Sei sulla pagina 1di 194

[Digitare il titolo del documento]ª ed.

PARTE PRIMA
IL SISTEMA GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA

CAPITOLO 1
LA STRUTTURA ISTITUZIONALE

1. LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE

Il Trattato di Lisbona ha ridisegnato il quadro istituzionale dell’UE, con l’obiettivo di


«promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e
quelli degli Stati membri, garantirne la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle
sue azioni» (art. 13, n. 1, TUE). Nel nuovo assetto sono qualificate istituzioni dell’Unione:
1. il Parlamento;
2. il Consiglio europeo;
3. il Consiglio;
4. la Commissione;
5. la Corte di giustizia dell’Unione;
6. la Corte dei conti;
7. la Banca centrale europea (art. 13, n. 1, TUE).
In questa cornice sono state introdotte nuove figure, in particolare il Presidente del Consiglio
europeo e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e per la politica di sicurezza.
Accanto alle istituzioni operano anche altri organismi:
 alcuni menzionati dai trattati (Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni);
 altri (in particolare le agenzie europee) creati con atti delle istituzioni sulla base della
c.d. clausola di flessibilità (art. 352 TFUE).

2. IL PARLAMENTO EUROPEO

Il Parlamento europeo è composto dai «rappresentanti dei cittadini dell’Unione». Esso esercita,
«congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio», nonché «funzioni
di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai trattati»; ed «elegge il Presidente della
Commissione» (art. 14 TUE).
Esso riassume le spinte verso una democratizzazione dei processi decisionali e nello stesso tempo
verso la realizzazione di un livello più marcato di integrazione, tendenzialmente sul modello di una
struttura di tipo federale. Ne è la conferma la continua evoluzione che il Parlamento ha subìto nel
corso degli anni, quanto alla composizione e al suo coinvolgimento nel processo decisionale:
soprattutto in materia di bilancio e, più in generale, con l’Atto unico, il Trattato di Maastricht, il
Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza, nel processo di formazione degli atti, in breve
nell’esercizio della funzione legislativa.
Originariamente Assemblea comune, poi Assemblea parlamentare europea, in concomitanza con la
creazione della CEE e dell’Euratom, finalmente Parlamento europeo in virtù di una sua decisione
del 30 marzo 1962 e poi dell’Atto unico, l’istituzione fu per molti anni composta da membri dei
Parlamenti nazionali, da questi designati, sì che la rappresentatività dei popoli riuniti nella
Comunità era indiretta e imperfetta:
 indiretta  in quanto i parlamentari non venivano eletti direttamente dai cittadini europei,
bensì dai rappresentanti di questi ultimi eletti in seno ai rispettivi Parlamenti;
 imperfetta  in quanto, almeno in alcuni casi, non rifletteva esattamente e
proporzionalmente la presenza di tutte le componenti politiche in seno ai Parlamenti
nazionali.
Prefigurata dai trattati istitutivi, l’elezione diretta dei membri del Parlamento fu decisa da un Atto
1
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

del Consiglio europeo del 20 settembre 1976 e successivamente realizzata con apposite leggi
nazionali. Le prime elezioni si sono svolte nel 1979, in base a sistemi elettorali diversi. È peraltro
previsto che, su progetto del Parlamento e decisione unanime del Consiglio, sia raccomandata agli
Stati membri l’adozione, in base alle rispettive norme costituzionali, di una procedura uniforme di
elezione, procedura che, a seguito di una precisazione apportata dal Trattato di Amsterdam, potrà
essere fondata anche solo su principi comuni agli Stati membri (art. 223, n. 1, TFUE).
Il numero dei membri, che nella legislatura 2009-2014 è di 736, nella legislatura 2014-2019 non
potrà essere superiore a 751 (750 + il Presidente, art. 14, n. 2, TUE). Il Consiglio europeo,
deliberando all’unanimità, su iniziativa e con l’approvazione del PE, può modificare la
composizione (art. 14, n. 2, 2° c., TUE).
I parlamentari hanno un mandato di 5 anni e sono divisi in gruppi politici e NON in gruppi
nazionali. Stando alla formulazione del Trattato, i membri del Parlamento dovrebbero rappresentare
i cittadini dell’Unione collettivamente considerati. In questa prospettiva, tra le disposizioni sulla
cittadinanza dell’UE figura anche quella sull’elettorato attivo e passivo per le elezioni del PE, il cui
esercizio è collegato al Paese di residenza «alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato» (art.
22, n. 2, TFUE).
Dunque i partiti politici sono definiti a livello europeo e «contribuiscono a formare una coscienza
politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione» (art. 10, n. 4, TUE). La
determinazione dello Statuto dei partiti politici e, in particolare, le norme sul loro funzionamento,
sono stabilite dal Consiglio e dal medesimo Parlamento attraverso la procedura legislativa ordinaria
(art. 224 TFUE).
Nell’organizzazione dei lavori, i parlamentari si dividono in commissioni permanenti con
competenza per materie, che riflettono la suddivisione tra le Direzioni Generali della Commissione.
Il PE elegge, tra i suoi membri:
 il Presidente
 e l’ufficio di presidenza
Il Capo III, del Protocollo n. 7, precisa le immunità e i privilegi riconosciuti ai membri del PE. In
particolare:
 i parlamentari europei NON possono essere ricercati, detenuti o perseguiti per le loro
opinioni o per i voti espressi nell’esercizio della loro funzione. Inoltre, per la durata delle
sessioni, ai parlamentari europei sono estese, sul territorio nazionale, le stesse immunità
riconosciute ai membri del Parlamento del loro paese;
 mentre, sul territorio degli altri Stati membri, i parlamentari europei sono esenti da
provvedimenti di detenzione e da procedimenti giudiziari, anche relativamente agli atti
compiuti al di fuori delle loro funzioni. Tali immunità incontrano 1 limite nell’ipotesi di
flagrante delitto; in ogni caso, allo stesso PE è riconosciuta la possibilità di privare un
parlamentare di queste immunità. Infine, i parlamentari europei hanno ampia libertà di
movimento per raggiungere i luoghi delle riunioni.
Ai sensi dell’art. 231 TFUE, salvo disposizioni contrarie dei trattati, il PE delibera a maggioranza
dei suffragi espressi. Il quorum è raggiunto quando in aula sono presenti 1/3 dei membri; nonostante
ciò, le delibere si ritengono valide a meno che non venga constatata la mancanza del numero legale.
In alcuni casi è, invece, richiesta la maggioranza assoluta dei componenti del PE; ad es.:
 per l’elezione del Presidente della Commissione (art. 17, n. 7, TFUE);
 in materia di procedura semplificata di revisione dei trattati (art. 48, n. 7, 4° comma, TUE);
 per l’ammissione di nuovi Stati (art. 49 TUE).
È richiesta, poi, la maggioranza dei componenti e dei 2/3 dei voti espressi:
 per l’approvazione della mozione di censura sull’operato della Commissione (art. 234
TFUE);
 e per la constatazione del rischio evidente di violazione grave da parte di uno Stato membro
dei valori su cui si fonda l’Unione (art. 354, 4° c., TFUE).
2
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Infine, è prevista la maggioranza dei componenti e dei 3/5 dei suffragi espressi qualora il PE
volesse confermare gli emendamenti al bilancio respinti dal Consiglio (art. 314, n. 7, lett. d, TFUE).
La sede della struttura amministrativa del Parlamento è Lussemburgo, mentre le riunioni delle
Commissioni si svolgono a Bruxelles e la sessione plenaria mensile si tiene a Strasburgo.
Il Parlamento ha poteri di controllo, inoltre partecipa al processo di formazione delle norme e a
quello di approvazione del bilancio.
Relativamente al potere di controllo, va tenuto presente che tra il Parlamento e la Commissione
non c’è mai stato un vero e proprio rapporto di fiducia, nel senso che i membri della Commissione
erano designati dagli Stati membri senza una partecipazione sostanziale del Parlamento.
Il Trattato di Lisbona, modificando la procedura di nomina della Commissione, ha introdotto in
questa materia significative novità proprio nel senso di una più consistente partecipazione del
Parlamento; infatti, quest’ultimo è:
1) in primo luogo chiamato ad «eleggere» il Presidente della Commissione (art. 14, n. 1, TUE)
proposto dal Consiglio europeo;
2) e in secondo luogo deve esprimere un «voto di approvazione» del Presidente, dell’Alto
rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati, che
sono formalmente nominati solo in un momento successivo dal Consiglio europeo (art. 17,
n. 7, TUE).
Inoltre la Commissione è tenuta a presentare annualmente al Parlamento una relazione generale
sull’attività svolta nell’anno precedente, nonché relazioni annuali sulla situazione dell’agricoltura,
sulla situazione sociale e sulla politica di concorrenza. In tali occasioni, il Parlamento procede al
loro esame (art. 233 TFUE).
A ciò si aggiungono le interrogazioni del Parlamento o dei suoi membri alla Commissione, ai quali
quest’ultima è tenuta a rispondere oralmente o per iscritto (art. 230 TFUE). Lo stesso si deve dire
per le interrogazioni al Consiglio.
Nella prassi, poi, è importante la partecipazione dei membri o dei funzionari della Commissione o
del Consiglio ai lavori delle commissioni parlamentari, che si risolve in un dialogo continuo tra le
istituzioni e contribuisce a rendere effettiva l’attività di controllo del Parlamento.
Significativa è la possibilità per il Parlamento di pronunciare una censura sull’operato della
Commissione, da approvare con la maggioranza dei 2/3 dei voti espressi e la maggioranza dei
membri. Se il Parlamento utilizza questo strumento, «i membri della Commissione si dimettono
collettivamente dalle loro funzioni e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla Commissione» (art. 234
TFUE). In realtà, le occasioni in cui è stata presentata una mozione di censura sono state molto rare
e non si è arrivati mai alla sua approvazione, sì che appare un’arma in pratica di valenza ridotta.
Inoltre, il Parlamento partecipa alla funzione normativa. Più che dell’esercizio di autonomi poteri
decisionali o legislativi in senso proprio, fatta eccezione per quel che riguarda l’organizzazione
interna dell’istituzione, si tratta di una partecipazione sempre più intensa al processo di formazione
degli atti dell’Unione (artt. 289 e 294 TFUE) e di conclusione di accordi internazionali (art. 218
TFUE). Anche sotto questo profilo si è avuta un’evoluzione rimarchevole nel corso degli anni, con
un progressivo consolidamento della presenza del Parlamento nel processo decisionale, nonché una
conseguente accentuazione del suo ruolo politico in senso lato. Tale partecipazione si manifesta con
modalità e intensità diverse a seconda dei casi e del tipo di procedura prevista di volta in volta dal
Trattato. E tra gli aspetti più significativi della situazione attuale, oltre al potere di fissare il proprio
statuto e le condizioni per l’esercizio delle funzioni dei suoi membri, c’è che il Parlamento gode
ormai di un vero e proprio potere generale di «pre-iniziativa» legislativa. Esso infatti, in virtù
dell’art. 225 TFUE può chiedere alla Commissione di presentare proposte adeguate quando reputi
necessaria l’adozione di un atto dell’UE; la Commissione, qualora decida di non dare seguito alla
richiesta del PE, deve comunque motivare il suo rifiuto. Resta beninteso che in ogni caso la
responsabilità della proposta è della Commissione e che pertanto l’iniziativa del Parlamento ha
natura soprattutto politica.
3
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

I trattati di riforma hanno progressivamente rafforzato il ruolo del Parlamento, introducendo novità
di sicuro rilievo. In particolare, il Trattato di Nizza ha collocato il PE sullo stesso piano della
Commissione e del Consiglio quanto alla possibilità di adire la Corte di Giustizia sollevando
l’azione di annullamento ex art. 263 TFUE. Un’altra novità introdotta dal Trattato di Nizza riguarda
la possibilità per il PE, e non + soltanto per il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri, di
chiedere alla Corte di Giustizia un parere sulla compatibilità di un accordo internazionale con le
disposizioni del Trattato (art. 218, n. 5, TFUE). Tale potere può avere un notevole impatto, ove si
consideri che il parere negativo della Corte implica la necessità di ricorrere alla procedura di
revisione dei trattati, di cui all’art. 48 TUE, per la stipula dell’accordo contestato. Il Trattato di
Lisbona ha accresciuto ancor più il ruolo del PE, estendendo la procedura di codecisione (ex art.
251 CE), divenuta «procedura legislativa ordinaria» (art. 294 TFUE), coinvolgendolo, nella forma
dell’approvazione o della consultazione, nella definizione degli accordi internazionali negoziati
dalla Commissione e dal Consiglio ai sensi dell’art. 218 TFUE, attribuendo al PE nella procedura
di bilancio una posizione equiparata al Consiglio, ampliandone il ruolo nella procedura di revisione
dei trattati e accrescendone anche il ruolo di controllo delle funzioni esecutive della Commissione.
Infine è significativo il raccordo con i Parlamenti nazionali, chiamati a svolgere un importante ruolo
soprattutto nell’ambito della procedura di controllo dell’applicazione del principio di sussidiarietà.

3. IL CONSIGLIO EUROPEO

Il Consiglio europeo, che non va confuso con il Consiglio (già Consiglio dei ministri), è nato
parallelamente ma all’esterno della struttura istituzionale comunitaria, dalla prassi delle riunioni al
vertice fra i capi di Stato o di governo degli Stati membri, che dal 1961 e fino ai primi anni ’70 si
sono tenute senza una cadenza regolare, per discutere questioni attinenti alla vita e allo sviluppo
delle Comunità. Tale prassi trovò una prima formalizzazione al vertice di Parigi del dicembre 1974,
in cui i capi di Stato e di governo decisero per l’appunto di riunirsi come «Consiglio europeo»,
assieme ai loro ministri degli affari esteri e ai rappresentanti della Commissione (il presidente e uno
dei vicepresidenti), con cadenza periodica (3 volte l’anno) e sotto la presidenza del capo di Stato o
di governo che esercita la presidenza del Consiglio delle Comunità. L’Atto unico ha poi sancito
formalmente l’esistenza del Consiglio europeo e la cadenza delle sue riunioni.
Nel sistema antecedente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il Consiglio europeo occupava
una posizione peculiare, di rilievo, ma non era collocato all’interno del sistema istituzionale in
senso proprio. Il Trattato di Lisbona ha inserito il Consiglio europeo a pieno titolo tra le istituzioni
dell’Unione (art. 13 TUE e artt. 235 e 236 TFUE). Risulta confermato il suo ruolo di impulso e di
definizione degli orientamenti e delle priorità politiche generali, necessari allo sviluppo dell’UE,
rimanendo escluse le funzioni legislative.
Le novità + significative introdotte dal Trattato di riforma riguardano la composizione. Ai sensi
dell’art. 15 TUE, il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri
e dal suo presidente e dal Presidente della Commissione. La partecipazione del Capo dello Stato o
del Governo dipende dalle norme nazionali (ad es., per l’Italia è il Capo del governo, per la Francia
il Presidente della Repubblica). L’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri partecipa ai
lavori, senza farne parte. Soltanto se l’ordine del giorno lo richiede, ciascun membro del Consiglio
europeo può decidere di farsi assistere da un ministro e il Presidente della Commissione da un
membro della Commissione.
La presenza del Presidente della Commissione e/o di un membro della stessa è diretta a rendere
l’esercizio del potere di iniziativa legislativa coerente con gli indirizzi indicati dal Consiglio
europeo. Il presidente del PE può essere eventualmente invitato alle riunioni per essere ascoltato
(art. 235, n. 2, TFUE). Peraltro, all’esigenza di raccordo con il Parlamento risponde la relazione
del Presidente del Consiglio europeo al Parlamento dopo ciascuna riunione. Inoltre, la prassi è che il
Presidente del Parlamento incontra il Consiglio all’inizio di ogni riunione.
Il Consiglio europeo si riunisce 2 volte a semestre su convocazione del presidente che può tra l’altro
4
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

convocare riunioni straordinarie qualora la situazione lo richieda. Per quanto riguarda la procedura
di voto, il Consiglio europeo si pronuncia per consenso (meglio dire “consensus”), salvi i casi in
cui i trattati dispongano diversamente (art. 15, n. 4, TUE); infatti il Consiglio europeo può
deliberare a:
 maggioranza qualificata (ad es. per stabilire l’elenco delle formazioni del Consiglio o per
decidere le presidenze delle formazioni del Consiglio, art. 236 TFUE o per la nomina della
Commissione, art. 17, n. 7, TUE);
 o a maggioranza semplice (in merito alle questioni procedurali e per l’adozione del suo
regolamento interno, art. 235 TFUE).
N.B.: Non partecipano alla votazione i Presidenti del Consiglio europeo e della
Commissione.
Novità rilevante è la stabilità attribuita al Presidente, eletto dal Consiglio europeo a maggioranza
qualificata per un periodo di 2 anni e mezzo, rinnovabile 1 volta (art. 5 TUE) e preclusivo di ogni
mandato nazionale. Il Presidente è investito innanzitutto del compito di presiedere e animare i lavori
del Consiglio europeo. Egli ne deve assicurare la preparazione e la continuità dei lavori, in
cooperazione con il presidente della Commissione e in base ai lavori del Consiglio «Affari
generali». Egli deve anche adoperarsi per facilitare la coesione e il consenso in seno all’istituzione e
infine presentare al PE una relazione dopo ciascuna delle riunioni del Consiglio europeo. Spetta al
Presidente assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica
estera e di sicurezza comune, fatte salve e quindi coordinandosi con le attribuzioni affidate all’Alto
rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
In definitiva, il Consiglio europeo ha assunto, in virtù della riforma, un ruolo importante:
 nel processo decisionale dell’Unione;
 nel processo di formazione delle istituzioni, in particolare, nella nomina della Commissione
(art. 17, n. 8, TUE);
 nella gestione delle procedure di revisione semplificate (art. 48, nn. 6 e 7, TUE);
 e soprattutto grazie al suo Presidente contribuisce a «disegnare» il volto esterno dell’Unione.
Per quanto riguarda le competenze, l’art. 14 TUE sancisce che il Consiglio europeo ha un ruolo
d’impulso e di definizione degli orientamenti politici generali, necessari allo sviluppo dell’UE; e
precisa che esso non esercita funzioni legislative.
Più in particolare, il Consiglio ha una funzione di indirizzo politico nel settore della politica estera
e sicurezza comune e nel settore della politica di sicurezza e di difesa comune, poiché è
espressamente stabilito, all’art. 22 TUE, che esso definisce gli interessi e gli obiettivi strategici
dell’azione esterna dell’Unione, nonché le questioni che hanno implicazioni in materia di sicurezza
(art. 26 TUE). Una funzione di indirizzo politico è svolto dal Consiglio europeo attraverso la
precisazione degli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nelle materie
relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (art. 68 TFUE). Altre volte, invece, il CE è
chiamato ad un ruolo di politica attiva: ad es., quando decide sulle formazioni del Consiglio (già
Consiglio dei ministri) o sulla composizione del PE. Mentre, si configura come organo
gerarchicamente superiore rispetto al Consiglio, quando quest’ultimo deferisce ad esso alcune
questioni. Ad es., in materia di sicurezza sociale, qualora uno Stato opponga resistenza all’adozione
di un atto, il problema viene sottoposto al CE.
Quando poi il CE delibera all’unanimità, senza la partecipazione del Presidente e del Presidente
della Commissione, esso si configura come una riunione di organi degli Stati membri. Lo stesso CE
opera viceversa come organo di presidenza collegiale quando nomina il proprio Presidente e l’Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. In tale configurazione il CE
«deliberando, a maggioranza qualificata, propone al PE un candidato alla carica di Presidente della
Commissione» (art. 17, n. 7, TUE). Del pari, è attribuito al CE il ruolo di garante del rispetto dei
principi fondamentali (libertà, democrazia, diritti dell’uomo e stato di diritto) cui sono tenuti gli
Stati membri (art. 7 TUE).
5
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

4. IL CONSIGLIO

Il Consiglio dell’Unione (già Consiglio dei ministri), è composto dai rappresentanti di tutti gli Stati
membri, scelti nell’ambito dei rispettivi governi, normalmente con il rango di ministri, in funzione
della materia trattata. Il Trattato, con il sancire espressamente il rango ministeriale dei suoi
componenti («il Consiglio è formato da 1 rappresentante di ciascuno Stato membro a livello
ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo di questo Stato membro: art. 16 TUE»), in realtà ha
inteso consentire agli Stati membri di farsi rappresentare anche da membri di governi regionali.
Dunque il Consiglio è:
 un organo di Stati  in quanto i membri che lo compongono rappresentano i rispettivi Stati
membri e a questi ultimi rispondono;
 un organo a composizione variabile e pertanto si riunisce in diverse formazioni (es.
agricoltura, ambiente, trasporti, ecc.), il cui elenco è adottato a maggioranza qualificata dal
CE (art. 236 TFUE) ad eccezione delle formazioni «affari generali» e «affari esteri» che
sono definite dal Trattato (art. 16, n. 6, TUE).
In particolare:
 il Consiglio «affari generali»  assicura la coerenza dei lavori delle varie
formazioni del Consiglio e rappresenta un momento di collegamento rispetto al CE,
dovendo preparare i lavori di questo e confermandone il pieno inserimento nel
quadro istituzionale dell’Unione;
 il Consiglio «affari esteri»  elabora l’azione esterna dell’Unione secondo le linee
strategiche definite dal CE e assicura la coerenza dell’azione dell’Unione.
La presidenza delle formazioni del Consiglio – tranne di quella «Affari esteri» che spetta all’Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza – è esercitata da gruppi
predeterminati di 3 Stati membri per un periodo di 18 mesi, secondo un sistema di rotazione
paritaria, stabilito da una deliberazione, a maggioranza qualificata, del CE (art. 16, n. 9, TUE).
Precisamente, ai sensi della Dichiarazione n. 9 allegata al Trattato di Lisbona, questi gruppi sono
composti tenendo conto delle diversità degli Stati membri e degli equilibri geografici nell’Unione.
Ciascuno dei 3 Stati esercita a turno la presidenza, per un periodo di 6 mesi e gli altri 2 lo assistono
sulla base di un programma stabilito in comune. Dunque, a differenza del passato, il Trattato di
Lisbona, pur mantenendo la turnazione tra gli Stati ancorata ai 6 mesi di esercizio della presidenza,
introduce una programmazione articolata in 18 mesi, un arco temporale + lungo che rende possibile
fissare obiettivi più impegnativi.
La Presidenza ha anche una valenza politica, che si può manifestare:
 sia nella convocazione delle riunioni;
 sia più in generale nell’impulso da attribuire ai diversi argomenti di discussione e di
deliberazione.
Il Consiglio, che è ed agisce come istituzione dell’Unione, in alcuni casi espressamente previsti dal
Trattato agisce come organo che riunisce i rappresentanti degli Stati membri, all’occorrenza le
stesse persone fisiche che siedono nel Consiglio. Ne consegue che, in questa ipotesi:
 i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono e deliberano in quanto tali e non in quanto
componenti del Consiglio;
 e la deliberazione è presa non + dall’istituzione, bensì da un organo intergovernativo: ad es.
è il caso della nomina dei membri della Corte di giustizia (art. 253 TFUE).
Il Consiglio si riunisce su convocazione del Presidente, per iniziativa di quest’ultimo o di uno dei
suoi membri oppure della Commissione.
Il Consiglio è assistito da un Segretariato generale, che ne rappresenta il supporto funzionale e
amministrativo. Tale organo ha una struttura articolata in varie direzioni generali e in un servizio
giuridico, con sede a Bruxelles, ed è posto sotto la responsabilità di funzionamento di un Segretario
6
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

generale (art. 240, n. 2, TFUE).


Il COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri), composto dai
rappresentanti diplomatici di tutti gli Stati membri accreditati presso l’Unione, è una struttura che
con il tempo ha acquisito sempre maggiore rilievo. Inizialmente previsto solo dal regolamento
interno del Consiglio, il suo ruolo è stato definitivamente sancito dal Trattato di fusione: esso è
responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e della realizzazione dei compiti attribuiti
dallo stesso Consiglio. Il COREPER è un organismo autonomo, cui è anche attribuito il potere di
adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno (art. 16, n. 7, TUE e art.
240, n. 1, TFUE). Struttura di collegamento tra l’Unione e i Paesi membri, il COREPER coordina il
lavoro delle tante commissioni tecniche che preparano l’attività normativa del Consiglio e ne
rappresenta al tempo stesso il filtro politico.
Inoltre il Trattato di Lisbona ha previsto l’istituzione in seno al Consiglio di 1 comitato permanente
per assicurare all’interno dell’Unione la promozione e il rafforzamento della cooperazione operativa
in materia di sicurezza interna; questo comitato favorisce anche il coordinamento delle azioni delle
autorità nazionali. Il PE e i Parlamenti nazionali sono informati costantemente dei lavori del
comitato (art. 71 TFUE).
Al Consiglio è stato attribuito un vasto potere normativo e di coordinamento. Ai sensi dell’art. 26
TUE: «Il Consiglio esercita, congiuntamente al PE, la funzione legislativa e la funzione di
bilancio». Esercita anche «funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni
stabilite dai trattati».
Il potere legislativo si manifesta principalmente attraverso l’adozione di direttive e di regolamenti,
le 2 principali espressioni dell’attività normativa. Riguardo alla responsabilità dei rapporti esterni, il
Consiglio autorizza la Commissione a negoziare accordi internazionali, ne autorizza la firma e li
conclude.
In pratica, i poteri del Consiglio rispondono al principio delle competenze di attribuzione, essendo il
loro esercizio collegato ad espresse previsioni nei trattati. Fa eccezione la competenza del Consiglio
in base all’art. 352 TFUE (nonché la corrispondente norma CEEA), disposizione-chiave dell’intero
sistema, che consente al Consiglio di adottare un atto normativo in materie non espressamente
attribuite alla sfera delle competenze dell’Unione, «se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel
quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza
che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine».
Le deliberazioni del Consiglio, salvo diversa previsione, sono prese a maggioranza qualificata,
calcolata con riferimento alla ponderazione dei voti per ciascuno Stato membro, stabilita dall’art. 16
TUE e dall’art. 238, n. 2, TFUE. In via transitoria fino al 31 ottobre 2014, viene mantenuta la
ponderazione prevista dal regime antecedente, in base al quale la soglia di validità delle delibere è
di 255 voti favorevoli della maggioranza degli Stati membri quando sono adottate su proposta della
Commissione; negli altri casi è di 255 voti favorevoli dei 2/3 degli Stati membri, prevedendo la
possibilità per ciascuno Stato membro di chiedere la verifica che la maggioranza qualificata
comprendesse almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione (c.d. clausola demografica). In
base a questo sistema di ponderazione sono attribuiti:
 29 voti a: Germania, Francia, Italia e Regno Unito;
 27 a: Polonia e Spagna;
 14 a Romania;
 13 a Olanda;
 12 a: Belgio, Grecia, Portogallo, Rep. Ceca e Ungheria;
 10 a: Austria, Bulgaria e Svezia;
 7 a: Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania e Slovacchia;
 4 a: Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo e Slovenia;
 3 a Malta.

7
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

A partire dal 1° novembre 2014, per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri
del Consiglio, con un minimo di 15, rappresentanti un numero di Stati membri che corrispondano
almeno al 65% della popolazione dell’Unione, quando il Consiglio delibera su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante. In questo modo, l’eguaglianza formale tra gli Stati,
ognuno dei quali dispone di 1 voto, è coniugata con il criterio della popolazione, per evitare che una
maggioranza di soli piccoli Stati sia in grado di prevalere. D’altra parte, la minoranza di blocco
deve comprendere almeno 4 membri del Consiglio, ciò esclude che soli 3 Stati grandi possano
bloccare la decisione (art. 16, n. 4, TUE). Quando il Consiglio non delibera su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante, per maggioranza qualificata si intende almeno il 72% dei
membri del Consiglio rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione
dell’Unione (art. 238, n. 2, TFUE).
Le regole cambiano nell’ipotesi in cui a norma del Trattato non partecipino tutti gli Stati membri: in
questi casi, per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri del Consiglio che
totalizzino almeno il 65% della popolazione e la minoranza di blocco deve comprendere almeno il
numero minimo di membri del Consiglio che rappresentino oltre il 35% della popolazione degli
Stati membri partecipanti, più un altro membro (art. 238, n. 3, lett. a, TFUE). Nel caso in cui la
proposta non sia della Commissione o dell’Alto rappresentante, per maggioranza qualificata si
intende almeno il 72% dei membri del Consiglio che totalizzino almeno il 65% della popolazione
(art. 238, n. 3, lett. b, TFUE).
Per le deliberazioni che richiedono la maggioranza semplice, che costituiva la regola, almeno
formalmente, nel sistema antecedente la riforma introdotta dal Trattato di Lisbona (ex art. 205 CE),
il Consiglio delibera a maggioranza dei membri che lo compongono (art. 238, n. 1, TFUE).
Infine, per alcune deliberazioni è richiesta l’unanimità, sia pure con il temperamento dovuto alla
circostanza che l’astensione non ne impedisce l’adozione (art. 238, n. 4, TFUE). In particolare
l’unanimità, relativamente alla procedura di formazione degli atti, è prevista ogni volta che il
Consiglio voglia discostarsi dalla posizione formalmente espressa dalla Commissione oppure
quando sulla posizione del Consiglio vi sia stato un voto negativo del Parlamento. Le ipotesi in cui
è prevista l’unanimità sono state ulteriormente ridotte dal Trattato di Lisbona, esse riguardano
essenzialmente:
a) l’ambito della Politica estera e di sicurezza comune (artt. 24 e 42 TUE);
b) o situazioni in cui il Consiglio è chiamato a deliberare in via generale e con limiti
scarsamente definiti, come ad es. per:
 i provvedimenti «opportuni» per combattere le discriminazioni (art. 19, par. 1,
TFUE);
 le misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale (art. 21 TFUE);
 le direttive di ravvicinamento delle normative nazionali che incidono
sull’instaurazione e il funzionamento del mercato comune (art. 115 TFUE);
 alcune azioni generali di politica ambientale (art. 192 TFUE);
 l’individuazione dei prodotti collegati alla sicurezza nazionale e sottratti alla
disciplina del Trattato CE (art. 346 TFUE);
 la stipulazione di accordi internazionali nei settori in cui sul piano interno è prevista
l’unanimità (art. 218, n. 8, TFUE);
 l’esercizio dei poteri di cui al ricordato art. 352 TFUE.
Ciascun membro del Consiglio può ricevere delega da uno solo degli altri membri; peraltro, se le
astensioni di uno o + membri presenti o rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni
per le quali è richiesta l’unanimità, l’assenza di uno o + Stati membri non consente, secondo un
principio consolidato, l’adozione di una delibera unanime.
Infine, va ricordato che, ai sensi del Protocollo n. 6, il Consiglio ha sede a Bruxelles, ma tiene le sue
sessioni a Lussemburgo nei mesi di:
 aprile;
8
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 giugno;
 e ottobre.
Esso si riunisce in seduta pubblica quando delibera e vota un progetto di atto legislativo, negli altri
casi le sue sedute non sono pubbliche.

5. LA COMMISSIONE

La Commissione è, al contrario del Consiglio, un organo di individui, nel senso che i suoi membri
«esercitano le loro funzioni in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità» e «e non
sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo» (art. 17
TUE), fatta eccezione per la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza (art. 18, n. 2, TUE). È l’istituzione che ha sostituito nel luglio 1967 l’Alta
Autorità della CECA e le Commissioni CEE ed Euratom. Fino al 31 ottobre 2014, la Commissione
sarà composta da 1 cittadino di ciascuno Stato membro, compreso il Presidente e l’Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri. A decorrere dal 1° novembre 2014, il numero di
membri potrebbe essere ridotto in modo da corrispondere soltanto ai 2/3 del numero degli Stati
membri, a meno che il Consiglio deliberando all’unanimità, non decida di modificare tale numero.
Spetta sempre al Consiglio deliberare all’unanimità il sistema di rotazione per la scelta dei membri,
limitandosi il Trattato a stabilire il principio della parità e la necessità che il sistema rifletta la
molteplicità demografica e geografica degli Stati membri (art. 17, n. 5, TUE e 244 TFUE). In effetti,
nel Consiglio europeo dell’11-12 dicembre 2008, è stato deciso che la Commissione continuerà ad
essere composta da 1 cittadino di ciascuno Stato membro e che, a tal fine, sarà adottata una
decisione secondo le necessarie procedure giuridiche. Pertanto, il Consiglio adotterà sì,
all’unanimità, una decisione che, però, non potrà stabilire un numero di componenti della
Commissione inferiore a quello degli Stati membri, ma dovrà decidere nel senso di mantenere la
situazione attuale.
Il mandato dei commissari è rinnovabile ed è di 5 anni.
La responsabilità di nomina del Presidente e dei membri della Commissione spetta al CE, il quale,
tenuto conto delle elezioni del PE e dopo aver effettuato consultazioni appropriate, propone al PE
un candidato alla carica di Presidente, proposta che deve quindi essere approvata dal PE con
deliberazione a maggioranza dei membri che lo compongono. Ai sensi della Dichiarazione n. 11, il
CE e il PE sono congiuntamente responsabili dell’intero processo che porta all’elezione del
Presidente della Commissione. Pertanto, i rappresentanti delle 2 istituzioni procederanno alle
consultazioni necessarie, sul profilo del candidato per questa carica, prima della designazione
ufficiale. Il candidato è eletto dal PE, con deliberazione a maggioranza dei membri che lo
compongono. Qualora tale candidato non dovesse ottenere la maggioranza, il CE, sempre a
maggioranza qualificata, entro 1 mese, designa un nuovo candidato che deve essere eletto dal PE
secondo la stessa procedura.
Il Consiglio procede poi, di comune accordo con il Presidente eletto, all’adozione dell’elenco delle
altre persone che intende nominare come commissari, in conformità alle proposte avanzate da
ciascuno Stato membro. La Commissione nel suo insieme, includendovi quindi il Presidente e
l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, è sottoposta ad 1 voto di approvazione del
PE, a seguito del quale la Commissione è formalmente nominata dal CE, a maggioranza qualificata
(art. 17, n. 7, TUE). Il Presidente della Commissione ha il compito di fissare gli orientamenti
politici dell’istituzione (art. 17, n. 6, TUE).
Inoltre, al Presidente è affidata l’organizzazione interna e il coordinamento dell’attività della
Commissione. Il ruolo del Presidente ha acquisito nel tempo una maggiore connotazione politica:
 oltre a definire l’indirizzo politico della Commissione, infatti, egli gode di un potere
piuttosto ampio nella strutturazione e nella ripartizione delle competenze ai singoli
Commissari, competenze che potrebbe perfino ridimensionare in corso di mandato;
9
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 previa approvazione del collegio, egli nomina i vicepresidenti, ad eccezione dell’Alto


rappresentante per gli affari esteri e può fare rassegnare le dimissioni ai membri della
Commissione;
 più in generale, ciascun membro della Commissione esercita le funzioni che gli sono state
attribuite sotto l’autorità del Presidente (art. 17, n. 6, TUE). Pertanto ciascun commissario ha
la responsabilità di un settore di attività (ad es.: mercato interno, politica agricola, politica
regionale, concorrenza) e può adottare misure di gestione specifiche.
La Commissione ha:
 un ruolo centrale nell’assetto istituzionale, in quanto partecipa in modo sostanziale al
processo di formazione delle norme, ne controlla la puntuale esecuzione ed ha la
rappresentanza dell’Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune;
 essa ha anche un autonomo potere di decisione in settori specificamente definiti dal Trattato
e, qualora il Consiglio e il Parlamento lo prevedano negli atti da essi adottati, un potere
delegato.
Il potere di proposta degli atti legislativi è esclusivo della Commissione, salvo che i trattati non
dispongano diversamente; per gli atti NON legislativi vale la regola opposta: essi sono invece
adottati su proposta della Commissione SOLO se i trattati lo prevedono (art. 17, n. 2, TUE).
La proposta della Commissione può anche essere sollecitata dal Consiglio (art. 241 TFUE) o dal
Parlamento (art. 225 TFUE) o dai cittadini dell’Unione, in numero di almeno 1 milione, che
abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri (art. 11, n. 4, TUE). Essa è il
frutto di valutazione tecniche, economiche e in parte anche politiche. Ed infatti un progetto di
proposta, che nasce all’interno della direzione generale competente:
 viene esaminato dal servizio giuridico e da commissioni di esperti, anche esterni alla
struttura, normalmente inviati dalle amministrazioni competenti dei Paesi membri;
 vengono poi sentiti gli organismi di categoria e all’occorrenza le parti sociali;
 infine esso viene sottoposto all’approvazione collegiale.
In secondo luogo, alla Commissione spetta l’esecuzione del Trattato e degli atti derivati, sotto il
duplice profilo del controllo sull’osservanza del diritto dell’Unione e dell’esecuzione in senso
proprio:
1. il potere di controllo (art. 17, n. 1, TUE «vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure
adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati» e «vigila sull’applicazione del diritto dell’UE
sotto il controllo della Corte di giustizia dell’UE») è generale e si estrinseca soprattutto
nella verifica dell’osservanza degli obblighi da parte degli Stati membri. A tal fine è stato
predisposto un meccanismo generale di contestazione delle infrazioni (art. 258 TFUE), che
la Commissione attiva nei confronti dello Stato membro inadempiente a mezzo di una
messa in mora e quindi di un parere motivato; e che, in caso di persistente inadempimento,
conduce al ricorso della Commissione davanti alla Corte di giustizia per l’accertamento
giurisdizionale dell’infrazione. In alcuni casi, la Commissione può adire direttamente la
Corte;
2. sotto il profilo dell’esecuzione, la Commissione esercita funzioni di coordinamento,
esecuzione e di gestione alle condizioni stabilite dai trattati (art. 17, n. 1, TUE). Inoltre,
esercita il potere di esecuzione che, ai sensi dell’art. 291, n. 2, TFUE, atti giuridicamente
vincolanti dell’Unione espressamente le conferiscano, quando sono necessarie condizioni
uniformi di esecuzione.
Inoltre, la Commissione ha il potere generale, nei limiti e alle condizioni fissate dal Consiglio (art.
335 TFUE), di raccogliere tutte le informazioni e di procedere a tutte le verifiche necessarie per
l’esecuzione dei compiti affidatile. Al riguardo di particolare rilievo sono:
 i poteri ispettivi della Commissione in materia di concorrenza e di dumping;
 nonché i poteri di vigilanza sugli aiuti statali alle imprese.
Infine, la Commissione ha un autonomo potere di decisione in alcune ipotesi tassativamente
10
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

specificate dal Trattato; ad es.:


 all’art. 101, n. 3 (esenzioni individuali in materia di concorrenza);
 all’art. 106, n. 3 (imprese pubbliche);
 all’art. 108, n. 2 (aiuti di Stato).

6. Segue: L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA


POLITICA DI SICUREZZA

Il Trattato di Lisbona ha introdotto una nuova figura istituzionale: l’Alto rappresentante


dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La nomina spetta al CE con delibera a
maggioranza qualificata e con l’accordo del Presidente della Commissione (art. 18, n. 1, TFUE). In
sede di approvazione collettiva della Commissione, anche l’Alto rappresentante è soggetto al voto
del PE. Ma, a differenza degli altri membri della Commissione, per l’Alto rappresentante NON vale
il divieto di sollecitare o di sollevare istruzioni da altre istituzioni, agendo egli come mandatario del
Consiglio. Peraltro, in caso di mozione di censura, le dimissioni investiranno soltanto la sua carica
in seno alla Commissione e non anche le funzioni svolte in seno al Consiglio. Infatti, soltanto il CE,
con la stessa procedura per la nomina, può porre fine al suo mandato.
L’Alto rappresentante ha il compito di:
 guidare la politica estera e di sicurezza comune;
 contribuire con le sue proposte all’elaborazione di tale politica e di attuarla in qualità di
mandatario del Consiglio (art. 18, n. 2, TUE). Egli agisce allo stesso modo per quanto
riguarda la politica di sicurezza e di difesa comune. Inoltre, assicura l’attuazione delle
decisioni adottate, in tale ambito, dal CE e dal Consiglio (art. 27, n. 1, TUE).
L’Alto rappresentante riveste un doppio ruolo, in quanto:
1. da un lato, presiede il Consiglio nella formazione «Affari esteri» - l’unica ad avere una
presidenza stabile –;
2. e dall’altro lato, fa parte della Commissione, essendo 1 dei vicepresidenti. In questo ruolo,
vigila sulla coerenza dell’azione esterna, ha la responsabilità dello svolgimento dei compiti
attribuiti alla Commissione nel settore delle relazioni esterne e del coordinamento con gli
altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione. In particolare, nelle materie comprese sulla
PESC, conduce a norme dell’Unione il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione
dell’Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali (art.
27, n. 2, TUE).
Nell’esercizio delle sue funzioni, l’Alto rappresentante si avvale del servizio europeo per l’azione
esterna, la cui istituzione è stata prevista dal Trattato di Lisbona. Il servizio lavora in collaborazione
con i servizi diplomatici degli Stati membri ed è composto da funzionari dei servizi competenti del
segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da personale distaccato dei servizi
diplomatici nazionali. Spetta al Consiglio, con una decisione da adottarsi su proposta dell’Alto
rappresentante, previa consultazione del Parlamento e previa approvazione della Commissione,
deliberare l’organizzazione e il funzionamento del servizio europeo per l’azione esterna (art. 27, n.
3, TUE).

7. LA CORTE DI GIUSTIZIA (E IL TRIBUNALE) DELL’UE

La Corte di giustizia dell’Unione è l’istituzione cui è stato attribuito il controllo giurisdizionale:


 da una parte  sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni dell’Unione
rispetto ai trattati;
 dall’altra parte  sull’interpretazione del diritto comunitario.
La Corte di giustizia dell’UE è l’istituzione dell’Unione ai sensi dell’art. 13; essa comprende la
Corte di Giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati (art. 19 TUE).
11
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

La Corte di giustizia è composta da 1 giudice per Stato membro ed è assistita da avvocati generali
(art. 19 TUE), il cui numero attualmente fissato in 8 dall’art. 252 TFUE potrà aumentare su richiesta
della Corte di giustizia con deliberazione unanime del Consiglio. La Corte ha sede a Lussemburgo
ed è ovviamente organo di individui, nel senso che i suoi membri NON rappresentano i rispettivi
Stati di appartenenza e dunque non ne ricevono alcuna istruzione. Giudici e avvocati generali hanno
lo stesso statuto e sono nominati di comune accordo dagli Stati membri (dunque dalla conferenza
dei rappresentanti degli Stati membri) per la durata di 6 anni, tra personalità che offrano tutte le
garanzie d’indipendenza e che riuniscano le condizioni per l’esercizio, nel Paese di appartenenza,
delle più alte funzioni giurisdizionali o che siano giuristi di notoria competenza. Il mandato può
essere rinnovato. Il Trattato di Lisbona ha introdotto l’obbligo della previa consultazione di un
comitato composto da 7 personalità tra ex membri della Corte di giustizia e del Tribunale, membri
dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, uno dei quali è
proposto dal PE (art. 255 TFUE).
Il Presidente della Corte viene eletto tra i giudici per 3 anni. Egli:
1. dirige l’attività della Corte nel suo insieme, sotto il profilo sia giurisdizionale che
amministrativo;
2. presiede le udienze plenarie;
3. designa il giudice relatore per ogni causa;
4. esercita tutte le competenze che il regolamento di procedura gli attribuisce;
5. ha competenza in materia di provvedimenti cautelari e d’urgenza, nonché di sospensione
dell’esecuzione delle sentenze.
L’avvocato generale ha il compito di presentare pubblicamente, in completa indipendenza rispetto
alle parti e all’Unione, «conclusioni» scritte e motivate nelle cause trattate dinanzi alla Corte. In
base all’art. 252 TFUE le conclusioni dell’avvocato generale sono presentate non in tutte le cause,
come avveniva prima della riforma introdotta con il Trattato di Nizza, ma soltanto rispetto a quelle
che, conformemente allo Statuto della Corte, lo richiedono. A sua volta, lo Statuto precisa che la
Corte potrà escludere le conclusioni dell’avvocato generale, sentito quest’ultimo e quando la
questione non presenti nuovi punti di diritto (art. 20, ult. c.). Il ruolo è di amicus curiae e di
difensore non di una parte, qual è comunque, ad es., l’Unione oppure uno Stato membro, bensì del
diritto. Con le dovute differenze, è il ruolo che nel contenzioso amministrativo francese svolge il
Commissaire du gouvernement e che nel sistema processuale italiano svolge la Procura della Rep. in
alcuni affari civili e il Procuratore generale della Corte di Cassazione, con la differenza che
l’avvocato generale conclude per iscritto, su tutti i temi sollevati nel giudizio e quasi mai
all’udienza, ma dopo qualche settimana, salva l’ipotesi di procedura d’urgenza.
La Corte può sedere:
 sia nella sua composizione plenaria, il c.d. gran plenum, oppure nella composizione di
piccolo plenum, denominato «grande sezione» (13 giudici);
 sia in sezioni di 5 o di 3 giudici.
N.B.: Per una maggiore flessibilità nel sistema, è consentita la rimessione alle sezioni in
ogni caso, salvo che la grande sezione non sia espressamente richiesta da uno Stato membro
o da un’istituzione che sia parte (art. 251 TFUE). I casi di ricorso alla plenaria sono invece
limitati alle cause promosse contro:
 il Mediatore per mancanza delle condizioni necessarie o colpa grave (art. 228, n. 2, TFUE);
 i membri della Commissione per violazione degli obblighi connessi all’esercizio delle loro
funzioni (art. 245, n. 2, TFUE) e per il venire meno delle condizioni necessarie o per colpa
grave (art. 247 TFUE);
 i membri della Corte dei Conti per mancanza dei requisiti previsti o violazione degli
obblighi derivanti dalla loro carica (art. 286, n. 6, TFUE).
 Inoltre, la Corte può decidere, sentito anche l’avvocato generale, di rinviare un giudizio
pendente alla plenaria per l’importanza eccezionale delle questioni sollevate nello stesso.
12
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

La Corte può deliberare validamente SOLO in numero dispari. Pertanto, quando è riunita:
 in sezioni  le deliberazioni sono valide SOLO in presenza si 3 o 5 giudici;
 in grande sezione e in composizione plenaria  in presenza, rispettivamente, di 9 giudici e
di 15 giudici.
La Corte di giustizia nomina per un periodo di 6 anni il Cancelliere, che, oltre ad esercitare le
funzioni normalmente connesse a questa figura (tenuta del ruolo delle cause, ricezione di tutti gli
atti e documenti a queste relativi, notifiche previste dalle norme di procedura, assistenza nelle
udienze, ecc.), provvede all’amministrazione e alla gestione finanziaria della Corte, sotto la
responsabilità del Presidente. Anche il mandato del Cancelliere può essere rinnovato.
L’Atto unico aveva previsto che il Consiglio potesse, con decisione unanime, su domanda della
stessa Corte di giustizia e previo parere della Commissione e del Parlamento, affiancare alla Corte
un altro organo giurisdizionale. Questa previsione ha trovato attuazione in una decisione del 1988
con cui è stato istituito il Tribunale di primo grado delle Comunità europee. Le modifiche
apportate al riguardo dal Trattato di Maastricht hanno inciso, oltre che sulla sfera delle competenze
attribuibili, sulla collocazione del nuovo organo nell’ambito del sistema istituzionale comunitario
(ex art. 225 CE). Infatti, il Tribunale è divenuto, definitivamente, parte integrante dell’apparato
giurisdizionale comunitario, senza che la sua stessa esistenza dipenda da un atto del Consiglio, il cui
potere è ora limitato alla definizione dell’organizzazione e delle competenze del nuovo organo. Il
Trattato di Nizza prima e successivamente il Trattato di Lisbona hanno completato questo percorso,
riconoscendo formalmente il ruolo di giurisdizione autonoma attribuito al Tribunale. In
particolare, ai sensi dell’art. 19 TUE il Tribunale è compreso nella Corte di giustizia dell’Unione
(art. 254 ss. TFUE). Composto da almeno 1 giudice per Stato membro, con requisiti
sostanzialmente analoghi a quelli dei membri della Corte e nominati con le stesse modalità, previa
consultazione del comitato (art. 255 TFUE), anche il Tribunale ha sede a Lussemburgo. Il
Tribunale, diversamente dalla Corte, nella trattazione delle cause che gli vengono sottoposte, non
viene sistematicamente assistito dall’avvocato generale, il quale può essere nominato nei casi
previsti dallo Statuto, scegliendolo tra i giudici, soltanto quando il Tribunale siede in plenaria o
quando lo esigono le difficoltà in diritto oppure la complessità in fatto della causa.
La competenza del Tribunale, limitata in un primo tempo al contenzioso del personale e ai ricorsi
individuali in materia di concorrenza, è stata estesa ai ricorsi diretti, ad eccezione di quelli che lo
Statuto riserva alla Corte di giustizia (art. 256 TFUE). Il Trattato prevede che lo Statuto possa
estendere la competenza a categorie di ricorsi dalle quali è al momento escluso (art. 256, n. 1,
TFUE), ad es., ai procedimenti per infrazione ex art. 258 TFUE.
Conformemente alle disposizioni introdotte dal Trattato di Nizza, lo Statuto ha alterato il riparto di
competenze tra Corte di giustizia e Tribunale, riservando:
 alla Corte di giustizia  soltanto i ricorsi di annullamento e in carenza presentati dalle
istituzioni o dagli Stati riguardanti determinati atti del Parlamento e del Consiglio,
nonché gli atti della Commissione in tema di cooperazione rafforzata.
In breve: è stata attribuita al Tribunale la competenza a conoscere di tutti i ricorsi contro
gli atti della Commissione (esclusi quelli in materia di risorse proprie di cui all’art. 311,
n. 1, TFUE), prescindendo dalla qualità del ricorrente, che potrebbe quindi anche essere
uno Stato o un’altra istituzione.
Inoltre l’art. 256 TFUE (già art. 225 TCE) conferma che si possa attribuire al Tribunale la
competenza a conoscere le questioni pregiudiziali, sia pure in materie specifiche indicate nello
Statuto: in questi casi (si tratterà di materie di natura tecnica), il Tribunale potrà anche decidere di
rinviare la decisione alla Corte, qualora ravvisi «la necessità di una decisione di principio tale da
poter compromettere l’unità o la coerenza del dir. comunitario». Inoltre sempre dall’art. 256 TFUE
è previsto che la sentenza del Tribunale possa essere sottoposta alla procedura di riesame davanti
alla Corte di giustizia: ciò potrà avvenire solo «eccezionalmente» e qualora sussistano «gravi rischi
che l’unità e la coerenza del dir. comunitario siano compromesse». Ai sensi dell’art. 62 dello
13
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Statuto, l’iniziativa in tal senso è affidata al 1° avvocato generale, la cui proposta di riesame deve
essere presentata entro 1 mese dalla pronuncia del Tribunale. Entro il mese successivo la Corte
dovrà pronunciarsi sulla opportunità o meno di intervenire.
Tuttavia, ad oggi, l’ipotesi di cognizione dei rinvii pregiudiziali da parte del Tribunale non ha
trovato ancora attuazione, restando dunque esclusiva della Corte di giustizia.
Nell’ambito dei ricorsi diretti, le sentenze del Tribunale possono essere impugnate davanti alla
Corte solo per motivi di diritto. L’impugnazione spetta, oltre che alla parte soccombente, agli Stati
membri e alle istituzioni, anche quando non abbiano partecipato al giudizio di 1° grado.
Con decisione del 26 aprile 1999 il Consiglio ha introdotto una modifica significativa, sancendo la
possibilità che il Tribunale decida anche con giudice unico. In particolare, la sezione dinanzi alla
quale la questione pende può all’unanimità assegnarla ad un giudice unico, salvo opposizione di
uno Stato membro o di una istituzione dell’Unione; questa possibilità è limitata alle cause di
personale, ai ricorsi di annullamento o di responsabilità contrattuale che sollevano questioni già
chiarite da una consolidata giurisprudenza o sono parte di una serie di cause con lo stesso oggetto
ed una sia stata già decisa con forza di giudicato. Per contro, è esclusa l’assegnazione ad 1 giudice
unico:
 quando la causa solleva questioni di legittimità di 1 atto a portata generale;
 oppure quando si verta in materia di concorrenza, aiuti, dumping, organizzazione comune
dei mercati, marchi e varietà vegetali.
Il Trattato di Nizza ha attribuito al Consiglio la facoltà di istituire «camere giurisdizionali»,
denominate «tribunali specializzati» dal Trattato di Lisbona, competenti a conoscere in 1° di
alcune categorie di ricorsi in materie specifiche (art. 257 TFUE). Ad oggi il Consiglio ha esercitato
questi poteri 1 sola volta, istituendo il Tribunale della funzione pubblica dell’UE, un tribunale
specializzato nel c.d. contenzioso del personale. Il Trattato di Lisbona ha modificato anche in modo
significativo la procedura per l’istituzione di nuovi tribunali specializzati, attribuendo un maggior
potere al PE che viene così ad assumere un ruolo paritario rispetto al Consiglio (art. 257 TFUE).
Il Tribunale della funzione pubblica è composto da 7 giudici, nominati per un periodo di 6 anni,
rinnovabile. Esso si riunisce normalmente in sezioni composte da 3 giudici, ma è previsto che in
determinati casi disciplinati dal regolamento di procedura, esso può riunirsi in seduta plenaria, in
sezioni di 5 giudici o statuire nella persone di 1 giudice unico.
Le decisioni assunte dai tribunali specializzati possono esser oggetto di impugnazione dinanzi al
Tribunale per SOLI motivi di diritto; eccezionalmente, la sentenza del Tribunale in grado di appello
può essere oggetto della procedura di riesame dinanzi alla Corte di giustizia, ove sussistano gravi
rischi che l’unità o la coerenza del dir. dell’Unione siano compromessi (art. 256, n. 2, TFUE).

8. LA BANCA CENTRALE EUROPEA

Il Trattato di Lisbona ha inserito tra le istituzioni a pieno titolo la Banca centrale europea (BCE:
art. 13 TUE e artt. 282 ss. TFUE), che è entrata in funzione con l’inizio della 3° fase dell’Unione
economica e monetaria (UEM), così come il Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC),
composto dalla BCE e dalle banche centrali degli Stati membri. La BCE, con sede a Francoforte, ha
1 comitato esecutivo, composto da:
 un Presidente;
 un vicepresidente;
 e 4 membri, nominati per 8 anni a maggioranza qualificata dal CE, su raccomandazione
del Consiglio e previa consultazione del Parlamento e del consiglio direttivo della BCE.
Il consiglio direttivo comprende i membri del comitato esecutivo e i governatori delle
banche centrali degli Stati membri la cui moneta è l’euro (art. 283 TFUE). Alle riunioni
del consiglio direttivo possono partecipare senza diritto di voto il Presidente del
Consiglio e 1 membro della Commissione. Del pari, il Presidente della Banca può essere
14
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

invitato a partecipare alle riunioni del Consiglio quando questo discute di questioni
relative agli obiettivi e alle funzioni del Sistema (art. 284 TFUE).
Sul piano delle funzioni, la BCE e le banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è
l’euro, che costituiscono l’Eurosistema, conducono la politica monetaria dell’Unione (art. 282, n. 1,
TFUE). La Banca centrale ha personalità giuridica ed ha il diritto esclusivo di autorizzare
l’emissione dell’euro. Nell’esercizio delle sue funzioni e nella gestione delle sue finanze la Banca
centrale gode di indipendenza, che deve essere rispettata dalle istituzioni, dagli organi e dagli
organismi dell’Unione e dai governi degli Stati membri. Nei settori che rientrano nelle sue
attribuzioni, la BCE è consultata su ogni progetto di atto dell’Unione e su ogni progetto di atto
normativo a livello nazionale; e può formulare pareri (art. 282, n. 3, TFUE). Inoltre, la Banca è
tenuta a trasmettere al Parlamento, al Consiglio e alla Commissione 1 rapporto annuale, con 1
presentazione poi del Presidente al Parlamento che può dar luogo ad 1 dibattito generale (art. 284,
n. 3, TFUE).
Quanto al Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), questo è diretto dagli organi
decisionali della BCE. Il suo obiettivo principale è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fermo
restando questo obiettivo, esso sostiene inoltre le politiche economiche generali per contribuire alla
realizzazione degli obiettivi dell’Unione (art. 282, n. 2, TFUE).

9. LA CORTE DEI CONTI

La Corte dei conti, istituita con il Trattato del 22 luglio 1975, è compresa formalmente nel novero
delle istituzioni di cui all’art. 13 TUE. Il rango di istituzione autonoma è sottolineato dal potere di
autodeterminazione nella definizione del regolamento interno, il quale è poi approvato dal
Consiglio a maggioranza qualificata (art. 287, ult. c.).
L’istituzione ha sede a Lussemburgo, è organo di individui ed è composta da 1 cittadino per Stato
membro, designati dai rispettivi governi tra personalità che:
 abbiano maturato un’esperienza nelle istituzioni nazionali di controllo;
 oppure che posseggano qualificazioni specifiche per tale funzione.
I membri designati sono nominati dal Consiglio con deliberazione a maggioranza
qualificata, previa consultazione del Parlamento (art. 286, n. 2, TFUE). I membri della
Corte restano in carica 6 anni e il loro mandato è rinnovabile.
La Corte dei conti, oltre ad assistere l’autorità di bilancio (Parlamento e Consiglio) nell’esercizio
della funzione di controllo sull’esecuzione del bilancio, ha il compito di assicurare il controllo sulla
gestione finanziaria dell’Unione. A tal fine essa esamina tutte le entrate e le spese dell’Unione e
degli organismi da questa creati, tranne espressa esclusione. Il controllo si svolge tanto su
documenti che con accesso presso le istituzioni o negli Stati membri, in tal caso con la
collaborazione degli organi di controllo o delle amministrazioni nazionali competenti. L’affidabilità
dei conti e la legittimità e regolarità delle relative operazioni è dunque attestata in 1 dichiarazione
presentata al Consiglio e al Parlamento. Inoltre il Trattato prevede la possibilità di completare
questa dichiarazione con valutazioni specifiche per ciascuno dei settori di attività dell’Unione (art.
287, n. 1, 2° c., TFUE).
Alla chiusura dell’esercizio, la Corte dei conti presenta la relazione annuale, con una dichiarazione
di affidabilità dei conti e di regolarità delle operazioni (art. 287, n. 4), comunicata alle altre
istituzioni e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale insieme alle risposte delle istituzioni ai suoi rilievi.
La Corte può all’occorrenza presentare relazioni speciali su problemi particolari o dare pareri su
richiesta di una delle istituzioni. Anche la Corte dei conti, come il Tribunale, può istituire al suo
interno delle sezioni, in questo caso specificamente competenti per alcune categorie di relazioni o di
pareri (art. 287, n. 4, 3° comma).
La Corte dei conti è legittimata ad agire dinanzi alla Corte di giustizia limitatamente alla difesa
delle proprie prerogative al pari della BCE e del Comitato delle regioni (art. 263, n. 3, TFUE). I

15
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

suoi atti, in quanto non vincolanti, non sono impugnabili.

10. ALTRI ORGANI

Un gran numero di organismi:


 alcuni dei quali creati dai trattati istitutivi (il Comitato economico e sociale) o con modifiche
intervenute successivamente (il Comitato delle regioni, istituito con il Trattato di
Maastricht);
 altri mediante atti di diritto derivato (ad es., il Fondo europeo di cooperazione monetaria);
 altri ancora addirittura con accordi internazionali dei quali l’Unione è parte (ad es., il
Comitato di cooperazione industriale), intervengono nella vita e nell’attività dell’Unione in
modo più o meno incisivo.
Il Trattato di Lisbona ha, per la prima volta, espressamente classificato il Comitato economico e
sociale e il Comitato delle regioni, entrambi con sede a Bruxelles, come organi consultivi
dell’Unione (art. 300 TFUE).
Il Comitato economico e sociale (CES), organo consultivo dell’Unione, è composto dai
rappresentanti di diverse categorie della vita economica e sociale, per un totale attualmente pari a
344, che non potrà superare i 350 in base al nuovo art. 301 TFUE. Il Trattato di Lisbona ha
ampliato la composizione, includendovi i «rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro,
di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori
socioeconomico, civico professionale e culturale» (art. 300, n. 2, TFUE). I membri sono nominati
per 5 anni dal Consiglio sulla base delle proposte presentate da ciascun Stato membro, previa
consultazione della Commissione ed eventualmente delle organizzazioni rappresentative dei diversi
settori economici e sociali e della società civile interessati dall’attività dell’Unione (art. 302, n. 2,
TFUE).
È organo di individui e dunque i membri del Comitato agiscono in completa indipendenza dagli
Stati membri, nell’interesse generale dell’Unione (art. 301 TFUE).
Il Trattato stabilisce i casi in cui la Commissione, il Consiglio o il Parlamento hanno l’obbligo di
consultare il CES, mentre è loro facoltà consultarlo ogni volta che lo ritengano opportuno. Il
Comitato può anche di propria iniziativa formulare pareri.
Il Comitato delle regioni, istituito dal Trattato di Maastricht, è un organo consultivo. Al pari del
CES, è un organo di individui, i suoi membri (attualmente 344 ma possono arrivare a 350: art. 305
TFUE) sono nominati dal Consiglio, sulla base della proposta degli Stati membri, per un periodo di
5 anni, rinnovabile. Essi sono indipendenti dagli Stati membri e agiscono nell’interesse generale
dell’Unione, ma nello stesso tempo devono:
 essere titolari di 1 mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale;
 o, comunque, politicamente responsabili dinanzi a un’assemblea eletta (art. 305, 3° c.,
TFUE).
Il Comitato delle regioni deve essere consultato nei casi previsti dal Trattato o quando il Consiglio,
la Commissione o il Parlamento lo ritengano opportuno; può anche formulare pareri di propria
iniziativa, in particolare quando sia stato consultato il CES su problemi che investono interessi
regionali specifici. Il parere è ad es. previsto per:
 le azioni tese ad incoraggiare la cooperazione in materia di cultura, sanità;
 nonché per aspetti significativi della coesione economica e sociale: fondi strutturali (art. 177
TFUE), fondo regionale (art. 178 TFUE) ed eventuali azioni specifiche non finanziate da
fondi ordinari (art. 175, ult. c., TFUE).
N.B.: Tra le novità + significative introdotte dal Trattato di Lisbona vi è il riconoscimento al
Comitato delle regioni del potere di ricorso alla Corte di giustizia, in particolare per denunciare la
violazione del principio di sussidiarietà, qualora tale violazione sia dovuta ad atti legislativi sui
quali è richiesta la sua consultazione. Si tratta nella sostanza di 1 ricorso speciale nell’ambito dei
16
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

ricorsi di annullamento, che si qualifica per essere riservato soltanto agli Stati membri e al Comitato
delle regioni e per essere fondato esclusivamente sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà.
La Banca europea per gli investimenti (BEI) è inserita da sempre nello scenario istituzionale
comunitario in senso lato, anche se non è mai stata compresa tra le istituzioni, tant’è vero che
l’indicazione dei suoi compiti figurava nella parte del Trattato dedicata alle politiche dell’Unione e
non in quella dedicata alle istituzioni. La BEI è disciplinata dalle conferenti norme del Trattato sul
funzionamento (artt. 308 e 309 TFUE), nonché dallo statuto apposito, che costituisce l’oggetto di
un protocollo allegato ai trattati (art. 208, n. 3, TFUE).
La Banca, dotata di personalità giuridica, opera sui mercati finanziari sostanzialmente come un
istituto di credito, anche se non ha fini di lucro e si muove in ogni caso nell’ottica dello sviluppo
equilibrato e «senza scosse» del mercato comune. Inoltre nello svolgimento dei suoi compiti la
Banca facilita la realizzazione dei programmi di investimento congiuntamente agli altri meccanismi
finanziari dell’Unione (ad es. fondi strutturali: art. 309, 2° c., TFUE). La sede è a Lussemburgo.
Il Trattato di Maastricht ha introdotto la figura del Mediatore europeo, il cui ruolo è quello di
difensore degli interessi dei cittadini nei confronti dell’autorità la cui lesione non sarebbe
traducibile in azioni giudiziarie. È noto che da tempo questa figura esiste a livello regionale anche
in Italia, con la denominazione di “Difensore civico”.
Il Mediatore europeo, nominato dal Parlamento per la durata della legislatura, con mandato
rinnovabile, è evidentemente organo di individui ed esercita le sue funzioni in completa
indipendenza. Egli riceve le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione, o di qualsiasi persona fisica
o giuridica che risieda o abbia la sede in uno Stato membro, relativamente a casi di cattiva
amministrazione nell’attività delle istituzioni dell’Unione, fatta eccezione, è ovvio, per la Corte di
giustizia e il Tribunale nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Sulla base di tale denuncia o anche di propria iniziativa, il Mediatore svolge le indagini che ritiene
utili e, in caso di conclusione positiva, ne investe l’autorità interessata; quest’ultima gli deve
comunicare il proprio punto di vista entro 3 mesi. All’esito della procedura, il Mediatore trasmette
una relazione al PE e all’istituzione interessata, informando il denunciante del risultato
dell’indagine.
Inoltre vi sono alcune Agenzie, che hanno competenze per lo più tecniche e/o di supporto
informativo per gli Stati membri e per le istituzioni dell’Unione. L’istituzione di agenzie risponde
ad una logica di decentralizzazione sia funzionale che territoriale, infatti:
 da un lato, le agenzie assumono compiti delegati dalle istituzioni europee;
 dall’altro lato, sono localizzate in maniera sparsa sul territorio degli Stati membri.
Le agenzie dipendono generalmente dalla Commissione, che mantiene la responsabilità finanziaria.
Gli obiettivi delle agenzie comunitarie possono essere molteplici, e infatti:
 alcune agenzie svolgono una funzione di informazione e di coordinamento;
 altre agenzie sono dotate di un potere di adottare decisioni individuali vincolanti o di un
potere di raccomandare.
 In certi casi le agenzie rispondono all’esigenza di sviluppare il know-how scientifico o
tecnico in alcuni settori specifici, in altri casi svolgono un ruolo di mediazione tra vari
gruppi di interesse, facilitando quindi il dialogo a livello europeo o internazionale (per es. tra
le parti sociali).
 Ognuna è unica nel suo genere e svolge un compito specifico, definito al momento della sua
creazione. Alcune di esse, a volte con una diversa denominazione (Centro o altro), hanno
assunto un rilievo particolare, come l’Agenzia per l’ambiente di Copenhagen e la
Fondazione europea per la formazione di Torino (ETF).
N.B.: Nell’ambito del settore della cooperazione giudiziaria e di polizia (c.d. ex terzo pilastro
dell’Unione), va menzionato l’Eurojust, ossia Unità europea di cooperazione giudiziaria, già
introdotto dal Trattato di Nizza e ulteriormente disciplinato dal Trattato di Lisbona (art. 85 TFUE).
Esso ha competenze in materia di lotta alla criminalità organizzata, al fine di rafforzare la
17
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

cooperazione tra le autorità giudiziarie e le altre autorità competenti degli Stati membri responsabili
dell’azione penale. Inoltre tale organo dovrebbe agevolare la cooperazione con la Rete giudiziaria
europea nell’esecuzione delle rogatorie e delle domande di estradizione (art. 85, n. 2, lett. c, TFUE).
Al fine di combattere specificamente i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione l’art. 86,
n. 1, TFUE prevede la possibilità per il Consiglio di istituire una Procura europea a partire da
Eurojust, deliberando mediante regolamenti da adottare all’unanimità previa approvazione del
Parlamento (procedura legislativa speciale).
Tra gli organismi menzionati dal Trattato va anche ricordato l’Europol, il cui compito è di sostenere
e potenziare l’azione delle autorità di polizia e degli altri servizi incaricati dell’applicazione della
legge degli Stati membri e la reciproca collaborazione nella prevenzione e lotta contro la criminalità
grave che interessa 2 o + Stati membri, il terrorismo e le forme di criminalità che ledono un
interesse comune oggetto di una politica dell’Unione (art. 88 TFUE). Tuttavia il Trattato precisa
che qualsiasi azione operativa di Europol deve essere condotta in collegamento e d’intesa con le
autorità dello Stato membro o degli Stati membri interessati e che l’applicazione delle misure
coercitive resta di competenza esclusiva delle autorità nazionali.

11. IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI: A) NEL PROCESSO DI FORMAZIONE DELLE


NORME

Il Trattato di Lisbona ha introdotto sostanziali novità quanto all’iter di procedura di formazione


degli atti. Infatti, ai sensi degli artt. 14, n. 1 e 16, n. 1, TUE la funzione legislativa è esercitata
congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento. Questa competenza può essere esercitata attraverso
la procedura legislativa ordinaria oppure le procedure legislative speciali, a seconda della specifica
previsione dei trattati. L’art. 48, n. 7, 2° c., TUE, contempla una sorta di «passerella» tra le
procedure speciali e quella ordinaria; infatti, è previsto che il CE possa adottare, all’unanimità e
previa approvazione del PE, 1 delibera con la quale autorizzi l’utilizzo della procedura ordinaria per
l’adozione di atti legislativi, per i quali è prevista invece una procedura speciale. In questa ipotesi, è
necessario che nessun Parlamento nazionale, ai quali la proposta di decisione va notificata, si
opponga. Infine, l’art. 296, 3° c., TFUE, dispone che in presenza di un progetto di atto legislativo
sia il PE che il Consiglio debbano astenersi dall’adottare atti non previsti dalla procedura legislativa
applicabile allo specifico settore.
L’articolazione delle competenze attribuite dal Trattato alle singole istituzioni dell’Unione fa
risaltare con sufficiente chiarezza che la funzione normativa è esercitata nella sostanza dal
Consiglio, con la partecipazione sempre + significativa del Parlamento. Soprattutto, l’apporto del
Parlamento si è andato progressivamente accrescendo, sulla spinta dell’idea che il progresso
nell’integrazione non può che andare di pari passo con una + accentuata partecipazione dei cittadini
alla formazione delle norme, raggiungendo una significativa consistenza proprio per effetto del
recente Trattato di Lisbona.
Un insieme di atti normativi, che non investono SOLO la sfera giuridica degli Stati ma direttamente
quella dei singoli, indipendentemente dallo strumento tecnico utilizzato per raggiungere questo
risultato, non può certamente essere lasciato alla sola responsabilità dell’organo rappresentativo dei
governi nazionali: pena non solo e non tanto la democraticità del processo deliberativo, ma la
funzionalità stessa del sistema che ha bisogno di una consistente partecipazione dei cittadini al
processo di formazione delle norme comunitarie. Quindi si impone che il Parlamento, investito
della rappresentanza dei cittadini, e la Commissione, in sostanza organo di mediazione degli
interessi di categoria e soprattutto filtro tecnico delle istanze politiche in senso lato, assumano
responsabilità forti quanto alle scelte normative.
Ciò non esclude che la responsabilità principale in ordine alla realizzazione degli obiettivi, che sono
stati e sono tuttora fissati con lo strumento convenzionale e sulla base di una fase dialettica
intergovernativa ancora decisiva, ricada sull’insieme degli Stati e dunque sul Consiglio, sia pure
con il necessario temperamento del criterio della maggioranza. Né va dimenticato, al riguardo, che
18
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

in una forma o nell’altra i membri del Consiglio, in quanto rappresentanti dei governi nazionali,
conservano pur sempre 1 legittimazione e con essa 1 responsabilità diretta nei confronti dei
cittadini. Lo stesso non può dirsi, viceversa, per i membri della Commissione, che in sostanza non
rispondono che in via mediata al PE e ai Parlamenti nazionali.
Esaminando con quali modalità si articola il dialogo delle istituzioni all’interno del processo di
formazione degli atti, appare chiaro che il profilo + significativo, che segna anche la distinzione tra i
vari procedimenti, attiene al ruolo del Parlamento e al suo raccordo con le competenze attribuite alla
Commissione e al Consiglio.

a) La procedura legislativa ordinaria

La procedura legislativa ordinaria (che riprende largamente la procedura di codecisione) è


disciplinata dall’art. 294 TFUE. Si tratta di 1 procedura solo a prima vista complessa, che accentua
il dialogo tra le istituzioni chiamate ad intervenire nel processo di formazione degli atti.
Innanzitutto, la Commissione presenta 1 proposta al Parlamento e al Consiglio. In casi
espressamente previsti dai trattati, gli atti legislativi possono essere adottati su iniziativa di 1 gruppo
di Stati membri o del PE, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte di giustizia o
della Banca europea per gli investimenti (art. 289, n. 4, TFUE).
Sulla proposta il PE adotta la sua posizione che trasmette al Consiglio, e in particolare:
 se il Consiglio approva tale posizione  l’atto «è adottato nella formulazione che
corrisponde alla posizione del PE» (art. 294, n. 4, TFUE);
 se, invece, il Consiglio NON approva la posizione del PE  esprime la sua posizione, in 1°
lettura, e la comunica al Parlamento, che deve anche essere informato esaurientemente dei
motivi che hanno indotto il Consiglio ad adottare quella posizione, così come della
posizione della Commissione.
Inizia così la fase chiamata 2° lettura. Il Parlamento ha 3 mesi di tempo per approvare la posizione
del Consiglio, in questo caso l’atto si considera adottato «nella formulazione che corrisponde alla
posizione del Consiglio». Lo stesso si deve dire se il Parlamento NON si pronuncia nei 3 mesi.
Il quadro cambia se il Parlamento, a maggioranza dei suoi membri, dichiara di voler respingere la
posizione del Consiglio oppure propone emendamenti:
1) nel 1° caso  l’atto si considera NON ADOTTATO;
2) se viceversa sono SOLO proposti degli emendamenti  il Consiglio entro 3 mesi può
accoglierli tutti e procedere così all’adozione dell’atto, modificando pertanto la previa
posizione, a maggioranza qualificata oppure all’unanimità qualora la Commissione abbia
espresso parere negativo sugli emendamenti del Parlamento.
N.B.: Nell’ipotesi in cui il Consiglio non approvi l’atto in questione, o perché il Parlamento
respinge la sua posizione oppure perché in Consiglio non si raggiunge l’accordo sugli emendamenti
proposti, viene attivato il Comitato di conciliazione (art. 294, nn. da 10 a 12, TFUE). Composto da
un numero pari di membri delle 2 istituzioni e con la partecipazione ai lavori anche della
Commissione, che ha il compito di favorire il ravvicinamento delle posizioni a confronto, il
Comitato di conciliazione viene convocato dal Presidente del Consiglio, d’intesa con il Presidente
del Parlamento. Le ipotesi, a questo punto, sono 2 e precisamente:
1. il Comitato di conciliazione riesce in 6 settimane a definire 1 progetto comune, basandosi
sulle posizioni del PE o del Consiglio;
2. se entro questo termine NON è stato approvato 1 progetto comune, l’atto proposto si
considera definitivamente non adottato (art. 294, n. 12, TFUE).
Qualora il Comitato di conciliazione approvi 1 progetto comune inizia la 3° lettura. Il progetto
dovrà essere approvato definitivamente nelle 6 settimane successive, dal Parlamento a maggioranza
dei voti espressi e dal Consiglio a maggioranza qualificata; in mancanza dell’approvazione di 1
delle 2 istituzioni, l’atto si considera NON adottato. I termini di 3 mesi e di 6 settimane possono

19
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

essere prorogati su iniziativa del Parlamento o del Consiglio, di 1 mese e di 2 settimane, al


massimo.
La procedura prefigurata dall’art. 294 TFUE segna un notevole progresso rispetto al passato, quanto
al grado di influenza del Parlamento nel processo di formazione degli atti dell’Unione e in
definitiva quanto al tasso di democraticità del sistema complessivamente considerato. È fin troppo
evidente, infatti, che il Parlamento dispone di 1 vero e proprio diritto di veto in tutti i casi in cui il
Comitato di conciliazione non pervenga al necessario accordo. Nell’ipotesi inversa, invece, l’atto è
adottato congiuntamente da Consiglio e Parlamento e firmato dai 2 Presidenti. Peraltro, il ricorso a
tale procedura, divenuta appunto la «procedura legislativa ordinaria» è stato ampiamente esteso
con il Trattato di Lisbona. Tra le altre materie, sono interessate dalla procedura questi ambiti:
 definizione delle procedure e delle condizioni per l’esercizio del diritto di iniziativa
popolare (art. 24 TFUE);
 libera circolazione dei lavoratori dipendenti (art. 46 TFUE);
 agricoltura e pesca (art. 43 TFUE);
 il diritto di stabilimento (art. 50, n. 1, TFUE);
 il riconoscimento reciproco dei diplomi (art. 53 TFUE);
 misure per 1 politica comune sull’immigrazione (art. 79, n. 2, TFUE);
 cooperazione giudiziaria in materia civile, escluso il dir. di famiglia (art. 81, nn. 2 e 3,
TFUE);
 cooperazione giudiziaria in materia penale (art. 82, nn. 1 e 2, TFUE);
 l’istruzione (art. 165, n. 4, TFUE);
 la protezione dei consumatori (art. 169 TFUE); ecc.

b) Le procedure legislative speciali

Una procedura legislativa speciale si ha in tutti i casi in cui i trattati prevedono l’adozione di 1 atto
da parte del PE con la partecipazione del Consiglio o viceversa (art. 289, n. 2, TFUE). Le modalità
di partecipazione delle 2 istituzioni sono molteplici e, di conseguenza, numerose sono le procedure
speciali contemplate dai trattati. Però va subito detto che soltanto in 3 casi l’adozione dell’atto è
attribuita al Parlamento con la partecipazione del Consiglio, e precisamente:
1) approvazione del proprio statuto (art. 223, n. 2, TFUE);
2) fissazione delle modalità dell’esercizio del diritto d’inchiesta dello stesso Parlamento (art.
226, 3° comma, TFUE);
3) adozione dello statuto e delle condizioni generali per l’esercizio delle funzioni del
Mediatore europeo (art. 228, n. 4, TFUE).
Più frequenti sono i casi in cui la delibera del Consiglio deve essere preceduta dalla consultazione
del Parlamento, che non è vincolante ma obbligatoria. La consultazione del Parlamento è prescritta
ad es. in tema di:
 dir. di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione (art. 21 TFUE);
 dir. di voto (art. 22 TFUE);
 concorrenza (artt. 103 e 109 TFUE);
 armonizzazione fiscale (art. 113 TFUE);
 applicazione dello statuto del Sistema europeo di banche centrali (art. 129, n. 4, TFUE);
 iniziative sull’occupazione (artt. 148, n. 2 e 150, TFUE).
La consultazione del Parlamento assume il carattere di elemento (o forma) sostanziale della validità
dell’atto, che dunque sarà viziato da nullità quando se ne riscontri l’omissione. La consultazione
rappresenta, infatti, 1 strumento di effettiva partecipazione del Parlamento al processo legislativo
dell’Unione, elemento essenziale dell’equilibrio istituzionale ed espressione di un «fondamentale
principio della democrazia, secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di
20
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

un’assemblea rappresentativa».
In definitiva, il Parlamento deve aver espresso effettivamente la propria posizione, non essendo
sufficiente una semplice richiesta di parere da parte del Consiglio. Ciò significa anche che, quando
il Trattato prevede la previa consultazione del Parlamento, il Consiglio non può adottare 1 atto che
non rifletta la proposta della Commissione così come esaminata dal Parlamento: infatti la procedura
di consultazione risulterà rispettata solo nel caso in cui il testo definitivo di 1 atto, quale approvato
dal Consiglio, sia «sostanzialmente identico» a quello contenuto nella proposta su cui il Parlamento
aveva espresso il proprio parere.
Infine, in alcune ipotesi l’adozione di 1 atto legislativo è subordinata alla previa approvazione del
PE. La procedura ha sostituito quella precedente del parere conforme. È il caso, ad es., della
procedura uniforme di elezione del Parlamento (art. 223, n. 6, lett. a), TFUE). Del pari, è soggetta
all’approvazione la conclusione:
 di accordi di associazione;
 dell’accordo sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
 di accordi che determinano procedure di cooperazione ovvero con ripercussioni
finanziarie considerevoli o che riguardano settori ai quali si applica la procedura
legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa speciale qualora sia necessaria
l’approvazione del Parlamento;
 o, ancora, l’ammissione di nuovi Stati (art. 49 TUE).
L’approvazione del Parlamento, in tali casi, oltre che obbligatoria, è vincolante; ciò implica,
all’evidenza, che il Parlamento dispone anche in tali materie di un sostanziale diritto di veto.

c) La formazione degli atti nel settore della politica estera e di sicurezza comune

Relativamente agli atti adottati dall’UE per l’esercizio delle competenze attribuite nell’ambito della
politica estera e di sicurezza comune, per quanto il Trattato di Lisbona abbia adottato una
classificazione unitaria degli atti, vanno rilevate alcune differenze sotto il profilo della formazione
di certi atti (in particolare decisioni). Ciò che appare subito evidente è la riduzione della funzione
del Parlamento ad un ruolo meramente consultivo (art. 36 TUE) e la perdita del quasi monopolio
della Commissione europea nell’esercizio dell’iniziativa legislativa. Infatti, secondo l’art. 30 del
Trattato UE, «ogni Stato membro, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza, o l’Alto rappresentante con l’appoggio della Commissione possono
sottoporre al Consiglio questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e possono
presentare rispettivamente iniziative o proposte al Consiglio». A tale riguardo, è anche prevista 1
procedura d’urgenza quando occorra 1 decisione rapida, con la possibilità per l’Alto rappresentante
di convocare entro 48 ore o addirittura prima nei casi di emergenza, una riunione straordinaria del
Consiglio; questa convocazione straordinaria può seguire ad 1 richiesta tanto della Commissione
quanto di 1 Stato membro.
Inoltre l’art. 31 TUE impone di regola l’unanimità per l’adozione di qualunque tipo di decisione,
con alcuni correttivi tesi ad attenuare in qualche misura la rigidità che ne deriva ed a scongiurare il
rischio d’immobilismo:
a) in primo luogo, è previsto che le astensioni non inficiano l’adozione degli atti e non
impediscono il raggiungimento dell’unanimità;
b) in secondo luogo, per porre al riparo gli Stati membri esitanti dagli effetti dell’atto e
convincerli ad astenersi invece di manifestare una volontà di segno negativo, si è introdotto
l’istituto dell’astensione costruttiva, cioè la possibilità per gli Stati membri di motivare il
proprio non voto attraverso 1 dichiarazione formale, con la quale essi non si obbligano
all’atto in fieri, ma ne accettano gli effetti per l’Unione. Peraltro, «in uno spirito di mutua
solidarietà», lo Stato in questione si astiene dal tenere comportamenti che possano
21
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

pregiudicare l’efficacia dell’atto all’interno dell’Unione, così come gli altri ne rispettano la
posizione. È evidente, però, che non si può viceversa giungere all’adozione dell’atto quando
l’astensione coinvolga un numero significativo di membri del Consiglio, individuato
dall’art. 31, n. 1, 2° c., TUE in + di 1/3 degli Stati membri che totalizzano almeno 1/3 della
popolazione dell’Unione.
La regola dell’unanimità viene meno per gli atti esecutivi e, più in generale, per quelli che ne
presuppongono altri adottati all’unanimità. In base al 2° paragrafo dell’art. 31, n. 2, quindi, il
Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata quando:
 adotta 1 decisione che definisce 1 azione o 1 posizione dell’Unione sulla base di una
decisione del Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi strategici dell’Unione,
nonché «1 decisione che definisce 1 azione comune o 1 posizione dell’Unione in base a 1
proposta dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza
presentata in seguito a una richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio europeo di
sua iniziativa o su iniziativa dell’Alto rappresentante»;
 quando adotta «decisioni relative all’attuazione di 1 decisione che definisce 1 azione o 1
posizione dell’Unione»;
 quando nomina 1 rappresentante speciale ex art. 18, n. 5.
La ponderazione dei voti segue sempre il calcolo stabilito dall’art. 238, n. 2, TFUE. I casi di
deliberazione a maggioranza qualificata possono essere estesi con deliberazione unanime del
Consiglio europeo (art. 31, n. 3, TUE). Ad ogni modo, la maggioranza qualificata non può mai
essere sufficiente per le decisioni che determinano conseguenze nel settore militare o della
difesa (art. 31, n. 4, TUE); mentre basta la maggioranza dei membri per le questioni procedurali
del Consiglio (art. 31, n. 5, TUE).
In riferimento agli atti adottabili dall’UE in sede di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia
penale (ex 3° pilastro), la procedura di formazione non si discosta da quella prevista in termini
generali (artt. 293-294 TFUE).

12. Segue: B) NELL’APPROVAZIONE DEL BILANCIO

In origine l’UE era finanziata con contributi degli Stati membri, così come l’Euratom. Con la
decisione del 21 Aprile 1970, si arrivò ad 1 sistema fondato sulle c.d. risorse proprie. Attualmente,
l’art. 311, 2° c., TFUE sancisce che il bilancio dell’Unione, fatte salve le altre entrate, è finanziato
integralmente tramite risorse proprie. Il sistema in vigore, stabilito dalla decisione del Consiglio n.
2007/436, del 7 giungo 2007, è fondato su queste risorse finanziarie:
1) prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi
della tariffa doganale comune e altri dazi fissati da parte delle istituzioni sugli scambi con i
Paesi terzi;
2) l’applicazione di un’aliquota sull’imponibile IVA pari ad una percentuale del PNL degli Stati
membri determinata secondo regole dell’Unione. Tale percentuale è dello 0,30%;
3) un’aliquota sull’importo complessivo del PIL di tutti gli Stati membri (risorsa PNL), da
determinarsi in funzione del bilancio e dunque anno per anno, tenendo conto del totale delle
altre entrate delle 2 risorse indicate.
Ai sensi dell’art. 3 della decisione 2007/436, l’importo totale delle risorse proprie per gli
stanziamenti annuali per pagamenti NON può superare l’1,24% del totale del PNL degli Stati
membri.
Il sistema di finanziamento dell’Unione è fondato su un meccanismo sostanzialmente
intergovernativo. La decisione che definisce l’ammontare delle risorse proprie è presa all’unanimità
ed è per giunta sottoposta alle procedure di adattamento degli Stati membri; dunque ha natura
convenzionale. Gli Stati membri conferiscono queste risorse a beneficio del bilancio dell’Unione,
talvolta verificando se il «ritorno» sia più o meno «giusto», cioè se l’uscita netta di risorse
22
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

finanziarie dalle casse statali corrisponda ai benefici comunitari che si ricevono.


Le spese, ai sensi dell’art. 312, n. 1, TFUE, devono essere contenute entro i limiti delle risorse
proprie e sono programmate su base pluriennale attraverso un quadro finanziario, adottato dal
Consiglio all’unanimità previa approvazione del PE.
La procedura di approvazione del bilancio, disciplinata dall’art. 314 TFUE, ha visto un progressivo
coinvolgimento del PE che ha assunto con il Trattato di Lisbona 1 posizione equiparata al
Consiglio. Peraltro, il ruolo del PE è uscito rafforzato dalla soppressione tra spese obbligatorie e
spese non obbligatorie.
In particolare, il PE e il Consiglio ricevono dalla Commissione 1 proposta contenente il progetto di
bilancio non oltre il 1° settembre dell’anno che precede quello di esecuzione del bilancio stesso. Il
Consiglio adotta la sua posizione sul progetto di bilancio e la comunica, per la 1° lettura, al PE,
motivando la sua posizione.
Il Parlamento può entro 42 giorni approvare la posizione del Consiglio oppure non deliberare: in
entrambe le ipotesi il bilancio è adottato. Nello stesso termine, il Parlamento può proporre
emendamenti, con la maggioranza dei membri. In questa ipotesi inizia la fase della conciliazione: il
Presidente del Parlamento, d’intesa con il Presidente del Consiglio, convoca senza indugio il
Comitato di conciliazione, il quale è chiamato a riunirsi soltanto se entro 10 giorni il Consiglio non
comunica di approvare tutti gli emendamenti. In caso negativo, il Comitato di conciliazione,
composto dai rappresentanti delle 2 istituzioni, ha il compito di giungere ad un accordo su un
progetto comune, tenendo in considerazione le posizioni delle 2 istituzioni. Se entro 21 giorni dalla
convocazione l’accordo non viene raggiunto, la Commissione deve presentare un nuovo progetto di
bilancio. Viceversa, se l’accordo è raggiunto, Parlamento e Consiglio dispongono di 14 giorni per
approvare il progetto comune. Il bilancio si considera definitivamente approvato se:
a) entrambe le istituzioni approvano il progetto comune o non riescono a deliberare o se una
delle 2 istituzioni approva il progetto comune mentre l’altra non riesce a deliberare;
b) il PE, approvato il progetto comune respinto dal Consiglio, entro 14 giorni, deliberando a
maggioranza qualificata dei membri che lo compongono e dei 3/5 dei voti espressi,
decide di confermare tutti gli emendamenti presentanti; qualora, invece, un emendamento
del PE non fosse confermato, è mantenuta la posizione concordata in seno al Comitato di
conciliazione e il bilancio si considera definitivamente adottato su questa base.
Quando la procedura è stata espletata, il Presidente del Parlamento «constata che il bilancio è
definitivamente adottato». Questa affermazione che appariva ambigua prima della riforma di
Lisbona, testimonia la raggiunta parità del Consiglio e del PE in questa procedura.
L’esecuzione del bilancio è curata dalla Commissione, in cooperazione con gli Stati membri, nei
limiti dei crediti stanziati e in conformità del principio della buona gestione finanziaria. Mentre è il
PE che dà atto alla Commissione dell’esecuzione del bilancio.
È anche vero che il bilancio è sostanzialmente condizionato dalla decisione sulle entrate,
circostanza che attenua l’aspetto del coinvolgimento del Parlamento nella procedura di adozione.

13. Segue: C) NELLA STIPULAZIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI

L’Unione ha la capacità di stipulare accordi internazionali, con Stati terzi e con altre
organizzazioni internazionali. In tale direzione va anzitutto l’art. 47 del Trattato sull’Unione,
significativo anche per la sua formulazione essenziale: «L’Unione ha personalità giuridica».
Il Trattato attribuisce espressamente all’Unione il potere di stipulare:
 accordi tariffari e commerciali, nel contesto delle competenze relative alla politica
commerciale comune (art. 206 ss. TFUE);
 nonché accordi di associazione con uno o più Stati terzi o con organizzazioni internazionali
(art. 217 TFUE).
In una 1° fase, in forza di una rigorosa applicazione del principio delle competenze di attribuzione,

23
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

si riteneva che, in settori diversi da quelli espressamente prefigurati dal Trattato, l’allora Comunità
dovesse lasciare il campo agli Stati membri oppure dividere con essi la competenza a stipulare
accordi internazionali. Tuttavia la prassi e la giurisprudenza hanno presto adottato 1 prospettiva +
ampia, riassunta nella formula del parallelismo tra competenze interne e competenza esterna, nel
senso che la seconda si estende fino ai limiti di esercizio delle prime. Il parallelismo, d’altra parte,
era espressamente sancito già dal Trattato Euratom, che all’art. 101 conferiva alla Comunità il
potere di concludere accordi internazionali «nell’ambito della sua competenza».
La premessa di questo orientamento, consacrato nel testo dei Trattati a seguito delle ampie
modifiche apportate già dal Trattato di Nizza ma soprattutto dal Trattato di Lisbona, è che l’art. 47
UE (già art. 281 TCE), norma non a caso ora posta in apertura delle disposizioni generali e finali
del Trattato sull’Unione, nel conferire la personalità giuridica all’Unione, comporta la possibilità di
intrattenere rapporti contrattuali con i Paesi Terzi nell’insieme dei settori disciplinati dai Trattati. In
breve, l’ampiezza della competenza esterna va riferita ai Trattati nel loro complesso, oltre che alle
singole disposizioni, come riconosce chiaramente l’art. 216 TFUE. Infatti in base a questa
disposizione la capacità a stipulare dell’Unione comprende non solo gli accordi, espressamente
previsti dai trattati o in atti vincolanti, ma anche tutti quelli finalizzati al perseguimento di uno
scopo dei Trattati. Inoltre, ancora in assenza di espressa attribuzione, la capacità dell’Unione può
risultare necessaria per realizzare un obiettivo fissato dai trattati o da atti vincolanti qualora possa
incidere su norme comuni o alterarne la portata (art. 216, n. 1, TFUE). Pertanto in questi casi il
potere di contrarre obbligazioni con Stati terzi o con le organizzazioni internazionali che incidano
sugli stessi settori non appartiene + né individualmente né collettivamente agli Stati membri.
La portata della competenza dell’Unione è stata poi ulteriormente precisata. Essa è esclusiva in
tema di politica commerciale comune, anche quando non fosse stata precedentemente esercitata ed
anche per i profili complementari e accessori alla politica commerciale contenuti nell’accordo.
Inoltre, la competenza esterna va misurata su quella interna anche se quest’ultima non è stata ancora
esercitata: in tal caso si deve ammettere una competenza solo «transitoria» degli Stati membri
insieme a quella dell’Unione.
Il parallelismo tra competenza esterna e competenze interne funge da parametro nella verifica
dell’estensione della competenza a stipulare dell’Unione, che infatti non può superare i limiti
fissati con l’attribuzione delle competenze interne, pur considerando i poteri impliciti o sussidiari di
cui all’art. 352 TFUE. Inoltre, è pur sempre in funzione di tale parallelismo che va definita:
 l’ampiezza della competenza esclusiva dell’Unione rispetto a quella condivisa con gli Stati
membri (concorrente) ed a quella esclusiva degli Stati membri.
Dall’art. 207 TFUE è ben chiaro che la materia della politica commerciale comprende tutti gli
accordi sugli scambi delle merci. Inoltre, si è riconosciuto che il potere si estendeva anche agli
accordi che comprendevano i prodotti agricoli e agli accordi sugli ostacoli tecnici agli scambi.
L’art. 207 TFUE ha compreso, anche, nell’ambito della politica commerciale comune, condotta nel
quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione, gli scambi di servizi, gli aspetti
commerciali della proprietà intellettuale, gli investimenti esteri diretti e le misure di protezione
commerciale. In tali settori, per la negoziazione e la conclusione di accordi, il Consiglio delibera
all’unanimità se, nei medesimi accordi, sono contenute disposizioni per le quali è richiesta
l’unanimità per l’adozione di norma interne. Allo stesso modo, il Consiglio delibera all’unanimità
per la negoziazione e la conclusione di accordi che abbiano ad oggetto:
 scambi di servizi culturali e audiovisivi qualora tali accordi possano arrecare pregiudizio alle
diversità culturali e linguistiche dell’Unione;
 e scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, qualora tali accordi
possano modificare l’organizzazione nazionale di tali servizi e limitare la competenza degli
Stati membri riguardo alla loro prestazione.
Intervenendo sulla materia, i Trattati hanno dunque consolidato i principi già enunciati da tempo
dalla giurisprudenza della Corte e dalla conseguente prassi delle istituzioni, ribadendo:

24
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 da una parte, per ciascun settore l’ambito delle rispettive competenze degli Stati membri e
dell’Unione;
 e, dall’altra parte, l’obbligo del Consiglio e della Commissione di adoperarsi affinché gli
accordi negoziati siano compatibili con le politiche e le norme interne dell’Unione (art. 207,
n. 3, TFUE).
Le modalità di esercizio della competenza dell’Unione a stipulare accordi internazionali sono
disciplinate dall’art. 218 TFUE, che attribuisce al Consiglio la fase di avvio dei negoziati,
definizione delle direttive di negoziato, autorizzazione alla firma e conclusione, nonché dall’art.
207 TFUE in materia di politica commerciale comune. In particolare, il Consiglio autorizza l’avvio
dei negoziati su raccomandazione della Commissione o dell’Alto rappresentante quando gli accordi
riguardano esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune. È sempre il
Consiglio competente a designare il negoziatore o il responsabile della squadra di negoziato, in
ragione della materia oggetto dell’accordo, e ad impartire direttive al negoziatore, nonché a
nominare un comitato speciale che deve essere consultato durante la negoziazione dell’accordo.
Anche la firma dell’accordo così come la sua applicazione provvisoria, prima della sua entrata in
vigore, devono essere autorizzate con delibera del Consiglio. Il Consiglio adotta, poi, con delibera a
maggioranza qualificata 1 decisione relativa alla conclusione dell’accordo. È però prescritta
l’unanimità:
 quando l’accordo contenga delle disposizioni in materie per le quali è richiesta l’unanimità
per l’adozione di norme interne;
 per gli accordi di associazione, per gli accordi di cooperazione economica, finanziaria e
tecnica con gli Stati terzi candidati all’adesione all’UE;
 per l’accordo di adesione dell’UE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU);
 nonché per gli accordi nei settori degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, di servizi
didattici, di servizi culturali e relativi alla sanità.
La procedura di conclusione degli accordi internazionali varia parzialmente per gli accordi compresi
nell’ambito delle materie di competenza concorrente, i c.d. accordi misti. In questa ipotesi, l’entrata
in vigore è subordinata alla ratifica anche degli Stati membri, secondo le rispettive procedura
costituzionali. Lo stesso si deve dire quando vi è incertezza sulla competenza o quando gli Stati
terzi richiedono che l’accordo sia concluso anche dai singoli Stati membri.
Inoltre, è richiesta l’approvazione del PE per:
 gli accordi di associazione;
 l’accordo sull’adesione dell’UE alla CEDU;
 gli accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di
cooperazione;
 gli accordi che abbiano ripercussioni finanziarie notevoli;
 gli accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure
quella speciale qualora sia necessaria l’approvazione del PE.
Sulla stipulazione degli altri accordi internazionali, il Parlamento è chiamato a formulare
semplicemente 1 parere prima della conclusione dell’accordo. Peraltro, il Consiglio può, in casi
d’urgenza, fissare 1 termine per la formulazione di questo parere, decorso il quale può comunque
deliberare. Va pure notato che al Parlamento non è riconosciuto alcun ruolo nella procedura di
conclusione degli accordi nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune e nell’adozione
della decisione diretta a sospendere l’applicazione di 1 accordo.
Infine, è previsto che il PE, il Consiglio o la Commissione possono domandare alla Corte di
giustizia 1 parere circa la compatibilità di 1 accordo con i trattati. E, qualora la Corte dovesse
formulare 1 parere negativo, l’accordo può entrare in vigore SOLTANTO se:
 modificato;

25
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 o a seguito di revisione dei trattati.

CAPITOLO 2
LE NORME

1. LE NORME CONVENZIONALI

Norme primarie del sistema giuridico dell’UE sono anzitutto le norme convenzionali, contenute
negli originari trattati istitutivi delle Comunità europee ed in quegli accordi internazionali che
successivamente sono stati stipulati per modificare e integrare i primi. Attualmente vanno
considerate norme primarie:
1. il Trattato sull’UE (TUE);
2. e il Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE).
Sullo stesso piano vanno poi considerati gli atti posti in essere sì dal Consiglio, ma oggetto
anch’essi di procedure costituzionali di adattamento nei singoli Stati membri, al pari degli accordi.
Insieme ai principi non scritti, le norme ricordate sono state comunemente riferite alla nozione
alquanto diffusa di Costituzione della Comunità (oggi Unione). Quale che sia l’espressione
utilizzata, queste norme regolano in via primaria la vita di relazione all’interno dell’UE, creando
situazioni giuridiche soggettive in capo agli Stati membri, alle istituzioni europee e ai singoli.
Inoltre, le stesse norme attribuiscono a loro volta forza e portata normativa agli atti delle istituzioni
dell’Unione, che per ciò stesso, ponendosi al 2° livello del sistema, formano il diritto europeo
derivato.
Anche se alcune di esse sono state già richiamate, è utile avere un quadro globale sintetico delle
principali normative convenzionali che si sono susseguite nel tempo:
 Trattato CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), firmato a Parigi il 18 aprile
1951, entrato in vigore il 23 luglio 1952, insieme ai Protocolli sullo Statuto della Corte di
giustizia e sui privilegi e le immunità; il Trattato, previsto per una durata di 50 anni, è giunto
a scadenza, in base all’art. 97, il 23 luglio 2002;
 Trattati CEE (Comunità economica europea, poi Comunità europea) e CEEA (Comunità
europea dell’energia atomica o Euratom), firmati a Roma il 25 marzo 1957, entrati in vigore
il 1° gennaio 1958;
 Trattato sull’UE (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1°
novembre 1993;
 Trattati che hanno successivamente modificato il TUE e i Trattati CE ed Euratom, e cioè il
Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza; nonché i vari trattati di adesione d egli Stati
membri entrati successivamente ai 6 Paesi fondatori;
 infine, il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre
2009, che, oltre a modificare il TUE, ha modificato e sostituito il Trattato CE con il TFUE
(Trattato sul funzionamento dell’UE) ed ha attribuito lo stesso valore dei Trattati alla Carta
dei diritti fondamentali, che era stata proclamata a Nizza dal PE, dalla Commissione e dal
Consiglio il 7 dicembre 2000.
In definitiva per avere un quadro chiaro del livello normativo convenzionale posto a fondamento del
26
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sistema giuridico dell’UE attualmente in vigore (dal 1° dicembre 2009), pertanto, occorre fare
riferimento ai Trattati istitutivi così come modificati da ultimo a Lisbona, in breve:
 al Trattato sull’UE (TUE);
 e al Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), già Trattato della Comunità europea.
Al TUE e al TFUE va aggiunto:
 anzitutto la Carta dei diritti fondamentali, che solo con il Trattato di Lisbona ha lo stesso
valore giuridico dei trattati (art. 6 TUE);
 e il trattato istitutivo della CEEA, che non è stato modificato sostanzialmente dal Trattato di
Lisbona, come risulta dal Protocollo n. 2 allegato al Trattato di Lisbona.
La natura giuridica dei trattati istitutivi, nonché delle integrazioni e modificazioni convenzionali
intervenute nel corso degli anni, è quella di accordi internazionali nel senso pieno e proprio di tale
espressione, così come utilizzata nel dir. internazionale ed in particolare nelle Convenzioni di
Vienna del 1969 e del 1986 sul diritto dei trattati. Ciò vuol dire, tra l’altro, che i criteri di
interpretazione e il regime giuridico generale dei trattati dell’Unione sono anzitutto quelli propri di
«normali» accordi internazionali.
Tuttavia, va subito aggiunto che i trattati dell’UE rivelano alcune caratteristiche ulteriori e
specifiche rispetto al genus cui appartengono, specie se guardiamo alla vicenda «comunitaria» con
il senno di poi, o dello stadio di evoluzione ad oggi realizzato rispetto allo scenario degli anni ’50
che ha segnato la redazione dei trattati.
 In primo luogo, si tratta della specificità propria di tutti i trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, nel senso che, oltre alla previsione di una serie di obblighi e diritti per gli
Stati contraenti, contengono la definizione di un complesso istituzionale destinato ad
esercitare le competenze attribuite all’ente.
 In secondo luogo, pur essendo l’Unione un organismo a finalità non «universale» ma
definita e sottoposta al principio delle “competenze di attribuzione”, l’ampiezza e l’incisività
delle prefigurate competenze, così come le modalità e i mezzi attribuiti per il loro esercizio,
vanno senza dubbio al di là del modello tradizionale di organizzazione internazionale.
Invero, i Trattati contenevano fin dall’origine un chiaro potenziale di sviluppo verso un
complesso integrato di Stati, sì diversi e sovrani, ma anche capaci di realizzare
unitariamente gli scopi ambiziosi da essi definiti, in particolare un mercato comune e uno
sviluppo armonioso delle economie fondato sulla comune ispirazione liberista. Giustamente
si è rilevato che, essendo l’obiettivo fondamentale dell’Unione quello di porre le basi di
un’unione sempre più stretta fra i popoli europei e di eliminare le barriere che dividono
l’Europa, i Trattati sono stati concepiti come strumento dell’integrazione europea; dunque
molto più di un mezzo per coordinare politiche e armonizzare legislazioni. Tali obiettivi si
sono consolidati nel corso degli anni, fino all’Atto unico e al Trattato di Maastricht, con la
prefigurazione, insieme e oltre al mercato interno e l’unione economica e monetaria, di una
vera e propria Unione Europea.
 In terzo luogo, le norme convenzionali e quelle che da queste ultime ricevono forza hanno
una incidenza diretta e immediata sulla situazione giuridica soggettiva, oltre che dello stesso
ente e degli Stati membri, anche dei singoli. La competenza normativa dell’UE, pur non
potendosi qualificare generale in senso proprio, in quanto comunque riferita a materie
definite, ha dimensioni più che ragionevoli, investendo settori sempre più ampi della vita di
relazione. In più, essa si aggiunge e a volte si sostituisce alle corrispondenti competenze
degli organi legislativi e amministrativi nazionali e investe in modo diffuso e permanente la
posizione giuridica dei singoli, senza che debba sempre e comunque operare il tradizionale
diaframma degli Stati a mezzo di atti formali di adattamento aut similia.
 Né, infine, può trascurarsi l’importanza della previsione di un meccanismo di controllo
giurisdizionale, imperniato sulla Corte di giustizia e sulla cooperazione tra questa e i giudici
nazionali. Esso riguarda non solo la legittimità dell’esercizio delle competenze attribuite alle
27
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

istituzioni dell’Unione, dunque degli atti, ma anche l’armonia del sistema giuridico
complessivo, composto da norme internazionali, norme dell’Unione in senso proprio e
norme nazionali.
I rilievi appena svolti vanno collegati sostanzialmente all’esigenza di un’interpretazione dei trattati
focalizzata sugli obiettivi perseguiti, cioè al criterio teleologico di interpretazione, che peraltro
costituisce 1 principio di ermeneutica giuridica da sempre consolidato nelle esperienze nazionali più
evolute e consacrato espressamente anche nella Conv. di Vienna sul diritto dei trattati (art. 31). Va
aggiunto che questo principio implica che le norme dell’UE, ed in particolare quelle che impongono
obblighi agli Stati membri, siano interpretate nel senso più favorevole al processo di integrazione.
Nonostante i trattati dell’Unione, così come gli altri atti normativi di diritto europeo, siano redatti in
tutte le lingue ufficiali dell’Unione, occorre tendere ad un’interpretazione uniforme, sì che
nessuna versione linguistica possa da sola prevalere sulle altre. In breve la lettura deve ispirarsi alla
reale volontà sottesa alle norme e allo scopo da queste perseguito.
La sfera di applicazione territoriale del diritto dell’UE coincide con quella dell’insieme dei diritti
nazionali. L’art. 52 TUE enumera per esteso gli Stati membri cui si applica; la corrispondente
disposizione del Trattato Euratom (art. 198) si riferisce anche ai territori, europei e non, degli Stati
membri sottoposti alla loro giurisdizione. Tuttavia, la sostanza non cambia: nel senso che le
competenze dell’UE possono essere esercitate fino a dove si estende, salvo eccezioni espresse, la
giurisdizione degli Stati membri e dunque nei limiti sanciti dalle rispettive disposizioni
costituzionali. Pertanto nella sfera di applicazione territoriale del diritto dell’Unione sono comprese
le zone di mare e gli spazi aerei sui quali si esercita legittimamente il potere di governo degli Stati
membri, nonché i territori europei di cui uno Stato membro abbia la rappresentanza nei rapporti
esterni, com’è il caso di Gibilterra rispetto al Regno Unito (art. 355, n. 3, TFUE).
Per alcuni territori degli Stati membri sono previsti regimi particolari; infatti:
 alcuni di essi sono sottratti del tutto all’applicazione dei trattati (isole Faeröer e le zone di
Cipro sottoposte al Regno Unito);
 altri vi sono sottoposti solo nei limiti espressamente sanciti dai conferenti trattati di adesione
(isola di Man e isole Normanne);
 i dipartimenti francesi d’oltremare, nonché le Azzorre, Madeira e le Canarie possono essere
oggetto di misure specifiche in considerazione delle particolari condizioni geoeconomiche in
cui versano (art. 349, 1° comma, TFUE);
 infine, i c.d. Paesi e territori d’oltremare di cui all’allegato II dei Trattati, sono sottoposti allo
speciale regime di associazione stabilito dalla parte IV del TFUE, e dunque esclusi alla sfera
di applicazione dei Trattati, salvo il caso di un espresso riferimento.
Infine, va precisato che l’art. 355 TFUE NON esclude che le norme europee possano produrre
effetti anche al di fuori del territorio dell’Unione; è il caso, ad es.:
 delle norme sulla concorrenza, per le intese che producano effetti nel mercato comune pur se
realizzate in Paesi terzi;
 oppure delle norme sulla circolazione delle persone, che trovano applicazione anche rispetto
ad attività lavorative esercitate in uno Stato terzo, nell’ambito di un rapporto che abbia
stretti collegamenti con l’Unione.

2. LA REVISIONE DEI TRATTATI ED IL DIRITTO DI RECESSO

La revisione dei trattati dell’Unione è disciplinata dall’art. 48 TUE che prevede:


 1 procedura di revisione ordinaria;
 e 2 procedure di revisione semplificate.
N.B.: La procedura di revisione ordinaria può essere attivata da 1 Stato membro, dal
Parlamento o dalla Commissione, tutti abilitati a sottoporre al Consiglio progetti intesi a
modificare i trattati. L’art. 48 TUE sancisce espressamente che questi progetti possono
28
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

essere diretti «ad accrescere o a ridurre le competenze attribuite all’Unione nei trattati».
I progetti sono trasmessi al Consiglio europeo e notificati ai Parlamenti nazionali. Consultati il
Parlamento e all’occorrenza la Commissione, nonché la BCE ove si tratti di modifiche istituzionali
nel settore monetario, il Presidente del Consiglio europeo, qualora quest’ultimo abbia adottato, a
maggioranza semplice, 1 decisione favorevole in tal senso, convoca 1 «convenzione» dei
rappresentanti dei Parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, del PE e
della Commissione. Nondimeno, il Consiglio europeo può decidere a maggioranza semplice, previa
approvazione del PE, di non convocare la convenzione qualora si tratti di modifiche la cui entità
non lo giustifichi. La convenzione è tenuta ad esaminare i progetti di modifica e ad adottare, per
consenso, 1 raccomandazione che invia a una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati
membri. Questa conferenza ha lo scopo di stabilire di «comune accordo» le modifiche da apportare
ai trattati. Le modifiche così adottate dovranno poi, per poter entrare in vigore, essere ratificate da
tutti gli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. Nell’ipotesi in cui,
dopo 2 anni dalla firma di un trattato di revisione, i 4/5 degli Stati membri abbiano ratificato,
mentre 1 o + Stati membri abbiano incontrato difficoltà nella procedura di ratifica, la questione
viene sottoposta al Consiglio europeo.
Entrambe le procedure semplificate attribuiscono 1 ruolo preminente al Consiglio europeo ed
escludono la convocazione sia della convenzione che della conferenza dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri.
La 1° di queste procedure è prevista per la modifica esclusivamente della parte 3° del TFUE,
relativa alle politiche e alle azioni interne dell’Unione. È importante precisare che la revisione della
parte 3° TFUE NON include la possibilità di estendere le competenze attribuite all’Unione dai
trattati in tale ambito; pertanto, è lecito affermare che essa contempla soltanto l’ipotesi di
un’eventuale riduzione di queste competenze. I progetti volti a modificare la parte 3° TFUE sono
inoltrati al Consiglio europeo da qualsiasi Stato membro, dal Parlamento o dalla Commissione. Il
Consiglio europeo adotta 1 decisione al riguardo, deliberando all’unanimità e previa consultazione
del PE, della Commissione o della BCE, quando la modifica riguardi il settore monetario. La
decisione entra in vigore «previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive
norme costituzionali» (art. 48, n. 6, 2° comma, TFUE).
La 2° procedura semplificata contempla 2 ipotesi, e precisamente:
1) la 1° ipotesi concerne la possibilità che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata e
non all’unanimità, laddove richiesta, nell’adozione di decisioni relative al TFUE o alla
parte V del TUE, tranne che queste decisioni abbiano implicazioni militari o rientrino
nel settore della difesa;
2) la 2° ipotesi concerne la possibilità per il Consiglio di adottare atti legislativi secondo la
procedura legislativa ordinaria e NON secondo una procedura legislativa speciale,
laddove prevista.
In entrambi i casi, l’iniziativa è presa dal Consiglio europeo all’unanimità previa
approvazione del PE, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. La
proposta di modifica è poi trasmessa ai Parlamenti nazionali che, entro 6 mesi, possono
respingerla e allora la decisione non è adottata oppure, in mancanza di opposizione, la
decisione è adottata dal Consiglio europeo ed entrerà in vigore senza ulteriore ratifica o
approvazione da parte degli Stati membri. Questa procedura di revisione semplificata, ai
sensi dell’art. 353 TFUE, non può essere applicata:
1. per l’adozione della decisione di nuove categorie di risorse proprie;
2. per l’adozione del regolamento con il quale viene stabilito il quadro finanziario
generale;
3. per l’esercizio di competenze implicite o sussidiarie;
4. e per la decisione di sospensione dei diritti di voto di uno Stato membro.
Infine, va ricordato che i diritti di circolazione e di soggiorno riconosciuti ai cittadini degli Stati
membri dall’art. 20 TFUE possono essere integrati, come sancito dall’art. 25, 2° comma, TFUE,
29
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

attraverso disposizioni adottate dal Consiglio all’unanimità secondo una procedura legislativa
speciale e previa approvazione del PE. Queste disposizioni entrano in vigore previa approvazione
degli Stati membri in conformità alle rispettive norme costituzionali. Si tratta di un’ulteriore
procedura di revisione del tutto atipica.
Pertanto, le procedure di revisione dei trattai dell’Unione sono:
 da un lato, arricchite da una dialettica complessa, cui partecipano già sul piano
dell’iniziativa le istituzioni europee;
 dall’altro lato, queste procedure di revisione confermano sul piano formale la «normale»
natura internazionale dei Trattati e dunque del diritto primario dell’Unione.
QUESITO: Tutte le norme dei trattati possono essere oggetto di revisione o di abrogazione oppure
no?
Questo quesito non trova una risposta nei trattati e neppure nella giurisprudenza della Corte.
Tuttavia, un’implicita riflessione sul punto si rinviene nel parere 1/91 sulla compatibilità del sistema
di controllo giurisdizionale prefigurato nella prima versione dell’accordo sullo Spazio economico
europeo con il Trattato CE.
Certo, la natura pur sempre convenzionale dell’UE lascia intatta la possibilità che alterazioni anche
profonde siano concordate dagli Stati membri.
La natura internazionalistica dei trattati dell’UE è confermata anche dal diritto di recesso,
disciplinato dall’art. 50 TUE. Questa esplicita disposizione è stata introdotta dal Trattato di
Lisbona; è chiaro, però, che anche prima dell’introduzione di questa norma gli Stati membri
potevano recedere, così come sancito dall’art. 56 della Conv. di Vienna sul diritto dei trattati che,
nell’ipotesi di 1 trattato che non contenga disposizioni ad hoc, ritiene implicitamente applicabile la
clausola “rebus sic stantibus”. In ogni caso, con l’art. 50 TUE è stata introdotta 1 procedura
dettagliata e precisa per cui ogni Stato membro può decidere di recedere dal sistema dell’UE,
conformemente alle proprie norme costituzionali. In particolare, l’intenzione di recedere va
notificata dallo Stato membro interessato al Consiglio europeo che formula specifici orientamenti al
tal riguardo. Si apre, quindi, un negoziato volto a definire un accordo sulle modalità del recesso,
tenuto conto delle future relazioni tra lo Stato recedente e l’Unione. La conclusione dell’accordo è
regolata dalla procedura di cui all’art. 218 TFUE, con la differenza che lo Stato recedente:
 non parteciperà ai negoziati dalla parte dell’UE;
 né prenderà parte all’adozione della decisione in seno al Consiglio.
Questa istituzione è tenuta a deliberare, previa approvazione del PE, alla maggioranza qualificata
richiesta dall’art. 238, n. 3, lett. b) TFUE; oppure è richiesto il consenso di almeno il 72% dei
membri del Consiglio partecipanti alla decisione, che rappresentino almeno il 65% della
popolazione di tali Stati. Questa maggioranza si applicherà a partire dal 1° novembre 2014, fino ad
allora dovrà essere utilizzata la ponderazione dei voti di cui all’art. 3 del Protocollo n. 36 sulle
disposizioni transitorie.
Lo Stato recedente non sarà + membro dell’Unione e, quindi, non sarà + vincolato dai trattati a
partire dall’entrata in vigore dell’accordo di recesso, oppure, in mancanza di questo accordo, 2 anni
dopo la notifica, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato interessato, decida
all’unanimità di prorogare questo termine.

3. LA RIPARTIZIONE DI COMPETENZE TRA L’UNIONE E GLI STATI MEMBRI:


PRINCIPIO DELLE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE, PRINCIPIO DI
SUSSIDIARIETÀ E PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ

Gli originari trattati istitutivi non avevano previsto in modo diretto ed espresso una ripartizione di
competenze tra Comunità e Stati membri, ripartizione che tuttavia si poteva agevolmente dedurre
dall’attribuzione delle diverse competenze alla Comunità. Pertanto erano le stesse norme materiali
ad indicare se nel settore da esse disciplinato la Comunità godeva di una competenza esclusiva, tale
30
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

da precludere interventi degli Stati membri, oppure di una competenza concorrente.


Nel Trattato di Lisbona, invece, il Titolo I della Parte I del TFUE, è dedicato espressamente
all’enunciazione di «Categorie e settori di competenza dell’Unione», la cui disciplina risulta, poi,
diversamente graduata. Fin dalla denominazione del Titolo I, è annunciato dunque il cambiamento
rispetto al modello precedente che, malgrado i numerosi tentativi era rimasto di fatto quello definito
con il Trattato di Roma nel 1957.
Occorre anzitutto sottolineare che, accanto ai numerosi obiettivi, nuovi o diversamente formulati
dell’UE, nel Trattato di Lisbona è a fin troppe riprese richiamato il principio delle competenze di
attribuzione, principio da sempre incontestato. Così, l’art. 5, 1° comma, TUE, sancisce che la
delimitazione delle competenze si basa sul principio di attribuzione e che l’esercizio delle stesse
resta regolato dai principi di sussidiarietà e di proporzionalità. E, al 2° comma della stessa
norma, è ribadito che “l’Unione agisce nel rispetto dei limiti delle competenze che le sono state
attribuite dagli Stati nei trattati per perseguire gli scopi da essi prefissati”.
 Da una parte, viene confermata la previsione di competenze dell’Unione costruite in termini
finalistici, nel senso che alle istituzioni europee è riconosciuto il potere di adottare i
provvedimenti, necessari o utili, in relazione agli obiettivi dei trattati, o semplicemente ad
alcuni di essi;
 dall’altra parte, rileva la volontà degli Stati, di sottolineare che spetta a loro, e soltanto a
loro, attribuire poteri all’Unione.
A ben guardare, l’art. 5, 2° comma, TUE, opera come norma di rinvio simultaneo a tutte le
competenze che i Trattati attribuiscono all’Unione. Non può dubitarsi, infatti, che tra le
«competenze che le sono attribuite» vanno annoverate sia quelle cui i trattati fanno espresso
riferimento sia quelle cui è fatto implicito rinvio.
Così, se l’azione intrapresa si iscrive direttamente e inequivocabilmente nel quadro delle
competenze definite dai trattati, sull’Unione grava l’obbligo di esercitare i suoi poteri nel rispetto
della disposizione rilevante. Inoltre, la sua azione può derivare in maniera implicita dal contesto di
alcune disposizioni che per loro natura possono utilmente fornire la base giuridica ad essa
necessaria. Infine, la competenza dell’Unione può avere origine dall’art. 352 TFUE (clausola di
flessibilità), che predispone una formale procedura per l’ampliamento dei poteri, che seppur non
espressamente attribuiti, sono tuttavia necessari per il raggiungimento dei fini assegnati
all’organizzazione dai medesimi trattati. Tale norma attribuisce al Consiglio il potere di adottare,
all’unanimità, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento, le disposizioni
del caso quando un’azione dell’Unione, pur non espressamente prevista, si renda necessaria per
raggiungere uno degli obiettivi fissati dai trattati. Bisogna ricordare che la clausola di flessibilità
non può essere utilizzata per introdurre misure di armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari nazionali, qualora siano escluse dai trattati. Né può costituire la base giuridica per
conseguire obiettivi nel settore della politica estera e sicurezza comune.
La norma in questione sembra riecheggiare la dottrina dei poteri impliciti, in base alla quale uno
Stato federale o un’organizzazione internazionale si vede riconosciuta l’attribuzione di nuove
competenze e funzioni nella misura necessaria al raggiungimento dei fini statutari. Tuttavia a
differenza di tale dottrina che costituisce un mero criterio interpretativo, l’art. 352 TFUE
espressamente prevede una formale procedura per l’integrazione dei poteri delle istituzioni,
integrazione da effettuarsi nel rispetto di limiti e condizioni previsti dalla stessa norma; tali poteri –
dunque non impliciti, semmai espliciti – sono stati interpretati almeno nella fase iniziale in modo
estensivo dalla Corte di giustizia. Tra l’altro, precisamente attraverso l’uso dell’art. 352 è stata
legittimata l’azione dell’Unione in settori quali la politica regionale e dell’ambiente, la politica
industriale e del consumatore, la politica energetica e del turismo. La maggior parte di tali politiche,
poi, ha ricevuto un suggello formale, e dunque una base giuridica specifica, attraverso l’inserimento
nei trattati a seguito delle modifiche apportate agli stessi dall’Atto unico e dal Trattato di Maastricht
sull’UE.

31
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Pertanto, l’ambito di azione dell’Unione non è illimitato, ma deve essere contenuto nei limiti
segnati dai trattati; al rispetto di tale presupposto è condizionata la legittimità della sua azione,
ancorata all’individuazione e all’uso degli strumenti giuridici ai quali l’Unione può far ricorso e
nella procedura che le sue istituzioni e i suoi organi devono seguire nell’esercizio delle rispettive
competenze. Inoltre, l’ultima parte del 2° comma, dell’art. 5 TUE, ricorda che «Qualsiasi
competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri», che è esattamente il
contenuto del principio delle competenze di attribuzioni, principio fondamentale e pacifico del
sistema, secondo il quale le funzioni normative restano agli Stati e l’attribuzione all’Unione
costituisce l’eccezione.
Ai sensi dell’art. 2 TFUE, le competenze dell’Unione sono distinte, anzitutto, in:
 esclusive;
 e concorrenti.
N.B.: Però accanto a queste 2 categorie classiche ne vengono inserite altre di natura e
«intensità» diversa; ed in particolare le competenze rivolte a sostenere, completare o
coordinare l’azione degli Stati membri di cui agli artt. 5 e 6 TFUE. Va poi considerata
l’importante competenza «per definire o attuare una politica estera e di sicurezza comune»
(art. 4 TFUE), secondo quanto previsto dal titolo V del TUE.
Nei settori di competenza esclusiva è stabilito che soltanto l’UE può emanare atti giuridicamente
vincolanti; ma, è anche specificato che gli Stati membri, previa autorizzazione, possono
autonomamente legiferare oppure dare attuazione agli atti dell’Unione.
Relativamente ai settori di competenza esclusiva, l’art. 3 TFUE espressamente elenca:
 «unione doganale;
 definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;
 politica monetaria per gli Stati la cui moneta è l’euro;
 conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della
pesca;
 politica commerciale comune».
Inoltre, la competenza esclusiva è prevista per la conclusione di accordi internazionali contemplati
in atti secondari, oppure necessari per esercitare competenze interne o, ancora, in grado di incidere
su norme comuni o di modificarne la portata.
In questi settori la necessità dell’azione dell’Unione è presunta e, quindi, le istituzioni non sono
tenute a dimostrare che l’adozione di un determinato atto sia indispensabile per il perseguimento
degli obiettivi prefissati. Peraltro, le stesse istituzioni possono ricorrere allo strumento normativo
che ritengono + incisivo, spingendosi fino all’armonizzazione delle legislazioni nazionali.
Quanto ai settori di competenza concorrente, essi possono essere oggetto di attività legislativa sia
da parte dell’Unione sia da parte degli Stati. Nondimeno, l’esercizio della competenza statale,
nell’art. 2 TFUE, è costruito in termini residuali rispetto a quello dell’Unione, poiché è
espressamente affermato che la competenza statale possa essere esercitata soltanto:
 qualora le istituzioni non abbiano fatto uso della propria;
 oppure qualora abbiano deciso di cessare di esercitare la propria.
L’applicazione della norma in questione è in grado di determinare diversi scenari:
 gli Stati dispongono dell’intera competenza normativa qualora l’Unione si astenga da
qualsiasi forma d’intervento
 sono chiamati, invece, ad adottare semplicemente norme di attuazione qualora l’Unione
intervenga con una disciplina non direttamente applicabile;
 infine, non hanno + competenze normative qualora l’Unione detti una disciplina completa, a
meno che l’Unione decida di cessare di esercitare la propria.
L’art. 4, n. 2, TFUE, enumera i principali settori di competenza concorrente:
1) mercato interno;

32
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

2) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel trattato;
3) coesione economica, sociale e territoriale;
4) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare;
5) ambiente;
6) protezione dei consumatori;
7) trasporti;
8) reti transeuropee;
9) energia;
10) spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
11) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti
definiti nel Trattato.
L’elenco delle materie di competenza concorrente è esemplificativo, nel senso che è suscettibile di
essere integrato o, comunque, modificato alla luce di nuove e diverse esigenze. Ciò significa che è
possibile trasferire ulteriori materie all’Unione, ma soltanto se in capo alle istituzioni nazionali sia
conservata una pari competenza secondo un modello di cogestione, oramai ampiamente
sperimentato. Lo confermano:
 sia il Protocollo n. 25 «sull’esercizio della competenza concorrente», che delimita il campo
di applicazione di eventuali atti adottati in settori concorrenti agli elementi disciplinati
dall’atto in questione e non all’intera materia;
 sia la Dichiarazione n. 18 «relativa alla delimitazione delle competenze», che espressamente
riconosce agli Stati membri la possibilità, conformemente alla procedura di revisione
ordinaria, di accrescere o ridurre le competenze attribuite all’Unione con una modifica del
Trattato.
Una competenza concorrente sui generis è contenuta, poi, nei paragrafi successivi dell’art. 4
TFUE. Infatti, con riferimento ai settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio (n.
3), così come in relazione ai settori della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario (n. 4),
l’esercizio di competenza dell’Unione non impedisce agli Stati di esercitare la loro.
Accanto alle competenze ricordate, ne vanno annoverate altre di diversa portata, di cui è fatto
riferimento negli artt. 5 e 6 TFUE. In particolare:
 l’art. 5 TFUE affida al Consiglio il compito di fissare gli «indirizzi di massima» delle
politiche economiche nazionali; ed attribuisce all’Unione il coordinamento delle politiche
occupazionali, mediante la definizione di orientamenti, e delle politiche sociali: cioè gli Stati
mantengono singolarmente piena libertà di definire le proprie politiche economiche,
occupazionali e sociali, fatta salva, da un lato, l’individuazione di parametri di regolazione
condivisi dal Consiglio; dall’altro lato, l’esigenza di uno stretto e puntuale coordinamento in
sede europea;
 l’art. 6 TFUE, invece, introduce le azioni intese a sostenere, coordinare o completare
l’azione degli Stati membri qualora, nei settori indicati (tutela e miglioramento della salute
umana; industria, cultura, turismo; istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;
protezione civile; cooperazione amministrativa), si programmino misure di «finalità
europea».
L’enunciazione del principio di sussidiarietà si trova dopo quello di attribuzione, a conferma della
sua vera funzione di criterio flessibile attraverso il quale l’esercizio – e non la titolarità – di
determinate competenze viene spostato in capo all’Unione o lasciato agli Stati membri sulla base di
valutazioni di merito.
L’intervento dell’Unione nelle materie di competenza non esclusiva è costruito in termini negativi e
vincolato al verificarsi di una duplice condizione, oppure che l’azione dell’Unione per la portata o
gli effetti sia + adeguata di quella a livello statale, regionale e locale e che gli obiettivi non possano
essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri. In particolare, l’Unione deve risultare +
idonea rispetto ad uno Stato membro a disciplinare un settore non tanto per il carattere
33
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

trasfrontaliero dell’azione da porre in essere, quanto per il grado di impatto che intende conferire
all’azione stessa. All’evidenza, l’intervento dell’Unione potrebbe essere indispensabile per
l’armonizzazione delle legislazioni nazionali e, quindi, potrebbe essere utile anche per un solo
Stato. Inoltre, la capacità o la mera attitudine degli Stati a perseguire un determinato obiettivo deve
essere valutata non soltanto a livello centrale, ma anche a livello regionale e locale.
La portata e l’intensità dell’azione dell’Unione devono essere valutate, poi, in rapporto al principio
di proporzionalità, che impone di graduare – nell’esercizio di competenze sia esclusive che
concorrenti – i mezzi prescelti rispetto alle caratteristiche dell’obiettivo di volta in volta perseguito.
In ossequio a questo criterio, l’istituzione dovrà anzitutto determinare l’atto che va concretamente
posto in essere. Pertanto si dovrà scegliere fra un intervento di tipo legislativo-regolamentare ed
altre azioni, quali il mutuo riconoscimento, la raccomandazione, l’incentivazione di forme di
cooperazione fra gli Stati membri, l’adesione a convenzioni internazionali.
Più in generale, il principio di proporzionalità impone che l’esercizio di una determinata
competenza risponda a 3 requisiti sostanziali, e precisamente:
1. in primo luogo, esso deve essere utile e pertinente per la realizzazione dell’obiettivo per il
quale la competenza è stata conferita;
2. in secondo luogo, deve essere necessario e indispensabile; oppure, qualora per il
raggiungimento dello scopo possano essere impiegati vari mezzi, la competenza sarà
esercitata in modo da recare meno pregiudizio ad altri obiettivi o interessi degni di eguale
protezione (criterio di sostituibilità);
3. infine, se queste condizioni sono soddisfatte sarà poi necessario provare che esista un
nesso tra l’azione e l’obiettivo (criterio di causalità). Si tratta, quindi, d’identificare una
ragionevole simmetria tra misure da adottare e scopi da perseguire, evitando interventi
dell’Unione eccessivi e, talora, inutili o dannosi.
Più vistose sono le novità introdotte dal Trattato di Lisbona in tema di vincoli procedimentali del
principio di sussidiarietà che risultano, di fatto, notevolmente irrobustiti. Infatti, il Protocollo
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità attribuisce ai Parlamenti nazionali,
per la prima volta, un ruolo autonomo rispetto allo Stato membro di appartenenza. In particolare, ai
Parlamenti nazionali è affidato il controllo del rispetto del principio di sussidiarietà, ex ante ed ex
post. Nella fase ex ante, la Commissione è tenuta a trasmettere ogni sua proposta e ogni proposta
modificata contemporaneamente ai Parlamenti nazionali e al legislatore dell’Unione. Tale proposta
deve essere motivata alla luce del principio di sussidiarietà e di proporzionalità. A questo scopo, ad
essa deve essere allegata una scheda dalla quale dovrà risultare chiaramente il rispetto di questi
principi. Inoltre, ogni Parlamento nazionale, nonché ogni camera dei Parlamenti nazionali può
presentare ai presidenti del PE, della Commissione e del Consiglio, entro 8 settimane, un parere
motivato in cui dovranno essere contenute le ragioni per le quali la proposta è ritenuta non
conforme al principio di sussidiarietà (c.d. allarme preventivo). Tuttavia, la Commissione – tenuta a
riesaminare la proposta, qualora i pareri motivati relativi alla violazione del principio di
sussidiarietà, rappresentino almeno 1/3 dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali – può decidere di
non modificare o non ritirare la proposta. Naturalmente, in questa ipotesi, l’esecutivo dell’Unione è
tenuto a motivare la sua decisione.
Attraverso i rispettivi Governi, i Parlamenti nazionali possono presentare ricorso per violazione del
principio di sussidiarietà. Dunque, ad essi è riconosciuto un ruolo importante anche in fase di
controllo ex post.
Infine, va segnalato il riconoscimento al Comitato delle Regioni del potere di ricorso alla Corte di
giustizia per denunciare la violazione del principio di sussidiarietà, qualora tale violazione sia
dovuta ad atti legislativi sui quali è richiesta la sua consultazione.

4. I PRINCIPI DEL DIRITTO DELL’UNIONE

Nel sistema dell’UE non esiste una norma di contenuto analogo all’art. 38 dello Statuto della CIG,
34
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

l’organo delle Nazioni Unite deputato alla soluzione delle controversie giuridiche, norma che
prevede l’applicazione di principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. Soltanto l’art.
340 TFUE, si limita, infatti, a rinviare ai «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri».
Nonostante la disposizione abbia una portata circoscritta alla materia della responsabilità
extracontrattuale dell’Unione e alla definizione del conseguente obbligo risarcitorio, essa è stata
utilizzata per evocare ed applicare principi comuni agli ordinamenti nazionali anche in materie
diverse.
Il risultato è che nella prassi dell’Unione la rilevanza e l’applicazione di «principi» non è di poco
rilievo. A volte si tratta soltanto di criteri di interpretazione, ma il più delle volte essi sono utilizzati
al fine di individuare i limiti dell’esercizio di poteri da parte dell’amministrazione nei confronti
degli amministrati; o per determinare + in generale la legittimità di un atto o di un comportamento,
di una istituzione dell’Unione o di uno Stato membro. In ogni caso, si tratta normalmente di veri e
propri parametri di legittimità, dunque di norme idonee a creare diritti e obblighi.
Le diverse espressioni utilizzate (principi generali del diritto, principi comuni agli ordinamenti
giuridici degli Stati membri o principi del diritto internazionale) o i brocardi ripresi dal diritto
romano, sembrano quasi volere sminuire la portata di tali principi, sottolineandone l’origine esterna
al sistema giuridico dell’UE. Però questa prospettiva non ha un serio fondamento: si tratta di
principi propri del diritto dell’Unione, a tutti gli effetti e a titolo originario, che non sono affatto
presi soltanto a prestito di volta in volta da altri sistemi giuridici; l’unica differenza possibile è
semmai tra principi che trovano espressa enunciazione nei trattati e principi che sono invece il
risultato di una mera rilevazione da parte del giudice.
Di frequente e significativa applicazione è il principio della certezza del diritto, nei suoi numerosi e
diversi aspetti. Il principale profilo riguarda la trasparenza dell’attività dell’amministrazione, nel
senso che la normativa dell’Unione deve essere chiara e la sua applicazione prevedibile per coloro
che vi sono sottoposti, in modo che possano agire in modo adeguato. Lo stesso dicasi per l’attività
richiesta alle amministrazioni nazionali: è pertanto in tale prospettiva che va considerata
insufficiente la trasposizione o l’attuazione di una direttiva nell’ordinamento nazionale con semplici
circolari o prassi amministrative.
Al principio della certezza del diritto si è fatto riferimento, ad es., in tema di termine ragionevole (2
mesi) dato alla Commissione per pronunciarsi sulla compatibilità di aiuti statali notificati; di
termine di decadenza ai fini di un ricorso in carenza; per affermare la non retroattività degli atti
rispetto alla data di pubblicazione, salvo eccezioni; nonché per stabilire che la sentenza di
annullamento di un atto o la sentenza pregiudiziale da cui si desume l’illegittimità di una normativa
nazionale possa avere eccezionalmente effetti ex nunc.
Un aspetto ulteriore e di rilievo del principio della certezza del diritto è il principio del legittimo
affidamento, espressamente ritenuto parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione ed utilizzabile
come parametro di legittimità degli atti. In alcune occasioni questi 2 principi sono stati applicati
contestualmente, l’uno per definire la regola e l’altro per limitarne l’eccezione. Ciò si è verificato,
ad es., a proposito dell’efficacia nel tempo degli atti, che in nome della certezza del diritto non può
essere retroattiva, ma che può essere oggetto di una deroga «qualora lo scopo da conseguire lo esiga
e purché sia fatto salvo il legittimo affidamento degli interessati».
In generale, il principio del legittimo affidamento viene in rilievo nell’ipotesi di modificazione
improvvisa di una disciplina e la sua violazione può costituire motivo di invalidità della nuova
disciplina; oppure rileva nel caso che l’amministrazione abbia fatto nascere nell’interessato, con il
suo comportamento o addirittura con le sue informazioni, una aspettativa ragionevolmente fondata;
oppure in tema di revoca di atti individuali illegittimi, possibile entro un termine ragionevole e
tenuto conto del legittimo affidamento maturato dal destinatario. Per contro, non si può invocare il
legittimo affidamento se sia fondato su un errore o comunque quando il comportamento invocato
sia illegittimo, ad es. in tema di aiuti di Stato; in particolare, non lo si può invocare rispetto ad una
prassi nazionale non conforme al diritto dell’Unione, sebbene sia pacifico che anche le
amministrazioni nazionali sono tenute ad osservare il principio di tutela del legittimo affidamento
35
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

degli operatori economici. Né un operatore avvertito può far valere il legittimo affidamento rispetto
alla permanenza di una disciplina che la Commissione abbia ampio potere discrezionale di
modificare.
Va infine precisato che il principio del legittimo affidamento non preclude l’applicazione di una
nuova disciplina agli effetti a questa successivi di rapporti sorti in forza della disciplina pregressa.
Il principio di proporzionalità è anch’esso compreso tra i principi generali del diritto dell’Unione.
Esso consente di verificare la legittimità di un atto che imponga un obbligo oppure una sanzione in
base alla sua idoneità o necessità rispetto ai risultati che si vogliono conseguire. Pertanto spetta al
giudice verificare se i mezzi prefigurati per raggiungere lo scopo dell’atto siano idonei e non
eccedano quanto è necessario per raggiungerlo. Il principio richiede, ad es., che la sanzione in caso
di violazione di un obbligo imposto dal diritto dell’Unione non sia più grave di quanto è necessario;
o che in caso di alternativa tra misure diverse nei confronti degli operatori sia adottata quella che
impone oneri minori o quella meno restrittiva.
Un principio spesso utilizzato come chiave di lettura delle norme comunitarie è quello dell’effetto
utile, che impone un’applicazione o anche una interpretazione delle stesse che sia funzionale al
raggiungimento delle loro finalità.
Di rilievo è anche la portata attribuita al principio di precauzione, sancito dal Trattato con riguardo
alla tutela dell’ambiente (art. 191, 2, TFUE), ma che la Corte di giustizia ha definito come un
principio generale che impone l’adozione di misure atte a prevenire rischi per la sicurezza e la
salute, oltre che per l’ambiente.
Infine, la giurisprudenza ha fatto ricorso più volte e in contesti anche diversi al principio della leale
cooperazione, ricavandolo o, almeno, collegandolo all’art. 4, n. 3, TUE (già art. 10 TCE),
limitandosi però ad un’affermazione di principio molto ampia, nel senso che il contenuto
dell’obbligo di cooperazione dipende dalle disposizioni materiali del Trattato che di volta in volta
vengono in rilievo, con riferimento anche alla struttura complessiva del sistema. Ne è seguito,
pertanto, un uso frequente ed ampio del principio, con diversa portata e diversi significati.
I) In quanto dovere di leale cooperazione degli organi nazionali nei confronti delle istituzioni
dell’Unione, il principio è venuto anzitutto in rilievo come obbligo di facilitare le istituzioni stesse
nell’assolvimento dei loro compiti. È il caso, ad es., delle obbligazioni connesse alla trasposizione
delle direttive, delle informazioni che gli Stati devono dare alla Commissione, dell’esecuzione delle
sentenze della Corte; del dovere di astensione quando sia iniziata una procedura per un’azione
dell’Unione; in generale, dell’adozione di misure nazionali per la corretta attuazione di norme
dell’Unione e, particolarmente, della portata effettiva, proporzionata e dissuasiva delle sanzioni
predisposte dagli Stati membri per la violazione di norme dell’Unione. Del pari, si è rilevato il
dovere dello Stato membro, nel corso di una procedura di infrazione in base all’art. 258 TFUE di
dare tutte le informazioni richieste alla Commissione o almeno di motivarne il rifiuto; più in
generale, di agevolare le inchieste e i controlli della Commissione, ad es. di comunicare le misure
adottate in attuazione di una direttiva.
In secondo luogo, il dovere di cooperazione delle autorità nazionali è venuto in rilievo come dovere
di contribuire alla realizzazione degli obiettivi del Trattato persino in carenza del legislatore
dell’Unione. L’ipotesi comprende 2 figure diverse, e precisamente:
1) la 1° ipotesi, di + facile lettura, è quella in cui lo Stato membro, pur in assenza di misure di
armonizzazione, è comunque in grado di assicurare al singolo l’esercizio di una libertà
fondamentale prevista dal Trattato;
2) la 2° ipotesi è quella dell’obbligo affermato in capo agli Stati membri di adottare misure
temporanee fino all’adozione di misure dell’Unione in materia di organizzazione dei
mercati, cioè in un settore dove la competenza dell’Unione è esclusiva.
In terzo luogo, il dovere di cooperazione degli Stati membri verso la Comunità è venuto in rilievo al
fine di garantire la portata e l’effettività del sistema giuridico dell’Unione e con questo la piena
efficacia dei diritti attribuiti ai singoli da norme dell’Unione. È stata, questa, una delle applicazioni
+ rilevanti e significative del principio di cui all’ex art. 10 del TCE, vera e propria chiave di volta di
36
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

numerosi e fondamentali passaggi della giurisprudenza. Si pensi:


 al dovere che incombe sui giudici nazionali di garantire una tutela giurisdizionale piena ed
effettiva ai diritti dei singoli;
 al dovere risarcitorio dello Stato nei confronti dei singoli per violazione del diritto
dell’Unione;
 al dovere di attivare i rimedi giurisdizionali adeguati e di comminare sanzioni altrettanto
adeguate a garantire l’effettività delle norme dell’Unione;
 al divieto di vanificare l’effetto utile di norme del Trattato in materia di concorrenza e che
disciplinano il comportamento delle imprese.
D’altra parte, è giurisprudenza consolidata che gli Stati membri, così come sono tenuti ad adottare
le misure necessarie perché i singoli possano godere al meglio dei diritti loro attribuiti dal sistema
giuridico dell’Unione, allo stesso modo sono tenuti a garantire che i singoli osservino gli obblighi
loro imposti dal diritto dell’Unione e pertanto ad utilizzare misure idonee ad assicurare tale
risultato.
II) Il principio sancisce anche un obbligo di leale cooperazione reciproca (aiuti, agricoltura), sia per
la soluzione di problemi specifici, sia più in generale come connotazione dei rapporti tra istituzioni
e Stati membri (scuola europea, sede del Parlamento). Ed è stato dunque utilizzato in primo luogo
per affermare un obbligo di collaborazione tra Stati membri in funzione di una più corretta
applicazione del diritto dell’Unione: ad es. per ovviare a divergenze tra regimi pensionistici
nazionali, oppure in tema di riconoscimento dei controlli compiuti dallo Stato di produzione negli
scambi di merci. In secondo luogo, il principio è stato invocato anche in relazione ai rapporti tra le
istituzioni, in particolare in materia di bilancio, per valutare la legittimità della loro azione.
III) Infine, è stato affermato l’obbligo di cooperazione delle istituzioni dell’Unione nei confronti
degli Stati membri. Ad es., a fronte di una richiesta disattesa di un giudice nazionale alla
Commissione di fornire informazioni utili raccolte in una procedura da funzionari dell’Unione, la
Corte ha rilevato l’obbligo della Commissione di prestare la massima collaborazione, in quanto il
dovere di leale cooperazione sancito dal Trattato non è a senso unico. Del pari, in materia di
concorrenza, è stato affermato il dovere della Commissione di fornire alle autorità e ai giudici
nazionali ogni informazione utile.
Il Trattato di Lisbona ha richiamato espressamente il principio di leale cooperazione all’art. 4, n. 3,
TUE. Quest’ultimo, infatti, sancisce il principio di leale cooperazione innanzitutto per stabilire
l’obbligo per l’Unione e gli Stati membri al rispetto e all’assistenza reciproca nell’adempimento dei
compiti derivanti dai trattati; in secondo luogo, l’obbligo per gli Stati membri di adottare ogni
misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai
trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione; in terzo luogo, l’obbligo per gli Stati
membri di facilitare l’Unione nell’adempimento dei suoi compiti, astenendosi da qualsiasi misura
che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione.

5. IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA

Il principio di eguaglianza trova nel Trattato riconoscimento espresso e generale nella forma di un
divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità (art. 18 TFUE), con applicazioni specifiche
relativamente alla libertà di circolazione delle merci e dei servizi e alla libertà di stabilimento.
Questo principio si ritrova anche nella disciplina concernente le organizzazioni comuni di mercato,
l’art. 40, n. 2, 2° comma, TFUE, prevedendo l’esclusione di «qualsiasi discriminazione fra
produttori o consumatori dell’Unione»; e all’art. 157 TFUE, in cui viene sancito in termini generali
il principio della «parità di retribuzione fra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile
per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore». Bisogna precisare che il principio generale di
non discriminazione in base alla nazionalità di cui all’art. 18 TFUE, disposizione provvista di
effetto diretto, è di applicazione SOLO in mancanza di altre disposizioni che in modo specifico
37
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

vietino trattamenti discriminatori ed esclusivamente nei limiti dell’ambito di applicazione del


Trattato.
Il limite risulta chiaro: mentre nel Trattato originario il principio di eguaglianza trovava espresso
riconoscimento soprattutto al fine di rendere operative le libertà previste, dunque in funzione degli
obiettivi di integrazione e non come principio e/o diritto fondamentale, l’evoluzione successiva
della prassi e della giurisprudenza hanno radicalmente mutato il quadro e l’impostazione degli
autori del Trattato. L’affermazione che il principio generale di eguaglianza (di cui il divieto di
discriminazione a motivo della cittadinanza ne è solo un’espressione specifica) rappresenta uno dei
principi fondamentali del diritto dell’Unione costituisce ormai una costante della giurisprudenza
della Corte.
In proposito, è quanto mai significativo che, con riferimento alla direttiva che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la Corte
abbia sottolineato che tale direttiva non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento,
che invece trova la sua fonte in varie convenzioni internazionali e nelle tradizioni costituzionali
degli Stati membri. Le conseguenze che la giurisprudenza ne ha tratto sono 2 e molto rilevanti, e
precisamente:
1) la 1° è che il principio di non discriminazione, ad es. in base all’età, è un principio
generale del diritto dell’Unione, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE,
che con il Trattato di Lisbona ha lo stesso valore giuridico dei trattati;
2) la 2° è che tale principio è per ciò stesso provvisto di effetto diretto e prescinde dalle
condizioni di applicabilità della direttiva che lo disciplina, tanto da imporre al giudice
nazionale la sua applicazione in luogo di una legge nazionale confliggente anche prima
della scadenza del termine di trasposizione e in una controversia tra privati.
Nel merito, il divieto di discriminazioni sancito dal Trattato è stato da sempre interpretato dalla
Corte nel senso tradizionale, che è fatto divieto di trattare in modo diverso situazioni simili, oppure
di non trattare in modo identico situazioni diverse. Una disparità di trattamento è, inoltre, comunque
arbitraria nell’ipotesi in cui il diverso o eguale trattamento oggetto della controversia non sia
giustificabile in base a criteri oggettivi. Per contro, non si è in presenza di una discriminazione
vietata ogniqualvolta il diverso trattamento è giustificato in modo oggettivo: in questa ipotesi è
irrilevante che esista o meno una disparità di trattamento.
Non sono illegittime solo le violazioni palesi del principio di uguaglianza, ma anche le
discriminazioni dissimulate o indirette. È così che da tempo la Corte ha posto in rilievo che il
divieto di discriminazione in base alla nazionalità investe anche quelle discriminazioni fondate su
parametri diversi da quello della nazionalità, ma che di fatto conducono allo stesso risultato, vale a
dire a negare al cittadino dell’Unione i benefici accordati ai nazionali: è questo il caso di un
trattamento diverso fondato sulla residenza, quando non sia giustificato da elementi oggettivi. Del
pari, nel dare applicazione al principio della parità retributiva di cui all’art. 157 TFUE (già art.
141 TCE) la giurisprudenza è costante nel considerare in violazione di tale principio quelle
normative nazionali che, pur fondate su criteri apparentemente neutri, finiscono con lo sfavorire
comunque le donne, ad es. retribuendo in modo diverso il lavoro part-time, quando sono
prevalentemente le donne ad optare per questa formula.
Più in generale, il principio della parità di retribuzione è stato oggetto di applicazioni molto ampie e
significative, fino ad identificarsi, anche per effetto di numerose normative intervenute nella
materia, con un generale principio di eguaglianza nei rapporti di lavoro. E se è vero che in origine
era stato attribuito uno scopo duplice, quello economico di evitare distorsioni di concorrenza e
quello sociale di miglioramento e di parificazione delle condizioni di lavoro, è vero anche che alla
luce della giurisprudenza successiva la finalità economica risulta secondaria rispetto a quella
sociale, proprio in quanto la norma è stata considerata l’espressione di un diritto fondamentale della
persona.
In definitiva, la Corte ha inteso garantire un’uguaglianza sostanziale e non meramente formale. La
giurisprudenza in materia di parità uomo-donna nella vicenda del rapporto di lavoro
38
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

complessivamente intesa ne è la testimonianza più significativa.

6. LA TUTELA DEI DIRITTI E LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UE

È ben noto che i Trattati istitutivi delle Comunità non contenevano alcuna disposizione a tutela dei
diritti umani che potesse in qualche modo costituire la base per il controllo giudiziale; e se è vero
che alcune libertà individuali vi risultavano fin da subito sancite, come le libertà di circolazione
(artt. 45 e 56 del TFUE, già artt. 39 e 49 TCE) oppure il diritto a non essere discriminati in base alla
nazionalità (art. 18 TFUE) e in base al sesso (art. 157 TFUE), è pur vero che si tratta di libertà
riconosciute al singolo esclusivamente in quanto protagonista economico dell’Unione: esse erano
garantite soltanto perché strumentali agli scopi del Trattato CE, ossia alla realizzazione del mercato
comune.
Coerente con questa impostazione del Trattato, la Corte ha affermato, nei primi anni ’60,
l’irrilevanza sul piano del diritto dell’Unione dei diritti fondamentali tutelati nelle Costituzioni degli
Stati membri e la propria incompetenza a garantire il rispetto di norme interne, anche costituzionali,
in vigore nell’uno o nell’altro Stato. Il suo principale interesse era evidentemente quello di:
 assicurare l’autonomia e il primato del diritto dell’Unione sul diritto interno;
 nonché la sua uniformità entro il territorio dell’Unione.
Un decennio più tardi la Corte di giustizia volta pagina. Infatti l’affermazione incondizionata del
principio del primato e l’inevitabile interferenza della normativa dell’Unione con i diritti umani, che
la prassi aveva evidenziato, avevano messo sul piede di guerra le Corti costituzionali, in particolare
italiana e tedesca, che rivendicavano ora il controllo giudiziale residuo sulla normativa dell’Unione.
Proprio l’intento di superare queste minacce all’integrità stessa dell’ordinamento dell’Unione
inducono la Corte ad affermare che i diritti fondamentali, quali risultano dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri e dalla Conv. europea sulla salvaguardia dei diritti
dell’uomo (CEDU), fanno parte dei principi giuridici generali di cui essa garantisce l’osservanza.
Significativo è l’es. della sentenza Rutili, in cui la Corte si riferisce espressamente agli artt. 8, 9, 10
e 11 della CEDU e all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla stessa allegato, affermando su tale base che le
restrizioni apportate in materia di polizia relativa agli stranieri per esigenze di ordine pubblico e di
sicurezza pubblica «non possono andare oltre ciò che è necessario per il soddisfacimento di tali
esigenze in una società democratica».
In sostanza la Corte si è così riservata il compito di verificare di volta in volta il rispetto dei diritti
fondamentali, beninteso nelle situazioni in cui rileva una disciplina dell’Unione e non la sola
disciplina interna. Ed infatti il controllo della Corte, rispetto al parametro dei diritti fondamentali,
investe:
1) gli atti dell’Unione, compresi quelli adottati in attuazione di risoluzioni di Organizzazioni
internazionali;
2) gli atti o comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione;
3) le giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti
incompatibile con il diritto dell’Unione.
Pertanto rimangono fuori dell’ambito del controllo solo le norme nazionali prive di qualsiasi legame
con il diritto dell’Unione.
Fra i diritti fondamentali che la Corte ha avuto occasione di rilevare e di richiamare, vanno
ricordati:
 il diritto di proprietà e il diritto al libero esercizio di un’attività economica o
professionale;
 l’irretroattività delle norme penali;
 il principio del ne bis in idem;
 la previsione legale dei reati e delle pene;
 il rispetto dei diritti della difesa;
39
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 il principio del contraddittorio;


 il diritto ad un processo equo ed entro un termine ragionevole;
 l’inviolabilità del domicilio;
 la libertà di espressione; ecc.
N.B.: Bisogna dire che l’esercizio dei diritti fondamentali può essere oggetto di restrizioni in
vista di obiettivi di interesse generale perseguiti dall’Unione.
Inoltre il riconoscimento come principio generale, rinvenibile anche agli artt. 6 e 13 della Conv.
europea dei diritti dell’uomo, del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed effettiva, ha avuto
un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema dell’Unione. Si pensi all’obbligo di motivazione e
di trasparenza degli atti cui sono tenute le amministrazioni nazionali e le istituzioni dell’Unione; o
anche al diritto del singolo a che la tutela di un diritto attribuito da norme dell’Unione sia
immediata, nonostante eventuali preclusioni degli ordinamenti nazionali.
La giurisprudenza ha sviluppato il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale soprattutto in
vista dell’esigenza di uniformità del livello di tutela nell’Unione. Ne è derivato:
 da una parte, il criterio secondo cui la tutela dei diritti attribuiti da norme dell’Unione deve
essere almeno pari a quella prevista per i diritti conferiti da norme nazionali (principio di
equivalenza);
 dall’altra parte, il principio che il sistema nazionale di rimedi giurisdizionali deve essere
tale da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti
attribuiti al singolo da norme dell’Unione (principio di effettività).
Inoltre, il Trattato di Lisbona (art. 19, n. 1, 2° comma, TUE) tende a rimarcare l’obbligo che
incombe sugli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela
giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali nel diritto dell’Unione si è affermato proprio grazie alla
Corte di Giustizia, coinvolgendo le altre istituzioni solo successivamente. In particolare, solo con la
Dichiarazione comune del 5 aprile 1977, il Consiglio e la Commissione si sono impegnati a
rispettare, nell’esercizio dei loro poteri, i diritti fondamentali quali risultanti dalle Costituzioni degli
Stati membri, nonché dalla Conv. europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Si tratta di una dichiarazione giuridicamente NON vincolante, ma il cui valore
politico non può essere disconosciuto. Anche nel preambolo dell’Atto unico è presente una
dichiarazione di contenuto più o meno analogo, anche se in termini + astratti.
Un punto di riferimento di maggior rilievo è stato l’art. 6, n. 2, del Trattato di Maastricht
sull’UE, in base al quale l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri in quanto principi
generali del diritto dell’Unione.
La mancata adesione dell’Unione alla CEDU non ha comportato conseguenze di rilievo. Infatti in
quasi 50 anni, divergenze rilevanti tra Corte di giustizia e Corte di Strasburgo riguardo alla
valutazione dei diritti fondamentali non vi sono state, nonostante in alcune occasioni le 2 Corti
siano state chiamate a pronunciarsi su casi analoghi. Il clima di collaborazione instauratosi tra le 2
Corti ha trovato esplicita conferma nella sentenza Bosphorus c. Irlanda, nella quale la Corte di
Strasburgo ha affermato di non sindacare il rispetto dei diritti umani da parte di atti CE, in quanto il
sistema del diritto dell’Unione di tutela dei diritti fondamentali è almeno equivalente a quello
predisposto dalla CEDU.
In ogni caso, era sempre più condivisa l’idea di dotare l’Unione di un proprio catalogo scritto di
diritti fondamentali. Nel 1999 è il Consiglio europeo di Colonia a deliberare la predisposizione di
una «Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE», affidandone la redazione ad un apposito
organismo, la Convention, composto da rappresentanti dei Parlamenti nazionali, del PE, della
Commissione e dei capi di Stato e di governo. In occasione del Consiglio europeo di Nizza del 7
dicembre 2000, la Carta, articolata in 54 articoli + un breve preambolo, è dunque solennemente
40
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

proclamata ad opera del Parlamento, della Commissione del Consiglio (senza che ad essa sia
conferito valore giuridico vincolante e deferendo alla successiva Conferenza intergovernativa del
2004 il problema dell’individuazione del suo status).
Nella Carta si ritrovano tutti i diritti che la Corte di giustizia aveva fino a quel momento garantito in
via giurisprudenziale. Lo scopo dell’iniziativa enunciato dal Consiglio europeo di Colonia, d’altra
parte, NON era quello di innovare, ma rendere esplicita e solenne l’affermazione di una serie di
valori. L’impegno di Colonia di rendere SOLO + visibile la tutela dei diritti fondamentali è stato
confermato anche nell’art. 51 della Carta, dove si è precisato che essa «non introduce competenze
nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti
definiti dai trattati».
Per la Carta dei diritti si è spesso posto il quesito circa il suo valore aggiunto rispetto allo stato della
prassi e + in generale ai principi che ispirano il processo di integrazione europea complessivamente
considerato. La decisione maturata a Nizza di lasciare ad una successiva fase di maturazione il
compito di sciogliere il nodo della valenza giuridica della Carta e dunque su come costruire il
rapporto con i trattati dell’Unione e su come renderla formalmente e solennemente vincolante, ha
avuto un seguito SOLO con il processo di riforma dei Trattati conclusosi con la firma del Trattato di
Lisbona il 13 dicembre 2007 e la sua entrata in vigore il 1° dicembre 2009, Trattato che attribuisce
alla Carta di Nizza, coma adattata nel 2007, lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Con il Trattato di Lisbona si è rinunciato a trasferire la materiale elencazione dei diritti
fondamentali nel testo del Trattato, preferendo piuttosto pervenire al riconoscimento dei diritti, delle
libertà e dei principi sanciti nella Carta; a questa si attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati
(art. 6, n. 1, 1° comma, TUE), conservandone, tuttavia, l’autonomia. La scelta in tal senso, oltre che
dettata da ragioni di opportunità politica (viste le forti resistenze manifestate da alcuni Stati
membri), si giustifica anche con motivazioni di ordine pratico volte a sottrarre eventuali future
modificazioni della Carta al passaggio obbligato della procedura di revisione del Trattato.
L’art. 6, n. 2, TUE sancisce l’impegno e la competenza dell’UE in ordine all’adesione alla CEDU,
ferme restando le competenze dell’Unione così come definite nei Trattati. L’effettiva adesione alla
CEDU resta subordinata alla stipulazione di 1 accordo internazionale che, ai sensi dell’art. 218
TFUE deve essere concluso dal Consiglio all’unanimità, previa approvazione del PE. Nella
sostanza, l’adesione comporterà l’estensione del sindacato della Corte di Strasburgo sulle questioni
riguardanti l’Unione che vertano in materia di diritti dell’uomo.

7. IL DIRITTO DELL’UNIONE DERIVATO

Il sistema normativo dell’Unione comprende un insieme di atti giuridici adottati dalle istituzioni
dell’Unione, nei limiti delle competenze e con gli effetti che i Trattati sanciscono. Si tratta di atti
che vengono posti in essere attraverso procedimenti deliberativi che si svolgono e si esauriscono in
modo del tutto indipendente da quelli – legislativi e amministrativi – nazionali. Sono atti, però,
destinati ad incidere in modo rilevante sugli ordinamenti giuridici interni e sulle posizioni
giuridiche dei singoli, talvolta senza che occorra un intervento formale del legislatore e/o
dell’amministrazione nazionale, altre volte imponendo all’uno e/o all’altra un’attività normativa,
allo scopo di riversare sui singoli gli impegni sottoscritti dall’Unione o di precisare o integrare
obbligazioni solo delineate dall’atto dell’Unione ma lasciate alla discrezionalità degli Stati membri
quanto alla determinazione definitiva del suo contenuto.
Questo è l’insieme degli atti che si definisce comunemente “diritto derivato dell’Unione”,
espressione che ne coglie:
 da un lato, la purezza dell’origine, appunto quella dell’Unione in senso proprio e non
convenzionale, del tutto estranea ai procedimenti nazionali di formazione delle norme;
 dall’altro lato, la forza derivata dai Trattati istitutivi, in applicazione e per l’attuazione dei
quali gli atti dell’Unione vengono adottati. Ed è appena il caso di precisare che gli atti in

41
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

questione non possono avere l’effetto di restringere o modificare la portata di una norma del
Trattato o della giurisprudenza relativa a quella stessa norma.
L’art. 288 TFUE sancisce la tipologia degli atti a mezzo dei quali le istituzioni dell’Unione
esercitano le competenze loro attribuite: regolamenti, decisioni e direttive, nonché raccomandazioni
e pareri.
Il Trattato di Lisbona introduce, all’art. 289 TFUE, per regolamenti, direttive e decisioni, una
distinzione formale tra atti legislativi e atti non legislativi, che dipende esclusivamente dalla
procedura con la quale sono adottati.
Nella 1° ipotesi, infatti, i regolamenti, le direttive e le decisioni vengono adottati con procedura
legislativa, ordinaria oppure speciale; nella 2° ipotesi, invece, gli stessi atti sono adottati sulla base
di una delega contenuta in un atto legislativo, che, ai sensi dell’art. 290, n. 1, TFUE, affida alla
Commissione il potere di emanare, appunto, atti delegati, quindi non legislativi, di portata generale
che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’etto legislativo. Gli atti delegati
devono essere definiti tali espressamente nel loro titolo e pertanto assumono la denominazione di
regolamenti, direttive e decisioni «delegate». L’esercizio da parte della Commissione dei poteri
normativi delegati è soggetto al controllo da parte del Parlamento e del Consiglio che possono
revocare la delega e fissarne le condizioni (art. 290, n. 2, TFUE).
Il quadro cambia quando gli atti legislativi vincolanti richiedono atti di esecuzione e provvedono ad
attribuire i relativi poteri alla Commissione o in casi eccezionali al Consiglio. Anche gli atti di
esecuzione devono essere espressamente denominati tali nel loro titolo (art. 291 TFUE),
assumendo la denominazione di regolamenti, direttive e decisioni «di esecuzione». Si tratta anche in
questa ipotesi di atti non legislativi, cioè di atti meramente esecutivi degli atti legislativi, ma che si
distinguono dagli atti delegati perché sono destinati ad operare all’interno degli Stati membri,
nonché per il fatto che il controllo sull’esercizio delle competenze di esecuzione è affidato agli Stati
membri stessi, secondo modalità stabilite dal PE e dal Consiglio attraverso regolamenti adottati con
procedura legislativa ordinaria (art. 291, n. 3, TFUE).
I tipi di atti previsti dall’art. 288 TFUE non esauriscono, tuttavia, il panorama degli atti di diritto
derivato dell’Unione. Infatti, esistono atti, talvolta anche vincolanti, non previsti dai Trattati: essi
vengono indicati come atti atipici.

8. GLI ATTI VINCOLANTI: REGOLAMENTI, DECISIONI E DIRETTIVE

Tra gli atti vincolanti, viene anzitutto in rilievo il regolamento, che nel sistema giuridico
dell’Unione normalmente rappresenta l’equivalente della legge negli ordinamenti statali.
Innanzitutto il regolamento, al pari della legge, ha portata generale, nel senso che si rivolge a
soggetti non determinati e limitati, ma considerati astrattamente, e investe pertanto situazioni
oggettive. In altre parole, il regolamento è applicabile non ad un numero definito di destinatari,
individuabili facilmente o espressamente identificati, ma a categorie di destinatari determinate
astrattamente e nel loro insieme. Né assume rilievo, per escludere la natura regolamentare dell’atto,
che il numero o l’identità dei destinatari sia suscettibile di individuazione in un determinato
momento, purché la qualità di destinatario dipenda da una situazione obiettiva, di diritto o di fatto,
definita dall’atto stesso. Egualmente, il fatto che l’applicazione della norma sia limitata ad uno o più
Stati membri oppure ad una parte di uno Stato membro non vale ad inficiarne la natura
regolamentare, quando comunque i suoi effetti riguardino categorie astrattamente considerate e
caratterizzate unicamente in relazione alla loro partecipazione all’ambito economico di cui trattasi.
La portata generale del regolamento è spesso sottoposta alla verifica della Corte di giustizia
dell’Unione sotto il profilo della sua impugnabilità da parte dei singoli (persona fisica o giuridica),
in quanto questi ultimi, in virtù dell’art. 263, 4° comma, TFUE, possono impugnare solo quegli atti
regolamentari che li riguardino direttamente, sempreché non comportino alcuna misura di
esecuzione, e ciò indipendentemente dalla specifica denominazione che ad essi abbia dato
l’istituzione che li ha adottati. La natura dell’atto deve dunque essere individuata in relazione alla
42
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sua sostanza e non alla sua forma, cioè con riguardo agli effetti che mira a produrre ed
effettivamente produce.
Altra caratteristica del regolamento, anch’essa espressamente prevista dall’art. 288, TFUE è data
dall’obbligatorietà del medesimo in tutti i suoi elementi: ciò vuol dire che i destinatari del
regolamento sono tenuti a dare applicazione completa e integrale alle norme regolamentari, con
conseguente illegittimità di una sua applicazione parziale da parte di uno Stato. Il carattere
obbligatorio del regolamento preclude agli Stati la possibilità di formulare opposizioni o riserve
all’atto della sua adozione, le quali, anche se espresse, restano prive di ogni effetto. Naturalmente,
la generale obbligatorietà del regolamento non comporta che le sue norme disegnino sempre una
disciplina completa e autosufficiente. È anzi proprio del carattere astratto della fonte in questione
che il regolamento deleghi, ai sensi dell’art. 290, n. 1 TFUE, alla Commissione il potere di adottare
atti delegati, quindi non legislativi, di portata generale che ne integrino o modifichino determinati
elementi non essenziali dell’atto legislativo.
Il regolamento è «direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri» (art. 288, 2° comma,
TFUE).
Infine, il regolamento deve essere pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’UE ai sensi dell’art. 297,
n. 1, 3° comma, TFUE. La mancata pubblicazione non influisce sulla validità dell’atto, ma ne
impedisce la produzione di effetti obbligatori sino a quando non venga pubblicato. Il regolamento
entra in vigore alla data che esso stesso prevede o, in mancanza, dopo 20 giorni dalla pubblicazione.
La decisione è, al pari del regolamento, atto obbligatorio in tutti i suoi elementi (se designa i
destinatari è obbligatorio soltanto nei confronti di questi), ma si differenzia dal regolamento per il
fatto che il più delle volte essa si rivolge a specifici destrinatari ed è dunque priva di quella portata
generale e astratta che è tipica degli atti legislativi.
In questi casi, la decisione corrisponde, in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici
nazionali, in quanto rappresenta lo strumento utilizzato dalle istituzioni quando sono chiamate ad
applicare il diritto dell’Unione a singole fattispecie concrete. È un atto che dunque, crea, modifica o
estingue situazioni giuridiche soggettive in capo ai destinatari. Questi ultimi possono essere:
 tanto gli Stati (ad es., una decisione che accerta l’incompatibilità di un aiuto alle imprese
con il diritto dell’Unione);
 quanto persone fisiche o giuridiche (ad es., le decisioni in materia di concorrenza).
Una decisione può avere come destinatari anche tutti gli Stati, senza con ciò perdere, almeno in
linea di principio e salvo verifica sulla sostanza dell’atto, il suo carattere individuale. Talvolta, le
decisioni non sono indirizzate né a Stati membri, né a persone fisiche o giuridiche, ma hanno una
valenza generale; in particolare, si tratta:
 di decisioni con le quali il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati di accordi internazionali
e designa, in funzione della materia di cui trattasi, il negoziatore o il capo della squadra di
negoziato dell’Unione (art. 218, n. 3, TFUE) o con le quali ne approva la conclusione (art.
218, n. 6, TFUE);
 di decisioni che investono il funzionamento dell’organizzazione dell’Unione, quale, ad es.,
quelle, di natura non legislativa, del Consiglio europeo, adottate a maggioranza qualificata,
sulle formazioni del Consiglio e sulla loro presidenza o quelle, adottate all’unanimità, sulla
composizione del PE;
 quelle relative alla nomina di persone, al personale delle istituzioni, all’istituzione di
comitati, nonché di decisioni relative a Fondi e programmi dell’Unione.
La decisione può essere adottata:
 dal Consiglio europeo;
 dal Consiglio;
 oppure dalla Commissione: quest’ultima agisce in virtù di un potere proprio o su delega del
Consiglio, a seconda delle specifiche previsioni del Trattato.
La portata individuale dell’atto non pone alcun problema – salva la verifica della sostanza – quanto
43
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

alla sua impugnabilità da parte dei singoli destinatari.


La decisione quando impone obblighi di pagamento ai singoli, persone fisiche o giuridiche, è a tutti
gli effetti un titolo esecutivo, da far valere negli Stati membri attraverso le procedure nazionali
rispettivamente utilizzabili (art. 299 TFUE). L’unica condizione che dovrà essere rispettata è
l’apposizione della formula esecutiva da parte dell’autorità nazionale che il governo di ciascuno
degli Stati membri ha a tal fine designato (in Italia, il Ministero degli Esteri), previa verifica della
sola autenticità del titolo. La procedura esecutiva sarà poi regolata dalle norme nazionali, così come
il controllo della regolarità dei provvedimenti esecutivi sarà di competenza dei giudici nazionali,
mentre la sospensione dell’esecuzione potrà avvenire solo in virtù di una decisione della Corte di
giustizia.
La decisione deve essere notificata ai destinatari e solo da tale momento produce i suoi effetti ed è
ad essi opponibile. Nella prassi, sono pubblicate le decisioni + rilevanti, sia pure nella parte II della
Gazzetta, relativa agli atti per i quali la pubblicazione non è una condizione di applicabilità. In
questo caso, la pubblicazione assolve ad una funzione semplicemente informativa e, comunque, non
esonera l’istituzione che adotta la decisione dall’onere di provvedere alla sua notificazione al
destinatario.
È invece richiesta la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE per le decisioni che non
designano i destinatari.
La direttiva, secondo l’art. 288, 3° comma, «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito
alla forma e ai mezzi».
Anche la direttiva, come la decisione e a differenza del regolamento, non ha portata generale ma
vincola solo lo Stato o gli Stati, che ne sono i soli destinatari, salvo ad incidere talvolta sulle
situazioni giuridiche soggettive dei singoli.
Non diversamente dal regolamento e dalla decisione, la direttiva produce effetti obbligatori.
L’elemento qualificante della direttiva è appunto costituito dalla natura dell’obbligo imposto agli
Stati, che è in via di principio un obbligo di risultato. L’obbligo dello Stato è di adottare tutte le
misure necessarie per realizzare il risultato voluta dalla direttiva; è un obbligo cogente e investe tutti
gli organi dello Stato, compresi gli organi giurisdizionali. In generale si usa dire che la direttiva si
limita a fissare un risultato da raggiungere, ponendosi soprattutto l’accento sulla discrezionalità
lasciata agli Stati quanto al modo e agli strumenti per raggiungerlo. La caratteristica di questo atto
non implica che le sue disposizioni siano meno vincolanti delle altre norme dell’Unione, né
comporta un’attenuazione delle conseguenze sfavorevoli per gli Stati destinatari in caso di
violazione da parte di questi ultimi.
Di fronte all’argomento che a una direttiva non potrebbe attribuirsi la stessa forza obbligatoria dei
regolamenti, la Corte ha infatti opposto che l’esatta e puntuale attuazione di una direttiva è tanto +
importante in quanto le misure di attuazione sono lasciate alla discrezione degli Stati membri; con
la conseguenza che, ove tali misure non raggiungessero gli scopi definiti entro il termine stabilito, le
direttive resterebbero prive di effetti. Ciò vuol dire che la portata vincolante della direttiva investe
anche e in modo particolare il termine fissato per l’entrata in vigore delle misure interne. Lo Stato
membro che incontrasse difficoltà di attuazione tempestiva ha come unico rimedio la richiesta
all’istituzione di una proroga del termine.
Lo Stato può certo dare applicazione alla direttiva in via anticipata rispetto al termine fissato dallo
stesso atto dell’Unione, ma tale circostanza non può produrre effetti nei confronti di altri Stati
membri che alla direttiva non si siano ancora adeguati, né è consentito al singolo di invocare il
principio del legittimo affidamento prima della scadenza del termine stabilito per l’attuazione della
direttiva.
In pendenza di tale termine l’inosservanza dell’obbligo dello Stato di realizzare il risultato voluto
dalla direttiva non è sanzionabile, divenendo censurabile l’inadempimento solo alla scadenza. La
Corte, tuttavia, ha apportato qualche precisazione circa i doveri degli Stati nel periodo tra l’entrata
in vigore della direttiva e la scadenza del termine per l’attuazione, chiarendo che su di essi grava un
44
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

obbligo di standstill, che è poi il tradizionale obbligo di buona fede, nel senso che devono astenersi
dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla
direttiva.
Pertanto, neppure la discrezionalità quanto alla forma o ai mezzi è assoluta.
In particolare, mentre è ormai pacifico che l’attuazione di una direttiva non richiede
necessariamente una riproduzione testuale delle sue disposizioni in una norma ad hoc, altrettanto
incontestabile è la necessità che comunque le misure di attuazione realizzino quanto prescritto dalla
direttiva con efficacia cogente, indicandolo anche in modo specifico, chiaro e preciso, affinché i
destinatari dei diritti attribuiti dalla direttiva siano in grado di conoscerne la «piena portata» e di
farli valere dinanzi ai giudici nazionali. Inoltre, quando il risultato voluto dalla direttiva non possa
essere realizzato attraverso l’interpretazione, gli Stati membri hanno l’obbligo di risarcire i singoli
degli eventuali danni derivati dalla mancata attuazione della direttiva.
Nella prassi, la caratteristica peculiare della direttiva di imporre un obbligo di risultato è talvolta
venuta meno, nel senso che molti sono i casi di direttive che in fatto non lasciano spazio ad
alternative quanto ai modi e ai tempi per realizzare il risultato da esse prescritto. Si parla a tale
riguardo, con espressione impropria, di direttive dettagliate o particolareggiate; la loro rilevanza si
manifesta soprattutto nell’impatto con gli ordinamenti nazionali e la sfera giuridica dei singoli, in
quanto possono assumere la stessa portata e la stessa efficacia dei regolamenti. In dottrina è stata
ipotizzata la illegittimità della direttiva dettagliata, proprio a ragione della sua natura
sostanzialmente regolamentare.
Della direttiva il legislatore comunitario si è avvalso soprattutto come strumento di armonizzazione
delle legislazioni nazionali, là dove il Trattato lo imponeva o quale frutto di una scelta delle
istituzioni a vantaggio di un atto meno «unificante» rispetto al regolamento e più rispettoso delle
peculiarità delle singole esperienze giuridiche nazionali.
Tradizionalmente, la direttiva, in quanto atto non dotato di portata generale e con destinatari
espressamente individuati, veniva solo notificata a questi ultimi, producendo i propri effetti
obbligatori a partire dalla data della notificazione. L’art. 297 TFUE impone anche la pubblicazione
sulla Gazzetta ufficiale delle direttive adottate secondo la procedura legislativa ordinaria, a
conferma del loro più marcato carattere normativo. In tal caso, come per il regolamento, l’entrata in
vigore sarà alla data stabilita dalla direttiva stessa o, in mancanza, dopo 20 giorni dalla
pubblicazione.

9. GLI ATTI NON VINCOLANTI: RACCOMANDAZIONI E PARERI

L’art. 288 TFUE prefigura anche 2 tipi di atti non vincolanti: raccomandazioni e pareri. Il potere
di adottare tali atti è riconosciuto, data la natura non vincolante degli stessi, a tutte le istituzioni
dell’Unione. L’art. 292 TFUE disciplina la procedura di adozione delle raccomandazioni da parte
del Consiglio, il cui potere è subordinato alla proposta della Commissione e/o all’unanimità nei casi
e nei settori nei quali tali condizioni sono previste. Un ruolo privilegiato è tuttavia attribuito alla
Commissione che formula raccomandazioni o pareri quando il Trattato espressamente lo preveda,
oppure quando la stessa istituzione lo ritenga necessario.
Le raccomandazioni e i pareri non sono facilmente distinguibili, anche in considerazione dell’ampio
e differenziato impiego che ne fanno le istituzioni. In linea generale:
 mentre le raccomandazioni sono normalmente dirette agli Stati membri e contengono
l’invito a conformarsi ad un certo comportamento;
 i pareri costituiscono l’atto con cui le stesse istituzioni o altri organi dell’Unione fanno
conoscere il loro punto di vista su di una determinata materia. Attraverso i pareri,
l’istituzione esercita una funzione di orientamento, consigliando il soggetto circa il contegno
che questi dovrà tenere, senza che da ciò discenda per quest’ultimo l’obbligo di adeguarvisi.
L’assenza di carattere vincolante non consente comunque di escludere qualsiasi effetto giuridico di

45
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

questi atti, specialmente delle raccomandazioni. In particolare, nel pronunciarsi sul valore delle
raccomandazioni nell’ambito della procedura di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, la
Corte, dopo aver precisato che esse sono in genere adottate dalle istituzioni dell’Unione quando
queste non dispongono, in forza del Trattato, del potere di adottare atti obbligatori o quando
ritengono che non vi sia motivo di adottare norme vincolanti, ha affermato che non possono essere
considerate prive di effetto giuridico e che, pertanto, i giudici nazionali devono tenerne conto ai fini
dell’interpretazione di norme nazionali o di altri atti vincolanti dell’Unione.
Degli atti non vincolanti il Trattato non impone la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.
Normalmente, essi vengono comunque pubblicati, specie se si tratta di raccomandazioni di carattere
generale, per facilitarne la conoscenza e, dunque, l’efficacia.
Il Trattato definisce «pareri» anche le deliberazioni che vengono adottate da organi partecipi del
processo legislativo dell’Unione nell’esercizio della funzione consultiva che lo stesso Trattato
assegna loro. Tuttavia si tratta di atti NON riconducibili a quelli previsti dall’art. 288 TFUE, dato
che non sono destinati a produrre alcun effetto all’esterno del meccanismo decisionale dell’Unione
e sono quindi dotati di valenza esclusivamente interistituzionale.

10. ELEMENTI COMUNI AGLI ATTI DELL’UNIONE: MOTIVAZIONE, BASE


GIURIDICA, EFFICACIA NEL TEMPO

Gli atti vincolanti dell’Unione devono essere naturalmente motivati, pena l’annullamento per
violazione delle forme sostanziali (art. 263, 2° comma, TFUE). Perché l’obbligo di motivazione,
sancito dall’art. 296 TFUE, sia adempiuto è necessario che l’atto contenga la specificazione degli
elementi di fatto e di diritto sui quali l’istituzione si è fondata. L’esigenza da soddisfare è:
 da un lato, quella di far conoscere agli Stati membri e ai singoli il modo in cui l’istituzione
ha applicato il Trattato;
 dall’altro lato, quella di consentire alla Corte e al Tribunale di esercitare un controllo
giurisdizionale adeguato.
Il rispetto dell’obbligo va verificato in funzione della natura e del contenuto dell’atto, nonché del
contesto giuridico in cui esso si colloca. In ogni caso, deve risultare chiaro l’iter logico seguito
dall’istituzione che ha posto in essere l’atto, nonché gli elementi necessari per permettere ai
destinatari, ed ancor più a chi ne sia comunque investito direttamente e individualmente ai sensi
dell’art. 263 TFUE, 4° comma, di apprezzarne la portata e la fondatezza.
L’indagine sulla congruità della motivazione investe non solo il tenore letterale dell’atto, ma anche
il contesto normativo e fattuale in cui si colloca; mentre non è necessario, per consentire il controllo
del giudice, che siano specificati tutti gli elementi di fatto e di diritto.
L’obbligo di motivazione non richiede l’adozione di formule particolari, essendo sufficiente che dal
tenore dell’atto nel suo complesso si evincano le ragioni di fatto e di diritto che hanno indotto
l’istituzione ad emanarlo. Così, in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà, non è
necessario che esso venga espressamente menzionato, purché il legislatore dell’Unione dia conto
delle ragioni per le quali l’obiettivo della propria azione può essere realizzato meglio a livello
dell’Unione piuttosto che dagli Stati membri.
Il difetto e la carenza di motivazione dell’atto sono vizi che si traducono nella violazione di forme
sostanziali, in particolare ai sensi dell’art. 263 TFUE. La conseguenza è che si tratta di motivi di
ordine pubblico che il giudice può e deve sollevare anche d’ufficio.
Oltre all’obbligo di motivazione, l’istituzione che adotta l’atto deve anche fare menzione delle
proposte o dei pareri obbligatoriamente richiesti in esecuzione del Trattato, così garantendo la
verifica del rispetto delle condizioni procedimentali imposte dal Trattato medesimo per l’adozione
dell’atto.
Rilevante è la necessità che l’atto faccia riferimento ad una o a + specifiche norme del Trattato
(«visto l’art. …»), cioè la base giuridica, la cui omissione integra un vizio sostanziale dell’atto, a

46
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

meno che non sia possibile determinarla con sufficiente precisione in base ad altri elementi dello
stesso atto. La scelta della base giuridica è operata con riferimento agli elementi oggettivi e
qualificanti dell’atto che siano suscettibili di controllo giurisdizionale, quali lo scopo e l’oggetto
dell’atto stesso. Quando il provvedimento investe + settori, ad es. la politica dell’ambiente e quella
agricola o il mercato comune, occorre verificare se entrambi i profili sono essenziali oppure se l’uno
è principale (il «centro di gravità») e l’altro accessorio, al fine di stabilire se debbano utilizzarsi 2
basi giuridiche oppure 1 sola; ed è chiaro che, nell’ipotesi di + basi possibili ma incompatibili, sono
gli elementi principali e non quelli solo accessori a determinare la base giuridica.
Il richiamo ad una norma di diritto primario, della quale l’atto costituisce il momento di attuazione,
assume rilievo in relazione a 3 distinti profili, e precisamente:
1. il 1° e fondamentale profilo attiene alle competenze dell’Unione, che almeno in via di
principio sono ispirate al criterio dell’attribuzione specifica nel Trattato, fatta salva la
previsione dell’art. 352 TFUE, che peraltro conferma la valenza di quel criterio. Pertanto è
necessario che l’azione delle istituzioni trovi giustificazione in una norma del Trattato che
all’Unione attribuisce lo specifico potere di volta in volta esercitato;
2. il 2° profilo attiene al riparto di competenze tra le diverse istituzioni dell’Unione che
rispondono anch’esse al principio di attribuzione;
3. il 3° profilo è quello procedimentale, nella misura in cui la scelta dell’una o dell’altra base
giuridica implica una procedura diversa di formazione del consenso (unanimità o
maggioranza, qualificata o semplice) e/o un diverso coinvolgimento del Parlamento
(procedura legislativa ordinaria o speciale).
N.B.: In linea generale, se un atto costituisce momento di esercizio di 2 distinte competenze
dell’Unione per le quali il Trattato prevede 2 diverse basi giuridiche, l’istituzione dovrà fondarsi su
entrambe le norme primarie. Se però alla diversità di fondamento giuridico si accompagna una
diversità nel procedimento, per cui una delle 2 procedure è destinata ad essere sostanzialmente
svuotata nel proprio significato sostanziale, l’atto dovrà trovare fondamento esclusivo sulla norma
del Trattato che implica il procedimento + garantista e + rispettoso del fondamentale principio
democratico.
Oltre che sotto il profilo della competenza dell’istituzione oppure del procedimento di formazione,
l’omissione della base giuridica rileva anche sotto il profilo dell’identificazione della categoria cui
l’atto appartiene; e persino della sua efficacia vincolante o meno. Quest’ultimo aspetto è di per sé
importante, collegandosi all’esigenza di certezza e di tutela giurisdizionale piena, in quanto l’atto
può rappresentare ai suoi destinatari una situazione non perfettamente chiara quanto alla stessa
obbligatorietà dei comportamenti in esso prefigurati.
Sappiamo già che l’atto entra in vigore nella data dallo stesso specificata o, in mancanza, dopo 20
giorni dalla sua pubblicazione. Bisogna aggiungere in proposito che quando la pubblicazione è
successiva alla data prefigurata nell’atto, o quando il momento dell’effettiva diffusione della
Gazzetta ufficiale è diverso da quello formalmente indicato come data di pubblicazione, vale ad
ogni effetto, in particolare sotto il profilo del termine per l’impugnazione di rito, il momento
dell’effettiva diffusione: ciò accade non di rado, ad es., con la Gazzetta ufficiale del 31 dicembre.
I principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento impongono, non diversamente da
quanto accade anche negli ordinamenti degli Stati membri, che la norma dell’Unione non trovi
applicazione ai rapporti giuridici definiti anteriormente alla sua entrata in vigore: in altre parole,
non abbia effetto retroattivo. L’efficacia retroattiva della norma dell’Unione è ipotizzabile soltanto
in via d’eccezione, ove ciò sia imposto dall’obiettivo da realizzare e comunque sia adeguatamente
salvaguardato il legittimo affidamento degli interessati. Inoltre, nella motivazione, l’istituzione
dovrà indicare le ragioni che giustificano l’efficacia retroattiva che si intende attribuire all’atto in
questione.
Come per le norme convenzionali, le versioni degli atti dell’Unione nelle (23) lingue ufficiali
dell’Unione fanno tutte ugualmente fede, sì che in caso di dubbio occorre operare un confronto. Se
c’è discordanza, l’interprete deve procedere ad una lettura delle norme in funzione dell’economia
47
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

complessiva e delle finalità dell’atto. In ogni caso, quando + interpretazioni sono possibili, va
privilegiata quella che consente di salvaguardare l’effetto utile della norma.

11. ALTRI ATTI

Oltre agli atti prefigurati all’art. 288 TFUE, gli stessi trattati prevedono alcuni atti diversi,
qualificati in dottrina atti atipici in senso lato, concernenti ipotesi specifiche e per lo più funzionali
all’attività istituzionale. In particolare, bisogna ricordare:
 i regolamenti interni delle istituzioni, che hanno normalmente una efficacia circoscritta
appunto ai rapporti interni alle istituzioni;
 i programmi generali, in origine previsti per la soppressione delle restrizioni in materia di
libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, adottati dal Consiglio e che fissavano
gli obiettivi e la cadenza della liberalizzazione (rispettivamente, artt. 50 e 59 TFUE);
 la constatazione dell’avvenuta approvazione del bilancio da parte del presidente del PE (art.
314, par. 9 TFUE);
 alcuni atti preparatori, quali, in particolare, le proposte della Commissione;
 le misure adottate dal Consiglio, previste dal titolo V, capo 2 del TFUE, in materia di
politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione.
Inoltre il quadro degli atti dell’Unione, quale definito dai trattati, si è arricchito di non poche figure
di atti davvero singolari, denominati atti atipici in senso proprio, a volte persino vincolanti, altre
volte privi di una specifica denominazione. Questi atti costituiscono il frutto di una prassi delle
istituzioni che si è andata progressivamente consolidando. In particolare, ricordiamo:
 le decisioni sui generis, atti normalmente vincolanti adottati dal Consiglio e che non
rispondevano al modello tipico di decisione prefigurato dall’art. 249 TCE, non avendo
specifici destinatari, ma erano pur sempre obbligatorie e di portata generale. In passato ne è
stato fatto un uso moderato ma con effetti di grande rilievo, ad es. in materia di Fondi o di
creazione e poteri di istituzioni come il Tribunale o la Commissione. Con il nuovo testo:
«Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi» (art. 288 TFUE),
occorre attendere la prassi sull’uso e gli effetti di tale atto, anche per una più matura
valutazione in ordine alla tipicità o meno;
 gli accordi interistituzionali, tra Consiglio, Commissione e Parlamento, in origine
considerati meri strumenti informali ma che con il tempo hanno assunto veste di atto
giuridico dalla natura vincolante, così come prefigurato dall’art. 295 TFUE;
 le risoluzioni del Consiglio, che, sebbene sprovviste di efficacia vincolante, rivestono
notevole importanza in quanto esplicitano il punto di vista dell’istituzione su questioni
concernenti determinati settori di intervento dell’Unione, spesso anticipando una
successiva attività normativa in senso proprio;
 le comunicazioni della Commissione, strumenti utilizzati con notevole frequenza e aventi
forme e contenuti diversi, tanto da dar luogo a tentativi di classificazione dei differenti tipi
di comunicazione:
 oltre a quelle informative, destinate in particolare ad alimentare il dialogo tra
istituzioni su temi e materie in cui si prefigura l’adozione di veri e propri atti
normativi, notevole rilievo rivestono le comunicazioni c.d. decisorie, relative a
settori in cui la Commissione dispone di un potere di decisione anche discrezionale,
come in materia di concorrenza e di aiuti di Stato;
 nonché le comunicazioni c.d. interpretative, cioè volte a far conoscere agli Stati e
agli operatori i diritti e gli obblighi ad essi derivanti dal diritto dell’Unione, in
particolare alla luce degli sviluppi giurisprudenziali registratisi nel settore di cui si
tratta;

48
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 le dichiarazioni comuni del Parlamento, del Consiglio e della Commissione, ad es. sulla
procedura di concertazione, sulla procedura di bilancio, sui diritti fondamentali; talvolta a
queste istituzioni si aggiungono anche i rappresentanti degli Stati membri riuniti in sede di
Consiglio, come nel caso della dichiarazione contro il razzismo e la xenofobia;
 le c.d. dichiarazioni a verbale del Consiglio, che talvolta accompagnano l’adozione di un
atto e che, come precisato dalla Corte, possono essere prese in considerazione al fine di
chiarire la portata di una disposizione di diritto derivato, ma non hanno alcun rilievo
giuridico quando il contenuto della dichiarazione in questione non trovi espresso riscontro
nel testo della disposizione cui afferiscono;
 gli accordi c.d. amministrativi, stipulati direttamente dalla Commissione con Stati terzi,
spesso neppure pubblicati.
La qualificazione dell’atto, anche e soprattutto sotto il profilo della sua obbligatorietà, spetta al
giudice e dunque alla Corte di giustizia e al Tribunale, in funzione dell’oggetto e delle finalità che in
concreto caratterizzano l’atto. Tale accertamento assume rilievo non solo rispetto agli effetti
sostanziali da ricollegare all’atto, ma anche sul piano processuale, relativamente alla sua
impugnabilità o meno e da parte di quali soggetti; infatti l’art. 263 TFUE:
 da un lato limita la possibilità d’impugnazione diretta agli atti vincolanti;
 dall’altro lato circoscrive tale possibilità ai singoli che siano individualmente e direttamente
investiti dall’atto.

12. DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTO INTERNO

Bisogna esaminare il rapporto che all’interno del sistema giuridico dell’Unione si crea tra:
 le norme convenzionali e comunitarie, da una parte;
 e quelle nazionali, dall’altra parte.
Per quanto concerne il rapporto con l’ordinamento italiano, va fatta una prima e generale
distinzione tra l’impatto delle norme dei trattati e quello del diritto dell’Unione (o comunitario)
derivato.
Le norme dei trattati istitutivi, e con essi tutte le modificazione e integrazioni convenzionali
intervenute successivamente, hanno con il nostro ordinamento lo stesso impatto di ogni altra
normativa internazionale pattizia; tali norme richiedono per la loro entrata in vigore l’esaurimento
delle procedure costituzionali prescritte in ciascuno Stato membro. Per l’Italia, la prassi da sempre
prevede la legge di autorizzazione del Presidente della Repubblica alla ratifica e l’ordine di
esecuzione, l’una e l’atro normalmente oggetto di un unico testo legislativo – la legge di
adattamento – come per qualsiasi accordo internazionale.
Viceversa per il diritto comunitario derivato non si richiede la procedura «speciale» di adattamento
appena evocata, ma che si pongano eventualmente in essere quei provvedimenti nazionali, leggi o
atti amministrativi a seconda dei casi, che gli stessi atti comunitari prefigurano o impongono ai fini
della loro puntuale e tempestiva attuazione. Né è necessario che l’esigenza o meno di un atto
formale degli organi nazionali sia espressamente sancita nell’atto comunitario. Ancora una volta,
infatti, la sostanza prevale sulla forma, per cui l’apprezzamento sia dell’una che dell’altra può
portare a conclusioni diverse, nel senso che di 1 atto formale interno vi sia o non vi sia necessità,
che sia consentito o che sia precluso. In definitiva, occorre verificare di volta in volta, in base alla
forma e alla sostanza dell’atto comunitario, e qualunque ne sia la denominazione, quale sia
l’impatto sui sistemi giuridici nazionali e quali siano gli interventi formali eventualmente richiesti o
imposti agli Stati membri perché il diritto o l’obbligo comunitario possa considerarsi a tutti gli
effetti rilevante e soprattutto operante in rapporto alla posizione giuridica dei suoi destinatari.
Il regolamento, ad es., è espressamente definito dal Trattato come direttamente applicabile in
ciascuno Stato membro. Ciò va inteso nel senso che l’atto è destinato a produrre i suoi effetti senza
che sia necessario un intervento formale di una qualche autorità nazionale, ove non richiesto dallo
49
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

stesso regolamento comunitario (misure nazionali di attuazione). Un eventuale atto interno, anche
solo confermativo del regolamento, sarebbe perciò contrario al Trattato, nella misura in cui può
rappresentare un ostacolo o comunque ritardare l’applicazione del regolamento in modo uniforme e
simultaneo in tutta la Comunità, anche quando non produca riduzioni della sua sfera di operatività.
Diverso è invece il problema che si pone per le direttive, in quanto, conformemente alla previsione
dell’art. 249 del Trattato, in via generale e di principio sono esse stesse ad imporre allo Stato
membro di adottare gli atti necessari alla loro puntuale attuazione. Ancora diverso, poi, è il caso in
cui sia una sentenza della Corte di giustizia ad imporre agli Stati membri un’attività normativa, ad
es. di abolizione o modificazione di una legge o di un atto amministrativo dichiarato incompatibile
con il diritto comunitario.
In Italia, il tema dell’attuazione legislativa e/o amministrativa degli obblighi comunitari è da sempre
un tema dolente.
Per ovviare almeno in parte agli inadempimenti italiani alle obbligazioni comunitarie, è stata
introdotta la legge comunitaria annuale, dunque una legge-contenitore che riunisce tutte le misure
occorrenti a dare attuazione ad atti comunitari e/o alle pronunce della Corte. A tal fine, entro il 31
gennaio di ogni anno il governo deve (o dovrebbe) presentare un disegno di legge, indicando le
misure che sono necessarie per adeguare l’ordinamento nazionale al diritto comunitario e cioè:
1) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli
obblighi comunitari;
2) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti oggetto di procedure di
infrazione avviate dalla Commissione dell’UE nei confronti della Repubblica italiana;
3) disposizioni di attuazione di atti comunitari, anche mediante delega legislativa al governo;
4) disposizioni che autorizzano il governo ad attuare in via regolamentare le direttive;
5) disposizioni necessarie a dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle
relazioni esterne dell’UE;
6) disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le
province autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione o
assicurare l’applicazione di atti comunitari nelle materie di legislazione concorrente (art.
117, 3° comma, Cost.);
7) disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province
autonome, conferiscono delega al governo per l’emanazione di decreti legislativi recanti
sanzioni penali per la violazione delle disposizioni comunitarie recepite dalle regioni e dalle
province autonome;
8) disposizioni emanate nell’esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza
delle regioni e delle province autonome (art. 117, 5° comma, Cost.).
Peraltro, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro per le politiche comunitarie possono
proporre al Consiglio dei Ministri l’adozione di misure urgenti, necessarie all’adeguamento agli
obblighi derivanti da atti normativi o sentenze dei giudici comunitari, nel caso in cui il termine per
l’attuazione da parte degli Stati membri sia anteriore alla data di presumibile entrata in vigore della
legge comunitaria.

13. L’EFFETTO DIRETTO DELLE NORME DELL’UNIONE

Occorre ora considerare il modo di essere e di operare degli atti comunitari all’interno dei sistemi
giuridici nazionali ed in particolare di quello italiano:
 sia sotto il profilo dell’incidenza sulle posizioni giuridiche individuali;
 sia sotto il profilo della loro posizione rispetto alle norme nazionali.
Al riguardo, rilevano i 2 caratteri fondamentali del diritto comunitario, che soprattutto ne
qualificano il rapporto con il diritto nazionale, e precisamente: l’effetto diretto e il primato.
L’effetto diretto (self-executing) risiede nell’idoneità della norma comunitaria a creare diritti e

50
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

obblighi direttamente e utilmente in capo ai singoli (non importa se persone fisiche o giuridiche),
cioè senza che lo Stato debba porre in essere una qualche procedura formale per riversare sui singoli
gli obblighi o i diritti prefigurati da norme «esterne» al sistema giuridico nazionale. In termini
pratici, l’effetto diretto si risolve nella possibilità:
- per il singolo  di far valere direttamente dinanzi al giudice nazionale la posizione giuridica
soggettiva vantata in forza della norma comunitaria;
- per l’amministrazione  di far sì che il singolo adempia agli obblighi sanciti dalla norma
comunitaria e/o goda direttamente e immediatamente dei diritti attribuiti da quella norma.
Non sono mancati i tentativi di distinguere la nozione di effetto diretto da quella di applicabilità
diretta.
 Effetto diretto: con tale espressione si indicherebbe l’idoneità della norma comunitaria a
creare in capo ai singoli diritti invocabili direttamente dinanzi al giudica nazionale;
 Applicabilità diretta: essa costituirebbe una qualità di quegli atti, in particolare i
regolamenti, le cui norme non richiedono, per produrre effetti, alcun provvedimento interno
ulteriore.
In linea generale, con l’applicabilità diretta si rileva una qualità della norma, con l’effetto diretto se
ne coglie l’incidenza sulla posizione giuridica del singolo, che non è necessariamente il destinatario
della norma.
Peraltro questa distinzione non trova alcun riscontro nella giurisprudenza, che utilizza
indifferentemente queste 2 espressioni per designare le norme comunitarie che creano a vantaggio
dei singoli posizioni giuridiche soggettive direttamente tutelabili in giudizio.
Dell’effetto diretto sono provviste tutte le disposizioni comunitarie che siano sufficientemente
chiare e precise e la cui applicazione non richieda l’emanazione di ulteriori atti comunitari o
nazionali, di esecuzione o comunque integrativi. Né è necessario, perché l’effetto si produca in capo
ai singoli, che la norma sia formalmente destinata ad essi: infatti, possono essere provviste di effetto
diretto anche le norme indirizzate agli Stati membri, ma la cui osservanza si collega comunque ad
un diritto del singolo. [Ad es., sono provviste di effetto diretto quelle norme del Trattato che hanno
scandito la realizzazione del mercato comune, imponendo agli Stati l’abolizione degli ostacoli alla
libera circolazione delle merci e delle persone, nonché dei capitali.]
Del resto, la giurisprudenza sull’effetto diretto è nata proprio con riguardo ad una norma – l’art. 30
TFUE – palesemente rivolta agli Stati membri, nella celebre sentenza Van Gend en Loos (5
febbraio 1963). La Corte, affermata l’esigenza di verificare l’idoneità della norma a produrre effetti
diretti alla luce non solo del tenore letterale ma anche della sua finalità, rilevò in primo luogo che il
Trattato non si è limitato alla creazione di obblighi reciproci degli Stati membri e che si è invece
inteso realizzare «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a
favore del quale gli Stati hanno rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani,
ordinamento riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini». Il
singolo, dunque, può far valere i diritti che derivano dall’ordinamento comunitario davanti al
giudice nazionale.
È il caso di specificare che la norma comunitaria provvista di effetto diretto obbliga alla sua
applicazione non soltanto il giudice ma tutti gli organi dell’amministrazione nazionale, da quelli
dello Stato centrale a quelli degli enti territoriali, quali la Regione e il Comune, anche in forza
dell’obbligo di leale collaborazione sancito dall’art. 4, n. 3, del TUE (già art. 10 del TCE).
La nozione di effetto diretto ha trovato ampio riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia e delle giurisdizioni nazionali. I requisiti previsti dall’art. 30 TFUE prevedono che la
norma sia chiara, precisa e suscettibile di applicazione immediata, dunque non condizionata ad
alcun provvedimento formale dell’autorità nazionale.
Tali caratteristiche possono essere presenti, oltre che nelle norme del Trattato, anzitutto nei
regolamenti. Ciò non vuol dire, però, che le disposizioni di un regolamento siano tutte provviste
dell’effetto diretto: infatti, un regolamento può ben contenere una o più disposizioni che impongono

51
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

o vietano un comportamento agli Stati membri, obbligandoli ad adottare le normative diverse e


ulteriori eventualmente necessarie per la sua attuazione.
Se, come di regola si verifica, il regolamento è applicabile immediatamente ed è provvisto di effetto
diretto, ogni ulteriore misura è superflua e non può in alcun modo condizionarne la piena efficacia.
Dell’effetto diretto sono provviste poi le decisioni:
 sia quelle rivolte ai singoli;
 sia all’occorrenza quelle rivolte ad uno Stato membro.
Come si è già detto per una norma del Trattato che obbliga gli Stati, così non è affatto escluso che
anche l’obbligo imposto da una decisione ad uno Stato membro, quando quest’ultimo non vi abbia
correttamente adempiuto, determini in capo ai singoli una situazione giuridica soggettiva da far
valere direttamente davanti al giudice nazionale.

L’effetto diretto delle direttive

Più complesso è il problema dell’effetto diretto quando si tratta delle disposizioni di una direttiva,
cui la giurisprudenza ha pure attribuito tale qualità. Se è vero che questo atto si rivolge ad uno o più
Stati membri, imponendo loro 1 risultato da realizzare nelle forme che sceglieranno, è vero anche
che nella prassi non mancano direttive che contengono disposizioni con le caratteristiche tipiche
delle norme provviste di effetto diretto, cioè precise e non condizionate per la loro applicazione ad
alcun intervento delle autorità nazionali. L’ipotesi, però, non va confusa con le direttive c.d.
dettagliate o particolareggiate, che di fatto impongono uno specifico comportamento per realizzare
certi obiettivi. In altri termini, non è che 1 direttiva sia provvista di effetto diretto in quanto
dettagliata o particolareggiata, poiché a quel fine non rileva il grado di dettaglio, bensì che la norma
NON sia condizionata per la sua applicazione ad alcun atto delle autorità nazionali; tant’è vero che
anche le disposizioni dettagliate di 1 regolamento, ma che non abbiano queste caratteristiche, non
sono provviste dell’effetto diretto.
Il problema si pone evidentemente solo per le ipotesi di mancata, non corretta o intempestiva
attuazione di tali direttive, nel termine e con i provvedimenti nazionali prescritti. Infatti, nell’ipotesi
di attuazione corretta e puntuale, il problema degli eventuali effetti diretti non si pone, dal momento
che i singoli ne saranno comunque investiti attraverso i provvedimenti nazionali di attuazione
(anche se in ogni caso la posizione giuridica dei singoli va già ancorata alla disposizione
comunitaria, che rappresenta la chiave di interpretazione delle norme nazionali).
In realtà, l’attribuzione dell’effetto diretto a determinate disposizioni contenute in direttive si fonda
sugli stessi argomenti utilizzati con riguardo a norme del Trattato rivolte agli Stati membri, ovvero:
1) un preciso obbligo dello Stato ha come contropartita un diritto del singolo;
2) l’art. 288 TFUE (già art. 249 TCE) non esclude che atti diversi dal regolamento producano
gli stessi effetti;
3) la portata dell’obbligazione imposta allo Stato sarebbe ridotta se i singoli non ne potessero
far valere l’efficacia e i giudici nazionali non potessero prenderla in considerazione.
Ne consegue che, ancora una volta sulla base del criterio che vuole la sostanza prevalere sulla
forma, occorre esaminare caso per caso «se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui
trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri e i singoli»:
ciò vuol dire che anche le disposizioni di una direttiva sono provviste di effetto diretto quando
hanno 1 contenuto precettivo sufficientemente chiaro e preciso, tale da non essere condizionato
all’emanazione di atti ulteriori.
Peraltro, non si può trascurare un elemento che emerge con sufficiente chiarezza dalla prassi e cioè
che l’effetto diretto, più che essere costruito come una qualità intrinseca della direttiva, risulta
collegato ad un intento sanzionatorio, qual è quello di ovviare alle negligenze e ai ritardi degli Stati
membri nell’adempimento degli obblighi loro imposti da una direttiva. In tale prospettiva, l’effetto
diretto è una vera e propria sanzione per gli Stati inadempienti, attribuendo al giudice nazionale (in

52
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

cooperazione con quello comunitario) il compito di realizzare lo scopo della direttiva in funzione
della tutela delle posizioni giuridiche individuali in ipotesi lese dal comportamento dello Stato.
Le disposizioni provviste di effetto diretto di una direttiva non tempestivamente o non
correttamente trasposta possono essere fatte valere dal singolo SOLO nei confronti dello Stato e non
anche di altri individui. Tale limitazione è comunemente definita con l’espressione effetto diretto
verticale, che vale a sottolineare l’invocabilità della direttiva da parte dei singoli solo nei confronti
dello Stato.
La giurisprudenza della Corte ha invece escluso l’effetto diretto orizzontale delle disposizioni di
una direttiva, cioè la possibilità per il singolo di far valere la norma anche nei confronti di soggetti
privati, siano essi persone fisiche o giuridiche. L’argomento utilizzato dalla giurisprudenza
comunitaria per limitare il riconoscimento dell’effetto diretto alla sua SOLA dimensione verticale è
fondato sulla formulazione testuale dell’art. 288 TFUE, in base alla quale la direttiva vincola solo
lo Stato o gli Stati cui è rivolta.
L’effetto diretto verticale è in via di principio SOLO unilaterale, nel senso che al singolo che fa
valere il proprio diritto lo Stato non può opporre la mancata trasposizione della direttiva di cui si è
reso inadempiente. Relativamente all’ipotesi di 1 direttiva che comporti un obbligo per il singolo, lo
Stato non potrebbe farlo valere prima della trasposizione, dato che la direttiva per sua natura non
può imporre obblighi in capo ai singoli indipendentemente da una legge interna che via abbia dato
corretta e tempestiva attuazione.
Quindi finché una direttiva non sia stata correttamente trasposta nel diritto nazionale lo Stato
membro inadempiente non potrebbe eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi
confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti ad esso riconosciuti dalle disposizioni di tale
direttiva. Infatti solo a partire dal momento della sua corretta trasposizione, il singolo sarà in grado
di conoscere adeguatamente e con la dovuta certezza la portata dei diritti che gli sono conferiti dalla
direttiva e dunque, in definitiva, nella condizione di poter valutare se ricorrere o meno al giudice.
Ed è appunto in questo senso che la Corte si era pronunciata in una 1° occasione, nel caso Emmott.
Infine va ricordato che dell’effetto diretto possono essere provviste anche le disposizioni contenute
in accordi stipulati dalla Comunità con Paesi terzi, sempre che, tenuto conto dell’oggetto e della
natura dell’accordo, dal testo, dall’oggetto e dalla natura della disposizione si possa rilevare una
situazione giuridica soggettiva chiara e precisa, senza alcuna subordinazione all’adozione di un atto
ulteriore. Lo stesso vale per le decisioni degli organi misti istituiti da tali accordi.
La Corte non ha mai voluto viceversa sottoscrivere la tesi dell’effetto diretto delle norme dell’OMC
(Organizzazione Mondiale del Commercio). La motivazione è incentrata:
 sulla natura e la portata dell’accordo, la cui osservanza sarebbe fondata più sul criterio del
negoziato che non sulla vincolatività delle norme come tali;
 d’altra parte, l’attribuzione dell’effetto diretto è esclusa in molti Paesi contraenti, con la
conseguenza che mancherebbe la pur necessaria reciprocità;
 infine, ed è questa la reale motivazione, il controllo giurisdizionale, anche del giudice
comunitario, priverebbe le istituzioni «politiche» della Comunità del margine di manovra di
cui dispongono le altre parti contraenti.
Anzitutto, la direttiva, se trasposta, è un parametro di legittimità dell’atto di trasposizione,
utilizzabile anche dal singolo in giudizio. In particolare è stato precisato che l’effetto utile della
direttiva sarebbe attenuato se al singolo fosse preclusa questa possibilità e al giudice nazionale di
considerarlo quale elemento del diritto comunitario in sede di accertamento del rispetto, da parte del
legislatore nazionale, dei limiti di discrezionalità fissati dalla direttiva. Inoltre, in una controversia
tra singoli relativa ad obblighi contrattuali, il giudice deve disapplicare la normativa nazionale
afflitta da un vizio sostanziale in contrasto con la direttiva.
Quando, viceversa, nonostante il termine di trasposizione sia trascorso, la direttiva non sia stata
trasposta, va detto che essa non potrà essere utilizzata in quanto tale dal singolo, se non nei
confronti dello Stato o di un ente pubblico oppure attraverso l’espediente, ove possibile, della

53
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

interpretazione conforme. Pertanto in questo contesto si tratta non di 1 parametro di legittimità, ma


di una chiave ermeneutica.
La direttiva non trasposta può viceversa costituire, in presenza di determinate condizioni ed in
particolare quando non lascia margini di discrezionalità, 1 parametro di legittimità del
comportamento di uno Stato, nonché di una legge o di un atto amministrativo, come tale utilizzabile
dalla Commissione e dalla Corte di giustizia nel contesto di una procedura d’infrazione. Ciò va
inteso nel senso pedagogico che lo Stato membro non può opporre la mancata trasposizione, e
dunque il proprio inadempimento, all’accertamento della violazione di 1 obbligo chiaro, preciso e
incondizionato sancito dalla direttiva a carico dello Stato stesso. La possibile conseguenza è
l’accertamento, oltre che della mancata trasposizione in spregio all’art. 288 TFUE (già art. 249
TCE), anche dell’illegittimità della normativa nazionale rispetto alla normativa comunitaria:
precisamente quella contenuta nella direttiva non trasposta. Pertanto, questa illegittimità mentre non
può incidere sulla posizione giuridica dei singoli, potrà eventualmente costituire il fondamento per
una loro azione di responsabilità patrimoniale nei confronti dello Stato inadempiente.
IMP.: In definitiva, una direttiva, anche se sprovvista di effetto diretto, alla scadenza del termine
stabilito e pur se non trasposta entro tale termine, entra sotto ogni profilo a far parte del diritto
dell’Unione e dunque condiziona la normativa nazionale che disciplina la stessa materia. Ne
consegue che, al di là dell’illecito costituito dalla mancata trasposizione entro il termine, quella
direttiva costituisce un parametro di legittimità della legge nazionale con essa contrastante,
rilevabile attraverso una procedura di infrazione. Il risultato dell’eventuale accertamento
dell’incompatibilità da parte della Corte di giustizia sarà l’inapplicabilità della legge nazionale da
parte del giudice e dell’amministrazione, ove non fosse possibile l’interpretazione conforme. Sul
piano interno, il contrasto di una legge nazionale con una direttiva priva di effetto diretto e non
trasposta nei termini stabiliti, potrà essere sottoposto alla Corte costituzionale perché verifichi
l’eventuale violazione dell’art. 11 e dell’art. 117, 1° comma, Cost.

14. L’OBBLIGO D’INTERPRETAZIONE CONFORME AL DIRITTO DELL’UNIONE

Le questioni sollevate dal mancato riconoscimento dell’effetto diretto orizzontale delle direttive
sono state in parte superate dalla giurisprudenza comunitaria sull’obbligo d’interpretazione
conforme, che impone a tutti gli organi nazionali, ma soprattutto ai giudici, d’interpretare il proprio
diritto interno in modo per quanto possibile compatibile con le prescrizioni del diritto comunitario.
Di conseguenza, i giudici nazionali, sebbene non possano immediatamente applicare in una
controversia tra privati le disposizioni di una direttiva senza il preventivo filtro dell’ordinamento
statale, a meno che la direttiva non sia l’espressione di 1 principio generale del diritto dell’Unione,
devono in ogni caso individuare, tra tutti i significati possibili della norma interna rilevante per il
caso di specie, quello che appaia maggiormente conforme all’oggetto e allo scopo della direttiva
disciplinante la materia. Nel far questo, essi devono utilizzare innanzitutto il metodo c.d.
teleologico, che consente di adattare per via ermeneutica il contenuto precettivo della disposizione
interna agli obiettivi prescritti dall’ordinamento comunitario, nonostante persista l’eventuale
inadempimento del legislatore nazionale.
In tal modo, si realizza 1 effetto orizzontale indiretto delle direttive, le cui norme vengono
immediatamente applicate dal giudice nazionale ai rapporti tra privati attraverso l’interpretazione
conforme del diritto interno, che è teleologicamente orientata alla realizzazione dei risultati
prescritta dalla singola direttiva e, + in generale, dall’intero ordinamento comunitario.
La Corte ha ampliato la portata dell’obbligo di interpretazione conforme, dapprima prescrivendo al
giudice nazionale d’interpretare il proprio diritto in modo conforme «a prescindere dal fatto che si
tratti di norme precedenti o successive alla direttiva», per poi dichiarare che detto obbligo riguarda
indistintamente tutto l’ordinamento interno.
Tuttavia, sono stati individuati opportuni limiti all’applicazione del principio in questione.
Innanzitutto, resta l’impossibilità di far derivare un obbligo del singolo dall’interpretazione del
54
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

diritto nazionale in modo conforme ad una direttiva non trasposta; nonché, a maggior ragione, di
determinare o aggravare la responsabilità penale dei singoli che la violano. Inoltre, occorre
considerare gli altri principi generali dell’ordinamento comunitario, in primis quelli della certezza
del diritto e della non retroattività, nonché la stessa portata dell’obbligo del giudice di
interpretazione conforme, che non può essere il fondamento di una interpretazione contra legem
delle norme nazionali.
Pertanto quando l’interpretazione conforme non sia possibile, rimane aperto il problema delle
direttive prive di effetto diretto e non ancora recepite. Infatti, occorre considerare che la direttiva
non trasposta (oppure recepita in modo non corretto) è pur sempre 1 valido atto comunitario, idoneo
a produrre effetti giuridici; dunque potrebbe costituire 1 parametro della compatibilità comunitaria
delle conferenti norme interne. Ciò ha trovato una significativa conferma nella giurisprudenza della
Corte di giustizia, da sempre ancorata alla testuale previsione dell’art. 288 del TFUE. Invero, questa
norma individua come destinatario della direttiva lo Stato membro unitariamente considerato,
dunque anche i giudici, che nell’ambito della loro competenza dovrebbero contribuire alla
realizzazione dell’effetto utile delle disposizioni contenute in una direttiva non trasposta oppure non
trasposta nei tempi e nei modi voluti dal Trattato. In particolare, la Corte ha correttamente rilevato
che la direttiva, pur se sprovvista di efficacia diretta, allo scadere del termine di recepimento negli
ordinamenti degli Stati membri ha «l’effetto di far entrare nell’ambito di applicazione del diritto
dell’Unione la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale che affronta una materia
disciplinata dalla stessa direttiva». In definitiva, l’alternativa alla disapplicazione della norma
interna incompatibile da parte del giudice nazionale comune è, nell’ordinamento italiano, il rinvio
alla Corte costituzionale, in quanto il contrasto tra la norma interna e la norma comunitaria
sprovvista di effetto diretto, insanabile in via interpretativa, è costruito come una questione di
legittimità costituzionale.
Resta in ogni caso inalterato il diritto del singolo ad ottenere il risarcimento del danno, derivante
dalla violazione del diritto comunitario da parte dello Stato, nel caso in cui il risultato prescritto
dalla direttiva non sia stato o non possa essere conseguito con mezzi giudiziari e sussistano le
ulteriori condizioni per l’esercizio del diritto.
Quanto, invece, ai limiti temporali, la giurisprudenza comunitaria appare orientata nel ritenere che
l’obbligo di interpretazione conforme vincoli i giudici nazionali SOLO dopo la scadenza del
termine di recepimento previsto dalla direttiva; ciò nonostante, pur in pendenza di questo termine,
essi devono evitare di fornire interpretazioni del proprio diritto interno tali da pregiudicare
gravemente il risultato imposto dalla direttiva e il suo effetto utile.
L’obbligo di interpretazione conforme o «adeguatrice» ha nel tempo acquisito spazi di applicazione
sempre più ampi.

15. IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UE SUL DIRITTO INTERNO

L’elemento dell’effetto diretto si collega strettamente e necessariamente ad un’altra qualità delle


norme comunitarie, che viene in rilievo nella relazione con gli ordinamenti giuridici nazionali e che
rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto internazionale generale: il primato o la
prevalenza o la preminenza sulle norme interne con esse contrastanti, sia precedenti che successive
e quale ne sia il rango, all’occorrenza anche costituzionale. La conseguenza pratica della prevalenza
della norma comunitaria è che la norma interna contrastante con quella comunitaria non può essere
applicata; o meglio deve essere disapplicata, di modo che il rapporto in questione resta disciplinato
dalla sola norma comunitaria. È costante l’affermazione della giurisprudenza che il giudice
nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di dare al singolo la tutela
che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia
anteriore che successiva a quella comunitaria. La giurisprudenza comunitaria più recente ha anche
affermato l’obbligo dell’amministrazione (ove consentito dall’ordinamento processuale nazionale
per le questioni interne) di non dare seguito ad un atto amministrativo la cui legittimità era stata
55
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

riconosciuta con sentenza passata in giudicato, ma la cui incompatibilità comunitaria era stata
successivamente stabilita dalla Corte di giustizia ad esito di un rinvio pregiudiziale. Infatti il
principio della preminenza del diritto comunitario impone non solo al giudice ma allo Stato membro
nel suo insieme, dunque a tutte le sue articolazioni, in particolare le amministrazioni, di dare pieno
effetto alla norma comunitaria e, in caso di conflitto di una norma nazionale con una norma
comunitaria provvista di effetto diretto, di disapplicarla.
La Corte di giustizia è pervenuta molto presto all’affermazione della prevalenza delle norme
comunitarie sulle norme nazionali, come riconoscimento complementare a quello relativo all’effetto
diretto. Non altrettanto si può dire di alcune giurisdizioni nazionali: è il caso, in particolare, della
Corte costituzionale Italiana.
Anzitutto, l’ipotesi che la norma comunitaria sia posteriore a quella nazionale va distinta
dall’ipotesi opposta:
 Se la norma comunitaria è posteriore a quella nazionale  il principio che da sempre
disciplina la successione del tempo, lex posterior derogat priori, già risolve il problema. Ed
infatti, la norma nazionale che confliggesse con una norma comunitaria successiva, è da
sempre considerata almeno superata o all’occorrenza abrogata, in ogni caso non + idonea a
regolare la fattispecie;
 Se la norma nazionale confliggente è successiva a quella comunitaria  sorgevano dei
problemi, in quanto il principio “lex posterior derogat priori” valeva in questo caso a favore
della norma nazionale. Ciò si spiega con la circostanza che il rango assegnato in origine alla
norma comunitaria era quello della legge ordinaria, tale essendo la legge di adattamento al
Trattato con la quale in Italia si è dato accesso anche a tutto il diritto comunitario derivato.
Al riguardo possiamo ricordare il fatto che nei primi anni ’60, la legge italiana di nazionalizzazione
dell’energia elettrica fu contestata davanti al giudice conciliatore di Milano sotto il duplice profilo
dell’incompatibilità con la Costituzione e con il diritto comunitario: di qui il rinvio pregiudiziale al
giudice costituzionale prima e alla Corte di giustizia poi.
La Corte costituzionale, sul rilievo che il rapporto era tra 1 legge ordinaria e 1 legge, quella di
adattamento al Trattato, avente lo stesso rango, affermò che andava applicato il principio vigente in
materia di successione delle leggi nel tempo e che pertanto la sintonia della legge di
nazionalizzazione con il Trattato non andava neppure verificata, dovendosi essa comunque
applicare in quanto successiva.
Investita a sua volta del problema, la Corte di giustizia nella sentenza Costa ha enunciato 1
posizione antitetica. Ribadendo i principi e la prospettiva già affermati nella pronuncia Van Gend en
Loos, in particolare che il Trattato ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato con quelli
nazionali, il giudice comunitario ne ha dedotto che gli Stati membri non potrebbero opporre al
Trattato leggi interne successive, senza con questo far venir meno la necessaria uniformità ed
efficacia del diritto comunitario in tutta la Comunità, nonché il senso della portata e degli effetti
attribuiti dall’art. 288 TFUE al regolamento. Dunque se ne è tratta la conseguenza che una
normativa nazionale incompatibile con il diritto comunitario è del tutto priva di efficacia anche se
successiva; il diritto comunitario prevale in virtù di una forza propria, secondo una visione monista
del rapporto tra norme comunitarie e diritto interno.
Dunque il contrasto tra Corte costituzionale e Corte di giustizia era in origine netto. In seguito, la
Corte costituzionale italiana si è progressivamente avvicinata al risultato affermato e costantemente
sostenuto dalla Corte di giustizia: quello dell’effetto diretto e del primato come elementi intrinseci
alle norme comunitarie, in quanto necessari a soddisfare l’esigenza fondamentale di uniformità di
applicazione e di efficacia all’interno della Comunità.
Infatti, se nella sentenza Costa la Corte costituzionale aveva perentoriamente affermato la
prevalenza della legge nazionale in quanto successiva, dopo 10 anni, con le sentenze Frontini e
Industrie Chimiche, pervenne ad un parziale «adattamento» alle ragioni del diritto comunitario.

56
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Nella sentenza Frontini, la Corte, sviluppando un’affermazione sulla separazione tra i 2 ordinamenti
contenuta già in una sentenza del 1965, riconosceva che ordinamento nazionale e ordinamento
comunitario sono autonomi e distinti, pur se coordinati attraverso una precisa articolazione di
competenze. Ne consegue che, dove c’è competenza comunitaria in base al Trattato, lo Stato deve
astenersi dal pregiudicare l’immediata applicazione dei regolamenti, ad es. con l’adozione di misure
interne anche solo riproduttive o di recezione. Inoltre la Corte costituzionale riconosceva la
peculiarità del fenomeno comunitario e soprattutto che i regolamenti sono «immediatamente
vincolanti per gli Stati e per i loro cittadini, senza la necessità di norme interne di adattamento o di
recezione».
Nella successiva sentenza Industrie Chimiche, il giudice costituzionale affrontò specificamente il
problema del conflitto tra 1 regolamento comunitario e 1 legge interna ad esso posteriore.
Considerandolo come 1 problema di pertinenza del legislatore rispetto a materie «occupate» anche
da norme comunitarie, la Corte costituzionale ne trasse la conseguenza che il conflitto potesse
essere risolto attraverso 1 giudizio di legittimità costituzionale. Dunque, il giudice nazionale, di
fronte ad un conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale posteriore, che si configurava come
conflitto di costituzionalità tra la legge di adattamento dei trattati e la norma costituzionale di
copertura (cioè l’art. 11 Cost.), doveva sottoporlo all’apprezzamento di legittimità della Corte
costituzionale; non avrebbe potuto, viceversa, egli stesso disapplicare la norma interna posteriore
sul presupposto della prevalenza del diritto comunitario.
È ben noto che questa soluzione affermata dalla Corte costituzionale non ebbe molti consensi, né
dalla giurisprudenza nazionale né dalla dottrina. Le critiche riguardavano sia la insoddisfacente
tutela dei singoli, sia l’appesantimento di tempi e procedure; e indicavano la maggiore praticità, in
definitiva, della strada della non applicazione già da parte del giudice ordinario della norma
nazionale incompatibile.
La reazione decisiva venne dalla Corte di giustizia nella ben nota sentenza Simmenthal. Un giudice
italiano chiedeva in via pregiudiziale alla Corte se l’obbligo di attivare previamente il giudizio di
costituzionalità perché potesse essere disapplicata la norma nazionale contrastante con il diritto
comunitario non fosse a sua volta incompatibile con il diritto comunitario, in particolare con
l’esigenza di dare applicazione immediata e uniforme in tutti i Paesi membri alle norme
comunitarie, anche a tutela delle posizioni giuridiche soggettive create in capo ai singoli. Il punto
focale del problema era nella circostanza che al giudice era preclusa dal suo diritto nazionale (come
espressamente interpretato dalla Corte costituzionale) la non applicazione della norma interna
(posteriore) contrastante con quella comunitaria.
La Corte di giustizia fornì una risposta molto chiara al quesito del giudice italiano. In particolare,
affermò:
 che l’effetto diretto e il primato delle norme comunitarie impongono che sia data loro
applicazione immediata;
 che le norme interne successive incompatibili non si formano validamente;
 che l’efficacia del sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto comunitario,
fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice nazionale, verrebbe ridotta se
quest’ultimo non avesse il diritto di fare immediata applicazione delle norme comunitarie;
 e che dunque è incompatibile una norma o una prassi nazionale che non consentisse al
giudice di non applicare subito la norma contrastante con il diritto comunitario e lo
costringesse ad attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale, così come invece preteso, nella pronuncia Industrie Chimiche
dalla nostra Corte costituzionale.
La nostra Corte Costituzionale è stata dunque chiamata a rimediare sulla posizione espressa nella
sua giurisprudenza precedente. Lo ha fatto nella sentenza Granital (n. 170 del 1984).

57
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Il punto di partenza è stato ancora una volta che i 2 ordinamenti sono distinti e autonomi anche se
coordinati, in quanto in forza dell’art. 11 Cost. sono state trasferite alle istituzioni comunitarie le
competenze relative a determinate materie.
L’autonomia tra i 2 ordinamenti e l’attribuzione a livello costituzionale di determinate competenze
normative all’Unione (art. 11 Cost.) comporta che:
 l’atto normativo posto in essere nell’esercizio di quelle competenze – e che abbia il requisito
della diretta efficacia – impedisce alla norma interna eventualmente contrastante (non
importa se interiore o successiva) di venire in rilievo ai fini della disciplina del rapporto;
 ne consegue che il contrasto tra le 2 norme, fa sì che la norma interna non sia suscettibile di
annullamento, ma sia semplicemente inapplicabile al rapporto controverso.
La 1° conseguenza è che, alla stregua della sentenza Granital, non ponendosi una questione di
costituzionalità ma di irrilevanza della norma interna, la norma comunitaria provvista di effetto
diretto va applicata direttamente dal giudice comune in luogo della norma nazionale confliggente, in
quanto è la norma comunitaria che disciplina la fattispecie: ad essa «sono attribuiti “forza e valore
di legge”, solo e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l’efficacia di cui è provvisto
nell’ordinamento di origine» (punto 4). Pertanto, in termini processuali, l’effetto diretto della norma
comunitaria rende inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma nazionale
confliggente.
La 2° conseguenza è che il potere del giudice comune di non applicare la norma interna opera
SOLO nell’ipotesi che la competenza normativa attribuita alla Comunità sia stata esercitata con 1
atto compiuto e immediatamente applicabile dal giudice interno. Viceversa, quando si tratta di
norma priva di efficacia diretta, la norma nazionale viene in rilievo per la disciplina del rapporto ed
è sottoposta al controllo di costituzionalità.
La Corte Costituzionale ha lasciato, tuttavia, che non si sottraggano alla sua verifica 2 ipotesi, e
precisamente:
1. quella di un eventuale conflitto della norma comunitaria con i principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana;
2. e quella di norme interne che si assumano dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante
osservanza del Trattato o il nucleo essenziale dei suoi principi.
È il caso di rilevare che nel giudizio principale la Corte costituzionale, in assenza del giudice a quo,
è chiamata direttamente a risolvere il contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria,
indipendentemente dall’efficacia della seconda, se diretta o meno; e che pertanto l’esito del
contrasto non potrà essere la disapplicazione della norma interna, ma il suo annullamento.
In una successiva occasione di giudizio in via principale tra lo Stato ed una Regione, la Corte
costituzionale ha sul punto precisato che, nell’ipotesi di contrasto con una norma comunitaria
provvista di effetto diretto, la soluzione dell’inammissibilità, pur se in astratto possibile in quanto
anche l’amministrazione è tenuta alla disapplicazione della norma nazionale in contrasto con quella
comunitaria, potrebbe generare gravi incertezze applicative e dunque una evidente lesione «del
principio della certezza e della chiarezza normativa».
La sentenza Granital ha rappresentato una svolta nella riflessione sul complesso rapporto tra norme
interne e norme comunitarie, nella misura in cui ha inteso sintonizzare tra loro le prospettive del
giudice comunitario e di quello nazionale. Qualche divergenza di fondo è rimasta, ma la prevalenza
del diritto comunitario (e immediatamente quella delle norme provviste di effetto diretto) è stata
affermata in modo chiaro, invocando proprio quelle esigenze che + volte la Corte di giustizia aveva
sottolineato: in particolare, l’esigenza di uniforme applicazione del diritto comunitario in tutti i
Paesi dell’Unione, fin dal momento della sua entrata in vigore.
La posizione della Corte Costituzionale italiana sul tema dell’ambito di efficacia del diritto
comunitario all’interno del nostro ordinamento è stata ulteriormente sviluppata e precisata in
successive pronunce, e precisamente:
1) si è rilevato il ruolo della Corte di giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione del

58
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

diritto comunitario. In altri termini, si è rilevata l’immediata applicabilità, in luogo delle


norme nazionali confliggenti, delle norme comunitarie così come interpretate nelle sentenze
della Corte pronunciate a seguito di rinvio pregiudiziale, nonché all’esito di una procedura
d’infrazione;
2) è stata poi riconosciuta l’efficacia e l’applicabilità immediata, e di conseguenza la
preminenza in caso di conflitto, di quelle disposizioni di direttive che rispondano ai requisiti
individuati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ai fini dell’attribuzione dell’effetto
diretto alle norme comunitarie, indipendentemente dalla qualificazione formale dell’atto.
3) Inoltre, sul presupposto che la partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea
e gli impegni che ne derivano devono coordinarsi con «la propria struttura costituzionale»,
la Corte ha confermato la possibilità che norme comunitarie determinino deroghe al riparto
di competenze tra Stato e Regioni, se esplicite e se imposte da esigenze organizzative
dell’Unione.
Infine resta da ricordare la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha limitato l’ammissibilità
del referendum abrogativo delle norme che si collegano ad impegni comunitari, escludendola prima
in relazione alla legge di adattamento e poi anche in relazione a tutte quelle leggi che, direttamente
o indirettamente, segnano l’adempimento del Paese ad obblighi comunitari o semplicemente
entrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario. È questo il caso, ad es., delle pronunce di
inammissibilità del referendum sull’ingresso degli extracomunitari e di quelli sul lavoro a tempo
indeterminato e a tempo parziale.
Quanto alla Corte di giustizia, la sua posizione è stata riaffermata in numerose occasioni. Tra quelle
+ significative va annoverata sicuramente la sentenza Factortame, che riproponeva il quesito (già
risolto nella pronuncia Simmenthal) se, in assenza di un potere del giudice nazionale di dare
applicazione immediata al diritto comunitario, tale potere debba poter essere esercitato in forza
dello stesso diritto comunitario. Nella specie, si trattava del potere di sospendere in via cautelare
l’applicazione di 1 legge inglese che precludeva l’iscrizione nel registro navale a soggetti privi di
determinati requisiti di nazionalità e residenza, potere che un solido principio del diritto interno
negava al giudice finché il contrasto tra legge interna e norma comunitaria fosse solo sospettato ma
non ancora accertato. La Corte ha puntualmente affermato che 1 norma interna che sia di ostacolo
alla protezione giurisdizionale effettiva (e dunque immediata) di un diritto che in singolo vanta in
forza del diritto comunitario deve essere disapplicata dal giudice nazionale; né ha importanza che la
norma interna incompatibile sia anteriore o posteriore a quella comunitaria.
Negli ultimi anni, la Corte si è + volte occupata del rapporto tra il diritto dell’Unione e le sentenze
nazionali, con esso contrastanti, passate in giudicato; e pertanto a dover operare un bilanciamento
tra certezza del diritto e del primato del diritto comunitario. La sentenza Kuhne, nel pieno rispetto
dell’autonomia delle norme processuali nazionali, si è limitata a ribadire il principio di equivalenza
ed effettività dei rimedi giurisdizionali interni, che gli Stati membri devono utilizzare anche quando
si tratta di violazioni del diritto comunitario. In quel caso, pertanto, solo se vi fosse stato un
rimedio, in base al diritto nazionale (nella specie olandese), per rimettere in discussione un atto
amministrativo confermato da un giudicato, tale rimedio doveva poter essere attivato anche in caso
di successivo accertamento del contrasto dell’atto con il diritto comunitario. Nessun timore, in
definitiva, di deviazione dal principio del giudicato se ciò non sia previsto dal diritto nazionale.
Lo stesso si deve dire del caso Lucchini, nel quale la Corte di giustizia si è limitata, invero senza
alternative ragionevoli, a far prevalere un atto comunitario divenuto definitivo e provvisto di effetto
diretto su un successivo giudicato nazionale, peraltro nel merito a dir poco inquietante. Il tema
giusti era il primato, pertanto, esattamente individuato dal Consiglio di Stato nell’ordinanza di
rinvio pregiudiziale; e su quel piano la Corte non aveva alternativa all’affermazione del primato del
giudicato comunitario su quello nazionale.

16. RILIEVI SULLA NATURA DEL RAPPORTO TRA DIRITTO COMUNITARIO E


DIRITTO ITALIANO
59
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Raggiunto il risultato pratico di far prevalere la norma comunitaria sulla norma nazionale
incompatibile, resta la divergenza di fondo sulla ricostruzione della natura del rapporto tra diritto
comunitario e diritto interno. Tale divergenza è in definitiva una specificazione di quella tra
monismo e dualismo in ordine al rapporto tra diritto internazionale e diritto interno.
Va anzitutto considerato che l’UE (e già la Comunità) ha degli aspetti di tale originalità da
costringere spesso ad un uso diverso di alcune categorie giuridiche tradizionali. L’approccio al
rapporto tra sistema giuridico dell’Unione e sistemi nazionali, pertanto, non può che essere diverso
rispetto al altri fenomeni di cooperazione organizzata tra Stati sovrani.
Fatta questa doverosa premessa metodologica, va anche chiarito che malgrado la diversità del
fenomeno comunitario:
 la dimensione internazionale resta ancora un dato ineliminabile;
 sono sempre gli strumenti del negoziato e dell’accordo internazionale a segnare le tappe
fondamentali nella ripartizione delle competenze tra Stati e istituzioni dell’Unione;
 è ancora per mezzo degli strumenti costituzionali di adattamento e di attuazione degli Stati
membri, per quanto rapidi e automatici, che viene instaurato e regolato il rapporto tra il
diritto dell’Unione e il diritto interno.
È escluso, invece, che una volta attribuita una competenza all’Unione, gli Stati membri ne possano
verificare il corretto esercizio al di fuori dei meccanismi da essi all’uopo predisposti nei Trattati.
In definitiva, la ricostruzione dell’efficacia del diritto dell’Unione all’interno degli ordinamenti
giuridici nazionali come il frutto di una forza propria del diritto comunitario stesso è almeno
opinabile sul piano della teoria giuridica generale. Peraltro, non è una rappresentazione necessaria.
Invero, che la norma comunitaria produca i suoi effetti in virtù di una forza propria oppure perché
tale forza l’hanno ad essa conferita e la continuano a conferire in permanenza determinate norme o
meccanismi di adattamento nazionali, non fa molta differenza. L’importante è che quella norma
produca i suoi effetti nel modo e nei tempi da essa voluti, senza che l’uno e gli altri siano di volta in
volta condizionati ad un ulteriore formale intervento di questo o quell’altro organo interno, se non
quando la stessa norma comunitaria lo richiesta.
In tal modo:
 la norma provvista di effetto diretto deve produrre e produce i suoi effetti, anche in capo ai
singoli, fin dal momento della sua piena vigenza e senza che norme o procedimenti
nazionali possano frapporvi ostacoli;
 la norma sprovvista di effetto diretto, viceversa, impone essa stessa agli Stati membri di
creare, modificare o abrogare le norme interne, secondo le necessità richieste per la sua
osservanza. In difetto, vi sarà una violazione di obblighi da parte dello Stato, non certo la
nullità della norma nazionale contrastante.
Il sistema comunitario, d’altra parte, prevede:
 sia la non applicazione della norma interna contraria a quella comunitaria provvista di
effetto diretto;
 sia l’obbligo dello Stato di prendere le misure necessarie, quando la norma comunitaria non
sia provvista dell’effetto diretto.
La stessa Corte di giustizia, peraltro, ha precisato, sia pure con motivazione rapida, che dalla
giurisprudenza Simmenthal non è consentito dedurre l’inesistenza della norma nazionale posteriore
incompatibile con il diritto comunitario; ma che viceversa il giudice nazionale è tenuto a
disapplicarla.
Se questa è la realtà, allora non c’è spazio, per una qualificazione in chiave di forza propria del
diritto comunitario con riguardo ai rapporti con il diritto interno e sotto il profilo strettamente
normativo; qualificazione che mal si concilia almeno con questi elementi:
 qualunque integrazione e/o modificazione dei Trattati richiede normali procedure
costituzionali di ratifica e di adattamento da parte degli Stati membri;
60
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 le competenze comunitarie sono quelle attribuite dagli Stati membri con i Trattati e le
successive modificazioni e integrazioni e non altre, così come le modalità e gli effetti del
loro esercizio, ivi compreso l’effetto diretto di alcuni atti ed in presenza di certe condizioni;
analogamente, la giurisprudenza al riguardo è il risultato dell’attribuzione alla Corte di
giustizia, con l’art. 19 TUE, del compito di assicurare «il rispetto del diritto
nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati», secondo le competenze specifiche e le
procedure prefigurate dalle conferenti disposizioni degli stessi Trattati;
 l’operatività delle norme comunitarie sprovviste di effetto diretto è condizionata nei tempi e
nei modi dai meccanismi di adeguamento, trasposizione ed attuazione predisposti dai sistemi
costituzionali interni;
 la norma interna in contrasto con una norma comunitaria non è, né potrebbe o dovrebbe
essere, nulla, ma deve, quando sia necessario, essere semmai abrogata o modificata o
sostituita dagli Stati; la non applicazione o disapplicazione è un’altra cosa e comunque
rileva solo in caso di contrasto con una norma comunitaria provvista dell’effetto diretto,
mentre nel caso di contrasto con una norma comunitaria priva di effetto diretto «la regola
nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia», tanto da poter essere
rimossa all’occorrenza attraverso un procedimento di controllo di legittimità costituzionale.
Relativamente, poi, al fondamento giuridico del primato delle norme dell’UE sulle norme nazionali,
la Corte costituzionale lo ha individuato nell’art. 11 Cost., fin dalle sentenze Frontini e Industrie
Chimiche degli anni ’70. Lo stesso fondamento riguarda il rapporto con le norme dell’Unione in
generale, non importa se provviste o meno di effetto diretto: la sentenza Granital ha solo indicato
un diverso percorso per l’accertamento del contrasto tra norma interna e norma dell’Unione:
 giudice comune o giudice costituzionale;
 e un conseguente diverso rimedio per la sua rimozione: disapplicazione o annullamento.
Resta, invece, inalterato il rapporto con le norme internazionali convenzionali, da sempre ritenuto
estraneo all’art. 10, 1° comma, e pertanto privo di un’espressa collocazione nella Carta.

Il nuovo articolo 117 Cost.

Con la riforma del titolo V della Parte II della nostra Costituzione non è mutato nella sostanza il
quadro dei rapporti del nostro ordinamento con il diritto dell’UE. In particolare, il nuovo art. 117, 1°
comma, della Costituzione sancisce il principio che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto:
 della Costituzione,
 nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
All’art. 11 si è aggiunta la formulazione espressa, nell’art. 117, dell’obbligo di rispettare i vincoli
posti dall’ordinamento comunitario. Ciò comporta un riconoscimento esplicito del primato delle
norme comunitarie, ma rileva a stretto rigore soltanto per le norme sprovviste di effetto diretto,
rispetto alle quali la norma nazionale contrastante conserva la sua rilevanza e dunque è sottoposta
allo scrutinio di costituzionalità: ieri, rispetto al parametro dell’art. 11, oggi anche rispetto al
parametro dell’art. 117, 1° comma, Cost.
In definitiva, l’art. 117, 1° comma, Cost. non ha avuto l’effetto di rendere superfluo l’art. 11, che
anzi resta il «sicuro fondamento» del rapporto tra diritto interno e diritto dell’UE. Per converso,
l’art. 117, 1° comma, ha colmato la lacuna relativamente alle norme internazionali convenzionali,
sancendone espressamente il primato sulle norme interne, anche successive.
Né risulta modificato il rapporto tra norme comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il
principio della prevalenza della norma dell’Unione incontra il solo limite dei principi strutturali del
nostro sistema e dei diritti fondamentali della persona, limita di fatto ad oggi rimasto sulla carta,
risolvendosi in una ipotesi di scuola. In proposito, va anche considerato che la novità dell’art. 117,
1° comma, se riferita in tutto o in parte (norme prive di effetto diretto) al diritto dell’Unione ad
61
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

esclusione dell’art. 11, potrebbe portare a ritenere che il confronto sarebbe non + limitato ai principi
strutturali dell’ordinamento e ai diritti fondamentali, ma a tutte le norme conferenti della
Costituzione, al pari di quanto si ritiene generalmente per le norme internazionali convenzionali; ciò
che prima della novella costituzionale e sul presupposto che la copertura costituzionale del rapporto
con il diritto comunitario fosse l’art. 11, non era stato neppure ipotizzato.
Infine merita qualche cenno il rapporto tra sistema giuridico dell’Unione e articolazione regionale
dello Stato.
Anzitutto, continua ad essere alquanto rara l’ipotesi che una norma comunitaria incida sul riparto di
attribuzioni tra Stato e Regioni, che pure la nostra Corte costituzionale ha escluso dalla riserva dei
principi strutturali del nostro sistema costituzionale. Inoltre:
 mentre rientrano nella competenza esclusiva dello Stato la politica estera, dei rapporti
internazionali e dei «rapporti dello Stato con l’UE» (art. 117, 2° comma, lett. a, Cost.);
 è viceversa materia di legislazione concorrente quella dei «rapporti internazionali e con l’UE
delle Regioni» (art. 117, 2° comma, Cost.).
In relazione alla vicenda comunitaria, si può anzitutto rilevare che, in base all’art. 117, norma sul
riparto interno di attribuzioni, le Regioni e le Province autonome, nelle materie di loro competenza,
partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’Unione e provvedono
all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione secondo le regole
stabilite dalla legge dello Stato. È evidente che tale disposizione:
 non solo conferma la potestà regionale di attuazione delle direttive comunitarie;
 ma conferma la tendenza ad attribuire alle Regioni un ruolo sempre maggiore rispetto al
passato nel rapporto con l’UE.
Ciò implica che anche sul versante dell’osservanza degli obblighi comunitari le Regioni abbiano
oggi una responsabilità più evidente e sia pure limitata dal contesto normativo nazionale sul
riparto di attribuzioni.
Sul versante comunitario, poi, nulla risulta ad oggi mutato nell’approccio alle articolazioni interne
degli Stati membri, in particolare quanto alle competenze legislative che direttamente o
indirettamente incidono sull’attuazione delle norme comunitarie. L’interlocutore delle istituzioni
comunitarie è lo Stato membro nella sua unità, sua è la responsabilità della puntuale e corretta
osservanza degli obblighi sanciti dal Trattato o da atti vincolanti delle istituzioni. La conseguenza è
che la violazione da parte delle Regioni o di altri enti locali di norme comunitarie resta imputabile
allo Stato e questi soltanto ne risponderà alla Comunità. In definitiva, per il sistema comunitario,
l’articolazione delle competenze all’interno di uno Stato membro, anche di competenze «esterne», è
di sicuro nella piena libertà dello stesso Stato membro; al quale, tuttavia, non è consentito di
invocare tale libertà per giustificare un non corretto o un non puntuale adempimento degli obblighi
comunitari.

CAPITOLO 3
LA TUTELA GIURISDIZIONALE

1. LA TUTELA GIURISDIZIONALE NEL SISTEMA DELL’UNIONE

La complessità del sistema giuridico dell’UE ed in particolare l’origine diversa (internazionale,


comunitaria, nazionale) delle norme giuridiche che lo compongono, richiedeva uno sforzo di
sapiente ingegneria giuridica per gestire nel migliore dei modi la relazione tra quelle norme in
funzione della corretta disciplina dei rapporti giuridici rilevanti. Ed infatti la specificità del sistema
dell’Unione rispetto ad altre esperienze di cooperazione organizzata tra Stati risiede nel
meccanismo di tutela giurisdizionale che è stato realizzato per gestire il rapporto tra norme e

62
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

ordinamenti di natura e origine diversa.


Si tratta, infatti, di un meccanismo di tutela che non ha precedenti in altre esperienze:
 sia sotto il profilo funzionale e dell’articolazione del sistema complessivamente
considerato;
 sia sotto il profilo degli effetti che il suo funzionamento produce sulla posizione giuridica
soggettiva dei «destinatari» del sistema stesso: le istituzioni dell’Unione, gli Stati membri e i
singoli, persone fisiche o giuridiche.
Non a caso il sistema di controllo giurisdizionale è stato l’elemento fondamentale di quel modo di
essere della Comunità europea che è stato rappresentato con l’espressione «Comunità di diritto».
Questa espressione vuole sostanzialmente ammonire che al controllo giurisdizionale sul
funzionamento del sistema nel suo insieme, non devono e non possono sottrarsi né le istituzioni, né
gli Stati membri, né i singoli. Alla realizzazione di questo risultato ha contribuito non poco il
giudice dell’UE, che ha utilizzato fino in fondo le potenzialità dei Trattati e soprattutto ha garantito
con forza e attenzione sempre maggiori la puntuale tutela delle posizioni giuridiche su cui incide il
diritto comunitario o che sono da esso create, in particolare le posizioni giuridiche soggettive del
singolo; e ciò indipendentemente da una sintonia con il diritto nazionale, anzi talvolta indicando
espressamente i mezzi di tutela adeguati quando il sistema nazionale non li prevedesse.
Al riguardo viene in rilievo il ruolo che la Corte di giustizia, anche in cooperazione con il giudice
nazionale, ha svolto:
 da un lato, nella puntualizzazione di diritti e obblighi facenti capo agli Stati membri, alle
istituzioni dell’Unione e ai singoli;
 dall’altro lato, nel perfezionamento dei meccanismi posti a tutela di quei diritti e a verifica
del puntuale adempimento di quegli obblighi.
In definitiva, il sistema di tutela giurisdizionale risulta essere il vero e generale strumento per
rendere effettivo il sistema giuridico nel suo complesso e per realizzare la Comunità di diritto. Ed in
proposito è significativo che il Trattato di Lisbona abbia richiamato espressamente il principio della
tutela giurisdizionale effettiva, ribadendo l’obbligo degli Stati membri di stabilire i rimedi necessari
per assicurarne l’osservanza (art. 19, 2° comma, TUE).
Il Trattato di Lisbona, invero, ha mantenuto inalterato il previgente sistema giurisdizionale
comunitario, estendendolo anche al settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia
penale, con la sola differenza che, dal punto di vista terminologico, non si parla + di tutela
giurisdizionale comunitaria, ma dell’Unione.
Tale sistema di tutela giurisdizionale si articola su 2 piani procedurali distinti, ma funzionalmente
collegati, e precisamente:
1. il 1° è quello del controllo diretto della Corte di Giustizia e/o del Tribunale, ai quali si
affiancano i c.d. tribunali specializzati; controllo che, attivato dalle istituzioni, dagli Stati
membri oppure dai singoli, si esaurisce con la pronuncia del giudice dell’Unione;
2. il 2° è quello della procedura pregiudiziale, fondata sulla cooperazione tra giudice nazionale
e giudice dell’Unione, attraverso il rinvio pregiudiziale dal primo al secondo, che si risolve
in un controllo indiretto della Corte di Giustizia, spettando al giudice nazionale la
decisione della causa.
N.B.: È il caso di aggiungere che l’art. 256 TFUE prevede che tale competenza si possa
attribuire anche al Tribunale in materie specifiche, determinate dallo Statuto della Corte di
giustizia. Al momento, rimane però inalterata la competenza esclusiva della Corte in materia
pregiudiziale e nessuna iniziativa è stata presa per dare concreta attuazione a quanto già
prefigurato dal Trattato di Nizza.
Inoltre sotto il profilo funzionale, il sistema di controllo giurisdizionale investe:
 da una parte  la legittimità degli atti dell’Unione;
 e dall’altra parte  la compatibilità di norme (leggi, all’occorrenza norme costituzionali,
atti amministrativi) e prassi nazionali con il diritto dell’Unione.
63
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

2. IL CONTROLLO DIRETTO SULLA LEGITTIMITÀ DI ATTI E COMPORTAMENTI


DELLE ISTITUZIONI DELL’UNIONE. L’AZIONE DI ANNULLAMENTO

Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti dell’Unione è attribuito alla competenza
esclusiva della Corte di giustizia dell’UE, la quale comprende:
1. la Corte di giustizia;
2. il Tribunale;
3. e i tribunali specializzati.
Il controllo si realizza attraverso + procedure e con effetti diversi, ovvero:
 l’azione di annullamento;
 l’azione in carenza;
 l’eccezione incidentale d’invalidità;
 l’azione di danni da responsabilità extracontrattuale dell’Unione;
 il contenzioso in materia di personale.
Il Tribunale è competente a conoscere dei ricorsi individuali, dei ricorsi diretti presentati dagli Stati
membri, ad eccezione di quelli che saranno attribuiti ai tribunali specializzati e di quelli ancora
riservati dallo Statuto alla Corte di giustizia, e dei ricorsi proposti contro le decisioni dei tribunali
specializzati (art. 256 TFUE).
In conformità a queste previsioni introdotte dal Trattato di Nizza (e successivamente confermate dal
Trattato di Lisbona), l’art. 51 dello Statuto ha devoluto alla cognizione della Corte di giustizia
soltanto i ricorsi di annullamento e in carenza promossi dalle istituzioni o dagli Stati membri contro
gli atti o le inattività del PE e/o del Consiglio (ad eccezione di quelli in materia di aiuti di Stato, di
dumping e di competenze di esecuzione), nonché contro gli atti e le inattività della Commissione in
tema di cooperazioni rafforzate (art. 311, par. 1, TFUE).
In sostanza, il Tribunale è ora competente a conoscere:
1) dei ricorsi diretti proposti dalle persone fisiche o giuridiche;
2) dei ricorsi proposti dagli Stati membri contro la Commissione (esclusi quelli di cui all’art.
311, par. 1, TFUE);
3) dei ricorsi proposti dagli Stati membri contro il Consiglio in relazione agli atti adottati
nell’ambito degli aiuti di Stato, alle misure di difesa commerciale («dumping») e agli atti
mediante i quali il Consiglio esercita competenze d’esecuzione;
4) dei ricorsi diretti ad ottenere il risarcimento dei danni causati dalle istituzioni dell’UE o dai
loro dipendenti;
5) dei ricorsi fondati su contratti stipulati dall’UE, che prevedono espressamente la competenza
del Tribunale;
6) dei ricorsi in materia di marchio comunitario;
7) delle impugnazioni, limitate alle questioni di diritto, contro le decisioni dei tribunali
specializzati;
8) dei ricorsi diretti contro le decisioni dell’Ufficio comunitario delle varietà vegetali e contro
quelle dell’Agenzia europea per i prodotti chimici.
Le sentenze e le ordinanze del Tribunale sono impugnabili davanti alla Corte di giustizia per i SOLI
motivi di diritto. I tribunali specializzati affiancati al Tribunale sono incaricati di conoscere in 1°
grado di alcune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche, anche se al momento è stato
istituito soltanto il Tribunale della funzione pubblica.
L’azione di annullamento è regolata dall’art. 263 TFUE (già art. 230 CE) e consiste
nell’impugnazione mediante ricorso di un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione che si pretende
viziato e pregiudizievole. Immediato è, dunque, il collegamento tra la funzione di controllo del
giudice dell’Unione e quella propria di un giudice amministrativo.
Atti impugnabili sono:
64
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 gli atti legislativi;


 gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE che non siano raccomandazioni o
pareri;
 gli atti del PE e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei
terzi.
L’espressa esclusione dal controllo di legittimità delle raccomandazioni e dei pareri sta a significare
che sono impugnabili unicamente gli atti vincolanti; dunque, in via di principio, solo i regolamenti,
le direttive e le decisioni. La giurisprudenza della Corte di Giustizia, ispirata al criterio di
privilegiare la sostanza rispetto alla forma, ha progressivamente precisato e ampliato la categoria
degli atti impugnabili, fondandosi proprio sull’esigenza di una protezione giurisdizionale completa
ed effettiva.
Se ne ha una conferma anche in relazione alla natura dell’atto. Infatti la Corte ha precisato che
sono impugnabili tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle istituzioni dell’Unione che
producano o mirino a produrre effetti vincolanti per i destinatari. Ciò vuol dire che,
indipendentemente dal nomen iuris attribuito all’atto dall’istituzione che lo ha posto in essere e
dalle modalità di comunicazione ai destinatari, la sua efficacia vincolante e dunque l’ammissibilità
della sua impugnazione sono il risultato di un apprezzamento fondato sul contenuto sostanziale
dell’atto.
Impugnabili sono gli atti definitivi. Sotto tale profilo, non sono impugnabili gli atti preparatori in
senso proprio, in quanto non modificano la posizione giuridica del destinatario e salvo a farne
valere i vizi in sede di impugnazione dei relativi atti definitivi (ad es. la comunicazione della
Commissione alle imprese che segna l’apertura di un’inchiesta nei loro confronti in materia di
concorrenza).
Viceversa sono impugnabili:
 l’atto con cui la Commissione comunica di aver archiviato definitivamente una denuncia di
violazione delle norme di concorrenza; e così anche l’apertura di una procedura di controllo
della compatibilità di un aiuto statale. Infatti, in materia di aiuti anche il semplice atto di
avvio della procedura di verifica da parte della Commissione comporta per lo Stato una
conseguenza rilevante e cioè che in attesa della decisione definitiva esso non può erogare
l’aiuto; quindi l’atto produce effetti sulla posizione giuridica del destinatario e per ciò stesso
non può che essere soggetto ad impugnazione davanti alla Corte;
 gli atti che autorizzano o approvano la conclusione di un accordo, anche quando ciò
avvenga mediante una deliberazione che resta consegnata solo in un processo verbale.
Legittimati ad impugnare gli atti dell’Unione sono:
 anzitutto e comunque gli Stati membri, anche rispetto ad atti destinati ad altri Stati membri
o a individui. La legittimazione è attribuita unicamente allo Stato e non anche alle sue
eventuali articolazioni decentrate, quali le regioni o i comuni che possono impugnare un atto
dell’Unione SOILO in quanto persone giuridiche alle condizioni di cui all’art. 263, 4°
comma, e dinanzi al Tribunale;
 il Consiglio, la Commissione e il Parlamento (quest’ultimo in modo pieno soltanto a
partire dal Trattato di Nizza).
N.B.: Viceversa la Corte dei Conti, la BCE e il Comitato delle Regioni (quest’ultimo solo a
partire dal Trattato di Lisbona) sono legittimati ad adire la Corte di giustizia SOLO «per
salvaguardare le proprie prerogative» (art. 263, 3° comma).
Inoltre il Trattato di Maastricht ha introdotto una specifica ipotesi di azione di annullamento per
violazione del diritto, su ricorso del governatore della Banca centrale di uno Stato membro oppure
del Consiglio direttivo della BCE, relativamente alla rimozione dello stesso governatore. Questo
sembra essere l’unico caso in cui un atto nazionale può essere impugnato direttamente dinanzi alla
Corte di giustizia, nonché l’unico caso in cui lo stesso atto può essere impugnato anche da un
organo dell’Unione, quale il Consiglio direttivo della banca.
65
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 i singoli, persone fisiche o giuridiche, in 1° grado dinanzi al Tribunale e in 2° grado, per


motivi di diritto, dinanzi alla Corte. La nozione di persona giuridica, che è nozione
comunitaria, è molto ampia e prescinde dalla natura pubblica o privata dell’entità in
questione, così come dalla nazionalità del ricorrente: infatti, anche uno Stato terzo, ove ne
sussistano le altre condizioni prescritte, può agire ai sensi dell’art. 263. La stessa nozione,
inoltre, è stata interpretata al di là delle qualificazioni proprie di ogni diritto nazionale, fino a
dare rilievo, ai fini dell’impugnazione, all’«autonomia necessaria per agire come entità
responsabile nei rapporti giuridici».
N.B.: Tuttavia, il singolo non è legittimato ad impugnare tutti gli atti; infatti può impugnare:
1. in primo luogo, le decisioni a lui specificamente indirizzate: ad es. l’irrogazione di
un’ammenda o il rifiuto ad una violazione delle regole di concorrenza;
2. in secondo luogo, gli atti di cui non sia il formale destinatario e persino regolamenti,
alla condizione, però, che tali atti lo riguardino direttamente e individualmente, vale
a dire che sia identificato o identificabile quale destinatario sostanziale dell’atto e
che via sia un nesso di causalità tra la situazione individuale e la misura adottata:
cioè occorre che l’atto sia stato adottato tenendo specificamente conto della
situazione del o dei ricorrenti. Lo scopo è di evitare che utilizzando la forma del
regolamento le istituzioni dell’Unione adottino atti idonei ad incidere direttamente e
individualmente sulla posizione dei singoli, senza tuttavia garantire loro un adeguato
rimedio giurisdizionale. Al contrario, non è impugnabile un regolamento, che pure
consenta di determinare con maggiore o minore precisione il numero o persino
l’identità dei soggetti cui si applica in un dato momento, fino a quando risulti
pacifico che l’applicazione si compie in forza di una situazione obiettiva di fatto o di
diritto, definita dall’atto stesso in relazione alle sue finalità.
In particolare, quanto alla circostanza che il ricorrente deve essere direttamente riguardato, dalla
giurisprudenza in materia si evince che ciò si verifica quando NON è richiesta alcuna misura di
esecuzione per l’applicazione dell’atto di cui si tratta, né nazionale, né dell’Unione; quando, in altri
termini, l’atto dell’Unione incida direttamente sulla posizione giuridica del singolo, senza lasciare ai
destinatari alcun potere discrezionale e senza che ai fini della sua applicazione sia necessaria
un’ulteriore attività normativa. In caso contrario, invece, tale carattere deve considerarsi assente, a
meno che, ad es., lo Stato membro destinatario dell’atto in questione abbia informato la
Commissione, già prima dell’adozione dello stesso, del fatto che sulla base di quest’ultimo avrebbe
adottato misure concernenti specificamente i ricorrenti.
Relativamente al requisito dell’individualità, è stato ribadito a + riprese il principio che «chi non sia
destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora
il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, oppure di particolari circostanze
atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari». Oltre ai
casi in cui il ricorrente risulta espressamente nominato nell’atto e quelli in cui l’atto risulta essere
stato adottato proprio in considerazione della situazione specifica del ricorrente, la Corte ha
considerato ricevibili anche alcuni ricorsi diretti contro atti concernenti un numero limitato e
determinabile di persone, ma solo quando tali atti modificavano, sopprimendo vantaggi o diritti per
gli operatori interessati, la disciplina in considerazione della quale gli operatori in questione
avevano effettuato una determinata operazione ancora in corso.
Di recente, la Corte ha ulteriormente precisato che un atto dell’Unione riguarda un gruppo di
soggetti individuati o individuabili quando tale atto modifica i diritti acquistati dal singolo prima
della sua adozione.
Quanto detto per i regolamenti vale anche per le direttive, che del pari hanno normalmente una
portata normativa generale e che in ogni caso non pongono obblighi a carico dei singoli. In
particolare, occorre verificare se si tratta di una decisione dissimulata e se il singolo ne possa essere
riguardato direttamente e individualmente.

66
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Il Trattato di Lisbona ha revisionato le condizioni di ricevibilità dei ricorsi di annullamento proposti


dai singoli, persone fisiche o giuridiche, sancendo espressamente il loro diritto di impugnare gli atti
regolamentari che li riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione (art.
263, 4° comma, TFUE). In tal modo, viene letteralmente ripresa una novità introdotta dal progetto
di Trattato costituzionale, anche se non si comprende a che cosa esattamente si riferisca
l’espressione «atti regolamentari», utilizzata dall’art. 263, 4° comma, del TFUE. Difatti, questa
tipologia di atti era stata espressamente prevista nel progetto di Trattato costituzionale, ma è stata
abbandonata nel Trattato di Lisbona, il quale si è limitato ad affermare che gli atti (regolamenti,
direttive e decisioni) adottati in base alla procedura legislativa, ordinaria o speciale, sono atti
legislativi. Pertanto, si può ritenere che gli atti regolamentari ai quali si riferisce il nuovo Trattato
attualmente in vigore siano quelli di carattere generale adottati secondo 1 procedura diversa da
quella legislativa.
Inoltre, gli atti istitutivi di organi e organismi dell’Unione possono prevedere condizioni e modalità
specifiche relative ai ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche contro atti di questi organi o
organismi destinati a produrre effetti giuridici nei loro confronti (art. 263, 5° comma, TFUE).
Il termine per l’impugnazione è di 2 mesi a decorre dalla pubblicazione dell’atto ovvero dalla sua
notificazione al ricorrente ovvero – in mancanza e come criterio residuale e subordinato – dal
giorno in cui il ricorrente ne ha avuto effettiva conoscenza. Peraltro nel caso di atti pubblicati, il
termine decorre dalla data in cui la Gazzetta ufficiale è stata effettivamente diffusa, quando non
coincide con la data esposta. Infine, non c’è decadenza quando si verta in tema non di invalidità, ma
addirittura di inesistenza dell’atto, ipotesi tuttavia assai remota.
I vizi che possono essere fatti valere sono quelli tradizionali del contenzioso amministrativo, e
precisamente:
 incompetenza: che spesso rimane assorbita dalla violazione «di legge», comprende sia
l’incompetenza (relativa) dell’istituzione che ha adottato l’atto, sia l’incompetenza (assoluta)
dell’Unione in quanto tale;
 violazione delle forme sostanziali: in particolare comprende il difetto di motivazione, la
mancata consultazione di un’altra istituzione o di un organo dell’Unione quando
espressamente prevista, nonché l’errata individuazione della base giuridica, ogniqualvolta
abbia conseguenze sulle condizioni di adozione dell’atto. Quest’ultima è un’ipotesi di
patologia dell’atto di non trascurabile rilievo e presenta spesso anche dei profili + generali,
che investono l’equilibrio istituzionale dell’Unione. Ad es., si pensi ad 1 atto che poteva
essere adottato sulla base dell’art. 207 (a maggioranza) e che invece è stato basato sull’art.
352 (che richiede l’unanimità); oppure ad 1 atto del Consiglio adottato senza il prescritto
parere del Parlamento; o ad 1 atto innominato della Commissione che, pur rientrando nella
sua sfera di attribuzioni, avrebbe dovuto espressamente essere fondato su diversa e +
pertinente disposizione del Trattato, in nome anche della certezza dei rapporti giuridici;
 violazione di legge: comprende la violazione, oltre che di norme dei Trattati e di diritto
derivato dell’Unione, anche dei principi generali consolidati nella giurisprudenza della Corte
(proporzionalità, non discriminazione, legittimo affidamento, rispetto dei diritti della difesa),
nonché delle norme che cmq vincolano l’Unione, come le norme internazionali
convenzionali e consuetudinarie. Rispetto alle norme convenzionali, peraltro, la
giurisprudenza richiede che siano provviste di effetto diretto, la cui sussistenza va valutata
anche in funzione della natura e dello scopo dell’atto. Ciò ha riguardato in modo specifico
prima le norme GATT e poi dell’OMC, che secondo la Corte non potevano normalmente
costituire, a causa della loro «flessibilità» e della particolare natura dell’Accordo, 1
parametro di legittimità degli atti dell’Unione. Soltanto nei casi eccezionali in cui l’Unione
abbia inteso dare esecuzione ad 1 obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC oppure
l’atto rinvii espressamente a precise disposizioni degli accordi dell’OMC, i giudici

67
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

dell’Unione sono competenti a controllare la legittimità del comportamento delle istituzioni


alla luce delle norme dell’OMC;
 sviamento di potere: si verifica quando l’amministrazione, nell’ambito della discrezionalità
di cui gode, esercita un determinato potere allo scopo esclusivo o almeno determinante di
raggiungere fini diversi da quelli per il quale il potere in questione è stato conferito o da
quello dichiarato; ciò deve risultare da «indizi obiettivi, pertinenti e concordanti». Lo
sviamento di potere comprende anche lo sviamento di procedura, cioè il caso in cui una
determinata procedura venga utilizzata a fini diversi da quelli per i quali è stata istituita e per
far fronte alle circostanze del caso di specie.
Il ricorso proposto al giudice dell’Unione non ha effetto sospensivo. Tuttavia, l’art. 278 del TFUE
prevede la possibilità di chiedere alla Corte, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato.
Inoltre la Corte può ordinare le misure provvisorie, diverse dalla sospensione, che ritiene necessarie
(art. 279). La domanda presuppone già introdotto il ricorso o può essere contestuale. La misura
viene decisa dal Presidente della Corte, che eccezionalmente può investire anche il plenum; è
prevista anche 1 udienza a breve, nel corso della quale sono sentite le parti e gli intervenienti.
L’ordinanza cautelare del Presidente del Tribunale è impugnabile dinanzi alla Corte, con i limiti
analoghi a quelli posti all’impugnazione di 1 pronuncia ordinaria del giudice di 1° grado.
Quanto alle condizioni che giustificano 1 provvedimento cautelare, esse non si discostano molto da
quelle richieste in ogni latitudine, nel rispetto dell’idea che vuole tale provvedimento finalizzato ad
evitare che l’effetto utile della sentenza definitiva sia vanificato dal tempo occorrente per renderla.
Pertanto anche nel processo europeo troviamo ben radicati l’accessorietà e la strumentalità della
misura rispetto al giudizio principale e + precisamente rispetto alla sentenza, l’apparenza del diritto
(o fumus boni iuris), l’irreparabilità del danno scaturente dall’esecuzione del provvedimento
impugnato (o periculum in mora), il bilanciamento degli interessi a confronto: tutti elementi ben
familiari al processo nazionale ed italiano in particolare, sia civile che amministrativo.
L’esito del giudizio è, in caso di accoglimento del ricorso, l’annullamento dell’atto impugnato, in
particolare la dichiarazione che l’atto è «nullo e non avvenuto», secondo la terminologia dell’art.
264. Quindi, l’annullamento dell’atto produce, fatte salve alcune eccezioni, effetti ex tunc.
La sentenza di annullamento, che è efficace dal giorno in cui è pronunciata, ha l’effetto della cosa
giudicata, sia in senso formale che sostanziale, beninteso relativamente ai punti di fatto e di diritto
che siano stati effettivamente definiti dalla sentenza. Viceversa, un atto che sia uscito indenne da
una procedura di annullamento, può essere rimesso in discussione sotto profili e per motivi diversi
in un successivo procedimento, evidentemente distinto dall’azione diretta di annullamento, dato il
termine di 2 mesi prescritto per proporla.
L’annullamento può essere richiesto anche solo in relazione ad una o ad alcune disposizioni
dell’atto; in ogni caso, poi, la Corte può annullare 1 atto solo in parte, ove ciò sia possibile e dunque
solo se il punto o i punti viziati siano separabili, lasciando perfettamente valide le parti restanti
anche dopo la sentenza.
La sentenza della Corte comporta, per l’istituzione che aveva adottato l’atto annullato, l’obbligo di
prendere le misure necessarie per darvi piena esecuzione. Naturalmente l’obbligo riguarda sia il
dispositivo che la motivazione che spiega le ragioni dell’annullamento; e la riadozione dell’atto
riguarda quest’ultimo nella sua interezza oppure, a seconda dei casi, nella parte dichiarata
illegittima. In definitiva, l’istituzione interessata è tenuta a prendere tutti i provvedimenti, ma anche
solo quelli, che l’esecuzione della sentenza di annullamento impone.
Lo steso art. 264 (già 231) al 2° comma prevede la facoltà per la Corte di stabilire gli effetti
dell’atto che devono essere considerati come definitivi. Dunque la Corte può dichiarare che
l’annullamento di 1 atto, sia esso parziale o totale, abbia effetti ex nunc invece che ex tunc; o che
addirittura conservi i suoi effetti fino a quando l’amministrazione avrà modificato o sostituito con
un nuovo atto quello impugnato. L’ipotesi di effetti ex nunc della sentenza di annullamento resta
cmq un’ipotesi eccezionale.

68
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Sebbene il precedente art. 231, 2° comma, de TCE si riferiva ai soli regolamenti, la Corte aveva
esteso la possibilità offerta dalla disposizione in questione anche alle ipotesi di annullamento di 1
direttiva oppure di 1 decisione, richiamandosi, in particolare, a motivi di certezza del diritto. Questo
consolidato orientamento giurisprudenziale è stato poi consacrato nel Trattato di Lisbona, con la
nuova formula dell’art. 264 TFUE, il quale prevede ora che «la Corte, ove lo reputi necessario,
precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi». Si tratta di 1
soluzione senz’altro da condividere; il principio della certezza del diritto, che costituisce la ragion
d’essere dell’art. 264, è infatti 1 principio di applicazione generale, dunque valido per il caso di
annullamento di tutti gli atti che incidono sulla posizione giuridica dei destinatari, ivi comprese le
direttive, che non solo possono avere un effetto diretto, ma in ogni caso costituiscono un riferimento
obbligato in sede d’interpretazione delle norme nazionali.
Infine, bisogna ricordare che la Corte ha esteso l’ambito di applicazione dell’art. 264, 2° comma,
che testualmente comprende esclusivamente le ipotesi di annullamento in senso proprio, in base alla
procedura prevista dall’art. 263, anche alla pronuncia di invalidità nell’ambito della procedura
pregiudiziale (art. 267, lett. b).

3. L’AZIONE IN CARENZA

Il ricorso in carenza è 1 strumento che tende a porre rimedio all’illegittima inattività di 1


istituzione dell’Unione o della BCE: infatti, questo strumento consente di mettere in discussione il
comportamento del PE, del Consiglio europeo, del Consiglio e della Commissione, nonché della
Banca centrale, quando queste istituzioni o organi, in violazione del Trattato, si astengano dal
pronunciarsi (art. 265 TFUE, già 232, TCE). L’art. 265 TFUE prefigura 1 strumento
d’impugnazione autonomo rispetto a quello disciplinato dall’art. 263, anche se ad esso logicamente
collegato.
Dunque il ricorso in carenza riguarda non l’ipotesi di 1 rifiuto, che è pur sempre un provvedimento,
ma quella di illegittima assenza di decisione; e tende precisamente ad 1 constatazione dell’inerzia
dell’istituzione.
L’introduzione del ricorso davanti alla Corte è subordinata ad 1 fase amministrativa preliminare:
infatti, perché il ricorso sia ricevibile, occorre che l’istituzione o l’organo cui è rimproverata
l’inerzia sia stato formalmente invitato a prendere posizione, ovvero ad adottare le misure richieste;
una tale messa in mora deve intervenire, a giudizio della Corte, entro un «termine ragionevole» a
partire dal momento in cui appare chiaro che l’istituzione o l’organo in questione non ha intenzione
di agire. Dal momento della messa in mora, l’istituzione o organo dispone poi di un periodo di 2
mesi per prendere posizione; trascorso invano questo periodo, l’autore della messa in mora può
introdurre il ricorso, a sua volta entro un termine di 2 mesi. Qualora invece l’istituzione o l’organo
in questione rifiuti espressamente di prendere posizione, oppure adotti l’atto voluto dal richiedente,
o, ancora, adotti un qualche provvedimento, sia pure diverso da quello sollecitato, evidentemente
non vi è + spazio per l’introduzione di un ricorso in carenza, dovendosi invece, se del caso, attivare
la normale procedura di annullamento ex art. 263.
L’assenza di decisione deve essere attuale e permanere anche durante tutto il corso della procedura;
se infatti l’istituzione o l’organo risponde alla messa in mora che gli è stata indirizzata, adottando
l’atto voluto dal richiedente, la procedura ex art. 265 diventa senza oggetto. Resta evidentemente la
possibilità di impugnare l’atto, se lo si ritiene viziato, ex art. 263. Infine, il ricorso in carenza NON
può essere utilizzato per aggirare i termini di impugnazione dell’atto quali previsti dall’art. 263:
pertanto non è possibile chiedere, dopo la scadenza di questi termini, la revoca o la modificazione di
1 atto, per poi, in caso negativo, introdurre 1 ricorso in carenza dinanzi alla Corte.
Il ricorso in carenza può essere introdotto anzitutto dagli Stati membri e dalle istituzioni in relazione
a qualunque ipotesi di astensione che integri 1 violazione dei Trattati.
A differenza delle istituzioni e degli Stati membri, il singolo può agire in carenza SOLO quando
l’istituzione abbia omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o
69
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

un parere. A tale riguardo si è discusso se l’omissione debba riferirsi ad un atto di cui il ricorrente
sia il formale destinatario oppure debba accogliersi una lettura + ampia dell’art. 265, 3° comma. La
Corte esclude che il singolo possa agire in carenza, ad es., rispetto ad un atto rivolto agli Stati,
rispetto ad una proposta della Commissione, rispetto a decisioni cmq destinate a terzi. Tuttavia, la
successiva giurisprudenza ha attenuato questo limite, ammettendo un parallelismo tra
l’impugnazione di atti che investono direttamente e individualmente il ricorrente che non ne sia il
destinatario (art. 263, 4° comma) e l’analoga condizione relativa all’azione in carenza (art. 265, 3°
comma). In questo modo, è stata cmq riconosciuta ai singoli la possibilità di ricorrere nelle ipotesi
in cui essi possano considerarsi direttamente e individualmente riguardati dagli atti relativamente ai
quali deducono la carenza dell’istituzione.
Resta inteso, poi, che il singolo non può dolersi della mancata attivazione da parte della
Commissione di 1 procedura d’infrazione, in quanto oggetto di 1 valutazione discrezionale
dell’istituzione.
Nell’ambito di una procedura fondata sull’art. 265, il ricorrente, che sia 1 Stato membro o 1
singolo, ha anche la possibilità di chiedere e ottenere provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 279
TFUE, se ricorrono le condizioni dell’azione di annullamento.
Infine, si noti che la sentenza di accoglimento del ricorso in carenza corrisponde ad una pronuncia
di mero accertamento, che non esclude la proposizione di un’azione di responsabilità
extracontrattuale ex artt. 268 e 340, 2° comma del TFUE, nell’ipotesi in cui il comportamento
omissivo dell’istituzione dell’Unione abbia cagionato un danno.

4. L’ECCEZIONE DI INVALIDITÀ

L’art. 277 (già 241) TFUE prefigura questo ulteriore mezzo per far valere l’illegittimità di 1 atto di
portata generale adottato da un’istituzione, organo o organismo dell’Unione. Si tratta di una
eccezione incidentale, che le parti possono sollevare nel corso di una procedura già attivata per altri
motivi dinanzi alla Corte, al fine di far dichiarare l’inapplicabilità dell’atto di cui si tratta facendo
valere, anche dopo che sia trascorso il termine d’impugnazione previsto per il ricorso di
annullamento, gli stessi motivi previsti dall’art. 263. L’ipotesi che subito viene in mente è quella
dell’eccezione d’invalidità di un regolamento di base in occasione dell’impugnazione di un atto di
esecuzione di quel regolamento e come motivo dell’invalidità dell’atto impugnato.
Se è necessario che l’eccezione sia incidentale rispetto ad 1 procedura già pendente dinanzi al
giudice dell’Unione, deve pur sempre esservi uno stretto collegamento tra l’atto impugnato e quello
di cui si fa valere incidentalmente l’illegittimità; ne consegue che l’irricevibilità del ricorso di
annullamento comporta inevitabilmente e per ciò stesso l’irricevibilità dell’eccezione proposta in
base all’art. 277.
La sfera di applicazione dell’eccezione d’invalidità era nel Trattato CE formalmente limitata ai
regolamenti, mentre nel TFUE è stata estesa a tutti gli atti di portata generale. La giurisprudenza ne
aveva già ampliato le possibilità di applicazione, comprendendovi tutti gli atti aventi portata
generale. È vero, infatti, che lo scopo dell’art. 277 è di evitare che 1 atto viziato, sebbene non
impugnato, possa costituire una base giuridica valida per altri atti. È altrettanto vero, però, che la
possibilità di sollevare un’eccezione di invalidità mira essenzialmente a rimediare ai limiti posti
dall’art. 263 alle possibilità di impugnazione offerte ai singoli in relazione agli atti dell’Unione
aventi portata generale. Dunque l’eccezione può essere estesa anche ad atti che, pur non avendo la
forma del regolamento, producono effetti analoghi e non potrebbero essere impugnati dai singoli.
Al contrario, sono stati sempre respinti i tentativi di far valere dopo la scadenza dei termini
l’illegittimità di atti che il singolo, in quanto destinatario o perché direttamente e individualmente
riguardato, avrebbe ben potuto impugnare con normale ricorso di annullamento. In definitiva,
l’eccezione d’invalidità non può essere utilizzata per eludere l’onere della tempestività

70
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

dell’impugnazione, dovendo restare viceversa 1 mezzo offerto al singolo, per contestare la


legittimità di 1 atto dell’Unione, nella sola ipotesi in cui gli sia preclusa ogni altra possibilità.
Tuttavia la circostanza che l’eccezione d’invalidità risulti collegata, in particolare, all’impossibilità
x i singoli di agire ex art. 263 per l’annullamento di 1 atto avente portata generale non implica che
ai ricorrenti c.d. privilegiati (Stati membri e istituzioni) sia in ogni caso impedito di formulare una
tale eccezione.
Tuttavia è evidente che allo Stato membro, così come al singolo, è cmq preclusa la possibilità di
sollevare un’eccezione d’invalidità rispetto ad una decisione individuale di cui esso sia il
destinatario. Pertanto la Corte ha respinto i tentativi di alcuni Stati di eccepire l’invalidità di 1
decisione di incompatibilità di un aiuto a fronte di ricorsi, proposti dalla Commissione sulla base
dell’art. 108, n. 2, concernenti l’erogazione di quello stesso aiuto.
Un’ipotesi specifica è quella dell’eccezione d’invalidità di un atto nel corso di una procedura
d’infrazione intentata dalla Commissione contro uno Stato membro x la violazione di quello stesso
atto. Sulla premessa dell’autonomia della procedura ex art. 258 TFUE rispetto alle azioni ex artt.
263 e 265, è stato ribadito anche rispetto a tale ipotesi che lo Stato non può eccepire in via
incidentale l’illegittimità di 1 decisione di cui sia destinatario in una procedura per un
inadempimento consistente nella mancata osservanza di quella stessa decisione; e che l’unica
eccezione riguarda l’ipotesi di atto viziato in modo così grave ed evidente da essere inesistente. La
stessa preclusione interviene nel caso di impugnazione (beninteso tardiva) non incidentale ma
autonoma.
Viceversa, non esiste alcuna presa di posizione della Corte circa l’ipotesi che nel corso di una
procedura d’infrazione lo Stato membro cui è contestato l’inadempimento sollevi un’eccezione di
invalidità rispetto ad 1 regolamento. Tuttavia, ad uno Stato membro che ha eccepito in via
incidentale l’illegittimità di alcuna disposizioni di 1 direttiva per giustificarne la mancata
trasposizione, oggetto di una procedura d’infrazione, la Corte ha opposto con ferma chiarezza
l’inammissibilità dell’eccezione sollevata.
L’effetto di un eventuale accoglimento dell’eccezione d’invalidità è, a differenza che nella
procedura ex art. 263, l’inapplicabilità dell’atto e non già il suo annullamento. Pertanto,
formalmente l’atto viene dichiarato inapplicabile alla fattispecie ma resta pienamente in vigore; la
conseguenza pratica per l’istituzione che l’aveva adottato è che procederà cmq alla sua
modificazione o all’occorrenza alla sua abrogazione.

5. L’AZIONE DI RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

La competenza della Corte in materia di responsabilità extracontrattuale dell’UE, e di


conseguente risarcimento dei danni (art. 268 TFUE), va anch’essa collegata alla funzione di
controllo sulla legittimità degli atti dell’Unione. Infatti, l’ipotesi + rilevante al riguardo è
precisamente quella di un pregiudizio provocato dall’applicazione di un atto normativo dell’Unione
che si pretende illegittimo.
La disciplina del TFUE, prevista dall’art. 340, 2° comma, si limita ad imporre all’Unione di
risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni causati
dalle sue istituzioni o dagli agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il 3° comma dell’art. 340
estende questa disciplina ai danni causati dalla BCE e dai suoi agenti nell’esercizio delle loro
funzioni, con la sola differenza che in tali ipotesi l’obbligo di risarcimento ricade direttamente sulla
BCE e NON sull’Unione.
1. In 1° luogo  la competenza della Corte sussiste SOLO quando il danno sia stato cagionato da
un’istituzione dell’Unione o dai suoi agenti oppure dalla BCE o dai suoi agenti nell’esercizio delle
loro funzioni; è una competenza esclusiva. Per contro, la competenza appartiene esclusivamente ai
giudici nazionali quando risulti che il danno allegato è stato prodotto da organi nazionali, sia pure in
conseguenza dell’applicazione di una normativa dell’Unione.

71
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

2. In 2° luogo  la ricevibilità dell’azione di responsabilità è stata messa in discussione proprio


rispetto all’ipotesi di applicazione, da parte di organi nazionali, di provvedimenti adottati in
esecuzione di atti dell’Unione di cui è stata poi contestata la validità.
La Corte ha progressivamente elaborato il criterio della competenza efficiente, in base al quale è il
giudice nazionale a dover essere adito qualora sia nella condizione di statuire utilmente. Ciò vale
anche quando la normativa dell’Unione preveda una competenza vincolata per l’amministrazione
nazionale, con la conseguenza che l’eventuale illecito è sicuramente imputabile alla Commissione:
si pensi all’ipotesi in cui la normativa di cui si tratta assegni alla Commissione non la facoltà di
esprimere un mero parere, ma il potere d’imporre agli organi nazionali una decisione piuttosto che
un’altra, alla quale questi ultimi sono tenuti a conformarsi. Per contro, la Corte afferma sempre e
cmq la sua competenza quando si tratta di ipotesi in cui è solo essa a poter agire utilmente, ad es. x
l’impossibilità di un’azione nazionale effettiva.
Più in generale, quanto al rapporto tra mezzi interni di ricorso e azione di responsabilità dinanzi alla
Corte di giustizia, il sistema nel suo insieme deve o dovrebbe funzionare in modo da garantire in
ogni caso la protezione giurisdizionale del soggetto leso. Ne consegue che, se in via di principio
l’azione di responsabilità è residuale rispetto ai mezzi interni predisposti per l’annullamento di
misure e atti nazionali, questi mezzi devono assicurare al singolo di restare cmq indenne dalle
conseguenze dannose dell’illegittimità dell’atto. Quando, ad es., i mezzi interni assicurano
l’annullamento dell’atto o anche la restituzione di somme indebitamente versate, MA NON ANCHE
il risarcimento del danno, evidentemente rimane salva la possibilità di attivare la procedura di cui
agli artt. 268 e 340, 2° comma, TFUE.
Un altro aspetto di rilievo attiene al rapporto tra:
 l’azione di responsabilità
 e l’azione di annullamento ex art. 263 TFUE o il ricorso in carenza ex art. 265.
In un 1° momento, sembrò prevalere un criterio di severità e in definitiva 1 lettura
restrittiva dell’art. 268 in relazione all’art. 340. Nella pronuncia Plaumann, ad es., la Corte
dichiarò inammissibile 1 domanda di risarcimento fondata sull’illegittimità di un atto di
cui non era stato previamente chiesto l’annullamento. Più tarsi, la Corte ha invece
affermato che l’azione di danni rappresenta un «rimedio autonomo», distinto dagli altri
mezzi sia quanto alla funzione che quanto alle condizioni di esercizio, «che tengono conto
del suo oggetto specifico».
Il criterio ispiratore della lettura data dalla giurisprudenza alla disciplina sull’azione di
responsabilità extracontrattuale è rimasto tuttavia sempre costante, al di là delle formule di volta in
volta adottate:
 sia rispetto ai mezzi interni di ricorso (rinvio pregiudiziale di validità in sede di
impugnazione dell’atto interno di esecuzione);
 sia rispetto alle impugnazioni dirette (ricorso di annullamento o in carenza).
Lo scopo è di evitare che l’azione di responsabilità venga utilizzata per conseguire lo stesso
risultato che avrebbe potuto essere raggiunto – utilmente, beninteso – con un’azione diversa.
Dunque, l’azione di danni non può essere il mezzo per neutralizzare gli effetti di un atto
lesivo quando tale obiettivo può venire ugualmente raggiunto attraverso una normale azione
di annullamento, sia essa diretta, sia essa nazionale con rinvio pregiudiziale di validità alla
Corte. E ciò va inteso con l’unica riserva che il rimedio giurisdizionale, in particolare quello
nazionale, sia cmq idoneo a garantire un’effettiva tutela. Dunque, in questo senso la logica
della giurisprudenza Plaumann non è poi molto diversa da quella in cui si è affermata
l’inammissibilità di un’azione di risarcimento quando miri in realtà alla revoca di una
decisione individuale.
Le condizioni della responsabilità extracontrattuale dell’Unione e del conseguente obbligo
risarcitorio sono state più volte precisate nella giurisprudenza della Corte:
 l’illiceità del comportamento dell’istituzione;
72
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 un danno effettivo;
 un nesso di causalità fra il danno e il comportamento dell’istituzione.
È chiaro che quanto + ampio è il potere discrezionale dell’istituzione, tanto + occorre che sia grave
la violazione dei limiti al suo esercizio perché sussista la responsabilità; in particolare, occorre che
si tratti della violazione di norme destinate a proteggere gli interessi degli stessi ricorrenti. Per
converso, quando il margine di discrezionalità sia ridotto o non ve ne sia alcuno, la mera violazione
della norma può integrare l’ipotesi di violazione grave e manifesta. In questa prospettiva, è stata
esclusa la responsabilità extracontrattuale dell’Unione nell’ipotesi in cui non abbia dato inizio ad un
procedimento di infrazione nei confronti dello Stato membro inadempiente, perché in materia è
riconosciuto a questa istituzione un ampio potere discrezionale. La situazione cambia sensibilmente
in relazione alle questioni di concorrenza, in particolare quanto agli aspetti procedurali, rispetto ai
quali la Commissione dispone di un margine di discrezionalità alquanto ridotto se non inesistente:
in questi casi, invero, è stata accertata la responsabilità extracontrattuale dell’Unione per violazione
da parte della Commissione dei diritti di difesa o del principio di imparzialità.
Il danno, poi, deve essere in un certo senso individualizzato, ciò che non si verifica quando l’atto
investe categorie molto ampie di operatori economici e le sue conseguenze, anche pregiudizievoli,
risultano molto attenuate al livello dei singoli.
Nella recente giurisprudenza sulla responsabilità patrimoniale degli Stati membri x violazione del
diritto dell’Unione, la Corte, nell’indicarne le condizioni, ha con insistenza precisato che non
devono essere diverse, a parità di situazioni, da quelle che sono richieste x la responsabilità delle
istituzioni, in quanto la tutela dei diritti attribuiti dal diritto dell’Unione non può variare in funzione
della natura, nazionale o dell’Unione, dell’organo che ha causato il pregiudizio. Il risultato è che
anche la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni dell’Unione ricorre quando:
1) la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli;
2) la violazione sia grave e manifesta;
3) sussista il nesso causale.
In relazione al nesso di causalità, bisogna dire che questo requisito sussiste solo nelle ipotesi in cui
il comportamento contestato costituisca la causa certa e diretta del danno e non quando quest’ultimo
sia solo «una lontana conseguenza» dell’azione o omissione dell’istituzione.
Quanto, infine, al danno risarcibile, la cui prova incombe evidentemente al ricorrente, nel caso di
responsabilità derivante da atto normativo esso deve essere «speciale», oltre che certo ed attuale.
Conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, la Corte ha precisato che
sono risarcibili:
 sia il pregiudizio materiale che quello morale, quest’ultimo quantificabile anche in equità;
 sia il danno emergente che il lucro cessante.
Inoltre, atteso che il risarcimento è destinato a reintegrare il patrimonio del soggetto leso, si
deve tenere conto della effettiva svalutazione monetaria successiva all’evento dannoso. La
giurisprudenza della Corte in materia di liquidazione del danno è anche costante nel ritenere
ammissibile la domanda di interessi moratori, che decorrono dalla sentenza che accerta la
responsabilità dell’Unione, in quanto dichiarativa dell’obbligo di risarcire il danno. Il tasso
d’interesse è fissato, senza alcun riferimento al tasso legale vigente nello Stato membro del
ricorrente, in genere tra il 6 e l’8% e cmq mai in misura superiore a quanto chiesto dal
ricorrente.
Inoltre in tema di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, occorre dire che prima
dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Corte di giustizia si è confrontata con la pretesa di
invocare l’azione di responsabilità extracontrattuale dell’Unione x atti del 3° pilastro. Il riferimento
è alle cause Gestoras pro Amnistìa e Segi, in cui 2 organizzazioni a tutela dei diritti umani,
operative nei Paesi Baschi, ricorrevano in appello dinanzi alla Corte x invocare il risarcimento del
danno loro derivante da una posizione comune del Consiglio, che le includeva in 1 elenco di
soggetti considerati coinvolti in atti terroristici. La Corte, rilevato che l’art. 35 non contemplava 1
73
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

via di ricorso per ottenere il risarcimento dei danni causati dall’azione dell’Unione nel settore della
cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, riconosceva l’esistenza di una lacuna nel
sistema di tutela giurisdizionale per le ipotesi, come quelle del caso di specie, in cui 1 atto del 3°
pilastro, generalmente considerato privo di effetti giuridici nei confronti di terzi, avesse prodotto
invece 1 lesione della loro posizione giuridica soggettiva. È a questo punto che la Corte prospettava
1 soluzione equilibrata che ravvisava in capo alle persone fisiche o giuridiche la possibilità di agire
dinanzi ai giudici nazionali ed invocare la responsabilità dei singoli Stati membri x l’elaborazione o
attuazione nei loro confronti di 1 atto dell’UE. Sotto questo profilo, la Corte individuava 1 rimedio
x la tutela dei diritti dei singoli, ma, al tempo stesso, metteva in chiara evidenza che l’applicazione
estensiva di principi propri del pilastro comunitario nell’ambito del 3° pilastro non poteva spingersi
fino ad un’interpretazione contra legem del TUE. Ad ogni modo, questa questione è stata risolta con
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in quanto i meccanismi di tutela giurisdizionale del 1°
pilastro, ivi compresa l’azione di responsabilità extracontrattuale, sono stati estesi al 3° pilastro,
sebbene sia previsto un periodo transitorio di 5 anni.

6. IL CONTENZIOSO IN MATERIA DI PERSONALE

La competenza a conoscere delle controversie tra l’Unione e i suoi agenti appartiene alla Corte, nei
limiti e alle condizioni determinati dallo statuto del personale o risultanti dal regime ad essi
applicabile.
 Tale competenza, prevista dall’art. 270 TFUE, è esercitata in primo grado dal Tribunale a
partire dall’ottobre 1989 fino al 2005, anno in cui è stata devoluta al Tribunale della
Funzione Pubblica.
 Le pronunce di questo organo giurisdizionale possono essere oggetto di impugnazione per i
soli motivi di diritto dinanzi al Tribunale, alle stesse condizioni previste x le impugnazioni
attualmente pendenti dinanzi alla Corte di giustizia avverso le decisioni del Tribunale, e la
Corte è chiamata a pronunciarsi solo nelle ipotesi eccezionali di richiesta di riesame da parte
dei primo Avvocato generale.
Il Tribunale della funzione pubblica è competente a conoscere tutte le controversie che afferiscono
al rapporto d’impiego: assunzioni, condizioni di lavoro, trattamento economico e benefici sociali,
disciplina delle carriere. La possibilità di agire contro un’istituzione dell’Unione, sempreché ne
ricorrano le altre condizioni, è conferita non solo ai funzionari ed altri agenti, ad esclusione degli
agenti locali per i quali resta competente il giudice nazionale, ma anche agli aspiranti funzionari o
agenti che partecipano ad un concorso e che intendano contestarne lo svolgimento e/o i risultati.
Il regime del contenzioso della funzione pubblica è disciplinato dagli artt. 90 e 91 dello statuto del
personale, che prevedono, in primo luogo, 1 specifica procedura precontenziosa, tranne nell’ipotesi
in cui venga impugnato un atto che l’amministrazione non ha il potere di annullare o modificare. È
il caso, ad es., di una decisione presa da una commissione di concorso o, ancora, in relazione ad un
rapporto informativo.
Oltre al previo esperimento di 1 apposito reclamo in via amministrativa e, dunque, al formarsi di 1
decisione, sia pure implicita, di rigetto di tale reclamo, la ricevibilità del ricorso è subordinata alla
circostanza che il ricorrente abbia 1 interesse ad agire e che l’atto impugnato, che può finanche
rivestire forma verbale, sia tale da arrecargli pregiudizio.
Il termine per agire è di 3 mesi, che decorrono:
 dal giorno della notifica della decisione che statuisce sul reclamo;
 oppure, in caso di provvedimento implicito, dalla data in cui scade il termine per la
decisione del reclamo amministrativo.
Nel caso in cui 1 decisione di esplicito rigetto del reclamo interviene dopo la formazione di un
provvedimento implicito, ma durante il periodo di 3 mesi x la proposizione del ricorso

74
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

giurisdizionale, i termini x tale ricorso riprendono a decorrere dalla data della notifica della
decisione esplicita.
Quanto al merito, il ricorso può essere diretto (conformemente all’art. 91, n. 1, dello statuto) ad
ottenere sia l’annullamento di un atto, sia il risarcimento dei danni derivanti da un atto o da un
comportamento dell’istituzione di cui si tratta. Attesa l’autonomia delle diverse azioni, il
funzionario può scegliere la procedura che ritenga più appropriata, con il solo limite che l’azione di
responsabilità non può essere un mezzo per eludere l’irricevibilità di un’azione di annullamento
concernente l’illegalità dello stesso atto e tendente ad ottenere lo stesso risarcimento. Il ricorrente
può anche chiedere, insieme all’annullamento dell’atto di cui si tratta, sia provvedimenti
provvisori che la sospensione dell’atto impugnato (tuttavia quest’ultima è molto difficile da
ottenere, in quanto, oltre all’esistenza dell’urgenza e di un danno grave e irreparabile, occorre
verificare che la sospensione richiesta non sia tale da ostacolare il buon funzionamento del servizio
interessato).

7. L’IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE

L’art. 256 TFUE prevede la possibilità che tutte le azioni siano trattate in primo grado dal
Tribunale, fatta eccezione per i rinvii pregiudiziali.
Il Tribunale ha ormai assunto il ruolo di giudice di primo grado a competenza generale. La sua
competenza riguarda anche i ricorsi individuali contro atti adottati non da istituzioni, ma da altri
organi istituiti da atti dell’Unione di diritto derivato e dunque rientranti nel sistema dell’Unione in
senso ampio.
Il trasferimento di competenze al Tribunale ha contribuito ad un miglioramento del livello di tutela
giurisdizionale complessivamente offerto dal sistema dell’Unione, in particolare con riguardo alla
tutela dei singoli. Ciò va inteso sotto un duplice profilo, e precisamente:
1) il 1° profilo  è quello del doppio grado di giurisdizione, che è cmq 1 segno di civiltà
giuridica di non poco rilievo, sebbene, al di fuori della materia penale, non è sicuro che sia
un vero e proprio principio fondamentale del diritto processuale;
2) il 2° profilo (+ importante)  riguarda l’attenzione che si deve ai fatti, alle esigenze
istruttorie e ai relativi strumenti processuali, specie nelle cause in cui proprio la ricchezza
dei fatti ne impone un uso maggiore. Ciò accade principalmente con i ricorsi diretti, laddove
le pregiudiziali, vertendo essenzialmente sull’interpretazione di 1 norma giuridica, non
impongono complessi accertamenti di fatto; in particolare, nelle cause di concorrenza la
valutazione dei fatti e l’analisi del contesto economico in cui operano le imprese
rappresentano un presupposto indispensabile per l’applicazione della norma.
Dunque, la creazione del Tribunale ha consentito un accrescimento della tutela giurisdizionale dei
singoli sotto entrambi i profili sottolineati. Ciò ha anche comportato per la Corte:
 da un lato  una riduzione del numero delle cause (solo parzialmente compensata
dall’introduzione dei giudizi di impugnazione contro le decisioni del Tribunale);
 dall’altro lato  e, soprattutto, un’accentuazione del suo ruolo di giudice costituzionale in
senso lato, custode dell’uniformità di applicazione del diritto dell’Unione nei Paesi membri
e dunque dell’armonia del sistema nel suo insieme.
Dunque, la cognizione del Tribunale si sostituisce in primo grado nelle competenze che il Trattato
attribuiva alla Corte rispetto alle azioni attivate dai ricorsi individuali e in alcuni casi dagli Stati
membri: di annullamento (art. 263), in carenza (art. 265), di responsabilità extracontrattuale (art.
268). Quanto si è detto a proposito di tali procedure vale, pertanto, anche per il giudizio dinanzi al
Tribunale, in particolare quanto ai vizi degli atti che possono farsi valere e agli effetti della
pronuncia.
È possibile che la Corte e il Tribunale siano contemporaneamente chiamati a decidere su ricorsi
aventi lo stesso oggetto, che sollevino le stesse questioni d’interpretazione o mettano in discussione

75
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

la legittimità di uno stesso atto. Un es. significativo è quello di una decisione della Commissione in
tema di aiuti pubblici alle imprese, impugnabile dagli Stati membri davanti alla Corte e dalle
singole imprese dinanzi al Tribunale. In tale ipotesi, la norma dello statuto della Corte (art. 54, 3°
comma) consente varie soluzioni:
1. il Tribunale potrà, sentite le parti, sospendere la procedura e attendere la pronuncia della
Corte: soluzione questa che, rispettosa del doppio grado di giudizio, rischia però di
pregiudicare il ruolo del Tribunale e delle parti almeno sotto il profilo della decisione sulla
questione di diritto, che verrebbe assicurata prima dalla Corte, tra l’altro in un processo in
cui la parte privata non potrebbe in alcun modo interloquire;
2. il Tribunale può scegliere di spogliarsi della causa, declinando la propria competenza e
lasciare che sia la Corte a decidere: in questo caso, anche il processo avviato dal privato
sarebbe deciso dalla Corte, ma, com’è evidente, in prima ed unica istanza, con conseguente
sacrificio della doppia tutela che la sindacabilità della decisione del Tribunale vorrebbe
assicurare;
3. può anche accadere che sia la Corte a sospendere la procedura dinanzi ad essa pendente: in
questo caso si continuerà dinanzi al Tribunale. Quest’ultima soluzione, compatibilmente con
le esigenze di economia della procedura, assicura alle parti il doppio grado di giudizio, senza
x questo pregiudicare la decisione del Tribunale con un’anticipata soluzione della questione
di diritto da parte della Corte nella controversia connessa.
L’impugnazione della sentenza di primo grado può essere proposta entro 2 mesi dalle parti,
principali e intervenute. Una posizione particolarmente privilegiata è assicurata, evidentemente
nell’interesse della legalità, agli Stati e alle istituzioni, i quali possono impugnare una sentenza del
Tribunale indipendentemente dalla loro presenza (anche in quanto parti intervenienti) nella
procedura dinanzi al Tribunale, con la sola eccezione delle controversie dei funzionari. Tuttavia, in
questo caso, ove la Corte accolga l’impugnazione, potrà precisare gli effetti della decisione
annullata che devono essere considerati definitivi nei confronti delle parti della controversia.
L’impugnazione deve essere diretta a rimediare ai pretesi errori in diritto della sentenza di primo
grado. Pertanto essa non può limitarsi ad una mera riproposizione della domanda originaria o
sollevare per la prima volta dinanzi alla Corte un motivo non sollevato nella prima fase, ma deve
indicare espressamente i punti della sentenza impugnata di cui si chiede l’annullamento perché
viziati. Ciò non esclude, che si possa sollecitare:
 la Corte alla rivalutazione dei punti di diritto, in particolare l’interpretazione e l’applicazione
del diritto dell’Unione da parte del Tribunale;
 e che la Corte, anche in assenza di motivi di ricorso, affronti i punti rilevabili d’ufficio.
Dunque si tratta non tanto di un giudizio di appello, in cui si possano rivisitare anche i fatti, bensì di
cassazione. I vizi censurabili sono:
 l’incompetenza del Tribunale;
 i vizi di procedura che hanno causato pregiudizio al ricorrente;
 la violazione del diritto dell’Unione.
In definitiva, al giudice di secondo grado è stata lasciata una cognizione finalizzata
all’eliminazione degli errori di diritto che possono pregiudicare la coerenza dell’ordinamento e
l’uniformità di applicazione delle norme. A tal fine, l’errore di diritto deve comprendere non
solo l’errore nell’interpretazione della norma o nella identificazione della norma applicabile, ma
anche l’errore nella qualificazione giuridica dei fatti accertati e/o della fattispecie che comporti
l’applicazione della norma ad una fattispecie non regolata. Si tratta, cioè, di tutti i vizi
suscettibili di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.
La funzione nomofilattica (cioè il compito di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme
interpretazione della legge) che la Corte è chiamata ad assicurare nel quadro del giudizio
d’impugnazione richiede cmq un approccio rigoroso alla delimitazione del giudizio sui fatti (area
insindacabile della decisione del Tribunale) rispetto al giudizio di diritto, sul quale solo opera il
76
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

controllo della Corte. Il problema si è posto con riferimento alla valutazione delle prove operata dal
Tribunale, rispetto alla quale la Corte ha affermato la competenze esclusiva del Tribunale. Però va
rilevato che dalla giurisprudenza della Corte è ricavabile un duplice limite all’incensurabilità
dell’apprezzamento del materiale probatorio da parte del Tribunale, e precisamente:
1. in 1° luogo  la Corte ha affermato la propria competenza a verificare se le prove assunte
dal Tribunale siano state acquisite regolarmente e se i principi generali del diritto e le norme
di procedura in materia di onere e di produzione della prova siano stati rispettati;
2. in 2° luogo  sotto un profilo + sostanziale, la Corte si è riservata la facoltà di sindacare lo
«snaturamento degli elementi di prova».
Altro elemento che può dar luogo a qualche difficoltà è il vizio di motivazione della sentenza
impugnata. La mancata previsione espressa di tale vizio nell’elencazione che dei vizi censurabili
con l’impugnazione ai sensi dell’art. 58 dello Statuto non può certo condurre ad escluderne la sua
qualificazione come ipotesi di violazione del diritto dell’Unione. La contraddittorietà della
motivazione come la sua insufficienza, risolvendosi in una violazione dell’obbligo del Tribunale di
motivare le proprie denunce, rappresenta indubbiamente un errore di diritto, invocabile nel giudizio
d’impugnazione di fronte alla Corte.
La Corte, in base all’art. 119 del regolamento di procedura, può dichiarare il ricorso manifestamente
irricevibile e anche manifestamente infondato, con semplice ordinanza e «sentito» l’avvocato
generale.
La sentenza della Corte che accoglie l’impugnazione comporta l’annullamento della pronuncia del
Tribunale (art. 61 dello Statuto). La Corte, peraltro, può essa stessa decidere la controversia,
«qualora lo stato degli atti lo consenta»; in caso contrario, la Corte rinvia la causa nuovamente al
Tribunale perché quest’ultimo decida. Il giudice di 1° è in tal caso – come in un normale giudizio di
rinvio – vincolato alla decisione della Corte relativamente ai punti di diritto.

8. Segue: LA REVOCAZIONE, IL RIESAME, IL RINVIO

Lo Statuto della Corte (art. 44) prevede l’istituto della revocazione della sentenza, applicabile alle
pronunce sia del Tribunale che della Corte entro il termine di 10 anni dalla data della sentenza. Non
si tratta di un’impugnazione, bensì di un mezzo straordinario di ricorso. Condizione indispensabile
per attivare la procedura, e dunque per superare l’autorità di cosa giudicata della decisione, è la
scoperta dopo la sentenza di elementi di fatto nuovi, anteriori alla sentenza e tali che, se conosciuti e
apprezzati dal giudice, avrebbero potuto condurre quest’ultimo ad una diversa soluzione della
controversia.
Avverso la sentenza pronunciata in contumacia è prevista l’opposizione, da proporsi entro 1 mese
dalla notifica della sentenza. Il procedimento segue lo stesso rituale di quello ordinario.
Inoltre, è prevista la possibilità di chiedere l’interpretazione del dispositivo di una pronuncia o di
un suo punto specifico (art. 43 dello Statuto della Corte), sia su iniziativa di una parte principale che
di una parte interveniente. La sentenza viene allegata all’originale della pronuncia interpretata.
Nel sistema giurisdizionale dell’Unione è anche previsto l’istituto del riesame delle sentenze del
Tribunale, di difficile qualificazione e classificazione giuridica, anche se presenta delle analogie con
il ricorso nell’interesse della legge. Più precisamente, l’art. 256, paragrafi 2 e 3, TFUE prevede che
le decisioni emesse dal Tribunale sui ricorsi proposti avverso le decisioni delle camere
giurisdizionali, nonché le decisioni emesse su questioni pregiudiziali possono eccezionalmente
essere oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia, alle condizioni ed entro i limiti previsti
dallo Statuto. Quindi si tratta di 1 procedura di urgenza che può trovare applicazione sia nei ricorsi
diretti che in quelli indiretti, a condizione che sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del
diritto dell’Unione siano compromesse.
In attuazione di quanto prefigurato dall’art. 256, paragrafi 2 e 3, del Trattato, l’art. 62 dello Statuto
ha affidato al 1° avvocato generale l’iniziativa di proporre alla Corte il riesame della decisione del
Tribunale. Questa proposta, sempre ai sensi dell’art. 62 dello Statuto, deve essere presentata entro 1
77
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del Tribunale; la Corte deve poi decidere, entro 1
mese a decorrere dalla presentazione della detta proposta, sull’opportunità di procedere al riesame.
Nelle ipotesi in cui «la Corte di giustizia costati che la decisione del Tribunale pregiudichi l’unità o
la coerenza del diritto dell’Unione, essa rinvia la causa dinanzi al Tribunale che è vincolato ai punti
di diritto decisi dalla Corte». Può anche eccezionalmente accadere che la soluzione della
controversia emerga, in considerazione dell’esito del riesame, dagli accertamenti in fatto sui quali è
basata la decisione del Tribunale. In quest’ultima ipotesi, la Corte statuisce in via definitiva,
sostituendosi la sua soluzione a quella del Tribunale.
L’istituto del rinvio, poi, è strettamente correlato al trasferimento di alcune e limitate competenze
pregiudiziali dalla Corte al Tribunale, in quanto esso troverà applicazione soltanto se e quando
verranno effettivamente affidate al Tribunale siffatte competenze. Specificatamente, il nuovo testo
dell’art. 256, par. 3, TFUE attribuisce al Tribunale la facoltà di disporre un rinvio alla Corte «ove
ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità o la
coerenza del diritto dell’Unione». Tale rimedio è quindi subordinato alla sussistenza delle
medesime condizioni eccezionali previste per il riesame, ma è soggetto al potere discrezionale del
Tribunale.

9. IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE SULLA CORRETTA APPLICAZIONE DEL


DIRITTO DELL’UNIONE NEGLI STATI MEMBRI. LA PROCEDURA D’INFRAZIONE

Il controllo giurisdizionale della Corte di Giustizia sulla puntuale applicazione del diritto
dell’Unione in tutti gli Stati membri mira non soltanto a verificare continuamente la compatibilità di
atti e comportamenti di tali Stati con il diritto dell’Unione, ma anche ad assicurare la necessaria
uniformità di applicazione delle norme europee in tutti gli Stati membri. In altri termini, il
controllo mira a garantire l’armonia del sistema giuridico dell’Unione considerato nel suo insieme e
rispetto alle sue diverse articolazioni normative.
La procedura di infrazione si collega al ruolo attribuito alla Commissione di custode della
corretta applicazione, da parte degli Stati membri, dei Trattati e degli atti dell’Unione (art. 17, par.
1, TUE). Nel sistema dell’Unione l’ipotesi normale è che la procedura sia attivata dalla
Commissione nei confronti di 1 Stato membro, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 258 TFUE.
La procedura d’infrazione è sostanzialmente diretta a porre termine alla violazione del diritto
dell’Unione e pertanto a far sì che il comportamento dello Stato membro si modifichi e sia coerente
con il dettato delle norme conferenti, prima ancora e + che all’accertamento dell’infrazione. Ne
consegue, ad es., che una decisione della Commissione di avviare la procedura d’infrazione quando
quest’ultima abbia già prodotto ed esaurito i suoi effetti è illegittima, in quanto tradirebbe le finalità
stesse di tale procedura.
Quanto alla natura dell’infrazione, essa consiste all’evidenza nella violazione di 1 qualsiasi
obbligazione che incomba su di uno Stato membro. È vero che l’art. 258 si riferisce agli obblighi
«incombenti in virtù dei Trattati», ma è ben chiaro che si tratta di tutti gli obblighi che derivano dal
sistema giuridico europeo considerato nel suo insieme, compresi gli atti vincolanti e gli accordi
internazionali stipulati dall’Unione.
L’inadempimento può consistere in un comportamento o in un atto normativo o in una pratica
amministrativa o, spesso, nell’aver omesso di dare formale attuazione ad un obbligo dell’Unione: si
pensi al caso tipico della mancata o non corretta o non tempestiva trasposizione di 1 direttiva,
oggetto di numerose sentenze c.d. di condanna di Stati membri. Un’ipotesi particolare di infrazione
è poi quella della mancata esecuzione di una sentenza della Corte, in cui già si riconosceva un
inadempimento. Ciò rappresenta 1 violazione dell’art. 260 TFUE, non avendo lo Stato adottato le
misure che l’esecuzione della 1° sentenza importa.
La procedura d’infrazione, quale prevista dall’art. 258 TFUE, ha in 1° luogo 1 fase
precontenziosa, che si svolge su impulso e cmq sotto la responsabilità della Commissione.
Quest’ultima esercita un controllo sistematico almeno sull’osservanza di alcune categorie di
78
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

obblighi da parte dei Paesi membri, ad es. quanto alla puntuale e corretta trasposizione di direttive;
e in tal modo essa rileva i casi di inosservanza o le infrazioni. L’attenzione della Commissione
risulta utilmente richiamata da interrogazioni parlamentari o viepiù da comuni cittadini o da
associazioni, che molto semplicemente indirizzano ala Commissione un esposto scritto in cui
indicano i fatti che in ipotesi costituiscano un’inosservanza del diritto dell’Unione.
Se all’esito della verifica la Commissione ritiene che un’infrazione sia stata commessa dallo Stato
membro, la stessa invia a quest’ultimo una lettera di messa in mora, che è una 1° contestazione
degli addebiti; in sostanza, è un’indicazione delle ipotesi di inosservanza del diritto dell’Unione che
la Commissione imputa allo Stato membro. Quest’ultimo ha la possibilità e l’onere di rispondere
alle censure della Commissione, facendo valere gli argomenti di fatto e di diritto che ritiene
opportuni.
Il passo formale ulteriore della Commissione, se non ritiene adeguate le osservazioni dello Stato
membro, è l’invio a quest’ultimo di 1 parere motivato, nel quale sono specificate le infrazioni che
ancora si ritengono commesse e gli elementi di diritto e di fatto che sostengono la contestazione; ed
è specificato anche il termine entro il quale lo Stato membro è tenuto a mettere fine
all’inadempimento.
La lettera di messa in mora e il parere motivato costituiscono passaggi obbligati della procedura
d’infrazione, in quanto valgono a definire l’oggetto della controversia e a soddisfare l’esigenza del
contraddittorio cui è ispirata anche la fase precontenziosa.
Con il parere motivato, la Commissione delimita definitivamente, in fatto e in diritto,
l’inadempimento imputato allo Stato membro e gli argomenti sui quali fonda la sua posizione. Se
entro il termine fissato nel parere motivato lo Stato membro non si adegua a quanto richiesto dalla
Commissione, quest’ultima può presentare un ricorso alla Corte di giustizia.
Nel ricorso, i motivi di doglianza devono corrispondere a quelli indicati nella fase precontenziosa
ed in particolare agli argomenti di diritto enunciati nel parere motivato. La giurisprudenza sul punto
è ben consolidata, nel senso che 1 ricorso è irricevibile quando, e nella misura in cui, contiene
addebiti che non hanno formato oggetto della procedura precontenziosa e sui quali non si è
realizzato alcun contraddittorio tra l’istituzione e lo Stato membro interessato.
L’inadempimento deve essere rigorosamente provato dalla Commissione, e non può essere fondato
su presunzioni. Ad es. non può fondarsi sulla presunzione che un testo apparentemente ambiguo di
una normativa sarà applicato in maniera difforme dal diritto dell’Unione; al contrario, la portata
delle normative nazionali va valutata anche alla luce dell’interpretazione che ne ha dato la
giurisprudenza. Va poi detto che la Corte riconosce la possibilità di contestare nel ricorso fatti
ulteriori che siano «delle medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e che
costituiscono uno stesso comportamento», ma solo se intervenuti successivamente al parere
motivato e cmq non noti prima alla Commissione. Nondimeno, la Corte ha precisato che non si può
imporre alla Commissione che sussista in ogni caso una perfetta coincidenza tra il dispositivo del
parere motivato e le conclusioni del ricorso, laddove l’oggetto della controversia non sia stato
ampliato o modificato, ma soltanto ridotto. Ciò significa che, qualora una modifica normativa sia
sopravvenuta nel corso del procedimento precontenzioso, il ricorso può riguardare disposizioni
nazionali che non siano identiche a quelle censurate nel parere motivato.
Non è previsto un termine per la presentazione del ricorso da parte della Commissione, che dunque
conserva un’ampia discrezionalità. Essa infatti potrebbe, ad es., ritardare l’introduzione del ricorso
per evitare il giudizio, quando ritenga che lo Stato membro possa adempiere in tempi brevi, anche
se successivamente alla scadenza del termine fissato nel parere motivato.
Più in generale, va considerato che la Commissione, secondo 1 solida giurisprudenza, NON ha 1
obbligo di attivare e proseguire la procedura d’infrazione, MA SOLO 1 facoltà. In definitiva, la
Commissione gode di un ampio potere discrezionale al riguardo, che esclude pertanto la
configurabilità di 1 diritto del singolo ad esigere che l’istituzione agisca.
La possibilità per la Commissione di introdurre un ricorso dinanzi alla Corte, tuttavia, è determinata
dalla scadenza del termine concesso allo Stato nel parere motivato. Se quel termine è trascorso
79
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

senza che lo Stato abbia adempiuto, sussiste e permane l’interesse pieno della Commissione a
portare lo Stato dinanzi alla Corte, con la conseguenza che quest’ultima, investita della causa, è
tenuta a giudicare, con la sola eccezione della rinuncia all’azione da parte della stessa
Commissione. Ciò vuol dire anche che la sussistenza dell’inadempimento va valutata in relazione
alla situazione quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato, mentre
sono irrilevanti i mutamenti intervenuti successivamente a tale scadenza.
A non diversa conclusione si perviene quando l’inadempimento contestato allo Stato membro sia
stato nella sostanza già accertato: ad es., l’incompatibilità di una legge con il diritto dell’Unione
accertata e sostanzialmente dichiarata dalla Corte nell’ambito di una procedura pregiudiziale ex art.
267 TFUE. Ed invero il rinvio pregiudiziale è 1 procedimento del tutto autonomo rispetto alla
procedura d’infrazione e dunque il suo esperimento non può limitare il potere della Commissione di
proporre il ricorso previsto dall’art. 258. Del pari, la Corte non può dichiarare cessata la materia del
contendere, se lo Stato adempie nel corso del giudizio; anche in tal caso, infatti, permane inalterato
l’interesse della Commissione, sola a poter rinunciare all’azione, a vedere dichiarato
l’inadempimento.
Né ha influenza alcuna per la procedura dinanzi alla Corte il fatto che lo Stato membro riconosca,
non importa se in modo espresso e formale, il proprio inadempimento, come peraltro avviene in
moltissimi casi, indicati comunemente come infrazioni non contestate.
La Corte ha affermato la propria competenza ad adottare misure cautelari, in virtù dell’art. 279
TFUE, e talvolta ha anche sospeso l’applicazione di una normativa nazionale inaudita altera parte,
in attesa dell’ordinanza conclusiva del procedimento cautelare.
L’ordinanza cautelare della Corte, nella misura in cui ingiunge allo Stato membro un certo
comportamento ed in particolare l’immediata sospensione di una normativa o di una prassi
nazionale, finisce con l’avere una portata addirittura più incisiva o almeno più immediatamente
efficace rispetto alla sentenza definitiva. Quest’ultima infatti, ai sensi dell’art. 260, lascia agli Stati
membri o all’amministrazione dell’Unione di provvedere a trarne le conseguenze. Inoltre, la prassi
non conosce casi di inosservanza di ordinanze cautelari della Corte, mentre ben conosce quei casi di
ritardo nell’inosservanza di sentenze definitive che, come accennato, preludono alle cc.dd. doppie
condanne.
La procedura d’infrazione è condotta nei confronti dello Stato membro, in quanto è allo Stato
unitariamente considerato che l’inadempimento viene attribuito. Il sistema giuridico dell’Unione,
dunque, riconosce lo Stato come unico interlocutore delle istituzioni o degli altri Stati membri.
D’altra parte, i comportamenti di uno Stato sul piano dei rapporti con gli altri Stati o con le
organizzazioni internazionali, in ogni caso i comportamenti rilevanti al di là della dimensione
propriamente nazionale, soprattutto se investono la responsabilità verso altri soggetti, sono da
sempre imputati allo Stato e solo a quest’ultimo.
Anche i Trattati riconoscono solo gli Stati e NON anche le articolazioni interne, territoriali e no,
attraverso le quali lo Stato esercita i diritti e adempie agli obblighi che i Trattati stessi o le norme da
questi derivate prefigurano.
Il problema rileva in particolare in relazione all’adempimento di obbligazioni sancite da normative
poste in essere per settori che in qualche Stato membro sono di competenza non già
dell’amministrazione centrale bensì di un qualche ente territoriale, ad es. la Regione o il Comune. È
il caso soprattutto della trasposizione di direttive che investono le competenze regionali e che per
ciò stesso può spettare, in base al dir. interno e al riparto costituzionale di attribuzioni, all’ente
territoriale. La giurisprudenza al riguardo è ben solida, nel senso che ciascuno Stato membro è
evidentemente libero di articolare come meglio crede le competenze sul piano interno e, dunque,
anche di affidare l’attuazione di normative dell’Unione alle amministrazioni periferiche. Tuttavia
una tale circostanza non può essere invocata dallo Stato, cui incombe l’obbligo di assicurare il
corretto adempimento degli obblighi dell’Unione, per giustificare il mancato rispetto di tali obblighi
ed in particolare la puntuale e tempestiva esecuzione delle direttive. In definitiva, è sempre lo Stato
membro ad essere dichiarato responsabile ai sensi dell’art. 258 TFUE, senza che rilevi la
80
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

circostanza che la violazione sia imputabile al potere legislativo, esecutivo o giudiziario, trovando
applicazione in materia il principio, d’ispirazione internazionalistica, secondo cui la responsabilità
dello Stato membro opera rispetto a qualsiasi ipotesi di violazione e quale che sia l’organo che vi
abbia dato origine.
Ciò, peraltro, va considerato nella prospettiva anche + ampia delle giustificazioni che lo Stato può
opporre alla contestazione di un’infrazione e alla sussistenza dell’inadempimento, tra le quali di
certo non figurano disposizioni o prassi del proprio sistema giuridico o altre contingenze nazionali,
ancor meno il semplice timore di difficoltà interne. Così, è senz’altro irrilevante una crisi di
governo o la sospensione dei lavori parlamentari a causa dello scioglimento delle Camere per
giustificare il ritardo nell’adozione di norme. È del pari irrilevante, ai fini dell’accertamento
dell’infrazione, la circostanza che si sia prodotto un danno per effetto della mancata trasposizione di
1 direttiva. La Corte ha peraltro precisato che è possibile invocare la forza maggiore per giustificare
difficoltà temporanee di adempimento, ma solo per il periodo strettamente necessario ad
un’amministrazione diligente per porvi rimedio.
L’adempimento degli obblighi dell’Unione NON è soggetto a condizione di reciprocità, per cui lo
Stato membro non può giustificare il proprio con l’inadempimento di altri Stati membri. Del pari lo
Stato membro non può opporre al ricorso della Commissione per violazione di un atto dell’Unione
l’invalidità di quest’ultimo, quando non l’abbia impugnato nei termini e alle condizioni di cui
all’art. 263 del Trattato.
Oltre alla procedura d’infrazione disciplinata dall’art. 258 TFUE, sempre con riferimento al
sistema europeo di controllo giurisdizionale della legittimità sui comportamenti degli Stati membri,
va ricordato che in virtù dell’art. 259 la stessa procedura può essere attivata da uno Stato membro,
per veder riconosciuto l’inadempimento di un altro Stato membro. Nella fese precontenziosa lo
Stato investe la Commissione della sua doglianza; e all’istituzione competono gli stessi
adempimenti della procedura normale, la lettera di messa in mora e il parere motivato. Se peraltro la
Commissione non invia il parere motivato entro 3 mesi dall’inizio della procedura, lo Stato può
adire direttamente la Corte. In questa ipotesi, cambia solo il soggetto che ricorre dinanzi alla Corte.
Va poi accennato all’esistenza di specifiche ipotesi di inadempimento, per le quali lo stesso TFUE
prevede, in deroga agli artt. 258 e 259, 1 procedura accelerata, nel senso che la Commissione e
gli Stati membri possono, saltando la fase precontenziosa, adire direttamente la Corte. È il caso
dell’art. 108, in materia di aiuti di Stato, qualora lo Stato di cui si tratta:
 non si conformi nel termine impartito ad una decisione di incompatibilità dell’aiuto
concesso;
 oppure eroghi un aiuto prima ancora che la Commissione si sia pronunciata sulla sua
compatibilità nell’ambito della procedura avviata al riguardo.
 Infine, ipotesi diversa e marginale è quella prevista dall’art. 271, lett. a), in base al quale il
Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti può proporre ricorso
alla Corte, assumendo in questo caso gli stessi poteri d’iniziativa di cui dispone la
Commissione ai sensi dell’art. 258, per far constatare la mancata esecuzione, da parte degli
Stati membri, degli obblighi derivanti dallo statuto della Banca. Un’ipotesi analoga è
prevista dall’art. 271, lett. d), introdotto dal Trattato di Maastricht, in relazione alle
controversie sull’esecuzione degli obblighi derivanti alle Banche centrali nazionali dai
Trattati e dallo statuto del SEBC: in questa singolare ipotesi è il Consiglio della BCE che
dispone, nei confronti delle Banche centrali nazionali, degli stessi poteri riconosciuti nei
confronti degli Stati membri alla Commissione ai sensi dell’art. 258.

10. Segue: EFFETTI DELLA SENTENZA DI INADEMPIMENTO E SANZIONE


PECUNIARIA

81
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Gli effetti di una pronuncia della Corte all’esito di una procedura d’infrazione sono prefigurati
dall’art. 260 TFUE. La sentenza testualmente «riconosce» che lo Stato è inadempiente rispetto ad
una o più obbligazioni che gli derivano dai Trattati oppure da un atto dell’Unione. Dunque si tratta
di una sentenza meramente dichiarativa, non esistendo la possibilità di attuare in forma coattiva la
pronuncia della Corte. D’altra parte, che l’inadempimento riconosciuto con sentenza possa dar
luogo ad una qualsiasi azione di altri Stati membri, al di fuori dei meccanismi dell’Unione
espressamente previsti, è formalmente escluso dall’art. 344.
Cmq gli Stati dichiarati inadempienti sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della
sentenza impone: all’occorrenza, abrogare o introdurre una norma nell’ordinamento, trasporre una
direttiva, modificare una prassi o quant’altro. In particolare, la giurisprudenza della Corte ha
precisato che la pronuncia che accerti l’incompatibilità con i Trattati di una legge nazionale
comporta per lo Stato l’obbligo di modificarla, adeguandola alle esigenze del diritto dell’UE;
nonché l’obbligo per i giudici di garantire l’osservanza della norma europea così come interpretata
dalla Corte, determinando anche i diritti che i singoli ne traggono. Né sono sufficienti, a tale scopo,
la pubblicazione di una circolare ministeriale o semplici prassi amministrative, in quanto lasciano
immutate la legislazione o l’atto amministrativo oggetto della dichiarazione di incompatibilità da
parte della Corte. In breve, l’incompatibilità di una normativa nazionale può essere definitivamente
rimossa SOLO con disposizioni vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico, dunque lo stesso
rango, di quelle riconosciute in contrasto con l’ordinamento dell’UE.
Il TFUE non fissa alcun termine per l’esecuzione della sentenza che accerti l’inadempimento;
tuttavia è evidente che l’esigenza fondamentale dell’applicazione immediata e uniforme del diritto
dell’UE, da soddisfare anche nel rispetto del principio di leale cooperazione sancito dall’art. 4, par.
3, del TUE, richiede necessariamente tempi brevi.
Nella versione precedente al Trattato di Maastricht, l’art. 260 (già art. 228) si fermava a questo
punto, con la conseguenza che l’ipotesi di mancata o non corretta o non tempestiva esecuzione della
sentenza era configurabile quale normale inadempimento, come tale passibile a sua volta di una
procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 258. È, questa, l’ipotesi comunemente definita di doppia
condanna, che pure ha riguardato non poche volte il nostro Paese. Il Trattato di Maastricht – oltre a
codificare la doppia condanna – ha aggiunto, nello stesso art. 260, la previsione di una sanzione
pecuniaria per l’ipotesi che uno Stato membro non abbia adottato le misure necessarie per dare
esecuzione ad una sentenza che riconosce l’inadempimento. In questo caso, la procedura
d’infrazione può essere reiterata così come appena ricordato, ma in questo caso la Commissione
chiede alla Corte anche la condanna dello Stato al pagamento:
 di una somma forfettaria  nei casi di inadempimento puntuale e isolato;
 oppure di una penalità di mora  nei casi di mancata abrogazione o adozione di norme.
N.B.: Il Trattato di Lisbona ha aggiunto un’ulteriore novità, prevedendo che la Commissione
possa direttamente richiedere nel primo ricorso alla Corte, ex art. 258 TFUE, di condannare
lo Stato inadempiente al pagamento di 1 sanzione pecuniaria. Si tratta di una novità di
portata ridotta, in quanto si applica soltanto se lo Stato non abbia trasposto una direttiva
adottata secondo la procedura legislativa, restando invece escluse da questa procedura
accelerata le altre ipotesi di violazione del diritto dell’Unione.
Di un certo rilievo, poi, è l’affermazione che, nonostante la congiunzione «o» utilizzata nella
formulazione dell’art. 260 («La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è
conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma
forfettaria o di una penalità»), l’imposizione di un’ammenda forfettaria non è affatto alternativa
alla determinazione di una penalità di mora, le 2 sanzioni potendo essere cumulate. In particolare, è
stato ritenuto ammissibile il cumulo «qualora l’inadempimento, nel contempo, sia perdurato a lungo
e tenda a persistere».

82
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

In base agli artt. 280 e 299 del TFUE, la sentenza della Corte è titolo esecutivo all’interno degli
ordinamenti nazionali, con apposizione della relativa formula in base alla mera verifica di
autenticità da parte dell’autorità competente (per l’Italia, il Ministero degli Esteri).
Peraltro, bisogna sottolineare che, indipendentemente dalla sanzione pecuniaria, la sentenza che
accerta l’infrazione non è affatto priva di conseguenze. Infatti, nel caso + ricorrente che è quello in
cui la Corte di giustizia riconosce che lo Stato è inadempiente in quanto ha introdotto o mantenuto
nel suo ordinamento una norma incompatibile con il diritto dell’Unione o ha mancato di trasporre
una direttiva, la conseguenza è, per i giudici e le amministrazioni nazionali, un obbligo di non
applicare la norma nazionale dichiarata dalla Corte incompatibile con il diritto dell’Unione, ma
direttamente le norme europee che siano provviste dell’effetto diretto, così come interpretate dalla
Corte nella sentenza. La Corte Costituzionale italiana ha da parte sua riconosciuto che
l’interpretazione della norma dell’Unione, compiuta attraverso una sentenza della Corte di giustizia
resa in sede di procedura d’infrazione, ha la stessa immediata efficacia delle disposizioni
interpretate; in altri termini, si impone al giudice la non applicazione della norma interna
configgente e l’applicazione della norma dell’Unione provvista di effetto diretto, così come
interpretata dalla Corte di giustizia.
Inoltre vi sono delle previsioni finalizzate ad una + efficace e consapevole applicazione delle norme
dell’Unione da parte degli enti territoriali e degli enti pubblici, nonché ad evitare che
l’inadempimento da parte di questi ultimi determini degli oneri a carico del bilancio dello Stato. In
particolare, si prevede il diritto dello Stato di rivalersi nei confronti di questi enti in relazione:
 sia al pagamento di sanzioni pecuniarie derivanti da sentenze di condanna rese dalla Corte,
ai sensi dell’art. 260, par. 2, del TFUE;
 sia all’obbligo di restituzione di somme indebitamente percepite provenienti dai fondi
strutturali.

11. CONTROLLO GIURISDIZIONALE E COOPERAZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE


E GIUDICE DELL’UNIONE. FUNZIONE E OGGETTO DEL RINVIO PREGIUDIZIALE

Nel sistema di controllo giurisdizionale sulla corretta e uniforme applicazione del diritto
dell’Unione in tutti gli Stati membri, un rilievo decisivo ha assunto la cooperazione tra Corte di
giustizia e giudice nazionale, quest’ultimo non a caso definito giudice comune o anche naturale del
diritto dell’UE. Per capire bene questa cooperazione, occorre partire dalla constatazione che
l’applicazione in concreto delle norme e degli atti dell’Unione è per molta parte demandata agli
Stati membri e alle rispettive amministrazioni.
Nella patologia dei rapporti giuridici, dunque, a fare applicazione del diritto dell’Unione,
direttamente o nella forma dell’atto nazionale imposto da una normativa europea, è principalmente
il giudice nazionale. Peraltro, mentre ciò si traduce in via di principio in 1 garanzia di + immediata
e completa tutela x il singolo, è ben chiaro che la stessa circostanza che i giudici di 27 Paesi diversi,
dunque operanti in tanti sistemi giuridici differenti, sono chiamati ad applicare in via diretta o
mediata il diritto dell’UE crea oggettivamente 1 problema di uniformità e per ciò stesso di corretta
applicazione dello stesso diritto dell’UE.
È in questa prospettiva che va messo a fuoco il meccanismo del rinvio pregiudiziale prefigurato
all’art. 267 TFUE, che dà al giudice nazionale la facoltà, e se di ultima istanza l’obbligo, di
chiedere alla Corte di giustizia una pronuncia sull’interpretazione o sulla validità di una norma
dell’Unione, quando tale pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia di cui è stato
investito.
È ben chiaro poi che, rispetto ad un rapporto giuridico sottoposto all’apprezzamento del giudice di
uno Stato membro, la norma dell’Unione può costituire – e sempre + spesso costituisce – un
momento necessario della ricerca della giusta disciplina:

83
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 sia perché è proprio questa norma a regolare il rapporto;


 sia perché in ogni caso essa costituisce il parametro di legittimità o semplicemente di
congruità della norma interna applicabile.
Così, di fronte alla possibile o accertata rilevanza di una norma dell’Unione per la soluzione della
controversia, può essere utile o necessario al giudice nazionale, prima e al fine di decidere la
controversia sottopostagli, avere una risposta a questi possibili interrogativi:
a) quale sia la corretta interpretazione e con essa la portata della norma dell’Unione;
all’occorrenza, se la corretta interpretazione della norma dell’Unione precluda o meno
l’applicazione di un atto amministrativo, di una legge e persino, eventualmente, di una
norma costituzionale dello Stato membro;
b) se la norma dell’Unione rilevante sia valida ed efficace.
Le 2 ipotesi corrispondono al rinvio pregiudiziale d’interpretazione e rispettivamente di validità
delle norme dell’Unione.
L’art. 267 TFUE ha attribuito alla Corte una competenza generale in materia pregiudiziale,
eliminando, in particolare, le differenze prima esistenti tra i meccanismi di tutela giurisdizionale del
diritto comunitario (ex 1° pilastro) e quelli della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia
penale (ex 3° pilastro); poi sono state eliminate anche le differenze all’interno del 1° pilastro.
La funzione essenziale del rinvio pregiudiziale è di realizzare un’interpretazione e quindi
un’applicazione del diritto dell’Unione uniforme in tutti i Paesi membri, in modo che esso abbia
dovunque la stessa efficacia. In altri termini, è necessario che le norme dell’Unione ricevano la
stessa chiave di lettura e di conseguenza le stesse possibilità di applicazione in tutti i Paesi membri.
Ad es. il giudice di Napoli deve applicare l’art. X del Trattato o l’art. Y del regolamento sulle
sementi o anche l’art. Z della direttiva sugli appalti pubblici di lavori alla stessa maniera, e con la
stessa ricaduta sulla fattispecie concreta, dei giudici di Atene e di Dublino. Certo, è fisiologico che
vi sia una diversità di approccio e di applicazione, ma il fenomeno deve restare per quanto possibile
temporalmente limitato e cmq deve alla lunga essere eliminato proprio grazie ad una
interpretazione centralizzata.
Alla Corte di giustizia spetta l’ultima parola in ordine all’interpretazione del diritto dell’Unione; e
solo in questo senso la sua competenza può anche considerarsi esclusiva; infatti, in prima battuta e
cmq in via normale è il giudice nazionale ad applicare e per ciò stesso ad interpretare il diritto
dell’Unione.
La seconda funzione del rinvio pregiudiziale d’interpretazione è quella di verificare la legittimità
di una legge nazionale o di un atto amministrativo o anche di una prassi amministrativa rispetto
al diritto dell’Unione. Certo, il meccanismo è complesso, in quanto la sentenza del giudice
nazionale che accerta la legittimità o meno della norma nazionale consegue ad un’interpretazione
del diritto dell’Unione da parte della Corte di giustizia.
Il controllo della Corte sulla legittimità di norme e atti nazionali, anche se indiretto, è stato
affermato come momento fondamentale del sistema di tutela dei diritti che il singolo vanta in forza
del diritto dell’Unione. Rilevante a questo riguardo è stara la pronuncia Van Gend en Loos, a
proposito dell’art. 30 (già 25) TFUE, disposizione che vieta agli Stati membri di introdurre negli
scambi intracomunitari nuovi dazi doganali e di aumentare quelli esistenti, di cui si assumeva la
violazione da parte dei Paesi Bassi. L’obiezione, anche dei molti governi intervenuti nella
procedura, era che x sindacare le infrazioni degli Stati membri, nella forma di normative nazionali
incompatibili con il diritto dell’Unione, il Trattato aveva predisposto il meccanismo della procedura
d’infrazione di cui agli artt. 258 e 259, sicché il singolo non poteva pretendere di pervenire allo
stesso risultato provocando un rinvio pregiudiziale del giudice nazionale. Di fronte a questa
obiezione, la Corte rispose con chiarezza che limitare la possibilità di far valere la violazione di una
norma dell’Unione a quella offerta dalla procedura d’infrazione equivarrebbe a lasciare i diritti dei
singoli «privi di tutela giurisdizionale diretta».

84
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Quando un singolo ritiene di aver subito un pregiudizio per effetto dell’applicazione di una norma o
di una prassi nazionale assunta come incompatibile con il diritto dell’Unione, può far valere tale
incompatibilità e provocarne l’accertamento in 2 modi, e precisamente:
1. il 1°  è quello della segnalazione alla Commissione, che a sua volta deciderà se attivare o
meno la procedura di infrazione ex art. 258;
2. il 2°  è quello di chiedere al giudice nazionale dinanzi al quale sia stata portata la
controversia di procedere al rinvio pregiudiziale d’interpretazione ex art. 267.
N.B.: Peraltro non è escluso, anzi può essere addirittura utile, che si proceda
contestualmente nei 2 modi, stimolando sia l’apertura di una procedura d’infrazione da parte
della Commissione, sia 1 rinvio pregiudiziale da parte del giudice, con il risultato che alla
fine si potranno avere 2 sentenze della Corte, una d’inadempimento e un’altra formalmente
di interpretazione ma sostanzialmente anch’essa d’inadempimento. Tuttavia, restano 2
procedure con oggetto e conseguenze diverse, non solo sul piano formale; e precisamente:
 La prima tende all’accertamento di una violazione da parte del diritto nazionale;
 La seconda ad una lettura della norma dell’Unione dalla quale potrà eventualmente dedursi
un’incompatibilità di una norma nazionale; solo la procedura d’infrazione è presupposto x la
procedura ex art. 260 del TFUE; in questa procedura la Commissione ha un potere
discrezionale quanto alla sua attivazione.
La terza funzione del rinvio pregiudiziale consiste nel completare il sistema di controllo
giurisdizionale sulla legittimità degli atti dell’Unione. Proprio in quanto le amministrazioni
nazionali sono spesso chiamate a fare applicazione del diritto dell’Unione, sia direttamente sia
perché gli atti interni sono di attuazione di normative europee, dinanzi al giudice nazionale può
essere messa in discussione o la norma dell’Unione direttamente applicabile o la base giuridica
dell’atto dell’Unione o del comportamento dell’amministrazione nazionale. Lo scopo può essere
quello di farne valere l’illegittimità o di farne accertare definitivamente la contestata legittimità, in
entrambi i casi chiamando in causa – attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale – la Corte di
giustizia. La competenza di questa è esclusiva rispetto al controllo sulla legittimità degli atti
dell’Unione, in particolare nel senso che solo alla Corte di giustizia spetta dichiarare l’eventuale
illegittimità dell’atto; il giudice nazionale, invece, può solo confermarne la legittimità, fatta salva
l’ipotesi di una procedura nazionale di natura cautelare: in quest’ultimo caso, il giudice nazionale
può sospendere l’applicazione di un atto interno di attuazione di 1 atto dell’Unione, e così facendo
in sostanza sospendere egli stesso in via provvisoria l’applicazione dell’atto dell’Unione, con
l’obbligo tuttavia del rinvio pregiudiziale alla Corte.
L’ipotesi del rinvio pregiudiziale di validità rientra a pieno titolo nell’esercizio della funzione di
controllo giurisdizionale sugli atti dell’Unione devoluta alla Corte. Pertanto questa ipotesi va
concettualmente e sistematicamente collegata alle procedure di controllo diretto, quali l’azione di
annullamento (art. 263), l’eccezione di invalidità (art. 277), nonché l’azione di responsabilità (artt.
268 e 340).
Ciò vuol dire anche che il rinvio pregiudiziale di validità completa il sistema dei rimedi
giurisdizionali predisposti per la tutela dei diritti del singolo rispetto agli atti posti in essere dalle
istituzioni dell’Unione.
Più problematica è l’ipotesi di un atto che il singolo abbia mancato di impugnare direttamente
dinanzi alla Corte di giustizia e di cui il giudice nazionale chieda alla Corte di accertare la validità.
 Nell’ipotesi che il singolo sia destinatario formale dell’atto, rileva la regola generale che
preclude, x ovvie ragioni di certezza del diritto, al singolo come ai ricorrenti privilegiati, di
rimettere in discussione l’atto – con 1 ricorso diretto o con lo strumento del rinvio
pregiudiziale – dopo la scadenza dei termini di impugnazione.
 Relativamente all’ipotesi che il singolo non sia il destinatario formale dell’atto e che
pertanto la sua legittimazione all’impugnazione diretta sia almeno problematica, c’è stata
qualche evoluzione nella giurisprudenza. La Corte ha precisato che quando il singolo sia

85
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

«indiscutibilmente» legittimato, pur non essendone il formale destinatario, ad impugnare


l’atto con ricorso diretto, il giudice nazionale deve considerare l’atto dell’Unione come
definitivo, con la conseguenza che non vi sono le condizioni per procedere al rinvio
pregiudiziale di validità.
L’oggetto del rinvio pregiudiziale è quanto mai ampio. Per il rinvio d’interpretazione, si tratta di
tutto il sistema giuridico dell’Unione, dai trattati istitutivi agli accordi di associazione, dagli atti
delle istituzioni, anche quelli non vincolanti, ai principi generali del diritto dell’Unione. Ad es., è
stato chiarito che un accordo stipulato dall’Unione con uno Stato terzo è parte integrante del diritto
europeo e dunque rientra tra gli atti sui quali la Corte può pronunciarsi in via pregiudiziale; e che lo
stesso vale per gli atti che lo attuano, posti in essere dal consiglio di associazione istituito
dall’accordo.
Gli atti sottoposti alla verifica di validità sono quelli posti in essere dalle istituzioni, dagli organi e
dagli organismi dell’Unione: mentre il Trattato di Maastricht ha attribuito alla cognizione della
Corte gli atti della BCE, il Trattato di Lisbona, oltre a ricomprendere quest’ultima tra le istituzioni
dell’Unione, ha esteso la competenza del giudice dell’Unione agli atti compiuti dagli organi e dagli
organismi dell’Unione. Sono esclusi invece gli «atti» della Corte, cioè le sentenze. In definitiva, si
tratta di tutti gli atti impugnabili con il ricorso diretto ex art. 263, dunque gli atti vincolanti. Anche i
vizi che possono essere l’oggetto dell’accertamento della Corte corrispondono a quelli rilevanti ai
fini dell’azione di annullamento ex art. 263; dunque si tratta di tutti i vizi degli atti dell’Unione
suscettibili di provocarne l’invalidità, ivi compresa la non conformità al diritto internazionale.
Infine è pacifico che il rinvio pregiudiziale non può essere utilizzato per fare accertare alla Corte la
carenza di un’istituzione dell’Unione; e che dunque il giudice nazionale non può neppure
provvedere in via cautelare.

12. Segue: CONDIZIONI SOGGETTIVE E OGGETTIVE DEL RINVIO PREGIUDIALE

Il rinvio pregiudiziale può essere deciso da qualunque giudice nazionale (amministrativo, penale,
civile, tributario, del lavoro), purché si tratti della giurisdizione di uno Stato membro. La nozione di
giurisdizione ai sensi dell’art. 267 TFUE è 1 nozione del diritto dell’Unione, sì che la sua
attribuzione all’organo può anche non corrispondere alla qualificazione che ne abbia dato
l’ordinamento dello Stato membro; essa va dunque definita, così come la sua sussistenza
determinata, dalla Corte di giustizia. Quest’ultima vi ha provveduto in base a diversi elementi
qualificanti:
1) l’origine legale e non convenzionale dell’organo;
2) la stabilità;
3) l’obbligatorietà;
4) l’applicazione del diritto;
5) l’indipendenza;
6) e la terzietà.
In generale, nell’applicazione di criteri di discrimine c’è l’intento di dare la possibilità
all’organo cui l’ordinamento nazionale cmq abbia attribuito la definizione di una controversia di
utilizzare il rinvio pregiudiziale, per l’esigenza di applicazione uniforme del diritto dell’Unione.
 In particolare, sono stati esclusi dalla nozione di giurisdizione ai sensi dell’art. 267 TFUE:
a) la pubblica accusa, come il procuratore della Repubblica italiano;
b) gli arbitri o gli organi la cui composizione sia lasciata interamente alle parti della
controversia, ma non la giurisdizione nazionale che è chiamata a pronunciarsi
sull’impugnazione di un lodo arbitrale;
c) gli ordini professionali quando non rendono decisioni di natura giurisdizionale;
d) una commissione consultiva per le infrazioni valutarie;
e) l’intendente di finanza lussemburghese;
f) una commissione tributaria con funzioni non giurisdizionali;
86
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

g) la sezione di appello della direzione regionale delle finanze austriaca;


h) l’autorità greca di concorrenza.
 Viceversa sono stati compresi nella nozione di giurisdizione:
a) il giudice cautelare;
b) il giudice italiano dell’ingiunzione e il giudice istruttore;
c) il pretore italiano;
d) un organismo professionale che «crei mezzi di ricorso che possano incidere sull’esercizio
dei diritti conferiti dal diritto comunitario»;
e) un organismo finlandese competente a conoscere di ricorsi in materia agricola;
f) un organo giurisdizionale di appello competente a pronunciarsi in merito ad una decisione di
un tribunale incaricato della tenuta del registro delle imprese.
Con riferimento alle autorità nazionali di tutela della concorrenza, la questione si presenta piuttosto
complessa e problematica, tanto che nel corso degli anni si riscontrano nella giurisprudenza
dell’Unione delle soluzioni differenti.
La nozione di giurisdizione comprende evidentemente tutti i giudici degli Stati membri.
Per quanto riguarda il sistema italiano, occorre ricordare 2 ipotesi specifiche. Anzitutto è stata
negata la qualità di giurisdizione ai sensi dell’art. 267 al Tribunale in sede di volontaria
giurisdizione ed in particolare di omologazione di società commerciali, con l’argomento che in quel
contesto l’organo non è chiamato a risolvere una controversia.
Di qualche rilievo è stata l’attribuzione della qualifica di giurisdizione al Consiglio di Stato anche
nell’esercizio della sua funzione consultiva, in particolare quando è chiamato a dare il suo parere in
sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato, con l’argomento che di fatto si tratta di un parere
vincolante. Per la Corte dei Conti, che pure ha affermato la propria qualità di giurisdizione agli
effetti del rinvio pregiudiziale, indipendentemente dal contesto funzionale in cui opera il rinvio, si è
viceversa fatta valere l’esigenza di verificare precisamente tale contesto funzionale. In particolare,
si è sottolineato che un organo può essere in alcuni casi qualificato come giurisdizione e in altri tale
qualità non gli può essere riconosciuta, in particolare quando non esercita funzioni giurisdizionali.
La conseguenza è che quando la Corte dei conti esercita 1 funzione di valutazione e di controllo
successiva dell’attività amministrativa non è considerata una giurisdizione ai fini del rinvio
pregiudiziale.
Problema specifico è se la Corte Costituzionale possa essere compresa nella nozione di
giurisdizione ai sensi dell’art. 267, in particolare come giurisdizione di ultima istanza, così da essere
destinataria dell’obbligo di rinvio di cui al 3° comma dell’art. 267. Dal tenore letterale e dalla
logica complessiva di tale disposizione sembra potersi dedurre che il rinvio compete al giudice
della controversia, nel senso di giudice che definisce la causa, e che questi è il destinatario del
relativo obbligo quando sia di ultimo grado. Il giudice costituzionale non è il giudice della
controversia nel contesto di un incidente di costituzionalità, mentre lo è il giudice a quo: è
quest’ultimo, pertanto, che dovrà decidere, nel caso dovessero porsi contestualmente il problema di
legittimità costituzionale e quello di compatibilità dell’Unione, a quale rinvio dare la precedenza. In
proposito, si può concordare sul punto che la pregiudiziale comunitaria normalmente precede la
pregiudiziale di costituzionalità, poiché la pronuncia della Corte di giustizia, incidendo
sull’applicabilità della norma, ne potrebbe far risultare l’infondatezza e/o l’irrilevanza.
Diversa è l’ipotesi che il giudice costituzionale sia egli stesso il giudice che definisce la causa,
come nei casi di giudizio di legittimità costituzionale in via principale e di conflitto di attribuzioni
tra Stato e Regioni, ove è anche giudice di unica e ultima istanza, sì che sarebbe obbligato al rinvio
in virtù del 3° comma dell’art. 267. In tal senso, di recente la Corte costituzione ha espressamente
riconosciuto nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale la sua competenza a
proporre una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Difatti, in questi giudizi la Corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo
di garanzia costituzionale dell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale, poiché
è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia e contro le sue decisioni non è
87
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

ammessa alcuna impugnazione (ai sensi dell’art. 137, 3° comma, Cost.). In tal modo la Corte
costituzionale ha avviato un dialogo costruttivo con la Corte di giustizia, dialogo utile specie su
alcuni temi tipicamente «costituzionali» (ad es., i diritti fondamentali, immigrazione, circolazione
delle persone).
La valutazione sulla necessità del rinvio e dunque della pronuncia pregiudiziale della Corte ai fini
della decisione della causa spetta di regola al giudice nazionale. Egli, per conoscenza duretta dei
fatti e degli elementi di diritto rilevanti, è nella condizione migliore per valutare la pertinenza delle
questioni di diritto dell’Unione sollevate dalla causa. Ciò non esclude che la Corte possa
interpretare il quesito e rilevare gli aspetti di diritto che richiedono un’interpretazione o una verifica
di validità di norme dell’Unione, fino al punto di pronunciarsi relativamente a norme non chiamate
in causa nei quesiti.
Pertanto la regola è quella ancora riaffermata dalla Corte, secondo cui il principio della
cooperazione tra Corte di giustizia e giudice nazionale, e della conseguente ripartizione di
competenze, esclude che la Corte possa «sindacare la motivazione del provvedimento di rinvio e la
pertinenza della questioni ivi contenute»; d’altra parte, quando le questioni sollevate vertono
sull’interpretazione del diritto dell’Unione la Corte è in via di principio tenuta a decidere.
Questa regola non è priva di eccezioni, anche rilevanti; e di qualche contraddizione: infatti nella
giurisprudenza + recente, la Corte ha sindacato, in determinate situazioni, la pertinenza dei quesiti
pregiudiziali ad essa sottoposti, riservandosi il potere di verificare la propria competenza a
rispondere.
 In primo luogo, la Corte ha in un’occasione rifiutato di rispondere al quesito pregiudiziale
sollevato in occasione di una controversia che ha considerato fittizia. Tale sarebbe stata, in
particolare, una causa in cui le parti erano perfettamente d’accordo sull’esito del litigio e
sull’interpretazione delle conferenti norme dell’Unione, ma tendevano a far risultare
l’incompatibilità di una norma di un Paese diverso da quello del foro con il diritto dell’UE.
Nella stessa occasione, la Corte ha sottolineato anche la necessità che nel quesito
pregiudiziale siano espresse con chiarezza le ragioni per cui il giudice nazionale considera
necessaria la pronuncia della Corte. Successivamente, mentre la Corte ha espressamente
escluso che la concordanza tra le parti sul risultato da ottenere nella causa principale incida
sull’effettività della controversia e dunque sulla ricevibilità del rinvio, la stessa Corte ha
invece confermato di dover esercitare una «particolare vigilanza» quando la questione
pregiudiziale sia diretta a far valutare la compatibilità della normativa di un altro Stato
membro con il diritto dell’Unione.
 In secondo luogo, la Corte ha escluso di potersi pronunciare in presenza di questioni
puramente ipotetiche o non obiettivamente necessarie al giudice nazionale per risolvere la
controversia dinanzi ad esso pendente o cmq senza un collegamento sufficiente con
l’oggetto della causa, in quanto lo scopo del sistema del rinvio pregiudiziale non è quello di
ottenere un parere del giudice dell’Unione su questioni generali e ipotetiche, ma quello di
contribuire a risolvere una controversia effettiva e attuale.
 In terzo luogo, mentre la parsimonia nella motivazione del rinvio era stata sempre tollerata
dalla Corte, + di recente è stata la ragione sufficiente per far dichiarare irricevibili alcune
domande pregiudiziali. In particolare, si è rilevato che le indicazioni troppo scarne e
imprecise fornite dal giudice nazionale nell’ordinanza di rinvio, mancando di definire il
quadro di fatto e di diritto nel quale si inseriscono le questioni sollevate, non consentono alla
Corte di fornire un’interpretazione utile del diritto dell’Unione, così come non consentono
agli Stati membri e alle altre parti interessate di svolgere puntuali osservazioni sulla
controversia.
 Chiaramente diversa è l’ipotesi in cui la Corte rifiuta – a giusta ragione – di rispondere ai
quesiti posti dal giudice di rinvio quando l’atto di cui era richiesta l’interpretazione non è
configurabile come atto adottato dalle istituzioni; o quando le norme dell’Unione in

88
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

questione non sono applicabili alla fattispecie oggetto della causa, in quanto si tratta di una
situazione puramente interna, cioè di una situazione che non presenta alcun nesso con una
qualsiasi delle situazioni considerate dal diritto dell’Unione.
Tuttavia, la stessa Corte si è dichiarata competente a pronunciarsi sull’interpretazione di norme
dell’Unione anche quando la fattispecie non è regolata dal diritto dell’Unione, ma dal diritto
nazionale, in quanto quest’ultimo operi un rinvio a disposizioni di diritto dell’Unione perché sia
determinato il contenuto o l’interpretazione delle norme (nazionali) applicabili ad una situazione
puramente interna (sentenza Dzodzi) ; o anche nel caso in cui la norma in questione riproduca
pressoché testualmente una norma dell’Unione.
Tale giurisprudenza non può non destare qualche perplessità, apparendo in contrasto con gli stessi
presupposti logici del rinvio pregiudiziale, oltre che con il principio delle competenze di
attribuzione cui soggiace il sistema giuridico dell’Unione nel suo insieme: infatti, quando la norma
dell’Unione come tale non è applicabile e dunque non ne è necessaria l’interpretazione ai fini della
definizione della controversia dinanzi al giudice nazionale, manca la base giuridica della
competenza della Corte ai sensi dell’art. 267 TFUE. In definitiva, non va confusa la questione della
competenza della Corte in funzione della rilevanza della questione con la ben diversa questione
della base giuridica della competenza della Corte.
In secondo luogo, quando il diritto dell’Unione non è applicabile, oltre che mancare la base
giuridica della competenza della Corte, può mancare in radice l’esigenza di uniformità di
interpretazione e di applicazione.
La stessa Corte, peraltro, aveva cominciato saggiamente a rivedere la propria posizione rispetto ad
una fattispecie solo formalmente diversa, ma sostanzialmente simile, relativa alla Convenzione di
Bruxelles. Ciò lasciava ben sperare in un ripensamento anche sulla giurisprudenza Dzodzi. Così non
è stato, poiché la Corte ha ribadito tale orientamento.

13. Segue: FACOLTÀ ED OBBLIGO DI RINVIO

Il giudice nazionale che non sia di ultima istanza ha la facoltà di sottoporre alla Corte un quesito
pregiudiziale ogni volta che la risposta è indispensabile per giudicare della controversia dinanzi ad
esso pendente.
Il giudice che ha rivolto il quesito alla Corte deve essere lo stesso che ne riceverà la risposta, nel
senso che quest’ultima deve essere necessaria per la decisione di quell’organo giurisdizionale e non
per quella di un organo diverso. Il problema si è posto, ad es., rispetto al rinvio operato da un
Pretore italiano in sede di procedura d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., ipotesi in cui il giudice
cautelare, una volta reso il provvedimento, rinviava le parti ad un giudizio diverso, in particolare al
Tribunale, e dunque si spogliava della causa. Peraltro, con la riforma del processo civile, il
problema si è ridimensionato, dato che il giudice cautelare è di regola anche il giudice di merito.
Bisogna sottolineare che anche in sede di giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, il giudice, che
pure è tenuto ad applicare i principi di diritto indicati dal giudice di legittimità, conserva la facoltà
di attivare il meccanismo pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia se ritiene sussista un problema
di validità o di interpretazione di norme dell’Unione.
Quando, invece, si tratta di un giudice di ultima istanza (Corte di cassazione, Consiglio di Stato e
Corte costituzionale), inteso come giudice le cui sentenze non siano soggette ad impugnazione, egli
ha l’obbligo di operare il rinvio (art. 267, 3° comma). Tale differenza trova giustificazione
innanzitutto nella circostanza che normalmente la giurisprudenza delle corti supreme si consolida
con maggior forza e autorità. L’ulteriore giustificazione risiede nella circostanza che una pronuncia
erronea del giudice di ultima istanza comporta la lesione definitiva del diritto del singolo,
conseguente alla mancata applicazione della norma dell’Unione, determinando un rischio maggiore
rispetto all’esigenza di uniforme applicazione del diritto dell’Unione, che rappresenta il fondamento
principale del meccanismo del rinvio pregiudiziale.

89
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

L’obbligo del rinvio pregiudiziale, in particolare quello in via generale imposto al giudice di ultimo
grado, può in alcuni casi venir meno, e precisamente:
 in primo luogo, non c’è l’obbligo di rinvio quando la questione sia «materialmente
identica» ad una già sollevata e già decisa in via pregiudiziale dalla Corte, o vi sia cmq una
giurisprudenza costante sul punto;
 inoltre, si è ammessa un’eccezione per l’ipotesi in cui la risposta al quesito non alimenti
alcun ragionevole dubbio interpretativo. Il giudice nazionale, in tal caso, deve (o
dovrebbe) essere convinto che la stessa evidenza si imporrebbe ai giudici degli altri Stati
membri. Si è così voluto introdurre nel sistema dell’Unione la teoria dell’atto chiaro, che è
utilizzata in un contesto nazionale (nella specie francese) per giustificare una fattispecie
altrettanto lontana quale è l’incompetenza del giudice ad interpretare i trattati internazionali.
Vero è che il criterio del dubbio ragionevole, nel porre un limite all’obbligo di rinvio, si
risolve in definitiva in un sostanziale filtro al rinvio pregiudiziale, che magari con altre
formule è utilizzato anche in altre esperienze. Tuttavia l’aver ancorato l’uso di tale filtro a
condizioni molto rigorose, non può eliminare il rischio di veder trasformati molti atti
dell’Unione, notoriamente oscuri, in atti chiari. D’altra parte, in Italia pare non via sia
rimedio al rifiuto del giudice di ultima istanza di operare il rinvio pregiudiziale. Queste
preoccupazioni sono destinate ad essere, almeno in parte, ridimensionate, atteso che la Corte
di giustizia ha di recente espressamente riconosciuto che gli Stati membri sono tenuti a
risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione riconducibili ad
organi giudiziari; ed in particolare quando omettano di ottemperare all’obbligo del rinvio
pregiudiziale derivante dall’art. 267, par. 3, TFUE. Sempre nella prospettiva di 1 tutela
giurisdizionale piena ed effettiva, nell’ipotesi di omesso rinvio di una questione
pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte di una giurisdizione nazionale di ultima istanza,
si potrebbe prefigurare, ai sensi dell’art. 6, par. 1 della CEDU, 1 violazione dei diritti
fondamentali ad un equo processo e ad un giudice precostituito per legge (richiamati anche
dall’art. 47, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE).
Peraltro, non fa venir meno l’obbligo del rinvio la circostanza che la Commissione abbia rinunciato
a proseguire una procedura d’infrazione nei confronti di uno Stato membro a riguardo della
normativa oggetto del rinvio pregiudiziale. La Commissione, infatti, non ha il potere di dare
un’interpretazione definitiva delle norme dell’Unione attraverso i pareri motivati di cui alla
procedura d’infrazione ex art. 258 del Trattato o attraverso l’interruzione della stessa procedura o la
rinuncia al ricorso dinanzi alla Corte.
Indipendentemente dall’obbligo o dalla facoltà del rinvio in capo al giudice nazionale, la Corte, in
base all’art. 104, n. 3, del regolamento di procedura, può seguire una procedura semplificata sulle
domande pregiudiziali, che si chiude con un’ordinanza, senza trattazione orale e senza conclusioni
scritte dell’avvocato generale. Questa procedura è possibile in 3 ipotesi, e precisamente:
1) quando la questione sia identica ad una già definita;
2) quando sia desumibile con chiarezza dalla giurisprudenza;
3) quando la soluzione non alimenti alcun ragionevole dubbio.
A queste ipotesi si affianca 1 procedimento pregiudiziale d’urgenza che può essere applicato
esclusivamente nei settori di cui al Titolo V della parte 3° del TFUE, relativo allo spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; questo procedimento può essere richiesto solo laddove sia assolutamente
necessario che la Corte si pronunci nel + breve tempo possibile, come, ad es., nel caso di una
persona detenuta o privata della libertà (art. 267, 4° comma, TFUE).
La decisione del rinvio è solo del giudice, che può operarlo anche d’ufficio. Sebbene nella maggior
parte dei casi siano certamente le parti a sollecitare il rinvio e a suggerire i termini dei quesiti da
sottoporre alla Corte, è pur sempre il giudice che provvede alla loro formulazione; le parti non
possono né modificarne il tenore, né integrarli con altri. Tuttavia, esse potranno svolgere delle
osservazioni, sia scritte che orali, nella procedura dinanzi alla Corte di giustizia. In definitiva, anche

90
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

se nel corso della procedura emergono fatti diversi da quelli rappresentati nell’ordinanza di rinvio
del giudice nazionale, è solo in funzione del contenuto di questa e dei quesiti formulati che la Corte
deve costruire la propria decisione.

14. Segue: GIUDIZIO CAUTELARE NAZIONALE E RINVIO PREGIUDIZIALE

Infine, è opportuno richiamare l’attenzione su alcune pronunce pregiudiziali di grande interesse, in


cui la Corte si è soffermata sulla tutela cautelare che i giudici interni devono poter apprestare a
diritti vantati dai singoli in forza di norme dell’Unione e in attesa della sentenza definitiva. Le
ipotesi sottoposte all’attenzione della Corte sono state 3, tra loro speculari:
1) la 1° ipotesi  è quella del diritto vantato sulla base di una norma dell’Unione e negato da
una legge o da un atto amministrativo nazionale. Tale ipotesi è stata prospettata alla Corte
dal giudice inglese, davanti al quale la società Factortame, deducendo l’incompatibilità
comunitaria di una norma nazionale e dunque la necessità di non applicarla, chiedeva che, in
attesa della pronuncia definitiva, la sua applicazione fosse sospesa; in altri termini, chiedeva
la tutela cautelare del diritto che pretendeva essergli conferito da una norma dell’Unione. La
Camera dei Lords, sul rilievo che il sistema inglese non consente al giudice di sospendere
l’applicazione di 1 legge di cui non sia stata accertata definitivamente l’illegittimità,
chiedeva alla Corte di giustizia se in base al diritto dell’Unione questo potere doveva
essergli viceversa riconosciuto. La risposta della Corte è stata positiva e basata sullo stesso
fondamento – l’esigenza di dare piena e immediata applicazione al diritto dell’Unione – già
utilizzato nella sentenza Simmenthal, dove pure era stato attribuito al giudice italiano un
potere (quello di non applicare egli stesso la norma contrastante con il diritto dell’Unione,
prima e indipendentemente dal giudizio interno di legittimità costituzionale) che il diritto
nazione, così come espressamente sancito dalla Corte costituzionale, gli negava.
Significativo è stato in questa pronuncia il richiamo all’art. 267, dunque proprio al
meccanismo che provvede al controllo sulla coerenza con il diritto dell’Unione degli
ordinamenti nazionali e la cui utilità verrebbe ridotta se il giudice nazionale non potesse
concedere misure provvisorie fino all’esito della causa.
2) La 2° ipotesi  riguarda il potere del giudice nazionale di sospendere in via cautelare
l’applicazione di una normativa nazionale (legge o atto amministrativo) a ragione di una
pretesa illegittimità dell’atto dell’Unione di cui l’atto impugnato rappresenta la misura
interna di attuazione. Nella sostanza, si tratta per il giudice nazionale di sospendere
l’applicazione di 1 atto dell’Unione, ciò che in via di principio mal si concilierebbe con la
sua mancanza di competenza a pronunciarsi in via definitiva sulla sua validità, che è
esclusiva del giudice dell’Unione.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il giudice nazionale, quale ne sia il rango, può
eccezionalmente esercitare in via cautelare il potere in questione, purché operi un rinvio alla
Corte di giustizia affinché si pronunci in via pregiudiziale sulla validità dell’atto. Per
pervenire ad un tale risultato, la Corte ha fatto valere, in particolare, l’esigenza di coerenza
del sistema, dato che il rinvio pregiudiziale di validità è, al pari dell’azione diretta ex art.
263, uno strumento di controllo della legittimità degli atti dell’Unione. Se dunque la Corte
può sospendere l’applicazione di 1 atto nel contesto di un’azione di annullamento, in base
all’art. 278 TFUE, anche il singolo deve poter chiedere e ottenere dal giudice nazionale, sia
pure indirettamente, attraverso la sospensione dell’atto interno di attuazione, la sospensione
dell’atto dell’Unione.
L’adozione di un provvedimento cautelare che investa un atto dell’Unione richiede la presenza di
condizioni rigorose, e precisamente:
 che vi siano, quanto al fumus boni iuris, consistenti riserve sulla validità dell’atto;
 che ricorra il periculum in mora;

91
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 che si tenga conto, nel bilanciamento degli interessi a confronto, in modo particolare
dell’interesse dell’Unione;
 che nella valutazione di tali presupposti il giudice nazionale osservi le eventuali pronunce
del giudice dell’Unione.

15. Segue: GLI EFFETTI DELLA SENTENZA PREGIUDIZIALE

La sentenza interpretativa della Corte pronunciata su rinvio pregiudiziale vincola il giudice a quo,
che dunque è tenuto a fare applicazione della norma dell’Unione così come interpretata dalla Corte,
all’occorrenza lasciando inapplicata la norma nazionale contrastante.
Tale sentenza può e all’occorrenza deve essere considerata anche al di fuori del contesto
processuale che l’ha provocata, proprio perché si pronuncia su punti di diritto. Altri giudici, dunque
– nonché le amministrazioni nazionali – saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come
interpretate dalla Corte, determinando di conseguenza anche i diritti di cui i singoli possono godere.
Ciò non esclude la possibilità di un ulteriore rinvio pregiudiziale:
 sia per sollecitare un ripensamento della Corte sulla base di nuovi elementi o di una nuova
prospettazione;
 sia semplicemente per avere dei chiarimenti sulla pronuncia già resa.
Parzialmente diverso è il caso della sentenza su rinvio pregiudiziale di validità. Quando la Corte si
pronuncia nel senso della validità dell’atto dell’Unione, l’effetto è strettamente limitato al caso di
specie e ai motivi specifici della censura: infatti, la formula di rito è che «dall’esame delle questioni
sottoposte alla Corte non sono emersi elementi idonei ad inficiare la validità dell’atto». Ciò lascia
inalterata la possibilità di contestare la legittimità dell’atto in un momento successivo per motivi
diversi.
Quando invece la Corte si pronuncia nel senso dell’invalidità dell’atto, si produce sostanzialmente
lo stesso effetto di una sentenza di annullamento ex art. 263, dunque l’effetto della cosa giudicata
sia formale che sostanziale. L’istituzione che ha posto in essere l’atto, pertanto, potrà solo adottare
un atto diverso che tenga conto dei motivi che hanno portato la Corte alla dichiarazione d’invalidità.
In definitiva, pur costituendo 1 pronuncia incidentale, la dichiarazione d’invalidità vincola nella
sostanza, oltre l’amministrazione, anche gli altri giudici dinanzi ai quali l’atto dovesse essere ancora
invocato (né + né meno di quanto accade con 1 sentenza di annullamento).
Infine, merita attenzione il problema degli effetti nel tempo della sentenza pregiudiziale.
Normalmente, si tratta di un’efficacia ex tunc, in quanto la pronuncia definisce la portata della
norma dell’Unione così come avrebbe dovuto essere intesa e applicata fin dal momento della sua
entrata in vigore. Ciò vuol dire che l’effetto della sentenza, sia interpretativa che dichiarativa
dell’invalidità di 1 atto dell’Unione, si estende anche ai rapporti sorti in epoca precedente alla
sentenza stessa, purché non esauriti.
La giurisprudenza ha tuttavia esteso alle pronunce pregiudiziali la facoltà di dichiararne l’efficacia
ex nunc, facoltà prevista dall’art. 264 per le sole sentenze di annullamento.
Tale giurisprudenza è stata fortemente contestata da alcuni giuristi nazionali, per il fatto che la
Corte, nel sue prime prese di posizione al riguardo, non aveva fatto salvi neppure i diritti dell’attore
dinanzi al giudice nazionale. Del pari, la Corte costituzionale italiana ha giustamente sottolineato
che l’efficacia ex nunc della dichiarazione d’invalidità che investa anche le parti della causa sarebbe
in contrasto con il principio fondamentale dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Invero, nella successiva giurisprudenza la Corte ha sempre fatto salvi i diritti di coloro che prima
della data della sentenza avessero esperito un’azione giurisdizione oppure proposto un reclamo
equivalente.
Richiamando il principio generale della certezza del diritto, la Corte ha anche limitato nel tempo gli
effetti di sentenze pregiudiziali interpretative, con riflessi sulla compatibilità con il diritto
dell’Unione di norme nazionali. Nonostante la norma così come interpretata dalla Corte debba
92
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

essere applicata dal giudice nazionale anche a rapporti sorti prima della sentenza, in quanto
quest’ultima ne chiarisce la portata e le modalità applicative a partire dalla sua entrata in vigore,
può sussistere l’esigenza di limitare la possibilità per gli interessati di farla valere in relazione a
rapporti giuridici costituiti in buona fede.
L’ipotesi di effetti ex nunc della sentenza interpretativa resta cmq eccezionale. La Corte vi ha fatto
ricorso solo in presenza di circostanze specifiche e ben precise:
 il rischio di gravi ripercussioni economiche dovute all’elevato numero di rapporti giuridici
costituiti in buona fede sulla base della normativa nazionale fino ad allora ritenuta valida;
 un comportamento non conforme alla normativa dell’Unione dovuto ad un’obiettiva e
rilevante incertezza sulla portata delle disposizioni dell’Unione, incertezza eventualmente
alimentata da comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione.
Diverso da quello dell’efficacia nel tempo delle pronunce del giudice dell’Unione è il tema del
rispetto dei termini di decadenza o prescrizione posti dal diritto nazionale all’esercizio di un diritto
e dell’azione ad esso collegata. Per tale ipotesi rileva, per effetto della mancanza di una disciplina
dell’Unione applicabile:
 il principio del rispetto delle regole processuali nazionali, nei limiti dell’equivalenza dei
rimedi posti a tutela di diritti attribuiti dal diritto nazionale e di quelli analoghi attribuiti dal
diritto dell’Unione;
 nonché, in ogni caso, il principio dell’effettività della tutela, cioè la non impossibilità e non
eccessiva difficoltà di esercitare un diritto attribuito da fonte dell’Unione.
Spetta al giudice nazionale, in linea di principio, verificare se equivalenza ed effettività ricorrano
nel caso concreto, salva la possibilità per il giudice dell’Unione di fornire le indicazioni che ritenga
utili.
In definitiva, la giurisprudenza della Corte ha individuato un vero e proprio standard europeo di
tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli, in particolare per quanto riguarda la motivazione degli
atti amministrativi, il diritto alla tutela giurisdizionale, l’adeguatezza del risarcimento, l’onere della
prova. Pertanto, il potere riservato agli Stati membri di utilizzare gli strumenti nazionali per
garantire la tutela giurisdizionale di diritti attribuiti dal diritto dell’Unione è in fatto sottoposto al
controllo della Corte di giustizia, controllo che è fondato su 2 parametri:
1. quello della non discriminazione  che impone di riservare ai diritti di origine dell’Unione
almeno la stessa tutela riservata dall’ordinamento nazionale ai diritti attribuiti da
quell’ordinamento;
2. quello dell’effettività  che impone l’adeguatezza dei rimedi per garantire tutela effettiva
rispetto ai parametri individuati dalla Corte, come oggi è espressamente ricordato dall’art.
19 TUE.

16. I PARERI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

La Corte di giustizia può rendere anche pareri. Anzitutto, in virtù dell’art. 218, n. 11, TFUE, essa
è competente a rendere pareri in ordine alla compatibilità con il trattato di accordi «previsti» fra
l’Unione e Paesi terzi o organizzazioni internazionali, qualora vi sia 1 richiesta del PE, del
Consiglio, della Commissione o di uno Stato membro.
Il parere della Corte è preventivo e dunque non può che essere chiesto ed intervenire in un
momento precedente alla stipulazione. Tuttavia non c’è un termine a quo: come chiarito dalla stessa
Corte è sufficiente, affinché la domanda di parere sia ricevibile, che l’oggetto dell’accordo sia già
noto, anche se i negoziati siano ancora in una fase iniziale o addirittura non siano neppure iniziati,
in quanto si sia ritenuto opportuno avere il parere della Corte sulla competenza dell’Unione a
stipulare l’accordo. Per quanto riguarda l’oggetto del controllo, esso può investire non solo le
disposizioni di diritto sostanziale, ma anche quelle che riguardano la competenza, la procedura o
l’organizzazione istituzionale dell’Unione.
93
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Va sottolineato che l’ipotesi in esame, anche se tradizionalmente classificata come competenza


consultiva, si colloca + correttamente tra i procedimenti di controllo della legittimità degli atti
dell’Unione. Lo scopo del parere, in definitiva, è quello di evitare che i dubbi di compatibilità con i
Trattati o anche di competenza a stipulare dell’Unione diano luogo ad un contenzioso successivo
alla stipulazione, ciò che potrebbe creare complicazioni e pregiudicare gli interessi delle parti. Ed è
questa anche la ragione che ha determinato la Corte a rispondere alla richiesta di parere, almeno sul
punto della competenza, anche in una fase del tutto preliminare, sia rispetto alla determinazione del
contenuto dell’accordo, sia rispetto all’inizio dei negoziati. La circostanza che un preteso vizio
dell’atto non sia stato preventivamente oggetto di parere non preclude la strada dell’impugnazione
e, viceversa, la possibilità di altre procedure di controllo giurisdizionale non preclude la richiesta di
parere.
Se la Corte si pronuncia nel senso dell’incompatibilità di alcune disposizioni dell’accordo,
quest’ultimo non potrà entrare in vigore. Ne consegue che se permane l’interesse e la volontà di
stipularlo, esso dovrà essere modificato di conseguenza, oppure dovrà procedersi ad 1 modifica non
dell’accordo ma dei Trattati (alle condizioni stabilite dall’art. 48 TUE); ma si tratta di un’eventualità
certo + remota.
Invece, in caso di parere positivo la stessa giurisprudenza dell’Unione ha cmq ammesso la
possibilità di un controllo successivo sull’accordo ex art. 263 TFUE.
Infine, ai sensi dell'art. 103 del Trattato CEEA, la Corte emette delle deliberazioni preventive su
richiesta di uno Stato membro, nell’ipotesi in cui sia sorto un contrasto tra quest’ultimo e la
Commissione in merito alla compatibilità con il Trattato di un progetto di accordo negoziato dallo
stesso Stato con:
 uno Stato terzo,
 un’organizzazione internazionale
 o un cittadino di uno Stato terzo.
Lo Stato membro di cui si tratta è tenuto a conformarsi alla deliberazione della Corte.

17. SANZIONI PER LE VIOLAZIONI DEL DIRITTO DELL’UNIONE E OBBLIGO


RISARCITORIO DELLO STATO INADEMPIENTE NEI CONFRONTI DEL SINGOLO

I Trattati di Roma (CE e EURATOM) non prevedevano nessuna specifica sanzione per il caso di
violazione degli obblighi comunitari da parte degli Stati membri, limitandosi a predisporre le
procedure per l’accertamento giurisdizionale delle infrazioni. In questo ambito, è stata anzitutto la
prassi ad individuare dei meccanismi che, in presenza di determinate condizioni, consentono di
collegare a talune infrazioni commesse dagli Stati membri delle misure di tipo sanzionatorio. In
particolare, vengono in rilievo le ipotesi in cui la violazione comporta per lo Stato membro la
perdita del diritto ad un finanziamento dell’Unione.
Il limite di questi rimedi risiede nella loro portata molto ridotta, in quanto riguardano solo infrazioni
collegate ad attività finanziate dall’Unione e non le infrazioni degli Stati membri in genere; pertanto
la loro rilevanza resta alquanto circoscritta.
Le preoccupazioni sull’effettività delle norme dell’Unione, in particolare a ragione dei ritardi che
spesso si registrano nel processo di adeguamento formale e sostanziale dei sistemi giuridici
nazionali, sono andate aumentando con il consolidarsi del processo d’integrazione; infatti, il livello
ormai raggiunto da tale processo è tale da non poter prescindere da un’applicazione corretta,
uniforme e diffusa di tutte le regole, pena la discriminazione tra i cittadini.
Anche per questo, il problema della sanzione per le infrazioni del diritto dell’Unione si pone in
modo particolare rispetto all’ipotesi di mancata o non corretta trasposizione delle direttive. Infatti

94
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

gli inadempimenti degli Stati implicano una lesione di 2 essenziali fattori di equilibrio del sistema, e
precisamente:
1. la parità di trattamento all’interno dell’Unione
2. e la solidarietà dell’Unione
Ciò va inteso nel senso che la violazione grave consiste nel creare o mantenere disarmonia
in un sistema giuridico che ha come obiettivo fondamentale proprio l’interpretazione e
l’applicazione uniforme di regole comuni e almeno coordinate. [«il fatto che uno Stato, in
considerazione dei propri interessi nazionali, rompa unilateralmente l’equilibrio tra i
vantaggi e gli oneri derivanti dalla sua appartenenza alla Comunità, lede l’uguaglianza
degli Stati membri dinanzi al diritto comunitario e determina discriminazioni a carica dei
loro cittadini.] [sent. ]
A proposito della sentenza che dichiara l’inadempimento, 1 rimedio è stato introdotto dal Trattato di
Maastricht attraverso 1 modificazione dell’art. 260 (già 228), che prevede ormai la possibilità di 1
sanzione pecuniaria x l’ipotesi di perdurante inadempimento. Al riguardo, peraltro, si è già espressa
qualche perplessità sulla reale forza deterrente di 1 sanzione di quel tipo, che rimane di ispirazione
internazionalistica. In ogni caso, ogni valutazione sarebbe prematura: occorre attendere il
consolidarsi di una prassi in materia, sia della Commissione che della Corte, prassi che è ancora
insufficiente.
In una prospettiva diversa, in maggiore sintonia con le caratteristiche peculiari del sistema giuridico
dell’Unione, si inquadra la giurisprudenza che ha affermato il diritto del singolo al risarcimento del
danno patrimoniale subìto per effetto dell’inadempimento dello Stato membro. Infatti tale
prospettiva è quella che fa leva sui mezzi predisposti dal sistema per rafforzare l’effettività delle
norme dell’Unione attraverso un’effettiva tutela giurisdizionale apprestata alle posizioni giuridiche
create da quelle norme in capo ai singoli.
Da tempo, già con riguardo alla CECA, la giurisprudenza aveva affermato che l’art. 86 impone allo
Stato membro non solo di revocare l’atto legislativo o amministrativo incompatibile con il diritto
comunitario, ma anche di «riparazione gli illeciti effetti che ne possono essere derivati». Sebbene in
quell’occasione si trattasse di restituire somme indebitamente riscosse, la formula utilizzata era
abbastanza ampia per comprendere anche l’ipotesi di un risarcimento del danno eventualmente
subìto.
Va poi segnalata in proposito quella giurisprudenza che respinge l’eccezione di irricevibilità del
ricorso o di cessata materia del contendere quando, nel corso del giudizio o cmq dopo la scadenza
dei termini fissati nel parere motivato, lo Stato membro convenuto metta fine all’infrazione
contestatagli ai sensi dell’art. 258. In tal caso, infatti, la risposta della Corte è proprio nel senso che
la pronuncia che riconosce l’inadempimento può costituire il presupposto il titolo dell’eventuale
responsabilità dello Stato nei confronti, oltre che dell’Unione e/o di altri Stati membri, anche dei
singoli. In altri termini, l’interesse alla prosecuzione del giudizio, anche dopo che il contestato
inadempimento sia stato fatto cessare, può ben consistere nello stabilire con la sentenza il
presupposto dell’eventuale responsabilità dello Stato nei confronti dei singoli che abbiano subìto un
danno patrimoniale a seguito dell’inadempimento.
Anche successivamente, e in pronunce pregiudiziali, si ritrova chiara l’affermazione che, quando il
pregiudizio al singolo «derivi dalla violazione di 1 norma di diritto comunitario da parte dello Stato,
questo dovrà risponderne, nei confronti del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto
interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione».
Questa giurisprudenza è stata poi definitivamente consacrata nella celebre sentenza
FRANCOVICH (1991), relativa alle conseguenze della mancata trasposizione di una direttiva da
parte di uno Stato membro. In particolare, si trattava di 1 direttiva che, a tutela dei lavoratori in caso
d’insolvenza del datore di lavoro, imponeva agli Stati membri di istituire un meccanismo di
garanzia per i crediti retributivi maturati; direttiva che l’Italia non aveva trasposto. Pertanto il
giudice italiano chiedeva alla Corte se, di fronte all’inadempimento dello Stato, i singoli potessero

95
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

far valere direttamente i benefici della direttiva, nonché e cmq pretendere dallo Stato membro il
risarcimento del danno subìto.
La Corte ha enunciato il principio di diritto richiesto dal giudice nazionale: «… sarebbe messa a
repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse
riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano
lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro… La possibilità di
risarcimento a carico dello Stato membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella
fattispecie, la piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di un’azione
da parte dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere
dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario… Ne consegue che il
principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto
comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato».
Una volta affermata l’esistenza del principio di responsabilità, la Corte ha precisato le condizioni
per darne attuazione concreta, nel senso:
a) che «il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli»;
b) che «il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della
direttiva»;
c) che sussista «un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subìto dai soggetti lesi».
N.B.: In definitiva, continua la Corte, «tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a
vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo
fondamento nel diritto dell’Unione».
Successivamente, alla Corte sono state sottoposte altre e diverse ipotesi di responsabilità dello Stato
nei confronti dei singoli per violazione di norme dell’Unione, nonché 1 fattispecie del tutto simile a
quella di Francovich.
Nella sentenza principale, Brasserie du Pêcheur e Factortame, si è riaffermato il principio della
responsabilità patrimoniale dello Stato per fatto del legislatore e lo si è qualificato, come già in
Francovich, «inerente» al sistema. Se ne è anche riaffermato il fondamento nell’esigenza di
effettività dei rimedi giurisdizionali apprestati dagli Stati membri a tutela dei diritti attribuiti ai
singoli da norme dell’Unione.
Uno dei principali punti da approfondire dopo Francovich, infatti, era se la responsabilità
patrimoniale dello Stato membro nei confronti dei singoli potesse essere evocata e fatta valere
soltanto in presenza di 1 violazione di norme prive di effetto diretto, per essere queste in particolare
non invocabili da parte del singolo dinanzi al giudice, o anche quando la violazione riguardasse
norme aventi effetto diretto e dunque invocabili dinanzi al giudice. Invero, le disposizioni della
direttiva sulla garanzia dei lavoratori evocate nella Francovich, mentre avevano destinatari e
contenuto ben individuati e pertanto erano sufficientemente precise e incondizionate, lasciavano
agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità quanto alla predisposizione di un sistema
istituzionale di garanzia, ivi compresa l’identificazione del soggetto debitore. A fronte di questa
situazione, la Corte è pervenuta alla conclusione della non invocabilità delle conferenti disposizioni
della direttiva dinanzi al giudice nazionale, qualora, come nella specie l’Italia, non avesse proceduto
all’identificazione del soggetto debitore. In realtà, in Francovich la costruzione giuridica era stata
un po’ forzata, allo scopo di pervenire cmq all’affermazione della responsabilità patrimoniale dello
Stato nei confronti del singolo per l’ipotesi di mancata trasposizione delle direttive: dalla violazione
dell’obbligo, sancito da 1 norma generale del Trattato (l’art. 288) sprovvista di effetto diretto, di
realizzare con la trasposizione il risultato voluto dalla direttiva, si era ricostruito con un lieve ma
evidente salto logico 1 diritto dei beneficiari di ricevere una compensazione patrimoniale
corrispondente al trattamento salariale oggetto della direttiva stessa, trasformando in debitore del
singolo il legislatore inadempiente nei confronti dell’Unione.

96
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

La Corte, al quesito se la stessa conclusione dovesse pervenirsi nell’ipotesi di violazione di una


norma provvista di effetto diretto «pieno», dunque invocabile dinanzi al giudice, ha dato
giustamente 1 risposta positiva nelle pronunce successive a Francovich: infatti quando la norma è
provvista di effetto diretto, la tutela a favore del singolo non solo c’è già, ma è direttamente
azionabile dallo stesso singolo, con la conseguenza che resta solo da accompagnare questa tutela
sostanziale e processuale con quel minus che è la tutela patrimoniale.
Altro tema da approfondire, anch’esso collegato al fondamento della responsabilità, riguarda la
stessa possibilità di estenderne l’applicazione alla violazione di un obbligo dell’Unione dello Stato
membro dovuta specificamente all’attività o all’inattività del legislatore. Ora, all’individuazione del
fondamento della responsabilità in un principio generale, comune al diritto dell’Unione e agli
ordinamenti degli Stati membri, che vuole risarcito il danno ingiusto, vanno collegate 2
implicazione, e precisamente:
1) la prima (tipica della disciplina dei rapporti internazionali)  è che non rileva a quale
organo nazionale sia imputabile la violazione, dovendo tutti gli organi dello Stato
contribuire all’osservanza delle norme dell’Unione dirette a regolare e tutelare la situazione
soggettiva dei singoli;
2) in 2° luogo  l’esigenza fondamentale di applicazione uniforme delle norme dell’Unione
impedisce che l’esistenza e la portata dell’obbligo di risarcimento per la violazione di norme
europee dipenda dal riparto di competenze tra organi interni in ciascuno Stato membro, pena
una discriminazione tra i cittadini dell’Unione.
Va poi aggiunto un ulteriore rilievo di carattere generale. Che l’attività legislativa sia la
massima espressione della sovranità è un dato incontestato e incontestabile. Ma è
precisamente nell’esercizio dei poteri sovrani che gli Stati possono procedere e di fatto
hanno proceduto a limitare la propria libertà – anche rispetto all’attività legislativa –
attribuendo determinate competenze normative alle istituzioni dell’Unione. Nel momento in
cui queste istituzioni, attraverso gli strumenti normativi all’uopo predisposti, creano precisi
vincoli per i legislatori nazionali, questi sono tenuti a rispettare i limiti che essi stessi si sono
impegnati a rispettare. In questo contesto, il legislatore può non essere + titolare di 1 potere
discrezionale assoluto, ma avere, nelle materie ed entro i limiti da esso stesso determinati,
obblighi + o meno precisi di legiferare in un modo piuttosto che in un altro. Ebbene, quando
questi vincoli non vengono rispettati o vengono in qualche modo compromessi rispetto a
quanto prescritto dalla norma dell’Unione, in quanto il legislatore nazionale non osserva un
obbligo imposto allo scopo di realizzare diritti in capo ai singoli e dunque impendendo che
quei diritti vengano ad esistenza, non c’è ragione di negare il diritto dei singoli ad agire per
il risarcimento del danno subìto.
Il discorso non cambia in relazione alle violazioni del diritto dell’Unione da parte del potere
esecutivo, come avviene, ad es., nell’ipotesi in cui il danno sia provocato da un comportamento
illegittimo imputabile all’amministrazione centrale o periferica. Questo principio trova applicazione
anche nell’ipotesi in cui la violazione del diritto dell’Unione derivi dalla decisione di un organo
giurisdizionale di ultimo grado. Al riguardo dobbiamo ricordare la sentenza Köbler, la quale ha
messo in chiara evidenza che la tutela dei diritti derivanti dal diritto comunitario (ora dell’Unione)
«sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, ad alcune condizioni, ottenere un
risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del dir. comunitario imputabile a una
decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro». In sostanza, il
giudice di ultima istanza, qualora ne ricorrano le condizioni, è tenuto a lasciare il passo alla Corte di
giustizia e a rispettarne le competenze, altrimenti rischia di coinvolgere la responsabilità dello Stato
di appartenenza.
Le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte non dovrebbero applicarsi in linea di principio alle
violazioni del diritto dell’Unione riconducibili alle decisioni di 1 giudice nazionale non di ultima
istanza:

97
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 sia perché su di esso non grava l’obbligo di sollevare un quesito pregiudiziale alla Corte di
giustizia;
 sia perché la sua decisione può essere impugnata dinanzi ad un giudice di grado superiore.
Ciò nonostante, c’è chi ha ipotizzato che in presenza di una violazione sistematica del
diritto dell’Unione da parte di 1 giudice non di ultima istanza possa sorgere 1 responsabilità
dello Stato membro, tanto + nell’ipotesi di un’interpretazione consolidata della
giurisprudenza dell’Unione.
Relativamente alle condizioni del diritto al risarcimento, si è anzitutto precisato che le condizioni
della responsabilità degli Stati membri non devono essere diverse, a parità di situazioni, da quelle
che sono richieste per la responsabilità dell’Unione: «la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal
diritto comunitario non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo
che ha cagionato il danno». Viceversa, in Francovich la Corte aveva escluso l’ipotesi di subordinare
la responsabilità dello Stato alle stesse condizioni (relative all’illegalità dell’atto, alla realtà e
consistenza del danno, al nesso di causalità) affermate con riguardo alla responsabilità dell’Unione,
ma applicate notoriamente in modo restrittivo. Questa severità, invero, è stata da sempre fondata sul
presupposto che, come x quello legislativo in genere, l’esercizio del potere normativo delle
istituzioni dell’Unione non può e non deve essere compromesso dal rischio di subire azioni per
danni ogniqualvolta si debbano porre in essere provvedimenti di interesse generale ma suscettibili
di ledere interessi del singolo; comunque la pronuncia Francovich non distingue tra atti del potere
legislativo o del potere esecutivo.
Cogliendo l’occasione, la Corte ha precisato che le condizioni della responsabilità degli Stati
membri e dell’Unione devono essere le stesse, a parità di situazioni, accomunando il legislatore
nazionale a quello dell’Unione anche nell’ipotesi in cui NON vi sia alcun potere discrezionale, ma
per l’uno o per l’altro un preciso obbligo di risultato, di condotta o di astensione, come l’obbligo di
trasporre una direttiva entro un determinato termine sancito dall’art. 288.
Le 3 condizioni della responsabilità patrimoniale della Stato (e dunque anche dell’Unione) sono
pertanto:
1) che la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli (in sostanza, il diritto dei
singoli, effetto diretto o no, deve essere pienamente e immediatamente riconoscibile);
2) che la violazione sia grave e manifesta. Su tale condizione della responsabilità, la Corte ha
indicato gli elementi che il giudice nazionale, cui spetta in definitiva e almeno in linea di
principio l’apprezzamento nel caso di specie, può e deve prendere in considerazione:
 il grado di chiarezza e precisione della norma dell’Unione;
 l’ampiezza del potere discrezionale consentito dalla norma che in definitiva è il
criterio decisivo. È così, ad es., qualora nel tempo della violazione lo Stato membro
disponesse di un margine di discrezionalità ridotto o addirittura inesistente, la
semplice violazione del diritto dell’Unione potrebbe essere ritenuta sufficiente per
accertare l’esistenza di 1 violazione grave e manifesta. Non sembra eccessivo
applicare questo principio anche al giudice nazionale di ultima istanza, nell’ipotesi
in cui non disponga di alcuna discrezionalità quanto al rinvio pregiudiziale e sia
quindi obbligato ad effettuarlo. Ed infatti, in questo caso la posizione del giudice di
ultima istanza sembra paragonabile a quella degli organi legislativi e amministrativi
di uno Stato membro che non sono chiamati ad effettuare scelte normative, in
quanto si trovano di fronte ad una competenza vincolata.
Da considerare è anche:
 il carattere intenzionale o involontario della trasgressione;
 la scusabilità o no dell’eventuale errore di diritto;
 il comportamento di un’istituzione dell’Unione che abbia potuto
concorrere all’infrazione.

98
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

N.B.: La Corte ha anche precisato, inverto utilmente, che la violazione grave


e manifesta ricorre «in ogni caso» quando permane dopo una pronuncia che
abbia accertato l’inadempimento o esista una solida giurisprudenza in
materia. Inoltre, è importante che sia stata esclusa subito e con chiarezza la
necessità di un previo accertamento della Corte, specie se limitato alle
procedure d’infrazione. Infatti questo limite, considerata la discrezionalità di
cui dispone la Commissione al riguardo, si sarebbe tradotto in una violazione
del principio di effettività della tutela giurisdizionale
3) che vi sia 1 nesso di causalità tra violazione e danno. La colpa, invece, non è una
condizione della responsabilità, ma può contribuire a determinare la gravità della
violazione.
Peraltro, pur tenendo distinta l’ipotesi in cui lo Stato goda di un ampio potere discrezionale (casi
Brasserie du Pêcheur e Factortame) da quella in cui ne ha poco o nessuno (caso Francovich), la
Corte ha inteso riferire le 3 condizioni della responsabilità individuate nella pronuncia Brasserie du
Pêcheur ad entrambe le ipotesi.
Perché sia garantita una tutela effettiva, occorre che l’ammontare del risarcimento sia adeguato. Al
riguardo, le condizioni stabilite dal diritto nazionale non possono essere meno favorevoli di quelle
riguardanti situazioni analoghe interne, né tali da rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficile il risarcimento. Ciò è sufficiente per ritenere che in materia trovino
applicazione sia il principio di equivalenza (o di non discriminazione) sia quello di effettività della
tutela giurisdizionale.

18. LE RICADUTE DELLA GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE SULLA


RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE DEGLI STATI MEMBRI
NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

Infine meritano qualche rilievo le ricadute della giurisprudenza dell’Unione in tema di


responsabilità extracontrattuale degli Stati membri nell’ordinamento italiano. Al riguardo, in
un 1° tempo la Corte di cassazione, sulla premessa che diritto dell’Unione non può che imporre un
risultato agli Stati membri, mentre la qualificazione della posizione giuridica soggettiva dei singoli
è compito dell’ordinamento interno, ha rilevato che la funzione legislativa è sottratta a «qualsiasi
sindacato giurisdizionale» e che «di fronte all’esercizio del potere politico non sono configurabili
situazioni soggettive protette dei singoli». La conseguenza era, per la Cassazione, che di fronte
all’attività o inattività del legislatore non si può parlare di responsabilità da illecito ai sensi dell’art.
2043 cod. civ.; né si può configurare un diritto del singolo al risarcimento del danno per mancata
attuazione di una direttiva, ma solo «un diritto ad essere indennizzati delle diminuzioni patrimoniali
subite in conseguenza dell’esercizio di un potere non sindacabile dalla giurisdizione».
L’evoluzione successiva della giurisprudenza, dopo aver percorso la diversa strada del risarcimento
del danno nella prospettiva e nella logica della responsabilità aquiliana sancito dall’art. 2043 cod.
civ., di recente sembra ritornata sulle posizioni iniziali, dell’obbligazione ex lege e di natura
indennitaria dello Stato inadempiente, con prescrizione decennale. Il presupposto è che lo Stato
abbia violato un preciso obbligo ancorato alla sua appartenenza all’UE, obbligo che trova il suo
fondamento in chiare disposizioni dei Trattati, nonché nell’art. 11 Cost..
A ciò si aggiunga la giurisprudenza in tema di risarcimento dei danni da lesione di interessi
legittimi, inaugurata dalle Sezioni Unite della Cassazione, che ha segnato una svolta storica e che
certamente chiude il cerchio sulle possibilità per il giudice di affermare la responsabilità dello Stato
legislatore per atti normativi.
L’attenzione si è anche focalizzata sulla responsabilità dello Stato originata da fatto del giudice, per
pronunce in contrasto con il diritto dell’Unione. Anzitutto, la Corte di giustizia ha chiarito nella
sentenza Köbler che l’autorità di cosa giudicata non è di alcun ostacolo al riconoscimento della
99
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

responsabilità extracontrattuale dello Stato, che anzi presuppone l’assenza di rimedi giurisdizionali.
In relazione alla legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati, inoltre, la Corte si è
pronunciata nel senso che è incompatibile con il diritto dell’Unione 1 legislazione nazionale:
 che escluda o limiti la responsabilità dei giudici alle sole ipotesi di dolo e colpa grave;
 e che escluda in maniera generale la responsabilità del giudice di ultimo grado per
l’interpretazione delle norme e dei fatti.
In particolare, la normativa italiana sulla responsabilità civile dei giudici non può in qualche
modo condizionare o limitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto
dell’Unione.

19. CENNI SULLA PROCEDURA

Il procedimento dinanzi al Tribunale e alla Corte è regolato, oltre che dalle conferenti norme dei
Trattati e del Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia, anche dai rispettivi regolamenti di
procedura. Il procedimento prevede una fase scritta e una fase orale, prima che si proceda alla
decisione della causa; e naturalmente vi è qualche differenza a seconda che si tratti di azione diretta
o di rinvio pregiudiziale, e precisamente:
A) nelle azioni dirette promosse dinanzi al Tribunale o alla Corte (annullamento, carenza,
responsabilità extracontrattuale), la procedura è attivata con un ricorso da presentarsi entro il
termine indicato x ciascuna azione dal TFUE. Per l’azione di annullamento, ad es., il
termine è di 2 mesi dalla pubblicazione, dalla notifica al ricorrente o dal giorno in cui ha
avuto conoscenza dell’atto. A tale termine, poi, andava aggiunto un certo periodo, diverso x
ciascun Paese membro, calcolato in base alla distanza dal Lussemburgo della residenza della
parte; oggi il periodo è x tutti di 10 gg. Il ricorso contiene:
1 l’indicazione delle parti e dei difensori, con la precisazione del domicilio eletto;
2 l’esposizione dell’oggetto della controversia, dei mezzi dedotti e delle prove che
eventualmente si offrono;
3 nonché l’esatta enunciazione della domanda.
Il ricorso è redatto nella lingua del ricorrente, a meno che il convenuto non sia uno Stato
membro, com’è il caso nelle procedure d’infrazione; in questo caso si utilizza la lingua
dello Stato.
Il ricorso viene inviato a mezzo raccomandata alla cancelleria della Corte, che provvede
alle traduzioni, alla pubblicazione dell’essenziale nella Gazzetta Ufficiale, nonché alla
notifica alla controparte. Entro 1 mese, la controparte può presentare un controricorso.
Le parti hanno anche diritto a presentare rispettivamente una replica e una controreplica
entro 1 mese. I termini, peraltro, possono essere prorogati, su richiesta delle parti, dal
Presidente del Tribunale o dalla Corte.
B) La procedura pregiudiziale inizia, viceversa, dinanzi al giudice nazionale, con la
sospensione del procedimento e la rimessione di un’ordinanza alla Corte di giustizia con i
quesiti – d’interpretazione o di validità del diritto dell’Unione – che richiedono una risposta
ai fini della decisione. L’ordinanza, che deve contenere un quadro essenziale ma esauriente
degli elementi di fatto e di diritto della causa, nonché l’esposizione chiara dei motivi che
rendono necessaria una pronuncia del giudice dell’Unione ai fini della decisione del giudice
a quo, va trasmessa direttamente – dunque non x via diplomatica, ma semplicemente x posta
– alla cancelleria della Corte a Lussemburgo.
La cancelleria provvede alla traduzione dell’ordinanza nelle lingue ufficiali e la trasmette,
oltre che alle parti, anche alla Commissione, ad altre istituzioni dell’Unione interessate (ad
es. il Consiglio, quando è un rinvio di un atto del Consiglio) e agli Stati membri, nonché non
membri, nel caso di pregiudiziale su un accordo della Comunità con Stati terzi. Questi
soggetti possono presentare osservazioni scritte entro il termine di 2 mesi e cmq partecipare

100
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

all’udienza per manifestare la propria posizione oralmente. Il giudice relatore e l’avvocato


generale possono chiedere alle parti le informazioni supplementari su fatti, documenti o altri
elementi; le risposte sono comunicate alle altre parti. In base all’art. 104, n. 5, la Corte può
chiarimenti anche al giudice nazionale, salvo ad integrare il contraddittorio con le parti.
La lingua della procedura è quella del giudice di rinvio.
Il ritiro della domanda di pronuncia pregiudiziale da parte del giudice rimettente porta alla
cancellazione della causa dal ruolo.
Nei ricorsi diretti, le parti diverse dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione devono essere
rappresentate da un avvocato abilitato al patrocinio in uno Stato membro, anche quando la parte sia
essa stessa un avvocato.
Nelle procedure pregiudiziali, viceversa, le parti possono essere difese dai soggetti abilitati a
difenderle nella fase nazionale, dunque anzitutto gli avvocati; ma non è escluso che in alcuni settori
specifici (ad es. quello tributario o quello previdenziale) la difesa possa non essere esercitata da un
avvocato, bensì da un commercialista e rispettivamente un consulente del lavoro, purché siano
rispettate le regole valide in proposito nei sistemi giuridici nazionali.
Gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione possono intervenire in tutte le procedure attivate con
ricorso dinanzi al giudice dell’Unione:
 sia a supporto della domanda;
 sia per contestarla.
N.B.: L’intervento è consentito anche alle persone fisiche o giuridiche, a condizione che
provino di essere direttamente investite dalla decisione impugnata ed abbiano un interesse
alla soluzione della controversia.
La fase orale comprende la presentazione di una relazione da parte del giudice relatore, l’audizione
degli agenti, consulenti e avvocati e, se del caso, dei testimoni e dei periti, infine le conclusioni
dell’avvocato generale.
Più precisamente, dopo l’ultima memoria ed esaurita la fase della traduzione degli atti e dei
documenti nelle lingue che occorrono (almeno in francese, che è la lingua interna di lavoro della
Corte), il giudice relatore, sentito l’avvocato generale, deposita una relazione d’udienza (che
riassume i termini essenziali della causa, il quadro normativo e la posizione delle parti). Sulla base
di questa relazione, che viene inviata alle parti x eventuali richieste di modificazioni e integrazioni,
viene deciso dal Tribunale o dalla Corte nel loro insieme se la causa richiede o meno un
supplemento di istruttoria, di documentazione o altro. In caso affermativo si fanno richieste o si
pongono dei quesiti alle parti, si fissa la composizione del collegio (plenaria o sezione) e la data
dell’udienza o, in mancanza, delle conclusioni dell’avvocato generale.
Al’udienza, i difensori delle parti principali e intervenienti espongono i punti principali delle
rispettive posizioni giuridiche che non siano stati sufficientemente illustrati nel corso della
procedura scritta; e rispondono alle eventuali domande del collegio e dell’avvocato generale.
La fase orale termina con la lettura in udienza pubblica del dispositivo delle conclusioni
dell’avvocato generale, nella lingua di quest’ultimo.
Il dispositivo della sentenza della Corte o del Tribunale, all’esito della fase deliberativa, viene letto
in udienza pubblica, nella lingua di procedura. La traduzione nelle altre lingue ufficiale è anch’essa
immediatamente disponibile. Nella G.U. viene pubblicato il dispositivo della sentenza. Nelle
procedure pregiudiziali, la cancelleria del giudice a quo riceve copia delle conclusioni dell’avvocato
generale e della sentenza.
Il regolamento di procedura della Corte (art. 92) prevede che quando sussista una manifesta
incompetenza del giudice o l’atto introduttivo sia manifestamente irricevibile, la Corte può
decidere, sentito l’avvocato generale, con ordinanza motivata. Lo stesso dicasi quando nella
procedura pregiudiziale:
 la questione posta è identica ad una sulla quale la Corte ha già statuito;
 quando la risposta al quesito del giudice nazionale può essere dedotta chiaramente dalla

101
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

giurisprudenza;
 o quando la questione posta non lascia dubbi ragionevoli.
Il Tribunale, invece, può fare altrettanto anche in caso di ricorso manifestamente infondato.
Con le modificazioni in vigore dal 1° luglio 2000, come successivamente emendate, è stata prevista
la possibilità di una procedura pregiudiziale accelerata, in deroga alle disposizioni del regolamento
di procedura, in caso di comprovata «urgenza straordinaria» (art. 104-bis). In questo caso, viene
fissata immediatamente la data d’udienza e le parti possono presentare memorie scritte sui punti
essenziali della questione pregiudiziale e partecipare all’udienza orale. La Corte «statuisce, sentito
l’avvocato generale»: ciò che esclude le conclusioni scritte.
Più in generale, con le modifiche intervenute nei regolamenti di procedura della Corte e del
Tribunale, si è introdotta la possibilità di una procedura accelerata, su domanda di una delle parti e
quando lo richiede la particolare urgenza del caso. Di rilievo è che il contraddittorio scritto si riduce
ad una memoria, che è possibile integrare le prove anche nel corso dell’udienza orale e che
l’avvocato generale è solo sentito.
Prima del 2004 tutte le sentenze e le conclusioni degli avvocati generali erano pubblicate nella
Raccolta della giurisprudenza della Corte e del Tribunale, edita in tutte le lingue ufficiali della
Comunità; ed erano naturalmente disponibili su Internet a partire dal giorno della pronuncia. Nel
corso del 2004 si è deciso, invece, di adottare una politica di pubblicazione selettiva delle decisioni
nella Raccolta, per far fronte all’adesione di nuovi Stati e al conseguente aumento del carico di
lavoro, specie dei traduttori.

PARTe seconda
Il mercato interno

CAPITOLO 4
LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI

1. LA CENTRALITÀ DEL MERCATO INTERNO NEL SISTEMA DELL’UNIONE.


INTEGRAZIONE NEGATIVA E INTEGRAZIONE POSITIVA

Nel processo di integrazione europea globalmente considerato, la realizzazione di un mercato


interno delle merci e dei fattori della produzione (lavoro, servizi e capitali) ha avuto da sempre un
ruolo centrale. La Corte ha + volte ribadito che «gli articoli del Trattato relativi alla libera
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali sono norme fondamentali per
l’Unione ed è vietato qualsiasi ostacolo, anche di minore importanza, a detta libertà». Lo
conferma, tra l’altro, la circostanza che nel linguaggio non tecnico, l’espressione “mercato comune”
viene spesso utilizzata addirittura come sinonimo di UE.
Eppure, l’espressione non ha ricevuto una specifica definizione nel Trattato. Ne troviamo una, ma
solo molto + tardi, in una sentenza della Corte di giustizia, dove si rileva che «la nozione di
102
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

mercato comune… mira ad eliminare ogni intralcio per gli scambi intracomunitari al fine di
fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più possibile simile ad un vero e proprio mercato
interno». Si ritrova poi un’analoga definizione all’art. 26 TFUE, a riguardo dell’espressione
mercato interno: «spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle
merci, delle persone, dei servizi e dei capitali». Bisogna precisare che le espressioni:
mercato comune
mercato interno sono in pratica equivalenti e quindi utilizzate indifferentemente
mercato unico
La realizzazione del mercato unico era prefigurata all’art. 2 del Trattato di Roma come lo strumento
atto a:
1 promuovere lo sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità
2 e perseguire, più in generale, i compiti della Comunità enunciati nello stesso art. 2.
Quindi gli Stati membri devono svilupparsi armoniosamente , ma anche ravvicinarsi
gradualmente.
Più in generale, va considerato che la gradualità del processo di integrazione ha fatto prevalere, nel
corso della «prima generazione» del regime di liberalizzazione, soprattutto la dimensione c.d.
negativa dell’integrazione fra i mercati e fra le attività economiche degli Stati membri. Dunque si è
posto l’accento in particolare sull’eliminazione delle barriere poste dagli Stati agli scambi in merci,
in persone, in servizi e in capitali, con una serie di divieti imposti agli Stati membri; lo stesso dicasi
per le regole di concorrenza, così strettamente legate al regime di libertà degli scambi.
La chiave di lettura delle conferenti norme del Trattato è stata chiara molto presto: considerazione
delle responsabilità di politica economica e monetaria lasciate agli Stati membri dal Trattato, ma
nessuna indulgenza o eccezione quanto alla puntuale osservanza degli obblighi fondamentali in
tema di mercato interno. In proposito, appare chiara anche l’inversione del criterio cui
tradizionalmente si deve ispirare l’interpretazione delle norme internazionali convenzionali: non più
il favor per la libertà degli Stati contraenti, ma al contrario un favor per le limitazioni a tale libertà,
purché preordinate al perseguimento dell’obiettivo di integrazione.
Il passaggio dall’integrazione negativa a quella positiva è poi marcato dall’importante iniziativa
della Commissione dei secondi anni ’80, che ha portato prima alla pubblicazione del Libro bianco
sul mercato interno e poi alla stipulazione dell’Atto Unico, momenti che hanno aperto la strada alla
«seconda generazione» del mercato comune, quella dell’integrazione positiva. Sia l’uno che l’altro
si ponevano l’obiettivo di rilanciare e accelerare il processo di realizzazione del mercato interno,
agendo soprattutto su 2 fronti, e precisamente:
1. quello della completa e definitiva eliminazione delle frontiere tecniche, fisiche e fiscali tra i
mercati degli Stati membri;
2. e quello dell’armonizzazione della fiscalità indiretta, considerata fondamentale per
l’eliminazione delle distorsioni della concorrenza.
L’Atto unico, rispetto alla realizzazione del mercato interno, ha portato delle modificazioni al
Trattato:
 soprattutto sul piano delle modalità decisionali, sostituendo in ipotesi significative il criterio
della maggioranza a quello dell’unanimità e prefigurando per alcuni temi lo strumento del
regolamento in luogo della direttiva;
 ed ha anche previsto che il Consiglio, quando non vi sia armonizzazione, possa far applicare
il criterio del mutuo riconoscimento delle normative nazionali in determinati settori;
 infine, ha previsto importanti iniziative sulle c.d. politiche di accompagnamento che
incrementano le competenze dell’Unione.
Il Trattato di Maastricht ha poi innovato la configurazione del mercato interno, collegandovi come
strumenti per raggiungere l’obiettivo dello sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività
economiche all’interno dell’Unione, un’unione economica e monetaria e numerose politiche
comuni orizzontali.

103
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Quindi il mercato interno è ormai, dopo l’Atto unico e il Trattato di Maastricht, una nozione che va
al di là della realizzazione di uno spazio in cui sono garantite la piena mobilità di beni, servizi e
fattori produttivi, nonché la sostanziale parità delle condizioni di concorrenza per le imprese; infatti
il mercato interno è anche il quadro giuridico complessivo, su scala europea, dello svolgimento dei
rapporti economici.

2. LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI. CAMPO DI APPLICAZIONE DELLA


DISCIPLINA: NOZIONE DI MERCE, SFERA TERRITORIALE, DESTINATARI

Il processo di liberalizzazione, che era previsto si concludesse il 31/12/1969, è stato compiutamente


realizzato già a partire dal giugno 1968 dai 6 Paesi allora membri (dal 1977 per Danimarca, Irlanda
e Regno Unito, dal 1985 per la Grecia, dal 1993 per Spagna e Portogallo).
La disciplina della libera circolazione delle merci si articola nel Trattato in 3 principali e distinti
momenti, che rispettivamente investono:
1) l’unione doganale, dunque l’abolizione dei dazi e delle tasse di effetto equivalente ai dazi
doganali all’interno del mercato comune, nonché la fissazione di una tariffa doganale
comune per gli scambi con i Paesi terzi (artt. da 28 a 32 TFUE);
2) il divieto di imposizioni fiscali interne di portata discriminatoria per i prodotti
importati (art. 110 TFUE);
3) l’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi fra gli Stati membri e delle misure di
effetto equivalente, nonché l’abolizione dei monopoli commerciali (artt. da 34 a 37 TFUE).
La nozione di merce comprende tutti i prodotti valutabili in denaro e x ciò stesso idonei ad essere
oggetto di una transazione commerciale. (Tale definizione è stata data dalla Corte, chiamata a
rispondere se rientrassero in tale nozione gli oggetti d’interesse artistico, storico, archeologico o
etnologico: la risposta fu positiva).
Sono poi state comprese nella nozione di merce, ad es., le monete che non abbiano + corso legale,
mentre costituiscono mezzi di pagamento le monete liberamente circolanti in uno Stato membro,
anche se prodotte in uno Stato terzo. Del pari vanno compresi tra le merci:
 i prodotti che incorporano opere dell’ingegno o artistiche (come i dischi e le videocassette);
 i prodotti che rivestano rilievo particolare per l’economia di uno Stato membro (come il
petrolio e l’energia elettrica);
 infine gli stupefacenti.
Un’ipotesi particolare, ma di grande rilievo pratico, è quella dei rifiuti, che si è dubitato rientrassero
nella nozione di merce, almeno quando non riciclabili. Ma al riguardo la Corte ha rilevato che tutti
gli oggetti trasportati al di là di una frontiera per dar luogo a transazioni commerciali, dunque tra
essi anche i rifiuti, sono sottoposti al regime della libera circolazione delle merci, quale che sia la
natura della transazione; e che inoltre non si può operare una distinzione tra rifiuti riciclabili e non
riciclabili, sia perché sarebbe di difficile applicazione, sia perché la natura riciclabile o meno dei
rifiuti dipende da fattori del tutto variabili e principalmente dal costo delle relative operazioni.
Viceversa, i prodotti che riguardano la sicurezza in senso stretto (armi, munizioni e materiale
bellico), inseriti in uno specifico elenco predisposto dal Consiglio, soggiacciono alla speciale
previsione dell’art. 346 TFUE e pertanto sono fuori dalla sfera di applicazione materiale delle
norme sulla libera circolazione delle merci. I prodotti agricoli, compresi i prodotti della pesca,
rientrano in via generale nella disciplina del mercato interno (art. 38 TFUE), salvo quando siano
oggetto del regime specifico regolato dalle disposizioni sulla politica agricola dell’Unione. In
concreto, i prodotti agricoli rientrano nel regime dei divieti di restrizioni quantitative quando non
attengano ad un’organizzazione comune di mercato. Ad un particolare regime sono sottoposte anche
le sostanze radioattive, i medicinali ad uso umano e veterinario.
La sfera di applicazione territoriale della disciplina del mercato comune delle merci coincide in via
di principio con quella dell’intero Trattato e dunque con il territorio degli Stati membri, ivi

104
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

comprese le zone di mare e gli spazi aerei che soggiacciono alla loro giurisdizione. Pertanto vanno
ricordate le eccezioni e «specificità» che sono prefigurate all’art. 349 TFUE, in particolare per
alcune zone insulari che interessano la Francia (i dipartimenti d’oltremare), la Spagna (le Canarie) e
il Portogallo (Madeira e le Azzorre): rispetto a questi territori, il Consiglio, su proposta della
Commissione e previa consultazione del PE adotta misure specifiche volte, in particolare, a stabilire
le condizioni di applicazione dei Trattati a tali regioni, ivi comprese politiche comuni. Inoltre, i
Paesi e territori d’oltremare (PTOM) soggiacciono ad un regime particolare, simile all’associazione,
disciplinato da una decisione del Consiglio.
Il campo di applicazione territoriale delle disposizioni del Trattato relative alla circolazione delle
merci, poi, va distinto dal territorio doganale dell’Unione, che è invece il territorio entro il quale
trova applicazione la normativa doganale dell’Unione: infatti, questi 2 ambiti territoriali hanno 1
diversa rilevanza giuridica e cmq non coincidono perfettamente.
Le norme che complessivamente disciplinano il mercato comune sono in generale dirette agli Stati
membri, nel senso che impongono a questi ultimi 1 serie di obblighi che ruotano attorno alla
liberalizzazione degli scambi in merci, persone, servizi e capitali.
I singoli beneficiano dell’effetto diretto che accompagna la gran parte delle norme relative alla
liberalizzazione degli scambi; all’occorrenza, dunque, sono titolari di diritti che possono far valere
direttamente dinanzi ai giudici e non importa se non siano essi, ma gli Stati, i destinatari della
norma invocata. Piuttosto, bisogna chiedersi se essi siano compresi tra i destinatari anche dei divieti
relativi al regime di libera circolazione delle merci. La giurisprudenza della Corte sul punto, pur con
qualche incertezza, sembra orientata nel senso che il comportamento del singoli, ad es. un contratto
di distribuzione commerciale o un accordo tra imprese, possono e devono essere valutati alla luce
delle regole di concorrenza e che invece le norme sulla libera circolazione delle merci si riferiscono
esclusivamente alle normative e alle pratiche amministrative degli Stati membri e delle istituzioni
dell’Unione.

3. L’UNIONE DOGANALE. ORIGINE DELLE MERCI E REGIME DI LIBERA PRATICA

L’art. 28 TFUE afferma che l’Unione comprende un’unione doganale, che si estende al complesso
degli scambi di merci e comporta il divieto, fra gli Stati membri, dei dazi doganali all’importazione
e all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l’adozione di una tariffa
doganale comune nei loro rapporti con i Paesi terzi.
Già nell’art. XXIV, par. 8, del GATT, si rinvenivano le 2 nozioni di:
 zona di libero scambio che si collega all’ipotesi di un insieme di territori doganali tra i quali
si aboliscono i dazi e altre misure restrittive degli scambi, limitatamente ai prodotti originari
dei Paesi aderenti;
 e zona di unione doganale indica una forma + avanzata di cooperazione, dove all’abolizione
dei dazi doganali e delle altre restrizioni commerciali, si aggiunge l’uniformità sostanziale
dei dazi applicati agli scambi con i Paesi terzi.
Rispetto alla nozione di unione doganale contenuta nel GATT, quella prefigurata e realizzata
nell’ambito dell’Unione è certamente + avanzata e non a caso è definita unione doganale «perfetta»,
infatti al riguardo rilevano anche:
1) il beneficio della libera circolazione, salvo eccezioni, non solo per i prodotti originari dei
Paesi membri ma anche per i prodotti originari di Paesi terzi, una volta importati nell’area
dell’Unione e sottoposti al dazio unico;
2) il regime di preferenza per i prodotti dell’Unione;
3) una disciplina doganale complessiva, uniforme nei diversi Stati membri, che si avvale per
giunta di un meccanismo di interpretazione giudiziaria centralizzata, attraverso il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE;

105
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

4) infine, la destinazione al bilancio dell’Unione delle entrate costituite dalla tariffa doganale
comune.
Significativo, al riguardo, è il confronto con lo Spazio Economico Europeo, realizzato a partire dal
1994 con i Paesi dell’EFTA, ad eccezione della Svizzera, ed oggi in pratica ridotto a poca cosa,
dopo che Austria, Svezia e Finlandia sono diventati membri dell’Unione. Tale Spazio, al pari della
stessa EFTA, rientra a tutti gli effetti nella nozione di zona di libero scambio e non in quella di
unione doganale, nella misura in cui la liberalizzazione degli scambi riguarda espressamente i soli
prodotti originari dei Paesi membri.
Dunque un aspetto essenziale e qualificante del sistema di liberalizzazione degli scambi fra i Paesi
membri è quello della sua sfera di applicazione quanto all’origine delle merci: infatti, di tale regime
beneficiano sia i prodotti originari dei Paesi membri che quelli originari di Paesi terzi e importati
nell’Unione.
“Paese d’origine” di un prodotto è evidentemente quello in cui è stato fabbricato. Se però si tratta di
una produzione complessa, le cui fasi hanno riguardato 2 o + Stati, ai fini dell’individuazione
dell’origine del prodotto si prende in considerazione «l’ultima trasformazione o lavorazione
sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa a tale scopo, che si sia
conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del
processo di fabbricazione». Dunque, il criterio fondamentale è quello dello «stadio produttivo
determinante», cioè della trasformazione economicamente e merceologicamente rilevante; mentre il
semplice assemblaggio, con personale magari non specializzato e senza necessità di attrezzature
particolari, non contribuisce a mutare le caratteristiche essenziali del prodotto, né comporta il
sostanziale e necessario valore aggiunto. In materia di prodotti ittici, poi, è stato stabilito il criterio
della bandiera della nave; nel caso di bottino realizzato da + navi di diversa nazionalità, il criterio è
quello della nave cui si possa imputare il momento essenziale della battuta o della campagna di
pesca.
I prodotti originari dei Paesi terzi che siano stati regolarmente importati in un qualsiasi Paese
dell’Unione sono in libera pratica, nel senso che, salvo eccezioni, godono della stessa libertà di
circolazione delle merci originarie dei Paesi membri. Nella pratica, ogni prodotto viene provvisto di
un documento doganale unico, che lo accompagna dallo stabilimento di partenza fino al luogo di
destinazione. E ciò comporta evidentemente l’applicazione del principio generale di libertà di
transito delle merci all’interno dell’Unione.

4. L’ABOLIZIONE DEI DAZI DOGANALI E DELLE TASSE DI EFFETTO


EQUIVALENTE

Alla base del regime di libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione c’è l’abolizione dei
dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente sugli scambi tra i Paesi membri. Questo divieto è
imposto dall’art. 30 TFUE, che è una norma fondamentale del sistema ed è provvista di effetto
diretto, nonostante sia rivolta agli Stati e non direttamente ai singoli.
I dazi doganali all’esportazione sono stati definitivamente aboliti il 31 dicembre 1961, mentre quelli
all’importazione dovevano essere aboliti nel 1969 (alla fine della fase transitoria), ma lo sono stati
di fatto già nel luglio dell’anno precedente, con una decisione c.d. di accelerazione.
La nozione di tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale è stata oggetto di una giurisprudenza
molto vasta, che ne ha progressivamente definito gli elementi essenziali. Si può dire che la “tassa di
effetto equivalente” è quell’onere pecuniario che, quale ne sia la denominazione e la struttura, è
direttamente o indirettamente collegato all’importazione o all’esportazione di un prodotto, anche se
imposto in un momento diverso. In altri termini, si tratta di 1 onere pecuniario che, pur non essendo
un dazio doganale, comporta gli stessi effetti restrittivi sugli scambi, in quanto imposto in ragione

106
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

della circostanza che il prodotto ha varcato il confine di uno Stato membro e tale da elevarne il
costo.
Gli elementi rilevanti perché un onere possa essere considerato 1 tassa di effetto equivalente sono
questi:
1) deve trattarsi di un onere pecuniario, altrimenti potrà costituire al + una misura, non certo 1
tassa, di effetto equivalente e dunque potrà eventualmente rientrare nella previsione dell’art.
34 TFUE;
2) deve colpire il prodotto in ragione dell’importazione o dell’esportazione, rendendola più
onerosa oppure aggravandone gli adempimenti amministrativo-burocratici.
Viceversa, non ha importanza il momento in cui viene imposto o percepito l’onere,
che può anche essere successivo a quello del passaggio della frontiera; irrilevante è anche il
soggetto beneficiario, che può anche non essere lo Stato, così come la finalità che si persegue e
l’ammontare dell’onere, che può essere anche minimo.
Il divieto di applicare dazi doganali e tasse di effetto equivalente riguarda evidentemente gli scambi
di merci tra i Paesi membri. Ciò vuol dire che le disposizioni di cui agli artt. 28 e 30 TFUE
possono essere invocate dal singolo quando l’onere pecuniario è imposto in ragione
dell’importazione di un prodotto proveniente da un altro Stato membro. A tal fine, anzitutto non
rileva che l’onere pecuniario sia imposto in ragione dell’introduzione del prodotto in una parte del
territorio (una regione o un comune) piuttosto che nell’insieme del territorio statale. Inoltre, né
rileva che in tale ipotesi l’onere colpisca, insieme ai prodotti provenienti da altri Stati membri,
anche i prodotti che provengono da altre regioni dello stesso Stato membro [ad es., relativamente
all’ipotesi del «dazio di mare», una tassa che colpiva tutti i prodotti che venivano introdotti nei
territori francesi d’oltremare (Martinica, Guadalupa, Réunion e Guyana), è stato ribadito che
l’ostacolo alla libera circolazione delle merci non viene meno quando la tassa colpisce in egual
misura anche i prodotti provenienti da altre parti del territorio dello stesso Stato membro.]
Nella stessa prospettiva, va escluso che gli art. 28 e ss. TFUE si applichino ai prodotti importati o
esportati da o verso Paesi terzi. Peraltro, ciò non vuol dire che gli Stati membri abbiano completa
autonomia quanto alla tassazione degli scambi con i Paesi terzi. L’applicazione di oneri tributari
all’importazione o all’esportazione con i Paesi non comunitari appartenenti all’Unione, infatti, è pur
sempre collegata alla politica commerciale comune e al sistema della tariffa doganale comune
(TDC). Pertanto, fin da luglio del 1968, a partire dall’entrata in vigore della TCD, gli Stati membri
non possono introdurre unilateralmente nuove tasse o elevare quelle esistenti a quella data, salvo le
eccezioni e le deroghe introdotte dall’Unione ed in ogni caso uniformi, per evitare sviamenti degli
scambi e distorsioni all’interno.
Le deroghe a questo divieto sono molto limitate; in gran parte, anzi, non si tratta neppure di deroghe
in senso proprio, bensì di una delimitazione della sfera di applicazione materiale del divieto di cui
agli artt. 28 e 30 TFUE rispetto ad ipotesi che, per motivi diversi, non sono ad esso riconducibili. E
precisamente:
1. una 1° ipotesi  è quella di un onere pecuniario che sia
richiesto dall’amministrazione a fronte di un servizio prestato in favore e nell’interesse
dell’importatore (o dell’esportatore). Le condizioni sono al riguardo molto precise e
rigorose, nel senso che:
 deve trattarsi del compenso per un servizio effettivamente prestato
dall’amministrazione;
 deve essere un servizio reso individualmente e a favore dell’operatore e non
semplicemente in vista di un interesse generale;
 l’onere pecuniario deve avere la natura di vero e proprio corrispettivo e dunque
essere proporzionato alla qualità e al costo del servizio.
2. Una 2° ipotesi  è quella di oneri imposti in base a normative dell’Unione, proporzionati al
costo effettivo del servizio oppure imposti da convenzioni internazionali che favoriscano la

107
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

libera circolazione delle merci. Nella stessa logica, poi, rientra anche l’ipotesi dei montanti
compensativi monetari istituiti nell’ambito della politica agricola comune, in quanto oggetto
di misure dell’Unione destinate a compensare l’instabilità monetaria;
3. altra ipotesi importante di deroga  è quella in cui l’onere è parte di un sistema generale di
tributi interni, che colpisca con uguali criteri e sistematicamente sia il prodotto importato
che quello nazionale.

5. IL DIVIETO DI IMPOSIZIONI FISCALI DISCRIMINATORIE

Il divieto di applicare ai prodotti dazi doganali e altri oneri pecuniari all’atto o cmq in ragione
dell’attraversamento delle frontiere tra Paesi membri, va integrato con l’ulteriore divieto, sancito
dall’art. 110 TFUE, di applicare tributi interni che siano discriminatori per i prodotti importati.
L’obiettivo di questo divieto è lo stesso di quello di cui agli artt. 28 e 30: ossia eliminare gli ostacoli
alla libera circolazione delle merci nell’area dell’Unione.
L’imposizione tributaria, pur restando nella sfera di libertà degli Stati membri, deve conservare un
carattere di assoluta neutralità tra prodotti nazionali e prodotti importati o esportati, in modo che
l’attraversamento del confine tra uno Stato membro e l’altro non rappresenti né direttamente né
indirettamente l’occasione o il motivo per oneri tributari più gravosi. Sotto questo profilo, dunque,
il divieto sancito dall’art. 110 TFUE è strettamente complementare a quello di cui agli artt. 28-30
TFUE, nella misura in cui mira ad evitare che quest’ultimo venga eluso attraverso lo strumento
tributario; se si preferisce, mira ad «impedire le scappatoie» che una determinata manovra fiscale
potrebbe nascondere. In definitiva, l’art. 110 TFUE persegue lo scopo di garantire la libera
circolazione delle merci in condizioni di neutralità fiscale rispetto alla concorrenza tra prodotti
nazionali e prodotti di altri Paesi dell’Unione.
La norma è provvista dell’effetto diretto, pur avendo come destinatari gli Stati membri; e che
riguarda sia i tributi sui prodotti importati che quelli sui prodotti esportati.
Il divieto comprende qualsiasi onere pecuniario di natura tributaria imposto dallo Stato o da un ente
pubblico o territoriale, dall’IVA alle accise alle tasse parafiscali, indipendentemente dal soggetto
beneficiario, che può anche non essere lo Stato; e indipendentemente dall’ammontare o dalla
consistenza dell’ostacolo agli scambi, che può anche essere di lieve entità. Inoltre, il divieto va
riferito anche all’ipotesi che il tributo colpisca un prodotto originario di un Paese terzo che si trovi
in regime di libera pratica.
L’art. 110 TFUE è applicabile sia alle imposte indirette che alle imposte dirette. Ad es., sarebbe in
contrasto con il divieto in questione un regime impositivo che sottoponga le imprese importatrici ad
un onere tributario superiore a quello che grava sui produttori nazionali. In fatto, però, la
disposizione ha trovato applicazione principalmente rispetto ad ipotesi di tassazione indiretta, in
sintonia con l’oggetto della norma, che infatti vieta le imposizioni suscettibili di discriminare i
prodotti importati da altri Paesi dell’Unione rispetto ai concorrenti prodotti nazionali.
Sotto altro profili i regimi tributari che discriminano in ragione della nazionalità le persone fisiche o
giuridiche, i prestatori di servizi o i lavoratori, sono evidentemente incompatibili con le disposizioni
che regolano il diritto di stabilimento o la libera circolazione dei lavoratori o la libera prestazione
dei servizi. Il divieto di discriminazione fiscale del cittadino comunitario che non sia lavoratore o
prestatore di servizi, può viceversa trovare fondamento nella disposizione generale e residuale di cui
all’art. 18 TFUE.
Va anche precisato che una tassa incompatibile con l’art. 110 TFUE è vietata solo per la parte che
colpisce le merci importate più di quelle nazionali.
Il campo di applicazione dell’art. 110 TFUE va tenuto ben distinto da quello di altre disposizioni del
Trattato con le quali vi sia contiguità di contenuto o semplicemente comunanza di finalità. Questa
possibilità di confusione sussiste soprattutto con il divieto di tasse di effetto equivalente, avendo
entrambe le disposizioni lo scopo di eliminare le restrizioni dissimulate alla libertà degli scambi
all’interno dell’Unione. Va tenuto presente, in proposito, che le norme sui tributi interni
108
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

discriminatori e quelle sulle tasse di effetto equivalente non possono essere applicate
cumulativamente, in quanto danno luogo a regimi sostanzialmente diversi. Ad es., mentre le tasse
di effetto equivalente vanno semplicemente abolite, le imposte interne di cui all’art. 110 TFUE
vanno invece applicate in modo da escludere qualsiasi forma di discriminazione, diretta o indiretta,
fra prodotti nazionali e prodotti importati da altri Stati membri.
In breve, la tassa di effetto equivalente vietata dall’art. 30 TFUE colpisce esclusivamente il
prodotto importato o esportato ed in ragione dell’importazione o dell’esportazione, mentre l’ipotesi
di cui all’art. 110 TFUE è quella di un onere tributario che colpisce tutti i prodotti, discriminando
quelli importati da quelli nazionali; o che cmq è compreso in un sistema impositivo generale, che
investe «sistematicamente categorie di merci secondo criteri obiettivi, applicati indipendentemente
dalla provenienza delle merci». Ciò vuol dire che l’ipotesi del tributo interno ha come condizione
fondamentale il carattere di generalità e astrattezza dell’onere, dunque l’indifferenza assoluta
rispetto all’origine del prodotto. Pertanto, può ben verificarsi che non vi sia un prodotto nazionale
colpito dal tributo o che vi sia una produzione nazionale molto ridotta. In questa ipotesi, l’onere
conserverà la natura di tributo interno ai sensi dell’art. 110 TFUE, ma sarà evidentemente del tutto
legittimo, in quanto in questo caso sarà venuto a mancare l’elemento della discriminazione a
vantaggio del prodotto nazionale.
Dunque, deve trattarsi in 1° luogo di un onere tributario, che operi direttamente o in fatto una
discriminazione a danno del prodotto importato o esportato. L’elemento della discriminazione
comprende tutti quei tributi che abbiano l’effetto di «scoraggiare l’importazione di merci originarie
di altri Stati membri a vantaggio dei prodotti nazionali», tra cui ad es.:
- un sistema di tassazione progressiva delle automobili, con la previsione di una tassa speciale
molto elevata per le vetture che superano un certo livello di potenza fiscale, livello
determinato in modo tale che di fatto l’onere gravi solo sulle vetture importate;
- un tributo concepito in modo da colpire non il prodotto importato bensì l’uso del prodotto,
quando quest’ultimo sia destinato esclusivamente a quell’uso e importato a quel fine;
- un’ imposta dovuta dal trasportatore del prodotto, applicata differentemente a seconda che si
tratti di trasporto internazionale o solo nazionale, in modo che in fatto il prodotto nazionale
risulti esente dall’imposta;
- un regime di agevolazioni o esenzioni fiscali, che favorisca maggiormente o esclusivamente
i prodotti nazionali;
- un sistema di dilazioni di pagamento dell’imposta di cui possono beneficiare solo i
produttori nazionali;
- un sistema di tassazione differenziato di un determinato prodotto, che preveda criteri e
modalità diverse di calcolo, in particolare quando gravi di tributi diversi il prodotto
nazionale e di un tributo unico, superiore a quello minimo, il prodotto importato.
Dunque, il criterio decisivo per l’applicazione dell’art. 110 TFUE è costituito dall’incidenza
effettiva del tributo sul prodotto nazionale e sul prodotto importato.
Inoltre, al fine di qualificare esattamente l’onere, come tributo interno discriminatorio oppure come
tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale, può essere necessario considerare la destinazione
del tributo. In particolare, quando il gettito è destinato a finanziare attività che giovano
specificamente ed esclusivamente al prodotto nazionale tassato, e la compensazione è totale, l’onere
stesso è assimilato ad una tassa di effetto equivalente; quando, invece, i benefici compensano solo
parzialmente l’onere che grava sui prodotti nazionali, la tassa rientra nella previsione dell’art. 110
TFUE: in questo caso, la non conformità a tale disposizione sta nella circostanza che,
compensandosi parzialmente gli oneri sui prodotti nazionali, l’imposta è discriminatoria nei
confronti dei prodotti importati, al pari di quanto si verifica quando la compensazione sia addirittura
totale.
Inoltre, il carattere discriminatorio del tributo applicato ai prodotti importati presuppone il
confronto con i prodotti nazionali. Il 1° comma dell’art. 110 TFUE («Uno Stato membro non può
applicare ai prodotti degli altri Stati membri tributi interni superiori a quelli applicati ai prodotti
109
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

nazionali similari») pone come termine di confronto i prodotti similari, cioè i prodotti che x il
consumatore hanno proprietà analoghe e rispondono alle stesse esigenze, in base ad un criterio non
di identità ma di analogia e di comparabilità nell’uso. In proposito, si deve considerare una serie di
altri elementi, quali l’origine, la fabbricazione, il gusto, il tenore alcolico per le bevande, nonché
l’idoneità a rispondere agli stessi bisogni del consumatore. E tra i prodotti nazionali vanno compresi
anche quelli per i quali non esiste una produzione nazionale, ma un mercato dell’usato.
Il 2° comma dell’art. 110 TFUE («Uno Stato membro non può applicare, ai prodotti degli altri
Stati membri tributi interni volti a proteggere indirettamente altre produzioni») estende il divieto ai
tributi discriminatori tra prodotti nazionali e prodotti importati non più similari, ma semplicemente
concorrenti; rispetto al 1° comma dell’art. 110 TFUE, quest’ultima disposizione ha un ambito di
applicazione + ampio:
 sia perché riguarda delle ipotesi in cui la sostituibilità tra prodotti risulta + tenue;
 sia perché il rapporto di concorrenza, che può essere anche indiretto o potenziale, va
considerato in modo dinamico e relativo.
Ad es. in tema di bevande alcoliche, si è affermata l’illegittimità di una tassazione di un
vino importato, leggero e di basso costo, più elevata di quella applicata sulla birra, tipica
bevanda nazionale.
Relativamente, poi, all’apparente contiguità con il divieto di restrizioni quantitative alle
importazioni di cui all’art. 34 TFUE, e ancora con il divieto di misure di effetto equivalente, basta
dire che la disposizione ex art. 34 è una norma generale rispetto alle disposizioni specifiche in tema
di tasse di effetto equivalente ai dazi doganali e di imposizioni fiscali discriminatorie. Come tale,
l’art. 34 TFUE si applica in via del tutto alternativa e semmai residuale rispetto agli artt. 28 e 30
TFUE, da un lato, e 110 TFUE dall’altro lato; ciò implica che quando ricorrano i presupposti
prescritti dal Trattato, saranno le norme specifiche a doversi applicare e non la disposizione
generale sulle misure di effetto equivalente.
Piuttosto, nel caso delle tasse c.d. parafiscali, non deve esserne trascurata la possibile rilevanza
anche rispetto alla disciplina degli aiuti di Stato: infatti la tassa può ben essere una modalità di
finanziamento di un aiuto e dunque influire sia sulla concorrenza che sugli scambi; come tale,
soggiace al controllo della Commissione e più in generale alla disciplina degli artt. 107 e 108
TFUE, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.
Il giudice nazionale resta competente a valutare la compatibilità della misura rispetto a norme del
Trattato diverse dagli artt. 107 e 108 TFUE. Così un regime fiscale generale dichiarato compatibile
con le norme sugli aiuti di Stato non preclude al giudice nazionale di valutarlo rispetto all’art. 110
TFUE o ad altre disposizioni del Trattato.
Infine merita qualche cenno il problema della ripetizione di somme percepite dalle amministrazioni
nazionali a titolo di tributo o di dazio doganale in violazione del diritto dell’Unione: l’orientamento
della giurisprudenza è fondato sulla premessa che il sistema nazionale può rifiutare il rimborso della
somma indebitamente percepita quando ciò si risolva in un arricchimento senza causa dell’avente
diritto, ciò che si verificherebbe in linea di principio quando il tributo non dovuto sia stato cmq
riversato a valle, sui consumatori; e salvo che il giudice non accerti l’esistenza di un danno
provocato cmq dalla riduzione di attività. Ne consegue che è incompatibile con il diritto
dell’Unione un sistema di rimborso fondato sulla presunzione della ripercussione e che ponga a
carico del contribuente la prova del contrario o altre limitazioni.

6. RESTRIZIONI QUANTITATIVE E MISURE DI EFFETTO EQUIVALENTE.


L’ORIENTAMENTO ORIGINARIO DELLA COMMISSIONE

Rilievo centrale nella disciplina del mercato comune delle merci ha il divieto di restrizioni
quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, che investe sia le importazioni (art.
34 TFUE) che le esportazioni (art. 35 TFUE). In particolare rileva l’ipotesi delle misure di effetto

110
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

equivalente, che comprende quella gamma molto ampia di provvedimenti che, con o senza il
preciso intento di aggirare l’ostacolo del divieto di restrizioni quantitative delle importazioni, così
come delle esportazioni, hanno effetti ugualmente protezionistici e cmq rappresentano un ostacolo
oggettivo agli scambi all’interno dell’Unione.
Nessuna particolare difficoltà interpretativa pongono le restrizioni quantitative, che sono i divieti
palesi di importare o esportare un certo prodotto, in assoluto oppure al di là di una certa quantità (ad
es. il divieto assoluto di importare prodotti pornografici).
In una prima fase, e cmq prima della fine del periodo transitorio, la nozione di misura di effetto
equivalente era sostanzialmente ancorata alla differenza di trattamento dei prodotti importati
rispetto a quelli nazionali e dunque alle ipotesi delle sole misure che nel linguaggio corrente sono
identificare come misure distintamente applicabili.
Con la direttiva 70/50 del 1969, la Commissione precisò e ampliò la nozione di misure di effetto
equivalente: in particolare, vi furono comprese espressamente non solo le disposizioni legislative o
regolamentari, ma anche ogni atto posto in essere da una pubblica autorità che, pur non vincolante
sul piano giuridico, potesse indurre i destinatari ad una scelta di acquisto in favore del prodotto
nazionale.
Inoltre, la stessa direttiva comprendeva tra le misure vietate dall’art. 34 TFUE anche quelle, relative
alla commercializzazione dei prodotti (forma, dimensioni, peso, presentazione, confezione), che,
pur se applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati, producono sulla libera
circolazione effetti restrittivi al di là di quelli propri di una regolamentazione commerciale (ad es.,
quando gli effetti restrittivi sono sproporzionati rispetto al fine perseguito oppure quando lo stesso
obiettivo potrebbe essere raggiunto con minor intralcio per gli scambi).
Tuttavia, era ben chiaro, e risultava espressamente dalla direttiva 70/50, che per la Commissione le
misure indistintamente applicabili non sarebbero state di regola vietate, in quanto gli effetti
restrittivi sarebbero «normalmente inerenti alla disparità delle disposizioni nazionali»; in altri
termini essi sarebbero la conseguenza fisiologica della mancanza di armonizzazione.

7. LA NOZIONE DI MISURA DI EFFETTO EQUIVALENTE NELLA GIURISPRUDENZA

La nozione di misura di effetto equivalente che risulta dalla giurisprudenza è molto ampia e ispirata
a dare un effetto funzionale e più utile all’art. 34 TFUE: infatti, si tratta di una norma fondamentale
per l’economia del sistema dell’Unione, ed è provvista di effetto diretto.

La misura di effetto equivalente è:


1) in 1° luogo  1 misura imputabile allo Stato o cmq ad un’autorità di uno Stato membro (sia
essa centrale o locale o altra autorità); può essere una legge come un atto amministrativo o
anche una prassi burocratica generalizzata, come persino un orientamento giurisprudenziale;
2) in 2° luogo  sono state comprese nella nozione rilevante anche misure non statali; ad es.:
 quelle poste in essere da un’organizzazione professionale che provvede alla tenuta
del relativo albo, che stabilisce le regole deontologiche per gli scritti e che infligge le
sanzioni disciplinari per violazione degli obblighi professionali con decisioni
impugnabili in via giudiziaria;
 la prassi di un ente locale;
 nonché quella di un organismo privato finanziato dallo Stato.
In via generale, peraltro, è necessario che la misura sia in qualche modo
riconducibile ad un’articolazione dello Stato.
Nella celebre sentenza Dassonville (1974), la Corte ha enunciato una nozione di misura di effetto
equivalente ancora oggi pienamente valida e applicata. Con riferimento ad una disposizione
nazionale che condizionava l’importazione di un whisky scozzese con denominazione d’origine
all’esibizione di un certificato rilasciato dal Paese di produzione e attestante il diritto a quella
111
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

denominazione, la Corte rilevò che un operatore che avesse importato quel prodotto da un Paese
diverso, dove il whisky si trovava in libera pratica e dove non era richiesto lo stesso certificato
d’origine, incontrava difficoltà e oneri superiori a quelli dell’importatore diretto. Da qui la ben nota
affermazione, da tutti ormai conosciuta come formula Dassonville, la quale sancisce che: «ogni
normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in
atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente
a restrizioni quantitative».
Il divieto ha dunque 1 portata generale. La sua applicazione non è, in 1° luogo, condizionata ad una
riduzione effettiva degli scambi, ma solo al fatto che la misura, indipendentemente dal fatto che sia
discriminatoria o no e che abbia intenti protezionistici, rappresenta anche potenzialmente un
aggravio non giustificato per gli imprenditori e per ciò stesso un ostacolo per il commercio tra i
Paesi membri. Così, si è affermato che non è necessario accertare che queste misure riducano di
fatto le importazioni dei prodotti considerati, ma è sufficiente che esse abbiano un effetto potenziale
di ostacolo alle importazioni, nel senso che le importazioni potrebbero essere effettuate se quei
provvedimenti non ci fossero e che il divieto permane anche quando nella prassi le misure non
vengono applicate ai prodotti importati. Del pari, non è necessario che il provvedimento nazionale
riduca sensibilmente gli scambi all’interno dell’Unione, ricadendo nel divieto anche una misura che
si esaurisca in un ostacolo lieve ed anche quando vi siano altre possibilità di smercio del prodotto
importato.
È poi irrilevante la circostanza che la misura restrittiva colpisca i prodotti originari di Paesi terzi ed
in regime di libera pratica nell’Unione. Ciò conferma, del resto, la circostanza che questi prodotti
sono in tutto equiparati ai prodotti originari dei Paesi membri.
Pur trattandosi di un divieto palesemente indirizzato agli Stati membri, esso può investire anche i
comportamenti dei privati, ma solo nel senso che questi in nessuna circostanza possono in via
convenzionale, come nell’ipotesi di un accordo tra imprese che ostacoli gli scambi all’interno
dell’Unione, derogare alle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci. Tuttavia
resta fermo che le misure restrittive devono essere misure statali o cmq imputabili alle p.a., in
quanto i comportamenti dei singoli sottostanno alla disciplina sulla concorrenza e sono valutati alla
luce delle relative norme.
Sotto un profilo diverso, peraltro, può venire in rilievo il comportamento dello Stato membro in
relazione ad atti posti in essere da privati (ad es., la lettura congiunta degli artt. 34 TFUE e 4, n.3, 2°
comma, TUE porta e rilevare 1 preciso obbligo dello Stato di adottare le misure necessarie ad
impedire che privati creino ostacoli indebiti alla libera circolazione delle merci, obbligo la cui
osservanza è sottoposta al controllo della Corte). Inoltre, il comportamento dello Stato può venire in
rilievo sotto il doppio profilo della libera circolazione delle merci e di altre norme del Trattato (ad
es. ancora delle norme a tutela della concorrenza e in particolare del divieto di aiuti pubblici alle
imprese).
Infine, le istituzioni dell’Unione sono del pari tenute a rispettare il divieto di ostacolare gli scambi
con misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative.

8. LE MISURE DISTINTAMENTE APPLICABILI

Tra le misure di effetto equivalente, vanno considerate in 1° luogo quelle che investono
direttamente il momento dell’importazione (o dell’esportazione) di merci o che cmq hanno in quel
momento l’occasione di essere applicate: pertanto, in questo senso si tratta di misure che riducono o
rendono impossibili o semplicemente più onerose le importazioni o le esportazioni e non investono i
prodotti nazionali, quindi rientrano nella nozione di misure distintamente applicabili.
 In proposito, in primo luogo vengono in rilievo i controlli, ad es. sanitari, operati al momento e
in occasione dell’importazione del prodotto; tali controlli, se operati in modo sistematico,
costituiscono misure vietate dall’art. 34 TFUE, salvo a verificare se possono farsi rientrare tra le
deroghe previste dall’art. 36 TFUE.
112
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 Una 2° ipotesi è quella delle misure che impongono una documentazione specifica per
l’importazione o l’esportazione del prodotto, ad es. una licenza o un certificato di conformità o altri
adempimenti amministrativi specifici. Così, tra le misure vietate rientra l’imposizione dell’obbligo
di accompagnare l’importazione o l’esportazione con la presentazione di un documento rilasciato
dall’amministrazione, anche quando il rilascio avviene senza ritardo o limitazioni e mira solo a
conoscere l’intento dell’importatore o dell’esportatore. Infatti, qualsiasi formalità produce cmq un
ritardo ed ha x ciò stesso un effetto dissuasivo e costituisce un ostacolo agli scambi.
 Un’ipotesi tipica è poi quella di misure che favoriscono la canalizzazione delle importazioni
attraverso determinati operatori, in principio quelli designati dalle imprese produttrici in regime di
esclusiva o di distribuzione selettiva, scoraggiando o addirittura impedendo le cd. importazioni
parallele, che nell’ambito dell’Unione costituiscono un po’ il simbolo della realizzazione effettiva
di un libero e comune mercato delle merci e di un sistema economico complessivamente ispirato ai
principi della libera concorrenza.
Ad es., oltre alla fattispecie che ha portato alla pronuncia Dassonville, sono state dichiarate
illegittime, in quanto in violazione dell’art. 34 TFUE, misure disposte dall’amministrazione
italiana per aggravare gli adempimenti e gli oneri di immatricolazione delle autovetture importate
non dagli importatori (c.d. ufficiali) designati dalle case produttrici, ma da operatori (c.d. paralleli)
liberi da vincoli contrattuali con le case: infatti le misure si risolvevano in un ostacolo agli scambi.
La formula che spesso ricorre nella giurisprudenza della Corte è molto chiara, nel senso che la
normativa e la prassi nazionale che abbiano per effetto di canalizzare le importazioni, consentendole
soltanto ad alcuni operatori economici ed impedendole ad altri, costituiscono misure di effetto
equivalente ad una restrizione quantitativa vietata dall’art. 34 TFUE, salvo eventuali deroghe in
base all’art. 36 TFUE.

9. LE MISURE INDISTINTAMENTE APPLICABILI. NORMATIVE SUI PREZZI

Vi sono poi delle misure che, pure se neutre rispetto al rapporto tra prodotti nazionali e prodotti
importati, di fatto producono l’effetto di ridurre le importazioni e con esse la commercializzazione
dei prodotti importati; oppure, all’inverso, ne riducono la commercializzazione e x questa via
l’importazione. Si tratta delle misure comunemente definite indistintamente applicabili.
Al riguardo, vanno anzitutto citate le discipline sui prezzi, di cui si occupava la direttiva 70/50 della
Commissione. Come tale, una disciplina dei prezzi, applicabile sia ai prodotti nazionali che ai
prodotti importati, non costituisce 1 misura di effetto equivalente, ma tuttavia lo può diventare in
presenza di determinate condizioni. Ad es., si può verificare che 1 regolamentazione stabilisca un
prezzo minimo, ad un livello tale che il prodotto importato non riesca a sfruttare costi inferiori di
produzione e a farne beneficiare il consumatore; oppure, che stabilisca un prezzo massimo tale che
il prodotto importato risulti fuori mercato. Inoltre, è stato ritenuto misura di effetto equivalente un
metodo di fissazione dei prezzi che:
 da un lato, sia ispirato espressamente all’intento di favorire l’industria e la ricerca nazionale,
attraverso una considerazione dei fattori di costo che sfavorisca i prodotti importati;
 dall’altro lato, non consideri spese e oneri relativi all’importazione tra gli elementi che
contribuiscono alla determinazione del prezzo.
Inoltre bisogna rilevare che un regime di prezzi differenziato per i prodotti nazionali e gli stessi
prodotti importati è di x sé una misura di effetto equivalente vietata dall’art. 34 TFUE quando
sfavorisce, sotto un qualsiasi aspetto, la vendita dei prodotti importati: però, in questo caso si tratta
di misura distintamente applicabile.

10. Segue: NORMATIVE SULLA QUALITÀ E LA PRESENTAZIONE DEL PRODOTTO

113
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Una 2° ipotesi, molto rilevante, di misure indistintamente applicabili ai prodotti importati e ai


prodotti nazionali riguarda le normative sulla qualità e sulla presentazione del prodotto, che
incidano sull’importazione o sulla commercializzazione, riducendo il volume degli scambi.
Dunque, si tratta delle misure relative alla composizione e alla qualità del prodotto, alla forma,
all’imballaggio, all’etichettatura, alla denominazione e in generale alla presentazione del prodotto.
Al riguardo, nella prassi si è affermato un criterio ispiratore generale: un prodotto legittimamente
commercializzato in un Paese membro deve poter essere importato e commercializzato anche negli
altri Stati membri senza intralci. Questo è il principio del mutuo riconoscimento, che muove dal
presupposto logico che, in assenza di disciplina di diritto dell’Unione di armonizzazione, le
legislazioni nazionali relative alle condizioni per la commercializzazione di determinati prodotti
possono essere diverse, il che non esclude che siano ugualmente rispettose della salute o delle
esigenze del consumatore. Ne consegue che sarebbe eccessivo per uno Stato pretendere che:
 i prodotti importati osservino letteralmente ed esattamente le stesse specifiche tecniche
prescritte per i prodotti nazionali, quando il livello di protezione dell’utilizzatore sia
equivalente;
 o che gli stessi prodotti siano sottoposti a controlli equivalenti a quelli già effettuati in altri
Paesi membri.
Da ciò deriva che:
 da un lato, solo in assenza di discipline commerciali comuni, limitate peraltro alla
definizione di obiettivi generali e non alla disciplina dei dettagli tecnici, gli Stati membri
restano competenti a fissare norme specifiche sulla produzione o sulla commercializzazione
dei prodotti, sì che solo in questo caso è possibile si determini un intralcio agli scambi
dovuto precisamente alla disparità delle discipline nazionali;
 dall’altro lato, questi intralci (i c.d. ostacoli tecnici) possono tollerarsi solo in vista della
soddisfazione di esigenze imperative, relative in particolare all’efficacia dei controlli fiscali,
alla protezione della salute, alla lealtà delle transizioni commerciali, alla difesa dei
consumatori, alla tutela dell’ambiente; e cmq a condizione che non sia possibile applicare
misure ugualmente efficaci rispetto allo scopo perseguito ma di minore ostacolo agli scambi.
Dunque, le misure nazionali indistintamente applicabili quando si risolvono in un ostacolo
all’importazione o + in generale determinano oneri supplementari per i prodotti importati, sono
sottoposte ad un controllo della Commissione e/o della Corte, o delle competenti autorità
amministrative nazionali, a seconda dei casi, per verificarne la congruità e la proporzionalità.
Questi principi sono stati per la prima volta compiutamente chiariti nella celebre sentenza sul caso
Cassis de Dijon, avente ad oggetto l’importazione in Germania di un liquore francese: in questa
occasione, il giudice tedesco era chiamato a verificare la compatibilità con l’art. 34 TFUE di una
normativa nazionale relativa alle bevande alcoliche, nel punto in cui fissava in via del tutto
generale, dunque anche per i prodotti nazionali, un livello minimo di contenuto alcolico perché
certe categorie di bevande potessero essere commercializzate come tali in Germania; nella specie il
Cassis di Dijon aveva un contenuto alcolico tra il 15% e il 20%, mentre la legge tedesca richiedeva
almeno il 32% per le bevande alcoliche in genere e il 25% per i liquori del tipo Cassis. La Corte,
pur ribadendo che, in mancanza di armonizzazione a livello di diritto dell’Unione, spetta ai singoli
Stati membri disciplinare la produzione e il commercio delle bevande alcoliche, precisò che «gli
ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle legislazioni nazionali
relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano
ammettersi come necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare,
all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, alla lealtà dei negozi commerciali e alla
difesa dei consumatori».
Successivamente, la giurisprudenza della Corte ha confermato + volte l’orientamento espresso in
questa pronuncia. In sostanza, le normative nazionali sono sottoposte non solo ad una verifica
puntuale dei presupposti richiesti per l’applicabilità del divieto dell’art. 34 TFUE, ma anche ad una
114
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

verifica su parametri ulteriori, come appunto la salute, la lealtà delle transazioni commerciali, la
tutela dei consumatori, la tutela dell’ambiente, la sicurezza stradale. In realtà questi parametri sono
l’espressione di un criterio generale di ragionevolezza e soprattutto di proporzionalità, di volta in
volta tradotto in un criterio nominato. La verifica, sia ben chiaro, non coincide con quella
prefigurata dall’art. 36 TFUE in relazione alle deroghe all’art. 34 TFUE ivi elencate e pertanto si
realizza su un limite intrinseco all’applicazione dello stesso art. 34 TFUE e alla nozione stessa di
misura di effetto equivalente vietata da tale disposizione. Questo è il senso dell’affermazione
secondo cui va verificato se la misura persegua uno scopo d’interesse generale atto a prevalere sulle
esigenze della libera circolazione delle merci. Ed il controllo non può che esercitarsi a livello di
diritto dell’Unione, in vista dell’esigenza di uniformità di applicazione e di unicità dei parametri di
controllo.

11. Segue: NORMATIVE SULLE MODALITÀ DI COMMERCIALIZZAZIONE

Meno facile ed evidente è l’applicazione della formula Dassonville a misure nazionali, pur sempre
indistintamente applicabili, che non abbiano ad oggetto i prodotti (presentazione, composizione,
imballaggio, denominazione, forma), bensì le modalità dell’attività commerciale: chi, come, dove e
quando poter vendere. Si tratta di misure che possono sì produrre eventuali riduzioni delle
importazioni, ma solo ed esclusivamente in quanto abbiano causato altrettante eventuali riduzioni
delle vendite, sia dei prodotti nazionali che di quelli importati, senza che in alcun modo influisca la
disparità delle legislazioni nazionali a confronto.
Al riguardo la giurisprudenza ha inizialmente largheggiato nell’applicazione della formula
Dassonville anche in questo settore specifico, con il risultato però:
 da un lato, di creare molta confusione negli operatori, che si sono sentiti autorizzati a
contestare ogni genere di misura che in qualche modo ne limitasse l’attività commerciale;
 e, dall’altro lato, di perdere di vista la natura stessa dell’art. 34 TFUE ed in particolare la
dimensione europea e non anche solo nazionale della sua portata.
In particolare, rispetto ad alcuni casi, e pure in presenza di una potenziale riduzione delle
importazioni per effetto della riduzione delle vendite, si è esclusa l’applicazione dell’art. 34 TFUE
per il fatto che le misure nazionali non avevano ad oggetto gli scambi e cmq consentivano modalità
alternative di vendita; in altri casi, se ne è esclusa l’applicazione in quanto il legame delle misure
con le importazioni appariva solo vago e indiretto.
Di fronte ad un altro tipo di misure nazionali, dove pure era presente un potenziale effetto restrittivo
delle importazioni come conseguenza di una delimitazione degli orari dell’attività di vendita, la
giurisprudenza aveva affermato la rilevanza dell’art. 34 TFUE, salvo poi dichiarare legittime le
misure ove non «eccedano il contesto degli effetti propri di una normativa commerciale» (seconda
una formula ripresa dalla direttiva 70/50). Si tratta della giurisprudenza sull’apertura domenicale dei
negozi, in cui la Corte ha svolto sostanzialmente un controllo solo marginale sugli effetti restrittivi
dei divieti, prendendo atto della ragionevolezza di questi eventuali effetti sugli scambi rispetto allo
scopo perseguito e del fatto non sfavorivano la commercializzazione dei prodotti importati più di
quella dei prodotti nazionali.
In un 3° gruppo di ipotesi, ancora una volta sostanzialmente equivalenti a quelle precedenti, la
giurisprudenza ha invece ritenuto applicabile l’art. 34 TFUE ed ha anche proceduto ad una verifica
non più marginale delle finalità della misura e della sua congruità rispetto a tali finalità. Si tratta x la
maggior parte di misure sulla promozione o i metodi di vendita, rispetto alle quali si è ritenuto che
una disciplina limitativa dei sistemi di pubblicità o di promozione delle vendite può costringere
l’operatore a mutamenti onerosi delle strategie commerciali, anche quando sia indistintamente
applicabile.
Questo è stato anche il caso di normative limitative della pubblicità di certi prodotti, che si è
ritenuto rientrare nel divieto sancito dall’art. 34 TFUE nella misura in cui possono costringere a

115
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

modificare una campagna pubblicitaria e x questa via rappresentare un possibile ostacolo alle
importazioni.
Come si vede, in una 1° fase la Corte ha compreso nella nozione di misura di effetto equivalente
vietata, salvo deroghe:
 sia quelle misure commerciali che rendono + difficile l’accesso al mercato per gli operatori,
in quanto li costringe a rinunciare a, o a modificare, un metodo di vendita legittimamente
praticato nel Paese di origine;
 sia quelle normative rispetto alle quali nessuna rilevanza può avere la diversità di
legislazioni, né per il prodotto in quanto tale, né per l’operatore che lo commercializza: ad
es., le normative che riservano ai soli farmacisti o ottici la vendita di certi prodotti.
La giurisprudenza ha successivamente cominciato a fare alcune precisazioni doverose, nel senso
che non ha più compreso nella nozione di misura di effetto equivalente quelle normative applicabili
a tutti gli operatori che svolgono attività commerciale nello Stato membro considerato e che
investono nella stessa maniera, in diritto e in fatto, la commercializzazione di prodotti nazionali e
quella di prodotti importati. La precisazione, contenuta nelle sentenze Keck e Hünermund,
rappresenta un passaggio di rilievo nella giurisprudenza sull’art. 34 TFUE; in esse la Corte
chiarisce che misure relative alle modalità dell’attività commerciale e non al prodotto, non
preordinate alla disciplina degli scambi, non collegate in alcun modo con la diversità delle
legislazioni nazionali e insuscettibili di rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella
sostanza, l’accesso al mercato meno facile per i prodotti importati, non rientrano tra le misure di
effetto equivalente a restrizioni quantitative di cui alla fondamentale e tuttora valida formula
Dassonville. Pertanto, con le sentenze Keck e Hunermund, resta del tutto inalterato anche il criterio
del mutuo riconoscimento (di cui alla formula Cassis de Dijon), che è fondato, infatti, sul
presupposto della diversità delle legislazioni a confronto e che cmq investe le normative sul
prodotto (composizione, presentazione) e non l’attività di vendita; mentre si è sgombrato il campo
dell’art. 34 TFUE da normative nazionali che non investono affatto gli scambi o l’integrazione dei
mercati.

12. LE RESTRIZIONI QUANTITATIVE ALLE ESPORTAZIONI

L’art. 35 TFUE («Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'esportazione e
qualsiasi misura di effetto equivalente») vieta le restrizioni quantitative alle esportazioni, così come
le misure di effetto equivalente. Quanto è stato detto in tema di restrizioni delle importazioni può
valere in via di principio anche per gli ostacoli alle esportazioni. Ciò vale anzitutto per l’effetto
diretto, nonché per la nozione di merce compresa nel divieto e per l’origine del prodotto, che può
essere anche di un Paese terzo, purché in libera pratica. Va sottolineato che il divieto riguarda
SOLO le esportazioni verso altri Paesi membri e NON quelle verso Paesi terzi, che restano al di
fuori del campo di applicazione della norma.
Peraltro, la giurisprudenza sulle misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative alle
esportazioni non è perfettamente speculare a quella sulle misure restrittive delle importazioni. In
generale, infatti, mentre il punto di riferimento rimane la formula Dassonville, qualche differenza
emerge sulla rilevanza dell’elemento della discriminazione tra prodotti nazionali e prodotti
esportati.
Ad es., è pacifico che qualunque misura investa il momento dell’esportazione, imponendo
determinati adempimenti e provocando ritardi, può avere un effetto dissuasivo e dunque costituisce
un ostacolo vietato. Sono così vietate le licenze di esportazione e le misure equivalenti che non
siano altrimenti giustificate.
Non altrettanto può dirsi per le misure indistintamente applicabili: infatti la giurisprudenza fino ad
oggi ha limitato la portata dell’art. 35 TFUE a quelle misure che hanno per oggetto o per effetto di
restringere specificamente le correnti di esportazione, richiedendo un elemento di discriminazione a

116
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

favore dei prodotti o del mercato nazionale. Questo orientamento ha resistito, nonostante si sia fatta
valere da più parti – giustamente – l’opportunità di mantenere la sintonia d’interpretazione tra l’art.
34 e l’art. 35 TFUE.
Ad es., l’art. 35 TFUE non impedisce agli Stati membri di emanare regolamentazioni tecniche
applicabili indistintamente ai prodotti destinati all’esportazione verso altri Paesi membri. Pertanto,
ciò che la disposizione vieta è la misura che sfavorisce le esportazioni, e non quella che, come parte
di un sistema generale di adempimenti o controlli, di fatto riduce anche le esportazioni.

13. LE DEROGHE AL DIVIETO DI MISURE DI EFFETTO EQUIVALENTE

L’art. 36 TFUE («Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o


restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità
pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e
degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o
archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o
restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione
dissimulata al commercio tra gli Stati membri») prefigura 1 serie di ipotesi in cui si consente allo
Stato membro di adottare o mantenere misure rientranti tra le misure di effetto equivalente
comprese nel divieto di cui all’art. 34 TFUE oppure in quello di cui all’art. 35 TFUE. Le ipotesi
sono quelle di restrizioni agli scambi motivate da ragioni di moralità pubblica, ordine pubblico,
sicurezza pubblica, tutela della salute, del patrimonio artistico, storico o archeologico e della
proprietà industriale e commerciale; la condizione è che queste restrizioni non costituiscano un
mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.
1. In 1° luogo, l’art. 36, in quanto è una deroga al principio fondamentale dell’eliminazione
degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, è una norma di stretta interpretazione;
dunque la sua sfera di applicazione non può essere estesa ad ipotesi diverse da quelle
tassativamente prefigurate, tutte di natura non economica.
2. In 2° luogo, rileva che con tale disposizione non si è affatto inteso riservare agli Stati
membri una competenza esclusiva in determinate materie (quali la difesa della salute o la
tutela del consumatore), ma solo consentire una deroga al principio della libera circolazione
in vista delle esigenze prefigurate dal Trattato. In altri termini, in presenza di un regime
uniforme e dunque di uno standard adottato in tutti gli Stati membri, l’accento si deve
spostare sullo Stato esportatore, con la conseguenza che il prodotto commercializzato in uno
Stato membro, conforme agli standards voluti dalla normativa dell’Unione uniforme, non
può subire in altri Stati membri alcuna restrizione ai sensi dell’art. 36 TFUE. Ne consegue,
ad es., che, in presenza di direttive che armonizzano le specifiche di certi prodotti in vista di
esigenze sanitarie, i controlli sanitari di carattere sistematico eseguiti al confine su prodotti
contemplati da tali direttive non sono giustificati; e ciò fin dalla data di scadenza fissata
dalla direttiva per l’adozione delle norme interne eventualmente necessarie. Del pari,
relativamente al divieto di restrizioni alle esportazioni, la circostanza che una direttiva di
armonizzazione consenta ai singoli Stati membri di adottare misure + rigorose non li
autorizza ad ostacolare le esportazioni verso Paesi che hanno una normativa conforme agli
standards imposti dalla direttiva.
3. In 3° luogo, il controllo effettuato per la tutela delle esigenze di cui all’art. 36 TFUE deve
ispirarsi al principio della proporzionalità. Così l’esercizio della facoltà ivi stabilita deve
essere limitato a quanto sia strettamente necessario al perseguimento degli scopi previsti,
con la conseguenza che la facoltà di deroga non viene riconosciuta quando l’obiettivo può
essere raggiunto in maniera ugualmente efficace ma con minore intralcio agli scambi
all’interno dell’Unione.
Anche a proposito delle deroghe stabilite dall’art. 36 TFUE c’è una vasta giurisprudenza:

117
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 quanto all’ipotesi di tutela della moralità pubblica, è stata riconosciuta allo Stato membro,
ad es., la facoltà di proibire l’importazione di oggetti indecenti o osceni, sul presupposto che
in via di principio spetta a ciascuno Stato stabilire le esigenze di moralità da soddisfare, «in
base alla propria scala di valori e nella forma da esso prescelta». Ma al riguardo è stato poi
precisato che uno Stato membro non può invocare motivi di moralità pubblica per vietare
l’importazione di alcuni prodotti (pornografici) provenienti da altri Paesi membri quando nel
suo territorio non esiste un divieto assoluto di fabbricazione e commercializzazione dello
stesso prodotto;
 per l’ipotesi di tutela della pubblica sicurezza, significativo è ad es. il caso Campus Oil, in
cui si discuteva di un obbligo imposto agli importatori di prodotti petroliferi di rifornirsi
presso una raffineria nazionale fino ad una certa quota del fabbisogno e a prezzi prestabiliti,
non avendo quella raffineria la possibilità di praticare prezzi competitivi. L’obbligo è stato
considerato una misura di effetto equivalente giustificata ai sensi dell’art. 36 TFUE, con la
precisazione che la quantità di prodotto interessato al sistema non può superare né il limite
dell’approvvigionamento minimo corrispondente alla sicurezza del Paese, né il livello
necessario di disponibilità per il caso di crisi.
La salute e la vita delle persone sono al 1° posto tra i beni e gli interessi che l’art. 36 TFUE intende
tutelare; e spesso proprio la tutela della salute è l’argomento utilizzato dagli Stati membri per
giustificare la misura di effetto equivalente agli scambi di prodotti farmaceutici o medicinali,
nonché + in generale in tema di controlli dei prodotti importati. In via di principio, ed in assenza di
armonizzazione a livello dell’Unione, ciascuno Stato membro può determinare il livello di tutela
della salute che intende garantire ai propri cittadini. Tuttavia, non si tratta di una discrezionalità
assoluta, restando agli Stati l’onere di dimostrare attraverso un test di proporzionalità che il rischio
per la salute è effettivo e che la normativa adottata o mantenuta è realmente necessaria per tutelare
la salute o la vita delle persone. Lo Stato membro, ad es., è libero di subordinare la
commercializzazione di certi prodotti ad autorizzazione e dunque a controlli, quando non vi sia una
disciplina dell’Unione al riguardo; ma non può esigere controlli o prove di laboratorio che siano già
stati effettuati nel Paese d’origine e i risultati siano verificabili a semplice domanda.
Infine, bisogna ricordare che è stata considerata come restrizione incompatibile con la libera
circolazione delle merci e non giustificata una normativa nazionale che escludeva dal rimborso del
sistema previdenziale nazionale la spesa x occhiali se acquistati all’estero senza una previa
autorizzazione; in particolare, si è escluso che la misura potesse essere giustificata da motivi di
sanità pubblica o dall’esigenza di stabilità dell’equilibrio finanziario del sistema previdenziale.

14. LE RESTRIZIONI AGLI SCAMBI CONNESSE ALLA TUTELA DELLA PROPRIETÀ


INDUSTRIALE E COMMERCIALE

Infine, l’art. 36 TFUE prevede una deroga al divieto di restrizioni alle importazioni o alle
esportazioni quando siano giustificate da motivi che attengono alla tutela della proprietà
industriale e commerciale. Questo è un settore «difficile» rispetto al tema della libera circolazione
delle merci, così come della concorrenza, perché la sua disciplina è necessariamente ispirata al
principio della territorialità, che è esattamente agli antipodi rispetto all’idea di mercato unico. Né
l’art. 345 TFUE, che in via di principio conserva agli Stati membri la disciplina del regime della
proprietà, riesce a sottrarre il settore della proprietà sui beni immateriali alle previsioni del Trattato
sulla libera circolazione di merci e servizi e sulla concorrenza.
La proprietà intellettuale designa l’insieme dei diritti riconosciuti da un ordinamento per la tutela
del brevetto, del marchio, del diritto di autore, dei modelli e dei disegni ornamentali, del diritto di
costituzione di specie vegetali e dei diritti connessi. Minimo comune denominatore di questi diritti è
il rinascimento al titolare di facoltà esclusive, con effetti erga omnes, in ordine alla produzione e
alla commercializzazione dei beni inerenti al quel diritto. Inoltre, tali facoltà esclusive spiegano

118
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

efficacia e possono essere invocate dai legittimi titolari solo entro i limiti territoriali
dell’ordinamento in cui sono positivamente riconosciute.
Il conferimento di un’esclusiva territoriale si sostanzia dunque in un potere di tipo monopolistico,
che comporta di x sé effetti restrittivi dell’attività economica dei terzi. Peraltro, tali effetti possono
considerarsi inerenti alla natura stessa della proprietà intellettuale: la facoltà conferita ai titolari dei
diritti di opporsi alle importazioni è invero inerente al carattere interno della normativa e all’ambito
territoriale per il quale sono concessi tali diritti ne consegue che non mancano le occasioni di
conflitto in un contesto giuridico, quale il mercato comune (o unico o interno, non importa), in cui
vige il principio opposto della libertà degli scambi e della libera concorrenza. Pertanto lo sforzo è
stato indirizzato verso la realizzazione di un giusto equilibrio tra:
 le esigenze della libertà degli scambi;
 e quella di assicurare l’indispensabile tutela dei diritti sui beni immateriali.
Solo in tempi recenti, il legislatore dell’Unione ha introdotto le prime iniziative legislative in
materia: infatti, per un lungo arco di tempo, è spettato alla Corte disegnare i contorni del regime
dell’Unione della proprietà intellettuale. Nell’assolvere a questo compito, essa si è fondata su 2
gruppi di disposizioni, e precisamente:
1 le norme sulla libertà di circolazione delle merci
2 e le norme sulla concorrenza
Nel settore della proprietà intellettuale gli artt. 34 e 36 TFUE si configurano come un limite
all’applicazione delle normative interne, comprimendo di conseguenza i diritti esclusivi riconosciuti
ai singoli dai diversi ordinamenti giuridici nazionali. Lo schema concettuale rilevante in proposito
può essere così sintetizzato:
a) Le restrizioni degli scambi risultanti dall’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale
ricadono automaticamente nel campo di applicazione dell’art. 34 TFUE; la verifica di
compatibilità con il diritto dell’Unione delle norme nazionali sulla proprietà intellettuale
deve essere ricondotta nell’ambito dell’art. 36 TFUE oppure delle esigenze di
proporzionalità di cui allo stesso art. 34 TFUE.
b) La deroga di cui all’art. 36 TFUE, che consente di sottrarre al divieto sancito dall’art. 34
TFUE le normative interne sulla proprietà intellettuale, è di stretta interpretazione. Questa
affermazione va intesa nel senso che, in linea di principio, questa deroga consente di
giustificare soltanto norme interne che siano indispensabili per tutelare l’oggetto specifico
dei diritti di proprietà intellettuale. Spetta in ultima analisi alla Corte definire quale sia
l’oggetto specifico dei diritti di proprietà intellettuale, nonché dettare i criteri in base ai quali
valutare se le norme nazionali in materia siano o meno indispensabili alla tutela dell’oggetto
specifico. Viceversa, le necessarie valutazioni di fatto spettano alle autorità (giurisdizionali o
amministrative) nazionali.
c) Infine, l’apprezzamento dei diritti di proprietà intellettuale, alla stregua dell’art. 36 TFUE,
seconda frase, implica che l’applicazione delle deroghe contemplate dalla norma non
debbono cmq comportare una discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata agli
scambi intracomunitari.
In relazione al diritto di brevetto, la Corte ha precisato che l’oggetto specifico della proprietà
industriale è la garanzia data al titolare, per ricompensare lo sforzo creativo concretatosi
nell’invenzione, di valersene in via esclusiva per la produzione e la prima immissione in commercio
di beni industriali, sia direttamente, sia mediante concessione di licenze a terzi, nonché il diritto di
opporsi alle contraffazioni. Ciò non può valere in ogni circostanza, ad es. non può valere quando la
prima immissione in commercio avviene in un mercato dove il prodotto non è brevettabile: in
questo caso, il titolare non può che accettare le conseguenze della libera circolazione.
Più complessa è risultata la definizione dell’oggetto specifico del diritto di marchio. Si è cominciato
con il riconoscere che oggetto specifico della proprietà commerciale è la garanzia per il titolare di
un diritto esclusivo di servirsi del marchio per la prima immissione di un prodotto sul mercato, sì

119
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

che risulti tutelato nei confronti di eventuali concorrenti che, con un uso abusivo del marchio,
sfruttassero la posizione dell’impresa e la reputazione del marchio stesso. In seguito la Corte ha
sottolineato + in particolare la funzione che il marchio assume a tutela del consumatore e a garanzia
della qualità dei prodotti. Così, nella sentenza Hag II, la Corte:
 ha individuato la funzione essenziale del marchio nella garanzia per il consumatore o
l’utilizzatore finale dell’identità di origine del prodotto contrassegnato, che gli consente di
distinguere senza possibilità di confusione questo prodotto da quelli aventi diversa origine;
 ed ha anche precisato che affinché il marchio possa svolgere questa funzione, occorre che
tutti i prodotti che ne sono contrassegnati siano stati fabbricati sotto il controllo di un’unica
impresa cui possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità.
In relazione al diritto di autore e ai diritti connessi, è stato riconosciuto che le diverse forme di
tutela della proprietà letteraria e artistica rientrano nell’ambito della deroga dall’art. 36 TFUE in
ordine alla proprietà industriale e commerciale. In particolare, la Corte ha affermato che:
 «le opere letterarie e artistiche possono essere sfruttate commercialmente sia mediante
pubbliche rappresentazioni, sia mediante la riproduzione e la messa in circolazione dei
supporti materiali ottenuti»;
 e che «le 2 prerogative essenziali dell’autore, il diritto esclusivo di rappresentazione e il
diritto esclusivo di riproduzione, sono lasciate intatte dalle norme del Trattato».
In tema di disegni o modelli protetti, è stato incluso nell’oggetto specifico del diritto il potere del
titolare di vietare a terzi la fabbricazione, la vendita o l’importazione di prodotti che incorporano il
modello senza il suo consenso; e che impedire l’applicazione di una normativa che contemplasse
questa possibilità equivarrebbe a mettere in discussione l’esistenza stessa del diritto.
È essenzialmente sulla base dell’oggetto specifico del diritto di proprietà industriale, che la Corte ha
esaminato la compatibilità comunitaria delle legislazioni nazionali sottoposte al suo esame.
In particolare, la Corte ha sempre escluso che gli artt. 34 e 36 TFUE possano essere invocati per
opporsi all’applicazione di norme nazionali che stabiliscono se, e in presenza di quali condizioni,
possa essere riconosciuto un diritto di proprietà intellettuale. La costituzione di un tale diritto è
rimessa all’ordinamento interno, con la conseguenza che le regole adottate da uno Stato membro in
tale materia debbono ritenersi rientrare in linea di principio nell’ambito della specifica deroga
contemplata dall’art. 36 TFUE.
Più in generale, va rilevato che l’autonomia riconosciuta agli Stati membri non è assoluta, ed infatti:
 in primo luogo, la Corte ha considerato che, in presenza di determinate condizioni, i diritti di
proprietà intellettuale sono soggetti ad esaurimento;
 in secondo luogo, la Corte ha puntualizzato che cmq le norme nazionali sui diritti di
proprietà intellettuale non possono avere contenuto o effetti discriminatori.
Il principio dell’esaurimento del diritto implica che il titolare di un diritto di proprietà intellettuale
non può opporsi all’importazione e alla commercializzazione di prodotti che sono stati messi in
commercio nello Stato di esportazione da lui stesso o con il suo consenso o da persona a lui legata
da vincoli di dipendenza giuridica o economica. Con questo principio, si intende evitare che il
titolare del diritto, attraverso la costituzione di diritti paralleli nei diversi Stati membri, possa
determinare una compartimentazione dei mercati e impedire la circolazione dei prodotti all’interno
dell’Unione.
La giurisprudenza ha poi ulteriormente precisato la portata del principio dell’esaurimento: in
particolare, in materia di brevetti se ne è esclusa l’applicazione quando il prodotto sia stato
commercializzato senza il consenso effettivo del titolare del brevetto (ad es. in virtù di una licenza
obbligatoria). Viceversa, se il titolare consente alla commercializzazione del prodotto in un altro
Stato membro in cui quel prodotto non è brevettabile, egli non può opporsi all’importazione nei
Paesi in cui la tutela è riconosciuta, ma deve accettare il principio della libera circolazione.
In tema di opere letterarie e artistiche che possono essere sfruttate anche con sistemi diversi dalla
vendita, ad es. con il noleggio, la giurisprudenza ha precisato che la riscossione dei diritti d’autore
120
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

in funzione delle vendite non costituisce una remunerazione sufficiente e che pertanto una
normativa che riservi all’autore una quota dei profitti realizzati tramite il noleggio è giustificata. In
definitiva, la messa in circolazione per la vendita non «esaurisce» i diritti dell’autore rispetto ad altri
sistemi di diffusione dell’opera. Del parti, il diritto esclusivo di autorizzare o vietare il noleggio di
un’opera (ad es. un film o altro) non si esaurisce con il suo esercizio in uno degli Stati membri.
In materia di marchi, la giurisprudenza ha subìto una sensibile evoluzione, ed infatti:
 in un primo tempo, il principio dell’esaurimento è stato collegato alla mera origine comune
del diritto, senza distinguere tra successiva cessione volontaria e non volontaria. Infatti, nel
caso Hag I, in cui il diritto di marchio era stato oggetto di un provvedimento di confisca e di
cessione autoritativa, è stata negata al titolare la facoltà di opporsi alla importazione del
prodotto commercializzato legalmente in un altro Stato membro con marchio identico. Tale
orientamento è stato espressamente modificato nella pronuncia Hag II: in particolare, la
Corte ha precisato che nell’ipotesi di due o più diritti di marchio aventi la stessa origine, ma
la cui partizione sia avvenuta senza il consenso del titolare originario ed in capo a soggetti
rispetto a lui del tutto indipendenti, ciascun titolare si può opporre all’importazione del
prodotto di marchio uguale o confondibile. Questo diverso orientamento è stato fondato su
una diversa valutazione della funzione tipica del marchio, consistente nel dare al
consumatore la certezza sull’origine del prodotto e al produttore il controllo e la
responsabilità della qualità, funzione che, in caso di origine comune e di partizione non
volontaria, i marchi svolgono ciascuno indipendentemente dall’altro all’interno dei
rispettivi mercati.
Un’ulteriore precisazione al riguardo ha portato ad una completa inversione dell’orientamento sul
principio dell’esaurimento dell’Unione: infatti si è affermata l’applicabilità di questo principio in
tutti i casi di cessione del diritto, non volontaria e anche volontaria, in quanto è stato considerato
decisivo non tanto il consenso o no del titolare originario, bensì la perdita da parte sua, in ogni caso,
del controllo sulla qualità del prodotto.
Da ciò consegue anche che il principio dell’esaurimento, mentre si applica quando il collegamento
economico con il titolare si sostanzia nell’appartenenza allo stesso gruppo, non trova invece
applicazione quando il titolare del marchio ha una buona ragione per opporsi cmq alla
commercializzazione, ad es. quando il prodotto sia stato alterato o modificato in modo sostanziale.
Si è anche posto lo specifico problema del riconfezionamento dei prodotti medicinali, in particolare
se il titolare possa opporsi all’utilizzazione del marchio quando il terzo lo abbia riconfezionato e vi
abbia posto il marchio senza autorizzazione. La Corte ha da sempre rilevato che una tale facoltà può
essere riconosciuta solo quando sia provato che l’esercizio del diritto di marchio non miri ad isolare
artificialmente i mercati, quando il riconfezionamento può alterare lo stato originario del prodotto,
quando il titolare non sia stato previamente informato e quando sulla nuova confezione non se ne
specifica l’autore.
La giurisprudenza sull’esaurimento del marchio è stata recepita nell’art. 7 della direttiva sul
ravvicinamento delle legislazioni nazionali sui marchi. Questa disposizione non può che avere la
stessa chiave di lettura dell’art. 36 TFUE, avendo entrambe le norme la funzione di coniugare
l’interesse alla tutela del marchio con quello della libera circolazione delle merci all’interno del
mercato comune.
Ipotesi specifica è quella di un prodotto che è messo in commercio dal titolare del marchio per la
prima volta in un Paese terzo. La direttiva è stata interpretata nel senso che agli Stati membri non è
consentito di stabilire nel diritto nazionale e unilateralmente l’esaurimento del marchio
relativamente ai prodotti posti in commercio in Paesi terzi; infatti, diversamente, soluzioni non
uniformi tra gli Stati membri quanto all’esaurimento del marchio potrebbero incidere negativamente
sull’unicità del marchio di beni e servizi. Pertanto, nell’ipotesi di immissione in commercio del
prodotto in Paesi terzi, lo stesso titolare può opporsi all’importazione del prodotto, con
denominazione identica o confondibile, in un Paese membro, in quanto non si incide sull’unicità del
mercato che l’art. 34 TFUE mira a garantire. La stessa soluzione è stata data nel caso di
121
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

importazione del prodotto da un Paese terzo con il quale vigeva un accordo di libero scambio
contenente disposizioni di tenore corrispondente agli artt. 34 e 36 TFUE, in quanto se ne è data una
lettura diversa in considerazione del contesto diverso rispetto a quello del mercato comune tra Paesi
membri.
Risposta del pari negativa va poi data al quesito se una misura nazionale possa disporre il blocco in
dogana di una merce in transito per + giorni per consentire al titolare del diritto di proprietà
industriale non solo di verificare l’origine e la destinazione del prodotto, che cmq richiederebbe
solo un breve accertamento documentale, ma anche di accertare eventuali contraffazioni. Ed infatti,
sulla premessa che l’accertamento di contraffazioni relativamente al semplice transito di copie non
autorizzate dal titolare non rientra nell’oggetto specifico del diritto, è stato precisato che il blocco
del transito stesso per tale scopo non rientra tra le deroghe consentite dall’art. 36 TFUE; così come
sarebbe sproporzionato un simile blocco nel caso in cui lo scopo fosse la mera verifica dell’origine
e della destinazione della merce.
Infine oggetto di una giurisprudenza costante è l’assoluta incompatibilità con il diritto dell’Unione
delle norme nazionali sulla proprietà intellettuale aventi effetti discriminazioni nei confronti di
prodotti o persone di altri Stati membri: infatti la Corte ha + volte precisato che le disposizioni
nazionali sulla proprietà intellettuale possono beneficiare della deroga di cui all’art. 36 TFUE solo
se non comportino delle restrizioni dissimulate o delle discriminazioni arbitrarie ai sensi della 2°
farse di tale articolo.

15. I MONOPOLI COMMERCIALI

L’art. 37 TFUE sancisce il principio del riordino dei monopoli nazionali di carattere commerciale
fino all’eliminazione di qualsiasi discriminazione fra i cittadini dell’Unione circa le condizioni
relative all’approvvigionamento e agli sbocchi.
L’art. 37 TFUE ha lo scopo di garantire la libera circolazione delle merci e il mantenimento di un
assetto concorrenziale tra gli Stati membri anche quando un determinato prodotto dovesse essere
l’oggetto di un monopolio commerciale, in quanto strumento per il perseguimento di un interesse
pubblico. È in tale prospettiva che va considerato l’obbligo di evitare «solo» le discriminazioni in
base alla nazionalità relativamente all’approvvigionamento e allo smercio. Rispetto all’art. 37
TFUE vanno in particolare verificate le normative nazionali relative all’esistenza e al
funzionamento del monopolio commerciale, quella essendo la disposizione specificamente
applicabile all’esclusiva; mentre l’incidenza sugli scambi all’interno dell’Unione delle stesse
normative, non collegate al funzionamento del monopolio ma con una incidenza su quest’ultimo, va
esaminata alla luce degli artt. 34 e 36 TFUE.
L’obbligo di procedere al riassetto dei monopoli riguarda qualsiasi organismo attraverso il quale lo
Stato controlli, diriga o influenzi sensibilmente, anche in fatto, direttamente o indirettamente, gli
scambi tra Paesi membri. Deve trattarsi di un monopolio che si estende all’intero territorio
nazionale e che attenga a scambi di merci; in caso contrario si è fuori dal campo di applicazione
dell’art. 37 TFUE: infatti, da sempre la giurisprudenza ha escluso che ad un monopolio di servizi
(ad es., relativo alla pubblicità commerciale televisiva) sia applicabile questa norma.
Il riordino progressivo dei monopoli doveva consentire agli Stati membri di realizzare l’obiettivo
dell’eliminazione di qualsiasi discriminazione entro e non oltre la fine del periodo transitorio: il
31/12/1969 per i Paesi fondatori, fino alle date più recenti per gli Stati successivamente entrati a far
parte dell’Unione. L’obiettivo era quello di evitare eventuali perturbazioni nel tessuto economico e
sociale del Paese. La giurisprudenza ha + volte ribadito che il Trattato ha lasciato allo Stato membro
un largo margine di apprezzamento sulle modalità del riordino progressivo, pur con l’obbligo
generale di iniziare effettivamente il processo di riordino, in modo da essere in grado di assolvere
all’obbligo di risultato entro il termine prescritto. Inoltre, i tempi del riordino non consentono di
determinare a priori i momenti intermedi in cui i singoli ostacoli vanno eliminati, com’è

122
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

confermato anche dal tipo di strumento, la raccomandazione, di cui la Commissione dispone x


stimolare il riordino.
Si è posto il quesito se l’art. 37 TFUE imponga l’eliminazione dei monopoli commerciali in quanto
tali o soltanto l’eliminazione di quei monopoli che comportano discriminazioni o di quelle modalità
di esercizio che producano un tale risultato. In questi termini, il problema è mal posto, in quanto la
risposta dipende dal tipo di monopolio e dalla sua estensione, sì che le modalità di esercizio
potranno essere rilevanti o anche del tutto ininfluenti sulla compatibilità del monopolio in sé con le
norme dell’Unione conferenti a seconda delle circostanze concrete. Ad es., un monopolio di
importazione che si aggiunga ad un monopolio di produzione è ben probabile che sia di x sé
illegittimo, per il semplice motivo che il monopolista privilegia la commercializzazione dei propri
prodotti rispetto ai prodotti importati: infatti, si tratta precisamente di quella discriminazione che la
norma in questione intende perseguire.
Inoltre l’eliminazione progressiva dei monopoli commerciali imposta dall’art. 37 TFUE pone il
problema del rapporto tra tale obbligazione e quella contenuta nell’art. 106 TFUE. Quest’ultima è
certamente più ampia, in quanto impone l’eliminazione di qualsiasi misura che, adottata nei
confronti delle imprese pubbliche e delle imprese titolari di diritti esclusivi o speciali, sia contraria
al Trattato e in particolare alle norme sulla concorrenza.
La logica suggeriva che il + assorbisse il meno e che l’art. 37 TFUE mirasse a disciplinare nel senso
della gradualità, dunque a vantaggio degli Stati membri, l’eliminazione dei monopoli limitatamente
al pregiudizio causato alla libertà degli scambi di merci; e che, una volta realizzato lo scopo, avesse
esaurito la sua funzione e la disciplina dei monopoli rientrasse nell’alveo generale dell’art. 106
TFUE.
Il Trattato di Amsterdam ha risolto questa questione, eliminando il carattere di gradualità del
riordino nei monopoli commerciali sancita dal vecchio testo dell’art. 37 TFUE; ma mantenendo la
disposizione distinta e ulteriore rispetto all’art. 106 TFUE.

CAPITOLO 5
LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE
E DEI CAPITALI

1. LE «PERSONE» CHE BENEFICIANO DELLA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE


ALL’INTERNO DELL’UNIONE

La realizzazione del mercato comune, quale prefigurata dall’art. 2 TFUE, implica l’eliminazione
fra gli Stati membri degli ostacoli, oltre che agli scambi di merci, alla circolazione di persone,
servizi e capitali. In particolare, la libera circolazione delle persone è oggetto di un principio
fondamentale destinato a soddisfare, pur sotto diversi aspetti e con diverse modalità, l’esigenza di
rendere possibile e agevole per i cittadini dell’Unione l’esercizio di un’attività, senza riguardo ai
confini nazionali. Dunque le disposizioni del TFUE e quelle degli atti dell’Unione che disciplinano
la libera circolazione delle persone perseguono l’obiettivo di facilitare ai cittadini dell’Unione
l’esercizio di attività lavorative di qualsiasi natura e nell’intero territorio dell’Unione; quindi
assumono un ruolo centrale nell’economia del Trattato. Quest’ultimo, peraltro, in origine non ha
123
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

riguardato, almeno in via di principio, la persona in quanto tale, ma in quanto soggetto che esercita
un’attività economicamente rilevante o comunque sia a tale soggetto collegata, ad es. per vincoli
familiari.
Dunque nel TFUE troviamo 3 gruppi di norme, che in sostanza corrispondono a 3 principali ipotesi,
e precisamente:
1) lavoro subordinato (artt. 45-48);
2) lavoro autonomo localizzato stabilmente nel territorio di uno Stato membro (artt. 49-55);
3) prestazione di servizi, che si risolve (normalmente) in un’attività economica prestata
occasionalmente in uno Stato membro diverso da quello di stabilimento (artt. 56-62).
La disciplina della libertà di circolazione delle persone rivela un’ispirazione comune di base, che
può riassumersi nell’obiettivo di un’effettiva libera circolazione all’interno del mercato comune
delle persone fisiche e giuridiche che vi sono impegnate, e ha il suo punto di partenza e di
riferimento nel principio fondamentale del divieto di discriminazione in base alla nazionalità e si
articola diversamente rispetto alle 3 ipotesi; ciò però non impedisce che, sotto numerosi aspetti, la
disciplina sia unitaria (ad es. in materia di ingresso e di soggiorno).
Negli anni il diritto dell’UE ha progressivamente consentito la libera circolazione alla quasi totalità
delle persone che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. Infatti, la Corte ha ampliato il più
possibile la sfera di soggetti ammessi a beneficiare della libera circolazione, andando ben al di là
delle ipotesi tipiche, cioè quelle collegate al lavoro dipendente, allo stabilimento e alla prestazione
di servizi. A ciò si aggiunga che lo stesso diritto derivato ha finito col riconoscere a tutti i cittadini
dell’Unione, sebbene con talune limitazioni, un diritto di soggiorno generalizzato e, dunque, un
diritto di circolare anche in assenza di un’attività lavorativa. Con 3 direttive del 1990, riguardanti il
“diritto di soggiorno”, il “diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno
cessato la propria attività professionale” e il “diritto di soggiorno degli studenti”, si è ad es. esteso il
beneficio del soggiorno in misura rilevante.
In seguito, la direttiva 2004/38/CE ha razionalizzato i precedenti atti dell’Unione, che trattavano
separatamente le varie figure di lavoratore subordinato, lavoratore autonomo, studente e persone
inattive, disciplinando in un unico testo legislativo il diritto dei cittadini dell’UE e dei loro familiari
di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri. Quindi, la direttiva stabilisce un
diritto di soggiorno di durata indeterminata di cui possono beneficiare i lavoratori autonomi, i
lavoratori subordinati cioè tutti i cittadini dell’Unione che dispongano di risorse economiche
sufficienti e di un’assicurazione malattia.
L’art. 21 TFUE, introdotto dal Trattato di Maastricht, espressamente prevede che «ogni cittadino
dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri,
fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in
applicazione degli stessi» e che il Parlamento europeo ed il Consiglio sono chiamati ad adottare
disposizioni intese a facilitare l’esercizio di tale diritto. Questa disposizione, unitamente alla
giurisprudenza della Corte e alla direttiva 2004/38/CE, ha sancito il definitivo superamento della
concezione mercantilistica del diritto di circolazione: quindi, non più libertà di circolazione in
funzione dello svolgimento di un’attività economica, ma libertà di circolazione e di soggiorno in
quanto cittadini dell’Unione. In definitiva, la libertà di circolazione e di soggiorno, e più in
generale, lo status dei cittadini dei Paesi membri dell’Unione, sono da sempre e restano collegati al
divieto di discriminazioni in base alla nazionalità sancito dall’art. 18 TFUE. Tuttavia, tale
disposizione va letta e applicata in combinazione con l’art. 21, che sancisce il diritto di tutti i
cittadini dell’Unione alla libera circolazione e al soggiorno nell’intero territorio dell’ Unione, senza
alcun riferimento alla valenza economica dell’attività svolta.
La Corte ha ulteriormente valorizzato l’art. 21 TFUE, riconoscendo anche al genitore cittadino di
uno Stato terzo che abbia la custodia del figlio avente la cittadinanza europea il diritto di
soggiornare con quest’ultimo nello Stato membro ospitante, nonostante questa ipotesi non fosse
espressamente contemplata dal diritto dell’Unione. La Corte arriva a questa conclusione mettendo
in chiara evidenza che il rifiuto della domanda di permesso di soggiorno, presentata dalla madre che
124
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

esercitava la custodia del minore in tenera età, avrebbe privato di qualsiasi effetto utile il diritto di
soggiorno di quest’ultimo.

2. Segue: LA CITTADINANZA EUROPEA E LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI


«CITTADINI» DELL’UNIONE

Occorre chiarire che non esiste una nozione europea di cittadinanza, tanto che le norme dell’Unione
che ne prescrivono il possesso come presupposto soggettivo per la loro applicazione, in realtà
rinviano alla legge nazionale dello Stato la cui cittadinanza viene posta a fondamento del diritto
invocato. Questo rinvio al diritto nazionale è stato operato espressamente anche nel Trattato, dove si
definisce cittadino dell’Unione «chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro» (art. 20
TFUE). Ciò non significa né che la competenza degli Stati membri in materia di cittadinanza sia
assoluta, in quanto deve esercitarsi entro alcuni limiti, né che i diritti riconosciuti dal Trattato siano
necessariamente riservati ai cittadini dell’Unione. Infatti, la Corte ha precisato che il diritto dell’
Unione non si oppone a che gli Stati membri concedano autonomamente il diritto di elettorato attivo
e passivo per le elezioni del PE a determinate persone che abbiano legami stretti con essi, pur non
essendo loro cittadini o cittadini dell’Unione residenti sul loro territorio. Gli sviluppi che sono
derivati dalle disposizioni del Trattato sulla cittadinanza europea sono piuttosto significativi. In
particolare, la giurisprudenza ha chiarito da tempo che l’art. 21 TFUE è provvisto di effetto diretto
e attribuisce al cittadino dell’Unione un diritto al medesimo trattamento giuridico nell’esercizio
della libertà di circolazione e soggiorno. Ma la Corte ha precisato che questo diritto non è assoluto,
essendo attribuito subordinatamente ai limiti e alle condizioni previsti dal Trattato e dalle relative
disposizioni di attuazione. Tali limiti e condizioni devono però rispondere al principio di
proporzionalità, ossia devono essere appropriati e necessari per l’attuazione dello scopo perseguito,
il cui rispetto deve essere assicurato dal giudice nazionale.
Tuttavia, la Corte ha sottolineato che i presupposti del godimento dei diritti del cittadino
dell’Unione inerenti alla nozione di circolazione restano ancorati all’«ambito di applicazione
ratione materiae del Trattato», cioè si tratta di diritti condizionati all’esercizio effettivo della
circolazione, con la conseguenza che non hanno una valenza autonoma rispetto a quelli che i
Trattati e il diritto derivato già riconoscono.
Lo status di cittadino europeo attribuisce la titolarità di altri diritti, oltre a quello fondamentale di
circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (art. 21), tra cui: il diritto di
voto e di eleggibilità alle elezioni del PE e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui si
risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato (art. 22); il diritto di godere, nel territorio di
un Paese terzo ove il proprio Stato non abbia una rappresentanza diplomatica, della tutela delle
autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi altro Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini
di quest’ultimo (art. 23); il diritto di presentare petizioni al PE, di ricorrere al Mediatore europeo, di
rivolgersi alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell’Unione in una delle lingue dei Trattati e
di ricevere una risposta nella stessa lingua (art. 24).
Il Trattato di Lisbona ha ribadito e ampliato la nozione di cittadinanza europea, rafforzando gli
strumenti di democrazia partecipativa (ad es. il coinvolgimento dei cittadini europei
nell’elaborazione della proposta di adozione degli atti).

3. LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI DI PAESI TERZI

Il pieno esercizio del diritto di circolazione, inteso come diritto di attraversare le frontiere interne
dell’Unione senza controlli, rimane collegato all’adozione di disposizioni comuni sui controlli alle
frontiere esterne. Le difficoltà che ancora permangono alla libera circolazione delle persone sono
attualmente dovute ai controlli di polizia effettuati alla frontiera. Si tratta di una questione
strettamente collegata alla più generale politica di immigrazione, oltre che alla lotta alla criminalità
e al terrorismo. Non a caso la cooperazione tra gli Stati membri in materia è iniziata al di fuori del
125
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sistema comunitario, attraverso iniziative dei governi e delle autorità preposte alla tutela dell’ordine
pubblico e/o dell’immigrazione.
Gli sviluppi più significativi si sono avuti nell’ambito costituito dagli Stati firmatari degli accordi di
Schengen, le cui problematiche sono state affrontate per la prima volta nel contesto dell’Unione,
quale prefigurata a Maastricht, all’interno del c.d. terzo pilastro, dunque come cooperazione in
materia di giustizia e affari interni.
Il Trattato di Amsterdam ha inciso in modo significativo non soltanto nella forma, mutando il nome
del 3° pilastro in “cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale”, ma anche nella sostanza,
trasferendo la materia dei visti, dell’asilo, dell’immigrazione e le altre politiche connesse con la
circolazione delle persone del Titolo IV del TCE e lasciando nel Titolo VI del TUE solo uno dei
settori prima rientranti nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni.
Grazie all’integrazione nell’Unione europea degli accordi di Schengen e di tutti gli altri adottati
nell’ambito della cooperazione da essi prevista, si è evitato il rischio di sovrapposizioni e tutte le
realizzazioni compiute in ambito Schengen sono state incorporate come “acquis Schengen” nel
sistema dell’Unione. La ripartizione degli atti compresi nell’acquis Schengen tra 1° e 3° pilastro
(cioè Titolo IV del TCE e Titolo VI del TUE) è stata decisa all’unanimità dal Consiglio che ha
provveduto ad individuarne il corretto fondamento giuridico.
Va ricordato che i 13 Stati già membri degli accordi Schengen, ad eccezione del Regno Unito e
dell’Irlanda, erano autorizzati ad istituire tra loro una cooperazione rafforzata nelle materie
disciplinate da tali accordi. Tenuto conto della particolare posizione della Danimarca, oltre che del
Regno Unito e dell’Irlanda, rispetto agli accordi di Schengen, si può dire che l’integrazione
dell’acquis Schengen decisa ad Amsterdam permetteva di superare il rischio di sovrapposizioni tra
strumenti interni ed esterni dell’Unione, ma non riusciva ad individuare una soluzione che fosse
realmente suscettibile di garantire una disciplina comune in relazione all’ingresso e al trattamento
dei cittadini dei Paesi terzi, in particolare sui controlli alle frontiere esterne. Il problema si è
accentuato con l’adesione di nuovi Stati membri all’UE avvenuta il 1° maggio 2004, risultando
applicabili nei loro confronti soltanto alcune disposizioni dell’acquis Schengen e dei successivi atti
ad esso connessi, i quali si applicheranno solo a seguito del rispetto di alcune condizioni accertate
dal Consiglio. Allo stesso modo, è previsto che tali disposizioni siano applicate alla Romania ed alla
Bulgaria, entrate nell’UE nel 2007, solo in virtù di una decisione adottata dal Consiglio, dopo aver
verificato il rispetto dei requisiti previsti. Il quadro è stato notevolmente semplificato dal Trattato di
Lisbona, con 2 previsioni:
1) la 1°, concernente il futuro, impone che l’acquis di Schengen e le ulteriori misure adottate
dalle istituzioni nell’ambito del suo campo di applicazione debbano essere accettati
integralmente da tutti gli Stati candidati all’adesione;
2) la 2°, che riguarda invece il presente, sopprime la tradizionale struttura a pilastri
dell’Unione, eliminando in tal modo le distinzioni tra 1° e 3° pilastro.
Quest’ultima novità comporta la comunitarizzazione della cooperazione di polizia e giudiziaria in
materia penale. Infatti nel nuovo titolo V del TFUE, dedicato allo «spazio di libertà, sicurezza e
giustizia», confluiscono le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione,
la cooperazione giudiziaria in materia civile e quella in materia penale, la cooperazione di polizia
unitamente a disposizioni comuni a queste politiche. Nel TFUE si precisa che obiettivi dell’Unione
sono:
1) garantire l’assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità,
all’atto dell’attraversamento delle frontiere interne;
2) garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle
frontiere esterne;
3) instaurare un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne.
Per il raggiungimento di questi obiettivi, il PE e il Consiglio, deliberando secondo la procedura
legislativa ordinaria, adottano apposite misure.
L’art. 80 TFUE precisa che queste politiche dell’Unione sono governate dal principio di solidarietà
126
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.
Il sistema comune di asilo deve includere:
 uno status uniforme in materia di asilo per i cittadini di Paesi terzi, valido in tutta l’Unione e
 uno status uniforme in materia di protezione sussidiaria per i cittadini di Paesi terzi che
necessitano di protezione internazionale;
 procedure comuni per l’ottenimento e la perdita di tali status;
 un sistema comune volto alla protezione degli sfollati in caso di afflusso massiccio;
 criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una
domanda di asilo o di protezione sussidiaria e norme concernenti le condizioni di
accoglienza dei richiedenti;
 la cooperazione con Paesi terzi per gestire i flussi dei richiedenti asilo, protezione sussidiaria
o protezione temporanea.
La politica comune dell’immigrazione deve poi assicurare la gestione efficace dei flussi migratori,
l’equo trattamento dei cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la
prevenzione ed il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani.
Per quanto riguarda il regime transitorio previsto in relazione agli atti adottati in base al titolo VI
del TUE, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’art. 9 del Protocollo (n. 36) sulle
disposizioni transitorie stabilisce che gli effetti giuridici degli atti adottati in base al TUE, prima del
Trattato di Lisbona, «sono mantenuti finché tali atti non saranno stati abrogati, annullati o
modificati in applicazione dei nuovi Trattati»; è poi previsto che nei 5 anni successivi all’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona la Commissione europea non possa ricorrere alla procedura
d’infrazione e le attribuzioni della Corte di giustizia in questo settore restino invariate.
In conclusione, si può dire che l’obiettivo di garantire al cittadino dell’Unione la libertà di circolare
all’interno del territorio dell’Unione, senza alcun tipo di controllo, rappresenti un traguardo ancora
da raggiungere in modo completo.

4. LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI. CAMPO DI APPLICAZIONE


DELLA DISCIPLINA: NOZIONI DI LAVORATORE E DI ATTIVITÀ SUBORDINATA

L’art. 45 TFUE enuncia in termini chiari e perentori il principio della libera circolazione dei
lavoratori all’interno dell’Unione: «la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è
assicurata» (n. 1); essa «implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità,
tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre
condizioni di lavoro» (n. 2). I diritti riconosciuti al lavoratore dell’Unione, sono elencati al n. 3 e
comprendono:
1. l’accesso al lavoro in un altro Stato membro;
2. il diritto di prendervi dimora in funzione dello svolgimento di un’attività lavorativa;
3. il diritto di spostarsi liberamente al suo interno;
4. il diritto di rimanervi anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
È ormai pacifico che il termine “lavoratore” (art. 45) e l’espressione “attività subordinata”
(regolamento n. 1612/68) rimandano a nozioni proprie del diritto dell’UE, che non possono essere
interpretate in modo restrittivo. Tale orientamento si fonda sull’esigenza di evitare che la portata di
queste espressioni possa esser modificata diversamente nei singoli Paesi membri, eludendo il
controllo delle istituzioni dell’Unione.
La nozione rilevante di lavoratore si collega ad alcune condizioni, relative sia al soggetto che
all’attività svolta: «deve considerarsi lavoratore la persona che, per un certo tempo, esegue a favore
di un’altra e sotto la direzione di questa prestazioni in contropartita delle quali percepisce una
remunerazione. Una volta cessato il rapporto, l’interessato perde la qualità di lavoratore, fermo
restando tuttavia che, da un lato, questa qualifica può produrre taluni effetti dopo la cessazione del

127
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

rapporto di lavoro e che, dall’altro, una persona all’effettiva ricerca di un impiego deve pur essere
qualificata come lavoratore».
La nozione di lavoratore subordinato implica che:
1. deve trattarsi di un cittadino di un Paese membro. L’ Atto di adesione firmato ad Atene il 16
aprile 2003 ed entrato in vigore il 1° maggio 2004 consente ai vecchi Stati membri di
limitare l’applicazione delle norme in materia di libera circolazione dei lavoratori nei
confronti dei cittadini dei nuovi Stati membri per un periodo massimo di 7 anni. Il requisito
della nazionalità non riguarda, invece, i membri della famiglia del lavoratore che siano
cittadini di un Paese terzo; ad essi infatti è consentito, ma solo in quanto familiari di un
lavoratore di uno Stato membro, di beneficiare della disciplina sulla libera circolazione dei
lavoratori;
2. la prestazione deve svolgersi in uno Stato membro diverso da quello di origine del
lavoratore. Il rapporto di lavoro deve essere localizzato nel territorio dell’Unione o in ogni
caso presentare un legame stretto con esso. Più in generale, le norme sulla libera
circolazione delle persone si applicano a tutti i cittadini dell’Unione che ne usufruiscano. Ne
consegue che è un diritto che il singolo può opporre anche al proprio Stato di appartenenza,
quando è da esso che abbia ricevuto un trattamento deteriore per il solo fatto di avere
lavorato in un altro Stato membro o comunque tale da dissuaderlo dall’avvalersi della libertà
di circolazione. Non è escluso che si verifichino delle situazioni di discriminazione alla
rovescia che può trovar rimedio solo attraverso l’eventuale applicazione delle norme
nazionali poste a tutela del principio di eguaglianza. Con la legge comunitaria 2004 è stata
garantita la parità di trattamento dei cittadini italiani con quelli di altri Paesi membri, con
particolare riguardo alle attività commerciali e professionali;
3. l’attività lavorativa svolta deve avere natura subordinata, che ricorre nell’ipotesi in cui una
persona lavori per un certo periodo di tempo a favore di un’altra e sotto la sua direzione,
ricevendone in cambio una retribuzione. La Corte considera sufficiente, oltre al rapporto di
subordinazione, la circostanza che si tratti di un’attività lavorativa effettiva e dotata di una
certa consistenza; ne consegue che rientrano nella sfera applicativa dell’art. 56 anche
attività a orario ridotto, da cui il lavoratore tragga un reddito inferiore al minimo vitale ed
anche qualora tale reddito sia integrato da un aiuto finanziario a carico dello Stato membro
di residenza; mentre ne sono escluse solo quelle attività tanto ridotte e precarie da
presentarsi come marginali ed accessorie.
Sono state ritenute rilevanti anche talune ipotesi di confine, come il tirocinio professionale
retribuito, un corso di studi sancito da diploma professionale che sia collegato alla precedente
attività lavorativa svolta nello Stato ospite, il lavoro svolto per conto di una comunità religiosa da
parte dei suoi membri, il rapporto di impiego presso un organismo internazionale, il rapporto di
lavoro con retribuzione calcolata secondo il criterio della partecipazione in uso nel settore della
pesca.
Non è stato escluso il vincolo di subordinazione , salvo l’accertamento del giudice nazionale, nel
lavoro svolto dal coniuge dell’unico titolare dell’impresa. Anche l’attività sportiva è stata compresa
nella disciplina sulla libera circolazione dei lavoratori, quando ricorrono le condizioni citate.

5. IL DIRITTO DI INGRESSO E DI SOGGIORNO

L’accesso al lavoro in uno Stato membro diverso da quello di origine ed il conseguente diritto di
soggiornarvi presuppone il diritto di ingresso nel territorio di tale Stato. Questo diritto deriva
direttamente dal Trattato, nonché, all’occorrenza, dalle disposizioni del diritto derivato dell’Unione
e può essere condizionato esclusivamente al possesso di una carta d’identità o di un passaporto
valido. Non sono ammessi controlli che integrino una prassi sistematica, che diventa un ostacolo
arbitrario alla circolazione delle persone; lo stesso dicasi per i visti di ingresso o l’apposizione di un
timbro sul passaporto. Anche il semplice controllo amministrativo è ammesso a condizione che non
128
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sia discriminatorio. Il diritto di ingresso in un altro Paese membro comporta il diritto di


soggiornarvi almeno 3 mesi, col beneficio del diritto all’eguaglianza di trattamento rispetto ai
cittadini dello Stato ospite (es. diritto al risarcimento del danno al turista straniero che la legge
nazionale riserva ai cittadini, il diritto a sovvenzioni ai cittadini dell’Unione in occasione della
nascita di un figlio).
Del diritto di soggiorno possono beneficiare:
1) i lavoratori dipendenti, con i rispettivi familiari;
2) le persone che si spostano in funzione della prestazione di servizi, sia come prestatori che
come beneficiari;
3) le persone che si stabiliscono in un altro Paese membro per esercitarvi un’attività economica
autonoma.
Inoltre, con l’entrata in vigore della direttiva 2004/38/CE tale diritto è stato riconosciuto a tutti i
cittadini dell’Unione, unitamente ai loro familiari, a condizione però che essi dispongano di risorse
economiche sufficienti e di un’assicurazione malattia. Tale direttiva introduce anche la figura del
diritto di soggiorno permanente, di cui possono beneficiare il cittadino dell’Unione ed i suoi
familiari che avranno soggiornato legalmente ed in via continuativa per 5 anni nello Stato membro
ospitante. L’art. 2, n. 2, della direttiva fornisce la nozione di “familiare” che ricomprende, oltre il
coniuge, i discendenti e gli ascendenti diretti, ma anche il partner che abbia contratto un’unione
registrata secondo la registrazione di uno Stato membro, qualora quest’ultimo la equipari ad un
matrimonio.
Inoltre, la direttiva 2004/38/CE ha abolito la necessità della carta di soggiorno per i cittadini europei
ed i familiari pure dotati di cittadinanza dell’Unione, consentendo agli Stati membri di richiedere,
nella sola ipotesi di soggiorno di durata superiore ai 3 mesi, l’iscrizione presso le autorità
competenti, con il rilascio immediato del relativo attestato. Per contro, il diritto di soggiorno dei
familiari del cittadino dell’Unione, non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, è comprovato
dal rilascio di un documento denominato «carta di soggiorno di familiare di un cittadino
dell’Unione».

6. IL REGIME DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI

L’art. 45 TFUE chiarisce che la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione
implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità relativamente a tutte le
condizioni di lavoro. Trattandosi di norma provvista di efficacia diretta, il singolo può far valere
dinanzi al giudice l’illegittimità di ogni elemento discriminatorio che dovesse caratterizzare
l’accesso al lavoro, le condizioni retributive e sociali o altri momenti rilevanti del rapporto di
lavoro. I diritti sanciti dalle disposizioni del Trattato o da atti di diritto derivato riguardano e
possono dunque essere invocati dai lavoratori, ma nulla esclude che possano essere invocati anche
dai datori di lavoro.
La libertà di circolazione dei lavoratori si risolve, dunque, nel generale divieto di discriminazione
in base alla nazionalità. Tale divieto tende non solo a garantire al lavoratore, che abbia una
nazionalità diversa da quella dello Stato ospite, un trattamento non diverso da quello riservato ai
cittadini di tale Stato; ma impedisce anche il verificarsi di condizioni concorrenziali a svantaggio
dei lavoratori nazionali.
L’attuazione dell’art. 45 del Trattato è avvenuta già nella fase transitoria, prima del 1970. Si è
cominciato con il regolamento n. 15/1961 che autorizzava i cittadini degli Stati membri ad occupare
un impiego in un altro Stato membro quando tale impiego non poteva essere occupato da un
cittadino. Si trattava del principio della priorità del lavoratore nazionale, pur nel rispetto
dell’uguaglianza di trattamento sotto il profilo della retribuzione, delle condizioni di lavoro e dei
diritti sindacali. Nel 1964 è stato eliminato il principio della priorità del lavoratore nazionale, ma
ciascuno Stato membro ha conservato il diritto di sospendere, in caso di eccedenza di manodopera,
l’applicazione della libertà di circolazione in una determinata regione o rispetto a determinate
129
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

attività lavorative. La libertà di circolazione è stata compiutamente realizzata con la direttiva del
Consiglio 68/360/CE e il regolamento n. 1612/68: l’una ha eliminato le restrizioni all’ingresso e al
soggiorno dei lavoratori e delle loro famiglie in Paesi diversi da quelli d’origine, l’altro costituisce
sostanzialmente la normativa d’attuazione del principio della libera circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione. Quindi il principio della parità di trattamento tra i lavoratori nazionali e gli
altri lavoratori dell’Unione è esplicitato nel regolamento n. 1612/68 e nella direttiva 2004/38/CE,
che rappresenta una sorta di “testo unico” del diritto di circolazione, avendo abrogato una serie di
testi legislativi precedenti e modificato lo stesso regolamento n. 1612.
Relativamente alle condizioni di accesso al lavoro, ad es., non vi può essere una precedenza o una
priorità dei lavoratori nazionali rispetto a quelli di altri Paesi dell’Unione.
Va poi precisato che la disciplina della circolazione dei lavoratori comprende non solo la persona
che si reca in un altro Paese membro in risposta ad un’offerta di lavoro ma si estende anche a colui
che si limita a spostarsi per cercare lavoro.
L’applicazione del principio della parità di trattamento nell’accesso al lavoro vieta anche le
discriminazioni dissimulate. Al riguardo, i possibili elementi discriminatori sono i più vari: dal
requisito della residenza a quello del titolo di studio, dalla conoscenza della lingua locale
all’esperienza professionale maturata nel Paese di provenienza. La Corte è sempre stata attenta ad
accertare l’obiettivo sostanziale della parità di trattamento, verificando di volta in volta se la
discriminazione potesse o meno essere consentita in base a considerazioni indipendenti dalla
cittadinanza del lavoratore.
Il principio del trattamento nazionale ha poi trovato numerose applicazioni relativamente alle
condizioni di esercizio dell’attività lavorativa, relative alla retribuzione, allo stato di
disoccupazione, alla cessazione del rapporto di lavoro.
Sono compresi nella parità di trattamento, ex art. 7 del regolamento 1612/68, tutti i vantaggi sociali
e fiscali attribuiti ai lavoratori nazionali. La casistica è molto ricca: un prestito agevolato in
occasione della nascita di un figlio; sovvenzioni del fondo assistenza per diversamente abili;
riduzioni sulle tariffe ferroviarie per famiglie numerose; benefici per gli ascendenti e i discendenti a
carico del lavoratore; un’indennità di disoccupazione per i giovani in cerca di prima occupazione;
un meccanismo di tutela in caso di licenziamento per grave inabilità lavorativa; un’indennità di
separazione per un lavoratore domiciliato in un altro Stato membro; un sistema di imposizione
fiscale o contributivo che penalizzi il cittadino che voglia lasciare lo Stato di appartenenza per
lavorare in altro Stato membro. Il regolamento n. 1612/68 sancisce all’art.8 il principio della parità
di trattamento anche in relazione ai diritti sindacali, in particolare l’iscrizione alle organizzazioni
sindacali e tutti i diritti connessi.
Un altro aspetto di grande rilevanza della libertà di circolazione dei lavoratori attiene al trattamento
riservato alla famiglia del lavoratore ed alle condizioni per l’integrazione dei suoi componenti
nello Stato ospitante. Infatti, il regolamento n. 1612/68 e la direttiva 2004/38/CE attribuiscono al
coniuge ed ai figli fino a 21 anni, oppure ancora a carico del lavoratore, una serie di diritti destinati
a mantenere l’unità familiare ed a facilitarne l’integrazione nello Stato. Quindi il coniuge e i figli
minori o a carico, godono anch’essi del diritto di soggiornare e di esercitare un’attività lavorativa
nello Stato ospitante; del diritto di accedere a professioni sottoposte a regole professionali
specifiche (ad es. il medico); del diritto dei figli di godere dei benefici in vigore nello Stato ospite in
tema di istruzione a favore dei cittadini.
L’art. 45, n. 3, lett. d, del Trattato e la direttiva 2004/38/CE garantiscono i diritti del lavoratore e dei
suoi familiari nel periodo seguente alla cessazione del rapporto di lavoro. Il diritto di soggiorno
permanente spetta ai lavoratori subordinati o autonomi:
- che abbiano raggiunto l’età pensionabile nello Stato ospitante;
- che siano stati colpiti da un’incapacità lavorativa permanente dopo avervi soggiornato per
oltre 2 anni;
- che, dopo 3 anni di soggiorno, lavorino in un altro Stato membro, ma facciano ritorno nello
Stato ospitante almeno una volta alla settimana.
130
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

In tali casi, il diritto di soggiorno permanente si estende anche ai familiari che convivono col
lavoratore, a prescindere dalla loro cittadinanza.
Bisogna distinguere i vari casi che determinano la cessazione del rapporto di lavoro, che può essere
dovuta a licenziamento o dimissioni:
 in caso di licenziamento il lavoratore dell’Unione ha diritto alla stessa assistenza che gli
uffici del lavoro dello Stato in cui era occupato prestano ai loro cittadini nella ricerca di un
nuovo posto di lavoro, dal momento che egli rimane sul territorio dello Stato fino allo
scadere della carta di soggiorno;
 invece, nel caso di dimissioni del lavoratore per intraprendere un’attività indipendente, viene
in rilievo l’art. 50, n. 2, lett. d, del Trattato, da cui si ricava il relativo diritto, purché
sussistano i requisiti richiesti dalle disposizioni sul diritto di stabilimento per accedere a tale
attività;
 infine, nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia dovuta alla sopravvenuta
inabilità del lavoratore, quando abbia maturato un certo periodo di anzianità, o per il
raggiungimento dei limiti massimi dell’età lavorativa, spetta al lavoratore il trattamento
previdenziale e pensionistico previsto dalla legge locale, purché sussistano le condizioni
contemplate dai regolamenti europei sulla sicurezza sociale.
In definitiva, il trattamento non discriminatorio del lavoratore dopo la cessazione del rapporto di
lavoro, ha natura di trattamento minimo, nel senso che è possibile l’applicazione di disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative nazionali più favorevoli, in quanto estendano agli
stranieri diritti e vantaggi non contemplati nel Trattato e nel regolamento n. 1612/68.

7. IL SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE GARANTITO AI LAVORATORI MIGRANTI

La normativa sulla sicurezza sociale dei lavoratori migranti costituisce un corollario indispensabile
della libertà di circolazione. Il fondamento di una tale tutela è costituito dall’art. 48 TFUE, in base
al quale «il PE e il Consiglio, deliberando secondo la procedura ordinaria, adottano in materia di
sicurezza sociale le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori,
attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti dipendenti e
autonomi e ai loro aventi diritto:
a) il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per
il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste;
b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri».
La normativa di attuazione dell’art. 48 è essenzialmente contenuta nel regolamento n. 1408/71 e
nel regolamento n. 574/72, aventi come scopo principale il coordinamento delle diverse normative
nazionali in materia. In mancanza di una disciplina comune, da un lato gli Stati membri continuano
a disciplinare autonomamente i rispettivi sistemi previdenziali; dall’altro, nell’esercizio di tale
autonomia, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione.
Il regolamento n. 1408/71 si applica ai lavoratori subordinati e autonomi che sono o sono stati
soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che sono cittadini di uno degli Stati membri,
nonché ai loro familiari e ai loro «superstiti» (il regolamento si applica anche ai pubblici dipendenti
e ai pensionati). La Corte ha precisato che «una persona possiede la qualità di lavoratore ai sensi del
regolamento n. 1408/71 quando è assicurata, sia pure contro un solo rischio, in forza di
un’assicurazione obbligatoria o facoltativa».
Il coordinamento effettuato in virtù del regolamento n. 1408/71 è fondato su 3 principi essenziali:
1) la parità di trattamento tra lavoratori che beneficiano della libertà di circolazione e
cittadini dello Stato membro di cui si tratta;
2) la determinazione della legge applicabile;
3) la totalizzazione dei periodi assicurativi.

131
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Il primo, regolato dall’art. 3 del regolamento, costituisce un principio in base al quale non è
ammessa alcuna discriminazione tra cittadini e altri lavoratori dell’Unione.
Il secondo, regolato dagli artt. 13-17 del regolamento, costituisce il principio dell’unicità della
legge applicabile, identificata con quella dello Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa,
indipendentemente dal luogo di residenza del lavoratore. Costituiscono eccezioni al principio: il
caso dei lavoratori temporaneamente distaccati, quello dei lavoratori occupati nel settore dei
trasporti internazionali e quello di lavoratori occupati in 2 o più Stati membri.
Il terzo è un principio che garantisce al lavoratore che sia stato soggetto alle leggi di 2 o più Stati
membri, il cumulo dei periodi assicurativi maturati in forza delle leggi di ciascuno degli Stati in
questione. L’applicazione di un tale principio necessita di una stretta collaborazione tra le
amministrazioni nazionali interessate per evitare il cumulo di prestazioni. Il ricorso alla
totalizzazione è effettuato nel caso in cui la sola legislazione nazionale non dia diritto alla
prestazione di cui si tratta, o perché il lavoratore non ha maturato periodi assicurativi sufficienti o
perché tali periodi gli darebbero diritto solo ad una prestazione inferiore al massimo. A proposito, il
Trattato di Lisbona ha introdotto una novità rilevante prevista dall’art. 48, 2° comma, TFUE, che
consente ad un membro del Consiglio di porre una sorta di veto in relazione ad un progetto di atto
legislativo che «lede aspetti rilevanti del suo sistema di sicurezza sociale».

8. LE LIMITAZIONI ALLA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI.


RISERVA DEL PUBBLICO IMPIEGO E RESTRIZIONI DOVUTE A RAGIONI DI
ORDINE PUBBLICO

La disciplina relativa alla libera circolazione dei lavoratori non si applica al pubblico impiego: «agli
impieghi nella pubblica amministrazione», secondo la formulazione testuale dell’art. 45, n. 4,
TFUE.

ART. 45 TFUE

1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata.


2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori
degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità
pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;
b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro,
conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano
l'occupazione dei lavoratori nazionali;
d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione,
sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica
amministrazione.

N.B.: Anche alla deroga è necessario dare un’interpretazione non nazionale, per evitare che le
nozioni di pubblico impiego o di pubblica amministrazione utilizzate nei diversi ordinamenti degli
Stati membri limitino l’efficacia e la portata delle norme del Trattato sulla libera circolazione dei
lavoratori. La giurisprudenza costante della Corte è nel senso che ricadono nell’eccezione sancita
dall’art. 45, n. 4, TFUE, unicamente quegli impieghi che implicano 1 partecipazione diretta o
indiretta all’esercizio di poteri pubblici, nonché le funzioni che hanno ad oggetto la tutela di
interessi generali dello Stato o di enti pubblici. Tuttavia anche rispetto ad impieghi che abbiano
queste caratteristiche, la giurisprudenza ha chiarito che l’applicazione della deroga va valutata caso
132
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

x caso e non in relazione ad intere categorie; ciò in quanto, ai fini dell’applicazione della deroga, è
necessario verificare concretamente la rilevanza di quel particolare vincolo di solidarietà e di fedeltà
nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e doveri, che caratterizzano il vincolo di
cittadinanza. Questo approccio ha fatto sì che questa deroga sia stata interpretata in modo molto
restrittivo.
In secondo luogo, il diritto del lavoratore alla libera circolazione, in particolare all’ingresso e al
soggiorno nel Paese ospite, può essere limitato o negato per:
 ragioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza;
 o per ragioni sanitarie (art. 45, n. 3, TFUE ed artt. 27 e ss. della direttiva 2004/38/CE).
La giurisprudenza – pur sottolineando la relatività della nozione di ordine pubblico, che varia x
latitudine, Paese membro ed epoca – ha in particolare precisato i limiti che gli Stati membri devono
rispettare nella definizione delle esigenze di ordine pubblico di volta in volta poste a fondamento di
una restrizione alla libera circolazione.
Anzitutto, l’applicazione della misura restrittiva non può avere finalità economiche o cmq non
connesse alle esigenze di ordine pubblico normalmente riconosciute in una società democratica. Ad
es., è escluso, che so possano invocare motivi di ordine pubblico quando lo scopo della misura è di
limitare i diritti sindacali o impedirne l’esercizio; così com’è esclusa la legittimità di provvedimenti
fondati sull’ordine pubblico quando riguardino un’attività o un comportamento che, se imputato ad
un cittadino dello Stato ospite, non è oggetto di misure repressive o altri «provvedimenti concreti ed
effettivi volti a reprimerlo».
Inoltre, la direttiva 2004/38/CE precisa che i provvedimenti restrittivi della libertà di circolazione
possono essere collegati esclusivamente ad un comportamento personale e specifico del soggetto,
mentre non possono essere fondati sulla semplice esistenza di precedenti penali o come deterrente
per altri stranieri. In proposito, la giurisprudenza ha confermato che 1 misura, ad es. di espulsione di
uno straniero, fondata su motivi di ordine pubblico, non può prescindere dal caso singolo e può
essere giustificata solo da minacce attuali e gravi all’ordine pubblico e alla pubblica sicurezza da
parte del soggetto cui la misura è destinata; in definitiva dal rischio reale che lo stesso soggetto
commetta una violazione grave.
I motivi di ordine pubblico posti a fondamento della misura restrittiva devono essere portati a
conoscenza del lavoratore, affinché egli si possa ben rendere conto del contenuto e degli effetti della
misura e possa dunque provvedere ad una difesa adeguata. Le modalità e le procedure per la tutela
dei diritti sono quelle del diritto nazionale, che non possono essere meno favorevoli di quelle
applicabili in via generale.
Infine, quanto alle ragioni sanitarie che rendono legittima la misura restrittiva, l’art. 29 della
direttiva 2004/38/CE indica le varie patologie che possono giustificare il rifiuto di ingresso e/o di
rilascio del permesso di soggiorno, precisando che il sopraggiungere della malattia dopo i 3 mesi
successivi alla data di arrivo non consente allo Stato membro interessato di procedere
all’allontanamento dal proprio territorio.

9. LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO.
CAMPO DI APPLICAZIONE PERSONALE E MATERIALE DELLA DISCIPLINA

Il diritto di stabilimento, disciplinato dagli articoli da 49 a 55 TFUE, investe qualsiasi attività


economica svolta in regime di non subordinazione e in modo stabile. Di questo diritto beneficiano
sia le persone fisiche che siano in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri, sia le
persone giuridiche, in particolare le società. Per le persone giuridiche va fatta qualche ulteriore
precisazione. L’art. 54 TFUE stabilisce che esse sono equiparate alle persone fisiche aventi la
cittadinanza di uno Stato membro se costituite conformemente alla legislazione di uno Stato
membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di un’attività principale
all’interno dell’UE. La Corte ha specificato:

133
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 che per le società la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale
valgono a determinare (come la nazionalità per le persone fisiche), il collegamento con
l’ordinamento giuridico di uno Stato membro;
 che le stesse società hanno il diritto di svolgere la loro attività anche in altri Stati membri,
attraverso agenzie, succursali o filiali;
 che ammettere che lo Stato membro di stabilimento possa applicare un regime diverso ad
una società per il fatto che la sua sede sia in un altro Stato membro svuoterebbe di contenuto
l’art. 54 TFUE.
Il TFUE prevede, peraltro, un’importante eccezione al beneficio della libertà di stabilimento con
riguardo alle attività che nello Stato ospite «partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei
pubblici poteri» (art. 51). In particolare, la Corte ha subito precisato che l’eccezione non può avere
una portata che vada al di là dello scopo per la quale è stata prevista. L’occasione fu una
controversia che riguardava la professione di avvocato, rispetto alla quale non era mancato chi ne
sosteneva il carattere “pubblico” e dunque l’esclusione in toto dalla sfera di applicazione della
libertà di stabilimento. La Corte tenne a precisare che l’allora art. 45 del Trattato CE (oggi art. 51
TFUE) consentiva agli Stati membri di precludere l’accesso a quelle attività che ,considerate in se
stesse, costituiscono una partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri. Ciò
però non si verifica rispetto alle attività di consulenza ed assistenza legale o della rappresentanza e
della difesa delle parti in giudizio svolte dallo stesso avvocato. Infine, anche in materia di
stabilimento, gli Stati membri sono autorizzati ad applicare le disposizioni nazionali che fissano un
regime particolare per gli stranieri e che sono giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza e sanità pubblica (art. 52 TFUE).

10. L’IPOTESI DI STABILIMENTO A TITOLO PRINCIPALE E QUELLA DI


STABILIMENTO A TITOLO SECONDARIO

La libertà di stabilimento riguarda sia «l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la
costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società» (art. 49, 2° comma, TFUE), sia
«l’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte di cittadini di uno Stato membro stabiliti sul
territorio di un altro Stato membro» (art. 49, 1° comma, TFUE).
In definitiva, si tratta di 2 ipotesi:
1) l’esercizio di un’attività professionale o, più in generale, di un’attività economicamente
rilevante in un Paese comunitario diverso da quello di origine;
2) l’apertura di un centro secondario di attività in un Paese membro diverso da quello di
origine.
Per le persone fisiche, lo stabilimento a titolo principale comporta l’accesso e l’esercizio nel Paese
ospite di un’attività economica o professionale. La possibilità di creare o trasferire un centro di
attività stabile in un altro Stato membro è oggetto di un principio considerato fondamentale del
sistema dell’UE.
Per quanto riguarda le persone giuridiche, la situazione è invece più complessa, specie quando si
tratta di società non di nuova costituzione, ma trasferite da uno Stato membro ad un altro, che
comporta il trasferimento della sede sociale reale. Tale condizione comporta una serie di difficoltà,
atteso che, quantomeno in quegli Stati membri in cui è proprio il criterio dell’ubicazione della sede
sociale effettiva a determinare la nazionalità della società, il trasferimento della sede in un altro
Stato membro può risultare incompatibile con il mantenimento della sua personalità giuridica di cui
la società gode. Infatti, un simile trasferimento può richiedere il previo scioglimento della società e
la sua ricostituzione in conformità alla legislazione dello Stato membro nel cui territorio essa
intende stabilire la propria nuova sede. In tal caso, l’esercizio della libertà di stabilimento a titolo
principale finisce per essere puramente teorico. Al riguardo, la Corte di giustizia ha riconosciuto che
le norme sul diritto di stabilimento non attribuiscono, in realtà, alle società degli Stati membri alcun
134
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

diritto a trasferire la loro direzione ed amministrazione centrale in un diverso Stato membro,


conservando la qualità di società dello Stato membro. Questa conclusione si fonda sul fatto che la
diversità delle legislazioni degli Stati membri costituisce un problema che le norme del Trattato
relative al diritto di stabilimento hanno lasciato irrisolto. Quindi, allo stato attuale, un Paese
membro dispone della facoltà di definire:
- sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché possa ritenersi costituita ai
sensi del suo diritto nazionale e quindi possa beneficiare del diritto di stabilimento
riconosciuto dal Trattato,
- sia quello necessario per continuare a mantenere questo status. Questa facoltà include la
possibilità, per lo Stato, di non consentire ad una società soggetta al suo diritto nazionale di
conservare tale status qualora intenda riorganizzarsi in un altro Stato membro trasferendo la
propria sede nel territorio di quest’ultimo, sopprimendo così il criterio di collegamento
previsto dal diritto nazionale dello Stato membro di costituzione.
Inoltre, l’art. 49 TFUE prevede anche l’ipotesi che il soggetto (persona fisica o giuridica) sposti
solo una parte secondaria della sua attività in un altro Stato membro, cioè lo stabilimento che si
realizza con la creazione rispettivamente di agenzie, succursali o filiali.
Il Trattato menziona, quindi, per l’esercizio dello stabilimento secondario gli strumenti della
filiale, dell’agenzia e della succursale. Al riguardo, va precisato che mentre per filiale va intesa una
persona giuridica controllata dalla società madre, ma costituita secondo il diritto del Paese ospite e
dotata pertanto di autonomia, le agenzie e le succursali non sono persone giuridiche autonome
rispetto alla società madre. L’unica condizione richiesta per poter fruire dello stabilimento a titolo
secondario è quella di costituire e/o rappresentare un centro di attività all’interno dell’UE: anche un
semplice ufficio gestito stabilmente da un mandatario della società madre. Il diritto di stabilimento a
titolo secondario è accordato non solo alle persone giuridiche ma anche alle persone fisiche, purché
si tratti di cittadini di uno Stato membro stabiliti in un altro Stato membro. In altre parole,uno Stato
membro non può negare ad un cittadino di un altro Stato membro l’apertura di uno studio o di un
ufficio sul proprio territorio e ciò sebbene a tale divieto soggiacciono i propri cittadini. Dunque, in
tale ipotesi, allo Stato membro è precluso di applicare ai cittadini di altri Stati membri le stesse
limitazioni applicate ai propri cittadini, in quanto l’effetto restrittivo che ne conseguirebbe sarebbe
sproporzionato, risolvendosi di fatto nell’impossibilità per i cittadini dell’UE di avvalersi di un
diritto fondamentale garantito dal Trattato, per stabilirsi in un altro Stato membro, se non
rinunciando al precedente stabilimento.

11. IL REGIME DEL DIRITTO DI STABILIMENTO: A) LA REGOLA DEL


TRATTAMENTO NAZIONALE

Il contenuto materiale della normativa che sancisce e disciplina la libertà di stabilimento ruota
intorno al principio del trattamento nazionale, sancito dallo stesso art. 49 TFUE, in base al quale
questa libertà va realizzata «alle condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei
confronti dei propri cittadini». Ciò significa che ai cittadini degli Stati membri, nonché alle persone
giuridiche, che si stabiliscono anche solo in via secondaria in un altro Stato membro, la norma
intende garantire lo stesso trattamento riservato ai cittadini, vietando anzitutto ogni discriminazione
in senso soggettivo, cioè fondata sulla nazionalità. Per realizzare questo obiettivo, il Trattato CEE
aveva previsto che esso doveva esser raggiunto entro la fine del periodo transitorio e aveva previsto
la consueta clausola di standstill (art. 53, poi abrogato dal Trattato di Amsterdam), in base alla quale
era vietato agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni alla libertà effettivamente raggiunta al
momento dell’entrata in vigore del Trattato. Inoltre, lo stesso Trattato originario aveva previsto
l’adozione di direttive per la soppressione delle restrizioni esistenti; l’adozione di direttive volte a
coordinare le disposizioni nazionali relative all’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio;
nonché l’adozione di direttive sul reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli. Tali
direttive, previste attualmente dagli artt. 50 e 53 TFUE, costituiscono ancor oggi degli strumenti
135
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

cruciali per consentire ai cittadini ed alle persone giuridiche dell’UE di usufruire in modo effettivo
della libertà di stabilimento, in relazione a qualsiasi attività di carattere autonomo da essi svolta.
Per quanto riguarda gli atti previsti dall’art. 50 TFUE, il Consiglio ha fin dall’inizio provveduto
all’adozione di un Programma Generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di
stabilimento esistenti all’interno della Comunità, in cui sono stati anche definiti i modi e i tempi per
l’adozione di direttive specifiche in materia.
Tuttavia, l’obiettivo della libertà di stabilimento va perseguito negli Stati membri
indipendentemente dalla vigenza o meno di una normativa ad hoc. Quest’ultima è prevista solo per
facilitare l’esercizio effettivo della libertà di stabilimento, mentre la semplice eliminazione degli
ostacoli al regime di libertà di stabilimento è oggetto, a partire dalla scadenza del periodo
transitorio, di un obbligo preciso e incondizionato, che non richiede alcuna specificazione
normativa. Pertanto, anche l’art. 49 TFUE, una volta scaduto il periodo transitorio, ha potuto
essere utilmente invocato dai singoli in quanto norma provvista di effetto diretto (come affermato
nella celebre sentenza Reyners). La Corte ha aggiunto che l’art. 49 impone un obbligo di risultato
preciso, il cui adempimento deve essere facilitato, ma non condizionato, dall’attuazione di un
programma di misure graduali; con la conseguenza che, dovendo la liberalizzazione del diritto di
stabilimento coincidere con la fine del periodo transitorio, l’articolo può essere invocato dai
cittadini dell’UE che intendano avvalersi del diritto fondamentale di stabilimento, conferito loro dal
Trattato. Spetta, pertanto, alle autorità nazionali fare in modo che la libertà di stabilimento sia
garantita quando sussistano le condizioni di applicazione dell’art. 49 TFUE, a prescindere
dall’esistenza o meno di direttive di coordinamento ai sensi dell’art. 53 TFUE. È così che la Corte
ha riconosciuto ad un avvocato belga il diritto di stabilirsi ed esercitare in Francia, atteso che il
diploma conseguito dall’interessato nel Paese di origine era stato dichiarato equivalente
dall’autorità competente dello Stato di stabilimento, sebbene solo a fini accademici e non a fini
civili.
Il principio del trattamento nazionale ha dunque una portata molto ampia e mira anzitutto ad evitare
qualsiasi discriminazione che sia fondata sulla nazionalità, comportando così l’illegittimità di
qualsiasi misura che colpisca lo straniero in quanto tale. E ciò vale anche per normative nazionali
che si applichino solo ai cittadini di altri Stati membri.

12. Segue: B) OLTRE IL TRATTAMENTO NAZIONALE

La regola del trattamento nazionale non può condurre alla negazione del diritto di stabilimento
quale conferito dallo stesso Trattato, con la conseguenza che il diritto di costituire una pluralità di
centri di attività nell’insieme dell’UE prevale sull’eguaglianza di trattamento nei casi in cui la
normativa nazionale preveda l’unicità della sede. Inoltre, va precisato che il regime della libertà di
stabilimento intende eliminare anche quelle misure degli Stati membri che comportano di fatto
comunque una discriminazione a danno degli stranieri. Ciò significa che è vietata dal Trattato anche
ogni altra forma dissimulata di discriminazione. Si tratta, in sostanza, delle ipotesi in cui una
normativa nazionale, sebbene indistintamente applicabile, preclude di fatto al cittadino o alla
società di un altro Paese membro di godere della libertà di stabilimento, in quanto ne condiziona
l’esercizio al possesso di certi requisiti che sono propri del cittadino e non di altri. È quanto si
verifica o si può verificare:
 attraverso il criterio della residenza, che normalmente sfavorisce i cittadini di altri Stati
membri fino a determinare l’esclusione dall’accesso a determinate attività;
 a causa di alcune condizioni imposte alle società, che rischiano di sfavorire le società
“straniere” rispetto a quelle costituite secondo il diritto nazionale. Anche per le società vale
il criterio sostanziale: nel caso di un diverso regime di rimborsi fiscali, il requisito del
domicilio fiscale sul territorio nazionale, per ottenere un eventuale maggior rimborso delle
imposte non dovute, rischia di sfavorire soprattutto le società con sede in un altro Stato

136
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

membro, in quanto, nella maggior parte dei casi, saranno infatti queste ultime ad avere il
domicilio fiscale fuori dal territorio dello Stato membro;
 con i titoli di studio, anche in questo caso il criterio da utilizzarsi è un criterio sostanziale,
nel senso che è richiesto agli Stati membri di verificare e valutare, caso per caso, l’eventuale
corrispondenza dei requisiti professionali da essi richiesti con quelli acquisiti dal soggetto
interessato nel Paese di origine.
In definitiva, l’applicazione dell’art. 49 TFUE è stata estesa anche a misure nazionali
indistintamente applicabili, prive di effetti apparentemente discriminatori; ne consegue che il fatto
stesso di costituire un ostacolo o di rendere meno agevole l’accesso o l’esercizio di un’attività di
carattere autonomo può essere condizione sufficiente a rendere inapplicabili le misure nazionali in
questione, a meno che tali misure non siano:
1) applicate in maniera non discriminatoria,
2) giustificate da motivi imperativi di interesse generale,
3) idonee a garantire il raggiungimento dell’obiettivo da esse perseguito e
4) proporzionate al perseguimento del loro obiettivo.

13. LE MISURE DESTINATE A FACILITARE LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO: LA


DIRETTIVA 2005/36/CE SUL RICONOSCIMENTO DELLE QUALIFICHE
PROFESSIONALI

Le direttive previste dall’art. 53 TFUE, intese al reciproco riconoscimento dei titoli di studio e di
quelli professionali, nonché al coordinamento delle normative nazionali che presiedono all’accesso
e all’esercizio delle attività di carattere autonomo, restano necessarie x facilitare l’accesso a, e
l’esercizio di, molte attività autonome, in particolare d quelle rientranti tra le professioni liberali.
Per alcuni mestieri e professioni, per il cui esercizio in alcuni Stati membri si richiede una formale
qualifica professionale, sono state adottate numerose direttive corredate da misure specifiche e per
settori, definite comunemente misure “transitorie”, ma in realtà definitive (ad es. misure per
l’industria e l’artigianato, per il commercio all’ingrosso, per i parrucchieri, ecc.). Il criterio in
generale utilizzato è che quando lo Stato di stabilimento richiede, per l’esercizio di un’attività, il
possesso di una qualifica professionale formale che in altri Stati membri non è richiesta, è
sufficiente che il soggetto provi di aver svolto effettivamente quell’attività nel Paese di origine per il
periodo di tempo fissato dalla direttiva. Ciò vuol dire che lo Stato di stabilimento può richiedere
un’attestazione, rilasciata dalle autorità dello Stato di provenienza sull’effettività dell’esercizio di
una determinata attività, ma non può definire condizioni di accesso o altri requisiti tali da rendere
inutile tale attestazione.
Per molte altre professioni lo scenario è mutato in seguito all’adozione della direttiva 2005/36/CE,
c.d. Zappalà, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Essa è riuscita a delineare un
quadro giuridico unitario, che poggia su una liberalizzazione più estesa della prestazione di servizi,
una maggiore automaticità nel riconoscimento delle qualifiche professionali e una più elevata
flessibilità delle procedure di aggiornamento. Inoltre, ha consolidato in un unico testo legislativo
ben 15 precedenti direttive, fra le quali figurano 12 direttive settoriali, riguardanti le professioni di
medico, infermiere responsabile di cure generali, odontoiatra, veterinario, ostetrica, farmacista e
architetto; e 3 direttive che hanno introdotto un sistema generale di riconoscimento delle qualifiche
professionali, riguardante la maggior parte delle altre professioni regolamentate.
In dettaglio, la direttiva 2005/36/CE si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che intendono
esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione
regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche
professionali. Essa stabilisce che ciascuno Stato membro è tenuto a riconoscere il diritto di accedere
e di esercitare una professione a qualsiasi cittadino dell’Unione in possesso di un titolo che lo
legittima a svolgere la stessa attività in un altro Stato membro. L’impianto generale della direttiva

137
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

ricalca essenzialmente la classica distinzione tra prestazione di servizi, su base temporanea ed


occasionale, e libertà di stabilimento, concernente invece il lavoro autonomo prestato in maniera
stabile.
 In relazione alla 1° attività, cioè all’ipotesi in cui un professionista intenda esercitare in
modo temporaneo ed occasionale la propria attività autonoma in uno Stato membro
diverso da quello di origine, la direttiva fa espresso divieto agli Stati membri di limitare
la libera prestazione dei servizi per motivi attinenti alle qualifiche professionali; in
pratica ogni cittadino dell’Unione, legalmente stabilito in uno Stato membro, può
svolgere la propria attività di servizi in un altro Stato membro con il proprio titolo
professionale di origine, senza dover chiedere il riconoscimento delle qualifiche che
possiede. Tuttavia il prestatore deve provare di aver esercitato la propria attività
professionale nello Stato di stabilimento per almeno 2 anni nel corso dei 10 anni che
precedono la prestazione di servizi, se in tale Stato membro la professione in questione
non è regolamentata, altrimenti questa condizione non si applica.
 Invece, in relazione all’ipotesi in cui il professionista intenda svolgere la propria attività
avvalendosi della libertà di stabilimento, per alcune professioni già oggetto di direttive
settoriali sorgono problemi del tutto marginali. Infatti per le professioni di medico,
infermiere responsabile dell’assistenza generale, dentista, veterinario, ostetrica,
farmacista e architetto, vige un sistema di riconoscimento automatico dei relativi titoli di
formazione in base al coordinamento delle condizioni minime di formazione. Quindi la
direttiva nel 5° allegato elenca i titoli di formazione, rilasciati dagli Stati membri e
conformi alla direttiva, che permettono a chi ne è in possesso di esercitare la professione
in questione in tutti gli Stati membri. Diverso è il caso delle professioni per cui non
esistono ad oggi disposizioni di armonizzazione della relativa formazione; per esse, la
direttiva stabilisce un sistema di riconoscimento basato sul criterio c.d. dell’equivalenza
delle qualifiche. Quindi se in uno Stato membro ospitante l’accesso ad una professione
dipenda dal possesso di qualifiche professionali determinate, l’autorità competente di
tale Stato membro consente l’accesso a questa professione alle stesse condizioni dei
cittadini nazionali, purché il richiedente possegga un titolo di formazione, rilasciato da
un altro Stato membro, che attesti un livello di formazione almeno equivalente a quello
immediatamente inferiore al livello richiesto nello Stato membro ospitante. Se, al
contrario, la professione non è regolamentata, il richiedente è tenuto, per potervi
accedere, a dimostrare di possedere non solo il titolo di formazione, ma anche 2 anni di
esperienza professionale a tempo pieno, maturata nel corso dei 10 anni precedenti.
N.B.: Per entrambi i casi, la direttiva raggruppa le qualifiche professionali in 5 livelli, fra
loro omogenei, che si distinguono per la durata del percorso formativo richiesto per
l’accesso alla professione nel Paese di origine richiedente:
 l’attestato di competenza, rilasciato dallo Stato membro di origine sulla base di
una formazione generale a livello d’insegnamento primario o secondario, di una
formazione non facente parte di un certificato o un diploma, oppure di un esame
specifico non preceduto da una formazione o dell’esercizio della professione per
3 anni;
 il certificato, corrispondente ad una formazione di livello d’insegnamento
secondario di tipo tecnico, professionale o generale, contemplato da un ciclo di
studi o di formazione professionale;
 il diploma di formazione breve, attestante una formazione di livello
d’insegnamento post-secondario della durata di almeno un anno;
 il diploma di formazione di durata minima di 3 anni ed inferiore a 4 anni, di
livello d’insegnamento superiore o universitario;

138
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 il diploma di formazione di durata minima di 4 anni, di livello d’insegnamento


superiore o universitario.
Il riconoscimento dei titoli (esclusi i notai) viene effettuato, dunque, sulla base di livelli minimi di
formazione commisurati alla durata richiesta per l’accesso alla professione. Tuttavia, lo Stato
ospitante può, in ogni caso, subordinare il riconoscimento dei titoli di formazione all’assolvimento,
da parte del richiedente, di una misura di compensazione (un tirocinio di adattamento non superiore
a 3 anni o una prova attitudinale), quando ricorre una delle seguenti ipotesi:
1) la formazione è inferiore di almeno un anno rispetto a quella richiesta nello Stato membro
ospitante;
2) la formazione che il richiedente ha seguito ha avuto per oggetto materie sostanzialmente
diverse da quelle coperte dal titolo di formazione richiesto nello Stato ospitante;
3) la professione regolamentata nello Stato membro ospitante include una o più attività
professionali regolamentate, mancanti nella corrispondente professione dello Stato membro
d’origine del richiedente, qualora la differenza sia caratterizzata da una formazione
specifica, richiesta nello Stato membro ospitante, relativa a materie diverse da quelle
dell’attestato di competenza o del titolo di formazione in possesso del richiedente.
Relativamente allo stabilimento degli avvocati è stata adottata una direttiva ad hoc, volta a facilitare
l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è
stata acquisita la qualifica. Tale direttiva prevede, a prima vista, una formula di stabilimento
attenuata, atteso che l’avvocato stabilito in un altro Stato membro potrà avvalersi del suo titolo
professionale, ma dovrà agire di “concerto” con un avvocato abilitato ad esercitare davanti alla
giurisdizione adita, per la rappresentanza e la difesa in giudizio del cliente. Tale formula attenuata è
tuttavia destinata a venir meno dopo 3 anni di attività effettiva e regolare, trascorsi i quali
l’avvocato che esercita con il titolo dello Stato di provenienza è finalmente ammesso ad esercitare a
tutti gli effetti come avvocato dello Stato ospitante.

14. Segue: LA DIRETTIVA 2006/123/CE RELATIVA AI SERVIZI NEL MERCATO


INTERNO

Merita un’attenzione particolare la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno,
meglio nota come “direttiva servizi” o “direttiva Bolkestein”, dal nome del commissario europeo
per il mercato interno relatore della prima bozza di direttiva. Essa si inserisce nel quadro delle
azioni prospettate dal Consiglio europeo di Lisbona, del marzo 2000, per rendere l’UE, entro il
2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di
realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi posti di lavoro e una maggiore coesione
sociale (c.d. strategia di Lisbona). La direttiva mira ad eliminare gli ostacoli ancora presenti nel
mercato interno, che impediscono di fatto alle attività di carattere autonomo di circolare liberamente
tra gli Stati membri, sia utilizzando la libertà di stabilimento che sfruttando le opportunità offerte
dalla libertà di prestazione di servizi. Essa, però, non si limita ad agevolare queste 2 libertà, ma al
tempo stesso intende:
- rafforzare i diritti dei destinatari delle attività autonome prestate con attraversamento delle
frontiere nazionali,
- promuovere la qualità dei servizi e
- stabilire una cooperazione amministrativa effettiva tra le autorità competenti degli Stati
membri.
La direttiva stabilisce, in dettaglio, un quadro giuridico generale valido per qualsiasi attività di
servizi fornita dietro corrispettivo, ad eccezione delle attività espressamente escluse dal suo campo
di applicazione; quindi essa ha carattere orizzontale, nel senso che non riguarda una sola categoria
o un settore particolare di servizi, ma abbraccia tutte le possibili attività di servizi esistenti e che
potrebbero nascere in futuro. Infatti, non individua una per una le attività che rientrano nel suo

139
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

campo di applicazione, ma, al contrario, si limita semplicemente a precisare quali sono quelle che
non vi rientrano (art. 2); di quest’elenco fanno parte: i servizi finanziari, audiovisivi, di
comunicazione elettronica e di trasporto; i servizi sanitari; alcuni servizi sociali; i servizi delle
agenzie di lavoro interinale e i servizi privati di sicurezza; i servizi non economici di interesse
generale; le attività connesse all’esercizio di pubblici poteri ed infine i servizi forniti da notai e
ufficiali giudiziari nominati con atto ufficiale della p.a. Il fatto che queste attività siano escluse dal
campo di applicazione della direttiva, non implica che ad esse non si applichino cmq le norme del
Trattato sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi. Inoltre, queste esclusioni
vanno intese come opzionali, cioè nulla vieta agli Stati membri, se lo desiderano, di estendere alcuni
principi e modalità generali previsti dalla direttiva ad alcuni o a tutti i servizi esclusi. La direttiva si
compone di disposizioni “comuni”, tra cui rientrano quelle volte a semplificare le procedure e le
formalità amministrative cui vanno incontro gli operatori economici quando intendono esercitare la
propria attività di servizi in uno Stato membro diverso da quello d’origine. A questo fine, la direttiva
non solo richiede agli Stati membri di semplificare le proprie procedure amministrative, ma impone
loro anche degli obblighi specifici e precisamente:
 di istituire degli sportelli unici, presso cui il prestatore di servizi possa ricevere
informazioni sui requisiti e le procedure nazionali, nonché espletare tutte le formalità del
caso (artt. 6 e 7);
 di rendere possibile l’espletamento delle procedure e formalità amministrative a distanza
e per via elettronica (art. 8).
Per facilitare la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi nell’UE, la direttiva
stabilisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di prestarsi assistenza reciproca e di cooperare per
garantire un controllo efficace dei prestatori e dei loro servizi e evitare la moltiplicazione di tali
controlli (art. 28). Questa cooperazione si traduce, in pratica, nel diritto di uno Stato membro di
richiedere informazioni, verifiche, ispezioni o indagini ad un altro Stato membro e nel dovere, in
capo a quest’ultimo, di soddisfare la richiesta ricevuta senza indugio.
Inoltre, la direttiva prescrive agli Stati membri di adottare, in collaborazione con la Commissione,
misure di accompagnamento, per incoraggiare i prestatori a garantire, su base volontaria, la qualità
dei servizi, facendo certificare o valutare le loro attività da organismi indipendenti o aderendo alle
carte e ai marchi di qualità predisposti da organi ed ordini professionali a livello europeo (art. 26).
Queste misure devono poi tendere ad incoraggiare l’elaborazione di codici di condotta a livello
europeo, specialmente da parte di organismi professionali, per agevolare la prestazione
transfrontaliera di servizi o lo stabilimento di un prestatore in un altro Stato membro, nel rispetto
pur sempre del diritto dell’UE (art. 37).
Considerando esclusivamente le disposizioni sullo stabilimento del prestatore in uno Stato membro
diverso da quello di origine, va detto subito che la direttiva si limita a chiarire principi già da tempo
affermati dalla Corte di giustizia con riguardo ai regimi di autorizzazione ed ai requisiti da
soddisfare per accedere ad un’attività di esercizi o esercitarla. Infatti, la direttiva ribadisce che i
regimi di autorizzazione sono ammissibili solo nei casi in cui il controllo a posteriori non sarebbe
efficace a causa dell’impossibilità di constatare ex post le carenze dei servizi interessati e tenuto
conto dei rischi e dei pericoli che potrebbero risultare dall’assenza di un controllo ex ante. Quindi,
agli Stati membri è consentito subordinare l’accesso ad un’attività di servizi solo qualora esso
risulti:
- non discriminatorio nei confronti del prestatore,
- giustificato da un motivo imperativo di interesse generale e
- proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito.
La direttiva servizi prescrive che la procedura di rilascio dell’autorizzazione sia chiara, resa
pubblica preventivamente e tale da garantire ai richiedenti che la loro domanda sia trattata con la
massima obiettività, imparzialità e sollecitudine. Inoltre, la procedura deve essere facilmente

140
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

accessibile e priva di oneri a carico dei richiedenti che non siano ragionevoli e commisurati ai costi
effettivi della procedura necessaria per il rilascio dell’autorizzazione (art. 13).
Con riguardo ai requisiti nazionali, spesso imposti agli operatori economici, che ostacolano o
impediscono l’esercizio effettivo della libertà di stabilimento, la direttiva distingue fra quelli che
sono da ritenersi assolutamente vietati (art. 14) e quelli che invece possono essere mantenuti in
vigore o istituiti dagli Stati, se ricorrono certe condizioni (art. 15). Tra i “requisiti vietati” figurano:
1) i requisiti discriminatori, fondati direttamente o indirettamente sulla cittadinanza,
sull’ubicazione della sede legale delle società o sul requisito di residenza;
2) il divieto di avere stabilimenti in più di uno Stato membro o di essere iscritto in registri o
albi professionali in diversi Stati membri;
3) le restrizioni della libertà, per il prestatore, di scegliere se essere stabilito a titolo principale
o secondario e essere stabilito in forma di rappresentanza, succursale oppure filiale;
4) le condizioni di reciprocità con lo Stato membro in cui il prestatore ha già uno stabilimento;
5) l’applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina il rilascio di
un’autorizzazione all’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato;
6) il coinvolgimento di operatori concorrenti per il rilascio di autorizzazioni;
7) l’obbligo di presentare una garanzia finanziaria o di sottoscrivere un’assicurazione presso un
altro operatore o presso un organismo stabilito nello Stato membro in cui il prestatore vuole
stabilirsi;
8) l’obbligo per il prestatore di essere già iscritto per un certo periodo nei registri dello Stato in
cui vuole stabilirsi o di avere già esercitato in precedenza la propria attività sul territorio di
tale Stato per un certo periodo.
Invece, tra i requisiti che possono essere mantenuti in vigore o istituiti in futuro, elencati dall’art.
15, rientrano:
1) le restrizioni quantitative e territoriali;
2) gli obblighi del prestatore di avere un determinato statuto giuridico;
3) gli obblighi relativi alla detenzione del capitale di una società;
4) i requisiti che riservano l’accesso ad alcune attività di servizi a prestatori particolari per la
natura specifica dell’attività;
5) il divieto di disporre di più stabilimenti sullo stesso territorio nazionale;
6) i requisiti che stabiliscono un numero minimo di dipendenti;
7) le tariffe obbligatorie minime e/o massime che il prestatore deve rispettare;
8) l’obbligo per il prestatore di fornire, oltre al suo servizio, altri servizi specifici.
Infine, la direttiva ha richiesto agli Stati membri di inviare alla Commissione europea, una volta
scaduto il suo termine di recepimento, una relazione contenente l’indicazione dei regimi di
autorizzazione, di cui all’art. 9, e dei requisiti che hanno mantenuto in vigore, di cui all’art. 15, con
la relativa motivazione.

15. Segue: LE DIRETTIVE IN MATERIA SOCIETARIA

Per la materia societaria, l’art. 50, n. 2, lett. g, TFUE attribuisce al Parlamento europeo, al
Consiglio e alla Commissione il compito di coordinare, ove occorra e “al fine di renderle
equivalenti” , le garanzie che sono richieste alle società a tutela degli interessi dei soci e dei terzi. E
ciò evidentemente al fine di facilitare e, in sostanza, rendere effettivo il diritto di stabilimento così
come previsto e disciplinato dall’art. 49 e dall’art. 54 del Trattato.
Lo sforzo di coordinamento e di armonizzazione del diritto societario ha portato all’adozione di
numerose direttive sulla costituzione, la fusione e la struttura della società ma anche su aspetti
specifici di non poco rilievo. Le direttive principali sono:
141
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 prima direttiva, n. 68/151/CEE (1968) che investe principalmente la pubblicità degli atti
sociali e disciplina alcuni casi di invalidità dell’atto costitutivo;
 seconda direttiva, n. 77/91/CEE (1976) che riguarda per le sole s.p.a., le garanzie per soci e
terzi relativamente alla costituzione, alla salvaguardia e alle modifiche del capitale sociale;
stabilisce la distribuzione dei dividendi e dell’acquisto di azioni proprie;
 terza direttiva, n. 78/855/CEE (1978) che riguarda le fusioni delle s.p.a.;
 sesta direttiva, n. 82/891/CEE (1982) relativa alle scissioni delle s.p.a.;
 quarta direttiva, n. 78/660/CEE (1978) e settima direttiva, n. 83/349/CEE (1983)
rispettivamente sui conti annuali delle società di capitali e sui conti consolidati dei gruppi;
 ottava direttiva, n. 84/253/CEE (1984) sull’abilitazione delle persone incaricate del
controllo di legge dei documenti contabili, abrogata dalla direttiva 2006/43/CE relativa alle
versioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati;
 undicesima direttiva, n. 89/666/CEE (1989) sulla pubblicità delle succursali create in uno
Stato membro da alcuni tipi di società soggette al diritto di un altro Stato membro;
 dodicesima direttiva, n. 89/667/CEE (1989) sulle s.r.l. con socio unico.
Di sicuro rilievo è anche la direttiva concernente le OPA (offerte pubbliche di acquisto), che si
colloca in un contesto di coordinamento, più generale ed in corso di realizzazione, delle garanzie a
tutela dei soci e dei terzi.
Infine, va ricordato il regolamento del Consiglio n. 2137/85 relativo all’istituzione del Gruppo
Europeo di Interesse Economico (GEIE), che consente la nascita di gruppi europei di cooperazione
tra imprese, senza che queste perdano la loro identità. Le sue caratteristiche principali sono:
- i componenti devono essere almeno 2 ed avere l’attività principale o l’amministrazione in
Paesi membri diversi;
- la sede deve essere stabilita nell’UE e nel luogo in cui è fissata l’amministrazione centrale
oppure in quello in cui uno dei membri ha l’amministrazione centrale;
- l’attività del Gruppo è imputata ai singoli membri, anche per la divisione dei profitti e delle
perdite;
- il regime è quello della responsabilità illimitata e solidale dei membri per tutte le
obbligazioni assunte dal Gruppo, fino a 5 anni dopo lo scioglimento di esso.

16. LA LIBERTÀ DI PRESTAZIONE DEI SERVIZI.


CAMPO DI APPLICAZIONE PERSONALE E MATERIALE DELLA DISCIPLINA

La libertà di circolazione dei lavoratori autonomi e delle società all’interno dell’UE è completata
dalla disciplina sulla libera prestazione dei servizi, prevista dagli artt. 56-62 TFUE. A differenza
dello stabilimento, che si traduce nel diritto dei cittadini di uno Stato membro di esercitare in modo
continuativo e permanente la propria attività in un altro Stato membro, la prestazione dei servizi
comporta l’esercizio solo temporaneo ed occasionale di un’attività non salariata in un altro Stato
membro. Occorre al riguardo tener presente che la posizione dei cittadini e delle società che si
avvalgono della libera prestazione dei servizi non è paragonabile a quella dei soggetti stabiliti,
poiché nel complesso gli obblighi imposti a questi ultimi sono ben più rigidi di quelli che gravano
sui primi. Infatti, a differenza del prestatore e del destinatario del servizio, che conservano il loro
legame naturale con lo Stato di origine, invece il soggetto stabilito viene ad integrarsi
nell’ordinamento dello Stato ospitante e a soggiacere in modo più intenso alle sue norme. Così si
comprende come mai la disciplina dei servizi, prevista dal Trattato, sia piuttosto sintetica, infatti si
limita a definire i principi essenziali della materia, affidando invece alle istituzioni dell’Unione il
compito di emanare gli atti a realizzare la liberalizzazione delle attività di servizi ed a facilitarne la
circolazione tra gli Stati. L’art. 56 TFUE prevede che le restrizioni alla libera prestazione dei
servizi, all’interno dell’UE, siano vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri, stabiliti in
142
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

uno Stato membro diverso da quello destinatario della prestazione. I prestatori beneficiari della
disciplina sulla libera prestazione dei servizi sono, innanzitutto, le persone fisiche che hanno la
cittadinanza di uno Stato membro e che sono stabilite in un Paese dell’UE (art.56); quindi tale
disciplina riguarda solo i cittadini dell’Unione che siano anche già stabiliti nell’Unione. Quindi,
rispetto al diritto di stabilimento esercitato a titolo principale, il Trattato richiede alle persone fisiche
una condizione ulteriore per usufruire del regime di libera prestazione dei servizi, a garanzia che il
beneficiario abbia un legame reale e non solo formale con un Paese membro. L’art. 56 , 2° comma,
prevede che la libertà di prestazione di servizi possa essere esclusa, con la procedura legislativa
ordinaria, anche ai prestatori di servizi cittadini di Paesi terzi e stabiliti all’interno dell’Unione: ma
tale possibilità non si è finora mai realizzata.
In ogni caso, tra i beneficiari non ci sono solo le persone fisiche, ma anche le persone giuridiche
costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale,
l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione. La disciplina sui
servizi investe tutte le attività configurabili come attività economiche che rivestano il carattere di
una prestazione di servizi retribuita. Pertanto rientrano nel campo di applicazione, quando non
ricorrano le condizioni del rapporto di lavoro stabile e subordinato, anche discipline sportive quali il
ciclismo e i calciatori professionisti.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 58, n. 1, TFUE sono escluse dal campo di applicazione materiale della
disciplina sui servizi le attività relative al settore dei trasporti, in quanto sottoposte allo specifico
regime previsto per tali attività dal Trattato. Una parziale eccezione è poi prevista in merito ai
servizi bancari, assicurativi e finanziari in genere, per la loro specificità e contiguità con la materia
dei trasferimenti di capitali: infatti per essi è stato previsto un processo di liberalizzazione specifico,
da attuarsi in armonia con la liberalizzazione progressiva della circolazione dei capitali. Infine,
come per lo stabilimento, sono esclusi dal campo di applicazione, le attività che nello Stato ospite
partecipano all’esercizio dei pubblici poteri, e sono ammesse le restrizioni dovute a ragioni di
ordine pubblico, di pubblica sicurezza di sanità pubblica.

17. NOZIONE E CARATTERISTICHE DELLA PRESTAZIONE DEI SERVIZI:


DEFINIZIONE DI SERVIZIO E DIFFERENTI IPOTESI DI PRESTAZIONE

Il «servizio», come risulta dagli artt. 56 e 57 TFUE, si identifica con un’attività di natura non
subordinata fornita, normalmente contro remunerazione, da un prestatore stabilito in uno Stato
membro diverso da quello in cui la prestazione deve essere eseguita.
Dunque in primo luogo, occorre che si tratti di una prestazione effettuata, almeno in via di
principio, dietro retribuzione; al riguardo la giurisprudenza della Corte ha fornito alcune
precisazioni, anzitutto nel senso che la retribuzione va identificata con il corrispettivo della
prestazione, generalmente convenuto tra il prestatore e il destinatario del servizio. L’art. 57 del
Trattato non richiede che il corrispettivo sia pagato direttamente da coloro che usufruiscono del
servizio. In questa previsione rientrano anche le prestazioni mediche, dispensate in ambito
ospedaliero o meno, mentre si è escluso che rientrasse l’insegnamento impartito nell’ambito del
sistema nazionale della pubblica istruzione, in quanto è un’attività svolta dallo Stato non a fini di
lucro, ma per adempiere ai propri compiti educativi, nonché finanziata dal bilancio pubblico e non
dai genitori.
In secondo luogo, la nozione di servizio è definita in modo residuale, infatti l’ art. 57 ne contiene
una formulazione al negativo, in quanto si riferisce alle prestazioni che non siano regolate dalle
disposizioni sulla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. In sostanza, la nozione di
servizio comprende ogni attività economicamente rilevante che si traduca principalmente in una
prestazione e non in uno scambio di beni. Rispetto al diritto di stabilimento, le disposizioni sui
servizi risultano “residuali”. Nel marcare il confine tra le 2 libertà, la Corte di Giustizia ha posto
l’accento sul carattere temporaneo ed occasionale che contraddistingue la prestazione di servizi
rispetto allo stabilimento; carattere che va valutato in relazione alla durata, frequenza, periodicità e
143
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

continuità della prestazione. Pertanto, rientrano nella nozione di servizio anche attività la cui
prestazione si estende nel tempo per un periodo prolungato e prestazioni che un operatore
economico stabilito in uno Stato membro fornisce in modo più o meno frequente e regolare, anche
per un periodo prolungato, a persone stabilite in uno o più altri Stati membri (es. attività di
consulenza retribuita). Costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi ogni divieto o
impedimento al trasferimento dei mezzi finanziari necessari all’esecuzione della prestazione, e al
pagamento della prestazione.
In terzo luogo, è necessario il carattere transfrontaliero della prestazione, nel senso che il
prestatore deve essere stabilito in un Paese diverso da quello in cui risiede il destinatario o che,
comunque, deve trattarsi di una situazione i cui elementi non si esauriscano all’interno di un solo
Stato membro. I casi tipici sono, ad es., quello del libero professionista che svolge un’attività di
consulenza o di progettazione in uno Stato membro diverso da quello in cui ha il suo studio; quello
dell’albergatore che ospita turisti stranieri; quello della società di assicurazioni che assicura un bene
localizzato in un altro Paese membro; quello delle trasmissioni televisive che raggiungono
telespettatori in uno Stato diverso da quello di emissione; quello della banca che offre un servizio in
un Paese diverso da quello in cui è situata. Come si evince dagli es., le ipotesi in cui si traduce il
carattere transfrontaliero della prestazione sono diverse:
1. può aversi uno spostamento del prestatore del servizio in uno Stato membro diverso da
quello in cui è stabilito, precisamente nel Paese del destinatario della prestazione, ipotesi
espressamente prefigurata dall’art. 57 del Trattato (ad es. medico che va a curare un
paziente che risiede in un altro Paese membro);
2. può aversi uno spostamento del destinatario del servizio nello Stato in cui è stabilito il
prestatore (ad es. turista che usufruisce di tutti i servizi nel Paese in cui si reca);
3. né il prestatore né il destinatario si spostano in uno Stato membro diverso da quello in cui
sono stabiliti: a spostarsi è solo il servizio (ad es. servizi finanziari, bancari e assicurativi);
4. può aversi che il destinatario della prestazione e il prestatore del servizio sono stabiliti nello
stesso Stato membro ed è solo il prestatore a spostarsi oppure si spostano entrambi ed
insieme per raggiungere il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita (ad es. gruppi di
turisti, destinatari del servizio, e le rispettive guide, prestatori del servizio, provenienti da
uno stesso Stato membro si spostano insieme per raggiungere il luogo in cui la prestazione
deve essere eseguita).

18. IL REGIME DELLA LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI: A) LE MISURE


DISCRIMINATORIE

La disciplina materiale della libera prestazione dei servizi è anzitutto fondata sul divieto di
discriminazioni in base alla nazionalità. L’art. 57, ultimo comma, precisa che «il prestatore può,
per l’esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato
membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini».
Tuttavia, il Trattato non si limita a prescrivere il principio del trattamento nazionale, infatti l’art. 56,
1° comma, non vieta unicamente le discriminazioni basate sulla nazionalità, ma più in generale le
«restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione nei confronti dei cittadini degli
Stati membri stabiliti in un Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione». A
ciò si aggiunga che, in base all’art. 61 TFUE, fino a quando permangono negli Stati membri
restrizioni alla libera prestazione dei servizi, «ciascuno degli Stati membri le applica senza
distinzione di nazionalità o di residenza a tutti i prestatori di servizi contemplati dall’art. 56, 1°
comma».
Quanto ai tempi e ai modi della liberalizzazione, anche in materia di servizi il Trattato originario
aveva previsto la consueta gradualità, nel senso che tale obiettivo doveva essere raggiunto entro la
fine del periodo transitorio. Era previsto il consueto obbligo di standstill, imposto agli Stati membri,
nonché il compito affidato alle istituzioni comunitarie di adottare, da un lato, un Programma
144
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Generale e direttive volte ad eliminare le restrizioni esistenti, dall’altro, direttive per il


riavvicinamento delle disposizioni nazionali ed il reciproco riconoscimento dei diplomi.
L’assenza di intervento normativo ritardava tuttavia i tempi della liberalizzazione, impedendo così
ai cittadini comunitari la possibilità di avvalersi pienamente della libertà in questione. Pertanto, in
tale contesto, è stata la giurisprudenza della Corte a rivelarsi determinante: infatti, nella sentenza
Van Binsbergen, la Corte rilevò che l’applicazione dell’art. 56 , subordinata nel periodo transitorio
all’emanazione di direttive, non è più sottoposta ad alcuna condizione; ne consegue che gli artt. 56
e 57 TFUE «hanno efficacia diretta e possono venir fatti valere dinanzi ai giudici nazionali, almeno
nella parte in cui impongono la soppressione di tutte le discriminazioni che colpiscono il prestatore
di un servizio a causa della sua nazionalità o della sua residenza in una Stato diverso da quello in
cui il servizio viene fornito».
Il 1° aspetto rilevante del regime della libera prestazione dei servizi risiede proprio nel principio del
trattamento nazionale che ha indotto la Corte ad affermare l’effetto diretto degli artt. 56 e 57
TFUE, in quanto impongono un obbligo preciso e incondizionato, cioè abolire tutte le
discriminazioni fondate sulla nazionalità o la residenza del prestatore. Il Trattato di Amsterdam ha
preso atto del superamento della disciplina transitoria, sostituendo la previsione originaria della
graduale soppressione, con la prescrizione pura e semplice del divieto di restrizioni alla libera
prestazione dei servizi.
Il 2° aspetto rilevante del regime di libera prestazione dei servizi è dato dalla portata sostanziale e
non solo formale del divieto di restrizioni discriminatorie. Ciò vuol dire che sono vietate anche
quelle restrizioni che, pur non discriminatorie formalmente, di fatto si risolvono in una restrizione
per gli stranieri, spesso più vistosa. Tipico è il requisito della residenza, in quanto condizione spesso
richiesta per l’esercizio di determinate attività e che, se richiesta anche agli stranieri, di fatto ne
impedisce la prestazione di servizi. La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di una
normativa nazionale relativa all’esercizio della professione di avvocato, che richiedeva la residenza
nel Paese membro in cui doveva essere fornita la prestazione, ha affermato che la condizione di
residenza può equivalere a vanificare l’effetto utile dell’art. 56, il cui oggetto è quello di consentire
di svolgere temporaneamente l’attività a chi non risiede nel Paese membro in cui la prestazione è
fornita. Inoltre, è stata considerata incompatibile anche la normativa italiana che limitava ai cittadini
residenti in una determinata provincia (Bolzano) il diritto all’uso della lingua tedesca nei processi,
escludendo i cittadini di lingua tedesca che appartengono ad altri Paesi dell’Unione e che
beneficiano della libera prestazione di servizi. Infatti, la giurisprudenza della Corte è orientata nel
senso che costituiscono una violazione degli art. 56 e 57 «non solo le discriminazioni palesi basate
sulla cittadinanza del prestatore, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che,
sebbene basata su criteri in apparenza neutri, produca in pratica lo stesso risultato» (ad es. l’obbligo
di versare la quota di contributi a carico del datore di lavoro che effettui una prestazione di servizi,
in quanto esteso alle imprese stabilite in un altro Paese dell’Unione e qui sottoposte agli obblighi
contributivi dei datori di lavoro: in tale ipotesi, infatti, il pagamento dei contributi si risolve in un
onere economico supplementare per i datori di lavoro stranieri, essendo questi ultimi cmq tenuti al
pagamento degli stessi contributi già nel Paese di stabilimento).

19. Segue: B) LE MISURE INDISTINTAMENTE APPLICABILI

Le restrizioni alla libertà di prestazione dei servizi all’interno del mercato comune non si
esauriscono con le violazioni del divieto di discriminazione. Infatti, il principio del trattamento
nazionale ha un valore non assoluto, ma relativo perché, a differenza di quanto avviene nello
stabilimento, nella prestazione di servizi il “contatto” con la comunità territoriale in cui la
prestazione è servita, è solo occasionale e temporaneo. La conseguenza è che il trattamento
nazionale è solo il parametro minimo della legittimità delle restrizioni, ma non sempre sufficiente a
renderle compatibili con quanto richiesto dal diritto dell’UE. In altre parole, il disposto degli artt.
56 e 57 TFUE non può significare che tutta la legislazione nazionale, applicabile ai cittadini di uno
145
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Stato membro e relativa normalmente all’attività permanente delle persone in esso stabilite, possa
essere applicata integralmente e allo stesso modo alle attività di carattere temporaneo ed
occasionale esercitate da persone stabilite in altri Stati membri. Pertanto, l’applicazione del
principio di libera prestazione dei servizi può tradursi in una situazione di maggior favore formale
per i prestatori di servizi stranieri rispetto ai cittadini e alle società del Paese in cui la prestazione è
fornita.
In definitiva, è incompatibile con l’art. 56 qualsiasi restrizione imposta per il motivo che il
prestatore è stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale la prestazione viene fornita.
Infatti, come precisato nella sentenza Sager, l’art. 56 richiede «la soppressione di qualsiasi
restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli
altri Stati membri, allorché essa sia tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del
prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi». L’art.
56 osta all’applicazione di qualsiasi normativa nazionale che abbia l’effetto di rendere la
prestazione dei servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi puramente interna
ad uno Stato membro. Sulla base di tale approccio, sono state dichiarate in contrasto con la
disciplina in questione, ad es., le normative che richiedono il possesso di una particolare qualifica
professionale alle guide che si spostano in un altro Stato membri insieme a gruppi di turisti, gli uni e
gli altri provenienti da uno stesso Stato membro.

20. Segue: C) LE CONDIZIONI SPECIFICHE IMPOSTE AL PRESTATORE E


GIUSTIFICATE DALL’INTERESSE GENERALE

Va anzitutto sottolineato che tra le misure distintamente applicabili (cioè discriminatorie) e quelle
indistintamente applicabili c’è una differenza sostanziale sul piano delle eccezioni consentite. Le
prime, infatti, sono compatibili solo se possono farsi rientrare in una deroga espressamente
prefigurata dal trattato: ad es. dall’art. 52 cui rinvia l’art. 62 TFUE, per motivi di ordine pubblico,
di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Per le seconde, invece, la Corte ha comunque insistito sul
carattere eccezionale delle possibilità di derogare al principio della libera prestazione dei servizi.
Essa ha infatti affermato che la libertà in questione, in quanto principio fondamentale del Trattato,
può essere limitata unicamente:
 da normative nazionali giustificate dall’interesse generale e che si applichino a ogni persona
fisica o giuridica che eserciti una determinata attività sul territorio dello Stato ospitante;
 nella misura in cui tale interesse non sia salvaguardato dalle regole alle quali il prestatore è
sottoposto nello Stato membro in cui è stabilito;
 infine, se le normative nazionali sono obiettivamente necessarie per il raggiungimento dello
scopo perseguito (interesse generale) e a condizione che lo stesso risultato non possa essere
ottenuto mediante misure meno restrittive.
La Corte ha in definitiva applicato anche alla materia dei servizi la formula Cassis de Dijon
utilizzata in tema di misure restrittive degli scambi di merci. Nella sentenza Gouda, peraltro, la
Corte ha operato un’utile ricognizione esemplificativa delle “esigenze imperative connesse
all’interesse generale” in relazione alle quali misure nazionali restrittive sono state riconosciute
compatibili con il diritto dell’UE, tra cui norme professionali che tutelano i destinatari di un
servizio; la tutela della proprietà intellettuale; la tutela dei lavoratori e del consumatore; la
conservazione del patrimonio storico-artistico nazionale; la valorizzazione delle ricchezze
archeologiche, storiche e artistiche e la migliore divulgazione delle conoscenze al riguardo.
Nel caso Cipolla la Corte ha ricompreso la tutela dei consumatori e della buona amministrazione
della giustizia tra i motivi imperativi di interesse generale in grado di giustificare una restrizione
alla libera prestazione dei servizi, sempre che il provvedimento nazionale de quo sia idoneo a
garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vada oltre quanto necessario per
raggiungerlo. Comunque la Corte ha ritenuto ammissibile la restrizione di tale libertà se diretta a
146
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

soddisfare ragioni imperative di interesse generale e ha lasciato al giudice nazionale l’arduo


compito di stabilire se ed in che misura il divieto in questione potesse essere giustificato.
Nella sentenza Placanica, concernente il gioco d’azzardo, la Corte ha stabilito che la normativa
italiana comportava restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi a causa
del divieto penalmente sanzionato, in essa contenuto, di esercitare attività nel settore dei giochi
d’azzardo in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia, rilasciate dall’Italia. In
quest’occasione, la Corte ha escluso direttamente che il sistema italiano potesse essere giustificato
in virtù del perseguimento di interessi pubblici, quali la tutela del consumatore e la prevenzione
dell’incitazione dei cittadini ad una spesa eccessiva collegata al gioco, in presenza di una politica
espansiva dello Stato italiano nel settore dei giochi d’azzardo allo scopo di incrementare le entrate
fiscali. La Corte ha invece rimesso al giudice nazionale il compito di verificare se la normativa
rispondeva realmente all’obiettivo di prevenire l’esercizio delle attività nel settore dei giochi
d’azzardo per fini criminali o fraudolenti, e se anche le altre condizioni indicate dalla
giurisprudenza risultavano nella specie soddisfatte.
Di particolare rilievo è anche la sentenza Laval, relativa ad una prestazione transfrontaliera di
servizi effettuata con contestuale distacco di lavoratori nello Stato ospitante. La prestazione di
servizi risultava ostacolata da un’azione collettiva intrapresa da alcuni sindacati dei lavoratori di
tale Stato al fine di indurre il prestatore di servizi a corrispondere ai propri lavoratori distaccati la
retribuzione e le condizioni di lavoro ritenute necessarie ad evitare eventuali pratiche di social
dumping. La Corte ha precisato che il diritto di intraprendere un’azione collettiva, che ha come
scopo la protezione dei lavoratori dello Stato ospitante contro un’eventuale pratica di social
dumping da parte del prestatore di servizi, può costituire una ragione imperativa di interesse
generale tale da giustificare una restrizione ad una delle libertà fondamentali garantite dal Trattato.
Malgrado tale affermazione di principio, la Corte ha poi ritenuto, nel caso di specie, che l’art. 56
TFUE e la direttiva 96/71/CE, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di
servizi, ostassero all’azione collettiva intrapresa dal sindacato dei lavoratori, per il particolare
contesto normativo nazionale in cui quest’azione si inseriva.
Tuttavia dalle opinioni espresse fino ad oggi dalla Corte di giustizia si discosta la direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, precisamente nella parte in cui essa individua i
motivi che possono essere invocati dagli Stati membri per giustificare eventuali restrizioni alla
libertà di prestazione dei servizi rientranti nel suo campo di applicazione. Infatti, l’art. 16 di tale
direttiva, pur ribadendo che gli Stati membri non possono subordinare l’accesso ad un’attività di
servizi o l’esercizio della stessa sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i tradizionali
principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità, menziona, come possibili
giustificazioni delle restrizioni nazionali, unicamente le ragioni di ordine pubblico, di pubblica
sicurezza, di sanità pubblica e di tutela dell’ambiente. È indubbio che questa disposizione si
riferisca alle misure nazionali indistintamente applicabili e non a quelle discriminatorie, stante
l’espresso richiamo al principio di non discriminazione quale condizione che le restrizioni degli
Stati membri devono comunque rispettare per poter risultare lecite. Nessun dubbio sembra esserci
neppure sul fatto che, con l’art. 16, la direttiva servizi riduce drasticamente il numero e la tipologia
dei motivi imperativi di interesse generale che la Corte ha finora concesso agli Stati membri come
giustificazione di misure interne restrittive della libertà di prestazione dei servizi. In sostanza, l’art.
16 della direttiva dà luogo a 2 regimi diversi di deroghe alla libera prestazione dei servizi, con
riguardo alle misure nazionali indistintamente applicabili, che si distinguono essenzialmente in base
alla tipologia dei servizi considerati.
- Rispetto ai servizi che rientrano nel campo di applicazione della direttiva, gli Stati membri si
sono autolimitati, potendo d’ora in poi invocare esclusivamente motivi di ordine pubblico, di
pubblica sicurezza, di sanità pubblica e di tutela dell’ambiente a giustificazione delle loro
misure nazionali indistintamente applicabili.
- Rispetto ai servizi che sono esclusi dal campo di applicazione della direttiva, invece, gli
Stati membri conservano la possibilità di invocare tutte le esigenze imperative connesse
147
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

all’interesse generale finora individuate dalla Corte di giustizia o che saranno da questa
individuate in futuro.
La scelta dell’autolimitazione, operata dagli Stati membri con l’adozione della direttiva
2006/123/CE, favorisce una più ampia ed effettiva circolazione dei servizi tra i Paesi dell’Unione,
almeno per le attività che rientrano nel campo di applicazione della direttiva; è ciò è sicuramente un
bene, visto che così si rafforza la regola della libera prestazione dei servizi, riducendone le
eccezioni. Le novità introdotte dalla direttiva 2006/123/CE, sulle deroghe alla libera prestazione dei
servizi, non si limitano però solo all’art. 16; infatti, l’art. 17 aggiunge, alle 4 deroghe generali
previste dall’art. 16, 15 “ulteriori deroghe alla libera prestazione dei servizi”. Più precisamente, ai
sensi dell’art. 17 della direttiva è sottratta all’applicazione dell’art. 16 ed al principio della libera
prestazione dei servizi, in esso ribadito, una serie molto nutrita di materie e di servizi, che in gran
parte risultino già disciplinati da altre direttive o regolamenti specifici. Al riguardo va osservato
che:
1) il fatto che alcuni servizi rientrino fra le deroghe previste dall’art. 17 non implica
ovviamente che le disposizioni nazionali ad essi relative siano sottratte anche al rispetto
dell’art. 56 TFUE;
2) non applicandosi in toto l’art. 16 non vale, per le materie e i servizi elencati dall’art. 17, la
limitazione dei motivi imperativi di interesse generale prevista dall’art. 16. Per tali materie
varrà la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, salvo diversa previsione
contenuta in altri atti dell’UE.
Infine la direttiva servizi prevede una deroga specifica, al principio della libera prestazione dei
servizi, “per casi individuali”. Infatti, l’art. 18 stabilisce che, in deroga all’art. 16 ed a titolo
eccezionale, uno Stato membro può prendere, nei confronti di un prestatore stabilito in un altro
Stato membro, misure relative alla sicurezza dei servizi, quando risultano soddisfatte le seguenti
condizioni cumulative:
a) le disposizioni nazionali, che hanno assunto tali misure, non sono state oggetto di
armonizzazione a livello europeo, riguardante il settore della sicurezza dei servizi;
b) le misure proteggono maggiormente il destinatario del servizio rispetto a quelle che
adotterebbe lo Stato membro di stabilimento del prestatore in conformità alle sue
disposizioni nazionali;
c) lo Stato membro di stabilimento non ha adottato alcuna misura o ha adottato misure
insufficienti rispetto a quelle richiestegli dallo Stato di destinazione del servizio;
d) le misure risultano proporzionate.
In ogni caso, la stessa direttiva chiarisce che quanto consentito dall’art. 18 non pregiudica le
disposizioni che garantiscono la libertà di prestazione dei servizi o che permettono deroghe ad essa,
contenute in altri atti dell’Unione.

21. LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI: LA DISCIPLINA DEL TRATTATO DI


ROMA E LE DIRETTIVE DI ATTUAZIONE

Nella generale enunciazione dell’art. 3 del Trattato, sia prima che dopo le modificazioni apportate
dal Trattato di Maastricht, la libera circolazione dei capitali ha sempre trovato collocazione accanto
alla circolazione delle persone e dei servizi, nell’unica previsione della lettera c). Lo stesso dicasi
per l’art.14, in cui la circolazione dei capitali è uno degli elementi dello “spazio senza frontiere
interne”. Il Trattato di Maastricht ha modificato sensibilmente la disciplina originaria dei movimenti
dei capitali e dei pagamenti, a differenza di quella delle restanti libertà, che viceversa è rimasta
invariata. Ciò non può sorprendere più di tanto, visto che la previsione di un’unione monetaria e di
un rafforzato coordinamento delle politiche economiche ha ovviamente inciso profondamente in
148
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

quei settori del mercato comune che maggiormente risentivano della significativa autonomia che il
Trattato di Roma aveva lasciato ai singoli Stati membri in tema di politica economica e soprattutto
monetaria: principalmente la liberalizzazione dei servizi finanziari, bancari e assicurativi e dei
movimenti dei capitali.
A dare impulso alla prevista liberalizzazione furono 2 direttive dei primi anni ’60, con cui i
movimenti di capitali corrispondenti e funzionali all’esercizio delle libertà fondamentali (scambi di
merci e servizi, diritto di stabilimento) erano completamente liberalizzati, mentre agli Stati membri
restava solo la facoltà di controllare “la natura e la realtà” dei trasferimenti; dunque, se erano
previste autorizzazioni o simili, come era il caso dell’Italia, questa era dovuta e per nulla
discrezionale. Le due nozioni di movimenti di capitali e di pagamenti sono diverse: la prima si
riferisce alle operazioni finanziarie che si traducono in un investimento oppure in un’allocazione di
risorse senza collegamento con una prestazione o con scambi di beni o servizi; la seconda
comprende precisamente le controprestazioni in denaro degli scambi di beni o di servizi. In
definitiva, la disciplina comunitaria in tema di capitali tendeva a liberalizzare i trasferimenti di
valuta che fossero il corrispettivo di scambi in merci, servizi o capitali, e aveva definito
tassativamente i trasferimenti di capitali in senso proprio oggetto di liberalizzazione. Rimanevano
possibile oggetto di restrizioni consentite i movimenti di capitali che non avevano alcun riscontro in
scambi di merci o servizi, come la pura e semplice esportazione materiale di mezzi di pagamento
(c.d. hot money). Tra le pronunce della Corte, significativa è la sentenza Luisi e Carbone, dove la
Corte, dopo aver precisato che anche il turista, che si sposti in un altro Paese ed è per ciò stesso
destinatario di servizi, deve poter beneficiare della liberalizzazione, ne dedusse che i trasferimenti
di valuta per scopi turistici rientravano nella previsione sui trasferimenti di valuta corrispondenti e
necessari all’esercizio della libertà di prestazione di servizi e dunque liberalizzati.
In seguito, la Corte ha finito col dare una lettura più ampia e sistematica dell’intera disciplina dei
movimenti di capitali, precisandone lo scopo di garantire la più ampia libertà possibile e dunque di
eliminare tutti gli ostacoli, anche quelli che, pur non esaurendosi in formali autorizzazioni valutarie
e non pregiudicando l’operazione, costituiscono pur sempre un intralcio alla libera circolazione dei
capitali.

22. Segue: LA DISCIPLINA ATTUALE

La liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali si è realizzata con la direttiva n. 361/1988,
che ha concluso un processo iniziato nella metà degli anni ‘80 con un Programma di
liberalizzazione predisposto dalla Commissione, che aveva portato progressivamente
all’eliminazione anche delle misure di salvaguardia consentite ad alcuni Paesi, tra cui l’Italia. La
direttiva ha enunciato in termini generali ed incondizionati il principio di libertà dei movimenti dei
capitali, senza corrispondenza in una transazione commerciale o in una prestazione di servizi, con la
sola eccezione riguardante l’acquisto di case secondarie, oggetto di possibili restrizioni (la c.d.
deroga danese).
Significativo era poi l’art. 7 della direttiva che sanciva l’impegno degli Stati membri ad applicare lo
stesso grado di liberalizzazione anche ai movimenti di capitali con i Paesi terzi. Il Trattato di
Maastricht ha definitivamente sancito l’assetto raggiunto, perfezionandolo sotto il profilo
sistematico in modo anche più razionale, in particolare mettendo insieme capitali e pagamenti fino
ad allora disciplinati in settori diversi. Infatti, il capo 4° del Trattato, così come modificato, è
dedicato a “Capitali e pagamenti”, uniti nell’unica disposizione liberalizzatrice contenuta nell’art.
56, n. 1, che ricalca la direttiva 361/88, sancendo che «nell’ambito delle disposizioni previste dal
presente Capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra
Stati membri e paesi terzi». La stessa formula è utilizzata subito dopo per i pagamenti (art. 56, n.
2). Dunque il principio sancito dall’art. 56 è che sono abolite anche tutte le restrizioni ai movimenti
di capitali e ai pagamenti tra Stati membri e tra questi e Stati terzi, anche quelle indirette o
dissimulate in misure in apparenza indistintamente applicabili. In breve, sono da considerare
149
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

restrizioni non consentite ai movimenti di capitali tutte quelle misure che di diritto o di fatto
scoraggiano investimenti o altri tipi di movimenti di capitali (come i prestiti) in altri Paesi membri.
Le uniche deroghe ammesse a questo principio fondamentale di libera circolazione sono quelle
contemplate dagli artt. 57 e 58:
1) la prima (c.d. grandfather clause) si riferisce alle restrizioni nei rapporti con gli Stati terzi,
nazionali o comunitarie, e relative a investimenti diretti, inclusi gli investimenti immobiliari,
lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei
mercati finanziari (art. 57, n. 1);
2) la seconda (c.d. exception clause), invece, salvaguarda alcune prerogative degli Stati
membri in materia tributaria, fiscale, di vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, di
controllo amministrativo o statistico, di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. Quindi non
è pregiudicato il diritto degli Stati membri di applicare normative tributarie che distinguano i
soggetti in base alla residenza o al collocamento del capitale (art. 58, lett. a).
Le misure di controllo degli Stati membri non possono, perciò, avere l’effetto di ostacolare i
movimenti di capitali conformi al diritto comunitario. A quest’ultimo proposito, si rileva che la
prassi di alcuni Stati membri di subordinare ad una previa autorizzazione o addirittura di vietare del
tutto i trasferimenti intracomunitari di valuta, ad es. di banconote, era già incompatibile con la
richiamata direttiva, così come oggi è incompatibile con l’art. 58 del Trattato, a meno che al dovuto
test di proporzionalità non risulti effettivamente necessaria ai fini di ordine pubblico o di sicurezza.
Un’ipotesi particolare, che ha dato luogo ad uno specifico contenzioso, è quella relativa alla c.d.
golden share, che in sostanza traduce il possesso di tale quota azionaria “pesante” in un diritto di
veto che lo Stato-azionista conserva per sé rispetto ad alcune deliberazioni di gestione della società
ritenute rilevanti per gli interessi generali del Paese.
È stata ritenuta incompatibile la golden share del governo italiano nelle società ENI e Telecom
Italia; in questo caso, la Corte si è limitata a prendere atto della mancata contestazione
dell’inadempimento da parte del governo italiano. Il principio sancito dalla Corte è che un regime
simile, secondo lo schema comune delle 4 libertà fondamentali, costituisce una restrizione alla
libera circolazione dei capitali ed insieme alla libertà di stabilimento, nella misura in cui, pur non
essendo discriminatoria, limita le possibilità di acquisto di azioni e scoraggia gli investitori di altri
Paesi membri. Questa restrizione, se indistintamente applicabile, può in via eccezionale essere
consentita solo se:
- persegua un obiettivo di interesse generale giustificato,
- sia accompagnata da criteri e modalità conosciuti in anticipo per consentire un controllo
giurisdizionale adeguato e
- sia proporzionata al fine perseguito.
Bisogna precisare, però, che il rafforzamento della struttura concorrenziale di un mercato non
costituisce una valida giustificazione delle restrizioni alla libera circolazione dei capitali; perciò la
Corte ha censurato la normativa italiana che dispone la sospensione automatica dei diritti di voto
relativi a partecipazioni superiori al 2% del capitale di imprese operanti nei settori dell’elettricità e
del gas, quando tali partecipazioni siano acquisite da imprese pubbliche non quotate in borsa e
titolari di una posizione dominante nel proprio mercato nazionale. In definitiva, anche per le
restrizioni ai movimenti di capitali viene in rilievo l’eccezione fondata su “esigenze imperative” e
simili, richiamata per le restrizioni frapposte dagli Stati membri alle altre libertà sancite dal Trattato
e consacrata dalla sentenza Cassis de Dijon in materia di scambi di merci e poi estesa alle altre
libertà. Resta ferma, peraltro, la circostanza che la libera circolazione dei capitali è strettamente
funzionale all’esercizio effettivo delle altre libertà e, in particolare, del diritto di stabilimento, che
secondo la Corte si dovrebbe ritenere comunque prevalente quando l’acquisto di partecipazioni
conferisce la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle decisioni dell’impresa.
Il Trattato prevede poi delle misure di salvaguardia comunitarie. Per il caso che movimenti di
capitali con Paesi terzi causino o minaccino di provocare difficoltà gravi per il funzionamento
dell’Unione economica e monetaria, il Consiglio può adottare misure nei confronti di Paesi terzi, a
150
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

maggioranza qualificata, su proposta della Commissione e consultata la BCE (art. 59), nonché
eventuali misure di urgenza collegate alle più generali misure rientranti nella politica estera e di
sicurezza comune di cui all’art. 301 del Trattato. In proposito, uno Stato membro può adottare
unilateralmente misure solo se urgenti e salvo diversa delibera successiva del Consiglio (art. 59, n.
2).
Infine, un forte impulso al processo di realizzazione di un mercato unico dei capitali è stato dato
dall’adozione di un complesso piano di regolamentazione dei servizi finanziari (c.d. PASF,
sostituito poi da un Libro Bianco sulla politica dei servizi finanziari 2005-2010), che riguarda i
servizi di investimento, i settori bancario e assicurativo, nonché importanti proposte di riforma del
diritto societario.

CAPITOLO 6
LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
APPLICABILE ALLE IMPRESE

1. IL REGIME DELLA CONCORRENZA NELL’UE

La sana concorrenza tra le imprese che operano nel mercato comune è uno degli obiettivi primari
dell’Unione e al tempo stesso uno degli strumenti più efficaci per mantenere e consolidare l’assetto
unitario del mercato. Più volte è stato ribadito che la sana concorrenza «implica l’esistenza sul
mercato di una concorrenza efficace (workable competition), cioè di un’attività concorrenziale
sufficiente a far ritenere che siano rispettate le esigenze fondamentali e conseguite le finalità del
Trattato e, in particolare, la creazione di un mercato unico che offra condizioni analoghe a quelle di
un mercato interno».
Sul punto, l’art. 3, par. 3, TUE, l’art. 113 TFUE e il Protocollo n. 27, così come introdotti dal
Trattato di Lisbona, sembrano suggerire la strumentalità delle regole di concorrenza rispetto
all’obiettivo prioritario della realizzazione del mercato interno.
Sicuramente i valori cui s’ispira l’intero sistema giuridico dell’Unione restano quelli liberali
dell’economia di mercato, nel rispetto dei quali il grande mercato europeo deve consentire agli
imprenditori di competere tra loro ad armi pari e sulla base delle rispettive capacità e possibilità, ed
ai consumatori di scegliere i prodotti e i servizi che ritengano migliori e dove siano più convenienti.
Dunque, il regime della concorrenza previsto dal Trattato CE e confermato dal Trattato di Lisbona,
è funzionale all’obiettivo di integrare i diversi mercati nazionali in un mercato unico con
caratteristiche analoghe a quelli interni dei Paesi membri. Ciò vuol dire che la politica di tutela della
concorrenza non rimane isolata rispetto ad altri valori ed altre politiche promosse dall’Unione, tra
cui la politica di coesione sociale, di ricerca e sviluppo e quella ambientale. Pertanto non è escluso
che alcune restrizioni della concorrenza siano tollerabili, purché finalizzate al raggiungimento di
altri obiettivi del Trattato; quindi, in forza dell’art. 101, n. 3, è possibile accordare deroghe quando
le restrizioni si rivelino idonee a contribuire allo sviluppo armonioso delle attività economiche
nell’insieme della Comunità conformemente all’art. 3 TUE. Il sistema, che dava alla sola
Commissione la competenza a concedere esenzioni, è stato radicalmente modificato a partire dal
maggio 2004:
- con l’attribuzione della competenza anche alle autorità di concorrenza e alle giurisdizioni
degli Stati membri dell’applicazione non solo dell’art. 101, n. 1, e dell’art. 102 del Trattato,
ma anche dell’art. 101, n. 3;
- con l’introduzione di un regime c.d. di eccezione legale, in base al quale le intese restrittive
della concorrenza ai sensi dell’art. 101, n. 1, sono lecite e valide ab initio, senza la necessità
di una preventiva decisione, quando siano soddisfatte le condizioni previste dal n. 3.
L’azione dell’Unione si è sviluppata in questo campo in più direzioni e con strumenti diretti ed
indiretti:

151
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

 alcuni di essi riguardano i comportamenti delle imprese e tendono ad evitare che, attraverso
strategie concordate, siano vanificati gli effetti della libera circolazione delle merci e dei
servizi e comunque alterate le condizioni di concorrenza determinate esclusivamente dalla
capacità imprenditoriale di ciascuna impresa e dal libero esplicarsi delle dinamiche
concorrenziali sul mercato;
 altri mirano ad evitare che la concentrazione di potere economico e commerciale produca
analoghe conseguenze;
 altri ancora mirano ad evitare che le imprese di un determinato Stato membro si vengano a
trovare in una situazione privilegiata e di minori costi di produzione per effetto di una
politica di intervento pubblico che, favorendo determinate imprese o produzioni, finisca con
l’avere più ampi effetti anticoncorrenziali; ciò in particolare attraverso la concessione di
aiuti o l’uso dello strumento fiscale.
In primo luogo, in virtù del principio di cooperazione (art. 4, par. 3, TUE) gli Stati membri sono
tenuti a non adottare e a non mantenere misure legislative o regolamentari suscettibili di eliminare
l’effetto utile delle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese.
In secondo luogo, rileva la disposizione più specifica contenuta nell’art. 106: gli Stati membri non
adottano nei confronti delle imprese pubbliche o titolari di diritti esclusivi o speciali alcuna misura
contraria alle norme del Trattato, in particolare a quelle sulla concorrenza.
In terzo luogo, completano la disciplina “diretta” della concorrenza le norme sugli aiuti di Stato
contenute negli artt. da 107 a 109 del Trattato.
La sfera di applicazione materiale delle norme europee sulla concorrenza si estende a tutte le attività
economicamente rilevanti, che non vi siano espressamente sottratte. Sono sottoposte a tale
disciplina non solo le attività di produzioni di beni, ma anche quelle di prestazioni di servizi,
comprese le attività del settore bancario e di quello delle assicurazioni e il settore dei trasporti, che
alcuni ritenevano estranee alla sfera di applicazione. Infine, anche al settore carbosiderurgico, che
era soggetto alle norme di concorrenza del Trattato CECA fino alla sua scadenza (avvenuta nel
2002), sono oggi applicabili le norme UE. Invece, in presenza di determinate condizioni, possono
non rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 101, gli accordi collettivi di lavoro, stipulati dalle
parti sociali in vista degli obiettivi socialmente rilevanti, quali il miglioramento delle condizioni di
occupazione e di lavoro, nella misura in cui tali obiettivi sarebbero altrimenti compromessi. È una
giurisprudenza che si è sviluppata soprattutto intorno all’ipotesi di fondi pensioni complementari o
comunque meccanismi previdenziali o assistenziali, il cui funzionamento ed i cui effetti possono
essere disciplinati da accordi collettivi e misure legislative. Inoltre, possono essere sottratte
all’applicazione delle regole di concorrenza, le attività relative alla produzione ed al commercio dei
prodotti agricoli, oggetto della deroga espressa di cui all’art. 42 TFUE, secondo cui le regole di
concorrenza sono applicabili alla produzione e al commercio di prodotti agricoli, unicamente nella
misura determinata dal Consiglio e dal Parlamento nei tempi e nelle modalità stabiliti dall’art. 43
TFUE. Con il regolamento 1184/06, il Consiglio ha dichiarato inapplicabile l’art. 101 agli accordi
o decisioni o pratiche concordate che costituiscono parte integrante di un’organizzazione nazionale
di mercato o che siano necessari al perseguimento degli obiettivi di cui all’art. 39 TFUE;
attribuendo poi alla Commissione la competenza esclusiva ad «accertare, mediante decisione da
pubblicarsi, per quali accordi, decisioni e pratiche» ricorrano le condizioni della deroga. La generale
applicabilità delle regole comunitarie di concorrenza ai prodotti agricoli incontra dunque dei limiti
riconducibili alla necessità di non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi della politica
agricola comune. La prima deroga al divieto di cui all’art. 101, n. 1, è ormai di portata molto
limitata, sia perché sono state create per la maggior parte dei prodotti delle organizzazioni comuni
di mercato, che hanno sostituito quelle nazionali, sia perché le organizzazioni nazionali di mercato
devono comunque essere conformi alle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione
delle merci. Di rilievo è invece la deroga stabilita dall’art. 39 del Trattato, che, in quanto eccezione
ad una norma generale, è stata interpretata in modo restrittivo sia nella prassi della Commissione,
152
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

che nella giurisprudenza della Corte e del Tribunale di 1° grado, secondo cui, per rientrare in tale
categoria, non è sufficiente che un determinato accordo tenda a realizzare gli obiettivi dell’art. 39,
ma occorre che esso rappresenti l’unico e migliore strumento a tale scopo: solo in questa
eventualità, un tale accordo può essere considerato necessario ai sensi di questa disposizione.
Tra gli accordi verticali, ai sensi della disciplina relativa a diverse organizzazioni comuni di
mercato, beneficiano di una parziale esenzione dalle regole di concorrenza gli accordi
interprofessionali. Tuttavia, sono contrari all’art. 101 gli accordi interprofessionali che portano alla
ripartizione dei mercati e alla fissazione dei prezzi oppure che producono effetti distorsivi della
concorrenza. Gli accordi tra i singoli operatori, cioè conclusi da un’impresa agricola o
un’associazione di produttori o una cooperativa, da un lato, e un distributore dall’altro, assumono
rilievo antitrust in virtù della loro idoneità a limitare l’accesso nel mercato e la concorrenza tra gli
operatori. Del pari, gli accordi di partnership tra produttori e distributori, che a volte possono
portare a strumenti importanti per migliorare la competitività del settore agricolo, sono da
considerare restrittivi della concorrenza se e quando si trasformano in accordi commerciali esclusivi
rispetto a prodotti specifici. Infine, è sottratto alle regole della concorrenza il settore della difesa e
della sicurezza nazionale. L’art. 346 TFUE consente agli Stati membri di non fornire informazioni
contrarie alle esigenze essenziali di sicurezza e di prendere le misure necessarie alla tutela di
interessi essenziali, connessi alla produzione ed al commercio di materiale bellico, armi, munizioni.
Lo Stato membro interessato e la Commissione possono trovare insieme le misure meno distorsive
della concorrenza, mentre la Corte può essere adita direttamente dagli Stati membri e dalla
Commissione in caso di uso improprio dei poteri consentiti in questo settore (art. 348 TFUE). In
definitiva, le norme del Trattato specificatamente indirizzate alle imprese sono quelle di cui agli
artt. 101 e 102, dedicati rispettivamente alle intese tra imprese e all’abuso di posizione dominante.
Sono norme dotate di effetto diretto e perciò azionabili dal singolo dinanzi al giudice nazionale,
nonché applicabili cumulativamente. Vanno ricordate anche le norme introdotte dal Consiglio, in
particolare il regolamento n.1/2003, che contiene le disposizioni più rilevanti ai fini dell’attuazione
dei principi degli artt. 101 e 102. Il regolamento n.1/2003:
- ha ridotto l’attività di controllo della Commissione solo ai casi più importanti;
- ha stabilito a carico delle autorità e delle giurisdizioni nazionali il potere-dovere di applicare
gli artt. 101 e 102 ai casi di rilevanza comunitaria;
- ha fissato criteri di cooperazione e di controllo relativi alle autorità ed alle giurisdizioni
nazionali;
- e infine ha chiarito il rapporto tra diritto antitrust comunitario e normative di concorrenza
degli Stati membri.

2. LA NOZIONE DI IMPRESA

La nozione di impresa utilizzata ai fini dell’applicazione delle norme a difesa della concorrenza è
una nozione alquanto ampia: essa comprende qualsiasi entità, persona giuridica o fisica, che svolga
un’attività economicamente rilevante, industriale o commerciale, o di prestazione di servizi,
compreso lo sfruttamento dell’opera di ingegno e l’esercizio di una professione liberale, compresa
l’attività dell’avvocato e del medico nonché un’attività artistica. Perciò l’art. 101 è applicabile alle
decisioni di un ordine professionale in quanto associazione d’imprese, o ancora, ad un’intesa tra
organizzatori di viaggi ed un agente. È associazione d’imprese anche la FIFA o la FIGC, per le
attività economicamente rilevanti dalla stessa svolte in connessione con l’organizzazione di una
manifestazione, sì che costituiscono accordi rilevanti ai sensi delle norme di concorrenza i contratti
conclusi dall’associazione con i distributori di biglietti di ingresso agli impianti o quelli conclusi
con le reti televisive per la trasmissione di avvenimenti sportivi. Nella nozione di impresa rientra
anche il gruppo, sia in senso negativo che l’art. 101 non si applica alle intese fra imprese dello
stesso gruppo che non godano di un’autonomia apprezzabile; sia nel senso positivo che il
comportamento del gruppo, in quanto entità economica considerata complessivamente e nelle
153
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

singole articolazioni, rileva ai fini della sussistenza di una posizione dominante. Ad es.: nel caso in
cui una società, pur dotata di personalità giuridica autonoma, sia interamente posseduta da altra
società, sussiste una presunzione semplice secondo cui la società madre esercita un controllo sulle
condotte commerciali dell’affiliata o che quest’ultima non agisca in modo autonomo per le scelte
sul mercato, imputabili alla stessa società madre. In realtà, ai fini dell’applicazione delle norme
sulla concorrenza non è neppure rilevante la forma giuridica assunta dall’impresa o le modalità di
finanziamento. Nel caso degli enti pubblici o degli organismi statali, si è partiti dal presupposto che
occorre distinguere tra le manifestazioni tipiche del potere statuale e quelle non tipiche: ad es. è
stata riconosciuta la natura d’impresa all’amministrazione dei monopoli di stato in Italia, nonostante
essa fosse, dal punto di vista giuridico, incorporata nella p.a. Invece è escluso dalla nozione
d’impresa, ai sensi e per gli effetti della disciplina comunitaria della concorrenza, un ente che
contribuisca alla gestione di un servizio pubblico di carattere sociale, la cui attività cioè sia svolta
secondo principi estranei alle leggi di mercato o ancora che agisca in veste di pubblica autorità,
avvalendosi di prerogative che esorbitano dal diritto comune, di privilegi, di poteri coercitivi sui
privati. È quindi escluso dalla nozione d’impresa un organismo di previdenza sociale di categoria, la
cui attività è ispirata al principio di solidarietà ed è esercitata senza fini di lucro; per gli stessi motivi
è escluso l’ente che gestisce il sistema nazionale di un Paese, garantendo la prestazione di servizi
sanitari gratuiti agli iscritti.

3. OGGETTO E CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ DEL DIVIETO DI CUI ALL’ART. 101:


L’ACCORDO, LA PRATICA CONCORDATA, LA DECISIONE DI ASSOCIAZIONE
D’IMPRESE

In base all’art. 101, sono vietati, in quanto incompatibili col mercato comune, «tutti gli accordi tra
imprese, tutte le decisioni di associazioni d’imprese e tutte le pratiche concordate che possono
pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune». L’intesa rilevante
ai fini della disciplina comunitaria riguarda i rapporti concorrenziali tra imprese, sia che queste si
trovino allo stesso stadio del processo economico, industriale o commerciale (rapporti orizzontali),
sia che si trovino a stadi diversi (rapporti verticali). Essa può assumere qualsiasi forma e può essere
anche implicita, essendo sufficiente che le imprese abbiano espresso la comune volontà di
comportarsi sul mercato in un determinato modo. In proposito, si è accolta una nozione funzionale
di intesa, di particolare ampiezza, che comprende tutti quei comportamenti di 2 o più imprese
finalizzati a realizzare iniziative comunque idonee ad alterare la concorrenza. La circostanza
necessaria e sufficiente a qualificare una fattispecie come intesa è la concertazione nell’attività di 2
o più soggetti altrimenti indipendenti sul mercato, quali che siano le forme attraverso le quali la
concertazione si realizza. Le ipotesi di intesa rilevante sono quelle dell’accordo, della pratica
concordata e della decisione di associazione di imprese.
La nozione di accordo è molto ampia e privilegia la sostanza rispetto alla forma: infatti basta che sia
manifestata l’intenzione comune di 2 o più imprese indipendenti a comportarsi sul mercato in un
modo piuttosto che in un altro. Dunque, può trattarsi di accordo scritto o verbale; ne è necessario
che l’accordo si traduca in un vero e proprio contratto, giuridicamente valido. Perciò sono
qualificati come accordi anche un accordo interprofessionale concluso nell’ambito di un ente
pubblico, un accordo verbale, un “gentlemen’s agreement”, un accordo transattivo di controversia
giudiziale, una circolare inviata dal produttore ai distributori e sottoscritta da questi ultimi. Secondo
la giurisprudenza costituiscono accordi anche le misure prese o imposte in modo apparentemente
unilaterale da un produttore, in quanto, inserendosi nell’ambito di rapporti contrattuali continuativi
con i propri rivenditori, apparivano accettate da questi ultimi e quindi sintomatiche di un’intesa tra
gli operatori interessati.
Le decisioni di associazioni d’imprese sono quelle, anche non vincolanti, adottate da
raggruppamenti d’imprese o sindacati professionali nei riguardi degli associati e che abbiano
154
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

l’effetto di alterare le condizioni della concorrenza; anche delle semplici raccomandazioni emanate
dall’associazione di categoria, dunque, la cui accettazione da parte delle imprese associate
destinatarie influisca in modo rilevante sulla concorrenza.
La pratica concordata è qualsiasi forma di comportamento coordinato tra imprese che, senza
tradursi in un vero e proprio accordo formale, rappresenti una cooperazione consapevole tra le
stesse a danno della concorrenza. È stato poi precisato che i criteri della cooperazione e
collaborazione non richiedono l’elaborazione di un vero e proprio piano, ma vanno intesi alla luce
della concezione inerente alle norme del Trattato in materia di concorrenza, secondo la quale ogni
operatore economico deve autonomamente determinare la propria condotta nel mercato comune,
anche riguardo alla scelta dei destinatari delle merci da lui offerte e vendute. Pur non escludendo il
diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente e secondo le loro convenienze al
comportamento dei concorrenti, l’esigenza di autonomia vieta però rigorosamente che fra gli
operatori stessi abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi lo scopo o l’effetto d’influire sul
comportamento tenuto sul mercato da un concorrente attuale o potenziale. Se poi la mera
partecipazione a riunioni o discussioni tra concorrenti non è di per sé idonea a dimostrare
l’esistenza di una concertazione tra le imprese, tuttavia ciò dà luogo ad una presunzione, fatta salva
la prova contraria il cui onere incombe agli interessati, che le imprese tengano conto dello scambio
di informazioni per decidere il loro comportamento sul mercato, tanto più se i contatti abbiano un
carattere regolare e si siano protratti per un lungo periodo di tempo. In definitiva, si vuole evitare
che tra le imprese interessate abbiano luogo contatti con lo scopo di “eliminare in anticipo ogni
incertezza relativa al futuro comportamento dei loro concorrenti”. La Corte ha poi precisato che la
nozione di pratica concordata implica, oltre alla concertazione fra le imprese, un comportamento
successivo alla concertazione stessa ed un nesso causale tra questi 2 elementi. Va precisato che la
concertazione non si può presumere quando il parallelismo di comportamento può spiegarsi
diversamente: esso rimane sempre un serio indizio, qualora porti a condizioni di concorrenza non
corrispondenti a quelle normali del mercato (ad es. ciò si verifica quando il comportamento
parallelo permette di stabilizzare i prezzi ad un livello diverso da quello che poteva risultare in
regime di libera concorrenza, nonché di cristallizzare le posizioni acquisite, a danno dell’effettiva
libertà di circolazione delle merci nel mercato comune e della libera scelta dei fornitori da parte dei
consumatori). È stato poi precisato che il parallelismo di comportamento non può essere considerato
prova di una concertazione tra imprese se non quando questa sia la sola spiegazione plausibile. La
pratica concordata che abbia un oggetto anticoncorrenziale integra una violazione del Trattato,
senza che occorra verificare la sussistenza anche di effetti anticoncorrenziali. Infatti lo scopo
dell’art. 101 è precisamente quello di scoraggiare anche la semplice idoneità a produrre effetti
competitivi. In ogni caso, l’esistenza effettiva di una concertazione vietata dal Trattato va verificata
in base a vari elementi, soprattutto di fatto, comprese alcune presunzioni, nonché attraverso alcune
valutazioni di documenti e ogni altro mezzo di prova. È chiaro che si tratta di valutazioni effettuate
sia dalla Commissione, nell’esercizio dei poteri che le ha attribuito il Trattato, che dai giudici
nazionali, nell’ambito della cooperazione con il giudice comunitario di cui all’art. 267 TFUE. In
particolare, la Commissione ha l’onere di provare la sussistenza della violazione e di produrre tutti
gli elementi idonei ad individuare la responsabilità di ciascuna impresa. L’intesa rilevante è quella
tra 2 imprese, non necessariamente comunitarie: ciò, da un lato, non esclude che pur nel concorso di
più imprese all’infrazione si possano individuare comportamenti di diversa gravità; dall’altro, la
diversità di forme di partecipazione all’infrazione non esclude la responsabilità di ogni impresa per
l’infrazione nel suo insieme. Infatti, non è escluso che un’intesa anticompetitiva possa articolarsi in
un accordo, in una pratica concordata oppure in una decisione di associazione d’imprese. In tal
caso, la giurisprudenza considera i comportamenti illegittimi sia come un’infrazione unica all’art.
101, sia come una pluralità di infrazioni. In particolare, l’accordo e la pratica concordata, che si
distinguono tra loro solo per l’intensità e la forma in cui si realizza il comportamento
anticoncorrenziale delle imprese, in presenza di determinate condizioni possono ben costituire
un’infrazione unica.
155
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Gli elementi che possono far rientrare la fattispecie nella sfera di applicazione del divieto sono 2, e
precisamente:
1) il pregiudizio al commercio tra gli Stati membri;
2) l’alterazione delle condizioni di concorrenza all’interno del mercato comune, nel senso che
l’intesa deve avere oggetto o effetti anticoncorrenziali.
Prima ancora, occorre che le imprese siano libere di determinare i loro comportamenti: gli artt. 101
e 102 trovano applicazione solo a fronte di comportamenti anticoncorrenziali che sono il risultato di
un’iniziativa autonoma delle imprese; viceversa, se il comportamento è imposto da una normativa
nazionale, tali articoli non trovano applicazione.

4. LE CONDIZIONI DEL DIVIETO. IL PREGIUDIZIO AL COMMERCIO


INTRACOMUNITARIO

L’elemento del pregiudizio al commercio intracomunitario costituisce uno dei presupposti per
l’applicabilità dell’art. 101. Secondo la formulazione della Corte di giustizia, è suscettibile di
pregiudicare gli scambi intracomunitari l’accordo che, sulla base di un insieme di elementi oggettivi
di diritto o di fatto, è ragionevole prevedere possa esercitare un’influenza diretta o indiretta, attuale
o potenziale, sulle correnti di scambio tra Stati membri in una misura che potrebbe nuocere alla
realizzazione degli obiettivi di un mercato unico. In generale, il pregiudizio è dovuto ad una serie di
elementi, che presi singolarmente non sono necessariamente decisivi. Al fine di orientare le
giurisdizioni e le autorità nazionali di concorrenza circa la portata di tale nozione, la Commissione
ha adottato, nel 2004, delle linee guida per illustrare i principi dell’interpretazione di tale
presupposto di applicabilità degli artt. 101 e 102 dagli organi giurisdizionali comunitari.
L’elemento del pregiudizio agli scambi in via di principio limita l’applicabilità della disciplina
comunitaria della concorrenza alle intese i cui effetti si realizzano a livello comunitario e non siano
confinati all’interno di un solo Stato membro. Pertanto esso ha lo scopo di delimitare il campo
d’azione delle norme del Trattato rispetto a quello dei diritti nazionali. Tuttavia, il rilievo di una
fattispecie non è escluso solo per il fatto della localizzazione delle imprese e/o della loro attività in
un unico Stato membro. Infatti, anche in questo caso l’intesa solo nazionale può pregiudicare il
commercio intracomunitario per effetto della chiusura del mercato nazionale o comunque della
maggiore difficoltà per i concorrenti stranieri di accedere a quel mercato. Ad es. una clausola di non
concorrenza inserita in un contratto di cessione di azienda, se estesa all’intero territorio di uno Stato
membro, può ugualmente risultare idonea ad ostacolare gli scambi commerciali intracomunitari ai
sensi dell’art. 101, n. 1. In generale, il mercato geografico che rileva ai fini di un’intesa, e ancor più
ai fini dell’abuso di posizione dominante, è costituito da una “parte sostanziale del mercato
comune”. Tale elemento va distinto da quello del pregiudizio agli scambi intracomunitari, anche se
normalmente resta collegato ad esso.
L’accertamento del pregiudizio al commercio fra Stati membri va operato caso per caso. È
sufficiente che esso sia potenziale e che investa direttamente o indirettamente il volume degli
scambi o i prezzi o la qualità dei prodotti o dei servizi. La Corte richiede la prova che gli accordi
siano idonei a produrre l’effetto vietato, cioè «deve apparire ragionevolmente probabile, in base ad
un complesso di elementi oggettivi di diritto o di fatto, che l’accordo eserciti un’influenza diretta o
indiretta, attuale o potenziale, sulle correnti degli scambi fra Stati membri».
Come si vede, la disciplina della concorrenza deve essere in sintonia con quella della libera
circolazione delle merci all’interno del mercato comune: gli Stati devono eliminare gli ostacoli alle
importazioni e le imprese non possono concertare preclusioni equivalenti. Perciò le disposizioni
sulla concorrenza vanno interpretate ed applicate in funzione della realizzazione di un assetto
unitario del mercato e dunque della libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali.
Con la riforma introdotta dal regolamento n. 1/2003, il criterio del pregiudizio agli scambi ha
assunto un ruolo centrale nel nuovo sistema di applicazione del diritto antitrust comunitario. Infatti
l’art. 3 del regolamento impone alle autorità di concorrenza e ai giudici nazionali l’obbligo di
156
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

applicare le norme comunitarie a tutte le intese e pratiche abusive che possano incidere sul
commercio tra gli Stati membri e, per le intese tra imprese, preclude l’applicabilità di norme
nazionali di concorrenza più severe di quelle comunitarie. Anche per questo motivo, la
Commissione ha predisposto una Comunicazione, intesa a fornire indicazioni ed elementi di
valutazione in merito all’interpretazione della nozione di pregiudizio al commercio. Essa, oltre ad
enumerare i principi interpretativi della materia, introduce anche specifiche presunzioni (sia positive
che negative) in ordine all’idoneità di intese e pratiche abusive a determinare o meno un pregiudizio
sensibile agli scambi tra gli Stati membri. In particolare, la Comunicazione stabilisce una
presunzione negativa, per escludere un pregiudizio sensibile al commercio, quando la quota di
mercato aggregata delle parti su qualsiasi mercato rilevante all’interno della Comunità interessato
dagli accordi non supera il 5% e:
 nel caso di intese orizzontali, il fatturato comunitario aggregato annuo delle imprese
interessate relativo ai prodotti a cui si applica l’accordo non è superiore a € 40 milioni;
 nel caso di intese verticali, il fatturato comunitario aggregato annuo del fornitore dei prodotti
a cui si applica l’accordo non deve essere superiore a € 40 milioni.
La presunzione negativa è applicabile a tutte le imprese, indipendentemente dalla natura delle
restrizioni contenute nell’accordo.
Un’analisi caso per caso è invece necessaria per determinare il carattere sensibile o meno di un
possibile pregiudizio al commercio, quando almeno una delle richiamate condizioni non sia
soddisfatta. Tuttavia, nel caso in cui il rischio di effetti pregiudizievoli sugli scambi derivi dalla
natura stessa dell’intesa la Comunicazione prevede anche una presunzione positiva quando,
indipendentemente dalla quota di mercato, il fatturato delle parti nei prodotti interessati dall’intesa
sia superiore a 40 milioni di euro.

5. L’ALTERAZIONE DELLE CONDIZIONI DI CONCORRENZA. PORTATA


TERRITORIALE DEL DIVIETO

L’intesa vietata è anche quella che ha per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il
gioco della concorrenza all’interno del mercato comune. È chiaro che il pregiudizio alla
concorrenza causato dall’intesa può essere anche potenziale e indiretto. Esso comunque deve essere
valutato in funzione del contesto concreto in cui il comportamento delle imprese è stato posto in
essere. Per stabilire se un’intesa ricada nell’applicazione del divieto sancito dall’art. 101, n. 1,
occorre procedere ad uno scrutinio articolato in 2 fasi.
In una prima fase, si dovrà verificare se l’intesa comporti, per il suo oggetto, una restrizione di
concorrenza. Se l’intesa, che abbia la forma di accordo o di pratica concordata, ha per oggetto di
restringere la concorrenza, deve ritenersi senz’altro vietata, senza doverne considerare gli effetti. Se
l’oggetto non è anticompetitivo, si deve procedere ad una seconda fase di analisi, considerando gli
effetti che l’intesa è idonea a produrre sul gioco della concorrenza. In questo caso, l’intesa sarà
considerata vietata se emerge che essa possa restringere in modo sensibile la concorrenza. Un
criterio generale per verificare se l’intesa abbia per oggetto o per effetto la restrizione della
concorrenza è quello di considerare come la concorrenza avrebbe operato nel campo del mercato
senza l’esistenza di tale intesa.
Dopo questa analisi, vanno considerate vietate, per il loro oggetto, le intese che avranno per oggetto
il restringimento della concorrenza tra le parti, oppure tra le parti e i terzi concorrenti, in modo
ritenuto incompatibile con il mercato comune. Per contro, dovrà ritenersi che non abbiano oggetto
anticompetitivo le intese che sono idonee a svolgere una più complessa funzione. Ciò vale per le
clausole che fanno parte integrante del contenuto di un determinato contratto e che in tal modo
contribuiscono a determinare l’assetto e l’equilibrio dei rapporti giuridici tra le parti. Ad es. non
violano l’art. 101, n. 1, per il loro oggetto:

157
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

– il patto di non concorrenza inserito in un contratto di cessione di azienda, in quanto tale patto,
purché di durata non sproporzionata, può ritenersi necessario ad assicurare l’effettività della
cessione;
– la clausola di approvvigionamento esclusivo e la clausola di non concorrenza, inserite in un
contratto di franchising, in quanto necessarie a far sì che tale contratto possa pienamente realizzare
la sua funzione tipica;
– la clausola di non contestazione, inserita in un contratto di licenza di brevetto, in quanto
determinante per l’equilibrio di un accordo che non ha né l’oggetto, né l’effetto di impedire, di
restringere o di falsare il gioco della concorrenza;
– la clausola di approvvigionamento esclusivo, inserita in un contratto di fornitura di birra, in
quanto inerente a quella forma di cooperazione fra rivenditore e fornitore, fondata su una
convergenza di interessi in ordine alla promozione delle vendite del prodotto, che caratterizza
questo specifico tipo contrattuale.
Peraltro, la circostanza che un’intesa non abbia un oggetto anticompetitivo non esclude che essa,
tenuto conto del contesto economico dove deve operare, possa ugualmente produrre effetti
inconciliabili col corretto funzionamento della concorrenza nel mercato comune. In sintesi, l’analisi
dell’oggetto è destinata a valutare, in astratto, la funzione obiettiva di un determinato patto nel
contesto contrattuale in cui si inserisce. L’analisi dell’effetto, viceversa, mira a stabilire se, in
concreto, un’intesa che non ha oggetto anticompetitivo sia comunque idonea, per la specifica
situazione di mercato, a restringere in modo sensibile la concorrenza nel mercato comune. Gli
effetti devono evidentemente prodursi all’interno del mercato comune, così un’intesa tra imprese
comunitarie sulla ripartizione dei mercati terzi è in principio consentita, a meno che i suoi effetti
non si ripercuotano nel mercato comune; allo stesso modo un’intesa tra un’impresa comunitaria e
una appartenente ad un Paese terzo è vietata se investe il mercato comune.

6. LA REGOLA DEL MINIMIS

Gli effetti sulla concorrenza e sugli scambi devono essere sensibili, sì che sono escluse dal divieto
le intese aventi effetti minimi sul mercato di cui si tratta (regola c.d. de minimis). Infatti la Corte ha
precisato che un accordo sfugge dal divieto quando investe il mercato in maniera insignificante,
considerata la debole posizione detenuta dagli interessati sul mercato dei prodotti di cui trattasi; e
ciò anche quando, ad es. nell’ipotesi di un accordo di distribuzione, l’esclusiva comporti una
protezione territoriale assoluta a favore del distributore. Tuttavia, un’intesa, anche se isolatamente
non è compresa nel divieto in quanto “minima”, può comunque esservi compresa quando sia
inserita in un contesto economico e giuridico tale da alterare la concorrenza e pregiudicare gli
scambi intracomunitari. La Commissione, in una Comunicazione del 2001, ha differenziato le
soglie di sensibilità relative alle quote di mercato detenute dalle imprese partecipanti a seconda che
si tratti di accordi tra imprese concorrenti effettive o potenziali su uno dei mercati rilevanti o
accordi tra imprese non concorrenti. Nel primo caso, la soglia è del 10%, nel secondo del 15%. La
Comunicazione precisa che, indipendentemente dal superamento delle soglie, non ricadono in linea
generale nel divieto di cui all’art. 101, n. 1, le intese concluse tra piccole e medie imprese. L’art.
101 resta applicabile, invece, anche quando le imprese partecipanti detengano quote inferiori a
quelle indicate, a determinate tipologie di accordi suscettibili di provocare effetti distorsivi della
concorrenza particolarmente gravi, quali i cartelli di prezzo o di ripartizione dei mercati, nonché le
intese volte alla limitazione della produzione o delle vendite.

7. IPOTESI TIPIZZATE D’INTESA. GLI ACCORDI DI DISTRIBUZIONE

L’art. 101, n. 1, indica anche alcune ipotesi tipizzate di intese vietate, sia orizzontali, tra imprese
che si trovano allo stesso livello del ciclo produttivo, che verticali, tra imprese che si trovano a
livelli diversi.
158
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

In primo luogo, sono menzionate le intese rivolte a regolare i prezzi e/o le altre condizioni di
vendita. La previsione è molto ampia e riguarda qualunque tipo di comportamento che in qualche
modo conduca ad un coordinamento o ad un allineamento dei prezzi. Ad es. è stato ritenuto illecito
un accordo sui prezzi minimi di un prodotto, trasmesso all’amministrazione perché ne estendesse in
via generale l’applicazione; un accordo sugli sconti praticabili ai dettaglianti; un sistema che riservi
la garanzia del prodotto ai soli clienti del concessionario quando privilegia quest’ultimo rispetto al
distributore parallelo; una raccomandazione di un’associazione di assicuratori che impone ai suoi
membri un aumento generale dei premi; una rete di accordi tra agenti di viaggio sui prezzi dei
viaggi.
In secondo luogo, l’art. 101, n. 1, lett. b, censura le intese che limitano o controllano la produzione,
gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti. Si tratta di accordi che mirano a ridurre i costi,
razionalizzando la produzione e/o gli acquisti e/o l’acquisizione di clientela. Possono rientrare in
questa ipotesi anche gli accordi di acquisto in comune come la realizzazione di centrali comuni
d’acquisto, le intese sulle quote di produzione. Ed è appena il caso di precisare che non occorre che
le parti dell’accordo o dell’intesa siano in concorrenza tra loro, in quanto potrebbe comunque
prodursi un’alterazione della concorrenza nei rapporti con i terzi. Grande attenzione è sempre stata
data ai sistemi di distribuzione, spesso incorsi nelle censure della Commissione e della Corte. Il
punto fondamentale è che il mercato comune non può essere ripartito, né a livello di produzione, né
a livello di distribuzione. Così, con il caso Consten e Grundig, relativo ad un accordo di
distribuzione esclusiva in Francia, la Corte affermò il principio che un accordo inteso a mantenere
artificialmente dei mercati nazionali distinti in seno alla Comunità è, già come tale, atto a falsare la
concorrenza nel mercato comune e dunque rientra nell’ipotesi vietata dall’art. 101, n. 1.
Però ciò non ha impedito di tenere conto degli effetti positivi sul piano della concorrenza che tali
clausole di esclusiva comportano in diversi casi. Infatti, esse possono facilitare l’ingresso di un
prodotto su un nuovo mercato nei non rari casi in cui è il distributore/rivenditore a richiedere al
fabbricante l’impegno a non fornire altri distributori nel territorio contrattuale e possono anche
stimolare la concorrenza fra i prodotti di fabbricanti diversi (inter-brand competition). Grazie alla
sentenza Consten e Grundig, le autorità comunitarie hanno ritenuto che gli accordi di distribuzione
esclusiva, per quanto rientranti nella previsione dell’art. 101, n. 1, possano tuttavia essere esentati
dal divieto stabilito, in forza del n. 3 dello stesso art., qualora non sia stabilita una protezione
territoriale assoluta a favore del distributore. Tale ipotesi si verifica quando il distributore è posto al
riparo non solo dalla concorrenza che gli potrebbe essere fatta dal produttore/fornitore, ma anche
dagli altri distributori, ai quali viene fatto il divieto di esportare nello Stato che costituisce la zona
esclusiva dell’altro, sia direttamente, attraverso vendite a clienti ivi stabiliti, che indirettamente,
attraverso vendite a clienti stabiliti nel loro territorio contrattuale, ma che intendano esportare i
prodotti così acquistati nella zona esclusiva di un altro distributore. Anche la distribuzione selettiva,
caratterizzata dal fatto che il produttore intende riservare la vendita dei propri prodotti solo ad
alcuni rivenditori, selezionati in base alla loro qualificazione professionale, è stata oggetto di
attenzione da parte della Commissione e della Corte. In particolare, la giurisprudenza ha precisato
che la distribuzione selettiva deve restare l’eccezione e si giustifica laddove la selezione dei
produttori viene operata sulla base di criteri oggettivi, di natura qualitativa e non discriminatori.
Infatti la selezione dei distributori compatibile con la disciplina comunitaria della concorrenza è
quella che assume carattere meramente qualitativo. Tale formula di selezione implica che sia
consentito effettivo accesso alla rete a tutti gli operatori potenziali che rispondano ai requisiti
professionali stabiliti dal produttore e che desiderino concludere un contratto per la
commercializzazione dei prodotti di cui trattasi. Per contro, è ritenuta incompatibile con l’art. 101,
n. 1, e non suscettibile di esenzione di cui al n. 3, la selezione c.d. quantitativa, cioè la selezione
che, oltre a prevedere criteri oggettivi di qualificazione dei distributori autorizzati, limita anche il
numero totale degli operatori ammessi ad agire all’interno di determinate aree territoriali.
In una posizione intermedia tra le 2 si collocano le figure contrattuali che oltre a prevedere criteri
qualitativi di accesso alla rete impongono al distributore l’ottemperanza a specifici obblighi di
159
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

assortimento e promozione del prodotto contrattuale; tali ipotesi sono soggette ad una valutazione
caso per caso.
La ripartizione dei mercati è vietata anche quando avviene a livello della produzione (intese
orizzontali): ad es., con un’intesa tra 2 produttori sulla produzione e vendita in territori diversi.
Un problema peculiare si ha in relazione alle modalità di sfruttamento dei diritti sulla proprietà
intellettuale: marchi, brevetti, diritti d’autore, ecc. Al contrario di quanto avviene per la circolazione
delle merci, nessuna previsione espressa è stata inserita al riguardo nelle norme a tutela della
concorrenza. In materia ha prevalso ed è stato applicato il criterio del c.d. esaurimento comunitario,
nel senso che in via di principio il diritto di esclusiva termina con lo sfruttamento in un Paese
membro, laddove ciò avvenga col legittimo consenso del titolare del diritto. Di conseguenza, una
volta che il prodotto in cui sia incorporato il diritto sia stato legalmente commercializzato in uno
Stato membro, non ne può essere impedita la circolazione e quindi la rivendita negli altri Stati
membri.

8. LA NULLITÀ DEGLI ACCORDI VIETATI

Gli accordi vietati sono affetti da nullità: «nulli di pieno diritto», secondo la formula inequivocabile
usata dall’art. 101, n. 2. Tale previsione comporta che il soggetto che si senta leso da un accordo in
contrasto con il divieto di intese anticoncorrenziali ne può far valere la nullità. Inoltre, il singolo
può chiedere il risarcimento del danno che gli sia derivato da comportamenti d’impresa in
violazione del divieto.
Le modalità procedurali sono di competenza dei singoli giudici nazionali, salvo il rispetto del
principio di equivalenza e effettività. È pacifico che la nullità:
- è assoluta, nel senso che il giudice o l’organo amministrativo possono rilevarla d’ufficio;
- non può essere oggetto di esenzione;
- opera ex tunc.
Inoltre, in base al principio quod nullum est nullum producit effectum, l’accordo nullo resta privo di
effetti tra le parti ed è inopponibile a terzi, con l’ulteriore conseguenza che sono travolti dalla nullità
tutti gli effetti, passati e futuri. La nullità del contratto, o all’occorrenza delle sole clausole vietate se
le stesse sono separabili dall’insieme del contratto, può essere accertata dal giudice nazionale, in
quanto si tratta di una norma di effetto diretto e quindi azionabile direttamente dal singolo, ma
accertabile anche dalla Commissione. Il concorrente può far valere i suoi diritti:
 sia attraverso un esposto alla Commissione, affinché inizi una procedura di verifica della
legittimità dell’intesa;
 sia iniziando un’azione dinanzi al giudice nazionale, di accertamento e/o di risarcimento del
danno, con possibile richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte in caso di dubbi
interpretativi;
 sia infine percorrendo contestualmente entrambe le strade.
Quanto al diritto del singolo al risarcimento del danno, la possibilità del suo esercizio in sede
giudiziaria è considerata un elemento che rafforza l’operatività delle norme e che per ciò stesso
contribuisce al mantenimento di un’effettiva concorrenza. Di recente, la Corte ha anche ammesso,
in caso di violazione del diritto europeo alla concorrenza, la possibilità per i giudici nazionali di
riconoscere il danno c.d. punitivo o esemplare, purché una tale sanzione sia prevista
dall’ordinamento dello Stato per le analoghe fattispecie interne e dalla sua applicazione non
consegua un ingiustificato arricchimento per l’attore.

9. LE ESENZIONI INDIVIDUALI DI CUI ALL’ART. 101, N. 3

160
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

La disciplina comunitaria della concorrenza è fondata sul criterio del divieto, che vuole in principio
vietate tutte le intese che ricadano nella previsione dell’art. 101, n. 1, a meno che non siano
“esentate” ai sensi dell’art. 101, n. 3.
La competenza a dichiarare inapplicabile il divieto è stata attribuita dal regolamento n. 1/2003 oltre
che alla Commissione, anche alle autorità nazionali di concorrenza e ai giudici nazionali. La
possibilità di esenzione si fonda su vari elementi, individuati dall’art. 101, n. 3, tutti ugualmente
necessari:
1) le intese o pratiche concordate devono contribuire a migliorare la produzione o la
distribuzione oppure promuovere il progresso tecnico o economico;
2) le intese o pratiche concordate devono lasciare agli utilizzatori una congrua parte dell’utile
che ne deriva: non vi può essere esenzione se accordi sui prezzi avvantaggiano
esclusivamente i produttori e gli importatori e non recano alcun profitto ai consumatori;
3) le restrizioni della concorrenza devono essere necessarie al raggiungimento degli obiettivi
“positivi” appena ricordati;
4) le intese o pratiche concordate non devono pervenire al risultato di eliminare la concorrenza
per una parte sostanziale dei prodotti.
Le autorità competenti devono quindi operare un bilancio concorrenziale dell’accordo al fine di
stabilire se la valenza positiva della fattispecie sia prevalente e comunque tale da legittimare la
restrizione della concorrenza che essa produce. La valutazione sull’applicabilità dell’esenzione
costituisce il risultato di un’analisi di elementi diversi e comporta sostanzialmente una ponderazione
degli effetti restrittivi della concorrenza con il perseguimento utile di obiettivi o interessi meritevoli
di attenzione e di tutela.
Il nuovo sistema introdotto dal regolamento 1/2003 è caratterizzato principalmente dalla
sostituzione del regime di autorizzazione e di notifica, per cui con una decisione «costitutiva» la
Commissione dichiarava se un’intesa ad essa a tal fine notificata, se vietata ai sensi dell’art. 101, n.
1, soddisfaceva i requisiti di cui al n. 3, con uno di eccezione legale, che presuppone l’applicazione
decentrata delle regole di concorrenza ed implica il rafforzamento del controllo a posteriori.
Pertanto, le intese vietate dal n. 1, ma rispondenti alle condizioni di cui al n. 3 dello stesso art., sono
lecite ab initio e senza la necessità di una decisione preventiva. Contemporaneamente la
competenza ad accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 101, n. 3, è stata attribuita
anche alle autorità nazionali di concorrenza e del pari ai giudici nazionali, ponendo così fine al
monopolio che in materia il regolamento 17/1962 aveva invece attribuito alla Commissione. Alla
sola Commissione è riconosciuta, comunque, la competenza d’ufficio, e non più dietro notifica, a
valutare la compatibilità di un’intesa con il diritto antitrust ed a dichiarare l’inesistenza di una
violazione, sia qualora la pratica non contrasti con l’art. 101, par. 1, sia qualora ricorrano i
presupposti per un’esenzione (art. 10 del regolamento 1/2003). Il suo intervento è riservato ai casi
di particolare rilevanza in cui ricorrano ragioni di interesse pubblico comunitario. Le decisioni ai
sensi dell’art. 10, per quanto eccezionali, sono volte a garantire un’efficace applicazione decentrata
del diritto comunitario, in quanto consentono alla Commissione di orientare lo sviluppo del diritto
comunitario, a seguito dell’avocazione a sé di un caso, in presenza di orientamenti divergenti fra le
autorità nazionali oppure di interpretazioni improprie di una singola autorità nazionale. Peraltro,
all’istituzione comunitaria è attribuito il compito di definire i criteri per l’applicazione dell’art. 101,
n. 3, da parte degli organi nazionali. Infine, la Commissione ha emanato un’apposita
Comunicazione interpretativa che fornisce una metodologia di analisi da applicare nei singoli casi.
Questa comunicazione integra, con disposizioni più precise, le indicazioni già fornite dalla stessa
Commissione in passato in materia di intese verticali, di cooperazione orizzontale e di trasferimento
di tecnologie, ed applica l’approccio economico ivi sviluppato.

10. LE ESENZIONI PER CATEGORIA

161
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Lo strumento delle esenzioni per categoria ha subito una profonda modifica con l’entrata in vigore
del regolamento n. 1/2003. Infatti, in passato, l’attribuzione alla Commissione della competenza
esclusiva a concedere delle esenzioni ai sensi dell’art. 101, n. 3, aveva posto gravi problemi di
funzionalità del sistema in considerazione del numero sempre crescente di accordi notificati; ciò
aveva rapidamente evidenziato la pratica impossibilità di risolvere, in tempi ragionevoli, tutti i casi
sottoposti all’esame dell’autorità comunitaria per il tramite di decisioni individuali. Per ovviare a
questi problemi, il Consiglio aveva adottato, una serie di regolamenti che concedevano
un’esenzione a determinate categorie di accordi, decisioni e pratiche concordate. La Commissione
da allora ha fatto un uso sempre più ampio di tale delega e ha adottato numerosi regolamenti di
esenzione per categorie individuate di accordi. Fra quelli attualmente in vigore, di rilievo sono il
regolamento relativo alle restrizioni verticali, cioè agli accordi conclusi o alle pratiche messe in atto
da 2 o più imprese operanti a livelli diversi della catena di produzione o distribuzione, con la sola
eccezione degli accordi di distribuzione di autoveicoli, che formano oggetto di una disciplina
specifica settoriale; i regolamenti di trasferimento di tecnologia, di specializzazione e di ricerca e
sviluppo; nonché quelli adottati nel settore del trasporto aereo, del trasporto marittimo e delle
assicurazioni. Prima dell’adozione del regolamento 1/2003, gli accordi che soddisfacevano le
condizioni indicate nei regolamenti di esenzione per categoria beneficiavano autonomamente
dell’esenzione, senza che fosse necessaria la loro notifica e un loro esame individuale. Erano invece
soggette all’obbligo di notifica le intese che non rientravano nelle categorie ivi disciplinate. Con il
passaggio al regime di eccezione legale il regolamento di esenzione ha cambiato natura, acquisendo
una natura solo dichiarativa. I nuovi regolamenti rappresentano oggi uno strumento di orientamento
dell’applicazione del diritto comunitario a livello nazionale, per fornire certezza giuridica alle
imprese e garantire l’uniforme applicazione dell’art. 101, n. 3, del trattato. Prima della riforma
della disciplina sulle restrizioni verticali, ogni regolamento conteneva un elenco sia delle clausole
contrattuali che potevano beneficiare dell’esenzione per categoria (c.d. white list) sia di quelle che
escludevano l’applicazione del beneficio (c.d. black list): l’accordo che le prevedeva poteva dunque
essere eventualmente esentato solo a seguito dell’adozione di una decisione ad hoc. In caso di
dubbio, ad es. se le parti avevano inserito nel loro accordo clausole non menzionate né nella white
list, né nella black list, restava sempre aperta la possibilità per le imprese interessate di richiedere
alla Commissione un’esenzione individuale. Il regolamento peraltro non esenta, indipendentemente
dalle quote di mercato detenute dalle imprese interessate, alcuni accordi contenenti restrizioni (c.d.
hard core) il cui carattere gravemente anticoncorrenziale è stato riconosciuto dalla prassi della
Commissione e dalla giurisprudenza comunitaria, quali l’imposizione di un prezzo di rivendita
minimo o fisso e alcune forme di protezione territoriale. In ogni caso, resta salva la possibilità per la
Commissione o l’autorità nazionale di revocare il beneficio dell’esenzione per categoria a quegli
accordi che, pur rientrando nell’ambito del regolamento, producano effetti gravemente distorsivi
della concorrenza. Per facilitare le imprese nel compito di valutare la conformità dell’accordo che
intendono porre in essere alle esigenze dell’art. 101, n. 3, la Commissione ha adottato una
Comunicazione contenente linee guida per precisare i principi cui essa intende ispirarsi nella
valutazione degli accordi verticali. Il punto di partenza dell’analisi antitrust è rappresentato dunque
dalla posizione delle parti ad un accordo sui mercati interessati dalla cooperazione, per determinare
se le imprese coinvolte possano mantenere, acquisire o rafforzare il loro potere di mercato. Solo in
presenza di questi effetti un accordo potrà essere vietato, non essendo sufficiente che lo stesso limiti
solo la concorrenza tra le parti. Da ciò consegue che, se le parti detengono una quota di mercato
congiunta modesta, è poco probabile che la cooperazione possa produrre effetti restrittivi ed in tal
caso non è necessario procedere ad un’analisi più approfondita. In considerazione delle diverse
forme che può assumere la cooperazione tra le imprese, risulta più difficile individuare, a differenza
di quanto accade per le restrizioni verticali, una soglia unica ed assoluta di quota di mercato che sia
indice che un determinato accordo crea un certo grado di potere di mercato. Così il regolamento di
esenzione relativo ad accordi in materia di ricerca e sviluppo e quello relativo ad accordi di
specializzazione hanno individuato rispettivamente nel 25% e nel 20% le soglie indicative al di
162
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sotto delle quali normalmente un accordo non pone problemi di concorrenza. Peraltro, anche in
questi casi l’art. 101 resta comunque applicabile in presenza di restrizioni fondamentali, tendenti
cioè a fissare prezzi, limitare la produzione o ripartire i mercati o la clientela, in quanto queste
restrizioni continuano sempre a far parte di una “lista nera” di clausole vietate (hard core
restrictions).

11. INTESE VIETATE E INTESE AUTORIZZATE

a) Intese vietate. Rientrano in questa categoria una serie di accordi, più o meno formalizzati, che
hanno una spiccata valenza anticompetitiva. Fra le intese c.d. orizzontali si ricordano i casi dei
cartelli o delle pratiche che restringono l’azione delle imprese partecipanti con riferimento ad
alcune delle principali variabili dell’attività aziendale: collusioni sui prezzi di vendita o di acquisto
(price-fixing o maximum buying prices), sui volumi della produzione e sulle quote di mercato
(market-sharing). Rientrano anche le intese che, anche se in apparenza disciplinano forme di
cooperazione fra imprese di per sé non necessariamente anticompetitive, si configurano in realtà,
per il loro specifico contenuto o per le circostanze economiche in cui operano, come meri cartelli
fra imprese concorrenti (naked cartels): è il caso di alcuni accordi joint venture che hanno per
oggetto o per effetto il coordinamento concorrenziale tra le imprese, senza fornire alcun “valore
aggiunto” in termini di promozione/razionalizzazione della ricerca, della produzione o del
commercio.
Analoga rilevanza assumono alcuni sistemi di scambi di informazioni che, divulgando dati
“sensibili”, suscettibili di svelare comportamenti di singoli operatori solitamente coperti da
riservatezza, aumentano la trasparenza e quindi accentuano la propensione degli operatori ad
adattare il proprio comportamento a quello dei concorrenti. Ciò accade soprattutto nei mercati
oligopolistici, ma non è escluso che in un mercato non oligopolistico uno scambio di informazioni
sia altrettanto lesivo della concorrenza. Nelle intese verticali, sono essenzialmente riconducibili alla
categoria degli accordi vietati le pattuizioni che ostacolano gli scambi all’interno del mercato
comune, oppure che definiscono in modo tassativo il livello dei prezzi di rivendita dei distributori
(resale price maintenance).
b) Intese autorizzate: A questa categoria appartiene un’ampia tipologia di accordi orizzontali e
verticali. Fra gli accordi orizzontali, occorre menzionare le diverse ipotesi di accordi di
cooperazione fra imprese:
 accordi di specializzazione: sono accordi, posti in essere da medie e piccole imprese, in virtù
dei quali una delle parti si concentra su un determinato tipo di prodotti, mentre l’altra si
specializza su prodotti collegati distinti dai primi;
 accordi per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie di prodotto o di processo produttivo;
 accordi per la produzione in comune di determinati prodotti/servizi che richiedono impegni
in termini di risorse e comportano rischi che difficilmente potrebbero essere affrontati
singolarmente dalle parti;
 accordi inerenti allo sfruttamento della proprietà intellettuale (brevetti, marchi, diritti di
autore); tali accordi hanno anche connotati tipici delle intese verticali.
Quanto agli accordi verticali, ci riferiamo agli accordi di agenzia, di concessione esclusiva di
vendita, di fornitura esclusiva, di distribuzione selettiva, di franchising e di subfornitura.

12. L’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE. IL MERCATO RILEVANTE

L’art. 102 TFUE sancisce l’incompatibilità col mercato comune e, dunque, il divieto per le
imprese, dello sfruttamento abusivo di posizione dominante sul mercato comune o su una parte
sostanziale di esso, per non pregiudicare il commercio tra gli Stati membri. Non è vietato detenere
163
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

una posizione dominante, ma abusarne, tanto da alterare la concorrenza. L’art. 102 enumera alcune
ipotesi di abuso, dall’imposizione di prezzi o di condizioni di vendita inique alla discriminazione
nei rapporti commerciali, dalla limitazione della produzione all’imposizione di clausole contrattuali
anomale.
La sfera di applicazione materiale dell’art. 102 è delimitata dal pregiudizio agli scambi tra Paesi
membri, condizione comune anche all’art. 101, ricordando che, per poter affermare che una
determinata pratica pregiudica gli scambi tra Stati membri, non occorre dimostrare l’effettivo
pregiudizio al commercio tra Stati membri in modo rilevante, ma è sufficiente dimostrare che tale
pratica sia idonea a produrre un tale effetto. Ulteriore presupposto per l’applicazione dell’art. 102 è
la posizione dominante, rilevabile in funzione di vari elementi considerati nel loro insieme. La
posizione dominante:
 va identificata con la posizione di potenza economica che consente all’impresa di ostacolare, per
un consistente periodo di tempo, il permanere di una concorrenza effettiva nel mercato preso in
considerazione e di tenere comportamenti non condizionati da concorrenti e clienti, nonché dai
consumatori;
 va distinta da quella di monopolio, in quanto a differenza di quest’ultima non esclude il
permanere di una certa concorrenza,ma attribuisce all’impresa che la detiene la possibilità di
influenzare sensibilmente le condizioni e lo sviluppo della concorrenza;
 va distinta pure dall’oligopolio, in quanto in esso i comportamenti delle imprese si influenzano
reciprocamente, mentre nel caso di posizione dominante il comportamento dell’impresa è
determinato unilateralmente.
 Va misurata in un ambito molto preciso: il c.d. mercato rilevante, che ha 2 dimensioni: quella
relativa all’area geografica e quella relativa al prodotto.
Il mercato geografico rilevante è l’area in cui le imprese interessate forniscono o acquisiscono
prodotti o servizi ed in cui le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e tali da
distinguerle dalle aree geografiche contigue, in ragione di condizioni di concorrenza
sostanzialmente diverse. Concretamente, la determinazione del mercato geografico comporta
l’individuazione delle fonti di approvvigionamento cui i clienti dell’impresa oggetto
dell’accertamento possono ragionevolmente ricorrere in funzione della sua localizzazione
geografica.
Il mercato rilevante del prodotto comprende tutti i beni e i servizi che possono considerarsi,
all’esito di un’adeguata analisi economica, fungibili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle
caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso ai quali sono normalmente destinati. Il criterio
della “sostituibilità dal lato della domanda” rappresenta il principale criterio dell’analisi dei mercati.
Per una corretta definizione di questo mercato, bisogna verificare se, dal lato dell’offerta, operino
imprese che, pur producendo beni e servizi non necessariamente sostituibili con quelli che
interessano, siano tuttavia idonei ad entrare nello stesso mercato con investimenti di conversione
non eccessivi data la contiguità nella tecnica di produzione. Occorre pertanto far riferimento non
solo al mercato del prodotto, ma anche a quello dei prodotti equivalenti. In definitiva,
l’individuazione del mercato rilevante, cioè di quella parte sostanziale del mercato comune rispetto
alla quale si misura la posizione dominante dell’impresa, è il risultato di un’analisi economica e
giuridica fondamentale per la verifica di compatibilità del comportamento dell’impresa con l’art.
102. Gli indizi che inducono a rilevare l’esistenza di una posizione dominante sono numerosi e di
diversa natura. La quota di mercato è senza dubbio un elemento di grande rilievo, come possono
esserlo il rapporto con le quote rispettive delle imprese concorrenti più importanti, il vantaggio
tecnologico rispetto ai concorrenti, una rete di distribuzione efficiente, l’assenza di concorrenza
potenziale. E’ ben chiaro che singoli indizi non sono sempre sufficienti e dunque la valutazione va
fatta sulla base di elementi di fatto e di diritto concomitanti. Altrettanto chiaro è che una quota di
mercato molto alta può essere di per sé una prova sufficiente della posizione dominante, mentre una
quota consistente, per un periodo lungo tempo, ne è un indizio molte forte.

164
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Altro profilo rilevante è costituito dalle barriere all’entrata, che possono facilitare l’acquisizione e il
consolidamento di una posizione dominante. Esse possono derivare da vincoli legali o
amministrativi, da regimi di privative industriali o intellettuali, dal costo di entrata nel mercato per
l’impresa, dal costo del cambiamento per il consumatore. L’impresa in posizione dominante ha una
“speciale responsabilità” rispetto all’aspetto concorrenziale del mercato, in quanto la posizione che
essa detiene, pur non essendo censurabile, riduce il grado di concorrenza. Quindi, uno stesso
comportamento, pienamente legittimo se posto in essere da un’impresa in posizione non dominante,
può invece essere qualificato come illegittimo e configurare un’ipotesi di abuso se è collegato ad
una posizione dominante. Di rilievo è la circostanza che l’art. 102 si applica anche quando la
posizione dominante è dovuta non all’attività dell’impresa ma alla situazione di monopolio
attribuito dalla legge, o quando disposizioni di legge hanno eliminato tutto o in parte gran parte le
possibilità di concorrenza.
La prassi della Commissione e la giurisprudenza hanno individuato, nei casi in cui la condotta sia
posta in essere da più imprese, la figura della posizione dominante collettiva, che si ha nell’ipotesi
di oligopolio o di un gruppo di imprese che, pur essendo indipendenti, comunque ostacolino
consapevolmente la concorrenza. Se l’assenza di un’effettiva concorrenza tra operatori membri di
un oligopolio dominante costituisce un elemento importante nella valutazione dell’esistenza di una
posizione dominante collettiva, la sua esistenza non richiede, tuttavia, l’eliminazione di ogni
concorrenza tra le imprese interessate. Il che vuol dire che l’analisi dovrà anzitutto accertare che le
imprese interessate abbiano legami economici tali da consentire loro di agire come una sola entità
economica e indipendentemente dai concorrenti, dai clienti e dai consumatori.

13. NOZIONE DI SFRUTTAMENTO ABUSIVO

Anche la nozione di sfruttamento abusivo è oggettiva e va valutata in base ad una serie di


elementi. In generale, l’abuso va riferito a quell’impresa in posizione dominante che, utilizzando
sistemi diversi da quelli propri di una normale politica concorrenziale fondata sul merito e sulla
qualità delle prestazioni, incide sulla struttura del mercato e ne riduce il livello di concorrenzialità a
proprio vantaggio. Nel noto caso Continental Can, la Corte affermò che l’abuso può anche derivare
dal semplice consolidarsi di una posizione dominante, attraverso l’acquisizione di un concorrente, al
punto da creare un ostacolo oggettivo alla concorrenza e far dipendere il comportamento di
eventuali altre imprese da quello dell’impresa dominante. La Corte aggiunse che, in quanto
elemento oggettivo, l’abuso prescinde dall’intenzionalità e da eventuale colpa o dolo, con la
conseguenza che è abusiva la posizione dominante per il solo fatto di determinare «una modifica
così profonda della struttura dell’offerta da compromettere gravemente la libertà di azione del
consumatore sul mercato». Pertanto l’abuso può consistere in un comportamento che mira ad
escludere dal mercato un’impresa concorrente (pratiche escludenti), arrecando un pregiudizio
indiretto ai consumatori, oppure in una politica commerciale che pregiudica direttamente i
consumatori (pratiche di sfruttamento).
La giurisprudenza comunitaria ha precisato che oggetto di censura può anche essere un abuso di una
posizione dominante che esplica i suoi effetti su un mercato diverso da quello dominato. L’art. 102
elenca in modo non esaustivo alcune ipotesi di sfruttamento abusivo della posizione dominante.
Particolare rilievo ha l’ipotesi di abuso che ruota intorno alla politica dei prezzi. Ad es.:
 quanto alle ipotesi di abuso di sfruttamento, è stato considerato abusivo praticare prezzi
eccessivi e «privi di ragionevole rapporto con il valore economico della prestazione fornita»;
 quanto alle ipotesi di abuso escludente, la giurisprudenza ha precisato che sono prova di
abuso dei prezzi inferiori alla media dei costi variabili.
Sempre riguardo alla politica dei prezzi, è stata riconosciuta come abusiva l’applicazione di prezzi
discriminatori da parte di un’impresa dominante, vale a dire prezzi differenziati per prestazioni
identiche o prezzi uguali per prestazioni diverse, a meno che il trattamento non sia giustificabile

165
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sulla base di criteri oggettivi. Altra ipotesi è quella dell’esclusiva di fornitura che l’impresa
dominante impone ai suoi clienti. In presenza di determinati indizi, si realizza una vera e propria
inversione dell’onere della prova. La giurisprudenza ha rilevato come, in presenza di una differenza
anomala tra i prezzi praticati in diversi Stati membri da un’impresa in posizione dominante, tale
differenza costituisce un indizio di sfruttamento abusivo, con la conseguenza che in tal caso grava
sull’impresa l’onere di giustificare la circostanza.
Una specifica ipotesi di abuso è quella del contratto “legante” o tying, cioè del rifiuto di fornire un
prodotto se non congiuntamente ad un altro; ciò che si verifica spesso nella forma di rifiuto di
fornire i componenti indipendentemente dal prodotto.
Un problema particolare è quello, posto già nel caso Magill delle guide ai programmi
radiotelevisivi, del rapporto tra sfruttamento abusivo di una posizione dominante e sfruttamento dei
diritti d’autore. Infatti, la Corte ha sempre individuato nella tutela dei diritti che siano l’oggetto
specifico della proprietà intellettuale la sola ipotesi di deroga possibile, sia rispetto all’art. 34
TFUE, sia rispetto agli artt. 101 e 102; e ha affermato che l’esercizio di un diritto d’autore
esclusivo può in casi eccezionali essere vietato dall’art. 34 se integra l’ipotesi di sfruttamento
abusivo. Viene quindi estesa ai diritti di proprietà intellettuale la dottrina delle c.d. essential
facilities per cui un’impresa in posizione dominante, titolare di un’infrastruttura essenziale per
l’esercizio di un’attività economica, non può rifiutarne l’accesso o l’utilizzazione ad imprese
concorrenti (ad es. rete ferroviaria o elettrica). Però la giurisprudenza comunitaria è stata molto
prudente nell’accogliere la dottrina delle essential facilities, precisando che la violazione dell’art.
102 potrebbe individuarsi solo nell’ipotesi che per il concorrente non ci sia alcuna alternativa
possibile all’utilizzo dell’infrastruttura; e che non sarebbe economicamente ragionevole una sua
duplicazione.

14. APPLICAZIONE CUMULATIVA DEGLI ARTT. 101 E 102. CONSEGUENZE


DELL’ACCERTAMENTO DI UN ABUSO

Questione di grande rilievo è quella dell’applicazione cumulativa degli artt. 101 e 102, ad es.
quando la situazione di soggezione di più imprese rispetto ad un’altra dominante venga realizzata
con un accordo. Sono 2 disposizioni collegate tra loro e complementari, il cui fine è quello di
garantire una sana concorrenza nel mercato comune, anche se operano in ambiti economici e
applicativi molto diversi. La giurisprudenza tende ad un’applicazione cumulativa e dunque alla
possibilità di esiti diversi a seconda che la verifica di compatibilità sia fatta in vista dell’una o
dell’altra disposizione. Ciò riguarda tutte le ipotesi di potenziale doppia rilevanza, nel senso che
devono ricorrere le condizioni di applicazione di entrambe le norme.
Il Tribunale ha poi precisato che l’applicabilità dell’art. 102 non era esclusa né da una pregressa
decisione individuale di esenzione, né, anzi tanto meno, da una esenzione per categoria. Tra gli
argomenti fatti valere, vi è anche quello relativo all’impossibilità di derogare ad una disposizione
del Trattato con un atto di diritto derivato quale una decisione di esenzione individuale o anche un
regolamento di esenzione per categoria. A differenza dell’art. 101, n. 2, che sancisce la nullità degli
accordi vietati come conseguenza dell’accertamento di un’intesa anticoncorrenziale, l’art. 102 non
prevede nulla al riguardo. La giurisprudenza è precisamente nel senso che l’accertamento
dell’abuso apre la strada ai rimedi giurisdizionali previsti negli Stati membri, ad es. un’azione di
risarcimento del danno oppure, in caso di contratti, un’azione diretta a farne dichiarare la nullità.

15. LA PROCEDURA DI APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 101 E 102.


LA DENUNCIA, LE INDAGINI PRELIMINARI, LA PROCEDURA FORMALE

L’art. 103 TFUE attribuisce in primo luogo al Consiglio la competenza a stabilire «tutti i
regolamenti utili ai fini dell’applicazione dei principi contemplati dagli articoli 101 e 102»,
166
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

competenza da esercitarsi su proposta della Commissione e consultazione del Parlamento. Vanno


poi considerate le norme poste in essere dalla Commissione su delega del Consiglio. La principale
normativa è stata per decenni quella contenuta nel regolamento 17/1962, poi sostituita dal
regolamento n. 1/2003, che ha previsto, a decorrere dal 1° maggio 2004, un maggior
coinvolgimento delle autorità di concorrenza degli Stati membri per consentire loro di applicare
pienamente gli artt. 101 e 102. Va sottolineato che l’accordo e la decisione che rientrino nella
previsione dell’art. 101, n. 1, oppure l’abuso di cui all’art. 102, sono vietati e quindi nulli «senza
che occorra una previa decisione in tal senso». L’intervento della Commissione può essere
sollecitato attraverso un esposto-denuncia, in cui si contesta la legittimità di un accordo o di una
pratica concordata o di una decisione oppure di un comportamento unilaterale di un’impresa in
posizione dominante sul mercato. Legittimati ad attivare la procedura sono gli Stati membri ed i
singoli, persone fisiche o giuridiche, che vi abbiano interesse come nel caso delle imprese
concorrenti o delle associazioni di consumatori. La procedura di verifica, peraltro, può essere
iniziata anche d’ufficio dalla Commissione, sulla base di elementi di cui sia venuta a conoscenza.
Se, sulla base delle prove raccolte, la Commissione ritiene che non sussistano motivi sufficienti per
una sua azione, essa deve inviare al richiedente una lettera indicando le ragioni della sua
valutazione e fissare un termine per la presentazione di eventuali osservazioni scritte. Se non
vengono presentate osservazioni o se le stesse non convincono la Commissione del contrario, essa
può adottare una decisione formale di rigetto della denuncia, impugnabile dinanzi al giudice
comunitario. La decisione definitiva della Commissione deve essere resa entro un termine
ragionevole a partire dalla ricezione delle osservazioni, termine che indicativamente è di 4mesi. La
Commissione non ha un obbligo di pronunciarsi sulla sussistenza dell’infrazione allegata, ma quello
di esaminare con attenzione tutti gli elementi di fatto e di diritto esposti dal denunciante e di
precisare l’esito dato alla denuncia in una decisione impugnabile davanti al giudice. La
Commissione può archiviare una denuncia anche nel caso in cui la fattispecie sia già all’esame
dell’autorità di concorrenza di uno Stato membro, oppure qualora la fattispecie sia stata già trattata
da un’autorità nazionale. In tali ipotesi, l’istituzione non è obbligata a motivare approfonditamente
la causa dell’archiviazione, in quanto il suo rigetto è dovuto a palese carenza di interesse
comunitario della denuncia. Tuttavia, la Commissione comunica al denunciante quale sia l’autorità
nazionale di concorrenza che sta esaminando o ha esaminato il caso. Se le risultanze dell’indagine
preliminare lo giustifichino, la Commissione può decidere di dare inizio alla fase formale della
procedura. Questa si svolge nel contraddittorio fra Commissione ed imprese ed ha inizio con l’invio
alle stesse imprese della comunicazione degli addebiti. Tale comunicazione deve contenere in modo
chiaro tutti gli elementi del caso, la valutazione giuridica che la Commissione dà a questi e se il
comportamento delle imprese sia passibile di ammenda. La Commissione può rendere pubblico
l’avvio del procedimento secondo le modalità ritenute più appropriate (ad es. dandone notizia sulla
G.U. dell’UE). Le imprese accusate possono prendere visione dei fascicoli che compongono la
pratica che le riguarda, ad eccezione delle informazioni riservate, e naturalmente provvedere alla
loro difesa, tramite memorie scritte e, se lo richiede, anche tramite un’audizione. Per rendere più
trasparente questo procedimento, lo svolgimento, l’organizzazione e la direzione delle audizioni è
affidata ad un Consigliere-auditore, una figura indipendente dai servizi, collegata dal punto di vista
amministrativo alle dirette dipendenze del Commissario della concorrenza. Spetta proprio a questo
organo risolvere tutte le questioni che sorgono durante il procedimento e garantire il pieno rispetto
dei diritti delle imprese destinatarie della comunicazione degli addebiti, nonché dei terzi interessati
ad essere sentiti prima di adottare qualsiasi decisione finale. Così, il Consigliere-auditore redige una
relazione sul contraddittorio, che viene poi trasmessa ai destinatari della decisione con la decisione
stessa.

16. Segue: POTERI DI CONTROLLO DELLA COMMISSIONE E DIRITTI DEI SINGOLI

167
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

La Commissione, nella procedura di verifica della compatibilità con la disciplina comunitaria di una
fattispecie, ha ampi poteri d’indagine. La disciplina era contenuta nel regolamento 17/1962,
rafforzato poi dal regolamento 1/2003.
In primo luogo, la Commissione ha il diritto di chiedere e ottenere le informazioni che ritiene utili,
sia dai governi dei Paesi membri sia dalle imprese o dalle associazioni di imprese coinvolte nella
procedura o anche da terzi. Mentre il regolamento 17/62 prevedeva una procedura articolata in 2
fasi, in cui la Commissione inizialmente inviava una semplice richiesta di informazioni e solo in
caso di rifiuto o di risposte incomplete o evasive adottava una decisione formale, con cui richiedeva
informazioni e fissava un termine al riguardo, il nuovo regolamento non richiede il previo invio di
una domanda, potendo la Commissione assumere direttamente una decisione di richiesta di
informazioni. Inoltre, regolamento 1/2003 ha innovato anche il regime sanzionatorio, prevedendo la
possibilità di comminare sanzioni e penalità di mora non più solo per l’ipotesi di informazioni
inesatte, ma anche per le informazioni fuorvianti fornite in risposta ad una domanda o decisione
della Commissione. Peraltro, la Commissione può rispettare l’anonimato delle imprese che lo
chiedano, così come deve rispettare la confidenzialità di alcune informazioni sensibili.
In secondo luogo, la Commissione può procedere alle necessarie verifiche in loco presso le sedi
d’imprese o le associazioni d’imprese. I funzionari della Commissione in tale ipotesi possono agire
in base ad un mandato scritto oppure in base ad una previa decisione, precisando l’oggetto, lo scopo
e i tempi dell’accertamento. Tale precisazione è necessaria non solo per giustificare l’accesso ai
locali dell’impresa, ma anche per consentire a quest’ultima di valutare la portata del dovere di
collaborazione, da un lato, e del diritto di difesa, dall’altro. La Commissione può scegliere se
limitarsi ad esibire un mandato, con cui non può costringere l’impresa a sottoporsi all’ispezione, o
agire previa decisione, a seconda della fattispecie. L’autorità di concorrenza dello Stato membro in
cui si trovano i locali oggetto dell’accertamento deve essere informata dalla Commissione sulla
missione e l’identità dei suoi agenti. Gli agenti della Commissione possono chiedere di accedere ai
locali, agli archivi e ai documenti, ma certo non possono procedere con la forza in caso di
resistenza. I funzionari dell’autorità nazionale possono, su domanda della stessa autorità nazionale o
della Commissione, prestare assistenza durante l’ispezione. Le modalità procedurali son quelle
disciplinate dal diritto nazionale.
La nuova disciplina introdotta dal regolamento 1/2003 ha rafforzato i poteri di accertamento della
Commissione, che può anche accedere ai domicili privati del personale delle imprese. Tali
accertamenti, a differenza di quelli nei locali dell’impresa, devono essere necessariamente disposti
con decisione motivata della Commissione, adottata dopo aver consultato l’autorità di concorrenza
nazionale, ed essere preventivamente autorizzati dal giudice nazionale, che deve verificare che la
decisione della Commissione sia autentica e che le misure coercitive non siano arbitrarie o
sproporzionate. In particolare, l’art. 21 del regolamento prevede la necessità che il sospetto riguardi
documenti pertinenti ai fini dell’accertamento di gravi violazioni dell’ art. 101 o 102 e richiede alla
Commissione di indicare, nella propria decisione, gli elementi a sostegno dell’esistenza e della
ragionevolezza del sospetto che i documenti aziendali oggetto degli accertamenti si trovino nei
locali al di fuori dell’impresa. Il giudice nazionale può chiedere alla Commissione ulteriori
chiarimenti, in assenza dei quali è legittimato a rifiutare l’autorizzazione all’esecuzione della misura
ispettiva.
L’esercizio dei poteri di controllo da parte della Commissione è stato spesso esaminato sotto il
profilo della tutela dei diritti fondamentali. Talvolta le decisioni di accertamento della Commissione
sono state contestate per l’inviolabilità del domicilio e del diritto al rispetto della vita privata
garantito dagli ordinamenti costituzionali degli Stati membri e dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Al riguardo, la Corte ha affermato
che proteggere la sfera di attività privata di ogni persona, sia fisica che giuridica, è un principio
generale del diritto comunitario; e che tale principio va osservato dalle autorità nazionali che
assistono la Commissione nell’accesso alla sede di un’impresa nel contesto di una procedura
istruttoria per violazione delle norme di concorrenza. Quindi, in tale occasione, le istituzioni
168
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

nazionali e quelle comunitarie sono tenute al rispetto dell’obbligo di leale cooperazione: le autorità
nazionali devono assicurare l’efficacia dell’azione della Commissione e verificare che l’intervento
non sia arbitrario o sproporzionato; mentre la Commissione deve fornire alle autorità nazionali tutti
gli elementi necessari perché la verifica possa essere realizzata utilmente. In definitiva, si tratta di
contemperare le 2 esigenze.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti della difesa, pur essendo la Commissione solo un organo
amministrativo e non giudiziario, anche in tali situazioni vanno rispettate le garanzie procedurali
contemplate dal diritto comunitario. Si tratta di un procedimento che può concludersi con
l’applicazione di una sanzione e comunque con una lesione degli interessi dell’impresa, sì che
quest’ultima deve poter esercitare pienamente i diritti della difesa e deve conoscere con chiarezza i
fatti che le si addebitano. È stato escluso che procedere ad accertamenti in loco senza prima
avvertire l’impresa rappresenti una violazione del diritto di difesa. Si è posto anche il quesito se
l’impresa abbia il diritto di non fornire dichiarazioni che provino l’esistenza di una sua violazione
della disciplina della concorrenza. La Corte ha considerato questo diritto, che rileva solo nel
processo penale, un’espressione del diritto di difesa. Quindi la Commissione, pur potendo obbligare
l’impresa a fornire ogni utile informazione sui fatti, non può pretendere dall’impresa delle risposte
che equivarrebbero ad ammettere sostanzialmente l’esistenza di un’infrazione che è la
Commissione a dover provare.

17. Segue: LE DECISIONI DELLA COMMISSIONE. I POTERI SANZIONATORI

Il regolamento 1/2003 individua i 4 tipi di decisione che la Commissione può assumere a seguito
dell’avvio di una procedura formale per l’applicazione degli artt. 101 e 102:
1) decisioni di constatazione ed eliminazione delle infrazioni;
2) decisioni che rendono obbligatori gli impegni presentati dalle parti;
3) decisioni di adozione di misure cautelari;
4) decisioni di constatazione di inapplicabilità dei divieti di cui agli artt. 101 e 102 per ragioni
di interesse pubblico comunitario.
Per quanto riguarda la 1 tipologia, al termine del procedimento la Commissione può constatare
un’infrazione agli artt. 101 e 102 e, ai sensi dell’art. 7 del regolamento 1/2003, adottare una
decisione con la quale obbliga le imprese o le associazioni di imprese a porre fine all’infrazione e,
se del caso, imporre loro un’ammenda secondo quanto previsto dall’art. 23, par. 2, lett. a. In
proposito, il regolamento ha introdotto una significativa innovazione, secondo cui la Commissione
può imporre l’adozione di rimedi comportamentali e strutturali, proporzionati all’infrazione
commessa e necessari a far cessare effettivamente l’infrazione. Tale potere ha alcuni limiti e
condizioni: in primo luogo, rispetto alle modifiche strutturali, il considerando 12 prevede che siano
concesse solo in presenza di un rischio sostanziale del perdurare o del ripetersi dell’infrazione
derivante dalla struttura stessa dell’impresa; peraltro, possono essere imposte solo qualora non
esista un rimedio comportamentale parimenti efficace o se quest’ultimo sarebbe più oneroso della
stessa misura strutturale. In definitiva, i rimedi devono essere necessari a far cessare effettivamente
l’infrazione, così da assicurare la libertà contrattuale ed imprenditoriale. Con regolamento n.
622/2008, di modifica del regolamento n. 773/2004, la Commissione ha introdotto, esclusivamente
con riguardo ai procedimenti avviati ex art. 101 nei confronti di cartelli, una speciale procedura di
transazione. In forza di questa nuova procedura, le imprese che ne facciano richiesta possono
decidere di riconoscere la loro partecipazione ad un’intesa anticompetitiva e la loro responsabilità
per i fatti contestati. Come ricompensa di questo riconoscimento, la Commissione potrà ridurre del
10% l’importo dell’ammenda da irrogare alle imprese che hanno aderito alla procedura. Al riguardo
va precisato che non è riconosciuto un diritto alla transazione, sulla cui opportunità la Commissione
conserva un ampio margine di discrezionalità. Alternativamente, se le parti presentano degli
impegni per rimuovere le preoccupazioni espresse nella valutazione preliminare dalla Commissione,
il regolamento 1/2003 ha introdotto la possibilità per quest’ultima di adottare una decisione di
169
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

accettazione degli impegni proposti. Tale decisione rende gli impegni vincolanti per le parti e pone
termine al procedimento in quanto l’intervento della Commissione non è più giustificato, senza
tuttavia stabilire l’esistenza o la permanenza di un’infrazione. In tal senso, è prevista una soluzione
alternativa alle decisioni di divieto e di imposizione di rimedi anche se, in linea di principio, se ne
prefigura un uso limitato ai casi nei quali la Commissione non ritenga opportuna l’imposizione di
un’ammenda. Il regolamento 1/2003 esclude la possibilità per le imprese di ottenere dalla
Commissione, dietro notifica, decisioni di compatibilità dei propri accordi o comportamenti con
l’art. 101, diversamente dal regime di notifica stabilito per le intese dal precedente regolamento
17/1962. Tuttavia, ai sensi dell’art. 10, è prevista la possibilità eccezionale per la Commissione, per
ragioni di interesse pubblico comunitario, «d’ufficio, di stabilire mediante decisione» che gli art.
101 e 102 non siano applicabili a determinate condotte anticompetitive. Si tratta di decisioni
dichiarative, attraverso cui la Commissione precisa gli orientamenti comunitari in materia di
politica di concorrenza e chiarisce i relativi divieti, così da indirizzare l’applicazione decentrata del
diritto comunitario. In questo modo, la stessa istituzione potrà archiviare le successive denunce
relative alla fattispecie oggetto della constatazione di inapplicabilità. Inoltre, la Commissione si è
impegnata a fornire orientamenti su questioni nuove relative all’applicazione degli artt. 101 e/o 102
con una dichiarazione scritta (lettera di orientamento). In particolare, le imprese che abbiano
concluso un accordo o adottato una pratica o che abbiano intenzione di farlo, ed in relazione ai quali
nutrano dei dubbi circa la loro conformità alle regole antitrust, possono richiedere un orientamento
su questioni nuove o non risolte sull’applicazione degli artt. 101 e 102. La domanda, presentata in
modo informale con un semplice promemoria contenente tutte le informazioni richieste dalla
Comunicazione, dovrà necessariamente contenere un quesito di rilevanza pratica relativo a problemi
che non siano già sollevati in una causa pendente dinanzi alla Corte di giustizia o al Tribunale di 1°
grado.
Infine, il regolamento 1/2003 ha disciplinato la possibilità per la Commissione di adottare misure
cautelari. La complessità e la durata non breve dell’attività di accertamento della violazione
contestata avevano in passato indotto a chiedersi se e secondo quali modalità fosse possibile tutelare
in via provvisoria, nelle more della procedura, le situazioni giuridiche riconosciute dalla normativa
comunitaria sulla concorrenza. La giurisprudenza della Corte ha riconosciuto il potere della
Commissione di assumere provvedimenti provvisori, fondandolo sulla necessità di garantire
l’effettività delle decisioni definitive. Secondo l’art. 8 del regolamento 1/2003, i provvedimenti
cautelari devono essere adottati soltanto in caso di indiscussa urgenza, per far fronte a situazioni che
causerebbero un danno grave ed irreparabile; devono avere carattere provvisorio e cautelare e
limitarsi a quanto necessario nella situazione data al fine di preservare lo status quo fino
all’adozione della decisione di merito, cioè essere conformi al principio di proporzionalità. Anche il
Tribunale in passato aveva delineato l’interpretazione dei 2 requisiti fumus boni iuris e del
periculum in mora:
1) sotto il primo profilo, il Tribunale aveva respinto l’interpretazione della Commissione
secondo cui il fumus doveva essere identificato con l’esistenza di un’infrazione chiara e
flagrante, in quanto sarebbe stato contrario alla logica stessa della richiesta di misura
cautelare, che è da valutarsi sull’apparenza e non sulla certezza del diritto, dunque
sull’esistenza verosimile e non certa della violazione;
2) sotto il secondo profilo, nella stessa ottica, il Tribunale aveva chiarito che il periculum
doveva essere un rischio di pregiudizio che non potesse trovare rimedio nella decisione della
Commissione in esito alla procedura amministrativa. Pertanto, deve trattarsi di un
pregiudizio attuale, non eventuale ed aleatorio, suscettibile di prodursi in un futuro
indeterminato.
Infine, quanto ai poteri sanzionatori, la Commissione può, mediante decisione, infliggere sanzioni
fino al 10% del fatturato realizzato durante l’esercizio sociale precedente, nel caso in cui accerti la
sussistenza di un’infrazione agli artt. 101 e 102, nonché penalità di mora. L’ammenda va
determinata sulla base di 2 parametri: la gravità e la durata della violazione; nelle ipotesi in cui i
170
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

guadagni illeciti siano ingenti, la Commissione può aumentare l’importo della sanzione rispetto ai
canoni ordinari per diminuire i proventi (effetto deterrente), ma sempre entro i limiti previsti dai
regolamenti comunitari. Altri elementi vanno considerati, quali l’intenzionalità, i precedenti della
stessa impresa, il contesto economico in cui si colloca la violazione, l’impatto sul mercato e la sua
estensione geografica. Inoltre, sono previste sanzioni e penalità di mora anche per violazioni
procedurali; mentre è prevista una riduzione della sanzione o anche una totale immunità per quelle
imprese che abbiano dato un contributo significativo all’avvio di una indagine o alla sua
definizione.
Il regolamento 1/2003 ha potenziato in più punti il regime sanzionatorio a disposizione della
Commissione, prevedendo che quest’ultima può esigere il pagamento di sanzioni e penalità di mora
comminate ad associazioni di imprese dalle singole imprese aderenti ad esse, nonché imporre
ammende in caso di inosservanza di decisioni volte ad adottare provvedimenti provvisori o a
rendere obbligatori impegni volontariamente assunti dalle parti. Infine, le ammende per violazioni
procedurali e le penalità di mora sono ora commisurate al fatturato e non più stabilite in cifra fissa.
Particolare rilevanza assumono le modifiche in materia di sanzioni alle associazioni di imprese. In
proposito, nel caso in cui l’infrazione accertata nei confronti dell’associazione d’imprese riguardi
attività economiche esercitate dalle imprese associate, l’art. 23, n.2, stabilisce che l’ammenda a
carico dell’associazione non possa eccedere entro il limite massimo del 10% del fatturato totale di
ciascun membro attivo sul mercato interessato dalla violazione posta in essere dall’associazione
stessa. In sostanza, la disposizione vuole garantire l’efficacia deterrente della sanzione e assicurare
che, nei procedimenti riguardanti solo decisioni o pratiche di associazioni d’imprese, l’importo
dell’ammenda possa essere determinato tenendo conto del fatturato delle imprese associate.
Il nuovo regime in tema di ammende alle associazioni di imprese è completato e rafforzato dalla
disposizione dell’art. 23, n.4, che ne disciplina le modalità di pagamento nei casi in cui la sanzione
sia stata determinata sulla base del fatturato delle imprese associate e l’associazione non sia
solvibile. In tali circostanze, entro un termine stabilito dalla Commissione, l’associazione provvede
a richiedere e ottenere dai propri membri i contributi necessari al pagamento dell’ammenda, in
assenza dei quali la Commissione potrà esigere il relativo importo direttamente da ciascuna delle
imprese rappresentate negli organi decisionali dell’associazione. Se ciò risulta insufficiente alla
copertura totale dell’ammenda, la Commissione potrà richiedere l’importo residuo a ciascuna delle
altre imprese associate operanti nel mercato interessato dall’infrazione.
L’ammenda va inflitta normalmente all’impresa cui sia imputabile per intero la condotta
anticoncorrenziale, ma questo principio può subire un’eccezione quando la condotta sia imputabile
a 2 imprese succedutesi nel tempo, la prima delle quali non svolge più l’attività oggetto della
violazione, continuata dalla seconda, ed entrambe dipendano da un soggetto pubblico. La Corte ha
affermato che il principio della responsabilità personale non si oppone a che la sanzione sia inflitta
per intero all’impresa che ha continuato l’attività e con essa l’infrazione.
Sull’ammontare dell’ammenda o della penalità di mora è ammesso il sindacato del Tribunale e della
Corte, cui spetta infatti un esame di «piena» giurisdizione.

19. IL CONTROLLO SULLE CONCETRAZIONI

Il fenomeno delle concentrazioni tra imprese ha assunto rilevanza sempre maggiore per la
progressiva realizzazione del mercato comune. Un’impresa può crescere non soltanto aumentando
le vendite dei propri prodotti nel mercato ma anche unendo le proprie forze con quelle delle altre
imprese, cioè concentrandosi. Un’operazione di concentrazione si realizza quando un’impresa si
fonde con un’altra oppure ne acquisisce il controllo, esercitando un’influenza determinante
sull’attività della stessa, o ancora quando 2 o più imprese creano un’impresa comune, da entrambe
controllata, mettendo insieme le rispettive attività. I problemi possono nascere quando un’impresa,
concentrandosi con altri operatori prima indipendenti, acquisisce un significativo potere di mercato
che le consenta, da sola o con altre imprese, di ridurre in modo sostanziale e durevole la
171
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

concorrenza, accrescendo la propria capacità di aumentare i prezzi o praticare condizioni


svantaggiose per i consumatori. Da ciò deriva l’esigenza di una valutazione ex ante delle operazioni
di concentrazione, per evitare che simili operazioni possano modificare l’assetto dei mercati in
senso anticoncorrenziale.
Le norme dell’Unione sulle concentrazioni hanno lo scopo di evitare che i processi di
concentrazione tra imprese producano una riduzione sostanziale della concorrenza, soprattutto
attraverso il consolidamento di una posizione dominante, tale da ostacolare la concorrenza. In
definitiva, per le concentrazioni è richiesta una valutazione economica dell’impatto dell’operazione
sul mercato e sulla posizione del soggetto che ne risulta: si tratta di una valutazione di prospettiva,
che investe le possibilità di sviluppo del mercato in senso competitivo. Secondo quanto chiarito
dalla Corte, tale valutazione consiste nel verificare in quali termini un’operazione di concentrazione
potrebbe modificare i fattori che determinano lo stato di concorrenza in un determinato mercato, per
accertare se ne conseguirebbe un ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva. In tale analisi
bisogna prendere in considerazione le diverse concatenazioni-effetto, per accogliere quelle che
risultano le più probabili. Il Trattato CECA prevedeva un regime di autorizzazione per le operazioni
che avessero «come effetto diretto o indiretto» una concentrazione tra imprese. Il TFUE, come già il
TCE, viceversa, non contiene una disposizione di analogo contenuto. L’ipotesi di concentrazione tra
imprese, pertanto, è stata considerata come rilevante e valutata ai sensi degli artt. 101 e 102, fino al
varo del regolamento 4064/89 specificatamente dedicato alle concentrazioni, ora sostituito con il
regolamento 139/2004. Ad es. ben noto è il caso Continental Can, in cui per la prima volta fu fatto
valere che l’art. 102 potesse comprendere un’ipotesi di acquisizione del controllo di imprese
concorrenti da parte di un’impresa in posizione dominante; e ciò perché una simile operazione
avrebbe potuto causare l’eliminazione della concorrenza, effettiva o potenziale, che pure sussisteva
nonostante l’esistenza di una posizione dominante. Su questi presupposti, si ritenne che l’art. 102 si
applicasse non solo ai comportamenti dell’impresa che incidono direttamente sul mercato, ma anche
alle modifiche strutturali dell’impresa che alterino gravemente la concorrenza in una parte
sostanziale del mercato comune. In un’altra occasione, poi, la Corte ha riconosciuto la possibilità di
fare applicazione dell’art. 101 nel caso dell’acquisto da parte di un’impresa di una partecipazione
anche minoritaria in un’impresa concorrente, ritenendo che quest’operazione potesse comportare un
condizionamento delle strategie commerciali dell’impresa controllata, a tal punto da alterare il
gioco della concorrenza.
Il regolamento 139/2004, come anche quello precedente, si applica alle concentrazioni che abbiano
una dimensione comunitaria. I criteri per determinare la dimensione comunitaria sono legati al
fatturato delle imprese interessate dall’operazione. Ai sensi dell’art. 1, n.2 del regolamento, si ha
riguardo ad un fatturato a livello mondiale di oltre € 5 miliardi e ad un fatturato, raggiunto da
almeno 2 delle imprese interessate, che superi nella Comunità i € 250 milioni. Non è raggiunta la
dimensione comunitaria quando i 2/3 del fatturato di ciascuna impresa sono realizzati in uno stesso
Stato membro.
L’art. 1, n. 3, del regolamento 139/2004 considera di dimensione comunitaria un’operazione di
concentrazione, pur non essendo raggiunte le suddette soglie, qualora:
– il fatturato totale realizzato a livello mondiale da tutte le imprese interessate sia superiore a € 2,5
miliardi;
– in ciascuno di almeno 3 Stati membri il fatturato totale realizzato dall’insieme delle imprese
interessate sia superiore a € 100 milioni;
– in ciascuno degli stessi 3 Stati membri, il fatturato realizzato individualmente da almeno 2 delle
imprese interessate sia superiore a € 25 milioni;
– il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno 2 delle imprese interessate
sia superiore a € 100 milioni.
Tuttavia, anche rispetto a queste soglie, non è raggiunta la dimensione comunitaria quando i 2/3 del
fatturato totale di ciascuna impresa nella Comunità sono realizzati all’interno di un solo e stesso
Stato. Ai fini del calcolo del fatturato si tiene conto in via di principio dei ricavi delle imprese
172
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

coinvolte nell’ultimo esercizio, al netto degli oneri tributari. Per alcune ipotesi specifiche, l’art. 5
del regolamento fissa criteri diversi, ad es. per gli istituti di credito e per le imprese di assicurazione.
Il sistema di definizione della dimensione comunitaria, basato su un criterio quantitativo, è integrato
dalla possibilità di correzione della competenza col meccanismo dei rinvii di cui agli artt. 9 e 22 del
regolamento 139/2004, in conformità del principio di sussidiarietà ciascuna concentrazione viene
esaminata dall’autorità più appropriata; tale meccanismo consente anche di ridurre costi, rischi e
inconvenienti connessi alla molteplicità di notifiche e procedimenti nei casi di operazioni che
investono più di uno Stato (c.d. multigiurisdizionali). In questa prospettiva, il regolamento
139/2004 ha modificato la disciplina preesistente e introdotto condizioni di maggiore flessibilità in
relazione ai criteri ed alle procedure di rinvio. In particolare, può essere oggetto di rinvio ad
un’autorità nazionale una concentrazione che incide in misura significativa sulla concorrenza in un
mercato all’interno dello Stato membro interessato che possa caratterizzarsi come mercato distinto,
o anche che incide sulla concorrenza in tale mercato se esso, pur costituendo un mercato distinto,
non costituisce una parte sostanziale del mercato comune. In questo 2° caso, la Commissione, se
ritiene che ricorrano queste condizioni, è tenuta a rinviare la concentrazione alle autorità dello Stato
interessato che ne facciano richiesta. In senso inverso, l’art. 22 prevede la possibilità di rinvio da
parte di una o più autorità nazionali alla Commissione di operazioni che, pur non raggiungendo le
soglie di fatturato fissate dall’art. 1 del regolamento 139/2004, siano suscettibili di incidere in
modo significativo sulla concorrenza nel territorio dello Stato membro o degli Stati membri che
effettuano la richiesta ed abbiano un impatto sul commercio intracomunitario.
Il regolamento definisce l’operazione di concentrazione sottoposta alla sua disciplina, si tratta in
particolare:
a) dell’ipotesi di fusione tra 2 o più imprese prima indipendenti;
b) dell’ipotesi di acquisto del controllo totale o parziale di una o più imprese da parte di
soggetti che controllano già un’impresa o da parte di una o più imprese; l’acquisto può
avvenire in modo diretto o indiretto, con l’acquisizione di quote di capitale o di qualsiasi
elemento del patrimonio, contrattualmente o altro;
c) dell’ipotesi di costituzione di un’impresa comune che esercita stabilmente tutte le funzioni
di un’entità economica autonoma ( le c.d. imprese comuni di pieno esercizio o full function).
Le operazioni di concentrazione di dimensione comunitaria vanno obbligatoriamente notificate alla
Commissione. La notifica ha effetti sospensivi e l’operazione non può comunque essere realizzata
fino a quando non intervenga una decisione positiva di compatibilità o non siano decorsi i termini
per adottarla. A tale fine, entro 25 giorni, la Commissione può aprire la procedura di verifica, che
deve concludersi entro 90 giorni lavorativi dalla decisione di avvio dell’istruttoria, trascorsi i quali
l’operazione va considerata compatibile; la Commissione, negli stessi termini, può anche dichiarare
inapplicabile il regolamento o decidere che l’operazione non solleva seri dubbi di incompatibilità.
Nel caso di mancata notifica, la Commissione può infliggere alle parti un’ammenda fino al 10% del
fatturato totale dell’impresa interessata oppure può ordinare lo scioglimento dell’entità risultante
dall’operazione, così da ripristinare, per quanto possibile, la situazione precedente la
concentrazione.
La procedura di controllo si apre con la notifica della concentrazione alla Commissione, in qualsiasi
momento dopo la conclusione dell’accordo, la comunicazione dell’offerta di acquisto o di scambio
o l’acquisizione di una partecipazione di controllo, ma sempre prima della loro realizzazione.
Inoltre, con le modifiche introdotte dal regolamento 139/2004, le imprese possono notificare anche
un accordo preliminare, qualora siano in grado di dimostrare la loro buona fede nel concludere
l’accordo. Nella maggior parte dei casi, la notifica è preceduta da un incontro con la Commissione,
che ha lo scopo di informare quest’ultima dei negoziati in corso, di individuare gli elementi di
conoscenza necessari per un corretto controllo e di avere un primo scambio di idee sulle questioni
più rilevanti poste dall’operazione. In ogni caso, il termine di 25 gg. lavorativi per la prima fase
della procedura di controllo decorre dal momento della notifica, che dev’essere completa. In tale
periodo, la Commissione può chiedere informazioni, oltre che alle parti, alle imprese concorrenti, ai
173
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

consumatori e ad altri terzi interessati. All’esito della prima fase, la Commissione decide se la
concentrazione è compatibile con il mercato comune; oppure che non rientra nella sfera di
applicazione del regolamento; oppure che va aperta la seconda fase della procedura di controllo in
quanto sono necessari ulteriori approfondimenti. La Commissione può anche decidere di rimettere
la trattazione del caso, o di parte di esso, nelle mani dell’autorità nazionale di concorrenza. In tal
caso, l’istituzione comunitaria deve emettere una decisione di rinvio entro 35 gg. lavorativi se non
ha ancora avviato il procedimento, oppure entro 65 gg. lavorativi a decorrere dalla notifica, qualora
abbia già avviato la seconda fase del procedimento senza aver adottato provvedimenti ai sensi
dell’art. 8. La seconda fase si apre con la decisione con cui la Commissione comunica alle parti
che, sulla base degli elementi in suo possesso, la concentrazione notificata solleva seri dubbi di
compatibilità con il mercato comune. Nel caso in cui, alla fine della seconda fase, la Commissione
intenda adottare una decisione diversa da quella di compatibilità, deve comunicare per iscritto le sue
obiezioni alle parti notificanti, imponendo loro un termine per presentare osservazioni. Sia le parti
notificanti che quelle interessate hanno il diritto e l’onere di rispondere, con memorie scritte o
partecipando ad un’audizione orale. Se la Commissione ritiene la concentrazione incompatibile, è
ancora possibile autorizzarla qualora le parti propongano rimedi sufficienti ad eliminarne
l’incompatibilità. Di solito si ricorre a rimedi strutturali (dismissioni, mantenimento della
separazione di reti commerciali, uso del marchio, ecc.) piuttosto che comportamentali; ma non è
escluso che quest’ultimi siano pure idonei ad impedire l’impatto restrittivo della concorrenza
derivante dalla concentrazione. Quanto al criterio sostanziale di valutazione delle concentrazioni,
esso è stato ridefinito dal regolamento 139/2004, per sostituire il criterio della dominanza avente
effetti restrittivi con il diverso criterio espresso con la formula “riduzione sostanziale della
concorrenza”. Il nuovo test è basato su valutazioni di natura economica e permette di vietare tutte le
concentrazioni che hanno effetti anticompetitivi, oppure che determinano l’aumento dei prezzi e
diminuiscono la scelta dei consumatori o l’innovazione. Sono invece ritenute compatibili con il
mercato comune le concentrazioni che non ostacolino in modo significativo una concorrenza
effettiva sul mercato comune o in una parte sostanziale di esso, soprattutto attraverso la creazione o
il rafforzamento di una posizione dominante. Con riferimento alla nozione di ostacolo significativo
ad una concorrenza effettiva, si precisa che tale nozione «dovrebbe essere interpretata come
riguardante, al di là del concetto di posizione dominante, solo gli effetti anticoncorrenziali di una
concentrazione risultanti dal comportamento non coordinato di imprese che non avrebbero una
posizione dominante sul mercato in questione». Ne consegue che l’ambito di applicazione del
divieto continua ad essere definito in misura prevalente in corrispondenza della nozione di
dominanza e che l’utilizzo in senso estensivo del nuovo criterio sostanziale di valutazione si
configura in linea di principio come un’ipotesi residuale. Va anche rilevato che il regolamento
139/2004 consente di vietare anche un’operazione di concentrazione che dia luogo alla creazione di
una posizione dominante collettiva, cioè una situazione in cui 2 o più imprese indipendenti sono,
relativamente ad uno specifico mercato, unite da vincoli economici tali da detenere insieme una
posizione dominante rispetto ad altri operatori sullo stesso mercato. In particolare, il Tribunale di 1°
grado ha ritenuto che, sul piano giuridico o economico, non esiste alcuna ragione per escludere
dalla nozione di legame economico la relazione di interdipendenza esistente tra i membri di un
oligopolio ristretto all’interno del quale questi ultimi, su un mercato di caratteristiche adeguate, in
particolare in termini di concentrazione del mercato, di trasparenza e di omogeneità del prodotto,
sono in grado di prevedere i loro reciproci comportamenti e sono pertanto fortemente incentivati ad
allineare il loro comportamento sul mercato in modo da massimizzare il profitto comune riducendo
la produzione per aumentare i prezzi. Infatti, in tale contesto, ciascuno operatore sa che un’azione
fortemente concorrenziale da parte sua diretta ad accrescere la sua quota di mercato provocherebbe
un’azione identica da parte degli altri, in modo che egli non trarrebbe alcun vantaggio dalla sua
iniziativa. In relazione al ruolo ed al trattamento dei possibili guadagni di efficienza nell’ambito del
processo di valutazione delle concentrazioni, in passato la Commissione aveva sempre evitato di
riconoscere esplicitamente l’esistenza di una vera e propria efficiency defence, sia pure in presenza
174
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

del riferimento all’evoluzione del progresso tecnico ed economico contenuto nell’art. 2, n. 1 del
vecchio regolamento. Tale disposizione non è stata modificata dal regolamento 139/2004, in quanto
è stata ritenuta una base giuridica adeguata per consentire di tener conto delle suddette efficienze.
All’esito della procedura, un progetto di decisione viene trasmesso alle autorità di concorrenza degli
Stati membri e discusso dal Comitato consultivo, composto di rappresentanti delle autorità nazionali
competenti in materia di concorrenza. La decisione è infine pubblicata sulla G.U. dell’Unione. Se la
decisione dichiara l’operazione compatibile con il mercato comune, in prima o in seconda fase, il
nuovo regolamento, confermando formalmente una prassi applicativa già introdotta dalla
Commissione ma dichiarata illegittima dal Tribunale di 1° grado, chiarisce che tale decisione
riguarda anche le restrizioni accessorie all’operazione, ma che la Commissione non è obbligata a
verificare, nei singoli casi, se le restrizioni concordate tra le parti siano effettivamente necessarie e
direttamente collegate alla concentrazione, dunque accessorie. Il regolamento stabilisce che la
Commissione, su richiesta delle imprese interessate, sia tenuta a pronunciarsi nei casi che
presentino quesiti nuovi o non risolti, rispetto ai quali né la Comunicazione sulle restrizioni
accessorie, né i precedenti della Commissione forniscano validi criteri e riferimenti interpretativi.
Una procedura semplificata di esame è prevista per determinate categorie di concentrazioni che
sono ritenute “non problematiche” per la concorrenza, nel senso che non sono, se non
eccezionalmente, incompatibili con il mercato comune. Essa si applica alle operazioni a seguito
delle quali:
a) 2 o più imprese acquisiscono congiuntamente il controllo di un’impresa comune che non
svolge alcuna attività nel territorio dello Spazio economico europeo;
b) acquisiscono il controllo esclusivo o congiunto di un’impresa, e nessuna delle parti opera nel
medesimo mercato del prodotto e geografico, o in mercati situati a monte o a valle di una
delle altre parti all’operazione;
c) 2 o più imprese procedono ad una fusione, o una o più imprese acquisiscono il controllo
esclusivo o congiunto di un’altra impresa, ma la loro quota congiunta non è superiore al
15% in caso di rapporti orizzontali o al 25% in caso di rapporti verticali;
d) una parte acquisisce il controllo esclusivo di un’impresa di cui detiene già il controllo
congiunto.
In questi casi la concentrazione sarà dichiarata compatibile con il mercato comune entro 25 gg.
lavorativi dalla data di notifica con una decisione in forma abbreviata, che si limiterà ad indicare
che la concentrazione rientra in una o più delle categorie previste dalla comunicazione. Sono
naturalmente impugnabili tutti gli atti adottati nel corso della procedura di esame suscettibili di
produrre effetti giuridici. Oltre, come ovvio, ad un’eventuale decisione che dichiari incompatibile
con il mercato comune un’operazione notificata, anche una decisione positiva che autorizzi la
concentrazione può formare oggetto di impugnazione da parte delle imprese notificanti, se le
constatazioni in essa effettuate producano effetti giuridici vincolanti tali da pregiudicare gli interessi
delle ricorrenti. Infine, soggette a controllo giurisdizionale sono le decisioni adottate dalla
Commissione nell’ambito dell’attuazione degli impegni assunti dalle parti notificanti un’operazione
di concentrazione e che hanno condizionato la dichiarazione di compatibilità della stessa. Parimenti
impugnabile è la decisione con cui la Commissione conclude che un’operazione non costituisce una
concentrazione ai sensi del suddetto regolamento.

19. TUTELA DELLA CONCORRENZA TRA DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO


NAZIONALE

L’art. 3 del regolamento 1/2003 interviene a disciplinare, per la prima volta dall’adozione del
Trattato, la materia dei rapporti tra normativa comunitaria e normative nazionali di concorrenza,
prevedendo a carico di giudici e autorità nazionali di concorrenza un esplicito obbligo di
applicazione del diritto comunitario ai comportamenti d’impresa che siano tali da incidere sugli
scambi tra Stati membri. Oltre a favorire una più ampia applicazione degli artt. 101 e 102 a livello
175
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

nazionale, l’obbligo è volto anche a garantire che i procedimenti delle autorità nazionali di
concorrenza siano soggetti alle procedure di informazione e consultazione preventiva della
Commissione previste dal regolamento, per assicurare un’applicazione omogenea e coerente del
diritto antitrust comunitario.
Tuttavia, relativamente alle intese, questa possibilità è soggetta a un vincolo di convergenza che
preclude l’applicazione di norme nazionali di concorrenza più severe ad accordi, decisioni e
pratiche concordate suscettibili di influenzare gli scambi intracomunitari, ma che non integrino una
violazione dell’art. 101. Concretamente, se un’intesa, in ipotesi con oggetto o effetti
anticoncorrenziali, sia ritenuta dalla Commissione compatibile con il diritto comunitario per il solo
motivo che non pregiudica il commercio intracomunitario, legittimamente potrebbe l’autorità
nazionale pervenire ad una valutazione opposta e ravvisare un pregiudizio all’assetto interno della
concorrenza. Al contrario, se la Commissione dichiara l’incompatibilità dell’intesa con l’art. 101,
ciò impedisce alle autorità nazionali di dichiararne l’illegittimità rispetto alle norme nazionali. Lo
stesso vale nell’ipotesi di un’esenzione per categorie di accordi, oggetto di apposito regolamento. In
tal caso, non potendo adottare decisioni incompatibili con il regolamento, il giudice nazionale non
potrà considerare contrario al regime nazionale della concorrenza un accordo o una pratica
concordata che siano coperti dall’esenzione; al più, potrà operare un rinvio delle disposizioni
comunitarie rilevanti. La portata del vincolo di convergenza è ristretto alla sola fattispecie di intesa.
Invece esso non preclude l’applicazione di discipline nazionali più severe laddove queste abbiano
ad oggetto condotte unilaterali d’impresa, come tali non rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art. 101. Pertanto, anche nel nuovo sistema sono pienamente applicabili le norme nazionali
che, per es., vietino o sanzionino condotte unilaterali abusive diverse e ulteriori rispetto a quelle
previste dall’art. 102 del Trattato, oppure comportamenti unilaterali di imprese non dominanti. In
secondo luogo, il vincolo di convergenza riguarda esclusivamente l’applicazione delle norme
nazionali di tutela della concorrenza e non di quelle che invece perseguono obiettivi differenti
rispetto agli artt. 101 e 102 e siano dirette alla tutela di altri interessi legittimi. L’espressa
possibilità per le autorità nazionali competenti in materia di concorrenza di fare diretta applicazione
degli artt. 101 e 102 del Trattato è un passaggio di grande rilievo ai fini del processo di
decentramento. Al riguardo, la Commissione ha sempre ritenuto che una simile possibilità fosse da
escludere se non prevista da una norma nazionale ad hoc. Questa posizione, ad una prima lettura
appare discutibile e lo è se la si confronta con il principio generale dell’applicazione delle norme
comunitarie provviste di effetto diretto da parte delle amministrazioni nazionali e dei giudici.
Invece, è pacifico che i giudici e le amministrazioni nazionali possono ed anzi devono fare
applicazione delle norme provviste di effetto diretto e che le norme del Trattato che qui sono in
questione non rappresentano affatto un’eccezione. Infatti, tali norme sono invocabili direttamente
davanti al giudice e, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale, la seconda va
disapplicata. Lo stesso diritto comunitario nonché la giurisprudenza della Corte hanno attribuito
espressamente anche alle amministrazioni nazionali il potere di applicare gli artt. 101 e 102 in
assenza di una procedura avviata dalla Commissione. Non è corretto ipotizzare che la qualità di una
norma comunitaria, ed in particolare l’effetto diretto, dipendano dall’attribuzione espressa che ne
dia questo o quello Stato membro; né si può dubitare che l’effetto diretto degli artt. 101 e 102
comporti, oltre che l’invocabilità delle norme dinanzi ai giudici ed alle amministrazioni nazionali, il
potere-dovere degli uni e delle altre di farne diretta applicazione anche nel senso di far valere gli
obblighi che quelle norme impongono ai singoli e pure in loro “sfavore”. La competenza a fare
diretta applicazione dell’artt. 101 e 102, consente all’autorità nazionale di fare applicazione della
norma comunitaria così come essa viene normalmente interpretata ed applicata dalle istituzioni
comunitarie. Il potere-dovere dei giudici e delle autorità nazionali di concorrenza di fare
applicazione delle norme comunitarie non appare tale da minacciare l’uniformità di applicazione del
diritto comunitario della concorrenza. Demandare la valutazione delle intese o degli abusi di
posizione dominante alle autorità nazionali in realtà è soltanto un aspetto del decentramento
prefigurato nei suoi termini essenziali e completi già dal Trattato del 1957. I giudici e le
176
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

amministrazioni nazionali costituiscono infatti l’essenza del decentramento dell’applicazione di


tutte le norme comunitarie: e le norme sulla concorrenza non fanno eccezione. Inoltre, il
regolamento 1/2003 mantiene in capo alla Commissione un ruolo rilevante nella determinazione
della politica comunitaria della concorrenza. In un sistema di competenze concorrenti della
Commissione, delle autorità e dei giudici nazionali, sono comunque previsti dei meccanismi di
salvaguardia; in tal senso rilevante è la possibilità che la Commissione avochi a sé la trattazione di
un caso, nonché il preciso obbligo che fa capo alle autorità e ai giudici nazionali di non adottare
decisioni contrastanti con quelle della Commissione. Relativamente ai poteri delle autorità nazionali
di concorrenza nell’applicazione del diritto comunitario, l’art. 5 del regolamento 1/2003 sancisce
che esse sono competenti ad applicare gli artt. 101 e 102 in casi individuali. È quindi
espressamente escluso che tali autorità abbiano il potere di adottare atti generali, quali i regolamenti
d’esenzione per categoria. Nondimeno, a certe condizioni, le autorità nazionali possono revocare in
casi individuali il beneficio dell’esenzione per categoria limitatamente al territorio nazionale.
Tuttavia, a fronte di questa equivalenza di poteri, le autorità nazionali continuano a svolgere un
ruolo diverso rispetto alla Commissione. In primo luogo, perché all’istituzione comunitaria resta la
competenza esclusiva di orientamento della politica antitrust comunitaria; in secondo luogo perché
l’avvio di un procedimento da parte della Commissione per l’adozione di una decisione priva tutte
le autorità nazionali garanti della concorrenza della competenza di applicare gli artt. 101 e 102 del
Trattato. Le autorità nazionali di concorrenza possono iniziare un procedimento istruttorio nel caso
in cui, in base alle informazioni di cui dispongono, appaiono sussistere le condizioni per un divieto;
in tal modo esse sono chiamate a tutelare i diritti riconosciuti dagli artt. 101 e 102. In ogni caso, tali
autorità non possono prendere decisioni che siano in contrasto con un’eventuale decisione già
adottata dalla Commissione. Ai sensi dell’art. 6 del regolamento 1/2003, la competenza ad
applicare gli artt. 101 e 102 del Trattato è espressamente attribuita ai giudici nazionali.
Nell’esercizio di tale competenza, i giudici sono tenuti a rispettare i precedenti della giurisprudenza
comunitaria oltre che i regolamenti di esenzione comunitari. Di grande rilievo pratico è pertanto la
definizione delle rispettive sfere di competenza e di azione della Commissione e del giudice
nazionale. La competenza dei tribunali nazionali, concorrente con quella della Commissione, deriva
infatti dall’efficacia diretta dei divieti sanciti dagli artt. 101 e 102 che incidono direttamente sulla
posizione giuridica dei privati e attribuiscono loro diritti ed obblighi che i giudici nazionali sono
tenuti a tutelare.
La decisione del giudice nazionale, però, non vincola la Commissione, che resta libera di decidere,
eventualmente in modo diverso dal giudice nazionale. Il giudice nazionale deve astenersi dal
prendere provvedimenti idonei a compromettere la realizzazione degli scopi del Trattato e dunque
evitare l’adozione di provvedimenti in contrasto con decisioni della Commissione.

20. LA COOPERAZIONE TRA COMMISSIONE, AUTORITÀ E GIUDICI NAZIONALI


NELL’APPLICAZIONE DEL DIRITTO EUROPEO DELLA CONCORRENZA

Un aspetto essenziale del sistema di applicazione delle regole di concorrenza comunitarie consiste
nella cooperazione all’interno della rete di autorità di concorrenza (European Competition
Network), composta dalle istituzioni pubbliche designate dagli Stati membri (in Italia, l’Autorità
Garante della concorrenza e del mercato o Autorità Antitrust) in conformità all’art. 35 del
regolamento 1/2003 e dalla Commissione. La cooperazione richiede vari tipi di contatti tra le
autorità, ma soprattutto si basa sullo scambio di informazioni e sull’assistenza nella raccolta delle
prove e nelle ispezioni. Quando si tratta di casi di pregiudizi agli scambi e di applicazione delle
norme comunitarie, l’art. 11 del regolamento 1/2003 impone alle autorità nazionali di informare
preventivamente la Commissione sull’esito dei procedimenti e prima di adottare alcuni tipi di
decisione. Nell’ipotesi di casi nuovi, un’autorità nazionale dovrà informare la Commissione
soltanto qualora intenda effettuare indagini sul caso, oppure adottare eventuali misure formali di
indagine. Nel rapporto orizzontale tra autorità, questo scambio di informazioni si svolge su base
177
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

volontaria. Un accordo o una pratica abusiva sono di pertinenza della rete qualora pregiudichino il
commercio tra gli Stati membri. La Commissione ha precisato che il concetto di commercio non è
limitato agli scambi tradizionali di beni e servizi a livello transfrontaliero, ma include anche i casi
nei quali le intese pregiudichino la struttura della concorrenza nel mercato. In altri termini, rientra in
tale concetto ogni condotta che sia diretta ad eliminare o minacci di eliminare un concorrente che
opera all’interno del mercato comunitario. L’applicazione del criterio del pregiudizio al commercio
è indipendente dalla definizione dei mercati geografici rilevanti. Infatti, il commercio tra Stati
membri può essere pregiudicato anche nei casi in cui il mercato rilevante sia nazionale o sub-
nazionale.
Se un caso è stato identificato come di pertinenza della rete, il 1° obbligo consiste nell’informare la
Commissione dell’avvio del procedimento. In linea di principio, le informazioni devono essere
fornite precedentemente o subito dopo l’adozione della prima misura formale di indagine, oppure
l’utilizzo dei poteri investigativi conferiti dalla legislazione nazionale. Va tenuto presente che il
contenuto delle informazioni deve essere preciso e dettagliato, per consentire alle autorità garanti
della concorrenza di decidere se sono interessate al caso e se desiderano essere associate al suo
trattamento. La comunicazione apre un periodo di attribuzione del caso della durata di 2 mesi, entro
cui ciascuna autorità deve valutare se vuole intervenire. L’intervento della Commissione sarà
necessario qualora l’accordo o la pratica incida sulla concorrenza in più di 3Stati membri, oppure
quando il caso sia strettamente collegato con altre disposizioni comunitarie; oppure, infine, la tutela
dell’interesse comunitario richieda una decisione della Commissione per orientare la politica
comunitaria di concorrenza o di assicurare l’efficace applicazione del diritto antitrust comunitario.
In sostanza, possono verificarsi 3 situazioni diverse:
1. è possibile che una o più autorità decidono di agire in parallelo a quella che ha comunicato il
caso per prima: sarà allora possibile individuare un’autorità responsabile del coordinamento
delle misure di indagine;
2. l’autorità che ha comunicato originariamente le informazioni alla rete decide di chiudere il
procedimento in quanto un’altra autorità nazionale intende occuparsi del caso;
3. la Commissione può avocare a sé il caso e dunque privare l’autorità nazionale della sua
competenza.
Ai sensi dell’art. 11, n. 4, del regolamento 1/2003, le autorità sono anche tenute ad informare la
Commissione prima di adottare una decisione con la quale si ordina la cessazione dell’infrazione;
oppure una decisione volta ad accettare impegni oppure una decisione diretta a revocare
l’applicazione di un regolamento di esenzione per categoria. L’art. 11, n. 6, prevede che l’avvio di
un procedimento da parte della Commissione priva le autorità nazionali della competenza ad
applicare gli artt. 101 e 102. Se un’autorità nazionale sta già trattando il caso, l’esercizio del potere
di avocazione è subordinato alla preventiva e tempestiva informazione dei membri della rete, ai
quali la Commissione dovrà anche indicare per iscritto le relative motivazioni. Inoltre, l’art. 12 del
regolamento 1/2003 stabilisce che la Commissione e le autorità nazionali hanno la facoltà di
scambiare ed utilizzare come mezzo di prova qualsiasi elemento di fatto e di diritto, comprese le
informazioni riservate, a condizione che siano legalmente raccolte dall’autorità trasmittente in base
alla legislazione ad essa applicabile. Nondimeno, il principio del segreto d’ufficio comporta che i
segreti aziendali e altre informazioni riservate appartenenti ad imprese non possono essere divulgati
all’esterno della rete, ma ciò comunque non può impedire la divulgazione delle informazioni
necessarie a comprovare la violazione degli artt. 101 e 102. Nel caso di scambio di informazioni
fornite a un’autorità di concorrenza nell’ambito di un programma di clemenza, per preservare
l’efficacia di tali programmi nell’individuazione dei cartelli e gli incentivi alla collaborazione da
parte delle imprese coinvolte, la Comunicazione della Commissione, prevede che in questi casi le
informazioni trasmesse alla rete non possano essere utilizzate dagli altri membri per avviare proprie
indagini ai fini dell’applicazione delle norme di concorrenza comunitarie o nazionali.
Infine, l’art. 22, n.1, del regolamento 1/2003, consente alle autorità nazionali di raccogliere
informazioni, in base alla legislazione interna, per conto di un’altra autorità. La richiesta di
178
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

assistenza deve essere formale, scritta e motivata. Anche rispetto alle giurisdizioni nazionali il
regolamento 1/2003 ha introdotto significative forme di cooperazione nell’applicazione del diritto
comunitario della concorrenza, definite poi anche in una specifica Comunicazione. In particolare,
viene in rilievo l’obbligo di leale collaborazione tra l’istituzione comunitaria ed i giudici nazionali,
nella misura in cui entrambe le autorità sono chiamate alla reciproca assistenza nell’applicazione
delle regole antitrust. La Commissione è tenuta a fornire informazioni, formulare pareri e
presentare osservazioni, in ogni caso non vincolanti e sempre previa richiesta di una giurisdizione
nazionale. D’altra parte, le autorità giudiziarie nazionali possono richiedere alla Commissione la
trasmissione di notizie in suo possesso, per accertare se un determinato caso sia già al suo esame, se
essa ha avviato un procedimento o adottato una decisione. Nella trasmissione delle informazioni, la
Commissione deve assicurare alle persone fisiche e giuridiche la tutela offerta dall’art. 339 TFUE;
pertanto, potrà divulgare informazioni coperte dal segreto d’ufficio solo se, anche a livello
nazionale, tali informazioni siano garantite da una protezione adeguata. La Commissione può anche
rifiutare di trasmettere informazioni alle giurisdizioni nazionali per salvaguardare i suoi interessi o
evitare che siano compromessi il funzionamento e l’indipendenza della Comunità.
Alla Commissione può essere richiesto un parere su questioni economiche, di fatto e di diritto,
quando il giudice nazionale non rinvenisse nella giurisprudenza e nella normativa rilevante gli
strumenti necessari per la soluzione di un caso. Il parere non sarà vincolante per la giurisdizione
richiedente.
Un altro strumento di cooperazione per garantire l’applicazione uniforme degli artt. 101 e 102 è
rappresentato dalle osservazioni scritte, che la Commissione e le autorità nazionali possono
presentare di propria iniziativa, e dalle osservazioni orali che possono essere concesse solo tramite
autorizzazione della giurisprudenza competente. Infine, i giudici nazionali possono essere chiamati
ad intervenire in caso di ispezioni compiute dalla Commissione presso le imprese e le associazioni
di imprese oppure presso il domicilio degli amministratori e dei dipendenti delle imprese.

CAPITOLO 7
LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
APPLICABILE AGLI STATI

1. MISURE STATALI ED EFFETTO ANTICONCORRENZIALE

La disciplina della concorrenza non si limita a regolare i comportamenti delle imprese. Essa può
investire anche alcuni comportamenti degli Stati, che direttamente o indirettamente alterano o
contribuiscono ad alterare le condizioni di concorrenza tra le imprese operanti nel mercato comune.
Un primo ed importante profilo di rilevanza della disciplina dell’Unione per gli Stati membri, in
particolare degli artt. 101 e 102 TFUE, riguarda le normative nazionali che, nel regolare l’esercizio
di attività economiche o la prestazione di servizi, producono effetti tali da modificare le condizioni
di concorrenza tra le imprese.
In un primo tempo, la giurisprudenza, di fronte all’ipotesi di accordi tra imprese suggellati da una
legge che ne imponeva il rispetto, ha affermato in termini molto generali che gli Stati membri non
possono adottare provvedimenti che consentono alle imprese di sottrarsi ai divieti sanciti dal
Trattato in tema di concorrenza. In altre parole, gli Stati membri non possono pregiudicare l’effetto
utile delle norme sulla concorrenza dirette alle imprese attraverso misure legislative o regolamentari
che consentano alle stesse imprese di agire in violazione del diritto comunitario. Tuttavia, ciò va
coniugato:
- con il principio sancito dall’art. 4 TUE che, attraverso l’enunciazione di un dovere generale
di collaborazione tra Stati membri e Unione, impone agli Stati membri di non adottare

179
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

misure che possano ridurre o pregiudicare l’efficacia delle norme comunitarie sulla
concorrenza applicabili alle imprese;
- con il principio della concorrenza libera e non falsata, un tempo consacrato dall’art. 3, lett.
g, TUE, ora contenuto nel Protocollo sulla concorrenza e sul mercato interno.
Ed è sulla lettura congiunta degli artt. 4, n. 3, TUE e 101 TFUE, nonché sull’art. 3, n. 3, TUE, che
il giudice comunitario ha fondato l’obbligo per gli Stati membri di non adottare o mantenere in
vigore misure, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere praticamente
inefficaci le regole di concorrenza applicabili alle imprese. La Corte ha concluso che è precluso agli
Stati membri di imporre, agevolare o rafforzare la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 101
TFUE; nonché di privare del carattere pubblico una normativa, attribuendo a privati la
responsabilità di adottare decisioni d’intervento in materia economica.
In altri termini, le misure nazionali che pregiudicano l’effetto utile delle norme sulla concorrenza
rivolte alle imprese sono quelle che consentono a queste ultime di eludere i divieti, ipotesi che si
verifica quando la misura investe comportamenti delle imprese altrimenti vietati.
La stessa logica rileva per l’ipotesi che l’attribuzione di diritti esclusivi da parte dello Stato porti
l’impresa beneficiaria a violare l’art. 10 TFUE, letto congiuntamente all’art. 106, nella specie di
abuso di posizione dominante.
Gli artt. 101 e 102 restano applicabili nell’ipotesi in cui la normativa nazionale lasci sussistere la
possibilità di una concorrenza che possa essere ostacolata, ristretta o falsata da comportamenti
autonomi delle imprese. Al riguardo, va evidenziato che la possibilità di escludere un determinato
comportamento anticoncorrenziale dall’ambito di applicazione dell’art. 101, n. 1, TFUE, in ragione
del fatto che si tratta di un comportamento imposto da una normativa nazionale e che quest’ultima
ha eliminato ogni possibilità di comportamento concorrenziale da parte delle imprese di cui si tratta,
è stata applicata in modo particolarmente restrittivo dai giudici dell’Unione. Resta da chiarire, se
una normativa nazionale del tutto scollegata da un effettivo e palese comportamento delle imprese
possa comunque determinare una violazione del diritto dell’Unione ed in particolare del dettato
congiunto degli artt. 4 TUE e 101 TFUE. Il riferimento è a quelle normative che producono sulle
condizioni di concorrenza un effetto pari o equivalente a quello di un’intesa vietata, ma senza che
un comportamento anticoncorrenziale (autonomo) delle imprese si colleghi in qualche modo alla
misura statale. La risposta della Corte è stata nel senso che l’incompatibilità di una normativa
statale resta ancorata alla presenza di un comportamento delle imprese, non importa se favorito,
rafforzato o addirittura imposto dalla normativa. Al riguardo, è utile ricordare che lo stesso art. 101
non considera incompatibile con il mercato comune ogni alterazione della concorrenza, comunque
verificatasi, ma solo quelle alterazioni che siano il risultato di un comportamento delle imprese;
dunque sono perseguiti i mezzi utilizzati dalle imprese e non il risultato in quanto tale.
L’obiettivo generale della creazione di un regime che garantisca una concorrenza non falsata è
collegato, quanto alla sua realizzazione, alle condizioni e ai ritmi previsti dai Trattati. La
conseguenza è che non è sufficiente il principio quale parametro per valutare la legittimità delle
condotte rilevanti, ma occorre riferirsi alle condizioni previste nel Trattato, che sono precisamente
quelle specificate dagli artt. 101-109 TFUE. Pertanto, sembrerebbe che la scelta degli autori del
Trattato sia nel senso che le norme contenute negli artt. 101 e 102 sono rivolte alle imprese e che le
misure statali che producono un effetto anticoncorrenziale vanno esaminate in funzione del
collegamento con il comportamento delle imprese. Le sole eccezioni, in quanto espressamente
previste agli artt. 106 e 107-109, riguardano rispettivamente l’intervento diretto degli Stati sulla
vicenda di imprese pubbliche titolari di diritti esclusivi e gli aiuti che gli stessi Stati accordano alle
imprese: ed è ancora una volta una scelta del legislatore. Lo sforzo della giurisprudenza di
affermare l’incompatibilità anche di quelle misure che facilitano o inducono oppure rendono
inevitabile la violazione o la vanificazione delle disposizioni rivolte alle imprese va apprezzato. La
giurisprudenza, nel richiedere il collegamento con comportamenti d’impresa, ha espressamente
chiarito che l’applicazione degli artt. 101 e 102 non può essere tale da costituire un limite alle
prerogative degli Stati membri in materia di politica economica.
180
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Tuttavia la situazione oggi è mutata notevolmente. L’art. 119 TFUE prevede che l’azione degli
Stati membri comprenda l’adozione di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento
delle politiche dell’insieme degli Stati membri e condotta in conformità col principio di
un’economia di mercato aperta alla libera concorrenza; ciò viene ripetuto anche dall’art. 120.
Entrambe le norme affermano l’esigenza di politiche economiche sempre più interdipendenti,
esaltando il valore della concorrenza negli interventi degli Stati membri. Infatti, una corretta
valorizzazione delle 2 norme consentirebbe di valutare rispetto al diritto comunitario misure statali
che producono distorsioni della concorrenza, attraverso il controllo, come avviene in tutti gli altri
settori del sistema, della coerenza interna delle misure statali, nel senso di verificare la rispondenza
dei mezzi adoperati rispetto ai fini di interesse generale perseguiti dallo Stato membro. Va distinto il
caso in cui il comportamento anticoncorrenziale sia consentito o agevolato dalla misura statale da
quello in cui sia addirittura imposto, infatti:
- quando la normativa nazionale lascia sufficiente autonomia di azione all’impresa  il
comportamento di questa resta sottoposto alla disciplina degli artt. 101 e 102 ed è passibile
di censura e di sanzione, salvo all’occorrenza far valere anche la responsabilità dello Stato;
- quando viceversa una normativa nazionale impone alle imprese un comportamento in
violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza  tale comportamento non può essere
sanzionato, mancando il presupposto per l’applicazione degli artt. 101 e 102, con la
conseguenza che sarà solo lo Stato a rispondere dell’alterazione della concorrenza per il
passato.
Tuttavia, le imprese, a seguito del provvedimento che ne dichiara l’incompatibilità, dovranno
astenersi dal persistere nel comportamento censurato.

2. MISURE STATALI E IMPRESE PUBBLICHE O BENEFICIARIE DI DIRITTI


ESCLUSIVI

Il TFUE ha espressamente dichiarato all’art. 345 la propria neutralità rispetto al regime della
proprietà, sia essa pubblica o privata, vigente negli Stati membri. Ne consegue che l’intervento
pubblico nell’economia non è come tale precluso, ma solo in quanto e nella misura in cui determini
una violazione delle norme del Trattato. Infatti, l’art. 106 TFUE:
 al paragrafo 1 vieta agli Stati membri di adottare nei confronti delle imprese pubbliche o delle
imprese cui siano stati attribuiti diritti speciali o esclusivi, misure che siano contrarie al Trattato e
“specialmente” al divieto di discriminazione in base alla nazionalità e alle norme sulla concorrenza;
 al paragrafo 2 sancisce, da un lato, la rilevanza del servizio pubblico nel sistema comunitario e,
dall’altro, che il particolare favore accordato alle imprese che svolgono un tale servizio non è senza
limiti, dovendo comunque conciliarsi con altri valori fondamentali dello stesso.
Dunque, come si evince dal paragrafo 1, la mera esistenza di un monopolio o di un regime di diritti
esclusivi non è di per sé contraria al Trattato; infatti l’art. 106 vuole impedire che gli Stati membri,
pur liberi di operare delle scelte di politica economica e sociale o di creare un regime di monopolio
in un determinato settore, sottraggano l’impresa pubblica o il monopolio al rispetto delle regole del
gioco, in particolare quanto al mercato comune ed alla concorrenza. In definitiva, non è escluso che,
in determinate circostanze, il monopolio possa essere di per sé contrario al Trattato, pertanto occorre
verificare in concreto il caso singolo per stabilirne l’eventuale illegittimità. Sono da ritenersi
incompatibili con l’art. 106:
– il diritto esclusivo per l’importazione di tabacchi o di apparecchi terminali di telecomunicazioni;
– l’obbligo, imposto alle emittenti televisive, di servirsi di una determinata impresa pubblica per la
realizzazione di programmi, impedendo loro di rivolgersi ad imprese di altri Stati membri;
– un’esclusiva di commercializzazione di apparecchi terminali, in virtù della presunzione che limita
di fatto la gamma di prodotti posti in commercio.
Più incerta è la questione se ed entro quali limiti l’art. 106 induca a ritenere illegittimi i diritti
esclusivi di produzione di beni o servizi. Al riguardo, la giurisprudenza sembra fondarsi sulla
181
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

premessa generale che gli Stati membri non possono pregiudicare l’effetto utile delle norme
materiali cui l’art. 106, n.1, rinvia, in particolare le norme poste a tutela della concorrenza. Perciò
le misure statali che riducono l’ambito del libero gioco della concorrenza sono sottoposte alla
verifica di compatibilità rispetto all’art. 106 e alle norme materiali rilevanti che si collegano ad
esso. L’oggetto della verifica è la possibilità di giustificare le misure in funzione di un interesse
generale dello Stato che sia coerente con gli interessi della Comunità.
In definitiva, le imprese che svolgono servizi di interesse economico generale sono investite di una
doppia funzione:
1) una collegata al mercato e quindi alle regole che sovraintendono al suo funzionamento;
2) l’altra collegata invece ai bisogni primari di un Paese e che non necessariamente risponde
alle stesse regole del mercato, se non sotto il profilo della competitività.
L’esistenza di una giustificazione oggettiva e ragionevole della misura anticoncorrenziale, in
particolare se le restrizioni siano necessarie e proporzionate alla realizzazione delle esigenze di
interesse pubblico perseguite, viene verificata caso per caso. Così, ad es., si è considerato
giustificato il monopolio legale del servizio postale ordinario, in quanto costituisce un servizio
d’interesse generale che necessariamente deve coprire anche settori non redditizi e dunque può
essere “protetto” nei confronti di eventuali concorrenti nei settori redditizi.
Con pari chiarezza si è invece rilevata l’incompatibilità con l’art. 106 del monopolio del servizio di
corriere espresso, in quanto l’esclusione della concorrenza che ne consegue non è giustificabile in
base a motivi di interesse generale.
Infine, l’applicazione della deroga di cui all’art. 106, n. 2, al caso concreto non può essere lasciata
alla sola valutazione dello Stato membro, in quanto il Trattato ha affidato alla Commissione il
compito di vigilare in questa materia sulla corretta applicazione delle norme; tale deroga può essere
invocata dai singoli direttamente dinanzi al giudice nazionale.

3. IL POTERE DI CONTROLLO DELLA COMMISSIONE EX ART. 106, N. 3, TFUE

L’art. 106, n. 3 TFUE, attribuisce alla Commissione il compito di vigilare sull’applicazione della
norma: «…rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni». Si tratta di
una specificazione del compito di vigilanza attribuito in via generale alla Commissione dell’art. 17
TUE, qui riferito alle misure adottate dagli Stati membri nei confronti delle imprese pubbliche o
titolari di diritti esclusivi o speciali.
Anzitutto, si è rilevato che le decisioni e le direttive che la Commissione può adottare rientrano a
pieno titolo nelle rispettive categorie di atti vincolanti enunciate dall’art. 288 TFUE; ne consegue
un onere di impugnazione nei termini di rito e la possibilità di una procedura d’infrazione in caso di
mancato adempimento. Poi si è progressivamente precisata la natura e l’ampiezza dei poteri della
Commissione soprattutto riguardo a 2 questioni:
1) il rapporto tra i poteri della Commissione e quelli normativi del Consiglio;
2) la differenza tra i poteri della Commissione ex art. 106, sia con lo strumento della direttiva
che con quello della decisione, e la procedura d’infrazione ex art. 258 TFUE.
Riguardo la 1° questione, si è affermato che la competenza attribuita alla Commissione dall’art.
106, n.3, si limita «alle direttive ed alle decisioni necessarie al fine di espletare efficacemente il
dovere di vigilanza a cui essa è tenuta in forza della stessa disposizione». In seguito, la Corte ha
affermato che la Commissione ha il potere di precisare in modo generale le obbligazioni enunciate
dal Trattato e dall’art. 106, n. 1. Anche con altri interventi successivi, la Corte ha rilevato la portata
generale dei poteri attribuiti al Consiglio ex artt. 114 e 103, rispettivamente in tema di
ravvicinamento delle legislazioni nazionali sul mercato interno e di concorrenza, sottolineando in
particolare la competenza ad adottare tutti i regolamenti e le direttive utili ai fini dell’applicazione
delle norme sulla concorrenza. Viceversa, l’art. 106 riguarda l’ipotesi specifica di misure statali
adottate dagli Stati membri nei confronti delle imprese con le quali sussistono relazioni economiche

182
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

particolari, con la conseguenza che le direttive e le decisioni di cui al n.3 sono finalizzate
esclusivamente al controllo di tali misure.
Riguardo la 2° questione, dapprima è stata contestata una direttiva della Commissione che, ritenuta
l’attribuzione di diritti esclusivi di importazione, commercializzazione, allacciamento, installazione
e manutenzione dei terminali di telecomunicazione incompatibile con il diritto dell’Unione, ne
imponeva l’abolizione all’insieme degli Stati membri. La contestazione riguardava appunto la scelta
di una direttiva ex art. 106, n.3, in luogo della procedura d’infrazione ex art. 258, articolata sulla
contestazione degli addebiti, sulla difesa degli Stati e sul ricorso alla Corte perché riconosca
l’esistenza dell’infrazione. La risposta della Corte ha riprodotto l’affermazione che la Commissione
ha il potere di «precisare» in via generale le obbligazioni che derivano dal Trattato. Ne consegue
che l’atto previsto dall’art. 106, n.3, senza prendere in considerazione la posizione particolare in cui
si trovano i singoli Stati, «concretizza» gli obblighi che sono loro imposti; tale orientamento è stato
confermato e si può considerare ormai consolidato.
In una successiva occasione, il problema si è posto con maggior evidenza, in quanto si trattava di
una decisione presa sulla base dell’art. 106, n.3, dunque un atto individuale. In essa la
Commissione contestava ad uno Stato membro la violazione degli artt. 106 e 102 relativamente ad
una normativa nazionale sul servizio postale. La Corte ha affermato, diversamente dalle pronunce
rese in tema di direttiva, che la decisione implica la valutazione di fatti concreti e «determina le
conseguenze che derivano per lo Stato membro». In breve, la Corte ha sottolineato soprattutto
l’effetto utile del potere attribuito alla Commissione, senza soffermarsi troppo sul confine tra tale
potere e quello generale di cui all’art. 258.
Infine la Corte ha riconosciuto espressamente che la Commissione ha, in forza dell’art. 106, n.3, il
potere di accertare e dichiarare l’incompatibilità rispetto al diritto comunitario di una normativa
statale e di indicare i provvedimenti necessari per eliminare la violazione. Tuttavia, non è proprio
sicuro che una direttiva o una decisione della Commissione ex art. 106, n. 3, non possano persino
introdurre obblighi nuovi rispetto al Trattato; di sicuro si tratta di obbligazioni autonome, anche se
già sancite dal Trattato, con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad eseguirle, a meno che non ne
contestino la legittimità con l’azione di annullamento.

4. GLI AIUTI PUBBLICI ALLE IMPRESE

Complementari alle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese sono le disposizioni sugli aiuti
di Stato, contenute negli artt. 107-109 TFUE, che sono preordinate alla realizzazione di un regime
di concorrenza non falsata e dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico conduca ad
alterare la competizione ad armi pari tra le imprese all’interno del mercato comune.
La disciplina degli aiuti di Stato, nel prefigurare determinate deroghe al divieto generale ed una
procedura di controllo della compatibilità con il mercato comune, consente alla Commissione di
contribuire alla definizione di vere e proprie linee di politica industriale. Infatti, l’attività della
Commissione si traduce nella canalizzazione dell’intervento pubblico verso obiettivi di politica
industriale che siano in sintonia con gli interessi dell’Unione.
La disciplina degli aiuti di Stato alle imprese si fonda sul principio che gli aiuti sono incompatibili
con il mercato comune, sì che vanno sottoposti ad un sistema obbligatorio di autorizzazione
preventiva da parte dell’istituzione comunitaria competente, la Commissione ed eccezionalmente il
Consiglio.
L’art. 107 TFUE contiene tale principio d’incompatibilità degli aiuti, che è sostanzialmente un
divieto di erogare aiuti che non siano dichiarati preventivamente compatibili con il mercato
comune. Nello stesso art. ai paragrafi 2 e 3 sono prefigurate le ipotesi di deroghe al principio
d’incompatibilità, alcune applicabili ipso iure, altre in forza di una valutazione ampiamente
discrezionale della Commissione. L’art. 108 disciplina la procedura di controllo preventivo della
compatibilità degli aiuti nuovi, nonché la procedura di controllo permanente sugli aiuti esistenti.

183
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Infine, l’art. 109 prefigura il potere del Consiglio di fissare in via generale, con regolamento, le
condizioni per l’applicazione dell’art. 108, nonché le categorie di aiuti che possono essere dichiarati
compatibili.
Solo tardivamente il Consiglio ha esercitato questa competenza, adottando il regolamento n. 994/98
sull’applicazione degli artt. 87 e 88 (oggi artt. 107 e 108 TFUE) a determinate categorie di aiuti di
Stato orizzontali ed il regolamento n. 659/99 sull’applicazione dell’art. 108 TFUE. I 2 regolamenti
del Consiglio riconducono il processo di produzione della normativa di dettaglio all’interno di un
più appropriato quadro istituzionale. Infatti, per circa 30 anni la definizione di tali norme era di
competenza della sola Commissione. Invece, i regolamenti del Consiglio del 1998 e del 1999
riaffermano l’esigenza che il processo di produzione delle norme di diritto derivato non sia
unicamente affidato ai soli atti di soft low della Commissione, ma avvenga con atti regolamentari in
senso stretto, assunti dal Consiglio (previa consultazione del PE). In tale prospettiva, il regolamento
994/98 abilita la Commissione ad adottare appositi regolamenti di esecuzione finalizzati a
disciplinare alcuni interventi di sostegno pubblico dell’economia.
Nel 2008, la Commissione, con la delega conferita dal Consiglio, ha adottato il regolamento
generale di esenzione per categoria n. 800/2008 che in parte sostituisce precedenti regolamenti e in
parte introduce nuove categorie di aiuto esentabili:
 tra le categorie che non beneficiavano dell’esenzione ci sono: gli aiuti per la tutela ambientale,
gli aiuti per l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo a favore delle grandi imprese, gli aiuti sotto
forma di capitale di rischio e gli aiuti per le imprese di nuova creazione da parte di imprenditrici
donne;
 tra le categorie già disciplinate da precedenti regolamenti sono previsti: gli aiuti a favore di PMI,
gli aiuti per la ricerca e lo sviluppo delle PMI, gli aiuti per l’occupazione e la formazione, gli aiuti a
finalità regionale.
Il regolamento 659/99 procede ad un riordino organico dei principi e regole procedurali, enunciando
all’interno di un atto normativo una disciplina che precedentemente trovava la sua fonte
essenzialmente nella prassi della Commissione e nella giurisprudenza della Corte, che è stata in
gran parte recepita nel regolamento del Consiglio. Tuttavia l’importanza di questi atti normativi del
Consiglio non deve portare a sottovalutare il grande ruolo svolto dalla Commissione e dal giudice
dell’Unione, che hanno saputo dare concreta attuazione alle disposizioni del Trattato in materia di
aiuti di Stato. Tale dinamicità ha investito i 3 momenti principali del regime comunitario degli aiuti
di Stato: la nozione rilevante di aiuto, la disciplina delle deroghe al divieto e la procedura di
controllo di compatibilità con il mercato comune.

5. LA NOZIONE DI AIUTO OGGETTO DEL DIVIETO GENERALE

L’art. 107 è fin troppo chiaro: «sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui
incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, oppure mediante risorse statali,
sotto qualsiasi forma che, favorendo alcune imprese o alcune produzioni, falsino o minaccino di
falsare la concorrenza». Dunque la nozione rilevante di aiuto è molto ampia; in essa si comprende
ogni vantaggio economicamente apprezzabile attribuito ad un’impresa con un intervento pubblico,
che altrimenti non si sarebbe realizzato. Ne consegue che rientra nella nozione di aiuto rilevante
qualsiasi misura che direttamente o indirettamente produca per l’impresa un beneficio economico. Il
Trattato «non distingue gli interventi a seconda della loro causa o del loro scopo, ma li definisce in
funzione dei loro effetti», così come è irrilevante che la posizione giuridico-economica del
beneficiario dell’aiuto abbia subito un’evoluzione in meglio o in peggio, mentre è necessario
verificare che la misura abbia favorito soltanto alcune imprese o alcune produzioni e non sia
giustificata dalla natura della misura o dalla portata generale del sistema in cui si inserisce. La
forma dell’aiuto è indifferente anche in quanto l’atto che dispone l’erogazione dell’aiuto può essere
sia una legge che un atto amministrativo. La logica del sistema è stata riassunta nel parametro del
normale investitore privato e delle normali condizioni di mercato. In breve, il controllo si rileva
184
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

necessario e può portare alla dichiarazione d’incompatibilità quando l’apporto pubblico, che si
manifesta con l’assunzione di partecipazioni nell’impresa, non corrisponde a quello di un
investitore privato che conferisca capitale in normali condizioni di un’economia di mercato. La
Corte ha ribadito la necessità di accertare se un apporto di capitale sia avvenuto in circostanze che
corrispondono alle normali condizioni di un’economia di mercato e se nelle stesse circostanze un
investitore di pari dimensioni avrebbe effettuato conferimenti della stessa consistenza. Inoltre, la
Corte ha precisato che il comportamento dell’investitore pubblico deve almeno corrispondere a
quello di un «gruppo imprenditoriale privato che persegue una politica strutturale, globale o
settoriale, guidato da prospettive di redditività a più lungo termine». Nella prassi più recente, il
criterio dell’investitore in un’economia di mercato è stato ulteriormente affinato dalle istituzioni
comunitarie, e soprattutto dalla Commissione, che ha generalmente riconosciuto l’esigenza di
un’approfondita e complessa analisi economica per poter qualificare un intervento in capitale delle
pubbliche autorità in un’impresa pubblica come un aiuto di Stato. Al riguardo, rileva la prassi della
Commissione in materia di ristrutturazione di istituti bancari e di compagnie aeree in difficoltà, da
cui emerge che la natura di aiuto di un determinato intervento pubblico va valutata tenendo presente
una serie di elementi, quali: il tasso di rischio dell’investimento; le prospettive di sviluppo del
settore; le valutazioni dei principali operatori del settore.
Criteri analoghi vengono applicati nell’ipotesi di operazioni di privatizzazione di imprese
pubbliche; infatti, in questi casi la Commissione verifica:
- che la privatizzazione non si accompagni ad interventi finanziari dell’azionista pubblico
volti a riequilibrare la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa ceduta e non
coerenti con i comportamenti che avrebbe avuto un azionista privato interessato alla
dismissione di una propria impresa;
- che il prezzo di cessione rifletta correttamente il valore delle attività privatizzate e non
comporti pertanto un indebito vantaggio per il soggetto acquirente. Inoltre, la Commissione
si riserva di controllare che i processi di privatizzazione si svolgano in conformità a tali
principi.
Sempre con riferimento al rapporto tra lo Stato e le imprese pubbliche sono state adottate alcune
normative per assicurarne la trasparenza. La prima direttiva del 1980, allo scopo di mantenere
l’uguaglianza tra imprese pubbliche e private, imponeva agli Stati membri di comunicare
periodicamente i dati relativi alle relazioni con le imprese pubbliche. In seguito, la Commissione ha
integrato questa direttiva, soprattutto in vista delle esigenze collegate ai processi di liberalizzazione
e/o di privatizzazione. Ne risultavano precisati gli obblighi di comunicazione alla Commissione, gli
obblighi di separazione almeno contabile per le attività di imprese pubbliche distinte da quelle
connesse a servizi di interesse generale, nonché la posizione particolare degli enti creditizi pubblici.
Infine, tale disciplina ha trovato una sistemazione nella direttiva della Commissione n. 2006/111,
che ha codificato i testi precedenti.
Il principio di trasparenza assume particolare rilievo nell’ipotesi in cui si tratti di valutare se le
compensazioni finanziarie accordate dallo Stato ad imprese esercenti servizi di interesse economico
generale siano proporzionate a quanto necessario allo svolgimento della missione di interesse
generale affidata a queste imprese. Inizialmente la giurisprudenza aveva stabilito che spettasse solo
agli Stati membri definire obiettivi, portata e modalità di funzionamento dei pubblici servizi; in
seguito, ha modificato il suo orientamento, escludendo già dalla nozione di aiuto l’ipotesi di
erogazione di risorse pubbliche a esclusivo compenso degli oneri aggiuntivi di servizio pubblico, in
quanto inidonea a favorire l’impresa beneficiaria e ad alterare le condizioni concorrenziali (c.d.
criterio della compensazione). La stessa Corte ha precisato meglio il suo orientamento nella
sentenza Altmark, in particolare sulle condizioni che devono ricorrere, sotto il controllo del giudice
nazionale, perché la compensazione degli oneri di servizio pubblico possa sottrarsi alla
qualificazione di aiuto, principalmente:
a) l’impresa beneficiaria deve effettivamente essere stata incaricata dell’assolvimento di
obblighi di servizio pubblico;
185
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

b) i criteri di calcolo della compensazione devono essere determinati in via generale,


preventiva e trasparente;
c) la compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire i costi;
d) quando la scelta dell’impresa non sia stata operata con procedura di appalto pubblico, la
compensazione deve essere determinata sulla base dei costi di un’impresa media, gestita in
modo efficiente.
A tale giurisprudenza si è adeguata anche la Commissione con l’adozione della decisione del 2005
sugli aiuti sotto forma di compensazione per gli obblighi di servizio pubblico, che sottrae
all’obbligo di notifica preventiva gli aiuti, qualora sussistano cumulativamente le condizioni
stabilite dalla stessa.
Per quanto riguarda l’origine dell’aiuto, esso deve poter essere imputato allo Stato. L’imputabilità è
sicura quando l’aiuto sia stato concesso da un ente pubblico o direttamente dall’amministrazione,
ma anche da un soggetto privato sottoposto a controllo pubblico.
La giurisprudenza è stata meno lineare sul fatto se l’aiuto debba anche essere a carico dello Stato.
La Corte ha seguito un criterio di verifica caso per caso, valutando se il risultato fosse riferibile al
comportamento dello Stato, se l’ente erogatore fosse completamente indipendente oppure agisse
sotto il controllo o le direttive dei pubblici poteri. In seguito, la giurisprudenza è apparsa più
generosa nella qualificazione come aiuto di certe misure: ad es., un sussidio di solidarietà per gli
imprenditori agricoli è stato considerato aiuto per il controllo esercitato dallo Stato sugli atti
dell’istituto bancario le cui eccedenze di bilancio erano utilizzate per il sussidio.
La Corte è poi tornata sulle sue posizioni, limitando la nozione di aiuto alla sola ipotesi che i
vantaggi siano accordati direttamente o indirettamente con risorse dello Stato e che costituiscano un
onere per lo Stato o per organismi da esso designati: così ad es., è stato ritenuto che non costituisse
un aiuto l’instaurazione di uno speciale regime giuridico per le Poste Italiane Spa per la conclusione
di contratti di lavoro a tempo determinato in deroga alla disciplina di diritto comune, in quanto il
beneficio derivante da tale regime speciale non era finanziato con risorse dello Stato.
In definitiva, sono 2 i presupposti della nozione di aiuto ai sensi dell’art. 107 TFUE sotto il profilo
dell’origine dell’aiuto:
1) deve trattarsi di risorse statali, cioè strumenti finanziari che siano nella disponibilità delle
autorità pubbliche per essere destinate a sostenere le imprese, anche se non restano
permanentemente nel patrimonio nello Stato;
2) la misura deve essere imputabile allo Stato o ad una sua articolazione.
Beneficiario dell’aiuto deve essere un’impresa, cioè qualsiasi entità che eserciti un’attività
economicamente rilevante e sia presente nel mercato dei beni o dei servizi. Dunque, la disciplina
degli aiuti investe tutte le imprese, pubbliche e private; mentre ne sono esclusi gli enti che non
esercitano attività economiche, ad es. gli enti di ricerca, le Università o le scuole di formazione.
Condizione della rilevanza dell’aiuto è che favorisca alcune imprese o alcune produzioni rispetto ad
altre che si trovino nella stessa situazione giuridica, circostanza che si riassume nel presupposto
della selettività. Viceversa non rientrano nella nozione di aiuto le misure generali di politica
economica dirette a sostenere non una certa attività o un gruppo di imprese, bensì lo sviluppo e
l’equilibrio del sistema nel suo insieme. Tuttavia, va precisato che il criterio della specificità
dell’aiuto va inteso in modo ampio; infatti, in pratica occorre di volta in volta verificare se la misura
può essere giustificata in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme
oppure rappresenti una deviazione rispetto all’assetto del sistema, diretta a ridurne gli oneri
finanziari a vantaggio di specifici attori. La valutazione degli effetti dell’aiuto sugli scambi e sulle
condizioni di concorrenza è facilitata dalla presunzione che in ogni caso un aiuto produce effetti
distorsivi. Rinforzare la posizione di un’impresa sul mercato, consentendole costi e prezzi minori e
dunque una quota di mercato diversa e più alta, va a pregiudizio delle imprese più competitive.
Inoltre, l’aiuto alimenta la cultura dell’assistenzialismo, fino a disabituare l’imprenditore alla sana
concorrenza. Quanto all’incidenza sugli scambi, occorre una valutazione dell’insieme degli scambi
cui partecipa l’impresa beneficiaria, anche quando la stessa operi in più settori e l’aiuto investa uno
186
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

solo dei prodotti. Inoltre, è possibile che il beneficio finanziario manifesti i suoi effetti sugli scambi
anche quando il beneficio operi solo sul mercato interno, in quanto ciò può determinare una
maggiore difficoltà di penetrazione delle imprese del settore operanti in altri Paesi dell’UE. In
definitiva, è escluso dalla nozione rilevante solo l’aiuto che investe un prodotto o un servizio per i
quali non siano neppure ipotizzabili scambi nell’Unione. Infine, anche in materia di aiuti di Stato
vale il criterio de minimis: infatti, di fronte alla pretesa di utilizzare gli stessi criteri adottati in
materia di accordi tra imprese, è stato affermato che la scarsa consistenza dell’aiuto o la dimensione
modesta dell’impresa beneficiaria non possono far escludere a priori la possibilità che siano
influenzati gli scambi tra Paesi membri. Ciò ha trovato conferma sia nella giurisprudenza, sia nella
prassi della Commissione che è stata avallata dal Consiglio col regolamento n. 994/98 su
determinate categorie di aiuti orizzontali. La Commissione ha modificato il criterio de minimis, nel
regolamento n. 69/2001, poi sostituito dal regolamento n. 1998/2006, per cui gli aiuti che nell’arco
di 3 anni non superano i 200.000 € sono dispensati dall’obbligo di notifica.

6. LE DEROGHE AL PRINCIPIO D’INCOMPATIBILITÀ

L’art. 107 prefigura le deroghe al principio generale d’incompatibilità degli aiuti di Stato. La prima
riguarda gli aiuti che il Trattato configura come compatibili e che dunque è applicabile de jure; ciò
si verifica in 2 ipotesi:
1) rispetto agli aiuti di natura sociale (ad es. una riduzione di prezzi) concessi ai singoli
consumatori, purché non vi sia discriminazione sull’origine dei prodotti;
2) rispetto agli aiuti per rimediare ai danni causati da calamità naturali.
Il Trattato prevede una 3° ipotesi, concernente gli aiuti a certe regioni tedesche per compensare gli
svantaggi economici provocati dalla divisione della Germania. Al riguardo la Corte ha chiarito che
tale previsione è ancora applicabile, non essendo stata abrogata dopo la riunificazione della
Germania. In base alla nuova formulazione dell’art. 107, n. 2, lett. c, il Consiglio ha il potere di
abrogare, su proposta della Commissione, tale deroga dopo 5 anni dall’entrata in vigore del Trattato
di Lisbona. Più rilevanti sono le deroghe prefigurate al par. 3 dell’art. 107, la cui applicazione è
sottoposta alla valutazione discrezionale della Commissione o del Consiglio, consistenti in 4
ipotesi:
a) aiuti per lo sviluppo di regioni con tenore di vita anormalmente basso o grave
disoccupazione, nonché delle regioni di cui all’art. 349, tenuto conto della loro situazione
strutturale, economica e sociale;
b) aiuti per la realizzazione di un progetto di comune interesse europeo o per rimediare a un
grave turbamento dell’economia in uno Stato membro;
c) aiuti per lo sviluppo di alcune attività o alcune regioni, purché non alterino le condizioni
degli scambi in misura contraria al comune interesse;
d) aiuti destinati alla cultura e alla conservazione dei beni culturali, sempre che non alterino le
condizioni degli scambi e della concorrenza.
C’è poi una 5° ipotesi, residuale, di categorie di aiuti identificati dal Consiglio.
La prassi della Commissione ha individuato veri e propri criteri di compatibilità, realizzando una
disciplina degli aiuti statali che si articola su 3 ipotesi:
– gli aiuti regionali,
– gli aiuti settoriali,
– gli aiuti orizzontali.
Essa è ispirata a 2 principi di carattere generale ai fini della valutazione di compatibilità:
1) il principio della contropartita
2) il principio della trasparenza
Il principio della contropartita (compensatory justification), formulato nel caso Philip Morris dalla
Commissione e confermato poi dalla Corte, comporta anzitutto che un aiuto va valutato dal punto di
vista comunitario piuttosto che nazionale o dell’impresa beneficiaria. L’aiuto potrà considerarsi
187
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

compatibile quando non sia possibile diversamente realizzare l’obiettivo d’interesse comune in
funzione del quale è stabilita la deroga. Pertanto, la Commissione non potrà autorizzare aiuti che
non siano necessari e proporzionati rispetto all’interesse comune perseguito. [Ad es., non può
considerarsi compatibile con il mercato comune un aiuto x nuovi investimenti redditizi quando
l’impresa avrebbe sufficienti mezzi propri per realizzarli o quando si tratti di aiuti c.d. operativi o di
funzionamento, cioè non finalizzati a ridurre costi o cmq ad elevare la competitività ma solo a far
fronte a costi eccessivi (e perdite) di esercizio.]
Il principio della trasparenza impone che la natura e la portata dell’aiuto rispetto agli scambi
intracomunitari ed alla concorrenza devono poter essere verificati sulla base di tutti gli elementi
necessari: la consistenza, l’obiettivo, la forma, i mezzi finanziari, le ragioni di compatibilità.
Tra le ipotesi di deroga al principio d’incompatibilità sono di grande rilievo quelle che riguardano
gli aiuti regionali, previsti nell’art. 107, n. 3. L’obiettivo perseguito non è di limitare gli aiuti
regionali, ma di razionalizzarli, scoraggiando per quanto possibile una corsa incontrollata e
unilaterale dei singoli Paesi membri a indirizzare investimenti nelle regioni meno favorite.
I parametri di compatibilità di tali aiuti sono principalmente:
a) il rapporto con il livello occupazionale e con la specificità regionale;
b) le ripercussioni settoriali dell’aiuto;
c) e la trasparenza.
In particolare, per quanto riguarda:
 la deroga di cui alla lett. a) dell’art. 107, par. 3, è stato adottato un parametro di «sfavore»
delle regioni, basato sul PIL in rapporto al potere di acquisto per abitante; anche se il livello
di riferimento è quello dell’Unione. Nelle regioni aventi un parametro molto alto, quindi più
sfavorite, sono consentiti aiuti secondo il massimale più elevato e persino aiuti al
funzionamento;
 la deroga di cui alla lett. c), invece, consente di dichiarare incompatibili aiuti destinati a
correggere gli squilibri regionali all’interno di un Paese membro, anche se la situazione
economica complessiva è superiore alla media comunitaria.
Con riferimento agli aiuti regionali, secondo il regolamento del Consiglio n. 994/98 la
Commissione può dichiarare, con un suo regolamento, che sono compatibili col mercato comune e
non soggetti all’obbligo di notifica ex art. 108, par. 3, gli aiuti che rispettano la mappa approvata
dalla Commissione per ciascuno Stato membro per l’erogazione degli aiuti regionali; su tali basi la
stessa Commissione ha adottato il regolamento n. 1628/2006, relativo all’applicazione degli art.
107 e 108 agli aiuti di Stato per investimenti a finalità regionali, ora sostituito dal regolamento
generale di esenzione per categoria n. 800/2008.
Molto importanti sono anche le deroghe concesse dalla Commissione sulla base degli
“Orientamenti” sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese in difficoltà. In
particolare, secondo tali Orientamenti, gli aiuti per il salvataggio possono essere autorizzati solo in
casi eccezionali connotati da gravi difficoltà sociali e sempreché:
- siano concessi sotto forma di garanzia di crediti o di crediti rimborsabili gravati da un tasso
di interesse equivalente a quello di mercato;
- siano limitati a quanto necessario per mantenere l’impresa in attività;
- lo Stato membro si impegni a presentare alla Commissione, entro 6 mesi, un piano di
ristrutturazione, un piano di liquidazione o la prova che il prestito è stato integralmente
rimborsato e/o la garanzia è stata revocata;
- non producano effetti negativi di spillover (impennata dei prezzi di alcuni prodotti) in altri
Stati membri.
L’autorizzazione, una tantum, degli aiuti per la ristrutturazione, invece, è necessariamente
subordinata alla realizzazione di un piano di ristrutturazione approvato dalla Commissione, che
permetta di ripristinare l’efficienza economico-finanziaria a lungo termine dell’impresa entro un
lasso di tempo ragionevole e sulla base di ipotesi realistiche circa le condizioni operative future.

188
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Sono coperti dal regolamento di esenzione per categoria n. 800/2008:


1) gli aiuti per la tutela ambientale,
2) gli aiuti per l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo a favore delle grandi imprese;
3) gli aiuti sotto forma di capitale di rischio;
4) gli aiuti per le imprese di nuova creazione da parte di imprenditrici donne;
5) gli aiuti a favore di PMI;
6) gli aiuti per la ricerca e lo sviluppo delle PMI;
7) gli aiuti per l’occupazione e la formazione;
8) gli aiuti a finalità regionale.

7. LA PROCEDURA DI CONTROLLO DI COMPATIBILITÀ DEGLI AIUTI

La procedura di controllo degli aiuti, disciplinata dall’art. 108 TFUE, ha trovato nella
giurisprudenza della Corte e nella prassi della Commissione una più compiuta definizione. Il
regolamento n. 659/99, recante modalità di applicazione dell’art. 88 del Trattato (c.d. regolamento
di procedura), ha sostanzialmente recepito e “codificato” la prassi applicativa delle istituzioni
comunitarie.
Anzitutto, la funzione del controllo è di evitare che l’aiuto venga posto in essere e produca eventuali
effetti prima che ne sia verificata la compatibilità comunitaria. Infatti, l’art. 108, n.3, pone il
duplice obbligo a carico degli Stati membri:
a) di informare la Commissione del progetto di aiuto o di modifica dello stesso: è l’obbligo c.d.
di notifica;
b) di non dare corso al progetto di aiuto prima che ne sia dichiarata la compatibilità all’esito del
controllo da parte della Commissione: è l’obbligo di standstill, cioè di sospensione
dell’erogazione dell’aiuto prefigurato nella legge o nell’atto amministrativo nazionali.
La Commissione ha peraltro adottato un regolamento di applicazione del regolamento n. 659/99
che:
- prevede l’introduzione di un modello di notifica unificato, integrato da schede di
informazione complementari concernenti settori o tipi diversi di aiuto;
- fissa i criteri per il calcolo dei termini della procedura in materia di aiuti e per la fissazione
dei tassi di interesse per il recupero degli aiuti illegali;
- contempla la possibilità di aumentare del 20% la dotazione per i regimi autorizzati e di
prorogarli di 6 mesi.
Infine, dal 1° gennaio 2006, è stata imposta agli Stati la notifica unicamente per via elettronica,
salvo diverso accordo con la Commissione.
Il divieto per gli Stati membri di attuare il provvedimento che dispone l’aiuto è provvisto di effetto
diretto e la sua violazione si esaurisce in un vizio dell’atto che istituisce l’aiuto o ne dispone
l’erogazione. Pertanto, un singolo che subisca un pregiudizio dall’aiuto conferito prematuramente
ad un’impresa, magari sua concorrente, può far valere direttamente dinanzi al giudice nazionale,
all’occorrenza in via cautelare, il contrasto col diritto dell’UE dell’atto legislativo o amministrativo
che lo ha istituito quando ne consenta o ne disponga l’erogazione prima dell’esito del controllo, a
meno che la misura non rientri nell’ambito di applicazione di un regolamento di esenzione per
categoria. In ogni caso, il singolo può far valere l’illegittimità degli atti di esecuzione del
provvedimento, quando precedano l’esito del controllo di compatibilità eseguito dalla
Commissione. Tale controllo preventivo dell’istituzione dell’Unione è una condizione legale di
efficacia, per giunta con effetti costitutivi, del provvedimento nazionale che istituisce l’aiuto;
provvedimento che non potrà essere applicato dal giudice e/o dall’amministrazione prima della
decisione della Commissione. In definitiva, obbligo di notifica e obbligo di sospensione mirano a
salvaguardare l’efficacia del sistema di controllo sulla compatibilità dell’aiuto attribuito alla
competenza esclusiva della Commissione; pertanto, anche quando lo Stato sia convinto della
compatibilità dell’aiuto, non può lasciare inapplicate le disposizioni di cui all’art. 108. Il giudice
189
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

nazionale, se chiamato a verificare il rispetto dell’art. 108, n. 3, deve tutelare i singoli rispetto
all’obbligo previo di notifica dell’aiuto e del divieto di erogazione in mancanza di notifica, a ciò
non ostando l’eventuale avvio della procedura di verifica della compatibilità dell’aiuto da parte
della Commissione. Ai fini della decisione, il giudice potrà accertare previamente la sussistenza di
un aiuto, con la possibilità di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte in caso di dubbio
interpretativo su tale nozione. Al contrario, né il giudice nazionale, né la Corte eventualmente
investita di un quesito pregiudiziale limitatamente alla sussistenza dell’aiuto in funzione
dell’osservanza dell’art. 108, n.3, sono competenti a valutare nel merito la compatibilità dell’aiuto,
valutazione che spetta in prima battuta esclusivamente alla Commissione, sotto il controllo della
Corte.
Al riguardo, significativo è stato il caso Lucchini concernente un aiuto illegittimo perché erogato
prima che la Commissione si pronunciasse sulla sua compatibilità e in seguito dichiarato anche
incompatibile col mercato comune, ma la cui legittimità e compatibilità erano state affermate da una
sentenza passata in giudicato perché non impugnata. La richiesta del governo italiano di restituzione
delle somme veniva contestata dall’impresa e, su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, la
Corte di giustizia ha affermato l’obbligo di disapplicare l’art. 2909 del cod. civ. italiano che
sancisce l’autorità di cosa giudicata.
Il giudice nazionale resta peraltro libero di verificare la legittimità della misura rispetto a
disposizioni del Trattato diverse da quelle in materia di aiuti.
L’inosservanza dell’obbligo di notifica e/o di sospensione dell’erogazione dell’aiuto determina la
sua illegittimità insanabile; viceversa, non ne determina di per sé l’incompatibilità sostanziale col
mercato comune. Restano in ogni caso viziati gli atti relativi ad un aiuto non notificato o comunque
erogato senza attendere l’esito del controllo comunitario, infatti l’eventuale decisione di
compatibilità della Commissione ha rigorosamente un’efficacia ex nunc: ne consegue che,
indipendentemente dall’esito positivo o negativo del controllo, il vizio dell’aiuto prematuro rimane
rilevante ad ogni effetto, compreso quello dell’eventuale recupero dei benefici illegittimamente
attribuiti.
Viceversa, la violazione dell’art. 108, n.3, non influisce in alcun modo sul merito, dunque sulla
valutazione della compatibilità dell’aiuto col mercato comune ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
107. La pretesa della Commissione di considerare di per sé illegittimi gli aiuti eseguiti in violazione
dell’obbligo di notifica e/o di standstill, senza bisogno di seguire la procedura di controllo, è stata
respinta dalla Corte, con la conseguenza che la Commissione ha l’obbligo di procedere in ogni caso
alla verifica della compatibilità dell’aiuto.
A seguito della mancata notifica o dell’erogazione prematura dell’aiuto:
 la Commissione può intimare allo Stato in via provvisoria di sospendere l’erogazione e
fornire tutti i dati necessari per la valutazione di compatibilità: se lo Stato ottempera
all’ingiunzione si aprirà la procedura di controllo;
 in caso contrario, la Commissione procederà alla valutazione sulla base degli elementi in suo
possesso ed eventualmente disporrà il recupero delle somme versate: all’occorrenza potrà
ricorrere direttamente alla Corte, con una variante semplificata della procedura d’infrazione,
considerata l’urgenza e i particolari problemi che gli aiuti pubblici determinano per la
concorrenza nel mercato comune.
La procedura di controllo sulla compatibilità dell’aiuto con il mercato comune si può articolare in 2
fasi, e precisamente:
1) la 1° fase  consiste in un esame preliminare del progetto d’aiuto, notificato alla
Commissione o di cui in altro modo essa sia venuta a conoscenza. Lo scopo è individuare
con ragionevole rapidità le misure che sono compatibili e quelle che sollevano dubbi e
quindi richiedono un’indagine più approfondita. Quando la Commissione non è convinta
della compatibilità dell’aiuto e incontra difficoltà nella sua verifica, è tenuta ad aprire la
seconda fase. La decisione che chiude la fase preliminare è pubblicata nella GU (serie C): da

190
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

sempre è pubblicata la decisione di aprire la procedura di controllo, da qualche anno anche


quella di “non sollevare obiezioni” sull’aiuto;
2) la 2° fase  consiste in una verifica approfondita della natura e delle implicazioni del
progetto di aiuto, accompagnata da garanzie di pubblicità e di rito molto rigorose. Infatti il
1° atto è una comunicazione della Commissione sull’aiuto, pubblicata nella GU: in essa si
invitano i terzi interessati a presentare eventuali osservazioni. Scopo di tale fase è di
consentire allo Stato erogatore, agli altri Stati membri ed alle imprese interessate di
manifestare il loro punto di vista su misure economiche che incidono sui loro interessi.
La scarsa trasparenza e soprattutto la finalità della fase preliminare richiedono che la decisione della
Commissione di «non sollevare obiezioni» e pertanto di non aprire la procedura formale di
controllo, sia limitata rigorosamente all’ipotesi di compatibilità manifesta dell’aiuto. Infatti, in tal
caso l’apertura della procedura rituale e + complessa di cui all’art. 108, n. 2, potrebbe rivelarsi non
solo superflua ma addirittura dannosa. Quando, viceversa, la compatibilità dell’aiuto non appare
manifesta alla 1° lettura, la Commissione è tenuta ad aprire la procedura formale: infatti, solo questa
procedura garantisce la tutela dei legittimi interessi dei concorrenti dell’impresa beneficiaria e la
conoscenza di tutti gli elementi necessari ad una valutazione completa degli effetti comunitari
dell’aiuto. In particolare, la Commissione ha un vero e proprio obbligo di iniziare il procedimento
di controllo ex art. 108, n. 2, quando non si riveli agevole valutarne la compatibilità.
Questo regime si riferisce agli aiuti nuovi, cioè decisi ex novo. Diverso è il regime degli aiuti
esistenti, cioè quelli istituiti precedentemente all’entrata in vigore del Trattato o quelli
esplicitamente o implicitamente autorizzati dalla Commissione. Il Regolamento 659/99 ha previsto
una definizione più analitica delle categorie di aiuti esistenti.
Con riferimento agli aiuti esistenti, l’art. 108, n. 1, prefigura un esame permanente della
Commissione che può, in un 2° momento, proporre allo Stato membro degli aggiustamenti e,
all’occorrenza, aprire nuovamente la procedura in contraddittorio prevista dall’art. 108, n. 2. La
differenza di procedura di controllo degli aiuti esistenti è fondamentale: per tutta la durata della
procedura di controllo, diversamente da quanto è prescritto per il periodo di attesa della decisione
della Commissione imposto agli Stati per gli aiuti nuovi, lo Stato può continuare ad erogare l’aiuto
già esistente ed autorizzato. L’ulteriore conseguenza è che l’avvio della procedura di controllo di un
aiuto nuovo, in quanto produttiva di effetti giuridici perché preclusiva dell’erogazione, è
impugnabile.
Quando la Commissione dichiara l’aiuto incompatibile con il mercato comune all’esito della
procedura di cui all’art. 108, par. 2, essa ne può imporre allo Stato membro la soppressione o
prescrivere determinate modificazioni al progetto notificato. Se l’aiuto è stato in tutto o in parte
erogato, la Commissione può imporre allo Stato membro di esigerne la restituzione, che ha dunque
lo scopo di eliminare la distorsione di concorrenza causata dall’aiuto illegittimo.
Sulle difficoltà nel recupero, la giurisprudenza è chiara: anzitutto, vale il principio di applicazione
generale secondo cui lo Stato non può opporre a giustificazione del proprio inadempimento
disposizioni, pratiche o situazioni interne. Di recente, la Corte s’è spinta a dichiarare che il recupero
dell’aiuto in contrasto con il diritto comunitario – e la cui incompatibilità con il mercato comune sia
stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva – non possa essere ostacolato
dalla presenza di un’eventuale sentenza passata in giudicato.
In 2° luogo, specificatamente in materia di recupero degli aiuti incompatibili, è stato + volte ribadito
che può essere presa in considerazione esclusivamente un’impossibilità assoluta di eseguire
correttamente la decisione. In ogni caso, quando lo Stato incontri delle difficoltà, dovrà consultare
la Commissione e con essa convenire eventuali rimedi, anche in funzione del dovere di
collaborazione di cui all’art. 4 TUE.
Gli aiuti illegittimi, perché in contrasto con l’art. 108, n. 3, del Trattato, possono essere assoggettati
ad un obbligo di restituzione; inoltre, la dichiarazione di compatibilità della Commissione non sana
la pregressa violazione procedurale, così anche in tal caso i giudici nazionali possono disporne il
rimborso.
191
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

Il recupero dell’aiuto deve realizzarsi con i mezzi e le procedure vigenti negli Stati membri, sempre
che esso non sia impossibile. [Ad es., se l’impresa beneficiaria dell’aiuto illegittimo è nel frattempo
sottoposta a fallimento, lo Stato deve iscrivere il credito corrispondente al passivo e attivare i mezzi
a disposizione dei creditori in simili situazioni. Al capitale da recuperare vanno aggiunti gli
interessi, secondo un tasso stabilito dalla Commissione, a partire dalla data in cui il beneficiario ne
ha avuto la disponibilità e fino alla data del recupero. Se l’impresa beneficiaria dell’aiuto è stata nel
frattempo venduta al prezzo di mercato, dunque ad un prezzo che include il valore aggiunto
dell’aiuto, non è al compratore che deve chiedersi la restituzione ma ancora al beneficiario-
venditore.] La giurisprudenza ha anche precisato che lo Stato membro e/o l’impresa beneficiaria
possono far valere il legittimo affidamento sulla regolarità dell’aiuto solo quando sia stato concesso
nel pieno rispetto delle procedure di cui all’art. 108. Il regolamento n. 659/99 ha introdotto (art. 15)
un termine di prescrizione di 10 anni ininterrotti per l’esercizio dei poteri della Commissione sul
recupero degli aiuti illegittimi, trascorso il quale, l’aiuto sarà qualificato come aiuto esistente.

192
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

193
[Digitare il titolo del documento]ª ed.)

194

Potrebbero piacerti anche