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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

ANNALI

VOLUME
73

NAPOLI 2013
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

ANNALI

Sezione orientale
AION (or)

D IPARTIMENTO A SIA , A FRICA E M EDITERRANEO


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Paris), Riccardo Contini (Università degli studi di Napoli “L’Orientale”), Irmela Hijiya-
Kirschnereit (Freie Universität Berlin), Birgit Kellner (Universität Heidelberg), Rudolf
Leger (Goethe-Universität, Frankfurt am Main), Ulrich Pagel (SOAS, London), Robert
Rollinger (Universität Innsbruck), Adriano Rossi (Università degli studi di Napoli
“L’Orientale”), Maurizio Tosi (Università di Bologna), Roberto Tottoli (Università degli
studi di Napoli “L’Orientale”), Wang Xiaoming (Shanghai University – East China
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ISSN 0393-3180

© Università degli studi di Napoli “L’Orientale”


Autorizzazione del Tribunale di Napoli B. 434/63 del 16-1-1964
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

ANNALI

VOLUME
73

NAPOLI 2013
In copertina: Biblioteca Nazionale di Napoli, ms III.F.16, f. 93v (per gentile concessione
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali © Biblioteca Nazionale di Napoli)
INDICE

3000 anni di aramaico in Mesopotamia

RICCARDO CONTINI, Aramaica Neapolitana ……. 3


FREDERICK MARIO FALES, All’inizio: l’aramaico mesopotamico più antico  15
MARCO MORIGGI, New and Old Evidence on Hatran Aramaic  33
ALESSANDRO MENGOZZI, LUCA BASILIO RICOSSA, The Cherub and the Thief on
YouTube: An Eastern Christian Liturgical Drama and the Vitality of the Meso-
potamian Dispute  49
ROBERTA BORGHERO, Aspects of Grammaticalization in North Eastern Neo-Aramaic 67

Articoli
BELLO S.Y. AL-HASSAN, The ‘-ka’-suffixed Verbs of Hausa: a Reconstruction and
Re-analysis  91
GIANCARLO TOLONI, Ahiqar archetipo di Tobia? Sull’intertestualità biblica di una
tradizione assiro-aramaica .. 107
ANTONIA SORIENTE, The Study of Emotions in Literary Indonesian: Love, Sex and
Transgression in the Novel Saman .. 135
MARIA POMPEA RANUCCI, L’analisi delle xuci del guwen negli Élémens de la
Grammaire Chinoise di Jean Pierre Abel-Rémusat  161

Note e Discussioni
SERGIO BALDI, La langue mubi (République du Tchad). A propos d’une grammaire
récente .. 191
OSCAR NALESINI, Onori e nefandezze di un esploratore. Note in margine a una re-
cente biografia di Giuseppe Tucci .. 201
Recensioni
Peter Stein, Die altsüdarabischen Minuskelinschriften auf Holzstäbchen aus der
Bayerischen Staatsbibliothek in München. Band 1: Die Inschriften der mittel-
und spätsabäischen Periode. – 1. Teil: Text. – 2. Teil: Verzeichnisse und Ta-
feln (Gianfrancesco Lusini) …………………………………………………… 277
Jean-François Breton (éd.), Le sanctuaire de ‘Athtar dhû-Riṣâf de ‘as-Sawdâ
(Gianfrancesco Lusini) ……………………………………………………… 279
Heinz Gaube, with contributions by Abdulrahman al Salimi, The Ibadis in the Re-
gion of the Indian Ocean. Section One: East Africa (Gianfrancesco Lusini) … 282
Alessandro Bausi (ed.), Languages and Cultures of Eastern Christianity: Ethiopian
(Gianfrancesco Lusini) ………………………………………………………... 284
Anaïs Wion, Paradis pour une reine. Le monastère de Qoma Fasilädäs, Éthiopie,
XVIIe siècle (Gianfrancesco Lusini) ……………………………………...…… 287
Méropi Anastassiadou, Les Grecs d’Istanbul au XIXe siecle. Histoire sociocultu-
relle de la communauté de Péra (Veronica Prestini) …………………………. 290
Gideon Goldenberg, Ariel Shisha-Halevy (eds.), Egyptian, Semitic and General
Grammar. Studies in Memory of H.J. Polotsky (Riccardo Contini) ………….. 292
Alessandro Mengozzi (ed./tr.), Religious Poetry in Vernacular Syriac from North-
ern Iraq (17th-20th centuries). An Anthology (Riccardo Contini) ……………. 299
Karl Debreczeny, The Black Hat Eccentric: Artistic Visions of the Tenth Karmapa
(Giacomella Orofino) …………………………………………………………. 301
Shingo Einoo (ed.), Genesis and Development of Tantrism (Florinda De Simini) …. 303

Necrologio
Gherardo Gnoli, L’Orientale e l’iranistica italiana (Adriano V. Rossi) ... 309

Libri ricevuti  323


NOTE E DISCUSSIONI
OSCAR NALESINI

Onori e nefandezze di un esploratore.


Note in margine a una recente biografia di Giuseppe Tucci

La campagna mi educò quanto la biblioteca. […]


A me pareva di rinascere e soltanto lassù, col
vento in viso, senza cappello, senza pensiero pre-
ciso, sentivo di vivere come avrei voluto sempre.
Giovanni Papini (1913: 42-43)

Giuseppe Tucci è stato un personaggio di spicco della vita culturale, ita-


liana e non solo, capace di imprimere un notevole impulso allo sviluppo degli
studi buddhistici e tibetani, di comprendere profondamente il pensiero indiano,
di allacciare proficue relazioni tra istituzioni italiane ed estere, e dotato di una
rara conoscenza diretta di lingue, persone e luoghi, conseguita compiendo
spedizioni ardue anche sotto il punto di vista fisico e logistico. Questo felice
connubio di eccezionali doti intellettuali e organizzative lo fecero meritata-
mente assurgere sin da giovane a fama internazionale e posizioni di eccellenza
nel mondo accademico. Posizioni che seppe abilmente sfruttare per proseguire
le sue ricerche anche nei difficili anni dell’ultimo dopoguerra e per dotare
l’Italia di strutture competitive nel panorama internazionale degli studi asiatici.
Di queste strutture l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente
(IsMEO) è stata la ‘sua’ creatura più nota. Grazie ad esso le nostre università
hanno ampliato i loro orizzonti e intrapreso ambiziosi progetti di ricerca nel
contesto di un paese aperto all’impegno culturale e scientifico in campo inter-
nazionale, che è – per parafrasare Tucci – la via dei forti. Dagli scavi archeo-
logici al restauro monumentale, dalla linguistica alle religioni, gli studiosi ita-
liani guadagnarono un enorme prestigio, che in parte ancora oggi perdura no-
nostante l’abbandono a cui queste istituzioni sono state condannate dall’in-
differenza e – peggio – dalla miopia progettuale e dalla miseria intellettuale di
gran parte della nostra classe dirigente nei confronti dell’istruzione, della cul-
tura e della ricerca negli ultimi decenni.
All’incirca negli ultimi quindici anni si è assistito alla nascita di un inte-
resse nei confronti di Tucci che ha travalicato la cerchia ristretta dei cultori di

AION, 73/1-4 (2013), 201-275


202 O. Nalesini

orientalistica e a cui hanno fatto ben presto riscontro tentativi di strumentaliz-


zazione di vario stampo: si va dallo sfruttamento commerciale alla promozio-
ne di entità locali, in particolare la regione Marche che gli diede i natali, al
coinvolgimento politico.
Allorquando, ad esempio, il compianto Carlo Lizzani considerò amaramen-
te come in Italia il fascismo avesse valorizzato più della democrazia le menti
migliori in campo scientifico e culturale, Ernesto Galli della Loggia (2005) colse
l’occasione per sostenere che la marginalizzazione dei migliori sia implicita
nella democrazia, opponendo appunto il Tucci sostenuto dal fascismo ai tanti
Tucci che la repubblica ha disdegnato o avversato.
Di maggior interesse nel recente dibattito culturale sono a mio avviso le po-
sizioni di chi ha fatto leva sugli argomenti dei suoi studi e le frequentazioni per-
sonali mantenute tra gli anni Trenta e i Cinquanta per rivestirlo vuoi degli in-
quietanti panni di esploratore dell’occulto armato di sapienze arcane (ad es. Ugo
Leonzio nell’introduzione a Tucci 2006: 5-15), vuoi di mistico (Alvi 1995: 162-
66), vuoi di personaggio culturalmente prossimo ai movimenti politici di destra
(cfr. Zampaglione 2001), le cui opere erano consigliate agli adepti di Ordine
nuovo (Rao 1999: 75; 2006: 84). Ma da qui a ritenere che Tucci si sarebbe rico-
nosciuto nelle loro posizioni ne corre.
Tucci, dal suo canto, ha ribadito molte volte di non provare alcun interesse
verso la politica, amando contrapporre ad essa la poesia. Affermazione che sem-
bra parafrasare quella celebre di Nietzsche sull’arte opposta alla conoscenza, e
che ovviamente non va presa troppo alla lettera. Tucci aveva le sue opinioni, e,
vista la posizione pubblica che ricopriva, non poteva non fare politica. Esprimeva
piuttosto un certo nichilismo, lontananza dalle organizzazioni di massa, il deside-
rio di vita appartata e di un consistente spazio privato di cui non rendere conto.
Era anche una persona sensibile al dibattito culturale del suo tempo. La
spinta modernista e anticonformista della avanguardie artistiche, così come la
critica al positivismo ospitata sulle riviste di ispirazione idealista, come La
Voce di Prezzolini e Papini nel primo ventennio del secolo, certamente lo in-
fluenzarono e in definitiva lo portarono, come molte altre persone colte, ad ac-
cettare in un primo momento il fascismo in quanto prosecuzione del Risorgi-
mento e unica possibilità di rimediare alla travagliata situazione sociale
dell’Italia. A Papini, con cui allacciò i primi contatti già alla fine del 1914,1
Tucci scrisse nel 1949 per coinvolgerlo nel tentativo di ricostituzione
dell’Accademia d’Italia, «non proprio quella stessa», e l’anno successivo lo
sollecitò, senza successo, affinché scrivesse per il primo numero di East and

————
1
Quell’anno Tucci presentò alla casa editrice Carabba un suo lavoro per la collana ‘Cultura
dell’anima’, e gli fu risposto di rivolgersi a Papini in quanto direttore di quella collana (cart.
post. datata Lanciano 22 dic. 1914, Archivio Fondazione Primo Conti onlus (Fiesole), Archi-
vio Papini, Carabba Roberto, XVII C.523).
Onori e nefandezze di un esploratore 203

West un articolo «nel quale tu parlassi di te, della tua storia, della tua esperien-
za di pensatore poeta e scrittore, della tua concezione della vita».2
Il nazionalismo è, di conseguenza, un elemento da tenere sempre in consi-
derazione parlando di Tucci: si considerino a questo riguardo il frequente uso
della parola «Patria» nelle sue lettere e altre espressioni di attaccamento all’Italia
rintracciabili nei suoi scritti. D’altra parte, mentre troviamo in alcuni suoi scritti
divulgativi delle espressioni di gratitudine al governo fascista, talvolta più mar-
cate del necessario,3 spicca la sua assenza durante il Ventennio dalle riviste ita-
liane di letteratura e politica rivolte a una intellettualità militante, come L’Ita-
liano, Il Selvaggio e Critica fascista. La sua non fu un’adesione di mera conve-
nienza ma nemmeno dedizione, e subì importanti mutamenti nel tempo.
La lettera che spedì a Giovanni Gentile pochi giorni dopo l’arresto di Mus-
solini rivela a mio avviso aspetti importanti, ancorché dai contorni incerti, della
sua posizione. Egli scrisse di non essere sorpreso dell’accaduto perché Federzo-
ni lo aveva informato in anticipo di quel che si preparava, intendendo evidente-
mente con ciò l’ordine del giorno di Grandi al Gran consiglio del fascismo. Piut-
tosto, è preoccupato per i grandi sacrifici necessari a «rimediare al caos cui ci ha
condannati[?] il tradimento del Fascio».4 Frase certamente chiara per Gentile ma
non per noi. Tucci intendeva distaccarsi dalla ‘fronda’ di Grandi, criticare
l’azione del re, o all’opposto giudicare negativamente la trasformazione del re-
gime in dittatura personalistica di Mussolini e la sua subordinazione a Hitler?
L’approdo di Tucci nei mesi successivi a formazioni clandestine di ispi-
razione conservatrice mi fa propendere per l’ultima ipotesi. Secondo quanto
egli asserì nelle memorie difensive presentate durante il procedimento di epu-
razione dall’università tra il 1944 e il 1945, era entrato a far parte della Resi-
stenza nell’ottobre del 1943, collaborando nei mesi successivi con personaggi
quali i generali Fidenzio Dall’Ora e Roberto Bencivenga, monarchici e massoni,
implicati dopo la guerra in trame eversive, e l’avvocato e scrittore Eucardio
Momigliano, tra i dirigenti del partito Democrazia del lavoro.5 Una dichiara-
————
2
Lettere a Giovanni Papini del 20 ott. 1949 e 27 feb. 1950 (ibid., Tucci Giuseppe, LXXXIV
C.3094).
3
Da notare che il lavoro di Tucci per sua natura dipendeva strettamente dal benestare governa-
tivo. Non a caso la sua scheda di accademico d’Italia pubblicata da Arturo Marpicati è l’unica
in cui si faccia notare, rivolgendosi credo anche all’interessato, «il mecenatismo illuminato del
Duce e del Governo fascista» (Marpicati 1930: 219).
4
Archivio della Fondazione Giovanni Gentile (d’ora in poi AFGG), Giovanni Gentile, Corri-
spondenza, Lettere inviate a Gentile, b. Corrispondenti T, fasc. Tucci Giuseppe. La lettera è
stata indicativamente datata al 28 luglio 1943 dagli archivisti.
5
«Ricorso presentato da G. Tucci contro la decisione della Commissione per l’epurazione del
personale universitario dell’11 novembre 1944, Roma 20 novembre 1944», in Archivio Cen-
trale dello Stato (d’ora in poi ACS), Ministero della Pubblica Istruzione, Professori universita-
ri epurati, b. 33, fasc. Giuseppe Tucci. Dall’Ora, dopo la guerra, aderì al Movimento antico-
munista per la ricostruzione italiana, responsabile di attentati a sedi romane del Partito Comu-
nista e alla redazione dell’Avanti! (Murgia 2004: 134). Bencivenga avrebbe invece appoggiato
204 O. Nalesini

zione firmata dal tenente colonnello Elia Rossi avvalorò inoltre la sua militan-
za come informatore della brigata partigiana ‘Goffredo Mameli’, in conse-
guenza della sua iscrizione alla Carboneria.6
Per quanto riguarda il dopoguerra, il suo allontanamento dai resti del regi-
me sembra essersi rapidamente consumato. Mantenne i rapporti con Gherardo
Casini, il fondatore di La rivoluzione fascista (il periodico chiuso d’autorità a di-
spetto del titolo per il suo atteggiamento critico),7 poi condirettore di Critica fa-
scista e infine direttore generale del Ministero della cultura popolare, che si era
rifiutato di aderire alla Repubblica sociale. L’ex gerarca aveva fondato nel do-
poguerra l’omonima casa editrice, con cui la Fondazione Cini e l’IsMEO avreb-
bero pubblicato tra il 1956 e il 1962 la corposa opera Le civiltà dell’Oriente, di-
retta appunto da Tucci (1956-1962).
Non ho invece evidenze di una partecipazione di Tucci alle iniziative dei
movimenti politici afferenti alla destra tradizionalista e neofascista. Al contra-
rio, si può agevolmente dimostrare come il suo supposto coinvolgimento risul-
ti esclusivamente dai proclami altrui. Questo è il caso del sostegno che avreb-
be fornito al Centro di vita italiana diretto dai deputati missini Ernesto De
Marzio e Giano Accame (Vassallo 2008: 90), di cui non conosco riscontri
concreti, nonché della collaborazione con il settimanale Il nazionale diretto da
Ezio Maria Gray, fascista della prima ora, poi vicepresidente della Camera dei
fasci e delle corporazioni, presidente dell’EIAR nella Repubblica sociale e tra
i fondatori del Movimento sociale italiano (Sircana 2002).8
Sulla prima pagina del primo numero della rivista compare effettivamente
un riquadro in cui si reclamizza la prossima apparizione dell’articolo «La nuo-

————
la nascita del Fronte Italiano anticomunista (Parlato 2007: 151). Trascrizione del documento in
Crisanti (2013: 233-35), il cui lavoro è da consultarsi per la puntuale analisi del processo di
epurazione subito da Tucci (ibid.: 218-68) e i documenti riprodotti (ibid.: 320-33).
6
La brigata, nota anche come ‘Banda Neri’, aveva operato a Roma e vicinanze a partire dall'8
settembre 1943. Nella relazione depositata al Ministero della Difesa, Tucci non compare. Vi si
legge tuttavia che nei giorni immediatamente successivi all’ingresso a Roma delle truppe al-
leate, la brigata allacciò contatti con l’ambasciata britannica grazie a una persona, presentata
da un altro ufficiale partigiano, di cui non si fornisce il nome ma «che conosceva il vice Con-
sole inglese sig. J. Sergent [recte Sergeant]» (Elia Rossi, «Relazione sull’attività svolta dalla
Brigata ‘Goffredo Mameli’», Roma, 15 giu. 1944, p. 12, in Archivio dell’Ufficio storico dello
Stato Maggiore dell’Esercito [d’ora in poi AUSSME], Diari storici della II Guerra mondiale,
b. 302, fasc. 18). Che questa persona fosse Tucci è naturalmente solo un’ipotesi, avvalorata
però dal fatto che, secondo la testimonianza di Mary Stanley, ufficiale britannico, egli aiutò
dei soldati sudafricani fuggiti dalla prigionia facendo pervenire notizie alle loro famiglie (Cri-
santi 2013: 241, 331), e disponeva dunque di contatti clandestini con la diplomazia britannica.
7
«Rivoluzione fascista non è una rivista nel senso comune della parola: è un tentativo (mode-
stissimo) di trarre dal Fascismo una rivoluzione di pensiero e di forme politiche, di considerare
il Fascismo come fenomeno iniziale di un lungo processo storico» (G. Casini a Camillo Pelliz-
zi, 3 lug. 1923 in Breschi, Longo 2003: 59, n. 101).
8
L’annuncio della collaborazione di Tucci è riportato da Baldoni (2000: 299).
Onori e nefandezze di un esploratore 205

va India» di Tucci, che sembrerebbe il seguito ideale del suo «La crisi
dell’India» scritto sei anni prima per il periodico Gerarchia (Tucci 1943). Nel
1942 Gray era divenuto il primo presidente della Società Amici dell’India, che
aveva sede presso l’IsMEO e aveva come segretario Iqbal Shedai, rappresen-
tante in Italia del partito indipendentista indiano ‘Gadar’, e futuro diplomatico
pakistano (De Felice 1988: 229); un contatto che verosimilmente si rivelò im-
portante quando, dopo la guerra, l’IsMEO strinse gli accordi col governo paki-
stano per iniziare gli scavi nello Swat (Olivieri 2006: 24-25). Presso la società
si tenne nel novembre 1942 un ricevimento in onore del reparto ‘Azad Hindo-
stan’, inquadrato nell’esercito italiano e composto da volontari indiani, cui
Tucci partecipò (Fabei 2008: 96).9 Nel 1944 Tucci sostenne di essere stato
contrario alla realizzazione della società e di averne poi boicottato l’attività.10
In seguito asserì di averla addirittura fatta sopprimere perché aveva finalità po-
litiche,11 il che mi lascia perplesso. Le sue affermazioni non sono comunque
verificabili per assenza di documenti.
Verosimilmente, dopo la guerra Gray chiese a Tucci un contributo per la
nascente rivista, volendo sfruttare la sua fama rinnovata dalla spedizione a
Lhasa, e questi non volle rispondergli negativamente, disinteressandosi poi
della faccenda. Tucci infatti non scrisse nulla per questo settimanale, a diffe-
renza di altri intellettuali come Roberto Paribeni, che ancora nel 1956 si fir-
mava «Accademico d’Italia», Francesco Bono, Ugo Ojetti, René Grousset,
Giorgio de Chirico, Julius Evola, Massimo Scaligero e Padre Pio. Nei numeri
seguenti il suo articolo non fu più preannunciato, e nelle annate che ho sfoglia-
to (1949-1953 e 1955-1956) non ho trovato nemmeno una fugace menzione
delle sue ricerche, nonostante la curiosità che devono aver suscitato in quegli
anni le due spedizioni attraverso il Nepal occidentale e l’inizio degli scavi ar-
cheologici dell’IsMEO.12
Comprensibilmente, era (ed è) interesse degli esponenti della destra radi-
cale far proprio un intellettuale di spicco, assurto a posizioni elevate durante il
fascismo; un’intenzione apertamente dichiarata da Claudio Mutti (2005) in
un’intervista rilasciata alla rivista Junges Forum nel 2005. Sorprende piuttosto
————
9
Una foto dell’evento in cui Tucci è visibile al centro degli ospiti, accanto a Shedai, è pubblica-
ta in Bamber, Neeven (2010), e riprodotta a http://www.freeindianlegion.info/pag_sample-
pages3.php (verificato 3 aprile 2014).
10
«Ricorso presentato da G. Tucci contro la decisione della Commissione per l’epurazione del
personale universitario dell’11 novembre 1944, Roma 20 novembre 1944», in ACS, Ministero
della Pubblica Istruzione, Professori universitari epurati, b. 33, fasc. Giuseppe Tucci.
11
«Memoria a sostegno del ricorso presentato il 19 dicembre 1944, Roma 30 aprile 1945» (ibidem).
12
A titolo di confronto si vedano gli articoli apparsi nello steso periodo su L’Unità: «La spedi-
zione del prof. Tucci ha attraversato il Nepal», 11 dicembre 1952, p. 3; «Un messaggio della
spedizione Tucci spintosi sulle montagne del Nepal», 21 novembre 1954, p. 8 (riferisce anche
degli accordi per l’apertura degli scavi archeologici a Ghazni); «Giuseppe Tucci è rientrato
dall'Asia», 25 dicembre 1955, p. 4 (missione in Giappone e nello Swat).
206 O. Nalesini

che da altre parti questa appropriazione di Tucci non abbia sollevato opposi-
zioni, e nemmeno interesse; tanto che lo scorso anno l’unico quotidiano ad
averlo ricordato nella ricorrenza della sua nascita è stato Il secolo d’Italia
(Terranova 2013).13
Il tema andrebbe sviluppato in maniera più ordinata e completa, e non è
questa la sede. Se mi ci sono soffermato così a lungo è perché gli ‘strattona-
menti’ cui è stata sottoposta la memoria di Giuseppe Tucci mostrano la neces-
sità di una migliore conoscenza storica del personaggio e delle sue opere, ne-
cessità manifestata del resto già pochi anni dopo la sua morte da Renzo De Fe-
lice (1988: 204, n. 34).
A questa lacuna intenderebbe rimediare la corposa biografia recentemente
pubblicata da Enrica Garzilli (2012; d’ora in poi EG). È il coronamento di una
ricerca durata diversi anni, nel corso dei quali l’autrice ha fornito brevi antici-
pazioni del suo lavoro tramite le pagine di un blog.14 In quel torno di tempo
deve aver fatto circolare il dattiloscritto tra ‘addetti ai lavori’: Michelgugliel-
mo Torri (2011: 24, n. 23) lo ha apprezzato, definendolo «importante» oltre un
anno prima della pubblicazione.15
Senza preavviso, invece, lo scorso inverno l’opera è comparsa nell’indice
SBN, risultando disponibile solo alla biblioteca statale Braidense di Milano.
Era però assente dai cataloghi delle sue case editrici. La discrepanza era solo
apparente. La biblioteca aveva ricevuto una versione del libro battezzata «pri-
ma edizione: 29 gennaio 2012», ma non destinata alla distribuzione perché il
testo era ancora in corso di revisione. Una prima edizione pressoché virtuale,
dunque, che ha fatto le veci del deposito legale. Tale operazione, se da un lato
ha salvaguardato autrice ed editori da un ipotetico plagio,16 dall’altro ha com-
portato conseguenze di cui è bene essere consci.
A differenza del deposito legale, la consegna alla biblioteca di una edi-
zione fittizia ha comportato la messa in lettura di un testo considerato inaffi-
dabile dalla sua autrice, senza che gli utenti avessero modo di saperlo. Nei me-
si intercorsi tra il deposito della prima edizione e il rilascio della seconda (13
agosto 2012), quella destinata alla vendita, il testo è stato infatti modificato
(prima ed.: vol. I, XLVIII,664 pp. e vol. II, 670-1355 pp.; seconda ed.: vol. I,
LII,685 pp. e vol. II: XIV,726 pp.).

————
13
Curiosa pertanto l’affermazione di Angelo Mellone (2006: 131), per cui Tucci è stato ‘sdoga-
nato’ dalla sinistra.
14
In origine http://giuseppetucci.garzilli.com/, transitato dopo l’uscita del libro su
http://esploratoredelduce.it/. Nel giugno 2013 l’autrice ha utilizzato un secondo blog per pub-
blicizzare il libro (http://garzilli.wordpress.com/).
15
La biografia è data erroneamente in stampa presso la casa editrice Le Lettere di Firenze.
16
Non certo del titolo, che è assai poco originale. Almeno un centinaio di libri su qualcosa o
qualcuno ‘del Duce’ è approdata sugli scaffali delle librerie di tutta Europa negli ultimi anni
(fonte: Worldcat.org).
Onori e nefandezze di un esploratore 207

La presenza nell’Indice SBN della prima edizione, provvisoria nei conte-


nuti ma non nella forma, ha indotto alcuni bibliotecari a ‘catturare’ quei dati
catalografici inserendo nei loro OPAC una descrizione differente da quella
dell’opera in loro possesso, a meno che non abbiano ricevuto (e sarebbe grave)
l’edizione esclusa dalla distribuzione. A tutt’oggi (7 aprile 2014) SBN e
l’OPAC della Braidense hanno un’unica scheda per prima e seconda edizione. Il
rischio che ciò provochi dei pasticci è evidente e mi induce a esprimere riserve
sulla liceità etica di comportamenti noncuranti dei lettori e dei loro diritti.
Ad aumentare la confusione, il 26 marzo 2013 è stata annunciata una se-
conda edizione sulla pagina Facebook del libro. Logicamente dovrebbe essere
la terza, oppure una ristampa; i dati forniti dall’autrice e dalle case editrici non
permettono di comprenderlo. Non sono state segnalate modifiche al testo e gli
indici pubblicati sui siti internet delle case editrici sono ancora gli stessi
dell’edizione di agosto 2012. Ragion per cui farò riferimento a quest’ultima
nelle note seguenti.
La presentazione ufficiale del libro è avvenuta il 25 ottobre 2012 presso
la Società Geografica Italiana a Roma, dove gli onori di casa sono stati tributa-
ti dai proff. Claudio Cerreti e Hervé Antonio Cavallera, ed è stata preceduta da
interviste ad alcune testate giornalistiche (Negri 2012; Pira 2012). In seguito,
l’autrice ha parlato della sua opera a Milano il 20 novembre, presso la Biblio-
teca comunale centrale di palazzo Sormani, con la partecipazione dell’ex am-
basciatore Sergio Romano. Il 16 febbraio 2013 ne ha discusso durante la cele-
brazione di Giordano Bruno organizzata dal Centro studi cappella Orsini di
Roma, il 19 aprile è stata ospite dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano, il 7 maggio della sede di Ragusa dell’Università di Catania e il 7 giu-
gno del Festival dell’Appennino di Ascoli Piceno.
Due giorni prima della presentazione ufficiale, la testata de Il fatto quoti-
diano, con cui EG collabora, ha pubblicato sul proprio canale web TV un vi-
deo di presentazione interpretato dall’autrice e confezionato come un servizio
giornalistico. Si tratta di un comportamento a mio avviso criticabile, perché la
comunicazione è diffusa in palese conflitto di interessi (il giornalista è anche
l’autore) ed è opaca: l’utente ha l’impressione di ascoltare un’opinione indipen-
dente mentre visiona, in realtà, pubblicità dell’autore per il proprio prodotto.17
Subito dopo Marco Restelli (2012), in una breve recensione on-line, ha
sostenuto che questo libro lascia il segno perché crea uno spartiacque tra il
prima e il dopo negli studi su Tucci.18 Segnalo anche la recensione firmata da
Francesco Del Tavano (2013) per l’energia con cui rivendica l’appartenenza di

————
17
Il video è visibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=mSY6ZWq2HKM (verifica-
to 18 ott. 2013). Ho chiesto chiarimenti alla redazione de Il fatto quotidiano con una mail in
data 24 novembre 2012; risposta non pervenuta.
18
Una versione ampliata è apparsa col titolo «Una leggenda italiana» su Yoga Journal, giugno
2013, pp. 41-42.
208 O. Nalesini

Tucci al campo culturale di riferimento della destra politica, e per la discutibi-


le affermazione secondo cui egli sarebbe misconosciuto in Italia perché i suoi
studi erano «lontani dai valori culturali imposti dalla dominante egemonia
marxista» e per i suoi contatti con Evola ed Eliade. 19
La realtà mi pare ben diversa. Nonostante i reciproci contatti, le differen-
ze tra Evola e Tucci erano di significativo spessore e ne vedremo oltre degli
esempi. Né posso sorvolare sullo stantio, retorico e francamente noioso allar-
me sul predominio culturale di marxisti e assimilati, che tanto ricorda quello
sulla «invasione ebraica delle professioni intellettuali» di qualche decennio or
sono (Interlandi 1938a: 148) e di cui conosciamo le reali implicazioni. Del
Tavano ignora che Maurizio Taddei, uno dei collaboratori più brillanti di Tuc-
ci e insigne studioso di arte indiana, era iscritto al Partito comunista e membro
della sua Commissione cultura. Anche lo studioso di buddhismo Edward Con-
ze, di cui l’IsMEO pubblicò degli studi, si iscrisse al Partito Comunista in
Germania negli anni Trenta, e poi a quello Laburista nel Regno Unito.
Se Tucci è noto a poche persone, la responsabilità non è del presunto
ostracismo dei ‘rossi’ verso questi studi e chi li coltiva, ma a motivi ben più
seri: scuola pubblica, istituzioni culturali e ricerca scientifica abbandonate a sé
stesse e la conseguente discriminazione dell’accesso alle conoscenze secondo
il censo della famiglia. E poi una costante quanto efficiente opera di instilla-
zione nelle coscienze dell’idea che l’unica cultura utile è quella con un imme-
diato ritorno economico. Col risultato di snaturarne la funzione, che è quella di
contribuire nel lungo periodo allo sviluppo civile della comunità e delle capa-
cità critiche dei suoi cittadini, in un regime di circolazione quanto più libero e
aperto delle idee e delle conoscenze. Una situazione da cui dipende in buona
parte anche lo sguardo arretrato sulle altre culture imperante nella nostra so-
cietà, che contribuisce non poco a rendere il nostro paese inadeguato alla
competizione globale, che è anche competizione culturale. Fatti, questi ora
riassunti, che dovrebbero essere noti a una giornalista attenta; per questo desta
sorpresa che EG non abbia sollevato il benché minimo appunto nel dare noti-
zia, con soddisfazione, della recensione di Del Tavano.20
Per concludere, ricordo i giudizi positivi manifestati da Hans Thomas
Hakl (2013), nella cui recensione ho trovato però solo un riassunto della vita
di Tucci e diverse incongruenze imputabili a una lettura affrettata del libro,21 e
da Francesco Perfetti (2013).
————
19
La rassegna stampa completa sul libro è elencata in http://esploratoredelduce.it/rassegna-
stampa/.
20
Post del 14 gennaio 2013 su www.facebook.com/GiuseppeTucciEsploratore.
21
I due volumi dell’opera sono stati pubblicati assieme ma Hakl scrive che solo il primo è di-
sponibile, per poi contraddirsi quando accenna a episodi della vita di Tucci discussi nel secon-
do volume. Asserisce inoltre che il fondo fotografico di Tucci sia composto da 500.000 imma-
gini scattate in maggioranza da Maraini; il che Garzilli non dice ed è comunque falso nella
quantità e nell’attribuzione (le fotografie sono all’incirca 14.000 e solo 374 sono di Maraini).
Onori e nefandezze di un esploratore 209

A dispetto della sua mole (1477 pagine, di cui 297 di apparati e bibliogra-
fia), la biografia contiene poco di nuovo rispetto a quanto già pubblicato sulla
vita di Tucci: alcune fotografie concesse dalla sua nipote assieme a qualche
documento familiare e le interviste ad alcuni personaggi che lo conobbero.
L’inedito carteggio con Andreotti, presentato in un apposito capitolo (vol. II,
pp. 375-418) risulta avere un interesse che definirei medio: aiuta a capire gli
iter seguiti dalle richieste di finanziamento nei difficili anni del dopoguerra,
ma non tocca la sostanza politica, che fu verosimilmente discussa per le vie
brevi o in altri documenti.
Il libro ha l’indubbio pregio di raccogliere in un unico contenitore le notizie
sulla vita e l’opera di Tucci apparse qua e là, su articoli di varia natura, libri, in-
terviste, in un ampio arco temporale. Ma sarebbe stato opportuno prestare mag-
gior cura all’organizzazione dei dati. Il tutto è spesso presentato in maniera con-
fusa e approssimativa, quasi sempre senza un puntuale riferimento alle fonti. Il
volenteroso lettore che si inoltrerà in questa selva dovrà poi vedersela con una
prosa povera, talvolta scialba, presentata per giunta con sciatteria tipografica.
Manca persino quel minimo gioco di corpi dei caratteri e delle interlinee per di-
stinguere le citazioni di notevole lunghezza. Avvisaglia di ciò si trova nella co-
pertina, dove campeggia un ritratto di Tucci con l’espressione di chi ha infilato
le dita in una presa di corrente mentre faceva la doccia.
C’è di peggio. Diversi argomenti sono stati omessi o discussi in modo par-
ziale, nonostante l’esistenza di documenti. Tutti i suoi contatti con altri intellet-
tuali sono ridotti alla componente utilitaristica per la carriera o i finanziamenti.
Dell’influsso culturale da lui esercitato sulle persone che frequentò o degli sti-
moli che ricevette da altri vi è scarsa traccia. La sua vita e la sua personalità ri-
sultano perciò estraniate dalle forze sociali, politiche e culturali della comunità
in cui visse, organizzò le sue ricerche, maturò la proprie passioni, mutò col tem-
po l’indirizzo dei propri pensieri. In sostanza, EG ha eliminato gran parte della
sua umanità per ridurlo ad automa dell’affermazione personale.
Le sue pubblicazioni sono presentate in blocchi cronologici, al termine
dei capitoli. Metodo opinabile, perché ha prodotto mere elencazioni, spesso
condite con commenti banali sulla loro «importanza variabile» o sugli «svaria-
ti argomenti» affrontati, che lasciano il lettore nell’ignoranza dei motivi per
cui quelle opere rappresentano delle tappe importanti della nostra comprensio-
ne dell’India o del Tibet e dello sviluppo delle rispettive discipline. Ad alcune
si attribuiscono poi finalità a loro estranee. EG giunge a sostenere, ad esempio,
che Teoria e pratica del mandala sia un libro divulgativo sulla meditazione
scritto al fine di collegare (sic!) le scienze orientali (quali?) alla psicanalisi di
————
Da notare, infine, l’affermazione che il libro si legge come un romanzo; lo stesso giudizio è
espresso in due recensioni del libro di EG, firmate da altri, apparse sul sito di Amazon, nonché
in quella dell’ex presidente della Fondazione Ugo Spirito (Perfetti 2013). Affermazione curio-
sa, perché sul piano estetico e della tecnica di scrittura le differenze con un romanziere sono
evidenti: che sia linguaggio esoterico?
210 O. Nalesini

Jung (I, 10). Qualunque lettore potrà facilmente rendersi conto che Tucci non ha
tentato di fare quel che è senza senso. Il linguaggio del libro, poi, non ha nulla di
divulgativo; Maurizio Taddei (1984: 701) lo ha definito «bellissimo ed arduo».
Si tratta, per dirla in termini stringati, di una biografia manipolata che
presenta gli stessi difetti manifestati dall’autrice nel suo blog, già discusso
brevemente ma con cognizione da Arturo Gallia (2006: 306). Svelare fino a
che punto sia stata spinta la manipolazione è compito delle note che seguo-
no.22 Le ho sviluppate privilegiando, come è naturale vista la mole del libro,
gli argomenti a me più congeniali. Ho inoltre colto l’occasione per presentare
notizie attinte da documenti che EG non ha utilizzato o ha male interpretato.
Pur con questi limiti, si vedrà come le deficienze metodologiche e l’ignoranza
dei fatti storici che emergono da questa analisi siano tali da gettare l’ombra
dell’inaffidabilità sull’intera biografia.
La motivazione principale ad aver indotto l’autrice all’impresa è persona-
le: Tucci è stato il maestro dei suoi maestri (I, xxii). Nulla da eccepire. Ma
dalla lettura del libro ho ricavato l’impressione che il senso di questa afferma-
zione sia più forte di quel che appare e che nel corso della ricerca il rapporto
tra studiosa e studiato abbia valicato il limite, impalpabile eppur necessario,
oltre il quale l’oggetto dell’interesse si carica di valenze che offuscano la vi-
sione e ostacolano il giudizio sereno e distaccato. Con eccessiva frequenza
l’autrice sottolinea i suoi punti di contatto con Tucci: lui è stato il miglior rap-
presentante della scuola cui lei appartiene (I, xxii); lei, come lui, è stata ospite
di persone importanti in Nepal e in India (II, 137) nonché allieva di un impor-
tante professore e preside di college universitario a Delhi (II, 102), amica della
figlia di un ministro dell’India (II, 454); lei ha vinto la stessa borsa di studio di
Daffinà, allievo di Tucci, ecc. E tutto ciò mentre nulla o quasi dice dei suoi
principali allievi come Raniero e Gherardo Gnoli, Luciano Petech, Paolo Daf-
finà, René de Nebesky-Wojkowitz, David Snellgrove, Turrell V. Wylie, Erik
Haarh, per ricordarne solo alcuni. Non è un buon segno leggere del suo dispia-
cersi di dover permettere ad altri la consultazione dei documenti su Tucci con-
servati nell’Archivio storico diplomatico del Ministero per gli Affari Esteri (I,
xxvi), quasi che il personaggio fosse sua proprietà privata.
Una mancanza di serenità, dunque, che permea l’intero lavoro. L’autrice
sostiene di essere stata sinora l’unica ad aver voluto portare alla luce la figura
di Tucci indagando a tutto campo (I, xxi). Per far questo, avrebbe lottato con-
tro oscure combriccole accademiche che non vogliono far emergere verità
scomode o ritengono di possedere un monopolio sull’argomento (II, 470 e
472), e hanno cercato di ostacolarla con omertà, minacce velate (I, 153) e oc-
cultamento di documenti (I, xxvi, xxviii; II, 455). Si dilunga perciò, con un
certo sussiego, sulle difficoltà incontrate nel corso della ricerca per reperire le
————
22
Critiche in parte anticipate il 6 novembre 2012: «L’esploratore maltrattato»
(http://www.amazon.it/review/R3SQXB2PC3GMCH; ultima visita 18 ott. 2013).
Onori e nefandezze di un esploratore 211

informazioni (ad es. I, xxvi, xxxvi-xxxviii). Quelle da lei descritte mi sono pe-
rò sembrate difficoltà ordinarie, non il risultato di un complotto internazionale.
È impensabile trovare pronti dei regesti mirati alle proprie esigenze, o archivi-
sti capaci di indicare in prima battuta la busta giusta. L’autrice sostiene inoltre
che i pochi scritti sulla vita e le opere di Tucci sinora pubblicati abbiano carat-
tere esclusivamente encomiastico, e che pressoché nulla contengano sulla sua
personalità e le sue esplorazioni, una parte importantissima della sua attività
scientifica (I, xxi). In altri termini, ha dovuto scoprire tutto da sola.
La devo contraddire. Il Ricordo di Giuseppe Tucci scritto da Raniero
Gnoli celebra sì con enfasi retorica le doti del suo maestro, ma propone anche
ricordi e riflessioni sull’uomo e il suo intendere la vita, di cui EG ha oltretutto
beneficiato. Lo stesso dicasi dei saggi pubblicati in memoria di Tucci da altri
suoi allievi. Negli ultimi anni sono inoltre apparsi alcuni studi sulla storia delle
sue spedizioni e sui suoi compagni di avventura, prodotti in parte a margine
del riordino del suo archivio fotografico. Parte dei risultati, in forma condensa-
ta, era stata pubblicata anche sul sito internet dell’IsIAO cessato nel febbraio
2013, ma in parte ancora consultabile su Internet Archive.23 Il lettore di questa
biografia ne troverà tuttavia menzionati solo alcuni nella bibliografia generale e
quasi mai li vedrà citati nelle scarse note al testo (65 pagine su 1477). Ciò suc-
cede anche quando vengono riferite informazioni reperibili solo in quei lavori.
Molto di quel che EG racconta di Eugenio Ghersi, compagno di Tucci nel
1933 e nel 1935, è stato ad esempio tratto da un volume citato solo nella bi-
bliografia generale (Ghersi 2008), mentre la vicenda di Capitini riprende so-
stanzialmente quanto esposto in un libro di Sergio Romano (1984: 371-76).
Del viaggio in Sikkim del 1926 non si parla nelle opere citate da EG in nota (I,
172), e lo stesso dicasi del ritratto di Vasudev V. Gokhale, con dedica, donato
a Tucci nel 1926 e pubblicato vent’anni fa (Nalesini 1994: 188). Qui però si va
oltre la mancata menzione della fonte, che avrebbe permesso al lettore di ve-
dere l’immagine. EG afferma che Tucci contraccambiò con un suo ritratto e
che il rapporto tra i due studiosi fu di breve durata (I, 171). Sebbene presentate
con la sicurezza di chi abbia acclarato i fatti, si tratta di mere supposizioni.
L’autrice non indica la fonte sullo scambio di ritratti ed è palesemente in erro-
re sulla durata del rapporto tra i due studiosi. Nel fondo bibliografico donato
da Tucci all’IsMEO si conservano molti estratti di Gokhale pubblicati dagli
anni Trenta almeno sino al 1947, alcuni dei quali con dedica autografa.
Altri elementi utili per valutare la posizione dell’autrice nei confronti del-
lo ‘scrivere storia’ (e biografia) si trovano nella lunga introduzione (26 pagine,
oltre a 7 di ringraziamenti). Sono enunciati laconici, affogati tra pagine e pa-
gine di informazioni di scarso rilievo, impressioni personali, recriminazioni. Il
recensore si trova nella difficile condizione di dover guardare oltre un muro
————
23
http://web.archive.org/web/20120618210304/http://www.giuseppetucci.isiao.it/ (ultima visita
18 ott. 2013).
212 O. Nalesini

che sembra essere stato costruito a bella posta per sviare la sua attenzione verso
elementi non essenziali, costringendolo talvolta a procedere indiziariamente.
Al termine di una succinta lezione di metodo storico, EG afferma che «fa-
re storia è in larga parte una scienza riproducibile e verificabile». Ciò nono-
stante, non esita a esprimere invidia nei confronti di Tucci, il cui lavoro le «ri-
sulta più semplice [del suo (sic)] perché non è inquinato dalla storiografia occi-
dentale precedente», avendo avuto a disposizione «fonti originarie» (II, 13).
Come dovrebbe essere noto, le fonti originarie non svaniscono nel nulla
dopo la lettura e la storiografia non le inquina; le critica e le interpreta senza in-
ficiare la possibilità degli altri di criticarle e interpretarle diversamente. Nessuno
sostiene che la storiografia occidentale possieda le chiavi della verità assoluta,
così come nessuna persona con un briciolo di cultura si sognerebbe di discrimi-
narla solo perché occidentale. Quanto al paragone fatto dall’autrice tra la com-
plessità del lavoro di Tucci e il suo, lascio il giudizio all’avvedutezza del lettore.
Non è l’unico punto critico di questa frase. L’attività storiografica non pro-
cede per verità calate dall’alto, ma per discussioni e confronti, resi necessari dal
fatto che gli eventi storici e i percorsi storiografici sono ricostruibili ma non ri-
producibili. Fino a quando non riceveranno i poteri attribuiti da Malory ad Artù,
rex quondam rexque futurus, gli storici non potranno far rivivere le idi di marzo
per scoprire chi, fra Plutarco e Svetonio, avesse ragione sull’ultima frase proffe-
rita da Giulio Cesare. Dobbiamo arrenderci all’evidenza.
Un’altra frase illuminante sull’impostazione teorica di EG si trova a p.
xxii del vol. I, dove l’autrice esprime il suo intento di indagare l’uomo Tucci
senza «discriminanti ideologiche o metodologiche». Ma cosa ella intenda per
«discriminanti metodologiche» non è affatto chiaro. La critica delle fonti, il
metodo storico, come qualunque altra attività umana è soggetta a continue
modifiche e sviluppi. L’autrice non avanza però alcuna critica particolare nei
confronti di questo o quell’aspetto, né riserve sul metodo storico tout court.
Un possibile sentiero da percorrere per comprendere tale affermazione è
metterla in relazione con una seconda, scritta appena qualche rigo sotto, nella
quale l’autrice sostiene di aver sviluppato una tesi inedita sulla visione politica
di Mussolini verso l’Asia e di aver per questo «raccolto, scelto, presentato, in-
terpretato e fatto risuonare in me, alla luce della mia scienza e coscienza, i fatti
e le fonti che mi hanno portato a essa» (enfasi mia). È un’espressione inusuale
nelle opere storiche, biografie incluse. Appartiene piuttosto al linguaggio di poe-
ti e predicatori, per i quali le sensazioni intime costituiscono il cuore pulsante at-
torno al quale dare forma comunicativa ai propri pensieri. Lo scrivere storia è at-
tività assai meno libera del versificare poetico, avendo come limite invalicabile
una conoscenza basata sull’analisi delle fonti secondo criteri espliciti e procedu-
re il più possibile trasparenti, ovvero criticabili dagli altri. Elevare la propria co-
scienza ad arbitro della credibilità delle fonti comporta esattamente l’opposto,
perché, come qualunque procedimento auto-referenziante, rende inaccessibili
agli altri le ragioni delle scelte.
Onori e nefandezze di un esploratore 213

Non che io voglia negare ogni valore all’intuizione nella ricostruzione


storica o biografica. Solo che questa spiega le sue potenzialità quando è appli-
cata, coi dovuti controlli, a documenti e fatti già valutati secondo metodi tra-
sparenti e rigorosi (cfr. A. Momigliano 1952: 220-21): altrimenti si introduce
la possibilità di un uso strumentale, dunque arbitrario, delle informazioni. EG,
purtroppo, questa possibilità la ha sfruttata.
È il caso della fiducia acritica riposta nelle interviste a Pio Filippani Ron-
coni e Fosco Maraini. Godibilissime sul piano estetico, in un contesto storico
dovrebbero essere trattate come qualsiasi altra testimonianza. La loro parola
non viene invece mai messa in dubbio né verificata, probabilmente perché, pur
provenendo da persone di profilo antitetico, esprimono un’opinione sostan-
zialmente concorde sulla personalità di Tucci. Certamente hanno pesato su
questo atteggiamento benevolo la simpatia nutrita dall’intervistatrice nei con-
fronti dei suoi interlocutori e, nel caso di Filippani Ronconi, credo anche la
gratitudine. Sebbene l’autrice abbia studiato sanscrito a Roma con Raniero
Gnoli, fu lui a sostenere la pubblicazione della sua tesi di laurea presso
l’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Garzilli 1989: ix).
L’affidabilità delle interviste avrebbe dovuto essere egualmente dimostra-
ta chiedendo chiarimenti su alcuni punti dubbi e, nel caso di Filippani Ronco-
ni, macroscopicamente controversi. Egli tiene a differenziarsi da Tucci accu-
sandolo di non aver avuto mai rispetto degli altri. Sostiene poi di considerare
l’antisemitismo una sciocchezza e di non essere mai stato razzista. Afferma-
zioni che lasciano perplessi, considerando da che pulpito viene la predica. Lui,
infatti, dimostrò scarso rispetto verso le persone con ideali politici diversi dai
suoi quando le paragonò a «resti degenerati e sopravvissuti ai giorni nostri di
antichi cicli culturali» (Filippani Ronconi 1965: 242). Quanto al razzismo,
prendo atto della sua dichiarazione; del resto, non mi risulta nulla a suo carico
su questo tema. Mi sarei tuttavia aspettato di vedergli chiedere lumi sulla com-
patibilità di questa sua convinzione con il grado di ufficiale (Obersturmführer)
delle Waffen-SS italiane. EG non lo ha fatto, così come non ha valutato il giudi-
zio su Tucci in rapporto agli anni e alle occasioni in cui Filippani e Maraini fu-
rono in contatto con lui. Né ha tenuto conto del fatto che entrambi, ciascuno a
proprio modo, hanno dichiarato la loro antipatia nei confronti di Tucci.
Non solo: EG ha proiettato il profilo psicologico di Tucci da loro traccia-
to (e solo il loro) sulla sua intera vita, senza considerare gli sviluppi che ogni
personalità subisce nel tempo. Così, sin dalla giovinezza, egli è rappresentato
come un precocissimo genio e, al contempo, una persona cinica, ingannatrice,
indifferente al prossimo, affamata di denaro e potere, ingrata (II, 98), prono
con i potenti e arrogante con gli altri.
Anche a tralasciare quanto detto e scritto dai suoi allievi, altre testimo-
nianze, ignorate da EG, suggeriscono un quadro meno rigido e lasciano in-
travvedere notevoli mutamenti del suo carattere e del suo modo di relazionarsi
con il prossimo. Luigi Luzzatti (1921: 6), ad esempio, di lui scrisse che asso-
214 O. Nalesini

ciava «alla meravigliosa coltura una modestia illibata». Dora Friedländer, il 31


gennaio 1941, scrisse al compagno Ernst Bernhard (2011: 387): «Torno dal
Prof. Tucci dove sono stata ricevuta benissimo. Lui, tipo un po’ artista, molto
simpatico, mi ha sentito e subito con la più grande semplicità, espresso la sua
prontezza di dar aiuto». Un bel contrasto con l’impressione avuta dalla poetes-
sa Carla Porta, che lo incontrò a casa del giornalista Raffaello Biordi negli an-
ni Cinquanta: «Personalità travolgente. Dà la sensazione (a me, almeno) dello
schiaccianoci. Pare proprio, accanto a lui, di essere noce o nocciola e ci si
aspetta di essere stritolati da un momento all’altro» (Porta Musa 2002: 194).
Nemmeno l’attività intellettuale è immune dall’assalto di EG: «Al centro
dei suoi studi non c’era l’uomo ma la ricerca in sé» (I, 23) e oltre «le ricerche
non erano al servizio dell’umanesimo, ma costituivano una categoria di valori
a sé» (II, 466); e per uno studioso di discipline umanistiche non è accusa di
poco conto. Tucci, per la cronaca, si espresse in merito in modo diametralmen-
te opposto nel 1934 (Tucci 1934a: 10). È vero per altro che l’autrice si contrad-
dice su questo punto quando afferma, a distanza di poche pagine, che gli studiosi
come Tucci «credevano nei valori che studiavano … Non facevano della fredda
scienza» (II, 469). Cosa realmente ne pensi non è perciò dato sapere. Fatua in
ogni caso l’affermazione: «non sono qui per giudicarlo» (II, 424 e 461).
Fedele a questo cliché, EG non ha perso occasione per sottolineare la
freddezza di Tucci verso le sofferenze o la malasorte altrui: «mai una parola di
simpatia per i portatori … mai un moto di simpatia per i pellegrini cenciosi»
(I, 613); «nemmeno una parola di simpatia o di pietà per il poveraccio» (II,
118); «Ancora una volta il nostro mostrò la sua sovrana indifferenza di fondo,
o pure insofferenza, per il genere umano» (II, 300); «gentilissimo con i poten-
ti, sprezzante con chi non contava niente» (II, 455); «Tucci amava definirsi
privo di sentimenti» (II, 465); «Se per sentimenti invece si intende quella
spontanea empatia che talvolta ci fa percepire il dolore del nostro prossimo …
la sua mancanza di sentimenti fu certamente vera» e ancora «Tucci esploratore
non ebbe niente della compassione verso i più umili che mosse i compagni di
avventura» (I, 20). L’autrice persino si sorprende quando tracce di commozio-
ne trapelano da un suo scritto (II, 256).
Lo spunto sull’assenza di sentimenti viene – mi pare evidente – da una
frase scritta da Raniero Gnoli, ma le sue parole sono state travisate:
Dei sentimenti, di quell’intrusione dell’io e del mio, falsificatori ed offuscatori della tra-
sparenza delle cose, ebbe sempre istintivo timore e pudore, sì da dir di sé, quasi per esor-
cizzarli, che ne era affatto privo ed arido come le erbe del deserto (R. Gnoli 1985: 40).

È vero che, nelle sue relazioni di viaggio, Tucci spesso registrò senza par-
ticolari commenti la triste sorte di alcuni dei suoi portatori o di altre persone di
condizione indigente che ebbe la ventura di incontrare. Ma attribuirgli comple-
ta indifferenza è tirar l’evidenza per i capelli.
Onori e nefandezze di un esploratore 215

Gli interventi dei medici che lo accompagnarono a favore di persone in-


contrate casualmente per via sono spesso riportati nei diari di viaggio e se quel
dolore gli fosse stato indifferente Tucci non avrebbe sprecato tempo a parlar-
ne. Scrivere della vita misera di altri senza maledire il mondo crudele o versa-
re calde lacrime di compassione non è di per sé prova di indifferenza o di-
sprezzo; può anche esprimere impotenza davanti a fenomeni sociali ed eco-
nomici sui quali un individuo non ha modo di incidere. È vero che un suo urlo
avrebbe aiutato noi a ricordare la dura realtà di fratelli nati per caso nella parte
sfortunata del pianeta; possiamo rimproverarlo per non averlo fatto, ma non
attribuirgli sentimenti che, per quanto ne posso capire, gli erano estranei.
L’insistenza con cui EG ritorna su questo presunto aspetto (dis)umano
della personalità di Tucci assume perciò le fattezze di un preconcetto ideologi-
co, in cui ravviso l’influenza di chi ha visto una convergenza del suo pensiero
con la destra radicale (Iacovella 2001; Grossato 2006). L’autrice fa propria
questa linea senza dilungarsi in analisi o spiegazioni; le basta affermare un
semplice sillogismo: Evola ed Eliade erano più vicini al nazismo che al fasci-
smo e Tucci era spiritualmente vicino a Evola (I, 182). La sua indifferenza alla
sofferenza altrui altro non sarebbe, allora, che il risultato della vicinanza a chi,
come appunto Evola, teorizzò l’incomunicabilità tra dominatori e dominati e
propugnò per l’intera vita il disprezzo per gli umili, la necessità della schiavitù
e l’esercizio arbitrario della violenza sul prossimo concesso ai potenti.
L’impostazione data da EG ai rapporti tra Tucci ed Evola mi trova netta-
mente discorde. È vero che Tucci intrattenne prima della guerra rapporti, della
cui intensità non saprei dire, con quest’ultimo nonché con altri sostenitori del
fascismo e del nascente nazismo come Massimo Scabelloni (alias Scaligero) e
Gustav Glaesser, e che queste stesse persone figurano tra i collaboratori
dell’IsMEO presieduto da Tucci nel dopoguerra. Tuttavia, le loro posizioni
non erano le uniche rappresentate nell’Istituto, tant’è vero che East and West
ospitò sin dai primi anni anche contributi di Benedetto Croce e Massimo Bon-
tempelli; nulla lascia perciò intendere che questo rapporto implicasse una so-
stanziale identità ideologica.
I punti in comune tra Tucci e questi personaggi sono alquanto generici:
l’idealismo filosofico, l’interesse per l’esoterismo e il pensiero indiano, l’esi-
stenza di forze invisibili che legano l’individuo al cosmo, il divenire della so-
cietà europea percepito come decadenza, la critica alla contrapposizione tra
Oriente e Occidente.
Le differenze sono a mio avviso di maggior peso delle somiglianze. Trat-
tando del tantrismo, Evola pose l’accento sugli aspetti segreti e iniziatici
dell’insegnamento esoterico, sino al punto da trasformarlo nella dottrina riser-
vata a un’aristocrazia guerriera; quegli aspetti, in sostanza, che così interpreta-
ti rendevano la conoscenza ‘vera’ accessibile a pochi, servendo di fatto a so-
stenere una visione autoritaria della società.
216 O. Nalesini

Questa sarebbe in sostanza la posizione di Tucci, anche secondo Benavides.


Ma è un’interpretazione viziata dall’aver estrapolato da un ampio corpo di scritti
gli articoli e i passi apparentemente allusivi a concezioni che facevano parte del
bagaglio ideologico del fascismo, come l’esaltazione mistica dell’eroismo e del
sacrificio (Benavides 1995; Hakl 2006: 235-36).24 In questo senso Benavides
(2007: 266-68) legge ad esempio la seguente definizione di bodhisattva fornita
da Tucci: «colui che lotta. È un eroe, un guerriero coperto di corazza».
Interpretazione debole, perché – per cominciare – l’esaltazione dell’eroismo
e persino la religione della morte – ce lo ha ricordato Furio Jesi (1979: 7-9) –
sono prodotti culturali borghesi elaborati nell’Ottocento che permea(va)no tut-
ta la cultura europea e non possono dunque essere ricondotti univocamente
all’ideologia del fascismo. Ma nel fascismo, e non solo in quello italiano, il
sacrificio e l’eroismo servivano a rafforzare la gloria della nazione, di uno sta-
to o di un capo, implicando solitamente la sottomissione o l’umiliazione di al-
tre nazioni o etnie, parti sociali o individui. Il che è ben diverso dagli ideali
buddhisti. Se riportata nel contesto delle opere di Tucci sul buddhismo, inve-
ce, la frase incriminata riprende il suo reale significato, ovvero un’allusione al
conflitto interiore affrontato dall’uomo per liberarsi dai legami terreni e alla
compassione nei confronti di chi deve ancora superare la prova, e non a una
esaltazione di terrene volontà di potenza.
Si prenda ora in esame quest’altra definizione di bodhisattva, che eviden-
temente non può essere ricondotta all’interpretazione di Benavides perché al
suo centro v’è l’altruismo, non il dominio dell’uomo sull’uomo:
Il monaco del primitivo Buddhismo diventa il Bodhisattva, cioè l’uomo-dio. Uomo-
dio perché l’uomo si sublima in altezze spirituali che gli stessi dei non possono rag-
giungere, soprattutto perché creatura d’amore – amore che è sacrificio di sé per gli al-
tri (Tucci 1938: 128).

In quegli stessi anni Tucci sottolineò lo sforzo prodigato dai riformatori


buddhisti di «rendere … accessibile lo stesso principio a tutte le persone», e la
conseguente necessità di
non soltanto adeguare la varietà alle varie inclinazioni e avversioni degli individui, ma
soprattutto valersi dei loro particolari complessi psicologici per rendere più facili e
piane quelle esperienze che producono la revulsione degli iniziati dal piano
dell’esistenza normale a quello mistico (Tucci 1941: 113).

Tucci, in sostanza, poneva l’accento su una conoscenza che, anche nella


sua variante esoterica, si apriva potenzialmente a tutti, sia pur per gradi e tem-
pi diversi.25 Il che è congruente con l’idea di un affratellamento degli uomini
————
24
Hakl (2006: 236) scambia la descrizione delle pratiche funerarie tibetane per prova di adesione
personale di Tucci a una religione della morte.
25
Il testo fu completato nel 1938. Concetti ribaditi nell’introdurre la seconda edizione di Il libro
tibetano dei morti (Tucci 1972: 11) e in A Lhasa e oltre (Id. 1952: 52).
Onori e nefandezze di un esploratore 217

e, in prospettiva, di tutti gli esseri viventi, sulla base dell’esperienza del dolore
provocato dalla vita e la consapevolezza di una necessità dell’amore. Idee che
cozzano senza alcuna speranza di pace con la concezione evoliana della voluta
incomunicabilità tra dominatori e dominati e il netto rifiuto del «pathos frater-
nalistico», il disprezzo della «volontà dell’amare e del sentirsi amati, del sen-
tirsi uguali ed insieme» (Evola 1931: 109, cit. in Cassata 2003: 49).
Tucci non auspicò il ritorno a un ordine sociale arcaico e, quando espres-
se una certa simpatia per i sistemi dove i rapporti di dipendenza personale so-
no diretti e trasparenti, anziché spersonalizzati ed astratti come negli stati mo-
derni, a differenza di Evola lo fece senza scagliarsi contro l’idea di eguaglian-
za e non vide nella schiavitù di molti la fonte della libertà di pochi (Tucci
1952: 87 e 122; cfr. Cassata 2003: 39-40). Emerge persino una considerazione
di pari dignità di tutti i mestieri, sia pure con una (ovvia) preferenza personale
per quelli intellettuali (Tucci 1952: 88). Men che meno possiamo attribuirgli
simpatia per la ributtante esaltazione dello sterminio di intere popolazioni a
sangue freddo da parte di una aristocrazia guerriera, in ossequio ai principi di
fedeltà, onore e imperium, che Evola scrisse nel 1953, con i forni crematori di
Mathausen ancora caldi (Evola 2001: 146).26
Non ho nemmeno trovato tracce di una ricerca della Tradizione, quella
con la T maiuscola, intesa come nucleo primordiale di sapienza iniziatica di
cui ogni sviluppo deve essere considerato degrado. Per Tucci, che questo con-
cetto non lo ha mai esplicitamente enucleato nei suoi scritti, direi che tradizio-
ne significava piuttosto atto creativo da cui scaturisce qualcosa di nuovo e,
dunque, appartiene sempre al presente. Questa era, del resto, la posizione di
alcuni intellettuali a lui vicini come Bontempelli e Ciliberti, di cui parlerò ol-
tre. Di conseguenza, diversamente da Evola, Tucci non detestò mai la moder-
nità in quanto tale. Più volte criticò apertamente le fantasie su un’India preda
del misticismo, per sottolineare al contrario i fermenti culturali e sociali che
l’attraversavano (Tucci 1928a).27 Anzi, espresse ammirazione per l’India pro-
prio perché non era affatto il paese dell’immutabile passato di cui si favoleg-
giava in Occidente, ma del «mutamento continuo, traverso il quale tutto ciò
ch’era estraneo veniva lentamente assorbito, riplasmato, adattato allo spirito
indiano» (Id. 1937: 419).
Nel dopoguerra, quando accennò all’esistenza di caratteri culturali innati
nelle popolazioni, impiegò una frase che formalmente strizzava l’occhio a

————
26
Per la posizione di Evola sulle SS e la giustificazione della loro violenza vedi Cassata (2003:
342-43).
27
Da notare l’apprezzamento di Antonio Gramsci nel secondo Quaderno dal carcere, §86: «Arti-
colo interessante. Critica tutti i luoghi comuni che di solito si ripetono sull’India e sull’‘anima’
indiana, sul misticismo, ecc. … Molte osservazioni che il Tucci fa a proposito dell’India si po-
trebbero fare per molti altri paesi e altre religioni. Tenere presente» (Gramsci 1996: 427).
218 O. Nalesini

Oswald Spengler, 28 per smentirne subito dopo il contenuto implicitamente


razzista introducendovi una lettura storica e un’accettazione del mutamento e
del contatto tra idee e popoli diversi priva di richiami ad un passato aureo, a
una purezza atavica o simili concezioni.
La sfiducia più volte espressa da Tucci nella scienza occidentale non as-
sume mai i toni della assoluta negazione di un suo valore; egli stesso ne faceva
parte, ne utilizzava i risultati nonché le metodologie di ricerca e i mezzi tecnici
che aveva prodotto (vedremo il caso della fotografia), e su cui si può utilmente
leggere il colloquio riportato da Fosco Maraini (1984: 20-21). La sua era una
critica all’indirizzo prevalente impresso alle ricerche da logiche politiche ed
economiche in cui non si riconosceva, perché l’uomo non era al centro del lo-
ro interesse, lo contrapponevano alla natura e gli toglievano il tempo per con-
templare e riflettere: «Mi interessa soprattutto questo splendore di cielo e di so-
le, fino a tanto che la folle scienza o la perversa vanità di potenza non ce ne to-
glierà il godimento» (Tucci 1963: 22; cfr. Id. 1952: 101). Anche da questa
critica nacque, a mio avviso, la necessità di dedicare notevole spazio ai concetti
di ‘dio’ e ‘io’ nella sua Storia della filosofia indiana (Id. 1987: 212-56, 257-89).
Concludo ricordando che Evola era molto critico nei confronti della psi-
canalisi e della parapsicologia, mentre Tucci si rifece a Carl Gustav Jung per
Teoria e pratica del mandala e fu membro illustre della Società Italiana di
Metapsichica. Potrei continuare, ma spero sia superfluo. Tucci aveva una vi-
sione della società e del ruolo che vi gioca la religiosità agli antipodi
dell’assolutismo e della trascendenza del potere invocati da Evola.
Ciò precisato, torniamo al libro. Si articola in tredici capitoli disposti se-
condo un ordine cronologico, come consuetudine per una biografia. Spesso
però sviluppano l’argomento ben oltre il limite temporale trattato in quella
parte del libro, costringendo il lettore ad affrontare bruschi salti temporali.
Troviamo così, senza apparente ragione, alcuni aspetti della spedizione tibeta-
na del 1933 utilizzati come introduzione al capitoletto dedicato alla visita ad
Agra nel 1929 (I, 269). La visita di Tagore in Italia del 1925, che fornì l’occa-
sione a Formichi e Tucci di recarsi in India alla fine di quell’anno (I, 76-78),
viene raccontata dopo il loro soggiorno indiano (I, 59-75). Il viaggio in Nepal di
Tucci e Formichi del 1933 è raccontato in parte molto prima della spedizione ti-
betana dello stesso anno (I, 83-96) e in parte molto dopo (II, 160-77).
Il lettore dovrà inoltre districarsi tra frequenti spezzettamenti della narra-
zione causati dall’inserimento di divagazioni non necessarie e dall’affastel-
lamento di notizie prive di un legame, la cui unica funzione sembra essere
l’aumento del numero di pagine. Sapere che Oneglia è stato comune a sé stan-
te sino al 1923 (I, 565) ci aiuta forse a comprendere le attività di Tucci? E cosa

————
28
«le credenze umane – quelle che i padri ci trasmettono con il sangue e che troviamo quasi so-
lidificate nelle opinioni comuni fino a che nuove idee, insinuandovisi, non le sconvolgono»
(Tucci 1952: 18).
Onori e nefandezze di un esploratore 219

dire delle (oltretutto inadeguate) presentazioni sulla codicologia (I, 40-44) e


Shangri-La (I, 186-88), della pagina di impressioni personali su sporcizia, cal-
zini lerci e relative fragranze fra India e Nepal (I, 222-23), storia del Tibet (I,
199-209), Mrozowska, David-Néel e massoneria femminile (I 230-33), di
nuovo buddhismo (I, 236-43), l’immagine femminile nel primo trentennio del
Novecento (I, 326-27), non poche pagine del capitolo VI sulla Reale Accade-
mia d’Italia (in particolare in I, 355-80), le esperienze dell’autrice con lo yoga
(I, 635), la spedizione tedesca in Tibet del 1938-1939 (II, 21-29), reminiscenze
personali di vario genere (ad esempio II 99-102 e 109-12), l’iconografia budd-
hista (II, 265-69) e via elencando? Le pagine dedicate agli esploratori e ai
viaggiatori europei nel Tibet non hanno molto senso se utilizzate come presen-
tazione della spedizione del 1935, che interessò territori in massima parte di-
versi (I, 569-76).
Il capitoletto «Buddha gli sorride» (I, 12-22) è emblematico di come
l’autrice abbia inzeppato il testo di informazioni tra loro scollegate senza riflette-
re sulla loro reale utilità in quel punto del libro. Inizia discutendo la probabile
adesione al buddhismo di Tucci, a cui seguono: una breve presentazione di que-
sta religione (13-17), un paragrafo sulle opinioni di Tucci a proposito del con-
trollo delle nascite in India (17-18), le ragioni che indussero Tucci a esplorare
alcune regioni del Nepal negli anni Cinquanta, interessandosi soprattutto delle
sculture erotiche dei templi (18-19). EG torna subito dopo sul credo religioso di
Tucci, nota la sua contraddizione di buddhista molto attaccato ai propri beni, ac-
cenna alle sue reazioni istintive di simpatia o antipatia nei confronti degli altri,
alla sua aridità interiore (19-21). Segue la vicenda del suo unico figlio (21-22) e,
a conclusione di questo sfortunato capitoletto, il suo annuncio funebre.
Colgo l’occasione per commentare due punti. Quel che Garzilli dice qui
delle esplorazioni nepalesi degli anni Cinquanta è fuorviante. La sua prosa lascia
intendere che lo studio delle sculture erotiche fosse uno dei loro obiettivi princi-
pali. In realtà quelle ricerche erano meno pruriginose; ce se ne può rendere con-
to leggendo sia la dotta relazione scientifica (Tucci 1956), sia i libri e gli articoli
di taglio divulgativo. Il libro di cui parla EG (Tucci 1969) apparve solo molti
anni dopo, in una collana editoriale dedicata interamente all’arte erotica, che
all’epoca delle spedizioni non era nemmeno stata immaginata. Sarebbe poi stato
opportuno chiarire, come Tucci fa in quel libro a beneficio dei lettori non intro-
dotti, che le sculture erotiche dei templi partecipano del sistema simbolico di un
pensiero religioso e solo alla luce di questo possono essere lette.
L’autrice dimostra di avere idee ballerine anche sul credo religioso di
Tucci. All’inizio del libro propende per una sua adesione al buddhismo (I,
xxx). Questa posizione è ribadita ben presto, benché confusamente: «Non si sa
quando Tucci intraprese la via del Buddha. Infatti […] fu battezzato nella fede
cristiana e nel rito cattolico, anche se, come ebbe a dire più volte in seguito,
visse la sua vita adulta come buddhista» (I, 12). Ho scritto confusamente per-
ché i legami causali tra il battesimo e l’eventuale adesione al buddhismo in-
220 O. Nalesini

trodotti da ‘infatti’ e ‘anche se’ restano per me oscuri; l’autrice non spende una
sola sillaba per spiegarli. Ribadisce la professione di fede buddhista di Tucci a p.
19 per trasformarlo subito dopo in ateo, mentre a p. 22 lo vediamo tornare bud-
dhista. Ma non finisce qui. Oltre lo scopriamo di volta in volta gnostico (I, 180),
buddhista (I, 182), ateo (I, 196), massone (I, 235), buddhista (I, 252 e 299),
«molto ‘materialista’» perché ha pubblicato uno studio sulla filosofia materiali-
sta indiana (sic! I, 276), e spiritualista nella pagina successiva (I, 277), negatore
di dio (quello cristiano o in generale?) fino all’ultimo, o forse quasi (II, 471).
In questo marasma brilla l’affermazione che Tucci era «buddhista nel
senso che credeva … in un’altra realtà al riparo dai dolori e dalle difficoltà; …
Egli fu quindi ateo» (I, 19). È evidentemente un non senso, perché il buddhi-
smo conosce le divinità e crede in una realtà trascendente l’uomo e l’universo;
quindi i buddhisti non sono atei nel senso che noi diamo a questo termine.
La spiegazione è presto detta. EG si è appropriata di una frase di Raniero
Gnoli (1995: 19), per cui Tucci era «Buddhista nel senso che credeva ferma-
mente a una diversa dimensione della realtà, che le nostre parole e pensieri
non possono toccare, ateo (ma nel senso buddhista della parola) e profonda-
mente religioso allo stesso tempo». Ha un significato ben diverso, evidente-
mente, e conferma quel sentimento di generale filantropia slegata dagli indi-
rizzi della varie scuole religiose e filosofiche, che Tucci espose in una lettera
al quotidiano Il tempo dell’8 ottobre 1973. Lì dichiarò di rifarsi ai principi eti-
ci e morali basilari enunciati dal Buddha storico, negando al contempo valore
alle speculazioni teologiche successive: «Io non credo in Dio, non credo
nell’anima non credo in nessuna Chiesa ma in tre principi soltanto: retto pen-
siero, retta parola, retta azione». Come aveva sostenuto anche in precedenti
occasioni, l’ascesa verso piani spirituali superiori e la conoscenza di verità
eterne non avviene attraverso lo studio ma grazie a una visione diretta e inte-
riore (Tucci, Ghersi 1934: 99). EG cita per esteso questa lettera di Tucci (II,
424), ma non sembra averne colto il senso.
La posizione religiosa espressa da Tucci era maturata in un ampio arco
temporale. In La via dello Svat (Tucci 1963: 28-29) indicò nella compassione
per il dolore e la morte provati sin da fanciullo nei confronti di tutti gli esseri
viventi il motore che lo avrebbe indotto a dedicarsi allo studio del pensiero ci-
nese e indiano e a provare particolare simpatia per il buddhismo. È un’affer-
mazione parziale. Sul tema del dolore provocato dall’esistenza avrebbe trovato
alcune risposte anche nel cristianesimo. Quel che gli fece volgere lo sguardo
lontano è a mio avviso qualcosa di più.
Coltivò sin da giovane la convinzione che le singole tradizioni religiose
siano un prodotto umano, oltre il quale percepiva la presenza di qualcosa di es-
senziale che solo pochi pensatori o poeti erano riusciti ad esprimere. Una profes-
sione di umanesimo che presenta dei punti di contatto con le concezioni teosofi-
che e merita di essere qui sottolineata perché contiene il superamento dell’idea
che le differenze tra le religioni possano essere ridotte a un’opposizione tra falsi-
Onori e nefandezze di un esploratore 221

tà e verità. Nell’articolo inaugurale della sua rivista, Alle fonti delle religioni,
Tucci (1921: 5) enunciò sommariamente le linee guida di una ricerca con cui si
prefiggeva di «diffondere una più adeguata conoscenza di quei valori umani as-
soluti, di quelle verità eterne, che Dei od uomini, ispirati o veggenti, hanno rive-
lato in tempi e luoghi diversi a questa travagliata umanità».
Se negli scritti giovanili è ravvisabile una tendenza verso quella che po-
tremmo definire una gnosi, essa appare superata negli anni Trenta. Questo svi-
luppo sembra aver proceduto di pari passo con la sua decisione di dedicarsi prin-
cipalmente al pensiero indiano, con particolare riguardo al buddhismo. Scelta la
cui razionalità è nella rinuncia alla ricerca di mondi trascendenti per concentrarsi
sull’uomo come parte integrante dell’universo. Lo troviamo chiaramente spiegato
in un articolo da molti dimenticato, da cui è opportuno citare un brano:
Proprio col Buddhismo l’uomo sembra che nell’India acquisti coscienza del suo pote-
re e di quelle sue infinite capacità che lo fanno superiore a tutti gli dei. Signore della
terra e dei cieli. … alla salvazione particolare dell’asceta ha sostituito la misericordia
e la simpatia per tutto ciò che ha vita: perché dove c’è vita c’è dolore – e c’è
l’inesorabile angoscia della morte. L’occidente ha scoperto l’uomo attraverso la scien-
za: l’India l’ha scoperto traverso il dolore – l’uomo ha ritrovato colà coscienza di sé
medesimo come essere che soffre e sa di soffrire. Allora soltanto esso cessa di essere
un’astrazione e diventa persona (Tucci 1938: 127).

Grazie al pensiero buddhista, dunque, Tucci imboccò una via che lo


avrebbe condotto a coltivare la propria religiosità senza riconoscersi in alcuna
particolare tradizione. Come scriverà in seguito: «mi interessano quelle altre
fantasie che chiamano religione o filosofia perché sono la rappresentazione
drammatica delle speranze e delle angosce umane», e oltre «nell’animale che
soffre c’è dolore nel suo modo assoluto, il dolore che si sperimenta come do-
lore nella sua infinità e nella sua solitudine» (Tucci 1963: 22 e 29). Si può in
definitiva asserire che egli si rifacesse a una semplicità etica liberata dai dog-
matismi e dalle liti teologiche.
Verso la fine dell’introduzione l’autrice tocca un altro punto che solo appa-
rentemente attiene alla modalità della scrittura; in realtà riguarda anche, e a mio
avviso soprattutto, i contenuti. Ci informa di non aver voluto scrivere una bio-
grafia o un saggio storico in senso accademico, ma «storia romanzata, nell’anda-
mento, nello stile e nel registro della scrittura» nella quale, tuttavia, «non c’è
niente di inventato … e niente di esagerato o opportunamente ignorato» (I, xl).
Parole misurate per tranquillizzare il lettore, ancorché insolite. Il lavoro
svolto – sembra dirgli l’autrice – è stato rigoroso, tant’è che non vi troverai
nulla di inventato o manipolato. Tuttavia, per non annoiarti, ho abbandonato il
piglio cattedratico mantenendone la sostanza e adottato una scrittura che av-
vinca, facilitandoti la lettura di tutte queste pagine.
Non è proprio così. Quel che abbiamo detto sopra sull’approccio storico
dell’autrice ci mette in guardia. Se la promessa di non inventare, esagerare od
omettere è riferita alle fonti che l’autrice ha reputato essere veritiere o credibili
222 O. Nalesini

sulla base non di un metodo di analisi criticabile ma di una percezione perso-


nale, la promessa si svuota di significato. E questo è proprio quel che scopria-
mo grazie a una lunga serie di contraddizioni, ingenuità, omissioni ed errori.
Talvolta persino grossolani, come nella fondazione dell’Istituto per l’Oriente,
che EG attribuisce al fascismo (I, 435); avvenne in realtà oltre un anno prima
della Marcia su Roma. Peggio: attribuisce al fascismo persino l’Istituto Italia-
no per l’Africa (I, 144), fondato invece nel 1906, quando Mussolini era un
giovane sotto le armi e il fascismo di là da venire.
EG procede a tentoni anche quando parla del Museo Nazionale d’Arte
Orientale (MNAO). Non ne ha capito né la natura giuridica né la storia, con-
fondendolo con quello di Arte Orientale dell’IsMEO, che ebbe vita effimera
prima e durante la guerra ed era tutt’altra cosa. Così definisce il MNAO una
prima volta «dell’IsIAO» come se fosse proprietà dell’Istituto (I, 2), cosa che
non è mai stato;29 poi lo vuole fondato col patrocinio del Ministero per la Pub-
blica Istruzione (I, 417), ne ribadisce l’appartenenza all’IsIAO quando, trat-
tando di alcuni scavi archeologici (e commettendo altri errori, ma ne tratterò
oltre), asserisce che «erano sotto la cura del Museo … e quindi dell’IsIAO»
(II, 329) e lo arricchisce di una sezione distaccata sul Vicino Oriente antico
(II, 339), che non è mai esistita trattandosi di un museo distinto, per giunta
dell’Università di Roma. Afferma infine che del Museo nazionale «annesso
all’Istituto» (II, 44) Tucci scrivesse nelle lettere a Gentile. Il che è impossibile,
perché il filosofo morì prima che il MNAO venisse istituito.
La nascita del MNAO fu chiaramente un favore politico all’IsMEO di
Tucci, visto che a Roma già esisteva il museo ‘Pigorini’, dedicato anche alle
culture extra-europee, che poteva semplicemente essere potenziato.30 Vi an-
dranno a lavorare dipendenti del Ministero che collaboravano con le spedizio-
ni archeologiche dell’IsMEO; tra loro il primo direttore Domenico Faccenna
(Faccenna 1964). L’Istituto firmò nel 1957 con il Ministero della Pubblica
Istruzione una convenzione grazie alla quale il Museo riceveva in deposito i
suoi oggetti artistici e archeologici, nonché la documentazione grafica e foto-
grafica dei suoi cantieri. Ancora oggi una parte rilevante del patrimonio del
MNAO è composta dalle collezioni ricevute dall’IsMEO.

————
29
L’autrice è in buona compagnia. Nell’interrogazione a risposta scritta n. 4-14744 sulla sorte
dell’IsIAO presentata dall’on. A. Porfidia nella seduta della Camera dei deputati del 2 febbraio
2012 n. 581 si legge: «… prestigioso istituto … al quale fa capo anche il Museo Nazionale
d’Arte Orientale di Roma»! Il sottosegretario di stato per gli affari esteri on. M. Dassú non ri-
leva l’errore nella sua risposta. Scrive di quel che non sa anche Eric Salerno (2013).
30
Al museo ‘Pigorini’ l’IsMEO destinò del resto alcuni oggetti giapponesi, cinesi, birmani e
thailandesi ricevuti in dono nel 1938 dal col. Guido Calvi, quando le attività dell’Istituto furo-
no sospese nel 1944 e il suo Museo d’Arte Orientale fu dismesso (da annotazioni a penna e
matita sull’inventario del museo: Archivio Storico del Museo Nazionale d’Arte Orientale
[ASMNAO], Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente).
Onori e nefandezze di un esploratore 223

Tuttavia, il Museo nacque come istituto della Direzione Generale di Anti-


chità e Belle Arti e tale rimase fino al 1975, quando passò al neonato Ministero
per i Beni Culturali. Vi confluirono anche reperti fino ad allora conservati da al-
tre istituzioni pubbliche: ad esempio una raccolta numismatica dal Museo Na-
zionale Romano e sculture estremo-orientali dal Museo di Palazzo Venezia
(Mazzeo 2003: 565, n. 2). I rapporti tra i due istituti erano dunque strettissimi,
ma ciò nonostante si trattava di amministrazioni separate con scopi differenti.
Molto deludente è la parte dedicata alla giovinezza. Sottolineare la preco-
cità di Tucci nel pubblicare saggi di livello accademico (I, 5, 7-8), sorvolando
su altri aspetti di quel periodo della sua vita, significa puntare su un aspetto
clamoroso relegando in secondo piano, anzi ignorando, il processo di matura-
zione umana e intellettuale che rese possibile quei risultati e che in una biogra-
fia dovrebbe essere invece messo nel giusto risalto. Non sarebbe stato un
compito facile. Le informazioni disponibili sono pochissime, ma potevano al-
meno essere delineati gli interrogativi principali.
Era possibile approfondire il suo percorso universitario, invece di limitar-
si a esaltare le sue capacità di autodidatta (I, 28-29). L’analisi degli esami so-
stenuti, esposta in una tesi magistrale recentemente discussa, fornisce interes-
santi spunti di riflessione ed evidenzia come il giovane Tucci abbia ricevuto
stimoli non solo da Carlo Formichi, suo docente di sanscrito. In primis li ebbe
da Giovanni Vacca, di cui Tucci frequentò le lezioni sulle civiltà dell’Estremo
Oriente per tutti gli anni di corso e da cui fu introdotto allo studio della filoso-
fia cinese (Lanciotti 1995: 60; Crisanti 2013: 22).
Come nota Crisanti (2013: 30-31), un altro docente che potrebbe aver la-
sciato il segno per il suo interesse verso la storiografia religiosa è Giacomo
Barzellotti. Tucci ne seguì i corsi di Storia della filosofia per tre anni. L’opera
di questi e altri docenti andrebbe dunque attentamente analizzata e confrontata
con gli studi giovanili di Tucci per ricostruire meglio il percorso della sua
formazione intellettuale.
Quando si iscrisse all’università, l’archeologia era uno dei suoi interessi
principali, come testimoniano la relazione su Helvia Recina, scritta all’età di
quindici anni (Tucci 2007), e i suoi primi articoli sull’epigrafia romana. Ne fu
allontanato dalle sterili pedanterie dei docenti. Qualcosa effettivamente non
doveva funzionare nell’insegnamento di archeologia, se la stessa critica fu
espressa qualche anno dopo da Ranuccio Bianchi Bandinelli (Pucci 1975; cfr.
Bianchi Bandinelli 1948: 29). Sempre secondo quanto Tucci scrisse, tornò a
occuparsi di archeologia solo negli anni Cinquanta, con l’inizio degli scavi
nello Swat (Callieri 2006).
La sua relazione con questa materia negli anni universitari (e in seguito)
fu certamente più complessa, benché i contorni esatti ci sfuggano. Per questo
vorrei qui ricordare – prima di abbandonare l’argomento – Luigi Pigorini, con
cui Tucci sostenne l’esame di Paleoetnologia il 21 giugno 1913, alla fine del
primo anno di corso e dopo solo tre mesi dalla sua iscrizione all’università.
224 O. Nalesini

Pigorini, come altri studiosi del suo tempo, nutriva un vivo interesse per la
comparazione dei resti preistorici con la cultura dei primitivi extra-europei e
degli strati rurali delle genti europee, nella convinzione che queste popolazioni
moderne avessero conservato quasi inalterati elementi degli stadi primordiali
dell’umanità (ad es. Pigorini 1870). Come Pigorini, anche Tucci è stato un
convinto assertore dell’unità psichica del genere umano e si è interessato di
comparazione, prestando maggiore attenzione alla sfera religiosa. Scrisse pro-
prio in quegli anni che
Vi è addirittura un mondo di superstizioni e credenze le quali si ritrovano sostanzial-
mente uguali in tempi diversi e fra popoli differenti, senza che però possa dedursi dal-
la loro somiglianza un rapporto di dipendenza o derivazione dell’una dall’altra. … tut-
te le varie superstizioni e credenze non sono che il risultato di impressioni dirette,
immediate, spontanee che l’uomo prova di fronte a determinati fatti o fenomeni da cui
egli trae sempre, le stesse relazioni, o gli stessi rapporti causali e perciò possono sor-
gere indipendentemente in tempi e luoghi diversi (Tucci 1914a: 689).

La continuità di questa convinzione trapela da frasi di analogo tenore scritte


nel dopoguerra: «studiando comparativamente quelle religioni [dell’Asia meri-
dionale e orientale] si scoprono notevoli convergenze, …, che affondano le ra-
dici nella preistoria asiatica» (Tucci 1946: 10) e «una identica ansia, anche
esposta in forma diversa, urge infatti lo spirito umano dalle rive del Tevere a
quelle del Gange» (Id. 1952: 97). È dunque verosimile che intercorra un lega-
me tra l’insegnamento di Pigorini e la pubblicazione degli articoli «Totemi-
smo ed esogamia», che verte in parte sul concetto di totemismo in Fraser e in
parte sulla protostoria picena (Id. 1913), il citato «Note sull’Asia preistorica»,
in cui Tucci studiò il valore simbolico attribuito in alcune credenze cinesi agli
strumenti litici preistorici casualmente rinvenuti, e «Nota sul rito di seppelli-
mento degli antichi persiani», ove si legge: «È noto come in tutte le religioni si
trovi sempre un gran numero di riti o pratiche che, consacrate dall’uso, …, nel
corso del tempo si mantengono più o meno alterati, …, conservando però il
carattere di antiche sopravvivenze» (Id. 1914b: 315).
A mio avviso, l’attenzione giovanile di Tucci verso la preistoria e l’etno-
grafia, che all’epoca era con quella strettamente connessa, fu qualcosa di più
profondo di un’apertura mentale nei confronti di materie distanti dai proprî in-
teressi primari. I reperti attribuibili ad epoche anteriori all’introduzione della
scrittura, nonché l’analisi di credenze e rituali osservabili presso le minoranze
etniche e ritenute essere sopravvivenze arcaiche, potevano rivelarsi le chiavi
per una migliore comprensione storica anche del pensiero religioso. Convin-
zione che manifestò in molte opere prodotte nel corso della sua vita scientifi-
ca.31 Ecco spiegata la frequenza con cui i diari di viaggio e le fotografie di
————
31
Tucci (1931a: 521-22; 1931b: 506-7; 1946: 27; 1948), nonché le note sul Tibet pre-buddhista
contenute in Tucci (1949: II, 711-42; 1970a [nei capitoli dedicati alla religione bön e alla reli-
gione popolare], 1975: 14-54 e 1977a).
Onori e nefandezze di un esploratore 225

Tucci si soffermano su monumenti ‘megalitici’, su oggetti difficilmente data-


bili rivenuti in superficie, graffiti rupestri, i villaggi della minoranza Santal del
Bengala o gli Ainu di Hokkaido (questi ultimi con una piccola raccolta di car-
toline illustrate giapponesi degli anni Trenta). Ancora nel 1980 raccomandava
ad Ardito Desio, in procinto di recarsi in Tibet a margine di un congresso inter-
nazionale organizzato dall’Accademia di Pechino, di osservare attentamente il
terreno nei pressi di alcune località, se le avesse potute visitare, perché sospetta-
va che lì dovessero trovarsi vestigia importanti della preistoria tibetana.32 Come
acutamente osservò Faccenna (1995: 73), la sua capacità di analisi del terreno,
inusuale per chi avesse una formazione filologica, si doveva alla congiunzione
di aspirazioni archeologiche e pratica esplorativa.
Quando Tucci parla di ritorno all’archeologia, dunque, egli intende il lato
organizzativo, che aveva effettivamente tralasciato. Al ritorno dalla prima rico-
gnizione dello Swat, nel 1955, confessò a Giotto Dainelli di trovarsi in difficoltà
nell’impiantare i cantieri di scavo archeologico perché aveva coltivato discepoli
addestrati solo al lavoro da tavolino e incapaci di proseguire il suo lavoro sul
campo. Inoltre non trovava in Italia archeologi col desiderio di viaggiare e il cui
orizzonte non fosse limitato al mondo classico e mediterraneo.33
Un filone, quello dell’interesse di Tucci verso l’archeologia, e in partico-
lare la preistoria, che meriterebbe un vaglio attento perché lascia intravvedere
non un abbandono e un tardo ritorno all’archeologia, ma una attenzione co-
stante, tale da costituire un legame discreto ma robusto tra le sue ricerche in
India, Nepal e Tibet degli anni Venti e Trenta e gli scavi dell’IsMEO negli an-
ni Cinquanta e Sessanta a Hazar Sum in Afghanistan, Aligrama, Katelai e
Loebanr nello Swat, in Pakistan, a Shahr-e Sokhteh in Iran, con il coinvolgi-
mento di studiosi ancora giovani e di ricercatori già affermati, come Salvatore
Puglisi (1987: 75-81).
Purtroppo in questa biografia tutto ciò è trattato in modo alquanto naïve.
Si direbbe, a seguire EG, che Tucci sia stato repentinamente affascinato dai
ruderi come un ingenuo signorotto settecentesco impegnato nel Grand tour.
L’opinione di EG sul momento in cui avvenne questa ‘folgorazione’ è per al-
tro mutevole. In un primo momento sostiene che ciò avvenne durante la spedi-
zione tibetana del 1935: «Man mano che il viaggio andava avanti prese forma
quella che diventerà l’attività principale di Tucci: l’archeologia. Infatti aumen-
tavano gli oggetti preistorici che … raccoglievano» (I, 586). Oltre asserisce
contraddittoriamente che: «Sin dal 1939 … fece capolino quella che più tardi
sarebbe diventata la sua attività principale …: l’archeologia (II, 44)». Super-
fluo precisare che nessuna delle due date è quella giusta. L’interesse di Tucci

————
32
Lettera nell’archivio personale di Ardito Desio, per cui ringrazio Mariella Desio.
33
G. Tucci a G. Dainelli, S. Polo dei Cavalieri 16 ago. 1955, pp. 2-3 (Archivio della Società
Geografica italiana [d’ora in poi ASGI], Giotto Dainelli, b. 99, fasc. 2787, Corrispondenza
Dainelli Tucci G.).
226 O. Nalesini

per l’archeologia si era radicato nella fanciullezza e fu continuamente coltiva-


to, come credo sia ora chiaro. Analogamente, sarebbe opportuno approfondire
il continuo interesse di Tucci verso l’architettura, manifestatosi sia negli studi,
sia nella promozione dell’architettura e dei restauri monumentali, sia nei suoi
rapporti con altri intellettuali.
Agli anni della I Guerra mondiale risale l’inizio della lunga amicizia con
Sibilla Aleramo; Garzilli menziona solo le cartoline di augurio speditele da
Tucci e la moglie per i capodanni 1939 e 1940, conservate tra le carte private
della scrittrice (I, 234). Avrebbe potuto aggiungere almeno le menzioni di
Tucci nei suoi libri! Ad esempio, l’appuntamento che entrambi avevano con
D’Annunzio al Vittoriale il 1 marzo 1938, annullato per la malattia che quel
giorno avrebbe ucciso il poeta (Aleramo 1942: 291-92); oppure la conferenza
sullo yoga del 10 maggio 1941 (Id. 1979: 70-71).
Maggior significato assume nel contesto biografico la corrispondenza inter-
corsa tra Tucci e la scrittrice nel 1916. Anche su questa EG ha calato un silenzio
assordante. L’omissione è tanto più stridente in quanto le lettere sono conservate
nell’archivio della Fondazione istituto Gramsci che l’autrice asserisce di aver
consultato (II, 513). E sono documenti interessanti sotto diversi aspetti.
Il primo è banalmente cronologico. Da queste lettere si evince che lo stu-
dente incontrò la scrittrice a Firenze, credo verso la fine del 1915. L’occasione
sembra essere stata fornita dalla prima parte del servizio militare, che Tucci po-
trebbe aver espletato nel capoluogo toscano, ma nulla posso dire in merito alla
circostanza. Non è nemmeno chiaro se quello fu il primo incontro. La madre di
Aleramo era ricoverata dal 1893 nel manicomio di Macerata, dove morirà il 1
aprile 1917 (Aleramo, Campana 2003: 114, n. 2), e la scrittrice avrà frequentato
la città. Comunque, grazie a queste lettere possiamo completare le informazioni
fornite da EG sull’esperienza militare di Giuseppe Tucci (I, 157): lo seguiamo al
corso Allievi ufficiali della Scuola militare di Modena nel 1916, lo ritroviamo
nel giugno di quell’anno a Macerata per una licenza e nuovamente nella sua città
in ottobre, presumibilmente per la licenza di fine corso.
Il secondo aspetto, di maggior rilievo in questo contesto, riguarda l’animo
con cui Tucci visse quegli anni. Quella della scuola di Modena non fu
un’esperienza soddisfacente. Nella lettera spedita da Macerata il 20 giugno 1916,
Tucci espresse alla Aleramo una decisa insofferenza per l’ambiente militare:
E oltre al non trovare una eco nelle anime altrui, l’ambiente intiero rappresentando
tutt’affatto il contrario delle mie idee e delle mie aspirazioni, soffro intimamente
nell’animo! Tuttavia questo sacrificio grave che ora mi impegna [?] sarà compensato
da un po’ di libertà nell’avvenire.34

————
34
Archivio della Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in poi AFIG), Sibilla Aleramo, Corrispon-
denza, Corrispondenza ordinata cronologicamente, Sezione cronologica 1910-1919, fasc. 1916
giugno, lettera 169.
Onori e nefandezze di un esploratore 227

Nel corso della corrispondenza Tucci inviò alla scrittrice una copia del suo
saggio «I mistici dell’Oriente» (Tucci 1914c) e fece mostra di seguire la sua atti-
vità. Infine le confidò di attendere con impazienza che «finito il triste periodo che
ora attraversiamo ci sia dato riprendere la nostra lotta proficua di idee, e coopera-
re con le nostre migliori energie alla redenzione o al risveglio delle genti».35
Quali fossero i comuni ideali non è specificato, ma credo di non essere
lontano dal vero nel legarli alla ricerca spirituale a cui ho sopra brevemente
accennato, e che in quel periodo portò forse entrambi ad avvicinarsi alla teoso-
fia. Questo umanesimo troverà negli anni Trenta una sponda anche nell’opera
dello scrittore Massimo Bontempelli, di cui Tucci diverrà amico. Il cuore della
ricerca di Bontempelli, che certamente forniva un terreno comune alle loro ri-
flessioni, tendeva alla scoperta di un punto unico di osservazione
donde si veda il muoversi della speculazione filosofica, della espressione artistica,
dell’azione politica, della curiosità scientifica, del linguaggio del costume, della vita
d’ogni giorno – come un solo fatto armonioso. Scovarne il ritmo centrale. | (Investire
tutta la vita. Vedere un’opera d’arte come un fatto storico, studiare un fatto storico
come fosse una costruzione d’arte) (Bontempelli 1933: 1).

Questa amicizia è ignorata da EG, ed è un punto particolarmente dolente


della biografia perché si inseriva in una rete di relazioni con altri intellettuali
di rilievo. Uno di questi fu Franco Ciliberti, che si laureò nel 1929
all’Università di Roma sotto la guida di Pettazzoni, e la correlazione di Tucci
e Buonaiuti, con una tesi intitolata Panteismo e pessimismo nello sviluppo del-
le religioni eurasiatiche. Nel 1932 Ciliberti diede alle stampe un libricino par-
ticolare, molto vicino alla sensibilità di Tucci (che contribuì alla stesura),
composto da elenchi organizzati per disciplina e cronologia di scienziati, reli-
giosi, artisti dell’intera umanità, che nelle loro opere erano riusciti a suo dire a
cogliere «la trama dell’universale sinfonia dell’anima» (Ciliberti 1932).
L’opera, dedicata a Tucci e Bontempelli, costituiva il primo abbozzo di una
Storia degli ideali che Ciliberti porterà avanti, senza poterla concludere, fino
agli anni Quaranta (Di Raddo 2003).
L’anno successivo uscì il primo numero del mensile Quadrante, diretto
da Bontempelli e Pier Maria Bardi, e di cui un altro conoscente di Tucci,
l’architetto Giuseppe Terragni, era un sostenitore (A. Cuomo 1987: 174-75).
La rivista dava voce alle tendenze non accademiche nelle arti e sosteneva
l’architettura razionalista (di cui Terragni era uno dei massimi esponenti; vedi
Lupo 2002: 136-38; Storchi 2012), meno rappresentata di altri indirizzi in se-
no all’Accademia d’Italia, in ossequio al regime (Ostenc 1994: 117). 36 Vi
compare anche un articolo firmato da Giulia Nuvoloni con nove illustrazioni

————
35
Tucci ad Aleramo, Macerata 1 ott. 1916, ibid., fasc. 1916 ottobre, cartolina postale 286.
36
Si veda la critica avanzata da Il Doganiere (1933: 191), pseudonimo di Gherardo Casini,
sull’autorevole Critica fascista: «Nel razionalismo non credo che fino a un certo punto».
228 O. Nalesini

tratte da fotografie scattate in massima parte in Ladakh nel 1928-1930 (Nuvo-


loni Tucci 1934).37 Ciliberti, a sua volta, avvierà nel 1938 la rivista Valori
primordiali e Tucci e Bontempelli saranno fra i collaboratori del primo (e uni-
co) numero (Tucci 1938).
Da rilevare come, pur aderendo al fascismo, e anzi rivendicando al pro-
prio movimento il ruolo di migliori interpreti della rivoluzione fascista (Versa-
ri 2008: 77-80), questi intellettuali si distinsero per la richiesta di autonomia
rispetto agli indirizzi politici del governo e per le prese di posizione che li por-
teranno a criticare istituzioni di regime,38 e a difendere artisti quali Modigliani,
Cagli, Carrà, de Chirico, Fontana, lo stesso Terragni e, in generale, i procedi-
menti di distorsione nelle arti plastiche moderne, dalle accuse di ‘giudaismo’
rivolte ad esempio da Telesio Interlandi (Sartoris, Terragni 1939; Interlandi
1938b). Nel 1938 Bontempelli si rifiuterà di occupare la cattedra di Letteratura
italiana tolta ad Attilio Momigliano a seguito delle leggi razziali, e sarà per
questo sospeso dalla Reale Accademia d’Italia (Zangrandi 1962: 395, n. 6).
Altri suoi interventi pubblici, come il necrologio di D’Annunzio e il battibecco
con Bottai sulle leggi razziali (E. Momigliano 1946: 133), sanciranno la rottu-
ra col fascismo. Come Sibilla Aleramo, nel dopoguerra Bontempelli si avvici-
nerà al Partito Comunista e collaborerà con il quotidiano L’unità.
Un altro momento importante della giovinezza di Tucci, appena accennato
da EG, è la sua assunzione alla biblioteca della Camera dei deputati (I, 157).
Dopo la laurea, Tucci dovette trovare un modo per mantenersi a Roma e prose-
guire le ricerche. Le supplenze scolastiche nelle Marche non gli permettevano di
frequentare le biblioteche accademiche e tenersi aggiornato, e infatti negli anni
tra il 1917 e il 1919 pubblicò pochissimo. Tentò perciò il concorso pubblico al
posto di segretario della biblioteca della Camera dei deputati, e scrisse a Gentile
sapendo che questi «si era sempre interessato dei giovani volenterosi».39
Probabilmente il filosofo non intervenne direttamente, o forse non fece
proprio nulla. Sta di fatto che il sostegno a Tucci venne da due ingegneri, non-
ché deputati allora in carica. Il primo, Giovanni Tofani, aveva progettato nei
primi anni del secolo, come consulente della Siemens, un impianto idroelettri-
co per sfruttare le acque del Nilo ad Aswan, che non era stato realizzato per lo
scoppio della guerra (Little 1965: 29). La sua successiva carriera di industriale
si era svolta principalmente ad Ascoli Piceno e nel 1919 era stato eletto alla
Camera dei deputati nel collegio di Macerata. L’altro era Mario Beretta, che
————
37
Le fotografie sono attribuite a Giuseppe Tucci, ma furono verosimilmente scattate dalla mo-
glie. La n. 8, raffigurante il Potala di Lhasa, riproduce una cartolina postale spedita credo nel
1932 a Tucci da Leslie Weir, Political Officer in Sikkim tra il 1928 e il 1932, in procinto di
venire in Italia (Archivio fotografico del MNAO [d’ora in poi AFMNAO] P.5130).
38
Ad es.: «L’‘Eiar’ è un deserto di intelligenza, di buon gusto, di buon senso comune dal punto
di vista dei programmi: essi hanno stufato l’Italia» (Anonimo 1935).
39
Tucci a Giovanni Gentile, Ascoli Piceno 17 dic. 1919 (AFGG, Giovanni Gentile, Corrispon-
denza, Lettere inviate a Gentile, b. Corrispondenti T, fasc. Tucci Giuseppe).
Onori e nefandezze di un esploratore 229

aveva ideato la Galleria del Corso e il porto industriale di Milano tra il 1915 e
il 1918, ed era impegnato nella ristrutturazione del sistema di trasporto fluvia-
le in Lombardia (G. Beretta 1949).40 Nel 1924 sarebbe stato tra i fondatori
dell’Unione Nazionale di Giovanni Amendola (Amendola 2006: 518).
Entrambi scrissero a Luigi Luzzatti, commissario esaminatore di quel
concorso, nonché senatore ed ex presidente del Consiglio dei ministri, per ap-
poggiare la candidatura di Tucci. È presumibile che in favore del suo allievo si
sia mosso anche Formichi, da molti anni in contatto con Luzzatti.41 Le racco-
mandazioni trovarono buona accoglienza, visto che Tucci ottenne il posto e
scrisse di proprio pugno a Luzzatti per ringraziarlo dell’interessamento. Gli
promise anche la dedica di un’antologia di testi buddhisti sanscriti a cui stava
lavorando e che non realizzerà.42 Pochi mesi dopo Luzzatti scriverà un articolo
per il primo fascicolo della rivista Alle fonti delle religioni, sorta proprio per
iniziativa di Tucci (Luzzatti 1921). In seguito appoggerà la pubblicazione del-
la sua Storia della filosofia cinese antica presso la casa editrice Zanichelli (EG
sembra invece indicare Gentile come sostenitore di questa pubblicazione: I,
346).43 L’opera colmava un vuoto non limitato alle pubblicazioni in lingua ita-
liana se, poco tempo dopo la pubblicazione, l’ambasciatore cinese in Messico
la consigliò al filosofo Antonio Caso (1975 [1936]). Luzzatti presentò inoltre
all’Accademia dei Lincei la collana ‘Apologie’ dell’editore Formiggini, di cui
Tucci e Formichi furono importanti contributori. La collana riscosse notevole
successo e fu subito tradotta in francese e spagnolo (Formiggini 1939; 1977:
92).44 Tucci sarà sino al 1925 segretario della Unione Intellettuale Italiana di
cui Luzzatti era presidente.45
L’assunzione alla biblioteca fornì a Tucci l’opportunità di allacciare nuo-
ve conoscenze, ad esempio con il direttore della biblioteca, lo slavista Enrico
Damiani. Nel 1921 questi lo presentò alla casa editrice Il Solco di Città di Ca-
stello, diretta dal socialista Giulio Pierangeli e dal sacerdote modernista Enrico
Giovagnoli. L’intento era di trovare un editore per delle traduzioni di testi ci-
————
40
Sulla Galleria vedi Grandi, Pracchi (1980: 148, n. 39). Fra le sue pubblicazioni ricordo M. Be-
retta (1914, 1920, 1923).
41
Le lettere dei due deputati sono in Archivio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
(d’ora in poi AIVSLA), Luigi Luzzatti, Corrispondenza, Fascicoli per corrispondenti, fasc.
Tucci Giuseppe, s.fasc. Corrispondenza su Giuseppe Tucci. Il fasc. «Formichi Carlo» contiene
lettere dal 1912 al 1927.
42
Tucci a Luzzatti, post nov. 1920 (ibid., fasc. Tucci Giuseppe). Le lettere dei due deputati sono
nel sottofascicolo Corrispondenza su Giuseppe Tucci.
43
http://www.catalogo.zanichelli.it/Pages/Opera?siteLang=IT&id_opera=0000000015753 (ulti-
ma visita 15 ott. 2013).
44
EG definisce Formiggini un «internazionalista ebreo di stampo radical-massone» (I, 10).
45
Tucci comunicò a Luzzatti il 21 giugno 1925 le sue dimissioni dalla carica, già accettate dal
comitato direttivo (AIVSLA, Luigi Luzzatti, Corrispondenza, Fascicoli per corrispondenti,
fasc. Tucci Giuseppe).
230 O. Nalesini

nesi e sanscriti, che Damiani pensò potessero comparire nella collana ‘Biblio-
teca di cultura filosofica’. Il successo arrise credo oltre le aspettative, perché
in breve Tucci si trovò a dirigere per quella casa editrice una nuova collana:
‘Classici d’Oriente’ (Lignani 2006).
Non va meglio quando arriviamo alla storia dei primi viaggi di studio attra-
verso l’India e lo Himalaya. Cimento non semplice, perché Tucci non è mai stato
prodigo di informazioni, e anche quelle poche sono spesso contraddittorie. Persi-
no Mario Carelli (1941: 333) si confuse tra le spedizioni in Tibet e Nepal nello
spiegare come Tucci fosse giunto in possesso del manoscritto che lui ora pubbli-
cava. Ma l’approccio al problema seguito da EG soffre di una impostazione di-
storta. L’analisi dei documenti d’archivio è pressoché inesistente e si ignora
quanto pubblicato di recente sull’argomento. Per ricostruire questa parte impor-
tante della biografia di Tucci l’autrice ha preferito prendere in considerazione
solo le relazioni di viaggio pubblicate e, talvolta, le fotografie del Fondo Tucci.
Come tutte le fonti, però, anche le fotografie devono essere consultate
prima di venir discusse. Potrà sembrare un’osservazione banale, ma tant’è: da
quel che scrive risulta evidente che EG non ha consultato l’archivio fotografi-
co di Tucci, né ha chiesto informazioni a chi lo gestisce. Per il suo studio ha
utilizzato solo le scarne notizie contenute nell’inventario del fondo, parzial-
mente diffuso in un primo momento a stampa (Klimburg-Salter, Nalesini, Ta-
lamo 1994) e dal 2006 al febbraio del 2013 tramite una banca dati completa
consultabile on-line. 46 Quest’ultima versione differiva dalla precedente non
solo perché conteneva la descrizione di un numero maggiore di fotografie e
circa 500 immagini, ma anche per la correzione degli errori materiali compiuti
nella prima stesura. Il che, come ora vedremo, non è privo di conseguenze.
Dall’uso fatto di queste informazioni risulta infatti evidente come EG non ab-
bia tenuto nel debito conto la necessità di verificare la rispondenza delle im-
magini (e degli altri elementi della fotografia, che è una fonte storica comples-
sa) con gli eventi di cui sarebbero testimonianza.
Esempio lampante della noncuranza di questa elementare regola critica è la
discussione dei viaggi compiuti da Tucci e dalla moglie nel corso del 1928, che
per ammissione di EG si basa in buona parte appunto sulle fotografie (I, 191).
Secondo la sua ricostruzione, quell’anno Tucci si sarebbe recato innanzitutto nel
Kashmir (evento noto e documentato), e da lì avrebbe proseguito per il Nepal;
viaggio invece sinora ignoto di cui «è testimone una sua foto trovata a Patan con
la scritta ‘Kathmandu 1928’» (I, 192). Peccato che EG non fornisca una descri-
zione dell’immagine, non ci dica dove è conservata né chi possa averla scattata,
non la riproduca e non spenda una sola parola per spiegare le ragioni per cui es-
sa dimostrerebbe che Tucci si trovasse in Nepal nel 1928. Anche ammettendo
che ritragga Tucci in un punto riconoscibile della capitale nepalese, non possia-

————
46
http://www.giuseppetucci.isiao.it/index.cfm?ID=archivio.
Onori e nefandezze di un esploratore 231

mo non domandarci chi abbia scritto la didascalia e quali competenze avesse per
datarla. Tutte questioni essenziali per valutare l’affidabilità del documento.
Chiarirò questo punto riepilogando la vicenda di una fotografia del Fondo
Tucci che, per una curiosa coincidenza, presenta una notevolissima somiglian-
za con quella di Garzilli. Nell’archivio fotografico del MNAO si conservano
due positivi fotografici che riportano sul retro la didascalia a matita «Nepal
1928? Kathmandu» (P.6695 e 6696). La grafia non appartiene né a Tucci né
alla moglie di allora, Giulia Nuvoloni. Appurato che la didascalia non fu ver-
gata dalle due persone che potevano testimoniare per conoscenza diretta la da-
ta di esecuzione dello scatto, e considerato che l’autore della didascalia (forse
Francesca Bonardi) nutriva dubbi abbastanza forti su quanto scriveva da ag-
giungervi un punto interrogativo, la cautela nell’utilizzare l’informazione do-
vrebbe essere ovvia. L’immagine appartiene infatti a una serie, scattata nel
1929 durante la processione annuale di Rato Matsyendranātha e in minima
parte pubblicata (Tucci 1931a: fronte p. 519).
È successo tuttavia che, nel compilare la scheda di uno di questi due posi-
tivi (tav. I), un collaboratore del Museo abbia erroneamente trascritto l’anno
indicato sul retro come data di esecuzione della ripresa, cosicché chi l’avesse
consultata prima della correzione, senza controllare l’originale, sarebbe stato
indotto in errore. Allo stesso modo, per poter accettare per autentica e credibi-
le la didascalia della fotografia rinvenuta a Patan da Garzilli è necessario con-
siderare altri dati che purtroppo non vengono forniti.
Che dietro a questa mancanza si nasconda non una semplice svista ma un
serio problema di metodo lo dimostra l’utilizzo di altre fotografie addotte da
EG per completare l’esposizione di questo presunto viaggio nepalese, e preci-
samente quelle scattate a Namru. Questo villaggio, secondo l’autrice, si trove-
rebbe molto ad ovest di Kathmandu: sul limitare del distretto di Pokhara, lun-
go il sentiero percorso oggi dalle comitive impegnate nei trekking alle falde
del Manaslu. L’analisi delle immagini le ha persino permesso di ricostruire
con invidiabile dettaglio le fattezze del villaggio, il fiume che lo lambisce, il
posto di blocco della polizia e il magnifico panorama che Tucci avrebbe am-
mirato dalle sponde del suo lago (I, 192).
Poi, per una ragione ignota, sempre secondo EG, Tucci avrebbe abbando-
nato in tutta fretta il Nepal per raggiungere Bolpur, in Bengala, dove avrebbe
trascorso alcuni giorni discutendo con i pandit e incontrando Tagore e Bhatta-
charya. Meravigliosa è la capacità dell’autrice di penetrare nelle fotografie si-
no al punto da poter precisare dettagli cronologici insospettabili; oltre agli in-
contri sopra ricordati, ad esempio, l’affacciarsi di Tucci proprio in quei giorni
al tramonto sul Belvedere Tagore e la sua partenza dopo pochi giorni alla volta
di Rawalpindi (I, 193).
È una ricostruzione imbarazzante. Chi conosce quelle immagini sa benis-
simo che i dettagli specificati da Garzilli sono mera immaginazione. Le foto di
Namru sono effettivamente elencate nell’inventario del Fondo Tucci pubblica-
232 O. Nalesini

to nel 1994, e alcune delle loro didascalie, scritte da Giulia Nuvoloni, riporta-
no la data 1928. In questo inventario, però, viene anche specificato che la lo-
calità si trova in «North-east India». Capisco che gli autori dell’inventario
possano aver ispirato poca fiducia a EG, ma almeno un piccolo dubbio che
l’identificazione non sia stata fatta estraendo un nome a sorte da una ruota di
lotteria avrebbe potuto balenarle nella mente. Un laghetto contornato da palme
e donne abbigliate col sāṛī (AFMNAO P.1585 e P.1580), bambini a torso nu-
do dalla pelle olivastra (P.0216 e neg. dep. 7461), una campagna piatta sino
all’orizzonte (P.1571 e P.1578), case rurali con tetti di foglie di palma (P.1575 e
P.1580), un tempietto in pietra dal caratteristico tetto ‘alla bengalese’ (neg. dep.
7294 e P.1581) dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio come questa località
distasse molte, ma veramente molte miglia dalle vette himalayane (tav. II).
Non basta. Le didascalie apposte da Giulia Nuvoloni riportano il luogo e tal-
volta l’anno, ma mai il giorno e il mese, e figuriamoci l’ora, cosicché è impossi-
bile determinare sulla loro scorta la cronologia degli spostamenti (tav. III); EG la
ha inventata di sana pianta. Ha inoltre preso un abbaglio sul nome del villaggio:
quello nepalese da lei ricordato non si chiama Namru ma Namrung (Mayhew,
Bindloss 2010: 347). Più importante, il nome scritto sulle fotografie è un altro.
Ho precisato sopra il riferimento all’inventario stampato nel 1994 perché
per un errore di lettura delle didascalie, manoscritte a matita da Nuvoloni sui
retro delle stampe e sbiadite dal tempo, lì è stato riportato appunto Namru. Ma
il nome corretto è un altro: Nannur, nel distretto bengalese di Birbhum, lo
stesso di Bolpur e Shantiniketan. Qui forse nacque e operò nel XV secolo il
poeta Caṇḍīdās, che ebbe un ruolo di primo piano nello sviluppo della lettera-
tura bengalese. Gli si attribuisce un verso a cui Tucci affidò la chiusura di un
articolo: «L’uomo è sopra a tutte le cose e più alto di lui non c’è nulla» (Tucci
1938: 130), e che in seguito citò spesso, come in un discorso tenuto a Tokyo e
altre occasioni (Das Gupta 1984: 43; Chandra 1990: 70). Comprensibile che
abbia voluto visitare il luogo natio del poeta.
L’inventario è stato di conseguenza corretto e la versione aggiornata è
stata pubblicata nel 2006 sul sito internet dedicato a Tucci, dove era possibile
leggere anche una breve nota sulla escursione a Nannur.47 Fonti di informa-
zione che Garzilli ha sfruttato, perché in un altro punto del suo libro ricorda il
viaggio da Bolpur a Nannur del 1928 (I, 171), di cui non avrebbe potuto altri-
menti venire a conoscenza. È vero che lei non poteva sapere della correzione,
ma è anche vero che i numeri di inventario delle fotografie sono rimasti gli
stessi. Un banale confronto lo avrebbe subito evidenziato e sarebbe bastata
una mail per fugare qualunque dubbio.
La realtà è che le fotografie citate da EG non documentano affatto un
viaggio in Nepal nel 1928, e men che meno l’ascesa al Manaslu e un repentino
————
47
«n. 3, 1928: Shantiniketan, Bolpur, Nannur (Bengala)», http://web.archive.org/web/20090601115510
http://www.giuseppetucci.isiao.it/index.cfm?Id=missioni1 (ultima visita 18 ott. 2013).
Onori e nefandezze di un esploratore 233

trasferimento a Bolpur e Rawalpindi, ma una semplice escursione all’interno


del Bengala compiuta, plausibilmente, in tutta calma. Come è noto, Tucci si
recò per la prima volta in Nepal nel 1929, visitando solo la valle di Kathman-
du. È di conseguenza impossibile che la lettera scritta da Tucci a Hem Raj da
Kathmandu, citata nel vol. I, p. 227, e riprodotta nel vol. II, pp. 594-96, possa
risalire al 1927 o al 1928, come preteso da Garzilli. Verosimilmente risale
anch’essa al 1929.
Le foto di Shrinagar e Rawalpindi, così come altre di Taxila e Murree,
scattate nel 1928, documentano la prima parte del viaggio che nell’estate di
quell’anno portò i coniugi Tucci in Ladakh. EG ne parla invece come se si
trattasse di un viaggio separato. Non è l’unico problema di questa esposizione.
Sorprende ad esempio leggere che «oggi Dras è collegata a Leh da diverse
strade ma al tempo di Tucci ce n’era solo una» (I, 195); purtroppo per gli abi-
tanti di Dras (o per loro fortuna) la strada una era e una è: quella che conduce
in Kashmir attraverso il passo di Zoji. Per arrivarci durante la marcia di ritor-
no, e proseguire per Shrinagar, EG spiega che Tucci e Nuvoloni partirono da
Lamayuru e passarono per Nimu e Leh (I, 199); è impossibile, perché La-
mayuru si trova tra il passo di Zoji e queste due località; l’itinerario del ritorno
procedette dunque all’opposto: da Leh a Nimu e Lamayuru.
L’autrice ci informa inoltre che, a Nimu, Tucci e Nuvoloni «fotografaro-
no quattro lama che sedevano sul tetto di una casa a chiacchierare del più e del
meno» (I, 199). L’informazione è di scarso rilievo, ma apre un interrogativo
pregnante. Come abbia fatto EG a sapere di cosa parlassero i quattro lama ot-
tanta anni fa solo guardando una fotografia è cosa che tutti noi ardiremmo co-
noscere meglio: pensate alla felicità di un archeologo che, adottando il metodo
Garzilli, potesse comprendere gli argomenti dei dialoghi tra i personaggi di
una pittura pompeiana! Con buona pace di quel che EG ha sentito risuonare in
sé, nemmeno i quattro lama di Nimu, probabilmente, discorrevano solo del più
e del meno. La didascalia apposta sull’unica foto in cui sono visibili i religiosi
sul tetto di una casa (AFMNAO P.4232) recita: «Nimu. in attesa del residente.
Sul tetto 4 lama in abiti di gala. 1928». Facile supporre che l’attesa di un per-
sonaggio altolocato avesse stimolato discussioni meno frivole; e per inciso i
quattro sono in piedi (tav. IV).
EG attribuisce a Tucci, e forse anche a Nuvoloni, un’altra impresa di non
poco conto in questo fatidico, e aggiungerei stressante, anno 1928:
un’incursione nel Tibet vero e proprio (I, 216). L’interesse per la sorprendente
notizia si tramuta tosto in sbalordimento allorquando EG spiega come sia riu-
scita a scoprirla. Ha semplicemente analizzato quel che Tucci scrisse
nell’articolo «I conventi del Tibet», apparso sul fascicolo di novembre-
dicembre 1928 del Bollettino della r. società geografica italiana. Questo arti-
colo conterrebbe informazioni che Tucci, secondo lei, potrebbe aver raccolto
solo visitando il Tibet nei mesi precedenti la stampa (I, 220-21).
234 O. Nalesini

Si tratta nella migliore delle ipotesi di un abbaglio. Per cominciare, è illu-


sorio pensare che il numero di novembre-dicembre della rivista potesse ospita-
re i risultati di una ricerca terminata da poco. Anche nel 1928 la stampa era af-
flitta da tempi tecnici non brevissimi per la composizione e la revisione delle
bozze, cosicché Tucci, per vederselo pubblicare a dicembre, avrebbe dovuto
consegnare l’articolo alla redazione del Bollettino ben prima dell’estate. Non è
poi affatto chiaro quando Tucci avrebbe compiuto questa «sortita esplorativa»,
visto che EG gli ha fatto trascorrere la stagione propizia correndo trafelato da
una parte all’altra dell’India e del Nepal; ed è ben noto che anche un breve
soggiorno in Tibet richiedesse allora una preparazione logistica e una disponi-
bilità di tempo non indifferenti.
L’articolo in realtà è completamente diverso da come Garzilli lo presenta.
Tucci affronta l’argomento in modo generico e da un punto di vista prevalen-
temente storico; cosa che poteva fare avvalendosi della bibliografia esistente.
Egli non parla mai, d’altronde, di un monastero in particolare, né descrive
strutture o fa riferimenti a persone o eventi che avrebbe potuto conoscere solo
recandosi sul posto. È, insomma, un articolo compilativo. Ce lo conferma lui
stesso: verso la fine, pensando forse a qualche futuro lettore disattento, ha pre-
cisato di aver riportato informazioni «a giudizio di quanti sono riusciti a pene-
trare nel ‘paese proibito’» (Tucci 1928b: 587).
Nell’introduzione Garzilli ricorda con affetto Daffinà per averle «inse-
gnato a dubitare delle carte che leggiamo …, spingendomi a verificarle più
volte» (I, xlvii). Peccato non abbia ripensato a quella salutare lezione mentre
discettava di questi viaggi.
Gli anni indiani di Tucci furono segnati anche da importanti mutamenti
nella sfera privata. Tra il 1926 e il 1927 ottenne lo scioglimento del matrimo-
nio contratto nel 1920 con Rosa Di Benedetto, da cui aveva avuto il suo unico
figlio, Ananda Maria, per convolare a nuove nozze con Giulia Nuvoloni. Il
padre di Giulia, Luigi, era stato capo questore della Camera dei deputati e in
quel momento era un alto dirigente statale. Facile arguire, come EG ha fatto,
che divorzio e secondo matrimonio furono dettati da interesse personale più
che da amore sincero (I, 164).
È opportuno aggiungere quel che l’autrice ha qui omesso di dire, ovvero
che Giulia aveva già suscitato in altri sentimenti forti, essendo stata protagoni-
sta di una appassionata e per certi versi drammatica storia d’amore. Nel 1909
aveva conosciuto, durante una vacanza nel paese di Pracchia, sull’Appenino
pistoiese, lo scrittore livornese Giosuè Borsi, figlio di un importante giornali-
sta. Borsi rimase talmente colpito dalla ragazza romana da idealizzarne la fi-
gura, trasformandola in una musa ispiratrice paragonata alla Beatrice di Dante.
L’innamoramento fu profondo quanto platonico, perché Borsi non lo rivelò, e
occorse mentre egli era scosso da una profonda crisi spirituale, che lo avrebbe
ricondotto con particolare ardore alla fede cattolica. Giulia ne venne a cono-
scenza dopo la morte del poeta al fronte (1915). A lei Borsi aveva dedicato tre
Onori e nefandezze di un esploratore 235

quaderni del proprio diario che saranno pubblicati postumi nel 1920 sotto il ti-
tolo di Confessioni a Giulia (Vian 1971; Pasquazzi 1989: 88). Se dunque ave-
va saputo accendere tanta passione in un uomo in precedenza noto per le sue
frequenti avventure galanti e la sua buona condizione economica, la posizione
sociale della famiglia non era l’unica attrattiva di Giulia. Lo stesso Tucci am-
metterà, nei documenti del suo tentativo di annullamento del matrimonio nel
1947, di essere stato «attratto per la di lei cultura al di sopra del comune». Ol-
tre a essere l’autrice di alcuni articoli, Giulia Nuvoloni fu consigliere della
fondazione Ernesta Besso di Roma, nonché direttore della sua rivista Altius
(Misiani 1998: 373, n. 94).
La questione non termina qui. Garzilli dedica solo una laconica nota, ol-
tretutto moraleggiante, all’annullamento del matrimonio con Di Benedetto, as-
serendo che fu voluto da lei (I, 162). La notizia proviene probabilmente dai
parenti di Giulia Nuvoloni, che l’autrice ha intervistato; fonte autorevole, ma
che sarebbe stato egualmente opportuno verificare. Per la legislazione civile e
canonica dell’epoca né le lunghe assenze né l’infedeltà del marito sarebbero sta-
te ritenute cause valide di annullamento, e forse nemmeno di scioglimento; e ciò
a maggior ragione in presenza di un figlio. La storia è infatti molto diversa.
Il 12 maggio 1926 il quotidiano La stampa di Torino pubblicò a p. 3 un
articolo su due colonne intitolato «Amore e archeologia». Vi si riporta una
corrispondenza da Roma dove, la notte precedente, la polizia aveva fatto irru-
zione nella casa di Tucci in via Crescenzio trovandovi la moglie in compagnia
di un tenente, nonché sua vecchia fiamma. La polizia si era mossa in seguito
alla denuncia presentata alla Questura di Roma dallo stesso Tucci (in India da
cinque mesi), messo sull’avviso dall’immancabile vicino impiccione. Non vi
fu dunque un annullamento voluto da Rosa, ma uno scioglimento per adulte-
rio; e questo spiega come mai il figlio fu affidato al padre.
Per noi, la rilevanza di questo articolo va oltre la cronaca mondana o giu-
diziaria. In quegli anni l’infedeltà coniugale della moglie sollevava maggior
riprovazione di quanto non susciti oggi. Quello di Rosina, però, non sarà stato
l’unico adulterio d’Italia e la redazione del quotidiano torinese avrebbe certa-
mente trovato di che scrivere senza scomodare il corrispondente dalla capitale.
Tucci, inoltre, doveva ancora iniziare le esplorazioni himalayane che di lì a
qualche anno gli avrebbero dato pubblica notorietà. Se La stampa (e forse altri
giornali, ma non ho verificato) diede tanto risalto alla vicenda, la ragione non
può essere cercata né nella efferatezza del reato, né nella popolarità del perso-
naggio. Sospetto dunque che grazie al quotidiano il clamore dello scandalo fu
alzato per costringere Di Benedetto ad accettare senza troppe storie lo scio-
glimento del matrimonio. Chi possa aver esercitato pressioni sulla redazione
del quotidiano non lo sapremo credo mai. Chi invece ne beneficiò è evidente.
Anche il matrimonio tra Tucci e Nuvoloni è trattato superficialmente. Se-
condo la testimonianza riportata da EG (I, 164), i due si sposarono per procura
nel 1925, quando Tucci era già in India, ma ancora regolarmente unito a Di
236 O. Nalesini

Benedetto. Del che personalmente dubito, perché una famiglia in vista come i
Nuvoloni non avrebbe mai accettato di esporsi permettendo un matrimonio bi-
gamo alla figlia. Comunque, Giulia avrebbe in seguito raggiunto Tucci in In-
dia e, sempre secondo EG, ciò sarebbe confermato dalle fotografie che lei
avrebbe scattato tra il 1926 e il 1930. Un’altra affermazione non rispondente
alla realtà: le prime fotografie attribuibili con ragionevole certezza a Nuvoloni
sono del 1928. Le quattro (letteralmente) fotografie risalenti al 1926 presenti
nell’archivio fotografico del MNAO sono anonime, hanno didascalie scritte da
Tucci, sono state scattate con una macchina e una pellicola differenti da quelle
che Giulia userà un paio di anni dopo e le inquadrature riflettono a mio parere
una mano diversa. È invece certo che il matrimonio fu celebrato a Calcutta il
19 agosto 1927 dal console generale italiano Gino Scarpa e che nel 1942 Giu-
lia si rivolse a un giudice per ottenere il riconoscimento degli alimenti da parte
del marito, da cui era di fatto separata almeno dall’anno precedente.
Sempre secondo la testimonianza raccolta da EG, Tucci ottenne l’annul-
lamento del matrimonio con Nuvoloni dopo la guerra «in un paese dell’Est»
(I, 165), precisato poi come est europeo (II, 43). Ciò desta altre perplessità.
Quale paese dell’Europa orientale poteva esercitare giurisdizione legale sui
matrimoni contratti in Italia? Per di più dopo la divisione dell’Europa in due
blocchi politicamente contrapposti e retti da sistemi giuridici affatto differenti?
Ovviamente nessuno. Le cose stavano in tutt’altra maniera, e i documenti lo
dimostrano. Documenti, aggiungo, di cui EG era a conoscenza.
In un altro punto del libro (II, 244) lei cita un atto presentato nel 1952 al
Ministero della Pubblica Istruzione, in cui Tucci dichiarava di aver dato man-
dato al notaio Vincenzo Colapietro di pagare regolarmente alla moglie una ci-
fra per il mantenimento, dal novembre 1947 fino a quando le condizioni della
separazione non sarebbero state definite da un giudice.48 A questo passo Tucci
fu costretto per ottenere dalla moglie, nelle more del giudizio, l’assenso al ri-
lascio del passaporto per l’estero, senza il quale non avrebbe potuto partire per
la spedizione tibetana prevista per il febbraio successivo. Un passo che EG ri-
porta senza accorgersi della evidente contraddizione con la testimonianza dei
parenti di Giulia Nuvoloni da lei in precedenza sostenuta. Riassumo dunque la
vicenda come emerge dalle carte processuali.
Tucci impugnò il matrimonio con Giulia Nuvoloni presso la magistratura
di San Marino nel marzo del 1947, avvalendosi delle disposizioni in materia
civile dell’Accordo di amicizia e buon vicinato stipulato con l’Italia nel 1939.
Per questo aveva trasferito la sua residenza a Borgo Maggiore, pur continuan-
do a vivere a Roma. Tucci sostenne che il matrimonio non era valido perché lo
aveva contratto in stato di costrizione, determinato dall’inaspettato arrivo di Nu-
voloni nella sua casa in India e dal ricatto del console, che non voleva scandali
————
48
Il documento è nell’Archivio dell’università di Roma ‘Sapienza’, AS 4886, Mandato del 7 no-
vembre 1947, Repertorio 9371. Ringrazio Alice Crisanti per avermene fornito copia.
Onori e nefandezze di un esploratore 237

nella comunità italiana; infine, perché il matrimonio non era stato consumato.
Tucci aggiunse che la convivenza forzata con Nuvoloni gli aveva procurato un
gravissimo stato di prostrazione psichica e fisica. Mesi dopo, Tucci ricorderà di
aver scartato in partenza l’ipotesi di un accomodamento con la moglie,
d’accordo col suo legale, perché ritenevano di avere buone carte in mano.49
L’imbarazzante natura delle accuse rivolte alla moglie dipese anche dalla
necessità di ottenere l’annullamento del matrimonio sulla base della legisla-
zione civile e canonica di allora. Non sappiamo come proseguì il dibattimento
perché le carte conservate nel fascicolo si fermano alle eccezioni procedurali e
le prove addotte dagli avvocati sono sparite. Sappiamo però che per la delica-
tezza del caso e la notorietà delle persone coinvolte il tribunale chiese
l’intervento del Consiglio dei XII, e di sicuro non si arrivò alla sentenza.50
Credo altresì che le accuse non ressero alle controdeduzioni dell’avvocato
sammarinese di Giulia Nuvoloni, Ferruccio Martelli. Una scelta davvero ocu-
lata. Martelli era un personaggio di spicco: già tre volte Capitano del popolo,
direttore ed editore de La voce di San Marino, durante la guerra aveva ospitato
nella sua casa ebrei italiani in fuga e aveva capeggiato la resistenza contro il
governo filo-fascista della piccola repubblica (Caruso 2004: 28; Marzi 2012:
140). Figuriamoci se si lasciava sfuggire la ghiotta occasione di spennare un
intellettuale di punta del passato regime!
La strada percorsa doveva ciò nonostante sembrare promettente, perché
dopo il deposito della ratifica italiana del trattato di pace di Parigi (2 febbraio
1948) un altro avvocato suggerì a Tucci di trasferire la residenza a Trieste do-
po la costituzione del Territorio Libero, dove la legislazione prevedeva il di-
vorzio. Ma a quanto pare non se ne fece nulla. 51 Tucci dovette attendere
l’introduzione in Italia della legge sul divorzio per sposare, nel 1971, France-
sca Bonardi. Da notare che, nelle carte processuali, nessuna delle due parti ac-
cenna a un matrimonio per procura nel 1925.
Il capitolo dedicato alle prime tre spedizioni ad ampio raggio, quelle nel
Tibet occidentale del 1931, 1933 e 1935, dedica molto spazio alla cronaca dei

————
49
Tucci a Luciano Petech, Lhasa 19 giu. 1948 (Archivio Luciano Petech [d’ora in poi ALP]).
50
La pratica è conservata presso l’Archivio di stato della repubblica di San Marino, Tribunale
commissariale, anno 1947, Causa civile n. 36. Non vi è traccia della sentenza nell’incartamento,
né nella serie archivistica Sentenze civili 1947-1972, né sulla rivista Giurisprudenza sammarine-
se. Ringrazio per il cortesissimo (‘titanico’) aiuto gli archivisti della Repubblica.
51
«Colgo quest’occasione per ricordare a mio papà che forse si può prendere contatto per la mia
causa con Solis o altri avvocati ora che la questione di Trieste è risolta e la città deve avere un
suo statuto. Io sono domiciliato a Trieste o così almeno mi disse Solis.» (Tucci a Petech [Cal-
cutta, fine marzo o inizi di aprile 1948], ALP). Tucci è sconosciuto alle anagrafi dei comuni
della ex zona A del TLT: Trieste, Muggia, S. Dorligo della Valle, Sgonico-Zgonik e Duino-
Aurisina (rispettivamente comunicazioni di Susanna Drobnich del 20 feb. 2014, Andrea Nessi
del 25 feb. 2014, Emanuela Sacchi del 27 feb. 2014, Neva Rebula del 5 marzo 2014, Silvana
Bressani del 2 aprile 2014, che ringrazio per la collaborazione).
238 O. Nalesini

viaggi. Ma il lettore vi cercherà invano qualcosa di nuovo. È in sostanza un lun-


go riassunto dei libri sulla spedizione del 1933 (I, 509-58) e del 1935 (I, 578-
624), arricchito con dialoghi inventati di sana pianta e inframmezzato dalle re-
miniscenze dell’autrice su eventi personali senza diretta relazione con le spedi-
zioni di Tucci (I, 514, 522, 581, 586, 603-6), da paginette su Jung (I, 553-54),
sullo yak (I, 580), sulle stamperie tibetane (I, 596-97). Simile è il trattamento del
viaggio in Nepal del 1933, che si trova però in altra parte del libro, per cui EG
ha integrato i resoconti di Formichi e Tucci con un documentario di dieci minuti
prodotto dall’Istituto Luce. Ha nuovamente dato libero sfogo alla propria fanta-
sia, riempendo diverse pagine di pura invenzione (II, 160-77), che, contraria-
mente a quanto sostenuto nell’introduzione, non possono derivare da fonti orali
per il semplice motivo che gli unici testimoni di quei dialoghi erano già morti
quando EG ha cominciato a scrivere il libro. Andrebbe bene, se solo l’autrice
avesse segnalato dove finisce la parte documentata e inizia la finzione romanze-
sca. Forse, per non contraddire l’impegno a non scrivere alcunché di inventato o
esagerato (I, xl), ha preferito sorvolare su questo dettaglio.
Quanto alla spedizione del 1931, l’autrice se la sbriga in meno di una pagi-
na, riuscendo a commettere errori persino in questo stringatissimo spazio. In-
nanzi tutto, non nota che per varie ragioni, poco chiare, lo sforzo compiuto
quell’anno da Tucci produsse un sostanziale fallimento. Le fotografie scattate da
Tucci nel 1931 (o forse della moglie, ma la sua partecipazione alla spedizione
non è affatto certa) sono infatti un vero disastro e probabilmente quelle di mag-
giore importanza risultarono inutilizzabili. Quelle conservate nell’archivio del
MNAO riprendono infatti quasi tutte paesaggi e persone: epigrafi, monumenti e
altri soggetti che avrebbero dovuto attirare maggiormente l’attenzione di Tucci
sono pochissimo rappresentati. L’incidente lo convinse a farsi accompagnare in
futuro da una persona in grado di cavarsela meglio di lui.
C’è poi la questione dell’itinerario. L’autrice vorrebbe che Tucci nel 1931
si fosse recato innanzitutto da Shimla al Ladakh passando per Rupshu e poi
abbia continuato per Lahaul, Manāli e valle del Sutlej, raggiungendo Kaje
(Katse/Kaza) nello Spiti e valicando il passo di Shipki per entrare in Tibet (I,
496). È un itinerario a dir poco contorto: un po’ come andare da Livorno a
Roma passando per Genova. La cartina dell’itinerario replica questo errore: vi
è infatti una freccetta che indica la partenza da Shimla in direzione delle valli
himalayane (I, 483), ed è un errore curioso perché Tucci spiega chiaramente di
aver marciato seguendo l’itinerario più logico, ovvero prima il Ladakh, poi at-
traverso Rubshu e Lahaul fino a Manāli e da qui risalendo la valle del Sutlej
fino al passo di Shipki e oltre (Tucci 1933: 245-48). Inoltre, la visita a Kaje
non può essere data per certa solo per la presenza di alcuni tsha tsha prove-
nienti da quella località in una pubblicazione del 1932. Potrebbe averli ottenuti
anche in altro modo (Nalesini 2008: 83-84). Dove Tucci sia passato esatta-
mente non si sa; la carta di questa spedizione che ho pubblicato in passato ri-
Onori e nefandezze di un esploratore 239

portava parti tratteggiate proprio per evidenziare l’incertezza, di cui il lettore


di questa biografia non troverà invece traccia.
Dagli errori commessi in quella occasione Tucci trasse una lezione saluta-
re sia per l’organizzazione, sia per la documentazione dei risultati. È un tema
per me essenziale: spiega perché le spedizioni nel Tibet occidentale del 1931 e
1933 possono essere considerate di importanza cardinale nella vita esplorativa
di Tucci. È una leggerezza notare la maggior durata e ampiezza delle esplora-
zioni a partire dal 1931 e ignorare ciò che questo cambiamento comportò. A
ben guardare, quel che veramente conta in termini storici e biografici è il mu-
tamento di strategia della ricerca, che matura nella mente di Tucci probabil-
mente già alla fine del 1929, e sarà tradotto in azione a partire dal 1931.52
In quel lasso di tempo egli intravvide la possibilità di supplire alla caren-
ze delle fonti letterarie sulla storia del buddhismo ampliando l’indagine a ogni
possibile manifestazione della civiltà tibetana: tradizioni popolari, arte, ar-
cheologia, linguistica, letteratura e quant’altro. Analogamente, dopo aver con-
statato l’impossibilità di coinvolgere le autorità nella conservazione e nel re-
stauro dei monumenti, Tucci sperò di arginare la continua erosione del patri-
monio culturale himalayano e tibetano affidando alla fotografia quanto meno
la memoria dei documenti e monumenti che incontrava strada facendo.
L’impostazione data a queste ricerche sul campo non era nuova in termini
assoluti. Non era però la regola nel contesto italiano e in particolare per gli
studiosi di filosofia e filologia. Ancora nel 1938 Benedetto Croce, nel suo La
storia come pensiero e come azione, diffidava di chi introduceva nuove pro-
spettive storiografiche distanti dallo storicismo di marca germanica. Sostene-
va, in sostanza, quel filologismo che Tucci rigettava perché lo reputava spesso
fine a sé stesso (Tucci 1934a: 10). Tucci ebbe dunque sentore dei mutamenti
in atto nelle discipline storiche. Forse non li conobbe direttamente; li ‘fiutò
nell’aria’. Resta il fatto che, da un punto di vista metodologico, il suo approc-
cio allo studio della civiltà tibetana, come lo vediamo maturare nell’organizza-
zione delle spedizioni e nella gamma di dati raccolti e analizzati appunto tra il
1928 e il 1933, presenta significativi punti in comune con la revisione del me-
todo storico portata avanti in quegli anni soprattutto in Francia.
Una concezione più ampia di fonte storica, che superasse i limiti intrinse-
ci ai documenti scritti, era stata auspicata da Fustel de Coulanges in un inter-
vento del 1862, pubblicato nel 1901.53 È in sostanza il principio all’origine di
uno studio innovativo di Tucci come quello sulle cretule votive (sa tsha tsha),
————
52
Lo si desume da due lettere, da Calcutta, del 9 e 29 gennaio 1930 (Archivio storico
dell’Accademia dei Lincei [d’ora in poi ASAL], Reale Accademia d’Italia, X Pubblicazioni
dell’Accademia, b. 2, fasc. 17 Spedizioni Tucci nel Tibet, sottofascicolo 1 Spedizione 1931).
53
«Là où les monuments écrits lui manquent, il faut qu’elle [l’histoire] demande aux langues
mortes leurs secrets… Il lui faut scruter les fables, les mythes, les rêves de l’imagination… Là
où l’homme est passé, là où il a laissé quelque faible empreinte de sa vie et de son intelligence,
là est l’histoire» (Fustel de Coulanges 1901: 245).
240 O. Nalesini

in cui l’attenzione del filologo e dello storico dell’arte si appunta su espressio-


ni popolari della devozione. Queste piccole e fragili terrecotte stampigliate, si-
no ad allora ignorate dagli studiosi, da cui Tucci ha saputo trarre grandi quan-
tità di informazioni, sono un esempio calzante della «faible empreinte de la vie
et de l’intelligence» di cui parlava Foustel.
Tucci sottolineò, e soprattutto mise in pratica, la necessità di conoscere
personalmente le regioni di cui si studiano la cultura o le vicende.54 Certo, era
un’impostazione che aveva potuto prendere in prestito dall’archeologia. Ma
lui la applicò all’intero ventaglio delle sue ricerche, comprese quelle che – so-
prattutto all’epoca – erano frequentate da studiosi che non amavano spostarsi
dal tavolino. Come non vedervi un’analogia con la sinergia tra storia e geogra-
fia propugnata dall’inizio del XX secolo dai geografi possibilisti come Vidal
de la Blache, e poi negli anni Venti dagli iniziatori della École des annales?
Con i teorici della Nouvelle histoire Tucci aveva in comune anche la con-
sapevolezza che la comprensione di una civiltà non possa prescindere dalla
conoscenza della tecnica e delle scienze. Il fatto che avesse auspicato l’allar-
gamento degli studi alla letteratura tecnica per approfondire la conoscenza di
fenomeni culturali e oggetti materiali intrisi di religiosità, come lo stūpa bud-
dhista (Tucci 1932), o analizzato le nozioni scientifiche dei cinesi per studiare
i loro sistemi di classificazione del mondo circostante, sottolinea l’importanza
attribuita da Tucci (1925; 1932: 15) anche a studi che non intendeva coltivare.
Nella sua prospettiva, almeno sino agli anni Trenta, i limiti tra scienza e filo-
sofia appaiono evanescenti.
Il che non significa che Tucci concordasse pienamente con Fevre o Bloch
sul piano teorico, né che attribuisse agli studi le stesse finalità o che sentisse
una tensione civile simile alla loro. Tenne sempre conto dei fattori sociali ed
economici nella storia delle istituzioni religiose (ad es. Tucci 1970a), ma mai
gli sarebbe venuto in mente di leggere la storia tibetana attraverso l’evolversi
delle strutture economiche. La sua posizione era certamente imbevuta di idea-
lismo e non scevra da irrazionalismo romantico. Egli riteneva ad esempio im-
portante la conoscenza del territorio perché «il cielo, i fiumi, la terra … sono
impregnati della vita e del pensiero di chi vi abitò» e ancora «basta qualche ro-
vina…a far risorgere stati d’animo o contemplazioni…nate appunto da una cor-
rispondenza amorosa fra l’uomo e il luogo» (Id. 1963: 47-48). Quel che scrisse
nel 1960, «a me interessa soltanto il passato perché lo figuro a mio piacimento»
(Id. 1963: 22; cfr. Id. 1952: 8), vale certamente anche per i decenni antecedenti;
non a caso richiama da presso quel che il suo amico Bontempelli scrisse nel
1938: «Immaginazione è modificare il mondo esteriore, che è tanto bello, se-
condo un nostro ritmo interiore, che è ancora più bello» (Bontempelli 1938: 21).

————
54
«Se vuoi conoscere un paese non basta lo studio al tavolino: il lavoro deve essere sollecitato
da un contatto diretto» (Tucci 1963: 47).
Onori e nefandezze di un esploratore 241

Ma è altrettanto innegabile che il suo metodo di ricerca sul campo e il


punto di vista sostenuto implicitamente in alcuni suoi lavori debbano molto
poco al pensiero idealista. Sebbene non lo abbia mai teorizzato, è evidente che
negli anni Trenta Tucci assegnò pari dignità con la filologia a branche del sa-
pere che altri storici e filologi non avrebbero considerato. Nel contesto degli
studi orientalistici, poi, la sua apertura degli orizzonti costituì una vera e pro-
pria rivoluzione e i risultati che ne scaturirono rimasero insuperati per decenni.
L’utilizzo della fotografia rispecchia bene questa apertura. Incapace, per
sua stessa ammissione, di utilizzarla decentemente, e pur provando una certa
repulsione per ogni sorta di congegno meccanico, Tucci non di meno compre-
se subito l’enorme importanza rivestita da questo strumento nel tramandare la
memoria di un patrimonio archeologico, artistico e documentale che vedeva
sgretolarsi sotto i suoi occhi. È appena il caso di ricordare che egli pregò varie
volte il governo indiano, invano, di predisporre piani di intervento per la con-
servazione dei monumenti principali, e di esercitare pressioni sul governo di
Lhasa affinché anch’esso adottasse dei provvedimenti di salvaguardia, o al-
meno una ricognizione e sommaria catalogazione di monumenti e manoscritti
(Farrington 2002: 91, 93, 176-79). Essendo consapevole che chi lo aveva pre-
ceduto in Tibet si era sempre interessato d’altro, e delle gravi conseguenze per
il patrimonio culturale della situazione locale, concepì inoltre l’idea di docu-
mentare fotograficamente, e in maniera sistematica, tutte le sue ricerche.55 La
costante presenza di un fotografo/cineoperatore dal 1933 dipese essenzialmen-
te dalla elaborazione di un progetto sulla memoria culturale di cui Tucci fu in
Tibet un vero e proprio pioniere.
A differenza di quanto sorprendentemente sostenuto da Garzilli, pertanto,
egli non fu affatto «abbastanza diffidente verso la fotografia» (I, 578). Non si
comprenderebbe altrimenti come abbia potuto costruire un archivio fotografi-
co di molte migliaia di immagini. Non era certo uno scherzo portare dall’Italia
in Tibet tutto l’occorrente, compresi i liquidi di sviluppo, e sostenere gli in-
genti costi di una persona in più. Bisognava essere ben determinati a farlo.
Alla fine del 1936 Tucci partì alla volta del Giappone, dove avrebbe sog-
giornato per tre mesi, tenendo una serie di conferenze e lezioni in diverse uni-
versità e partecipando all’inaugurazione dell’Istituto italo-nipponico l’11 feb-
braio 1937 (Anonimo 1937a). EG qui alza il tiro, asserendo che quel viaggio
servì a «spianare il terreno all’inclusione dell’Italia… al [sic] Patto anticomin-
tern» (I, 404). Il che è funzionale alla sua ipotesi che Tucci fu uno dei princi-
pali agenti della politica mussoliniana verso i paesi asiatici, che doveva tradur-
si in una salda presenza italiana. Come vedremo oltre, parlando della spedi-
zione tibetana del 1939, le autorità militari italiane si mossero in senso
diametralmente opposto.

————
55
Consapevolezza ben illustrata nella prefazione di Tucci, Ghersi (1934: 12-13), e in altre opere.
242 O. Nalesini

È indubbio che la missione fu organizzata nel contesto delle iniziative in-


traprese dal governo italiano per rafforzare i rapporti con l’impero del Sol Le-
vante, ma nulla ci permette di assegnare a Tucci il ruolo che EG gli attribui-
sce. La missione fu certamente importante: Tucci fu ricevuto da Mussolini
prima della partenza (Anonimo 1936a) e il suo arrivo a Tokyo, il 25 novem-
bre, ebbe una certa risonanza. Il quotidiano catalano La vanguardia ne dette
notizia all’interno di una pagina dedicata in massima parte al convegno nippo-
tedesco che di lì a qualche giorno avrebbe partorito il Patto anticomintern
(Anonimo 1936b). In quel periodo Galeazzo Ciano discusse con l’ambascia-
tore giapponese in Italia la possibilità di un’adesione italiana, ma l’influenza
politica tedesca sull’Italia non era ancora sufficiente a indurre il governo a tal
passo. Sarà solo il 6 novembre 1937, dopo la visita di Mussolini in Germania
del settembre precedente, che l’Italia firmerà il patto, e comunque senza le
clausole segrete (Quartararo 1997: 195; Candeloro 1995: 415-16).
L’autrice commette qui un errore difficilmente comprensibile. Afferma
che l’adesione dell’Italia al patto nel 1937 sancì la formazione dell’Asse Italia-
Germania-Giappone (I, 400). Ahimè! Il primo Asse, quello Roma-Berlino, era
nato con gli accordi italo-tedeschi del 25 ottobre 1936; si parlerà di Asse Ro-
ma-Tokyo-Berlino solo dal settembre 1940, con la firma del Patto tripartito.
Concludo l’argomento con una doverosa rettifica. EG afferma che Tucci
partì per il Giappone «verosimilmente senza la signora Tucci che era, legal-
mente, Giulia» (I, 403). Prescindiamo pure dall’allusione, priva di riscontro,
alla presenza di un’altra compagna, dettata da una costruzione sintattica con-
torta. Resta il fatto che le fotografie e gli articoli della stampa quotidiana di-
mostrano il contrario. Una foto ritrae Tucci e Nuvoloni ospiti di un ricevimen-
to a Singapore, tappa verso il Giappone (pubblicata in Nalesini 2012b: 28). Il
31 gennaio 1937 i coniugi Tucci spedirono delle cartoline illustrate da Nikko
firmandole «Giulia Tucci e G. Tucci»: una era indirizzata a Giotto Dainelli,56
l’altra a «Prof. and Mrs. G. Langley»; si tratta di George Harry Langley
(1881-1951), Vice-rettore dell’università di Dhaka negli anni in cui Tucci vi
aveva insegnato. Quest’ultima non ha viaggiato e si trova nell’archivio foto-
grafico del MNAO (P.5734). Nemmeno due settimane più tardi ritroviamo
Giulia a fianco del marito al ricevimento dall’imperatore del Giappone (Ano-
nimo 1937b). Alcune impressioni di questo viaggio furono trasfuse da Giulia
nel breve saggio «Lucciole del Giappone» contenuto in un suo quaderno oggi
conservato dalla biblioteca Labronica.
Motivi analoghi a quelli che mi hanno portato a criticare l’opinione di EG
sul soggiorno giapponese di Tucci, mi inducono a rigettare l’idea che la confe-
renza di Haushofer a Roma nel 1937 fosse il preludio della visita di Mussolini
a Monaco nel settembre successivo (I, 412). Rientrava anch’essa in un sistema
di relazioni accademiche che, nel suo complesso, serviva a rinforzare i rappor-
————
56
ASGI, Giotto Dainelli, b. 99, fasc. 2787 Corrispondenza Dainelli Tucci G.
Onori e nefandezze di un esploratore 243

ti tra governi alleati, così come le conferenze di Bianchi Bandinelli in Germa-


nia di quegli anni. Ma da qui ad attribuirle un tale peso politico il passo è lun-
go. EG si è lasciata suggestionare dall’enfasi posta da altri sulla presunta in-
tensità dei rapporti tra Haushofer e Tucci, che sarebbero sfociati nell’uso del
termine Eurasia in campo storico e culturale (Grossato 2006; Graziani 2004;
M. Rossi 2010: 623). Le evidenze disponibili vanno in altra direzione.
Come sottolinea Hakl (2006: 239-41), le idee dell’ufficiale tedesco forniro-
no a Tucci tutt’al più uno spunto per l’elaborazione del concetto di Eurasia. Uno
spunto, aggiungo, nemmeno determinante. Il termine Eurasia, come quello ana-
logo di Eurafrica, era diffuso a Roma da tempo. Il geografo Paolo d’Agostino
Orsini di Camerota aveva adottato Eurafrica nel 1930, anni prima del geopoliti-
co tedesco, e lo userà ancora nel dopoguerra (Bell 1995: 296, n. 69; Botz-
Bornsteina 2007: 565-75; Antonsich 1997: 261-62; Agostino Orsini 1957). Co-
me abbiamo visto, Ciliberti utilizzò Eurasia per la propria tesi di laurea nel
1929. L’ambiente accademico italiano era dunque favorevole all’utilizzo di que-
sti termini prescindendo da Haushofer. Se Tucci attese anni dopo la fine del fa-
scismo per definire Eurasia il risultato di una storia culturale strettamente inter-
relata tra i due continenti, fu forse anche perché la sua adozione allora gli dovet-
te sembrare problematica per le implicazioni politiche e ideologiche.
EG dedica appena due pagine (II, 6-8) alla spedizione nel Tibet centrale
del 1937 e risicato è anche lo spazio riservato alla successiva del 1939, nono-
stante la sua importanza. Situazione curiosa, o forse no. Delle due precedenti
spedizioni (1933 e 1935) Tucci pubblicò i diari di viaggio ed EG ha avuto
modo di riempire con facilità molte pagine riassumendoli. I diari delle due
spedizioni nel Tibet centrale, invece, non sono disponibili. Della prima Tucci
non ha pubblicato pressoché nulla di divulgativo, e della seconda solo quattro
brevi articoli e interviste sui quotidiani. Per dare loro un respiro analogo a
quello delle spedizioni nel Tibet occidentale, EG avrebbe dovuto svolgere ri-
cerche apposite negli archivi. Evidentemente non ha avuto modo di compierle
e, di conseguenza, quelle spedizioni non hanno ricevuto lo spazio che merita-
vano. In precedenza, per le stesse ragioni, aveva sbrigato la spedizione del
1930 in poche righe (I, 246-47 e 274), omettendo di ricordare che in quella
occasione Tucci si era spinto a Skardu, in Baltistan (Tucci 1977b: 72).
Sul Tibet centrale l’autrice ha in compenso fornito informazioni tratte da
lavori che non cita o sbaglia a citare: il finanziamento di 60.000 lire assegnato
dal Ministero della Guerra a Felice Boffa Ballaran per le sue spese di viaggio
nel 1939 e l’album di 1088 immagini da lui preparato dopo il rientro in Italia
(II, 11-12). I titoli ricordati da Garzilli in nota non riportano queste informa-
zioni, prese evidentemente altrove. Per quanto riguarda in particolare il finan-
ziamento erogato dal Ministero della Guerra, ammetto di essere in parte re-
sponsabile del suo errore. In un articolo apparso alcuni anni fa ho infatti tra-
scritto il dato omettendo di citarne la fonte, ovvero il rapporto dattiloscritto
consegnato da Boffa Ballaran al Ministero dopo il rientro in Italia (Nalesini
244 O. Nalesini

2008: 93; 2011: 22). Grazie al mio errore si scopre così che EG ha fatto passa-
re per suo il lavoro svolto da altri e che, a quanto sembra, ha citato articoli non
letti. Non comprendo poi come abbia potuto pensare che per quella spedizione
Tucci abbia acquistato i viveri, arruolato persone e chiesto il visto a Kathmandu
o in Kashmir (II, 17)! Si trovava a Calcutta, dove aveva certamente maggior
scelta di prodotti e magari anche un ufficio governativo per sbrigare le pratiche.
Senza considerare che, se uno vuole recarsi da Calcutta a Gangtok, Kathmandu
e Shrinagar sono decisamente fuori mano. A detta di Tucci (1952: 12), poi, i
luoghi migliori per organizzare la carovana erano altri: Kalimpong e Darjeeling.
C’erano altre cose da dire su queste due spedizioni. Era opportuno ad
esempio aggiungere che nel 1937 Tucci aveva progettato di visitare Shigatse
e, sembra, anche Lhasa,57 ma le autorità tibetane gli rifiutarono il permesso
perché, come gli spiegarono gli ufficiali governativi britannici, la situazione
politica interna del Tibet era tesa. Il IX Paṇchen Lama aveva intavolato delle
trattative serrate per rientrare nella sua sede, a Tashilhünpo, dopo 13 anni di
esilio trascorsi in Cina, ma ponendo condizioni ritenute inaccettabili dal go-
verno di Lhasa. Questo aveva portato a uno stallo nel negoziato e a tensioni tra
le opposte fazioni. Il che costrinse Tucci a limitare la sua visita a Gyantse,
Iwang e altre località lungo la strada commerciale proveniente dall’India.
Il collaboratore fotografo di questa spedizione non era né un militare né
un medico, ma un giovane fiorentino laureando in biologia destinato a ottenere
grande notorietà: Fosco Maraini. Che i rapporti tra i due siano stati tesi è cosa
nota. Sorprende pertanto leggere in questo libro che nel 1937 i loro rapporti
erano ottimi (II, 8). Le critiche espresse anni dopo da Maraini al carattere di
Tucci riguardavano di certo anche quella prima esperienza. Oltre alla nota, e
abusata, lamentela di essere stato costretto a rivolgersi a Tucci col titolo di Ec-
cellenza anche in mezzo alla desolazione dell’altopiano tibetano,58 va ricorda-
to che nel taccuino di appunti del viaggio in Sikkim, intrapreso subito dopo il
rientro dal Tibet, Maraini scrisse di sospettare che la commozione manifestata
da Tucci al momento della sua partenza non fosse sincera.59 Già all’epoca,
dunque, Maraini non si fidava molto di Tucci.
Aneddoti a parte, l’arruolamento di Maraini avrebbe meritato un piccolo
approfondimento. Egli, come è noto, ha sempre sostenuto di aver casualmente
saputo da un ritaglio di giornale della prossima partenza di Tucci e di avergli
scritto proponendosi come aiutante. Con sua grande sorpresa ricevette in breve
————
57
Vi accennano F. Maraini nel Taccuino del 1937 e Giulia Nuvoloni in una lettera a F. Maraini,
Roma 15 dicembre 1939 (entrambi nell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto scientifico let-
terario G.B. Viesseux [d’ora in poi ACGV], Fosco Maraini, senza segnatura perché in via di
riordino). Tucci cullava da tempo il sogno di visitare la capitale tibetana. Il primo accenno, in
realtà piuttosto vago, è in una lettera a Dainelli, non datata ma ricevuta il 16 dicembre 1931
(ASGI, Giotto Dainelli, b. 99, fasc. 2787 Corrispondenza Dainelli Tucci G.).
58
Su cui vedi però il commento di C. Guttuso (Guttuso, Nalesini 2008: 7).
59
ACGV, Fosco Maraini.
Onori e nefandezze di un esploratore 245

tempo un invito a recarsi a Roma per un incontro. Il colloquio fu positivo,


tant’è che il giovane fu subito arruolato (Maraini 2001: 331-32; 2007: 1586-87).
Maraini aveva effettivamente tutti i numeri per essere all’altezza del compito e
Tucci non se lo lasciò scappare. Aveva una mente brillante, parlava inglese co-
me un madrelingua (grazie alla madre polacca naturalizzata britannica), era un
ottimo fotografo (aveva partecipato tra l’altro alla mostra di arte futurista di
Roma del 1930) nonché un provetto alpinista: aveva aperto una nuova via, per la
Torre Cicchetti, verso la vetta del Gran Sasso. E c’era dell’altro.
Il padre di Fosco, Antonio, era uomo di potere. Oltre ad essere – secondo
alcuni – uno degli scultori preferiti da Mussolini, era stato nominato commis-
sario del Sindacato Nazionale degli Artisti nel 1932 e segretario generale della
Biennale di Venezia nel 1927. Fatti ben noti a Tucci. Il presidente e promotore
della Biennale, nonché ex governatore della Tripolitania e ministro delle fi-
nanze, il senatore Giovanni Volpi, conte di Misurata, sedeva nel consiglio
d’amministrazione e nella giunta esecutiva dell’IsMEO sin dalla sua fondazio-
ne nel 1933. È forse un caso se la cartolina spedita da Tucci a Volpi il 28 giu-
gno 1937 da Gangtok è conservata tra la corrispondenza privata di Fosco Ma-
raini, oggi al Gabinetto Viesseux?
Come è facile intuire, casa Maraini era frequentata da tanti nomi belli e
soprattutto influenti della cultura, tra cui spiccavano personaggi della levatura
di Emilio Cecchi, Ugo Ojetti, Adolfo Venturi, Ardengo Soffici, Thayaht. Intel-
lettuali che in alcuni casi intrattenevano rapporti con Tucci, vuoi per interessi
comuni, vuoi negli incontri all’Accademia d’Italia o all’università.60 Ciliegina
sulla torta, il giovane Fosco poteva permettersi il lusso di prendere in prestito
libri di viaggio a casa di Filippo De Filippi (Maraini 2001: 12; Marcoaldi
2007: LXVI), ovvero del geografo che aveva organizzato importanti ricerche
sullo Himalaya e nel 1933 aveva tenuto la prolusione inaugurale dell’IsMEO
(De Filippi 1934). Vi è dunque motivo di credere che Tucci sapesse perfetta-
mente chi fosse il mittente della lettera ricevuta da Cortina, pur non avendolo
mai incontrato di persona, e quale fosse la cerchia di amicizie della sua famiglia.
La partenza per il Tibet, che Maraini ci ha presentato come il risultato esclusivo
della sua intraprendenza e capacità personale, in realtà potrebbe essere stata fa-
vorita dall’aspettativa di un futuro gesto di riconoscenza da parte del padre; quel
qualcosa in più di cui altri, parimenti capaci, non avrebbero potuto giovarsi.
Secondo gli accordi presi prima della partenza, Maraini avrebbe dovuto
consegnare al capo spedizione, che gliela avrebbe pagata, la documentazione
fotografica e si impegnava a non pubblicare nulla sulla spedizione prima che
lo avesse fatto Tucci. Era inoltre stato raggiunto un accordo per la realizzazio-
ne di un documentario filmato con un produttore privato, Orlandi, che conce-

————
60
Rapporti non scevri da rivalità. Ojetti (1954: 343) era convinto che Tucci avesse votato contro
di lui all’Accademia Reale il 2 giugno del 1930.
246 O. Nalesini

deva a Maraini una percentuale sui guadagni.61 Nonostante l’esecuzione delle


riprese filmate, il documentario però non fu realizzato e le pellicole foto- e ci-
nematografiche rimasero a Maraini. Il che non impedì a Tucci di appoggiarne
la domanda di borsa di studio per il Giappone l’anno seguente, nonché di in-
tervenire presso l’ufficio romano del Lloyd Triestino per ottenere biglietti
scontati per tutta la famiglia Maraini sul passaggio Brindisi-Shanghai, i cui
documenti si conservano anch’essi al gabinetto Viesseux di Firenze. Poiché la
questione dei rapporti tra Tucci e Maraini è più complessa di quanto EG abbia
scritto sul blog e ora in questa biografia, vi ritornerò più avanti, trattando la
spedizione del 1948.
L’esposizione della spedizione condotta nel 1939 è poi infarcita di fasti-
diose divagazioni che spezzano la narrazione, rendendola illeggibile (II, 9-12,
15-17, 20-21, 30-39). Una di queste, dedicata alla spedizione tedesca in Tibet
del 1938 (II, 21-29), occupa da sola uno spazio di poco inferiore all’italiana.
Nulla vien detto dei problemi finanziari. Quell’anno il Ministero degli
Scambi e Valute annullò l’assegno in sterline con la parte principale del finan-
ziamento mentre Tucci era in viaggio per l’India; l’incidente fu terribilmente
serio e mise a repentaglio la prosecuzione della spedizione.62 Tucci riuscì a su-
perare l’ostacolo grazie soprattutto all’intervento di Federzoni, e a condurre con
successo la spedizione nel corso della quale esplorò gran parte della provincia di
Tsang, nel Tibet centrale. EG omette inoltre di riferire che, su richiesta del gene-
rale Antonio Sorice, capo di gabinetto del Ministro della guerra, il Servizio In-
formazioni Militari valutò l’opportunità di assegnare all’ufficiale prescelto an-
che compiti particolari, e che il SIM rispose di non ritenerlo necessario.63
Altro errore di questa biografia è l’aver dato credito a Boffa quando questi
scrive di aver ricevuto l’incarico dal Ministero della Guerra mentre Tucci era già
in Asia da due mesi (II, 16-17). In realtà Tucci era partito da pochi giorni: il 6 o
il 7 gennaio, da Napoli. Boffa verosimilmente si confuse quando scrisse il rap-
porto: Tucci era partito due mesi prima di lui, e per una qualche ragione questo
lasso di tempo fu poi riferito al suo incarico. È inoltre sbagliata la data della par-
tenza della spedizione da Gangtok: non tra la fine di marzo e gli inizi di aprile
(II, 11), ma il 16 aprile (Boffa 1946: 127 e 130). EG si confonde facilmente
quando ha a che fare con date e luoghi: in un altro punto del libro (I, 348) so-

————
61
Lettera d’incarico della Reale Accademia d’Italia, prot. 13888 del 13 aprile 1937, firmata da
Formichi; Orlandi Edmondo a G. Tucci, 12 maggio 1937 (garantisce una copia gratuita del
film per l’Accademia); Orlandi Edmondo a F. Maraini, 12 maggio 1937 (gli riconosce il 10%
dei profitti). Documenti in ACGV, Fosco Maraini.
62
La vicenda è ricostruita in Nalesini (2013: 276-77). Le carte sono in ASAL, Reale Accademia
d’Italia, XI Corrispondenza con gli accademici, b. 7, fasc. 81.
63
Rispettivamente lettere Sorice al sottocapo del Servizio informazioni militari, Roma 9 gen. 1939,
e Tripiccione al Gabinetto del ministro, Roma 17 gen. 1939 (AUSSME, H-3 Servizio Informa-
zioni Militari, b. 26, fasc. Asia, Siria, Siam, Africa, s.fasc. 3 Spedizione Tucci nel Tibet).
Onori e nefandezze di un esploratore 247

stiene che nel 1939 Tucci e la moglie si trovavano a Calcutta per preparare una
spedizione in Ladakh e Tibet occidentale, il che è palesemente sbagliato.
L’autrice non ha compreso chi fosse il fotografo: il capitano degli Alpini
Felice Boffa Ballaran non era un «ufficiale medico…, che avrebbe anche di-
segnato le mappe» nonché «un abile scalatore» (II, 11). Non solo Boffa non
era medico, ma non si era mai iscritto all’università. Aveva conseguito il di-
ploma di maturità nella sezione edilizia della scuola tecnica-industriale di
Campiglia Cervo (Biella). Aveva poi frequentato il Corso allievi ufficiali du-
rante la I Guerra mondiale, divenendo per il suo ardimento e le sue eccezionali
doti alpinistiche aiutante del colonnello Alberto Pariani, plenipotenziario alla
firma dell’armistizio nel 1918. La sua attività di cartografo iniziò durante le
trattative di pace, perché Pariani lo volle nella Commissione internazionale per
la delimitazione dei nuovi confini e gli fece seguire un corso all’Istituto Geo-
grafico Militare. Della spedizione tibetana redasse la carta dell’itinerario a cor-
redo dell’articolo di Tucci (1940) «Nel Tibet centrale: relazione preliminare
della spedizione 1939» e altre carte di maggior dettaglio che devono essere
state allegate alla relazione consegnata al Ministero della Guerra, di cui non
ho trovato traccia negli archivi militari (Nalesini 2013: 291-93). Divenne già
negli anni Venti uno dei più brillanti scalatori italiani.
Non è una semplice svista dell’autrice. Come in altri punti già esaminati,
e altri che vedremo, il problema principale è quella personalissima idea della
critica dei documenti libera da «discriminanti metodologiche» (I, xxii) di cui
comprendiamo sempre meglio i reali contorni: EG ritiene che le sue impres-
sioni siano la realtà; trasforma l’ipotesi in fatto acclarato, da cui partire per ul-
teriori elucubrazioni, e considera superfluo porsi lo scrupolo di una verifica o
di un confronto con ipotesi alternative. Per fortuna, per riprendere le sue paro-
le, «si può manipolare la verità quanto si vuole…ma i reperti e i documenti re-
stano» (II, 14).
In questo caso particolare – questa è la mia opinione – EG ha consultato il
mai citato (ma sovente sfruttato) sito internet dell’IsIAO dedicato a Tucci. Qui
era presente una sezione intitolata «Fotografi e medici delle spedizioni Tucci»,
contenente brevi profili biografici di gran parte dei suoi compagni di avventu-
ra, compreso naturalmente Boffa Ballaran.64 EG deve aver creduto che tutte le
persone elencate in questa sezione fossero sia medici sia fotografi e non ha ri-
tenuto di dover controllare, magari leggendo i lavori che cita in nota. Eppure
la presenza in quella lista di Mele e Maraini, che notoriamente non erano me-
dici, avrebbe dovuto metterla sull’avviso.
Le informazioni raccolte durante la spedizione del 1939 confluirono in
una delle opere principali di Tucci: Tibetan Painted Scrolls, pubblicato a Ro-
ma nel 1949. EG riesce nuovamente a sbagliarsi. A p. 40 del vol. II afferma
————
64
Ancora visibile su: http://web.archive.org/web/20070712143942
http://www.giuseppetucci.isiao.it/fotografi/elenco.cfm (ultima visita 18 ott. 2013).
248 O. Nalesini

che il libro contiene i dati raccolti nelle spedizioni del 1935, 1937 e 1939. Co-
sa impossibile, perché nel 1935 Tucci si trovava nel Tibet occidentale e non in
quello centrale, argomento del libro, mentre i dati raccolti durante la spedizio-
ne del 1937 erano stati utilizzati per il quarto volume di Indo-tibetica (Tucci
1941). Oltre (II, 146) l’autrice si contraddice asserendo che in Tibetan Painted
Scrolls confluirono i dati raccolti durante la spedizione del 1948; erra nuova-
mente, perché questa spedizione attraversò zone del Tibet centrale di cui Tucci
non parla in questo libro! Ben se ne ricordò invece il senatore Andreotti (1982:
34; 1992: 3), che trasse prestigio per l’Italia esibendolo alla Mostra del libro
italiano di Alessandria d’Egitto nel 1951.65 Era, oltretutto, uno dei libri più co-
stosi sul mercato (Conze 1979: 51) e sorprende che il Poligrafico dello Stato
fosse stato capace di realizzare una lussuosa opera in-folio mentre i cittadini
italiani ancora acquistavano viveri con la tessera annonaria.
Nell’anno trascorso tra le due spedizioni nello Tsang, Tucci fu coinvolto
nei lavori della Commissione per lo studio dei problemi della razza istituita
dall’Accademia d’Italia nel 1938 (Capristo 1997). Non era una delle tante
commissioni. Essa sorse mentre il governo pianificava l’introduzione delle
leggi razziali e l’eco di quegli eventi è risuonata nel 2010, quando il Comune
di Roma intitolò a Tucci un largo; uno spazio minuscolo, appartato, preceden-
temente anonimo, tra il recinto del Bioparco e il Museo di zoologia, senza
numeri civici. La polemica politica scoppiò immediata, con tanto di articoli sui
quotidiani e interrogazione parlamentare, 66 perché Tucci figurava nella lista
dei 359 intellettuali che avrebbero sostenuto il cosiddetto ‘Manifesto degli
scienziati razzisti’ del 1938 e di conseguenza non avrebbe avuto diritto a sif-
fatto onore. Il tema è dunque caldo nonostante gli anni trascorsi, ed EG ha fat-
to benissimo ad affrontarlo.
Sbaglia però quando afferma che la famigerata lista di personalità che
avrebbero firmato articoli in appoggio al ‘Manifesto’ e alla proclamazione del-
le leggi razziali fu compilata all’epoca (I, 332). L’elenco è il risultato di un re-
cente lavoro di ricerca. La sua prima versione fu pubblicata su un supplemento
della rivista Avvenimenti e non comprendeva Tucci (Levi 1995). Una seconda
versione, più lunga, è stato redatta dieci anni più tardi, e questa volta Tucci vi
compare (F. Cuomo 2005: 202-7). In entrambi i casi, però, non sono state di-
chiarate le fonti utilizzate per la compilazione.67 Molte persone, ben inteso, lì
ci stanno benissimo perché erano razzisti fin nel midollo e firmarono articoli
————
65
Il titolo del libro è ricordato nel catalogo (Gargano 1951: 527), ma non compare nell’elenco
delle opere esposte in quella sezione della mostra (ibid.: 549-66).
66
Interrogazione a risposta scritta n. 4-07374 firmata dagli on. W. Verini, E. Fiano, R. Morassut,
J.L. Touadi, M. Coscia e presentata nella seduta del 26 maggio 2010 n. 328, a cui risponde il
31 maggio 2011 (sic!) il sottosegretario di stato agli interni on. M. Davico con argomenti di
routine. L’interrogazione è costellata da errori e incongruenze, da cui si evince la totale igno-
ranza della materia da parte dei firmatari.
67
Vedi anche quanto raccolto da Francesco Sferra (2014: 96-97).
Onori e nefandezze di un esploratore 249

apertamente razzisti: Evola, Interlandi, Scabelloni e Starace, per citarne solo


alcuni. Ma il nome di Tucci, per tornare al Nostro, non compare tra i collabo-
ratori di riviste quali La difesa della razza (cfr. Cassata 2008: 393-95), né tra i
membri delle istituzioni che vigilavano sull’applicazione delle leggi razziste
(cfr. F. Cuomo 2005: 219-21). È possibile che sia stato aggiunto all’elenco
proprio in virtù della partecipazione a quella commissione dell’Accademia
d’Italia, la cui relazione finale si occupò per altro solo del mondo antico. Ca-
pristo (1997: 99) ritiene che i contenuti della relazione, di stampo antisemita,
siano quelli pubblicati da Paribeni in un articolo del 1939 su Nuova antologia,
ma è lecito ritenere che l’archeologo la abbia sostanzialmente rimaneggiata se
è vero che i suoi contenuti avevano deluso talmente Mussolini da indurlo a
vietarne la pubblicazione (Vittoria 1998: 412). A quei lavori, se avesse voluto,
Tucci avrebbe forse potuto sottrarsi, come fecero Francesco Coppola, Gioac-
chino Volpe e Angelo Gatti (Capristo 1997: 94-98); preferì barcamenarsi tra
ossequio al potere politico e convinzione di svolgere un compito di cui non
scorgeva serie implicazioni pratiche.
Il giudizio di quegli eventi offerto in questa biografia è altalenante. Dopo
aver affermato che Tucci fu «fedele al fascismo anche nelle sue scelte più be-
cere, come le leggi antisemite» (I, 278), EG sottolinea l’assenza in lui di sen-
timenti antisemiti ricordando il caso dello psicologo Ernst Bernhard (I, 372-
74). Tra il 1940 e il 1941 Tucci spese le sue conoscenze per ottenerne la libe-
razione dal campo di concentramento di Ferramonti, dove attendeva di essere
inviato in Germania, e le lettere recentemente pubblicate mettono in piena luce
il suo operato (Bernhard 2011: passim). La cosa non è di per sé straordinaria:
anche Gentile e persino Giorgio Almirante si mossero in favore di alcuni loro
conoscenti ebrei (Turi 2006: 569; La Russa 2009: 25). Nel caso di Tucci ci so-
no però anche testimonianze di seconda mano sul suo impegno a favore di al-
tre famiglie ebree (Bernhard 2011: xvi, xxxv). Per questa ragione colpisce
vieppiù l’irragionevole violenza dell’attacco nei suoi confronti per la dedica
del minuscolo largo. A Ugo Ojetti, che fu compromesso con il fascismo tanto
quanto Tucci, e forse di più, è tutt’ora intitolato un viale a quattro corsie nel
quartiere romano di Talenti.
La II Guerra mondiale scoppiò mentre Tucci rientrava dalla spedizione
nel Tibet centrale e negli anni successivi gli impedì la prosecuzione delle ri-
cerche sul campo. Questi anni di forzata permanenza in Italia devono avergli
pesato, sia perché era abituato a una vita nomade e avventurosa, sia per il peg-
gioramento dei rapporti con la moglie, con la quale stava trattando la separa-
zione, come risulta da una lettera a Gentile.68 Voleva inoltre mettere mano ai
tanti lavori e all’enorme messe di dati raccolti sino ad allora. Per questo in-
sieme di ragioni aveva bisogno di tranquillità.
————
68
G. Tucci Nuvoloni a G. Gentile, da casa, 9 luglio 1941 (AFGG, Giovanni Gentile, Corrispon-
denza, Lettere inviate a Gentile, b. Corrispondenti T, fasc. Tucci Nuvoloni Giulia).
250 O. Nalesini

La trovò a Cappadocia, da dove corrispose con Gentile e con altri membri


dell’Accademia d’Italia. Il 17 luglio 1941, ad esempio, scrisse soddisfatto al fi-
losofo: «Eccomi qua, in queste montagne che mi danno ristoro e solitudine, a
pensare e a scrivere»,69 promettendogli anche di fare una scappata di un giorno a
Roma per andarlo a trovare. Qualche giorno dopo, il 22 luglio, lo ringraziò per
la sua lettera, che lo aveva raggiunto «in questa solitudine ove sto scrivendo i
miei libri». EG non ha potuto trattenersi: ha liberato Tucci dalla prigione italica
in cui la guerra lo aveva confinato. Eccola infatti proiettarlo lontano dalla Peni-
sola e scrivere a Gentile «dalle cinque alle sette lettere dalla Cappadocia,
nell’Anatolia centrale, nella solitudine dove stava finendo i suoi libri». Conside-
rando la posizione geografica e il momento storico, non sorprende sentire Tucci
affermare, in una di quelle lettere, che «non c’è nessun villeggiante» (II, 48-50).
Le lettere che EG utilizza per questo punto, come quelle ad Antonio
Bruers, responsabile dell’ufficio pubblicazioni della Reale Accademia d’Italia,
sono però datate chiaramente a «Cappadocia (Aquila)», e viene spontaneo
confrontare questo luogo di spedizione con il «Campo di Giove (Aquila)» di
un’altra lettera di Tucci a Gentile, del 30 luglio 1938, o con il «S. Polo dei Ca-
valieri (Roma)» della lettera sempre a Gentile del 15 luglio 1940. Nell’una e
nell’altra – mi sembra ovvio – Aquila non è un simbolo esoterico né il vessillo
del legatus Augusti Cappadociae, ma il capoluogo di provincia. Nell’estate del
1941, in sostanza, Tucci si trovava in Abruzzo e non in Turchia e questo spie-
ga come mai potesse promettere al filosofo scappate di un giorno a Roma sen-
za correre il rischio di sentirsi dare dello sbruffone.
Un pizzico di buon senso sarebbe stato sufficiente ad evitare l’abbaglio.
Nessuno spedisce una lettera indicando la regione invece della località; vi è mai
stata recapitata una lettera datata – diciamo – Veneto, 12 giugno 2000? Credo di
no; piuttosto l’avrete ricevuta da Cavarzere o Feltre. Tanto sarebbe dovuto ba-
stare. Ma EG di queste frivolezze se ne frega e tira diritto. Eccola dunque im-
maginare Tucci impacchettare libri, foto, appunti e preziosi manoscritti, caricarli
su una nave o su un treno alla volta di Istanbul, attraversare impavido regioni in-
teressate da operazioni militari su vasta scala, sfidando bombardamenti, silura-
menti o attacchi partigiani e raggiungere il cuore dell’Anatolia su strade disage-
voli per infilarsi con l’ingombrante bagaglio in un roccioso ‘camino di fata’ in-
fuocato dal sole, tra serpi, scorpioni, turbini di polvere e fogli svolazzanti. E
tutto ciò per scrivere tranquillo di tantrismo e arte tibetana? Dobbiamo essere
grati a EG per questo raro esempio di esilarante ottusità.
EG riserva la maggior parte dello spazio relativo agli anni del conflitto
mondiale alla corrispondenza con Gentile, la cui ultima lettera fu scritta appe-
na una settimana prima dell’uccisione del filosofo. Il lungo rapporto tra i due è
ricondotto principalmente alla sua funzione utilitaristica e, per quanto riguarda
————
69
In termini pressoché identici si era rivolto al filosofo tre anni prima: G. Tucci a G. Gentile,
Campo di Giove, 30 luglio 1938 (ibid., fasc. Tucci Giuseppe).
Onori e nefandezze di un esploratore 251

gli anni dell’immediato dopoguerra, l’autrice si sforza di mostrare come Tucci


abbia tentato di attribuirsi anche i meriti di Gentile riguardo la fondazione
dell’IsMEO (II, 79-81). Lo stereotipo di Tucci opportunista e cinico mi sembra
essere stato applicato anche in questo caso a sproposito. Io credo invece che la
memoria del loro rapporto fosse viva in Tucci, e leggo come discreto omaggio al
filosofo l’adozione del titolo «In the Library» per la rubrica bibliografica curata
da Tucci su East and West dal 1952. È lo stesso titolo utilizzato da Gentile per
l’analoga rubrica da lui tenuta sulla rivista Helios tra il 1896 e il 1897.
EG dedica solo un breve accenno alla delicata posizione di Tucci, che si
barcamenò tra tentativi di mantenere i rapporti con gli ambienti indiani e bri-
tannici e i sospetti che suscitavano nella polizia questi suoi contatti, oltre che
con personalità ancor meno gradite al regime (Di Giovanni 2012: 88-91). Nul-
la si chiede dei rapporti intrattenuti da Tucci in quel periodo con i politici al di
fuori della cerchia governativa. Sarebbe utile sapere se nei contatti del dopo-
guerra tra Tucci e Andreotti ci sia entrato in qualche modo il filosofo Antonio
Lombardi: Tucci aveva recensito il suo libro Critica delle metafisiche, imma-
gino in particolare per i capitoli «Contro Asanga» e «Contro Çankara», e più
in generale per i suoi numerosi riferimenti al pensiero indiano.70 Lombardi dal
1942 collaborerà con la Federazione Universitaria Cattolica Italiana: l’orga-
nizzazione di cui Andreotti divenne presidente proprio quell’anno succedendo
ad Aldo Moro. Sempre nel 1942 Lombardi pubblicò l’articolo «Metafisica
dell’Asia» sulla rivista dell’IsMEO Asiatica.
In questa rete di relazioni rientra anche il rapporto che Lombardi e Tucci
mantennero con l’avvocato Enrico Molè, deputato aventiniano, tra i fondatori
con Ivanoe Bonomi nel 1943 del partito Democrazia del Lavoro (poi Partito
Democratico del Lavoro) e ministro nei governi Parri e De Gasperi. Il padre di
Antonio Lombardi, Nicola, dal 1943 era stato il rappresentante in Calabria di
questo partito. Tramite Molè, Tucci tentò di ricevere i manoscritti inediti di
Lombardi dopo la sua morte (1950),71 tra cui vi era il dattiloscritto di Filosofia
dell’Estremo Oriente.
L’approssimarsi del fronte a Roma preoccupò non poco Tucci. E non solo
lui. Sibilla Aleramo riferisce che il 7 dicembre 1942 qualcuno del Ministero
degli Esteri consigliò Tucci di portare al sicuro le sue raccolte in Vaticano,
«specialmente i disegni portati dal Tibet» (Aleramo, Campana 2003: 227). È
un’interessante testimonianza dell’importanza attribuita alle raccolte artistiche
di Tucci da parte delle autorità italiane e vaticane. Tucci aveva consegnato una
parte dei dipinti portati dal Tibet al suo conoscente Corcos, israelita, in cambio
————
70
A questa recensione, che non ho ancora reperito, accenna Antonio Bruers («il tuo bell’articolo
sul libro del Lombardi») in una lettera a Tucci scritta da Roma il 27 agosto 1941 (ASAL, Rea-
le accademia d’Italia, Ufficio pubblicazioni, b. 2, fasc. Tucci).
71
Lettera di E. Molè a V. Lombardi, 9 novembre 1950:
http://antoniolombardiservodidio.blogspot.it/2013/05/10-lettere-n-16-di-vinc-lombardi-al.html
(verificato il 15 ott. 2013).
252 O. Nalesini

di finanziamenti per le spedizioni. Quando il governo fascista emanò leggi che


proibivano agli ebrei di vendere, e in seguito anche di possedere, oggetti anti-
chi e d’arte, Tucci fece intestare a sé la raccolta. Dopo la guerra restituì le ope-
re a Corcos, che dopo qualche tempo le vendette allo stato italiano.72
EG trascura anche l’immediato dopoguerra. Ad esempio l’epurazione
dall’università, a cui accenna distrattamente in un punto del libro dedicato a
ben altro periodo (I, 277). Conosco poco i relativi documenti, ma ritengo che
questo argomento avrebbe meritato maggiore attenzione. Non tanto per l’esito
in sé: come è noto, quasi tutti i docenti sottoposti a questa misura furono
riammessi all’università. Piuttosto i documenti da lui presentati per discolparsi
dall’accusa di essere compromesso con il fascismo potrebbero rivelare aspetti
e relazioni non altrimenti documentati (vedi Crisanti 2013: 218-64).
L’ultima spedizione diretta in Tibet ebbe luogo nel 1948. Come per le
precedenti, la maggior parte delle informazioni fornite da EG è tratta dalle
pubblicazioni dello stesso Tucci, integrate da alcune parti di un’intervista a
Maraini e da alcune lettere scambiate da Tucci con Andreotti per ottenere fi-
nanziamenti: carteggio presentato però in altra parte del libro (II, 375-81).
Anche in questo caso devo rilevare errori sull’itinerario seguito dalla spe-
dizione, nonostante la possibilità di consultarne il diario e l’allegata carta geo-
grafica. Troviamo così Tucci diretto alle città monacali di Sera e Depung dopo
la sua partenza da Lhasa (II, 140), mentre in realtà le aveva già visitate con
un’escursione di diversi giorni con rientro nella capitale (Tucci 1952: 88-96).
L’autrice attribuisce inoltre alla città monastica di Ganden (a nord di Lhasa) la
qualifica di punto più orientale raggiunto dalla spedizione (II, 142), che fu in-
vece Dzingchi (Tucci 1952: 112).
Non basta. Chonggye non è nella valle dello Tsangpo (II, 144) ma in
quella di Yarlung. Grave poi l’errore di far incontrare Tucci con Mele e Moise
a Gyantse (ibidem), quando la missione aveva intrapreso la via del ritorno.
Nella realtà i due raggiunsero Tucci a Chushul (Tucci 1952: 101), alla con-
fluenza dei fiumi Kyi e Tsangpo a sud di Lhasa, prima di esplorare con lui la
necropoli reale di Yarlung, visitare Samye, ecc. In precedenza EG aveva cor-
rettamente ricordato l’incontro tra i membri della spedizione a Chushul, ma
sbagliando sorprendentemente la sua posizione: l’ha spostata nello stato di
Jammu e Kashmir, ovvero mille e più chilometri ad ovest (II, 94). Come si sa-
rà compreso, la geografia non è il piatto forte dell’autrice.
EG si sofferma anche sull’annosa vicenda dei permessi d’ingresso nel Ti-
bet. Come riferirono sia Tucci sia Maraini, il governo tibetano in un primo
momento rilasciò il visto solo al capo spedizione; i fotografi Mele e Maraini e
il medico Moise furono invitati a tornare indietro. Tucci spiegò quella decisio-
ne con il momento delicato vissuto dalla classe dirigente tibetana per le vio-
lenze che avevano scosso la capitale nell’estate precedente. Dopo alcune set-
————
72
Devo l’informazione al dott. Massimiliano A. Polichetti.
Onori e nefandezze di un esploratore 253

timane di attesa e inutili insistenze, Tucci lasciò i suoi compagni al confine e


partì alla volta della capitale, promettendo di perorare la loro causa. Due mesi
più tardi Mele e Moise ricevettero l’agognato permesso. Maraini invece no, e
dovette rientrare. Tucci non spiegò in A Lhasa e oltre perché egli fu l’unico
escluso, lasciando spazio alle supposizioni.
Negli anni successivi, Maraini ha sostenuto in diverse occasioni di essere
stato accantonato da Tucci come suo collaboratore per una svariata serie di ra-
gioni, che vanno dalla gelosia verso la bella figlia del mahārāja del Sikkim
(qui ripetuta nell’intervista: II, 95) al timore di venire oscurato da lui, sia infi-
ne per la sua scarsa disciplina nei confronti del ‘capo’ e per aver osato pubbli-
care sul Tibet senza il suo permesso. Nel caso del visto d’ingresso negato dalle
autorità tibetane nel 1948, poi, Maraini era convinto di essere rimasto vittima
di un inganno architettato da Tucci per impedirgli di essere presente al mo-
mento delle scoperte scientificamente rilevanti. Affermò di averlo appurato
solo molti anni dopo, ma non ha mai chiarito come. Convinzione ribadita un
anno prima della morte nell’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli (2003).
Una posizione al contempo forte e debole. Forte perché, in assenza di te-
stimonianze verificabili, l’opinione non è criticabile: la notorietà del perso-
naggio diventa la malleveria della sua veridicità. Debole d’altronde perché,
per la stessa ragione, è solo un’opinione al pari di altre.
Per EG è diverso. Lei afferma di aver verificato la veridicità delle accuse
di Maraini grazie a una testimonianza riferitale da Roberto Donatoni nove anni
dopo (II, 712, n. 25). Riporto il suo passo per intero:
pare che Gianni Petrini, un italiano buddhista che vive a Dharamsala, in una conferen-
za del 1 dicembre 1999 ha [sic] detto di aver appreso da un anziano monaco-cicerone
[sic] tibetano…, il quale a sua volta aveva saputo la notizia alla corte di Lhasa, un fat-
to accaduto durante la spedizione del 1948. Tucci era ai bordi del Tibet insieme a Ma-
raini, Mele e gli altri compagni; tutti aspettavano i permessi per entrare nel paese.
Quando il nostro [Tucci], come capo spedizione, li andò a ritirare, tornò dicendo che il
permesso era stato concesso solo a lui. Ma il monaco sapeva che erano stati concessi a
tutti (II, 112).

Vi vedo delle contraddizioni difficilmente sanabili. Come faceva il mona-


co, da Lhasa, a sapere quali documenti Tucci avesse ricevuto al confine e cosa
ne avesse fatto? Ancor meno comprendo perché la sua testimonianza sarebbe
inconfutabile, visto che anch’egli parlò solo per sentito dire. Se, d’altra parte,
lui (o il suo contatto alla corte) avesse assistito al misfatto, vorrebbe dire che
Tucci era a Lhasa. Ma è impossibile, perché non aveva ancora ricevuto il per-
messo di varcare il confine tibetano. Uno dei due, evidentemente, non era do-
ve la fonte di EG pretende che fosse. A meno di non immaginarci un prodigio.
La letteratura tibetana ne conosce effettivamente molti, e di complessità anche
maggiore. Io, povero ateo materialista che di queste cose poco capisce e molto
dubita, preferisco attenermi a quel che posso analizzare. La testimonianza,
perlomeno così come è riferita in questa biografia, è una serie di ‘pare’ e ‘sen-
254 O. Nalesini

tito dire’ che nemmeno le facoltà magiche e mistiche di Milarepa possono


tramutare in documento affidabile.
Di questo si è accorta anche EG. Eccola rimediare due pagine dopo pro-
ponendone una seconda versione. La catena di persone che tramandano quel
che altri ricordano è poco credibile perché troppo lunga e voi lettori siete dei
malfidati? Detto fatto: una bella sforbiciata al testo ed ecco una testimonianza
nuova fiammante. Il vecchio monaco diventa testimone diretto dell’inganno e
quel che vide è stato riferito ad EG da uno studioso di sua conoscenza, anoni-
mo ma «persona seria, affidabile e senza motivo alcuno di mentire» (II, 114).
Del che, sia chiaro, non dubito minimamente; sono assolutamente certo che lo
studioso (Donatoni immagino; ma Petrini che fine ha fatto?) abbia riferito
onestamente ad EG quanto da lui appreso. Questo, però, garantisce la sua buo-
na fede, non la credibilità di quanto ha riportato.
L’ingarbugliamento prodotto da EG con queste due versioni della testi-
monianza di certo non aiuta a capire. Sfido chiunque a stabilire su questa base
chi abbia fatto cosa e in quale circostanza, chi abbia visto firmare i permessi,
chi abbia visto Tucci ritirarli e farli sparire e, in genere, come si sia svolta que-
sta vicenda. Insomma: tutto questo parlare alla fine dimostra un bel nulla.
La ricostruzione degli eventi proposta da Garzilli non solo è intrinseca-
mente troppo debole per poter essere accettata come conferma dei sospetti di
Maraini, ma è anche parziale. Lei sostiene che quel che Tucci scrisse
dell’incidente fu «modificato ad arte» (II, 117), ma non espone le ragioni di
questo giudizio. Non ne ha sentito il bisogno, perché parte dal pregiudizio che
l’opinione di Maraini è verità sacrosanta. Per questo non si cura di confrontar-
la con quella di Tucci, né di prendere in considerazione i documenti sulla vi-
cenda che sono stati recentemente pubblicati. Essi mostrano una realtà e un
gioco di relazioni tra i protagonisti più complesso di quanto i due attori princi-
pali della storia abbiano scritto. EG questi documenti li conosce; dall’articolo
in cui sono pubblicati ha tratto alcune informazioni inserite nella seconda edi-
zione della biografia ma assenti nella prima, depositata alla Braidense quando
l’articolo era ancora in stampa: la lettera di Nuvoloni a Maraini del novembre
1948 e la realizzazione del cortometraggio di Mele sul Tibet (II, 94-95; cfr.
Nalesini 2012a: 134-35 e n. 24).
Riepilogo dunque la vicenda come la vedo io. Nonostante l’esperienza in
Tibet e le eccellenti qualità di fotografo, Maraini fu ignorato da Tucci mentre
organizzava la spedizione a Lhasa. Rientrò nell’impresa a ridosso della par-
tenza. Come abbia fatto non lo so, ma sospetto che fu Mele ad insistere per
averlo a suo fianco nella realizzazione del documentario; essendo Mele dive-
nuto un finanziatore della spedizione dopo il fallimento delle trattative con alcu-
ne case di produzione cinematografica, Tucci avrà accondisceso per necessità.
Dopo tutto – avrà pensato – il contratto con Mele gli garantiva che Maraini
avrebbe occupato una posizione subordinata. E probabilmente tanto bastava. Ma
la lunga sosta al confine determinò un aumento dei costi a carico di Mele. Per
Onori e nefandezze di un esploratore 255

questo alla fine egli, dopo essersi consultato con Tucci, decise di licenziare
Maraini (Nalesini 2012a: 134-35).
Perché Tucci non lo scrisse? Per una ragione semplicissima: Mele era il
rampollo di due importanti famiglie di imprenditori, i Mele di Napoli, di cui
Davide, padre del fotografo, fu anche senatore dal 1939, e i Matarazzo di Rio
de Janeiro, questi ultimi creatori di un vero e proprio impero economico in tut-
ta l’America Latina sotto il marchio delle Indústrias Reunidas Francisco
Matarazzo. Mele poteva dunque attingere a cospicue risorse economiche e
vantava influenti conoscenze anche nel cinema e nella moda;73 inoltre, aveva
una sua casa di produzione cinematografica negli Stati Uniti. Sarà infatti a Los
Angeles che Tucci e Mele si recheranno nel dicembre del 1948, subito dopo
essere tornati dal Tibet, per portare avanti la produzione di due documentari.
Uno di questi, Tibet proibito, vincerà ex-aequo il premio come miglior corto-
metraggio alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del
1949 e sarà proiettato nel 1951 al Museum of Modern Art di New York (Nale-
sini 2012a: 135-36). Insomma, Tucci aveva bisogno di Mele, ma questi aveva
un carattere difficile e suscettibile, come risulta chiaramente dalla sua corri-
spondenza con Maraini, e Tucci preferì non rischiare di urtarlo rivelando un
episodio che il fotografo probabilmente preferiva venisse scordato.
L’importanza di Mele per Tucci in quegli anni può essere desunta da una
lettera scritta da Andreotti a EG e da lei debitamente riportata in questa bio-
grafia. L’autrice, purtroppo, non ha colto lo spunto. Per spiegarle come mai
aveva portato con sé Tucci nel viaggio in America Latina del 1951, il senatore
le ha riferito che la sua presenza era stata richiesta «da cospicue famiglie italo-
brasiliane» (II, 391). Non ha ricordato il loro nome, ma non è difficile imma-
ginare che si trattasse dei fratelli della madre di Mele, divenuta nel frattempo
un dirigente del Partito Nazionale Monarchico: i Matarazzo.
Non so come continuarono i rapporti tra Tucci e il fotografo dopo di allo-
ra, ma credo che i due rimanessero in contatto. È forse significativo che la sera
del 27 settembre 1982 Mele organizzasse nella sua casa una serata in onore del
Dalai Lama, in visita a Roma, e annunciasse di aver dato vita a una fondazio-
ne, con sede legale a New York, che avrebbe aiutato economicamente il go-
verno tibetano in esilio (Anonimo 1982; European 1991: 1479). Tucci morì
due anni dopo e del sostegno della Fondazione Mele al governo tibetano non

————
73
Tra queste la baronessa Luciana Aloisi de Reutern, per la quale Mele consegnò a Maraini una
lettera di presentazione (dal contenuto indisponente nei confronti del fiorentino, per usare un
eufemismo) il giorno della separazione al confine tibetano. Nota per aver sposato il barone
russo Max de Reutern, direttore di Coco Chanel e Jeanne Paquin, nel 1943 la Aloisi aveva aiu-
tato Alessandro Pavolini a contattare l’ambasciata tedesca di Roma, dopo l’arresto di Mussoli-
ni, per organizzare la sua fuga in Germania (Nistri 2000: 85). In seguito aveva lavorato nella
moda e disegnato gioielli per Gucci ed Elisabeth Arden, oltre che in proprio. Mele eseguì per
Elizabeth Arden il reportage fotografico ‘Around the World: Pictures of Our Time’ (1970),
mentre la moglie Dreda è stata la direttrice del negozio parigino di Armani e poi di Givenchy.
256 O. Nalesini

se ne fece nulla.74 Forse una semplice coincidenza, che ci porta però ad accen-
nare a un evento occorso nove anni prima.
Il 30 settembre 1973 il Dalai Lama giunse a Roma per incontrare in veste
ufficiale Paolo VI. Non vi fu alcun contatto con il governo italiano e Tucci si
rifiutò di incontrare il capo tibetano, con l’inevitabile strascico di polemiche
sui quotidiani, ora ripreso da EG (II, 418-25). Nessuno sembra aver preso in
adeguata considerazione la possibilità che Tucci, come presidente di un istitu-
to che curava le relazioni culturali con l’Asia per conto del governo, non po-
tesse agire in maniera contraria all’indirizzo politico del momento, che era
quello di rafforzare le relazioni diplomatiche con Pechino ristabilite solo tre
anni prima. Anche un incontro in veste privata avrebbe potuto essere interpre-
tato alla stregua di un evento ufficiale, vista la posizione e notorietà di Tucci.
Perciò, che fosse persona coraggiosa oppure gretta e meschina (come sostenne
Fosco Maraini, avendo però avuto cura di scriverlo dopo la morte dell’inte-
ressato), all’indirizzo politico Tucci si sarebbe dovuto attenere.
La storia di quei giorni è in realtà ancora da scrivere: si conoscono in pra-
tica solo le fonti giornalistiche. Non escludo che Tucci abbia tenuto un atteg-
giamento ufficiale consono alle direttive del governo, ma abbia agito dietro le
quinte per agevolare l’incontro. In tal caso anche l’iniziativa di Mele del 1982
potrebbe essere nata da un interessamento di Tucci. Ipotesi, sia chiaro, ma che
a mio avviso meriterebbe appurare.
Le ragioni dei cattivi rapporti tra Maraini e Tucci sono dunque più varie e
complesse di quelle solitamente indicate e sarebbe errato cercare un unico re-
sponsabile. Non ho difficoltà a credere che ci fossero invidia, rivalità o simili
sentimenti. Ciò tuttavia non inficiò completamente il loro rapporto, nemmeno
dopo la spedizione a Lhasa. Stando alla documentazione conservata dal Gabi-
netto Viesseux di Firenze, Tucci firmò per Maraini una lettera di presentazio-
ne per fargli ottenere la fellowship ad Oxford nel 1959 e cercò di coinvolgerlo
nella visita a Roma di una delegazione della Repubblica Popolare Cinese negli
anni Cinquanta, quando ancora non esisteva il riconoscimento diplomatico tra
i due paesi.
Anche per quanto riguarda la pubblicazione dei libri (Maraini 1939, 1942,
1984), oltre agli articoli, non credo che si possa ridurre tutto a una questione di
tabù infranti. Per quanto riguarda Dren Giong, c’è anzi la testimonianza di
Giulia Nuvoloni sull’apprezzamento del libro espresso dal marito.75 Più com-
plessa la questione di Chibetto, il libro fotografico pubblicato a Tokyo nel
1942 con le pose scattate durante la spedizione del 1937. Il contratto firmato
da Maraini con l’Accademia d’Italia prevedeva che le sue fotografie sarebbero
state acquistate dal capo spedizione con i fondi messi a disposizione
————
74
La serata romana è l’unico contatto con Mele registrato dalla segreteria del Dalai Lama (Ten-
zin Taklha a O. Nalesini, 21 aprile 2011).
75
G. Nuvoloni a F. Maraini, Roma, 15 dic. 1939 (ACGV, Fosco Maraini).
Onori e nefandezze di un esploratore 257

dall’Accademia stessa, tranne cento, «di carattere più artistico che documenta-
rio», che sarebbero rimaste al fotografo con l’impegno di utilizzarle solo dopo
la pubblicazione del diario del viaggio. Clausola comprensibile, perché i pro-
venti del libro avrebbero coperto parte delle spese della spedizione effettuata o
di quella futura. Le spedizioni degli anni Trenta erano auto-finanziate, nel sen-
so che i fondi pubblici erano insufficienti, e Tucci raccattava tutto quello che
poteva. Il diario del 1937 non fu pubblicato, ma nelle more Tucci avrà preteso
il rispetto del contratto, mentre Maraini si sentì forse sciolto dall’impegno
stante il tempo trascorso. Fatto sta che, per ventura o per calcolo, Chibetto uscì
un anno dopo il libro di Tucci (1941) su Gyantse.
È certo invece che i negativi e le pellicole cinematografiche della spedi-
zione rimasero a Maraini. Il Gabinetto Viesseux conserva anche una cartolina
postale non datata, ma direi risalente al 1938, con cui Tucci chiedeva a Marai-
ni notizie del film. Evidentemente, sia per le fotografie che per il documenta-
rio qualcosa andò storto; vuoi per mancanza di fondi, vuoi per incomprensioni
o responsabilità di qualcuno: lo ignoro. Posso però facilmente immaginare che
a Tucci la cosa non sia andata a genio. Le diffidenze a quel punto saranno sta-
te reciproche e nell’immediato dopoguerra ancora sentite. Il che spiega come
mai Tucci non pensò a Maraini mentre organizzava la spedizione del 1948.
Dubbi sui propri doveri attanagliarono Maraini mentre scriveva, su solle-
citazione dell’editore De Donato, il suo Segreto Tibet. Anche quella volta
Tucci aveva preteso un impegno scritto a non pubblicare nulla prima del capo
spedizione e comunque entro due anni dal ritorno. Benché Tucci avesse aper-
tamente dichiarato di non considerarlo un membro della spedizione perché
non aveva valicato il confine, Maraini manifestò agli amici il timore di inimi-
carsi definitivamente Tucci se si fosse comportato di conseguenza, ovvero
sciolto dagli impegni sottoscritti prima della partenza.
Il 2 febbraio del 1950 scrisse a Tucci inviandogli due suoi recenti articoli
sul Tibet e assicurandolo di non volergli fare concorrenza. La risposta di Tuc-
ci, del 10 febbraio, è che il Tibet non è proprietà privata e chiunque può scri-
verne. Coglie l’occasione per fargli notare un paio di errori che avrebbe potuto
correggergli se gli avesse sottoposto il testo prima di mandarlo in stampa.
Quello di Maraini è un modo per mettere la mani avanti e ottenere una
‘liberatoria’ definitiva. Ha taciuto a Tucci che il suo libro è pressoché finito.
La lettera-recensione di Bernard Berenson, che Maraini utilizzerà come intro-
duzione, è infatti datata 23 marzo 1950. Ciò nonostante, Maraini attenderà la
fine dell’anno per licenziarne le bozze, alcuni mesi dopo l’uscita della prima
edizione del libro di Tucci A Lhasa e oltre (Nalesini 2012a: 136-37). Almeno
sul piano formale, Tucci non avrebbe potuto lamentarsi di alcunché.
Non vorrei dilungarmi oltre su questo argomento. Era tuttavia necessario
toccare dei punti che EG ha trattato replicando argomenti triti e analisi super-
ficiali. L’ipotesi del complotto orchestrato da Tucci ai danni di Maraini non
sta in piedi. Se Tucci avesse realmente pianificato di escludere Maraini dalla
258 O. Nalesini

spedizione, questi non avrebbe nemmeno messo il piede sulla passerella della
nave per Bombay al porto di Napoli. Che senso aveva spendere un bel po’ dei
pochi soldi disponibili solo per far arrivare una persona ai confini del Tibet e
rimandarla indietro con un trucco? E tutta la fatica (oltre alla munifica mancia
competente) che ciò avrebbe comportato per coinvolgere nell’inganno funzio-
nari tibetani e indiani? E per quale ragione avrebbero dovuto assecondarlo?
Per questo insieme di ragioni ritengo che il mancato rilascio del lascia-
passare a Maraini fu determinato dall’accavallarsi di situazioni non previste.
Tucci ebbe certamente delle responsabilità nell’accaduto, nemmeno piccole
come ho spiegato altrove, e probabilmente non pianse quando si trovò nella
necessità di sacrificare Maraini. Ma affermare che abbia pianificato tutto a ta-
volino è illogico. Che poi l’insieme degli eventi sopra delineato e la delusione
per essere rimasto escluso abbiano generato in Maraini la convinzione di esse-
re stato vittima di un intrigo è cosa comprensibilissima. Oggi possiamo solo
rammaricarci che queste due menti eccezionali, e per molti versi complemen-
tari, non abbiano trovato il modo di convivere e collaborare.
Il capitolo X, dedicato alle spedizioni nel Nepal occidentale del periodo
1952-1954, presenta un deciso miglioramento dello stile narrativo, ma merita
solo una fugace menzione perché contiene null’altro che il riassunto di quanto
Tucci ha scritto. Maggior risalto avrebbero comunque meritato i suoi collabo-
ratori, tra cui Francesca Bonardi (Rossi 2012), nonché i medici (e all’occasio-
ne fotografi e cineasti) Concetto Guttuso e Vito Amorosino.
Sotto la direzione di Tucci, l’attività archeologica e di restauro monumen-
tale svolta dall’IsMEO a partire dal 1956 prima in Pakistan e successivamente
in Afghanistan e Iran ha costituito uno dei fiori all’occhiello della ricerca ita-
liana sino agli anni Settanta (Faccenna 1995). In seguito l’Istituto avrebbe ul-
teriormente espanso la sua presenza in paesi quali Oman, Yemen, Kuwayt,
Nepal, Ungheria, le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, Cina, Arabia
Saudita. Una trattazione dell’argomento era dunque indispensabile ed EG non
si è sottratta al compito. Tuttavia, il preconcetto dell’appartenenza del Museo
Nazionale d’Arte Orientale all’IsMEO, e poi all’IsIAO, le ha giocato un brutto
scherzo. Non riuscendo a comprendere l’esistenza di due istituzioni separate,
attribuisce al Museo, «e quindi dell’IsIAO» (II, 329), progetti che sono stati
condotti dai due istituti autonomamente uno dall’altro, e persino altri che nes-
suno dei due istituti ha organizzato o gestito.
Le ricerche in Tajikistan dell’IsIAO, per cominciare, non hanno nulla a
che fare con quelle del MNAO. Quanto al Lazio meridionale, si tratta dello
scavo di Monte d’Argento, nel comune di Minturno, iniziato negli anni Ottan-
ta per trovare tracce della presenza saracena, documentata dalle fonti scritte
del X secolo. Il Museo avviò il progetto assecondando gli stimoli di Umberto
Scerrato e David Whitehouse (allora direttore della British School at Rome) e
anche qui l’IsMEO non ci entrò mai.
Onori e nefandezze di un esploratore 259

In altri casi il personale del Museo è stato chiamato a partecipare ai can-


tieri organizzati da altre istituzioni, senza che ciò abbia comportato una cura
del MNAO su quelle attività. Così è stato con le missioni in Thailandia, Indo-
nesia, Kuwayt, Nepal, Iran, Pakistan, Oman e Yemen (con l’IsIAO), Laos (Po-
litecnico di Milano e UNESCO), Russia (Politecnico di Milano e Accademia
Russa delle Scienze), in India con il progetto conservativo su Ajanta (Istituto
Superiore per la Conservazione ed il Restauro), Uzbekistan e Siria (Università
di Roma ‘Sapienza’). Attribuire gli scavi in Siria all’IsIAO suona poi beffar-
do; come fa Garzilli a ignorare le scintille che scoccarono a cavallo degli anni
Settanta e Ottanta tra Paolo Matthiae e Giovanni Pettinato, rispettivamente di-
rettore e filologo della missione, che coinvolse archeologi dell’IsMEO e
dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, provocando una profonda frat-
tura nel mondo accademico?
La stessa approssimazione e le usuali contraddizioni affliggono l’esposi-
zione dei principali scavi archeologici organizzati dall’IsMEO sotto la presi-
denza di Tucci. A p. 328 del secondo volume EG ricorda la sua ricognizione
nel Sistan del 1959, affermando correttamente che si mosse sulla base dei dati
raccolti nel 1906 da Tate. Quest’ultimo, per inciso, non era un archeologo ma
un funzionario della Survey of India. Non comprendo perché EG definisca
«fantasma» i siti archeologici da lui scoperti, come se esistessero solo nella
fantasia. La città protostorica di Shahr-e Sokhteh, con i suoi oltre 150 ettari
d’estensione, mi pare cosa molto reale. È inoltre falso che i suoi scavi «conti-
nuarono sino alla fine degli anni Sessanta», perché in quel periodo, per la pre-
cisione nel 1967, iniziarono!
Più avanti, in questo stesso volume, EG svolge lo stesso argomento in
modo diverso e, malauguratamente, ancora infarcito di errori (II, 402-4). Af-
ferma che l’IsMEO condusse scavi tra il 1960 e il 1965 «in Sistan, nell’Iran
del sud, e nel nord Baluchistan». Ma non sono tre zone diverse! EG ha appic-
cicato uno dopo l’altro nomi che rimandano alla medesima entità territoriale: il
Sistan è una regione geografica che costituisce la parte settentrionale della
provincia iraniana di Sīstān o Balōčestān, a sua volta collocata nell’Iran sud-
orientale. Poi confonde le date, perché il primo scavo iniziò nel 1962 nel sito
achemenide di Dahan-e Ghulaman, sotto la direzione di Umberto Scerrato, e si
protrasse fino al 1966. Nel frattempo erano iniziati gli scavi in altri siti di di-
verse epoche. Solo nel 1967, come ho detto, sarebbe stato aperto il cantiere di
Shahr-e Sokhteh. Questo scavo continuò sino alla rivoluzione khomeinista del
1978, benché con attività ridotta negli ultimi anni; in tempi recenti vi è ripresa
la collaborazione tra archeologi italiani e iraniani. Un piccolo appunto: EG parla
della «città distrutta dal fuoco» in un primo momento come se fosse vissuta inin-
terrottamente dal IV millennio a.C. sino all’epoca di Tamerlano, quando sarebbe
stata bruciata. Si corregge nella pagina successiva, dove indica la sua fine verso
il 2100 a.C. La città si disgregò in realtà qualche tempo dopo, attorno al 1800
a.C. Inoltre, Città Bruciata (questo significa Shahr-e Sokhteh) è il toponimo mo-
260 O. Nalesini

derno. Sono stati trovati edifici bruciati, ma la fine dell’insediamento urbano è


attribuito al collasso economico e sociale, non a un’invasione militare.
Continuando nella rassegna, EG afferma che le ricerche archeologiche nel
Sistan si proponevano di scoprire il «centro di diffusione della religione di Za-
rathustra perché» – udite! – «anche dopo la diffusione dell’islam, in Iran fiori-
rono ancora tante leggende che esaltavano il vate» (II, 405). È l’ennesimo er-
rore causato da una conoscenza insufficiente delle ricerche condotte
dall’IsMEO. L’autrice qui ha ripreso un articolo di Callieri (2006: 16; non ci-
tato e mal digerito), in cui si accenna all’importanza del Sistan nella religione
zoroastriana. La posizione privilegiata occupata da questa regione nei testi
avestici era stata notata ben prima degli scavi dell’IsMEO, ma nessuno la ave-
va mai pensata come l’area di origine della religione zoroastriana. Questa ipo-
tesi fu avanzata da Gherardo Gnoli (1967: xi) dopo l’avvio delle ricerche ar-
cheologiche nel Sistan, non prima. Da rimarcare inoltre l’improprio appellati-
vo di vate rivolto a Zoroastro e le deboli ragioni che, secondo EG, avrebbero
indotto Tucci a iniziare quelle ricerche.
Assolutamente inadeguata è infine la discussione dei restauri della capita-
le achemenide di Persepoli e dei monumenti safavidi di Esfahan (II, 328 e
408), a cui vanno aggiunti, per restare in Iran, i restauri del mausoleo del so-
vrano ilkhanide Öljaitü a Soltaniyeh, gli scavi a Tepe Hissar, ecc. Concludo
ricordando alcuni degli archeologi e architetti che ebbero un ruolo di primo
piano nei cantieri dell’IsMEO di quegli anni, ma risultano sconosciuti a Gar-
zilli: Eugenio Galdieri, Guglielmo De Angelis D’Ossat, Giorgio Stacul, Mau-
rizio Tosi, Giorgio Gullini, Giuseppe Zander, Giuseppe Tilia.
Come è noto, la morte di Tucci produsse alcune polemiche perché, a di-
spetto della sua dichiarata incredulità, e della sua particolare simpatia per
l’etica buddhista, fu divulgata una nota in cui egli dichiarava di essere tornato
alla chiesa cattolica e la sua cerimonia funebre fu celebrata da un sacerdote
cattolico. EG pone giustamente in luce come questa conversione presenti dei
lati oscuri (II, 447-48). Vorrei integrare la sua nota con un fatto da lei non ri-
portato. Tre anni dopo, padre Giuseppe Toscano intervenne asserendo che
Tucci, pochi mesi prima della morte, gli aveva chiesto di aiutarlo a tornare alla
fede natia e pubblicò a sostegno di questa sua affermazione la trascrizione del-
la lettera indirizzata al Pontefice che lo stesso Tucci gli avrebbe dettata (To-
scano 1987). Questa lettera contiene tuttavia, a mio parere, alcune posizioni
difficilmente conciliabili con quanto Tucci aveva scritto sino a non molti anni
prima a proposito della propria religiosità che rendono ancora difficile espri-
mersi sulla genuinità della conversione.
Alla fine del libro il lettore trova una cronologia, la bibliografia, l’elenco
delle fonti archivistiche (II, 514-24) e delle interviste (II, 533-35), nonché un
«indice biografico dei nomi» che occupa ben centodue pagine (II, 603-704). È
un indice insolito, perché fornisce una biografia di lunghezza variabile per
Onori e nefandezze di un esploratore 261

ogni nome personale citato nel libro,76 ma non riporta le pagine in cui quei nomi
sono menzionati. Superfluo sottolineare quanto la consultazione del libro ne
venga ostacolata. Non è molto utile sapere dell’esistenza dell’amico Bhavnani,
del cameriere nepalese Chandra, dell’uomo di fatica Sheikh, del portatore Gio-
vannino, del cuoco Van Tenzin, del kashmiro Ganemide, del pandit Dhruba,
della studentessa Sidera Costante, del fotografo Guha, del militare nepalese Ba-
laram, del mussulmano Ebrahim o dei cani Rincen e Tsering, se non possiamo
associarli a un qualche evento della vita di Tucci per mancanza di date, né risali-
re alla pagina che li riguarda. E ciò a maggior ragione per nomi di peso storico
quali Formichi, Gentile, Nuvoloni, Mussolini, Federzoni, Andreotti, ecc.
Le informazioni biografiche fornite da questo indice non hanno nulla di
particolare, e possono facilmente essere reperite su enciclopedie e simili stru-
menti di consultazione in biblioteca o internet. Mi chiedo dunque quale utilità
abbiano. E che dire delle molte voci rimaste inspiegabilmente vuote, come, ad
esempio, Bellagi, Bencivieni (detto Cimabue), Botticelli Alessandro, Buonar-
roti Michelangelo, Berlusconi Silvio, Einstein Albert, Erodoto, Foscolo Ugo,
Mughini Renata, Petrarca Francesco, Shakespeare William, Ungaretti Giusep-
pe, Wilde Oscar, Wright Herbert Francis? Vi sono pure voci in odore di pe-
danteria quali «Abramo, personaggio biblico» e «Maria o Madonna», e riman-
di curiosi come «Profeta, vedi Maometto». Per inciso, Giuseppina Scalabrino
Borsani non è stata presidente dell’IsMEO e il cognome da nubile di Ann Britt
Tilia era Peterson.
Un altro vuoto sconcertante di questa biografia riguarda l’Abruzzo. Gra-
ve, perché questa regione può a buon diritto considerarsi la patria adottiva di
Tucci: una terra a cui si sentiva certamente più legato che alle native Marche,
come hanno testimoniato in diversi (Maraini 1938; Nuvoloni Tucci 1941;
Biordi 1959). Vi trascorreva tutto il tempo che poteva e ad essa ha dedicato
una parte del suo impegno intellettuale (Tucci 1934b, 1970b). Tucci fu il pri-
mo a riconoscere il valore dell’opera di Francesco Giuliani (2001: lvii), il poe-
ta-pastore di Castel del Monte, che visitò nel 1930. Ricordo poi la sua amicizia
con il medico Gerardo Rasetti. Presentò a Pettazzoni il suo libro Il Giudizio
universale in arte e la pittura medioevale abruzzese (Pescara, Tempo nostro,
1935) perché concorresse per l’assegnazione del premio di incoraggiamento
della Reale Accademia d’Italia del 1936 (Gandini 2002: 181-82). Nel 1948, a
cinque anni dalla morte, Tucci compose l’epigrafe «Humanitatis exemplum |
doctrinae magister» che figura sul busto di Rasetti eretto a Loreto Aprutino e
in seguito fu nel comitato nazionale per le sue onoranze (R.B. 1963; Tucci
1959). Non dimentichiamo poi gli articoli sull’Abruzzo ospitati dalle prime
annate di East and West.

————
76
Qualcuno manca, in realtà; ad esempio Donatoni, ricordato a p. 712, nota 25, del II volume.
262 O. Nalesini

Sottopongo ora all’attenzione del lettore una selezione di inesattezze,


strafalcioni e affermazioni discutibili, più o meno seri o divertenti, in cui mi
sono imbattuto. L’elenco completo avrebbe richiesto uno spazio eccessivo.
I, 12: considerando che il libro è rivolto a un pubblico generico, definire il
buddhismo theravāda «quello originario» senza fornire spiegazioni è fuorviante.
I, 39: EG lamenta di non aver potuto considerare i testi tibetani riportati
da Tucci perché l’elenco è stato pubblicato «quasi interamente» solo nel 1999.
Aggiungo che il secondo volume del catalogo è apparso nel 2003, ovvero ri-
spettivamente 13 e 9 anni prima della stampa della biografia: un tempo più che
sufficiente per gli approfondimenti.
I, 131: trattando la partenza di Tagore per l’Italia nel 1926, EG scrive che
«Tucci e Formichi sulla nave che li portava in Italia avrebbero isolato Tagore
dai suoi accompagnatori». Affermazione errata, perché nel 1926 solo Formichi
partì con Tagore; Tucci rimase in India. I due sembra avessero tentato di im-
pedire a P.Ch. Mahalanobis di imbarcarsi sullo stesso piroscafo di Tagore
(Prayer 1995: 33-34).
I, 154: «È appoggiato a una specie di colonna o muricciolo di pietre so-
vrapposte, che è un mchod rten, un tipo di mausoleo a Buddha». Difficile
comprendere come faccia EG a paragonare una colonna di pietre a secco a uno
stūpa e questo a un mausoleo. Comunque, la struttura a cui Tucci sembra ap-
poggiarsi in questa foto (AFMNAO neg. dep. 6425) è appunto una colonna di
pietre, senza alcun elemento costitutivo dello stūpa (aṇḍa, harmika, ecc.).
I, 159-63: EG interpreta la corrispondenza relativa all’incarico di Lingua
cinese presso il Regio Istituto Orientale di Napoli come espressione di traco-
tanza, sottolineando la pretesa di Tucci di ottenere un trattamento economico
pari a quello degli altri docenti universitari e di essere assistito da un madre-
lingua. A me ha dato un’impressione differente. Riconoscere i propri limiti è
segno di onestà intellettuale; né capisco perché, svolgendo lo stesso lavoro di
altri docenti, Tucci avrebbe dovuto accettare un compenso minore.
I, 173: nel 1930 il Ladakh «faceva già parte del Jammu e Kashmir». Il
‘già’ sembra alludere a una conquista recente; in realtà il Ladakh era stato an-
nesso al Kashmir nel 1834.
I, 259: «a Delhi studiò con la solita accuratezza la decorazione sul muro
vicino a un padiglione del Khas Mahal nel monumento del Lal Qila». Un’in-
venzione: Tucci non ricorda in nessuna pubblicazione di aver studiato in parti-
colare quelle decorazioni. Ci sono, è vero, delle fotografie, verosimilmente
scattate da Giulia Nuvoloni, che ritraggono le pareti istoriate del Lāl Qilā (ma
di Agra, non di Delhi: AFMNAO neg. dep. 6188, 6253, 6340); ciò prova so-
lamente che Tucci ha visitato quel monumento.
I, 274: «nel 1930 si fermò qualche mese a casa, in Italia centrale». La fon-
te è qui di nuovo l’archivio fotografico, dove si conservano alcune pose realiz-
zate durante una escursione sulla Majella. Nell’inventario sono state tutte indi-
cate come Italia centrale, appunto, e datate provvisoriamente al 1931 perché
Onori e nefandezze di un esploratore 263

sono state probabilmente scattate con la stessa macchina fotografica usata nel-
la spedizione tibetana di quell’anno. Tucci vi presenta però un aspetto più ma-
turo di quello visibile nelle fotografie delle spedizioni del 1933 e del 1935, e
furono in parte pubblicate dalla moglie (Nuvoloni Tucci 1941).
I, 287: Delhi, Kathmandu e Leh sono «città distanti … ideologicamente
dalla cultura latina». Cosa vuol dire?
I, 314: vengono fornite informazioni errate sul contenuto dell’accordo tra
Ciano e Perth del 1938, il cosiddetto Accordo di Pasqua. Il patto non prevedeva il
ritiro di truppe italiane dalla Libia: anzi, nemmeno la menziona (Accordo 1939).
I, 352: per collaborare con l’Enciclopedia italiana era necessario essere
«riconosciuti dal regime come scienziati e come fascisti». Non è così. L’Enci-
clopedia rimase aperta alla collaborazioni di non fascisti e persino di anti-
fascisti; EG dovrebbe sapere che Gentile, per perseguire la legittimazione del
regime, permise la collaborazione di dichiarati antifascisti come Gaetano De
Sanctis, Ludovico Geymonat, Giorgio Levi Della Vida, Luigi Einaudi (Turi
2006: 451-54).
I, 357-61: Nell’introdurre la costituzione della Reale Accademia d’Italia,
EG non ha ricordato che Tucci ne divenne membro sì dal primo anno, il 27
settembre 1929, ma in sostituzione di Alfredo Trombetti, deceduto in un inci-
dente a Venezia (Amendola 1978: 279; Toffanin 1987: 129).
I, 399-400: il nome della rivista Yamato, pubblicata dall’IsMEO, era quel-
lo «della più grande nave da battaglia della Marina imperiale giapponese». La
ossessiva ricerca dei legami tra Tucci e il fascismo ha indotto l’autrice a vedere
nel titolo della rivista italiana il segno dell’ammirazione per la forza militare
nipponica. Ma le navi, come è noto, vengono chiamate in ricordo di luoghi o
personaggi importanti. In questo caso si trattava del nome antico della prefettura
di Nara, nome poi passato alla dinastia regnante e dal XIX secolo utilizzato dai
movimenti nazionalisti per definire l’etnia maggioritaria delle isole giapponesi.
Una motivazione assai più ragionevole per il titolo della rivista.
I, 495: dal 1931 Tucci e la moglie sono stati accompagnati nelle spedizio-
ni «per brevi tratti, da galline»! È un vero peccato che EG non fornisca la fon-
te di questa interessantissima informazione. Qui davvero lo storico si ramma-
rica di non avere a disposizione una fotografia che immortali Tucci mentre di-
scute con i simpatici pennuti su quale sentiero imboccare o sull’interesse degli
ultimi ritrovamenti!! Scherzi a parte, non mi risulta che Tucci abbia portato
con sé galline, per la semplicissima ragione che accudirle viaggiando a piedi
nel Tibet avrebbe costituito un onere di gran lunga superiore alla gioia di bersi
di tanto in tanto un ovetto fresco.
I, 500: «Tucci conosceva appieno l’importanza di questi studi [di geogra-
fia storica del Tibet] e nel 1931 pubblicò… un curioso articolo sui viaggi… di
un asceta buddhista del XVI secolo che raggiunse il Madagascar». Non è esat-
to. Per Tucci il testo sulle peregrinazioni del sādhu non era importante per la
264 O. Nalesini

geografia storica del Tibet, ma per la storia delle conoscenze geografiche dei
tibetani (Tucci 1971: 306), che è altra cosa.
I, 509: Ghersi «pubblicò anche delle foto, scattate in Cina nel 1936». Le
foto furono pubblicate nel 1936, ma scattate nel 1931-1932.
I, 598: «... il 10 luglio [Tucci] arrivò al monastero di Ju che sarà distrutto
nel 1959. È stato poi ricostruito il Sershul Gonpa dei Gelugpa, che ora sta nel-
la contea di Shiqú Xiàn della provincia cinese del Sichuan». È impossibile
comprendere quali sottili nessi corrano tra la distruzione di un monastero sulle
sponde del lago Manasarowar, Tibet occidentale, e la ricostruzione di un altro
monastero, quasi duemila chilometri a est. E perché questo monastero di tro-
verebbe ‘ora’ nel Sichuan? Dove era prima, e chi ve lo ha portato?
I, 615: «L’Asia è piena di persone dotate di poteri eccezionali» deve esse-
re considerata assieme alla frase «il grande maestro Matsyendranātha visse ol-
tre quattrocento anni» (I, 633) non per il contenuto, che di per sé è stravagante
ma innocuo, quanto per la funzione di segnale della impronta irrazionalistica
che permea l’intero libro.
I, 632: «compiere il giro del Kailasa a piedi… è riservato ai pochi che
l’affrontano con animo puro e sincero». L’autrice confonde qui l’ideale con la
realtà del pellegrinaggio; nessuno del resto potrebbe fermare un pellegrino asse-
rendo che il suo animo non sia puro, per la semplice ragione che nessuno alber-
ga nel cuore di un altro. E comunque, anche all’epoca di Tucci il pellegrinaggio
al Kailasa, non diversamente da quello a Gerusalemme o alla Mecca, poteva es-
sere un fatto spirituale o di distinzione sociale per i singoli e, al contempo, un
buon affare per i monasteri, che certamente non avrebbero visto di buon occhio
un decrescere del flusso di visitatori per ragioni meramente spirituali.
I, 637: «il viaggio del 1935 e quello successivo del 1937… furono… an-
che dei veri e propri percorsi iniziatici». Forse perché tacciato così di sovente
di ingratitudine, arrivismo ecc., Tucci si è preso una piccola rivincita inducen-
do EG in errore. Nella prefazione alla ristampa del libro sulla spedizione del
1935, Tucci (1978: 15) ricorda di aver ricevuto un’iniziazione dall’abate di
Sakya. Vuoi per l’affievolirsi della memoria, vuoi per un refuso tipografico,
questa testimonianza è incongruente, ma EG non se ne è accorta. Nel 1935
Tucci visitò il Tibet occidentale; a Sakya vi andò per la prima e unica volta nel
1939. In questa prefazione si riferì verosimilmente alla cerimonia cui assistette
nel monastero sakyapa di Purang (Taklakot), ottenendo poi dall’abate di farla
ripetere per lui (Id. 1978: 35-36). Il rito è descritto da Tucci nei dettagli, ma
non è definito iniziazione. In tal caso, del resto, bisognerebbe sapere di quale
iniziazione trattavasi. Tucci (1952: 125) ci ricorda che quelle serie potevano
durare mesi e questo certamente non fu il suo caso perché il rito si risolse in
qualche ora. Quella di cui Tucci ci rende partecipi è un’esperienza che com-
prensibilmente uno studioso del buddhismo volle vivere in prima persona; di
simili esperienze nell’ambito di altre tradizioni religiose ne ebbe in Bengala
(R. Gnoli 1995: 16). Non vedo come da questa scarna notizia si possa desume-
Onori e nefandezze di un esploratore 265

re un intento iniziatico esteso all’intero viaggio e nemmeno inferire tendenze


mistiche nell’operato di Tucci.
II, 22: «gli albori dell’indologia… si nutrirono del mito della pura razza
ariana»; chissà cosa ne avrebbe pensato William Jones, per l’appunto uno dei
padri fondatori dell’indologia moderna, per cui gli Indiani «had an immemo-
rial affinity with the old Persians, Ethiopians, and Egyptians, the Phenicians,
Greeks, and Tuscans, the Scythians or Goths, and Celts, the Chinese, Japane-
se, and Peruvians» (Jones 1799: 34) e la storia dell’Asia poteva essere intesa
solo prendendo in considerazione il secolare interscambio tra i popoli di
un’area amplissima, che andava dall’Africa al Pacifico (Id. 1807: 3-5).
II, 33: Tucci «scrisse una lettera a Gentile dicendogli – mentendo – di es-
sere a Lhasa». EG ha nuovamente scordato di verificare i documenti. Tucci
non mentì affatto a Gentile. Si trattò di un equivoco causato da una errata in-
terpretazione della orrenda grafia di Tucci. Questi scrisse al presidente della
Reale Accademia d’Italia, Federzoni, per richiedere l’invio di denaro mentre
preparava la partenza da Sakya alla volta di Gyang e Lhatse. Federzoni, che
ovviamente conosceva il nome della capitale tibetana e non quello della locali-
tà dove Tucci si stava per dirigere, scambiò la ‹t› di Lhatse per una ‹s› lunga e
girò le richieste di Tucci a Gentile scrivendo appunto «Lhassa».77
II, 44: ci vuole coraggio ad affermare che l’arte del Gandhāra è oggi «un
fenomeno di massa»!
II, 61: «su carta protocollata dell’IsMEO (ma senza numero di protocol-
lo)»; immagino intendesse ‘carta intestata’.
II, 116-17: «ma in Tibet ignoto non aveva scritto che gli erano occorsi sei
giorni… per arrivare a Narthang…?». Impossibile: il libro Tibet ignoto riguar-
da la spedizione del 1935 e non parla di Narthang, che Tucci visitò la prima
volta nel 1939.
II, 161: «italianizzando ancora le parole straniere alla maniera fascista».
L’ossessione del fascismo ha colpito ancora. In precedenza EG aveva persino
sostenuto che l’uso dell’Era fascista e l’italianizzazione dei nomi stranieri nel-
le pubblicazioni dimostravano l’adesione di Tucci al fascismo (I, 317). Fran-
camente non credo che gli autori potessero decidere se far comparire o meno
l’anno E.F. sui frontespizi dei propri libri. È bene poi precisare che Tucci non
italianizzò i nomi ma la grafia delle parole straniere. Una prassi che obbediva
a una ratio che nulla aveva a che fare con Mussolini. Era in uso prima del fa-
scismo, come lo è tutt’ora, per agevolare la lettura di parole che avrebbero al-
trimenti messo in imbarazzo la maggior parte dei lettori. Oggi cambia solo la
convenzione seguita: ieri quella italiana, oggi quella inglese. Avrebbe fatto
bene ad adottarne una anche EG: la traslitterazione secondo il sistema Wylie
da lei adottata per alcune parole tibetane come mchod rten è scientificamente
————
77
Così scrive Federzoni a Guarneri, Roma 22 mag. 1939 (ASAL, Reale Accademia d’Italia, Uf-
ficio pubblicazioni, b. 7, fasc. 81, f. 37). Cfr. Nalesini (2013: 280).
266 O. Nalesini

corretta, ma le rende alquanto indigeste per chi non abbia almeno


un’infarinatura della lingua; era preferibile scrivere chöten.
II, 333: EG riferisce che nel 2003 il MNAO avrebbe venduto la sua rac-
colta di celadon coreani al Museo Nazionale di Seoul. Non lo ha fatto, né
avrebbe potuto farlo. Per la cronaca, si tratta di una raccolta di ceramiche co-
reane fermata dalla dogana italiana nel 1996. Un lotto di questa raccolta è stata
in seguito acquistata dal Museo Nazionale di Seoul direttamente dal proprieta-
rio, con la clausola della possibilità di un prestito a lungo termine in Italia. Su
un secondo lotto il MNAO ha esercitato il diritto di prelazione ed è in attesa di
una decisione sull’acquisto da parte degli uffici centrali del Ministero; il rima-
nente è stato riconsegnato al proprietario.78
II, 359: «nel 1958 promosse la costituzione di un Museo Archeologico a
Roma per la conservazione delle rovine e dei ruderi». Il lettore che non abbia
mai visitato il Museo Nazionale d’Arte Orientale potrebbe essere indotto a ri-
tenere che si tratti di un emulo del Pergamon Museum di Berlino. Così non è,
perché i ruderi e le rovine dei siti archeologici del Pakistan, dell’Afghanistan o
dell’Iran si trovano ancora nei rispettivi paesi. Lo spazio disponibile, del resto,
non lo avrebbe permesso.
II, 359: «Molto è stato scritto sulle simpatie fasciste di Iqbal, che vedeva
nel fascismo ecc.». Proprio così: l’autrice ha dimenticato di completare la fra-
se e il correttore di bozze non se ne è accorto!
II, 386-87: EG propone di identificare con Tucci il giornalista che firmò
negli anni Cinquanta, sotto lo pseudonimo di Cato, una serie di articoli anti-
comunisti sulla stampa indiana e sulla rivista statunitense The New Leader.
Questa rivista era espressione del Partito socialista statunitense ed era diretta
in quegli anni da una giornalista decana del movimento femminista: Suzanne
LaFollette (1973). Secondo quanto pubblicato da questa rivista il 18 febbraio
1952, a p. 103, dietro a Cato si nascondeva «a prominent Indian leader». Tutti
elementi che, oltre alla prosa di quegli articoli, mi fanno rigettare l’identifica-
zione con Tucci.
II, 396: Tucci, in una lettera ad Andreotti del 20 marzo 1953, definisce
l’insieme dei suoi allievi come Scuola orientalistica romana. EG commenta il
passo facendo notare che gli insegnamenti di lingue orientali a Roma erano
iniziati ben prima dell’arrivo di Tucci. Il che sarebbe corretto, se questo fosse
quel che Tucci avesse inteso dire; ma non è così. Tucci evidenzia qui l’esisten-
za di una squadra di studiosi, da lui principalmente formati, afferenti alla
Scuola orientale, intesa come l’istituzione nata all’interno dell’università di
Roma nel 1903. Istituzione che costituiva un punto di forza da far valere nel
mondo accademico e dall’Italia nei confronti degli stati interessati, come luci-
damente esposto da Umberto Scerrato e Mircea Eliade (Scerrato 1995: 110;
————
78
Informazioni cortesemente fornite dal responsabile del procedimento, dott. Roberto Ciarla, nel
giugno 2013.
Onori e nefandezze di un esploratore 267

Eliade 1990: 52-53). Il tarlo del pregiudizio ha condotto EG non solo a vedere
quel che nella lettera non c’è, ma a sbagliare persino sulla storia della discipli-
na in cui si è laureata. Duole farle notare che, se avesse copiato con maggior
discernimento dall’articolo di Raniero Gnoli (1994), non sarebbe incappata nel
madornale errore di far risalire l’insegnamento del sanscrito all’università di
Roma al XIV secolo! La prima cattedra di indianistica in Italia fu istituita a
Torino nel 1852 e assegnata a Gaspare Gorresio, che il sanscrito lo aveva do-
vuto studiare a Parigi.
II, 449: l’anno della morte di Tucci, 1984, è scambiato con quello di na-
scita, 1894.
II, 476: cronologia: quella del 1931 non è la terza spedizione vera e pro-
pria nel Tibet, ma la prima. Era la terza nell’area di cultura tibetana.
II, 479-512: a dispetto dell’enfasi con cui EG saluta il ritrovamento di
qualche introduzione non ricordata da Scialpi e Petech (ad es. I, xxvii–xxviii;
II, 340, 352, 408), quella da lei raccolta è una bibliografia altrettanto incom-
pleta. Personalmente ho sinora schedato circa 500 titoli di Tucci e di certo non
sono ancora tutti.
Scrivere una biografia di Tucci è stata una splendida idea e, con alcune
accortezze, tra cui una tranquilla rilettura prima del fatidico ‘si stampi’,
l’autrice avrebbe potuto presentare una discreta ricostruzione della vita del
grande orientalista, rendendo a tutti un ottimo servigio. Purtroppo il proteico
demone del pregiudizio ideologico si è impossessato della sua penna e le ha
fatto malamente sprecare l’occasione. Il lavoro da lei composto non aggiunge
notizie rilevanti sulla vita di Giuseppe Tucci, non presenta analisi originali, è
ricolmo di errori sconcertanti, è esposto confusamente. Non resta purtroppo
che chiudere il libro e – per riprendere Ripellino (1973: 6) – adagiarlo sulla
carretta di Chronos, il Grande Rigattiere.

Oscar Nalesini
Museo Nazionale d’Arte Orientale
Roma
oscar.nalesini@beniculturali.it

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Onori e nefandezze di un esploratore 275

SUMMARY

Giuseppe Tucci has been a pivotal personality of the twentieth century either for the pro-
gress of oriental studies and the construction of relations between Italy and Asian countries in the
crucial years of fascism and of the transition to the democratic republic. In spite of his fame, the
life of Tucci is still poorly known. This gap in the knowledge has favored in recent years its use
by different parts and for disparate purposes. The long biography published in 2012 by Enrica
Garzilli has unfortunately not filled this gap, and on some points it has actually increased the
confusion. The purpose of this article is not only to point out errors and inaccuracies of this book,
but to take the opportunity to contribute to the explanation of some events of Tucci's life and as-
pects of his thought, resorting also on previously untapped sources.

Keywords: Giuseppe Tucci, history of Oriental studies in Italy, intellectual history of the 20th
century, exploration history, history of archaeology

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