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LO STOICISMO

1 La scuola stoica
Zenone di Cizio, allievo del cinico Cratete, è il fondatore della scuola stoica, sorta ad Atene
intorno al 300 a.C. nel cosiddetto Portico dipinto
Fondatore della scuola stoica è considerato Zenone di Cizio (ca. 336-35 a.C.-263 a.C.), originario
dell'isola di Cipro. Egli si accostò alla filosofia da giovane, grazie alla lettura di alcuni scritti
socratici (in particolare i Memorabili di Senofonte e l'Apologia di Platone), che il padre Mnasea,
commerciante, gli portò di ritorno dai suoi viaggi. Intorno ai ventidue anni si trasferì ad Atene.
Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi racconta:

[Zenone] salì ad Atene [...] e sedette nella bottega di un libraio. Costui leggeva il secondo libro dei
Commentari di Senofonte, e Zenone provò tanta gioia da domandare dove mai si potessero trovare
uomini come Socrate. In quel momento appunto passava Cratete e il libraio glielo additò dicendo:
«Segui quest'uomo». Da allora divenne discepolo di Cratete.
Zenone divenne, dunque, scolaro del filosofo cinico, che fu per lui un maestro e un modello di vita.
Intorno al 300 a.C. fondò la scuola stoica, che prese il nome dalla Stoà poikíle, il Portico dipinto
dell'agorá di Atene, in cui si svolgevano le sue lezioni.

[Zenone] era solito tenere le sue lezioni passeggiando su e giù nel Portico dipinto, detto anche di
Pisianatte, designato come dipinto per i quadri di Polignoto [...]. Quelli che convenivano ad
ascoltarlo - ed erano in gran numero - furono per questo chiamati stoici; così furono chiamati
anche i suoi seguaci, che in un primo tempo erano detti zenoniani. (Diogene Laerzio, Vite dei
filosofi)
Secondo la tradizione, Zenone dopo aver contratto una grave malattia, morì suicida, coerentemente
con gli insegnamenti della dottrina stoica. Le numerose opere da lui scritte, soprattutto di argomento
etico e gnoseologico, sono purtroppo andate interamente perdute. Lo stretto rapporto di Zenone con
Cratete fa sì che lo stoicismo nasca come prosecuzione ideale della scuola cinica. L'indagine degli
stoici è, infatti, animata dallo stesso presupposto che ha originato la riflessione cinica: la filosofia
deve essere tesa non alla conoscenza della verità, bensì alla ricerca della felicità per mezzo della
virtù. A differenza dei cinici, però, gli stoici ritengono che il conseguimento della felicità tramite la
virtù sia possibile solo attraverso la scienza.
La storia della scuola stoica si snoda in un lungo arco di tempo ed è suddivisa dagli studiosi in
tre periodi: antico, medio e nuovo
Gli studiosi suddividono la storia dello stoicismo in tre periodi, ciascuno dotato di caratteristiche
particolari. Il primo è quello dello stoicismo antico, che si sviluppa tra la fine del IV e il III secolo
a.C., in cui le dottrine stoiche vengono elaborate dai tre grandi maestri dell'epoca: Zenone, Cleante
e, soprattutto, Crisippo. Secondo scolarca del Portico, Cleante nacque ad Asso da una famiglia
molto povera; da giovane, per sostenersi economicamente, si dedicò all'attività di pugile.
Trasferitosi ad Atene si rivolse alla filosofia e la sua laboriosità divenne celebre, «così che di notte
attingeva acqua ai pozzi nei giardini» scrive Diogene Laerzio «di giorno si esercitava nelle
argomentazioni, perciò fu anche chiamato freantles» (in greco, "prosciugatore di pozzi"). Molto
stimato dai concittadini, alla morte di Zenone divenne capo della scuola stoica. Coltivò gli studi ma
non per questo smise di mantenersi col lavoro delle proprie mani e «giudicava la sua vita superiore
a quella dei ricchi, dicendo: "Quelli giocano a palla, io con la zappa dissodo la terra dura e
infruttuosa"». Tra le sue opere si ricorda un Inno a Zeus e i trattati, andati perduti, Sul Senso, Sul
Dovere, Sull'Amore, Sulla Libertà, Sull'Onore, Sull'Amicizia, Sugli Dei, Sulle Virtù, Sulle Leggi.
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Terzo e ultimo grande maestro del primo stoicismo, Crisippo nacque a Soli, nei pressi di Tarso. Fu
allievo di Cleante, con cui era solito trovarsi in disaccordo e faceva notare «che a lui occorre solo
l'insegnamento della dottrina, perché le dimostrazioni le avrebbe trovate da solo». Alla morte di
questi gli succedette a capo della scuola. Crisippo fu un pensatore estremamente prolifico: a lui si
devono oltre 700 testi e la definizione delle grandi dottrine del primo periodo dello stoicismo.
Presso i suoi concittadini ha goduto di grande prestigio, al punto da avere originato il detto «Senza
Crisippo, non sarebbe esistita la Stoà». Il secondo periodo della scuola è detto del medio stoicismo,
si sviluppa tra II e I secolo a.C. ed è caratterizzato dall'incontro dello stoicismo con le dottrine
eclettiche. L'ultimo è il periodo dello stoicismo romano, detto nuovo stoicismo, collocato in età
cristiana e dominato da una riflessione morale a sfondo religioso. I tre periodi, segnati ciascuno da
dottrine e teorizzazioni particolari, devono essere illustrati separatamente: inizieremo dall'analisi
delle teorie principali dell'antico stoicismo.

LA METAFORA DEL FRUTTETO


Per definire la propria concezione della filosofia, finalizzata al raggiungimento delle tre virtù
principali, gli stoici utilizzano la metafora del frutteto: la filosofia è considerata come un intero ed è
rappresentata dal frutteto; il muro di cinta, che delimita il terreno e difende il frutteto stesso, è la
logica; gli alberi, senza i quali non esisterebbe il frutteto, sono la realtà e rappresentano la fisica,
mentre l'etica, che è il fine della filosofia, è raffigurata dai frutti.

Il MONDO dello STOICISMO


1. A Cizio, nell'isola di Cipro, nacque nel 336-335 a.C. ca. Zenone, che si trasferì in seguito ad
Atene.

2. Nel 300 a.C. Zenone fondò ad Atene, nel cosiddetto Portico dipinto, la scuola dello stoicismo.
Nella direzione della scuola gli successero Cleante di Asso proveniente dalla Troade,
Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia, che si recò anche a Roma, e Antipatro di Tarso.

3. Nel 185 a.C. a Rodi nacque Panezio, fra i maggiori esponenti della seconda fase dello stoicismo,
la cosiddetta media stoà, che si protrasse dal II al I secolo a.C.

4. L'ultima fase dello stoicismo, detta stoicismo romano, si sviluppò fra il I e il III secolo d.C. ed
ebbe tra i suoi maggiori esponenti Seneca, Epitteto e l'imperatore romano Marco Aurelio.
In questo periodo Roma raggiunse la sua massima espansione territoriale.
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L'antico stoicismo, con Zenone, ritiene che la scienza sia condizione necessaria per la virtù e
divide la filosofia in fisica, etica e logica
Zenone pensa che la scienza non abbia un valore autonomo, ma sia una condizione necessaria per
diventare virtuosi. Vi è dunque una naturale connessione tra scienza e virtù e infatti le suddivisioni
della scienza corrispondono ad altrettante suddivisioni della virtù. Per gli stoici, le virtù principali
sono tre: naturale, morale e razionale. Poiché la filosofia ha come scopo il raggiungimento della
sapienza attraverso l'esercizio della virtù, anche la filosofia si suddivide in tre parti: la fisica, l'etica
e la logica. I vari filosofi della scuola assegnano valore diverso alle tre parti e le insegnano a partire
da un ordine ogni volta diverso. Zenone e Crisippo iniziano con la logica per poi passare a fisica ed
etica.
2 La logica
La logica stoica è la scienza dei discorsi: si articola in retorica e dialettica; quest'ultima è
ulteriormente suddivisibile in grammatica e logica in senso stretto
Forse fu proprio Zenone il primo a utilizzare il termine logica per designare la disciplina che ha per
oggetto i lógoi (cioè i discorsi). Aristotele che, come sappiamo, fondò la logica, preferì parlare di
analitica. A differenza di Aristotele, inoltre, Zenone considera la logica una scienza autonoma e non
un semplice órganon, cioè uno strumento, a disposizione delle scienze.
La logica stoica si articola in retorica e dialettica:
• la prima è la scienza dei discorsi continui (le orazioni);
• la seconda è la scienza dei discorsi divisi, fatti di domande e risposte. A sua volta la dialettica si
distingue in due parti, la grammatica, che tratta delle parole, e la logica in senso stretto, che ha per
oggetto le forme del ragionamento: rappresentazioni, proposizioni, argomentazioni e sofismi.
Ne risultano due grandi ambiti di indagine:
• i problemi della conoscenza e la formazione dei concetti;
• le forme del ragionamento.
Il criterio di verità è la rappresentazione catalettica, cioè una rappresentazione mentale
(fondata sulla sensazione) cui l'intelletto assente con il giudizio
Gli stoici definiscono la dialettica come «scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso e di ciò che
non è né vero né falso»:
• né veri né falsi sono i singoli termini o concetti (Giorgio o animale di per sé non possono essere né
veri né falsi) e i ragionamenti senza sbocco (come sofismi, paradossi e dilemmi) sulla cui verità o
falsità non si può decidere;
• vere o false sono invece le proposizioni (Giorgio è un animale razionale sarà vera o falsa).
Il problema fondamentale è quindi individuare un criterio di verità, attraverso cui distinguere il vero
dal falso. In questa prospettiva la prima domanda che bisogna porsi è: come avviene la formazione
dei concetti? Gli stoici ritengono che la conoscenza derivi dai sensi. A loro avviso, l'anima è una
tabula rasa su cui si registrano le sensazioni, cioè le impressioni prodotte dagli oggetti del mondo
esterno sui nostri organi di senso.

Gli stoici dicono: quando l'uomo nasce, ha la parte egemonica [razionale] dell'anima come un foglio
di carta pulita, adatta per copiarvi uno scritto. Su questa parte registra ogni singolo concetto. Il
primo modo di questa trascrizione è mediante i sensi. (Aezio, Placita, IV, 11)
La sensazione viene accolta dall'anima imprimendosi in essa sotto forma di rappresentazione
mentale degli oggetti esterni. Ma la rappresentazione vera non è semplicemente frutto del sentire
del soggetto attraverso gli organi di senso, è anche espressione dell'assenso dato dalla ragione a tale
rappresentazione: a differenza degli epicurei, dunque, per gli stoici il criterio di verità non si riduce
alla sola sensazione. Da un lato, infatti l'uomo è passivo rispetto alla sensazione, non può in alcun
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modo sottrarsi alle impressioni e alle rappresentazioni che si generano in lui: la realtà gli si dà
indipendentemente dalla sua volontà. Dall'altro, l'uomo è libero di dare o meno l'assenso
(synkatáthesis) a queste rappresentazioni attraverso il suo intelletto. Gli stoici chiamano
apprensione l'atto attraverso il quale l'intelletto assente a una rappresentazione ritenuta vera.
Chiamano poi rappresentazione catalettica (dal greco katalambano, prendo) quella rappresentazione
che abbia ricevuto l'assenso: la rappresentazione catalettica è l'unico criterio di verità ammissibile.
L'assenso dato o meno a una rappresentazione è, secondo gli stoici, un atto libero dell'intelletto, che
chiamano giudizio. Mediante il giudizio l'uomo afferma o nega qualcosa o rinuncia a entrambi gli
atti. È interessante osservare che per gli stoici l'assenso dell'intelletto alla rappresentazione è un atto
sostanzialmente spontaneo: l'intelletto in pratica tende a prendere atto dell'evidenza della
sensazione. In ultima istanza, dunque, è questa evidenza il fondamento del criterio di verità.
In conclusione, la conoscenza si configura come un procedimento complesso, articolato in una serie
di fasi che Zenone illustra attraverso l'immagine della mano:
1. nell'atto del ricevere una sensazione, il soggetto è passivo e viene paragonato alla mano aperta.
2. Successivamente, quando la mente dà il proprio assenso alla rappresentazione, il soggetto diviene
attivo, come una mano parzialmente chiusa, cioè nella posizione di "afferrare" la rappresentazione.
3. La comprensione piena della realtà, cioè quando la rappresentazione è totalmente acquisita
dall'intelletto, è paragonata alla mano chiusa a pugno, che ha ormai "afferrato" l'oggetto esterno.
4. Infine la scienza, che consiste nel conoscere qualcosa in modo certo, senza che alcuna
argomentazione possa più scalfire la nostra comprensione, viene paragonata al pugno nell'atto di
venire stretto dall'altra mano, esprimendo così il pieno possesso dell'oggetto.

MAPPA CONCETTUALE
La gnoseologia stoica

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Dall'unione delle rappresentazioni sensibili si forma, con un procedimento spontaneo, il
concetto
Quando le rappresentazioni sensibili si assommano, si genera spontaneamente l'anticipazione o
prolessi (prolepsis), ovvero il concetto di una cosa: una conoscenza universale di cui tutti gli
uomini hanno una nozione comune. I concetti sono entità logiche, cioè non hanno consistenza
ontologica, esistono solo nell'anima: secondo gli stoici, infatti, l'essere è sempre individuale e
corporeo, mentre i concetti sono universali e incorporei.
I concetti si distinguono in naturali e artificiali:
• i primi sono quelli, appena descritti, prodottisi per esperienza, come semplice accumulo di
rappresentazioni mentali (per esempio, "cane", "uomo"). Sono concetti universali perché
racchiudono le caratteristiche comuni a molteplici individui particolari, cui possono in tal modo
essere riferiti;
• i secondi, invece, sono concetti che si sono prodotti in modo artificiale, attraverso il ragionamento
e l'istruzione (per esempio, "triangolo" o "bene").
I concetti artificiali sono fondamentali nella costituzione delle scienze. I concetti più generali,
corrispondenti alle categorie aristoteliche, secondo gli stoici sono solo quattro: sostanza, qualità,
modo d'essere, relazione. Il genere sommo, ovvero il concetto più esteso, è quello di essere, che può
riferirsi a tutte le cose in quanto sono, cioè esistono.

La logica stoica è importante per aver messo a punto la teoria del significato, che ha esercitato
un'importante influenza sullo sviluppo della filosofia
Gli stoici riprendono il problema del rapporto tra linguaggio e realtà, già affrontato da Platone e
Aristotele, in una chiave originale che porta alla definizione di una teoria del significato destinata a
esercitare una grande influenza sulla storia del pensiero filosofico. Secondo la logica aristotelica, il
concetto esprime l'essenza della cosa; per gli stoici, invece, il concetto è un segno che significa
(cioè, indica) una cosa e che quindi può essere riferito a tutte le realtà dello stesso tipo: ad esempio,
il concetto di casa è un segno e si riferisce alle molte e diverse case esistenti nella realtà. Tre sono
gli elementi che si collegano: il significato, ciò che significa, e ciò che è. Ciò che significa è la voce,
per esempio "Dione". Il significato è la cosa indicata dalla voce e che noi cogliamo pensando alla
cosa corrispondente. Ciò che è, è il soggetto esterno, per esempio lo stesso Dione (Sesto Empirico,
Contro i logici)
È necessario dunque distinguere:
• la parola («ciò che significa»), cioè l'insieme dei suoni, attraverso cui ci si riferisce a essa (cioè i
fonemi "D-i-o-n-e");
• il «significato», cioè l'immagine o la rappresentazione mentale che si forma in noi ogni qual volta
sentiamo la parola che indica l'oggetto;
• l'oggetto reale («ciò che è»), nell'esempio lo stesso Dione, oppure una casa vera e propria, quella
casa su una collina.
In questo "triangolo semantico", la parola, espressa dal suono, e l'oggetto sono corporei, mentre il
significato è incorporeo.

La logica aristotelica è fondata sui termini e sul sillogismo dimostrativo, mentre quella stoica è
proposizionale e privilegia il ragionamento anapodittico
Come abbiamo già osservato, gli stoici affermano che solo le proposizioni possono essere vere o
false. I singoli termini non hanno un senso compiuto: per esempio, "uomo" o "cammina" di per sé
non significano nulla, solo la proposizione "l'uomo cammina" ha un significato preciso e può essere
vera o falsa. Anche Aristotele sostiene che solo la proposizione può essere vera o falsa ma la
scompone nei termini che la costituiscono. La logica aristotelica, dunque, era incentrata sui termini,
mentre quella stoica fa perno sulle proposizioni, ed è stata infatti definita logica proposizionale:
Aristotele osserva soprattutto le relazioni tra i termini all'interno della proposizione, mentre gli
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stoici studiano la relazione tra le proposizioni nel ragionamento. Gli stoici, infatti, definiscono la
proposizione compiuta axióma, cioè enunciato, e il ragionamento è solo la concatenazione di più
enunciati. Secondo Aristotele il ragionamento perfetto è il sillogismo dimostrativo, che è vero se le
premesse sono vere. Gli stoici invece danno particolare rilievo al ragionamento anapodittico, cioè
non dimostrativo (il sillogismo ipotetico di Aristotele), nel quale la premessa (che in questo caso si
chiama antecedente) è ipotetica e ha un legame immediatamente evidente con la conclusione (che in
questo caso si chiama conseguente). Crisippo individua cinque figure del ragionamento
anapodittico. Vediamole nella loro formulazione logica e in alcuni esempi classici.
Approfondiamo la comparazione con la logica aristotelica:
• il sillogismo aristotelico collegava due premesse a una conclusione tramite il termine medio; i
sillogismi anapodittici collegano invece direttamente due proposizioni senza l'uso di un termine
medio;
• per Aristotele le premesse del sillogismo dimostrativo sono affermazioni categoriche; la logica
stoica si costruisce invece a partire da premesse ipotetiche;
• infine il sillogismo aristotelico istituiva un collegamento tra i termini, valido dal punto di vista
razionale; al contrario la logica stoica ruota su relazioni tra eventi, empiricamente verificabili per
mezzo del criterio di verità.
A tale proposito, nell'ambito del ragionamento gli stoici distinguono la correttezza formale, che
stabilisce unicamente che un ragionamento è valido, dalla verità di fatto, che dipende dalla effettiva
corrispondenza delle proposizioni a una realtà empiricamente verificabile. Per esempio,
consideriamo l'assunto "Se piove prendo l'ombrello. Ma piove, dunque prendo l'ombrello"; si tratta
di un ragionamento sempre valido dal punto di vista logico, ma vero solo se piove: se c'è il sole è
falso, e questo va verificato empiricamente, cioè ricorrendo al criterio di verità. Va sottolineato che
il ragionamento proposizionale degli stoici anticipa la logica moderna con l'uso dei cosiddetti
connettivi logici (se, se... allora, o, e, non) , cioè quelle particelle linguistiche che ci permettono di
legare le proposizioni tra loro con una determinata funzione logica: "se" introduce l'ipotesi, "o"
indica la disgiunzione, "e" la congiunzione, e "non" la negazione. Oltre che dei ragionamenti
ipotetici, gli stoici trattano anche della dimostrazione, cioè il procedimento attraverso cui viene
portato alla luce un significato inizialmente sconosciuto. Secondo gli stoici, la dimostrazione parte
da un indizio (semeion) da cui ricava una premessa evidente che consente di pervenire a una
conclusione non evidente, cioè a individuare la causa. «Se questa donna ha latte nelle mammelle, ha
partorito. Ma questa donna ha latte nelle mammelle, dunque ha partorito» (Sesto Empirico):
dall'indizio (la presenza del latte) si risale alla causa (il parto). Tutte le grandi dimostrazioni della
filosofia stoica (l'esistenza della provvidenza, di Dio o dell'anima) sono il risultato dell'utilizzo di
questo procedimento dimostrativo.
MAPPA CONCETTUALE
Il triangolo semantico

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"Se a allora b. Ma a dunque b."
In questo primo caso si tratta dello schema logico di ragionamenti come: "Se è notte è buio. Ma è
notte, dunque è buio".

"Se a allora b. Ma non b dunque non a."


Questa è la forma logica dei ragionamenti come: "Se è notte è buio. Ma non è buio quindi non è
notte".

"È impossibile che siano sia a che b. Ma è a. Dunque non è b."


Questo è lo schema seguito dai ragionamenti come: "Non può essere sia sera che mattina. Ma è
sera, dunque non è mattina".

"O è a o è b. Ma non è b, dunque è a."


Questo è lo schema dei ragionamenti come: "O è mattina o è sera. Ma non è sera, dunque è
mattina".

"O è a o è b. Ma è a. Dunque non è b."


Corrisponde a frasi come: "O è sera o è mattina. Ma è sera, dunque non è mattina".

GLI STOICI E I PARADOSSI


Stando alla testimonianza di Diogene Laerzio, gli stoici si occuparono anche dei discorsi viziati da
errori logici come i sofismi, i paradossi, le antinomie ecc. Tra gli altri studiarono il famoso
paradosso del mentitore, che nella formulazione attribuita da Diogene Laerzio a Eubulide di Mileto
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si può rendere come: «Io sto mentendo». Il paradosso consiste nel fatto che che se dico il vero
mento, mentre se mento dico il vero! I ragionamenti di questo tipo individuati dagli stoici sono
molti. In alcuni casi si tratta di semplici sofismi (dal greco sophisma, ragionamento capzioso,
artificio). In altri, di vere e proprie antinomie della ragione (dal greco antì, contro, e nòmos, legge;
quindi contraddizione, ragionamento sbagliato).
Tra i più celebri ricordiamo:
• il sofisma del calvo: la perdita di un solo capello non rende un uomo calvo. Si dia il caso di un
uomo che incomincia a perdere un capello dopo l'altro. Quando potrà essere chiamato calvo? Se ne
conclude che la differenza tra la sua calvizie o meno risiede in un solo capello!
• Il dilemma del coccodrillo, che forse risale addirittura ai sofisti: un coccodrillo ruba un bambino a
sua madre e promette di renderlo solo a patto che ella indovini la sua volontà o meno di farlo. La
madre risponde che il coccodrillo non restituirà il bambino.
Il coccodrillo viene, così, a trovarsi di fronte a un dilemma: se non restituisce il bambino, la madre
ha detto il vero e quindi sarebbe tenuto a restituirle il figlio; se invece lo restituisce, la madre ha
detto il falso e dunque il coccodrillo non dovrebbe renderlo! Per secoli i logici si sono sforzati di
trovare una soluzione per paradossi come questi. Nel Novecento, il filosofo e matematico Bertrand
Russell ha risolto matematicamente molti paradossi: in molti casi la regola per aggirare la
contraddittorietà di certe affermazioni è di limitarne il carattere universale premettendo che non
devono venire riferite a se stesse. Ad esempio, l'affermazione «io mento» in senso assoluto significa
«tutto ciò che affermo è falso»: se la frase ha un'estensione e un valore universale deve essere estesa
anche a se stessa, dal che si genera l'antinomia (se io mento la frase è vera, quindi dico la verità; se
dico il vero, poiché affermo di mentire, mento). Ma se la validità dell'affermazione è circoscritta a
tutte le frasi tranne che a se stessa («io mento ogni volta che affermo qualcosa, tranne che ora»), la
frase perde la propria assolutezza e con essa il suo carattere paradossale.
FILOSOFI a CONFRONTO
La logica in Aristotele e negli stoici

3 La fisica
La fisica stoica è panteista e materialista: l'universo è interamente corporeo ed è retto da un
ordine perfetto, immutabile, eterno e necessario che viene identificato con Dio

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La fisica stoica non è un insieme di nozioni relative a uno specifico settore della realtà, ma è una
vera e propria metafisica della phýsis, la natura, così come l'avevano intesa i presocratici. La fisica
stoica, infatti, è in primo luogo una teoria che esprime una comprensione globale della realtà,
attraverso l'individuazione dei suoi principi primi e delle sue leggi e in questo senso è strettamente
panteista. Secondo gli stoici, infatti, esiste nell'universo un ordine perfetto e immutabile, eterno e
necessario che essi identificano con Dio e chiamano lógos. Tale ordine regola in modo infallibile
tutte le cose e in virtù di esso l'universo è e si conserva così come lo conosciamo. Al tempo stesso la
concezione stoica della realtà è rigorosamente materialista. Tutto è corpo, anche Dio:

Platone e Zenone lo Stoico, trattando dell'essenza di Dio, non la concepirono nello stesso modo, ma
Platone pensò Dio come incorporeo, Zenone, invece, lo pensò come corpo. (Pseudo Galeno,
Historia Philosophica, 16)
Come aveva insegnato Platone nel Sofista, esiste solo ciò che può agire o subire un'azione e ciò è
possibile solo al corpo, dunque solo il corpo esiste: ciò che non è corpo non è realtà, non è essere.
Per questo motivo, secondo gli stoici, sono corpo la voce, l'anima, il bene, le emozioni e anche il
lógos divino. Più precisamente, il corpo può essere ridotto a due principi inseparabili l'uno
dall'altro: un principio passivo e un principio attivo. Quello passivo per gli stoici è la materia,
amorfa e priva di qualità; quello attivo è il lógos divino, che, agendo sulla materia, dà a essa un
ordine e una struttura e produce gli esseri singoli. La materia, infatti, è inerte e ricettiva, e necessita
dell'azione formatrice del lógos per assumere le diverse forme e le molteplici determinazioni che
caratterizzano gli oggetti della realtà. Per gli stoici, dunque, la sostanza della realtà è la materia; la
forza generatrice che la plasma è il lógos
Il fuoco è energia vitale che si estende all'intero cosmo, è corporeo ed è la "ragione seminale"
dell'universo
Gli stoici concepiscono il lógos come pnéuma, che corrisponde all'immagine di soffio caldo e
"infuocato" che dà vita, nutre, fa crescere e conserva tutto ciò che esiste. Cicerone scrive nel De
natura deorum, II, 23-24:

Tutti gli esseri che si nutrono e crescono contengono in sé energia calorifica senza la quale non
potrebbero né nutrirsi né crescere. [...] Tutto ciò che vive, dunque, sia esso animale o vegetale, vive
in forza del calore che reca chiuso in sé. Dal che si deve dedurre che la sostanza che costituisce il
calore possiede una forza vitale che si estende all'intero universo.
Secondo gli stoici, lo pnéuma è la ragione seminale dell'universo perché contiene le "ragioni"
particolari che costituiscono i semi di tutte le cose, cioè ogni realtà esistente nasce da un proprio
seme razionale o ragione seminale e non vi sono nell'universo due sole cose che siano uguali.
Il panteismo degli stoici non contraddice il politeismo greco tradizionale che personifica
l'ordine di Dio nel mondo
Il panteismo stoico non esclude ma anzi si integra con il politeismo della religione tradizionale
greca. Scrive a proposito Diogene Laerzio: «Gli stoici affermano che vi sono alcuni demoni che
hanno affetti e sentimenti comuni all'umanità e vigilano sul corso delle umane vicende». Dio si
identifica, infatti, con la Natura e gli dei del pántheon greco sono considerati dagli stoici
personificazioni dei vari aspetti dell'azione ordinatrice di Dio nel mondo. Leggiamo ancora Diogene
Laerzio:
Dio è un essere immortale, razionale, perfetto e intelligente, beato, non suscettibile di alcun male,
sollecito, per la sua provvidenza, del cosmo e di tutto ciò che è in esso; ma non è antropomorfo. È il
demiurgo dell'universo e, quasi padre di tutte le cose, è ciò che penetra dovunque in tutto o in parte
ed è chiamato con molti nomi secondo i modi della sua potenza. È chiamato [...] Zeus (Zéna)
perché è l'autore del vivere (zén) o perché pervade tutta la vita; è chiamato Atena (Athenán) perché
la sua egemonia si estende fino all'etere (aithéra); Era (Eˇ ran) perché domina l'aria (aéra); Efesto

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perché è signore del fuoco creativo; Poseidone perché domina tutte le acque; Demetra perché
domina tutte le terre. Similmente gli imposero anche altri nomi, per rilevare altre particolari
proprietà. (Diogene Laerzio, Le vite dei filosofi, Libro VII, 147)
Il mondo nel suo complesso, identificandosi con l'ordine, è perfetto. Anche il male, come vedremo,
rientra nella perfezione dell'ordine naturale.

Il destino e la provvidenza sono la legge divina e necessaria che dà ordine e armonia al cosmo
Quest'ordine immutabile della realtà, cioè Dio stesso, si identifica con il destino (in greco
heimarméne), la necessità che tutto domina. Ma tale ordine va ricondotto a Dio che ne è l'artefice,
dunque è provvidenza (in greco, prónoia), l'azione ordinatrice del lógos divino nel mondo. Gli
stoici, quindi, respingono il meccanicismo degli epicurei e propongono una concezione della realtà
finalista e conseguentemente ottimista: ciò che accade è bene che accada, in quanto Dio fa accadere
ciò che è opportuno che accada. Anche il male è necessario per il bene dell'uomo. In ogni
manifestazione della realtà (negli eventi atmosferici, nella sofferenza, nella gioia, nella paura, nel
dolore...), il saggio perciò deve cogliere questo ordine provvidenziale a cui non può né deve
sottrarsi. Conseguentemente, gli stoici ammettevano l'arte della divinazione o mantica, l'arte di
prevedere il futuro attraverso l'interpretazione dell'ordine necessario: se tutto è predeterminato
dall'azione del divino nell'universo, allora il futuro può essere scrutato e, con la tecnica adeguata,
anche previsto. L'interprete appropriato della divinazione può essere solo il filosofo, in quanto è
l'unico capace di comprendere e riconoscere tale ordine.

MAPPA CONCETTUALE
La fisica stoica

L'anima è per gli stoici il soffio divino presente nell'uomo: partecipa del lógos, vivifica il corpo
ed è immortale
L'essere che maggiormente partecipa del lógos divino è l'uomo, pertanto a lui spetta la posizione
centrale nell'universo stoico (antropocentrismo). L'uomo, infatti, oltre al corpo è dotato dell'anima,
che altro non è che parte del soffio vitale che pervade l'universo: «Per Zenone il seme della vita è
fuoco, che è anima e intelligenza».
L'anima pervade interamente il corpo umano, vivificandolo e presiedendo alle funzioni vitali.
Essa è divisa in otto parti:
• la parte centrale è detta egemonica, ha il compito di guida ed è identificabile con la ragione;
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• altre cinque parti corrispondono invece ai cinque sensi;
• le ultime due sono preposte alla fonazione e alla generazione, cioè il linguaggio e il seme.
L'anima seppure così divisa è una e viene raffigurata come un polipo in cui la testa, cioè la ragione,
unifica e controlla i tentacoli delle altre parti. Alla morte del corpo l'anima, pur essendo anch'essa
corruttibile, si separa dal corpo e gli sopravvive, fino al compimento della prossima conflagrazione
universale. Con la successiva palingenesi, comunque, ogni anima torna a esistere all'infinito come
ogni altra cosa. Pur nell'affermazione di un ordine divino necessario che pervade la realtà, per gli
stoici l'uomo è libero. La sua libertà coincide infatti con l'essere causa di sé e delle proprie azioni, è
cioè autodeterminazione. Tuttavia, la libertà non consiste nella possibilità di scegliere fra più
alternative: è piuttosto il riconoscimento dell'ordine naturale, divino, razionale che governa il
cosmo; grazie alla guida della ragione, l'uomo può conformare o meno a esso il proprio agire. Ne
consegue che solo il sapiente, che conosce l'ordine razionale dell'universo, cioè il destino e la
provvidenza, è libero. Ma è comunque una libertà praticabile entro un ordine necessario, al quale
possiamo dare o negare il nostro assenso: è quindi una libertà che si colloca in uno spazio
puramente interiore. Naturalmente il nostro assenso non modifica l'ordine delle cose ma solo il
modo in cui noi lo viviamo. L'uomo è come un cane legato a un carro in movimento: può seguirlo
volontariamente o farsi trascinare.
FILOSOFI a CONFRONTO
Il cosmo
EPICUREI STOICI

I mondi sono infiniti. Nascendo e


morendo partecipano alla
Il mondo è uno ed è finito; è unito e
Mondo trasformazione del cosmo e
immerso nel vuoto.
sono costituiti da atomi che si
muovono nel vuoto.

Atomi materiali, diversi per forma,


figura, peso, sono in numero
indeterminabile. Urtandosi Tutto è corpo, la materia (principio
Costituzione
si aggregano dando vita ai corpi, passivo) è animata dal lógos (principio
del mondo
secondo la teoria del clinàmen, unico attivo). Ciò che non è corpo non è realtà .
evento casuale e non regolato dalla
necessità.

Esiste un ordine perfetto e immutabile,


eterno e necessario, identificato con Dio
e chiamato lógos.
Tutto è dovuto ad aggregazioni e Tutto è stato determinato: ciò che esiste è
Ordine disaggregazioni casuali degli atomi. legato necessariamente a qualcosa che ne
dell'universo Non esiste un vero e proprio ordine è la causa e determina necessariamente
nel mondo. un effetto: la catena di cause ed effetti
non può essere modificata
perché sarebbe spezzato l'ordine
razionale del mondo.

La vita dell'universo è ciclica: nasce,


Non vi è un fine del mondo; i mondi cresce, si trasforma e si distrugge con la
Destino
sono aggregazioni atomiche sempre conflagrazione universale, per poi
dell'universo
diverse. rinascere identico e formare lo stesso
ordine cosmico, necessario e immutabile.

11
Tutto si ripete infinitamente in un eterno
ritorno dell'uguale.

Nel cosmo non agisce alcuna forza


Anche Dio è corpo, si identifica con la
divina trascendente o immanente.
natura, si integra con il politeismo greco,
Esistono gli dei che hanno forma
Dio ma non è antropomorfo. Dio è ciò che dà
umana e vivono negli intermundia,
ordine alla realtà, è quindi destino e
ma sono indifferenti alle vicende
provvidenza.
umane.

4 L'etica
L'etica stoica pone il fine dell'esistenza umana nel raggiungimento della felicità, che l'uomo
consegue vivendo secondo natura
Alla luce della successiva storia del pensiero, la parte più viva e importante della filosofia stoica è
l'etica. Infatti, il messaggio etico dello stoicismo non rimane confinato tra le mura del Portico
ateniese ma travalica i confini della scuola e, nel corso di oltre mezzo millennio, ha influenzato
molte tradizioni spirituali, a partire dal cristianesimo. Gli stoici ritengono che il fine dell'esistenza
umana sia la felicità. La riflessione etica ha dunque il compito di precisare che cosa sia la felicità e
quali mezzi siano atti a conseguirla. Nell'ordine naturale, divino, razionale che governa il cosmo, si
trova anche l'uomo: il principio fondamentale dell'agire umano nell'etica stoica è accettare questo
ordine, cioè "vivere secondo natura", dove il termine "natura" indica simultaneamente la natura
propria dell'uomo e la phýsis universale. La natura stessa, d'altronde, spinge ogni creatura vivente a
preservare il proprio essere, ricercando ciò che gli giova e fuggendo ciò che gli nuoce: gli stoici
definiscono questa tendenza all'autoconservazione oikéiosis. L'oikéiosis si esplica in ciascun
individuo in accordo con l'ordine necessario del Tutto. Nell'uomo, la natura ha predisposto due
strumenti, l'istinto e la ragione:
• l'istinto è il "primo impulso", garante della sopravvivenza, che spinge ciascun essere a compiere
tutte le azioni (alimentazione, sonno, riproduzione, cura di sé) che concorrono alla conservazione
sua e della specie;
• la ragione è peculiare dell'uomo e gli permette di vivere in accordo con se stesso, i suoi simili e la
natura.
A differenza degli epicurei, gli stoici non ritengono che il sentimento primario dell'uomo sia quello
del piacere-dolore: questo farebbe di lui un semplice animale. Gli stoici attribuiscono, invece,
all'uomo una dignità e uno status ontologico decisamente superiori, muovendo dall'assunto che il
lógos dell'uomo è parte di quello di Dio.

Ciò che è proprio dell'uomo è la ragione. Per essa l'uomo precede gli animali e viene subito dopo
gli dei. Una ragione perfetta è quindi il bene proprio dell'uomo; tutti gli altri sono beni comuni agli
animali e alle piante. [...] Se pertanto l'uomo ha per suo proprio bene la ragione, se ha portato
questa alla perfezione, ha raggiunto il fine ultimo della sua natura. (Seneca, Epistulae morales ad
Lucilium, 9, 76)
La specificità dell'uomo risiede, dunque, nella sua ragione, il cui sviluppo pieno è il compito a cui
ciascuno deve mirare nel corso dell'esistenza. Le norme dell'agire morale discendono, quindi, dai
modi adatti allo sviluppo razionale degli individui. Nelle piante e negli animali la tendenza
all'autoconservazione è presente ma resta inconscia, nell'uomo, invece, è consapevole e viene
sostenuta e potenziata dalla presenza della ragione. L'uomo, dunque, ha come scopo la realizzazione
di un'esistenza in accordo con se stesso: con la propria interiorità e il proprio essere specifico. Per
12
l'uomo vivere secondo natura significa armonizzarsi con la propria parte razionale, preservandola,
potenziandola e portandola allo sviluppo più pieno. Scrive Diogene Laerzio: «Il vivere rettamente
secondo ragione è per questi [gli stoici] vivere secondo natura. Infatti la ragione è quella che regola
l'istinto».

A differenza delle riflessioni etiche che l'hanno preceduta, quella stoica si configura come la
prima etica del dovere
L'etica platonica e quella aristotelica avevano a loro fondamento, rispettivamente, la nozione della
giustizia e quella della felicità. L'etica stoica è la prima a porsi come un'etica del dovere: gli stoici
definiscono, infatti, il dovere come l'azione conforme all'ordine universale. Scrive Diogene
Laerzio:
Gli stoici chiamano dovere ciò la cui scelta può essere razionalmente giustificata. Delle azioni
compiute per istinto alcune sono doverose, altre contrarie al dovere, altre né doverose né contrarie
al dovere. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 107-109)
È doveroso tutto ciò che la ragione consiglia di compiere, «come onorare i genitori, i fratelli, la
patria e andar d'accordo con gli amici». È contrario al dovere tutto quello che la ragione sconsiglia;
è indifferente, infine, ciò che la ragione né consiglia né vieta, «come sollevare una pagliuzza, tenere
una penna» ecc. In questa etica del dovere vanno inoltre distinti, secondo la differente natura degli
uomini, il dovere "retto", cioè la perfezione propria dei sapienti, e il dovere intermedio, proprio
degli uomini comuni che agiscono seguendo semplicemente la propria indole buona.

Il dovere di conciliarsi alla natura giustifica il suicidio, che è il rifiuto della vita qualora vi sia
l'impossibilità di adempiere al proprio dovere
La preminenza della nozione del dovere, porta gli stoici a una delle argomentazioni più celebri della
loro filosofia: la giustificazione del suicidio, abbracciato da numerosi celebri maestri della scuola.
Gli stoici ritengono che, quando le condizioni esteriori dell'esistenza impediscono all'uomo il
compimento del proprio dovere, egli ha l'imperativo di lasciare la vita, anche se si trova in un
momento di assoluta felicità. Anche il suicidio è dunque dettato dalla ragione, è un'uscita razionale
dalla vita, è il dovere di non negare la propria natura piegandosi al vizio o accettando condizioni
contrarie. È un'azione propria del sapiente e può essere giustificata per la patria, per gli amici o per
menomazioni mentali o malattie incurabili: in questi casi l'istinto alla sopravvivenza passa in
secondo piano e il suicidio è coerente ai comandi della ragione. In merito, è particolarmente
significativo il racconto del suicidio di Zenone che Diogene Laerzio propone nelle Vite dei filosofi:

[Zenone] uscendo dalla sua scuola cadde e si ruppe un dito, allora battendo la mano per terra
disse, rivolgendosi a Niobe [cioè citando una battuta della Niobe di Euripide]: «Arrivo, perché mi
chiami?». Dopodiché si impiccò e morì.
La virtù è il solo bene per l'uomo sapiente che conosce l'ordine razionale del cosmo e non può
cadere nel vizio
Dovere e bene, tuttavia, sono cose diverse. Il bene compare a seguito della ripetizione sistematica e
reiterata dell'azione doverosa, fino a generare nell'uomo una vera e propria attitudine stabile e
costante: la virtù. Solo la virtù è veramente il bene: essa è propria unicamente del sapiente, che
conosce l'ordine cosmico e vive conformemente a esso. La virtù è una sola e si identifica con la
sapienza perché non è praticabile senza la conoscenza dell'ordine dell'universo propria dell'uomo
saggio. Il compimento del dovere, tuttavia può avere molti nomi, a seconda degli aspetti della virtù
che, di volta in volta, si vogliono sottolineare: ad esempio, la giustizia è la virtù legata alla
distribuzione dei beni, la saggezza quella legata ai compiti dell'uomo, la fortezza agli impedimenti
ecc. Il vizio è il contrario della virtù e tra virtù e vizio non è possibile alcuna via intermedia. Chi
vive secondo ragione, cioè il saggio, fa tutto in modo virtuoso, mentre chi vive in modo irrazionale,
13
cade nel vizio. Poiché la virtù dipende dall'uso o meno della ragione, è accessibile a tutti gli uomini,
a prescindere dal sesso, dall'origine e dalla condizione sociale.

Gli indifferenti non sono né beni né mali, ma possono essere positivi o negativi se conservano o
ostacolano la vita
La virtù è l'unico bene per l'uomo, in quanto lo conduce alla realizzazione della propria natura; il
vizio, parallelamente, rappresentata l'unico male. Esistono poi altre cose che non sono né beni, né
mali e sono i cosiddetti indifferenti (adiáphora):

Indifferenti sono tutte le cose che non portano né vantaggio né danno: per esempio vita, salute,
piacere, bellezza, forza, ricchezza, buona reputazione, nobiltà di nascita e i loro contrari, morte,
infermità, pena, bruttezza, debolezza, povertà, ignominia, oscura nascita e simili. (Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, VII, 100-101)
A livello puramente biologico, tra gli indifferenti, in base alla legge dell'autoconservazione, alcuni
sono da ritenersi positivi in quanto conservano e incrementano la vita, altri sono negativi poiché la
ostacolano. I primi, come la salute, la ricchezza, la bellezza, meritano pertanto di essere scelti; i
secondi, come la malattia, l'infermità, l'indigenza, no. Secondo gli stoici, oltre alle virtù e ai vizi,
esistono, dunque, altre cose che, benché siano moralmente indifferenti, sono degne di essere scelte o
respinte dal punto di vista fisico: per designarle adoperano il termine valore, che si riferisce a tutto
ciò che offre un «contributo a una vita conforme a ragione». Con lo stoicismo, quindi, fa il suo
ingresso nella storia della filosofia il concetto di valore che avrà enorme importanza nello sviluppo
della riflessione etica.
Le passioni sono contrarie alla ragione, vengono considerate false opinioni a cui il saggio
contrappone l'imperturbabilità
Il principio fondamentale dell'etica stoica è vivere secondo ragione: le emozioni (páthos), perciò,
sono solo un ostacolo. Infatti, se l'istinto è la guida degli animali e la ragione quella dell'uomo, le
emozioni risultano superflue e vengono interpretate dagli stoici come forme di ignoranza: non sono
cioè espressione di una parte dell'anima, come per esempio voleva Platone, ma sono false opinioni.
È vero, infatti, che tutti gli uomini (anche i sapienti) sono sottoposti a forti impulsi (appetitus
vehementior), ma questi impulsi si trasformano in passioni umane solo mediante l'assenso della
ragione: in altre parole, fa parte della natura umana essere attratti da ciò che ci dà piacere, per
esempio dalla bellezza; ma il saggio non lascia che questo impulso diventi una passione perché lo
contrasta con la forza della ragione che dimostra che la bellezza non è il vero bene.

Gli stoici sradicano dall'anima tutti gli affetti dal cui impulso l'uomo è turbato. [...] Sono malattie,
non ingenite per natura, ma prese per un'opinione sbagliata; e perciò credono che si possano
estirpare dalle radici, se si cancella la falsa opinione dei beni e dei mali. (Lattanzio, Divinae
Institutiones)
Le passioni sono quindi considerate alla stregua di vere e proprie malattie dell'anima, fonte di ogni
male e infelicità. Fondamentalmente se ne possono distinguere quattro:
• il piacere (voluptas) e il dolore (aegritudo), relativi rispettivamente ai beni e ai mali presenti;
• il desiderio (libido) e la paura (metus), relativi rispettivamente ai beni e ai mali futuri.
Il saggio non prova nessuna di queste passioni. In particolare non prova dolore per le cose presenti
perché, conoscendo la perfezione dell'universo, sa che non esistono mali di cui debba dispiacersi.

Colui che per moderazione e fermezza è quieto d'animo e in armonia con se stesso, sicché né si
strugga per afflizioni, né sia fiaccato dalla paura, né assetato di bramosia arda di desiderio, né si
consumi a tripudiare con futile vivezza, quegli è il sapiente che cerchiamo, quegli è il felice.
(Cicerone, Tuscolanae Disputationes)
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L'ideale stoico è, dunque, quello dell'imperturbabilità del saggio, dovuta all'indifferenza a ogni
emozione (in greco apatía). Si emoziona, infatti, solo colui che non comprende il perché delle cose.
L'uomo, infatti, ha paura, si affligge o si esalta perché non sa spiegare le ragioni di ciò che accade.
Ma quando invece ha compreso che le cose si collegano le une alle altre nella catena stabilita dal
destino, non si lascia perturbare dalle emozioni. È importante osservare che il rifiuto delle passioni
comprende anche quelle che solitamente sono considerate positivamente, come la misericordia o la
compassione: «La misericordia fa parte dei difetti e vizi dell'anima: misericordioso è l'uomo stolto e
leggero» (Lattanzio). Si tratta di una prospettiva lontana dalla sensibilità contemporanea ma anche
dal realismo aristotelico. Piuttosto sembra riproporsi l'aristocraticismo etico proprio di Platone:
l'ideale del saggio si presenta, infatti, come difficilmente accessibile per le persone comuni,
riservato a personaggi straordinari, a filosofi come Socrate.
Gli uomini sono per natura spinti a formare la società, in virtù di un ordine universale che
presiede al destino delle comunità ed è responsabile dell'esistenza del diritto naturale
L'uomo, secondo il pensiero stoico, è portato per natura ad amare e conservare se stesso. Ma l'istinto
primario dell'oikéiosis non è diretto unicamente alla propria salvaguardia: gli stoici ritengono infatti
che ogni singolo individuo lo estenda immediatamente ai figli e alla cerchia dei familiari e infine,
per gradi, a tutti gli uomini, cui si sente accomunato dal fatto di condividere la medesima natura
razionale. Questo comporta che vi sia tra gli uomini un reciproco interessamento, «per cui - dice
Cicerone nel De finibus - è necessario che un uomo, per il fatto stesso che è uomo, non sembri
estraneo a un altro uomo». Pertanto gli uomini sono portati per natura a unirsi tra loro in una
"società naturale" e sono spinti «dalla natura a giovare a quanti più possono soprattutto con
l'insegnare e col dar regole di prudenza». Nella sostanza, l'ordine universale del cosmo regge sia il
destino dei singoli, che quello delle comunità. Le leggi umane sono così espressione della legge
eterna, scaturita dal lógos stesso, che permea tutte le cose e, in virtù della propria intrinseca
razionalità, stabilisce il bene e il male. La giustizia è dunque il prodotto dell'azione di questa legge
divina, che gli stoici definiscono legge naturale, che è razionale, universale ed eterna e risulta
superiore alle leggi dei singoli popoli. Scrive Cicerone:

La legge non fu inventata dal genio umano né fu una decisione arbitraria dei popoli, ma è un
qualche cosa di eterno, che regge il mondo intero con saggi comandi e divieti. Così [gli stoici]
sostenevano che quella legge prima e ultima fosse la mente divina che secondo ragione dà obblighi
o impone divieti a tutte le cose.
In tal modo gli stoici fondano la teoria del diritto naturale (giusnaturalismo), che da allora
costituisce una delle ipotesi fondamentali circa l'origine del diritto. Dall'idea che vi sia un'unica
legge naturale che governa le comunità umane discende la rivendicazione dell'unicità della specie
umana. Tutti gli uomini sono dunque uguali e la schiavitù giuridica è irrilevante. L'unica vera
schiavitù è quella dell'ignoranza, cioè dell'incapacità da parte dell'uomo di servirsi della propria
ragione. L'idea di un'uguaglianza di tutti gli uomini comporta necessariamente il superamento di
pregiudizi nazionalisti: l'uomo appartiene all'umanità prima che a un singolo popolo o a una
nazione; è cittadino del mondo e ogni paese è la sua patria (cosmopolitismo). A differenza di
Epicuro, quindi gli stoici non sostengono la necessità di abbandonare la politica: anzi riconoscono
la necessità che il saggio sia disponibile a farsi carico anche dei suoi doveri civili. «Crisippo nel
primo libro Dei modi di vita - ricorda Diogene Laerzio - sostiene che il sapiente parteciperà alla vita
politica, se nulla glielo impedisce». Sarebbe sbagliato tuttavia sopravvalutare la portata di questo
impegno: il saggio dovrà essere un buon padre e un buon marito, dovrà partecipare alla vita della
comunità ma certo non cercherà di tradurre in un nuovo ordinamento le sue concezioni politiche. In
altri termini, il suo egualitarismo si tradurrà in un atteggiamento di benevolenza nei confronti degli
schiavi, certamente non in un impegno per la loro liberazione.
FILOSOFI a CONFRONTO
Il problema etico nell'epicureismo e nello stoicismo
15
EPICUREISMO STOICISMO

Ricerca della felicità, che consiste


Fine Ricerca della felicità che consiste nel
nel piacere, raggiungibile con
dell'esistenza vivere secondo natura, cioè in conformità
l'atarassía e l'aponía, attraverso un
umana con la ragione, che regola ogni cosa.
razionale calcolo dei piaceri.

È orientato alla ricerca del piacere,


È orientato a seguire la propria natura di
che è il criterio di scelta dell'agire,
autoconservazione in armonia con
e alla fuga dal dolore. Con un
Agire umano l'ordine naturale.
calcolo razionale si devono
Comporta l'assolvimento del proprio
ricercare i piaceri naturali e
dovere secondo ragione.
necessari.

È in funzione del piacere, che è


È la virtù che si identifica con la sapienza
appagamento dei sensi regolato
Bene e si raggiunge con l'attitudine sistematica
dalla ragione; è assenza di
all'azione doverosa.
dolore nel corpo e nello spirito.

È ciò che provoca dolore, è il È il vizio ed è contrario alla virtù. Anche


timore da curare con la filosofia il male rientra nella perfezione
Male
(quadrifarmaco): il saggio dell'ordine universale, è perciò necessario
quindi non conosce il male. al bene dell'uomo.

Sono la "malattia" della vita umana Sono come una malattia dell'anima,
da curare con la filosofia. Il fonte di ogni male. Sono contrarie alla
Passioni quadrifarmaco può sconfiggere ragione e ostacolo al vivere secondo
le quattro grandi paure che natura. Alle passioni, considerate false
affliggono l'animo umano. opinioni, il saggio contrappone l'apatia.

È la più alta delle virtù e consiste


È la virtù, cioè l'imperturbabilità che si
nel calcolo razionale dei propri
Saggezza raggiunge seguendo la ragione, perciò è
bisogni, per soddisfare i piaceri che
accessibile a tutti gli uomini.
conducono alla felicità.

È nel piacere stabile, nel


È nel vivere in armonia con se stessi,
mantenimento dell'animo in una
senza passioni, conoscendo la perfezione
Felicità condizione di calma e
dell'ordine universale e sapendo che non
imperturbabilità, cioè nell'atarassía
esistono mali da temere.
e nell'aponía.

Per natura gli uomini sono portati a


È "un inutile affanno" che vivere in società. Le leggi umane sono
Politica compromette la felicità ed è causa espressione della legge eterna scaturita
di turbamento. dal lógos. Il saggio deve occuparsi dei
suoi doveri civili.

5 Il medio stoicismo e il neostoicismo a Roma

16
Tra il II e il I secolo a.C. Panezio di Rodi restituisce vitalità allo stoicismo mitigando la
rigidità dell'etica e lo diffonde a Roma
Dopo Crisippo, tra il II e il I secolo a.C. lo stoicismo perde la spinta innovativa e si limita a
conservare e trasmettere le tesi dei maestri. È Panezio di Rodi, vissuto ad Atene intorno al 160 a.C.,
a ridare vitalità alla dottrina stoica, che con lui entra nella fase del "medio stoicismo". Allievo di
Diogene di Seleucia e Antipatro di Tarso, nel corso della vita si reca più volte a Roma, dove entra in
contatto con il circolo degli Scipioni. È autore di uno scritto Sul Dovere e uno Sulla Provvidenza.
Alla morte di Antipatro, nel 129 a.C., diventa scolarca, carica che mantiene fino alla morte. La sua
riflessione si configura secondo gli storici come una sorta di umanesimo stoico. Il cuore del suo
pensiero risiede, infatti, nella correzione apportata al precetto morale del "vivere secondo natura",
che trasforma in "vivere secondo le disposizioni dateci dalla natura". A parere di Panezio, infatti, il
compito etico deve essere personalizzato e consiste nel fatto che ciascuno deve realizzarsi
pienamente, nella maniera che sente più adeguata a sé, in base alle differenti disposizioni che la
natura gli ha dato. Con Panezio, il concetto di "dovere" entra nella filosofia romana fortemente
umanizzato e, grazie a Cicerone, che da lui lo desume, viene trasmesso alla tradizione successiva.
La filosofia stoica arriva a Roma attraverso le interpretazioni eclettiche tipiche della cultura
del tempo: qui prende forma il cosiddetto "nuovo stoicismo"
A proposito della filosofia romana e del suo carattere eclettico, abbiamo già fatto riferimento
all'importante contributo di Marco Tullio Cicerone (vedi p. 32) che, pur non elaborando una
filosofia originale, nel I secolo a.C. contribuisce enormemente alla diffusione delle dottrine della
filosofia greca, attraverso la capacità espositiva e la chiarezza della sua prosa. Lo stoicismo che
giunge a Roma rispecchia l'impostazione eclettica tipica dell'epoca. Le sottigliezze teoriche e le
differenze tendono a essere poste in secondo piano a vantaggio dell'interesse per le conclusioni
pratiche della filosofia. Inoltre, la riflessione si approfondisce in senso religioso. Gli stoici
dell'epoca, infatti, sono sempre più interessati alla dimensione dell'interiorità spirituale. È dal
rapporto dell'uomo con se stesso, infatti, che scaturiscono la saggezza e la forza. Il saggio è,
dunque, autosufficiente e trae dal proprio animo la verità. Anche il rapporto dell'uomo con Dio
avviene nel ripiegamento interiore e, in tal senso, l'uomo non necessita del contatto col mondo. Il
nuovo stoicismo conta numerose personalità: quelle dotate di maggiore originalità filosofica furono
Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto.
Lucio Anneo Seneca, filosofo, letterato e politico, rivolge la sua attenzione agli aspetti pratici
della filosofia il cui compito è educare alla tranquillità interiore
Seneca nacque a Cordoba nel 4 a.C. Fu drammaturgo, poeta e uomo politico nella Roma di Nerone,
di cui fu maestro e consigliere e per ordine del quale morì nel 65 d.C. Seneca è profondamente
sensibile alle istanze eclettiche e ribadisce con forza la sua indipendenza intellettuale rispetto ai
dogmi della Stoà. Tuttavia non è semplicemente un eclettico. Il suo interesse è rivolto agli aspetti
pratici della filosofia: il saggio ha il compito di agire ed educare il genere umano. Perciò è
interessato ai problemi religiosi e morali della filosofia. Anche la fisica e la logica assumono valore
per lui unicamente in senso religioso-morale, in quanto possono contribuire a liberare l'uomo da
timori e insicurezze derivanti dall'ignoranza dei fenomeni fisici. La teoria dell'anima di Seneca
riprende quella platonica, distinguendo tra un'anima razionale e un'anima irrazionale; quest'ultima si
compone di una parte irascibile, da cui hanno origine le passioni, e una parte umile, da cui nasce la
ricerca del piacere. Secondo Seneca, il corpo è la prigione dell'anima, è la causa delle imperfezioni
dell'uomo e delle sue passioni, per questo l'uomo nasce veramente soltanto il giorno della propria
morte, intendendo che «un giorno finalmente ti saranno svelati i misteri della natura» (Epistulae,
102). Il saggio quindi deve elevarsi e cogliere il lógos universale, distinguendosi, in quanto dotato
di ragione, dalle altre creature. Seneca respinge il rigorismo morale stoico che contrappone senza
appello il saggio allo stolto. Considera con indulgenza gli errori umani, convinto che l'uomo sia di
fatto un essere imperfetto, in perenne oscillazione tra il bene e il male. Tra gli stoici è stato quello
che ha maggiormente combattuto la schiavitù e le distinzioni sociali. A suo giudizio, unico
17
indicatore del valore di un uomo è la virtù, che è egualmente a disposizione di tutti. Si è nobili o
schiavi per il capriccio del destino. L'unica nobiltà dotata di senso, per Seneca, è quella che
ciascuno si costruisce nell'interiorità:

Se qualcosa vi è nella filosofia è questo. Che essa non guarda a stemmi: tutti gli uomini, se si
riportano alla prima origine, discendono dagli dei. [...] Non è un atrio pieno di ritratti affumicati
che ci dà la nobiltà [...]. La nobiltà è data dall'animo, il quale, in qualsiasi condizione si trovi, ha
sempre la possibilità di sollevarsi sopra la fortuna stessa. (Seneca, Epistulae ad Lucilium, Libro V,
3)
A riguardo del divino, Seneca afferma risolutamente la coincidenza di Dio con il mondo: «E che
altro è, infatti, la natura se non Dio e la divina ragione che penetra di sé l'universo nella sua totalità
e nelle sue singole parti? » (De beneficiis). Dio ascolta, vede e ama gli uomini e si rivela attraverso
l'interiorità: «la divinità ti sta vicino, è con te, è dentro di te». Nel pensiero di Seneca, dunque, le
riflessioni religiose su Dio hanno largo spazio. Ciò ha favorito la formazione di una leggenda circa
il rapporto tra il filosofo e san Paolo: in realtà questo rapporto non vi fu.
Epitteto, schiavo liberato, filosofo e organizzatore di una scuola, incarna in modo esemplare lo
spirito e i contenuti della filosofia stoica romana
Epitteto nacque a Ierapoli, in Frigia, fra il 50 e il 60 d.C. Fu schiavo di Epafrodito, un funzionario
romano di Nerone. Verso il 70 d. C. iniziò a seguire le lezioni di Musonio Rufo, filosofo neostoico.
Dopo essere stato liberato, visse a Roma fino al 92-93, quando un editto di Domiziano cacciò da
Roma tutti i filosofi. Si recò allora in Epiro, a Nicopoli, dove fondò una scuola che divenne molto
famosa. Volendo attenersi al modello di Socrate, non scrisse nulla; conosciamo la sua filosofia
grazie a un suo allievo, lo storico Flavio Arriano, che ha messo per iscritto le sue lezioni. Come
Seneca, Epitteto è dominato da uno spiccato interesse per l'interiorità e dall'afflato religioso. Dio è
l'essere supremo, padre di tutti, presente nell'anima di ciascuno come consolatore e guida infallibile
del destino umano. Tuttavia, di nuovo come in Seneca, in Epitteto la riflessione religiosa si discosta
da quella cristiana in quanto la virtù è accessibile per mezzo della sola ragione, mentre secondo il
cristianesimo l'uomo nulla può senza la rivelazione e la grazia.
Epitteto ritiene che le cose si ripartiscano in due categorie:
• ciò che possiamo controllare, cioè gli atti spirituali: l'opinione, il sentimento, il desiderio,
l'avversione. In questa categoria si trovano il bene e il male e su queste cose l'uomo può esercitare la
ragione, modificandosi in modo da rendersi libero;
• ciò che non possiamo controllare: tutto ciò che non è una nostra attività, cioè il corpo, gli averi, la
reputazione, le alte cariche. L'uomo, dunque, può essere libero a patto di non essere schiavo delle
cose esterne. Tutto ciò che non è un atto del suo spirito non deve avere il potere di dominarlo.
Fervente ammiratore di Epitteto, ultima figura di rilievo dello stoicismo è lo stesso imperatore
di Roma, Marco Aurelio
Marco Aurelio nacque nel 121 d.C.; divenne imperatore all'età di quarant'anni e morì nel 180 d.C.
Ci ha lasciato uno scritto in lingua greca, composto di aforismi differenti, i Colloqui con se stesso o
Ricordi. Di ascendenze eclettiche, tra i pensatori del nuovo stoicismo, è quello che identifica
maggiormente filosofia e riflessione morale. Uno dei temi più ricorrenti del suo pensiero è quello
relativo alla caducità delle cose: «Oh! come rapidamente, in un attimo, svaniscono tutte le cose, i
corpi nello spazio e la memoria di essi nel tempo!». La vita ha tuttavia un senso che l'uomo coglie
attraverso la filosofia ma a condizione di un ripiegamento dell'anima su se stessa: infatti, è
attraverso l'interiorità che l'uomo giunge alla visione panteista dell'Uno-tutto, da cui ogni cosa
deriva e che tutto permea. È proprio l'idea dell'ordine divino del mondo a fornire la realtà di
significato. Il significato della vita, dunque, non proviene dall'esterno ma da noi stessi: «Scava nella
tua interiorità, dentro te stesso sta la fonte del bene». L'anima, infatti, è un principio divino dentro di
noi che ci consente di cogliere la vanità delle cose terrene e la grandezza dell'ordine provvidenziale
del tutto: Si deve in primo luogo considerare che io sono una parte del tutto regolato dalla Natura;
18
secondariamente che io sono, in certo modo, stretto da legami di parentela con le altre parti della
specie. Memore di ciò, in quanto sono parte non avrò ragioni di tollerare malvolentieri alcuna delle
cose che mi vengono dal Tutto, perché nulla è di danno alla parte se conviene al Tutto. [...] In
quanto poi sono stretto da legami di parentela con le altre parti della stessa specie, non farò nulla
che non giovi alla società; terrò anzi sempre presenti i miei simili e dedicherò tutti i miei sforzi al
bene comune, astenendomi da ogni azione contraria. (Marco Aurelio, Ricordi) Marco Aurelio,
dunque, ripropone i principi fondamentali dell'etica stoica: l'uomo deve accettare l'ordine divino e
razionale che governa il cosmo. Vivere in questo ordine, cioè «vivere con gli dei» è il suo dovere
morale, il senso della vita. E ciò comprende anche «vivere con gli uomini» in un rapporto di
solidarietà perché gli uomini sono legati dalla loro comune origine e devono amarsi gli uni gli altri:
«È dell'anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà». Ognuno deve svolgere il
compito cui la provvidenza l'ha chiamato, Marco Aurelio nientemeno che il ruolo dell'imperatore,
quasi a realizzare l'utopia platonica della filosofia al potere. Ma Marco Aurelio provvede da solo a
smorzare entusiasmi troppo facili: «Non sperare nella repubblica di Platone! Accontentati di fare un
passo avanti anche piccolo».

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