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Jazz It 98 2017-03-04
Jazz It 98 2017-03-04
DI MUSICA JAZZ
ANNO 17
N°98
MARZO/APRILE 2017
12 EURO + CD ALLEGATO
PAOLO SILVESTRI
E.S.T. SYMPHONY
PINO JODICE E GIULIANA SOSCIA
JEAN-PIERRE LELOIR
PAOLINO DALLA PORTA
Dizzy
Gillespie
VITTORIO MEZZA LA MUSICA UNIVERSALE
ROBERTO SPADONI
5
TALKIN’ QUESTION&ANSWER
6
direttore luciano vanni
luciano.vanni@jazzit.it
caporedattore chiara giordano
chiara.giordano@jazzit.it
progetto grafico e impaginazione gianluca grandinetti
grafica@vannieditore.com
photo editor chiara giordano
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in redazione sergio pasquandrea
index
INTERVISTE Paolo Silvestri 82 · E.S.T. Symphony 90 · Duccio Bertini & Susana
Sheiman 118 · Cristiano Calcagnile 122 · Paolino Dalla Porta Future Changes
Quartet 128 · Vittorio Mezza Trio 134 · Giovanni Sanguineti Nextrio 138 · Roberto
Spadoni & New Project Jazz Orchestra 142 · STORIE Jean-Pierre Leloir - L’occhio
sergio.pasquandrea@jazzit.it
editore vanni editore srl del jazz 102 · FOCUS Nels Cline 124 · Rosario Giuliani, Luciano Biondini, Enzo
info@vannieditore.com
Pietropaoli, Michele Rabbia 130 · Dave Holland, Chris Potter, Lionel Loueke, Eric
direttore responsabile enrico battisti
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Harland 132 · RUBRICHE Word of Mouth: Steve Kuhn - Due mesi con Coltrane 14
arianna.guerin@vannieditore.com · Jazz Anatomy: Night In Tunisia - Nascita e rinascita 110 · Records 116
abbonamenti arianna guerin
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sito web chiara giordano
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gianluca grandinetti
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hanno scritto in questo numero
antonino di vita , eugenio mirti,
sergio pasquandrea , roberto paviglianiti
COVER STORY
Da Londra: stuart nicholson
(tradotto da sergio pasquandrea)
crediti fotografici
L’editore ha fatto il possibile per rintracciare gli aventi
diritto ai crediti fotografici non specificati e resta a
Dizzy
disposizione per qualsiasi chiarimento in merito
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stampa
Gillespie
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del 25 febbraio 2000
redazione
vico San Salvatore 13 - 05100 Terni
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(edicole)
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Silvestri
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Leloir
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Dalla Porta
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Mezza
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Spadoni
editoriale
Un traguardo, un nuovo obiettivo
Nel 2017, in estate, festeggeremo il nostro centesimo numero, e per noi sarà l’occasione per misurarci
con il futuro; non esclusivamente il nostro, ma con quello dell’idea stessa di editoria specializzata. La
nostra ambizione è di costruire un modello di piattaforma editoriale avanzata e innovativa capace di uti-
lizzare i più diversi device tecnologici per fornire un servizio editoriale completo, coinvolgente, autore-
vole, aggiornato, informato e utile. Ma affinché i nostri sforzi e le nostre idee siano giuste e orientate ver-
so i desideri dei nostri lettori, anche di quelli più giovani, abbiamo deciso di aprire un sondaggio sulla
nostra pagina Facebook ufficiale per sapere direttamente da voi quali potrebbero essere i servizi, le atti-
vità, i prodotti e le iniziative da intraprendere; un modo per ascoltarvi e per migliorarci.
Jazzit stuff
Il numero 98 di Jazzit è dedicato a Dizzy Gillespie in occasione del centenario della sua nascita
mentre il cd allegato offre l’ascolto di una delle più significative orchestre che il panorama jazzi-
stico italiano possa vantare, l’Orchestra Jazz Parthenopea di Pino Jodice e Giuliana Soscia, fea-
turing Paolo Fresu: il disco è stato registrato dal vivo il 22 giugno 2016 nel Vulcano Solfatara di
Pozzuoli (Na) in occasione del Pozzuoli Jazz Festival. Segue il consueto programma di intervi-
ste, saggi storici e recensioni, curate come sempre nei minimi dettagli e scritte da alcune tra le più
brillanti firme del panorama italiano e internazionale. Jazzit è sempre più un “vinile dell’edito-
ria” e rimarrà tale, nonostante siano state attivate le edizioni digitali, online (jazzit.it), social (Fa-
cebook e Twitter). Ma il nostro futuro ha bisogno di una comunità di “soci” disposti a sostenerlo
attraverso la formula dell’abbonamento rateizzato Jazzit Club, che consente di ricevere l’edizio-
ne cartacea, l’edizione digitale e la Jazzit Card con 9,99 euro addebitati ogni due mesi su carta di
credito o conto corrente. Insomma, il futuro di Jazzit sarà sempre più partecipato: vi aspettiamo!
Luciano Vanni
WORD OF MOUTH
© ANDREA FELIZIANI
STEVE KUHN
DI DAVID SCHROEDER
DUE MESI CON COLTRANE
TUTTI CONOSCONO IL CELEBRE QUINTETTO DI JOHN COLTRANE, QUELLO CON
MCCOY TYNER AL PIANO. MA NON TUTTI SANNO CHE, PER UN BREVE PERIODO,
PRIMA DELL’ARRIVO DI TYNER, TRANE EBBE UN ALTRO PIANISTA: STEVE
KUHN, ALL’EPOCA POCO PIÙ CHE VENTENNE. IN QUEST’INTERVISTA, KUHN CI
RACCONTA DELLA SUA FORMAZIONE E DI QUEI DUE STRAORDINARI MESI
3
S
teve Kuhn è nato a Brooklyn il 24 marzo 1938. La sua passione per il jazz è
stata alimentata dalla collezione di 78 giri di suo padre, che comprendeva
artisti come Benny Goodman, Count Basie e Duke Ellington. Ma la musica
che davvero lo colpiva era quella dei pianisti boogie-woogie come Meade Lux
Lewis, James P. Johnson e Pinetop Smith.
Nel 1947 suo padre cambiò lavoro e la famiglia si trasferì a Chicago. Poi, nel 1950,
si spostarono a Boston, dove Kuhn cominciò a studiare con la rinomata insegnan-
te di pianoforte classico Margaret Chaloff. Anche se Kuhn studiava già pianofor-
te dall’età di cinque anni, la Chaloff, che insegnava secondo i dettami della scuo-
la pianistica russa, distrusse la sua precedente tecnica per reinsegnargli il proprio
approccio al pianoforte. Margaret Chaloff era anche la madre di Serge Chaloff, il
sassofonista baritono che si guadagnò la fama nei tardi anni Quaranta con l’orche-
stra di Woody Herman, per il quale incise il famoso Four Brothers, con una sezio-
ne di sassofoni che comprendeva anche Stan Getz, Zoot Sims e Herbie Stewart.
Quando Chaloff lasciò l’orchestra di Herman per disintossicarsi dalla tossicodi-
pendenza, nei primi anni Cinquanta, tornò a Boston a vivere con sua madre e co-
minciò a esibirsi nell’area di Boston. Sua madre gli disse che aveva uno studente
di pianoforte tredicenne che suonava jazz; dopo averlo ascoltato, Chaloff ingaggiò
Kuhn nel suo trio.
APPRENDISTATO
Lavorare con Serge Chaloff fu una straordinaria scuola per Kuhn, che imparò ad
accompagnare uno strumento a fiato. Nella maggior parte dei concerti, il grup-
po non aveva un bassista, perché Chaloff poteva permettersi soltanto un piani-
sta e un batterista. Il suono del gruppo era vuoto senza contrabbasso, ma Kuhn
imparò a suonare senza il supporto di un bassista e alla fine imparò a non esage-
rare con le note quando svolgeva il proprio ruolo di pianista. «Serge aveva poca
pazienza», mi ha raccontato Steve in un’intervista del 2008, «e quando sbagliavo
qualcosa con gli accordi mi gridava contro, di fronte al pubblico. Qualcuno, cre-
do, sarebbe semplicemente andato via, oppure avrebbe avuto un crollo», ma lui
affrontò la sfida e si disse: «Okay, dev’essere così che si impara».
Steve Kuhn venne ammesso all’università di Harvard e prese una laurea in Lette-
re. Nei corsi dell’università, ogni studente doveva scegliere un indirizzo di studi,
e lui scelse la teoria musicale. A quell’epoca, la facoltà di musica non riconosce-
va importanza accademica ad alcun musicista dopo Stravinskij: interessandosi
al jazz, Kuhn ebbe difficoltà con quasi tutti i suoi insegnanti tranne uno, il cele-
berrimo studioso di teoria Walter Piston, che teneva un corso sulla musica del
Ventesimo Secolo e riconosceva che anche il jazz era una forma artistica valida.
© ROBERTO POLILLO
ORNETTE COLEMAN
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© ROBERTO POLILLO
BILL EVANS
© ROBERTO POLILLO
JOHN COLTRANE
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CARAMELLE AL RUM
«Tornai al mio albergo e non seppi più nulla di lui per un paio di settimane. Poi
mi richiamò e mi chiese di andare a casa sua. In quel periodo viveva a Hollis,
nel Queens. Mi invitò a cena e sostanzialmente suonammo la stessa musica che
avevamo suonato qualche settimana prima. Sua moglie Naima cucinò un’ottima
cena e poi John mi riaccompagnò in macchina all’albergo. Non mi parlò di in-
gaggi quella volta; in effetti, pronunciò pochissime parole. La conversazione ri-
guardava o il suo sassofono, oppure niente, perché era totalmente immerso nel-
la musica. Non avevo mai incontrato qualcuno dedito in maniera così totale alla
musica, e per me fu un’enorme ispirazione. Aveva chiaramente una personalità
portata alle dipendenze, ma a quel tempo era del tutto pulito e aveva smesso con
tutte quelle idiozie. L’unica traccia della sua passata dipendenza era che aveva
una passione per i Butter Rum Lifesavers (caramelle a base di rum e burro, mol-
to diffuse in America. NdR). Continuava a infilarsene in bocca talmente tanti che
sapeva sempre di burro. Usava gli zuccheri per compensare gli altri vizi. Passò
qualche altra settimana e finalmente il mio telefono squillò. Era lui: “Steve? Sono
John. Basterebbero centotrentacinque dollari a settimana per cominciare?”».
STEVE KUHN
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WORD OF MOUTH
© ROBERTO POLILLO
MCCOY TYNER
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Quelle otto settimane furono straordinarie per me. Per
John, non si trattava di suonare note, era musica che
veniva dal cuore, era quello che comunicava tramite il
suo strumento. E questa è la vera essenza della musica,
non quante note al secondo sei in grado di suonare.
Devi riuscire a raggiungere le emozioni della gente, ed
è esattamente questo che faceva lui. Nonostante avesse
quella tecnica incredibile, poteva anche suonare in
maniera molto misurata, come faceva su alcune ballad,
o su altre cose che fece negli anni successivi
RAGGIUNGERE LE EMOZIONI
«Facevano soprattutto brani da “Giant Steps”, ma anche alcuni pezzi modali.
Suonavamo “Impressions”, che aveva solo uno o due accordi in tutta la strut-
tura, mentre Giant Steps aveva un cambio d’accordo ogni due movimenti. John
era un po’ sul confine, dal punto di vista musicale: aveva brani con armonie mol-
to dense, e poi c’erano le cose più libere, nelle quali poteva andare dovunque vo-
lesse, dal punto di vista armonico. Alla fine prese la direzione libera, ma quan-
do io ero con lui suonava entrambe. Quelle otto settimane furono straordinarie
per me. Per John, non si trattava di suonare note, era musica che veniva dal cuo-
re, era quello che comunicava tramite il suo strumento. E questa è la vera essen-
za della musica, non quante note al secondo sei in grado di suonare. Devi riusci-
re a raggiungere le emozioni della gente, ed è esattamente questo che faceva lui.
Nonostante avesse quella tecnica incredibile, poteva anche suonare in maniera
molto misurata, come faceva su alcune ballad, o su altre cose che fece negli anni
successivi. Lo sviluppo di John era logico, non lo faceva per amore del virtuo-
sismo o per cercare di fare impressione su qualcuno. Era sempre alla ricerca di
qualcosa di nuovo».
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
© ROBERTO POLILLO
Dizzy
Gillespie
LA MUSICA UNIVERSALE
DI SERGIO PASQUANDREA
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
01
CHERAW,
PHILADELPHIA
NEW YORK
DI SERGIO PASQUANDREA
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
© WILLIAM P. GOTTLIEB
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Il padre, James, era un carpentiere con l'hobby della musica, la madre Lottie
Powe una casalinga. James e Lottie ebbero nove figli, sette dei quali sopravvissuti.
Fra i numerosi fratelli e sorelle, Dizzy era particolarmente legato a Wesley, detto
Wes, e a Eugenia, suoi compagni di giochi
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
La casa dei Gillespie era piena di strumenti musicali (Dizzy ricordava un pianoforte,
una chitarra, una batteria, un mandolino e un contrabbasso) che costituirono il primo
contatto di John con la musica. Egli stesso, nella sua autobiografia racconta come già da
bambino si divertisse a suonare semplici motivetti a orecchio, sul pianoforte di casa
BILL ROBINSON
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© DETROIT PUBLISHING CO.
PHILADELPHIA, 1900
LE COSE CAMBIANO
L'ambiente nel quale Gillespie crebbe era improntato alla più rigida segregazione
razziale. Anche la scuola elementare che frequentò, la Robert Small's School, era
esclusivamente afroamericana. Ad ogni modo, nei primi anni dell'infanzia i due la-
vori di suo padre, carpentiere e musicista, riuscivano ad assicurare alla famiglia, se
non il benessere, almeno un tenore di vita dignitoso. Nell'autobiografia, Dizzy ricor-
da un viaggio al Nord all'età di nove anni, quando con la madre e il fratello visitò Phi-
ladelphia e New York, che ai suoi occhi di bambino sembrarono una sorta di Paese del
Bengodi. Le cose cambiarono bruscamente quando, nel 1927, suo padre morì per una
crisi d'asma, lasciando la famiglia sulle spalle della madre.
«Dopo la morte di papà la miseria ci colpì come uno schiaffo. Una povertà quasi tan-
gibile, soprattutto nei periodi di festa. A Pasqua, in tutte le famiglie era tradizione
comprare dei vestiti nuovi; ma a casa nostra, dopo il 1927, questo non fu più possibi-
le. Mamma non aveva i soldi per fare la spesa, figuriamoci per il vestiario, e in bre-
ve iniziammo a vergognarci della nostra povertà. Fino a quel momento mia madre
non aveva avuto bisogno di lavorare, perché a portare il pane a casa ci aveva sem-
pre pensato papà. Era riuscito persino a mettere insieme qualche risparmio, ma nel
1929 il presidente della banca di Cheraw se ne scappò con tutta la cassa, compresi i
soldi di mio padre. La banca venne chiusa e nessuno riebbe indietro il proprio dena-
ro. Mamma doveva mantenere quattro figli e non aveva reddito. Potete immaginar-
vi le privazioni».
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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«Non conoscevo neanche i loro nomi, però cavolo se spaccavano. Oggi so che i miei eroi
di quella band erano Roy Eldridge, tromba; Chu Berry, sax tenore; Dicky Wells, trombone.
Quella notte suonarono da dio, e io tornai a casa con la testa talmente piena di musica
che sognai di essere sul palco con loro. Ma era solo un sogno»
LOUIS ARMSTRONG
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
I due colleghi con cui strinse rapporti più durevoli furono i trombettisti Charlie
Shavers e Carl “Bama” Warwick. Alyn Shipton ha sostenuto, con ottimi argomenti, che
l'assorbimento dello stile di Roy Eldridge sia avvenuto in grande maggioranza in questo
periodo, tramite la mediazione di Shavers che ne era un fedele discepolo
PHILADELPHIA
A Philadelphia, Gillespie ebbe modo di completare la propria formazione. La città
aveva una scena musicale ricca ed effervescente, nella quale egli non tardò a immer-
gersi. Il suo primo ingaggio importante fu con la band di Frankie Fairfax, un trom- DIZZY, CHARLIE
bonista e bandleader di cui purtroppo non ci sono arrivate registrazioni, ma che era SHAVERS
molto stimato in città. Gillespie rimase con lui dal 1935 fino all'inizio del 1937. Pro-
prio in questo periodo egli si guadagnò il soprannome di “Dizzy”, che significa “alle-
E CARL WARWICK
«ERAVAMO COME I TRE
gro, giocherellone”, ma anche “vertiginoso”, in riferimento al suo stile spettacolare e MOSCHETTIERI»
acrobatico; a inventarlo fu il pianista “Fats” Palmer.
I due colleghi con cui strinse rapporti più durevoli furono i trombettisti Charlie Sha-
«Charlie Shavers e Carl Warwick […]
vers e Carl “Bama” Warwick. Alyn Shipton ha sostenuto, con ottimi argomenti, che
si conoscevano da anni ed erano in-
l'assorbimento dello stile di Roy Eldridge sia avvenuto in grande maggioranza in que- separabili, come fratelli. A New York
sto periodo, tramite la mediazione di Shavers che ne era un fedele discepolo. Carl abitava a casa di Charlie e la si-
gnora Shavers, la mamma di Char-
lie, lo trattava come un figlio. Carl
Warwick veniva dall'Alabama, di qui
il suo soprannome, “Bama”. Char-
lie Shavers invece era di New York;
suo padre gestiva il salone di barbie-
© WILLIAM P. GOTTLIEB
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
ROY ELDRIDGE
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
IL SAVOY
BALLROOM
LA CASA DEI PIEDI FELICI
Il Savoy Ballroom si trovava ad Harlem, al 10 luglio 1958. acrobatico. Il locale disponeva di due pal-
numero 596 di Lenox Avenue, fra la Cen- I proprietari erano l'impresario Jay Fag- coscenici, su cui potevano esibirsi contem-
toquarantesima e la Centoquarantunesi- gen e il noto manager Moe Gale, mentre poraneamente due orchestre, che spesso
ma Strada. Era una delle più celebri sale il gestore era l'afroamericano, nativo del- si sfidavano in duelli, il cui esito era deci-
da ballo di New York, tanto da meritar- le Indie Orientali, Charles Buchanon. Fag- so dai ballerini. C'erano anche le cosid-
si anche una menzione nel titolo di una gen possedeva anche un'altra sala da bal- dette dime-a-dance girls, ballerine che in
canzone, Stompin' At The Savoy, com- lo, il Roseland, che si trovava a Downtown, cambio di un biglietto da dieci centesimi
posta nel 1934 da Edgar Sampson, sas- sulla Cinquantaduesima Strada: il Savoy (detti in inglese dime) erano disponibili a
sofonista nell'orchestra di Chick Webb, e era concepito per esserne l'equivalente ad danzare con i clienti. La clientela del Sa-
divenuta uno standard jazz. Noto come Uptown. Ben presto, esso divenne il luo- voy era mista, con una discreta percen-
“The Home of Happy Feet”, il Savoy aprì go di ritrovo preferito dai migliori balleri- tuale di bianchiIl locale venne demolito
il 12 marzo 1926 e rimase attivo per oltre ni di Harlem, i celebri lindy-hoppers, noti dopo la chiusura e oggi al suo posto sor-
trent'anni, fin quando chiuse i battenti il per il loro stile di danza spettacolare e ge un complesso residenziale.
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Finché arrivò l'occasione importante: un ingaggio con l'orchestra di Teddy Hill, che stava
per partire per una tournée europea e cercava un rimpiazzo per il titolare Frankie Newton,
indisponibile. Gillespie raccontò di essere stato ingaggiato su due piedi, mentre Teddy Hill
sostenne di avergli fatto sostenere una regolare audizione
NEW YORK
Charlie Shavers e Bama Warwick furono responsabili anche del suo spostamento a
New York, nel 1937. I due, che si erano trasferiti in città da qualche tempo, invitaro-
no Dizzy a raggiungerli con l'obiettivo di farlo assumere nell'orchestra di Lucky Mil-
linder, nella quale suonavano. L'ingaggio non andò in porto, anche perché Millin-
der aveva già una prima tromba, ossia Harry “Sweets” Edison. Gillespie, comunque,
si stabilì ad Harlem a casa del suo fratello maggiore J.P., che viveva lì da tempo, e co-
minciò a cercare di farsi strada nell'ambiente musicale della città.
Frequentava regolarmente i migliori locali della città, fra cui il celebre Savoy Ballro- TEDDY HILL
om, dove divenne una presenza talmente familiare da poter entrare gratis. Conob- DAL SAVOY AL MINTON'S
be, fra gli altri, il trombettista Bennie Harris e il batterista Kenny Clarke, che più tar-
Teddy Hill nacque a Birmingham, in
di avrebbero fatto parte dei primissimi boppers. Un'altra conoscenza importante fu
Alabama, il 7 dicembre 1909. Attivo
quella del trombettista cubano Mario Bauza, che lo introdusse ai ritmi latinoameri- fin dagli anni Venti, suonava batte-
cani. Insieme a Shavers e Warwick, Gillespie non perdeva occasione per partecipare ria, tromba, clarinetto e sassofono
alle jam session e per farsi notare dai musicisti più in vista (il trombettista ricorda di contralto e tenore, ma la sua attività
aver suonato addirittura con Chick Webb). di musicista non fu particolarmente
brillante: piuttosto, la sua fama gli
Finché arrivò l'occasione importante: un ingaggio con l'orchestra di Teddy Hill,
deriva soprattutto dalla sua attività
che stava per partire per una tournée europea e cercava un rimpiazzo per il titolare di bandleader e di impresario. Fondò
Frankie Newton, indisponibile. Le circostanze precise sono dubbie: Gillespie raccon- la sua orchestra nel 1932 e comin-
tò di essere stato ingaggiato su due piedi, durante una serata al Savoy, mentre Ted- ciò a esibirsi regolarmente in con-
dy Hill sostenne di avergli fatto sostenere una regolare audizione. D'altra parte, an- certi dal vivo e alla radio, in partico-
lare per l'emittente NBS (la sua big
che il sassofonista Howard Johnson e il chitarrista John “Smitty” Smith sostennero
band si chiamava proprio “NBC Or-
di aver consigliato a Hill il nome di Gillespie. Comunque sia andata, quell'ingaggio chestra). Fra i musicisti che vi pas-
segnò l'ingresso di Dizzy Gillespie, appena diciannovenne, fra i nomi che contavano. sarono, i più celebri – a parte Dizzy
Gillespie – furono Chu Berry e Roy
Eldridge, il quale proprio con Hill in-
cise i suoi primi dischi nel 1935, all'e-
tà di ventiquattro anni. L'orchestra
di Hill era ospite fissa nelle migliori
sale newyorkesi, come il Roseland
© WILLIAM P. GOTTLIEB
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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BIG BAND
LE BASI PER LA
RIVOLUZIONE
TRA IL 1937 E IL 1942, LA MAGGIOR PARTE DEL LAVORO DI DIZZY GILLESPIE
LO VEDE NELL'AMBITO DI UNA BIG BAND: PRIMA QUELLA DI TEDDY
HILL, POI QUELLE DI CAB CALLOWAY, E INFINE VARIE COLLABORAZIONI
COME FREELANCE CON ELLA FITZGERALD, LUCKY MILLINDER, COLEMAN
HAWKINS E MOLTI ALTRI, SENZA CONTARE GLI ARRANGIAMENTI SCRITTI
PER WOODY HERMAN E JIMMY DORSEY. IN QUESTI ANNI, IL TROMBETTISTA
METTE A PUNTO IL PROPRIO STILE E GETTA LE BASI PER LA FUTURA
RIVOLUZIONE DEL BE BOP
DI SERGIO PASQUANDREA
UN NOVELLINO IN ORCHESTRA
L'entrata di Dizzy nell'orchestra di Teddy Hill fu accolta non senza malumori dai
veterani della formazione, i quali non vedevano di buon occhio il fatto che que-
sto novellino venisse promosso a ruolo di seconda tromba. In particolare, nacque
un'antipatia con l'ex-seconda tromba (ora retrocessa a terza) Shad Collins. Nell'au-
tobiografia, Gillespie allude, con qualche battutina salace, anche all'inimicizia con
il trombonista Dicky Wells («Shad Collins era un bastardo. Durante i miei assolo,
lui e Dicky Wells si comportavano come se quello che suonavo non valesse niente,
mi guardavano e facevano un sorrisetto di scherno. […] Oggi, io sono un trombetti-
sta di fama mondiale e Dicky Wells fa la guardia giurata in banca. Ogni tanto lo in-
contro. Shad Collins fa il tassista»). Sembra anche che gli attriti fossero dovuti al
fatto che Dizzy aveva l'abitudine di prestare soldi agli altri membri dell'orchestra,
pretendendo che gli fossero restituiti con gli interessi.
Hill, comunque, doveva aver preso in simpatia il giovane trombettista, tanto che si
occupò di fargli ottenere rapidamente il passaporto necessario per andare in Fran-
cia, operazione non semplicissima perché serviva il consenso della madre, dato che
all'epoca egli era considerato ancora minorenne. Il 17 maggio 1937 l'orchestra en-
trò in studio di registrazione per incidere sei facciate di 78 giri, quattro delle qua-
li contengono anche assolo di Dizzy, i primissimi da lui registrati. Si tratta di King
Porter Stomp, Yours And Mine, I'm Happy, Darling e Blue Rhythm Fantasy.
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
© WILLIAM P. GOTTLIEB
DOWNBEAT, NEW YORK, 1947 CA.
UN PIZZICO DI ME E UNA TONNELLATA DI ROY Dizzy Gillespie, James Moody,
Nonostante abbia, più tardi, affermato di aver provato un certo imbarazzo per il Howard Johnson
fatto di trovarsi in studio di registrazione per la prima volta, Gillespie sfodera una
serie di assolo assertivi, mostrando anche l'abilità negli acuti che era una delle sue
specialità (i colleghi rimanevano colpiti dalla sua abilità di suonare, senza fatica ap-
parente, fino a due ottave sopra il Do centrale). A giudicare dalle fotografie e dalle
testimonianze, aveva già acquisito anche la sua inconfondibile imboccatura, con le
guance gonfiate in modo abnorme.
Il brano più famoso tra i quattro incisi è King Porter Stomp, uno dei grandi caval-
li di battaglia dell'era swing, che all'epoca contava già famose versioni da parte di
Fletcher Henderson e Benny Goodman; un'altra celebre incisione sarebbe stata re-
alizzata da Harry James due anni dopo, nel 1939. King Porter Stomp mostra quan-
to, all'epoca, lo stile di Dizzy fosse ancora modellato su quello del suo idolo, Roy
Eldridge (egli stesso descrisse il suo stile come «un pizzico di me e una tonnellata
di Roy»), ma – secondo l'opinione di Alyn Shipton – reca anche tracce di quello che
era l'altro grande trombettista dell'epoca, Henry “Red” Allen: «Il suo secondo asso-
lo […] deve tanto ad Allen che a Eldridge. […] Usa molti dei tratti tipici di Allen, dal-
la figura iniziale, ripetuta con insistenza, alla settima maggiore che Gillespie tra-
scina per quasi una battuta».
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Alla fine del 1937, Dizzy dovette sospendere le sue attività con la band di Teddy Hill,
perché ancora iscritto al sindacato musicisti di Philadelphia. Il permesso di esibirsi a New
York arrivò nel gennaio 1938. Nel frattempo, aveva fatto un incontro fondamentale per la
sua vita futura: quello con una ballerina di nome Gussie Lorraine Willis
PARIGI
Durante la traversata da New York a Parigi, Gillespie ebbe tempo di familiarizzar-
si con gli spartiti dell'orchestra. L'orchestra sbarcò in Francia ai primi di giugno del
1937 e rimase per sei settimane in cartellone al Moulin Rouge, per poi trasferirsi
in Gran Bretagna per un ingaggio di cinque settimane al Palladium di Londra e al-
tri concerti a Dublino e Manchester. Le loro esibizioni – che consistevano perlopiù
nell'accompagnare i ballerini – furono applauditissime e l'autorevole Hugues Panas- ROY ELDRIDGE
sié la definì addirittura «la miglior band mai ascoltata in Francia, a parte l'orchestra IL PICCOLO GRANDE UOMO
di Duke Ellington». DEL JAZZ
Durante il soggiorno francese alcuni musicisti dell'orchestra, capeggiati dal trom-
Se Louis Armstrong ha creato la
bettista Bill Coleman, realizzarono dei dischi, dai quali però Dizzy venne escluso a
tromba jazz e Dizzy Gillespie l'ha
causa della sua giovane età e della fama ancora scarsa. Comunque, si divertì un mon- traghettata verso il jazz moderno,
do a girare la capitale francese e anche – va detto – a frequentarne le numerosissime l'anello di congiunzione fra i due
case chiuse, soprattutto perché gli permettevano di avere rapporti con donne bian- è senz'altro Roy Eldridge, o “Little
che, cosa proibitissima negli Stati Uniti (anche se in effetti lo stesso Dizzy racconta di Jazz” com'era soprannominato per
via della bassa statura.
aver avuto alcune amanti bianche già nel periodo di Philadelphia).
Nato a Pittsburgh nel 1911, comin-
L'ingaggio durò in tutto tre mesi; l'orchestra si imbarcò per il ritorno il 14 settembre. ciò da bambino a suonare il piano-
Alla fine del 1937, Dizzy dovette sospendere le sue attività con la band di Teddy Hill, forte sotto la guida della madre.
perché ancora iscritto al sindacato musicisti di Philadelphia. Il permesso di esibirsi a Passò poi alla batteria, alla cornet-
New York arrivò nel gennaio 1938. Nel frattempo, aveva fatto un incontro fondamen- ta e infine alla tromba, incoraggia-
to dal fratello Joe, anch'egli valido
tale per la sua vita futura: quello con una ballerina di nome Gussie Lorraine Willis.
musicista. Il suo primo modello fu il
sassofonista Coleman Hawkins, del
quale imparò a memoria il celebre
solo su The Stampede. Cominciò
già da adolescente a farsi le ossa
in band locali, per poi trasferirsi a
New York nel 1930. Lì, cominciò a
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
Oltre alla band di Teddy Hill, nella quale suonava anche Kenny Clarke, Dizzy collaborò
anche con altre formazioni, come i Savoy Sultans, l'orchestra del flautista cubano
Alberto Socarras, con cui suonava anche le maracas (una delle sue precoci esperienze
con la musica latinoamericana) e quella del pianista Edgar Hayes
SWEET LORRAINE
Lorraine, originaria anch'ella del South Carolina, lavorava nel corpo di ballo dell'A-
pollo Theater. Dizzy l'aveva conosciuta alla fine del 1937, durante un concerto tenuto
a Washington con la band di Cass Carr, un contrabbassista originario di Trinidad che
suonava anche la sega musicale. Aveva cominciato a corteggiarla e, nonostante un'i-
niziale ritrosia di lei, ben presto erano andati a vivere insieme. Lorraine gli sarebbe
rimasta accanto per oltre cinquant'anni, costituendo per lui un sicuro punto di rife- DIZZY &
rimento, con il suo carattere solido e pragmatico. I due andarono ad abitare nell'ap-
partamento lasciato libero da J. P. Gillespie sulla Centotrentanovesima Strada, in una
LORRAINE
«QUANDO LO CONOBBI,
zona di Harlem dove abitavano numerosi altri musicisti, tra cui Fletcher Henderson, AVEVA FAME»
Chick Webb, Taft Jordan, Al Casey, Freddie Webster e Garvin Bushell. Lorraine fi-
«Quando lo incontrai all'Apollo,
nanziò addirittura Dizzy nei periodi in cui egli era senza lavoro.
[Dizzy] mi disse che aveva fame.
Oltre alla band di Teddy Hill, nella quale suonava anche Kenny Clarke, Dizzy col- Pensai: “Mah, che cosa strana”. Cre-
laborò anche con altre formazioni, come i Savoy Sultans, l'orchestra del flautista devo che tutti i musicisti fossero ric-
cubano Alberto Socarras, con cui suonava anche le maracas (una delle sue precoci chi, non immaginavo che potessero
esperienze con la musica latinoamericana) e quella del pianista Edgar Hayes, il cui essere squattrinati come questo po-
veraccio. Mi arrabbiai con il fratel-
sassofonista Rudy Powell gli mostrò per la prima volta le potenzialità della quinta di-
lo di Dizzy e anche con il suo capo.
minuita, più tardi divenuta uno dei più tipici stilemi bop. Nel 1939 Teddy Hill sciolse Sì, perché Dizzy gli aveva chiesto
la band (il motivo, pare, fu che si era inimicato il sindacato musicisti e anche la po- di prestargli dei soldi e lui gli ave-
tentissima agenzia di booking guidata dal manager Moe Gale), ma subito dopo Dizzy va risposto: “La tua ragazza lavora,
ottenne un ingaggio con l'orchestra di Cab Calloway. chiedili a lei”.
Non me lo dimenticherò mai. Dissi
a Dizzy: “Va' dal tuo capo e spiega-
gli che non ti serve la sua elemosi-
na. Non sarò ricca, ma un piatto di
zuppa te lo posso pagare”. Io sono
stata educata così. [...]
Prima di Dizzy c'erano stati altri mu-
sicisti che mi avevano fatto la cor-
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CAB CALLOWAY
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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COZY COLE
DA ELDRIDGE A GILLESPIE
Forse il brano più rappresentativo di questo periodo non va cercato nei dischi con
Calloway, ma in Hot Mallets, un brano inciso l'11 settembre 1939 con l'orchestra di
Lionel Hampton (gli altri solisti erano Benny Carter, Coleman Hawkins, Ben Web-
ster e Chu Berry). Qui, il suo assolo, pur ancora fortemente eldridgeano, mostra
però, secondo le parole di Leonard Feather, «un sicuro passo in avanti dallo stile di
Eldridge verso un primo accenno di quelle tipiche cascate di ottavi che più tardi ca-
ratterizzeranno il lavoro di Gillespie».
In questo periodo, Dizzy cominciò anche a realizzare brani e arrangiamenti
(«quando mi ritrovavo in bolletta, scrivevo un arrangiamento e allontanavo lo spet-
tro della fame»). Con il tempo, l'arrangiamento divenne un'importante fonte di red-
dito e gli permise anche di mettere a punto il proprio stile. Lavorò ad esempio per
Chick Webb, Teddy Hill, Jimmy Dorsey, Cozy Cole, Woody Herman. Un suo arran-
giamento orale per Hill, intitolato The Dizzy Crawl, venne portato da Shad Collins
nell'orchestra di Basie e registrato come Rock-a-bye Basie (più tardi, Basie stesso
riconobbe Gillespie come co-autore). Per Calloway, scrisse un brano intitolato Pi-
ckin' The Cabbage, in cui l'andamento cromatico dell'armonia e l'uso di una com-
plessa ritmica latin suona come una premonizione di A Night iI Tunisia, che venne
composto qualche anno dopo, intorno al 1942. Sempre con Calloway, Gillespie in-
cise un brano dedicato al batterista Cozy Cole, intitolato Paradiddle, le cui sonorità
richiamano quelle che arrangiatori be bop come Tadd Dameron e Gil Fuller avreb-
bero usato qualche anno più tardi.
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Poi, durante una tappa a Kansas City, Dizzy conobbe un giovane sassofonista di nome
Charlie Parker, con il quale sentì un'affinità immediata. Cominciò a frequentare sempre
più spesso locali come il Minton's e il Monroe's Uptown House, dove si riunivano i
musicisti più innovativi sulla scena
BE BOP E MATRIMONIO
Nel 1940 avvennero alcuni fatti importanti nella vita di Dizzy Gillespie. Innanzi tut-
to, sposò Lorraine, che sarebbe rimasta sua moglie per il resto della vita: la cerimonia
ebbe luogo il 9 maggio a Boston, dove i due si trovavano al seguito dell'orchestra di
Calloway. Poi, durante una tappa a Kansas City, Dizzy conobbe un giovane sassofoni-
sta di nome Charlie Parker, con il quale sentì un'affinità immediata (di questo incon-
CAB CALLOWAY
THE HI-DE-HO MAN
tro riparleremo meglio nel prossimo capitolo). Cominciò a frequentare sempre più
spesso locali come il Minton's e il Monroe's Uptown House, dove si riunivano i musi-
Per la maggior parte degli ascol-
cisti più innovativi sulla scena. Stava cominciando a prendere forma lo stile che, di lì
tatori, Cab Calloway è indissolubil-
a qualche anno, si sarebbe chiamato “be bop” (anche su questo torneremo tra breve). mente legato a Minnie The Moocher,
Infine, sempre nel 1940, Gillespie venne chiamato alla leva, ma in qualche modo riu- la canzone che nel 1931 gli regalò
scì a farsi riformare, non si sa bene con quale scusa. È inverosimile, e quasi certamen- il successo e che egli reinterpretò
te falso, il colorito resoconto che ne dà nell'autobiografia, secondo cui, richiesto della in una celebre scena del film Blues
Brothers. Ma Calloway fu soprattut-
sua opinione sulla guerra, avrebbe affermato testualmente: «Mh, vediamo, allo sta-
to un abilissimo showman, dotatis-
to attuale, in questa fase della mia vita, qui negli Stati Uniti d'America, chi è che mi simo cantante e ballerino, nonché
prende a calci nel culo? L'uomo bianco, ecco chi, è lui che mi pianta il suo piedone nel leader di un'ottima orchestra nella
buco del culo, su nel culo fino al ginocchio! […] Voi parlate del nemico. Sostenete che il quale passarono fior di nomi illustri.
nemico sono i tedeschi. Ma, sempre allo stato attuale, non ricordo di aver incontrato Nacque a Rochester, presso New
York, il giorno di Natale del 1907,
un solo tedesco in tutta la mia vita. Per cui, se mi mettete in prima linea con un fuci-
con il nome di Cabell Calloway III,
le in mano e mi dite di sparare al nemico, è capace che creo un caso di “fuoco amico”, figlio di una famiglia della borghesia
non so se mi spiego». Sta di fatto, comunque, che evitò l'arruolamento anche per altre afroamericana. Nonostante l'oppo-
due volte, nel 1944 e nel 1946, per poi essere congedato in via definitiva. sizione dei genitori, che speravano
diventasse un avvocato, Cab deci-
se di dedicarsi al jazz, spinto anche
dall'esempio della sorella Blanche,
anch'ella musicista (cantante, ma
anche bandleader, e prima donna
© FRANCIS WOLFF
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Il pubblico si sbellicava.
Cab non capiva, perché era di spal-
le rispetto a noi. Cioè, lui stava can-
tando questa ballad romantica: «My
darling, I love you...», e la gente ri-
deva. Si domandava cosa diamine
stesse succedendo. Ma quando si
girava verso di noi facevamo tutti
finta di niente. E la cosa lo faceva
impazzire. Poveraccio, non ci vede-
va più dalla rabbia. Erano Dizzy e
Tyree gli istigatori, il batterista sta-
va al gioco e sparava il suo bum. […]
E noi morivamo dalle risate.
Dizzy era fatto così. L'ho detto, era
un ragazzaccio. Finito lo spettacolo
ci faceva una bella lavata di capo:
“Ok, ragazzi, qui qualcuno si sta di-
vertendo alle mie spalle, e non mi
piace affatto!” Nove volte su die-
ci scopriva che era colpa di Diz. E
Dizzy si prendeva la sua ramanzina».
(Milt Hinton, in Dizzy Gillespie, To
CAB CALLOWAY E JONAH JONES be or not to bop, cit., pp. 180-181)
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CAB CALLOWAY
FREELANCE
Dopo il licenziamento dall'orchestra di Calloway, Dizzy lavorò per un periodo come
freelance. Collaborò ad esempio con Ella Fitzgerald, che aveva preso in gestione l'or-
chestra di Chick Webb dopo la prematura morte del leader, nel 1939. Ebbe degli in-
gaggi con Coleman Hawkins, che più tardi sarebbe stato tra i primi sostenitori del
nascente be bop, e con Benny Carter, in un sestetto del quale faceva parte anche Ken-
ny Clarke. Suonò anche con le big band di Les Hites (dove conobbe l'arrangiatore
Walter “Gil” Fuller), Charlie Barnet (nella cui orchestra era l'unico musicista di co-
lore), Fletcher Henderson, Lucky Millinder e Boyd Raeburn, perlopiù in ingaggi oc-
casionali e di breve durata. Il breve assolo su Jersey Bounce, inciso da Dizzy con l'or-
chestra di Les Hites nel 1942, è stato definito da Leonard Feather «probabilmente il
primo esempio di puro be bop mai registrato». Con Millinder, incise un brano intito-
lato Little John Special, il cui riff principale anticipa quello che più tardi sarebbe di-
ventato famoso come Salt Peanuts. Nel 1943 ebbe addirittura l'occasione di suonare
brevemente nell'orchestra di Duke Ellington. Ma l'ingaggiò più importante è quel-
lo nell'orchestra di Earl Hines, che molti considerano una vera e propria incubatri-
ce del nascente be bop.
Prima di parlarne, però, è necessario fare un passo indietro e concentrarsi su quello
che, nel frattempo, stava avvenendo nei locali di Harlem.
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03
BE BOP
DA HARLEM ALLA
52ESIMA STRADA
NELLA PRIMA METÀ DEGLI ANNI QUARANTA, IL BE BOP PRENDE FORMA
GRAZIE A UNA COMPLESSA INTERAZIONE DI FATTORI MUSICALI E SOCIALI. I
PROTAGONISTI SONO UN MANIPOLO DI JAZZISTI CHE SI RIUNISCONO NELLE
JAM SESSION DI LOCALI COME IL MINTON'S E IL MONROE'S: THELONIOUS
MONK, KENNY CLARKE, CHARLIE PARKER E, OVVIAMENTE, LO STESSO
GILLESPIE. NELLA SECONDA METÀ DEL DECENNIO, IL NUOVO STILE
ESCE ALLO SCOPERTO E DILAGA COME UN VERO E PROPRIO FENOMENO
MEDIATICO
DI SERGIO PASQUANDREA
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
Il Minton's era frequentato anche da musicisti di nome come Roy Eldridge, Lester
Young, Don Byas, Hot Lips Page, Ben Webster, Benny Carter e Jimmy Blanton.
In origine il bassista fisso era Nick Fenton, poi sostituito da Milt Hinton; al gruppo si unì
poi anche Oscar Pettiford. Un altro habitué era il trombettista “Little” Benny Harris
UN RISTORANTE AD HARLEM
Henry Minton era un ex-sassofonista, nato nel 1884 e attivo fin dagli anni Dieci; il
locale, aperto nel 1938, era un ristorante sotto l'Hotel Cecil, sulla Centodiciottesima
Ovest, in piena Harlem. Le jam session si svolgevano il lunedì sera, giorno di riposo
delle orchestre; il sindacato in generale era contrario alle jam session, ma la posizio-
ne di Minton gli permetteva di eludere il divieto. Il Minton's era frequentato anche
da musicisti di nome come Roy Eldridge, Lester Young, Don Byas, Hot Lips Page, Ben
Webster, Benny Carter e Jimmy Blanton. In origine il bassista fisso era Nick Fenton,
poi sostituito da Milt Hinton; al gruppo si unì poi anche Oscar Pettiford. Un altro ha-
bitué era il trombettista “Little” Benny Harris, oggi noto soprattutto come l'autore di
Anthropology. Secondo quanto Dizzy ha raccontato, lui, Monk e Guy avevano preso
a ritrovarsi nel seminterrato del Minton's, per studiare insieme per elaborare nuove
soluzioni armoniche, con le quali si divertivano a spiazzare i musicisti di minor talen-
to (in effetti, però, sia Monk sia Kenny Clarke hanno smentito tale storia).
Di quelle jam session possediamo delle incisioni amatoriali, realizzate nel 1941 da un
appassionato di nome Jerry Newman, che studiava alla Columbia e usava portarsi
dietro un rudimentale registratore per dischi in acetato. Su alcuni di essi (Stardust,
Kerouac) si ascolta Dizzy in alcune improvvisazioni dal carattere già proto-bop, con
cromatismi piuttosto arditi per l'epoca e un andamento ritmico che spezza il rigido
quattro quarti dello swing.
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I giovani musicisti che si ritrovavano al Minton's, così come gli altri che più tardi
avrebbero formato i primo drappello di boppers, erano quasi tutti giovani. I più anziani
fra loro erano Dizzy, Thelonious Monk (suo coetaneo) e Kenny Clarke (nato nel 1914).
Charlie Christian, un anno più anziano di Dizzy, scomparve prematuramente nel 1942
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band. […] In quelle orchestre mol-
ti musicisti venivano dai college,
erano persone colte. Ma anche l'or-
chestra, di per sé, era una scuola. Ti
dava la disciplina. Quando un giova-
notto come me entrava nella band
di Hampton, di Basie, gli sembrava
di stare in mezzo a dei professo-
ri. […] Ecco perché Dizzy va anco-
ra così forte, perché è stato in una
quantità di orchestre. È stata la sua
scuola. All'università o al conser-
vatorio non avrebbe potuto impa-
MILES DAVIS rare le stesse cose. Non le avreb-
be potute imparare da nessun'altra
THELONIOUS MONK, HOWARD MCGHEE, ROY ELDRIDGE, TEDDY HILL
parte. [...]
Quando il Minton's era in attività,
negli anni Quaranta, ci andavamo a
fare le jam session. […] Le jam era-
CI STAVAMO MUOVENDO NELLA STESSA DIREZIONE no aperte a tutti. Se ci sapevi fare
I giovani musicisti che si ritrovavano al Minton's, così come gli altri che più tardi potevi partecipare. Salivi sul pal-
avrebbero formato i primo drappello di boppers, erano quasi tutti giovani, nati per- co e suonavi; magari solo un cho-
lopiù fra il 1920 e il 1925. I più anziani fra loro erano Dizzy, Thelonious Monk (suo rus, magari tutta la session. A volte
c'erano musicisti meno bravi degli
coetaneo) e Kenny Clarke (nato nel 1914). Charlie Christian, un anno più anziano
altri, ma gli veniva data lo stesso la
di Dizzy, scomparve prematuramente nel 1942, a soli venticinque anni. Gillespie era possibilità di suonare. Soltanto che
anche quello che aveva più visibilità come solista e la preparazione teorica più ap- spesso si trovavano fuori tonalità.
profondita, ed è naturale che assumesse subito il ruolo di leader. (Monk, il cui ruolo Pensavano che Monk suonasse in
fu altrettanto importante, rimase però nell'ombra e dovette aspettare parecchi anni tonalità di Si bemolle, e invece lui
sceglieva Fa diesis o Re. Così sul
perché il suo genio venisse riconosciuto appieno). Negli anni successivi, il drappel-
palco non ci restavano molto. Na-
lo dei boppers si allargò con l'arrivo di Max Roach, Miles Davis (arrivato in città nel turalmente lui lo faceva apposta,
1944), Fats Navarro, Johnny Carisi, Bud Powell. per evitare di sorbirsi i loro assolo
Ma il personaggio centrale, quello attorno al quale tutto il gruppo si catalizzò, fu ov- indesiderati. […]
viamente Charlie Parker, che sbarcò a New York nel 1942. Li vedevi, questi tizi sul palco, tutti
impegnati a cercare l'intonazione.
Abbiamo già detto del primo incontro con Parker, che avvenne a Kansas City nel 1940
A volte ci riflettevano su, andava-
(la data più probabile è verso la fine di giugno). A presentarli fu il sassofonista Bud- no a casa e si chiudevano dentro
dy Anderson, che li fece incontrare in una camera d'albergo. «Rimasi sbalordito da a esercitarsi, e quando ritornavano
quello che sapeva fare questo tizio», ha ricordato Dizzy nell'autobiografia. «[...] Nel sapevano suonare in tutte le tona-
momento in cui ascoltai Charlie Parker mi dissi: eccolo, è lui il mio collega. […] Fu lità. Questo fu un bel passo avanti;
molti musicisti furono praticamen-
un'emozione scoprire che Charlie Parker si stava muovendo praticamente nella mia
te costretti a migliorare.»
stessa direzione». I due, però, non avrebbero avuto modo di reincontrarsi per alme- (Illinois Jacquet, in Dizzy Gillespie,
no un altro paio d'anni. To be or not to bop, cit., pp. 198-200)
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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MONK INSEGNA
A DIZZY (E
VICEVERSA)
L'ACCORDO MINORE CON LA
SESTA AL BASSO
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«Bird sarà stato anche lo spirito del movimento be-bop, ma Dizzy di quel movimento
era “la mente e il braccio”, colui che teneva tutto insieme. Voglio dire, era lui a guardarsi
attorno per scovare i musicisti più giovani, ci trovava lavoro e via dicendo, ci parlava e
non importava affatto che lui fosse di nove o dieci anni più grande di me»
UN INCONTRO DI INTELLIGENZE
Fu proprio nell'orchestra di Hines che scattò fra Dizzy e “Bird” quell'alchimia musi-
cale che lo stesso trombettista descrisse come «un incontro di intelligenze, un'ispira-
zione reciproca». È lo stesso trombettista a fissare il contributo specifico di Parker al
nascente be bop nell'aspetto ritmico e nell'articolazioe delle frasi.
È diventato quasi un luogo comune della critica contrapporre i due in base alla per-
sonalità, e in effetti è innegabile che i due rappresentino, come ha scritto Scott DeVe-
aux, i due opposti di uno spettro: Parker carismatico, ma anche imprevedibile, inca-
pace di gestire la propria carriera e la propria vita privata, Dizzy tanto istrionico sulla
scena quanto rigoroso nella vita professionale. Come scrisse Miles Davis nella sua au-
tobiografia: «Bird sarà stato anche lo spirito del movimento be-bop, ma Dizzy di quel
movimento era “la mente e il braccio”, colui che teneva tutto insieme. Voglio dire, era
lui a guardarsi attorno per scovare i musicisti più giovani, ci trovava lavoro e via di-
cendo, ci parlava e non importava affatto che lui fosse di nove o dieci anni più grande
di me. Non mi guardava mai dall'alto in basso. […] L'appartamento di Dizzy, ad Har-
lem, al 2040 della Settima Avenue, era il punto di incontro di molti musicisti duran-
te il giorno. Eravamo sempre così tanti che sua moglie, Lorraine, cominciò a sbatter-
ci fuori. Sono stato là parecchie volte. Anche Kenny Dorham, Max Roach e Monk».
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
Inoltre, intorno alla metà degli anni Quaranta scoppiò il periodo di gloria della
Cinquantaduesima Strada, dove aprirono molti dei più importanti jazz club della città,
come il Three Deuces, il Downbeat, il Famous Door, lo Spotlite, il Kelly's Stables, lo Yacht
Club, l'Onyx, l'Hickory House, tutti concentrati nello spazio di due o tre isolati
LA CINQUANTADUESIMA STRADA
Nel frattempo, molte cose stavano cambiando sulla scena jazz di Manhattan. Innan-
zi tutto, si stava affermando un nuovo sound, che si allontanava dalle sontuose sono-
rità delle big band per adottare piuttosto quelle più snelle dei piccoli gruppi: quintetti
o sestetti, che saranno poi le formazioni tipiche del be bop (ma non solo: basti pen-
sare ai fortunati Tympani Five del sassfonista-cantante Louis Jordan, che presenta-
va già la tipica frontline sax-tromba). Le piccole formazioni erano più maneggevoli e
permettevano di evitare la logorante routine delle grandi orchestre, con i loro reper-
tori ripetitivi e le loro interminabili tournée.
Inoltre, intorno alla metà degli anni Quaranta scoppiò il periodo di gloria della Cin-
quantaduesima Strada, dove aprirono molti dei più importanti jazz club della città,
come il Three Deuces, il Downbeat, il Famous Door, lo Spotlite, il Kelly's Stables, lo
Yacht Club, l'Onyx, l'Hickory House, tutti concentrati nello spazio di due o tre isolati.
Nel 1943 anche il Monroe's Uptown House si spostò sulla Cinquantaduesima. Fu una
fiammata gloriosa ma breve, dato che già cinque o sei anni dopo quei club avevano
per la maggior parte chiuso: ma coincise proprio con la fioritura del be bop, che fra il
1944 e il 1945 emerse dall'ombra e si conquistò uno spazio sul proscenio.
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©WILLIAM
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DIZZY E BIRD
LA DIALETTICA DEGLI OPPOSTI
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DA UPTOWN A
DOWNTOWN
IL BOP CAMBIA INDIRIZZO
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Nella seconda metà degli anni Quaranta, il be bop divenne un vero e proprio
fenomeno di costume. Dizzy appariva sulle copertine dei giornali con quello che
divenne l'abbigliamento iconico del bopper: basco, occhiali neri dalla spessa
montatura, pizzetto a “mosca” (goatee) sotto il labbro
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THINGS TO COME
IL BOP INCONTRA
CUBA
CRESCIUTO NELLE BIG BAND, DIZZY GILLESPIE COLTIVAVA L'AMBIZIONE DI
TRASFERIRE IL LINGUAGGIO DEL BE BOP IN UN CONTESTO ORCHESTRALE.
DOPO UN PRIMO TENTATIVO POCO FORTUNATO NEL 1945, L'ANNO DOPO
COSTITUÌ UNA BIG BAND CHE RIMASE IN VITA FINO AL 1950, PRODUCENDO
ALCUNI DEI SUOI CAPOLAVORI. CON QUESTA ORCHESTRA, EGLI TENTÒ PER
LA PRIMA VOLTA L'INTEGRAZIONE FRA IL JAZZ E I RITMI AFROCUBANI
DI SERGIO PASQUANDREA
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© ROBERTO POLILLO
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
«Con la troupe degli “Hep-sations”, le sue presentazioni erano talmente inadeguate che
i fratelli Nicholas subentrarono nel ruolo di conduttori e Dizzy non era il solito sé stesso,
si muoveva goffamente e a disagio sul palco. Ci volle un altro anno e un'altra band
perché riconquistasse la sua abituale facilità di fronte a una grande orchestra»
HEP-SATIONS OF 1945
Il primo esperimento orchestrale di Gillespie si chiamava “Hep-sations of 1945” e
non fu esattamente un successo.
Con Dizzy c'era l'arrangiatore Walter “Gil” Fuller, mentre la formazione, ripresa in «SUONIAMO
gran parte dall'orchestra di Eckstine, comprendeva, tra gli altri, Kenny Dorham, PER LO SPIRITO,
Charlie Rouse, John “Smitty” Smith e Max Roach, batteria. La band si imbarcò in NON PER
uno sfortunato tour negli Stati Uniti meridionali, dove la loro musica venne accolta
con freddezza e ostilità, nonostante la presenza di varie attrazioni collaterali, tra le
L'INTELLETTO»
DIZZY E IL JAZZ DA BALLARE
quali il duo di ballerini dei Nicholas Brothers, la cantante June Eckstine e due comi-
ci. Nell'agosto di quello stesso anno, l'orchestra si esibì a New York, stavolta con Ben-
«L'orchestra [Hep-sations of 1945],
ny Harris, Freddie Webster, Miles Davis e Fats Navarro alle trombe e Leo Parker tra
e in generale la nostra musica, era
i sassofoni, poi si sciolse. congegnata affinché la gente si se-
Le ragioni dell'insuccesso sono state discusse a lungo: sicuramente il pubblico del desse e ascoltasse; quasi tutti i no-
Sud non era pronto per il bop, anzi – secondo la testimonianza degli stessi musici- stri arrangiamenti erano moderni,
sti – si aspettava la classica orchestra swing da ballo e rimaneva disorientato davan- per cui provate a immaginare la mia
sorpresa e il mio imbarazzo quan-
ti a quella musica così complessa. D'altronde, lo stesso Dizzy era un leader ancora im-
do scoprii che dovevamo suonare
preparato all'arduo compito di guidare in tour una grande formazione. Come scrive per dei balli. A New York ci aveva-
Alyn Shipton: «Il resoconto di Leonard Feather, secondo il quale Dizzy durante que- no detto che si trattava di una tour-
sto tour era nervoso e teso, è corroborato da diverse altre fonti. Con la troupe degli née di concerti, e invece il pubblico
“Hep-sations”, le sue presentazioni erano talmente inadeguate che i fratelli Nicho- si aspettava di ballare. Che storia.
Dicevano che con la nostra musi-
las subentrarono nel ruolo di conduttori e Dizzy non era il solito sé stesso, si muoveva
ca non riuscivano a ballare. E allo-
goffamente e a disagio sul palco. Ci volle un altro anno e un'altra band perché ricon- ra com'è che io ci riuscivo? Anche
quistasse la sua abituale facilità di fronte a una grande orchestra». loro sarebbero riusciti a ballarla, se
solo ci avessero provato. Il jazz deve
essere ballabile, è quella l'idea con
cui è nato; e anche quando è troppo
veloce per ballarlo, dovrebbe ave-
re abbastanza ritmo da farti veni-
re voglia di muoverti. Se si perde
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THINGS TO COME
L'altra band di cui parla Shipton è quella che Gillespie mise insieme l'anno seguente.
Nel frattempo, il suo esperimento orchestrale non era rimasto isolato: a Los Angeles,
Gerald Wilson aveva inciso una versione orchestrale di Groovin' High, mentre Wo-
ody Herman (per il quale Dizzy aveva già scritto arrangiamenti nel 1942-43) ave-
va registrato una versione di Caldonia che ammiccava decisamente al be bop, grazie
all'arrangiamento di Neal Hefti.
A marzo del 1946, Dizzy cominciò un ingaggio allo Spotlite, un locale della Cinquan-
taduesima Strada gestito da Clark Monroe, il proprietario del Monroe's Uptown
House. Con lui c'erano Milt Jackson, Leo Parker, Al Haig, Ray Brown e Stan Levey.
Dato il buon successo, Monroe propose a Gillespie di espandere il gruppo, trasfor-
mandolo in una big band. Vennero reclutati, fra gli altri, i sassofonisti Sonny Stitt e
Howard Johnson, il trombettista Kenny Dorham e il batterista Kenny Clarke, appe-
na rientrato in città dopo tre anni di servizio militare. Gli arrangiamenti erano, an-
cora una volta, di Gil Fuller. Al piano sedette dapprima Bud Powell, poi, per un certo
periodo, Thelonious Monk, che però aveva il vizio di arrivare regolarmente in ritar-
do: fatto intollerabile, per un maniaco della puntualità come Dizzy. Ad ogni modo,
nella prima seduta di registrazione dell'orchestra, fissata per maggio, c'è ancora lui.
Quella seduta produsse alcune tracce che rivelavano già le potenzialità della band:
Our Delight, una composizione di Tadd Dameron, One Bass Hit, una vetrina per Ray
Brown, una bella versione di Round Midnight, ma soprattutto l'avveniristico Things
To Come, preso a un tempo mozzafiato, che dimostra le qualità tecniche superlative
della compagine. Poco dopo, l'orchestra comparve anche nel lungometraggio musi-
cale Jivin' in Bebop, dove per quasi un'ora si può ammirare un Dizzy che dirige l'or-
chestra danzando e durante gli intermezzi si lancia in sketch comici, come il più con-
sumato degli showmen.
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LA MUSICA TI MANDAVA SU DI GIRI
Se l'impatto della band è notevole su disco, doveva essere addirittura dirompente dal
vivo: «Le persone che non hanno mai visto Dizzy davanti a una big band», dichiarò
Milt Jackson in un'intervista del 1976, «non hanno idea. Non hanno mai visto Dizzy
sul serio. Quando lo vedi di fronte a una big band, è davvero fenomenale». Gli fa eco
il critico Ira Gitler: «Stare in quel piccolo club, lo Spotlite, con il suo soffitto basso,
e ascoltare la band che suonava Things To Come, ti faceva andare fuori di testa. In-
credibile. Senz'altro una delle esperienze più entusiasmanti che si possano fare». E
Ralph J. Gleason: «L'energia che sprigionavano […] era sensazionale. Avevano solo un
microfono per la cantante, perché potesse farsi sentire sugli altoparlanti. Non aveva-
no amplificazione per la band, nessuno strumento elettrico, nemmeno una chitarra
con un pickup. Ma avevano il volume dei Cream o degli Who, e con quella band sco-
prii la verità sulla musica suonata forte. Se è buona, ti manda su di giri e ti fa sentire
bene. […] Non uscivo mai da un concerto di quella band senza sentirmi al settimo cie-
lo per quel suono».
Nell'autobiografia, Dizzy dedica a questa orchestra ben cinque capitoli, per un'ottan-
tina di pagine complessive, e in effetti non si sbaglierebbe di molto a indicare gli anni
fra il 1946 e il 1950, in cui essa fu attiva, come uno dei picchi assoluti nella sua carrie-
ra. Il suo obiettivo era ben chiaro: «La nostra orchestra doveva avere lo stesso sound
della piccola formazione con Charlie Parker. Il nostro idioma doveva essere rigoro-
samente bebop».
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Nel giugno del 1946, la band tenne un concerto all'Apollo Theater di New York, poi partì
per un tour estivo, nel quale fu accompagnata dal trio di Ella Fitzgerald. In autunno, Ella
– all'epoca già una star di enorme successo – divenne parte integrante dell'orchestra di
Gillespie, con la quale rimase fino a gennaio 1947
ORCHESTRA DELL'ANNO
Walter Fuller continuò a essere l'unico arrangiatore, il che contribuì all'unità stili-
stica della band; ma anche altri membri della band contribuivano con loro composi-
zioni, come Ray Brown (Ray's Idea, One Bass Hit) e John Lewis, che era subentrato
a Monk come pianista (sua, per esempio, è Two Bass Hit). Per inciso, la sezione rit-
mica della band (Milt Jackson, John Lewis, Ray Brown e Kenny Clarke) cominciò
a esibirsi anche come gruppo autonomo, prima come Milt Jackson Quartet, poi con GIL FULLER
il nome che l'avrebbe resa celebre: Modern Jazz Quartet. Venivano eseguiti anche L'ARRANGIATORE DI FIDUCIA
brani di Tadd Dameron, il quale però non scrisse mai arrangiamenti perché, come
Se nel jazz c'è una categoria sot-
dichiarò Fuller, «voleva essere pagato e noi non avevamo soldi».
tovalutata per eccellenza, è quella
Nel giugno 1946 la band tenne un concerto all'Apollo Theater di New York, poi par- degli arrangiatori, che invece fon-
tì per un tour estivo, nel quale fu accompagnata dal trio di Ella Fitzgerald. In au- damentali nell'era dello swing e con-
tunno, Ella – all'epoca già una star di enorme successo – divenne parte integrante tinuarono ad esserlo anche succes-
dell'orchestra di Gillespie, con la quale rimase fino a gennaio 1947 (proprio duran- sivamente. Si pensi ad esempio a
figure come Don Redman, Sy Oli-
te questa tournée cominciò la sua storia d'amore con Ray Brown, che divenne poi
ver, Billy Strayhorn, Neal Hefti, Ralph
suo marito). Burns, Sammy Nestico, Gerald Wil-
Nel 1947 arrivarono nuovi elementi, come i sassofonisti Cecil Payne e James Moo- son, Nelson Riddle, Tadd Dameron,
dy, il quale ultimo sarebbe poi rimasto uno dei più stretti collaboratori di Dizzy per e tanti altri che forgiarono il suono
i successivi quarant'anni. Occasionalmente, la formazione ospitava musicisti come delle orchestre con cui lavorarono.
Un ottimo esempio è Walter Gilbert
Charlie Parker o Miles Davis, ad esempio durante il concerto alla Carnegie Hall te-
“Gil” Fuller, che persino su Wikipe-
nuto il 29 settembre di quell'anno, che ebbe un successo al di là delle aspettative dia si merita appena una decina di
e contribuì a far affermare definitivamente l'orchestra. La band venne nominata righe striminzite. Fuller nacque a Los
“Orchestra dell'anno” da Metronome, mentre il titolo di “Trombettista dell'anno” Angeles il 14 aprile 1920. Già a fine
andò a Dizzy Gillespie. Ma c'erano altre novità in arrivo. anni Trenta lavorava con le orche-
stre di Billy Eckstine, Tiny Bradshaw
e Les Hite. Fu proprio lui a convince-
re quest'ultimo ad assumere Dizzy
Gillespie nella sua big band. Fuller
divenne uno stretto collaboratore
di Dizzy fin dai tempi della sua pri-
ma orchestra del 1945. Nell'autobio-
© WILLIAM P. GOTTLIEB
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
Luciano Pozo y Gonzales, in arte Chano Pozo, fu per Dizzy la chiave utile a realizzare
quella fusione tra jazz e ritmiche afrocubane, alla quale pensava da tempo. Pozo parlava
malissimo l'inglese, Gillespie non conosceva spagnolo, ma ciò non impedì loro di
instaurare un'immediata intesa musicale
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GEORGE RUSSELL
IL PENSATORE DEL JAZZ
© ROBERTO POLILLO
dre bianco e madre afroamericana,
fu poi adottato da Bessie e Joseph
Russell. Cominciò a interessarsi alla
musica cantando nella chiesa meto-
dista, che la sua famiglia frequenta-
va, e ascoltando le band che suona-
vano sui battelli che percorrevano
l'Ohio. Iniziò a suonare la batteria
nei boy scout e proseguì a interes-
sarsene a scuola. Venne ingaggia-
to nell'orchestra di Benny Carter e,
nei primi anni Quaranta, si trasferì a
New York, dove entrò nell'entoura-
GEORGE RUSSELL ge di musicisti che frequentavano
la casa di Gil Evans sulla Cinquan-
tacinquesima Strada: Monk, Miles
Davis, Max Roach, Gerry Mulligan,
CUBANA BE-CUBANA BOP John Lewis.
Nel repertorio dell'orchestra cominciarono a entrare pezzi come Algo Bueno (una ri- Nel 1945-46, durante uno dei suoi
lettura latin di Woody'n'You), Guarachi Guaro, Manteca, Tin Tin Deo, nei quali Chano frequenti ricoveri ospedalieri dovu-
Pozo dettava a Gillespie e Walter Fuller le parti strumentali, che essi poi arrangiava- ti alla tubercolosi, cominciò a ela-
borare i fondamenti di quello che
no sul pentagramma. Ma il frutto più straordinario della loro collaborazione fu la su-
avrebbe poi chiamato “Lydian Chro-
ite Cubana Be-Cubana Bop, firmata da George Russell. Qui, dopo un'apertura modale matic Concept of Tonal Organiza-
(notare che siamo dieci anni prima di “Kind Of Blue”), Chano canta insieme agli or- tion”, poi esposto nell'ononimo li-
chestrali una litania in dialetto afrocubano, che elenca i nomi delle divinità adorate bro del 1953.
dalla società segreta Abakuá, in una folgorante fusione di sperimentazione avveniri- A partire dagli anni Cinquanta, co-
minciò a insegnare e a comporre,
stica e arcaiche memorie africane.
riunendo numerosi gruppi, deno-
Chano Pozo morì a soli trentatré anni il 3 dicembre 1948, assassinato in un bar di minati “Jazz Workshops”, nei quali
Harlem da uno spacciatore di marijuana con cui aveva litigato. Ma quegli esperimen- passarono musicisti come Bill Evans,
ti avrebbero lasciato una traccia duratura in Gillespie, come vedremo più avanti. Art Farmer e Paul Motian. Negli anni
Va notato anche che Dizzy non era l'unico a essere affascinato dalla musica cubana. Sessanta e Settanta visse in Scan-
dinavia influenzando la nascente
Proprio nel 1947 Stan Kenton aveva preso nella sua orchestra il conguero Francesco
scuola di jazz locale e sperimen-
Grillo, detto Machito, per il quale aveva commissionato a Pete Rugolo una serie di tando anche la musica elettronica.
brani come Cuban Carnival e The Peanut Vendor. (Nell'autobiografia, Dizzy negò di Morì a Boston nel 2009, per com-
essere stato influenzato da Kenton, per il quale anzi ebbe parole sprezzanti). plicazioni legate all'Alzheimer.
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
CHARLES DELAUNAY
IN FRANCIA
Nel 1948 la band, insieme a Chano Pozo, intraprese una tournée europea che coprì
Svezia, Danimarca, Belgio, Francia e Gran Bretagna. Fu un ottimo successo di pub-
blico, ma con non pochi problemi sul lato economico a causa di un promoter svedese,
tale Harold Lundquist, che gestiva in maniera piuttosto disinvolta gli incassi. Gille-
spie raccontò di aver dovuto letteralmente dormire davanti alla porta della sua ca-
mera, per evitare che scappasse con i soldi durante la notte. Lundquist venne poi ar-
restato per truffa e la band riebbe indietro i soldi. Le accoglienze, comunque, furono
ottime ovunque. In Francia, il pubblico e la critica si spaccarono: da una parte c'e-
ra il decano della critica francese, Hughes Pannassié, che fu sempre ostile al be bop,
dall'altra il suo collega e amico Charles Delaunay, che invece si impegnò attivamente
per sostenere l'orchestra (fu lui a pagar loro la trasferta francese, dopo che erano ri-
masti in bancarotta). Dopo quel tour europeo, Kenny Clarke decise di stabilirsi a Pa-
rigi, dove sarebbe rimasto per i successivi quarant'anni.
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L'orchestra continuò a funzionare per un paio d'anni, ospitando fra gli altri Paul
Gonsalves, Jimmy Heath, Melba Liston, Gerald Wilson e un giovane John Coltrane (al
sax contralto), ma i costi cominciarono a mano a mano a farsi sempre più pesanti per
Gillespie, che nel 1950 decise infine di chiudere bottega
LA FINE DELL'ORCHESTRA
L'orchestra continuò a funzionare per un paio d'anni, ospitando fra gli altri Paul Gon-
salves, Jimmy Heath, Melba Liston, Gerald Wilson e un giovane John Coltrane (al
sax contralto), ma i costi cominciarono a mano a mano a farsi sempre più pesanti per
Gillespie, che nel 1950 decise infine di chiudere bottega. «Anche all'apogeo del be-
bop nessuno di noi guadagnava molto», commenta nell'autobiografia. «Tantissime
persone che sostenevano di aiutarci erano degli imbroglioni. […] Ricevemmo mol-
tissima pubblicità ma pochissimi soldi». Nel periodo seguente, Dizzy continuò a la-
vorare sulle basi costruite negli anni Quaranta, producendo ancora splendida musi-
ca, ma raramente riuscì a eguagliare la folgorante intensità di quanto aveva creato in
quel decennio.
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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L'AMBASCIATORE
DEL JAZZ
GLI ANNI
CINQUANTA
NEI PRIMI ANNI CINQUANTA, LA CARRIERA DI DIZZY SUBÌ UN CALO,
DOVUTO SIA ALLA CONCORRENZA DI NUOVI STILI JAZZISTICI, SIA A
UNA SERIE DI DISCHI NON TROPPO FELICI. A PARTIRE DALLA METÀ
DEL DECENNIO, LA PARTECIPAZIONE ALLE TOURNÉE DEL "JAZZ AT
THE PHILHARMONIC" E UN FORTUNATO TOUR INTERNAZIONALE
SPONSORIZZATO DAL DIPARTIMENTO DI STATO AMERICANO
RILANCIARONO LA SUA FIGURA COME QUELLA DI UN VERO E PROPRIO
“AMBASCIATORE DEL JAZZ” NEL MONDO
DI SERGIO PASQUANDREA
RHYTHM'N'BLUES
Gli anni Cinquanta si aprirono con una serie di avvenimenti non troppo piacevo-
li. Oltre alla fine della big band, ci fu un incidente stradale che limitò la sua capa-
cità di prendere le note acute. Inoltre, Dizzy stesso si rese conto che l'idioma be
bop subiva ormai un calo di popolarità, assediato com'era da una parte dal cool
jazz, dall'altra dal rhythm'n'blues, che era diventata la musica da ballo favorita da-
gli afroamericani.
Nei primi anni Cinquanta Gillespie lavorò soprattutto come leader di piccole for-
mazioni. Si ricorda ad esempio un sestetto che comprendeva John Coltrane, Jimmy
Heath, Milt Jackson, Percy Heath e Charles “Specs” Wright, che registrò alcune
tracce per la Dee Gee, la casa discografica fondata da Dizzy nel 1951. Alcuni bra-
ni di questo periodo ammiccavano decisamente al rhythm'n'blues, come Hey Pete
Let's Eat Mo' Meat o School Days, che Gillespie nell'autobiografia descrisse come
una canzone con «un forte backbeat, molto ballabile, e un testo rivolto ai teenager»,
rivendicando di aver cominciato tra i primi a «contaminare il jazz con il rock». La
canzone, insieme ad altre nella stessa vena, ebbe un certo successo, non sufficien-
te però a coprire le spese, complice anche il fatto che lo stesso Dizzy non aveva mai
sentito, per sua stessa ammissione, una particolare propensione verso il blues. La
Dee Gee chiuse i battenti dopo poco tempo. Nel 1952 uscì anche un disco con gli ar-
chi (“Dizzy And His Operatic String Orchestra”, Barclay), nella vena di quello inci-
so due anni prima da Charlie Parker.
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© ROBERTO POLILLO
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
© ROBERTO POLILLO
FAR RIDERE IL PUBBLICO
Molti dei brani incisi da Dizzy in questo periodo seguono una vena decisamente
più leggera rispetto al decennio precedente, come il latineggiante Tin Tin Deo, il di-
simpegnato Umbrella Man o il comico Pop's Confessin', dove si lancia in un'affettuo-
sa parodia di Louis Armstrong. Gillespie cominciò a cimentarsi sempre più spes-
so anche nelle vesti di cantante. Non mancarono le critiche di chi lo accusava di
aver commercializzato la sua musica e di indulgere fin troppo nelle clownerie, ma
il trombettista si difese affermando che «la comicità è importante. Quando un ar-
tista cerca di prendere il controllo sul proprio pubblico, la strategia migliore è farli
ridere, se ci riesce. È la cosa più rilassante del mondo. Ridere rilassa tutti i musco-
li del corpo. E quando la gente è rilassata, è più ricettiva ai tuoi input. In certi casi,
quando gli proponi delle cose troppo difficili, riescono a seguirti se sono rilassati».
Nel 1953 vi fu il famoso concerto alla Massey Hall di Toronto, che vide Gillespie e
Charlie Parker per l'ultima volta insieme sul palco. È anche una delle pochissime
occasioni per ascoltare Dizzy e “Bird” con Bud Powell, insieme ad alcune registra-
zioni effettuate dal vivo al Birdland, insieme a Tommy Potter e Roy Haynes (“Sum-
mit Meeting At The Birdland”, Columbia 1951).
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Negli anni Cinquanta Dizzy lavorò anche come solista nell'orchesta di Stan Kenton;
Charlie Parker lavorò anch'egli con Kenton, ma i due non suonarono mai insieme sullo
stesso palco. Per inciso, proprio in questo periodo Gillespie adottò l'inconfondibile
tromba piegata all'insù, che da allora in poi sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica
to in un unico pezzo.
Alyn Shipton, nella sua biografia del
POLILLO
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
Dizzy ebbe anche modo di tornare a suonare davanti a una big band, ad esempio in
“Afro” (Norgran, 1954), con un'orchestra cubana arrangiata da Chico O'Farrill, e “Birk's
Works” (Verve, 1957), con una sountuosa band che comprende, fra gli altri, Lee Morgan,
Melba Liston, Benny Golson (anche arrangiatore) e Wynton Kelly
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STAN GETZ
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© ROBERTO POLILLO
DIZZY E
LORRAINE
UN MATRIMONIO PERFETTO (O
QUASI)
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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UNITED NATION
ORCHESTRA
LA MUSICA
UNIVERSALE
DAGLI ANNI SESSANTA IN POI, LA MUSICA DI DIZZY GILLESPIE SI VOLGE
SEMPRE DI PIÙ A UNA FUSIONE FRA IL JAZZ E LE MUSICHE DEL MONDO:
CARAIBI, CUBA, BRASILE, AFRICA. RISPETTATO COME UN DECANO DEL
JAZZ, DIZZY CONTINUÒ A ESIBIRSI FINO AGLI ULTIMISSIMI ANNI DI VITA. SI
SPENSE IL 6 GENNAIO 1993, ALL'ETÀ DI SETTANTACINQUE ANNI
DI SERGIO PASQUANDREA
AFRICA
La big band del Dipartimento di Stato venne sciolta a fine anni Cinquanta a causa di
tagli nei finanziamenti governativi, ma Dizzy fece tesoro di quell'esperienza, da mol-
ti punti di vista. Innanzi tutto, approfondì il suo interesse per le musiche etniche di
tutto il mondo, in particolare quelle di origine africana, come il samba. Fu tra i primi
a integrare ritmi brasiliani con il jazz, prima ancora dei celebri dischi di Stan Getz e
Charlie Byrd con João Gilberto, che qualche anno dopo lanciarono la moda della bos-
sa nova.
Come molti altri jazzisti dell'epoca, cominciò a esibirsi con vesti di foggia africaneg-
giante. Nell'autobiografia racconta anche di una visita al suo paese natale, Cheraw,
durante la quale apprese dettagli del suo albero genealogico, fra i quali l'esistenza di
un trisavolo africano e di un bisnonno bianco. Inoltre, sviluppò un interesse per la
spiritualità, che lo portò ad aderire non all'Islam, come tanti altri afroamericani fa-
cevano all'epoca, bensì alla religione Bah'ái, della quale fu adepto a partire dal 1968.
Prese anche posizioni di natura sempre più esplicitamente politica, a favore dell'inte-
grazione razziale, che culminarono nella sua celebre candidatura alle elezioni presi-
denziali americane, nel 1964. Inoltre, nel 1960 ingaggiò nella sua band il pianista e ar-
rangiatore Lalo Schifrin, che aveva conosciuto durante la tournée argentina del 1956.
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© ROBERTO POLILLO
COVER STORY DIZZY GILLESPIE
LALO SCHIFRIN
Schifrin entrò come pianista nella working band di Dizzy, ma scrisse per lui anche
una lunga suite orchestrale intitolata “Gillespiana” (Verve, 1960), della durata di qua-
ranta minuti, che divenne un pezzo forte delle sue esibizioni dal vivo. “Gillespiana”
è organizzato in cinque movimenti (Prelude, Blues, Panamericana, Africana, Toccata)
che raffigurano altrettante facce del Dizzy musicista; è concepito come un concer-
to grosso in jazz, con un combo (Gillespie stesso, Schifrin, Leo Wright e Art Davis)
contrapposto all'orchestra. Due anni dopo, Schifrin e Gillespie realizzarono un'al-
tra suite, dal titolo “The New Continent” (Mercury, 1962), con una big band che com-
prendeva, fra gli altri, Conte Candoli, Frank Rosolino, Red Callender, Phil Woods e
James Moody, sotto la direzione di Benny Carter. Gillespie era di nuovo in piena for-
ma, come testimoniato dalle numerose registrazioni che lo colgono live, ad esem-
pio “An Electrifying Evening” (Verve, 1961), nella quale si può ascoltare il suo brano
Kush, che egli stesso definì “un poema sinfonico dai ritmi africani”. Sfortunatamen-
te per Dizzy e per il jazz, Schifrin intraprese una fiorente carriera di compositore ad
Hollywood e abbandonò presto la band.
© JIM MARSHALL
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
THE HAT E THE
HOLE
DIZZY E I CARTONI ANIMATI
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COVER STORY DIZZY GILLESPIE
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I DISCHI PABLO
Nel corso degli anni Settanta, Dizzy tornò in contatto con Norman Granz, che dopo
un periodo di auto-esilio nella sua ricca casa ginevrina era rientrato in attività e ave-
va fondato una nuova casa discografica, la Pablo. Tra i numerosi dischi Pablo incisi da
Gillespie, si possono ricordare “Big 4” (1974), con Joe Pass, Ray Brown e Mickey Ro-
ker; “The Trumpet Kings Meet Joe Turner” (1974), con Roy Eldridge, Harry “Sweet”
Edison e Clark Terry; “Oscar Peterson And Dizzy Gilespie” (1974); “Afro-Cuban Jazz
Moods” (1975), con il percussionista Machito; “Bahiana” (1975), dedicato al Brasile;
“Free Ride” (1977), una rimpatriata con Lalo Schifrin all'insegna della fusion; “The
Gifted Ones” (1977), in quartetto con Count Basie al pianoforte.
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INTERVISTA
© ALBERTO TERRILE
Paolo
Silvestri
IL JAZZ È APERTO A TUTTE LE STRADE
DI SERGIO PASQUANDREA
ARRANGIATORE, COMPOSITORE
Io mi considero soprattutto un compositore. “Arrangiatore” è una parola molto ambi-
gua. Un arrangiatore può essere chi scrive una sezione di fiati o archi, ma nel jazz il la-
voro dell’arrangiatore ha sempre avuto anche una valenza compositiva, perché opera una
reinvenzione di un brano, fino al punto che l’originale può non essere più riconoscibile.
E questa, in fondo, è un’operazione antichissima: i corali di Bach, per esempio, sono fatti
esattamente in questo stesso modo.
UN’IDEA DI MODERNITÀ
Da circa vent’anni, ho indirizzato la mia scrittura verso l’incontro fra il jazz e la musi-
ca colta europea. Ho avuto la fortuna di poter lavorare molto con le orchestre sinfoni-
che, che considero l’istituzione musicale più importante che abbiamo in Italia. Secon-
do me proprio da lì, cioè dall’incontro fra la musica colta e altre musiche, passa un’idea
di modernità.
Trovo che in Italia si faccia fatica ad apprezzare il tipo di lavoro che sto facendo io. Forse
una delle ragioni è che, nel mondo del jazz, l’improvvisazione è fin troppo mitizzata. C’è
questa mitologia dell’“uomo solo al comando”, del solista che sale sul palco e fa il suo nu-
mero, che secondo me ha fatto molti danni. Sia chiaro, io amo l’improvvisazione, la pra-
tico e l’ho sempre praticata, ma non si può pensare che il jazz si riduca soltanto all’im-
provvisazione, perchè non è questa la sua storia. Se torniamo ai capostipiti nella storia
del jazz, troviamo un musicista come Duke Ellington, la cui specificità sta proprio nella
relazione tra scrittura e improvvisazione.
Nel jazz, la relazione tra scrittura e improvvisazione è fondamentale, ma il termine
“scrittura” va inteso in senso ampio: è già “scrittura” quando si progetta un concerto, lo
si organizza. Non è necessario che tutto sia scritto sul pentagramma.
INTERVISTA PAOLO SILVESTRI
© PAOLO GALLETTA
IL TEATRO
Io mi sono formato come pianista classico. Ho un diploma di pianoforte in Conser-
vatorio, ma ho cominciato presto a studiare anche il jazz. Sono stato allievo di En-
rico Pieranunzi e ho frequentato i corsi di Siena Jazz. Poi ho studiato composizio-
ne con Sylvano Bussotti alla scuola di Fiesole. Per diversi anni ho lavorato come
pianista jazz e ho anche registrato un disco in piano solo (“Picnic sulla luna”, Abe-
at 2008. NdR), però la scrittura ormai ha preso il sopravvento e non ho più il tem-
po per studiare lo strumento.
Ci tengo a dire che, nella mia formazione, è stato fondamentale anche il rapporto
con il teatro, perché ho iniziato a lavorarci fin da quando avevo sedici anni. Sono
nato e cresciuto a Genova, che ha una delle scene teatrali più ricche d’Italia, e or-
mai da moltissimi anni ho una collaborazione con il regista Giorgio Gallione, pres-
so il Teatro dell’Archivolto. Quello di Giorgio è un teatro di narrazione, con una
grande attenzione per la letteratura e anche per la musica. Spesso rielabora te-
sti non nati originariamente per il teatro: ad esempio, di recente abbiamo lavora-
to su Gli sdraiati di Michele Serra, che è diventato “Father and Son”, interpretato
da Claudio Bisio. Le musiche che scrivo per il teatro nascono sempre appositamen-
te per gli spettacoli: a volte sono registrate, ma altre volte sono anche eseguite dal
vivo, e in quel caso mi piace anche inserire giovani musicisti, perché insegnando in
Conservatorio ho l’occasione di conoscerne molti.
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«Quando scrivo, riproduco sempre tutto con il computer, lo riascolto, taglio,
ricucio, elimino ciò che mi annoia, ricostruisco dove ce n’è bisogno. Per me,
l’importante è che la musica abbia una sua drammaturgia interna, una sua logica
teatrale. Questo mi deriva anche dagli studi con Bussotti [...]»
© PAOLO GALLETTA
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INTERVISTA PAOLO SILVESTRI
«In Italia purtroppo è quasi impossibile tenere in piedi una big band jazz stabile,
e soprattutto portarla in tournée, perché i costi sono molto alti. Qualcuna ce n’è,
e infatti sono dell’idea che andrebbero finanziate e sostenute, così come si fa con
quelle sinfoniche, per dare una possibilità di sviluppo a questa musica»
THE RIVER
Qualche tempo fa ho completato una suite di Ellington, intitolata “The River”,
che Duke aveva composto negli anni Settanta per un balletto. Era stata arrangia-
ta sinfonicamente da Ron Collier, un collaboratore di Ellington, che però aveva
lasciato fuori alcuni brani. Io ho arrangiato anche quelli, quindi adesso la suite è
completa, così come l’aveva pensata Duke. Da poco è nata anche l’idea di riarran-
giarla, in una versione più moderna, con la big band della Civica Scuola di Jazz di
Milano, aggiungendovi anche gli assolo, che nell’originale non ci sono. Si tratta
di una sorta di variazione al cubo: Ellington ha scritto questi brani per big band,
Ron Collier li ha riarrangiati per orchestra sinfonica, io li prendo, li completo e li
faccio tornare alla big band.
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© PAOLO GALLETTA
NORMA IN JAZZ
Un altro progetto che ho in corso è “Norma in Jazz”, una produzione realizza-
ta nel 2015 a Catania con l’Orchestra Jazz del Mediterraneo. L’abbiamo riese-
guita l’estate scorsa a Berchidda, insieme all’Orchestra Jazz della Sardegna, con
cui collaboro spesso. Ora stiamo incidendo il disco, che uscirà probabilmente nel
2017. La richiesta iniziale era stata di scrivere genericamente arrangiamenti su
brani di Vincenzo Bellini, ma mi sono detto che forse era meglio realizzare qual-
cosa di più unitario e lavorare sull’opera intera, un po’ come fecero Miles Davis
e Gil Evans con “Porgy and Bess”. Per “Norma”, ho selezionato una serie di bra-
ni, in cui mantengo più o meno l’ordine in cui appaiono nell’opera, ma poi c’è an-
che un finale in cui le arie sono molto vicine, condensate. Il lavoro è interamente
strumentale e il solista è Paolo Fresu, che interpreta tutti i personaggi.
CONCERTO AZZURRO
È in uscita anche “Concerto azzurro”, scritto per Stefano Bollani, che debutte-
rà al Maggio Musicale Fiorentino. È un concerto in tre movimenti, della dura-
ta di oltre mezz’ora. Dopo Firenze, andrà alla Gewandhaus di Lipsia. Il diret-
tore lì non sarò io, ma Kristjan Järvi (che, guarda caso, è figlio di Neeme Järvi,
colui che diresse e registrò “The River” di Ellington!). Con Stefano ci cono-
sciamo da tanti anni, ho cominciato a collaborare con lui quando lavoravo con
Rava; insieme abbiamo realizzato diverse cose, tra cui “Concertone” (Label
Bleu, 2013), un progetto che ha avuto molto successo e di cui questo è in qual-
che modo la prosecuzione.
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INTERVISTA PAOLO SILVESTRI
© ALBERTO TERRILE
ARGENTINA, PORTOGALLO (E OLTRE)
La mia attività ha spesso riguardato musiche diverse dal jazz. Ad esempio ho
frequentato la musica argentina, insieme a Javier Girotto. Quest’anno cele-
breremo il decennale dall’uscita di “Concerto latino”, un lavoro per sax e or-
chestra che ho scritto per lui nel 2007 e che adesso registreremo per celebra-
re l’anniversario. Ho lavorato anche con Dulce Pontes, per un lavoro sul fado
che è stato realizzato a Roma nel 2013, con l’orchestra della Roma Sinfonietta.
A novembre 2016 è uscito l’ultimo disco di Sergio Cammariere, intitolato “Io”,
dove ho scritto gli arrangiamenti che sono stati eseguiti da un’orchestra d’ar-
chi insieme a Fabrizio Bosso, Amedeo Ariano e Luca Bulgarelli.
SINCRETISMI BRASILIANI
Un altro lavoro importante è quello sulla musica brasiliana, che porto avanti
con Barbara Casini. Lei è una grande esperta e mi ha introdotto in quel mon-
do, non solo alla bossa nova ma a tutta la ricca e complessa tradizione brasi-
liana. Insieme, negli anni abbiamo realizzato diversi progetti: “Vento” (Label
Bleu, 1999) con Enrico Rava, “Uragano Elis” (Via Veneto Jazz, 2004), “Agora
tà” (Via Veneto Jazz, 2012) con l’Orchestra Jazz della Sardegna. Sempre con
l’Orchestra Jazz della Sardegna, realizzeremo una versione per big band di un
progetto che ho già presentato con Barbara, dedicato a Edu Lobo. Il lavoro era
in origine sinfonico, ma stavolta lo arrangeremo per big band.
Nel 2014 abbiamo prodotto anche “Sinkretismos de los Americas”, che mi è
stato commissionato dal conservatorio di Adria. L’idea era di realizzare qual-
cosa che avesse un valore sociale, contro il razzismo, quindi mi è venuta l’idea
di scrivere un “Requiem felice” per la morte del razzismo, dove ho ripercorso
un po’ tutta l’America, dall’Uruguay all’Argentina ai Caraibi. C’erano l’Orche-
stra Jazz della Sardegna, un coro, due solisti e Barbara Casini alla voce.
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«Sarebbe ora di capire che il jazz è ormai un fenomeno mondiale e quindi,
quando si radica in Italia, non può fare a meno di confrontarsi con quella
che è stata la storia musicale dell’Italia, con i suoi teatri dell’opera, con la sua
tradizione legata alle orchestre sinfoniche»
IL JAZZ È APERTO
Il jazz è una musica aperta a tutte le strade, e il suo stesso nome è ormai ri-
duttivo (in effetti, non piaceva nemmeno a Ellington). Si tratta, piuttosto, di
un modo moderno di osservare il mondo musicale. Il jazz per me rappresenta
un modo di essere e di fare: assorbire tutte le culture e trattarle nella manie-
ra meno accademica possibile. Trasformarle, essere sempre e comunque cre-
ativi. Io ammiro molto il mondo della musica classica, ma trovo nel jazz una
maggiore libertà, una minore attenzione alla fedeltà del testo, che mi permet-
te di mettere le mani su ogni tipo di materiali. Quando vado a toccare capola-
vori come la “Norma” di Bellini, mi sento un po’ sfacciato: ma, in fondo, fa par-
te del gioco!
© ALBERTO TERRILE
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INTERVISTA
SINFONIA
PER ESBJÖRN
EMPATIA
SONO PASSATI QUASI NOVE ANNI DA QUANDO, NEL GIUGNO DEL
2008, LA VITA DI ESBJÖRN SVENSSON FU STRONCATA, A SOLI
QUARANTAQUATTRO ANNI, IN UN INCIDENTE DURANTE UN’IMMERSIONE
SUBACQUEA. ORA MAGNUS ÖSTRÖM E DAN BERGLUND, I SUOI
COMPAGNI NEL TRIO E.S.T., RENDONO OMAGGIO ALLA SUA MEMORIA
IN UN DISCO, INTITOLATO “E.S.T. SYMPHONY”, CHE VEDE LE SUE
COMPOSIZIONI ESEGUITE DALLA FILARMONICA REALE DI STOCCOLMA,
DIRETTA E ARRANGIATA DA HANS EK, INSIEME AD ALCUNI OSPITI
©TINA AXELSSON
DI STUART NICHOLSON
C
entro di Stoccolma, un piovoso venerdì mattina di giugno. Non è freddo, ma non
è nemmeno caldo, e gli impiegati, molti dei quali al riparo degli ombrelli, si affret-
tano per andare al lavoro. La grande, imponente Konserthuset, sede della Filar-
monica Reale di Stoccolma, sembra starsene in disparte rispetto al fiume di pedoni che le
corre accanto. Del resto, ha guardato la stessa scena ogni giorno fin da quando ha aperto i
battenti, nel 1926. All’interno, i membri della Filarmonica si aggirano per il palcoscenico,
preparando gli strumenti e chiacchierando amabilmente per ingannare il tempo, finché il
direttore Hans Ek entra in scena. Nel giro di un’ora, l’intera orchestra ha preso posto: file
di violini, viole e violoncelli, quattro contrabbassi, trombe, tromboni, corni francesi, oboi,
clarinetti, flauti, corni inglesi, un’arpista, un timpanista, due percussionisti, una marim-
ba e un glockenspiel contribuiscono a un crescendo di suoni, con settantotto musicisti che
fanno i propri esercizi di riscaldamento.
È una scena che si è ripetuta nei decenni, mentre generazioni di orchestrali si preparava-
no a provare, eseguire o registrare qualche pietra miliare della tradizione classica occiden-
tale. Ma oggi è diverso. Quando il copista distribuisce le parti ai musicisti, c’è un brusio di
curiosità per ciò che andranno a suonare. Nei successivi due giorni, la Filarmonica Rea-
le di Stoccolma concretizzerà l’ambizione di Esbjörn Svensson: far eseguire e registrare la
propria musica a un’orchestra sinfonica.
IL TRIO
A fornire il sostegno ritmico all’orchestra, nella seduta di registrazione, ci sono Magnus
Öström e Dan Berglund, rispettivamente alla batteria e al contrabbasso. Membri storici
dell’Esbjörn Svensson Trio – o e.s.t., com’era conosciuta la band –, si sono incontrati in ca-
merino dopo il primo giorno di registrazioni, per scambiarsi le loro impressioni.
«Mi è sembrata meglio di quanto pensassi», afferma Öström. «Perché ci sono tanti musi-
cisti, se li guardi nell’insieme, quindi in un certo senso è come se ci fosse una sola persona,
“l’orchestra”: ci siamo Dan, io, l’orchestra e i musicisti ospiti. È come essere in una band,
questa è stata la mia sensazione. Tutte le parti sono scritte benissimo. Davvero, è una bel-
la sensazione, a lui sarebbe piaciuta». Poi si gira verso Dan Berglund e chiede: «Ti ricordi
la nostra ultima prova con il trio?». «Beh, sì, certo», è la risposta. «Ricordi che alla fine di-
cemmo che alcuni pezzi suonavano orchestrali e che si potevano immaginare eseguiti da
un’orchestra sinfonica?». «Sì», risponde Berglund, e aggiunge: «A Esbjörn piaceva l’idea.
La prima volta che suonammo con il trio e gli archi fu nel 2003, Esbjörn scrisse tre arran-
giamenti e, mi pare, altri tre per il Jazz Baltica».
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INTERVISTA PAT METHENY
© BURKHARD HOPPER
HANS EK & ROYAL STOCKHOLM PHILHARMONIC ORCHESTRA
ESBJÖRN LO VOLEVA
Hans Ek fu una scelta felice, perché si tratta di un musicista con più di venticinque
anni di esperienza come compositore e arrangiatore, che spesso ha accostato la mu-
sica classica al jazz, al folk e al pop. «Prima che mi chiedessero di partecipare a que-
sto progetto, conoscevo già Esbjörn, Magnus e Dan, ovviamente», racconta Ek. «Io e
Dan avevamo studiato insieme, nei primi anni Ottanta, al Royal College of Music qui
a Stoccolma, perciò ci conoscevamo. E avevo lavorato per Esbjörn, scrivendo un ar-
rangiamento per una qualche occasione in cui si esibiva, e poi c’era stato un concer-
to a Istanbul con gli e.s.t. e un’orchestra d’archi. So che durante la loro ultima prova
ne avevano parlato, di fare qualcosa del genere, quindi quando mi fecero la propo-
sta non era un’idea completamente nuova per me. Ma, dall’altra parte, sentivo una
grossa responsabilità nei confronti di tutto il progetto. È possibile suonare la musi-
ca degli e.s.t. senza Esbjörn? Si può fare? Tutti avevano la sensazione che, innanzi
tutto, fosse qualcosa che si doveva fare. Anch’io sapevo che Esbjörn voleva realizza-
re questo progetto, non era un’idea che veniva da fuori, era un’idea sua, voleva che
la sua musica fosse eseguita da un’orchestra. E quindi...».
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«Ovviamente non lo [Esbjörn Svensson] si può sostituire, ma ho cercato di
trasferire [dai dischi] alcune caratteristiche del suo stile, e anche alcuni dei suoi
assolo. Quindi, il ruolo dell’orchestra è sia quello di essere “un’orchestra”, sia
quello di essere “un membro della band”»
L’ORCHESTRA E IL SOLISTA
Trasporre una musica, eseguita in origine da un trio con pianoforte, nella cornice
più vasta di un’orchestra sinfonica era una sfida non da poco, soprattutto dal mo-
mento che a Ek venne chiesto di produrre abbastanza musica per due tempi da qua-
rantacinque minuti ciascuno: la prima e la seconda parte di un concerto. Quali sono
le linee principali che hanno guidato il suo approccio?
«Da una parte, ho cercato di ottenere un suono orchestrale molto trasparente», rac-
conta. «Poi, a volte il trio usava l’elettronica per creare certe atmosfere e in alcu-
ni punti ho cercato di trasferire l’elettronica all’orchestra: è un po’ come uno sfon-
do, uno strato attorno a cose che potrebbero essere un po’ ambient. Poi si trattava di
trovare un posto per l’orchestra all’interno del progetto: qual è il ruolo dell’orche-
stra? Ho pensato che fosse quello che c’è nella composizione, ad esempio le atmo-
sfere o roba del genere, ma anche quello di Esbjörn. Ovviamente non lo si può so-
E.S.T. SYMPHONY
stituire, ma ho cercato di trasferire [dai dischi] alcune caratteristiche del suo stile, Da sinistra: Hans Ek, Magnus
e anche alcuni dei suoi assolo. Quindi, il ruolo dell’orchestra è sia quello di essere Öström, Iiro Rantala, Dan Berglund,
Verneri Pohjola, Marius Neset, Johan
“un’orchestra”, sia quello di essere “un membro della band”». Lindström
© BURKHARD HOPPER
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INTERVISTA PAT METHENY
DIVERSE VOCI
Una volta completate le composizioni per “E.S.T. Symphony”, nel 2013, venne fis-
sata una data, il 12 giugno dello stesso anno, per la prima al Konserthuset di Stoc-
colma. Ce ne furono altre alla Congress Hall Merkesi di Istanbul, per l’ente che ave-
va commissionato il lavoro, e al North Sea Jazz Festival di Rotterdam. In ciascuna
occasione vennero usati ospiti diversi, come successe anche in altri undici concer-
ti prima della registrazione, ai quali parteciparono pianisti come Iiro Rantala, Jacky
Terrasson, Yaron Herman, Martin Tingvall, Michael Wollny e Helge Lien, oltre ai
sassofonisti Marius Neset, Joakim Milder, Yuri Honing e altri. «Dato che non vo-
levamo un’unica persona che rimpiazzasse Esbjörn, ci andava bene avere ospiti di
versi, secondo me», dice Dan Berglund. «Volevamo continuare a suonare con per-
sone diverse. Penso sia importante anche per noi».
Per la sessione di registrazione, sono stati invitati diversi solisti, che hanno forma-
to una squadra scandinava, con il virtuoso finlandese Iiro Rantala al pianoforte, il
trombettista finlandese Verneri Pohjola, lo svedese Marius Neset, l’astro ascente
del sax, e il chitarrista svedese Johan Lindström. «Alcune parti le ho lasciate com-
pletamente aperte per i solisti», aggiunge Ek. «Ho anche inserito alcuni segnali: in
alcuni punti eravamo d’accordo con il solista che, quando stava per finire, costruis-
se qualcosa che puntava una certa direzione prestabilita». Ciascuno dei solisti mo-
stra grande empatia con la musica che ha a disposizione e trova una propria voce
all’interno del contesto compositivo, che non ne altera il significato, ma piuttosto fa
dell’improvvisazione un prosieguo dell’atmosfera e del clima emotivo di ogni bra-
no. «Non volevamo persone ambiziose, che si mettessero a fare le proprie cose al di
sopra dell’insieme», spiega. «Bisogna avere molto buon gusto per rendere omaggio
a Esbjörn, e allo stesso tempo introdurvi il proprio stile».
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©TINA AXELSSON
E.S.T. SYMPHONY
E.S.T. SYMPHONY
ACT, 2016
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CD STORY ORCHESTRA JAZZ PARTHENOPEA DI PINO JODICE E GIULIANA SOSCIA
© EMANUELE VERGARI
Orchestra Jazz
Parthenopea
di Pino Jodice e
Giuliana Soscia
featuring Paolo Fresu
MEGARIDE
DI SERGIO PASQUANDREA
Potete raccontarci come e quando è nata questa orchestra e quale idea c'è
dietro? Come avete selezionato i musicisti?
Pino Jodice / Pur vivendo a Roma da tanti anni, il legame artistico con Napoli per
me non si è mai interrotto e ho sempre desiderato formare un’orchestra costi-
tuita da musicisti partenopei. L’idea, quindi, è maturata nel 2014 insieme a Giu-
liana, attraverso l’incontro casuale con Enzo Amazio, chitarrista dell’orchestra.
Giuliana Soscia / Pur essendo latinense di origine, il mio cognome, invece, è na-
poletano per cui mi è piaciuta molto l’idea di Pino e l’ho sposata in pieno! Credo
che Napoli abbia delle grandi potenzialità artistiche dovute alla sua storia, com-
mistione di diverse culture. Partendo da questa idea, abbiamo selezionato alcu-
ni tra i migliori jazzisti campani, per la precisione venti musicisti tra i più appas-
sionati e soprattutto vicini ai nostri ideali: costituire un organico solido e pronto
a condividere questa nostra avventura.
CD STORY ORCHESTRA JAZZ PARTHENOPEA DI PINO JODICE E GIULIANA SOSCIA
«Uno dei musicisti più influenti tra i grandi capiscuola del jazz moderno è proprio Joe
Zawinul e l’omaggio è riferito a lui e alla sua scrittura innovativa. Il fatto che il titolo
coincidesse con il luogo della registrazione, avvenuta dal vivo il 22 giugno scorso, ha
reso questo omaggio ancora più pertinente»
I brani del disco attingono ad almeno tre grandi filoni: il jazz, la musica classi-
ca e la tradizione popolare italiana. Come avete lavorato per fonderli insieme e
quali sono secondo voi (se ci sono) i punti di contatto? In particolare, come ave-
te lavorato per integrare i materiali popolari in un ambito jazz?
PJ-GS / La nostra preparazione di base proviene dalla musica classica. Siamo en-
trambi pianisti classici, con una formazione accademica, quindi non è stato diffici-
le costruire un’alchimia avvincente e affascinante tra le diverse strutture musica-
li, solo apparentemente e culturalmente distanti. Abbiamo lavorato soprattutto sui
temi, ispirati e originati dalla nostra formazione, per renderli jazzistici, elaborandoli
ritmicamente e armonicamente. La melodia, l’orchestrazione e il rispetto della tradi-
zione sono, secondo noi, i punti di contatto delle diverse matrici culturali. La padro-
nanza delle tecniche compositive ci permette di integrare e far interagire materia-
le di origini diverse.
Il brano finale, Volcano For Hire dei Weather Report, l'ho letto come un omag-
gio a un gruppo che, fra i primi, ha operato una fusione fra il jazz e le tradizioni
di tutto il mondo. È un'interpretazione corretta?
PJ-GS / Uno dei musicisti più influenti tra i grandi capiscuola del jazz moderno è
proprio Joe Zawinul e l’omaggio è riferito a lui e alla sua scrittura innovativa. Il fatto
che il titolo coincidesse con il luogo della registrazione, avvenuta dal vivo il 22 giu-
gno scorso, ha reso questo omaggio ancora più pertinente. Infatti Volcano For Hire
(“vulcano in affitto”) sintetizza il nostro evento, realizzato nel Vulcano Solfatara di
Pozzuoli in occasione del Pozzuoli Jazz Festival, grazie ai bravissimi organizzatori
dell’associazione JA&CO (Jazz & Conversation): Maurizio Magnetta, Antimo Cive-
ro, Antonio Vanore e Angelo Pesce.
Allo stesso modo, Pino Daniele ha operato nel pop e nella musica leggera, ar-
ricchendoli con il blues, il jazz e la musica etnica. Com'è nata l'idea di riarran-
giare Chi tene 'o mare?
PJ / L’arrangiamento di questa meravigliosa ballad di Pino Daniele risale al 2002.
Nato per orchestra ritmico-sinfonica e scritto per il concorso internazionale di ar-
rangiamento per orchestra di Andria, vinse il primo premio. Pino Daniele, più di ogni
altro cantautore, è vicino al jazz per la sua storia e per le sue collaborazioni con musi-
cisti jazz di altissimo livello come Wayne Shorter, Pat Metheny, Chick Corea. Da na-
poletano doc, non potevo esimermi dall’omaggiarlo. Inoltre, proprio questa incisio-
ne ha ricevuto il Riconoscimento di Eccellenza Certificata dalla Pino Daniele Trust
Onlus e questo ci onora profondamente.
Com'è nata la collaborazione con Paolo Fresu? In che modo avete sfruttato la
sua voce strumentale all'interno dell’orchestra?
GS / L’incontro con Paolo Fresu è avvenuto in occasione del grande concerto “Il
jazz italiano per L’Aquila” nel 2015, con l’esecuzione del brano Inno alla vita, ripre-
so per intero nello speciale che andò in onda su RAI 5. La Sardegna è stata, per me e
Pino, oggetto di ispirazione dal punto di vista compositivo: essendo il Mediterraneo
il punto di riferimento del progetto Megaride, non poteva esserci migliore interprete
di colui che rappresenta questa terra straordinaria, jazzisticamente parlando. Le at-
mosfere hanno aiutato a introdurre e ispirare Paolo, attraverso un magico interplay
con l’orchestra e un’empatia con la nostra scrittura.
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«Napoli muove da sempre la mia ispirazione dal punto di vista compositivo e affettivo.
È stata e sarà sempre crocevia di incontri e di culture diverse, dalle quali nascono nuove
musiche, creazioni incredibili e modelli importanti di socializzazione e integrazione. È
proprio questa l’idea culturale di “riscatto” che ci ha spinto a costruire questo progetto»
© ENZO BUONO
ORCHESTRA JAZZ PARTHENOPEA
Come gestite la direzione dell'orchestra e come vi dividete il lavoro? DI PINO JODICE E GIULIANA SOSCIA
GS / Semplicemente, ognuno di noi dirige i brani che scrive e arrangia. Quindi, in Il disco "Megaride" è stato registrato
dal vivo il 22 giugno 2016 nel
prova, ognuno di noi cura il proprio brano, naturalmente senza interferire nel lavo- Vulcano Solfatara di Pozzuoli (Na) in
ro dell’altro e passando dal ruolo di direttore a quello di strumentista. C’è sempre il occasione del Pozzuoli Jazz Festivali.
Special guest dell'evento, Paolo Fresu
rispetto dei ruoli, regola necessaria per un’orchestra. Poi ci sono le affinità musicali
e la collaborazione che ci legava già da molti anni, tramite il Giuliana Soscia & Pino
Jodice Quartet/Duet, con lavori discografici, concerti in tutto il mondo e vari proget-
ti, che hanno fatto di noi un duo molto affiatato.
Napoli è sempre stata, per secoli, un punto di incrocio fra culture diverse: il
Mediterraneo, l'Oriente, la Spagna, l'Europa. La musica può essere un'occasio-
ne di riscatto da tanti stereotipi che ancor oggi la affliggono?
PJ / Napoli muove da sempre la mia ispirazione dal punto di vista compositivo e af-
fettivo. È stata e sarà sempre crocevia di incontri e di culture diverse, dalle quali na-
scono nuove musiche, creazioni incredibili e modelli importanti di socializzazione
e integrazione. È proprio questa l’idea culturale di “riscatto” che ci ha spinto a co-
struire questo progetto, che valorizza il materiale umano e artistico che da sempre
distingue nel mondo Napoli: quella che ho lasciato circa venticinque anni or sono e
quella che ho ritrovato negli ultimi anni, attraverso la costituzione di questa mera-
vigliosa orchestra
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CD STORY ORCHESTRA JAZZ PARTHENOPEA DI PINO JODICE E GIULIANA SOSCIA
Introduzione
all’ascolto
DI PINO JODICE, GIULIANA SOSCIA
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Orchestra Jazz
Parthenopea
di Pino Jodice e
Giuliana Soscia
featuring Paolo Fresu
MEGARIDE
TRACKLIST
01. FESTE POPOLARI - SARDEGNA (G. Iodice) GIOVANNI IMPARATO PERCUSSIONI, VOCE
02. DURU DURU SONG (G. Iodice) DOMENICO GUASTAFIERRO FLAUTO
03. INNO ALLA VITA (P. Fresu, arr. P. Jodice) LUCIANO BELLICO 1° SAX ALTO
04. LU SCOTTIS (G. Soscia) CLAUDIO CARDITO 2° SAX ALTO
05. CHI TENE O MARE (P. Daniele, arr. P. Jodice) GIANLUCA VIGLIAR 1° SAX TENORE
06. VARIAZIONI / SONATA PER LUNA CRESCENTE (G. Soscia) VALERIO VIRZO 2° SAX TENORE
07. VOLCANO FOR HIRE (J. Zawinul, arr. P. Jodice) NICOLA RANDO SAX BARITONO
GIANFRANCO CAMPAGNOLI 1° TROMBA
LORENZO FEDERICI 2° TROMBA
FABIO RENZULLO 3° TROMBA
PINO MELFI 4° TROMBA
LINEUP UMBERTO PAUDICE 5° TROMBA
ALESSANDRO TEDESCI 1° TROMBONE
PINO JODICE DIREZIONE (#1, 2, 3, 5, 7) FRANCESCO IZZO 2° TROMBONE
PIANOFORTE, COMPOSIZIONI, ARRANGIAMENTI PASQUALE MOSCA 3° TROMBONE
GIULIANA SOSCIA DIREZIONE (#4, 6) MICHELANGELO GRISI TROMBONE BASSO
FISARMONICA, COMPOSIZIONI, ARRANGIAMENTI ALEXANDRE CERDÀ BELDA TUBA
ENZO AMAZIO CHITARRA
SPECIAL GUEST MARCO DE TILLA CONTRABBASSO, BASSO ELETTRICO
PAOLO FRESU TROMBA, FLICORNO, LIVE ELECTRONICS PIETRO JODICE BATTERIA
101
© JEAN-PIERRE LELOIR
© JEAN-PIERRE LELOIR
Jean-Pierre Leloir
L’OCCHIO DEL JAZZ
PER PIÙ DI QUARANT’ANNI, IL FOTOGRAFO JEAN-PIERRE LELOIR SI
DEDICÒ A RITRARRE I TANTI MUSICISTI JAZZ CHE VISITAVANO LA
FRANCIA, PRODUCENDO UN ENORME ARCHIVIO ICONOGRAFICO.
A SETTE ANNI DALLA SUA MORTE, LELOIR VIENE COMMEMORATO
TRAMITE UN LIBRO E UNA COLLEZIONE DI CENTO DISCHI, RIEDIZIONI DI
CLASSICI DEL JAZZ, OGNUNO CORREDATO DA UNA SUA FOTOGRAFIA
DI SERGIO PASQUANDREA
Q uello tra jazz e fotografia è un rapporto tanto stretto quanto misterioso. È indiscu-
tibile che il nostro immaginario jazzistico si sia foggiato anche attraverso le foto-
grafie: il “Great Day in Harlem”, fissato nel 1958 da Art Kane; l’intenso primo piano di
una Billie Holiday che canta a occhi chiusi, con la testa rovesciata all’indietro, scattato da
William Gottlieb; o, sempre di Gottlieb, Django Reinhardt che osserva sornione il mani-
co della propria chitarra, con una sigaretta in bocca, Monk che si volta di tre quarti ver-
so l’osservatore, con le mani a cluster sulla tastiera, Charlie Parker e Red Rodney che sor-
ridono osservando Dizzy Gillespie suonare, o ancora Parker che suona il sassofono con
lo sguardo perso nel vuoto, accanto a un giovane Miles Davis dalle mani ossute e nervo-
se. E l’elenco potrebbe continuare a lungo: si pensi alle innumerevoli fotografie di Fran-
cis Wolff stampate sulle copertine Blue Note, al Dexter Gordon avvolto in una nuvola di
fumo di Herman Leonard, al sassofonista colto da William Claxton nel bel mezzo di Ti-
mes Square, con una ragazza che lo abbraccia alle spalle, o al suo Chet Baker che si riflet-
te nel coperchio del pianoforte. O, ancora, al prezioso lavoro di fotografi italiani come Ro-
berto Polillo o Roberto Masotti.
FISSARE L’ATTIMO
Come mai si sia generato questo rapporto così profondo tra il jazz e l’immagine fotogra-
fica, non è semplice capirlo. Dipende forse dall’appeal specifico del jazz, con i suoi locali
fumosi e i suoi musicisti impegnati in ardue lotte con i propri strumenti. Oppure la ragio-
ne è più sottile: se, come affermava Roland Barthes ne La camera chiara, «ciò che la foto-
grafia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta», come non leggervi una segre-
ta affinità con il jazz, nel quale un disco cerca di fissare per sempre ciò che è effimero e
irripetibile per sua natura, l’improvvisazione?
Sono riflessioni suscitate dall’osservazione delle foto di Jean-Pierre Leloir, uno dei mas-
simi specialisti francesi di fotografia jazz, scomparso nel 2010 all’età di settantanove anni
e ora celebrato dalla “Jean-Pierre Leloir Collection”: cento classici del jazz, cinquanta cd
e cinquanta LP in vinile da 180 grammi, ripubblicati in lussuose edizioni impreziosite
dalle sue più belle fotografie. Una sfilata di ritratti illustri, da Art Blakey a Miles Davis,
da Billie Holiday a Chet Baker, da John Coltrane a Sarah Vaughan, da Louis Armstrong
a Thelonious Monk, tutti passati attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica.
Contemporaneamente, esce anche un libro, intitolato Jazz Images by Jean-Pierre Leloir,
che contiene centocinquanta delle sue immagini più famose in grande formato (lo stes-
so dei vinili), arricchite da una prefazione di Quincy Jones, dalle introduzioni di Michel
Legrand e Martial Solal e da una nota di Ashley Kahn, penna ben nota ai lettori di Jaz-
zit. Il progetto, ideato dall’etichetta spagnola Jazz Images, è distribuito in Italia da Egea.
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STORIE JEAN-PIERRE LELOIR
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IL JAZZ E LA FRANCIA
Nel corso della sua lunga carriera, Jean-Pierre Leloir non fotografò solo jazzisti.
Sono celebri le sue immagini di Edith Piaf, Johnny Hallyday, Yves Montand; ne-
gli anni Sessanta, documentò l’età d’oro dello “yé-yé” e realizzò ritratti di musi-
cisti rock e blues di passaggio in Francia: Bob Dylan, Aretha Franklin, John Lee
Hooker, Led Zeppelin, Rolling Stones e Frank Zappa. Era all’isola di Wight nel
1969, e lavorò molto anche con il teatro, specialmente con il Théâtre National Po-
pulaire, che negli anni Cinquanta e Sessanta, sotto la direzione di Jean Vilar, fu
una delle più prestigiose istituzioni teatrali parigine. Ma il jazz costituì sempre
il suo principale interesse.
Del resto, il rapporto tra il jazz e la Francia è antico e solido e risale al periodo
successivo alla Grande Guerra, quando una colonia di ex-militari afroamericani
decisero di stabilirsi a Parigi, attratti dall’assenza di quelle discriminazioni raz-
ziali che rendevano così dura la loro vita negli Stati Uniti. Negli anni successivi,
si creò a Montmartre una vera e propria colonia di emigrés, che comprendeva an-
che numerosi artisti. Si pensi ad esempio a Josephine Baker, che costruì la pro-
pria fortuna in Francia e ne assunse anche la cittadinanza. Fra i jazzisti, uno dei
primi e più celebri fu Sidney Bechet, che arrivò in Francia per la prima volta nel
1928 e negli anni Cinquanta vi si stabilì definitivamente. In Francia si trasferiro-
no anche Kenny Clarke, che vi fondò una celebre big band insieme a Francy Bo-
land, Johnny Griffin, Nina Simone.
Nel 1931 Hugues Panassié e Charles Delaunay fondarono l’Hot Club de France,
la prima associazione europea dedita specificamente al jazz, e tre anni dopo Pa-
nassié pubblicò Le jazz hot, pionieristico studio dedicato a quella che all’epoca
era ancora una musica giovanissima. Dopo la Seconda guerra mondiale gli esi-
stenzialisti che frequentavano le caves di Saint Germain des Prés e del Quartie-
re Latino erano appassionati di jazz. E proprio in Francia fiorirono le prime ri-
viste specializzate in jazz, fra cui la storica Jazz Hot, che ospitava gli articoli di
Boris Vian.
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STORIE JEAN-PIERRE
PAT METHENY
© JEAN-PIERRE LELOIR
MILES DAVIS
JOHN COLTRANE
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STORIE JEAN-PIERRE LELOIR
Sulla copertina di “Moanin’”, Art Blakey sorride guardando fuori campo, con
una lunga sigaretta che spenzola all’angolo della bocca. Su “Lady in Satin”,
una Billie Holiday con l’inconfondibile magnolia bianca sui capelli appoggia
la testa sul braccio, con un’espressione stanca e malinconica sul viso
MILES AL MARE
L’impressione è confermata dalle foto presenti nella “Jean-Pierre Leloir Collec-
tion”. Sulla copertina di “Moanin’”, Art Blakey sorride guardando fuori campo, con
una lunga sigaretta che spenzola all’angolo della bocca. Su “Lady In Satin”, una Bil-
lie Holiday con l’inconfondibile magnolia bianca sui capelli appoggia la testa sul
braccio, con un’espressione stanca e malinconica sul viso. Per “Giant Steps”, Col-
trane è colto in maniche di camicia, in camerino, mentre suona il sax tenore con
un piede poggiato su uno sgabello; sulla copertina di “For Lovers”, Leloir è addi-
rittura riuscito a cogliere un rarissimo sorriso, allegro e solare, del sassofonista.
“Louis Armstrong Meets Oscar Peterson” ci mostra un Satchmo durante un mo-
mento di pausa, con i pantaloni tirati su fino al ginocchio, i calzini arrotolati alle
caviglie e un gran fazzolettone candido al collo. Nina Simone (“Little Girl Blue”),
in bikini, gioca in piscina con due salvagenti a forma di cigno. Miles Davis (“Plays
Ballads”) fuma una sigaretta durante una pausa, con la tromba tenuta fra le gam-
be, oppure (“Round About Midnight”) appoggiato disinvoltamente a una ringhie-
ra, con lo sguardo verso il soffitto. Stan Getz (“Jazz Samba”) è in calzoncini e ma-
niche corte, con il sassofono a tracolla e lo sguardo intento a fissare chissà cosa. Bill
Evans (“Waltz For Debby”) è ripreso in campo lungo, appena una piccola sagoma
che sporge dietro il coperchio del grancoda, mentre un riflettore lo isola in un cer-
chio di luce. Dexter Gordon (“Go!”) siede, comicamente impettito, con in mano una
paglietta e un bastone da passeggio, di fronte a un pianoforte sul quale sono posa-
ti due vecchi grammofoni. Chet Baker si appoggia a un contrabbasso per parlare,
con un’espressione preoccupata, al suo pianista Dick Twardzik (“Chet & Dick”).
C’è addirittura un inedito Miles steso a prendere il sole su una sdraio (“Sketches
Of Spain”) o colto al mare, in costume da bagno, mentre si diverte a far rimbalzare
una pallina di gomma legata a un elastico (“Workin’”).
© JEAN-PIERRE LELOIR
BILL EVANS
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© JEAN-PIERRE LELOIR
CHET BAKER
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JAZZ ANATOMY
© ROBERTO POLILLO
NIGHT IN TUNISIA
DI ROBERTO SPADONI
NASCITA E RINASCITA
DIZZY GILLESPIE AVEVA MILITATO NELLA COMPAGINE DI BENNY CARTER:
DURANTE QUELL’ESPERIENZA AVEVA SCRITTO UN BRANO INTITOLATO
“INTERLUDE”, CHE SAREBBE DIVENTATO LA SUA COMPOSIZIONE PIÙ FAMOSA.
QUANDO LO SOTTOPOSE A EARL HINES, QUESTI DECISE DI RINOMINARLO
“NIGHT IN TUNISIA”, AFFASCINATO DAL SUO ANDAMENTO ESOTICO
110
N
el 1942 il pianista e bandleader Earl “Fatha” Hines aveva raccolto nella
sua orchestra un gruppo di giovani musicisti i quali, pur distinguendosi
per un virtuosismo strumentale mai udito precedentemente e per le
inverosimili innovazioni di cui erano ambasciatori nel mondo del jazz, non
erano assolutamente ben visti da tanti colleghi delle generazioni precedenti ed
erano tacciati di “modernismo” nell’accezione negativa del termine. Ma non
da tutti: Hines, pur potendosi annoverare tra i grandi padri del jazz classico e
“tradizionale” e universalmente riconosciuto come uno dei più grandi pianisti
della storia della musica afroamericana, ammirava senza remore gli irrequieti
solisti delle nuove generazioni be bop, tanto che chiamò a raccolta nella sua
orchestra – tra gli altri – i sassofonisti Charlie Parker, Gene Ammons e Wardell
Gray, il trombettista Dizzy Gillespie, il cantante Billy Eckstine e successivamente
Sarah Vaughan, che lo sostituì quando egli intraprese la propria carriera
autonoma. La sua fu riconosciuta come la prima vera e propria orchestra be
bop e a un certo punto fu rilevata e portata in tour da Billy Eckstine: fu proprio
la visione di questa orchestra a S. Louis che spinse il giovanissimo Miles Davis –
che aveva avuto occasione di aggiungersi per una gig ai suoi idoli – a lasciare la
casa paterna e andarsene a New York a inseguire la propria carriera e la propria
vita. Purtroppo, a causa di un lungo sciopero indetto dai sindacati dei musicisti,
l’orchestra si esibì spesso dal vivo, ma non entrò mai in sala di registrazione.
INTERLUDE
John Birks “Dizzy” Gillespie nel periodo precedente alla collaborazione
con Earl Hines aveva militato nella compagine del grande sassofonista e
arrangiatore (ma anche trombettista) Benny Carter: durante quell’esperienza
aveva scritto un brano per il repertorio del gruppo intitolato Interlude, che
con il passare degli anni sarebbe diventato la sua composizione più famosa e
celebrata. Quando lo sottopose a Hines, questi decise di rinominarlo “Night In
Tunisia”, affascinato dall’andamento esotico e misterioso della linea melodica
e della successione armonica. Dopo averlo cantato in quell’orchestra, Sara
Vaughan ne registrò una bellissima versione, utilizzando il testo che intanto
era stato approntato da un’altro gigante della vocalità, Jon Hendricks, il quale
tornò durante la sua carriera su quest’opera con una serie di evoluzioni che
portarono alla stratosferica e celeberrima esecuzione contenuta nell’album
“Vocalese” dei Manhattan Transfer, con il titolo trasformato in “Another Night
In Tunisia”.
Hendricks fa in effetti dei precisi riferimenti – alla fine delle strofe A – al
termine “interlude”, mentre non appare alcuna citazione non solo della Tunisia
o dell’Africa, ma neanche di nessun elemento esotico: nonostante ciò il brano
è già diventato Night In Tunisia. Ecco di seguito il testo che si può ascoltare in
quella registrazione – la prima pervenutaci – accreditata a “Sarah Vaughan and
her All-Stars”, un combo prodotto dal critico e musicista Leonard Feather il
31 dicembre 1944 (Continental Label Records), a cui partecipa anche Gillespie
in qualità di ottimo arrangiatore e solista. Nell’ascolto – reperibile anche su
YouTube – mancano molti degli elementi che hanno reso successivamente
celebre la composizione: su tutti, i riff di introduzione e il famoso interludio, da
cui probabilmente si era sciolta la vena creativa di Gillespie.
111
JAZZ ANATOMY
A
I lived in a dream for a moment
We’d loved in a midnight solitude
But I never knew at the moment
Love was just an interlude
A
I thrill as your arms would enfold me
A kiss of surrender says the mood
Then heaven fell down when you told me
Love’s a passing interlude
B
The magic was unsurpassed
Too good to last
The magic my heart once knew
Is dressed in blue
A
The shadow of night all around me
I walk in a moonlight solitude
When I thought romance really found me
Love was just an interlude.
esempio 1
La scansione del tempo è latin: fu questo uno dei primi esperimenti di Gillespie
in merito all’incontro tra la musica afrocubana e il linguaggio compositivo del
jazz, che fece di lui uno dei fondatori del latin jazz.
Il compositore usa un procedimento di stratificazione di eventi: al primo
ostinato – e all’accompagnamento della batteria – si sovrappone un secondo
riff che, secondo l’organico con cui viene eseguito il brano, è più o meno
armonizzato. Il tutto funziona su due accordi a distanza di semitono, che creano
una ambientazione tensiva, ipnotica, vagamente misteriosa: il primo accordo è
una delle firme sonore del be bop, ricavato da una sostituzione di tritono del
dominante di D minore, A7.
112
© WILLIAM P. GOTTLIEB
BOYD RAEBURN ORCHESTRA, NEW YORK, 1947
Ginnie Powell, vocalist e moglie di Boyd; Jay Johnson,
vocalist principale; (ultima fila) Irving Kluger, batteria;
Pete Candoli, Wes Hensel e Gordon Boswell, trombe;
(prima fila) Hy Mandell, sax baritono; Randy Bellerjeau,
trombone; Abe Markowitz (dietro la mano di Boyd), sax
contralto; Buddy De Franco, clarinetto
esempio 2
esempio 3
113
JAZZ ANATOMY
esempio 4
114
Il produttore discografico Teddy Reig ha raccontato che Parker si era
chiuso nel bagno dei camerini e si era immerso completamente vestito,
e in condizioni poco presentabili, nella vasca da bagno: poco prima
dell’esibizione la porta fu abbattuta a spallate, il sassofonista fu asciugato,
rivestito ex novo, gli fu messo lo strumento in mano e fu spinto sul palco.
Quello che seguì è leggenda: la registrazione del concerto, successivamente
pubblicata dall’etichetta Birdland, ci consegna un apice creativo del
quintetto probabilmente ineguagliato nella storia della jazz.
Night In Tunisia è il primo brano del set; sulle sezioni A il sassofonista suona
il riff insieme alla sezione ritmica, infilando qualche fioritura sulle frasi
di chiusura. Quando Parker prende il tema sulla sezione B, si comincia a
intuire che non sarà un giorno qualunque: si percepisce che il pubblico entra
in gioco contribuendo a un clima eccitante, elettrico, rumoreggiando con
contenuti applausi alle note di Parker. Osserva il mostro che, presentatosi
ubriaco, barcollante e imprevedibile, appena imbracciato il suo tubo, vola
da par suo, senza indecisioni, senza alcuna difficoltà apparente. Alla fine
dell’esposizione tematica, alla fine dell’interludio, arriva il momento che
tutti stanno aspettando: il break che darà l’inizio all’improvvisazione del
sassofonista, che da quel giorna sarà di quattro misure. È il momento in cui
tutto si ferma, la sezione ritmica tace, il solista rimane a cavalcare lo swing,
è il momento dove non si può sbagliare. Con Bird l’errore non è previsto,
l’esitazione non è di casa, è il momento di spiccare il volo. Le quattro
misure del break sono una bruciante sferzata, tutti rimangono incollati al
suolo mentre Bird si stacca in volo: al rientro della ritmica, la sala esplode,
Night In Tunisia è entrato nella leggenda. Per sempre
© WILLIAM P. GOTTLIEB
115
LAURA AVANZOLINI
I’M ALL SMILES
DODICILUNE KOINÈ, 2016
RECORDS
Vignato al trombone, Glauco Benedetti alla
tuba, Alfonso Santimone al piano e Andrea
Grillini alla batteria, il disco è un brillante
insieme di diverse sonorità: sezioni in con-
trappunto, brani ritmicamente complessi,
echi da banda di paese, e così via, in un mag-
a cura di
ma sonoro intelligentemente creato e spesso iconoclasta e corro-
Antonino Di Vita sivo. (EM)
Eugenio Mirti
Roberto Paviglianiti
Luciano Vanni
GIANLUCA BUFIS/GIANCARLO SABBATINI
ICE LAND
WORKIN' LABEL, 2016
98
batini (vibrafono, marimba, batteria, percus-
sioni) la ricerca di nuove forme espressive,
da elaborare sul piano sia timbrico sia com-
positivo, passa per gli algidi paesaggi nor-
deuropei e le percezioni sonore che gli stes-
si evocano nei due musicisti. Ne nascono una
serie di brani refrattari a qualsiasi catalogazione, solcati da intri-
ganti connotazioni elettroniche, jazz, ambient e avant-garde dalle
MARZO / APRILE 2017 quali traspare un pensiero apolide della musica filtrato da un ap-
JAZZ
proccio non convenzionale agli strumenti. (ADV)
REVIEW
terista Vitor Cabral, e il loro lavoro “Alfa” (re-
gistrato dal vivo al Teatro Alfa di São Paulo),
fatta eccezione per alcune riletture, come Ou-
tra vez di Antonio Carlos Jobim, si compone di
soli originali firmati dal leader. Nell’insieme,
votato alle classiche dinamiche del piano trio,
non mancano riferimenti alla musica brasiliana, tra passaggi ma-
linconici (Rute e sua grandeza - Vassi n. 1) e situazioni dal marca-
to impatto ritmico. Ospiti del trio in alcuni brani la cantante Va-
nessa Moreno e il sassofonista Cássio Ferreira. (RP)
116
BRUNO CANINO/ENRICO PIERANUNZI FRANCO D'ANDREA PIANO TRIO
AMERICAS TRIO MUSIC VOL. II
CAM JAZZ, 2016 PARCO DELLA MUSICA, 2016
Il duo pianistico composto da Bruno Canino Secondo episodio di una trilogia dedicata ai
ed Enrico Pieranunzi si incontra nel reperto- diversi trii di Franco D'Andrea, "Trio Music
rio musicale delle Americhe e dà senso compiu- Vol. II" è il seguito di "Electric Tree" e prece-
to a un repertorio – in parte rielaborato – che de il terzo volume "Traditions Today". Que-
indaga gli spartiti di, tra gli altri, Astor Piazzol- sto doppio CD vede protagonisti D'Andrea
la, Carlos Guastavino e George Gershwin. Ne insieme ad Aldo Mella al contrabbasso e a
derivano forme ed espressioni che coniugano Zeno De Rossi alla batteria. Diciannove bra-
il rigore del mondo classico con l’intraprendenza del linguaggio ni che spaziano nei diversi stilemi del pianista meranese, confer-
jazzistico, in un insieme costruito attraverso il reciproco ascolto, mando il sound modernissimo del suo trio per pianoforte. (EM)
tra momenti di minimale distacco e passaggi di sovrapposizione.
(RP)
Come già per il precedente “A Million Colors Com'è nelle sue già sperimentate modali-
In Your Mind” del 2015, esordio da leader in tà operative, il sassofonista e composito-
casa HighNote, anche qui Chestnut sceglie re Luca Donini, per l’occasione insieme al
di affidarsi alle mani esperte di due vetera- quartetto Radian completato da Emilio Piz-
ni: Buster Williams (contrabbasso) e Lenny zocoli alla batteria, Mario Marcassa al bas-
White (batteria). Il suo stile dallo swing mul- so e Roger Constant alle percussioni, rea-
tiforme, rigoglioso e austero al tempo stesso, lizza un lavoro lontano dalle consuetudini
si innerva di sfumature gospel, blues e soul dando nuovo lustro espressive. I brani di quest’album, dedicato
a classici quali le ballad It Could Happen To You, I Cover The Wa- alla dea della giustizia dell’antico Egitto Maat, chiamano in causa
terfront e My Romance o il vivace boogaloo Mamacita di Joe Hen- una forte componente ritmica, suoni elettrici, melodie cantabili e
derson. (ADV) passaggi più ruvidi e dal maggiore piglio di ricerca formale. (RP)
117
RECORDS JAZZ REVIEW
© ALEX GARCIA
Duccio
BertiniSusana
& Sheiman A DAY IN BARCELONA
DI EUGENIO MIRTI
118 118
«I brani sono tutti standard, alcuni anche molto conosciuti e suonati, e dunque
presentano una sfida in più nel cercare di sviluppare idee e sonorità particolari.
Il contesto specifico, cioè quello della big band che accompagna una voce, impone di
preservare il tema, quindi mi sono preso altre libertà»
Come è nata la collaborazione con Susana Sheiman? Come avete scelto i musi-
cisti che suonano con voi in "A Day In Barcelona"?
L'idea è nata perché da anni lavoro in Spagna e sono così entrato in contatto con la
realtà di Barcellona, una città di 2.500.000 abitanti, nella quale lavorano circa dodici
big band professionali. Avevamo già collaborato insieme, per esempio a Siviglia e a
Stoccolma, e ci è venuta l'idea di realizzare un disco incentrato sulla sua voce. Abbia-
mo dunque formato ex novo un'orchestra formata dai migliori musicisti di Barcel-
lona, spagnoli o stranieri che lì risiedono, e abbiamo preparato per mesi il progetto.
DUCCIO BERTINI/SUSANA SHEIMAN
Quali sono nella storia del jazz gli arrangiatori che ti hanno ispirato di più? rio molto conosciuto e suonato:
I miei arrangiatori e compositori di riferimento sono Duke Ellington, Gil Evans e brani di Cole Porter, Duke Elling-
Maria Schneider. Di Ellington oltra ai colori e all'originale orchestrazione mi ha ton, Wayne Shorter, John Coltra-
sempre colpito l'essenzialità, il saper esprimere idee complesse in forma semplice. I ne che sapientemente reinventa-
suoi album che mi piacciano di più sono certamente le grandi suite orchestrali, a co- ti e riarrangiati da Bertini spesso
minciare dal suo capolavoro “Such Sweet Thunder”. Di Gil Evans e Maria Schnei- acquistano suoni e sapori nuovi e
der apprezzo l’orchestrazione e e armonie ricche di colori e tensioni armoniche. originali. La big band protagoni-
sta della registrazione è compo-
Presenterete il disco? sta da alcuni dei migliori musicisti
Il disco è già stato presentato il 16 ottobre, con la stessa big band della registrazio- spagnoli, che esibiscono una im-
ne. Stiamo pensando, a causa delle evidenti necessità logistiche, di proporlo in Ita- peccabile padronanza strumentale
lia con una band italiana, in modo da presentare Susana al pubblico del nostro paese. e interpretativa, con alcuni memo-
rabili assolo di Toni Solà. Un disco
Quali sono i tuoi lavori prossimi? ben curato e divertente, che si ria-
Gli ultimi due dischi li ho realizzati con big band, ora vorrei spostarmi su cose diver- scolta volentieri molte volte. (EM)
se: a giugno registreremo un quartetto d'archi insieme a Francesco Cusa & The As- It Could Happen To You / You'd Be So Nice To Come Home To /
sassins, quindi un progetto con una strumentazione diversa e con un'altra accezio- Spring Can Really Hang You Up The Most / Começar De Novo /
ne del jazz; a febbraio è invece uscito un disco dedicato a Thelonious Monk per un I'm Glad There Is You / You've Changed / E.S.P. / African Flower
quintetto di ottoni di Valencia, con ospite alla tromba David Pastor / Lazy Bird
119
GIORGIO FERRERA TRIO GIROTTO/DE MATTIA/CESSELLI/KAUCIC
WINTERREISE IL SOGNO DI UNA COSA
ARZBAUM, 2016 CALIGOLA, 2016
121
RECORDS JAZZ REVIEW
© MICHELE CANTARELLI
Cristiano
Calcagnile
MULTIKULTI CHERRY ON
DI ROBERTO PAVIGLIANITI
122 122
«Ascoltando i dischi di Don Cherry, quello che mi ha colpito è stato proprio il suono.
Mi sono interrogato su come ottenere quell’effetto, quella precisione, unita a tanta
libertà! Ebbene, il risultato che ho ottenuto non è paragonabile ai suoi capolavori,
ma ciò che ho perseguito è stato questo»
Per rendere omaggio a Cherry, in che modo hai operato le scelte di repertorio?
Ho iniziato studiando e ascoltando tantissimo materiale. In seguito ho trascritto e
ricercato un senso di rispetto al tributo, avendo a che fare con un produzione vasta,
varia e, per certi versi, complessa. L’idea che ho cercato di seguire, seppur non in un
ordine cronologico, è stata quella di creare un sentiero che attraversasse le diverse
tappe del suo percorso artistico. Il suo lavoro con Ornette e l’avanguardia newyorke-
se, l’esperienza in Europa con Gato Barbieri e Karl Berger, la sua ricerca etnica sul-
la musica africana, indiana e orientale, il suo amore per il minimalismo europeo che
lo ha visto collaborare con Terry Riley, il suo lavoro con Old and New Dreams e poi CRISTIANO CALCAGNILE
123
FOCUS JAZZ REVIEW
Nels
Cline LOVERS
DI EUGENIO MIRTI
124
DERRICK HODGE
THE SECOND
BLUE NOTE, 2016
KEITH JARRETT
A MULTITUDE OF ANGELS
ECM, 2016
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SAMUELE MAMMANO WITH JAZZ FRIENDS LUIGI MARTINALE QUARTET
EUPHORIA IL VALZER DI SOFIA
MASABOBA, 2016 ABEAT, 2016
Interessante figura di crooner e allo stes- Luigi Martinale firma un album pregevo-
so tempo di abile trombettista, Salvato- le, che si fa apprezzare per le raffinate solu-
re Mammano propone con "Euphoria" un zioni armoniche, la bellezza dei temi esposti
album intimista, che si muove in quegli (Il valzer di Sofia, King Of Blurry, Breath, Lost
spazi tipici che coniugano jazz a canzone And Found) e gli arrangiamenti sobri ed ele-
d'autore. Arrangiamenti ben scritti carat- ganti. Ad assecondare il lirismo dai toni colti
terizzano i brani, tutti originali scritti dal del pianista torinese tre musicisti simpateti-
leader a eccezione della pregevole rilettura di Nessun dorma dalla ci come Stefano Cocco Cantini (sax tenore e soprano), Yuri Golou-
Turandot di Puccini. Un album ben realizzato che piacerà sicura- bev (contrabbasso) e Zaza Desiderio (batteria), capaci di fomen-
mente agli amanti del genere. (EM) tare il passo in episodi più sostenuti quali Alagitz, On All Fours e
Mamia. (ADV)
"Hardcore Chamber Music" è un disco im- La dinamica nusica.org sigla la sua decima pro-
prevedibile e curioso, che mescola nello stes- duzione dando alle stampe un altro lavoro dai
so brano, a volte anche nel giro di poche bat- tratti audaci e avventurosi. Firmato dal chitar-
tute, elementi bop, hard bop, swing, rock, rista triestino Andrea Massaria e dal batteri-
avant-garde, funk, free, e così via: una conti- sta Bruce Ditmas, il disco penetra nell'univer-
nua sorpresa che rende la musica frizzante e so compositivo della Bley con profondo rispetto
personale. Non mancano brani più moderati ma scevro da qualsiasi forma di sudditanza in-
come Una bella voce ma il sound complessivo è chiaramente schi- terpretativa. L'organico “ristretto” dà vita a una visione inedita
zofrenico, una vera rappresentazione dei tempi musicali del XXI della musica della Bley, che si materializza tra silenzi, contrasti
secolo. (EM) dinamici e una timbrica creativa, in un continuo saliscendi di ri-
mandi e invenzioni improvvisative. (ADV)
127
RECORDS JAZZ REVIEW
© PAOLO GALLETTA
Paolino
Dalla Porta
Future Changes ˇ
Quartet M O O N L A N D I N G
CON “MOONLANDING” (TUK MUSIC, 2016) IL CONTRABBASSISTA E
COMPOSITORE PAOLINO DALLA PORTA TORNA A INCIDERE NELLE
VESTI DI LEADER A SETTE ANNI DI DISTANZA DAL PRECEDENTE
“URBAN RAGA” (PARCO DELLA MUSICA RECORDS, 2009). PER
L’OCCASIONE ORGANIZZA UN NUOVO QUARTETTO CON NICOLÒ
RICCI AL TENORE, DARIO TRAPANI ALLA CHITARRA ELETTRICA E
RICCARDWO CHIABERTA ALLA BATTERIA, E PROPONE DELLA MUSICA
ORIGINALE CHE RIASSUME I DIVERSI ASPETTI DELLA SUA SCRITTURA,
DAL MINIMALISMO AL ROCK, DALLA MELODIA AL FREE
DI ROBERTO PAVIGLIANITI
128 128
«Mi piace oscillare tra la melodia, che fa parte del mio background, e l’astrazione.
Sono anni che mi muovo in queste direzioni e sono aperto a varie influenze musicali.
C’è dunque un’ispirazione “lunare”, che non saprei spiegare bene a parole, ma che
rimanda a un certo tipo di immaginario che abbiamo della Luna»
poi, vista la mia curiosità di conoscere giovani musicisti, abbiamo coinvolto Nicolò
Paolino Dalla Porta (cb); Nicolò Ricci (ten); Dario Trapani (ch);
Ricci e Dario Trapani. Dopo un anno di incontri ci siamo ritrovati con un repertorio Riccardo Chiaberta (batt)
di mie composizioni che ho pensato di proporre alla Tuk Music di Paolo Fresu. È un
Per dare seguito alla sua discogra-
quartetto che mi stimola e sono contento della riuscita del disco.
fia da leader ferma a “Urban Raga”
(Parco della Musica Records,
Si tratta di una sorta di concept incentrato sulla Luna?
2009), Paolino Dalla Porta, oltre a
Sì, ma non sulla Luna vista come “aspetto romantico”. Viviamo un momento storico continuare la sua attività con real-
complicato, tra crisi economica e terrorismo, quindi la considerazione che ho fatto è tà storiche come il Devil Quartet di
stata quella di ritrovarmi in un posto distante per osservare la bellezza della Terra. Paolo Fresu, organizza un nuovo
Un po’ come quelle immagini trasmesse dallo spazio per capirci. Stiamo distruggen- quartetto, il Future Changes Quar-
do un pianeta. È questa l’idea che ho seguito per realizzare la musica di quest’album. tet, completato da Nicolò Ricci al
tenore, Dario Trapani alla chitarra
Come hai tradotto in musica questo concetto? elettrica e Riccardo Chiaberta alla
In alcuni brani è presente un aspetto di rarefazione, al di là dei titoli evocativi. Sono batteria. “Moonlanding” presen-
temi minimalisti che si dipanano con improvvisazioni, fino a raggiungere una certa ta una scaletta di sette brani ori-
densità. Mi piace oscillare tra la melodia, che fa parte del mio background, e l’astra- ginali firmati dal contrabbassista,
zione. Sono anni che mi muovo in queste direzioni e sono aperto a varie influenze che mostrano le diverse matrici
espressive derivanti dal suo vasto
musicali. C’è dunque un’ispirazione “lunare”, che non saprei spiegare bene a parole,
background: dagli accenti ritmi-
ma che rimanda a un certo tipo di immaginario che abbiamo della Luna.
ci di provenienza rock a momen-
ti formali prossimi al free jazz, dai
Alcuni passaggi risultano però energici, quasi aggressivi.
passaggi melodicamente cantabili
In effetti sì (ride, NdR). C’è del free, alcune matrici rock, soprattutto nella pulsa- a situazioni che flirtano con la ra-
zione ritmica. Sono del 1956, e negli anni Sessanta si ascoltava il rock, il progressi- refazione. Il quartetto costruisce
ve, e questo è entrato nella mia scrittura e nel mio modo di suonare. Il free jazz mi un percorso dove si alternano bra-
ha visto ascoltatore e protagonista. Negli anni Settanta la proposta del jazz era inte- ni concitati, come l’iniziale Campo
sa così, è stata la scena che ho amato. Ho fatto un percorso artistico inverso, nascen- magnetico, e tracce dal lento svi-
do da quel tipo di atteggiamento espressivo fino alla tradizione. Il mio occhio osser- luppo espressivo che rimandano
va tutta la musica, dalla etnica alla contemporanea. Il jazz è la sintesi. a un immaginario di “fluttuazio-
ne sonora”, per un insieme capace
Sei influenzato anche da altre arti? di sviluppare un’estetica comples-
Dalla pittura e dalle arti visuali in genere. Nello specifico dalla pittura astratta del siva ben delineata e mai stucche-
Novecento. L’aspetto visivo dell’arte è una componente molto forte che condiziona vole. La copertina riproduce un’o-
il mio modo di scrivere. In un certo momento ero indeciso se intraprendere la car- pera di Dalla Porta dal titolo Blue
Alchemy. (RP)
riera artistica o quella musicale. La musica ha una socialità diversa e molto più forte.
Mi piace condividere questo tipo di esperienza con gli altri musicisti e con il pubbli- Campo magnetico / Scritte lunari / Corale mare serenitatis / The
co, e questo fattore mi ha spinto nella mia attuale direzione primaria Loop / Lunar Tide / Slow Dance Of The Hidden Side / Red Shift
129
FOCUS JAZZ REVIEW
130
GIUSEPPE MILICI NILS PETTER MOLVÆR
THE LOOK OF LOVE BUOYANCY
IRMA, 2016 OKEH, 2016
Quello prodotto dalla Jazzy Records è il pri- Il disco di Mortellaro è stato realizzato da uno
mo album nelle vesti di leader per la cantan- degli ensemble più ascoltati nella storia del
te Alessandra Mirabella, al fianco della qua- jazz: il trio per pianoforte. Nonostante ciò il
le troviamo Max Ionata ai sassofoni, Rosario disco è molto bello e particolarmente origina-
Bonaccorso al contrabbasso, Nicola Angeluc- le e personale: composizioni interessanti, a vol-
ci alla batteria e Giovanni Mazzarino al pia- te anche molto articolate e complesse, arricchi-
noforte. Quest’ultimo si è occupato anche te da un notevole intreccio musicale realizzato
degli arrangiamenti dei brani in scaletta scelti dal songbook di Ir- dal sovrapporsi delle idee del leader e della ritmica. I brani sono
ving Berlin, che si alternano con alcuni brevi passaggi d’improv- tutti originali ed esprimono un approccio sempre in bilico tra
visazione. La Mirabella mostra un profondo scavo espressivo, ot- rock, jazz, fusion acustica. (EM)
tenuto grazie al perfetto controllo dinamico e all’elegante timbro
vocale. (RP)
131
FOCUS JAZZ REVIEW
© GOVERT DRIESSEN
Holland/Potter
Loueke/Harland
DI ROBERTO PAVIGLIANITI
AZIZA
132
FRANCESCO ORIO TRIO
CAUSALITY CHANCE NEED
NAU, 2016
SONNY ROLLINS
HOLDING THE STAGE/ROAD SHOWS VOL. 4
DOXY/OKEH, 2016
AISHA RUGGIERI
SOUTHLITUDE
CALIGOLA, 2016
133
RECORDS JAZZ REVIEW
Vittorio
Mezza Trio NAPOLI JAZZ SONGS
© LAURA CUSANO
DI EUGENIO MIRTI
134 134
«Ho cercato di trovare una sorta di trait d'union tra le tematiche della canzone
napoletana, sempre ricca di sentimenti ed emozioni forti. Per esempio, Torna a
Surriento mi sembra coerente con il tema dell'immigrazione, così come Lacreme
napulitane. Un altro tema è legato alle colonne sonore del cinema»
sa di Pino, ed è stata una sensazione un po' strana apprendere poi della sua dipartita.
Il lavoro di Vittorio Mezza rilegge
Ho cercato di trovare una sorta di trait d'union tra le tematiche della canzone napo-
in chiave jazzistica alcuni classici
letana, sempre ricca di sentimenti ed emozioni forti. Per esempio, Torna a Surrien- della canzone napoletana, a par-
to mi sembra coerente con il tema dell'immigrazione, così come Lacreme napulitane. tire da quelli della tradizione po-
Un altro tema è legato alle colonne sonore del cinema: il medley di Ennio Morrico- polare come Tammurriata nera e
ne, con un tema da Once Upon a Time in America, e quello di Nuovo Cinema Paradi- Torna a Surriento fino ad arriva-
so. Del resto io stesso sono emigrante... re a Tu vuò fa' l'americano di Re-
nato Carosone, Quanno chiove di
Pino Daniele e a un medley dedi-
Come hai lavorato agli arrangiamenti?
cato a Ennio Morricone. La ritmica
Ho sempre cercato un equilibrio nel non danneggiare l'edificio originale e creando
del progetto è canadese, ed è di-
qualcosa di diverso, fresco e contemporaneo. In alcuni brani così ho cambiato me- vertente ascoltare George Koller
tro, portandolo in 5/4, Reginella è diventata un'alternanza di 6/4 e 5/4 e così via. La e Davide DiRenzo alle prese con
sfida è anche quella di creare qualcosa di divertente per chi suona, e riconoscibile il più classico repertorio parteno-
per chi ascolta. In altri brani ho lavorato su sostituzioni armoniche, interludi, peda- peo. Gli arrangiamenti di Mezza
li, e così via. sono ben congegnati, non snatu-
rano mai le composizioni di par-
tenza ma le rendono originali e
Come hai scelto i tuoi due compagni?
particolarmente personali: brillan-
George è tra i migliori bassisti di Toronto, così come Davide è tra i migliori batteri-
te la rilettura di Tu vuò fa' l'ame-
sti della scena: ha un nome italiano, ma in realtà è canadese. Sono stati scelti da Ja- ricano, ritmica e incalzante quella
dro Subic, che mi conosce da molti anni e ha immaginato che sarebbero andati bene. di Tammurriata nera, evocativa la
Devo dire che fin dalla prima nota della prima prova c'è stata un'intesa immediata, e versione di Torna a Surriento, qua-
quindi sono particolarmente soddisfatto sia artisticamente sia umanamente. si rock Funiculì Funiculà, e così via,
in un'ideale passeggiata nelle me-
Presenterete il disco live? raviglie dell'ingegno musicale. Un
disco ben riuscito, che dimostra le
Sì, faremo delle presentazioni a Toronto e a Montreal i primi di maggio.
grandi capacità tecniche e inter-
pretative di Vittorio Mezza e che
Quali progetti hai per il futuro? Realizzerai altri lavori monografici simili? si riascolta molte volte sia per l'ap-
In realtà la prima proposta che avevo fatto a Jadro era basata sui pezzi storici del proccio originale a brani molto co-
rock: ho già gli arrangiamenti. Per il momento vediamo come si evolverà questo pro- nosciuti sia per il playing di alto li-
getto, poi deciderò vello. (EM)
135
MARCUS STRICKLAND'S TWI-LIFE DANIELE TITTARELLI & MARIO CORVINI'S NTJO
Prodotto da Marcus Strickland insieme alla La New Talents Jazz Orchestra nasce per ini-
produttrice e bassista Meshell Ndegeocello, ziativa di Mario Corvini, che ne è anche di-
"Nihil novi" è un disco particolarmente elabo- rettore: una big band che ha metabolizzato la
rato, costruito sfruttando tutti i trucchi dello personale idea di conduction di Corvini, che
studio di registrazione nell'intento di mesco- la guida come fosse un unico strumento dalle
lare ritmi, parti strumentali, voci, campio- vaste opportunità timbriche e dall'ampio po-
namenti vari. Gli elementi musicali coprono tenziale espressivo. “Extempora” ci fa ascol-
un'impressionante varietà stilistica, dal jazz al tare sette nuove composizioni di grande personalità, manifesto di
blues, dal gospel all'hip hop al folk europeo, e il disco sorprende un’idea nuova di essere orchestra: liriche aperte, melodiche e al
infatti per l'estrema varietà di approcci. (EM) tempo stesso spigolose. Per la NTJO è anche una preziosa occa-
sione di ospitare il sassofonista Daniele Tittarelli. (LV)
“It's Hard”, ovvero l'arte della cover. E di sole C'è un senso di totale abbandono e una pro-
cover, infatti, è composto l'undicesimo album fonda poesia nelle note che fluiscono dal pia-
da studio del trio newyorkese. Undici tracce noforte di Joona Toivanen. Il pianista finlan-
rimodellate a propria immagine e somiglian- dese si ritaglia con “Lone Room” uno spazio
za che incrociano gli “umori” di Prince, Cin- introspettivo in cui scandagliare i moti dell'a-
dy Lauper, Peter Gabriel, Kraftwerk, Johnny nimo. Registrato presso gli studi Artesuono
Cash e Ornette Coleman destrutturandoli at- di Stefano Amerio, il disco mette in evidenza
traverso una disarticolazione ritmica e armonica che, in aggiunta una sensibilità narrativa di estrazione classica solcata da chiaro-
all'ampio spettro timbrico e dinamico, offrono una rilettura non scuri timbrici e parentesi improvvisative di ampio respiro. A trat-
convenzionale dei brani, come nella migliore tradizione del grup- ti rarefatto, il tocco di Toivanen si lascia apprezzare per liricità e
po. (ADV) nitidezza espressiva. (ADV)
137
RECORDS JAZZ REVIEW
© UMBERTO GERMINALE_PHOCUS
Giovanni
Sanguineti Nextrio
GNOTHI SEAUTON
DI ROBERTO PAVIGLIANITI
138
«Ho scelto questo titolo che è da intendere, come spiego nel libretto del disco,
non come una domanda, ma come un’affermazione: conosco me stesso e quindi
posso fare questo passo. Questo CD è per me un punto in cui coincidono arrivi e
partenze dal punto di vista sia musicale sia umano»
Perché hai scelto il titolo “Gnothi Seauton”, che tradotto dal greco antico si- GIOVANNI SANGUINETI NEXTRIO
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UMBERTO TRICCA FILIPPO VIGNATO
Per il suo album d’esordio il chitarrista Umber- “Plastic Breath” segna l'esordio da leader di
to Tricca si avvale della collaborazione dei sas- Filippo Vignato, già attivo come membro di
sofonisti Achille Succi e Giacomo Petrucci, di altre dinamiche formazioni quali Omit Five,
Nazareno Caputo al vibrafono, Gabriele Ram- Mof, Giovanni Guidi Rebel Band e Piero Bit-
pi Ungar al contrabbasso e Bernardo Guerra tolo Bon's Bread & Fox. Il trombonista, in trio
alla batteria. Interpreti che mettono a reagire con Yannick Lestra (Rhodes, basso synth) e
la loro duttilità espressiva e formale in un lavo- Attila Gyárfás (batteria), coinvolti anche sul
ro che intreccia le diverse derivazioni stilistiche provenienti dal piano compositivo, esibisce qui un'anima sonora elettro-acusti-
background di Tricca, come le modalità ritmiche della musica in- ca con la passione per il jazz, il rock e l'improvvisazione radica-
diana, il contrappunto melodico del Centroamerica e l’improvvi- le, centrifugati in una policromia narrativa dalla fervida persona-
sazione contemporanea. (RP) lità. (ADV)
Per il suo album d’esordio il chitarrista Um- Quello di incidere con una line up formata da
berto Tricca si avvale della collaborazione dei musicisti newyorkesi è sempre stato uno dei
sassofonisti Achille Succi e Giacomo Petruc- desideri di Dhafer Youssef. Con “Diwan Of Be-
ci, di Nazareno Caputo al vibrafono, Gabrie- auty And Odd” il cantante e suonatore di oud
le Rampi Ungar al contrabbasso e Bernardo tunisino realizza il suo sogno reclutando alcu-
Guerra alla batteria. Interpreti che mettono ni degli artisti più blasonati dell'attuale sce-
a reagire la loro duttilità espressiva e formale na jazz di New York: Aaron Parks, Ambrose
in un lavoro che intreccia le diverse derivazioni stilistiche prove- Akinmusire, Ben Williams e Mark Guiliana.
nienti dal background di Tricca, come le modalità ritmiche del- Ne nascono così scenari musicali in bilico tra umori urbani e
la musica indiana, il contrappunto melodico del Centroamerica e magiche seduzioni mediorientali, con la vocalità inarrivabile di
l’improvvisazione contemporanea. (RP) Youssef a squarciare l'orizzonte sonoro. (ADV)
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RECORDS JAZZ REVIEW
© JACOPO SALVI
© DANIELA FLAVONII
Spadoni
Roberto
DI EUGENIO MIRTI
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«Le orchestre di jazz sono un patrimonio di tutti gli appassionati. I festival, le rassegne,
i teatri sono gli enti che possono ospitare dignitosamente un organico orchestrale e in
qualche modo, proprio perché spesso agevolati da fondi pubblici, devono sentire la
promozione di questi progetti come un impegno verso la musica»
“Travel Music”, ovvero l'Italia dal finestrino: come sono nate le composizioni
e gli arrangiamenti di questo nuovo lavoro?
“Travel Music” raccoglie una parte dei lavori orchestrali concepiti e realizzati du-
rante i miei continui viaggi per concerti e attività didattica nel corso degli ultimi
venti e più anni. Il mio studio per eccellenza è diventato il treno, ma anche le came-
re di albergo, gli aeroporti, i ristoranti o l'automobile sono divenuti luoghi di pensie-
ro libero e ispirato.
Quarto disco della tua collaborazione con la New Project Jazz Orchestra, pri- ROBERTO SPADONI NEW PROJECT
JAZZ ORCHESTRA
mo costituito di soli originali: perché questa scelta?
Durante i miei anni di insegnamento presso il Conservatorio di Trento sono venu- TRAVEL MUSIC
ALFA MUSIC, 2016
to in contatto con questa realtà e da questa collaborazione sono nati quattro album.
I primi tre sono stati dedicati a Gerry Mulligan (“Walkin' With Jeru”, Abeat 2013),
Stefano Menato (alto, cl); Giuliana Beberi (alto); Fiorenzo Zeni (ten,
Thelonious Monk (“Sphere”, pubblicato proprio dalla Jazzit Records e allegato al sop); Renzo De Rossi (ten); Giorgio Beberi (bar); Giovanni Falzo-
numero 80 di Jazzit di gennaio/febbraio 2014) e a Billy Strayhorn (“Lush Music”, ne (tr); Paolo Trettel, Christian Stanchina, Alessio Tasin, Emiliano
Tamanini (tr, flic); Luigi Grata, Hannes Mock, Fabrizio Carlin (trn);
Velut Luna 2015). Questo ricco percorso in comune è sfociato con naturalezza nel Glauco Benedetti (tuba); Roberto Spadoni (comp, dir, ch el); Rober-
desiderio di concretizzare un progetto discografico di opere originali: così siamo to Cipelli (pf); Stefano Colpi (cb); Mauro Beggio (batt)
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