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Tecnica del colloquio semi

Teorie e tecniche del colloquio psicologico (Università degli Studi di Palermo)

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Tecnica del colloquio – Antonio Alberto Semi

1. La cornice del colloquio: aspetti psichici

Che scopo ha un colloquio?


Il colloquio viene generalmente considerato come un rituale obbligato, ciò porta le persone a non considerare
il motivo per cui lo si fa. Il colloquio è stato ritualizzato da teorie e ideologie numerosissime; tra queste, quella
più conosciuta prende il nome di psicoanalisi.
Molti diranno che lo scopo del colloquio è quello di RENDERSI CONTO DELLE CONDIZIONI
MENTALI DELLA PERSONA CHE L'HA RICHIESTO. Ci sono però due fasi fondamentali nell'esame
del malato:
– la raccolta dell'anamnesi
– l'esame obiettivo
Il colloquio dovrebbe corrispondere all'esame obiettivo e la realtà che si deve indagare è quella psichica della
persona che abbiamo davanti; il colloquio non può avere nessun'altra finalità e l'unica realtà per cui lo
psicologo deve essere attrezzato è quella psichica. Se non si tiene conto di questo scopo c'è il rischio di non
capire cosa sta succedendo durante il colloquio. Il colloquio è la presentazione che il paziente fa di sé e del
suo modo di usare la mente.
Prima di iniziare il colloquio è importante che lo psicologo/psichiatra ecc abbia chiaro:
– lo scopo generico
– le distinzioni che implica questo scopo  Si deve tenere presente la distinzione tra il lavoro dello
psicologo e quello dei giudici, poliziotti e degli storici. Essi infatti devono indagare un tipo di realtà
differente da quella psichica. Il giudice deve conoscere cosa è accaduto in un certo momento in quanto
questo fatto ha provocato una variazione dei parametri stabiliti dalla legge ed ha reso necessario il suo
intervento. Inizialmente dovrà valutare se il fatto è accaduto realmente, come e il ruolo delle persone
implicate. Può essere che in un secondo momento serva capire il motivo psicologico del perché quella
persona ha agito così ma non è detto. Il colloquio dello psichiatra invece è un esame obiettivo che
continua a essere trasformato nella raccolta dell'anamnesi: continuiamo a raccogliere la storia della
persona che ci sta parlando come se questa potesse spiegarci qualcosa ma in realtà noi riceviamo
solamente l'interpretazione personale del paziente. La ricerca della realtà obiettiva è disastrosa per lo
psicologo, questa ricerca può essere vista come la tendenza a negare. La negazione è sempre presente
e raccoglierla significa mettere fine al colloquio.

Nel nostro campo di osservazione non è possibile mentire; esistono diversi tipi di menzogna ma una vera
menzogna può essere detta solo da un adulto sano sebbene neanche lui riuscirebbe a mentirci. La paura di
andare dallo psichiatra può derivare da questo timore, che qualcuno ci guardi dentro e scopra qualcosa che
neanche noi sappiamo. Quello che una persona non può nascondere è chi è, come pensa e come organizza il
suo pensiero. La persona può illudersi di raccontarci bugie ma resta il fatto che le sta raccontando a sé stessa
e neanche lei è in grado di spersonalizzare così tanto il racconto da evitare di dirci qualcosa su di sé. Si può
mentire sulla realtà esterna ma non su quella psichica. Se riusciamo a focalizzarci su questa realtà, riusciremo
a capire il paziente, a trasmettergli il nostro rispetto per lui e per la sua realtà al di fuori del colloquio. Il rispetto
è l'unica posizione emotiva che ci permette di lavorare.
È raro che una persona vada da uno psicologo per conoscere la sua realtà mentale, spesso il colloquio ha un
fine più generale, fini specifici e aspecifici. In uno studio ben organizzato è possibile che diverse persone si
debbano occupare dei diversi livelli di realtà e delle domande del paziente; se ciò non è possibile il primo
livello da indagare resta sempre quello psichico.

Che scopi ha un colloquio?


Una volta chiarito lo scopo principale, occorre passare agli scopi che ogni singolo colloquio implica e visto
che sono due le persone si dovrebbe tener conto di quelli di entrambi.
Gli scopi dello psichiatra: visto che è fondamentale il rispetto, lo psichiatra si deve chiedere per quale motivo
accetta di vedere quel paziente, cosa si aspetta e cosa può offrire. Non basta fissare un appuntamento solo

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perché viene chiesto; lo psichiatra deve avere chiare le sue capacità professionali e materiali per il trattamento
e del tipo di bisogni professionali che ha in quel momento.
Uno psichiatra che lavora in un gruppo ben organizzato sa cosa può realmente offrire al paziente mentre lo
psichiatra che lavora in un gruppo dilaniato da invidie o lotte, raramente avrà in testa un quadro chiaro della
situazione. Lo psichiatra all'inizio della sua carriera dovrebbe pensare alla propria disponibilità materiale e
alla propria competenza scientifica. Avere in testa un quadro chiaro della situazione permette di aver chiari lo
scopo e i sottoscopi.

Prerequisiti mentali
Con prerequisiti mentali si intendono le condizioni, i fatti, le conoscenze, gli stati emotivi del mondo dello
psichiatra. Si tratta del mondo interno del tecnico, di ciò che avrà acquisito, delle sue conoscenze teoriche
apprese grazie all'esperienza e che nel momento in cui sono state assimilate sono state anche deformate e
personalizzate.
Gli atteggiamenti che lo psichiatra deve conoscere e ri-conoscere in sé stesso sono:
 Disponibilità e professionalità  Il paziente non è un amico e comportarsi come tale significherebbe
mettere da parte le difficoltà del primo incontro e mostrare al paziente che abbiamo paura. Non va bene
neanche comportarsi in modo troppo rigido in quanto negheremmo di essere umani. Ognuno deve pensare
al proprio stile personale in quanto tutti abbiamo un modo proprio di parlare e impostare un discorso. La
mancanza di consapevolezza in sé può creare dei problemi. È importante sapere almeno a livello
descrittivo come siamo. Spesso ai pazienti chiediamo di fare un lavoro che non sapremmo fare come per
esempio il descriversi. Imparare a descrivere sé stessi è il primo passo per provare a comprendere gli altri
e se non siamo in grado di farlo noi psicologi, sicuramente non saranno in grado di farlo nemmeno i nostri
pazienti.
Non si deve neanche negare un aspetto (la personalità o la professionalità) di noi in quanto trasmetteremmo
falsità e i pazienti hanno bisogno di tutto tranne che di falsità e il nostro lavoro ci risulterebbe
insopportabile se venisse svolto in modo falso. Fondere il proprio stile con la tecnica del colloquio
permette al paziente di sentire che la persona che ha di fronte è disponibile, incuriosita e ha a disposizione
i mezzi tecnici per facilitargli un compito difficile.
 Frustrazione e sadismo  La regola della frustrazione spesso viene interpretata in chiave sadica come
se l’analista dovesse strapazzare il paziente. Non vuol dire che si debba essere maleducati, scontrosi o
caustici con il paziente perché se loro si sentono così è un fatto loro, che lo si faccia noi, è un problema
nostro, sul quale faremmo bene a riflettere.
Nel primo colloquio lo psicologo è valutato dal paziente. Anche un atteggiamento simpatico può essere
sadico. Atteggiamenti sadici nei confronti dei pazienti non ci dovrebbero essere ed è importante tener
conto del fine della regola della frustrazione ossia evitare che il paziente e l'analista agiscano insieme
soddisfacendo il secondo le richieste inconsce del paziente, cercando invece che il paziente prenda
coscienza dei suoi desideri profondi. La regola della frustrazione è mirata a difese e desideri precisi ma
durante il primo colloquio non sappiamo che difese utilizza il paziente e non possiamo quindi applicare
questa regola in modo specifico e mirato. Nel primo colloquio si deve essere neutrali e questo indica un
atteggiamento attivo di curiosità, disponibilità e attenzione che permette al paziente di esprimerci in quanto
noi ci mettiamo da parte.
RIASSUMENDO
Per essere in grado di ascoltare occorrono elementi semplici ma rari ossia:
– disponibilità attenta e rispettosa
– curiosità non invadente
– capacità di essere neutrali
– coscienza sufficiente del proprio stile comunicativo
– chiarezza sugli scopi specifici del colloquio
La somma di tutte queste caratteristiche ci posiziona già a buon punto: siamo in grado di ascoltare.
Il nostro è un lavoro pericoloso e la pericolosità peggiore è quella cronica che sta nel subdolo tentativo di
allontanarsi dal paziente attraverso operazioni mentali messe in atto prima in ambito lavorativo che poi si
espandono alla vita quotidiana e privata, una progressiva desensibilizzazione delle proprie attività psichiche.
Trasportare questi atteggiamenti mentali nella vita quotidiana può essere molto destabilizzante e nei casi più
gradi può trasformarci in individui automi.

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Tra i prerequisiti c'è anche quello di essere a conoscenza del fatto che in questo lavoro si deve mettere in gioco
se stessi. La psiche non può nascondere sé stessa, può cercare di farlo nascondendo qualsiasi cosa, ma non sé
stessa perché non ci riuscirà mai completamente. Siamo in grado anche di mentire a noi stessi su molti aspetti
della quotidianità, ma la nostra realtà psichica influenzerà sempre quella cosciente.
Lo psichiatra deve essere distaccato ma non troppo. Due esseri umani che entrano in contatto si modificano a
vicenda ma non sappiamo il grado in cui una persona può modificare l'altra né in che modo, sappiamo però
che succederà, negarlo significherebbe utilizzare una difesa molto comune. La tecnica è uno strumento
elaborato per far sì che queste modificazioni avvengano in mondo conscio. Un colloquio che presta
attenzione alla tecnica è una salvaguardia della propria vita psichica, le modificazioni “subite” ci
permetteranno di sviluppare le capacità comunicative in quel colloquio e negli anni di migliorare le nostre
capacità comunicative.

2. La cornice del colloquio: gli aspetti materiali

IL LUOGO
Il colloquio avviene in un luogo e questo ha un ruolo molto importante per lo svolgimento del colloquio stesso.
Cos'è una stanza? È un luogo delimitato da pareti con aperture verso l'esterno finalizzate all'entrata o all'uscita,
al cambio d'aria o per permettere la visione dell'esterno e l'entrata della luce. Sono quindi fondamentali pareti,
porta e finestre.
La porta è l’elemento fondamentale in una stanza, essa deve avere una maniglia e una serratura e non deve far
passare luci o suoni. Queste sono le condizioni necessarie affinché una stanza possa essere definita tale. La
porta è il confine al di là del quale non diremmo le cose che possiamo dire al di qua. Bisogna separare per
poter comunicare, scambiare, vivere, riconoscersi; non si può sostituire una porta con una tenda perché se ne
svaluterebbe il suo significato; così come non si può lasciarla perennemente aperta o chiusa.
Il concetto di separazione ha una lunga storia: si è parlato di separazione degli animali, dei popoli, delle tribù.
Anche gli animali hanno una loro separazione dello spazio e delimitano il territorio disponibile ad alcuni e
non ad altri. Il concetto di dentro-fuori ci accompagna in ogni tappa del nostro sviluppo psico-sessuale e la
negazione di questa distinzione è comunissima, contrariamente a quanto pensiamo. Ci sono persone che non
tollerano di essere dentro e altre che non tollerano di stare fuori: non si tratta soltanto del fenomeno della
claustrofobia ma di una vera e propria intolleranza della porta; essa c’è e deve essere utilizzata con cautela e
vista con importanza. La porta che viene aperta in continuazione non ha senso.

L'ARREDAMENTO
L'arredamento è qualcosa di materiale che ci presenta al paziente, simbolizza degli aspetti nostri di noi che
abbiamo accettato di stare lì dentro. L'arredamento è la Gestalt della stanza, l'insieme degli oggetti come il
colore delle pareti o l'illuminazione. I requisiti fondamentali sono un tavolo con due sedie. Un tavolo
qualunque ma non ospedaliero e deprimente, un tavolo che deve far sentire il paziente come in una casa. Le
sedie devono essere comode, con i braccioli, foderate così da far capire al paziente che sappiamo che non sarà
facile parlare ma che cerchiamo di metterlo a suo agio. Il famoso divano è motivato dal fatto che il paziente
deve poter rilassarsi fisicamente, per potersi dedicare ad osservare quel che gli viene in mente. La luce deve
essere diffusa e non fastidiosa e le pareti andrebbero colorate; inoltre ci dovrebbe essere qualche quadro, anche
semplice perché se le pareti fossero nude probabilmente comunicheremmo solo che stiamo accettando di
passare alcune ore della nostra vita in compagnia in un ambiente squallido senza alcun interesse. Se possibile
si potrebbe mettere un tavolino con due poltrone per rendere l’ambiente più umano possibile. Vanno banditi
armadietti di ferro con medicinali o con strumenti medici che sarebbero fonte di disturbo perenne.

IL CORPO DELLO PSICHIATRA


Quando il paziente entrerà avrà una percezione unica della stanza e in questa sarà compreso anche lo psichiatra.
È bene che questo sappia che stile corporeo ha, che messaggi può inviare e che reazioni può indurre; alcuni
casi limite da evitare sono il presentarsi in tuta o ostentare la propria ricchezza tramite gioielli o pellicce.
Basterebbero buon senso ed educazione per orientarsi in questo campo.
Inoltre lo psicologo deve conoscere gli atteggiamenti posturali e la mimica.

3. Le regole del gioco

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Esistono delle regole senza le quali non si può condurre un colloquio. Tali regole non sono immotivate e
implicano un contesto culturale, utile ad una loro corretta comprensione. La psichiatria classica è fondamentale
e sarebbe meglio averne una visione contestualizzata anche nel dominio delle scienze umane. La scienza può
essere vista come un labirinto con moltissime entrate nel quale l'importante è accedervi, poi un libro tira l'altro.
Le regole per condurre un colloquio sono tre: la regola del linguaggio, quella della frustrazione e quella della
reciprocità. Ognuna ha particolari momenti di applicazione ma vanno osservate tutte e tre.

LA REGOLA DEL LINGUAGGIO


Durante un colloquio si deve utilizzare il linguaggio del paziente.
Spesso tendiamo a sottovalutare il linguaggio ma la maggior parte del nostro lavoro è espresso tramite esso.
Lo psichiatra deve essere un uomo di cultura e in quanto tale non può non conoscere alcune teorie di base e
non aver letto certi classici scientifici. Egli sia in senso etnologico sia attraverso un lavoro continuo su di sé,
diventa una persona di cultura in senso intellettuale. Questa regola implica il fatto che lo psicologo abbia
pensato al rapporto tra linguaggio e cultura etnica, cultura e personalità e che abbia fatto delle fantasie
sull'origine e l'apprendimento del linguaggio.
I livelli di osservazione del linguaggio nel colloquio sono:
 lingua usata
La prima domanda da porsi è se la persona sta parlando la lingua che usa quotidianamente o un'altra. È
frequente trovarsi davanti persone che nella vita quotidiana parlano in dialetto e l'uso dell'italiano durante il
colloquio crea una situazione di rispetto ma di minore partecipazione emotiva del paziente. Si può fare un
paragone semplice con il campo della poesia; come si usa dire, tradurre è tradire e nel campo della poesia
questo avviene sistematicamente. Non c'è tentativo più poetico e creativo di un uomo che cerca di prendere
coscienza di sé e che prova a capirsi. Naturalmente egli cercherà di difendersi dai sentimenti spiacevoli che
teme vengano evocati; uno dei modi per difendersi è quello di parlare una lingua diversa da quella quotidiana.
Lo psicologo deve saper condurre il colloquio anche in una lingua diversa da quella quotidiana anche se questo
creerà un distanziamento. Si deve stare attenti anche se il paziente impone il proprio linguaggio in quando
offrire la propria lingua è diverso che imporla.
 vocabolario prevalente
Spesso il paziente cerca di utilizzare quello che crede essere il linguaggio dello psicologo (che invece dovrà
usare il linguaggio quotidiano di uso corrente evitando un linguaggio tecnico – scientifico).
Il linguaggio tecnico-scientifico va usato per comunicare adeguatamente con i colleghi e per poter pensare. Il
paziente che usa un linguaggio pseudotecnico non fa altro che cercare di distanziarsi emotivamente dai suoi
problemi talvolta abbinato al volersi mettere nei panni dello psicologo in quanto sembrano più comodi dei
suoi. Del linguaggio del paziente osserveremo tutto; questo può darci informazioni riguardanti la sua
provenienza socio-culturale e la sua integrazione in quest’ambiente. La polarizzazione del vocabolario non
significa per forza una debolezza dell'Io o una tendenza alla passività totale ma può anche essere un rifugio
che il paziente si concede.
 ricchezza del lessico
Se la persona che abbiamo davanti è in grado di utilizzare un lessico ricco per descrivere in modo adeguato la
propria situazione personale siamo molto avvantaggiati. Spesso però ci troviamo di fronte persone che
sembrano disporre di un lessico molto povero; questa situazione può essere molto preziosa perché ci permette
di chiederci se ciò è dovuto a una situazione culturale o se sono prevalenti le componenti personali e in questo
caso osserveremo se la povertà lessicale si manifesta di più in alcune aree o su alcuni temi o se è un fenomeno
diffuso che indica una rigidità di questo strumento e dei processi inerenti sottostanti.
 stile
Lo stile del discorso del paziente è importante. La retorica e l'oratoria sono fondamentali per la comunicazione
tra persone e per questo un tempo venivano insegnate. Poi con l’accesso all’istruzione queste materie sono
sparite. Il fatto che esse non vengano più insegnate non deriva dalla perfidia delle classi dominanti, quanto al
fatto che l’umanità lotta contro il sapere e la conoscenza vera, quella che produce mutamenti a qualunque
livello. In conclusione, un buon lavoratore deve sapere come usare le parole e deve riuscire al comprendere il
modo in cui gli altri la utilizzano.
 analisi delle figure retoriche
In un discorso sulle parole, l’utilizzo delle figure retoriche è inevitabile, il paziente non potrebbe parlare di sé

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senza il loro utilizzo.


L'espressione metaforica è più ricca emotivamente in quanto essendo la verbalizzazione di un'immagine,
mantiene più vividi i rapporti tra le rappresentazioni di parola e le rappresentazioni di cosa e consente
un'espressione migliore di affetto.

La regola del linguaggio ha un versante passivo ossia lasciar parlare il paziente con il proprio linguaggio e un
versante attivo per quanto riguarda l'intervistatore. Lo psicologo deve creare le situazioni che permettono al
paziente di usare il proprio linguaggio e usare egli stesso per quanto possibile quel linguaggio impiegandolo
spontaneamente; per fare ciò deve essere in grado di identificarsi transitoriamente col paziente.
 Le riformulazioni
L'uso delle espressioni linguistiche del paziente si dovrebbe poter vedere nelle riformulazioni ossia interventi
caratterizzati da un leggero aumento di significato del testo verbale del paziente che gli vengono proposti in
forma interrogativa e hanno fini diversi. Una buona riformulazione fa sentire al paziente che la persona che
ha davanti sta lavorando.
 le eccezioni
Le eccezioni a questa regola sono il tossicomane e il delinquente. Entrambi usano in modo falso il linguaggio,
offrono un linguaggio che si mostrerà come una crosta vergognosa elaborata o affittata per non presentarsi e
per esprimere la propria incapacità di farlo.

LA REGOLA DELLA FRUSTRAZIONE


Questa regola si presta a equivoci nel senso che talora viene utilizzata come razionalizzazione di atteggiamenti
sadici. La regola della frustrazione prevede che: durante il colloquio si deve evitare di soddisfare i desideri
consci e inconsci del paziente a eccezione del desiderio conscio che l'ha spinto da noi. Il paziente ci esprime i
suoi desideri attraverso le reali comunicazioni che ci fa; non permettergli di soddisfare con noi i suoi desideri
significa comunicargli che abbiamo capito che non è venuto da noi per avere delle soddisfazioni sostitutive
ma per mostrarci come nella sua mente il desiderio non trovi vie di espressione e realizzazione. La
prostituzione simbolica tramite la propria attività professionale è abbastanza frequente, è una situazione
personale e nevrotica. I tentativi di soddisfare suoi bisogni alleandoci con le sue parti più regredite è stato già
fatto dalle persone del suo ambiente e quindi questi tentativi sono falliti.
Si deve distinguere questa regola dalla maleducazione e dal sadismo. Questa regola si applica bene dove
abbiamo avuto la possibilità di comprendere la struttura mentale del paziente e sarà quindi difficile applicarla
al primo colloquio. Non conoscendolo ancora dovremo tenere un atteggiamento neutrale. Interagendo col
paziente gli comunichiamo chi siamo, com'è strutturata la nostra attività mentale e che neanche noi possiamo
mentire. Uno dei parametri valutativi della riuscita o meno della terapia sta nella certezza acquisita dal paziente
circa il fatto di conoscerci bene senza sapere niente di noi, un paziente così ha potuto fidarsi di sé per capire
sé e gli altri. Questo livello è difficile da raggiungere. Ognuno di noi è diverso e l'applicazione della regola
della frustrazione deve essere personalizzata. Questa regola si sovrappone a quella del linguaggio ed entrambe
devono essere filtrate dallo stile personale e poi professionale dello psichiatra.
LA REGOLA DELLA RECIPROCITÀ
Il paziente uscendo deve aver ricevuto almeno tanto quanto ha dato.
È la regola più banale ma più difficile da applicare: nessuno va a chiedere un appuntamento solo per il gusto
di raccontare fatti suoi. Questa regola si rivolge allo stato adulto della mente della persona che ci consulta. Il
paziente non deve andare via senza aver ricevuto nulla per due motivi:
 Il primo è di tipo relazionale–umano  se la persona ci ha esposto la sua vita mentale ci ha offerto
qualcosa di prezioso e siamo obbligati a contraccambiare.
 Il secondo motivo è di tipo intrapsichico dello psichiatra  in molti casi il paziente tende a lasciare
il suo problema nella mente dello psichiatra. Succede che il paziente per farsi capire susciti in noi
emozioni che proviamo in situazioni simili ed è raro che le abbiamo superate senza difficoltà. Se non
siamo in grado di comprendere quello che sta succedendo dentro di noi non saremo in grado di tradurre
le nostre esperienze con quel paziente in quel momento nel suo linguaggio e non potremo quindi
restituirgli migliorato il concetto che ci ha dato. In ogni caso non possiamo far andare via il paziente
senza dirgli niente, come minimo dovremo dirgli che ci serve un altro colloquio. Quando facciamo una
dichiarazione conclusiva al paziente è il momento in cui stiamo ricambiando. Attraverso queste tre
regole è possibile creare la trama del colloquio.

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4. Anatomia del colloquio

I PRELIMINARI DEL COLLOQUIO


I preliminari comprendono gli aspetti psichici, materiali e in secondo luogo l'appuntamento.
L'appuntamento può essere fissato da sé stessi o da altri ed è sempre necessario prenderlo a meno che non si
tratti di una situazione di emergenza. Il colloquio, specialmente se il primo, va fissato in un momento di calma
e basso stress e sapendo che dovremo dedicare almeno 45 minuti al paziente.
Fissare l'appuntamento comunica al paziente che lo stiamo prendendo in considerazione. L'appuntamento può
essere fissato da altri se:
– c'è una persona che non combina pasticci
– c'è un'agenda di ogni membro del gruppo che rappresenta il quadro lavorativo futuro
– il gruppo istituzionale funziona
Se queste condizioni mancano allora si deve stabilire un orario in cui si è reperibili per fissarli di persona.
Se le condizioni ci sono si deve concordare con chi risponderà, una linea di massimo riserbo, spesso infatti
vista la distanza, grazie al telefono le persone sono molto disponibili a parlare di sé ma l'interlocutore dovrà
tagliare corto. La telefonata per fissare l'appuntamento è una sorta di presentazione sia del paziente e dei suoi
familiari che dello psicologo e la sua istituzione ma è fondamentale che questa pre-presentazione sia ridotta
al minimo indispensabile. Quando si fissa l'appuntamento ci si deve far lasciare un contatto telefonico perché
in caso di contrattempi si eviterà alla persona di presentarsi senza poter essere ricevuta, questo non significa
che si possa spostare l'appuntamento a proprio piacere per futili motivi.

Quando sono i parenti a fissare l'appuntamento si deve chiedere come mai non è il diretto interessato a
chiamare. Se i motivi sembrano futili (sta dormendo ecc) è meglio dire che si preferisce che sia il paziente a
chiamare. Se invece i motivi sembrano più accettabili si può anche fissare l'appuntamento. I parenti che
chiamano non devono essere brutalizzati in quanto in futuro potrebbe essere necessario un colloquio con loro.
Anche con i parenti non si deve fare un colloquio telefonico perché ci mostreranno una loro immagine del
paziente (mentre a noi serve farci la nostra) e perché il fatto che un paziente psichico puro venga presentato
da loro è frutto di una manipolazione inconscia del paziente su di loro e indirettamente su di noi. Nella forma
più pura l'appuntamento sarà preso tra psichiatra e paziente che cercherà di comunicare ma gli si dovrà
ricordare che il telefono non è la sede giusta; i pazienti che si attaccano al telefono è come se ci volessero
avvertire che sono casi difficili ma meglio così piuttosto che le persone che celano questi aspetti e li tirano
fuori tutti insieme dopo aver concluso un accordo terapeutico.
Il periodo che va dall'inizio alla fase libera sarà quello che deciderà le sorti del colloquio ed essendo in due le
sorti non dipendono solo da una persona. Dei 45-50 minuti, circa a metà del tempo dovrà essere dedicata a
questa fase. Si deve imparare a calcolare bene il tempo ma dopo un po' verrà spontaneo.

L'INIZIO E IL RICONOSCIMENTO
Prima di tutto ci si deve presentare, esistono delle regole di galateo ben note per la presentazione. Un
buongiorno, una stretta di mano e l'indicazione del posto che il paziente dovrà occupare va più che bene.
All'inizio del colloquio si pongono due problemi ossia quello delle informazioni preliminari e la scelta del tipo
di colloquio da compiere.
– informazioni preliminari
Sono i dati che abbiamo già sul paziente. Se abbiamo ricevuto una qualche
informazione notevole è il caso di dire al paziente che ci è stata comunicata Holding (letteralmente "sostegno") è
un termine introdotto da Winnicott per
quella cosa. Non sempre è semplice fare questa comunicazione all’inizio, definire la capacità della madre di
specialmente se il paziente ha tendenze paranoidee; tacendo però il dialogo fungere da contenitore
può essere falsato. Ci sono situazioni in cui lo psichiatra prende su di sé la delle angosce del bambino.
responsabilità di tacere nel tentativo di creare un minimo di “holding” Lo holding è la capacità
quando si ha l'impressione che il paziente non sia in grado di contenere le di contenimento della madre
sufficientemente buona, la quale sa
tensioni e che la sua famiglia non sia stata in grado di dargli il sentimento di istintivamente quando intervenire
questa sua possibilità. In questo caso lo psicologo crea dentro di sé quella dando amore al bambino e quando
stanza raddoppiando le porte e insonorizzando le pareti. A lungo andare però invece mettersi da parte nel momento in
cui il bambino non ha bisogno di lei.
questa tecnica di rafforzamento potrebbe diventare un bunker psichico dello All'interno dello holding il bambino può
psichiatra che a poco a poco fa suoi dei diritti che in realtà non sono.

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– scelta del tipo di colloquio


I colloqui possono essere relativamente liberi e relativamente guidati. Il grado di libertà di un colloquio è
difficile da definire. La libertà è più un nostro desiderio e un nostro impegno che una realtà del qui e ora del
colloquio. Dove mancano le condizioni per portare avanti una conversazione mancano anche le condizioni per
un colloquio “libero”. Un giovane schizofrenico in grado di produrre solamente insalate di parole o un paziente
confuso non sopportano lo stress del colloquio libero anche se in realtà nella gran parte dei casi un colloquio
relativamente libero è fattibile; non bisogna però dimenticare che ci sono delle controindicazioni in questo
tipo di colloquio.
Nel colloquio libero si fa accomodare il paziente e con una breve frase (per evitare di fare errori) lo si invita a
parlare. Di fronte a noi abbiamo uno sconosciuto e dobbiamo cercare di capire chi è quindi si devono curare
anche i piccoli particolari. La nostra breve frase deve essere un invito, stando zitti creeremmo solamente
imbarazzo e parlando troppo potremmo ferire il paziente; meglio un sorrido e un “dunque”. Questo periodo
iniziale contiene anche un riconoscimento infatti come noi abbiamo avuto delle informazioni preliminari del
paziente, lui le avrà avute su di noi, entrambi avremo fatto fantasie sull'altro e questo significa che le prima
impressioni e fantasie sono per la prima volta soggette a verifica.

LA FASE LIBERA DEL COLLOQUIO


Come inizierà il paziente? Ci sono alcune aperture tipiche e in questa fase delicata lo psichiatra deve saper
usare capacità di discrezione, tolleranza ed empatia in quanto questi atteggiamenti permettono al paziente di
potersi lasciare andare a parlare. Le aperture tipiche del paziente con l'andare del tempo tendono a ingannarci
perché annebbiano le nostre capacità critiche, ci illudiamo che una certa apertura corrisponde a un certo tipo
di struttura.
Un primo modo per presentarsi è l'elencare i sintomi che lo portano da noi, talvolta accompagnati da una
breve storia del sintomo altre volte invece viene presentato solo il disturbo. Il sintomo è un compromesso
difensivo che l'Io ha elaborato per evitare di essere allagato da contenuti inconsci intollerabili. Alcuni pazienti
dopo aver presentato il sintomo vorrebbero scappare, altri rimangono zitti come se adesso il compito fosse
tutto nostro. Il presentare subito il sintomo può essere un atto di fiducia, quello di sputare l’osso subito ma
anche un attacco aggressivo (il paziente considera il proprio disturbo come un peso con il quale convive
costantemente ma di cui deve subito liberarsi rovesciandolo su qualcuno).
Esempio → tipa che si era innamorata di tutti gli psichiatri così smette di andarci. Zitta per vedere reazione.
Smetteva di andarci ma andava da un altro. Nella sua affermazione c'era una domanda implicita così lo
psichiatra sta zitto così da farle capire che non ha capito e che non si deve avere paura di non capire.
Il dire subito il sintomo e poi uno stop indica un tentativo di separazione tra la sindrome psicopatologica e se
stessi come persona anche se non è detto che questo sia il desiderio della persona, può essere un test che ci sta
facendo per vedere se siamo interessati a lui come persona o se pensiamo in termini medici.
Un secondo modo è raccontare la propria storia; alcuni partono da lontanissimo, altri decidono di parlare
del presente per poi tuffarsi nel passato; altri ancora cominciano da una certa età per arrivare al presente.
Spesso tutto ciò viene presentato come una premessa (prima vorrei dirle alcune cose di me..., le racconto
alcuni fatti che le serviranno a rendersi conto del perché sto così male…).
Una premessa vera è quando il paziente ci narra di alcuni fatti che hanno avuto un impatto emotivo su di lui
e che hanno giocato un certo ruolo. Altre premesse invece creano una barriera che ha la funzione di ritardare
la comunicazione scottante. Infine ci sono premesse interminabili.
Esempio → un tipo che racconta la sua vita come premessa, dopo 30 min Semi si sentiva allagato e lo ferma
bruscamente chiedendo a che età aveva smesso di fare la pipì a letto e il tipo spaventato dice 8-9 anni. Il suo
intervento fu centrato perché aveva colto la comunicazione, ma sbagliato sia per il modo sia per il contenuto.
Bloccò il paziente ma riprodusse una situazione che aveva già sperimentato molte volte. Oggi non farebbe più
così cercherebbe un modo più civile per interrompere il paziente. Le condotte aggressive vanno ascoltate con
simpatia e vanno poi smorzate → l'esempio di prima ci mostra come il paziente volesse mostrare di aver
superato i suoi conflitti infantili mediante il passaggio dalla condotta ad un discorso.
Un terzo modo consiste nel parlare del proprio ambiente, famiglia e lavoro... Questa modalità può essere vista
come un sottogruppo del secondo modo visto che anche qui vi è la premessa come presentazione. Questo
modo nasconde però dei problemi specifici legati o a questioni di identità o a segreti. Uno che arriva parlando
del proprio ambiente può essere che si voglia assicurare di essere da una persona che conoscerà solo lui e con
la quale potrà stabilire una relazione privata nonostante tutto si svolga in un ambito pubblico.

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Queste 3 aperture sono un modo per tastare il terreno prima di presentarsi direttamente. Il fatto di sapere che
esistono diversi tipi di aperture ci permette di tollerarle; ci incuriosisce come un'apertura simile possa portare
a realtà differenti e infine è utile perché non serve solo al paziente, le aperture infatti possono essere un primo
spunto di riflessione a cui non ci possiamo sottrarre.
Ci sono poi gli inizi atipici: un esempio che rappresenti questo tipo di inizio può essere rappresentato da una
signora che recandosi in terapia la prima domanda che fece riguardava popolarità del quartiere.
La fase è libera per il paziente, non per noi che siamo lì ad ascoltare e a chiederci perché.
Dobbiamo stare attenti ad alcuni elementi ossia: la tollerabilità o meno del paziente, la tolleranza della libertà
di parola da parte del paziente, la tolleranza degli stop da parte del paziente.
– tollerabilità del paziente
Non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo tollerare per forza tutti i pazienti. Ognuno ha la propria struttura
mentale, delle proprie caratteristiche, delle proprie inclinazioni. Ciascuno si trova meglio con una persona e
peggio con un'altra; ci sono persone che non tolleriamo o perché ci provocano fastidi o perché semplicemente
non le tolleriamo in quel contesto. Umanamente non siamo onnipotenti e valutare con serenità la propria
tollerabilità di un certo paziente è un fatto di onestà. Si va in contro ad una valutazione diagnostica di coppia,
che resta comunque e in ogni caso un desiderio, perché se si lavora in una comunità generalmente non si può
affermare facilmente di non voler lavorare con una persona; ma è opportuno tenere in considerazione, che
nessuna istituzione, per quanto professionale possa essere, è onnipotente.
– tolleranza del paziente della libertà di parola.
Il paziente impaziente chiede un intervento precoce quando non siamo ancora in grado di fornirglielo. Ha
diritto che gli si dica qualcosa ma siamo noi a decidere quando e come dirlo. La libertà di parlare per esprimere
il proprio pensiero è una cosa rara e il momento in cui lasciamo al paziente la parola è un momento sacro
perché la persona sente di poter pensare e comunicare il proprio pensiero. Se ci accorgiamo che l'Io del
paziente non è pronto a questa offerta allora la ritireremo. Quando l'Io dà segni di sfaldamento ossia la persona
non è in grado di reggere l'angoscia di non avere una domanda precisa a cui rispondere e comincia a delirare
ecc, lo psichiatra deve prendere il comando spostando l'attenzione dal fenomeno in sé a come lo considera lui,
facendogli capire che sappiamo che è un fatto sgradevole che si è già presentato e che ha già cercato di
controllare. Negli altri casi non è necessario un intervento precipitoso.
Il caso buono è quello caratterizzato da un progressivo slittamento da un discorso organizzato secondo le
regole ferree della logica ad un discorso che vede comparire le libere associazioni. Le libere associazioni
naturali (nella vita mentale quotidiana) sono diverse dal metodo delle libere associazioni. Nel colloquio non
usiamo il metodo delle libere associazioni ma siamo grati se il paziente è in grado di usare in modo naturale
questo fenomeno; questo paziente supera col massimo dei voti la tolleranza della frustrazione indotta dalla
libertà perché ci mostra che anche se dolorosa non ha rinunciato alla propria libertà di pensare con tutto sé
stesso e che conosce la soddisfazione che può dare il pensiero. Quando ci accorgiamo che il paziente sa passare
da un periodo all’altro, che gli vengono in mente cose strane, che tende a stabilire legami tra presente e passato
in modo elastico e variabile, ne abbiamo una buona impressione e sappiamo che egli giocherà un ruolo
importante nel suo programma psicoterapeutico.
Vi sono casi in cui questa disponibilità mentale non c’è o non è disponibile in quel momento. Si deve stare
attenti quindi ai pazienti che ci raccontano chi sono nel modo in cui credono che noi ci aspettiamo oppure per
paura di non “essere preso” capita che il paziente cerchi di dire quello che crede vada bene per noi e in questo
caso sarà scarsa la possibilità di libere associazioni in quanto si ha una concezione svilita e degradata di sé e
degli altri.
– tolleranza degli stop
Nella fase libera è necessario un nostro piccolo intervento perché è importante rendersi conto del modo in cui
una persona sopporta le interruzioni. Si deve osservare la reazione all'interruzione qualunque cosa si dica. Nel
colloquio capita di fare un intervento e di vederlo passar via perché dopo aver corrugato la fronte il paziente
riprende con un “dunque cosa stavo dicendo”. Ci si deve ricordare che il dialogo avviene in due e se anche lui
è riluttante non significa che il nostro intervento è stato insufficiente. Può capitare anche a noi di essere
indifferenti alla comunicazione, il paziente ci ripete in tutti i modi ma noi non siamo in grado di ascoltarlo,
l'importante è che questi punti ciechi non diventino aree cieche.
Qual è la funzione della teoria del nostro lavoro? Nel nostro lavoro, non è ammessa l’ignoranza, le teorie
psichiatriche, le teorie psicologiche, la classificazione delle malattie e dei disturbi mentali vanno imparati. È
importante acquisire le conoscenze ma è altrettanto fondamentale non utilizzarle nella pratica del colloquio.
Una delle funzioni intrapsichiche consiste nel sostituirsi alla realtà. L'illusione di capire costituisce la
comprensione vera e propria. Le teorie accumulate lungo la storia della psicologia, psicoanalisi e psichiatria

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sono necessarie e dannose. La situazione di tante conoscenze può essere un buon terreno per la crescita di
nuove idee ma può anche essere una fonte di confusione continua. Un concetto appreso sui libri deve essere
elaborato prima di poterlo usare con gli altri. Una nozione su un'attività psichica dentro di noi da un lato viene
registrata come qualunque altra nozione, dall'altro viene usata simbolicamente come per significare
qualcos'altro e da un'altra parte serve come una lente attraverso la quale riguardiamo noi stessi. Via via che
questo lavoro mentale viene fatto, quella nozione diventa nostra e utilizzabile secondo le possibilità che sono
caratteristiche della struttura della nostra psiche. La tolleranza dello stop che noi provochiamo e testiamo nel
paziente, questo l'ha già saggiata dentro di noi perché mentre parla osserva se lo ascoltiamo o no, se tolleriamo
di contrastare una nostra idea per lasciarlo parlare o se stiamo zitti perché non siamo interessati. La tolleranza
allo stop può anche essere massima, il paziente può buttarsi sull'osservazione fattagli e usarla per spostare il
tema del colloquio su un livello più comodo.
Un intervento che può essere fatto a ¾ della fase libera è la riformulazione che consiste nel rileggere le
affermazioni fatte dal paziente stabilendo a parità di linguaggio dei nessi tra un argomento e l'altro; non è
un'interpretazione, semplicemente aggiunge un po' di significato a quello che ha detto il paziente ipotizzando
che tra un discorso e l'altro ci possa essere un legame. La riformulazione fa sentire quanto può essere positiva
un'alleanza con un altro per capire sé stesso. L'interpretazione invece tende a rifondare il significato delle
parole, a farle apprezzare in tutto il loro spessore, a far riprovare affetti che si credevano perduti, in poche
parole è molto più difficile e delicata rispetto alla riformulazione.
Il test di intolleranza allo stop viene fatto attraverso un intervento di prova che spesso è una riformulazione.
Per effettuare questo intervento occorre ricorrere alle nostre attività sintetiche ed integrative, è raro che si
faccia uno stop brutale. In genere si fa un intervento che ha un doppio significato, quello di saggiare la
tolleranza dello stop ma anche di valutare come reagisce ad un nostro commento su quello che ci sta dicendo.
Per esempio gli si può far notare come non abbia parlato di un’intera parte della sua vita e che glielo chiediamo
perché essendo strano ci chiediamo se era un atteggiamento cosciente o un caso; oppure si può far notare che
all'inizio ci ha detto che i suoi guai erano insorti da poco ma poi nella serie del colloquio si sono visti una serie
di segni e sintomi. Quando abbiamo lasciato il paziente parlare per un po', quando abbiamo saggiato la sua
tolleranza della libertà di pensiero e degli stop e come risponde al nostro intervento di prova possiamo
considerare di aver chiuso questa fase del colloquio e di aver fatto una grande raccolta di materiale.

5. La valutazione della fase libera del colloquio

La valutazione del colloquio è esclusivamente nostra. Gli scopi del colloquio sono quello di conoscere chi è
il paziente, quello di sapere che tipo di trattamento gli possiamo offrire e se il trattamento lo faremo noi o
un'altra persona.
Si deve tener presente la situazione reale del paziente in quanto un trattamento psichiatrico richiede molto
tempo, denaro e impegno emotivo; ma non gli si può chiedere l'impossibile.
La valutazione della fase libera dura poco ma ha implicazioni di tutti i generi e premesse mentali nello
psichiatra molto importanti.
LA “CAROTA” DELLO PSICHIATRA
La carota è quella che i geologi estraggono con apposite trivelle da un terreno. Questo metodo ha il vantaggio
di far vedere cosa c'è sotto. Il materiale che fino a questo punto abbiamo tirato su e messo da parte è la nostra
carota. Potremmo dire che tutto quello che ci ha detto è vero ma che non è tutto. Le carote non sono tutte
uguali e il modello che ci costruiamo che servirà poi per elaborare un'ipotesi di lavoro è un nostro modello
specifico per quella persona.
GLI STRUMENTI DI PRELIEVO DELLA CAROTA
Si tratta di strumenti culturali e umani. Una vera ricerca implica la disponibilità e il desiderio di vedere e
comprendere qualcosa di nuovo, di sconosciuto; coscientemente c'è il desiderio di verificare un'ipotesi, di
capire la situazione data e inconsciamente invece tutto il lavoro svolto viene usato per spingerci verso il
ritrovamento invece che verso la scoperta.
Se gli strumenti culturali implicano questo rischio, anche gli strumenti umani (interessi, sentimenti,
vicissitudini personali) ci spingono verso un misconoscimento uguale. Dentro di noi c'è sempre una certa dose
di opposizione alla conoscenza e alla scoperta, non c'è nulla che l'uomo tema di più che lo scoprire che siamo
tutti uguali ma nessuno è uguale a un altro. Di ogni persona che viene a fare un colloquio è giusto chiedersi
se ha un qualcosa di stimolante e se rientra nel campo della nostra curiosità scientifica-professionale, se non
c'è nulla di ciò forse non è il caso di seguirla.
I nostri interessi ci mettono fuori strada ma senza di essi strada non ne facciamo.

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Esistono strumenti culturali in senso stretto: le persone più vicine a noi psicologi, come campo di competenza
sono gli artisti. L'artista è colui che riesce a trovare un linguaggio comune e comunicabile per dire delle
scoperte e per svelare mondi sconosciuti. Gli artisti hanno accesso a quel mondo del quale noi artigianalmente
cerchiamo le porte.
Gli strumenti per capire, come i manuali di psichiatria (DSM, PDM…) non ci forniranno mai le esperienze.
L'arte ci consente di sentire certi sentimenti, di capire certe idee prima.
L'adolescenza per esempio è un periodo in cui serve l'arte. È un periodo in cui è necessario sperimentare nuovi
stati psichici ma è anche il periodo in cui è acuto il sentimento di non averli ancora provati. L’arte può essere
un modo per affrontare questo periodo della vita, le letture infiammate e gli idoli artistici servono proprio a
questo.
Nel nostro lavoro è importante che qualcuno ci abbia fatto sentire che esiste una ragione del delinquente e
che noi possiamo identificarci in modo poco pericoloso con lui prima di conoscere un ragazzo con condotte
delinquenziali o prima di leggere un testo di criminologia; è importante perché ci avrà fatto superare l'orrore
che alcune di queste potenzialità, che scopriamo essere anche nostre, ci suscitano così da poterci identificare
con esse e poter capire un giovane delinquente.
Lo psichiatra deve cercare di sviluppare le proprie capacità umane deve farlo in modo umano. I tossicomani
per analogia cercano di sviluppare le proprie capacità umane attraverso l'assunzione di sostanze che fa provare
loro sentimenti e sensazioni che ritengono non riuscire a provare. Ma lo fanno attraverso una truffa, in modo
chimico.
È importante che le forme artistiche sommate alle nostre esperienze personali e diventate nostre stesse
esperienze, concorrono a renderci possibile l’uso dell’analogia. È come se durante un colloquio, noi
pensassimo: “Ah, questo che il signor X sta dicendo, è analogo a ciò che ho letto in Kafka”.
Attraverso l'analogia e l'identificazione costituiamo degli strumenti fondamentali di prelievo sui quali
dovremmo poi ragionare
Il paziente in parte è il frutto del nostro modo di condurre il colloquio, è continuamente valutato in modo non
professionale in quanto dentro di noi abbiamo una tassonomia dell'umanità basata sulle nostre esperienze
precedenti. Questa attività di riconoscimento si fonda su una discreta permeabilità preconscia. Tutti noi usiamo
questa parte di noi per condurre la nostra vita ed è importante che la usiamo anche nella vita professionale.
Attraverso questa attività, durante il discorso del paziente, possiamo valutare se il suo discorso ci permette di
creare un'immagine nostra di lui oppure no; per poter ragionare sul paziente è indispensabile formarci una sua
immagine soggettiva.
LA NATURA DEL TERRENO SONDATO
Il materiale sul quale ragioniamo non è la realtà del paziente ma un modello della sua realtà psichica che ci
costruiamo mediante l’utilizzo delle nostre attività mentali sulla base degli effetti che il paziente ci provoca.
Ragionare su questo modello significa avere una grande capacità di lavoro che si raffina ogni giorno.
Se abbiamo prelevato con cura il materiale esso dovrebbe apparire variegato e diversificato e dovremmo avere
un'idea di come questa persona adopera e ha adoperato in passato i propri sentimenti.
Dobbiamo cercare di costruirci un modello di quella persona e dobbiamo accordare questo modello con quelli
offerti dalla psichiatria, spesso dalla discrepanza del modello fornito e quello studiato si ricavano domande
utili. Se un nostro modello corrisponde a quelli studiati dobbiamo stare attenti.
COSTITUZIONE DELL'IPOTESI DI LAVORO
Se abbiamo prelevato bene e vi abbiamo riflettuto, saremo arrivati a qualcosa che va oltre alla diagnosi;
avremo il materiale che ci permette di fare un'ipotesi di lavoro personalizzata.
Per poter distinguere la diagnosi come ricerca di elementi comuni tra una persona e una classe di persone
rispetto alla diagnosi come somma di elementi unici di quella persona, occorre fantasticare sul futuro
dell'intervistato per vedere se il film che ci siamo costruiti può andare avanti e come. Dobbiamo provare a
vedere diverse conclusioni della sua storia a seconda dei trattamenti disponibili.
Esistono delle ipotesi di lavoro negative o parzialmente negative dove la situazione non ci è chiara ma
l'importante è rendersene conto. Potremmo essere stati noi a non cogliere qualche punto del suo discorso
oppure potrebbe essere lui ad aver fatto del suo meglio per non farcelo cogliere e questo potrebbe essere un
NO a un trattamento. Queste tre possibilità sono molto diverse. La prima ci potrebbe spingere verso un nuovo
colloquio, la seconda può farci interrogare sul significato del tentativo del paziente e la terza può farci capire
che quella persona non ah alcun desiderio di affrontare un trattamento. L'ipotesi di lavoro va fatta in modo
personalizzato così da consentirci di restituire al paziente il contenuto sostanziale di ciò che abbiamo colto nel
suo messaggio senza reagire. Dentro di noi c'è la tendenza di proiettare sul paziente una nostra parte e il
colloquio ci serve per drammatizzare la difficoltà di padroneggiare la nostra situazione personale.

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6. Anatomia del colloquio


sono passati circa 20-25 minuti dall'inizio del colloquio.

L'USO CLINICO DELL'IPOTESI DI LAVORO


L'idea che ci siamo fatti del paziente può essere usata sia nel colloquio sia in altri contesti a scopo di ricerca.
Qui tratteremo l'uso di queste informazioni nell'ambito del colloquio. In questa fase è molto importante la
regola della reciprocità infatti il paziente ci ha dato qualcosa e noi dobbiamo sdebitarci; per fare ciò useremo
la regola del linguaggio, quello che daremo al paziente non sarà una diagnosi ma un qualcosa di formulato nel
suo linguaggio che cercherà di dargli in modo chiaro una parte del materiale che ci ha presentato o a fargli
notare l'assenza di qualcosa di fondamentale nel caso in cui questa mancanza possa essere collegata a qualcosa
che ci ha riferito nel colloquio. Spesso usiamo la riformulazione, in altri casi è più consigliabile fare un
riassunto.
Il riassunto consiste nella riformulazione concisa di un testo, quello che rimane sono non tanto la storia in sé
quanto i nessi esistenti tra gli elementi fondamentali. Nel riassunto psichiatrico, a differenza di quello letterario,
i nessi sono esplicitati dallo psichiatra. Non è detto che anche se abbiamo perfettamente compreso la situazione
saremo in grado di comunicarla in modo tale che il paziente possa comunicarsela.
È utile fare una distinzione tra due gruppi di nessi:
– un tema viene posto a monte o a valle di tutti gli altri, i quali sono rispetto a questo in parallelo
– gli argomenti sono in serie, sono concatenati da nessi congiuntivi o condizionali
Bisogna fare attenzione al tipo di intervento “in parallelo”; questo si differenzia da un'interpretazione
psicoanalitica perché questa di solito aggiunge qualcosa che prima non era stato detto mente l'intervento
riformulativo (riformulazione) si svolge nell'ambito di quello che il paziente ha detto. Ma se si stabilisce un
nesso è proprio questo che non era stato detto dal paziente.

Esempio → signore stringe la mano con forza lasciandola di scatto, parla di sé in termini sintetici, si ferma
sovrappensiero dicendo spero di tornare presto indietro perché ho la macchina in divieto di sosta. L'aspetto
che più lo preoccupa (sia che lo dica esplicitamente sia attraverso rapida stretta di mano ecc) è che un certo
tipo di fretta gli impedisce di fare bene le cose; durante il colloquio il paziente gli aveva mostrato un
sentimento (la fretta) attraverso vari esempi. → riformulazione in parallelo.
 In parallelo: un’idea è collegata in modo eguale alle altre.

Esempio → Signore va a primo colloquio in stato di ebrezza alcolica non dichiarata; parla per tutto il tempo
della sua depressione. Semi chiede se si sentiva triste perché beveva o se beveva perché era triste →
riformulazione in serie posta in modo interrogativo

 In serie: un’idea scaturisce dalle altre e queste vengono concatenate tra loro da nessi congiuntivi o
condizionali
.
In entrambi i casi, gli interventi fatti in questa seconda fase del colloquio dovrebbero essere finalizzati:
– a verificare l'ipotesi di lavoro
– a consentirci di elaborare una proposta per il paziente
Sulla base delle nostre conoscenze e della nostra ipotesi, bisogna cercare di vedere, esaminando le risposte del
paziente alle nostre comunicazioni, se non sia il caso di rivedere la nostra ipotesi. Può essere che abbiamo
subito fatto centro ma è molto improbabile. Anche se dobbiamo riformulare l'ipotesi dobbiamo essere
soddisfatti perché significa che si trattava di una buona ipotesi che ha promosso dentro di noi facoltà critiche
e ci ha consentito di andare avanti.
Non è detto che dopo il periodo libero dobbiamo per forza dire qualcosa, possiamo anche stare zitti ma
l'importante è che riusciamo a fare qualche ipotesi. Continuando a stare zitti può essere che esca fuori
qualcosa di nuovo e più comprensibile. Possiamo anche stare zitti nel senso che ci limitiamo a fare domande
al paziente su quello che non ci ha ancora detto anche se queste domande dovrebbero essere il più possibile
limitate. Possono essere implicite ossia che presuppongono che si sia notata una mancanza. Spesso ci sfugge
che una persona ha evitato di affrontare tutto un periodo della sua vita. Alla fine della fase libera dovremmo
avere “il film” che ci dice chi è il paziente ma se mancano troppi elementi concreti-storici-immaginativi non
potremo costruirci un'immagine mobile-dinamica del paziente.
L'ipotesi di lavoro deve consentirci di elaborare una proposta per il paziente che gli va riferita ed è quindi

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molto importante saperla formulare. La formulazione verbale di una domanda richiede attenzione e ogni
domanda contiene già la risposta o un numero limitato di possibilità di risposta, se il numero di risposte è
ancora troppo grande, dobbiamo ridurlo. Succederà che il nostro messaggio verrà in qualche modo deformato
e bisogna tenerne conto.
La proposta per il paziente nasce dalla verifica dell'ipotesi di lavoro e dalle possibilità che sappiamo esistere
nell'ambiente.
• Il primo tipo di proposta consiste nel richiedere un secondo colloquio per comprendere meglio la
situazione. Bisogna usare frasi semplici e concise  “Le fisso un altro appuntamento per finire il
colloquio di oggi/ mi pare di aver bisogno di ascoltarla ancora un po' per farmi un'idea più chiara della
sua situazione”
• Il secondo tipo di proposta è quello di un trattamento diverso da quelli che siamo in grado di condurre
e implica l'invio del paziente a un collega e spiegare al paziente il perché. Sono due messaggi delicati,
il primo implica un rifiuto e spesso è difficile mandarlo giù; la formulazione dovrà essere delicata ed
onesta. Nello spiegare il perché di questa scelta vale la regola del linguaggio, non servono spiegazioni
tecniche e per ogni paziente dovremo essere in grado di creare una spiegazione anche sulla base di
quello che ci ha detto. Se si lavora in un'istituzione è più semplice fare questo tipo di proposta
• Un terzo tipo di proposta consiste nel consigliare un ricovero. Questa proposta implica un distacco da
noi e dall'ambiente proprio del paziente. In alcuni casi è meglio un breve ricovero piuttosto che un
trattamento sul territorio dove il paziente è in preda ad allucinazioni e sperimenta i danni che sta
facendo alle proprie relazioni interpersonali. È un consiglio da dare sulla base degli interessi della
persona.
• Una quarta proposta consiste nell'offrire al paziente di seguirlo o trattarlo o curarlo noi stessi.
Formulare una proposta di questo tipo ha sempre implicazioni di tutti i generi e se verrà accettata
peserà sulla futura storia del rapporto.

LA CONCLUSIONE CLINICA DEL COLLOQUIO


La formulazione della proposta al paziente apre il periodo della conclusione del colloquio. Dal punto di vista
tecnico è utile sottolineare l'inizio di questa fase con una frase semplice ma che indichi che siamo entrati
nell'ultima zona comune come “cerchiamo di vedere cosa possiamo concludere” o qualsiasi altra formula
come per dirgli “adesso valutiamo quello che abbiamo visto e quello che le propongo”. A questa fase si devono
riservare 7/8 minuti perché sicuramente il paziente esprimerà le sue opinioni su quello che gli diciamo di lui
e sul trattamento che gli proponiamo e a volte capita che in questa fase il paziente tiri fuori qualcosa che in
precedenza mancava. Noi annoteremo mentalmente quello che dice. Se ci arrabbiamo per le osservazioni e le
obiezioni che ci fa su quello che abbiamo detto di lui, è un nostro problema. Un fenomeno razionale davanti
a questo caso è quello di interrogarsi sul perché solo in quel momento ci sorge un sentimento di rabbia e/o
insofferenza verso di lui. Spesso ci aspettiamo che nessuno ci dica niente se diciamo cose tremende su di lui
ma se una persona alla quale abbiamo appena detto la nostra opinione tenta di difendersi da un'ondata emotiva
eccessiva è indice di un buon funzionamento dell'Io. Dobbiamo ricordarci che la nostra è solo una proposta e
non un ordine e quindi non dovremmo meravigliarci di suscitare reazioni violente.

In ogni caso le ultime risposte del paziente ci diranno il grado di tolleranza che il paziente ha sulle cose che si
dicono di lui, oppure ci comunicheranno alcune difficoltà di comprensione su ciò che gli abbiamo detto oppure
se vi è o meno la tendenza a deformare la nostra comunicazione secondo un'ottica piuttosto che un'altra.

Anche la parte del saluto va trattata bene, si deve ripensare allo stile personale di ciascuno di noi prima di
quello del paziente.
Prima del saluto c'è però il pagamento. Si dice il proprio onorario e si aspetta che ci venga consegnato ma
questo ovviamente non è un gesto neutro. Il nostro onorario è il denaro che ci serve a procurarci una vita
decente in termine di bisogni e desideri e comunichiamo al paziente qualcosa ossia quanto crediamo valga il
nostro tempo. Ci sono gli onorari e le tabelle dei minimi fissati dagli ordini dei medici ma la somma deve
essere dignitosa ed adeguata. Un trattamento privato va pagato e questo implica anche una dichiarazione da
parte dello psichiatra sul proprio comportamento col fisco. Quando si chiede a un paziente di essere molto
onesto con noi è sgradevole poi dirgli indirettamente che per noi questa regola non vale. Meglio tenere
onorario alto ma fare la ricevuta.
Il momento del saluto è delicato, il paziente ha mille domande da fare, idee e sentimenti, gli sembra di averci
fornito un'immagine di sé insoddisfacente ma non è questo il momento di dare un'altra immagine. Se

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ricomincia un colloquio lo si deve interrompere gentilmente ma fermamente e chiudere la porta.

7. La conclusione reale del colloquio


Il colloquio da un certo punto di vista non finisce mai.

NEL PAZIENTE
Il paziente avrà tre immagini di colloquio: una di sé stesso, una dello psicologo e una del colloquio in sé. Avrà
un insieme di ricordi amalgamati e intessuti di sentimenti gradevoli e sgradevoli. Qualche volta a qualche
giorno di distanza i sentimenti di disagio e vergogna o angoscia lasciano il posto a una sensazione di sollievo
per aver trovato un luogo, un tempo e una persona con cui poter parlare di sé in modo umano e con la
sensazione di essere ascoltati. Questa sensazione si accompagna nei casi migliori ad una certa quantità di
generosità nei riguardi dello psicologo; anche se non abbiamo capito tutto, il paziente ha sentito che siamo
stati attenti e abbiamo cercato di comprenderlo. Molto più spesso, svanito l'effetto suggestivo del colloquio il
paziente usa il materiale mnestico del colloquio per farne un racconto diverso e talvolta al secondo colloquio
questa ricostruzione soggettiva viene fuori.
Esempio → paziente al secondo colloquio aveva cercato di ricordarsi il primo ma l'unica cosa che si ricordava
era la tonalità di un quadro ed era arrabbiato che tutto il resto fosse sparito. Buon segno che si fidasse di
raccontargli che aveva rimosso tutto il verbale del colloquio, gli mostrasse il materiale fresco appena elaborato,
si trattasse di materiale visivo. Invidia e rabbia sono sentimenti che tutti abbiamo ma l'importante è esprimerli,
padroneggiarli e superarli.
Esempio 2 → paziente racconta elementi non detti al primo colloquio. Quando gli si chiede che ricordo aveva
del colloquio dice che si era trovato bene e gli era piaciuto che la stanza fosse dipinta da poco. Ma aveva la
sensazione di non esser riuscito a lasciarsi andare e quindi aveva portato la lista con gli argomenti non
affrontati.
Esempio 3 → paziente al quale aveva detto in modo brusco che non avrebbe tratto nessun giovamento da un
trattamento psichiatrico e che tanto valeva continuare a prendere i tranquillanti. Lo chiama per ringraziarlo
perché aveva sentito che lo aveva capito davvero e che non assumeva più farmaci. Coscientemente quel
paziente aveva costruito un'immagine opposta al quella dello psicologo ma ne aveva fatto buon uso.

Quindi se il colloquio ha avuto qualche aspetto incisivo, questo lascerà nell'apparato psichico del paziente un
insieme di ricordi che verranno rielaborati per esprimere qualche contenuto inconscio.

NELLO PSICHIATRA
Le stesse considerazioni del paziente valgono anche per lo psichiatra ma esistono due aspetti specifici dello
psichiatra e sono due momenti di comunicazione del colloquio.
• Riflessioni diagnostiche e autodiagnostiche
Per noi il colloquio continua anche dopo la sua fine materiale e vi è un lavoro razionale da fare.Questo lavoro
razionale consiste nel comunicare a noi stessi ciò che abbiamo visto e sentito durante il colloquio. E' il
passaggio dall'attività clinica a quella scientifica, il passaggio dall'attività conscia-preconscia a quella conscia
e razionale. Si tratta di costruirsi un modello del paziente sulla base dei dati disponibili. Deve essere un
modello sufficientemente elastico da potersi adattare al paziente e sufficientemente strutturato da potersi
confrontare con i modelli scientifici. Quando questo lavoro si avvia verso la conclusione allora anche per lo
psicologo il colloquio è finito.
Nel corso di questo lavoro emergeranno molti elementi che si riferiscono all'identità professionale dello P, il
colloquio è anche un'occasione per dare un'occhiata alla nostra immagine professionale, è un'applicazione
della regola della reciprocità. L'esperienza serve a migliorare solo se la si usa altrimenti l'effetto è quello di
usura.
• La stesura del colloquio
Spesso si intreccia con la fase precedente. E' raro trovare un resoconto ben fatto di un colloquio.
Le caratteristiche del nostro lavoro che lo rendono scarsamente comunicabile sono:
– è un lavoro tra due persone il che implica che compaia anche la persona dello psichiatra
– la difficoltà è resa maggiore dal carattere sociale della stesura
– la parola scritta è diversa dalla parola parlata
Il terzo punto ci dice che vi è una grande differenza tra le rappresentazioni verbali, quelle visive e quelle visive
delle parole. Quest'ultima categoria deve in parte il suo aspetto magico al fatto che consiste nel passaggio tra
i sistemi di percezione derivanti dall'elaborazione di sensazioni visive o uditive. Le parole scritte restano più

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facilmente perché vengono associate + facilmente e + sicuramente a rappresentazioni visive. E' il fatto di
scrivere che fa sorgere dentro di noi delle difficoltà.
La prima difficoltà ( due persone ecc) è la stesura di una breve relazione tra due persone e benchè sia centrata
su uno dei due non si può scrivere la storia senza descrivere entrambi. Questa difficoltà è uguale per tutti.
Esaminando i testi pubblicati si noterà che spesso il discorso del paziente è tra virgolette mentre quello
dell'intervistatore in forma indiretta e questa forma tradisce il fatto che non si tratta dell'intervento fatto in quel
momento ma di ciò che lo psichiatra intendeva comunicare al paziente. Tutti hanno difficoltà a descrivere
onestamente come sono andate le cose. Lo stesso aspetto può però avere una faccia completamente diversa
ossia una sorda si sbrodolamento esibizionistico in forza del quale può capitare che le reazioni
dell'intervistatore diventino prevalenti. Queste difficoltà diminuirebbero se tenessimo conto del fatto che il
lettore non saprà mai come sono andate veramente le cose. Il lettore potrà usare il materiale solo per ricostruirsi
una sequenza fantastica sulla quale proverà ad applicare i modelli interpretativi proposti dall'autore e
confrontarli con i suoi. Il testo scritto del colloquio serve soprattutto a noi stessi.
Come si scrive una cartella o un resoconto di un colloquio??? Ci sono due modi, il primo è scrivere le idee
mentre vengono in mente, il secondo è scrivere così come sono andate le cose.
Il primo modo ha il vantaggio di fornirci una versione già elaborata e personalizzata o soggettiva dell'accaduto.
Dentro di noi abbiamo già organizzato i materiali dell'intervista. Questa è la prima elaborazione del testo, non
va cancellata e modificata. Siamo nelle condizioni per fare una seconda stesura che risulterà + ordinata,
razionale ma un po' + morta. La seconda stesura dovrebbe essere aderente al testo, non dovrebbe contenere
elementi che sono venuti in mente dopo né ragionamenti. E' una cronaca alla quale si può fare un commento.
Ogni stesura del colloquio sarà diversa dall'altra e forse sempre + lontana dalla realtà ed è bene fermarsi ad un
certo punto. Una delle funzioni endopsichiche della stesura del colloquio è lo scaricare una cerca quantità di
aggressività accumulata nel colloquio non direttamente sul paziente ma sulla figura descritta da noi e quindi
spesso la sua figura ne esce malconcia.
Il secondo modo consiste nel descrivere fin dall'inizio come sono andate le cose seguendo un criterio
cronologico. Anche qui la versione che ne uscirà sarà soggettiva e anche qui si potrà fare una seconda stesura
che dovrà essere meno ragionata della prima e dovrà essere una rielaborazione del testo “per temi” o fili
conduttori del discorso. Anche qui si potrà aggiungere un commento fatto di ragionamenti, ipotesi, idee.
A questo punto abbiamo dei resoconti che dicono molto di noi oltre che del paziente. Solo a questo punto
possiamo trattare la difficoltà inerente al fatto che il nostro è un lavoro con aspetti sociali e comunicativi. Ci
si può chiedere: questi testi possono essere scritti su una cartella clinica?? NO, perchè la cartella clinica può
per vie burocratiche arrivare in mano al paziente il quale ha si diritto a conoscere le nostre conclusioni ma non
ha nessun diritto a conoscere le nostre fantasie. Nella cartella possiamo semmai scrivere una parte del
commento. Ogni psichiatra deve avere un proprio archivio personale che si può portare a casa. Se si lavora in
un'istituzione questi testi possono essere comunicati alle riunioni del gruppo di lavoro nel corso delle
discussioni. Se non ce la sentiamo di discuterle con altri è perchè queste scritture ci comunicano uno stato di
malessere nostro in quell'istituzione. Il nostro lavoro ha bisogno di comunicazione e il non potersi fidare degli
altri riduce le possibilità di apprendimento e facilita il formarsi delle fantasie anche coscienti di essere i soli
bravi, capaci ecc psichiatri esistenti.

Colloquio e colloqui VIII


Freud è diventato Freud anche grazie alla sua onestà intellettuale . La lettura dei casi è utilissima perchè ci fa
vedere come Freud lavorava e ragionava. La presentazione di questa tecnica ha sottolineato l'uso di un
linguaggio quotidiano. Il linguaggio scientifico è nato per separare ma nel nostro lavoro il compito è quello di
riunire. Tuttavia il linguaggio scientifico ha un grande motivo per esistere e deve far parte del linguaggio dello
psichiatra solo che è importante sapere QUANDO usarlo; MAI con i pazienti o nel testo del colloquio,
QUALCHE volta nel commento al testo del colloquio, SPESSO nelle discussioni teoretiche sui modelli di
apparato psichico che ci possiamo costruire. L'importante è saper tradurre da un linguaggio all'altro evitando
di usare un linguaggio improprio per il livello operativo considerato. Il colloquio è uno degli strumenti dello
psichiatra ma non è detto che debba essere usato.

Possibilità d'uso
Il colloquio può essere applicato anche ai colloqui successivi al primo. Nei casi in cui al paziente viene stabilito
un trattamento misto ( farmacologico e psicologico) è necessario programmare il numero e la finalità dei
colloqui. Utilizzando in serie dei colloqui così codificati dovremo tener conto di alcune modifiche:
– i colloqui precedenti entrano a far parte dei preliminari del colloquio seguente

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– la fase libera potrà variare un po' di lunghezza ma non troppo


– le aspettative del paziente saranno sempre + centrare sulla guarigione
– le nostre aspettative cambieranno, dobbiamo tenerne conto e giudicare quanto questo mutamento ha
influenzato l'andamento di quell'incontro e come

Limiti d'uso
– il primo limite è costituito dalla tecnica in sé: la nostra attenzione resta affascinata dalla tecnica e perde
di vista l'oggetto da esplorare
– la possibilità di applicare il colloquio solo con persone aperte alla conversazione
– non dobbiamo illuderci di aver condotto un colloquio modificando le regole (no porta, no
appuntamento ecc)
– il colloquio ha delle limitazioni conoscitive ben precise. Con essa non otterremo mai una visione
d'insieme, né ci consentirà nel singolo colloquio di ottenere la ricchezza di dati che si possono ottenere
con l'abbinamento di questo a una somministrazione di test
In ogni caso questa tecnica ci permette di pensare su quello che accade in un colloquio, consente ai pazienti
di sentirsi trattati in modo umano e professionale. Permette una valutazione a tappe di un trattamento.

Sulla valutazione dell'esito delle psicoterapie IX


Due aspetti che insieme fondano la possibilità di una valutazione dell'esito di un trattamento psicoterapico
sono:
. - un aspetto razionale - una spetto umano.
Con aspetto razionale si intende la possibilità di ragionare su un modello mentale del paziente e ci si chiede
dunque dal momento in cui il paziente è venuto da me, che modificazioni strutturali sono intervenute??E'
cambiato il Super- io? L'Io è + elastico? I meccanismi di difesa vengono usati ora con tutta la loro potenzialità
e in modo modulato e variabile?
Con aspetto umano si intende un insieme di elementi che spesso vengono chiamati controtransfet, con esso si
intende la reazione emotiva dell'analista allo sviluppo della nevrosi di transfert del paziente o il transfert che
l'analista elabora nei confronti del paziente. Finchè sono presenti transfert e controtransfert il trattamento non
è comcluso

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