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TECNICA DEL COLLOQUIO

Capitolo 1. La cornice del colloquio: aspetti psichici


1. Che scopo ha un colloquio?
Perché si fa un colloquio, per quali scopi si invita una persona a parlare di sé? Forse la maggior
parte delle persone potrebbe rispondere che un colloquio psichiatrico si fa per rendersi conto delle
condizioni mentali della persona che lo ha chiesto. Ci sono però due fasi fondamentali nell'esame
del malato:

• La raccolta dell'anamnesi
• L'esame obiettivo

Il colloquio dovrebbe corrispondere all’esame obiettivo e la realtà che si deve indagare è quella
psichica della persona. Il colloquio richiesto ad uno psicologo non può avere nessun’altra finalità e
l’unica realtà per cui lo psicologo deve essere attrezzato è quella psichica. Se non si tiene conto di
questo scopo c’è il rischio di non accorgersi di cosa sta succedendo durante il colloquio. Il fatto
che il colloquio sia la presentazione che il paziente fa di sé e del suo modo di usare la mente, può
addirittura costituire un parametro valutativo dell’andamento del colloquio. In questo senso, è
importante, prima di iniziare il colloquio, che lo psicologo abbia chiaro:

• Lo scopo generico
• Le distinzioni che implica questo scopo

Il colloquio dello psichiatra è un esame obiettivo, ma si può dire che tendiamo continuamente a
trasformarlo nella raccolta dell'anamnesi: tendiamo continuamente a raccogliere la storia della
persona che ci sta parlando come se questa storia potesse spiegarci qualcosa ma in realtà noi
riceviamo solamente l'interpretazione personale del paziente. L'illusione della caccia alla realtà
obiettiva è disastrosa per lo psicologo, e la si può vedere come la tendenza a negare. In questo
senso, la negazione è sempre dietro l'angolo e c'è di sicuro all'interno di ogni paziente. Forse la
negazione non si rivolge tanto all'attività mentale tout court, quanto ad un aspetto specifico di
essa, un aspetto che ha risvolti inquietanti per tutti: si tratta del fatto che, nel nostro campo di
osservazione, non è possibile mentire. Quello che uno non può nascondere, e che neanche noi
possiamo nascondere, è chi è, come pensa, come organizza il suo pensiero. È faticoso ammettere
che nel campo che teniamo più riservato e protetto la menzogna non serve. La paura di andare
dallo psichiatra può derivare da questo timore, che qualcuno ci guardi dentro e scopra qualcosa
che neanche noi sappiamo. La persona può anche illudersi di raccontarci bugie, ma resta il fatto
che le sta raccontando a se stessa e neanche lei è in grado di spersonalizzare così tanto il
racconto da evitare di dirci qualcosa su di sé. Insomma, è possibile all'uomo mentire su qualsiasi
argomento che riguardi la realtà esterna, ma non è possibile mentire sulla propria realtà psichica.
Se noi focalizzassimo la nostra attenzione su questa specifica realtà riusciremo non solo a capire il
paziente, ma anche a trasmettergli il sentimento del nostro profondo rispetto per lui e per la sua
realtà al di fuori del colloquio. Questo sentimento è qualcosa di assolutamente fondamentale per
poter stabilire un buon rapporto con chicchessia, ma nel nostro caso ha un significato scientifico: è
la sola posizione emotiva che ci consente davvero di compiere il nostro lavoro.
È raro che una persona vada da uno psicologo per conoscere la sua realtà mentale, spesso il
colloquio ha un fine più generale e una serie di fini particolari, sia specifici (il tipo di trattamento
da scegliere) sia aspecifici (richieste di tipo assistenziale o domande relative alla situazione dei
parenti). In uno studio ben organizzato è possibile che diverse persone si debbano occupare dei
diversi livelli di realtà e delle domande del paziente. Se ciò non è possibile il primo livello da
indagare è sempre e soltanto quello della realtà psichica del soggetto, a scapito delle altre sue
realtà. Può accadere, ovviamente, che l'indagine prima sia anche brevissima e che subito dopo si
passi ad altre realtà.

Riassumendo: durante il colloquio occorre indagare la realtà psichica del soggetto, l’anamnesi
passa in secondo piano. La realtà psichica è la prima cosa da indagare a scapito delle altre realtà.
Bisogna rendersi conto però, che la persona che abbiamo di fronte ha sempre paura di essere
guardata dentro. Per questo è importante trasmettere fin da subito un sentimento di profondo
rispetto utile per stabilire un buon rapporto.

2. Che scopi ha un colloquio?


Ogni colloquio ha dei propri scopi particolari. Volendo distinguere bene la situazione, bisognerebbe
dire che, poiché il colloquio è una situazione caratterizzata dalla presenza di due persone, si
dovrebbero tenere presenti gli scopi di tutti e due i colloquianti: paziente e terapeuta.

Per quanto riguarda gli scopi che può avere lo psichiatra: innanzitutto bisogna dire che, proprio
per quel rispetto che dobbiamo a chi viene da noi, non possiamo fissare un'ora per un colloquio
con una persona senza pensare perché gliela dedichiamo, cosa ci aspettiamo e cosa possiamo
offrire; inoltre, lo psichiatra deve avere dentro di sé un'immagine abbastanza chiara di quali sono
le sue capacità professionali, di quali sono le possibilità materiali per il trattamento di una persona,
del tipo di “bisogni” professionali che ha in quel momento. Uno psichiatra che lavora in un gruppo
ben organizzato ha la possibilità di vedere chiaramente le reali opportunità di trattamento di un
paziente sconosciuto, quindi sa cosa può realmente offrire al paziente; lo psichiatra che lavora in
un gruppo dilaniato da invidie o lotte, invece, raramente avrà in testa un quadro chiaro e
sufficientemente attendibile della situazione. L'immagine che si sarà formata nel suo interno del
gruppo che lavora con lui sarà eccessivamente investita di sentimenti disturbanti e sarà con ogni
probabilità divenuta una fonte poco attendibile di informazioni. Lo psichiatra all'inizio della sua
carriera, ma non solo, dovrebbe pensare alla propria disponibilità materiale e alla propria
competenza scientifica. Avere in testa un quadro chiaro della situazione permette di aver chiari lo
scopo e i sottoscopi.

Riassumendo: Bisogna tenere presente gli scopi del paziente e del conduttore. Bisogna avere
un’idea precida delle proprie capacità professionali, delle possibilità materiali per poter compiere
un trattamento. Avere presente i tempi che si hanno a disposizione perché non è sufficiente come
scopo quello di fissare un appuntamento solo per tappare un buco.
3. Prerequisiti mentali
Prerequisiti mentali: insieme di condizioni, di fatti, di conoscenze e di stati emotivi, che riguardano
il mondo interno di colui che deve condurre il colloquio. In aggiunta vanno inserite anche le
competenze tecniche acquisite con la pratica. Gli atteggiamenti che lo psichiatra deve imparare a
conoscere e ri-conoscere in se stesso sono:

• Disponibilità e professionalità
Per quanto riguarda l’atteggiamento del primo colloquio ci sono delle considerazioni:

1. Il paziente non è un amico e non va trattato con eccessiva confidenza come se lo fosse.
Infatti se così si agisse verrebbero messe da parte le difficoltà iniziali della conoscenza
illudendo di averle superate, comunicandogli che ne si ha una discreta paura.
2. Comportarsi in modo rigido e prefissato invece sembrerebbe ancora negare il fatto che in
realtà siamo persone umane.

È opportuno che, soprattutto all’inizio, ognuno pensi ad un proprio stile personale, in quanto tutti
abbiamo un modo proprio di parlare e impostare un discorso. Quando si parla di tecnica personale
di colloquio, si intende riferirsi al fatto che tutti abbiamo imparato a parlare e che tutti, dovendo
parlare con altre persone, tendiamo ad impostare il colloquio in un certo modo precostruito.

Bisogna quindi fondere la propria tecnica personale con la tecnica del colloquio e riuscire ad
elaborare uno stile comunicativo che permette al paziente di sentire che non ha di fronte “una
statua” ma una persona disponibile e sinceramente incuriosita e che possiede i mezzi tecnici per
facilitargli un compito non semplice.

3.1 Frustrazione e sadismo


È frequente che la regola della frustrazione spesso viene interpretata in chiave sadica, quasi che lo
psicanalista dovesse strapazzare i pazienti. Si tratta di una proiezione di un Super-Io sadico sugli
psicanalisti e di una successiva identificazione “legalizzata” con tale Super-Io. Comunque, tale
regola non significa che si debba essere maleducati, scontrosi, caustici con i pazienti. È importante
sottolineare questo aspetto perché in sede di primo colloquio l'atteggiamento di base
dell'intervistatore viene attentamente ed ansiosamente valutato dall'intervistato. Atteggiamenti
sadici nei riguardi dei pazienti non ci devono essere, né mascherati da elementi tecnici né
mascherati da tratti di carattere allegrone.

La finalità della regola della frustrazione è quella di impedire che il paziente e l’analista agiscano
insieme soddisfacendo il secondo le richieste inconsce del primo, e cercando invece che il paziente
prenda coscienza di quale sia la situazione dei suoi desideri profondi. È applicabile questa
situazione nel primo colloquio? La regola della frustrazione non è una regola generica, ma è mirata
a precise costellazioni di difese e desideri: se non conosciamo la persona che abbiamo davanti,
non possiamo sapere che tipo di difese e desideri essa ha e quindi non possiamo applicare questa
regola in modo specifico e mirato. Ciò che invece nel primo colloquio si chiede è la conservazione
della neutralità: un atteggiamento molto “attivo” di curiosità, disponibilità e attenzione che fa sì
che “noi ci tiriamo da parte” per lasciare che il paziente si esprima quanto meglio può. Questo
atteggiamento di base costituisce la migliore presentazione che di sé si può fare alla nuova
persona che incontra.
4. Riassumendo
I prerequisiti mentali che si richiedono un giovane psicologo che deve affrontare un colloquio con
un paziente sono:

• Una disponibilità attenta e rispettosa.


• Una curiosità non invadente.
• Una capacità di essere attivamente neutrali,
• Una coscienza sufficiente del proprio stile comunicativo (e quindi anche delle sue indicazioni
o controindicazioni ad affrontare certi tipi di persone).

Contrariamente a quel che si dice il paziente con problemi psichici ha un tale grado di tolleranza
della frustrazione ed una storia così infelice alle spalle che molto spesso non se la prenderà con
noi più di tanto, se non saremo in grado di ascoltarlo. Spesso, la delinquenziale consapevolezza di
aver a che fare con una persona cui la vita ha comunque imposto un grado terribile di
sopportazione, facilita l'instaurarsi di un atteggiamento di non-ascolto, una specie di insalata mista
fatta di indifferenza, sfiducia, presunzione che non ci sia nulla da fare. Il nostro non è un lavoro
innocuo, ma un lavoro pericoloso. La pericolosità peggiore del nostro lavoro non è quella acuta
bensì quella cronica. Il pericolo del cronico sta nel subdolo tentativo di prendere le distanze dal
paziente mediante operazioni mentali che, dapprima messe in atto durante i periodi lavorativi, poi
si dilatano anche alla vita quotidiana e familiare dello psichiatra, alla sua vita privata. Una
progressiva desensibilizzazione, quando non addirittura una sclerotizzazione massiccia, delle
proprie attività psichiche. La psiche è caratterizzata dal fenomeno che per cui può nascondere e
nascondersi da qualsiasi cosa ma non può nascondere sé stessa. Ora questo fenomeno non è solo
specifico dei pazienti: è una caratteristica umana. Neppure noi sappiamo mentire a questo livello,
tuttavia, possiamo però mentirci. Inconsciamente lo facciamo in continuazione e per i motivi più
svariati noi cerchiamo di impedire a noi stessi la visione della realtà e, in primo luogo, della nostra
realtà psichica. Lo psichiatra deve essere distaccato ma non troppo. Sappiamo che un essere
umano entrando in contatto con un altro essere umano, può modificarlo ed esserne modificato in
qualche misura. Fare come se questo non avvenisse, costituisce una delle modalità difensive più
comuni del nostro lavoro e certo una delle più pericolose. Da questo punto di vista, la tecnica è
uno strumento che noi abbiamo elaborato per far sì che queste modificazioni avvengano in modo
conscio. La tecnica ci consente di utilizzare le modificazioni stesse che il contatto con il paziente ha
prodotto dentro di noi come fonte per sviluppare le possibilità comunicative in quel colloquio. Un
colloquio che presta attenzione alla tecnica è una salvaguardia della propria vita psichica, le
modificazioni “subite” ci permetteranno di sviluppare le capacità comunicative in quel colloquio e
negli anni di migliorare le nostre capacità comunicative.
Capitolo 2. La cornice del colloquio: aspetti materiali
1. Il luogo
Il colloquio, che si svolge tra due persone, avviene in un luogo e questo ha un ruolo molto
importante per lo svolgimento del colloquio stesso.

La stanza dove si svolge il colloquio è un luogo delimitato da pareti con aperture verso l'esterno
finalizzate all'entrata o all'uscita, al cambio d'aria o per permettere la visione dell'esterno e
l'entrata della luce. Sono quindi fondamentali pareti, porta e finestre. La porta della stanza del
colloquio deve essere una porta a tutti gli effetti: non deve essere trasparente alla luce né ai
suoni, dovrebbe essere dotata di una maniglia e di una serratura. È chiaro che ciascuno di questi
elementi ha un solido aspetto concreto ed un altrettanto solito aspetto simbolico. Non si può, in
altri termini, simbolizzare una porta mediante una tenda, sminuirne il significato lasciandola
perennemente aperta o svalutarla lasciando che chiunque la apra. La porta è qualcosa di
immensamente importante, è il confine al di là del quale non diremmo le cose che possiamo dire
al di qua.

I luoghi nei quali la persona è chiamata a sperimentare la propria realtà psichica, sono luoghi
intollerabili, anche se inconsapevolmente, a tantissimi di noi. La negazione della distinzione tra
dentro e fuori è molto comune. Succede spesso che si tolleri che gli altri bussino, entrino, entrino
senza bussare, telefonino. La porta c'è, ma non si vede: ed allora quella porta diventa solo un
misero trucco; non serve a nulla una porta che venga aperta in continuazione.

2. L’arredamento
Anche in questo caso l'arredamento è un qualcosa di materiale che si presenta al paziente, che
simbolizza al paziente alcuni aspetti nostri, di noi che abbiamo accettato di stare in quel luogo o
che lo abbiamo fatto così come si presenta adesso. Non si tratta solo dei singoli oggetti contenuti
all'interno della stanza, ma piuttosto dell'insieme, della Gestalt della stanza, che quegli oggetti,
così come il colore delle pareti e l'illuminazione, concorrono a costruire. Vediamo ora quali sono i
requisiti richiesti per una stanza destinata all'effettuazione di colloqui.

Innanzitutto un tavolo e due sedie. Non un tavolo di quel deprimente tipo che viene
genericamente definito “ospedaliero”, ma un tavolo qualunque che non continui a lanciare al
paziente il messaggio insensato “sei in ospedale, sei in ambulatorio, quello è il medico”, ma che
faccia sentire il paziente come in una casa. Lo stesso dicasi per le sedie. Avere delle sedie
comode, con i braccioli, foderate, comunica semplicemente al paziente che capiamo benissimo che
non gli sarà facile esporre le sue cose, ma che perlomeno cerchiamo di metterlo a suo agio. La
luce deve essere diffusa e non fastidiosa e le pareti andrebbero colorate come si colora una casa e
qualche quadro, anche semplice, qualche riproduzione, va sempre bene. Anche questi particolari,
evidentemente, comunicano qualcosa di noi al paziente. Ma se le pareti fossero nude
probabilmente gli comunicheremo solo che siamo delle persone che accettano di passare
parecchie ore della propria vita in un ambiente piuttosto squallido. Se poi un angolo venisse
attrezzato con due poltroncine ed un tavolinetto basso, tanto meglio.

Quelli invece che vanno banditi sono gli armadietti in ferro-vetro stracolmi di farmaci o peggio
ancora di strumenti medici. Queste presenze, oltre ad essere fonte d'inutile comunicazione al
paziente (che magari non avrà affatto bisogno di farmaci), sono anche fonte di disturbo perenne.
3. Il corpo dello psichiatra
Quando il paziente entrerà avrà una percezione unica della stanza e in questa sarà compreso
anche lo psichiatra. Così come è necessario che uno psichiatra sappia quantomeno descrivere a se
stesso il suo stile personale di condurre un colloquio non tecnico, è altrettanto necessario che egli
impari a descrivere anche il proprio stile corporeo, fatto di vestiti, di atteggiamenti posturali, di
mimica. Si tratta di altre facce dello stesso fenomeno: il carattere.

Ovviamente, ci sono dei casi limite da evitare come presentarsi in tuta da ginnastica al paziente o
ostentare stupidamente la propria ricchezza, tramite gioielli, pellicce e così via. Va da sé che un
pizzico di buon senso e di buona educazione è più che sufficiente a orientarsi in questo campo.
Ma, al di là dei casi limite, è bene che uno sappia che stile corporeo ha, che tipo di messaggio
questo stile può inviare e che tipo di reazioni può indurre.

Un altro aspetto corporeo importante dello psichiatra è quello degli atteggiamenti posturali. Vale lo
stesso discorso: occorre conoscerli e, anche qui, ci sono dei limiti dettati dal buon senso.

4. Riassumendo
Per poter fare un colloquio serve avere una stanza decente, che abbia le caratteristiche di una
stanza d’abitazione, con un arredamento anche modesto ma non medico e qualche elemento di
personalizzazione dell’ambiente. Fanno parte degli aspetti materiali della cornice del colloquio
anche il nostro aspetto e il nostro atteggiamento posturale e che, tutti questi dati messi insieme
da un lato concorreranno a costituire l’immagine che il paziente si farà di noi, dall’altro saranno dei
parametri o delle costanti di cui talvolta bisognerebbe tener conto quando ci si porrà il compito di
valutare l’andamento del colloquio.

Capitolo 3. Le regole del gioco


Esistono tre regole fondamentali senza le quali non si può condurre un colloquio.

a. La regola del linguaggio.


b. La regola della frustrazione.
c. La regola della reciprocità.

Ognuna di esse ha particolari momenti di applicazione (o di prevalenza sulle altre due) in


determinati momenti del colloquio, ma tutte e tre vanno osservate.

1. La regola del linguaggio


La formulazione di questa regola è molto semplice: durante un colloquio si deve usare il
linguaggio del paziente. È davvero strano che una regola così semplice risulti poi, nella pratica,
raramente osservata. Ciò è forse dovuto al fatto che molto spesso tutti tendiamo, per motivi
largamente inconsci, a sottovalutare il linguaggio. La regola del linguaggio implica che lo psicologo
abbia riflettuto sui rapporti che esistono tra linguaggio e cultura etnica, tra cultura e personalità, e
che abbia fatto almeno delle fantasie, e magari delle letture, sull'origine e l'apprendimento del
linguaggio nel bambino, e che abbia una certa idea delle forme del linguaggio. Conoscerle è in
fondo un obbligo per chi cerca di decodificare un testo verbale composto da parole e di strutture
grammaticali sintattiche.
I livelli di osservazione del linguaggio nel colloquio sono:

a. Lingua usata.
b. Vocabolario prevalente.
c. Ricchezza del lessico.
d. Stile.
e. Analisi delle figure retoriche.

Lingua usata: in questo caso, la prima domanda da porsi è se la persona che ci sta di fronte
adopera, parlando con noi, la lingua che usa prevalentemente quando è fuori dalla nostra stanza
oppure usa un'altra lingua. È molto frequente trovarsi davanti persone che nella vita quotidiana
parlano in dialetto, mentre durante il colloquio usano l'italiano. Da un punto di vista psicologico
potrebbe sembrare la stessa cosa ma non lo è perché l'uso dell'italiano al posto della lingua
parlata correntemente ha spesso una funzione di isolamento delle rappresentazioni dagli affetti e
tende quindi a stabilire una situazione di minor partecipazione emotiva del paziente al proprio
discorso. Il suo discorso è paragonabile alla poesia: non c'è tentativo più poetico e creativo di
quello dell'uomo che cerca di prendere coscienza di sé, che comincia a descriversi, a cercare di
capirsi, ma naturalmente il paziente cerca di difendersi dai sentimenti spiacevoli che teme
vengano evocati da questa operazione e uno dei modi per difendersi da se stesso è quello di usare
un linguaggio diverso da quello abituale. È importante che la regola del linguaggio s'intenda in
senso stretto anche a proposito della lingua. Può darsi che ciò non sia possibile, che capiti un
paziente polacco del quale non si ha alcuna possibilità di comprenderne la lingua madre, però
bisogna rendersi conto che non è lo stesso. È importante saper condurre un colloquio anche in
una lingua estranea alla quotidiana ed emotiva del paziente, ma si deve tener conto che
certamente questo creerà un distanziamento. Ma anche se il paziente impone il proprio linguaggio
bisogna stare attenti. La useremo sì, la sua lingua, in omaggio ai motivi veramente validi e
profondi che hanno fatto nascere questa regola: ma non mancheremo di osservare che un
paziente che ci offre la sua lingua è ben diverso da un paziente che ce la impone.

Vocabolario prevalente: spesso il paziente cerca di utilizzare quello che crede essere il linguaggio
dello psicologo, sia che si tratti di termini dello slang psicoanalitico sia che si tratti di termini
dell’arsenale lessicale psichiatrico. In ogni caso è assolutamente evidente (necessario) che lo
psicologo/psichiatra utilizzi il linguaggio quotidiano di uso corrente, evitando accuratamente di
usare un linguaggio tecnico-scientifico. Il linguaggio tecnico-scientifico va usato per comunicare
adeguatamente con i colleghi. L'uso da parte del paziente di un linguaggio pseudotecnico non è
altro che un uso finalizzato al distanziamento emotivo dai suoi specifici problemi, talvolta abbinato
al tentativo di mettersi nei panni dello psichiatra-psicologo, considerati più comodi dei suoi. Del
linguaggio del paziente bisogna osservare tutto. Il tipo di vocabolario utilizzato dal paziente può
essere indicativo della provenienza socio-culturale dell'individuo e di come quest'ultimo si sia
integrato in questo ambiente. Non è detto che la polarizzazione del vocabolario sia indicativa di
una debolezza dell'Io o di una tendenza ad una passività totale, dell'incapacità cioè di rielaborare
in modo soggettivo lo strumento dato del linguaggio. Può anche essere un sistema aggressivo,
può trattarsi di un rifiuto che l'individuo si concede, tanto più prezioso quanto più è portatile e
continuo.
Ricchezza del lessico: stesso discorso vale per la ricchezza del lessico. Certo, se la persona che
abbiamo davanti ha a propria disposizione un lessico ricco ed è in grado di utilizzarlo per
descrivere in modo adeguato la propria situazione personale siamo molto avvantaggiati. Spesso
però ci troviamo di fronte persone che sembrano disporre di un lessico misero. Naturalmente
questa osservazione/situazione è molto preziosa perché ci permette di chiederci se è dovuto a una
situazione culturale del paziente o se, invece, sono prevalenti le componenti personali e in questo
ultimo caso osservare se la povertà lessicale si manifesta di più in alcune aree o su alcuni temi o
se si tratta di un fenomeno diffuso che indica una rigidità dello strumento linguistico e delle
funzioni mentali che lo sostengono.

Stile: anche lo stile del discorso del paziente è importante. In un lavoro fatto largamente di parole,
il lavoratore deve sapere come usare le parole e deve saper riconoscere come gli altri le usano. La
retorica e l'oratoria sono fondamentali per la comunicazione tra persone.

Analisi delle figure retoriche: in un lavoro fatto di parole si deve sapere come usare e si devono
riconoscere negli altri le figure retoriche. Il paziente non potrebbe parlare di sé senza il loro
utilizzo. L'espressione metaforica è più ricca emotivamente in quanto essendo una verbalizzazione
di un'immagine mantiene i rapporti più stretti tra le rappresentazioni di parola e quelle di cosa e
consente un'espressione migliore di affetto. Per quanto riguarda la regola del linguaggio va
sottolineato il fatto che questa abbia un versante passivo, che consiste nel lasciar usare al
paziente il proprio linguaggio, ed un versante attivo per quanto riguarda l'intervistatore. Tale
attività consiste:

• Nel creare le condizioni in cui il paziente possa usare il proprio linguaggio.


• Nell’usare egli stesso, per quanto possibile, questo linguaggio.

Ciò significa impiegare il linguaggio del paziente “spontaneamente”. Questa regola è applicabile
nella misura in cui siamo in grado di identificarci transitoriamente con il paziente, sicché in quella
situazione psicologica il suo linguaggio può davvero essere utilizzato da noi in modo autentico e
personalizzato. Tipicamente, l'uso delle espressioni linguistiche del paziente dovrebbe potersi
vedere nelle riformulazioni. Queste sono interventi caratterizzati da un leggero aumento di
significato del testo verbale del paziente, che gli vengono proposti in forma interrogativa e che
sono variamente finalizzati. Una buona riformulazione consente al paziente di avere quella
sensazione fondamentale di sollievo nel comprendere che la persona che ha davanti sta
lavorando. In generale, del paziente dobbiamo essere in grado di riutilizzare almeno le metafore e,
comunque, nell'uso del nostro linguaggio dobbiamo cercare di situarci quanto meno al suo livello
linguistico. Ci sono però delle eccezioni a questa regola. Sembra che le due eccezioni siano, grosso
modo, indicabili con due tipi di personaggi: il tossicomane e il delinquente. Entrambi fanno un uso
falso del linguaggio. Offrono come terreno d'intesa un linguaggio di gruppo che essi stessi sanno
non esistere, nel senso che, se pure a volte viene usato, esso è finalizzato anche all'interno del
gruppo all'evitamento della personalizzazione, della presentazione di sé come persona.
2. La regola della frustrazione
La regola della frustrazione si presta ad equivoci, inconsciamente motivati, nel senso che a volte
viene usata come razionalizzazione di atteggiamenti sadici. Durante il colloquio, bisogna evitare di
soddisfare i desideri consci ed inconsci del paziente, ad eccezione del “desiderio” che lo ha
consciamente spinto da noi, cioè quello di avere un'opinione più chiara di sé. Questa regola ha
una giustificazione molto semplice: le forme mediante le quali il paziente esprime i suoi desideri
consci e inconsci sono le reali comunicazioni che ci sta facendo (→ il paziente ci esprime i suoi
desideri attraverso le reali comunicazioni che ci fa). Se il paziente potesse soddisfare liberamente i
suoi desideri, probabilmente non verrebbe da noi. Dunque non lasciare che il paziente soddisfi con
noi i suoi desideri significa anche comunicargli di aver compreso che lui non è venuto da noi per
avere soddisfazioni sostitutive ma per mostrarci come, nella sua mente, il desiderio non trovi vie di
espressione e di realizzazione soddisfacenti (→ la prostituzione simbolica tramite la propria attività
professionale è abbastanza frequente, è una situazione personale e nevrotica. I tentativi di
soddisfare suoi bisogni alleandoci con le sue parti più regredite è stato già fatto dalle persone del
suo ambiente e quindi questi tentativi sono falliti). Tuttavia bisogna distinguere la regola della
frustrazione dalla maleducazione e dal sadismo. La regola si applica bene laddove noi abbiamo
avuto la possibilità di comprendere la struttura mentale del paziente e sarà quindi difficile
applicarla in modo mirato al primo colloquio in quanto non conosciamo ancora a sufficienza il
paziente. Non conoscendolo ancora dovremo quindi avere un atteggiamento neutrale. La stessa
regola del linguaggio può essere letta come un'applicazione della regola della frustrazione: usando
il linguaggio del paziente e facendoglielo usare, noi evitiamo di comunicargli degli aspetti personali
nostri che, viceversa, una parte di lui desidererebbe conoscere. Interagendo con il paziente noi gli
comunichiamo anche chi siamo, come è strutturata la nostra attività mentale. Ma questo è
tutt'altra cosa dal comunicare direttamente al paziente i nostri desideri, i nostri tratti di carattere o
i nostri modi di pensare. Uno dei parametri valutativi della riuscita o meno della terapia sta nella
certezza acquisita dal paziente circa il fatto di conoscerci bene senza sapere niente di noi, un
paziente così ha potuto fidarsi di sé per capire sé e gli altri. Questo livello è difficile da raggiungere
però (→ spesso si fa confusione tra desideri e bisogni, per esempio un paziente che appena
entrato chiede di andare in bagno ci mostra che manipolando i bisogni ha imparato anche a
manipolare gli altri). Ognuno di noi è diverso e l'applicazione della regola della frustrazione deve
essere personalizzata. La regola della frustrazione si sovrappone alla regola del linguaggio ed
entrambe, per essere operativamente utilizzate, necessitano di essere filtrate attraverso lo stile
dapprima personale e poi professionale dello psichiatra.

3. La regola della reciprocità


Il paziente uscendo deve aver ricevuto almeno tanto quanto ha dato. Può essere definita come la
regola dello scambio. È la regola più banale ma più difficile da applicare. Questa regola si rivolge
allo stato adulto della mente della persona che ci consulta. Il paziente non deve andare via senza
aver ricevuto nulla per due motivi:

• Il primo è di tipo relazionale-umano: se una persona ha cercato di esporci la sua situazione


mentale, ci ha comunque offerto qualcosa di prezioso e contraccambiare è d'obbligo.
• Il secondo è di tipo intrapsichico dello psichiatra-psicologo: in molti casi il paziente tende a
lasciare nella mente dell'intervistatore il suo problema.
Succede che un paziente abbia bisogno, per farsi capire, di suscitare dentro di noi le emozioni che
abbiamo provato in situazioni simili ed è raro che le abbiamo superate senza difficoltà. Se non
siamo in grado di comprendere quello che sta succedendo dentro di noi non saremo in grado di
tradurre le nostre esperienze con quel paziente in quel momento nel suo linguaggio e non
potremo quindi restituirgli migliorato il concetto che ci ha dato. Non ci sarà reciprocità ed in noi
resterà per un po' attivato quel livello di esperienze mentali, cosa non del tutto innocua a lungo
andare. Dunque la regola della reciprocità ha anche un versante egoistico di salvaguardia della
mente dello psichiatra. Comunque sia, non si può lasciar andare una persona senza dirle
assolutamente nulla, al limite si può dire di aver bisogno di un ulteriore colloquio per farsi un'idea
più chiara della situazione. Quando è possibile è importante fare una dichiarazione conclusiva al
paziente, e questa è il momento in cui più esplicitamente si ricambia al paziente.

Attraverso queste tre regole è possibile creare la trama del colloquio.

Capitolo 4. Anatomia del colloquio (prima parte)


1. I preliminari del colloquio
I preliminari di un colloquio comprendono innanzitutto gli aspetti materiali e psichici che fanno da
cornice al colloquio stesso e ne consentono lo svolgimento e in secondo luogo l'appuntamento. Va
sottolineata la necessità dell'appuntamento: a meno che non si tratti di una consultazione
d'urgenza, cioè di una situazione che nulla a che fare con il colloquio psichiatrico propriamente
detto, l'appuntamento va sempre dato. Converrà fissare l'appuntamento in un momento in cui
sappiamo che potremmo avere una relativa calma ed un basso tasso di stress, soprattutto se si
tratta di un primo colloquio. Ma anche se non si tratta del primo è comunque necessario sapere di
avere a disposizione almeno 45 minuti da dedicare al paziente. Fissare l'appuntamento è già in sé
una comunicazione al paziente: gli si dice che lo si prende in debita considerazione. È chiaro che la
telefonata per l'appuntamento è comunque una presentazione sia del paziente o dei suoi familiari
sia dello psichiatra o della sua istituzione. Nel fissare l'appuntamento non bisogna dimenticare di
farsi dare un recapito telefonico dal paziente: in linea di massima l'appuntamento non dovrebbero
essere spostato, ma l'imprevedibile può sempre accadere ed è sgradevole per chiunque recarsi ad
un appuntamento per sentirsi dire che il dottore non c'è.

Molto comuni sono le prese di appuntamento per via telefonica da parte dei parenti. È importante
chiedere in primo luogo come mai non telefona la persona interessata:

• Se i motivi paiono futili, è meglio dire che preferiamo prendere accordi diretti con la
persona interessata e stabilire quando quest'ultima ci puoi chiamare.
• Se i motivi appaiono più accettabili, si può anche fissare l'appuntamento, evitando di
raccogliere le comunicazioni dei parenti e preparandosi anche a sentirsi dire da parte
dell'intervistato che lui non ne sapeva nulla.

È importante non fare un colloquio telefonico con i parenti per i seguenti motivi:

a. I parenti certamente ci forniranno un'immagine del paziente e di sé stessi: noi invece


abbiamo bisogno, se vogliamo poter capire qualcosa, di farci un'immagine tutta nostra, non
mediata da altri; una immagine preformata è un'interferenza ed una difficoltà aggiuntiva
sulla strada della costruzione, dentro di noi, di un modello nostro, personalizzato, di chi è il
nostro paziente.
b. È altrettanto sicuro che, perlomeno in parte, il fatto che un paziente psichico puro venga
presentato dei parenti è il frutto di una inconscia manipolazione del paziente su questi e,
indirettamente su di noi.

Nella sua forma più pura, tuttavia, l'appuntamento viene preso direttamente tra psichiatra e
paziente. Non mancheranno, anche in questo caso, tentativi di comunicazione prematura da parte
del paziente, ma, come ho già detto, si potrà con relativa facilità indicare che il telefono non è la
sede adatta per parlarne e che si avrà tutto il tempo di farlo durante il colloquio vero e proprio. I
pazienti che si attaccano al telefono è come se ci volessero avvertire che sono casi difficili, ma
meglio così piuttosto che le persone che celano questi aspetti e li tirano fuori tutti insieme dopo
aver concluso un accordo terapeutico. Il periodo che va dall'inizio alla fase libera sarà quello che
deciderà le sorti del colloquio ed essendo in due le sorti non dipendono solo da una persona e di
45 minuti circa a metà del tempo dovrà essere dedicata a questa fase. Si deve imparare a
calcolare bene il tempo ma dopo un po' verrà spontaneo.

2. L’inizio e il riconoscimento
Prima di tutto cominciamo col presentarci: un buongiorno ed una stretta di mano uniti ad
un’indicazione precisa del posto che il paziente deve occupare, sono sufficienti.

E qui c'è l'inizio del colloquio nel senso stretto e cioè del parlato. All'inizio del colloquio si pongono
due problemi ossia quello delle informazioni preliminari e la scelta del tipo di colloquio da
compiere.

Informazioni preliminari: sono dei dati che si hanno già a disposizione sul paziente. Questo
problema si pone anche nei colloqui successivi al primo, allorché ci siano state comunicazioni del
paziente al di fuori della situazione di colloquio. Però in quest’ultimo caso siamo facilitati dal fatto
che il paziente lo conosciamo già. Se le informazioni avute sono di poco conto, tanto vale lasciar
perdere. Se invece sono importanti bisogna comunicare al paziente non tanto la cosa in sé quanto
il fatto che ci sia stata comunicata.

Ci sono delle situazioni d'allarme nelle quali è ben difficile riferire le vicende raccontate dai
pazienti. Ad esempio, pazienti con tendenze paranoidee o francamente paranoidi tollerano male
una comunicazione del genere all’inizio. Tacendo, però, c’è comunque il rischio che la situazione di
un buon dialogo venga falsata.

Ci sono situazioni in cui lo psichiatra debba talora prendere su di sé la responsabilità di tacere, nel
tentativo di stabilire un minimo di holding quando si ha l’impressione che il paziente non sia in
grado di contenere le tensioni e che la sua famiglia non sia stata in grado di dargli il sentimento di
questa sua possibilità. In questi casi, lo psichiatra crea dentro di se, in forma molto particolare,
quella stanza, i cui caratteri fisici ne abbiamo parlato prima: è come se ne raddoppiassimo le
porte, se insonorizzassimo le pareti. A lungo andare però, c’è il rischio per gli psichiatri che questa
tecnica di rafforzamento della stanza diventi una sorta di bunker psichico dello psichiatra che si
arroga dei diritti che non ha.

Scelta del tipo di colloquio: per quanto riguarda la scelta del tipo di colloquio questi si possono
suddividere in:

• Guidato: appartiene al dominio della tradizionale semiotica psichiatrica e verte sul


sondaggio delle funzioni psichiche.
• Libero: è quello nel quale si lascia il paziente libero di mostrarci da sé quant’è schiavo.
Il grado di libertà di un colloquio è difficile da definire. C’è un campo di gioco costituito dall’assetto
che abbiamo dato al colloquio, ma c'è soprattutto una serie di condizioni mentali per le quali
veniamo interpellati. Purtroppo dobbiamo ammettere che questa libertà è forse più un nostro
desiderio ed un nostro impegno che una realtà nell’hic et nunc (qui ed ora) del colloquio. E che
forse, se dentro di noi la pensiamo così, facciamo anche spesso opera di conservazione di una
parte del paziente, molto frequentemente disposto a tutto pur di non sperimentare questa
condizione mentale che per lui ha aspetti terrorizzanti. È forse proprio sulla base di quest’ultima
visione che la distinzione tra colloquio libero o guidato diventa non un fatto di filosofia, ma uno
strumento operativo che bisogna saper usare. Laddove manchino le condizioni evidenti per
condurre una conversazione, cioè un colloquio non professionale, mancano anche le condizioni per
fare un colloquio centrato sul polo della libertà.

Un giovane schizofrenico in grado di produrre solamente un'insalata di parole o un paziente


confuso non sopportano lo stress del colloquio libero, intendendo con questo termine un colloquio
nel quale lo psichiatra si mette da parte per consentire al paziente di parlare di sé e di presentarsi
verbalmente, di presentare per così dire la sua versione dei fatti. Nella gran parte dei casi un
colloquio relativamente libero è fattibile. Ma non bisogna dimenticare che ci sono delle
controindicazioni a questo genere di colloquio. Nel colloquio libero, una volta fatto accomodare il
paziente basterà una frase breve per invitarlo a parlare. Più breve è la frase e meno errori si
fanno: è fondamentale tener presente che, nonostante le informazioni preliminari, nonostante
l'appuntamento, nonostante la nostra stessa prima impressione emotiva all'ingresso del paziente,
ciò che sappiamo di lui è, rapportato a quello che davvero è lui, ovvero molto vicino allo zero.
Bisogna tentare di non fare errori perché di fronte abbiamo uno sconosciuto che stiamo tentando
di conoscere e dobbiamo cercare di capire chi è, quindi si devono curare anche i piccoli particolari.
La nostra breve frase iniziale deve essere un invito e nulla di più. Sarebbe assurdo stare zitti
perché creeremmo solamente imbarazzo e un ulteriore motivo di tensione che è probabile ci sia
già abbastanza. Sarebbe allo stesso modo assurdo parlare troppo con il rischio di ferire il paziente
con frasi inadeguate; meglio un sorriso e un “dunque”.

Questo periodo iniziale contiene anche un elemento importante di riconoscimento, infatti, come
noi abbiamo avuto delle informazioni preliminari del paziente, così anche lui ne avrà avute su di
noi. Entrambe queste serie di informazioni sono avvenute senza un diretto contatto tra le persone:
queste sono in un certo senso pre-conosciute e certamente ciascuna in un modo o nell'altro ha
fatto delle fantasie sull’altra. La fase iniziale serve quindi a ri-conoscersi cioè a conoscersi davvero
(“di persona”). Ciò significa che le prime impressioni e fantasie sono per la prima volta soggette a
verifica.

È a questo punto che gli aspetti psichici e materiali della cornice del colloquio hanno un primo
impatto sul paziente, e cioè a questo punto che noi ci presentiamo a lui non solo con il nostro
nome, ma con il nostro modo di vestire, di atteggiarci fisicamente e con la nostra mimica ed
altrettanto fa lui.
3. La fase libera del colloquio
Ci siamo presentati, ci siamo seduti, abbiamo mentalmente scelto il colloquio libero ed eccoci qui:
come comincerà il paziente? Per il primo colloquio si può forse dire che ci sono alcune aperture
tipiche, e molte atipiche, ma non c’è una regola, altrimenti non sarebbe un colloquio libero. In
questa fase delicata bisogna saper usare a fondo le nostre capacità di discrezione, tolleranza ed
empatia: per quanto si tratti di cose impalpabili, questi nostri atteggiamenti, comunicati magari
con la mimica, con i gesti, con lo sguardo, sono estremamente importanti, in quanto creano nel
paziente la sensazione di potersi lasciare andare a parlare, e magari dire cose perfide nei nostri
riguardi, che gli consentono dunque di presentarsi, di presentare cioè la sua realtà psichica. Le
aperture tipiche del paziente con l'andare del tempo tendono a ingannarci. In pratica, mentre
un'apertura atipica attira subito la nostra attenzione, l'apertura tipica tende, col tempo, ad
annebbiare le nostre capacità critiche, come se ci dicessimo mentalmente “ah, questo è uno di
quelli che cominciano così” e ci illudessimo che ad un'apertura tipica corrisponda un certo tipo di
struttura mentale. Non è così perché le persone sono tutte differenti una dall'altra, con ognuna ci
ritroviamo al punto di partenza di dover comprendere chi sia.

Il primo modo per presentarsi da parte del paziente è quello di elencare e presentare i sintomi che
lo spingono da noi. A volte questo si accompagna ad un minimo di storia del sintomo, altre volte
viene buttato lì, nudo e crudo, solo il disturbo. È opportuno, innanzitutto, tenere in mente il fatto
che il sintomo è sempre anche un compromesso difensivo che l’Io del paziente ha spesso
faticosamente elaborato per evitare di essere allagato da contenuti inconsci intollerabili. Il
comportamento del paziente che si presenta così è, quindi anche una riproduzione nell'attualità
del colloquio delle operazioni mentali che lo hanno portato ad elaborare una sindrome. Alcuni
pazienti dopo aver presentato il sintomo vorrebbero scappare e non farsi vedere più; altri
rimangono zitti, tacciono come se avessero finito il loro compito e a quel punto toccasse a noi. In
termini relazionali il partire con il sintomo può essere interpretato o come un gesto di fiducia (ad
esempio se il sintomo è particolarmente vergognoso) o come un attacco attraverso il quale
rovescia sull’altro appunto il sintomo. In ogni caso, la presentazione del sintomo in prima battuta
accompagnata da uno stop del paziente subito dopo sta a significare un tentativo di separazione
tra la sindrome psicopatologica e se stessi come persone. Attenzione: non è affatto detto che
questo sia il desiderio del paziente. Può darsi che sia un test che il paziente sta facendo a noi per
vedere se ci interessiamo a lui come persona o se invece stiamo ponendo le cose in termini
“medici” (o se pensiamo in termini medici).

Un secondo modo tipico di presentarsi è quello di cominciare a raccontare la propria storia. C’è chi
comincia dal passato remoto, c’è chi parte da una certa età per arrivare al presente, chi parte dal
presente per arrivare a quando succhiava il seno materno. Spesso tutto questo viene presentato
come una “premessa”. Ma bisogna distinguere tra vere e false premesse. Se un paziente fa
un’autentica premessa in genere ci aiuta perché in essa indica dei fatti che hanno avuto un
impatto emotivo su di lui e che evidentemente nella teoria cosciente che si è costruito del proprio
disturbo giocano un certo ruolo. Viceversa, ci sono delle premesse che fungono da barriere messe
davanti alla comunicazione più scottante e che, in genere, hanno la funzione di ritardarla (queste
ce le ho messe io quindi chiedo conferma). Infine ci sono delle premesse interminabili. Il colloquio
dura quel che dura: ma ci sono pazienti che, pur sapendolo, fanno come se quel termine non
esistesse.
Per questa tipologia di premessa il terapeuta deve cercare un modo urbano ed umano di
interrompere e di far intendere al paziente che quel meccanismo o modo onnipotente di far quel
che voleva tentando di farla franca era fallimentare per lui stesso. Anche le condotte aggressive (e
simboliche) vanno ascoltate poi con simpatia, anche se quando hanno esaurito le loro potenzialità
comunicative vanno smorzate.

Una terza modalità consiste nel parlare del proprio ambiente: c’è chi comincia a raccontare del
proprio lavoro, chi della propria famiglia, chi infine attacca con elementi più materiali o con
elementi del proprio modo di vivere. Potremmo considerare questa modalità come un sottogruppo
della seconda visto che anch’essa espone delle premesse alla presentazione vera e propria. Ma
secondo alcuni psicologi, è meglio tenerla distinta perché essa può nascondere dei problemi
specifici legati a:

• Questioni di identità: il paziente si identifica con l’ambiente per non dover avvertire la
difficoltà di identificarsi con se stesso.
• Questioni di segreto: perché in fondo uno che parla del suo ambiente come di un qualcosa
che lui suppone ci sia del tutto estraneo e magari incomprensibile, può darsi che voglia
rassicurarsi di essere venuto da una persona che davvero sarà conosciuta solo da lui e con
la quale potrà stabilire una relazione veramente privata.

Queste tre modalità, dal punto di vista del paziente, sono un modo di tastare il terreno prima di
presentarsi direttamente. Proprio perché uno non può esprimersi se non attraverso le modalità di
pensiero che gli sono proprie, anche queste modalità di aperture tipiche sono in realtà delle
presentazioni, benché indirette. Il fatto di sapere che esistono delle aperture tipiche ci può aiutare
in vario modo:

• Perché impariamo a tollerarle.


• Perché può destare la nostra curiosità vedere o cercare di vedere come uno stesso modo di
iniziare possa coprire tante realtà diverse.
• Perché il colloquio non serve solo al paziente (→ quando finita la giornata di lavoro a
contatto con i pazienti, ci ritroviamo tra noi, possiamo anche noi liberamente fantasticare
sull'insieme della giornata, vedere le costanti, le somiglianze tra una persona e l’altra, le
differenze). Quindi è un lavoro mentale, di conseguenza, si può affermare che le aperture
tipiche possono essere un primissimo livello di riflessione a cui non ci possiamo sottrarre.

Comunque da qui in poi mollati gli ormeggi dei piccoli rituali (appuntamento, stretta di mano,
aperture tipiche) la barca del colloquio viaggia e la barra del timone viene tenuta da entrambi i
colloquianti. Non tenetela rigida: la barca sussulterà, prenderà male le onde, il vostro compagno di
timone si sentirà inutile. E non lasciatela andare: il mare può gonfiarsi in un attimo ed il vostro
compagno vuole sentirsi libero di imparare da sé a parlare, ma non abbandonato.

La fase è libera per il paziente, non per noi che siamo lì ad ascoltare e a chiederci perché questa
cosa che la signora Y ci ha appena raccontato ci susciti simpatia o perché un altro particolare
apparentemente innocuo ci ha dato fastidio. Bisogna, inoltre, stare anche attenti ad alcuni
elementi che saranno importanti non solo per l’utilizzazione immediata nel corso di questo
colloquio, ma per l’utilizzazione nel corso di un successivo programma terapeutico, se verrà fatto.
In particolare, alcuni di questi elementi sono:

a. La tollerabilità o meno del paziente (da parte del terapeuta).


b. La tolleranza della libertà di parola da parte del paziente.
c. La tolleranza degli stop da parte del paziente.

Tollerabilità o meno del paziente: va criticata l’ideologia secondo la quale bisogna “accettare” tutti,
perché questo non è vero. È un errore grave scambiare una meta, ed una meta ideologica, per
una realtà già operante. Non sta scritto da nessuna parte che possiamo sopportare tutti allo
stesso modo perché ognuno ha una propria struttura mentale, delle proprie inclinazioni e
idiosincrasie: ciascuno si trova meglio con una persona e peggio con un’altra. Un’analisi personale
serve anche a questo. In tali valutazioni non parliamo di categorie diagnostiche perché siamo ad
una fase pre-diagnostica. Insomma è una valutazione diagnostica di coppia, non della singola
persona. Ma si può obiettare a ciò che sia un discorso irrealistico perché se una persona lavora in
un’istituzione non può dire in tutta tranquillità “con questa persona non me la sento di lavorare”
perché l’istituzione deve rispondere alle richieste di tutti.

Ma secondo alcuni punti di vista è proprio quest’ultima obiezione ad essere irrealistica, infatti
seppur si dica che ogni psichiatra deve essere in grado di trattare ogni tipo di paziente, questa
resterà un’affermazione falsa in quanto impossibile. Considerando ciò una buona istituzione cerca
di essere sufficientemente variata da offrire una rosa di interventi, ma sa anche di non poterli
offrire tutti. Il rischio è di trattare tutti si, ma tutti allo stesso modo sempre più grigio, sempre più
burocratico, sempre più disumano. Bisogna considerare che umanamente non siamo onnipotenti:
valutare con serenità la propria tollerabilità di un certo paziente è un fatto anche di onestà.

Tolleranza da parte del paziente della libertà di parola: c'è da dire che nessuno viene da noi solo
per svuotare il sacco e andarsene. C'è un elemento realistico nel fatto che il paziente chiede il
nostro aiuto. Il guaio è che il paziente chiede un intervento precoce, quando ancora non siamo in
grado di fornirlo. Bisogna tenere presente che lui ha diritto (regola della reciprocità) che gli si dica
qualcosa, ma che sta a noi quando dirlo e come dirlo. Osserverete invece cosa succede quando,
prima o poi, la richiesta esplicita o implicita del paziente di un intervento da parte nostra viene
frustrata. La libertà di parlare, e di parlare per esprimere il proprio pensiero, è un fiore raro. Sia
che guardiamo sincronicamente sia diacronicamente il mondo, potremo constatare che la libertà di
pensare è un’arte coltivata con estreme cautele e la libertà di esprimere il proprio pensiero
personale è una rarità ristretta a pochi. Le stesse difficoltà che si vedono nel grande mondo e
nella sua storia ci sono dentro di noi e dentro ciascuno di noi. Enormi difese sono state erette
contro il pensiero o addirittura il pensiero è stato usato per limitare il pensiero: che è come dire
per limitare l’espressione degli affetti, delle idee, della creatività, dell’odio. Perciò non ci stupiremo
che questa situazione si riproduca nel corso del colloquio e saremo coscienti del fatto che, al di là
di una necessità operativa, c’è una richiesta un po’ utopica da parte nostra. Il momento in cui
lasciamo la parola al paziente è un momento importante.
È raro che capiti nel primo colloquio, ma comunque può capitare e noi stiamo a vedere come
questa offerta viene presa:

• Segni di sfaldamento (disorientamento, allucinazioni, deliri): ritireremo subito questa offerta


se ci accorgeremo che l’Io del paziente non è in grado di tollerarla. Unico caso: quando l’Io
dà segni di sfaldamento, quando cioè una persona che fino ad allora ha mostrato una certa
capacità di affrontare la realtà del colloquio, dimostra di non reggere l'angoscia di non
avere una domanda precisa a cui rispondere e comincia, per esempio, a delirare o a
disorientarsi, o a cader preda delle allucinazioni. È allora che dolcemente, ma fermamente,
tiriamo la barca del timone e cerchiamo di riportare la barca in rotta. Si può anche utilizzare
il fenomeno accaduto per cambiare rotta, spostando l’attenzione del paziente dal fenomeno
in sé a come lo “prende” lui. A quel punto bisogna porre domande che non neghino ciò che
sta accadendo, ma che comunichino il fatto che siamo consapevoli che si tratta di un
accidente assai sgradevole, che si è già presentato e che il paziente ha tentato di
controllare. Qui non c’è una buona tolleranza alla libertà di parola. Negli altri casi, vale la
pena lasciar andare le cose senza pregiudicare con interventi precipitosi la nostra possibilità
di capire quel che il paziente ci sta mostrando, sia che si metta a piangere, sia che si metta
a ridere o si senta in preda all'ansia o improvvisamente non abbia più nulla da dire.
• Difficoltà senza sfaldamento: la si ha quando la persona piange o ride e non sa bene cosa
dire. Presenta quindi un’ansia molto forte. Il terapeuta dovrebbe inizialmente lasciare la
persona in queste difficoltà perché la persona dovrebbe avere la libertà di organizzare il suo
pensiero.
• Il caso buono → riesce a pensare lasciando vedere la capacità di passare tra diversi
argomenti (e diversi momenti della sua vita): È quando la persona riesce a pensare e a
parlare, anche se chiaramente ci sarà qualche difficoltà. Quindi riesce a parlare di quello
che vuole passando da un argomento ad un altro, senza dire tutto quello che gli passa per
la mente, ma dando un resoconto della propria esperienza integrando aspetti del passato
con quelli del presente. A quel punto dimostro di avere tolleranza alla libertà di parola.
Quindi è quello caratterizzato da un progressivo e dolce slittamento da un discorso
organizzato secondo le regole ferree della logica ad un discorso che benché rispettoso della
sintassi lascia scorgere la comparsa di quel fenomeno naturale che siamo soliti chiamare
“libere associazioni”. Bisogna distinguere le libere associazioni come fenomeno naturale
dalle libere associazioni come metodo. Ognuno di noi usa le libere associazioni nella propria
vita personale quotidiana. Un’idea, un’immagine, una musica, un sentimento, un odore
richiamano, senza un nesso di causalità evidente, altre idee, immagini o ricordi. A volte ci
fidiamo di più di questo procedimento mentale, altre volte di meno, ma lo usiamo sempre.
Nel colloquio psichiatrico non usiamo il metodo delle libere associazioni ma siamo assai
grati al paziente se è in grado di usare in modo naturale questo fenomeno. È questo il
paziente che supera con il massimo dei voti il test della tolleranza della frustrazione indotta
dalla libertà perché dimostra che anche se dolorosa non ha rinunciato alla propria libertà di
pensare con tutto se stesso e che conosce la soddisfazione che può dare il pensiero.
Quando ci accorgiamo quindi che questa persona sta passando da un periodo all’altro, che
le vengono in mente cose strane, che tende, anche se inconsapevolmente, a stabilire
legami tra presente e passato, in modo elastico e variabile; quando vediamo questa
elasticità nel paziente ne abbiamo una buona impressione e sappiamo che essa giocherà un
ruolo importante se faremo un programma psicoterapeutico.
• La “simulazione di reato”: bisogna stare attenti alle simulazioni di reato, cioè a quelle
situazioni nelle quali il paziente, magari un po’ colto, racconta chi è non come gli verrebbe
di fare, ma come pensa che noi ci aspettiamo che lui faccia. O per paura di “non essere
preso” o per altri più reconditi timori e desideri, capita che il paziente cerchi di dire quel che
lui pensa vada bene per noi sulla base di uno stereotipo psicoanalista che ha sviluppato. In
questo caso sarà scarsa la possibilità di libere associazioni in quanto ha una concezione
svilita e degradata di sé e degli altri.

Tolleranza degli stop da parte del paziente: il periodo è libero ma all’interno della fase libera del
colloquio, è importante fare almeno un intervento. Il problema sarà cosa scegliere di dire piuttosto
che cosa trovare da dire ed inoltre è importante osservare il parametro di come la persona
sopporta le interruzioni, cioè le reazioni che la persona ha di fronte alle interruzioni. Bisogna
tenere presente che la disponibilità ad ascoltare cambia nel tempo, infatti due situazioni estreme
quali quelle del lutto e dell’innamoramento rappresentano due casi in cui la persona in questione
trova più difficoltà ad ascoltare l’altro. Ci sta che il paziente non dia peso all’interruzione e faccia
quasi finta che non sia avvenuta. È vantaggioso a quel punto ricordarsi che il colloquio si svolge
tra due persone: lui sarà anche refrattario, ma è bene non scartare l’ipotesi che il nostro
intervento fosse per qualche modo insufficiente. Può capitare anche a noi di non essere in grado
di ascoltare un certo paziente, di essere assolutamente refrattari alla comunicazione che,
insistentemente, egli ci ripete in tutte le salse, l'importante è che questi punti ciechi non diventino
aree cieche. È normale trovare queste situazioni (i punti ciechi del terapeuta), ma bisogna stare
attenti perché se a noi dà fastidio che un nostro intervento cada nel nulla, potete figurarvi quanto
fastidio dia ad un paziente che tutto quel che ha detto cada nel nulla.

Qual è la funzione della teoria nel nostro lavoro? In primo luogo bisogna dire che non è scusata
alcuna ignoranza. La psicopatologia, le teorie psichiatriche, le teorie psicologiche, la classificazione
delle malattie e dei disturbi mentali vanno imparate. Ma è importante acquisire la capacità di non
usarle durante alcune fasi del colloquio perché una delle funzioni intrapsichiche delle teorie
consiste proprio nel sostituirsi alla realtà. L'illusione di capire sostituisce la comprensione vera e
propria. Così le teorie e le conoscenze accumulate lungo la storia della psichiatria, della psicologia,
della psicoanalisi ci sono contemporaneamente necessarie e dannose. La situazione di tante
conoscenze può essere un buon terreno per la crescita di nuove idee, filtrate attraverso la propria
mente e perciò personalizzate, come può essere anche una fonte continua di confusione. Resta
fondamentale che ciò che impariamo attraverso i libri, le persone, le esperienze personali, deve
essere lungamente elaborato dentro di noi per poter essere utilizzato anche con gli altri. Una
nozione su un'attività psichica ha destini strani e multipli dentro di noi: da un lato viene registrata
come qualsiasi altra nozione, dall’altro viene utilizzata simbolicamente come se volesse significare
qualcos’altro, da un terzo serve come una lente attraverso la quale riguardiamo noi stessi. Man
mano che questo lavoro viene fatto quella nozione diventa nostra, personalizzata, compresa,
utilizzabile secondo le possibilità che sono caratteristiche della struttura della nostra psiche, di
quella di ciascuno di noi.
Ricollegandoci al discorso della tolleranza agli stop bisogna dire che il paziente l’ha saggiata dentro
di noi: mentre sta parlando, sta anche osservando se lo stiamo ascoltando o no, se tolleriamo di
contrastare una nostra idea per lasciarlo parlare o se stiamo in silenzio perché non siamo molto
interessati a lui (→ la tolleranza dello stop che noi provochiamo e testiamo nel paziente, questo
l'ha già saggiata dentro di noi perché mentre parla osserva se lo ascoltiamo o no, se tolleriamo di
contrastare una nostra idea per lasciarlo parlare o se stiamo zitti perché non siamo interessati). È
anche possibile trovare un paziente che dimostra una massima tolleranza agli stop. Egli può
buttarsi a pesce sull’osservazione fattagli e utilizzarla per spostare il tema del colloquio su uno più
comodo.

Un buon tipo di intervento che può essere fatto a ¾ della fase libera è la riformulazione che
consiste nel rileggere le affermazioni fatte dal paziente stabilendo a parità di linguaggio dei nessi
tra un argomento e l'altro. Non è quel che in psicoanalisi viene chiamato “interpretazione” perché
la riformulazione non dà ipotesi genetiche, non descrive modalità di difesa, non indica desideri
nascosti, ma semplicemente aggiunge un po’ di significato a quel che il paziente ha detto,
ipotizzando che tra una cosa e l’altra del suo discorso, per il fatto che le ha dette durante il
colloquio, ci possa essere un legame. Una riformulazione è una riformulazione e non
un’interpretazione camuffata anche se spesso una risposta ad una riformulazione giusta è analoga
a quella che, in psicoanalisi, si ha ad un’interpretazione ben data.

Però la riformulazione ha un effetto diverso dall'interpretazione:

• La riformulazione fa sentire quanto può essere positiva un’alleanza con un altro per capire
se stesso, ma poi si rivolge soprattutto ad elementi superficiali. La riformulazione
accuratamente fatta ha la funzione di ristabilire dei nessi sintattici semplici.
• L'interpretazione per lo più tende a rifondare il significato delle parole, a farle apprezzare in
tutto il loro spessore, a consentire al linguaggio di oggi di esprimere ciò che non aveva
potuto verbalizzare un tempo. A far riprovare degli affetti che si credevano perduti. È molto
più difficile e più delicata della riformulazione.

A questo punto si passa ad un altro versante della fase libera, cioè l’intervento di prova. Il test di
tolleranza dello stop da parte nostra viene effettuato attraverso un intervento di prova che,
frequentemente, è una riformulazione. Per essere in grado di eseguire un intervento di questo
genere occorre far ricorso alle nostre attività sintetiche ed integrative. È raro che si faccia uno
stop brutale, che si dica al paziente qualcosa che serve solo a fermarlo. Non avrebbe senso, se
non un senso difensivo per noi. In genere si fa un intervento che abbia un doppio significato:

• Saggiare la tolleranza dell’interruzione da parte del paziente.


• Valutare, nel merito, come reagisce ad un nostro commento su quello che lui ci sta
dicendo.

La riformulazione è l’esempio di questo tipo di assaggio, ma ce ne possono essere degli altri. Ad


esempio, far notare al paziente che non ci ha informato minimamente di un intero settore della
sua vita e si può perfino chiarirgli che non glielo si dice per curiosare nei fatti suoi, ma perché,
essendo un fatto strano, ci si chiedeva se era un atteggiamento cosciente del paziente oppure un
caso. Quando abbiamo lasciato il paziente libero di parlare per un bel po’ (20-30 minuti), quando
abbiamo saggiato la sua tolleranza della libertà di pensiero e degli stop, quando abbiamo visto
come risponde al nostro piccolo intervento di prova, possiamo tranquillamente considerare di aver
concluso questa fase del colloquio e di aver fatto raccolta di una grande quantità di materiale.
Sono saltati fuori (“materiale raccolto”) ricordi, emozioni, idee, modi di esprimersi, atteggiamenti
mimici, sentimenti di vario tipo, rivolti a noi e rivolti agli altri. A tutto questo, ha fatto riscontro
dentro di noi un complesso di idee, sentimenti, pensieri, ricordi, immagini.

Capitolo 5. La valutazione della fase libera del colloquio


La valutazione del colloquio e quindi la valutazione del materiale raccolto è esclusivamente nostra
e viene fatta in funzione degli scopi del colloquio. Il primo e fondamentale scopo è quello di
conoscere chi è il paziente, il secondo quello di sapere che tipo di trattamento gli si può offrire, il
terzo se questo trattamento lo faremo noi o se invece sarà un'altra persona a condurlo. Tutto
questo, indica la necessità di conoscere anche la disponibilità reale dell'ambiente professionale nel
quale viviamo.

Ovviamente bisogna tener conto, inoltre, della situazione reale del paziente in quanto un
trattamento psichiatrico richiede molto tempo, denaro e impegno emotivo; ma non gli si può
chiedere l'impossibile. La valutazione della fase libera (e di ciò che la precede) dura un attimo, ma
ha implicazioni di tutti i generi e premesse mentali nello psichiatra estremamente importanti.
Inoltre, bisogna tener conto del fatto che il materiale che abbiamo raccolto è moltissimo ma anche
pressoché vicino allo zero.

1. La “carota” dello psichiatra


La carota alla quale si fa riferimento è quella che i geologi estraggono da un terreno. Questo
metodo ha il vantaggio di far vedere cosa c'è sotto. Si può utilizzare questa immagine come una
metafora di ciò che noi facciamo durante il colloquio. Il materiale che fino a questo punto abbiamo
tirato su e messo da parte è la nostra carota. Potremmo dire che tutto quello che ci ha detto
questa persona è vero ma che non è tutto: il colloquio come sineddoche, ma anche come
sineddoche imperfette. Non si può avere la pretesa, dopo un'ora o meno, di avere un'idea di tutta
la persona. E anche se assumiamo questa tecnica di colloquio come tecnica riproducibile un
numero di volte con la stessa persona, non potremmo mai avere la pretesa di costruire un modello
di quella persona che sia assolutamente corrispondente a essa. Se non si ha un concetto statico
della vita psichica si può comprendere come una persona sia davvero inesauribile. Le carote non
sono tutte uguali e il modello che ci costruiamo e che servirà poi per elaborare un'ipotesi di lavoro
è un nostro modello specifico per quella persona. Riguardo alla carota, è importante notare che,
come sempre in ogni lavoro che abbia finalità conoscitive, essa risulta dalla tecnica di trivellazione
e dagli strumenti usati, da un lato, e dalla natura del terreno sondato dall'altro.

1.1 Gli strumenti di prelievo della “carota”


Naturalmente si tratta di strumenti culturali e di strumenti umani. Una vera ricerca implica
necessariamente la disponibilità e il desiderio di vedere e comprendere qualcosa di nuovo, cioè
qualcosa di sconosciuto. Sembra facile a dirsi, ma la realtà è diversa. Anche questo è uno dei casi
nei quali il pensiero tende a limitare se stesso: coscientemente c'è il desiderio di verificare
un'ipotesi, di capire la situazione data e così via, inconsciamente invece tutto il lavoro che viene
svolto viene usato per spingerci verso il ritrovamento invece che verso la scoperta. Se gli
strumenti culturali implicano questo rischio, anche gli strumenti umani (i nostri interessi, i nostri
sentimenti, le nostre vicissitudini personali, la situazione dei nostri rapporti affettivi in quel
momento) spingono verso un eguale misconoscimento. Dentro di noi c'è sempre una certa dose di
opposizione alla conoscenza e alla scoperta, in quanto non c'è nulla che l'uomo tema di più che lo
scoprire che siamo tutti uguali ma nessuno è uguale a un altro.
Di ogni persona con la quale veniamo a contatto mediante colloquio, è bene anche chiedersi se ha
qualche aspetto stimolante e se rientra nel campo attuale delle proprie curiosità scientifica-
professionale. Se non c'è nulla di ciò forse non è il caso di seguirla.

Esistono strumenti culturali in senso stretto: le persone più vicine a noi come campo di
competenza sono gli artisti. L'artista è colui che riesce a trovare un linguaggio comune e
comunicabile per dire delle scoperte e per svelare mondi sconosciuti. Noi abbiamo estremo
bisogno di conoscere mondi sconosciuti e gli artisti sono i più vicini a noi in questo bisogno e in
questa ricerca. Inoltre, gli artisti hanno evidentemente in qualche modo accesso a quel mondo del
quale noi cerchiamo le porte (di lì, dall'inconscio, traggono immagini ed idee che spingono
l'umanità a vedersi in modo sempre più ricco e sempre più critico). Gli artisti ci forniscono idee
senza però eccessivamente spingerci a separare i ragionamenti dai sentimenti. Non che non ci sia
il rischio di intellettualizzare anche per l'arte, ma il dato fondamentale è questo: mentre i manuali
di psichiatria ci forniscono degli strumenti per capire, non ci forniranno mai delle esperienze.
Quindi, gli strumenti per capire non ci forniranno mai le esperienze. Essi ci comunicano al
massimo il modo di ragionare di un autore e la fondatezza o meno delle conclusioni cui porta
questo modo di ragionare. Una funzione fondamentale dell'arte invece è quella di facilitarci
l'identificazione in altre situazioni mentali, in altre esperienze umane.

Ora, se noi vogliamo essere in grado di comprendere un po' quel che passa per la mente degli
altri, è assai opportuno che prendiamo confidenza con un mezzo che ci permette di conoscere
certi aspetti mentali “prima”: prima che la realtà ci metta di fronte alla necessità di sperimentarli,
prima che la nostra stessa evoluzione personale non richieda imperiosamente di comprendere certi
aspetti della vita. Un fatto è certo: nemmeno vivendo quanto Matusalemme potremmo accumulare
tanta esperienza da riassumere dentro di noi le esperienze che gli altri stanno facendo o hanno
fatto e che il tempo dedicato all'arte è in un certo modo un tentativo di vincere il tempo o di
imparare a goderselo. Uno psichiatra, se non vuole diventare una sorta di naturalista che classifica
e distingue tratti di carattere, sintomi, sindromi senza capirne in alcun modo il significato, deve
necessariamente cercare di sviluppare le proprie capacità umane e farlo in modo umano. Le
esperienze compiute attraverso le forme artistiche, sommate alle nostre esperienze personali, e
divenute esse stesse nostre esperienze personali, concorrono a renderci possibile l'uso esteso e
piegato a finalità conoscitive dell'analogia. Attraverso l'analogia e l'identificazione costituiamo degli
strumenti fondamentali di prelievo del materiale sul quale dovremmo poi ragionare. Altrettanto
vale per i criteri valutativi del materiale prodotto dal paziente: quest'ultimo è in parte il frutto del
nostro modo di condurre il colloquio, in parte viene continuamente, durante il discorso del
paziente, valutato da noi in modo non-professionale. Abbiamo quindi dentro di noi una
“tassonomia” dell'umanità basata sulle nostre precedenti esperienze. Se sappiamo di essere
abbastanza disponibili a riconoscere che dentro di noi questi paragoni, riconoscimenti,
identificazioni, analogie hanno luogo, potremo usare proprio l'applicabilità o meno del nostro
strumento a questo materiale per trarre delle prime conclusioni. Si potrebbe dire che questa
attività di riconoscimento e di conoscenza delle persone mediante l'analogia e l'identificazione di
aspetti di una persona con i nostri stati d'animo, affetti, ricordi, idee si fonda su una discreta
permeabilità preconscia. Non ignoro quanto facilmente questa permeabilità possa essere ridotta,
falsata, distorta da problemi personali determinati da conflitti inconsci. Ovviamente, non bisogna
ignorare però che tutti noi nella vita di tutti i giorni usiamo comunque questa parte di noi stessi
per condurre la nostra vita e che è importante che la usiamo anche nella vita professionale.
Mediante questa attività nostra durante il discorso del paziente noi possiamo valutare se il suo
discorso, e tutto ciò che di non verbale lo accompagna, sia stato tale da consentire il formarsi
dentro di noi di un'immagine nostra di lui oppure no o ancora in che misura. Giungere alla
costituzione di un'immagine soggettiva del paziente è la base indispensabile, il prerequisito per
ragionare sul paziente. Intendo dire che comunque, anche se avessimo l'illusione di esserci
costruiti un'immagine “oggettiva” del paziente, ci saremo costruiti un'immagine soggettiva, filtrata
attraverso la nostra attività mentale, e che quindi il solo modo per costruirci una possibile
immagine oggettiva di lui consiste nell'assumere dentro di noi questa soggettività come condizione
e come metro. La non negazione della soggettività è un prerequisito necessario ma non sufficiente
per un'indagine oggettiva.

1.2 La natura del terreno sondato


Il materiale sul quale ragioniamo non è la realtà del paziente ma un modello della sua realtà
psichica che ci costruiamo in virtù dell'utilizzo delle nostre attività mentali fisiologiche sulla base
degli effetti che il paziente ci provoca. Ragionare su questo modello significa avere una grande
capacità di lavoro che si raffina ogni giorno.

Se abbiamo prelevato con cura il materiale esso dovrebbe apparire variegato e diversificato. Si
tratta di conoscere molto bene gli strumenti usati per poter vedere quanto gli scarti, le differenze,
le oscillazioni, le lacune nel racconto del paziente ci rivelano di lui stesso. Dovremmo, dunque,
avere un'idea di come questa persona adopera e ha adoperato in passato i propri sentimenti. Per
quanto possa essere personale ed unico il nostro modo di conoscere gli altri, quando si tratta di
ragionare sul paziente, vale la pena anche di vedere gli elementi costanti. Le domande che il testo
del paziente (e lui come persona) ci pone riguarderanno comunque la sfera del ragionamento, dei
sentimenti, delle realizzazioni del paziente che ci sta di fronte.

Da un lato dobbiamo tentare di costruirci un modello di quella determinata persona, dall'altro


dobbiamo raccordare questo modello con i modelli fornitici da chi ci ha preceduto sulla strada
della psichiatria. Quest'ultimo tentativo è d'obbligo per varie ragioni. Innanzitutto per poter usare
dell'esperienza di chi ci ha preceduto, in secondo luogo per poter comunicare e discutere con gli
altri nostri colleghi contemporanei, in terzo luogo perché spesso, dalla discrepanza tra modello
fornito e quello “studiato”, si possono ricavare utili interrogativi.

2. Costituzione dell’ipotesi di lavoro


Se abbiamo prelevato bene il nostro materiale ed abbiamo rapidamente ma accuratamente
riflettuto su di esso, confrontandolo anche con le conoscenze scientifiche a noi disponibili, saremo
arrivati a qualcosa di più di una diagnosi. Avremmo già a nostra disposizione tutto il materiale
necessario per fare un'ipotesi di lavoro personalizzata per quel paziente. L'ipotesi di lavoro include
la diagnosi (cioè gli elementi comuni) ma anche la somma degli elementi unici di quella data
persona, che si concreta in un'offerta, che in parte almeno verrà comunicata. Per fare questo
lavoro bisogna fare affidamento sulla nostra fantasia. Bisogna, cioè, utilizzare professionalmente
una facoltà mentale fisiologica, che è appunto quella del fantasticare. In questo caso, si tratta di
fantasticare sul futuro dell'intervistato per vedere se il film che ci siamo costruiti può andare avanti
e come. Dobbiamo provare, dentro di noi, a vedere diverse conclusioni della storia del paziente, a
seconda dei tipi di trattamento disponibili realisticamente ed a seconda del tipo di reazione che
possiamo immaginare che egli abbia di ciascun tipo di trattamento.
Naturalmente, possono esistere e spesso esistono delle ipotesi di lavoro per così dire negative o
parzialmente negative: la situazione non ci è chiara o non è chiara. Anche in questo caso, come
sempre, l'importante è rendersene conto. È già una buona ipotesi di lavoro la formulazione di
alcune domande circa il perché di questa mancata chiarezza. Può darsi che non siamo riusciti a
cogliere qualche punto del discorso del paziente, ma può darsi anche che egli stesso abbia fatto
del suo meglio per non farcelo cogliere. E anche quest'ultimo atteggiamento può essere un
messaggio in sé come può essere un “no” reciso ad ogni possibile trattamento. È evidente che
queste tre possibilità sono assai differenti:

• La prima può spingerci a proporre un altro colloquio diagnostico.


• La seconda può metterci sulla via di interrogarci sul significato del tentativo del paziente di
nascondersi.
• La terza può metterci di fronte alla necessità di accettare il fatto che quella persona non ha
alcun desiderio di affrontare un trattamento, ma solo il desiderio di scaricare un po' di
veleno addosso a noialtri.

Anche in quest'ultimo caso l'ipotesi di lavoro va fatta in modo personalizzato, in modo, cioè, da
consentirci di restituire al paziente il contenuto sostanziale di ciò che abbiamo colto del suo
messaggio senza re-agire e senza subire.

Riassumendo, la valutazione della fase libera del colloquio è un momento cruciale che implica,
sulla base di una serena conoscenza delle possibilità e dei limiti degli strumenti che abbiamo
utilizzato e delle possibilità concesseci dal materiale così prelevato, la formulazione di un'ipotesi di
lavoro personalizzata, cioè qualcosa di differente dalla sola diagnosi “classica”. Questa ipotesi è
solo un'ipotesi, ma ci servirà per formulare proposte o altre ipotesi o programmi.

Capitolo 6. Anatomia del colloquio (seconda parte)


Nella realtà concreta, dall'inizio del colloquio sono passati circa 20-25 minuti in tutto, però ora
abbiamo fatto un po' il punto e possiamo passare alla seconda fase.

1. Uso clinico dell’ipotesi di lavoro


L'idea o l'immagine che ci siamo fatti del paziente può essere usata sia nel colloquio sia in altri
contesti a scopo di ricerca. Per quanto riguarda l'uso clinico (sono importanti 3 regole), quindi
proprio l'applicazione di questa ipotesi durante un colloquio, è estremamente importante la regola
della reciprocità, infatti, il paziente ci ha finora dato e dunque ha, a buon diritto, un credito nei
nostri confronti. Possiamo sdebitarci utilizzando la regola del linguaggio: diremo alla persona che
ci sta di fronte che non ci sarà una diagnosi nel senso consueto del termine, né ci sarà qualcosa di
formulato nel nostro linguaggio abituale. Sarà un qualcosa di quanto più formulato nel suo
linguaggio, che tenderà a ridargli in maniera più chiara tutto o una parte del materiale che egli ci
ha presentato, o a fargli notare l'assenza di qualche elemento fondamentale.

Molto spesso usiamo una riformulazione, altre volte, invece, è assai utile fare una specie di
riassunto di quel che è stato detto fin lì. Il riassunto consiste nella riformulazione concisa di un
testo, quello che rimane è non tanto la storia in sé quanto i nessi esistenti tra gli elementi
fondamentali. Nel riassunto psichiatrico i nessi esistenti tra gli elementi fondamentali sono
esplicitati dallo psichiatra. Sta a noi trovare il modo di far sentire questi nessi anche al paziente.
Non è detto, tuttavia, che anche se abbiamo perfettamente compreso la situazione saremo in
grado di comunicarla in modo tale che il paziente possa comunicarsela.
(→ questi nessi che stabiliamo sono di vario tipo e corrispondono, grosso modo, a tutti i tipi di
relazioni che la sintassi abitualmente stabilisce o consente di stabilire).

È utile fare una distinzione tra due gruppi di nessi:

• Il primo è caratterizzato dal fatto che un tema vien posto a monte o a valle di tutti quanti
gli altri, i quali, rispetto a questo, sono in parallelo.
• Il secondo per contro è tipicamente in serie: gli argomenti vengono concatenati gli uni agli
altri da nessi congiuntivi o condizionali.

Bisogna fare attenzione al primo tipo (quello “in parallelo”) di intervento: esso si differenzia da
un'interpretazione di tipo psicanalitico per un criterio quantitativo più che qualitativo, perché in
genere un'interpretazione psicoanalitica aggiunge qualcosa che prima non era stato detto, mentre
questo intervento riformulativo si svolge nell'ambito di quel che il paziente ha detto.

Gli interventi fatti in questa seconda fase del colloquio dovrebbero essere finalizzati a:

• Verificare l'ipotesi di lavoro.


• Consentirci di elaborare una proposta per il paziente.

Per quanto riguarda il primo punto, ciò significa che, sulla base delle nostre conoscenze e della
nostra ipotesi, cercheremo di vedere, esaminando le risposte del paziente alle nostre
comunicazioni, se non sia il caso di rivedere la nostra ipotesi. Può essere che abbiamo subito fatto
centro ma è molto improbabile. Anche se dobbiamo riformulare l'ipotesi dobbiamo essere
soddisfatti perché significa che si trattava di una buona ipotesi che ha promosso dentro di noi le
facoltà critiche e ci ha consentito di andare avanti. Naturalmente, non è affatto detto che, al
termine del cosiddetto periodo libero, noi dobbiamo dire qualcosa: possiamo benissimo stare zitti.
L'importante è che riusciamo per quel tempo a fare qualche ipotesi. Se continuiamo a stare zitti,
può darsi che salti fuori qualcosa di nuovo e maggiormente comprensibile. Oppure possiamo stare
zitti nel senso che non diciamo alcunché al paziente su quanto ci ha finora comunicato, mentre
facciamo qualche domanda su quello che non ci ha ancora detto. In linea di massima queste
domande dovrebbero essere limitate allo stretto necessario. Possono anche essere domande
implicite, consistenti nel fare osservare al paziente che non ha parlato di un determinato settore
della sua vita. Naturalmente, queste domande presuppongono che durante il colloquio, si sia
notata questa mancanza. È incredibile quanto spesso sfugga che una determinata persona ha
evitato di affrontare tutto un campo della sua vita.

Alla fine del periodo libero del colloquio dovremmo essere in grado di imbastite una sorta di film
mentale del paziente, un film che, attraverso il racconto di alcune evidenze della sua vita,
dovrebbe darci una prima risposta alla domanda “chi è?” che sta alla base di tutto il colloquio. Se
mancano troppi elementi concreti-storici-immaginativi non potremo costruirci un'immagine mobile-
dinamica del paziente. Comunque, l'ipotesi di lavoro deve anche consentirci di elaborare una
proposta per il paziente. Questa proposta va comunque detta e quindi è importante saperla
formulare. La formulazione verbale di una domanda richiede molta attenzione. Ogni domanda
contiene già la risposta o, a voler essere più precisi, contiene un numero limitato di possibilità di
risposta. Questo numero è, però, ancora troppo grande e il nostro tentativo è quello di ridurlo. In
realtà succederà comunque che il nostro messaggio verrà in qualche modo deformato e, anche se
fa parte delle interazioni tra gli individui, bisogna tenerne conto.
La proposta per il paziente nasce dalla verifica (anche parziale) dell'ipotesi di lavoro e dalle
possibilità che sappiamo esistere nell'ambiente.

• Il primo caso tipico di proposta è quello che consiste nel chiedere un altro colloquio per
chiarire meglio la situazione. È molto frequente che, alla fine del primo colloquio, non si
abbiano a disposizione dati sufficienti per formulare una proposta di trattamento. In questo
caso si propone un secondo colloquio. Bisogna usare frasi semplici e concise (“le fisso un
altro appuntamento per finire il colloquio di oggi/mi pare di aver bisogno di ascoltarla
ancora un po' per farmi un'idea più chiara della sua situazione” → nostro bisogno).
• Un secondo caso tipico di proposta è quello di un trattamento diverso dai trattamenti che
siamo in grado di condurre di persona. Questo implica:
o Inviare il paziente da un collega: implica un rifiuto e spesso è difficile mandarlo giù;
la formulazione dovrà essere delicata ed onesta. Naturalmente tutto è più semplice
se il colloquio è stato chiesto a finalità puramente orientative e se lo psichiatra ha già
chiarito che comunque non sarà lui ad assumersi l'impegno di un trattamento.
o Spiegare al paziente il perché di questa scelta: anche qui vale la regola del
linguaggio, non servono spiegazioni tecniche e per ogni paziente dovremo essere in
grado di creare una spiegazione anche sulla base di quello che ci ha detto. Se si
lavora in un'istituzione e la proposta riguarda un trattamento comunque effettuabile
all'interno di questa, è più semplice fare questo tipo di proposta.
• Un terzo caso di proposta può consistere nel consigliare il ricovero ospedaliero. Bisogna
avere chiaro in testa a cosa serve e anche dove si consiglia di ricoverarsi. Consigliare un
ricovero implica consigliare non solo uno stacco da noi ma anche uno stacco dall'ambiente
proprio del paziente. In alcuni casi è meglio un breve ricovero piuttosto che un trattamento
sul territorio, soprattutto se la permanenza nell'ambiente provoca al soggetto stesso
esperienze mentali che graverebbero comunque dopo, cioè una volta superate le cause che
le provocano. Si tratta di un consiglio da dare sulla base degli interessi della persona.
• Una quarta proposta consiste nell'offrire al paziente di seguirlo o trattarlo o curarlo noi
stessi. Apparentemente questa proposta è più semplice delle altre, perché il paziente è già
venuto da noi con una richiesta implicita di questo tipo. Eppure, formulare un'offerta di
questo tipo ha sempre delle implicazioni di tutti i generi e comunque, se verrà accettata,
peserà sulla futura storia del rapporto. Bisogna conoscere bene le proprie capacità, i limiti
della tecnica che cercheremo di applicare, il modo di presentarla realisticamente.

2. La conclusione clinica del colloquio


La formulazione della proposta al paziente apre il breve periodo della conclusione del colloquio, o
meglio, della conclusione materiale del colloquio. Dal punto di vista tecnico è utile sottolineare
l'inizio di questa fase con una frase semplice ma che indichi che siamo entrati nell'ultima zona
comune, ad esempio un “cerchiamo di vedere cosa possiamo concludere” o un “adesso devo dirle
io qualcosa su quello che mi ha detto” o qualsiasi altra formula che segni uno stacco e un richiamo
all'Io del paziente come per dirgli “adesso valutiamo quello che abbiamo visto e quello che le
propongo”. A questa fase bisogna riservare 7/8 minuti perché sicuramente il paziente esprimerà le
sue opinioni su quello che noi gli diciamo di lui e sul trattamento che gli proponiamo. A volte
capita che proprio in questa fase il paziente tiri fuori qualcosa che in precedenza mancava. Noi
annoteremo mentalmente quello che dice. Se ci arrabbiamo per le osservazioni e le obiezioni che
ci fa su quello che abbiamo detto di lui, è ovviamente un nostro problema.
Un atteggiamento razionale di fronte a un fenomeno del genere consiste nell' interrogarsi sul
perché un sentimento di rabbia e/o insofferenza nei riguardi del paziente ci venga solo in quel
momento. Il fatto è che c'è una certa quota di tendenze onnipotenti in tutti noi e in questa fase è
assai facile che venga fuori. Spesso si può osservare che ci aspetteremmo che gli altri tollerino che
noi diciamo loro cose tremende senza che obiettino alcunché. Mi pare invece che sia indice di un
discreto funzionamento dell'Io se una persona alla quale abbiamo appena detto francamente la
nostra opinione tenta in qualche modo di difendersi da un'ondata emotiva eccessiva.

Forse la nostra stessa reazione è un modo di comunicare del paziente, il quale, senza tanti studi,
riesce a dirci qualcosa che ci fa provare un sentimento altrettanto pesante di quello che prova lui.
Non va dimenticato che la nostra proposta è proprio e solo una proposta: non possiamo
pretendere che sia un ordine e se la presentassimo come un ordine tassativo non dovremo
meravigliarci di suscitare reazioni violente ma piuttosto che non ci siano reazioni di questo tipo.
Infatti, questa proposta si situa alla fine di un colloquio “libero”, cioè di un colloquio che abbiamo
stimato fosse possibile condurre con una persona che è in grado di tollerarlo. E se una persona è
in grado di tollerare un colloquio con noi, è anche certamente in grado di rifiutare le conclusioni
che noi ne traiamo. Qualunque sia la risposta che il paziente da lì per lì, dopo ci ripensa. E quindi è
dopo il colloquio che il paziente formula una risposta alla nostra proposta. La risposta verbale-
emotiva che il paziente dà nel qui e ora del primo colloquio deve essere considerata una risposta
in prima approssimazione, una risposta a caldo, comunque una risposta non definitiva. Comunque,
le ultime risposte del paziente ci daranno delle altre comunicazioni. Ci diranno, ad esempio, il
grado di tolleranza che il paziente ha nei riguardi delle cose che si dicono di lui, oppure ci
comunicheranno alcune difficoltà di comprendere bene ciò che gli abbiamo detto, oppure ancora
la tendenza a deformare la nostra comunicazione secondo un'ottica piuttosto che un'altra.

Prima del saluto, se siamo in una situazione privata e se usiamo riceverlo di persona, c'è il
pagamento. Nella pratica si dichiara il proprio onorario e si attende che il paziente ce lo consegni.
Questo ovviamente non è un gesto neutro. Il nostro onorario è quel denaro che ci serve per vivere
una vita dignitosa, è quindi una cifra che noi fissiamo per i nostri bisogni e desideri. Ovviamente,
se all'inizio della professione fissiamo per noi stessi un onorario iperbolico saremo ridicoli, ma
altrettanto lo saremmo se fissassimo un onorario minuscolo. In entrambi i casi, comunichiamo di
noi stessi al paziente qualcosa: cioè quanto valutiamo valga il nostro tempo. Naturalmente ci sono
gli onorari e le tabelle dei minimi fissati dagli ordini dei medici, ma l'importante è che la somma sia
dignitosa e adeguata. Un trattamento privato va pagato e questo implica anche una dichiarazione
da parte dello psichiatra sul proprio comportamento col fisco. Quando si chiede a un paziente di
essere molto onesto con noi è sgradevole poi dirgli indirettamente che per noi questa regola non
vale. Meglio tenere un onorario alto ma fare ricevuta (→ se effettueremo un trattamento con un
paziente prima o poi verranno fuori le tendenze manipolatorie e sarà allora che potremo snidarle e
porre in evidenza ciò che sono ossia residui nevrotici di problemi infantili. È ridicolo dire che il
paziente ha aggredito verbalmente lo psicologo dandogli dell'evasore fiscale se realmente questo
non gli ha fatto la ricevuta).
Anche il momento del saluto è delicato, in quanto nella testa del paziente si affollano ancora
domande, idee magari sentimenti di colpa o di insufficienza propria o nostra. Gli pare di averci
fornito un'immagine di sé ben insoddisfacente e, in certa misura, ha sempre ragione, se pensa
così. Ma non è più quello il momento buono per dare un'altra immagine. Dunque, se il paziente in
extremis tende a ricominciare il colloquio, vale la pena di interromperlo gentilmente ma
fermamente e di chiudere davvero il colloquio, assieme alla porta.

Capitolo 7. La conclusione reale del colloquio


Poiché il colloquio è uno scambio affettivo tra le due persone immerse in quella relazione, esso
non finisce nella conclusione materiale ma dal punto di visa psicologico continua; in senso
generale è come se non finisse mai perché un incontro ricco di sentimenti, di pensieri e di
interrogativo può ritornare nella mente di entrambi i colloquianti anche anni dopo.

1. Nel paziente
Il paziente si crea tre immagini del colloquio (sé stesso, lo psicologo, la relazione), ma la sua
mente sarà colma di ricordi intrecciati e riempiti da emozioni sia gradevoli che sgradevoli. Spesso,
dopo qualche giorno, tutti quei sentimenti di colpa, ansia, disagio che aveva provato al termine
materiale del colloquio vengono sovrastati da una sensazione di sollievo dovuta al fatto di aver
avuto la possibilità di aprirsi, di parlare di sé davanti ad una persona pronta ad ascoltarlo (nel
migliore dei casi il paziente può provare anche un sentimento di generosità verso il suo psicologo
comprendendo che non è onnipotente e apprezzando il fatto che anche se non può aver capito
tutto di lui è stato comunque disposto a comprendere i suoi problemi); subito dopo di solito
utilizza il materiale amnestico approfondito durante il colloquio per ricostruirsi un racconto di sé
diverso, si spera più funzionale (notato poi nel secondo colloquio o quando il paziente viene
inviato da un altro collega dopo un suo incontro). Dunque, nella maggior parte dei casi ciò che è
accaduto durante il colloquio incide sulla mente del cliente nella quale rimarranno vivi una serie di
ricordi, ma questa serie di ricordi verrà sicuramente rielaborata in modo da esprimere qualche
contenuto inconscio del paziente, il quale si creerà una nuova narrazione di quell’incontro.

2. Nello psichiatra
Nello psicologo si presentano le stesse identiche dinamiche psichiche del paziente, quindi anche lui
rielaborerà quell’incontro a modo suo. Ma lo psicologo non si ferma qui, altrimenti si tratterebbe di
un colloquio tra due persone qualsiasi e non di tipo professionale: la seduta continua tramite un
lavoro razionale in cui lo psicologo comunica a sé stesso ciò che ha visto, ascoltato e provato
nell’andamento del colloquio considerando anche che gran parte del materiale sviluppato nel qui
ed ora (ipotesi, fantasie, emozioni, impressioni, ricordi) non è stato tutto incluso nella creazione
dell’ipotesi di lavoro, ma è stato soltanto accumulato e necessita di essere sistemato.

In particolare, ci sono due momenti specifici di comunicazione del colloquio a cui lo psicologo si
deve dedicare:

a. Riflessioni diagnostiche e autodiagnostiche


Riflessioni diagnostiche: un colloquio clinico si può ritenere concluso solo nel momento in
cui si è riusciti a costruire un modello del paziente sulla base dei dati disponibili, questo
deve essere flessibile (ad esempio, es legato a più ipotesi) in modo da adattarsi a quel
paziente, ma anche strutturato in modo da confrontarlo con i modelli scientifici (come le
categorie diagnostiche delle diverse scuole psicologiche).
Riflessioni autodiagnostiche: riflettere sull’andamento del colloquio è per lo psicologo
un’occasione per analizzare la propria immagine professionale, le proprie capacità e
incapacità, desideri, atteggiamenti, e anche difficoltà a far fronte ad alcuni aspetti; solo in
questo modo si sfrutta la propria esperienza per migliorare la propria professionalità (inoltre
questo aspetto fa anche parte della regola della reciprocità: ragiono sul paziente
ragionando anche su me stesso).
b. La stesura scritta del colloquio (il resoconto): si possono individuare due modi di stesura del
colloquio:
• Si scrivono le idee man mano che vengono in mente senza alcun ordine preciso da
rispettare creando così una versione più elaborata e personalizzata di ciò che si è verificato.
Questo tipo di resoconto non rispetta l’andamento reale del colloquio (ad esempio, un
aspetto evidenziato all’inizio finisce per essere ricordato e scritto alla fine) ma si tratta
comunque di una prima elaborazione che una volta terminata andrà migliorata o
modificata; al contrario si può passare ad una seconda stesura più ordinata e razionale
scritta sottoforma di cronaca (contenente solo gli elementi accaduti nel qui ed ora del
colloquio) accompagnata però da un commento che presenta tutte le fantasie, emozioni,
ragionamenti avvenuti post seduta.
• Si scrive seguendo cronologicamente l’andamento del colloquio dal primo minuto ai saluti:
anche in questo caso uscirà una versione dei fatti soggettiva e anche qui si può fare una
seconda stesura in cui si rielabora il primo testo (già ordinato) per temi e nessi esistenti e
si accompagna sempre un commento.

È qui importante sottolineare che lo psicologo deve presentarsi disponibile a comunicare i suoi
resoconti al suo gruppo di lavoro (anche se intrisi di emozioni e pensieri personali) in modo da
avere un confronto e valutare in una maniera più esaustiva il suo cliente. Il lavoro clinico ha
bisogno di comunicazione e non fidarsi dei propri colleghi (a causa della disorganizzazione o
disagio di un’istituzione o per propri problemi) limita la possibilità di apprendimento e porta alla
creazione di fantasie disfunzionali come il credere di essere i soli professionisti capaci e intelligenti.

È necessario poi soffermarsi su tre caratteristiche del colloquio clinico che lo rendono difficile da
poter comunicare per iscritto:

• Il fatto che si tratta di un lavoro tra due persone, di conseguenza la stesura di un colloquio,
nonostante sia incentrata sul paziente, deve riguardare la storia della relazione instauratasi
da entrambi (e quindi presentare anche l’immagine dello psicologo) e descrivere
onestamente in questo modo come si sono svolti i fatti non è psicologicamente semplice
per nessun professionista (ad esempio, può capitare che lo psicologo si esibisca troppo
dando maggiore prevalenza alle sue reazioni e mettendo in secondo piano il vero
protagonista senza riuscire a creare un’idea chiara dell’andamento di quel colloquio).
Comunque, a prescindere dalla chiarezza del resoconto, un lettore (ad esempio, il
supervisore) non potrà mai sapere come sono realmente andate le cose, ma può utilizzare
quella lettura per ricostruirsi a modo suo un andamento del colloquio personalizzato,
deformato sul quale cercherà poi di applicare le interpretazioni dell’autore di quel
resoconto.
• Il carattere sociale della stesura (ad esempio, cartella clinica o ricerca) rende essa stessa
ancora più complicata: il testo scritto serve innanzitutto per comunicare con noi stessi
perché avendolo tra le mani risulta più facile osservare ed immaginare i fatti, aggiungere
considerazioni e ipotesi; ma serve anche agli altri per scambiare e comunicare le
informazioni e quindi confrontarsi chiarendo meglio la situazione, di conseguenza per
questo scopo deve essere elaborato in un certo modo e con una certa comprensibilità non
affatto semplice. In particolare, le due modalità di resoconto scritte sopra non sono idonee
per una cartella clinica, perché troppo soggettive e personali: la cartella può essere letta dal
paziente il quale non ha il diritto e forse nemmeno la voglia di conoscere le fantasie e i
sentimenti dello psicologo perciò il commento personale andrebbe evitato o scritto
diversamente.
• Mettere i propri pensieri ed emozioni per iscritto non è facile come esporli tramite il parlato:
spesso la stesura ha la funzione endopsichica (attività mentali riguardanti le fantasie) di
scaricare l’aggressività accumulata dallo psicologo durante la seduta sulla figura del
paziente descritta falsando il significato del testo. Comunque la stesura è fondamentale: le
parole scritte rimangono impresse più facilmente di quelle parlate perché vengono abbinate
a rappresentazioni visive e consentono di estrarre più facilmente dal sistema preconscio
immagini che resterebbero altrimenti dimenticate.

Capitolo 8. Colloquio e colloqui


La tecnica di Semi, sulla scia degli insegnamenti di Fenichel, Freud e Greeson, è stata presentata
con un linguaggio quotidiano e non scientifico molto differenti tra loro: un linguaggio scientifico-
astratto nasce dalla volontà di separare e denotare fenomeni differenti tra loro, ma in ambito
psicologico tra i principali obiettivi c’è proprio quello di collegare, riunire e ricomporre gli elementi
prodotti dalla psiche di una persona che solo apparentemente appaiono privi di nessi tra loro; di
conseguenza il linguaggio migliore da usare risulta proprio quello quotidiano-figurato perché più
espressivo, in grado di suscitare da un singolo termine diversi significati e, passando dal livello
metaforico a quello concreto o viceversa, mette in evidenza collegamenti che con un linguaggio
astratto rimarrebbero nascosti. Nonostante ciò, lo psicologo deve saper usare anche un linguaggio
scientifico, sicuramente non con il paziente o nella stesura del colloquio, ma in casi particolari
come quando si fanno delle teorie sui modelli psichici costruiti o qualche volta nel commento del
colloquio.

1. Possibilità d’uso
Per quanto riguarda la POSSIBILITÀ D’USO di questa tecnica del colloquio propria di Semi: si può
applicare non solo nel primo colloquio ma anche in quelli successivi; in particolare nel momento in
cui si intraprende un trattamento è utile programmare col paziente anche un numero tot di
colloqui da svolgere in serie con la finalità di mantenere un buon rapporto e valutare a tappe il
trattamento. In questo modo i colloqui subiranno leggere modifiche: tutti i colloqui precedenti
saranno i preliminari del colloquio seguente; la fase libera può aumentare o diminuire leggermente
di lunghezza; le aspettative del paziente si orienteranno sempre più verso la guarigione e meno
verso la conoscenza del contesto; cambieranno anche le aspettative dello psicologo che non deve
però assumere un atteggiamento scientifico e distaccato ma al contrario chiedersi ogni volta se un
atteggiamento del genere ha influenzato l’andamento del colloquio.
2. Limiti d’uso
Questa tecnica consente allo psicologo di ragionare sull’andamento del colloquio e fa sì che il
paziente riconosca di esser trattato in modo umano e al tempo stesso professionale. Presenta però
alcuni LIMITI D’USO: la tecnica in sé può indirizzare l’attenzione dello psicologo esclusivamente su
di essa e non sul soggetto che essa stessa gli consente di studiare e comprendere; può esser
utilizzata verso persone con le quali risulta possibile condurre in primis una conversazione
quotidiana, normale (qui dipende anche dalla soggettività dello psicologo nell’essere in grado o
meno di colloquiare con una persona sbadata, confusa); la necessaria presenza del setting, delle
condizioni materiali (stanza, porta, appuntamento, aspetto) essenziali per condurre un colloquio;
ha dei limiti di conoscenza nel senso che con essa non si può ottenere un’ampia visione del
paziente al livello di una psicoanalisi o altre tecniche psicoterapiche, e non si può ottenere la
stessa quantità di dati avuta con l’aggiunga al colloquio di una batteria di test.

Capitolo 9. Sulla valutazione dell’esito delle psicoterapie


Semi ci spiega come la scienza deve sicuramente essere razionalizzata ma esistono anche attività
razionali che non sono al tempo stesso scientifiche, si riferisce in questo caso proprio alla
psicoanalisi e alle psicoterapie ad indirizzo psicoanalitico. A proposito di queste ultime, egli
evidenzia tre posizioni differenti di pensiero dalle quali scaturisco delle conseguenti critiche alla
valutazione degli esiti delle psicoterapie:

• I seguaci della scienza che cercano a tutti i costi e senza risultati di verificare ciò che
verificabile scientificamente non è, non facendo altro che intensificare il proprio sentimento
di impotenza, però la loro ricerca del verificabile è spinta sempre da un interrogativo che
può risultare alla fine anche utile e che rende quindi le loro critiche anche preziose.
• I seguaci di una presunta tecnica psicoanalitica considerata praticamente come una
religione a cui esser fedeli tanto da rinunciare all’uso della ragione applicando una prassi
non generalizzabile e ormai superata.
• Coloro che pensano di avere sempre ragione tanto da pensare che nessuna ricerca, né
psicoanalitica né scientifica, abbia prodotto mai qualcosa di valido, per poi finire a “rubare”,
a considerare proprie, le scoperte dei loro predecessori così tanto disprezzati.

D’altronde Semi sottolinea la pericolosità di questo lavoro che non è per tutti e che può portare al
declino e alla sofferenza per coloro i quali non sono stati in grado di approcciarsi adeguatamente
allo studio della vita psichica. Comunque, chi accetta la possibilità di conoscere la propria o l’altrui
vita psichica (sia paziente che psicoterapeuta) deve poi dare una valutazione finale all’esito delle
psicoterapie. Innanzitutto essa per quanto riguarda il lavoro dello psicoterapeuta oltre ad essere
una valutazione reale è allo stesso tempo una finzione perché la mente del cliente è in continuo
movimento anche al di fuori del colloquio, perciò risulta impossibile coglierne tutti i significati e i
valori attribuiti alla realtà degli eventi, di conseguenza lo psicologo risulterebbe dominato da un
sentimento di onnipotenza se fosse convinto che ogni minimo cambiamento avuto nel paziente sia
esclusivamente dovuto al trattamento e allo stesso tempo sarebbe dominato da un sentimento di
impotenza se pensasse tutto il contrario.
Possiamo individuare poi due aspetti che messi insieme rendono possibile la valutazione:

• L’aspetto razionale: rappresenta la possibilità di ragionare sul modello mentale del paziente
sulla base di rappresentazioni verbali. Ad esempio, seguendo i parametri psicoanalitici
possiamo chiederci in che modo è cambiata progressivamente la struttura mentale del
paziente, se il Super-Io è cambiato in meglio tanto da rendere l’Io più tollerante nei
confronti dell’Es, se i meccanismi di difesa presentati in un primo momento sono ora usati
in maniera funzionale, come si può ricostruire ora la storia del paziente e se si è riusciti a
fargli recuperare quegli elementi nascosti della sua storia.
• L’aspetto umano: ha a che fare con le rappresentazioni visive e riguarda il controtransfert
(che significa: o la reazione emotiva dell’analista alla nevrosi di transfert dell’analizzato o il
transfert dell’analista stesso verso il paziente) e la sua risoluzione da parte dello psicologo
nello stesso momento in cui il paziente supera il suo transfert; risoluzioni che possono
avvenire insieme solo nel momento in cui si riconosce il secondo aspetto umano ossia
l’esser fatti tutti della stessa pasta. Proprio per quest’ultimo motivo, anche lo psicologo si
creerà delle immagini mentali di sé, del paziente e della relazione vissuta, immagini che si
costruiscono tramite molteplici elementi come fantasie, sogni, ricordi, emozioni.

Semi ci spiega come la psicoanalisi abbia rifondato il fattore dell’uguaglianza umana, facendo
l’esempio del sogno: a primo acchito, un sogno avuto dallo psicologo che ha come protagonista il
suo paziente viene interpretato come un controtransfert ritenendo che nella mente dell’analista ci
sia ancora qualche pensiero nascosto sul soggetto sognato. Questo ragionamento può risultare
sbagliato innanzitutto perché bisogna partire dal presupposto che è bene applicare per tutti le
stesse regole: è possibile che il cliente sognato dall’analista sia semplicemente una simbolizzazione
attuata dall’elaborazione secondaria (processo per rendere comprensibile il sogno) ossia un
sostituto di qualcun altro o qualcos’altro (proprio come quando un paziente sogna un parente si
può pensare che quest’ultimo sia soltanto la figura sostitutiva dell’analista stesso), quest’ultimo
passo può quindi significare tutt’altro, ossia che la figura del paziente è entrata a far parte di quel
gruppo di persone fidate tanto da poterle usare mentalmente per i propri scopi. Diverso è il
discorso delle fantasie per le quali ci si sente responsabili e si cerca di limitarle affettivamente
tramite una elaborazione secondaria più rigida; ma per quelle più articolate, questa elaborazione
può non avere la meglio finendo per tirar fuori dall’inconscio determinate fantasie sul paziente. In
questo caso, proprio per il fatto che il fantasticare avviene a livello conscio, è bene chiedersi
perché si è finiti per scegliere proprio il paziente finendo magari a scoprire che ciò sia dovuto a
determinate sue caratteristiche che inizialmente non erano state considerate (non per forza aspetti
negativi come angosce o paure, ma anche qualità che forse spingono il proprio Io a voler creare
un’amicizia a lavoro finito). Qua arriva il punto clou: proprio quando queste fantasie si evolvono in
rappresentazioni visive lunghe e organizzate come un film, lo psicologo deve chiedersi se queste
possono essere sovrapponibili a quelle rappresentazioni verbali avute ragionando sul paziente
(aspetto razionale) oppure quanto si discostano e quali differenze e somiglianze ci sono; solo in
questo modo potrà veramente valutare l’esito della psicoterapia e un buon lavoro si evidenzia
proprio quando si riesce a costruire una storia coerente tramite le fantasie e la valutazione
razionale.
Passiamo al paziente, al quale si chiede di affrontare la realtà reagendo e provando quello che non
ha mai provato, ma Semi ci dice come non gli si può chiedere più di tanto come anche non gli si
può chiedere una valutazione razionale ed emotiva: semplicemente perché presenta desideri
diversi che lo portano a perseguire scopi diversi in tempi e spazi personali che non si può
pretendere di cambiare. Quindi, quando sarà il momento, il paziente inizierà a pensare
autonomamente e a chiedersi quanti miglioramenti ha raggiunto e quanti no, e se quelli raggiunti
sono diversi o meno da quelli che inizialmente si aspettava di raggiungere. Inoltre, il paziente più
che valutare sé stesso e quindi le sue strutture mentali, tende a valutare i fenomeni della sua vita
oppure riporta non le considerazioni personali su di sé ma quelle che gli altri conoscenti fanno su
di lui (gente che lo considera cambiato in meglio o in peggio, gente che cambia atteggiamento
verso di lui, nascita di nuove amicizie). Nel momento in cui il paziente vuole terminare un
trattamento perché valutato negativamente lo psicologo deve chiedersi il perché (può succedere
che la valutazione dello psicologo contrasti con quella negativa del cliente oppure ci si rende conto
di non aver lavorato bene). Spesso la valutazione avviene in comune e in movimento nel corso
della terapia: passo dopo passo il paziente sviluppa delle capacità che vengono ogni volta valutate
da entrambi.

C’è infine un terzo punto. Lo psicologo valuta un trattamento man mano che viene messo in atto e
alla fine può accorgersi se i risultati ottenuti con l’esperienza psicoterapeutica siano stati duraturi o
meno proprio grazie alla valutazione a distanza di tempo da parte del paziente, il quale dopo anni
può scrivergli una lettera o presentarsi per una visita o lo si può incontrare casualmente.
Ovviamente qui non si può perfettamente comprendere come l’esperienza psicoterapeutica venga
elaborata e inserita nella vita del paziente, infatti in questi casi non si è che spettatori e non si può
che sperare di esser riusciti a migliorare la realtà di quel cliente.

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