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Roma 2 -febbraio - 1995I mega occhiali neri e il sigaro.

Benito Franco Jacovitti, il più


grande vignettista di questo fine secolo, si muove nella sua stanza un po’ preoccupato:
«Devo consegnare sette tavole alla Mondadori entro un mese», borbotta, mentre, per
pura cortesia con gli ospiti, mette da parte una tavola che dovrà diventare un puzzle. A
oltre settant’anni Jac lavora, lavora, lavora... Senza sosta. Proprio come quando, a
sedici anni, aveva iniziato a collaborare col Vittorioso. «Disegnavo otto ore al giorno e
allo stesso tempo andavo al liceo artistico a Firenze».

La stanza di Jac è proprio come una sua tavola: ci si trova di tutto.


La collezione di armi da fuoco. «Una volta avevo armi vere, era una mia grande
passione. Poi, per non avere noie, ho preferito questo tipo di armi: identiche a quelle vere ma che non possono
sparare». Il microscopico tavolinetto dove il disegnatore lavora con le piccole bottigliette d’inchiostro di china. I
ritratti di Jac fatti da altri artisti. Un cartello giocoso: «Vietato cosare». Le corna di un alce. Un pupazzetto che
riproduce il suo Pinocchio, con l’immancabile salamino. I giornali dei club Jacovitti. Nella libreria i classici dell’arte
di Rizzoli. La sambuca Jacogusto. Pacchi dei sigari danesi Apostolado «Gli avana e i toscani sono troppo pesanti
e costano di più. Fumo 4/5 sigari al giorno, quando non lavoro». E poi una infinità di ninnoli e oggettini che
ricordano i personaggi inventati in cinquant’anni di lavoro. In un mobile chiuso centinaia e centinaia di tavole:
«Questa è una storia sugli indiani. I popoli delle diverse tribù parlano i dialetti italiani: napoletano, siciliano. Quelle
invece sono una parte delle tremila tavole che hanno come protagonista Cocco Bill. Poi ci sono le storie di
extraterrestri...». Mentre parla Jacovitti è sempre col pensiero al lavoro da terminare.

All’ospite non lo dice per cortesia, ma lui deve portare a termine la sua tavola nei tempi e nei modi che ha stabilito.
L’intervistatore gli impedisce di lavorare e lui, immerso nel fumo del suo sigaro e dietro gli occhiali neri, cerca, con
gentilezza e allegria, di liquidarlo in men che non si dica. E allora per tornare a lavorare si sottopone alla perfida
tortura e racconta la sua vita.

«Il primo disegno l’ho fatto a sei anni. A Termoli nel molisano, dove sono nato il 9 marzo del ’23 sotto il segno dei
pesci, le strade erano sterrate. Per far passare i carretti venivano ricoperte in parte da grandi lastroni, uno in fila
all’altro. I miei primi disegni li facevo col carboncino su queste lastre. Erano in qualche modo le mie prime strisce».

Un inizio non facile. Ma come nasce Jacovitti? E poi questo nome... Ma è vero?
«Certo che è vero è di origine slava - albanese! Come mia madre Elvira. Fino a sei/sette anni parlavo albanese.
Mio padre Michele faceva il ferroviere. Ho poi un fratello e una sorella. Ricordo un episodio per far capire come si
viveva. Ero caduto in un braciere e mi ero bruciato le braccia. Ebbene fui curato da alcune donne, delle specie di
fattucchiere, con la piscia mista a terra messa sulle scottature. E... guarii! A Termoli c’era poi il problema
dell’acqua. Arrivava col treno. Un barilotto per lavarsi costava 20 centesimi. Molti bambini morivano perché si
utilizzava quest’acqua che doveva servire per lavarsi e costava di meno. Morì anche un mio fratellino appena
nato. Proprio per questi problemi ci trasferimmo, avevo otto anni, a Ortona a mare. A undici anni ci trasferimmo a
Firenze dove ho frequentato il liceo artistico. E’ li che mi hanno affibbiato il nomignoli “lisca di pesce” per la mia
altezza e per la magrezza»

Cosa ha inciso sul futuro disegnatore?


«Mio padre faceva anche l’operatore in una sala di proiezione cinematografica. Questo mi ha dato la possibilità di
vedere centinaia di film. Erano i film western quelli che preferivo. Come ricordavo, disegnavo su queste grandi
lastre i film che vedevo. Mio padre era povero e non poteva comprarmi i giocattoli. Io ero molto creativo, si direbbe
oggi. Mi costruivo da solo i giocattoli. Con le forbici, l’ago e il filo costruivo dei pupazzi di stoffa. Facevo i trenini, le
casette, le automobiline. Disegnavo poi dei veri e propri albi. I primi disegni erano dei panorami poi sono passato
al disegno umoristico. Dopo aver fatto la prima e seconda commerciale a Macerata, consigliarono a mio padre di
portarmi in una città d'arte: Urbino o Firenze. Mio Padre optò poi per Firenze».

Quali erano i fumetti che leggeva il piccolo Jacovitti?


«Braccio di Ferro di Segar e soprattutto Li’l Abner di Al Capp».

Lei ha iniziato giovanissimo a lavorare per il prestigioso settimanale cattolico il


Vittorioso.
«Ero a Firenze ed uno dei miei disegni fu visto da uno dell’Azione cattolica, del
Vittorioso. Era la fine del ’39 e mi fu chiesta una storia. Feci una striscia con Pippo,
Pertica e Palla».

Intanto studiava al liceo artistico...


«Avevo sedici anni e studiavo. Per disegnare le strisce mi alzavo alle quattro del mattino. Nel ’43 ho finito
l’artistico, e mi sono iscritto ad architettura. Il fascismo era caduto, i tedeschi a noi universitari ci portarono al Nord.
Sono stato per oltre un mese in una caserma, indossavamo delle divise tedesche e facevamo lavori di pulizia. Una
volta sono caduto da un camion che mi trasportava e mi sono rotto un polso. Un prete,
quando ha saputo il mio nome, mi ha aiutato, mi ha dato dei vestiti da civile. Da vicino
Udine, dove ero, sono scappato a Firenze dove sono stato nascosto per 4/5 mesi, fino
alla Liberazione».

La produzione di quel periodo oltre al Vittorioso?


«Va ricordato nel ’43 l’illustrazione di Pinocchio per La Scuola editrice di Brescia.
Un’opera che è stata ristampata per una ventina d’anni. Nel ’55 ho iniziato a lavorare per
la pubblicità. C’è stata anche una collaborazione col Travaso delle idee ».

E poi?
«Nel ’46 ho lasciato Firenze e andai a Roma. Nel ’55 ho iniziato una collaborare con il Giorno. Lì è nato Cocco Bill.
Facevo un supplemento che usciva il giovedì: Il Giorno dei ragazzi. Il giovedì il Giorno vendeva dalle 40 alle 50
mila copie in più. L’inserto è uscito fino al ’67. Dal ’67 al ’72 sono stato alla Rizzoli. Lavoravo per Linus, Oggi,
L’Europeo, La Domenica del Corriere. Lavoravo, come mia abitudine, otto/nove ore al giorno. Da solo, senza
aiutanti. Mi davano uno stipendio fisso da pubblicista e le tavole erano pagate a parte. Le tavole alle fine
ritornavano a me. Ne ho un archivio di circa duemila. Molte di quelle del Vittorioso però sono andate perse durante
la guerra. Una parte sono state andate alla Mondadori».

Jacovitti si ferma un attimo a pensare. Poi se ne esce con una riflessione sui suoi amici di sempre:
inchiostro e carta.
«E’ un vero peccato i pennini e l’inchiostro di china non sono più buoni come quelli di una volta. L’inchiostro è più
chiaro - dice rammaricato, indicando le boccette che ha sul tavolo - . Anche la carta non è quella di una volta. Fa
schizzare l’inchiostro. Per questo i disegni mi tocca ripassarli più volte. Vede, è tutto lavoro in più».

Come andò a Roma?


«Mi sono sposato nel ’49 con Floriana Jodice, poi ho avuto una figlia: Silvia. Appena arrivato lavoravo con
personaggi come Marchesi, Metz, Fellini, Mosca, Steno facevamo i ritratti, le caricature degli americani. Erano
quelli del Bertoldo e del Marc’Aurelio. Collaborai con Age e Scarpelli che lavorava al Don Basilio. I giornali di satira
nascevano e morivano subito».

Lei è stato indicato come un disegnatore di destra, un fascista. Che rapporto ha con il fascismo? Suo
padre era fascista.
«Mio padre era fascista ma non aderì alla repubblica di Salò. E poi va ricordato un episodio: nel periodo delle
persecuzioni razziali, avvertì alcune famiglie ebree e che scapparono e si salvarono. Per quanto mi riguarda, nel
periodo in cui vissi nascosto a Firenze feci due strisce satiriche proprio sul fascismo. Protagonista era Battista
l’ingenuo fascista. Divenne famosa la battuta: “Eja, Eja, baccala!”. E poi creai una storia: Ahi Flitt . I personaggi si
salutavano non con il saluto romano ma con le corna. Era una satira sul nazismo. Erano una trentina di tavole
pubblicate nel ’44 in una rivista di studenti cattolici. Questo prima che arrivasse il famoso film di Charlot. Io l’ho
detto più di una volta: sono un liberale, un estremista di centro, un anarcoide».

Ma un irrequieto come lei come poteva vivere tranquillo sotto il fascismo?


«Beh, qualche episodio stranino c’è stato. A sette anni avevo disegnato il trasvolatore Italo Balbo, un vero eroe di
quei tempi, con al posto dei fasci, nelle mostrine della divisa, due falci e martello. Mio padre, che non s’era accorto
del pasticcio, portò alla casa del fascio il disegno. Certamente non fu ben accolto. Ma quella volta non ci furono
conseguenze. Nel ’42, avevo 19 anni, lavoravo al Vittorioso e proprio per non rimanere indietro col lavoro ho
saltato qualche adunata del sabato fascista. Insieme ad altri, i fascisti ci portarono in una stanza e ci picchiarono
di santa ragione. Mio padre protestò alla casa del fascio. Alla fine della guerra mio padre tornò comunque al Msi».

E lei per il Movimento sociale ha lavorato.


«Michelini, segretario missino d’allora, mi chiese un disegno per la campagna elettorale. Lo feci ma non mi sono
fatto pagare. Dalla Dc invece mi sono fatto pagare molto perché i soldi loro li avevano. Già fregavano. Ai radicali
poi ho dato i miei disegni per la raccolta di fondi».

Che rapporto ha avuto con la Dc?


«Come ricordavo, ho lavorato a lungo col Vittorioso, che non era la Dc ma insomma. A Roma ho conosciuto
Alcide De Gasperi. E naturalmente ho incontrato Andreotti».

Andreotti?
«Andreotti è senza dubbio un grande furbacchione, ma mafioso proprio no. Tra i democristiani il più onesto mi è
sembrato sempre Fanfani».
Ma insomma lei è un disegnatore di destra?
«Mi piacciono Fini e Berlusconi. Ma va ricordato che ho lavorato, sempre gratuitamente, per giornali come il Male,
Cuore e Tango».

Da Linus fu sbattuto fuori, però.


«Anche questo non è vero, me ne sono andato io. Era la metà degli anni Settanta, ed io sfottevo sia la destra che
la sinistra. Del Buono mi disse di non sfottere la sinistra. Il clima non era adatto. Io tolsi sia le sfottiture della destra
che della sinistra. Ma poi me ne andai. Due anni dopo mi richiamarono. Tornai con le avventure di Gionni Peppe.
Mi arrivarono, questa volta, perfino delle telefonate minatorie. Sfottevo il movimento studentesco: “Raglia, raglia
giovane itaglia”, era una delle battute che fece imbestialire più di un lettore».

Come è morto il Diario Vitt, che ha rappresentato per intere generazione un appuntamento agognato?
«Il Diario Vitt non è affatto morto. Il problema è diverso. Fino al ’60 eravamo gli unici a fare un diario per le scuole
con la Ave, una casa editrice cattolica. E quindi eravamo visibili. Si tiravano qualcosa come tre milioni di copie. Poi
arrivarono gli altri diari. In ogni caso il diario ha continuato ad essere pubblicato. Per dieci anni s’è chiamato Diario
Jacovitti, ma dal ’92 la Pigna ha comprato i diritti di testata dalla Ave ed è tornato il Diario Vitt».

Lei ha lavorato anche con Playmen.


«Si mi chiesero una serie di tavole erotiche dall’80 all’82. Poi mi sono stufato. Di recente ho ripreso il filone
erotico. Con Stampa alternativa di Marcello Baraghini ho pubblicato il Kamasutra spaziale».

Come vota Jacovitti?


«Nei primi anni del dopo guerra ho votato Dc, poi sempre liberale».

Di recente?
«Ho votato per Berlusconi, mi dispiace che sia andato a finire male. Bossi non lo posso vedere. D’Alema invece
mi va bene perché non è più comunista».

Quali politici stima?


«Mah... Di Vittorio, De Gasperi, Fanfani, Nilde Jotti, Napolitano, Fini. Come persone e non per le idee politiche:
Almirante e Michelini. Parlavano chiaro. Moro invece mi sembrava un’anguilla, anche se mi è dispiaciuto della sua
morte».

Gli hobby di Jacovitti...


«Amo la musica anni Trenta. Il jazz. Una volta avevo in casa anche una batteria completa. Poi colleziono armi. Mi
piacciono soprattutto i fucili Winchester, avevo una collezione. Avevo anche le pistole del Far West. Ma tre anni fa
rischiai l’arresto perché non avevo fatto una denuncia. E mi sequestrarono tutto. Avevo anche un cinturone da
cow boy».

Ha dei “discepoli”?
«Sì un ragazzo di venti anni che mi sembra sia proprio bravo. E’ figlio di un immigrato dalla Russia e vive in
Puglia. Si chiama: Nedeljko Balaica»

C’è qualche parentela tra Jacovitti ei fiamminghi?


«Qualche rapporto c’è. Come nei pittori fiamminghi, e in special modo Bruegel, c’è il brulichio della vita che si
ritrova nelle mie tavole. E poi qua e là spunta l’assurdo: il diavolo, il deforme».

Quale satira ama?


«Non amo la satira che fa sghignazzare. Amo l’umorismo che fa ridere, e deve far ridere tutti. Non mi piacciono le
vignette fatte di scarabocchi che basano tutto sulla battuta. Come quelle di Elle Kappa, Chiappori, Altan. Posso
apprezzare le battute di Altan, ma il disegno non esiste. Io preferisco valorizzare sia il disegno che la battuta. Ho
inventato anche delle espressioni similonomatopeiche diverse da quelle delle strisce americane: gulp, sob, sdeng.
Per uno schiaffone io metto: Schiaffffon. Oppure: Cazzotttton. Con le iniziali grandi».

Che rapporto ha con la morte?


«Prima avevo paura, ora non più. Tocca a tutti. Mi fa sorridere il fatto che debbano morire anche quelli che hanno
molti miliardi. Io non voglio soffrire, spero di andare a letto la sera e di “svegliarmi” morto la mattina. Sono contro
la pena di morte. Ma vorrei che la pena di morte ci fosse per chi uccide i bambini in Bosnia, in Ruanda. Hitler e
Stalin vanno condannati a morte».

E Mussolini...
«L’ho conosciuto. E’ venuto a battere il grano nel mio paese. A sei anni gli scrissi una lettera. “Caro duce io mi
chiamo come te. Quando tu morirai - gli dissi - io prenderò il tuo posto”. Mi rispose: “Stai tranquillo, io vivrò a
lungo” . Poveretto ha fatto una brutta fine».

Quale epitaffio sulla tomba di Jacovitti?


«Fui, sono e sarò un clown. Continuerò a disegnare nell’aldilà. Ho paura del nulla. Quando cominci a capire che di
là non c’è nulla, inizia la paura. Quando cominci a entrare nel nulla...Questo mi fa paura. L’umanità è un corpo
unico. Io vivo come parte di questa umanità totale. Vivo nel presente, l’unica cosa che esiste. Nello spazio ogni
punto è il centro. Nel tempo qualunque momento è il presente, è infinito. Mi piace leggere cose sul microcosmo e
sul macrocosmo».

Il personaggio che più ama?


«Charlot».

La donna più bella?


«Sembra strano ma... Barbra Streisand».

Chi è Jacovitti?
«Io sono un clown, un pagliaccio. Sono orgoglioso di essere un pagliaccio. Sono un matto».

Roma 2 -febbraio - 1995 - www.tusciaweb.it

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