Sei sulla pagina 1di 27

DISPENSE DELL’INSEGNAMENTO DI

PSICOLOGIA GENERALE
PROF. ALBERTO COSTA
PROFESSORE ORDINARIO
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Modulo 8

Motivazione e emozioni
Contenuti:

1. La motivazione

2. Cenni di clinica. I disturbi della motivazione

3. Le emozioni

1
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

1. Introduzione
La motivazione e le emozioni sono tra loro strettamente interconnessi. La “spinta” ad agire è

spesso diretta al conseguimento di obiettivi associati ad emozioni positive ovvero all’evitamento di

condizioni che possono causare emozioni negative. Potremmo anche affermare che la ricerca di

emozioni piacevoli e l’evitamento di emozioni spiacevoli costituiscono intrinsecamente dei fattori

motivazionali.

In questo modulo affronteremo l’importante capitolo dei processi motivazionali ed emotivi,

mantenendoli separati, al fine di cercare di chiarirne nel modo più esplicativo possibile le

caratteristiche fondamentali. La distinzione proposta ha, infatti, un carattere più speculativo che

concreto, ma ci permette di analizzare alcuni aspetti basilari di quei fattori che “spingono l’individuo

a muoversi nell’ambiente” per dare vita ad atteggiamenti e comportamenti peculiari.

Anche in questo modulo, così come abbiamo fatto per i precedenti, gli argomenti saranno discussi

nella prospettiva sia psicologica sia neurobiologica. Inizieremo con la discussione sui processi

motivazionali e in seguito, nella seconda parte, studieremo le emozioni. Nella parte conclusiva di

ciascuna sezione saranno inoltre presentate alcune osservazioni cliniche.

2. La motivazione. Una definizione generale.


Possiamo definire la motivazione con le parole di Rolls (1994) che ne dà una rappresentazione

molto chiara ed esaustiva. Secondo l’autore, “la motivazione è uno stato interno che implica processi

consapevoli e inconsapevoli che spingono all’azione: la motivazione e la pianificazione di un

comportamento finalizzato sono influenzate dalla capacità di anticipare ricompense e punizioni”.

Questa definizione racchiude in sé le caratteristiche principali dei processi motivazionali, i quali

costituiscono il “motore” del comportamento umano. Seguendo la definizione di Rolls, la

motivazione avrebbe origine da una modificazione delle condizioni interne all’organismo la quale

determinerebbe una spinta endogena all’assunzione di un determinato comportamento operante

nell’ambiente. Inoltre, le spinte motivazionali (“drives” in inglese) sono “finalizzate”, sono cioè

2
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

dirette al raggiungimento di obiettivi rilevanti per l’individuo e, come accennavo in precedenza, sono

in relazione con le esperienze di gratificazione e frustrazione.

Esaminiamo le prime affermazioni, “la motivazione è uno stato interno” e “la motivazione nasce

da una modificazione interna all’organismo”. Queste affermazioni si collocano nell’alveo della teoria

secondo cui tutti gli organismi tenderebbero verso un naturale equilibrio (omeostasi), la cui “rottura”

determinerebbe uno stato di tensione. La motivazione nascerebbe dalla necessità per l’organismo di

ridurre la tensione soggettiva al fine ristabilire l’omeostasi fisiologica. E’, in sostanza, la teoria delle

pulsioni alla quale fa riferimento anche Sigmund Freud nel modello psicoanalitico da lui proposto.

La pulsione può essere intesa come una sorta di tensione o eccitazione fisiologica che muove

l’individuo ad attuare condotte idonee per favorirne la scarica. Esempi di pulsioni semplici sono

costituiti dal senso della fame, della sete o dai bisogni di natura sessuale. In tutte queste condizioni si

assiste a una modificazione dello stato di equilibrio interno del soggetto che si associa a una

sensazione soggettiva di tensione, la cui riduzione consente il ripristino dell’equilibrio preesistente.

Naturalmente, sappiamo bene che i comportamenti dell’uomo non sono determinati

esclusivamente da pulsioni semplici. Pensiamo, ad esempio, ai desideri di conoscenza, di

autorealizzazione o di democrazia. Desideri associati a comportamenti particolarmente complessi e

articolati. Possiamo però pensare che anche la spinta a realizzare questi desideri abbia origine

dall’emergere di una tensione interna all’individuo, senza per ciò ritenere che la tensione stessa

costituisca il desiderio. Questa osservazione cambia in parte la prospettiva da cui osservare la natura

delle pulsioni. Queste possono, infatti, essere intese come stati specifici della nostra mente e, dunque,

del nostro sistema cerebrale. Stati sensibili alla stimolazione ambientale e associati a variazione

dell’omeostasi interna. D’altronde, credo sia esperienza comune di come il senso della fame possa

emergere in modo spontaneo ovvero nel momento in cui sentiamo l’odore di qualche alimento che ci

piace particolarmente. Al tempo stesso, possiamo continuare ad avvertire lo stimolo della fame dopo

aver assunto la sufficiente quantità di sostanze nutritive.

Possiamo concludere, in via preliminare, che le motivazioni sono quei fattori che, associati a

variazioni oggettive e soggettive delle condizioni di equilibrio dell’individuo, lo muovono affinché


3
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

questi assuma delle condotte comportamentali atte a mantenere i livelli ottimali di funzionamento

dell’organismo. I processi motivazionali sono, inoltre, direttamente dipendenti dagli effetti esercitati

sull’organismo dall’azione degli stimoli piacevoli (appetitivi) e spiacevoli (aversivi). Il rinforzo e la

punizione, di cui abbiamo parlato nel modulo V a proposito dei meccanismi di apprendimento,

giocano, pertanto, un ruolo fondamentale nel determinare l’avvio o l’inibizione del comportamento.

2.1. La scala dei bisogni di Maslow

Secondo la teorizzazione di Abraham Maslow (1970), il comportamento dell’uomo sarebbe

regolato da alcuni bisogni che lo “spingono” ad attuare comportamenti idonei per consentirne la

soddisfazione. In sostanza, l’autore ipotizza che le motivazioni fondamentali che muovono

l’individuo verso la realizzazione di obiettivi siano di natura sia biologica sia psicologica. Egli

individua una serie di bisogni organizzati in modo gerarchico. La realizzazione dei bisogni fisiologici

di base consente l’emersione di bisogni di ordine superiore fino ai bisogni di autorealizzazione,

collocati al vertice della scala.

L’organizzazione gerarchica dei bisogni è visualizzata da Maslow come una piramide (illustrata

in Figura 1), alla base della quale vi sono i bisogni fisiologici elementari. La freccia rossa con la

punta rivolta verso l’alto indica la progressione del soddisfacimento dei bisogni. Il passaggio alla

realizzazione del bisogno successivo nella scala è vincolato al soddisfacimento del bisogno che lo

precede. Se inizialmente non sono soddisfatti i bisogni fisiologici, l’individuo non può procedere al

soddisfacimento del bisogno di sicurezza. Una volta soddisfatto il bisogno di sicurezza, può essere

affrontato il bisogno di appartenenza. In cima alla piramide vi è il bisogno di autorealizzazione, la

soddisfazione del quale consente la piena espressione delle qualità dell’individuo. Questo bisogno

non può però essere soddisfatto se prima non sono appagati i bisogni di ordine inferiore.

4
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Figura 1. Illustrazione della scala dei bisogni secondo Maslow (1970)

Il merito di Maslow consiste nell’avere integrato in una teoria coerente le determinanti biologiche

e psicologiche del comportamento. La teoria di Maslow è anche importante ai fini della comprensione

dello sviluppo dell’individuo. Con la crescita dell’individuo i bisogni si modificano. La progressione

del soddisfacimento dei bisogni procede parallelamente con la maturazione dei processi cognitivi e

affettivi. In questa prospettiva, la mancata soddisfazione di un determinato bisogno non consente

l’accesso al bisogno di ordine superiore, in tal modo interferendo con lo sviluppo delle potenzialità

dell’individuo.

2.2. Approach e avoidance: due sistemi motivazionali di base

Questo paragrafo e il successivo sono ripresi da un lavoro che ho recentemente scritto e pubblicato,

il cui focus era la trattazione degli aspetti cognitivi e neurobiologici dei comportamenti di

5
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

approach/avoidance. Il lavoro è il seguente: Costa, Carlesimo e Caltagirone, 2015. “Individual

differences in approach-avoidance aptitude: some clues from research on Parkinson's disease”.

Costa A, Caltagirone C.Frontiers Systems Neuroscience, 24;9:43.

In termini generali, le disposizioni comportamentali di approach (avvicinamento) e avoidance

(evitamento) costituiscono attitudini di base dell’organismo. La ricerca attiva di stimoli gratificanti,

da un lato, e l’evitamento di stimoli spiacevoli o dannosi, dall’altro lato, sono comportamenti

fondamentali per promuovere l’adattamento dell’individuo al proprio ambiente.

Le persone apprendono precocemente che in determinate condizioni può essere vantaggioso

entrare in contatto con gli stimoli presenti nell’ambiente, poiché il contatto con essi facilita il

raggiungimento di obiettivi specifici. Le persone apprendono altrettanto rapidamente che in alcune

circostanze è importante inibire la propensione ad avvicinarsi a stimoli presenti nell’ambiente, al fine

di evitare potenziali conseguenze negative. Naturalmente, i comportamenti di approach/avoidance

non sono specifici dell’uomo, ma riguardano tutti gli esseri viventi che sono in grado di modificare il

proprio comportamento in funzione dell’esperienza.

L’esercizio equilibrato delle operazioni connesse con le due attitudini comportamentali

fondamentali favorisce, nel corso del tempo, la formazione di schemi cognitivo-comportamentali che

rappresentano la disposizione di base dell’individuo ad agire nell’ambiente. Tale disposizione

all’azione forma quelle che possiamo concettualizzare come le pre-condizioni per acquisire la

necessaria conoscenza del mondo che ci circonda e dei nostri stessi limiti, promuovendo l’accesso

alle risorse mantenendo, al contempo, la sicurezza per la nostra incolumità (Costa e Caltagirone,

2015).

La ricerca sui fattori motivazionali, che include lo studio sui meccanismi associati ai

comportamenti di approach/avoidance, è per sua natura multidisciplinare. La motivazione, come

abbiamo avuto modo di apprezzare dalla discussione proposta finora, comprende aspetti biologici e

psicologici tra loro intrinsecamente in interazione. I modelli proposti per la spiegazione delle

motivazioni connesse con I comportamenti di approach/avoidance sono, pertanto, modelli integrati.


6
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

In linea con questa considerazione, diversi autori hanno ipotizzato che i comportamenti approach-

avoidance siano sottesi dall’attività di due sistemi motivazionali, la cui costituzione è connessa a

variabili biologiche, psicologiche e psico-sociali. A tale riguardo, Gray (1970) ipotizza l’esistenza

del “behavioral activation system” (in italiano: sistema di attivazione comportamentale) e del

“behavioral inhibition system” (in italiano: sistema d’inibizione comportamentale; all’interno della

teoria denominata “Reinforcement Sensitivity Theory”; Gray, 1970; Pickering and Gray, 2001). Il

primo sistema sarebbe dedicato alla mediazione del comportamento in condizioni di gratificazione e

in condizioni associate a esisti positivi. Questo sistema sarebbe particolarmente sensibile alla

ricompensa e, dunque, promuoverebbe l’attivazione dell’organismo per ricercare nell’ambiente

stimoli gratificanti.

Concettualmente e operativamente opposto è il secondo sistema. Il behavioral inhibition system,

infatti, è ritenuto essere particolarmente sensibile a stimoli associati alla punizione o all’assenza di

ricompensa. Questo sistema motivazionale modulerebbe il comportamento inibendo le risposte

appetitive e innalzando il livello di attivazione basale dell’organismo (arousal) al fine di determinare

uno stato di allerta per rendere l’organismo più pronto nell’individuare stimoli salienti o rilevanti,

quali possono essere gli stimoli potenzialmente nocivi o minacciosi.

In ciascun individuo i due sistemi motivazionali sono in equilibrio dinamico tra loro. Questo

significa che in determinate circostanze e in funzione degli obiettivi della persona, sono adottati

flessibilmente comportamenti di approach o avoidance. Può però esservi uno sbilanciamento naturale

sull’attivazione di uno o dell’altro dei due sistemi motivazionali. Questo sbilanciamento può

determinare una disposizione naturale e stabile nell’individuo a rispondere agli stimoli ambientali

adottando schemi comportamentali prevalentemente di approach o, alternativamente, di avoidance.

Altri autori hanno ipotizzato l’esistenza di sistemi motivazionali con denominazioni diverse ma,

in sostanza, con funzionamento simile al behavioral activation system” e al “behavioral inhibition

system” proposti da Gray. In particolare, Dickinson and Dearing (1979) parlano di “attractive system”

e “aversive system”, mentre Lang et al.'s (1990) individuano un “appetitive system” e un “defensive

system”.
7
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

La natura multifattoriale dei due sistemi motivazionali, risultante dall’azione combinata di fattori

sia biologici sia psicosociali, è messa in evidenza con chiarezza dai risultati di numerosi studi

nell’uomo e in modelli animali. La tendenza ad acquisire ed esprimere un’attitudine comportamentale

prevalentemente di approach o avoidance sembra, infatti, dipendere dall’attività di alcuni

neuropeptidi quali, in special modo, l’ossitocina e la vasopressina (Young, 2002). Di particolare

rilievo è l’interazione tra l’attività di questi neuropeptidi e l’attività del sistema cerebrale della

ricompensa, modulato dal neuromodulatore dopamina (Skuse and Gallagher, 2009). A tale riguardo,

Hoebel et al. (2007) hanno proposto un modello in cui la dopamina interagirebbe con l’acetilcolina

(un altro importante neurotrasmettitore implicato nei processi di consolidamento delle informazioni)

all’interno di una struttura cerebrale sottocorticale collocata nella porzione ventrale del corpo striato,

il nucleus accumbens. Tale interazione garantirebbe il mantenimento di un equilibrio funzionale tra I

comportamenti di approach e avoidance (Avena et al., 2006; Mark et al., 1995). Naturalmente, i

circuiti cerebrali alla base dei processi motivazionali sono più articolati e comprendono altre regioni

sottocorticali e corticali (particolarmente la corteccia orbito-frontale; Simon et al., 2010).

Inoltre, alcuni dati nell’uomo documentano che alcuni tratti di personalità e alcune abilità

cognitive sono associati alla probabilità che il soggetto esprima un comportamento di approach e

avoidance. Nel paragrafo seguente tratteremo in modo più approfondito di questi aspetti.

8
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Figura 2. Illustrazione schematica dei fattori implicati nei sistemi motivazionali che

sostengono i comportamenti di approach e avoidance

2.2.1. Relazione tra caratteristiche di personalità, funzionamento cognitivo e l’attività dei

sistemi motivazionali di base di approach e avoidance.

Lo studio dell’interazione tra fattori motivazionali e processi cognitivi ha interessato numerosi

ricercatori nell’ambito delle neuroscienze. Come abbiamo discusso, la motivazione implica

l’esistenza di obiettivi da raggiungere per l’individuo, dai più semplici e immediati, ai più complessi.

Il comportamento finalizzato è sostenuto da diversi processi cognitivi tra i quali sappiamo che i

processi esecutivi rivestono un ruolo particolarmente critico. Alcuni dati provenienti da studi con

persone sane e soggetti con sindromi neurologiche, attraverso l’utilizzo anche di metodiche di
9
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

neuroimaging, documentano, di fatto, l’esistenza di una stretta relazione tra abilità esecutive e

l’attività dei sistemi motivazionali.

In un interessante lavoro, Gray (2001) ha documentato che il condizionamento di un

comportamento di approach o avoidance nel partecipante all’esperimento, ne modificava in misura

significativa le prestazioni a prove di memoria di lavoro. Abbiamo scritto dell’importanza della

corteccia prefrontale nella mediazione delle funzioni esecutive e, in particolare, delle capacità

d’integrazione e organizzazione delle informazioni e del comportamento al fine del raggiungimento

di obiettivi specifici (Yuan and Raz, 2014). Diverse evidenze cliniche e sperimentali indicano

l’esistenza di un’interazione a livello della corteccia prefrontale tra l’attività dei sistemi motivazionali

e le funzioni esecutive. Lesioni della corteccia prefrontale determinano disturbi cognitivi di rilievo

(tra cui i deficit delle funzioni esecutive di cui abbiamo discusso nel modulo VII) e un funzionamento

che sembra indicare un disquilibrio tra i due sistemi motivazionali descritti da Gray. Queste persone

possono, infatti, presentare apatia, un disturbo caratterizzato da una significativa riduzione delle

spinte motivazionali, e/o disinibizione dei processi di controllo, che può manifestarsi come

l’incapacità a resistere all’attrazione esercitata dagli stimoli ambientali.

Dati in linea con queste osservazioni derivano da alcuni studi eseguiti applicando la metodica della

risonanza magnetica funzionale (fMRI). In uno di questi studi, Spielberg e coll. (2011) hanno

somministrato ai partecipanti un questionario per l’esame della disposizione di approach e avoidance,

e successivamente hanno registrato le attivazioni cerebrali dei soggetti mentre questi eseguivano un

test sensibile all’attività della corteccia prefrontale (il test di Stroop). L’analisi delle correlazioni ha

documentato un’associazione significativa tra l’attività delle regioni prefrontali del giro medio e

superiore e la propensione all’assunzione dei comportamenti di approach e avoidance. Naturalmente,

uno dei limiti dello studio è rappresentato dal fatto che l’attitudine di approach/avoidance è stata

valutata attraverso la somministrazione di un questionario self-report. Sappiamo, infatti, che questo

genere di strumenti possono risentire di distorsioni soggettive delle risposte. Pur con questi limiti, i

dati dello studio appaiono d’interesse elevato laddove indicano che l’attività della corteccia

prefrontale può essere modulata dall’attività dei due sistemi motivazionali. Questi dati sono anche
10
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

coerenti con i risultati di altri studi i quali, nel loro insieme, suggeriscono che l’interazione tra i sistemi

motivazionali e l’attività dei processi esecutivi è fondamentale per l’adozione e il mantenimento di

comportamenti finalizzati, diretti alla realizzazione di obiettivi rilevanti per l’adattamento

dell’individuo all’ambiente in cui vive (Spielberg e coll., 2013).

Diverse evidenze cliniche indicano l’esistenza di una relazione diretta tra la propensione

comportamentale di approach/avoidance e alcune variabili psicopatologiche. I sintomi d’ansia sono

spesso associati a condotte di avoidance, in particolare nei contesti sociali (Wong e Mioulds, 2011).

Così come la presenza di apatia è tipicamente associata a una riduzione dei comportamenti di

approach (Marin, 1996).

3. Cenni di clinica. I disturbi della motivazione


Disturbi della motivazione si riscontrano in diversi quadri psicopatologici che caratterizzano i

disturbi psicologici, psichiatrici e neurologici. L’alterazione delle spinte motivazionali è tipicamente

associata ai disturbi dell’umore. La diminuzione degli interessi è un sintomo cardine del quadro

depressivo. Riduzioni della motivazione si hanno anche nei disturbi d’ansia, nei disturbi stress-relati,

nei disturbi da uso di sostanze, etc. Numerose sono anche le sindromi neurologiche, sia vascolari sia

neurodegenerative, delle quali la riduzione della motivazione rappresenta un segno importante sin

dalle fasi iniziali.

Il termine apatia indica proprio un quadro clinico in cui il soggetto presenta come sintomo/segno

principale la caduta delle spinte motivazionali, cioè la diminuzione dei movimenti diretti ad agire

nell’ambiente al fine di raggiungere obiettivi specifici. L’apatia, come abbiamo avuto modo di vedere,

può entrare a far parte del quadro clinico di altri disturbi psicopatologici. Diversi studi evidenziano

però che l’apatia può anche rappresentare una sindrome a sé, differenziata ad esempio dalla sindrome

depressiva, con delle caratteristiche specifiche (Robert e coll., 2009).

Si distinguono diverse forme di apatia: l’apatia sensoriale, l’apatia motoria, l’apatia affettiva e

l’apatia cognitiva. Secondo Robert e coll. (2009) l’apatia può essere definita come un disturbo

persistente della motivazione caratterizzato da:


11
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

a) riduzione delle spinte motivazionali;

b) diminuzione dei comportamenti finalizzati e riduzione dell’attività cognitiva finalizzata;

c) compromissione funzionale direttamente connessa con l’apatia.

L’apatia coinvolge tutte le sfere di funzionamento del soggetto. La persona che ne è affetta può

mostrare una riduzione della spontaneità/autonomia nell’avviare il comportamento, una reattività

ridotta rispetto alle stimolazioni provenienti dall’ambiente e diminuzione degli interessi per attività

vissute in precedenza come gratificanti. L’apatia rappresenta, dunque, un disturbo molto importante

che può determinare una seria compromissione funzionale della persona nella vita quotidiana e un

ritiro dalle relazioni sociali.

12
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

4. Le emozioni
Le emozioni sono intrinsecamente connesse con i processi motivazionali. Le ricompense

producono emozioni positive, piacevoli, che rinforzano l’apprendimento del comportamento che le

ha determinate e motivano l’individuo a metterlo in atto. Le emozioni spiacevoli, associate alle

punizioni, rinforzano l’apprendimento sull’opportunità di non riproporre quel comportamento nella

medesima situazione. Condizioni, contesti che causano emozioni negative sono attivamente evitati

dall’individuo.

Definire le emozioni non rappresenta un’operazione semplice. Le emozioni sono alla base della

nostra esperienza del mondo, della formazione della nostra personalità, delle relazioni interpersonali.

Le emozioni ci aiutano a comprendere la valenza e la rilevanza degli stimoli con cui entriamo in

contatto. Le emozioni determinano la qualità delle nostre esperienze e giocano un ruolo cruciale nei

processi decisionali.

Proviamo a darne una definizione generale. Possiamo considerarle degli stati transienti, in genere,

associati a modificazioni significative di parametri fisiologici e psicologici. Riconosciamo sei

emozioni di base: la rabbia, la paura, il disgusto, la tristezza, la gioia e la sorpresa. Si differenziano

dagli affetti o sentimenti per la breve durata temporale che le caratterizza. Pensiamo, ad esempio, alla

differenza, in termini di durata, tra la rabbia e la gelosia oppure tra il disgusto e la noia.

Lo studio delle emozioni occupa da sempre una posizione centrale in psicologia. Numerose sono

state le teorie proposte per spiegarne il funzionamento e tuttora il dibattito è aperto su diverse

questioni. Un punto molto dibattuto in letteratura è se le emozioni debbano considerarsi innate o

apprese. Diversi studi sono stati condotti al riguardo che hanno sostanzialmente sostenuto entrambe

le posizioni.

Riconosciamo una gamma di emozioni che l’uomo possiede sin dalla nascita, la cui maturazione

segue uno schema tipico. Altre emozioni, invece, sono maggiormente connesse con l’apprendimento

in seguito all’esperienza con gli stimoli ambientali.

Nel processo di sviluppo delle emozioni, Leventhal (1977) individua tre livelli di funzionamento:

a) Livello sensori-motorio;
13
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

b) Livello schematico;

c) Livello concettuale.

a) Nel livello sensori-motorio, la gamma emozionale del soggetto sarebbe costituita da una serie

di programmi espressivo-motori sostanzialmente innati e associati ad attivazioni motorie e vegetative.

Questi programmi sarebbero universali e automatici e la loro elicitazione (attivazione) sarebbe

determinata da modificazioni interne al soggetto. Pensiamo, ad esempio ai primi mesi di vita del

bambino. Il bambino in questa fase del suo sviluppo reagisce con risposte tra loro molto simili a

variazioni dell’equilibrio interno determinate dalla fame, dalla sete, dal freddo, etc..

b) Il livello schematico si organizza in una fase successiva dello sviluppo. In conseguenza delle

esperienze, dell’interazione tra l’attività dei programmi innati e le situazioni ambientali, attraverso

anche i processi di condizionamento, l’individuo amplia gli schemi a disposizione e ne diversifica

l’espressione in funzione delle caratteristiche degli stimoli con cui entra in contatto.

c) Il livello concettuale rappresenta la stretta interazione tra il sistema delle emozioni e il sistema

cognitivo. Grazie allo sviluppo delle funzioni esecutive, alle capacità di astrazione, l’individuo

apprende le caratteristiche astratte delle emozioni e diviene in grado di rievocarne la rappresentazione

senza sperimentare variazioni di parametri neurovegetativi o del vissuto soggettivo. Inoltre, grazie

alla messa in atto dei processi di elaborazione viene acquisita la capacità di apprendere la relazione

tra emozione e situazione specifica e, al contempo, l’abilità di modularne l’espressione in funzione

del contesto.

Il modello di Leventhal prevede una progressione dello sviluppo dell’elaborazione/espressione

emozionale, nel corso della quale le emozioni divengono sempre più interconnesse con il sistema

cognitivo. Da schemi comportamentali innati l’individuo sviluppa schemi di risposta emozionale

sempre più complessi e acquisisce la capacità di non attivarli in modo automatico in risposta agli

stimoli ambientali.
14
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Pertanto, Leventhal ipotizza l’esistenza di emozioni innate connesse con schemi di risposta

particolarmente attivi nelle fasi iniziali della vita dell’individuo. In realtà, diverse ricerche condotte

sull’uomo e sui primati non umani hanno, di fatto, dimostrato che alcuni schemi di risposta

emozionale si manifestano indipendentemente dall’apprendimento anche nell’adulto e, non solo sono

specie-specifici, ma sono anche condivisi da specie filogeneticamente diverse.

A tale riguardo, Ekman e Friesen (1967;1968) eseguirono una serie di studi pioneristici

coinvolgendo una tribù della Nuova Guinea. I membri di questa tribù non avevano avuto, in

precedenza, contatti diretti o indiretti con occidentali. L’obiettivo delle ricerche era di esaminare se

le modalità di riconoscimento e di espressione delle emozioni fossero simili a quelle di noi

occidentali. In un primo studio, gli autori presentarono dei racconti in cui ai personaggi erano

attribuite delle emozioni (rabbia, gioia, etc.). Ai partecipanti era richiesto di indicare tra diversi volti

di occidentali che esprimevano emozioni diverse, il volto che mostrava l’emozione attribuita al

personaggio del racconto. I risultati documentarono che i membri della tribù erano in grado di indicare

con accuratezza l’emozione corrispondente. In uno studio successivo, i ricercatori chiesero ai soggetti

di riprodurre tramite l’espressione del volto le emozioni attribuite ai personaggi dei racconti,

espressioni che furono registrate. Le registrazioni furono poi mostrate a un altro gruppo di studio

composto, questa volta, da studenti americani, con il compito di identificare le emozioni in esse

espresse. I soggetti furono in grado di riconoscere in modo molto accurato le emozioni espresse nei

filmati.

Questo è un esempio di ricerca interculturale che evidenzia come l’espressione delle emozioni,

che prevede una determinata configurazione fisica del volto derivante dalla coordinazione della

muscolatura facciale, non sia strettamente dipendente da apprendimenti culturali.

4.1. Caratteristiche qualitative delle emozioni

Potremmo iniziare questo paragrafo ponendoci la domanda seguente: l’uomo piange perché è

triste, oppure è triste perché piange? Molti ricercatori hanno provato a rispondere a questa domanda

riportando dati a sostegno sia della prima sia della seconda affermazione.
15
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

All’interno di tale dibattito, una delle teorie che ha avuto maggiore influenza fu quella proposta

da James (1890), e sostenuta da Lange (1884), sull’importanza degli indici di variazione dell’attività

fisiologica nel determinare l’esperienza emozionale. In estrema sintesi, l’ipotesi di James prevedeva

che l’esperienza emozionale derivasse da un’attribuzione di significato al manifestarsi di un insieme

di risposte fisiologiche (es: aumento della frequenza respiratoria e cardiaca, aumento della

sudorazione, etc.) connesse con l’attività degli organi interni. L’elaborazione di queste risposte, che

hanno valenza di feedback sensoriale, da parte delle strutture cerebrali determinerebbe le emozioni.

In questa prospettiva, ciascuna emozione sarebbe associata a modificazioni neurofisiologiche

specifiche che ne consentirebbero il riconoscimento. Dunque, la risposta che questa teoria dà alla

domanda proposta sopra, è che “siamo tristi perché piangiamo”.

Questa teoria fu molto criticata da altri autori quali Cannon (1927), il quale rilevava

essenzialmente che emozioni diverse sono caratterizzate da variazioni fisiologiche molto simili e che

le modificazioni fisiologiche non sono parallele al vissuto emozionale, poiché avvengono in tempi

troppo lunghi. Schacter (1964), in seguito, ipotizzò che l’esperienza emotiva fosse connessa ad un

fattore fisiologico (le variazioni dell’attività degli organi interni che producono risposte tipiche ma

generalizzate) che ne determina l’intensità, e ad un fattore cognitivo che, tramite l’interpretazione

degli stati fisiologici, ne determina le caratteristiche qualitative.

Il dibattito attuale è incentrato sul ruolo dei processi cognitivi nell’esperienza soggettiva delle

emozioni. In particolare, su quanto può essere importante che una determinata situazione sia elaborata

cognitivamente nei termini di vantaggio/svantaggio, positiva/negativa, minacciosa/neutra, etc. per

produrre il vissuto soggettivo dell’emozione (es: Lazarus 1984).

Dalla discussione qui proposta emerge come le risposte date sulle caratteristiche dinamiche dei

processi emozionali non siano affatto conclusive. Possiamo però cercare di definire in modo

descrittivo e qualitativo le proprietà delle emozioni. A tale riguardo, ritengo che le conclusioni di

Ekman siano le più esplicative.

Ekman evidenzia alcuni punti sostanziali:

16
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

a) Nell’esperienza emozionale è presente una modifica di aspetti motori quali, ad es., la mimica

facciale e il tono della voce;

b) le emozioni si accompagnano a variazioni dell’attività del sistema neurovegetativo che

comportano una modifica della frequenza del respiro, del battito cardiaco, della sudorazione, etc.;

c) Le emozioni sono caratterizzate dal vissuto soggettivo che le qualifica come paura, rabbia,

tristezza, etc.

d) Le emozioni si manifestano con caratteristiche ficologiche, somatiche e comportamentali simili

negli individui della stessa specie;

e) Le risposte emozionali possono essere controllate dal sistema cognitivo.

Le conclusioni di Ekman non entrano dunque nel merito del dibattito su esposto. Al di la delle

considerazioni relative al quesito “se provare un’emozione sia conseguenza diretta di una variazione

neurofisiologica, l’interpretazione cognitiva di una variazione di stato o il frutto di un’elaborazione

razionale delle caratteristiche di una determinata situazione”, le emozioni sono caratterizzate da

componenti specifiche che, come illustrato a Ekman, coinvolgono in sostanza l’organismo nel suo

insieme. E’, infatti, esperienza comune provare un’emozione negativa in seguito ad un insuccesso

lavorativo o scolastico. Così come esperienza comune è anche quella di provare simpatia o antipatia

per una persona al primo contatto con essa (l’espressione gergale utilizzata è spesso “a pelle”) senza

capirne esattamente il motivo, ovvero percepire modificazioni somatiche in una condizione che in

seguito definiremo di imbarazzo. Il dato fondamentale riguarda la presenza simultanea di una serie

di indici, quelli elencati da Ekman, in tutte le situazioni in cui si provano le emozioni.

4.1.2. Il sistema emozionale e il sistema cognitivo

Abbiamo avuto modo di accennare al dibattito sulla relazione tra sistema emozionale e sistema

cognitivo. È importante quindi mettere a fuoco alcune caratteristiche di funzionamento dei due

sistemi, che ne evidenziano gli elementi in comune e gli aspetti che li differenziano. Un elemento in

comune è senz’altro rappresentato dalla finalità delle azioni messe in atto attraverso la loro attività:

entrambi sono funzionali all’adattamento dell’individuo al proprio ambiente.


17
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Il sistema emozionale può essere concettualizzato come un sistema maggiormente operativo

nell’emergenza. L’emozione è, infatti, direttamente associata all’azione nell’ambiente. Il disgusto

spinge l’individuo ad allontanarsi dallo stimolo che lo provoca. Provare paura o rabbia indica che lo

stimolo/situazione che elicita tali risposte non è neutro, ma che deve essere “affrontato” attivando il

programma comportamentale adeguato. L’emozione suggerisce spesso, inoltre, che la decisione

sull’azione da intraprendere deve essere presa in tempi molto rapidi, per rispondere a bisogni

fondamentali per la sopravvivenza dell’individuo. Il sistema cognitivo consente un’elaborazione più

completa delle informazioni presenti nella situazione, l’adozione di schemi comportamentali più

elaborati e più vari, ma richiede tempi più lunghi.

Nella Figura 2 sono illustrate schematicamente le caratteristiche dei due sistemi.

Figura 2. Fonte: ripresa e modificata da Gainotti, 2000. In “manuale di

neuropsicologia” a cura di Denes e Pizzamiglio, pag. 813.

18
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

Ho scritto sopra che il sistema emozionale mette in opera risposte rapide per affrontare situazioni

“d’emergenza”. In tale affermazione è implicita l’idea che uno stimolo con valenza emozionale debba

essere processato velocemente dall’individuo. Dalla rapidità della risposta messa in atto in talune

circostanze potrebbe, infatti, dipendere la propria sopravvivenza.

Il nostro organismo sembra sia strutturato per dare “priorità” agli stimoli emotigeni (che

provocano emozioni) rispetto a stimoli che non hanno tale caratteristica. Sono molte le osservazioni

che sostengono questa evidenza. La maggior parte degli individui riconosce più rapidamente e

accuratamente una parola o un’immagine che veicola significati emozionali rispetto a parole o

immagini neutre. In altri termini, si ritiene che gli stimoli/eventi emotivamente salienti abbiano un

vantaggio evolutivo rispetto agli altri stimoli.

Non possiamo discutere in questa sede dei numerosi studi eseguiti sull’argomento. Esamineremo

solamente i dati di alcuni di tali studi che ritengo particolarmente interessanti per evidenziare il

concetto su esposto. Anderson e Phelps eseguirono, nel 2001, una ricerca con persone che avevano

subito delle lesioni dell’amigdala, un nucleo sottocorticale del sistema limbico coinvolto

nell’elaborazione emozionale. Nella procedura sperimentale somministrata ai soggetti, erano loro

presentate in rapida successione delle parole neutre e delle parole con valenza emozionale (es: sangue,

guerra. etc.). Tipicamente, nella presentazione in rapida successione di stimoli cui è necessario

dedicare attivamente attenzione, si verifica un fenomeno denominato attentional blink. Questo

fenomeno identifica una difficoltà a individuare stimoli bersaglio (cui occorre prestare attenzione)

presentati in successione nella stessa posizione spaziale, se il secondo di due stimoli è presentato con

un intervallo inter-stimolo inferiore a 500ms (Broadbent e Broadbent, 1987; Raymond e coll., 1992).

Questo fenomeno è osservato nei paradigmi denominati di rapid serial visual presentation (RSVT;

in italiano: presentazione seriale visiva rapida). In sintesi, l’individuo sano ha difficoltà a individuare

in modo esplicito uno stimolo se questo è presentato con un intervallo di tempo inferiore a 500 ms

rispetto allo stimolo che lo precede.

Anderson e Phelps (2001) adottarono la modalità di presentazione sopra descritta con la richiesta

ai partecipanti di individuare due parole presentate in inchiostro verde, tra le altre parole scritte in
19
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

inchiostro nero. I risultati hanno mostrato che i soggetti sani - senza disturbi neurologici - riuscivano

a percepire la parola con valenza emozionale anche se questa era presentata immediatamente dopo la

prima parola target. Questo dato è in linea con i risultati di altri studi laddove documenta che lo

stimolo emotigeno ha un vantaggio di codifica rispetto agli stimoli neutri. Nello stesso studio i

ricercatori dimostrarono che nei pazienti con lesioni dell’amigdala sinistra questo vantaggio non era

più osservabile. Questo studio riveste particolare importanza poiché fu il primo a evidenziare tale

effetto.

Riassumendo, i dati dello studio indicano che le parole con valenza emozionale sono riconosciute

in tempi molto brevi e che è loro dedicata dal “sistema” un’attenzione significativamente maggiore

rispetto a quanto accade per le parole neutre. Inoltre, l’attività di alcune strutture cerebrali - l’amigdala

nello studio di Anderson e Phelps - appare particolarmente critica per decodificare la valenza

emozionale degli stimoli.

A sostegno dell’ipotesi che gli stimoli emotigeni avrebbero un vantaggio evolutivo rispetto agli

altri stimoli (neutri), sono anche i dati di numerose ricerche volte ad indagare la modulazione

esercitata da fattori emozionali sulla capacità di immagazzinare nuove informazioni. Il materiale

stimolo di questi studi erano figure, parole, frasi e racconti. I risultati convergono nel dimostrare che

la prestazione dei soggetti a questi compiti migliora significativamente per gli stimoli associati a

valenza emozionale (Buchanan & Adolphs, 2002; Hamann, 2001).

4.3. Emozioni e processi decisionali

Questo paragrafo è in parte ripreso dalla revisione della letteratura dell’argomento a cura di Dunn

e coll. (2006; “The somatic marker hypothesys: a critical evaluation”. Neuroscience and

Biobehavioral Research, 30; 239-271).

Nel modulo precedente abbiamo avuto modo di vedere come i processi decisionali non seguano

sempre una direttrice razionale. In alcune circostanze le decisioni sono prese in modo semiautomatico

sulla base di analisi parziali degli stimoli presenti nella situazione. Sono condizioni non prevedibili

se assumiamo la prospettiva dei modelli matematici che assumono che l’individuo segua un principio
20
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

di vantaggio/svantaggio nel prendere decisioni. La scelta vantaggiosa è, ovviamente, la scelta

migliore sulla base di un principio razionale. Non sempre però la scelta del soggetto dipende dal

vantaggio oggettivo della scelta stessa.

Il ruolo del sistema emozionale nel modulare le scelte dell’individuo anche in situazioni complesse

è studiato da tempo. Diversi sono i modelli neurobiologici proposti, al centro dei quali sono collocati

la corteccia prefrontale e il sistema limbico. I modelli più influenti si focalizzano sull’importanza del

feedback proveniente dalla “periferia somatica” (le variazioni di attività fisiologica) e sulla

rappresentazione cerebrale di tale feedback sulla scelta comportamentale. McLean (1975) ipotizzò

che i lobi frontali rivestissero una funzione fondamentale nell’integrare le informazioni provenienti

dalle diverse afferenze sensoriali (il feedback sensoriale) al fine di promuovere scelte adattive.

Testualmente l’autore scrive “l’interazione reciproca tra le regioni frontali e limbiche è coinvolta

nella modulazione del fenomeno dell’anticipazione comportamentale e spiega uno dei sintomi più

rilevanti delle lesioni estese dei lobi frontali, la perdita di interesse per il futuro”. Sempre testualmente

l’autore conclude: “Nell’analisi finale il confronto che l’individuo esegue è sempre tra la risposta

emozionale associata a ciascuna delle possibili alternative…è plausibile ritenere che questo processo

di anticipazione viene meno in seguito a lesioni frontali” (pag. 183). McLean mette dunque in

evidenza come alcuni indici di variazione fisiologica, registrati e interpretati a livello cerebrale grazie

all’interazione tra le strutture prefrontali e limbiche, possano modulare la presa di decisione

dell’individuo. In linea con questa ipotesi, ma enfatizzando il ruolo dei processi cognitivi di scelta,

Meller e coll. (1997) propongono che le emozioni che le persone sperimentano dopo avere preso una

decisione dipendano dal confronto tra le conseguenze effettive e le conseguenze possibili relative a

diverse alternative.

Epstein propone quella che è definita come la cognitive-experential self theory (CEST; 1991).

Questa teoria richiama la differenziazione che abbiamo discusso nel modulo precedente tra sistema

di tipo 1 e sistema di tipo 2 quando abbiamo trattato dell’effetto framing. Epstein propone, infatti,

che i due sistemi interagiscano nel processo decisionale. Un sistema più esperienziale (intuitivo-

euristico secondo Kahneman e Tversky, 1972), capace di rispondere rapidamente, agirebbe a livello
21
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

prevalentemente inconscio e sarebbe particolarmente dipendente dall’analisi emozionale/affettiva

della situazione. Il secondo sistema sarebbe più razionale, mediato cognitivamente, capace di

modulare e modificare flessibilmente gli schemi di risposta.

Probabilmente, il modello più capace di integrare le diverse componenti coinvolte nei processi

decisionali e, in particolare, che consente di assegnare un ruolo chiaro al sistema emozionale in tali

processi è quello proposto e sviluppato da Damasio (1996; 2004). L’influente ricercatore e il suo

gruppo di ricerca hanno eseguito numerosi studi con persone affette da lesioni ai danni di alcune aree

della corteccia frontale, le regioni ventro-mesiali, la cui attività è risultata cruciale per la corretta

assunzione di decisioni da parte dell’individuo. In seguito a questa serie di studi, Damasio formulò

l’ipotesi denominata “somatic marker hypothesys” (ipotesi del marker somatico) secondo la quale i

segnali provenienti dal corpo e la loro rappresentazione a livello cerebrale occuperebbero una

posizione centrale nei processi decisionali. Secondo Damasio, le emozioni deriverebbero da

rappresentazioni e modulazioni di un insieme di modificazioni omeostatiche (dell’equilibrio

fisiologico) che occorrono sia a livello somatico che cerebrale. Quando si avvia il processo

decisionale, un segnale (che rappresenta il marker somatico) proveniente dalla periferia o dalla

rappresentazione centrale (cerebrale) della variazione avvenuta a livello periferico, indica la valenza

emozionale di un’opzione di scelta. Secondo Damasio, per ogni opzione di scelta sono attivati dei

segnali somatici (variazioni di attività di organi interni, variazioni dell’attività muscolare, variazione

della temperatura, etc.) che sottolineano il valore della scelta stessa. Questi segnali avrebbero anche

il compito di orientare l’attenzione del sistema verso l’analisi delle opzioni di rilievo riducendo in tal

modo il numero di alternative possibili (processo di selezione delle risposte). Questo processo è

particolarmente rilevante nelle condizioni d’incertezza o di rischio per l’individuo. Questi segnali

possono essere avvertiti consapevolmente dall’individuo o agire in modo inconscio determinando

implicitamente la risposta comportamentale (la scelta). Un altro elemento interessante dell’ipotesi di

Damasio è che, in seguito all’apprendimento, non sarebbe necessario il verificarsi di un cambiamento

somatico effettivo per determinare il segnale che indica la valenza emozionale di una scelta. Sarebbe,

infatti, operativo un sistema rappresentazionale che anticiperebbe la reazione somatica. Un sistema


22
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

definito “come se” (“as if”) che lavorerebbe nei termini dell’aspettativa della modificazione somatica

e renderebbe il sistema pronto per rispondere in modo efficace.

La breve discussione qui proposta non ci permette di esaurire l’argomento del ruolo delle emozioni

nei processi decisionali, argomento che richiederebbe un modulo ad esso interamente dedicato.

Possiamo concludere questo paragrafo evidenziando alcuni punti. L’effetto framing di cui abbiamo

parlato nel modulo precedente è un esempio di condizione in cui la scelta non è assunta in funzione

dell’adozione di un criterio cognitivo-razionale ma, al contrario, sulla base dell’attività di un sistema

modulato dalle caratteristiche del contesto. Caratteristiche che determinano un’attrazione sul sistema

stesso in funzione dell’attivazione emozionale relativa. Il sistema emozionale è particolarmente attivo

nelle condizioni in cui la decisione può determinare dei rischi concreti per l’individuo, come, ad

esempio, quando il successo della risposta è su base probabilistica (il gioco d’azzardo è un esempio

di condizione di rischio in cui i segnali emozionali sono di particolare rilievo per dirigere la scelta).

In queste condizioni l’attivazione del sistema emozionale è critica per dirigere le scelte dell’individuo

in modo vantaggioso per il soggetto. Damasio e coll. (1991) hanno documentato, infatti, che lesioni

di alcune aree della corteccia prefrontale (in particolare le aree ventro-mesiali) determinano

l’assunzione di scelte svantaggiose per sé in associazione con una riduzione dei segnali di variazione

somatica. Possiamo concludere questo paragrafo ridefinendo le emozioni come stati affettivi, che

comportano modificazioni sia mentali che fisiologiche, i quali orientano l’attenzione e agiscono come

guida per le scelte comportamentali (Stangor, 2011).

4.4. Due vie per l’elaborazione delle emozioni

Dalla discussione proposta nel corso del modulo emerge in modo chiaro come le emozioni siano

un sistema complesso composto da numerose componenti. Un aspetto centrale messo in evidenza da

diversi autori è rappresentato dall’osservazione che esistono emozioni che possiamo definire di base,

come la rabbia, che attivano nell’organismo reazioni rapide che spesso “sfuggono” al controllo

cognitivo, ed emozioni che sono sottoposte a una processazione cognitiva più elaborata, come ad

esempio la gelosia, ovvero che ad essa conseguono (come provare rabbia o felicità per un evento
23
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

accaduto ad un’altra persona a noi cara). In letteratura sono proposte due vie neurofunzionali che

sarebbero dedicate all’elaborazione delle emozioni primarie (di base) e delle emozioni secondarie.

Le emozioni primarie sarebbero mediate essenzialmente dall’attività delle strutture sottocorticali del

circuito di Papez (il sistema limbico), circuito che abbiamo visto essere coinvolto anche nei processi

della memoria. Alcune strutture quali l’amigdala, il talamo e l’ipotalamo sarebbero implicate in modo

particolare. Questo sistema in cui l’informazione giungerebbe primariamente al talamo e in seguito

all’amigdala, consentirebbe un’elaborazione molto rapida dello stimolo e della risposta

comportamentale. Le emozioni secondarie richiederebbero, invece, un’elaborazione più sofisticata

degli stimoli e delle risposte. Elaborazione in cui sono coinvolte le regioni della corteccia prefrontale

(Damasio, 2000; Le Doux, 2000). L’attività della corteccia prefrontale, cui le informazioni

giungerebbero dal talamo e da cui una volta elaborate sarebbero in seguito inviate all’amigdala,

consentirebbe l’integrazione delle diverse informazioni relative agli stimoli e, in particolare,

l’attribuzione cognitiva del significato emozionale. Come ho avuto modo di scrivere in un lavoro di

qualche anno fa sull’interazione tra neuroscienze e psicoanalisi (Caltagirone e Costa, 2002;

“Psychoanalysis and neuroscience”. Journal of European Psychoanalysis Fall-Winter, 15:101-114),

“in una visione integrata la corteccia orbito-frontale, come parte di ampio un circuito neurale che

sottende alla auto-regolazione emozionale, potrebbe agire come organizzatrice dell’esperienza

affettiva modulando il flusso delle informazioni “emozionali” e permettendo la definizione delle

appropriate rappresentazioni delle emozioni e dei relativi schemi comportamentali”. La corteccia

orbitofrontale è, infatti, connessa con le aree coricali sensoriali, l’ippocampo, l’amigdala e

l’ipotalamo e con le aree corticali prefrontali.

4.5. La difficoltà di “leggere” le emozioni: l’alessitimia

Alterazioni dell’elaborazione e dell’espressione emozionale si manifestano in diverse condizioni

di disagio psicologico conseguenti, ad esempio, a situazioni che determinano uno stress psico-fisico

acuto o cronico, e in numerosi quadri clinici di disordini psicopatologici conclamati. Non è dunque

24
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

obiettivo di questo paragrafo descrivere le diverse condizioni in cui è presente una disregolazione

emozionale.

Vorrei portare qui alla vostra attenzione alcuni concetti relativi alle capacità di codifica e di

espressione emozionale. Tali capacità non sono presenti allo stesso modo in tutti gli individui.

Ciascuno di noi ha delle modalità proprie di “sentire” le emozioni, di esprimerle e di comunicarle agli

altri. Queste modalità dipendono da una serie di fattori biologici, psicologici, sociali e culturali.

L’aspetto culturale può essere particolarmente importante. Pensiamo, ad esempio, come nella cultura

latina sia diversamente considerata l’espressione di alcune emozioni nell’uomo e nella donna.

L’alessitimia è una condizione descritta inizialmente da Sifneos (1972) per indicare un disturbo

delle funzioni affettive e simboliche che si manifesta con la difficoltà a descrivere i propri sentimenti

e a discriminare tra stati emotivi e sensazioni corporee. Questo costrutto è stato oggetto di numerose

investigazioni nel corso del tempo.

Taylor e coll. (1991) definiscono successivamente l’alessitimia come un costrutto composito,

costituito da tre fattori di base:

a) Ridotta capacità di identificazione dei propri sentimenti;

b) Ridotta capacità di descrizione e comunicazione dei propri sentimenti;

b) Uno stile cognitivo in funzione del quale l’individuo tende a incentrare l’attenzione sugli eventi

esterni piuttosto che sulla realtà interna, associato ad una difficoltà nei processi di simbolizzazione.

Nel complesso, possiamo intendere l’alessitimia come una difficoltà generale nel processare e

comunicare le emozioni associata ad una riduzione delle capacità di introspezione. Le ricerche

condotte con soggetti sani hanno messo in luce come i tratti alessitimici siano distribuiti normalmente

nella popolazione. Alcuni individui hanno una tendenza a esprimere le emozioni più accentuata

rispetto ad altri individui. Allo stesso tempo alcune persone sono più riflessive di altre.

E’ stato però documentato che la presenza di alessitimia vera e propria, che comprende le

componenti sopra descritte, è correlata positivamente con un maggiore rischio di sviluppare disturbi

psicopatologici e psicosomatici (Bach e Bach, 1995; Honkalampi e coll., 2000). L’alessitimia è anche

considerato un fattore di rischio per lo sviluppo di reazioni psicologiche disfunzionali in persone con
25
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge
Corso di Psicologia Generale
Prof. Alberto Costa

patologie organiche (Taylor e coll., 1997). Inoltre l’alessitimia è spesso riscontrata in persone con

sindromi neurologiche (Costa e coll., 2006).

Queste osservazioni evidenziano l’importanza della corretta elaborazione e gestione delle

emozioni nel mantenimento del più generale equilibrio del funzionamento del nostro organismo.

26
Revisione: marzo 2022
È vietato copiare e riprodurre il presente documento se non nei limiti di legge

Potrebbero piacerti anche