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Diritto privato

Diritto privato (Università degli Studi di Bergamo)

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Diritto PRIVATO, NON CIVILE. Per capire la differenza, quando si parla di diritto privato pensa ai
contratti stipulati tra due soggetti.

Libro —> per chi segue e prende appunti dice che non è necessario
Libro riassunto su google drive di 260 pagine al posto di 1500.
((Manuale di diritto privato Andrea Torrente, Franco Anelli, Carlo granelli (vedi doc su gruppo)))

Appunti del Profe—>team—>corso diritto privato—> file

Terminologia:
•norma coattiva—> norma obbligatoria, che deve essere rispettata. Nel caso in cui non venga
rispettata si prenderanno i relativi provvedimenti.
•Interpretazione estensiva è l'interpretazione che va al di là del senso delle parole, è dunque
l’interpretazione del giudice

Argomenti:
1-L'ORDINAMENTO GIURIDICO
•definizione
•caratteristiche delle norme
•fonti del diritto
•le leggi: fattispecie astratta, analogia legis, analogia juris, abrogazione, illegittimità costituzionale
2-DIRITTO PRIVATO
•definizione
•l’interpretazione dei giudici e il diritto vivente, giurisprudenza
•interesse soggettivo e diritto soggettivo
•diritto assoluto e dovere generale, diritto relativo e obbligazione, diritto potestativo
•rapporto giuridico
•acquisto e perdita dei diritti, diritti patrimoniali o non patrimoniali, a titolo originario o a titolo
derivativo, prescrizione, decadenza
3-I SOGGETTI DEL DIRITTO PRIVATO: LE PERSONE FISICHE
•soggettività giuridica, soggetto giuridico, capacità giuridica, patrimonio
•capacità di agire
•il minore, il rappresentante legale (genitore) e il tutore, emancipazione e curatore
•incapacità di agire: interdizione, inabilitazione, amministratore di sostegno e incapacità naturale
4-I SOGGETTI DEL DIRITTO PRIVATO: GLI ENTI
•definizione generale di enti, il ruolo del patrimonio
•associazioni (riconosciute o non riconosciute)
•comitati
•società commerciali e società commerciali unipersonali
•fondazioni
5-FATTI E ATTI GIURIDICI
•fatti giuridici
•atti giuridici: atti giuridici in senso stretto e atti negoziali
•validità ed efficacia del contratto
•la manifestazione della volontà e il suo procedimento di formazione
•invalidità del contratto, effetti perturbatori: errore (essenziale e riconoscibile), violenza (fisica o
morale), dolo
•la simulazione (l’atto simulato, l’accordo simulatorio, l’atto dissimulato)
•la prova dei fatti giuridici: documentale (atto pubblico e scrittura privata), testimoniale o per
presunzioni
6-IL CONTRATTO E GLI ATTI UNILATERALI
•caratteristiche generali del contratto
•contratto di scambio
•contratto associativo
•atto unilaterale, onerosità e gratuità
•contratto di donazione e lo spirito di liberalità
•l’evoluzione della dottrina moderna riguardo all'accordo, contratti tipici e atipici
7-L'ACCORDO E LA SUA FORMAZIONE
• La formazione dell'accordo
• Le trattative precontrattuali (lo svolgimento della trattativa e il comportamento dei trattanti)

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• Proposta e accettazione, proposta irrevocabile


• Il contratto per adesione
• Il patto di opzione
• La formazione del contratto in assenza di dialogo
• Il contratto preliminare
• Il contratto di prelazione o di preferenza

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DIRITTO PRIVATO
Prof. La Porta Ubaldo (e Manfredonia Benedetta)

CAPITOLO 1: L'ORDINAMENTO GIURIDICO


È impensabile ad oggi vivere in una società primitiva dove non vi siano norme, dove l’unica regola
sia quella della sopravvivenza, della supremazia del più forte, che provoca inevitabilmente il
soccombere delle parti più deboli. In una società moderna, basata sulla convivenza con altri
individui, è necessario, nonché indispensabile, disporre di regole, di un ordinamento giuridico.
Il diritto nasce proprio dall'esigenza di ordine. Ordinare vuol dire organizzare la società, dettando
le regole di svolgimento delle relazione tra individui.
L’ordinamento, dunque, possiamo definirlo come l’insieme delle regole che disciplinano lo
svolgimento delle relazioni umane (ogni ordinamento giuridico è formato da norme/regole).

La regola/norma giuridica è caratterizzata dalla coercibilità (obbligatorietà, regola imposta con la


"forza", nel caso in cui una norma non venga rispettata, la parte lesa può richiedere l’intervento
dello Stato), che fa sì che una norma venga imposta, la norma non può non essere rispettata, è
coattiva, obbligatoria. Nel caso in cui una norma non venga rispettata il soggetto leso potrà
ricorrere ad un giudice; è vietato farsi giustizia da sé. Il giudice poi analizzerà il caso e prenderà i
relativi provvedimenti.
Un’altra caratteristica della norma è l'astrattezza. Le norme giuridiche sono sempre astratte, non
si riferiscono mai a fattispecie (casi) concrete. Sta poi al giudice interpretare la norma e emanare i
relativi provvedimenti o sanzioni. La norma è altresì generale, in quanto è destinata alla generalità
dei consociati (a tutti gli individui all'interno della società), nessuno escluso.
Dunque, la norma giuridica è: generale, astratta e cogente (coattiva).

Le fonti del diritto


Le fonti del diritto sono: la costituzione, le leggi, i regolamenti e le consuetudini.
La costituzione entrò in vigore il 1º gennaio del 1948. Al di sopra delle leggi vi è la costituzione.
La costituzione è il testo che fonda l’intero ordinamento normativo dello Stato.
Le leggi, i regolamenti vengono ordinati all'interno del Codice civile, approvato nel 1942 (sei anni
prima dell'entrata in vigore della Costituzione).
Attraverso le leggi si esprime il potere dello stato, in particolar modo il potere del parlamento,
ovvero il potere legislativo (potere di produrre, emanare le leggi) e entro i limiti fissati dalla
Costituzione (anche il governo in casi eccezionali può redigere leggi).
I regolamenti sono atti normativi attraverso i quali si esprime una specifica potestà del Governo
(o di altre autorità). I regolamenti disciplinano determinate materie nei limiti delle leggi. I
regolamenti sono quindi subordinati alle leggi, i regolamenti prevalgono qualora la materia presa
in considerazione non sia disciplinata dalle leggi.
Le consuetudini non sono norme scritte, ma regole che sono state tramandate nei tempi. Gli usi,
in assenza di leggi e regolamenti, possono disciplinare determinate relazioni interindividuali. Le
consuetudini non possono essere definite norme giuridiche, in quanto non sono scritte.
Il common law è il diritto consuetudinario, ovvero quel tipo di diritto che non deriva da norme
scritte, ma ad esempio dall'analisi di casi passati. Spesso gli avvocati prima di affrontare un
processo vanno a rivedere i provvedimenti presi in un processo simile.
Un ordinamento giuridico fondato su leggi scritte dà maggiore sicurezza al cittadino, tuttavia è più
rigido, fisso ed ecco perché le norme sono astratte, così che possa prevalere l’interpretazione del
giudice, rendendo l'ordinamento più "flessibile". Invece, il diritto consuetudinario è più mobile,
flessibile, duttile, perché non deve attenersi a nessuna norma scritta, rigida, ma d’altro canto dà
meno certezze al cittadino (perché non vi è una norma rigida scritta sempre consultabile dai
cittadini).
Tra queste fonti di diritto vi è una gerarchia, dove al primo posto vi è la costituzione, poi vi sono le
leggi, dopodiché i regolamenti e infine le consuetudini.

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La costituzione è divisa in tre parti: i principi fondamentali (primi 12 articoli), parte prima "diritti e
doveri dei cittadini" (dall'articolo 13 al 54), parte seconda "ordinamento della repubblica" (da 55 a
139).

La costituzione rappresenta un limite per il potere legislativo, in quanto nessuna legge può essere
in contrasto con la costituzione. Il legislatore è quindi soggetto a sua volta dalle norme
costituzionali. L’organo che vigila sul rispetto delle norme costituzionali è la Corte costituzionale,
che verifica la compatibilità tra le leggi emanate dal legislatore e le norme costituzionali.
Tuttavia, al di sopra della costituzione, dopo l’adesione dell’Italia all’Unione Europea vi sono le
norme dell'ordinamento dell’Unione Europea (carta fondamentale dei diritti dell'uomo).

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Articolo 1218 il debitore che a scadenza non paga il proprio debito dovrà risarcire i danni causati
al creditore.

Le leggi
Fattispecie astratta—> è la norma di legge, ovvero la fattispecie ipotizzata dal legislatore, che è
sempre astratta, poiché la norma deve essere flessibile, deve riferirsi a una moltitudine di casi,
deve cogliere più sfaccettature, non si deve riferire ad un unico caso concreto (ad una fattispecie
concreta), ma appunto deve essere astratta, sarà poi il giudice a doverla interpretare per poter
esprimere la propria sentenza sul caso concreto (fattispecie concreta).
Quindi, innanzitutto, il giudice deve ricostruire il fatto al fine di individuarne tutti gli elementi
caratteristici. Dopodiché, ricostruita la fattispecie concreta, il giudice dovrà individuare la norma di
legge applicabile a tale caso. Questa operazione prende il nome di sussunzione, ovvero
l’operazione attraverso la quale il giudice individua la norma all'interno dell'ordinamento giuridico
che corrisponde alla fattispecie concreta, in altre parole individua la coincidenza della propria
fattispecie concreta con la fattispecie astratta presente nell'ordinamento giuridico. Raramente,
però, il giudice riuscirà ad individuare una totale sovrapposizione tra la fattispecie concreta e
quella astratta ed è qui che entra in gioco l’interpretazione giudiziaria.
La fattispecie astratta poi può essere a sua volta una fattispecie semplice, se è composta da un
solo elemento fattuale; oppure fattispecie complessa se è caratterizzata da più elementi semplici.
Analogia legis—> il giudice dovrà interpretare la legge astratta alla fattispecie concreta. Nel caso
in cui la fattispecie concreta sia diversa dalla fattispecie astratta, il giudice per poter esprimere
una sentenza dovrà avvalersi delle analogie, ovvero dovrà interpretare il caso in base a fattispecie
astratte che siano il più vicino possibile al caso concreto. Questo quando nell'ordinamento non
c’è una norma per quel caso concreto, ma ce n’è per uno analogo, quindi il giudice si avvale del
caso analogo (analogia legis).
Analogia juris —>nel caso in cui il giudice non riesca a trovare delle analogie (non solo non c’è
una norma per quel caso concreto, ma non c’è neppure una norma analoga) tra la fattispecie
astratta e quella concreta (analogia legis) si rifà alle norme sancite dall’UE, alle norme
costituzionali, ai principi fondamentali e via dicendo, seguendo l’ordine gerarchico delle fonti.
Dunque, nel caso dell'analogia juris il giudice si dovrà basare sui principi generali sui quali si
fonda l’ordinamento giuridico e non su una specifica norma.

Le leggi prima di entrare in vigore devono essere approvate dal Parlamento, dopodiché
promulgate dal Presidente della Repubblica. La norma poi entra in vigore effettivamente il
quindicesimo giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Questi 15 giorni, il cosiddetto
periodo di vacatio legis, servono a far si che la legge venga conosciuta da tutti i cittadini e possa
così cominciare a produrre i suoi effetti. Prima dei quindici giorni, la legge non produce effetti, la
legge dispone per l'avvenire, non ha effetto retroattivo, ciò vuol dire che non si può essere puniti
per un atto che ora è sanzionabile, ma che allora non lo era ancora.
L’effetto di una legge può cessare soltanto in caso di abrogazione. È possibile che una legge
successiva abroghi (faccia cessare l’effetto) la legge precedente, questa è l'abrogazione espressa.
Vi può essere poi l'abrogazione implicita o tacita, qualora venga emanata una legge successiva in
contrasto con una precedente. È quindi la legge più recente a prevalere e di conseguenza ciò
pone fine all’effetto della legge meno recente. Inoltre, possono esserci casi in cui una legge
successiva prevalga su una legge precedente solo su alcuni aspetti di essa. Ad esempio nel caso
in cui la norma più recente sia in contrasto con quella precedente solo su certe caratteristiche di

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essa. In tal caso cesseranno soltanto gli aspetti della legge precedente in contrasto con quella più
recente, non tutti.
Una norma può cessare di avere effetti anche senza essere abrogata (né in maniera espressa né
tacita), qualora la Corte Costituzionale ne dichiari l’illegittimità costituzionale, ovvero dichiari che
la legge è contro le norme costituzionali.

Le leggi possono essere applicate entro i limiti di territorialità statale, dunque entro i confini
geografici nazionali, entro i confini marini (ovvero entro le 12 miglia dalla costa), entro i confini
aerei, ma anche per le navi mercantili e gli aerei quando non si trovano nello spazio aereo o
marittimo di altri Stati o, ancora, gli aerei militari e le navi militari ovunque si trovino. In tutti questi
casi è possibile applicare le leggi.
Lo straniero non appartenente ad uno stato dell'Unione Europea che si trova sul territorio italiano,
in base al principio di reciprocità, verrà trattato allo stesso modo di come un cittadino italiano
verrebbe trattato dalla sua legge nazionale.

CAPITOLO 2: IL DIRITTO PRIVATO E GLI INTERESSI GIURIDICAMENTE


RILEVANTI
Il diritto privato è quella branca dell'ordinamento giuridico che disciplina le relazioni tra
individui che agiscono in posizione di parità, senza rapporti di sovraordinazione, fissando
le regole di svolgimento di tali relazioni.
Il diritto privato trova il proprio punto di riferimento nel Codice civile (1942), diviso in 2969 articoli,
distribuiti in 6 libri, a loro volta suddivisi in Titoli, Capi e Sezioni.

Le leggi speciali disciplinano settori particolari delle relazioni interindividuali, mentre quelle
eccezionali sono rivolte a specifici casi individuali.
Tra norme dello stesso tipo (generale-generale) prevale la norma generale più recente.
Invece, la norma speciale prevale sempre su quella generale, anche se quella speciale è stata
emanata prima di quella generale (anche se è antecedente a quella generale).
Stessa cosa accade per le norme di carattere eccezionale, indi per cui in caso di conflitto con una
norma speciale o generale, a prevalere è la norma eccezionale, anche se più remota nel tempo.
Gerarchia—> norme eccezionali, speciali, generali.

L’interpretazione dei giudici e il diritto vivente


La giurisprudenza è l’insieme delle decisioni dei giudici nelle controversie tra privati, permette di
creare il cosiddetto "precedente". I giudici applicando le norme nella risoluzione delle singole
controversie fissano per quel caso la norma di disciplina applicabile e, dunque, rendono concrete
le norme individuali, tipicamente astratte. I giudici, quindi, quando emanano la sentenza fissano la
loro interpretazione per quella tipologia di fattispecie concreta. L’insieme di tali sentenze
costituisce il diritto giurisprudenziale, ossia il diritto oggettivo, caratterizzato dagli orientamenti
interpretativi dei giudici (delle Corti). Tali orientamenti interpretativi sebben nel nostro ordinamento
non siano vincolanti, assumono una certa efficacia persuasiva nei confronti delle decisioni dei
giudici successivi. In ogni caso, i giudici sono liberi discostarsene, tuttavia avranno il dovere e
l’onere di fornire una motivazione. Questo tipo di diritto prende il nome di diritto vivente, in
quanto è una tipologia di diritto in continua evoluzione, condizionato dalle sentenze precedenti
che fanno da punto di riferimento per i casi successivi della stessa tipologia.
Allo sviluppo del diritto vivente contribuisce anche l'autonomia privata, che riguarda la
regolamentazione degli interessi del singolo. Il privato attraverso la manifestazione della propria
volontà e mediante il compimento di atti, pone le regole di svolgimento dei rapporti giuridici di
natura patrimoniale. Quindi anche l'autonomia privata concorre alla creazione del diritto vivente,
contribuendo altresì alla formazione di nuovo materiale normativo capace di rendere
l’ordinamento più elastico.

L’interesse soggettivo (e il diritto soggettivo)

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La relazione economico-patrimoniale trova forma giuridica nel contratto, nel quale le parti dettano
la regola del caso concreto destinata a disciplinare tale relazione. I soggetti di un contratto sono
spinti ad agire per soddisfare i propri interessi, i propri bisogni. Il privato può, entro i limiti previsti
dalla legge, agire perseguendo i propri interessi in funzione della soddisfazione dei propri bisogni.
L’interesse (soggettivo) è, dunque, ciò che spinge ciascun soggetto verso l’altro, ciò che spinge
ad instaurare relazioni economiche (o patrimoniali) con il fine di soddisfare un determinato
bisogno.
Ad esempio, per quanto riguarda l’interesse amoroso si ha quando una persona si rivolge ad
un'altra persona in quanto la ritiene adeguata a soddisfare il proprio bisogno amoroso.
L'interesse del privato è un bisogno che il privato/l’individuo vuole soddisfare.
La norma giuridica di diritto privato è volta alla protezione degli interessi del privato nelle relazioni
con altri privati. Però quali interessi? Ovviamente non tutti (non quelli amorosi di certo). Il
matrimonio tra persone dello stesso sesso è sicuramente un interesse di livello sociale, ma in
Italia non trova protezione giuridica, non vi sono norme a favore, in quanto la questione non è
rilevante in ambito giuridico. Invece, in Spagna la questione del matrimonio di persone dello
stesso sesso è giuridicamente rilevante.
Il legislatore può assegnare dignità giuridica ad un determinato interesse mediante una norma di
legge, che qualifica tale interesse come giuridicamente rilevante.
Ad esempio l’articolo 832 tratta un interesse giuridicamente rilevante, ossia la proprietà privata.
L’articolo sancisce che il proprietario del bene ha la facoltà di godere e disporre della sua
proprietà, entro i limiti previsti dalla legge, consentendogli di richiedere l’intervento statale qualora
il suo diritto venga leso dagli altri soggetti. Ciò non toglie ovviamente che vi siano anche degli
obblighi che il titolare del diritto soggettivo è tenuto a rispettare.
Diritto soggettivo=è il diritto che gode il titolare dell’interesse giuridicamente rilevante. Non è un
diritto soggettivo, in Italia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso

Diritto oggettivo= è un insieme di regole (oggettive e legali).


Diritto soggettivo= indica una possibilità, una libertà, una posizione di vantaggio garantita da una
regola legale. È appunto il diritto che gode il titolare dell’interesse giuridicamente rilevante, in
quanto egli è in una posizione di vantaggio.

Diritti assoluti e diritti relativi. Doveri generici e obbligazioni.


Il diritto assoluto è il diritto di affermare il proprio interesse giuridicamente rilevante nei confronti
di tutti gli altri individui (nei confronti dei consociati).
Il diritto assoluto è, perciò, quella forma di protezione dell'interesse del privato quale individuo,
che deve essere affermato nei confronti di tutti gli individui.
Un esempio di diritto assoluto è il diritto alla personalità, che viene vantato e fatto valere nei
confronti di tutti, non solo di uno specifico soggetto.

Invece, per quanto riguarda il diritto relativo, esso non è una forma di vantaggio nei confronti di
tutti (che deve essere fatto valere nei confronti di tutti gli individui), bensì il diritto relativo è vantato
soltanto nei confronti di un soggetto determinato. Invece il diritto assoluto è vantato nei confronti
di tutti.

Si distinguono poi dal lato passivo i doveri giuridici, che si manifestano quando la legge impone
un determinato comportamento al soggetto passivo, fissandone la doverosità/obbligatorietà, volta
a soddisfare l’esigenza del soggetto attivo (soggetto titolare del diritto assoluto o relativo).
Per assicurare le libertà personali e patrimoniali dell’individuo attivo sarà necessario imporre a tutti
i consociati un dovere generico. Perciò dalla parte attiva si avrà un diritto assoluto, mentre dalla
parte passiva si avrà un dovere giuridico, che è sottoposto a tutti i consociati, che prende il nome
di dovere generico.
D’altro canto, per quanto riguarda i diritti relativi, nel lato passivo avremo dei doveri, che prendono
il nome di obbligazioni. L’obbligazione dovrà essere rispettata soltanto dal soggetto, o dai
soggetti, che hanno leso il diritto relativo del soggetto attivo. Quindi, nel caso dell'obbligazione
non dovranno rispondere tutti i consociati, come avveniva invece col dovere generico, ma solo il
soggetto (o i soggetti) interessato.

(A fronte dei diritti assoluti noi troveremo dei doveri giuridici generici, articolo 2043 c.c.
L’articolo prevede che qualunque fatto, doloso o colposo, provochi agli altri un danno ingiusto,
obblighi di risarcire il soggetto danneggiato.)

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Nel rapporto del diritto assoluto, da un lato avremo il titolare del diritto e dall'altro avremo dei
soggetti passivi indeterminati. I diritti assoluti sono diritti alla personalità, sia sul piano individuale,
sia sul piano patrimoniale. Per consentire l’affermazione di tale diritto assoluto bisogna imporre un
dovere (generico) a tutti i consociati.
Nel caso del diritto relativo accade che l’interesse del soggetto non è volto ad affermare la propria
personalità, ma l’interesse del soggetto è volto ad ottenere qualcosa nei confronti solamente di
uno o più soggetti determinati. Ad esempio un diritto relativo è il diritto di credito, che si esercita
solamente nei confronti del debitore. A fronte dei diritti relativi, dal lato passivo, vi sono le
obbligazioni.

Oltre ai doveri giuridici in ambito economico (esempio precedente creditore-debitore), vi sono


anche dei doveri in ambito patrimoniale. Stiamo parlando del diritto potestativo. Il soggetto
attivo è lo Stato che esercita appunto il proprio diritto potestativo su un determinano bene, mentre
il soggetto passivo è l'individuo titolare del bene su cui lo Stato vuole esercitare il proprio diritto di
potestà.
Possono esserci casi in cui lo Stato ha un diritto potestativo su un bene immobile. Perciò Il privato
quando ha intenzione di vendere l'immobile deve comunicare la vendita allo Stato, in quanto ne
detiene il diritto potestativo.
La potestà può essere esercitata soltanto nei confronti di un soggetto passivo determinato (il
titolare dell'immobile), quest’ultimo non può far altro che accettare l’esercizio della potestà da
parte dell'altro soggetto. Per soggezione si intende la situazione gravante sul soggetto passivo,
tenuto ad accettare l’esercizio della potestà altrui.

Rapporto giuridico
Il rapporto giuridico è la relazione tra il titolare del diritto e il soggetto gravato dal dovere. Il
rapporto giuridico assumerà caratteristiche differenti a seconda che il diritto sia assoluto
(personale o patrimoniale) o relativo o potestativo.
Il rapporto giuridico di diritto assoluto, in considerazione della natura di vantaggio che il titolare
vanta nei confronti del soggetto passivo, sarà caratterizzato dalla determinatezza del soggetto
attivo e dalla indeterminatezza dal lato passivo. Difatti di fronte al titolare del diritto non vi sarà un
soggetto passivo specifico, ma vi saranno i cosiddetti omnes, ovvero tutti gli individui gravati dal
dovere di astenersi dal compiere qualunque atto volto a danneggiare il diritto assoluto del
soggetto attivo.
Invece, nel rapporto giuridico di diritto relativo o di obbligazione (se visto dal lato passivo),
entrambi i soggetti saranno determinati. Infatti, il diritto del creditore è tale soltanto in relazione al
debitore (non agli omnes), in quanto soltanto il debitore è in grado di soddisfare l’interesse del
creditore e di conseguenza di porre fine al rapporto giuridico.
Anche il diritto potestativo, così come quello relativo, è caratterizzato dalla determinatezza dei
soggetti.

Il legislatore attribuisce facoltà (diritti assoluti e diritti relativi) e potestà (diritti potestativi).

Acquisto e perdita dei diritti


Come si acquistano e come si perdono i diritti e i doveri?
Ci sono dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti dall'articolo 2 della Costituzione, che
vengono riconosciuti fin dalla nascita all'individuo, gli vengono riconosciuti per il solo fatto di
essere nato. Si tratta dei diritti individuali/inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (articolo 2 costituzione).

Invece, i diritti patrimoniali (che possono essere sia assoluti che relativi) spettano ad un singolo
solo nel caso in cui il soggetto effettui un'azione per l’acquisto di tale diritto (possono essere
conseguiti per effetto del verificarsi di un fatto). I diritti patrimoniali sono quei diritti assoluti o
relativi che riguardano l'individuo nella sua dimensione patrimoniale, quindi per quanto riguarda il
patrimonio del soggetto, ovvero l’insieme dei beni, dei crediti e dei debiti che possiede.
Possono essere diritti a titolo originario o a titolo derivativo, a seconda della modalità di acquisto
di essi. Per quanto riguardo il primo, si ha nel caso in cui il soggetto consegue un diritto nuovo,
che nasce per la prima volta con lui. Per quanto riguarda i diritti a titolo derivativo, essi si hanno
nel caso in cui l’acquisto di tale diritto si verifichi per trasmissione, da un soggetto ad un altro.

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Dunque, per effetto di un acquisto a titolo derivativo, un soggetto succede ad un altro nella
titolarità di un diritto già esistente.
I diritti patrimoniali, sia reali che di credito, possono cessare di esistere per effetto di un atto di
volontà dismissivo da parte del titolare stesso. Il titolare può decidere di trasferire tale diritto ad un
altro soggetto, il diritto viene appunto dismesso per trasferirlo ad altri, oppure può decidere di
rinunziare completamente al diritto e di conseguenza ciò provoca l’estinzione del diritto.
Trasferimento e rinunzia sono due manifestazione di autonomia privata.
Il diritto inoltre può essere estinto anche qualora venga a meno l’interesse del soggetto attivo.
Ad esempio il creditore decide di non volere più la somma prefissata dal debitore, di conseguenza
il debitore non è più tenuto a pagare tale somma.

Esiste poi un modo generale di estinzione dei diritti, ovvero la prescrizione. Si ha nel caso di
mancato esercizio del diritto da parte del titolare per un determinato periodo di tempo. Il diritto
dopo un certo periodo di tempo si estingue, a causa del mancato utilizzo da parte del soggetto
attivo. Ciò può avvenire solo se quel diritto era esercitabile. Quindi per la prescrizione si calcola il
periodo di tempo dal momento in cui il diritto può essere esercitato, non dal momento della
nascita del diritto, poiché a volte potrebbero non coincidere.
L’articolo 2941 c.c. enuncia che Il termine di prescrizione può essere sospeso—> la prescrizione
rimane sospesa tra coniugi (qualora i soggetti del contratto diventino marito e moglie), tra il
minore e il suo tutore (genitori o tutore esterno),...
Sospeso perché dal momento in cui i soggetti divorziano riprende il periodo di prescrizione, idem
altri casi. Sospeso perché può riprendere in futuro.
Invece, l’articolo 2943 enuncia l’interruzione del rapporto di prescrizione, di conseguenza si
azzera il tempo già passato. L’interruzione fa ripartire da zero il tempo di prescrizione del diritto.
Il termine ordinario di prescrizione è di dieci anni, ma il giudice può stabilire termini diversi. Vi
possono essere anche casi di diritti imprescrittibili, ovvero che non possono cadere in
prescrizione, anche se essi non vengono esercitati dal titolare.
Vi è poi la prescrizione presuntiva. Ad esempio dopo sei mesi si suppone che il creditore abbia
ricevuto il pagamento, dunque dopo sei mesi il diritto entra in prescrizione. Ciò non vuol dire che il
debitore non è più tenuto a pagare, però il creditore dovrà dimostrare di non essere stato pagato
per poter riacquisire il diritto a ricevere il pagamento dal debitore. È una prescrizione presuntiva,
perché si pensa, si suppone, che entro sei mesi il creditore abbia ricevuto il credito. Questo tipo di
prescrizione esiste in casi particolari, ad esempio per gli albergatori (articolo 2954).

La distruzione di un bene mobile determina l’estinzione del diritto. Mentre la distruzione di un


bene immobile determina l'estinzione del diritto solo in taluni casi.

La decadenza, invece, non è causa di estinzione del diritto, tuttavia impedisce l’esercizio del
diritto. Ad esempio si ha quando le parti si accordano all’interno del contratto per un termine di
decadenza, ovvero una data dopo la quale non è più possibile esercitare il diritto, una data dopo
la quale il diritto perde i suoi effetti, la sua efficacia, anche se esso non cessa di esistere.

CAPITOLO 3: I SOGGETTI DEL DIRITTO PRIVATO—>LE PERSONE


FISICHE
La soggettività giuridica e i soggetti di diritto
La soggettività giuridica è quando un soggetto viene imputato di situazioni soggettive
giuridicamente rilevanti, sia attive che passive.
Il soggetto di diritto non è soltanto la persona fisica nella sua individualità di uomo o donna, ma
anche la formazione sociale ove si svolge la sua personalità. In tal caso si parla di enti, che
l’ordinamento riconosce come centro di imputazione di interessi giuridicamente rilevanti. Quindi la

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persona fisica può essere portatrice di interessi (e quindi essere un soggetto di diritto) sia nella
propria individualità, sia negli enti di cui la stessa si serve.
I soggetti del diritto sono le entità portatrici di interessi (persone fisiche o enti).
Il soggetto di diritto gode della capacità giuridica (la capacità di poter essere titolare di diritti e
doveri), che per le persone fisiche si acquista per il solo fatto di essere nati, si tratta dei diritti della
personalità. Il momento della nascita è quello a partire dal quale la persona fisica assume
soggettività giuridica, diventando titolare di diritti e doveri giuridici, ovvero il momento dal quale la
persona può essere imputata di situazioni soggettive giuridicamente rilevanti.

Vi sono poi specifiche disposizioni di legge che prevedono l’acquisto della soggettività giuridica
ancor prima di nascere, purché concepiti. Un esempio concreto della fattispecie astratta si trova
nell'ambito delle successioni a causa di morte (il figlio che nascerà sarà l’erede di una determinata
somma di denaro).
Si fa poi distinzione tra nascituri concepiti e non concepiti. Per quanto riguarda i nascituri
concepiti, possono succedere anche in assenza di testamento, mentre i non concepiti solo a
fronte di un testamento. Ciononostante, in entrambi i casi, verranno imputate al nascituro al
momento e a condizione della nascita.

Invece, per gli enti la capacità giuridica si consegue dalla data di efficacia dell'atto costitutivo.

Quindi, i diritti che il soggetto di diritto acquista dalla nascita prendono il nome di diritti della
personalità, che trovano fondamento nei principi fondamentali della Costituzione. Ne sono esempi
il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla libertà, alla proprietà, alla circolazione, alla libertà di
pensiero e di opinione, alla libertà di riunione e associazione, al lavoro, all'istruzione, alla salute,
senza distinzione alcuna (per razza, religione, orientamenti politici,...).

Il patrimonio
Il patrimonio è la rappresentazione del piano patrimoniale/economico di un soggetto di diritto,
ovvero l'insieme dei diritti e dei doveri di cui il soggetto di diritto è titolare (beni, crediti, ma anche
debiti).
(Può essere però che il patrimonio non sia imputato ad uno specifico soggetto di diritto, ma che si
detiene per un fine conservativo in funzione di una determinata destinazione soggettiva finale. In
tal caso si parla di patrimonio autonomo.
Si distingue dal patrimonio autonomo il patrimonio separato, ovvero una parte del patrimonio
generale di un soggetto di diritto. I beni del patrimonio separato vengono di fatto sottratti dal
patrimonio generale del soggetto.)

La capacità di agire
La persona fisica, titolare di diritti e obblighi fin dalla nascita, deve raggiungere un certo grado di
maturità psico-fisica, che si tramuta con il compimento della maggiore età, per manifestazioni di
volontà serie, coscienti e consapevoli con il fine di instaurare rapporti giuridici, ovvero per
acquisire la capacità di agire. Dunque, la capacità di agire è la capacità di manifestare la propria
volontà con il fine di creare rapporti giuridici. Il capace di agire è il soggetto legittimato a
perseguire i propri interessi, soddisfacendo i propri bisogni.
Essenziale per il capace di agire è la coscienza, che presuppone la capacità di comprendere ciò
che accade e di valutare consapevolmente le conseguenze delle sue decisioni.

La minore età
Il minore possiede la capacità giuridica, ma non la capacità di agire. Un minore però può
diventare titolare di diritti e obblighi, così come ogni incapace di agire, attraverso altri soggetti
maggiorenni che lo sostituiscono, che prendono il nome di rappresentanti legali. Il
rappresentante legale è un soggetto che per legge lo sostituisce, che può compiere atti in nome
e per conto dell'incapace di agire, in questo caso del minore fino al compimento del diciottesimo
anno di età o fino all'emancipazione. I rappresentanti legali sono normalmente i genitori. La
rappresentanza dei genitori è una rappresentanza legale, in quanto prevista dalla legge, nello
specifico dall'articolo 320. I genitori (i rappresentanti legali) possono compiere liberamente in
nome e per conto del figlio gli atti di ordinaria amministrazione. Mentre per gli atti di straordinaria
amministrazione (atti che apportano modifiche al patrimonio del minore) è necessaria
l’autorizzazione del giudice tutelare.

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Inoltre, il minore non può mai essere titolare di un’attività, neanche se i genitori sono consenzienti.
Al minore è consentita, eventualmente, la sola prosecuzione, non l’inizio, di un’attività, previa
comunque autorizzazione del tribunale (non del giudice, ma del tribunale, che garantisce
un'analisi ancora più ponderata e oggettiva rispetto al giudice).
Qualora vi sia un conflitto di interessi tra i genitori, o uno di essi, e il figlio, la legge prevede la
nomina di un curatore speciale per il minore. Il curatore speciale è un soggetto terzo che avrà il
potere, speciale, di rappresentare il minore, previa autorizzazione del giudice.

L’articolo 343 enuncia che, qualora entrambi i genitori siano morti, il minore venga protetto e
rappresentato da un tutore. L’attività rappresentativa del tutore è disciplinata in maniera più rigida
rispetto alla rappresentanza genitoriale, in quanto appunto non vi è il rapporto genitoriale tra il
rappresentate e il rappresentato.
Il tutore, proprio come il genitore, può compiere autonomamente gli atti di ordinaria
amministrazione, invece per gli atti di straordinaria amministrazione dovrà richiedere
l’autorizzazione del giudice tutelare. Inoltre, per gli atti di disposizione, ovvero i più pericolosi tra
quelli di straordinaria amministrazione, il tutore dovrà richiedere l’autorizzazione al tribunale.

Il minore che ha compiuto sedici anni può, sulla base di uno specifico provvedimento, contrarre
matrimonio. Il tribunale, accertata la maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni, consultati i
genitori o il tutore, può concedere il diritto al matrimonio al minore che abbia compiuto sedici
anni. Una volta che il minore ha ottenuto il diritto di contrarre matrimonio e, dunque, gli sia stato
accertato un certo livello di maturità psico-fisica, egli viene emancipato di diritto con il
concretizzarsi del matrimonio. Il minore emancipato consegue, di conseguenza, la capacità di
agire, seppur limitata alla sola ordinaria amministrazione. Per gli atti di straordinaria
amministrazione non rispondono più i genitori (in quanto il minore è stato emancipato), ma la
volontà del minore dovrà essere sostenuta e appoggiata da un altro soggetto, che prende il nome
di curatore (che può essere il coniuge se maggiorenne, o un altro soggetto).
(Inoltre previa autorizzazione del giudice, il minore emancipato ha il diritto di iniziare un’attività
economica, senza l’assistenza del curatore).

L’incapacità di agire del maggiorenne


La legge riconosce a chi abbia compiuto il diciottesimo anno di età la capacità di agire, in quanto
si presuppone che sia avvenuta la completa maturazione psico-fisica del soggetto e dunque
abbia acquisito la capacità di intendere e volere.
È possibile però che ad un maggiorenne venga sottratta la capacità di agire, qualora tale soggetto
non sia in uno stato psico-fisico adeguato per poter esercitare la capacità di agire e averne quindi
coscienza (presupposto della capacità di agire). Per tutelare il soggetto titolare della capacità di
agire, in quanto avente compiuto la maggiore età, ma che non possiede i requisiti per esercitarla,
poiché non è in grado di intendere e volere, la capacità di agire può essergli sottratta attraverso
un procedimento che prende il nome di interdizione.
L’interdizione giudiziale è una misura di protezione per il soggetto maggiorenne sostanzialmente
privo della capacità di intendere e di volere. In questi casi, il giudice pronuncia una sentenza di
interdizione con la quale sottrae al maggiorenne la capacità di agire. Il soggetto diventa così
interdetto, privo della capacità di agire. Il giudice nominerà per l'incapace un tutore, che
rappresenta ed agisce in nome e per conto dell'interdetto/incapace. Così come per il minore, in
caso di atti di ordinaria amministrazione il tutore potrà agire da solo, invece in caso di atti di
straordinaria amministrazione previa autorizzazione del giudice e in caso di disposizioni previa
autorizzazione del tribunale.
Invece, si parla di inabilità nel caso in cui il soggetto sia soggetto ad infermità mentale, ma meno
grave per ricorrere all'interdizione; ad esempio qualora il soggetto sia spesso sotto effetto di
stupefacenti o di bevande alcoliche. Situazioni in cui non c’è una totale incapacità di agire, ma
parziale e, quindi, meno grave. In tal caso si limiterà la capacità di agire del soggetto, ma non
gliela si sottrae completamente. Nel caso dell'inabile verrà nominato un curatore, che assiste
l'inabilitato, lo accompagna. Mentre il tutore sostituisce l’Interdetto, il curatore accompagna
l'inabilitato nelle decisioni. Per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione l'inabile potrà
agire da solo, invece negli atti di straordinaria amministrazione verrà appoggiato dal curatore.

Diversamente da quanto accade per l'interdizione e l'inabilitazione con i relativi tutori e curatori, in
caso di infermità o menomazione fisica (perlopiù handicappati, soggetti che non hanno problemi

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mentali/psichici, ma fisici. Possono comunque ricorrere all’amministratore di sostegno anche i


soggetti con problemi psichici, gli infermi mentali. È preferibile ricorrere almeno in prima battuta
all'amministratore di sostegno anche in caso di infermità mentale e psichica e non subito ricorrere
all'interdizione o inabilitazione) l’unica misura di protezione disponibile è l'amministratore di
sostegno, che viene nominato dal giudice tutelare. Nel caso dell'amministratore di sostegno,
viene indicata la durata e l’oggetto dell'incarico e degli atti che l'amministratore ha il potere di
compiere in nome e per conto del soggetto. Tuttavia, il beneficiario (l'infermo mentale o fisico)
conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza
dell'amministratore di sostegno, che non sono elencati nell'oggetto dell'incarico. Ciò
diversamente dall'interdizione che sottrae completamente la capacità di agire e dall'inabilitazione
che la limita rigidamente.

L’incapacità naturale
L’incapacità naturale (sancita dall'articolo 428) si ha quando il soggetto compie atti giuridici in
condizioni di una momentanea e transitoria incapacità di intendere o volere (ubriaco, sotto effetti
di stupefacenti). Si ha nei casi in cui il soggetto non sia né interdetto, né inabile, ma che in quel
determinato momento non godeva della capacità di agire. Il soggetto deve dimostrare che la firma
di quel contratto gli abbia recato dei danni e che il contratto fosse svantaggioso per lui. Se il
danno deriva da un atto unilaterale è possibile l’annullamento se il soggetto dimostri che la firma
del contratto gli abbia recato dei danni evidenti. Invece nel caso di un contratto bilaterale è
possibile l'annullamento qualora il soggetto leso dimostri di avere subito danni e che l’altro
soggetto fosse in male fede, ovvero che fosse a conoscenza della situazione in cui il soggetto si
trovava e che ne abbia approfittato.

CAPITOLO 4: I SOGGETTI DEL DIRITTO PRIVATO—> GLI ENTI

Gli enti sono forme di aggregazione di persone e beni che possono essere considerati centri di
imputazione di interessi giuridicamente rilevanti. Si tratta innanzitutto di aggregati di persone
fisiche che hanno il fine di perseguire un interesse complesso, oneroso, che è meglio attuabile
attraverso l’unione di più individui. Le persone fisiche facenti parte dell'ente impiegano le proprie
risorse patrimoniali con il fine della soddisfazione dell'interesse comune.
Esempi di enti sono le associazioni, dove i partecipanti si accordano mediante un contratto
associativo volto a disciplinare lo svolgimento dell’attività. Tale contratto non disciplina una
relazione di scambio di prestazioni, ma una relazione di comunione di scopo.
Quindi per quanto riguarda le associazioni lo scopo è di tipo associativo, che consiste nella
formazione di un patrimonio comune proveniente da più persone aventi il medesimo scopo.
Vi può essere poi il caso in cui il perseguimento dello scopo non necessiti di un'aggregazione
pluripersonale ma soltanto il distacco di un insieme di beni dal patrimonio generale di un
soggetto. In tal caso si parla di scopo destinatorio, ovvero quando il singolo soggetto separa una
pluralità di beni dal proprio patrimonio con il fine di soddisfare il proprio scopo. Così facendo il
patrimonio viene reso autonomo e si distacca completamente da quello del soggetto. Quindi lo
scopo destinatorio si riferisce alle imprese individuali.

Gli enti non possono non avere il patrimonio, esso è l'elemento principale degli enti, il patrimonio
è imprescindibile. Con il patrimonio tutti gli enti rispondono delle proprie obbligazioni ai sensi
dell'articolo 2740. L'articolo 2740 tratta la responsabilità patrimoniale ed enuncia che il debitore
risponde all'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri.

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L'ente è responsabile dei propri debiti, delle proprie obbligazioni, risponde con il proprio
patrimonio.

Gli interessi che il soggetto intende soddisfare possono essere ideali o commerciali. Per
commerciali si intende l’attività di impresa volta a conseguire un profitto, un utile. Invece, per
interessi ideali si intendono quegli interessi che non hanno un fine lucrativo, ma ideale, non
egoistico.
Tuttavia a compiere gli atti giuridici occorrenti alla realizzazione dello scopo (associativo o
destinatorio) non sarà più il soggetto, colui che ha istituito l'ente, ma sarà l'ente istituito. Soltanto
ad esso saranno imputati gli effetti degli atti compiuti per soddisfare lo scopo (quindi il soggetto
non risponde dei debiti dell'ente con il proprio patrimonio, ma solo con il patrimonio dell'ente).

Il patrimonio degli enti


Come per la persona fisica, anche per l'ente, il patrimonio è la rappresentazione del soggetto di
diritto sul piano economico. Così, l'atto costitutivo degli enti, associazioni o fondazioni, deve
indicare il valore del patrimonio. Il patrimonio, così come per la persona fisica, garantisce
l'adempimento delle obbligazioni imputate all'ente, come previsto dall'articolo 2740. A differenza
della persona fisica, l'ente non preesiste al patrimonio, l'ente non può esistere senza il patrimonio;
al momento della costituzione dell'ente è necessario indicare il valore del patrimonio. Invece, la
persona fisica può esistere anche se non dispone di un patrimonio.
La costruzione dell'ente rappresenta l’elemento per rendere il patrimonio autonomo rispetto al
patrimonio generale dei costituenti. L'ente nasce per rendere il patrimonio autonomo. La persona
fisica invece esiste indipendentemente dal patrimonio, acquista diritti e obblighi solo per il fatto di
essere nata.

Associazioni e società commerciali pluripersonali


L’associazione nasce attraverso il contratto associativo stipulato tra due o più persone, che
hanno uno scopo comune e che conferiscono i propri beni in un fondo di comune utilità
impiegabile nell'esercizio dell’attività. Il contratto associativo è composto da due parti principali:
l'atto costitutivo, (che dà vita all'associazione) che racchiude l’accordo e la determinazione degli
elementi essenziali dell'ente, e lo statuto, ovvero la parte che identifica la struttura interna
dell'associazione e le regole di svolgimento del rapporto associativo.
L’associazione è caratterizzata da tre elementi: un patrimonio comune costituito dai conferimenti,
una pluralità di persone e uno scopo comune, un obiettivo comune, che nel caso degli enti
associativi è di tipo ideale.

L’associazione è strutturata in almeno due organi: l’assemblea, composta da persone fisiche, ha


la funzione di modificare, emanare o abrogare le regole fissate nel contratto iniziale; l'organo
amministrativo ha, invece, il compito di amministrare il patrimonio dell'associazione. La persona
fisica incaricata all'amministrazione del patrimonio prende il nome di amministratore organico,
ovvero colui che porta all'esterno la volontà dell’associazione e che è legittimato ad agire verso i
terzi in nome e per conto dell'ente, in modo tale da imputare direttamente all’associazione gli
effetti derivanti dagli atti giuridici compiuti dall'amministratore organico. L'amministratore organico
gestisce e amministra il patrimonio, ma ciò deve avvenire sempre in conformità dello scopo
perseguito dall'associazione.
Agendo verso l’esterno mediante il compimento di atti giuridici con terzi, l'associazione diventa
titolare di diritti e obblighi, ai quali risponde con il proprio patrimonio, come previsto dall'articolo
2740 c.c.
Tuttavia non tutte le associazioni ottengono il riconoscimento giuridico, il quale determina
l'acquisto della personalità giuridica (l'associazione diventa una persona giuridica, mentre la
capacità giuridica la acquisisce a priori al momento della costituzione dove viene indicato
l'ammontare del patrimonio. Non è da confondere la personalità giuridica con la capacità
giuridica). L'associazione alla quale viene riconosciuta la personalità giuridica è caratterizzata da
un'autonomia patrimoniale perfetta, ciò vuol dire che l'associazione risponde alle proprie
obbligazioni (ai debiti) con il proprio patrimonio, non con quello degli associati.
Perciò, se le associazioni sono riconosciute (persone giuridiche e quindi anche capacità
giuridica) esse rispondono per l'adempimento delle proprie obbligazioni soltanto con il proprio
patrimonio. In tal caso si parla di autonomia patrimoniale perfetta, ciò vuol dire che si ha una
completa divisione del patrimonio dell'associazione con il patrimonio personale dei soci. Le
associazioni riconosciute sono soggette ad un sistema di vigilanza pubblica rigido. Mentre per

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quelle non riconosciute non sono persone giuridiche, ma hanno comunque la capacità giuridica,
di conseguenza insieme al patrimonio autonomo dell'ente rispondono anche i soci (gli associati),
che hanno agito verso terzi in nome e per conto dell'associazione, con tutto il loro patrimonio
personale. Si parla, dunque di autonomia patrimoniale imperfetta. Ma dall'altra parte, esse non
sono sottoposte ad una vigilanza rigida.

Comitati
Hanno lo scopo di raccolta fondi in funzione dello svolgimento di attività di beneficenza o di
soccorso. I comitati sono strutture organizzative più agili, che come le associazioni hanno uno
scopo ideale, e che non prevedono una struttura interna precisa, ma solo la nomina di un
rappresentante legale, ovvero il presidente. Il presidente per mezzo dell’attività dei promotori
raccoglie e gestisce fondi per l'attuazione dello scopo.
I componenti del comitato, qualora il comitato non abbia ottenuto la personalità giuridica,
dovranno rispondere alle obbligazioni. I sottoscrittori, ovvero coloro che contribuiscono ad
incrementare il fondo comune, ovviamente non dovranno rispondere alle obbligazioni. Il comitato
potrà impiegare il patrimonio formato attraverso le sottoscrizioni raccolte esclusivamente in
funzione dello scopo.

Società commerciali
Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune
di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Così come per le associazioni, anche per
le società vale il principio della pluralità di persone, ma la differenza è lo scopo, non più ideale, ma
lucrativo.
La società commerciale ha il fine specifico di ottenere un profitto da dividere tra i soci in
proporzione alle quote di partecipazioni di essi (rapporto tra ciò che un soggetto conferisce
rispetto ai conferimenti totali), scopo lucrativo. Mentre nelle associazioni gli utili vengono
reinvestiti nell'esercizio successivo al fine di raggiungere il loro ideale (scopo non lucrativo).
L’unica variabile che cambia rispetto alle associazioni e ai comitati è lo scopo, che in questo caso
è di tipo commerciale, ovvero lucrativo e non ideale.

Vi sono poi anche le società commerciali unipersonali. La finalità è sempre la stessa delle società
commerciali, cambia la struttura, che sarà composta da un unico socio. Un soggetto che intende
gestire l’attività da solo destina una parte del proprio patrimonio alla gestione di impresa. Rispetto
alla fondazione cambia che l’unico socio continuerà a partecipare sempre alla vita dell’impresa.
Invece nella fondazione il fondatore può decidere di non gestirla più e di affidare l’incarico ad un
altro soggetto. In tal caso non si avrà uno scopo associativo, ma destinatorio.

Le fondazioni
Nel caso delle fondazioni rimane la caratteristica del patrimonio destinato al soddisfacimento
dello scopo ideale, ma non vi è più la caratteristica della pluralità di persone, in quanto la
fondazione è una società unipersonale. L’atto di fondazione unilaterale è posto in essere dal solo
fondatore, che staccherà dal proprio patrimonio personale i beni destinati a confluire nel
patrimonio della fondazione. Dunque, la fondazione è un insieme di beni (non di persone) destinati
ad uno scopo non lucrativo.
Le fondazioni e le società unipersonali devono essere costituite attraverso atto pubblico (o atto
notarile) o con testamento.
L’atto costitutivo non è un contratto, come invece era per le associazioni (composte da una
pluralità di soggetti). La fondazione nasce per volontà del fondatore, non c’è un contratto tra due
o più parti. Ciò non toglie che i fondatori possano essere più di uno. L'atto di fondazione è un atto
di destinazione di beni da parte del fondatore ad uno scopo determinato che il fondatore intende
perseguire.
A differenza delle associazioni caratterizzate da una pluralità di persone, la fondazione ha
l’obiettivo di perseguire l’interesse esclusivo del fondatore. L’interesse perseguito dalla fondazione
è dunque determinato dal solo fondatore e non può essere modificabile dai suoi organi, che
assumono esclusivamente funzioni amministrative. Gli amministratori dovranno gestire il
patrimonio in conformità alla volontà del fondatore.
Vi è poi la fondazione di partecipazione dove più soggetti possono accrescere il valore del
patrimonio, pur senza essere fondatori. Quindi, le fondazioni di partecipazione sono caratterizzate

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da una pluralità di soggetti, ove il fondatore è sempre unico, ma il patrimonio può essere
accresciuto anche da altri soggetti. Questi soggetti assumono un ruolo di gestione attivo
all'interno della fondazione.
La fondazione può essere soltanto riconosciuta, di conseguenza gode di una autonomia
patrimoniale perfetta, perciò il patrimonio del fondatore viene separato da quello della fondazione.
La fondazione si estingue quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile o il
patrimonio è divenuto insufficiente.

CAPITOLO 5: FATTI E ATTI GIURIDICI

Fatti giuridici e atti giuridici (atti giuridici in senso stretto e atti negoziali)
Fatti giuridici sono tutti gli accadimenti a cui la legge ricollega effetti giuridici, ovvero delle
conseguenze giuridicamente rilevanti. La nascita (di ogni individuo) determina come conseguenza
giuridica l’acquisto della capacità giuridica (articolo 1 c.c.). La nascita è un fatto giuridico, un
accadimento naturale, dal quale deriva l’acquisto della capacità giuridica. La morte è un
accadimento cui l’ordinamento ricollega delle conseguenze giuridiche, come la successione dei
beni di cui il soggetto defunto era titolare; la morte inoltre ha come conseguenza la cessazione dei
diritti della persona. La morte e la nascita sono dei fatti giuridici.
Il fatto giuridico sono gli accadimenti, dipendenti o no dalla volontà dell'uomo, cui l’ordinamento
ricollega degli effetti giuridici.
Poi ci sono dei fatti naturali irrilevanti, poiché l’ordinamento non li considera meritevoli di
importanza giuridica.

Vi è una distinzione tra fatti giuridici in senso stretto e atti giuridici, a seconda che l'accadimento
dipenda dalla volontarietà del soggetto o meno.
I fatti giuridici in senso stretto sono quelli indipendenti dalla volontà dell'uomo, come la nascita
e la morte. Poi vi sono gli atti giuridici, che, invece, sono quei fatti dipendenti dalla volontà del
soggetto, quindi quegli accadimenti che derivano da manifestazioni di volontà dell'uomo.
Perciò l’atto giuridico si caratterizza dalla volontarietà dell'accadimento. All'accadimento
volontario la legge ricollega conseguenze giuridiche purché la manifestazione di volontarietà sia
seria, cosciente (soggetto capace di agire e che quindi non si trovi in una situazione di incapacità
di intendere e volere) e consapevole (soggetto che conosce le conseguenze che derivano dalla
sua manifestazione di volontà). La manifestazione della volontà dell'uomo assume rilevanza
giuridica soltanto se seria, cosciente e consapevole.

Nell'ambito degli atti giuridici, occorre distinguere ancora tra atti giuridici in senso stretto e gli atti
negoziali (negozi giuridici). L’esempio più classico di atti negoziali è il contratto. Ciascun soggetto
è libero di auto-regolamentare i propri interessi nel modo che ritiene più opportuno, entro i limiti
previsti dalla legge.
Il soggetto può compiere atti giuridici in senso stretto, quando l'autonomia del privato si limita
alla decisione riguardante il se compiere o meno l’atto. Se decide di compiere un atto giuridico in
senso stretto il privato non incide oltre, ovvero l’autonomia privata del soggetto si manifesta
unicamente sull'ambito decisionale, non può incidere sulle modalità attraverso le quali gli effetti si
producono.
Invece, negli atti negoziali (o negozi giuridici), l’autonomia del privato non si esprime solo in
ambito decisionale, ma il soggetto può anche determinare le modalità attraverso le quali gli effetti
si producono. La norma ricollega all'atto effetti giuridici nella dimensione in cui essi sono voluti dal
privato. Quindi non si ha soltanto la volontà dell'atto, come accadeva con gli atti giuridici in senso
stretto, ma anche la volontà dell'effetto. Dunque, nel caso del negozio giuridico l’ordinamento
accorda al privato la facoltà di determinare volontariamente le regole di svolgimento del rapporto.
Ne è un esempio il contratto di compravendita, dove il soggetto è libero di decidere e di fissare le

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modalità. Ad esempio il privato può stabilire di vendere il motorino senza alcuna garanzia di
funzionamento, è libero di fissare le modalità del contratto, il soggetto può disciplinare gli effetti
che la legge ricollega a questo determinato atto (negoziale). Vi è un vero e proprio auto-
regolamento del privato, ovviamente nel caso del contratto bilaterale o plurilaterale vi deve essere
l'approvazione dell'altra parte. Perciò il negozio giuridico si pone come auto-regolamento, cosa
che non è possibile nell'atto giuridico in senso stretto. Con 'autonomia privata’ si intende la
libertà del soggetto di autodeterminare i propri interessi per il soddisfacimento dei propri bisogni.
Il negozio giuridico (atto negoziale) non è disciplinato dall'ordinamento, ma comunque devono
essere rispettate le regole generali del contratto. L'articolo 1321 tratta il contratto e le regole
generali che ne derivano e che devono essere applicate a tutti i contratti. L’articolo 1324 estende
le regole del contratto anche agli atti unilaterali, ovvero quegli atti che si perfezionano attraverso la
manifestazione di volontà di un solo soggetto. Per effetto degli articoli 1321 e 1324, le norme del
contratto sono norme applicabili a qualunque atto giuridico, anche a struttura unilaterale, tra vivi,
purché quest'atto abbia la sostanza del contratto, ovvero di essere auto-regolamentato, cioè che
sia espressione della volontà del privato (articolo 1322: autonomia contrattuale). L’autonomia
privata è il potere di auto-regolamentare i propri interessi.
Vi è poi l’articolo 1372 che tratta l’efficacia del contratto ed enuncia che il contratto ha forza di
legge tra le parti e che non può essere sciolto, a meno che di mutuo consenso o per cause
ammesse dalla legge.

Validità ed efficacia degli atti giuridici


L’atto giuridico si definisce valido se formatosi in conformità alle norme che regolano l’autonomia
privata. Soltanto un atto valido può produrre effetti giuridici, soltanto un atto valido può modificare
la sfera giuridico-patrimoniale dei soggetti interessati. Dunque, l’atto di diritto privato può
produrre effetti giuridici soltanto in quanto validamente compiuto, ovvero soltanto se posto in
essere in conformità della legge.
Il contratto di compravendita immobiliare deve essere stipulato attraverso una forma scritta, se
l’accordo è orale quel contratto, secondo l’ordinamento, non esiste, non produce effetti giuridici.
L’efficacia di un atto giuridico indica l'incidenza dell’atto valido sulla realtà giuridica. L’atto è
efficace quando, in ragione della sua validità, produce effetti giuridici.
I giudizi di validità e di efficacia sono distinti. Di norma l’atto è efficace se è valido, ma questa non
è una regola generale, tant’è che vi possono essere casi in cui un atto invalido produca effetti
giuridici, come accade nel caso degli atti annullabili. Oppure vi può essere l’atto valido che non
produce effetti giuridici, in questo caso si parla di atto nullo.

La manifestazione di volontà
La volontà può essere manifestata in qualunque forma, purché venga percepita dal destinatario.
La volontà può essere manifestata attraverso una dichiarazione, ossia attraverso un segno, orale
o scritto che sia.
La volontà inoltre può essere rappresentata all'esterno anche attraverso comportamenti, ossia
modalità di esternazione che non si avvalgono né della parola né dello scritto. Si parla in tal caso
di manifestazione tacita, ovvero una manifestazione di volontà che non avviene per mezzo della
dichiarazione. Ad esempio quando al supermercato prendo la confezione di biscotti e la porto alla
cassa, in questo caso ho compiuto un atto di compravendita senza dire alcuna parola e senza
scrivere nulla, si chiama manifestazione di volontà tacita, attraverso comportamenti. Oppure si
dice che la volontà si manifesta attraverso atti concludenti. Un altro esempio è quando
acquistiamo ai distributori automatici.
La manifestazione di volontà deve sempre essere espressa in maniera seria, cosciente e
consapevole. Non devono chiaramente essere prese in considerazione le manifestazioni di
volontà a titolo esemplificativo o scherzoso.

Il procedimento di formazione della volontà


La volontà si forma all'interno del soggetto seguendo un percorso psicologico che parte dalla
constatazione di un bisogno e l’individuazione del bene idoneo a soddisfare quel determinato
bisogno. Il motivo dell'azione è il movente, ovvero ciò che muove la volontà verso il fine della
soddisfazione del bisogno.
La capacità di agire e la capacità di intendere e volere costituiscono il presupposto di una
manifestazione di volontà valida. Tuttavia, non è sufficiente, in quanto la manifestazione di volontà
deve avvenire in assenza di elementi perturbatori, che prendono il nome di vizi della volontà.
L’articolo 1425 e seguenti sanciscono l’invalidità dell'atto negoziale (annullabilità) nel caso in cui

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il procedimento psicologico di formazione della volontà sia stato alterato da errore, violenza o
dolo.
L'invalidità del contratto (sia nullità che annullabilità) viene trattata meglio nel capitolo 15, pagina
39.
I vizi del volere vengono disciplinati dagli articoli 1427 e seguenti. Tutti i vizi che possono
perturbare, condizionare la volontà manifestata all'esterno. Quando la manifestazione di volontà si
è manifestata in presenza di un elemento perturbatore è possibile annullare il contratto, qualora il
soggetto dimostri l'elemento perturbatore.
Gli elementi perturbatori sono l'errore, la violenza (morale o fisica) e il dolo.
L’errore è una falsa rappresentazione della realtà che induce il soggetto a volere qualcosa che
non avrebbe voluto se non fosse caduto in errore. Però vi sono dei paletti, perché se no sarebbe
troppo facile per il soggetto pentito chiedere l'annullamento. Per consentire all'errante di chiedere
l’annullamento, l’errore deve essere rilevante. L’articolo 1428 stabilisce che l’errore è causa
dell'annullamento, quindi stabilisce che l’errore è rilevante se è essenziale e riconoscibile dall’altra
parte. Quindi, ad esempio per far sì che il contratto venga annullato non è sufficiente il pentimento
del soggetto, perché non è una causa di errore rilevante, non basta pentirsi.
L’errore si dice essenziale quando senza quell’errore il soggetto non avrebbe stipulato il contratto
(inoltre, è essenziale quando l’errore è di diritto o di fatto). Si parla di errore di diritto quando non
si tratta di un errore legato al fatto che il soggetto fosse a conoscenza dell'esistenza di una norma
o meno, ma sulle condizioni di applicabilità della norma stessa. Quindi, l'errore può essere di
diritto quando cade sul significato giuridico di una determinata norma e quando tale errore è
determinante nel consenso.
L’articolo 1431 stabilisce che l’errore è riconoscibile quando l’altro contraente avrebbe potuto
riconoscere l’errore, ma si è dimostrato in mala fede. Se invece l’errore non poteva essere
riconosciuto dall'altro contraente, il contratto non può essere annullato.
L’errore di calcolo o materiale, invece, non dà luogo all’annullamento del contratto. L’errore
materiale è quando il contenuto dell'atto non corrisponde alla reale volontà del soggetto per
erronea formulazione o redazione dell'atto, in tal caso non è possibile l’annullamento, perché
l’errore è del soggetto, non è né essenziale, né riconoscibile.
(L’articolo 1433 tratta l’errore ostativo, ovvero quando l’errore viene commesso sulla dichiarazione
che è stata redatta inesattamente da un terzo incaricato. In tal caso è possibile l'annullamento
dell'atto negoziale.)
La violenza è un'altra alterazione del processo psicologico di formazione della volontà, che porta
dunque all’annullabilità del contratto. Essa può essere fisica o morale.
La violenza fisica si ha quando una parte obbliga, intima l’altra parte a firmare il contratto, con
minacce fisiche, che ledono l’integrità fisica del soggetto. L’assenza di volontà rende nullo il
contratto, come previsto dall'articolo 1418 che sanziona con la nullità il contratto mancante di uno
dei suoi requisiti essenziali (la volontà/l’accordo tra le parti).
La violenza morale è la minaccia di un male ingiusto e notevole, operata dalla controparte o da un
terzo estraneo al contratto sul contraente. Non valgono le minacce volte a far valere un diritto, ad
esempio "se non mi paghi ti faccio fallire", questa non è considerata violenza morale, in quanto se
non paga la fattura, vi sono i presupposti per far sì che la controparte fallisca effettivamente.
L’ultimo caso in cui l’atto può essere annullato è il dolo, definito dall'articolo 1439, si ha quando
una delle parti usa sotterfugi, bugie per far concludere il contratto.
Il dolo può essere determinante e si intende quando il soggetto non avrebbe stipulato il contratto
se non fosse stato per le bugie e i sotterfugi dell'altra parte. Senza le bugie la parte non avrebbe
stipulato il contratto.
Il dolo poi può essere incidente, quando l’attività dolosa ha inciso sul volere altrui, ma il soggetto
avrebbe comunque firmato il contratto, seppur a condizioni più favorevoli. Quindi, senza le bugie
la parte avrebbe firmato il contratto comunque, ma a condizioni più favorevoli.

I casi di assenza di volontà: la simulazione


La simulazione viene trattata dall'articolo 1414 e seguenti, nello specifico l’articolo 1414 tratta gli
effetti della simulazione tra le parti. La simulazione si ha quando le parti pongono in essere un
contratto non volendo costituire, modificare o estinguere alcun rapporto giuridico tra loro.
L’atto manifestato all'esterno, che prende il nome di atto simulato, viene accompagnato da un
accordo segreto, che prende il nome di accordo simulatorio. Dunque, l’inefficacia dell'atto
simulato viene accompagnata dall'efficacia dell'atto dissimulato, ovvero quello nascosto.

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La simulazione è un procedimento che ricorre quando le parti non vogliono in realtà che il
contratto produca effetti oppure quando le parti vogliono che produca effetti diversi (atto
dissimulato) da quelli previsti dal contratto (atto simulato).
Nel primo caso si parla di simulazione assoluta o di negozio simulato. Il contratto che viene
concluso è un contratto vero, ma al contratto simulato si accompagna l’accordo simulatorio nel
quale si conviene che l’accordo stipulato non è in grado di produrre alcun effetto. Si può fare ciò
perché il contratto è completamente auto-regolato tra le parti.
Invece, si parla di contratto dissimulato quando i soggetti decidono di stipulare un contratto (atto
simulato), ma vi è poi un accordo segreto tra le parti, l’accordo simulatorio, che ha l’intento di
individuare gli effetti reali del contratto, che sono diversi da quelli presenti nel contratto simulato.
Ad esempio nel caso in cui io abbia intenzione di effettuare una donazione, tuttavia non voglio che
si veda che ho donato, quindi stipulo un contratto di vendita.
La stipulazione di un atto simulato rende i contraenti responsabili verso i terzi.
L’articolo 1415 tratta gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi e fissa la regola
generale per cui i terzi possano far valere la simulazione nei confronti delle parti, qualora
pregiudichi i loro diritti. Dunque, la simulazione non può essere fatta per recare danni a terzi. In
altri termini, il terzo che vede pregiudicati i propri diritti potrà far valere la simulazione nei confronti
delle parti quando proprio l’atto simulato crea il pregiudizio. Ad esempio una parte può stipulare
un contratto simulato con un altro soggetto per convincere il terzo a fare un'offerta migliore
rispetto a quella presente nel contratto simulato. Quindi la parte approfitta del contratto simulato
per recare danno a un terzo e ciò non può essere fatto. Perciò, il terzo leso può sempre far valere
la simulazione nei confronti delle parti, qualora essa gli abbia recato dei danni.
Inoltre, l’articolo 1415 dispone che la simulazione non può essere opposta dalle parti contraenti ai
terzi che, in buona fede, hanno acquistato diritti dal titolare apparente. Il soggetto terzo, agendo in
buona fede, e quindi ignorando l’accordo simulatorio ha acquistato i diritti da chi ne appare
essere il titolare sulla base dell'atto simulato. In questi casi, quindi, il terzo leso può sempre far
valere la simulazione nei confronti delle parti.
L’articolo 1414 tratta la simulazione tra le parti, invece l’articolo 1415 e seguenti trattano gli effetti
sui terzi.
L’articolo 1416 disciplina nello specifico gli effetti della simulazione nei confronti dei creditori. La
simulazione non può essere opposta dalle parti contraenti ai creditori che in buona fede hanno
compiuto azioni sui beni che erano oggetto del contratto simulato. I creditori del simulato
alienante (il venditore simulato), ovvero coloro che hanno un credito nei confronti del simulato
alienante, possono far valere la simulazione che pregiudica i loro diritti. Quindi, il legislatore tutela i
creditori che hanno compiuto atti di esecuzione sui beni oggetto del negozio simulato, in quanto
con esso questi hanno vincolato tali beni alla garanzia del credito. (Perciò se il creditore, in buona
fede, ha già iniziato a vendere i beni oggetti del contratto simulato, le parti non potranno far valere
la simulazione). Ancora una volta è la buona fede, in questo caso del creditore, ma in generale dei
terzi, a prevalere.
L’articolo 1417 si occupa della prova. L’articolo enuncia che la prova per testimoni della
simulazione è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi; invece se
la domanda è proposta dalle parti contraenti, la prova per testimoni è ammissibile qualora sia
diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato, ovvero quello segreto tra le parti. La
possibilità di provare in giudizio la simulazione attraverso i testimoni, articolo 1417, difatti,
legittima il giudice all'utilizzo della presunzione.

Atto e documento
Ogni manifestazione di volontà che sia posta in essere per mezzo di una dichiarazione scritta è
incarnata in un documento. I concetti di atto giuridico e documenti sono distinti. L’atto giuridico è
la manifestazione della volontà, dunque non sempre è necessaria la forma scritta. Invece, il
documento è un supporto materiale o informatico dove viene descritta la volontà delle parti. A
volte il documento è un requisito di validità, nello specifico nei casi in cui la forma scritta è
obbligatoria (vendita di immobili). Tuttavia, nei casi in cui la forma scritta non è obbligatoria, il
documento non è un requisito di validità, ma è solamente un mezzo di prova della volontà delle
parti, ma non incide sul valido perfezionamento dell'atto. Anche se non vi è il documento, in
questi casi si può provare l’esistenza della volontà delle parti attraverso altri strumenti, il
documento non è necessario, ma se esiste è un mezzo di prova.

La prova dei fatti giuridici

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Articoli 2697 e seguenti trattano il principio generale della prova. Chi vuol far valere in giudizio un
diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; chi eccepisce (nega) l'inefficacia di
tali effetti, ovvero chi ritiene che quel diritto non esista, deve provare i fatti sui cui l'eccezione si
fonda, quindi deve anch'esso dimostrare attraverso delle prove che effettivamente quel diritto non
esiste, in quanto estinto o modificato. Se io dico di essere titolare di un credito devo provare
l’esistenza del contratto di compravendita dinanzi al giudice. Chi dice che quel soggetto non è
titolare del credito deve anch'esso dimostrarlo con delle prove.
L’articolo 2698 per salvaguardare il diritto di ciascun privato, stabilisce che sono nulli i patti con i
quali è modificato l'onere della prova (((, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono
disporre o quando la motivazione ha per effetto di rendere ad una delle parti eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto.))
La prova può essere documentale, testimoniale o per presunzioni.
Prove documentali: l’atto pubblico e la scrittura privata.
Un esempio di prova documentale è l’atto pubblico, che viene trattato dall'articolo 2699. L’atto
pubblico non è redatto dalle parti, ma dal notaio o da altro pubblico ufficiale. Il notaio cura la
compilazione dell'atto, riportando fedelmente la volontà manifestata dalle parti in sua presenza.
L’atto pubblico rappresenta la piena prova delle dichiarazioni delle parti e dei fatti che il pubblico
ufficiale attesta avvenuti, fino a querela (denuncia) di falso.
Un'altra prova documentale è la scrittura privata, la quale proviene integralmente dalle parti e non
vede quindi la partecipazione di un notaio nella sua redazione. L’assenza del notaio determina una
minore efficacia probatoria. La scrittura privata viene trattata dall'articolo 2702, che enuncia che la
scrittura privata, così come l’atto pubblico, fa piena prova, fino a querela di falso. A differenza
dell'atto pubblico, però, la forza probatoria della scrittura privata è subordinata al fatto che il
soggetto contro il quale è prodotta in giudizio la riconosca come autentica. Mentre l’autenticità
dell'atto pubblico può essere negata soltanto nel caso di querela di falso, per la scrittura privata è
sufficiente che il soggetto contro il quale è prodotta non la riconosca come autentica. Tuttavia, per
la scrittura privata non è necessaria l’autenticazione del soggetto contro il quale è prodotta
qualora venga autenticata dal notaio, come previsto dall'articolo 2703 (scrittura privata
autenticata).
La scrittura privata è dunque un’attività documentativa posta in essere dalle stesse parti e non dal
notaio.
Mentre la data di sottoscrizione dell'atto è certa, nel caso della scrittura privata la data si può
conseguire attraverso il pagamento di un'imposta, che conferisce la data certa.

Vi è poi la prova testimoniale che è ammessa quando non è possibile fornire la prova
documentale del fatto. Quindi, la prova testimoniale è ammessa qualora il soggetto sia
impossibilitato a procurarsi la prova scritta o quando il soggetto ha senza sua colpa perduto il
documento scritto che gli forniva la prova. In assenza di una prova scritta, è possibile chiamare
dei soggetti esterni, i testimoni, a testimoniare sul fatto che si intende provare.
Quando è ammessa la prova per testimoni si può provare il fatto anche per presunzioni.
Le presunzioni possono essere legali o semplici, a seconda che ammettano o no la prova
contraria. Le presunzioni legali ammettono la prova contraria, ad esempio io presumo che il
diciottenne sia maturo e in grado di intendere e di volere, tuttavia è ammessa la prova contraria,
ovvero che un altro soggetto ritenga che il diciottenne non sia nelle condizioni psico-fisiche per
intendere e volere. Nella presunzione semplice invece non è ammessa la prova contraria.

Vi sono poi le confessioni che possono essere rese in giudizio o contenute in una dichiarazione
fuori dal giudizio, e il giuramento, utilizzato poco in giudizio.

CAPITOLO 6: IL CONTRATTO E GLI ATTI UNILATERALI

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Il contratto
Tra gli atti giuridici negoziali come sappiamo assume rilevanza centrale il contratto, definito
dall'articolo 1321 c.c., come "l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra
loro un rapporto giuridico patrimoniale". Il contratto è la massima espressione dell'autonomia
privata, intesa come libertà individuale di autodeterminazione, che quando diventa "autonomia
contrattuale", si esprime sul "se contrarre" e sul "a che condizioni contrarre". Quindi, il privato è
libero di decidere se e quando contrarre, con chi contrarre, il tipo di contratto da utilizzare per la
soddisfazione dei propri interessi, le modalità della contrattazione e di determinare il contenuto
del contratto.
Dunque, quando l’autonomia privata, intesa come potere autoregolamentare, viene manifestata
attraverso il contratto prende il nome di autonomia contrattuale, che è sinonimo di libertà di
autodeterminazione. Il privato è libero di non contrarre (nessuno può essere costretto a
concludere un contratto, ad eccezioni di alcuni casi particolari), è libero di scegliere il tipo di
contratto, le condizioni del contratto.
Il contratto è il principe dei negozi giuridici, è l’atto mediante il quale l’autonomia privata si
esprime al massimo grado. Il contratto è l’atto negoziale che conferisce dei diritti e degli obblighi,
quel fatto che mette in moto il riconoscimento legislativo e che dà vita al rapporto giuridico. Il
contratto fissa le regole di svolgimento del rapporto giuridico.

Contratto di scambio
I contratti di scambio vengono definiti contratti a prestazioni corrispettive o sinallagmatici.
Le parti sopportano sacrifici reciproci, incidenti negativamente sul proprio patrimonio, al fine di
conseguire reciproci vantaggi patrimoniali come corrispettivo. La reciprocità dello scambio fa sì
che ciascuna parte sia creditrice e debitrice allo stesso tempo. Il contratto si svolge regolarmente
se entrambe le promesse, entrambi gli impegni vengono rispettati.
Non tutti i contratti sono di scambio, ad esempio i contratti di costituzione delle associazioni non
nascono con un contratto di scambio, ma attraverso un contratto associativo. Lo scopo di ogni
contratto è l’interesse economico, la modalità attraverso la quale si realizza tale scopo è un'altra
questione. Lo scopo si può realizzare attraverso un contratto di scambio, attraverso un contratto
associativo, eccetera. Ciò che spinge le parti a stipulare il contratto è l’interesse economico, non
la tipologia del contratto.

Il contratto associativo
(Rivedi pagina 12)
Il contratto può essere utilizzato per organizzare lo svolgimento di un’attività comune a più parti,
sia per il perseguimento di un fine ideale (associazione, comitato), sia per il perseguimento di un
fine lucrativo (società commerciali). Il contratto associativo ha la caratteristica della comunione
di scopo, ossia quando gli interessi dei contraenti non sono in contrapposizione tra loro ma sono
paralleli, i contraenti hanno dunque la finalità di conseguire il medesimo scopo. Il negozio, nel
caso del contratto associativo, non è soltanto volto all’autoregolamentazione degli interessi tra i
contraenti, ma è volto anche a porre un nuovo soggetto di diritto (che sia o meno dotato della
personalità giuridica, ma sicuramente della capacità giuridica). Mentre nel contratto di scambio si
assiste al reciproco impegno, in quello associativo si assiste al conferimento di beni per la
costituzione di un fondo comune.
il contratto associativo può essere stipulato tra due o più persone, che hanno uno scopo comune
e che conferiscono i propri beni in un fondo di comune utilità impiegabile nell'esercizio
dell’attività.

Contratto unilaterale
Il contratto unilaterale è volto a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico
patrimoniale diretto a procurare all'altro soggetto un vantaggio, in termini di incremento
patrimoniale, senza chiedere una contro-prestazione in cambio.
Questi contratti hanno sempre una struttura bilaterale, perché vi è sempre un accordo tra le parti,
ma una sola parte si obbliga nei confronti dell'altra, ecco perché prende il nome di contratto
unilaterale. Il contratto unilaterale è il contratto da cui derivano obbligazioni a carico di una sola
parte e che, pertanto, grava soltanto sul patrimonio di quella, incrementando invece quello della
parte beneficiaria. Quindi i contratti unilaterali hanno una struttura bilaterale, ma soltanto una
parte si obbliga ad eseguire la prestazione nei confronti dell'altra. Mentre nei contratti a
prestazioni corrispettive gli obblighi gravano su entrambe le parti, nei contratti unilaterali gli
obblighi gravano solo su una parte.

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L’atto unilaterale è diverso dalla fondazione, in quanto nella fondazione non vi è nessuna parte
che si obbliga verso l’altra, ma vi è la manifestazione di volontà da parte di un unico soggetto di
voler costituire la fondazione al fine di perseguire il suo interesse (ideale).
Ad esempio quando un imprenditore si obbliga a fornire ad una squadra di calcio gratuitamente
l'abbigliamento, per finalità di sponsorizzazione e di pubblicità. La parte che si obbliga non riceve
una prestazione in cambio, ma ha comunque una finalità commerciale, ad esempio quella della
pubblicità o della sponsorizzazione.
La parte che riceve il beneficio può ovviamente rifiutarsi di riceverlo. Il rifiuto può essere:
eliminativo, quando il destinatario riceve un beneficio netto, ovvero riceve un beneficio senza
sopportare nessun onere; impeditivo, quando il destinatario riceve pur sempre un beneficio, ma
accompagnato da aspetti di onerosità.

Onerosità e gratuità dell'atto unilaterale


Mentre la corrispettività indica la relazione di interdipendenza in cui si trovano i reciproci impegni
assunti dalle parti (una parte esegue la prestazione se l’altra parte la esegue e viceversa),
l'onerosità invece indica una caratteristica dell'atto unilaterale, consistente nel fatto che chi riceve
il beneficio sopporti un sacrificio, sebbene questo non abbia alcuna relazione corrispettiva con il
beneficio ricevuto. Quindi nel caso del contratto corrispettivo vi è la volontà di entrambe le parti di
eseguire la prestazione, invece nel caso dell'atto unilaterale si parla di gratuità se il beneficiario
non è tenuto a tenere alcun sacrifico per ricevere il beneficio, d’altro canto si parla di onerosità se
il destinatario per ricevere il beneficio deve sopportare dei sacrifici. Si parla comunque di atto
unilaterale anche se a titolo oneroso e non di prestazione corrispettiva, perché i sacrifici non
vengono chiesti al destinatario in cambio del beneficio, ma sono funzionali alla sua
conservazione. Il sacrificio quindi deve consistere in un comportamento libero, che il beneficiario
deve tenere al solo scopo di soddisfare il proprio interesse e non, dunque, per ricevere in cambio
il beneficio (non è una prestazione corrispettiva, ma libera).

Il contratto di donazione e lo spirito di liberalità


Ugualmente estraneo all'area dello scambio e della corrispettività è il contratto di donazione,
ovvero il contratto in cui una parte ha l’interesse di donare e quindi di arricchire il destinatario, per
puro spirito di liberalità, ossia al solo fine di beneficiarlo.
Il contratto di donazione è perciò fuori dall'operazione di scambio, è fuori dal mondo
commerciale. È una specie di contratto unilaterale, ma fuori dall'ambito commerciale, l’intento
della parte è quello di fare del bene senza ricevere nulla in cambio, fuori da ogni logica
contrattuale e commerciale. Invece, nel contratto unilaterale c’è un fine commerciale, ad esempio
la sponsorizzazione, come abbiamo visto nell'esempio della squadra di calcio.
Il contratto di donazione è escluso a chi non abbia la piena capacità di agire. Il minore o
l’Interdetto non possono effettuare donazioni.
L’articolo 769 definisce la donazione come il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte
arricchisce l’altra.
Inoltre, il contratto di donazione deve assumere la forma dell'atto pubblico redatto in presenza di
due testimoni, dove il donante manifesta dinanzi ad un notaio e ai testimoni la volontà di donare.

Il contratto e l’accordo
Il contratto, come sappiamo, è l’accordo con il quale una o più parti costituiscono, modificano,
estinguono un rapporto giuridico di natura patrimoniale. Il contratto deve essere un accordo
perché generalmente incide sulla sfera giuridica-patrimoniale di due o più soggetti. Il principio di
intangibilità della sfera giuridica patrimoniale prevede che nessuno possa modificare, sia nel bene
che nel male, quindi sia incrementare che diminuire, il nostro patrimonio senza il nostro consenso,
quindi senza un contratto.
L’evoluzione della dottrina più moderna hanno ridimensionato l'importanza dell'accordo, tant’è
non sempre quando si parla di contratto si parla anche di accordo. In questa moderna prospettiva
l’accordo sarebbe necessario soltanto nel caso di contratti di scambio (o comunque contratti
dove vi è l'obbligo e l’impegno da entrambe le parti), anche detti sinallagmatici, mentre l’accordo
risulta inutile nei contratti unilaterali (a struttura bilaterale, ma solo una parte si obbliga verso
l’altra). Nel caso del contratto unilaterale, per proteggere l’integrità della sfera giuridica
patrimoniale del soggetto avvantaggiato, ovvero del soggetto beneficiario della prestazione, è
sufficiente riconoscere a lui soltanto la facoltà di rifiuto. In altre parole, l’atto unilaterale che
provoca dei vantaggi sul patrimonio del soggetto beneficiario, può perfezionarsi attraverso la sola

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manifestazione di volontà della persona che si obbliga, pur in assenza di accordo, salvo che il
soggetto beneficiario rifiuti il beneficio.
L’articolo 1333 disciplina la formazione dei contratti dai quali derivano obbligazioni a carico di chi
soltanto fa la proposta. Perciò, se il beneficiario non rifiuta entro un certo limite di tempo, il
contratto si considera concluso, in quanto porta ad esso un beneficio, anche se esso non ha dato
un consenso esplicito. Quindi per il soggetto che si obbliga verso l’altra parte è sempre
necessaria la manifestazione di volontà, invece per la parte ricevente il beneficio non è necessaria
la manifestazione della volontà, ma è sufficiente che esso non rifiuti il beneficio entro un
determinato periodo di tempo. Il rifiuto deve essere esplicito, mentre il consenso implicito, tacito.

I contratti tipici o nominati sono disciplinati a partire dagli articoli 1470, i quali predeterminano il
contenuto e gli effetti del contratto, come accade per il contratto di compravendita, di appalto, di
mutuo. Ciò si fa per rendere più facile la stipulazione.
L’articolo 1322 comma 1 prevede che il privato, nel caso dei contratti tipici, possa comunque
determinare liberamente il contenuto del contratto stesso.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 1322 secondo comma, il privato può confezionare dei modelli
contrattuali nuovi, dei contratti atipici (diversi da quelli tipici prevista dal codice civile), ovvero può
creare dei contratti nuovi che il codice non prevede, purché i contratti siano leciti, quindi che non
siano contrari alla legge, e purché tendano a soddisfare interessi delle parti meritevoli di
protezione giuridica. Il problema degli interessi meritevoli di protezione giuridica non sorge per
quanto riguarda i contratti tipici, perché è sottinteso che trattino interessi meritevoli di protezione
giuridica. Invece, quando il contratto è atipico, la liceità e il controllo sull’interesse meritevole di
protezione giuridica viene effettuato (dal giudice solo qualora vi sia un contenzioso tra le parti del
contratto.)

CAPITOLO 7: L'ACCORDO E LA SUA FORMAZIONE

La formazione dell'accordo
Il contratto quando è a struttura bilaterale (quindi anche contratto unilaterale) si forma per mezzo
dell'accordo, ossia del consenso delle parti su un comune regolamento di interessi. Nei contratti
di scambio il punto di partenza di ciascuna parte è in conflittualità con l'altra. Chi acquista vuole
pagare il meno possibile, chi vende vuole guadagnare il più possibile. In seguito al confronto e alla
trattativa le parti riescono ad arrivare ad un punto di incontro.
La condivisione degli interessi comuni e la discussione delle clausole del contratto può avvenire
tra soggetti che si trovano nello stesso luogo nello stesso momento o tra soggetti distanti nello
spazio. Nel primo caso la prova della formazione dell'accordo è data dalla comune sottoscrizione
del documento che dà forma al negozio. Nel secondo caso, la distanza tra le parti rende la
formazione dell'accordo più articolata. Il procedimento di formazione si svolge a diversi livelli di
complessità, dove gli atti di proposta ed accettazione vengono scambiati attraverso dichiarazioni
orali o scritte.

Le trattative precontrattuali
La formazione dell'accordo è normalmente preceduta da una fase di confronto tra le parti, da una
fase di contrattazione, durante la quale le parti si scambiano notizie e informazioni sul contenuto
del contratto al fine di raggiungere un regolamento di interessi comuni e così che le volontà
differenti possano congiungersi attraverso un accordo.

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Questa fase del procedimento di formazione del contratto prende il nome di trattativa
precontrattuale. La trattativa consente a ciascun trattante di esercitare influenza sul contenuto
del contratto.

Lo svolgimento della trattativa e il comportamento dei trattanti


La trattativa è fisiologica alla formazione dell'accordo e ha inizio dal momento in cui avviene la
comunicazione di interesse a trattare, ossia a intraprendere il confronto e lo scambio di
informazioni sull'affare che si vorrebbe concludere. Tuttavia, la trattativa non assume alcun effetto
vincolante per le parti. La regola generale è che chi dà inizio o comunque partecipa a una
trattativa non assume l’obbligo di portarla a compimento. L’unico obbligo che assumono le parti è
quello di comportarsi secondo buona fede, come previsto dagli articolo 1337 e 1338. L’articolo
1337 enuncia, come detto precedentemente, che le parti devono comportarsi secondo buona
fede. Una parte non può continuare a trattare se fin dall'inizio non ha mai avuto intenzione di
perfezionare il contratto, in questo caso la parte si è comportata in mala fede e deve risarcire la
controparte del danno causatogli.
Inoltre, l’articolo 1338 prevede che la parte che è a conoscenza dell'esistenza di una causa
d’invalidità del contratto, è tenuta a risarcire il danno se non ne ha dato notizia all'altra parte.
Nel caso in cui una delle due parti non si comporti secondo buona fede, i danni che vengono
risarciti sono il tempo perso e le spese sostenute dall'altra parte per la stipulazione del contratto,
nonché la perdita di altre occasioni di stipulazione contrattuale. Per poter decidere l'ammontare
dei danni per il tempo perso è importante individuare il momento a partire dal quale la trattativa ha
avuto inizio. Nella prassi delle contrattazioni è d'uso formalizzare la trattativa attraverso una lettera
di intenti. Si tratta di una manifestazione di volontà non impegnativa con cui si attesta la
disponibilità delle parti ad intraprendere la trattativa.
Spesso, prima di definire il testo finale dell'accordo, ovvero prima di concludere il contratto, si
attua una puntuazione, ovvero si dà vita ad un consenso, sebbene non ancora definitivo e
dunque non ancora vincolante. La puntuazione può avvenire su alcune specifiche clausole,
puntuazione di clausole, o sull'intero contenuto del contratto (al quale non si vuole ancora
assegnare efficacia vincolante), puntuazione completa di contratto. La puntuazione viene utilizzata
anche sotto il profilo probatorio, per consolidare lo stato di avanzamento della trattativa.

Proposta e accettazione
Giunta a maturazione la trattativa, l’accordo, ai sensi dell’articolo 1326, è concluso nel momento
in cui chi ha fatto la proposta è venuto a conoscenza dell’accettazione dell'altra parte. Proposta
e accettazione assumono dunque rilevanza determinante per la conclusione del contratto, di cui
costituiscono rispettivamente il primo e l’ultimo atto. Proposta e accettazione, in quanto dirette
alla conclusione del contratto, si considerano conosciute quando giungono al domicilio del
destinatario. La proposta e l’accettazione si dicono, dunque, recettizie, in quanto la produzione
degli effetti si verifica nel momento in cui vengono portate a conoscenza dell'altra parte, nel
momento in cui giungono al domicilio del destinatario. Il contratto, come detto prima, è concluso
nel momento in cui chi ha fatto la proposta è venuto a conoscenza dell'accettazione dell'altra
parte, fino ad allora la proposta e l’accettazione possono essere revocate. Perciò, fino a quando
la proposta non giunge al destinatario può sempre essere revocata, così come l’accettazione.

Caratteri e requisiti della proposta e dell’accettazione


La proposta, in quanto atto introduttivo per il perfezionamento dell'accordo, deve avere carattere
di completezza. Deve perciò contenere tutte quelle clausole che dal proponente ("mittente") siano
reputate essenziali per la conclusione del contratto. La proposta deve inoltre avere le
caratteristiche di intenzionalità e determinatezza del destinatario. Intenzionalità e determinatezza
del destinatario sono caratteri essenziali comuni anche all'accettazione. L’accettazione deve
avere inoltre il carattere della conformità alla proposta e della tempestività.
La proposta e l’accettazione non partecipano direttamente alla formazione del negozio giuridico,
ma sono essenziali per il suo concretarsi.

La proposta irrevocabile
La proposta può essere irrevocabile per legge o per volontà del proponente.
Secondo quanto previsto dall'articolo 1330 la proposta o l’accettazione, quando è fatta
dall’imprenditore nell'esercizio della sua impresa, non perde efficacia se l’imprenditore muore o
diviene incapace prima della conclusione del contratto. Si ha in questo caso l’irrevocabilità per

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legge, dunque in caso di morte dell’imprenditore che prima aveva effettuato una proposta, tale
proposta diventa irrevocabile, non può più essere revocata.
Invece, ai sensi dell'articolo 1329, è la stessa volontà del proponente (mittente, colui che propone)
a rendere irrevocabile la proposta. Anche in questo caso la morte o l’incapacità del proponente
non tolgono l’efficacia alla proposta. In questo caso si ha la proposta irrevocabile per volontà del
proponente.
Dunque, l'irrevocabilità, legale o volontaria, rende la proposta impegnativa, in quanto non può più
essere revocata dal proponente. Sarà poi il destinatario a decidere se accettarla o meno. Quindi,
nel caso dell'irrevocabilità, il potere di determinare il perfezionamento dell'accordo è solamente
nelle mani del destinatario, poiché il proponente non può più "tornare indietro".

Il contratto per adesione


Il contratto per adesione viene trattato dagli articoli 1341 e 1342. Secondo l’articolo 1341 le
condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti
dell'altro se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto
conoscerle usando l'ordinaria diligenza. Per condizioni generali di contratto si intendono quelle
unilateralmente predisposte da uno dei contraenti. Per questo motivo, il secondo comma
dell'articolo 1341 enuncia che le condizioni generali di contratto non hanno effetto se non sono
state specificatamente approvate per iscritto. Questa norma viene estesa, secondo l’articolo
1342, anche ai contratti conclusi mediante moduli o formulari, poiché anch’essi vengono stipulati
per adesione in quanto interamente predisposti da una parte. Nel caso dei moduli e dei formulari
le clausole che vengono aggiunte prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano
incompatibili con esse.

Il patto di opzione
Assai vicino alla proposta irrevocabile è il patto di opzione. Il patto di opzione è un contratto a
struttura bilaterale (è un patto appunto tra due parti), collocato nella categoria dei contratti
preparatori. L’articolo 1331 tratta il patto di opzione ed enuncia che quando le parti convengono
che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l'altra abbia facoltà di accettarla o
meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile.
In pratica per mezzo del patto d'opzione le parti (concedente/opzionante ed opzionario) si
accordano affinché il concedente/proponente rimanga vincolato alla propria dichiarazione, mentre
l'opzionario si riserva un lasso di tempo nel quale decidere se esercitare il proprio diritto d'opzione
e concludere così il contratto. Quindi, il fattore che distingue l'opzione dalla proposta irrevocabile
è la bilateralità, nel senso che sono le parti ad accordarsi affinché la proposta sia irrevocabile,
invece nell'altro caso l’irrevocabilità era prevista dalla legge o volontaria e dunque voluta dal solo
concedente/opzionante.

La formazione del contratto in assenza del dialogo


L’articolo 1333 enuncia che la proposta da cui derivano obbligazioni solo per il proponente è
irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario. Il destinatario ha poi la facoltà di
rifiutare la proposta, ma in mancanza del rifiuto, il contratto si riterrà concluso automaticamente.
Quindi il perfezionamento del contratto avviene secondo una modalità diversa da quella della
sequenza dialogica articolata nello scambio di proposta e accettazione, in quanto il silenzio del
destinatario, perfeziona tacitamente il contratto (senza averlo accettato esplicitamente, è
sufficiente che non lo rifiuti, perché dall'accettazione derivano obbligazioni solo per il proponente).
Inoltre, sono in totale assenza di dialogo anche i contratti che si concludono mediante
comportamenti fattuali e operazioni meccaniche, che non mettono in contatto le parti contraenti.
Ne sono esempio gli scambi di mercato, i moduli o i formulari. In tutti questi casi il
perfezionamento del contratto quindi dipende dal perfezionamento di una sequenza di atti e
comportamenti volontari, ma non dal dialogo. L’esempio classico è il caso dei supermercati dove
il compratore non viene messo in contatto direttamente con il venditore, ma il compratore può
finalizzare l'acquisto portando il prodotto alla cassa e pagando.

L’obbligo a contrarre e il contratto preliminare


È frequente nella prassi delle contrattazioni, soprattuto immobiliari, che le parti, ancora non pronte
alla conclusione del contratto definitivo, avendo però raggiunto l’accordo su tutti gli aspetti,
intendano assumere obbligazioni circa la conclusione del contratto, impegnandosi a perfezionarlo
entro un determinato termine. Si parla in questo caso del contratto preliminare.

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A differenza della puntuazione completa di contratto, nel caso del contratto preliminare, le parti si
obbligano a perfezionare il contratto (entro un determinato periodo di tempo). Dunque, le parti
perdono la libertà che connota la fase della trattativa. Con la puntuazione completa di contratto le
parti avevano già deciso riguardo ai diversi aspetti del contratto, ma comunque in questo caso
non vi era per il soggetto alcun vincolo, tant’è che esso poteva decidere liberamente se
perfezionarlo oppure no.
Come per il patto d’opzione, anche il contratto preliminare ha natura preparatoria alla conclusione
di un futuro contratto.
L’obbligazione assunta col contratto preliminare ha come oggetto non già il contratto definitivo,
che quindi può essere modificato, ma la prestazione del consenso negoziale occorrente al suo
perfezionamento.
L’articolo 2932 enuncia che se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligo, l’altra parte, qualora sia possibile, oltre al risarcimento del danno può ottenere una
sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso (contratto preliminare).
Il contratto preliminare è un contratto a effetti obbligatori e non reali, in quanto gli effetti si
producono soltanto tra le parti.

Il patto di prelazione o di preferenza


Estraneo all'area dei contratti preparatori, è il contratto di prelazione che trova riscontro
nell'articolo 1566. Il concedente/promittente non si obbliga a concludere il contratto cui il patto si
riferisce per il solo fatto di non aver ancora deciso se concluderlo o meno. Il concedente si limita
ad accordare con l’altra parte il diritto di quest'ultima a essere preferita nella stipula di quel
contratto se e quando il concedente dovesse decidere di volerlo concludere.
Il patto di prelazione è un contratto in forza del quale un soggetto (promittente/concedente/
proponente) si obbliga a dare la preferenza, nella stipulazione di un futuro ed eventuale contratto
all'altro soggetto (promissario/prelazionario), rispetto a terzi, in genere a parità di condizioni. Dal
patto di prelazione non deriva (come avviene per il contratto preliminare) un obbligo di concludere
un successivo contratto: il promittente/concedente rimane libero di decidere se perfezionarlo o
meno. Soltanto se decide di perfezionarlo, dovrà preferire come contraente, a parità di condizioni,
il promissario. Quest’ultimo, a sua volta, non sarà obbligato a contrarre e potrà, quindi, rifiutarsi di
stipulare il successivo contratto con il promittente senza per questo incorrere in responsabilità.
Quindi, l’articolo 1566 enuncia che il patto di prelazione o patto di preferenza è il patto con cui il
concedente/promittente (la parte che si impegna nel patto di prelazione, il soggetto che deve
decidere se concludere o meno il contratto) si obbliga a dare la preferenza al soggetto con cui ha
stipulato il patto di prelazione (il prelazionario o somministrante), nella stipulazione di un contratto
avente lo stesso oggetto e a parità di condizioni.

CAPITOLO 8: LA RAPPRESENTANZA

Parti e soggetti del contratto


Per parte contrante o, più in generale, per parte si indica il centro di interesse cui le situazioni
soggettive attive e passive vengono imputate. La parte non coincide col soggetto. Il soggetto è la
persona fisica o l’ente singolarmente considerato. La parte, invece, è il centro di imputazione di
uno dei lati del rapporto giuridico. Dunque, con il termine "parte" si prende in considerazione il
soggetto portatore di un interesse, in quanto destinatario dell’imputazione di diritti e obblighi
nascenti dal contratto.
Si parla di parte monosoggettiva quando la parte dell'atto è un solo soggetto, quando soltanto
uno è il portatore dell'interesse protetto. D’altro canto, si parla di parte plurisoggettiva quando più
soggetti sono portatori di un unitario interesse. Per quanto riguarda la parte plurisoggettiva, nel
caso in cui essi debbano vendere un bene immobile di cui sono proprietari, tutti i soggetti che
compongono la parte devono esprimere la propria volontà.

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La sostituzione nell'agire negoziale


Può accadere che la manifestazione di volontà occorrente al perfezionamento dell'atto provenga
da un soggetto diverso da quello effettivamente interessato agli effetti giuridici, investito di tale
facoltà dalla legge o dalla volontà dell’interessato. Si parla in questi casi di sostituzione nell'agire
negoziale. Il sostituto, cui si dà il nome di rappresentante, coopera con l’interessato, cui si dà il
nome di principale/dominus, per realizzare un interesse del dominus/principale sostituendolo nel
compimento di atti giuridici verso terzi.
È quello che accade, come già esaminato, nel caso della rappresentanza legale degli incapaci di
agire.
Tuttavia, tale facoltà di rappresentanza può essere attribuita al rappresentante volontariamente dal
principale, quando esso sia maggiorenne e capace di agire. Si parla in tal caso di
rappresentanza volontaria. Vi è poi un'altra distinzione: si parla di rappresentanza diretta
quando il rappresentante agisce in nome e per conto altrui, mentre si parla di rappresentanza
indiretta quando il rappresentante agisce per conto altrui, ma in nome proprio. In entrambi i casi
si ha una divergenza tra il soggetto che emette la manifestazione di volontà (il rappresentante), la
parte formale, e la parte a cui vanno imputati gli obblighi nascenti dal contratto, parte sostanziale
(il principale).
L’articolo 1390 enuncia che il contratto concluso dal rappresentante è annullabile se viene viziata
la volontà del rappresentante (non del principale), oppure se viene viziata la volontà del
rappresentato nel caso in cui il vizio riguarda gli elementi predeterminati dal dominus.
La decisione di compiere l'atto è del principale/dominus, sebbene per mezzo del rappresentante
volontario, quindi è nella sua sfera che si produrranno gli effetti giuridici dell'atto. Perciò, è
soltanto il dominus che deve essere capace di agire, al rappresentante è sufficiente la capacità di
intendere e di volere.

Cooperazione gestoria
Per cooperazione gestoria si intende l’attività del soggetto che coopera con il principale nella
gestione dei suoi affari, compiendo atti giuridici verso terzi nell'interesse di costui. Proprio l’agire
del rappresentante/cooperatore nell'interesse altrui (del principale) è il tratto essenziale di tutte le
forme di cooperazione gestoria e ricorre sia nella rappresentanza diretta che indiretta.
Soltanto nella rappresentanza diretta il cooperatore, ovvero il rappresentante/mandatario, ha la
facoltà di spendere il nome del rappresentato/mandante, in quanto esso agisce in nome e per
conto del mandante. La procura è l’atto unilaterale mediante il quale il rappresentato conferisce
al rappresentante la facoltà di compiere atti giuridici nell'interesse del primo, potendo quindi
spendere il nome del dominus. La cosiddetta spendita del nome viene anche chiamata
contemplatio domini. Il rappresentante diretto, anche detto procuratore, non agisce verso i terzi
soltanto nell'interesse del principale, ma anche in nome del principale. Tant’è che l’articolo 1388
enuncia che il contratto concluso dal rappresentante diretto produce direttamente effetti nei
confronti del dominus/rappresentato. I diritti e gli obblighi nascenti dal contratto concluso dal
rappresentante (diretto) col terzo saranno immediatamente imputati alla sfera giuridica del
dominus, senza passare da quella del rappresentante. Il rappresentante diretto, agendo
nell'interesse e per conto altrui, si estranea fin dall'inizio dal rapporto giuridico, nel senso che non
vengono mai imputati ad esso gli effetti del contratto.
Invece, nel caso della rappresentanza indiretta al momento del perfezionamento dell'atto non vi
è la spendita del nome o contemplatio domini, perciò gli effetti giuridici dell'atto si produrranno,
inizialmente, nella sfera giuridica del rappresentante, il quale sulla base delle regole del mandato
sarà obbligato a riversarli nella sfera giuridico-patrimoniale del rappresentato. Quindi, nella
rappresentanza indiretta, il mandato è diretto unicamente a regolare il rapporto gestorio tra
mandatario (rappresentante) e mandante (rappresentato o dominus), senza poter esplicare il nome
del rappresentato; mentre nella rappresentanza diretta la procura è destinata ad attribuire al
rappresentante la facoltà di spendita del nome del principale.

Procura e mandato
Con la procura il rappresentato investe il rappresentante della facoltà di spendita del nome. Nello
specifico, la procura è l’atto unilaterale con cui il rappresentato si assume in anticipo le
conseguenze che derivano dall'atto giuridico.
Invece, il mandato, secondo quanto descritto dall'articolo 1703, è il contratto col quale una parte
si obbliga a compiere atti giuridici per conto dell'altra (ma non in nome dell'altra).

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Poi vi può essere che al mandato si accompagni la procura, così che il mandatario possa
spendere il nome altrui. Allo stesso tempo, ovviamente, al mandato può non accompagnarsi la
procura e ciò accade quando il mandante non vuole che il suo nome venga speso dal mandatario
nella contrattazione col terzo. Dunque, il mandato senza procura consente al mandante di restare
ignoto al terzo.
Il mandante ha l’obbligo di fornire al mandatario l’occorrente per l'esecuzione dell'incarico
gestorio. Dall'altro lato, il mandatario, secondo l’articolo 1713, deve rendere al mandante il conto
del suo operato e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto grazie al mandato. Nel caso del mandato
senza procura, se il mandatario non trasferisce al mandante i diritti acquistati dal terzo in suo
interesse, il mandante potrà ottenere solamente il risarcimento del danno, senza alcuna possibilità
di acquistare il diritto sottrattogli. Tuttavia, a tutela del mandante, l’articolo 1705, prevede che il
mandante possa esercitare direttamente il credito verso il terzo (in qualità di debitore), rivelando a
lui la propria identità e l’esistenza del mandato. In tal modo, il mandante, senza alcun intervento
del mandatario, potrà soddisfare il suo credito.

Gli atti personalissimi che non ammettono sostituzione e il mandato a donare


Vi sono atti nel nostro ordinamento che non ammettono sostituzione, per i quali dunque la parte
non può farsi rappresentare da altro soggetto. Si tratta, appunto, degli atti personalissimi, che
l’ordinamento vuole strettamente legati all'interessato, imponendo a lui la diretta manifestazione di
volontà occorrente al loro perfezionamento. Un esempio è il testamento. Il divieto di sostituzione
si applica sia alla rappresentanza diretta sia a quella indiretta.
Nella medesima prospettiva è affrontato il mandato a donare. L’articolo 778 enuncia che è nullo il
mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario (chi riceve la
donazione) o di determinare l’oggetto della donazione. È invece ammessa la rappresentanza,
purché essa abbia le specificità previste dalla legge, cioè che abbia l’esatta individuazione del
donatario e la precisa indicazione del bene da donare.

Il mandato ad alienare
Il codice disciplina espressamente il mandato volto ad acquistare beni nell’interesse del
mandante. L’articolo 1731 enuncia che il contratto di commissione è un mandato che ha per
oggetto l’acquisto o la vendita di beni per conto del committente (sarebbe il rappresentato) e in
nome del commissionario (il rappresentante). Tuttavia, almeno per i beni immobili e i beni mobili
registrati, il commissionario potrà solo acquistare il bene, ma non venderlo o alienarlo. Ciò perché
il mandante per far vendere il bene al mandatario dovrebbe trasferire a lui la proprietà di esso con
un atto che, però, è oggetto alla pubblicità, in quanto viene trascritto nei registri pubblici. Di
conseguenza verrebbe a meno il principio di segretezza del mandante. Così, al fine di proteggere
la segretezza del mandante, nel caso del mandato ad alienare non occorre il preventivo
trasferimento di proprietà dal mandante al mandatario. Tuttavia, tale trasferimento si produrrà
nello stesso momento in cui il mandatario alienerà il bene al terzo. Quindi, in quel momento il
diritto di alienare passerà dal mandante al mandatario e dal mandatario al terzo. Il trasferimento
verrà inserito nei registri pubblici soltanto in quel momento, così che venga salvaguardata la
segretezza del mandante. L’identità di quest'ultimo verrà resa nota soltanto quando l'alienazione
con il terzo sarà già avvenuta.

Il mandato in rem propriam


Il mandato, come sappiamo, occorre ad assicurare al mandante la cooperazione gestoria del
mandatario nel compimento di atti giuridici verso terzi nell'interesse del primo. Di norma, quindi, il
mandato viene conferito nell'interesse esclusivo del mandante, tuttavia è possibile che vi sia un
mandato conferito anche nell'interesse del mandatario. In tal caso, l’atto gestorio non soddisfa
soltanto l’interesse del mandante, ma anche quello del mandatario. Deve tuttavia trattarsi di un
interesse giuridicamente rilevante. L'esempio più diffuso è il mandato all'incasso in rem propriam,
che ricorre nel caso in cui il mandante incarichi il mandatario di riscuotere dal terzo debitore la
somma dovuta al mandante e di trattenerla a soddisfazione del suo credito verso il mandante
stesso. In questo caso, dunque, l’esecuzione dell’incarico non soddisfa soltanto l’interesse del
mandante (a riscuotere il suo credito dal terzo), ma anche del mandatario (a soddisfare il proprio
credito verso il mandante).

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L’articolo 1723 prevede che il mandante possa revocare il mandato (il mandato in generale, non si
sta parlando del mandato all'incasso in rem propriam). Però, nel caso in cui fosse stata istituita
l’irrevocabilità risponde dei danni. Invece, il secondo comma dell'articolo enuncia che nel caso del
mandato conferito anche nell’interesse del mandatario, il contratto non si estingue per revoca da
parte del mandante. Inoltre non si estingue né per morte né per sopravvenuta incapacità del
mandante.

Limitazioni del potere rappresentativo


La procura, come detto precedentemente, attribuisce al rappresentante la facoltà di agire in nome
e per conto del rappresentato in relazione a uno o più atti, più o meno determinati, così
individuando l'ambito oggettivo entro il quale la facoltà del mandatario potrà essere esercitata.
In relazione all'oggetto (ovvero l’ambito entro cui il mandatario esercita la propria rappresentanza)
possiamo distinguere tra tre tipologie di procure differenti:
-procura speciale: si riferisce al compimento di un solo specifico atto giuridico, di conseguenza
una volta conclusa quell’operazione, la validità della procura cessa. Nella procura speciale il
rappresentante è autorizzato solo a compiere gli atti nei limiti dei poteri che gli sono stati conferiti.
Se il rappresentante supera questi limiti si verifica un eccesso di potere. E’ il caso del
rappresentante che vende un bene immobile mentre invece la procura lo autorizzava solo a
vendere beni mobili.
-procura generale: in questo caso il rappresentato conferisce il potere al rappresentante di
compiere, in suo nome e per suo conto, tutti gli affari che all’occorrenza si presentano. In questo
caso non c’è necessità ogni volta dell’autorizzazione del rappresentato per compiere un
determinato atto, poiché quella procura conferisce ampi poteri al rappresentante.
Questa tipologia di procura viene conferita ad esempio da chi non ha possibilità di occuparsi di
determinati affari. O ancora da chi magari è all’estero ma ha interesse a far svolgere alcuni affari in
Italia. Si badi bene che gli atti che il rappresentato può compiere sono soltanto quelli di ordinaria
amministrazione. Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione che il rappresentante può compiere
non possono essere presunti, ma devono essere espressamente indicati nella procura generale.
-procura generica: la procura generica conferisce al rappresentante il potere di compiere tutti gli
atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, limitatamente ad uno specifico settore di
interesse del rappresentato.

Vi possono esseri casi di eccesso di rappresentanza o di carenza assoluta di potere


rappresentativo, ossia colui che agisce in qualità di procuratore senza averne i poteri. L’articolo
1398 enuncia che colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o
eccedendo i limiti delle facoltà conferitagli, è responsabile del danno che il terzo ha sofferto.
Quindi dall'articolo si evince la responsabilità del procuratore per i danni procurati al terzo che ha
contrattato con lui confidando in buona fede nell'esistenza del potere di rappresentanza, in tal
caso si ha un'inefficacia assoluta dell'atto compiuto nei confronti del rappresentato.
Tuttavia l’articolo 1399 prevede che il contratto concluso in eccesso di potere di rappresentanza o
in carenza assoluta di potere, possa essere ratificato (lo stato di inefficacia viene rimosso) dal
dominus con effetto retroattivo, salvi però i diritti dei terzi. Il dominus può dunque appropriarsi
degli effetti derivanti dall'atto se, prima che intervenga la ratifica, il terzo e il rappresentante non
abbiano già sciolto il contratto. In ogni caso, il rappresentante è comunque responsabile verso il
terzo per aver concluso il contratto in difetto del potere rappresentativo.

Il conflitto di interessi nella rappresentanza


Pre-requisito di ogni fenomeno rappresentativo è la dualità delle volontà che concorrono alla
formazione dell'atto, ovvero quella del dominus e del rappresentante (procuratore o mandatario).
Le due volontà si muovono nella medesima direzione in attuazione dello stesso unico interesse
(del dominus). Tuttavia, nel corso dello svolgimento del rapporto le due volontà possono
divergere, entrando in conflitto. Di conseguenza può verificarsi un abuso del potere
rappresentativo da parte del rappresentante, ossia un uso del potere di rappresentanza non
funzionale alla soddisfazione dell'interesse del dominus, bensì alla soddisfazione di un interesse
proprio, in conflitto dunque con quello del principale. L’ordinamento tutela l’interesse del dominus
nel caso in cui l’atto compiuto dal rappresentante in regime di conflittualità sia dal dominus
ritenuto dannoso. Dunque, l’ordinamento non tutela il rappresentato già nella fase del conflitto
potenziale, come invece accadeva per la rappresentanza legale degli incapaci, ma soltanto nel
momento in cui l’atto viene compiuto dal rappresentante. L’articolo che disciplina il conflitto di
interessi è il 1394 che enuncia che il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi

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col rappresentato può essere annullato su domanda del dominus, se il conflitto era conosciuto o
era riconoscibile dal terzo.

Il contratto con sé stesso


Il contratto con sé stesso ricorre quando il rappresentante conclude il contratto con sé stesso,
ovvero nel caso in cui il rappresentante agisca da un lato come rappresentante del dominus e,
dall'altro lato, in proprio; oppure quando egli è l'unico rappresentante di entrambe le parti.
Dunque, in altre parole, nel contratto con sé stesso il rappresentante agisce sia come
rappresentante del principale sia come terza parte del contratto; oppure quando egli è sia
rappresentare di una che dell'altra parte.
Il contratto con sé stesso è la più rilevante manifestazione della conflittualità di interessi.
Ciononostante l’ordinamento non vieta il compimento di tale atto. Il principale avrà poi la facoltà
di ricorrere all’annullabilità del contratto, qualora dal contratto con sé stesso derivino effetti
pregiudizievoli per esso. Nel caso in cui il contenuto del contratto sia predeterminato e venga
accompagnato dall'espressa autorizzazione a contrarre con sé stesso, si rimuove ogni possibile
conflittualità, rendendo certa la validità del contratto con sé stesso.

Il contratto concluso per sé o per persona da nominare


Mentre la spendita del nome altrui da parte del rappresentante evita la manifestazione degli effetti
giuridici nella sua sfera giuridica, la stipulazione per sé o per persona da nominare determina,
invece, incertezza sul soggetto al quale gli effetti giuridici sono destinati, ma non determina
incertezza sulla nascita del rapporto giuridico. L’articolo 1401 dispone che al momento della
conclusione del contratto una parte può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la
persona che acquisterà i diritti e assumerà gli obblighi nascenti dal contratto. Perciò, chi contrae
per sé o per persona da nominare conclude il contratto riservandosi, col consenso della
controparte, la facoltà di designare dopo la stipula la persona a cui verranno assoggettati i diritti e
gli obblighi del contratto. La riserva di nomina si esprime negozialmente per mezzo di una
clausola, che su richiesta dello stipulante viene accettata dal terzo contraente. L'electus, ovvero il
nominato, acquista i diritti e assume gli obblighi retroattivamente, ossia fin dal momento della sua
stipulazione, così che lo stipulante si estranei dagli effetti del contratto fin dall'origine, quindi è
come se il contratto fosse stato stipulato fin dall'inizio dall'electus.

CAPITOLO 9: GLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO: LA CAUSA.

La causa come giustificazione oggettiva degli spostamenti patrimoniali


L’articolo 1325 colloca la causa tra gli elementi essenziali del contratto, così come l’accordo delle
parti, l'oggetto e la forma. Ai sensi dell'articolo 1418, la mancanza di uno degli elementi essenziali
del contratto causa la nullità di esso.
La causa viene inoltre trattata dall'articolo 2041, secondo cui chi senza una giusta causa, si è
arricchito a danno di un'altra persona, è tenuto a indennizzare/risarcire quest'ultima della
correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l'arricchimento abbia per oggetto una cosa
determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se essa sussiste al momento
della domanda. Dunque, l’articolo prevede che l'impoverimento di un soggetto a vantaggio di un
altro debba trovare una giustificazione oggettiva. L’obiettivo è quello di garantire gli spostamenti
patrimoniali attraverso un'operazione di scambio o attraverso la donazione, nel caso del puro
spirito di liberalità.
Possiamo distinguere la causa tra due tipi: la causa ragionevole, che permette di assumere
l’accordo sul piano giuridico, escludendolo dal piano della cortesia, e la causa sufficiente, che è
volta ad escludere la necessità di supportare la volontà con una forma particolarmente rigida.
Quindi l’atto giuridico deve avere una ragione oggettiva che lo giustifichi, sia per poter essere
assunto sul piano giuridico (causa ragionevole), sia per escludere la rigidità tipica della donazione
(causa sufficiente). Proprio lo scambio soddisfa queste due esigenze, in quanto da un lato

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esclude che la relazione si svolga sul piano della cortesia e dunque fa sì che l’atto possa essere
assunto sul piano giuridico; e dall'altro lato, fornisce una giustificazione alla prestazione, evitando
così che l’atto debba assumere forme rigide. In assenza di scambio, è soltanto la forma rigida
della donazione che assicura la rilevanza giuridica dell'atto.
La causa è l’espressione della manifestazione e della combinazione degli interessi delle parti, che
porta loro a volere il compimento dell'atto in quel determinato modo, secondo quelle determinate
regole, per mezzo di determinati effetti giuridici. Esaminando gli effetti che il contratto produce si
riesce a comprendere perché la parte abbia voluto stipulare il contratto, si riesce a comprendere
cosa ha spinto la parte a stipulare il contratto, si riesce perciò a comprendere la causa della
stipulazione del contratto.

Il tipo di contratto, la meritevolezza e la liceità


Le parti, che come sappiamo godono di autonomia contrattuale, ai sensi dell'articolo 1322
possono scegliere liberamente il tipo di contratto da stipulare: tipico, quei contratti
espressamente disciplinati dal Codice Civile, o atipico, ovvero quei contratti nuovi non previsti dal
Codice. Per quanto riguarda i contratti atipici, essi devono avere la caratteristica della
meritevolezza e della liceità (per i contratti tipici si danno per scontati questi due requisiti, in
quanto già disciplinati nel Codice. Si dovrà solamente effettuare un'operazione di controllo sulla
meritevolezza e sulla liceità del contratto). La meritevolezza prevede che l'interesse oggetto del
contratto debba essere meritevole di protezione giuridica. Invece, per liceità si intende che il
contratto debba rispettare e, dunque, non essere contrario a norme imperative e ai principi
dell'ordine pubblico e del buon costume.

La disciplina del contratto atipico


Quando l’autonomia privata si spinge alla creazione di contratti nuovi, atipici, occorre individuare
le norme di disciplina. In linea generale l’articolo 1323 estende ai contratti atipici tutta la disciplina
dettata per il contratto in generale, facendo riferimento in particolare al procedimento di
formazione, ai requisiti di validità e ai profili di efficacia.
L'analogia gioca un ruolo importante nella ricostruzione della disciplina applicabile al contratto
atipico. Essa permette di estendere al contratto nuovo le regole dettate per il tipo contrattuale più
affine. Ma nella maggior parte dei casi, si parla di contratto misto, ovvero quel negozio atipico
risultante dalla combinazione di diversi tipi contrattuali, dunque non solo del contratto tipico più
affine, ma di diversi contratti tipici più affini.

Causa e motivi. La presupposizione.


La causa del contratto va distinta dai motivi. I motivi restano relegati nell'ambito della formazione
delle volontà, costituiscono i moventi della volontà. Tuttavia il motivo può diventare oggetto del
negozio, fondando la base negoziale oggettiva sulla quale l’intero regolamento degli interessi
poggia. In tal caso si parla di presupposizione, per indicare una situazione non espressamente
enunciata in sede di stipulazione, ma considerata quale presupposto imprescindibile della volontà
negoziale. Le parti considerano tale presupposizione come condizione vincolante della validità e
dell'efficacia del contratto, anche se non rappresenta una vera e propria clausola. La
giurisprudenza fa ricorso alla presupposizione per questioni riguardanti la validità e l'efficacia del
contratto, purché la presupposizione (la situazione presupposta) non presenti carattere di
incertezza.

Lo squilibrio tra le prestazioni nel contratto a prestazioni corrispettive e il contratto giusto


Il contratto di scambio (a prestazioni corrispettive o contratto sinallagmatico) è fissato sulla libera
determinazione delle relative prestazioni, nel senso che le parti sono libere di scambiarsi tra loro
utilità aventi valore anche sensibilmente diverso, senza che ciò privi di causa il contratto. Si ritiene
che le parti, salvo particolari esigenze di tutela, siano i migliori giudici dei loro interessi, per cui lo
squilibrio economico tra le prestazioni non può condurre a una dichiarazione di nullità contrattuale
per mancanza di causa. Tuttavia il legislatore interviene per correggere le deficienze del mercato,
qualora reputi il mercato incapace di autodisciplina. Il mercato ha bisogno di correttivi che
assicurino il raggiungimento di un equilibrio tra le parti. Il mercato ha bisogno di regole, volte a
rafforzare la posizione delle "parti più deboli". Ad esempio il consumatore rappresenta la parte
debole nei confronti delle multinazionali e delle banche e, dunque, deve essere protetto. Perciò,
occorre, senza ostacolare le libertà contrattuali, ricercare un equilibrio tra la tutela del singolo
contraente e la velocità delle operazioni economiche. Nello specifico, bisogna congiungere
l’autonomia negoziale riconosciuta ai privati con lo svolgimento della contrattazione tra soggetti

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che non sono posti su un piano di uguaglianza sostanziale, in quanto, ad esempio, le parti non
accedono allo stesso modo a tutte le informazioni occorrenti alla formazione di una volontà
consapevole.
L’obiettivo è quello di costruire un "contratto giusto", ma ciò va contro il principio fondante dei
contratti basato sull'autonomia privata. Bisogna cogliere efficaci strumenti di protezione che non
sopprimano la libertà individuale di determinare il contenuto del contratto. Vi possono essere casi
in cui una delle parti non sia in grado di valutare correttamente l’affare pur non versando in
situazioni di incapacità legale o naturale. In tal caso bisogna verificare la ragionevole convenienza
giuridica dell'affare per tutte le parti coinvolte nella contrattazione. La ragionevole convenienza
dovrà essere dedotta dal livello di informazione dei contraenti, da una volontà che sia realmente
libera e che riesca a comprendere l'eventuale squilibrio e l'eventuale differente ripartizione del
rischio tra le parti. Bisognerà dunque effettuare un giudizio sulla causa in concreto, al fine di
individuare appunto lo squilibrio tra le prestazioni, tenendo conto delle differenti posizioni
contrattuali, della buona fede nello svolgimento della contrattazione e dell'accesso alle
informazioni e ai dati che consentono una completa valutazione dell'affare. Dunque, il giudizio di
meritevolezza può essere decisivo e importante per la protezione della parte più debole.
Attraverso il giudizio di meritevolezza si può verificare se il contratto sia espressione della
prepotenza di una delle parti sull'altra, pur non presentando le caratteristiche per l'illiceità. La
prepotenza di una parte nei confronti dell'altra fa sì che il contratto soddisfi soltanto gli interessi di
quella parte.
Nel sistema economico odierno non sempre chi "vuole" può essere consapevole e non sempre
chi "vuole" ritiene che ciò che vuole sia propriamente utile. Ciò che è voluto è utile soltanto se si è
concretamente liberi, coscienti e consapevoli di volere, quindi ciò che è voluto è utile soltanto se
si è in un'economia di mercato liberale (ma non è il nostro caso). Spesso l’individuo è spinto a
volere qualcosa non perché la vuole veramente, ma in quanto espressione di una volontà
incosciente, inconsapevole o dettata dal bisogno, da circostanze costringenti, da situazioni di
dipendenza economica.

CAPITOLO DIECI: GLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO:


L'OGGETTO

Mentre il soggetto, in quanto parte, è il centro di imputazione degli interessi cui il contratto si
riferisce, l’oggetto è il punto di riferimento oggettivo del contratto. L’atto giuridico è imputato a
soggetti e riferito a oggetti, ovvero i beni che per mezzo del contratto ciascuna parte intende
conseguire. Dunque, il soggetto è l’attore della volontà, ovvero il soggetto a cui imputare gli effetti
giuridici; mentre l’oggetto è inteso come bene materiale, come interesse delle parti, come utilità
finale attesa dalle parti. L’oggetto è, quindi, il bene specifico che soddisfa gli interessi delle parti,
o, in altre parole, l’utilità finale attesa a soddisfazione del bisogno.
L’articolo 1325 si riferisce all'oggetto come elemento essenziale del contratto, occorrente
pertanto a perfezionarlo sul piano formale. La norma però non può riferirsi all'oggetto nel senso
del bene, nel senso dell’utilità attesa dalle parti, ma si deve riferire allo stesso bene, alla stessa
utilità, ma nella sua dimensione formale e descrittiva.

Oggetto dell'atto e oggetto del rapporto giuridico


Il bene condiziona l'esistenza del rapporto giuridico. L’esistenza del bene è essenziale per la
nascita del rapporto giuridico e per la produzione degli effetti del contratto. Nel senso che il
contratto, pur valido perché contenente una corretta rappresentazione descrittiva del bene, è
improduttivo di effetti se il bene descritto nella clausola negoziale non esiste ancora al momento
del perfezionamento dell'atto.
Tuttavia, l’articolo 1348 enuncia che la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto.
È perciò possibile negoziare un bene futuro, ossia su qualcosa che al momento della conclusione

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del contratto non esiste ancora. La sola rappresentazione descrittiva dell'oggetto permette di
affermare la validità dell'atto, ma la sua inesistenza in natura impedisce che si possano produrre
effetti giuridici. La nozione di bene futuro va distinta da quella di bene altrui. Per bene altrui si
intende un bene esistente in natura ma rientrante nel patrimonio di un soggetto diverso. Nel caso
del bene futuro, la mancata venuta a esistenza della cosa (dell'oggetto) impedisce il sorgere
dell'intero rapporto giuridico, pertanto nessuna prestazione è dovuta.

I requisiti dell'oggetto
Ai sensi dell'articolo 1346 l’oggetto del contratto deve avere i requisiti della determinatezza, della
possibilità e della liceità. Il bene finale costituente oggetto del contratto deve dunque essere
determinabile, se non già del tutto determinato, possibile e lecito.
Il primo requisito impone che la clausola negoziale rappresenti descrittivamente il bene in modo
almeno determinabile. Dal contratto a oggetto determinabile non potrà nascere un rapporto
giuridico, non potrà produrre gli effetti, esso avrà bisogno della determinatezza.
L’utilità attesa dall'oggetto deve essere possibile fin dal momento della sua rappresentazione
descrittiva, deve essere possibile in natura (possibilità materiale) e in conformità all'ordinamento
giuridico (possibilità giuridica). Quindi, oltre ad essere possibile sotto il profilo materiale, l’oggetto
deve essere possibile da un punto di vista giuridico. L’impossibilità giuridica ricorre nel caso in cui
l’oggetto del contratto sia un bene a disposizione di tutti e quindi insuscettibile di appropriazione
privata, che non può appartenere a nessun individuo. La giuridica impossibilità dell'oggetto va
però distinta dall'illiceità, che si ha quando l’utilità perseguita dalle parti non è giuridicamente
conseguibile, poiché vietata dall'ordinamento e dunque il contratto in tal caso diventa contrario a
norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume. L'illiceità dell'oggetto, a differenza di
quella della causa, colpisce il contratto in relazione alla valutazione sul bene. L’illiceità, in
sostanza, colpisce l’oggetto quando l’ordinamento vieta di conseguire un determinato bene, una
determinata utilità. D’altro canto, l’illiceità colpisce la causa quando l'ordinamento vieta alle parti
di perseguire i loro interessi, in quanto gli effetti dell'atto sono contrari alle norme imperative,
all'ordine pubblico e al buon costume.

CAPITOLO UNDICI: GLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO: LA


FORMA

Quando richiesta a pena di nullità del contratto, anche la forma è un elemento essenziale del
contratto (come previsto dall'articolo 1325).
La volontà delle parti può essere manifestata attraverso la dichiarazione, che può essere orale o
scritta, dal segno, dal gesto, dal fatto o dal comportamento concludente. Intesa in tal senso la
forma è essenziale per qualunque atto giuridico, saranno poi le parti a decidere la modalità
espressiva della manifestazione. Però quando l’articolo 1325 enuncia che la forma è essenziale
quando prescritta dalla legge sotto pena di nullità non si riferisce alla necessità o no di
manifestare la volontà, ma si riferisce ad una particolare modalità espressiva della manifestazione
di volontà, che in assenza di specifica prescrizione, è libera. Perciò, la parte è libera di scegliere il
modo con cui manifestare la propria volontà, a meno che la legge ne imponga uno.
La prescrizione impositiva di una determinata forma a pena di nullità è sempre posta in funzione
della protezione di particolari interessi. Ad esempio l’articolo 1350 descrive i contratti che devono
essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata sotto pena di nullità (contratti
che trasferiscono la proprietà di beni immobili, i contratti di associazione).
Quindi la forma può essere: libera, atto pubblico o scrittura privata autenticata.

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CAPITOLO 12: GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEL CONTRATTO


Gli elementi accidentali che andremo ad analizzare sono 3: il termine di efficacia, la condizione e il
modus.

Il termine di efficacia
La conclusione di un contratto valido ne determina, di regola, gli effetti. Infatti, la regola generale
prevede la coincidenza tra il perfezionamento del contratto e la sua efficacia. In realtà, i giudizi di
validità e efficacia del contratto sono ben distinti. Il giudizio di validità si ha dopo la verifica di
corrispondenza tra il singolo contratto e la fattispecie astratta. Invece, l'efficacia del contratto si
ha quando il contratto valido è in grado di produrre le modificazioni della sfera giuridico-
patrimoniale delle parti nel senso da loro stesse voluto.
D’altro canto, la natura negoziale del contratto consente alle parti di incidere sul piano effettuale e
nello specifico di incidere sul "tempo" dell'efficacia, appuntando al contratto un'apposita clausola,
un termine di efficacia. Il termine di efficacia è un elemento accidentale del contratto, ossia un
elemento non richiesto dalla legge per ottenere la validità del contratto, ma che può essere
utilizzato dal privato per soddisfare le sue specifiche esigenze negoziali. Dunque, accidentale nel
senso di "non essenziale" e non di "secondario". Infatti, quando inserito nell'atto, l'elemento
accidentale assume la medesima rilevanza di ogni altra parte essenziale del contratto.
Il termine di efficacia va però distinto dal termine di adempimento. Quest'ultimo non è un
elemento accidentale del contratto, fissa soltanto il tempo entro il quale il debitore è tenuto ad
eseguire la prestazione dovuta. Invece, il termine di efficacia incide sul profilo effettuale dell'atto.
Il termine di efficacia viene distinto tra termine iniziale e termine finale di efficacia. Con termine
iniziale di efficacia si indica la clausola con la quale le parti convengono che gli effetti si
producano soltanto al verificarsi di un determinato evento futuro, ma certo nel suo realizzarsi.
Invece, con il termine finale di efficacia si indica la clausola con la quale le parti convengono che
gli effetti del contratto cessino al verificarsi di un determinato evento futuro, che è certo nel suo
realizzarsi. Nel primo caso (termine iniziale di efficacia) il negozio è valido, ma sarà inefficace fino
al termine convenuto, mentre nel secondo caso (termine finale di efficacia), l’efficacia immediata
del negozio valido cesserà alla scadenza del termine convenuto.
Il termine può essere o una data o un accadimento certo.

La condizione
La condizione è un altro elemento accidentale del contratto e può essere apposta dalla volontà
delle parti, condizione volontaria, o prevista dalla legge, condizione legale. Dalla condizione si
potranno produrre gli effetti previsti oppure gli effetti prodotti cesseranno. La differenza della
condizione (che trova riferimento nell'articolo 1353) rispetto al termine di efficacia è che l’evento
futuro è incerto nel suo verificarsi, rendendo di conseguenza incerta l’efficacia del contratto,
seppur validamente concluso.
La condizione è uno strumento negoziale che permette ai contraenti di far dipendere la
produzione o la cessazione degli effetti del contratto al verificarsi di un evento futuro e incerto. Ciò
perché le parti non hanno interesse che gli effetti del contratto si producano in ogni caso, ma
hanno interesse che essi si producano soltanto se e quando si verifichi l’evento futuro ed incerto,
oppure che gli effetti cessino nel caso in cui si verifichi tale evento. Nel primo caso si tratta di
condizione sospensiva (quando al verificarsi dell'evento futuro e incerto consegue l’efficacia del
contratto), nel secondo caso si tratta di condizione risolutiva (quando al verificarsi dell'evento
futuro e incerto consegue la cessazione degli effetti del contratto).
Ovviamente l’evento futuro ed incerto deve essere lecito. Infatti, l’articolo 1354 enuncia che è
nullo il contratto al quale è apposta una condizione, sospensiva o risolutiva che sia, contraria a
norme imperative, al buon costume e all'ordine pubblico. Inoltre, il secondo comma dello stesso
articolo enuncia che il contratto è nullo anche se la condizione sospensiva è impossibile, invece
nel caso della condizione risolutiva si ha come non apposta, ovvero il contratto viene considerato
come se questa condizione impossibile non fosse mai esistita.
L’evento futuro ed incerto da cui dipende l'efficacia del contratto o la sua cessazione può essere:
-casuale, quando il verificarsi o meno dell'evento è completamente estraneo alla sfera di controllo
delle parti. Un esempio di condizione casuale può essere "ti vendo questo bene a questo prezzo
a condizione che mio padre acquisti un'altra casa entro un anno". La condizione è casuale,
perché non dipende dalla volontà delle parti, ma dipende dalle azioni di una terza parte, in questo
caso il padre.

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-volontario, quando l’evento si concreta in una manifestazione di volontà di una delle parti. Ad
esempio: ti vendo questo bene a questo prezzo a condizione che io decida di andare a vivere
nella mia casa di campagna entro un anno. È una condizione che dipende dalla volontà,
dall'azione di una parte e l’evento è, dunque, volontario.
-misto quando l’evento dipende in parte dalla casualità e in parte dalla volontà di una delle parti.
Ad esempio: ti vendo questo bene a questo prezzo a condizione che io decida di fare domanda
per il trasferimento di università (evento volontario) e che la pubblica amministrazione mi
trasferisca effettivamente in un’altra università entro un anno (evento casuale).

La clausola condizionale
La condizione, sospensiva o risolutiva, è apposta al contratto mediante un'apposita clausola, che
prende il nome di clausola condizionale. L’articolo 1360 prevede che gli effetti dell'avveramento
della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che per volontà
delle parti o per natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione devono essere
riportati ad un momento diverso. Perciò il contratto, di norma, salvo eccezioni, al verificarsi della
condizione sospensiva produrrà gli effetti sin dal momento in cui esso è stato stipulato e nel caso
della condizione risolutiva gli effetti prodotti fino a quel momento saranno annullati.
Alla clausola condizionale si accompagna sempre la fissazione di un termine alla scadenza del
quale bisognerà accertare l'accadimento o no dell'evento, sia per quanto riguarda la condizione
sospensiva che risolutiva. Ciò al fine di evitare che questa incertezza (evento futuro ed incerto)
permanga per sempre.

La condizione arbitraria o condizione meramente potestativa


L’articolo 1355 enuncia che è nulla l'alienazione (la vendita) di un diritto o l’assunzione di un
obbligo subordinata ad una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà
dell'alienante o, da quella del debitore (nel caso dell'assunzione dell'obbligo). La condizione
arbitraria o meramente potestativa rende il contratto nullo per difetto di accordo tra le parti. Un
esempio classico per far capire la condizione meramente potestativa è questo: "Ti vendo la casa
se vorrò". È una condizione che dipende esclusivamente dalla mera volontà dell'alienante, di
conseguenza il contratto è privo di accordo tra le parti, manca un elemento essenziale del
contratto, ecco perché in tal caso il contratto si dice nullo.

La pendenza della condizione


La frattura della normale coincidenza tra la conclusione del contratto e la produzione degli effetti è
frutto della condizione sospensiva (o del termine iniziale di efficacia). Dunque, agli elementi
essenziali, normalmente sufficienti alla produzione degli effetti, le parti possono aggiungere un
elemento accidentale che concorre con quelli essenziali alla produzione degli effetti. Perciò, gli
effetti del contratto non potranno verificarsi se oltre agli elementi essenziali già presenti nel
vincolo contrattuale, non si verifichi anche l'elemento accidentale (condizione sospensiva o
termine iniziale di efficacia). In tal caso si parla di fattispecie a formazione progressiva, in quanto
la fattispecie (concreta) è destinata a completarsi attraverso la combinazione di più elementi che
si danno progressivamente nel tempo.
La formazione della fattispecie si snoda quindi nel tempo e l'incertezza della condizione (per
quanto riguarda la condizione, non il termine iniziale di efficacia) ne rende incerto lo stesso esito.
Per questo si è soliti fissare un limite entro il quale l'evento debba verificarsi. Per questo motivo
alla clausola condizionale si accompagna la fissazione di un termine, alla scadenza del quale le
parti accerteranno se l'evento condizionante si sia verificato o meno (la fissazione di un termine si
utilizza per la condizione, non per il termine di efficacia, perché per il termine di efficacia l’evento è
certo che si verifichi, quindi non serve apporre un termine. Inoltre il termine di efficacia può essere
una data, quindi il termine è già presente).
In attesa del verificarsi dell'evento futuro ed incerto, il contratto, seppur non possa produrre gli
effetti, assume comunque rilevanza per il diritto. In questi casi, ovvero quando non si è ancora
verificata la clausola condizionante, ossia l'evento futuro e incerto, si dice che la fattispecie sia in
stato di "pendenza". Si parla quindi di pendenza della condizione quando una porzione della
fattispecie complessiva si è già verificata, ma attende che si verifichino gli elementi accidentali.
Secondo l’articolo 1356, l'acquirente di un diritto, nel caso di pendenza della condizione, può
compiere atti conservativi, i cosiddetti effetti preliminari. Gli effetti preliminari si verificano quando
il contratto è ancora improduttivo degli effetti finali, ma esso esprime già un vincolo irrevocabile e
di conseguenza ne implica il dovere di comportarsi nella fase di pendenza secondo buona fede,
l’obbligo di non impedire il perfezionamento della condizione e il il diritto di poter compiere atti

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conservativi. L’articolo 1358 prevede che colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto
condizione sospensiva, oppure lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza
della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra
parte. In sostanza, gli effetti preliminari sono quegli effetti che hanno interesse a far sì che il
contratto si perfezioni e che hanno interesse alla conservazione di quegli elementi già definiti
(elementi essenziali).

L’aspettativa di diritto
L’aspettativa di diritto si ha quando una parte del contratto in pendenza della condizione attende
di poter disporre del proprio diritto. L'aspettativa di diritto è una situazione soggettiva di
vantaggio, in quanto consente il trasferimento del diritto al soggetto terzo, a meno che per legge il
diritto atteso sia considerato indisponibile, ma esso non può esercitare gli effetti che derivano dal
diritto atteso. L’articolo 1357 enuncia che chi ha un diritto che dipende da una condizione
sospensiva o risolutiva può disporre di tale diritto in pendenza di questa, dunque gli può essere
trasferito. Tuttavia gli effetti del diritto sono subordinati alla condizione e dunque il diritto non
produce effetti se non si verifica la condizione. Il titolare dell'aspettativa non può disporre
immediatamente del diritto futuro, in quanto non lo ha durante la fase di pendenza, riuscendo
dunque a trasferire soltanto ciò che in quel momento ha, ossia l'aspettativa di diritto. In sostanza,
il titolare del diritto futuro, ovvero il titolare dell'aspettativa, non può trasferire al terzo il diritto
futuro (perché ancora non ce l’ha effettivamente), ma può trasferire soltanto l'aspettativa di diritto.
L’articolo 1357 prevede quindi che il compratore acquisti il diritto finale soltanto in esito al
completamento della fattispecie originaria, soltanto al verificarsi della condizione (sospensiva).

Il modus (l'onere)
Il modus è un elemento accidentale che può essere utilizzato soltanto per i contratti di donazione
oppure per gli atti a titolo gratuito diversi dalla donazione, oltre che a materia testamentaria.
Il modus (o onere) consente alla parte che dispone di un diritto (o che assume un'obbligazione a
titolo gratuito) di costituire a carico del soggetto avvantaggiato un'obbligazione, che non assume
mai rilevanza di corrispettivo. Ad esempio la donazione può essere gravata da un onere, il quale
prevede che il donatario, ovvero colui che riceve la donazione, sia tenuto all'adempimento di una
prestazione, ossia dell'onere. Il donante non vuole nulla in cambio della donazione, non vuole
avere un ritorno economico derivante dalla donazione, l’intento del donante non è di tipo
patrimoniale, ma vuole imporre un dovere specifico al donatario. L'assenza di corrispettività tra la
donazione effettuata dal donante e l’obbligazione modale del donatario esclude che, in caso di
inadempimento possa essere pronunciata la risoluzione del contratto di donazione. Ciò è invece
possibile solo per i contratti a prestazione corrispettiva. L’obbligazione modale quindi non si
colloca sullo stesso piano dell’attribuzione donativa, in quanto il modus/l'onere è un elemento
accidentale della donazione. Però qualora il donatario si rifiuti di adempiere all'onere, secondo
quanto previsto dall'articolo 793, il donante (o qualsiasi terzo interessato) potrà agire in giudizio
per far sì che il donatario esegua l’onere, ma l'inadempimento del donatario non implica la
risoluzione del contratto di donazione, perciò il donatario riceverà ugualmente la donazione.
L'Articolo 793 dispone inoltre che il donatario è tenuto all'adempimento dell'onere entro i limiti del
valore della cosa donata. In sostanza non potrà mai perderci.
Quanto previsto dall'articolo 793 per la donazione viene esteso anche ai contratti a titolo gratuito.
In materia testamentaria, l’articolo 647 prevede che possa essere apposto un onere all'erede o al
legato (colui che eredità soltanto diritti, beni o crediti). Ovviamente, come detto precedentemente,
l’adempimento dell'onere non è vincolante ai fini del testamento.

CAPITOLO 13: INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO

Interpretazione e qualificazione dell'atto giuridico

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Come ogni manifestazione della personalità individuale anche l'atto giuridico è suscettibile di
interpretazione. L’interpretazione è volta a svelare, attraverso la ricostruzione della volontà
manifestata, l’effettivo volere delle parti.
L’articolo 1362 detta le regole che l’interprete deve osservare nello svolgimento di questa
delicatissima attività prendendo in considerazione non il contratto come fattispecie, ma il
contratto come testo. Nello specifico, l’articolo enuncia che nell'interpretare il contratto si deve
indagare su quale sia la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle
parole. Per determinare la comune intenzione delle parti si deve valutare anche il loro
comportamento posteriore alla conclusione del contratto. Inoltre, oltre all’attività di
interpretazione, è altresì importante l’attività di qualificazione dell'atto giuridico, volta ad
assegnare al fatto interpretato una corretta rilevanza giuridica nel quadro generale
dell'ordinamento giuridico.

Le regole di interpretazione (soggettiva)


L’attività di interpretazione, come detto prima, è diretta a far emergere l'effettiva volontà delle
parti, partendo dal dato letterale del testo andando poi a ricostruire il significato di ciascuna
parola. Le parole e le espressioni utilizzate dai contraenti costituiscono il primo e principale
strumento dell'operazione interpretativa. L’articolo 1362, però dispone che nell'interpretare il
contratto si deve indagare su quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al
senso letterale delle parole. Dunque, l’interprete deve ricostruire la comune volontà delle parti
partendo proprio dal significato delle parole, tenendo anche conto, come enunciato dal comma 2,
il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto. Inoltre, l’articolo 1363
aggiunge che le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre.

Il ruolo della buona fede nell'interpretazione


L’articolo 1366 dispone che il contratto debba essere interpretato secondo buona fede. La buona
fede è un dovere giuridico non solo delle parti contraenti, ma essa deve essere mantenuta anche
nell'interpretazione. La buona fede deve esserci sia nella fase delle trattative, sia in quella di
esecuzione delle prestazioni contrattuali e sia in quella di interpretazione.

I criteri di interpretazione oggettiva del contratto


I criteri di interpretazione oggettiva sono destinati ad operare nel caso in cui i criteri soggettivi non
siano sufficienti ad assegnare alle clausole del contratto un significato univoco che sveli con
certezza la comune volontà delle parti. In tal caso, quindi, il legislatore fissa dei canoni oggettivi di
interpretazione che aiutano ulteriormente l'interprete nella ricerca della comune volontà.
La prima regola di interpretazione oggettiva viene sancita dall'articolo 1367, il quale prevede che
le clausole vadano interpretate nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello in
cui non ne hanno.
Poi l’articolo 1368 dispone che le clausole ambigue vadano interpretate secondo ciò che si
pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso.

CAPITOLO 14: L'EFFICACIA E L'ESECUZIONE DEL CONTRATTO

L'efficacia
Un contratto, come abbiamo già visto, si dice efficace quando è in grado di produrre
modificazioni della realtà, quando è in grado di produrre gli effetti previsti nell'atto. L'efficacia
dell'atto si esprime per mezzo dell'effetto giuridico, ossia la conseguenza giuridicamente
rilevante. L’effetto giuridico è riferito a un atto del privato. Attraverso l’effetto giuridico,
l'ordinamento dispone comandi, divieti, permessi e punizioni, fissa dunque le regole di
svolgimento della relazione economico-patrimoniale.

L’irrevocabilità del vincolo contrattuale


Il contratto, ai sensi dell'articolo 1372, ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che
per mutuo consenso o per cause ammesse alla legge. Il contratto determina quindi tra le parti un
vincolo irrevocabile. Il contratto vincola le parti al rispetto delle regole che esse stesse hanno

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fissato per disciplinare lo svolgimento del rapporto di natura patrimoniale che soddisfa i loro
interessi. L'irrevocabilità fa sì che le parti non possano sottrarsi unilateralmente agli effetti del
contratto. È invece possibile lo scioglimento del contratto per mutuo consenso, ossia per effetto
di una nuova comune manifestazione di volontà. A differenza del contratto estintivo, il mutuo
consenso non si limita a eliminare il rapporto giuridico, ma è diretto a ripristinare la relazione nello
stato in cui essa era prima del contratto, ricostituendo i patrimoni delle parti nella loro originaria
consistenza. Il mutuo consenso permette quindi la risoluzione del contratto, dando luogo a un
effetto ripristinatorio anche retroattivo. Tuttavia il mutuo consenso provoca la risoluzione soltanto
nell'ambito dei rapporti interni, senza alcuna possibilità di intaccare la sfera giuridica del terzo
acquirente.
Qualora il contratto lo permetta, è inoltre possibile la risoluzione del contratto per recesso
unilaterale. In tal caso lo scioglimento del vincolo contrattuale avviene per effetto di una
manifestazione unilaterale di volontà. Nello specifico l’articolo 1373 statuisce che se a una delle
parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata soltanto se
il contratto non ha ancora avuto un principio di esecuzione. Dunque, l’esercizio di tale facoltà è
subordinato al fatto che il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Inoltre, nel caso
del recesso unilaterale è prevista una multa penitenziale, che rappresenta la somma di denaro a
scopo di indennizzo che il recedente deve pagare alla controparte. Analoga funzione ha la caparra
penitenziale, l’unica differenza è che, in tal caso, la parte che ha la facoltà di recedere versa
all'altra parte al momento della conclusione del contratto una determinata somma di denaro.
Però, nel caso in cui la parte non eserciti la facoltà di recesso, la somma di denaro dovrà essergli
restituita.

L'integrazione (effetti convenzionali) del contratto (norme imperative, derogabili, suppletive, usi e
equità)
Ai sensi dell'articolo 1374 il contratto obbliga le parti non solo a quanto è stato espresso nel
medesimo, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza,
secondo gli usi e l’equità. L’autonomia privata fissa le regole di svolgimento del rapporto giuridico,
ma ciò non esclude che la sua disciplina sia arricchita dall'applicazione di ogni altra regola che
per legge sia riferibile al tipo di rapporto giuridico costituito, modificato o estinto.
Le prime norme di legge a trovare applicazione sono quelle imperative, ossia quelle norme riferibili
allo specifico rapporto giuridico che devono per legge trovare applicazione. Le norme imperative
si applicano anche contro la volontà delle parti, in quanto poste a salvaguardia di interessi di
carattere generale. Trovano applicazione anche le norme derogabili, che fissano delle regole che
possono essere applicate soltanto in assenza di volontà contrarie delle parti. Dunque, sono le
parti a decidere se applicare o meno le norme derogabili. Infine, vi sono le norme suppletive che
vengono applicate per integrare particolari aspetti del rapporto giuridico che non sono stati
disciplinati dai contraenti.
Tuttavia, in assenza di norme legali (imperative, derogabili e suppletive), bisogna tener conto degli
usi e dell’equità. (L’equità consente al giudice di determinare aspetti del regolamento non
contemplati dalle parti e non definiti dalla legge e dagli usi. Ma prima di intervenire attraverso
l’equità, il giudice dovrà far ricorso agli usi normativi, per colmare lacune di disciplina del
contratto. Si tratta di norme secondarie, non scritte, ma che sono idonee a disciplinare il caso
concreto soltanto in assenza di norme di legge. Vanno distinti dagli usi normativi, gli usi negoziali
e interpretativi. Gli usi negoziali indicano le regole operative applicate nella prassi dagli operatori
di un determinato settore, si parla di usi aziendali. Invece, gli usi interpretativi hanno il fine di
guidare l'interprete nell’attività di ricostruzione della volontà delle parti.)

Il principio di relatività degli effetti


Se il contratto è espressione dell'autonomia privata e si pone come autoregolamentazione degli
interessi delle parti, la sua efficacia è relativa ai contraenti. Nel senso che i contraenti sono il
centro di imputazione soggettiva dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Tuttavia, come
previsto dall'articolo 1372, il contratto può produrre effetti nei confronti di terzi, ove la legge lo
dispone. I terzi sono quei soggetti che non hanno partecipato alla formazione del contratto e,
pertanto, di norma, a loro non potrebbero essere riferite situazioni soggettive derivanti dall'atto
giuridico. Tuttavia l’articolo 1411 enuncia che è valida la stipulazione a favore di un terzo, qualora
lo stipulante ne abbia interesse. La stipulazione a favore di un terzo si esprime per mezzo di una
clausola che permette al promittente (lato passivo), la parte a cui è assoggettato l'obbligo, di
assumere un impegno nei confronti del terzo; e allo stesso tempo lo stipulante si impegna verso il
promittente. La stipulazione a favore di un terzo altera la naturale operazione di scambio tra

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stipulante e promittente, poiché lo stipulante ha l’interesse di effettuare la prestazione verso il


terzo, servendosi del promittente. Quindi lo stipulante si obbliga verso il promittente e il
promittente si obbliga verso il terzo. Il terzo, dunque, assume soltanto un diritto (non un obbligo),
ossia una situazione soggettiva di vantaggio, che, tuttavia, può pur sempre rifiutare.
La stipulazione a favore di un terzo va ben distinta dal contratto con prestazione al terzo.
Nel prima caso regolato dall'articolo 1411 (quello che abbiamo visto fino ad ora), il terzo consegue
un vero e proprio diritto soggettivo contro il promittente. Invece nel caso del contratto con
prestazione al terzo, quest'ultimo consegue solo un (mero (puro)) vantaggio economico. Infatti, il
terzo in questo caso non diventa creditore del promittente, di conseguenza il terzo non potrà mai
pretendere l’adempimento dal promittente, in quanto il terzo non possiede alcun diritto
soggettivo, ma soltanto un mero vantaggio economico.

Effetti obbligatori e reali del contratto


Si definisce "a effetti obbligatori" il contratto che costituisce obbligazioni soltanto tra le parti
(salva eccezione dell'articolo 1411). Invece, si definisce "a effetti traslativi" o "a effetti reali" il
contratto che permette l'acquisto della proprietà a titolo derivativo. Quest'ultimo, pur potendo
comunque costituire rapporti obbligatori tra le parti, prevede il trasferimento di un diritto dal
titolare precedente (dante causa) al nuovo titolare (avente causa).

Contratto di trasferimento e la successione


Il trasferimento del diritto è l'effetto negoziale del contratto traslativo e come ogni effetto
negoziale riguarda soltanto le parti contraenti. Però il trasferimento del diritto assume anche una
rilevanza esterna, in termine di una successione. La successione richiede che l’atto idoneo a
generarla assuma rilevanza ultra partes, superi cioè i limiti soggettivi segnati dall'articolo 1372
(che enuncia che l’atto ha efficacia tra le parti) riuscendo ad essere opposto ai terzi. Il contratto a
effetti reali dunque produce il trasferimento del diritto "tra le parti", ma non riesce da solo ad
assicurare a chi acquista il diritto di essere riconosciuto come nuovo titolare dai terzi. Per
consentire al nuovo titolare di godere appieno di tutte le facoltà che gli spettano dovrà essere
riconosciuto e rispettato come tale dai terzi. Così oltre al consenso contrattuale deve esservi un
ulteriore fatto consistente nella trasmissione del possesso, diretto a proiettare ultra partes l’effetto
del negozio, perfezionando la successione dell'acquirente nella titolarità del diritto verso i terzi.
Perciò, il trasferimento del diritto interessa esclusivamente le parti contraenti, mentre la
successione, che si produce in conseguenza del trasferimento del possesso, assume rilevanza
verso i terzi. In altre parole, colui che acquista a titolo derivativo è portatore di due interessi: quello
a essere riconosciuto come titolare dall'alienante e quello ad essere riconosciuto come tale dai
terzi.

Efficacia e opponibilità ai terzi degli effetti del contratto


Come abbiamo visto precedentemente, l’atto riesce a soddisfare appieno l’interesse
dell'acquirente soltanto assicurando a lui di essere riconosciuto e rispettato come tale dai terzi.
Per rendere opponibile ai terzi l’effetto negoziale l’ordinamento disciplina i fatti di opponibilità:
-per la circolazione dei beni immobili attraverso la trascrizione del contratto nei registri pubblici;
-per la circolazione dei beni mobili attraverso l'assunzione del possesso della cosa alienata;
-per la circolazione dei crediti attraverso la notifica al debitore ceduto (si parla di trasferimento di
credito quando il creditore trasferisce il proprio diritto di credito ad un altro soggetto, il debitore
così dovrà pagare il proprio debito al nuovo creditore. Si parla appunto di debitore ceduto, perché
il primo creditore cede il proprio debitore al nuovo creditore).
L’esigenza primaria dell'opponibilità è quella di rendere pubblici, attraverso gli strumenti sopra
elencanti, gli atti di trasferimento dei beni.

*la trascrizione ha lo scopo di favorire la conoscenza da parte di tutti del bene trascritto e di far
accrescere la certezza sul suo stato. Sono soggetti a trascrizione nei registri pubblici i beni
immobili e i beni mobili registrati. L'effetto della trascrizione è quello di rendere opponibile a terzi il
bene trascritto.*

Il contratto di cessione del contratto


L’articolo 1406 prevede che ciascuna parte possa sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da
un contratto con prestazioni corrispettive, se queste prestazioni non sono ancora state eseguite e

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se l’altra parte ne dia il consenso. Dunque, per mezzo del negozio di cessione del contratto il
cedente trasferisce al cessionario tuitti i diritti e tutti gli obblighi a lui spettanti verso il ceduto
(l’altra parte del contratto). Perciò il cessionario succede al cedente nella titolarità di tutte le
situazioni soggettive attive e passive spettanti al cedente verso il contraente ceduto. Si dice che il
cessionario acquisti le situazioni soggettive dal cedente a titolo derivativo. Pertanto il cedente è di
regola liberato dalle obbligazioni assunte nei confronti del ceduto.

Commutatività e aleatorietà
L’operazione economica con cui le parti intendono assegnare rilevanza giuridica attraverso il
contratto è normalmente commutativa, ovvero prevede una ordinaria ripartizione del rischio tra le
parti, senza che una parte sia più esposta al rischio rispetto all'altra. Il rischio contrattuale indica
genericamente l’esposizione delle parti agli effetti negativi dal punto di vista patrimoniale, che
possono derivare da qualsiasi evenienza futura ed imprevedibile.
Diversamente accade nel caso del contratto aleatorio, dove l'obbligazione certa che deriva dal
contratto a prestazione corrispettiva vede dall'altra parte un'obbligazione incerta. È il caso dei
contratti di assicurazione, che vengono considerati nulli se il rischio non è mai esistito o ha
cessato di esistere prima della conclusione del contratto e che vengono sciolti se, invece, il
rischio cessa di esistere dopo la conclusione del contratto. Nel contratto aleatorio (assicurativo) vi
è un’obbligazione certa, ovvero quella dell'assicurato che deve pagare i premi, e un'obbligazione
incerta, ovvero quella dell'assicuratore nei confronti dell'assicurato, che si verificherà solo nel
caso in cui si verifichi il sinistro (l'evento incerto).

Efficacia e esecuzione del contratto


L’effetto del contratto consiste nella produzione o modificazione del patrimonio delle parti. Si
distinguono i contratti a efficacia immediata, in cui l’effetto si ha in coincidenza del
perfezionamento del contratto, e i contratti a efficacia differita, in cui gli effetti si producono in un
momento diverso rispetto a quello della conclusione del contratto. La produzione dell'effetto
giuridico è in funzione della soddisfazione dell'interesse delle parti, tuttavia tali bisogni/interessi
possono essere soddisfatti in un momento differito. Perciò l’efficacia del contratto dovrà essere
accompagnata dalla sua esecuzione. Quindi con la locuzione "esecuzione del contratto" si indica
la fase in cui la soddisfazione dell'interesse finale delle parti non si verifica in coincidenza con la
produzione dell'effetto, ma richieda un'ulteriore attività esecutiva. Tale attività esecutiva può
soddisfare l’interesse finale delle parti per mezzo di un atto che si dia nel tempo o in un unico
momento (o in coincidenza con la produzione degli effetti, quindi sempre in un unico momento).
Per quanto riguarda il caso dell’attività esecutiva reiterata nel tempo, si parla di contratti di durata
che si distinguono tra: contratti a esecuzione periodica, in cui la prestazione viene eseguita
attraverso atti reiterati nel tempo periodicamente, e contratti a esecuzione continuata, nel caso in
cui la prestazione si concreta in comportamenti che la parte deve tenere in maniera continuativa
nel tempo. Un esempio di contratto a esecuzione periodica è il contratto di appalto, dove ad
esempio l’azienda di pulizie deve eseguire la prestazione periodicamente (due volte alla
settimana,...). Invece, un esempio di contratto a esecuzione continuata è il contratto di locazione,
che permette al beneficiario di godere del bene in maniera continuativa e senza interruzioni per
tutta la durata del contratto.

Il rafforzamento convenzionale dell'efficacia del contratto e il potere di autotutela delle parti


Le parti contraenti hanno la facoltà di rafforzare il profilo effettuale mediante l’apposizione di
clausole dirette a disciplinare eventuali inadempimenti contrattuali, fissandone anticipatamente (ex
ante) le conseguenze giuridiche a carico dell'inadempiente. Si tratta di una particolare
manifestazione dell'autonomia privata che si amplia fino a permettere ai contraenti di predisporre
forme di autotutela dei loro interessi. In questa prospettiva assumono particolare importanza la
clausola penale, la caparra confirmatoria e la clausola risolutiva espressa. La clausola penale
consente alle parti di pattuire che, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento di una
delle parti, essa debba essere tenuta a una determinata prestazione aggiuntiva. La clausola
penale ha l’obiettivo di provvedere a una quantificazione preventiva e convenzionale del danno
che il contraente inadempiente dovrà risarcire all'altra parte. Tuttavia la penale non può provocare
un arricchimento ingiustificato del contraente, per cui il giudice ha la facoltà di diminuirla se essa
è eccessiva. Allo stesso tempo, il giudice può intervenire nel caso opposto, ovvero qualora
l'importo della penale sia irrisorio rispetto all'effettivo danno derivante dall'inadempimento della
parte.

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Invece, nel caso della caparra confirmatoria, la parte che la riceve si protegge dal rischio di
inadempimento della parte, ricevendo già al momento della conclusione del contratto una somma
di denaro che potrà poi definitivamente trattenere in caso di effettivo inadempimento della parte.
Inoltre, se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra parte ha diritto a recedere dal
contratto, tenendo pure l’importo della caparra.
Infine, in un contratto a prestazioni corrispettive le parti possono pattuire la clausola risolutiva
espressa, mediante la quale le parti convengono che il contratto si risolva nel caso in cui una
determinata obbligazione non venga adempiuta secondo le modalità stabilite.

CAPITOLO 15: INVALIDITÀ DEL CONTRATTO


Le modificazioni nella sfera giuridica patrimoniale dei soggetti contraenti sono possibili grazie alla
conformità alle norme di legge del procedimento di formazione del contratto. Cioè occorre che
l’autonomia privata si manifesti nel rispetto delle disposizioni normative che la disciplinano, sia in
funzione della protezione degli interessi delle parti, sia in funzione della tutela degli interessi di
carattere generale e dei terzi. L’invalidità impedisce al contratto di produrre gli effetti giuridici
oppure consente al soggetto protetto di rimuovere gli effetti che si sono prodotti (nel caso
dell'annullabilità, ossia nel caso in cui il vizio di formazione del contratto riguardi la libera e
consapevole manifestazione di volontà di uno dei contraenti). L'invalidità si articola in due forme
specifiche: la nullità, che riguarda gli interessi di carattere generale, con l'obiettivo di assicurare
che la libertà contrattuale del privato si svolga nel rispetto di regole generali, poste a salvaguardia
dell'interesse comune; l'annullabilità si ha per assicurare che l’attività negoziale del singolo
contraente non si traduca in pregiudizio per il suo stesso patrimonio e per assicurare al
contraente una manifestazione della propria volontà cosciente e consapevole.

Le cause della nullità del contratto


La nullità assoluta del contratto prevede la sua assoluta inettitudine, ovvero la sua assoluta
incapacità a produrre qualunque modificazione giuridicamente rilevante della realtà. Il negozio
nullo è inefficace e improduttivo di qualunque effetto giuridico, se la nullità è riferita all'intero atto
e non soltanto ad una specifica clausola. Perciò il contratto nullo equivale ad un contratto
inesistente. Si ha la nullità parziale quando la nullità si riferisce a singole clausole presenti nel
contratto. L’articolo 1419 enuncia che nel caso di nullità parziale si ha la nullità assoluta dell'intero
contratto se i contraenti non lo avrebbero concluso senza quelle clausole. Altrimenti, vengono
dichiarate nulle soltanto le clausole illecite.
L’articolo 1418 prevede per un contratto la nullità assoluta qualora l'autonomia privata non si
manifesti entro il limite generale imposto dalle norme imperative, dall'ordine pubblico e dal buon
costume. Dunque, il contratto per poter essere idoneo a produrre effetti giuridici non deve
innanzitutto essere contrario a norme imperative, ossia quelle norme di legge che prescrivono
comandi e divieti, poste a protezione di interessi generali. Inoltre il contratto non deve essere
contrario all'ordine pubblico, ovvero all'insieme dei valori che permettono alle libertà individuali di
esprimersi nella dimensione sociale e che permettono di manifestare la propria autonomia
negoziale senza intaccare le libertà dell'altra parte e della società. Invece, la nozione di buon
costume fa riferimento a regole non scritte e a principi generali su cui la società si fonda.
La nullità del contratto può poi dipendere, sempre ai sensi dell’articolo 1418:
-dalla mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto (come previsto dall'articolo 1325);
-dall'illiceità della causa o dei motivi;
-dalla mancanza nell'oggetto dei requisiti di possibilità, determinatezza e liceità.
L’assoluta irrilevanza giuridica del contratto nullo permette al soggetto che ha subito una
diminuzione patrimoniale di richiederne la restituzione. Infatti la nullità del contratto esclude che
quanto ricevuto da una parte possa essere legittimamente trattenuto. Anche nei casi di nullità di
specifiche clausole, la parte che ha avuto un incremento patrimoniale ha il dovere di restituire
quanto previsto da tali clausole.

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Per la parte che ha partecipato alla nullità in maniera consapevole non viene riconosciuta la
possibilità di restituzione di quanto ha pagato. Un esempio immediato è il cliente di una prostituta,
il quale non può chiedere la restituzione del denaro anche se il contratto è nullo, poiché era
consapevole di partecipare ad un contratto illegale e quindi nullo nel momento in cui l’ha pagata.
La nullità è inoltre imprescrittibile, non cade mai in prescrizione.

Nullità e illiceità
Il contratto illecito rientra nel più ampio ambito della nullità del contratto, l'illiceità rappresenta la
forma di nullità più grave. Infatti l’illiceità deriva dalla contrarietà alle norme imperative, all’ordine
pubblico e al buon costume. Il contratto non si definisce illecito soltanto quando sono illeciti la
causa, il motivo e l’oggetto, ma anche quando il contratto costituisce il mezzo per eludere
l’applicazione di una norma imperativa, come previsto dall'articolo 1344. Si parla perciò di
negozio in frode alla legge, quando l’illiceità non è nel contratto in sé, ma nello scopo del
contratto, in quanto le parti attraverso il contratto hanno l’intento di eludere (di non rispettare) il
divieto espresso dalla norme imperative.

L'eccezionale efficacia di alcuni contratti nulli


Per proteggere interessi di particolare rilevanza, un contratto può essere eccezionalmente
efficace, anche se nullo. È il caso ad esempio del contratto di lavoro dipendente, che non è da
considerare nullo per il tempo in cui il rapporto ha avuto esecuzione. Perciò, al fine di garantire il
diritto alla retribuzione, per il lavoratore che ha comunque eseguito la propria prestazione,
sebbene derivante da contratto nullo, l’articolo 2126 stabilisce che la nullità non produce effetto in
relazione al tempo in cui il lavoro è stato svolto, rafforzando così la tutela del lavoratore. Il
lavoratore ha così diritto comunque alla retribuzione. Stesso discorso vale per la nullità del
contratto costitutivo di società per azioni, secondo cui la nullità della società non determina
l'assoluta inefficacia del contratto, ma soltanto lo scioglimento della società. Perciò, non viene
pregiudicata l'efficacia degli atti compiuti in nome della società.

La conversione del negozio nullo


La ricostruzione da parte del giudice dell'effettiva volontà delle parti (chiamato ad accertare la
nullità del contratto) potrebbe portarlo a recuperare la sostanza del contratto mediante la
conversione del negozio nullo in un contratto diverso. Ciò può avvenire qualora il giudice ritenga
che le parti avrebbero voluto stipulare questo contratto diverso se fossero state a conoscenza
della nullità di quello perfezionato inizialmente.

L’accertamento della nullità


Come sappiamo, la nullità del contratto ha come conseguenza l’assoluta inefficacia dell'atto, che
esclude fin dal momento del suo perfezionamento qualunque effetto giuridico tra le parti. Il
giudice, attraverso una sentenza, accerta che il contratto è nullo fin dall’origine. La domanda
giudiziale, che porta il giudice a dichiarare la nullità del contratto, può essere effettuata da
chiunque vi abbia interesse (anche da un soggetto terzo), non solo dalle parti contraenti. Quindi,
per proporre la domanda giudiziale e quindi per proporre l'accertamento della nullità è sufficiente
avervi soltanto interesse.

Nullità del contratto a effetti reali


Nel caso di un contratto a effetti obbligatori, la nullità si rileva esclusivamente tra le parti, le quali
si impegnano a restituire all'altra parte il denaro e i beni che si erano scambiati per mezzo del
contratto nullo. Diverso è il caso della nullità di un contratto a effetti reali. In tal caso la restituzione
può essere che non riguardi soltanto due soggetti, ma più, perché l'acquirente può diventare a
sua volta alienante nel momento in cui decide di vendere il suo bene, e così via. Quindi, in caso di
contratto a effetti reali nullo, l'acquirente dovrà restituire il bene al primo proprietario, ovvero
all'alienante, e quest'ultimo dovrà restituire all'acquirente la somma di denaro riscossa dalla
vendita del bene. Però se l'acquirente ha a sua volta trasferito a un terzo il proprio diritto (il bene),
diritto che credeva proprio, ma che in realtà non ha mai acquistato visto che il contratto si è poi
dimostrato nullo, il nuovo acquirente dovrà perciò restituire il bene, e così via fino a quando non si
ferma la catena. La differenza tra la restituzione nel caso del contratto a effetti reali nullo e nel
caso del contratto a effetti obbligatori nullo è che nel secondo la restituzione avviene solo tra le
parti, mentre nel primo caso la restituzione avviene tra le parti, ma poi nel caso in cui l'acquirente
abbia venduto il bene a sua volta, la restituzione va avanti fino al concludersi della catena. Ciò

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perché tutti questi trasferimenti sono nati da un iniziale contratto nullo, che, di conseguenza, ha
reso nulli tutti gli altri. Tuttavia per i beni immobili viene prevista un'eccezionale efficacia sanante,
secondo la quale se la domanda giudiziale volta all'accertamento della nullità del negozio sia
trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell'atto nullo, l'eventuale sentenza che
accerta la nullità non pregiudica i diritti acquistati dai successivi acquirenti in buona fede.

La nullità di protezione e la protezione del consumatore


Il consumatore rappresenta l’elemento debole se rapportato nei confronti degli imprenditori o dei
commercianti o artigiani o professionisti. Ecco perché il codice del consumo (introdotto nel 2005)
tutela la figura del consumatore, che viene appunto protetto nei confronti dei professionisti. Il
consumatore va protetto in ragione del diverso grado di accesso alle informazioni occorrenti al
perfezionamento di un accordo libero e consapevole. Il codice del consumo può prevedere una
nullità che prende il nome di nullità di protezione, quando vengono considerate nulle alcune
clausole del contratto tra consumatore e professionista, considerate vessatorie, poiché
determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio di prestazioni. Quindi le clausole
vessatorie vengono dichiarate nulle e tale azione può essere promossa unicamente dalla parte
interessata, ovvero dal consumatore.

L’annullabilità del contratto


L’annullabilità è sempre una forma di invalidità, ma invece che proteggere gli interessi di
carattere generale, tutela l’interesse di una specifica parte del contratto. Tale parte, che si vede
ledere i propri interessi, è l’unica legittimata a chiedere l'annullamento (non nullità) del contratto.
Tant’è che l’articolo 1441 prevede che l'annullamento possa essere domandato solo dalla parte
interessata.
Il vizio di annullabilità incide sulla manifestazione di volontà di una delle parti, cioè dipende dalla
sua situazione di incapacità. A differenza di quanto accade per la nullità, nel caso dell'annullabilità
non esistono norme di carattere generale, ma essa è prevista solo nel caso specifico di vizi della
volontà. Infatti, l’articolo 1425 prevede che il contratto è annullabile nel caso in cui una delle parti
era legalmente incapace di contrattare, in quanto interdetta o minorenne. Inoltre l’annullabilità
deriva anche da un'alterazione del procedimento di formazione della volontà dovuta da errore,
violenza o dolo. In tali casi si ha un vizio della volontà, poiché la volontà è stata alterata, intaccata
da un elemento perturbatore, che può essere l’errore, la violenza o il dolo.
Errore, violenza e dolo spiegati bene a pagina 16, capitolo 5.

Gli effetti del negozio annullabile


Nel caso dell’annullabilità del contratto è la parte interessata che dovrà decidere se annullare il
contratto o meno. Invece nel caso della nullità il contratto veniva considerato nullo per legge, non
era necessario l'intervento della parte. A differenza del contratto nullo, il contratto annullabile è
immediatamente efficace. Tuttavia la sua efficacia è instabile, poiché essa può essere rimossa
esercitando l’azione di annullamento entro un termine di prescrizione di 5 anni. Un'altra differenza
è che l’azione di annullamento è appunto prescrittibile, entra in prescrizione dopo il termine di 5
anni, di conseguenza dopo questo periodo di tempo il contratto non potrà più essere annullato. Il
termine di prescrizione del contratto annullabile inizia a partire dal giorno in cui è cessata la
violenza, è stato scoperto l’errore o il dolo, è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione (il
minore ha raggiunto la maggiore età).
Dunque, il contratto annullabile è un contratto subito efficace, anche se la sua efficacia è incerta e
tale situazione di incertezza può terminare o con l’annullamento, o con la prescrizione dell’azione
di annullamento o con la convalida, ovvero quando la parte interessata ritiene comunque
convenienti gli effetti del contratto e dunque rinuncia alla possibilità di annullare il contratto. Nel
caso dell’annullamento, ovvero nel caso in cui la parte ritenga non convenienti gli effetti del
contratto, essa agisce in giudizio per ottenere una sentenza che annulli il contratto, eliminando
così i suoi effetti. Così come con la nullità, nel caso in cui viene esercitata l'annullabilità, gli effetti
del contratto cessano retroattivamente. Tuttavia, siccome il contratto annullabile inizialmente è
produttivo di effetti, il successivo annullamento non pregiudica i diritti acquistati dai terzi quando il
contratto era produttivo (se essi erano in buona fede e non abbiamo approfittato della situazione
dell'altra parte).
Il contratto annullabile può essere convalidato dal contraente al quale spetta l’azione di
annullamento mediante un atto che contenga la dichiarazione che si intende convalidarlo. Si parla
di convalida espressa è un atto scritto attraverso il quale la parte, seppur a conoscenza del vizio
della volontà che rende annullabile il contratto, manifesta chiaramente la volontà di convalidarlo

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attraverso una dichiarazione. Invece, si parla di convalida tacita quando il contraente vi ha dato
volontariamente esecuzione (non manifesta attraverso una dichiarazione la volontà di
convalidarlo, ma è lui stesso a convalidare il contratto attraverso un'esecuzione volontaria).

CAPITOLO SEDICI: RISOLUZIONE DEL RAPPORTO CONTRATTUALE E


RESCISSIONE DEL CONTRATTO
La risoluzione legale del contratto sinallagmatico (a prestazioni corrispettive)
Nel contratto a prestazioni corrispettive ciascuna parte ha interesse ad attuare il contratto
adempiendo alla propria prestazione se, allo stesso tempo, la controparte adempie alla propria. In
un contratto sinallagmatico il contraente è sia creditore sia debitore verso la controparte.
Partendo da queste basi si può capire come, ai sensi dell'articolo 1453, nei contratti con
prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie alle sue obbligazioni, l’altro può
a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, con aggiunto risarcimento
del danno causatogli. Con lo scioglimento del contratto, la parte che richiede la risoluzione non
solo si vedrà risarcita dei danni che le sono stati causati, ma si libererà anche della sua
obbligazione verso la parte inadempiente. Una volta che la parte ha scelto di chiedere la
risoluzione del contratto non può più chiedere all'altra parte l'adempimento della prestazione.
Mentre è possibile il caso contrario, la parte che ha deciso di chiedere l'adempimento alla
controparte inadempiente può comunque cambiare idea e chiedere poi la risoluzione, anziché
l'adempimento.
Tuttavia il potere risolutorio è legittimo soltanto nel caso in cui l'inadempimento della parte non
abbia scarsa importanza. Il giudizio sull'importanza dell'inadempimento viene eseguito dal giudice
di merito. Però le parti contraenti possono evitare la valutazione dell'importanza
dell'inadempimento attraverso la clausola risolutiva espressa (già trattata precedentemente). In tal
caso le parti convengono che il contratto si risolva automaticamente, senza dunque l’intervento
del giudice, nel caso in cui una delle parti sia inadempiente verso l’altra.
Un'altra modalità risolutoria è il termine essenziale (relativo alla condizione risolutiva) (anche
questo già trattato). Scaduto il termine, il rapporto viene automaticamente risolto.

L’esercizio del potere risolutorio


Ai sensi dell'articolo 1458, la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra
le parti, ossia determina lo scioglimento del rapporto giuridico fin dal momento della sua
costituzione. Le parti sono dunque obbligate a restituire quanto è stato percepito da ognuna
durante lo svolgimento del rapporto. Eccezione vien fatta per i contratti ad esecuzione continuata
(affitto) o periodica (servizio di pulizie), per i quali l’effetto retroattivo della risoluzione non si
estende alle prestazioni già eseguite.
Tuttavia la risoluzione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi. La risoluzione non ha alcun
impatto sulla circolazione, poiché il contratto risoluto non è contrario a norme poste a tutela di
interessi generali, ma la risoluzione è causata dal cattivo funzionamento del contratto
sinallagmatico (una parte che non adempie).

La risoluzione per impossibilità sopravventa della prestazione


Può accadere che nel contratto sinallagmatico sia sopravvenuta l’impossibilità di eseguire una
delle prestazioni e, quando tale sopravvenuta impossibilità è oggettiva, totale e definitiva,
legittima l’altra parte, che non potrà mai più ricevere la prestazione dalla controparte, ad
esercitare un'azione di risoluzione al fine di essere liberato dalla sua obbligazione. A tal fine
l’articolo 1463 prevede che nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la
sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e
deve restituire quella che ha già ricevuto. In questi casi, dunque, alle parti non può essere
imputata alcuna colpa.
Perché ciò accada è ovviamente necessario che l’impossibilità sia sopravvenuta dopo la
conclusione del contratto, perché ove la prestazione fosse già impossibile al momento del
perfezionamento il contratto sarebbe stato nullo ai sensi dell'articolo 1418.
La temporanea impossibilità oggettiva di una delle prestazioni non comporta la risoluzione del
contratto, perché la sopravvenuta impossibilità deve essere definitiva. Si evita così la risoluzione

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qualora l’altra parte abbia interesse a ricevere la prestazione anche oltre il tempo stabilito. Stesso
discorso per l’impossibilità parziale, anche in tal caso ciò non comporta la risoluzione, perché la
sopravvenuta impossibilità deve essere totale. Nel caso in cui l’impossibilità della prestazione
fosse soltanto parziale, l’altra parte ha diritto ad una riduzione della prestazione dovuta. Tuttavia la
parte ha il diritto di recedere dal contratto qualora non abbia interesse a ricevere la prestazione
parziale.

La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione


L’articolo 1467 dispone che nei contratti a esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di
una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e
imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto (con
gli effetti stabiliti dall'articolo 1458). Nei contratti a prestazione corrispettiva l'eccessiva onerosità
sopravvenuta consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni per il
verificarsi di eventi straordinari ed imprevedibili. Ad esempio il caso dell'aumento di valore di una
valuta estera non può essere considerato un evento straordinario ed imprevedibile, quindi in tal
caso non può verificarsi la risoluzione per eccessiva onerosità della prestazione.

La rescissione del contratto


Invece, la rescissione del contratto consente ad una parte di rimuovere il vincolo contrattuale,
qualora esso sia stato assunto in condizioni che non le hanno consentito di avere una libera
determinazione volitiva, perché essa si trovava in stato di pericolo nel momento in cui ha concluso
il contratto, o perché era in uno stato di bisogno. Lo stato di pericolo e lo stato di bisogno non
fanno parte dei vizi della volontà (errore, violenza e dolo), quindi per essi non si ricorre
all'annullabilità, ma alla rescissione. L’articolo 1447 enuncia che il contratto con cui una parte ha
assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o
altri dal pericolo di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte
che si è obbligata. Lo stato di pericolo o di bisogno non ha inciso sul procedimento di formazione
della volontà "viziandolo", ma ha indotto il contraente a manifestare una volontà che non si
sarebbe manifestata in assenza dello stato di bisogno o di pericolo.
Inoltre, l’articolo 1448 aggiunge che, se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella
dell'altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, la parte danneggiata può
domandare la rescissione del contratto, se l’altra parte ha approfittato di tale situazione per trarne
vantaggio. Ciò accade quando una prestazione vale più del doppio dell'altra. La rescissione
quindi in tal caso richiede la simultanea esistenza di tre requisiti: una prestazione vale più del
doppio dell'altra, lo stato di bisogno o di pericolo della parte danneggiata e l’altra parte che ne ha
approfittato. È però possibile evitare la rescissione, qualora il contraente contro il quale è richiesta
la rescissione offra, anche durante il giudizio di rescissione, una modificazione del contratto
sufficiente per ricondurlo ad equità.

CAPITOLO DICIASSETTE: I BENI


I beni immobili e i beni mobili
L’articolo 810 enuncia che sono beni le cose che possono formare oggetto di diritto. Per cose
non si intendono soltanto quelle materiali, ma anche quelle immateriali, purché aventi un valore
economico. La cosa deve poter formare oggetto di diritto e pertanto deve essere suscettibile di
appropriazione privata. Quindi, la cosa, materiale o immateriale, è un bene giuridico quando
l’ordinamento consente al privato di conseguire rispetto alla cosa una legittima relazione di
appartenenza. L’articolo 812 enuncia che sono beni immobili il suolo, i corsi d’acqua, gli alberi, gli
edifici e le altre costruzioni, quindi tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al
suolo. Vengono considerati mobili tutti i beni restanti.

Beni pubblici e privati

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Ai sensi dell'articolo 822 appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del
mare, la spiaggia, i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi, le opere destinate alla difesa nazionale, gli
immobili di interesse storico, archeologico, artistico, musei, pinacoteche, biblioteche. Fanno parte
del demanio pubblico se appartengono allo Stato anche le strade, autostrade e tutti gli altri beni
che sono assoggettati dalla legge al demanio pubblico. Anche i beni che appartengono al
comune o alla provincia sono assoggettati al demanio pubblico (come i cimiteri e i mercati
comunali). I beni demaniali sono quei beni che vengono sottratti alla libera appropriazione privata,
in quanto destinati stabilmente alla soddisfazione di interessi pubblici. Essi sono dunque
inalienabili. La loro conservazione e la loro tutela spetta all'autorità amministrativa. Per l’ente
pubblico da questa situazione di appartenenza deriva quindi una conseguente responsabilità.
Tuttavia lo Stato, che detiene l'appartenenza dei beni demaniali, può concedere tali beni ai privati
nei limiti della legge, tramite la concessione.
Diverso invece è il caso dei beni rientranti nel patrimonio dello Stato, ossia quei beni diversi da
quelli assoggettati al demanio pubblico. Essi sono soggetti a norme differenti a seconda che
rientrino nel patrimonio indisponibile o in quello disponibile. Fanno parte del patrimonio
indisponibile le foreste, le miniere, le cave, le cose di interesse storico, archeologico, artistico da
chiunque trovate nel sottosuolo. E ancora, le caserme, gli armamenti, le navi da guerra, gli aerei
militari. Fanno invece parte del patrimonio disponibile tutti gli altri beni di proprietà pubblica, che
sono nella libera disponibilità dello Stato e su cui esso può godere e disporre liberamente. Invece,
i beni del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione.

Attraverso l'atto della sdemanializzazione, l’ente pubblico proprietario del bene demaniale può
assoggettare tale bene al patrimonio dello Stato (invece che al demanio pubblico).
Infine, per impedire che gli immobili abbandonati siano di proprietà di nessuno, la legge prevede
che diventino di proprietà dello Stato.

Le relazioni tra beni: universalità di mobili e le pertinenze.


L’articolo 816 dispone che è considerata universalità di mobili la pluralità di cose che
appartengono alla stessa persona. L’universalità di mobili rappresenta una forma di relazione tra
beni. Le singole cose che fanno parte dell’universalità di mobili possono formare oggetto di
separati rapporti giuridici. Un'altra relazione tra cose è la pertinenzialità, che viene trattata
dall'articolo 817, il quale enuncia che sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un'altra cosa (che prende il nome di principale). La destinazione può
essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla principale.
Di norma, i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono anche le
pertinenze. Tuttavia le pertinenze possono formare oggetto di separati rapporto giuridici.

L’azienda
L’azienda viene definita come un complesso di beni, organizzato dall'imprenditore per l'esercizio
dell’impresa. I beni in un’impresa sono destinati all'esercizio dell'impresa, proprio mediante la loro
organizzazione. La titolarità dell’azienda non coincide con la proprietà dei singoli beni, che
potrebbero non essere di proprietà dell'imprenditore purché egli abbia comunque il diritto di
poterne godere. Dal punto di vista economico l’azienda è un organismo produttivo complesso,
composto da beni (mobili e immobili), servizi, crediti e debiti. L’azienda è dunque un complesso/
insieme di beni autonomi, i quali sono uniti dalla comune destinazione a servizio degli scopi
aziendali. L’azienda è dunque un insieme di beni organizzati. L’imprenditore è titolare di questi
beni, ma non è per forza proprietario.

CAPITOLO 18: I DIRITTI REALI E LA PROPRIETÀ.

Il diritto reale
Il diritto reale è la forma di protezione giuridica dell'interesse del privato ad affermare nei
confronti degli altri e a vedere da loro riconosciuta l'appartenenza di una cosa, di cui il soggetto si
è appropriato per mezzo di un legittimo titolo di acquisto. L’ordinamento giuridico protegge la
relazione di appartenenza tra il soggetto e la cosa, assicurando al titolare la facoltà di trarre dalla
cosa tutte le utilità che essa può dare. La facoltà di godimento permette al titolare di sfruttare il

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bene per il suo valore d’uso, ossia di sfruttarlo per il fine che è atto a soddisfare. Laddove il bene
sia fruttifero, l’ordinamento consente di appropriarsi anche dei frutti del bene (i prodotti delle
miniere, gli interessi dei capitali,...).
Invece la facoltà di disposizione consente al titolare del diritto di sfruttare il bene che ne è oggetto
per il suo valore di scambio. La facoltà di disposizione si manifesta tipicamente per mezzo del
contratto di scambio. L’ordinamento consente al soggetto titolare del diritto di essere riconosciuto
da tutti i consociati come l’unico soggetto che ha la facoltà di sfruttare il bene per il suo valore di
scambio e di poter opporre a tutti il suo legittimo titolo di acquisto. Proprio per questi motivi, il
diritto reale è connotato dalla esclusività. Per esclusività si intende il fatto che l’ordinamento
assicura al titolare la facoltà di escludere qualunque altro soggetto dalla facoltà di disposizione sul
bene. Perciò, il bene oggetto del diritto spetta al singolo titolare in via esclusiva.
Il diritto reale è anche un diritto assoluto, in quanto consente di affermare il proprio diritto nei
confronti di tutti i consociati, i quali sono tenuti a rispettare il titolare.
Il rapporto giuridico di un diritto reale dal lato attivo vede un soggetto determinato e dal lato
passivo vede gli omnes, ossia tutti i consociati. Sugli omnes grava il dovere generico di astenersi
dal compiere qualunque atto che possa menomare il diritto del soggetto titolare.

La proprietà
La massima espressione del diritto reale è la proprietà. L’articolo 832 definisce la proprietà come
il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo. La proprietà può essere
pubblica o privata, poiché i beni possono appartenere allo Stato o a privati. La proprietà tutela
l’interesse al godimento e allo sfruttamento dell'utilità che la cosa assicura al titolare. Il diritto di
proprietà non si manifesta sempre con le medesime modalità, ma varia in considerazione della
natura del bene.

I limiti all'esercizio della proprietà e gli obblighi del proprietario


Il diritto di proprietà, come enunciato dall'articolo 832, può essere esercitato entro i limiti e con
l'osservanza degli obblighi previsti dall'ordinamento giuridico. I limiti segnano i confini entro i quali
le facoltà spettano al proprietario e possono da lui essere esercitate. Gli obblighi invece indicano
le doverosità previste dall'ordinamento giuridico a cui il proprietario deve sottostare.
Il primo limite della proprietà privata è posto dall'articolo 833 che vieta gli atti di emulazione,
disponendo che il proprietario non può eseguire atti che hanno come scopo quello di nuocere gli
altri. Dunque, per essere considerato emulativo l’atto deve essere compiuto per nuocere gli altri in
assenza di qualunque utilità da parte del proprietario. Esiste poi un limite generale a tutte le
situazioni soggettive di vantaggio del proprietario, che prende il nome di abuso del diritto. L’abuso
del diritto si ha nel caso in cui il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti, eserciti
tale diritto con modalità irrispettose del dovere di buona fede e correttezza, causando un
ingiustificato sacrificio alla controparte.

I modi di acquisto della proprietà


Ai sensi dell'articolo 922 la proprietà si acquista a titolo originario o a titolo derivativo, a seconda
che il diritto si consegua per la prima volta oppure per successione a un precedente proprietario.
Nello specifico l’articolo 922 indica che la proprietà può essere acquistata per occupazione, per
invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o commissione, per usucapione, per
effetti di contratti, per successioni a causa di morte.
Le cose mobili possono essere acquistate a titolo originario per occupazione, quando non sono di
proprietà di nessuno. L’occupazione si riferisce alle sole cose mobili che non sono di proprietà di
nessuno, o perché non lo sono mai state o perché abbandonate. È importante distinguere tra
cose abbandonate e cose smarrite, in quanto possono essere acquistate per occupazione solo le
prime. Il soggetto che ha abbandonato la cosa provoca l’estinzione della proprietà e ciò rende la
cosa abbandonata suscettibile di occupazione. Invece, si parla di invenzione l’acquisto derivante
da cose smarrite (che si concretizza a seguito di specifici eventi).
L’articolo 934 prevede che qualunque piantagione o costruzione esistente sopra o sotto il suolo
appartenga al proprietario del suolo. Si parla in tal caso di accessione. L'accessione è quindi la
conseguenza all'estensione della proprietà a tutto ciò che è incorporato nel suolo (si distingue dal
diritto di superficie, che tratteremo a pagina 49).
Invece, nel caso dell’unione o commissione l’acquisto della proprietà avviene per effetto di
un’attività trasformativa. L’articolo 939 prevede che quando più cose appartenenti a diversi
proprietari vengono unite, formando una sola cosa, la proprietà del tutto diventa comune in
proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno. Però, nel caso in cui una delle cose unite

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sia di molto superiore all'altra per valore e serva a essa come ornamento, il proprietario della cosa
principale acquista la proprietà del tutto, tuttavia dovendo pagare all'altro il valore della cosa che
è stata unità a quella principale.
Quando l’attività trasformativa della materia dà vita a un nuovo bene, l’acquisto della proprietà
avviene per specificazione. L’articolo 940 prevede che se un soggetto ha utilizzato una materia
che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, ne acquista la proprietà pagando al
proprietario il prezzo della materia.
Sono acquisti a titolo derivativo il contratto e la successione a causa di morte. Per quanto
riguarda l’acquisto della proprietà per effetti del contratto ci si rimanda a quanto detto sui contratti
reali. I contratti reali prevedono il trasferimento del diritto e prevedono che tale diritto possa
essere fatto valere nei confronti dei terzi. Nel caso della successione per causa di morte (che
tratteremo meglio nei capitoli finali), l’acquisto della proprietà avviene a seguito della morte del
titolare a favore dell'erede o del legatario. Le regole principali che regolano gli acquisti a titolo
derivativo sono che nessuno può trasferire agli altri più di quello che ha e che il diritto acquistato
(dall'avente causa) resta legato al titolo di acquisto dei precedenti proprietari, in una catena che
risale fino al primo acquisto a titolo originario. Soltanto la validità e integrità di questa catena,
permette all'ultimo proprietario di essere titolare del diritto. Ciò per dire che i vizi dei titoli di
acquisto anteriori si ripercuotono sulla titolarità dell'ultimo proprietario.

La divisione e l'unione
È possibile che sulla cosa oggetto di proprietà intervenga volontariamente il proprietario
attraverso la divisione o l'unione di beni immobili. Nel caso di divisione, il proprietario di un unico
immobile che può essere oggettivamente diviso, decide di frazionare in più parti l'immobile,
ognuna delle parti idonea a soddisfare l'interesse dell'intero. Invece si parla di unione nel caso in
cui il proprietario decida di rimuovere segni di divisione tra più beni limitrofi (adiacenti, confinanti),
determinando la formazione di un unico più ampio bene. Nel caso della divisione deriva il
frazionamento stesso del diritto di proprietà. Infatti, la proprietà di ciascun immobile derivante dal
frazionamento sarà suscettibile di diverse situazioni giuridiche, di diversi contratti reali, di diversi
diritti di proprietà. Si ha la situazione opposta per l’unione, dove la fusione di più beni immobili va
a costituire un unico bene che non può essere soggetto di due diversi contratti, di due diversi
diritti di proprietà. L’atto di unione e di divisione rappresentano la manifestazione della volontà del
proprietario, il quale ha diritto di dare ai propri beni l’organizzazione che ritiene più idonea ai propri
interessi, anche modificandone la consistenza e la destinazione originaria.

L’estinzione dei beni mobili ed immobili


L’estinzione della proprietà dei beni mobili può derivare dall'atto volontario di abbandono
(derelictio) mediante il quale il proprietario cessa la sua relazione con la cosa, perdendola
definitivamente. Dall'atto volontario di abbandono è poi possibile acquistare la proprietà per
occupazione. La stessa cosa non accade per i beni immobili, per i quali l’abbandono non produce
l'estinzione del diritto di proprietà. Quindi, l’abbandono degli immobili, che si concreta nella
cessazione dell'esercizio del potere di fatto (disinteresse all'esercizio del diritto) non provoca
l'estinzione dello stesso, rendendo invece soltanto più facile l’acquisto per usucapione. Ciò
perché il diritto di proprietà degli immobili è imprescrittibile, non può cadere in prescrizione.
Il proprietario può invece perdere il diritto per effetto dell'espropriazione per pubblica utilità, che è
ammessa previo indennizzo del proprietario. Il codice civile prevede che quando il proprietario
abbandona la conservazione o l'esercizio di beni che interessano la collettività può aver luogo
l'espropriazione per pubblica utilità, con pagamento da parte dell’autorità amministrativa di una
giusta indennità. L’espropriazione può quindi avvenire nei confronti di beni dei privati per
l’esecuzione di opere pubbliche. Inoltre, l’espropriazione comporta l'estinzione automatica di tutti
gli altri diritti gravanti sul bene esportato, perciò comporta l'estinzione dei diritti dei terzi.
L'espropriazione comporta l’acquisto del bene immobile a titolo originario, e non derivativo.

La rivendicazione
La lesione dell'interesse del proprietario da parte dei terzi può derivare dall'impedire al
proprietario di esercitare sulla cosa le proprie facoltà di godimento, trattenendo il possesso del
bene senza il suo consenso. L’azione di rivendicazione consente al proprietario di rivendicare il
possesso della cosa e permette quindi al proprietario di riavere il proprio bene, previo
risarcimento da parte del possessore. L’azione di rivendicazione è un'azione reale, in quanto
diretta al recupero della cosa e quindi può essere esercitata nei confronti di tutti. Per vedere

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affermato il suo diritto e ottenere quindi la restituzione della cosa dal possessore, il proprietario
dovrà provare di essere tale. Nello specifico, se il proprietario ha acquisito il diritto a titolo
originario dovrà provare il proprio titolo d’acquisto, se, invece, l’acquisto del diritto è a titolo
derivativo, il proprietario dovrà risalire tutta la catena fino ad arrivare al proprietario a titolo
originario, in modo tale da dar prova di aver acquistato un titolo valido.
Qualora il bene rivendicato sia venuto a mancare (per distruzione), il proprietario potrà agire nei
confronti del possessore soltanto per ottenere il risarcimento dei danni.

CAPITOLO 19: IL POSSESSO

La proprietà e gli altri diritti reali si manifestano all'esterno attraverso la relazione di appartenenza
tra la cosa e il titolare. L’articolo 1140 enuncia che il possesso è il potere sulla cosa che si
manifesta nell'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso si concreta dunque in
una relazione di fatto tra il soggetto e la cosa, che si manifesta all'esterno tramite l’esercizio della
proprietà (o di altro diritto reale). Il diritto a possedere presenta due requisiti essenziali: corpus
possessionis e animus possidendi. Con corpus possessionis si intende la relazione di
appartenenza tra il soggetto e la cosa, che consente al soggetto di esercitare sulla cosa dei
poteri. Invece, con animus possidendi si intende il fatto che i poteri sulla cosa vengono esercitati
dal soggetto come se venissero esercitati dal titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
Nel primo caso è possibile la detenzione altrui, che si ha quando un altro soggetto ha la cosa
materialmente presso di sé, pur riconoscendo il possesso al reale titolare. Tant’è che il Codice
Civile prevede che si possa possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la
detenzione della cosa. Tuttavia il detentore non ha il requisito dell'animus possidendi, in quanto
egli pur esercitando il possesso sulla cosa, non gli viene riconosciuta la titolarità di essa. È ciò che
accade nel caso del contratto di locazione di un immobile, dove il conduttore, ovvero colui che ha
il possesso dell'immobile, non possiede il requisito dell'animus possidendi, in quanto non è il
titolare dell'immobile, ma ciononostante egli ne detiene il possesso e perciò possiede il requisito
del corpus possessionis. Più correttamente si dovrebbe dire che il conduttore possiede la
detenzione della cosa e non il possesso, in quanto non possiede il requisito dell'animus
possidendi.
Il fatto di essere consapevoli o di ignorare l’esistenza di un diritto altrui sancisce la distinzione tra
possesso di male fede e possesso di buona fede. È possessore di buona fede chi possiede la
cosa ignorando di ledere l’altrui diritto. È possessore di male fede chi possiede la cosa essendo
consapevole di ledere l’altrui diritto. L’ordinamento dispone che in caso di morte del possessore, i
suoi eredi succedano nella stessa relazione con la cosa.

Differenza tra proprietà, possesso e detenzione:


-il proprietario è il titolare del diritto di proprietà.
-il possessore è colui che si comporta nei confronti di un bene come se ne fosse il legittimo
proprietario ma non è detto che lo sia.
-il detentore della cosa colui è colui che ne ha la mera disponibilità, ossia che può utilizzarla tutte
le volte che desidera, pur nella consapevolezza che essa appartiene ad un altro soggetto. Ad
esempio il conduttore che ha le chiavi dell’appartamento e la sua disponibilità ma riconosce che
questo è di proprietà del locatore.
Nello specifico il detentore ha solo il corpus possessionis, ma non l'animus possidendi, in quanto
il detentore ha la disponibilità/il possesso della cosa, ma non è il titolare.
Mentre il possessore ha sia il corpus possessionis che l'animus possidendi, poiché esercita il
possesso sulla cosa (corpus possessionis) e detiene pure la titolarità di essa (animus possidendi).

Gli effetti del possesso


Il possesso, di buona o mala fede, consente a chi lo esercita di far propri i frutti prodotti dal bene
finché non venga effettuata contro di lui l’azione di rivendicazione da parte del proprietario. In
caso di rivendicazione il possessore di buona fede fa suoi i frutti fino al giorno della domanda
giudiziale, rispondendo verso il proprietario invece dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale.
Mentre il possessore di mala fede sarà tenuto alla restituzione dei frutti fin dal primo giorno di

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possesso. Tuttavia, il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese
effettuate per le riparazioni del bene (sia ordinarie che straordinarie). Inoltre nel caso in cui il
possessore di buona fede abbia provocato dei miglioramenti del bene e quindi abbia provocato
un aumento di valore, esso ha anche diritto ad un’indennità (solo se di buona fede).
L’articolo 1153 enuncia la regola "possesso vale titolo", nello specifico l’articolo prevede che
colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquisisca
comunque la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede. L’acquisto non può essere
a titolo derivativo, poiché l'alienante non era il soggetto realmente titolare del bene, di
conseguenza il terzo acquirente acquista il bene a titolo originario. Questa regola vale unicamente
per i beni mobili, per i quali l'assenza della trascrizione nei registri immobiliari rende molto difficile
per il terzo accertarsi che il soggetto che ne detiene il possesso sia effettivamente il titolare del
diritto. Invece, questa regola non vale per i beni immobili, in quanto il terzo può accertarsi della
titolarità del bene consultando i registri immobiliari.

L'usucapione
Il possesso di un bene mobile o immobile, anche se in mala fede, può determinare l’acquisto a
titolo originario della proprietà del bene per usucapione. Ciò accade quando:
-il bene non sia stato acquistato in modo violento o clandestino;
-il possesso sia stato esercitato pacificamente (senza contestazioni da parte del reale
proprietario), pubblicamente e continuamente per un determinato periodo di tempo, ovvero 20
anni per i beni immobili e 10 anni per i beni mobili registrati o per i beni mobili se il possessore è in
buona fede (altrimenti 20 anni anche per i beni mobili).

Le azioni a tutela del possesso


La rilevanza che il possesso assume coi terzi induce il legislatore a riconoscere al possessore una
specifica protezione volta alla conservazione del bene posseduto. Le azioni possessorie (ovvero le
azioni volte a conservare il possesso) possono essere esercitate dal possessore
indipendentemente dal fatto di essere effettivamente titolare del diritto di proprietà, in quanto le
azioni possessorie sono dirette a far cessare sulla cosa molestie da parte dei terzi. L’articolo 1168
enuncia l’azione di spoglio o di reintegrazione e nello specifico dispone che chi è stato spogliato
del possesso può, entro l’anno, chiedere contro l’autore dello spoglio la reintegrazione del
possesso. Vi è poi l’articolo 1170 che tratta l’azione di manutenzione e prevede che chi è stato
molestato nel possesso può, entro l’anno, chiedere la manutenzione del possesso, ovvero può
chiedere la cessazione delle molestie.

CAPITOLO 20: I DIRITTI REALI DI GODIMENTO SU COSA ALTRUI

Il diritto reale minore: il diritto di godimento e di garanzia


Il carattere di esclusività del diritto reale impedisce che su una cosa possano esistere diversi diritti
uguali. Se ciò dovesse capitare ci troveremmo di fronte a un conflitto tra soggetti diversi, dove
ciascuno afferma di essere l’unico legittimato al diritto sul bene. In tal caso sarebbe necessario
l’intervento del giudice, il quale deve accertare quale sia l’unico diritto esistente sul bene.
Invece, non va contro il principio dell’esclusività la concorrenza tra diritti reali di diverso contenuto
(non uguali) sullo stesso bene. Ad esempio il diritto alla proprietà sul bene può essere affiancato
da un altrui diritto reale minore (diritto reale su cosa altrui). Il titolare del diritto minore convive
con il proprietario, esercitando sul bene delle facoltà più limitate. L’esistenza di un diritto reale
minore (si parla di diritto reale su cosa altrui) provoca una compressione del diritto reale della
proprietà, compromettendone la pienezza delle facoltà. Il proprietario, spogliato di alcune delle
sue facoltà, riacquista la pienezza delle sue facoltà nel momento in cui cessa la compressione,
ovvero nel momento in cui si estingue il diritto minore.
Il diritto reale minore può essere acquistato o a titolo originario o a titolo derivativo (come accade
nella maggior parte dei casi). L’acquisto a titolo derivativo incide sul diritto di proprietà per mezzo
della costituzione di un diritto nuovo, di contenuto minore rispetto a quello più ampio. Il diritto
minore deriva dal diritto più ampio e dunque il diritto minore non può intaccare la titolarità del
proprietario. Perciò, l’atto di acquisto a titolo derivativo non trasferisce, ma costituisce il diritto
minore, che pur sempre deriva dal diritto più ampio (di proprietà).

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I diritti reali su cosa altrui (diritti minori) sono solitamente temporanei.


I diritti reali su cosa altrui si dividono in due grandi categorie: diritti di godimento e diritti di
garanzia.
I diritti di godimento attribuiscono al titolare ampie facoltà di godere della cosa di proprietà
altrui, tant’è che al proprietario non spettano le facoltà derivanti dall'oggetto del diritto reale
minore, finché esso esiste. Invece, i diritti di garanzia sono diretti ad assicurare al creditore una
specifica garanzia nel caso di inadempimento del debitore. I diritti di garanzia hanno il fine di
rafforzare la generica garanzia patrimoniale del debitore, concentrando tale garanzia su beni
specifici, sui quali il titolare del diritto reale (il creditore) dispone di specifiche facoltà. Tuttavia fino
a quando non si verifica l’inadempimento, il proprietario (il debitore) può continuare ad esercitare
la piena facoltà di godimento su tali beni specifici. Quindi, la costituzione di un diritto reale di
garanzia è diretta a rafforzare la tutela del creditore nel caso di inadempimento del debitore.
Dunque, i beni specifici oggetto del diritto di garanzia verranno destinati al creditore solo nel caso
di inadempimento.

Usufrutto, uso e abitazione (diritti di godimento)


Il diritto di usufrutto attribuisce al titolare per un tempo determinato il diritto di godere della cosa
che è oggetto del diritto e di trarne da essa i frutti che essa produce.
Il diritto di usufrutto può nascere da un comune contratto, dove l’avente causa (colui che riceve il
bene in usufrutto) sarà tenuto a un corrispettivo a vantaggio del dante causa (a meno che si tratti
di una donazione). L'avente causa, ovvero il titolare del diritto di usufrutto, ha il diritto di godere
delle facoltà del bene, e, dunque, tali facoltà vengono sottratte al proprietario, che proprio per
questo viene definito nudo (in quanto privato di tutte le facoltà sul bene ceduto in usufrutto).
Come detto all'inizio, il diritto di usufrutto è un diritto temporaneo. L’ordinamento prevede una
durata massima che è pari alla durata della vita dell'usufruttuario (il titolare del diritto), nel caso in
cui esso sia una persona fisica, mentre nel caso in cui l'usufruttuario sia una persona giuridica la
durata massima è pari a trent'anni. L’obiettivo è quello di evitare che le facoltà di godimento e di
appropriazione dei frutti restino in testa a un soggetto diverso dal proprietario per un tempo
illimitato. Proprio per questa ragione l’ordinamento non permette che nella titolarità dell'usufrutto
si possa succedere. L'usufruttuario pur godendo della cosa, della quale tra l’altro ne detiene il
possesso, e appropriandosi dei frutti che la stessa produce, ne deve rispettare la destinazione
economica, stabilita dal proprietario al momento della costituzione del diritto di usufrutto. Ad
esempio l’usufruttuario di un immobile a destinazione abitativa non può mutare la destinazione
economica in commerciale. Inoltre, l’usufruttuario ha l'obbligo di comportarsi con la diligenza di
un buon padre di famiglia e, pertanto, cessato l’usufrutto deve restituire il bene nella stessa
consistenza che aveva al momento della costituzione del diritto, a meno che si tratti di un bene
deteriorabile. Sono quindi a carico dell'usufruttuario le spese e gli oneri derivanti dal
mantenimento (dalla custodia, dalla manutenzione, dall'amministrazione) del bene, ovvero le
spese di ordinaria amministrazione; mentre sono a carico del nudo proprietario le spese di
straordinaria amministrazione. L'usufruttuario ha poi il diritto di ricevere un indennizzo, qualora
abbia apportato dei miglioramenti al bene.
L’estinzione del diritto di usufrutto oltre che per scadenza del termine di durata avviene anche per
prescrizione, ovvero per effetto del non utilizzo del bene per vent’anni. L'usufrutto si può inoltre
estinguere qualora, per qualunque evento l'usufruttuario e il proprietario diventino la stessa
persona. Infine, anche l'oggettiva impossibilità di continuare ad esercitare le facoltà di godimento
ne giustifica l'estinzione dell'usufrutto, per perimento totale della cosa. Può poi accadere che
l'usufrutto si estingua per abusi dell'usufruttuario, ad esempio nel caso in cui esso non compia
spese di ordinaria manutenzione, volte al mantenimento del bene.
Le stesse norme dettate in materia di usufrutto si applicano anche ai diritti di uso e abitazione,
che si caratterizzano per il loro contenuto meno ampio.
Il Codice Civile tratta il diritto di usufrutto dall'articolo 978 al 1020, mentre dall’articolo 1021 al
1026 vengono definiti i diritti di uso e abitazione.
Il diritto d'uso (articolo 1021) attribuisce al titolare la facoltà di servirsi della cosa che ne è
oggetto e, se è fruttifera, di raccoglierne i frutti, ma soltanto per quanto occorre ai bisogni suoi e
della famiglia (ecco qua la differenza rispetto all'usufrutto). Quindi il titolare ha la facoltà di
godimento del bene nei limiti dei bisogni suoi e della sua famiglia. Diversamente, ai sensi
dell'articolo 1022, chi ha il diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni
suoi e della famiglia. Si sottintende dunque il divieto di utilizzare/abitare la casa in modo diverso
da quello occorrente a soddisfare i bisogni del titolare e della sua famiglia. Quindi il titolare del

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diritto di abitazione deve sottostare alla destinazione economica dell'oggetto, che è una
destinazione di tipo abitativo.

Il diritto di superficie (diritto di godimento)


Il diritto di superficie (articolo 952) attribuisce al titolare la facoltà di fare e mantenere al di sopra
o al di sotto del suolo altrui una costruzione, acquistandone la proprietà (della costruzione, non
del suolo). Il diritto di superficie impedisce che la costruzione realizzata al di sopra o al di sotto del
suolo diventi di proprietà del proprietario del suolo. Il titolare del diritto di superficie, ovvero il
titolare del diritto minore (o parziario), acquisisce la proprietà superficiaria. La costituzione del
diritto di superficie consente dunque di staccare dalla proprietà del suolo la proprietà
dell'immobile.
Si distingue tra diritto di superficie in senso stretto, ovvero il diritto a costruire e a mantenere la
costruzione sul suolo altrui, e la proprietà superficiaria di un immobile, ovvero la proprietà della
costruzione già esistente sul suolo altrui. In entrambi i casi il diritto di superficie può essere
costituito a tempo determinato, perciò allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e
il proprietario del suolo diventa anche proprietario dell'immobile. Qualora invece il diritto di
superficie sia stato costituito a tempo indeterminato, esso è soggetto a prescrizione e quindi ciò
provoca l’estinzione nel caso in cui il titolare del diritto di superficie non utilizzi il bene per un
periodo di vent’anni.
Si distingue dall'accessione come modo di acquisto della proprietà a titolo originario (trattata a
pagina 45).

Servitù prediale (diritto di godimento)


La servitù prediale consiste nel peso posto sopra un fondo (fondo servente), per l’utilità di un
altro fondo (fondo dominante) appartenente a diverso proprietario. Si parla di servitù industriale
quando l’utilità del fondo dominante viene soddisfatta dal peso imposto sopra il fondo servente
per il fine di un’attività industriale. Si tratta quindi di un diritto reale di godimento su cosa altrui che
si manifesta nell'attribuzione di una serie di facoltà al titolare del fondo dominante, il quale
esercita tali facoltà sul fondo servente. Il proprietario del fondo servente è così tenuto a tollerare
l’esercizio delle facoltà altrui. Inoltre il proprietario del fondo servente non è tenuto a compiere
alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del titolare (del fondo dominante).
Siccome la servitù prediale è un diritto su cosa altrui, essa può ricorrere soltanto nel caso in cui il
proprietario del fondo servente e il proprietario del fondo dominante siano soggetti diversi.
Ovviamente per poter esercitare le facoltà derivanti dal diritto della servitù prediale è necessario
che tra i due fondi vi sia un rapporto di vicinanza.

(Enfiteusi
L'enfiteusi è ormai desueto (inutilizzato) e di scarsa importanza pratica. L'enfiteusi era destinato a
favorire lo sfruttamento delle potenzialità produttive del fondo agricolo, accordando al titolare
della terra (il coltivatore) un diritto reale corrispondente a quello del proprietario sui frutti del
fondo. L'enfiteuta (il coltivatore che coltiva il fondo di un altro proprietario) ha l’obbligo di pagare
al concedente (il proprietario) un canone periodico. )))

CAPITOLO 21: LA COMUNIONE NEI DIRITTI REALI

La comunione
Gli articoli 1100 e seguenti disciplinano la proprietà o altro diritto reale nel caso in cui spetta a più
persone in comune. La comunione viene regolata come modalità di appartenenza alternativa
all'appartenenza solitaria ed è quindi regolata con specifiche norme. Il carattere esclusivo del
diritto reale non viene intaccato dalla comunione e neanche dalla coesistenza tra la proprietà e il
diritto minore, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Il carattere esclusivo del diritto reale
non permette che sullo stesso bene possano concorrere più diritti reali uguali, appartenenti a
soggetti diversi. Tuttavia è possibile e non è in contrasto con il principio dell'esclusività la
comunione, che consiste nell'appartenenza di un unico diritto a una pluralità di persone, che sono

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titolari del diritto in comunione, ovvero per quote di spettanza. Ciò che permette alla comunione
di essere possibile è l’esistenza di un unico diritto in comunione tra più persone, dunque non
concorrono sullo stesso bene più diritti reali uguali, ma uno solo in comunione tra più soggetti.
L’articolo 1101 prevede che le quote dei partecipanti alla comunione si presumano uguali.
Ciascun partecipante può servirsi dell'intera cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e
non impedisca ad altri di farne uso. La comunione è dunque la comune spettanza a più soggetti
dell'unico ed esclusivo diritto, in cui i soggetti sono concorrenti nella titolarità del diritto in ragione
della quota vantata. La spettanza in base alle quote non vuol dire che il bene viene frazionato in
diverse parti in base al numero dei soggetti, ma vuol dire riconoscere a tutti la spettanza del bene
nei limiti della quota vantata.

Dunque, come abbiamo già detto, il bene spetta ai comunisti (i soggetti facenti parte della
comunione) nei limiti della quota vantata. Più nello specifico, la quota misura le facoltà e i doveri
spettanti al singolo comunista. Così come per la spettanza solitaria, anche nel caso della
comunione è sempre la cosa a soddisfare l’interesse del comunista, non la quota.
Ai sensi dell'articolo 1104 ciascun partecipante deve contribuire alle spese necessarie alla
conservazione e al godimento della cosa comune e alle spese decise (deliberate) dalla
maggioranza dei partecipanti.
Inoltre, ciascun partecipante può cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota.
Può poi accadere che i partecipanti decidano di alienare l’intero bene. L’articolo 1108 impone il
consenso di tutti i partecipanti per l'alienazione della cosa comune, non è perciò sufficiente la
semplice maggioranza, ma è necessaria in tal caso l’unanimità.

Il condominio negli edifici


La comunione assume una speciale connotazione quando ha come oggetto un edificio diviso in
più unità immobiliari, ciascuna delle quali di proprietà esclusiva di un soggetto e tutte unite tra
loro dalla comune appartenenza ad un unico edificio. Questa particolare situazione di comunione
prende appunto il nome di condominio, che consiste nella coesistenza di beni in proprietà
esclusiva all'interno di un unico immobile (edificio, complesso immobiliare), e di spazi comuni
destinati a soddisfare utilità comuni ai singoli proprietari. L’articolo 1119 dispone che le parti
comuni dell'edificio non sono soggette a divisione (a meno che la divisione possa farsi senza
rendere meno comodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i
partecipanti al condominio). Ciascun condomino deve contribuire alle spese necessarie per la
conservazione e per il godimento delle parti comuni, nonché per le innovazioni deliberate dalla
maggioranza in proporzione al rapporto. Infatti, la spettanza delle parti comuni a ciascun
proprietario è calcolata mediante il rapporto tra l'estensione, l'ubicazione e le eventuali altre
caratteristiche oggettive del bene. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti
comuni, né può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione di esse. La
spettanza delle cose comuni impone di organizzare la ripartizione delle spese condominiali tra i
condomini mediante: un regolamento di condominio, la nomina di un amministratore di
condominio.
Il rapporto condominiale è assai più strutturato rispetto all'ordinaria comunione.
Tale rapporto si costituisce per effetto dell'acquisto della proprietà esclusiva del singolo bene, al
quale segue l’acquisto della comproprietà sui beni comuni.
Lo scioglimento di un condominio può avvenire solo nel caso in cui il complesso immobiliare sia
suscettibile di divisione, ossia solo se può essere divisibile. In altre parole, lo scioglimento del
condominio è possibile qualora un edificio si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche
di edifici autonomi.
(Laddove la divisione non sia possibile, in quanto bisognerebbe procedere ad una ristrutturazione
dell'edificio, lo scioglimento di un condominio può essere approvato soltanto dall'assemblea con
un numero di voti che rappresenti i due terzi del valore dell'edificio e rappresenti la maggioranza
dei partecipanti al condominio.)
Quindi, dal condominio non ci si può sciogliere da soli, ma lo scioglimento può avvenire solo nei
due casi precedentemente riportati.

Lo scioglimento della comunione e la divisione


Il diritto di domandare lo scioglimento del rapporto giuridico di comunione è riconosciuto a
ciascuno dei partecipanti. Se, quindi, uno dei partecipanti decide di sciogliere la comunione, gli
altri non possono impedirlo. Il diritto alla divisione appare, quindi, come un vero e proprio diritto
potestativo, in quanto gli altri comunisti non possono far altro che subire la decisione presa.

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Come conseguenza allo scioglimento della comunione, vi sarà la divisione della cosa. La divisione
di norma ha luogo in natura, ma solo se la cosa può essere divisa in parti corrispondenti alle
quote dei partecipanti. In caso contrario si procederà alla vendita della cosa e alla ripartizione del
ricavato in base alle quote dei partecipanti.
Per evitare che la volontà di uno solo possa provocare lo scioglimento della comunione, i
partecipanti possono stipulare un patto che prevede la durata della comunione per un tempo
determinato, che non può superare i 10 anni.

CAPITOLO 22: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO: LINEAMENTI GENERALI

Il rapporto obbligatorio (o di obbligazione)


Il rapporto di obbligazione è la forma giuridica che permette al soggetto attivo di conseguire,
attraverso la cooperazione del soggetto passivo, un bene che ancora non gli spetta, ma che su di
esso ha il diritto di instaurare un possesso o un'appartenenza. Dunque, il soggetto attivo non
dispone ancora del bene, ma dispone del titolo per conseguirlo. Il soggetto attivo ha il diritto di
pretendere che il soggetto passivo esegua la prestazione, prestazione attraverso la quale il
soggetto attivo otterrà il bene finale. Il rapporto obbligatorio è un rapporto giuridico tra soggetti
determinati, dove il debitore (soggetto passivo) è tenuto ad eseguire una determinata prestazione
volta a procurare al creditore (soggetto attivo) l’utilità finale attesa. Quindi il creditore non vanta
una situazione di spettanza nei confronti di tutti (erga omnes), ma tale situazione potrà essere
fatta valere soltanto nei confronti del debitore. Il diritto del creditore, che prende il nome di diritto
di credito, non è perciò un diritto assoluto (erga omnes), ma è un diritto relativo (il creditore è
titolare del diritto soltanto relativamente al debitore). Solo la prestazione del soggetto passivo
soddisferà l’interesse del creditore. La prestazione del debitore ha quindi il fine di consegnare
materialmente il bene al creditore, di cui esso era già proprietario.
Nel caso in cui il soggetto passivo non adempia la sua prestazione (o non la adempia in maniera
esatta), il creditore potrà avviare un'azione giudiziale, volta a chiedere al giudice l'esecuzione
forzata sui beni del debitore inadempiente. Infatti, l’articolo 2740 (come abbiamo già visto)
enuncia che il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti
e futuri. Di conseguenza, il creditore, una volta ottenuto dal giudice l'accertamento
dell'inadempimento, potrà agire sui beni del debitore. Ciò potrà avvenire attraverso
l'assegnazione dal giudice della proprietà del bene dovuto, qualora esso sia presente nel
patrimonio del debitore, oppure potrà essere assegnata al creditore una somma di denaro
equivalente al valore del bene (ricavata dalla vendita forzata dei beni del debitore inadempiente).

L’interesse del creditore (al conseguimento del bene dovuto)


L’oggetto di interesse del creditore è il bene. Il bene viene inteso come il risultato dell’attività
cooperativa del debitore, che consente al creditore di conseguirlo per mezzo dell'esatto
adempimento della prestazione. Per far sì che il rapporto obbligatorio possa costituirsi e possa
restare in vita, il bene non deve esistere soltanto al momento della costituzione del rapporto, ma
deve persistere fino alla scadenza del termine di adempimento. Nel caso in cui l’interesse del
creditore sia venuto meno, ciò comporta l’estinzione del rapporto obbligatorio per inutilità
sopravvenuta. Può inoltre accadere che il debitore esegua esattamente la prestazione, ma non nei
confronti del creditore, bensì nei confronti di un soggetto terzo. In alcuni casi il debitore potrà
comunque liberarsi del rapporto obbligatorio, sebbene il creditore non sia stato soddisfatto e
dunque esso continua a rimanere tale, ma nei confronti di un altro debitore.

La patrimonialità e i requisiti della prestazione


Ai sensi dell'articolo 1174 la prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio deve essere
suscettibile di valutazione economica (elemento oggettivo) e deve corrispondere ad un interesse
del creditore (elemento soggettivo). Dunque, il primo elemento che caratterizza la patrimonialità
della prestazione ha carattere oggettivo e consiste nel fatto che la prestazione debba essere
suscettibile di valutazione economica. Mentre l’elemento soggettivo che caratterizza la
patrimonialità della prestazione è l’interesse del creditore. L'interesse del creditore può essere
anche di natura non patrimoniale (si pensi alle compagnie che pagano una determinata
organizzazione per mettere in mostra il proprio marchio. Essi non ottengono in cambio un
corrispettivo in denaro, ma grazie alla sponsorizzazione riescono a far conoscere il proprio

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marchio a più persone). L’eventuale non patrimonialità dell'interesse del creditore non incide sulla
patrimonialità della prestazione, che rimane comunque suscettibile a valutazione economica.

Obbligazioni di dare, di facere e non facere


La prestazione che il debitore deve eseguire in funzione della soddisfazione del credito può
consistere in un dare da intendere come consegna materiale della cosa e come trasferimento del
diritto di proprietà. Nel caso del dare come consegna materiale della cosa, si ha un’obbligazione
di consegnare, destinata a soddisfare l’interesse del creditore a instaurare con la cosa una
relazione di possesso. Invece, nel caso di dare come trasferimento di un diritto di proprietà, si
tratta di un'obbligazione di trasferire, destinata a soddisfare l’interesse del creditore a conseguire
la titolarità del diritto.
Invece, nelle obbligazioni di facere la prestazione del debitore consiste in un’utilità, ovvero in un
bene che non esisteva al momento della stipulazione del rapporto obbligatorio, ma un bene che
prende forma (che si concreta) attraverso il compimento della prestazione da parte del debitore.
Dunque, è un caso di facere, ovvero di utilità, quando il bene dovuto è il risultato dell’attività
creativa del debitore.
Mentre le obbligazioni di non fare, o obbligazioni negative, hanno come oggetto sempre un bene,
ma non si risolvono nella prestazione del debitore. In altre parole le obbligazioni di non fare non si
estinguono nel momento in cui il debitore esegue la prestazione, bensì nelle obbligazioni di non
fare il bene è il risultato del comportamento del debitore che non fa e, dunque, il non fare da parte
del debitore permette al creditore di conseguire il bene. Perciò, il mancato verificarsi della
prestazione del debitore permette al creditore di conseguire il bene, l’oggetto del rapporto
obbligatorio.
Quindi, nelle obbligazioni di dare l’oggetto della prestazione esiste già al momento della
costituzione del rapporto obbligatorio, mentre nelle obbligazioni di facere e non facere (non fare)
l’oggetto della prestazione non esiste al momento della costituzione del rapporto, ma l’oggetto si
concreterà nel momento in cui il debitore esegue la prestazione (o non la esegue).

L'obbligazione pecuniaria
L'obbligazione che ha come oggetto una somma di denaro, dovuta dal debitore al creditore, si
dice pecuniaria. L’articolo 1277 dispone che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente
corso legale nello Stato al momento del pagamento e per il suo valore nominale. L’adempimento
dell'obbligazione pecuniaria da parte del debitore non viene intesa come atto materiale di
consegna della somma di denaro, ma come prestazione diretta all'estinzione del debito. Quindi, il
creditore soddisfa il proprio bisogno nel momento in cui consegue la somma di denaro,
indipendentemente dal fatto che l’abbia ottenuta materialmente. Ciò perché il creditore può
ricevere la somma di denaro anche attraverso assegni, bonifici, carte di credito.
Il principio nominalistico, sancito nell'articolo, esclude che il rischio di fluttuazione del potere di
acquisto della moneta possa incidere sulla quantità dovuta dal debitore. Dunque, nel caso in cui
la moneta abbia perso potere d'acquisto la somma spettante al creditore rimane sempre la stessa
in base al principio nominalistico. Tuttavia, le parti hanno la facoltà di introdurre nel contratto delle
clausole di salvaguardia contro i rischi da svalutazione (perdita del potere d'acquisto), che
prendono il nome di clausole di valorizzazione. Le clausole di valorizzazione hanno il fine di
adeguare la somma di denaro oggetto dell'obbligazione pecuniaria all'effettivo potere di acquisto
della moneta. Però, in assenza di tali clausole non è possibile che la somma di denaro oggetto
dell'obbligazione pecuniaria possa essere adeguata al potere d'acquisto della moneta.

Si distingue tra debiti di valuta e debiti di valore. Nelle obbligazioni di valore l’oggetto consiste in
una cosa diversa dal denaro, ad esempio il ripristino del patrimonio alla sua originaria
consistenza. Mentre nelle obbligazioni di valuta l’oggetto del contratto è proprio una somma di
denaro.
Il denaro è un bene fruttifero, nello specifico produttivo di frutti civili, che prendono il nome di
interessi. Di conseguenza, i crediti che hanno per oggetto somme di denaro producono interessi
di pieno diritto, salvo che la legge preveda diversamente.
Negli ultimi decenni si è diffusa la moneta virtuale, che si discosta dal sistema di emissione
monetaria monopolizzato dallo Stato e dalle banche centrali. La comunità virtuale attraverso la
moneta virtuale tenta di sottrarre la creazione di moneta al monopolio pubblico. La moneta
virtuale è una sorta di moneta privata, nello specifico è una moneta digitale emessa e controllata

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dai suoi sviluppatori e utilizzata dai membri di una determinata comunità virtuale, ma che non è
regolamentata. Particolare diffusone ha avuto la valuta virtuale "Bitcoin".

Obbligazioni divisibili e indivisibili


Ai sensi dell'articolo 1316, l'obbligazione viene considerata indivisibile quando ha per oggetto una
cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione per sua natura (indivisibilità oggettiva) o per il
modo in cui è stato considerato dalle parti (indivisibilità soggettiva). Viceversa, l'obbligazione si
dice divisibile quando la cosa o il fatto dovuto possono essere frazionati in parti. Per divisione non
si intende il frazionamento della cosa o del fatto nel tempo, ma nello spazio. Nello specifico,
divisibilità e indivisibilità dell'obbligazione di dare o di fare dipendono dalla divisibilità o
indivisibilità della cosa oggetto della prestazione.
L’articolo 1181 enuncia che il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la
prestazione è divisibile. Da questo articolo si evince poi che il creditore, allo stesso tempo, può
accettare un adempimento parziale se la prestazione è divisibile. Invece, l'obbligazione indivisibile
non ammette adempimento parziale.

Le obbligazioni naturali
L’articolo 2034 prevede che non è ammessa la ripetizione (restituzione) di quanto è stato
spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia
stata eseguita da un incapace. Quindi, per obbligazioni naturali si intendono quelle obbligazioni
per le quali dal creditore non deriva alcuna pretesa, ma che il debitore ha deciso di eseguire
spontaneamente. Ai sensi dell'articolo, il debitore che ha eseguito la prestazione per doveri morali
o sociali non ha diritto di richiedere al creditore la ripetizione. Questo perché il dovere morale o
sociale rappresenta una causa legittima per giustificare l'arricchimento del creditore a discapito
del debitore.

Le obbligazioni oggettivamente complesse


Il debitore può essere tenuto a eseguire verso l’unico creditore due o più prestazioni, le quali
possono:
-soddisfare ciascuna un diverso interesse dell'unico creditore;
-soddisfare tutte, cumulativamente (globalmente, complessivamente), un unico interesse del
creditore;
-soddisfare tutte, alternativamente, un unico interesse del creditore.
Occorre distinguere la prima dalle altre due. Nel primo caso il debitore è tenuto ad eseguire
diverse prestazioni, ognuna delle quali volta a soddisfare un interesse diverso del creditore.
Invece, si parla di obbligazione oggettivamente complessa quando alle diverse prestazioni non
corrispondono diversi rapporti giuridici, ma alle diverse prestazioni corrisponde un unico rapporto
giuridico, di cui le prestazioni costituiscono l’oggetto complesso. Possiamo poi classificare le
obbligazioni oggettivamente complesse tra obbligazioni cumulative e obbligazioni alternative. Si
parla di obbligazione cumulativa quando l’interesse del creditore viene soddisfatto soltanto
dall’esecuzione cumulativa (complessiva) di tutte le prestazioni. Dunque, il debitore si libera del
debito soltanto eseguendo tutte le prestazioni a lui a carico. Caso diverso per le obbligazioni
alternative, dove è previsto che il debitore si liberi dall'obbligazione eseguendo soltanto una delle
prestazioni. L’esecuzione di una prestazione è alternativa all'altra; se io eseguo una prestazione,
non devo eseguire le altre. In questo caso il creditore viene soddisfatto se il debitore esegue una
delle prestazioni oggetto del rapporto giuridico, poiché per il creditore è irrilevante quale
prestazione venga eseguita, ciò che a lui interessa è che almeno una delle prestazioni oggetto del
contratto venga eseguita.

Le obbligazioni soggettivamente complesse


Per obbligazioni soggettivamente complesse si intendono quelle obbligazioni in cui vi sono più
creditori a fronte di un unico debitore oppure più debitori a fronte di un unico creditore (mentre
nelle obbligazioni oggettivamente complesse era sempre un debitore a fronte di un creditore. In
quelle oggettivamente complesse vi erano diverse prestazioni come oggetto del contratto, mentre
in quelle soggettivamente complesse vi sono diversi soggetti, dal lato attivo o dal lato passivo).
A prescindere dalla pluralità di debitori legati al creditore o dalla pluralità di creditori legati al
debitore lo scopo rimane comunque quello di soddisfare un unico interesse del creditore. Unico

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interesse, dunque, il creditore nel caso della pluralità di debitori non potrà ricevere da ogni
debitore la prestazione che soddisfa il suo unico interesse. Stesso discorso nel caso della pluralità
di creditori, dove ciascun creditore non potrà esigere dall'unico debitore l’intera prestazione.
D’ora in poi ci riferiremo soltanto al caso della pluralità di debitori, ma in ogni caso la stessa logica
vale per il caso della pluralità di creditori. Ciascuno dei debitori è tenuto ad adempiere per una
specifica frazione del debito intero, tale frazione sarà poi destinata a coniugarsi con l’esecuzione
della relativa frazione di tutti gli altri debitori, così che l’insieme delle prestazioni eseguite da
ciascun debitore soddisfi l’unico interesse del creditore. In questo caso si parla di obbligazioni
parziarie, in quanto ogni debitore è tenuto ad eseguire solo una parte del debito complessivo.
Si ha invece l'obbligazione ad attuazione congiunta quando tutti i debitori adempiono insieme la
prestazione.
Vi sono poi le obbligazioni solidali, che si hanno quando un debitore esegue l’intera prestazione
con effetti liberatori per tutti gli altri debitori. Oppure, nel caso della pluralità dal lato attivo,
quando il creditore riceve l’intera prestazione dall'unico debitore, quest’ultimo viene liberato
dall’esecuzione della prestazione verso gli altri creditori. È dunque sufficiente che esegua l’intera
prestazione nei confronti di un creditore per liberarlo al contempo dall'obbligazione verso gli altri
creditori. Questa è l’obbligazione solidale.
Quando la prestazione dell'obbligazione soggettivamente complessa è indivisibile potrà essere
eseguita soltanto attraverso l'obbligazione solidale o ad attuazione congiunta. Mentre la
prestazione divisibile potrà essere eseguita o attraverso un'obbligazione solidale o attraverso
un'obbligazione parziaria. È logicamente possibile per un bene divisibile eseguire l’obbligazione
parziaria, ma è altrettanto possibile eseguire un'obbligazione solidale se un debitore, nonostante
la divisibilità, esegua l’unica prestazione dovuta liberando gli altri debitori (penso ad esempio nel
caso in cui il debitore raccolga il relativo bene da tutti gli altri debitori e lo consegni lui stesso al
creditore in nome degli altri. Ma non è possibile un’obbligazione ad attuazione congiunta perché
la prestazione non può essere eseguita congiuntamente, vista la divisibilità).
L'obbligazione in solido verrà poi divisa tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, in parti che si
presumono uguali, se non è diversamente pattuito.
Esiste poi una distinzione tra solidarietà uguale e disuguale. Nel caso di solidarietà disuguale il
rapporto di solidarietà tra il debitore interessato e i debitori senza interesse vedrebbe il primo
tenuto all'adempimento verso il creditore in via prioritaria rispetto agli altri, poiché i secondi privi
di interesse. Gli altri debitori sono dunque tenuti all'adempimento in via sussidiaria (di sostegno,
ausiliaria). Di conseguenza il creditore di un’obbligazione solidale disuguale non potrebbe
liberamente scegliere il debitore a cui chiedere il pagamento, ma dovrebbe seguire un preciso
ordine. Dovrebbe prima chiedere al debitore interessato e, successivamente, in caso di
insoddisfazione, chiedere ai debitori ausiliari.

CAPITOLO 23: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO: FONTI


DELL'OBBLIGAZIONE E REGOLE GENERALI DI DISCIPLINA

Le fonti dell'obbligazione: il contratto e l’illecito civile


Ai sensi dell'articolo 1173 le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro
atto o fatto idoneo a produrle in conformità della legge. In sostanza, l’articolo individua nel
contratto e nell'illecito specifiche fonti di obbligazione. Abbiamo già esaminato nei capitoli
precedenti che il contratto può produrre effetti obbligatori. Invece, l'illecito è sempre fonte
dell'obbligazione di risarcimento che deriva dalla violazione di un dovere giuridico.
Si ha la sanzione di tipo civile quando un soggetto viola una norma funzionale alla soddisfazione
di un interesse altrui protetto. La sanzione civile ha una funzione reintegratoria ed è difatti
l'obbligazione, posta a carico del violatore, a risarcire il danno procurato attraverso la violazione.
La sanzione civile, diversamente da quella penale, non è diretta a punire il colpevole, ma è diretta
a risarcire il soggetto che ha subito una lesione patrimoniale e riguarda unicamente un problema
tra privati. Dunque, si ha una sanzione civile quando il soggetto violatore lede il patrimonio di un

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altro soggetto e lede perciò anche un suo interesse giuridicamente rilevante. Caso
completamente diverso si ha riguardo alla sanzione penale, dove il reo (colui che ha commesso il
reato) è chiamato a rispondere verso lo Stato, poiché ha violato una norma penale posta a
salvaguardia di interessi di carattere generale e, dunque, non è chiamato a rispondere solo nei
confronti di uno specifico soggetto privato. Il reo è chiamato a rispondere nei confronti di tutti e
quindi nei confronti dello Stato, in quanto ha commesso un reato e dunque ha violato un interesse
di carattere generale. Ritornando alla sanzione civile, non si tratta quindi di sanzionare un
comportamento in quanto illecito, ma si tratta di sanzionare il violatore attraverso il risarcimento
del danno ingiusto che ha causato al soggetto, il quale ha subito una lesione di tipo patrimoniale.
Con lesione di tipo patrimoniale ci si riferisce alla lesione di una situazione soggettiva attiva
giuridicamente rilevante, di conseguenza se il danno ingiusto causato dal violatore non lede
alcuna situazione soggettiva giuridicamente rilevante il violatore non è tenuto al risarcimento del
danno. Dunque, può essere risarcito solamente il danno ingiusto che lede una situazione
soggettiva attiva giuridicamente rilevante.
Con "danno ingiusto" ci si rimanda all'articolo 2043, il quale enuncia che qualunque fatto doloso o
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire
il danno. Quindi, con "danno ingiusto" si intende qualunque lesione di interessi tutelati
dall’ordinamento giuridico, precisando che non tutti gli interessi sono giuridicamente rilevanti,
quindi non sempre la lesione di un interesse altrui provoca un danno ingiusto.
Collegato all'articolo 2043 vi è poi l’articolo 1218 che prevede che il debitore che non esegue
esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno (se non prova che
l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da
causa a lui non imputabile). Quanto previsto dagli articoli 2043 e 1218 rappresenta le norme
generali riguardo alla responsabilità civile. La responsabilità civile si articola nell'ambito dell'illecito
extracontrattuale e dell'illecito contrattuale.
L'illecito extracontrattuale, che trova riferimento nell'articolo 2043, riguarda qualsiasi tipo di
violazione di situazioni giuridicamente rilevanti diverse da quelle derivanti dall'inadempimento.
Requisiti dell'illecito extracontrattuale sono l’imputabilità dell'atto o del fatto al danneggiante, a
titolo di dolo o di colpa, e il nesso di causalità tra il danno e l’atto o il fatto, che rende il danno
conseguenza diretta del fatto o dell'atto.
D’altro canto l'illecito contrattuale, che trova riferimento nell'articolo 1218, si riferisce proprio
all'inadempimento del debitore nei confronti del creditore.
Inoltre, il legislatore attraverso l’articolo 2044 esclude in ogni caso l'imputabilità dell'evento
dannoso all'autore quando quest'ultimo agisca per legittima difesa di sé o di altri, oppure si trovi
in uno stato di necessità, come necessità di salvare sé o altri dal pericolo. Tuttavia al danneggiato
è comunque dovuta un'indennità, ossia una reintegrazione patrimoniale, ma non derivante da
illecito.
Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di
volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità derivi da sua colpa.
La capacità di intendere e di volere è dunque il presupposto per l’imputabilità. Nel caso di illecito
compiuto da soggetti incapaci, il codice non esclude il risarcimento, ma prevede dei criteri di
imputabilità alternativi al dolo e alla colpa. L’articolo 2047 prevede che in caso di danno cagionato
da persona incapace, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace
(salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto). Diversamente è previsto nel caso di soggetti
legalmente incapaci, dove l’articolo 2048 dispone che per l'illecito compiuto dai figli minori non
emancipati rispondano il padre e la madre, o il tutore. Tale responsabilità viene estesa anche a
coloro che insegnano un mestiere o un'arte, quindi essi sono responsabili del danno cagionato
dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti. Tuttavia se essi dimostrano di non aver potuto
impedire il fatto sono liberati dalla responsabilità e quindi non sono tenuti a risarcire il danno che
hanno causato.
La valutazione del danno da risarcire avviene applicando le norme dettate nel caso di illecito
contrattuale, ma comunque esse valgono anche per l'illecito extracontrattuale. Nello specifico, ai
sensi dell'articolo 1223, il danno da risarcire dovrà comprendere non soltanto il danno emergente
(si intende il danno che ha provocato l'effettiva diminuzione patrimoniale), ma pure il lucro
cessante, ossia il mancato guadagno derivato da tale lesione. Inoltre, secondo l’articolo 1226, nel
caso in cui il danno non possa essere valutato nel suo preciso ammontare, il giudice effettuerà
una valutazione equitativa. La patrimonialità del danno non va confusa con la natura patrimoniale
del diritto (della situazione giuridicamente rilevante) leso dall'atto o dal fatto. Ciò perché il danno
patrimoniale può derivare anche dalla lesione di un diritto non patrimoniale. Ad esempio si ha il
danno patrimoniale anche nel caso della lesione di diritti della personalità, seppur essi siano dei

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diritti non patrimoniali. In questa ipotesi la difficoltà si ha nella quantificazione del danno
risarcibile, perciò la valutazione del danno viene effettuata o attraverso delle tabelle statistiche o
attraverso la valutazione da parte del giudice tramite i principi di equità. Invece, nel caso di danno
non patrimoniale il risarcimento è dovuto soltanto nei casi previsti dalla legge. Si tratta quindi di
danni risarcibili solo se è avvenuto un illecito per il quale la risarcibilità del danno non patrimoniale
è espressamente prevista dalla legge. In questi casi l’unica valutazione possibile del danno è
quella equitativa, a causa della mancanza di una lesione patrimoniale, di un danno patrimoniale.
Ad esempio si pensi alla morte di un figlio per incidente stradale, il danno non è di tipo
patrimoniale, perché la morte di una persona non può essere valutata in denaro. Quindi, in questi
casi, il giudice nella valutazione del risarcimento dovrà tenere in considerazione la sofferenza
morale che ne consegue per i genitori.

Le fonti di obbligazione da atto lecito non contrattuale


Le obbligazioni possono derivare anche da altri fatti o atti leciti diversi dal contratto. Un esempio
ne sono le obbligazioni restitutorie, ovvero quelle obbligazioni in cui una parte riceve un
pagamento non dovuto. Si ha dunque uno spostamento patrimoniale verificatosi in assenza
dell'obbligazione da adempiere. Le obbligazioni restitutorie possono essere un indebito oggettivo
o un indebito soggettivo.
L’articolo 2033 disciplina l'indebito oggettivo ed enuncia che chi ha eseguito un pagamento non
dovuto ha diritto di ripetere (riavere) ciò che ha pagato. In questo caso l’unica obbligazione
esistente è l’obbligazione di restituzione da parte del soggetto che ha ricevuto il pagamento
(accipiens) non dovuto, in quanto il soggetto che ha effettuato il pagamento (tradens) non dovuto
ha diritto di ripetere (riavere) ciò che ha pagato, come viene previsto dall'articolo 2033. Dunque,
vista l'inesistenza dell’obbligazione si ha un ingiustificato spostamento patrimoniale, prodotto
dall'esecuzione della prestazione oggettivamente non dovuta e, proprio per questo, impone al
soggetto che la riceve di restituirla.
La medesima obbligazione restitutoria si ha nel caso di indebito soggettivo, disciplinato
dall'articolo 2036, il quale enuncia che chi ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base
ad un errore scusabile, può ripetere (riavere) ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia
privato in buona fede del titolo. In questo caso quindi il rapporto obbligatorio esiste
oggettivamente, ma il creditore è creditore di un soggetto diverso da quello che ha effettuato il
pagamento. Il debitore ha diritto alla ripetizione solo se il suo errore è scusabile. Inoltre, se la cosa
è perita (andata distrutta o perduta), anche per caso fortuito, il creditore che l’ha ricevuta in mala
fede è tenuto a restituirne il valore. Se è solo deteriorata il debitore può chiedere la restituzione e
un’indennità per la perdita di valore. Invece, chi ha ricevuto la cosa in buona fede non risponde
del perimento o del deterioramento di essa. Può accadere poi che chi ha ricevuto la cosa non ne
sia più proprietario, avendola alienata ad un terzo. In questo caso si distingue tra il creditore che
l’ha ricevuta in buona fede e che prima di conoscere l'obbligo di restituirla l’ha alienata, e il
creditore che, invece, nonostante conoscesse l'obbligo di restituirla ha alienato la cosa e dunque
in mala fede. Nel primo caso il creditore dovrà restituire al terzo il corrispettivo conseguito dalla
cessione e il debitore (tradens) subentra nel diritto del creditore verso il terzo (per riavere la cosa).
Nel caso in cui il creditore sia in mala fede, esso è obbligato a restituire in natura la cosa al
debitore, dopo averla recuperata dal terzo, o, in alternativa, è obbligato a restituirgliene il valore.
Dall'analisi dell'indebito, soggettivo o oggettivo che sia, si evince come lo scopo primario
dell'ordinamento giuridico sia quello di permettere uno spostamento patrimoniale in conseguenza
solo di un'operazione di scambio o comunque di un'operazione espressiva di interessi meritevoli
di protezione giuridica. Perciò, se lo spostamento patrimoniale non deriva da questo tipo di
operazioni, lo spostamento patrimoniale si dice ingiustificato e, dunque, si dovrà avere il
riequilibrio dei patrimoni. Come abbiamo visto per il contratto, l’assenza di una causa rende nullo
il contratto, ecco perché il debitore che ha pagato un indebito ha diritto a ripeterlo, in quanto non
vi è la causa, non vi è alcun contratto tra le parti, non vi è stata alcuna manifestazione di interessi
tra le parti.
Infine, anche la gestione di affari altrui è una fonte lecita non contrattuale. L’articolo in questione
(2028) prevede che chi, senza esservi obbligato, assume coscientemente la gestione di un affare
altrui, è tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di
provvedervi da solo. Ciò è permesso in assenza del dominus (principale) o, almeno, in assenza di
un suo divieto. Tant’è che la gestione di un affare altrui senza una preventiva autorizzazione del
dominus non rientra negli estremi del reato e, dunque, dell'illecito, ma il gestore è obbligato a
continuarla e a condurla a termine finché l’interessato (il dominus) non sia in grado di provvedervi
da solo. Inoltre, il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato,

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sebbene nessun contratto tra lui e il dominus si sia perfezionato. Il gestore ha assunto
consapevolmente la gestione dell'affare altrui per recare al patrimonio del dominus un’utilità,
agisce quindi nell'interesse dell'interessato, pur non essendo stato obbligato da un mandato.
Una volta che l'interessato assume la gestione dell'affare iniziato dal gestore, esso deve
rimborsargli le spese effettuate e inoltre è tenuto ad adempiere alle obbligazioni assunte dal
gestore per conto di lui (del dominus). Tutto ciò è possibile se gli atti di gestione non siano stati
eseguiti contro il divieto del dominus. Se vi è il divieto del dominus, ovviamente il gestore non può
agire per conto del dominus. Mentre se non vi è alcun divieto, allora il gestore può agire per conto
del dominus, nonostante non vi sia stato alcun contratto.

Le regole generali di disciplina


L’articolo 1175 impone che il creditore e il debitore si debbano comportare secondo le regole
della correttezza. La cooperazione tra debitore e creditore deve avvenire secondo buona fede.
Dall'obbligo di correttezza consegue che le parti contrattuali debbano mantenere un
comportamento leale volto alla salvaguardia dell’utilità altrui. La correttezza e la buona fede
nell'esecuzione del rapporto obbligatorio sono dunque delle regole di comportamento che si
concretano con la reciproca lealtà di condotta.
Il debitore si dice in mora quando senza giustificato motivo ritarda l'adempimento o non esegue
l’esatta prestazione e, quindi, è tenuto a risarcire il creditore dei danni derivanti dal ritardo o
dall'inesatta prestazione (il debitore in mora viene anche trattato a pagina 65).
Invece, il creditore si dice in mora quando, senza motivo legittimo, si rifiuta di ricevere il
pagamento o di compiere quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere. In questo
caso il creditore non rispetta i principi di correttezza. Il debitore ha l’interesse di liberarsi
dall'obbligazione eseguendo esattamente la prestazione dovuta. Esso può affermare tale
interesse anche nei confronti del creditore quando quest'ultimo si rifiuta di ricevere il pagamento
senza motivo legittimo, oppure non esegua quanto necessario affinché il debitore possa
adempiere. Il motivo legittimo che può portare il creditore a rifiutare la prestazione del debitore è
se essa non sia esattamente conforme a quella promessa. L'ordinamento tutela l’interesse del
debitore permettendogli di rilevare il rifiuto ingiustificato della prestazione, al fine di imputare a
carico del creditore l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, al fine di non dover pagare al
creditore gli interessi in mora per il mancato adempimento (che non è avvenuto per colpa sua, ma
a causa del creditore), ma invece al fine di far pagare al creditore i danni che gli sono stati causati,
ossia di far pagare al creditore i danni per la sua mora (mora del creditore, per aver rifiutato
l'adempimento senza motivo legittimo o per non aver cooperato per permettere l'adempimento
del debitore), perciò il creditore è tenuto a sostenere le spese per la custodia e la conservazione
della cosa dovuta.

CAPITOLO 24: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO: L'ADEMPIMENTO


DELL'OBBLIGAZIONE

Regole generali
Il codice civile disciplina l'adempimento fissando le regole che il debitore è tenuto a rispettare
quando esegue la prestazione volta a soddisfare l’interesse del creditore. L’esatto adempimento
della prestazione dovuta da parte del debitore a favore del creditore è l’unico atto che produce in
maniera definitiva l’estinzione del rapporto obbligatorio. Il diritto di credito è una situazione
soggettiva attiva volta al conseguimento di un’utilità finale, che il creditore otterrà solo attraverso
l’esatto adempimento della prestazione per mano del debitore.
L’atto di adempimento è innanzitutto disciplinato sotto il profilo del comportamento richiesto al
debitore nello svolgimento dell’attività esecutiva. Infatti, ai sensi dell'articolo 1176, il debitore
nell'adempiere l'obbligazione deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. La specifica
regola di diligenza non impone al debitore un ulteriore dovere giuridico, in aggiunta a quello di
eseguire la prestazione, ma l’articolo fissa un criterio generale per valutare la condotta del
debitore, al fine di imputargli l’eventuale inadempimento. A proposito dell'inadempimento,
l’articolo 1218 prevede che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto

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al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo sia stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. A liberare il debitore
dall’obbligazione risarcitoria è, dunque, soltanto l’impossibilità della prestazione derivante da
causa a lui non imputabile. L’articolo 1176 si collega proprio a questa eventualità, poiché
nonostante il debitore si sia comportato secondo la diligenza del buon padre di famiglia, ciò non è
bastato per potere adempiere l'obbligazione, in quanto l'inadempimento deriva dall’impossibilità
di eseguire la prestazione.
Inoltre, l’articolo 1182 dispone riguardo al luogo dell’esecuzione dell'obbligazione e dispone che
esso deve essere espressione della volontà delle parti. Qualora non venga concordato dalle parti
e, quindi, qualora non vi sia una specifica clausola negoziale, il luogo di adempimento sarà il
domicilio del creditore, nel caso in cui la prestazione riguardi la consegna di una somma di
denaro.
Invece, l’articolo seguente, ovvero il 1183, si occupa del tempo di esecuzione della prestazione. In
assenza della clausola contrattuale che fissa la scadenza del termine di adempimento, la norma
dispone che il creditore possa esigere la prestazione immediatamente.

L’esatto adempimento sotto il profilo soggettivo: l’adempimento del debitore


Oltre all'esatto adempimento dell’obbligazione sono ritenute essenziali al fine di estinguere
l'obbligazione anche le seguenti caratteristiche: l’esecuzione dell'intera prestazione dovuta,
l'esatta corrispondenza della prestazione eseguita con quella promessa, che il pagamento
provenga dal debitore e che il creditore abbia ricevuto il bene dovuto. Nel momento in cui
ricorrono tutte queste condizioni, l'adempimento del debitore estingue l'obbligazione, la quale,
invece, resta in vita qualora anche solo una di tali condizioni non sia presente.
Dunque, sotto il profilo soggettivo, l’adempimento per poter estinguere il rapporto obbligatorio
deve, innanzitutto, provenire dal debitore.

Il ruolo del terzo


L’articolo 1180 prevede che l’obbligazione possa essere adempiuta da un terzo, ossia da un
soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, a meno che il creditore non abbia un particolare
interesse a che il debitore la esegua personalmente.
La provenienza del pagamento da un soggetto diverso dal debitore, non ha come diretta
conseguenza il rifiuto del creditore. Anzi, l’articolo prevede che la prestazione possa essere
eseguita da un terzo, anche contro la volontà del creditore, a meno che il creditore sia titolare di
uno specifico interesse a che il debitore la esegua personalmente. L’adempimento del terzo è
sempre atto a soddisfare l’interesse del creditore a ricevere il bene dovuto. Però, l’adempimento
del terzo è atto a estinguere l'obbligazione attraverso la soddisfazione dell'interesse creditorio,
invece nel caso dell'adempimento del debitore l'estinzione dell'obbligazione avviene tramite
l'attuazione del diritto di credito. Dunque, per estinguere un'obbligazione eseguita da terzo è
necessario che ciò provochi la soddisfazione dell'interesse del creditore, ecco perché il creditore
può rifiutare tale adempimento qualora sia titolare di uno specifico interesse a che il debitore la
esegua personalmente, di conseguenza ciò comporta che il creditore non abbia l’interesse a che
la prestazione venga eseguita dal terzo. Il rifiuto del creditore si dice legittimo nel caso in cui la
prestazione eseguita dal terzo non sia idonea a soddisfare la stessa utilità che sarebbe derivata
dall'esecuzione da parte del debitore.
L'adempimento del terzo può determinare la liberazione definitiva del debitore dall'obbligo di
pagare, apportandogli così un beneficio, oppure il terzo può decidere successivamente di
recuperare dal debitore quanto sborsato.

L’esatto adempimento sotto il profilo soggettivo: la legittimazione a ricevere


Per poter estinguere l'obbligazione il pagamento (ai sensi dell'articolo 1188) deve essere fatto dal
debitore al creditore o al suo rappresentante, ovvero la persona autorizzata a ricevere la
prestazione. La regola generale prevede che il pagamento debba essere fatto al creditore, in
quanto esso è il soggetto naturalmente legittimato a riceverlo. Tuttavia la legittimazione a ricevere
viene conseguita anche dal rappresentante del creditore, che riceve dal debitore la cosa dovuta in
nome e per conto del creditore (rappresentanza diretta/procura). Di conseguenza la cosa viene
imputata direttamente al patrimonio del creditore, consentendo così al debitore di ottenere
l'estinzione dell'obbligazione.
Inoltre, legittimato a ricevere può essere anche un soggetto diverso dal creditore, che pur non
essendo il suo rappresentante, venga indicato dal creditore come il destinatario del pagamento.
Si parla di indicazione di pagamento, poiché il creditore indica al debitore il soggetto al quale

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poter eseguire il pagamento con pieni effetti estintivi dell'obbligazione. A differenza del
rappresentante, il soggetto indicato (indicatario) riceverà il pagamento in nome proprio ma per
conto altrui. Il rapporto tra indicatario e indicante viene disciplinato dalle norme sul mandato
senza rappresentanza. Quindi, l'indicatario sarà tenuto a trasferire nel patrimonio dell'indicante
quanto incassato e, dunque, soltanto in quel momento si determinerà l'estinzione del rapporto
obbligatorio (ovvero quando l'indicatario trasferisce quanto incassato al creditore, non quando
l'indicatario riceve il pagamento dal debitore).
Il creditore (o qualsiasi altro soggetto legittimato a ricevere il pagamento) deve, su richiesta e a
spese del debitore, rilasciare la quietanza, che permette l'estinzione dell'obbligazione.
Come si può comprendere dall'articolo 1188, non libera il debitore il pagamento effettuato a
soggetti diversi rispetto a quelli descritti precedentemente. Tuttavia, vi è un'eccezione (articolo
1189), che permette al debitore di liberarsi dell'obbligazione qualora esso la esegua nei confronti
del creditore apparente. L’articolo dispone che il debitore che esegue il pagamento a chi appare
legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona
fede. Però, in tale circostanza non vi è l’estinzione del rapporto, ma solamente la liberazione del
debitore dal debito, mentre il creditore continuerà a rimanere tale, potendo chiedere la
soddisfazione del proprio credito al creditore apparente.

L’esatto adempimento sotto il profilo oggettivo: la prestazione in luogo di adempimento


Per giudicare l'esattezza dell’adempimento sotto il profilo oggettivo assumono rilevanza le
disposizioni previste dagli articolo 1181 e 1197. Il primo prevede che il creditore possa rifiutare un
adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile. Il secondo dispone che il debitore non
può liberarsi dall'obbligazione offrendo al creditore una cosa qualitativamente diversa da quella
promessa. Dunque, per essere esattamente adempiuta, la prestazione del debitore deve
consentire al creditore di conseguire il bene dovuto, non un altro bene, seppur esso sia di valore
uguale o maggiore a quello promesso. Tuttavia ciò è possibile qualora il creditore ne dia
l’approvazione. Il creditore è sia legittimato a rifiutare che ad accettare tale adempimento. Nel
caso in cui il creditore acconsenta, l'obbligazione quindi si estinguerà quando la diversa
prestazione verrà eseguita. In tal caso si parla di datio in solutum, o prestazione in luogo di
adempimento, che consente dunque al debitore di liberarsi dall'obbligazione, pur avendo
eseguito una prestazione con oggetto diverso da quello originariamente previsto.

L'adempimento traslativo
Nelle obbligazioni di dare in senso proprio, intese non come obbligazioni di consegnare ma come
obbligazioni di trasferire, il debitore adempie esattamente la prestazione dovuta non mediante un
atto materiale, ma mediante un atto giuridico di trasferimento del diritto, che prende il nome di
pagamento/adempimento traslativo.

CAPITOLO 25: LE MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO


Le modificazioni oggettive del rapporto obbligatorio
L'autonomia contrattuale consente alle parti di intervenire sul contenuto del rapporto giuridico
prima che il debitore adempia esattamente la prestazione al creditore. Le parti, quindi, nel corso
del rapporto obbligatorio possono modificare oggettivamente il contenuto del contratto, pur
senza determinarne l’estinzione di esso mediante sostituzione con un nuovo rapporto
obbligatorio. Dunque, le vicende meramente modificative dell'oggetto dell'obbligazione sono
compatibili con l'originaria fonte dell'obbligazione e, di conseguenza, il rapporto obbligatorio resta
in vita, non viene estinto, nonostante la consistenza oggettiva sia cambiata. Così le vicende
meramente modificative dell'oggetto dell'obbligazione si distinguono dalla vicenda estintiva per
sostituzione di un'obbligazione nuova (che prende il nome di novazione) ad una vecchia. L’articolo
1231 distingue tra estinzione per sostituzione e mera modificazione. Nel primo caso, la
sostituzione dell'oggetto non è compatibile con la conservazione del rapporto. Invece, nella
vicenda meramente modificativa dell'obbligazione le parti intervengono attraverso la stipula di un
nuovo negozio, però basato sulle originarie regole di svolgimento del rapporto obbligatorio.
Affinché ricorra la modificazione è dunque necessario che il rapporto obbligatorio continui ad

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essere regolato dalle originarie norme di disciplina. L'effetto del contratto, a seguito della
modificazione, non è la costituzione di una nuova obbligazione (come accade con la novazione)
ma la mera modificazione oggettiva del rapporto obbligatorio.

Le modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio


La modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio può riguardare i soggetti dal lato attivo,
da cui consegue il cambiamento del creditore originario, o dal lato passivo, da cui deriva il
cambiamento del debitore originario. A seguito di una modificazione soggettiva si avrà la
permanenza dell'obbligazione, ma che vedrà protagonisti l'originario debitore e un creditore
diverso, oppure l'originario creditore e un debitore diverso. Anche in questo caso la sostituzione
di uno dei soggetti originari può generare o una mera modificazione dell'obbligazione originaria
(che resta in vita e resta disciplinata dalle sue originarie regole di svolgimento) o un'estinzione per
novazione soggettiva (per sostituzione). Dunque, la mera modificazione soggettiva del rapporto
obbligatorio si concreta nella successione a titolo particolare del terzo nella titolarità del credito o
del debito, a seconda che il soggetto diverso sia il creditore o il debitore (a seconda che la
modificazione soggettiva sia attiva o passiva). Perciò la successione si ha quando un soggetto
viene sostituito con un altro soggetto (rispetto ai terzi in generale se riguarda un diritto reale, se no
rispetto all'altro soggetto del rapporto giuridico se riguarda un'obbligazione). Il nuovo accordo tra
le parti è quindi diretto a far subentrare il nuovo soggetto nell'originario rapporto obbligatorio e
deve assumere rilevanza, a seconda se sia attiva o passiva, verso il creditore o verso il debitore.

Le modificazioni soggettive attive del rapporto obbligatorio


Per quanto riguarda la successione nel lato attivo dell’obbligazione, il soggetto nuovo subentra
nella titolarità del credito al vecchio creditore e ha interesse ad essere riconosciuto titolare della
situazione soggettiva dal vecchio creditore e dal debitore (originario). Dunque, qualunque
modificazione attuata deve essere portata a conoscenza del debitore, così che possa conoscere
l’identità del soggetto al quale adempiere.
La successione nel credito (nel lato attivo dell'obbligazione) può avvenire tramite vicenda
traslativa o vicenda devolutiva. La vicenda traslativa è determinata da un atto dell’originario
creditore che trasferisce al terzo il credito originario. Invece la vicenda devolutiva presuppone che
il terzo paghi al creditore quanto a lui dovuto dal debitore, sostituendosi poi al creditore originario
per recuperare dal debitore la somma sborsata (al creditore originario). Quindi, nel caso della
vicenda traslativa il creditore originario può effettuare una donazione di credito, ossia può
trasferire al terzo il credito di cui è titolare senza ricevere nulla in cambio. Oppure, si parla sempre
di vicenda traslativa, quando il creditore originario trasferisce il credito al terzo ottenendo (dal
cessionario) una controprestazione di qualunque natura. O, ancora, quando riceve dal cessionario
un qualunque interesse meritevole di protezione.
Invece, nel caso della vicenda devolutiva il creditore originario, una volta ricevuta dal cessionario
la somma di denaro spettantegli, cessa di essere destinatario del credito e pertanto la titolarità di
esso viene trasferita al terzo.
Il rapporto obbligatorio tra debitore e terzo continua a svolgersi in entrambi i casi secondo le
regole originarie.

La surrogazione per pagamento


Quando il terzo, ai sensi dell'articolo 1180, estingue il debito altrui, dalla mancata attuazione del
lato passivo dell'obbligazione (dal mancato pagamento del debitore) ne deriva una vicenda
devolutiva, poiché il creditore soddisfatto trasferisce la titolarità della situazione soggettiva attiva
al terzo. Di conseguenza il terzo adempiente diventa creditore del debitore. Dunque, nel caso
della surrogazione per pagamento non deriva l'estinzione dell’obbligazione, ma ne deriva la
modificazione soggettiva attiva e, nello specifico, si ha una vicenda devolutiva. Perciò il tratto
comune a tutte le ipotesi di surrogazione è che alla soddisfazione del credito non segue, come
dovrebbe, l’estinzione del rapporto obbligatorio, che invece prosegue tra il debitore originario e il
terzo.
L’effetto surrogatorio può derivare da una manifestazione di volontà del creditore che, una volta
ricevuto il pagamento, surroga il terzo nel credito originario, quindi trasferisce la titolarità al terzo.
La legge impone che la dichiarazione di surroga proveniente dal creditore debba essere
contemporanea alla ricezione del pagamento, in modo tale da impedire l’effetto estintivo del
rapporto, consentendo così al terzo di succedere nella titolarità della situazione soggettiva attiva
del rapporto obbligatorio. L’effetto surrogatorio può inoltre derivare dal debitore nel caso in cui il
pagamento sia stato effettuato dal debitore, ma soltanto perché è stato finanziato dal terzo. In

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questo caso si ha comunque la vicenda devolutiva, in quanto il terzo diventerà creditore del
debitore originario, ma stavolta per la sola volontà del debitore e non del creditore.

La cessione del credito


Diversamente da quanto accade per la surrogazione, nel caso della cessione del credito (1260)
la successione del terzo all'originario creditore è effetto di un comune contratto di trasferimento,
perfezionato proprio tra creditore originario (cedente) e il terzo (cessionario); mentre il debitore
non partecipa al contratto, seppur ne subirà gli effetti. Il debitore deve limitarsi esclusivamente a
conoscere il soggetto al quale effettuare il pagamento. Dunque, il contratto di trasferimento del
credito, che si perfeziona tra cedente e cessionario, deve essere solamente comunicato al
debitore ceduto. Tuttavia vi sono alcune eccezioni in cui non è sufficiente la sola notifica al
debitore ceduto, bensì è necessario anche che tale trasferimento di credito venga accettato dal
debitore. Con "cessione del credito" si intende qualunque contratto (tipico a atipico) che sia
idoneo a produrre l’effetto del trasferimento del credito. Non è vero che la cessione del credito
estingue il rapporto originario sostituendolo con uno nuovo.

Le modificazioni soggettive passive del rapporto giuridico


Il terzo oltre che per procurare l’estinzione del rapporto, come previsto dall'articolo 1180
(l'obbligazione può essere adempiuta da un terzo, anche contro la volontà del creditore, se questi
non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione) può intervenire anche per
produrre la modificazione soggettiva passiva del rapporto giuridico, ossia il mutamento del
soggetto passivo dell’obbligazione.
Come accade nel lato attivo, anche in quello passivo la modificazione soggettiva si risolve nella
successione del terzo al debitore originario. Il creditore, una volta verificatasi la successione, avrà
il terzo come nuovo debitore principale, sebbene continuerà ad essere creditore nei confronti del
debitore originario. Di regola la successione del terzo al debitore non libera quest'ultimo dal peso
del debito originario, tenendolo dunque vincolato al creditore insieme al nuovo debitore. Il
creditore è tenuto a chiedere l'adempimento prima al debitore principale, ovvero al terzo, e poi a
quello sussidiario, il debitore originario. Perciò, la modificazione soggettiva passiva
dell'obbligazione non si attua attraverso una duplicazione del rapporto obbligatorio, ma attraverso
il mutamento dell'obbligazione, che da monosoggettiva diventa plurisoggettiva ad attuazione
solidale.

L'espromissione
L’assunzione del debito può essere innanzitutto determinata da un contratto stipulato dal terzo
(assuntore) con il creditore, si parla in tal caso di espromissione. Il terzo assuntore quando
propone al creditore l’assunzione del debito ha l’intento di spostare il peso del debito dal debitore
originario (espromesso) a lui (espromittente) (il terzo ha la volontà di determinare la modificazione
soggettiva passiva dell'obbligazione). Il terzo assume il debito altrui spontaneamente, ossia lo
assume attraverso un patto concluso con il solo creditore. Dunque, dal punto di vista strutturale il
contratto di espromissione si perfezionerà per effetto del consenso manifestato tra espromittente
e espromissario, non occorrendo alcuna manifestazione di volontà del debitore originario.

La delegazione
Anche nel caso della delegazione il contratto di assunzione del debito si perfeziona tra il
creditore (delegatario) e il terzo (delegato), il quale tuttavia lo conclude in esecuzione di un
incarico ricevuto dal debitore originario, cui fa espressamente riferimento al momento
dell'assunzione del debito. L'articolo 1268, che regola la delegazione passiva finalizzata
all'assunzione del debito altrui, dispone che se il debitore assegna al creditore un nuovo debitore,
il quale si obbliga verso il creditore, il debitore originario non è liberato dalla sua obbligazione.
Così come l'espromissione, anche la delegazione ha effetto cumulativo, poiché permane il debito
originario. Il delegante (debitore originario) e il delegato (terzo) sono obbligati in solido verso il
delegatario (creditore), il quale però una volta accettata la delegazione non potrà chiedere il
pagamento al debitore originario se prima non l’ha chiesta al terzo delegato.
La delegazione, dunque, non si distingue dall'espromissione solo per il fatto che il terzo ha agito
sotto richiesta del debitore originario, benché ciò può ricorrere anche nell'espromissione, ma il
tratto che distingue le due modalità di assunzione del debito è che il terzo, durante la fase della
stipulazione del contratto, fa espressamente riferimento di aver ricevuto l’incarico dal debitore.
Quando l’obbligazione assunta dal delegato (terzo) verso il delegatario (creditore) è
un’obbligazione nuova, la delegazione si dice pura. Quando, invece, l’obbligazione assunta dal

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delegato è la stessa che già preesiste in testa al delegante (debitore originario), la delegazione si
dice titolata, e serve a produrre la successione del delegato nel debito del delegante.
Il rapporto interno tra delegante e delegato è un rapporto di mandato. Attraverso il mandato, il
mandante incarica il delegato ad effettuare la prestazione nei confronti del delegatario.

L’accollo
Nel caso dell'accollo la modificazione soggettiva passiva dell'obbligazione deriva da un contratto
concluso tra il debitore (accollato) e il terzo (accollante), al quale il creditore (accollatario) deve
aderire, sebbene sia estraneo al contratto. Dal momento dell'adesione del creditore, il patto tra
debitore e terzo diventa efficace verso il creditore accollatario. L’adesione del creditore all'accollo
stipulato in suo favore tra debitore e accollante non è l'accettazione di una proposta, ma è proprio
l’adesione del terzo alla stipulazione conclusa in suo favore dall'accollato e dall’accollante. Il
creditore partecipa alla vicenda unicamente per riscuotere il suo credito dall'accollante, ma resta
estraneo agli interessi regolati nel contratto tra accollato e accollante. Dunque, l'accollante che ha
assunto il debito dall'accollato, sarà obbligato verso il creditore. L'accollo è proposto dal terzo al
debitore, quindi l'assunzione del debito da parte dell'accollante è funzionale a far trasmettere al
debitore un’utilità patrimoniale, in cambio di una prestazione che l'accollato eseguirà nei confronti
dell'accollante. Il debitore è disposto ad eseguire tale prestazione perché in cambio il terzo si
assume il debito nei confronti del creditore.

CAPITOLO 26: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO: I MODI DI ESTINZIONE


DELL'OBBLIGAZIONE DIVERSI DALL'ADEMPIMENTO

La novazione
Quando abbiamo trattato le modificazioni oggettive del rapporto obbligatorio abbiamo già fatto
riferimento alla novazione come una vicenda che provoca l’estinzione del rapporto. Dunque, in tal
caso, il rapporto non si estingue a causa dell'adempimento.
L’articolo 1230 tratta la novazione oggettiva e dispone che l’obbligazione si estingue quando le
parti sostituiscono all'obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso.
A differenza dell’estinzione per adempimento, nel caso della novazione oggettiva il rapporto
obbligatorio si estingue senza che il creditore veda soddisfatti i suoi interessi. L’estinzione per
novazione comporta la sostituzione della vecchia obbligazione con una nuova nell'oggetto o nel
titolo, che è quindi incompatibile con la vecchia poiché il debitore e il creditore di comune
accordo hanno deciso di cambiarne l’oggetto (o il titolo). Quindi, l’intervento delle parti incide
innanzitutto sull'oggetto, da intendere come la "cosa" o il "fatto" attesi dal creditore per mezzo
dell’adempimento del debitore, che le parti decidono di sostituire con una cosa o un fatto nuovo,
atto a soddisfare il nuovo interesse del creditore. Si può poi avere la novazione per sostituzione
del titolo dell'obbligazione, anziché dell'oggetto. La sostituzione del titolo ricorre quando le parti
assegnano al rapporto obbligatorio, immutato nell'oggetto, una nuova giustificazione, cambiando
le regole di disciplina del suo svolgimento. La sostituzione del titolo quindi provoca la formazione
di un nuovo regolamento, incompatibile con le regole di svolgimento originarie del rapporto
giuridico estinto. L’accordo novativo non rimuove la fattispecie, né la causa, ma incide soltanto,
nel caso della novazione per titolo, sulle regole di funzionamento del rapporto obbligatorio.
La novazione va distinta dalla fattispecie, la quale provoca modifiche nella fonte del rapporto,
mentre le regole di disciplina del rapporto rimangono invariate. Esempi di modifica della
fattispecie sono la rinnovazione del negozio e il riconoscimento del debito. Nel caso della
rinnovazione del negozio, il nuovo accordo tra le parti modifica la fonte del rapporto senza
mutarne le regole di disciplina. A essere sostituito è dunque il titolo che originò l'obbligazione,
mentre il regolamento dell’obbligazione resta identico. Invece, nel caso del riconoscimento del
debito, la nuova manifestazione della volontà delle parti non provoca l’estinzione della vecchia
obbligazione, bensì semplifica la struttura della fonte originaria, la quale però continua ad essere
regolata dalla sue regole originarie.
Diversamente, nel caso della novazione si ha l'estinzione (non satisfattiva) del rapporto
obbligatorio originario e la costituzione di uno nuovo che presenta delle differenze nell'oggetto o

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nel titolo. Il creditore sacrifica il credito originario per ottenere, dal debitore o da un terzo
(novazione soggettiva), la costituzione di un'obbligazione nuova.
La novazione può essere definita una modalità di estinzione non satisfattiva, in quanto il creditore
non vede soddisfatti gli interessi derivanti dall'originario rapporto obbligatorio. Il creditore estingue
il rapporto per crearne uno diverso nell'oggetto o nel titolo, in modo tale che possano venire
soddisfatti i suoi interessi.

La remissione del debito


La remissione del debito determina l'estinzione del rapporto obbligatorio anche questa volta in
modo non satisfattivo per il creditore, poiché esso non vede soddisfatto il proprio interesse. La
remissione del debito determina l'estinzione del rapporto per la mera (sola, unica) volontà del
creditore di abdicare al diritto, manifestando un disinteresse al che il suo diritto venga soddisfatto.
Il creditore unilateralmente intende dunque cancellare il debito dal patrimonio del debitore.
Tuttavia il debitore ha il diritto di non avvalersi della remissione, ha perciò il potere di "rifiuto".

La compensazione e la confusione
L’articola 1241 tratta la compensazione e prevede che quando due soggetti sono obbligati l’uno
verso l’altro, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, ossia per compensazione.
Anche la compensazione è un modo di estinzione dell'obbligazione diverso dall'adempimento a
carattere satisfattivo (non ha carattere satisfattivo), poiché i due creditori non ricevono quanto gli
sia dovuto, ma semplicemente non adempiono quanto dovrebbe. Perciò nessuno dei due
creditori trova soddisfatti i propri interessi, ma allo stesso tempo entrambi i creditori, che sono
anche debitori, non devono adempiere alla propria obbligazione e ciò dunque genera l’estinzione
dell’obbligazione per compensazione appunto. I creditori scelgono di sacrificare il loro credito per
non adempiere alla loro obbligazione. La compensazione viene poi distinta tra legale, giudiziale e
volontaria. La compensazione legale si ha quando tra due soggetti vi sono dei rapporti di debito
certi aventi per oggetto o una somma di denaro o una quantità di cose dello stesso genere,
omogenei, liquidi ed esigibili (il soggetto può chiederne immediatamente l'adempimento, esigibili
vuol dire a disposizione immediata del soggetto). Per arrivare alla compensazione poi è
ovviamente necessaria la manifestazione della volontà delle parti. Non è sufficiente la semplice
coesistenza dei due debiti certi, omogenei, liquidi ed esigibili. Nel caso della compensazione
giudiziale invece l’effetto estintivo è determinato dal provvedimento del giudice. Infine, la
compensazione può essere volontaria, ossia determinata dall'accordo tra le parti, che
determinano l’estinzione come effetto di un vero e proprio negozio giuridico, senza che occorra
alcun oggettivo requisito.
L’estinzione dell’obbligazione per confusione si ha, invece, quando le qualità di creditore e di
debitore si riuniscono nella stessa persona. Nello specifico, si ha quando il soggetto debitore
consegue la titolarità del credito a cui il suo debito si riferisce.

L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore


Anche l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore
genera l’estinzione dell'obbligazione per fatto diverso dall'adempimento. Ovviamente non ha
natura satisfattiva, poiché per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa
impossibile e dunque il creditore non vedrà soddisfatto il proprio credito. L'assenza di imputabilità
al debitore, dunque, segna il confine tra l'inadempimento e l’estinzione. Purché ciò possa
provocare l'estinzione dell’obbligazione, l’impossibilità deve essere: oggettiva, definitiva e totale.
Ovviamente la sopravvenuta impossibilità deve essere avvenuta dopo il perfezionamento del
contratto, altrimenti ciò avrebbe impedito direttamente in sede contrattuale la costituzione del
rapporto. L’impossibilità deve essere oggettiva e si ha quando il debitore non riesce
oggettivamente ad eseguire la prestazione, a far pervenire al creditore il bene dovuto, pur
utilizzando la diligenza del buon padre di famiglia. Ad esempio la situazione di grave crisi
aziendale che non permette l’esecuzione della prestazione da parte dell’azienda non può essere
considerata un’impossibilità oggettiva, perché l’azienda potrebbe eseguire la prestazione, ma non
può perché non dispone delle risorse finanziarie. L’impossibilità oggettiva non può consistere in
una mera difficoltà (finanziaria), ma in un impedimento obiettivo, assoluto e oggettivo che non
permette l’esecuzione della prestazione.
L’impossibilità deve poi essere definitiva, di conseguenza non si può ricorrere all’estinzione per
sopravvenuta impossibilità qualora l’impossibilità sia temporanea. In tal caso semplicemente si
toglierebbe al debitore la responsabilità per il ritardo, ma una volta che l’impossibilità temporanea
cessa di esistere esso è tenuto ad adempiere. Tuttavia si può avere l’effetto estintivo anche per

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un’impossibilità temporanea qualora il creditore nel frattempo non abbia più interesse a
conseguire la prestazione.
Infine, l’ultimo requisito dell’impossibilità è la totalità. Nel caso in cui la prestazione fosse divenuta
impossibile solo in parte, il debitore si può liberare dell’obbligazione eseguendo la prestazione per
quella parte. Ciò per dire che nel caso di impossibilità parziale non è possibile arrivare
all'estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta.
È inoltre possibile estinguere il rapporto obbligatorio per sopravvenuta inutilità della prestazione.
L'obbligazione quindi si estingue per sopravvenuta inutilità qualora, pur essendo oggettivamente
possibile la prestazione, il creditore non abbia più interesse a riceverla. Il venir meno dell'interesse
creditorio rende inutile la prestazione, determinandone l'estinzione.

CAPITOLO 27: IL RAPPORTO OBBLIGATORIO: L’INADEMPIMENTO


L'inadempimento del debitore e la mora del debitore
L’articolo 1218 (già visto nei capitoli precedenti) tratta la responsabilità del debitore e prevede che
il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno,
se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Sia nel caso di inadempimento
dell'obbligazione sia nel caso di inesatto adempimento, il debitore è tenuto al risarcimento del
danno se l’inadempimento è imputabile a lui a titolo di dolo o colpa o se la prestazione non è
divenuta impossibile per cause a lui non imputabili (se la prestazione è divenuta impossibile per
cause a lui imputabili).
Come detto prima, il debitore è tenuto al risarcimento in caso di inadempimento, sia se tale
inadempimento sia definitivo, sia se tale inadempimento derivi da un semplice ritardo
nell'esecuzione della prestazione. Nell’ultimo caso si parla di mora del debitore o di
inadempimento relativo. La mora del debitore ha l’obiettivo di risarcire il creditore per il danno
procurato dal ritardo, sempre che tale ritardo non abbia fatto venir meno l’interesse del creditore,
di conseguenza, in tal caso, la mora del debitore si convertirà in un inadempimento definitivo.
Dopo la scadenza del termine di adempimento il creditore costituisce il debitore (e eventualmente
i suoi eredi) in mora, mediante una richiesta fatta per iscritto. Gli effetti della mora si produrranno
dal momento in cui la richiesta viene recepita dal debitore. Tale richiesta deve enunciare
l'esistenza del debito, la scadenza del termine di adempimento e la richiesta di pagamento del
debito. La richiesta ha dunque l’obiettivo di comunicare al debitore che il creditore ha ancora
interesse ad ottenere il soddisfacimento del proprio credito. Il debitore in mora non può essere
liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione se tale impossibilità si è manifestata
dopo la costituzione in mora. Dopo la costituzione in mora il debitore può adempiere
l'obbligazione corrispondendo al creditore la prestazione originariamente dovuta, maggiorata
della somma di denaro necessaria a risarcire il danno procurato dal ritardo.
A differenza di quanto accade nel caso dell'illecito extracontrattuale, il creditore che agisce per
ottenere il risarcimento del danno da inadempimento non deve dar prova del danno subito, ma
deve soltanto provare il termine di scadenza.
(La mora del debitore e del creditore viene trattata a pagina 58)

Il danno risarcibile
Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere la perdita subita
dal creditore per il mancato guadagno (lucro cessante), ma soltanto quando l’inadempimento o il
ritardo siano conseguenza immediata e diretta del mancato guadagno. Mentre nel caso
dell'illecito extracontrattuale il debitore deve risarcire il creditore di tutti i danni causati, nell'illecito
contrattuale (inadempimento o ritardo) il debitore sarà tenuto a risarcire solamente i danni
prevedibili, a meno che l'inadempimento sia stato doloso. Quindi, nel caso di inadempimento
doloso il debitore dovrà risarcire anche i danni imprevedibili, mentre nel caso di inadempimento
colposo il debitore dovrà risarcire soltanto i danni prevedibili. Per quanto riguarda il risarcimento
per il lucro cessante, ovvero per il mancato guadagno, il creditore deve dar prova dell’utilità
patrimoniale che avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta. Si tratta dunque di

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effettive diminuzioni patrimoniali che dipendono direttamente dall'inadempimento del debitore.


Quindi, una volta accertato l'inadempimento, il giudice non condanna il debitore al pagamento di
una somma determinata, ma quantifica l'obbligazione risarcitoria dopo aver accertato il valore
patrimoniale che occorre reintegrare al creditore, in modo tale da ricondurre il suo patrimonio nelle
condizioni in cui esso sarebbe stato se l’obbligazione fosse stata esattamente adempiuta. Inoltre,
nella determinazione della somma di denaro che il debitore è tenuto a risarcire, il giudice deve
tener conto anche delle eventuali colpe del creditore, che non ha agito con ordinaria diligenza.
Dunque, in tal caso, il danno da risarcire sarà diminuito secondo la gravità della colpa del
creditore.

La responsabilità patrimoniale del debitore e il principio di concorsualità


Ai sensi dell'articolo 2740 (già analizzato nei capitoli precedenti), per l’adempimento delle sue
obbligazioni, il debitore risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri. Dunque, il patrimonio del
debitore costituisce la prima garanzia patrimoniale per il creditore. Il comma due del medesimo
articolo aggiunge che non sono ammesse le limitazioni della responsabilità patrimoniale del
debitore, se non nei casi previsti dalla legge. Di conseguenza, il debitore non può convenire con i
propri creditori patti diretti a limitare la propria garanzia patrimoniale. Inoltre, sono vietati tutti quei
contratti che hanno come causa la formazione in favore di determinati creditori di patrimoni
separati, ossia dei patrimoni speciali inferiori al patrimonio reale del debitore. La legge vieta il
verificarsi di questa situazione, applicando la nullità ai contratti che hanno l’obiettivo di limitare la
responsabilità patrimoniale del debitore.
L’articolo 2741 fissa il principio di concorsualità ed enuncia che i creditori hanno eguale diritto di
essere soddisfatti sui beni del debitore, salve la cause legittime di prelazione, come i privilegi, il
pegno e l'ipoteca. L’articolo quindi fissa la disciplina per regolare il conflitto di interessi tra più
creditori di un unico debitore. In assenza di cause legittime di prelazione, quindi in assenza di
creditori privilegiati, i creditori chirografari (ossia i creditori non privilegiati) hanno, in caso di
inadempimento, i medesimi diritti ad essere soddisfatti. Dunque, nessun privilegio deriva dal
tempo in cui fu costituito il vincolo. Il creditore che ha stipulato per primo il contratto con il
debitore non ha diritti maggiori rispetto al creditore che ha stipulato il contratto per ultimo. Il primo
e l’ultimo creditore avranno i medesimi diritti sul patrimonio del debitore. Nel caso in cui nel
patrimonio del debitore non vi siano beni sufficienti a soddisfare interamente tutti i creditori, si
assegnerà a ciascun creditore una frazione del credito, da determinare secondo un criterio
proporzionale. Tuttavia, dopo l’esecuzione forzata, se i creditori non sono stati interamente
soddisfatti, essi rimarranno sempre e comunque titolari della somma restante al soddisfacimento
del loro interesse, poiché il debitore non risponde solo dei beni presenti ma anche dei beni futuri.
Ciò accade quando i creditori sono tutti chirografari, cioè quando hanno tutti i medesimi diritti,
mentre nel caso in cui vi siano creditori privilegiati, essi hanno la precedenza sui creditori
chirografari.

Le cause legittime di prelazione: i privilegi


Ai sensi dell’articolo 2745 il privilegio è accordato dalla legge in considerazione della causa del
credito, in esito ad una considerazione di maggiore meritevolezza di protezione di una specifica
causa rispetto ad altre. Ad esempio, è stata introdotta una specifica legge per favorire
l’erogazione da parte delle banche di finanziamenti a medio-lungo termine, mediante la quale la
banca può ottenere dal cliente un privilegio speciale sui beni mobili destinati all’esercizio di
un’impresa.
Il privilegio si dice generale quando ha oggetto tutti i beni mobili (solo quelli mobili) di proprietà del
debitore, indistintamente. Mentre si dice speciale quando ha come oggetto beni mobili o immobili
ma specificatamente individuati (nel caso in cui il privilegio speciale sia accordato su uno
specifico bene mobile a sua volta oggetto di pegno, le ragioni del creditore pignoratizio
prevarranno su quelle del creditore privilegiato). Come abbiamo detto il privilegio è accordato in
relazione alla causa del credito, quindi nel caso di concorso tra più creditori privilegiati (in quanto
assistiti da privilegio, pegno o ipoteca) vengono individuate precise regole di prevalenza sempre
tenendo conto della causa di ciascun credito. Viene quindi rifiutato il criterio temporale per la
risoluzione del conflitto tra più creditori privilegiati (alcune nozioni sulle regole di prevalenza: i
crediti per spese di giustizia (protetti da privilegio) sono preferiti a qualsiasi altro credito, anche
pignoratizio o ipotecario). I crediti egualmente privilegiati concorrono tra loro in proporzione del
rispettivo importo, come accadeva per i creditori chirografari.

Le cause legittime di prelazione: il pegno

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Il pegno è un diritto reale di garanzia su cosa altrui. Il pegno può avere come oggetto: beni mobili
non registrati o un’universalità di mobili di proprietà del debitore, oppure crediti che il creditore
vanta verso soggetti terzi (inizialmente analizzeremo il pegno che ha come oggetto beni mobili o
universalità di mobili, lasciando momentaneamente da parte il pegno di crediti).
Ai sensi dell'articolo 2786, il pegno, quando avente a oggetto beni mobili o universalità di mobili,
si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce a lui
l’esclusiva disponibilità (del mobile). Quindi, con il pegno si ha lo spossessamento, ossia la
sottrazione, della cosa al proprietario su cui il pegno grava. La consegna della cosa da parte del
debitore al creditore oltre a permettere il perfezionamento del contratto, assicura anche al
creditore la garanzia del diritto di opponibilità verso i terzi. Tuttavia, l’evoluzione dei rapporti
commerciali ha provocato la diffusione di forme di pegno senza spossessamento, al fine di
permettere al debitore di continuare a godere della cosa pignorata in funzione del suo impiego
produttivo (in funzione dell’esercizio di impresa). Quindi è possibile ricorrere ad un pegno non
possessorio qualora la cosa sia utile al debitore per la continuazione dell’attività produttiva
(aziendale). In tal caso, mancando la consegna al creditore, l'opponibilità ai terzi è garantita
dall'iscrizione dell'atto costitutivo nel registro dei pegni non possessori.
Il creditore (nel caso del pegno normale, non si parla di quello senza spossessamento) non può
far valere il proprio diritto di prelazione se la cosa data in pegno non è rimasta in suo possesso.
La conservazione del possesso perciò assume notevole importanza per il creditore pignoratizio,
tant’è che nel caso in cui egli perda il possesso della cosa, oltre alle azioni a difesa del possesso
che gli spettano in qualità di titolare del diritto reale di garanzia, ha anche il diritto di esercitare
l’azione di rivendicazione. Però il possesso della cosa è concesso al creditore esclusivamente in
funzione della soddisfazione dell'interesse alla garanzia del credito, per cui egli non può usarla
salvo che l’uso sia necessario per la conservazione della cosa. Inoltre, il creditore non può
concedere ad altri il godimento della cosa o darla in pegno a sua volta. In caso di abuso dei diritti
accordati al creditore, il debitore può agire facendo richiesta al giudice di sequestrare la cosa,
seppur il debitore non possa comunque aver diritto alla restituzione fino a quando non ha
corrisposto al creditore quanto a lui dovuto.
Il creditore gode inoltre anche del diritto di ritenzione. Il creditore all’estinzione del diritto reale di
garanzia è tenuto a restituire la cosa, ma se egli è ancora creditore verso il debitore ha il diritto di
rifiutare la restituzione, fino a quando il suo credito viene soddisfatto.
Una volta verificatosi l’inadempimento del debitore, per la realizzazione del credito pignoratizio, il
creditore può far vendere la cosa ricevuta in pegno. Prima di procedere alla vendita deve intimare
il debitore a pagare il debito, avvertendolo, che in caso contrario, procederà alla vendita del bene
pignorato. Se entro cinque giorni dall’intimazione non è proposta opposizione, o se essa è stata
rigettata, il creditore può far vendere la cosa. Nel caso in cui il creditore ricavi dalla vendita una
somma maggiore rispetto al suo credito, deve restituire l'eccedenza al debitore.

Per il pegno di crediti sono previste specifiche regole di disciplina. L’articolo 2800 prevede che la
prelazione (il diritto di prelazione esercitato dal creditore) possa verificarsi solo se il pegno di
crediti risulta da atto scritto e se la costituzione del pegno sia stata notificata al debitore, che l’ha
accettata con scrittura avente data certa. La costituzione del diritto reale di garanzia in favore del
creditore pignoratizio deve poter essere opposta nei confronti del debitore del credito dato in
pegno (il soggetto terzo), così che il creditore pignoratizio possa pretendere da lui l'adempimento.
Ciononostante, a differenza del pegno di beni mobili o di universalità di mobili, nel pegno di crediti
non si ha il trasferimento del credito, il quale resta quindi in titolarità dell’originario creditore (ossia
del debitore del creditore pignoratizio). Per tutta la durata del rapporto il creditore garantito
(pignoratizio) è tenuto a preservare le aspettative di soddisfazione del creditore costituente, il
quale come sappiamo continua ad essere il titolare del credito oggetto del pegno.
Qualora il credito ricevuto in pegno scada prima di quello garantito, il creditore pignoratizio è
tenuto a riscuotere il credito ricevuto in pegno e, dopodiché, dovrà depositarlo al debitore nel
luogo accordato. Se, invece, il credito garantito scade prima del credito ricevuto in pegno, il
creditore al momento della scadenza del credito ricevuto in pegno tratterrà la somma necessaria
a soddisfare il suo credito garantito e restituirà la parte restante al creditore originario. Inoltre, nel
caso in cui l'inadempimento del debitore costituente si verifichi prima della scadenza del credito
garantito, il creditore pignoratizio può ricevere il pagamento del credito ricevuto in pegno per il
valore che basta a soddisfare il suo credito.
In alternativa al pegno di crediti si è diffusa nella prassi negoziale la cessione di credito a causa di
garanzia, mediante la quale il debitore al fine di garantire l’esatto adempimento di un debito,
trasferisce al creditore un credito vantato verso un soggetto terzo (debitore ceduto). Così in caso

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di inadempimento, il creditore potrà avvalersi del diritto di credito che il debitore gli ha trasferito.
La cessione di credito a causa di garanzia non ha il fine di costituire in favore del creditore una
causa di prelazione, ma proprio a trasferire in suo favore la titolarità stessa del credito. Mentre con
il pegno di crediti il debitore restava il titolare del credito, con la cessione di credito il debitore
trasferisce la titolarità del suo credito al creditore come garanzia. Tuttavia, il trasferimento del
diritto ha sempre una finalità di garanzia, di conseguenza vengono limitate le facoltà del creditore
come titolare del diritto. Qualora il debitore sia adempiente, esso ha tutto il diritto di pretendere
l’adempimento da parte del debitore ceduto, quindi il cessionario soddisfatto (creditore) non ha
più interesse a ricevere il pagamento dal terzo, seppur il cessionario sia pur sempre il titolare
effettivo del credito (verso il debitore ceduto). Di conseguenza, nel caso della cessione di credito a
causa di garanzia, la legge prevede che fino all'eventuale inadempimento del debitore (cedente)
valgano le stesse regole sul pegno di credito. Ciò è possibile perché è una cessione di credito a
causa di garanzia, dunque il creditore (cessionario) accetta la cessione del credito al solo fine di
essere garantito, di conseguenza il creditore conserva l’originario interesse a ricevere la
prestazione dal proprio debitore (cedente) e non dal debitore ceduto.

Le causa legittime di prelazione: l’ipoteca


L’ipoteca, così come il pegno, è un diritto reale di garanzia su cosa altrui, ma che ha come
oggetto beni immobili o mobili registrati, dei quali il creditore non ottiene il possesso.
I beni immobili sono suscettibili di ipoteca sia per quanto riguarda la piena proprietà, sia in
relazione al diritto di usufrutto, di superficie o dell'enfiteuta. Le ipoteche costituite sull'usufrutto si
estinguono con l’estinzione dell'usufrutto. Anche le ipoteche che hanno per oggetto il diritto di
superficie si estinguono per devoluzione della superficie al proprietario del suolo.
Il diritto di garanzia di ipoteca si costituisce attraverso l’iscrizione nei registri immobiliari dell'atto
volontario o dell'atto legale se deriva da un provvedimento del giudice. L’ipoteca deve essere
iscritta su beni specialmente indicati e per una somma determinata in denaro, che rappresenta
l’ammontare massimo pretendibile dal creditore in caso di esecuzione forzata. L’ipoteca costituita
su un fondo si estende automaticamente a tutte le costruzioni che dovessero essere realizzate sul
fondo. L’ipoteca quindi attribuisce al creditore il diritto di espropriare i beni vincolati a garanzia del
suo credito e di essere soddisfatto sul prezzo ricavato dall'espropriazione con preferenza rispetto
ad altri creditori. L’ipoteca dunque conferisce al creditore un diritto di seguito, che gli conferisce il
diritto di espropriare i beni soggetti a ipoteca e un diritto di preferenza sul prezzo ricavato
dall'espropriazione del bene, in cui viene preferito rispetto agli altri creditori. Perciò, come nel
caso del pegno, anche nel caso dell’ipoteca, il creditore garantito relativamente al bene ipotecato
prevale su qualunque altro creditore, sebbene il credito ipotecario sia sorto posteriormente.
L'ipoteca si dice volontaria quando è costituita attraverso la manifestazione di volontà del
costituente, purché abbia la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata (autenticata credo),
sotto pena di nullità.
L’ipoteca può avere come oggetto anche beni futuri, in tal caso non è suscettibile di immediata
trascrizione, sarà poi validamente iscritta quando la cosa verrà ad esistenza.
L’iscrizione dell’ipoteca avviene presentando presso i registri immobiliari il titolo costitutivo
insieme ad una nota sottoscritta dal richiedente ipoteca, che deve contenere tutte le informazioni
occorrenti ad identificare il bene, il creditore ed il debitore. Una volta verificata la legittimità
formale della nota e del titolo costitutivo si provvede all'iscrizione dell’ipoteca nei registri
immobiliari, che ha una durata ventennale. Dopodiché, al creditore ipotecario, il cui credito non è
ancora estinto, può essere consentito di provvedere al rinnovo dell'iscrizione.
All'ipoteca viene poi assegnato un grado (in base al giorno della presentazione della domanda di
ipoteca), poiché vi può essere che sullo stesso bene siano iscritte più ipoteche. Perciò, il creditore
di primo grado sarà il primo ad essere soddisfatto dal ricavato derivante dalla vendita forzata.
L'eventuale restante sarà poi assegnato ai creditori di grado successivo. Vi possono essere casi
in cui vi siano creditori ipotecari di pari grado, poiché più persone hanno presentato
contemporaneamente la nota per ottenerne l’iscrizione. Di conseguenza, i creditori ipotecari di
pari grado concorrono tra loro in proporzione dell'importo.
La natura reale dell'ipoteca rende il diritto del creditore opponibile anche verso il terzo acquirente.
Tuttavia, il terzo acquirente del bene ipotecato non assume anche il debito del debitore originario
verso il creditore ipotecario. Dunque il terzo acquirente non è obbligato verso il creditore, sebbene
sia divenuto proprietario del bene soggetto a ipoteca. Però, al fine di evitare che l'esecuzione
forzata venga svolta nei suoi confronti, il terzo acquirente dovrà pagare i creditori che hanno
iscritto ipoteca sul bene da lui acquistato. Dopodiché il terzo acquirente ovviamente matura
un'azione di regresso verso il debitore originario, che è anche tenuto a risarcirgli i danni.

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Ai sensi dell'articolo 2878 l’ipoteca si estingue: con la cancellazione dell’iscrizione (anche se il


debito non è stato ancora adempiuto), con il mancato rinnovo dell'iscrizione prima della scadenza
del ventennio, con l'estinzione dell'obbligazione, col perimento del bene ipotecato.

La garanzia personale del credito


Le garanzie personali del credito rafforzano l’aspettativa di soddisfazione del creditore, senza
attribuire ad esso una causa legittima di prelazione sui beni del debitore, ma ampliando i
patrimoni a cui il creditore può attingere nel caso di inadempimento del debitore principale.
Mentre nel caso delle garanzie reali e dei privilegi si ha l'attribuzione di un diritto di prelazione, nel
caso della garanzia personale si ha la costituzione di una nuova obbligazione in testa ad un altro
soggetto, diverso dal debitore principale. Tale obbligazione è volta a garantire la riscossione del
credito da parte del creditore, nel caso in cui il debitore principale risulti inadempiente. Ciò vuol
dire che a disposizione del creditore insoddisfatto vi è anche il patrimonio del garante (del terzo),
oltre a quello del debitore principale. Quindi nel caso della garanzia personale il credito viene
rafforzato mediante l'assunzione da parte del garante di una nuova obbligazione, che si affianca a
quella originaria. Il debitore originario resta il principale referente dell'interesse del creditore.
Infatti, il terzo (il garante) non succede al debitore originario divenendo il nuovo debitore, ma
semplicemente si affianca al debitore originario, che comunque resta l’unico debitore principale.
Il profilo causale del contratto di garanzia è quindi diretto a rafforzare l’interesse del creditore a
ricevere la prestazione originaria. Garantire vuol dire tenere indenne il creditore dal rischio del
futuro ed eventuale inadempimento del debitore principale, ecco perché il terzo prende il nome di
garante. La prestazione del garante dovrà essere eseguita solamente nel caso in cui il debitore
principale risulti inadempiente. La prestazione del garante prende proprio il nome di "prestazione
di garanzia".

La fideiussione e il mandato di credito


Ai sensi dell'articolo 1936 è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore,
garantisce l'adempimento di un’obbligazione altrui, anche se il debitore non ne è a conoscenza.
L'obbligazione fideiussoria dipende strettamente dall'obbligazione garantita, ossia
dall'adempimento o meno del debito altrui. Per effetto del negozio fideiussorio, il fideiussore è
quindi obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito. Ovviamente la
fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore al creditore.
È inoltre possibile che il fideiussore convenga con il creditore il beneficio di escussione. Esso
prevede che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore principale,
ossia prima che il creditore abbia portato a compimento l’azione esecutiva su tutti i beni del
debitore principale. Perciò il fideiussore sarà tenuto a rispondere soltanto dell'eventuale residuo.
In tal caso, il fideiussore che intende avvalersi del beneficio di escussione, dovrà indicare i beni
del debitore principale da sottoporre ad esecuzione.
Al fine di tutelare l’interesse del fideiussore al recupero delle somme sborsate in adempimento
della propria obbligazione di garanzia, è previsto il diritto di rilievo, che permette ad esso, anche
prima di aver pagato, di agire contro il debitore principale.
Siccome la prestazione di garanzia è una prestazione accessoria, l'obbligazione del garante si
estingue nel caso di esatto adempimento da parte del debitore principale.

Diverso dalla fideiussione, ma volto a generare i medesimi effetti è il mandato di credito. Esso
ricorre quando una persona si obbliga verso un'altra (debitore originario), la quale quest'ultima le
ha conferito l’incarico, a fare credito ad un terzo (creditore), in nome e per conto proprio. A
differenza del contratto di mandato, nel caso del mandato di credito il mandatario effettua il
pagamento del credito nei confronti del creditore non soltanto in nome proprio ma anche in conto
proprio (è questa la differenza dal contratto di mandato). Quindi, il pagamento non viene effettuato
in nome e per conto del mandante, ma in nome e per conto del mandatario (colui che esegue la
prestazione) medesimo (non è un vero e proprio mandato, altrimenti sarebbe per conto altrui ma
in nome proprio).

Il contratto autonomo di garanzia


Al fine di superare la dipendenza del rapporto obbligatorio di garanzia da quello garantito (il
rapporto iniziale/vero e proprio), la prassi negoziale soprattuto nelle relazioni commerciali
internazionali ha elaborato una garanzia personale "staccata" dall’obbligazione originaria, che
conserva validità ed efficacia anche in caso di invalidità del rapporto obbligatorio originario. In tal
caso quindi il creditore non si protegge solo dal mero inadempimento del debitore, ma da

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qualsiasi tipo di frustrazione del proprio interesse economico. Quindi, il contratto autonomo di
garanzia offre al creditore beneficiario una garanzia autonoma di protezione assoluta contro il
rischio di frustrazione del proprio interesse economico al recupero della somma a lui dovuta.
Si tratta di una garanzia volta a sollevare il beneficiario da qualunque rischio di mancato incasso
delle somme a lui dovute. Il fatto che la prestazione dovuta dal garante autonomo sia pur sempre
una prestazione di garanzia, lo legittimerà a richiedere al debitore originario la restituzione della
somma pagata.

La conservazione della garanzia patrimoniale


Come sappiamo, ai sensi dell'articolo 2740 il debitore risponde dell’adempimento delle proprie
obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Di conseguenza, è evidente interesse del
creditore da un lato evitare che il patrimonio del debitore si depauperi (si impoverisca) con
pregiudizio delle sue aspettative di soddisfazione e dall'altro curare che esso si incrementi ogni
qual volta il debitore ne abbia diritto.
Così, a tutela preventiva degli interessi del creditore, il codice civile gli accorda due specifiche
azioni: la surrogatoria e la revocatoria.
L’azione surrogatoria riconosce al creditore, per assicurare che siano soddisfatte le sue ragioni,
l’esercizio dei diritti e delle azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore, che questi trascura
di esercitare. L’azione surrogatoria è dunque riconosciuta al creditore nel caso in cui al suo
debitore spettino diritti o azioni verso terzi dal cui esercizio possa derivare un incremento del
patrimonio del debitore, che tuttavia trascura di esercitarli per negligenza oppure perché non ha
più interesse ad incrementare il proprio patrimonio, consapevole che di tale incremento si
avvantaggerebbero soltanto i suoi creditori.
Diversamente, l’azione revocatoria è concessa al creditore al fine di tutelare il suo interesse a
evitare decrementi del patrimonio del debitore derivanti da suoi atti di disposizione che incidono
negativamente sulla sua consistenza patrimoniale (ad esempio la vendita o la donazione di
immobili sono atti di disposizione, quelli che eccedono l’ordinaria amministrazione). Di
conseguenza, il creditore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti di disposizione del
debitore con i quali esso reca pregiudizio al creditore, nelle seguenti condizioni: qualora il debitore
conoscesse il pregiudizio che l’atto provocava al creditore oppure qualora il terzo fosse
consapevole del pregiudizio che l’atto recava al creditore. Ad esempio non può mai essere
soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto, mentre può esserlo l'adempimento
effettuato prima della scadenza. L’atto di disposizione esercitato dal debitore per poter essere
soggetto a revoca deve, dunque, recare al creditore un pregiudizio, ossia un danno consistente
nell'oggettiva diminuzione delle probabilità di soddisfazione del credito. Ad esempio la donazione
di un bene da parte del debitore avente un patrimonio residuo ampiamente capiente a soddisfare
il debito verso il creditore, non sarà oggettivamente lesiva e dunque tale atto non potrà essere
oggetto di un’azione revocatoria.
Vi è poi una terza misura di protezione preventiva delle ragioni del credito che si può attuare già
prima che si concreti l’inadempimento del debitore: il sequestro conservativo. Il creditore che ha
fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito può richiedere il sequestro conservativo
di beni mobili o immobili del debitore. Una volta eseguito il sequestro conservativo, non hanno
effetto le alienazioni che hanno per oggetto la cosa sequestrata.

L’esecuzione forzata e il divieto del patto commissorio


In caso di inadempimento, al creditore insoddisfatto è riconosciuto il diritto di aggredire il
patrimonio del debitore esercitando in giudizio l’azione esecutiva, purché munito di: sentenze,
provvedimenti e altri atti ai quali la legge attribuisce efficacia esecutiva; scritture private
autenticate, cambiali; atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale.
L’esecuzione forzata deve essere preceduta dal precetto, che consiste nell'intimazione di
adempiere l’obbligo entro un termine non maggiore di 10 giorni, con l’avvertimento che, in caso
contrario, si procederà a esecuzione forzata.
Il debitore può evitare l’esecuzione forzata ovviamente adempiendo, anche se tardivamente,
oppure offrendo una prestazione diversa da quella dovuta, purché il creditore la accetti.

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CAPITOLO 28: LE PROMESSE UNILATERALI E I TITOLI DI CREDITO


Le promesse unilaterali
Diversamente dai negozi unilaterali causali (articolo 1324) e dai contratti a struttura bilaterale, che
possono essere anche atipici, le promesse unilaterali, trattate dall'articolo 1987 in poi, sono rette
dal principio di tipicità. Non sono quindi ammesse altre fattispecie, se non quelle espressamente
previste e disciplinate dalla legge. L’articolo 1987 prevede che la promessa unilaterale di una
prestazione non produca effetti obbligatori fuori dai casi ammessi dalla legge. Ciò perché la
manifestazione di volontà del promittente non è diretta alla costituzione di un nuovo rapporto
giuridico con il destinatario, ma soltanto alla semplificazione della struttura di rapporti causali già
esistenti tra promittente e destinatario. Le promesse unilaterali sono perciò degli atti che non
fanno sorgere nuovi rapporti giuridici, ma hanno il fine di rendere più agevole l’esecuzione per il
creditore, poiché le promesse unilaterali forniscono per il creditore un mezzo di prova
dell'esistenza del credito. Quindi, le promesse unilaterali sono degli atti non negoziali,
necessariamente tipici, che pur giustificati da un rapporto giuridico preesistente non fanno ad
esso riferimento.
Così accade in particolare per la promessa di pagamento e la ricognizione di debito. Con la
promessa di pagamento, l’autore dell'atto si obbliga a eseguire una determinata prestazione entro
un certo tempo in favore del destinatario. Invece, con la ricognizione di debito, l’autore riconosce
di essere debitore del destinatario di una determinata prestazione. In nessuno dei due casi viene
specificata la causa del credito, ossia la ragione per la quale il pagamento sia dovuto al creditore.
Come detto prima, il creditore che è in possesso di una promessa di pagamento o di una
ricognizione di debito, non avrà l’onere di provare l’esistenza del rapporto nel momento in cui fa
richiesta di adempimento. Sarà il debitore che dovrà provare che il rapporto non esiste per poter
così rifiutare legittimamente l’adempimento richiesto. Dunque, il vantaggio del creditore è soltanto
di tipo processuale, poiché in sede di richiesta giudiziale di adempimento non avrà l’onere di
dover provare l’esistenza del rapporto. È questo l’unico vantaggio del creditore con le promesse
unilaterali. La promessa unilaterale rappresenta una dichiarazione unilaterale che esonera il
creditore dall'onere di provare l’esistenza del rapporto.
Vi è poi la promessa al pubblico, dove l’autore dell'atto, attraverso una manifestazione di volontà
diretta al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trova in una determinata situazione
o compia una determinata azione entro un determinato termine. L’autore sarà vincolato dalla
promessa non appena sarà resa pubblica. Il verificarsi dell'evento contemplato nella promessa al
pubblico determina il sorgere del vincolo in testa al promittente.

I titoli di credito
Anche nel caso dei titoli di credito, la promessa incorporata nel documento non costituisce un
rapporto giuridico causale nuovo tra l’autore e il destinatario, ma costituisce, a differenza delle
promesse unilaterali, un rapporto cartolare che si affianca a quello fondamentale, dal quale pur
sempre dipende. Con il titolo di credito si ha la tecnica di incorporazione del diritto di credito nel
documento cartolare (il titolo di credito, appunto), che lo rende esigibile. Di conseguenza, il
creditore in possesso della chartula (documento cartolare) potrà richiedere l’adempimento
semplicemente presentando il documento cartolare al debitore. Inoltre, il creditore potrà trasferire
a terzi il proprio diritto di credito semplicemente trasmettendo la proprietà del documento
cartolare, senza ricorrere alla cessione di crediti. Ciò è possibile perché il diritto di credito è
contenuto/incorporato nel documento cartolare, attraverso la tecnica di incorporazione.
Soltanto il possesso legittimo del titolo di credito conferisce al portatore la legittimazione ad
esercitare i diritti incorporati nel documento, di cui egli diventa titolare. Il possesso legittimo si
consegue in modo diverso a seconda che si tratti di titoli al portatore, all'ordine o nominativi.
Nel caso dei titoli al portatore, il debitore si obbliga ad eseguire la prestazione indicata sulla
chartula a chi risulterà essere legittimo possessore del titolo (legittimo portatore del titolo). Quindi,
per i titoli al portatore che contengono l'obbligazione di pagare una determinata somma, la sola
consegna del titolo al debitore legittima il possessore all'esercizio del diritto.
Invece, nel caso dei titoli all'ordine, l'obbligazione di eseguire la prestazione indicata nel
documento cartolare viene assunta nei confronti di un soggetto determinato, le cui generalità
sono indicate sul documento. Mentre nel caso del titolo al portatore le generalità del debitore non
erano indicate sul documento, ma il debitore diventava tale al momento della consegna del titolo

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da parte del creditore. Il trasferimento del titolo all’ordine avviene sempre a rilevanza cartolare,
attraverso l'apposizione sul titolo (sul retro normalmente) della dicitura "girata per trasferimento".
La girata deve contenere l'indicazione del giratario, ossia deve contenere le generalità del
soggetto in favore del quale è stata fatta (in favore del quale il diritto è stato trasferito).
Vi è poi il titolo nominativo, che è anch'esso emesso in favore di un soggetto determinato,
stavolta però il primo prenditore, ossia il creditore, è individuato non soltanto mediante
l’indicazione dei suoi dati anagrafici sul titolo, ma anche mediante la stessa indicazione su un
registro tenuto dall'emittente. Quindi, a legittimare il possesso è la coincidenza tra l'indicazione
nominativa sul titolo e quella sul registro dell'emittente. Pertanto, il possessore di un titolo
nominativo è legittimato all'esercizio del diritto per effetto dell'intestazione a suo favore nel titolo e
nel registro dell'emittente. Il trasferimento avviene, proprio come col titolo all'ordine, girando il
titolo in favore del giratario. Però la girata del titolo nominativo non ha efficacia nei confronti
dell'emittente fino a che non viene annotata nel registro. Il giratario che dimostra di essere il
possessore del titolo nominativo ha diritto ad ottenere l'annotazione del trasferimento nel registro
dell'emittente, così da conseguire il credito cartolare.

L'incorporazione del diritto di credito nel documento cartolare, come sappiamo, consente al
creditore cartolare di trasmettere la titolarità del credito soltanto trasmettendo la proprietà del
documento cartolare, però ciò non vuol dire che il diritto di credito non possa seguire le ordinarie
regole di cessione del credito. Nel caso della cessione del credito, cedente e cessionario
dovranno stipulare un ordinario contratto di cessione, da notificare al debitore ceduto. In ogni
caso, il cessionario dovrà ricevere comunque il documento cartolare (al fine di evitare conflitti
nella circolazione).

La cambiale
Tra i titoli di credito più diffusi assume particolare rilevanza la cambiale. La cambiale è un titolo
all’ordine, rappresentato da un documento cartolare, che contiene l'obbligazione di pagare una
somma determinata, a una determinata scadenza, in favore di un determinato soggetto. La
cambiale può essere utilizzata o per impartire a un soggetto l’ordine di pagare la somma indicata
sul titolo al beneficiario oppure per assumere direttamente, nei confronti del beneficiario,
un'obbligazione cartolare, che affiancherà il rapporto fondamentale già esistente tra debitore e
creditore. Nel primo caso si parla di cambiale tratta, nel secondo di pagherò cambiario.
Con la cambiale tratta, l’autore del negozio cartolare prende il nome di traente ed ordina al
trattario, normalmente suo debitore, di assumere in favore di un proprio creditore, l’obbligazione
di pagare (a una certa scadenza la somma indicata nel titolo). Il traente, dunque, essendo
normalmente debitore del beneficiario e creditore del trattario, si serve del trattario per favorire
l’estinzione del proprio debito nei confronti del beneficiario. Ciò non può avvenire senza
l'espressa accettazione del trattario. Solo dopo l’accettazione delle tratta, il trattario sarà
obbligato verso il beneficiario. L'accettazione della tratta avviene nel momento in cui il trattario
appone sulla cambiale la parola "accettato" o "visto" e la cambiale viene poi sottoscritta dal
trattario stesso, indicando i propri dati (luogo, data di nascita, codice fiscale).
Con il pagherò cambiario, invece, l'emittente (debitore) si obbliga direttamente a pagare una
somma determinata in favore di un determinato soggetto (beneficiario), a una certa data.

CAPITOLO 29: ALCUNI CONTRATTI TIPICI


La compravendita
La compravendita è la tipologia contrattuale di riferimento di tutti i maggiori contratti di scambio
a effetti reali, produttivi cioè del trasferimento di un diritto reale contro corrispettivo, in questo
caso il denaro. L’articolo 1470 definisce la compravendita il contratto che ha per oggetto il
trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di
un prezzo. Si tratta di un contratto consensuale, che si perfeziona con il solo accordo tra le parti,

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senza che occorra la materiale consegna del bene venduto. È un contratto a effetti reali perché
produttivo del trasferimento della proprietà di una cosa o di altro diritto reale sulla cosa (o, ancora,
di un diritto di credito).
Gli effetti che derivano dal perfezionamento del contratto sono diversi per il venditore e per
l'acquirente. Per il venditore il raggiungimento dell'accordo determina la perdita immediata del
diritto, che si trasferisce all'acquirente come conseguenza immediata e diretta dell'accordo. Al
venditore resta a carico l'obbligazione di consegnare all'acquirente la cosa ormai divenuta di sua
proprietà. Per il compratore, il raggiungimento dell'accordo determina a suo carico la costituzione
dell'obbligazione pecuniaria da prezzo, da adempiere nel termine e nel luogo fissati dal contratto
(e in mancanza di accordo dovrà adempiere al momento della consegna).
Il contratto di compravendita normalmente ha effetto immediato e diretto, a meno che vi sia una
condizione sospensiva o un termine iniziale di efficacia (già trattati nei capitoli iniziali), oppure il
bene sia "futuro" o "altrui". La vendita di cosa futura viene disciplinata dall'articolo 1472. Possono
essere oggetto del contratto anche le prestazioni aventi a oggetto beni non ancora venuti ad
esistenza, come accade nel caso della vendita dell'edificio ancora da costruire. L'esistenza della
cosa non è uno dei requisiti essenziali dell'oggetto del contratto, pertanto la vendita di bene futuro
è un negozio valido e completo in ogni suo elemento essenziale. Il contratto su bene futuro non
può produrre l’effetto reale (il trasferimento della proprietà della cosa) finché la cosa non viene ad
esistenza ed è destinato alla nullità qualora la cosa non venga mai a esistenza. Dunque, l’effetto
reale della compravendita in tal caso si produrrà soltanto se e quando la cosa verrà ad esistenza.
Perciò la vendita di cosa futura viene definita una vendita a effetti reali differiti. La vendita di cosa
futura può essere di due tipi: emptio rei speratoe e ampio spei. Nel caso della emptio rei speratoe,
qualora la cosa non venga a esistenza entro il termine convenuto, l'acquirente non sarà obbligato
a pagare il prezzo, di conseguenza il contratto sarà dichiarato nullo (per oggettiva inutilità). Invece,
nel caso dell'ampio spei, l’acquirente ottiene una sensibile riduzione del prezzo assumendosi il
rischio della mancata venuta a esistenza, perciò, qualora la cosa non venga a esistenza resta
comunque obbligato a pagare il prezzo.
Anche nel caso della vendita di cosa altrui, il trasferimento della proprietà non avviene al
perfezionamento del contratto, in quanto nessuno può trasferire ad altri diritti di cui non è titolare.
In questo caso, il bene venduto è certamente esistente ma rientra nel patrimonio di un altro
soggetto. Il venditore non può trasferire il bene all'acquirente, ma può obbligarsi a farlo
conseguendone la proprietà dal terzo. La vendita di cosa altrui è una vendita a effetti obbligatori,
poiché se al momento del contratto la cosa venduta non era di proprietà del venditore, questi è
obbligato ad acquisire la proprietà e una volta acquisita il compratore diventa proprietario nel
momento stesso in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa.
Il venditore, tra le varie obbligazioni a suo carico, deve garantire per evizione e per vizi della cosa
venduta. Con evizione si intende quando il compratore viene sottratto del diritto acquisito dal
venditore a causa della mancanza di titolarità del diritto in testa al venditore (oppure a causa
dell'esistenza di diritti di terzi sulla cosa venduta che limitano al compratore il pieno ed esclusivo
godimento). In pratica, il venditore ha trasferito all'acquirente un diritto di cui non era titolare. Di
conseguenza, in tal caso il compratore può sospendere il pagamento del prezzo, se ancora non lo
ha effettuato (o non lo ha effettuato interamente), salvo che il venditore dimostri che tale
situazione fosse già nota al compratore al tempo della vendita. Inoltre, se per effetto dell’esistenza
di un diritto altrui sulla cosa acquistata, il compratore subisce l'evizione totale della cosa, ossia la
cosa gli viene legittimamente sottratta, il venditore è tenuto a risarcirlo del danno.
Oltre alla garanzia per evizione, il venditore è tenuto a garantire al compratore che la cosa venduta
sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano il valore.
Nel caso in cui la cosa risulti viziata e ricorra la responsabilità del venditore, il compratore può
domandare a sua scelta la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo. Nel caso di
risoluzione, il venditore deve restituire al compratore il prezzo e deve rimborsargli le spese, mentre
il compratore dovrà restituire la cosa. Inoltre, il venditore è tenuto al risarcimento del danno verso
il compratore se non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa.
Per la vendita di beni immobili vi è l'obbligo della forma scritta a pena di nullità e la trascrizione nei
registri immobiliari è consentita solo in conseguenza di sentenze, atti pubblici, scritture private
autenticate. Da ciò ne consegue che il contratto di compravendita immobiliare potrebbe essere
validamente redatto in forma di scrittura privata non autenticata, anche se in tal caso l'immobile
non potrà essere trascritto nei registri immobiliari. La non trascrizione nei registri immobiliari non
permette al compratore di opporre il proprio diritto ai terzi, dunque i terzi continueranno a
rispettare come titolare del diritto il venditore e non il compratore.

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Vendita mobiliare
Il contratto di vendita mobiliare è un contratto non reale, destinato a perfezionarsi per effetto del
consenso legittimamente manifestato tra le parti (non si perfeziona con la consegna del bene
mobile, ma, proprio come per la vendita immobiliare, si perfeziona per mezzo del consenso
manifestato dalle parti. La consegna del bene mobile è soltanto l’oggetto dell'obbligazione), fonte
di un acquisto a titolo derivativo e quindi presuppone che l'alienante sia il titolare del diritto. Come
già detto nei capitoli precedenti, al fine di tutelare l’interesse generale alla rapida e sicura
circolazione dei beni mobili (non registrati), l'ordinamento prevede che colui che acquista un bene
mobile da parte di chi non ne è proprietario, conseguendone così il possesso in buona fede,
acquisti il bene a titolo originario. Si parla della regola 'possesso vale titolo'.

Vendita di beni di consumo


La vendita di beni di consumo si connota per il fatto di essere conclusa tra un produttore (o
professionista) e un consumatore e per il fatto di avere a oggetto un prodotto. La vendita di beni
di consumo è definita come qualsiasi contratto in base al quale il professionista trasferisce la
proprietà di beni al consumatore e il consumatore ne paga il prezzo, inclusi i contratti che hanno
come oggetto sia beni che servizi. Per bene si intende qualsiasi bene mobile materiale. Il
venditore deve essere una persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività
imprenditoriale, commerciale, artigianale. L'acquirente deve essere una persona fisica che agisce
per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale.
Nella vendita di beni di consumo vi è un naturale squilibrio tra le parti, poiché il potere di
determinare il contenuto del contratto è tendenzialmente nelle mani del professionista e, dunque,
il contratto viene costituito in assenza di una trattativa condotta dai contraenti in posizione di
parità.

Alcuni tipi speciali di vendita


Negli scambi commerciali di beni mobili è diffusa la pratica secondo cui il compratore si riservì di
esprimere il proprio gradimento in relazione al bene, si parla della vendita con riserva di
gradimento. In tal caso l’espressione del gradimento concorre assieme al consenso espresso a
perfezionare la vendita. Di conseguenza, la vendita non potrà dirsi conclusa fino a che il
gradimento non sia comunicato al venditore.
Vi è poi la vendita a prova, che rimanda alla vendita sotto condizione sospensiva, che ricorre
quando le parti hanno pattuito che il compratore abbia la facoltà di verificare materialmente che la
cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all'uso a cui è destinata. In questo caso il contratto si è
già perfezionato tra le parti, ma vi è una condizione sospensiva consistente proprio in questa
"prova".
La vendita su campione ricorre quando le parti hanno fatto riferimento ad un determinato
campione di merce per fissare il parametro cui riferire la qualità del bene venduto. Si tratta anche
qui di un contratto subito efficace, dove il campione serve come esclusivo paragone per la qualità
della merce e qualsiasi difformità tra il bene venduto e il campione attribuisce al compratore il
diritto alla risoluzione del contratto (qualora però si conviene che il campione deve servire
unicamente a indicare in modo approssimativo la qualità, si può domandare la risoluzione soltanto
se la difformità dal campione sia notevole).
Vi può essere poi che vi sia la vendita riferita ad un’eredità. Per eredità si intende l'insieme di tutti i
beni di un determinato defunto. La vendita per eredità deve farsi per atto scritto, sotto pena di
nullità.

La vendita con riserva di proprietà e con patto di riscatto


La vendita con riserva di proprietà si ha nel caso in cui il venditore accorda una dilazione di
pagamento al compratore, che sarà tenuto a versare il prezzo del bene in tutto o in parte a rate.
Se la vendita ha come oggetto un immobile o un'azienda, il venditore mantiene la proprietà del
bene venduto fino al pagamento dell’ultima rata. Dunque, il pagamento dell’ultima rata segna il
momento in cui la cosa passa in proprietà del compratore, anche se ne deteneva già il possesso.
La vendita con riserva di proprietà è quindi caratterizzata dal fatto che, da un lato, il compratore
acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata di prezzo, ma dall'altro, assume i
rischi dal momento della consegna come se fin da quel momento ne fosse proprietario (invece ne
detiene solo il possesso, senza esserne proprietario). Il compratore, conseguendo il possesso
immediato della cosa venduta fin dal perfezionamento dell'accordo, è legittimato da subito a
impiegarla a soddisfazione dei propri interessi, sebbene non ne sia proprietario. Si tratta,
insomma, più che di una vendita con riserva di proprietà, di una speciale forma di garanzia reale.

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La risoluzione di tal contratto potrà avvenire qualora il debitore non adempia al pagamento delle
rate. In tal caso, la risoluzione non occorrerà al venditore per recuperare il diritto di proprietà mai
trasferito al compratore, ma soltanto per far cessare gli effetti della vendita recuperando la piena
materiale disponibilità della cosa.
Invece, la vendita con patto di riscatto è il contratto con il quale il venditore, avendo immediato
bisogno di liquidità, si determina al vendere un proprio bene, riservandosi tuttavia il diritto di
riavere la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del prezzo e i rimborsi necessari.
Al venditore è dunque accordato lo specifico diritto potestativo di riacquisto, esercitato mediante
manifestazione di volontà unilaterale (da parte del mero venditore), da cui deriva l'effetto
risolutorio del primo trasferimento e, di conseguenza, il riacquisto della proprietà già trasferita.
Dalla vendita con patto di riscatto discende la vendita con patto di retrovendita, in cui il riacquisto
del venditore dipende dal perfezionamento tra lui e l’originario compratore di un secondo negozio
di trasferimento. Mentre nel caso della vendita con patto di riscatto non vi era alcun secondo
accordo tra il venditore e il compratore, in quanto il riacquisto da parte del venditore dipendeva
dall'esercizio del diritto potestativo, di cui è assoggettato fin dalla conclusione del contratto.
Per evitare che la vendita con patto di riscatto si trasformi in un finanziamento nascosto, viene
fissato un limite temporale entro cui il venditore può riscattare il bene e, in caso di riscatto, il
venditore dovrà restituire del prezzo, maggiorato delle solo spese, non degli interessi. Il termine
per l'esercizio del riscatto non può essere maggiore di due anni per la vendita di beni mobili e di
cinque anni per quella di beni immobili.

La locazione
Il contratto di locazione è diretto a soddisfare non soltanto l’interesse della persona fisica a
godere di un immobile per soddisfare le proprie esigenze abitative, ma anche quello
dell'imprenditore o del professionista per lo svolgimento della propria attività.
L’articolo 1571 definisce la locazione come il contratto col quale una parte si obbliga a far godere
all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo. Si
tratta di un contratto a effetti obbligatori per entrambe le parti: il locatore si obbliga a far godere la
cosa di sua proprietà; il conduttore si obbliga al pagamento del corrispettivo, normalmente
attraverso canoni periodici. Il conduttore ne conseguirà la detenzione, non il possesso poiché nel
pagamento del canone di locazione è implicito il riconoscimento dell'altrui diritto di proprietà.
Tuttavia, il contratto di locazione può essere concluso anche dal non proprietario del bene, purché
sia munito di un titolo che gli consenta di godere del bene liberamente. Il conduttore deve
osservare la diligenza del buon padre di famiglia, oltre a pagare il corrispettivo nei termini
convenuti. Il termine di durata massimo del rapporto è fissato a trent'anni (tuttavia è possibile il
rinnovo).

L'appalto
L'appalto è un tipico contratto di impresa in cui l'imprenditore assume, con organizzazione dei
mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso
un corrispettivo in denaro. L'organizzazione dei mezzi necessari allo svolgimento dell’attività
richiesta e la gestione a proprio rischio dell’attività esecutiva da parte dell'appaltatore consentono
di distinguere l'appalto dal contratto di lavoro autonomo. L'organizzazione dell'impresa
appaltatrice giustifica anche il divieto di subappalto, che impedisce all'appaltatore di dare in
subappalto l'esecuzione dell'opera o del servizio, senza l'autorizzazione del committente. Ciò
perché il committente ha posto il suo affidamento proprio nelle caratteristiche della determinata e
specifica impresa appaltatrice.
Il sinallagma del contratto di appalto vede contrapposta alla prestazione promessa
dall'appaltatore, quella del committente di pagare un corrispettivo in denaro, senza che ciò
escluda all'autonomia privata di porre a carico del committente prestazioni aventi natura diversa
dall'obbligazione pecuniaria.
Qualunque variazione richiederà il consenso del committente e, se il prezzo dell'intera operazione
è stato determinato globalmente, ciò non determina variazione di compenso per l'appaltatore. Se
l'importo delle variazioni supera un sesto del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore ha il
diritto di recedere dal contratto e di ottenere un'equa indennità. Nel caso in cui le variazioni non
siano necessarie, il committente potrà comunque apportare tali variazioni, ma il loro ammontare
non deve superare il sesto del prezzo complessivo convenuto. Però, in tal caso l'appaltatore ha
diritto al compenso per i maggiori lavori eseguiti.
L'ordinamento accorda al committente il diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e qualora
accerti che l'esecuzione dell'opera non proceda secondo le condizioni stabilite dal contratto, può

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fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni.
Trascorso inutilmente tale termine, il contratto è risoluto, salvo il diritto del committente al
risarcimento del danno.
L’esecuzione della prestazione non determina per l'appaltatore la liberazione dal debito assunto
con il contratto, perché affinché ciò avvenga è necessario che l’opera sia verificata dal
committente. L’opera si considera esatta e congrua con quanto promesso quando il committente
ne esegue la verifica, oppure quando il committente tralascia di procedere alla verifica e quindi
non comunica il risultato entro un breve termine. In entrambi questi casi l'appaltatore viene
liberato dal debito e, allo stesso tempo, matura il diritto di ricevere il pagamento del corrispettivo.

Il mutuo e il comodato
Mutuo e comodato sono due contratti attraverso i quali si attua la funzione del prestito, che è una
funzione di consumazione per quanto riguarda il mutuo, mentre una funzione d'uso per il
secondo.
L’articolo 1813 definisce il mutuo come il contratto con il quale una parte consegna all'altra una
determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili e l'altra si obbliga a restituire altrettante
cose. Le cose date a mutuo passano in proprietà del mutuatario, così che esso possa consumarle
per trarre da esse l’utilità che assicurano. Il contratto, in questo caso, non ha a oggetto il
trasferimento della proprietà, come nel caso della compravendita (,della permuta), della
donazione, ma produce comunque un effetto traslativo, anche se al solo fine di consentire al
mutuatario di soddisfare il suo interesse. L'ordinamento prevede che il perfezionamento del
contratto sia subordinato alla consegna del denaro o delle altre cose fungibili. Il mutuo è quindi un
contratto reale, non consensuale, poiché per arrivare al perfezionamento occorre che al consenso
legittimamente manifestato si accompagni la consegna. Perciò, la consegna della cosa mutuata
concorre insieme al consenso a costituire/perfezionare il rapporto obbligatorio. La costituzione del
rapporto obbligatorio, che si concreta con la consegna, fa sorgere al mutuatario il debito di
restituire al mutuante il capitale prestato maggiorato degli interessi pattuiti.
Se sono state mutuate cose diverse dal danaro, il mutuatario è, di norma, tenuto a restituire alla
scadenza altrettante cose della stessa specie e qualità di quelle originariamente mutuate. Se la
restituzione è divenuta impossibile per causa non imputabile al debitore, questi è tenuto a
pagarne il valore.
Il comodato è un prestito d'uso, anch'esso è un contratto reale, ma a titolo gratuito. Il comodato è
il contratto con il quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne
serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire alla scadenza la stessa
cosa ricevuta. In questo caso, la proprietà del bene oggetto del contratto non si trasferisce al
comodatario, il quale non ha di conseguenza la facoltà né di disporre del bene, né di consumarlo.
Infatti, alla scadenza il comodatario dovrà restituire esattamente la stessa cosa ricevuta in
comodato. Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon
padre di famiglia, servendosene esclusivamente per l'uso determinato dal contratto. Inoltre, il
comodatario non può concedere la cosa a terzi senza il consenso del comodante. Se il
comodatario non adempie a tali obblighi, il comodante può chiedere l'immediata restituzione della
cosa, oltre al risarcimento del danno. Sono a carico del comodatario le spese sostenute per
servirsi della cosa, ad eccezione delle spese straordinarie, di cui il comodatario verrà rimborsato
dal comodante.
Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine o, in mancanza di termine,
quando se ne è servito in conformità del contratto. Se però prima del termine convenuto, o prima
che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e imprevisto
bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata, in considerazione della
gratuità del contratto.

La transazione
La transazione è un contratto diretto causalmente a definire una situazione di conflittualità tra due
o più parti, indipendentemente dal fatto che sia o no già sfociata in una lite giudiziaria. Il conflitto
consiste in un'opposizione tra la pretesa affermata come giuridicamente rilevante da una parte e
la contestazione da parte dell'altra parte. In altre parole, possiamo definire la transazione come un
contratto diretto a definire un conflitto giuridico tra le opposte affermazioni di chi pretende e chi
contesta, sulla base di una oggettiva situazione di incertezza. Come detto prima, non è
necessario per la conclusione di una valida transazione che il conflitto si sia già tradotto in una
contesa giudiziale. Infatti, l'ordinamento definisce la transazione come il contratto col quale le
parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono

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una lite che può sorgere tra loro. Come si evince, la composizione della lite deve avvenire
mediante "reciproche concessioni". Ciò vuol dire che la situazione di pretesa e di contestazione
iniziali devono risultare modificate rispetto alle originarie, con sacrifico di entrambe le parti. Le
reciproche concessioni, di cui si compone la lite, possono anche condurre alla creazione,
modificazione e/o estinzione di rapporti giuridici diversi da quello in cui vi è il conflitto. Perciò, la
sistemazione transattiva del conflitto giuridico tra pretesa e contestazione può avvenire o per
mezzo di modifiche del regolamento sul quale vi era il conflitto, oppure per mezzo della
costituzione di nuovi rapporti obbligatori che sostituiscono quello controverso estinguendolo "per
novazione" (di cui già abbiamo parlato). Quindi, nel primo caso si parla di transazione
"conservativa", nel secondo di transazione "novativa".
Vi è poi il negozio di accertamento, mediante il quale le parti si vincolano reciprocamente a una
determinata interpretazione di fatti o di situazioni giuridiche, in modo tale da eliminare qualunque
possibilità di conflitto futuro.

La donazione
La donazione, assolutamente estranea allo scambio, è il contratto col quale, per spirito di
liberalità, una parte arricchisce l'altra, donandole o un proprio diritto o assumendo verso la stessa
un'obbligazione. La donazione non trova altra giustificazione oggettiva, se non nella mera volontà
del donante di beneficiare il donatario. Il donante dunque dispone (dona) o si obbliga
semplicemente perché così vuole, ben consapevole che il suo sacrificio economico non sarà
compensato da alcuna controprestazione, poiché a prevalere è lo spirito di liberalità del donante.
Le volontà di donante e donatario devono, a pena di nullità, assumere la forma dell'atto pubblico
davanti a due testimoni.
L’acquisto del diritto che deriva dalla donazione è normalmente gratuito per il donatario, il quale,
come sappiamo, non è tenuto ad alcuna controprestazione. Può essere però che il donante, che
comunque non può pretendere alcun corrispettivo, ponga a carico del donatario un onere, con il
fine di andare a soddisfare un interesse non patrimoniale del donante. L’onere o modus è un
elemento accidentale del negozio donativo mediante il quale il donante soddisfa un suo interesse,
ulteriore a quello di donare, a ottenere dal donatario l'esecuzione di una prestazione che, tuttavia,
non viene vista come controprestazione, ma come prestazione "accidentale" alla donazione. In
questi casi si parla di donazione modale, dove il donatario, per effetto della clausola modale, è
gravato da un'obbligazione, di cui però il donante, seppur interessato all'adempimento, non ne è il
destinatario (ecco perché non è una controprestazione). Il beneficiario di una donazione modale
(donatario) è tenuto all'adempimento dell'onere entro i limiti del valore della cosa donata, dunque
l'obbligazione a cui il donatario è sottoposto non può superare il valore della donazione che ha
ricevuto dal donante.

CAPITOLO 30: LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE: DISPOSIZIONI


GENERALI
L’articolo 922 colloca, accanto al contratto, la successione a causa di morte tra i modi di
acquisto della proprietà a titolo derivativo. Attraverso la successione a causa di morte viene
individuato il soggetto a cui è destinato il titolo d'acquisto dei beni rientranti nel patrimonio del
defunto, che è divenuto vacante al momento della morte e per questo destinato, dalla legge o dal
testamento, a colui che è indicato come successore del defunto nella titolarità dei suoi beni. La
successione si apre al momento della morte e la morte è, dunque, la vicenda che porterà
all'acquisto della titolarità delle situazioni soggettive attive a capo del defunto fino al momento
dell’apertura della successione, ossia fino al momento della morte. Saranno quindi coinvolte nella
successione tutte le situazioni soggettive attive del defunto che non si sono estinte con la sua
morte. La morte oltre ad essere la vicenda che apre alla successione, possiamo anche definirla
come la causa dell'acquisto per successione. La morte estingue i diritti personalissimi del
defunto, ma non quelli a contenuto patrimoniale.

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La successione può essere universale o particolare, a seconda che riguardi la totalità dei beni
lasciati dal defunto (nell'intero o per quote), oppure la singolarità di uno o più beni determinati.
Nel primo caso si parla di successione universale, poiché il successibile è chiamato a succedere
nella totalità/universalità dei beni o in una quota di essi. Invece, la successione si dice particolare
quando si riferisce ad un diritto specifico di un determinato bene, dunque quando si riferisce ad
una singolarità di uno o più beni determinati. A seconda che la successione sia universale o
particolare il successore viene chiamato in maniera diversa. Prende il nome di erede colui che
succede a titolo universale, mentre prende il nome di legatario, colui che succede a titolo
particolare. La distinzione tra erede e legatario diventa importante per quanto riguarda la
successione dei debiti gravanti il defunto. Secondo l'ordinamento, i debiti devono essere
adempiuti soltanto dall'erede, non dal legatario, in quanto quest'ultimo succede al defunto
esclusivamente nella titolarità del bene o del diritto e non di altro (invece l’erede succede nella
totalità dei beni del defunto, quindi anche i debiti).
Il testatore, se non attribuisce i suoi beni nell'universalità o in una quota, dispone a titolo
particolare, rendendo così il chiamato a tale titolo un legatario. Tuttavia l'ordinamento prevede una
regola: anche di fronte alla disposizione testamentaria avente come oggetto beni determinati nella
loro singolarità occorrerà indagare l'intenzione del testatore, per verificare se abbia disposto o no
di tali beni in funzione di quota, ossia prendendoli in considerazione in quanto rappresentativi di
una frazione, seppur inespressa. Quando l'assegnazione di beni determinati in funzione di quota
avviene tra più chiamati, si deve ricorrere alla divisione. Con la divisione si provvede alla
distribuzione, tra i chiamati a titolo universale, dei beni relitti (del defunto). Quindi si parla di
divisione solo nel caso di successione a titolo universale tra più chiamati (eredi).

Designazione, vocazione, e delazione


Le fonti della vocazione vengono individuate nella legge o nel testamento. Si tiene in
considerazione la successione legittima soltanto se manca, in tutto o in parte, la disposizione
testamentaria (dunque se una parte dei beni del patrimonio non sono stati indicati nel testamento,
allora si utilizzeranno le norme sulla successione legittima per quella parte di beni). Si può dunque
affermare che la successione testamentaria prevalga su quella legittima. Le norme sulla
successione legittima tutelano l’interesse generico dello Stato a che il patrimonio del defunto
abbia una devoluzione. Invece, le norme sulla successione testamentaria tutelano l’interesse
specifico del soggetto titolare alla devoluzione. Le norme sulla successione legittima sono norme
suppletive, destinate unicamente a supplire in mancanza di una volontà testamentaria, ma se
esiste è essa a prevalere. Il titolo della delazione, legge o testamento, è sottratto alla disponibilità
del chiamato, il quale non ha facoltà di scelta tra successione legittima e testamentaria.
Il concetto di vocazione e delazione sono spesso indicati come sinonimi, ma con il termine
vocazione si indica il titolo attraverso il quale il chiamato acquista il diritto a succedere, mentre
con delazione si indica l’attribuzione in concreto del diritto ad accettare l’eredità (che può essere
anche rifiutata). Comunque, fuori da ipotesi particolari, l’apertura della successione vede
coincidere morte, vocazione e delazione.

Il divieto dei patti successori


La legge vieta: i patti con cui un soggetto disponga della propria futura successione, i patti
mediante i quali un soggetto disponga dei diritti derivanti da una successione non ancora aperta
oppure rinunzia a tali diritti prima che la successione si apra (prima della morte dell'ereditando). Il
testamento può essere revocato fino al momento della morte del testatore, ciò è possibile perché
la successione non è permessa fino alla morte del testatore, di conseguenza egli ha tutto il diritto
di revocarlo in qualsiasi momento prima della sua morte, poiché il testamento non è mai stato
efficace (visto che diventa efficace con la sua morte).
Invece, gli atti di disposizione vietati si concretano in atti o patti posti in essere dal successibile,
aventi ad oggetto diritti derivanti da una successione futura o beni compresi in una successione
non ancora aperta.

La capacità di succedere, l'indegnità, la sostituzione, la rappresentazione, l'accrescimento


Sono capaci di succedere, in quanto persone fisiche, tutti coloro che sono nati o concepiti al
tempo dell'apertura della successione. Inoltre, possono ricevere per testamento, ma non per
legge, i figli di una determinata persona, anche se non ancora concepiti (nascituri non concepiti).
Ancora soltanto per testamento, possono succedere anche persone giuridiche e enti di fatto,
anche non aventi personalità giuridica.

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È invece escluso dalla successione e, dunque, dichiarato indegno: chi ha volontariamente ucciso
o tentato di uccidere l'ereditario o un suo discendente (possibile successore), chi ha indotto con
dolo o violenza l'ereditario a fare, revocare o mutare il testamento. Il soggetto indegno non è privo
di capacità a succedere. Egli può essere destinatario della vocazione e può conseguire la qualità
di erede, ma qualora qualcuno proceda contro di lui per farne dichiarare l'indegnità non potrà più
trattenere ciò che ha acquistato.
È però possibile che il delato (successibile) che è stato investito del diritto all’eredità non intenda
esercitare tale facoltà, oppure perché morto prima non può accettarla. In questi casi, trattandosi
di successione testamentaria, potrebbe darsi che il testatore abbia espressamente nominato un
sostituto. In assenza del sostituto, la devoluzione del diritto all’eredità deve tener conto prima
della rappresentazione e, se questa non è possibile, dell'accrescimento. La rappresentazione, sia
per quanto riguarda la successione legittima che quella testamentaria, ricorre soltanto nel caso in
cui il primo chiamato, che non può o non vuole accettare l’eredità o il legato, sia figlio o fratello
del defunto e fa subentrare i suoi discendenti. La delazione si devolve così ai discendenti in linea
retta del primo chiamato, senza alcuna limitazione di grado, all'infinito. È possibile adottare la
rappresentazione qualora non sia stato designato un sostituto da parte del testatore. Inoltre,
quando non ricorrono i presupposti per la sostituzione e la rappresentazione, la devoluzione può
avvenire, per le sole successioni testamentarie, secondo la regola dell'accrescimento. Essa
presuppone che siano stati istituiti più eredi senza determinazione di parti o anche se sono stati
istituiti più eredi in parti uguali. Qualora uno di essi non accetti l’eredità, la sua parte si accresce a
quella degli altri. Se sono stati istituiti più eredi in parti uguali l'accrescimento avviene nella
medesima quota per ciascuno. In assenza dei presupposti per la sostituzione, per la
rappresentazione e per l'accrescimento, la successione è soddisfatta dalle seguenti norme
suppletive: in caso di successione universale testamentaria la successione avviene per legge; in
caso di successione universale legittima succedono i parenti di grado successivo al primo fino al
sesto e, in assenza anche di questi, allo Stato.

L'accettazione dell’eredità
Con l'accettazione dell’eredità si consegue la qualità di erede e, di conseguenza, si risponde dei
debiti ereditari. L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio
d'inventario. La differenza tra le due forme di accettazione riguarda la responsabilità dell'erede per
il pagamento dei debiti ereditari. Nel caso di accettazione pura e semplice, deriva la piena
confusione tra il patrimonio ereditario e quello proprio personale dell'erede, con l'ulteriore
conseguenza che l'erede risponderà dei debiti ereditari con tutti i suoi beni, presenti e futuri
(dunque anche con quelli già propri prima dell'apertura della successione). Invece, nel caso di
accettazione con beneficio d'inventario, il patrimonio del defunto resta distinto da quello
personale dell'erede, costituendo così un patrimonio separato. Di conseguenza, in questo caso,
l'erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari oltre il valore dei beni a lui pervenuti.
L'accettazione dell’eredità può essere espressa o tacita e non può essere revocata. Essa è
espressa quando in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all’eredità dichiara di
accettarla; mentre è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto con il quale manifesta la
sua volontà di accettare.
Il diritto di accettare l’eredità si prescrive, di regola, in dieci anni e il termine decorre dal giorno
dell'apertura della successione.

Il beneficio di inventario
L’accettazione col beneficio d'inventario è soltanto espressa e si formalizza per mezzo di una
dichiarazione, che deve essere trascritta da un notaio o da un cancelliere. Per produrre gli effetti,
la dichiarazione deve essere affiancata dalla redazione dell'inventario dell’eredità, mediante il
quale si rappresenta la consistenza del patrimonio relitto (ereditato del defunto) in tutte le sue
componenti, attive e passive. Ciò deve essere fatto al fine di ricostruire con esattezza la
consistenza del patrimonio separato, che è destinato alla soddisfazione dei creditori ereditari.
Tant’è che l'erede non potrà disporre in alcun modo dei beni rientranti nell'attivo ereditario, senza
la preventiva autorizzazione del tribunale. Ciò perché l'erede dovrà provvedere al pagamento dei
creditori del defunto con i beni ereditari.

La separazione dei beni del defunto da quelli dell'erede


La confusione tra il patrimonio del defunto e quello dell'erede può non essere conveniente per i
creditori del defunto, quando, ad esempio, l’erede abbia un patrimonio personale già non
sufficiente alla soddisfazione dei suoi creditori personali. In questo caso, dunque, per effetto

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dell'accettazione pura e semplice concorreranno con i creditori personali dell'erede anche quelli
del defunto. Di conseguenza, potrà accadere che dopo la confusione il patrimonio ereditario che
prima sarebbe stato sufficiente a soddisfare i creditori del defunto, unito a quello dell'erede non
permetta più la soddisfazione integrale dei creditori del defunto (poiché il patrimonio personale
dell’erede presenta un eccesso del passivo sull'attivo). I creditori del defunto hanno perciò un
legittimo interesse ad evitare la confusione. La legge concede così ai creditori del defunto uno
specifico rimedio, diretto, su loro iniziativa e non su iniziativa del chiamato, a determinare la
separazione dei beni del defunto da quelli dell'erede.

La rinunzia all’eredità
Come conseguenza alla valutazione della consistenza del patrimonio ereditario o a motivazioni di
carattere personale, il chiamato potrebbe non voler conseguire la qualità di erede. In questo caso,
il chiamato in subordine, ossia colui che può conseguire la qualità di erede nel caso di rinunzia da
parte del primo chiamato, potrebbe chiedere all'autorità giudiziaria di fissare un termine entro il
quale il chiamato deve dichiarare se accetta o rinunzia all’eredità. Diversamente, il chiamato può
rinunziare alla qualità di erede per mezzo dell'atto di rinunzia.

CAPITOLO 31: LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE: SUCCESSIONI


LEGITTIME E TESTAMENTARIE
La successione legittima
L'esigenza di devolvere ad altri soggetti le situazioni soggettive attive e passive del defunto,
impongono di dettare norme suppletive, destinate ad essere applicate soltanto quando manchi, in
tutto o in parte, la disposizione testamentaria. Le regole di legge dunque possono disciplinare la
devoluzione dell’intero patrimonio relitto (qualora manchi in tutto la disposizione testamentaria)
oppure soltanto quella parte di patrimonio del quale il testatore non abbia disposto mediante
testamento.
Per legge la chiamata ereditaria viene indirizzata verso i parenti più stretti del defunto, fino ad
arrivare al sesto grado, dopodiché l’eredità si devolve allo Stato (che, senza possibilità di rinunzia,
risponde dei debiti ereditari soltanto entro i limiti del valore dei beni ereditari). La regola
fondamentale di devoluzione è quella per cui il parente più prossimo esclude quelli più "remoti". I
primi parenti a favore dei quali si devolve l’eredità, in assenza totale o parziale di testamento,
sono i figli del defunto. I figli sono chiamati a succedere tra loro in parti uguali e concorrono alla
successione soltanto con il coniuge del defunto (dopodiché, in assenza di figli e del coniuge,
concorrono tra loro alla successione i genitori e i fratelli e sorelle del defunto).

Il testamento e la successione testamentaria


Il testamento è l'atto revocabile attraverso il quale una persona dispone, per il tempo in cui avrà
cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse. Il testamento quindi regola la
successione determinandola in modo diverso rispetto a quella che si darebbe in sua assenza.
L'interesse protetto del soggetto attraverso il testamento è quello di disporre dei propri beni per il
tempo successivo alla morte. Questo è il motivo che giustifica il riconoscimento all'autonomia
privata della facoltà di disporre per testamento. Il testatore dispone ovviamente quando ancora è
in vita, ma senza alcun vincolo per lui, poiché la revoca è possibile in ogni momento.
L'ordinamento permette quindi al testatore di potersi esplicare nel modo più pieno e consapevole
fino all'ultimo momento della vita.
Il testamento è un negozio giuridico compiuto e completo già prima della morte del testatore, che
esprime una volontà concreta di disporre. Esso contiene poi una disposizione la cui efficacia
verso i destinatari è vincolata alla sua morte.
Il testatore ha la facoltà di sistemare il proprio patrimonio non solo attribuendo beni o diritti ai
chiamati, ma anche potendo costituire dei rapporti giuridici nuovi mediante l'impiego dei beni
ereditari, posti in essere sempre con l'effetto della morte. Perciò, il testatore può disporre delle
proprie sostanze sia disciplinando le situazioni soggettive che già sono in sua titolarità (beni e
diritti), sia sfruttando tali situazioni soggettive per farne sorgere di nuove, con il fine di soddisfare
interessi che non riuscirebbe a soddisfare disponendo dei soli propri beni.

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Il testatore ha anche la facoltà di sistemare il proprio patrimonio soltanto limitandosi ad escludere


un successibile dalla successione, attraverso una clausola di diseredazione (è però nullo il
testamento con il quale, senza altre disposizioni, si escluda un determinato erede, diseredandolo.
Invece, è valido se risulta che il testatore nel manifestare espressamente la volontà di diseredare
un successibile, abbia manifestato anche l'intenzione di attribuire le proprie sostanze ad altri
soggetti. Quindi la clausola di diseredazione è valida (disposizione negativa) soltanto se allo
stesso tempo contiene anche delle disposizioni positive (attribuire ad altri soggetti le proprie
sostanze)).
L'autonomia testamentaria si può manifestare anche soltanto attraverso la determinazione di un
ordine di successibili, senza attribuire a ciascuno i beni facenti parte del patrimonio.

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