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DISPENSE DELL’INSEGNAMENTO DI

PSICOLOGIA GENERALE
PROF. ALBERTO COSTA
PROFESSORE ORDINARIO
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Modulo 9

Percezione sociale: empatia e teoria della mente

Contenuti:

1. La prospettiva dell’Altro

2. Componente emotivo/affettiva dell’empatia

3. La componente cognitiva dell’empatia: la “teoria della mente”

4. Relazione tra teoria della mente e funzioni esecutive

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1. Introduzione
Le relazioni con gli “Altri” sono componenti fondamentale della vita dell’uomo. L’interazione

sociale costituisce, infatti, una condizione cruciale per promuovere l’apprendimento, la gratificazione

e lo sviluppo delle proprie potenzialità.

Per interagire in modo funzionale con gli altri è necessario comprendere che questi possono avere

pensieri e emozioni diversi dai nostri. Questo concetto è apparentemente molto semplice, e può

sembrare ad alcuni persino banale. In realtà, tale capacità include un insieme di operazioni mentali di

alto livello ed è sostenuta dall’attività di reti neurali distribuite cui partecipano diverse regioni

corticali e sottocorticali del nostro encefalo. Ciò ne evidenzia la grande complessità.

La capacità autoriflessiva (introspezione), grazie alla quale riusciamo a decodificare i nostri stati

interni e ad attribuire loro un significato chiaro, le capacità di “pensare” l’altro e di assumerne la

prospettiva, sono alla base delle possibilità di agire correttamente nelle relazioni interpersonali. È

grazie a queste capacità che l’individuo può riconoscere sentimenti e credenze e anticipare le

intenzioni dell’altro. In altre parole, sono quelle capacità che ci consentono di acquisire una

“cognizione sociale”, la conoscenza e la consapevolezza circa la relazione con gli altri che richiede

la costruzione di rappresentazioni mentali delle relazioni interpersonali, rappresentazioni che devono

essere utilizzate in modo flessibile dall’individuo al fine di promuovere condotte sociali funzionali al

raggiungimento degli obiettivi (Adolphs, 2001)

Questo modulo è incentrato sulla trattazione degli argomenti sopra enunciati con l’obiettivo di

promuovere nello studente una conoscenza dei principali modelli psicologici e neuro-cognitivi dei

processi coinvolti nella cognizione sociale dell’uomo.

2. La prospettiva dell’Altro
I processi che consentono di comprendere che gli altri hanno un punto di vista differente dal nostro,

bisogni e desideri che muovono le loro azioni secondo direttrici diverse dalle nostre, sono complessi

e articolati.

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Il concetto di empatia, la capacità di inferire e condividere stati emotivi e, più in generale, le

esperienze degli altri, deve essere considerato come un costrutto multidimensionale che comprende

almeno due componenti: una componente emotivo/affettiva e una componente cognitiva (Baron-

Cohen, 2000; Frith e Frith, 2003). La prima componente indica la risposta emozionale del soggetto

in reazione a uno stato emotivo/affettivo percepito o osservato in un’altra persona. Questa è

probabilmente la definizione più nota di empatia. Descrive una sorta di “risonanza” emozionale o

contagio emotivo in risposta a contenuti emozionali originariamente non propri. È esperienza comune

“commuoversi” quando una persona ci riporta esperienze personali dolorose, ovvero percepire

direttamente il fastidio, l’imbarazzo o persino il dolore osservando scene particolarmente salienti dal

punto di vista emozionale. Questo può accadere anche osservando un filmato e non avvenimenti della

vita reale.

La componente cognitiva indica la capacità di assumere la prospettiva dell’Altro attraverso la

comprensione che l’Altro ha stati mentali, desideri e credenze proprie. A questa componente ci si

riferisce in genere con il termine “teoria della mente” (“theory of mind” in inglese) o

“mentalizzazione” (Frith e Frith, 1999). Questa capacità evolve con lo sviluppo delle funzioni

cognitive e, in particolare, delle funzioni esecutive raggiungendo la sua naturale maturazione con

l’emergere del pensiero astratto (Aboulafia-Brakha e coll., 2012). Questa è probabilmente la

componente dell’empatia meno familiare. Si ritiene che in essa siano coinvolte operazioni cognitive

che consentono di “ruotare la prospettiva” attraverso la quale si osserva una determinata situazione.

Le due componenti non devono essere considerate come nettamene separate. Diverse situazioni

richiedono, infatti, un’elaborazione sia cognitiva che emozionale. La distinzione qui proposta facilita

però la comprensione dei meccanismi coinvolti nell’empatia e sarà “adottata” nella discussione che

segue.

2.1. Componente emotivo/affettiva dell’empatia


La componente emotivo/affettiva dell’empatia riguarda l’abilità di comprendere e condividere con

l’altro le emozioni e i sentimenti. Alla maggior parte di noi sarà accaduto di ridere osservando un
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altro ridere, o di commuoversi osservando il pianto di un’altra persona. Imitare l’emozione dell’altro

sembra essere un comportamento che avviene in modo quasi automatico nell’uomo. A tale riguardo,

in alcuni studi sono state registrate le modificazioni dell’attività di muscoli facciali coinvolti

nell’espressione di una determinata emozione mentre il soggetto osservava quell’emozione in un

modello. Più specificamente, mentre sorridiamo alcuni muscoli si contraggono, altri si rilassano

formando la configurazione somatica caratteristica del sorriso. Gli autori di questi studi ipotizzarono

che l’osservazione del sorriso in un'altra persona potesse provocare variazioni di attività nei muscoli

dell’osservatore implicati in quell’emozione, In effetti, i dati sono in linea con questa ipotesi.

Attraverso l’esame elettromiografico i ricercatori registravano le variazioni dell’attività elettrica dei

muscoli del volto mentre i soggetti osservavano dei modelli esprimere delle emozioni definite. Pur

non riproducendo il quadro completo dell’emozione osservata, si potevano apprezzare, nel soggetto

sperimentale, variazioni di potenziale elettrico nei muscoli in modo congruo con l’emozione

osservata nel modello. In particolare, emozioni negative quali la rabbia risultarono essere associate a

variazioni di attività del muscolo corrugatore del sopracciglio, mentre l’osservazione di emozioni

positive quali la gioia furono trovate associate all’attività della muscolatura zigomatica (Dimberg e

coll., 2000). Queste evidenze sono alla base dell’ipotesi del contagio emotivo quando parliamo di

empatia, cioè quel particolare fenomeno per cui, in modo quasi implicito, l’emozione dell’altro viene

condivisa e vissuta anche dall’osservatore.

Fare degli esempi al riguardo è molto semplice. Pensiamo a situazioni in cui abbiamo osservato

altre persone rimettere di stomaco (disgusto). In queste situazioni non è infrequente che anche

nell’osservatore si attivi in modo automatico un comportamento simile. Oppure può esserci capitato

di osservare l’esecuzione di un’iniezione dolorosa, o l’assunzione di posizioni innaturali a parti del

corpo, come accade, ad esempio, nelle distorsioni gravi delle caviglie degli atleti in seguito a scontri

di gioco. In queste occasioni può accadere di ritrovarsi a riprodurre compiutamente il quadro

caratteristico dell’emozione probabilmente provata dalla persona osservata, ovvero di adottare dei

comportamenti volti ad evitare la prosecuzione dell’osservazione, perché “troppo emozionante”.

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Il contagio emotivo è dunque un’esperienza comune in determinate circostanze e l’uomo sembra

possedere un apparato che gli consente di “attivarsi” implicitamente al verificarsi di eventi emozionali

che coinvolgono gli altri. Abbiamo discusso nel modulo precedente dell’importanza delle emozioni

per promuovere l’adattamento dell’individuo all’ambiente. Le emozioni spesso segnalano una

situazione in cui è necessario attuare un’azione immediata. Questo può essere vero anche per le

emozioni provate da un altro. Abbiamo fatto l’esempio dell’emesi associata al disgusto. Il disgusto

indica probabilmente che lo stimolo con cui si entra in contatto è potenzialmente nocivo per

l’organismo. Lo stimolo deve essere quindi allontanato. L’osservazione di un altro che rimette di

stomaco può fornire questa informazione all’osservatore in modo tale che organismo si prepari per

attivare un programma d’azione volto a proteggerlo da potenziali conseguenze dannose.

Le emozioni sono però anche fondamentali per instaurare e sostenere interazioni sociali valide e

durature. Pensiamo all’importanza della condivisione dell’esperienza del sorriso nelle relazioni

quotidiane con le diverse persone con cui entriamo in contatto e, in particolare, nei legami affettivi

significativi. La condivisione della tristezza e della gioia tra i genitori e il bambino è un elemento

cruciale per il corretto sviluppo del bambino stesso e per la formazione di relazioni funzionali. La

tendenza a riprodurre gli stati emozionali dell’altro può essere talmente forte che potremmo avere

difficoltà a inibirla pur provandoci intensamente. Il sistema sembra dunque possedere delle

caratteristiche biologiche che lo predispongono a “riflettere” le emozioni dell’Altro.

2.1.1. La condivisione dell’esperienza del dolore


Il dolore ha una funzione cruciale ai fini della sopravvivenza poiché rileva l’esistenza di una

minaccia potenzialmente seria ai danni dell’organismo. L’esperienza del dolore produce

modificazioni rilevanti di indici neurofisiologici, dell’attività muscolare e del comportamento. Un

dato molto interessante riguarda l’evidenza che queste variazioni avvengono anche quando si osserva

una persona mentre questa prova dolore, in particolare se si tratta di una persona cui siamo legati da

un legame affettivo. A chi è capitato di fare questa esperienza avrà potuto verificare la difficoltà di

mantenere un atteggiamento neutro.


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Le reazioni di fronte al dolore dell’altro possono essere diverse in funzione di fattori, biologici,

psicologici e psicosociali. Grazie all’applicazione di metodiche neurofisiologiche e di neuroimaging

è stato possibile documentare che l’osservazione del dolore dell’altro produce anche delle variazioni

di attività cerebrale in regioni che partecipano all’esperienza del dolore personale, cioè relativo a se

stessi.

L’esperienza del dolore derivante dal contatto con uno stimolo esterno ovvero da una variazione

di una condizione interna implica l’analisi di diverse componenti. La componente sensoriale, che si

riferisce all’analisi della localizzazione e dell’intensità del dolore, e la componente emotivo/affettiva

relativa all’attribuzione di sgradevolezza rispetto all’esperienza. Naturalmente, a queste componenti

si aggiungono le modifiche degli indici neurofisiologici e del comportamento che abbiamo più volte

esaminato trattando delle emozioni. Le componenti sensoriali e emozionali sono invariabilmente

presenti quando percepiamo il dolore. In termini neurocognitivi, l’esperienza del dolore è mediata

dall’attività di un network neurale articolato denominato “la matrice del dolore” (Melzack 1999).

All’interno di questo network, le componenti sensoriali e emozionali sembrano mediate dall’attività

di aree discrete e differenziabili. Le regioni parietali del giro post-centrale e, in particolare, le cortecce

somatosensoriali sarebbero coinvolte nella componente sensoriale. La componente emotivo/affettiva

sarebbe, invece, particolarmente sottesa dall’attività di aree frontali quali la corteccia anteriore del

cingolo e un’area collocata tra il lobo frontale e temporale, la corteccia dell’insula (Melzack, 1999).

Le funzioni della regione dell’insula non sono del tutto chiarite. Sembra però implicata in un insieme

di funzioni viscerali, nella regolazione dell’omeostasi interna, nel mantenimento dell’equilibrio

posturale e nelle emozioni.

Bufalari e coll. (2007; “empathy for pain and touch in the human somatosensory cortex”, Cerebral

Cortex, 17: 2553-2561) hanno esaminato proprio il ruolo svolto dalla corteccia somatosensoriale nei

processi empatici relativi al dolore. Più specificamente, gli autori presentavano ai soggetti dei video

in tre condizioni principali: a) una siringa che penetrava il dorso di una mano, b) un bastoncino che

esercitava una pressione nel punto in cui nella condizione a) e c) una mano in posizione statica. La

mano era sempre la destra. Durante la visione era registrata l’attività cerebrale tramite
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l’elettroencefalografia al fine di rilevare i potenziali evocati somatosensoriali (i quali erano prodotti

attraverso l’applicazione di una stimolazione non dolorosa del nervo mediano del polso. La propria

mano non era visibile al soggetto sperimentale).

In estrema sintesi, i risultati dello studio hanno evidenziato che nella condizione a), quella

condizione in cui viene simulata una potenziale situazione dolorosa per l’altro, determina un

incremento dell’ampiezza dei potenziali evocati a livello della corteccia somatosensoriale primaria

dell’osservatore, indicando un’aumentata attività in quest’area. L’incremento dell’ampiezza dei

potenziali evocati è, inoltre, risultato correlato con l’intensità del dolore attribuito dall’osservatore al

modello. I risultati di questo studio sono particolarmente interessanti poiché documentano, per la

prima volta, come l’osservazione del dolore altrui sia associata ad una “facilitazione” dell’attivazione

di aree in generale attive nella decodifica di sensazioni somatiche.

In un altro studio, Singer e coll. (2004) hanno registrato l’attività cerebrale tramite la risonanza

magnetica funzionale di soggetti mentre questi facevano esperienza diretta di uno stimolo doloroso e

mentre osservano un segnale indicativo del fatto che una persona alla quale erano legati da un legame

affettivo, presente nella stessa stanza, stava per ricevere una stimolazione dolorosa. Anche in questo

caso riporto i risultati dello studio in estrema sintesi. I ricercatori hanno trovato alcune aree cerebrali

erano significativamente attivate in entrambe le condizioni sperimentali. Ripeto che le condizioni

sperimentali erano caratterizzate dal fatto che in una era il soggetto sperimentale a sperimentare lo

stimolo doloroso, nell’altra era il proprio caro/a. Le aree cerebrali individuate erano la corteccia

dell’insula e la corteccia anteriore del cingolo. Abbiamo in precedenza visto che queste aree sembrano

particolarmente implicate nella mediazione della componente affettiva dell’esperienza del dolore.

Inoltre, nella condizione di osservazione del “dolore dell’Altro”, l’attivazione delle aree su

menzionate correlava significativamente con i report soggettivi di empatia.

I risultati degli studi che vi ho presentato qui in breve, mettono in luce un aspetto di grande

interesse. La condivisione dell’esperienza del dolore sul piano soggettivo sembra corrispondere anche

ad una “condivisione” del network cerebrale stesso implicato nella percezione e nell’elaborazione di

tale esperienza.
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2.1.2. Il sistema dei “neuroni mirror” o “neuroni specchio”


Questo paragrafo è in parte ripreso dal volume: “I neuroni specchio” di Laila Craighero, 2010, ed.

Il Mulino. Nel volume l’autrice propone una discussione analitica sulle caratteristiche qualitative e

sulle funzioni dei neuroni specchio.

Alcuni anni fa, il gruppo di ricerca guidato da Rizzolatti (Gallese, Fadiga, Fogassi, Rizzolatti,

1996; Brain, 119), fece una scoperta che avrebbe in seguito cambiato radicalmente il modo in cui

intendiamo il sistema motorio. I ricercatori stavano eseguendo delle registrazioni dell’attività

cerebrale di uno scimpanzé. Nell’eseguire l’esperimento, i ricercatori si accorsero che alcuni neuroni

erano attivi, cioè erano rilevate modificazioni dei potenziali d’azione, quando la scimmia osservava

lo sperimentatore eseguire un’azione finalizzata alla prensione di un oggetto. Questi neuroni non

erano attivati semplicemente dall’osservazione del movimento generico della mano. La variazione di

potenziale era, infatti, associata al momento in cui l’oggetto era effettivamente afferrato dallo

sperimentatore. Il dato importante è che questi neuroni si attivano anche quando la scimmia esegue

la stessa azione. Il gruppo di ricerca ha eseguito una serie di lavori per comprendere meglio la ragione

di questa attivazione indifferenziata dei neuroni (Gallese e coll., 1996; Fogassi e coll., 2005). I

ricercatori rilevarono inizialmente che l’attività neuronale in questi neuroni, collocati nelle aree

motorie frontali (le aree premotorie), variavano la propria attività quando la mano assumeva la

postura corretta per prendere lo stimolo, sia quando l’azione era osservata sia quando era eseguita

direttamente dall’animale. I ricercatori hanno dunque individuato dei neuroni, i neuroni specchio, che

sono probabilmente connessi in modi intrinseco non tanto con le caratteristiche fisiche degli stimoli,

ma, piuttosto, con l’interazione tra l’attore e un determinato stimolo. Interazione che ha uno scopo

preciso, afferrare (o manipolare) un oggetto (Craighero, 2010. “I neuroni specchio”. Ed. Il Mulino).

I risultati di queste ricerche sugli animali hanno spinto gli studiosi a verificare se anche nell’uomo

esistesse un sistema simile. I dati al riguardo sono piuttosto interessanti.

Alcune ricerche (Fadiga e coll, 1992) hanno documentato come l’osservazione di azioni eseguite

con la mano dirette ad afferrare oggetti producevano nell’osservatore una facilitazione dei potenziali
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evocati motori registrati nei muscoli necessari per eseguire quel movimento. Questi ricerche hanno

utilizzato la metodica della stimolazione magnetica transcranica (TMS). La TMS consente di

modificare l’attività elettrica dei neuroni corticali attraverso l’induzione di campi magnetici.

Stimolando, attraverso questa tecnica, le regioni della corteccia motoria primaria responsabili del

movimento della mano si può ottenere una variazione del potenziale d’azione a livello dei muscoli

responsabili del movimento (potenziale evocato motorio).

La facilitazione del potenziale evocato periferico, misurata attraverso la registrazione di ampiezze

maggiori dei potenziali in seguito all’osservazione del movimento finalizzato rispetto a un

movimento non finalizzato, indica una sorta di “pre-attivazione” delle aree cerebrali deputate al

movimento. Il soggetto mentre osserva l’azione, infatti, non esegue il movimento. L’ipotesi è, anche

in questo caso, che possa esistere un sistema di neuroni dedicato alla rappresentazione dell’azione, la

cui attività “pre-allerta” I neuroni della corteccia motoria primaria responsabili del movimento

effettivo. Studi di risonanza magnetica funzionale hanno documentato che all’interno della corteccia

premotoria, un’area la cui attività è particolarmente importante ai fini della pianificazione e

programmazione delle azioni, sono attivate sia dall’osservazione delle azioni (in genere eseguite

attraverso la mano e la bocca) sia dall’esecuzione delle azioni stesse. Il circuito comprende inoltre

altre aree del lobo frontale e del lobo parietale.

I dati disponibili in letteratura e, in parte, discussi in questo paragrafo mettono in luce che anche

nell’uomo sembra essere presente un sistema neuromotorio che “prepara” l’individuo a riprodurre

azioni e schemi comportamentali quando questi sono finalizzati e che, secondo alcuni ricercatori,

potrebbe essere alla base dei meccanismi d’imitazione. Dunque, anche a livello dell’azione sembra

esistere una “condivisione” di rappresentazioni che si riflettono nell’attività di circuiti neurali simili

quando siamo noi stessi a eseguire un gesto finalizzato e quando quel gesto è osservato in un altro.

In conclusione, è possibile ipotizzare che, attraverso un meccanismo di “risonanza”, questo

sistema consenta all’individuo di anticipare le azioni e, pertanto, le intenzioni dell’altro. Questi aspetti

necessitano, comunque, di ulteriori ricerche.

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2.2. La componente cognitiva dell’empatia: la “teoria della mente”


Il termine “teoria della mente” (da qui in avanti indicata con “ToM”) fu introdotto da Premack and

Woodruff (1978) per indicare quella capacità di attribuire gli stati mentali in modo differenziale a se

e agli altri. Numerose ricerche sono state condotte nel corso degli ultimi anni. Il costrutto della ToM

è stato particolarmente studiato nei soggetti affetti dalla sindrome autistica e dalla sindrome di

Asperger, due disturbi pervasivi dello sviluppo associati a deficit cognitivi, affettivi e

comportamentali. Baron-Cohen e coll., (1985), Baron-Cohen (2000) e Baucher (2012) sono gli autori

che più si sono occupati di questo argomento e i risultati delle loro ricerche hanno permesso di

ampliare sensibilmente le conoscenze sui meccanismi cognitivi implicati nella ToM.

Le osservazioni durante l’età evolutiva hanno permesso di rilevare che i processi di ToM si

sviluppano progressivamente nell’individuo fino a raggiungere la “maturazione” nell’età

adolescenziale (Flavell, 2000). In particolare, l’età compresa tra i 2-5 anni si ritiene sia critica per

l’iniziale sviluppo della capacità di comprendere che la prospettiva degli altri può essere molto

diversa dalla realtà sperimentata personalmente. In seguito il bambino riesce a risolvere

compiti/situazioni più complesse che richiedono la comprensione che l’acquisizione delle conoscenze

sull’esistenza nell’altro d’intenzioni, desideri e, più in generale, di una prospettiva diversa dalla

propria si fonda su un processo interpretativo. Tra i 10-13, con lo sviluppo del pensiero ipotetico –

deduttivo e delle capacità di rappresentazione mentale delle sequenze di eventi, le capacità di

mentalizzazione si affinano maggiormente. Secondo Baron-Cohen (1995) alcuni prerequisiti

sarebbero essenziali per lo sviluppo nel bambino delle abilità di ToM. Secondo l’autore il bambino

deve possedere un sistema per l’individuazione dell’intenzionalità (Intentionality Detector), un

sistema per rilevare l’orientamento dello sguardo (Eye-Direction Detector) e un sistema per la

condivisione dell’attenzione (Shared Attention System). I tre sistemi operano all’interno della

relazione con l’altro e consentono, nel loro complesso, di percepire e rappresentare l’intenzione

d’azione relativa agli oggetti presenti nel campo percettivo.

Disturbi della capacità di ToM si riscontrano anche in altre popolazioni con disturbi

psicopatologici e neurologici. Proprio dallo studio di questi ultimi e dall’applicazione delle moderne
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metodiche neurofisiologiche e di neuroimaging è stato possibile individuare alcuni circuiti cerebrali

particolarmente importanti per sostenerne l’integrità. Questi circuiti includono diverse regioni frontali

(la corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia orbitofrontale e il polo frontale), temporali (polo

temporale e solco temporale superiore), la giunzione temporo-parietale, l’amigdala e altre strutture

del sistema limbico. Anche l’attività dei circuiti fronto-striatali, circuiti di connessione tra le strutture

frontali e alcune strutture sottocorticali (il corpo striato) è ritenuta critica per sostenere le attività di

ToM (Costa e coll., 2013; Parkinsonian patients with deficits in the dysexecutive spectrum are

impaired on theory of mind tasks. Behav Neurol. 27:523-533).

In uno studio di qualche hanno fa, che possiamo considerare pioneristico poiché fu il primo in cui

fu applicata la stimolazione magnetica transcranica (TMS) all’investigazione dei processi di ToM,

abbiamo esaminato il ruolo svolto dalle regioni corticali prefrontali e posteriori (la giunzione

temporo-parietale) dell’encefalo nelle funzioni di ToM (Costa A. e coll., 2008; “Prefrontal and

temporo-parietal involvement in taking others' perspective: TMS evidence”. Behav Neurol.

2008;19:71-74). In questo studio, a soggetti giovani senza disturbi neurologici furono somministrati

dei compiti di ToM in diverse condizioni sperimentali. Alcune condizioni sperimentali prevedevano

la somministrazione dei compiti di ToM dopo stimolazione con TMS delle aree cerebrali su

menzionate. In altre condizioni la somministrazione dei compiti era eseguita dopo stimolazione

placebo (inefficace) delle stesse aree. Il confronto tra le diverse condizioni sperimentali permise di

rilevare che la TMS applicata sulle regioni prefrontali e temporo-parietali determina un’interferenza

significativa sulle prestazioni dei soggetti al test. Questo dato documentò l’importanza dell’attività di

queste regioni corticali per la mediazione dei processi di ToM. Il dato è stato confermato in seguito

da ricerche neurofisiologiche e, molto recentemente, da ricerche neuropsicologiche in persone con

esiti di trauma cranico (Johnstone e coll., 2015; Functional and structural indices of empathy:

Evidence for self-orientation as a neuropsychological foundation of empathy. Neuropsychology.

2015 May;29(3):463-72).

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2.2.1 Processi coinvolti nella teoria della mente


Diversi modelli sono stati proposti per spiegare i meccanismi di ToM. Secondo una prima

prospettiva teorica, le persone si formerebbero una vera e propria teoria sul funzionamento dell’altro

eseguendo un’analisi cognitiva dei diversi elementi a disposizione. In particolare, attraverso l’esame

delle relazioni tra i diversi stimoli e in base alle regole che legano in termini causali gli eventi – regole

note al soggetto - l’individuo formulerebbe delle ipotesi sugli stati mentali delle persone. Ipotesi che

guidano il proprio comportamento nella relazione. Questo approccio è denominato “Theory theory”

(Carruthers e Smith, 1996), terminologia che enfatizza il fatto che l’attribuzione di intenzioni e

credenze all’altro avverrebbe attraverso l’applicazione di regole formali e operazioni cognitive ai

dati.

Diversa è l’ipotesi delineata dal modello denominato “simulation theory” (teoria della

simulazione; Davies e Stone, 1995). In base a questo modello, le persone utilizzerebbero le proprie

“autoriflessioni” per individuare e predire le intenzioni degli altri. È il concetto del “mettersi nei panni

dell’altro” (e immaginare come ci si sentirebbe con quei panni indosso) per comprendere come

sarebbe la prospettiva nella posizione dell’altro. La teoria della simulazione prevede che il soggetto

debba impersonare, replicare, modellare in qualche modo su di sé l’esperienza (mentale) dell’altro,

per poterla visualizzare e prendere una decisione (formulare delle previsioni) sul comportamento

dell’altro. E’ evidente come questo modello sia diverso dal precedente in cui la comprensione delle

intenzioni e credenze dell’altro avverrebbe attraverso la messa in atto di operazioni cognitive astratte.

I due modelli sono illustrati schematicamente nelle Figura 1. Per comprendere le caratteristiche

funzionali del primo modello considerate come esempio la prima storia del compito delle false

credenze riportata qui sotto.

È probabile che entrambi i modelli su esposti siano in parte corretti. È stato, infatti, osservato che

i processi cognitivi e i circuiti cerebrali coinvolti nella ToM variano considerevolmente in funzione

del compito utilizzato. Questa evidenza ha condotto alla formulazione dell’ipotesi che la ToM non

sia un meccanismo unitario ma che, piuttosto, ne debbano essere distinte diverse sub-componenti.

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Prima di addentrarci in questa discussione, è utile presentare alcuni dei compiti che sono

usualmente utilizzati per esaminare le capacità di ToM. In sostanza, tre tipologie di compiti sono tra

le più frequentemente usati: false credenze (false believes) di primo ordine, false credenze di secondo

ordine e passi falsi (faux-passes). In questi compiti sono narrate delle storie con diversi personaggi.

Ve ne riporto alcuni esempi qui di seguito tratti da diversi lavori che abbiamo recentemente condotto

e pubblicato (Bivona U, Riccio A, Ciurli P, Carlesimo GA, Delle Donne V, Pizzonia E, Caltagirone

C, Formisano R, Costa A. Low self-awareness of individuals with severe traumatic brain injury can

lead to reduced ability to take another person's perspective. J Head Trauma Rehabil. 2014;29:157-

171. Bivona U, Formisano R, De Laurentiis S, Accetta N, Rita Di Cosimo M, Massicci R, Ciurli P,

Azicnuda E, Silvestro D, Sabatini U, Falletta Caravasso C, Augusto Carlesimo G, Caltagirone C,

Costa A. Theory of mind impairment after severe traumatic brain injury and its relationship with

caregivers' quality of life. Restor Neurol Neurosci. 2015; 33:335-345).

False credenze di primo ordine

Storia stimolo

“Marta compra la cioccolata che piace tanto a Luigi. Giunta a casa Luigi ne mangia una parte,

dopo di che la ripone nel pensile della credenza ed esce dalla cucina. Marta prende la cioccolata per

farne un dolce e la conserva successivamente nel cassetto del tavolo. Dopo alcuni minuti Luigi entra

in cucina per prendere ancora un po’ di cioccolata”.

Domande poste al soggetto

Domanda 1. Dove cercherà la cioccolata Luigi?

a) Sulla mensola vicino al caffè

b) Nel cassetto del tavolo

c) Nel pensile della credenza

Domanda 2. Dove è la cioccolata?


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a) Nel pensile della credenza

b) Nel cassetto del tavolo

Domanda 3. Dove era inizialmente la cioccolata?

a) Nel cassetto del tavolo

b) Nel pensile della credenza

False credenze di secondo ordine

Storia stimolo

“La signora che si occupa della pulizia delle scale è solita riporre la scopa nell’armadio del

seminterrato. Un giorno, mentre la signora sta lavando a terra, dei bambini vanno nel seminterrato e

spostano la scopa dall’armadio in una cassapanca. I bambini non sanno, però, che la signora li sta

osservando dal buco della serratura”.

Domande poste al soggetto

Domanda 1. Secondo i bambini dove penserà la signora che sia la scopa?

a) Con tutto quel disordine non può proprio pensare a nulla

b) Nella cassapanca

c) Nell’armadio

Domanda 2. Dove è stata messa la scopa?

a) Nell’armadio

b) Nella cassapanca

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Passi falsi

Storia stimolo

“Clara in segno di amicizia regalò a Marco un vaso antico. I due hanno perso i contatti per diversi

anni fino a ritrovarsi ad una festa a casa di Marco. Durante la festa Clara urta contro il vaso

rompendolo. Clara è molto dispiaciuta e Marco le si avvicina dicendole di non preoccuparsi poiché

quel vaso non gli è mai piaciuto”.

Domande poste al soggetto

Domanda 1. Qualcuno ha detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire?

a) Si

b) No

Domanda 2. Chi ha detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire?

a) Marco

b) Clara

Domanda 3. Perché non avrebbe dovuto dirla?

a) Per non offendere Clara

b) Per non incuriosire Clara

Domanda 4. Perché Marco si è comportato così?

a) Perché sì è innervosito per l’accaduto

b) Perché era il suo vaso preferito

c) Perché non si ricordava che il vaso era un regalo di Clara

Domanda 5. Quali tra i seguenti personaggi era nella storia?

a) Marco
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b) Gianni

c) Clara

d) Alfredo

Un'altra tipologia di compito generalmente utilizzato è denominato “reading in the eyes test” e

richiede di individuare lo stato mentale di un altro attraverso la decodifica dell’espressione degli occhi

(letteralmente, “leggere negli occhi”; Baron-Cohen e coll., 1997; 2001).

Osservando analiticamente le tre tipologie di compito illustrati sopra, le false credenze di primo

e secondo ordine e i passi falsi, emergono alcune differenze. I compiti di false credenze richiedono

la messa in atto di meccanismi essenzialmente cognitivi, per comprendere la differenza tra le

informazioni a disposizione del personaggio della storia e quelle di colui che ascolta o osserva (il

soggetto cui è somministrato il test). L’esaminato, infatti, deve “ruotare” la propria prospettiva per

differenziare la propria esperienza (la conoscenza dell’esatta collocazione della cioccolata nel primo

compito) dall’esperienza dell’altro (che non ha l’informazione sulla collocazione esatta della

cioccolata). Le domande poste hanno l’obiettivo di verificare questa abilità (la prima domanda) e di

esaminare la capacità di compiere un esame di realtà corretto e il funzionamento della memoria (le

domande successive).

I passi falsi, oltre all’operazione su delineata, si ritiene richiedano anche la capacità di

comprendere lo stato emozionale dell’altro. Questi compiti riproducono, in sostanza, la situazione

della gaffe in cui può incorrere ciascuno di noi affermando un concetto ovvero compiendo un’azione

non tenendo conto che nel fare ciò si può “urtare” la sensibilità dell’altro. Spesso questo avviene

poiché l’attore si dimentica di un’informazione circa qualcosa che riguarda l’altro. Informazione

appresa in un precedente contatto intercorso con l’altro. Le domande poste hanno l’obiettivo di

valutare l’abilità dell’esaminato di individuare il passo falso (la prima), di definirlo in modo compiuto

(le tre successive) e la memoria (l’ultima).

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Le due tipologie di compiti (false credenze e passi falsi) sembrano, dunque, reclutare processi

parzialmente differenziabili. Alla luce di questa evidenza, e di altre osservazioni, è stato ipotizzato

che la ToM sia costituita da almeno due componenti. Una prima componente cognitiva, impegnata

particolarmente nelle situazioni di false credenze, e una componente affettiva aggiuntiva, necessaria

per la risoluzione di compiti di passi falsi (Baron-Cohen e Wheelwright, 2004; Shamay-Tsoory e

coll., 2006). Queste due componenti sono state definite la prima “cold” social cognition poiché vi

sono implicate operazioni puramente cognitive e, la seconda, “hot” social cognition, poiché è richiesta

l’elaborazione delle emozioni dell’altro. Sebbene non vi sia un accordo generale sulla dissociazione

tra le due componenti (vedi Brothers, 1995 e 1997 per un punto di vista divergente sull’argomento),

questa appare sostenuta dai dati di una serie di studi con popolazioni di pazienti con disturbi

neurologici (Shamay-Tsoory e Aharon- Peretz, 2007; Shamay-Tsoory e coll., 2006). Inoltre, alcuni

dati evidenziano che nelle persone con sociopatia è maggiormente compromessa la componente

affettiva della ToM, mentre negli individui con autismo cembra che ad essere deficitaria sia, in

particolare, la componente cognitiva (Blair, 2005).

Numerosi sono in realtà i modelli concepiti per spiegare il funzionamento della ToM. In una

recente revisione della letteratura sull’argomento, Schurtz e Perner (2015) ne prendono in esame nove

(si rimanda al lavoro di questi autori per un approfondimento della tematica). Qui ne ho discussi

solamente alcuni che ritengo chiariscano, in sostanza, gli elementi principali di questa complessa

funzione.

Nella finestra di dialogo 1. è presentato e discusso un lavoro che abbiamo recentemente concluso

e pubblicato sulla relazione tra disturbi di ToM e qualità di vita nelle persone con esiti di trauma

cranioencefalico.

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Figura 1. Illustrazione schematica dei due modelli proposti per la spiegazione dei

meccanismi di ToM. Fonte: ripresa e modificata da: Apperly IA., 2008;

Beyond Simulation–Theory and Theory–Theory: Why social cognitive neuroscience

should use its own concepts to study ‘‘theory of mind’’. Cognition, 107: 266-283.

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Finestra di dialogo 1. Parte prima

La ricerca che vi presento è stata eseguita allo scopo di esaminare i fattori che incidono sulla

qualità di vita in coloro i quali assistono (in particolare i familiari del malato) le persone con esiti di

trauma cranioencefalico grave (TCE). Le persone con TCE hanno spesso, infatti, disturbi cognitivi e

comportamentali che influiscono sul benessere proprio e dei familiari. Anche le capacità di ToM a

volte sono ridotte, e la ricerca si proponeva di valutare quanto la ridotta efficienza di questi processi

potesse determinare variazioni significative della qualità di vita nei caregiver (coloro i quali si

prendono cura del malato).

Prima di illustrare in concreto la ricerca, è importante mettere a fuoco cosa s’intende per qualità

di vita e, in particolare, per qualità di vita connessa con la salute (in inglese: Health Related Quality

of Life - HRQoL)

Cito testualmente la World Health Organization (WHO; “Organizzazione Mondiale della Salute”;

1952; 1995) che definisce la salute: “…come uno stato di pieno benessere fisico, mentale e sociale, e

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non esclusivamente come l’assenza di malattia o d’infermità”. La qualità di vita è intesa come “La

percezione individuale della propria posizione nella vita nel contesto culturale e di valori di

riferimento, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, principi e interessi”. La qualità di vita è

dunque una dimensione complessa sulla quale incidono fattori economici, biologici, psicologici,

politici e sociologici.

La definizione di HRQoL restringe il campo prendendo in considerazione particolarmente

l’impatto della malattia e del trattamento sulle dimensioni fisiche, emozionali e sociali, valutato dalla

prospettiva del paziente (Doward et al., 2004). La HRQoL deriva, pertanto, da un’integrazione tra

funzionamento obiettivo e giudizio e percezione soggettivi relativi alla propria condizione.

Finestra di dialogo 1. Parte seconda

Veniamo ora alla presentazione della ricerca. Si tratta di un lavoro che ho già citato in precedenza

dal titolo “Theory of mind impairment after severe traumatic brain injury and its relationship with

caregivers' quality of life” (2015; “disturbi di ToM nel trauma cranioencefalico grave e relazione con

la qualità di vita”; Bivona U, Formisano R, De Laurentiis S, Accetta N, Rita Di Cosimo M, Massicci

R, Ciurli P, Azicnuda E, Silvestro D, Sabatini U, Falletta Caravasso C, Augusto Carlesimo G,

Caltagirone C, Costa A.. Restor Neurol Neurosci. 2015; 33:335-345).

In questo studio abbiamo esaminato venti persone con TCE e 20 caregiver. Ai soggetti con TCE

sono stati somministrati dei compiti di ToM del genere dei passi falsi (un esempio di questo compito

è riportato sopra). Per valutare la prestazione è stata considerata l’accuratezza delle risposte. Ai

caregiver è stato somministrato un questionario (il QOLIBRI: Quality of Life After Brain Injury)

ideato per valutare la qualità di vita connessa con la salute. Ai dati è stato applicato un modello

statistico di regressione lineare che ha consentito di esaminare il contributo relativo di diversi fattori

sulle variazioni dei valori della variabile di interesse (variabile dipendente). Il primo risultato della

ricerca ha documentato una minore accuratezza della prestazione dei soggetti con TCE al compito di

passi falsi rispetto a un gruppo di controllo di soggetti sani comparabili per età e scolarità. Questo

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risultato è in linea con i dati di altri studi i quali hanno evidenziato una difficoltà di queste persone

nell’eseguire i compiti di ToM.

Il risultato principale dello studio è quello derivato dalle analisi della regressione. Queste analisi

hanno messo in evidenza che la prestazione dei soggetti con TCE al compito di ToM prediceva in

misura significativa la HRQoL dei rispettivi caregiver. Più specificamente, ad una peggiore

prestazione dei soggetti con TCE nei passi falsi era significativamente associato un punteggio dei

caregiver al questionario QOLIBRI indicativo di una peggiore HRQoL.

I risultati dello studio appaiono particolarmente interessanti poiché sono i primi a documentare

l’esistenza di una relazione significativa tra le suddette variabili e mettono in evidenza come una

riduzione di questa componente dell’empatia, la ToM, possa esercitare un impatto rilevante sulla

percezione del proprio benessere e, quindi, sulla qualità di vita del familiare che si prende cura del

malato.

2.2.2. Relazione tra teoria della mente e funzioni esecutive


Abbiamo avuto modo di vedere come la costruzione di una teoria della mente sia un processo

graduale nel bambino, il cui sviluppo procede parallelamente con la maturazione di altre funzioni

cognitive.

I risultati di diversi studi condotti con persone sane e con soggetti affetti da patologie

psicopatologiche e neurologiche, hanno messo in evidenza come le funzioni esecutive siano molto

importanti nel sostenere le abilità di ToM. Tenendo presente la discussione proposta finora e le

caratteristiche dei compiti che vi ho illustrato in precedenza, è evidente come i compiti/condizioni di

ToM richiedano abilità di alto livello quali, ad esempio, la memoria di lavoro, l’inibizione (della

prospettiva personale o egocentrica, per modificare flessibilmente il proprio punto di vista) e

l’integrazione (delle informazioni dalla memoria a lungo termini con quelle contestuali relative

all’altro). La prestazione in queste condizioni può, quindi, essere influenzata da una riduzione

dell’efficienza del sistema esecutivo.


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Uno studio molto interessante al riguardo è quello condotto da Fish e Happe (2005) con bambini

affetti da autismo (un disturbo generalizzato dello sviluppo caratterizzato principalmente da deficit

della comunicazione, disturbi cognitivi e dell’interazione interpersonale). Gli autori mostrarono che

un trattamento riabilitativo focalizzato sul potenziamento delle capacità esecutive migliorava

sensibilmente le prestazioni di ToM nei bambini esaminati. Questo dato sembra, pertanto, indicare

una relazione causale tra l’effettuazione del training esecutivo (la variabile indipendente “funzioni

esecutive”) e le funzioni di ToM.

Una revisione della letteratura sui dati disponibili in diverse popolazioni neurologiche mette in

rilievo, però, dei dati non pienamente convergenti. Aboulafia-Brakha e coll. (2011) hanno esaminato

nel loro lavoro i risultati di 24 studi condotti sull’argomento. L’analisi eseguita dagli autori ha

permesso di rilevare che in 22 degli studi presi in considerazione si documentava una compresenza

del deficit esecutivo accanto al deficit delle abilità di ToM. Questo dato è in linea con i risultati dello

studio di Fish e Happe (2005) sopra menzionato, laddove evidenzia una relazione “robusta” tra

funzioni esecutive e ToM.

In realtà, a rendere meno attendibile tale conclusione sono i dati emersi da altri studi. In particolare,

in due di questi studi, è stato dimostrato che pazienti con deficit delle funzioni esecutive esibivano

prestazioni nella norma in compiti di ToM (Igliori e Damasceno, 2006; Tager-Flusberg, 2000).

Un’altra ricerca ha documentato che un soggetto che presentava una riduzione della abilità di ToM

non mostrava deficit delle funzioni esecutive (Fine e coll., 2001). Questi dati indicano probabilmente

che la prestazione di test di ToM non può essere spiegata completamente dalle abilità esecutive.

Recentemente, abbiamo condotto uno studio sull’argomento mettendo in luce come, nelle persone

con malattia di Parkinson, sia presente una relazione significativa tra abilità di ToM e funzioni

esecutive (Costa e coll., 2013; “Parkinsonian patients with deficits in the dysexecutive spectrum are

impaired on theory of mind tasks”. Behavioral Neurology, 27(4):523-533). In particolare, in questa

ricerca un gruppo di trenta persone con malattia di Parkinson (MP) è stato diviso in due sotto-gruppi

in relazione alla loro prestazione ai test esecutivi: un gruppo (n=15) con prestazioni basse e un altro

gruppo (n=15) con prestazioni elevate ai test. Abbiamo anche incluso un gruppo di controllo
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composto da soggetti sani comparabile per età e anni di educazione scolastica ai due sotto-gruppi di

persone con MP. A tutti i partecipanti è stata somministrata una procedura di ToM del genere dei

“passi falsi”. I risultati sono stati particolarmente interessanti laddove hanno documentato che il

gruppo con MP con bassi livelli prestazionali ai test esecutivi, otteneva punteggi significativamente

inferiori nella procedura di ToM rispetto sia al gruppo di controllo, sia al gruppo MP come prestazioni

esecutive elevate. Quest’ultimo gruppo, invece, non mostrava differenze significative di accuratezza

sulla stessa variabile rispetto al gruppo di controllo dei soggetti sani.

Se da un lato, dunque, l’analisi della letteratura non consente di trarre una conclusione univoca

sulla relazione tra funzioni esecutive e abilità di ToM, dall’altro lato, diversi dati sono indicativi

dell’esistenza di un’interazione. Tale osservazione è anche sostenuta dai risultati di alcuni studi i quali

hanno evidenziato come l’attività delle regioni corticali prefrontali e, in particolare della corteccia

prefrontale dorsolaterale, della corteccia orbitofrontale e della corteccia anteriore del cingolo sia

critica per il sostenimento dei processi di ToM (Costa e coll.,2008; Hynes e coll., 2006; Vollm e coll.,

2006). Abbiamo discusso nel modulo 7 dell’importanza di queste regioni cerebrali nella mediazione

delle funzioni esecutive.

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