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LEZIONE 9

LA PROGETTAZIONE ARTISTICA DELLO SPAZIO, IL RUOLO DI FONTANA E L’ARTE


PROGRAMMATA A MILANO
CONCETTO SPAZIALE
Nel 1949 Lucio Fontana inizia la serie dei Concetti spaziali,
segnando un punto di svolta nella sua carriera andando a
perforare la tela dipinta con un punteruolo. Questo primo
Concetto spaziale viene originariamente intitolato
dall'artista Buchi, il nome della serie a cui appartiene
l’opera. Il gesto fisico della foratura acquisisce un
significato profondo e concettuale, proiettando uno
spazio-tempo continuo in un oggetto finito. Espandendosi
dal centro, i buchi creano un nucleo sparpagliato che
ricorda l’andamento delle costellazioni celesti. La
disposizione del colore rinforza la “centralità” della
composizione. I cerchi in giallo e verde coprono il centro di
una croce nera. Le circolarità ricordano le forme naturali
del Sole e della Terra, alludendo ad ancestrali scoperte
astronomiche. L’estetica dell’Informale, che più tardi
Fontana abbandona, è qui espressa dalle pennellate libere
e nell’enfasi sulla materia.
LUCIO FONTANA
Lucio Fontana è uno degli artisti contemporanei più rilevanti
a livello internazionale, il suo nome è diventato simbolo di
una vera e propria rottura con i linguaggi artistici
tradizionali. I tagli di Fontana sono diventati un simbolo,
un’icona di quanto l’arte contemporanea sia dirompente e
talvolta necessiti di una lettura più approfondita per
comprenderne il significato.
Davanti a qualsiasi dei celebri tagli di Fontana infatti, il
cliché più comune è quello del chiedersi se sia veramente
arte. In questo articolo proviamo a spiegarti perché i suoi
tagli sono assolutamente arte e ti racconteremo
l’incredibile storia di uno dei nomi dell’arte contemporanea
più importanti al mondo.
Lucio Fontana e la filosofia del Concetto Spaziale
Considerato uno dei massimi esponenti dello Spazialismo,
Lucio Fontana insieme ad altri artisti, fu tra gli autori del
manifesto di questo movimento.
Ma che cosa sono i Concetti Spaziali?
Si tratta di una serie di opere monocromatiche con al centro
dei tagli netti verticali. Le sue tele sono squarciate, ma al
contrario di come molti possono pensare non si tratta di
una tendenza verso la distruzione, piuttosto di una vera e
propria apertura.
Un’apertura verso l’altrove, verso nuovi linguaggi, ma anche
verso nuove forme e spazi. I tagli di Lucio Fontana che si
esemplificano nella sua filosofia del Concetto Spaziale
vogliono interrompere la tradizione pittorica bidimensionale
della tela, per lavorare sullo spazio che attraverso il
taglio diventa tridimensionale.

L’impatto è dirompente e Fontana sceglie di iniziare a


produrre le sue celebri opere monocromatiche con i tagli in
serie, realizzandone circa 150 all’anno.

“Conta l’idea. Basta un taglio”

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Per Fontana quindi basta un taglio sottile, realizzato con
una lama affilata per cambiare in modo definitivo il
linguaggio artistico conosciuto fino ad allora.
Curiosità: Fontana era solito scrivere frasi ironiche dietro
alle sue tele per evitarne la contraffazione. Quindi anche il
retro dei quadri di Fontana è tutto da scoprire!
Biografia di Lucio Fontana
Lucio Fontana (1899-1968) è stato un artista eccentrico e
poliedrico, tra i più acclamati della sua epoca, che ha
rivoluzionato il concetto dell’arte e del rapporto tra la
pittura, la scultura e lo spazio.
Nato nel 1899 a Rosario di Santa Fé, in Argentina, da genitori di
origini italiane, iniziò l’apprendistato da artista giovanissimo,
in Italia, dove fu mandato dai genitori e affidato allo zio. Il
suo primo maestro fu proprio il padre scultore, il secondo è
stato il grande Adolfo Wildt, di cui seguì i corsi
all’Accademia di Brera quando aveva 28 anni. L’influenza di
Wildt è stata forte nelle opere giovanili, in particolare in
quelle realizzate per il Cimitero Monumentale di Milano,
dalle superfici levigatissime e dalle agili figure, severe ma
elegantissime.
Quelli che seguono la formazione sono anni intensi per
Lucio Fontana: tra gli eventi più significativi spicca la
partecipazione alla XVII Biennale di Venezia e la sua prima
mostra personale alla Galleria del Milione dove ha esposto
l’opera “Uomo Nero”, fortemente innovativa, che ha segnato
l’inizio della ricerca artistica e sperimentale attorno alle
figure umane. Quest’ultime, sintetizzate in figure
geometrizzanti e composte in vari materiali quali il gesso e
il ferro, ma anche su supporto cartaceo e tavolette, hanno
impresso una svolta astratta al suo operato artistico. Del
resto quelle sculture esili richiamano l’astrattismo di
quegli artisti lombardi legati alla Galleria il Milione, ma
anche del gruppo parigino Abstraction-Création.
L’attività di Fontana si è spostata poi nel campo della
ceramica, a cui si è dedicato nello studio dell’amico
Giuseppe Mazzotti ad Albissola: proprio nello studio del
Mazzotti ha continuato la ricerca scultorea, con opere
mosaicate e a tutto tondo, alcune delle quali si trovano
ancora esposte sul lungomare della cittadina. La fervida
attività di ceramista ha attirato l’interesse della critica, ma
presto Fontana scelse di tornare a Milano, dove il legame
con un gruppo di artisti lo ha portato alla stesura del
Manifesto dello Spazialismo: la filosofia di Lucio Fontana,
condivisa dagli artisti firmatari del manifesto, verteva sulla
necessità di un’innovazione profonda dell’arte, che
portasse la pittura e la scultura ad uscire dai limiti in cui
erano imprigionate, a favore di un’arte plurima, una fusione
tra linea e spazio. L’opera che sancisce la seconda svolta
artistica della carriera è stata Ambiente spaziale a luce
nera, che coinvolgeva l’opera stessa e lo spazio che la
circonda. Segue poi la serie dei Buchi, dove la tela viene
incisa con un punteruolo in più punti, in una accostamento di
linee cromatiche e incisioni scultoree.
lucio fontana ambiente spaziale a luce nera
L’epoca delle grandi sperimentazioni iniziò negli anni ’60,
prima con la serie Olii, dove torna il motivo dei buchi e
lacerazioni ma su uno spesso strato di pittura che inonda le
sue tele.
Segue la serie dei Metalli, dove squarci e tagli vengono
impressi stavolta su supporti a lamiera.
Poi prosegue con la Fine di Dio e i Teatrini.

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Fino alle celebri Ellissi, tavole ovali monocromatiche
lacerate da tagli e squarci, ove la sintesi tra pittura e
scultura, colore e spazio giunge a un’unione quasi
minimalista. I profondi tagli nelle tele si faranno sempre più
essenziali negli ultimi anni della sua carriera artistica e in
queste ultime opere, purissime nel colore e nella linea
(entrambi unici, nel senso del monocromatismo e
dell’essenzialità) l’artista giunge al culmine della sua
ricerca spaziale: quell’unico squarcio sulle superficie
pittorica simboleggia un varco verso l’infinito, un passaggio
tra il buio e la luce.
Nel 1968 Fontana lascia la città e si trasferisce a Comabbio,
in provincia di Varese, dove morirà il 7 settembre di
quell’anno.
I tagli di Lucio Fontana
Un taglio è qualcosa di complesso da capire, perché rompe,
squarcia e nell’immaginario comune rovina. Per chi è
abituato a collegare l’arte con la perfezione estetica, un
taglio è qualcosa che diventa a tratti incomprensibile.
Eppure Fontana ha basato tutta la sua carriera artistica su
questo concetto, unito al colore e allo spazio.
I tagli sono una vera e propria serie di opere realizzate tra il
1958 e il 1968: si tratta di opere pittoriche in cui sono presenti
uno o più tagli regolari su tele ricoperte di aniline o di
idropittura.
Oltre ai tagli, Lucio Fontana ha realizzato anche la serie
pittorica dei buchi (1949-1968), iniziata con vortici di buchi e
successivamente con buchi sempre più organizzati e
regolari. Così come i tagli, anche i buchi non si limitano ad
essere elementi grafici ma diventano veri e propri segni che
aprono verso l’altrove.
Oggi la carriera, le opere e l’immenso patrimonio che ha
lasciato Lucio Fontana è tutelato e valorizzato dalla
Fondazione Lucio Fontana situata a Milano, che si occupa
del controllo e dell’autenticazione delle opere.
Lucio Fontana è passato alla storia per aver annullato la
distinzione tra pittura e scultura, per aver sconfitto la
bidimensionalità della superficie pittorica e per aver
introdotto il concetto dello Spazialismo, che concepisce
l’opera d’arte come un concetto più ampio, che comprende
sia il manufatto artistico che l’ambiente che la circonda:
non possiamo che definirlo un genio assoluto del
Novecento!
NANDA VIGO
Interprete indimenticabile del design della luce, figura
poliedrica capace di legare senza soluzione di continuità
arte, architettura e design in nome di una ricerca
personalissima incentrata sulla consapevolezza del
rapporto spaziale, Nanda Vigo è stata una figura irripetibile
della scena artistica italiana e internazionale. Vera
cosmopolita sensibile soprattutto al richiamo dell’Africa,
dove aveva vissuto intrigata dalle simbologie delle culture
locali, Vigo ha fatto della capacità di astrazione formale
una sintesi tra introspezione cosmica e vortice verso
l’assoluto: una tensione, la sua, da risolvere con l’estetica
asciutta propria di una personalità definitiva – quella che
corrispondeva non a caso alla sua proverbiale, e del resto
mai dissimulata, schiettezza.

C’era un gioco incredibile di luce che si rifletteva negli spazi


in continuazione, rimbalzando l’architettura, e modulava le

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forme che continuavano a spostarsi, ma per gli effetti
della luce, e questo fatto mi ha particolarmente preso che,
senza accorgermi, ho impostato tutto il mio lavoro solo
sulle riflessioni luminose.
Nata nel capoluogo lombardo nel 1936, Nanda Vigo
dichiarerà di essersi avvicinata alla poetica della luce dopo
aver osservato, giovanissima, la Casa del Fascio di Giuseppe
Terragni. Laureata all’Institut Polytechnique di Losanna, nel
1959 rientra a Milano per aprirvi il suo studio dopo uno stage
non troppo apprezzato da Frank Lloyd Wright a Taliesin West
– l’iperspecializzazione americana di quegli anni non si
confaceva del resto alla sua inclinazione al dialogo tra
discipline. È nella stagione irripetibile delle avanguardie di
quegli anni, accanto a figure quali Lucio Fontana, Piero
Manzoni – di cui sarà compagna – ed Enrico Castellani, che
inizia ad operare lavorando a progetti industriali in serie,
multipli, allestimenti, progetti di interni, showroom,
abitazioni private.
La luce va seguita senza opporre resistenza. Non potrà che
illuminarci.
Entrata in contatto con il movimento Zero, fondato in
Germania da Heinz Mack e Otto Piene e con cui esporrà a più
riprese in tutta Europa, inizia la progettazione della ZERO
house a Milano, casa con i muri di vetro satinato dotata di
un sistema di luci al neon che definisce il rapporto tra
materia e spazio. Traghettatrice delle idee del movimento in
Italia, si occupa della curatela della leggendaria
esposizione Zero avantgarde che Vigo allestirà nell’atelier
di Fontana presentando l’opera di 28 artisti.

Casa museo Remo Brindisi, progetto di Nanda Vigo


Casa museo Remo Brindisi, progetto di Nanda Vigo, foto
Archivio Domus
Risale sempre a quegli anni la collaborazione con Gio Ponti,
ineludibile punto di riferimento con cui Vigo lavorerà agli
interni della residenza Lo scarabeo sotto la foglia
concependo un ambiente monocromo e sperimentale,
rivestito di piastrelle ed ecopelliccia grigia, dove far
convergere in maniera integrata le opere degli artisti. La
sperimentazione con la ceramica e le geometrie assolute
ritorna con la casa vacanze di Remo Brindisi al Lido di Spina:
uno dei suoi progetti più noti, architettura totale animata
dalla tensione della grande corte interna cilindrica che ne
distribuisce gli spazi, oggi trasformata in casa museo e
centro espositivo permanente.

Sono puntigliosa e di forte di temperamento. Quello che


devo dire lo dico sempre. E poi sono orgogliosa. Deve
considerare che sono cresciuta, come altre, in una cultura
di dominio maschile. Non c’era altra espressione: o ti veniva
fuori il carattere o niente. Ecco, a me è venuto fuori per
amore del mio lavoro.
Di pari passo, dagli anni ’60 fino ad oltre il 2000, si svilupperà
il confronto con il mondo del design in serie: un impegno
che Vigo sviluppa concentrandosi nel settore
illuminotecnico – pensiamo alla sua collaborazione con
Arredoluce e ad icone sempre orientate all’astrazione e ad
una certa assolutezza quali Golden Gate, Osiris, Utopia, Linea
- pur senza privarsi di collaborazioni con i grandi marchi
dell’arredo tra cui Acerbis, Driade, Glass Italia, a cui si
affiancano incursioni più irriverenti, a tratti vicini alle
espressioni della stagione radicale – le sedute Due Più, il

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tavolo Rokko, insieme a tanti pezzi su disegno per case
private.

Se l’opera di Nanda Vigo ha sempre trovato numerose


occasioni di visibilità nelle tante mostre tenutesi in Italia e
all’estero – sono infatti oltre 400 le esposizioni, inclusa la
partecipazione alla Biennale del 1982, organizzate in
sessant’anni di attività -, gli ultimi anni numerosi musei
internazionali, dal Guggenheim di New York, al MAMM
Museum di Mosca, al K11 Museum di Shanghai, al Vitra Design
Museum, sembravano aver intrapreso un percorso di
riscoperta culminato nella grande retrospettiva “Nanda
Vigo. Light Project” tenutasi nel 2019 a Palazzo Reale a
Milano.

CRONOTIPI
Alla fine degli anni Cinquanta, Nanda Vigo torna in Italia
dopo una formazione in architettura tra Svizzera e America.
Vicina agli esponenti italiani del Gruppo Zero, abbraccia le
sperimentazioni cinetico-percettive e le declina con un
linguaggio ibrido. Vigo gestisce l’uso della luce naturale e
artificiale con un forte valore sensoriale, utilizzando
tecnologie industriali e materiali come vetro stampato,
specchi, neon, Perspex e alluminio. Secondo l’artista la luce
non ha dimensione e, come evidenzia nel suo Manifesto
cronotopico del 1964, si adatta a qualsiasi configurazione
fisica. I Cronotopi (1962–1968) sono strutture di forma
parallelepipeda in alluminio e vetro industriale, che
vengono posizionate a terra o su piedistalli per riflettere la
luce che le illumina, dall’interno o dall’esterno. L’artista li
chiama anche Spazi-tempi – dal greco cronos, “tempo” e
topos, “spazio” – e, per l’iridescenza che emanano a seconda
delle scanalature del vetro, li dichiara capaci di trasportare
lo spettatore in un’altra dimensione. Quando sono installati
in ambienti attraversabili, queste sculture offrono
l’illusione di una costante variazione delle superfici. A
partire dal 1967, Vigo costruisce gli Ambienti cronotopici
utilizzando moduli alternativi o complementari. Pur essendo
simili ai Cronotopi, i Diaframmi (1968) sono costituiti da un
telaio in ferro tubolare tamponato con vetri stampati. Vigo
sovrappone o affianca questi elementi scultorei per
delimitare delle zone di sospensione spazio-temporale e
offrire cangianti esperienze sensoriali.

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