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LUCA

PIETRO UMBERTO BALLA


VASTA

Storia dell’Arte Contemoranea 1 | luca vasta


I genitori di Umberto erano Raffaele Boccioni e Cecilia Forlani, originari di
Morciano di Romagna (25 Km da Rimini). Il padre, che lavorava come
usciere di prefettura, fu costretto a spostarsi in Italia in base alle esigenze
di servizio. Umberto nacque il 19 ottobre 1882 a Reggio Calabria; qui
frequentò le prime classi delle elementari; successivamente la famiglia si
trasferì a Forlì, poi a Genova e a Padova. Nel 1897 giunse l’ordine di un
nuovo trasferimento a Catania. Questa volta la famiglia si separò:
Umberto e il padre andarono in Sicilia; la madre con la sorella maggiore
Amelia, nata a Roma, restarono in Veneto. A Catania Umberto frequentò
l’istituto tecnico fino ad ottenere il diploma. Collaborò ad alcuni giornali
locali e scrisse il suo primo romanzo: Pene dell’anima che reca la data 6
luglio 1900.
Nel 1901 Umberto si trasferisce a Roma, dove il padre è stato di nuovo
trasferito. Frequenta spesso la casa della zia Colomba. In poco tempo si
innamora di una delle sue figlie, Sandrina. Umberto ha circa vent’anni e
frequenta lo studio di un cartellonista, dove apprende i primi rudimenti
della pittura. In questo periodo conosce Gino Severini, col quale
frequenta, a Porta Pinciana, lo studio del pittore divisionista Giacomo
Balla. All’inizio del 1903 Umberto e Severini frequentano la Scuola libera
del Nudo, dove incontrano Mario Sironi, anch’egli allievo di Balla, col
quale stringeranno una duratura amicizia. In quell’anno Umberto dipinge
la sua prima opera Campagna Romana Meriggio.
Con l’aiuto di entrambi i genitori riesce a viaggiare all’estero: la prima
destinazione è Parigi (aprile-agosto 1906), cui segue la Russia da cui
ritorna nel novembre dello stesso anno. A Parigi conosce Augusta Popoff:
dalla loro relazione nascerà nell’aprile 1907 un figlio, Pëtr (Pietro).
Nell’aprile 1907 Umberto si iscrive alla Scuola libera del Nudo del Regio
Istituto di Belle Arti di Venezia. Inizia un altro viaggio verso la Russia ma
l’interrompe a Monaco di Baviera, dove visita il museo. Al ritorno disegna,
dipinge attivamente, pur restando inappagato perché sente i limiti della
cultura italiana che reputa ancora essenzialmente “cultura di provincia”.
Nel frattempo affronta le prime esperienze nel campo dell’incisione.
Nell’autunno del 1907, per la prima volta va a Milano, dove da alcuni mesi
abitano la madre e la sorella.
Intuisce subito che è la città più di altre in ascesa e che corrisponde alle
sue aspirazioni dinamiche. Diventa amico di Romolo Romani, frequenta
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Previati, di cui risente qualche influsso nella sua pittura che sembra
rivolgersi al simbolismo. Diviene socio della Permanente. Durante questi
anni di formazione, visita molti musei e gallerie d’arte. Ha quindi la
possibilità di conoscere direttamente opere di artisti di ogni epoca ma,
specialmente, antichi. Alcuni di questi, come ad esempio Michelangelo,
rimarranno sempre suoi modelli ideali. Nonostante ciò, essi diventeranno
anche i bersagli principali della polemica avviata nel periodo futurista
contro l’arte antica e contro il passatismo. Nel 1907 a Milano incontra i
divisionisti e con Filippo Tommaso Marinetti, scrive, insieme a Carlo
Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini, il Manifesto dei pittori
futuristi (1910), cui seguì il Manifesto tecnico del movimento futurista
(1912): obiettivo dell’artista moderno doveva essere, secondo gli
estensori, liberarsi dai modelli e dalle tradizioni figurative del passato, per
volgersi risolutamente al mondo contemporaneo, dinamico, vivace, in
continua evoluzione. Quali soggetti della rappresentazione si
proponevano dunque la città, le macchine, la caotica realtà quotidiana.
Nelle sue opere Boccioni seppe esprimere magistralmente il movimento
delle forme e la concretezza della materia. Benché influenzato dal
cubismo, cui rimproverò l’eccessiva staticità, Boccioni evitò nei suoi
dipinti le linee rette e adoperò colori complementari. In quadri come
Dinamismo di un ciclista (1913), o Dinamismo di un giocatore di calcio
(1911), la raffigurazione di uno stesso soggetto in stadi successivi nel
tempo suggerisce efficacemente l’idea dello spostamento nello spazio.
Simile intento governa del resto anche la scultura di Boccioni, per la quale
spesso l’artista trascurò i materiali nobili come marmo e bronzo,
preferendo il legno, il ferro e il vetro. Ciò che gli interessava era illustrare
l’intenzione di un oggetto in movimento con lo spazio circostante.
Pochissime sculture sono sopravvissute. In seno alla Società Umanitaria
dove ha appena terminato il grande dipinto Il Lavoro (oggi al MOMA di
New York con il titolo The City Rises), nell’aprile-maggio 1911, con Ugo
Nebbia, Carlo Dalmazzo Carrà, Alessandrina Ravizza e altri, dà vita a
Milano al Primo Padiglione d’Arte Libera, imponente esposizione dalle
modernissime linee guida, dove si terrà anche la prima collettiva in
assoluto di pittori futuristi (nei dismessi padiglioni Giulio Ricordi).
Nel 1912 Boccioni inaugura un periodo di intensi studi sia in vista della
pubblicazione del suo testo teorico più importante, Pittura e scultura
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futuriste (1914), sia in vista della realizzazione del capolavoro Materia
(1912). Consulta molti volumi di argomento storico-artistico e filosofico di
cui stila una lista di titoli. In particolare, approfondisce la conoscenza del
pensiero del filosofo francese Henri Bergson, leggendo il libro Materia e
memoria (1896). Le teorie di Bergson sulla memoria spontanea, intesa
come intuizione dell’unità fondamentale della materia, suggeriscono a
Boccioni l’idea della compenetrazione dei piani come “simultaneità
dell’interno con l’esterno + ricordo + sensazione”, consentendogli di unire
nel corso del processo creativo ricordi personali (familiari, per esempio) a
suggestioni derivanti dall’arte antica o primitiva, alla scomposizione delle
forme di derivazione cubista. Nell’olio su tela Materia, ad esempio,
Boccioni esegue un ritratto di sua madre Cecilia Forlani, divinizzata come
Grande Madre, integrando la scomposizione cubista e l’uso dei colori
complementari di derivazione impressionista con la ieratica frontalità
della statuaria greca di epoca arcaica. Tra i libri consultati nel 1912,
infatti, Boccioni cita, nella sua lista, il tomo VIII, dedicato alla scultura
arcaica, ed in particolare la pagina 689, dell’opera in più volumi di
Georges Perrot e Charles Chipiez, Histoire de l’art dans l’antiquité (1882-
1914) in cui i due autori trattano della cosiddetta legge della frontalità
nella statuaria antica.
Tra le opere pittoriche più rilevanti di Boccioni si ricordano Il Lavoro (La
città che sale) (1910), Stati d’animo n.1. Gli adii (1911) - in cui i moti
dell’animo sono espressi attraverso lampi di luce, spirali e linee ondulate
disposte diagonalmente - Forze di una strada (1911), dove la città, quasi
organismo vivo, ha peso preponderante rispetto alle presenze umane.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra. Boccioni, interventista, si arruola
volontario, assieme ad un gruppo di artisti, nel Corpo nazionale volontari
ciclisti automobilisti, ma non ha occasione di entrare in combattimento.
In una lettera dal fronte dell’ottobre 1915 il pittore scrive, infatti, che la
guerra <<quando si attende di battersi, non è che questo: insetti + noia =
eroismo oscuro...>>.
Il 17 agosto 1916 Boccioni muore all’età di 33 anni all’Ospedale militare di
Verona, per le ferite riportate in seguito alla caduta accidentale dalla
propria cavalla, imbizzarrita alla vista di un autocarro. La caduta avviene il
giorno prima durante un’esercitazione militare, in località Sorte a Chievo,

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frazione di Verona, dove oggi si trova la sua lapide commemorativa, in
una stradina immersa nella campagna.

Opere e Critica.

Rissa in galleria è un dipinto di Umberto Boccioni del 1910. È conservato


a Milano presso la Pinacoteca di Brera. È parte della collezione Emilio e
Maria Jesi.
Il dipinto, appartenente ad una prima fase artistica di Boccioni, mostra già
la tensione tipica dei dipinti futuristi sebbene conservi ancora retaggi
naturalisti, soprattutto nella definizione delle figure che risultano ben
delineate e riconoscibili. Tuttavia, esse sono disposte in modo tale da
conferire dinamicità alla tela. Il soggetto pittorico è una folla di persone
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che si accalca di fronte alla buvette di Gaspare Campari (divenuta
successivamente "Gran Bar Zucca" nella Galleria Vittorio Emanuele II di
Milano), per seguire una zuffa fra due donne.

La città che sale è un dipinto a olio su tela (199,3 × 301 cm) realizzato a
cavallo tra il 1910 ed il 1911 dal pittore italiano futurista Umberto
Boccioni. Nel 1912 il quadro fu acquistato dal musicista Ferruccio Busoni
nel corso della mostra d'opere futuriste itinerante in Europa. È oggi
esposto al Museum of Modern Art di New York. Il bozzetto preparatorio è
esposto nella collezione della Pinacoteca di Brera a Milano.
Per dipingere quest'opera Boccioni prese spunto dalla vista di Milano che
si vedeva dal balcone della casa dove abitava. Il titolo originale era IL
LAVORO così come apparve alla Mostra d'arte libera di Milano del 1911.
Nonostante la presenza di elementi realistici come il cantiere o la
costruzione, ed ancora la resa dello spazio in maniera prospettica, il
dipinto viene considerato la prima opera veramente futurista del pittore
reggino, pur non discostandosi molto dai quadri analoghi degli anni

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precedenti, nei quali le periferie urbane erano il soggetto principale. In
questo dipinto viene parzialmente abbandonata la visione naturalistica
dei quadri precedenti, per lasciare il posto ad una visione più
movimentata e dinamica.
Si coglie la visione di palazzi in costruzione in una periferia urbana,
mentre compaiono ciminiere e impalcature solo nella parte superiore.
Gran parte dello spazio è invece occupato da uomini e da cavalli, fusi
esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico. In tal modo Boccioni
mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali
l'esaltazione del lavoro dell'uomo e l'importanza della città moderna
plasmata sulle esigenze del nuovo concetto di uomo del futuro.
Ciò che mette il quadro perfettamente in linea con lo spirito futurista è
però l'esaltazione visiva della forza e del movimento, della quale sono
protagonisti uomini e cavalli e non macchine. Questo è ritenuto un
particolare che attesta come Boccioni si muova ancora nel simbolismo,
rendendo visibile il mito attraverso l'immagine. Ed è proprio il "mito" ciò
che l'artista modifica, dunque non più arcaico legato all'esplorazione del
mondo psicologico dell'uomo, ma mito dell'uomo moderno, artefice di un
nuovo mondo. In parole povere l'intento dell'artista è di dipingere il frutto
del nostro tempo industriale. Il soggetto dunque, da raffigurazione di un
normale momento di lavoro in un qualunque cantiere, si trasforma nella
celebrazione dell'idea del progresso industriale con la sua inarrestabile
avanzata. Sintesi di ciò ne è il cavallo inutilmente trattenuto dagli uomini
attaccati alle sue briglie.
L'influsso di Gaetano Previati come si vede è ancora evidente nelle
pennellate filamentose e nella tecnica divisionista, le pennellate
tratteggiate hanno infatti andamenti ben direzionati e funzionali al
mettere in evidenza le linee di forza che caratterizzano il movimento delle
figure, non quindi alla costruzione di masse e volumi, anche se i tratti
pittorici sono qui volti a dare dinamicità ai volumi fino a far perdere loro
consistenza e peso.
La composizione del quadro conserva tuttavia ancora un impianto
abbastanza tradizionale. Le figure sono scandite su precisi piani di
profondità dove in basso si vedono le figure in primo piano, mentre in
alto quelle sui piani più profondi. La composizione può essere divisa in tre
fasce orizzontali che corrispondono ad altrettanti piani:
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1. in basso Boccioni colloca le figure umane realizzate secondo linee
oblique che ne evidenziano lo sforzo dinamico.
2. al centro dominano delle figure di cavalli, tra le quali ne risaltano
quattro, gli ultimi tre hanno una colorazione rossa e dei profili di colore
blu che rappresentano i cavalieri sulla groppa: 1. uno bianco a sinistra che
rivolge lo sguardo verso destra, 2. uno al centro che domina il centro del
quadro, 3. uno sulla destra, 4. uno sulla sinistra, poco più su di quello
bianco, col muso verso l'alto e la bocca aperta.
3. nel terzo piano appare lo sfondo di una periferia urbana, che
probabilmente andrebbe identificata con un quartiere di Piacenza in
costruzione.

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La strada entra nella casa è un dipinto futurista di Umberto Boccioni
risalente al 1911, custodito allo Sprengel Museum di Hannover.
Il dipinto mostra una donna di spalle, ritratta mentre si poggia sulla
ringhiera di un balcone. La vista che si apre da tale postazione mostra una
fitta serie di edifici, una strada sulla sinistra e dei cantieri nella parte
centrale del dipinto. L'opera presenta una potente carica emotiva,
rappresentata dalla scelta dei colori e dalle forze che riescono persino a
piegare gli edifici.
Boccioni stesso descrive la sua opera in questo modo:

«La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra:
tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come
il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a
ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice
fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal
balcone.»
(Umberto Boccioni)

«I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in


noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si
scaraventano sul tram e con esso si amalgamano»
(Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini La pittura futurista. Manifesto
tecnico, 11 Aprile 1910).

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Visioni simultanee è un dipinto di Umberto Boccioni risalente al 1911,
custodito al Von Der Heydt Museum di Wuppertal.
Il dipinto, esposto nella prima mostra futurista a Parigi del 1912, ricalca
alcuni temi dell'opera La strada entra nella casa, pressoché
contemporanea e oggi conservata ad Hannover. In entrambe le tele il
personaggio più visibile è una donna, appoggiata ad un balcone (o in
questo caso ritratta mentre si sporge da una finestra) e rivolta verso la
strada sottostante e gli edifici di fronte.
L'"azione" si svolge su piani sovrapposti, con lo scopo di mostrare
nell'opera tutto ciò che sia visibile dalla finestra cui si affaccia la donna; gli
edifici si curvano e si scompongono, come le figure per la strada e la
donna stessa.

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Stati d'animo n. 1. Gli addii è un dipinto a olio su tela (70,5 × 96,2 cm)
realizzato nel 1911 dal pittore italiano Umberto Boccioni.
È esposto al MOMA di New York.
Lo spazio è composto in vorticosi movimenti, le forme sono viste
simultaneamente da numerose posizioni, figure e ambiente sono fusi in
un unico ritmo dinamico. La composizione assume un moto vorticoso. Il
treno, le fabbriche e le città in costruzione sono spesso presenti nei
dipinti futuristi, come simboli del progresso. A partire dall'800 le ferrovie
sono divenute un elemento molto importante del panorama urbano delle
città del mondo sviluppato. Dopo il 1830, le strade ferrate e le locomotive
a vapore si sono diffuse rapidamente dall'Inghilterra, loro luogo di origine,
a tutta l'Europa. Milano non è stata da meno di tante altre città italiane
ed europee, ed il treno, con i suoi binari e le sue stazioni, ha iniziato a
caratterizzare e condizionare l'assetto territoriale e viario della città,
anche se, la ferrovia non è mai penetrata all'interno dell'antica cerchia
delle mura spagnole.

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Materia è un'opera d'arte dipinta a olio su tela (226x350 cm) realizzata a
cavallo tra il 1912 e il 1913 dal pittore Umberto Boccioni.
È conservata temporaneamente alla Collezione Peggy Guggenheim di
Venezia e appartiene alla collezione di Gianni Mattioli.
Materia è chiaramente un ritratto a figura intera della madre dell'artista,
il soggetto principale di numerose tele da esso realizzate, come nel caso
della madre con l'uncinetto del 1907. La madre nel dipinto viene ritratta
seduta nella sua casa frontalmente, così da volgere le spalle ad un
balcone che si affaccia sul paesaggio urbano retrostante. Questa scelta
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compositiva serve a fondere in un'unica «visione simultanea» la
percezione ottica di due soggetti ben distinti, l'ambiente metropolitano e
la madre dell'artista. Le mani della figura materna sono rappresentate
incrociate e gigantesche e vanno a costituire il fuoco del ritratto. Lo
scenario urbano appare come uno spazio perfettamente integrato con la
figura umana, i profili delle case sono rappresentati come nuclei
generatori di ampi fasci di luce azzurra trasparente, che dall'alto
illuminano la "madre". Tipico di questo quadro è l'energia che si viene a
formare grazie ai colori utilizzati, un'energia che va in ogni direzione come
è tipico della corrente di appartenenza, il Futurismo.

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Antigrazioso o L'antigrazioso, conosciuto anche come La madre, è una
scultura in gesso patinato di Umberto Boccioni realizzata tra 1912 e 1913
e conservata presso la Galleria nazionale d'arte moderna e
contemporanea di Roma. Il busto è uno dei pochi esempi superstiti delle
sculture futuriste eseguite da Boccioni nel 1912 e 1913 ed esposti alla
Galerie 23 di Parigi nel 1913.
Il gesso originale, presente dal 1938 nella Galleria nazionale d'arte
moderna, fu acquistato dal museo nel 1950 da Benedetta Marinetti.
La scultura rappresenta la scomposizione futurista del volto della madre
dello scultore, ripreso nel dipinto Materia del 1913. Boccioni esegue
anche un dipinto con lo stesso titolo, Antigrazioso del 1913, di
impostazione differente.
Il busto ha uno stile simile a Forme uniche della continuità nello spazio.
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Dell'opera esiste una fusione in bronzo del 1950-1951, conservata presso
il Metropolitan Museum di New York.

Dinamismo di un ciclista è un dipinto di Umberto Boccioni realizzato nel


1913. L'opera appartiene alla Collezione Mattioli ed è attualmente
conservata a Venezia in deposito a lungo termine presso la Peggy
Guggenheim Collection a Palazzo Venier dei Leoni.
Questo dipinto appartiene alla sequenza di opere di Boccioni che
poggiano su astrazioni plastico-dinamiche in un'idea continuativa del
rapporto spazio-temporale affrontando il movimento di un corpo nello
spazio. I colori aggressivi e puri utilizzati, così come il flusso delle luci e
l'affiorare del nero all'interno della composizione, danno la sensazione del
succedersi di attimi esaltando l'intreccio dinamico, donando anche la
sensazione di movimento come se fosse un vero ciclista muovendosi
velocemente.

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Sviluppo di una bottiglia nello spazio è un'opera scultorea del 1912 di
Umberto Boccioni.
L'opera rappresenta una bottiglia poggiata su un piatto: le due figure
costituiscono una natura morta, tema raro nella poetica futurista di
Boccioni. Tuttavia, l'artista riesce a rendere il gioco dinamico, che sta alla
base dei suoi lavori, attraverso una visione vorticosa dei due elementi,
rendendo indistinti l'interno e l'esterno degli oggetti e dando movimento
al tutto.
Oltre all'esemplare fuso nel 1935 dal gesso originale e oggi esposto a
Milano, nel Museo del Novecento, ne esistono altri quattro, fusi in diversi
momenti. Uno di questi, fuso nel bronzo negli anni 2000 e appartenente a
una collezione privata, è stato esposto al pubblico nel 2009, presso la
Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, in occasione del centenario del
Manifesto del futurismo di Marinetti.

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Forme uniche della continuità nello spazio è una celebre scultura
dell'artista futurista Umberto Boccioni. Rappresenta simbolicamente il
movimento e la fluidità. Boccioni respinge la scultura tradizionale per
creare questo pezzo, considerato uno dei capolavori del Futurismo.
La scultura è raffigurata sul retro delle monete da 20 centesimi di euro
coniate in Italia e se ne conoscono varie versioni, tra cui una al Museo del
Novecento di Milano, una alla Kunsthalle di Mannheim, una alla Tate
Modern di Londra, una al MoMA di Manhattan, una al Metropolitan
Museum di New York, una al Museo Kröller-Müller di Otterlo (Paesi Bassi)
e una alla Galleria Nazionale di Cosenza.

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Il movimento futurista si prefiggeva di rappresentare la velocità e la forza
del dinamismo nell'arte. Boccioni, anche se formatosi come pittore, iniziò
la propria carriera di scultore nel 1912. Scrisse a un amico: "In questi
giorni sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa
rinnovazione di quest'arte mummificata." Un anno dopo, Boccioni
completò la scultura (Dinamismo di un corpo umano in due copie
litografiche). L'obiettivo della sua opera era quello di rappresentare un
"continuum sintetico" del movimento, invece di una "discontinuità
analitica" che egli vedeva raffigurata da altri artisti come František Kupka
e Marcel Duchamp. L'opera originale di Boccioni è in gesso e nel corso
della vita dell'autore non venne mai prodotta la rispettiva copia in bronzo.
Il gesso è in mostra al Museo di Arte Contemporanea, a San Paolo del
Brasile. Ulteriori calchi furono ricavati nei decenni successivi:

 Due nel 1931, di cui uno in mostra al Museum of Modern Art.


 Due nel 1949, uno in mostra alla Metropolitan Museum of Art, il
secondo presso il Museo del Novecento di Milano.
 Due nel 1972, di cui uno in mostra alla Tate Modern.[6]
 Otto nel 1972, ricavati da un calco del 1949.

Umberto Boccioni, nato a Reggio Calabria da genitori romagnoli,


desiderava essere presente in Calabria con una scultura. Dopo la sua
scomparsa Filippo Tommaso Marinetti volle dar seguito al desiderio
dell'Artista promuovendo la realizzazione di una fusione del capolavoro
boccioniano: Forme uniche nella continuità dello spazio del 1913.
L'iniziativa di Marinetti è documentata da una sua lettera del 23
novembre 1933 al Podestà di Milano Visconti, al quale prospettava la
fusione da destinare alla Calabria.
Dopo ottant'anni il progetto Boccioni-Marinetti si è concretizzato con la
donazione del bronzo della collezione Bilotti alla Galleria Nazionale di
Cosenza con atto del Direttore del Polo Museale Angela Acordon e del
direttore del Museo Domenico Belcastro. L'esemplare donato è l'unico
dichiarato d'interesse particolarmente importante con un Decreto, il n°
77/2013 del Ministero dei Beni Culturali ed è pubblicato sul catalogo
generale a cura di Calvesi-Dambruso (pag. 452) Allemandi Torino 2016.

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«Questo succedersi, mi sembra ormai chiaro, non lo afferriamo con la
ripetizione di gambe, di braccia, di figure, come molti hanno
stupidamente supposto, ma vi giungiamo attraverso la ricerca intuitiva
della forma unica che dia la continuità nello spazio.»
(Umberto Boccioni,[5] Forme uniche della continuità nello spazio)

Se si osserva lateralmente la scultura, si può riconoscere facilmente una


figura umana in cammino priva però di alcune parti (ad esempio le
braccia) e, per così dire, del suo "involucro" esterno. La figura appare così
per un verso come uno "scorticato" anatomico (si riconoscono
distintamente alcuni muscoli, come i polpacci, e l'articolazione del
ginocchio), per un altro come una "macchina", come un ingranaggio in
movimento. L'opera inoltre si sviluppa mediante l'alternarsi di cavità,
rilievi, pieni e vuoti che generano un frammentato e discontinuo
chiaroscuro fatto di frequenti e repentini passaggi dalla luce all'ombra.
Osservando la figura da destra, il torso ad esempio pare essere pieno ma
se si gira intorno alla statua e la si osserva da sinistra esso si trasforma in
una cavità vuota. In tale modo sembra che la figura si modelli a seconda
dello spazio circostante ed assume così la funzione per così dire di
plasmare le forme. Anche la linea di contorno si sviluppa come una
sequenza di curve ora concave, ora convesse: in tal modo i contorni
irregolari non limitano la figura come di consueto ma la dilatano
espandendola nello spazio. L'interno stesso della statua è attraversato da
solchi e spigoli che "tagliano" i piani, come se le figure fossero più di una e
si sovrapponessero di continuo.
Se vista lateralmente, la statua dà l'impressione di un movimento
avanzante che si proietta energicamente in avanti. Tuttavia se la si guarda
frontalmente o a tre quarti si può notare una torsione o avvitamento
delle forme nello spazio: più di una linea infatti si avvolge attorno alla
figura in un moto a spirale, coinvolgendo i diversi piani in una rotazione
che suggerisce un'ulteriore espansione delle forme. La figura viene
modellata dall'aria creando così un corpo aerodinamico.

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Dinamismo di un cavallo in corsa + case è l'ultima opera scultorea di
Umberto Boccioni, realizzata tra 1914 e 1915. È conservata nella Peggy
Guggenheim Collection, presso palazzo Venier dei Leoni, nel centro
storico di Venezia. Con questa scultura l'artista afferma la sua opinione
secondo cui la natura stessa del senso visivo produce l'illusione della
fusione delle forme; l'osservatore infatti, non avendo cognizione
dell'effettiva distanza che intercorre tra il cavallo in corsa e le case sullo
sfondo, percepisce le due figure come parte di una singola unità
dinamica.
Essa segue i dettami del Manifesto tecnico della scultura futurista nel
negare l'esclusività di una materia per la intera costruzione d'un insieme
scultorio: infatti, l'opera si compone di parti in legno, in cartone, in rame
e in ferro, con superfici dipinte a guazzo e olio.

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I taccuini di Umberto Boccioni. I dubbi sul Futurismo. Tornare
all’antico?

di Enrico Giustacchini
“Sono da tre giorni a Milano. Oggi ho visto un quadro che mi ha fatto
inumidire gli occhi. La Pietà di Giambellino a Brera. E’ la perfezione stessa.
Il sogno di un artista non può andare più in là. C’è tutto. E’ terribile!!”.
Chi scrive così, chi confessa di aver pianto davanti ad un dipinto
quattrocentesco, è – lo avreste creduto? – Umberto Boccioni. All’epoca –
corre l’anno 1907 – ha venticinque anni. E adora i classici. Gira per
l’Europa alla ricerca della grande pittura. Aspira a diventare, egli stesso,
un grande pittore. Eccolo, in settembre, a Monaco di Baviera. Annota nel
suo taccuino (i taccuini dell’artista sono stati ripubblicati, nel 2003, a cura
di Gabriella Di Milia, da Abscondita): “Ho visitato la Pinacoteca antica,
importantissima. Infinità di cose buone e alcune meravigliose: Dürer con
l’autoritratto a 28 anni mi atterrisce… Ci vorrebbe un volume a parlarne”.
E pochi giorni dopo: “Mi entusiasmano tutti gli artisti fino a Raffaello. Oh,
mi inebriano, mi trasportano, sono un loro schiavo…
Leonardo m’è venuto alla mente come non mai prima! Che intelletto
divino! E c’è chi dice che la Scienza ha ucciso l’Arte. Ma può essere ciò?”.
Ancora, in dicembre: “Leggo Müntz, un libro sul Rinascimento. Le parole
che dice su Leonardo Michelangelo Bramante Raffaello mi fanno
scomparire come la neve al sole. Come posso credermi qualche cosa
davanti a simili giganti?”.
Concludiamo con una riflessione del febbraio del 1908: “Michelangelo!
Come posso arrischiarmi con le mie parole a parlare di Lui? Chi sono io?
Perché scrivo? Per me? Sì, forse questo mi permetterà di dire che
m’inginocchio e adoro… Oh! Misteriosa potenza del genio! Io non posso
seguirlo in tutto. V’è un punto in cui lo vedo varcare una soglia ed entrare
nel Mistero. Adoro e basta!”. Lasciamo Boccioni ai suoi innamoramenti, ai
suoi rovelli, ai suoi proclami d’inadeguatezza degli esordi. Facciamo un
salto temporale, sino al 1916. Sono passati solo otto anni, ma in questi
otto anni è successo di tutto, nel mondo dell’arte. E’ nato, ad esempio,
quello che sarà uno dei maggiori e più dirompenti movimenti del secolo, il
Futurismo. Ed Umberto Boccioni ne è l’osannato principe.
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Eppure… Il rovello ogni tanto si fa sentire; il tarlo del dubbio rode. Colui
che ha proclamato il gioioso primato del movimento, colui che ha cantato
la scoppiettante carica della macchina e dell’artificio, si lascia cogliere a
volte, e ogni volta un po’ più a fondo, dalla nostalgia. Le idee sono ancora
vaghe, l’orizzonte lontano e caliginoso. Ma quei pensieri sulla tradizione,
sulla classicità ritornano ostinatamente.
C’è stata, frattanto, a complicare le cose, l’esperienza della guerra.
Umberto aveva accolto con entusiasmo la notizia dell’inizio del conflitto;
con gli altri compagni di strada dell’avventura futurista si era arruolato
volontario, in un guasconesco e abbastanza improbabile “Battaglione
ciclisti”. Presto, però, la realtà si era rivelata ben diversa. Vista da vicino,
la guerra aveva perduto il suo alone eroico e glorioso. “Sonno! Letto!
Mangiare!” sono le ultime parole che troviamo scritte nel diario dal
fronte. Poi il ritorno a casa, il faticoso riavvicinamento all’attività pittorica,
mentre il disincanto e i dubbi montano di pari passo. Boccioni non si
arrende. Sceglie di non crogiolarsi nella fama acquisita, di non dormire
sugli allori. L’alfabeto gagliardo delle linee-forza e della scomposizione
iconica lascia il posto alla solennità nuova di un ricompattamento plastico,
di una riedificazione formale in senso figurativo. Il vate del Futurismo
avverte ineludibile la necessità di un rallentamento. Per vedere meglio –
pensa -, per meglio mettere a fuoco, servono un passo più largo e una
minore concitazione. L’immagine si fa così, negli ultimi quadri, più
centrale, più definita nell’impianto volumetrico, più “assoluta”. Umberto
dipinge i suoi ritratti avendo davanti agli occhi e nel cuore la sublime
lezione del passato, i sublimi maestri: e, su tutti, Cézanne. “La sintesi, i
pieni ed i vuoti come negativi e positivi di concavi e convessi muovono la
struttura disegnativa con purezza e semplificazione di mezzi” osserva, a
proposito di queste opere, Guido Ballo. Nei primi mesi del 1916, il Nostro
è ospite del musicista Ferruccio Busoni. Un committente prestigioso, il cui
ritratto è la prova più celebre e riuscita dell’estremo periodo del pittore.
Busoni detestava il Futurismo, e qualcuno ne approfitterà per sostenere
la tesi che la svolta stilistica di Boccioni avrebbe avuto motivazioni anche
utilitaristiche. Una tesi che provocherà l’appassionata reazione, tra gli
altri, di Aldo Palazzeschi: “Solamente chi non ha conosciuto Boccioni può
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cadere in questo equivoco. Le opere di quel momento, dobbiamo
considerarle attraverso l’incontentabilità e l’implacabilità del suo spirito
sinceramente rivoluzionario, attraverso la sua lungimirante e spietata
intelligenza che gli faceva misurare i limiti di una nuova via fino dal suo
inizio… Tornare alla propria origine… significava costruire un trampolino
di lancio e attingere nuova lena per una più audace e sicura conquista”.
Certo, quei mesi furono, pur nel travaglio, mesi di ritrovato entusiasmo
per l’artista. In calce ad una lettera all’amico compositore egli aggiungerà
questa postilla: “Vedo, rileggendo, che ho ripetuto la parola felicità tre
volte… Sono realmente in un periodo felice. Procedo con passo di
danza…”.
La danza si interromperà purtroppo presto. Il richiamo alle armi in luglio.
La caduta da cavallo, poche ore di agonia, la morte assurda il 17 di agosto.
Se il destino non fosse stato con lui così crudele, chissà dove sarebbe
arrivato, Umberto Boccioni, a furia di inseguire – sempre danzando – il
fantasma di una pittura insieme antica e nuova, che è come dire eterna.

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Umberto Boccioni e Vittoria Colonna, gli ultimi giorni di un
incantesimo d’amore prima della morte

Poche settimane prima di morire in seguito a una caduta da cavallo, il


futuristissimo Umberto Boccioni conosce una nobildonna trascurata dal
marito, annoiata, persa negli entusiasmi fievoli da little gardener tra le
essenze della sua personale isola lacustre, e inopinatamente vacilla nelle
fedi che credeva incrollabili. Nell’arte, nella vita.
Nel 1916, Vittoria Colonna ha trentacinque anni ed è sposata da quindici
con Leone Caetani. Dopo la fiammata iniziale, Caetani si è molto
allontanato da lei, e da tempo preferisce alla sua la compagnia degli amati
studi (è un celebre orientalista), intervallati da non infrequenti
scappatelle sentimentali. Vittoria è una bella signora, dai capelli scuri, dai
grandi occhi castani e malinconici, dall’affascinante sorriso dove traspare
sempre un fondo di ironia. I pettegoli le hanno attribuito in passato
relazioni – o almeno, amicizie assai intime – con numerosi vip, da
Churchill all’Aga Khan, da D’Annunzio al re d’Inghilterra Edoardo VII.
Arrivata, come si diceva, alla boa dei trentacinque anni, la donna sta
scivolando però adesso dentro il pozzo di un’esistenza solitaria e
rassegnata. Unica gioia, l’Isolino, ossia la piccola isola di San Giovanni, sul
lago Maggiore, che ha affittato e dove ormai vive praticamente sempre.
E’ qui che si dipana l’intenso idillio tra lei e Boccioni. Il pittore, più giovane
di due anni, è un uomo attraente, atletico, simpaticissimo, e ha nomea di
conquistatore di cuori femminili. Da qualche tempo è a Pallanza, ospite
del compositore Ferruccio Busoni, del quale sta eseguendo un ritratto che
diventerà giustamente famoso. Umberto e Vittoria si incontrano la sera
del 6 giugno, ad una cena presso amici comuni. Il giorno successivo,
l’artista, senza dir nulla a nessuno, sale su una barca e, a forza di remi,
raggiunge l’Isolino e la sua solinga abitatrice.
Comincia così la più imprevedibile tra le storie d’amore, quella tra il
rivoluzionario pittore italiano ed un’aristocratica dama dai gusti retrò,
autosepoltasi negli effluvi languorosi di un decadente hortus conclusus
circondato dall’acqua. Una storia destinata a rimanere “privata”, se non
fosse per il casuale ritrovamento da parte di Marella Caracciolo Chia di
alcune lettere che i due si erano scambiati all’epoca. Lettere che
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evidentemente Vittoria non aveva osato distruggere e che hanno fornito
alla ricercatrice il più straordinario degli spunti per scrivere un libro,
pubblicato da Adelphi (Una parentesi luminosa. L’amore segreto fra
Umberto Boccioni e Vittoria Colonna, 180 pagine).
Dopo la prima visita, i due si incontrano quasi quotidianamente. Finché, la
sera del 13… “Quella del 13 giugno sarebbe stata una notte di luna piena
– racconta Caracciolo Chia -, e Vittoria aveva suggerito a Umberto di
venirla ad ammirare dalla sua isola. Prima avrebbero goduto assieme il
tramonto e avrebbero mangiato all’aperto, sul terrazzo a strapiombo sul
lago. In quei giorni il giardino era ‘pieno di profumi: di giglio, gelsomino,
verveine (verbena)’…”.
A seguito del romantico appuntamento notturno, la relazione fra il pittore
e la nobildonna sembra compiere una brusca accelerazione. “Quello che
c’è tra noi è una profonda realtà – le scrive Umberto durante una breve
assenza -, è nato come una realtà. Prima ci siamo conosciuti, poi abbiamo
simpatizzato, poi… poi c’è il nostro segreto, quel meraviglioso crescendo…
Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore, il tuo smarrimento, il mio terrore, la
nostra infinita comunione di corpo e di spirito. Divina mia!”.
Con Vittoria e il ritratto di Busoni – osserva Marella Caracciolo Chia –
succede qualcosa di simile. A mano a mano che il lavoro avanza e le visite
di Boccioni all’Isolino si intensificano, i colori del dipinto diventano più
compatti e accesi. Predominano i verdi, il blu oltremare e il blu elettrico.
Le pennellate sono piene e scattanti. Il pittore ha attaccato la tela con
straripante energia, con aggressività quasi, trasformando le emozioni
nascenti in colori vibranti e pennellate dirompenti. E’ un ritratto, quello di
Busoni, pervaso di felicità”.
Lo stesso Boccioni, del resto, confiderà a un amico, rievocando
quell’esperienza: “Dipingevo con pennelli che non erano più pennelli e
anche con le dita che andavano per conto loro… io non so come sia
saltato fuori quel ritratto, che tra le altre cose è somigliante”. Già,
somigliante. Come se il più grande dei Futuristi avesse deciso d’incanto di
rituffarsi nell’interpretazione del visibile, faccia a faccia col passato:
proprio alla stregua di quanto stava avvenendo in quei giorni, in quelle
ore, nella minuscola isola sull’acqua, tascabile Citera del Ventesimo
secolo dove il tempo, però, pareva essersi fermato per sempre. Poi, arriva
per Umberto il richiamo alle armi. Lui, che allo scoppio della guerra si era
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gioiosamente arruolato con la sua combriccola di spavaldi compagni, uniti
dal credo artistico e dalla comune religione interventista, ora risponde a
malincuore all’appello. E se ne può capire il motivo.
Separato per forza da Vittoria, le scrive lettere ardenti: “C’è qualcosa di
così armonicamente legato nei nostri atti ch’io rimango stupito! E faccio
proponimenti pazzi per l’avvenire e non lo saranno! Saranno belle realtà,
amica mia! Purezza mia! Bellezza mia!
Dolcezza. Profumo. Estasi! Con Voi tutto è possibile! Mi duole non poter
per lettera dirvi tutte le bellissime cose che sento. Temo di non essere
degno, di non essere all’altezza né adesso mentre scrivo né domani
all’Isolino. Ma Voi mi incoraggerete, avrete uno di quei Vostri gesti muti
che mi elettrizzano. Che mi danno coraggio! Se no, sapete, con Voi torno
timido e bambino. E’ perché Voi infiammate quello che in me è più
profondo e puro, quello che più è nobile in me come uomo e come
artista! Voi sola potreste leggere nel mio pensiero, e non un sentimento
trovereste che non sia rivolto a Voi! Che non Vi guardi come una luce! Se
leggeste nella mia anima, sareste orgogliosa del sogno che avete creato in
me! Buona notte, amica mia! Scrivo in fretta per impostare per domani”.
In luglio, Boccioni godrà di una settimana di licenza, che trascorrerà
naturalmente all’Isolino. Di quei momenti restano alcune fotografie,
immagini di Vittoria scattate con ogni probabilità proprio da Umberto.
Poi, il ritorno tra i ranghi. I due amanti non si rivedranno più. Le ultime
lettere della donna non arrivano a destinazione, con grande sconcerto di
Boccioni, che non si capacita di quel silenzio e teme chissà quale disgrazia.
Vittoria, da parte sua, sospetta che le proprie missive siano state
intercettate dalla servitù, e magari fatte finire nelle mani del marito.
Decide così di impostare di persona l’ennesima lettera ad Umberto.
Lettera che giungerà al recapito, però, solo il 17 agosto, ossia il giorno
dopo la morte del pittore.
Il 16, Boccioni esce dalla caserma per un’escursione a cavallo, dopo aver
scritto ancora alla sua adorata, che forse – egli pensa – lo ha abbandonato
per sempre, e senza un perché. Ed è certo immerso in queste tetre
considerazioni quando, ad una curva, scivola di sella e stramazza al suolo
con la testa in avanti. Morirà di lì a poche ore. Una morte assurda,
diranno tutti, per un incidente inspiegabile. “Sei caduto?” gli aveva
chiesto per due volte il suo tenente, durante la lucida agonia. E per due
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volte, Boccioni aveva risposto, lucidamente, di no. “Io credo all’amore
come un’idea assoluta, che si integra con il salto nell’infinito – aveva
annotato, tempo prima, Umberto nel suo diario. – E’ chiaro che coloro
che vogliono l’assoluto amore, essendo due fisici in continua
trasformazione, debbono adattarsi a raggiungerlo o a perire, non
potendosi esso in alcun modo ripetere”.
Vittoria Colonna manterrà per sempre un geloso riserbo su questa sua
vicenda sentimentale. Abbandonata dal marito, emigrato in Canada con
una soubrette, detto addio all’Isolino, soffocherà ricordi e rimpianti in un
insensato tourbillon di viaggi e mondanità.
Morirà in età tarda, nel 1954. Lasciando di quella “parentesi luminosa” la
sola, esilissima traccia di un pacchetto di lettere dai fogli ingialliti. Su uno
dei quali aveva scritto: “Se la vita non mi ha dato di più è anche perché
non ho saputo e non ho voluto prendere: ora voglio trovare la vera
felicità”.
Ma così non doveva essere. Non per Vittoria, non per il suo pittore,
venuto in barca da un altro mondo per salvarla e finito invece abrutto
muso sulla terra dura: senza potersi rialzare, senza poter volare via, né lei
con lui.

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