoggia
te, delle converſazioni più allegre, delle più
morbide dilicatezze, delle più gioconde partite
di divertimento; ha da vedervi così attenta a'
doveri della famiglia, così puntuale agli eſercizi
di divozione, si amante della ritiratezza, e nelle
ſpeſe sì moderata, che ſia coſtretto a dire: non
è più quella. Nè ſolamente l'hanno a dir gli al
tri, ma l'abbiamo a dire anche noi, riflettendo
ſu nois no, la Dio mercè, non ſon più quello:
Vivo jam non ego. Mi dominava la talpaſſione,
or più non mi domina: era ſoggetto al tal vizio,
or più non lo ſono: era bilioſo, or ſon manſue
to: era ambizioſo, ora ſon umile: era oſtinato,
ora ſon docile: era diſſoluto, ora ſon modeſto:
no, non ſon più quello, non lo ſon più: Viva
1am
i 58 Diſcorſo VIII,
jam non ego. Ma per giungere a tanto, miei diler
tiſſimi, convien metterſi a tale ſtato da poter
Ibid. con Paolo ſoggiungere: Vivit vero in me Chri
ſtus. Più nen vive in me il Mondo, ma vive in
me Criſto: Vivo jam non ego, vivit vero in me
Chriſtus. E ben potremo dirlo ancor noi, ſe noi
ancora ad imitazion dell'Appoſtolo tutti a Criſto
rivolgeremo gli affetti noſtri. Ah, col cuore in
lui, con lui nel cuore, come toſto ogn'altro
affetto sì ſgombrerà! come ſubito perderanno
ogni attrattiva gli oggetti tutti di queſta terra! A
che dunque ſi tarda, care anime mie. Se non ſi è
laſciato fin'ora l'antico cuore, a che ſi tarda ?
Aſpettereſte voi forſe che Criſto lo eſpugni, e lo
conquiſti, dirò così, a forza d'armi, e con violen
za di aſſalto, come fa coll' Appoſtolo? No, di
lettiſſimi, no, di legge ordinaria non uſa Criſto
così: Chiede Gesù, quel Gesù inviſibile sì, ma
pur preſente, chiede queſta ſera non con iſtrepi.
to di nimico, che aſſale, ma con dolcezza di Pa
Prov. dre, che ama, e chiede ad ognuno il ſuo cuore:
13. Praebe fili mi, dice a me, dice a ciaſcun di voi,

cor tuum mihi : figlio, ah caro figlio, e perchè


v'ho io eſcluſo dal tuo cuore, cuore a me sì caro?
dimmi figlio perchè ? perchè hanno ad occupar
lo follievaniſſime, perchè viliſſime brame, per
chè tutt'altri amori, e non io? A me il tuo cuo
re ſi dee, e ſenza ſmembrarne punto ſi dee tut
to: ſi dee al mio amore, che ſe ne invaghì: ſi
dee al mio ſangue, che il ricomprò: ſi dee fo
pra tutto al mio cuore, cuore di te sì tenero, di
te sì amante, per te sì ſollecito: Prebe fili, pre
be filia, cor tuum mihi. Se intero, qual io lo
chieggo, tu me lo doni; o quale tel rendo, quan
to diverſo da quel ch'egli è, come pieno di vita,
- - pieno
Per la Dom. ſeeonda dopo l'Epifania. 159
pieno di grazia, pieno di un ſanto amore l Cari
miei uditori, e chi di noi a sì amorevole invito
ancor non ſi arrende? Chi vi è, che ancora di
vider voglia tra Criſto e il Mondo il ſuo cuore?
Ah niuno, caro Gesù, niuno. Io che pur fra
tutti ſono il più miſero, il più indegno, il più.
ingrato, ad invitosì amoroſo di buon grado,
arrendo. No, no: non ſono a miei vantaggi sì
cieco, ch'io non iſcorga, che quello, ch'è vo
ſtro guſto, è mio bene. Volete il mio cuore,
eccolo Gesù amabiliſſimo, lo ripongo in quella
piaga tutta amore, che adoro nel ſagroſanto ,
ſtro coſtato. Vi era dovuto prima d'ora, lo ſo,
così prima d'ora vel aveſs io dato, non avrei
ora occaſione di piangere tanti affetti mal impie
gati. Cuſtoditelo voi, mio buon Gesù, ora chi è
tutto voſtro: nè più permettete, ch'egli ſi occu
pi, ch'egli ſi perda negli oggetti baſſiſſimi di
queſta terra. Con voi egli ſtia tutto il corſo della
mia vita º con voi nel punto tremendo della mia
morte; con voi per tutti i ſecoli d'una beata eter.
nità: sì, Gesù mio caro, ſolo con voi, ſempre
con voi,

DIS
16o

s gº º :
i taxi4 ee 3
3, 5
D I S C O R S O I X.
PER LA DOMENICA TERZA
D OP O L'EPIFANIA.

Pianto dell'Inferno.

Ibi erit fletus. Matth. 8.

% -: N S 1 ha da piangere in vita, o ſi ha da
è i º. piangere dopo morte. Perdonatemi,
i , i cari uditori, ſe in un tempo, che par
N SF2, tutto fatto per l'allegrezza mi fo ara
gionarvi di lagrime. Ma che ne poſ
s'io, ſe lagrime ſuggeriſce al mio diſcorſo il
Vangelo. Datevi pertanto pace, e laſciate, che
con franchezza ripeta: o ſi ha da piangere in vi
ta, o ſi ha da piangere dopo morte. Chiunque
naſce, naſce al pianto, perchè naſce erede di
peccato; onde voglia, o non voglia, egli ha da
piangere: nè vi ha in queſto altro arbitrio, che o
di piangere toſto, o di piangere tardi. Con que
ſta diferenza però tra un pianto, e l'altro, che
l'uno ci fa beati, l'altro ci fa miſeri: ci fa beati .
il piangere in vita: ci fa miſeri il piangere dopo
morte; perchè il primo porta dopo di ſe una eter
ma contentezza, il ſecondo porta ſeco una s"
- 1
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 151
diſperazione. In queſta neceſſità di pianto in cui
ſiam tutti, chi non vede, miei dilettiſsimi, che
tra i due ſciegliere ſi dovrebbe il piangere in vita,
perchè ſe ben ſi conſidera, egli è un pianto, che
giova, egli è un pianto, che conſola, o ſe non
altro, egli è un pianto, che finiſce: eppure chi
il crederebbe! Una parte certamente non piccola
de Criſtiani, meglio che accertarſi con un breve
lutto un gaudio eterno, ama di condannarſi per
un breve gaudio ad un eterno lutto. So, che di
coſtoro, come quelli, che di malgrado ſi fanno
ad udire il vero, che ſpiace, non ne ho preſente
veruno: ma non perciò voglio io tralaſciare di
mettere in chiaro la lor pazzia; e con eſporre l'or
ribile pianto, a cui ſi condannano, far conoſcere
il triſto cambio, che fanno. Se non riuſcirammi
di ritirare coſtoro dalla vana loro allegrezza, ot
terrò almeno di confermare voi in quel pianto,
che vi ha da render felici : Beati qui lugent: quo- Mass
miam ipſi conſolabuntur. V'invito pertanto ad en
trar queſta ſera col penſiero in quell'abiſſo di la
grime, in cui dovrà entrar dopo morte chi non
avrà pianto in vita: e tralaſciata ogn'altra più
efficace conſiderazione, voglio che appunto lo
ravviſiamo, quale dal Redentore nel ſuo Van
gelo ci ſi deſcrive, come caſa del pianto: Ibi erit
fletus. Ma qual pianto, uditori miei, qual pian
to? Io credo di non appormi male, ſe a darvene
una qualche idea ve lo propongo doloroſiſſimo
per tre motivi, ciaſcuno de quali ci fa ſcorgere
i nel ſolo pianto un grande Inferno. Pianto dolo
roſiſſimo, perchè pianto ſenza riparo: ſarà il
l
primo punto : pianto doloroſiſſimo, perchè
pianto ſenza ſollievo: ſarà il ſecondo punto:
l
pianto doloroſiſsimo, perchè pianto ſenza ter
Anno IV. Tom. IV. L mine:
162 Diſcorſo IX.
mine: ſarà il terzo punto. Pianto inutile, pian
to inconſolabile, e pianto eterno. Gran pianto,
se terribil pianto!
PUN
Pianto dell'Inferno doloroſiſſimo, perchè pian
to ſenza riparo. Non ſono tormentoſe le lagri
me, quando queſte poſſono riparare il mal, che
piangeſi. Pianſe la ravveduta Ninive alla inti
mazione dello ſterminio: pianſe l'afflitta Eſter
al decreto fatale contro il ſuo popolo: pianſe
il perſeguitato Davidde all' inaſpettata ribellione
del figlio: pianſe il pietoſo Ezechia all'annun
zio della morte vicina: ma niun di queſti rice
vè pena dal pianto, che anzi perchè nel pian
to fondavano le ſperanze della ſalvezza, che
poi ottennero, tutto s'infondea nel piangere il
dolce dello ſperare. Quello sì, ch'è un duro
piangere, il piangere ſenz' alcun prò, perchè
egli è un pianto, che ad altro non ſerve, che
a dare un peſo maggiore alla pena, per cui
ſi piange, e a rendere vieppiù inſopportabile il
mal, che ſoffreſi. E queſta per appunto è la
ſorte ſventuratiſſima di chi dopo una morte in
felice piomba ne guai eterni. Al primo entrare
in quelle tenebre piene di orrore, chi poc'anzi
sfoggiava in magnificenza d'albergo: al primo
vedere que moſtri, che avranno ad eſſere per
tutta l'eternità i ſuoi carnefici, chi poco pri
ma vedea turba di ſervi oſſequioſi a ſuoi cenni:
al primo provare quel fuoco, che ſarà per tut
ti i ſecoli il ſuo tormento, e poco avanti go
deaſi tra le delizie; in una parola: a quel pri
mo ſcorgerſi, che farà, privo d'ogni ſorta di
bene, e da ogni ſorta di male ſorpreſo un mi
ſero riprovato, chi può eſprimere quali ſienº
i ſoſpiri, quali le lagrime, quali le ſtrida, nel
le
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 163
le quali violentato dal ſuo dolore prorompe?
Ma qual prò del ſuo pianto; ſe quanto lo pro
va a viva forza ſpremuto dalla ſua orrenda diſ
detta, altrettanto lo ſcorge inutile a ripararla:
ſe col ſuo piangere ſperar poteſſe lo ſventura
to, o di lavare le macchie, che lo deformano,
o di mitigare gli ardori, che lo conſumano,
o di placare lo ſdegno di quel Dio, che lo fla
gella; per quanto ſia grande, per quanto acer
bo il ſuo pianto, ſarebbe ancor tollerabile: ma
nò: pianga quanto egli vuole, non occorre, che
ſperi, o di cancellare giammai nè pur la meno
ma delle ſue colpe, o di ſpegner giammai nè
pure una ſcintilla di quell'incendio, che lo di
vora, o di ricever giammai da quel Dio, che
lo puniſce una moſtra anche menoma di pietà.
Nò, non occorre, che lo ſperi. Verſi a rivi le
lagrime, le verſi a fiumi: non riparerà mai in
eterno il ſuo eſtremo infortunio: che orribile
crepacuore! Pianger moltiſſimo, e ſempre pian
gere in vano: che dolore crudele ! Piangere il
ſuo male quando il piangere non è più a tem
po! Di Eſaù, dice la Scrittura, che quando ſi
avvide della primogenitura ſenza riparo perdu
ta, diò più che in lagrime d'un affitto, in ur
li di un arrabbiato: Irrugiit clamore magno; ora essi
che pianto, che diſperato pianto ſarà quello di ar.
un riprovato, al vederſi non ſolo eſcluſo dalla
eredità, che gli era deſtinata del regno eterno;
ma confinato di più in un abiſſo d'orrore non
meno, che di tormento!
Poteſſe almeno un dannato, giacchè lo co
noſce infruttuoſo, contenere il ſuo pianto. Ma
no, che tanto non gli è permeſſo. Lagrime chie
de la prigion orribile, nella quale geme rac
L 2 chiuſo
i 64 Diſcorſo IX.
chiuſo: lagrime le catene indiſſolubili, tra le qua
li trovaſi avvinto: lagrime le fiamme atroci,
che lo divampano: lagrime il Paradiſo chiuſo
per ſempre a ſuoi occhi: lagrime un Dio per
ſua traſcuratezza perduto. Sicchè l'infelice ſma
niando, e diſperandoſi, vedeſi coſtretto a con
feſſare per una parte, che il piangere non gio
va, e per l'altra, che pianger biſogna. E quì
a dare un ſopraccarico al dolor del ſuo pianto,
ſi aggiungerà al rifleſſo, che un ſolo di que'tan
ti ſoſpiri, di quelle tante lagrime una ſola, ſe
ſparſa l'aveſſe in vita, potea ſalvarlo. Io per
me credo, uditori miei, che tra i tormenti d'un
anima condannata un de' maggiori ſia queſto
penſiero: Adeſſo non piangerei, ſe io aveſſi pian
to a tempo. Conoſce allora le occaſioni, che
ſe le offerirono, e negligentemente le traſcurò:
conoſceſi le grazie, che da Dio ricevette, e in
grata le rigettò, conoſce i giuſti e frequenti mo
tivi, ch'ella ebbe di piangere, e ſpenſierata non
vi volle riflettere; onde rendendoſi ſuo malgra
do giuſtizia, forza è, ch'ella eſclami: ſe io pian
go ben mi ſtà!
Ma queſta ſteſſa giuſtizia, ch'ella ſi rende
è un nuovo tormento del ſuo pianto: perchè
oltre il renderglielo ſempre più neceſſario, chia
ramente le moſtra, non ſolo, che il pianto è
giuſta pena di chi non pianſe; ma ancora, che
l'equità del gaſtigo vuole, che ſe piange, pian
ga indarno. E che vi ha di più giuſto, cari u
ditori miei, che chi ha per ſua colpa reſi inu
tili i mezzi di ſua ſalute, abbia per ſua pena
un pianto inutile della ſua perdita ? Tanti avvi
ſi di buoni amici, che tentarono di rimetterlo
ſul buon cammino, inutili; tante induti meſ.
C lIl
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 165
ſe in opera dall'Angiolo ſuo Cuſtode per illu
minarlo, e compungerlo, inutili; la vita di un
Dio impiegata per lui, il Sangue di un Dio
ſparſo per lui, la morte di un Dio tollerata per
lui, è tutto inutile; ſoſpiri dunque coſtui, di
ce Dio, ma ſieno inutili i ſuoi ſoſpiri, pian
ga, ma ſieno inutili le ſue lagrime, ſi diſperi,
ma ſieno inutili le ſue diſperazioni, e a ſuo mar
cio diſpetto conoſca eſſere pena giuſtiſſima, che
pianga inutilmente il ſuo male, chi non volle
utilmente applicarſi al ſuo bene. E non ſarà, udi
tori, un dolore acerbiſſimo, dover piangere, e
pianger molto, piangere per neceſſità, pianger
per caſtigo, ſenza ſperanza di trar dal pianto
vantaggio alcuno.
Ove ora ſiete ciechi mondani, che tra riſa
feſtoſe paſſate allegre le voſtre ore: Queſto pian -

to, di cui ragiono egli è tutto per voi. Udite


velo intimare, non da me, no, ma dalla boc
ca infallibile del Redentore: Ve vobis, qui ride Lac. 6.
tis, quia lugebitis, & flebitis. Voi ora non pen
ſate, che a divertirvi, o con la ſcuſa dell'età,
che vuol così, o del coſtume, che così porta,
o del tempo, che così eſige, intrecciate ſpaſſi a
ſpaſſi, e piaceri a piaceri: ridetis, sì, ridetis.
Ridetis in que feſtini, nei quali gareggia con
l'intemperanza ne' cibi la diſſolutezza de'trat
ti, de'motti, delle canzoni: Ridetis in quelle
converſazioni, in quel circoli, ne' quali vi fate
un pregio di tener allegra la compagnia con
mettere or in burla, or in diſcredito il voſtro
Proſſimo: Ridetis in quelle ſale di giuoco, o di
ballo, o dell'uno inſieme e dell'altro, dove con
diſcapito enorme della roba, della famiglia,
della coſcienza paſſate intere le notti: Ridetis:
- L 3 il13
166 Diſcorſo IX.
ma credete voi, che riderete ſempre? Nò ve
dete, nò certamente, ſe l'eterna infallibile ve
rità non può ingannarſi, ſu voi un dì cadran
no i guai terribili, ch'ella minaccia: Ve vobis i
qui ridetis: Battete pur ora con piè giulivo la
via, che vi diverte: ma ſappiate, che queſta vi
conduce con ſicurezza, e ſenza avvedervene, al
la caſa del pianto: Lugebitis & flebitis, si, pian
gerete un giorno le vane voſtre allegrezze, e
per colmo de' voſtri guai, le piangerete in va
no, lugebitis & flebitis: Dio l'ha detto, così
ha da eſſere, così ſarà: lugebitis & flebitis. Ma
e con chi me la prendo? Ah, che ben mi av
veggo, ch'io parlo a chi non v'è. Facciam noi
ſenno, uditori miei dilettiſſimi, e ſe un pianto
inutile ci ſpaventa, diciamo ancora noi col ſen
Eeet... timento del Savio: Riſum reputavi errorem, 6.
gaudio dixi: quid fruſtra deciperis. Sì, sì, quid
fruſtra deciperis, o allegrezza mondana: tu in
ganni te ſteſſa, e inganni noi. Che ne avrai tu,
noi che ne avremo, ſe ſi va poi a finire nella
caſa del pianto ! Se i tuoi godimenti avranno i
un dì a piangerſi con lagrime infruttuoſe, non è
è una follia l' andarne in traccia, e moſtrarne
brama ſi ardente. Eh, che meglio fia piangere
adeſſo, e pianger poco, ma utilmente, che pian
ger poi, e piangere molto, e pianger ſenza frut
to. Io, intanto conchiudo, dilettiſſimi, col Boc
cadoro, e vi ripeto, che pianger biſogna, o
di quà, o di là: Si noluerimus hic flere, illic
omnino noceſſe eſt flere: Illic quidem inutiliter :
hic autem cum emolumento. E' luogo di lagrime
queſta terra, ma di lagrime utili, è luogo di
lagrime, l'Inferno, ma di lagrime inutili. In
un dei due ſi ha da piangere. Elegete voi qual
volete
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 167
- volete, quanto a me già ho preſo il mio partito.
- O mio Gesù voglio pianger con voi: voi,
che ſiete Sapienza infallibile, voi abbonninaſte
mai ſempre le vane allegrezze di queſto Mondo.
Voi laſciati mi avete eſempi di pianto. Voi dice
ſte: beati quelli che piangono. Voi prometteſte
conſolazioni eterne a chi piange: E perchè dun
que, ſe il pianto è a voi sì caro, ea me sì van
taggioſo, perchè non piangerò ancor io con voi!
Deh, Gesù amabiliſſimo, per le Piaghe ſantiſ
ſime de' voſtri Piedi, che umilmente adoro,
aprite, vi ſupplico, con un di quelchiodi, che vi
traffiggono, aprite nel mio cuore una vena di
ſante lagrime; affinchè ſeguendo i voſtri eſempi,
e i voſtri conſigli, con un pianto utile in queſta
vita mi liberi da un pianto inutile dopo morte.
Pianto dell'Inferno doloroſiſſimo, perchè pianto -
ſenza ſollievo. Piangaſi quanto ſi vuole ſu queſta e,
terra, non mancherà mai a chi piange qualche roi.
conforto. Mai non è, che ai mali di queſta vita
un qualche bene non ſi framiſchi. Quello è po
vero, ma trova chi lo ſoccorre: quello è infer
mo, ma ha chi lo aſſiſte: quello è afflitto, ma
non manca chi lo conſoli: e ove avvenga, che tra
gli infortunj non troviſi nè conſolazion, nè ſoc
corſo, trovaſi almeno chi compatiſce; e quan
do anche compaſſion non ſi trovi, può chi ſoffre
farſi con la virtù da ſe medeſimo il ſuo ſollievo.
Grand'argomento di pianto, chi può negarlo, ſi
è la perdita della roba: maggiore ſe con la roba ſi
perde la prole, maſſimo ſe con la roba, e con la
prole perdeſi ancora la ſanità, che ſarà poi ſe per
duta roba, prole, e ſanità, nè pure troviſi chi
compatiſca ! E pure Giobbe fu in prova di tutto,
e non perciò andò privo d'ogni conforto, per
L 4 - chè
I 63 Biſcorſo IX.
chè ſeppe con una pia raſſegnazione raddolcire
le ſue amarezze. Sia pertanto, ſia pure una valle
di miſerie, e però una valle di pianto la noſtra
terra, contuttociò mai non anderà diſgiunto dal
pianto qualche ſollievo, perchè non vi ha tra
noi malesì amaro, che dal dolce di un qualche
bene temperato non venga.
Ma non così certamente, non così nella caſa
propria del pianto, l'Inferno. Col dirci Criſto
con formola così aſciutta, ibi erit fletus, ci fa in
tendere aſſai chiaro, che ſarà un pianto sì tor
mentoſo, che non mai averà, nè mai potrà ſpe
rare d'aver conforto alcuno. In fatti, dove può
egli volgerſi un miſero condannato, ſicchè non
incontri per tutto argomento di lagrime, ogget
to di lagrime, motivo di lagrime. Volgeraſſi
egli al Cielo? Ma queſto ſempre chiuſo alle ſue
brame, ſempre ſordo alle ſue voci, sdegnato
ſempre contro di lui, contro di lui ſempre arma
to, ſempre in atto di ributtarlo, di fulminarlo,
non ſolo non ne mitiga il pianto, ma lo inaſpri
ſce. Volgeraſſi alla terra ? ma da queſta non può
venirgli pur una ſtilla di refrigerio, anzi più che
alla terra egli penſa, più gli viene da piangere,
al rifleſſo, che queſta per l'attacco, che vi ebbe, fu
la cagion di ſua rovina: cerchi dunque ſe può º
dal luogo in cui trovaſi, qualche maniera di
conſolarſi. Ma da che ne trarra egli argomento,
da che? Dalle tenebre, che lo ſpaventan sì orride,
dal fuoco, che lo ſtrugge sì penetrante, da catene,
che lo inceppano sì doloroſe, dai demonj, che
lo ſtraziano sì crudeli! Forſe l'aver compagni
nelle ſventure potrà ſervir di ſollievo: ſu dunque,
diſgraziati, che fate, perchè non vi raſciugate a
vicenda le lagrime è perchè non vi
- - . .
alesie,C
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 169
ſe altro non potete, con la compaſſion il dolore?
Voi almeno, che foſte in vita amici sì cari, voi
congionti sì ſtretti, voi complici del medeſimi
falli, perchè non date anche adeſſo con vicende
voli ajuti moſtre di quell'affetto, che quaſsù vi
: portaſte? Figlia, perchè non conſoli quella tua
Madre, che con te ſi è perduta per cagion tua?
Giovane, perchè non conforti colei, che precipi
tata laggiù da tuoi amori, ora con te geme sì
diſperata? Conſolarſi, aiutarſi ? ah cari uditori
nè vogliono, nè poſſono. I compagni nell'In
ferno (udite o voi, che con pochiſſimo ſenno,
e men di Fede, dite talvolta, ſe mi danno, non
ſarò ſolo: o ſtolti?) I compagni nell'Inferno ad
altro non ſervono, che a dare a chi piange, mo
- tivi nuovi di pianto. Perchè con l'odiarſi, e male
dirſi l'un l'altro, quanto il numero ſi fa maggio
re, tanto ad ognuno ſi fa maggiore il tormento.
Tanto non è di conforto l'eſſere ſtati in vita o
amici, o congiunti, che anzi maledetta madre,
dice la figlia, tu con la ſoverchia tua condeſcen
denza alle mie vanità, ai miei amori, ſei la ca
gion del mio pianto; maladetto amico, mala
detto congiunto, complici maladetti de miei
peccati, voi cogliempj voſtri conſigli, co vo
ſtri perverſi eſempi, con le voſtre traditrici luſin
ghe ridotto mi avete a lagrime sì diſperate. Se
poteſſero gli amici tra ſe, i congionti tra ſe, i
complici tra ſe graffiarſi, addentarſi, lacerarſi,
sbranarſi, di buon grado il farebbono: tanto è
l'odio, che ſi portano, tanta è la rabbia, con cui
ſi mirano. Queſti ſono i conforti, che a vicenda ſi
danno quei miſerabili: ah, che pur troppo do
vunque ſi volga un miſero riprovato non trova
ſollievo di ſorte alcuna, e con voci interrotte da
e -
11.
17o Diſcorſo IX.
Pſ. 39. infuocati ſinghiozzi: Circumdederunt, dice an
cora egli, me mala, quorum non eſt numerus
Tanti ſono gli affanni, tante le pene, che d'o-
gni parte mi aſſediano, che dovunque l'occhio
mio ſi porti, altro non miro, che materia di pian
to: materia di pianto, ſe al Ciel mi rivolgo, ma
teria di pianto, ſe mi rivolgo alla terra, materia
di pianto, ſe miro il luogo, in cui ſono, materia
di pianto ſe miro i compagni con cui mi trevo:
Circumdederunt me mala, quorum non eſt nume
rus. Non è dunque ſperabile, uditori, alcun
conforto, ſe hanno i dannati a trovarlo fuori
di ſe. -

Ma avranno fors'egline miglior fortuna ſe ſi


fanno a cercarlo dentro di ſe! Provinſi pure ad
iſpiare le potenze della loro anima, e veggano ſe
mai in eſſe aveſſero con che mitigare il ſuo affan
no. Appunto, dice quel voluttuoſo, e perchè
non poſſono richiamare alla memoria i piaceri,
che hanno goduti vivendo, le delizie nelle quali
hanno paſſati lieti i loro giorni, le allegrie, le
danze, i divertimenti, le ſale, i teatri che han
no reſi sì ſaporoſi i carnovali! E perchè, dice
quel vendicativo, perchè non poſſono ridurſi al
la mente le bravure con le quali ſi feron largo nel
Mondo! E perchè, dice quel maligno, perchè
non procurano di ſovvenirſi di quelle trame oc
culte, con le quali dierono ſi bellamente tracollo
all'emolo, e reſero temuto non meno, che ri
ſpettato il lor nome! Sì eh, voi vi credete, che
ſi come voi ora vi compiacete de' paſſati diletti;
ſiccome voi ora milantate gli sfoghi delle voſtre
vendette, ſiccome voi ora vi gloriate de ſtratta
gemmi delle voſtre iniquità; così ancora nell'In
fermo poſſa la memoria riandar con piacere i ca
- pricc J»
Per la Domen. terza dopo l'Epifania. 17r
pricci, le aſtuzie, i riſentimenti, gli amori di
queſta vita: ve ne avvedrete voi, quando dopo
aver battute, come ora fate, le orme loro, ſa
rete giunti al loro termine. Ve ne avvedrete. Si
ricordano i miſeri, sì, ſi ricordano, e così po
teſſero non ricordarſene, della dilicatezza con
cui trattarono il ſuo corpo, dell'albagia con cui
mirarono il ſuo proſſimo, del faſto con cui sfog
giarono nelle lor caſe, dello sfogo che alle lor
paſſioni eſſi dierono, ſe ne ricordano: ma que
ſta ſteſſa rimembranza cava loro dagli occhi a vi
va forza le lagrime, perchè rappreſenta loro di
continovo l'origine infauſta della loro perdizione:
Tune omnis dulcedo letantium, udite come ne per lo
parla Girolamo, in luttum vertetur & gemitum.za Iſ.
Le dolcezze aſſaporate in queſta vita, laggiù ſa
pranno amaro, e che amaro! Le contentezze re
cheranno afflizione, e che afflizione! Le morbi
dezze affliggeranno, le riſa medeſime faranno
piangere, e con qual pianto! Omnis dulcedo in
luctum vertetur, C gemitum. O pianto terribile,
cui fin le allegrie danno fomento! Ritirati dun
que memoria infauſta, e laſcia, che l'intelletto
ſomminiſtri a que pmiſeri un qualche penſiero,
che li conforti. E quale mai ? uditori, quale º
S'egli è vero, che dee pianger ſe ſteſſo, chi di
ſua mano ſi fabbricò la rovina, che ſoſpiri, che
gemiti non trarrà loro dal più profondo del cuo
re, tra mille altri, e mille queſto penſiero: mi
ſon dannato perchè ho voluto: mi ſon precipi
tato di mio proprio volere in queſte pene: mi
ſon perduto a diſpetto di quel Dio, che voleami
ſalvo. Finiamola, e ſe la volontà non ha con
che ſollevare il gran cordoglio, conchiudiamo
pure cſſere negli abiſſi inconſolabile il pianto. Ma
- qual
172 Diſcorſo IX.
qual ſollievo può ella dare, ſe altri affetti non
nutre, ſe non odi mortali, invidie cocenti, ſma
nie arrabbiate, furioſe diſperazioni; e ſe ancora
vi ha luogo brama di bene, ella è ſolamente,
perchè abbia il dolore della ripulſa: domanda
ella; ma un crudo no riſoſpinge ogni ſua inchie
ſta. Deh per pietà uno ſpiraglio di luce, che mi
rallegri: no. Una gocciola d'acqua, che mi refri
geri: no. Un'occhiata ſola. che mi conſoli: no.
Un momento di triegua a miei affanni: no. Una
morte almeno che mi finiſca: no. Cielo crudele!
Dio ſpietato... Sì, beſtemmia pure, ma piangi.
O che orrido crepacuore! O che intollerabile
affanno! rivolgerſi da ogni parte per cercare ſol
lievo, e non trovare mai altro, che argomenti
di pianto.
O Penitenti, tribolati, poveri, tentati, per
ſeguitati, che felice ſera è mai queſta per voi?
Voi piangete lo ſo, e ſon ben giuſte le voſtre la.
grime, perchè lagrime, che tratte vi ſono e dal
dolore delle voſtre colpe, e dal peſo del voſtri
travagli, e da i colpi del voſtro nimico: sì, ſo
no giuſte. Ma udiſte, che inconſolabile pianto
aſpetti dopo morte, chi in vita non piange? Udi
ſte? non vi aſpettate però ch'io vi eſorti a più
non piangere: no, no, piangete pure, piange
te. Verrà poi un dì, in cui Dio raſciugherà di
Apee, ſua mano le voſtre lagrime: Abſterget Deus om
nem lacrymam ab oculis eorum s e ſarà quel gior
no per voi ben avventurato della morte, che da
rà termine al voſtro pianto, e principio alla vo
ſtra allegrezza. Intanto laſciate pure che rida, c
che ſcherzi chi s'incammina ſcherzando e riden
do alla caſa del pianto. Voi tenetevi cari i voſtri
ſoſpiri: nè mai più naſcavi in cuore osº,C"iº
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 173
del pentimento, che vi adolora, o un lamento
di quel Dio, che vi tribola: Stimate la voſtra
forte, e ſe fede vi alliſte, godete del voſtro pian
to, e bramate ancora di piangere più.
E voi, Gesù mio caro, concedete anche a me
di entrar a parte di queſta ſorte. Non mi riſer
bate Redentore amoroſo: non mi riſerbate ad
un pianto inconſolabile dopo morte. Ve ne pre
go, mio Gesù, per le piaghe ſantiſſime delle
voſtre Mani, che profondamente adoro. Bramo
di piangere in queſta vita, e bramo di piangere
molto, perchè molto pianto vogliono da me le
molte mie colpe. Così ſi cambiaſſero in due fon
ti di lagrime gli occhi miei, e poteſſi dir ancor
io col voſtro Profeta: Exitus acquarum dedu
cerunt oculi mei, quia non cuſtodierunt legem tu pſirs.
am. Ah, Gesù mio, s' io non foſſi quell'inde
gno, che ſono, ardirei queſta ſera domandarvi
quel dono, che concedete ſolo a voſtri più cari,
dono delle lagrime. Ma perchè tanto non meri
to icevete, vi prego, in iſconto de'miei pec
cati le lagrime del mio cuore, e concedetemi,
che così piangendo ſino alla morte, mi preſer
vi da gemiti inconſolabili dell'Inferno. se

Pianto dell'Inferno doloroſiſſimo, perchè pianto, F


ſenza termine. Che lieta novella recherebbe a i.
miſeri condannati, chi avutone da Dio l'ordine ſi
faceſſe loro a dir così : Anime ſventurate, che
piangete inconſolabili, udite miſericordia di Ciel
placato. Iddio vuole, che ognuna di voi em
pia delle ſue lagrime, quanti ſono nel vaſto gi.
ro della terra i fonti, i nuvoli, i laghi, i fiu
mi, i mari; e sì ch'egli ſa i tanti millioni, che
quì voi ſiete, e che prima, che una ſola ſiane
i venuta a termine, ſcorreranno ſecoli, e
a -- - -
is 3.
174 Diſcorſo IX.
Ma che quando tutte ad una ad una eſeguito
avrete il ſuo volere, ſi porrà fine al voſtro pian
to. O come ad un tale annunzio vedreſte cam
biarſi ſubito quelle lagrime di diſperazione in
lagrime di contento ! Dio clementiſſimo, ſcla
merebbe ognuna, miſericordioſiſſimo Iddio, ec
comi pronta ad empiere delle mie lagrime non
una, ma più volte, e fonti, e fiumi, e mari.
A me baſta, che abbia una volta fine il mio
pianto. O infelici, ſo anch'io, che accettereſte
di buon grado il partito. Ma deponetene pure
ogni ſperanza, che per voi non ha luogo a patti.
Si ha da piangere, e da piangere inutilmente,
e da piangere inconſolabilmente, e quel che fa
il colmo dell' afflizione, ſi ha da piangere per
ſempre. Sparſe, che avranſi tante lagrime da
farne traboccare gli Oceani, ſarà ſempre vero,
che nell'Inferno ſeguiterà ad eſſervi pianto: Ibi
erit fletus. :
No: dilettiſſimi, non è di chi ſpaſima tra gli ;
abiſſi, come di chi geme ſu queſta terra. Il pian
to noſtro o preſto finiſce, o coll'andare del tem
po ſi ſcema, perchè i dolori, che lo cagiona
no, o preſto uccidono, ſe ſono violenti, o ſe
violenti non ſono, con l'aſſuefazione meno ſi
ſentono; ma quel dell'Inferno nè può, per l'im
mortalità di chi piange, preſto finire: nè può,
con la lunghezza del ſecoli, punto ſcemarſi, per
la preſenza continova, e ſempre viviſſima dell'
oggetto, che lo cagiona. Per tutta l'eternità
avranno ſempre quei miſeri fiſſo nella mente il
penſiero d'aver perduto il ſuo Dio; è perchè
s
la privazione del beatifico fine ugualmente che
nel primo iſtante ſarà violentiſſima per tutti i
ſecoli, così per tutti i ſecoli ugualmente ie
IlC
Per la Dom, terza dopo l'Epifania. 17;
nel primo iſtante ſpremerà dagli occhi loro do
loroſiſſime lagrime. Quando S. Paolo nel pren
dere dagli Efeſi congedo, diſſe loro, che non
l'avrebbono veduto più: Amplius non videbitis fa-Act.2o
ciem meam, tutti que ſuoi diſcepoli dierono in
dirottiſſimo pianto; Magnus autem fletus fattusº
eſt omnium , e la cagione del pianto altra non
fu , al riferir di S. Luca, ſe non l'udirſi tolta
ogni ſperanza di più vederlo: Dolentes maxime Ibid.
in verbo quod dixerat, quoniam amplius faciem
ejus non eſſent viſſuri. Eppur quì ſi trattava di
più non vedere un uomo, loro Appoſtolo sì,
ma uomo; lor direttore, lor maeſtro, lor con
ſolatore, lor benefattore sì, ma uomo: e ſapeano
di più, che Paolo anche lontano gli avrebbe ama
ti, avrebbe penſato a loro, avrebbe loro inviate
ſue lettere. Ora qual dolore ſarà, uditori miei, del
le anime riprovate, al ſentirſi a dire non da un uo
mo, no, ma da Dio: Non videbitis faciem meam?
da Dio lor Creatore, da Dio lor ultimo fine, da
Dio unico, e ſommo bene, e ſentirſelo a dire a
voci di ſdegno, e ſentirſelo a dire in ogni momen
to della interminabile eternità. Potranno eſſe non
piangere, e piangere ſempre ? Ah, che baſta u.
dire come parla a nome d' ognuna di eſſe il
reale Profeta: Fuerunt mihi lagrime mea panes
die ac notte, dum dicitur mihi quotidie: ubi eſº
i Deus tuus ? Al ſentirmi ogni momento rinfaccia
re la privazion , la lontananza, la perdita del
mio Dio: Dum dicitur mihi quotidie, ubi eſt
Deus tuus; non poſſo non paſcermi di e notte
di pianto: Fuerunt mihi lacryma me e panes die
ac notte. Nè ſolamente manterraſſi aperta in
eterno la vena del pianto dalla perdita, che ſi
- è fatta, ma dalla cagion ancora della perdita,
che
176 Diſcorſo IX.
che ſono i peccati, perchè queſti, quai larve
ſpaventoſiſſime, mai non partiranno dalla viſta
di un'anima condannata, e immobili ſempre a
vanti i di lei occhi, in tutto il loro numero,
in tutte le loro ſpecie, in tutte le loro circo
ſtanze, in tutta la loro malizia, in tutta la loro
deformita: ſiamo quì, le diranno, per eſſere
dell'indegno tuo cuore carnefici ererni: Non ci
voleſti piangere in vita, ci piangerai tuo mal
grado per tutta l'eternità; onde la ſventurata S
tormentata in eterno da eſſi, perchè coſtretta in
eterno a vederli, tutto che ancor non vorrebbe
non piangerli mai, ſarà forzata piangerli ſem
pre: In eternum neceſſe eſt cruciet, quod in eter
num te feciſe memineris; concluſione di S. Ber
nardo. Giudicate ora voi, uditori, ſe pianto più
doloroſo può concepirſi, che un pianto che non
la termine. Io intanto col medeſimo Santo A
bate: ecco, dirò, ecco dove vanno a terminare
i piaceri di queſta vita: Poſt tantillam volupta
tem, quanta triſtitia ! Dopo un momentanee
sfogo, quante lagrime; dopo un piacere da nulla,
quanti ſoſpiris dopo un'allegrezza di pochi di
quanta triſtezza! Poſt tantillam voluptatem, quan
ta triſtitia ! Eppure può egli negarſi, uditori
miei cari, che della maggior parte de Criſtiani
non vi ſi penſa ? Gemono, ſtridono, ſi diſpera
no le anime del condannati. La fede ce lo dice;
il Redentore ce lo ripete, e ad iſpirarce un ſa
lutevole ſpavento, ben ſette volte nel ſuo Van
gelo fa menzione del pianto, che innonda gli
abiſſi; e noi, o cecità degna d'eſſe pianta con
tutte le lagrime dell'Inferno! E noi quaſi che
o non aveſſimo mai meritato un pianto così
terribile, o non foſſimo ſempre in pericolo di
- meri
Per la Domen. terza dopo l'Epifania. 177
meritarcelo s o non mai, o ben di rado vi ap
plichiamo il penſiero. Si penſa ai divertimenti
di queſta vita; ai guai dell'altra non vi ſi pen
ſa: e non ci avvediamo, che il Demonio fa con
noi, come coſtumavano co ſuoi popoli i Sacer
doti di Moloch : Sagrificavano queſti all'infame
lor Idolo teneri bambinelli, e con barbaro cul
to li conſegnavano vivi ad un'ardente cataſta: E
perchè il loro pianto non veniſſe ad eccitare tene
rezza ne circoſtanti, eſſi con cetra, con trombe,
con timpani, e con altri ſtromenti di gioja aſ
ſordavano l'aria, ed impedivano, che giungeſ
ſero all'orecchio le ſtrida de meſchinelli. Ora
queſt'appunto ſi è l'arte, che uſa con noi il
Demonio. Sa ben egli i buoni effetti, che pro
dur può in un'anima, che lo conſideri, l'eter
no inconſolabile pianto de'condannati ; e pe.
rò a tutto potere ſi adopera, perchè la fede
non vi applichi l'orecchio: e diſtraendone al
º tri con lo ſtrepito de' ſuoi affari, altri col rim
bombo degli applauſi, e degli onori monda
ni, altri col dolce ſuono dei divertimenti; con
far che pochi vi penſino, che fa molti v'incap
pino. Deh, cari uditori, non ci laſciamo aſ
ſordare dallo ſtrepito di queſte coſe terrene :
Ci guidi di quando in quando la fede a vede
re le lagrime, e ad aſcoltare i lamenti di chi
geme, e gemerà ſempre nella caſa del pianto,
e ſenza dubbio più non c'indurremo a ſagri
ficare agli Idoli dell'intereſſe, della vanità, del
piacere, il meglio de'noſtri affetti. Anzi am
maeſtrati da una tal viſta , diremo noi anco
ra col Santo Davidde : Convertere anima mea Pisa
in requiem tuam, quia Dominus benefecit tibi:
quia eripuit animam meam de morte, ci ocu
Tom. IV. Anno IV. M los
178 Diſcorſo IX.
los meos a lacrymis: Mira anima: tu ſareſti a
queſt'ora a piangere colaggiù, ſe Dio per ſom
ma miſericordia non aveſſe da quelle lagrime i
preſervati i tuoi occhi: Eripuit oculos meos a la
crymis. Deh ritorna al tuo Dio, nè ti allonta
pſia.re ma più dal tuo benefattore: Convertere ani
ma mea, quia Dominus benefecit tibi. Cari miei
uditori: i Santi tutto che ſeco ſteſſi sì rigidi, i
e di Dio così amanti, pure qualor penſavano i
al pianto terribile dell'Inferno , piangevano i
anch'eſſi, e conſigliavano a piangere: Plange
hic modicum, dicea Sant'Efrem, ne ibi in e
ternum plangas o quanto è meglio piangere
un poco ſu queſta terra, che piagere nell' In
ferno per tutti i ſecoli! Piangi adeſſo con pe
nitenza ſincera i tuoi peccati, per non aver
gli a piangere con penitenza forzata per tutta la
l'eternità: Plange hic modicum, ne ibi in ater ,
num plangass e San Bernardo, quell'uomo sì º
nimico de ſenſi ſuoi, e nel divino ſervigio si
fervido, alla conſiderazione del pianto eterno:
sern. Quis dabit , ſclamava, capiti meo aquam, dº
i" oculis meis fontem lacrymarum, ut preveniam
fletibus fletum. Chi mi concede, che in lagri
me ſi ſciolgano le mie pupille, affine di ſchi
vare col pianto di queſta vita il pianto dell'al
tra. Inveſtiamci, dilettiſſimi, di queſti ſenti
menti ancora noi, e penſando un po meno a
i divertimenti del Mondo , e un poco più ai
gemiti dell'Inferno , riſolviamo d'imitare non
chi gode in vita, ed ora piange, ma chi pian
ſe in vita, ed ora gode. Felici noi! ſe ci rie
ſce d'impedire con un pianto un altro pianto,
con un pianto vantaggioſo un pianto inutile,
con un pianto dolce un pianto inconſolabile,
- COI)
Per la Dom. terza dopo l'Epifania. 179
con un pianto breviſſimo un pianto eterno.
Sì Gesù caro, queſto è il noſtro deſiderio,
d'impedire un pianto con l'altro : eccovi pe.
rò riſoluti di piangere in queſta vita, per non
piangere nell'altra per ſempre. Ah come non
piagerò, Gesù caro, ſe rifletto, che queſt'or
ribile pianto io me lo ſono meritato, e voi
ſapete le quante volte, e poſſo ancora meri
tarmelo. Avendolo meritato, ſono in dovere
di piangerlo per iſcontarlo ; potendolo anco
ra meritare, ſono in dovere di piangere per
prevenirlo. Penſi però, penſi pure chi vuole a
divertirſi: io per queſti due titoli penſerò a
piangere. E voi, Gesù amabiliſſimo, per quel
la piaga, che adoro nel ſagroſanto voſtro Coſta
fo, datemi grazia, che proſeguendo ſin che
avrò vita il mio pianto, trovi in morte quel
la felicità, che voi avete promeſſa a chi pian
ge, qualor diceſte: Beati qui lugent, quoniam
ipſi conſolabuntur.

sNe
as

M 2 DIS.
18O


3º ::: ºº º º
º t º
:: : a/N »::-:
i
º º
e-º
le

ºa
º grº, gess
D I S C O R S O X.
PER LA DO M E N I CA Q U A R TA
D o P O L'EP I FA NI A.
Paſſione predominante.
mino

Motus magnus factus eſt in mari, ita ut navi


cula operiretur fluctibus. Matth. 8.

giºcº; NON è mai sì vicina, che in mezzo


º i ge alle tempeſte la morte. A ſeppellire
i N, si ancor vivi nel più profondo dell'ac
Si.sg?
o º que convuole,
non vi la naveche
i Nocchieri,
il ſoffio di più
un
vento, o l'urto di un onda. Tal fu il perico
lo, in cui ſi trovaron gli Appoſtoli, allora
quando da improvviſa burraſca ſorpreſi, ſi vi
dero all'orlo d' eſſere col lor battello divorati
dall'onde. Metus magnus factus eſt in mari, ita
ut navicula operiretur fluttibus. Buon per loro
però, che avvedutoſi del gran pericolo, ricor
ſero pronti a chi potea con un comando fre
nar l'ira de flutti, e intimare ai venti la fuga:
O d'ebbero la conſolazione di vedere in un
momento il mare in calma, e la navicella in
ſicuro. Il male ſi è, quando vi ha chi tra pro
celle
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 181
celle, che infuriano, non apprende il ſuo ri
ſchio, e come ſe ſi poſaſſe nel ſeno della ſteſſa
tranquilità, anzi che cercare lo ſcampo dal ſuo
naufragio, traſtulla, e ride. In sì temeraria fi
danza, che altro ſi può aſpettare, ſe non di
rompere in uno ſcoglio per rabbia degli acqui
loni, e di trovare per abbattimento di forze tra
maroſi la tomba. Eppure una inſenſatezza, che
par sì ſtrana, lo credereſte, uditori, non di ra
do ſi vede, non di rado ſi pratica, ſe non in quelle
tempeſte, che nel mare ſi ſollevanda venti, in quel
le almeno, che ſi eccitan nel cuore delle paſſioni: O
quante volte da malvage affezioni agitato il cuor
noſtro ſcherza tra ſuoi pericoli, perchè cieco
non li conoſce; ed intanto non ricorrendo a
chi li può render la calma, tra non temute bur
raſche trova irreparabile il ſuo naufragio! Che però,
miei dilettiſſimi, ſe bramoſi noi ſiamo di pren
i dere con una morte felice il porto dell'eterno
; ripoſo, chi non iſcorge quanto premer ci deb
ba; o l'impedir, che non ſorgano queſte tem
peſte, o quanto ſorgano, provvedere ſollecita
mente allo ſcampo; e l'uto ugualmente, che
l'altro agevolmente otterremo, ſe veglieremo
; attenti ſulle noſtre paſſioni, e ſu quella ſingo
larmente, che più predomina. Queſta fra tut
te prendo io queſta ſera di mira, come quella,
che d'inumerabili naufragi è ſtata mai ſempre
i cagion funeſtiſſima, perchè fra tutte ella è d'or
dinario la men ſoggiogata: epperò ſe ovviar ſi
vuole al pericolo, in cui ella ci mette di mala
i morte, è neceſſario in primo luogo, che ſi co
noſca: è neceſſario in ſecondo luogo, che ſi com
batta: è neceſſario in terzo luogo, che ſi ſter
mini. Per conoſcerla vi v"sta
3
» C iº
1l
I 32 Diſcorſo X.
il primo punto; Per combatterla vi vuol corag
gio, e ſarà il ſecondo puntos Per iſterminarla
vi vuol coſtanza, e ſarà il terzo punto. Co
mm minciamo,
Dobbiamo conoſcere le noſtre paſſioni. Nulla vi
ha di più facile, che rimanerſene ſconoſciute
nel cuore le noſtre paſſioni: Naſcono queſte co
sì inſenſibili, e creſcono sì luſinghiere, che non
ſi laſcian conoſcere per nimiche. Oggetto mai
non propongono, ſe non tale, che aduli i no
ſtri ſenſi, e non ſuggeriſcono, ſe non coſe, che
appaghino l'amor proprio: ond' è, che noi nul
la ſoſpettando di naſcoſta oſtilità, andiamo ad
occhi chiuſi dov'eſſe ci guidano, e non avve
dendoci de falſi paſſi, che pur facciamo, giun
giamo a ſegno, che nè ſappiamo, nè vogliam
perſuadarci d'eſſere fuor di ſtrada. Il che ſe di
tutte le paſſioni facilmente ſi avvera, molto più
di quella, cui è riuſcito di eſſere la prediletta.
In prova di che, dite ſe vi dà l'animo, a chi 1,
ſenz' avvederſene è guadagnato da una paſſione,
che ha inſenſibilmente uſurpato il dominio del
cuore, ditegli, che ſon ſtorte le vie, che batte,
e che in ciò, che fa, non vi ſta la coſcienza;
ripiglia egli tra ſdegnato, ed attonito. Mi ma
raviglio: in ciò, che faccio non vi ha pur om
bra di male, ſo anch'io fin dove ſi ſtendano i
co fini del lecito. Ma come? replicategli, come?
Non vi ha male in quel giuoco, che oltre il
perdimento di tanto tempo, porta nella fami
glia tanti ſconcerti! Che ſconcerti ! riſponde
quell'idolatra de'tavolieri: Egli è un divertimento
e non più. Non vi è male in que tratti sì famigliari,
in que'regali così frequenti, in que diſcorſi sì teneri!
Che male! riſponde quel giovane demoniati C
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 183
del fuoco, che gli arde in ſeno: Io non vi ſcor
go altro di più, che una cordiale amicizia. Non
vi è male in quell'attacco al danaro, per cui
ne vanno mal provveduti i figliuoli, mal conten
ti i domeſtici, e i poveri mal ſoccorſi! Eh ſo
no indiſcreti, riſponde quel capo di caſa, che
non conoſce la ſua avarizia: vorrebbevi tutto dì
la mano allo ſcrigno; io ſo quel, che mi è co
ſtato il far la roba. Così quant'altri da paſſione
non conoſciuta ſon moſſi, ſe vi farete a ripren
derli de non giuſti loro andamenti, con fran
chezza riſponderanno, che non v'è male. Che
ſe talvolta faſſi a pungere la lor coſcienza un
qualche ſcrupolo, o ſi sforzano di divertire al.
trove il penſiero, o ſtudian ragioni, che favo
riſcano l'inchinazione, o ſe ricorrono per con
ſiglio, dipingon le coſe con colori sì favorevo
li alla paſſione, che dal conſigliere ingannato
fanſi accordare, che non vi è male.
Or io diſcorro, uditori, e dico: Se una paſ
ſione non iſcoperta non apportaſſe altro ſcon
certo, che queſto, di non laſciarci conoſcere il
male, che cagiona; non ſarebbe queſto ſolo un
motivo efficaciſſimo per farci vegliare ſopra di
noi, e indurci a diſaminare ogni fibra del no
ſtro cuore, affin di ſcoprire, ſe mai in qual
che angolo ſi appiattaſſe una qualche rea affe
zione ? non è egli un diſordine funeſtiſſimo av
viarſi al precipizio a gran paſſi, e non vederlo?
Eppure vi è ancor di peggio. Una paſſione non
conoſciuta non ſolo ci naſconde il male, a cui
ci porta, ma per tradirci a colpo più franco, al mal
medeſimo che ſuggeriſce, dà l'apparenza di
bene; ſicchè ove magion domanda, che ſolo
quello ſi voglia, che ſi ravviſa per buono; la
- - M 4 paſſione
184 Diſcorſo X.
paſſione fa in modo, che ſi ravviſi per buono
ciò , ch'ella vuole, e purchè un oggetto ab
bia il merito d'incontrare il depravato ſuo ge
nio, ella ſubito ce lo dipinge in aria di Santo
non che di oneſto: Quodcumque volumus, così
deplora l'inganno noſtro Agoſtino, bonum eſt
quodcumque placet ſanctum eſt. E non avven
ne appunto così alla infelice noſtra comune Ma
dre: Dio immortale! Che poteaſi mai appren
der di bene in un frutto pieno delle minacce
di un Dio, in un frutto, che chiudea dentro
la ſua corteccia la morte, in un frutto, che
ſtendea in tutta la poſterità il ſuo veleno ! Ep
pure tant'è, non prima vi appreſsò Eva la ma
no, che non le foſſe parſo bene il guſtarne:
Vidit mulier, quod bonum eſſet lignum ad ve
ſcendum: E ciò, che ſucceſſe alla Madre, è paſ
ſato pur troppo anche ne figli. O quante volte
dagli affetti occulti del cuore riman tradita la
noſtra mente, coſtretta ad approvare un male,
che piace, perchè rappreſentato dalla paſſione
in abito di virtù! E' egli nuovo, che a ſuoi tra
ſporti dia nome il collerico di giuſti riſentimen
ti? che l'uſurpator dell'altrui chiami i ſuoi frut
ti compenſazioni dovute, e che l'invidia ſi co
lori con il zelo ? che s'intitoli decoroſo conte
gno l'ambizioni, e l'orgoglio ? Ed ecco intanto
i diſordini ben accolti pel paſſaporto, che lor
procura l'inchinazion traditrice.
Quindi chi non vede quanto ſia difficile rico
noſcer per deſſa una paſſione, che o totalmente
ci accieca, od ha per lo meno cambiate ſembian
ze! Qual attenzione, qual vigilanza, qual ac
cortezza vi vuole per iſpiarne i movimenti, per
iſcoprirne gl'inganni. Il Reale Profeta, che ben
- 11C
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 185
i ne conoſceva le frodi: Perſequar inimicos meos,
diceva riſoluto, 6 comprehendam illos. Tanto º
anderò in traccia de' miei nimici, che alla fine li
) ſcoprirò: Perſequar, ci comprehendam, e co
mentando a noſtro propoſito queſte ſteſſe parole
i Ugon Vittorino: Tunc perſequimur, dice, quan "
do ipſam originis eorum radicem ſubtiliter inveſti- “
gamus. Entriamo pertanto, miei dilettiſſimi, in
noim deſimi, e con ogni accuratezza diſaminia
i mo l'origine delle noſtre inchinazioni, del noſtri
affetti: che sì, che con una diligente ricerca ſi
i troverà, che non ſono poi sì innocenti quelle vi.
ſite, che danno tanto di paſcolo al genio: che
ſono durezza verſo de poveri quel preteſti, che
adduconſi per non ſoccorrerli: ch'ella non è che
vanità quella affettata modeſtia, con cui guada
gnar ſi vorrebbono gli applauſi del Mondo: che
; quel ritegno che ſi uſa col proſſimo, o è vendet
i ta d'animo dilicato, o è ſuperbia di cuore altiero:
Perſequar & comprehendam. Penetrate nel più
i cupi naſcondigli del cuore, e forſe vi troverete
appiattata in abito di parſimonia l'avarizia; un
ardire protervo in apparenza di tratto diſinvolto ;
un vil timore, o un umano riſpetto ſotto le ſem
bianze di prudenza, o di oſſequio: Perſequar
ci comprehendam. -

Che ſe dopo accorta ricerca, di queſt interni


nimici non ne ſcoprite veruno, non vi fidate,
cari uditori, non vi fidate. Potrebb'eſſere, che
la paſſion vi abbia di tal maniera offuſcata la
mente, che non vi rieſca di ravviſarla. E però
ricorrete, come il cieco di Gerico, al Padre de'
lumi, acciò che ſgombri le tenebre che vi accie
cano: Domine ut videam. Ah, cari uditori, una Luets.
ſola paſſione, che non conoſcaſi, o Dio, di
- - quanti
186 Diſcorſo X.
quanti diſordini ſarà ella cagione: quanti intoppi
frapporrà ella alla voſtra ſalute! Vipera naſcoſta
infetterà col ſuo veleno le voſtre azioni: tiranna
crudele incatenerà con le ſue leggi il voſtro arbi
trio: ſirena ingannatrice inorpellerà con luſinghe
i ſuoi tradimenti; vi farà creder d'eſſer giuſti, e
nol ſarete: vi farà ſperar d'eſſer ſalvi, e nol ſa
ºf 143.
rete. Luce pertanto convien, che chiediamo a
chi può darcela: Fulgura coruſ ationem & diſi
pabis eos. Un lampo, che folgoreggi dal Cielo,
diſſiperà quelle nebbie, che ſecondano gli agua
ti della paſſione. Ah, miei dilettiſſimi, ſarebbe
poi troppo, ſe invece di ſgombrare la cecità, vi
aggiugneſſimo la mutolezza: ſarebbe troppo, ſe
amallimo di vivere ſchiavi di non conoſciuto ni
mico, piuttoſto che ricorrere ſupplichevoli a chi
può darcelo nelle mani.
Ma no, mio Gesù, non amo, nè amerò mai
ſchiavitù così indegna. Se qualche paſſione mi
accieca in modo, ch'io non ſappia conoſcerla,
datemi voi lume per iſcoprirla. Ve ne prego per
le Piaghe ſantiſſime de' voſtri Piedi che umilmen
te adoro. Troppo mi preme, che nel mio cuore
non ſi naſcondano coteſti nimici, quanto più do
meſtici, tanto più da temerſi. O Gesù caro, tan
ti ciechi a voi ricorſero per la viſta del corpo, e
voi tutto bon à eſaudiſte le loro ſuppliche: deh
eſaudite anche le mie, che vi domandano quella,
pri, che tanto più importa, la luce dell'anima: Illu
mina Domine oculos meos: illumina, illumina.
“ Dobbiamº combattere le noſtre paſſioni. Poco ri
Pos- leverebbe, uditori, l'avere con accuratezza ſco
º II perte le noſtre paſſioni, ſe poi non ſi aveſſe cuor
di combatterle. Io non niego, ch'ella non abbia
dell'arduo l'impreſa simperocchè trattaſi di ni
IIl 1CI »
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 187
mici, che nello ſteſſo danneggiarci ci piacciono:
di mimici, che nati con noi e da noi, ſembrano
divenuti una coſa ſteſſa con noi: di nimici, che
non poſſono eſſere combattuti, ſinchè ogni colpo
contro di eſſi avventato, ſia una ferita al noſtro
cuore: ma queſt'appunto, ſe a S. Gregorio dia
mo fede, queſta è la fortezza di un vero Criſtia
no: Juſtorum fortitudo eſt carnem vincere, pro- L.z.
prii voluptaptibus contraire; deleitationem vita:
preſentis extinguere. Sia pure quanto ſi voglia ”
piacevole la paſſion che ci domina; ma è ſempre
un nimico, che laſciato vivere in pace, tanto ac
quiſta di ardire e di forza, che, giuſta l'eſpreſ
ſion di S. Ambrogio, a guiſa di sfrenato indo
mito polledro, getta di ſella ogni più forte cam
pione, e ne fa ſtrazio crudiſſimo, Qui dominare
neſcit cupiditatibus, is quaſi equis raptatur indo
mitis : volvitur, atterritur, laniatur, affligitur.
Traſcurò Saulle di combattere quell'invidia, che
gli nacque nel cuore contro Davidde, e più non vi
volle, perchè a danni della virtù, che lo rendea
sì riguardevole, ſi ſollevaſſero e la furia negli
sdegni, e l'empietà negli ſpergiuri, e l'ingiuſti
zia nelle frodi, e la crudeltà nelle ſtragi. Laſciò
Jeſabelle,che regnaſſe tranquilla nel ſuo cuor l'am
bizione, e poco andò, che ſi vide violata l'equità,
oppreſſa l'innocenza, conculcata ogni legge.
Tanta è la violenza, con cui nimici sì fatti tiran
neggiano imperioſi, e ſtraziano crudeli il noſtro
ſpirito! Piaceſſe a Dio, che non ſi provaſſero tut
to dì le violenze di paſſioni non combattute! Che
diſordini non arreca quell'amore men caſto, che
arde pacifico nel cuor di quel giovane: frequen
za di Sagramenti ita in diſuſo, parola di Dio ve
nuta in nauſea, eſercizi di pietà affatto dimenti
Cati,
188 Diſcorſo X.
cati, traſcurati i propri doveri, il tempo perduto
in viſite, il danaro gettato in regali, e tutta l'a-
nima ſconvolta da ſollecitudini amare, da gelo
ſie pungenti, da deſideri non appagati: che triſti
effetti non partoriſce un odio, che nel ſuo naſce
re non ſi ſoffochi: quante parole piene di fiele,
quante maldicenze col colore di zelo, quante
calunnie inventate dall'aſtio, quante induſtrie
per attraverſare fortune, quante machine per ro
veſciare diſſegni. Ah che pur troppo egli è così i
non gode, nè mai godrà vera pace, anderà mai
ſempre da un male in un altro, da un precipizio
in un altro, chi laſcia in pace le ſue paſſioni: Qui
dominari neſcit cupiditatibus, volvitur, atteri
tur, affligitur. -

Quanto però è neceſſario impiegare contro di


eſſe e ſcudo, e lancia per iſchermirſi da loro aſ
ſalti, o per iſnidarle da loro agguati. Quanto è
neceſſario, che ſi affrontino con valore, e con
vigor ſi combattano: non voglio già dire però
che ſia d'uopo, o per domare un affetto men
puro, ravvolgerſi tra crude ſpine come un Fran
ceſco, o a diſtruggere l'attaccamento a i beni di
queſta terra, vendere, come un Antonio, quan
to poſſiedeſi, e darlo a poveri, o a vincere la
dilicatezza di noſtra carne ſucciare, come una
Caterina, ulceri verminoſe; ſo che tanto pur
dovrebbe farſi quando altrimenti fiaccar non ſi po
teſſe l'orgoglio di nimici congiurati a noſtra
eſtrema rovina: ma no, non eſige armi di tem
pra sì fina il combattimento di cui ſi tratta. Fate
per combattere le voſtre paſſioni quanto fate per
ſecondarle; e ſenza dubbio cadranno vinte: ado
perate altrettanta ſollecitudine per moderare l'af
fetto alla roba, quanta ne adoperate per i".
taIlO
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 189
tarlo: tollerate altrettanti affanni per diſtaccar
l'animo da quell'oggetto che sì vi piace, quanti
ne tollerate per compiacerlo: ſtudiate per iſpe
gnere quell'avverſione altrettante invenzioni,
quante ne ſtudiate per isfogarlas e vi ſo dire, che
riportarete in poco tempo de' voſtri nimici una
compita vittoria.
Ma perchè il guerreggiare non ſarebbe con
utile, ſe non foſſe con arte, la prima regola di
chi combatte paſſioni, debb eſſere por freno a i
ſenſi. Ah miei dilettiſſimi ! Troppo paſſano d'in
telligenza i ſentimenti del corpo, e gli affetti del
cuore, e da quelli d'ordinario ricevono queſti il
ſuo paſcolo. Tronchiſi pertanto il reo commer
zio tra gli uni, e gli altri, e a proporzion che
da ſenſi tenuti in briglia non ſaranno al cuor tra
mandati gli eſterni oggetti, le paſſioni ſcaderan
no di forza. Impediti così al nimico i ſoccorſi,
vegliſi attentamente ſul cuore, e ad ogni moto,
che la paſſione ſollevi, diaſi all'armi: guai s'ella
guadagna terreno: guai s'ella s'innoltra: troppo
è facile ch'ella canti vittorie, e noi piangiamo
ſconfitte; nulla però, nulla mai ſe le accordi: ſe
l contraſti ogni paſſo: ſe ne ributti ogni aſſalto;
nè quì tutta dee finirſi la guerra: con nimici sì
pernicioſi lo ſtare ſulla difeſa non baſta: con
vien in oltre uſcire in campo, e penſare all'of,
feſa. Ma come? notate bene. Due ſono le ſqua
dre che armano contro di noi le paſſioni: una è
guidata dalla concupiſcibile ; dalla iraſcibile l'al
tra : quanto alla prima, ſareſte pure i mal' ac
corti ſe penſaſte a combatterla in tutt'altra ma
niera che con la fuga. Siccome queſta, perchè
armata di diletto, e non d'altro, ha nel preſen
tarſi tutta la forza; così l'arte di chi tutta la vuol
- V1m
19o Diſcorſo X.
vincere, conſiſte nel ritirarſi: chi con l'eſporſi
alle occaſioni più luſinghiere vuole affrontarla,
miſero egli è perduto, perchè da ſe medeſimo ſi
dà nelle mani de' ſuoi nimici. La ſeconda sì, che
debbe aſſalirſi a fronte ſcoperta, e opponendo
manſuetudine all'iracondia, alle avverſioni ca
rità, alle diſperazioni fiducia, ai timori magna
nimità, ſi ſcarichin pure or contro l'une, or
contro l'altre colpi mortali; e quantunque a noi
pajano le noſtre paſſioni, o rinforzate dall'abito,
o difeſe dall'amor proprio, o trincierate dal mal
coſtumes non temiamo perciò, non temiamo,
perchè uniti alle noſtre forze militano con noi,
e per noi gli ajuti del Cielo. Anche l'Appoſtolo
Paolo ſentiva dentro di ſe le refiſtenze oſtinate di
queſti interni mimici, e bramoſo della vittoria:
rom., Quis me liberabit, ſclamava, chi accorrerà in
mio ajuto, chi avvalorerà le mie forzes e udiſſi
ben toſto rincorar dalla grazia: Gratia Dei per
Jeſum Chriſtum. Coraggio pertanto, miei dilet
tiſſimi, e vinceremo. Cadrà, o ſenſuale, ogni
amor al piacere: cadrà, o puntiglioſo, ogni de
ſio di vendetta: cadrà, o intereſſato, ogni attac
co alla roba: cadrà, o mondano, ogni affetto
alla vanità: cadranno quant'elleno ſono le paſ.
ſioni che ci moleſtano, ſol tanto che non c'in
creſca il combattere. La Divina grazia ſtà in pron
to anche per noi: Gesù ce la offeriſce, e ci ani
ma inſieme alla battaglia, e ſaremo noi sì codar
di, che con un Dio con noi ancor temiamo!
Ah no, Gesù caro: eccoci pronti a ſeguire le
voſtre voci, e a prevalerci de voſtri aiuti. Ab
biam pur troppo laſciate finora vivere in pace le
noſtre paſſioni, e quel ch'è peggio abbiam pur
troppo ſofferta con pace la lor tirannia. Or fiam
II
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 191
riſoluti di muover loro la guerra, e di combat
terle. Iſpirateci voi quel coraggio, voi infonde
teci quella forza che ci abbiſogna per vincerle:
ve ne preghiamo per le Piaghe ſantiſſime delle
voſtre mani, che umilmente adoriamo. No, no,
più non ſarà, che regnino in avvenire nel noſtro
cuore nimici sì contrari a quella pace, che per
petua debb'eſſere tra noi, e voi.
UN
Dobbiam ſterminare le noſtre paſſioni. Quando roi III
O
Dio comandò al Re Saulle di portarſi a com
battere contro gli Amaliciti, volle, ch ei pro
ſeguiſſe con tal conſtanza l'impreſa, che non
prima ſi poneſſe fine alla guerra, che laſciato
non aveſſe ognun de'nimici ſotto l'Ebreo fer
ro la vita. Una coſtanza di queſta tempra ſi è
quella, uditori, che Dio da noi eſige, quando
prendiamo a combatterer una paſſione, che
tiranna ſi è fatta del noſtro cuore. Intrapreſa co
raggioſamente contro di eſſa la pugna, haſſi a
continovare con l'armi in mano, inſino a tanto
che ſoggiogata, e doma, cada vittima di vir
tù trionfante, ſe non ſommetteſi appieno a
guiſa di fuoco, coperto bensì, ma non eſtinto,
riaccenderà in breve più che mai funeſta la
guerra. Sono le paſſioni ( e chi nol ſa )
iante di tronco robuſto: non baſta sfondarle,
è d'uopo, che pongaſi alla radice la ſcure: So
no, come le chiama S. Gioanni Griſoſtomo,
ſorgenti perenni d'iniquità: non baſta diſſecca
re i ruſcelli ove diramanſi, convien divertirne
l'origine: Sono, giuſta la fraſe di Sant'Ambro
gio, madri feconde di prole maligna: non ba
ſta diſtruggere i figli, forza è, che ſi ſveni chi
li produce. Altrimenti anche dopo replicate ſcon
fitte, ripiglieranno le antiche forze, e rinnove
Ia IAI1C
i 92 Diſcocſo X. -

ranno i primieri diſordini: E d'onde in fatti cre


dete voi, che procedano tante, che veggiamo
tutto dì, deplorabili ricadute ! E ritornata colei
dal ritiramento alla libertà; è colui divenuto
poc'anzi l'eſempio de' ſuoi coetanei, ora n'è
di nuovo lo ſcandalo. Ah in quell'incontro,
in quella viſita, in quel teatro, in quella par
tita di divertimento, ſi è riacceſo il fuoco non
ben eſtinto. La paſſione combattuta sì, ma non
ancor ſoggiogata, ha riacquiſtato vigore, e ſi
è rimeſſa di nuovo al poſſeſſo dal cuore.
Che però nella guerra, di cui ſi tratta, ſi ha
da prender l'eſempio dal Reale Profeta, il qua
Pſ. 17.
le non contentoſſi già di ſcoprire, e di com
battere i ſuoi nimici: Perſequar & comprehendam:
ma di più ſtette fiſſo in non deporre mai l'ar
mi, infino a tanto che li vedeſſe non ſolo ſca
duti di forze, ma privi ancora di vita, ci non
convertar, donec deficiants ecco la generoſa ri
ſoluzione, che dee concepirſi a diſtruzione del
le paſſioni. Si ha da continovare ſenza quartie
re la pugna ſino all'intera loro ſconfitta; ed ove
(Ibid. ſi tratta di nimici sì pernizioſi, ella è pietà non
eſſer pietoſo: Non convertar, donec deficiant:
Amor del piacere tiranneggia il mio animo.
Or bene porrò leggi così ſevere a miei pen
ſieri, a miei ſguardi, a miei diſcorſi, a miei
eſti; che e con la purità della mente, e con
a modeſtia del tratto, e con la mortificazione
de ſenſi ſpegnerò, ſoffocherò ogni fiamma men
caſta: Et non convertar donec deficiant. La va
nità, e l'ambizione ſono divenute le attitre del
mio ſpirito. Viverò sì ritirata, veſtirò sì mo
deſta, tratterò sì manſueta, converſerò si guar
dinga, che con la fuga delle pompe, i l'u-
Illlità
Per la Dom, quarta dopo l'Epifania. 193
miltà del portamenti, con la frequenza a ſagri
Altari ſradicheroile interamente dal cuore: Et
non convertar donec deficiant.
Ma io temo, cari uditori, che molti, anzi
che imitare la generoſità di Davvide, ſieguan
l'orme vigliacche del Re Saulle. Ricevuto, che
queſto ebbe il divin comando di ſterminare gli
Amaleciti ſenza riguardo nè ad età, nè a ſeſſo,
nè a grado, non ebbe cuore di tingere la ſua
ſpada nel ſangue del Re ninnico: diſtruſſe il po
polo, riſparmiò il Re. Così pur " fan
molti, contenti di ſvenar le paſſioni di minor
conto, laſciano in vita quella che regna. Voi
vedrete in colei morti gli amori, morta la va
nità, ma il giuoco ? e queſta è la paſſione,
che regna: il giuoco ſi laſcia in vita. Voi vedre
te in colui morta l'avidità della gloria, morta
l'invidia dell'altrui bene, ma l'avarizia ? ma l'at
tacco alla roba è queſta è la paſſione, che re
gna; l'avarizia ſi laſcia in vita; così in quel
giovane l'amor al piacere, così in quella don
ma la voglia di comparire, ſono le paſſioni,
che regnano: daranno morte a tutt'altro, ma
non a queſte. Non che talvolta per iſtimolo di
ſindereſi anche a queſte non ſi muova la guer
ra, ma ella è guerra sì languida, che più che
può la riſparmia, nè mai contro di queſta ſi
pigliano con tal riſoluzione le armi, che di
caſi con Davidde: Non convertar, donec deficiant.
Nè mi ſteſte già dire, che queſta è un im
preſa da non poterſi mai ridurre a buon ter
mine, e che º riſponderebbevi S. Gioanni Griſo
ſtomo, coll' induſtria, e col tempo ſi addime
ſticano fino i Lioni, e s'inſinua dolcezza a chi
ha per indole la barbarie, e l'uomo poi non
Anno IV Tom. IV. N potrà
194 Diſcorſo X.
potrà alle ſue ſteſſe inchinazioni dar legge, e ſot
tometterle alla ragione! Qual delle due è più
difficile impreſa: far che una fiera ſi dimentichi,
per dir così, d'eſſer fiera, o far, che un uomo
ricordiſi d'eſſer uomo ? Leones ſubigimus, ci
eorum animos cicures reddimus, & dubitas an
cogitationum feritatem ad manſuetudinis felicita.
tem poſis traducere? Sì, che ſi può, e tanto ſi può,
che baſta ſol, che ſi voglia. Lo volle Ignazio il mio
Patriarca, e il potè , e lo potè di maniera, che,
come ne fanno fede gli oracoli del Vaticano,
ſoggettole sì pienamente, che non alzaron capo
mai più: Commotionum ſuarum, e perturbatio
num dominatum hahuit perfettiſſimum.
Che ſe col preteſto di ſognata impotenza non
giungeſi a interamente ſommetterle, ſapete, che
ne avverrà è Ciò appunto, che al mentovato
Saulle. Traſgreſſore del divino comando, vol
le l'iniquo Re uſar pietà cogli Amaleciti rubelli,
e pago di aver portato a tutti il terrore, non
tutti diſtruſſe, non tutti ucciſe; ed ecco quante
ſventure ſi traſſe: Provocò contro di ſe lo ſde
gno di Dio, perdette ogni diritto al ſuo regno,
più non provò felicità nelle ſue impreſe: e per
colmo di diſdetta finì appunto per mano di un
Amalecita con morte infelice i ſuoi giorni. Al
trettanto convien, che tema, chi pago di mo
vere alle ſue paſſioni una guerra ſuperficiale,
non curaſi di venirne all'intero ſoggiogamento.
Quell'affetto , quell'attacco, quell'impegno,
quella qualunque ſiaſi voſtra paſſione, a cui ora
con obbrobrioſa indulgenza riſparmiate il taglio
fatale, in breve rialzarà il capo, vi toglierà la
pace della coſcienza, turberà con mille diſordi
ni il cuore, e quel ch'è peggio, ſarà un dì l'A-
malecita
Per la Dom. quarta dopo l'Epifania. 19;
malecita crudele, che vi farà chiudere con peſ
ſima morte la vita. Se un finimento sì triſto vi
ſpiace, ecco l'unico modo di prevenirlo: Tolle, Gen.aa
vi dirò con le parole dette da Dio ad Abramo,
tolle filium tuum unigenitum, quem diligis, ſa
grificate a Dio quel parto del voſtro cuore a
ſi voi si diletto, quell'amor, quell'invidia, quell'or
l goglio, quel giuoco: tolle quem diligis. Piglia
tela a ſpada tratta contro la paſſione, che più
vi è cara, che più vi luſinga, che più vi do
mina, e perſequitatela tanto, tanto abbattetela,
che non abbia più forza da ribellarſi: tolle, quem
diligis. Acchettato in vita il tumulto, prove
rete in morte il ripoſo. In pace, in idipſum,
dicea il Santo Davidde, quella mente sì accor
ta nel conoſcere le paſſioni, quel cuore sì ge
neroſo nel combatterle, quel braccio sì forte,
e sì coſtante nel ſottometterle, in pace in idipſum
dormiam & requieſcam. O che bel prometterſi
pace, che bel prometterſi tranquillità e ripoſo
nella morte del corpo, quando ſi è fatta la ſtra
da con la morte delle paſſioni! Dopo una vit
toria sì nobile, che bel trionfo ſi può ſperare
nel Cielo: Qui vicerit, udite come Gesù ce ne Apoca
accerta, dabo ei ſedere mecum in throno. La pa- º
rola è data, la promeſſa è ſicura, Gesù è im
pegnato; cuore pertanto, miei dilettiſſimi, e
aſſicuriamci in morte queſta pace, in Cielo queſto
trionfo.
E voi, caro Gesù, che mirate dal voſtro tro
no le noſtre battaglie, e preparate corone alle
noſtre vittorie: voi rinvigoriteci, voi dateci una
ſanta perſeveranza in una guerra sì vantaggioſa,
e sì giuſta. Ah, che già tante volte abbiam
cominciato a combattere, e poi con vergogno
N 2 ſa
196 Diſcorſo X.
ſa inconſtanza abbiam gettate le armi, ond'è,
che le noſtre paſſioni ſono ſempre le ſteſſe,
ſempre vive, ſempre le arbitre del noſtro cuo
re. Deh Gesù amabile, per quella Piaga ſan
tiſſima, che nel voſtro Coſtato adoriamo, da
teci grazia, che combattiamo coſtanti ſino a
guerra finita: Sicchè poſſiamo ancor noi con u
na piena vittoria meritarci in morte un dolce
ripoſo, e nel Cielo un eterno trionfo.

D I S C O R S O X I.
PER LA DOMENICA QUINTA
D OP O L'EPIFANIA.

Ozio.

Cum dormirent homines, venit inimicus.


s Matth. 15.

% -i-N Iſero chi nel ſonno è ſorpreſo dal ſuo


ºil " iº
Mnimico! Aſpettiſi pure di vedere in
ſe rinnovati gli eſempi funeſti, o di
SF2, un Sanſone, che dalla libertà fa paſ.
ſaggio alle catene; o di un Siſara,
che perde diſonorato con le tempie traffitte la
vita, o di un Oloferne, che laſcia ſotto ferro
|
femminile l'altiero capo; o di quel Cittadini
ſpenſierati di Lais, che nel più tranquillo ripo
ſo provaron le ſtragi più ſanguinoſe , ſenz'aiu
[O ,
Per la Dom. quinta dopo l'Epifania. 197
to, ſenza difeſa, ſenza ſcampo, vittima convien
che cada di oſtil furore. Quindi è, uditori, che
ſpinto dall'odierno Vangelo, che ci fa inten
dere, che veglia il nimico ſu noſtri ſonni: Cum
dormirent homines, venit inimicus, vorrei pur
queſta ſera ſcuotere tanti Criſtiani, che addor
mentati non badano a ſuoi pericoli. Quella vi
ta sì amica dell'ozio, che da una gran parte
ſi mena, che altro ella è, giuſta la fraſe della
Scrittura, ſe non un ſonno, in cui placidamen
te ſi paſſano i giorni: Dormierunt ſomnum ſuum;
ſonno tanto più pien di pericolo, quanto più
ſembra ſaporoſo, e tranquillo! E ſe in queſto
il comun nimico li coglie, che morte, che du
ra morte, li aſpetta! cſſendo pur troppo facile
al pari, che giuſto, che quanto più godeſigio
conda per ozio la vita, tanto più proviſi inquie
ta per affanno la morte. Che però ſollecito del
loro bene per eſſer loro giovevole, mi voglio
render moleſto, e a deſtarli per ſempre dal ſon
no, in cui giacciono, voglio intimar loro, che
d'ordinario chi vive in ozio, muore in pecca
to: ed eccone tre ragioni, che tutti abbraccia
no li tre ſtati degli uomini, innocenti, pecca
tori, penitenti. Primo, chi ama l'ozio ſi rende
moralmente impoſſibile fuggir il peccato; ſarà
il primo punto, che deſtar dee chi ancor ſer
ba illibata nel ſuo candor l'innocenza. Secondo
chi ama l'ozio, ſi rende moralmente impoſſi
bile ſorgere dal peccato; ſarà il ſecondo pun
to, che dee ſcuotere chi reo ſi ſcorge di gra
ve colpa. Terzo, chi ama l'ozio, ſi rende mo
ralmente impoſſibile ſoddisfare per lo peccato;
ſarà il terzo punto, che ſvegliar dee chi rav
veduto brama placar l'irritata Giuſtizia. Inco
minciamo, N 3 Renº
I93 Diſcorſo XI.
- - -

UN Rende quaſi impoſſibile il fuggir il peccato. Fu


ºro I. ſempre appreſſo i Santi maſſima indubitabile,
che a ſerbare immune da macchia l'interno can
dore, foſſe meſtiere di dare non ſolamente ad
ogni occupazione il ſuo tempo, ma ancora ad
ogni tempo la ſua occupazione. Un momento l
diſoccupato era, al dir loro, un momento di
tutto riſchio. Maſſima sì ricevuta da que'abitato
ri ferventi delle Tebaidi, che ſebbene avvezzi a
vivere più con l'animo in Cielo, che in terra
col corpo, pure in quelle ore, nelle quali an
dava libera dalle contemplazioni la mente, ob
bligavano al lavoro le mani, non già perchè du
ra neceſſità li coſtrigneſſe a ſoſtentare con le fa
tiche la vita, come il notò S. Girolamo , ma
ſolo perchè la loro innocenza non ne patiſſe di
ſcapito, e ſi aſſicuraſſe con l'eſercizio del corpo
il ben dello ſpirito : Non propter corporis neceſs
ſitatem, ſed propter anim e ſalutem : E' vero, di
ceano, che anche chi s'occupa non va libero
da tentazioni, corre però tra chi ſi guarda dall'
ozio, e chi lo ama queſto divario: che il pri
mo è tentato da un Demonio ſolo, e queſto
ſteſſo co ſuoi aſſalti nulla più ottiene, di quel
che ottenga un nimico, che aſſale una piazza
da ogni parte ben chiuſa e ben cuſtodita, laddo
ve ad inveſtire un ozioſo vengono a ſquadra gli
aſſalitori, e vi vengono con quella proſperità di
ſucceſſo, che ſuol provare, chi nel dare un aſ
ſalto trova aperto il paſſo, ed aſſonnate le guar
Patru, die: Operantem Demon unus pulſat, otioſum in
º coll.
numeri. Così eſſi diceano, e lo diceano annunae
ſtrati non ſolamente dalla ſperienza, che ne dà
lezioni continove, ma dallo Spirito Santo me
deſimo, che con la penna infallibile dell' Eccle
- ſiaſtico
Per la Dom. quinta dopo l'Epifania. 199
ſiaſtico ci laſciò ſcritto, che ogni malizia ſi ap
prende alla ſcuola dell'ozio: Multam malitiamº
ducuit otioſitas.
E non in fatti così, miei uditori ? Quando è ,
che il Demonio più agevolmente s'inſinua con
le ſue ſuggeſtioni nel noſtro cuore, ſe non allora
quando ſcorge paſſarſi in una pigra tranquillità
ozioſe le ore! Allora è, che di lorde in magi
nazioni riempie la fantaſia, e fa che l'anima
le contempli a bell'agio: allora è , che nella men
te introduce a man ſalva i rei penſieri, e ottien
loro libero, e lungo il ſoggiorno: allora che ac
cende nel cuore le brame più impure, e ne pro
move l'incendio con le più ſordide compiacen
ze: allora che col veleno di malvagi conſenſi
infetta la volontà, e la infiacchiſce di modo,
che la meſchina ad ogni urto leggiero non va
cilla già ſolamente i ma ſtramazza e precipita:
Multam malitiam & c. Multam, sì, multam, ri
piglia quì Ugon Cardinale i perchè nell'ozio
guadagna il nimico ſempre nuovo terreno, e
vieppiù inoltrandoſi ſenza grande contraſto, ot
tien finalmente che dall'interno degli affetti ſi
paſſi all'eſterno delle opere : Diabolus otioſam ge
animam facile inclinat ad vanitatem cogita- di
tionum : de vanitate cogitationum ad volupta º
tem affetionum : & tandem ad conſenſum , ci ”
operationem. Sì, multam malitiam docuit otio
ſitas. Di quante intemperanze l'ozio è cagio
ne, di quante oſcenità, di quante mormora
zioni, di quanti giuochi, di quanti ſconcerti
nelle famiglie, di quanti diſordini nelle Città,
di quanti ſcompigli ne regni: Sodoma ſciagu
rata chi t'involſe nel ſozzo delle incontinenze
più infami chi? ſe non
- N 4
l'ozio: Oiium ipſius,"
Ce
2 OC) Diſcorſo XI.
ce lo atteſta Ezechiello, ci filiarum eſus. Iſrae
liti rubelli chi vi ſpinſe a ſacrileghe adorazio
1. Cor.
ni? chi è ſe non l' ozio: ſedit populus, ce ne
lo, fa fede l'Appoſtolo, manducare, 6 bibere, cº
ſurrexerunt ludere. Davidde infelice non ſei tu
quello, in cui come nel proprio cuore ſi com
piacea l'occhio di Dio? Tu quel ſanto, anche
tra i tumulti di guerra, tu quel manſueto, an
che tra le maladizioni del ſudditi, tu quell'in
nocente anche tra le grandezze di corte ! Ora
chi con doppia ſordidiſſima macchia ha lordato
il tuo nome, il tuo onore, la tua coſcienza ?
O dell'ozio ineſplicabil malizia ! David in bello
ſanctus, in otio adulter, c homicida: così ne
parla attonito S. Tommaſo di Villanova ; e ſe
nel Criſtianeſimo, regno una volta tutto dell'in
nocenza, ſcorre ora baldanzoſa l'iniquità, ſa
pete, miei dilettiſſimi, chi l'ha introdotta ? In
terrogatene S. Leone, e vi dirà, che infino a
tanto che il popol battezzato gemette perſegui
tato tra le fatiche, ed i travagli, e gli ſtenti,
mantenne illibato il candor de'coſtumi: ma che
quando il Demonio, che ne ſmaniava, mutò
maniera di combattere, e con la pace aprì tra
i fedeli la ſtrada all'ozio, allora gli riuſcì di
ſnervarli, di abbatterli, di ſottometterli: Cruen
tas inimicitias ad quietas convertit inſidias, ut
quos vincere fame, gelu, flammis, ferroque non
poterat, otio tabeſcerent. Eh no, cari uditori,
no, che mai non ferono buona lega vita ozio.
ſa, e vita innocente, e forza è, che la virtù
eſule ſi ritiri, quando domina l'ozio.
E quì, ecco uditori, la ragione per cui veg
gonſi cambiamenti si ſtrani di bene in male in
una gran parte del giovani. Quanti di queſti pa
- - I Ca Il Q
Per la Domen. quinta dopo l'Epifania. 2 or
reano un tempo Angioli di coſtumi: tanto mo
ſtravanſi riſpettoſi verſo i maggiori, frequenti
a ſagri Altari, modeſti ne' loro diſcorſi, fervo
ſi nella pietà, aſſidui a congregazioni divote.
Ora voi li vedete altieri col loro genitori mede
ſimi, irreverenti ne'Tempj, alieni da Sagramen
ti, diſſoluti ne' tratti, sboccati nelle parole; e
d'onde una cataſtrofe sì luttuoſa ? d'onde ? dall'
ozio, dilettiſſimi miei, dall'ozio. Diſimpiegati,
diſoccupati paſſano le loro giornate di viſita in
viſita, di ridotto in ridotto, un'ora ſulle piazze
in paſſeggi, un'altra ne circoli in mormorazio
ni: La ſera in converſazioni ſino a notte ben
innoltrata, la mattina in ſonno ſino a giorno
ben avanzato. E da una vita sì ozioſa, sì inuti
le, che altro dee aſpettarſi, ſe non una inon
dazione di vizi: giuochi, debiti, amoreggia
menti, diſſolutezze, e quel di più, e di peggio,
che non voglio dire: Eh, che a nulla ſervono,
o padri, o madri, le voſtre precauzioni, ſe non
è fra tutte la prima nei figliuoli, e nelle figliuole
impedir l'ozio. Noi intanto, uditori cari, per
quanto ci preme di aſſicurarci con la fuga del
peccato una ſanta morte, sforziamci di ben oc
cupare le noſtre ore; così ci eſorta Sant'Ago
ſtino, che chiama l'ozio ſonno mortifero; così
S. Bernardo, che lo chiama calamita delle ten
tazioni ; così S. Lorenzo Giuſtiniano, che lo
chiama padre del vizj: così S. Gioanni Clima
co, che lo chiama rovina dell'anime: Ma più
d'ogn'altro così ci eſorta queſto Gesù, che ci ha
laſciato l'eſempio di una vita ſempre operoſa:
e sì, che la ſua innocenza correr non potea mai
riſchio: Ora che ſarebbe, ſe mentre Criſto im
peccabile per cſſenza, vuole una vita ſempre oc
se cupata
2O2, Diſcorſo XI. - p
cupata, noi per natura inchinati al male, dar la
voleſſimo all'ozio, o tutto, o parte del noſtro è
tempo ?
Ah no, Gesù caro, non ſi vegga in noi que- a
ſta diſſomiglianza da' voſtri eſempi: Troppo diſ- ,
dicono a voſtri ſeguaci momenti ozioſi. Ecco :
però, che bramoſi di ricopiare in noi, più che i
poſſiamo, la voſtra innocenza, ſiamo riſoluti a
ad ogni coſto d'impiegar bene le noſtre ore, e
Voi aſſiſteteci con la voſtra grazia, affinchè il .
noſtro amor proprio non ci tradiſca, Ve ne pre- ,
ghiamo per le piaghe ſantiſſime del voſtri Piedi,
che umilmente adoriamo. Così otteremo , ama- ,
biliſſimo Redentore, che col voſtro aiuto sfug- ,
gendo l'ozio, fuggiremo ancora ciò, che ſopra i
ogni coſa abborriamo la voſtra offeſa,
= Rende quaſi impoſſibile il ſorgere dal peccato,
i. Siccome è neceſſario, che da una triſta cagione
” un triſto effetto ne ſegua, così è impoſſibile, che
un triſto effetto ſi tolga, infino a tanto che ron
ſi toglie la triſta cagione. Tanto baſtar dovreb
be, uditori, per perſuaderci, che ſorger non
può dal peccato, chi dall'ozio non ſi riſcuote.
Imperocchè eſſendo l'ozio la rea fonte, onde la
colpa deriva, come fia poſſibile, che queſta ceſ.
ſi , ſe quello dura! Ma io innoltrandomi anco
ra più, mi fo a conſiderare la proprietà del o
zioſo deſcrittoci ne' Proverbi ; e da queſte infe
riſco, che non può con l'ozio accoppiarſi emen
dazion di coſtume. L'ozioſo, al dir del Savio,
prov, egli e quel Pigro, che vuole e non vuole: Vult
º & non vult Piger; o come leggono altri più in
pu acconcio del mio argomento: In deſideriis eſt
eo, omnis otioſus. Egli altro non nutre nel cuore,
che deſideri. Vede ben cgli lo ſtato miſero, in
- Clll
Per la Domen. quinta dopo l'Epifania. 2o;
cui la ſua morbidezza lo mette; vcde l'orrido
delle colpe nelle quali lo avvolge : e vede an
cor, ſe voleſſe, il rimedio che por dovrebbe in
opera per uſcirne, ed egli che fa? nulla. ll pec
cato gli diſpiace, e non lo vorrebbe: il rime
dio gli piace, e io vorrebbe: Eppure nè a que
ſto ſi appiglia, nè da quello ritiraſi ; perchè mai
non viene, nè ſa venire ad una efficace riſolu
zione: In deſideriis eſt otioſus. Che ſe talvolta
ſembra, che ſi determini , e ſi laſcia uſcir di
bocca un voglio emendarmi, voglio ſorgere dal
le mie colpe, voglio darmi a Dio; ſempre ſi ri
mette ad un domani, che mai non giunge, e
i
con l'animo di fare nell'avvenire, nel preſente
non fa mai nulla: Vult & non vult ; in deſide
riis eſt omnis otioſus. Or dite voi, uditori miei,
ſe un animo, che di ſoli deſideri ſi paſce, ri
nunzierà mai egli ai ſuoi diſordini.
Tanto più, che queſta sì pernizioſa irreſolu
zione ha in una falſa apprenſione la ſua radice.
Sapete perchè, ſiegue a riflettere il Savio, ſa
pete perchè vuole l'ozioſo, e non vuole ? ſapete
perchè ſempre deſidera, e mai riſolve? perchè
nella via della virtù egli s'immagina dificoltà, Prov,
che non ſono: Dicit Piger: leo eſt in via, ci 26.
le ena in itineribus. A coteſte anime vaghe non
d'altro, che di divertimento, e di ripoſo fatevi
loro ad eſporre, che a riparar gli ſconcerti della
molle lor vita, egli è duopo venire al taglio di
certe corriſpondenze; e che intimar debbono ai
loro ſenſi guerra implacabile, e che applicare
debbonſi ſenza indugio all'eſercizio ſollecito
d'opere ſalutari: O Dio ! come ſoſpirano, co
me contorconſi; e cercando preteſti per moſtra
re una impoſſibilità, che non v'è, risorto" O

a
204 Diſcorſo XI,
al non uſo, ch'eſſe vi hanno ; o all'uſo del
Mondo, che perſuade il contrario, o alle forze
ſue proprie, che ſono deboli, o alle altrui di
cerie, che ſarebbono molte: Ma in realtà la ra
gione ſi è, che troppo amiche dell'ozio ſpac
ciano per impoſſibile quanto può loro eſſer mo
leſto. Peggio ſe poi ad eſtirpare con larea pianta la
ſua radice, voglio dire col peccato anche l'ozio,
che lo cagiona, vi fate loro a proporre un regola
mento ſtabile di giornata; ſicchè prefiggaſi alle
divozioni il ſuo tempo, il ſuo agli affari, alla
famiglia il ſuo, e il ſuo a un moderato diver
timento; e ciò con tale coſtanza, che nè per
leggerezza ſe ne alteri l'ordine, nè ſe ne tra
ſcuri per noia la pratica: O quì sì, che per po º
co non danno in iſmanie, quaſi pretendaſi d'in
trodurre in caſe di ſecolo regolamenti da chio
ſtro: ond'è, che francamente ſcuſandoſi con un
non ſi può, piuttoſto che muover guerra con
tro dell'ozio, laſciano in pace il peccato.
Ed intanto che ne ſiegue, miei dilettiſſimi,
che ne ſiegue! Ne ſiegue, ( o paſſaggio troppo
funeſto) ne ſiegue, che da una impotenza im
maginaria ſi paſſa ad un'altra impotenza poco
meno che neceſſaria: imperocchè fomentando
l'ozio le colpe, vienſi a formare nelle colpe me
deſime l'abito reo, e con l'abito reo una quaſi
neceſſità dipeccare, e con la neceſſità di peccare
l'impoſſibiltà di riſorgere: Conſuetudo, così l'oſ
ſervò S. Bernardo, parit quaſi agendi neceſſita
tem, neceſſitas impoſſibilitatem. Ed ora intende
rete, perchè il Savio, continuando a parlar del
l'ozioſo, lo chiama tre volte ſtolto: Qui ſeifa
tur otium ſtultiſſimus eſt, perchè giuſta la rifleſſio
ne d'Ugone, la ſua prima pazzia ſi è o" il
CI!C 2
Per la Dom. quinta dopo l'Epifania. 2e5
bene, con cui teſſer dovrebbe la ſua corona; la
ſeconda arrenderſi al male, che mirar ſempre do
vrebbe con orror ſommo; la terza, che di tutte
è la più lagrimevole, gettar radice nel mal me
deſimo con farlo paſſar in coſtume, e renderſi
con ciò impoſſibile il migliorare di ſtato. Pri
musgradusſtultitia eſt bonum non facere, ſecun
dus malum facere, tertius malo aſſueſcere. A tan
to, miei uditori, e può, e ſuole condurre l'a-
more di quella vita, che a tanti, che a tante pia
ce la vita ozioſa. - - -

E ſe è così, ben ha ragione il Savio di alzar la


voce, e gridare: Uſauequo piger dormies ? e ſino
a quando, anime pigre, la durerete nel voſtro
ſonno è quando vi ſcuoterete dal fatale voſtro ri
poſo ? Quando conſurges a ſomno tuo º Deh pec
catori aſſonnati intendetela una volta, che la vir
tù ſmarrita non ſi ricupera ſenza travaglio, e che
paſſar non ſi può dalla tiepidezza al fervore, e
dal peccato alla grazia, ſenza che nulla ne coſti.
Ed ove non ſi rinunzi con ſanta generoſità all'amo
re dei comodi, ah infelici, porterete ſino alla
morte il deſiderio di ſorgere ſenza ſorgere mai:
finirete i dì voſtri in quelle colpe medeſime, nel
le quali vivete, e correrete la ſorte appunto de
gl'ozioſi, di morire in una eſtrema miſeria: sì,
quattro giorni di vita comoda paſſeranno ben pre
ſto: ma poi veniet quaſi viator egeſtas, d pau
peries quaſi virarmatus. Negli eſtremi momenti
ſenza meriti, ſenza grazia, ſenza gloria, vi tro
verete ſorpreſi da una eterna irreparabile povertà.
Che ſe un termine così luttuoſo vi ſpiace, perchè
vi piace la via, che vi ci guida? perchè non ab
borrite quell' ozio, che v'impediſce di cambiar
vita: Uſauequo piger dormies, quando “i 4
ommo ?
2O6 Diſcorſo XI.
ſomno? quando º quando ? E a queſte voci, miei
dilettiſſimi, niuno ſi deſta? Non colui, che a ca
gion del ſuo morbido genio non ſa combattere
la paſſione, che lo predomina, non colei, che ni
mica d'ogni menomo incommodo non vuol farſi i
un po di violenza per darſi a Dio. Non quel gio
vane, non quella giovane, che ſan per prova
quanto per l'ozioſa lor vita ne vada diſſipato lo
ſpirito, e guaſto il cuore!
Sebbene, ah che tra noi non vi ha, Gesù caro,
chi alle voci non deſtiſi. Io tra gli altri da voi og -
gi riſcoſſo, ſorger voglio da quel ſonno, in cui
ho finora paſſati sì miſeramente i miei giorni
So, che voi già più volte con le voſtre iſpirazio i
ni adoperato vi ſiete per iſcuotere la mia pigrizia, i
e io ſempre irreſoluto non ho ſaputo mai indurmi i
a metter mano come doveva alla grand'opera
della mia ſalute. Ma no, più non voglio vivere
ſchiavo d'un ozio sì pernizioſo. Troppo è giuſto
che io cominci una volta a rompere sì obbrobrio
ſe catene, e comincio in queſt'ora, ci dixi munc -

capi. No, che più non voglio per troppo amor º


di me ſteſſo mancare all'amore che debbo a voi.
Abbomino la tiepidezza paſſata, e mediante l'a-
juto voſtro, che imploro per quelle piaghe ſan
tiſſime, che adoro nelle voſtre mani, vi promet- .
to di riparare a qualunque coſto, e riparar ſubito
i miei paſſati diſordini. º
ma Rende quaſi impoſſibile il ſoddisfare per lo pec- i
re cato. Non vi deſte già, uditori, a credere, che a
il ſolo Adamo fia ſtato in dovere di ſcontare con la
fatica, e col ſudore il peccato: no, non vel de
ſte già, uditori, a credere. Quella ſentenza in
ºſ laboribus comedes, in ſudore vultus tui veſteri, i
pane, pronunciata contro di lui dall'offeſa divi
- ſºlta ,
Per la Dom. quinta dopo l'Epifania. 2o7
nità, comprende col padre anche i figliuoli, e
condanna queſti ugualmente che quello, a pla
care con una vita penoſa l'irritata giuſtizia. Ed è
chiariſſima la ragione: imperocchè eſſendo quel
la una pena fulminata contro il peccato, ſe que
ſto ſi trova ne' figliuoli come nel padre, dee al
tresì ne figliuoli come nel padre aver luogo la
pena, e queſti non meno che quello dar debbono
a Dio l'intimata ſoddisfazione in laboribus in ſu
dore. Ne quì occorre, che ſi pretenda immunità,
o per debolezza di ſeſſo, o per diſtinzione di gra
do, o per eccellenza di ordine. No, ripiglia a
nome di Dio l'Eccleſiaſtico, la ſentenza si ſtende
a tutti: Occupatio magna creata eſt omnibus homi. Eee.4os
nibus, ci fugum grave ſuperfilios Ada. Ognuno
ha da paſcere con la fatica i ſuoi giorni: porti
egli corona in capo, o ceppi al piede: ſia allievo
di corte, o di capanna: poſſieda teſori, o gema
in povertà, non rilieva: Occupatio magna omni
bus: ſenza che ne vada eccettuato il facoltoſo
più che il mendico, il grande più che il piccolo,
il padrone più che il ſervo, il Principe più che il
ſuddito: Omnibus, a reſidente ſuper ſedem glo
rioſam uſque ad humiliatum in terra, 6 cinere.
Ciò ſuppoſto, diſcorriamola un poco, cari udi
tori. Se l'occuparſi, il lavorare, l'affaticarſi,
egli è per oracolo di fede una ſoddisfazione, che
la divina giuſtizia da noi eſige in iſconto dei no
ſtri falli; pare a voi, che una vita ozioſa e molle
adempia un dovere sì neceſſario! Pare a voi,ch'el
la conformiſi al divino univerſale decreto! Pare
a voi, ch'ella plachi, o placar mai poſſa un Dio
ſdegnato ! Direſte voi mai, che chi altro non iſtu
dia, che divertirſi, che chi non penſa, che a paſ.
farin allegria il ſuo tempo; che chi unicamente
- attende
2o8 Diſcorſo XI.
attende a godere degli agi, che formati gli vengo
no dal facoltoſo ſuo ſtato, ſubiſca qual reo la
pena portata da legge sì rigoroſa ? Bella ſoddisfa
zione per verità, che dà a Dio per le ſue colpe
quel uom di Mondo, la cui grande occupazione
ſi è udire, e raccontar le novelle, che corrono;
promovere, e frequentare partite di giuoco, di
ſpaſſi; criticare le altrui azioni, motteggiar co
vicini, e mormorar de lontani: e' egli queſto
uno ſtemprare, come Dio intima, ne' ſuoi ſu
dori la vita: In ſudore vultus tui veſceris pane ?
E' quella donna il cui maggior impiego ſi è ſpen
dere le ore della mattina in abbigliarſi; le ore del
dopo pranzo in far viſite, ed in ricevernes le
ore della ſera in converſazioni, ed in veglie: quel
la che ſi fa un pregio d'eſſere tra le prime a ſapere,e o,
a praticare le nuove mode: quella che ſe talvolta
o ſcrive, o legge, legge profanità, e ſcrive amo
ri; placa ella con una tal vita l'ira di un Dio? Av
veraſi di effa la terribil ſentenza in laboribus come
des ? Ah, miei dilettiſſimi, e chi non vede, che
un vivere sì diſſipato, sì ozioſo, punto non ſi
confà col carattere, che portiamo di Criſtiani ! E
tanto non daſſi a Dio la ſoddisfazione che preten
de, che anzi può dirſi, che con nuova ribellione
ſi oltraggi; perchè ſe col ſeguire i dettami del
I'appetito, ſi è traſgredita la legge, col vivere in
ozio ſi rifiuta la pena intimata a traſgreſſori; on
de ſe con la prima diſubbidienza ſi violò il divieto
d'un Dio ſovrano, con la ſeconda ſi diſprezza il
comando d'un Dio giudice.
Ma padre, dirà taluno, io ſon ricco, perchè
ho io a ſtruggermi con la fatica, ſe poſſo con
iſtipendiare le fatiche altrui mantenermi in ripoſo?
E io, dice tal altro, ſon nobile, ho io da sfre
- - glat
Per la Dom. quinta dopo l'Epifania. 2os
giar col lavoro lo ſplendor del mio ſtato? Voi
dunque perchè ſiete ricco, perchè ſiete nobile,
credete, che vi ſia lecito vivere in ozio, v'ingan
nate pure a partito. Siete ricco, ſiete nobile, ma
potete voi negarmi d'eſſere altresì peccatore? E
perchè dunque pretendete ſcuoter quel giogo,
che queſta rea qualità indiſpenſabilmente vi ad
doſſà ? Ma poi ditemi per vita voſtra : mancano
ad ogni ſtato le occupazioni ſue proprie, e occu
pazioni tali, che nè dal ricco ſcanſar ſi poſſano,
nè rifiutare dal nobile ? Siete voi padre, o madre
di famiglia? quai momenti reſtar vi poſſono da
perdere ozioſi, ſe adempir volete i voſtri doveri
nella educazione dei figliuoli; nella economia
delle ſpeſe; nel vegliar ſui domeſtici; nel prova
vedere alla caſa, nell'accudire agli affari? Vi
trovate voi o da fortuna, o da merito ſollevato a
poſto onorevole? Se mancar non volete alle ob
bligazioni del voſtro impiego, quante ſollecitu
dini vi convien prendere; quanto dovete uſar at
tenzione nel ſervizio del pubblico, e nel governo
di voi medeſimo; quanto di tempo forza è, che
impieghiate nell'iſtruirvi degli affari, quanto nel
maneggiarli? E più che il poſto è riguardevole,
più ch'è ſublime la dignità, più ancora di peſo vi
accolla, più d'occupazioni, più di fatica. Siete
voi deſtinato al miniſterio eccelſo del ſagri Alta
ri? O Dio, come mai può ſcorrervi ozioſa una
particella di tempo! L'amminiſtrazione de Sa
gramenti, la predicazione dell'Evangelio, la ce
lebrazione del divini Miſteri, la direzione delle
coſcienze, quanto da voi eſige di ſtudio, quan
to di orazione; e ove da voi ſi perdeſſero le ore in
ciarle, in giuochi, in divertimenti, quanto di
ſcapito ne verrebbe al ſervizio di Dio, alla ſalute
Tomo IV. Anno IV. O dell'
? Io Diſcorſo XI.
dell'anime, e alla voſtra coſcienza. Scorrete in
ſomma, uditori miei, ogni grado, ogni ſtato,
ogni condizion di perſone, troverete che la Prov
videnza divina ha diſpoſte le coſe in modo, che
abbia ognuno in che ſeriamente occuparſi; e oc
cupandoſi poſſa, qual peccatore ch'egli è, ſubir
la pena intimata in Adamo a tutti i poſteri, e
quindi renderſi con la ſoddisfazione dovuta pro
pizio quel Dio, contro cui ſe l'è preſa: e però
chi non lo fa non ha ſcuſa, ed è tutta ſua colpa,
ſe con l'ozio ſi rende impoſſente il neceſſario ſcon
to delle ſue colpe. Ma quanto, e quanto avrà il
miſero a pentirſene in punto di morte! Non ſarà
certamente piccol rammarico il trovarſi in quel
l'eſtremo con le mani talmente vuote, che nulla
vegga o fatto, o ſofferto in ſoddisfazione de ſuoi
prrs e peccati: Dormierunt ſomnum ſuum, & nihil in
venerunt in manibus ſuis. Troverà divertimenti,
ma i divertimenti non ſono penitenza ; troverà
giuochi, ma i giuochi non ſono penitenza; tro
verà veglie, balli, feſtini, teatri, ma tutto que
ſto non è penitenza; non è ſconto di colpe, non
è vita paſſata in laboribus in ſudore: opere di pe.
nitenza, che ſon le ſole, che in quel gran punto
conſolano, non troveranne: Nihil invenerunt
in manibus ſuis. Che afflizione che crepacuore !
Dormierunt ſomnum ſuum viri di vitiarum, o ni
hil invenerunt in manibus ſuis. Ma queſto è il
meno: che comparſa farà egli mai al tribunale
divino! Se per proteſta di Criſto medeſimo
(udite anime ozioſe, anime diſſipate, udite, e
tremate) di una ſola ſola parola ozioſa avraſſi a
- - - v

rendere conto ſtrettiſſimo, che ſarà di chi avrà


paſſate ozioſe le giornate, ozioſi gli anni, ozio-,
ſa preſſo che tutta la vita! Sappiam pure che quel
- ſerVO
Per la Dom, quinta dopo l'Epifania. 211
fervo infingardo, che laſciò ozioſo il talento,
non ſolamente ne andò con rimprovero, ma fu
condannato ad iſcontare in prigion tenebroſa la
ſua pigrizia; e che altro ſe non rimbrotti amari,
e carcere ſpaventoſa dee aſpettarſi da un Dio
giudice un peccatore ozioſo. Ed è ben giuſta la
pena, miei dilettiſſimi. Il peccato non può, non
dee andar impunito: o ſi ha da ſcontare quaſsù
coi travagli, e con le fatiche anneſſe allo ſtato di
ciaſcheduno, o ſi ha da ſcontare laggiù con le
tenebre, e coi tormenti deſtinati agli empi:
quaſsù con placare lo ſdegno divino, o laggiù
con provarlo. Chi è vago di aſpettare laggiù a
ſcontare le colpe, ami pur l'ozio, lo ami pure.
. Ma io, o mio Gesù, no, che mai non l'ame
rò. Sono pronto a penare, a faticare in queſta
vita, perchè bramo di ſoddisfare in queſta vita
per le mie colpe. Mi ſottometto pertanto di buon
grado al giuſto voſtro decreto, con cui volete
ogni peccatore in travaglio: e purchè rieſcami
di placare l'irritata voſtra giuſtizia, nulla rifiuto
di quanto porger mi può di penoſo il mio ſtato.
A tal fine vi ſupplico, Gesù mio caro, per quel
la Piaga, che adoro nel ſagroſanto voſtro coſta
to, a darmi grazia, che io trattandomi ſempre
da quel peccatore, che ſono, altro ripoſo non
cerchi mai, ſe non quello, che ad ogni cuor pe.
nitente preparato avete nel voſtro Regno.

º ge
se 8 ºsse
O2 DI
2 I2

Seº" º "A 3 - 3”4 gºal,


“:
º i
, º 3 -, ,
: ,
::: :
ºa
2 º 3
D I S C O R S O X I I.
PER LA DOMENICA SE STA D OPG
L'EPIFANIA.
Correndo la feſta della Purificazione della Santiſſima
Vergine, o ſia della Candelaja,
Tre occhiate del Peccator moribondo,
– -

Lumen ad revelationem. Luc. 2.

S, sº E in ogni ſuo rito ci propone la Santa


4 S ; Chieſa un miſterio, e in ogni ſuo mi
- ſterio un'iſtruzione, chi di voi non
ºS renderammi ragione, uditori, ſe io
queſta ſera fo argomento di Buona
e
Mort quella candela, che profumata da ingenſi, S.
e ſantificata da preci vi è ſtata queſta mane rimeſ
ſa. Serve ella di ſimbolo in due giorni, che tutti
e due ſi shiamano giorni d'incontro, giorno d'in
contro ſi è quello d'oggi, così chiamato Stipa
pante da Greci: perchè in queſto dì un uomo,
e d'una donna, Simeone, ed Anna ſi ferono in
contro a un Dio Bambino, e ſimboleggiaſi nella
candela quella luce, che con la venuta del Re
dentore ſgombrò dal Mondo le tenebre: Lumen
ad revelationem. Giorno d'incontro ſi è quello
altresì
Per la Dom.ſeſta dopo l'Epifania. 21;
altresì della morte, in cui ogni uomo, ed ogni
donna vanno incontro a un Dio Giudice, e ſim
boleggiaſi nella candela quella luce, che nel de
porſi della ſpoglia mortale, ſcopre del fallace
Mondo gl'inganni: Lumen ad revelationem. Il
primo può dirſi incontro del mattino, perchè
fatto nel naſcere del divin Sole: il ſecondo può
dirſi incontro della ſera, perchè da farſi nel decli
mare del noſtri giorni; e però la luce, che folgo
reggia nel primo incontro ha queſto di proprio,
che illumina chiunque entra nel Mondo: Illumi
mat omnem hominem venientem in hunc Mundum.
La luce, che riſplende nel ſecondo illumina chiun
que eſce dal Mondo. Tutte due queſte luci, ſim
boleggiate nell'odierna candela, mettono in chia
ro lo ſteſsoggetto: ma con queſto divario, che
la prima il fa conoſcere a chi per natìa cecità nol
vedea; la ſeconda lo fa conoſcere a chi per cecità
volontaria non l'ha voluto vedere. Or egli è do
vere, che in queſto giorno non vadano ſenza
qualche rifleſſo queſte due luci, e ſe la prima ha
occupata queſta mattina la voſtra pietà, occupi
la ſeconda queſta ſera la voſtr'attenzione, men
tre io mi foad eſporvi ciò, che allo ſplendore di
queſta ſeconda luce in punto di morte ſi vedrà da
chi, paſſando in profondo ſonno i ſuoi giorni,
ha chiuſi gli occhi alla prima: Cum dormierit
(lo accenna Giobbe) aperiet oculos ſuos. E che
vedrà? Tre occhiate darà riſchiarato da queſta lu
ce il peccator moribondo, e in primo luogo ve
drà la vanità di quel Mondo, che tanto amò,
prima occhiata, che darà l'argomento al primo
punto. In ſecondo luogo vedrà la povertà di quel
l'anima, che tanto traſcurò, ſeconda occhiata,
che darà l'argomento al ſecondo punto. Vedrà
O 3 1ſì
214 IDiſcorſo XII.
in terzo luogo la gravezza di quel peccati, che
tanto moltiplicò, terza occhiata, che darà l'ar
gomento al terzo punto. La prima è un'occhia
ta, che accora, la ſeconda è un'occhiata, che con
fonde, la terza è un'occhiata, che ſpaventa. O
luce terribile! O ſpaventevole viſta! Lumen ad
revelationem. Cum dormierit, aperiet oculos. Co
minciamo.
Vedrà la vanità di quel Mondo, che tanto amò.
Puri- Vi ſembrerà forſe ſtrano, che io vi proponga
qual giorno di luce quel della morte, che dal
Profeta Sofonia vien chiamato giorno di tenebre:
“Dies caliginis & tenebrarum. Ma ceſſerà lo ſtu
pore ſe diſtinguerete con S. Gregorio le due parti,
che ci compongono, anima, e corpo. Agli oc
chi di queſto, è veriſſimo, ſarà giorno di tene
bre: ma agli occhi di quella ſarà giorno di luce,
perchè quando il corpo in vicinanza di morte
comincia a prender quel ſonno, che più non ſi
ſcuote, l'anima ſtata fino a quel tempo aſſopita
tra le vanità del Mondo, ſi ſveglia, ed apre gli oc
chi: Cum corpus obdormiſcit in morte, tunc anima
e vigilat in vera cognitione. E però ſarà giorno
di tenebre agli occhi del corpo, perchè più non
vedranno quel Mondo, che ne ha per tempo sì
lungo incantati gli ſguardi : ma per gli occhi
dell'anima ſarà giorno di luce, perchè ſcorgerà
chiaramente la vanità di quel Mondo medeſimo,
appreſſo cui ſi è perduta.
Ed oh ſapeſſi, cari uditori miei, mettervi que
ſta ſera ſotto agli occhi la miſerabil comparſa,
che il Mondo farà agli occhi interni d'un pecca
tore, che ſta morendo: ma ciò, ch'io non ſo,
non abbiate a diſcaro, che il facciano que mede
ſimi, che per teſtimonianza divina ne fo" alla
Per la Dom. ſeſta dopo l'Epifania. 213
alla prova: fu dunque parlino eſſi, giacchè fede
divina, e la loro ſperienza ci porgono doppio
motivo di aſcoltare, e di credere: Tranſierunt
omnia: ecco l'eſordio loro, regiſtrato al capo
quinto della Sapienza: Tranſierunt omnia, do
loroſo eſordio. Tutto è paſſato. Facoltà è ric
chezze, divertimenti e piaceri, dignità e titoli,
Signorie e preminenze, tutto è paſſato: Tranſie
runt omnia. Queſto è il primo ſoſpiro, che ſpre
me dal cuor di chi muore la viſta del Mondo.
Andiam oltre, e udiamo qual ſia il concetto, che
formano di que beni, che han luſingati i loro ſen
ſi, e nodrita la loro ſuperbia: Tranſierunt velut
umbra: qual ombra fuggiaſca, che di non altro
fa pompa, che d'apparenze, 6 tamquam navis
que pertranſit fluctuantem aquam, cujus, cum
praterierit, non eſt veſtigium invenire. Qual na
ve portata ſulle ali de venti, che non imprime
ſulle onde che ſolca veſtigio alcuno di sè: Tan
quam avis que tranſvolat in aere, cujus nullum
invenitur argumentum itineris: qual uccello di
volo precipitoſo, che un menomo ſegno non
laſcia nell'aria che fende: Aut tanquam ſagitta
emiſſa in locum deſignatum: qual dardo di velo
ciſſimo moto, del cui paſſaggio non rimane ve.
run indizio: tali a noſtri occhi ſi ſon ſottrati quel
beni, che godevamo: tutto è ſcomparſo: tutto è
ſvanito: e quel ch'è peggio, noi ancora (ecco
la lor conchiuſione) noi ancora in braccio della
noſtra malignità col Mondo, che ci manca,
manchiamo: In malignitate autem noſtra con
ſumpti ſumus. Udiſte, dilettiſſimi, come del
Mondo parlano in punto di morte gli amatori
ſteſſi del Mondo? Udiſte come ne ravviſano la
vanità? Come convinti ſon del ſuo nulla? Udiſte
O 4 COIMAC
216 Diſcorſo XII.
come in quel momento ſi parla da chi parla per
iſperienza? -

Permettetemi ora, ch'io la diſcorra così. Se chi


apre in morte gli occhi, ſi avvede che il Mondo
non è, che un'ombra che inganna, un corſo che
paſſa, un volo che fugge, forza è dunque dire,
che dorma, e ſogni chiunque in vita apprende
nel Mondo un gran che: che dorma e ſogni
chiunque s'affanna dietro agli onori, alle com
parſe, alle pompe: che dorma e ſogni chiunque
figuraſi nelle grandezze di queſta terra ſtabilità,
felicità nelle ricchezze, contentezza ne piaceri;
in quella guiſa appunto, che dormiva Nabucco,
e ſognava, quando gli parea bello, gli parea
ricco, gli parea maeſtoſo il ſuo Coloſſo. Ed è
così, cari uditori, al lume ſolo della morte ſi co
noſce ciò, che in verità egli è il Mondo. Ora
perchè ſi brilla, perchè ſi gode, perchè ſi sfog
gia, perchè grandeggiaſi, ſembra il Mondo coſa
sì grande, che tutta per lui è la ſtima, tutto per
lui l'affetto; ma allo ſvanire che fa in punto di
morte quanto ſi vagheggia di bello, quanto ſi
gode di dolce, quanto ſi ammira di grande, al
lora è,che ſi ſcorge, che tutto ciò, di che il Mon
do fa pompa, altro non è, che apparenza vaniſ
ſima. Avviene appunto ad un mondano quel me
deſimo, che a chi ſi trova in certi palagi ſcorti
all'improvviſo per incanteſimo: al primo entrar
vi, che bella viſta ! Sale ſuperbe, ſontuoſi araz
zi, vaghe pitture, delizioſi giardini: tutto ſplen
de d'oro, tutto brilla di luce, tutto ſpira gran
dezza, amenità, magnificenza: ma che è ad un S
ſubito ſcioglierſi dell'incanteſimo tutto ſparendo,
chi pocanzi credea di albergare nella caſa della
felicità, non ſenza ſpavento ſi trova o tra ".
IC
l
Per la Dom. ſeſta dopo l'Epifania. 217
bre di nera ſpelonca, o tra gli orrori di ſolitario
deſerto, e a ſuo gran coſto ſi avvede, che ciò,
che poc'anzi ammirava, non era poi altro, che
inganno dell'occhio, e illuſione del cuore. Tale,
uditori, è la ſorte, che toccherà un dì al cieco
amatore del Mondo: goda pur ora dell'idolatra
to ſuo Mondo, e del luſinghiero ſuo inganno
compiacciaſi quanto vuole, ma un dì verrà, in
cui al lampo ferale di ſubita luce ſvanirà l'incan
teſimo, in cui paſsò illuſo i ſuoi giorni, e a gui
ſa di chi iricco, e ſvegliaſi povero, ſparir
vedrà que fantaſmi, che ora sì lo luſingano: Ve-º”
lut ſomnium ſurgentium imaginem ipſorum ad ni
hilum rediges. Così di coſtoro, che tutti hanno
nel Mondo gli affetti, parla il Salmiſta; ed oſ.
) ſervatene ſe vi aggrada l'energia dell'eſpreſſione.
Non dice: Mundum ipſorum ad nihilum rediges,
dice, imaginem ipſorum, per dimotarci, che tut
to quel grande, tutto quel dolce, che ſi figuran
coſtoro nel Mondo, non è che una fantaſtica lo
ro immaginazione, e che in punto di morte ſi
dilegueranno qual ſogno coteſte idee chimeriche
di bugiarde felicità: Velut ſomnium ſurgentium
imaginem ipſorum ad nihilum rediges.
E s'è così, non fia meglio, cari uditori, lo
ſcuoterſi da queſto ſonno prima, che giunga la
luce fatale del giorno eſtremo. E'egli forſe dif.
ficile a chi ben conſidera il Mondo, lo ſcorger
ne adeſſo la vanità, la malizia, l'inganno! Fac
cia pur queſto quanto ſa, e quanto vuole, l'ac
corto; non ſi maſchererà però mai in maniera,
che chi con occhio attento lo mira, non lo rav
viſi per quell'ingannatore, per quel maligno,
ch'egli è. Quante volte in fatti al vedere il neº
rito ſopraffatto, oppreſſa l'innocenza, mano
meſſa
2 18 Diſcorſo XII.
meſſa la virtù, ci eſce di bocca eſclamazione
improvviſa. O che Mondo! o che Mondo! Ma
poſcia quaſi ravveduti di non voluto diſpetto,
ſoffochiamo nel ſuo naſcere quell'odio ſanto,
che già ſpuntava nel cuore, e più non attribuen
do agl'inganni del Mondo le luttuoſe cataſtrofi,
che ſi veggono, per fare il Mondo innocente,
facciam colpevoli i diſgraziati. Era colei l'idolo
di mille cuori, più non ha chi la miri: era co
lui ammirato come un oracolo, e più non ha
chi l'aſcolti : ſarebbe ora contento di mediocre
fortuna, chi sfoggiava poc'anzi alla grande 5
appena trova chi lo ſaluti per corteſia, chi già
eſigeva per debito gli oſſequi, e gl'inchini: O
Mondo, dovrebbe dirſi, quanto ſei traditore,
“quanto inſtabile, quanto manchevole ! Eppure
per non eſſere in obbligo, conoſciutane la sleal
tà, di dargli le ſpalle, tutta ſi vuole la colpa di
chi sfortunato precipita, non di chi maligno gli
dà la ſpinta, e dove per fralezza della baſe ro
vina sfracellata la ſtatua, ſi fa rea della caduta
la ſtatua medeſima, e non la baſe.
Miſeri, che ſiamo, e a che ci ſerve il fare i
ciechi, e chiudere a bella poſta gli occhi ai no
ſtri inganni ! Chi non vuole in vita conoſcere il
Mondo, lo conoſcerà, voglia, o non voglia,
in punto di morte: dove già immaginandoſi di
vederlo il Veſcovo S. Cirillo: mira, gli dice,
mira a queſto lume, che ſia divenuto di quel
Mondo, ch'è ſtato finora l'idolo tuo sì amato:
Ubi hujus mundi jattanti e, ubi inanis gloria?
Dove ſono le comparſe º dove il faſto ? dove le
amicizie º dove i corteggi? Ubi delici e º ubi vo
luptas ? ubi ornatus ? Dove que teatri, e quelle
ſale, nelle quali paſſaſti sì allegre le ſere? dove
que'
Per la Dom.ſeſta dopo l'Epifania. 219
i ciue piaceri, che tracannaſti a piene tazze? dove
i dove quelle veſti pompoſe, lavorate al genio
- non ſo ſe più dell'immodeſtia, o del luſſo ?
Ubi pecunia, ubi mobilitas? Dove quelle ricchez
ze cuſtodite dall'avarizia ? dove que titoli, que
gli onori, que poſti ſtati già il paſcolo della tua
ambizione ? Mira pur d'ogni intorno : dove ſo
no; Ah dove ſono? non vi ſon più : Velut ſo
mnium ſurgentium, tutto è ſcomparſo, tutto è
ſvanito: Aperiet oculos ſuos & nihil inveniet.
Ora ſe ciò è vero, miei dilettiſſimi, com'è
veriſſimo, e niun di noi, ſe ha ragione, ſe ha
fede, può dubitarne, perchè non entriamo una
volta in noi ſteſſi per penſar ſeriamente a veri
noſtri vantaggi? Se ha da venire coteſto giorno,
in cui giuſta l'eſpreſſion dell'Eccleſiaſte: Vani Eccl.it
tatis arguentur preterita, giorno, in cui ſi co
noſcerà il Mondo per quel, ch'egli è, e ſi ſcor
gerà chiaramente la ſua vanità, la ſua incoſtan
za, la ſua leggerezza, il ſuo nulla; il nulla di
quegli amori, che sì vi acciecano, o giovane:
il nulla di quel corteggi, che sì vi adulano, o
donna, il nulla di quella gloria, che sì v'in
canta, o mondano, sì, ſe queſto giorno ha da
venire, perchè non facciamo adeſſo materia di
merito ciò, che allora ſarà argomento di pian
to ? Perchè non riconoſciamo adeſſo l'inganno
noſtro ? perchè da queſto Mondo non ne di
ſtacchiamo adeſſo gli affetti è poſſibile, che me
glio amiamo di aprir gli occhi a noſtra con
fuſione in punto di morte, che aprirli adeſſo a
noſtro vantaggio è poſſibile? -

Ah Gesù caro, non permettete, che aſpettia


mo a veder in morte ciò, che dobbiamo ve
dere in vita. Illuminate adeſſo l'anima "
C tatC
p
- 2 2C) - Diſcorſo XII,
e fate ch'ella conoſca la vanità, ed il nulla di
queſto miſero Mondo: Deh ſpiccate un raggio
di luce da quelle piaghe ſantiſſime, che ne vo
ſtri piedi adoriamo; luce che riſchiari la noſtra i
mente: ſicchè ſcorga le ingannevoli apparenze
del ſecolo ; luce che purghi il noſtro cuore: ſic
chè diſtacchi gli affetti ſuoi da queſti beni va
niſſimi; luche che infiammi la noſtra volontà:
ſicchè arda di un odio ſanto verſo del Mondo,
nee d' un amore ſincero verſo di voi,
Fus. Vedrà la povertà di quell'anima, che tanto
iro II. traſcurò. Tra gli affanni più crudi, che accorra
rono quegl'inſenſati, deſcrittici dallo Spirito
Santo, uno fu il vedere, che in tutto il corſo
del viver loro dato non avevano pur un paſſo
nella via della virtù: Virtutis quidem nullum ſi.
serº gnum valuimus oſtendere. O che crepacuore, u
ditori , è mai queſto a chi ſi trova al fine del
ſuoi giorni! Eppure tanto è: al lume dell' ora
ultima, darà il peccator un'occhiata alla traſcor
ſa ſua vità, e con rammarico ineſplicabile ſcor
gerà gli anni ſuoi poveri, ſterili, vuoti affatto
d'opere ſante, e di virtù non vedrà pur un ſe º
gno: Virtutis quidem nullum ſignum. Vedrà gli
anni più verdi perduti negli amori, ne' diverti
menti, ne' giuochi, nelle intemperanze; e di vir
tù, nullum ſignum. Vedrà gli anni più maturi u
nicamente impiegati in raccogliere roba, in pro
cacciarſi onori, in acquiſtarſi gloria, in pompe,
in intereſſi, in affari di Mondo; e di virtù, nul
lum ſignum- Vedrà gli anni canuti marciti nell'
ozio, fmunti dall'avarizia, e lordi forſe di an s
tichi vizi; e di virtù, nullum ſignum. Se gli pre
ſenteranno in viſta le Chieſe, e non vedravvi
riſpetto: i Sagramenti, e non vedravvi frequen
Zd è
Per la Dom, ſeſta dopo l'Epifania. 121
za: eſempi ſanti, e non vi vedrà imitazione.
Gli verran ſotto all'occhio le Prediche, che a
ſcoltò, ma ſenza frutto: le preghiere, che rc
citò, ma ſenz'attenzione: i gaſtighi, che Dio
gli mandò, ma ſenza profitto. Vedrà iſpirazio
ni non curate, correzioni non aſcoltare, bene
fizj non corriſpoſti, penitenze non adempiute,
In quel dì Dio mi chiamò, io feci il ſordo; in
quel meſe mi accolſe miſericordioſo, e io in
grato gli voltai di nuovo le ſpalle; in quell'ane
no mi ammonì con una malattia, e io di tanti
proponimenti, che allora feci, non ne ho adem
piuto pur uno. O che vita vedrà, che, povera
vita! Io vi proteſto, uditori, che non ho for
mole per eſprimervi la confuſione, che alla vi
ſta di queſta povertà proverà un peccatore ne
gli eſtremi momenti ; ſprovveduto al di fuori
idei beni del Mondo, ch'è coſtretto a laſciare i
ſprovveduto al di dentro de'beni dell'anima,
che ha ſempre ſprezzati: come può non afflig
gerſi, come non confonderſi, come non diſpe
rarſi i Foris nihil, intus nihil, Inanis area, ina
nior conſcientia. Ubi requies, ºſ" , ubiſi
E Agoſtino, che lo deſcrive. Vorrebbe allora
aver fatto, quanto da lui chiedeano le obbli
gazioni del ſuo Batteſimo, ma ſuo malgrado
convien, che inghiotta il rammarico di aver po
tuto, e di non aver voluto. Vorrebbe pur fare
qualche coſa di buono in quel punto, ma la
morte gl'intima, che più non vi ha tempo, e
che l'aprir gli occhi ſolo in quell'ora ad altro
non ſerve, che a conoſcere la ſua miſeria, ſen
za vedervi riparo. Vorrebbe almeno non eſſere
forzato a vedere la ſua eſtrema povertà i”
222, Diſcorſo XII.
dice S. Gregorio : Videre cogitur, quod providere
contempſit, vegga per ſua peta ciò, che per ſua
colpa mai non volle vedere. O viſta! o povertà!
o confuſione! - i
Ma ciò, che all'infelice accreſcerà di gran lun- .
ga la confuſione, ſarà il riflettere, che in sì de
plorabile ſtato ha tra breve da preſentarſi al tri
bunale divino. Quando Adamo già traſgreſſore e
del divino comando, ſi udì citato a comparire i
avanti a Dio, corſe toſto a naſconderſi dove i
più folte eran le piante, e l'ombre più denſe, i
arroſſendoſi di preſentarſi al ſuo Facitore, ſpo
gliato di veſti ugualmente, che d'innocenza:
den 3. Timui eo quod nudus eſſem ; ma ſarà ben altro
il timor del peccator moribondo: Imperocchè
Adamo qual figlio ravveduto del fallo, preſen
toſſi a Dio, come padre, che il volle correg- i
gere: e il peccatore qual reo oſtinato, avrà da
comparire avanti a Dio, come a Giudice, che i
il dee punire. Quanto però meglio amerebbe f
di piombar negli abiſſi, che di ſoffrire l'onta i
di sì obbrobrioſa comparſa. Maſſimamente che t
della nudità, in cui trovaſi, ſcorgerà eſſere tal- ,
mente tutta ſua la colpa, che non avrà pure una
ſcuſa con cui difenderſi: chi l'obbligò a buttare º
da ſe la bella veſte dell'innocenza, di cui uſcinne
sì ben adorno dalle onde batteſimali? E riveſtito i
ch'ei fu della grazia nella ſagramental penitenza,
chi lo coſtrinſe a ſpogliarſene di bel nuovo? Abiti
di virtù quanti avrebb'egli potuto lavorarſene
di ſua mano ? Mancarongli forſe occaſioni di e
ſercitar con frequenza e la carità verſo il Proſ
ſimo; e la mortificazion con ſe ſteſſo, e verſo
Dio la religione ? Seppe ben egli de'beni tem
porali moſtrar premura, e perchè de ſpirituali l
fecene
Per la Dom.ſeſta dopo l'Epifania. 223
fecene sì poco conto? Seppe ben egli per abbel
lire il ſuo corpo addattarſi ad ogni moda, ezian
dio ſe diſpendioſa ed incommoda s e perchè de
gli ornamenti dell'anima non ſi preſe penſiero?
Che diſcolpa pertanto può mai addurre, chi a
tutto pensò, a tutto provvide, fuorchè a ciò,
ch'eſigea le più ſollecite ſue premure ? Che di
ſcolpa è diſcolpa niſſuna; che anzi vedendo, che
alla ſua povertà potea provveder, e non volle,
ſentiraſſi da interna rabbioſa diſperazione rodere
il cuore,
Udite in fatti Sant'Efrem, che ravviſando nel
la parabola delle Vergini ſtolte la ſpenſieratezza
di quelle anime, che ſi riducono alla morte ſen
za provviſione d'opere ſante, così n'eſprime i
diſperati loro ſenſi: Dum nobis erat tempus, fa
cultateſque ſuppeterent: emere oleum noluimus.
; Inſenſate che fummo, ebbimo campo di prov
vederci a dovizia, e mal avvedute non volimo:
ebbimo tempo, e ne abuſammo: ebbimo occa
ſioni, e le ſprezzammo: Nunc autem quarimus
nec invenimus. Ora che luce ſincera c'illumi
na, ah infelici! ora vorreſſimo, e non poſſiamo.
La noſtra povertà ci confonde, e non vi ha mo
do di ripararla. Che altro dunque ci reſta, che
dare un eterno diſperato addio a quella patria,
in cui non entra, ſe non chi è ricco di meri
ti: Valete juſti univerſi. Addio turba glorioſa
de giuſti, non goderemo in eterno della voſtra
compagnia, perchè non profittammo in tempo
de' voſtri eſempi: Vale paradiſe voluptatis. Bel
Paradiſo, benchè fatto per noi, non ſei per noi:
Ci manca il prezzo di quelle opere, con cui ſe
ne compra il poſſeſſo: ſiamo per lagrimevole
Povertà ſenza virtù, e ſenza meriti: ſaremo per
CICI Ila

-
-

i
t24 Diſcorſo XII.
eterna ſciagura ſenza Cielo, e ſenza Dio. Così
Sant'Efrem fa parlare coteſte anime ſcioperate,
che ſolo in morte ſi avveggono d'eſſere povere.
Ah non voglia mai Dio, miei dilettiſſimi,
che alcuno di noi ſia per chiudere con sì lut
tuoſi ſentimenti la vita, e perchè una vana ſpe
ranza ci può facilmente tradire i deh, cari udi
tori, ſinchè luce opportuna ci aſſiſte, vediamo
fenz'adularci quale finora ſiaſi fatta provviſione
di fante opere; vediamo quali oſſequi ſi renda
no a Dio, quale miſericordia ſi uſi co' poveri,
qual amore ſi porti al Proſſimo, qual cuſtodia
ſi pratichi di noi medeſimi. Vediamo i doveri,
che ci corrono, come ſi adempiono: il Proſſi
mo, come ſi edifica: il Decalogo, come ſi oſi
ſerva: la divina parola, come e quanto ſi ode:
e ſe mai taluno, con una diligente occhiata ſo
pra il ſuo vivere paſſato e preſente , ſcorgeſſe
nulla, o quaſi nulla di virtù 3 deh provvegga
ſollecito ad una povertà, che non riparata, ſa
rà in morte la ſua diſperazione, e qual Prodi
go, che ſcorge ravveduto la ſua miſeria, dica
º ancor egli un riſoluto ſurgam. Voglio ſorgere
da queſt'ozio, da queſta pigrizia, da queſto
ſonno: Surgam. Non voglio aſpettare a preſen
tarmi povero avanti a Dio, finchè Dio è mio
padre: Surgam, & ibo ad Patrem. Ed oh ſape
ſte, miei cari, come il noſtro Celeſte Padre ſi
muove a pietà di un figlio povero, che confu
fo della ſua miſeria in vita ricorre a lui, ap
punto come il padre del Prodigo, che veduto
il figliuolo ſcarno, ſmunto, lacero, nudo, moſſo
da tenerezza paterna, gettoſegli al collo, compa
tendolo, e carrezzandolo: ah figlio, diſſe, povero
figlio, in quale ſtato ti veggo mai! Su " ſi
- IlliOII ,
Per la Dom, feſta dopo l'Epifania. 225
riſtori, e ſi veſta, e all'antico ſuo luſtro ſi reſti
tuiſca; così Dio qual Padre pietoſo con noi ſi
porta, quando noi quai prodighi ravveduti, con
la compunzione nel cuore a lui ci portiamo.
E ſe così, eccomi ai voſtri Piedi adorato mio
Redentore: ccco un figlio poveriſſimo, che pre
feritaſi ai piedi di ricchiſſimo Padre. Riconoſco
pur troppo la mia miſeria maggior d'ogni cre
dere: Ego vir videns paupertatem meam. Me ne
arroſſiſco avanti voi amabiliſſimo Gesù, e pie
no di confuſione vi chieggo umilmente perdo
no della mia paſſata incuria Deh per le Pia
ghe, che adoro nelle voſtre ſantiſſime Mani,
moſtratevi, vi ſupplico, verſo di me Padre pie
toſo, e concedetemi ajuti efficaci, coi quali co
minci dal giorno d'oggi a metter da parte ope
re ſante: Sicchè riparata in tempo la mia po
vertà, poſſa anche in morte provarvi Padre,
che mi accolga amoroſo, e non Giudice, che
ineſorabile mi condanni. -

Vedrà la gravezza di que peccati, che tan- Puºi:


to moltiplicò Ella è indole maligna del pecca-º
to, naſconderſi più che può agli occhi di chi
lo commette, o col mutare, dirò cosi, fiſono
mla, comparendo tutt'altro da quel ch'egli è: o
col raccorciare, dirò così, ſtatura, dandoſi a
creder piccolo, quand'egli è grande: o col fug
girſene dalla memoria, contenta di un naſcon
diglio ben cupo in n czzo al cuore; na finga
pure il maligno, e ſi appiati, quanto ſa, quan
to può: non ſarà però mai, ch'egli in morte
ſottraggaſi dai lampi di quella luce, che al dir
dell'Appoſtolo: Illuminabit abſcondita tenebra- 1 corº
rum, & manifeſtahit conſilia cordium. Luce,
che penetrando coraggi ſuoi al cuore, ai ſen
Tomo IV. Anno IV. P ſi,
226 Diſcorſo XII. a -

ſi, alle potenze, farà che appaja nel ſuo matti


Eccl. rale ſembiante ogni affetto, ogni penſiero, ogni
a 1a azione: In fine hominis, così ne aſſicura lo Spi
rito Santo, denudatio operum illius: Quindi il
peccatore coſtretto ad aprire gli occhi, mali
zioſamente chiuſi ſino a quel tempo, vedrà
sbuccare ad uno quai moſtri dalle ſue tane i
ſuoi peccati, in un aria o quanto diverſa da
quella, con cui vi erano entrati ! Ed attonito e
sbalordito, ohimè, dirà, che viſta ſi è mai co
teſta! Che colpe, che brutte colpe, veggo io
mai ! e sì dicendo, vorrebbe pure in altri og
getti volger lo ſguardo, ma non può : perchè
dovunque ſi volga, ſe gli affacciano per ogni
parte peccati, che a guiſa di un grand'eſercito
d'ogni intorno il circondano; ſicchè il miſero
pſ, s. forza è, che ſclami: Comprehenderunt me ini
quitates mea, cy non potui ut viderem.
Così è, cari uditori, a miſura, che la luce
fatale, diradando le tenebre illuminabit abſcon
dita, vedrà il moribondo peccatore ciò, che
in vita non vide, o vide male, o finſe di non
vedere i dubbietà e miſcredenze, che combat
teron la Fede; odj e detrazioni, che oltraggia
rono a carità libertà e dimeſticchezza , che
offeſero la modeſtia; frodi e rapine, che sfre
giarono la giuſtizia; ſpergiuri e ſacrilegi, che
violarono la religione, illuminabit, tutto verrà
ſotto agli occhi, e non potrà non vederſi,
c non potui, ut viderem. Mira, gli dirà la ſua
rea, ma riſchiarata coſcienza, mira infelice
que peccati, tu li taceſti per malizia: quegli al
tri li dimenticaſti per precipizio ne' tuoi eſami:
quegli altri non li conoſceſti, perchè con affer
tata ignoranza non voleſti conoſcerli: e quegli
altri
Per la Dom.ſeſta dopo l'Epifania. 227
altri, che non ſembrano tuoi, tuoi ſono, per
chè cagionati da te, dalle tue ſgolature, dalle
tue connivenze, da tuoi eſempi, da tuoi di
ſcorſi: vedi qual comparſa fan ora quelle oc
chiate, che tu credeſti curioſità, e furono com
piacenze: que motti, che tu credeſti vivacità di
ſpirito, e furono oſcenità maſcherate; quelle
viſite, che tu credeſti doveri di convenicnza, e
sfoghi furono di paſſione: quel giuoco, che tu
credeſti divertimento, ed era vizio: Illuminabit
abſcondita. Non potui ut viderem. O viſta, do
loroſa viſta, ſpaventoſiſſima viſta!
Nè vi crediate, uditori, che nell'eſporvi una
viſta così funeſta, io ponto eſaggeri. No, di
1ettiſſimi, no. Io non vi dico nulla di più di
ciò, che i Santi ne han detto: udite come ci eſ
prime viſta sì orribile S. Tommaſo di Villano
va. In quella guiſa, dice il Santo, che nell'a-
ria da un raggio del Sole inveſtita ſi veggono
innumerabili minutiſſimi atomi, che prima non ſi
vedeano; così nel punto eſtremo riſchiarata da
un raggio di luce ſovrana la coſcienza del pec
catore, vedrà la moltitudine immenſa de ſuoi
rei penſieri, de' ſuoi affetti perverſi , delle
ſue opere inique: In radio Divinae lucis omnis
illa congeries cogitationum, affectionum, 6 ope
rum veluti athomorum multitudo aperte & elare
videbitur. E prima ancora di S. Tommaſo ſcriſ
ſe il Padre Sant'Agoſtino, che ſu gli occhi del
peccator moribondo ſi ſchiereranno, quai ter
ribili ſquadre, i ſuoi peccati con tal chiarezza,
che rimarranne al tempo ſteſſo e convinto, e
confuſo: Ordinabuntur ante infelicem Animam
omnia peccata ſua, ut eam & convincat proba
tio, di confundat agmitio. Ma con più ancor di
P 2 cnergia
228 Diſcorſo XII. -

energia ci fa il Reale Profeta il ritratto di viº


ſta sì ſpaventoſa, dicendo, che ſi vedrà il pec
catore ne ſuoi eſtremi da torrenti d'iniquità ſo
praffatto, ed oppreſſo: Circumdederunt me, co
sì fa egli parlare un peccatore in punto di mor
te, dolores mortis, ei torrentes iniquitatis con
turbaverunt me. La ſimilitudine, uditori, non
può eſſere più eſpreſſiva, ognun ſa di qual or
ror egli ſia un torrente, che all'improvviſo in
groſſato venga dall'acque, che da più parti
ſcendon copioſe. Voi lo vedete ſcorrere sì furio.
ſo, e si gonfio, che atterra ponti, rompe argi
ni, ſormonta ſponde, ſradica ſelve, ſaccheggia
ſeminati, e ogni contorno riempie di timere,
di ſpaventi, di ſtragis così appunto i peccati,
che ora ſi conſideran ſolamente parte a parte,
di confeſſione in confeſſione; ravviſati allora
tutti in un occhiata, qual torrente impetuoſo
da più parti ingroſſato, colmeranno l'anima di
terrore, e ſenza ſperanza di alcun riparo, ne
apporteran lo ſterminio; ſenonchè, giuſta l'eſ
preſſion del Salmiſta, non ſarà un ſolo il tor
rente, ſaranno più: Torrentes iniquitatis: For
merà il ſuo torrente l'età giovanile, l'età viri
le il ſuo, il ſuo l'età cadente: Torrentes iniqui
tatis: torrenti di ſguardi liberi sboccheranno dagli
occhi: torrenti di malvagi penſieri sboccheran
dalla mente: torrenti di diſcorſi maligni, oſce
ni, ſcandaloſi, sboccheran dalla lingua, e sboc
cheran dalle mani torrenti d'opere indegne: Tor
rentes iniquitatis conturbaverunt me. Allora sì,
che ſopraffatto da sì orrida piena il peccatore,
ſarà coſtretto a dire con quell'empio mentova
to nella Scrittura: Nunc reminiſcor malorum,
que feci. Or sì, che veggo, or sì, che provo
l'orrendo
-
Per la Dom. ſeſta dopo l'Epifania. 229
1 orrendo peſo della mole immenſa delle mie
colpe: Comprehenderunt me iniquitates mea, ci
zon potui ut viderem. -

Eppure, cari uditori, il detto finora ſi è il


meno. Viſta terribile ſenza dubbio ſarà lo ſcor
gere il numero, e la moltitudine del peccati: ma
più terribile di gran lunga ſarà lo ſcorgerne
l'infinita loro malizia: Impio omnia ſcelera ſua, ci
è S. Bernardo, che parla d'un peccatore, che
ſtà morendo, ante oculos mentis preſentantur.
Videt multitudinem peccatorum, ma queſto è
poco : Videt turpitudinem, videt magnitudinem,
videt ingratitudinem. La gravezza del peccato,
ah, che pur troppo al preſente, cari uditori,
non ſi conoſce ! L'amor proprio ci benda gli
occhi; le tenebre delle paſſioni c'ingombran
l'anima, il fumo del gran Mondo ci offuſca
la mente: ma in punto di morte il velo ſi
ſquarcierà, le tenebre ſi ſgombreranno, il fu
mo ſvanirà, e l'anima ad un lampo di viviſ
ſima luce ſcuoprirà la deformità, ſcuoprirà la
gravezza, ſcuoprirà il nero marchio d'ingrati
tudine, che ſeco portano quelle colpe, delle
quali facea caſo sì piccolo, che nè pur ſape
va dolerſene. Vedrà ciò, che dir voglia un Dio
di maeſtà infinita diſubbidito, e vilipeſo; un Dio
di beneficenza infinita contraccambiato con ol
traggi; un Dio di grandezza infinita poſpoſto
a creature viliſſime; un Dio di bontà infinita
non ſolo non amato, ma offeſo; un Dio di giu
ſtizia infinita non ſolo non temuto, ma ſtra
pazzato, lo vedrà, sì lo vedrà; e ad una tal
viſta, quanto ſincera, altrettanto terribile, chi
può eſprimere, quale ſarà lo ſpavento di un
peccatore! -

P4 O che
23 e Diſcorſo XII.
O che tutt'altro concetto, cari uditori, allo
ra ſi forma di quelle colpe, che ora con tanta
facilità ſi commettono! E quanto mai ſono di
verſi i ſentimenti d'un peccator quando pecca,
e d'un peccator quando muore. Quando Eſaù
ſtimolato dalla gola vendè al fratello il mag
gioraſco, moſtrò di non prenderſi alcun faſti
º dio dell'inſana ſua vendita: Abiit parvipendens
quod primogenita vendidiſet s ma per verità,
quando ritrovò, che Giacobbe avea di fatto dal
vecchio Padre riportati le ſorti di primogenito,
diede in urli, in iſmanie, in ruggiti: Irrugiit
clamore magno. Or queſta appunto ſembrami la
figura d'un peccatore conſiderato prima nell'at
to del ſuo peccare, e poi nel momento del
ſuo morire. Quando pecca, perchè la paſſione,
che vuole il ſuo sfogo lo accieca: Abiit parvi
pendens, non fa gran caſo del ſuo peccato:
quando muore, perchè allora apre gli occhi,
e conoſce la gravezza de' ſuoi misfatti, dà in
fremiti da diſperato: Irrugiit clamore magno,
Eppure una verità sì indubitabile dal peccatore
non vuol intenderſi, e ſenza riflettere a quell'or
rida moſtra, che in punto di morte faranno di
ſe i ſuoi peccati ; anzi che averlo in orrore,
ne fa di continovo un argomento di vanto. Voi
o ſenſuale, quando vi rieſce di dare alla vo:
ſtra incontinenza un lauto paſcolo vi par d'eſº
ſere beato: & abiit parvipendens: Voi o pun
tiglioſo, quando con quella infame, ma che
voi chiamate onorata vendetta, dato avete al
voſtro ſdegno un pieno sfogo, vel recate a pro
dezza: & abiit parvipendens: E voi o giova
ne, quando con le voſtre luſinghe vi è riuſci
to di tirare nelle reti un cuore incauto, vi ap -

plaudite
Per la Dom.ſeſta dopo l'Epifania. 231
plaudite da voi medeſimo: ci abiit parvipen
dens. Ah ſventurati Eſaù, verrà un giorno, ver
rà, in cui diſſipata la nebbia delle paſſioni, ir
rugietis clamore magno, ravviſerete la malizia
di quelle colpe, che or tenete sì poco, e ne
anderete fuor di voi per orrore: Videntes, ec
co come de ſimili a voi parla lo Spirito San
to: turbabuntur timore horribili.
A queſto ſtato, Udienza mia, ha da ridur
ſi nel punto della ſua morte un peccatore: e
il peccato tuttavia ſi ama, e in grembo ai pec
cati ſi vive, ſi ride, ſi dorme, ſi ſcherza º E
il carnovale non par ſaporoſo, ſe col peccato
non ſi condiſce. O cecità ! o pazzia ! Deh, di
lettiſſimi, apriamo gli occhi, e non aſpettia
mo in morte a conoſcere le noſtre colpe, mi
riamole adeſſo, mentre un raggio di luce pro
pizia, che per miſericordia divina ci sfavilla
ſul capo, ſcuoprendone l'enorme loro mali
zia, ci può ſpignere a un ſalutevol dolore.
Non differiamo a mirarle, quando lampi di lu
ce funeſta , mettendone al chiaro l'orrenda lo
ro moſtruoſità, di diſperato ſpavento ci colme
ranno. Ah voglia Dio, che dir poſſa fin d'ora
ognun di noi col Santo Davidde : Iniquitatem Pſ. se,
meam ego cognoſco. Conoſco la gravezza delle
mie colpe, e per non vederle in morte a mio
ſpavento, le ho ſempre per dolore avanti
agli occhi: & peccatum meum, contra me eſt
ſemper. -

Sì, Redentore amabiliſſimo, lo dico, e lo


dirò ſinchè avrò vita: Iniquitatem meam ego
cognoſco, ci peccatum meum contra me eſt ſem
per. Conoſco il mal, che ho fatto, qualor vi
ho offeſo, c il diſguſto pº" vi ho date"
232 Diſcorſo XII.
ſtà ſempre avanti agli occhi: Conoſco, e con
feſſo, che far non poteva un mal maggiore,
che offender voi, Dio sì buono, Dio sì gran
de, Dio sì amabile: e perchè lo conoſco,
deteſto, ed abbonino il mal , che ho fatto,
e ai voſtri Piedi umiliato con tutto il cuore
me ne pento, riſoluto di non far mai più co
ſa, che poſſa eſſere di voſtra offeſa; gradite,
caro Gesù , il mio dolore, qual bramerei,
che foſſe infinito, giacchè infinita è la malizia
del mio peccato; ma giacchè infinito non può
cſſere, concedetemi almeno, che ſia perpe
tuo. A tale fine vi ſupplico per quella piaga,
che adoro nel ſagroſanto voſtro Coſtato ,
a darmi grazia, che io mai non perda di vi
ſta le colpe mie, affinchè vedute ſempre, e
ſempre piante nel corſo della mia vita, non
mi ſieno poi di ſpavento nel punto della mia
in OrtC. -

Wle We
bs;

i ;3.
º.Jºe
º

DI.
233
#=#== = =sg ==g==sgs= =====i
l

sess============"
v

º D I S C O R S O X I I I.
PER LA DOMENICA DI SET
TU A GE SI M A.

Caſa dell'Eternità.

In venit alios ſtantes, ci dicit illis: quid hic


ſtatistota die otioſi ? Matth. 2o.

Sºrº N uom di ſenno a nulla più penſa, che


s3 U º alla propria caſa. Per queſta s'induſtria
3 AS più che può, e più che può ſi affaccen
- da, e in tutte le occupazioni, in tutti
gl'impieghi ſuoi mai non perde queſta di mira s
e con ragione: perchè tutta dipende dallo ſtabili
- mento della caſa la felicità della perſona. Quindi
ſe accolti furono con rimprovero quegli operai
dell'odierno Vangelo, che ſulla undecima ora
trovati furono in ozio, con tutta ragione ſel me
ritarono, come quelli, che non potendo altri
mente, che con le loro fatiche provvedere alla
caſa, paſſavano ſpenſierati ed ozioſi la ſua gior
nata. Se così è, io non poſſo non deplorare, udi
tori, la ſtolidezza di un gran numero di Criſtia
ni, che a tutt'altro, che alla propria caſa rivol
gono i ſuoi penſieri, Agli amici ſi penſa, agli
- ſpaſſi
234 Diſcorſo XIII.
ſpaſſi ſi penſa, alle pompe, e alle comparſe ſi
penſa, ma non ſi penſa alla caſa: e come ciò,
voi mi dite, ſe anzi non vi ha penſiero e più ſol
lecito, e più univerſale, pi alla ſua caſa il
nobile, e tutto ſi adopera per illuſtrarla con
nuovi fregi: vi penſa il laureato, e ſi lambicca
tra ſtudi per ingrandirla con nuovi acquiſti: vi
penſa il negoziante, e tutto s'impiega per arric
chirla con nuovi traffichi; e fin vi penſa quel bi
folco, che ſtruggeſi alla coltura del campo per
paſcerla co ſuoi ſudori. Tutto vero: ma queſto
appunto è ciò, che deploro. Coteſta, a cui tan
to ſi penſa, non è, dilettiſſimi, la noſtra caſa.
Caſa noſtra, ſe pur diam fede allo Spirito Santo,
pec.is, ella è l'eternità; Ibit homo in domum eternitatis
ſua, e a queſta caſa da molti non ſi penſa, o vi
ſi penſa pochiſſimo, Ond'è, che per isfogo di
zelo: o ſpenſierati, ſclama contro coſtoro Ugo
ne Carenſe, quid hic ſtatistota die, hoc eſt tota
vita otioſi... impoſterum non providentes ? Che
ozio mai è coteſto, che lagrimevole ozio ! Per
chè non provvedete, ſinchè dura la giornata del
la voſtra vita, alla caſa dell'eternità, che vi aſpet
ta? E ſe ſprovveduti vi ſorprende la notte della
morte, di voi che ſarà ? Un diſordine sì luttuoſo,
uditori, naſce dal non eſſere noi ben perſuaſi, che
la noſtra vera caſa, è quella dell'eternità, onde
io per impedire un ozio si pernizioſo prendo a
moſtrarvi, che altra caſa noi non abbiamo che
più, che quella dell'eternità, meriti i noſtri pen
ſieri, perchè niſſuna ve n'ha che più di queſta ſia
noſtra. Primieramente ella è noſtra, perchè quel
la caſa, per cui unicamente ſiam fatti: ſarà il pri
mo punto. Secondo, ella è noſtra, perchè a
noi ſta il fabbricarcela a noſtro modo: e f" il
C
Per la Domenica di Settuageſima. 235
ſecondo punto. Terzo, ella è noſtra, perchè al
i loggiati, che vi ſaremo una volta, non ne uſcire
mo mai più: terzo punto. Cominciamo.
La noſtra vera caſa è quella dell'eternità, per
chè caſa per cui unicamente ſiam fatti. Diſingan- e UN
niamo pure, miei dilettiſſimi, con la fede i no. To I.
ſtri ſenſi. Queſte caſe, che noi vediamo, a parlar
giuſto, non ſon caſe moſtre. Sieno quanto ſi vo
glia fabbricate da noi, addobbate da noi, abita
te da noi; torno a dire, che a parlar giuſto dir
non ſi poſſono noſtre caſe. Chi direbbe ch'egli è
in caſa ſua quell'oſpite, che ſull'imbrunir della
ſera ſi ritrova in un albergo per partirne nell'alba
del dì vegnente. Con lo ſteſſo partirne ch'ei fa
appena giuntovi, ben dimoſtra, che non è quel
la la caſa ſua. Or chi vi ha tra gli uomini, che
nella caſa in cui trovaſi non vi ſia ſoldi paſſaggio,
chi è che non abbia un giorno, o l'altro a partir
ne. Può fermarviſi più , può fermarviſi meno,
ma ſi fermi quanto ſi voglia, un dì o l'altro,
forza è che ne sloggi; dunque egli è chiaro, che
vi alberga da oſpite: Si tranſiturus eſt, l'argo
mento è tutto di Agoſtino, hoſpes eſt. Non oc
corre no, che ſi aduli, non occorre, che mi
lanti padronanza, e dominio, no: Non te fal
lat, hoſpes eſt, e voglia, o non voglia perſua
derſelo, egli è oſpite, e nulla più: Velit nolit
hoſpes eſt. E come dunque ſi può chiamar caſa
propria quella, che ſi abita oggi, e domani non
più è quella, che malgrado, che n'abbiaſi, ſi ha
tra breve a laſciare? quella, in cui vi ſi alberga
da pellegrino che paſſa? -

Nè ſolamente dir non ſi poſſono noſtre queſte


caſe viſibili, perchè noi le laſciamo, ma ancora
perchè quando noi non aveſſimo un s"
ClaIlC »
2 36 Diſcorſo XIII. -

ſciarle, cſſe laſcierebbono noi. Diſſe già Davidde,


º º che Dio fondò ſull'acqua la terra: Super maria
fundavit eam, ci ſuperflumina preparavit eam,
perchè intendeſſimo la poca ſtabilità, che hanno
le coſe del Mondo, tanto brevi nel ſuo durare,
quant'è veloce nel ſuo paſſare l'onda di un fiu
me. Date in fatti un'occhiata ai ſecoli già tra
ſcorſi. Voi non ſolamente più non vedrete gli
uomini, che abitaron le caſe, ma nè pure le ca
ſe già abitate dagli uomini: dov'è quella Ninive
sì rinomata per le ſue mura? Dove quella Babi
lonia sì celebre per le ſue torri ? Dove quella Te
be per le cento ſue porte così famoſa ? Reggie di
Aſſuero sì ſplendide, delizie di Salomone sì ame
ne, palagi di Nerone si vaſti, edifizi dell'antica
Roma sì maeſtoſi, dove ſiete? Tutto è ſparito,
nè altro più rimane; che il nome, il quale col
rammemorarci che furono, ci dà inſieme a co
noſcere, che le caſe di queſta terra a doppio ti
tolo non ſon noſtre, e perchè noi le laſciamo, e
perch'eſſe laſcian noi.
Ed in vero ſe proporzionata a chi l'abita deb
b'eſſere la caſa, egli è ben chiaro, uditori, che
avendoci Dio dotati di uno ſpirito immortale,
non poſſono caſe caduche eſſer per noi, nè noi
per eſſe. Ad abitator, che non muore, una caſa
richiedeſi d'incorrutibili fondamenti: caſa, che
tremuoto mai non ingoj, che incendio mai non
divori, che inondazione mai non atterri: caſa,
che da vicende mai non ſi alteri, nè dal tempo
mai ſi conſumi; in una parola, caſa di eternità.
Queſta è la ſola, che di uno ſpirito, che ſempre
vive, dir ſi poſſa propria ſua caſa: e in queſta di
fatto già ſi ſono ricoverati quanti ci han prece
duti regnanti di gran potere, guerrieri di gran l
- - - valore,
º
Per la Domenica di Settuageſima 237
valore, letterati di gran dottrina, facoltoſi di
s
gran ricchezze , cavalieri di gran nome, da
me di gran portata: tutti ſono iti in domum eter
mitatis, e dietro alle orme loro alla ſteſſa caſa
noi ancora ci avviamo, e chi più toſto, e chi
r più tardi, tutti vi arriveremo, tutti come di caſa
noſtra ne prenderemo un di, o l'altro il poſſeſſo.
E s'è così, cari uditori miei, non è una follia
degna di lagrime quella di tanti, che affezionati
-. unicamente a queſte non ſue terrene caſe, perdo
no di mira quella, che propriamente è la ſua, la
l
caſa dell'eternità l Tante ſollecitudini, tante ſpe
ſe per caſe, che noi laſcieremo, o che ci laſcie
ranno, e per quella, che ſarà per tutti i ſecoli
caſa noſtra sì poco penſiero! Che direſte voi mai,
miei dilettiſſimi, di chi dovendo per un'ora ſola
alloggiare in caſa non ſua, vi ſpendeſſe tutto il
ſuo per abbellirla, per arricchirla, per adagiar
fela; e a quella, in cui tutta dee paſſar la ſua vita
non rivolgeſſe pure un penſiero, non la degnaſſe
pur d'un affetto, nulla vi adoperaſſe di attenzio
ne per ripararla rovinoſa, o per fornirla ſprov
veduta: che direſte? Il caſo, voi dite, quanto
non ſente il ragionevole, altrettanto ſembra fuor
de limiti del poſſibile. No, miei dilettiſſimi, non
è così. Che non ſenta del ragionevole, io vel
accordo, ma che abbia dell'impoſſibile, queſto
vel niego. Avviene purtroppo, e avviene in ma
niera ancora più deplorabile: imperocchè tutta
la vita in confronto all'eternità ella è aſſai meno,
e incomparabilmente meno di quel,che ſia un'ora
ſola in confronto a tutta la vita, perchè tra tutta
la vita, e un'ora ſola vi ha pur proporzione di fi
mito a finito: ma tra tutta la vita, e l'eternità non
vi ha pur ombra di proporzione, perchè pro
238 Diſcorſo XIII.
porzione non vi ha tra il finito e l'infinito; ep
pure per la caſa poſticcia di queſta vita, che non
ſi fa? A voi ne appello ſchiavi del piacere, a voi
ſeguaci del faſto, a voi ingordi di roba, a voi
ne appello: che non ſi fa ? e per la caſa ſempre
durevole dell'eternità, che impegno ſi piglia º che
fpeſe ſi fanno º che induſtrie ſi adoprano è che
provviſioni mettonſi a parte? O Criſtiani mal'av
veduti, ſclama il Pontefice S. Leone, ed è poſi
ſibile, che non entriate una volta in buon ſenno !
Siete fatti per l'eternità, e vi perdete in coſe ca
duche! Deh riconoſcete una volta quale è il vo
ſtro deſtino; e giacchè vi aſpetta una caſa, che
ugguaglia nel ſuo durare l'immortalità della vo
ſtr'anima, fiſſar non vogliate gli amori voſtri in
Leo. un sì manchevole albergo: Ad eterna preelettos,
Ser. 2
de Aſc
peritura non occupent: non ſon queſti gli oggetti,
che occupar debbono un cuore fatto per una caſa,
che non ha fine: no, dilettiſſimi: Ad eterna
preelectos, peritura non occupent. E prima di
S. Leone già ci avvisò il prediletto diſcepolo di
non collocare gli affetti noſtri nel Mondo, nè in
ciò, che ci può dare, o ci può promettere il
area. Mondo: Nolite diligere Mundum, neque ea qua
Mundi ſunt; e ne diº la ragione con dire, che il
Mondo non è, che una caſa di chi paſſa; e fini
ſce ancor egli con chi finiſce, ci Mundus tranſit,
e concupiſcentia eſus. Sono vaghe le pompe, ma
paſſano: ſono luminoſi gli onori, ma paſſano:
tutto ciò, che può averſi di luſinghevole a i ſenſi,
Ibid. e di aggradevole alle paſſioni tutto paſſa,
Mundus tranſit, e concupiſcentia eius Ah cari
uditori miei, quanto bramerei, che queſta ſera
vi s'imprimeſſe profondamente nell'animo una
verità sì maſſiccia: e perchè vi s'imprima, fate
- così:
i Per la Domenica di Settuageſima 23 o
così: chiedete lume ſtraordinario a quel Gesù,
che adoriamo preſente, e poi nel rientrare, che
queſta ſera farete in caſa, date d'ogn'intorno un'
occhiata, queſta, dite tra voi e voi, queſta dun
que non è propriamente la caſa mia, perchè da
queſta partirio debbo, forſe preſto, forſe tardi,
io non lo ſo, ma egli è certo, che tardi, o pre
ſto ne partirò. La vera mia caſa è l'eternità, a
cui in ogni momento mi accoſto: ed entrato,
che vi ſia una volta, nè io più la laſcierò, nè ella
più laſcierà me. Or qual delle due più merita
ch'io vi penſi; queſta da cui un di partirò, o
quella in cui avrò a ſtare per ſempre ? eppure a
duale delle due ho io penſato più è per quale mi
ſono io impegnato più ? Ah, che sì, cari udito
ri, che a un tal rifleſſo più d'uno, più d'una avrà
non poco di che confonderſi!
O Gesù mio, io per il primo poſſo dire col
voſtro Profeta, che tutto mi ſi ricopre di confu
ſione il volto: Confuſio cooperuit faciem meam:Pſ: ass
tanto poco ho io penſato alla caſa dell'eternità!
Eppure egli è certiſſimo, che queſta è la ſola
vera mia caſa; per queſta ſono fatto, a queſta
ſono deſtinato, e ogni momento, che vivo, è
un nuovo paſſo, che a queſta caſa mi guida, e
mi avvicina. O mio Gesù, e ſarà mai vero,
ch'io continui in una sì ſtolida ſpenſieratezza! Ah
no, mio caro Redentore, nos che non voglio
più vivere con sì poca ſollecitudine della futura
eterna mia caſa. A queſta io voglio applicare i
miei più attenti penſieri, per queſta voglio ado
perarmi con tutto l'impegno dell'anima mia. Voi
aſſiſtetemi coi voſtri lumi, ve ne ſupplico per le
piaghe ſantiſſime de' voſtri piedi, che umilmen
te adoro: affinchè ben perſuaſo, che altra caſa
mOſl
24o Diſcorſo XIII. - -

non ho, che ſia mia fuorchè l'eternità, tanto più


vi penſi, quanto più mi ci accoſto.
msn. E' noſtra vera caſa, perchè a noi ſtà il fabbri
pos- carcela a modo noſtro. Condotto l'eſtatico S. Gio
zo II. anni a vedere l'eterna Città di Dio, vi ſcorge un
Angiolo, che in atto di miſurarla aveva in mano
ap. 2, una canna d'oro: Habebat menſuram arundineam
auream. Ma queſta miſura, a ciò ch'egli medeſi
mo ne atteſta, era la miſura dell'uomo, e del
l'Angiolo: Menſura hominis, que eſt Angeli.
Che ſtrana foggia di miſurare e mai coteſta!
Prendere dal cittadino la miſura della Città, dal
l'abitatore la miſura dell'abitazione; e quando
mai ſi cercò ſomiglianza, egualità ſi richieſe tra
1a città e il cittadino, tra l'abitazione, e l'abi
tatore! Ma non facciamo, uditori, le maravi
glie, perchè delle caſe del Mondo eterno non
abbiamo a diſcorrerne come delle caſe di queſto
Mondo: e l'eſtatico Evangeliſta ha preteſo farci
ſapere, che la caſa dell'eternità ella è piccola, o
grande, o buona, o cattiva ſecondo ch'egli è
piccolo, o grande, buono, o cattivo l'abitato
re. E quindi è, che dallo Spirito Santo non ſola
mente ſi dice, che anderà ognuno alla caſa del
pe,...l'eternità, ibit in domum eternitatis, ma eterni
tatis ſua : che vale a dire, che anderà ognuno a
quella caſa di eternità, di cui avrà egli medeſimo
data con le ſue opere la miſura: ciò che volle
Matz accennarci anche Criſto, laddove diſſe: Menſura
qua menſifueritis remetietur vobis. Quanto adun
que, quanto mai ella è grande la differenza che
corre tra caſa e caſa, tra Mondo e Mondo: in
queſto Mondo riceve il figlio la caſa dal padre,
la moglie dal marito, il ſervo dal padrone: nel
l'altro il figlio ha la ſua, la ſua il padre, il marito
la
Per la Domenica di Settuageſima. 241
la ſua, la ſua la moglie, il padrone la ſua, la
ſua il ſervo, ſecondo le premure, che ciaſcun
premette: ed oh quanto meglio vi alloggia del
padrone ſuperbo, il ſervo umile; del marito
collerico, la moglie manſueta s del padre ſcan
daloſo, il figlio modeſto: Menſura qua menſi
fueritis, remetietur vobis. In queſto avvien non
di rado, che abiti in caſa ricca di ſoſtanze un uo
mo povero di meriti; un uomo ricco di meriti
in caſa povera di ſoſtanze. Nell'altro anderanno
d'accordo ricchezza di caſa, e ricchezza di meri
ti: povertà di meriti, e povertà di caſa, perchè
la caſa piglia dai meriti la ſua miſura: Menſura
qua menſi fueritis remetietur vobis. In queſto
non è in man noſtra naſcere in caſa comoda o di
ſagiata, di bell'aſpetto, o di clima inſalubre,
ſu colle aprico, o in valle oſcura: nell'altro
ivi ognun naſce, ove naſcer gli aggrada: ne tro
va ſtenti ſe non li vuole; e ſe vuole delizie, le
trova tutte: perchè in balia d'ognuno ſi è dar le
miſures e tutto che altri gioiſcano in reggia bea
ta, gemano altri in orrido carcere, e al carcere,
calla reggia va ſol chi vuole: Menſura qua menſi
fueritis, remetietur vobis.
Ma ſe ciò è, cari uditori, ſe la caſa dell'eter
nità anche per queſto è caſa noſtra, perchè a noi
ſta il fabbricarcela a modo noſtro, e ſtabilirne le
miſure, che a noi più piacciono: ſarà egli poſſi
bile che ſi trovi chi potendola avere tutta delizie,
ſe l'architetti tutta dolori? Egli è ben certo, che ſe
foſſe in arbitrio di quel bambino, che chiuſo an
cor giaceſi nella prigione del ſen materno, eleg
gerſi prima di naſcere una vita tranquilla, od in
quieta, felice o miſera, non eſiterebbe già pun
to ad accertare a preferenza della cattiva la buona
Anno IV. Tomo IV. Q ſorte
-

242 Biforf, XIII, -

ſorte pro oſtagli, tutte che perſuaſo ſofie di do


ver naſcere per inorire; or quanto più, chi doven
do naſcere ad un Mondo, in cui morte non abita,
ed avendo in ſua mano, l'ergerſi una caſa di tut
to ſuo comodo, è da crederſi ch ci voglia poſ
parla ad un'altra d'infoffribil tormento? Ei pure,
Jer.2. udite o Cieli, e ſtupite: Obſ? peſcite Caeli ſi per
boc, dicit Dominus. Meglio, che una caſa col
ma di contentezze, un'altra molti ne vogliono
ripiena di guais e dove potrebbono aſſicurarſi la
fonte d'ogni dolcezza, meglio amano ſeppelirſi
ne cupi orrori di diſſipata ciſterna: Me derelin
q º unt, egli è Dio, che ſe ne duole, forteº
agge viva, o foderunt ſibi tifernas, ci fermas
r . . a - - v,

diſſipata, que continere non valent a quas. E sì,


che cºſtoro ſe per avventura ergere in queſto
Mondo ſi vogliono di pianta una caſa, attenzio
me non vi ha, che non uſino, perchè rieſca di tut
to orgºnio, di tutto lor comedo, di tutto lor
profitto: prendono a tal fine tutte le miſure, che
ſuggeriſce prudenza, conſultano più periti ai
chitetti, formano diſegni, e li riformano infino
a tanto, che accertino la bellezza, il comodo,
la magnificenza, che branvano; e con l'occhio
ſempre all'opera, in vigilan quanto ſanno, e
quanto poſſono, affinchè corriſponda all'idea
formatane l'intrapreſo edifizio ; edifizio, che in
realtà non ha da eſſere più che un albergo di lor
paſſiggio; e poi dove trattaſi di provvedere alla
caſa dell'eterno loro ſoggiorno, non folamente
non fanno indarſi a preparartela, come potreb
borio, grandioſa, e bella con la ſantità delle ope
re; ma con colpe aggiunte a colpe, ſe la lavo
rano la più orrida, la più penoſa, la più infice,
che idear mai ſi poſſa E chi potrebbe mai credc
IC »
Per ia Domenica di Seti eſ a. 2.
re, ſe non ſi vedeſe ogni di ſtraniezza tale !
Per verità avean bca ragione i Gentili al ri
re del Boccadoro, aveas, ben ragione di buttare
in viſo a malviventi Criſtiani una di queſte due
obbrobrioſiſſime taccie, o di mentitori, o di
ſtolti: Exprobrabant Gentiles, aut mendaces,
aut ſºultos eijè Criſtianos: mentitori, ſe dicean di
credere ciò, che in realtà non credeano: ſtolti,
ſe credendo ciò, che dicean di credere, faceva
no nulla dimeno opere tali, che ripugnar di più
non poteano alla lor fede. E vaglia il vero, co
me può mai eſſere, che ſi creda, come per altro
ognun dice di credere, che ci aſpetta nell'eternità
una caſa, o dilettevole al ſommo, o al ſorrimo
tormentoſa, e ch'egli è in man noſtra l'eleggere
o quella, o queſta, come diſſi, come può mai
eſſere, che ciò ſi creda, ſe nulla di premura ſi
moſtra per entrare al poſſeſſo della prima, nulla
per iſchivare l'ingreſſo nella ſeconda ! Indolenza
si lagrimevole, non è ela un indizio aſſai chia
ro, che non ſi crede, e che chi dice di credere
ſolennemente mentiſce. Che ſe da doveroſi cre
de, qual pazzia ella è mai ſapere per fede, che
ſolo coll'eſercizio della virtù ſi lavora una beata
eternità, e alla virtù attendersi poco e ſapere,
che col peccato ſi fabbrica una ctcrnità infeliciſſi
ma, e del peccato farne le ſue delizie quai paz
zia ſapere, che nella caſa dei contenti ion vi en
tra lordura, e contrar tutto di nuove macchie:
ſapere, che per piombare nella caſa del tormen
ti baſta una ſola mortal colpa, e tutto di com
metterne tante: qual pazzia ſapere, che i godi
menti eterni dell'altra vita compra ſi debbono
coi patimenti brevi di queſta, e voler piuttoſto
comprarſi coi godimenti brevi di queſta i pati
- Q 2 ſi i finº a
244 Diſcorſo XIII,
menti eterni dell'altra; sì, dilettiſſimi, ſe queſta
non è pazzia, dite voi quale il ſarà ! Ah, che
pur troppo a confuſione d'una gran parte del
Criſtianeſimo d'oggidì ſi può ripetere: Aut men
daces, aut ſtultos eſſè Chriſtianos. O ſi mentiſce
dicendo, che credeſi, o ſe ſi crede, è gran paz
zia vivere, come ſi vive. -

Cari miei uditori, sforziamoi almen noi di


ſchivare l'una, e l'altra di queſte taccie, e allora
le ſchiveremo, quando la fede, che profeſſia
mo, ci ſpingerà a procurarci nell'eternità un ſog
giorno felice. Viviamo pertanto in modo, che
ſcorga ognuno dalle opere noſtre, che penſiamo
a fabbricarci nel Mondo di là una buona caſa. E
ove luſinghe de ſenſi, o riſpetti di Mondo ſi fa
ceſſero a diſſuaderci dal gran lavoro, diciamo
loro ciò, che diſſe a Labano Giacobbe: Juſtum
eſt ut aliquando provideam etiam domui mele.
Dica ognun ciò, che vuole, io voglio penſare all'e-
terna mia caſa. Abbaſtanza ti ho ſeguito Mondo
fallace; ſenſi miei, abbaſtanza vi ho compiaciu
ti; intereſſi di terra mi avete diſtratto abbaſtanza
dal penſiero del Cielo: egli è giuſto, che finchè
tempo il permette, io provvegga alla mia caſa:
zen.,e Juſtum eſt ut aliquando provideam etiam domui
mee. Addio faſto, addio giuochi, addio vanità,
addio amicizie, addio affetti tutti di terra: oh
quanto mi avete voi rubbato di quel tempo,
ch'io doveva impiegare nella fabbrica della mia
immortale felicità! Or io vi laſcio; mi ſpiace,
che troppo tardi, ma pur vi laſcio, perchè trop
po mi preme di tutti rivolgere alla vera mia caſa
i penſieri: Juſtum eſt ut aliquando provideans
etiam domui mea. Così dobbiamo dire, miei di
lettiſſimi, e guai a noi ſe non diciamo così, "-
ClC
Per la Domenica di Settuageſima. 245
chè nell'eternità ſenza caſa non ſi ſtà. Chi non la
vuole tutta delizie, l'averà tutta pene, e chi in
vita non ſi lavora una reggia nel Paradiſo, ſi la
vora una prigion nell'inferno; quì non v'è mez
zo. Una delle due: o reggia, o prigione: ſe
prigione vi aggrada, tenetevi care, o ſenſuali, le
voſtre incontinenze, le voſtre albagie o ſuperbi,
i voſtri puntigli o vendicativi, le voſtre pompe
o mondani.
Quanto a me, Gesù mio, ſe il voſtro aiuto mi
aſſiſte, una reggia io voglio: ah perchè ſarò io
sì ſtolto di volere un albergo di pene, ſe il poſ.
ſo aver di delizie! E' vero, che per l'addietro
mi ſono lavorato con le male mie opere una
prigione, ma ſono riſoluto di diſtruggere con
la penitenza il mio cattivo lavoro. Deteſto col
più vivo dolore, che poſſo i miei peccati, e non
vorrei mai avermi con eſſi fabbricata la triſta
caſa: voglio nell'avvenire con l'eſercizio delle
virtù prepararmi una reggia, in cui regnare con
voi. Voi concedetemi, ch'io ne prenda adeſſo
da' voſtri eſempi l'idea, per poi prenderne in
morte con la voſtra grazia il poſſeſſo. Ve ne pre
go per le piaghe, che adoro nelle voſtre ſan
tiſſime Mani. -
E' noſtra vera caſa, perchè alloggiati, che vi Pos
ſaremo una volta, non ne uſciremo mai più. Se roIII,
chi ha d'un fondo un immemorabile poſſeſſo,
può giuſtamente chiamarlo ſuo; con quanto più
di ragione noſtra dee dirſi la caſa dell'eternità,
il cui poſſeſſo ha da ſtenderſi a ſecoli ſenza fine:
Io voglio ben accordare al Santo Davidde, che
pel lungo poſſeſſo chiamar ſi poſſa in qualche
modo caſa noſtra anche il ſepolcro: Sepulchrum Pſi -
torum, donus illorum ; ma queſta alla per fine
Q 3 IlOIA
v,
2 46 - Difarfo XIII.
non è di tal maniera caſa noſtra, che non ſe ne
abbia da uſcir mai : Ne duri pure il poſſeſſo ad
anni, a luſtri, a ſecoli: giorno però verrà,
in cui diſtruggeraſſi la caſa, e uſciranne chi l'abi
ta. Ma non così, dilettiſſimi, è la caſa dell'e-
ternità. Ella è fatta con si artifizioſa ſtruttura,
che oltre il non eſſere le ſue mura ſoggette a
rovina, ha porta per entrarvi, ma per uſcirne
non l'ha: chi vi entra una volta, vi abita ſeni
pre, e più non ha in ſua balia il mutarla, o
lire e buona, che la trovi, o cattiva: Si ceciderit li
gnunº ad auſtrim (così parla d'ogni uomo ſotto
la metafora di un albero lo Spirito Santo) aut
ad aquilonem, in quocazque loco ceciderit, it i
erit, che vale a dire nel ſenſo noſtro, giuſta la
ſpiegazione d'Ugon Cardinale, che ſe termina
to con la vita il lavoro, troveraſſi delizioſa la
caſa, ivi ſi ſtarà in eterno, ibi erit, e gioiraſſi
per ſempre: e ivi pure in eterno ſi ſtarà, ſe tro
veraſſi penoſa, ibi erit, e per ſempre ſi piange
rà: Qualevi locura hic ſibi para verit, in futuro
babelit ſine fine.
Quindi ſe la caſa, in cui ſi entra, è caſa di
felicità, chi può eſprimere il giubilo dell'ani
ma eletta al primo porre, che vi fa il piccie,
la trova di aſpetto sì bello, che ha inveſtita lo
ſteſſo Dio; ed è un aſpetto, che dura ſempre:
La trova di vicinato sì nobile, che ha d' ogni
intorno cori d'Angioli, e ſchiere di Santis e
queſto vicinato mai non ſi cambia : La trova di
clima sì dolce, che altrº aria non vi ſi reſpira ,
che di contenti, e queſto clima mai non ſi al
tera: La trova illuminata da un Sole, che mai
non tramonta, abbellita di addobbi, che mai
non invecchiano, fornita di delizie, che mai non
finiſcon
Per la Domenica di Settuageſ ma, 247
finiſcono, arricchita di teſori, che mai non iſce
mano. Ed oh ( non può a meno, che non eſcla
ini,) che bella, che cara, che dolce caſa. Qui
dunque avrò il mio ſoggiorno in crerno, ſenza
che mai più mi affigga un dolore, ſenza che
mai più una malinconia mi cruc; ; ſempre ia
contentezze, ſempre in godimenti di albergo
si luminoſo, e si vago ne avrò per ſempre il
poſſeſſo! O mie ben impiegate fatiche, o mie
ben tollerate tribolazioni, care mortificazioni,
are penitenze, care divozioni, che i fabbri
ciſte una caſa di tranquillo, di ſicuro, di eterno
ripoſo !
Ma quanto per fo contrario freme diſperata
un anima reproba, ai prendere che fa il poſſeſ
io della ſua miſera caſa. Al primo fiſſat d ilo
ſguardo in quelle fiamme, delle quali dovrà in
terno ſoffrirne le arſure, in quel demoni, de'
guali avrà in eterno da tollerare gli oltraggi, in
quelle catene, delle quali avrà in eterno a ſen
tirne il peſo, in quelle tenebre, delle quali do
vrà in eterno provarne l'orrore; in che tir ,
che ſmanie forza è, che l'infelice prorompa.
da luogo sì triſto non avrò io mi ad uſcirne?
e udiraſſi riſpondere: mai mai. Ei in pene sì
atroci avrò io a gerner ſempre? ſempre. Non
mai uno ſpiraglio di luce, che mi rallegri? no :
ſempre in iſpaſini, ſempre in diſperazioni? sì:
pcr tutti i ſecoli niſſun ſollievo º riſuno: niſſi
na ſperanza è diſuna: niſſuna pietà? niſſima. Ci
che caſa, che intollerabile caſa! Ma queſto ap,
punto vuol dire caſa di eternità. Vi ſi entra per
non mai più uſcirne, vi ſi abita per ma più non
militaria. Su queſta terra chi alberga in una caſa
o incommeia per anguſtia, o rovinoſº per an
Q 4 tichità,
248 Diſcorſo XIII.
tichità, o inſalubre per ſito, o malinconica per
oſcurità, può, ſe vuole laſciarla, o ſe vuole la
può diſtruggere : e fin quel miſero, i cui miſ
fatti han condannato ad iſtancar con un remo
i ſuoi giorni, o a ſatollare in fondo di una torre
con pan di dolore la vita, può ſe non altro con
ſolarſi con dire: verrà un dì mia liberatrice la
morte. Ma caſa di eternità da chi vi mette una
volta il piede, nè può cambiarſi, nè può di
ſtruggerſi; nè più vi ha morte, che con dar fine
al vivere, dia fine al patire.
Guai però ai peccatori, ſclama Ceſario Are
latenſe, che ſenza badare alla caſa, che con la
rea loro vita ſi van fabbricando, ſenza viſitarla
prima con un penſiero, ſenza riconoſcerla al lu
me della fede, vi entrano ad occhi chiuſi, e
allora ſolo cominciano a ravviſarla per quell'or
rida, ch'ella è, quando già ne ſono al poſſeſſo:
guai, guai: Ve peccatoribus qui incognitam, ci
inſalutatam ingrediuntur eternitatem ! Miſeri,
che non ſi avveggono ſe non tardi del doppio
loro male: Ingrediuntur, ecco il primo: & non
regrediuntur, ecco il ſecondo peggior del pri
mo. In una caſa di fuoco è un gran male l'en
trarvi, ma il peggio è ancora il non averne a
uſcire: Ve duplex ingrediuntur, 6 non regre
diuntur. Igrediuntur, perch'eſſi medeſimi la vo
gliono, e ſe la fabbrican di propria mano: Non
regrediuntur, perchè decreto irrevocabile d'ine
ſorabile giuſtizia chiude in eterno la porta: In
grediuntur, perchè vi ſi accoſtano a paſſi oſtina
ti di colpe: Non regrediuntur, perchè colà den
tro più non ha luogo ſalutevol pentimento. Av
vertiti di ſpegnere quegli amori, e quegli odj,
di eſtirpare quelle paſſioni, e quegli abiti, di
fuggire
Per la Domenica di Settuageſima. 249
fuggire que ridotti, e quel giuochi, di abban
donare quelle compagnie, e quelle pratiche, di
non differire più a lungo la penitenza, di lavar
con pronte lagrime le loro colpe snon curano
gli avviſi, e proſeguiſcono ad alzare l'eterna lo
ro infeliciſſima caſa ! Ah ſventurati ! tal ſia di
loro, ſe poi vi entrano, e non ne eſcono più:
Va peccatoribus, ve duplex: Ingrediuntur, o non
regrediuntur.
Ma laſciamo coſtoro, che quì forſe non ſono,
e veniamo a noi, cari miei uditori. Una caſa
da cui non avremo mai ad uſcirne ben merita
le noſtre più ſerie applicazioni. Perchè niſſuna
più di queſta ſi può dir caſa noſtra : e però ſe
abbiamo ſenno, viſitiamo un poco il lavoro,
che abbiamo fatto finora: diamo un'occhiata agli
impieghi, che abbiamo eſercitati, alle compa
gnie, che abbiamo frequentate, alle inchina
zioni, che abbiamo nodrite, alle opere, che ab
biamo fatte: che ce ne pare, dilettiſſimi? Co
teſto noſtro lavoro ci dà ſperanza, che ſia per
riuſcirne una caſa da ſtarvi bene per ſempre ?
Quando no, deh diſtruggiamo, cari uditori, il
mal fatto, e ſenza dilazione veruna con una vita
più Criſtiana, più ſanta, mettiamo mano a mi
glior caſa. L'eternità o miſera, o felice ſi ac
coſta: Ponderiamo quel ſempre, e qual mai, che
troveremo nella noſtra eterna eaſa, ſempre di
letti, ma una pena, ſe ſarà caſa di beatitudine.
Sempre pene, mai un diletto ſe ſarà di miſerie,
o ſempre ! o mai ! o eternità º incomprenſibile
eternità ! Stolto chi a te non penſa, ſtoltiſſimo
chi a te penſando, non ti aſſicura beata !
O mio Gesù, ſia l'eternità il primo de'miei
penſieri, ſia la maſſima delle mie premurº" l
2 se IDiſcorſo XIII.
di che farò io ſollecito, ſe non lo ſono di quella
caſa, in cui entrato una volta, non avrò ad u
ſcirne mai più. Ah, che in riguardo a queſta
ſono inezie, ſono un nulla tutte le coſe, che ii
Mondo ſtima; cſſ re per ſempre felice o queſto
sì, queſto è bene. Deh Redentore mio caro, per
quella piaga, che adoro nei fagroſanto voſtro
Cºſtato, datemi grazia, ch'io viva in modo ,
che mi aſſicuri una beata eternità. In queſta vita,
in cui tutto finiſce, trattatemi come a voi piace:
sue cre a me preme, e che a voi chiedo, ſi
è, che ſia caſa di felicità quella, in cui avrò da
ſtare per tutti i ſecoli.
zº:
3G

D i S C o R 8 o XIV.
P E R LA D o M E N io A D I
S E SS A GE S IM A.

Perdita del tempo,

Aliud ceci lit in terram bozzata, e ora un feci,


frui7 centuplitº. i lic. 8. -

º a E bella è la ſorte di chi conſegnando r

-
?
fe
S º?; alla
è
terra poca ſemente, ſe la vede
alla medeſima reſtituirsi copioſa, che
º ogni grano, che ſpargeſi, raccogli ſi
vcenti plicato; ſappiate, uditori, ch'ci.
la è, ſe pur la vogliamo, forte tutta di noi,
Noi ſiamo quei fortunati, alle cui mani è com
- gitella
Per la Domenica di Seſſageſima. 2S I
meſſa una ſemente così feconda, che il di lei
frutto a noſtro grande vantaggio può aſcendere
non ai centuplo ſolamente, ma all'infinito. Bra
mate ſapere qual ſia fuor di metafora ſemente
si prodigioſa è Ella è il tempo: Queſto, sì, que
fio , uditori, è un ſeme di tal virtù, che ove
buon terreno lo accolga, produce un frutto ſo
pra ogni credere immenſo: perchè con l'impie
i go di giorni e di anni breviſſimi, e queſti ſteſſi
pieni non d'altro, che di guai, e di lagrime,
portaci una ricolta di giorni infiniti, colmi tutti
di contentezza. Tutto ſtà, cari uditori, che un
feme così operoſo non abbia la deplorabile diſ
detta di cadere ſopra un terreno infelice, che
: i impediſca o di germogliare, o di creſcere: O
Dio, che perdita, che lagrimevole perdita ſa
rebbe mai queſta! Eppure pur troppo ſi avvera
del tempo la diſgrazia medeſima, che all'odier
no Evangelico ſeme leggiamo avvenuta di quat
tro parti, tre ne andranno a male: l'urva per
chè caduta lungo la via, l'altra ſopra le pietre,
la terza entro le ſpine : Aliud cecidit ſecum vi
am, aliud ſupra petram, aliud inter ſpinas. Una
ſola ha la ſorte di cadere ſul buon terreno, e di
produrre centuplicato il ſuo frutto : Aliud cect
ditterran bcman. Così pure avviene al tempo:
da altri ſcialacquato in diſſolutezza, figurato nel
ſeme caduto lungo la ſtrada ; da altri ſpeſo nell'
ozio, figurato nel ſeme caduto ſopra le pietre;
da altri conſumato unicamente in coſe di Mon
do, figurato nel ſeme caduto entro le ſpine; ſolo
da alcuni pochi impiegato a fruttificare una bea
ta eternità, figurato iel ſeme caduto ſu buori
terreno. Tempo ſventurato, che avendo in ſe
virtù sì operoſa, è coſtretto a perir ſenza i"
- ſvig,
252 Diſtorſo XIV.
Ma più ſventurati coloro, che potendo col buon
uſo del giorni loro, raccorre una meſſe di eter
ni feliciſſimi anni, ſono cagione, che periſca in
fecondo un ſeme sì prodigioſo. Una perdita si
luttuoſa ben merita, cari uditori, i noſtri rifleſ
ſi, affinchè o per diſgrazia da noi non s'incor
ra, o per indolenza non ſi traſcuri : E però mi
fo a moſtrarvi con quanta ſollecitudine debba da
noi impiegarſi; primo, perchè ella è una per
dita in ſe ſteſſa graviſſima, e tale la vedremo
nel primo punto; ſecondo, perchè ella è una
perdita a noi dannoſiſſima, e tale la vedremo
nel ſecondo punto; terzo, perchè ella è una per
dita a Dio ingiurioſiſſima, e tale la vedremo nel
- terzo punto. Cominciamo.
e º perdita in ſe ſteſſi graviſſima. Se non può
ri conoſcere quanto ſia grave una perdita, chi non
conoſce prima il valore di ciò che perdeſi, co
me farò io mai queſta ſera a mcttervi in chia
ro il valore del tempo, affinchè quindi s'in
tenda quanto ſia grave la perdita, che ſe ne fa.
Se ne interrogo i Morali, mi riſpondon con Se
neca, che il tempo è di tutte le coſe la più pre
zioſa : Res omnium pretioſiſſima, ſe ne interro
go i Santi Padri, mi riſpondono con S. Bernar
do, che non vi ha prezzo da metterſi al con
fronto con quel del tempo: Nihil pretioſius tem
pore; ſe ne interrogo la fede medeſima, mi ri
ſponde con l'Eccleſiaſtico, che dee averſi del
tempo, come di coſa al ſommo pregievole, u
Eccl. 4 ma ſollecita cura : Fili conſerva tempus. Tutto
benc ; ma da queſte riſpoſte s'intende bensì,
ch'egli è ineſtimabile il valore del tempo, ma
il perchè d'un valore sì grande ancor non s'in
tende, lo pertanto a trarmi d'impegno farò così:
Il
Per la Dom. di Seſſageſima. 253
in quella guiſa, che dallo sborſo, che per una
gemma ſi fa, ſe ne conoſce il valore; così
dall'immenſo acquiſto, che faſſi con l'impiego
del tempo, darò in qualche modo a conoſcere
l'immenſo ſuo prezzo. Ditemi però, dilettiſ
ſimi, ſe da ricco eſperto Mercante udiſte per
una gemma eſibirſi, quanto di merci ha ne'ſuoi
fondachi, quanto d'argento, cd oro ha ne'ſuoi
ſcrigni, e quanto ancora di entrata ha dal cam
po, e dal colle; voi certamente attoniti ad e
ſibizion sì ampie: che gemma, direſte, che pre
gioſa gemma ſi è mai coteſta ? Or udite, dilet
tiſſimi, ciò, che ſi acquiſta col tempo, da chi
ſa ſpenderlo, e poi, ſe potete, non ne ammi
rate l'ineffabil valore.
Voi ſapete, uditori, che la grazia divina è sì
prezioſa, che un grado ſolo di queſta ſupera
nel valore quanto ha di pregievole natura tut
ta: Bonum grati e unius majus eſt, quan bonam"
nature totius univerſi: è dottrina di S. Tom-,i,
maſo: eppur egli è certo, che di queſta grazia
col tempo, ſe ben s'impiega, ſe ne acquiſtan
teſori: voi ſapete, che la gloria celeſte è un
ben sì grande, che al dir dell'Appoſtolo non
può da noi concepirſi, non che deſcriverſi: Oe ºr
culus non vidit, nec auris audivit, nec in cor
hominis aſcendit, que preparavit Deus iis, qui
diligunt illum seppur egli è certo, che ſolo col
buon impiego del tempo queſta gloria ſi ac
quiſta, e tanto più ſe ne acquiſta, quanto più
di tempo s'impiega bene: Voi ſapete, che non
ha prezzo una felicità, che non ha fine; eppur
egli è certo, che queſta medeſima beatiſſima e
ternità ella è tutta di chi ſa fare del tempo un
uon traffico: Exiguumº perituri temporis, eter
mitatis
2 54 Diſcorſo XIV.
nitatis eſt pretium, lo ſcriſſe Girolamo. Che piu'
voi ſapete, che pio è il bene di tutti i beni,
bene infinito, bene incomprenſibile, ben eterno;
eppur egli è certo, che non altrimenti ſi ottie
ne, che con il tempo il poſſeſſo di Dio medee
ſimo. Argomentate ora , uditori, e dite, ſe in
un giuſto contratto, in cui debb eſſere propor
zione tra ciò, che ſi dà, e ciò, che riceveſi, e
il valore dell'uno, debb eſſere giuſta prova del
valore dell'altro, quanto convien dire, che va
glia il tempo, in cui contraccambio riceveſi
grazia divina, gloria celeſte , eternità beata ,
poſſedimento di Dio! Ah, che diſſe in breve,
ma diſſe tutto S. Bernardino, qualora diſſe, che
il tempo gareggia nel prezzo con Dio medeſi,
mo: Tantum valet tempies, quantum Deus.
Ma perchè un bene allora l'ordinario più ſi
conoſce, quando più non ſi ha i cerchiamo
qual ſia il prezzo dal tempo, e dai beati del
“Cielo, e dai dannati dell'Inferno, gli uni nella
ſua gloria, gli altri nelle ſue pene privi del tem
po. Sapete, uditori, che ne dicono gli uni, e gli
altri? icono i primi, che ſebbene avvampino
eſſi d'un amore puriſſimo, d un an or ferven
tiſſimo, di un amor perfettiſſimo verſo Dio,
coatuttociò nè più di grazia ſi acquiſtano, nè
più di gloria ſi accreſcono, perchè all'amor
loro manca il prezzo del tempo. Dicono i ſe
condi, che ſebbene ſi ſtruggano in amariſſime
lagrirne, e deteſtino con dolor ſommo le lo
ro colpe, contuttociò nè ſperano, nè ſperar
poſſono pietà e perdono, perchè al pianto lo
ro, al lor dolore marca il prezzo del tempo.
Ed oh quanto colmi anderebbono e gli uni, e
gli altri di gioia, e loro ancor ſi accordaſſe un
- ora
Per la Dom di Sei gallina, º 55
ora di tempo i Gioirebbono i primi, perchè col
traffico di quell'ora un Paradiſo ſi acquiſtereb
boro di gran lunga più bello di quel che go
dono: E più ancora le gioirebbono i ſecondi,
erchè con quell'ora ſola di tempo ſcootereo
bono gi immenſi loro debiti se riſcatta doſi dial
la ſchiavitù, in cui gemono, cambierebbogo le
loro catene in un diadema immºrtale. Tanto ſa
prebbono e gli uni, e gli altri far di quel era un
buon traffico, conſapevoli ch ſi ſono dell'im
smenſo ſuo prezzo, -

Cr s eila è graditiinia la ſtima, che fa del


tempo, chi più lo conoſce; e ſe di fatto io
mottrano prezioſiſſimo gl imnte ſi acquiſti, che
con eſſo ſi fanno, non ho io ragione di dire,
uditori, ch eila è in ſe graviſſima ogni perdi
ta, che ſe ne faccia ? E qual perdita può con
cepirſi più grave di quella, in cui ſi perdono
ricchezze inefabili di grazia, e di gloria, che
vale a dire di quel teſori, che fanno e in que
ſta vita, e nell'altra la più bella noſtra dovi
zia. Eppure, ah quis dalit, dirò ancor io con º
Geremia, capiti neo acquam, ci oculis meis fore
tem lacrymarua ! Chi mi cambierà in due fon
ti di lagrime queſti occhi, ſiccome poſſa pian
gere come merita d'eſſer pianta l'inſenſatezz
di tanti Criſtiani, che di un teſoro così prezio
ſo tanto ne perdono, quanto ne hanno ! E può
egli mirarſi ad occhi aſciutti l'impiego trito,
che fan o del loro giorni, dei loro reti, deio
ro anni, chi tutto intento ad affari di mondo,
ad altro non penſa che a ſtabilire la ſua for
tuna: citi affaccenda o in lavori domeſtici, tut
ta contagra al genio di far roba la ſua giorna
tas chi daroii ad tra vita tutta intorbidezza,
- ripar
256 Diſcorſo XIV.
riparte in modo le ore, che la mattina, reſa
dal lungo ſonno aſſai breve, daſſi allo ſpecchio,
il giorno alle viſite, la ſera alla converſazione,
e chi ancora di null'altro ſollecito, che di sfo
gare le ſue paſſioni, quanto ha tempo, lo im
piega in amori, in giuochi, in diſſolutezze, in
gozzoviglie: Sicchè ben può dirſi di gran nu
mero di Criſtiani ciò, che de' ſuoi gentili ſcriſ
ſe il Morale, che una gran parte della vita s'im
piega in far male, la maſſima parte in far nul
la, e tutta in fare tutt'altro di quel che deeſi,
e : Si volueris attendere, magna vita pars elabitur
male agentibus, maxima nihil agentibus, tota
aliud agentibus. E non è da piangerſi a calde
1agrime, cari uditori, che ſi perda così una co
fa di tanto prezzo?
Che direſte voi mai di chi alle rive d'un fiu
me dovizioſo d'oro, e d'argento, di perle,
di gemme: ſe ne ſteſſe raccogliendo non altro,
che conchiglie inutili, alga vile, legni putridi,
fango ſchifoſo. Inſenſato, direſte, hai in tua
mano la tua fortuna, e tu la perdi; puoi tra
queſte acque peſcar teſori, e ti appaghi di vil
tà, e d'inezie. Or queſta appunto, dice S. Baſi
lio, di cui è la ſimilitudine, e la noſtra inſen
ſatezza; queſto fiume ſi è il tempo, fiume per
chè ſcorre ſempre, nè mai ſi arreſta, e fiume
ricchiſſimo, perchè pieno di quel teſori, che deb
bono far la dovizia delle noſtr'anime. Alle ri
Pſ -. ve di queſto fiume ſiam noi: Plantati, giuſta
la fraſe del Salmiſta, ſecus decurſus aquarum,
e inſenſati, che ſiamo, non curiamo i teſori,
che ci ſi fan ſotto agli occhi, per provveder
ci di che? di fraſcherie, d'inutilità, di putridu
me: Conchas aggerimus, direbbe con la i"
Illa
Per la Dom. di Seſſageſma. 257
ſima allegoria il Nazianzeno, margaritas core
temnimus. Così è pur troppo, cari uditori, ci
vagliamo del tempo per coſe da nulla, per
quelle, che importano, o non vogliamo, o
non ſappiamo valercene ; anzi sì poco ſi ap
prende il perderlo, che a bella poſta ſi ſtudia
il come paſſarlo ſenza far nulla. Dite a colui,
che fa in quel ridotto, che fa quell'altro in quel
circolo: dite a colei, che fa in quella veglia,
che fa quell'altra in quella viſita: Mi vo così
trattenendo; riſpondono, finche paſſi queſt'ora,
in cui non ſo coſa farmi. O riſpoſta troppo in
degna d'una lingua Criſtiana! Come? dice quì
S. Bernardo. Tu puoi in queſt'ora ſcontar le
tue colpe, tu puoi in queſt'ora far acquiſti di
grazia, tu puoi in queſt'ora aſſicurarti la glo
ria, e queſto appunto ſi è il fine, per cui da
Dio queſt' ora ti è data: e tu hai cuore di di
re, che ti vai trattenendo finch ella paſſi, per
chè non ſai coſa farti: Donec pertranſeat hora, Ber.de
hora, quam tibi ad agendam panitentiam, ad "
obtinendam veniam, ad acquirendam gratiam,
ad promovendam gloriam, miſeratio conditoris in
dulget. Ah, miei dilettiſſimi: ſe aveſſimo un
pò di quel lume, che avean i Santi, non è già
vero, che il tempo ſi perderebbe, come ſi perde ;
ſiccome più ſe ne conoſcerebbe il prezzo, così an
cora più ſe ne apprenderebbe la perdita. Ma il no
ſtro male ſi è, che il prezzo del tempo da noi non
ſi conoſce: e per queſto tanto ſe ne perde in
viſite, tanto in giuochi, tanto in paſſatempi,
e tanto in ozio. Perdiamo teſori di meriti, te
ſori di grazia, teſori di gloria, e non lo ſap
piamo; e non ſol non lo ſappiamo, ma nel
tempo ſteſſo, in cui ſi fanno sì gravi perdite,
Toano IV. Anno IV. ſi
258 Diſcorſo XIV.
ſi ſcherza, ſi traſtulla, ſi ride. O cecità lagrime
vole! O funeſtiſſima inſenſatezza !
O Gesù caro apriteci gli occhi, affinchè co
noſciamo la gran perdita, ch'ella è, quella del
tempo. Ah, che finora noi non abbiamo ca
pito quanto ſia prezioſo quel tempo, che voi
ci date : Onde ci è pur troppo avvenuto, che
fatte ne abbiamo perdite immenſe. Deh buon
Gesù, per quelle Piaghe ſantiſſime, che ne vo
ſtri Piedi adoriamo, dateci grazia, che capia.
mo una volta, che dal tempo dipendono tutti
gli acquiſti di meriti, e di virtù, di grazia, di
gloria; ſicchè facendone nell'avvenire buon
uſo, ci troviamo in morte ricchi di quel teſo.
leri, che col tempo ben impiegato ſi acquiſtano.
i
ºrO II,
E' perdita in ſeſ" dannoſiſſima. Pare, udi
tori, che a dimoſtrare, quanto la perdita del
tempo ci ſia dannoſa, baſtar potrebbe ciò, che
nel primo punto ſi è detto. Imperocchè ſe non
può non eſſer dannoſa ogni perdita, che in ſe
ſia grave, avendo noi veduto, che la perdita
del tempo è graviſſima sper legittima conſe
guenza ne viene, ch'ella altresì non poſſa non
eſſere dannoſiſſima. Veriſſimo. Ma credete voi,
uditori, che il danno di queſta perdita proceda
ſolo dall'eſſere grave: no, dilettiſſimi, proce
de ſingolarmente dall'eſſer perdita irreparabile.
Così è, cari miei uditori, ciò che ſopra d'o-
gni altra perdita rende dannoſa quella del tem
po, ſi è il non avere riparo. Grave è la per
dita della roba involataci da man rapace, ma
può una reſtituzione riparar ogni danno. Gra
ve è la perdita dell'onore annerito da lingua
maledica, ma può ripararne lo ſmacco lo ſco
primento della calunnia. E' grave la psiti 3
Per la Dom. di Seſſageſima. 2 59
la ſanità, ma può ripararſi con i rimedj. Gra
ve, graviſſima è la perdita della vita, ma que
ſta ancora, ſe non con altro, può ripararſi con
un miracolo. Ma la perdita del tempo, cari u
ditori, può ella mai ripararſi? Riaverete voi
mai quelle ore, che avete perdute nell'ozio?
Riacquiſterete voi mai quegli anni, che avete
perduti in vanità, e in amori? E tutto quel
tempo, che avete ſpeſo in negozi di Mondo
ſenza penſare mai nè a Dio, nè all'anima, lo
ricupererete voi mai? no miei dilettiſſimi, quel
ch'è perduto, è irreparabilmente perduto, e
quel Dio medeſimo, che ha ubbidienti a ſuoi
cenni i miracoli, far non può, che il tempo
perduto non ſia perduto. Queſto è uditori, che
ci rende queſta perdita al ſommo dannoſa; l'eſ
ſer tal perdita, che fatta una volta non ſi ri
para mai più ; ond'ebbe a dire S. Bonaventura,
non eſſervi perdita, che più di quella del tem
po ci ſia nociva: Nulla jačtura gravior eſt no
bis, quam jačtura temporis perditi; perchè ogni
altra perdita, può avere qualche riparo: que
ſta niſſuno.
Ma Padre, mi dirà forſe taluno, e non poſ
s'io riparare il paſſato con l'avvenire? Non poſ.
s'io rimediare al mal uſo del tempo ſcorſo col
buon impiego di quel che reſta ? Quì appun
to io vi aſpettava, perchè voi medeſimo mi da
te in mano con che mettervi ancor più in chia
ro il danno di queſta perdita. E primieramen
te vi riſpondo, che quand'anche molti foſſe
ro gli anni, che ancor vi reſtan di vita, con
tutto il buon uſo di queſti mai non otterrete,
che gli anni di già perduti non ſieno perduti
2,
e in conſeguenza mai non ", che non
2,
ſia
VI
26o Diſcorſo XIV.
vi d'un ſommo danno la perdita, che ſe n'è
Luc. 1 a fatta:
e poi avete voi un avvenir che ſia vo
ſtro, un avvenir che ſia certo ? Stulte, fu det
to a colui, che prometteaſi lunghi anni, hac
nocte repetent animam tuam a te. Siete Giova
ne: ma quanti hanno portato alla tomba il cri
ne ancor biondo; Siete robuſto: ma quanti ne
ha ſvelti dal Mondo la morte nel più verde del
le loro forze: qual capitale potete voi dunque
fare di un avvenire, che non è in voſtra ma
no, di un avvenire, che forſe non avrete, d'un
avvenire, che come ha già ingannate le ſpe
ranze di tanti altri, ingannerà ancora le voſtre?
Vano è pertanto, che ſopra d'un ben futuro ſi
fondi il compenſo del mal paſſato s che anzi
un avvenir sì dubbioſo, più fa conoſcere il
danno delle perdite, che ſi ſon fatte, mentre
queſte ſon certe, e quello è incertiſſimo.
O ſi riguardi dunque il paſſato, o riguardi
ſi l'avvenire; quello perchè più non può ri
chiamarſi, queſto perchè niſſuno ſel può pro
mettere, moſtrano, quanto ci ſia dannoſa la
perdita di cui ragiono. Ma vi è ancora di più.
Più del paſſato, più del futuro ci moſtra il dan
no di queſta perdita il tempo preſente, perchè
velociſſimo, perchè breviſſimo. Vedete, udito
ri, che fuga, che corſo, che precipizio ſi è
mai coteſto. Un ſolo inſtante fa tutto il capi
tale del tempo, che abbiam preſente: Ma que
ſto inſtante appena comincia, che già finiſce,
appena giunge, che già ſcompare. Al primo
ſuccede toſto il ſecondo, al ſecondo il terzo,
e incalzandoſi ſtranamente gli uni gli altri, men
tre voglio dire ecco il preſente, già non v'è
più. Eppure queſto è quell'unico tempo, che
poſſiam
Per la Dom. di Seſſageſima. 26 I
poſſiam dir noſtro: il paſſato non è noſtro,
perchè non vi è più, il futuro non è noſtro,
perchè ancora non vi è. Noſtro è ſolamente
quell'unico velociſſimo inſtante, che abbiam
preſente; ora ſe queſto ſi perde, chi non vede,
quanto in una perdita, che par sì piccola, ſia
grande il danno: mentre ella è perdita di tut
to quel capitale di tempo, che noi abbiamo;
tempo, è vero, breviſſimo, ma pure unico no
ſtro tempo. Sebben non è ſolo il preſente, miei
dilettiſſimi, che ſia breve: mettete pure col pre
ſente il paſſato: e il futuro, tutto è breviſſimo:
Breves dies hominis ſunt. Rivolgete uno ſguar Job.14.
do al paſſato, vi par un nulla; tanto ſe n'è ito
veloce: e un nulla ancora vi parerà quello, che
reſta, quando ſarà traſcorſo. Brevità, che tan
to più merita i noſtri rifleſſi, quanto più ſono
le coſe, che in sì poco tempo hanno a farſi. Si
hanno a domare paſſioni, ſi hanno a ſvellere
mali abiti, ſi hanno a ſcontare peccati, ſi han
no ad acquiſtare virtù, ſi hanno a raccogliere
meriti, ſi ha da condurre a buon termine l'im
portantiſſimo affare della ſalute; tanto che con
frontando il tempo, che ſi ha, con le coſe,
che ſi hanno a fare, ben poſſiamo dir con quel
Savio, che di niente più , che del tempo ab
biamo ſcarſezza: Nullius rei majorem patimur
inopiam, quam temporis. E potrà poi negarſi,
uditori, che l'andar perdendo un tempo si bre
ve, non ſia d'un danno ſommo ? Lo crede
gran danno un Artiere, ſe ha molti lavori a
ſpedire: lo crede gran danno un Pellegrino, ſe
ha molta ſtrada a fare: e nol crederemo noi
un gran danno con tanto, che abbiamo a fare,
e tutto di gran rilievo, tutto di assi "- ll-
262 Diſcorſo XIV.
diſpenſabile ! Ah, che il danno egli è sì enor
me, egli è si chiaro, che biſogna eſſer cieco
per non vederlo.
Si vede in fatti: pur troppo ſi vede, miei di
lettiſſimi, ma ſi ſoffre con pacc, ed ecco un al
tro male peggior del primo: ſi vede il gran dan
no, e ſi ſoffre, non ſe ne prova rincreſcimento,
non ſe ne ſente rammarico. Se da una gragnuola
il campo ne ſoffre danno: o Dio che ſoſpiri! ſe
da un incendio ne ſoffre danno la caſa: che affli
zione: ſe da una lite ne ſoffre danno il patrimo
nio: che lagrime! che dolore ! Maggiore di
quel del campo, maggiore di quel della caſa,
maggiore di quel del patrimonio è il danno, che
viene dal tempo perduto, e l'afflizione dov'è,
dove le lagrime, dove i ſoſpiri! Nulla di queſto,
anzi ſomma tranquillità, e ſomma pace: e pia
ceſſe a Dio, che un danno per altro sì grave, ſolo
non ſi ſentiſſe, il peggio è, che ſi giunge a go
derne, e a farſene gloria. E non udiamo con qual
gioja ſi parla del tempo che perdeſi. Paſſa colei
in una partita di divertimento intero il giorno:
ed oh, dice, che bella giornata è ſtata queſta per
me. Ritorna colui in ſul martino tutto giulivo
dal giuoco con buon guadagno: ed oh, dice, che
notte fortunata è ſtata mai queſta. Udiſte ? Bella
giornata, fortunata notte ſi chiama un giorno
tutto perduto, una notte tutta perduta. Tanto
è vero, che una perdita sì dannoſa non ſolo non
addolora, non ſolo ſi ſoffre con cuor tranquillo,
ma ſi ama, ſi cerca, ſi deſidera, ſi procura. E
chi mai crederebbe, ſe cotidiana ſperienza non
cel moſtraſſe, chi crederebbe, che ſi poteſſe
giungere a tanto di godere del ſuo medeſimo
danno, e di danno sì rilevante! M
3.
Per la Domenica di Seſſageſima. 263
Ma non ſarà ſempre così, miei cari uditori.
Verrà un giorno in cui piangeraſſi ma ſenza prò
perdita sì pernizioſa. Steſo in un letto da mortal
morbo lo ſpenſierato ſcialacquatore del tempo,
allora ſentirà il danno delle ſue perdite, e ſcor
gendoſi povero, e ſprovveduto di ſante opere:
9uis mihi reddet, dirà ſoſpirando con le parole,
che gli mette in ſulla lingua Euſebio Emiſſeno,
illam diem quam in rebus vanis perdidi. Chi mi seri,
rende adeſſo quelle ore, che ho ſpeſe in viſite º
inutili, chi mi rende que giorni, che ho ſagrifi
cati alla vanità, chi mi rende quegli anni, che
ho dati al Mondo: Quis, quis mihi reddet! Ma
perchè il tempo perduto niun lo può rendere,
allora è , che rivolti coſtoro a chi li aſſiſte, o Pa
dre, ſogliono dire, ſe Dio mi rende la ſanità, ſe
mi concede ancor qualche anno di vita; ah ſa
prò ben farne un uſo migliore! Vi proteſto, che
l'impiegherò in preghiere, in limoſine, in eſer
cizj di pietà; deh pregate voi Dio, che mi laſci
ancor un poco di vita. Ma il proporre che giova!
Già è ſegnato il decreto, che tempus non erit am
plius. Il tempo è finito, convien morire. Morire?
e il danno delle perdite fatte; il danno ſi conoſce,
ſi ſente, ſi piange, ma inutilmente, perchè non
può ripararſi. Che crepacuore! che diſperazio
ne! che morte!
O mio Gesù, non ſia mai queſta la morte mia,
ve ne prego per quelle piaghe, che adoro nelle
voſtre mani ſantiſſime. No: non permettete ,
che io aſpetti nel punto eſtremo a conoſcere, e a
piangere il danno delle perdite pur troppo gran
di, che ho fatte del tempo. Datemi grazia, che
lo conoſca adeſſo, che adeſſo lo pianga. O buon
Gesù, ſe poteſſi riparare perdite sì pernizioſe,
R. 4 - quan
264 Diſcorſo XIV.
quanto volontieri richiamerei quelle ore, quei
giorni, quegli anni, che ho miſeramente per
duti: ma giacchè il tempo, che ho perduto, egli
è purtroppo irreparabilmente perduto, vi pro
metto, che avrò tanto più di attenzione ſull'avve
nire, quanto circa il paſſato è ſtata maggiore la
traſcuranza; ſicchè ſe in morte mi affligera il mal
impiego del tempo avuto finora, mi conſoli al
meno il buon uſo di quello, che ancor mi reſta.
5- E perdita in ſe ſteſſa ingiurioſiſſima a Dio. Ri
PuN- cevere un dono di molto prezzo, e poi in viſta
º del donatore medeſimo con man diſpettoſa but
tarlo da ſe, egli è contrapporre, come ognun
vede, a un gran benefizio un grande affronto.
Or queſto, uditori, è l'affronto, che faſſi a Dio
da chi perde il tempo. Imperocchè, che Dio ſo
lo ſia il padrone del tempo, e ne conſervi con
ſomma geloſia il dominio, lo diſſe Criſto mede
Ai 1. ſimo: Non eſt veſtrum noſè tempora vel momenta,
que pater poſiuit in ſua poteſtate; di queſto tempo
ei ne comparte a chi più, a chi meno ſecondo
il ſovrano ſuo arbitrio, e perchè a talun ne dia
poco, ne dia molto a tal'altro, a noi non tocca
il cercarlo, per queſto appunto ch'egli è il pa
drone. Ma poco o molto, ch'egli ne dia, quello
che dà, è ſempre ſuo dono, mero dono, dono
affatto gratuito; e quel ch'è più, dono tale,
che per poco che ſia, è ſempre dono d'ineſtima
bile prezzo. Qual ingiuria pertanto fa egli a Dio,
chi ricevuto ha da lui queſto dono, o per incuria
lo perde, o per malizia lo getta via; e ciò ſugli
occhi di quel Dio medeſimo dalle cui mani è ve.
nuto! Può Dio non mirare con alto ſdegno un
trattar sì villano ? può non recarſelo a grande
affronto? Che un dono ſuo, dono sì grande, co
S1
Per la Domenica di Seſſageſima. 265
sì ſi abuſi, ſi ſprezzi così? che in faccia ſua, ſu
gli occhi ſuoi ſi ſcialacqui, e ſi diſſipi? Non è
queſto un torto, graviſſimo torto, che a Dio
ſi fa ?
Tanto più, uditori, che Dio nel donarci che
fa un tempo così prezioſo pretende, che tutto lo
impieghiamo in ſervirlo, onde chi lo diſſipa,
chi lo perde, viene ad eſſere doppiamente ingiu
rioſo a Dio. Gli fa un'ingiuria ſprezzando il ſuo
dono, e un'altra ingiuria gli fa contravenendo
a ſuoi fini: e qual ingiuria ſia queſta, argomen
tatelo da voi medeſimi. Che direſte voi d'un
voſtro ſervo, che paſciuto da voi, da voi veſtito,
ſalariato da voi, impiegaſſe in tutt'altro il ſuo
tempo, che nel voſtro ſervizio: dal mancare,
che coſtrui farebbe non meno al ſuo preciſo do
vere, che alle giuſte voſtre intenzioni, non ve
ne terreſte voi per offeſi? Or ſiete voi men in ob
bligo d'impiegare in ſervizio di Dio il voſtro tem
po, di quel che ſia un ſervo voſtro, a voſtro ri
guardo ? Ha forſe Dio minor diritto di eſigere
queſto da voi, di quello che voi l'abbiate per eſi
gerlo da un voſtro ſervo? Sarebbe beſtemmia
eſecrabile il ſolo penſarlo; e però ſiccome Dio
per quella eſſenzial ſovranità, che ha ſu noi,
non può non pretendere, che tutto impieghia
mo in ſervirlo il tempo, che abbiamo: così noi
per quella eſſenzial dipendenza, che dobbiamo a
lui, abbiamo un obbligo indiſpenſabile di non
diſtrarne dal ſuo ſervigio pure un momento. Qual
torto pertanto fa egli a Dio, chi del tempo che
ha, fa un tutt'altro uſo da quello che Dio pre
tende; chi invece di ſpenderlo nel divino ſervi
gio, tutto lo impiega in affari di Mondo, o in
vanità inutili, o in divertimenti geniali! Non
- - Oil
266 Diſcorſo XIV.
Non già che Dio, notate bene, abbiaſi per
offeſo, qualora il tempo ſi occupa nell'eſercizio
de' propri impieghi, o nell'attenzione agli affari
domeſtici, o anche in prenderſi qualche modera
to divertimento, no: che anzi Dio vuole, che
ognuno ſi occupi ſecondo il ſuo ſtato; quello
ſu libri, quello tra l'armi, quello in lavori di
mano, quello in applicazione di mente, e ri
prova quel padre di famiglia, e quella madre,
che per paſſare in Chieſa più ore, traſcurano la
ſua caſa; ma che due coſe egli eſige. Eſige in
primo luogo, che i divertimenti, e gli affari
non aſſorbiſcano talmente il tempo, che non
ne reſti una parte tutta per lui: eſige in ſecon
do luogo, che quel tempo medeſimo, che ſi
dà o all'impiego, che ſi eſercita, o al divertimen
to che prendeſi, dir anche ſi poſſa impiegato
per lui, con prender di mira in tutto ciò che ſi
fa, ſecondo il conſiglio dell' Appoſtolo, la ſola
" ſua gloria: Sive manducatis, ſive bibitis, ſive
aliud quid facitis, omnia ad gloriam Dei facite.
Ove o all'una, o all'altra ſi manchi, è un ingiu
ria, che ſe gli fa. Eppure quanti vi ſono, che
nell'impiego del tempo ad altro non mirano, che
al proprio onore, o al proprio intereſſe, o al
proprio piacere, e alla gloria di Dio non mai!
E quanti ancora vi ſono, che di tutto il tempo,
che hanno, appena è, che ne donino a Dio
una menoma parte: ne donano ore alle vanità,
ore alle viſite, ore alle converſazioni, ore al
giuoco: e a Dio ? a Dio nulla; fino a proteſtar
ſi, che per darne a Dio non ne hanno. E non
è queſta eſaggerazione no: è verità, che ſi pal
pa. Interrogate colui, e colei, ſe ogni mattina
conſiderano qualche maſſima eterna, ſe leggo
Per la Domenica di Seſſageſima. 267
no ogni dì qualche libro divoto, ſe domandano
ogni ſera da ſe medeſimi il conto della giornata?
riſpondono, che non han tempo. Eppur ne han
no per darne allo ſpecchio ! e quanto s eppur
ne hanno per legger romanzi, e novelle; e quan
to! eppur ne hanno per trattenerſi cogli amici,
e con le amiche; e quanto! Per perderlo ne han
quanto vogliono, per darlo a Dio, non ne han
nulla, o ſolo quel pochiſſimo, che impiegano
nel recitar con precipizio quattro preghiere, o
nell'aſcoltare in ſull'ora del mezzo di una bre
viſſima Meſſa: ſebbene nè pur queſto pochiſſi
mo ſi può dir dato a Dio, tante ſono le diſtrazio
ni, tanta la diſſipazion dello ſpirito.
E un impiego tale di tempo non dovrà dirſi,
uditori, ingiurioſiſſimo a Dio? E non avrà quin
di a temere i riſentimenti giuſtiſſimi dell'Altiſ
ſimo, chi alla ſua beneficenza non meno, che
alla ſua ſovranità fa un oltraggio sì grave? Ah,
cari uditori, ſovvengavi, che il minor de gaſti
ghi dati dall'adirato padrone a quel ſervo in
fingardo, che non trafficò il talento rimeſſogli,
fu il privarlo di quel talento medeſimo, che
laſciò ozioſo. Quanto però dee temere, che ſe
gli tolga il tempo, chi del tempo ſi abuſa! La
minaccia, che Dio ne ha fatta non può eſſere prev.
più chiara: Anni impiorum breviabuntur; e alie.
dire di Giobbe già ſi è più volte eſeguita: Ini
qui ſublati ſunt ante tempus ſuum; e ſe noi, quan-º
do vediamo certe morti immature, leggere po
teſſimo ne divini decreti il perchè, quante volte
ſi troverebbe eſſerſi abbreviato il tempo in pena
del mal impiego; e perchè non ſi finiva di per
derlo, aver Dio finito di darne. -

Ma, o mandi Dio, o non mandi anticipata


- DlOrtC
268 Diſcorſo XIV.
morte a chi fi abuſa del tempo, certo è, che in
qualunque ora la manderà, chiederà un conto
ben rigido del tempo, che ſi è perduto, o per
dir meglio citerà contro lo ſcialacquatore del
Thr. 1. tempo il tempo medeſimo ſcialacquato: Vocavit,
ovrà il miſero dire ancor eſſo con treni più la
grimoſi di quelli di Geremia, adverſus me tem
pus, ed oh, quanti accuſatori ſi preſenteranno
in quel punto, e quante accuſe! Si preſenteran
no le mattine; e noi, diranno, noi da coſtui,
da coſtei fummo ſagrificate gran parte al ſon
no, e gran parte allo ſpecchio, e piaccia a Dio,
che non aggiungano certe viſite, che non vo
glio dire. Si preſenteranno le ſere, c noi, di
ranno, noi nell'inverno fummo paſſate in giuo
chi, in converſazioni, in feſtini, e nella ſtate
in paſſeggi, che fomentarono tra le aure più
freſcue le paſſioni più acceſe. Si preſenteranno
i carnovali, e di quante diſſolutezze ſaran teſti
monj. Si preſenteranno gli autunni, e quant'o-
zio, e quanti amori, quante libertà produrran
no! Si preſenteran le quareſime, e quante om
miſſioni metteranno in chiaro, di digiuni non
oſſervati, di prediche non aſcoltate, di miſterj
ſagroſanti non riveriti! Si preſenteranno una do
po l'altra tutte le età: la fanciullezza, che do
veva iſtruirſi ne' doveri di religione, e ſi è per
duta in fraſcherie: l'adoleſcenza, che in vece di
apprendere da Maeſtri la virtù, e le ſcienze, ha
appreſe da compagni le maſſime più peſtifere,
i vizi più infami. La gioventù, che quando più
doveva dar ſeſto ai coſtumi, più ha rilaſſata alle
paſſioni la briglia: La virilità imbarazzata di mil
le faccende del ſecolo, ſenza un penſiero d'eter
nità. La vecchiezza, che ſtanca omai di vivere,
C Il CIl
Per la Domenica di Seſſageſma, 269
e non iſtanca ancora di peccare, non ha ſaputo
eſſer di Dio anche quando più non poteva eſſer
del Mondo: Vocabit adverſum me tempus. Alle
voci di queſte accuſe, quale ſarà la confuſione
dell'accuſato! O miſero, dice quì Ugon Cardi
nale, ſpendi pur ora a tuo capriccio le ore, i
giorni, e gli anni: Dio per adeſſo diſſimula, non
diſſimulerà però ſempre. Te n'avvedrai a tem
po finito: Quando omne tempus tibi impenſam
requiretur: a te qualiter ſit expenſiem. Si chiame
rà a ſindicato il tempo della ſanità, ed il tem
po della malattia, il tempo della tribolazione,
ed il tempo della proſporità, nè vi ſarà di tutta
la vita pur un iſtante di cui non ſia per cercar
ſi l'impiego, che ſe n'è fatto : Omne, omne
tempus tibi impenſum ; e ad un eſame sì rigido,
che dirà, che farà, dove ſi volgerà, chi dando
un'occhiata agli ſcorſi ſuoi anni, vedrà d'averli
in tutt'altro impiegati, che in ſervizio di Dio?
Tremava, cari uditori, a queſto penſiero il Se
rafico S. Bonaventura s ed oh, dicea ſoſpirando,
che ſarà mai di me! Qual confuſione ſarà la mia,
quando voi, o mio Dio, nel tremendo voſtro
giudizio chiamerete a raſſegna i giorni miei, e
cercherete l'impiego ch'io ne ho fatto! Quo
modo ſubſiſtam, quomodo levare potero ad te fa
ciem meam, in illo magno ac terribili examine,
quando enumerari juſſeris omnes dies meos, que
rens fručium in eis. E ſe tremava un ſanto d'una
divozione sì tenera, di una carità così acceſa,
sì provveduto di ſante opere; come non teme
remo noi, cari uditori, noi che impiegati ab
biamo i noſtri anni Dio ſa in quante inutilità, e
Dio ſa ancora in quanti peccati. Penſiamoci
ſeriamente, miei dilettiſſimi, penſiamociCº
27o Diſcorſo XIV.
flettiamo, che una gran parte del noſtro tempo
già è paſſata; una parte ſe ne va paſſando: il
reſto, poco, o molto che ſia, paſſerà i quan
do tutto ſarà paſſato, non ci conſolerà certamen
te l'averlo paſſato in vanità, in divertimenti, in
pompe, in grandezze: no, dilettiſſimi, no: ſolo
ci conſolerà l'averlo paſſato nell'eſercizio della
virtù, nell'adempimento de'noſtri obblighi, nell'
oſſervanza della legge divina. Piaccia a Dio, che
queſta conſolazione l'abbiamo tutti nel punto
di noſtra morte; piaccia a Dio, che niſſuno di
noi nel finir del ſuo tempo non debba dire co
Jerem me quegli empi mentovati da Geremia: Tran
* ſit meſſis, finita eſt eſtas, d nos ſalvati non ſu
mus. Ah miſero! ho finora perduto il tempo,
ed ora perdo anche l'anima, perdo il Cielo,
e perdo Dio.
Ah no, mio Gesù, niun di noi avrà occaſio
ne di dir così, perchè niun di noi ſi abuſerà di
quel tempo, che vi degnarete ancora di darci.
Confeſſo, che per l'addietro ho dato a tutt'al
tri, che a voi il tempo, che a voi unicamente
doveva. Sì, mio Gesù, a mia confuſion lo con
feſſo, conoſco il torto graviſſimo, che in que
ſto vi ho fatto, e umiliato ai voſtri piedi col
più vivo dolor del mio cuore, ve ne chieggo
perdono: e giacchè con bontà, e pazienza in
finita ſofferto avete il poco buon uſo, che ho
fatto del tempo finora datomi, deh per quella
piaga ſantiſſima, che adoro nel ſagroſanto vo
ſtro Coſtato, datemi, vi prego, nuovo tempo
da impiegare tutto per voi. Vi prometto da que
ſto momento ſino all'ultimo della mia vita una
ſervitù coſtantiſſima. Voi avvalorate col voſtro
ajuto la mia promeſſa, affinchè dopo avervi glo
rificato
Per la Domenica di Seſſageſima. 271
rificato in terra col buon impiego del tempo,
poſſa giungere ancora a glorificarvi nel Cielo per
tutti i ſecoli d'una beata eternità.

o( se&se&se&se&s ºs ºs )o
D I S C O R S O X V.
NELL'OTTAVA DI PASQUA.
Vita migliore, che ſperar debbeſi
dalla morte.

Videntes eum adoraverunt. Matth. 28.

ºss3 > e ge, Arlar di morte mentre riſuonano di


t :: :: feſtoſi alleluja i ſagriTempi, pare
º; pi: a prima viſta, che ſia un intorbi
3 dare quel giubbilo, che in queſti
e si ès giorni eeccita
i fede;
geºa nel ne
forſe me ſaprà cuore
noſtro la
male ta
luna di voi, che io in viſta di chi riſorge, fac
ciami a favellare di chi muore. Ma no, datevi
pace, uditori dilettiſſimi, che io non vogliono
queſta ſera con rimembranze funeſte attriſtare il
voſtro animo. Voglio anzi, udite il mio pen
ſiero, voglio dalla morte medeſima prendermo
tivo di cofermarvi nelle ſante voſtre allegrezze.
Siane lode a quel Gesù, che riſurgendo ha riem
piuta di tranquillità, e di gioia la terra tutta.
Anche la morte, nell'allegria univerſale del
Mondo ſi è , dirò così, veſtita da feſta: ha preſo
un volto giulivo, e non ſenza ragione pretende
d'en
262 Diſcorſo XIV. -

d'entrar a parte degli alleluja, che in ogni parte a


cori pieni rimbombano. No, non è più quella
terribile, quell'amara, quella ſpietata, ch'ella
era una volta. Con la riſurrezione di Criſto ha
cambiata natura, e di termine, che ſola era del
la vita, ha imparato a divenirne ancora prin
cipio. E qual principio! Miratela di grazia là
alla tomba del Redentore, tutta in ſollecitudine a
rendergli quella vita, che gli avea tolta poc'anzi,
e rendergliela o quanto migliore di quella, che
gli aveva tolta. Glie l'aveva tolta paſſibile, gliela
rende impaſſibile: gliel'aveva tolta mortale, gliela
rende immortale: glie l'aveva tolta paſciuta di
ſtenti, gliela rende ammantata di gloria. E non è
già queſto unicamente un oſſequio, ch'ella pre
tenda di rendere a quel Signore, che ſoggettoſi
al ſuo dominio ſolo perchè volle: no, divenuta
madre di nuova vita, vuole bensì, che Criſto
ſia il ſuo primogenito, ma vuole altresì, che noi
ancora dopo lui godiamo la ſteſſa ſorte. E come
dunque poſſiamo noi non mirarla con occhio
lieto ' come non bramarne la venuta ! come non
gradirne la vicinanza! E ſiccome i diſcepoli alla
viſta di Criſto inveſtito di nuova vita oſſequioſi
l'adorarono, ed il ſalutarono allegri : Videntes
eum adoraverunt ; così noi ſulla ſperanza certif
ſima, che la morte ſia per darci un dì la vita
ſteſſa, come poſſiamo non accoglierla con giu
livi alleluja! Eccomi pertanto in queſti giorni
di giubilo a proporvi qual argomento di alle
grezza la morte: mentre mercè la riſurrezion,
che ſperiamo, ci renderà una vita di gran lun
ga migliore di quella, che ci toglie. Ci toglie
una vita pericoloſa per darcene una ſicura; ecco
il primo argomento di giubilo, che vedremo nel
primo
Nell'Ottava di Paſqua. 273
primo punto. Ci toglie una vita travaglioſa
per darcene una contenta: ccco il ſecondo argo
mento di giubilo, che vedremo nel ſecondo
punto. Ci toglie una vita breviſſima per dar
cene una eterna : ecco il terzo argomento di
giubilo, che vedremo nel terzo punto. Comin
ciamo.
La morte ci toglie una vita pericolaſa per dar U Na
cene una ſicura. Non vi crediate, uditori, che To I.
per dare alla morte una cert'aria di amabile,
voglia io diſſimulare l'orrido ſcempio, ch'ella
fa del noſtro corpo: no, lo dico anch'io, che
ella n'eſtingue il calore, ella ne diforma le fat
tezze, ella ne ſcompagina le membra, ella ne
sfarina le oſſa. Sfavillino gli occhi di bella luce;
ella gli eccliſſa: brilli di vago vermiglio il voltos
ella lo ſcolora: nutriſcaſi con dilicatezza la car
ne ; ella la infracida: ella in ſomma diſordinan
do tutta la ſimetria di queſto piccolo Mondo,
toglie al piede il moto, al ſangue il corſo, al
capo il crine, la favella alla lingua, al cuore il
reſpiro, e tutta ſconvolge, e diſtrugge l'ammi
rabile macchina del corpo umano, lavorata da
Dio con tanto artificio, e conſervata dall'uomo
con tante induſtrie. Tutto vero. Ma non perciò
io diffido, che non ſiate per ſapergliene grado.
Ditemi : chi diſtruggeſſe una caſa fadiccia, ro
vinoſa caſcante, per innalzarne in ſua vece, e
nel ſuo ſito un'altra più vaga di architettura,
più ricca di marmi, più maeſtoſa di mole, più
allegra, più comoda, più ſicura; ſa ebb'egli ap
preſſo voi meritevole di rimproveri? Vi adire
reſte voi contro di lui, come contro un nimico
del pubblico, e del privato bene? No certamen
. te: anzi voi medeſimi ne lodereſte la riſoluzio
Tomo IV. Anno IV. S IlC ,
274 Diſcorſo XV
ne, voi lo animereſte all'impreſa, voi lo eſorº
tereſte a non laſciare pietra ſu pietra, perchè vi
ſcorgereſte due beni: L'uno nella diſtruzion dell'
antico, l'altro nella erezione del nuovo edifizio:
liberandoſi col primo dal pericolo di rimanervi
un dì o l'altro ſepolto tra le rovine chi l'abita,
e recandoſi col ſecondo il vantaggio di un al
bergo agiato, e ſicuro. Se così è, chi può mai
aver cuore di pigliarſela contro la morte, e di
accuſare la ſua condotta ? Ella diſtrugge, nol
niego, diſtrugge la caſa, in cui alberga il no
ſtro ſpirito; ma in queſta caſa è egli ſicuro un
oſpite così nobile ? Quanti pericoli, quante ro
vine ha egli in ogni momento a temere !
Io ne appello a voi, uditori miei dilettiſſimi.
Con Criſto riſorto, riſorti ſiete ancor voi a nuo
va vita, vita più fervoroſa, vita più ſpirituale,
vita più ſanta, con volontà riſoluta di non più
morire a quella grazia, che vi ſantifica. Ora
dite a me: avete voi ſicurezza, che in quello
ſtato in cui ſiete, vi manterrete coſtanti? Ah,
odo che riſpondete con un ſoſpirio, ſicurezza!
e chi mai può prometterſela, ſinchè portaſi que
ſta carne, ſinchè vivono queſti ſenſi ? Sappiam
pur troppo dalla paſſata ſperienza quante volte
ſiamo ſtati traditi, ora dall'occhio, che per mez
zo de ſguardi ſuoi ha tramandati alla mente ſozzi
fantaſmi, or dalla lingua, che ſpezzato ogni
freno, è ſcorſa libera oltre i cancelli della ca
rità, or dall'orecchio, che accolte con gradi
mento le adulazioni, ſi è moſtrato più d'una
volta altrettanto ſordo a ſalutevoli avviſi, quan
to attento a mali conſigli, or finalmente dal
corpo medeſimo, che vago ſolo di vezzi, di
piaceri, di morbidezze, ci ha frequentemente
portati
Nell'Ottava di Paſqua. 275
portati a non curare lo ſpirito, per compiacere
la carne. Qual ſicurezza pertanto, con tutta la
fermezza della riſoluzion che abbiam preſa, qual
ſicurezza poſſiam prometterci? Così voi dite, e
dite giuſto: perchè poſta la rivolta del ſenſo con
tro la ragione, e della carne contro lo ſpirito,
com'è ſucceduto per lo paſſato; così può temer
ſi nell'avvenire che ſerva, chi comandar dovreb
be, e che comandi chi dovrebbe ſervire. Ma
quindi chi non iſcorge quanto cara venir ci deb
ba la morte ! Imperocchè che fa ella mai con
quella, che al meno avveduti pare pompa di
crudeltà? Diſtrugge la carne sì, ma carne ribelle;
\ ci priva de ſenſi traditori s abbate in una parola
la caſa dell'anima, ma caſa in cui l'anima non
può vivere ſicura; caſa che per fralezza della ſua
creta ad ogni ſoffio, non che ad ogni urto del
nimico infernale minaccia rovinoſe cadute. E s'è
così, può mai chi ha ſennó, mirare di mal'oc
chio la morte !
Tanto più, che queſta col ridurre a polvere
queſto loto che ci compone, mira a rialzare una
fabbrica, che dia un ricovero all'anima più ſodo,
più ſicuro, più ſtabile. Impaſterà con mano
maeſtra quelle ceneri, che ſerba nell'oſcuro ſuo
grembo, e formandone di nuovo oſſa, carne,
pelle, nervi, vene, membrane, reſtituirà allo
ſpirito il corpo: ma qual corpo! quanto ubbi
diente, quanto ſoggetto, quanto pieghevole
alle direzioni della ragione: ſplenderanno di bel
nuovo in fronte gli occhi, ma ſenza pericolo,
che più s'imbevano di ſpecie men pura. Scioglie
raſſi di nuovo in voci la lingua, ma ſenza peri
colo, che ſcorra ſdrucciola in diſcorſi men cauti,
Renderaſſi il ſenſo a ſenſi, mia per"
2 CIAC
g
276 Diſcorſo XV.
che queſti più ſi ribellino alla ragione. Si com
penſerà in ſomma con una vita tutta ſicurezza,
quella che ci ſi toglie tutta pericolo. Dite ora voi,
antmc buone, che mi aſcoltate, ſe ributtar an
cor debbaſi come malinconico il penſier della
morte, mentre queſta ſola può recarvi la ſicurez
za che ſoſpirate cotanto? Certo è, che il Santo
Giobbe, riflettendo al riſchio continovo, a cui
l'eſponeano le battaglie di queſta vita, vivea in
una ſanta impazienza di vederne il fine, e allo
ſpuntare di ogni alba ſperava, che uſcire doveſſe
dob.14. inquel dì da nojoſi cimenti il ſuo ſpirito: Cun
ctis diebus quibus nunc milito, expecfo donec ve
miat immutatio mea : ed oſſervate con qual for
mola egli eſprime il compimento, che aſpetta
de giorni ſuoi, chiamalo mutazione, e non
più, perchè ſapea, non poterſi altrimente, che
con la mutazion della ſua carne paſſare da perico
li alla ſicurezza, diſtruggendoſi prima la carne
ribelle, e poi formandoſi una carne ubbidiente:
Expetto donec veniat immutatio mea. Abbiamo
pur dunque un gran torto, cari uditori miei,
quando al penſier della morte c'innorridiamo, e
mai non vorreſſimo udirne il nome, non che ve
derne la faccia. E che ? Dilettiſſimi, ameremo
noi ſempre i noſtri pericoli, ſenza giammai cui
rarci di andarne liberi ? Saremo noi ſempre così
nimici di noi medeſimi, che abbiam cuore di
vederci ſempre in tempeſte, non mai in porto?
ſempre in battaglie, non mai in pace? ſempre in
timori, non mai in ſicuro? D, h miriamo una
volta la morte qual'ella è, liberatrice da noſtri
riſchi, e apportatrice della noſtra quiete; ella
non ci nuoce, che per giovarci, nè ci toglie la
vita, che per ridonarcela con una felice riſurre
ZIOI1C
Nell'ottava di Paſqua. 277
zione impenetrabile ad ogni colpo. Ma ſcorgo
ben io, dilettiſſimi, l'origine del noſtro male.
li troppo affetto, che noi portiamo al noſtro
corpo, quello è, che ci fa amare, più che la
noſtra ſicurezza, i noſtri pericoli.
Vi vuole, Gesù caro, la voſtra grazia, affin
chè queſto affetto malnato ſi ſradichi una volta
dal noſtro cuore. Queſto pur troppo è la cagio
ne del mirar, che facciamo con orrore la morte.
Mai non vorreſſimo ch'ella veniſſe, perchè trop
po ci amiamo, e intanto non ci avvediamo,
che amiamo in noi medeſimi i noſtri pericoli.
Ah ſe ben conoſceſſimo, che in queſta vita
non avremo mai ſicurezza, chi di noi non di
rebbe col voſtro Appoſtolo: Quis me liberabit Rºm, º
de corpore mortis hujus? Deh, Gesù caro, date
voi alla noſtra mente un lume sì neceſſario: ve
ne preghiamo per le cicatrici glorioſe, che ado
riamo ne' voſtri piedi, e intanto finchè giunga
l'ora della noſtra liberazione, aſſiſteteci in mo
do co' voſtri ajuti, che in mezzo a tanti peri
coli, che ci aſſediano , non vi offendiamo
giammai.
La morte ci toglie una vita travaglioſa, per -
darcene una contenta. Abbiam bel fare, uditori
ma paſſar queſta vita ſenza travagli non è poſii.
ſibile. Quel pianto, che per diſdetta ereditaria
naſce con noi, ci fa pur troppo compagnia in
diviſibile ſino alla morte, e ſe in un giorno pa
re che aſciughiſi, ſgorga nell'altro più copioſo
che mai. Paſſano di tale corriſpondenza le une
coll'altre le calamità, che la prima dà mano al
la ſeconda, e queſta avanti che parta, vuol ve
dere in ſuo luogo la terza. Appena è uſcito co
lui dall'anguſtie della povertà,s"3
ſentcſi pun
tO
278 Diſcorſo Xp.
to dalle ſpine del litigi; appena quell'altro ha
ſollevato il capo dall'abbiezion del ſuo ſtato, che
dee vegliare ſulle trame di cento emoli; quante
ricchezze in quella famiglia, ma inſieme quan
ta diſcordia? Quanti onori in quella perſona,
ma inſieme quante ſollecitudini! A quel Laurea
to non manca dottrina, ma ſanità non lo aſſiſte,
a quel guerriero non manca valore, ma fortuna
non lo favoriſce. Volgete in ſomma il penſiero,
or alle malattie, che ci ſtruggono, ora diſguſti,
che ci accorano, or alle perdite, che ci ſpoglia
no, or alle perſecuzioni, che c'inquietano, or
alle gragnuole, alle inondazioni, ai naufragi,
ai fallimenti,che c'impoveriſcono, e poi ditemi
ſe non hanno ragione Agoſtino, e Tertulliano,
il primo con dire, che il più vivere non è altro
Serm.
17 de
che un più penare: Quid eſt dici vivere, miſi
verbo dici torqueri, il ſecondo con dire, che Dio ci
Dom. toglie un lungo tormento, quando ci dà breve
la vita: Longum Deus adimit tormentum homi
mi, cum vitam ei concedit brevem.
E ſe ciò è, ſoggiunge Ambrogio, chi potrà
ancora volerne male alla morte, quando ella
con ineſorabile colpo ſi fa inaſpetata a troncare
il filo del noſtri giorni? In una vita per tanti
mali sì doloroſi, può la morte non mirarſi come
Ser.42. rimedio piuttoſto, che come pena ? Tantis malis
hac vita repleta eſt, ut comparatione eius mors
remedium putetur eſſe, non pana. Sebbene, per
donatemi o Santo Dottore, troppo è ſcarſo l'e-
logio, che voi fate alla morte, con addimandar
la ſolo rimedio del noſtri mali, aſſai più ne diſſe
il pazientiſſimo Giobbe, allor quando dalla
morte riconobbe l'origine di nuova vita, e dal
1'infracidarſi del corpo, dell'inverninarſi della
Ca IIl C ,
Nell'Ottava di Paſqua. 279
carne, ſcorſe come da nuovo padre e da nuova
madre, una generazione più perfetta e più nobi
le: Putredini dixi pater meus es tu, mater mea, Job.ir.
ci ſorror mea vermibus. Ed è così, uditori, la
morte non ſolo libera il noſtro corpo da una vi
ta tutta pene, ma entro alle ſue ombre lo fer
menta, e lo abilita ad una vita tutta contenti.
Chi non avrebbe creduta ſventura grande di Gio
na, il paſſare ch'ei fe dal grembo d'una nave
alle fauci di una Balena! Eppur ſappiamo, che
tra queſte non ſolo trovò ſcampo dal naufragio,
ma felicemente ancora afferrò il lido , onde potè
dire di lui il Veſcovo S. Zenone, che incontrò
maggiori le ſue venture nel vivo ſepolcro di un
moſtro, che tra i ripari fragili di un naviglio:
Felix magis ſepulchro quam navi. E ben può dir
ſi lo ſteſſo di noi: nel tempeſtoſo mare di queſta
vita l'andar a finir in gola alla morte, ſembra
diſgrazia; ma ſe rifletteſſi, che la morte dee
rigenerarci ad una vita beata, chi non dirà eſſer
noi più felici nelle tenebre di un ſepolcro, che
nella nave di queſto Mondo: Felices magis ſe
pulchro quam navi.
Mirate in fatti dopo che la morte ci avrà in
gojati, a quale lido ci sbarcherà. A un lido da
cui avranno un bando perpetuoi dolori, le lagri
me, le malinconie, i patimenti: Neque luétus, Ap.21.
neque clamor, neque dolor erit ultra. Ad un lido
in cui i giorni non averanno mai ſera, in cui le
primavere non ſaran precedute da inverni, in
cui le delizie non verrano mai meno, in cui le
ſtagioni non ſoggiaceranno a ſconcerti. Ad un
lido, dove pura è la luce ſenza vapor che l'in
gombri, dove l'aria è ſempre dolce ſenza intem
perie, che l'alteri, dove il diletto è ſoaviſſimo
S 4 ſenza
28o Diſcorſo XVI
ſenza rimorſo, che l'amareggi. Vi ſaranno bel
lezze ineffabili, e il vagheggiarle ſarà ſenza ri
ſchio: vi ſaranno muſiche giocondiſſime, e l'a-
ſcoltarle ſarà ſenza tedio: vi ſaranno piaceri ſa
poroſiſſimi, ed il goderne ſarà ſenza ſcapito
dell'innocenza. In queſta valle di pianto, ſe un
ci loda, l'altro ci biaſima, ſe un ci ama, l'al
tro c'invidia, ſe un ci eſalta, l'altro ci umilia,
ſe un ci aſſiſte, l'altro ci abbandona. Ma giunti -
a quella ſpiaggia felice, a cui la morte ci porte
rà, ci troverem con un Mondo di abitatori,
cne ſebbene o diverſi di patria, o differenti di
età, o diſuguali di naſcita, tutti però li prove
remo concordi ne ſentimenti, tutti uniti di af
fetto, tutti amici, tutti fratelli, tutti un cuor
ſolo. O bella, o cara, o dolce vita, a cui ci
conduce la morte! Ella è ben altro, uditori,
da quella, che in queſto eſiglio amiam cotanto.
E ſoffriremo poi di mal animo che la morte,
per diſporci ad una vita così contenta, ci tol
ga queſta, che ſtraſciniamo tra ſtenti !
Ah, cari uditori, ditemi per vita voſtra, ſe
mentre agricoltore attento getta a piene mani
ne preparati ſolchi la ſementa del grano, ſi
faceſſe taluno a ſgridarlo così : crudele, così
tratti quel grano, che frutto di copioſi ſudori
fa tutto il giubilo del padron del campo ? Tu
eſporlo a brine, a piogge, a venti, a geli?
Tu ſepellirlo ſotterra ? Tu condannarlo a mar
cire? Qual riſpoſta pare a voi, che darebbe il
contadino inſultato? Accoglierebbe ſenza dub
bio con un ſorriſo gl'inſulti, ed oh, direbbe, tu
ſei pur ſemplice. Queſto grano, ch'io tratto
così, egli è più fortunato di quel ehe rimane
a far dovizioſi i granaj, Morrà, è vero; ".
Nell'Ottava di Paſqua. 28 I
glierà, marcirà 5 ma dalla tomba in cui l'a-
ſcondo, lo vedrai un dì rinaſcer vago, creſcere
rigoglioſo, rifiorire, ſpigare, biondeggiare, e
ſoprattutto moltiplicare cotanto quel bello, e
quel buono ch'egli ha, che ſe di affetto foſſe ca.
pace, ringrazierebbe ben mille volte quella mor
te, che il fa rivivere con ſuo vantaggio sì grande.
Or non è queſta, uditori, la riſpoſta, che dob
biamo dare anche noi alla noſtra carne; quando
al penſiero di dover eſſere un dì conſegnata fred
do cadavero ad una tomba, ſi affligge, ſi riſen
te, e ſi contorce: Aahuc tu permanes in ſimpli
citate tua? Non intenderai una volta, o mal'av
veduta, che dalla morte hai a ricevere la vera
tua vita? Morrai è vero: ma verrà un giorno,
in cui dal ſepolcro alzerai lieto il capo, e al mi
rarti più che mai rifiorirà, benedirai quella mor
te, che ti rimpaſtò così bella. Depoſta la tua viltà
ſorgerai colma di nobil luce: depoſta la tua fiac
chezza ſervirai a te ſteſſa di ſcudo contrº ogni
sforzo: depoſto il tuo peſo vincerai in agilità i
venti, e i fulmini: depoſta la tua rozzezza gareg
gierai in ſottigliezza cogli ſpiriti: depoſta la tua
corruttibilità, proverai ne' tuoi umori impertur
babile pace; e al rifleſſo di venture sì grandi an
cor hai cuore di dolerti? Così dobbiam dire,
uditori miei cari, e a così dirci fa cuore il Reden
tore riſorto, che ci preſenta nella ſua riſurrezio
ne un modello giuſtiſſimo della noſtra. Egli è
belliſſimo, e di queſta bellezza riveſtiti ſaremo
anche noi, egli è luminoſiſſimo, e di queſti
ſplendori ammantati ſaremo anche noi; egli è
glorioſiſſimo, e di queſta gloria ne anderemo
colmi anche noi. E con queſto eſemplare ſugli
occhi temeremo ancora la morte ? Ancora ci
l P arrà
282 Diſcorſo XV.
parrà duro il laſciar queſta vita, vita sì miſera,
Vita sì travaglioſa, vita sì triſta. O Dio ! o Cie
lo! o fede!
O Gesù, Gesù caro, ed è poſſibile,che in viſta
di voi riſorto amiamo ancor queſta viſta! Voi ci
promettete una vita di felicità, vita di gloria ſi
mile alla voſtra ; e noi abborriamo ancora la
morte, che ſola ci può a queſta vita aprire il poſ
ſeſſo. Deh avvivate, Gesù caro, la noſtra fede,
avvalorate le noſtre ſperanze, e per quelle cica
trici luminoſiſſime, che nelle voſtre mani adoria
mo, dateci grazia, che ivi rivolgiamo le noſtre
brame, ove ſono i noſtri contenti. No, che non
merita i noſtri affetti queſta vita sì travaglioſa:
o ſe abbiamo ad amarla, dobbiamo amarla a
queſte ſol fine di fare, che i travagli preſenti ſer
vano ad aſſicurarci vieppiù le glorie future. Aſſi
ſteteci pertanto con la voſtra grazia, affinchè
con la ſperanza de contenti dell'altra vita, ci ani
miamo a portar con pazienza i travagli di queſta.
F La morte ci toglie una vita breve, per darcene
Puº; una eterna. Eccovi il motivo più forte per iſt el
º lere dal noſtro cuore l'antipatia, che abbiamo
3

alla morte. Qual'è la ragione, per cui il morire


cotanto ci ſpiace? Non è difficile l'aſſegnarla,
perchè amiamo la noſtra vita, e vorreſſimo go
derla il più che ſi può: non è così? Or tanto è
falſo, che l'amore alla vita debba metterci orro
re alla morte, che anzi lo debbe togliere. Per
iſcorgere queſto vero, che a prima viſta vi ſem
bra ſtrano, facciamoi ad interrogare colui, al
quale Dio ha conceſſa un'età, a cui dalla mag
gior parte non giugneſi, di ſettanta anni, c ben,
dilettiſſimo, ſiete voi pronto a battere la ritirata
da queſto Mondo? Ah, riſponde, e pe"nOll
polio
Nell'Ottava di Paſqua. 283
poſſo anch'io contare, come quell'altro ancor
diec'anni? Andiam dunque da chi li conta. Sono
ottanta anni, che voi paſſeggiate ſu queſta terra,
ne partireſte ora voi volontieri? Volontieri! E
perchè? E'ella forſe coſa inaudita l'accoſtarſi a
novanta. Ite ora dal nonagenario, voi lo trove
rete privo quaſi affatto del ſentimenti, ſcaduto
di vigore, e preſſocchè ſenza moto. Interrogate
lo ſe in uno ſtato a ſe sì penoſo, e sì nojoſo agli
altri, finerebbe di buon grado i ſuoi giorni: vi
dirà con lingua tremola, e mal formate parole,
che vi è chi è giunto a compire intero un ſecolo;
e ſe vi foſſe a di noſtri chi noveraſſe gli anni 7oo.
di Lamecco, o gli 8oo di Seth; oi 9oo di Ada
mo, o i quaſi mille di Mattuſelemme, voi lo
trovereſte del ſentimento medeſimo, bramoſo
ugualmente di vivere dopo una decina di ſecoli,
di quel, che il foſſe dopo una decina di luſtri.
Ed eccome la ragione: per contentare la noſtra
brama di vivere, vorrebbeſi una vita, che non
finiſce mai, e perchè in queſta terra, ove tutto
è caduco, e breve; breve ancora e caduca è la
vita, quindi è, che l'amore, che le portiamo,
mai non ſarà che ſi appaghi. Solo con la morte,
(o fede, ſanta fede illuminateci!) ſolo con la
morte ne può andare contento, perchè la morte,
togliendo al noſtro corpo queſta vita, breve,
fuggiaſca, efimera, lo prepara, e lo diſpone ad
un'altra, che col moltiplicarſi degli anni non
proverà ſminuimento, coll'innoltrarſi del ſecoli
non iſcemerà di vigore, interminabile, illimita
ta, immortale. O queſta sì, ch'ella è vita, che
può ſoddisfare le noſtre brame, perchè quanto
più ſe ne gode, più ne rimane a godere,
E a queſta appunto mirava Giobbe , allor
- quando
284 Diſcorſo XV.
c'e 29,
quando rivoltò alla riſurrezione futura gli occhi
della tua fede; In nidulo meo, diceva, moriar,
o ſicut palma multiplicabo dies. Sapca ben egli
quanto ſu queſta terra brevi foſſero i noſtri gior
ni: Breves dies hominis ſunt, e tanto brevi, che
giunſe a contarli per nulla: Nihil enim ſunt dies
mei; e conſolandoſi col penſier della morte: ver
rà pure un tempo, diceva, in cui compenſerò i
giorni sì corti con giorni eterni: Moriar, 6 mul
tiplicabo dies. E più chiaramente ancora ci ſi
eſprime il di lui i" dalla verſione in cui
leggeſi: Phaenix, in luogo di Palma; in ni iulo
meo moriar, o ſi ut Phaenix multiplicabo dies.
Della Fenice, o ſia ſtoria, o ſia favola, ſi dice,
che conſegnataſi nella ſua eſtrema vecchiezza
ſpontaneamente alle fiamme, rinaſca dalle ſue
ceneri più vigoroſa, che mai; ſervendole, co
me ſcriſſe di lei San Zenone, di nido il ſepolcro,
di nodrici le fiamme, di ſeme le ceneri, di natale
la morte. Sepulchrum nidus eſt illi: faville nu
trices: cinis propagandi corporis ſemen: mors na
talis dies. Or qual Fenice, certamente non fa.
voloſa, ſperava Giobbe di moltiplicare i ſuoi
giorni, quando gli avrebbe compiti, e rinno
vando con la morte la vita, ritrovare nella ſua
medeſima tomba una naſcita più perfetta: In ni
dulo meo moriar, ci ſicut Phaenix multiplicabo
dies. Così l'inteſe quel Principe illuminato, e
inſegnò a noi con qual affetto dobbiamo acco
glier la morte, la quale ci fa rinaſcer ad una vita,
non ſolamente ſicura da pericoli, e libera da tra
vagli; ma ancora non ſoggetta a vicende, non
miſurata da tempo, non limitata da termine.
Eh, sì, dice Agoſtino, non ci dogliamo co
tanto della morte, perch'ella è la nodrice d'u-
- Il 3
-
Nell'Ottava di Paſqua. 285
na eterna imperturbabile felicita: Nutrix eterne, L. de
Iſecur.eque felicitatis : Non la miriam cotanto Viſit.
itfirm.
di mal'occhio, dice Clemente Alleſſandrino,
perchè ella è la porta, ed il principio della ve.
ra vita: Porta, ci principium vera vite. Non
l'abbiam cotanto in orrore, dice Tertuliano,
perchè ſe miriamo a beri, ch clla ci reca,
debb'eſſere il deſiderio, e l'aſpettazione d'ogni
Fedele: Votum Chriſtianorum. E ſe non dicia i Sern.
68,
mo ancor noi col Griſologo, che i Criſtiani
allora naſcono, quando muoiono: Morte naſ:
cuntur, vergogniamci di noi medeſimi, che
ſcorti dal lume chiariſſimo della Fede non giun
giamo a dir tanto, quanto ad un piccolo bar
lume di ragione ſeppe dire un Gentile quale fu
Seneca, che chiamò giorno di naſcita quel del
la morte: Dies iſte quem tamquam extremum Ep. 1o3
reformidas, eterni natalis eſt. Naſcita tanto
miglior della prima, quanto d'una vita bre
vittima, e miſera, e più pregiovole una vita
feliciſſima, cd immortale: E' vero, che non
prima del fin de ſcoli dovrà il noſtro corpo en
trar al poſſeſſo de' ſuoi cterpi contenti ; ma ſe
per venire alla luce di queſta vita preſente sì
travaglioſa, e sì corta, forza è ſtarſene per no
ve meſi entro l'ombre del ſen materno, qual
dimora potrà mai eſſer troppo lunga nelle te
nebre di un ſepolcro, per u cirne poi alla lu
ce infinitamente più bella della vita futura.
Impariſi dunque una volta, che chi ama la
vita, non dee temere la morte, perchè ſolo
dalla morte ci può venire una vita; ſicura, con
tenta, immortale. Che ſi ami la vita, dice
Sant'Eucherio, io non lo diſaprovo; anzi io
medeſimo vi eſorto ad amarla: ſolo deſidero,
che
286 Diſcorſo XV.
che amiate una vita, in cui non alberghino ca
lamità, una vita, a cui non giunga mai termi
ne: Amantes vitam hortamur ad vitam. Ma
perchè a queſta vita niuno può aprirvi il paſſo
fuorchè la morte, deh non la mirate più co
me voſtra nemica, miratela come voſtra libe
ratrice, come benefatrice, come madre. Il ſuo
penſiero, anzi che affliggervi vi conſoli: Non
contriſtemini, ſicuti qui ſpem non habent. Il ſuo
accoſtarſi, anzi che mettervi in fuga, vi ſpin
ga a ricervela, non ſolo con raſſegnazione, ma è
con piacere s e ſe mai o tentazione d'Inferno,
o luſinga di Mondo, o dilicatezza di ſenſo ve
la dipinge in aria di orrore, chiamate in aju
to la voſtra Fede, raunate a conſiglio le voſtre
ſperanze, e con le parole di Giobbe dite an
Cap. 19 cora voi: Scio quod Redemptor meus vivit? ſo,
che il mio Redentor è riſorto, e col ſuo riſor
gimento mi ha dato un pegno certo del mio :
In noviſſimo die de terra ſurretturus ſum. Fi
niſca pur queſta vita: vadano pur ad infraci
dar queſte membra: verrà quel dì, verrà , in
cui queſto corpo ripiglierà la ſua figura, il ſuo
calor, la ſua vita: Rurſum circumdabor pelle
mea; e in queſta carne medeſima mi perſente
rò al mio Salvator adorato. Con queſti miei
medeſimi occhi lo vagheggierò, con queſte
mie labbra ſtamperò baci affettuoſi ſulle glorio
ſiſſime cicatrici: In carne mea videbo Deum meum,
quem viſurus ſum ego ipſe: Sì quel io medeſi
mo, ora sì vile, allora glorioſo, ora sì miſe
rabile, allora beato, ora sì fragile, allora im
mortale, io sì lo vedrò : io chinerò queſta fron
te per adorarlo, io ſnoderò queſta lingua per
benedirlo: O ſperanze, belle ſperanze, dolci
ſperanze! Siano ,
Nell'Ottava di Paſqua. 287
iº, Siane lode a voi, o riſorto mio Gesù. Voi
mi ſiete, che iſpirate sì care ſperanze al mio cuo
Vi re. Sì mio Gesù glorioſiſſimo, ſpero, che un
i) di glorioſo anch'io con queſti miei occhi con
0, templerò ſvelato quel volto, che ora adoro naſ
). coſto in quell'oſtia venerabile. E ſe qualche
10 timore ancor mi reſta, non è la morte, che
mel cagioni, nòs ſono i miei demeriti. So, ch'io
10 vi ho offeſo, e ſe voi perdonato mi abbiate,
ſl io nol ſo, onde mi rimane a temere, ſe riſor
11 gendo vi vedrò con piacere, o pure con iſpa
vento. Deh per quella cicatrice glorioſa, che
in contraſſegno dell'amor voſtro verſo di me
ſerbate nel Coſtato voſtro ſantiſſimo, ſgom
brate, vi ſupplico, dal mio cuore queſto timo
re concedendomi la voſtra grazia. E poi ven
ga pure quando vuole la morte, l'accetterò
volontieri, perchè morte, che togliendomi da
queſta vita pericoloſa: travaglioſa, breviſſima,
un' altra me ne darà, ſicura, contenta, im
mortale.

DI
288 - - -

sº, so sº, sº sº,


º,.3.3, X 2 º 3 º
zº s
D I S C O R S O X V I.
PER LA DO M E N I CA PRIMA
D O P O P A SQ U A:
Pace della coſcienza.
-

Venit Jeſus ... &Joan-


dixit
2o eis: Pax vobis. º
e,

zºs NIA con voi la pace. Ecco il ſaluto, i


(iS º iò
S
X che fa oggi Criſto riſorto a ſuoi i
Appoſtoli: Venit Jeſus ... & dixit |
º X eis: Pax vobis: Saluto sì dolce, che
S; se 94 a maggiore loro conforto nell'ap.
parizione medeſima ben due vol
te lo replica: Dixit eis iterum: Pax vobis: Sa- i
luto sì raccomandato, che al primo porre, che i
facciano i ſuoi Diſcepoli in una caſa il piede,
vuole, che pace preghino a chiunque l'abita:
In quamcunque domura intraveritis, primum di
cite: Pax huic domui: Saluto finalmente dagli
ſteſſi Diſcepoli si praticato, che nè il Principe
degli Appoſtoli, nè il Dottor delle Genti ſcri.
vono lettere, che non porti contraſſegnata a ca
ratteri di pace la fronte: Gratia vobis, c pax,
Or chi mai ſa ridirmi qual ſia queſta pace, di
venuto in bocca di Criſto, e degli Appoſtoli |
l'au
Per la Dom, prima dopo Paſqua. 289
l'augurio più familiare? Pace di Mondo tu non
ſei quella: Ombra tu ſei, e fantaſma ſolo di
pace; pace finta , pace bugiarda, pace ingan
natrice, ſe ne dichiara Criſto medeſimo: Non
quomodo Mundus dat ego do vobis ; anzi contro di
queſta pace eſpreſſamente proteſtaſi d'eſſere ve
nuto a farle guerra, e ſterminarla: Non veni
pacem mittere, ſed gladium. Dicano adunque i
ſagri Interpreti, qual pace ſia queſta, che ſi bra
ma, e da Criſto agli Appoſtoli, e dagli Appoſtoli
ad ogni Fedele. Riſponde a nome di tutti l'Emi
nentiſſimo Gajetano, e dice eſſere queſta una pa
ce, che in ſe contiene ognibene: Nomine pacis com
prehendunt omne bonum. Pace, che contiene ogni
bene? O pace, prezioſiſſima pace! Ma come po
tremo noi conſeguirla? Dove dovremo noi rin
tracciarla? Come? Dove? Ah, cari uditori, il
come è faciliſſimo, ed è viciniſſimo il dove s
l'otterremo, ſolo che vogliamo, e dentro di
noi, ſolo che vogliamo la troveremo. Ella è,
ſe nol ſapete, la pace della coſcienza; pace,
che ogni bene in ſe racchiude, degna però che
da Criſto ſi brami agli Appoſtoli, e dagli Ap
poſtoli a noi. O mi riuſciſſe queſta ſera d'inna
morarvi di queſta pace, e di ſpignervi a cercar
ne ad ogni coſto il conſeguimento ! So certo,
che nulla più vi vorrebbe, perchè felice foſſe la
voſtra vita, felice la morte, felice l'eternità:
io non ne diffido: e però preſe dalla bocca del
Redentore, e de' ſuoi Diſcepoli le dolci, e ca
re parole: Pax vobis, ridico io a voi, miei di
lettiſſimi, pax vobis. Sia con voi la pace della
coſcienza, e ſiete felici in vita, in morte, nell'e-
ternità: ed eccone il perchè. In riguardo a que
l
-
ſta vita, non può bramarſi bene nè più grande,
Tomo IV. Anno IV. T nè
296 Diſcorſo XVI.
nè più ſicuro, primo punto. In riguardo al pun
to della morte, non può bramarſi conforto,
nè più ſoave, nè più efficace, ſecondo punto.
In riguardo alla beata eternità, non può bra
marſi pegno, nè più chiaro, nè più certo,
terzo punto. Cominciamo.
p, , lº riguardo a queſta vita non può bramarſi
, i bene nè più grande, nè più ſicuro. Per eſpri
merci lo ſtato calamitoſo degli empi, diſſe tut.
to lo Spirito Santo con dir queſto ſolo, che
Iſ 4s non han pace: Non eſt pax impiis, perchè do
ve pace non trovaſi, non può trovarſi, ſe non
miſeria. Poſſegganſi pure quanti beni può for
nire o natura, o fortuna, non renderanno mai
queſti felice quel cuore, a cui manca la pace.
No, dilettiſſimi, onori, e titoli quanti può
conſeguirne l'ambizione più ſmoderata, abbi
gliamcnti, e pompe, quante ne può brama
re la vanità più sfoggiata; ſoſtanze, e fondi
quanti poſſono ſaziare l'avarizia più ingorda ,
delizie, e piaceri quanti poſſono ſoddisfare la
ſenſualità più diſſoluta, non appagheranno giam
mai un'anima, la cui coſcienza non ſia tran
quilla, noi non l'appagheranno giammai: Si
omnia ſuppetant, uditene il ſentimento di Gre
gorio il Niſſeno, quecumque in vita magnifiunt,
atque in pretio ſunt.... pacis vero bonum non
adſit, quod illarum rerum lucrum eſt, quid illa
proſunt? E la ragione, uditori, è manifeſta.
Imperocchè come può egli mai viver contento,
chi è conſapevole a ſe medeſimo di avere ſo
pra di ſe un Dio ſdegnato, che con odio im
placabile, lo perſeguita, lo abbomina ; attorno
di ſe mille pericoli, che lo aſſediano, e lo mi
nacciano; ſotto di ſe un Inferno, che apre le
ſpaven
Per la Dom. prima dopo Paſqua. 291
ſpaventoſe ſue fauci per ingoiarlo, dentro di
ſe una ſindereſi riſentita, che co' ſuoi latrati lo
aſſorda, e rode co ſuoi rimorſi. Può egli a me
no, che in mezzo ancora delle mondane fe
licità non viva infelice ſolo perchè privo del ben
della pace.
Or ſe la privazion di queſta pace ella è un
sì gran male, che da ſe ſola è baſtevole a ren
der miſero un cuore, argomentate qual bene
debb'egli eſſere il poſſederla. Il bene, uditori,
è sì grande, che può bensì provarſi, ma non
eſprimerſi. Raunate in un ben ſolo quanto han
no di dolce, quanto di ſaporoſo i beni tutti; e poi
ſappiate, dice l'Appoſtolo, che più dolce ancora, e
più ſaporoſa è la pace della coſcienza: Exſuperatphil.s
omnem ſenſum. Dite tranquilità, che mai non tur
baſi, dite ſerenità, che mai non ingombraſi,
dite allegria, che mai non annoiaſi, dite con
tentezza, che mai non iſcemaſi, non perciò eſ
primerete quella dolcezza, di cui va ebbro un
cuore in pace: Exſuperat omnem ſenſum. Tan
to, e sì non interrotto è il guſto, che in que
ſta pace aſſaporaſi, che paragonolla il Savio ad
un perpetuo convitto: Secura mens quaſi juge Prova
convivium. E' vero, che non è queſta una gio i 5,
ja, che appaghi il ſenſo, ma è vero altresì, che
non ſoggiace ai crudi rimorſi del ſenſo appaga
to; è vero, che non ſi dà queſta a conoſcere
con diſſolutezze di tratto, di parole, di geſti;
ma è vero ancora, ch'ella è libera da quelle
amarezze, nelle quali vanno a finire le allegrie
diſſolute del Mondo. Come ubbidiente al ſupe
riore l'inferior appetito, contienſi tranquillo
tra le leggi preſcrittegli; timore non turba, ſpe
ranza non inquieta, ira non altera, concupiſ
T 2 CCſ1Za
292 Diſcorſo XVI,
cenza non luſinga; tutto è concordia inaltera
bile, tutto calma perfetta, tutto armonia ſoa
viſſima : Secura mens quaſi juge convivium.
Ma quel , ch'è più da pregiarſi ſi è, che
non ſolo è queſto un bene in ſe ſteſſo dolciſ
ſimo, ma diffonde ancora ſu gli altri beni la
ſua dolcezza, di modo tale, che ſiccome ſen
za queſta pace niſſun bene ſembra guſtoſo sco
sì ov'ella trovaſi, ogni altro bene trae da lei
il ſapore : Omnia que in vita expetuntur, 6 in
pretio ſunt, dulcia efficit atque jucundas così
notollo il già citato Niſſeno. Ditelo voi, cari
uditori miei, quando è, che i divertimenti più
vi fanno buon prò, ſe non allora quando il
cuore non è da rimorſi auguſtiato? quando è,
che tra gli agi di facoltoſo patrimonio ſi me
nano più lieti i giorni, ſe non allora quando
la ſindereſi non vi perſeguita co ſuoi rimbrotti?
E' dolce il converſare, ma quando l'innocenza
condiſce i diſcorſi: Fan piacere gli onori, ma
quando ricevono dal merito, e dalla virtù lo
ſplendore. Proſperità di famiglia, ſublimità di
ſapere, diſtinzione di ſtima, luſtro di dignità,
favor di fortuna, copia di ricchezze, riuſcita di
maneggi, diſinvoltura di tratto, ſon tutti beni,
che formano quella, che ſola in queſto Mondo
può averſi, paſſaggiera beatitudine: Ma quando?
quando va unita con eſſi la pace del cuore,
queſta è, che loro dà tutta l'anima, e ſenza
queſta non ſono più, che un cadavero, un'ap
parenza, un'ombra di bene: Omnia, que in vi
ta expetuntur, dulcia efficit, atque jucunda.
Sebbene ho detto poco: non ſolo i beni di
quaggiù, ma i mali medeſimi ricevono da que:
ſta pace dolcezza, e ſapore. Interrogate quel
- paſto
Per la Dom. prima dopo Poſqua. 293
!
paſtorello, che nato, ed allevato in vil ca
panna paſſa i giorni ſuoi in povertà contentiſſi
ma. Interrogate quel meſchino artigiano, che in
officina ſtentata paſce allegro de ſuoi ſudori la
vita: onde quella contentezza ? Onde quel brio?
onde ? dal cuor tranquillo: con la coſcienza
in pace più godono eſſi, dice il Griſoſtomo, tra
i loro ſtenti, tra le loro fatiche, tra le loro mi
ſerie, di quel, che goda tra le delizie, tra i
comodi, tra le grandezze un cuore colpevole:
Qui puram habet conſcientiam, ut pannoſus ſit,
ut cum fame luitetur, tamen tranquillior, bea
tiorque eſt iis, qui inter delitias magnopere de
gunt. La ragione, uditori, di queſta calma
ſempre uguale a ſe ſteſſa, e ſempre beata, ſi è,
perchè mercè la grazia Divina, da cui tutta pro
cede sì bella tranquillità, il cuore non cerca ſe
non d'incontrare il genio di Dio, e perchè ſa,
che anche tra le traverſie, tra le infermità, tra
le perſecuzioni, tra le diſgrazie può conſegui
re il ſuo intento: quindi è, che di nulla ſi tur
ba, s'inquieta di nulla, e quale ſcoglio, che
tra procelle, che infuriano, tra venti, che im
perverſano, tra tuoni, che aſſordano, tra ful
mini, che ſcoppiano, nulla perde di ſua fer
mezza; così egli tra i colpi di avverſa fortuna,
non ſolo non iſcema nulla della ſua tranquilli
tà, ma ſente ancora dall'interno ſuo godimen
to raddolcirſi ogni eſterna amarezza.
E s'è così, qual maraviglia poi fia, che vo.
lendo Criſto prima di andare alla morte, laſcia
re a ſuoi cari un'eredità degna di ſe, non al
tro laſciaſſe loro, che queſta pace: Pacem re
linquo vobis! Che potea egli loro laſciare di più
Pregievole, che poteano sipi 3
di più ca
ro?
294 , Diſcorſo XVI,
ro? Bene dolciſſimo, che fa in queſta terra tut
ta felicità dell'uman cuore: bene ſicuriſſimo
non ſoggetto a vicende di tempo, a volubilità
di fortuna, a rapacità di avarizia, a ſtrazi di
tirannia: bene, che dà il riſalto ad ogni altro
bene: bene, che ſpruzza di ſoavità giocondiſ
ſima il male medeſimo. Peccatore infelice ti
compatiſco, di queſto bene tu ne vai privo per
chè cerchi la pace, ove non è. Vi vuol altro
per goder pace, che immergerti nel lezzo di
piaceri fangoſi, o farti largo nel Mondo con
iſtrepitoſe comparſe, e procacciarti con isfoggi
affettati adulazioni, e corteggi, o in una vita
ozioſa, e morbida paſſar le ore in giuochi, in
pompe, in delizie, in paſſatempi. Odi una vol
ta, e intendi ciò, che per bocca d'Eſaia Iddio
Iſ 4s. ti dice: Si attendiſſet ad mandata mea, fuiſſet
quaſi flumen pax tua. O miſerabile, ſi attendiſ
ſet ad mandata mea; ſe te la foſſi tenuta con
Dio, e non col Mondo, ſe ſeguite aveſſi le maſ
ſime dell'Evangelio, e non i dettami del ſen
ſo, ſe preſi aveſſi di mira i precetti della ſan
ta Legge, e non gli eſempi del ſecolo perver
ſo; che bella pace ſarebbe ora la tua: Fuiſſet
quaſi flumen pax tua! Un fiume di pace inon
dato avrebbe il tuo cuore; sì un fiume di pa
ce, perchè pace copioſa, pace perenne, pace
imperturbabile, pace ſoaviſſima: Fuiſſet quaſi
flumen pax tua. Ma ſe coſtui non l'intende,
intendiamola noi, cari uditori miei. Vogliamo
eſſer felici? bramiamo viver contenti ? Deh te
niamo da noi lontano il peccato: appigliamei al
ſentiero della virtù: ſerviamo al noſtro buon
Dio, temiamolo, amiamolo; e quel Gesù, che
diè la pace a ſuoi Diſcepoli, la darà anche
- - - -
"i1 ,
Per la Domen. prima dopo Paſqua. 295
Sì, Gesù caro, ve la chiediamo di tutto cuore,
o e dalla voſtra liberalità la ſperiamo. Sia nella no
i ſtr'anima queſta pace, che ſola ci può in que
ſta vita render felici. Non vi chiediamo queſta
ſera proſperità di affari, ſanità di corpo, beni
di Mondo: no; vi chiediamo quel teſoro, che
voi laſciaſte per eredità a voſtri cari, la pace del
i cuore. Deh per le piaghe ſantiſſime del voſtri
a Piedi, che umilmente adoriamo, eſaudite di
i grazia le noſtre ſuppliche: Fiat pax in virtute
i tua, fiat, fiat. E perchè dal canto noſtro ciò,
- che può impedire sì bella pace, ſi è il peccato;
i lo deteſtiamo con tutto lo ſpirito, e vi promet
i tiamo d'adoperarci con ogni sforzo per tenerlo
º mai ſempre da noi lontano. a -

0, In riguardo al punto della morte non può bra- ,


PUN
º marſi conforto nè più ſoave, nè più efficace. Non To II.
i è ſolo il peccatore, che teme la morte, la te
me anche il giuſto, e un tal timore da due prin
cipj ſuol naſcere, naturale l'uno, l'altro ſo
prannaturale. Temeſi in primo luogo per ribrez
zo di natura, a cui troppo duole il crudo ta
glio da quanto ha di caro nel Mondo; temeſi
in ſecondo luogo per dettame di fede, la quale
mette avanti agli occhi di chi muore la vicina
comparſa al tribunale tremendo di un Dio Giu
dice. Or nell'uno, e nell'altro di queſti timori,
d' onde trarrà conforto un povero moribondo!
D'onde è dalle ricchezze s'egli è facoltoſo? no,
perchè queſte lo laſciano. Dagli amici s'egli è
ben voluto º no, perchè queſti non lo ſieguono
più oltre, che alla lapida del ſuo ſepolcro: In
una parola ſperar non lo può da verun di que”
beni, che ſono in quegli eſtremi irreparabile ſpo
glio di morte. La pace della coſcienza, uditori,
T 4 ſi è
296 Diſcorſo XVI.
ſi è quella, che come bene non ſoggetto alla
rapacità della morte, può in quel punto conſo
lare chi muore, e confortarlo ne ſuoi timori.
Io non dico già, che queſta pace diſſipi onni
namente ogni timore, no: che anzi tanto ne la
ſcia quanto è neceſſario, e per purgar ſempre
più da ogni neo di colpa lo ſpirito, e per ani
mare vieppiù il ricorſo, e la fiducia in Dio, e
per ovviare ad ogni moto, che ſuſcitar ſi po
teſſe nel cuore di preſunzione pericoloſa; dico
bensì, che tempera sì fattamente l'uno, e l'altro
de due timori, che tutta toglie l'inquietudine,
che potrebbe da eſſi eccitarſi nell'anima. Tem
pera il primo nato dalla natura, con una raſſe
gnazione perfetta a divini voleri, e poichè ſa,
che il doloroſo taglio viene da Dio, adora il ſo
vrano decreto, e aſpetta quieto il colpo fatale:
Così di Mosè noi leggiamo, che morì tranquil
liſſimo, avvegnachè in veduta della tanto ſoſpi
rata terra promeſſa, perchè conobbe così volerſi
Deut. da Dio: Mortuus eſt Moyſes ſervus Domini in
94 terra Moab jubente Domino, o come leggono al
tri, in oſculo Domini; dinotandoci con queſto
bacio la pace, con cui quel fedel ſervo di Dio
appreſsò le labbra a quel Calice, che doveana
ruralmente riuſcirgli sì amaro. Tempera il ſe
condo nato dalla fede con una confidenza pie
niſſima in Dio, e tutto che ſappia dover que
ſto tra breve rendergli conto minuto della ſua
vita, tale contuttociò è la fiducia, che ha nella
divina Miſericordia, che da ſe medeſimo ſi fa
cuore a preſentarſegli avanti: Egredere quid ti
mes, dicea a ſe medeſimo nelle ſue agonie il
Santo vecchio Ilarione, egredere anima mea quid
dubitas? Anima mia, e perchè mai queſti timo
ri?
Per la Domen. prima dopo Paſqua. 297
ri? Hai ſervito in queſto deſerto preſſo che ſet
tant'anni al tuo Dio, e temi ancora di compa
rire morendo alla ſua preſenza ? Septuaginta pro
pe annis ſerviſti Chriſto, ci mortem times? Via
queſti timori: Egredere, egredere.
E in verità chi ha da ſperare in morte, cle
mentiſſimo il divin Giudice, ſe non lo ſpera una
coſcienza tranquilla ! Da una parte non ha che
temere delle paſſate ſue colpe, conſapevole a ſe
medeſima della contrizione, con cui le ha deteſta
te, delle lagrime, con cui le ha piante, della peni
tenza, con cui le ha ſcontate: dall'altra ſa aver da
fare con un Dio di genio dolciſſimo, d'una bontà
ineffabile, d'una miſericordia infinita, liberaliſſima
delle ſue grazie, e fedeliſſima nelle ſue promeſſe:
onde ſe tanto teme, quanto baſta per non preſu
mere, tanto inſieme confida, quanto è neceſſario
per far di buon cuore l'orribil paſſo. Quelli sì, che
hanno ragion di temere, e ragione ben giuſta, che
mai non curanſi di mettere in pace la loro coſcien
za, e ne portano ſino a quel punto i diſordini.
O Dio, che agitazioni, che tempeſte, che bat
ticuore hanno eglino a provare in quell'eſtremo
conflitto ! Vorrebbono pur ancor eſſi trovar pa
ce avanti a quel Giudice, che gli aſpetta, ma
qual pace, infelici, qual pace ſperar mai poſſono,
ſe al tribunale tremende pace non trova, chi pace
non porta. La pace, che coſtoro averanno da Dio,
ſapete qual'è, quella ch'ebbe da Jehu il Re d'I-
ſraello Geroboamo. Fattoſi queſti incontro a Je
hu, che accompagnato da ſoldateſca verſo lui
ſe'n veniva: è egli queſto, diſſe, è egli queſto o -
Jehu incontro di pace º Pax eſt Jehu ? A tale
interrogazione Jehu, ch'era inviato dal Profeta ita -

a vendicare le ſceleratezze dell'empio Re, que


- pax
298 Diſcorſo XVI.
pax ? riſpoſe, che pace ? La pace, che tu meri
ti, cccoia ſu la punta di queſta ſaetta, e sì di
cendo gli trafiſſe il cuore, e sbalzollo dal coc
chio in cui era, e dal Regno, e dal Mondo. Fi
gura eſpreſſiviſſima del peccatore, che aſpetta a
cercar pace negli eſtremi momenti: Qua pax ?
gli riſponderà Iddio ſdegnato, che pace º che
pace? non l'hai voluta vivendo, nè pur mo
rendo l'avrai; ed è pena giuſta, uditori, che
abbia in morte la diſperazione nel cuore, chi
non vi volle in vita la pace.
Ma non così, dice Gregorio il Magno, noti
così di chi ſi accoſta a quel punto tremendo con
la coſcienza tranquilla. Qual ſervo, che non ha
nulla che rimproverarſi, alla prima chiamata del
ſuo Signore, non tarderà punto ad aprirgli, e
proverà sì ſoave inſieme, e sì efficace conforto
dalla quiete di ſua coſcienza, che alla compar
ſa del divin Giudice, anzi che ſmarrirſi di cuore,
moſtrerà un volto giulivo: Qai autem de ſua
ſpe, di operatione ſecuriis eſt, pulſanti confeſlim
aperit, quia latus judicem ſuſtinet. E queſte ap
punto erano le ſperanze del reale Profeta, allor
quando pianti da vero i ſuoi falli, e meſſo in
calma il ſuo cuore, prometteaſi una morte tutta
Pſala. pace: In pace in idipſum dormiam, ci requieſcam.
9uoniam tu Domine ſingulariter in ſpe conſtitui
ſti me.
Or un conforto sì ſoave in un tempo sì af
fannoſo, qual è quel della morte, chi è tra noi
che nol brami ? chi vi è, che non deſideri, che
ſollevati vengano da queſta pace i ſuoi eſtremi
- reſpiri? Ma ſe con queſta pace morir vogliamo,
-
- dobbiamo vivere con queſta pace; perchè in
morte certamente non l'avremo, ſe in vita la
traſcu
Per la Domen, prima dopo Paſqua 299
traſcuriamo. Or qual pace proviamo noi ora nel
le noſtre coſcienze? Entriamo un poco nel no
ſtro interno, e vediamo, che tranquillità vi ſi
goda: I peccati ſi ſono pianti? le occaſioni pe.
ricoloſe ſi ſon laſciate? gli abiti rei ſi ſono ſra
dicati ? Se Dio ci chiamaſſe in queſt'anno, in
queſto giorno, in queſt'ora, ſarebbe in pace la
noſtra morte ? Sarebbevi niſſun affetto, niſſun
impegno, niſſuna paſſione, che torci poteſſe il
bel conforto, che aver potiamo da una coſcien
za tranquilla ? E quel che ſarebbe ancor peg
gio, ſarebbeci mai tra noi veruno di quegl'in
gannati deſcrittici da Geremia, che ſi luſingano
di vera pace, quando non v'è : Dicentes pax Jer. 8
pax, cum non eſſet pax ? Sì, dilettiſſimo mio,
palliereſte voi mai le voſtre colpe? ſcuſereſte voi
mai i voſtri diſordini ? dareſte voi mai un'aria
di zelo ai voſtri livori, di convenienza alle vo
ſtre licenze, di decoro alle voſtre vanità, d'in
nocenza alle voſtre corriſpondenze, di pietà ſin
cera alle voſtre ipocriſie? Vi formereſte voi mai
una coſcienza a voſtro modo, coſcienza, che
ſpacci per lecito non ciò che inſegnava la mo
rale Criſtiana, ma la mondana politica; coſcien
za, che prenda del ſuo operare la regola, non
dall'Evangelio, ma dal coſtume; coſcienza, che
ſi acquieti alle deciſioni dell'amor proprio, dan
dovi con ciò a credere d'eſſere in pace, perchè
ſorda è la guerra, che vi ſconvolge? Cari udi
tori, guardici il Cielo da una tal pace, pace fal
ſa, pace traditrice, pace che in vita, e in mor
te ci perde: il Ciel ce ne guardi.
Eppure o mio Gesù, quanto è facile che da
queſta pace ci laſciamo ingannare! L'amor ſo
verchio, che noi portiamo a noi medeſimi, quan
- t1
3Co Diſcorſo XVI.
ti mancamenti ci fa ſpacciare per innocenza. "Deh
Gesù caro, non ci laſciate vivere in una pace co
sì funeſta. Illuminateci pertanto, ve ne preghia
mo per le piaghe ſantiſſime delle voſtre mani,che
riverenti adoriamo, affinchè riconoſciuti i no
ſtri falli, e piantili di vero cuore, diamo alla
noſtra coſcienza una pace ſicura. Queſta è la pa
ce, che noi vogliamo, perchè queſta è la ſola che
può recarne il più ſoave, ed il più efficace con
forto, che ſperar poſſiamo nel punto terribile
della morte.
In riguardo alla beata eternità non può bramar
Pºi, ſi pegno nè più chiaro, nè più certo. Chi dice re
ºgno del Cielo, dice regno di pace: anzi le ſa
gre carte in più d'un luogo, col ſolo nome di
pace, ci eſprimono l'ampiezza di que contenti,
sue, che inondano il cuor di un beato: Viſi ſunt oculis
inſipientium mori, diſſe del giuſti il ſavio, illi au
tem ſunt in pace. E con formole di più viva ener
Pſ: 36. gia: Delectabuntur in multitudine pacis, cantò
de medeſimi il Reale Profeta; dandoci con ciò
a conoſcere, come riflette il divotiſſimo Bloſio,
che l'eterna beatitudine non è altro, che una pa
ce moltiplicata: Multitudo pacis. Pace ſono i
teſori, che collaſsù ſi poſſeggono immenſi, pace
le delizie,che ſi aſſaporan ſoaviſſime, pace la vita,
che vi ſi gode immortale, pace quel Dio medeſi
mo, che veduto ed amato fa tutta l'anima del Pa
radiſo: Aurum tuum pax, predia tua pax, vita
tua pax: Deus tuus pax : quidquid deſideras, pax
tibi erit, deleffabuntur in multitudine pacis. Se
così è, chi può negarmi,che quella dolce interna
pace, che da un giuſto in queſta vita ſi prova,
non ſia un pegno certiſſimo dell'eterna felicità º
E chi non iſcorge, dice quì Alberto Magno, che
que r
Per la Dom. prima dopo Paſqua. 3 ot
queſta pace ella è un ſaggio di quella pace, ſoa
viſſima, che fa nel Cielo la bella ſorte de' giuſti:
Haec pax eſiguſtus, ci fructus eterna beatitudinis:
Anzi quel bel regno, a cui s'inviano tanti ſoſpiri,
già è nel cuore di chi ha nel cuore la pace. Re
gnum Dei intravos eſt ; giacchè al dir dell'Ap
poſtolo: Non eſt Regnum Dei, eſca & potus, Lue.,
ſed juſtitia, 6 gaudium & pax. Or ſe la pace Rom.
della coſcienza può dirſi un ſaggio anticipato, e º
un anticipato poſſeſſo della pace de Santi,
dove più che in eſſa fondar poſſiamo le ſperanze
della futura noſtra beatitudine,
Infatti, ſe crediamo a S. Cipriano, tutte ſi
riducono le promeſſe di Criſto a queſta ſola, di
conſervarci la pace: Chriſtus omnia dona ſua pol L. ,
licitationis & premia in pacis conſervatione pro unici.
miſit; e vale a dire, che Criſto a favor de' ſuoi º
cari, s'impegna a farli paſſare da pace a pace, da
una pace breve, ad una pace eterna, dalla pace
di queſto Mondo alla pace dell'altro: Poſt hanc
pacem dabit pacem ſuam in Calis. Così ancora ce
lo conferma il Serafico S. Bonaventura, e l'uno
e l'altro di queſti Santi lo appreſero, cred'io, da
Eſaia, che chiedendo a Dio la conſervazion del
la pace, ben due volte la nominò: Servahis pa .
tem, pacem qaia in te ſperavimus ; affinchè da º
queſta miſterioſa ripetizione intendeſſimo, eſſe
re una pace pegno dell'altra, e aſſicurarſi la futu
ra con la preſente: Repetitio pacis, ſpiegazion
del Cardinale di Vitriaco, refertur ad pacem in
preſenti, e ad pacem in futuro. Qual maraviglia
pertanto, che ponderando Sant'Efrem le conſe
guenze pregievoli di queſta pace, ſclamaſſe pie
no di giubilo: o pace, amabil pace, pace che
mi ſervi di ſcala per ſalirmene al Cielo! pace
- CilC
3 O2 . Diſcorſo XVI.
In trac che mi ſervi di via per giungere al beato mio ter ,
"mine: O pax ſcala Caleſtis! O pax via Regni
Calorum! l

Quanto però dee conſolarſi, cari uditori miei,


chi mercè l'innocenza de' ſuoi coſtumi, o la pe
nitenza delle ſue colpe, comincia a guſtare il .
dolce frutto di queſta pace. Io ſo, uditori, che i
anguſtia ſempre un cuor, che crede il penſiero di i
una dubbioſa eternità. Quel non ſapere ſe ſi avrà
luogo tra gl'eletti, o pùr tra reprobi, ſe ſi ſtarà
o ſu per ſempre nel Cielo, o giù negli abiſſi per i
ſempre, sì, egli è un penſiero che ſempre angu ,
ſtia. Ma ſebbene io non pretenda, di ſgombrare
affatto da voi queſto timore, che ſempre ſuol eſ .
ſere ſalutevole, dico contuttociò, che chi chiu
de in petto tranquillo il cuore, debbe farſi ani
mo, e ſperare più aſſai che temere. Tema colui,
che non ſa che ſia coſcienza in pace; tanti ſono i
e sì frequenti i rimorſi, che gli rodono l'anima:
tema chi porta in ſeno nella ſindereſi, che lo rim
“provera, un Inferno anticipato, che lo tormenta,
si, tema pure che ben ne ha ragione, perchè
l'inquietudine interna, che lo addolora, ella è
pur troppo un infauſto preludio di guai eterni:
ma chi ha meſſa in ripoſo la ſua coſcienza, e
non ha rimorſo che lo inquieti, non ſi laſci ab
battere, no, da ſovverchio timore; ſperi pure,
e tanto ſperi, quanto ſperar può, chi nelle ſue
mani ha il pegno di ciò che ſpera. Vi do male.
vadore del quanto dico Iddio medeſimo, che
per bocca del Profeta Eſaia in poche parole vi
conferma, quanto queſta ſera vi ho eſpoſto:
Iſº Sedebit populus in pulchritudine pacis, in taber.
maculis fiducia, o in requie opulenta. Il popolo
mio, che ſono appunto le anime di coſcienza
tIall
Per la Dom. prima dopo Paſpua. 3o3
tranquilla, ſedebit in pulchritudine pacis: ecco
la tranquillità, che in vita ſi gode i Senekit in
tabernaculis fiducie: ecco il conforto,che in mor
te ſi prova: Sedebit in requie opulenta: ecco il
ripoſo, che nell'eternità ſi promette. Ma qual ri
poſo? Requiss opulenta. Il ripoſo che qui si gode,
benchè ſia un pegno del futuro, ed è ſcarſo, ed
è manchevole, perchè non è ſe non principio di
un ripoſo migliore, ma il ripoſo, che ſi goderà
dopo morte, ſarà ripoſo abbondante, ripoſo
compito: Requies opulenta. O vita! o morte!
o eternità! Vita dolciſſima in pulchritudine pacis:
morte prezioſiſſima in tabernaculis fiducia: feli
ciſſima eternità in requie opulenta. Or sì mi av
veggo, che avea ragione il divotiſſimo Bloſio,
di ſclamare al rifleſſo di sì gran pregi: o pace
deſiderabile, che oltrepaſſi coi tuoi vantaggi le
noſtre idee ! o pace ſoaviſſima, che impara
diſi con ſovraumane delizie il noſtro cuore! o
pace amabiliſſima, che ſollevando ſopra di
ſe il noſtro ſpirito, gli anticipi tra i guai della
terra i godimenti del Cielo! -

Ecco però quanto premer ci debba, cari udi


tori, che nel noſtro cuor ſi conſervi quella pace,
che per mezzo di una ſanta Paſqua gli abbiamo
data; ma la maniera di conſervarla ſapete qual
è ? Eccola da S. Paolo: Ella ſi è non aver d'or
avanti del noſtro operare altra regola che l'Evan
gelio. Se a queſta regola ci appigliamo, non te
miamo, uditori, non dubitiamo: Sarà coſtante,
ſarà inviolabile, ſarà ſicura la interna pace: Qui
cumque hanc regulam, udite ſe può accertarcene
con più di franchezza il Santo Appoſtolo, ſeqauti
fuerint, pax ſuper illos ; chi vuole pace, e pace
cire mai non manchi, regoli coll' svani" i
ll C1
3 O4 Diſcorſo XVI, -

ſuoi coſtumi, coll'Evangelio le ſue azioni, la


ſua vita coll'Evangelio: Quicumque hanc regulam
ſequuti fuerint pax ſuper illos. Seguitar come
prima una vita o tutta diſſipazioni tra diverti
menti, o tutta morbidezza nell'ozio, o tutta
avarizia negl'intereſſi, o tutt' albagia nel faſto,
e poi aver pace, non ſi può, miei dilettiſſimi:
Diſingannatevi pure; o voi tutti, che viſſuti fin'
ora ſiete idolatri del piacere, della vanità, del
bel tempo: non ſi può, non ſi può. L'unico
mezzo per aver pace, l'unico per conſervarla,
l'unico per accreſcerla, ſi è la pratica dell'Evan
gelio, e pratica ben eſatta: ſi è l'umiltà, che
i Evangelio c'inſegna, ſi è la mortificazione, che
l'Evangelio preſcrive, ſi è il diſtaccamento dal
Mondo che l'Evangelio c'ingiunge, ſi è l'imita
zione di Criſto, che l'Evangelio ci ordina: Qui
cumque hanc regulam ſequuti fuerint pax ſuper
illos. O ſe a queſta regola ci atteniamo coſtanti,
che giorni tranquilli ſaranno i noſtri! che dolce
vita! che ſanta morte! Intendetela dunque o
voi, che bramoſo di pace, la pace cercate dove
non è; voi la cercate tra le comparſe e tra gli
omori, tra i diletti, tra gli agi, tra le grandezze:
no, dice Gesù anche a voi, come già diſſe un dì
a Lorenzo Giuſtiniano ancor giovanetto, no,
che tra queſte baſſe umane coſe la vera pace non
trovaſi: Quare cor tuum effundis, pacemaue ſe
itando per multa vagaris? quod quaris in me eſt: -
quella pace, di cui vai sì ſollecito in cerca, in
me ſolo ſi trova ; ſe al mio Vangelo ti appigli,
ſe alle mie maſſime, ſe a i mei eſempi, una
pace io ti prometto, che felice renderà la tua
vita, più felice la morte, feliciſſima l'eternità:
-
Ego tibi hanc pacem certiſſimè ritiriº lilC
Per la Dom. prima dopo Paſqua. 3c5
diſſe Gesù al Giuſtiniani, così dice a voi, così
dice a me: Ego tibi hanc pacem certiſſimè pol
liceor. - •

E come in fatti, come può non eſſer così,


Gesù caro, ſe voi prima ancora che veniſte in
queſto Mondo voleſte da Profeti eſſer chiamato
Principe della pace: Princeps pacis; affinchè in
tendeſſimo, che la pace dovea eſſer la mercede
di chi vi avrebbe imitato e ſervito. Riceveteci
dunque, Principe amabiliſſimo, nel numero
de' voſtri ſervi, acciocchè entriamo ancor noi in
parte della voſtra pace. Queſta deſideriamo che
ſia il noſtro teſoro in vita, il noſtro conforto in
i morte, la noſtra beatitudine nell'eternità: e lo
ſarà certamente, ſe per cuſtodirla nel noſtro
cuore, prenderemo per noſtra regola il voſtro
Evangelio; aſſiſteteci pertanto con la voſtra gra
m zia, ve ne preghiamo per la piaga ſantiſſima del
voſtro coſtato, che adoriamo con tutto l'oſſequio;
e concedeteci, che ci atteniamo coſtanti a quel
l'orme di virtù, che voi ci avete laſciate; ſicchè
dalla pace conſervate per mezzo della voſtra imi
tazione in queſta vita, paſſiamo indi alla pace
promeſſa a voſtri imitatori nel Cielo. -

-
-

º;3 3

Tomo IV Anno IV, V Dl.


3o6

D I S C O R S o XVII.
PER LA DOMENICA SECONDA
D O P O PASQUA.
Speranza di buona morte dall'amore, ch
Dio ci porta. -

Ego ſum Paſtor bonus. Joan. Io.


º geº On è tanto il morire quello che fa
g: :: ſpavento, quanto il pericolo di
i; N; X morir male. Trattaſi di un punto,
i; e da cui dipendono due eternità,
i ge, e coll'incertezza terribile di qual º,

delle due ſia per toccare, ſe la fe.


lice, o la miſera. Ove la morte ſia buona, l'e-
terno regno è in ſicuro; ova lo morte ſia cat
tiva, è inevitabile l'eterna perdita. Ma intanto ,
ſe buona ſia per eſſer la morte, o pur cattiva,
chi può accettarlo ? Con tal penſiero in capo
come può mai, chi ha ſenno, e fede, non in
contrare con batticuore la morte? anzi come
può non rremare in ogni momento per racca
priccio? Ma viva Dio, uditori miei, ch'io vo- ,
glio queſta ſera, ſe non iſgombrare del tutto
queſti timori, mitigarli certamente di molto. S
Io leggo nell'odierno Vangelo, che Dio ſi pa
ragona a un buon Paſtore: Ego ſum Paſtor bo
mus. Paſtor tutto amore verſo il caro ſuo gregge,
perchè
l º
Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 3o7
4 perchè lo ama con amore così ſincero, che nel
cuſtodirlo non riſparmia ſollecitudine: Lo ama
con amore sì forte, che più toſto che laſciarlo
in preda di lupo divoratore, è pronto ad affron
tare cento pericoli, ed eſpone la ſua medeſima
vita a mille morti: lo ama con amore sì tenero,
che ſembra non aver cuore ſe non per lui. Se così
è, avviviamo, uditori, la noſtra fiducia, e giac
chè abbiamo a fare con un Dio sì amante, ſpe
riamo pure ch'egli non permetterà, che compi
ſcanſi con morte infauſta i noſtri giorni. Sieno
quanto ſi voglia argomento di timore i noſtri
peccati, e non meno lo ſieno i violentiſſimi aſ
ſalti, coi quali il Demonio dà in quel punto
ad un anima l'ultima ſpinta: Non importa,
Dio ci ama, e ci ama con amor ſinceriſſimo, e
ci ama con amor teneriſſimo, e tanto baſta, per
chè maggiori della paura ſieno le noſtre ſperanze.
Anime giuſte, ma troppo timide, a voi queſta
ſare io parlo; e dall' amore, che Dio vi porta,
voglio farvi vedere, con qual ſodezza di fonda
mento ſperar dobbiamo una ſanta morte. Ve la
fa ſperare in primo luogo, la ſincerità dell'amore,
con cui Dio vi ama; e lo vedremo nel primo
punto. Ve la fa ſperare in ſecondo luogo, la
fortezza dell' amore, con cui Dio vi ama; e lo
vedremo nel ſecondo punto. Ve la fa ſperare in
terzo luogo, la tenerezza del amore, con cui
Dio vi amas e lo vedremo nel terzo punto. In
cominciamo.
Per la ſincerità, con cui ci ama. Egli è d'una ros
tempra aſſai diverſa da quel degli uomini, l'a-º I.
mor di Dio, tanto è raro trovar negli uomini,
amor ſincero, quanto è frequente vederſi, che
l'amore che regna, ſe non è mera apparenza,
- 2, e
3o8 Diſcorſo XVII.
è tutto intereſſe. Si finge ben ſpeſſo di amare,
ma non ſi ama, o ſe ſi ama, ſi ama tanto e
non più squanto torna a conto l'amare. Ma
non così, uditori, è l'amore, che Dio ci porta.
Santo ch'egli è, ama ſenza finzione, e indipen
dente ch'egli è, ama ſenza intereſſe. In che mai
ha egli biſogno di noi, ſicchè amar ci debba per
ſuo vantaggio ! Poſſiamo noi forſe nuocerli
punto, anche quando ribelli alziamo contro di
Job 35 lui altiero il capo? Si peccaveris quid ei nocebis ?
6, Poſſiamo noi punto giovargli, anche quando
per oſſequio dovutogli ci ſtruggiamo nel ſuo
lº a ſervizio? Quid prodeſt Deo, ſi guſtus fuerisº Cen
tro, ch' egli è d'ogni felicità, cumulo d'ogni
perfezione, ſorgente di tutti benis può bene
egli co' ſuoi teſori arricchire la noſtra povertà;
ma la noſtra povertà non ha, che aggiungere a
Asi. ſuoi teſori: Non indigens aliquo, diſſe di lui l'Ap
sz. as poſtolo Paolo cum ipſe det omnibus vitam, inſpi
rationem, 6 omnia.
Che ſe da Dio, rivolger vogliamo lo ſguardo
ſu noi medeſimi, molto più ſcorgeremo la ſince
rità dell'amore, ch'egli ci porta. Qual merito
abbiamo noi, onde un Dio di maeſtà infinita, e
d' infinita grandezza, muoverſi debba ad amar
ci? Se mirare ci vogliamo ſenza adularci: tro
veremo bensì cento, e cento titoli, ond'eſſere
diſprezzati: attrattiva d' amor sì eccelſo non ne
troveremo puruna. Fragil compoſto, che ſiamo
di carne, e di ſpirito, che abbiamo noi mai in
queſto, o in quella, ch'eſſer poſſa oggetto de
gno delle compiacenze divine? Da ſozza pol
vere traſſe il corpo l'origine? e in ſozza polvere
troverà un giorno il ſuo termine: ed è egli
queſto un oggetto, che innamorar poſſa
- vº
" ſe
Per la Domenica ſeconda dopo Paſqua. 3oo
il divin Cuore? E' vero, che il noſtro ſpirito,
porta impreſſa in ſe ſteſſo un immagine del ſuo
Dio: ma queſta immagine tanto va pel peccato,
i guaſta, e contraffatta! quanta è la ſua ignoranza!
quanta la ſua inſtabilità! quanta la ſua fiacchezza!
i quanta la ſua malizia ! Contrari poi l'un all'altro,
; di tal maniera, che ſono ſempre in guerra tra ſes
ed in altro mai non ſi accordano,chenella colpa:
i qual merito pertanto vi può mai eſſere in noi,
; onde ci ſi debba l'amor di un Dio? qual merito?
i E quand'anche ve ne foſſe adeſſo qualcuno;
E certamente non ne avevamo prima, che foſſi
i mo; Eppure prima che foſſimo, Iddio ci amò:
iIn charitate perpetua (così per bocca di Geremia
l Dio medeſimo ce ne aſſicura) dilexi te. Anco º
- e v - - - - . 3
il ra non v'era Cielo e già Dio aveva ſtabilito di
i creare un Cielo per noi: ancora non vi era
º terra; e già avea decretato di creare una terra
º per noi: eravamo ancora ſepolti nell'abiſſo pro
fondiſſimo del noſtro nulla; e già Dio avea riſo
i luto di cavarcene, e darci quell'eſſere, che ora
; abbiamo: In charitate perpetua dilexi te. Fino
; dall'eternità fiſsò in noi corteſe il ſuo ſguardo, e \

ci riſerbò a queſto ſecolo, e ci aſſegnò a queſta


patria, e ci deſtinò alla ſua fede: In charitate,
perpetua dilexi te. Nè contento d'aver prevenu
i to con l'amor ſuo il noſtro eſſere, quante vol
i te previene anche adeſſo con le ſue grazie le
noſtre ſuppliche? A quanti noſtri biſogni egli
provvede, ſenza che neppur vi penſiamo? Da
quanti pericoli egli ci libera, ſenza che nep
i pur lo ſappiamo? Quanti ajuti egli ci porge,
ſenza che gli ci faccia per parte noſtra un'iſtan
za? E può idearſi, uditori miei, amor più ſince
to? Amarci ſenza biſogno alcuno di noi; amare
- V 3 ci
3 Ieo Diſcorſo XVII.
ci ſenza alcun merito in nois e amarci con un
amore, che mai non ebbe principio: Che può
bramarſi di più, che può dirſi di più, per iſcorgere
la ſincerità del ſuo amore ? -

Ma quindi quale ſperanza di morte ſanta non


dobbiamo noi concepire, dopo tanti riſcontri
d'un amor ſinceriſſimo ? Poſſiamo noi dubitare,
che ſia Dio per non aſſiſterci, quando è maggiore
la neceſſità del ſuo aiuto? Siamo fatture ſue, ideate
da lui per puro amore, lavorate da lui per puro
amore, conſervate da lui per puro amore, e teme
remo che nel noſtro maggior cimento, ei ſia per la
ſciarci alla deſcrizione de noſtri, e ſuoi nimici?
Quando mai pittor famoſo die in balia di un
emolo un ſuo caro lavoro, perchè fattolo in
pezzi, con piè maligno lo calpeſtaſſe ? E Dio,
che ama noi infinitamente più, di quel che poſe
ſa un artefice amare un lavoro delle ſue mani,
permetterà poi, che chi traſſe l'eſſere dall'amor
ſuo, finiſca preda dell' odio altrui? No, miei
dilettiſſimi, tanto ciò non ſarà, quanto mai non
ſarà, che il mio Dio laſci d'eſſer quel buon Dio,
ch'egli è , nè vi crediate, dilettiſſimi, che queſta
ſera per conſolarvi io dica troppo, nò certa
mente, no. Direi troppo ſe parlaſſi a certe ani
me, che ingrate al ſuo divin Facitore ne diſprez
zano l'amore, e ne oltraggiano la maeſtà. So,
che per queſte poco vi ha che ſperare, perchè
ne provocano con l'abuſo de favori lo ſdegno,
ma parlando, come mi ſono prefiſſo, ad anime
giuſte, non dico troppo, ſe dico che ſtiano di -

buon animo; e che quel Dio, che tanto ſincera


mente le ama, darà loro in morte prove dell'
amor ſuo non minori di quelle, che loro dà in
vita, Conſolino pertanto, conſolino pure le ſue
º ll il
Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 31 I
ſperanze, e riflettano ſpeſſo, che ſon lavoro di
un Dio amantiſsimo de' ſuoi lavori; e quindi ri
volgendo a lui il ſuo cuore, ora gli dicano con pſ: 1,
Davidde : Opera manuum tuarum, Domine, ne
deſpicias. Signore io ſon opera delle voſtre ma
ni; voi ſiete in impegno di cuſtodirmi: Ora con Job io.
Giobbe: Memento quod ſicut lutum feceris me.”
Sovvengavi, o mio Dio, che trattomi dal nulla,
in cui era, mi deſte voi queſta vita, ch'io godo.
Voi ne benediceſte i principj, a voi ſtà benedir
neanche il termine: Ora con Agoſtino, Signore,
ho tutta nel voſtro amore la mia fiducia, per
chè ſo, che non può temere abbandono chi è,
amato da voi: Non enim amas & deſeris. E come
no, cari uditori miei, come non ci faremo a par
lare così col noſtro buon Dio, ſe l'amore, ch'
egli ci porta, non è meno ſincero di quel, che
porta allo ſteſſo eterno ſuo Unigenito ? Che può
dirſi di più a conforto delle noſtre ſperanze!
Ah Gesù mio, troppo ſarei ingiurioſo al di
vin voſtro Padre, ſe non aveſſi nel amor ſuo
tutta la mia ſperanza. Io amato da lui con quella
ſincerità di amore, con cui ama voi! O mio
Gesù, io da una parte mi confondo al rifleſſo di
degnazione sì grande, ma dall' altra, ah qual
fiducia io concepiſco di mia ſalute ! Come poſso
io temere, che mi abbandoni in morte quel Dio,
che prima ancora che viveſſi mi ha degnato di
quel amore medeſimo, ch'egli ha per voi; sì,
che in lui ſpero, e ſempre in lui ſpererò. E per
chè la mia ſperanza ſia ſempre più ferma, con
ccdetemi voi, Gesù mio caro, che al voſtro eſem
pio io impari a corriſpondere con la fedeltà della
mia ſervitù alla ſincerità del ſuo amore. Ve ne
ſupplico, Gcsù amabiliſſimo, per quelle pia
- V 4 Pey
312 Diſcorſo XVII.
he, che adoro de' voſtri piedi ſantiſſimi.
Per la forza con cui ci ama, quando nell'amare
prende impegno, non può dubitarſi, uditori,
che non ſia forte l'amore; perchè l'impegno non
ſolo fa, che nulla riſparmiſi a prò dell'amato s
ma a fronte ancora d'ogni difficoltà mantien co
ſtante l'amore. Or, che Dio ſiaſi impegnato ad
amarci; e ſe n'abbia fatta, dirò così, una indi
ſpenſabile obbligazione; egli è sì certo, quant'è
certo, che tutti ha impegnati a prò noſtro i
ſuoi attributi. Per noi ha impegnata la ſua ſa
pienza, e con eſſa ci regola; per noi la ſua po
tenza, e con eſſa ci ſoſtiene; per noi la ſua li
beralità, e con eſſa ci benefica; per noi la prov
videnza, e con eſſa ci paſce; per noi la ſua bon
tà, e con eſſa ci ſi comunica. Vuole, che abbia
mo in un certo modo nella ſua immenſità il no
ſtro albergo, e nella ſua eternità la noſtra dura
zione: Poveri ci arricchiſce: deboli ci ſoſtenta:
afflitti ci conſola: ſupplichevoli ci eſaudiſce: fin
la ſua ſteſſa giuſtizia " all'impegno dell'amor
ſuo, grida, ſpaventa, minaccia, perchè vivia
mo ſempre con lui. Ha teſori di grazia, e ne
laſcia in noſtra mano l'acquiſto: ha un regno di
gloria, e ce ne promette il poſſ ſſo; e ſe per
noi non iſtà, l'averemo. Che più è della ſua me
deſima ineffabile, incomprenſibile divinità, tro
va modo, che ne ſiamo partecipi 3 e per chi tan
to impegno? per creature a ſuo confronto più
piccole, di quel che ſia in riguardo al Mondo
tutto un ſolo atomo; più vili di quel, che ſia
in riguardo alla luce più chiara l'ombra più
foſca i più indegna di quel, che ſia il nulla me
deſimo in riguardo al tutto. E quando mai videſi,
miei dilettiſſimi, quando udiſſi mai amor sì
- -
"!
d
Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 3 13
Ma queſto è poco, dice il mellifluo Abate.
Tanto è l'impegno, che Dio ha preſo, ch'ei
vuole amarci anche quando noi più ci impegnia
mo a reſiſtere all'amor ſuo: Diligit etiam reſi
ſtentes. Sì peccatori, voi fate tutto il poſſibile,
perchè Dio non vi ami. Voi ne abuſate la bontà,
voi ne ſtancate la pazienza; egli è voſtro Sovra
no, e voi contro lui ordite rivolte; egli è voſtro
legislatore, e voi ne traſgredite i comandi; egli
è voſtro padrone, e voi ne traſcurate la ſervitù:
ingrati, diſubbidienti, maligni, perverſi, pare
che andiate a mira di obbligarlo ad odiarvi, a
maltrattarvi, a ſterminarvi, e per verità ben vi
ſtarebbe; nè d'altri lagnar vi potreſte ſe non di
voi, ſe giuſtamente ſdegnato ſcagliaſſe ſul voſtro
eapo un de tanti ſuoi fulmini; ma buon per voi,
ch'egli nell'amor ſuo è sì impegnato, che diligit serae,
etiam reſiſtentes. Odia egli il peccato, e non può º º
non odiarlo, ma non laſcia contuttociò di ama
re il peccatore. Prova ne ſono, irrefragabile pro
va, que lumi, co quali gli riſchiara la mente,
perchè riconoſca l'infelicità del ſuo ſtato: que
ſanti affetti, che al cuor gl'iſpira, perchè rimet
taſi ſul buon ſentiero: que ſalutevoli timori,
che gl'infonde nell'anima, perchè ſi ſcuota dal
mortal ſuo letargo: que crucioſi rimorſi, co'
quali lo inquieta, e lo tormenta, affinchè ritor
ini al divino amabiliſſimo ſeno. Vi vuol pazien
za per tollerarlo? la eſercita; vi vuole benefi
cenza per adeſcarlo è la pratica s vi vuol clemen
za per perdonargli è la promette. Lo cerca ſe
aſcondeſi, lo ſegue ſe fugge: e ſe non può al
trimenti arreſtarlo nel precipitoſo ſuo corſo, gli
attraverſa con tribolazioni la ſtrada : Diligit
etiam reſiſtentes. Tanto è vero, uditori iò che
1Q
3 I4. Diſcorſo XVII.
Dio nell'amarci ha preſo un tal impegno,che il pec- .
cato medeſimo unico oggetto degli odjſuoi, non ha
forza, che baſti per impedir l'amor ſuoverſo di
IlO1.

Ora a voi ritorno anime giuſte,e ad iſgombra


re ogni voſtro ſoverchio timore, la diſcorro co
sì. Se l'amore di Dio verſo noi è sì forte, che
impegna per noi tutti gli attributi ſuoi, ſenza che
il peccato medeſimo da lui sì odiato alieni da noi
il ſuo bel cuore, ditemi, non avete voi un gran
torto, qualor temete, ch'ei non ſia per dare a
noſtri giorni un compimento felice? Ma in che i
mai fondar potete le voſtre paure? ne peccati
commeſſi? e non gli avete voi pianti con lagrime i
doloroſe? non gli avete voi deteſtati con odio
ſincero? non gli abbominate adeſſo di tutto cuo
re: non avete voi riſoluto di morir mille volte,
più toſto che ricadcr nel peccato una ſola? dun
que di che temete? Potete voi dubitare, che
quel Dio, che con tanto impegno v'ama, non l

abbia gradite le voſtre lagrime, e accettato non


abbia il voſtro ravvedimento? E' vero, dice ta
luno, ma i miei peccati ſon tanti. Sieno quanti ſi
vogliano: ſiete voi ſtato, dice Agoſtino, altret
tanto cattivo, quanto Dio è buono? No: dun
que avete torto, ſe diffidate: Ille diffidat, qui
tantum peccare poteſt, quantum Deus bonus eſt.
ſi.º.Vero: ma ſon sì gravi. Sieno graviſſimi: Sifue
rint, dice Eſaia, peccata veſtra ut coccinum, tam
quam nix dealbabuntur. Non vi ha peccato sì
deforme, sì enorme, che da un pianto penitente
non ſi ſcancelli. Tutto è vero: ma gli ſcandali
che ho dati; o Dio! ne avete voi dati tanti,
quanti una Taide, quanti una Pelagia, quanti
una Maria Egiziaca? Eppur queſte, perchè a
[CRIl
Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 315
tempo pentironſi, non hanno fatta una morte
ſanta? E poi dico io, ſe aveſſe Dio voluto punire
con mala morte le voſtre colpe, non potea egli
troncare il filo a voſtri giorni, mentre eravate
inviſchiato in quegli amori; mentre eravate in
viperito in quegli odj, mentre eravate tiranneg
giato da quel mal abito? Non l'ha fatto: anzi
vi ha dato tempo di riconoſcervi, vi a date ſpin
te a pentirvi, vi ha dato cuore di confeſſarvi: e
temerete poi, ch'ei voglia permettere, che in
ciampiate penitenti in quel gaſtigo, da cui vi
ſcampò peccatori? Eh no, ripiglia Agoſtino,
Iddio vi dà contraſſegni aſſai chiari, ch'egli vi
ha deſtinati a una morte ſanta, e con la miſeri
cordia paſſata ha preteſo darvi nelle mani un pe
gno della futura: Per ea que cognoſcis preſtita, De
diſeas ſperarei", & Dei tui prateritam ºnirit,
preſentemaue bonitatem, futurorum teneas cau-º
tionem. Sì, dilettiſſimi, ſiamogli ſolamente fe
deli nell'avvenire. Seguitiamo mai ſempre a pian
gere i noſtri peccatis e giacchè egli ci ama con
impegno, riamiamolo ancor noi con impegno:
e poi ſe alla rimembranza delle noſtre colpe ci
ſorprende timore di mala morte, diciam corag
gioſi: diffidenze importune lungi da me: ſo che
il mio Dio mi ama, ſo ch'egli non vuole la per
dizione del peccatore. Le mie iniquità ſono mol
te: vero; ma Dio mi ama: ſono graviſſime:
vero; ma Dio mi ama: merito di andar perdu
to, perchè peccai; ma perchè Dio mi ama,
ho ferma ſperanza, che anderò ſalvo.
Sì, Gesù mio, queſta è tutta la mia fiducia,
il voſtro amore. Se io conſidero l'amore, che mi
portate, non oſtante ch'io abbia meritato una
morte peſſima, la ſpero ſanta. So, che "Onta
3 15 Diſcorſo XVII.
bontà è maggiore d'ogni mia ingratitudine, ſo
che quanto vi è ſpiacciuta la mia partenza da
voi, caro altrettanto vi è il mio ritorno; e pe.
rò aſſai più ſpero al rifleſſo del voſtro amore,
di quel ch'io tema al rifleſſo delle mie colpe;
maſſimamente che di queſte nuovamente penti
to, nuovamente ne chieggo un miſericordioſo
perdono: proteſtandomi, che ſommamente mi
ſpiace di avere offeſo un amore così impegnato
per me. Deh mio Gesù, per le piaghe ſantiſ
ſime delle voſtre mani, che umilmente adoro,
fate vi ſupplico, che in viſta d'amor sì forte,
ſempre più creſca la mia ſperanza; e giacchè
voi mi amate con tanto impegno, concedete
mi, che con tutto l'impegno del mio cuore
vi ami ancor io ſino alla morte.
Pgs. Per la tenerezza, con cui ci ama. Affinchè le
,i. noſtre ſperanze mai non ſi perdeſſero d'animo;
era neceſſario, dice Agoſtino, che Dio ci daſſe
delle prove non dubbie dell'amor, che ci portas
luid tam neceſſarium fuit ad erigendam ſpem no
ram; quam ut demonſtraretur nobis, quanti nos
penderei Deus, quantumque diligeret. Or Dio
ha sì abbondantemente ſoddisfatto a queſto no
ſtro biſogno, che non contento di avervi di
moſtrato un amor ſinceriſſimo, perchè ſpoglia
to affatto d'ogni ſuo intereſſe; e un amore for
tiſſimo, perchè efficacemente impegnato a no
ſtro vantaggio; ha voluto ancora, che ſcorgeſ
ſimo in lui un amor teneriſſimo. E quindi è, -

quel raſſomigliarſi ora ad un medico, che tutto


ſollecitudine per la noſtra ſalute, nulla più bra
ma, che di trarre dalle ſue infermità il noſtro
ſpirito; ora ad un paſtore, che veglia tutto at
tenzione alla noſtra euſtodia; ora ad un "
CIAC
a
(

Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 317


che nulla riſparmia a noſtro ſoſtentamento; ora
anche ad una madre, che ad altro non penſa,
che alla cara ſua prole. E ben ſi moſtra co fat
ti, qual ſi proteſta. Quante carezze egli fa, a
chi ſi fa pregio di ben ſervirlo! che pace gl'in
fonde! che contentezza gl'inſpira ! che conforti
gli porge ! ſino a dichiararſi di aver nel cuor
de' ſuoi cari, il più gradito, il più delizioſo ſog
giorno. Nè meno moſtra la ſua tenerezza verſo
chi gli volge diſpettoſo le ſpalle: quante luſin
ghe, quante promeſſe, quante induſtrie mette
in opera, per richiamarlo, per ricondurlo al
l'amoroſo ſuo ſenno, quaſi che non poſſa egli
aver pace con ſe medeſimo, ſe il peccatore
non ha pace con lui.
Nulla però meglio ci ſcopre la tenerezza del
divin cuore, che il dono, ch'egli ci ha fatto
del ſuo medeſimo figlio, di quel figlio, ch'è
l'immagine della ſua ſoſtanza, il Verbo della
ſua mente, lo ſplendore della ſua gloria, l'og
getto delle ſue compiacenze: Sic Deus dilexit oAtm -3
Mundum, ut filium ſuum unigenitum daret. Moſ ,6.
ſo a pietà da noſtri ſviamenti, ce lo ha dato per
guida; moſſo a pietà della noſtra ignoranza, ce
lo ha dato per maeſtro; moſſo a pietà della no
ſtra ſchiavitù, ce lo ha dato per noſtro Reden
tore: Sic Deus & c., e nel darcelo a quanto ave
vilimento lo eſpoſe nell'incarnarſi; a quanto ab
bandonamento nel naſcere, a quanti ſtenti nel
vivere, a quante ignominie, a quanti affronti,
a quanti ſpaſimi nel morire? E ſe non è queſta,
uditori, tenerezza d'amore, ditemi qual ſarà ?
Vedeſte voi mai genitore amantiſſimo ſagrificare
per la ſalvezza d'uno ſchiavo il ſuo caro unige
mito? Eppure tant'è, a queſto ecceſſo di amo
IG
3 18 Diſcorſo XVII.
re è giunto Dio: Sic dilexit, ut fiilium ſuum
unigenitum daret.
E non avete poi, anime giuſte, a dar bando
una volta ad ogni vano timore ? ed a qual al
tro fine vi ha date Dio prove d'amor sì tenero,
ſe non perchè certe ne andaſte di morte fanta:
Ut omnis, uditelo dalla bocca medeſima del di
"'vin Figlio, e conſolatevi: ut omnis qui credit
in ipſum non pereat, ſed habeat vitam eternam.
Può Dio eſprimerſi più chiaramente a voſtro con
forto ? Ah, la ſentireſte pur male dell'amore
divino, ſe non credeſte, che Dio raddolciſſe con
le più ſoavi carezze le agonie d'un giuſto! Se
foſſe in poter d'una madre aſſiſtere inviſibile ad
un ſuo figlio in battaglia, ed ora facendogli ſcu
do contro a colpi, ora dandogli riſtoro tra le !

fatiche, ora ſomminiſtrandogli vigore negli aſſal


ti, aſſicurargli poteſſe una compita vittoria, po
tete voi credere, che non lo farebbe ? Or ſe Dio
aſſai più teneramente di quel, che una madre ami
un fuo figlio, ama noi: poſſiamo noi dubitare,
ch' ei non ſia per aſſiſtere con tutta la follecitu
dine dell'amor ſuo, ad un giuſto, che muore ?
Non ſi proteſta egli medeſimo nell'odierno Van
gelo di non eſſere di quel paſtori, che all'acco
ftarſi del lupo abbandonano le pecorelle; che an
zi ne maggiori pericoli, allora è , ch'egli dà
prove maggiori dell'amor ſuo. E con queſto non
ci dà egli ad intendere, che ne' cimenti più ter
ribili, quali ſono quei della morte, protegge con
più di premura i ſuoi eletti ; e a loro difeſa fa
egli fronte agli aſſalti del lupo infernale? Ah,
ch'io mi figuro di vedere l'amor divino al fian
co del ſuo caro moribondo, ora ne ſuoi conflit
ti infondergli coraggio, ora nelle ſue pene ſom
. Illlll
Per la Dom. ſeconda dopo Paſqua. 3 19
miniſtrargli conforto; e armatolo di carità, di
ſperanza, di fede, animarlo nella gran pugna,
e porli in veduta la già vicina corona: Nolite,
pertanto dirò io a voi ciò, che diſſe Criſto ai
ſuoi diſcepoli: Nolite timere puſillus grex, ani-i”
me care a Dio; ma troppo timide, non vi af,
fannate, non vi anguſtiate: quia complacuit Pa
tri veſtro dare vobis regnum. Quel buon Dio,
che vi ama con cuor paterno, vi ha preparato
un bel regno, e vuole darvelo, complacuit Pa
tri veſtro dare vobis regnum. E perchè la via per
giungervi è una morte ſanta, non temete, che
ſe vi aſpetta nel termine, non vi abbandonerà
nella vita: Nolite timere circ.
Ma io ho parlato finora d'anime giuſte, quali
mi perſuado, che ſiate voi tutti. Che ſe talu -.
no vi foſſe, che ingrato a sì ecceſſive finezze,
ſe la pigliaſſe con oltraggi frequenti contro un
Dio sì amante s tema pur i" morte, che ho
moſtrato finora non doverſi temere dal giuſto.
Tema, perchè quell'amor ſinceriſſimo, fortiſ
ſimo, teneriſſimo, che Dio ci porta, altrettan
to nel punto della morte ſpaventa un peccatore,
quanto conſola un giuſto. Conſola il giuſto per
la corriſpondenza, che ne ha moſtrato; ſpaven
ta il peccatore per l'abuſo, che ne ha fatto; e
dove al primo l'amor corriſpoſto dà motivo di
gran fiducia; al ſecondo l' amor vilipeſo è ar
gomento lagrimevole di diſperazione. Ah, qual
crepacuore del miſero in quel punto, al vedere
ad uno ad uno i tratti di bontà uſati da Dio con
lui! Là un ſaggio conſiglio fattogli dar da un
amico: là un ſalutevole avviſo fattogli ſuggerire
da un Confeſſore: là un'iſpirazione fattagli pe.
netrare nel cuore: là un'occaſione di ſantificarſi
fattagli
32o Diſcorſo XVII.
fattagli preſentar in buon punto; e tutto ciò mai
corriſpoſto, anzi ſprezzato, abuſato, contraccam
biato con ingiurie: O triſte, o ſpaventoſe ago
nie, dilettiſſimo mio, ſe mai quì ſiete! Deh,
ſe punto vi preme, che non abbiano i giorni
voſtri un fine così funeſto, cominciate una volta
ad amare quel Dio, che sì vi ama. Amatelo voi
ancora con amore ſincero, deteſtando con tutto
l'animo le ingiurie fattegli , amatelo ancor voi
con amor forte, impegnandovi per lui altrettanto,
quanto finora impegnato vi ſiete pel voſtro Mon
do; amatelo voi ancora con amor tenero, portan
dovi nell'avvenire, con un padre sì buono, da
buon figliuolo; e con tante anime giuſte, che
quì ſono ditegli ancora voi, ma col cuor ſu le
labbra.
Vi amo mio Dio, e vi amo con quanto ho
di forza, e vorrei potervi amare di più, e per
queſto ſteſſo vi amo, perchè voi tanto mi ama
te. Ah, quanto mi ſpiace di non avervi per lo
paſſato amato come io doveva ! Ma mi prote
ſto, che farò in avvenire tutto il poſſibile per
corriſpondere con l'amor mio all'amor voſtro,
E perchè ad amare come convienſi, niun può
meglio inſegnarmi, che il voſtro cuore, o mio
Gesù, vi ſupplico per quella piaga amoroſiſſi
ma, che in lui ſi aprì, a darmi grazia, ch'io
da lui apprenda un amor ſincero, un amor forte,
un amor tenero; sì, che contraccambiando amor
con amore, mi aſſicuri con l'amor mio quella
ſanta morte, che l'amor voſtro mi fa ſperare.
- º3 2 I
% ri F FT: EPTFSN
i seeeee -.2e eese e il
D I S C O R S O X VI II.
PER LA DO M EN I CA TE R Z A
D O PO PASQUA.
Brevità della vita.

Modicum, ci videbitis me. Joan. 16.

5 NN gran diſinganno, ſe pure vogliamo


- ;i l intenderlo, un gran diſinganno nell'
º 3 gºl odierno Vangelo ci porge il divino
S i 2 Redentore vicino a partire da queſta
terra; conſola l'afflizione de' ſuoi Ap
poſtoli con accertarli, che tra breve tempo ri
veduto l'avrebbono: Modicum, ci videbitis me.
Or ſapete, uditori, qual foſſe quel tempo breve,
modicum, quì accennato da Criſto? Interroga
tene Ugon Cardinale, e riſponderà, ch'egli fu
l'intero corſo del loro giorni: Dicitur modicum
vita preſens, e ſe ne interrogate Agoſtino, vi
dira, che ſi accenna in quel modicum il giro di
que ſecoli, che tramezzare doveano le due ve
nute di Criſto, l'una a redimerci, l'altra a giu
dicarci: Modicum eſt hoc totum ſpatium, quo pre
ſens pervolat ſeculum. Ma come brevi giorni,
che tutta formano la noſtra vita? Così è, ſotten
Tomo IV. Anno IV. X tra
322 Diſcorſo XVIII.
tra quì Giobbe: Breves dies hominis ſunt. Brevi
que ſecoli, che tutto empiono il periodo del
tempo? Così è, ſoggiunge Gregorio il grande:
guod fine clauditur, longum non eſt. O diſin
ganno, cari uditori, o diſinganno che correg
gere ben dovrebbe la follia di tanti, che dimen
tichi dell'eternità interminabile, tutti rivolgono
alla vita preſente i più ſolleciti ſuoi penſieri. E
quale inſenſatezza ſi è mai coteſta, ſapere che
ella è breviſſima la noſtra vita, e di queſta
nulladimeno farne tutto l'oggetto del noſtri af,
fetti ; perdendo intanto di viſta quegli anni e
terni, da quali dipende o una ſomma noſtra
felicità, o una ſomma noſtra miſeria! Che al
rifleſſo d'una vita sì breve attorno il piacere ſi
affollino anime tutte ſenſo, che acciecate per
ſuadonſi, che col finire del corpo tutto finiſce !
Che penſando alla morte, che a gran paſſi ſi
accoſta, ſi affrettino a coronarſi di roſe infino a
tanto che brillano col più vago vermiglio, cuori
che non han legge, e altra vita non riconoſco
sap... no, che la preſente: Coronemus nos roſis, an
tequam marceſcant: utamur creatura celeriter,
cras enim moriemur: l'intendo, ma che ſpiriti
ammaeſtrati alla ſcuola dell'Evangelio, perſua
ſi, che a queſta vita breviſſima una vita immor
tale ha da ſuccedere, non inferiſcano dalla bre
vità del noſtro vivere la neceſſità di ben operare,
e per queſto appunto ch'egli è sì corto lo ſpa
zio de noſtri giorni, non provveggano toſto al
la ſicurezza dell'eterna loro ſorte, come può in
tenderſi da chi porta ragione in capo, e fede in
cuore, come può intenderſi! Eppure tant'è: da
molti non vi ſi penſa, e tutto che ſappiano, e
tocchino caiandio con mano, che i giº" loro
QIlQ
Per la Domen, terza dopo Paſqua. 323
ſono breviſſimi, pure da queſta brevità nè ſanno,
nè vogliono dedurne le giuſtiſſime conſeguenze
di piangere ſenza indugio i loro traviamenti, di
diſtaccare dal Mondo il cuore, di aſſicurarſi con
. ſante opere una beata eternità. Io non vorrei già,
cari uditori, che alcun di noi entraſſe nello ſgra
ziato numero di coſtoro: e però giachè Criſto
con infallibile oracolo ci fa ſapere, che la vita
noſtra è preſſo che un niente: Modicum, modi
cum, penſiamovi ſeriamente, e ponderando le
conſeguenze, che da queſta brevità a noſtro e
terno vantaggio dedurre ſi debbono, diciamo co
sì: La vita è breve: dunque è neceſſario uno
ſconto prontiſſimo de noſtri peccati; prima con
ſeguenza, che dee inferirſi, e ſarà l'argomento
del primo punto. La vita è breve: dunque è ne.
ceſſario un pronto diſtaccamento da tutto il ſen
ſibile; ſeconda conſeguenza, che dee inferirſi,
e ſarà l'argomento del ſecondo punto. La vita
è breve: dunque è neceſſaria una pronta prov
viſione di ſante opere; terza conſeguenza, e ter
zo punto. Cominciamo.
v v
- d a

La vita è breve, dunque è neceſſario uno ſcon ,


to prontiſſimo de noſtri peccati. Un debitore, che,
ſtretto veggaſi al pagamento dentro preſcritto
termine, tanto più penſa ſollecito al ſaldo in
timatogli, quanto più corto è il tempo, che
gli è prefiſſo. Se così è, quanto debb ella eſſe
re, uditori, la noſtra premura di ſoddisfare a
que debiti certamente non leggieri, e non po
chi, che per mezzo delle colpe commeſſe con
tratti abbiamo con Dio ? Apriamo un poco,
miei dilettiſſimi, i libri delle noſtre partite, e
diſaminiamole attentamente ad una ad una -
Pi quanto ci fan debitori a Dio gli anni noſtri
- X 2 più
324 Diſcorſo XVIII,
più bondi? di quanto l'età più innoltrata º di
quanto l'incontinenza ? di quanto la vanità º di
quanto la collera ? la maldicenza di quanto ?
Queſte, ed altre molte partite, che ignorar non
poſſiamo, debbono pur ſaldarſi ? che il tempo
per lo ſconto prefiſſoci ſia queſta vita non può
già dubitarſene, e che ſia queſto un tempo bre
viſſimo, non ce lo dice il Santo Giobbe, che
raſſomiglia la noſtra vita ad un fiore freſco, e
vago in ſull'aurora, ſcolorito, e languido in
Job.14. ſull'occaſo? Quaſi flos egreditur, ci conteritur,
non ce lo diſſe Eſaia, che al fieno lo parago
na, oggi verde nel prato, dimani arido ſotto
Iſa. 4o. la falce ? Omnis caro fanum; non ce lo dice il
Savio, che la deſcrive qual gracile ſchiuma,
che in un momento ſi forma, nell'altro ſi ſcio
Sap. 5. glie ? Tamquam ſpuma gracilis; non ce lo di
ce S. Giacomo, che l'addimanda vapor matu
tino, che in un'ora ſollevaſi, nell' altra ſi diſ
Jac. 4. ſipa ? Vapor eſt ad modicum parens. Se dunque
il tempo, che al ſaldo del noſtri conti Diò ci
aſſegna, egli è sì ſcarſo, dite, dilettiſſimi, ſe
il buon ſenno non vuole, che non indugiſi pun
to a dare alla divina Giuſtizia la ſoddisfazione
dovuta. Che direſte voi di chi poſto tta i due,
o di ſoddisfare fra tanti giorni a ſuoi debiti,
o di gemere in prigionia perpetua, paſſaſſe ſpen
ſierato i giorni aſſegnatili in giuochi, in con
verſazioni, in divertimenti ? non l'avreſte voi
in conto d'un inſenſato? e ſe poi il vedeſte
ſoſpirar in una carcere, nol giudicareſte inde
gno di compaſſione? E non è queſto, uditori,
il caſo noſtro? o ſi han da ſcontare nel giro
breviſſimo de noſtri giorni i debiti con Dio con
tratti, o ſi ha da gemere in prigion eterna º e
puo
«v
Per la Dom. terza dopo Paſqua. 325
può chi ha ſenno mettere in non cale uno ſcon
to sì neceſſario, e tutta ſagrificare al genio,
all'intereſſe, al piacere, alla vanità la ſua vita?
Per verità io leggo, che Ninive all'udirſi inti
mare da Giona, o penitenza, o ſterminio, e
ciò dentro il termine di quaranta giorni, e non
più: Adhuc quadraginta dies, ci Ninive ſub Jon. 3.
vertetur, sì, all'udirſi una intimazione sì riſo.
luta, ſi affrettò quanto potè a mutar faccia di
diſſoluta in penitente. L'allegria cambioſſi ben
toſto in lutto, l'intemperanza in digiuno, la
libertà in compunzione; ogni età, ogni ſeſſo,
ogni condizion di perſone con le lagrime agli
occhi, con la cenere in capo, col cilizio in
doſſo, con le ſuppliche ſulla lingua, con la
contrizione nel cuore, ſi die ſenza indugio a
placare l'ira del Cielo. Tanto ebbe di forza a
rendere ſubito tutt'altra da ſe quella vaſta Me
º tropoli la ſcarſezza del tempo alla penitenza
prefiſſale. Ora ſe io con l'intimazione medeſi
i ma a voi diceſſi: Adhuc quadraginta dies, an
cora quaranta giorni, e poi la morte; ſon ſi
curo, che non ſarebbevi nè giovane sì ſcoſtu
mato, che non poneſſe ſubito freno alle ſue
licenze, nè donna sì amante di mode, di gale,
di morbidezze, che toſto non ſi appigliaſſe al
la modeſtia, alla mortificazione, al ritiramen
to, nè ſi troverebbe pur uno, che non procu
raſſe di cancellare con doloroſo pianto i ſuoi
falli. Eppure ſappiate, che ſe io vi prometteſſi
di certo quaranta giorni di tempo, vi tradirei;
quello, che io poſſo, e debbo dirvi con verità;
e che pronti vi dee rendere non meno, che i
Niniviti alla penitenza, ſi è, che a pentirvi non
vi reſta, che poco tempo: Modicum s Adhu Pſ se.
X 3 piſal
326 Diſcorſo XVIII
puſillum, così a nome di Dio ve lo conferma
il Reale Profeta, di non erit peccator. Quì, non
ſi preſcrivono anni, non meſi, non giorni,
ſolo s'intima, che il tempo preſcritto è breviſ
ſimo: Adhui puſillum: adhuc puſillum: e poi
ſe alle voſtre diſſolutezze non mettete voi fine,
o ſenſuale, metterallo quanto prima la morte;
e ſe non deponete coteſte voſtre avverſioni ani
me inviperite negli odj, le porterete tra breve
con voi al ſepolcro, adbue puſillum. Peccator
mio dilettiſſimo chiunque voi ſiate, adhuc pu
ſillum, e ſe non mutate coſtumi, finirete tra
poco, e di peccar, e di vivere: Adhuc puſil
lum, e non erit peccator, -
E quindi, intenderete, uditori, perchè eſor
tando lo Spirito Santo alla penitenza, non ſol
diſapprovi il differir d'anno in anno, di meſe
in meſe; ma nè pur voglia, che ſi differiſca da
un giorno all'altro, dall'uno all'altro momen
Eccl .to: Non tardes converti ad Dominum, o ne dif
feras de die in diem. La ragione è chiariſſima:
perchè non vi può eſſere luogo a dilazione,
dov'è breviſſimo il tempo; ſubito enim, così
di fatto egli ſteſſo ſoggiunge, veniet ira illius.
L'arco è teſo, la ſaetta è in pronto, il colpo
è in aria, o ſubito ravvederſi, o perir ſubito:
Adhuc puſillum, e non erit peccator, ſubito
veniet ira illius. Così, dilettiſſimi, così parla
quel Dio, che conoſcendo egli ſolo il tempo,
che ci rimane, ci fa ſaper, ch'è pochiſſimo,
adhuc puſillum, ſubito veniet. E un tempo sì
breve, cari uditori, ſi perde in follie, e non ſi
riſolve una volta di aggiuſtar prontamente
con Dio i noſtri Conti ? O cecità ! lagri
mevole cecità, ben degna de ſeveri
-
in" CilG
º
Per la Domen. terza dopo Paſqua. 327 ,
brotti, che già fe il Redentore all' oſtinata
Geruſalemme.
Al fiſſare, che Criſto fe' un dì lo ſguardo ſu
quella ingrata città, o per dir meglio, al riflet
tere ſull'abuſo ch'ella facea del tempo da Dio
aſſegnatole per ravvederſis ſventurata metropoli,
diſſe tra un miſto di compaſſion e di ſdegno, ed
è pur vero che rubelle a quel lume celeſte, che
ti sfavilla ſul capo, aprir gli occhi non voglia a
tuoi veri vantaggi! O ſe conoſceſſi le miſericor
die che ti ſtan preparate, ſe prevalerti ſapeſſi dal
tempo, ma breviſſimo tempo, che a far ſenno
migliore ti ſi concede: Si cognoviſſès & tu: & Lº
quidem in hac dietua i ma perchè ſconoſcente,
del tempo tuo ti abuſi, ſappi o miſera, ſappi
che vcrrà il tempo mio. Tempo, e in cui vittima
di ferro deſolatore, vedrai di ſangue ebreo alla
gate le tue contrade: tempo, in cui eſca di fiam
me vendicatrici mirerai ite in fumo, ed in cene
re le antiche tue glorie: tempo, in cui berſa
glio del furor più ſpietato, volgerai d'ogn'intor
no lo ſguardo, e più non vedrai pietra ſu pietra.
Sì, città infelice, non vuoi conoſcere il tempo
di tua ſalute, conoſcerai tuo malgrado il tempo
di mie vendette. E sì dicendo non potè Gesù con
tenerſi di framiſchiare a rimproveri amariſſimo
pianto: Flevit ſuper illam. Piaccia a Dio, che
queſte lagrime, e queſte minacce non cadano
altresì ſu qualche anima quì preſente. Piaccia a
Dio, che non vi ſia tra noi, chi oſtinato al pari di
Geroſolima ne' ſuoi diſordini, prevaler non ſi
voglia di quel tempo breviſſimo, che all'emen
dazione dei ſuoi coſtumi gli vien conceſſo. Miei
dilettiſſimi, penſiamovi con ſerietà: la vita è
breve, e fugge a volo, l'ora del tremendo giu
- X 4 dizio
329 Diſoorſo XVIII .
dizio ſi accoſta, e per talun per taluna ella è
viciniſſima. Che ſi è fatto fin'ora in iſconto del
le colpe commeſſe? ſi ſono elleno piante con
lagrime di contrizione ? ſi ſon deteſtate con do
lore ſincero? ſi ſono ſcontate con penitenza
condegna? Vogliamo noi aſpettare a laſciare il
peccato, quando il peccato laſcerà noi? voglia
mo noi differire a mutar vita, quando la vita ci
mancherà ? Ah, cari uditori, quando ſi tratta
di tempo breve, ogni poco che tardiſi è tardar
troppo, e pericola di non ravvederſi giammai
chi ſubito non ſi ravvede. Il tempo opportuno
per darſi a Dio non è l'avvenire, che non è in
poter noſtro; è il preſente: Ecce nunc tempus
acceptabile: Nunc dies ſalutis, nunc : ora a mi
ſericordia c'invita, ora la grazia ci ſpigne, ora
Gesù ci aſpettas e ancor ſi tarda ?
Ah no, Gesù caro, non più tardanze, non
più ; eccomi a i voſtri piedi confuſo, addolora
to, pentito delle paſſate mie colpe: una vita si
breve avrei dovuto tutta impiegarla in darvi gu
ſto, e ſervirvi, eppure l'ho impiegata purtrop
po in diſubbidire a voſtri comandi, ed offender
vi. Aveſſi almen dopo il peccato, paſſato in
piangere le offeſe fattevi quel tempo, che dato
mi avete per ravvedermi, ma no: ne pur queſto
l'ho fatto: ho penſato a tutt'altro che a ſcontare
con la penitenza dovuta i miei falli. Ma d'or
avanti non più così. Deteſto con tutto il cuore
i diſguſti, che peccando vi ho dati, e imploran
done umilmente il perdono, vi ſupplico per
quelle piaghe, che adoro ne voſtri piedi ſantiſſi
mi, a darmi grazia, che giacchè d'una vita sì
breve ne ho paſſata una parte in peccati, ne paſſi
l'altra in penitenza, e ſe con l'una ho provacata
la
Per la Dom. terza dopo Paſqua. 329
la voſtra giuſtizia, mi concilj con l'altra la voſtra
miſericordia.
-

La vita è breve, dunque è neceſſario un pronto PUN


diſtaccamento
uditori, per cuidamolti
- - -
tutto non
-
il ſenſibile.
-
La ragione,
ſanno indurſi a diſtac. ro III
- e

care una volta da queſto miſero Mondo il loro


cuore, ſi è appunto perchè perſuaderſi non vo
gliono, che ſia breve la vita. Ingannati forſe o dal
fiore degli anni, o dal vigor delle forze, o dal
l'amor medeſimo della vita, ſi figurano ſempre
di aver a fare ſu queſta terra un ſoggiorno lun
ghiſſimo: ond'è, che all'udirſi intimare un inte
ro pronto diſtaccamento da queſti beni, non ſan
no darſene pace, e lagnandoſi, come di un torto
che loro ſi faccia; e perchè dicono, perchè ho
io a privarmi sì ſubito di quanto può darmi di
piacevole il Mondo è perchè ho a condannarmi
sì preſto a quelle noje, che dovrei provare lun
ghiſſime, ſe fin da queſt'ora cominciar doveſſi
una vita tutta formata ſulla rigida norma dell'E-
vangelio! Verrà poi il tempo, verrà purtroppo,
in cui canutezza di crine, e rughe di volto mi
porteranno a non più curarmi del Mondo; ma
infino a tanto che brilla diſinvoltura di tratto, e
brio di età, non mi ſi parli di rimovere da queſti
beni l'affetto: non è ancor tempo; non è ancor
tempo. O errore, intollerabile errore! quaſi che
ſiavi età, che dalla morte riſpettiſi, e non poſſa
metterſi in dubbio degli anni più maturi l'arrivo.
Ma via, diamo pure che queſti arrivino, e non
ardiſca la morte accoſtarſi, ſe non a pelo già ben
canuto. Laſcerà perciò, dice Agoſtino, di eſ
ſere, e di parervi breviſſima la voſtra vita? Ad.
de quantoslibet annos: due longiſſimam ſenefu
tem, quid eſt ? nome aura eſt matutina? Coteſta
Vlta
33o Diſcorſo XVIII.
vita tanto innoltrata, quanto idear ve la può l'a-
dulator voſtro genio, vi parerà nulla più che un
aura del mattino, che ſpira, e paſſa? E' vero,
che adeſſo ci ſembrano un gran che, venti, tren
ta, quarant'anni avvenire: ma nel giugnerne al
fine muteremo parere, e tanto chi averà traſcorſi
gli ottanta, quanto chi ne averà noverati ſovven
ti, dovrà dire, che ſcomparſi gli ſono come fu
mo i ſuoi anni : Defecerunt ſicut fumus dies mei;
Cosi è, ripiglia Agoſtino: Hoc modicum longum
mobis videtur, quoniam adhuc agitur: queſto po
co di vita ci par lungo infino a tanto, che an
diamo paſſando un dì dopo l'altro, ma quando
arrivati ne ſaremo al termine, allora ci avve
dremo quanto fu breve, cum finitum fuerit, ſen
tiemus quam modicum fuerit. Io ne appello, udi
tori alla voſtra ſteſſa ſperienza. Quando vi fate
talvolta a riandar col penſiero gli anni voſtri paſ
ſati, che ve ne ſembra º Non ſiete voi quei deſſi,
che tra un miſto di maraviglia, e di dolori, o
Dio, andate tra voi dicendo, la ſcorſa mia vita
mi pare un ſogno! mi ſembra l'altro dì, che ſtu
diava fanciullo: l'altro di, che entrai ſpoſa in
quella caſa: l'altro di, che brillavo giovane in
quelle veglie. O come ſpariti ſono a guiſa di un
lampo i miei anni ! non è così? Or ciò che dite
dagli anni già ſcorſi, certo è, che il direte di quelli
ancora o pochi, o molti, che vi reſtano a ſcor
rere, e confermerete con voſtra prova, che la
vita voſtra è breviſſima. E s'è così, come mai,
cari uditori, come vi può eſſere attaccamento ai
beni di queſta terra, ſe giunti che ſaremo al fin
de giorni, confeſſeremo malgrado noſtro, che
ſcomparſi ci ſono al par di un baleno; come im
pegnar poſſiamo il cuor noſtro in queſte baſſe
teIICIAC
Per la Domen, terza dopo Paſqua. 331
terrene coſe, che correndo ancor eſſe la ſorte della
vita medeſima, non sì toſto ſi ha il contento di
poſſederle, che già ſi prova il dolore di perder
le! Ditemi in fatti, che ne avete ora voi dei pia
ceri, e de paſſatempi goduti negli anni addie
tro? ditemi, che ne avetc? Se genio di libertà
vi ha ſpinti, o giovane, a ſcorrere con piè diſſo
luto per ogni prato; ſe vaghezza di comparire
vi ha reſa, o donna, negli anni voſtri più verdi
idolo inſieme, ed idolatra del più bel Mondo;
ſe vile umano riſpetto vi ha portati a ſeguire più
che i dettami ſanti dell' Evangelio le uſanze del
guaſto ſecolo, ora che ſe ne ha? che ve ne reſta?
nulla: già lo ſapete, già lo provate, nulla; e
battendo la ſteſſa carriera ſino alla morte, che ſe

. ne averà? ciò che ora ne ha della ſua grandezza


un Nabucco, delle ſue delizie un Salomone,
delle ſue grazie una Jeſabelle, de' ſuoi convitti un
Aſſuero, nulla e poi nulla: Tranſierunt, dovreſte
dire ancora voi, come già diſſero quegl'inſenſati
deſcritti dal Savio, tranſierunt omnia velut umbra;
qual ombra, che ſparendo in un momento, di
ſe non laſcia veſtigio alcuno, tutto è paſſato,
tutto è ſvanito: Tranſierunt, e tanto non baſta,
uditori, a torci d'inganno, e far sì che non per
daſi tra vane apparenze una vita sì breve!
Ma per farvi meglio conoſcere la gran follia di
chi tutti ſagrifica a queſte vane caduche coſe i
brevi ſuoi anni, fattevi meco alle ſponde di un
fiume, vedete là quel Palazzo, che alza verſo
le ſtelle l'altiero capo: il ſuo padrone tanto lo
ama, che non vi ha ſpeſa, che per eſſo non
faccia, fino a tutto impiegarvi quanto poſſiede
di patrimonio. Oſſervate quanti pennelli in moto
a renderlo vago con le pitture quanti ſcapelli in
opera
332 Diſcorſo XVIII. a

opera per adornarne di ſimolacri le gallerie ; in


noltrattevi con la curioſità d'uno ſguardo, e mi
rate, che ricchezze di addobbi, che pompa di ar
genti, che ſontuoſità di arazzi, che dovizia di
candidi avorj, di ſeggi dorati, di luminoſi cri
ſtalli ! non lo direſte un paradiſo terreſtre, di chi
lo abita ? eppure notata pazzia: ecco l'onda del
fiume, che ſenza ſperanza di riparo ne rade le
fondamenta, e già ne ha ſcavata parte non pic
cola. Il padrone lo ſa, e lo vede, e v'impe
gna nulla dimeno ogni affetto; conoſce, che una
piena improvviſa di acque può farne ſcempio
ſpietato, o per lo meno, che il dente lento dell'
onda il roderà cotanto, che alla fine tutto l'in
gojerà, nè punto con tuttociò ſi rimove dall'
abbellirlo vieppiù, dall'arricchirlo, dall'abitar
lo. Ah ſtolto, tanto impegno, e tante ſpeſe per
una caſa, le cui rovine ſaran tra breve il ſepolcro
di tue ricchezze, e di te ſteſſo! Ma piano, udi
tori, il zelo dce tutto rivolgerſi contro di noi.
Noi ſiam que padroni, che abbiamo caſa alla
º ſponde di un fiume: Secus decurſus aquarum: On
de ſono, velociſſime onde i noſtri giorni, che
ſcorrendo a principio ci van dicendo: Quaſi aqua
dilabimur, ognun di queſti rode, ed inghiotte una
parte di noſtra vita. La puerizia è già inghiottita,
già inghiottita l'adoleſcenza, la virilità è già per
molti inghiottita, e l'età, che ancora reſta,o poca
o molta, certamente s'inghiottirà, e ad una caſa
di sì corta durata tutto l'affetto! e non ſi penſa,
che a colorirla con apparenze, a ingrandirla con
onori, a colmarla di ricchezze, ed a volerla per
petuo albergo di vanità, di divertimenti, e di
luſſo! O inganno, o cecità, o pazzia º un diſor
dine |
Per la Domen. terza dopo Paſqua. 333
dine sì luttuoſo ſapete, uditori, donde procede ?
Procede dal non dare giammai alla brevità di no
ſtra vita un attento penſiero. Così appunto ce ne
aſſicura ne libri di Giobbe lo Spirito Santo, il
quale dopo aver eſpoſto quanto ſia breve il giro
de noſtri giorni: Qui habitant domos luteas de Pſal.i.
mane uſque ad veſperam ſuccidentur, ſoggiunge Jºº -
ſubito, di quia nullus intelligit, e perchè a que
ſta brevità niuno vi è, che vi penſi, niuno che
ne vada perſuaſo; per queſto il cuore tutto ſi per
de nel godimento de beni preſenti, ſenza riflet
tere ai mali futuri, che gli ſovraſtano: Quia nul
lus intelligit, in eternum peribunt. Queſta, udi
tori, è la ragione per cui tanto di attaccamento

) ſi moſtra agli onori, ai piaceri, alla roba, ai paſ


ſatempi: non ſi penſa, che la vita noſtra è bre
viſſima: no, non ſi penſa: nullus intelligit ; ſe
vi penſaſſimo con ſerietà, come vi penſava il
Santo Re Davidde, neandereſſimo con lui sì per
ſuaſi, che con la ſue voci medeſime noi ancora
direſſimo: Veruntamen in imagine pertranſit homo.
Ah, che purtroppo qual fantaſma, che appe
na comparſo dileguaſi, tale la noſtra vita appena
cominciata finiſce: In imagine pertranſit, e con
la vita pertranſit quell'avvenenza, che ſi coltiva
con tanti liſci, pertranſit quel diletto, che ſi pro
cura con tante arti, pertranſit quell'impiego, che
ſi eſercità con tanto faſto, pertranſit quel corpo,
che ſi carezza con tante delicatezze, pertranſit
ogni grandezza, pertranſiit ogni guadagno,
pertranſiit ogni onore: In imagine pertranſit
homo: ed è tale la velocità, con cui tutto paſſa,
e tutto finiſce, che ſe da quì a non molto mi
porterò a quella caſa, troverò che quel padro
- Il 3 ,
334 Diſcorſo XVIII. -

ne, che ora vi habita con tanto sfoggio, per


tranſiits già è paſſato, ſe alzerò gli occhi a quel
poſto, troverò, che quel titolato, che ora ne va
sì glorioſo, pertranſiii; ſe anderò in quel ban
co, troverò che quel negoziante, che ora vi ſiede
sì intereſſato, pertranſiit, ſe entrerò in quella
converſazione troverò, che quella dama, che
ora vi brilla sì ſpiritoſa, periranſit ; Tanto è
vero, che in imagine pertranſiit homo. Così,
dilettiſſimi, così direſſimo, e sì dicendo, non
ſolo non correreſſimo più sì perduti dietro ai beni
di queſta vita, ma diſtaccatone eziando ogni
affetto, ſi ſclamarebbe col Serafico Bonaventura :
O vita praſens quam multos decipis;li dum fu
gis nihil es, dum videris umbra es, dum exaltaris
Fumus es: O vita, luſinghiera vita, che nelle fug
giaſche tue ingannatrici apparenze altro non ſei,
che un'ombra, un fumo, un niente, quante ani
me tu tradiſci, quante ne inganni, quante ne
perdi : Quam multos quam multos decipis!
Diſinganniamoci adunque, miei dilettiſſimi, e
al rifleſſo d' una vita sì breve impariamo dall'
Appoſtolo quali ſieno le conſeguenze, che dedur
re ſe ne debbono: Tempus breve eſi, ſcriv'egli
ai Corinti, la vita è breve: dunque ſi viva nel
Mondo, come ſe non ſi foſſe di queſto Mondo,
º reliquum eſt, ut qui utuntur hoc Mundo, tan
quam non utantur. A che tanto attaccamento a
queſte miſere mondane coſe, che tra poco ſcom
parir ci dovranno dagli occhi. Sì, miei dilettiſ,
ſimi, queſti beni per natura caduchi tra breve ci
laſcieranno, e noi per natura mortali tra breve li
laſcieremo. Vogliamo dunque gli affetti noſtri a
un quache oggetto, che più li meriti, e a un
- qualche
Per la Domen, terza dopo Paſqua, 33;
eualche oggetto, che più gli appaghi: volgia
mogli ad un oggetto, che anche col mancar
della vita, mai non ci manchi ad un oggetto,
che guduto una volta, goder ſi poſſa per ſem
Ma
prC. queſto qual ſarà ſe non voi, Gesù mio
-

caro! Voi ſolo ſiete quel bene, che può appa


gare il mio cuore; Voi ſolo quel bene, che
non oſtante la brevità della vita, mai non man
ca, nè mancare mai può. A voi dunque, uni
camente a voi, e non ai piaceri di queſta vita,
a voi, e non ai beni di queſto Mondo, a voi
unicamente tutti ſi portino gli affetti. Stendete
pertanto, Redentore amabiliſſimo, le voſtre
mani, e per quelle piaghe, che in eſſe adoro,
prendete, vi ſupplico, queſto mio cuore, e con
tutti due quei chiodi, che le traffiggono, fiſſate
lo a voi, affinchè non ſi avviliſca mai più in afa
fetto di Mondo. Sì, Crocifiſſo mio bene, vo
glio amare voi ſolo, perchè voi ſolo meritate
d'eſſere amato, perchè voi ſole mai non man
cate a chi vi ama. Voi datemi grazia, che vi
ami con tal coſtanza, che non ceſſi mai più dall'
amarvi; ſicchè dopo avervi coſtantemente amato
in queſta vita, paſſi ancor ad amarvi eterna e s
mente nell'altra. v r» , fos
La vita è breve, dunque è neceſſaria unapron it.
ta provviſione di ſante opere. Se vi farete, udi
tori, a ſcorrere le ſagre Carte troverete, che in
più di un luogo tutta la vita dell' uomo, a tin
giorno ſolo ſi paragona. Così Davidde in nulla più
la diviſa, che in un mattino che brilla, ed una
ſera che langue: Mane floreat : veſpere decidat: g. 89,
Così Ezechia nel trovarſi al fin de ſuoi giorni,
altro in eſſi non riconobbe, che un'aurora, e un
- - occaſo;
336 Diſcorſo XVII,
Iſ 18. occaſo: De mane uſque ad veſperam finies me ,
e per tacere di tanti altri; il Redentore medeſi
mo chiamò ſuo giorno, il tempo della ſua vita:
Exultavit Abraham ut videret diem meum, e
chiamò giorno di Geroſolima il tempo datole
Laciº per ravvederſi: Si cognoviſſes in hac die tua. Or
ſapete, uditori, perchè tutta la vita a un giorno
ſi raſſomiglia? Non è già ſolo per dinotarci, che
la vita è breviſſima ; ma è egli ſingolarmente,
perchè s'intenda da una parte, che ſiccome il
giorno è il tempo proprio del lavoro, così la vita
noſtra è il tempo, in cui attender dobbiamo al
gran lavoro della noſtra eternità; e s'intenda in
ſieme dall'altra, che quanto più egli è breve un
tal tempo, tanto più pronto ancora, ed affretta--
to eſſer dee il noſtro lavoro. Che fa egli un ope
rajo, che ha per le mani un lavoro di gran pre:
mura, ed ha per compirlo ſcarſezza di tempo
che fa? Attento ſempre al ſuo dovere non per
de pur un momento, e alla riſerva di quel poco
d'ora, cheal riſtoro delle ſue forze, egli dona,
il rimanente tutto lo impiega nel dar all'opera
il compimento: non è così? Dunque dico io,
ſe la vita noſtra è ſi breve, che a un giorno ſi
paragona, quale debb'eſſere la noſtra attenzione,
quale la ſollecitudine noſtra di condurre a buon
termine il gran lavoro dell'eterna noſtra ſalvezza?
-Avvi affare, che più di queſto premer ci debba ?
avvene più difficile? avvene più importante? quan
te per accettarlo ſi hanno a ſterpare dal cuore in
chinazioni malnate! di quante virtù egli è d'uo
po che facciaſi acquiſto i qual ſi richiede capitale
di meriti qual pratica di atti virtuoſi ! qual prov
viſione di ſante opere! E un lavoro sì grande ſi
ha da compire in giro sì breve, e vi farà, dilet
- tiſſimi,
Per la Domen. terza dopo Paſqua. 337
tiſſimi, vi ſarà tempo da buttar via i non ſi ave
rà una ſanta premura di non perder momento
di sì corta giornata ? non dirà ognun di noi, co
me a noſtro eſempio già diſſe Criſto: Meopor - oan »
tet operari opera eſus, qui miſit me, donee dies
eſt. Il giorno paſſa, l'affare preme : dunque do
mec dies eſt, adoperar tutto mi debbo per com
pir l'opera della ſalute: Me oportet operari, donec
dies eſt. Verrà ben toſto, verrà la notte della mia
morte; notte in cui all'operare non rimane più
tempo: Venit nox quando nemo poteſt operari. Ibid.
Se queſta ſorprendemi col mio lavoro imperfet
to, di me che ſarà l Così, uditori miei cari, al
lume di sì gran vero la dovrebbe ognuno diſcor
rere, e perſuaſo una volta, che il tempo è bre
viſſimo, provveder dovrebbe ſollecito ai ſecoli
eterni. - -

Eppure ſe ſi volge d'ogn'intorno uno ſguardo,


a quanti Criſtiani, o Dio, a quanti ſi può ripe
tere quel rimprovero, che fatto leggiamo a
quegli sfaccendati operaj, mentovari in S. Mat
teo: Quid hic ſtatis tota die otioſi ! Anime pi- Manh.
gre, anime ſconſigliate, che ſpenſieratezza in- º
ſenſata ſi è mai la voſtra º Vaſſi avvicinando all' i

occaſo la giornata di voſtra vita, e voi ſenza


penſiero della voſtra eterna ſorte, paſſate neghit
toſe le ore ? Non vi avvedete, che già ſovraſta
la notte fatal della morte, che con togliere il
tempo al lavoro, ogni ſperanza inſieme vi
toglierà di mercede: an ignoratis (così comenta,
al mio propoſito i rimbrotti evangelici S. Tom
maſo di Villanova) quia ex preſenti ſeculo quam
sitiſſime tranſmigrabitis ? quid ergo ſtatis ? Per
chè dunque non penſate a ſpedire della voſtra
ſalute l'importante lavoro? Da queſti pochi mo
Ann, IV. Tom. IV. Y menti
338 biſcorſo XVIII,
menti tutta dipende la voſtra eternità, o miſera,
o beata, e non vi ſcuotete dall'ozio ? Ex hoc vi
te veſtre momento (o belle parole) omnis eterni
tas veſtra dependet; & ſtatis? O poteſs io far
penetrare un ſentimento sì degno, e si giuſto,
là in quei ridotti, dove ne' giuochi tante ſere ſi
perdono, là in quella caſa dove in converſazio
ni, ed in veglie ſi ſcialacquano tante ore, là in
que fondachi, dove gli affetti ad altro mai non ſi
portano, che a temporali guadagni, là tra que
gli impieghi, dove occupata ſempre in affari di
Mondo la mente, mai non è, o ben di rado,
che un penſiero rivolga a Dio, all'anima, all'
eternità i al lavoro, vorrei gridare, al lavoro,
che ozio, che vituperevole ozio ſi è mai coteſto!
Ex hoc vita veſtre momento omnis eternitas ve
ſtra dependet; & ſtatis, o ſtatis ? -

. E per verità non è ella una ſtupidità, che non


parrebbe credibile ſe tutto giorno non ſi vedeſſe,
ſaper per fede, che operari oportet, dum dies eſt,
che ad aſſicurare l'immortale noſtra felicità, egli
-
è neceſſario, che mentre dura la giornata di no
ſtra vita, ſi mettano a parte quante per noi ſi
Eccl. » può, opere ſante! Quodcumque poteſt manus tua,
inſtanter operare, sì, ſaperlo per fede, e poi
impiegare in tutt'altro, che in ſante opere tem
po sì breve! Tutto impiegarlo in intereſſi di mon
do,tutto in comparſe di vanità, tutto in tratte
nimenti inutili, in ozio molle, in effeminate di
licatezze. Voi certamente direſte privo di ſenno,
chi per paſſare in ogni genere di allegria un gior
no ſolo, quanto ha di patrimonio tutto lo traſcu
raſſe, punto non ſollecito del come poi paſſerà il ri
manente della ſua vita; eppure non è ella una fol.
lia di gran lunga maggiore quella, che giornal
ImCI) (C
Per la Dom. terza dopo Paſqua. 339
mente ſi vede in un gran numero di Criſtiani, i
uali nulla ſolleciti del come paſſeranno gli eterni
ecoli, ogni penſiero, ogni induſtria, ogni pre
mura rivolgono a renderſi più che poſſono con
tenta e lieta la giornata di queſta vita? Purchè
in queſta abbian poſto, in cui ſpicchino, abbian
delizie, in cui ſi divertano, abbiano facoltà, in cui
sfoggino, abbian comparſe, in cui brillino, ab
biano amici, paſſatempi, giuochi, allegrie;
all' eternità, che ſi accoſta mai non danno un
penſiero; e vicini come ſono ad entrarvi, mai
non riflettono, che manca loro la provviſion ne
ceſſaria per ben alloggiarvi: ed è queſto, dice A
goſtino, aver fede º è queſto aver ſenno? e per
dire anchè di più, egli è queſto aver occhio?
Ubi ſapientia è ubi intelligentia? ubi lumen ocu
lorum ? i
Deh inveſtiamei, cari uditori, di ſentimenti
degni di un Criſtiano, e al confronto della vi
ta preſente con la futura, una breviſſima, e l'al
tra eterna, diciamo ancora noi, come già dicea
no que Martiri, generoſi, i quali all'udir dal
Tiranno le ampie promeſſe, che loro ſi faceano
ſi d'una vita colma di ricchezze, di delizie, di
onori, ſe dal Crocifiſſo adorato ſi ribellavano;
no, riſpondeano " franca, non ſiamo
iamo ad un cambio e
sì ſtolti, che indur ci vogliamo
sì ſvantaggioſo: non cura una felicità paſſaggie
ra chi ſpera l'eterna: prometti pur quanto vuoi,
e minaccia ancor quanto ſai , un cuor Criſtia
no non ama i beni, nè teme i mali d'una vi.
ta, che appena cominciata finiſce. L'eternità,
o queſta sì, queſta è l'oggetto delle noſtre pre
mure, e purchè queſta ſi aſſicuri bene, vadano
i beni, vada il ſangue,
- -
via vita. con i
2 - a
34e Diſcorſo XVIIf
al Tiranno, e così pure dobbiamo dir noi ai
nimici della noſtr'anima, qualora tentano ſedur
ci con l'amor della roba, del piacer, dell' ono
re. Laſcia, diciamo, laſcia pure, o Mondo in
fido, di luſingarmi co beni tuoi: no, non ſono
sì pazzo, che dovendo la vita mia finir sì pre
ſto, cambiar io voglia con ricchezze caduche
immortali teſori, e con terreni diletti delizie
celeſti. L'eternità mi ſtà a cuore, e non que
ſta vita, che come l' Edera di Giona in un gior
no medeſimo, e naſce, e muore; vadene per
tanto, vadene ciò, che vuole: voglio poſatamen
te penſar all'anima: voglio ſeriamente provve
dere all'avvenire: voglio in tutti i modi aſſicu
rarmi una beata eternità : Queſti ſono, udito
ri, i ſentimenti, che la brevità della vita impri
mer ci dee nel cuore : chi non la ſente così,
chi così non diſcorre, ſi aſpetti pure crepacouri,
e ſpaventi, quando alla vita vedrà ſucceder la
morte. Miſeri pertanto, miſeri que fedeli, che
d'una vita sì breve non ne fanno un ſollecito
traffico per l'acquiſto dé beni eterni! Raccol
gano pure adeſſo quanto poſſono di ricchezze,
di piaceri, di onori; verrà preſto quel dì, in
cui colmi d' inconfolabil rammarico diranno
anch'eſſi con que infelici rammentati da Gere
Jer. s. mia: Tranſit meſſis ... o nos ſalvati non ſu
mus ; la meſſe, che abbiam raccolta da queſti
beni vaniſſimi, ella è paſſata, e non ne abbia
mo più nulla, tranſit meſſis, e noi intanto non
abbiam penſato a ſalvarci, e nos ſalvati non
ſumus. Abbiam goduto, abbiam brillato, ab
biam fatta nel Mondo una bella figura, ma tut.
to è paſſato, tutto è finito: ed intanto perduta
è l'anima, perduto il Ciclo, perduto Dio. i"
- - - - iti
Per la Dom. terza dopo Paſqua. 341
ſiit meſſis, 6 nos ſalvati non ſamus. Crepacuo
re tetribile ! doloroſiſſima diſperazione!
O Gesù caro, non permettete, che alcun di
noi abbia da finire i ſnoi giorni con ſentimen
ti così funeſti. Fate anzi, che ſempre più cono
ſciamo la gran follia, di chi convinto dalla ſpe
ranza, che la vita noſtra è breviſſima, e aſſi
curato dalla fede, che vi ha un'eternità, che
l'aſpetta, pure all'eternità penſa pochiſſimo,
e penſa ſolo a queſta vita. Deh tenete da noi
lontana inſenſatezza sì lagrimevole; ve ne pre
ghiamo per quella piaga ſantiſſima, che adoria
mo nel ſagroſanto voſtro Coſtato. Sicchè viva
mente perſuaſi della brevità, de noſtri giorni,
ripariamo a tempo il paſſato, con piangere le
noſtre colpe: diſprezziamo a tempo il preſente
con diſtaccarci da queſto miſero Mondo: prov
vediamo a tempo all'avvenire con aſſicurarci
una beata eternità,

i )
i

x 3 DI
344 Diſcorſo XIX.
nella Sindone un pegno certiſſimo, che l'aſſi
cura: la Carità ha nella Sindone un ritratto am
mirabile, che la infervora. Ma quindi ſapete,
che ne ſiegue, uditori miei cari; ne ſiegue, che
ſe mai in voi, o la Fede s'indeboliſce, o la
Speranza ſi ſcema, o intiepidiſce la Carità, a
vremo in punto di morte nella Sindone un gran
rimprovero. Imperocchè Evangelio viſibile, ch'el
la è, ci renderà ineſcuſabili, ſe ſi troverà men
viva la Fede, primo punto. Pegno certiſſimo,
ch'ella è, ci renderà ineſcuſabili, ſe ſi troverà
men ferma la Speranza, ſecondo punto. Ri
tratto ammirabile, ch'ella è, ci renderà ineſ
– cuſabili, ſe ſi troverà men acceſa la Carità,
i T terzo punto. Cominciamo. -

"i Evangelio viſibile, ch'ella è, ci renderà ineſi


cuſabili, ſe ſi troverà men viva la Fede noſtra.
Io ſo, uditori, che la Fede, ſenza che al ſuo
dire ſi aggiunga il teſtimonio de'noſtri ſenſi,
vuol ſommeſſo alle ſue verità il noſtro intellet
to, al ſolo proporci, che fa l'autorità infallibi
le di un Dio, che parla. Anzi che ai ſenſi ne
ſembri in contrario, vuole, che oſſequioſa ſi
chini la fronte, e ad occhio chiuſo ſi creda ciò,
che l'occhio aperto non vede. Contuttociò non
può negarſi, che ove le rieſca di trarre al ſuo
partito anche i ſenſi, non l' attribuiſca a ſuo
grande vantaggio; non già perchè quindi ne
venga o all'oggetto, che credeſi certezza mag
giore, o all'atto, con eui ſi crede maggior fer
mezza: no; ma perchè ſe oltre l'intelletto gua
dagna anche i ſenſi, fa come chi oltre l'animo
di un Monarca conciliaſi ancora quello de' ſuoi
miniſtri: e ſiccome chi conciliaſi, e quello, e
queſti, ſe poi chiede grazie, men corre peri
a , i - colo '
Per la Dem. quarta dopo Paſqua. 345
colo di ripulſa ; così qualor la Fede ha dalla
ſua coll' intelletto anche i ſenſi, tronca con più
-
di ſicurezza alle miſcredenze ogni ſtrada. Ora
queſto è appunto il vantaggio, che ha in To
rino, o almeno dovrebbe avere la Fede. Per
mezzo della Sindone ſagroſanta rende ſuoi ſud
diti coll'intelletto anche i ſenſi, e fa, che da
queſti ſteſſi ſi approvi ſenza riſchio di abbaglio
ciò, che da quello ſi crede con certezza dive
rità. Metteci ſotto all'occhio un Evangelio vi
ſibile, acciocchè ſcorgaſi, per così dire, iſto
riato a colori di ſangue, quanto i ſagri Cro
niſti nell'Evangelio ſcritto ci narrano.
E che ſia così, richiamate, uditori, alla men
te quanto nell'Evangelio, che leggeſi ci pro
pone la fede, e preſſo che tutto, come in
ſua pittura, il vedrete in queſto ſagro Lenzuo
l o. Richiamate le maſſime di pietà, che c'in
ſegnano, gli articoli di religione, che ci ſpie
gano, i miſteri della Divinità, che ci ſvelano s
e poi volgete l'occhio alla Sindone, e ne am
mirerete di quaſi tutti in quell'immagine vi
viſſima l'eſpreſſione. Quelle piaghe, che vi ſi
veggon dipinte, quelle traffitture, que lividori,
quel ſangue, quel pallore del volto, quella car
nificina degli omeri, quell'atteggiamento di tut
to il corpo, non ci predicano con un facondo
ſilenzio la penitenza, la mortificazione, l'ub
bidienza, la carità con tutte le altre virtù, del
le quali nell'Evangelio c'ingiunge la pratica ?
Quelle due differenti figure, che lo ſteſſo lino
ci rappreſenta, l'una, che ſembra mirar il cie
lo, l'altra la terra, non ci ſpiegan le due diffe
renti nature, divina, ed umana, che in una Ipo
ſtaſi ſola ſi uniſcono in Criſto? Un' o"
Old
346 Diſcorſo XIX. º

ſola, che qui ſi fiſſi, non ci dà chiaro a vede


re, che innumerabili furon gli affronti dal Re
dentore tollerati, atrociſſimi i ſuoi dolori, igno
minioſiſſima la ſua morte? -

Sebbene ho detto poco con dire, che nella


Sindone ſi vede ciò, che nell'Evangelio ſi leg
ge, doveva io dire, che qui vedeſi chiaro ciò,
che ivi leggeſi oſcuro. Ci dicono gli Evangeli
ſti, che Criſto fu flagellato, ma non ci eſprimo.
no, come la Sindone, lo ſtrazio ſpietato, che
ſi fece di quelle membra innocenti. Ci dicono,
che fu coronato di ſpine, ma non ci moſtrano,
come la Sindone, le traffitture crudeli, che tra
paſſarono la ſagra fronte. Ci dicono, che fu con
fitto ſul tronco infame, ma non ci ſcoprono,
come la Sindone, i crudi ſquarci, che i chiodi
fecero, e nelle mani e ne' piedi: Anzi di quan
te coſe ragguaglia ne' ſuoi colori la Sindone,
delle quali ne ſuoi caratteri non ci fa pur metto
il Vangello? Dove trovate voi nell'Evangeliche
pagine, che ci ſi deſcriva la ſtatura, o ci ſi parli
delle fattezze di Criſto? ppure nella Sindone voi
ne avete le miſure più giuſte, e le contezze più in
dividuali, dove trovate, che Criſto in ſu la Croce
eſpoſto non foſſe del tutto ignudo ? Eppure nella
Sindone ſi hanno chiare veſtigia, che andonne in
parte velata la nudità ; dove trovate qual foſſe
il fianco, che nel ſagro Coſtato da lancia diſu
mana fu aperto ? Eppure che foſſe il deſtro, lo
dà la Sindone chiaro a conoſcere, E ſe in Eſaia
leggete, che il Salvatore futturo ſtato ſarebbe
il berſaglio di tante pene, che avrebbe potuto
chiamarſi l'uomo de dolori: Virum dolorum, che
Iſai, 4s le percoſſe l'avrebbono contraffatto di " Cl1C
2
Per la Dom. quarta dopo Paſqua. 347
che non ſarebbeſi riconoſciuto per dcſſo: Vidi.
mus eum, 6 non erat aſpectus, che dal teſchio
alle piante tutto piaghe avuta non avrebbe par
te alcuna di ſe immune da doglia: A planta
pedis uſque ad verticem capitis non eſt in eoſa
mitas; chi ? ſe non la Sindone moſtravi avve
rata a puntino la profezia ? Che può dirſi di
più, miei dilettiſſimi, perchè s'intenda eſſer la
Sindone, un Evangelio tutto fatto per l'occhio,
e in conſeguenza un Evangelio alla fede sì van
taggioſo, quanto è il ſoggettarle con l'intellet
to anche i ſenſi. Ben però ho io ragion di ſcla
mare ſu queſto propoſito, come già ſulla pie
tra ſepolcrale di Criſto ſclamò Pier Griſologo:
) Beata Sindon, que Chriſtum velare, 3 revela º
re potuit: Sindone avventurata, che con antiteſi”
tutto miſterio copriſti Criſto, e lo ſcopriſti; lo
copriſti morto, e lo ſcopriſti riſorto, lo copri
ſti nelle ſue piaghe, e lo ſcopriſti ne ſuoi mi
ſterj; lo copriſti qual velo funebre, e lo ſco
priſti qual Vangelo glorioſo.
Ma intanto chi non iſcorge, miei dilettiſſimi,
qual eſſer debba la noſtra fede! Se il profeſſar
la viviſſima, egli è obbligo indiſpenſabile d'o-
gni fedele, in qual obbligo ſaremo noi ? noi
che oltre al Vangelo a tutti comune, ne abbia
mo nella Sindone un altro tutto per noi? noi,
che delle verità rivelateci ne andiam convinti,
non ſolo nell'intelletto, ma fin ne ſenſi ? noi,
che vediamo co noſtri occhi medeſimi quello,
che crediamo ; quali dalla noſtra lingua dee la
fede eſiggere le proteſte; quale dalla noſtra men
te la ſommiſſione, quali dal noſtro cuore gli
affetti ; quale dalle noſtre opere la ſantità ? E
ove trovifi nel noſtro credere, o men di fer
Il CZZA
448 . Diſcorſo XIX -

mezza, o men di coſtanza, o men di fervore;


non ci renderà in punto di morte ineſcuſabili
quella Sindone ſteſſa, che veneriamo ? Quando
S. Paolo inteſe, che i Galati, a i quali avea
poc'anzi predicato il Vangelo, già cominciava
Galat, no a vacillare: O inſenſati, ſcriſſe loro, o in
3e ſenſati Galate, quis vos faſcinavit non obedire
ver itati, ante quorum oculos Jeſus Chriſtus pre
ſcriptus eſt, e in vobis crucifixus ? Galati inſen
ſati, e chi vi ha mai sì acciecati, che non ve
diate più quella luce, che vi è sfavillata sì bella
ſul capo è Voi ai quali ho annunziato Gesù con
sì poderofà energia, che potea dirſi non ſolo
impreſſo nel cuore, ma dipinto ſugli occhi :
Voi ai quali Gesù è ſtato da me deſcritto con
colori sì vivi, che potea parer tra voi viſſuto,
e crocifiſſo tra voi: Ante quorum oculos Jeſus
Chriſtus praſcriptus eſt , o in vobis "
Voi eſitare, voi titubare, voi ribellarvi coll'o-
cre dall'Evangelio ? Voi, voi! o inſenſati, o
inſenſati ! Così a Galati ſcriſſe l'Appoſtolo, e
così a noi dirà Criſto, ſe compariremo al ſuo
tribunale rei di fede mal corriſpoſta. O inſenſa
to dirà a me, dirà ad ognuno di voi, queſto
è l'onore, che alla mia fede tu hai reſo ? Tu,
che non ſolo ſapeſti dal mio Vangelo, ma ve
deſti ancora nella mia Sindone ciò, che ho fat
to per te, e ciò che per te ho patito ; tu che
della verità de' miei miſterj ne aveſti teſtimoni
fiti gli occhi tuoi; tu alla cui iſtruzione potea
no ſervire di Appoſtoli fino i tuoi ſguardi i tu
mi compariſci davanti con una fede sì fiacca,
con una fede sì languida, con una fede, che
ſe non è morta del tutto, e per lo meno mo
ribonda ? E dove ſono le opere conformi alle
-- - 4-
- Il 1C
Per la Dom, quarta dopo Paſqua. 449
mie maſſime ? dove le virtù conformi ai miei
eſempj ? dove l'oſſequio a miei dogmi º dove
l'ubbidienza a mici comandi ? dove la venera
zione a miei miſteri? dove il riſpetto alla mia
Chieſa interprete fedeliſſima de'miei ſenſi ? Ti
ſovvien di que libri, che leggeſti, o deſti a leg
gere, colmi non meno di ſatire, che di errori? –
ti ſovvien di quel diſcorſi, coi quali inſinuaſti,
o ti laſciaſti inſinuare in materia di religione no
vità di dottrine ? ti ſovvien di quei motti, coi
quali metteſti in deriſo le deciſioni più ſagro
ſante del Vaticano? e noi, dilettiſſimi, che ſcu
ſa potremo addurre è che diſcolpa ? Ah, miei
cari uditori, provvediamo in vita alla confuſio
ne, che potreſimo aver in morte, e giacchè Dio
ci ha ſopra delle altre nazioni favoriti, con dar
ci nella Sindone un Evangelio viſibile, faccia
mo in modo che ſi avveri anche di noi ciò, che
ſcriſſe di ſe l'Evangeliſta S. Gioanni. Veduta
ch' egli ebbe nel ſepolcro di Criſto la Sindone,
s inveſtì a quella viſta d'una fede viviſſima: Vidit, Joa.sa
e credidit. L'abbiam veduta ancor noi, e l'ab.
biamo di continovo preſente. Crediamo pertan
to, e ſia sì viva la noſtra fede, che abbia in pun
to di morte a recarci anzi che confuſione,
contento e ſalute. O noi felici, ſe al divin tri
bunale porteremo tal fede, che di udire cime
riti dalla bocca del divin Giudice: va , che
la tua fede ti ſalva: Fides tua te ſalvnm fecit.
O mio Gesù, così io ſpero. Riconoſco il be
nefizio, che mi avete fatto, con darmi nella
Sindone un Vangelo, che ſoggetti alla fede an
che i miei ſenſi, e ve ne rendo con tutto l'af.
fetto del cuore umiliſſime grazie. Io vi proteſto,
o mio Gesù, che credo, e credo fermiſſimamen
(C
35o Diſcorſo XIX,
te tutte le verità da voi rivelate. Deh, per quelle
piaghe ſantiſſime, che adoro ne voſtri piedi, da
temi grazia, che con queſta fede ben viva io
paſſi i miei giorni, e con queſta li chiuda i on
de al preſentarmi, che in morte farò al divin
tribunale, poſſa ancor io udire quelle dolci pa
role: Fides tua te ſalvum fecit.
e- Pegno certiſſimo ch'ella è, ci renderà ineſcuſa
Pos- bili, ſe ſi troverà men ferma la noſtra ſperanza.
roII. Fra i torti più gravi, che a Dio ſi poſſa fare,
uno è il non riporre nel ſuo buon cuore ogni
noſtra ſperanza: sì, perchè da lui medeſimo nulla
più ci ſi raccomanda, che confidare; sì, perchè
con benefizj così copioſi ei ci previene, che non
laſciaci luogo a dubitare del ſuo liberaliſſimo
genio. Queſto torto però da niuno più lo può
ricever maggiore, che da cittadini di queſta au
guſta, perchè niun più di queſti, mercè la Sin
done ſagroſanta, ha nelle mani un pegno, che
lo incoraggiſca più a chiedere, e lo i più
d'ottenere. So, che anche ad altre città ha Cri
ſto laſciati pegni di patrocinio, dove nelle faſce,
che io involſero bambino in Betlemme, dove
nella caſa, che gli di ricovero in Nazaret, dove
in qualcuna di quelle ſpine, che gli trafiſſerò il
Capo, dove in talun di que chiodi, che gli tra
foraron le Mani, dove in qualche parte di quel
la Croce, in cui confitto morì. Ma quale di
queſti può in pregio gareggiar con la Sindone,
ſe quelle prerogative, che ripartite tra eſſi li
rendon pregievoli, perchè ſantificati quali dal
contato di Criſto, quali dalla ſua dimora, e qua
li ancor dal ſuo Sangue, tutte nella Sindone ſola
ſi adunano. Venero il ritratto di Abagaro; ma
queſto fu formato da Criſto, non col ſangue,
- - - II) a
Per la Dom, quarta dopo Paſqua. 351
ma col ſudore : venero il velo di Veronica; ma
queſto non mi eſprime, che il volto del Reden
tore: venero il Sudario di Bezanſone, ma que
ſto non mi dà ragguaglio diſtinto delle piaghe
del Crocifiſſo. La Sindone ſola mi rappreſenta
tutto Gesù, e a caratteri di ſangue tutto mi di
cifera il gran miſterio della Redenzione. Se dun
que col più pregievole de' ſuoi doni ha voluta
Criſto diſtinta ſopra delle altre queſta metropo
li, non ho io ragion di dire, uditori, ch'egli
abbia preteſo di darci in mano con che animare
i ricorſi noſtri più confidenti.
Anzi io giungo a dire, che Criſto nella ſua
Sindone ha in un certo modo data a noi in par
ticolare quella caparra certiſsima delle ſue gra
zie, ch'egli ha data al Criſtianeſimo tutto nell'
Eucariſtico cibo, tanti ſono i riſcontri, che tra
queſto, e quella ſi ſcoprono. Imperocchè ſe l'Eu
cariſtia è un memoriale perpetuo della paſsione:
di Criſto, memoriale perpetuo della paſsione di
Criſto ella è ancora la Sindone: ſe l'Eucariſtia
è l'ultimo sforzo dell'amore di Criſto, prima
della ſua morte, la Sindone ſi è l'ultimo sfor
zo dell'amore di Criſto prima del ſuo riſorgi
mento: ſe l'Eucariſtia non ſenza miracolo l'i-
ſtituì, nè ſenza miracolo ſi rinnova la Sindone'
ancora, nè ſi formò ſenza miracolo, nè ſenza
miracolo ſi è conſervata. E ſe appigliar mi vo
leſſi al ſentimento di chi ſoſtiene, ſerbarſi nella
Sindone non l'apparenza ſolamente, ma qualche
ſoſtanza ancora del Sangue di Criſto, chi non
vede quanto ne verrebbe di accreſcimento al con
fronto tra Criſto eſporci nella Sindone; e Criſto
naſcoſtoci nell'Eucariſtia. Ma comunque ciò ſia ſi,
certo è, che l'Eucariſtia ugualmente che la Sin
- done
452 Diſcorſo XIX.
s done ſono invenzioni amoroſe di Criſto, e l'una
ugualmente che l'altra ſon pegni delle ſue gra
zie, con queſto divario, che l'Eucariſtia è un
pegno laſciato a tutti, e la Sindone è un pegno
laſciato a noi ſoli. -

E s'è così, dite voi, dilettiſſimi, ſe mancan


do noi di fiducia non fareſſimo a Criſto un torto
graviſſimo. E che ? nei prezioſi depoſiti dei due
Principi degli Appoſtoli fonda Roma le ſue ſpe
ranze: con le ceneri del Precurſore Genova ſi
tien ſicura dagli inſulti di mar procelloſo: affi
data nel ſangue di S. Gennaro prometteſi Napo
li ogni proſperità: ſulla protezione di S. Gia
como ripoſa tranquilla la Spagna tutta, perchè
ne cuſtodiſce oſſa: E Torino, che può ſanta
mente gloriarſi di chiudere tra le ſue mura la
reina di tutte le ſagre Reliquie, perchè Reliquia
di Criſto ſteſſo, o ſi conſideri qual opera del ſuo
ſangue, o qual pittura della ſua mano, o qual
laſcito del ſuo amore, Torino, diſſi, non no
drirà ſperanze magnanime, e non avrà da pro
metterſi alle ſue ſuppliche propizi reſcritti, ai
ſuoi biſogni ſoccorſi opportuni, alle ſue calami
tà pronti ſollievi? Avrà ella forſe men d'effica
cia la Sindone a prò di queſt'auguſta, di quel
che ne aveſſe l'Arca del Teſtamento a benefi
zio della famiglia di Obcdedom ? E ſe queſta an
dò colma di benedizioni celeſti ne tre ſoli meſi,
che all'Arca diede ricovero, noi tra quali ha
fiſſato la Sindone il ſuo ſoggiorno, non dobbia
mo aſpettarci una pioggia continova di grazie,
e ſulle perſone, e ſulle famiglie, e ſulle caſe,
e ſulle campagne è Con queſto pegno di ſicu
rezza, quai vittorie non abbiamo a prometterci
contro inimici? Diſſe già Eſaia, che il Salvatore
- collo
Per la Dom. quarta dopo Paſqua. 353
collocato ſarebbeſi qual muro, e antemurale nel
la città ſua diletta: Salvator ponetur in ea, mu
rus & antemurale. Ora di quale città meglio che
di queſta ſi avvera sì magnifica profezia? chi può
dire con più di ragione che noi, di avere a ſua
difeſa il Salvatore medeſimo s e quante volte in
fatti ſi è fatto egli conoſcere, quale il Profeta
ce l'ha promeſſo: Murus, & antemurale, contro
i nimici di noſtra fede, che affacciatiſi con le
correnti eresie alle noſtre porte, ne ſono ſempre
ſtati con generoſa coſtanza reſpinti : Murus, cº
antemurale, contro inimici di noſtra pace, che
accoſtatiſi alle noſtre mura col furore nel cuore,
ne ſono partiti con la confuſione ſul volto: Mu
rus, & antemurale, contro i nimici di noſtra ſa
lute, che dentro a corpi oſſeſſi arditiſi di preſen
tarſi al ſagro lino, han più volte moſtrato con
urli, e fremiti, quanto rieſca loro terribile la ſua
preſenza : e ben ſi può ancor aggiungere: Mu
rus, ci antemurale, contro i nimici della ſanità,
e della vita. Mortalità, e peſtilenze, le quali ſe
infierendo nel noſtri confini, a queſta patria non
ſi ſono appreſſate, ſi può dir col Griſoſtomo,
che temettero l'ombra del Sangue di Criſto:
Umbram ſanguinis Chriſti mors horruit; ſe non
che il Griſoſtomo parla del ſangue di Criſto om
breggiato dal ſangue del Agnello, che là nell'E-
gitto ſalvò dall'Angiolo ſterminatore gli Ebrei,
e qui ſi parla del ſangue del miſtico Agnello, che
nell'adorabile tela da ſe medeſimo ombreggiò
a terrore della morte: Umbram ſanguinis mors
horruit.
E non dovrà poi dirſi, uditori, che ove noi
mancaſſimo di fiducia, niun più di noi ingiu
rioſo ſi moſtrerebbe alla divina Beneficenza; non
Tomo IV. Anno Il Z dovrà
3 54 Diſcorſo XIX,
dovrà dirſi, che ove nel divin tribunale con
vinti foſſimo di ſperanza men ferma, quella
Sindone ſteſſa, che adoriamo, ci renderà ineſcu
ſabili. Deh riconoſciamo, cari uditori, il bel pe
gno, che abbiamo delle grazie divines e nelle
ſciagure, che aſſediano queſta vita infelice, ri
corriamo pure pieni di confidenza al trono au
guſto di Dio. Che non ci accorderà il divin Pa
dre, ſe per moverlo a pietà di noi, gli addite
remo la ſagra Sindone, e con le parole del Sal
Pſ. 83. miſta: Reſpice, gli diremo, reſpice in faciem
Chriſti tui. Sì, dilettiſſimi: ſe peccatori ſoſpiria
mo delle noſtre colpe il perdono, reſpice, di
ciamo, Dio delle miſericordie, reſpice in faciem
Chriſtitui. Io non merito la clemenza, che im
ploro, ma la merita per me queſto ſangue, la
meritan queſte piaghe, la merita queſto voſtro
addolorato Unigenito. Se tribolati bramiamo alle
noſtre afflizioni qualche conforto, reſpice, ri
petiamo, Dio delle conſolazioni, reſpice in fa
ciem Chriſti tui. Queſta immagine del dolore
chiede pietà per me: è vero, che a un pecca
tore qual io ſono, e giuſtamente dovuto il ſof
frire; ma giacchè l'innocente ha voluto addoſ
ſarſi le pene del colpevole, deh vi piaccia con
cedermi qual frutto de' ſuoi patimenti il ſollie
vo de' miei: Reſpice in faciem Chriſti tui. Così
pregando, che non otterremo, miei dilettiſſimi,
o per dir più giuſto. -

Che non ci otterrete, amabiliſſimo Gesù, che


efficacia non avranno a prò noſtro le divine vo
ſtre ſembianze ! ſembianze che perorano con
tante bocche la noſtra cauſa, quante ſono le pia
ghe, che le sfigurano. Ah, che abbiam pur torto,
o buon Gesù, ſe con sì bel pegno nelle mani,
Per la Domen, quarta dopo Paſqua. 355
manchiamo ancor di fiducia; e che potevate la
ſciarci di meglio, perchè aveſſimo una caparra
certiſſima delle grazie divine ! Deh, Gesù caro,
per quelle piaghe ſantiſſime, che adoriamo nelle
voſtre mani, fate che ben conoſciamo il favore,
con cui ci avete diſtinti: affinchè con queſto ſem
pre più animiamo le noſtre ſperanze, e chieden
do con più di fiducia, otteniamo ancora con più
di abbondanza, tra
Ritratto ammirabile, ch'ella è, ci renderà ine Fus:
ſcuſabili ſi troverà meno fervida la noſtra carità.”
Che tutti ſieno in dovere di dare a Criſto mo
ſtre di amore ſincero, egli è sì certo, quanto
è certo, che Criſto con ſinceriſſimo cuore amò
tutti. A niuno forſe però ne corre più l'obbli
go, che ai Torineſi, perchè dell'amore di Cri
ſto forſe non v'è chi n'abbia più chiare prove.
E non fu ella, uditori, una parzialità di amore,
ch'ei ci moſtrò, qualora ci deſtinò cuſtodi, e
depoſitari di quel Lino ſacrato, che l'involſe già
morto? Quando Gionata dar volle a Davidde un
ſaggio di quell'affetto, con cui a preferenza di
ogn'altro lo amava, non altro fece, che trarſi
la propria veſte, e donargliela : Expoliavit ſe tu , Res.
nica, qua erat indutus, ci dedit eam David. Co 18.
sì ha fatto Criſto con noi per darci un contraſ.
ſegno di ſingolare benevolenza, nel ſorger che
fè a nuova vita, a noi deſtinò quella Sindone,
che ricoperto lo avea tra le ombre del ſuo ſe
polcro. Sennonchè meglio aſſai, che Gionata col
ſuo Davidde, moſtrò Criſto con queſto l'amor
ſuo verſo di noi Imperocchè il dono, che fece
Gionata a Davidde, altro pregio finalmente non
ebbe, che l'eſſer ſua veſte: laddove alla Sindo
ne volle Criſto con amoroſo prodigio aggiun
Z 2 gervi
356 Diſcorſo XIX.
gervi il ſuo ritrato; onde aveſſimo in una coſa
medeſima doppio argomento di ſcorgere il par
ziale ſuo genio verſo di noi: uno nella tela che
il "pi, l'altro nell'immagine, ch'egli v'im
Ed
pre11, oh quanto al dono, ch'egli ci ha fatto ,
e

viene dal prodigioſo impronto accreſcimento di


pregio! Non vi ha chi dubiti, che tra le dimo
ſtrazioni di amore, una delle più fine non ſia,
quando all'amato dona l'amante un ritrato di
ſe medeſimo; o ſia perchè ottenga con queſto
di farſi in qualche modo ſempre preſente alla per
ſona che ama, o ſia perchè dia con queſto a co
noſcere, che ivi è il ſuo cuore, dov'è la ſua
immagine. Ora queſto è il tratto di amoroſa fi
nezza, che ha uſato Criſto con noi. Dovendo
egli da queſta terra ricondurſi al ſeno del divin
Padre, volea pur anche lontano reſtarci in qual
che maniera preſente: e però ci laſciò il ſuo ri
tratto; affinchè intendeſſimo inſieme, che anche
ſalendo al Cielo il ſuo Corpo, rimanea tra noi
il ſuo cuore: amorevolezza, di cui tanto meno
reſtaci a dubitarne, quanto dall'idea degli altri
ritratti fu diverſa la ſua ! Negli altri ſi ritrae l'a-
mante per mano altrui; e quand'anche ritrag
gaſi di mano propria, le fattezze non ſi ricop
piano mai sì giuſte, che in nulla diſſomigli al
dipinto la pittura: o ſe non altro, egli è d'uo
po, che i colori quali hanno a conformare l'uno
con l'altro, dall'arte ſi appreſtino; ma nell'a-
dorabile noſtro ritratto niun v'ebbe parte, che
Criſto ſteſſo; egli è il dipinto, egli è il pittore,
egli il pennello, egli i colori, egli tutto; e ciò
con tale giuſtezza di ſomiglianze tra ſe dipinto,
e ſe pittore, quanto ne può accertare manº"
- , Iº
Per la Dom. quarta dopo Paſqua. 357
ſtra di onnipotente Sapienza. Giudicate ora voi,
uditori, ſe l'averci egli laſciato un ritratto di
ſe ſopra di ogni altro per tanti riguardi pre
gievole, non è prova di un amore verſo di noi
parzialiſſimo, di un amore, che ha preteſo di
fiſſare, quanto potea tra noi al divino amante
il ſoggiorno?
Eppure io non ho detto finora quel più, che
nell'amabiliſſimo ritratto fa ſpiccare l'amor di
Criſto: ed è, che volendoci laſciar un'imma
gine di ſe ſteſſo, laſciata ce l'abbia di femor
to piuttoſto, che di ſe vivo. Noi vediamo, udi
tori, che chiunque bramoſo di vivere per mez
zo dell'occhio nella memoria del poſteri, ſi fa
da mano perita ritrar ſulle tele, non contento
che ſi eſprimano le ſue fattezze, vuole di più,
che o con la toga, o con la porpora, o con la
mirra, o con l'usbergo, diaſi alla poſterità vi
ſibil contezza degl'impieghi, delle dignità, del
le impreſe che han reſo illuſtre il ſuo nome,
parendogli così di laſciare dopo di ſe non tanto
un'immagine della ſua perſona, quanto una ſto
ria della ſua vita. Altrettanto ha fatto Criſto,
con cui noi nel dipingere ſe medeſimo. Non pa
go di laſciarci un ritratto sì amabile, ha volu
ta nel ritratto medeſimo quella eſpreſſione, che
cra fra tutte la più confacevole a dimoſtrare
l'ecceſſo dell'amore ſuo; e perchè l'ecceſſo
dell'amore di Criſto allora fu quando per noi
eſpoſe a ignominioſe guanciate la faccia , a
flagelli orribili gli omeri, a ſpine crudeli la
fronte , a chiodi ſpietati le mani, e i pie
di; perciò volle, che il ſuo ritratto cel deſſe a
Vedere con livide guancie, con capo traffitto,
con dorſo lacero, con mani, e piedi traforatis
Z 3 onde
3 58 Diſcorſo XIX.
onde veniſſe ad iſcorgerſi in un col ritratto del
ſuo volto divino, l'azione più eroica, che ha
per noi intrapreſa il ſuo amore. E forſe, diſſe,
nell'accingerſi alla bell'impreſa il dipintore di
vino. Vedrà Torino, vedrà s'io l'anno, mentre
oltre il dargli il mio ritratto fatto di mano mia,
e col mio ſangue, mi ci eſprimo in quell'atto,
in cui più fa comparſa il mio amore.
Ora ſe Criſto nel deſtinare a noi la ſua Sin
dome ci ha date moſtre di amor sì fino, non è
egli dovere, cari uditori, che noi ancora dia
mo a lui quanti poſſiamo contraſſegni dell'amor
noſtro è che ſenſi di divozione, che brame di
ſervitù, che vampe di carità dovrebbon eſſer le
noſtre verſo di lui, alla parzialità, ch'egli ha
moſtrata per noi, potremo noi contrapporre pro
ve che baſtino di grata, e ſincera corriſponden
za? Rammentatevi, uditori, di quel quattro ani
mali, di cui favella l'eſtatico Gioanni. Pieno d'oc
chi ognun di eſſi, e fornito di ben ſei ali, mai
non ceſſava di corteggiare il miſtico ſvenato A
gnello, benedicendo la redenzione col di lui ſan
Apoe.5 gue operata: Et vidi, o ecce in medio quatuor
- -

” animalium... agnum ſtantem tanquam occiſum.


... & cantabant canticum novum dicentes....
quoniam occiſus es., & redemiſti nos in ſanguine
tuo. Or chi non ravviſa, uditori, in queſt'eſtaſi
un ſimbolo non men di noi, che del noſtri do
veri! Noi ſiamo, che come i miſterioſi animali
abbiam la ſorte di far la corte al miſtico mor
to Agnello, ch'eſpreſſoci nella Sindone eſige dal
ſagro Altare, come da trono di maeſtà, tributi
di adorazione; e in quegli occhi, di cui eſſi ſon
pieni, e in quelle ali, di cui van forniti, e in
que cantici, da cui non ceſſano, ci ſi figurano
- - que'
l

Per la Dom. quarta dopo Paſqua. 359


que doveri, che verſo l'eſtinto Agnello ci cor
rono: Negli occhi i noſtri penſieri, che ceſſar
non dovrebbono dal contemplarlo, nelle ali la
prontezza, con cui portar ci dovreſſimo all'e-
ſecuzione de' ſuoi voleri, ne'cantici quegli oſſe
quj, che rendergli dovreſſimo di continovo. Ma,
o Dio ! che ſarebbe, ſe tutto all'oppoſto del do
ver noſtro, ingrati ad un amor sì parziale, lo
laſciaſſimo ſenza corteggio, ſenza oſſequi, ſen
za ricorſi ? che ſarebbe, ſe dove alla ſua preſenza
in fervidi affetti ſtruggeaſi un Beato Amedeo,
noi freddo al par del ghiaccio preſentaſſimo il
noſtro cuore ! Peggio poi ſe con avere tra noi
il divino ritratto di Criſto morto, viva in noi
riteneſſimo la cagion della ſua morte. Che brut
to accoppiamento ſarebb'egli mai, avere avanti
gli occhi la Sindone, e portare dentro il cuore
il peccato! O che orrenda moſtruoſità ! ad un ec
ceſſo di amore contrapporre un ecceſſo d'ingra
titudine ! Certo, uditori, che ſebbene nel tribu
nale divino niun de'colpevoli ſia per riportar
compaſſione, fra tutti però men compatibili, e
i men compatiti ſaremo noi. Come, dirà ad
ognun di noi queſto Gesù: tu che aveſti ſotto
degli occhi tuoi deſcritte col mio ſangue mede
ſimo le mie pene, tu che poſſedeſti il più ſin
cero ritratto non tanto de' miei dolori, quanto
dell'amor mio, tu che poteſti poco meno che
ad una ad una noverare le piaghe, delle quali
andò lacero per te il mio corpo; tu non ſolo
non amarmi, come te ne correa più che ad ogni
altro il dovere, non ſolo non ſervirmi, ma of.
fendermi , ma ſtrappazzarmi, ma rinnovarmi
co tuoi peccati quelle ferite, quegli ſquarci,
quelle lividure messinszi
4
nella mia Sindo
IlC
36e Diſcorſo XIX,
ne contemplaſti ? O che orribile confuſione ſarà
la noſtra, ſe a tempo non provvediamo! Libe
riamci, miei dilettiſſimi, da sì tremendo peri
colo per mezzo d' una fedele corriſpondenza.
Amiamo ardentemente chi ardentemente ci amò,
e a chi ci ha date diſtinte prove di beneficenza,
diamo ancor noi diſtinte prove di gratitudine.
Riflettiamo, cari uditori, che contro chiunque
non ama Criſto, folminò anatemi l'Appoſto
lo: Qui non amat Dominum " Jeſum Chri
ſtum, ſit amathema; Ah, quai fulmini non piom
beranno ſul noſtro capo, ſe amati da Criſto con
affetto ſingolariſſimo, non lo amiamo ancor noi
con tutto l'mpegno del noſtro cuore!
Ah sì,che vi amiamo, Gesù caro, e vi amiamo
con tutto l'affetto noſtro, e vi ameremo coſtanti
ſino alla morte. Grandi ci corrono le obbligazioni
diamarvi, perchè grandi ſono le dimoſtrazioni di
amore, che voi date ci avete; giuſto è però, che
corriſpondiamo al voſtro amore col noſtro, e
tanto più ci moſtriamo fedeli nell'amarvi, quan
to voi nell'amarci più vi ſiete moſtrato parziale.
Gradite fin d'ora in contraſſegno dell'amor no
ſtro le viviſſime grazie, che vi rendiamo del do
no, che il voſtro amore ci ha fatto: E giacchè
laſciato ci avete nella Sindone un ritratto delle
voſtre pene, vi preghiamo per quella piagha ſan
riſſima, che nel voſtro coſtato adoriamo a darci
grazia, che in contraccambio di amore, faccia
mo del noſtro cuore un ritratto della voſtra pa.
Z1CIAZa

D IS
36 I
V FFSF zzzzzzzzzzzzz N

Siria: ieri i ci: ieri i 2


D I S C O R S O XX,
NELL'OTTAVA DELLA PENTECOSTE,
Timor di Dio.
--- -------

Repleti funt timore, dicentes, quia vidimus


)% mirabilia. Luc. 5.

FN Hi mai avrebbe creduto, che le mara


- | viglie operate oggi da Criſto, colmar
32 il doveſſero di timor il cuor delle tur
S. 2 be ! Quel vedere ripigliare in un
momento le forze, chi le avea da lungo tempo
ſmarrite, ſorgere in iſtante dal letto, chi già
da più anni giaceavi addolorato, ſciogliere al
paſſo il piede, chi poc'anzi gemeva immo
bile, ſembra pur che doveſſe accoppiare, al
lo ſtupore il giubbilo, piuttoſto che la paura.
Eppure tant'è: Vide la turba, c intimoriſſi ;
c appunto s' intimorì perchè vide: Repleti
ſunt timore, dicentes, quia vidimus mirabi
lia. Ma così va, uditori miei dilettiſſimi. Dio
più che ſi dà a conoſcere per quel , ch'egli è,
Dio delle meraviglie, più iſpira il timore di ſe:
timor tale però che non turba, non inquieta s
e laſciando nella ſua tranquillità il noſtro cuore,
ci porta ſolo a tributare alla temuta Divinità un
- - profondo
362 Diſcorſo XX.
profondo riſpetto: Come appunto avvenuto leg
giamo alle turbe odierne, alle quali il timor conce
puto non impedì ilrendere a Dio tributo di ode:Ma
gnificabant Deum.Piaceſſe a Dio, che voi ancora col
farvi di tempo a contemplare le opere maravi
glioſe della mano Divina, riempier ſapeſte di un ti
more sì nobile il voſtro ſpirito. O come bella, come
ſanta prometter vi potreſte la voſtra morte! E
chi ſa, che non rieſcami queſta ſera di accen
dcrne in voi una fervida brama, con nulla più
ch'eſponervene i ſuoi effetti. Non vorrei però,
che per avventura vi deſte a credere, che del ti
more di Dio, di cui mi fo a ragionarvi, pren
der ſe ne poſſa l'idea da qual timore, che ſi ha
degli uomini : Nò, egli è l'un, e l'altro così
diverſo, quanto dalle tenebre è diverſa la luce.
Il timore che ſi ha degli uomini, cagiona nel
cuore ſconvolgimento, quello di Dio vi intro
duce ia pace. Il timore, che ſi ha degli uomini,
moſtrà imbecillità, quello di Dio iſpira fortezza.
Il timore che ſi ha degli uomini appende peri
coli, quello di Dio porta la ſicurezza. Tan
to però è lungi il timor ſanto di Dio dallo
attriſtarci, dall' infievolirci, dall' abbatterci;
che anzi egli è un timor, che conſola, e tale
il vedrcmo nel primo punto: è un timor, che
avvolora, e tale il vedremo nel ſecondo pun
to: è un timor, che aſſicura, e tale il vedre
mo nel terzo punto. Quel Gesù, che riempì
di terrore le turbe ammiratrici de' ſuoi prodigi,
faccia ancora con la ſua grazia, che di quanti
quì ſiamo queſta ſera ſi avveri, che repleti ſunt
ma timore. Incominciamo.
p, E un timor che conſola. Prima però, che m'in
roi. noltri, due timori mi fo a diſtinguere: filiale
l'uno
Nell'Ottava della Pentecoſte 363
l'uno, l'altro ſervile. Il primo trae dalla carità la
gua origine, il ſecondo dalla ſperanza. Il primo
abborre direttamente la colpa, e di rifleſſo la pe
na, che le ſuccede : il ſecondo abborre diretta
mente la pena, e di rifleſſo la colpa, che lo pre
cede. Il primo è timore di figlio, che per amore,
che porta al padre, fugge ſopra ogni coſà l'of
fenderlo: il ſecondo è timore di ſervo, che in
conto alcuno non vuol diſguſtare il padrone, per
paura che ha del gaſtigo. Che dei due il più de
gno ſia il primo, e che più del ſervile procurar
ſi debba il filiale, non può dubitarſene; negar
però non ſi dee, che anche il ſecondo non abbia
il ſuo merito, perchè ſiccome l'amar Dio in gra
zia de'beni , ch'egli promette, non laſcia d'eſ
ſer lodevole, tutto che più lodevole ſia l'amarlo
per quel ch'egli è, così ſebbene più pregievole
ſia il timore di Dio come di un ottimo, ed
amantiſſimo Padre, non va però ſenza pregio
il timore di Dio, come di un giuſto, e rigoroſiſſi
m o Giulice. Ciò ſuppoſto di tutti, e due que
ſti timori, io intendo di favellar queſta ſera s e
l'uno ugualmente, che l'altro dico in primo
luogo, eſſere un timor, che conſola.
E primieramente, che il ſanto timor di Dio,
abbia efficaciſſima forza per iſgombrare dall'ani
mo ogni afflizione, e ſerbare tra le tempeſte di
queſta vita una calma perpetua nel cuore, ne
fanno fede in più " le ſagre Carte. Mirate
Giobbe tranquillo e intrepido tra le ſue piaghe :
della ſua tranquillità, e intrepidezza ei medeſi
mo ne dà per ragioni: il timor che ha di Dio:
Semper quaſi tumefites ſuper me fluitus timui Job. 3 r
Deum. Mirate Tobia nella cecità, che il ſorprende,
placido, e lieto: tutta egli dee al timor i"d
364 Diſcorſo XX.
ha Dio la contentezza, e la pace: Cum ab infantia
Tob. 1.ſua Deum timuerit,non eſt contriſtatus contra Deum,
quod plaga cecitatis evenerit ei 5 ſed immobilis in
Dei timore permanſit. E per tacer di cent'altri,
mirate la bella copia d'eroi, Abramo, ed I
ſacco; in atto l'uno di dare, l'altro di riceverla
morte. Dio lo comanda è vero : Ma che duro
comando ad un padre, dover ritoglier al figlio
quella vita, che data gli avea dopo tanti ſoſpiri:
Che duro comando ad un giovane dover perder
la vita, quando il fiore degli anni gliela rende
più cara. Pure ubbidiſcono; e come ubbidiſco
no? Voi avreſte creduto, che doveſſero ambi
due impallidir per orrore, tremar per ribrezzo,
ſoſpirar per dolore, e per triſtezza turbarſi ; ma
nulla di queſto: Non percuſſoris, dice attonito
S. Zenone, non membra tremore vibrantur. Ne
mo trepidet, nemo turbatur. E d'onde un predo
minio sì ſtrano della natura ? d'onde una ſupe
riorità così eroica in un padre all'amor della vita?
D'onde? Leggete il ſagro Teſto, e dal miſterio
ſoluogo ordinato da Dio al gran ſagrifizio, ne
Gen. 22 intenderete l'origine: vade, diſſe Dio ad Abra
mo nel fargli l'inaudito comando, vade in ter
ram viſionis, legge l'Ebreo, in terram timoris.
Nella terra del timore haſſi ad eſeguire la grande
impreſa ! tanto baſta, anche tra i colpi alla na
tura più doloroſi, ſi ſerberà nel cuore la pace, e
nel volto il ſereno. Così fu: e ben n' è prova
l'encomio fatto al Patriarca dall' Angiolo, che
ſi fè trattenere il colpo, che gia ſcendea: Nunc
cognovi quod, gli diſſe, quod timeas Deum. La
tua prontezza nell'ubbidirne all'aſpro comando,
la tua generoſità nel non turbarti per eſeguirlo,
la ſuperiorità del tuo animo in un cimento ad un
padre
Nell'Ottava di Pentecoſte. 365
padre sì arduo, danno chiaro a conoſcere, che
temi Dio: Nunc cognovi quod times Deum.
In fatti, ſe il timore di Dio, come dall'Ec -
-

cleſiaſtico ci vien deſcritto, ha tra le ſue pro


prietà una ſommiſſione perfetta ai voleri di
vini: Qui timent Dominum, inquirent, que bes Ecri.s.
neplacita ſunt ei 3 come può laſciar luogo a
turbazione, a malinconie, ad afflizioni negli
incontri moleſti di queſta vita, mentre ſa, che º
queſti procedono tutti da diſpoſizione ſaviſſima
di Provvidenza benevola! Così temeſte un po
co più il voſtro Dio, anime tribolate, che cera
tamente non provereſte ne' voſtri diſaſtri le in
quietudini amare, che vi tormentano si ma vi
anguſtiate molto, perchè temete poco, e per
chè mancaſi di un timor ſanto, ſi abbonda in
lagrime poco meno, che diſperate. Entri nell'a-
nima il timor di Dio; e vedrete, come ſi ſgoma
brano, a guiſa di nebbie diſſipare dal vento,
le afflizioni ſoverchie, che v'inquietano. .
Nè ſolo ſi ſgombreran le afflzioni, ma an
deranne ancora da una piena di conſolazioni
celeſti inondato il cuore: Timor Domini, ella Eecia,
è promeſſa infallibile, che ne fa lo Spirito San
to, delectabit cor, ci dabit latitiam, e gaudium
-
in longitudinem dierum. E come no, dilettiſſia º -

mi, ſe ci aſſicura il Salmiſta, chi a chi teme


Dio, non mancherà mai alcun bene? Non cona
forto, non pace, non proſperità, non ripoſo:
Non eſt inopia timentibus eum. Verità tanto in Pſ is.
teſa dal vecchio Tobia, che iſtruendo da buon
padre il ſuo Tobiolo è figlio, dicea, ed oh foſ.
ſe imitato dai padri, e dalle madri del noſtri di,
non piagnerebbonſi certamente nelle caſe Cri
ſtiane tante ſciagure! Figlio, fatti pur cuore,
aVVCI)ll
366 Diſcorſo XX. f

avremo quante bramar poſſiamo felicità, e con.


tentezze, infino a tanto, che ci ftarà fiſſo nell' a
nimo il ſanto timor di Dio: Fili, noli timere;
Tob. 4 e
multa bona habebimus, ſi timuerimus Deum. E
ben avea ragion di ſentirla così, mentre Dio
medeſimo ci fa ſapere, che il temerlo è sì van
taggioſo, che non ſolo fa piovere ſopra di noi
benedizioni di Paradiſo, ma ancora un Para
º diſo intero di benedizioni: Timor Domini ſicut
paradiſus benedictionis.
Quanto però compatiſco quelle anime ſven
turate, che per viver contente ſcuotono qual
duro giogo, il timor ſanto di Dio! O infelici!
quanto mai ſiete deluſe, quanto, quanto! Voi
ſperate di rendervi lieta la vita col dare ai ſen
ſi ogni sfogo, coll'accordare alle paſſioni ogni
libertà, coll'addattarvi agli abuſi, e ai dettami
del Mondo, e v'ingannate a partito: perchè più
che vi ſcoſtate dal timor di Dio, anzi che pro
var pace, più aprite la ſtrada alle inquietudi
ni. Deh, ſe vaghe ſiete di paſſar giorni tranquil
li, ed anticiparvi eziandio ſu queſta terra, quan
to ſi può, il Paradiſo, temete Dio, temetelo,
e vi accerta Davidde, che ſgombre da ogni in
ganno: o Dio, ſclamarete, chi avrebbe credu
Fſ: se to mai, che il temervi foſſe sì dolce! Quam
magna multitudo dulcedinis tue, quam abſcon.
i timentibus te! Queſta sì, ch'è contentez.
za, queſta è tranquillità, queſta è pace.
O Gesù caro, così voleſſimo intenderla, che
ſareſte voi più temuto, e ſareſſimo noi più con
tenti! Ma ingannati, che ſiamo da un falſo dol.
ce del Mondo, non ſappiamo indurci a cer.
care, dove unicamente ſi provano le vere no
ſtre conſolazioni, Deh Gesù amabiliſſimo, per
- quelle
Nell'Ottava di Pentecoſte. 357
quelle piaghe ſantiſſime, che ne voſtri Piedi a
doriamo, ſgombrate voi dalla noſtra mente
ogn'inganno, e dateci grazia, che tanto vi te
miamo, quanto meritate d'eſſer temuto; affin
chè temendovi molto, molto ancora partici
piamo di quelle conſolazioni, che più gode chi
più vi teme. - mam

E' un timore, che avvalora. Se la terra, in pos


cui viviamo, ella è ſiccome una valle di mi- ro IIa
ſerie, in cui temeſi; così ancora un campo di
battaglia, in cui combatteſi, ognun vede, che
quanto abbiſogniamo di conforto per raſciuga
re la noſtre lagrime, altrettanto abbiam meſtier
di vigore per far fronte ai noſtri nimici. Ma
può egli queſto ſecondo iſpirarſi dal timore,
ugualmente, che il primo è Pare a prima viſta
che no: perchè ſe alla natìa noſtra debolezza
ancor ſi aggiunge il timore, ſu che mai fon
dar ſi può giuſta ſperanza d'eſito vittorioſo º
Eppure tant'è, quel timore medeſimo, che me
ſti ci conforta, quello ci anima combattenti,
e non men ci avvalora nelle battaglie, di quel
lo, che ci conſoli nelle ſciagure. E' vero, di
ce Gregorio, che nella via del ſecolo il timore
moſtra fiacchezza, e abbatte chi pugna prima
che ſia abbatutto; ma nella via di Dio non è
così : il timore iſtilla coraggio, ed è più forte L. 2,
chi teme più: Sicut in via ſeculi timor dehili-, i
tatem, ita in via Domini timor fortitudinem gi- 13.
gnit. - -

Il che tanto è vero, che ſebbene due ſieno le


ſquadre de'nimici, che ci fan guerra, l'una
fuori di noi formata del Demonio, e dal Mon
do; l'altra dentro di noi formata dalle paſſio
ni, e dai ſenſi; forza è nulla dimeno, che l'una
ugual
268 Diſcorſo XX.
p - -

ugualmente che l'altra al noſtro timore ſi dia


per vinta. Facciaſi pur avanti con le ſue maſſi
me il Mondo, e tenti di eſpugnare co ſuoi ſtra
volti principi il noſtro intelletto: facciafi avan
ti con le ſue uſanze, e ſi sforzi d' introdurre
nel noſtro cuore il ſuo reo coſtume s che ot
terrà egli da noi, ove alla difeſa dell'anima ve
gli mai ſempre il ſanto timor di Dio ? Nulla
per certo, nulla; perchè chi teme Dio, oppor
rà ſempre alle maſſime del Mondo i dettami
dell'Evangelio, e alle uſanze del ſecolo i dove
ri del Criſtianeſimo. Nè riuſcirà già più felice
ne' ſuoi aſſalti il Demonio: Inveſta pure il ma
ligno con le ſue tentazioni il noſtro cuore, e
adoperi quanto può d'arte per otternerne la
reſa : mai però non ſarà, ch'ei faccia una mi
nima breccia in un'anima difeſa come da impe
netrabile recinto, dal timore di Dio, e malgra
do, che n'abbia, ſarà coſtretto a ſoſcrivere al
ſentimento di S. Cirillo, ch'ella è fortiſſima,
ch ella è ineſpugnabile un'anima, che teme
Dio: Animam, Dei timore, velut muro obſep
tam fortem eſe, di quodammodo invićfam, &
manum, vireſque eorum , qui manus cum ipſa
conferunt, expugnare. E in verità come fia mai,
che ſi accoppi timor di Dio implacabil nimi
co di Satana, e arrenderſi a Satana implacabil
nimico di Dio. ,

Or chi contro gli eſterni nimici è sì forte,


credete voi, che il ſia punto meno contro gl'in
terni, avvegnacchè più terribili, perchè più di
meſtici, e più luſinghieri? No, miei dilettiſſi.
mi, no certamente: So, che le inſidie, che i
noſtri ſenſi ci tendono, ſono piene d'un mor
tal riſchio; ſo, che la guerra, che le noi paſ
1QIll
Nell'Ottava di Pentecoſte. 369
fſioni ci muovono, è non men lunga, che cru
da. Ma facciano quanto ſanno, quelli con pro
porre luſinghe, queſte con minacciare rivolte,
mai non canterranno vittoria, ove faccia lor
fronte un ſanto timore. Penſate, ſe chi mira
con riſpettoſo timore il ſuo Dio, indurraſſi giam
mai ad accordare, o agli occhi uno ſguardo,
che abbia dell'immodeſto, o alla lingua una
ſillaba, che abbia del libero, o un tratto alla
mano, che abbia del diſſoluto, o al cuore un
affetto, che abbia del vano: Affaccinſi oggetti,
che portino in viſo la tentazione, li sfuggirà;
s'introducan diſcorſi, che con la carità non ſi
accordino, li troncherà: ſi propongan guada
gni, che non ſi accoppino con la giuſtizia, li
ſdegnerà; ed ove i" d'inſinuarſi nell'ani
mo, o ſotto ſembianza di genial ſervitù un a
more men innocente, o ſotto l'apparenza di
zelo uno ſdegno men giuſto, o ſotto la maſ
chera del decoro un altiero contegno, lo com
batterà generoſo e coſtante, lo abbatterà, lo
domerà , in ſomma troverete bensì, dice Ric
cardo da S. Vittore, niuno mai ſenza lo ſcu
do del timore divino aver trionfato della con
cupiſcenza. Qui, in prelio victor extitit, ubica
ro adverſus ſpiritum concupiſcit, ſi ſine timore
pugnavit ? Ma chi armato di un timor ſanto,
ſia ſtato dalla concupiſcenza vinto e abbattuto,
nol troverete giammai, perchè troppo è il vi
gore, che dal timore di Dio al cuore s'infon
de, quia per timorem Domini cor contra concu
º piſcentias ſuas roboratur.
Ben però diſſe il Savio, che la fortezza ri
pone tutta nel timore di Dio, la ſua fiducia :
da timore Domini fiducia fortitudinis, affinchè Prora
Ann. IV. Tom. IV. A a inten
37d Diſcorſo XX. - - a

intendeſſimo, che ſiccome un'anima tanto è vitto,


rioſa de' ſuoi nimici, quant'ella è forte; tanto al
tresì ella è forte, quanto è timorata di Dio. Come
di fatto, come vinſe Eleazaro non men l'amor del
4. Mac la vita, che il terror della morte? non altrimenti,
" che con il timore di Dio: Et ſi preſenti tempore,
fuppliciis hominum eripiar, ſed manum Omnipoten
tis nec vivus, nec defunctus effugiam: così Su
ſanna fè trionfare la ſua caſtita tra le inſidie,
e tra le calunnie la ſua innocenza, accoppiando
in ſe queſte due qualità difficiliſſirne ad accor.
darſi, avvenenza di volto, e timore di Dio:
Pº Pulchra nimis, 6 timens Deum : Così Giudit.
” ta uſcì generoſa dall'aſſediata Betulia, intrepi
da s'inoltrò nel campo nimico, e piena di un
eroico coraggio tolſe di vita l'aſſirio ſuperbo,
fornita più, che d'altre arme, di un ſanto ti.
Judith more: Timebat Dominum valde. Tutte prove,
º che ci dimoſtrano, che la vera fortezza ha nel
timore di Dio l'appoggio ſuo più ſaldo: In ti
more Domini fiducia fortitudinis. Tanto è vero,
conchiude quì S. Gregorio, che tutto il terri
bile, che nella natura s'incontra, tanto più a
gevolmente ſi ſupera, quanto più ſi nutre pro
fondo dell'autore della natura il timore: Mens
noſtra tanto valentius terrores rerum temporalium
deſpicit, quanto ſe audiori earumdem veracius
per formidinem ſubdit. -

Veggan ora quanto mal ſi difendan coloro,


che pretendono di ſcuſare le loro cadute con dire:
ſiam deboli. Siete deboli, è vero, ma la debo
lezza d'onde procede? Procede dalla mancanza
del timore di bio. No, non temeſi Dio; e però
nell' occaſioni ſi cade, non temeſi Dio, e però
alle tentazioni non regeſi; non temcſi Dio,
-
iº C
- Nell'ottava della Pentecoſte. 371
1e paſſioni traſportano: non temeſi Dio, e però
il mal coſtume predomina. Un pò di ſanto timo
re, che s'inſinuaſſe nel cuore , vedreſte come
forti ributtereſte ogni aſſalto dei Demonio, ve
dreſte come generoſi calpeſtereſte ogni riſpetto
di Mondo, vedreſte come invincibili trionfere
ſte d'ogni luſinga di ſenſo. No, dice l'Eccleſia
ſtico; non ha paura di alcun nimico, chi teme
Dio: Qui timet Dominum nihil trepidabit; ni Ecc.14,
hil, nihili ma perchè il timore di Dio purtrop
po è ſcarſo, perciò piangiamo ſconfitte, perciò
trionfano a man ſalva i noſtri nimici: E poi vor
reſſimo, che la debolezza ci ſerviſſe di ſcuſa, e
degni ancora ci rendeſſe di compaſſione, che
\ compaſſione! che ſcuſa! -

No, Gesù mio, no, che degni non ſiamo,


nè di compaſſion, nè di ſcuſa. Se cadiamo per
-

debolezza, la ſteſſa debolezza è noſtra colpa,


perchè intanto ci mancan le forze, intanto ci
manca il timore. Se noi vi temeſſimo, come è
dovere , ah, che i noſtri nimici temerebbono
noi, nè ſi ardirebbono di aſſalirci, o certamente
non riuſcirebbe loro di vincere! Deh! Gesù caro,
per quelle piaghe ſantiſſime, che nelle voſtre
mani adoriamo iſpirateci voi un timore sì neceſ
fario, affinchè ci ſerva di ſcudo contro i noſtri
nimici, e ſomminiſtrandoci coraggio e forza,
ci aſſicuri in mezzo a tante battaglie, una com
pita vittoria. - e

PUN
E' un timor, che aſſicura. Due ſpine al cuor di roIII.
chi crede furon mai ſempre le due incertezze, in
cui ſiamo, l'una di eſſere in grazia, l'altra di
conſeguire la gloria. La prima inquieta chi vi.
ve: la ſeconda inquieta chi muore; l'una col
dubbio di ciò ch'egli è, l'altra col dubbio di
Aa2 ciò
372 Diſcorſo XX. a

ciò ch'ei ſarà. Ma ſtia pur di buon animo, chi


teme Dio: Imperocchè le punture di queſte ſpi
ne, non ſon per lui; dall' una, e dall' altra in
certezza, il ſuo timore lo libera, e lo libera con
tal ſicurezza, che francamente può dire: Perchè
temo Dio, io ſono al poſſeſſo della ſua grazia, e
ſarò un dì, perchè teme Dio, al poſſeſſo ancora
della ſua gloria. E che ſia così non laſciano cam
po a dubitarne gli oracoli della divina Scrittura a
imperocchè quanto alla grazia, di cui chi teme
Dio è in poſſeſſo, ci accerta l'Eccleſiaſtico al pri
mo, che non poſſono nello ſteſſo cuore aver
luogo timor di Dio, e peccato. Se il peccato
vi alberga, forza è che ne vada eſcluſo il
timore, e ſe vi alberga il timore, forza è che
ne vada eſcluſo il peccato: Timor Domini
expellit peccatum. Ors' egli è certo, come cer
tiſſimo, che quando in un'anima non vi è pec
cato, vi è grazia, chi non vede, che accoppian
doſi col timore il peccato, non può non accop
piarſi col timore la grazia. Ditelo voi, anime
ſventurate, che per ſecondare le voglie inſane di
sfrenate paſſioni, perdeſte il pregio più bello,
che aveſte, la grazia divina: non è egli vero, che
non prima incorreſte in una perdita sì lagri
mevole, che ſcoſſo non aveſte, qual duro
giogo, il timor ſanto di Dio? Quando il negafte,
vi ſmentirebbe il Salmiſta, il quale favellando dell'
empio, altra origine non ravviſa de mali paſſi,
che dà nel ſentiero dell'iniquità, che l'aver per
duta di viſta la guida d'un ſanto timore: Non eſt
Pſ ss timor Dei ante oculos ejus: aſtitit omni vie non
bona; ond'ebbe poi a dire S. Iſidoro, che ad in
trodurre corrutella di coſtume, diſſolutezza di
vita, libertà di coſcienza, con tutte in un fiº
Nell' Ottava della Pentecoſte. 373
le iniquità, più non vi vuole, che eſcluder dal
cuore il timore: Ubi timor non eſt, perditio eſt,
ſcelerum abundantia eſt. E quel, che a parere di Desy,
Tertuliano, ſi è il peggio, non vi ha ſperanza,"
che ſi ripari la gran rovina, ſe non è il primo ai “
richiamarſi quel timore medeſimo, che fu il
primo a sbandirſi: Ubi metus nullus, emendatio
proinde nulla. Tanto non può dubitarſi, ch'ella pera
talmente è in cuſtodia del timore la grazia, che nn e..
allo ſmarrirſi di quello, ſi ſmarriſce ancor que
ſta, e ove quello ſtia ſaldo, queſta ancora è in
ſicuro. E che altro in fatti volle dir S. Ambro
gio, quando chiamò il timore la baſe ſu cui la
grazia ſi fonda ? Che volle dire il Griſoſtomo,
quando chiamollo il baloardo, con cui la gra
zia difendeſi? Che volle dire S. Cipriano, quan
do chiamollo il ſoſtegno, con cui la grazia ſi
aſſoda ? e prima di queſti, che volle dire Eſaia,
quando con energia più nobile, chiamò il timo
re il noſtro teſoro: Timor Domini ipſe eſt the
ſaurus ejus? Non già perchè credeſſimo, che quel Pſ ex
la grazia, che fu tutto il teſoro della noſtrº ani
ma, ſia una coſa ſteſſa col timore divino : no,
ma perchè intendeſſimo, che infinito a tanto,
che Dio ſi teme, il teſoro della grazia egli è tal
mente in ſicuro, che il timore medeſimo, con
bella confuſione di cagion e di effetto, ſi può
chiamare il noſtro teſoro. Che bella ſorte per
tanto è la voſtra, anime timorate, che dalla gra
zia divina tanto ſiete ſicure, quanto ſicure ſiete,
del voſtro ſteſſo timore: Timor Domini ipſe eſt
theſaurus effus.
Ma queſto è il meno: egli è un bel pregio del
voſtro timore, la ſicurezza della gloria futura. In
pova
374 Diſcorſo XX.
prova di che altro non chieggo, uditori, ſe non
che mi accordiate ciò, che in niun conto negar
mi potere, ch'egli è ſicuro di eternamente re
gnare, chi è ſicuro di morir ſantamente. Ciò ac
cordato, chi non dirà ſicura la gloria di chi teme
Dio; mentre Dio a chi lo teme, aſſicura ſanta
la morte. Udite come ſi ſpiega Dio per mezzo
prov, del Savio : In timore Domini, eſto tota die, quia
as habebis ſpem in noviſſimo, ci preſtolatio tua mun
quam auferetur. Paſſate in un ſanto timore la vi
ta, e lieta di belle ſperanze vi ſi farà incontro la
morte. Nè mi ſteſte ad opporre, che tra ſperanza,
e ſicurezza vi ha gran divario. Già ha prevenuta,
e ſciolta inſieme il dottiſſimo a Lapide la voſtra
obbiezione; e col nome di ſperanza quì dice in
tenderſi non ſolo l'atto, con cui ſi ſpera, ma
a Lap l'oggetto ancora che ſi ſpera ; e tanto e dire ha
in as bebis ſpem in noviſſimo, quanto aſſequeris in no
” viſſimo quod ſperaſti. Ma perchè non rimanga
pur ombra di dubbio, con tutta chiarezza eſpri
meſi Dio con la penna dell'Eccleſiaſtico: Ti
menti Dominum, udite parole piene di celeſte
conforto, bene erit in extremis, e in die de
ºfunctionis eius benedicetur. In quegl'eſtremi mo
menti, in cui pericolan tanti, e tanti diſpera
no; a chi teme Dio, non vi ſarà ſe non tran
quillità, e fiducia, bene erit. In quegli eſtremi
momenti, in cui lo ſpavento è sì grande, e
ſono le anguſtie sì doloroſe, a chi teme Dio,
non vi ſarà, ſe non conforto, e pace, bene e
rit. Si faranno ad aſſalirlo i Demonj in quell'o-
ra così furioſi; ed egli protetto dal divin brac
cio, gli ſchernirà, li caccierà in fuga, benedi
cetur: ſi preſenteranno alla mente le colpe per
fralezza commeſſe s ed egli animato dalla Mi
ſericordia
Nell'Ottava della Pentecoſte. . 375
fericordia, non iſmarrirà di coraggio, benedice
tur: apriraſſi il gran Tribunale; i cui tutte ſi
hanno a riveder le partite, ed egli anzi che an
darne con rimprovero, riporterà encomi, e
benedizioni, benedicetur : può bramarſi, u
ditori miei, morte più dolce! Si può ſperarla
più ſanta ! -

Ed ora sì, che intenderete, perchè sì ſpeſſo,


chi teme Dio, chiamaſi nelle ſagre carte bea- Pſ. 11 ,
to: Beatus vir, qui timet Dominum i così ne' i"
Salmi: Beatus homo, qui ſemper eſt pavidus ; as.
così ne proverbj: Beatus, cui donatum eſt, ha-ºs,
bere timorem Domini, così nell'Eccleſiaſtico.
Non è ciò ſolo per dinotarci, che il timor di
Dio è una ſpezie di beatitudine ſu queſta ter
ra, e che tra i beni, che ſi godon quaggiù, -

niun ve n'ha più pregievole: Nihil melius, Ecl.eas


quam timor Domini; ma ancora per farci in
tendere, che il timor di Dio è una caparra ſi
cura dell'eterna felicità, e che una vita timo
rata ſu queſta terra, è un preludio d'una vita
immortale nel Cielo. E si è così, miei dilettiſ
ſimi, chi potrà mai deplorare abbaſtanza l'in
degna facilità, con cui ſi perde timor sì nobi
le , e la vile indolenza, con cui ſe ne ſoffre
la dura perdita? Dove ſi trova ormai più un
cuore, che il cuſtodiſca con geloſia, e non ver
gogniſi di darne prova! Miro la condizion più
illuſtre, ed oh quanto gonfi di albagia, e di
faſto temon bensì ciò, che il Mondo può dire,
ma nulla temono ciò, che Dio può fare; mi
ro il ſeſſo più debole, ed oh quante ſi veggon
ſchiave della vanità, più temere d'eſſere abban
donate dagli uomini, che da Dio; miro l'età
più fiorita, ed oli quanti, oh quante per vaghez
- Aa 4 Zà
376 Diſcorſo XX.
za di fare, o di ricever corteggi, temono aſſai
più di diſpiacere agli occhi altrui, che a quel
li di Dio, entro nella Chieſa, ed al vedere cer
ti ſogghigni, dove, forza è, che ſclami, dove
nelle fronti battezzate il timore di Dio? entro
nelle caſe, e all'udire certi diſcorſi, dov'è, for
za ripetere, nella lingua Criſtiana il timore di
Dio ? e ſe penetrar ſi poteſſe in certi cuori; ah?
che allo ſcorgerne taluno tutto terra per ava
rizia, tal'altro per ſuperbia tutto fumo, tal'al
tro ancora per laſcivia tutto marciume, non
potrebbeſi a meno di non ridire tra pianto, e
zelo, dov'è il timore di Dio, dov'è ? Eppure
cari uditori miei, ſe haſſi a ſperar ſalute, avvi
altro mezzo, che temer Dio: ditelo voi, ave
1.Corr vene altro? Cum timore ( ce l'intima pur chia
ro l'Appoſtolo ) & tremore ſalutem voſtramo
peramini: Cum timore, cum timore. Se queſto
manca, ſiate ricco, ſiate nobile, ſiate grande,
ſiate erudito, ſtimato; ricchezza, nobiltà, gran
dezza, dottrina, ſtima a nullo ſervono; e però
time Deum, dirò ancor io finendo di parlare,
come diſſe finendo di ſcrivere l' Eccleſiaſte, ca
ra mia udienza, timor di Dio: Time Deum.
Volete nelle afflizioni conforto ? Time Deum ;
volete contro del voſtai nimici coraggio, e for
za? Time Deum; volete accertare in queſta vi
ta la grazia, nell'altra la gloria? Time Deum s
timor di Dio, timor di Dio.
E voi, diviniſſimo Spirito, che ſcendeſte in
queſti giorni ad arricchire de' voſtri doni la ter
ra; voi date a me, voi date a quanti quì ſia
mo queſto ſanto timore; egli è un voſtro do
no: da voi lo chiediamo: lo ſperiamo da voi :
ma perchè noi non abbiamo alcun miº d'eſ.
CIC
Nell'Ottava delle Pentecoſte. 377
ſii ſere uditi, intereedete per noi Gesù amabiliſſi
s(- reno; ve ne preghiamo per quella piaga ſantiſº
cr ſi rina, che nel voſtro Coſtato adoriamo: Otte
ss caeteci voi un dono sì neceſſario; affinchè man
D: tenendoci in un ſanto timore infino a tanto
º cene avremo vita, ci meritiamo in morte quell'
ei aſſiſtenza, e dopo morte quella corona, che a
sè vete promeſſa, a chi vi teme.
4/4.
3 , 7rºvºkm2 º 34 rºvi XX4rgèvrºv rºvº Xrºr.
10"
S, è IO I S C O R S O X X I.
pi:
4ſ
PER L'OTTAVA DEL CORPUSDOMINI.
1
ram ,
Santiſſimo Viatico.

" -

ari - - -

giº gui manducat hune panem vivet in eternum.


: pri Joan. 6.
Vor

ºrº. E la vera amicizia più che con le


pa
Jeſi -
2:
S
3, parole dee dimoſtrarſi col fatti, ſpin
si gete; uditori, ſulle ali della Fede un
e fo! s: 3? penſiero al Sagramento Eucariſtico,
sia i i 34-34% e ſcorgerete , come in queſto ſi fac
Delhi - , cia Criſto conoſcere quel noſtro a
mico, ch'egli ſi diſſe. Avvi dovere di amicizia
elet, perfetta, ch'egli, naſcoſo com'è, a pro noſtro
lati non pratichi? Se tra le ſue leggi vuole amici
li ſº zia, che ſi faccian comuni all'amico i propri
to º beni, dove troverete voi comunicazion più co
roi, pioſa º Quì egli ci fa partecipi della ſua grazia,
iſi: º quì del ſuo Sangue, quì del ſuo Corpº,
e;
quì
della
l
– |

378 Diſcorſo XXI.


della ſua vita, quì in una parola di tutto fe.
Se facile debb'eſſere in ogni tempo all'amico
l'acceſſo, quì ha egli fiſſato albergo ſtabile,
pronto in ogni ora a darci udienza, e ad aſſi
ſterci nelle noſtre tenebre col ſuo lume, ne'no
ſtri dubbi col ſuo conſiglio, ne noſtri biſogni
col ſuo ſoccorſo. Se in nulla dee riſparmiarſi
un amico a benefizio dell'altro; non fa egli di
ſe in quell' Oſtia adorata un ſagrifizio perpetuo,
offerendoſi al divin Padre vittima di propizia
zione per noi ! ma ciò, che al noſtro propoſi
ro più rilieva, ſe non ſi conoſce mai meglio,
che nel tempo di tribolazione l'amico; non ab
biamo noi nell'Eucariſtico Pane per la maſſima
delle anguſtie il maſſimo de conforti? Ognun ſa,
che di tutte le tribolazioni la più dura, la più
moleſta è la morte: ſia per ciò, che ne ſoffre
natura, ſia per ciò, che ci ſuggeriſce la fede.
E nella morte appunto è dove Gesù Sagramen
tato ſi dà più che mai a conoſcere amico fidiſ
ſimo. In que momenti più biſognoſi di ajuto egli
non iſdegna di viſitarci; e perchè non ci man
chino in quell'eſtremo cimento le forze, giun
ge a tanto di amore di dar per Viatico ſe me
deſimo. Facciaſi ora chi vuole a contemplare le
altre moſtre d'amicizia, tutte grandi, tutte fi
- niſſime, tutte ecceſſive, che nell'Eucariſtico ci.
bo Criſto ci dà. Io mi voglio trattenere in que
ſta ſola, che nel ſagroſanto Viatico ci paleſa:
e per darle quel più di lume, che poſſo, ri.
fetto, che ad anguſtiare un moribondo concor
rono i dolori " infermità, le battaglie dell'a.
gonia, il paſſaggio all'eternità. Quindi mi fo a
moſtrarvi, che il Santiſſimo Viatico ne dolori
dell'infermità, egli è conforto siasi è
lara
Per l'Ottava del Corpusdomini. 37o
ſarà il primo punto: Che nelle battaglie dell'a-
gonia egli è fortiſſimo ſcudo; ſarà il ſecondo
unto: Che nel gran viaggio dell'eternità egli
è ſicuriſſima guida sſarà il terzo punto. Voi
quindi ne inferirete, che chi da queſta vita par
te provveduto di queſto Pane, anzi che laſcia
re di vivere, comincia una vita, che mai non
muore: gui manducat hunc panem vivet in -
aeternum. Cominciamo. -

Il Santiſſimo Viatico ne dolori dell'infermità, "i


egli è conforto efficaciſſimo. Una grande, non ſo º
s io dica, o ignoranza, o malizia è quella di
alcuni, i quali o credono, o temono, che tan
i to ſia il parlare ad un infermo del Sagro Viatico,
,i quanto il colmargli il cuor di ſpavento; illu
" ſione ſciochiſſima ! intollerabile inganno! E che?
ti ſarà dunque di ſollievo la viſita di un amico,
e che altro non può ſe non con l'afflitto mo
in ſtrarſi afflitto, o può al più fargli coraggio ſen
i za il poter d'iſpirarglielo; e nol ſarà la viſita -
i di quel Dio, che Dio di tutte le conſolazioni
via dall' Appoſtolo ſi addomanda: Deus totius con a Cor.
º ſolationis ? Ma ditemi per corteſia, miei dilet
i tiſſimi, tra le noie del male, tra le arſure della
i febbre, tra i tormenti delle viſcere, tra le in
i quietudini delle veglie, d'onde meglio ci può
io venire pazienza, che non ſi alteri, d onde for
mq: tºzza; che non ſi abbatta, d'onde raſſegnazio
paeſi nº , che non ſi turbi, ſe non da quel cibo,
io, i che vien chiamato, or pane de forti, or
'OnC0, alimento di alta, or menſa di conforto, Or COſl

", vinto di ſoavità, or manna d'ogni ſapore? Se


i fo º portare con generoſità le pene, che ci mo
dolo leſtano, giova non poco tranquilità di coſcien
,
ſarà
za, pace di cuore, non è egli un effetto
-
dell'Eu
cariſtico
38o Diſcorſo XXI.
cauriſtico Pane il raſſerenare la mente, e met
tere l'animo in dolce calma è Se foſche nub
bi cupe malinconie ſi ſollevan nel cuore i ma
linconie bene ſpeſſo più moleſte del morbo me
deſimo, che la cagiona, chi meglio le può
ſgombrare ? Se intorbidan la fantaſia funeſte ap.
prenſioni, apprenſioni non di rado più nocive
del medeſimo mal che ſi teme, chi meglio può
diſſiparle? Sappiam pure, ch'ella è da SS. Pa
dri ravviſata l'Eucariſtia qual ſorgente di vera
allegrezza, e qual fonte di viva luce. E in ve
rità ſe Criſto promette conforti agli oppreſſi,
Matth. che a lui ſi accoſtano e ad accoſtarſi gl'invita: Veni
E le
te ad omnes, qui laboratis, c onerati eſtis, d ego
reficiam vos; potrà poi dubitarſi, che quando
egli medeſimo ad eſſi ſi accoſta, laſciar li vo
glia tra i loro affanni? Egli è pronto a ſolle
vargli, quando da eſſi è viſitato, e negherà poi
loro il ſollievo, quando egli li viſita ? Eh no:
Fſ. 4e. Dominus opem ferat illi ſuper lectum doloris ejus.
Conſolatevi, o giuſti, pare, che con annunzio
profetico dir voleſſe il Salmiſta, conſolatevi o
giuſti dell'Evangelica futura legge; voi tra le
ſtrette del voſtri dolori, e tra le anguſtie del vi.
cino voſtro paſſaggio avrete la bella ſorte di
vedervi al letto il voſtro Dio in perſona, e dal
la ſua viſita confortati lo proverete liberator dai
pericoli, e conſolatore nelle afflizioni: Domi
mus opem ferat illi ſuper lectum doloris ejus: In
die mala liberabit eum Dominus. Quanto però
a ſuo ſvantaggio s'inganna, chi aggravato da
malattia mortale, non cura, o fors'anche pa
venta di munirſi col ſantiſſimo Viatico, quaſi
che la viſita del ſuo Dio foſſe o per accreſcere
il male: o per affrettate la morte, e non piut
- toſto
Pee l'Ottava del Corpusdomini. 381
toſto per recare ſollievo, e ſgombrare pericoli!
Diſſi ſgombrare pericoli, e intendo pericoli non
ſolamente dell'anima, ma ancora del corpo.
Imperocchè è egli nuovo, che col riceverſi
del ſagro Viatico ſianſi con lo ſpirito rinvigo
rite anche le membra 3 e all'accoſtarſi del divin
Medico ſparite le febbri, e più contumaci, e
più maligne ! quante volte ſº è confermato con
la ſperienza ciò, che laſciò ſcritto Cirillo l'A-
leſſandrino, che l'Eucariſtia è rimedio ugualmen L.4 in
te contro la morte, che contro le malattie: Non Jo.c.4.
mortem ſolum, ſed etiam morbos depellit.
Le ſtorie di Francia ci fan pur fede di tre
ſuoi Re, reſtituiti alla ſanità da queſta medicina
celeſte. Gregorio il Nazianzeno ci atteſta pure,
che ſuo padre, ricevuta appena l'Eucariſtia,
da graviſſima malattia ſi riebbe; e a quanti
di voi ſarà avvenuto di vedere, o conoſcenti,
congiunti prendere dopo il Viatico migliora
mento, e riſtabilirſi nella ſalute, chi già parea
con un piè nella foſſa ? Nè dobbiam farne gran
maraviglia, sì perchè eſſendo non di rado le
malattie gaſtigo di colpe; Iddio depone il fla
gello, quando con la comunione ſi è ſtabilita
con lui la pace, sì perchè portando Criſto con
la ſua venuta il ripoſo del cuore con togliere
l'inquietudine interna, toglie gl'impedimenti
di una curazione felice, sì finalmente perchè di
tutti i medici Gesù è poi il migliore; e ſe le
ſue veſti valſero a riſanare le infermità di quan
ti le toccavano con viva fede: Quotguot tan
gebant eum ſalvi fiebant, quanto più può ſpe
rare la ſanità chi tocca, chi aſſapora, chi in
ghiotte la ſua medeſima carne, detta perciò da
Tertulliano, carne medica ! Q
E
382 piſcorſo XXf.
Or dite voi, cari uditori, ſe chi ode con ria
brezzo parlarſi del Viatico, ſe chi differiſce più
che può a riceverlo, non è nimico del vero
ſuo bene, non meno in ordine all'anima, che
in in ordine al corpo? Un gran che, dilettiſſi
mi, quando ci ſorprende malattia, che ci ſpa
venta, ſiamo ſommamente ſolleciti di ricorrere
ai Santi: Chi vuol eſſere benedetto con un mi
nuzzolo delle loro oſſa, chi cerca polveri ſan
tificate dal loro depoſito, chi chiede unzion
con l'oglio delle loro lampane; e vanne conten
to chi può ſtringere al ſenno un pezzetto della
lor veſte, chi può imprimere un bacio ſopra
un carattere formato dalla lor mano, chi può
applicare al capo dolente, o al petto affanna
to un pannolino intriſo del loro ſangue. Io lo
do la fiducia, approvo il ricorſo; il lor patro
cinio può molto appreſſo Dio a pro noſtro: Ma
perchè non ſi moſtra una ſollecitudine, ſe non
maggiore, almen uguale di ricevere il Corpo
e il Sangue di Gesù, da cui tutte le reliquie
de Santi traggono la lor vita ? Sarebbevi di un
ſommo giubilo, ſe vi ſi portaſſe una particella
di quella Croce; ſu cui morì, un ritaglio di
quella Sindone, in cui fu involto, uno di que”
chiodi, che lo traffiſſero; e quando ſi tratta di
portarviſi tutto lui, vi contorcete, vi ſpaven
tate, e con una illazione tutta fuor di ragione:
dunque dite gemendo, io ſono ſpedito: io dun
ue ſon morto? O fredda fede, e più fredda
i" E fia poi maraviglia ſe allora ſolo ri
cevendoſi il ſantiſſimo Viatico, quando l'ani
ma ſtà, per dir così, ſulle labbra; non ſolo non
sì ricuperi la ſanità, che vorrebbeſi, ma nè pur
ſi riportino que conforti, che ſuol recare un
- - Dio,
Per l'ottava del Corpusdomini, 383
Dio, che viſita! Noi ſiamo, miei dilettiſſimi,
che ritroſi alle ſue grazie, e non curanti delle
ſue viſite l' obblighiamo ; fui per dire, a non
eſſer benefico; e col farlo venire a noi trop
i po tardi, perdiamo il frutto della ſua venuta.
Al tempo delle noſtre afflizioni Gesù vi penſa,
e per provvederci di conforto ci provvede di
Viatico, ma noi con non minore ſua ingiuria,
che noſtro danno, per orrore del Viatico rinun
ziamo al conforto. E chi avrebbe creduto mai,
che la ſconoſcenza noſtra giunger poteſſe a tal
ſegno, che aveſſe in orrore i benefizj medeſimi!
O Gesù, forza è pure che il confeſſiamo, che
enormiſſime ſono le ingratitudini, che vi uſia
mo. Voi per confortarci nelle anguſtie noſtre
maggiori, non iſdegnate di venirci a viſitare, di
accoſtarvi al noſtro letto, di farvi noſtro riſtoro,
e noi riconoſciamo sì male le voſtre grazie, che
ne concepiamo ſpavento, e miriamo la voſtra
viſita come un annunzio di morte. Deh caro Ge
sù, per quelle piaghe ſantiſſime, che adoriamo
ne' voſtri piedi, toglieteci da queſto inganno, e
concedeteci, che di quel Viatico ſagroſanto, che
per noſtro ſollievo preparato ci avete, ne abbia
mo tutta la ſtima che merita; e iſpirandoci una
ſanta ſollecitudine di prevalercene nel biſogno,
fate sì, che nell'ultima delle tribolazioni la mor
te, in voi cerchiamo, in voi troviamo conforto,
Il Santiſſimo Viatico nelle battaglie dell'agonia, “e
egli è fortiſſimo ſcudo. Due ſono i mimici, che ad Pes
un moribondo fan guerra, interno l'uno e l'altro rºll
eſterno; il primo è l'apprenſion della morte, il
ſecondo il furor dell'Inferno. E quanto al primo,
chi può eſprimere le dure ſtrette, in cui trovaſi la
natura ridotta alla fatale neceſſità di abbandonare
- tlli CQ,
384 Diſcorſo XXI.
tutto il ſenſibile? Congiunti che ſon si amati, e
ſi ha da eſſi a far divorzio, amici, che ſon sì ca
ri, chaſſi a dar loro un eterno addio; ſoſtanze
avute in sì gran prezzo, e ſi hanno a perdere,
corpo ſtato mai ſempre compagno quanto fede
le, altrettanto carezzato, e haſſi a dividerſene:
ville, palaggi, patria, oggetti delle compiacen
ze più tenere, e ſi hanno a laſciare. In vicinanza
di ſeparazion sì violenta, che tumulto, che
ſconvolgimento di affetti forza è che nel cuor ſi
ſollevi! Ma viva Dio, che a trionfare d'ogni
contraſto della natura ci ha appreſtate Criſto nel
ſanto Viatico l'armi più poderoſe. Moſtriſi pure
la morte in tutte le ſue più ſpaventoſe ſembianze;
di rapace che invola richezze, d'invidioſa che
tronca ſperanze, di maligna che ſcioglie amici
zie, di ſpietata che addolora con pene, d'infleſ
ſibile che non ſi arrende a preghiere, di crudele
che ſi paſce dell'altrui pianto, mai però non ſarà
ch'ella faccia ſcader di coraggio, chi al ſuo avvi
cinarſi ſi arma dell'Eucariſtico cibo, perchè, al
dire di S. Paſcaſio, cibo ch'egli è d'immortalità,
ha queſto di proprio, che ſgombra e diſſipa ogni
L. de timore di morte: Ad hoc immortalitatis preſtitit
"
ang. alimoniam, ut mortem non timeamus. E ſe voglia
- - - v -

, mo diſcorrerla con S. Cirillo, come è poſſibile,


che dalla morte rimanga vinto, chi riceve dentro
di ſe la vera vita, che è Criſto? Egli è pur certo,
che paſcendoſi noi di Gesù, ſiccome divien no
ſtra vita la ſua, cosi ancora divien ſua cauſa la
noſtra: qual timore adunque può farſi a turbare
chi muore, ſe per lui contro la morte entra Cri
A : iº ſto in battaglia? Impoſſibile eſt ut ab eo, qui vita
“º eſt, mors non vincatur. Quindi intenderete per
chè coſtumaſſero gli antichi fedeli di portare mai
ſena
Per l'ottava del Corpuſdomini. 385
ſempre appreſſo di ſe l'Eucariſtico Pane: eſpoſti
ch'eſſi erano a cotidiani inſulti della tirannia ido
latra, voleano ad ogni aſſalto della barbarie aver
in pronto lo ſcudo, con cui armarſi; ſicchè pa
ſcendoſi nel gran cimento del divin Cibo, poteſ
ſero con volto intrepido affrontare la morte, e
tra le ſcuri, e tra le ſpade, e ſulle croci, e ſulle
graticole, e ſotto l'acque, e ſopra il fuoco; tan
to erano certi, che armati col ſagro Viatico vinta
avrebbono la crudeltà, vinti i tormenti, vinta la
morte. E non diremo poi ingannati coloro, che
per apprenſion della morte aſpettano quel più
che poſſono tardi a munirſi col ſagro Viatico?
Miſeri che non ſi avveggono, che fomentano con
la dilazione i timori, e più rimangono eſpoſti ai
colpi, perchè non ſi curano di difeſa!
Ma ſe grande debb'eſſere la ſollecitudine di ar
marſi di queſto ſcudo contro l'apprenſion della
morte, molto maggiore debb'eſſere per imbrac
ciarlo contro il furor dell'Inferno. Ognun ſa che
il Demonio giurato noſtro mimico veglia in ogni
tempo ai noſtri danni, e arte non v'ha, che per
perderci non adoperi. Non mai però, per avviſo
ſi
dello Spirito Santo, tanto inveleniſce, non mai
tanto imperverſa, che quando giunti ci vede al
l'ultimo della vita; allora è, che raccolto tutto
lo ſpirito dell'ira ſua, rinforza le batterie, e rad
doppia gli aſſalti: allora che mette in opera
quanto ha di fino la maligna ſua aſtuzia per ſor
prenderci con inganno: allora che con tutto il
nervo delle ſue forze inveſte l'anima già turbata
ed afflitta sì per le colpe paſſate, che per la mor
te vicina: Deſcendit Diabolus habens iram ma-Aecc.,
gnam, ſciens quod modicum tempus habet. Or
contro violenze così terribili dove troveremo noi
Teano IV. Anno IV. B b ſcudo
386 Diſcorſo XXI.
ſcudo più forte, che nel ſagramento Eucariſtico!
Queſto è, al dir di Girolamo, che avvalora
l'infermo, gl'iſpira coraggio, e gl'infonde for
tezza; queſto è al dir del Griſoſtomo, che mette
in fuga il nimico, e ne ſcuopre le inſidie, e ne
rintuzza l'orgoglios ben però ſimboleggiato in
quel pane ſoccinericcio, che veduto in ſogno
ſcender dall'alto ſopra il campo de' Madianiti, ne
ſchiantò i padiglioni, e portò in tutto l'eſercito
la confuſione; onde ebbe a dire S. Cipriano, che
contro i Madianiti d'Inferno arma non vi ha nè
più valevole, nè più ſicura che l'Eucariſtica men
ſà: Quos tutos eſſe contra adverſarios volumus,
munimento Dominica ſaturitatis armamus, ci pro
tectione corporis, di ſanguinis Chriſti munimus.
Ben è vero però, miei dilettiſſimi, che indar
no ſpera di ben difenderſi con queſto ſcudo, chi
differiſce a munirſene, quando già manca con le
forze del corpo il vigore dell'animo. E' egli poſ
ſibile, che ben lo maneggi chi per l'uſo già in
gran parte perduto delle interiori potenze, più
dee dirſi morto, che vivo ? Un'arma di tempra
forte in mano debole, mai non fugò, mai non
ſconfiſſe nimici: è vero, che Criſto ſagramenta
to è un forte ſcudo contro l'aſſalitore infernale ;
ma ſolo allora quando chi lo riceve è in iſtato di
farne l'uſo che deeſi: ma chi già trovaſi co'ſenſi
ammortiti, e con la mente oſcurata, ſe non an
che affatto ſvanita, che uſo può egli farne? con
quai ſentimenti, con quali affetti può egli acco
gliere il Dio, che lo viſita è come riconoſcerne la
preſenza è come implorarne la protezione ? co
me ſollecitarne l'ajuto? E volete poi ch'egli ne
tragga frutto, ſe lo riceve sì mal diſpoſto ? So,
che di negligenza sì pernizioſa non ne ha sis
ll
Per l'Ottava del Corpuſdomini. 387
il moribondo tutta la colpa; l'hanno bene ſpeſſo
più del moribondo i congiunti, i domeſtici, che
per timore di accreſcere afflizione all'affitto, o
ſul dubbio di ſpaventarlo gli naſcondono lo ſtato
ſuo pericoloſo, e aſpettano a parlargli di Viatico,
quando nulla più gli rimane, che un filo di vita,
non che di ſperanza. Crudeli ch'eglino ſono,
daranno un dì conto a Dio, e del conforto, di cui
lo privano ne' ſuoi languori, e dell'abbandono,
in cui lo laſciano nelle ſue battaglie. Ma il danno
intanto tutto è di chi muore, laſciato alla balia
del timor, che lo accora, e del Demonio, che
lo berſaglia: con qual diſguſto di Gesù, ch'il
può ridire! Di quel Gesù, che dopo averci ab
bondevolmente provveduti di ajuto ne' maggiori
noſtri pericoli, vede andar a vuoto le ſue ſolleci
tudini; di quel Gesù, che dopo aver per noſtra
ſalute tanto operato, vede deluſe tutte le indu
ſtrie del ſuo bel cuore; di quel Gesù, che dopo
aver fatto di ſe medeſimo il noſtro ſcudo, vede
per mera incuria, per un vano timore, per un
umano riguardo laſciata un'anima ſenza difeſa
tra gli aſſalti più fieri. -

O mio Gesù, mai non avvenga, ch'io abbia


parte in sì grave voſtro diſguſto! Quando voſtro
giuſto decreto mi voglia ridotto all'ultimo della
mia vita, non permettete, che nè io dal mio
canto, nè verun altro in mio riguardo ſia cagion
di tardanza in ricevervi ſagramentato i nò, mio
Gesù, nol permettete. Troppo mi preme di
avere nell'eſtreme battaglie il mio ſcudo. Io mi
proteſto adeſſo, che io deſidero di ricevervi in
quell'eſtremo con la mente libera, e con lo ſpiri
to vigoroſo per trarre dalla voſtra viſita quel più
d'ajuto che poſſo. Vi ſupplico intanto per le pia
B b 2 ghe
- 388 Diſcorſo XXI.
ghe ſantiſſime delle voſtre mani, che umilmente
adoro; vi ſupplico fin d'ora, a dare a me, e a
chi mi aſſiſterà una ſanta ſollecitudine di munir
mi per tempo di quella forte difeſa, che appre
ſtata mi avete nel ſanto Viatico.
n. Il ſanto Viatico nel gran viaggio dell'eternità
Pos egli è ſicuriſſima guida. Un gran viaggio, non vi
ro III. ha dubbio, ſe ben ſi penſa a ciò che credeſi, un
gran viaggio è quel di chi muore; viaggio, di cui
niſſuno può vantare ſperienza, tant'egli è igno
to; viaggio, del cui termine altro non ſi ha di
certo, ſe non ch'egli è eterno; viaggio, in cui
chi per alta diſavventura sbaglia la ſtrada, più
non può emendare l'errore. Ora in un viaggio sì
pieno di oſcurità, e di riſchio, ſe può averſi una
guida che ſia pratica, che ſia fedele, che ſia ſi
cura, chi può non goderne? Ma ſiame lode alla
divina infinita bontà, guida sì neceſſaria noi l'ab
biamo in modo, che ſe rifletteſi alle circoſtanze
con le quali fin nell'antica legge figurato ci ven
ne, ſembra eſpreſſamente laſciatoci a queſto fi
ne. Richiamate, uditori, alla mente la cena in
ſieme, e ſagrifizio dell'agnello paſquale, che
ordinò Dio agl'Iſraeliti nel finirſi del loro ſoggior
no in Egitto, e dariſcontri della figura col figu
rato è ſcorgerete, che la mira del Redentore è
ſtata, fare di ſe una ſcorta ſicura nel gran paſſag
gio all'eternità. Che ſignifica in fatti l'aver Dio
voluto, che dagli Ebrei ſi ſagrificaſſe l'agnello
in quella ſera, che precedette l'uſcita dalla terra
del loro eſiglio? Non eſprimeſi l'Eucariſtia, che
nella ſera del viver noſtro dee precedere qualau
gurio di viaggio proſpero, la partenza da queſto
Mondo è che ſignifica quel cibarſene, che fu loro
comandato in arneſe e atteggiamento di chi viag
- - gla ,
Per l'Ottava del Corpuſdomini. 339
gia, cinti i lombi, ritti ſu i piedi, appoggiati a
un baſtone? Non è queſto un ſimbolo, che ci fi
gura l'Eucariſtica cena deſtinata per Viatico di
chi ſi avvia alla caſa dell'altra vita ? che ſignifica
quel tingere col ſangue dell'agnello ſagrificato
le porte del loro alberghi, acciocchè riſpettati foſ
ſero dall'Angiolo ſterminatore, che dovea in
quella notte ſcorrere a paſſi d'ira vendicatrice
l'Egitto? Non è queſto un dirci chiaro, che chi
ſantifica con Criſto ſagramentato il fin de ſuoi
giorni, non ha che temere d'inſidia, o d'inſulto
nella notte della ſua morte?
Sebben a che cerco io prove dai ſimboli, ſe
chiariſſime me le porge Criſto medeſimo. Sapea
il Redentore, che ciò, che più colma di ſpaven
to i moribondi, ſi è quel terribile bujo, in cui ſi
trovano delle due eternità, una di carcere, l'al
tra di regno, una di morte, l'altra di vita, ſenza
ſapere a qual dei due termini fieno eſſi per giun
gere; e però per iſgombrare dal loro cuore ogni
paura, fa loro ſapere, che ad accertare e vita, e
regno, non han che a paſcerſi di queſto pane:
Si quis manduca verit ex hoc pane vivet in eter-º
num; e quaſi per confermare col fatti le ſue pa
role, aſpettò ad imbandire queſta menſa divina,
quando vide imminente il ſuo ritorno al ſen del
Padre: Sciens Jeſus, quia venit hora eius, ut Joa ss
franſeat ex hoc mundo ad Patrem; allora fu, che
fattoſi cibo di ſe medeſimo, volle col ſuo eſem
Pio inſegnarci, che ſi avvia ſicuro alla vita im
mortale, chi ſi avvia con lui.
Quindi non è da ſtupire, uditori miei, ſe i
Santi ben intendenti del gran Miſtero chiamano
il divin Viatico ora pegno ſicuro della futura glo
º, pignus futura gloria: io cio 3 Cl
v

39o Diſcorſo XXI.


r- z.
Laur. dell'eterna felicità, notiſſimum eterne felicitatis
Juſtin. indicium : ora cocchio trionfale, ſu cui vola
Ser. de
Euch. ſpedita un'anima al ſoſpirato termine della beata
Gili
Ab.
immortalità: Caro Chriſti eſt Viaticum, ci ſpi
Ser, 3• ritus vehiculum: ipſe eſt cibus & currus Iſrael, e -
de
reſar.
auriga eius. E ſe io ſoggiungeſſi, che ricevuto,
che haſli con pura e monda coſcienza il ſagro
Viatico, circondano il letto del moribondo
ſchiere di Angioli, che tenendone lontano il ni
mico, aſpettano che dal corpo ſciolgaſi l'anima
per condurla al poſſeſſo del Cielo, nulla più direi
di ciò, che il Griſoſtomo udì da una ſanta per
ſona, che il ſeppe per rivelazione divina, e il
vide ancora cogli occhi ſuoi. E in verità, miei
dilettiſſimi, ſe un pane ſomminiſtrato ad Elia da
un Angiolo, che più non fu, che una figura del
ſanto Viatico, gl'infuſe tanto di vigore, e lena,
che intimorito com'era, ed infiacchito pur ſalì
s. Reg. coraggioſamente al monte di Dio: Ambulavit
i 2e
in fortitudine uſque ad montem Dei; potrà egli
temere di non ſalire ſicuro ai colli eterni chi di
quel pane ſi ciba, che non ſolo da forze a chi
dee correre, ma ſpiana la ſtrada, e la riſchiara,
Joan.o innamora del termine, e l'aſſicura ? Qui mandu
cat meam carnem, così per torne ogni dubbio
conchiude Criſto medeſimo, habet vitam eter
22a 772.

Or chi non vede la gran follia, ch'ella ſarebbe


la noſtra, ſe potendo avere nel ſagro Viatico una
guida ſicura all'eterna felicità, per iſtolida non
curanza ce ne privaſſimo; maſſimamente che
correndo in quegli eſtremi rigoroſa obbligazione
di cibarſene, tanto ſarebbe il partirne digiuni per
noſtra colpa, quanto l'incontrare un peſsimo ir
reparabile termine: no, cari miei uditori, per
- - quanto
Per l'Ottava del Corpuſdomini. 391
quanto ci preme di non porre nell'eſtremo paſſag
gio in fallo il piede, non ſi riſparmi ſollecitudine
per accertare al ſuo tempo un ben sì rilevante.
Sia queſta nel decorſo della noſtra vita una delle
noſtre brame più ardenti, ſia una delle preghiere
più fervide. Chiediamo ſpeſſo a Dio, che quan
do a lui piacerà, che partiamo da queſto Mondo,
ci conceda di partirne con queſto pegno di eterna
gloria: e perchè può di leggieri avvenire, che
l'amor della vita non ci laſci conoſcere nell'eſtre
ma malattia il noſtro pericolo; o da i domeſtici
crudelmente pietoſi ci ſi naſconda; chi ci vieta
di ſciegliere una perſona di confidenza, e pregar
la, ove ci vegga ridotti da un qualche morbo,
non dico a certezza, ma a riſchio ſolo di morte,
con caritatevole libertà ce ne porga l'avviſo, afº
finchè poſsiamo con la mente ancor ſana, e a
ſenſi ancor vegeti aſsicurarci nel ſanto Viatico la
noſtra guida al Paradiſo; anzi poichè vediamo
divenute sì familiari le morti ſubite, o una feb
bre traditrice ci può ſorprendere con improvviſo
delirio, appigliamci al pio coſtume di comuni
carci ſe non ogni volta, almeno di quando in
quando, come ſe foſſe per Viatico; e figurando
ci d'eſſer vicini a rendere a Dio lo ſpirito: io vi
ringrazio, diciamo, o mio Gesù dell'amorevole
viſita che voi mi fate. Umilmente vi adoro invi
ſibile nel mio ſeno, e ſpero d'adorarvi quanto
prima viſibile nel Paradiſo. Vi rendo grazie della
vita, che mi avete data, e vi chieggo perdono
d'averla impiegata sì male. Son pronto a finirla,
non ſolo per non offendervi più, ma per placare
ancora con la mia morte la voſtra giuſtizia. Ec
co però che raſſegnato in tutto ai divini voſtri vo
leri, quantho, quanto ſono, tutto a voi l'offe
Bb 4 riſcos
392 Diſcorſo XXI.
riſco; ſolo vi ſupplico a coronare le tante grazie,
che mi avete fatte fin'ora, col dono d'una ſanta
perſeveranza: voi ſiate ne' miei dolori il mio con
forto, voi nelle tentazioni la mia difeſa, voi
nella partenza da queſta vita la mia guida. Ove
alla ſagra Menſa così ci accoſtiamo, venga pu
re, anche improvviſa, anche precipitoſa la mor
te; ſarà ſempre vero, che compiremo in oſcu
lo Domini i noſtri giorni. Sebbene, ah che non
ſarà mai tanto improvviſa, nè tanto precipito
ſa la morte, che a chi vive ſommamente ſol
lecito di ricevere ne' giorni eſtremi il ſantiſſimo
Viatico, a chi ne porge ferventi ſuppliche, a
chi ne moſtra ardenti brame, a chi per dir co
sì vi ſi addeſtra nelle Comunioni ordinarie,
non ne accordi Dio la grazia.
Sì mio Gesù tanto da voi ſperiamo, e di tan
to vi ſupplichiamo per quella piaga ſantiſſima,
che adoriamo nel ſagroſanto voſtro Coſtato,
chiamateci pure a voi, quando a voi piace. Ec
coci interamente ſommeſſi al divino voſtro
volere. Solo vi preghiamo a concederci queſto
favore, di potere con voi ſagramentato ſanti
ficare il fine del noſtri giorni. Da quell'ultima
voſtra viſita noi aſpettiamo ogni noſtro con
forto, ogni noſtra difeſa, ogni noſtra ſicurez
za. O Gesù, liberaliſſimo mio Gesù, per quell'a-
mor, che vi ſpinſe a laſiarvi per noſtro Via
tico nel gran viaggio dell'erernità, eſaudite vi
prego le noſtre brame, ſicchè nel punto di no
ſtra morte abbia l'anima noſtra la bella ſorte
di ſalirſene appoggiata al ſuo diletto, dagli ſten
ti di queſto eſiglio ai ripoſi della Patria eterna.
ar
3
C.
: : iº,
i , “ſe : N

DI
- -

º
3sVº.
; º
è - - - >: a

s
i D I S C O R S O XXII.
P E R LA D o MENICA SE CON DA
0, D O PO LA PENT E CO STE.

) L'affare della ſalute.


-

) Caperunt ſimul omnes excuſare, Luc. 19.


sN : : 2 Uanto mai ſvogliati ſieno dell'e-
ºsi in terna loro ſalvezza i fedeli, cel dà
ºº Q. lº pur chiaro a conoſcere l'odierno
o º Vangelo. Ci ſi deſcrive con l'im
4, NS bandiggione di gran convito, l'in
l v vito fatto a goderne; ma quando
i già ogni coſa era in ordine, ecco che gl'invi
tati l'un dopo l'altro ſi ſcuſano; e quale con
un preteſto, qual con un altro tutti rifiutano:
i Caperunt ſimul omnes excuſare. Ora che in que
, ſta cena ſi ſimboleggi quell'eterna felicità, che
i renderà per ſempre fattolle le brame de Gluſti,
, tutti lo aſſeriſcono con S. Gregorio gli Spoſito
i ri: Cana magna eſt, ſanitas dulcedinis eterna. Apud.
Cena ſi chiama, perchè a sì lauto convitº"
niun vi ſiede commenſale, ſe non alla ſera de i
giorni ſuoi, quando terminate le fatiche di que
ſta travaglioſiſſima vita, volaſi a
- - -
pienº" ICIO
s394 Diſcorſo XXII.
Cielo il riſtoro: e perch'ella è imbannita con
tutto lo sfoggio d' onnipotente magnificenza,
cena grande ſi appella: Fecit Canam magnam.
Che poi gl' invitati ſcorteſi, che con la ſcuſa
or di un affare, or di un'altro, di sì magni
fica Cena diſdegnato il godimento, ſieno i fe
deli, lo dice Agoſtino, che toltane dall' Evan
gelio la diviſione li diſtingue in tre claſſi: l'u-
na di ambizioſi, l'altra di avari, la terza di ſen
ſuali. Vaga la prima di grandeggiare, la ſecon
da di arricchire, la terza di godere, riſpondono
tutte tre all'invito lor fato, un villano non poſ.
ſo: Habeme excuſatum, non poſſum venire: Or
chi avrebbe mai detto, uditori, che trattandoſi
di un bene immenſo, qual è il conſeguimento
d'una immortale contentezza, ſi poteſſe giun
gere a tanto di dire: ſcuſatemi non poſſo atten
dervi. Eppure che ſia così, non vi è chi nol veg
ga. Oſſervate quanti eglino ſono ( e certamente
non ſono pochi) coſtoro intenti unicamente a
a procurarſi una vita, o ſplendida tra le ono
ranze, o agiata tra le ricchezze, o gioconda tra
i piaceri, non ne troverete pur uno, che appli
chi ſeriamente l'orecchio all'invito, che gli fa
Dio, di aſſicurarſi un poſto nell'eterno convitto,
c ſe non con la voce, certamente col fatti riſpon
de, che i ſuoi affari non gliel pcrmettono: Ha
be me excuſatum, non poſſum ; rifiuto degno per
tre motivi di ſommo biaſimo: primo perchè
dannoſiſſimo all'uomo: ſecondo, perchè ingiu
rioſiſſimo a Dio: terzo, perchè in ſe ſteſſo ſtol
riſſimo. Volete vederlo, uditori miei dilettiſſi
mi, e con ciò ſottrarvi dal numero di coſtoro,
ſe per diſavventura vi foſte ? Eccolo: egli è dan
noſiſſimo all'uomo, perchè l'affare della ſalute
è quel
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 395
è quel ſolo, affare, che più propriauente ſi
poſſa dir noſtro, e ſarà il primo punto: egli è
ingiuſtiſſimo a Dio, mentre l'affare della ſalute
è quel ſolo, che più eſpreſſamente raccoman
dato ci venga da Dio; e ſarà il ſecondo punto:
egli è in ſe ſteſſo ſtoltiſſimo, perchè l'affare del
la ſalute è quel ſolo, che più giuſtamente eſi
ge le noſtre ſollecitudini, e ſarà il terzo punto.
Cominciamo.
L'affare della ſulute è quel ſolo affare, che più
propriamente ſi poſſa dir noſtro. Sembrò già in- "
tollerabile a S. Bernardo un lamento, che ſi ode
A pur troppo a dì noſtri: ſi dolgono alcuni di eſ.
ſere sì fattamente oppreſſi, non che occupati da
loro affari, che toglieſi loro ogni tempo, ogni
agio di penſare a ſe ſteſſi, Miſeri, dice il Santo,
divenuti dunque voi ſiete di voi medeſimi sì po
co amanti, che a voi, cui tocca il primo, dia
te l' ultimo de' voſtri penſieri! E che inſegna la
carità ben regolata, ſe non che ognuno dia ai
propri vantaggi le prime induſtrie? Non è ella
una cecità lagrimevole, che un uom Criſtiano,
che dovrebbe ſopra d'ogn'altro affare amare il
ſuo, ſtimare il ſuo, attendere al ſuo, poſponga
il ſuo ad ogn'altro? Si deberet eſſe primus, ſed
ſibi eſt noviſſimus ? E in verità, cari uditori, qual
altro affare può con più di ragione chiamarſi
voſtro, che quello, in cui trattaſi del vantaggi
della voſtr'anima , e della voſtra eterna felicità?
Gli altri, che voi chiamate voſtri affari, ſe ben
vi penſate, non ſono voſtri, o almeno non ſono
del tutto voſtri : ſe vi ſtruggete tra le fatiche per
accreſcer ſoſtanze, voi vi affaccendate più che
per voi pei voſtri eredi, ai quali a coſto di ſu
dori comprate il ripoſo? ſe tra lo ſtrepito delle
arII, 1,
396 Diſcorſo XXII.
armi, o tra la quiete degli ſtudj andate in trac
cia di gloria, e di titoli, ne goderà più di voi
la voſtra ſtirpe, perchè voi giacerete tra breve
mucchio di cenere in un ſepolcro, e de' voſtri
titoli ne anderanno faſtoſi i voſtri poſteri; e però
queſti, attorno ai quali vi affaticate così ſolle
citi, ſono affari d'altri, e non di voi, o per lo
meno più d'altri, che di voi; ma l'affare, che
riguarda la ſalvezza della voſtr'anima, è il con
ſeguimento di una gloria immortale, o queſto sì,
ch' egli è affar tutto voſtro; voſtro in primo luo
go, perchè ſe queſto vi rieſce bene, tutto è vo
ſtro, e non degli eredi il vantaggio: ſe queſto
vi rieſce male, lo ſcapito è tutto voſtro, non
della famiglia, non de' figliuoli ; voſtro in ſe
condo luogo, perchè ſe queſto ſi accerta, quando
anche vada il reſto a traverſo avete tutto: ſe queſto
falliſce, quand'anche vada il reſto a ſeconda, avete
nulla: tutto è in ſalvo ſe l'anima ſi ſalva; e ſe l'ani
ma ſi perde, tutto è perduto; voſtro finalmente,
perchè a voi ſolo tocca il pcnſarvi, a voi ſolo l'aſ
ſicurarne un buon eſito. Ai voſtri fondi, ſe non
ſpenſate voi, vi penſa per voi il voſtro econo
mo: alla voſtra lite ſe non penſate voi, vi pen
ſa per voi il voſtro avvocato ; ma alla voſtra
eterna ſalute fe non penſate voi, non vi ha chi
vi penſi, o penſar vi poſſa per voi; ſe non ne
aſſicurate voi un buon eſito, non vi ha certa
mente chi l'aſſicuri, o aſſicurarlo poſſa per voi,
Se dunque egli è queſto per tanti titoli un af,
far tutto voſtro, non è egli giuſto, che queſto
a preferenza d'ogni altro ſtiavi a cuore ? Non
è egli giuſto, che diate a queſto più che ad o
gni altro i primi voſtri, e principali penſieri ?
Eppure ſi fa così, miei dilettiſſimi, ſi Psa"
più
-- - Cl)C
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 397
che ad ogni altra coſa, come ad un affar tuttò
voſtro , alla ſalute dell'anima è Sarebbevi mai
talun di voi nel numero di coloro, che ſin agli
occhi s'immergono in affari non ſuoi, o alme
no non ſuoi del tutto; e perdono intanto di vi
ſta l'affar tutto ſuo i
Per verità io veggo, che quando ſi tratta del
la ſalute del corpo, perchè l'amor proprio ve
la rappreſenta come un affare tutto voſtro, non
vi ha miſura, che non ſi prenda, non vi ha in
duſtria, che non ſi adoperi per conſervarla, ſe
pericola, o per ricuperarla, ſe ſi perde. Sono
amare le medicine; non importa ſi prendono:
i tagli ſon doloroſi ; non importa ſi ſoffrono:
ſon moleſte le diete ; non importa ſi fanno, e
queſto perchè ? Perchè la ſanità del corpo, voi
dite, è affare tutto mio. Se ſto bene, io ſono
quel che ne godo, ſe ſto male io ſon quel che ne
ſoffro. Ma perchè, dico io, non moſtrate per la
ſalute dell'anima egual premura ? è forſe queſta
affar men voſtro, che la ſalute del corpo º non
dee anzi tanto più premervi quella che queſta a
quanto del corpo è più pregievole l'anima?
Ma queſta appunto, uditori, ſi è l'arte del
nimico della noſtra ſalute, il quale ben ſapen
do, che queſto è il vero, e proprio noſtro affa
re, e a tutto potere ſi adopera, affinchè quell'
impegno, che tutto a queſto dovrebbeſi, ad altri
affari rivolgaſi. Quindi ſe vede, che un occupa
zione ci piaccia, e ci diletti, anzi che diſtrarci da
eſſa, procura egli medeſimo d'inſinuarcene ſem
pre maggiore l'affetto; ſe vi ha un impiego,
in cui ſperiſi di riportarne applaudimento, ed
onore, anzi che attraverſarne il buon eſito, egli
medeſimo è il primo ad iſpianargli la ti: C
398 Diſcorſo XXII.
ſe un negozio s'imprende, che a gran fortuna
apra il campo, anzi che toglierci le concepute
ſperanze, ſi sforza egli medeſimo ingrandirle. E
perchè ciò ? nol fa già egli per amor, che ci
porti, che anzi implacabile mimico noſtro, che
egli è, ſappiam di certo, che dove rieſcagli di
avventarci un colpo, non cel riſparmia. E perchè
dunque tanta condiſcendenza è perchè conoſce
l'aſtuto, che queſti ſono diſturbi piuttoſto del
noſtro affare, che affari noſtri; onde pur che gli
rieſca di diſtrarci da quello, che propriamente è
affar noſtro, non rifiuta l'ingannatore di dar ma
no al riuſcimento felice degli altri, e noi ciec
chi ſecondiamo i diſſegni, ch'egli ha di per
derci, e ci addormentiamo fu i noſtri danni,
ſu i quali egli veglia. Ah, dilettiſſimi, imparia
mo dal noſtro nimico a farci accorti, e più ch'e-
gli procura di rivolgere ad affari di Mondo il
cuor noſtro, più noi fiſſiamolo in quello dell'
anima: Attende tibi, opportunamente ci avviſa
conoſcitore degli inganni diabolici Sant'Ambro.
gio: Criſtiano mio penſate a voi: Attende tibi,
tibi inquam non pecunia tue, non poſſeſſionibus tuis,
non viribus corporis, men di penſiero al dana
ro, alla roba, ai fondi, ai titoli, al corpo, a
gli agi, alle pompe: Attende tibi, tibi inquam,
hoc eſt anima tu e, a voi, alla voſtr'anima, alla
voſtra ſalute, in cui tutto ſtà il voſtro affare:
Attende tibi. Così dice il Santo Dottore, e lo
imparò eertamente dall'Appoſtolo Paolo, il qua
le ſcrivendo ai fedeli di Teſſalonica: fratelli miei
dilettiſſimi, dice loro, non vi laſciate diſtrarre
da negozi di Mondo. Avete un affare, che tutto
è voſtro, a queſto penſate, e con tutta la forza
adoperatavi per condurlo a buon termine: Fra
fyi 5
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 399
tres rogamus vos, ut veſtrum negotium agatis:
Notaſte ? non dice veſtra negotta, no; dice ve
ſtrum negotium; perchè intendiamo, che il ſolo
affare, che ſi dee propriamente dir noſtro, ſi è
quello dell' eterna noſtra ſalute; e che a queſto
hanno a mirare le più ſollecite noſtre premure.
E s' è così, cari uditori, perchè non entriamo
una volta noi ſteſſi, e ſeriamente ponderando sì
rilevante verità, perchè non la diſcorriamo tra
noi, e noi? La mia eterna ſalvezza è un affar
tutto mio; a me dunque tocca il penſarvi: a me
tocca il procurarne un buon eſito; ſe io non vi
penſo, chi vi penſa per me? ſe io non l'aſſicu
ro, chi l'aſſicura per me? avrò dunque per af
fari non miei ogni premura, e per un affar tutto
mio niſſuna? ma ſe io mi ſalvo il vantaggio non
è tutto mio ? non è tutto mio il danno ſe io mi
perdo? perchè dunque a tempo non vi provveg
go? perchè cieco ch'io ſono, mi perdo in tutt'al
tro? Ah, dilettiſſimi, ſe così la diſcorreſſimo di
quando in quando, quanto meno d'impegno ſi
moſtrerebbe per gli affari del Mondo, e quanto
n
più di premura per quello dell'anima! Ma il
º male ſi è, udienza mia cara, che ad un affare,
che sì da vicino ci tocca, non vi ſi penſa, non
vi ſi penſa.
Ah, che pur troppo è così, Gesù mio caro,
pur troppo è così! Alla mia cterna ſalute pet
ſo pochiſſimo. Quanto è lungo il giorno penſo
a tutt'altro affare, che al mio, ſollecito in tutto
fuor che ne miei veri vantaggi. Dovrebbe il pen
ſiero della ſalute moderare i penſieri di Mondo:
eppure tutto al contrario i penſieri di Mondo
ſoffocano ogni penſier di ſalute. Deh, Redentor
mio caro, per quelle piaghe, che adoro "a,vo
NA
4oo Diſcorſo XXII.
ſtri Piedi ſantiſſimi, io vi ſupplico a ben impri
mermi nella mente queſta gian verità, che l'af.
fare della ſalute è un affar tutto mio; ſicchè a
queſto tutte rivolga le mie premure, e ſeria
mente penſandovi lo conduca col voſtro aiuto
a buon termine.
r- L'affare della ſalute è quel ſolo, che più eſº
Po N preſſamente raccomandato ci venga da Dio. Che
ro II. l'affare della ſulute ſia il ſolo che Dio ci vuole
raccomandato, più chiaramente non ſi può ſcor
gere, che dall'eſſere queſto affare l'unico fine,
ch'ei ci ha prefiſſo, e a cui vuole, che tutti mi
rino i noſtri penſieri, e tutte s'indrizzino le no
ſtre premure. A queſto fine ci ha collocati nel
vago teatro di queſta terra, a dovizia fornen
doci e di beni di natura, e di doni di grazia;
a queſto fine ſi è tutta per noi impiegata la
Triade diviniſſima s per noi la potenza infinita
del Padre, per noi la ſapienza increata del Fi
glio, per noi la bontà ineffabile dello Spirito
Santo; ma ſempre in modo, che quanto per
noi ha fatto, tutto ha ordinato come mezzo al
ſuo fine, alla noſtra eterna ſalute: Multis mo
dis, rifleſſione di Sant'Iſidoro , erat componens
humannm genus ad conſonantiam ſalutis. Sicchè
quanto è in noi, e quanto fuori di noi, quan
to nell'ordine della natura, e quanto nell'or
dine della grazia, quanto nel vaſto giro de'Cieli,
e quanto nella immenſa macchina della terra.
quanto in ſomma compone il piccol Mondo
dell'uomo, e quanto il Mondo grande dell'u-
niverſo, tutto del Facitore ſupremo è indirizza
to ad aiutare, a promovere, cd accertare la no
ſtra ſalute: Multis modis componens humanuma
genits ad conſonantiam ſalutis. Ora ſe Dio º
-- 26
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentecoſte. 4o 1
'ad altro fine ci ha dato l'eſſere, che per l'eter.
na ſalute, e non per altro che per porgerci mez
zi di conſeguirla, ci ha ſomminiſtrati in sì gran
copia beni di natura, e di grazia; può darſi
prova più chiara, che l'unico affare, che rac
comandato ci vuole, ſi è quello della ſalute?
Sì miei dilettiſſimi: tanto è queſto l'uni
co affare, in cui Dio vuole, che ci occupia
mo, che qualunque altro affare s'imprenda,
che a queſto non miri, per quanto agli occhi
del Mondo ſembrar poſſa glorioſo, e pregie
vole, avanti Dio più che un nulla non conta;
tutto è tempo perduto, tutto fatica gettata, tut
to premura inutile, tutto vanità, e non altro;
qualunque coſa ſi faccia, che a queſto fine non
ſi indrizzi: Vanitas vanitatum, così dal Savio
chiamoſſi tutto ciò, che alla ſalute non ſi or
dina, c omnia vanitas. Logori ſanità, logo
ri forze quel padre di famiglia per accumu
lare ſoſtanze, e gli rieſca di laſciare agli eredi
pinguiſſimo patrimonio: Vanitas vanitatum. In
contri quel guerriero con fronte ardita i peri
coli, e a coſto di fatiche, di ſudori, di ſangue
ai primi gradi si innalzi della milizia : Va
mitas vanitatum. Si lambicchi ſui libri quell'uom
di lettere, e ſagrificando a ſuoi ſtudi per fin il
ſonno, alzi pur grido di gran Giuriſta, di gran
Teologo: Vanitas vanitatum. Sieno in ſomma
di gran rilievo gli affari, e vi acquiſtino il cre
dito di gran mente, ſieno ſtrepitoſe le impre
ſe, e illuſtrino con fama glorioſa il voſtro no
mes tutto appreſſo Dio è vanità, ſe quanto ſi
fa di grande, ſe quanto ſoffreſi di moleſto non
mira, come mezzo al ſuo fine, alla voſtra eter
na ſalute, perchè eſſendo queſta l'unico nego,
Anno. IV Tom. IV. C c zio
4o2 Diſcorſo XXII.
zio da Dio a voi commeſſo, le ſole fatiche, le
ſole ſollecitudini, che per queſta s'imprendono,
nelle bilance divine hanno peſo, e queſte ſole
nel divino coſpetto trovano gradimento, e
riportano premio. Io non voglio già dire, u
ditori, che per attendere all'affare della ſalute
traſcurare ſi debbano gli affari, a cui il voſtro
grado, il voſtro ſtato, la voſtra condizione v'im
pegna: no, dilettiſsimi, non voglio dir queſto.
Gli altri affari ſi faccian pure, ma ſi facciano
ſempre in modo, che come linee tirate al ſuo
centro, tutti mirino all'affar principale della
ſalute s attenda il negoziante a ſuoi traffichi,
attenda il letterato a ſuoi ſtudj, attenda alla ſua
famiglia il capo di caſa, attenda ciaſcuno ſe
condo il ſuo grado al proprio impiego: ma
con l' occhio ſempre alla ſalute dell' anima;
tenga da una parte lontana l'avarizia, la va
nità, l'ingiuſtizia, e adempia i doveri di ca
rità, di giuſtizia, di religione. Così l'eterna
ſalute ſarà ſempre l'unico affare, perchè tutti
gli alrri averanno queſta di mira.
Ma in realtà ſi fa così, cari uditori? Miraſi
l'affare della ſalute come l'unico, che Dio ci
raccomanda ? Si riflette, che ſiamo al Mondo
a queſto unico fine di condur queſto a buon
termine? Vi ſi applica ſeriamente il penſiero,
come all'unica coſa, che ci dee premere ? Ah !
che ſe d'ogni intorno volgiamo lo ſguardo,
troveremo non pochi, che intenti a tutt'altro,
all'affare della ſalute nè pur vi penſano ! Chi
penſa a far nel Mondo una luminoſa compar
ſa, e queſto è lo ſcopo, a cui tutte mirano le
ſue induſtrie: chi penſa a procacciarſi quanto
più può di divertimenti, e piaceri; queſto è l'im
P1ego ,
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentecoſte. 4o5
le premure, che vuole da noi l'affare della ſa
- lute. Che facciamo noi dunque per queſto af
º fare, in viſta di ciò, che ha fatto Criſto? che
. atiamo in viſta di ciò, che ha patito Criſto?
- Vi penſiamo noi come Criſto? vi penſiamo noi
) come Criſto vi pensò º ne ſiamo noi ſolleciti
! come ne fu ſollecito Criſto? Ah, cari uditori, o
ſi ha da immitare in vita queſto eſemplare divino,
o queſto eſemplare divin ci ha da confondere in
morte: E con qual fronte potrà ella mai preſentarſi
al Tribunale di Criſto Giudice un'anima, che fatto
non abbia della eterna ſalute il ſuo unico affare?
P-- infelice non corri-º per confuſione il
\7 ſere-errrrrracciare, e se criſto farà da una
/ parte le immenſe premure, con cui ha egli ſem
pre promoſſo l'affare della ſalute, e l'indolen
/ za enorme dall'altra, che per l'affare medeſimo
ha ſempre moſtrata: riſpondi ſe puoi, le dirà il
divin Giudice, riſpondi anima indegna: poteva
io fare di più per ſalvarti, e potevi tu far di
meno ? Che abbia io mirata ſempre qual mio
unico affare la tua ſalute, teſtimonj ne ſono i
miei ſudori, le mie fatiche, i miei ſagramenti,
la mia croce, il mio ſangue; ma che mirata
l'abbia ancor tu qual tuo unico affare; con qua
li opere ne hai data prova, con quai ſofferen
ze, con quai virtù? Non hai anzi dato ſempre
a conoſcere, che il tuo unico affare erano le
vanità, i puntigli, la roba, i divertimenti, i
piaceri; e che nulla men t'importava, che la
ſalute? Or va infelice, ſe ſei perduta, ben ti ſtà;
va pure, va ad iſcontar negli abiſſi la tua in
ſenſatezza, e a tuo maggior martoro ſovvien
ti in eterno, che io per ſalvarti ho fatto tutto,
e tu hai fatto tutto per perderti: o rimprove
Cc 3 IO [CI -
404 Diſcorſo XXII.
li premure da noi eſiga l'affare della ſalute, cos
me quell'unico, che Dio ci raccomanda, pren
diamone, uditori, l'idea dalle premure, che ne
moſtrò l'Incarnato Divino Unigenito; giacchè
queſto pure, come ce lo atteſta la fede, fu l'u-
nico affare, per cui dal Divin Padre fu inviato
Mean. 3 e al Mondo: Miſit Deus filium ſuum in Mundum
. . . . ut ſalvetur Mundus per ipſum. Ebbe mai
Criſto in ciò, che fece, in ciò, che patì, altra
mira, che la noſtra a lui commeſſa ſalute? Coll'
occhio a queſta egli nacque nel ſeno della ui
miliazion più profonda, e menò tra gli ſtenti
d'una povertà penoſiſſima la ſua vita ; a que
ſta mirarono i paſſi, che diede; a queſta i ſu
dori, che ſparſe; a queſta la Dottrina, che pre
dicò, a queſta i prodigi, che fece, e ſe acco
rato ſvenne tra le triſtezze, ſe lacero ſpaſimò
tra flagelli, ſe in mille guiſe adiolorato morì
confitto ſu tronco infame, tutto fu propter nos
homines, come ne parla nel Simbolo della ſua
fede la Chieſa, e propter moſtram ſalutem. Po
teva egli moſtrar di più, quali foſſero di queſt'af.
fare le ſue premure? Eppure qui ancor non fini
rono? Ripigliò dopo la morte in un con la vi
ta le medeſime ſollecitudini: iſtituì ſagramenti,
e volle, che foſſero fonti di ſalute; ſpedì Ap
poſtoli, e volle, che foſſero meſſaggieri di ſa
lute; inviò dal Cielo lo Spirito Santo, e vol
le, che foſſe apportator di ſalute; che più ? Fin
ſu nel Cielo fattoſi appreſſo il Padre noſtro av
vocato, e là in quell' Oſtia adorata fattoſi no
ſtro cibo, e noſtro Viatico, ben ci dimoſtra,
che all'affare addoſſatogli della noſtra ſalute ci
penſa ſempre, e non lo perde di viſta pur un
momento. Or queſta, uditori, è l'idea di
- -
º"C
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentecoſte. 4o5
le premure, che vuole da noi l'affare della ſa
lute. Che facciamo noi dunque per queſto af
fare, in viſta di ciò, che ha fatto Criſto? che
atiamo in viſta di ciò, che ha patito Criſto?
Vi penſiamo noi come Criſto? vi penſiamo noi
come Criſto vi pensò º ne ſiamo noi ſolleciti
come ne fu ſollecito Criſto ? Ah, cari uditori, o
ſi ha da immitare in vita queſto eſemplare divino,
o queſto eſemplare divin ci ha da confondere in
morte: E con qual fronte potrà ella mai preſentarſi
al Tribunale di Criſto Giudice un'anima, che fatto
non abbia della eterna ſalute il ſuo unico affare?
Potrà l'infelice non coprirſi per confuſione il
volto al rinfacciarle, che Criſto farà da una
parte le immenſe premure, con cui ha egli ſem
pre promoſſo l'affare della ſalute, e l'indolen
za enorme dall'altra, che per l'affare medeſimo
ha ſempre moſtrata: riſpondi ſe puoi, le dirà il
divin Giudice, riſpondi anima indegna: poteva
io fare di più per ſalvarti, e potevi tu far di
meno ? Che abbia io mirata ſempre qual mio
unico affare la tua ſalute, teſtimonj ne ſono i
miei ſudori, le mie fatiche, i miei ſagramenti,
la mia croce, il mio ſangue; ma che mirata
l'abbia ancor tu qual tuo unico affare; con qua
di opere ne hai data prova, con quai ſofferen
ze, con quai virtù? Non hai anzi dato ſempre
a conoſcere, che il tuo unico affare erano le
vanità, i puntigli, la roba, i divertimenti, i
piaceri; e che nulla men t'importava, che la
ſalute? Or va infelice, ſe ſei perduta, ben ti ſtà;
va pure, va ad iſcontar negli abiſſi la tua in
ſenſatezza, e a tuo maggior martoro ſovvien
ti in eterno, che io per ſalvarti ho fatto tutto,
e tu hai fatto tutto per perderti: o rimprove
Cc 3 IO [CI
406 Diſcorſo XXII
ro terribile! ma pur giuſtiſſimo; o intollerabi
le confuſione! ma ben meritata.
O Salvator amoroſiſſimo, non ſia mai vero,
ch'io abbia in punto di morte un sì amaro rim
provero, e che provar io debba confuſione sì
doloroſa. Conoſco, che per mia ſalute voi ave
te fatto, e ſofferto moltiſſimo, e confeſſo, che
ciò che ho fatt'io è pochiſſimo, pochiſſimo ciò
che ho ſofferto. Ma per non avermene un gior
no a confondere nel Tribunale voſtro terribile,
me ne confondo adeſſo ai piedi della voſtra
Croce, e per quelle piaghe, che adoro nelle
voſtre ſantiſſime mani, vi ſupplico a darmi gra
zia, che nell'avvenire corriſpondano alle voſtre
premure le mie. Giacchè della mia ſalute voi
fatto ne avete il voſtro unico affare, concedete
mi, che la miri ancor io come l'affare mio
unico: ſicchè in tutta la vita mia non lo perda
mai di veduta , e quanto fo , quanto penſo,
TF
PU t
tutto abbia ſempre di mira la mia ſalute.
relli L'affare della ſalute è quel ſolo, che più giu.
ſtamente eſiga le noſtre ſullecitudini. Con quan
1a giuſtizia eſiga le più ſerie noſtre ſollecitudi
ni l' affare della ſalute, facilmente lo può inten
dare chi ne conſidera la ſua ſomma importanza.
Smpete, uditori, di che affare ſi parla, quando
ſi dice affare della ſalute ? Uditelo da Santi Pa
dri, che lo ſpiegano con tre ſole parole; chia
mandolo negotium omnium jaculorum : affare di
eternità: Poche ſillabe, ma di qual peſo, udi
tori miei cari, di qual energia ! affare di eterni
tà: chi può eſprimere l' importanza è chi
può comprendere le conſeguenze ? Eppure
tant'è, queſto è l'affare di, cui ſi tratta : Ibit
homo in domum eternitatis ſue; così ce lo inti
- Illa
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentec. 4o7
ma la fede. Fatto che ſiaſi il grande eſtremo
paſſo, haſſi da porre il piede nella caſa dell'
eternità; caſa, o di miſerie, o di contenti, ſe
condo che ognuno col più , o meno attendere
all'affare della ſalute ſe l'avrà fabbricata: Ibit Ecc. 1a
in domum eternitatis ſue. Può idearſi, uditori,
affare più grave, affare più ſerio, affare più
rilevante? Voi chiamate affar di premura quel
lo, da cui può tutta dipendere la temporale
voſtra fortuna: di qual premura dovrà dunque
dirſi, che ſia un affare, da cui dipende la ſorte
non di anni breviſſimi, ma di ſecoli eterni.
. Ben la inteſero i Santi la grande importanza
di queſto affare; e non potean penſarvi ſenza
ſpavento. O il grande affar, ch'egli è queſto! di
) cea S. Bernardo, perchè affare, in cui trattaſi,
o di gioire per ſempre co Santi, o di penare
per ſempre co reprobi: Aut perpetualiter letari
cum Sanctis, aut ſemper cruciari cum impiis:
Grande affare, dicea S. Ceſario, perchè affare,
che ha da finire in uno di queſti due, o Cielo,
o Inferno, e l'uno , e l'altro per ſempre, nè
più vi è mezzo: Duo ſunt, e nibil eſt medium :
aut in Calum aſcenditur, aut in Infernum deſcen
ditur. Grande affare , dicea Sant' Ambrogio,
perchè affare, che ha da conchiuderſi con una
eternità, o beata, o infelice; e nell'una, e nell'
altra, non poſſo a meno di non entrare : In
hanc velillam eternitatem cadam neceſſe eſt. Così
parlando i Santi di queſto affare, così ce n'eſ
primono l'alto rilievo.
Or pare a voi, uditori, che ad accettare sì
gran negozio, tutto non ſi richiegga il vigor
della mano ? pare a voi, che non meriti ogni at
tenzion più ſollecita? Eppure, che ſi fa mai per
Cc 4 condurlo
4o3 . Diſcorſo XXII.
condurlo a buon eſito, ditemi, che ſi fa? Io
veggo, che per procurarvi ſu queſta terra un
albergo comodo più che potete, e ſontuoſo,
non ſi riſparmiano ſpeſe; e sì ch'egli è un al
bergo, da cui tra breve ſloggiar dovrete. Io veg
go, che per rendervi quanto in queſto eſiglio
ſi può contenta, e felice la vita, non vi ha di
ligenza che non ſi uſi ; e sì ch'ella è una vita,
di cui la morte dovrà quanto prima troncarne il
filo: Fate voi altrettanto per aſſicurar nell'eterni
tà una caſa tutta delizie, una vita tutta contenti?
Sapete pure, che queſta non ſi prepara, e non
ſi accetta, che coll' eſercizio delle virtù, e con
la pratica delle opere ſante ? e queſte virtù dove
ſono ? dove ſon queſte opere? Se foſſero in ma
no voſtra mezzi tali, che meſſi in opera vi aſſi
curaſſero feliciſſima la vita preſente, e non meſſi
in opera infeliciſſima ve la rendeſſero, non li
mettreſte voi ſubito in pratica, e con tutta atten
zione, e con tutta eſattezza ? non chiamereſte
anzi inſenſato, e pazzo, chi per timor d'un in
commodo, o per incuria ne traſcuraſſe l'effettua
zione? Or ciò, che in poter noſtro non è , in
riguardo alla vita temporale, lo è certamente
in riguardo all'eterna. I mezzi, che a buon ter
mime condur poſſono il noſtro affare dell'eter
nità, in noſtra mano ſon tutti ; dal metterſi
queſti in opera dipende l'acquiſto di un regno
cterno, dal non metterſi dipende la condannag
gione a eterno carcere: e non dovrà dirſi mille
volte inſenſato, e pazzo ben mille volte, chi,
o per un amano riſpetto, o per il piacer di un
momento, o per un vano puntiglio, o per non
farſi un pò di violenza, traſcura di queſti mezzi
ia pratica? -

Eppure
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 4o9
Eppure chi'l crederebbe? di anime a queſto
ſegno inſenſate il Criſtianeſimo è pieno. Cono
ſcono, che l'affare, di cui ſi tratta è affare di
cternità, sì lo conoſcono; ma perſuader non ſi
vogliono, che ad accertarlo ſia poi neceſſario,
nè il prendere tante miſure, nè il darſi tante ſol
licitudini. Dicono, che il conſeguimento della
ſalute non è poi sì difficile come vuol farſi. In
ganno ! Non è poi sì difficile ? Ma ſe foſſe così,
deſcriverebbeſi dalle Scritture l' eterno Regno,
or qual mercede da conſeguirſi con la fatica,
or qual corona da riportaſi tra le battaglie, or
qual rocca da eſpugnarſi con le armi alla mano ?
Se foſſe così, perchè rinſelvati ſarebbonſi nelle
foreſte tanti uomini ? perchè macerati ſarebbon
ſi con auſterità penoſiſſime tanti penitenti ? per
chè avrebbono tanto temuto, e gli Agoſtini, e
gli Agatoni, e gli Bernardi; Santi di fervore sì
acceſo, e di sì eroica virtù, perchè avrebbono
tanto temuto º Falſo dunque, falſiſſimo, che il
conſeguimento della ſalute non ſia poi sì difficile.
Lo è, dilettiſſimi, e lo è tanto, che indarno ſpera)
ſalute, chi non frena paſſioni, chi non mortifica
ſenſi, chi non annega voleri, chi non vive in ſom
ma giuſta la norma ſevera dell'Evangelio. E ſe co
sì, perchè non ſi eſce d'inganno, perchè non ſi
prendono in negozio si rilevante miſure più giu
ſte? perchè almeno tanto d'induſtria non ſi adopera
per accertare l'eterna felicità, quanto ſe ne ado
pera per accertare la temporale ? Avraſſi dunque
a vedere, dove ſi tratta d'una comparſa efine
ra ſu queſta terra, una ſomma ſollecitudine; e
dove ſi tratta d'una gloria immortale nel Cielo
una ſomma indolenza ? Per quattro giorni di
vita tutto l'impegno, per una cternità interni
- - - - mabile
4 Io Diſcorſo XXII.
nabile niuna premura ? O lumi di ſanta fede,
quando prevalerete alle tenebre del noſtri ſenſi ;
ſenſi ingannatori, quando finirete di tradire la
noſtra fede ! Penſiero di eternità quando ſarà, che
a te cedano i penſieri del tempo!
Di ſtraniezza sì grande non ſa darſene pace il
zelo di Agoſtino, e rivolto a ciechi amatori
del tempo: ſu , dice loro, godetevi pure una
vita tutta in divertimenti, tutta negli agi, con
forme tutta a voſtri capricci: alla morte però
avrete un giorno a ridurvi, e allora, che ſarà
mai di voi, quando perduta vedrete in un con
la vita preſente la beata eternità ! Cum perierit
quod factum eſt, ubi erit amator temporis qui per
didit eternitatem. Certo è, uditori, che ognun
di coſtoro giunto al fin de ſuoi giorni, dovrà
ancor egli con le parole regiſtrare ne' Proverbi º
confeſſare la ſua ſtoltezza: Stultiſſimus ſum viro
Prov. rum, non novi ſcientiam Sanctorum. Miſero me,
3o dovrà dire, ho ſaputo far tutto fuor che ſal
varmi: ſollecito per la famiglia, l'ho ſtabilita:
famelico de piaceri, me ne ſon ſatollato: ingor
do di ricchezze, l' ho rautiate: ma qual prò,
ſe ho ignorata la ſcienza della ſalute, e pazzo
ch'io ſono ſtato, non ho penſato all'eternità:
ho brillato, ho goduto, ho sfoggiato, ma tutto
è finito; io muoro, e quel ch'è peggio, muo
ro in eterno. Si miſerabile, lo ripiglia Agoſtino,
tu muori, e muori in eterno: Non enim mali
quomodo florent ſic pereunt: florent ad tempus, pe
reunt in eternum. E' finito il tempo, che fu tut
to il tuo affare, prova ora l'eternità, cui mai
non penſaſti. Ah, cari uditori, guardici il Cie
lo da una morte sì ſventurata, ma per iſ hivar
la con ſicurezza perſuadiamoci, che ti gli af,
alla
l
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentec. 41r
i fari, che finiſcono con la morte, non ſono af
fari ; quel ſolo è affare, ch'è affare di eternità. E
quindi intendiamo con quanta ragione Sant'Eu
i cherio ci laſciò ſcritto, che di tutti gli errori il
più maſſimo ſi è il traſcurare il negozio della
ſalute: Supra omnem errorem eſt negligere nego
tium ſalutis. Penſiamo adunque, miei dilettiſſi
mi, alla noſtra ſalute, e per penſarvi come ſi
i dee appigliamci al conſiglio di S. Girolamo, di
non riſparmiarci in nulla, dove ſi tratta di aſſi
curare all'anima noſtra ſalvezza eterna: Nulli
i parcas, ut ſoli anima parcas. Sonvi amicizie da
troncare? ſi tronchino: ſonvi occaſioni da fug
gire ? ſi fuggano: ſonvi mali abiti da ſterpare?
); ſterpino: ſonvi ripugnanze da vincere? ſi vin
cano: e ſe anche fa duopo di dare al Mondo
le ſpalle, ſi diano. Non vi ha ſicurezza, che ba
ſti, dove pericola l'eternità. Facciamo tutto per
a ſalvarci, perchè a ſalvarci vi vuole tutto. Quan
ti già ſi ſono perduti: quanti tuttavia ſi perdo
no: e di quanti quì ſiamo perderaſſi niſſuno ?
Io non ſo, ſe non vi ſia tra noi chi non tema,
ma io certamente più che vi penſo più di ti
more mi riempio.
E pien di ſpavento a voi ricorro, Crocifiſſo
a mio bene, ricorro alle voſtre piaghe, ricorro
al voſtro Sangue. Conoſco, che perdo tutto, ſe per
a do l'anima: eppure a perdermi vi vuol poco, e vi
Vuol tutto a ſalvarmi. Che ſarà mai di me, fiacco
; per tante colpe già commeſſe, aſſediato da conti
i novi pericoli, aſſalito da ſempre nuove tentazio
i ni, che ſarà mai di me! Ah mio Gesù, l'unica mia
a ſperanza è in voi: Domine ſalvum me fac. Son
i riſoluto è vero dal canto mio quanto potrò per
i salvare queſt'anima, ma ſenza l'aiuto voſtro è
inutile
º

412 Diſcorſo XXII.


inutile ogni mio sforzo. In voi pertanto, in voi
ripongo ogni mia fiducia, e per caparra di mia
ſalvezza, vi ſupplico a ricevere fin d'ora l'ani
ma mia in quel cuore amabiliſſimo, che adoro
piagato per amor mio.

i -e-i-g- -se= .
D I S C O R S O XXIII.
PER LA DO M EN I CA TERZA
D O P O LA PEN TE CO STE,
Correndo la Feſta di S. Luigi Gonzaga della Compagnia
- di Gesù , 21 Giugno. -

Imitazione di S. Luigi per eſſere ſanti anche


in mezzo al Mondo.
e - -

Si venerit in ſecunda vigilia, ci ſi in tertia vie


gilia venerit, c ita in venerit, beati ſunt ſer
vi illi. Luc. 12,
::ºvº: e Mondo non è poi quel terreno sì
3; sco, che va ſpacciandoſi, terreno,
- 5, in cui ſpuntar non poſſa fiore di ſan
&: 3, tità, no, ricredaſi pur chi ſel pen
2; 4.è34% ſa, non l'è. Anche ſotto a tetti do
- - rati ſà la virtù fiſſare il ſuo albergo,
e trovare anche in mezzo alla magnificenza un
gradito ſoggiorno. Baſti tra i molti a darne chia
re le prove Luigi Gonzaga, che con la ſolenne
memoria, che di lui oggi ricorre, ricordaci una
virtù nel cuor del ſecolo, sì maſſiccia, e sì eroi,
Cd 3
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 41;
ca, che può far invidia a chioſtri più auſteri,
Dico nel cuor del ſecolo: perchè ſebbene giova
ne di diciaſett'anni ſiaſi Luigi dedicato nella mia
minima Compagnia al divin ſervigio, contutto
ciò il ſuo paſſaggio dal ſecolo alla religione al
tro non fu, che un continuare con lena ſempre
i più vigoroſa quella carriera, per cui avviato già
ſi era nel ſecolo, nè altro ebbe ſopra del ſeco
lo la religione, ſe non che queſta, oltre la ſan
tità della vita, potè ancor ammirarne la ſantità
della morte. Per altro che pietà, che innocenza
non die Luigi a conoſcere nel ſen medeſimo di
quel gran Mondo, in cui fu cducato ? Ma ſa
pete come, cari uditori, a diſpetto de tanti vizi,
chc regnan nel Mondo ſerbò Luigi ſempre illi
bato il candor de'coſtumi º Con tre amori : con
l'amore alla ritiratezza, con l'amore alla mortifi
cazione con l'amore all'orazione. Con tre amori,
che furono i cuſtodi della ſua innocenza, viſſe Lui.
gi ſopra tre luſtri in mezzo al Mondo, e viſſe ſanto.
Eccovi adunque, o quanti mi udite obbligati dallo
ſtato, ed all'impiego a vivere nel cuor del ſecolo,
eccovi l'arte di accertare anche nel Mondo ſanta
la vita, e ſanta la morte. Si ami in primo luo
go ad imitazion di Luigi la ritiratezza, ſarà l'ar
gomento del primo punto, ſi ami in ſecondo
luogo la mortificazione, ſarà l'argomento del
ſecondo punto; ſi ami in terzo luogo l'orazio
ne, ſarà l'argomento del terzo punto. Beati noi
ſe in qualunque ora ſia per venire il divin Giu.
dice a chiedere i noſtri conti, ſcorgerà in noi
queſti tre amori: Si venerit in ſeconda vigilia,
e ſi in tertia vigilia venerit, c ita in venerit,
beati ſunt ſervi illi. Cominciamo, -

- -
Per
-
4 I4 Diſcorſo XXIII.
PUN -
Per eſſer ſanti anche in mezzo al Mondo, ſi
i ami ad imitazion di Luigi la ritiratezza. Vive
re nel cuor del ſecolo, e vivere con l'innocen
za nel cuore, pare ad alcuni nulla meno im
poſſibile di quel che ſia o il gelare in mezzo
alle fiamme, o l'ardere in mezzo al gelo. E co
me fia mai, dicono eſſi, che in ſullo ſdruccio
lo di tante occaſioni un giorno, o l'altro non
cadaſi ? come fia, che fra tanti nimici, che ci
combattono, una volta o l'altra, o per ſorpre
“ſa, o per violenza non cadaſi. Come fia, che
in tante ſcoſſe, che ad ogni lato ci vengono,
mai non ſi crolli, mai non ſoccombaſi? Io non
voglio negare, uditori, che nel ſecolo non ſie
no molti gli inciampi, e grandi i pericoli: sì,
lo dico ancor io, che chi vive in mezzo al
Mondo, egli è attorniato da riſchj, e non dà
paſſo, che ſeco non porti qualche timore. Sog
giungo nulladimeno, che ove ſiavi, ove procu
riſi ritiratezza, non è poi sì difficile, e molto
meno impoſſibile come ſi ſpaccia, il ſerbarea'
coſtumi illibato il candore. Se ne volete irrefra
gabile prova eccola dal mio Luigi.
Viſſe pur egli non ſol nel Mondo, ma nel
più gran Mondo; in quel gran Mondo, che
per grandezza più ſignoreggia, per ſplendore più
brilla, e viſſevi nel fior de' ſuoi anni, quando il
ſangue più bolle, più tradiſcono le inchinazio
ni, quando il vizio più facilmente s'inſinua,
quando i pericoli ſono maggiori, pcrchè o men
conoſciuti, o men remuti ; eppure con qual
innocenza egli viſſe! Mai non fu, che colpa gra
ve toglieſſe alla ſua bell' anima quel candore,
di cui non affrettato batteſimo la grazia in
vcſtillo non ancora del tutto nato. Ma queſto è
poco
Per la Dom, terza dopo la Pentecoſte. 415
poco, mai non fu, che di ſuo pieno conſenſo
entraſſe a lordarne il cuore cognoſciuta, e voluta
colpa veniale: baſti dire, che volendo egli con
una confeſſione generale dar conteſa di ſe al Di
rettor del ſuo ſpirito, tutto il proceſſo, che
pote formar de' ſuoi falli a queſto ſolo ſi riduſſe,
di avere in età di quattro o cinque anni proferi
ta qualche parola indecente ſenza intenderne il
ſignificato, di eſſerſi ſervito di polvere altrui per
dar fuoco ad un piccolo pezzo di artiglieria;
colpe nel ſuo concetto sì abbominevoli, che
nell'atto del confeſſarle, per veemenza di con
trizione ne ſvenne; colpe, che finchè viſſe,
mai non ceſſò di lavarne con pianto amaro; col
pe , che ſino all' eſtremo del giorni ſuoi ſcontò
mai ſempre con penitenze auſteriſſime. Che in
nocenza dunque fu mai quella di Luigi, men
tre altri peccati non ebbe a piangere ſe non quel
li, ai quali l'infanzia toglieva ogni ragione di
reato ! Ma ſe ſeppe Luigi ſchivar sì bene ogni
macchia, ſe sì puro, ſe si candido ſerbar ſeppe
il bel giglio di ſua innocenza, a chi dovete pre
gio sì raro, ſe non a quella ritiratezza, di cui ſi
moſtro ſempre sì vago ? Alieno da ogni curio
:
ſità, che diſſipar poteſſe il ſuo ſpirito e nimico
di quelle comparſe, che dal Mondo più ſi ſtima
no, perchè più ſplendide, e più ſtrepitoſe, tan.
to ſi moſtrava contento, quando vivea naſcoſto,
nè mai più dolci ſperimentava le ore, che quan
do gli paſſavano ſolitarie. Qual maraviglia per
tanto, ſe per mezzo d'una vita quanto potè ri
tirata fugendo i pericoli, e cuſtodendo il ſuo
cuore, viſſe in mezzo al gran Mondo, e viſſe
innocente ? -

Ma ſo ben io donde procede, che ad alcuni e


ſembri,
416 Diſcorſo XXIII.
ſembri, e rieſca impoſſibile il mantenere nel ſca
colo illibati i coſtumi; non procede, no, dal
vivere ch'eſſi fanno in mezzo al Mondo, proce
de dal metterſi più che poſſono in viſta di quel
Mondo, in cui vivono. Avvi un divertimento?
vogliono goderne; apreſi un teatro º voglion
trovarviſi; radunaſi tin aſſemblea ? voglion bril
larvi. Nel giorno viſite: fulla ſera paſſeggio: alla
notre converſazioni, e commedie : In caſa il
men che ſi può, in Chieſa quel ſolo che ſi dee:
brama continova non ſo ſe più di vedere, o d'eſº
ſer veduto: tratto libero, ſguardo curioſo, diſ,
corſo lubrico ; in ſomina di ritiratezza non ſe ne
parla, nè ſi vuol udirne parlare; ed il genio tutto
al paſſatempo, tutto alla libertà; lo ſo ancor io,
che in chi vive così, l'innocenza perderà pre
ſto il ſuo fiore. Mettetevi nelle occaſioni, ſpo
netevi ai riſchj , e poi cammini ſe può ſenza
caduta in ſullo ſdrucciolo il piede. Il peggio ſi
è, che queſt'aria di libertà s'iſpira ne figliuoli,
s'iſpira nelle figliuole fin dagli anni loro più
teneri, moſtrandoſi talvolta più di premura, che
iſtruiti fieno delle uſanze del Mondo, che delle
maſſime dell'Evangelio, volendoſi, che ne balli
facciano ancor eſſi la ſua comparſa, permetten
doſi, che intervengano ancor eſſi a teatri, con
ſentendoſi, che trattino con compagni quanto pari
di naſcita, diſſimili altrettanto di educazione:
e con una sì molle condiſcendenza ſi può ſperare
che l'innocenza non iſmariſca punto del ſuo can
dore è folle chi ſel perſuade. Non così certa
mente, non così ſi mantenne illibato Luigi. Fug.
gì la turba più che potè, e ſe pietà, ſe ubbidien.
za, ſe indiſpenſabile convenienza non l'obbli
gava, non curavaſi punto di farſi in viſta del
º - Mondo,
Per la Dom. terza dopo la Pentecoſte. 417
Mondo, ben perſuaſo, che tanto in mezzo al
ſecolo ſerbata ſarebbeſi l'innocenza, quanto pro
curata ſarebbeſi in mezzo al ſecolo ritirata la vita.
E in verità, cari uditori, può egli negarſi,
che i primi sfregi, che all'innocenza ne vengo
no, non derivino d' ordinario da un ſoverchio
trattare col Mondo? Quand'è, o padri, oma
dri, che quel voſtro figliuolo ha cominciato a
ſcuotere il giogo dell'ubbidienza, ed a renderſi
intollerabile in caſa, ſe non allora, che pigliate
quaſi in orrore le pareti domeſtiche, tutto ſi è
dato alle viſite, alle converſazioni, ai ridotti?
V quand' è, che quella figlia ha cominciata ad
aver a nauſea la pietà, e la modeſtia, ſe non
allora quando con ſoverchia condiſcendenza le
ſi permiſe d' intervenire or al teatro, ed or al
ballo, orad una, or ad un altra partita di diverti
mento? col mancare nell' una e nell'altra la
ritiratezza, mancò altresì nell' uno e nel altra
quel luſtro di virtù, che rendeva sì amabili i loro
coſtumi. Nè dovete punto ſtupirne, perchè ſu
bito, che manca la ritiratezza, ſottentra la li
bertà, con la libertà i pericoli, coi pericoli le ca
dute. E però ſe diſſe Ugon Cardinale, che chi
vuol finir di peccare, ſottrarſi dee dai tumulti
del ſecolo: qui vult ſervari a peccatis debet tu
multum Mundi evitare, molte più dec ciò dirſi
di chi non vuol cominciar a peccare, qui vult
ſervari a peccatis debet tumultum Mundi evitare
E' vero, che il far fronte alla gran turba de vi
zj, ſicchè a niuno rieſca d'inſinuarſi nel cuore,
debb'eſſere opera della grazia: Veriſſimo, ma la
grazia, dice Caſſiodoro, ſe ha da riuſcir nell'im
preſa, vuol eſſere in lega con la ritiratezza, e
Ann. lP, Tom. IV. D d allora
- ve
4 Io Diſcorſo XXII.
nabile niuna premura ? O lumi di ſanta fede,
quando prevalerete alle tenebre del noſtri ſenſi ;
ſenſi ingannatori, quando finirete di tradire la
noſtra fede ! Penſiero di eternità quando ſarà, che
a te cedano i penſieri del tempo!
Di ſtraniezza sì grande non ſa darſene pace il
zelo di Agoſtino, e rivolto a ciechi amatori
del tempo: ſu , dice loro, godetevi pure una
vita tutta in divertimenti, tutta negli agi, con
forme tutta a voſtri capricci: alla morte però
avrete un giorno a ridurvi, e allora, che ſarà
mai di voi, quando perduta vedrete in un con
la vita preſente la beata eternità ! Cum perierit
quod factum eſt, ubi erit amator temporis qui per
didit eternitatem. Certo è, uditori, che ognun
di coſtoro giunto al fin de ſuoi giorni, dovrà
ancor egli con le parole regiſtrare ne' Proverbi
confeſſare la ſua ſtoltezza: Stultiſſimus ſum viro
Prov.
rum, non novi ſcientiam Sanéforum. Miſero me,
3o dovrà dire, ho ſaputo far tutto fuor che ſal
varmi: ſollecito per la famiglia, l'ho ſtabilita :
famelico de piaceri, me ne ſon ſatollato: ingor
do di ricchezze, l' ho rautiate: ma qual prò,
ſe ho ignorata la ſcienza della ſalute, e pazzo
ch'io ſono ſtato, non ho penſato all'eternità :
ho brillato, ho goduto, ho sfoggiato, ma tutto
è finito; io muoro, e quel ch'è peggio, muo
ro in eterno. Si miſerabile, lo ripiglia Agoſtino,
tu muori, e muori in eterno: Non enim mali
quomodo florent ſic pereunt: florent ad tempus, pe
reunt in eternum. E' finito il tempo, che fu tut
to il tuo affare, prova ora l'eternità, cui mai
non per ſaſti. Ah , cari uditori, guardici il Cie
lo da una morte sì ſventurata, ma per iſ hivar
la con ſicurezza perſuadiamoci, che tigli af,
alla
Per la Dom. ſeconda dopo la Pentec. 41 r
fari, che finiſcono con la morte, non ſono af
fari ; quel ſolo è affare, ch'è affare di eternità. E
quindi intendiamo con quanta ragione Sant'Eu
cherio ci laſciò ſcritto, che di tutti gli errori il
più maſſimo ſi è il traſcurare il negozio della
ſalute: Supra omnem errorem eſt negligere nego
tium ſalutis. Penſiamo adunque, miei dilettiſſi
mi, alla noſtra ſalute, e per penſarvi come ſi
dee appigliamci al conſiglio di S. Girolamo, di
non riſparmiarci in nulla, dove ſi tratta di aſſi
curare all'anima noſtra ſalvezza eterna: Nulli
parcas, ut ſoli anima parcas. Sonvi amicizie da
troncare? ſi tronchino: ſonvi occaſioni da fug
Agire ? ſi fuggano: ſonvi mali abiti da ſterpare?
ſi ſterpino: ſonvi ripugnanze da vincere? ſi vin
i / cano: e ſe anche fa duopo di dare al Mondo
/ le ſpalle, ſi diano. Non vi ha ſicurezza, che ba
ſti, dove pericola l'eternità. Facciamo tutto per
ſalvarci, perchè a ſalvarci vi vuole tutto. Quan
ti già ſi ſono perduti: quanti tuttavia ſi perdo
no: e di quanti quì ſiamo perderaſſi niſſuno ?
Io non ſo, ſe non vi ſia tra noi chi non tema,
ma io certamente più che vi penſo più di ti
more mi riempio.
E pien di ſpavento a voi ricorro, Crocifiſſo
, mio bene, ricorro alle voſtre piaghe, ricorro
al voſtro Sangue. Conoſco, che perdo tutto, ſe per
do l'anima: eppure a perdermi vi vuol poco, e vi
vuol tutto a ſalvarmi. Che ſarà mai di me, fiacco
per tante colpe già commeſſe, aſſediato da conti
novi pericoli, aſſalito da ſempre nuove tentazio
ni, che ſarà mai di me! Ah mio Gesù, l'unica mia
ſperanza è in voi: Domine ſalvum me fac. Son
riſoluto è vero dal canto mio quanto potrò per
ſalvare queſt'anima, ma ſenza l'ajuto voſtro è
inutile
412 Diſcorſo xxii.
inutile ogni mio sforzo. In voi pertanto, in voi
ripongo ogni mia fiducia, e per caparra di mia
ſalvezza, vi ſupplico a ricevere fin d'ora l'ani
ma mia in quel cuore amabiliſſimo, che adoro
piagato per amor mio.

D I S C O R S O XXIII.
PER LA DO M EN I CA TERZA
D OPO LA PEN TE CO STE,
Correndo la Feſta di S. Luigi Gonzaga della Compagnia
- di Gesù , 21 Giugno.
Imitazione di S. Luigi per eſſere ſanti anche
in mezzo al Mondo.
-

Si venerit in ſecunda vigilia, ci ſi in tertia vie


gilia venerit, c ita in venerit, beati ſunt ſer
vi illi. Luc. 12, -

ºvº: e Mondo non è poi quel terreno sì


& 3;
º º
rco, che va ſpacciandoſi, terreno,
in cui ſpuntar non poſſa fiore di ſan
s: ;, tità, no, ricredaſi pur chi ſel pen
3 e 34% ſa, non l'è. Anche ſotto a tetti do
rati ſà la virtù fiſſare il ſuo albergo,
e trovare anche in mezzo alla magnificenza un
gradito ſoggiorno. Baſti tra i molti a darne chia
re le prove Luigi Gonzaga, che con la ſolenne
memoria, che di lui oggi ricorre, ricordaci una
virtù nel cuor del ſecolo, sì maſſiccia, e sì eroi,
Cd 3
Per la Domen. ſeconda dopo la Pentecoſte. 41;
o ca, che può far invidia a chioſtri più auſteri,
i Dico nel cuor del ſecolo: perchè ſebbene giova.
i ne di diciaſett'anni ſiaſi Luigi dedicato nella mia
i minima Compagnia al divin ſervigio, contutto
ciò il ſuo paſſaggio dal ſecolo alla religione al
tro non fu, che un continuare con lena ſempre
più vigoroſa quella carriera, per cui avviato già
ſi era nel ſecolo, nè altro ebbe ſopra del ſeco
i lo la religione, ſe non che queſta, oltre la ſan
tità della vita, potè ancor ammirarne la ſantità
della morte. Per altro che pietà, che innocenza
non die Luigi a conoſcere nel ſen medeſimo di
\ quel gran Mondo, in cui fu cducato ? Ma ſa
i )pete come, cari uditori, a diſpetto de tanti vizj,
che regnan nel Mondo ſerbò Luigi ſempre illi
bato il candor de'coſtumi º Con tre amori : con
/ l'amore alla ritiratezza, con l'amore alla mortifi
cazione con l'amore all'orazione. Con tre amori,
che furono i cuſtodi della ſua innocenza, viſſe Lui.
gi ſopra tre luſtri in mezzo al Mondo, e viſſe ſanto.
Eccovi adunque, o quanti mi udite obbligati dallo
ſtato, ed all'impiego a vivere nel cuor del ſecolo,
eccovi l'arte di accertare anche nel Mondo ſanta
la vita, e ſanta la morte. Si ami in primo luo
go ad imitazion di Luigi la ritiratezza, ſarà l'ar.
gomento del primo punto, ſi ami in ſecondo
i luogo la mortificazione, ſarà l'argomento del
ſecondo punto; ſi ami in terzo luogo l'orazio
ne, ſarà l'argomento del terzo punto. Beati noi
ſe in qualunque ora ſia per venire il divin Giu.
dice a chiedere i noſtri conti, ſcorgerà in noi
queſti tre amori: Si venerit in ſeconda vigilia,
& ſi in tertia vigilia venerit, ci ita in venerit,
, beati ſunt ſervi illi. Cominciamo,
-
Per
4 I4 Diſcorſo XXIII.
-

PUN Per eſſer ſanti anche in mezzo al Mondo, ſi


roI. ami ad imitazion di Luigi la ritiratezza. Vive
re nel cuor del ſecolo, e vivere con l'innocen
za nel cuore, pare ad alcuni nulla meno im
poſſibile di quel che ſia o il gelare in mezzo
alle fiamme, o l'ardere in mezzo al gelo. E co
me fia mai, dicono eſſi, che in ſullo ſdruccio
lo di tante occaſioni un giorno, o l'altro non
cadaſi ? come fia, che fra tanti nimici, che ci
combattono, una volta o l'altra, o per ſorpre
ſa, o per violenza non cadaſi. Come fia, che
in tante ſcoſſe, che ad ogni lato ci vengono,
mai non ſi crolli, mai non ſoccombaſi? Io non
voglio negare, uditori, che nel ſecolo non ſie
no molti gli inciampi, e grandi i pericoli: sì,
lo dico ancor io, che chi vive in mezzo al
Mondo, egli è attorniato da riſchj, e non dà
paſſo, che ſeco non porti qualche timore. Sog
giungo nulladimeno, che ove ſiavi, ove procu
riſi ritiratezza, non è poi sì difficile, e molto
meno impoſſibile come ſi ſpaccia, il ſerbare a
coſtumi illibato il candore. Se ne volete irrefra
gabile prova eccola dal mio Luigi.
Viſſe pur egli non ſol nel Mondo, ma nel
più gran Mondo; in quel gran Mondo, che
per grandezza più ſignoreggia, per ſplendore più
brilla, e viſſevi nel fior de' ſuoi anni, quando il
ſangue più bolle, più tradiſcono le inchinazio
ni, quando il vizio più facilmente s'inſinua,
quando i pericoli ſono maggiori, pcrchè o men
conoſciuti, o men remuti ; eppure con qual
innocenza egli viſſe! Mai non fu, che colpa gra
ve toglieſſe alla ſua bell' anima quel candore,
di cui non affrettato batteſimo la grazia in
veſtillo non ancora del tutto nato. Ma queſto è
pOCO
Per la Dom, terza dopo la Pentecoſte. 415
poco, mai non fu, che di ſuo pieno conſenſo
entraſſe a lordarne il cuore cognoſciuta, e voluta
colpa veniale: baſti dire, che volendo egli con
una confeſſione generale dar conteſa di ſe al Di
rettor del ſuo ſpirito, tutto il proceſſo, che
pote formar de' ſuoi falli a queſto ſolo ſi riduſſe,
di avere in età di quattro o cinque anni proferi
ta qualche parola indecente ſenza intenderne il
ſignificato, di eſſerſi ſervito di polvere altrui per
dar fuoco ad un piccolo pezzo di artiglieria;
colpe nel ſuo concetto sì abbonninevoli, che
nell'atto del confeſſarle, per veemenza di con
trizione ne ſvenne; colpe, che finchè viſſe,
mai non ceſſò di lavarne con pianto amaro; col
pe , che ſino all'eſtremo del giorni ſuoi ſcontò
mai ſempre con penitenze auſteriſſime. Che in
nocenza dunque fu mai quella di Luigi, men
tre altri peccati non ebbe a piangere ſe non quel
li, ai quali l'infanzia toglieva ogni ragione di
rcato ! Ma ſe ſeppe Luigi ſchivar sì bene ogni
macchia, ſe sì puro, ſe si candido ſerbar ſeppe
il bel giglio di ſua innocenza, a chi dovete pre
giosì raro, ſe non a quella ritiratezza, di cui ſi
moſtro ſempre sì vago º Alieno da ogni curio
ſità, che diſſipar poteſſe il ſuo ſpirito e nimico
di quelle comparſe, che dal Mondo più ſi ſtima
no, perchè più ſplendide, e più ſtrepitoſe, tan.
to ſi moſtrava contento, quando vivea naſcoſto,
nè mai più dolci ſperimentava le ore, che quan
do gli paſſavano ſolitarie. Qual maraviglia per
tanto, ſe per mezzo d'una vita quanto potè ri
tirata fugendo i pericoli, e cuſtodendo il ſuo
cuore, viſſe in mezzo al gran Mondo, e viſſe
innocente ? -

Ma ſo ben io donde procede, che ad alcuni e


ſembri,
416 Diſcorſo XXIII.
ſembri, e rieſca impoſſibile il mantenere nel ſca
colo illibati i coſtumi; non procede, no, dal
vivere ch'eſſi fanno in mezzo al Mondo; proce
de dal metterſi più che poſſono in viſta di quel
Mondo, in cui vivono. Avvi un divertimento º
vogliono goderne; apreſi un teatro º voglion
trovarviſi; radunaſi un aſſemblea? voglion bril
larvi. Nel giorno viſite: fulla ſera paſſeggio: alla
notte converſazioni, e commedie: In caſa il
men che ſi può, in Chieſa quel ſolo che ſi dee:
brama continova non ſo ſe più di vedere, o d'eſº
ſer veduto: tratto libero, ſguardo curioſo, diſ,
corſo lubrico ; in ſomina di ritiratezza non ſe ne
parla, nè ſi vuol udirne parlare; ed il genio tutto
al paſſatempo, tutto alla libertà; lo ſo ancor io,
che in chi vive così, l'innocenza perderà pre
ſto il ſuo fiore. Mettetevi nelle occaſioni, ſpo
netevi ai riſchj , e poi cammini ſe può ſenza
caduta in ſullo ſdrucciolo il piede. Il peggio ſi
è, che queſt'aria di libertà s'iſpira ne figliuoli,
s'iſpira nelle figliuole fin dagli anni loro più
teneri, moſtrandoſi talvolta più di premura, che
iſtruiti fieno delle uſanze del Mondo, che delle
maſſime dell'Evangelio, volendoſi, che ne balli
facciano ancor eſſi la ſua comparſa, permetten
doſi, che intervengano ancor cſſi a teatri, con
ſentendoſi, che trattino con compagni quanto pari
di naſcita, diſſimili altrettanto di educazione:
e con una sì molle condiſcendenza ſi può ſperare
che l'innocenza non iſmariſca punto del ſuo can
dore è folle chi ſel perſuade. Non così certa
mente, non così ſi mantenne illibato Luigi. Fug.
gì la turba più che potè, e ſe pietà, ſe ubbidien.
za, ſe indiſpenſabile convenienza non l'obbli
gava, non curavaſi punto di farſi in viſta del
º, - Mondo,
Per la Dom, terza dopo la Pentecoſte. 417
Mondo, ben perſuaſo, che tanto in mezzo al
ſecolo ſerbata ſarebbeſi l'innocenza, quanto pro
curata ſarebbeſi in mezzo al ſecolo ritirata la vita.
E in verità, cari uditori, può egli negarſi,
che i primi sfregi, che all'innocenza ne vengo
º no, non derivino d' ordinario da un ſoverchio
trattare col Mondo? Quand'è, o padri, oma
dri, che quel voſtro figliuolo ha cominciato a
ſcuotere il giogo dell'ubbidienza, ed a renderſi
intollerabile in caſa, ſe non allora, che pigliate
quaſi in orrore le pareti domeſtiche, tutto ſi è
dato alle viſite, alle converſazioni, ai ridotti?
quand'è, che quella figlia ha cominciata ad
aver a nauſea la pietà, e la modeſtia, ſe non
allora quando con ſoverchia condiſcendenza le
ſi permiſe d' intervenire or al teatro, ed or al
ballo, orad una, or ad un altra partita di diverti
mento? col mancare nell' una e nell'altra la
ritiratezza, mancò altresì nell' uno e nel altra
quel luſtro di virtù, che rendeva sì amabili i loro
coſtumi. Nè dovete punto ſtupirne, perchè ſu
bito, che manca la ritiratezza, ſottentra la li
bertà, con la libertà i pericoli, coi pericoli le ca
dute. E però ſe diſſe Ugon Cardinale, che chi
vuol finir di peccare, ſottrarſi dee dai tumulti
del ſecolo: qui vult ſervari a peccatis debet tu
multum Mundi evitare, molte più dec ciò dirſi
di chi non vuol cominciar a peccare, qui vule
ſervari a peccatis debet tumultum Mundi evitare
E' vero, che il far fronte alla gran turba de vi
zj, ſicchè a niuno rieſca d'inſinuarſi nel cuore,
debb'eſſere opera della grazia: Veriſſimo, ma la
grazia, dice Caſſiodoro, ſe ha da riuſcir nell'im
preſa, vuol eſſere in lega con la ritiratezza, e
Ann. IV, Tom. IV. D d allora
- vº
418 Diſcorſo XXIII,
allora anche ſenza combattere tien lontano il ni
mico: Nimia turba vitiorum ſine certamine vin
citur, quando ſolitudo grati e ſuffragatur. Eccovi
dunque, cari uditori, l'arte ſicura di conſerva
re all'innocenza il ſuo luſtro. Sia ritirata la vita ,
e ſarà innocente. Ma ſe perder ſi voglion i giorni
in comparſe, ed in viſite, ſe ſi vuol tutto di reſpirar
aria di Mondo, non fia maraviglia, uditori, ſe l'in
nocenza ſi ſcolora, ſe la virtù ſiſmariſce, ſe le paſ
ſioni ſi avvalorano, ſe il vizio s'inſinua: Reca egli
ſtupore, che ſvapori balſamo non rinchiuſo, non
cuſtodito ? che finiſca tra le fauci di un lupo
pecorella, che ſcorre di prato in prato è che in
niuno ſcoglio ella rompa nave, che ad ogni ven
to conſegnali ? Libertà, e innocenza non ſono
andate mai di conſerva, nè vi anderanno giam
mai ; che ſe a taluno, a taluna ancor ſembra im
poſſibile l'accoppiare con il Mondo la ritiratezza,
che altro poſs'io fare, ſe non rivolgermi a voi,
Gesù caro, che per amore della ritiratezza me:
naſte per ben trent'anni una vita naſcoſta.
Voi co' voſtri lumi fate conoſcere a quanti
quì ſiamo, che per iſcampar da pericoli, dei
quali il ſecolo è pieno, ella è neceſſaria una
vita più che ſi può ritirata. Ah, che la libertà ſeb
ben vi penſiamo, è ſtata purtroppo la cagio
ne funeſta de paſſati nostri diſordini! Quanto l'a-
vreſſimo paſſata meglio con voi, ſe aveſſimo
trattato meno col Mondo Deh , Gesù amabiliſ
ſimo, per quelle piaghe ſantiſſime, che ne vo
ſtri piedi adoriamo, darci grazia, che amore
di libertà non s'impoſſeſſi d l noſtro cuore; ſic
chè trattando men che poſſiamo col Mondo, ci
aſſicuriamo di ſtare ſempre con voi. Si
z
Per la Domen. terza dopo la Pentcoſte. 4io
Si ami ad imitazione di Luigi la mortifica “e
zione. Per quanto la ritiratezza ſi ami, pure Puºi
chi vive nel Mondo non può a meno, che colº
Mondo non tratti ſpeſſo. Gl' impieghi, gli affari,
le convenienze, gli eſercizj medeſimi di pietà,
di carità, di religione traggono ſotto agli occhi
del pubblico anche i più bramoſi di una vita na
ſcoſta. E tanto appunto avvenne anche a Luigi.
Amantiſſimo ch'egli era d'una vita ritirata, non
potè nulla dimeno ſottrarſi dal comparire ſpeſſo
in viſta del Mondo . Vi comparve nella rocca
paterna di Caſtiglione, corteggiato da ſudditi:
vi comparve nella corte di Spagna paggio di
quelle Cattoliche Maeſtà: vi comparve in queſta
noſtra Città accoltovi con ogni moſtra di ono
re dalla nobiltà, e dalla corte: vi comparve in
Mantova le tante volte: vi comparve per più
meſi in Milano: vi comparve per due anni in
Firenze: Ma che ſeppe egli ben fare le ſue com
parſe in maniera, che non ne ſcapitaſſe mai
punto il bel candor de'coſtumi: mercè una mor
tificazione continova delle paſſioni, e de ſenſi
fè ſervire sì bene alla virtù le ſue comparſe
medeſime, che non ſaprei d'onde maggiori
traeſſe i vantaggi, ſe dalla luce del pubblico, o
dalle tenebre della ſolitudine.
Ognun ſa, che a danni di chi tratta col Mon
do, congiurano collegate concupiſcenza e ſu
- perbia, mirando queſta a renderci ſchiava la
mente, e quella il cuore. Ma qual delle due
potè vantarſi di aver fatta nell'animo di Luigi
una braccia anche menoma? La ſuperbia, no:
perchè Luigi non fe mai caſo, nè di pompe,
nè di onori, nè di applauſi, nè di grandezze ;
anzi diſprezzator generoſo di tutto quel lumi
Dd 2 noſo,
42e Diſcorſo XXIII,
noſo, che dal Mondo ſi pregia, mai non com
parve in viſta del pubblico, che in umile por
tamento, e in abito non ſolo dimeſſo, ma ta
lor anche logoro. Miratelo in Mantova, rinun
ziar il principato con più di giubilo, che altri
non moſtrerebbe in riceverlo. Miratelo in Mila
no ſu un vil giumento cercar gl'inſulti più, che
altri non farebbe gli onori. Quanto tra le umi
liazioni tripudia, altrettanto tra le lodi ſi riſen
te, ſi arroſſiſce, ſi affligge; ne mai gli pare di
far di ſe pompa più bella, che quando o men
ſi vede onorato, o più vilipeſo. Or in un cuo
re sì alieno da quanto ſa di vanità, ed albagia,
e sì inchinato al diſprezzo del Mondo, e di ſe,
penſate, ſe potè mila ſuperbia trovar acceſſo !
Ma ſe contro il fumo della ſuperbia ſeppe
Luigi sì ben guardare la ſua mente, meglio
ancora egli ſeppe contro il fuoco della con
piſcenza guardar il cuore. Facciane fede quella
purità illibatiſſima da lui in età di nov'anni
conſecrata con voto perpetuo alla Reina de Ver
gini Maria Santiſſima, e conſervata poi ſempre
con tal candore, che mai non giunſe ad ap
pannarla, o un moto men puro, o un meno
neſto fantaſma, o un penſiero men caſto, o un
affetto meno modeſto; pregio sì raro, che ſe
ſarebbe ammirabile, in chi paſſaſſe negli eremi,
e ne deſerti anni canuti, argomentate quanto
lo fu in un giovane di fervida compleſſione, al
levato nelle corti, viſſuto nel cuor del ſecolo.
Ben è vero, che non poco li coſtò la coltura
di sì bel fiore: gli coſtò un tal riſerbo a ſuoi
ſguardi, che non ſolo non fiſſonne mai uno in
volto di Donna, ma di più interdetta loro vol
le qualunque curioſità: gli coſtò un tal risl
Per la Dom. terza dopo la Pentecoſte. 421
di aſtinenza, che oltre i diugini d'ogni vener
dì in pane ed acqua, il ſuo cibo d'ogni dì fu
sì ſcarſo, che per lungo tempo non eccedè il
peſo di un oncia: gli coſtò un trattamento sì
auſtero del dilicato ſuo corpo, che ne tormen
tava i fianchi, giacchè gli mancavano cilizj,
co' ſproni da cavalcare ne lacerava gli omeri,
giacchè gli mancavan flagelli, con laſſe di ca
ni, ne inquietavano i ripoſi con naſcondere ſot
to ai morbidi lini aſſe ſpezzate, ne martiriz
zava col freddo le membra, ſottracndo loro
nelle vernate più rigide ogni riſtoro. Ma intan
to ci diº a vedere, che chi alle paſſioni, ed ai
ſenſi ſa con la mortificazione muover la guer
ra, può far in maniera, che dome, e diſar
mate le due nemiche della virtù concupiſenza,
e ſuperbia, campeggi e trionfi anche in mez
zo del ſecolo una bella innocenza.
Sia pur dunque vero, uditori, che in mezzo
del Mondo non ſi poſſa a meno di non tratta
re col Mondo. Volete voi, che il trattare col
Mondo non pregiudichi alla virtù è Fate in mo
do, che nel trattare col Mondo vi ſiegua in
diviſibile compagna la mortificazione Criſtiana.
Io non dico già, uditori, che uſiate con voi
quel rigore, che usò ſeco ſteſſo Luigi: ſebbene
che non dovrebbe far chi ha peccato, ſe tan
to ha fatto un innocente? Pur no: dico ſolo,
che nel trattare col Mondo dovete guardarvi
ancor voi, che nè col ſuo fumo la ſuperbia vi
acciechi, nè col ſuo fuoco la concupiſcenza vi
avvampi; e perchè nè l'un nè l'altro ſchivar ſi
può, ſe la mortificazione non tien in regola le
paſſioni, e in freno i ſenſi, dico, che nel trat
tare col Mondo regolar vi dovete in maniera,
- Dd 3 che
422 Diſcorſo XXIII.
che ſempre ſi avveri quel dell'Appoſtolo: Sem
per mortificationem Jeſu in corpore noſtro circum
ferentes.
E in verità, ſe vogliamo diſcorrerla ſenz'a-
dularci, qual è la ragione, uditori, per cui rieſ
ce sì ſpeſſo nocivo alla vittù il trattare col
Mondo? e qui parlo di quel trattare col Mon
do, ch'è portato da neceſſità, da convenienza,
da obbligazione di ſtato: Sì, d'onde viene, che
queſto e si ſpeſſo nocivo alla virtù è Se vi ri
flettiamo con ſerietà, troveremo, che viene dal
trattare col Mondo ſenz' alcuna riſerva, e non
ſi penſa, che a contentar il genio, ad ap
pagar i ſenſi, a ſoddisfar le paſſioni: ſi vuol
veder tutto, parlar di tutto, trattar con tut
ti: cento attacchi alla roba, cento agli onori, cento
ai piaceri,ſenza riflettere nè al nulla, che ſon queſti
beni, nè ai diſturbi, che recano, nè alle conſeguen
ze, che portano. Ma, e chi ne dubita, che il
camminare con queſti paſſi ſarà non ſolo un
dilungarſi dalla via della virtù, ma un perderla
affatto di viſta ? Sia, miei dilettiſſimi, ſia la
mortificazione in ogni coſa, in ogni tempo,
in ogni luogo la voſtra guida, la voſtra com
pagna, e allora dal trattare col Mondo non ſo
lo non ne anderà con diſcapito la virtù, ma ne
riporterà eziandio vantaggio e luſtro. Attende
te agli affari, ma in modo che nè la vanità
vi ſolletichi nè vi domini l'intereſſe; eſercitate i
voſtri impieghi, ma in modo, che nè l'am
bizione vi gonfi, nè vi alteri l'impazienza ; pro
movete i voſtri traffichi, ma in modo, che nè
ingiuſtizia vi aggravi, nè avarizia vi acciechi.
Vuol convenienza, che ſi facciano viſite, e che
ſi ricevano: ma abbiano gli ſguardi il ſuo fre
IlO
Per la Dom. terza dopo la Pentecoſte. 423
no, e le parole il ſuo peſo i giudicate ſpediente,
che qualche divertimento ſi prenda, ma lo ac
compagni modeſtia, e moderazion lo miſuri.
In ſomma ſe ſi ha da trattare col Mondo, ſi
tratti, ma ſempre con tal dominio delle paſ.
ſioni, con tal cuſtodia de ſenſi, che in voi non
veggaſi attacco alcuno a quel Mondo, con cui
trattate. Se no, l'eſſer nel Mondo, e il dover
trattare col Mondo non vi ſcuſerà punto al Tri
bunale di Dio, ſe torcerete dal ſentiero della
virtù : no, dilettiſſimi, non vi ſcuſerà, perchè
vi farà Dio vedere, che ſe abbracciata ſi foſſe
la mortificazione dell'Evangelio, sì, raccoman
data anche in mezzo al Mondo, avreſte potu
to eſſer ſanti. Voi direte, che quel ſempre mor
tificarſi è coſa dura, che troppo rincreſce, che
troppo coſta; ah, cari uditori, ſeguaci, che ſia
mo di un Dio viſſuto fra ſtenti, e morto tra ſpa
ſimi, non ci arroſſiamo di parlare così!
O Gesù caro, che torto è mai queſto, che
vi facciamo, che grave torto! Sappiam le pe.
ne, che voi innocentiſſimo, e ſantiſſimo avete
ſofferte, e noi carichi di peccati abbiamo in or
rore il mortificarci ! Voi, che non avevate a te
mer nulla del Mondo, pur voleſte una morti
ficazione continova, e noi, che in mezzo al
Mondo abbiamo tanto a temere delle ſue lu
ſinghe, de' ſuoi inganni, nulla più fuggiremo,
che una vita mortificata? Ah no, Gesù addolo
rato, più non ſi vegga in noi un diſordine sì
lagrimevole, ſiam riſoluti di praticare ancor noi
quella mortificazione, che voi con le parole,
e coll'eſempio inſegnata ci avete. Dateci voi
quel coraggio, che ci è neceſſario: vel do
mandiamo per quelle piaghe ſantiſſime, che
Dd 4 nelle
424 Diſcorſo XXIII.
nelle voſtre Mani adoriamo; ſicchè per mezzo
d'una ſanta mortificazione viviamo in mezzo al
Mondo in maniera, che il Mondo non c'impe
a diſca di vivere a voi, e con voi.
pus- Si ami ad imitazion di Luigi l'orazione. Ec
zo III. come chiariſſima la ragione. Mercè la colpa di
origine, che infettò l'eſſer noſtro, con due mi
ſere qualità ſiam venuti alla luce signoranza, e
fiacchezza. L'ignoranza non ci laſcia conoſcere
ciò, che far debbaſi, nè ciò, che debba fuggirſi,
nè ciò, che meriti ſtima, nè ciò, che chiegga
diſpregio ; e quand'anche lo conoſceſſimo, la
fiacchezza noſtra è sì grande, che non abbia
mo da noi forze, che baſtino nè per ſottrarci
dal male, nè per imprenderne il bene. Vi vuol
dunque, uditori, da una parte lume, che ſgom
bri la noſtra ignoranza; vi vuol dall'altra vigo
re, che avvalori la noſtra fiacchezza. Or d' on
de trarremo noi queſto lume, che ci riſchiari?
D'onde queſto vigore, che ci rinforzi? dall'o-
razione, miei dilettiſſimi, dall'orazione. In quan
to ella è conſiderazione dell'eterne verità, ci por
ge lume, e fa conoſcere quanto ſia amabile, e
quanto diſpregievole il Mondo: quanto la virtù
ſia bella, e quanto deforme il vizio: quanto ter
ribili ſieno i gaſtighi minacciati agli empi, e
quanto grandioſe le ricompenſe promeſſe ai giu
ſti. In quanto poi ella è domanda degli ajuti
divini, ci dà vigore, e ci ottiene con la ſua ef
ficacia que rinforzi, che dan lena per battere
con piè coſtante le vie della ſalute. Poſto ciò,
chi non vede, tanto eſſere neceſſaria al ben vi
vere l'orazione, quanto per vedere è neceſſaria
la luce, e per operare la forza.
- Appreſe
Per la Domen, terza dopo la Pentecoſte. 42;
Appreſe pur bene una verità sì importante il
mio Luigi, e non in altra ſcuola l'appreſe, che
in quella dello Spirito Santo, perchè l'appreſe
fin da fanciullo. Ancor non potea con la lingua
parlar bene con gli uomini, che già ſapea col
cuore parlar con Dio. Che bel vederlo era mai
in età di cinque, di ſei anni, ora in un angolo
de' più naſcoſti, ora ſu un ſolajo de più rimoti
paſſare orando le intere ore ! Creſciuto poi col
creſcere dell'età l'amore all'orazione, chi può
ridire il tempo, che vi ſpendea, chi le delizie,
che vi provava, chi i vantaggi, che ne traeva,
ch'il fervore, chi l'attenzione, con cui tutti in
eſſa impegnava i ſuoi ſenſi, tutte le ſue poten
ze ? Si ſa pure, che orando paſsò talvolta ſen
za avvederſene le cinque, le ſei ore continove.
Si ſa, che trasfondendoſi anche nel volto le vam
pe del cuore, moſtrava anche al di fuori l'in
cendio, che lo ſtruggeva al di dentro. Si ſa,
che ſciogliendo in due fonti di lagrime gli oc
chi, sfogava tra dolci ſoſpiri i ſuoi fervidi af
fetti. Si ſa, che nel ſuo Dio rimanea sì aſſorto,
che ſe in tal tempo paſſavano per la camera ſer
vidori, non ſi avvedea, ſe lo chiamavano, non
udiva, ſe lo ſcoteano, non riſentiva ſi Si ſa fi
nalmente, che non men immobile col corpo nel
luogo, in cui era, che fiſſo con l'animo in quel
Dio, a cui penſava, ben di rado provò, che
penſiero importuno lo diſtraeſſe. Qual maravi
glia pertanto ſe orazioni sì fervide impetraron
mai ſempre, com'egli ſteſſo lo confeſsò, quanto
ſeppe mai chiedere! Qual maraviglia ſe da queſte
traendo lumi ſempre più vivi, e affetti ſempre più
acceſi, quanto più crebbe in amor verſo Dio, tanto
più concepì di alienazione dal Mondo, ſino a riſol
- VCiſlC
426 Diſcorſo XXIII.
verne un abbandonamento totale! E quì sì, che
ſi vide qual foſſe, non ſo ſe più la coſtanza del
ſuo animo, o l'efficacia delle ſue orazioni. Alla
propoſta, che fe Luigi di ritirarſi dal Mondo,
che non fece il Principe ſuo padre per diſtorlo
dal pio propoſito! Lo accoglie con rimproveri,
e con minacce: Luigi tace, ma intanto pre ga;
tenta di diſtraerlo con viaggi: Luigi ubbidiſce,
ma intanto prega, fa che a diſſuaderlo ſi uni
ſcano i Principi ſuoi congiunti: Luigi gli aſcol
ta, ma ſempre ſaldo, più che incontra difficol
tà, più rinnova le ſuppliche: ſcorgendo il pa
dre vana ogni induſtria dà nelle ſmanie, lo ca
rica di villania, lo ributta, lo caccia da ſe: Lui
gi partes e avvalorando con aſpri flagelli le ſue
preghiere, mentre ſpinge al Cielo fervori ſo
ſpiri, allaga il pavimento deila ſua camera non
men di lagrime, che di ſangue. Ed ora sì, o Lui
gi, che le voſtre orazioni l'han vinta. Intene
rito a sì pietoſo ſpettacolo il padre ſi ſtrugge in
pianto, e altro ſdegno più non gli reſta nel cuo
re, ſe non contro ſe ſteſſo, per gli aſpri trat
tamenti uſati col Santo ſuo figlio. Ite ora, o Lui
gi, e godetevi pure nell'ottenuto conſenſo il
dolce frutto delle voſtre orazioni. Perdonatemi
intanto, ſe or che cominciano i fervori voſtri più
acceſi, or che le voſtre virtù più campeggiano,
io finiſco di ragionare di voi. So, ch'è piccola
voſtra lode il dir ſolamente ciò, che foſte nel
ſecolo, ma non ſarà certamente vantaggio picco
lo di chi vive nel ſecolo. ſe ſtudieraſſi di eſſere
qual voi foſte, amante non ſolo della ritiratez
za, e della mortificazione, ma quel che più im
porta dell'orazione. Sì, miei dilettiſſimi, avete
udito quanto a Luigi ſteſie a cuor l'orazione,
e nulla
Per la Domen. terza dopo la Pentecoſte. 427
e nulla meno dee queſta ſtar a cuore anche a
voi. Imdarno, vedete, indarno ſi ſpera di met
tere nelle vie, che battonſi ſicuro il piede, ſe
non ſi prega , perchè ſe non ſi prega, ſempre
vi mancherà lume, che v'indrizzi, e forza, che
vi ſoſtenga. S'ingannan pure a partito certuni,
che ſegnando la via de'Comandamenti divini con
più cadute, che paſſi, chiamano quaſi neceſſità
del ſuo ſtato la loro diſdetta. Miſeri noi, vanno
dicendo, egli è pure un brutto vivere in mezzo
al Mondo; più che fuggiamo i pericoli, più pare
che queſti c'incontrino, e per quanto riſolvia
mo di ſtar in piedi, tutto all'improvviſo eccoci
a terra: fortunati almeno i Religioſi, che col
ritirarſi, che han fatto dal Mondo, paſſano fuor
d ogni inciampo ſicuri i loro giorni. Ma voi,
che la diſcorrete così, riſpondete un pò a me:
meditate voi mai le maſſime eterne, chiedete
voi ſpeſſo a Dio gli ajuti, che vi abbiſognano;
in una parola, fate voi orazione ? Orazione, o
Padre, noi ſecolari in tanti affari, in tante fac
cende ? V intendo ; e voi vi dolete del voſtro
ſtato, del voſtro Mondo? doletevi di voi, per
chè di voi tutta è la colpa. Com'è poſſibile,
che non diate attraverſo, che non cadiate, ſe
mancandovi l'orazione, vi manca lume, che
vi diriga, vi manca forza, che vi avvalori. Quei
Religioſi medeſimi, che voi dite fortunati, per
chè fuori del Mondo, con tutta l'auſterità dei
loro chioſtri eſſer non poſſon buoni ſenza ora
zione. Penſate poi ſe potrà ſenza orazione eſſer
buono nella libertà del ſuo Mondo un ſecolare.
Cari miei uditori, io vorrei queſta ſera, che que
ſta verità s'intendeſſe: ſenza orazione non ſarà
mai ſanta la vita, perchè ſenza orazione non ſi
- rICc
423 Diſcorſo XXIII
ricevono quegli ajuti, dai quali dipende la ſan:
tità della vita; e ſe la vita non ſarà ſanta, cari
uditori miei, ſarà ella ſanta la morte ?
O Gesù caro imprimeteci voi nella mente una
verità sì importante. Si tratta di troppo, dove
ſi tratta della ſantità della vita, e della ſantità
della morte. Fateci ben capire la neceſſità, in
cui ſiamo di far orazione, e dateci inſieme gra
zia di farla in modo, che ſia di voſtro gradi
mento, e di noſtro vantaggio. Ve ne preghia
mo per quella piaga ſantiſſima, che nel voſtro
Coſtato adoriamo: e voi, o Luigi, che faceſte
dell'orazione un caro continovo paſcolo alla
voſtra bell'anima, ottenete anche a noi, che l'a-
miamo di cuore, e coſtantemente la pratichia
mo: affinchè ſeguendo gli eſempi, che di que
ſta ci avete dati, ci aſſicuriamo ancor noi con
la ſantità della vita la ſantità delle morte,

DI
429

3EEE: EEE:::::::
D I S C O R S O XXIV.
PER LA D o MENICA QUARTA
D O P O LA PEN TE COSTE.

Tre Accuſatorj al Giudizio.

Per totam notem laborantes nihil capimus.Luc. s.


i E altro di terribile, non aveſſe la
ili morte, che i dolori che la prece
se i ii dono, e le agonie, che l'accom
i : pagnano, ſe tutto il penoſo di
iSi- " quell' eſtremo inevitabile taglio
$T-gi finiſce in ſoffrir molto, e ſepa
- rarſi da tutto, io vorrei ancora
compatire quelle anime ſpenſierate, che non ſi
moſtrano punto ſollecite di provvederſi di ſante
ſopere. Ma quando mi fo a riflettere a quel tri
bunale tremendo, che nel compirſi della lor vita
le nſpetta, io non ſo intendere, come accoſtarſi
poſſano a quel gran paſſo con le mani talmen
re vuote, che nel conto, che dar dovranno di
ſe, debban eſſere malgrado loro coſtrette a dire
Per totam molfem laborantes nihil ea pimus. Non
poſſon già elleno luſingarſi, che fia lor per
riuſcire di riparare in quell' orribile frangente
la lor miſeria, come nell'odierno Vangelo leg
giam riuſcito agli Appoſtoli di compenſati 3.
l
43o Diſcorſo XXIV.
la peſcagione abbondante del giorno, le fatiche
inutili della notte. No, quello non è più tem
po di fare, ma di aver fatto; e chi giunto a quel
lido fatale ſcorge vuote di peſcagione le reti,
può pianger bensì, ma non già riparare la ſua
diſgrazia. Poteſſero almeno le ſventurate con
ualche ſcuſa difendere la ſua cauſa, ed accettar
i in qualche maniera dall'imminente condanna
gione lo ſcampo. Ma come ciò, ſe oltre l'aver
elleno a fare con un Giudice, al cui occhio
nulla è naſcoſto, tali ancora ſaranno i loro ac
cuſatori, che toglieran loro di bocca ogni ſcu
ſa, e le coſtrigneranno ad ammutolire, ad ar
roſſire, a confonderſi. Eppure chi 'l crederebbe!
al penſiero di comparſa sì ſpaventoſa le miſere
non ſi riſentono, nè punto penſano ad ovviare
con la pratica di ſante opere alle conſeguenze
terribili, che lor ſovraſtano in morte da un lut
tuoſiſſimo nihil capimus. Or perchè veggaſi di
quanto pianto ſia degna queſta, non ſo ſe io
mi dica, indolenza, o cecità, voglio queſta ſera
laſciato a parte ogni altro funeſto apparato di
uel tremendo giudizio, a cui morendo pre
entar ci dobbiamo, voglio prendere a ragio.
narvi di quegli accuſatori, che formeranno al
peccatore il proceſſo, e il convinceranno di
modo, che non avrà l'infelice nè fronte per ſof.
frire l'onta della comparſa, nè lingua per pro
ferire ſillaba di ſua difeſa. Il primo degli accu
ſatori ſarà il Demonio, ſuo implacabile nimico;
il ſecondo ſarà l'Angiolo buono, già non più
buono per lui; il terzo ſarà la ſua coſcienza me
deſima divenuta per ſua confuſione tutta facon
dia. Il Demonio metterà in chiaro ciò, che ſi è
fatto, e non dovea farſi; lo vedremo nel primo
PuntO »
Per la Dom, quarta dopo la Pentecoſte. 431
punto. L'Angiolo tutelare farà vedere ciò,
chè non ſi è fatto, e dovea farſi s lo ve
dremo nel ſecondo punto. La coſcienza mo
ſtrerà, che in ciò, che per colpa ſi è fatto,
o non ſi è fatto, non vi è ſcuſa; lo vedremo
nel terzo punto. Piaccia a Dio, che dall' udi
re le accuſe, impari ognuno a preparare le di
feſe. - arme
Il Demonio, che metterà in chiaro ciò, che ſi Pos
è fatto, e non dovea farſi. Tra i titoli, che nell' rº I.
Apocaliſſe leggiamo dati al Demonio, uno è
di accuſator dei fedeli: Accuſator fratrum no. Ap. 1a
s
sſtrorum; e ſe mai
con efficacia in altra
le parti, occaſione
egli ei ne adempie
è certamente nel giu
/ dizio, che faſſi di un'anima, di cui ne ſpera per
i / divina irrevocabil ſentenza il poſſeſſo. Quindi chi
può ſpiegare l'energia, con cui ſi adopera, per
dar peſo alle ſue accuſe! non già con farla anche
allora da padre della bugia, fingendo colpe,
che mai non furono: no, che ben ſa, che nel
il tribunale della verità non può la menzogna
eſſer ulita ; ma con adoperar tutta l'arte, per
º chè nulla naſcondaſi di quel vero, che può fa
vorir la ſua cauſa. Tutto intento pertanto a mo
. ſtrare ciò, che in niun conto ſi dovea fare, e pur
ſi è fatto, fonderà le ſue accuſe ſu quella ri
nunzia ſolenne, che volle da noi Chieſa ſanta,
prima di ammeterci al ſagro fonte: Preſto eric
º Diabolus (così la ſente Agoſtino, o qualunque
ſiaſi altro, l'Autore della Concione ad Cathecu
menos) ante Tribunal Chriſti, recitabit verba pro
feſſionis terre.
ſ Voi ſapete, uditori miei, che prima, che foſ.
ſimo coll' acque batteſimali aſcritti al numero
j de' figliuoli adottivi di Dio, ci fu intimato di
l RAIilli) Zla I C
432 Diſcorſo XIV.
rinunziare per ſempre a Satana, e alle ſue ope,
re, e alle ſue pompe , Abrenuncias Satanae, ci
fu detto, e a nome noſtro fu rifpoſto: abremun
zio ; & omnibus operibus ejus ? Abrenuntio ; &
omnibus pompis ejus ? Abrenunzio; rinunzia da
noi tante volte ratificata, quante abbiam rico
noſciuto pel più nobile dei noſtri pregi il carat
tere del Batteſimo. Or chi non vede, che poſta
una proteſta così ſolenne, fatta in faccia agli al
tari, fatta alla preſenza degli Angioli, fatta alla
tremenda infinita Maeſtà di Dio, preciſo indi
fpenſabile devere correaci di nulla odiar più,
che il Demonio, nulla più fuggire, che le
ſue opere , nulla più abbominare, che le ſue
pompe. Qual campo pertanto a giuſte accu
ſe ſi apre , ſe il peccatore anzi che odiare il De
monio, lo ha ubbidito; anzi che fuggir le ſue
opere, le ha praticate: anzi che abboninar le
ſue pompe, le ha idolatrate ? Ecco, dirà l'ac
cuſatore infernale, ecco come bene ha coſtui
oſſervata la ſua promeſſa: Eraſi pure impegna
to a non riconoſcermi in nulla, eppure come
fe giurata mi aveſſe inviolabile fedeltà, non po
teva ubbidirmi più, nè poteva ſervirmi meglio.
Pronto mai ſempre ad ogni mio volere, ed ar
rendevole ad ogni mia ſuggeſtione, quanto ho
ſaputo bramare, tutto lo ha fatto. Mirate s'eſſi
ha avute in orrore le vere mie opere: gli ho
chieſte vendette, ed egli ſenza difficoltà le ha
eſeguire: l' ho animato alle incontinenze, ed
egli non ſolo ne ha ſempre lordato il cuore,
ma è giunto ancora a farſene gloria: gli ho
propoſte ingiuſtizie, ed egli ſenza punto di ri
brezzo le ha meſſe in opera a coſto eziando di
poveri oppreſſi, e di pupilli traditi.
-
poi O
Per la Dom. quarta dopo la Pentecoſte. 433
ho fatta io pompa del mio dominio, ch' egli
non ſia accorſo a ſoſtener le mie parti è nelle
ſale dove io promoveva la libertà, egli è ſtato
dei più diſſoluti: ne circoli dove io ſuſcitava
a mormorazioni, egli ſi è moſtrato dc più mor
daci: ne' ridotti dove io raunava i giuocatori,
e gli ozioſi, egli ſi è dato a veder tra i più aſ
ſidui: nelle Chieſe dove io procurava le irrive
renze, egli co ſguardi ſuoi, co' ſuoi cicalecci
ſi è dato a conoſcere de' più ſacrileghi. Che più!
non contento di ſeguirmi egli ſolo, quanti ha
egli co ſuoi ſcandali al mio partito condotti º
Furono pure i ſuoi conſigli, che han fatto mio
quel ſuo incauto compagno, furono i ſuoi in
viti, che hanno tratta ne' miei artigli quella ſe
dotta colomba, furono i ſuoi eſempi, che
tanti ſeguaci mi han guadagnati, quanti furono
gl'imitatori di ſue licenze. E quello è ſtato un
non riconoſcermi, queſto è ſtato un rinunziare
alle mie opere, alle mie pompe, alle mie
leggi? Eterno Giudice, decidetelo voi.
E a queſte accuſe, che potrà dire pi ſua dif.
colpa un povero peccatore. Negherà egli i ſuoi
diſordini! ma come ciò, ſe l'accorto accuſato
re gliene metterà ſotto agli occhi un fedele re
giſtro? Leggi, gli dirà, leggi: queſti ſon pur
que' peccati, che commetteſti in quella caſa:
queſti altri in quel teatro, queſti altri in quel
ballo, queſti altri in quella villa; puoi tu ne
garlo? In queſto foglio tutte ſon deſcritte le tue
oſcenità; vedi quante ſono! In queſt' altro le
tue intemperanze, in queſt' altro i tuoi tra
ſporti di collera, in queſt'altro i tuoi ſacrile
gi; e ſa ch'io non mento quel Dio, che tutto
vide: Quel penſieri acconſentiti, quelle com
Tomo IV. Anno IV. Ee piacenze
a
434 Diſcorſo XXIV.
piacenze deliberate, quel motti equivochi, que
diſcorſi immodeſti, e que tratti liberi, de quali
interrogato dal Confeſſore, ti proteſtavi di non
ſaperne il numero; lo ſo ben io: ſon tanti ; cd
è giuſtiſſimo il computo. Quì ſono i peccati, del
quali nelle confeſſioni non accuſaſti le circon
ſtanze più rilevanti: di quà i peccati, che per
ignoranza affettata non ti curaſti mai di cono.
ſcere: di quà i peccati, che altri hanno comeſſi
per cagion tua. Mira, leggi, nega, ſe puoi. O
che confuſione di un peccatore al vederſi di
tutte le colpe ſue convinto, anche di quelle, delle
quali non ebbe altri teſtimoni, che le tenebre,
anche di quelle, che non ebbe altre complice,
che il ſuo cuore? e di tutte ſentirſi rinfacciare
il come, il dove, il quando, ſenza che ne ri
manga naſcoſta di tutte le circonſtanze, la mi
nima! Potrà egli a meno di non coprirſi per
onta il volto ? Potrà egli a meno di non con
dannare a vergognoſo ſilenzio la lingua.
Sì, che ammutolirà l' infelice, ma dal ſuo
tacere fatto più baldanzoſo il Demonio faraſſi a
parlare più alto, ed a Dio rivolto : Rettiſſimo
Giudice, dirà, ora è il tempo, che mi ſi ren
da giuſtizia; coſtui, che in voce ha rinunziato a
me per ſeguir voi, egli è convinto di avere co'
fatti rinunziato a voi per ſeguir me: e sì, ch'ei
non avea motivo alcuno di dichiararſi del mio
partito. Io non l'ho creato, io non ho patito
nulla per lui, che anzi l'ho ſempre ingannato
con falſe promeſſe, l'ho ſempre tradito con
luſinghiere ſperanze: Laddove ogni ragion vo
lea, che tutto, e ſempre s'impegnaſſe per voi
che lo traeſte di nulla, per voi, che lo addo
faſte per figlio; per voi, che gli verſaſte in ſeno
- 3
Per la Dom, quarta dopo la Pentecoſte. 435
a nembi le voſtre grazie. Giuſto è dunque, che
ſenta il voſtro ſdegno, chi ha abuſati i voſtri fa
vori, e ſia mio nell' eternità, chi voſtro non
ha voluto eſſere in vita: Nunc ergo, equiſime Ju
dex, judica meum eſſe per culpam, qui tuts no
luit effè per gratiam. Sovvengavi, che per mia
giuſtiſſima condannazione baſtò un penſiero
ſolo colpevole; e anderà aſſoluto coſtui reo di
mille opere infami: Giuſtizia, Dio eterno, giu
ſtizia: Judica, judica, un in eandem mecum dam
nationem deſcondat. Cari miei uditori, qual ſia
per eſſere l' eſito di queſte accuſe non accorre
ch'io il dica a chi ben lo vede, dico ſolo, che
ſe il Demonio ha da eſſere rabbioſiſſimo noſtro ac
cuſatore, qual follia è mai la noſtra nell'arren
derci, che facciamo, sì facili alle ſue luzinghe?
Pcrchè mai ſiamo noi sì attenti ad udir le ſue
voci? perchè sì pronti a ſeguir le ſue voci: perchè
sì pronti a ſeguir le ſue maſſime? perchè sì
inchinevoli a contentar le ſue brame ? perchè in
ſomma così portati a gettarci nel ſuo partito?
Poſſibile, che per un poco di libertà, ch'ei ci
offeriſce; libertà traditrice, per un poco di pia
cere, con cui ci alletta; piacere breviſſimo inſie
me e viliſſimo, per un poco di onor mondano,
che ci promette; onore che in realtà non è altro
che fumo, poſſibile, diſſi, che vogliano da noi
medeſimi dargli in mano di che accuſarci, di
che convincerci, di che confonderci ? Ah, miei
dilettiſſimi, abbiamo giurata fede a Gesù ' Stia
mo ſaldi nel ſanto impegno, e tanto non avre
mo a confonderci nel tremendo giudizio, che
anzi ne anderà confuſo l'accuſatore. Sì, uditori
1miei cari, ſe noi ſeguitiamo come e dovere il
partito di Criſto, ſe ci atteniamo, a ſuoi eſem
Ee 2 Pj,
436 . biſcorſo XXIV.
pj, alle ſue maſſime, al ſuo Vangelo, nel di
vin Tribunale tutta la confuſione ſarà del Demo
nio: ſe noi ſeguitiamo il partito del Demonio,
ſe ci appigliamo alle ſue opere, ſe amiam le
ſue pompe, tutta la confuſion ſarà noſtra. E s'è
ſer. 12,
così, come non dirà ciaſcun di noi col Profeta:
Confundantur qui me perſequuntur, e non con
fundar ego? Sia pur tutta del nimico la confu
ſione, non ſia di me. Voglio eſſer fedele a Gesù,
voglio amarlo, non più ribellioni dal ſuo parti
to, non più offeſe al ſuo bel cuore.
No mio Gesù, non più. Ah, che ho mai
fatto quando abbandonai, Gesù caro, il voſtro
partito per ſeguire quel del Demonio! che ho
fatto mai, che ho fatto! Miſero, che ho date
in mano del mio mimico le accuſe, con cui con
fondermi avanti a voi. Riconoſco il mio erro
re, e lo deteſto i e umilmente proſtrato ai vo
ſtri Piedi, dei quali adoro le ſagre piaghe, rin
novo di tutto cuore la ſolenne rinunzia, che
già ho fatta nel ſanto Batteſimo: Abrenuntio
sì, abrenuntio Satana, c omnibus operibus ejus,
e omnibus pompis ejus. Voſtro io ſono, e vo
ſtro voglio vivere, per morir tutto voſtro. Voi
con la voſtra grazia ajutatemi, affinchè tale io
ſia quale ſon riſoluto di eſſere: ſicchè nel com
parire, che un dì farò al voſtro Tribunale, ab
bia da reſtarne confuſo il Demonio, e non io:
Confundantur, qui me perſequuntur, di non con
afundar ego.
r, L'Angiolo tutelare, che farà vedere ciò, che
roli non ſi è fatto, e doveva farſi. Che faccia le par
ti d'accuſatore il Demonio, s'intende, egli è
per aſtio antico nimico giurato dell'uomo, di
cui proccura a tutto potere la perdizione "
CIAC
Per la Dom. quarta dopo la Pentecoſte. 437
che quell'Angiolo ſteſſo, che provvidenza be
nevola ci die per cuſtode; quello a cui Dio me
deſimo ha raccomandata la noſtra ſalvezza,
quello ancora formi al peccatore il proceſſo,
produca contro di lui accuſe, e ne promova ap
preſſo il divin Giudice l'eterna condannazione;
ſembra, uditori miei, che nè creder ſi debba,
nè poſſa intenderſi. Eppure tant'è, miei dilet
tiſſimi, tant'è, anche l'Angiolo tutelare, anzi
che ſoſtenitore parziale, ſarà nel Tribunale
divino accuſatore ſevero del peccatore: sì, per
chè così vuole la gloria del ſanto Cuſtode, sì,
perchè così deeſi all'ingratitudine del vitupe
revol cliente.
Troppo egli è giuſto, dice Origene, che l'An
giolo buono alla preſenza del Giudice, e in fac
cia del reo metta in chiaro l'attenzione, ch'e-
gli ebbe, e l'induſtrie, che adoperò per con
durre a ſalvamento l'anima a ſe commeſſa
Unuſquiſque Angelorum in judicio oderit produ
cens illos, quibus prefuit, qui teſtimonium per
hibebit, quot anni, circa eum loboravit ad bo
num inſtigandum. Che però ſcorrendo anno per
anno, età per età, luogo per luogo, impiego
per impiego, farà vedere i conſigli ſuggeriti
nelle dubbietà, gli ajuti ſomminiſtrati nelle ten
tazioni, i ſollievi procurati nelle anguſtie, e le
aſſiſtenze uſate ne pericoli. Nella fanciullezza
quanti bei ſentimenti per cuſtodia dell'innocen
za! nella gioventù quanti per freno delle paſ
ſioni ! lumi alla mente in quanta copia! ſpinte
alla volontà in quante maniere! iſpirazioni al
cuore in quanto numero! farà vedere gaſtighi,
che già erano preparati, e gli ha impediti, gra
zie, che non ſi erano meritate, e le ha ottenu,
Ee 3 tC
438 Diſcorſo XXIV.
te, pericoli, che ſovraſtano, e gli ha ſgombra
ti, difficoltà, che pareano inſuperabili, e le ha
ſpianate. Moſtrerà, che nella infermità dello ſpi
rito, ei la fè da buon medico; nelle neceſſità
di più rilievo da buon protettore; nella dire
zione degli affari da buon conſigliero, nelle vie
della ſalute da buona guida; in ogni occorenza
da buon amico. In ſomma farà conoſcere, che
tanto egli ha fatto, quanto avrebbe potuto ſpin
gere un'anima ai gradi più eccelſi della perfe
zione Criſtiana, ſe corriſpoſto aveſſe alla coltu
ra del Cuſtode la docilità del cuſtodito.
Ma quì chi non vede, che quanto ne vien
di gloria alla ſollecitudine dell'Angiolo, altret
tanto ne ridonda di vituperò alla codardia del
peccatore. Coſtretto il miſero a dar addietro un
occhiata, veder dovrà le belle occaſioni di far
ſi ſanto, che il ſuo buon cuſtode gli preſentò,
occaſioni tutte da lui traſandate, or per incu
ria, or per malizia. Vedrà, che fu un avviſo
del ſuo Angiolo quella malattia, ed egli non
perciò ſi correſſe; vedrà, che fu un'induſtria
del ſuo Angiolo quel buon incontro, ed egli non
perciò profitonne; vedrà, che quel libro venu
togli improvviſo alle mani, che quella predica
udita a caſo, che quell'invito al ritiramento
fattogli da quell'amico, furono orditure amo
roſe del ſuo buon Angiolo per ritirarlo a Dio,
ed egli nè ſeppe, nè volle andarvi. O che vi
ſta! che doloroſa, che dura viſta ! rendimi ora
giuſtizia, gli dira l'Angiolo, quì avanti al tuo,
e mio Dio, ſe io poteva avere di te più ſolle
cita cura. Riſpondi: quando eri inviſchiato in
quel mal abito, non tel diſs'io più volte al
cuore, che ti avrebbe perduto ? lo laſciaſti tu?
- quando
,
Per la Domen, quarta dopo la Pentecoſte. 439
quando fomentavi quell'amicizia non ti avver
tii, che ſarebbe ſtata la tua rovina ? la tronca
ſti tu ? quante volte ti ho internamente avvi
ſato, che la tua lingua sì mordace, sì libera,
precipitato ti avrebbe all'Inferno? la frenaſti tu
mai? quante volte ti ho rappreſentato, che quel
la vita si molle, sì pigra, sì ozioſa, sì data al
le vanità, sì perduta dietro i divertimenti, pun
to non ſi accordava con gli eſempi di Criſto,
nè con le maſſime dell'Evangelio, e che ſe più
di affetto non dimoſtravi alla mortificazione,
al ritiramento, alla pietà, ſperavi indarno ſa
lute ? Mi hai tu aſcoltato ? nella lontananza, in
cui eri da Dio, non ti ſtimolai a cercalo ? l'hai
tu fatto è nello ſtato, in cui ti trovi di perdi
zione, non ti ſpinſi ad uſcirne? l'hai tu eſe
guito è poc'anzi ancora nel punto ſteſſo della
tua morte, che non ho fatto per eccitarti al do
lore delle tue colpe? che non ti ho ſuggerito
per animarti a confidare nella divina Miſericor
dia ? ma tu tale ti ſei moſtrato in morte, qua
le in vita, ſordo a miei avviſi, e indolente a
tuoi pericoli, e vorreſti ora tu , ch'io proteg
geſi un ingrato, un ribaldo, un contumace ? o
queſto no. Non mi udiſti Cuſtode amoroſo,
odimi rigido accuſatore, Signore per ſalvare
coſtui ho fatto quanto ho potuto, voi lo ſa
pete: egli di ſua ſalute, quand'era tempo, non
ſi è curato, trattatelo pure come merita, ch'io
il rimetto alla voſtra più ſevera giuſtizia: Exur-pſ.,,.
ge Deus, exurge, o jadica. Or dite voi, udito
ri, che dolore, che pianto, che crepacuore ha
mai da eſſere quello di un'anima, che udiraſ.
ſi rinfacciare tante inſpirazioni traſandate, tanti
sociacizi abuſati, tante obbligazioni non adem
Ee 4 piuto
44O Diſcorſo XXIV.
piute, ſenza che poſſa per ſua diſcolpa repli
care una ſillaba º quando Eſdra, riedificato, che
fu il Tempio di Geroſolima dopo la cattività
di Babilonia, ſi fe a leggere al popolo il libro
della legge, dice il ſagro Teſto, che tutta la
* Eſed turba, che udiva diº in dirottiſſimo pianto: Fle
bat omnis populus cum audiret verba legis. E ſa
pete perchè? perchè rifletteva alle paſſate ſue
ingratitudini: udiva i benefizj, che aveva rice
vuti da Dio, e venendole in mente l'abuſo fat
tone, piangea, flebat. Udiva i precetti, che le
avea Dio intimati, e riflettendo allo ſprezzo mo
ſtratone con le traſgreſſioni continove, piange
va, flebat. Udiva i gaſtighi, che le avea Dio
minacciati, e alla rimembranza d'eſſerne ſtata
pur troppo alla prova, piangea: Flebat omnis
populus cum audiret verba legis. Ma ſarà ben al
tro, miei dilettiſſimi, il piangere, il ſinghioz
zare di un'anima, quando all'udirſi nel divin
Tribunale recitar dal ſuo Angiolo gl' inviti
corteſi, gli avviſi ſalubri, i patrocinj amo
revoli, le premure ſollecite , i benefizj conti
novi, rifletterà alle ſue male corriſpondenze.
In pianto mentovato dal popolo fu almen
vantaggioſo , perchè pianto, che l'animò a
riparare le ſconoſcenze paſſate: ma quello di
un'anima giudicata ſarà pianto di chi diſpera,
di chi arrabbia, di chi ſi dà per convinto, per
condannato.
Cari uditori miei, ſe mai rei di non aver fatto
ciò, che dee farſi abbiamo data al noſtro An
giolo giuſta occaſion di dolerſi di noi, deh non
aſpettiamo a piangere le noſtre ingratitudini,
quando egli medeſimo ce le rinfaccierà alla pre
ſenza del divin Giudice! Piangiamole ade" in
IlO
Per la Domen, quarta dopo la Pentecoſte. 441
fino a tanto, che un pianto utile ci può ſpin
gere a porvi un opportuno riparo. Se per l'ad
dietro ſordi ſiamo ſtati alle ſue voci, ſe traſan
dati abbiamo i ſuoi indirizzi, ſe ſconoſcenti ci
ſiam moſtrati a ſuoi favori, cari uditori, ravve
diamci ; e giacchè egli non cerca ſe non la no
ſtra ſalvezza, aſcoltiamolo quando ci parla, e
in ciò che ſuggeriſce, ubbidiamolo. Forſe que
ſta ſera da qualcuno di noi egli aſpetta qualche
ſanta riſoluzione, che domanda da lungo tem
po, e non ha finora ottenuta. Via, non ſe gli
contraſti più, ſe gli accordi generoſamente quan
to deſidera. Fiacciamo in vita a ſuo modo, af
finchè non abbia egli a fare contro di noi dopo
morte. Non è egli anche troppo, uditori miei
cari, che al giudizio debba " noſtro accu
ſatore il Demonio, ſenza che obblighiamo an
che adeſſo il noſtro ſteſſo cuſtode.
Ah no, nol permettete, caro Gesù ! Se debbo
avervi propizio Giudice, troppo è neceſſario,
che l'Angiolo mio tutelare nel voſtro tribunale
mi aſſiſta, mi difenda, mi ajuti. Vi ſupplico per
tanto per quelle piaghe, che adoro nelle voſtre
Mani ſantiſſime, a darmi grazia, ch'io ſicgua
in ogni coſa il ſuo conſiglio, e mi laſci intie
ramente guidar da lui. E voi caro mio Angio
lo, che tanto vi adoperate per mia ſalute, per
donatemi, vi prego, le paſſate mie diſubbidie
ze. Suggeritemi pure ciò, che bramate da me.
Vi prometto, che d'avanti ſarò fedeliſſimo nell'
eſeguirlo. Vi ringrazio intanto di tatti i benefi
zj, che mi avete finora fatti, e vi ſupplico ad
aſſiſtermi ſempre in modo, che dopo avervi avu
to per mio cuſtode in vita, vi abbia ancor do
po morte per mio avvocato, La
fia 442 Diſcorſo XXIV. -

p. La coſcienza, che moſtrerà, come in ciò, che


ii per colpa ſi è fatto, o non ſi è fatto, non vi è
ſcuſa. Convinto de falli ſuoi il peccatore, e dall'
Angiolo buono, e dal Demonio, uno ſcampo
ancora ſperar potrebbe, ſe non potendo negarli,
poteſſe almeno ſcuſarli. Ma a ſoffocargli in gola
ogni ſcuſa ſorgerà un altro accuſatore di tutti
e tre il più moleſto, la ſua ſteſſa coſcienza. Que
ſta non ſolamente confermerà ad una ad una le
altrui accuſe; ma farà inſieme conoſcere, che
nel mal, che ſi fece, e nel ben, che ſi ommi
ſe, non vi è luogo a diſcolpa. Proviſi pure il
peccatore a difendere con l'impotenza le obbli
gazioni non adempiute, o ad iſcuſare con l'i-
gnoranza le ribalderie commeſſe. Vedrà come
toſto dell'uno, e dell'altro di queſti deboli ſcu
di diſarmerallo la ſua coſcienza. fumpotenza! ah
temerario gli dirà: hai tanto di fronte da dire,
che non potevi; e che ti mancò, ſicchè non po
teſti ? Non ti mancò già il tempo, che di que
ito tanto ne conſumaſti nell'ozio, tanto ne per
deſti ne giuochi, tanto ne gettaſti ne paſſatem
pi. Non ti mancarono già le occaſioni, che di
queſte tante ſe ne preſentarono, che la metà,
ſe ne aveſſi fatto un buon uſo, ſarebbe ſtato più
che baſtevole a farti un gran Santo. Non ti man
carono gli ajuti, che di queſti tanti ne aveſti, e
di eſterni all'occhio, e all'orecchio, e d'interni
al cuor, e alla mente, che avreſti con meno po
tuto fare nella via della virtù grandioſi progreſſi.
Tu non potevi ? e che non poterono tanti altri
occupati ugualmente, che tu: in mezzo al Mon
do ugualmente, che tu: aſſediati da pericoli u
gualmente, che tu : combattuti da tentazioni
ugualmente, che tu? Tu non potevi ? e che noia
pote di
Per la Dom. quarta dopo la Pentecoſte. 443 -
poteſti pe' tuoi intereſſi, che non poteſti ne' tuoi
divertimenti ? pel tuo Mondo, che non poteſti ?
Se dunque ſolo per l'anima, ſolo per l'eterni
tà, ſolo pcr Dio non ſi è potuto; taci bugiar
do, taci, o ſe tacer non vuoi, confeſſa tuo mal
grado, che fu ſvogliatezza, che fu non curanza,
che fu accidia quella, che mancar ti fe a tuoi
doveri. Intendete o voi, che dove trattaſi di di
giuni, dove trattaſi di limoſine, dove trattaſi di
mortificazione, di auſterità, di penitenza, ſiete
sì facili ad iſpacciar un non poſſo: Intendete,
e penſateci a tempo.
Così abbattuto il preteſto dell'impotenza, non
avrà ſorte punto migliore quello dell'ignoran
za, mentre a convincere di malizia il peccatore
produrrà la coſcienza quel ribrezzi, ch'egli pro
vò prima di ammettere nel cuore la colpa; pro
durrà quelle interne voci, con le quali ſconſi
gliandolo ella ; chiaramente gli diſſe: queſto è
male, non ſi può; produrrà que rimorſi, e que
gli ſcrupoli, co quali dopo il reo conſenſo lo
tormentò , affinchè lavaſſe toſto col pianto l'in
corſa macchia s produrrà quelle inquietudini,
quelle turbazioni, ch'egli ſentì dentro di ſe,
ſino a non parergli tranquilli i ſonni, e ſapo
roſi gli ſpaſſi. E a tali prove reggerà ella la pre
toſa ignoranza º che ſe di qualche peccato non
ebbe in verità piena, e certa notizia, non però
ceſſerà dall'accuſarlo la ſua coſcienza: moſterà,
che almeno ne dubitò , moſtrerà, che non ſep
pe, perchè non volle ſapere, moſtrerà, che alie
no ſempre dalla divina parola non curò mai
d'iſtruirſi; moſtrerà, che ſpecolò cento ſofiſmi
per ingannarſi da ſe medeſimo; moſtrerà, che
cercò a bella poſta chi parlaſſe a ſuo genie, e
trovaſſe
444 Diſcorſo XXIV.
trovaſſe innocenza nei ſuoi diſordini. Giudicate
ora voi, uditori, ſe riconvenuto così dalla ſua
ſtella coſcienza il peccatore avrà ancor fiato da
zittire, non che parole per iſcuſarſi.
Ben però, diſſe il Savio, che rigoroſo ſareb
be ſtato il giudizio dell'empio, ma rigoroſo per
queſto ſteſſo, ch' egli ſarebbe ſtato di ſe mede
ſimo l'accuſatore. Non prateriet illum corripiens
º judicium, in cogitationibus enim impii interroga
tio erit ; e che la ſua ſteſſa coſcienza formato
gli avrebbe il proceſſo sì rigoroſo, che quando
anche non vi portaſſe le ſue accuſe il Demonio,
nè l'Angiolo tutelare le ſue, la coſcienza ſola
dell'empio baſterebbe, perchè ſi formaſſe un eſa
me il più niinuto, il più ſevero, il più ſpaven
toſo: Teſtimonium reddente illis conſcientia ipſo
dom. 2 rum, come parla l'Appoſtolo, ci inter ſe inviº
cem cogitationibus accuſantibus in die, qua judi
cabit Deus occulta hominum. E quì riflettete, che
ſebbene anche adeſſo la coſcienza faccia udir le
ſue voci, e immune non laſci da ſuoi rimbrotti
alcun fallo; pure parte per gli oggetti eſteriori,
che tutti occupano i noſtri ſenſi, avviene aſſai
ſpeſſo, che i ſuoi rimproveri, o non ſi aſcolti
no, o non faccian nell'anima forte impreſſio
ne. Ma eſtintaſi con la morte ogni paſſione, e
e ſvanito interamente dagli occhi ogni oggetto
ſenſibile, ſenza che più vi ſia nè intereſſe, che
acciechi, nè orgoglio, che gonfi, nè vanità, che
luſinghi , nè piacere, che alletti ; allora le voci
della coſcienza riſuoneranno all'orecchio del pec
catore sì inteſe, che non potrà non udirle, in
modo che dandoſi per convinto non avrà che
riſpondere. Che confuſione pertanto del miſero
nel vederſi dalla ſua ſteſſa coſcienza ſchierare ſu
gli
Per la Domen, quarta dopo la Pentecoſte. 445
gli occhi ſuoi, e del ſuo Giudice tutte le ſue
iniquità, e le azioni più vergognoſe, e i pen
ſieri più immondi, e gli affetti più ſregolati,
ſenza che di tante ſue colpe non ne rimanga pur
una fuor di veduta ! Anzi con vedere tra queſte
anche que tratti, anche que geſti, anche quei
baciamani, anche quel giuochi, anche que'balli,
che acciecato dal ſuo amor proprio non volle
mai perſuaderſi, che foſſero colpe: e tutte que
ſte colpe vedrà con tale chiarezza, che quando
anche il voleſſe non potrà o negarne l'eſiſtenza,
o ſminuirne la gravezza, o ſcuſarne l'intenzio
ne? Ordinabuntur, è Agoſtino, che ce ſpiega
l'orrido ſtato, ante infelicem anima peccata ſua
ut, ci convincat probatio, ci confundat agnitio.
O che ſpettacolo che luttuoſo ſpettacolo! Quan
do i noſtri primi parenti udirono l'accuſa, che
la coſcienza loro fece del loro peccato, corſero
toſto a naſconderſi. Ma quanto più volonticri
un peccatore citato al divin tribunale, giacchè
non può naſcondere le ſue colpe, naſcondereb
be ſe ſteſſo fin negli abiſſi più cupi. Ma no, giu
ſtizia vuole, ch'ei ſoffra l'ignominioſa compar
ſa, ch'ei ſenta le accuſe obbrobrioſe, e che con
vinto, e condannato dalla ſua coſcienza mede
ſima fulmini contro di ſe la ſentenza; e con le
parole di Caino dirà ancor egli : ſono un ſcel
lerato, ſono un indegno. Io non merito nè com
paſſion, nè perdono: Major eſt iniquitas mea,
quam ut veniam merear. Paradiſo non ſei per
me, conoſco e confeſſo, che dovuti mi ſono
non uno, ma mille Infermi. Sì, miei dilettiſſi
mi; così contro di ſe ſentenzierà il peccatore,
avendo per queſto appunto. Provvidenza ſovra
ma diſpoſto, che foſſe in noi giuſta sono"
del
446 Dipaf XXIV -

del bene, e del male la noſtra coſcienza; affin


|
chè il peccatore nel tribunale divino diventando
accuſatore, e giudice di ſe ſteſſo, da ſe mede
fon a ſimo ſi condannaſſe: Ut ipſe reus, così il Dot
tore a Lapide, peccati gravitatem liber ab affe
ctu examinans, contra ſe ipſum pro meritis ſup
plicium decerneret. O peccatori inſenſati ! c ad l
accuſe così terribili, ad un giudizio sì ſpaven
toſo vi ci appreſſate ridendo, ſcherzando, dan
zando ? non prendete miſure? non vi provve
dete ? -

Penſiamoi noi, cari uditori ; perchè queſto


giudizio è vicino: vedcte pochi anni di vita, ſe
pur ſon anni, e poi ci ſiamo. E per penſarci
con frutto, che abbiamo a fare? eccolo, entria
mo in noi medeſimi, e oſſerviamo ſe mai la
noſtra coſcienza ci accuſa fin d'ora di qualche
diſordine. Se di nulla ci accuſa, io non dico
perciò che ſtiamo ſicuri, perche nè pure S. Pao
lo ardiva prometterſi tal ſicurezza. Pure ſperia
mo bene ; ma ſe mai ci rimprovera di qualche
coſa , o di qualche colpa non confeſſata, o di
qualche gruppo non mai ſciolto del tutto, o di
ſoverchio attaccamento alla roba, o di qualche
livore verſo del Proſſimo, di qualche obbligazio
ne, che non ſi adempia, o di qualche paſſio
ne, che troppo ſi ſecondi; ah, cari uditori, ri
volgiamo a noſtro vantaggio i ſuoi rimproveri,
e togliamo dal noſtro cuore lo ſconcerto, di cui
ci accuſa. Mettiamoi adeſſo in iſtato, ch'ella più
non abbia di che accuſarci dopo la morte. E av
vertite bene, miei dilettiſſimi, che non è queſto
un affare, che ſoffra dilazione: da una parte l'in
certezza dell'ora, in cui la noſtrº anima ſarà da
Dio chiamata a render conto, dall'altra la ſom
Illa
Per la Domen, quarta dopo la Pentecoſte. 447
ma importanza, che non abbia la noſtra coſcien
za di che accuſarci nel divin tribunale, voglio
no che ſubito ſi provvegga. In un negozio di
tanto rilievo è follia aſpettar anni, follia aſpet
tar meſi, follia aſpettar giorni: ſe vi è ſenno, ſe
vi è fede, adeſſo, dee dirſi, adeſſo io voglio
mettere in calma la mia coſcienza, adeſſo vo
glio togliere ogni argomento alle accuſe, adeſſo
voglio aggiuſtare le partite della mia anima,
adeſſo, e non più tardi.
Sì, mio Gesù, queſta è la riſoluzione, che di
buon cuore offeriſco alla piaga, che adoro nel
ſagroſanto voſtro Coſtato. Ah, che non voglio,
che la mia ſteſſa coſcienza abbia un giorno ad
accuſarmi avanti a voi, a confondermi, a con
dannarmi. Adeſſo ella mi accuſi, mi rimprove
ri adeſſo, che io ſon pronto a rimediare ſubito
ad ogni diſordine del mio cuore. Imploro in
tanto, mio Gesù , la voſtra grazia per vivere
nell'avvenire in maniera , che la mia coſcienza
più non abbia di che accuſarmi ; ſicchè in quel
dì, che mi chiamerete a render conto, non tro
5

vi in me accuſa, che mi perda, e trovi bene -


dizion, che mi ſalvi.

sN\". Se "lo
e,
y
º Re. Si
3.º ci so 9 ,
S i 2
-
si
a48
stessi sestesista }

N.
3, s; s; 3GS º si sºs S
D I S C O R S O XXV.
PER LA DO M EN I CA QUINTA
D OPO LA PEN TE CO STE,
Correndo in tal giorno la Feſta de Santi Appoſtoli
Pietro, e Paolo.

Onor dovuto alla Chieſa.

Tu es Petrus, ci ſuper hanc petram edificabe


Eccleſiam meam. Matth. 16.
7 2- CN UE gran pregi, uno di gloria, l'al
3% XX tro di lode ſi accoppian oggi sì bel
D. lamente in S. Pietro, ch'io non
i;
> as 4XS ſaprei a qual dei due debbaſi il van
Sºs to Gloria di Pietro, e bella glo
ria fu l'eſſer da Criſto eletto capo
viſibile della ſua Chieſa: Tu es Petrus, ci ſuper
hanc petram edificabo Eccleſiam meam; ma lode
ancora di Pietro, e bella lode fu l'aver egli ſoſte
nuta con tal decoro la dignità conferitagli, che
reſta in dubbio ſe più di onore ſiane venuto a
S. Pietro dalla dignità, o alla dignità da S. Pietro.
Fatevi ſolo a ſcorrere col penſiero le fatiche, che
ſuperò, i pellegrinaggi, che impreſe, i trava
gli, che ſoſtenne, le perſecuzioni, che ſoffrì,
la morte che tollerò, e le ſollecitudini i"
Per la Dom, quinta dopo la Pentecoſte. 449
del ſuo zelo, e la fermezza inſuperabile della ſua
l fede, e il vigore invitto della ſua fortezza, e le
vampe ardentiſſime della ſua carità, e chiaro al
par del meriggio vi apparirà, che pareggiò con
la magnificenza dell'opere la magnificenza del po
ſto, e che ſe la dignità lo fe grande, grande ancor
ſi moſtrò coll'adempirne da eroe i doveri. Grand'
eſempio a noi, uditori, che come entriamo a
parte della ſua gloria, dovriamo pur anche en
trar a parte della ſua lode. Tutto il divario, che
corre tra la gloria, ch'egli ebbe, e la gloria, che
abbiamo noi, ſtà in queſto ſolo, che della Chie
ſa, che il Redentore fondò, ci ne fu il capo, e
noi ne ſiamo le membra ; ragion pertanto vor
rebbe, che ſiccome ſua lode fu l'adempire con
eccellenza le parti di capo, così ancora lode no
ſtra ella foſſe tutti compiere con perfezione gli
uffizi di membra. Ma quì appunto, uditori, è,
dove ſcorgeſi obbrobrioſa diſſomiglianza tra il
capo, e le membra: godiamo d'aver con lui
comune la gloria, ma poi d'aver con lui altresì
comune la lode non ce ne curiamo. Eppure ſe
all'una non accoppiamo anche l'altra, che ſpe
ranza di morte ſanta poſſiamo noi aver mai ? Se
pari alla dignità non corriſpondon le opere, avre
mo adeſſo bensì la gloria di vivere tra gli eletti,
ma dovremo poi ſoffrir l'onta di morire tra i re
probi. Or perchè ſchiviſi un fin sì triſto, ſtudia
mci ancor noi di acquiſtare la lode di membra
degne di queſto Capo, e riflettendo, che la Chie
ſa, di cui ſiamo membra, è la ſola, che ſia ve
ra, la ſola, che ſia ſanta, rendiamole quell'ono
re, che a prerogative sì eccelſe ſi deve. Sola ch'el
la è, vuol eſſere da noi onorata coll'oſſequio ſin
Scro di noſtra ſtima; lo vedremo nel primo pun
dano. IV. Tom. IV, Ff tQ
45o Diſcorſo XXV
to. Vera ch'ella è, vuol eſſere da noi onorata con
la profeſſion generoſa di noſtra fede, lo vedre
mo nel ſecondo punto. Santa ch'ella è, vuol eſ
ſere da noi onorata con l'innocenza illibata di no
ſtra vita, lo vedremo nel terzo punto. Comin
ciamo.
-e Sola ch'ella è la Chieſa, vuol eſſere da noi ono
Pos- rata con l'oſſequio ſincero di noſtra ſtima. Voi forſe
To I. vi crederete, uditori, ch'io per dimoſtrarvi il di
ritto, che ha la Chieſa di eſiger da noi un oſſe
quioſo tributo di ſtima, venga queſta ſera ad
eſporvi i pregi, che l'ornano, i meriti, che l'e-
ſaltano, le glorie, che la coronano. E in verità
aprirei pur un bel campo alle ſue lodi, e ai vo
ſtri ſtupori, ſe far mi voleſſi a deſcriverla, qual è
di fatto, figlia d'un padre, che ha l'onnipotenza
er ſcettro, e la ſapienza per trono: ſpoſa di un
i" che ſtende ſu d'ogni Re il ſuo comando: ma
dre di un popolo, che ſolo fra tutti vanta diritto
a corone immortali. Vi direi eſſer ella quel mon
te, ſu cui diſſe il Salmiſta, aver Dio fiſſata la ſua
Pſ. 67. dimora: Mons Dei; ella quella Città, che ſola,
giuſta la predizione di Zaccaria, ſi può pregiare
zacc. e d'aver cittadina la verità: civitas veritatis; ella
quella caſa, in cui vide Eſaia ſoggiornare come
Iſ º in albergo ſuo proprio la Maeſtà: Domus Majeſta
tis; ella quell'orto chiuſo, che fa nelle Cantiche
Cant. 4 dello ſpoſo divino le più ſoavi delizie: Hortus
concluſus; ella quella vigna eletta, ſu cui, al dire
di Geremia, tutti piovon dal Cielo i più fecondi,
Jer. 2. i più benevoli influſſi: Vinea eletta: direi final
mente ella eſſere la Geruſalemme novella, che
l'eſtatico Giovanni vide ſcender tra noi in vaghez
4.2t-za di ſpoſa e in maeſtà di Reina: Jeruſalem no
vanº. Manò, non è queſto il penſier mio. So,
che
Per la Dom. quinta dopo la Pentecoſte. 451
che al rifleſſo di pregi sì rari, sì eccelſi, sì nobili,
non può non averſi in altiſſimo pregio la Catto
lica Chieſa: ma pur non è queſta la ſtima, ch'io
queſta ſera ho preſa di mira, ſiccome non è altre
sì queſta la ſtima, che la Chieſa medeſima da
noi come ſue membra ſingolarmente pretende.
Ella vuole da noi, che non tanto ſtimiamo il cor
po di cui ſiam membra, quanto l'eſſer noi mem
bra di queſto corpo, non potendoſi rendere al
merito di un corpo maggior giuſtizia, che con
recarſi a gran pregio l'eſſerne membro.
E vaglia il vero, ſe con ſerietà riflettiamo al
gran bene, ch'egli è l'aver avuti nel grembo del
la Chieſa i natali, l'eſſere ſtati alle ſue poppe no
driti, allevati nella ſua caſa, paſciuti alla ſua
menſa, iſtruiti nella ſua ſcuola, arricchiti col ſuo
patrimonio, deſtinati alla ſua eredità, che tanto
appunto vuol dire l'eſſer ſue membra: ſe, diſſi,
vi riflettiamo con ſerietà, ne moſtreremo noi
mai ſtima che baſti? Fingiamo, notate bene,
ingiamo, che la Chieſa di Criſto non foſſe la ſo
la, in cui ſi poſſa ſperare ſalvezza, ma foſſe ſol
tanto la più ſicura, non dovriamo noi avere in
gran pregio la noſtra ſorte? Or quanto maggiore
dev'eſſere la ſtima noſtra, ſapendo, ch'ella non
è ſolamente la più ſicura, ma la ſola, in cui do
po le miſerie di queſta vita ſperar ſi poſſano le
dontentezze dell'altra? Sì, dilettiſſimi, la ſola,
la ſola: Extra Eccleſiam, gridano ad una voce i
padri, i concilj, la fede, non eſt ſalus. Mirate
pure con occhio di compaſſione il Maomettano,
l'Idolatra, l'Ebreo, l'Eretico, lo Sciſmatico.
Tutti ſon vittime deſtinate alle fiamme; tutti in
eterno fuori del Cielo, perchè adeſſo fuor della
Shieſa: Extra Eccleſiam r
- v
gºſalus.
2.
Rimbombi
di
-
452 Diſcorſo XXV.
(
di Salmi la Sinagoga, preghi il Turco ben cin 0
que volte ogni dì, e ſi macerin là nell'Indie i :
t
Bonſi con digiuni auſteriſſimi: Salmi, preghie.
re, e digiuni ſiete fuori della Chieſa, e tanto ba º
V
ſta, perchè non troviate paſſaporto pel Cielo:
Extra Eccleſiam non eſt ſalus. Dite ora, dilettiſſi
mi, tra voi, e voi; s'io non foſſi nella Chieſa di l
l
Criſto, non vi ſarebbe in eterno Paradiſo per me,
º
e poi ſe potete, non iſtimate l'eſſerne membro.
Che ſe un bene tanto più creſce di pregio,
l
quanto più ſono pochi quelli che il conſeguiſco
l
no, chi non iſcorge quanto ci renda più ſtimabi
le la noſtra ſorte lo ſcarſo numero de' Cattolici? l

Spingete, uditori, d'ogn'intorno uno ſguardo,


e ſcorrendo regno per regno, ditemi voi, ſe più
di gran lunga, che la luce della verità, non ſi
ſtendan le tenebre dell'errore. Delle quattro parti
del Mondo le tre maggiori, Aſia, Africa, Ame
rica, non ſono elleno poco meno, che tutte o
infette dall'Alcorano, o acciecate dalla ſuperſti
zione, o ingannate dall'ereſie, o lacerate da ſciſ
mi? e nella noſtra Europa quante Città, quante
Provincie, quanti regni ſi piangono eſcluſi dal
grembo felice di Chieſa ſanta? Quanti ne hai
f" o Lutero? Saſſonia, Pruſſia, Svezia,
animarca, voi lo ſapete; quanti o Calvino ?
Elvezia, Olanda, Scozia, Inghilterra, voi lo
provate; nella Moſcovia, e nella Grecia, quanti
lo ſciſma? Nella Romania, e nella Bulgaria,
quanti Maometto? e fin nel cuore del Criſtianeſi
mo, quanti talvolta le arti maligne di ſcaltriſſimi
Novatori! Sicchè al confronto del numero im
menſo de' miſcredenti, cosa è tutto il popolo de'
fedeli? Non può egli giuſtamente chiamarſi,
come appunto lo chiamò il Redentore i"VdA »
Per la Dom. quinta dopo la Pentecoſte. 453
Grex, piccoliſſima greggia ? Or che in queſta
greggia noi abbiam parte, e facciamo numero
tra queſti pochi, non è un onore, non è una
grazia, che tutta vuole la noſtra ſtima ? Se tro
vati vi foſte o nell'Arca di Noè, mentre tutta
nuotava nella ſua rovina la terra, o nella caſa di
Raab mentre tutti perivano ſotto miſerabile ferro
i cittadini di Gerico: o che privilegio, ſclamato
avreſte, ſi è mai il mio! Ch'io ſia tra queſti po
chi che vivono, che favore ! che benefizio ! e
non è forſe, cari Uditori, privilegio maggiore,
maggior benefizio, che in un numero ſenza nu
mero di chi mal crede, noi ſiamo tra i pochi,
che credono bene? che in una inondazione di
errori noi ripoſiamo tranquilli nell'arca della ve
rità? che in sì vaſta deſolazione di anime noi ab
biamo ſicuro il ricovero in quella unica caſa, che
promette ſalvezza ? Non dovremo ancor noi con
più di ſtupore, perchè con più di ragione, ſcla
mare, o che favor! o che grazia!
Maſſimamente che ſe immuni andarono Noè
dal diluvio, e Raab dallo ſterminio, n'ebbero
pur qualche merito, l'uno con la giuſtizia che
ſerbò illibata tra le pubbliche malvagità, l'altra
col ricovero, che di corteſe agli eſploratori del
popolo, ma noi che merito avevamo d'eſſere
conſegnati al ſen feliciſſimo della Chieſa è che
merito? In quel tempo medeſimo in cui Dio creò
la mia, in cui creò la voſtranima, ne avrà pur
create tant'altre, o nelle Indie rimote, e nella
vaſta Turchia, o nel barbaro Canadà, o nel ru
bello Settentrione. Qr qual merito noſtro lo ſpin
ge mai a volere più che le altre la noſtra nel re
gno della ſua fede? Ah, cari Uditori, a che cer
car merito, dove il merito nei pº 2VCI luogº:
3 1
454 IDiſcorſo XXV.
ſi perchè non può ancor meritare chi ancor non
è; ſi perchè la grazia è sì eccelſa, che non vi ha
merito, che la pareggi. Fu mera bontà, fu de
gnazione infinita di Dio, che mirandoci con un
occhio di ſpeciale benevolenza, ci ha voluti mem
bra fortunate di quel corpo, ch'è l'oggetto delle
ſue più tenere compiacenze: Vocavit nos voca
tione ſua ſanta, non ſecundum opera noſtra, ſed
ſecundum propoſitum ſuum & gratiam. Così lo ri
conobbe l'Appoſtolo, così dobbiamo con la fede
riconoſcerlo ancora noi. E s'è così, quale ſtima,
dilettiſſimi, dobbiamo aver noi d'un benefizio
fatto a sì pochi, d'un benefizio fattoci ſenz'alcun
noſtro merito? Potremo noi mai averlo in quel
pregio, che merita? Eppure forſe tra chi mi aſ
colta talun vi ſarà, che non ſolo non ne avrà fat
to alcun conto, ma non l'avrà degnato pur d'un
penſiero. Grandezze, nobiltà, titoli, ricchezze,
autorità, o queſte sì, che ſaranno ſtate l'oggetto
della ſua ſtima 5 ma l'eſſere membro della Chie
ſa di Criſto, Dio ſa, ſe l'ha creduto più fortu
na, che grazia; e mirandolo al più come un pre
gio comune ancora al famiglio, al mendico, al
lo ſchiavo, più che l' eſſer Cattolico avrà ſti
mato l'eſſer germoglio di ſtirpe nobile, l'eſſere
figlio di padre ricco, l'eſſere membro di autore
vole Magiſtrato. Quindi penſate, ſe gli è caduto
mai in penſiero di renderne grazie a quel Dio,
dalla cui gratuita volontà gli è venuto un bene
fizio si ſingolare,e sì grande. Ah, cari uditori,
ciò che porge diritto adaver parte un dì nella
Chieſa di Dio ſu nel Cielo, non ſono nò le
grandezze, gli onori, le facoltà comuni ancora
al Maomettano, all' Idolatra, all'Ererico: egli
è l'eſſere membro della Chieſa di Dio quì in
- tCII da
Per la Dom. quinta dopo la Pentecoſte. 455
terra. E però ſe mai per l'addietro non ne ab
biamo fatta la ſtima, che dovevamo, riconoſcia'
mo il gran torto, che fatto abbiamo alla divina
bontà, alla dignità noſtra, ed a quella Chieſa me
deſima, di cui ſiam membra; e rivolti a quel Signo
re, che la fondò col ſuo ſangue: o buon Giesù
diciamo: -

| Buon Gesù, che ſconoſcenza è ſtata la noſtra!


Potevate (e che coſtavane ſe non un cenno?) po
tevate porre ancor noi nel numero di que tanti
ſgraziati, che finiranno i ſuoi dì nelle tenebre
dell' errore se per miſericordia voſtra inſinita
. ci avete voluti nel fen felice di voſtra Chieſa, e
noi ingrati a benefizio sì grande ne abbiam mo
ſtrata fin ora sì poca ſtima. Deh! perdonateci,
Gesù caro, il torto graviſſimo che vi abbiam fat
to. Ve ne preghiamo per quelle piaghe ſantiſſi
me, che adoriamo ne' voſtri piedi. Vi promet
tiamo, che in avvenire averemo in tutto il con
to, che merita, un favore sì ſegnalato. E per pri
ma moſtra di gratitudine, ve ne rendiamo adeſſo -
con tutto il cuor noſtro umiliſſime grazie.
Vera ch'ella è, vuol eſſere da noi onorata con Pus:
la profeſſione generoſa di noſtra fede. Se alla verità º º
della Chieſa dee per oſſequio giuſtiſſimo cor
riſpondere la profeſſion della fede, in conſeguen
za ne viene, che ſiccome la verità della Chieſa
in due maniere ſi ſcorge, così la profeſſion del
la fede in due mani ancora ſi pratichi. Che la
Chieſa, di cui ſiam membra, ſia l'unica e vera,
ce lo ſcopre in primo luogo illuſtrazione interna
di Dio, ce lo ſcopre in i", luogo manife
ſtazion eſterna di ſegni. La prima ce la ſcopre
per vera per mezzo di una viva infallibile per
ſuaſione, la qual ci accerta, che Dio l'ha det
- Ef4 to
456 Diſcorſo XXV.
to. La ſeconda ce la ſcopre per vera con metº
terci ſotto l'occhio profezie, che l'annnnziano
miracoli che la confermano, Martiri ſenza nu,
mero, che la ſoſtengono, Dottori di gran no
me, che l'inſegnano, e il Mondo più colto,
che a diſpetto della Idolatria che ſmania, ſe le
ſommette. La prima ci rende certiſſima la verità
della Chieſa: chiariſſima la rende la ſeconda,
tanto che non dico ſolo il negarla, ma il dubi
tarne ſarebbe per riguardo alla prima empietà
abbominevole, per riguardo alla ſeconda teme
rità moſtruoſa. Se dunque la verità della Chieſa
in due maniere ſi ſcorge, una interna, eſterna
l'altra, giuſto è, che le profeſſion della fede,
con cui la Chieſa vuol, come vera, eſſere da noi
onorata, ſi pratichi altresì in due maniere, una
che riguardi l'interno, l'altra l'eſterno, una che
- ſi naſconda al di dentro, e l'altra che ſi moſtri
º º al di fuori, giuſta la regola che già ne diede l'Ap
ſtolo: Corde creditur ad iuſtitiam, ore autem
confeſſio fit ad ſelutem. -

E in verità, che onore renderebb'egli mai alla


Chieſa, chi profeſſaſſe la fede, o ſol col cuore,
e non con la lingua, o ſol con la lingua “ e
non col cuore: ſarebbe la prima una profeſſione
da codardo, la ſeconda una profeſſione da Ipo
crita; oltraggioſa alla Chieſa l'una ugualmente
che l' altra, perchè la prima moſtrerebbe una
lingua che di lei ſi vergogna, la ſeconda un
cuore che di lei non ſi cura. Nò, no, non ſi crederà
mai onorata dalle ſue membra la Chieſa, ſe nel
profeſſar quella fede, ch'ella c'inſegna, non ſi ac
coppiano i ſentimenti del cuore all'eſpreſſioni del
la lingua, e l'eſpreſſioni della lingua, ai ſentimenti
del cuore. Ed è la chiariſſima la ragione. m" Cile
Per la Dom. quinta dopo la Pentecoſte. 457
ne chè la Chieſa non ſolamente per mezzo dell'Ap
io poſtolo Paolo ci intima di credere: Credere oportetº
ſi accedentem ad Deum; ma ci ordina ancora per jac. -
no mezzo dell'Appoſtolo Giacomo, di dare a conoſ
o cere la noſtra fede: Oſtende mihi fidem tuam. Che
li ai miſterj che ci propone, che ai dogmi che
i ci preſenta, che alle verità che ci inſegna, ſi
1, chini umile il capo, e diaſi loro ſenza eſitare,
i fede pieniſſima, lo vuole, sì, lo vuole, e lo
i vuole in maniera, che mette a conto di miſ
credenza ogni dubbio: lo vuole in maniera, che
pretende, che più ſi tenga per certo ciò, ch'el
la dice, di quel che ſia certo, che reſpiriamo
queſt'aria che reſpiriamo. Ma non baſta: fin quì
non ottiene, ſe non il credere oportet. Vuole
di più, che dall'interno paſſi la fede a dar mo
ſtre di ſe nell'eſterno: Oſtende fidem tuam.
E però vuol che la fede ſi ſcorga dalle paro
le, che ſi autentichi con le opere, e ſe biſogno
il porti, ſi ſoſtenga ancor col ſangue, ſenza che
mai dal profeſſarla in faccia di chi che ſia ci
l trattenga o riſpetto di mondo, o timor di ſup
- plizio. E forſe che non lo ha ella preteſo, non
l'ha ortenuto fin da ſuoi primi allievi ? Anzi
con che faſto, per dir così, s'è meſſa fin da pri
mi anni al poſſeſſo dell'onore dovutole? Scorre
te i ſagri faſti, e vedrete quante le volte ha ri
portato il tributo d'una profeſſion generoſa,
dall' età più matura, e dalla più tenera, dal
ſeſſo più forte, e dal più imbelle, dalla condi
zione più illuſtre, e dalla più abbietta. Derida
pure ſe vuol deridere l' Idolatria i riti Criſtianis
ella vuole, che i ſuoi ſeguaci in mezzo alle de
riſioni gli oſſervino, e l'ottiene. Frema pur ſe
vuol fremere la tirannia contro l'adorator della
Croce: ella vuole, che il Criſtiano l'adorian
453 piſtorſo XXV.
che in faccia ai patiboli, e l'ottiene. Soffrì ella
mai, che per timore di povertà, di eſigli, di
carceri, di tormenti un ſuo allievo, non dico
già rinunziaſſe al Vangelo, ma ſol fingeſſe di
non conoſcerlo, di non ſeguirlo? nè pur per
ombra. Permiſe mai, che ſerbando il Cattolico
intanto nel cuore l'amore a Criſto, ſolo per iſ.
campar dal Carnefice ſimulaſſe di ripudiarlo ?
Penſate. Se ſi ha da patir, ſi patiſca; ſe ſi ha da
morire, ſi muoia, ma quella fede, che nell'
interno ſi venera, nell' eſtremo fi moſtri: Così
vuole, così l' ottiene, e l'otticne con tanta pron
tezza, che attonito il Paganeſimo, non ſapen
do che riprovare nella vita illibata di quei fede
li, riprova la troppa facilità d'incontrare per
la ſua fede la motte: Chriſtianos ſantiſſime vive
re, & hoc ſolum in eis poſe reprehendi, quod ni
mis facilè pro Deo ſuo vitam profundunt. Così
ne parla quel Plinio tra ſuoi Gentili si accredi
tato. Tanto è verò che ha ſempre la Chieſa vo
luto, che nella profeſſion di ſua fede accop
iaſſe il Criſtiano alla ſommiſſion dello ſpirito
a confeſſion della lingua, e andaſſero ſempre di
bell'accordo il cuor, ed il volto. -

Ma o Dio! che diverſità trà tempi, e tempi?


sccoppiamento ſi bello quanto a giorni noſtri egli
è raro a vederſi ? e d'onde mai sì obbrobrioſo
divario? Forſe la Chieſa di Criſto più non pre
tende dalle ſua membra l' onor antico ? Si,
che il pretende, e lo pretende con più di ragio
ne che prima. Forſe più non corrono alle ſue
membra gli antichi doveri ? Sì, che corrono,
e corrono con più di rigore che prima. E come
dunque più non ſi vede l' antica corriſpondenza
tra i ſentimenti interiori, e l'eſterior portamen
to? Ho fo: ſe a dire, che in un gran numero di
Per la Dom. quinta dopo la Pentec. 459
battezzati, il bel lume della fede ſia ſpento ?
nò; nè voglio, ne poſſo dirlo. Ma ſe non è
ſpenta la fede, che profeſſione ſi è mai coteſta,
che ſe ne fa? In quel circolo ſi pongono in dub
bio incontraſtabili dogmi, e tradizioni da tutti i
ſecoli ricevute. In quell'altro ſi ſpaccian dottrine,
che in apparenza ſevere aprono in realtà al rilaſ'
ſamento la ſtrada. E' egli queſto un parlar di
chi crede ? E' que libri che leggonſi, e danſi a
leggere pieni non meno di ſatire contro la Chie
ſa, che di errori contro la fede, moſtrano egli
no un operar di chi crede º Odonſi ora da que
ſti, ed or da quelli maſſime tutte oppoſte al
Vangelo: che l'ingiuria vuole vendetta, che in
queſto Mondo convien goderſela, che da certe
fragilità è impoſſibile l'aſtenerſene, e il non aſte
nerſene non è poi un gran fallo ; ripiglio io:
è egli queſto un giudicar di chi crede? E quel
tanto inveſtigare che alcuni fanno i miſteri più
venerabili, e quel decidere con tanta franchezza
ſu i punti più aſtruſi di Religione, e quel pre
ſumere di capire ciò che ſupera ogni umano in
tendimento, e quel criticar temerario le diſpo
ſizioni giuſtiſſime della Provvidenza regolatrice,
replico io, è ella ſommiſſion di chi crede? Poſſo
io perſuadermi, che pronto fatebbe a ſoſtenere
col ſuo ſangue la fede, chi udendo da bocca li
bertina metterſi in dubbio Purgatorio, Indul
genze, libero arbirrio, fuoco eterno, autorità
infallibile della Chieſa, tace, diſſimula, e laſcia
che l' empietà parli, e ſparli come a lei piace?
E chi dirà mai che abbia per la Religione tutto
l'impegno, chi ne doveri di Religione, preghiere,
Sagrifizj, Sagramenti, divina parola, moſtra ſom
ma la traſcuranza? O ſanta Chieſa! buon per
a e - chevoi
46o Diſcorſo XXV.
che ſon paſſati que tempi, che giuravano col
ieri o e col fuoco il voſtro ſterminio. Per altro
corie. cſte pur un gran riſchio di più non vede
re le voſtri figliuoli l'antico cuore; tanto è lan
guida a tempi noſtri la profeſſion della fede.
An, cari Uditorri, ricordiamoi, che quella Chie
fa di cui fiam membra, è quella ſteſſa di cui
erano membra i primi Criſtiani, e impariamo
da quefti l'onore che dobbiam renderle con la
profeſſione di noſtra fede. Coraggio vi vuole
in ciò che riguarda pratica di Religione: co
raggio. Non vi ſono più ſpade che minaccino il
profeſſor del Vangelo: Veriſſimo, ma vi ſono
dicerie di libertini, vi ſono maſſime di falſi po
litici, vi ſono contraddizioni del Mondo, vi ſono
ripugnanze del ſenſo; a tutto ſi ha da far fronte, è
ſi ha da trionfare di tutto: e ſe pur dura nel cuore
la fede, ſi ha da moſtrare nel volto. Queſto è l'ono
re che aſpetta da noi la vera Chieſa in cui ſia
mo, e più della Chieſa l'aſpettate voi o fonda
tor della Chieſa, Gesù amabiliſſimo.
Voſtra è la fede che profeſſiamo, e a voi dee
venirne dalla noſtra profeſſione il prim' onore.
Ma o confuſione noſtra indicibile º quanto ſiamo
noi lontani dal rendervi quell' onore, che già vi
reſero i voſtri ſeguaci? non ſolo è languida al di
dentro del noſtro cuore la fede, ma languide
ancora, e più che languide ſono le moſtre, che
al di fuori ne diamo. Ah, che ſara mai di noi,
ſe in punto di morte avanti voi ci preſentiamo
rei di fede mal prof. ſſata è che altro dobbiamo
aſpettarci, ſe non di eſſere da voi ributtati quai
figliuoli da voi non riconoſciuti per voſtri. Ma
nò , Gesù caro, ſperiamo che non ſarà in mor
ºe così, perchè ſiam riſoluti di più non viver
COSI :
Per la Dom quinta dopo la Pentec. 461
così: Profeſſeremo in modo la noſtra fede, che
fiavi tra l'interno del cuore, e l'eſterno delle
opere la dovuta corriſpondenza. Voi infondeteci
quel coraggio, che già infondeſte a primi voſtri
fedeli : Ve ne preghiamo per quelle piaghe ſan
tiſſime, che nelle voſtre mani adoriamo, ſicchè
ſeguendo le orme della generoſa lor profeſſione,
giungiamo noi ancora al poſſeſſo delle immor
tali loro corone.
Santa ch'ella è, vuol eſſere da noi onorata coll' -
innocenza illibata di noſtra vita. L'onor più ToIII.
"i;
bello che venga da un figlio al padre, egli è
quando imitando il figlio nel padre le virtù , che
lo fregiano, le ricoppia di modo in ſe, che mette
in dubbio ſe più viva nel padre il figlio, o più
nel figlio il padre; tanto l' uno ſi raſſomiglia
all'altro più che nelle fattezze del volto, nelle
bellezze dell' animo, Or queſto è l'onore che
da ſuoi figli con più di premura domanda l'otti
ma noſtra madre la Chieſa. Ella ci vorrebbe in
tntto ſanti, perchè in tutto ella è ſanta. Santa
nel Capo che la fondò ch'è Criſto ſteſſo; ſanta ne'
dogmi che ci propone, ſanta nelle leggi che ci
preſcrive, ſanta ne miſteri che venera, ſanta ne'
conſigli che ſuggeriſce, ſanta nella morale che
inſegna: Onde fra tanti pregi di ſantità, che
l' adornano, ancor queſto vorrebbe di poterſi
dir ſanta in ognun dei figliuoli che alleva. Ove
l'ottenga, ella proteſtaſi di eſſere fra tutte le ma
dre la più felice. E queſt'onore può egli da noi
negarſi ad una madre che tanto ci ama, che ci
benefica tanto, che ha tutto il merito d'eſſere
da noi, e ubbidita, e conſolata ?
Finalmente che domanda ella da noi, qualor
ci chiede innocenza di vita, e ſantità di coſtu
- - ſAi
462 Diſcorſo XXV s

mi domanda ella forſe, più che il noſtro, il ſuo


vantaggio ? E' vero che a lei ne viene luſtro ſem
pre maggiore, e che più d'una volta le è riuſcito di
trar nuovi figli al ſuo ſeno con la virtù degli anti
chi ſoltanto veduta. Ma quanto più della ſua è co
pioſa la meſſe, che da noi ſi raccoglie? Se umilinou
ci curiamo delle grandezze terrene, ſe caſti pren
diamo in orrore il piacere ſordido, ſe amorevoli
ſerbiamo ſtretta col proſſimo la frattellanza, ſe
pazienti ſopportiamo con raſſegnazione i trava
gli, ſe fervidi non ammettiamo nel cuore altri
che Dio, ſe giuſti, ſe forti, ſe manſueti, ſe
temperanti non laſciamo co noſtri paſſi altre ore
me che di virtù, ſon pur noſtri i meriti che ſi
acquiſtano: E chi può ſpiegarne l'amorevolezza ?
è pur noſtra la grazia che ſi accreſce; chi può
eſprimerne la dovizia ? ſarà pur noſtra la merce
de che ſi promette; chi può deſcriverne la gran
dezza! Merces magna nimis. Sicchè quando la
Chieſa vuole in ſantità ſimili a ſe ; più che al ſuo,
mira al ben noſtro, e contenta dell' onore che a
lei ne viene, laſcia a noi tutto il vantaggio.
Ma quand'anche a renderle queſt'onore il no
ſtro vantaggio medeſimo non ci ſpingeſſe, non
ce ne corre verſo di lei obbligo ſtrettiſſimo di
fedeltà ? Sovvengavi delle promeſſe che noi le
fecimo, quando pietoſa ci accolſe al fonte Bat
teſimale. Non poſſiam già negare, che noi allora
non rinunziaſſimo alle pompe del Mondo, alle
luſinghe del ſenſo, alle opere del Demonio? Con
queſto patto ella ci ſtrinſe al ſuo ſeno, e ci an
noverò trà i ſuoi figli. E noi tutto promiſimo,
noi ci obbligammo, noi ci impegnammo, e l'im
º pegno fu preſo in faccia de' ſuoi altari, e alla
preſenza de ſuoi Miniſtri. Dunque ſe ſmentir
- si mOIl
Per la Dcm, quinta dopo la Pentecoſte 463
non vogliamo ſi ſolenni proteſte, ſiamo in ob
bligo di accordarle quel candor de coſtumi che
ella richiede, e il mancare a un dover si preci
ſo non avrà ſcuſa che lo difenda. Nè vale già
il dire, che in mezzo al Mondo il non lordarſi
è poco men che impoſſibile, perchè ogni via
è piena di fango. A ſmentir queſta ſcuſa ſaprà
ben la Chieſa produrre fiigliuoli altri Principi
nelle Corti , altre Togati nclle Curie, altri
Guerrieri nel campo, altri Artieri nelle officine,
allri Bifolchi nelle capanne, che fedeli alle pro
meſſe le reſero coll'innocenza della vita l'onor
dovutole.
Ciò però, che più deve impegnarci ad ono
rare con una vita illibata la Chieſa noſtra Ma
dre, ſi è, che ove ad un ſuo figlio manchi la bon
tà de'coſtmmi, non ſolo ella perde un onore,
che le ſi dec, ma riceve di più sfregio non pic
coſo, e non lieve ſmacco. Coſa è infatti, ch'eſ
pone la Chieſa noſtra ſantiſſima al diſpregio,
alle critiche, alle deriſioni de' ſuoi nimici, ſe
non i mali coſtumi de ſuoi figliuoli ? Entri nel
le noſtre Città un Eretico, un Turco, un Ido
latra, un chi che ſia di ſetta falſa, e intenda
eſſervi slealtà ne contratti, frodi nelle vendite,
beſtemmie ne' giuochi, infedeltà ne' talami, ir
rivorenze nelle Chieſe, ſcandali, rubberie, in
giuſtizie, odj, vendette : che concetto volete
mai, ch'egli formi di quella Chieſa, di cui ſiam
figli? E queſta poi è , dirà ſubito, quella Chie
ſa Cattolica, che ſi vanta tanto di ſantità ? E
che vi ſi ſcorge di ſanto più, che tra noi ?
Tempj! ne abbiamo ancor noi, e vi ci ſtiamo
con più di modeſtia. Preci? ne recitiamo ancor
noi, e forſe con più di attenzione. Cirimonie
ſacre? ne pratichiamo ancor noi, e forſe con
- piti
464 Diſcorſo XXV.
più di ſtima. Ne coſtumi, che differenza vi è
mai tra i Cattolici, e noi ? Tra i nobili quanti
ne veggo, che inſupebiſcono come i noſtri ?
tra le donne quante, che come le noſtre van
no immodeſte? Mentiſcono come i noſtri i mer
canti; come appunto la noſtra non ſoffre bri
glia la gioventù. E avrò io a credere, che ſia
queſta la Chieſa più fanta, anzi la ſola, com'
ella dice, che ſia ſanta º eh mi ſi dia ad in
tender tutt'altro. La diſcorrerebbe maliſſimo, lo
confcſſo, perchè attribuirebbe a vizio della Chie
ſa ciò, ch'è tutta colpa de' ſuoi perverſi figliuo
li, e moſtrerebbe di non ſapere, che la Chieſa
fa quanto può per iſpirare amore alla virtù, e
orrore al vizio, che minaccia i colpevoli, che
li puniſce, che fin li ſepara oſtinati dalla co
munione del buoni.
Tutto vero, ma intanto partirebbe dalla Cit
tà con un concetto peſſimo della Chieſa diſo
norata appreſſo di lui, da chi º dalle iniquità
de Cattolici: eh, che pur troppo è così, cari
Uditori. Quei, che ſcreditan la ſanta Chieſa non
fon gli Eretici con le lor ſatire mordaciſſime,
con le lor calunnie inventate dall'aſtio, co li
bri loro pieni di veleno infernale: no. Sono i
Cattolici co' loro vizj: ſono i voſtri ſcandali o
giovani: ſono le voſtre vendette o puntiglioſi:
ſono le voſtre inſaziabili, e ſconvenevoli vani
tà o donne. Sono le oſcenità del diſcorſi, ſono
gli ecceſſi ne'giuochi, ſono le diſſolutezze de'Car
novali. Queſto è, che la diſonora, queſto che
la sfregia, queſto che l'obbliga a farne con Dio
2Tren. 1
i lamenti: Vide Domine, dice ancor ella co Tre
ni di Geremia, ci conſidera : quoniam facta ſum
vili. O mio Signore, o mio Spoſo, si a che
- al Q.
Per laDom, quinta dopo la Pentecoſte. 46;
ſtato mi hanno ridotta i miei figliuoli! ſono av
vilita, ſono ſprezzata, e alla mia ſantità più non
ſi ha credito: Vide, vide, ci conſidera. E ſe
Criſto a queſti lamenti altamente riſentaſi, al
ſuo Tribunale ve ne avvedrete, o Criſtiani per
verſi. E che direſte voi, Uditori, che fareſte di
un figlio, che coll'infamia delle ſue azioni di:
ſonoraſſe il voſtro ſangue, la voſtra ſtirpe ? Lo
cacciereſte dal voſtro volto, e lo vorreſte nulla
men che ſepolto nel cupo fondo di tenebroſa
torre, non è così? Or credete voi, che a queſto
Criſto men prema l'onore della ſua Chieſa, che a
voi il luſtro di voſtra caſa ? Indegno, dirà, così
trattaſi la Spoſa mia, la madre tua? Così ono
raſti e la mia, e la tua Chieſa ? ella sì pura,
e tu sì immondo; ella sì mite, e tu sì iracon
do; ella sì umile, e tu sì vano; ella sì ſanta, e
tu sì empio. Ah sleale, vanne lungi da me, e
ſconta giù negli abiſſi quel diſonori, con cui sfre
giaſti nella Chieſa, che ti allevò, queſto San
gue, che ti ha redento. Cari Uditori, avremmo
mai noi giuſta ragion di temere? Saremmo mai
ancor noi nel numero di coloro, che punto non
corriſpondono con la ſantità della vita, alla ſantità
della Chieſa? Se ciò foſſe, deh finchè abbiam
tempo plachiamo col ravvedimento quel Dio,
che dell'onore della ſua Spoſa è sì geloſo: Con
fondiamci, pentiamoci, umiliamoci; e riſarcia
mo con la pratica della penitenza l'onor, che
tolto abbiamo alla Chieſa con la perdita dell'in
IlOCCI) Za.

Sì, mio Gesù, io mi proteſto, che mi ſon


portato finora da figlio indegno. Figlio d'una
madre sì ſanta, nulla meno ho cercato, che la
ſantità del coſtumi. Merito perciò, lo confeſſo,
Ann. IV. Tom, IV. Gg merito
466
-
Diſcorſo XXV. -.

merito pur troppo d'eſſer lo ſcopo de' voſtri


fulmini, e certamente lo ſarei ſtato, ſe voi con
miſericordia infinita dato non mi aveſte tempo
di ravvedermi. Riconoſco la grazia fattami, e
pentito di tutto cuore abbonino quelle azioni,
con le quali ho diſonorata finora la voſtra Chie
ſa. Vi prometto, che in avvenire procurerò di
conformare alla ſantità delle ſue leggi la ſantità
de'miei coſtumi. Voi intanto per quella piaga
ſantiſſima, che nel voſtro Coſtato adoriamo,
datemi grazia, che adempia con tal coſtanza il
mio dovere, che in punto di morte mi meriti
di paſſare dalla Chieſa, che in terra milita, a
quella, che in Cielo trionfa.
sG -

D I S C O R S O XXVI.
P E R LA DO M EN I C A SESTA
D O P O LA PENT E C O STE.

Timor di noi ſteſſi.

Si dimiſero eos jejunos in domum ſuam, deficient


172 v2A2, Marc. 8.

ºg-i-gion è già vero, Uditori, che al


Nsf ºl, zerebbe sì altiera la fronte l'or
º N 3? goglio umano, ſe fiſſar voleſſe di
-

3éi , ºra quando in quando lo ſguardo


- -

asi i5 non dico ſolo in quella creta,


sè -3,
di cui va impaſtata la noſtra car
ne, ma in quelle piaghe ancora, dalle quali
Va si ſguarciato e malconcio il noſtro ſpirito,
Tempo
Per la Dom. ſeſta dopo la Pentecoſte. 467
Tempo già fu, che l'uomo ammantato di gra
zia originale, corteggiato da tutto lo ſtuolo
delle virtù, fregiato d'immenſi, ſovrani doni,
dominatore aſſoluto di tutta la turba delle paſ
ſioni avrebbe potuto ſantamente invanirſi. Ma
dacchè la colpa fè breccia nel cuore del primo
padre, ed ottenutane la reſa lo ſpogliò de ſuoi
celeſti teſori , che altro patrimonio, che di
venture è paſſato in retaglio alla infelice ſua
poſterità ? Smarrita la luce, che il riſchiarava,
piangeſi condannato a tenebre l'intelletto; ſot
tomeſſo dall'appetito geme quaſi in catene l'ar
bitrio; tiranneggiato dalle paſſioni vive il cuo
re in una perpetua rivolta, ingannata dalle ap
parenze la fantaſia più non diſtingue dal vero
bene il falſo. E in un iſcompiglio sì lagrime
vole di tutto l'uomo può aver luogo alterigia,
e non piuttoſto timore, ribrezzo, ſpavento? Pel
legrini, che ſiamo avviati all'eternità, in che
mai nel bujo di tanti errori fondar poſſiamo la
ſperanza di un termine avventurato ? Se non ci
regge quella mano divina, che ſi moſſe oggi
a pietà delle turbe Evangeliche, con quanto più
di ragione abbiamo noi a temere, che ci man
chi lena per arrivare alla patria de'Beati? Che
però, cari Uditori, io vorrei, che dato queſta
ſera uno ſguardo alle noſtre miſerie, imparaſ
ſimo una volta a temere di noi, e riconoſcen
do la difficoltà, che dal canto noſtro abbiamo
per compire felicemente il viaggio di noſtra vi
ta, ci animaſſimo a tenercela con quel Dio, da
cui ſolo ci ſi può ſomminiſtrare vigore. Il pec
cato del primo padre ha tramandate ſul noſtro
ſpirito sì maligne impreſſioni, che dovendo noi
battere la via della ſalute, o ci manca lume per
Gg 2 conoſ
458 Diſcorſo XXV.
conoſcerla, o ci manca forza per intraprender
la, o ci manca coraggio per proſeguirla. Quin
di eccovi tre timori, che debbono tenerci ſem
pre in una ſanta ſollecitudine: timore della no
ſtra ignoranza ; lo vedremo nel primo punto:
timore della noſtra debolezza; lo vedremo nel
ſecondo punto: timore della noſtra incoſtanza ;
lo vedremo nel terzo punto. Queſti timori ci
accerteranno il beato termine, a cui ſi aſpira,
perchè eccitteranno i noſtri ricorſi a quel Dio,
ſenza il cui ajuto come perite ſarebbono le o
dierne turbe, così forza è , che periamo ancor
noi: Si dimiſero eos jejunos in domum ſuam, de
ficient in via.
"i Dobbiamo temere della noſtra ignoranza. Sem
bra, Uditori, a prima viſta, che l'ignoranza,
di cui ragiono, ivi ſolo debba temerſi, ove non
giunga coltura di ſpirito, e ch'eſſer non poſſa
ſe non diſgrazia d'un intelletto abbandonato
alla ſua natia rozzezza. Ma piaceſſe al Cielo,
ch'ella ſolo allignaſſe o in valli ſolitarie, o ſu
montagne alpeſtri, o in terre barbare, o in
iſole ſequeſtrate da ogni commerzio. Stende pur
troppo le fatali ſue tenebre anche ſu regni, o
ve più fioriſcono le Accademie, anche ſulle
Città, ov'è più ſpiritoſa l'educazione, anche
ſulle perſone, che più ſi pregiano di accortez
za. Se a portare il bel titolo di figliuoli di lu
ce dato da Criſto a ſuoi diſcepoli, baſtaſſe il ben
intenderſi di raggiro, di traffichi, di governo
di famiglia, di maneggio d'affari, di economia
di beni, ſe baſtaſſe un'intelletto dirozzato dall'
arte, raffinato dalla politica, ammaeſtrato dal
le ſtienze, direi ancor io ch'ella è rara nel Mon
do Cattolico la ignoranza. Ma queſta, che il
Mondo
Per la Dom, ſeſta dopo la Pentecoſte. 469
Mondo ingannato chiama ſapienza, chi non ſa,
che appreſſo Dio altro non è, che ſtoltezza,
ove manchi la ſcienza dell'anima, e della ſalute?
Ubi non eſt ſcientia anime, non eſt bonum. Or Provie
queſta è la ſcienza, cari Uditori, che anche dal
le popolazioni più colte signora, e quegli an
cora, che nel reſto moſtrano di avere più aper
ti gli occhi; in queſta o nulla veggono, o non
veggono più oltre della ſuperficie; dove ſi trat
ta di doveri di Mondo, ſe ne ſa anche troppo:
dove ſi tratta di doveri di religione, ſe ne ſa
pochiſſimo.
Che ſe per avventura vi pare ſtrano, che poſe
ſa sì funeſta ignoranza aver luogo anche dove
) le iſtruzioni ſon più copioſe, dove gli eſercizi
di religione ſon più frequenti, dove il ſeme del
la divina parola in maggior abbondanza ſi ſpar
ge; fatevi meco in vicinanza di Geroſolima, ed
ivi dalle lagrime di Gesù, meglio che dalle mie
parole, intenderete il vero, di cui vi parlo. Fer
maſi Criſto in viſta dell'infelice città , e miran
dola cone occhio
ſoſpiri, sfogaſi compaſſionevole prorompe
in pianto: Videns in Luc.1,
Civitatem
g flevit ſuper illam. E qual è, Uditori, il motivo
del ſuo dolore? Uditelo eſpreſſo dal ſagro teſto:
Si cognoviſſes & tu. O Geroſolima, città al Cie
lo un dì sì cara in quali tenebre d'ignoranza ſe
polta ti veggo ! Che bella ſorte ſarebbe la tua,
; ſe tu aveſſi in queſt'ora aperti gli occhi! Si co
- - a - -

gnoviſſes & tu, & quidem in hac die tua, que ad


pacem tibi. Ma ſventurata che ſei, nè tu vedi il
tuo bene, nè tu prevedi il tuo male: Nunc au
tem abſcondita ſunt ab oculis tuis. O miſera, ſe
" cognoviſſès, ſi cognoviſſes. Ma e qual cognizione
º mancava mai ad una Città, ch'era allora la me
Gg 3 tropoli
476 Diſcorſo XXVI.
tropoli del popolo eletto ? Non era ella la de
poſitaria del divin Teſtamento è non ſalivano tut
to dì ſulla Cattedra di Mosè accreditati Dottori ?
non ſi oſſervavano con eſattezza i riti legali º
non ſi offerivano cotidiane vittime al vero Dio è
e qual era dunque l'ignoranza, che traſſe da
gli occhi di Criſto le lagrime? Eccola: Geroſo
lima ſi fermava nell'eſterna apparenza del di
vin culto, e non ne penetrava l'interno ſpiritos
praticava le cerimonie, e non ne conoſceva i
miterj; vedea le figure, e non iſcorgea le ve
rità, che ſotto eſſe ſi naſcondevano ; vedea le
profezie del Meſſia futuro, e nol riconoſcea pre
ſente. Ignoranza tanto più deplorabile, quanto
men conoſciuta, e però degna fin del pianto di
un Dio: Videns civitatem flevit ſuper illam.
Or ditemi, cari Uditori, non è queſta altresì
l'ignoranza di molti Criſtiani allevati nel ſeno
di ben coltivate città ? Quanto riguarda l'eſter
no culto di religione, il conoſcono, non cono
ſcono ciò che ne riguarda l'interno ſpirito: co
noſcono il ſagrifizio, che ſi offeriſce, i Sagramen
ti, che ſi amminiſtrano, i precetti, che s'impon
gono, i miſterj, che ſi credono, il Dio, che ſi adora;
ma queſto non è altro, dirò così, che il corpo del
Criſtianeſimo; ma l'anima del Criſtianeſimo, che
conſiſte nel praticare le verità della fede, nel ſegui
re le maſſime del Vangelo, nel ſommettere l'intel
letto ai dogmi definiti, nel conformare la volontà
a decreti divini, nel diſtaccare da queſta terra gli
affetti, queſta non la conoſcono. Dite loro, che
ſi deono crocifiggere le paſſioni: non capiſcono,
che debbonſi non ſolo non odiare, ma amare
i nimici: non l'intendono: che non vi ha ſtato
peggior di quello di chi ſi trova in peccato i"
C
Per la Dom. ſeſta dopo la Pentecoſte. 471
ſel perſuadono. A beni ſenſibili tutto l'affetto:
de'beni inviſibili pochiſſima ſtima. E non è que
ſta, Uditori miei dilettiſſimi, un'ignoranza de
gna di lagrime è nel bujo di tante tenebre vi può
eſſere ſicurezza ? ſi può ſperare ſalute? Dite ora
voi, ſe non abbiamo ragione di temere, e ſe
non dobbiamo adoperar ogni induſtria per te
nerla da noi lontana una cecità sì luttuoſa.
Ma come, cari Uditori miei, come ci riuſci
rà di guardarcene? Non altrimenti, vedete, che
con opporre alle tenebre noſtre la luce di Cri
ſto: Qui ſequitur me, così ce l'inſegna Criſto Joan.sa
medeſimo, non ambulat in tenebris: Sinchè vor
remo ſeguire il giudizio del noſtri ſenſi, o l'in
chinazione del noſtro appetito, o i corti lumi
della noſtra ragione, daremo mai ſempre nella
via della ſalute paſſi falſiſſimi: Ego, dice Cri
ſto, ego ſum lux Mundi. Io, io ſolo ſono la ve. Ibid.
ra luce: io, e non i dettami del Mondo: io,
e non gli uſi del Mondo: io, e non la pruden
za del Mondo: Ego ego ſum lux, Ed è così, di
lettiſſimi miei, fuori di Criſto non troverete al
tro che tenebre, confuſione, ignoranza; e quei
medeſimi, che il Mondo ſpaccia per ſuoi ora
coli, dove ſi tratta d'anima, di religione, di
fede, o non ſanno parlarne, o ne parlano male,
perchè voglion parlarne ſecondo i loro ſtorti prin
cipj. Le maſſime di Criſto, l'Evangelio di Cri
ſto, gli eſempi di Criſto ſon quelli, che hanno
a guidarci, ſe vogliamo nel noſtro pellegrinag
gio accertare un buon termine. Eppure (o ſven
tura !) ſe crediamo all'Evangeliſta S. Giovanni,
aman gli uomini, meglio che la luce, le tene
bre: Dilexerunt homines magis tenebras, quam Jeans
lucem. Trovano che gl'ignoranza più favoriſce
Gg 4 le
472 Diſcorſo XXVI.
le loro paſſioni, ſeconda più i loro capricci,
rieſce più comoda al ſenſo, e ſe la tengono cara,
e punto non ſi curano di ſgombrarla. E qual ma
raviglia poi, cari Uditori, ſe chi nel corſo della
vita cammina all'oſcuro, trova in punto di mor
te il precipizio!
O Gesù mio, non permettete ch'io ſia nel
numero infelice di queſti ciechi. Ben veggo, che
da me non ho altro, che tenebre, e che il Mon
do non ha luce valevole per iſgombrarle. Ma
per queſto appunto a voi ricorro, Gesù mio
caro, che ſiete la vera luce, acciocchè piacciavi
illuminarmi. Vi proteſto, che altra guida non
voglio ſe non voi, le voſtre maſſime, i voſtri
eſempj, il voſtro Vangelo. Vi ſupplico pertanto
per le piaghe ſantiſſime de' voſtri Piedi, che u
milmente adoro, a farmi partecipe di quella lu
ce, che voi veniſte a portare nel Mondo, affin
chè ſcorto da raggi ſuoi ſgombri adeſſo le tene
bre del noſtro eſiglio, e giunga un dì alla luce
immortale del voſtro regno.
= Dobbiam temere della noſtra fiacchezza. Ot
Pu: tenuta che ſiaſi la luce per iſcorger la via, baſta
ciò, perchè giungaſi felicemente al temine? no,
cari Uditori. Riſchiarato l'intelletto fa duopo,
che ſi avvalori la volontà; altrimente dura il riſ.
chio di finir male, ſe non per errore, almeno
per fiacchezza. Tra i ricordi dati dal Redentore
a ſuoi diſcepoli nell'inviargli a promulgare il
Vangelo, uno fu, che nel cammino non ſalu
taſſero alcuno: Neminem per viam ſalutaveritis.
Lue.1. Il ſerafico S. Bonaventura ſpiegando il miſtero,
che in queſto ricordo naſcondeſi, non vi cre
diate, dice, che abbia Criſto voluta ne' ſuoi Ap
poſtoli ſcorteſia e ruſtichezza sno: ha
-
"CI)S1
Per la Domen.ſeſta dopo la Pentecoſte. 473
bensì di dare ad eſſi , e a noi una importante
iſtruzione, ed è, che non ſi può ad alcuno, ſin
ch'è viatore, aſſicurar la ſalute: Neminem per Bonav.
viam ſalutaveritis: hoc eſt non ſalvum dicatis, p . iº
cum adhuc damnari poſit quamdiu eſt in via. E'
vero, che per ſalvarſi è neceſſario conoſcere la
vera ſtrada, ed intraprenderla sma è vero altresì,
che ove per debolezza ad ogni due paſſi s in
ciampi e ſi cada, più non vi vuole per perder
ſi: e ciò quanto è facile ad avvenire, ſe riflet
tiamo alla fiacchezza dell'eſſer noſtro ? Siamo
noi più, dicea Abramo, che un pugno di pol
vere º per diſſiparlo vi vuole altro che un ſoffio?
Siamo noi più che una fronda, dicea Giobbe?
per iſcuoterla vi vuole altro che un venticello?
Siamo noi più, dicea Davidde, che un fior del
campo º per iſtiervarlo vi vuole altro, che un
raggio leggiero del Sole ? E non proviamo noi
tutto dì, e quanto difficilmente poſſiamo quel
bene, che vorremmo, e quanto difficilmente vo
gliamo quel bene, che potremmo? Alla virtù qual
ripugnanza ? al vizio qual propenſione? Chi non
ſente dentro di ſe, come l'Appoſtolo, il contraſto
di due leggi, l'una della ragione, l'altra della con
cupiſcenza ? e quanto ſpeſſo prevale a quella pri
ma queſta ſeconda, portandoci a far quel ma
le, che dovrebbeſi ad ogni coſto laſciare, e a
laſciare quel bene, che ad ogni coſto dovrebbe
farſi? doppiamente deboli, dove converrebbe in
traprendere, ci ritiriamo ; dove converrebbe re
ſiſtere, ci arrendiamo.
Eppure sì fiacchi come ſiamo, a chi abbiamo
noi a far fronte ? A paſſioni che ci combatto
no con gagliardia: ad un Mondo, che ci tiran
neggia con le ſue leggi; e quel ch'è più, al
Demonio
474 Diſcorſo XXVI.
Demonio, nimico quanto accorto e forte, al
trettanto maligno e crudele; nimico, che per dare
più opportuni gli aſſalti, ſtà in attenzione con
tinova di ſpiare in noi la parte più debole; ni
mico, che in ogni incontro, in ogni luogo, in
ogni impiego ci rende inſidie ; nimico finalmen
te, che dove veda che la guerra dichiarata non
giovi, ſa trasformarſi in Angiolo di luce per in
gannarci, e ardito ci ſi fa incontro talora con
maſchera di divozione, e di ſantità per tirarci
con maggior ſicurezza nelle ſue reti. E noi sì
deboli contro avverſari sì forti potremo, udito
ri, vivere ſenza timore ?
Quanti infatti, dilettiſſimi miei, ſono le ſcon
fitte, che giornalmente ſi veggono? quante le
anime, che ſi danno tuttodì per vinte ? quante
vittorie riporta il Mondo? quante il ſenſo è quan
te l'Inferno ? le vanità, le pompe, gli onori
quanti ritraggono dal partito dell'umiltà ? Le
ricchezze, i divertimenti, i piaceri quanti ſol
levano contro la Croce ? Forſe che tra Criſtiani
cuei, che vilmente ſi arrendono a nimici di Cri
ſto, non ſono il più ? Forſe che non ſono il più
quelli, che ſottomeſſi nelle cotidiane battaglie,
vanno a gemere in eterna ſchiavitù è E che di
più ſi richiede perhè temiamo ancor noi, nulla
più di loro forniti di forze? Vede Giacobbe in
ſogno la miſterioſa ſcala , alla cima di eſſa vi
ſcorge Dio, e al lungo di eſſa gli Angioli, che
ſalgono, Angioli che ſcendono. Bella viſione!
bella viſione! Trema il buon Patriarca e paven
ta: Pavenſ que, dice il ſagro Teſto, e con mag.
gior eſpreſſione ancora la verſione Siriaca: Exti
mui timore magno, e di sì ſtrano timore, ne
dà la ragione un dottiſſimo Spoſitore con "
C
Per la Domen, ſeſta dopo la Pentecoſte. 475
che ſapea Giacobbe eſſer quegli Angioli figura
delle anime entrate per mezzo della fede nella
via della ſalute. E' vero, che ne vide alcuni che
ſalivano, ma ne vide anche altri, che dopo eſ
ſer ſaliti, ſcendevano: e tanto baſtò, perchè il
Santo Patriarca tremaſſe al penſiero del ſuo pe.
ricolo; perchè ſebbene avea giuſto motivo di ri
conoſcerſi tra quei che ſalivano, conſapevole pe.
rò della ſua debolszza, temeva di poter eſſere P
uno tra que che ſcendevano: Deſcenſus Angelorum "i
ſignificat eorum, qui magnos in ſtudio perfectio s.n.
nis fecerant progreſſus, horribilem caſum lapſum
que in peccata graviſſima. O quanti, dilettiſſi
mi miei, Angioli una volta di glorioſe ſalite
hanno poi terminati con rovinoſa caduta i loro
giorni! Angiolo che ſaliva era un Saulle, e poi
quanto infelicemente finì ? Angiolo che ſaliva
era un Giuda, e poi quanto vergognoſamente
precipitò º Angiolo che ſaliva era un Origene,
e poi miſeramente rovinando, qual infauſta me
moria ci ha laſciato di ſe è O umana debolez
za, quanto ſei da temere! ma inſieme quanto
poco ſei temuta, quanto poco! Direſte voi, cari
uditori, che ſi riconoſcano per quel che ſono
di fiacchiſſime forze certuni, che non ſolo non
vanno con piè guardingo, ma arditamente ſi get
tano nelle occaſioni? Sanno quanto ſia pericoloſa
quella caſa, e la frequentano: quanto velenoſo
quel libro, e lo leggono: quanto luſinghiera
quell'amicizia, e la fomentano: quanto intri
cato quel negozio, e lo intraprendono: quanto
pernizioſo quel giuoco, eppur lo vogliono; ſen
za alcun freno agli ſguardi vogliono mirare quan
to lor piace, ſenz'alcun ritegno alla lingua vo
gliono parlare di quanto loro torna in ".
CIAZ
476 Diſcorſo XXVI.
ſenz'alcuna cautela nel tratto vogliono conver
ſare con chiunque dà loro in genio; e avranno
coſtoro forza, che baſti a reggerſi in piedi. E non ſe
gneranno coſtoro con più cadute che paſſi la loro
via ? Penſate, dilettiſſimi, s'egli è poſſibile. Appena
rieſce a chi, conoſcendo la ſua fiacchezza, per
iſchermirſi da pericoli, condanna a ſtretta legge
i ſuoi ſenſi, e ad una ſanta ritiratezza i ſuoi
paſſi, e riuſcirà poi a chi con ſomma baldanza
và in traccia di tentazioni? Errore, temerità ,
preſunzione! No no, dice Gregorio, non è del l
la via di Dio come della via del ſecolo, in que
ſta è Padre della fortezza l'ardire, in quella dall'
L.mor. ardire altro non può naſcere che fiacchezza: Si
º º cut in via ſeculi audacia fortitudinem, ita in via
Dei audacia debilitatem parit. E ſiccome il timo,
re nelle impreſe di Mondo genera codardia, così
in quelle della ſalute iſpira fortezza: Et ſicut in
ſtia via ſeculi timor debilitatem, ita in via Dei ti
morfortitudinem gignit. E l'imparò il Santo Pon
tefice dall'Appoſtolo Paolo, che con veriſſimo
paradoſſo ct be a dire di ſe, che allora era più
forte, quando ſi ſentiva più debole: Cum infir
mor, tunc potensſum, perchè la debolezza gl'iſ
pirava timore, il timore lo animava al ricorſo,
il ricorſo gli otteneva l'ajuto, e l'ajuto gli ſom
sº miniſtrava fortezza, e però : Cum infirmor, tumc
potens ſum. Riconoſciamo dunque, dilettiſſimi
miei, la noſtra debolezza, non già per farcene,
come da molti ſi ſuole, un preteſto di ſcuſare
le noſtre cadute, ma per farcene un giuſto mo
tivo di timore. Il timore ci farà diffidare di noi,
e ci ſpingerà a ricorrere a Criſto. Paolo nella
ſua fiacchezza trovò in Criſto il conforto : lo
troveremo ancor noi, ſe noi ancora come ".
Q
--- -.
Per la Dom.ſeſta dopo la Pentecoſte. 477
lo ricorreremo a lui. E che altro in fatti bra:
ma Gesù, ſe non i noſtri ricorſi º non è egli
ora pronto ad udirci? non è egli voglioſo
d' aſſiſterci? E in queſto ſteſſo momento non
iſtà egli in quel trono per ricevere le noſtre
ſuppliche ? -

Sì Gesù mio, ecco a voſtri piccii un'anima


sì debole, che ſenza l'ajuto voſtro appena al
tro può, che il peccato. Quanto temo di me,
Gesù mio caro, quando penſo alla fiacchezza
delle mie forze ! Ma buon per me, che poſſo
nella voſtra grazia avere la mia fortezza- In voi
pertanto ripongo tutta la mia fiducia, o buon
Gesù: Quia tu es Deus fortitudo mea. Se voi vi Pſ: 4es
degnate a jutarmi, tanto non mi atterriſce il po
co, che io poſſo, che anzi coll' Appoſtolo mi
fo un pregio della mia medeſima debolezza: C
Libentergloriabor in infirmitatibus meis. Avvalora- "
te dunque Redentore mio amabiliſſimo, ve
ne ſupplico per quelle piaghe, che adoro del
le voſtre ſantiſſime Mani, avvalorate il mio
ſpirito, reggete i miei paſſi, incoraggite il mio
cuore; affinchè vittorioſo di tanti nimici, che
mi fan guerra, cantar poſſa in eterno i trionfi
della voſtra grazia. -

Dobbiam temere della noſtra inconſtanza. Tra,


le miſerie, che Giobbe deplora quali compa-ii.
gne indiviſibili del viver noſtro, una è l'in
ſtabilità dell'umano volere; anzi dopo aver no
verate la brevità della vita, la debolezza della
natura, la fugacità de'beni, deſcrive in ultimo
luogo, come di tutte le calamità la maggiore,
il non ſerbarſi mai dall'uomo il medeſimo
ſtato: Nunquam in eodem ſtatu permanet. Il Jol.is,
the confermato pur troppo dalla fisici
è
lte
478 Diſcorſo XXVI.
dire a Tertulliano, non eſſere mai l'uomo il me
deſimo, ed eſſer da ſe ſteſſo ſempre diverſo s
ſe non foſſe per queſto ſempre il medeſimo, per
chè ſempre da ſe diverſo; tanto è paſſata in na
L. i tura la ſua incoſtanza: Numquam ipſe, ſemper
adv. - a - -

ie. alius, ci ſi ſemper ipſe, quando alius ? Piaceſſe


almeno a Dio, che ſvenrura sì fatta conoſciu
ta foſſe altrettanto, quant ella è grande; ma
per colmo della diſdetta, come ben l'oſſerva
il Veſcovo S. Zenone, la volubità è paſſata in
piacere, e giunge l'uomo a tal ſegno, che
mette a conto d'infelicità l'eſſere ſempre lo
ſteſſo: Quotidie immobilitatis gaudet, varieta
tibus ſtudet, ci miſerum ſe putat eſe, ſi ipſeſt.
Eppure ſe tra le noſtre miſerie una ve n'ha,
che più debba iſpirarci timore, ella è certamen
te la noſtra incoſtanza. Imperocchè con tanta
immutabilità di voleri, che poſſiamo noi pro
metterci nella via della ſalute? chi ci aſſicura,
che ſiamo per voler ſempre quel bene, che
ora vogliamo? Non è egli vero, che ſolo chi
perſevera nelle opere ſante ſino alla morte, ri
a Matth. porterà immortale corona ? Qui perſevera verit
º uſque in finem hic ſalvus erit Or queſta sì ne
ceſſaria perſeveranza, chi ce la mette più in riſ
chio, che l'inſtabilità del noſtro animo?
uando Criſto nell'ultima cena fè ſapere a
ſuoi Appoſtoli, che uno di eſſi avea in quella
“ notte a tradirlo, dice il ſagro Teſto, che ſi at
triſtarono tutti; e che ſollecito ciaſcuno di ſe
medeſimo interrogò : Signore ſarei mai io il
Matth. perfido, lo sleale, il traditore: Contriſtati val
“ de caperunt ſinguli dicere: numquid ego ſum Do
mine? Non vi ſembra, uditori, che abbiano
dello ſtrano queſta loro triſtezza, e gustº" 0
Per la Dom. feſta dopo la Pentecoſte. 479
li domanda è ſapean pur eſſi, che non nodrivan
nel cuore ſentimento di reo: ſapeano pure quan
to foſſero riſoluti di non mancare di fede allo
ro maeſtro. Tutto vero, ripiglia quì S. Leone;
ma ſapeano ancora quanto abbia a temerſi l'u-
mana incoſtanza; e però ſe non potea recarlo
ro triſtezza la coſcienza innocente, dovea loro
recarla la mutabilità del volere: Contriſtati ſunt se, ,
non de conſcientiae reatu, ſed de human.e muta depaſſ,
bilitatis incerto. Ah, ch'egli è sì inchinato alle
mutazioni il noſtro animo che più ſovvente,
che nell'aria i venti, o nel mare le onde, ſi
cambiano le riſoluzioni nella noſtra mente, e
nel noſtro cuore gl affetti. Oggi avvampiam di
fervore, e domani geliam di freddezza: al tri
bunale della penitenza lagrime di compunzione,
e poi fuori di Chieſa nuovi sfoghi di libertà:
nelle malattie bei ſentimenti d' emendazione,
ricuperata la ſanità peggio che mai tra i di
ſordini: all' uſcire da un ſagro ritiro quanti pro
ponimenti di giuochi da laſciarſi, di converſa
zioni da ſchivarſi, di familiarità da troncarſi,
di ſagramenti da frequentarſi, di eſercizj divo
ti da intraprenderſi; e dopo un breve tempo i
giuochi ſi ripigliano, le converſazioni ſi rivedo
no, le famigliarità ſi rinnovano, i Sagramenti,
e le divozioni ſi tralaſciano. Cari uditori, io
non dico già coſa, che non poſſiate oſſervare
voi in voi ſteſſi: confrontate voi con voi, voi
nell'orazione con voi nelle faccende, voi in
Chieſa con voi in caſa, voi ſolitari con voi
nelle compagnie, voi in tranquillità con voi in
tribolazione, voi pentito con voi recidivo; e
poi ſappiate voi dirmi, qual capitale, poſta la
voſtra incoſtanza, poſſiate voi fare delle voſtre
proa
48o Diſcorſo XXVI.
promeſſe, delle voſtre confeſſioni, della voſtra
perſeveranza, della voſtra eterna ſalute? E non
è queſto per voi un argomento di più che giu
ſto timore?
Nè vi ſia, chi creda, poter con ſicurezza de
porre queſto timore, perchè già da lungo tem
po ſi è appigliato da una vita di virtù, di di
vozione, di ritiratezza. No, dilettiſſimi, no:
nella via della virtù allora è maggiore il peri
colo, quando è minor il timore. Chi comin
cia a non temere, è in obbligo di temer più ,
perchè il ſuo non temere può eſſere la ſua ro
vina. E' egli nuovo, che gagliardo improvviſo
turbine ſradichi piante di già robuſte ? E' egli
nuovo, che dopo un infeliciſſimo corſo incon
tri una nave in faccia del porto il naufragio ?
e non può rincreſcimento importuno di ritira
tezza ricondurvi alle antiche licenze º non può
un violento umano riſpetto diſtaccare il voſtro
cuore da Dio ? non può tentazione non preve
duta dare una ſcoſſa terribile alla virtù, e ro
veſciare ogni riſoluzione ben conceputa ? non
può il Mondo, il Demonio rappreſentarvi con
tal vivezza gli oggetti già da voi deteſtati, che
vi porti ad una compiacenza, ad un deſiderio, ad
un conſenſo? chi potea parere più fermo, più
ſtabile, più riſoluto di un Pietro º quel Pie
tro sì amante del divin ſuo maeſtro, che non
ſapea ſtaccarſene; quel Pietro pronto piuttoſto
a prender la vita, che a mancare di fedeltà i
quel Pietro, che col ferro alla mano moſtrò a
difeſa di Criſto il ſuo coraggio: eppure voi
ben ſapete, uditori, che tragico eſempio ei ci
ha laſciato dell'umana incoſtanza. Grande am
macſtramento, dice Sant'Ambrogio, a tutti i i"
Per la Dom. feſta dopo la Pentecoſte. 481
Si ſti, affinchè imparino a temere di ſe, e ſi per
i ſuadano, che a farci cambiar ſentimento, ed
g affetti, nulla più vi vuole, che o una paſſione,
che ci ſorprenda, o una occaſione, in cui s'in
º ciampi: Error Petri dottrina juſtorum eſt. Te
i miamo dunque. temiamo l'inſtabilità del no
º ſtro cuore, inſtabilità, che può in ogni mo
o mento della noſtra vita, e quel che ſarebbe la
i ſomma delle ſventure, può nel punto medeſi
i mo della morte farci paſſare dalla grazia alla
colpa, e dalla colpa alla dannazione. Temia
i mola; e ſiccome da Criſto abbiamo a ſperare lu
i ce nella noſtra ignoranza, e forza nella noſtra fiac
chezza, così da Criſto ancora crchiamo fermezza
nella noſtra incoſtanza. Un edificio, dice il Rcden
tore, fondato ſu ſalda pietra non teme rovina,
e reſiſte inconcuſſo a venti, a pioggie, ea fiumi:
) Deſcendit pluvia, ci venerunt flumina, ci flave
i runt venti, di irruerunt in domum illam, e º.
º non cecidit; fundata enim erat ſupra firmam pe
» tram. Queſta pietra, ſe crediamo all' Appoſtolo,
x è Criſto ſteſſo: Petra autem erat Chriſtus. Fon
diamo in lui le noſtre ſperanze, e poi a diſ “º”
i petto della natìa noſtra mobilità immobili ci ter
i remo, e tra le tribolazioni, che il Ciel può
º mandarci, e tra le perſecuzioni, che il Mondo
i può muoverci, e tra le tentazioni, che può
contro di noi eccitare l'Inferno: Si conſiſtant ad
verſum me caſtra, diremo ancor noi con le pa.
i role del Salmiſta, non timebit cor meum: ſi ºſº
º exurgat adverſum me pralium in hoc ego ſpera
bo. Quanto meno poſſo di me fidarmi, tanto
più a Criſto mi atterrò. Gesù ſarà ſempre la
mia fiducia, Gesù il mio appoggio, Gesù la
mia fermezza. -

Togno IV. Anno IV, H h mia


432 Diſcorſo XXVI.
Sì mio Gesù, ſo, che da me altro non ho,
che incoſtanza: mi ſollevo, e poi ricado: ven
go a voi, e poi ne parto: dono, e poi ripiglio:
propongo, e poi non opero, ſubito m'intiepi
diſco, e mi ſtanco, e così vo paſſando in una
inſtabilità i miei giorni. Ma non ſarà più, Gesù
mio caro, che in avvenire io vi manchi di fe
deltà, perchè ſon riſoluto di tenermela ſempre
con voi, da cui ſolo poſſo ricevere la fermez
za, che bramo. Deh, Gesù amabiliſſimo, de
gnatevi ricoverarmi, come già la ſpoſa voſtra
contº diletta in foraminibus petre, in caverna maceries
voglio dire nella piaga ſagroſanta del voſtro
Coſtato, che adoro con tutto il cuore. In que
ſta voglio vivere, in queſta morire, perchè ſin
chè in queſta mi tratterrò, temer non poſſo di
perdere quella finale perſeveranza, che ſola può
rendermi ſanta la morte.

a-a--A--a-si--à--a--a- a..a--a--a- l
st-tst-st-t-tse - e se

s
X G º si
-;

º 4 la
4 Se? º
| X e Ae Sºx
i a
s v
a I
v--vº-ur-rvvvv- T-----v
a

DIS
saaaaaaº si: 423

i 4
a s
DI S C O R S O XXVII.
PER LA DO M EN I CA SE T TIM A
DOPO LA PENTECO STE.

Non far del male non baſta.

Omnis arbor, que non facit fructum bonum, exci


detur, 6 in ignem mittetur. Matth. 7.
Sº. Nei 9% Ianta che non dà frutto, o ſe lo
S 3 (è dà non lo da buono, non ſi aſ
P petti altra ſorte che l'infelice del
3/a
-
- sè taglio,
SS
e la più infelice del fuo
co. Tal è la Sentenza terribile,
Gº S altrettanto che giuſta, pronun
ziata nell'odierno Vangelo dal
Redentore, Omnis arbor, que non facit fruttum
bonum, excidetur, 6 in ignem mittetur. Cri
tiani tiepidi, Criſtiani pigri, Criſtiani ſterili di
ſante opere, ben dovreſte avvedervi che quì ſi
parla di voi. Ciechi ed illuſi che ſiete, vi date a
credere che tutto anderà bene per voi ſoltanto
che rieſcavi di non far del male, e che non po
trà non eſſer buona la voſtra morte, ſoltanro
h 2 che
484 Diſcorſo XXVII.
che non ſia cattiva la voſtra vita. Ma ſe in voi
non è ſpenta del tutto la fede, forza è pure che
all'intimazione che vi fa oggi il Vangelo uſciate
d'inganno, e vi perſuadiate, che ad accertar la
ſalute una bontà negativa non baſta. Ove ſtiate
ſaldi a non ricredervi, ah miſeri! già mi ſem
bra vedervi dopo il taglio faral della morte, paſ
colo eterno di fiamme vendicatrici. Ch'io mal
non mi apponga, al voſtro giudizio ne appello “
uditori miei dilettiſſimi, ed eſpoſte ch'io n ab
bia le mie ragioni, voglio che voi decidiate,
ſe non ſono queſte le piante condannate oggi
da Criſto. Prendo pertanto a mettervi ſotto agli
occhi tre reati, che contro la divina legge com
mettonſi da chi non prefiggendoſi altro che la
fuga del male, va dicendo: Purchè mi guar
di da colpa, io ſon contento. Egli è reo con
tro la legge ſe ſi conſidera ciò ch ella coman
da: Reo contro la legge ſe ſi conſidera ciò ch'el
la prefiggeſi: Reo contro la legge ſe ſi conſi
dera ciò ch'ella promette. Tre reati, ciaſcun de'
quali convince d' infecondità coteſte miſtiche
piante, e degne le dichiara del taglio inſieme,
e del fuoco. Primieramente il contentarſi di non
fare del male non baſta, ſe ſi ha riguatdo all'
obbligo che la legge ci addoſſa; lo moſtrerò
nel primo punto: Non baſta in ſecondo luogo,
ſe ſi ha riguardo al fine che la legge pretende;
lo moſtrerò nel ſecondo punto: Non baſta in
terzo luogo, ſe ſi ha riguardo al premio che
la legge propone, lo moſtrerò nel terzo punto.
na. Cominciamo.
pas- Non far del male non baſta, ſe ſi ha riguardo
roi all'obbligo che la legge ci addoſſa. Se i precetti
che la divina legge cintima tutti foſſero negati
Vl,
Per la Dom. ſettima dopo la Pentecoſte. 485
vi, e ci ordinaſſero nulla più che la fuga de vizi,
la perdonarei a coteſte anime pigre, che tutto
il bene ripongono in non far del male. Via, di
rei loro, fate pure in maniera che lorde non ſia
no d' altrui ſoſtanze, e di altrui ſangue le vo
ſtre mani, fate che non vada da impuri amori,
o da velenoſe avverſioni infetto il cuore, fate
che non ſi ſciolga in motti o mordaci, ed oſ.
ceni la voſtra lingua, fate che l'innocenza non
ſi calunni, la verità non ſi tradiſca, non isfregiſl
la giuſtizia, non diſonoriſi la Religione. Se poi
alla fuga del vizio non aggiungete l'eſerzicio
della virtù, pazienza : biaſimar non vi poſſo,
perchè di più non chiedendo la legge, a più
non si ſtende il voſtrº obbligo. Ma e chi non ſa,
dilettiſſimi, che i comandamenti divini in due
claſſi dividonſi: negativi gli uni, e proibitivi del
male : affermativi gli altri, e precettivi del be
ne. Che i primi col ſolo non fare ſi oſſervino,
l'intendo; ma i ſecondi come aver poſſono l'a-
dempimento, ſe non col fare ? Un amor verſo
Dio, che a tutte le coſe lo preferiſca, una di
lezione verſo del proſſimo che caro cel renda,
come fiam cari noi a noi ſteſſi, una compaſ
ſione a poverelli, che nelle loro neceſſità li ſov
venga, un culto di Religione che agli atti in
terni dell' animo accoppi gli eſterni del corpo,
uſo del Sagramenti, ricorſo a preghiere, riſpet
to a maggioti, perdono a mimici , ſon pur
turti doveri del Criſtianeſimo indiſpenſabili per
una parte, e per l'altra non altrimente oſſerva
bili, che con opeta poſitiva. Or ſe per ſentenza
di S. Giacomo egli è rco di legge intieramente
violata chi un precetto ſol traſgrediſca avve
gnachè il più minuto: 9 uicumque totan legem
H in 3 ſervaverti,
486 Diſcorſo XXVII.
ſerva verit, offendat autem in uno, fattus eſt om:
mium reus; dite voi, che reato ſarà di chi con
tento di guardarſi dal male ſenza punto curarſi
del bene, è convinto di non adempiere una in
tiera claſſe di precetti divini, e queſti i più ri
guardevoli, i più importanti, i più neceſſarj?
Che ſe da ciò, che comanda il Decalogo, paſ
ſiamo a peſare ciò che c'ingiunge il Vangelo,
chi mai può perſuaderſi che gli obblighi noſtri
non ſi ſtendano a più che alla fuga del male ?
Trovate voi che il Vangelo eſiga nulla di più,
che di non dir nulla, di non far nulla, contro
di Criſto è nulla di più che di non rinegar
la ſua fede, de non abborrire i ſuoi eſempi,
di non contraddiri alla ſua dottrina, di non
riprovar le ſue maſſime, di non diſprezzar la
ſua Croce, di non beſtemmiare il ſuo nome ?
Vi è ben altro, miei dilettiſſimi, vi e ben al
tro. Vuole il Vangelo (e chi vi ha che nol ſappia)
vuole che Criſto ſi riconoſca qualeſemplare, a cui
conformiamo i noſtri coſtumi: vuole che Criſto ſi
onori qual noſtro Principe, a cui tributiamo i
noſtri affetti: vuol che prendiamo da ſuoi in
ſegnamenti la norma del noſtro vivere: che ne
premiamo le orme più che poſſiam da vicino: che
ne profeſſiamo in faccia di chi che ſia l'imitazione,
e ficciam conoſcere al Mondo, che le ſue maſſi
me ſono noſtre maſſime, e che le ſue virtù ſon pa
rimente le moſtre: E ciò lo vuole con tal rigore, che
ci fa eſpreſſamente ſapere, che non ſarà ricono
ſciuto per ſuo diſcepolo chi dietro a lui Croci
fiſſo non porta Croce; e minaccia eziandio eter
ma tormentoſiſſima morte a chi non vive con
lui, di lui, e per lui. Vegga pertanto s ei cor
riſponda al Vangelo, chi pago d'una º".
CilC
Per la Dom.ſettima dopo la Pentecoſte. 487
che non opera, vive tranquillo con dire non fo
del male.
Eh miſerabile, non fate del male, ſia pur
così : Ma che vuol dire che minaccia il Van
gelo troncamento a quel tralcio, che diſonora con
la ſterilità la vite cui vive unito ? Non è queſto un
dirci, che chi in vigor del Batteſimo è unito a
Criſto dee dar ſaggi di operoſa pietà: che altri
menti qual membro indegno di sì degno capo
non iſcamperà da taglio ſterminatore? Voi non
fate del male ; voglio paſſarvela: ma che vuol
dire che ci deſcrive il Vangelo un eterna maledi
zione ſcagliata da Criſto contro quella ficaja, che
quanto era di frondi adorna, era altrettanto ſprov
veduta di frutti? Non è queſto un darci chiaro a
conoſcere, che con tutta l'apparenza di bene, di
cui va pompoſa la negazione del male, pure per
chè non compie ſe non in parte i doveri Criſtiani,
mai non ſarà, che ſottraggaſi da fulmini vendica
tori? Non fate del male ? ma che male avea fatto
quel ſervo infingardo, cui eraſi dal Padrone ri
meſſo un talento ; che male, diſſi, avea fatto,
ſicchè confinar ſi doveſſe dopo aſpri rimbrotti in
carcere tenebroſa ? Avea egli forſe perduta per
incuria la ſomma commeſſagli è l'avea forſa ſcia
lacquata ne' giuochi ? forſe n'avea tra gozzovi
glie fatto un mal'uſo ? Nulla di queſto: ecco
tutto il reato: non aveane fatto come doveva
un uſo buono. E non è queſto, come ben l'oſ
ſerva il Griſoſtomo, non è queſto un accennar
ci, che fa il Vangelo, che nel Tribunale di Dio
ugualmente riprovaſi il non fare di bene, che
il fare del male? Vides quomodo nonſ" rapa Hom79
ces, 6 qui aliena invadunt, nec ſoli maleficio in Mas
res, verum etiam & qui benefacere negligit ex
tre W30
488 Diſcorſo XXVII.
tremo cruciatur ſupplicio. Sì, sì ſcorrete pure il
Vangelo, e vedrete in quanti luoghi, ed in
quanti modi ei ſi dichiara, che come reo di
legge non adempiuta ſarà del pari punito e chi
pratica il male, e chi non pratica il bene.
Non vi adulate pertanto, dice quì Gregorio
il grande, non vi adulate vani millantatori di
ſantità immaginaria. Tanto ſiete lontani dal ne.
ceſſario adempimento del voſtri obblighi, quan
to chi della legge ſolo ne oſſerva la parte me
i" noma: Minus eſt mala non agere, niſi etiamº
quiſque ſtudeat, & bonis operibus in ſudare. Vi
vuol altro, o Donna, che dire, la Dio mercè
non ho, come tant' altre, corriſpondenze, che
mi allaccino il cuore, non ho fumo di vanità,
che m'ingombri lo ſpirito, non ho giuochi, che
m'involino con le ore il danaro; queſta non è
più che negazione di male; ed il bene dov'è ?
Dove l'attenzion ſollecita ſulla famiglia ? dove
l'educazione Criſtiana delle figliuole ? dove l'u-
mile ſoggezione al marito? dove l'eſatto impie
o del tempo ? Vi vuol altro, o Negoziante, che
ire, io ne' miei traffichi non foingiuſtizie,
ne' miei contratti non ammetto uſure, non fro
do gli operai della lor mercede, non iſpaccio
una mercanzia per l'altra, fin quì non vi è al
tro, che negazione di male: ed il bene dove
è ? Deve il ricorſo a Dio ? dove le limoſine a
poveri ? dove altrettanta premura per l'affare
dell'eternità, quanta ne avete per gli affari del
ſecolo ? Vi vuol altro , o qualunque voi ſiate
Criſtiano mio, che dite con oſtentazion Fariſai
Lºcº ca : Non ſa n ſicut ceteri hominum, raptores, in
juſti, adulteri. Io non odio, io non rubbo, io
non mormoro, io non beſtemmios vi vuol al
trO
Per la Dom ſettimta dopo la Pentec. 489
ro: infino a tanto che al mal, che fuggeſſi non
odo accoppiato alcun bcne, che ſi faccia, vi ſo
dire, che appena per metà i voſtri doveri ſi
adempiono: Minus eſt mala non agere, niſi etiame
quiſque ſtudeat & bonis, operihus inſudare. E
ſe al Tribunale divino comparite così, come la
paſſerete ? Se al dir dell'Appoſtolo legge non
adempiuta è legge, che condanna: Quicumque Rom,
in lege peccaverunt per legem judicabuntur,
che ſentenza dee aſpettarſi chi per ſua difeſa
unicamente può dire: non ho fatto del male ?
Leggi , gli dirà l'ineſorabile Giudice, leggi
queſto Decalogo: leggi queſto Vangelo: tro
vi tu quì ordinata ſolo la fuga del vizio, o
pure ancora la pratica della virtù º E tu per
chè pago della prima non curaſti la ſeconda ?
perchè ai divieti del male ubbidiſti, e non eſe
guiſti i precetti del bene. E'ella queſta oſſer
vanza della mia Legge ? è egli queſto adempi
mento del tuoi doveri? ed a queſto dire , miei
dilettiſſimi, che riſpoſta? che ſcuſa, che di
ſcolpa ?
Ah, Gesù mio, niſſuna, niſſuna. Converrà
pur troppo, che ammutoliſca confuſo, chi al
voſtro Tribunale non porterà ſeco altro bene,
che la fuga del male. Giuſto è però, che adeſ
ſo io penſi, adeſſo io ſoddisfaccia a tutti gli ob
blighi, che la voſtra ſanta Legge m'impone. Voi
mi comandate, che io mi guardi dal male, ed
è neceſſario, che me ne guardi, ma non meno è
neceſſario ch'io faccia del bene, perchè ugual
mente mel comandate. Sì mio Gesù, l'uno, e
l'altro riſolvo, e per quelle piaghe, che adoro ne'
giº,
voſtri ſantiſſimi piedi, vi ſupplico a darmi
Ci3C
49O Diſcorſo XXVII.
che l'uno, e l'altro perfettamente adempiſca.
- Non far del male non baſta, ſe ſi ha riguardo
pos- al fine, che la Legge pretende. Qual ſia il fine,
io ii. che dalla Legge pretendeſi, l' Appoſtolo il di
chiarò ai Fedeli di Teſſalonica, ai quali dopo
aver ricordati i precetti loro impoſti a nome di
Criſto: Scitis que precepta dederim vobis per
Theſa, Dominum, ſoggiunge, non altro da eſſi pre
tenderſi, che la lor perfezioue: Hac eſt enim
voluntas Dei ſanctificatio veſtra ; ſicchè lo ſco
º po a cui mirano i comandi, che Dio ci fa, ſi
è la noſtra medeſima ſantità, e col ſottometter
ci ad una Legge ci vuol nell'impegno di render
ci con la bontà ſpettacolo degno degli occhi
ſuoi. Or a chi mai può venir in penſiero, che
con la fuga ſola di ciò, ch'è male, ſi conſe
guiſca un fine sì eccelſo ? Io potrei moſtrarvi,
uditori, che chi contentaſi di non fare del male,
non può eſſere ſenza male: Sia perchè di sì pi
gra ſterilità ſon compagne indiviſibili non po
che ommiſſioni di ben neceſſario; ſia perchè
troppo è diſſicile, che non troviſi vizio dove
non ſi trova virtù. Ma laſciato per ora queſto da
parte, voglio accordarvi poſſibile queſta bontà
negativa, per cui taluno ſia buono ſolo perchè
non cattivo: Ma può ella eſſer tale, che guidi
a quella perfezione, che Dio col ſuo Decalo
go, col ſuo Vangelo pretende ? può ella eſſer
tale, che ci formi quei ſanti, che Dio ci bra
ma ? Bella ſantità in vero, il cui panegirico tut
to di negazioni s'intreccia, e di cui ha detto
tutro a chi a canonizzarla per grande giunge a
dire, che non la macchia ſpergiuro, non adul
terio, non rapina, non omicidio, non uſura,
IlOſl
Per la Dom. ſettima dopo la Pentecoſte. 491
non frode. Ah, chi non vede, dilettiſſimi, che
la negazion de'vizi diſpone bensì alla ſantità, ma
non la forma: in quella guiſa che la negazion
dell' umido è bensì al legno diſpoſizione ad ac
cenderſi, ma non lo accende. Perchè ſi adempia
con la noſtra ſantificazione il volere divino, ol
tre il non covarſi vizio nel cuore, egli è d'uopo,
che vi alberghi virtù; virtù, che ci porti a com
pir que doveri, che ci corrono verſo Dio, ver
ſo il proſſimo, verſo nois virtù, che diſtacchi
dalla terra, e inalzi al Cielo gli affetti noſtri -
virtù, che mortifichi i noſtri ſenſi, che domini
le noſtre paſſioni, che moderi le noſtre brame,
che infervori le noſtre opere. Queſta è la per
fezione ch'eſigeva l'Appoſtolo col rammentare i
precetti divini: Scitis que precepta dederim vo
Abis per Dominum Jeſum ; queſta è la ſantità, che
Dio da noi pretende con ſoggettarci alla legge:
Hec eſt voluntas Dei ſanctificatio veſira. Vuole
sì, che il vizio ſi ſchivi, ma vuole ancora, che
ſi eſerciti la virtù sonde vengaſi a compiere con
la fuga del male, e con la pratica del bene la
noſtra ſantificazione.
E che ſia queſta l'idea, che per mezzo della
ſua Legge ha Dio ſu noi, oſſervatelo dalle iſtru
zionl , che dà a chi egli deſtina o a promugar
la dove ancor non è giunta, o riſtabilirla dove
già è ſcaduta: Conſtituite ſuper gentes, di ſuper er ..
regna, ut evellas, e deſtruas, & diſperdas, ci
diſſipes, & edifices, ci plantes. Non gli dà ſol
commiſſione di ſradicare abuſi, e diſtruggere
vizj; ma di piantar buone maſſime, e di ſtabilir
la virtù, ci evellas, e deſtruas : ecco il male,
che gl' intima di togliere; ut edifices, & plan
ies: ecco il bene che gli ordina d'introdurre,
p perchè
492 Diſcorſo XXVII.
perchè ognun ſappia, che non gli piace l'un
ſenza l'altro, e che nell'accordo di tutti e due
la ſantità conſiſte, Sapete in fatti perchè riuſcì a
Dio così gradita la penitenza de' Niniviti; non
credeſte già, che ciò foſſe unicamente, perchè
laſciarono i lor diſordini, e correſſero i lor co
ſtumi: No, dilettiſſimi, fu perchè dierono perfe
zione al ravvedimento con le opere buone: Vi
ſon. 3.
dit Deus opera eorum, quia converſi ſunt de via
ſua mala. Ond' ebbe a dire Teofilato, che con
avrebbono diſarmata l'ira di Dio, ſe oltre il di
partirſi dal male, applicati non ſi foſſero al bene:
Jejunium non fuit per ſe ſufficiens, ut propitium red
Valeret Deum, niſi & mores correxiſſent, cy opera
bonaexhibuiſent. O come bene con obbero queſta
idea di Dio, come bene vi ſi conformarono que
due gran lumi del Mondo virtuoſo, Giob, e David,
l'uno eſemplare degli Innocenti, l'altro de' Pe
nitenti ! Sollecito l'uno, e l'altro di dar que ſag
gi di perfetta virtù, che Dio pretende, come ſtu
diaronſi di accoppiare alla fuga del male l'eſercizio
del bene ! Per timor di mancare avea Giobbe a
ſoſpetto ogni ſua opera: e al tempo ſteſſo nulla
ommettea, o di pietà verſo Dio, o di miſeri
corella co biſognoſi, o di pazienza ne' patimenti:
Onde ſi meritò dalla bocca ſteſſa di Dio il bell'elo.
gio d'Uomo quanto alieno dal male, altrettanto
º amante del giuſto, Vir ſimplex, e reifus, ci
recedens a malo. Ravveduto de' ſuoi falli David
che odio, che orrore non dimoſtrò contro l'ini
quità, e inſieme, che fervore, che impegno per
le virtù º onde con ugual verità potè dire: Viam
iniquitatis odio habui, vianº mandatorum tuorum
cucurri. Così, miei dilettiſſimi, così opera chi
giuſta l'idea di Dio vuol perfezione.
Vegga
Per la Dom. ſettima dopo la Pentecoſte. 49;
Vegga pertanto quanto mal ſi conformi a fi
ni, che ha Dio, quanto ſi ſcoſti da quella ſan
tità, che dalla legge pretendeſi, chi altro non
ſi prefigge, che di fuggir quelle azioni, che
van con macchia di vizio. Ah, ſe rifletteſſe al
grave riſchio, che corre, non prenderebbe cer
tamente mire sì corte! Sovvengaſi di ciò, che
diſſe quel Padron Evangelico, che fattoſi a vi
ſitare gli alberi della ſua vigna, un ne trovò
ſenza frutti s e vedrà quanto, e poi quanto ab
bia egli occaſion di temere: Ut quid terram oc Lue. 13
cupat, diſſe lo sdegnato Padrone, a che laſcia
re più, a che più tollerare queſt'albero, che
occupa inutilmente il terreno º non l'ho già
io piantato per vedermelo ricco di frondi, e nul
la più: frutti io voglio, pretendo frutti, ſe ſte
rile non ne dà, ſi tronchi, ſi ſradichi, ſi faccia
luogo a chi corriſponda meglio al mio fine: Suc. Ilid,
cide illam. ſuceide. Miei dilettiſſimi; Dio ci ha
meſſi per degnazione ſua infinita nel giardino
della ſua Chieſa quai arboſcelli fruttiferi pian
tati di ſua propria mano; e col proporci l'oſ
ſervanza del ſuo Vangelo intima ad ognuno di
produrre que frutti, che al ſuo grado, al ſuo
ſtato convengono. Se noi contenti di non dar
frutti cattivi non penſiamo a darne de buoni;
ah temiamo, ch'ei non ordini alla morte di
venir ſubito al taglio di chi occupa inutilmen
te,l terreno: Suceide, ſuccide. Quell' Eccleſiaſti
co non dà frutti di ſanta eſamplarità: Succide
illum; quel conjugato non dà frutti di ſollecita
vigilanza: Succide illnm ; quel giovane non
dà frutti di ſtabile divozione: Succide illum;
quell'Infermo, quel povero, quel tribolato non
dà frutti di generoſa pazienza: susside ſi
tiltlf/4
494 Diſcorſo XXVII.
allum, quel Cavalier, quella Dama intenti ſolo
a divertirſi non dan frutti di Criſtiana pieta:
Succide, ſuccide; e ſe il taglio ſi fa, cari Udi,
tori, quale ſarà la ſorte della pianta reciſa º già
lo ſapete pur troppo: fuoco, eterno fuoco, in
agnem mittetur, in grem, in ignem.
Ah, Gesù caro, ſoſpendete vi prego in riſ
guardo a me un sì tetribil comando. Conoſco
pur troppo, che ſon ſtato fin ora pianta infe
conda, e però meritevole ben mille volte del
taglio fatale. Ma per quelle piaghe, che adoro
nelle voſtre Mani ſantiſſime, vi ſupplico a dar
mi ancor tempo: Domine, dirovvi anch'io,
dimitte illam hoc anno. Vi prometto, che com
penſerò la ſterilità paſſata con altrettanta fecon
dità, e che darò que frutti di vita, che voi
aſpettate da me. Voi intanto degnatevi di mi
rare con occhio di pietà queſta mia anima; e
affinchè corriſponda fedele alle ſue promeſſe,
fecondatela con una pioggia copioſa di voſtre
grazie, e riſcaldatela col fuoco attiviſſimo del
voſtro amore.
s

PUN
Non far del male non baſta, ſe ſi ha riguar
ro III. do al premio, che la legge propone. Quanto è cer
to, che il premio propoſtoci è nulla meno,
che un rcgno eterno, altrettanto ancora è fuor
d'ogni dubbio, che ad ottenere di queſto re
gno il poſſeſſo, non baſta il non eſſere reo di
traſgredito divieto: diffi fuor d' ogni dubbio;
e ſe a me nol credere, credetelo a Davidde,
che il fe ſapere a tutti gli uomini; anzi crede
telo a Dio, che il fe ſapere a Davidde. Udite:
voglioſo il buon Profeta d'intendere dalla boc
ca medeſima della verità a chi toccata ſarebbe
la ſorte beata di fiſſare nella Sioune Celeſte un'
CUCIIla
º
Per la Dom.ſettima dopo la Pentecoſte. 49;
eterna dimora, prevalendoſi della confidenza,
che Dio gli dava, un dì ſi fe cuore a fargliene
l la domanda: Domine qui habitaait in taberna-º “
culo tuo, aut quis requieſcet in monte ſantto tuo?
ſi Potea ſembrare non poco ardita l'inchieſta, qua
ſi il ſanto Re pretendeſſe di aver contezza di
que ſegreti, che l'Altiſſimo con più di geloſia
ſi ſerba in petto. Compiacquelo non pertanto
il Signore, e ſenza far nome ad alcuno, gli di
contraſſegni, onde accertar poteſſe chi sì, chi
mo, doveſſe un giorno godere delle delizie de'
Colli eterni: Qui ingreditur (ecco la divina ri-Pſ. 33.
ſpoſta ) ſine macula, 6 operatur juſtitiam. Da
vidde, quelli ſaranno i poſſeſſori felici del re
gno mio, quelli ſaranno i traſcelti ad abitare
nella celeſte mia Corre, quelli, che dal male
ſi appartano, e ſi abbracciano al bene, quelli,
che non van lordi per macchia, e di virtù van- Ibid.
no adorni: Qui ingreditur ſine macula, 6 ope
ratur juſtitiam Avuta ch'ebbe dal Cielo queſta
notizia non potè già contenerſi il reale Profe
ta dal darne conto alla terra, ed alzata la vo
ce: Quis eſt homo, ſclamò, qui vult vitam, di
ligit dies videre bonos ? Chi vi ha tra gli uo
mini, che brami vita immortale ? Chi vi ha,
che goda di paſſare in eterne felicità giorni che
non han ſera? eccovene per teſtimonianza divi
na la via ſicura: Diverte a malo, ci fac bo
num. Fuga del vizio, e pratica di virtù. Or a
queſte voci, che riſpondoo coloro, che ſtabi
liſcon le mete della bontà nel non eſſere per
verſi? Ha detto Dio ſolamente qui ingreditur
ſine macula? non vi ha aggiunto, o operaturju
ſtitiam ? ha detto Davidde ſolamente, diverte a
malo? non vi ha aggiunto, ci fac bonum ? Do
vrebbono
496 Diſcorſo XXVII.
vrebbono pur dunque avvederſi, che ſe l'acqui
ſto del Cielo è una compera, eſſi del prezzo
nou nè sborzano, che la metà ; dovrebbono pur
avvederſi, che ſe il Paradiſo è noſtro termine,
cſſi non fanno, che la metà della ſtrada. Io non
niego, dice Baſilio, che non abbia il ſuo me
rito tra tanti oggetti, che luſingano il ſenſo,
non imbrattarſi con compiacenze: in tanti in
contri, che accendon lo ſdegno non ammette
re nel cuore avverſioni: fra tanti frutti vietati,
che ſolleticano il noſtro palato, non iſtenderla
mano a toccarne pur uno: Magnum eſt his aº
ſtinere: Sì, magnum eſt; ma non baſta: queſto
è ſolo cominciare il viaggio, che al Ciel ci gui
da: non è compirlo: Capta in his via eſt, non
peraffa; ſi eſeguiſce fin qui il diverte a malo;
non ſi eſeguiſce il fac bonum : eppur ſenza que
ſto quel non ha premio.
E vaglia il vero. uditori, non è egli un tor
to graviſſimo, che faſſi allo ſteſſo regno de'Cie
li, il crederlo sì facile acquiſto, che per eſſer
ne un dì al poſſeſſo baſti ora non eſſer empio ?
Non ſi acquiſta dal ſervo ſe non a coſto di lun
ghe fatiche una tenue mercede? non ſi acquiſta
dal guerriero ſe non a coſto di copioſi ſudori
una tranſitoria corona: non ſi acquiſta dal cor
teggiano ſo non a coſto di ſperimentati ſervigi
una colanna di onor fuggiaſco; e un regno e
terno, una felicità interminabile, una vita di
contentezze immortali potrà conſeguirſi con nul
la più, che aſtcnerſi dal male? E chi mai ſi ar
direbbe chiedere, e quel che ſarebbe ancor peg.
gio, pretendere da un Sovrano un carico nella
Corte, un comando nella milizia, tin gover
noncllo ſtato, un ſeggio nel magiſtrato ſenz'al
- tIO
Per la Dom. ſettima dopo la Pentec. 497
i merito, che di non avere giammai ſprezzati i
i ſuoi ordini, di non eſſerſela mai inteſa co ſuoi
i nimici, di non aver macchinato giammai con
e tro la ſua perſona ? E non ſarà poi intollerabil
i baldanza, preſunzion moſtruoſa, ſol perchè nul
: la mai ſi è attentato contro l'onor divino, pre
tender da Dio in ricompenſa l'eterna ineffabile
beatitudine? Ma ſe perfino la beatitudine natu
rale, al dir del Filoſofo, è guiderdone della
virtù: Beatitudo eſt pramium virtuoſarum ope- .Ethic
rationum, come potrà non eſſerlo la ſoprannatu- º
ral beatitudine, aggregato di tutti i beni, cu
mulo d'ogni delizia, poſſeſſo dolciſſimo del me
deſimo Dio ? Eh, via deponete una volta, dice
Agoſtino, coteſte mal fondate ſperanze, apprez
zatori fallaci del regno eterno. A che più
luſingarvi con dire, che in grazia del mal, che
non fate, ſiete ſicuri, e che più non vi vuole
perchè il Cielo vi ſi ſpalanchi, e vi entriate al
poſſeſſo? Cum declinaveris a malo, dicis, ſecu-º, º
i rus ſum, perfeci omnia, hahebo vitam, videbo ”
i dies bonos. O ingannati! no, che colaſsù non
i ſi giunge, ſe non da chi all'abborrimento del
le operazioni malvage aggiunge la pratica del
le virtuoſe: Parum eſt, ut nulli noceas, nullum
occidas, non fraudem facias: Infino a tanto,
che vi fermate nel ſolo non far del male, tut
to è poco, e in ordine al premio eterno non
baſta: Parum eſt, ut veſtitum non expolies, ve
i ſti nudum. Che non togliate altrui ciò, ch'è ſuo,
i va bene, ma è poco ; dovete ancora dare del
voſtro a chi n'abbiſogna: che non odiate chi
i vi ha offeſo, va bene, ma è poco, dovete di
più amarlo, e amarlo di vero cuore: che non
i mormoriate, va bene, ma è poco; dovete an
Anno IV. Tomo IV. I i COIa
498 Diſcorſo XXVII.
cora correggere chi mormora: che non diate ſcan
dali al voſtro proſſimo, va bene, ma è poco:
dovete di più edificarli con buoni eſempi - In
ſomma ſe al guardarvi dal male non accoppiate
atti virtuoſi, opere ſante, eſercizi di pietà, tutto
il far voſtro è un far sì poco, che quando in punto
di morte batterete alle porte del Cielo per eſſervi
ammeſſi in premio del male fuggito, vi udirete ri
ſpondere un bruſchiſſimo neſcio vos. Ah, che il
Cielo, miei dilettiſſimi, non vale sì poco, che per
meritarſelo baſti non averne poſitivo demerito:
egli è mercede, ſuppone fatiche: egli è corona, e
la corona ſuppone battaglie: egli e premio, e il
premio ſuppone meriti. Non ci inganniamo: ſen
za pratiche di virtù, e pratiche ſtabili, e prati
che fervoroſe il Ciel non ſi acquiſta. Intendetela
pure ſpiriti accidioſi, che vi annoiate cotanto
dell'operare virtuoſo: Anime molli, le cui gior
nate quanto ſono piene di ozioſi trattenimenti,
altrettanto ſon vuote di ſante opere: Cuoriinte
reſſati, cha agli affari di queſto ſecolo penſate
ſempre, all'affare dell'eternità non penſate giam
mai: Criſtiani pigri, che per ogni leggier pre
teſto dagli eſercizi di pietà vi eſimete, intende
tela pure, e intendetela bene. Colaſsù ne Colli
eterni non ſi trapiantano ſe non quegli alberi,
che quaggiù dan frutti di ſantità: quelli che
non ne danno, ah miſeri, ſi aſpettino pure una
ſcure, che li recida, una fornace, che li di
vampi.
Ah, Gesù caro, fate di grazia, che niun di
noi ſia nell'infelice numero di coſtoro, concedete
ci,che ſiamo tutti qual voi ci bramate, piante fe
conde, feconde di frutti condegni di penitenza,
feconde di opere meritorie di eterna vita. Voglia
illO
Per la Dom. ſettima dopo la Pentecoſte. 499
mo ad ogni coſto meritarci quel regno, che
propoſto ci avete per premio: e perchè a tal fine
il contentarci di non fare del male non baſta,
vi promettiamo di attendere con tutta la ſolleci
tudine a far del bene. Voi aſſiſteteci co voſtri
ajuti, ve ne preghiamo per quella piaga ſan
tiſſima, che nel voſtro coſtato adoriamo ; ſicchè
in tutta la noſtra vita fuggendo il male , ed ope
rando il bene, ci aſſicuriamo dopo la morte il caro,
il promeſſo, il ſoſpirato premio del Regno eterno.

D I S C O R S O XXVIII.
PER LA DOMENICA OTTAVA
D OP O LA PEN TE CO STE,
Correndo la Feſta di Sant'Anna.

Separazione nel Giorno eſtremo.

In conſummatione ſeculi exibunt Angeli, di


ſeparabunt malos de medio juſtorum. Matt. 13.
#ºvº
«i
On ſarà ſempre così, che buoni
º frammiſchiati a cattivi debbano a
º N punta di contraddizioni tener ſalda
: :à la ſua virtù, che i cattivi fram
X-34-34X miſchiati a buoni poſſano col man
to dell'altrui pietà coprire la ſua malizia: No,
cari uditori, non ſarà ſempre così. Troppo è
giuſto, che nè un Lot innocente ſempre veggaſi
attorniato da Sodomiti sfacciati, nè che un Giu
da ſacrilego ſempre goda la compagnia di Ap
Ii 2 poſtoli
5oo Diſcorſo XXVIII.
poſtoli fervoroſi. Sinchè dura queſto ſecolo di
confuſione; pazienza: Babilonia la infame con
fonderaſſi con Geruſalemme la ſanta, e la Città
de reprobi non diſtingueraſſi dalla Città degli
eletti: Perplex e ſunt iſta, due Civitates in hoc ſe
culo, invicemque permixta : così piangeane la
ſventura anche Agoſtino. Ma giorno verrà (udite
peccatori, e tremate; udite giuſti, e confortate
vi) ultimo sì, ma pur verrà quel giorno, in
cui ſeparato l' empio dal giuſto, vedraſſi il Mon
do tutto diviſo in due ſquadre, l' una ſpettaco
lo di abbominazione, l'altra di compiacenza;
l'una centro dell'iniquità, l'altra della giuſti
zia; l'una deſtinata alle catene, l'altra alle co
rone. Il decreto già è uſcito dall'alto divin con
ſiglio: l'eſecuzion già è commeſſa a miniſtri
Angelici: il ragguaglio ci vien oggi dalla bocca
ſempre infallibile del Redentore : In conſumma
tione ſeculi exibunt Angeli, ci ſeparabunt malos
de medio juſtorum. O giorno! o ſeparazione ! Ma
no, prima ch'io eſclami, uditene il fondamen
to, o voi che dormite tranquilli in ſeno alle col
pe. Sarà queſta per voi ſeparazione obbrobrio
ſa, lo udirete nel primo punto; ſarà ſeparazio
ne dall'amicizia de' giuſti, e però ſeparazione do
loroſa, lo udirete nel ſecondo punto; ſarà ſepa
razion dalla gloria de' giuſti, e però ſpavento
ſiſſima ſeparazione, lo udirete nel terzo punto.
Spero intanto, uditori miei cari, che voi accer
tati, che una ſeparazion sì terribile unicamente
riguarda chi muore male, ne terrete da voi lon
tano il riſchio col viver bene. Cominciamo.
PUN Separazione dalla compagnia dei giuſti, e però
ro I. obbrobrioſa. Non può negarſi, uditori, che in
queſta terra, o ſia perchè la virtù non è
- - -
ſempre
d
Per la Dom. ottava dopo la Pentecoſte. 5or
la meglio accolta, o ſia perchè il vizio ſa deſtra
mente o abbellirſi, o naſconderſi, il peccatore
fa non di rado luminoſa comparſa, e giace il
giuſto derelitto tra l' ombre ; quello ha gli ono
ri, queſto i diſprezzi ; quello ſi eſalta, queſto è
umiltato; quello ſignoreggia, queſto ſoggiace:
Vide ſub ſole in loco judicii impietatem, o in loco
juſtitiae iniquitatem : Ella è l'oſſevazione, che ne
fa il Savio: ma ſapete inſieme, che ne inferi?
Ne inferì, dovere per neceſſità di Provvidenza
venire un tempo, in cui diſſipato l'inganno, dia
ſi ad ognuno il luogo che merita, onde la virtù
ne vada con gloria, ed il vizio con onta : Et di Ecclat
xi in corde meo: Juſtum & impium judicabit Deus,
ci tempus omnis rei tunc erit. Or queſto tempo
che Provvidenza giuſtiſſima ha deſtinato a glori
ficazione del giuſto, e a confuſione dell'empio,
egli è appunto il giorno finale: giorno di diſin
ganno, giorno di ſeparazione. Sì, sì creſca pur
ora, dice Criſto, confuſa col grano eletto la zi
zania maligna, la rea meſcolanza non anderà
più oltre del tempo della meſſe: Sinite utraque Maia,
creſcere uſaue ad meſſº m, cioè, come ſpiega az.
Agoſtino diciferando l'allegoria, uſaue ad judi
cium, quando gli Angioli eſecutori ſeveri degli
ordini dell' Altiſſimo ſcenderanno a fare nella
gran Valle duriſſima diviſione: Separabunt ma
los de medio juſtorum.
Quale ſpettacolo, uditori miei dilettiſſimi,
quale ſpettacolo di orrore, d' ignominia, di
confuſione ſarà mai quello per gli empi! Ve
derſi trarre a viva forza di mezzo a buoni, e la
ſciati queſti alla deſtra, eſſere eſſi balzati malgra
do che n'abbiano alla ſiniſtra. Fuori, grideran
no gli Angioli, fuori di quel ſtuolo di Santi
- Ii 3 Re
5o2 piſtorſo XXVIII
Re, o Principe, che innalzaſti ſul trono il vizio,
e voleſti ne tuoi coſtumi riſpettata l'iniquità:
Fuori da quella turba venerabile de Sacerdoti
eſemplari, o Eccleſiaſtico, che diſonoraſti con
una vita ſcoſtumata il tuo grado: Separabunt. Là
tra i rapaci, o Mercatante, che tradiſti con le
frodi la buona fede, e promoveſti con le uſurre
la tua fortuna: là tra gli ſcandalofi, o Giovane,
che pervertiſti col tuo eſempio i compagni, e
profanaſtico'tuoi cicalecci le Chieſe: Seperabant.
E tu, tu, o Donna, tra le Suſanne ? Non ti ſov
viene qual foſſe nel converſare la tua libertà, e
qual nel veſtire la tua immodeſtia ? Alla ſiniſtra :
e tu, o Curiale, tra i Samueli? Non ti ricordi
delle parzialità che hai uſate, delle dilazioni che
a bello ſtudio hai procurate, delle ſcritture che
Hai naſcoſte, de vani riſpetti che ti fecero pre
varicare dal giuſto? fuori, alla ſiniſtra: Separa
hunt. Ma è poſſibile Angioli Santi, che non ſi
abbia riguardo alcuno nè a condizione, nè a
titoli, nè a grado, nè a naſcita? E' pure un Ca
valiere, che potrò già nelle vene ſangue chia
riſſimo. Quella è una Dama che ebbe a ſuoi dì
adoratore un Mondo. Quello è un Titolato, che
per dottrina, e per ſenno fu creduto l'Oracolo
de' ſuoi tempi: che Cavaliero, che, Dama, che
Titolato? Viſſero nel peccato, e nel peccato mo
rirono; là dunque tra la feccia de'rei, là tra la
ciurmaglia de'reprobi, là tra i condannati a per
petue catene: Seperabunt. E qual riguardo in fatti
aver poſſono gli Angioli, ſe l'ordine dal Dio im
poſto loro, non è di ſeparare i grandi da picco
ii, nè i nobili da plebei, nè i ſovrani da ſuddi:
ti, nè i ricchi da poveri, no; ma i cattivi da i
buoni? Separabunt malos de medio juſtorum. ".
- 1
-

Per la Domen.ſeettima dopo la Pentecoſte. 5o;


ſi qualſivoglia la condizione, l'unica regola loro
preſcritta è, che non vi ſia altro poſto, che deſtra
e ſiniſtra: a i buoni quella, queſta a i cattivi:
Separabunt malos. Poveri peccatori, che orrenda
confuſione ſarà la voſtra! Molti di voi in queſta
vita, tra per l'altrui carità, che di tutti giudica
bene, tra per la voſtra ipocriſia, che ſa con belle
apparenze colorire il deforme dei voſtri vizj, gioi
te contro ogni ragione de i vantaggi del vero
merito. Vivete col credito di leali, e di giuſti,
perchè inorpellate con iſpecioſi preteſti le voſtre
ingiuſtizie ; e perchè o ſolitudini, o tenebre
tengon ſegrete le voſtre incontinenze, vi man
tenete a diſpetto del vero il concetto di caſti: ma
qual onta proverete voi, quando per mano
degli Angioli vi ſi torrà dal viſo la maſchera,
e ſcoperte in viſta di tutti le voſtre iniquità, co
ſtretti ſarete a dividervi da quel giuſti, dei quali
nel teatro di queſta terra vi è riuſcito di fingere
il perſonaggio.
Io non ho, cari uditori miei, non ho formo
le , che baſtino ad eſprimere la confuſione, di
cui per tale ſeparazione anderà ontoſa la fronte
de' preſciti. So, che meglio amerebbono d'eſſe
re ſepolti in un abiſſo di fiamme, che di fare in
viſta di tutto l' Univerſo una comparſa sì obbro
brioſa Se colui, che ſenza la veſte nuziale osò
di ſedere tra commenſali al regio convito, perdè
per confuſion la parola, obmutuit, ſolo all'udire
in tuono di rigore, quomodo huc intraſti; penſate
qual ſarà ſtato il ſuo roſſore, quando tolto di
mezzo a favoriti , udiſſi condannato a gemere
tra gli ſchiavi: Mittite eum in tenebras exteriores.
Eppure cio non fu ſe non alla preſenza di pochi: or
che ſarà, quando alla preſenza di tutto l' infio,
- 1
504 Diſcorſo XXVIII.
di tutta la Terra di tutto il Cielo, diranno ad
ogni reprobo gli Angioli ſeparatori: Quomodo
huc intra ti ? Ribaldo con qual fronte ſenza la
veſte nuzial della grazia oſi tu ſtare in mezzo a
giuſti, in mezzo a figliuoli dell'Altiſſimo ? Che
ſarà quando rimproverato, e ſchernito da tutti
gli uomini, da tutti gli Angioli, da tutti i Santi,
ſi vedrà il miſero peccatore ſtraſcinato alla ſini
ſtra tra i tizzoni d'Inferno ? Figuratevi, uditori,
una perſona ben nata, che condannata pe” ſuoi
delitti ad una infame comparſa, debba tra la
ciurrna d'altri colpevoli uſcire al pubblico in vi
ſta de' ſuoi amici, dei ſuoi congiunti, de' ſuoi
concittadini. Che roſſore! che onta ! quanto più
volontieri ſi eleggerebbe di gemere nel cupo
fondo di torre oſcura, che dare di ſe ſpettacolo
ſi vergognoſo ? Eppure avvi proporzione, udi
tori, tra l'onta di coſtui in viſta della ſua ſola
patria, e quella del reprobi in faccia d'un Mon
do intiero ?
O perchè non ho queſta ſera preſente taluno
di que ſuperbi, ed altieri, che mirano con occhio
di diſprezzo, e ſdegnano vicino, non che ami
co chi giace in umil fortuna ! Ah infelice ! vor
rei dirgli, ſappiate che ſarebbevi un dì a ſom
ma grazia la ſua compagnia, e per la voſtra ſit
perbia non l'avrete: E voi che vi arroſſite di
comparire buono, e di farvi vedere tra i buoni;
voi cui i compagni più diletti ſono i più liberti
ni; voi cui le amiche più care ſono le più vane,
credete che gli Angioli nel dì finale vi laſcieran
no in compagnia de giuſti? No, dilettiſſimo,
no; diſingannatevi pure: tra i caſti il diſſoluto
non avrà luogo, nè tra i manſueti il vendicati
vo, nè tra i limoſinieri l'avaro, nè l'intempe
- tantC
Per la Dom. ottava dopo la Pentecoſte. 3o5
rante tra i ſobrj. Star lontano da Sagramenti,
e poi ſperar parte con chi frequentolli: amar
libertà e divertimenti, e poi aſpettarſi di far nu
mero con chi mortificò paſſioni, e ſenſi: volere
in ſomma in queſta vita tenerſela co cattivi, e
poi nel dì eſtremo pretender luogo tra i buoni,
ella è pazzia. Una però delle due, cari uditori
miei , una delle due: o ſeparati adeſſo da pecca
tori, o eſſere allora ſeparati da giuſti, o metterci
adeſſo alla deſtra di Gesù ora i ſuoi cari, o aſpet
tarci d'eſſere allora tra ſuoi nimici alla ſiniſtra.
Penſiamoci,
che diſſi mai! dilettiſſimi, penſiamoci, ſebbene l

Ah Gesù, e riman luogo a penſarvi? E può


dubitarſi qual partito ſi debba prendere? Eh vi
penſi chi vuole: quanto a me la riſoluzion è
già preſa. Voglio aſſolutamente in queſta vita ſe
pararmi da' peccatori, perchè troppo mi preme
di non eſſere nel dì finale ſeparato da giuſti,
dicare il Mondo ciò, che vuole , non importa:
Soffrirò volontieri le ſue dicerie, perchè nel vo
ſtro Giudizio non abbia da ſoffrire la confuſione
di vedermi alla voſtra ſiniſtra. Deh ! mio Gesù,
per le piaghe ſantiſsime del voſtri piedi, che
umilmente adoro, aſsiſtetemi vi ſupplico con
la voſtra grazia ; affinchè vivendo adeſſo tra i
voſtri cari, poſſa tra voſtri cari aver luogo nel
giorno eſtremo. -
Separazione dell' amicizia de' giuſti, e però Pes
doloroſa. Nelle diſgrazie un amico è un gran fº.
ſollievo perchè ſi ha, e da chi ricevere qual
che conforto, e con chi sfogare il proprio ram
marico: ma ſe all' oppoſto aggiungaſi alla ſven
tura l' abbandonamento di tutti, o Dio! divie
ne intolerabile l'infortunio , e paſſa in diſpera
ZiCIAC
5o6 Diſcorſo XXVII.
zione il dolore. Argomentate ora voi, uditori
miei cari, qual ſia per eſſere nel dì finale il cor
doglio de reprobi ; non ſolamente ſaranno con
ſomma ignominia diviſi dalla compagnia de'
giuſti, ma ſi avvedranno con angoſcia eſtrema,
d'eſſere parimente diviſi dalla loro amicizia. Im
perocchè non vi ſarà tra gii eletti pur uno, che
li degni di un affetto di compaſſione: pur uno
che li miri con uno ſguardo amorevole: pur
uno che li conſoli con una parola di conforto.
Anzi depoſto ogni riguardo, che poſſa eſſervi
ſtato in queſta vita, o per ſuperiorità di natali,
o per congiunzione di ſangue, o per legame
d' amicizia, o per autorità d' impiego, tutto
d'accordo i giuſti alzeranno contro di eſſi il ca
Sap. 3. po, e la voce: Tunc ſtabunt juſti adverſus eos:
rinfaccieranno loro colpe, nella quali ſono oſti
natamente viſſuti, deteſteranno la lor condotta
regolata dal capriccio, non dal Vangelo; e ag
giungeranno confuſione a confuſione con farſi
beffe dell' onta loro.
Quando i Leviti d'ordine di Mosè ſi arma
rono contro gli adoratori del Vitello d'oro, dice
il ſagro Teſto, che niuno vi fu tra eſſi, che
miraſſe in faccia a fratello, a congiunto, ad
amico : ma che conſiderando unicamente il nero
marchio di ſacrilego, d'infedele, ferono ſtrage
ancor de' ſuoi cari, già non più cari, perchè
rei; e queſto ſteſſo diſamore, queſtº odio ſi è
l'elogio più bello, che laſciò di eſſi ſcritto la
Deut.
33.
penna infallibile dello Spirito Santo: Qui dixit
patri ſuo, ei matri ſue : neſcio vos; ei fratri
bus ſuis, ignoro vos: & neſcierunt filios ſuos.
Hi cuſtodierunt eloquium tuum, ci pactum tuum
ſerva verunt. Eccovi una figura di quanto avver
- Ma
Per laDom. ottava dopo la Pentecoſte, sof
rà nel dì eſtremo. Punto non ſi moveranno i
Giuſti a compaſſione del reprobi, tutto che una
volta uniti o di ſangue, o di affetto, o di pa
tria. Tutti ad una voce ſi proteſteranno di non
riconoſcerli più: Neſcio vos, ignoro vos. Lungi
da me indegna figlia, dirà quella madre, tu ſai
quanto feci e colle correzioni, e cogli eſempi
per iſpirarti pietà ; tu con ſegrete corriſponden
ze hai preteſo d'ingannar me, ed hai inganna
ta te ſteſſa: va , ch'io ti maledico, nè più ti
riconoſco per mia. Partiti indegno, dirà quel
fratello al fratello, quel congiunto al congiun
to, quell'amico all'amico, partiti indegno. Sic
come a me, così a te ancora non mancarono
le occaſioni di praticar la virtù; ma tu per ge
nio inſano di libertà nè voleſti, nè ſapeſti farne
un buon uſo. Or bene: ſe mentre io tripudio
alla deſtra, tu fremi alla ſiniſtra, ben ti ſtà: va
pure, che a te più non penſo, nè penſerò mai
più, ſe non per odiarti. E con ſimil ſentimento
facendoſi eco l'uno all'altro gli eletti, da quel
beato coro non giungeranno altre voci all'orec
chio de'reprobi, che neſcio vos, ignoro vos.
Giudicate ora voi, uditori, qual ſarà il dolore
di quella turba infelice, al vederſi ſeparata dalla
compagnia ugualmente, che dal cuor degli elet
ti! Quando Aſſalonne ebbe in pena de falli il
non comparire alla preſenza del Re ſuo padre,
tal fu il cordoglio che ne provò, che avrebbe
a quello preferita la morte. E chiamato a ſe
Gioabbo, va, gli diſſe, va da mio padre, e di
gli che lo ſupplico a non più tenermi lontano
dal ſuo volto, e del ſuo cuore : Obſecro et vi ,2. rieg.
- - p - e a
deam faciem Regis. Che s' egli ricordevole del .
mio misfatto non mi accorda la grazia, ſog
giun
sos Diſcorſo XXVIII.
giungili, che men doloroſo ſarannni il morire,
che vivere non amato da lui: Quod ſi memor eſt
iniquitatis, mese interficiat me. Tanto può ad un
figlio riuſcir acerbo il diſamore di un padre.
ual ſarà dunque l'afflizion de'preſciti allo ſcor
gerſi diviſi dall'amicizia non ſolamente del pa
dre come Aſſalonne, ma di tutti; non ſolamente
in contraſſegni eſteriori come Aſſalonne, ma con
tutta la ſincerità, non ſolamente col dubbio di
non riacquiſtarne mai più la grazia, come Aſ
ſalonne, ma ſicuri di non avere mai più pe:
tutta l'eternità uno che gli ami; non ſarà que
ſto un dolore peggiore di mille morti ? non fa
rà un Inferno fuori dell'Inferno?
O mondani, o mondani, che vi pregiate di
tutt'altre amicizie, che delle buone, quanto vi
compatiſco ! Vi avvedrete un dì, vi avvedrete
di quale amicizia per voſtra grande diſavventura
ſarete privi. Sapete perchè quel Padron Evan
gelico diviſa dal grano la zizania, volle che di
Matth, queſta varj faſci ſe ne formaſſero: Alligate ea
º in faſciculos, per dinotarci, che degli empi di
viſi da giuſti ſe ne faranno diverſi faſci ſecondo
la diverſità delle loro amicizie: Sicut faſciculi
lignorum ad combuſtionem de ſimilibus colligaretur,
ita in judicii die ſimilis culpe rei ſuis ſimilibus
fungeniur: lo affermò Sant'Iſidoro. Là un fa
ſcio di quel giovani libertini, che compagni in
diviſibili ne'loro diſordini paſſarono i loro gior
ni nelle piazze, nelle ſtrade, ne' ridotti, e fino
ancor nelle Chieſe, motteggiando, mormoran
do, ſatirizando: Là un faſcio di donne vane,
che d'altro mai non ſeppero tra ſe diſcorrere,
che di pompe, di mode, d'intrighi, di conver
fazioni, di divertimenti, tutta zizania da dar al
fuoco
Per la Dom. ottava dopo la Pentecoſte. 5oo
fuoco: Alligate ea in faſciculos ad comburendum,
de omnibus participantibus in eodem crimine fiet
tunus faſciculus: Là un faſcio di complici in amo
ri men caſti. Giovane che ſcriſſe viglietti, ſervo
che li portò, figlia che li ricevè, madre che li
diſſimulò, compagno che ne fu conſapevole:
Là un faſcio di più perſone di un ſeſſo, e l'al
tro, che concorrendo alla converſazione mede
ſima, furono un trattenimento perpetuo delle
loro ſere giuochi ecceſſivi, ſcandaloſi amoreg
giamenti, detrazioni maligne: Ut ex equo pae
ma conſtringat quaſi in faſciculum, quos actio ſi
miles fecit in malum. Così proſiegue il citato
Dottore ; e tanti faſci perchè? perchè ſcorgendo
ciaſcuno per quali amicizie ha perduta l'amici
zia eterna de giuſti, arrabbi, frema, diſperi. O
ſeparazione! o crepacuore! -

Ah , cari uditori, miriamo adeſſo con chi ſi


tratta, con chi ſi converſa, con chi ſi ſtringono
amicizie. Guardiamoi dal non cominciare un
qualche faſcio di riprovati; certe amicizie, che
paſſano in familiarità ſconvenevole, certe ami
cizie, che ſe non eccitan fiamma ſollevan però
del gran fumo; che sì, dilettiſſimi, che vi fa
ran perdere nel giorno eſtremo l'amicizia dei
giuſti ; e allora che dolore, dilettiſſimi, ſarà mai,
che incomprenſibil dolore il dover dire: mai più
non avrò uno che mi ami, uno che mi compa
tiſca, uno che mi conſoli, uno che mi rimiri con
pietà: mai più, mai più ? E con queſto penſie
ro in capo ancor ſi avrà cuore per le amicizie di
queſta terra, vane, ingannevoli, pericoloſe ?
Ah no, caro Gesù, vadano pure quelle ami
cizie, che mi poſſono metter a riſchio d'eſſere
ſeparato nel dì finale dall'amicizia de Giuſti i
vadano
-
5 to Diſcorſo XXVIII -

vadano pure, che non le curo. Che mi giove


rebbe l'aver io amate le creature, o l' eſſere
ſtato da eſſe amato, ſe poi per lor cagione ve
niſſi a perdere l'amicizia voſtra, e quella dei
voſtri cari ? Datemi, Gesù mio, il voſtro amo
re: ve ne ſupplico per le piaghe ſantiſſime delle
voſtre Mani, che riverentemente adoro: datemi
il voſtro amore; queſto ſolo io bramo, queſto
ſolo io cerco; perchè unendomi queſto con voi
in queſta vita, mi unirà ancora nell'ultimo gior
no co' voſtri Eletti.
e Separazion dalla gloria de'giuſti, e però ſpa
Pos- ventoſa. Nella ſeparazione dalla gloria del giu
ºro III. ſti tre fulmini io ravviſo, che colmeranno i re
probi di ſpavento. Il primo ſi è quando i giu
fti ſollevati ſu luminoſe nuvole, giuſta la pro
fezia di Paolo, ſi faranno incontro a Criſto Giu
Theſ dice: Simul rapiemur cum illis in nubibus obviam
“ Chriſto in aera, calpeſtando intanto con piè glo
rioſo, come Malachia il prediſſe, la ciurma vile
Malac de riprovati, calcabitis impios, cum fuerint ci
a nis ſub planta pedum veſtrorum in die qua ego
facio, dicit Dominus exercituum. Il ſecondo ſi è
quando per bocca del Redentore anderà con elo
gj la virtù degli eletti, anderà con rimproveri
l'iniquità del reprobi, gli uni accolti con bene
Matth. dizioni quai figli: Venite benedicti, ributtati gli
º altri con maledizioni quai nemici: Diſcedite ma
º ledicti. Il terzo finalmente ſi è, quando i buo,
ni avvieranſi tra gli applauſi dell'empireo al
poſſeſſo del regno, e gli cmpj ſaran forzati a
precipitare in eterna ſchiavitù negli abiſſi: Ibunt
º hi in ſupplicium eternum, juſti autem in vitam
aeternam. Al lampeggiare di queſti tre fulmini,
oh Dio da qual orrore ſarà ſorpreſo il cuor de'
pre
Per la Dom. ottava dopo la Pentecoſte. 511
preſciri? Viaentes, eccoli deſcritti dalla Sapien º º
za, turbabuntur timore horribili.
Vorrebbero allora gli ſventurati volgere altro
ve l'occhio, ma non potranno; converrà loro
ſuo malgrado fiſſare nell'altrui gloria lo ſguar
do, e tra i morſi della ſua invidia, e tra le ſma
nie del ſuo ſpavento: Hi ſunt, dovranno dire
ſuo marcio diſpetto, hi ſunt quos aliquando habui
mus in deriſum. Ecco là quelli, che noi una vol
ta ſprezzammo, quelli che motteggiammo ,
quelli, dei quali credemmo folia la vita, per
chè ritirata, perchè divota, perchè eſemplare:
Vitam illorum eſtimabamus inſaniam; eccoli ora
annoverati tra i figliuoli di Dio, eccoli nel ruo
lo fortunato de Santi: Ecce quomodo computati
ſunt inter filios Dei, e inter ſanctos ſors illcrum
eſt. Eſſi al regno, noi alla ſchiavitù : eſſi con
Dio, noi co Demonj: eſſi beati per ſempre,
noi per ſempre infelici. O ingannati, che noi
fummo ! o ſciocchi! o degni di quelle catene,
che ora ci ſtringono, e poi ſempre più ci ſtrin
geranno! E a queſto lor fremere ſottentrando gli
eletti: sì, ribaldi, diranno, convien pur confeſ
ſarlo una volta, e confeſſarlo in faccia di tutto
il Mondo, che non era poi melenſaggine, come
voi ſpacciaſte il non riſpondere con equivochi
ad equivochi; che non era viltà il perdonare in
giurie, ſagrificare riſentimenti; che non era una
divozion fuor di tempo il ſantificare gli anni
anche più verdi con la frequenza del Sagramen
ti ; che non era inciviltà e ruſtichezza non ri
conoſcere per compagno, chi non ſapea farſi
conoſcere per Criſtiano; che non era nè diſo
nor, nè baſſezza antiporre alle maſſime del Mon
do, quelle dell'Evangelio, convien pur confeſe
ſarlo. Così confeſſato l'aveſte quand'era ts",
Clic
5 I2 Diſcorſo XXVIII.
che ora non provereſte la confuſione, il dolor,
lo ſpavento, d'eſſere ſeparati dalla compagnia,
dall'amicizia, dalla gloria del giuſti: e in que
ſto dire, ſalendo gli uni ſopra le sfere, piom
bando gli altri giù negli abiſſi, ſi compirà la
obbrobrioſiſſima, la doloroſiſſima, la ſpavento
ſiſſima ſeparazione.
Veniamo ora a noi, cari uditori, che quel
che importa è, che abbiamo tutti a ridurci a
quel gran giorno, e quanti ſiam ora raunati in
queſta Chieſa, abbiamo a raunarci un dì nella
gran Valle. Or chi mi ſa dire ſe quando ſcen
deranno gli Angioli a fare la terribile diviſione,
ſaremo noi tutti dalla parte degli eletti ? Sare
mo noi tutti alla deſtra di Criſto, come ſiamo
tutti ora alla ſua preſenza ? Cari uditori, ſe do
veſs'eſſere quel ch'io deſidero, o ſe poteſsio
anche col mio ſangue, anche con la mia vita,
far che riuſciſſe ciò, che deſidero ; tutti, sì,
tutti ſaremmo nel numero fortunato de giuſti:
Ma quell'amore, che accende in me il deſide
rio, che ſia così, eccita ancora il timore, che
non ſia per eſſer così. Temo, sì temo, e non
ſenza giuſtiſſimo fondamento, che qualcuno di
noi, e piaccia a Dio, che ſia ſolamente qual
cuno, ſia per eſſere nel giorno eſtremo nella
ſchiera infauſti de'reprobi, ſe preſto non ſi ri
ſolve di cambiar vita. Ah, ſe ſapeſs'io ſu chi
tra noi ſovraſta ſorte sì miſera, a lui rivolto
con tutto quel zele, che può ſuggerirmi l'amo
re di ſua ſalute, dilettiſſimo, vorrei dirgli, di
lettiſſimo mio, come mai non riflettete alla ter.
ribile voſtra imminente diſdetta! Date d'ogn'in.
torno un'occhiata, e ſappiate, che quanti vi
ſtanno attorno, tutti un di gioiranno alla º"
l
Per la Dom. ottava dopo la Pentecoſte. 513
di Criſto, e voi, o miſero, piangerete, arrab
bierete alla ſiniſtra. Quanti qui ſiamo, tutti vi
rinfaccieremo la voſtra pazzia, per cui, meglio
che aſſicurarvi un poſto tra buoni, amaſte vi
ver tra peccatori. E vi torna egli a conto, in
ſenſato, per un piacere, per un puntiglio, per
un umano riſpetto, per una vana compiacenza
eſſere in faccia di tutto il Mondo ſeparato da'
giuſti? Deh anima cara, ſinchè vi è tempo, un
addio a quel peccati, che voi ſapete, un addio
a quegli amici, un addio a quel giuochi, un
addio a quelle vanità, un addio a quel diletti.
Vedete là quel Gesù è che altro egli vi dice da
quell'Altare, ſe non che vi mettiate adeſſo tra
ſuoi cari, perchè ſiate altresì tra ſuoi cari nel
giorno eſtremo? Eccolo pronto a benedirvi fin
da queſta ſera ; e perchè volete voi co voſtri
peccati obbligarlo a maledirvi nel dì finale ?
Ah buon Gesù, fate voi con la voſtra grazia
ciò, ch'io non poſſo con la mia lingua, non
laſciare queſta ſera partire chi n'ha biſogno ſenza
toccargli il cuore, illuminatelo, compungetelo,
fatelo ravvedere. Benedite lui, e benedite noi tut
ti, e ſia la benedizion di queſta ſera una ca
parra di quella, che ſperiamo nel giorno eſtre
umo. Ah Gesù caro, per la piaga ſantiſſima del
voſtro Coſtato, che umilmente adoriamo, tutti
e di tutto cuore vi ſupplichiamo a far sì, che
niuno di noi vada in quel di ſeparato da giu
ſti; niuno, caro Gesù. Mirateci ad uno ad uno
con occhio di miſericordia, Perdonateci i noſtri
peccati, cenſervateci nella voſtra grazia ; e con
cedeteci, che come ora tutti ſiamo ſupplichevo
li a voſtri Piedi, così tutti ancora nel giorno
eſtremo ſiamo tra gli eletti alla voſtra deſtra.
Ann. IV. Tom, IV, Kk DI
5 I4
=== Nº pA ====i:
º 5E ESEGESEºg o Eat, E FEE

li º i; ii
ºffrir EEEsis e FEEEE
-

è
D I S C O R S O XXIX.
PER LA DOMENICA N O NA
DOPO LA PENT E COST E.

Abuſo delle divine iſpirazioni.

Non relinquent in te lapidem ſuper lapidem, eo


quod non cognoveris tempus viſitationis tua.
Luc. 19.

3.- (ӏ tg On vi ha mal, che non meriti chi


è, ºs non vuol conoſcere il ſuo bene.
N Queſta è la lezione, che queſta ſe
s"é gº ra più con lagrime, che con paro
ià A. Jºi le il Redentore c'inſegna. Fiſſa egli
lo ſguardo ſu Geroſolima, ed oh,
dice piangendo, Città infelice, che dura ſorte
ti aſpetta! Tu ora chiudi gli occhi a quella lu
ce, che ſgombrar pur vorrebbe le tue caligini,
e fai la ſorda a quelle voci, che vorrebbono
pure ſcuoterti dal tuo letargo. Miſera ! tempo
verrà, in cui ſconterai col tuo ſterminio l'oſti
nazione. Già il Cielo, a cui ſei ſtata sì cara,
con alta indignazione ti mira: già ritira la de
ſtra, con cui sì copioſe ha ſparſe finora º"
Per la Dom. nona dopo la Pentecoſte. 515
di te le ſue grazie, e a vendicare le tue ingra
titudini già inveſte di ſdegno, e di furore fa
langi oſtili, che col ferro, e col fuoco faran
no di te, e de tuoi figli funeſto ſcempio: Ad
terram proſternent te, o filios tuos, o non re
linquent in te lapidem ſuper lapidem : e ad on
ta tua immortale ſulle tue rovine ſi ſcolpirà:
che tu medeſima , perchè riconoſcere non
voleſti le tue fortune, ti fabbricaſti le tue
ſventure: Eo quod non cognoveris , tempus vi
ſitationis tua : Così diſſe : ma sì dicendo,
non vi crediate, uditori, ch'egli indirizzaſ
ſe le ſue doglianze, e le ſue minacce ſola
mente a quella ingrata Metropoli, che rico
noſcer non volle il Dio, che viſitolla: no, in
dirizzolle ancora a quelle anime, delle quali
era figura la ſconoſcente Geruſalemme; a quel
le anime, diſſi, che punto non apprezzano il
bene di quelle viſite, che Dio fa loro al cuore;
e chiudendo loro pet malizia l'orecchio, fan
no alle inſpirazione divine oſtinatamente le ſor
de. Sì anche a queſte le indirizzò, perchè ſic
come di Geroſolima ricopiano queſte l'ingrati
tudine, così ancora di Geroſolima proveranno
un giorno l'infauſta ſorte. Anime ſventurate,
che piombando in un abiſſo di mali, perchè
del ſuo ben non ſi curano, lagnar non ſi poſ
ſono ſe non di ſe. Io ben mi perſuado, che di
coteſte anime non ve ne ſia tra voi. Pure per
chè l'entrar nel loro numero è troppo facile;
contentatevi, che a rimoverne il gran pericolo
io vi dimoſtri queſta ſera la triſta ſorte di Ge
roſolima, rinnovata in quelle anime, che del
le inſpirazioni divine ſi abuſano. La prima diſ
detta di Geroſolima fu l'indignazione, con cui
- K k2 Dio
5 16 Diſcorſo XXIX
Dio cominciò a mirarla: la ſeconda l'abban
donamento, con cui privolla della ſua prote
zione: la terza lo ſterminio, a cui finalmente
la condannò. Così contro le anime, che delle
iſpirazioni ſi abuſano, Dio primieramente ſi
ſdegna; primo punto: Sdegnato ſi ritira i ſecon
do punto: Ritiratoſi le conſegna alla balia del
alor nimico; terzo punto. Cominciamo.
p, Contro le anime, che ſi abuſano delle divine
ror iſpirazioni Iddio ſi ſdegna. Se non mai tanto
a ſdegno ſi muove un giuſto conoſcitor delle
coſe, che quando vede mirato con occhio di
non curanza ciò, che per eccellenza di pregio
innamorar dovrebbe di ſe ogni cuore; chi mai
potrà eſprimere l'indignazione, con cui da Dio
ſi mira l'abuſo, che da tutti ſi moſtra delle Ce
leſti ſue viſite? Di quelle viſite dico, con le qua
li ora ci riſchiara con ſante illuſtrazioni la men
tc, ora c'infiamma con pie affezioni la volon
tà, ora ci ritrae con pungenti rimorſi dal male, or
con le ammonizioni altrui ci iſtruiſce, or cogli al
trui eſemp; ci anima. Sapete, che ſieno elleno que
ſte, che noi chiamiamo iſpirazioni divine ? Sono
doni, che a noi ſcendono dalla mano di Dio; ma
doni di un ordine così eccelſo, che traſcendono tut
ta la noſtra natura ; doni sì nobili che traggon l'
origine dal ſeno ſteſſo di Dio; doni così prezio
ſi, che miſurano dal ſangue di Criſto il ſuo va
lore: e per queſto ſteſſo, che ſono doni, inde
biti affatto alla noſtra miſeria, di tal maniera,
che nè abbiamo noi diritto a pretenderli, nè a
conferirceli corre a Dio obbligazion di giuſti
zia: Il darceli ; e darceli, com' egli uſa in tan
ta copia, è mero effetto di bontà, che ci ama,
di carità, che ci ſoccorre, di liberalità che ci
benefica
Per la Dom. nona dopo la Pentecoſte. 517
benefica. Or come può non ardere Dio di giu
ſto ſdegno, qualora vede, che i doni ſuoi, do
mi pregievoli per tanti titoli, non ſi ricevono,
non ſi curano; anzi ſi rifiutano, ſi diſprezzano ?
Che direſte voi d'uno ſchiavo, che potendo
coll' ajuto da voi offertogli ſciogliere le ſue ca
tene, vi ributaſſe da ſe è che di un infermo,
che potendo con la medicina eſibitagli guarire
da ſuoi malori, non ſi curaſſe di appreſſarvi le
labbra è che di un mendico, che al ſollievo pre
ſentatogli per ſatollar la ſua fame, ſdegnaſſe
porger la mano? Ben vi ſtà, inſenſati, direſte
loro avvampando di un giuſto fuoco, ſe ge
mete, ſe languite, ben vi ſtà. Che dovrà dun
que Dio dire di noi, qualora ci ſcorge ſprez
zatori ſcorteſi delle ſue offerte ? Miſeri! ſiamo
ſchiavi di mille paſſioni, che c'incatenano, e
ſtà negli inviti della ſua grazia la libertà: e noi
piuttoſto, che udirli, amiamo gemer tra cep
pi: Siam biſognoſi di mille beni, che ancor ci
mancano ; ſtà nel ſoccorſi della ſua grazia la ric
chezza: e noi piuttoſto, che prevalercene, a
miamo vivere in povertà: ſiamo putridi per
mille colpe, che malamente c'impiagano i ſtà
nell'efficacia della ſua grazia il noſtro balſamo:
e noi piuttoſto, che farne un buon uſo, amiam
marcire nei noſtri vizi. E ſe non è queſta, di
temi, qual ſarà quella povertà ſuperba, mira
ta mai ſempre da Dio coll'abbominazion più
ſdegnoſa ?
Belle induſtrie del cuor divino, l'indovinate
pur male con noi! Che non fate voi per trion
fare del noſtro cuore ? e il noſtro cuore, che
non fa per ributtare gli aſſalti voſtri amoroſi?
Sì, miei dilettiſſimi, forza è pure, che il con
- Kk 3 feſſiamo
518 Diſcorſo XXIX.
feſſiamo a noſtra gran confuſione. Dio per far
ſi udire da noi, alza in più maniere la voce,
e noi più ch'egli parla alto, più chiudiamo
l'orecchio. Attaccamento ſoverchio alle pom
pe, alle vanità, alle ricchezze avviliſce il vo
ſtro ſpiritos e Dio per mezzo d'una diſgrazia
improvviſa: mira, vi dice, mira anima cara la
caducità di quel beni, che tanto ami: ottien'e-
gli perciò, che tutti al Cielo ſi portino i no
ſtri affetti ? Amor del piacere incanta i voſtri
ſenſi. Iddio per mezzo d'una morte, che co
glie nel fior degli anni quell'amico, o quell'a-
mica: mira, vi dice, ove finiſce quel corpo,
che ſi accarezza cotanto: rivolgeſi perciò tut
ta l'attenzion del corpo all'anima? Tra que'diſ
guſti, che vi amareggiano, tra quelle contra
rietà, che vi accorano, tra que rimorſi, che
v'inquietano, Iddio vi dice al cuore: non a
vrai pace, finchè avrai lega col peccato: ſi do
ma perciò quella paſſione, ſi rompe quell'abi
to, ſi fugge quell'occaſione ?
Il peggio ſi è, ſe allo ſteſſo tempo che ſi fanno
ad invitarci voci di Dio, e voci del Mondo,
a quelle di Dio ſi fa del ſordo, a quelle del
Mondo quanto ſi ha d'orecchio, tutto ſi por
ge. Così non foſſe, uditori, così non foſſe.
Parlino Criſtiana umiltà, e ambizione monda
nas l'una riprovi, l'altra conſigli le mode, le
pompe, l'orgoglio: chi de' due avete voi, o
Donna, aſcoltato finora ? V invita, o giovane,
alla modeſtia il Vangelo, alla libertà il coſtu
me: e voi fin'ora, chi avete ſeguito ? Non ſi
confa, dice il Demonio, con la tua età tanto
ritiramento: convien godere degli anni, ſoſte
nere con pronta vendetta il decoro, penſieri
- CtCIſl1t3
di
Per la Dom. nona dopo la Pentecoſte. 519
eternità ſon troppo melanconici: riſerbagli all'
ozio della vecchiaja, e queſte perchè ſon voci,
che ci luſingano, ſon ben accolte. Avverti, di
ce Dio, quell'affetto degenera in paſſione, que
tratti ſono eſca di un grand'incendio, quel giuo
co non è più divertimento, ma vizio. Eh, ſoa
no ſcrupoli: non ſe ne fa nulla. E non traggo
no la divina indignazione portamenti così ſcor
teſi ? Come! dice Dio, colui non vede, io l'il
lumino: fugge, io lo ſieguo: ſi aſconde, io
lo cerca: vacilla, io lo ſoſtengo fin tra il tu
multo delle ſue paſſioni, fin tra il bollore de'
ſuoi ſtravizzi, fin tra le lordure de' ſuoi peeca
ti, mi trovo al ſuo fianco e grido: che fai in.
felice ? dove ti avvii; mira, che tu precipitis
ed egli ingrato mi ributta, mi dà le ſpalle. Al
Demonio, che lo inganna, al Mondo, che lo
tradiſce, al ſenſo, che lo incatena, ogni atten
zione s a me ſuo Dio, ſuo Padre, a me, che
lo amo, che lo benefico, ch'il voglio ſalvo,
non altro, che ſcorteſie. E può mirarſi ſenza
ſdegno un trattar si villano ? no, che non ſi
può, miei dilettiſſimi, non ſi può: Cor ſuumº º
poſuerunt, ut adamantem, ne audirent legem &
verba, qua miſit Dominus, ci facta eſt indigna
tio magna a Domino. Così diſſe a terrore di chi
abuſa di tali grazie Zaccaria Proſeta.
E noi, dilettiſſimi, a quale invito abbiamo fi
nora porto l'orecchio ? a quel di Dio, o a quel
del Mondo? a quel di Dio, o a quel del ſenſo?
a quel di Dio, o a quel di Satana ? Abbiamo
noi mai con ingiurioſe ripulſe eccitata l'indigna
zione di Dio contro di noi ? Ah ſe ciò foſſe,
cari uditori, come pure dal canto mio lo è,
perchè almeno non imitiamo il Santo David,
Sk 4 il
52o Diſcorſo XXIX.
il quale avvedutoſi di avere con male corriſpon
denze irritata l'indignazione divina, non potè
contenerſi dal piangere, dal ſoſpirar, dal com
Pſitor.pungerſi: Cinerem tamquam panem manducabam,
& potum meum cum fletu miſceham a facie ire,
ci indignationis tue. Plachiamo con la contri
zione il ſuo ſdegno, emendiamo con pronto ri
corſo le ritroſie paſſate, mandiamo a Dio voci
di pentimento, perchè Iddio a noi rimandi vo
ci d'invito.
Sì Gesù dolciſſimo, ecco a voſtri piedi un in
grato, un infedele, un oſtinato. Ah quante vol
te ho fatto il ſordo alle voſtre voci ! quante
volte ho ributtati i voſtri inviti ! Conoſco pur
troppo di aver provocata l'indignazione voſtra
contro di me. Quanto, ah quanto me ne del
go, o mio Signore! quanto me ne piange il
cuore, sì quel cuore medeſimo, da cui finora
-- vi ho eſcluſo, e che ravveduto ora vi cerca.
Deh Redentore amabiliſſimo, per le Piaghe ſan
tiſſime de' voſtri Piedi, che profondamente ado
ro, deponete, vi ſupplico, ogni ſdegno contro
- di me. Sono tutto a cenni voſtri, o mio Gesù:
Parlatemi pure : chiamatemi, riſponderò : bat
tete a queſto cuore, vi aprirò , vi ammetterò,
- vi abbraccierò.
“re Dalle anime, che ſi abuſano delle divine iſpi.
Puºi razioni, Iddio ſdegnato ſi ritira. Siccome i fa.
“” “ vori ſe a lungo ſi abuſano, provocan l'indigna
zione; così l'indignazione ſe a tempo non pla
caſi, ſi sfoga coll'abbandono. Tanto appunto
al riferir di Mosè provò a ſuo danno, a noſtro
fº, eſempio l'ingrato Iſraello: Vidit Dominus, ci
ad iracundiam provocatus eſt. Ecco l'indegna
zione, 6 ait: abſcondam faciem meam ab eis,
CCCO
Per la Dom nona dopo la Pentecoſte, s21
ecco l'abbandono. E qual pena in fatti più giu
ſta, che laſciar di parlare a chi rifiuta di udire,
e ritirare le grazie da chi non le cura? Vigna,
che a ſudori di chi per lei ſi affatica corriſpon
de mai ſempre con ingrata ſterilità, merita ella
di avere occhio che vegli a ſua difeſa, mano
che ſi adoperi a ſua coltura? No, dice Dio per
Iſaia, figurando appunto in una vigna infecon
da un'anima infedele alle ſue grazie: Nunc oſten-ºº
dama vobis quid ego fasiam vinea mee. L'ho inaf
sfiata colla pioggia delle mie grazie, l'ho riſcal
data co' raggi della mia beneficenza, non ho riſ
parmiato ſollecitudine, perchè arricchiſſe di co
pioſe vendemmie i ſuoi autunni: ed ella de' ſuoi
frutti ſempre avara, alle mie fatiche ſempre in
grata, non mi ha reſo mai altro, che ſterili pam
pini, lambruſche acerbe, ſelvaggi bronchi : e
avrò io ſempre a vedere ite a vuoto le mie in
duſtrie ? O queſto no; non corriſponde alla mia
attenzione, ne abbandonerò la coltura: Aufe
ram ſepem eius, o erit in direptioncm : diruana
maceriam eius & erit in conculcationem. Sottrare
rò certe grazie, che le ſervivano di riparo con
tro gl'inſulti de' ſuoi nimici, e laſcerò libero il
campo e alle ſorpreſe di tentazioni furioſe, e
al ſacco di paſſioni bruttali: troppo egli è giu
ſto, ch'io non mi curi di chi non ſi cura di
C. ,

E forſe ch'egli è raro a vederſi queſto, che


di tutti i gaſtighi ſi è certamente il più terribi
le ? D'onde credete voi, ch'ella tragga l'origine
quella pace, che in ſeno al peccato ſi godono
certe anime ſventurate? Voi le vedete paſſar giu
live i ſuoi giorni, dormir tranquille i ſuoi ſon
ni, gioire, ridere, divertirſi. Aveano prima in
OrIOIC
522 Diſcorſo XXIX.
orrore ogni colpa; or l'accarezzano: ſe ne af
fligeano, ora ne godono: ſe ne arroſſivano; or
ſe ne vantano: odono rimproverarſi la diſſolu
tezza, ed eſſe divengono più ſcoſtumate: veg-,
gono eſempi di altrui pietà, di altrui modeſtia ;
ed eſſe mettono ſempre più in viſta i loro ſcan
dali: gemono ſotto il peſo di tribolazioni con
tinove, e non ſi ſcuotono dal letargo del loro
vizjs effetto ſi è queſto, dice Dio, del mio ab
bandonamento: De manu mea factum eſt hoc ,
Uſa. se in doloribus dormietis. Non più ſcrupoli, che le
inquietino, non più rimorſi, che le flagellino,
non più terrori, che le tormentino, non più
gaſtighi, che le riſveglino: In doloribus dormie
mis. Sieno preda del loro capricci in pena de'
Pſ so, loro capricci medeſimi: Dimiſi eos ſecundum
deſideria cordis eorum, ibunt in adinventionibus
ſuis. Seguano pure il corſo delle loro paſſioni:
dove infelici anderanno? In adinventionibus ſuis:
dove ? ibunt dal peccato veniale, al mortale:
ibunt da un peccato mortale all'altro : ibunt
dalle recidive negli abiti: ibunt dagli abiti invc
terati alla neceſſità di peccare: ibunt dalla ne
ceſſità di peccare, alla diſperazion di ſalvarſi:
ibunt in adinventionibus ſuis O terribili paſſi !
Io non voglio già dire, uditori, che Dio nic
ghi a chi ſi abuſa delle ſue grazie ogni ſoccor
ſo: Voglio per ora concedervi, che anche a più
ingrati, anche a più oſtinati egli ſomminiſtri gra
zia baſtevole, per ravverderſi e per ſalvarſi. Di
co, che certe grazie eccitanti, ma efficaci, che
riſchiarerebbono loro la mente già tanto ingom
brata, certe grazie ajutatrici, ma vittorioſe, che
trionferebbono della loro volontà già tanto ri
belle, certe grazie protettrici, ma teorieCIAC
/

Per la Dom. nona dopo la Pentecoſte. 523


che rintuzzerebbono l'ardire del tentatore, e la
gagliardia delle tentazioni, certe grazie in ſom
ma, che non ſolamente poſſono condurre alla
ſalute, ma vi conducon di fatto: queſte, di
lettiſſimi, Iddio d' ordinario non le dà a chi
con oſtinata temerità ſi abuſa delle già ricevute,
Così Dio abbandona, così rigetta chi lo riget
ta: Pro eo, quod projeciſti ſermonem Domini, - Reg.
5e
projecit te Dominus. Queſto fu il gaſtigo, con
cui fu punito Saulle diſubbidiente: queſta è la
minaccia, che s'intima al peccatore Criſtiano:
anderanno ſempre d'accordo il projeciſti ſermo
nem Domini col projccit te Dominns, l'abuſo
della grazia coll'abbandono di Dio.
Dilettiſſimi miei, tra i gaſtighi co quali può
Dio punirci in queſta vita, niuno è più da te
merſi di queſto; anzi queſto ſolo merita d'eſser
temuto. Povertà, infermità, travagli, perſecu
zioni, ſono gaſtighi anch'eſſi, che ci correggo
no, ma l'abbandonamento di Dio, la ſottra
zione delle ſue grazie, la privazion de' ſuoi aju
ti, è un gaſtigo che ci perde: Va cum receſſero Oſ, se
ab eis, va, ve. Ah, cari uditori miei, impa
riamo una volta a ſtimare le grazie , che Dio
ei manda, e corriſpondiamo loro con la dovu
ta prontezza. Udiamo Dio ſinchè ci parla, per:
chè s' ei laſcia di parlarci, miſeri noi, miſeri
noi. O ſe l'intendeſſe chi da tanto tempo ha
ue rimorſi! continuerebb'egli in quella vita sì
iſſipata, in quell'amicizia sì pericoloſa, in
quell'occaſione sì ſdrucciola, in quella libertà
sì abbominata ? Intendiamola almeno noi, di
lettiſsimi, intendiamola : e attenti ſempre alle
voci del Cielo, tenghiamo da noi lontano l'orren
do pericolo di eſſere abbandonati da pº NO ,
524 Diſcorſo XXIX.
No, Gesù amabiliſſimo, non abbandonate, vi
ſupplico, queſta mia anima: mi ſono meritati i
voſtri gattighi, lo confeſſo, punitemi come a voi
piace: offeriſco alla giuſta voſtra vendetta il mio
corpo, i miei ſenſi: ma di grazia non mi punite
con la ſottrazione delle voſtre grazie, di quel
le grazie che voi vedete eſſere per me le più
opportune, le più neceſſarie. Inorridiſco , o
mio Gesù, qualora io penſo d' averle tante
volte demeritate. Ah, Mani piagate del mio
Dio, liberaliſſime Mani, io vi adoro, e vi ſup
plico con quanto ho di cuore, e di ſpirito, a
concedermi queſta ſera quelle grazie, delle qua
li per il paſſato mi hanno privato i miei deme
riti. Deteſto la mia paſſata ingratitudine, e vi
prometto corriſpondenza fedele nell' avvenire,
Ritiratoſi Idaio dall'anime, che ſi abuſano delle
divine iſpirazioni, le conſegna in balia de' ſuoi
mimici. Poco prima che Geroſolima cadeſſe vit
rima del furore, ſi udiron nel Tempio voci che
diſſero: Partiam di quà; Mignemus hinc, e fu
rono voci degli Angioli ſuoi tutelari, che veden
do abbandonato da Dio l'ingrato popolo, l'ab
bandonarono anch'eſſi, e coll'abbandono ſi vide
ben toſto ſuccedere lo ſterminio. Vennero poco
dopo i nimici, e ſtrettolo con aſſedio, prima lo
affliſſero con la fame, e poi lo malmenarono
con la ſpada. Così va , miei Dilettſſimi, chi coll'
abuſo delle iſpirazioni coſtringe Dio a ritirarſi,
ſi aſpetti pure d'eſſere lo ſcherno, e la vittima de'
Pſ, 7o. ſuoi nimici: Deus dereliquit eum, perſequimini
& comprehendite eum, quia non eſt qui eripiat,
così parlonne il Salmiſta, e parve che dir voleſſe:
Su ſquadre infernali, fatene pure ciò, che a voi
piace: aſſediatelo , combattetelo, incatenatelo,
ſterminatelo:
Per la Dom. nona dopo la Pentecoſte 525
ſterminatelo: Perſequimini, 6 comprehendite.
Perſequimini nella fede, e fate che dubiti di
quanto religion gli propone: perſequimini nella
carità, e di figlio addottivo ch' egli è dell'Altiſſi
mo, fatelo voſtro ſchiavo, perſequimini, cº
comprehendite. Perda alla virrù ogni affetto: per
da del vizio ogni orrore, perda della grazia
ogni ſtima. Pianga, frema, diſperi tra le voſtre
catene. Io per me più non penſo nè a dirgli una
parola che lo conſoli, nè a porgergli una mano
che lo ſollevi: Perſequimini & comprehendite,
quia non eſt qui eripiat, o che ſcompiglio! che
orrore, che ſcempio !
Ma Padre, dirà forſe più d'uno, a che tanto at
terrirci? Se aveſſimo ancora noi certe grazie, che
Dio ad altri concede, noi ancora ſapremmo corre
re a ſpron battuto la via della virtù. Ma... Piano
che v'ingannate a partito, ſe vi credete, che
queſta ſcuſa ſia punto per favorire la voſtra cau
ſa; e che è Son fors'elleno le grazie divine altret
tante catene, che ſtraſcino per forza il libero arbi
trio ai voleri di Dio ? Non laſciano eſſe ſempre in
tiera la libertà, o ad accettarle, o arbuttarle ? ſono
rugiade che fecondano, ma fecondano ſolo quel
le anime, che aprono il ſeno a riceverle: ſono
luci che riſchiarano ; ma riſchiarano ſol quelle
menti, che non chiudono a bella poſta gli oc
chi per non vedere: ſono picchiate che battono
alla porta del cuore; ma picchiate diſcrete, che
non uſano violenza per conſeguire l'entrata; e
però con quella ſteſſa volontaria malizia, con
cui ributtate avete le grazie ricevute di fatto,
avreſte ributtate anche le altre, ſe ve l'aveſſe
Dio conceſſe. E poi non è egli Dio il padrone?
i Vuol dare ad ognuno quel che a lui " C

e
VllQ1Q
- -
526 Diſtorſo XXIX.
vuole che ſi corriſponda a quel che dà. A chi dà
cinque talenti, a chi ne dà uno: dà i cinque a
chi gli piace, a chi gli piace dà uno: e vuole,
che ugualmente ſi traffichin e l'uno, e i cinque.
Ma perchè ſcorgiate ancor più chiaro l'inſuſſi
ſtenza di voſtra ſcuſa, vediamo quali ſiano quel
le iſpirazioni, con le quali hanno tanti altri bat
tuta ſenza intoppo la carriera del comandamenti
divini. Ecco Pelagia, che ſcioglieſi in pianto di
contrizione a piedi del Santo Veſcovo Nonno,
chi ve l'ha ſpinta ? queſto penſiero venutole in
mente all'udir d' una predica: che ne avrai de'
tuoi piaceri, ſe poi ti perdi ? Ecco Eliſabetta
d'Ungheria, che rinunzia per ſempre alle pom
pe, chi ve l'ha indotta è queſto affetto natole in
cuore alla viſta di un Crocifiſſo: brilla tra i dia:
manti il tuo capo, e ſpaſima fra le ſpine quel
del tuo Dio. E quell'Ignazio, alla cui feſta
con la preſente Novena ci diſponiamo, come
ſi è avviato ad una ſantità per penitenza sì
auſtera, per eſtaſi ſi ammirabile, per miraco
li ſi ſtrepitoſa, per meriti sì ſublime º d'on
de n ha tratto il principio: chi ha data la ſpin
ta a moſſe così glorioſe? chi ? Queſto ſentimento
conceputo nel leggere le vite de Santi: Perchè
non potrai ancor tu ciò che tanti han potuto?
Or ditemi, uditori, ſentimenti sì fatti quanti ne
avete avuti anche voi in tante occaſioni che
vi ſi ſon preſentate? e quanti ancora ne avreſte
avuti di più, ſe per mera traſcuratezza non
aveſte tante volte abbandonata e la parola di
Dio, e la lettura de libri ſanti, e la frequenza
de Sagramenti? E ancor vi ſarà chi abbia fronte
di dire, farei ancor io, ſe ancor io aveſſi le gra
zie, che gli altri hanno ? ah dite, e direte
giuſto
Per la Domen. nona dopo la Pentecoſte. 527
giuſto: Potrei ancor io farmi Santo al par d'ogni
altro , ma non voglio. Datene il torto non a
Dio, quaſi non vi compatta le ſue grazie, ma
a voi che le abuſate: e quindi aſpettatevi pure
ancor voi, che Dio, voltevi ſdegnoſamente le
ſpalle, ſtermini ancora voi, come gia ſterminò
l'oſtinata Metropoli.
Vedete in fatti ſe non hanno coſtoro tutto il
merito d'eſſer trattati con quella ſteſſa ſeverità
con cui fu trattata Geruſalemme. Non è egli
vero, che potrebbe Criſto far ad eſſi quel me
deſimo rimprovero, che già fece a quell'ingrata
Città ? Quoties volui, potrebbe dir ad ognun di
loro, quante volte ti ho invitato a ricovrarti ſot
to il manto della miſericordia ? e tu ſconoſcente
non hai voluto, di noluiſti. In quella diſgra
zia che ti ſorpreſe, non ti diſs'io al cuore: di
ſtaccati dal Mondo ch'è sì infedele è di noluiſti.
In quella Predica che aſcoltaſti, non ti ſuggerj di
aggiuſtare con una buona Confeſſione que conti
così imbrogliati? 6 noluiſti. Puoi tu negare ch' io
non ti abbia offerto per un ſoſpiro per una lagrima il
mio Paradiſo? Ti diſſi pure più d'una voltà: ritorna
anima diletta al mio ſeno, ti prometto il perdono,
ti accoglierò con cuor di padre; e tu hai ſem
pre chiuſo alle mie voci l'orecchio, e nolaiſti, º
moluiſti. E a rimbrotti sì amari, dite, dilettiſ
ſimi, può egli aver che ribattere? qual mara
viglia però, che dove pari è la colpa, pari an
cor ſi provi la pena ; e incontri con Geroſoli
ma la ſchiavitù chi ama con Geroſolima l'o-
ſtinazione? Nè occorre che ſperino gl'inſelici
di ſcuotere iu punto di morte le lor catene,
che anzi Dio ſi è proteſtato, che a queſti eſtre
mi gli attende per beffarſi di loro, per i"
gli i
528 Diſcorſo XXIX.
Prov. I gli, e per dargli in eterno poſſeſſo de lor nimi,
ci: Vocavi, ci renuiſtis, ſon pur ſue parole,
deſpexiſtis omne conſilium meum, ci increpatio
mes meas neglexiſtis: ego quoque, o che tuono,
o che fulmine! in interitu veſtro ridebo, 6 ſubſan
nabo. Anima indegna, le dira Dio, è pur giunta
quell'ora in cui tuo malgrado hai ad udirmi:
hai ſprezzati finora i miei inviti ; ed io ſprezzo
in queſt' ultimo le tue ſuppliche. Quell'io, che
ti ho tante volte offerta la mia miſericordia, ora
te la niego: quell'io che tante volte mi moſtrai
pronto al aprirti il Cielo, or te lo chiudo. Va
ingrata a ſcontar tra gli abiſſi la tua infedeltà. Io
ti conſegno per ſempre al ludibrio, al furore,
alla rabbia de' tuoi nimici, e ſia il tuo Inferno
maggiore queſto penſiero: ch'io ti porſi gli
ajuti, e tu gli abuſaſti. Sarà, sì ſarà una furia,
che per ſempre ti ſtrazierà, il penſiero, che io ti
volli ſalvare , e tu non voleſti.
Ah mio Gesù , ſe così ha da finire i ſuoi
giorni chi mal corriſponde alle voſtre grazie,
che ſarà mai di me ! A quanti di voſtri lumi ho
chiuſi gli occhi! a quante delle voſtre iſpirazio
ni ho chiuſo il cuore ! Deh mio Salvatore, non
intres in judicium cum ſervo tuo: Confeſſo an
ch'io, che non merita la voſtra gloria chi non
ha curata la voſtra grazia. Ma pure avrà ella per
ciò a perderſi queſt'anima da voi redenta ? Ah
Gesù mio caro, per la piaga ſantiſſima del vo
ſtro coſtato, che adoro con tutto il cuore, vi ſup
plico ad accogliere non col rigore di Giudice
ſdegnato, ma con viſcere di padre miſericordio
ſo queſto figlio, prodigo sì delle voſtre grazie,
ma riſoluto di vivere per ſempre ubbidiente ad
ogni voſtra chiamata, -

-
529
: -sa-sg-= r-gae-sge== ==i

HD I S C O R S O X XX.
PER LA DO M E N I CA D E CIM A
DOPO LA PEN TE COSTE.

Memoria de' Peccati.

Percutiebat pectus ſunm, dicens: Deus propitius


eſto mihi peccatori. Luc. 18.
i ESFS Atevi meco per un momento, Uditori,
F da queſto in un altro Tempio, ove il
Redentor queſta ſera c'invita per indi
FESEA trarne efficaciſſimo argomento di buo
na morte. Ecco due perſonaggi, l' uno preſſo
la ſoglia, l'altro preſſo l'altare. Sapete chi eſſi
ſono? Quegli è un Pubblicano sì carico di pecca
ti, che non ardiſce per onta dar nel Tempio due
paſſi, e ſpedire verſo il Cielo un ſguardo; que
ſti è un Fariſeo ſi ricolmo di virtù, che oltre il
guardarſi da rapine, da ingiuſtizie, da inconti
nenze, macera con digiuni il ſuo corpo, ed im
poveriſce il ſuo erario con decime, e con limo
ſine. Or chi aveſſe, uditori, a far preſagi di buo
na, o triſta morte, non dIrebb'egli, doverſi dal
Fariſeo aſpettare la buona, doverſi dal Pubblica
no aſpettare la triſta ? Ma non così ne giudica
Dio. Il Fariſeo ne va con rimprovero, e morrà
Tomo IV. Anno IV. Ll male:
53o Diſcorſo XXXI.
male: Il Pubblicano ne va con lode, e morrà
bene. E perchè mai al virtuoſo la morte peſſima,
al peccatore la morte ſanta : Perchè il primo fa
un mal uſo della virtù, il ſecondo fa un buon
uſo del peccati. Penſa quegli alle ſue virtù, e
s'invaniſce: Non ſum ſicut ceteri hominum. Pen
ſa queſto a ſuoi peccati, e ſi compunge: Per
cutiebat peius ſuum dicens: Deus propitius eſto
mihi peccatori. E però trae queſto l' amore,
quello l'abbonninazione di Dio. Bella iſtruzione,
cari uditori miei, ſe ſappiamo prevalercene. Niu
no vi ha, che vada del tutto vuoto di ſante opere;
niuno che vada del tutto immune da colpe. Ciò
ſuppoſto , vogliamo noi aſſicurarci una ſanta
morte, non gettiamo il penſiero come il Fari
ſeo ſuperbo ſul ben che abbiamo, gettiamolo,
e fiſſiamolo all'eſempio dell' umile Pubblicano
ſul male di cui ſiam rei : Quindi ne ſeguirà,
che ſe il peccato ci ha meritata una mala morte,
ce ne otterrà una buona la memoria di aver pec
cato. Eccone la prova in tre ragioni, che vi pro
pongo a conſiderarne tre punti. La memoria
di aver peccato aſſicura il dolore, che dobbiam
aver del peccato; prima ragione, e primo pun
to: Aſſicura la ſoddisfazione, che dobbiamo
dare per il peccato; ſeconda ragione, e ſecondo
punto: Aſſicura la fuga, che dobbiam procu
rar del peccato; terza ragione, e terzo punto.
Cominciamo.
La memoria d'aver peccato aſſicura il dolore,
che dobbiam aver del peccato. Ella è cecità quan
to men conoſciutà, tanto più degna di pianto
quella di molti fedeli, i quali dopo avere de
poſte a piè d'un Sacerdote le colpe, ſe le getta
no dietro le ſpalle, e più non vi penſano, s"
- C
Per la Dom. decima dopo la Pentecoſte. 531
ſe non l'aveſſero mai commeſſe. Io non preten
do già dire, che debbaſi dei peccati aver tal
memoria, che ſe ne replichi per iſcrupolo in ogni
confeſſione l'accuſa, perchè ciò non ſervirebbe
ad altro, che ad eſercitar la pazienza di chi li
ſente. Molto meno che debbaſi di quando in
quando chiamar a raſſegna ognuna delle colpe
in particolare, perchè ciò ſarebbe un metterſi a
riſchio d'una compiacenza preſente con la me
moria delle paſſate. Dico ſolo, che ad accertar
quel dolore, ſenza cui per chi ha peccato non
vi ha ſalute, dee anche dopo la Confeſſione
reſtar fiſſo nell'animo queſto penſiero: ho pec
cato; e con queſto eccitarſi più, che ſi può fre
quentemente ad nn pentimento ſincero.
Ed affinchè in un punto di tanta premura ne
andiate pienamente convinti, dite a me, udi
tori miei dilettiſſimi, quando voi accuſaſte al
tribunale della penitenza le voſtre colpe, ſiete
voi certi di averle deteſtate con quel dolore, che
onninamente richiedeſi ? Fu egli dolor vero ?
fu dolore ſoprannaturale? fu dolore, che abbo
minaſſe il peccato ſopra di ogni altro male?
fu dolore, che andaſſe accompagnato da un pro
ponimento fermiſſimo di fuggire ad ogni coſto
non ſolamente il peecato, ma l'occaſione an
cor del peccato? Quanti tra peccatori laſcian la
colpa, non perchè abborriſcan, com'è neceſſario,
la colpa, ma unicamente, perchè abborriſcon
la pena dovuta alla colpa! Come quel figlio,
che laſcia il giuoco , non perchè il giuoco
gli ſpiaccia , ma perchè gli ſpiacciono i
rimbrotti del padre. Quanti ſi contentan di
certe lor formole , o ſcorſe con occhio
ſuperficiale ſu un isivº o uſcire più
- 2, per
4532 Diſtorſo XXX.
per uſanza dalla lingua, che per contrizio.
ne dal cuore! Ah, non per nulla lo Spirito San
to ci avviſa, di non vivere ſenza timore an
che di quel peccati, che giudichiamo già ſcan
forlis cellati: De propitiatio peccato noli eſſe ſine metu.
Tanto è facile, dilettiſſimi, che non ſia qual
eſſer deve il noſtro dolore.
Nè mi dite, che ad accertarlo più che ave
te potuto ſincero, avete meſſo in opera dal can
to voſtro ogni induſtria: io voglio crederlo:
- ma ciò che prova? Prova, che voi ſtimiate ri
meſſo il peccato, ma non prova già, che di
fatto rimeſſo egli ſia. Ancor ve ne reſta luogo
a temere di eſſer tra quelli, de quali ſi parla ne'
Proverbj al trenteſimo: Generatio, qua videtur
munda, di non eſt lota a ſordibus fi Crede
remi, dilettiſſimi, che non ſon pochi coloro,
che per difetto di neceſſaria diſpoſizione eſco
no dal bagno ſalutevole della Confeſſione con
le macchie medeſime, con le quali vi entrano.
Non credereſti, diſſe già Santa Tereſa compar
ſa dopo ſua morte ad una ſua divota, non cre
dereſti figliuola quanti Criſtiani ſi dannino per
le Confeſſioni mal fatte; e certamente non vuo
le dire per Confeſſioni ſacrileghe, perchè ſeb
bene anche per queſte alcuni ſi perdano, la
maggior parte però precipita nell'Inferuo per
Confeſſioni invalide, per Confeſſioni, che ſi
credono ben fatte, e non lo ſono, per manca
mento di dolor vero, e di vero proponimento.
Sagri Miniſtri a voi ne appello. Quante volte
in chi ſi accuſa a voſtri piedi proſtrato, avete
occaſion di temere, che non vada con la lin
gua d'accordo il cuorc. Ah che le recidive,
che ſi veggono sì frequenti, i mali abiti, che
ſempre
Per la Domen. decima dopo la Pentecoſte. 533
ſempre durano nel ſuo vigore, le maſſime di
Mondo, che mai ſi depongono, ben danno a
conoſcere, che molti con le loro Confeſſioni ſi
danno a credere d'eſſer mondi, e non lo ſono.
Generatio, que ſibi videtur munda, di non eſt
lota a ſordibus ſuiss onde gl'infelici, mentre
penſano di ſpiccare in punto di morte un volo
al Cielo, oppreſſi dal peſo delle lor colpe piom
bano negli abiſſi.
E s'è così, cari uditori, come meglio poſ.
ſiamo noi ſottrarci da un riſchio sì ſpaventoſo,
che col mantener ſempre vivo nell'animo il
penſiero di aver peccato? Sarà queſto al noſtro
cuore come la verga di Mosè alla pietra là nel
deſerto. Queſta al primo colpo non di l'ac
qua, che ſoſpiravaſi: ma al replicare, che fe
Mosè il ſecondo, dice il ſagro Teſto, che le
acque uſcirono in abbondanza: Egreſſe ſunt a- Nomi
qua largiſſima. E così pure avverrà a chi penſa ao.
frequentemente a ſuoi peccati. Sia pure il cuore
per durezza un macigno, percoſſo, e ripercoſ
ſo dalla memoria delle colpe commeſſe, ſcioglie
raſſi una volta o l'altra in una vena di contri
zione perfetta. Queſto è il conſiglio, che a una
divota Matrona di il Pontefice S. Gregorio:
ſinchè vivi, le diſſe, devi ſtar con timore de'
tuoi peccati, e richiamandoli ſpeſſo alla men
te, mai non ceſſare dal piangetli: Semper ti
mida, ſemper ſuſpecta metuere culpas debes, &
eas quotidianis fletibus lavare. E queſto pur è
il conſiglio, a cui ci dobbiamo appigliare noi,
uditori miei dilettiſſimi: chi ha offeſo il ſuo Dio,
non perda mai di viſta il male, che ha fatto,
perchè col più penſarvi, più dolendoſene, non
può a meno, che non venga ad accertare quel
Ll 3 pen
534 - Diſcorſo XXX.
pentimento ſincero, ſenza del quale più norm
If ,s. vi ſarebbe per lui, nè Paradiſo, nè Dio: Reco
gitabo tibi, dicca il Re Ezechia, omnes annos
meos in amaritudine anima mea. Oſcrvate, che
non dice: Recogitavi, ho penſato, e ripenſa
to con cuor compunto agli anni delle mie col
pe; ma recogitabo, penſerò, e ripenſerò: per
chè non contento d'avervi penſato, e ripenſa
to, volea ſempre penſarvi, e ripenſarvi, affin
di eccitarſi con nuovo penſiero a nuovo penti
mento, ed aprirſi nel cuore a replicati colpi una
fonte di amare lagrime: Recogitabo tibi omnes
annos meos in amaritudine anima mea. Ah, che
non è poſſibile, dilettiſſimi, non è poſſibile,
che da vero non dolgaſi chi porta fiſſo nell'a-
nimo queſto penſiero: ho peccato. Ah infelice!
ho fatto a Dio il ſommo de torti; a Dio mio
primo principio, a Dio mio ultimo fine, a Dio
mio unico bene: l' ho offeſſo, gli ho volte vil
lanamente le ſpalle: reo di leſa divina Maeſtà,
meritevole di mille Infermi, indegno di queſt'a-
ria, che reſpiro.
Sì, mio Gesù, che pur troppo è così 5 e pe
rò mai non ſarà, ch'io perda di viſta il mal ,
che ho fatto con offendervi. Egli è un mal sì
grande, che non potrò mai piangerlo abbaſtan
za, onde mai non tralaſcierò di penſarvi, e
ripenſarvi per ſempre più confondermene, e per
ſempre più dolermene, per pentirmene ſempre
più, come fin d'ora me ne confondo, me ne
dolgo, me ne pento. Ah, Redentore amabiliſ.
ſimo, per le Piaghe ſantiſſime de' voſtri Piedi,
che umilmente adoro, concedetemi almeno,
che ſia qual eſſer dee; e quale da voi ſi richie
de il mio dolore. E poichè ſarà ſempreClvero,
Per la Dom. decima dopo la Pentecoſte. 535
che pur troppo vi ho diſguſtato, ſia altresì ſem
vero, che mai non ho laſciato di penſare con
mio rammarico al diſguſto gtaviſſimo, che vi
lno dato, I

La memoria d'aver peccato aſſicura la ſoddis- Puºi


fazione, che dobbiam dar del peccato. Supponia- º “
mo, uditori, per certo ciò, che in queſta vi
ta mai non ſapremo di certo, che i noſtri pec
cati ci ſieno ſtati rimeſſi: avraſſi perciò a non
penſare mai più a quell'orrido ſtato, in cui
fummo, quando fummo ribelli a Dio? No
certamente. Era pur certo dell'impetrato per
dono Davide. Avea pur egli udito dal Profe
ta Natano: Tranſtulit Dominus peceatum tuum.Re.
a te; eppure laſciò egli mai di penſare a ſuoi ia.
traſcorſi ? Sappiamo pure da lui medeſimo, che
li tenea mai ſempre avanti gli occhi ſenza mai
perderli di veduta: Peccatum meum contra me,
coram me, in conſpecfu meo eſt ſemper. O trattaſ
ſe con Dio. o converſaſſe con gli uomini, o
ripoſaſſe nella ſua reggia, o guerreggiaſſe nel
campo, o ſpediſſe comandi, o deſſe udienze,
il ſuo peccato gli era ſempre preſente : Pecca
tuma meum coram ne eſt ſemper. E perchè dunque
in tanta certezza del perdono cttenuto tanta
rimembrauza del fallo commeſſo? Ah cari udi
tori ! Perchè gli premea di dare a Dio la ſod
disfazione giuſtamente dovutagli. Sapea ben egli,
che Dio quando ci rimette i peccati, non per
queſto intieramente ſi placa verſo di noi: ci con
dona bensì ogni reato di colpa: ma non già
ogni reato di pena. Ancor gli rimane diritto a
punirci, e con la ſottrazione di certe ſue gra
zie più privilegiate, con la condannazione a
pene, etcrne no, ma temporali s e però a di
- - Ll 4 ſar
536 Diſcorſo XXX
ſarmare del tutto l'ira divina, mezzo non v'ha
più efficace, che nodrir il penſiero d'averla ir
ritata, perchè penſiero, che tanto reſtituiſce a
Dio dell' onor toltogli, quanto rinnova in noi,
ed accreſce di confuſione, e di dolore d'aver
glielo tolto. E quindi è, che lo ſteſſo Real Pro
fetta prima di chiedere a Dio, che rimoveſſe
dalle ſue colpe lo ſguardo, ſi proteſtò di tener
Pſ se le ſempre avanti ſe. Prima diſſe: Peccatum me
um contra me eſt ſemper, e poi ſoggiunſe: aver
te ſaciem tuam a peccatis meis. E dir volea,
giuſta la ſpoſizion del Griſoſtomo: Signore giac
chè io non perdo di veduta il mio peccato,
voi non miratelo più ; giacchè io me ne ricor
do, voi dimenticatelo: giacchè io lo ſcrivo a
i" mio libro, ſcancellatelo voi dal voſtro: Ego il
"E: lud video, tu ne conſideres: ego ſcribo, tu dele.
so. Tanto è vero, conchiude il citato Dottore, che
dal conſervare o no la memoria delle noſtre
colpe dipende quella ſoddisfazione, che la di
vina Maeſtà oltraggiata eſige da noi: Vide quid
ſit, ſi tu memor ſis, Deus non erit memor. Si tu
oblitus fueris, Deus memorabitur; ſentimento pri
ma, che dal Griſoſtomo, inſinuato già da Ago
In Pſ ſtino: Tu peccatum tuum ante faciem tuam con
º verte, ſi vis; ut inde Deus faciem ſuam avertat.
Ma perchè la ſoddisfazione, che a Dio dob
biamo, non tanto conſiſte in riparare gli oltrag
gi, quanto in punire chi l'oltraggiò: ecco co
me bene la memoria di aver peccato anche a
queſto provvede. Imperocchè come non ſi ani
merà a tollerare con umile raſſegnazione le ca
lamità, delle quali è sì feconda queſta miſera
terra, chi penſa ſpeſſo alle ſue colpe? Potrà egli
lagnarſi o di una malattia, che lo ſorprenda,
o di
Per la Domen. decim dopo la Pentecoſte. 537
o di un dolore, che lo tormenti, o di una diſ.
detta, che lo impoveriſca, o di una calunnia,
che lo ſcrediti, chi mirando a ſuoi peccati co
noſce a chiaro lume di Fede, di aver merita
Job.33.
ro, e di più, e di peggio? Peccavi, ci vere
deliqui, dirà ancor egli col ſentimento ſugge
rito dallo Spirito Santo, 6 uteram dignus non
recepi. In confronto di cio, che ho meritato,
è un nulla ciò, che ſoffro. Anzi non ſolamen
te ſi farà cuore a ſoffrire que colpi, che gli
vengono non aſpettati, ma egli medeſimo av
vampando contro di ſe di un giuſto ſdegno,
punirà con volontaria vendetta i ſuoi falli. Con
trapporrà umiliazioni alle albagie, mortificazio
ni ai piaceri, rigori alle licenze, ritiramento
agli ſcandali, ſoſpiri e pianto alle vane allegrie.
Così leggiamo, che di loro ſentenza ſi condan
narono a perpetue lagrime e un Davide, che
fe ſuo pane la cenere, e un Pietro, che cam
biò in due fonti di dolore i ſuoi occhi, e una
Maddalena, che non reſpirò, che ſoſpiri, e un
Agoſtino, e una Pelagia, e una Maria Egizia
ca, che ricordevoli ſempre de loro errori, tan
to pianſero, quanto viſſero. Ecco, dilettiſſimi,
quanto può la memoria de propri falli, per
dare a Dio una ſoddisfazione per ogni parte
compita.
Ma o dolore ! Sono eglino molti i Criſtiani,
che col penſare ſovente al mal, che han fatto,
ſi animin a dare a Dio la ſoddisfazione dovu
ta? S'io ne interrogo Geremia, ei mi riſpon Jer. 2i
de, che niuno: Nullus eſt, qui agat paenitentiam
ſuper peccato ſuo, dicens quid feci? Niuno vi ha,
che faccia delle ſue colpe la penitenza conde
gna, perchè niuno vi ha, che fiſſanndo me ſuoi
peccati
538 Diſcorſo XXX.
Peccati lo ſguardo, dica: che ho fatto mai !
che ho fatto è quid feci? E in verità, cari udi
rori, dov'è quella ſollecitudine di rendere a Dio
quell'onore, che gli abbiam tolto peccando ?
dove la raſſegnazione nelle traverſie º dove la pa
zienza nell'infermità ? dove la manſuetudine tra
le perſecuzioni ? Sapete pure quante volte vi ha
tradito il voſtrº occhio; avete voi mai poſta leg
ge ai voſtri ſguardi? Sapete pure quante volte
è uſcita da cancelli della modeſtia, e della ca
rità la voſtra lingua, l'avete voi mai condan
nata ad nna ſevera cuſtodia ? Quanto lagrime
voli ſcherzi vi hanno ormai fatti le voſtre paſ
ſioni? avete perciò giurata loro la guerra? e
d'onde mai tanta indifferenza, d' onde tanta in
dolenza ne' voſtri ſvantaggi, ſe non dal non ri
petere mai tra voi: che fec'io quando pcccai,
che feci? Quid feci ? E poi vorreſte, che Dio
voltaſſe dalle voſtre colpe i ſuoi ſguardi, vor
reſte, che laſciaſſe cader di mano i flagelli, che
da voi non ſoddisfatto, verſo voi ſi placaſſe?
Inganno, uditori miei dilettiſſimi, inganno. Pen
ſate voi alle voſtre colpe, e Iddio non vi pen
ſerà: punitele voi, e Iddio non le punirà: Ri
cordatevene voi, e Dio le dimenticherà: Si pec
catum, udite Agoſtino, che ve 'l ripete, me
moria teneas, Deus a memoria abjicit. Che ſe
voi mirando qual penſiero troppo noioſo, o
qual rimembranza troppo funeſta il ricordarvi
de' voſtri falli, meglio amate di ſeppellirli in
profonda dimenticanza, ſappiate, che oltre che
ne terrà Dio memoria per voſtro danno, verrà
un tempo, in cui ve ne ricorderete anche voi mal
grado voſtro, ma ſenza prò. Nel giorno eſtre
mo di voſtra vita vi ſi faran ſotto agli occhi in
maniera
Per la Dom. decima dopo la Pentecoſte. 539
maniera, che ravviſandogli ad uno ad uno, dir
dovrete anche voi: Comprehenderunt me iniqui fſ 3».
tates mea, o non potui ut viderem. E a talvi
ſta atterriti, ma non compunti: Nune recordor,
voi ancora direte come già diſſe vicino a morte
il Re Antioco: Nunc recordor malorum que fe
ci. Ma il ricordarvene in quell'eſtremo gioverà
egli ad altro, che a precipitarvi in una fatale
diſperazione? Ah no, miei dilettiſſimi, non aſ
pettiamo sì tardi ad averne memoria. Ricor
diamcene adeſſo, mentre il ricordarcene ci può
ſpingere a darne a Dio la ſoddisfazione dovuta:
Memento, pertanto dirò io ad ognuno di voi,
come già diſſe Mosè al ſuo popolo: Memento, Deut.3
e ne obliviſcaris quomodo ad iracundiam provo
caveris Dominum Deum tuum. Lo ſteſſo dico io
queſta ſera a ciaſcuno di voi: Memento, ſov
vengavi, dilettiſſimi, e ſovvengavi ſpeſſo, e guar
datevi bene dl non iſcordarvene: Memento, di ne
obliviſcaris, che avete provocato a ſdegno il
voſtro Dio. Sovvengavi, che ſino all'ultimo vo
ſtro reſpiro ſiete in obbligo di dargli ſoddisfa
ztone, ſovvengavi, che tanto, in vita, e in mor
te lo avrete propizio, quanto con la contrizione
nel cuore, con le opere ſoddisfattorie alla mano,
is
con le parole del compunto Pubblicano in ſulla lin -

gua vi proteſterete d'eſſere peccatore: Deus propi


tius eſto mihi peccatori. Signore, ah Signore, pietà,
perdono, perchè ho peccato. Sì, miei dilettiſſimi,
queſto ha da eſſere il voſtro, queſto il mio più fami
liare ſentimento: Deus propitius eſto mihi pec
Cat 0rt.
Sì, Gesù mio amabiliſſimo, pietà, miſericor
dia, perdono, perchè ho peccato: Propitius eſto
mihi peccatori. Ho fatto male qualor vi offeſi,
Reden
54o Diſcorſo XXX.
Redentore mio caro, ho fatto male più di quel
lo, ch'io poſſa eſprimere, più di quello, ch'io
poſſa intendere. Lo dico, lo dirò ſempre, ho
fatto male; ne ſento un diſpiacere viviſſimo ,
e vorrei certamente non avervi offeſo giammai.
Ah mio Gesù : Averte faciem tuam a peccatis
meis. Non mirate più, ve ne ſupplico, e ve ne
ſupplico per le piaghe ſantiſſime delle voſtre
Mani, che riverente adoro, più non mirate i
miei peccati: E perchè voi placato non li mi
riate, li miro io, e per ſempre li mirerò , ri
ſoluto di darvene la ſoddisfazione, che vi ſi de
ve: Iniquitatem meam ego cognoſco, ci peccatum
meum contra me eſt ſemper. Siatemi dunque pro
pizio in vita, ſiatemi propizio in morte, perchè io
e in vita, e in morte memore de'miei peccati, mai
non finirò di ripetere, pietà, perdono, perchè ho
a- peccato: Deus propitius eſto mihi peccatori.
Pos- La memoria d'aver peccato aſſicura la fuga,
roIII che dobbiamo procurar dal peccato. S. Gregorio
giudica sì neceſſaria in un peccator ravvednto
la memoria di aver peccato, che fa da queſta
dipendere la confervazione delle virtù : Recor
datio peccatorum cuſtodia eſt virtutum. Così pu
re S. Iſidoro ravviſando nella cenere ſimbolo
del penitenti la reminiſcenza delle colpe commeſſe,
aſſeriſce conſervarſi da queſta il fuoco della ca
rità, e dell'amicizia con Dio: Cinis eſt memoria
peccatorum, qua eharitatem ſervat, Ed in fatti,
cari uditori, voi non mi negherete, che a cu
ſtodire il teſoro ineſtimabile della grazia, non
ſia un mezzo efficaciſſimo il mantenerſi mai
ſempre in una profonda umiltà, come quella
cui Dio mira con cuor più tenero, ed aſſiſte
con mano più poderoſa, Or chi non ſa "º
a DOlà
Per la Dom. decima dopo la Pentecoſte. 541
abbia di forza ad inabiſſarci nel noſtro nulla la
memoria del noſtri falli: Recordaberis viarum
tuarum, dice Ezechiello, ci confunders. Siao a
tanto che ſi avranno ſotto agli occhi gli oltrag
gi fatti ad una Maeſtà infinita, ad una benefi
cenza infinita, ad una infinita bontà, mai non
partirà dal volto la conſuſione, e ſino a tanto,
che il paſſato ci umilierà, ſarà ſenza pericolo
l' avvenire.
La ragione, uditori, è manifeſta. Imperoc
chè chi col penſiero del paſſato vive umile, te
me di tutto. Ammaeſtrato da ſperienza purtrop
po funeſta, prima di fare un paſſo, mira ben
bene ove poſa il piede : ſe la facilità di parlare
fu lo ſcoglio, in cui ruppe, con qual peſo mi
ſura le ſue parole, ſicchè nè pungano morda
ci, nè offendano ingiurioſe, nè ſcandalezzino
oſcene, od equivoche º Se la balza, onde preci
pitò, fu la vanità, fu l'ambizione, con qual cau
tela modera i ſuoi affetti, ſicchè nè s'invaniſca
per beni di natura, nè per beni di fortuna ſi
gonfi ? Se lo ſdrucciolo, in cui cadde, fu l'amor
alla roba, quanto ſi sforza d'eſſere giuſto ne
ſuoi contratti, diſcreto ne' ſuoi guadagni, diſin
tereſſato ne' ſuoi maneggiº in ſomma qual Pi
loto ricordevole de' ſuoi naufragi, non iſpiega
le vele ad ogni vento, non affida l'ancora ad
ogni fondo; e perchè teme di tutto, a tutto ri
flette, tutto diſamina, ben perſuaſo dell'inſe
gnamento di Tertulliano, che dal timore naſca
la cautela, e dalla cautela la ſicurezza: Timen
do cavebimus ; cavendo ſalvi erimus.
Ed ora intenderete un' arte finiſſima del De
monio, colla quale egli ordiſce, ed ottiene pur
troppo la rovina di non pochi Criſtiani.
º -
"e
CIA
542 Diſcorſo XXX.
ben egli, che un peccatore, avvegnachè addor
mentato in ſeno alle colpe, non può a meno,
che di quando in quando non ſi riſcuota, o al
tuono d'una minaccia, o al fiſchio d'un fia '
gello, o ad un impulſo ſtraordinario della gra
zia. E però non potendo impedire, che il mi
ſero conoſca i ſuoi falli, che li deteſti, che gli
accuſi, che fa? ſi sforza di ſcancellargliene inte
ramente la memoria : onde viene a diſarmarlo
di quel timore, che figlio dell'umiltà, padre
della cautela, ſolo può conſervarlo nello ſtato
di grazia. Così non ne deſſero irrefragabile pro
va le orribili ricadute, che ſi veggono tutto dì.
D'onde procedono queſte, ſe non dal ricon
durſi, che fa la più parte, a quel paſſi, ove
già s'incontrò il precipizio. Si ricade, perchè
alle cadute, che già ſi ſon fatte, più non ſi
penſa. Ah, ſe quando vi capita tra le mani quel
libro, che voi ſapete, diceſte ſubito, oimè che
faccio! quì fu dove ſucchiai quel veleno, che
tolſe all'anima mia la vita: avreſte cuor di ri
leggerlo? Se quando vien tra piedi quell'inde
gno compagno: oimè, diceſte, quì fu lo ſco
glio, ove ruppe la mia innocenza: non gli vol
rereſte le ſpalle? Se rifletteſte, che quelle dime
ftichezze, da voi chiamate civiltà indifferenti,
che quei diſcorſi conditi con ſali oſceniſſimi,
che que paſſeggi, ne quali fan tra l'aure più
freſche pompa di ſe la vanità, e l'immodeſtia,
che que teatri, ove fa le parti più applaudite
la sfacciataggine, empierono un dì di laidi fan
taſmi la voſtra mente, e fouarciarono con ſoz
ze piaghe il voſtro cuore, come non li mire
reſte con occhio di abbonninazione ? Ma con
vien pur dirla, perchè pur troppo è così, con
VICIl
Per la Dom. decima dopo la Pentecoſte. 523
vien dirla col Profeta: Non eſt qui recogitet cor
de. Confeſſato, che ſi è il peccato, non vi ſi
penſa più ; onde non è ſtupore, ſe colla mede
deſima preſunzione di prima ſi ritorna come pri
ma alle occaſioni, ai pericoli.
Cari uditori miei, chi vuole interamente trion
far del peccato, dee portarſi con eſſo lui, come
con Golia il paſtorello Davide, il quale non ſi
contentò di atterrarlo; gli troncò il capo, e glie
lo troncò colla ſpada ſteſſa di lui. Non baſta,
che ſi atterri il peccato con deteſtarlo una vol
ta, e confeſſarlo: dee troncargliſi il capo colla
ſua ſpada, voglio dire, che ſerva d'arme con
tro il peccato il peccato medeſimo: contra il
peccato avvenire, il peccato paſſato, aſſicuran
do colla memoria di queſto la fuga di quello,
Su dunque: Leva oculos tuos, udite il bel con Jer. 3
ſiglio, che Geremia vi porge, leva oculos tuos
in directum, ci vide ubi proſtrata ſis. Anima
ravveduta, ſe vuoi ſtar ſalda nell'avvenire, mi
ra dove per lo paſſato cadeſti: Vide ubi proſtra
ta ſis. Non fuggaci dallo ſguardo quella paſſio
ne, che vi tradì, quel giuoco, che rovinovvi,
quella occaſione, in cui trovaſte il precipizio:
Vide ubi proſtata ſis. E in quella guiſa, che gli
Iſraeliti coll' occhio al finto ſerpente non erano
offeſi da veri; così voi fiſſi nel penſiero de' pec
cati paſſati non ne commetterete de nuovi, an
zi ſorpreſi a tal viſta da un ſant'orrore : e co
me poſs' io, ognun dirà, come poſsº io accre
ſcere ancora i peccati ? Già li conto a centina
ja, e fors'anche a migliaja, e potrò ancora pec
care? Già oltrepaſſan di numero i capegli, che
porto in capo: Multiplicate ſunt iniquitates me e
ſuper capillos capitis mei. Quanti penſieri, ".
il fl
544 Diſcorſo XXX.
ti affetti, qnante parole, quante opere aggrava
no già la mia coſcienza ? e io in viſta d'una
vita si rea ancor vorrò nuove macchie a queſt'a-
nima, nuovi diſguſti al mio Dio ? ah no, non
più, non più. Queſti ſono, miei dilettiſſimi, i
ſentimenti, che iſpira nel cuore il penſiero d'aver
peccato. Or dite voi, s'io mal mi appoſi, quan
do al principio vi diſſi, che non ha che teme
re nel rendimento del conti chi richiama ſpeſ.
ſo alla mente le paſſate ſue colpe. Se ſi aſſicu
ra con queſte il dolore, che dee averſene, ſe ſi
aſſicura la ſoddisfazione, che dee darſene, ſe
ſi aſſicura la fuga, che dee procurarſene, che
di più può bramarſi per trovare nel Tribunale
divino non un Giudice, che atterriſca ſevero,
ma un Padre, che ci accolga pietoſo, un rimu
neratore, che liberale ci compenſi ! Che di più
può bramarſi per comparire al Giudizio a cau
ſa già terminata con tutta felicità ?
O buon Gesù, che dal noſtro medeſimo ma
le ricavate il maggior noſtro bene, fate che un
penſiero sì ſalubre ci reſti queſta ſera ben im
preſſo nell'animo. Fate, che abbiamo ſempre
avanti degli occhi le noſtre colpe, affinchè con
la memoria di averle commeſſe ripariamo il
male, che fecimo nel commetterle. Beati noi,
ſe perſando in vita ai noſtri peccati, non avre
mo poi a temerli nel punto di noſtra morte?
Sì, mio Gesù, lo ſperiamo mediante la voſtra
grazia, che imploriamo per quella piaga ſantiſ
ſima, che nel voſtro Coſtato adoriamo. Ben
tante volte richiameremo alla mente i paſſati
noſtri traſcorſi, che ne aſſicureremo il dolore,
che dobbiam concepirne, ne aſſicureremo la
ſoddisfazione, che dobbiam darvene, ne aſſicu
reremo la fuga, che dobbiam procurarne. DI
a 4 º 4 º 4 a 4 iº e le
- Si i Eiiiiiiiiii

D I S C O R S O XXXI.
PER LA DO M E N I CA XXII.
D O P O LA PEN TE CO STE,

Correndo la Feſta di Santa Eliſabetta Regina d'Unghe


ria 19 Novembre.

Umiltà.

Simile eſt regnum Calorum theſauro abſcondito,


Matth. 13. -

i tuoi ſanto chi vive umile. Ecco, udi


i;i M iº tori, l'inſegnamento, che in queſto
ſuo ſolenne giorno ci porge l'umi
3 liſſima, e ſantiſſima Principeſſa Eliſa.
betta di Ungheria. Che bella, che fe
lice morte fu quella, con cui la pia Eroina com
pì il breve corſo della ſua vita! Morte prevenu
ta da Criſto con dolciſſimo invito: morte ac
compagnata dagli Angioli con melodie ſoaviſ
ſime: morte coronata da Dio con gloria immen
ſa. Ma una morte così prezioſa a chi la dovet
te, ſe non a quella umiltà, ch'ella volle mai
ſempre ſua indiviſibil compagna? Umiltà, con
cui nè tra le grandezze mai s'invanì; anzi mai
ſempre mirolle con occhio di non curanza, nº
Anno IV, Tomo IV, Mm . mai
546 Diſcorſo XXXI.
mai fi ſmarrì tra le abbiezioni, anzi mai ſempre
le accolſe con moſtre di gradimento. Qual ma
raviglia pertanto, ſe ad una vita sì umile ſuc
cedette una morte così glorioſa? Maraviglia piut
roſto ſarebbe, ſe l'umiltà, che cerca in vita le
depreſſioni, non trovaſſe in morte gl'innalza
menti. E che altro in fatti c'inſinua in quel re
gno de Cieli, di cui nell'odierno Vangelo il
Redentore favella, ſe non un regno appunto
tutto degli umili? Imperocchè o per regno de'
Cieli intendaſi con alcuni il regno della grazia,
o s'intenda con altri il regno della gloria, l'uno
e l'altro è regno degli umili. Regno degli umi
li il primo, perchè la grazia è quel dono, che
agli umili ſi comparte: Humilibus dat gratiam.
Regno degli umili il ſecondo, perchè la gloria
è quel premio, con cui gli umili ſi ricompen
ſano: Beati pauperes ſpiritu, cioè come ſpiega
Agoſtino, beati humiles, quoniam ipſorum eſt re
gnum Caelorum. Che ſe queſto regno ad un te
ſoro naſcoſto ſi raſſomiglia: Simile " regnum
Caelorum theſauro abſcondito, ſi è perchè l'umil
tà, che ne conduce al poſſeſſo, è sì ſconoſciuta,
che appena vi ha chi ne apprezzi il merito, e
ne curi l'acquiſto. E ſon ben rare quelle anime,
che ſprezzatrici glorioſe del faſto mondano, ſta
biliſcano nell'umiltà la vera grandezza. Or non
fia mai, cari uditori, che aſſicurati come ſiamo,
e dai documenti dell'Evangelio, e dagli eſempi
di Santa Eliſabetta, che il mezzo di morir ſan
ti è viver umili, non fia mai, diſſi, che paſſi
appreſſo di noi l'umiltà qual virtù di niun no
me. Troppi ſono i motivi, che ce ne perſuado
no l' amor, e la pratica; ma io mi riſtringo a
tre ſoli, che ce ne moſtrano l' ini" lìCCCle
P er la Dom. x x ii. dopo la Pentecoſte 547
neceſſità, ed eccoli ne tre punti, che vi propon
go. In primo luogo ci ſi perſuade l'umiltà dal
peccato, in cui ſiam nati, primo punto: ci ſi
perſuade in ſecondo luogo dal peccato, in cui
ſiam viſſuti, ſecundo punto: in terzo luogo ci
ſi perſuade dal peccato, in cui poſſiamo mori- -
re, terzo punto. Cominciamo. ----

Ci ſi perſuade dal peccato in cui ſiam nati. Una


delle macchie, che più feriſcono l'occhio della
umana dilicatezza, e forſe di tutte la più de
forme, in tutte le età fu creduta la viltà de'na
tali. Ove queſti ſi traggono infetti da infamia,
o di misfatti, o di ſupplizio, tanta è l' onta,
che ne rimane, che per quanto ad illuſtrarli ſi
adoperi o il proprio merito, o l'altrui grazia,
mai però non parte da l'animo la rimembran
za dell'origine obbrobrioſa, e aſſai più di quel
che conſoli, qualunque egli ſia ſi l'onor in cui
vivefi, confonde il vitupero, in cui ſi è nato.
Se ciò è, uditori miei, quanto mai dobbiamo
noi andar umili, ſe riflettendo a noſtri natali
ponderar ne vogliamo, non dico ſolamente la
baſſezza, ma l'ignominia ? Può idearſi taccia più
nera, che aver coll'eſſere comune la colpa, e
nella prima comparſa, che in queſta vita fac
ciamo, portar in viſo il marco infame di pec
catore? Lo ſappiam pure, uditori, che il vele
no di quella colpa, che infettò Adamo, ſi è
trasfuſo anche ne poſteri, e che per noſtra im
percettibil diſdetta col naſcere figli di un padre
rubelle portiamo in retaggio dal ſen materno il
peccato, e la morte. Spieghine il come, con
non men di ſudor, che di pianto, la Teologia:
del triſto effetto però non laſcia dubitarne la Fe
de, ed è oracolo regiſtrato dalla penna infalli
Mm 2 bile
443 Diſcorſo XXXI.
r-s bile dell'Appoſtolo, che omnes omnes in Adam
º peccaverunt. Chi può pertanto, miei dilettiſſi
mi, chi può eſprimere, quanto ella ſia abbietta, i
uanto abbonninevole la condizione, in cui na
i", Naſciamo figliuoli d'ira, e d'ira tale,
che più terribile non ſi può fingere, perchè ira
di un Dio. Naſciamo coll'impronto di ſchiavi
tù la più ignominioſa, perchè ſchiavitù del De
monio. Naſciamo rei di morte, e di qual mor
te? della più infame, perchè dell'eterna. E può
penſarſi, uditeri, ad un origine si vergognoſa,
ſenza che la grand'onta ad abbaſſare ci obbli
ghi l'altiero capo? In viſta d'una naſcita così
avvilita, e per colpa, e per pena, può mai la
vanità, può la ſuperbia aver luogo E vero che
il ſervaggio, in cui nacquimo, ſciolto fu dalla
grazia tra le onde batteſimali, ma ne rimango
no ( e chi nol ſa) ne rimangono i ſegni s e ſe
gni, oh Dio quanto triſti, e quanto funeſti !
Ignoranza, che accieca la mente: malizia, che
perverte la volontà: inganno, che ammalia la
fantaſia: paſſioni, che ſdegnan freno, e ricever
non vogliono dalla ragione la legge: fomite di
concupiſcenza, che rivolgendo noi contro noi,
- fa del noſtro cuore uno ſteccato perpetuo di cru
da guerra; ſegni per noi sì lugubri, ch'eſſi ſoli
umiliar ci dovrebbono al ſommo: tante ſon le
ſciagure, che ſeco portano. Ma quand'anche del
miſero ſtato, in cui nacquimo, non rimaneſſe
alcun ſegno; la rimembranza d'eſſer nati così,
non baſta ella ſola a far sì, che mai non ci par
ta dal volto la confuſione ? Se vedeſte taluno,
che nato ſchiavo, e poi meſſo per grazia in li
bertà, la sfoggiaſſe alla grande, e nel ſuo trat
to non altro ſpiraſſe, che orgoglio, pare a voi
s - -
Per la Dom. x x ii. dopo la Pentecoſte. 549
che a confonderlo altro più vi vorrebbe, che
dirgli all'orecchio: ſovvengati qual ſei nato. Certo
è, che al vergognoſo rifleſſo arroſſiva di ſe me
deſimo il divotiſſimo S. Bernardo, ed oh, di
cea, che triſta, che obbrobrioſa origine ſi è mai
la mia ! De parentibus illis venio qui ante fece
runt damnatum, quam natum. Peccatores peccato
rem in ſuo peccato genuerunt, di miſeri miſerum
in hanc miſeriam induxerunt.
E in verità ſe ad abbaſſare l'alterigia dell'uo
mo, giudicò l'Eccleſiaſtico, che baſtar doveſſe
il rinfacciargli quel loto, di cui è impaſtato
parendo impoſſibile, che invanir mai ſi poſſa
un pò di polvere viliſſima, e un pugno di for
didiſſimo fango: Quid ſuperbit terra, ci cinis; Eccl.ra
quanto più ad iſgombrare dal noſtro capo ogni
fumo dee avere di forza il penſiero di quel pec
cato che nacque con noi gemello; peccato ſenza
paragone più vile del fango medeſimo, mentre al
fango che ci formò, Dio non iſolegnò di applicar
la ſua mano : laddove dal peccato che c'infettò,
ritraſſe mai ſempre diſpettoſo il ſuo volto. Ah,
ben l'inteſe il Reale Profeta, e però per umi
liarſi quel più che poteva avanti a Dio Signore,
dicea, io non vi poſſo dir altro, ſe non che in
peccato fui conceputo, ed in peccatoio nacqui:
In iniquitatibus conceptus ſum, o in peccatis con- Pſ. sm
cepit me mater mea. Dove ora ſiete o voi, che
andate altieri, o per la ſtirpe da cui ſcendete,
o per gli onori a cui ſaliſte, o per la fama che
dottrina o valore vi conciliò, o per talenti di
cui natura dotovvi : dove ſiete. Nati qua
li ſiete in ſeno al peccato, come mai avete
cuor d'invanirvi? Poſſibile che un vano ſplendo
re vi abbagli in modo, che più non conoſciate
Mm 3 le
45o Diſcorſo XXXI :
le natie voſtre miſerie. Rammentivi quali naſce
ſte lordi per colpa, ſchiavi per pena, e poi ri
ditemi ſe mai ſi poſſa a principio sì turpe accop
piar albagia. - -
Sì, sì, cari uditori miei, ſe ponderaſſimo con
attenzione la noſtra origine, ſe rifletteſſimo alla
macchia deforme con cui venimmo al Mondo, ali
che ſcorgeremmo ancora noi con la ſaggia Eſter,
che il viver umili è più ch'elezion di virtù, ne
Enn... ceſſità di natura: Tu ſeis Domine, dicea quella
umil Reina, neceſſitatem meam, quod abominer
ſignum ſuperbie, e sì ch'ella vedeaſi a dovizia
fornita di quanto può compartir ad una Donna
o natura, o fortuna. Avvenenza tale di volto,
e che in tutta la vaſtità d'un Imperio non ne avea
una ſimile: efficacia di diſcorſo, e leggiadria di
tratto, quanta potè baſtare a guadagnarſi la ſti
ma del maggiore tra i Monarchi: elevazion di
ſtato la più ſublime a cui ſalir ſi poteſſe. Amata
con tenerezza dal Re marito: mirata con oſſe
quio dal popol ſuddito, ricca quanto era ricco
un Aſſuero , onorata quanto era onorabile la
più grande tra le Reine. Eppure tanto è lungi
dall'invanirſi nelle ſue grandezze ; che anzi sfo
gando tra lei e Dio i ſentimenti del ſuo bel cuo
re, ſi proteſta, ch'ella abbomina quelle pompe,
di cui più van belle le ſue bellezze; e più che ſi
ſcorge innalzata, più umiliandoſi, riprova avan
ti a Dio quelle apparenze grandioſe, a cui la
obbliga avanti al Mondo la ſublimità del ſuo
ſtato: Tu ſcis Domine neceſſitatem meam, quod
abominer ſignum ſuperbi e 6 glorie mee, quod eſt
ſuper caput meum. Ma Eſter sì umili quanto ſon
rare? Dov'è ormai che ſi trovi, chi non accop
pj agli ornamenti eſteriori interni affetti di ya
nità :
Per la Dom, vigeſimaſec. dopo la Pentec. 551
mità ? Dove chi comparendo nelle Chieſe, nelle
Caſe, nelle Corti con ſontuoſità di abito, di li
vrea, di cocchio, faccia poi in Oratorio pri
vato le ſue proteſte, ch' egli punto non ama ciò,
a che lo coſtringe il decoro della perſona ? Dove
chi adattandoci a quanto eſige la condizion del
ſuo ſtato, dica poi di vero cuore a Dio: Tu ſcis
quod abominer ſignum ſuperbi e di gloria mee,
quod eſt ſuper caput meum ? Se anzi veggonſi ogni
dì più oltre la portata della condizione creſcer le
pompe, ogni dì più oltre la miſura del conve
nevole raffinarſi i puntigli, ogni di più oltre le
forze della famiglia moltiplicarſi per faſto le ſpe
ſe. E queſta è l'umiltà che perſuaderci dovrebbe
il peccato, in cui nacquimo, queſta, queſta ?
Deh cari uditori, concepiamo una volta ſenti
menti confacevoli alla noſtra origine. Sovven
gaci la ſchiavitù che avvili i primi reſpiri del
noſtro vivere: Sovvengaci la macchia infame
che sfigurò nel primo ſuo eſſere l'anima noſtra:
Sovvengaci che la prima dote del noſtro cuore
fu la colpa, ed il primo poſſeſſote il Demonios
e giacchè nati ſiamo sì abbominevoli, viviamo
umili, cari uditori, viviamo umili. -

O Gesù caro, voi che fin dal primo voſtro


eſſere foſte ſantiſſimo, e pur viveſte sì umile: voi
iſpirateci quella profonda umiltà, che da noi giu
ſtamente efige il peccato, in cui nacquimo. Trop
po diſdice che chi è nato sì abbonninevole, viva
ſuperbo. Fate pertanto, ve ne preghiamo per
le piaghe ſantiſſime, che ne voſtri piedi adoriamo,
fate, che ben conoſciamo la deformità, e la mi
ſeria della noſtra origine, affinchè conformiamo
alla viltà della naſcità l'umiltà della vita. Così av
verrà, Gesù mio caro, che ſe per la colpa vi
Mm 4 ſpiacqui
ſpiacquimo quando ſiam nati, vi piaceremo
s-almeno coll'umiltà mentre viviamo.
-

PUN Ci ſi perſuade molto più dal peccato, in cui ſia


ro iI.:mo viſſuti. Quel peccato, in cui ſiamo nati, è
mera noſtra diſgrazia, quello in cui ſiamo viſſu
ti, è tutta noſtra malizia: Il primo è uno infau
ſta eredità venutaci dal primo Padre: Il ſecondo
è un maligno contratto, che col Demonio abbia
mo noi medeſimi ſtipulato; e però ſe il primo
ci obbliga ad eſſer umili, penſate voi, voi giudi
cate, quanto il ſecondo e più di motivo ne por
ga, e più di obbligazione ne accreſca. E in ve
rità ſe s'intendeſſe bene ciò, che ſi fece qualor
eccoſſi, vi fi fcorgerebbe un abiſſo di tale con
i" che non ardirebbeſi per l'onta grande
alzar al Cielo uno ſguardo. Sapete voi ciò che
fu quel peccato (udite o Giovane, che delle vo
ſtre diſſolutezze ne fate un vanto: udite, co Don
na, che al fuoco del voſtri amori unite il fuoco
della ſuperbia: udite, o peccatore, qualunque
voi ſiate, che portate con faſto l'iniquità, ſape
te che fu quel peccato che con tanta facilità ſi
commiſe, e portoſſi con tanta pace per giorni
e per ſettimane nel cuore? Sì, quello ſapete che
fu ? Fu una perfidia sì enorme, che per quanto
ſi penſi non ſe ne può concepire maggiore,
perchè mancoſſi a Dio di quella fede, che ſe gli
era giurata in faccia a gli Altari. Fu una ingra
titudine sì moſtruoſa, che nè pure dalle fiere ſi
pratica, perchè ſi diſguſta, e ſi diſprezza quel Si
gnore d'infinità liberalità, che ci verſa in ſeno
a profuſion le ſue grazie, e fu una temerità
ſi moſtruoſa, che andonne attonito tutto il Cie
lo: perchè una creatura tratta prima dal nulla,
e poi dal fango, rivoltoſi contro il ſuo mede
11mO
Per la Dom. vigeſimaſec. dopo la Pentec. 553 ,
ſimo Creatore, e tentò di ſcuoter quel giogo
di neceſſaria dipendenza che a lui ſi dee: fu
in una parola un reato sì nero, si vergognoſo,
si infame, che l'anima perduta in iſtante la gra
zia, che l'abbelliva, ed i doni ſovraumani che
l' arrichivano, divenne oggetto eſecrabile di ab:
bominazione ai Santi, agli Angioli, a Dio; e
per ſentenza della oltraggiata Divinità fu deſti
nata ad eterne fiamme, a crepacuori eterni, e
ad eterne ignominie. E un anima conſapevole
a ſe medeſima d' eſſere ſtata contro il ſuo Dio
sì temeraria sì ingrata, sì perfida ; conſapevole
a ſe medeſima di aver non una, ma dieci, ma
cento, ma mille forſe, e mille volte meritato
un Inferno, in cui ſe non è irreparabilmente
piombata, fu mera e gratuita degnazione di una
miſericordia infinita; un anima tale potrà non
vivere umile, e quel che peggio ſarebbe, avrà an
cora cuore di nodrire, di fomentare albagia ? Ma
Dio immortale! porterebbe per ſempre la confu
ſione in ſul volto chi aveſſe contratta la brutta
macchia o di ribelle al ſuo Principe, o di tradi
tore della ſua patria; e poi moſtrerà in faccia
al Mondo una fronte altiera chi ha villanamente
tradito il divino ſuo Padre, il celeſte ſuo Re º
Più, per una azione di Criſtiana generoſità,
per cui tutto il Cielo ne giubila, qual è il
rifiuto di un duello, il petdono a un mimi
co, la ſofferenza di un'ingiuria, ſol perche nol
conſente l' iniqua legge del Mondo , forza è
o ritirarſi in umil chioſtro, o viver nel Mondo
ſequeſtrato dal più bel Mondo, e poi nodri
rà ſenſi d'orgoglio, e porterà come in trion
fo la ſua ſuperbia chi ha calpeſtata con piè pro
tervo la giuſta, la ſanta, l'adorabile legge di
- llſl
554 Diſcorſo XXXI.
un Dio? Ah cari uditori, non ci aduliamo: chi
dopo il peccato non vive umile, o non conoſce
il malc, che ha fatto, o nol deteſta; anzi, vedete
che aggiungo, tanto è indiſpenſabile, che chi
ha peccato ſia umile, che quand'anche aveſſi
mo quella, che in queſta vita ſenza ſpecialiſſi
ma rivelazione aver non si può, certezza infal
libile dell' ottenuto perdono, ſaremmo nulladi
meno in dovere di profeſſare mai ſempre un'
umiltà profondiſſima. Imperocchè l'eſſer ſtati,
avvegnachè per un momento ſolo, ribelli a
Dio, e peccatori, è una taccia sì vergognoſa,
che laſciar vi dee impreſſa ſino alla morte in
fronte la confuſione. Così appunto moſtrò d'in
tenderla il ſanto David, allor quando con tutta
Pſ º la ſincerità del ſuo cuore dicea: Tot a die vere
cundia mea contra me eſt, ci confuſio faciei mee
zooperuit me. E sì ch'egli era certiſſimo di aver da
Dio ottenuto di tutte le colpe ſue il perdono se
l'Appoſtolo Paolo, che pur ſapea d'eſſere ſtato
da Criſto medeſimo rimeſſo in grazia, ſol per
chè rammentavaſi d'eſſere ſtato una volta il perſe
cutore della Chieſa, giudicavaſi indegno fin del
- e

" nome di Appoſtolo: Non ſum dignus vocari Apo


ſtolus, quoniam perſecutus ſum Eccleſiam Dei. Or
ſe parla così chi dell'ottenuto perdono dubitar non
a potea, che dovrem dire, che dovrem far noi, cari
uditori, noi che non ſolo non abbiam del perdono
certezza alcuna, ma abbiamo fors'anche più che
giuſto motivo di temere, ſe del noſtri peccati
ſia ſtato qual ſi dovea ſincero ed efficace il dolo
re ? Pare a voi, che un tal rifleſſo non ci metta
in dovere d'eſſer ben umili? -

Ma quì avvertite, che a dar moſtre d'umiltà,


non baſta già, che ci laſciamo alori" di
OCCA
Per la Dom. vigeſimaſec. dopo la Pentec. 555
bocca una qualche formola di poca ſtima di
noi medeſimi: no, cari uditori, non baſta. Avvi
una certa umiltà, dice lo Spirito Santo, di cui
ſa palliarſi anche la ſuperbia: umiltà falſa, po
ſticcia, apparente: Eſt qni nequiter humiliat ſe :º
ci interiora eſus plena ſunt dolo. Udirete talvol
ta certuni, che con un volto dimeſſo, e gli oc
occhi a terra: io ſono, dicono, un povero pec
catore ; altro non ho, che miſerie, e non vi
ha mal, che non meriti. Sì, lo dicono: ma
che? Fate che un amico, un domeſtico dia loro
qualche diſguſto, oh Dio, che riſentimenti! Fate
che un ſervo, o per inavvertenza, o per incuria
manchi un tantino al dovere, o che ſmanie !
Fate che un Confeſſore gli ſgridi con un poco
di aſprezza, o che doglianze! Fate che Dio li
viſiti con qualche diſgrazia, o che lamenti! Un
ſaluto, che non firenda, una cirimonia che non ſi
oſſervi, una parola, che un pò li ponga, talmente
li turba, talmente gli altera, che non ſanno darſene
pace: Fremono, sbuffano, e sfogano con mille im
properj, con mille imprecazioni il mal talento,
di cui ſono pieni. O vedete, che bella umiltà era
quella, che aveano poc'anzi ſulla loro lingua: eh, Hieron
diſſe pur vero il Dottor Maſſimo: Multi humilita eptſt.27
tis umbram, veritatem pauci ſectantur. Umiltà da
molti ſi finge, ſi profeſſa da pochi: Eh, via
una volta, proſegue il Santo via coteſte larve,
coteſte maſchere d umiliazioni: Auferanturfig ma
menta verborum. L'umiltà vera di un peccato. “
re vuol con la lingua d'accordo il cuore, e ſof
fre con pazienza ciò, che dice di meritare: Ve Ibid.
rum hunhilem patientia oſtendit. Piovano le diſ
grazie ſulla famiglia, affligano il corpo le ma
lattie, annerino le calunnie la fama: Peccati,
riſponde
556 Diſcorſo XXXI. -

riſponde ſempre l'umile peccatore, ho peccato,


e le mie pene ſon minori ancora delle mie col
Job-33. pe:Peccavi, di vere deliqui, c ut eram di
gnus non recepi. Come poſsº io pretendere, che
il Mondo mi onori, ſe io colle mie colpe ho
diſonorato il mio Dio ? Come poſs'io avere una
vana ſtima di me, ſe io medeſimo mi ſon av
vilito colla maſſima delle infamie, il peccato ?
Se preſervato non mi aveſſe la bontà infinita di
Dio, io a queſt'ora arderei tra le fiamme ine
ſtinguibili dell'Inferno; io ſmanierei tra le be
ſtemmie de'Dannati; io ſpaſimefei diſperato ſot
to a i colpi della divina implacabile Giuſtizia,
e avrò cuore di ſtar ſu i puntigli, e di paſcer
mi di vanità? e mi attriſterò ſe il Mondo mi
ſprezza ? e mi dorrò ſe Dio mi tribola? No,
no, nol ſarà mai. Troppo è giuſto, che chi è
peccatore ſia umile.
Sì, mio Gesù , così la deve ſentire chi vi ha
offeſo, e vi prego a darmi grazia, che la ſen
ta ancor io così: ho peccato, e tanto baſta per
intendere la neceſſità, in cui ſono di viver u
mile. Reo ch'io ſono di leſa Divina Maeſtà, e
meritevole di eterni obbrobrj, ah, troppo mi
renderei abbominevole agli occhi voſtri, ſe pot
taſſi di più con ſuperbia i miei demeriti! Vo
glio, che l'umiltà, che col peccato mi ſon re
ſa sì neceſſaria, ſia altresì la mia più cara vir
tù. Voi ajutatemi, ve ne ſupplico per quelle
piaghe, che adoro nelle voſtre Mani ſantiſ
ſime, aiutatemi con la voſtra grazia, affinchè
ne prosuri in ogni occaſione la pratica, e ſap
pia a mio gran vantaggio eſſer umile, giacchè
a mio gran danno ho ſaputo eſſer rº",
Ci ſi
Per la Dom. vigeſima ſec. dopo la Pent. 557 -

. Ci ſi perſuade ancor molto di più dal peccato, Fi


in cui poſſiamo morire. Se vi ha penſiero, che º
più poſſa, e più debba abbattere il noſtro fu
mo, egli è certamente queſto. Per quanto io vi
va bene, poſſo contuttociò morir male, e do
po aver paſſati in grazia i miei giorni, terminar
li poſſo in peccato. Sì, miei dilettiſſimi, que
ſto penſiero ha inabiſſati in sì profonda umiltà
i più gran Santi, che anche tra le maraviglie
più ſtrepitoſe, che operavano, non ardivano al
zare il capo. E in verità il poter morire in pec.
cato non è già una poſſibilità sì remota, che toc
chi i confini dell'impoſſibile: No, cari uditori,
no; conſiderate da una parte i nimici, che ci
i fan guerra ; nimici fortiſſimi, nimici oſtinatiſ
ſimi, conſidetare dall'altra la natura moſtra, che
dee loro far fronte s natura fiacca, inſtabile,
mal inchinata; e vedrete, che tanto è facile
l'eſſere noi abbattuti, quanto è naturale, che al
la ſorza ceda la debolezza. Così non cel mo
ſtraſſe cotidiana ſperienza, che tutto dì ci fa
piangere doloroſe ſconfitte, con un tal ſotten
trare dell'une all'altre, che nove piaghe ci apro
no, non ſaldate ancora le antiche. E ſe nel cor
ſo della vita van le coſe sì male, quanto più è
da temerſi, che vadano male in punto di mor
te? In quel punto, in cui per parte de'nimici
ſono più furioſi gl'aſſalti, per parte noſtra più
fiacche le forze ; e non è queſto, uditori, a chi
che ſia un gran motivo di viver umile? Pare
a voi, che poſſa in un cuore regnar la ſuper
bia, ſe con ſerietà ſi riflette, che anche il mag
gior Santo, che al preſente ſia in vita, può mo
rire in peccato, e lo può con tanta facilità, con
quanta può da chi è forte eſſer vinto chi è
debole? Quanti
558 Diſcorſo XXXII.
Quanti di fatto (o memorie troppo funeſte ! )
Quanti, che giurati gli avreſte rocche ineſpu
gnabili, vilmente abbattuti han chiuſa con fin
miſerabile la lor vita? Al vedere un uomo di
tanta fede, che ſgombra febbri con la ſua voce,
e fa tremar co ſuoi cenni fino i Demonj, chi
avrebbe mai detto: Coſtui morrà diſperato. Ep
pure ne abbiamo in Giuda l'eſempio. E di un
Salomone il più ſapiente fra gli uomini, am
maeſtrato da Dio medeſimo, chi avrebbe cre
duto mai, che ſarebbe morto Idolatra ? Eppu
re quanti fra Santi Padri lo affermano ? E chi
v'è, che non ſappia il fine infauſto di un Oſio,
di un Origine, di un Tertuliano, ſtelle una vol
ra luminoſiſſime di Chieſa Sanra, ed ora tiz
zoni ineſtinguibili del nero abiſſo ? Ah, che di
rimembranze sì lagrimevoli i ſagri Annali van
pieni, e con inchioſtro ſtemprato nel pianto al
tri ci ſi deſcrivono dopo le fatiche di zelantiſ.
ſimo Appoſtolato morti nell'Ereſia ſotto i ful
mini degli Anatemi: altri dopo lunghi anni di
penoſiſſime auſterità morti nel grembo delle più
infami diſſolutezze: altri già con un piede per
così dire nel Paradiſo per la vicina palma di
Martire, morti apoſtati dalla Fede, e adoratori
di falſi numi. E che altro ſono, miei dilettiſſi
mi, morti sì tragiche, ſe non lezioni, che c'in
ſegnano a tenercela coll'umiltà, mentre ci mo
ſtrano, che noi ancora come tanti altri, miglio
ri una volta di noi, morir poſſiamo in peccato?
Che s'egli è vero (come pur troppo ne fa te
mere l'opinion ben fondata di non pochi Santi,
e Dottori ) che de fedeli adulti la maggior par
te finiſca male i ſuoi giorni, quanto più udito
ri, quanto più creſce la neceſſità di ſtar umili?
- Chi
Per la Dom. vigeſimaſec. dopo la Pentec. 559
Chi ſa, ſe vi ſalverete tra i pochi, o ſe vi per
derete tra i molti ? Chi ſa, ſe gioirete con lo ſcar
ſo numero degli Elerti; o ſe diſpererete con la
turba immenſa de Reprobi! Chi lo ſa? Penſate a
queſt'orrenda incertezza; e poi, ſe potete, in
ſuperbite. -

Ma Padre, voi mi direte, è vero, che i ni


mici noſtri ſono forti, ehe ſon fiacche le noſtre
forze, ch'ella è dubbioſa la noſtra ſorte; ma
può ſempre la divina grazia avvalorarci di mo
do, che ſia per noi ſicuro il trionfo, quand'an
che tutto a noſtri danni ſi ſcatenaſſe l'Inferno.
Veriſſimo: io ve l'accordo; ma credete voi di
ſottrarvi con ciò dall'obbligo d'una umiltà ben
profonda ? Anzi queſto per appunto, uditori
miei, è il maggior motivo, che abbiamo di
viver umili. Imperocchè quella grazia, da cui
tutta dee venirci la forza, ella è un puro do
no di Dio; e s'ella è dono, nè Dio è in do.
vere di darcelo, nè noi abbiamo diritto alcuno
a pretenderlo. Che ſe Dio nello ſtato preſente
di provvidenza a niuno mai niega grazia baſte
vole per ſalvarſi s a quanti però [ chi può ri
dirlo? J a quanti egli niega certe grazie privi
legiate, vittorioſe, efficaci, con le quali di fat
to la ſalute ſi accerta ? Che dirò poi di quella
grazia, che dee darci vittoria nell'eſtremo con
flitto, e coronare con una ſanta perſeveranza
la noſtra vita ! O queſta sì, che più d'ogn'al
tra eſige da noi umiltà: perchè queſta di tal
maniera dipende dalla divina liberalità, che per
quanto ci ſtruggiamo in fervori, e penitenze,
giunger mai non poſſiamo ad averne condegno
merito. Combinate ora voi queſte due infalli
bili verità: l'una, che ſenza il dono della finale
perſeve
56o Diſcorſo XXXII.
perſeveranza ſi morrà cerramente in peccato;
l'altra che queſto dono ci ſi può negare da Dio
ſenza farci alcun torto: e poi giudicate ſe ab
biamo sì o no giuſto motivo di chinare al ſuo
lo la fronte, e concentrarci nell'abiſſo profondo
della noſtra miſeria. Eh, cari uditori, lo ſo,
che nella grazia tutte ſi fondano le noſtre ſpe
ranze: lo ſo, ma per queſto dobbiam guar
darci da ogni ombra di ſuperbia: per queſto
appunto dobbiam tenerci ben ſaldi all'umiltà,
perchè ſe vi ha chi dei doni di Dio debba
andar privo, egli è il ſuperbo; ſe vi ha chi ne
debba andar ricco, egli è l'umile: Deus ſuper
bis reſiſtit, così ce ne aſſicurano due penne Ap
ºf: poſtoliche, di S. Giacomo l'una, e l'altra di
s. S. Pietro, humilibus autem dat gratiam : onde
s'egli è vero, com'è veriſſimo, che ſenza la gra
zia non ſi può ſperare ſalvezza, egli è vero
altresì, che ſenza umiltà non ſi può ſperare la
grazia.
Ite ora anime altiere, sfoggiate pure, gran
deggiate, inſuperbite; non vi ſia puntiglio, che
non tenghiate ben ſaldo, non vi ſia pretenzione,
che non promoviate ben alta; mirate pur con
contegno l'uguale, l'inferior con diſprezzo, e
voi medeſime con compiacenza. Il volto, il
tratto, il diſcorſo, il coſtume, tutto, sì tutto
ſpiri un'aria di orgoglio, e dia paſcolo al vo
º ſtro fumo il faſto, la vanità, l'onore, l'adu
lazione, la gloria. O miſere! troverete in mor
te l'umiliazione, che in vita sfuggite; Veniet,
Iſai. 2e
vel fa ſapere Iſaia, veniet dies Domini ſuper
omnem ſuperbum, 6 humiliabitur. Verra quel
giorno, verrà, in cui proverete gli effetti dell'
.abbominazione, in cui ſiete appreſſo Dio. Gior
nO
Per la Dom.vigeſimaſec. dopo la Pentec. 561
no per voi di crepacuore, giorno di abbando
namento, giorno di confuſione, giorno in una
parola di morte, e di morte in peccato; verrà,
verrà: Veniet dies Domini ſuper omnem ſuperbum,
& humiliabitur, ci humiliabitur. Ma voi, miei
dilettiſſimi, che per accertare l'eſaltazione in
morte, non iſdegnate l'umiliziazione in vita,
ſtate pur di buon animo, perchè il Savio vi aſi
ſicura, che ſe in morte alla ſuperbia ſuccede
la confuſione, all'umiltà ſuccede la gloria: Su Prove
perbum ſequitur humilitas: humilem ſpiritu ſuſci. 29
-

piet gloria. Sia pur dunque l'umiltà la virtù


noſtra più cara, la più diletta, la più dimeſtica;
e facendone mai ſempre il conto, che merita,
diamone ſaggi continovi e verſo Dio, e verſo il
Proſſimo, e verſo di noi medeſimi: verſo Dio
coll'umile riconoſcimento de doni ſuoi; giac
chè nulla di bene abbiamo, che non ſia ſuo:
verſo il Proſſimo con la ſtima di tutti, giacchè
niuno vi ha, che non ſia pregievole, ſe non per
le
altro, per l'immagine ch' egli è di Dio: verſo
di noi col diſprezzo di noi medeſimi; giacchè
di noſtro non abbiam altro, che miſeria, e pec
cato. Ma una pratica sì giovevole, sì neceſſaria
da chi l'apprendemo noi, cari uditori, da chi?
dal mondo no, perchè il mondo mira l'umil
tà, come un carattere d'animo vile.
Da voi caro Gesù dobbiamo apprenderla, da
voi, che diſceſo ſiete eſpreſſamente dal Cielo
per farvi nell'umiltà noſtro Maeſtro, e noſtro
eſemplare. Voi dunque, che coll'eſempio non
meno, che con la voce c'inſegnaſte una vir
tù al Mondo si ſconoſciuta; voi dateci lume
per conoſcerne il merito, voi dateci forza per
cominciarne la pratica. Ve ne preghiamo per
Tomo IV. Anno IV, Nu quella
562 Per la Dom. vigeſimaſec. dopo la Pentee.
quella Piaga ſantiſſima, che nel voſtro Coſta
to adoriamo. O che bontà, che ecceſſiva bon
tà è mai ſtata la voſtra nell'aprirci a ſpeſe del
voſtro onore medeſimo una ſcuola sì neceſſa
tia! Colmi da capo a piedi di miſerie non ave
vamo con che piacervi, e voi ci avete inſe
gnato il come piacervi con le ſteſſe noſtre mi
ſerie, e ſoltanto che avanti a voi le confeſſia
mo con cuor ſommeſſo, ci promettete ogni be
ne. Sì Gesù caro, con la fronte ſul ſuolo ci
riconoſciamo per que viliſſimi, per quei inu
tili, per quei indegni, che ſiamo; e per que
ſto ſteſſo, che ſiamo sì miſeri, da voi ſperia
mo, da voi aſpettiamo e in vita, e in mor
le ogni grazia, e con la fiducia del Santo Da
vide vi diciamo ancor noi: Tu populum humi
lem ſalvum facies.
3 DICIDIEDLIDI DILITI I I I I I I ItI I m D IDN º

D I S C O R S O XXXII.
PER LA D O ME N I CA XXIII.
D O P O LA PENT E C O ST E.

In occaſione del Funerale ſolito farſi ogni Anno in ſuffra


gio de' Fratelli, e Sorelle della Compagnia della buona
morte, Defunti. -

Morti tre.
Princeps unus acceſit, o adorabat eum dicens:
Dominefilia mea modo defuncta eſt. Matth. 9.
I l Erra, Terra, Terra, odi la voce del Si
i; gnore. Così, uditori miei dilettiſſimi,
lzassi con una ripetizione tutta miſtero parla
irr. 22, ad ogni uomo Geremia Profeta: Terra, terra,
º - - terra
Per la Dom. venteſimater. dopo la Pentec. 56;
terra audi verbum Domini. Che poſſa l' uomo
chiamarſi due volte terra ; terra, ſe ſi riflette al
campo Damaſceno, onde traſſe l'origine; terra
ſe ſi riflette alla tomba, ove trova il ſuo termine,
io l'intendo: Ma terra tre volte, perchè miei cari
uditori, perchè ? S' io ne interrogo i Sagri Inter
preti, altri mi riſpondono con Ugon Cardinale,
eſſere l'uomo tre volte terra, perchè terra nelle
ſue opere, terra ne ſuoi coſtumi, terra ne ſuoi
penſieri: Altri ſoggiungono con Paulino, eſſe
re l'Uomo terra nel ſuo naſcere, terra nel vive
re, terra nel ſuo morire: Altri finalmente po
rtan parere, dirſi l' uomo tre volte terra, per
chè come terra vile nella ſua materia, perchè
come terra fragile nel ſuo eſſere, perchè co
me terra breve nel ſuo durare. Io però ſe ho
a dire con iſchiettezza ciò che ne ſento, ſicco
me nella terra per avviſo di Dio medeſimo rico
noſco la noſtra mortalità: Pulvis es & in pulve-Gen. -
rem reverteris: così nel chiamarſi l'uomo tre
volte terra, ravviſo tre morti alle quali ſiamo
tutti ſoggetti: l'una che già è paſſata, l'altra
ch'è preſente, la terza ch'è futura. Se miriamo
al paſſato, una parte della noſtra vita già è morta:
ed eccoci terra già una volta. Se miriamo al pre
ſente, una parte della noſtra vita ſtà morendo:
ed eccoci terra un'altra volta. Se miriamo al fu
turo, quella parte di vita, che ancor ci reſta, ella
morrà : ed eccoci terra la terza volta. E ſe così
è, a noi queſta ſera parla il Profeta, e c'intima
di porgere orecchio alle voci di Dio: Terra,
terra, terra audi verbum Domini, e Dio che ci
dice ? ci dice appunto che ſiamo terra, e ce lo dice
nell'odierno Vangelo con metterci ſotto all'oc
chio una fanciulla nel più verde delle ſperanze,
Nn 2 C
564 Diſcorſo XXXII.
e nel più bel fiore degli anni fatta preda di acer
ba morte. Fermiamci, cari uditori miei, a eon
templarne il freddo cadavero, prima che Criſto
moſſo dalle lagrime ſupplichevoli del Genitore
afflitto, lo richiami a nuova vita ; e in quel pal
lido ſpecchio di morte riconoſciamoci ancora
noi tre volte terra. Terra che fummo, terra che
ſiamo, terra che ſaremo. Terra che fummo per
quella parte di noſtra vita, che già è morta, pri
mo punto: Terra che ſiamo per quella parte di
noſtra vita che ſtà preſentemente morendo, ſe
condo punto: Terra che ſaremo per quella par
te di noſtta vita che ancor ci reſta, e certamente
morrà, terzo punto. Felici noi ſe della prima
morte, e della ſeconda ſaprem ſervircene per
ſantificare la terza da cui dipende il glorioſo ri
- ſorgimento ad una vita immortale! Incomin
-
ciamo.
UIN
roI. Per quella parte di vita, che già è paſſata, e
a cui ſiam morti. Si diſinganni pure chi crede,
che ſia una ſola la noſtra morte, e che queſta
allora ſolamente ſi accoſti, quando ſi accoſta il
fin della vita. No, dilettiſſimi, tante ſotto le no
ſtre morti, quante ſono le parti di noſtra vita,
e col ſuccedere che queſte i" le une alle al
tre, fanno altreſi, che le une alle altre ſuc
cedano le noſtre morti. E per intendere ſenza
altro il vero di cui vi parlo, richiamate, udi
tori, alla mente ciò che avvenne al noſtro
primo padre. Pare a prima viſta non poco ſtra
no, che Adamo dopo la traſgreſſion temeraria
del divino divieto, ſtendeſſe ancora oltre no
ve ſecoli la ſua vita. Aveagli pur Dio chiara
mente minacciato, che in quel giorno medeſi
smo in cui appreſſate avrebbe al vietato " le
al il G
Per la Dom, venteſimater. dopo la Pent. 565
ardite labbra, ne avrebbe riportata in pena la eB, 2,
morte; In quacumque die comederts ex eo, morte
morieris; onde parea che all'introdurſi nel Mon
do il peccato, doveſſe la morte al tempo ſteſſo
ſorprendere il peccatore. E come dunque ſenza
diſcapito della divina infallibil parola , potè
Adamo contare giorni sì lunghi, e non ſoggiace
re dopo l'iniquo attentato all' intimato gaſtigo?
Forſe Dio moſſo a pietà dell' ingrato prevari
catore, rivocò la fulminata ſentenza ? o ſe non
rivocolla del tutto, forſe ſi contentò di differire
l' eſecuzione? No, uditori: nè Dio rivocò la
ſentenza, nè punto differi. Quando Adamo pec
cò, Adamo morì , anzi tante furono dopo il
peccato le ſue morti, quanti furono dopo il
peccato i ſuoi giorni. Imperocchè ſe il morire
altro non è che perder la vita, chiaro è che al
lora appunto ſi comincia la morte, quanto la
vita comincia a perderſi, ed allora cominciò
Adamo a perder la vita, quando di è il conſenſo
alla colpa. Perchè ſiccome ad Adamo innocente
non ſi ſarebbe col più vivere ſcemata la vita,
perchè non ſarebbe mai morto; così condan
nato dopo la diſubbidienza a morire, ogni an
no che vivea, era anno di morte, perchè anno
che gli togliea una parte di vita. Così avveroſ
fi contro di lui nel giorno iſteſſo, in cui peccò,
la fatale minaccia, e ſi può dire con verità, che
ſi eſeguì contro lui la ſentenza di morte nove
ſecoli prima che finiſſe di vivere. Or ciò che
avvenne al noſtro primo Padre, avvienne pur
troppo, dice S. Baſilio, agl' infelici ſuoi diſ,
cendenti : ed a noi ancora; più che ci ſem-Ineom.
bra di vivere, più moriamo: Priuſquam animarſi º
a corpore ſeparetur ſape morimur: vita hominum
Nn 3 tlfla
566 Diſcorſo XXXII.
per plures mortes expleri ſolet. Viviamo una vita
compoſta di più morti; e come i giorni e le
ore, così le morti noſtre l'una l'altra s'incalza
no, ed è appena giunta la prima, che già ſot
tentra la ſeconda.
E forſe non è così, uditori miei, non è forſe
così? Rivolgete di grazia, rivolgete l'occhio
agli anni addietro, e in uno ſguardo ſolo quan
te ſcorgerete di quelle morti ? Dove ſono l'età
voſtre traſcorſe? Dove è i infanzia ? ella è mor
ta: dove l' adoleſcenza è per la maggior parte
ella è morta: è morta per molti la gioventù,
e per molti ancora è morta l'età virile. Così va ,
dice Agoſtino, al venire di un età, muore l'al

127.
Pſtra: Cum una accedit, altera moritur; ed allor
quando o vaghezza di divertirvi vi fa bramare
l'età più verde, o deſiderio di autorità vi fa ſoſ
pirare la più matura, ſappiate, che altrettante
Jbid.
morti deſiderate, quanti bramate gradi di età :
Quot optas gradus etatis, tot ſimul optas & mor
tes. Ma inſieme a quelli dell' età già traſcorſe
quanti altri funerali ſi aggiungono, chi può eſ.
primere, quanti! quanti! Ricordavi, o Donna,
di quel brio che vi facea un tempo l'anima delle
partite più allegre è di quella grazia, con cui a
gran coſto della voſtra, ed altrui coſcienza affa
ſcinaſte e l'occhio, ed il cuore di tantº incauti ?
di quella diſinvoltura, che rendeavi un dì Idolo
inſieme, e idolatra del Mondo ? e ora che ve ne
reſta! nulla: diſinvoltura, e grazia, e brio tutto
è morto. E voi Uomo tutto del Mondo, ditemi
per corteſia, non ſiete voi quello, che eravate
una volta sì pronto alla mano per bollore di
ſangue ? sì applaudito nelle converſazioni per
leggiadria di piede, ne cavallereſchi eſesciz; si
- - Il Il C
Per la Dom vigeſimater dopo la Pentec. 367
rinomato per vigore di forze? e che vuol dire
che adeſſo fate una figura coſi diverſa è il vigor
è mancato, ſi è ſmarrita la leggiadria, la bizza
ria è paſſata, il bollore ſi è ſpento, tutto è morto.
Ah ch'egli è così, dilettiſſimi, e ſe vogliamo ſe
riamente riflettere a sì gran vero, troveremo,
che in riguardo alle coſe paſſate tanto ſiam morti
noi, quanto quei morti medeſimi, dei quali
facciam oggi memoria. Dei paſſatempi che han
goduto eſſi, non han più nulla, e noi che ne ab
biamo ? delle comparſe ch'eſſi hanno fatte, non
han più nulla, e noi che ne abbiamo ? delle pom
pe tra le quali han brillato, non han più nulla,
e noi che ne abbiamo ? In ordine al paſſa o ſiam
tutti uguali: nulla eſſi, e nulla noi: morti eſſi
e morti noi, E che altro in fatti ſignifican, miei
dilettiſſimi, certe formole, che noſtro malgrado
ci eſcon più d'una volta di bocca: non è più il
mio tempo, certi divertimenti non fan per me,
certe viſite, certe comparſe, certe mode, certi
feſtini non mi convengono più ; e che parlare,
uditori, ſi è queſto ? non è queſta una confeſſio
ne ſincera che a molte coſe già ſiamo morti? e ſe
è così, cari uditori, quando vogliamo aſpettare a
diſingannarci di queſto Mondo, a cui già in gran
parte ſiam morti? quando vegliamo aſpettare a
rivolgere unicamente a Dio gli affetti noſtri?
O grande Griſoſtomo! un poco della voſtra
facondia vorrei io queſta ſera per imprimere in
chi mi aſcolta quei ſentimenti, che voi incul
caſte con tanto zelo ai voſtri uditori. Bramoſo il
Santo Dottore di diſtaccare il lor cuore dai beni
di queſta terra, e tutto rivolgerlo a quei del Cie
lo, fi fe loro ad eſporre quel nulla, a cui eran
; ridotti i trapaſſati loro predeceſſori, e con la ſua
Nn 4 sì
563 Diſcorſo XXXII. -

efficace eloquenza: dov'è diſſe, quella porpora


che già veſtirono con tanto faſto, dove ſono
quelle ricchezze che già goderono con tanto sfog
gio? dove quegli applauſi che lor ſi ferono ? do
ve i piaceri che proccacciaronſi? dove gli ono
ri, dove le dignità, dove le allegrie, i dove
gli amici ? qual fiore di primavera dopo una
breve comparſa tutto è marcito: Flores fuerunt
verni, vere exacto emarcuerunt omnia. Qual om
bra fuggiaſca tutto è ſparito: Umbra erant, c pra
terierunt. Tutto è paſſato, tutto è finito, tutto
è morto. E qual follia dunque ella è mai a beni
sì vani, sì fragili, sì caduchi ſagrificare tutti gli
affetti: ed all'anima, al Cielo, a Dio non dar
mai, o preſſo che mai un penſiero ? Così parlò a
ſuoi uditori, il Griſoſtomo, così ancora vor
rei, che a ſua imitazione parlaſſimo noi a noi
ſteſſi; con queſto ſolo divario, che il rifleſſo ch'
egli fe ſulle morti altrui, noi lo faceſſimo ſulle
noſtre. Dove ſono, dica ogn'uno a ſe ſteſſo, dove
ſono i piaceri dianzi goduti? dove quelle allegre
partite nelle quali ho tanto brillato? dove quella
fortuna una volta sì favorevole ? dove quella figura
una volta sì ſtrepitoſa? dove, dove ?Umbra erant,
ci praterierunt. Anni della mia infantia, della mia
adoleſcenza, della mia gioventù dove ſiete? Al
tro di voi più non veggo ſe non veſtigia di mor
te: membra che infermano, crini che imbianca
no, forze che mancano, ſenſi che infievoliſcono.
Non è egli vero, che di tanti divertimenti che
ho goduti, non ho più nulla è che di tante vanità
dietro alle quali mi ſon perduto, che di tanti
capricci, che mi è piacciuto sfogare, non ho più
nulla, non è egli vero! O miſero me! ed ho
potuto cotanto amare ciò, che si preſto dovea
- Sl
Per la Dom. vigeſimater. dopo la Pentec. 569 /

mancarmi ! ciò che morir mi dovea sì pre -


ſto! ed a quel Diò che mai non manca, che mai
non muore ho penſato sì poco! Si poco l'ho amai
to! l'ho ſervito sì poco ? o cecità ! o pazzia!
Miei dilettiſſimi, queſti rifleſſi ſono eglino giu
ſti, sì, o no? Penſa egli bene, chi così penſa ?
Finge forſe, o forſe eſagera chi la ſente così, e
così la diſcorre? Non e queſta una verità che ſi
tocca, per così dire, con mano? -

Ah ch'egli è così, Gesù caro, egli è purtrop


po così. Quando però, quando ſarà mai ch' io
mi diſinganni ? quando è quando? Come poſsio
meglio conoſcere il nulla ch'io ſono , il nulla
che ſono i beni di queſta terra, che dallo ſcorge
re, che ad una gran parte di queſti e di me già
io ſon morto. Sì: morto già ſono a molti ogget
ti di queſto Mondo, ed ancora avrò cuore di ama
re e queſta vita e, queſti beni ! Ah, Gesù amabi
liſſimo, per le piaghe ſantiſſime de' voſtri piedi
che umilmente adoro, datemi vi prego grazia,
ch'io faccia ſenno migliore, e che dalle mie morti
paſſate impari a vivere nell'avvenire; ſicchè di
ſtaccando gli affetti miei da tutto ciò, a cui ſi S -

preſto ſi muore, ami voi ſolo, a cui ſoltanto


ch'io voglia, non morrò giammai. -

Per quella parte di vita che ſtà paſſando, ed a -


cui andiamo morendo. Così è pur troppo, cari Pis
uditori , in quella guiſa medeſima in cui mor To II.
ti già ſiamo al paſſato , andiamo altresì mo
rendo al preſente. Ci muore di continovo indoſſo
la vità: ci muore di continovo attorno il Mon
do. Io mentre vi parlo, vo morendo, e voi
ancora andate morendo, mentre mi udite. Ve
rità così certà, che anche ſenza il lume infalli
bile della fede la inteſe un gentile quale fu Seneca:
- Nn 5 Quo
s7e Diſcorſo XXXII
guotidiè morimur, quotidie enim demitur aliqua
pars vitae, hunc ipſum, quem agimus diem cuma
monte dividimus. Ogni anno, ogni giorno, ogni
momento moriamo, perchè ogni anno ci toglie
un anno di vita, ogni giorno un giorno, ogni
momento un momento. Dell'anno che corre
non ne ha già ingioiati la morte dieci meſi e più º
del giorno medeſimo d'oggi non ne ha già la i
morte involate ventitre ore ? Che ſe dagli articli di
queſt'Arpia ſembra libero quell'iſtante, che ſolo
abbiam preſente, egli è sì breve, egli è sì minuto,
che mentre ſi nomina, anzi mentre ſi concepi
ſce; già è paſſato, e nel ſuo paſſato porta in ſen
della morte una parte di noſtra vita. Eh, ch'egli
è un errore di darſi a credere, che allora ſolo ſi
muoja, quando giunge l'ora ultima: Si muore
ogni momento s e quando giunge l'ultimo, non
è tanto un finire di vivere, quanto un finir di
morire: Ultima ora qua eſſe deſinimus, non ſola
mortem facit, ſed ſola conſummat.
Sottentri ora al morale l' Appoſtolo, ed alla
ragione la fede. Ogni giorno io muoio, dice
º Cºr Paolo di ſe ſteſſo, quotidie morior; e fu dottrina
” inſegnata a lui, ed a nome dallo Spirito Santo là,
ove diſtribuendo ad ogni coſa il ſuo tempo, tra
quel del naſcere e quel del morire non aſſegnò
Eccles. tempo di mezzo: Tempus naſcendi, d tempus mo
rendi: perchè intendeſſimo, dice il ſanto Ponte
fice Innocento III. che appena ſi finiſce di na
fcere, che già ſi comincia a morire, e che van
no con noi d'ugual paſſo vita, e morte, inſieme
cominciando, e terminando inſicme: Morimur
ſemper dum vivimus, 6 tunc tantum deſinimus
mori, cum deſinimus vivere.
Eppure ammaeſtrati come ſiamo, e convinti dal
- la
Per la Dom. vigeſimater dopo la Pentec. 57r
la ragione non meno, che dalla fede, che andiamo
ſempre morendo, vi penſiamo noi mai ? Quem
mihi dabit, dirò anch'io con più di ragione s
che il Morale, quem mihi dabis qui intelligat
ſe quotidie mori ? Chi vi ha ormai tra gli uo
mini, qual è mai tra fedeli, il quale ſeriamente
rifletta, che ſtà morendo ? Penſa egli, che ſtà
morendo colui, che non ſa diſtaccare le ſordi
de labbra dal calice infame di Babilonia ? Penſa
egli che ſtà morendo colei, che altri ſentimcn
ti, non nutre, che di vanità, di amori, e di
faſto? Penſa egli che ſtà morendo, chi ron ſi
occupa in altro, che in cercar maniere, di di
vertirſi ? Penſa egli che ſtà morendo, chi paſſa
non i giorni ſolo, e le ſere, ma fin le notti
ſu un tavoliere ? Fatevi ad iſpiare le mire, le
ſollecitudini, le induſtrie del più degli uomini.
Altri ne troverete per avarizia ingordi di robba:
altri per ambizione vaghi di gloria: altri per
morbidezza perduti tra le delizie: tutti per amor
proprio intenti a procacciarſi tra i beni di quag
giù una vita felice, ſenza penſiero alcuno di
quella morte, che accompagna di continovo
la loro vita. O inſenſati, eſclama Agoſtino, in
ſenſati ! voi nel paeſe della morte cercate feli
cità ! Beatam vitam quaritis in regione mortis !
e come mai ſperar potete una vita beata, ove
appena può dirſi, che vi ſia vita? Quomodo bea
ta vita, ubi nec vita! Ed in vero, ſe in mez
zo d'una Città deſolata da peſtilenza, vedeſte
taluno ire in traccia di divertimenti, e di ſpaſſi:
ſtolto, voi gli direſte, e non vedi in ogni par
te apparato di morte, orme di morte, faccia di
morte? Mira là un bambino eſtinto tra le brac.
cia d'inconſolabile madre: là una ſpoſa i"

572 piſcorſo XXXII.
ha accoppiati alle nozze i funerali: là un ami
co, che langue: là un congiunto, che ſpira.
Quelle caſe ſono ſpedali d'agonizzanti, quei
campi ſono cimiteri di trapaſſati, e tu inſenſa
to, in queſto luogo di morti, e di moribon
di, tu ſperi delizie, tu cerchi diporti ! e que
ſto. queſto è aver ſenno? Così, uditori, da
que ſaggi che ſiete, così gli direſte, e inſieme
lo eſortereſte a conformarſi al luogo, in cui
trovaſi, con la meſtizia del volto, con il pian
to degli occhi, e con la compunzione del cuo
re. Ora ſappiate, miei dilettiſſimi, che così
ancora parla a noi Sant'Ambrogio. Che altro
è, dice il Santo Dottore, che altro è queſta
terra, che noi abitiamo, che altro, ſe non un
paeſe di morti, dove quanto vi ha, quanto ſi
vede, tutto è ombra di morte, teatro di mor
te, e regno di morte: An non mortuorum hac
regio, ubi umbra mortis, ubi porta mortis , ubi
corpus eſt mortis ? Muore al volto la grazia,
muore al corpo il vigore, muore ai ſenſi il
ſenſo; e fin ogni fiore del campo col ſuo lan
guire, fino ogni vapore dell'aria col ſuo cade
re, fin ogn'onda del fiume col ſuo ſparire, fin
ogni Stella del Cielo col ſuo tramontare ci di
ce, che noi moriamo. E noi intanto circonda
ti da ogn' intorno dalla morte, e dalla morte
in ogni tempo perſeguitati mal accorti che ſia
mo, ci affezioniamo ſempre più al ſuo regno,
e quanto ella più ci toglie di queſti beni, più
me cerchiamo? Eh no, cari uditori, intendia
mola di grazia una volta, intendiamola: que
ſta terra non è il luogo della felicità, nel paeſe
della morte non farà mai bello ſtare. Così l'in
tendeva l' Appoſtolo impaziente di uſcirne: e
- quando,
Per la Dom. vigeſimater. dopo la Pentec. 57;
quando, ſclamava, quando verrà quel taglio,
che ſciolga queſti legami ! chi darà una volta
al mio ſpirito la libertà ! da queſto carcere di
morte chi mi trarrà! Quis, quis me liberabit de
corpore mortis hujus ! Queſti ſono i ſoſpiri, que
ſte le brame di chi ſi accorge, che ſempre muo
re. Ricopiamo, dilettiſſimi, da Paolo ſentimen
ti sì generoſi, e là fiſſiamo le mire, là volgia
mo gli effetti, dove non regna, dove non en
tra la morte. Intanto finchè giunga la ſoſpirata
liberazione, adattiamci al paeſe, in cui ſiamo,
colla compunzione dello ſpirito, colla morti
ficazione de ſenſi, colla penitenza del peccati,
col diſtaccamento da queſti beni. E ſe mai il
ſenſoil Mondo ſi fanno a proporre diletti, e
vanità; no riſpondiamo loro, no, che non
voglio. Troppo mal ſi confanno a chi ſtà mo
rendo, vanità, e diletti. Avvi una patria di vie
venti : quella deſidero, a quella ſoſpiro, là sì
che goderò del mio Dio, e il goderò per tutti
i ſecoli ſenza timore di morte: Placebo Domi. Pſ 114,
mo in regione vivorum.
Sì, Gesù mio caro, così bramo che ſia, così
ſpero, che un dì ſarà. Ma intanto ſinchè vivo
in queſte ombre di morte, deh per le piaghe,
che adoro nelle voſtre ſantiſſime Mani, aſſiſte
temi vi ſupplico co voſtri lumi: Illuminare his,
qui in tenebris, 6 in umbra mortis ſedent. Sgom
brate da me tutte le tenebre, colle quali il ſen
ſo, ed il Mondo mi offuſcano l'animo, affin
chè da queſto regno di morte mi avvii con ſi
curezza alla bella patria de viventi. Iſpiratemi
a queſto fine que ſentimenti, che ſi convengo
no a chi ogni dì va morendo; ſentimenti che mi
diſtacchino da queſta terra, ove non altro "
- Che
574 Diſcorſo XXXII.
che morte i ſentimenti, che m'innamorin del
Cielo, dove ſolo ſi trova la vera vita. -

= Per quella parte di vita, che ancor ci reſta,


Pus- e a cui certamente moremo. A torci ſu queſto
º il punto ogni dubbio tutte tre d'accordo ſi uniſ
cono, fide, ragion , e ſperienza. La prima ce
l'inſegna co' ſuoi oracoli: la ſeconda co ſuoi
lumi celo dimoſtra: la terza co fatti ce lo per
ſuade. Queſti ſuffragi medeſimi, che offeriamo
a prò de Defunti, eſſi ancor ci ricordano, che
ºmorremo, e che ſi farà un giorno per noi ciò,
che noi facciamo adeſſo per gli altri. Mio pen
iero pertanto ſi è, che unicamente ci trattenghia
mo in fare ſu queſta chiariſſima verità qualche
rifleſſione a noſtro profitto. La diſcorro adun
que così. S egli è certo, che un dì morremo
del tutto, com'è certo, che in riguardo al paſ
ſato già ſiamo morti, e che ſtiamo morendo in
riguardo al preſente s qual follia ſi è mai la
noſtra, far della vita avvenire l'Idolo delle no
a
ſtre ſollecitudini? Sappiamo di certo, che la vi
ta, che ci rimane ancora, ella paſſerà. Sappia
mo di certo, che paſſata ch'ella ſarà, nulla più
ne avremo di quel che ora ne abbiamo della
paſſata. Saremo sì ſtolti di ſagrificare a queſta
vita il meglio del noſtro cuore, del noſtri affet
ti, del noſtri penſieri? -

Io vorrei, uditori, che la diſcorreſſimo noi


a noſtro diſinganno, come la diſcorſe Iſaia a
diſinganno de' ſuoi Ebrei. Vedendo il Santo Pro
feta, che quelle menti acciecate, diviſo in due
parti un tronco, una ne aveano gettata al fuo
co, e ſe n'eran dell'altra formato un Idolo:
poſſibile, diſſe loro, che della voſtra inſenſatez
2a voi medeſimi non vi avvediate: gi ſimo
aCIO
Per la Dom. vigeſimater. dopo la Pentec. 575
lacro, che adorate , non è egli una parte di quel
tronco medeſimo, da cui tratte avete poc'anzi
legna pel fuoco ? E s'è così, come mai al lu
me del buon diſcorſo voi non dite: qual meri.
to mai di adorazione può egli aver queſto tron
co, ito già per metà in paſcolo delle fiamme?
Medietatem eſus combuſſi igni: de reliquo eſus
Idolum faciam? Può un uomo, che privo non
ſia di ſenno, piegar la fronte ad un legno in
gran parte di ſe ridotto già in cenere ? Pars ejus
cinis eſt: cor inſipiens adoravit illud. Così la di
ſcorrea il Profeta per richiamare a miglior con
ſiglio l'inſenſato ſuo popolo, e tale pure do
vrebb'eſſere, cari uditori, il noſtro diſcorſo. La
metà della vita, e per molti di noi aſſai più
della metà, per tutti certamente una gran par
te già è conſumata, già è ſparita, già è cenere,
già è nulla: Pars ejus cinis eſt, e di quella par
te, che ancor rimane ſi penſa a farne un Ido
lo ? Un Idolo della vanità tra le gale, tra le
pompe, tra le comparſe ? Un Idolo della mor
bidezza tra gli agi, tra i piaceri, tra i paſſatem
pi? Un liolo dell'albagia con puntigli ſuperbi,
con pretenſioni incontentabili, con emulazioni
maligne ? Un Idolo dell'avarizia con ſollecitudi
ni amare, con vili riſparmi, con acquiſti, e
guadagni, che ora coll'oneſtà, ora coll'equità
non ſi accordano: De reliquo eius Idolum faciamº
E può darſi errore più lagrimevole? E può con
cepirſi più deplorabil pazzia? Cor inſipiens ado
ravit illud. Tanto più, che quel, qualunque
egli ſiaſi, reſto di giorni, che haſſi ancora paſ
ſare, ſcorrerà sì veloce, che al giungerne al fi
ne ci ſi ſembrerà quaſi un nulla. Argomenta
telo da quella parte di vita, che già è paſſata:
110Il
576 Diſcorſo XXXII.
non vi ſembra ella ſparita a guiſa d'un lampo ?
non diciam noi aſſai ſpeſſo tra maraviglia e do
lore: oh Dio! dove mai ſono iti i mici anni ?
Un ſogno e non più ella mi ſembra la ſcorſa
mia vita, tanto mi pajono fuggiti a volo l'un
dopo l'altro, i miei giorni. Così noi diciamo,
e prima di noi, così diſſe anche Giobbe: Dies
mei velociores fuerunt curſore, e a guiſa di cor
rier velociſſimo, che dì e notte non ripoſando,
non corre ſolo, ma divora per così dire le ſtra
de, tale corſa mi ſembra a paſſi di precipizio
la vita: e con energia ancor maggiore, ſe io
richiazmo al penſiero i paſſati miei giorni, non
più che un nulla chiamar li poſſo, tanta è la
preſtezza, tanta la velocità, con cui ſcomparſi
mi ſono: Nihil ſunt dies mei. Or ciò, che di
ciamo degli anni, che abbiam viſſuto, diciam
lo degli anni, ſe pur ſon anni, che ci reſtano
a vivere. Se a guiſa d'un'ombra, d'un ſogno,
di un lampo, di un fulmine ſpariti ſono i paſ.
ſati, a guiſa pure d'un'ombra, d'un ſogno, di
un lampo, di un fulmine ci ſpariranno i futuri.
Poco gli uni, e poco gli altri, un nulla gli uni,
un nulla gli altri: nè occorre, dice Agoſtino,
che ci laſciamo ingannare da quell'apparenza,
e di molto, e di lungo, che moſtrano gli an
ni, che ſono ancor a venire: Hoc modicum lon
gum nohis videtur: quoniam adhuc agitur. Paſ
ſati però che ſaranno, allora ci avvedremo del
pochiſſimo, ch'eſſi erano: Cum finitum fuerit,
ſentiemus quam modicum fuerit.
E fu al lume di sì gran vero, che ebbe a
dire il Reale Profeta : Adhuc puſillum, o non
arit pectator, e ciò che diſſe del peccatore il
Salmiſta, dir lo può ognun di ſe medeſimo:
Adhuc
Per la Dom. vigeſimaſec. dopo la Pentec. 577
Adhuc puſillum, e non ero. Ancor un poco,
ma ben poco, e poi più non vi ſaranno ric
chezze per me, non più dignità, non più ono
ri, non più grandezze, perchè più non ſarò :
Aahuc puſillum, o non ero; ancor un poco, ma
ben poco, e poi più non vi ſaranno divertimen
ti per me, non più piaceri, non più feſtini,
non più converſazioni, non più nè amicizie,
nè amici, nè amori, perchè più non ſarò: Ad
huc puſillum, º non ero. Sì, dilettiſſimi, così
ognuno può dire, perchè di fatto così ſarà :
Adhuc puſillum, 6 non erit. Così è, cari udi
tori, e ſe quel ſpazio di vita, che ci reſta non
è che poco, perchè non impieghiam queſto po
co ad iſcontare con penitenza ſincera le noſtre
colpe? Se con quella ſteſſa velocità, con cui
ſcomparſi ſono gli anni paſſati, ſcompariranno
i futuri, perchè ſeriamente non ci applichiamo
ad accreſcere meriti, ad acquiſtare virtù, a prov
vederci di ſante opere ? Se per atteſtazione in
fallibile dello Spirito Santo, la comparſa, che
haſſi ancor a fare ſu queſta terra, è breviſſima:
Aduc puſillum, e non più ; perchè non ci af
frettiamo ad aſſicurare quel che più importa,
anzi quel ſolo, che dee importarci il grande af,
fare dell'eterna noſtra ſalute? Eh via, cari udi
tori, ſe andiamo veramente perſuaſi di un vero
sì rilevante, facciamo ancor noi come ſi ſuole
in improvviſo notturno incendio. Udite ſimili
tudine, che cade pur in acconcio, e reſtivi ben
impreſſa. Quando di notte tempo ſi appiglia fuo
co ad una caſa, e mentre tutti ſen dormono,
dilatandoſi ſenza contraſto le fiamme, già s'in
noltra nelle camere, già s'innalza ſopra il tetto;
che fa il Padrone, quando riſcoſſo dal ſonº,
- glº
578 Diſcorſo XXXII.
già ne vede incenerita una gran parte, ed il
reſto vicino ad incenerirſi? Dà ſenza indugio di
mano al meglio, al più caro, al più prezioſo
ch'egli abbia, e inſieme con eſſo mette con tut
ta fretta in ſalvo la vita: non è così ? Or così
appunto dobbiamo far noi. La noſtra vita, di
lettiſſimi, ſe ne va in fiamma: già è arſa una
parte, un'altra arde attualmente, e quel che
reſta non ha riparo, arderà, finirà, caderà.
Qual altro partito ci rimane, ſe non mettere in
ſicuro il meglio che abbiamo, l'anima noſtra è
che direſte voi mai del Padron della caſa, ſe
alle grida de vicini, al rimbombo delle fiam
me, al rovinare de tetti ſcoſſo dal ſonno, e
col fuoco già già vicino all'appartamento, alla
camera, al letto, non voleſſe contuttociò ſor
gere dalle ſue piume, e provvedere alla ſua ſal
vezza è che direſte? Eh Padre, il caſo non è poſ
ſibile, che avvenga. Non è poſſibile? o mon
dani, mondani, non è queſto il caſo voſtro è
La vita voſtra s'incenera e ſi conſuma, e forſe
non è lontana la fiamma, che ha da compire
l'incendio: Surge, qui dormis, gridano coll'Ap
poſtolo i Predicatori, gridano i Confeſſori, ſur
ge, ſarge. Preſto opere buone, preſto peniten
za, preſto emendazione, preſto, preſto, ſalva
animam ſuam, e voi non perciò vi ſcuotete. Ve
la dormite ancora tranquillamente in quell'abi
to cattivo, ancora in quel vivere ozioſo, e mor
bido, ancora in quell'affetto a paſſatempi, allº
intereſſe, alle pompe, agli onori. O infelici !
ben vi ſtà, ſe nella voſtra oſtinata pigrizia vi
ſorprende l'incendio, portandovi nel tempo ſteſ
ſo due morti, la temporale del corpo, e l'eter
na dell'anima. Deh apriamo noi, cari uditori
- mici
Per la Dom. vigeſimater, dopo la Pentec. 579
miei, l'orecchio a quella voce, che già ſi fe
udire dal Cielo all'Evangeliſta San Giovanni:
Audivi vocem de Carlo dicentem mihi: e che diſ
ſe ? Beati mortui, qui in Domino moriuntur. Bea
ti que morti, che muoiono nel Signore. I morti
che ancora muoiono ſiam tutti noi, che morti
già ſiamo ad una parte di noſtra vita, e che ad
un'altra attualmente moriamo, e poi morremo
anche a quella, che ancor ci reſta. Beati noi,
ſe ammaeſtrati dalla paſſata e preſente, imparia
mo a far bene la terza morte, ch'è fra tutte
la più importante: e la faremo ottimamen
te, ſe morrermo in Dio, e con Dio: Beati mor
tui. qui in Domino moriuntur. Sorte sì bella già
è toccata a quel fratelli, a quelle ſorelle, a prò
de quali abbiamo in queſto giorno offerte a Dio
le noſtre ſuppliche. Ci ottengano eſſi, che mo
riamo ancor noi con quel Dio, con cui eſſi
ſono morti. Ben è vero, cari uditori, che vi
vere col Mondo, come da molti ſi fa, e poi
morire con Dio, egli è impoſſibile. Viviamo con
Dio, e morremo con Dio. Ma ſe a lui vogliam
vivere, ecco il partito, che abbiamo a prende
re, ed è l'unico: queſto reſto di vita, poco o
molto ch'egli ſia per eſſere, diamolo tutto a
lui s diamolo ſubito; diamolo di vero cuore.
Sì, Gesù caro, voſtro debb'eſſere, e voſtro
voglio che ſia il rimanente della mia vita. Ah
quanto ſarei ora più contento, ſe voſtro anco
ra foſſe ſtato tutto il paſſato! Ma purtroppo
provo adeſſo il rammarico d'aver in tutt'altro
che nel voſtro ſervizio conſumati i miei anni.
Vi prometto però, che non ſarà più così. Mi
ſpiace ſolo, Gesù amabiliſſimo, che dopo aver
dato
53o Diſcorſo ec.
vdato al Mondo il meglio, e il più vigoroſo de
gli anni miei, a voi ora offeriſca il peggio, ed
il più debole. Vi prego nulla dimeno per la
ga ſantiſſima del voſtro Coſtato, che adoro - i
tutto il cuore, vi prego a gradire l'offerta, che
queſta ſera vi faccio, bramoſo di riparare più
che potrò coll'avvenire il paſſato; ſicchè viven
do d'or avanti con voi, con voi mi meriti di
morite.

- -

Fine de' Diſcorſi dell'Anno quarto.

------
... . -
sievi - -
,
i .
- - -- -
V º 3iiii! di e Ca ...
-º il - - - i
----
*** ••••• •• • ••••••• -
-
º

Potrebbero piacerti anche