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SOMMARIO
IL TEMA
Hans-Georg Betz
SAGGI
Marco Tarchi
Il ruolo dei movimenti fascisti nella crisi delle democrazie europee tra le due
guerre.
NOTE E DISCUSSIONI
Desmond Fennell
Il disincanto weberiano del mondo ha funzionato troppo bene? Nello scorso decennio, una volta
evaporati gli entusiasmi per il trionfo del modello occidentale sui regimi socialisti, è stato possibile
osservare le molteplici manifestazioni del disagio popolare verso la partecipazione politica e le
istituzioni democratiche. Malessere democratico1, politica del risentimento 2, anomia politica,
movimenti di protesta sono fra le espressioni più di frequente utilizzate per descrivere l’attuale
situazione in molte democrazie occidentali. Sia il tasso di astensione elettorale, sia i sondaggi di
opinione testimoniano il perdurare e l’estendersi del problema. Le nuove democrazie emerse dal
tracollo dei sistemi socialisti non hanno evitato questo fenomeno generale di delusione e
disincanto, come mostra il ritorno al potere – in vesti più appetibili – di alcuni ex membri dei partiti
comunisti. Queste sfide alla forma di governo democratica assumono varie forme a seconda delle
specifiche caratteristiche di ciascuna situazione politica nazionale, ma esistono alcuni caratteri
comuni: la diminuzione dei voti per i partiti di governo; il sostanzioso incremento dell’astensionismo
elettorale; la volatilità dell’elettorato; la crescente frammentazione dei sistemi di partito; l’emergere
di movimenti sociali a difesa di specifiche richieste non sufficientemente rappresentate dalle
organizzazioni politiche tradizionali; la comparsa di partiti monotematici e/o radicali.
Negli ultimi dieci anni questi fenomeni sono stati ben studiati e documentati caso per caso o in
modo più sistematicamente comparato3. Tuttavia, vi è stata una qualche difficoltà nell’attribuire un
senso a queste nuove manifestazioni di malessere democratico. Si trattava di una vera e propria
sfida alle istituzioni democratiche oppure di un transitorio e piuttosto abituale problema di
adattamento e aggiustamento? Come qualificare questi nuovi movimenti, attori e organizzazioni
sociali? Come analizzare le trasformazioni che si stanno verificando nei sistemi di partito? Un
semplice aggiustamento congiunturale o un riallineamento politico, ideologico e istituzionale di
grande rilievo?
Le risposte a questi interrogativi sono state ulteriormente complicate dall’emergere o piuttosto dal
riemergere del concetto di populismo. Per un lungo periodo, la parola ha avuto un’applicazione
piuttosto circoscritta ed è stata applicata soprattutto ad alcuni movimenti politici americani che
sostenevano il potere del popolo contro i “pezzi grossi” e i partiti corrotti. Negli anni Cinquanta e
Sessanta essa è stata un po’ alla volta estesa ad un fenomeno completamente diverso, cioè alla
mistura di politica elettorale piuttosto formale e leadership carismatica dei paesi meno sviluppati. Il
movimento di Peron in Argentina è stato l’archetipo di questa nuova forma di mobilitazione e
azione politica. Il concetto è stato in seguito reso più elastico applicandolo a molti regimi dittatoriali
del Terzo Mondo nei quali le elezioni servivano esclusivamente a dare un certo tipo di
legittimazione popolare al dittatore. Attraverso questa estensione, il concetto e la parola hanno
perso gran parte dell’utilità euristica e sono stati usati, nella maggior parte dei casi, come una
comoda etichetta per designare forme poco familiari o inusuali di mobilitazione politica. Assai
spesso, questo qualificativo veniva applicato retrospettivamente, come ad esempio è accaduto a
movimenti politici quali la campagna del generale Boulanger nella Francia del tardo XIX secolo o al
Mouvement Poujade alla fine della Quarta Repubblica. Questa eclettica collezione di situazioni,
fenomeni e dati fa credere a molti osservatori e analisti che non vi sia mai stato nulla che possa
essere chiamato “populismo” ma solo una mistura di situazioni estremamente variegate che
potrebbero essere analizzate sulla base di vari tipi ma non ridotte ad unità. Ionescu e Gellner nel
1967 e Canovan nel 1981 hanno raggiunto più o meno le stesse conclusioni4, cioè l’estrema
difficoltà, per non dire l’impossibilità, di arrivare a una definizione o a un approccio capaci di
sussumere le differenze. Negli anni trascorsi dalla pubblicazione di quei precoci e stimolanti studi,
però, il panorama è cambiato. Innanzitutto, il populismo sta tornando sulla scena, sia come realtà
empirica, sia come problema accademico. Inoltre, il concetto viene usato principalmente non per
caratterizzare i paesi del Terzo Mondo governati da leaders carismatici, ma per definire un numero
crescente di situazioni che si stanno verificando nell’Europa occidentale. Il populismo è ancora il
concetto preferito per designare ad esempio il regime di Chavez in Venezuela, ma viene con
sempre maggiore frequenza associato a leaders, movimenti o partiti europei. Da questo punto di
vista, il nuovo approccio è molto più vicino alla tradizione americana di quanto non accadesse in
precedenza.
Tuttavia, questa trasformazione dell’uso del concetto è lungi dal risolvere i preesistenti problemi di
identificazione e significato. Anzi, per usare l’immagine proposta con intenti ironici trent’anni fa da
Isaiah Berlin, il complesso di Cenerentola non è ancora risolto: c’è una scarpa – il populismo – ma
il piede giusto che le si adatti non è stato ancora trovato! Negli ultimi dieci anni, il populismo è stato
prevalentemente uno strumento di facile uso per trattare manifestazioni politiche non usuali, come
se la parola fosse sufficiente in sé a spiegare le nuove forme di mobilitazione politica. Il populismo
è diventato un termine sloganistico, soprattutto nei media, usato per indicare i movimenti politici o
sociali nati da poco che sfidano le regole, le istituzioni e i valori più radicati dei regimi democratici.
Nell’arco di pochi anni, il populismo è stato equiparato alla patologia della democrazia.
Una delle prime interpretazioni del populismo come patologia della democrazia la troviamo nel
contributo di Peter Wiles alla classica opera curata da Ghita Ionescu ed Ernest Gellner nel 1967.
Dopo la pubblicazione di quel libro seminale, è stata prassi piuttosto comune considerare le
variegate forme di populismo alla stregua di espressioni sfaccettate della patologia politica. Come
Taguieff ha recentemente sottolineato, «nel linguaggio di tutti i giorni, il populismo è un termine
equivoco, il cui contenuto semantico deve coesistere, in modo difficoltoso, con le idee di demofilia
e demagogia. In quanto tale, il populismo può essere visto come una corruzione ideologica della
democrazia che implica, per usare le parole di Proudhon, la demopedia, cioè l’impegno ad istruire
ed educare il popolo, invece di sedurlo»5.
Tuttavia, questa definizione di populismo obbliga a misurarne la degenerazione rispetto ad uno
standard accettato. Una patologia assume un significato solo in comparazione con una situazione
di normalità, che va definita. Questa definizione è quantomeno problematica. La democrazia non
è, infatti, soltanto un sistema di valori fondamentali, ma anche una serie di regole del gioco, di
meccanismi istituzionali o procedurali. Questo complesso può variare – e varia – a seconda del
tempo e dello spazio. L’America di Tocqueville era una democrazia secondo i parametri dell’epoca.
Noi oggi avremmo probabilmente molto da ridire su quella qualifica. I francesi, negli anni Trenta,
non avevano dubbi sul carattere democratico della Terza Repubblica; però le donne non avevano
il diritto di voto. Oggi, molti cittadini e uomini politici americani considerano la pena di morte uno
strumento inevitabile per combattere il crimine. In Europa, gran parte delle élites politiche si
oppongono a questo punto di vista, spesso definito una pretesa populista e inaccettabile. Lo
stesso ragionamento può essere applicato alle politiche partecipative: possiamo stabilire che solo
le forme di partecipazione pacifiche e politicamente corrette, come il voto, sono democratiche?
Oppure possiamo essere di vedute più ampie ed accettare che altre forme di impegno possono
contribuire al processo democratico? Ancora una volta, c’è bisogno di un approccio relativista al
problema: i francesi tendono a ritenere che il lobbying sia uno sporco trucco, più prossimo alla
corruzione che alla politica pulita, mentre molti osservatori britannici o statunitensi considerano lo
stile dei movimenti sociali francesi una forma di violenza e di primitivismo politico. Inevitabilmente,
ogni riferimento alla patologia include una definizione di democrazia, e questa definizione potrebbe
divergere profondamente da un contesto politico all’altro.
Da Aristotele e Montesquieu in poi, la definizione dei regimi ideali e della loro degenerazione ha
una lunga tradizione. Quando giunge al populismo, visto come una perversione della democrazia,
parecchi argomenti possono essere messi in campo.
Il primo – e più recente – ha a che fare con la pressoché completa identificazione del populismo
con l’estrema destra. Mentre alcune forme del populismo del XIX secolo, come quello statunitense,
furono considerate moderne e riformiste, ai giorni nostri vi è una propensione ad equiparare il
populismo con molti movimenti politici della destra. Le Pen in Francia e Haider in Austria sono
etichettati sia come neonazisti o neofascisti, sia come populisti. Alcuni osservatori o scienziati
politici francesi, ad esempio, hanno coniato il termine “nazionalpopulismo” per caratterizzare questi
movimenti politici. C’è molto da dire su questa qualifica, che spesso ha più a che fare con una
concettualizzzazione ad hoc che con una definizione disegnata con accuratezza. Ciò non di rado
causa incomprensioni: molti partiti di estrema destra non sono populisti e molti movimenti populisti
sono troppo specifici, eterogenei o eclettici per essere identificati con l’estrema destra (si vedano
ad esempio la Lega di Bossi in Italia o la mobilitazione dell’elettorato francese dietro il “partito dei
cacciatori” (Mouvement Chasse, Pêche et Nature). Mentre i partiti di estrema destra
tradizionalmente odiano la democrazia e sostengono di battersi per la sua distruzione, i partiti
populisti, ad esempio, insistono di essere gli unici democratici, quelli che vogliono restituire il
potere al popolo. La democrazia non viene messa in discussione nei suoi princìpi, ma nelle attuali
forme organizzative.
Un’altra ragione per definire il populismo come una patologia ha a che vedere con il contributo
della cosiddetta scuola realista (o elitista). Gli autori che hanno contribuito al disincanto della
democrazia – Ostrogorski, Michels, Schumpeter, Mosca, Pareto – ne hanno svelato il
fondamentale principio elitista e hanno sottolineato che il contributo del popolo alla democrazia
non è andato molto al di là della partecipazione alla selezione dei governanti. Se questa è la
democrazia, allora ogni impegno aggiuntivo del popolo può essere davvero visto come un
elemento di disturbo, patologico e di sovraccarico del sistema. Quando Crozier, Huntington e
Watanuki hanno presentato il rapporto della Triteral Commission su “La crisi della democrazia” nel
1975, questo è ciò che avevano in mente. Una democrazia ben funzionante è una democrazie
elitista o, per dirla nel modo in cui Sartori l’ha definita bruscamente: «Democrazia è la parola
pomposa per qualcosa che non esiste». Visto in questa prospettiva, il populismo può essere in
effetti percepito come una patologia disturbante della democrazia.
Se l’identificazione del populismo con la patologia democratica è problematica, il contributo dei
teorici elitisti è, però, importante. Essi analizzano in termini sociologici e politici (la costituzione di
classi dirigenti) quello che costituisce il vero principio alla base dei regimi democratici esistenti,
cioè il principio rappresentativo 6. Nessuno probabilmente ha definito in modo più apertamente
brutale le regole ferree della rappresentanza di Burke, quando si è rivolto ai concittadini di Bristol e
ha chiarito loro che, una volta eletto, avrebbe seguito solo il proprio informato giudizio! Se infatti la
democrazia è democrazia rappresentativa – in senso politico e non sociologico –, allora è più
appropriato seguire la direzione indicata da Paul Taggart 7 ed analizzare il populismo come la
“patologia della politica rappresentativa”. Definito in questo modo, il problema non è più l’innata
contraddizione fra populismo e democrazia, ma quella tra il populismo e una forma di democrazia,
la più usuale, cioè la democrazia rappresentativa. Tuttavia, dal momento che questa specifica
forma di governo democratico è diventata quella dominante, la più universale, si potrebbe essere
tentati di considerarne le forme alternative patologiche, utopiche o irrealistiche. La confusione,
come giustamente Margaret Canovan ha sottolineato 8, deriva dal fatto che il riferimento al popolo è
l’ideologia comune di tutti coloro che sono o pretendono di essere democratici. Il popolo è il
denominatore comune, ma il ruolo e il posto del popolo è estremamente controverso. Oggi, anche i
regimi autoritari o dittatoriali pretendono di governare per conto e in nome del popolo. Sono rari i
governi che non cercano di invocare una legittimità popolare e ancor meno numerosi quelli che
tentano di offrire un fondamento alternativo al loro regime politico.
In sé, il populismo non può essere considerato antidemocratico. Molte delle rivendicazioni
populiste sono in effetti fondate, anche se il modo nel quale sono articolate solleva molti
interrogativi e problemi: la distanza sociologica tra il popolo e le élites è probabilmente inevitabile,
ma ciò non significa che questa tensione non debba essere discussa e – possibilmente – ridotta, la
chiusura del processo di adozione delle politiche pubbliche e dell’agenda politica è stata
sottolineata da molti osservatori, non solo populisti; la ricerca di un coinvolgimento più diretto dei
cittadini è una questione centrale per ogni democrazia e di fatto molte soluzioni sostenute da partiti
populisti (come i referendum o le proposte di iniziativa popolare) sono state introdotte in alcuni
sistemi politici, contribuendo a controbilanciare il principio rappresentativo con modalità di
espressione diretta del popolo.
Se questa è la situazione, ci si può chiedere perché il populismo sia considerato così
negativamente, malgrado questa vicinanza ed affinità con il principio democratico. La ragione è
piuttosto semplice. Il populismo, come molti altri concetti, è, di per sé, una conchiglia vuota che
può essere riempita ed assumere un significato grazie ai diversi contenuti che vi vengono immessi.
Ciò spiega in parte la difficoltà di definire il populismo e di trovarne i tratti comuni nel tempo e nello
spazio quando se ne prendono in considerazione le multiformi manifestazioni. Paul Taggart
sottolinea a ragione che “il populismo ha un’essenziale qualità camaleontica, il che significa che
assume sempre la tinta dell’ambiente nel quale si manifesta”9.
Il problema non si pone soltanto con il carattere “flessibile” del populismo, già sottolineato da Peter
Wiles nel suo contributo allo studio di Gellner e Ionescu. Esso si estende anche alla fondamentale
ambiguità del riferimento principale e di ultima istanza, il popolo. Sia in inglese che in francese (ma
anche in molte altre lingue) l’espressione usata per questo concetto, people o peuple, designa il
tutto e la parte 10, anche se il termine inglese è più adatto ad indicare una serie di individui mentre
“le peuple” si riferisce all’intera comunità risultante dall’associazione dei cittadini; e, per un altro
verso, fa riferimento (talvolta con un significato peggiorativo) agli strati più bassi della società. A
volte viene aggiunto un terzo significato: il popolo è identificato con una heartland, di solito la
nazione, ma altre volte una frazione dello Stato nazionale che vuole porsi come comunità culturale
e/o politica. Una parola illustra al meglio questa terza dimensione: volk. Una discussione sorta di
recente in Francia sottolinea questa ambivalenza: la Corte Costituzionale ha cassato il primo
articolo di uno statuto della Corsica che faceva riferimento al “popolo corso”, stabilendo che esiste
soltanto un “popolo francese” e che la nazione francese non è fatta di popoli ma di un solo popolo.
Questo annebbiamento del principale referente ideologico spiega perché sia possibile riferirsi alla
stessa parola ma usarla in un senso specifico. Il credo democratico classico usa il popolo come
costruzione immaginaria e astratta11, mentre l’ideologia o retorica populista può aggiungere altre
dimensioni e intenderlo come una comunità di sangue, cultura, razza, ecc. Il primo concetto è
repubblicano, il secondo più tradizionalista, organico e nazionalista. Tuttavia questi sono più tipi
ideali che realtà empiriche. Il modello repubblicano è stato costretto ad ammettere alcune
eccezioni alla sua concezione fortemente astratta per poter accontentare rivendicazioni settoriali o
territoriali. La variante “etnicista” del popolo può essere presente in alcune democrazie (ad
esempio in Germania), ma in tal caso le sue potenziali capacità di esclusione devono essere
tenute sotto controllo dal Rechtstaat. La stessa confusione si verifica quando il concetto viaggia da
un livello ad un altro, ad esempio dallo Stato nazionale al sistema europeo. Tant’è che gli stessi
sostenitori del concetto repubblicano a livello nazionale sostengono che una democrazia europea
è una contraddizione in termini, data l’assenza di un popolo europeo.
Definendo spesso il popolo come un ethnos più che come un astratto demos, i movimenti populisti
si pongono su una china scivolosa. Ancora una volta non si tratta di una fatalità, come dimostra il
caso della Repubblica Federale Tedesca, che ha considerato a lungo gli immigrati come semplici
“lavoratori ospiti”, mentre garantiva automaticamente la nazionalità a discendenti da tedeschi,
inclusi coloro i cui genitori erano emigrati due o tre secoli prima! Queste scelte sono state tuttavia
rese compatibili con un forte regime democratico ed una generosa politica di asilo. Ma nella
maggior parte dei casi una concezione del popolo fondata su basi etniche significa esclusione,
razzismo e xenofobia. Molti movimenti populisti sono caduti in questa trappola, come è stato
mostrato negli scorsi anni dall’ideologia di gran parte di essi, che di fatto ha contribuito a far
equiparare il populismo all’estrema destra. Un’altra prova di questo dato di fatto è che
l’immigrazione è diventata una preoccupazione centrale nei loro discorsi. Gli stranieri vengono
considerati una minaccia non solo al Welfare State o all’occupazione degli indigeni, ma anche alla
stessa natura costitutiva della nazione, alla sua omogeneità e identità.
Malgrado la loro eterogeneità, tutti i movimenti populisti sviluppano le loro argomentazioni in tre
momenti successivi.
In primo luogo, essi enfatizzano il ruolo del popolo e la sua posizione fondamentale non solo nella
società nel suo insieme ma anche nella struttura e nel funzionamento del sistema politico. Il popolo
è al centro della loro visione del mondo e delle istituzioni politiche che organizzano la comunità. La
comunità è infatti un concetto fondamentale, giacché la definizione di popolo tende a integrare
soltanto coloro che sono considerati il “vero” popolo. A seconda del tipo di populismo, questa
esclusione potrebbe essere più o meno simbolica (le classi dirigenti opulente o corrotte, ad
esempio) oppure avvicinarsi all’emarginazione e al razzismo come nel discorso di Le Pen. I
movimenti populisti tendono a negare le linee di frattura orizzontali, come lo spartiacque
sinistra/destra, e a promuovere la fondamentale unità del popolo, introducendo nel frattempo una
nuova contrapposizione di natura verticale, che può escludere ad esempio le élites al vertice e gli
stranieri alla base.
Edward Shils è stato uno dei primi a sottolineare questa divisione orizzontale e a sottolineare la
relazione fra élites e masse come dimensione cruciale. Per contagio, il risentimento populista si
estende alle istituzioni, che incarnano e mettono in pratica il principio rappresentativo. Poiché le
élites politiche sono costituite attraverso questo principio, ciò significa in pratica il rifiuto non solo
dei rappresentanti ma anche dei meccanismi e delle istituzioni che organizzano questa divisione
del lavoro. Tracciare una linea divisoria tra il vertice e la base, il ricco e il povero, i governanti e i
governati, produce un effetto simile a quello della classica divisione lungo linee di frattura sociali o
economiche, ovvero uno stridente contrasto tra i privilegiati e gli emarginati. Di solito, però, il
populismo va al di là della tradizionale opposizione tra i partiti politici e/o i gruppi parlamentari in
competizione. Come nei partiti estremi, il loro discorso politico si basa spesso sul risentimento e
sull’esclusione.
Questa retorica permea il discorso populista, basato sulla celebrazione del popolo buono, saggio e
semplice, nonché sulla ripulsa delle ristrette, corrotte e incompetenti classi dirigenti. La denuncia
dei plutocrati e dei loro servi politici ha spesso una fragranza antisistemica, che richiama alla
mente più i partiti o movimenti estremi che il tradizionale modello della politica di partito. Come tutti
i partiti, i movimenti populisti tendono a separare chi è in e chi è out. Ma come i partiti radicali di
sinistra e di destra, i populisti tracciano anche un tipo diverso di divisione: da una parte l’“immensa
maggioranza della popolazione”, come usavano dire i partiti comunisti; dall’altra, la piccola
minoranza di governanti e sfruttatori. In questo contrasto a tinte acute non vi è spazio per approcci
o analisi più sfumati. La demonizzazione è un aspetto cruciale del populismo.
In secondo luogo, i movimenti populisti abitualmente sostengono che il popolo è stato tradito da chi
è al potere. A seconda del periodo e del paese, questa accusa può essere diretta soprattutto
contro le classi dirigenti politiche, ma a volte tutte le élites sono accusate di abusare delle posizioni
di potere invece di agire in conformità agli interessi del popolo, inteso come un tutto.
In terzo luogo, deve essere riaffermato il potere del popolo. Il che implica che le classi dirigenti al
potere devono essere cacciate («Sortez les sortants!» era il motto del movimento poujadista in
Francia nella seconda metà degli anni Cinquanta) e sostituite da leaders capaci di agire per il bene
della comunità. E significa inoltre drastici cambiamenti nelle istituzioni, facendo più affidamento su
strumenti di democrazia diretta, ponendo sotto stretto controllo politico i corpi indipendenti come la
Banca centrale o le authorities. Due bersagli principali sono al centro di questa sfida ai regimi
democratici esistenti: la rappresentanza da un lato, le istituzioni indipendenti non elettive dall’altro.
L’ideale sistema politico dei populisti si avvicina, almeno sulla carta, a un regime democratico
“puro” in cui il popolo abbia la prima e l’ultima parola. Tuttavia, questa posizione democratica è il
più delle volte controbilanciata dalla posizione centrale assunta (o autoattribuita) dal leader, che si
suppone sia il più capace di far propria, difendere e proteggere la volontà popolare.
Queste tre fondamentali componenti delle rivendicazioni populiste sono abbastanza flessibili da
lasciare spazio ad un’ampia varietà di movimenti, leaders o programmi populisti. Esse potrebbero
essere in parte fatte proprie da partiti integrati nel sistema e ai quali l’etichetta «populismo» è stata
applicata raramente, come ad esempio nel caso del Partito comunista francese. Come
giustamente ha puntualizzato Georges Lavau, tale partito ha svolto un ruolo molto importante
nell’integrazione degli elettori appartenenti alla classe operaia, che avrebbero potuto altrimenti
rifiutare il sistema politico. Egli ha definito tale ruolo «la funzione tribunizia del partito comunista
francese», ossia la capacità del partito di controllare e indirizzare i sentimenti antisistemici presenti
nella classe operaia 16. In altri casi, leaders politici o partiti prendono a prestito per ragioni elettorali
la retorica politica del populismo, ma in maniera meramente opportunistica. Non è stato piuttosto
divertente, ad esempio, ascoltare Jacques Chirac che criticava le classi dirigenti francesi, delle
quali egli è un’incarnazione idealtipica?
Il populismo non dovrebbe essere studiato solo per i suoi programmi e per le posizioni ideologiche,
ma anche come una specifica forma di mobilitazione politica che differisce tanto dai classici
modelli di articolazione degli interessi quanto dall’azione politica svolta attraverso il canale dei
partiti politici. In tale prospettiva, il populismo può essere interpretato come una delle tante possibili
vie per reagire al cattivo funzionamento dei sistemi politici. Insoddisfazione per il funzionamento
della democrazia non sempre significa mobilitazione. Come sappiamo, l’azione politica è costosa e
molte persone potrebbero scegliere la via della defezione, non votando. L’assenteismo è cresciuto
ovunque, anche in paesi a lungo contraddistinti da una partecipazione elettorale molto alta, come
l’Italia, o in paesi in cui votare è, in linea di principio, obbligatorio. Il populismo è spesso l’opzione
opposta e più esigente: è una forma di mobilitazione politica che mira a “inviare un messaggio” a
chi governa. Le fonti di insoddisfazione possono essere collocate a livelli diversi del sistema
politico: a) Insoddisfazione verso i partiti politici, accusati di non essere capaci di proporre
programmi che corrispondano alle aspirazioni di parte della popolazione o alla difesa di specifici
interessi. b) Scontento risultante dallo scarto tra impegni elettorali e politiche effettive. c) Incapacità
della classe politica di porre taluni problemi all’ordine del giorno e di affrontare una discussione sui
modi per risolverli. d) Mancanza di strumenti procedurali o istituzionali adeguati capaci di
canalizzare punti di vista o idee non convenzionali che disturbano l’equilibrio interno dei partiti o
delle istituzioni. e) Insoddisfazione verso provvedimenti politici o economici, in particolare in
relazione a politiche economiche e sociali. f) Mancanza di fiducia negli uomini politici o nelle
istituzioni.
L’insoddisfazione è un fenomeno abbastanza usuale in ogni società. Non c’è niente di
sorprendente nel fatto che non tutti sono contenti di come vanno le cose. La democrazia è,
appunto, un sistema che consente – o dovrebbe consentire – di esprimere soddisfazione e
insoddisfazione e trasferirla nel cambiamento delle classi governanti e delle politiche da esse
adottate. Tuttavia, il carattere universale della democrazia è condizionato dalle peculiarità
istituzionali e dalla specifica capacità di ciascun sistema di far fronte alle richieste espresse dai
cittadini, ed è anche influenzato dalle preferenze che i cittadini possono formulare rispetto alle
varie possibilità di coinvolgimento in politica: voto, pressione, partecipazione, protesta, ecc. Infine,
esso varia a seconda della capacità del sistema di dare un senso ai diritti di cui il popolo è titolare.
Dar voce a questa insoddisfazione in vari modi – anche attraverso rivendicazioni e strategie
“populiste” – potrebbe essere percepito come un sintomo di crisi della democrazia: questa è stata
l’interpretazione di Crozier e Huntington. Ma può anche essere visto come una sfida e un monito.
La sfida è collegata al funzionamento e alla trasformazione di una democrazia rappresentativa.
Tutte le democrazie devono far fronte alla costante necessità di allineare i canali istituzionali e
politici di rappresentanza a nuove domande e nuovi bisogni. Piuttosto che una manifestazione di
crisi, questa è l’espressione di un carattere innato: se la rappresentanza è una soluzione ad
hoc e di seconda scelta rispetto alla democrazia “pura”, essa è condannata a continui
aggiustamenti. Come hanno sottolineato Klingemann e Fuchs, più che di una crisi della
democrazia (che in sé non è in gioco), si tratta di una sfida all’attuale funzionamento dei sistemi
politici17.
Le manifestazioni populiste possono anche essere viste come un “monito” alle élites. Come ha
fatto notare Dalton, «le democrazie devono adattarsi per sopravvivere […] La democrazia è
minacciata quando non riusciamo a prendere il credo democratico alla lettera e respingiamo
queste sfide»18. Il populismo può essere letto come un tipo di indicazione febbrile che segnala che
i problemi non sono canalizzati nel modo giusto o che i rapporti fra i cittadini e le élites governanti
non funzionano come dovrebbero. Klingemann e Fuchs, ad esempio, non vedono una
contraddizione tra la partecipazione non istituzionalizzata e l’avvento di nuovi attori politici da un
lato e il contesto istituzionale della partecipazione democratica dall’altro. E concludono piuttosto
ottimisticamente che «la capacità della democrazia rappresentativa delle società occidentali di
assorbire e trattare i processi che nascono dalla transizione verso la società postindustriale è
stata, a quanto pare, adeguata». Questa valutazione complessivamente positiva può tuttavia
sopravvalutare la capacità integrativa dei sistemi politici occidentali. Gran parte di essi sono riusciti
ad affrontare con successo le varie sfide che si sono trovati dinanzi negli anni recenti, dal
terrorismo a differenti forme di protesta sociale; ma questa capacità è stata piuttosto diversa da
caso a caso, ed ha palesato una maggiore o minore prontezza di reazione. In particolare, l’esplicito
o implicito consenso fra le élites politiche o le classi dirigenti in senso lato ha contribuito ad
alimentare la sensazione che il cambiamento attraverso il canale dei partiti tradizionali e la politica
“normale” fosse impossibile o difficile. Inoltre, il processo di integrazione europea ha avuto un
profondo impatto sulla politica e sulle policies nazionali, rimescolando le tradizionali linee di
frattura, mettendo in discussione gli allineamenti ideologici e politici e reclamando una
ristrutturazione di interessi, partiti e istituzioni.
Questo disagio verso la “politica abituale” può essere osservato in molti paesi, inclusi quelli che
hanno una relazione più equilibrata fra il potere del popolo e il sistema costituzionale di pesi e
contrappesi. Neanche gli Usa o la Svizzera, che fanno un intenso uso di vari strumenti di
democrazia diretta, riescono a sottrarsi alla trappola delle rivendicazioni popolari e delle proteste.
In questi due paesi, dove i referendum e le iniziative popolari sono così numerosi che molti uomini
politici e/o osservatori hanno suggerito di ridurne il raggio e gli obiettivi, i movimenti e il discorso di
tipo populista sono accentuati piuttosto che ridotti dall’esistenza di strutture di opportunità
favorevoli all’espressione del popolo. Ciò non deve essere considerato sorprendente: il proposito
di strumenti che danno voce al popolo senza la mediazione dei partiti politici non è soffocare
questa espressione diretta, ma offrire un ulteriore accesso al processo politico. Lungi dallo sfidare
il potere delle élites, però, questi strumenti popolari/populisti potrebbero contribuire a rafforzare il
sistema politico, evitando che le classi dirigenti si interessino in modo troppo esclusivo al controllo
dell’accesso (come gate keepers) o alla cura di una rendita di posizione (come rent seekers).
Ponendo all’ordine del giorno dei politici problemi e argomenti che non sono graditi agli interessi o
alle ideologie delle élites di governo, le richieste popolari possono rafforzare la legittimità del
sistema e contribuire ad un più vivo e aperto dibattito pubblico. Accade spesso così negli Stati
Uniti, dove molte questioni giungono nell’agenda nazionale grazie agli intensi dibattiti politici nati in
occasione di referendum locali o statali. La posta in palio non dovrebbe essere il carattere più o
meno progressista o conservatore del coinvolgimento popolare (questa è questione di gusti),
quanto piuttosto l’impatto – positivo o negativo – che queste forme di democrazia diretta
potrebbero avere sul funzionamento della democrazia rappresentativa.
Un’osservazione simile può essere fatta sul caso svizzero, in cui l’uso di referendum è stato
criticato perché conservatore e, più di recente, perché controproducente: la vox populi si farebbe
sentire troppo spesso contro il governo delle élites, rendendo sempre più difficile portare il paese
nella direzione giusta (come ad esempio nel caso dell’ingresso nell’Unione europea). In una
recente pubblicazione 19, Sciarini e Trechsel si schierano contro questa ordinaria interpretazione e
apportano un sostegno empirico alla tesi di Neidhart secondo cui i rischi di retroazione negativa
attraverso referendum popolari spingono le élites politiche a rinunciare a progetti che implicano un
consenso più ampio di quello richiesto dall’approvazione per via parlamentare attraverso la regola
di maggioranza. Paradossalmente, l’accordi fra le élites viene rafforzato e diventa a sua volta un
problema, come i recenti avvenimenti politici elvetici sembrano mostrare. «Tenendosi alla fine del
processo politico, il referendum ha una funzione di veto, concedendo alla gente di rifiutare i
provvedimenti insoddisfacenti proposti dalla sua classe dirigente. Come la spada di Damocle, esso
è sospeso come una minaccia permanente sulle azioni politiche della classe dirigente. Ciò ha
condotto, secondo Neidhart, allo sviluppo della fase iniziale del processo legislativo – la cosiddetta
fase pre-parlamentare – e ha rafforzato le preferenze delle élites per un comportamento
cooperativo. Ogni attore politico in grado di minacciare in modo credibile l’intero processo è invitato
a prendere parte a questa fase legislativa, o in commissioni di “esperti” preposte al compito di
elaborare un primo “embrione” di consenso, o tramite procedure consultive che mirano ad
analizzare e registrare le posizioni di tutti i partiti, gruppi di interesse o cantoni interessati. Perciò la
fase pre-parlamentare ha trasformato, secondo Neidhart, la “democrazia plebiscitaria” svizzera in
una “democrazia della concertazione”»20.
Democrazia e populismo sono intimamente collegati. Ciascuna a suo modo, entrambi hanno a che
vedere con il posto e il ruolo del popolo nelle istituzioni democratiche. Mentre i sistemi democratici
sono costantemente in lotta con la non facile coesistenza fra i princìpi di democrazia da un lato e di
rappresentanza dall’altro, che in una certa misura vengono a trovarsi in conflitto, il populismo tende
a respingere il principio rappresentativo o quantomeno a limitarne quanto più possibile l’uso. Da
questo punto di vista, il populismo costituisce il punto di tensione più acuto tra il potere delle élites
e il ruolo lasciato alle masse. L’ambiguo status del populismo deriva dal fatto che esso spesso si
colloca in una posizione a metà strada: non accetta pienamente gli ordinari strumenti della
democrazia rappresentativa ma neppure adotta le forme non convenzionali di partecipazione
politica. Il suo repertorio di azione appartiene più ai tradizionali strumenti della politica elettorale
che a quelli di mobilitazione sociale. Il populismo rifiuta i partiti ma di solito si organizza come un
movimento politico; è altamente critico nei confronti delle élites politiche ma si presenta alle
elezioni; sostiene il potere del popolo ma si affida alla seduzione di un capo carismatico. In altri
termini, il populismo è un segnale d’allarme rispetto ai difetti, ai limiti e alle debolezze dei sistemi
rappresentativi. A dispetto dei suoi toni spesso sgradevoli, potrebbe essere utile a ricordare che la
democrazia non è una realtà data una volta per tutte ma una costante opera di adeguamento ai
bisogni e ai valori mutevoli della società.
In passato, il populismo è stato studiato come fenomeno sotto forma di movimenti di protesta,
partiti radicali, organizzazioni antisistema. Troppi osservatori sono stati confusi dalla sua vaga,
volatile e instabile definizione; tuttavia non è stata dedicata una sufficiente attenzione alla sua
relazione con la democrazia e con le istituzioni democratiche. È venuto ora il momento di cercare
di coglierne la complessità attraverso un approccio diverso. Non si tratta di occuparsi tanto del
contenuto dei programmi dei partiti populisti, quanto della loro posizione nei confronti
dell’organizzazione e dei princìpi dei sistemi democratici. Non c’è dubbio che i programmi di questi
partiti sono importanti, specialmente se si guarda alle ideologie aperte o coperte che
contribuiscono a diffondere; ma concentrandosi esclusivamente o soprattutto su questa
componente si rischia di impedire, piuttosto che di favorire, una piena comprensione del
fenomeno.
Come l’osservazione dimostram i partiti populisti sono nella maggior parte dei casi estremamente
opportunisti. Lo stesso partito può passare da un atteggiamento filoeuropeo alla contrarietà
all’Unione europea in un lasso di tempo assai limitato, a seconda dei suoi interessi. Può essere
favorevole alla globalizzazione o stigmatizzarla, a seconda del mutevole umore del capo. I partiti
populisti possono essere verbalmente virulenti quando stanno all’opposizione e dare voce ai
propositi più estremi, ma poi, una volta avuto accesso al potere, diventare molto più moderati e
disponibili al compromesso. Inoltre, come abbiamo già sottolineato, identificare il populismo con
programmi e ideologie specifici contribuisce a far perdere cognizione della sua cruciale specificità.
Bisogna, insomma, affrontare il problema del populismo guardando al dilemma che esso
contribuisce a sottolineare, cioè la tensione esistente tra le componenti democratiche e “non
democratiche” di ogni sistema democratico. I partiti populisti non possono essere stabili e
sopportabili partiti di governo. Il loro destino è quello di essere integrati nel sistema e scomparire,
oppure restare in permanenza partiti di opposizione (come accade, ad esempio, negli Stati Uniti).
La loro debolezza risiede nel sogno di una forma alternativa di regime democratico che non sono
stati capaci di stabilire e neppure di articolare in modo chiaro. La loro forza – e probabilmente il
motivo della loro persistenza, in un modo o nell’altro – deriva dagli inconvenienti, dai fallimenti e
dalle incoerenze dei regimi democratici. La democrazia è tanto un ideale quanto una pragmatica e
incompleta realtà. Fino a quando la discrepanza tra la visione ideale – e idealizzata – della
democrazia e il meno ammirevole e meno perfetto funzionamento della realtà politica si manterrà,
ci sarà spazio per il populismo, in una forma o nell’altra.
NOTE
1
Cfr. ROBERT DAHL, On Democracy, Yale University Press, Newhaven/London 1998; trad. it. Sulla democrazia,
Laterza, Bari 2000.
2
Cfr. HANS-GEORG BETZ, Radical Right-wing Populism in Western Europe, St. Martin’s Press, New York 1994; HANS-
GEORG BETZ E STEFAN IMMERFALL (A CURA DI), The New Politics of the Right: Neo-Populist Parties and Movements in
Established Democracies, Macmillan, Basingstoke 1998.
3
Cfr. RUSSELL J. DALTON E M ANFRED KUECHLER (A CURA DI ), Challenging the Political Order. New Social and
Political Movements in Western Democracies, Polity Press, Cambridge 1990; HANS-DIETER KLINGEMANN E DIETER
FUCHS, Citizens and the State, Oxford University Press, Oxford 1998; DAVID HELD (A CURA DI), Prospects for
democracy. North, South, East, West, Stanford University Press, Stanford 1993.
4
Cfr. ERNEST GELLNER E GHITA IONESCU (A CURA DI), Populism, Weidenfeld and Nicholson, London 1969;
M ARGARET CANOVAN, Populism, Harcourt Brace Jovanovitch, New York 1981.
5
PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, Le populisme et la science politique. Du mirage conceptuel aux vrais problèmes, in
«Vingtième siècle», XXVI (1997), 9; trad. it. La scienza politica di fronte al populismo: da miraggio concettuale a
problema reale, in «Trasgressioni» n. 31, XV (2000), 3, pagg. 52-53.
6
Cfr. HANNAH PITKIN, The Concept of Representation, University of California Press, Berkeley 1967.
7
Cfr. PAUL TAGGART , Populism, Open University Press, Buckingham/Philadelphia 2000.
8
Cfr. M ARGARET CANOVAN, Trust the People! Populism and the two faces of democracy, in «Political Studies», XLVII
(1999), pagg. 2-16; trad. it. Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, in «Trasgressioni» n.
31, XV, 3, pagg. 25-42.
9
PAUL TAGGART , Populism, cit., pag. 4.
10
M OSES FINLEY, La politica nel mondo antico, Laterza 1993, ritrova questo duplice significato già nella democrazia
greca e nella Roma repubblicana.
11
Cfr. BENEDICT ANDERSON, Imagined Communities, Verso, London/New York 1991, pag. 4.
12
Cfr. JEAN LECA, La démocratie à l’épreuve du pluralisme, in « Revue Française de Science Politique», XLVI (1996),
2, pagg. 225-279.
13
PAUL TAGGART , Populism, cit., pag. 10.
14
Cfr. M ICHAEL KAZIN, The Populist Persuasion, Basic Books, New York 1995; A LLEN D. HERTZKE , Echoes of
Discontent. Jesse Jackson, Pat Robertson, and the Resurgence of Populism, Congressional Quarterly, Washington
1993.
15
Cfr. FRITZ W ILHELM SCHARPF, Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford University Press, Oxford
1999.
16
Cfr. GEORGES LAVAU, À quoi sert le PCF?, Fayard, Paris 1969.
17
Cfr. HANS-DIETER KLINGEMANN E DIETER FUCHS, Citizens and the State, Oxford University Press, Oxford 1998.
18
. RUSSELL J. DALTON , Citizen Politics in Western Democracies: Public Opinion and Political Parties in the United
States, Britain, West Germany and France, Chatham House, Chatham N.J. 1988.
19
A LEXANDRE H. TRECHSEL E PASCAL SCARINI , Direct Democracy in Switzerland: Do elites matter?, in «European
Journal of Political Research», XXXIII (1998), n. 102.
20
Ibidem, pag. 302.
POPULISMO, ESTREMISMO DI DESTRA
E CULTURA DEL “NÉ DESTRA NÉ SINISTRA” IN FRANCIA
NONNA MAYER
Introduzione
“Esistono due contastanti concezioni della democrazia. La democrazia
diretta, che consente al popolo di partecipare alle decisioni, e la
democrazia indiretta o rappresentativa, che obbliga il popolo a delegare il
proprio potere ai rappresentanti e lo emargina dalle decisioni. Le
democrazie occidentali sono democrazie indirette. Sono ancora delle
1
“democrazie”? (Yvan Blot 1989, 17)
C’è un dibattito in corso sulla natura di movimenti come il Front national in Francia, il Vlaams Blok
in Belgio, la Fpö in Austria o la Lega Nord in Italia, che si sono sviluppati in Europa negli ultimi
quindici anni. Alcuni autori li vedono come “di estrema destra”, altri come “populisti”. Entrambi i
concetti sono definiti in modo vago e spesso vengono usati in modo intercambiabile. Tuttavia, dalla
Seconda guerra mondiale in poi, l’estremismo di destra si riferisce esplicitamente o implicitamente
a un’ideologia politica, fondamentalmente il fascismo, e a una specifica posizione sulla dimensione
sinistra-destra2. Mentre il populismo, definito in linea di massima come l’appello all’uomo comune e
il rifiuto di ogni tipo di mediazione 3, è scollegato da un tipo di regime, un contenuto ideologico o
una posizione sul continuum politico. Vi sono populismi di destra e di sinistra, e la stessa etichetta
si applica a leaders tanto diversi quanto possono esserlo Juan Domingo Peron, Margaret
Thatcher, Lech Walesa e Jean-Marie Le Pen. Questa tensione fra le élites e le masse potrebbe
anche esse un carattere strutturale delle moderne democrazie rappresentative 4, a causa del
crescente numero di pesi e contrappesi che hanno condotto a limitare il potere del demos. Il
manifestarsi del populismo starebbe a ricordare gli ideali democratici – il governo del popolo, da
parte del popolo e per il popolo – e non sarebbe necessariamente una corruzione della
democrazia.
La spettacolare ascesa elettorale del Front national francese offre un buon caso per districare
questi vari concetti e saggiarne la capacità esplicativa. Il Front national è considerato un partito di
estrema destra, malgrado il rifiuto di questa definizione da parte dei suoi dirgenti, ed assume
posizioni chiaramente populiste. Jean-Marie Le Pen ama sostenere di essere un “democratico
churchilliano”, per il quale “la democrazia può essere un pessimo sistema, ma non ne conosco
nessun altro migliore”5. Egli argomenta che il suo partito partecipa sistematicamente alle elezioni,
malgrado un sistema elettorale sfavorevole – il maggioritario a doppio turno – che lascia scarse
possibilità di essere eletti ai candidati dei piccoli partiti. Ma è a favore di una dose maggiore di
democrazia diretta, che conceda al popolo di esprimere la propria volontà senza mediazioni. Il
sistema svizzero, basato sull’uso sistematico del referendum, è il suo modello preferito. E il
programma del partito 6 dedica tre capitoli alle diverse procedure che potrebbero accrescere il
potere del popolo, confiscato dall’«establishment politico»7. In questo senso, Le Pen e il suo partito
sono nettamente populisti. Ma cosa si può dire dei loro elettori? In che misura il loro voto è
“populista”? In che misura è un voto “di estrema destra”? Ed è l’unico voto con una dimensione
populista in Francia?
La sindrome populista
Nel loro recente studio sul “populismo della destra radicale”, Hans-Georg Betz e Stefan Immerfall
suggeriscono che questo tipo di movimenti sono diversi da quelli di estrema destra, perché non
rifiutano le regole del gioco democratico e non perorano la violenza. Al contrario, pretendono “di
essere gli unici promotori in buona fede delle aspirazioni popolari e di un’autentica democrazia del
cittadino”. Ma sono radicali perché mettono in discussione “le idee socialdemocratiche
comunemente accettate”, soprattutto il Welfare State e l’accettazione di una società multiculturale.
E sono populisti perché parlano al “buon senso della gente ordinaria”, alla quale offrono una
visione semplicistica del mondo. Ne mobilitano il risentimento contro capri espiatori:
l’establishment politico, gli immigranti o i rifugiati. Per questo essi dovrebbero esercitare una
particolare presa sulle “classi popolari”, con bassi livelli di istruzione e uno status precario8. Se si
applica lo stesso modello a coloro che vengono mobilitati da questi partiti, il voto per il Front
national dovrebbe essere “democratico” (rispettoso delle basilari procedure democratiche),
“populista” (per le sue motivazioni contro la classe dirigente) e “popolare” (con una larga
percentuale di membri della classe operaia e di sottoprivilegiati).
Per verificare queste ipotesi, ci rifaremo a tre ampi sondaggi postelettorali, condotti su campioni
nazionali di aventi diritto al voto all’indomani delle elezioni presidenziali del 1988 e del 1995 e delle
elezioni parlamentari del 1997, che includono un numero considerevole di votanti per Le Pen o per
il Front national (cfr. l’appendice 1). Il periodo di dieci anni coperto da questi sondaggi è
interessante in quanto corrisponde ad una stabilizzazione dei risultati del Fn attorno ad un livello
del 15% e con una generale crescita dell’insoddisfazione politica nell’elettorato francese. Per
esempio, fra il 1987 e il 1996 la sensazione che “parlando in generale, i rappresentanti elettivi e i
dirigenti politici francesi sono corrotti” crebbe dal 42% al 59%. L’idea che “la classe politica non si
preoccupa di cosa le persone come noi pensano” era approvata nel 1996 dal 62% dei francesi in
età di voto, a confronto del 51% del 1989, Nel maggio 1988, la prima parola che costoro
associavano alla politica era “speranza” (49%). Nell’ottobre 1997 la proporzione era scesa al 31%,
mentre la parola “sfiducia” si collocava al primo posto (citata dal 61%, contro il 48% del 1988) e
solo il 31% si sentiva “ben rappresentato” da un partito politico9.
Il sondaggio post-elezioni presidenziali del 1988 conteneva numerose domande sulla percezione
delle procedure fondamentali in una democrazia rappresentativa, quali le elezioni, i partiti e la
rappresentanza parlamentare. Agli intervistati veniva chieste quanto si sarebbero preoccupati se
fossero stati aboliti il diritto di voto, i partiti e l’Assemblea nazionale. Le risposte a questi tre quesiti
appaiono fortemente correlate, formando una scala di impegno democratico. I punteggi variano da
1 (attribuito a coloro che scelgono sistematicamente la risposta “non mi interesserebbe
assolutamente”) a 10 (attribuito a coloro che scelgono sempre la risposta “mi interesserebbe
moltissimo”), secondo il loro grado di interessamento (cfr. appendice 2). Il punteggio medio del
campione su questa scala è alto – un po’ sopra l’8,5, con picchi di 8,8 fra gli elettori di sinistra o
verdi, e di 8,7 fra gli elettori della destra moderata. Anche se gli elettori di Le Pen ottengono un
punteggio un po’ al di sotto della media, 8,3, la differenza è piccola. Nell’insieme, la maggioranza
di essi pare attaccata alle procedure democratiche basilari. Inoltre, altri due gruppi di elettori sono
nella stessa situazione: i sostenitori della candidata di estrema destra Arlette Laguiller, con un
punteggio di 8,2, e i sostenitori del candidato verde Antoine Waechter, con 8,4. Ideologicamente,
questi tre gruppi di elettori sono molto distanti, ma hanno un punto in comune: sostengono partiti
minoritari, che non sono ben rappresentati in parlamento, o non lo sono affatto. Nel 1988 né i verdi
né il partito della Laguiller, Lutte ouvrière, avevano alcun deputato all’Assemblea nazionale. E se il
Front national, viceversa, ne aveva 35 che erano stati eletti nel 1986, grazie all’introduzione del
sistema proporzionale, era destinato a perderli nelle imminenti elezioni parlamentari a causa del
ritorno alle regole maggioritarie adottato nel luglio 1986. I punteggi leggermente più bassi ottenuti
da questi tre elettorati sulla nostra scala di impegno democratico potrebbero esprimere
principalmente la sensazione di non essere rappresentati in modo giusto.
Ciò è confermato dal fatto che gli stessi tre gruppi di elettori sono quelli più a favore di procedure di
democrazia diretta come il referendum (tab. 1), i meno inclini a concedere fiducia ai deputati e, con
l’eccezione dei votanti ecologisti, fra i meno soddisfatti del “modo in cui la democrazia funziona in
Francia”10. Essi non sono contro la democrazia; richiedono piuttosto più democrazia, nel senso
populista del dare maggior potere al popolo e non avere fiducia nei classici canali della democrazia
rappresentativa.
Domande poste:
1. Alcuni vorrebbero che in Francia venissero tenuti dei referenda ogni volta che un certo numero di persone
li richiedono; personalmente, Lei pensa che sarebbe una ottima cosa, una cosa abbastanza buona, una
cosa abbastanza cattiva, una cosa pessima?
2. Alcuni suggeriscono di tenere referenda sulle questioni più importanti, quali i problemi attinenti le libertà
economiche, sociali o civili. Qual è la Sua personale opinione in merito? Sarebbe un’ottima cosa, perché
coinvolgerebbe direttamente le persone nel processo decisionale? Non sarebbe una buona cosa, perché è
compito del Parlamento e del governo assumere quel tipo di decisioni?
b) Anti-elitismo
Tuttavia, se se ne esamina la visione della politica, gli elettori del Front national si collocano
nettamente a sé. Il sondaggio del 1997 presentava molte domande tese ad esplorare
l’atteggiamento degli elettori sui principali temi della campagna per le elezioni parlamentari, inclusi
gli atteggiamenti verso la classe politica e il governo. Vi erano domande sulla vicinanza degli
intervistati a un partito, sul modo in cui vedevano lo Stato, sulla fiducia nella sinistra e nella destra,
sulla sensazione che la classe politica non si preoccupasse di cosa pensano “persone come noi”,
ecc. Gli elettori del Front national danno sistematicamente le risposte più negative. Quando ad
esempio si chiede loro in chi hanno maggiore fiducia quando va al governo del paese, nella
sinistra o nella destra, il 72% risponde “in nessuna delle due”, una proporzione che non ha
equivalenti in nessun altro elettorato, neppure fra i votanti dell’estrema sinistra o dei verdi (il 60% in
ciascuno dei due casi, a paragone della percentuale media del campione, il 46%). Le risposte a
queste domande sono fortemente correlate e consentono la costruzione di una scala di sfiducia
politica, con punteggi tra 0 e 13 (appendice 2). Mentre nel campione il punteggio medio su questa
scala è 7,7, sale a 9 fra gli elettori del Front national, di nuovo davanti agli elettori dell’estrema
sinistra e verdi (8,2). Fra chi vota Fn esiste uno specifico sentimento di avversione per l’élite e per
il sistema.
Quanto conta questo atteggiamento “populista” degli elettori del Front national al momento del
voto? Per misurarne con esattezza l’influenza sulla scelta elettorale bisogna ricollocare la loro
decisione nel contesto della campagna e delle altre considerazioni che potrebbero aver influenzato
il loro voto. Si può costruire, sullo stesso modello della scala di “sfiducia politica”, una scala di
“liberismo economico” (con domande sugli atteggiamenti verso gli interventi statali e le misure di
Welfare, sui servizi pubblici, sull’aumento dei minimi salariali, sulla riduzione delle ore di lavoro e
così via), una scala di “antieuropeismo” (con domande sulla moneta unica europea e sui vantaggi
che ci si attende dalla realizzazione dell’Unione), un indice di “autoritarismo” (con domande sulla
disciplina nella scuola e sulla reintroduzione della pena di morte) e una scala di “etnocentrismo”
(con domande sul numero di immigrati, sull’ineguaglianza fra le razze, sull’integrazione dei
nordafricani, sulla sensazione di essere francese o europeo) (appendice 2). Un’analisi fondata
sulla regressione logistica ci consente di misurare la rispettiva influenza di queste cinque
dimensioni problematiche sulla scelta di voto, comparando i voti per il Front national, i voti per la
sinistra (includendovi i Verdi) e per la destra moderata al primo turno delle elezioni parlamentari
del 1997 (appendice 3).
Per quanto riguarda gli elettori di sinistra e di destra, il quadro è chiarissimo. Il fattore che consente
meglio la previsione di entrambi questi tipi di voto è di gran lunga il punteggio conseguito
dall’intervistato sulla scala di liberismo economico. Coloro che deponevano nell’urna una scheda
per candidati di sinistra erano prima di tutto favorevoli all’intervento dello Stato e a provvedimenti
sociali in favore della forza-lavoro. Simmetricamente, coloro che sostenevano i candidati della
destra moderata erano contrari all’intervento statale e credevano nella regolamentazione
attraverso il mercato, nella libertà d’impresa e nel contare sulle proprie forze. Anche altre
dimensioni avevano un impatto – per gli elettori della destra moderata la fiducia nel governo e il
sostegno all’Unione europea, per quelli della sinistra il libertarismo sociale e l’antirazzismo –, ma la
loro influenza era decisamente meno importante. Ciò che realmente contava quando hanno fatto la
loro scelta era l’economia. E non è un dato specificamente limitato alle elezioni parlamentari del
1997. Anche nel contesto delle presidenziali del 1995 e del 1988, le considerazioni economiche
sono state decisive11. Non si devono seppellire troppo in fretta queste cosiddette tematiche
“materialiste” dichiarandole parte della “vecchia” politica12. Le posizioni sui problemi sociali ed
economici determinano ancora le scelte di voto in Francia, quantomeno per i partiti maggiori.
Per quanto concerne il Front national, tuttavia, la tendenza è del tutto differente. I suoi elettori sono
preoccupati soprattutto dagli immigrati, dagli stranieri, dagli arabi, dai musulmani, che
percepiscono come diversi, se non minacciosi. Il loro livello di “etnocentrismo”, che combina
atteggiamenti positivi verso il gruppo in cui si identificano (ingroup) con atteggiamenti negativi
verso gli outgroups 13, è il principale fattore di previsione del sostegno elettorale al Front national.
Dato non sorprendente per un partito che ha fatto dell’immigrazione il suo tema preferito e ha
costruito la propria piattaforma programmatica attorno al concetto di “preferenza nazionale”. Non si
tratta tuttavia dell’unico fattore che spiega il voto di questi elettori. La sfiducia politica viene in
seconda posizione ed ha un peso quasi altrettanto forte. Perciò il voto per il Fn è “populista” nel
senso dato alla parola da Betz e Immerfall, giacché si alimenta del risentimento verso gli immigrati
da un lato e verso la classe politica dall’altro. È l’unico voto “populista” di questo tipo, l’unico ad
essere guidato più da queste due motivazioni che da ragioni socioeconomiche. Ma anche altre
considerazioni si sono rivelate importanti: l’attaccamento al liberismo economico, il sostegno a
posizioni legge-e-ordine e la mancanza di fiducia nell’Unione europea hanno contato quasi quanto
le due motivazioni “populiste”. Tutte e cinque le dimensioni hanno un’influenza statisticamente
significativa sul voto per il Fn, che appare più complesso di una mera espressione di xenofobia o
antielitismo (appendice 3). Se la dimensione etnocentrica è stata dagli anni Ottanta in poi il
principale fattore predittivo di questo tipo di voto, la dimensione antielitistica è più recente, essendo
apparsa per la prima volta nelle elezioni del 1995, in relazione con i cambiamenti intervenuti nella
base sociale del Front national 14.
c) Sostegno popolare?
Contrariamente al movimento Poujade degli anni Cinquanta, che trasse la maggior parte dei
consensi dalle classi medie indipendenti, la base elettorale del Front national, sin dall’inizio, è stata
interclassista e socialmente diversificata; ma il partito ha sempre avuto maggiore presa sugli
elettori con bassi livelli di istruzione, più ricettivi verso i messaggi semplicistici che esso diffonde15.
Fra il 1988 e il 1997, qualunque elezioni si prenda in considerazione, i risultati del Front national
approssimativamente raddoppiano quando si passa dagli elettori che possiedono almeno il
diploma di maturità a quelli che non lo hanno. In questo senso, si tratta di un voto “popolare”, non
sofisticato. Ma le sue basi sociali sono andate cambiando, diventando gradualmente più proletarie,
più “popolari”. In un primo momento Le Pen ha tratto un maggior numero di elettori dalle classi
medio-basse, in seguito dalla classe operaia. Secondo i sondaggi postelettorali condotti
regolarmente dalla Sofres a partire dal 1984, la percentuale del suo voto attribuibile a negozianti e
artigiani è salita dal 17% delle elezioni europee del 1984 al 27% dell’elezione presidenziale del
1988, toccando il punto più alto della sua presa sulle classi medie indipendenti 16. Stando al
sondaggio del Cevipof del 1988, a quel tempo le percentuali di Le Pen tendevano a salire assieme
al livello di reddito, al numero dei beni posseduti e alla posizione sociale degli elettori. Una delle
domande poste chiedeva agli intervistati di collocarsi su una scala composta da dieci gradini, che
rappresentava la società. Il livello di sostegno per il leader del Front national era più accentuato fra
coloro che si collocavano sui gradini medio-alti, da 5 a 7 (cfr. figura 1).
12% I
19% I 8-10
18% I7
17% I 6
11% I 5
13% I 4
15% I 3
14% I 2
1
In seguito il Front national ha gradualmente esteso la propria influenza sugli elettori di classe
operaia, ottenendo l’8% dei loro voti nel 1984, il 16% nel 1988 e un record del 30% nell’elezione
presidenziale del 1995 (a paragone del solo 14% ottenuto fra i negozianti). Pascal Perrineau ha
etichettato questo fenomeno come gaucho-lepénisme, o “lepenismo di sinistra”17, perché la classe
operaia è stata la tradizionale base elettorale della sinistra. Io preferisco chiamarlo ouvriéro-
lepénisme, o lepenismo operaio, perché vi è una porzione crescente della classe operaia che
sostiene Le Pen, ma la maggioranza di essa non è, o non è mai stata, di sinistra 18. Il 1995 segna il
punto di svolta. Da quella data in poi, i risultati ottenuti da Le Pen e dal suo partito hanno mostrato
una correlazione negativa con il livello di reddito, il numero di beni posseduti e la posizione sociale
degli elettori, raggiungendo un massimo fra i colletti blu e i disoccupati. Nell’elezione presidenziale
di quell’anno, il risultato di Le Pen saliva via via che si scendeva nella scala sociale (figura 2). Nelle
elezioni parlamentari del 1977, sebbene la coalizione di sinistra abbia recuperato parte
dell’elettorato popolare che aveva perso nel 1995, i candidati del Front national hanno raccolto un
numero di voti pressoché equivalente fra i colletti blu (il 24%, secondo i sondaggi postelettorali
Sofres) e fra i negozianti (26%).
14% I
12% I 8-10
11% I 7
16% I 6
15% I 5
17% I 4
22% I 3
30% I 2
I
Un’analisi più approfondita mostra che se si adotta una definizione più ampia di classe sociale,
prendendo in considerazione non solo l’occupazione dell’intervistato al momento del sondaggio ma
anche la sua occupazione precedente (se pensionato o disoccupato), l’occupazione del padre e
quella del coniuge, cioè il retroterra sociale di una persona, ci si accorge che in effetti il sostegno
della classe operaia per il Front national è cresciuto fra il 1995 e il 1997. È salito proprio nel
nocciolo duro della classe operaia, fra gli elettori che sono più strettamente legati a quell’ambito
sociale: coloro che non solo sono colletti blu, ma anche figli e coniugi di colletti blu (tabella 2). Nel
1978, questo gruppo era la roccaforte della sinistra, che ottenne più dell’80% del suo voto alle
elezioni parlamentari di quell’anno. Già nel 1988, fra coloro che possedevano questi tre legami con
la classe operaia il 21% sosteneva Le Pen; nel 1995 erano il 26% e nel 1997 il 33% ha votato per i
candidati del Front national.
Tabella 2. Voto al Front national per numero di legami di classe operaia (1988-1997)
Perché sono così numerosi gli operai che si rivolgono al Front national? Coloro che lo fanno hanno
alcune caratteristiche specifiche. In primo luogo si nota un netto spartiacque generazionale. Il
partito di Le Pen attrae soprattutto giovani operai liberi da precedenti appartenenze alla sinistra.
Nelle elezioni legislative del 1997, fra i rispondenti ai sondaggi di quarant’anni o più con tre legami
di classe operaia, la sinistra era ancora al primo posto, con il 58% dei voti, il Fn ne riscuoteva il
22%, la destra moderata il 20%). Fra quelli più giovani, al primo posto era il Front national, con
quasi la metà dei voti, il 47%; il 40% andava alla sinistra e il 13% alla destra moderata. Una
seconda ragione è che la classe operaia degli anni Novanta ha poco in comune con quella degli
anni Settanta. Essendo stata colpita per prima dall’ondata di recessione e di deindustrializzazione,
ha il più alto tasso di disoccupazione e i salari più bassi. È in decrescita numerica. I grandi
impianti, dove gli operai avevano forti tradizioni di sindacalizzazione e azione collettiva, stanno
chiudendo. È fra gli operai che stanno sperimentando questi cambiamenti che il Front national
raccoglie i maggiori consensi. E coloro che hanno tre legami di classe operaia appaiono essere i
più svantaggiati di tutti. Sono meno specializzati, hanno il reddito più basso, sono più soggetti alla
disoccupazione, i più pessimisti rispetto al proprio futuro, i più favorevoli a un radicale
cambiamento sociale, specialmente i giovani che si trovano in queste condizioni perché non
possono fare altro. La terza ragione è che la sinistra è cambiata da quando è andata al governo,
nel 1981. La politica di austerità economica condotta dai governi socialisti dopo il 1983, il loro
impegno nella guerra del Golfo al fianco degli Stati Uniti, la loro adesione all’Europa di Maastricht,
vista come l’Europa del grande capitale, la loro incapacità di trovare rimedi alla disoccupazione,
hanno diffuso la sensazione che la sinistra non difendesse più i valori e gli interessi della classe
operaia. Questo processo ha, un po’ alla volta, gettato le fondamenta di un elettorato popolare del
Front national, e l’elezione presidenziale del 1995 ha segnato la rottura fra la sinistra e la sua base
elettorale operaia.
Questo impatto “popolare” del partito di Le Pen sta durando, anche dopo che una scissione ha
dato vita ad un partito rivale e, di conseguenza, ha prodotto un forte calo elettorale. Alle elezioni
europee del 1999, per esempio, vi sono stati più colletti blu fra i sostenitori della lista di Le Pen che
fra quelli di ciascuna delle altre, se si eccettua la lista dei cacciatori (il 28% degli elettori lepenisti
erano di classe operaia, a paragone del 17% della lista comunista e di quella di estrema sinistra,
del 16% della lista socialista e del 31% dei cacciatori)19. Il suo rivale Bruno Mégret, invece, ha
ottenuto più successo con le classi medie indipendenti, conquistando il 9% dei voti di commercianti
e artigiani (dove Le Pen ha avuto lo zero per cento), che con la classe operaia (zero per cento per
lui, 9% per Le Pen).
Nella decisione di votare per il Front national vi è tuttavia qualcosa in più di uno stimolo “populista”,
perché il Fn ha una sua collocazione nello spazio ideologico e politico francese. Non è soltanto un
“partito populista”, è un partito “di estrema destra”. L’espressione è controversa. Nella memoria
collettiva degli europei, è associata alla Seconda guerra mondiale, al nazismo e allo sterminio di
sei milioni di ebrei. Attribuire a un partito l’etichetta di “estrema destra” vuol dire, indirettamente,
collegarlo al fascismo e ai suoi crimini, screditandolo moralmente ed escludendolo dal gioco
politico democratico. Un’altra difficoltà proviene dai molti significati che la parola può assumere. Gli
autori che hanno studiato l’estrema destra non si trovano d’accordo su una definizione univoca,
così come non concordano su una definizione di fascismo, su un riferimento comune. Una recente
rassegna della letteratura ha contato non meno di 28 definizioni dell’estrema destra
contemporanea in concorrenza l’una con l’altra, costruite lungo 58 diverse dimensioni
ideologiche20. Noi perciò preferiamo usare in questa sede una definizione spaziale dell’estrema
destra ad una definizione essenzialista, dando per scontata l’immutabilità di alcune caratteristiche
ideologiche.
Circa il 98% degli elettori francesi non hanno difficoltà nel collocare se stessi, i candidati e i partiti
su una scala Sinistra-Destra, e la loro collocazione ha un senso. A seconda della posizione che
scelgono, non hanno gli stessi valori, non votano per gli stessi partiti. Il sondaggio del Cevipof del
1995 conteneva parecchie domande sull’autocollocazione e sulla collocazione dei candidati alla
presidenza e dei partiti sulla seguente scala Sinistra-Destra a sette caselle:
Sinistra I 1 I I 2 I I 3 I I 4 I I 5 I I 6 I I 7 I Destra
All’epoca dell’elezione presidenziale del 1995, quasi i tre quarti degli elettori francesi collocavano
Le Pen e il suo partito (rispettivamente, nel 76% e nel 77% dei casi) all’estrema destra della scala,
nella posizione 7 (figura 3). La stessa cosa fanno gli elettori di Le Pen (70%), sebbene soltanto
una minoranza di essi (il 15%, la stessa cifra del 1988) si collochi personalmente all’estrema
destra della scala. Nessun altro partito e nessun altro leader politico sono collocati così a destra.
Philippe de Villiers si pone assai dietro Le Pen (il 37% degli elettori francesi lo collocano nella
posizione 7) e il Rpr assai dietro il Front national (15%). Ciò significa che gli elettori del Front
national sostengono un partito e un leader massicciamente considerati di estrema destra. Perché
lo fanno, se non si considerano tali? Forse proprio perché vedono il Fn e il suo leader come di
estrema destra. La loro scelta va deliberatamente a favore di un candidato radicale, diverso dagli
altri, che parla a voce più alta, che disturba l’ordine politico. In questo senso, il loro voto è un voto
di estrema destra (cfr. la figura 3)
Percentuale delle autocollocazioni nella posizione 7 della scala sinistra-destra degli elettori di:
Pcf: 1%, Verdi: 1%, Ps: 1%, Udf: 11%, Rpr 15%, Fn 78%
Anche la visione del mondo condivisa dagli elettori del Front national, e specialmente i loro
atteggiamenti etnocentrici e autoritari sopra ricordati, li collocano all’estrema destra dello scenario
ideologico. Dopo il movimento sociale del maggio 1968, i valori antiautoritari e antietnocentrici
sono andati diffondendosi in Francia. Stanno diventando la norma, più fra gli elettori della sinistra,
ma anche, in misura minore, fra quelli della destra moderata. Ma gli elettori del Front national
resistono alla tendenza. In qualunque elezione, l’intolleranza si amplia quanto più ci si sposta
verso la destra dello spazio politico e di appartenenza. Nei nostri tre sondaggi Cevipof si può
costruire una scala da uno a dieci di autoritarismo-etnocentrismo, usando le stesse tre domande
sulla pena di morte, sulla considerazione degli immigrati e sulla sensazione di sentirsi o non
sentirsi più a casa propria in Francia (appendice 2). Nel 1997 la percentuale di coloro che
raggiungono alti punteggi (più di 10 sulla scala) è del 10% fra i votanti dell’estrema sinistra, del
13% fra gli ecologisti, del 15% fra i socialisti, del 18% fra i comunisti e fra i votanti Udr-Rpr. Ma
sale ad un terzo fra gli elettori degli “indipendenti di destra”21 e raggiunge un record del 53% fra i
votanti Fn. Anche se non tutti questi ultimi ottengono alti punteggi, il 84% di essi ha un punteggio
superiore alla media sulla nostra scala autoritarismo-etnocentrismo (appendice 2). Se si cerca di
fare una mappa delle posizioni degli elettori francesi sui maggiori temi economici, sociali e politici
del momento, si vede che la prima dimensione che le strutturava all’epoca delle elezioni del 1997
era l’asse tolleranza/intolleranza. Ad un polo si trovano coloro che ottengono i punteggi più alti
sulle nostre scale di autoritarismo, etnocentrismo, sfiducia politica, antieuropeismo, pessimismo;
all’altro polo coloro che ottengono i punteggi più bassi sulle stesse scale. I sostenitori del Front
national stanno tutti, da soli, sul lato intollerante, mentre gli elettori di tutti gli altri partiti,
dall’estrema sinistra all’Udr-Rpr, stanno sul lato permissivo, fiducioso e tollerante22.
Infine, il voto per il Front national può essere definito di estrema destra perché il suo livello cresce
regolarmente quando ci si sposta da sinistra a destra sulla scala sinistra-destra e raggiunge un
massimo all’estrema destra, fra gli elettori collocati nella posizione 7. Il Front nationale appare
perfettamente simmetrico ai partiti di estrema sinistra e comunista, i cui risultati si mettono a salire
quando ci si muove dalla sinistra verso la destra della scala e raggiungono il punto più elevato
all’estrema sinistra, fra gli elettori collocati alla sinistra estrema della scala. Il Front national offre
così un acuto contrasto con la destra moderata. Sebbene salgano anch’essi quando ci si sposta
verso la destra della scala, i risultati del blocco Udr-Rpr raggiungono il massimo fra gli elettori di
centrodestra (posizione 5) e quindi ridiscendono, tracciando una curva a campana esattamente
simmetrica alla curva della sinistra moderata. La figura 4 mostra, rispettivamente, le curve del voto
per il Front national, per l’estrema sinistra, per la destra moderata e per la sinistra moderata
nell’elezione presidenziale del 1995, secondo la posizione degli elettori sulla scala sinistra-destra a
sette caselle. Qualunque sia l’elezione presa in considerazione, comunque, si trovano esattamente
le stesse curve23, il che conferma la propensione per l’estrema destra degli elettori del Front
national (figura 4).
Estrema sinistra 47 36 23 10 3 1 1
Estrema destra 8 6 8 19 13 21 40
Sinistra moderata 41 55 61 23 4 2 1
Destra moderata 4 3 7 48 80 76 57
Se la tendenza di destra del sostegno al Front national è chiara, dal 1995 in poi i suoi risultati sono
andati crescendo anche in a fascia molto diversa di elettori, che si collocano esattamente alla metà
della scala, in posizione 4 (figura 4). Questa posizione non viene scelta soltanto da autentici
“centristi”, ma anche da elettori spoliticizzati che non possono, o non vogliono, scegliere fra la
sinistra e la destra. Essi sono a volte chiamati il Marais (la palude), nome dato durante la
Rivoluzione ai deputati dell’Assemblea nazionale che non appartenevano né alla Montagna né alla
Gironda, la sinistra e la destra di quei giorni. Nel loro classico studio delle famiglie politiche
francesi24, Deutsch, Weill e Lindon propongono di classificarle attraverso la combinazione
dell’autocollocazione sulla scala sinistra-destra e dell’interesse per la politica. I “veri” centristi si
interessano alla politica e gli elettori del Marais no. Nel 1995, due terzi degli elettori posti nella
posizione 4 appartenevano al Marais e uno su cinque votava per Le Pen (contro il 13% dei veri
centristi). Il Front nationale trae la propria area di consenso da un lato dagli elettori di destra e di
estrema destra, dall’altro dagli elettori del Marais, che non vogliono scegliere fra la destra e la
sinistra. Non così accadeva nel 1988. Il cambiamento riflette la crescita delFn nella classe
operaia, il cui interesse per la politica è particolarmente basso.
Un altro modo per misurare questa tendenza, usata nei sondaggi del 1995 e del 1997, è chiedere
agli elettori come si definiscono esplicitamente: «Lei direbbe di essere “in qualche modo di destra”,
“in qualche modo di sinistra” o “né di destra né di sinistra”?». Uno su cinque dei francesi aventi
diritto al voto all’epoca dell’elezione presidenziale del 1995 era un “né-né”, così come lo era uno su
quattro al tempo delle elezioni parlamentari del 1997. Fra di loro, il sostegno per Le Pen e il suo
partito sono andati crescendo, dal 23% del 1995 al 28% del 1997. Entrambe le volte, i né-né
hanno espresso maggiori consensi per il Fn non solo rispetto agli elettori che si definivano di
sinistra (8% nel 1995, 6% nel 1997), ma anche rispetto a quelli che si definivano di destra (19% e
20%).
Il profilo dei né-né, o ninistes, che votano Front national offre un acuto contrasto con quello dei
“destrorsi” (tabella 3)25. Socialmente, essi sono svantaggiati, con un minore livello di istruzione, in
gran parte di provenienza operaia. Mentre il 58% dei destrorsi ritiene di appartenere alla classe
ricca o superiore, tre quarti dei ninistes si considerano parte della classe medio-bassa, della classe
operaia o dei sottoprivilegiati. Le loro situazioni economiche e sociali riflettono la posizione di
classe (tabella 4). Mentre i destrorsi sono economicamente liberali, i “né-né” sono i più desiderosi
di difendere i diritti e le conquiste dei lavoratori e i più disposti all’azione collettiva per difendere i
propri diritti. Sui principali temi sociali della campagna, quali la riduzione della settimana lavorativa,
l’aumento del salario minimo garantito, lo sviluppo del pubblico impiego o l’appoggio al recente
movimento di scioperi, i loro punti di vista contraddicono sistematicamente quelli dei destrorsi
(tabella 4).
Tabella 4. Posizioni economiche e sociali degli elettori del Front national nel 1997
Politicamente, le differenze sono ancora più acute (tabella 5). Gli elettori destrorsi sono interessati
alla politica e persistentemente di destra, spesso sin dall’infanzia. Quando non ci sono candidati
del Front national sostengono la destra moderata, come è accaduto nel secondo turno
dell’elezione presidenziale del 1995, quando il 95% depositò nell’urna una scheda per Chirac, e
soltanto il 5% dice di aver votato per un candidato di sinistra alle elezioni del 1993 e del 1995.
Viceversa, i ninistes sono spoliticizzati e privi di appartenenze, e provengono in maggioranza da
famiglie in cui già entrambi i genitori si sentivano “né di destra né di sinistra”. Essi esprimono
certamente una maggiore affinità con la sinistra rispetto ai destrorsi: ad esempio il 44% di loro
(contro il 9% dei destrorsi) augura un futuro politico al leader socialista Jospin, e solo il 38% è
contrario alla partecipazione dei comunisti al suo governo (contro il 78% dei destrorsi). Ma quando
sono dinanzi alle urne, esitano: il 55% dichiara di aver votato per la destra nelle due precedenti
elezioni nazionali e il 44% per la sinistra. La loro caratteristica fondamentale è una profonda
mancanza di fiducia nel governo e nelle élites. Il 94% ritiene che la democrazia francese non
funzioni come dovrebbe, l’89% non ha fiducia né nella sinistra né nella destra al governo del paese
e l’85% non si sente vicino ad alcun partito. Le rispettive cifre sono, per i destrorsi, 70%, 57% e
60% (tabella 5). I destrorsi sostengono il Front national perché ritengono i maggiori partiti di destra
troppo moderati. I ninistes votano essenzialmente contro tutti i partiti esistenti, per protesta e
disperazione, e battono ogni record sulla nostra scala di sfiducia politica. Sono di gran lunga il
segmento più popolare, e più populista, dell’elettorato del Front national.
Tabella 5. Scelte politiche degli elettori del Front national nel 1997
Se nell’insieme costituiscono una riserva elettorale privilegiata per l’estrema destra, tuttavia non
tutti i “né/né” votano per il Front national. Infatti un’ampia e crescente percentuale di ninistes non
vota per nessuno 26. Al primo turno dell’elezione presidenziale del 1988, il 18,6% dei francesi aventi
diritto al voto alla fine non si recò alle urne. Nel 1995 essi furono il 21,6% e al primo turno delle
elezioni legislative del 1997 il 32%. Ma fra i ninistes la proporzione di astenuti salì ad un terzo nel
1988, ad oltre un terzo nel 1995 e ad oltre la metà nel 1997 (tabella 6). L’apatia politica sembra
essere un tratto distintivo del gruppo.
Quando si recano a votare, i “né/né” sono più propensi a sostenere i candidati di destra o di
estrema destra che i candidati di sinistra. Nelle tre elezioni considerate, il loro livello di sostegno
per la sinistra è sempre stato qualcosa come dieci punti percentuali sotto la media nazionale 27.
Essi tuttavia seguono ancora la tendenza generale dell’elettorato francese, che ha spostato i propri
consensi dalla destra moderata nel 1988 e nel 1995 alla sinistra nel 1997 (tabella 7). E se si
guarda più da vicino al loro voto, appare chiaro che il Front national non è l’unico partito con cui
hanno stabilito un rapporto preferenziale. Nella corsa presidenziale del 1988, il solo candidato che
attrasse una quota sostanziosa degli elettori del Marais fu l’outsider politico di destra Raymond
Barre, che ottenne in quel gruppo un risultato estremamente alto: il 26%, 9 punti percentuali al di
sopra del risultato medio ottenuto fra gli elettori francesi. In seguito, nelle ultime due elezioni, è
stato il Front national ad approfittare più degli altri del voto dei “né/né”. Al primo turno delle
presidenziali del 1995, il risltato di Le Pen raggiunse il 25% in tale gruppo (8 punti percentuali
sopra il risultato medio) e nelle elezioni parlamentari del 1997 i candidati del Front national
attrassero il 28% del voto niniste (13 punti percentuali al di sopra del risultato nazionale del
partito). Ma in entrambe le elezioni anche gli ecologisti beneficiarono del voto niniste, quasi
raddoppiando i loro risultati in quel gruppo (il 6% invece del 3,5% della candidata verde Dominique
Voynet nel 1995 e il 14% contro il 7% di tutti i candidati ecologisti nel 1997) 28. Quindi tutti i ninistes
hanno in comune un certo disagio verso lo spartiacque destra/sinistra e una mancanza di fiducia
nella classe politica29. Ma questo sentimento ne porta alcuni a sostenere un nuovo partito di
sinistra come i Verdi e altri a manifestare consenso per un partito di estrema destra come il Front
national. Le inclinazioni populiste possono alimentare scelte politiche del tutto opposte.
Conclusioni
Le conclusioni che si possono trarre da questo studio vanno al di là del Front national e dei suoi
sostenitori. Gli elettori del Front national, specialmente quelli del tipo “né destra, né sinistra”,
appaiono i più “populisti” di tutti. Rispetto a tutti gli altri gruppi di elettori, mostrano un maggiore
risentimento verso le élites, una maggiore insoddisfazione verso i partiti più forti e verso la
democrazia rappresentativa ed occupano il primo posto nella nostra scala di sfiducia politica.
Tuttavia non sono gli unici elettori populisti. I sostenitori del Front national condividono con i
sostenitori dei partiti ecologisti e di quelli di estrema sinistra un vivo desiderio di democrazia
diretta, e con gli elettori ecologisti l’atteggiamento di avversione per l’élite e il rigetto della divisione
destra/sinistra, o ninisme. Esistono vari tipi di populismo. Gli elettori del Front national sono, come
suggerito da Betz e Immerfall, dei populisti di estrema destra, a causa delle idee autoritarie ed
etnocentriche che sostengono e per il fatto di sostenere deliberatamente un partito ed un uomo
che collocano alla destra estrema dello spazio politico. Non così accade agli elettori ecologisti, che
si collocano sul versante populista per la richiesta di una maggiore dose di democrazia diretta, il
livello relativamente elevato di sfiducia politica e la forte posizione “né destra, né sinistra”. Ma la
maggioranza di essi sostiene punti di vista di sinistra sui temi sociali ed economici e presenta i
punteggi più bassi nella nostra scala di etnocentrismo autoritario. Mentre gli elettori di estrema
sinistra, malgrado l’insoddisfazione per il modo in cui la democrazia funziona e la richiesta di una
democrazia più diretta, hanno un basso livello di sfiducia politica, un grado molto elevato di
tolleranza e una chiara accettazione dello spartiacque sinistra-destra. Il populismo non è neppure
necessariamente “popolare”. Nel gruppo niniste, coloro che votano Front national sono i meno
elevati per titolo di studio e i più legati alla classe operaia, mentre coloro che votano per gli
ecologisti hanno il livello più elevato di istruzione e il legame più debole con la classe operaia.
Tutte queste diverse forme di populismo indicano un cattivo funzionamento della democrazia
rappresentativa in Francia, uno scarto fra il demos e i governanti. Ma ninisme, populismo ed
estremismo non sono per forza sovrapposti. E il populismo di estrema destra incarnato dagli
elettori del Front national si colloca in una posizione a sé stante, e a causa della visione autoritaria
e xenofoba del mondo che tiene insieme sia i ninistes sia i destrorsi30, si oppone direttamente ai
fondamentali valori democratici di tolleranza e pluralismo.
Appendice 1. I dati
Appendice 2. Le scale
e) Indicatore di autoritarismo
Non è una scala ma un semplice indicatore, che combina le risposte a due domande: “Riguardo
all’educazione, potrebbe per favore dirmi con quale affermazione è maggiormente d’accordo: la scuola
dovrebbe prima di tutto sviluppare un senso di disciplina e di impegno (punteggio 1), la scuola dovrebbe
prima di tutto sviluppare persone di mente acuta che pensino criticamente (punteggio 0)?”; “La pena di morte
dovrebbe essere reintrodotta: sono fortemente o abbastanza d’accordo (punteggio 1), sono fortemente o
abbastanza in disaccordo (punteggio 0). I punteggi variano da 0 a 2.
f) Scala di etnocentrismo
È costruita con cinque domande: “Ci sono troppi immigrati in Francia. Alcune razze sono meno dotate di
altre. Ora non ci si sente più in casa propria come un tempo. Un giorno i nordafricani che vivono in Francia
saranno come gli altri francesi. È fortemente d’accordo, abbastanza d’accordo, abbastanza in disaccordo,
fortemente in disaccordo con queste affermazioni?”. I punteggi assegnati alle risposte variano da 4
(fortemente d’accordo) a 1 (fortemente in disaccordo) tranne che per l’ultimo quesito, che ha un punteggio
da 1 a 4. “Lei, personalmente, si sente solo francese (punteggio 3), più francese che europeo (punteggio 2),
tanto europeo quanto francese, o altra risposta (punteggio 1)?”. I punteggi variano da 5 a 19 e sono stati
ricodificati da 0 a 14. L’alfa di Cronbach è 0,72, il punteggio medio 5,8 e la deviazione standard 3,6.
Tutte le scale escludono le mancate risposte e le statistiche (alfa, media e deviazione standard) sono
calcolate sui dati non ponderati.
NOTE
1
Citato in GUY BIRENBAUM, Le Front national en politique, Balland, Paris 1992, pag. 299. Yvan Blot, pensatore della
Nuova Destra e fondatore del Club de l’Horloge, era a quel tempo un componente dell’Ufficio politico del Front
national. Di recente ha abbandonato il partito dopo aver aderito per un breve periodo al Mnr di Bruno Mégret.
2
Cfr. PIERO IGNAZI, The extreme right in Europe: a survey, in PETER H. M ERKL E LEONARD WEINBERG (A CURA DI),
The Revival of Right Wing Extremism in the Nineties, Frank Cass, London 1997, pagg. 47-64.
3
Cfr. PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, Le populisme, in “Encyclopaedia universalis – Universalia 1996”, pagg. 118-125;
M ARGARET CANOVAN, Populism, Harcourt Brace Jovanovitch, New York 1981; ERNST GELLNER E GHITA IONESCU (A
CURA DI), Populism, Weidenfled & Nicholson, London 1969.
4
Così la pensano ad esempio YVES M ÉNY E YVES SUREL, Par le peuple, pour le peuple, Fayard, Paris 2000, cap. I, trad.
it. Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001, pagg. 41-84.
5
Cit. in PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, Un programme révolutionnaire?, in NONNA M AYER E PASCAL PERRINEAU (A CURA
DI), Le Front national à découvert, Presses de la Fondation nationale des Sciences Politiques, Paris 1996, pag. 222.
6
FRONT NATIONAL, Les 300 mesures pour la renaissance de la France, Editions nationales, Paris 1993.
7
Cfr. FRONT NATIONAL, op. cit, sezione 18, e le analisi delle idee di questo partito in PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, Un
programme révolutionnaire?, cit., pagg. 221-227.
8
Cfr. HANS-GEORG BETZ E STEFAN IMMERFALL (A CURA DI ), The New Politics of the Right, Macmillan/St. Martin’s
Press, London-New York 1998, pagg. 3-4.
9
Questi dati provengono dalla serie di sondaggi Sofres: L’état de l’opinion 1997, Seuil, Paris 1997, pagg. 246-247 e
L’état de l’opinion 1998, Seuil, Paris, pagg. 244-246.
10
La mancanza di fiducia nei deputati è condivisa dagli elettori del candidato comunista dissidente Pierre Juquin (46%),
ma è l’unica caratteristica che essi hanno in comune con i nostri tre gruppi.
11
Nell’elezione presidenziale del 1995 la più forte discriminante tra sinistra e destra riguardava le “privatizzazioni” e le
“scuole private”. Cfr. DANIEL BOY E NONNA M AYER (A CURA DI), L’électeur a ses raisons, Presses de la Fondation
nationale des Sciences Politiques, Paris 1997, pag. 42. Nell’elezione presidenziale del 1988, sono stati i temi del
liberalismo economico e sociale a fare la diifferenza. Cfr. GUY M ICHELAT , A la recherche de la gauche et de la droite,
in CEVIPOF, L’électeur français en questions, Presses de la Fondation nationale des Sciences Politiques, Paris 1990,
pagg. 71-103.
12
Sulla “vecchia” e la “nuova” politica, cfr. RONALD INGLEHART , Cultural Shifts in Advanced Industrial Societies,
Princeton University Press, Princeton 1990.
13
Cfr. DANIEL JACOB LEVINSON, The Study of ethnocentric ideology, in THEODOR W. A DORNO ET ALII , The
Authoritarian Personality, Harper & Row, New York 1950, pagg. 102-104; trad. it. La personalità autoritaria,
Comunità, Milano 195x.
14
Cfr. NONNA M AYER, Ces français qui votent FN, Flammarion, Paris 1999, pagg. 212-214.
15
Con l’eccezione delle elezioni del 1984 e del 1985, al tempo del suo decollo elettorale, quando parecchi studi trovano
una piccola relazione positiva fra il livello di istruzione e il sostegno al Front national. Cfr. NONNA M AYER, Ces
français qui votent FN, cit., pagg. 73-74.
16
Dati basati su un campione nazionale di 2.000 elettori.
17
Cfr. PASCAL PERRINEAU , La dynamique du vote Le Pen. Le poids du gaucho-lepénisme, in PASCAL PERRINEAU E
COLETTE YSMAL (A CURA DI ), Le vote de crise. L’élection présidentielle de 1995, DEP du Figaro/Presses de la
Fondation National des Sciences Politiques, Paris 1995, pagg. 243-261.
18
Per classe operaia o colletti blu qui si intendono i lavoratori manuali specializzati o non specializzati (impiegati nelle
industrie manifatturiere, nei magazzini, nel trattamento e nel trasporto di beni).
19
Sondaggio postelettorale Sofres, 19-24 giugno 1999, campione rappresentativo nazionale di 2000 elettori. Cfr.
NONNA M AYER, Sociologie d’une extrême droite éclatée, in SOFRES, L’état de l’opinion 2000, Seuil, Paris 2000, pagg.
93-102.
20
Cfr. CAS M UDDE, The War of Words: Defining the Extreme Right Party Family, in “West European Politics”, XIX
(1996), 2, pag. 229.
21
I candidati presentati dal Mouvement pour la France di Philippe de Villiers e dal Centre national des indépendants.
22
Cfr. NONNA M AYER, Ces français qui votent FN, cit., pag. 143. Questi sono i risultati che emergono da un’analisi
fattoriale, se si proiettano i voti del primo turno delle elezioni legislative sul diagramma di dispersione dei primi due
fattori, come variabili aggiuntive.
23
Ibidem, pagg. 32 e 347.
24
Cfr. EMERIC DEUTSCH, PIERRE WEILL E DENIS LINDON, Les familles politiques en France, Editions nationales, Paris
1966.
25
Nelle tabelle che seguono, i “destrorsi” sono coloro che si definiscono come “in qualche modo di destra” e
rappresentano il 50% del numero totale degli elettori che hanno sostenuto i candidati del Front national nel primo turno
delle elezioni parlamentari del 1997. Gli altri sono i ninistes, quelli che si definiscono “né di sinistra né di destra”, ai
quali abbiamo aggiunto coloro che si definiscono “in qualche modo di sinistra” (17%), perché il loro profilo è molto
simile (rispettivamente il 34% e il 17%).
26
Le persone sono riluttanti a dire all’intervistatore che non vanno a votare il giorno delle elezioni. Ma se si sommano
coloro che ammettono di non aver votato e coloro che rifiutano di rispondere a questa domanda, si ottiene una cifra
prossima all’effettivo tasso di astensione nel giorno del voto.
27
Nelle elezioni del 1988 e del 1995, -10% e -11% fra gli elettori del Marais, -12% e -9% fra i “né/né” nelle elezioni del
1995 e del 1997. Al contrario, il livello del voto per la destra moderata si situa al di sopra dei suoi risultati nazionali, ma
le differenze sono in diminuzione (+8% e +3% fra gli elettori del Marais del 1988 e del 1995, +4% fra i “né/né” del
1995 e del 1997). Per il Front national, le differenze sono +2% e +7% fra gli elettori del Marais del 1988 e del 1995,
+8% e +13% fra i ninistes del 1995 e del 1997.
28
Nel 1997 gli elettori del partito Verde e quelli di altri movimenti ecologisti sono contati insieme, a causa della cifra
ridotta.
29
Nel 1997 la proporzione di alti punteggi sulla nostra scala di sfiducia politica (appendice 2) è del 47% fra i ninistes,
del 18% fra gli elettori di sinistra e del 13% fra gli elettori di destra.
30
I due gruppi hanno esattamente lo stesso punteggio sulle nostre scale di etnocentrismo e autoritarismo.
IL NEOPOPULISMO NELL’EUROPA OCCIDENTALE.
UN’ANALISI DEI PROGRAMMI DI MNR, FPÖ E LEGA NORD
Negli ultimi decenni del XX secolo, il fenomeno politico di maggiore spicco in Europa occidentale è
stato costituito dalla crescita elettorale e dalla riconversione dell’estrema destra o dalla creazione
ex novo, come nel caso della Lega Nord, di tutta una serie di partiti che possono essere
raggruppati in una nuova famiglia politica: il neopopulismo1. Il suo consolidamento e l’accesso al
potere (nel 1994 la Lega Nord fa parte del primo governo Berlusconi, come oggi del secondo, e nel
1999 la Fpö, dopo aver conseguito un successo nelle elezioni generali, si allea con i conservatori
della Övp per formare il governo austriaco) sono un evidente indicatore del fatto che i suoi
messaggi stanno calando in profondità nelle popolazioni europee. Comprendere a partire da quali
parametri culturali e dottrinali si articola la riflessione di tali partiti, e quali siano i loro schemi
ideologici2, che alcuni settori della popolazione europea stanno accettando, è pertanto un compito
imprescindibile nell’ottica politologica. Soprattutto se teniamo presente che il nucleo ideologico
centrale del suddetto mesaggio è la costruzione di una società in cui sia possibile un’autentica
democrazia e libertà.
Queste due bandiere agitate dal neopopulismo, vera democrazia e libertà, ci spiegano un fatto:
l’estrema destra europea ha capito che il fascismo classico è morto e solo piccoli gruppuscoli di
nostalgici recalcitranti continuano a rimanere fedeli agli ideali fascisti del periodo fra le due guerre
mondiali o alle idee dell’estrema destra tradizionalista, con risultati elettorali nulli3. Per
salvaguardare il nucleo centrale delle sue convinzioni – la gerarchia inegualitaria e la legittimità
della sopravvivenza naturale dei più adatti –, l’estrema destra europea intelligente ha scelto di
promettere all’opinione pubblica di non creare, direttamente, le condizioni per far sorgere un uomo
nuovo o far rinascere la comunità, ma le ha assicurato che un’autentica democrazia è possibile se
si superano le limitazioni del sistema parlamentare rappresentativo. A partire dalle virtù, dai
desideri e dalle volontà degli uomini comuni, senza intermediari corrotti; solo attraverso la guida
sicura di un leader carismatico sostenuto da un movimento nazionale che si batta politicamente
per le autentiche necessità dell’autentico popolo; al di là delle divisioni di classe, culturali o
ideologiche.
Questa riconversione liberal-etnicista e populista dell’estrema destra4 sta avendo un discreto esito;
questi partiti influiscono, con opportunismo e forza crescente, sull’agenda e sulle proposte dei
partiti conservatori 5 e hanno emarginato completamente i nostalgici del fascismo classico6, che
continuano a non accettare il sistema democratico e i valori liberali. Tale esito si concretizza nella
loro conversione – in un contesto storico di delegittimazione del sistema – in partiti pigliatutto di
protesta7. Attraggono elettori da tutto l’arco sociale e ideologico e pertanto pescano un molteplice
elettorato, di protesta o di adesione: attraggono i risentiti, i perdenti della globalizzazione e/o della
modernizzazione8 e a volte anche i vincenti di essa, orfani di identità politica; gli xenofobi e/o i
razzisti9, la ridotta estrema destra recalcitrante10 e i disincantati verso i partiti tradizionali di destra e
di sinistra, gli sconcertati psicologicamente o socialmente dall’accelerazione dei processi di
modernizzazione che mettono in pericolo il loro status o la loro ascesa sociale11, così come gli
angosciati dalla perdita di identità e di sovranità nazionale, gli astensionisti deideologizzati 12 così
come coloro che con il loro voto danno corpo a una decisione politica razionale di massimo attacco
al sistema, gli antifemministi, gli antiecopacifisti e i detrattori del multiculturaiamo, i propugnatori di
un ritorno ai valori conservatori-tradizionali così come gli alfieri delle concezioni postmoderne
neoliberali.
Tutti costoro, poi, condividono non solo ansie e/o arrabbiature, ma anche desideri: optano
elettoralmente per chi offre loro l’illusione politica di ottenere un’identità mediante l’esclusione
etnica fondata su criteri etnoterritoriali e sul capitalismo nazionale e popolare – un’espressione
utilizzata da Le Pen –, la sicurezza, la direzione politica della società e un’alternativa al disgusto
provocato dalla corruzione politica13. I militanti e gli elettori neopopulisti pensano in genere che la
sovranità popolare, nelle attuali democrazie rappresentative, cessi una volta che si è depositato il
voto nell’urna, atto politico che viene giudicato nella sua funzionalità procedurale: legittimare
un’élite di professionisti della politica che parlano con un esoterico linguaggio tecnocratico, lontano
da quello del popolo che affermano di rappresentare 14.
La nostra analisi comparata dei documenti programmatici di tre formazioni appartenenti a questa
famiglia ha lo scopo di stabilirne i nessi culturali e ideologici comuni, onde porre in rilievo il nucleo
centrale dell’ideario neopopulista. Su questa base potremo classificare adeguatamente i partiti in
oggetto all’interno della famiglia e della sottofamiglia di appartenenza e comprenderne la
gerarchia, la coerenza interna che ne discende e il diverso peso delle varie componenti che ne
costituiscono i parametri dottrinali. Da questa fondamentale piattaforma ideale verranno enucleate
e poste in rilievo alcune componenti specifiche, per la notevole rilevanza ideologica che hanno nel
discorso politico e per l’uso demagogico che ne viene fatto. Esporremo poi alcune considerazioni
interpretative conclusive, dalle quali anticipiamo che, probabilmente, la chiave per capire i successi
elettorali neopopulisti risiede più nella domanda che nell’offerta; che vanno prese sul serio le
pretese democratiche di questi partiti 15; che è necessario approfondire analiticamente e superare
la mera descrizione dei sintomi della delegittimazione – il terreno di coltura del fenomeno – dei
sistemi democratici rappresentativi; che lo strutturale deficit democratico16 e le sue disfunzioni nelle
società a sistema produttivo capitalistico diventano politicamente insostenibili in determinate
congiunture, non necessariamente di crisi economica; che lo sviluppo delle opzioni neopopuliste è
un fenomeno che non va considerato solo come una sindrome o una patologia delle democrazie
ma va compreso sostanzialmente in termini politici17, coadiuvati con analisi sociologiche,
economiche ed anche psicologiche; ed infine che la chiave di volta delle posizioni teoriche dei
partiti neopopulisti è nella loro messa in discussione dei valori solidaristici redistributivi 18 dello stato
sociale e dello stato democratico di diritto 19 delle società europee sorte dalla vittoria contro i regimi
fascisti.
Il populismo occidentale contemporaneo non ha sviluppato una propria teoria politica e le sue
manifestazioni storiche, per quanto ricorrenti, sono state effimere 20 fino all’apparizione dei partiti
neopopulisti nell’ultimo terzo del XX secolo. Sia il populismo nordamericano della fine del XIX
secolo21, sia il Fronte dell’Uomo Qualunque italiano, su scala minore, sia il movimento poujadista
francese degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso hanno avuto un’espansione tanto
folgorante quanto rapida è stata la loro scomparsa. Si può perciò affermare che il populismo è un
tipo particolare di mobilitazione sociale e politica che esplicita una forma peculiare di protesta
politica popolare in situazioni di crisi e delegittimazione sistemica. Analizzare il populismo consiste,
fondamentalmente, nello stabilire le analogie esistenti fra una medesima tipologia di azione politica
e alcune convinzioni comuni ripetute nei discorsi politici come struttura argomentativa. La forma
predomina sulla sostanza. Si tratta dunque di una risorsa o di un sistema di azione politica che
viene utilizzato come strumento di conquista del potere. Pertanto ne analizzeremo dapprima lo
“stile” e poi le proposte, che, come vedremo in seguito, nella attuale riconversione neopopulista
sono una sintesi sincretica di varie componenti dottrinarie dell’ampia famiglia della destra22,
famiglia che potremmo classificare, seguendo Eatwell, in «reazionaria», «moderata», «radicale»,
«estrema» e «nuova» 23.
L’essenza dello stile politico populista è la pretesa di costituire un movimento nazionale
sovrapartitico e sovraclassista (per questo Taguieff preferisce utilizzare il termine
«nazionalpopulismo») con la finalità di rigenerare un sistema politico corrotto. In nome di una
democrazia autentica e della sovranità popolare – il valore supremo in ultima istanza, collocato al
di sopra anche delle procedure formali dello stato di diritto – si denunciano tutti i partiti politici e si
denigra il sistema parlamentare rappresentativo, accusando di falsificare la volontò popolare. Si
sostiene che tutti i problemi esistenti troverebbero soluzioni semplici se in politica predominassero
le virtù e l’innato buonsenso degli uomini comuni. L’obiettivo è mobilitare politicamente gli uomini
della strada, la maggioranza silenziosa, e scacciare i professionisti della politica, che
rappresentano solo se stessi24. Piccoli contro potenti, maggioranze contro élites politiche,
economiche, sociali e culturali. La visione della società è duale e armonica, e i nemici sono
perfettamente individuati.
E se l’ampio movimento nazionale è lo strumento della partecipazione politica delle masse popolari
cariche di risentimento, la sua alma mater direttiva è il capo carismatico che sa – seguendo i criteri
populisti – quali sono i reali interessi del popolo. Le democrazie rappresentative sono poliarchie in
cui il trono simbolico del potere è vuoto o temporaneamente semi-occupato; per questo, in epoche
di crisi25 e di conseguente malessere psicologico, questo trono senza occupante può essere
occupato da abili e paternalistici apprendisti stregoni-demagoghi che offrono soluzioni semplici a
problemi complessi, riescono a comunicare con maggioranze sociali mediante linguaggi popolari,
diretti se non volgari 26 e generano illusioni. In questo senso, negli attuali movimenti e partiti
neopopulisti l’importanza del leader è capitale e i partiti sono organizzativamente costruiti come
strumenti di potere del factotum, il che permette un rapido adattamento dei neopopulismi alle
congiunture del mercato politico.
Come è ovvio, tutti questi fattori riposano su una serie di fallacie facilmente criticabili dal punto di
vista analitico. Il che ci ricorda l’importanza rivestita in politica dalle componenti affettivo-
emozionali, psicologiche e ideologiche, per assurde che siano27. In effetti, tutte le seguenti
convinzioni populiste possono essere considerate falsità ideologiche non dimostrabili
empiricamente:
– l ’esistenza di una “maggioranza silenziosa”;
– la credenza mistica alla base della visione idealizzata del “popolo” come unità politica;
– la convinzione che questo popolo possieda alcune virtù innate;
– l’idea che gli uomini comuni siano dotati di un retto e giusto istinto politico infallibile;
– pensare che il movimento neopopulista sia il rappresentante autentico della “maggioranza
silenziosa”, del “popolo autentico”;
– la credenza nella connessione istintivo-metafisica fra il capo e un’ipotetica volontà popolare.
Su tutti questi fattori racchiusi nello stile politico demagogico, gli attuali partiti neopopulisti hanno
innestato, nella loro formula politica di successo – che si può comprendere soltanto alla luce del
contesto storico dal quale essi sorgono –, una combinazione che include: a) la tradizione
nazionalista, oggi attualizzata attraverso posizioni antiglobalizzatrici e xenofobe, in cui gli immigrati
sono visti come capro espiatorio dei problemi della transizione dalle società industriali a quelle
postindustriali; b) il neoliberismo, unito al recupero di valori conservatori tradizionali e a un’etica
produttivista28; c) l’autoritarismo, inteso come controrivoluzione silenziosa29, senza infrangere le
regole procedurali basilari dello Stato di diritto, sia pur adattando le leggi, le procedure e le
istituzioni alla propria visione della società.
EGUAGLIANZA
La comparazione dell’uso filosofico-dottrinario e ideologico del termine eguaglianza che fanno i tre
partiti da noi studiati nella loro documentazione programmatica non presenta ambiguità né
discrepanze. Tutti e tre si dichiarano radicalmente avversi all’egualitarismo redistributivo dei
moderni stati assistenziali o del benessere. Il Mnr, sempre più chiaro e radicale nelle sue
affermazioni, dichiara di combattere l’egemonia politica e ideologica dell’egualitarismo e sostiene,
ad esempio, che i sistemi egualitari, penalizzando i migliori, causano ingiustizia e inefficienza
sociale, mentre la Fpö ribadisce che l’Europa deve preservarsi da tendenze livellatrici verso il
basso ed egualitarie. La Lega Nord propone come alternativa sociale, politica e morale ai problemi
dell’Italia del Nord lo smantellamento, per quanto possibile, dello stato assistenziale, causa, a suo
modo di vedere, di sperpero, inefficienza e corruzione.
Queste concezioni antiegualitarie, aggiunte ai fattori di adesione ideologica agli ideali e ai valori
neoliberali, semplicemente sfumati in forma nazionalpopulista 30 e alle rivendicazioni, in grado
maggiore o minore, di valori tradizionali e/o di concezioni anti-sinistra (tradizionale o postmoderna)
ed anche, come vedremo, parafasciste nel caso del Mnr, ci permetteno di inquadrare il Mnr, la Fpö
e la Lega Nord nella famiglia politica della destra, intesa in senso ampio.
LIBERTÀ
Le tre organizzazioni inalberano congiuntamente la bandiera della libertà minacciata da una
molteplicità di nemici; la Fpö e la Lega Nord si definiscono anzi liberiste. Fondamentalmente, i
nemici della libertà sono la classe politica omogeneizzatrice e sostenitrice del multiculturalismo,
dell’egualitarismo, dello statalismo, e la sua burocrazia elefantiaca e dirigista, alleate alle predatrici
oligarchie economiche internazionali. Gli onorati popoli francese, austriaco e “padano” non sono
liberi, in quanto i loro rappresentanti politici si limitano a difendere i propri interessi e non adottano
le misure necessarie a rendere il popolo autonomamente responsabile, sia politicamente che
economicamente: il programma della Lega Nord, ad esempio, parla di creare opportunità di lavoro,
non posti di lavoro.
I fattori politici sono in relazione con quelli economici e morali: la democrazia effettiva – obiettivo
supremo – è possibile solo nel quadro di uno Stato ridotto e forte (e federale, per la Lega Nord) e
grazie al motore di una autentica e libera economia di mercato non oligopolizzata, nella quale
ciascun individuo possa avere le sue opportunità di raggiungere il successo economico e sociale.
Pertanto, per i tre partiti, la burocrazia dei rispettivi stati assistenziali è qualcosa di nefasto. Per il
Mnr, sia le burocrazie locali sia quella europea di Bruxelles sono onnipresenti e generano
esclusivamente regolamentazioni eccessive, provocano un aumento della fiscalità, coartano le
iniziative e sterilizzano la creatività imprenditoriale. La Fpö denuncia con insistenza la prepotente
burocrazia dominata dai partiti, mentre la Lega Nord afferma, facendone uno degli assi centrali del
suo discorso ideologico, che la burocrazia romana è lontana, impersonale, sprecona e corrotta.
Questo concetto di libertà delle tre organizzazioni in esame mette in evidenza che i valori liberali
sono stati assunti dal neopopulismo in una forma non solo tattica, bensì strategica. La libertà è
definita in termini negativi e individuali come assenza di vincoli statali all’azione individuali. Di
conseguenza, possiamo affermare che il modello neopopulista non è la società totalitaria
corporativa pretesa dai fascismi classici. L’offerta nazionalsocialista di un tempo è stata sostituita
dal nazional-liberalismo. La libertà si colloca al di sopra della giustizia e dell’eguaglianza 31.
IDENTITÀ
L’identità nazionale in pericolo è la preoccupazione fondamentale che giustifica la mobilitazione dei
militanti del Mnr, nonché uno dei fattori più rilevanti per la Fpö. La Lega Nord ha invece come tema
centrale del suo discorso politico il malessere fiscale e l’inefficacia dissipatrice della classe politica
e della burocrazia dello Stato italiano, ma nel contempo anche i temi identitari sono oggetto del
suo interesse, ancorché in minor grado rispetto ai temi economici.
A giudizio del Mnr la situazione francese è catastrofica per ragioni economiche: la globalizzazione
e l’ultraliberismo internazionale che propugnano un liberoscambismo sfrenato; per ragioni
socioeconomiche: la marea immigratoria, vista come causa diretta della disoccupazione e
dell’aumento della delinquenza; per ragioni politiche: la grave perdita di legittimità del sistema e la
crescente burocrazia inefficace che asfissia l’economia; e per ragioni morali: l’anomia causata dal
lassismo e l’egemonia di una subcultura mercantile cosmopolita e malsana. Per tutte queste
ragioni, il Mnr si definisce un movimento di tutti i francesi che respingono, energicamente, la
decadenza della Francia e lottano per la sua rigenerazione, per la sua sovranità e per la difesa dei
connotati della sua identità dinanzi al tradimento, che considerano senza precedenti, delle sue
élites politiche, intellettuali, artistiche, scientifiche e morali.
La Fpö dichiara che il diritto a un’identità culturale deve essere costituzionalizzato e che una delle
più importanti mete educative è la coltivazione dei connotati identitari caratteristici austriaci e la
loro eredità culturale. Questi criteri identitari fanno sì che il Mnr e la Fpö, e in minor misura la Lega
Nord (delle tre organizzazioni, quella che presenta una minore eredità delle posizioni fasciste)
adottino posizioni xenofobe e concezioni politiche etnoescludenti.
POTERE
Le tre organizzazioni si dichiarano radicalmente democratiche. La Lega Nord afferma che i suoi
obiettivi prioritari sono un’autonomia politica e un’economia aperta per raggiungere una
«democrazia autentica» basata su criteri di efficienza, con un esecutivo forte e un presidenzialismo
carismatico per superare la “partitocrazia” e le “remore parlamentari”. La Fpö sostiene di
perseguire la massima libertà perché, secondo le sue convinzioni, questo è il cammino migliore
per difendere e sviluppare la democrazia. E il Mnr lotta per rigenerare la Francia, dato che il suo
obiettivo finale è una «democrazia più autentica», fondata sui princìpi repubblicani32, che devolverà
i diritti e le libertà al popolo, una democrazia nella quale quest’ultimo possa accadere al potere.
Questi partiti propugnano meno Stato ma, nel contempo, più direzione politica, protezione delle
economie nazionali, leggi antitrust e generalizzazione dei metodi di democrazia diretta, come i
referendum o l’elezione diretta degli alti organi dello Stato – proposta, questa, della Fpö. Essi
denigrano la classe politica in blocco, senza distinzioni ideologica, giudicandola corrotta e/o
traditrice del popolo, si presentano come movimenti liberatori interclassisti della parte più “sana”
delle rispettive popolazioni e perorano la formazione di nuove élites politiche rigeneratrici. Tutti
questi fattori, assieme alla pretesa di convertirsi in referente, portavoce e strumento politico degli
uomini comuni e all’importanza della leadership, ci consentono di ribadire la correttezza
dell’attribuzione dell’aggettivo neopopulista a questa famiglia di partiti.
Per quanto concerne i valori, gli obiettivi e le proposte delle tre organizzazioni oggetto del nostro
studio, l’analisi comparata mostra i risultati che di seguito esponiamo.
Così come per la Fpö «l’Austria viene per prima» e l’Europa per seconda, per la Lega Nord gli
interessi degli italiani del Nord devono prevalere, mentre le posizioni molto più elaborate del Mnr
spiegano che l’obiettivo supremo del partito è la difesa della civiltà francese ed europea dai
gravissimi problemi che le minacciano entrambe: decomposizione dell’identità, anomia,
diminuzione di ordine e libertà e perdita di sovranità. Per ottenere il risultato, l’equilibrata e sintetica
proposta del partito si articola attorno ad alcuni grandi princìpi astratti: far rispettare l’ordine
naturale e le leggi dell’armonia, riscoprire la giusta gerarchia di valori, difendere gli interessi
particolari ma mantenerli al posto giusto, ristabilire il primato dell’ordine politico al servizio del bene
comune e il primato della politica sull’economia, liberando le forze produttive.
Che cosa è naturale e armonico per il Mnr? Una società francese ed europea in cui le virtù
tradizionali si siano rinnovate e siano diventate egemoni sostituendo il consumo edonista,
l’affannosa ricerca di lucro priva di sensibilità sociale, l’individualismo esasperato, l’assenza
anomica di un progetto collettivo, l’inciviltà, la pigrizia, il lassismo e la viltà. La soluzione passa in
gran parte attraverso la rigenerazione morale di alcune masse di popolazione europea abbrutite e
alienate dal consumismo grazie ai media e rese infantili dalla cultura nordamericana. I francesi e
gli europei dovrebbero essere nobili, capaci di abnegazione, valorosi, disposti al sacrificio, dotati di
senso dell’onore e rispettosi verso la famiglia, le istituzioni e i titolari di cariche pubbliche; liberi e
disinteressati, combattivi, provvisti di senso etico, patrioti e laboriosi. Così si otterrebbe una società
armonica, riservata, come vedremo, ai “francesi” e agli “europei”.
La Fpö, per quanto concerne questo ambito, in forma più essenziale ma altrettanto rivelatrice,
afferma che i valori europei sono superiori a quelli delle altre culture e che i criteri basilari
occidentali – dignità umana, libertà fondamentali, democrazia, sovranità della legge, solidarietà e
rispetto per la vita – si contrappongono al consumismo edonista, all’islamismo radicale
fondamentalista, al capitalismo aggressivo, all’occultismo, alle sette e al nichilismo onnipresente.
Mentre la Lega Nord, molto più prosaica, insiste ripetutamente sulla sproporzione tra ciò che la
Padania paga allo Stato italiano e quel che riceve in cambio, e per quanto concerne il tema dei
valori dichiara necessario il riconoscimento dei valori sociali, ambientali e culturali delle tradizioni
del mondo rurale.
L’insistenza sull’Europa, le sue tradizioni, la sua etnia, la sua cultura, unita alle rivendicazioni
essenzialiste di alcune superiori virtù europee, francesi, austriache o padane portano a una ripulsa
del multiculturalismo, diretta nel caso del Mnr e della Fpö, indiretta in quello della Lega Nord,
ancorché quest’ultima si veda obbligata a dichiarare solennemente, in un punto del programma
messo bene in evidenza, di non essere razzista. Una ripulsa del multiculturalismo e degli islamisti
come esempio massimo delle etnie e delle culture non europee che vengono giudicate
inassimilabili e pericolose.
Il tema migratorio è cruciale per il Mnr, nella cui analisi le ondate migratorie sono considerate,
insieme alla liberalizzazione totale e incontrollata del commercio internazionale, allo statalismo
assistenziale e al lassismo o al dottrinarismo della classe politica, la causa dei grandi squilibri della
Francia. Il partito capeggiato da Bruno Mégret afferma che l’emigrazione di massa è la causa
diretta della disoccupazione, delle minacce alla pace civile, della perturbazione del sistema
scolastico, dello squilibrio delle finanze pubbliche e sociali, dello sradicamento culturale che
produce una crescita della delinquenza, dei problemi di droga e violenza etnica, oltre che della
questione, qualitativamente più grave, della perdita di identità della nazione. Per tutti questi motivi,
il Mnr propone di impedire l’islamizzazione della Francia, di far tornare gli immigrati nei paesi
d’origine, di riformare in senso molto restrittivo il codice di nazionalità (legandolo al diritto di
sangue), di eliminare la doppia nazionalità e di raggruppare le famiglie nei paesi di provenienza,
oltre che di espellere immediatamente i delinquenti stranieri non europei.
Per quanto concerne il tema migratorio, la Fpö non è tanto estremista quanto il Mnr, però in
sostanza ne condivide le analisi e differisce nelle soluzioni, pur essendo pienamente d’accordo con
la sua principale proposta politica: che gli immigrati economicamente necessari siano cittadini di
seconda categoria. La Fpö afferma esplicitamente che per proteggere gli interessi della
popolazione austriaca è necessaria la piena sovranità nella materia concernente i diritti degli
immigrati. Il che significa – ci viene spiegato – distinguere costituzionalmente tra diritti
fondamentali garantiti a tutti e diritti civili riservati esclusivamente ai cittadini austriaci. La Lega
Nord sostiene che il numero degli stranieri deve essere ponderato secondo la capacità di
accoglienza e le necessità del paese. Come nella maggior parte dei temi, il Mnr è l’organizzazione
politica neopopulista che più ha sviluppato i suoi princìpi teorici per giustificare le proprie proposte
politiche. Da ciò discende il fatto che sostiene il principio generale della preferenza nazionale, che
significa, secondo le sue stesse parole, preferire i propri simili e la propria nazione. In pratica, ciò
significa riservare le prestazioni sociali, i posti di lavoro, gli alloggi e l’educazione agli individui che,
secondo i criteri giuridici fissati dal Mnr, possono essere considerati francesi.
Le questioni economiche sono un altro dei temi capitali del discorso neopopulista europeo. Il punto
di partenza, qui, è che la proprietà privata è un’istituzione praticamente naturale e armonica; che
qualunque tipo di socialismo redistributivo conduce alla povertà; che un’economia aperta di libero
mercato è garanzia di sviluppo individuale e collettivo e che esistono un capitalismo nazionale
buono, sano e produttivo e un capitalismo internazionale cattivo, depredatore e antisociale. La
Lega Nord chiede pertanto la repressione di monopoli, cartelli e trusts e si dichiara avversa alle
strutture oligopolistiche, mentre la Fpö si pronuncia contro gli speculatori e le compagnie
multinazionali. Il Mnr si proclama invece ostile all’ultraliberalismo internazionale e al
liberoscambismo senza freni. Le alternative di politica economica sono chiare a tutte e tre le
organizzazioni: sviluppare e proteggere le economie nazionali, potenziare un capitalismo popolare
(aumento dei salari più bassi, crediti a tasso favorevole per alloggi e distribuzione di azioni),
aiutare quanto più possibile le piccole e medie imprese – aspetto su cui i tre partiti si soffermano in
numerose occasioni –, controllare il sistema finanziario e preparare nel migliore dei modi possibili il
paese alla conquista di mercati esteri, riservando quello interno ai prodotti nazionali o europei. In
nome di una democrazia reale si innalza la bandiera del liberalismo classico, e si presenta come
una panacea un’economia liberata dagli oligopoli internazionali e dai loro vassalli nazionali. Inoltre
si suggerisce una terza via politico-economica fra il capitalismo selvaggio e il socialismo
egualitario, timidamente nella Fpö e in modo molto elaborato nel Mnr.
Per la Fpö, un’economia di libero mercato è la risposta a un capitalismo sfrenato che sfrutta l’uomo
e la natura e a un socialismo fallito che degrada i lavoratori al rango di oggetti amministrativi. Il Mnr
scommette esplicitamente su una terza via economica collocata fra lo statalismo protezionista e il
liberoscambismo integrale, l’economia come strumento di miglioramento collettivo e non come
fine, una via alternativa – sostiene – tra il principio egualitario e la legge della giungla globalista: la
liberazione dell’economia francese per evitare un immenso mercato unificato che distrugga le
identità nazionali e gli equilibri sociali. Questa via economica nazionalista è scelta anche dalla Fpö
e, in modo più sfumato, dalla Lega Nord. Per la Fpö va assegnata la priorità alla creazione di un
mercato austriaco dei capitali e la vita economica deve essere completamente svincolata dalle
regolamentazioni per garantire la prosperità economica dell’Austria e la stabilità del mercato del
lavoro. Le regole governative e la burocrazia devono essere ridotte. Allo stesso modo la pensano il
Mnr e la Lega Nord, che esprimono adesione alle analisi e alle opzioni politiche ed economiche
neoliberiste o neoconservatrici, temperate esclusivamente dal loro nazionalismo populista. Tutte e
tre le organizzazioni si pronunciano a favore della riduzione generalizzata delle imposte, della
riduzione dello Stato e della privatizzazione del settore pubblico. Le posizioni del Mnr sono sempre
più dottrinarie e ideologicamente molto più solide e elaborate, mentre quelle della Lega Nord sono
più pragmatiche. Per questo la Lega Nord chiede la flessibilità dei salati e il potenziamento del
lavoro temporaneo, oltre a sostenere la necessità di creare Borse locali per le piccole e medie
imprese.
L’elemento comune alle tre organizzazioni che ne unifica le posizioni economiche, politiche e
filosofico-dottrinarie è la critica radicale allo Stato del Benessere. L’alternativa che offrono è quella
neoliberale classica: riduzione delle spese statali/riduzione delle tasse/crescita economica
riattivata e responsabilità autonoma degli individui nella copertura delle proprie necessità. Come
sostiene la Fpö, un’economia di libero mercato significa competizione libera e maggiore
responsabilità sociale. La Lega Nord va oltre e mette in discussione lo Stato del Benessere
accusandolo di essere votato allo sperpero e inefficace, come indica il suo principio cardinale:
l’assistenza sanitaria gratuita per tutti.
L’elemento della autonoma responsabilità degli individui è un fattore dottrinario cruciale di
collegamento fra le componenti liberali classiche, quelle neoliberiste e i valori conservatori
tradizionali; inoltre serve per creare un rapporto con reminiscenze di estrema destra, esplicite nel
caso del Mnr. Di fatto, per questa organizzazione così come per le altre due, un’autentica
economia di libero mercato consente agli individui di sviluppare al massimo le loro qualità e
potenzialità; pertanto ciò che essi conseguono, come il guadagno delle imprese, è giusto. I criteri
legittimanti sono quelli classici dell’estrema destra: gli argomenti del darwinismo sociale33. Nella
concezione del Mnr, come nell’evoluzione degli esseri viventi si passa attraverso l’accumulazione
di tentativi di mutazioni genetiche effettuati aleatoriamente, di cui rimangono solo quelle prove che
permettono il progresso delle specie, così l’economia produce una grande moltiplicazione delle
iniziative e la sua selezione segue criteri di efficacia – sopravvivenza e supremazia dei più adatti –,
ossia criteri di mercato. Ciò fa sì che il Mnr affermi, senza ambiguità, di accettare il guadagno e la
concorrenza, poiché essa stimola l’immaginazione, la creatività e l’efficacia degli attori economici
indipendenti. Perciò nei suoi documenti programmatici il Mnr fa risaltare come virtù il gusto della
competizione, la lotta e l’emulazione, affermando che si tratta di virtù individuali che talvolta si
convertono in virtù utili alla comunità nazionale. Una comunità nazionale – la Francia, in questo
caso – che si trova a dover far fronte a una guerra economica internazionale senza quartiere. Da
ciò discende il fatto che il partito difende la regolamentazione generale degli interscambi
commerciali, del capitale e dei movimenti migratori.
Dinanzi alla globalizzazione economica e alla sua deriva ideologica, chiamata mondialismo dai
seguaci di Bruno Mégret, i movimenti neopopulisti qui considerati innalzano la bandiera degli Stati
nazionali auspicando frontiere chiuse, protezionismo economico e culturale e un’adesione solo
confederale a unità politiche superiori come l’Unione europea. Recupero della sovranità, sviluppo
dell’economia nazionale e dei mercati interni e conquista dei mercati esteri: questa è l’alternativa, a
cui si affiancano concezioni della nazionalità e della cittadinanza a pieno titolo fondate
sull’esclusione etnica degli stranieri, proletarizzati come forza-lavoro e obbligati a rinnegare la
propria cultura ed assimilarsi oppure ad essere espulsi. E con lo scopo di omogeneizzare le
rispettive popolazioni, questi movimenti si battono per rinnovare e aggiornare i valori e le virtù
tradizionali che hanno dato forma all’Europa, alla Francia o alla Padania. Le componenti
conservatrici e/o tradizionaliste sono ovvie nei discorsi politici del Mnr e della Fpö e più sottili nella
Lega Nord. Le organizzazioni di Bruno Mégret e Jörg Haider fanno della tradizionale bandiera della
legge e dell’ordine uno degli elementi cardinali dei loro messaggi politici, difendendo entrambi una
maggiore repressione, leggi più dure e più mezzi alla polizia; il Mnr si pronuncia anche a favore
della reintroduzione della pena di morte e della subordinazione dei magistrati al potere esecutivo.
Sia il Mnr, sia la Fpö, sia la Lega Nord considerano la famiglia la cellula basilare della società e
desiderano offrirle la massima protezione, affidano alle donne il tradizionale compito materno –
proponendo un sussidio statale alle casalinghe – e appoggiano l’equiparazione delle scuole private
alle scuole pubbliche. Sostengono che il lassismo e il nichilismo sono piaghe della società. Il Mnr
giunge a pronunciarsi contro l’aborto, la rivoluzione sessuale, il femminismo e la discriminazione
positiva, e ritiene che debbano essere abolite le norme che penalizzano, in nome della libertà di
espressione, la pubblica esposizione di idee razziste. Come la Fpö, si schiera contro
l’omosessualità. I neopopulisti austriaci, dal canto loro, difendono il sostegno statale all’educazione
religiosa nelle scuole pubbliche.
Pertanto, se le nostre analisi sono corrette, i partiti studiati presentano una serie di caratteristiche
dottrinarie che consentono di raggrupparli in una sottofamiglia politica che può essere denominata
neopopulista, inglobata nella più ampia famiglia della destra. Sottofamiglia nella quale esistono
referenti dottrinari diversi, che si articolano in forma sincretica e coerente. Tali referenti culturali
sono il liberalconservatorismo classico, la cultura politica dell’estrema destra, il populismo e il
neoliberismo/neoconservatorismo. Il populismo emerge sul piano politico collegato a una qualche
forma di nazionalismo (politico ed economico), mentre il liberalconservatorismo apporta le
concezioni filosofiche basilari e i valori propugnati come fattore di coesione sociale e il
neoliberismo/neoconservatorismo fornisce le soluzioni teoriche e politiche – in un’ottica
nazionalista – ai problemi economici, sociali e attitudinali personali creati dall’esaurimento del
modello keynesiano di crescita economica e dello Stato assistenziale redistributivo. Dal suo canto,
la cultura dell’estrema destra fascista o parafascista, che l’ideario populista fa in parte propria,
riafferma la legittimità delle posizioni neoliberiste economiche e sociali mediante la classica
argomentazione del darwinismo sociale e presta la sua visione radicale dei temi concernenti la
legge e l’ordine. Mentre le ultime e sofisticate argomentazioni del razzismo culturale, volte alla
difesa delle differenze culturali, permettono di legittimare intellettualmente l’opzione
etnoescludente di queste organizzazioni neopopuliste.
Per concludere questa parte del nostro studio, constatiamo che i parametri per stabilire le
differenze dottrinarie tra Mnr, Fpö e Ln sono condizionati da due fattori globali: a) l’assunzione
comune dei valori e dei criteri neoliberisti/neoconservatori (solo sfumati dall’ottica nazionalista,
come abbiamo visto) e dello stile di azione politica neopopulista; b) la maggiore o minore
assunzione della cultura dell’estrema destra e dei valori postmoderni (realizzazione personale
autonoma, individualismo, qualità della vita, ecc.). In questo senso il Mnr e la Lega Nord mostrano
gli atteggiamenti più lontani. Il Mnr è l’organizzazione più fedele alla cultura dell’estrema destra,
mentre la Ln è la più svincolata da queste concezioni parafasciste e nel contempo è
l’organizzazione politica più postmoderna, sia nelle concezioni, sia nei metodi di azione politica. La
Fpö si mantiene in una posizione dottrinaria intermedia, benché, per le forme di azione politica, si
avvicini maggiormente al modello leghista.
A nostro modo di vedere le tre organizzazioni politiche studiate, per le forme di azione politica, gli
ideali e le proposte condivise, hanno più elementi dottrinari, organizzativi e relativi allo stile di
comportamento politico che le uniscono che non elementi di separazione: fattore che consente di
stabilire che esse costituiscono una sottofamiglia politica (neopopulismo) all’interno dell’ampia
famiglia della destra 34. Il loro progetto politico è strutturato secondo queste priorità: populista e
neoliberista/neoconservatore e, in parallelo, etnonazionalista. Ciò presuppone l’utopia di
armonizzare individualismo privatista e comunità di interessi localmente radicati 35 e la proposta
politica di costituzionalizzare la società dei due terzi, società nella quale il terzo marginale e
supersfruttato sarebbe costituito maggioritariamente dagli estranei alla nazione, cittadini di
seconda categoria.
La comparsa, l’ascesa, il consolidamento e l’accesso al potere, in alcuni casi, dei neopopulismi
neoconservatori etnonazionalisti non è frutto di fattori congiunturali passeggeri; sarebbe pertanto
un grave errore classificarli come meri partiti di protesta. Essi evidenziano, nelle problematiche a
cui pretendono di dare una risposta, le profonde trasformazioni socioeconomiche che si sono
verificate nell’Europa occidentale negli ultimi venticinque anni 36. Decisivi cambiamenti di tipo
economico, sociale, culturale e politico37 che hanno prodotto problemi inediti ai quali i partiti
tradizionali dell’establishment non hanno saputo dare risposte: per questo si sono creati nuovi
spazi politici riempiti dai nuovi movimenti sociali, dai Verdi e dai neopopulisti38. Trasformazioni
globali che comportano il passaggio da società industriali a società postindustriali: crisi degli stati
del benessere e abbandono da parte della destra del patto social-liberale che era stato sottoscritto
per lenire gli effettivi del crac del 1929, la vittoria sul fascismo nella Seconda guerra mondiale e la
conseguente guerra fredda (la destra dà per morto il fascismo classico e di conseguenza rinuncia
all’antifascismo39); a sua volta, la scomparsa dell’alternativa sovietica incide ancora di più su
questa modifica di prospettiva ideologico-politica. Che si presenta nei seguenti termini:
globalizzazione economica; crescente polarizzazione della ricchezza a livello internazionale e
nazionale, con una società dei due terzi; crescenti movimenti migratori dai paesi del Terzo Mondo
ai paesi sviluppati; terziarizzazione dell’economia; perdita di funzionalità economica della classe
operaia tradizionale non qualificata; ineludibile necessità economica della flessibilità lavorativa;
aumento delle rendite del capitale a detrimento di quelle del lavoro; oligarchizzazione economica;
mondializzazione economica attorno al cosiddetto “pensiero unico” egemonizzato dall’una o
dall’altra forma di liberalismo; egemonia politica e militare degli Stati Uniti d’America e
policentrismo economico; declino relativo degli Stati nazionali e crescente peso delle unità
sovranazionali sul tipo dell’Unione europea e delle organizzazioni internazionali; proliferazione di
nuovi attori internazionali sovrastatuali; profondi cambiamenti ideologici causati dalla perdita di
influenza delle subculture politiche comunitariste (tanto a sinistra quanto a destra) e apparizione ed
espansione di nuovi valori individuali postmaterialisti e di forme di partecipazione politica che
mettono in evidenza nuove fratture sociali, in una profonda trasformazione della struttura dei
conflitti sociali che presuppone un indebolimento delle tradizionali linee di frattura e libera le
persone dai tradizionali vincoli di classe, religione e famiglia 40.
I partiti neopopulisti qui studiati paiono essere un riflesso politico e sociologico di queste nuove
tensioni sociali41, che collegano problemi non risolti della modernità (la subordinazione della sfera
politica a quella economica, ad esempio, o la contraddizione tra i progetti politici collettivi – princìpi
basilari costituzionali degli Stati sociali e democratici di diritto – e l’anarchico sistema produttivo di
base che fa da motore al sistema42) a problemi della postmodernità (anomia 43, individualismo
esasperato, crescita economica con distruzione di posti di lavoro, ribellione fiscale delle classi
medie, inciviltà e insicurezza pubblica, migrazioni massicce, perdita di sovranità degli Stati,
sostenibilità del modello di crescita, qualità della vita, crisi identitarie, multiculturalismo, ecc.). Tutto
ciò nella cornice politica di una crisi di legittimità dei sistemi partitici europei per varie cause: la crisi
di egemonia del discorso dominante; l’assenza di partecipazione politica e il grave deficit della
socializzazione politica delle masse popolari44; la deideologizzazione a causa del centrismo o del
pragmatismo politico, o per gli accordi fra le grandi coalizioni governanti, come ad esempio quelle
austriache negli anni Ottanta; l’esaurimento del modello dei partiti di massa; la tecnocraticzzazione
e la professionalizzazione della vita politica e il conseguente distacco dall’opinione pubblica; la
volatilità del voto; la perdita graduale dei connotati di identità ideologica dei partiti; le crisi di
governabilità causate dalle crescenti richieste di servizi da parte di una società che esige più e
migliori servizi e, nel contempo, reclama meno tasse e, sopra ogni altra cosa, la corruzione e la
conseguente diffusione del cinismo nella società 45. Il caso italiano sarebbe paradigmatico di tutta
questa situazione – ancorché si debbano tenere in considerazione i particolari vizi clientelari del
precedente sistema partitico italiano – e spiegherebbe i fattori che legittimano il discorso ideologico
della Lega Nord 46.
Ci troveremmo perciò, seppur non esclusivamente, di fronte a partiti pigliatutto di protesta di destra
che sono riusciti, inserendosi fra altri fattori, a dare un sostrato politico all’insoddisfazione politica
ed economica e al malessere psicologico (insicurezza, ansietà, risentimento) di importanti settori di
solito poco istruiti della popolazione dei loro paesi (prevalentemente maschi giovani 47, in una
relazione numerica di genere inversa a quella degli elettori per i partiti ecopacifisti), che abitano
zone urbane in gran parte degradate e, quando non sono disoccupati, sono di solito impiegati nel
settore privato 48. Oltre a settori delle classi medie e nuclei di impiegati pubblici di aree molto
specifiche dell’amministrazione. Insoddisfazione e risentimento sono in loro conseguenze della
globalizzazione e della modernizzazione economica, della crisi dello stato del benessere e dei
cambiamenti ideologici e di valori che ne sono derivati49. E il maggior successo di questi partiti
consiste nell’essere riusciti a rendere credibile per i loro simpatizzanti ed elettori il messaggio di
superamento della classica linea divisoria tra destre e sinistre.
I successi neopopulisti sono le risposte politiche 50 di alcuni settori sociali radicalizzati che
abbandonano la loro fedeltà ai partiti di destra tradizionali; di altri segmenti di popolazione che
decidono di smettere di astenersi e preferiscono votare per i partiti che credono possano fare più
danni al sistema; di parte della classe operaia in senso ampio (che ha perso fiducia nella fedeltà
dimostrata alla sinistra o fluttua nelle scelte di voto, ma mantiene parte della propria cultura
antisistemica); dei settori operai non qualificati in via di emarginazione a causa della difficoltà di
riciclarsi nelle nuove società in cui predomina il settore terziario (in Francia, il Front national e il
Mouvement national républicain, presi nell’insieme, rappresentano la scelta di voto preferita dai
settori operai, e lo stesso accade nell’Italia settentrionale con la Lega Nord 51); dei settori in
condizioni di disoccupazione strutturale52 con poche possibilità di integrazione economica, salvo
disputare i posti di lavoro supersfruttati occupati dalla maggioranza degli immigrati poveri53. Gruppi
sociali a cui bisogna aggiungere, nominando i simpatizzanti e/o gli elettori delle organizzazioni
neopopuliste, altri settori emergenti – trionfatori della globalizzazione/modernizzazione – orfani,
come dicevamo, di identità politica e per i quali i valori neoliberali postmoderni costituiscono un
inappellabile senso comune.
Il collegamento fra le miserie non risolte della modernità e le miserie della postmodernità ha
permesso alle organizzazioni dell’estrema destra intelligente europea di riciclarsi, comprendendo
che solo rompendo con la vecchia dottrina del fascismo classio (Fpö) o del parafascismo (Mnr)
avrebbero potuto avere qualche opportunità di raggiungere il potere 54. La Lega Nord è un caso a
parte e corrisponde, come abbiamo visto, non a una resurrezione dell’estrema destra ma a un
partito di tipo nuovo, che si limita a recuperare quei valori tradizionali che il suo elettorato
presuppone indiscutibili.
Pare dunque lecito definire i programmi dei partiti che qui abbiamo studiato una risposta
dell’estrema destra, o semplicemente della destra postmoderna (Ln), pragmatica e opportunista, ai
problemi attuali, contrapposta alle alternative della destra conservatrice classica, della sinistra
classica – postcomunisti, socialdemocratici – e, in misura maggiore, della sinistra postmoderna e
alternativa – verdi 55, ecopacifisti, femministe ecc. Una risposta che consente di creare le condizioni
(nazionali europee) politiche ed economiche perché ciascun cittadino francese, austriaco o
“padano” possa sviluppare al massimo le proprie potenzialità individuali per raggiungere, mediante
lo sforzo personale, il maggior successo e status possibile. E perciò – in modo pienamente
legittimo – lui solo, e non lo Stato, sia responsabile della propria situazione… lui, individualmente o
aiutato dai suoi collaboratori nazionali meno intelligenti, meno capaci o meno dotati dal punto di
vista imprenditoriale o più fannulloni, o dagli stranieri poveri europei o non europei, cittadini di
seconda categoria, utili solamente per la loro funzionalità economica. In gioco, in realtà, pare
essere la costituzionalizzazione della società dei due terzi e di un Nord che accetti le
diseguaglianze planetarie e possa tollerare “democraticamente” un Sud sul proprio territorio,
adattato alle necessità economiche e considerato, in parte, uno strumento per assicurare una
crescita economica i cui benefici verranno ripartiti in modo diseguale. In realtà, si tratta di un
socialdarwinismo edulcorato dalla legittimità democratica dei voti dei due terzi di soddisfatti
presenti nelle società occidentali 56.
NOTE
1
Cfr. HANS-GEORG BETZ, Radical Right-Wing Populism in Western Europe, St. Martin’s Press, New York 1994, pag.
3. Sul concetto di famiglia di partiti, cfr. CAS M UDDE, The ideology of the extreme right, Manchester University Press,
Manchester 2000, e DANIEL-LOUIS SEILER, Partis et familles politiques, Presses universitaires de France, Paris 1980.
2
Sul concetto di ideologia e sul suo uso politico, cfr. JOAN A NTÓN M ELLÓN , Ideología y mentalidad ideologizada. La
opacidad social de las conciencias, in «Sistema» n. 135, novembre 1996.
3
Come ha notato PAUL TAGGART , New Populist Parties in Western Europe, in «West European Politics», XVIII
(1995), 1, gennaio 1995, trad. it. I nuovi partiti populisti nell’Europa occidentale, in «Trasgressioni» n. 29, XV, 1,
gennaio-aprile 2000, pag. 61, i partiti neopopulisti avanzano elettoralmente quando prendono le distanze dall’estrema
destra tradizionale.
4
La maggior parte dei leaders dei partiti neopopulisti europei provengono (l’eccezione più nota è Umberto Bossi),
dall’estrema destra. Cfr. XAVIER CASALS I M ESEGUER, Europa: una nova Extrema-Dreta, Papers de la Fundació Rafael
de Campalans n. 126, Barcelona 2001.
5
Cfr. PAUL HAINSWORTH, The Politics of the Extreme Right, Pinter, London/New York 2000; HANS-GEORG BETZ, op.
cit., pagg. 142, 143, 175.
6
Gruppuscoli di nostalgici che secondo ROGER GRIFFIN, Interregnum or Endgame? Radical Right Thought in the
“Post-Fascist Era, in www.alphalink.com.au/~radnat/theories-right/theory2.html, pag. 15, si sono rifugiati nella
metapoliticizzazione delle proprie idee e nel “cyberfascismo”
7
Processo che presenta analogie con quello avvenuto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, studiato da Thomas
Childers e altri (cfr. HANS-GEORG BETZ, op. cit., pag. 61). M EINDERT FENNEMA , Some theoretical problems and issues
in comparison of anti-immigrant parties in western Europe, Working Papers ICPS n. 115, Barcelona 1995, pag. 32, ha
scritto: «Il partito fascista è stato un partito pigliatutto ante litteram. Era un movimento di protesta per necessità
temporale e strutturale».
8
«Gli operai non specializzati e semispecializzati, alcune categorie di operai specializzati e i dirigenti di livello più
basso […] figurano principalmente fra i “perdenti della modernizzazione”» (HANS-GEORG BETZ, Introduction, in
HANS-GEORG BETZ E STEFAN IMMERFALL (A CURA DI ), The New Politics of the Right, MacMillan, Basingstoke/London
1998, pag. 7. Cfr. anche PATRICK M OREAU, Le Freiheitliche Partei Österreich, parti national-libéral ou pulsion austro-
fasciste?, in «Pouvoirs» n. 87, novembre 1998, pag. 75.
9
«Senza alcun dubbio, l’ostilità all’immigrazione ha sostituito l’anticomunismo come tema identificante dell’estrema
destra»: PAUL HAINSWORTH, op. cit., pag. 10.
10
«Non c’è dubbio che un significativo numero dei sostenitori [dei partiti neopopulisti] mostrino tendenze estremiste di
destra»: HANS-GEORG BETZ, Introduction, in HANS-GEORG BETZ E STEFAN IMMERFALL (A CURA DI), op. cit., pag. 3.
Allo stesso modo la pensano JÜRGEN W. FALTER E JÜRGEN R. W INKLER, La “résistible ascension” de l’extrême droite
en Allemagne, in «Pouvoirs» n. 87, novembre 1998, pag. 59.
11
Cfr. PATRICK M OREAU , La temptació populista de dreta a Europa vista a través del cas de l’FPÖ: estat de cada lloc i
interpretació sistèmica, Papers de la Fundació Rafael de Campalans n. 127, Barcelona 2001, pag. 8.
12
I partiti neopopulisti ottengono un importante sostegno elettorale dai “nénéisti”, individui che non si sentono né di
destra né di sinistra: cfr., in proposito, XAVIER CASALS I M ESEGUER, op. cit., pag. 13 e M EINDERT FENNEMA , op. cit.,
pag. 5. Secondo quanto afferma PIERO IGNAZI, L’estrema destra in Europa, Il Mulino, Bologna 1994, alcuni partiti
neopopulisti riescono ad aggregare elettoralmente anche settori inferiori e marginali della società.
13
Nel 1991, il 55% della popolazione francese pensava che la classe politica fosse corrotta: lo riporta HANS-GEORG
BETZ, Radical Right-Wing Populism in Western Europe, cit., pag. 54.
14
Nel programma politico del G.I.L. del pittoresco Gil y Gil si può leggere: «Essi [i partiti] accettano solo che il popolo
ci sia per votarli, e una volta che i credenti in buona fede lo hanno fatto, seguendo le campagne di ipnotizzazione, lì
termina il loro compito, dal momento che tutte le loro rivendicazioni, tutte le soluzioni ai loro bisogni, non vengono
tenute in considerazione. Si impongono gli interessi di partito e quello dei mediatori che li rappresentano, ignorando la
Costituzione e lo Stato di diritto» (www.grupogil.com/f-mensaje.html).
15
Come suggerisce M ARGARET CANOVAN, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, in
«Trasgressioni» n. 31, XV, 3, settembre-dicembre 2000, pag. 29; versione originale: Trust the People! Populism and the
Two Faces of Democracy, in «Political Studies», XLVII (1999), pagg. 2-16.
16
Come scrivono YVES M ÉNY E YVES SUREL, Pour le peuple, par le peuple, Fayard, Paris 2000, pag. 306 (trad. it. Il
populismo e la democrazia, Il Mulino, Bologna 2001): «Affrontando la realtà in tutta la sua brutalità: Le Pen è così il
prodotto della degenerazioni dei programmi, delle idee e delle politiche dei partiti di governo; Bossi o Berlusconi sono i
prodotti adulterati di una democrazia corrotta e inefficace; Haider e i suoi omologhi svizzero e fiammingo il risultato di
sistemi corporativi, chiusi e cartellizzati, che finiscono con l’essere insopportabili».
17
Cfr., sul punto, ROGER EATWELL, The extreme Right and British exceptionalism: the primacy of politics, in PAUL
HAINSWORTH, op. cit.
18
«Ciò che propongono […] questa cultura e questa politica è che la soddisfazione da valori, virtù o sforzi, intelligenza
e decisioni individuali, e che pertanto i soddisfatti o contenti della società semplicemente ricevono quel che meritano»:
ROLANDO CORDERA CAMPOS, Mercado y equidad. De la crisis del estado a la política social, in «Revista Internacional
de Filosofía Política» n. 6, dicembre 1995
19
Scrive PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, Political Science Confronts Populism. From Conceptual Mirage to a Real Problem,
in «Telos» n. 103, primavera 1995: «Il “populismo autoritario” è uno dei sentieri che portano alla distruzione delle
strutture egemoniche socialdemocratiche all’interno delle democrazie pluraliste occidentali. Il suo obiettivo è il
“postsocialismo”: una rottura con il socialismo identificato con l’assistenzialismo» (trad. it. La scienza politica di fronte
al populismo: da miraggio concettuale a problema reale, in «Trasgressioni» n. 31, XV, 3, settembre-dicembre 2000,
pag. 59).
20
Escluso il populismo latinoamericano, che ha presentato alcune caratteristiche e un percorso storico originali. Cfr.
CARLOS DE LA TORRE , Redentores populistas en el Neoliberalismo: nuevos y viejos populismos latinoamericanos, in
«Revista Española de Ciencia Política» n. 4, aprile 2001, e FERRAN GALLEGO , Populismo latinoamericano, in . JOAN
A NTÓN MELLÓN (A CURA DI), Ideologías y movimientos políticos contemporáneos, Tecnos, Madrid 1998.
21
Cfr. M ICHAEL KAZIN, The Populist Persuasion, Basic Books, New York 1995.
22
«Altri partiti combinano le componenti neofasciste e quelle neopopuliste, formando un ibrido»: PAUL TAGGART , op.
cit., pag. 61.
23
ROGER EATWELL, in ROGER EATWELL E NOËL O’ SULLIVAN (A CURA DI ), The Nature of the Right, Pinter, London
1989.
24
Berlusconi e i suoi collaboratori di Forza Italia hanno affermato, nel corso della loro vittoriosa campagna elettorale, di
detestare il teatrino della politica, di essere stati temporaneamente prestati alla politica per rimediare ai disastri prodotti
dalla sinistra e di essere, in realtà, dei tecnici onesti, apolitici e di buonsenso.
25
Crisi che non devono necessariamente essere economiche. L’Austria ha uno dei livelli più bassi di disoccupazione e il
Nord Italia è una delle zone a più alto reddito pro capite d’Europa.
26
«Usando espressioni sarcastiche dirette, rozze, non di rado violente nei toni polemici, la Lega infrange i codici
simbolici ai quali gli elettori sono stati abituati dalle forze politiche tradizionali, supera la barriera delle ideologie e
rende più credibile l’appello al ritorno a tradizioni comunitarie genuine, a staccare lo sguardo dai grandi orizzonti
planetari per fissarlo sulle necessità primarie legate al territorio, alla famiglia, al lavoro»: M ARCO TARCHI, Populismo
Italian Style, in «Trasgressioni» n. 31, XV, 3, settembre-dicembre 2000, pag. 93.
27
Le fantasie razziste nazionalsocialiste potrebbero essere un buon esempio, così come il fanatismo integralista islamico
dei “martiri suicidi” dell’11 settembre.
28
Scrive CESÁRIO RODRÍGUEZ A GUILERA DE PRAT , Valores sociales de mercado en la cultura política de la Liga
Norte, in PILAR DEL CASTILLO E ISMAEL CRESPO (A CURA DI), Cultura política. Enfoques teóricos y análisis empíricos,
Tirant Lo Blanch, Valencia 1997, pag. 158: «è ricorrente nel discorso politico articolato dalla Lega la contrapposizione
del Nord “sano e produttivo” al Sud “clientelare e assistito”: la società settentrionale si caratterizza per la laboriosità e
l’efficientismo, quella meridionale per il parassitismo sussidiato dallo Stato “romano” dominato da una “partitocrazia”
corrotta che per di più frena la crescita autonoma del Nord».
29
Cfr. PIERO IGNAZI, The silent counter-revolution. Hypotheses on the emergence of extreme right-wing parties in
Europe, in «European Journal of Political Research», XXII (1992), 1-2, pagg. 3-34; HERBERT KITSCHELT , The Radical
Right in Western Europe. A comparative Analysis, University of Michigan Press, Ann Arbor 1996.
30
Sul termine «nazionalpopulismo», cfr., oltre a PIERRE -A NDRÉ TAGUIEFF, op. cit., PASCAL PERRINEAU, L’électorat du
Front national, Working Papers ICPS n. 120, Barcelona 1996, pag. 6.
31
Un testo leghista ce lo spiega in questi termini: «La nuova Costituzione dovrà avere come essa non la giustizia, ma la
libertà». Cfr. CESÁRIO RODRÍGUEZ A GUILERA DE PRAT , op. cit., pagg. 171-172.
32
Il modello repubblicano francese, allergico al riconoscimento delle identità particolari e costruttore di un’identità
integrale e universalista della nazione, rende molto difficile il riconoscimento delle differenze. Cfr. PASCAL PERRINEAU,
L’exception française, in «Pouvoirs» n. 87, novembre 1998, pag. 41.
33
Gli studi monografici delle organizzazioni qui esaminate constatano lo sviluppo di un nuovo darwinismo sociale. Cfr.
ad esempio PATRICK M OREAU, Le Freiheitliche Partei Österreich, parti national-libéral ou pulsion austro-fasciste?,
cit., pag. 81, o PIERO IGNAZI, L’estrema destra in Europa, cit., pag. 136.
34
Una possibile interpretazione del populismo/neopopulismo è che si tratti di un tipo specifico di risposta di destra alla
crisi dei gruppi sociali di status medio o inferiore.
35
Cfr. CESÁRIO RODRÍGUEZ A GUILERA DE PRAT , El cambio político en Italia y la Liga Norte, Centro de Investigaciones
Sociológicas, Madrid 1999, pag. 166.
36
Cfr. PIERO IGNAZI, L’estrema destra in Europa, cit., pagg. 52-53, nonché HERBERT KITSCHELT , The Radical Right in
Western Europe. A comparative Analysis, cit.
37
Cfr. CESÁRIO RODRÍGUEZ A GUILERA DE PRAT , Valores sociales de mercado en la cultura política de la Liga Norte,
cit., pag. 174: «I cambiamenti degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta si radicano nel fatto ideologico che
l’individuo e il territorio si trasformano negli unici poli di riferimento identitario, sostituendo i partiti di massa
tradizionali un tempo depositari dei vincoli di appartenenza».
38
Per queste ragioni PIERO IGNAZI, L’estrema destra in Europa, cit., pag. 79, definisce le organizzazioni neopopuliste
partiti dell’estrema destra post-industriale.
39
«Berlusconi ha introdotto, fra l’altro, un’innovazione decisiva nella tradizione politica italiana non tenendo
assolutamente conto della distinzione fascismo-antifascismo» (PIERO IGNAZI, La recomposition de l’extrème droite en
Italie, in «Pouvoirs» n. 87, novembre 1998, pag. 89.
40
Cfr. HANSPETER KRIESI , La trasformazione dello spazio politico nazionale in un mondo in via di globalizzazione, in
«Trasgressioni» n. 30, XV, 2, maggio-agosto 2000, pag. 51.
41
M ARCO TARCHI, L’ascesa del neopopulismo in Europa, in «Trasgressioni» n. 29, XV, 1, gennaio-aprile 2000, pag. 4:
«I voti neopopulisti sono il termometro degli attuali conflitti sociali».
42
«La relazione problematica fra il capitalismo e la democrazia – necessaria, però necessariamente modificata – è
strutturale, non congiunturale. Questo tipo di relazione nasce dalle differenze radicali tra un governo che distribuisce
potere e status in forma relativamente equitativa e un’economia che ripartisce la proprietà e l’accesso in forma
relativamente inequitativa» (CLAUS OFFE E PHILIPPE SCHMITTER, Las paradojas y los dilemas de la democracia liberal,
in «Revista Internacional de Filosofia Política» n. 6, dicembre 1995, pag. 16)
43
PASCAL PERRINEAU, Front national: l’écho politique de l’anomie urbaine, in «Esprit» marzo-aprile 1988, è stato il
primo ricercatore che ha stabilito la correlazione fra il voto neopopulista e l’anomia urbana. Cfr. anche PIERO IGNAZI,
L’estrema destra in Europa, cit., pag. 228.
44
Cfr. JEAN-FRANÇOIS SIRINELLI, L’extrême droite vient de loin, in «Pouvoirs» n. 87, novembre 1998, pag. 19. Perciò
le organizzazioni neopopuliste riempiono lo spazio lasciato libero dagli altri partiti organizzando politicamente la
società civile: associazioni di giovani, professionisti di tutti i tipi, ecc.
45
Cfr. CLAUS OFFE E PHILIPPE SCHMITTER, op. cit., pag. 11.
46
Si veda la chiarificatrice opera di CESÁRIO RODRÍGUEZ A GUILERA DE PRAT , El cambio político en Italia y la Liga
Norte, cit.
47
Cfr. STEFAN IMMERFALL, trad. it. Il programma politico neopopulista, in «Trasgressioni» n. 29, XV, 1, gennaio-aprile
2000, pag. 90; HANSPETER KRIESI , op. cit., pag. 48; PASCAL PERRINEAU, L’électorat du Front national, cit., pag. 7.
48
Cfr. PAUL TAGGART , op. cit., pag. 68. Il 28% dei disoccupati hanno votato per Le Pen nelle elezioni presidenziali del
1995 (YVES M ÉNY E YVES SUREL, Pour le peuple, par le peuple, cit., pag. 151). Secondo PASCAL PERRINEAU ,
L’électorat du Front national, cit., pag. 17, le ragioni del voto neopopulista in Francia sono: disoccupazione,
immigrazione, insicurezza-inciviltà.
49
Al riguardo, la classica opera di RONALD INGLEHART , Culture shift in advanced industrial society, Princeton
University Press, Princeton 1990, continua ad essere un riferimento basilare.
50
Che gli aspetti politici svolgano un ruolo più rilevante di quelli economici nell’ascesa dei neopopulismi è una tesi
sostenuta dalle autorevoli opinioni di Ignazi, Eatwell e Canovan.
51
«[…] proletarizzazione del voto populista: il Front National è diventato nelle elezioni parlamentari del 1997 il più
ampio partito della classe operaia francese, la Fpö è attualmente sostenuta da non meno della metà degli elettori di
estrazione operaia e processi simili sono stati constatati rispetto alla Lega Nord e alla destra radicale in Danimarca e in
Norvegia» (YANNIS PAPADOPOULOS, Il nazionalpopulismo nell’Europa occidentale: un fenomeno ambivalente, in
«Trasgressioni» n. 31, XV, 3, settembre-dicembre 2000, pagg. 116-117).
52
Esiste una netta correlazione fra l’aumento della disoccupazione e l’espansione elettorale dei partiti neopopulisti: cfr.
YVES M ÉNY E YVES SUREL, Pour le peuple, par le peuple, cit., pag. 150.
53
A tale proposito, XAVIER CASALS, op. cit., pag. 13, offre un’interpretazione più sfumata: «Questi partiti contano su un
voto di adesione, ma sono anche ricettacolo – cassa di risonanza – di tutte le proteste. Non solo: sebbene l’ultradestra
catturi molti elettori che vedono minacciato il proprio status (o che lo stanno perdendo), essa ottiene ancora più voti da
chi si vede bloccata l’ascesa sociale. Rispetto all’importanza acquisita dal voto operaio di ultradestra, si constata che i
nazionalpopulismi attraggono operai che ne condividono i valori politico-sociali, ma solo una parte molto ridotta dei
quali avrebbe votato partiti di sinistra in elezioni precedenti. Vale a dire: non si sarebbe prodotta una mutazione
dell’elettorato operaio, bensì un aggiustamento fra l’offerta e la domanda che avrebbe portato alle urne un elettorato
operaio che non era votante tradizionale dei partiti di sinistra e che adesso si pronuncia a favore dell’estrema destra».
54
ROGER GRIFFIN, op. cit., pag. 19, sostiene che «il liberalismo etnicista ha sostituito il fascismo come forma di destra
radicale più adatta alle realtà del mondo moderno».
55
Cfr. FERDINAND M ULLER-ROMMEL, The New Challenges: Greens and Right-Wing Populist Parties in Western
Europe, in «European Review», VI (1998), 2.
56
Cfr. JOHN KENNETH GALBRAITH, The Culture of Contentment, Houghton Mifflin Co., Boston 1992.
IL RUOLO DEI MOVIMENTI FASCISTI
NELLA CRISI DELLE DEMOCRAZIE EUROPEE TRA LE DUE GUERRE MONDIALI
Marco Tarchi
Il fascismo ha svolto un ruolo cruciale nella crisi che ha scosso molti regimi
democratici europei negli anni situati fra le due guerre mondiali? Quasi tutti gli storici e gli
scienziati politici si sono trovati a lungo d’accordo nel dare una risposta positiva a questa
domanda. Assieme al comunismo, il fascismo è stato abitualmente considerato una delle
due maggiori sfide che la democrazia ha dovuto affrontare nel corso del XX secolo, in
termini sia ideologici che di prassi. Pochi hanno dubitato della profonda influenza da esso
esercitata sulla società e sulla politica europea dal 1919 al 1939, come conseguenza di
una diffusa reazione culturale a quella filosofia dell’Illuminismo che aveva gettato le basi
delle politiche liberali e soprattutto come diretto prodotto della nuova mentalità nazionalista
e comunitaria che era nata nelle trincee durante la prima guerra mondiale e si era
rapidamente diffusa in ampi settori delle classi medie. Certo, non si era sempre trattato di
un’influenza diretta: nessuno ignorava che, a dispetto del moltiplicarsi dei movimenti
fascisti in tutto il continente e in molti altri paesi del mondo 1 specialmente negli anni
Trenta, soltanto due di essi avevano raggiunto il potere, il Pnf in Italia e la Nsdap in
Germania, ed un terzo, la Falange spagnola, costretta a fondersi nel Movimiento del
generale Franco, era stata formalmente elevata al rango di struttura politica ufficiale di un
regime autoritario. Nondimeno, era diffusa la convinzione che molti altri partiti e movimenti
fascisti, anche se non erano riusciti a passare allo stadio della partecipazione al governo,
avessero svolto un ruolo significativo nella crisi delle istituzioni democratiche nei rispettivi
paesi, e ciò giustificava l’atteggiamento di quegli studiosi che descrivevano quel periodo
storico usando l’espressione “epoca del fascismo” 2. Questa convinzione è verosimilmente
alla base dell’impressionante e costante sforzo compiuto da molti ricercatori nell’arco di
oltre mezzo secolo per determinare la natura essenziale e i caratteri del fascismo 3,
sebbene le sue espressioni genuine siano state relegate ai margini della vita politica
europea dal 1945 in poi.
Oggi, alcuni ulteriori studi tendono a infrangere questo generalizzato consenso. I
loro autori sottolineano che la tradizionale interpretazione del periodo fra le due guerre
mondiali si spinge troppo in là quando si trova di fronte al problema della reale forza del
1
Per un panorama di queste esperienze, ormai oggetto di un’ampia letteratura scientifica, cfr. almeno STEIN UGELVIK
LARSEN, BERNT HAGTVET , JAN PETTER MYKLEBUST (a cura di), Who Were the Fascists, Oslo, Universitetsforlaget
1980, trad. it. I fascisti. Le radici e le cause di un fenomeno europeo, Milano, Ponte alle Grazie 1996, e STEIN UGELVIK
LARSEN (a cura di), Fascism outside Europe, Boulder, Social Science Monographs 1998.
2
Il primo utilizzo di questa espressione è in ERNST NOLTE, Der Faschismus in seiner Epoche, München, Piper 1963,
trad. it. I tre volti del fascismo, Sugar, Milano 1966.
3
Si vedano almeno, a titolo di esempio, i lavori di RENZO DE FELICE , Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza
1969; JUAN J. LINZ , Some Notes Toward a Comparative Study of Fascism in Sociological Historical Perspective, in
W ALTER LAQUEUR (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide, Berkeley, University of California Press 1976, pp. 3-12;
STANLEY G. PAYNE, Fascism. Comparison and Definition, Madison, University of Wisconsin Press 1980; ROGER GRIFFIN ,
The Nature of Fascism, London, Pinter 1991; ROGER EATWELL , Fascism. A History, London, Chatto & Windus 1995;
STANLEY G. PAYNE, A History of Fascism, 1914-1945, Madison, University of Wisconsin Press 1995, trad. it. Il
fascismo. 1914/1945, Newton & Compton, Roma 1999. Per una rassegna critica della discussione in tema, cfr. M ARCO
TARCHI, Il fascismo all’alba del Terzo millennio: fra teorie, interpretazioni e modelli, in “Trasgressioni”, XVI, 2 (33),
pp. 3-44.
fascismo, non prendendo in considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei
movimenti e dei regimi autoritari che operarono contro la democrazia dopo la prima guerra
mondiale non condividevano né le ambizioni totalitarie dei teorici e dei capi politici fascisti
né molte delle specifiche caratteristiche implicite nel riferimento ai loro testi dottrinali 4.
Un’altra critica verte sull’uso fuorviante dei rari casi di successi fascisti “come base per
generalizzazioni sul crollo della democrazia” e ricorda che “l’ascesa del fascismo e la
caduta delle democrazie fra le due guerre mondiali non sono processi equivalenti”5. In otto
dei tredici paesi nei quali le democrazie parlamentari formalmente vigenti nel 1920 erano
state sostituite, nel 1938, da dittature (Bulgaria, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania,
Polonia, Romania, Jugoslavia), i movimenti fascisti non erano infatti inclusi nella coalizione
dominante, e in un altro (Portogallo) essi vennero fin dal primo momento nettamente
subordinati agli alleati/rivali autoritari – i quadri superiori dell’esercito, le classi possidenti e
la burocrazia statale – e in seguito sospinti all’opposizione, per essere alla fine messi al
bando.
Le argomentazioni sostenute da questi critici meritano senz’altro un’attenta
considerazione. Noi cercheremo in questa sede di ponderarle sulla base dei dati empirici
forniti dai diciotto studi di casi nazionali inclusi nel primo volume di una recente ricerca
sulle condizioni di sviluppo della democrazia negli anni Venti e Trenta 6 nonché dalla
letteratura generale su due temi: la crisi dei regimi democratici europei negli anni fra le due
guerre e la diffusione dei movimenti fascisti nell’intero continente durante lo stesso
periodo, sia nell’iniziale fase imitativa degli anni Venti, che seguì l’accesso di Mussolini al
potere, sia nella seconda e più originale fase che si svolse nel decennio successivo e il cui
andamento fu profondamente influenzato – a volte in modo positivo, in altri casi
negativamente – dal successo di Hitler. Agendo in questo modo, ci prefiggiamo un duplice
scopo. Da un lato, accertare se il ruolo svolto dai partiti e movimenti fascisti nel processo
di crisi della democrazia in Europa sia stato centrale o periferico; in altri termini, se la crisi
abbia semplicemente favorito l’ascesa del fascismo oppure se l’azione dei movimenti
fascisti debba essere considerata un fattore autonomo influente sull’intensificazione della
crisi. Dall’altro lato, comprendere quale più specifico ruolo tali movimenti abbiano svolto
nei paesi nei quali non solo presero parte al processo di crisi ma riuscirono anche a
sfruttarlo direttamente, conquistando il potere.
Gli studiosi che invitano a riconsiderare l’impatto del fascismo sulla crisi
democratica del periodo fra le due guerre generalmente sottolineano due dati evidenti: 1.
L’assenza di qualsiasi correlazione tra il potenziale fascista esplicito di un paese (vale a
dire la quota di consenso elettorale ottenuta dai partiti fascisti durante lo svolgimento della
crisi) e il collasso oppure la sopravvivenza delle sue istituzioni parlamentari; 2. Il carattere
non fascista di una larga maggioranza dei regimi autoritari che scalzarono i governi
democratici.
A prima vista, entrambe le argomentazioni appaiono convincenti. È vero infatti che,
con l’eccezione della Germania di Weimar e delle semi-competitive elezioni italiane del
1924, in nessun paese i movimenti fascisti riuscirono a conquistare una maggioranza
4
Cfr. STEN BERGLUND, Historical Cleavages and Sequences, Åbo, Åbo Akademi, Department of Social Sciences 1992,
mimeo.
5
NANCY BERMEO, Getting Mad or Going Mad? Citizens, Scarcity and the Breakdown of Democracy in Interwar Europe,
paper presented at the Center for the Study of Democracy, UC Irvine, March 24, 1997 (mimeo).
6
Ci riferiamo a DIRK BERG-SCHLOSSER E JEREMY MITCHELL (a cura di), Conditions of Democracy in Europe, 1919-39.
Systematic Case-Studies, Houndmills, Macmillan 2000.
perlomeno relativa dei seggi in parlamento, e che alcuni dei paesi dove portarono dalla
loro parte una frazione piuttosto consistente dell’opinione pubblica – il Belgio, dove Rex e i
nazionalisti fiamminghi raccolsero insieme il 18,6% dei voti nel 1936; la Francia, dove il
Parti social français capeggiato dal colonnello de La Rocque ebbe nel momento
culminante del suo successo, alla fine del 1937, un numero di iscritti stimato in sette-
ottocentomila malgrado la concorrenza di altri forti gruppi appartenenti alla stessa famiglia,
come il Parti populaire français di Jacques Doriot; la Finlandia, dove il movimento di Lapua
sfiorò il potere nel 1930-32 e il suo successero Ikl ottenne l’8,3% nel 1936; l’Olanda, dove
la Nsb nazionalsocialista raggiunse il picco del 7,9% del voto popolare nelle elezioni
provinciali del 1935 7 – sormontarono la crisi (si veda la tabella 1 per un profilo generale dei
risultati ottenuti dai partiti fascisti e sull’esito della crisi nei vari paesi europei in quel
periodo).
7
Su questi casi cfr. rispettivamente GISÈLE DE M EUR E DIRK BERG-SCHLOSSER, Belgium: Crisis and Compromise, pp.
59-84; M ICHEL DOBRY, France: An Ambiguous Survival, pp. 157-183; FRANK A AREBROT , Netherlands: Early
Compromise and Democratic Stability, pp. 321-334, in DIRK BERG-SCHLOSSER E JEREMY MITCHELL (a cura di), op. cit.;
ROBERT SOUCY , Fascism in France: the Second Wave, New Haven, Yale University Press 1995; LAURI KARVONEN, From
White to Blue-and-Black. Finnish Fascism in the Inter-War Era, Helsinki, Societas Scientiarum Fennica 1988.
Tabella 1. Risultati elettorali dei partiti fascisti e sorte della democrazia nell’Europa fra le due guerre
Paese Principali partiti fascisti (denominazione e miglior risultato Crollo della democrazia
elettorale a livello nazionale o locale, anno delle elezioni)
Fonti: DIRK BERG-S CHLOSSER E J EREMY MITCHELL (a cura di), Conditions of Democracy in Europe, 1919-39.
Systematic Case-Studies , Houndmills, Macmillan 2000; CLAUDE CANTINI, Les ultras. Extrême droite et droite
extrême en Suisse: les mouvements et la presse de 1921 à 1991, Lausanne, Editions d’en bas 1992; ARMIN
HEINEN, Die Legion “Erzengel Michael” in Rumänien. Soziale Bewegung und politische Organisation, München,
Oldenbourg 1986; DAVID KELLY , The Czech Fascist Movement 1922-1942, Boulder, East European Monographs
1995; PETER H. MERKL, Comparing Fascist Movements, in STEIN U GELVIK LARSEN, BERNT HAGTVET, JAN
PETTER MYKLEBUST, Who Were the Fascists, Oslo, Universitetsforlaget 1980; PETER F. SUGAR, Native
Fascism in the Successor States, 1918-1945, Santa Barbara, Clio Press 1971; RICHARD THURLOW, Fascism in
Britain, Oxford, Basil Blackwell 1987; DIETER W OLF, Die Doriot Bewegung, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt
1967.
Nota: np = non hanno partecipato ad elezioni.
Dobbiamo inoltre tenere a mente che in altri casi – Grecia, Lituania, Polonia – i
regimi liberali si arresero a colpi di stato militari che non necessitarono dell’aperto
sostegno dei piccoli gruppi fascisti locali e neppure lo richiesero, dal momento che il loro
primo proposito era l’immediata depoliticizzazione della società civile.
Questo quadro della situazione, tuttavia, rivela solamente una faccia di una
complessa realtà. Il peso politico dei movimenti fascisti negli anni fra le due guerre non
può infatti essere misurato esclusivamente in termini di voti raccolti alle elezioni e/o sulla
base della loro dimensione formale in termini di iscritti reclutati, per almeno tre ragioni.
Prima di tutto, a causa della loro natura di soggetti giunti in ritardo sulla scena
politica (late-comers) 8, questi gruppi si dovettero costruire ex novo uno spazio di azione e
di conseguenza incontrarono una forte ostilità negli attori preesistenti, che si espresse
ripetutamente in varie forme di ostruzionismo. Ciò avvenne in special modo in quei paesi
nei quali la politica di massa non era pienamente sviluppata e tanto le manipolazioni
elettorali quanto gli abusi burocratici erano una prassi correntemente adottata dalle classi
dirigenti ai danni degli oppositori. Soprattutto l’Europa orientale ha offerto un largo
ventaglio di esempi di comportamenti di questo tipo, che impedirono ai partiti fascisti di
mostrare integralmente l’entità del consenso di cui godevano. In Ungheria, le Croci
frecciate erano nella seconda metà degli anni Trenta un movimento di massa ben
strutturato e i loro candidati, sebbene il partito non fosse riuscito a presentarsi in alcuni
distretti a causa degli ostruzionismi burocratici subìti, raccolsero più del 20% del voto
popolare nel 19399. In Romania, il buon risultato ottenuto dalla Guardia di Ferro con le
liste denominate Totul pentru tzara (Tutto per la patria) nel 1937, nelle ultime elezioni
libere svoltesi prima del colpo di stato del re Carol – il 15,8%, che ne fece il terzo partito in
ordine di grandezza nel paese – fu sicuramente ridotto dagli abituali brogli messi in atto
dai funzionari statali su ordine del governo. In Estonia, il netto predominio dell’Unione degli
ex combattenti (Wabse) in occasione del referendum costituzionale dell’ottobre 1933, il
suo successo nelle elezioni amministrative del gennaio 1934 e la seria minaccia di una
nuova e decisiva vittoria nelle elezioni presidenziali previste di lì a poco (il suo candidato
aveva ottenuto circa il 50% delle firme complessivamente raccolte nel paese per
consentire la presentazione degli aspiranti alla carica) indussero il governo conservatore a
mettere fuorilegge questo movimento fascisteggiante di estrema destra, ad arrestare un
gran numero di suoi membri e a proclamare lo stato di emergenza per vanificare il
sostegno popolare che si era conquistato 10. Più o meno lo stesso accadde in Lettonia due
mesi dopo per impedire il successo del movimento Perkonkrusts (Croce del Tuono), un
potente gruppo nazionalista e antisemita che poteva vantare un nocciolo duro di
quindicimila militanti: il governo guidato dal leader contadino Ulmanis lo mise al bando per
prevenire ogni opposizione al suo colpo di stato, che inaugurò un regime autoritario
spazzato via sei anni più tardi dall’invasione sovietica11. Dal momento che in tre di questi
quattro paesi la democrazia crollò e nel quarto, l’Ungheria, rimase ad uno stadio
incompiuto e precario, è quantomeno riduttivo asserire che in tali contesti non si può
riscontrare alcuna relazione fra la penetrazione fascista nella società civile e il collasso dei
regimi democratici.
In secondo luogo, va tenuto ben presente che i movimenti fascisti di solito non
sceglievano l’arena elettorale, e tantomeno quella parlamentare, come terreno di azione
preferito. Partoriti dalla guerra, imbevuti di spirito combattentistico e abituati a plaudire alla
retorica antidemocratica che contrapponeva la nazione “reale” (il pays réel magnificato da
Charles Maurras) alle istituzioni “legali”, essi sfidarono l’establishment dall’esterno, a livello
sia di élite che di massa. A seconda delle circostanze, la loro azione si concentrò sull’uno
o sull’altro terreno. In Italia, dopo il primo sfortunato tentativo del 1919 di crearsi una base
8
Il concetto è stato coniato da JUAN J. LINZ, Political Space and Fascism as a Late-Comer, in STEIN UGELVIK LARSEN,
BERNT HAGTVET , JAN PETTER M YKLEBUST (a cura di), Who Were the Fascists, cit., pp. 153-189, ed ha avuto un
meritato successo nella letteratura posteriore in argomento.
9
Cfr. STANLEY G. PAYNE, Fascism. Comparison and Definition, cit., pag. 114.
10
Cfr. TOOMAS VARRAK, Estonia: Crisis and “Pre-Emptive” Authoritarianism, in DIRK BERG-SCHLOSSER E JEREMY
M ITCHELL (a cura di), op. cit., pp. 106-128 e A NDRES KASEKAMP , The Radical Right in Interwar Estonia, Houndmills,
Macmillan 2000, pp. 32-63.
11
Cfr. JÜRGEN VON HEHN, Lettland zwischen Demokratie und Diktatur: Zur Geschichte des lettländischen
Staatsstreichs vom 15-5-1934, München, Jahrbücher für Geschichte Osteuropas 1957.
elettorale, Mussolini modificò la propria strategia in modo tale da aprirsi nuove vie verso il
potere. Costruendo una sorta di esercito di partito, le squadre d’azione, e utilizzandolo per
colpire i militanti socialisti in nome del patriottismo, egli contribuì fortemente ad enfatizzare
il problema dell’ordine pubblico, che già era emerso a seguito del timore di una rivoluzione
sul tipo di quella bolscevica in Russia diffusosi nelle classi medie, esercitando in tal modo
una diretta influenza sull’agenda politica. Organizzando un partito di massa che
assicurava il sostegno di alcune componenti della società che non avevano più fiducia
nella classe dirigente liberale – studenti, ex combattenti e ufficiali delle Forze armate,
piccoli proprietari terrieri, impiegati –, egli offrì ai potenziali alleati (perlopiù conservatori)
un’arma da utilizzare contro la sinistra, ma nel contempo li ammonì che, in caso di rifiuto di
quell’offerta, le sue truppe avrebbero potuto essere aizzate contro il loro potere. Questa
minaccia fu sicuramente un fattore importante nella decisione di Giolitti di includere un
certo numero di candidati fascisti nelle liste dei suoi Blocchi nazionali nel 1921. Usando la
violenza delle squadre in camicia nera non solo per colpire e indebolire i nemici – in primo
luogo i socialisti e i sindacati “rossi” – ma anche per prendere il loro posto nel controllo
delle organizzazioni di massa, in particolare nel settore rurale, Mussolini mirava a conferire
al suo movimento l’immagine di una forza sociale ben radicata, in grado di mobilitare un
largo seguito di simpatizzanti così come di garantirsi rappresentanza in parlamento, e
perciò di sottrarsi al rischio di una messa al bando legale. È ovvio che nel contesto di
questa strategia, spalleggiata dai frequenti contatti fra dirigenti del Pnf e membri dell’élite
politica e sociale, le campagne elettorali non svolgessero un ruolo centrale; servivano
solamente allo scopo di assicurare una maggiore visibilità, sia sul territorio che nelle arene
istituzionali.
Visto il successo di Mussolini, molti movimenti nazionalisti radicali, che erano nati in
altri paesi per diretta imitazione del fascismo o che si erano sviluppati in modo
completamente autonomo ma condividevano sostanzialmente con le camicie nere una
visione del mondo, decisero di seguire l’esempio italiano e quindi assegnarono
un’importanza limitata alla via elettorale verso la conquista del potere. Alcuni di essi
preferirono concentrare la propria attività sull’agitazione di piazza e/o sull’organizzazione
di complotti e al massimo conclusero, in specifici casi, accordi a supporto di singoli
candidati, formalmente indipendenti o presentati da partiti nazionalisti conservatori, più
moderati, disposti a ripagare il loro sostegno in diversi modi. Ciò accadde ad esempio in
Francia per un lungo periodo: tutte le più influenti Leghe avevano rapporti privilegiati con i
parlamentari la cui elezione era stata determinata dal voto dei loro simpatizzanti, e persino
il movimento delle Croix-de-feu, che in seguito assunse la denominazione di Parti social
français, malgrado l’impressionante numero di iscritti non scese in campo sotto le proprie
insegne. Ciononostante, all’indomani delle elezioni legislative del 1936 esso disponeva di
55 deputati in parlamento: 47 si iscrissero al gruppo del Psf alla Camera e 8, pur
risultando ufficialmente indipendenti, erano iscritti al partito di La Rocque 12. Altri partiti
fascisti rifiutarono qualsiasi forma di partecipazione elettorale, considerandola un
inaccettabile compromesso con il parlamentarismo. Taluni – fra i quali la British Union of
Fascists di Mosley, i partiti fascisti svizzeri, il Parti populaire français di Doriot, il Partito
nazionalista islandese, la Falange spagnola e, naturalmente, partiti irredentisti locali come
il Partito del popolo slovacco di Hlinka, la Sudetendeutsche Partei di Henlein e gli Ustasha
croati 13 – preferirono mettersi alla prova soltanto in alcune regioni, città o province. Altri
12
Sulle complicate vicende di questo movimento, cfr. in particolare JACQUES NOBÉCOURT , Le colonel de La Rocque
(1885-1946) ou les pièges du nationalisme chrétien, Paris, Fayard 1996.
13
Su questi casi cfr., rispettivamente, RICHARD THURLOW , Fascism in Britain, Oxford, Basil Blackwell 1987; CLAUDE
CANTINI, Les ultras. Extrême droite et droite extrême en Suisse: les mouvements et la presse de 1921 à 1991, Lausanne,
Editions d’en bas 1992; DIETER W OLF, Die Doriot Bewegung, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt 1967; Asgeir
Gudmundsson, Nazism in Iceland, in STEIN UGELVIK LARSEN, BERNT HAGTVET , JAN PETTER M YKLEBUST (a cura di),
Who Were the Fascists, cit., pp. 743-750; STANLEY G. PAYNE , Falange, a History of Spanish Fascism, Stanford, Stanford
ancora non ebbero il tempo sufficiente per poter competere a livello nazionale in elezioni
generali, come accadde in Portogallo prima del colpo di stato del 192614. Inoltre, in paesi
come la Polonia e la Cecoslovacchia, dove le idee fasciste ispirarono una pletora di piccoli
gruppi, alcuni di essi vennero coinvolti in una complicata trama di mutevoli alleanze
elettorali 15.
In terzo luogo, il fascismo esercitò il suo impatto sulla politica europea negli anni
Venti e Trenta attraverso gli effetti imitativi che provocò un po’ in tutto il continente, e
questo aspetto della sua diffusione non ha molto a che vedere con i non impressionanti
risultati ottenuti alla prova delle urne da una moltitudine di piccoli gruppi – erano 71 nella
sola Olanda prima della formazione della Nationaal Socialistische Beweging di Mussert
che ne assorbì una parte16, oltre 100 in Svezia 17, non meno di 45 in Svizzera 18 – che
rivendicavano l’affinità dei propri programmi con i punti di vista di Mussolini o di Hitler. La
presa del potere da parte dei fascisti italiani, in particolare, suscitò un’ondata di reazioni
simpatetiche in quei paesi nei quali la democrazia non era profondamente consolidata ed
ampi settori della pubblica opinione borghese erano stati scioccati dalla rivoluzione russa
e/o dalle sue proiezioni esterne, come le rivoluzioni rapidamente abortite di Bela Kun in
Ungheria e del movimento dei Consigli in Baviera e a Berlino. La paura di una
affermazione socialista in contesti sociali colpiti dagli effetti negativi della guerra, della
smobilitazione e delle difficoltà economiche si espandeva non solo nella vecchia
aristocrazia e fra i capitani di industria, ma anche, e spesso in forme più allarmistiche,
nelle classi medie. La vittoria ottenuta dalle camicie nere mitigò quel timor panico ed offrì
un modello agli attori sociali e politici che non si sentivano protetti dai sistemi liberali, in cui
il suffragio universale e le organizzazioni sindacali rafforzavano a loro parere
l’“aggressività” di operai e contadini. Dopo il 1933, la sensazione che la democrazia non
rappresentasse più la migliore protezione contro la minaccia comunista si diffuse in molte
nazioni, investendo particolarmente i ceti piccolo-borghesi; non fu perciò una sorpresa il
fatto che in Spagna, malgrado la Falange e/o altri gruppi di estrema destra più o meno
affini non fossero riusciti a guadagnarsi una presenza in parlamento, il fascismo fosse
diventato alcuni mesi prima dello scoppio della guerra civile un potente simbolo politico per
vasti settori conservatori dell’opinione pubblica19.
In conseguenza di questa situazione, l’atteggiamento dei partiti e dei gruppi di
interesse conservatori scivolò passo dopo passo sempre più verso posizioni radicali già
negli anni Trenta, e in molti casi a questo spostamento si accompagnò un’aperta
considerazione positiva dei valori e delle politiche associati all’immagine del fascismo.
Anche là dove, come in Gran Bretagna o nei paesi scandinavi, le modalità attivistiche dei
gruppi fascisti locali erano viste come l’espressione di uno stile di azione politica
“straniero” e illegittimo e le loro idee erano scartate perché ritenute un prodotto di frange
University Press 1961; PETER F. SUGAR, Native Fascism in the Successor States, 1918-1945, Santa Barbara, Clio Press
1971.
14
Sull’infausto destino dei fascisti portoghesi, emarginati dal regime autoritario salazarista malgrado i ripetuti tentativi
di condizionarlo, cfr. A NTÓNIO COSTA PINTO, Os Camisas Azuis. Ideologias, Elites e Movimentos Fascistas em Portugal.
1914-1945, Lisboa, Editorial Estampa 1994, trad. it. Fascismo e nazionalsindacalismo in Portogallo: 1914-1945, Roma,
Pellicani 2001.
15
Cfr. DAVID KELLY, The Czech Fascist Movement 1922-1942, cit.
16
Il dato è riportato in FRANK A AREBROT , op. cit., pag. 227.
17
ULF LINDSTRÖM , Sweden: The Durable Compromise, in DIRK BERG-S CHLOSSER E JEREMY M ITCHELL (a cura di), op.
cit., p. 441.
18
CLAUDE CANTINI, op. cit., p. 14.
19
Cfr. JUAN J. LINZ, From Great Hopes to Civil War: The Breakdown of Democracy in Spain, in JUAN J. LINZ E
A LFRED STEPAN (a cura di), The Breakdown of Democratic Regimes: Europe, Baltimore & London, The John Hopkins
University Press 1978, pp. 142-215, trad. it. Dalle grandi speranze alla guerra civile: il crollo della democrazia in
Spagna, in JUAN J. LINZ, PAOLO FARNETI, M. RAINER LEPSIUS, La caduta dei regimi democratici, Bologna, Il Mulino
1981, pp. 321-435.
marginali estranee all’ortodossia accettata 20, gli ambienti conservatori espressero chiari
apprezzamenti per alcuni provvedimenti politici decisi dallo stato fascista italiano e persino
dalla Germania nazionalsocialista e, come Martin Blinkhorn ha notato, “attinsero
selettivamente agli esempi che essi offrivano” 21. Ciò accadde più estesamente nell’Europa
centrale, meridionale e orientale. In taluni casi, il fascismo offrì un’evidente ispirazione a
regimi autoritari di destra nati per porre fine a periodi di intense turbolenze sociali, come la
dittatura di Miguel Primo de Rivera in Spagna, l’Estado Novo di Salazar in Portogallo o il
regime del generale Metaxas in Grecia, sebbene essi non usassero l’etichetta originale
per definirsi e di solito ritenessero anzi conveniente rifiutarla quando veniva loro imposta
dai mezzi di informazione e/o dagli avversari politici. Più in generale, lo stile e le idee che i
movimenti e i partiti fascisti fecero del loro meglio per promuovere a livello di massa
finirono con l’essere accettati anche dai loro concorrenti di destra o quantomeno li
“contaminarono”. Per usare le parole di Stanley Payne, specialmente “a seguito del trionfo
di Hitler […] anche i movimenti e i regimi autoritari di destra cominciarono ad adottare vari
aspetti della “fascistizzazione”, assumendo alcuni aspetti esteriori dello stile e del
cerimoniale fascista per presentare un’immagine più moderna e dinamica, e con la
speranza di raggiungere una più forte capacità di mobilitazione e una più solida
infrastruttura sociale” 22.
Il processo fu più evidente là dove le associazioni conservatrici, monarchiche,
patriottiche o tradizionaliste fecero apertamente proprie parti dei programmi fascisti, come
avvenne nel caso della Heimwehr austriaca a partire dal 1930, ma si manifestò soprattutto
in forme mimetiche. Benché non venisse dichiarata e fosse mescolata ad altre tonalità
ideologiche, l’ispirazione fascista risaltava nell’azione politica di leaders di destra quali lo
spagnolo Calvo Sotelo, l’ungherese Gömbös, l’austriaco Dollfuss. La stessa fonte
influenzò la radicalizzazione di partiti quali la Ceda e la Coalizione tradizionalista carlista in
Spagna, le Ligues francesi, il Partito del popolo slovacco, il Verdinaso belga, il Partito del
popolo romeno e la Lega di difesa nazionale cristiana in Romania, gli Ustasha croati,
nonché di organizzazioni patriottiche quali l’Unione centrale degli ex combattenti estone o
le Guardie civili finlandesi. Le idee fasciste trovarono un terreno ancora più fertile nelle
organizzazioni giovanili di molti partiti di destra, dal Portogallo alla Finlandia, includendo
alcuni paesi allergici al fascismo come la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Danimarca, la
Norvegia e la Svezia; altamente rappresentativa di questa tendenza è la provenienza dalla
gioventù dell’Azione cattolica belga di Léon Degrelle e di molti attivisti di Rex. In qualche
occasione la prossimità ideologica di fascisti e conservatori rese possibili formali alleanze:
ciò accadde ad esempio in Finlandia nel 1933, quando la Ikl si presentò alle elezioni in
coalizione con il Kansallinen Kokoomus, che era uno dei partiti istituzionali finlandesi23.
Se prendiamo in considerazione tutti questi elementi, possiamo dare per certo un
primo assunto. Anche se i partiti fascisti non riuscirono a mobilitare ampi settori della
cittadinanza a proprio sostegno nelle occasioni elettorali in una maggior parte dei paesi nei
quali le democrazie parlamentari crollarono fra il 1919 e il 1939, la loro influenza sul
processo che condusse alla fondazione di regimi non democratici non può essere negata
né sottovalutata.
29
Il rapporto fra l’esistenza dei cleavages e la nascita delle famiglie di partito europeo è stato affrontato da Stein
Rokkan in numerosi scritti. La raccolta più utile di tali studi è STEIN ROKKAN , Citizens, Elections, Parties: Approaches to
the Comparative Study of the Processes of Development, Oslo, Universitetsforlaget 1970, trad. it. Cittadini elezioni partiti,
Bologna, Il Mulino 1982.
dove i partiti fascisti ed affini oltrepassavano la soglia del 15% – in Belgio, Cecoslovacchia
(grazie ai voti degli slovacchi e dei tedeschi dei Sudeti), Estonia, Ungheria, Germania,
Romania – ma anche nei paesi in cui i partiti conservatori autoritari usavano la minaccia
dell’ascesa fascista o nazionalsocialista, con i suoi prevedibili strascichi di violenza e lotte
intestine, come uno spauracchio, per ottenere un massiccio sostegno nell’elettorato
anticomunista (l’Austria e la Grecia ci offrono due esempi significativi di questa tendenza).
30
Questa è ad esempio la lettura di ERNST NOLTE, Die Krise des liberalen Systems und die faschistischen Bewegungen,
München, Piper 1968, trad. it. La crisi dei regimi liberali e i movimenti fascisti, Bologna, Il Mulino 1970 e di NANCY
BERMEO , op. cit.
la mobilitazione delle classi subalterne, la crescita dei movimenti fascisti è collegata anche
alla frammentazione e alla frazionalizzazione di molti sistemi di partito europei nel periodo
qui in esame. Nei paesi in cui i partiti socialisti adottavano ideologie e strategie
massimaliste e conseguentemente il timore di una rivoluzione sociale era largamente
diffuso, una significativa porzione dell’elettorato borghese era attratta dall’intenso
anticomunismo e nazionalismo dei movimenti fascisti e simpatizzava per loro. L’evidenza
di questo fenomeno è particolarmente pronunciata in Italia fra il 1920 e il 1922 e in
Germania a partire dalle elezioni legislative del 1930, dato che in entrambi i paesi
l’improvvisa ascesa del Pnf e della Nsdap provocò divisioni interne negli ambienti moderati
e conservatori e un generale riallineamento dei gruppi sociali e delle associazioni di
interesse. In Italia questo processo toccò soprattutto i partiti liberali, debolmente strutturati,
nei quali la divisione in un’ala filofascista e una antifascista acuì una già sviluppata
tendenza centrifuga, ma vi restò coinvolto anche il Ppi. In Germania lo stesso accadde a
Dnvp, Dvp e Ddp/Dsp, con la conseguenza di un progressivo svuotamento del centro. Da
questo punto di vista gli interessi organizzati svolsero un ruolo decisivo, non solo perché
ridussero o addirittura interruppero il sostegno che avevano sempre concesso ai partiti
conservatori democratici, ma soprattutto perché fornirono ai partiti antisistema di destra le
risorse economiche ed elettorali delle quali avevano bisogno. Ciò si verificò, ad esempio,
con le influenti associazioni dei proprietari terrieri italiani, così come con il sindacato
tedesco della vecchia classe media Dhv. Anche in quei casi in cui il peso ridotto non rese
possibile ai movimenti fascisti guadagnarsi i favori di partners sociali importanti, essi in
genere crearono serie difficoltà ai rivali conservatori, sottraendo loro elettori, quadri
intermedi, attivisti, mezzi, dirigenti. Mosley, Degrelle, Quisling, José Antonio Primo de
Rivera, Mussert e molte altre figure di spicco dei partiti fascisti minori avevano precedenti
esperienze politiche in campo conservatore o tradizionalista; il capo dei Lupi d’acciaio
lituani Voldemaras era stato nominato primo ministro dal regime autoritario instaurato nel
1926, che cercò di rovesciare otto anni dopo. I passaggi da un’associazione “patriottica”
all’altra erano frequenti e spesso condussero a scissioni e alla nascita di nuovi partiti.
Malgrado l’asserita volontà di assemblare sotto la bandiera della nazione tutte le “forze
sane”, di fatto assai spesso l’irrequieto attivismo dei gruppi fascisti contribuì a disperderle
in una moltitudine di bande rissose.
d. Crescita della partecipazione. Nel nuovo clima psicologico fomentato dalla guerra
e in conseguenza dei crescenti riconoscimenti riscossi a livello internazionale dal regime di
Mussolini negli anni Venti, il fascismo attrasse in tutti i paesi europei una eterogenea
coorte di seguaci, i cui livelli educativi, le origini di classe e le precedenti esperienze
politiche, come emerge chiaramente da tutte le ricerche intese a discernere le radici sociali
dei movimenti fascisti 31, differivano non soltanto a livello nazionale ma anche da un gruppo
all’altro nello stesso paese (si veda a titolo d’esempio, nel caso francese, la composizione
sociale degli iscritti al Ppf comparata con quella del Faisceau32) o a seconda della
collocazione regionale di ciascuna unità organizzativa locale. Fra di loro vi erano un certo
numero di militanti esperti delusi dalle precedenti affiliazioni politiche, che coprivano un
arco esteso dall’anarcosindacalismo all’imperialismo reazionario, ma la maggioranza era
formata da persone che avevano preferito fino a quel momento rimanere fuori da ogni tipo
di partito, gruppo di interesse o movimento sociale.
La propaganda fascista suonava particolarmente attraente alle orecchie di questi
elementi. Ponendo una particolare enfasi su temi quali il lascito morale della guerra, il pan-
31
Su questo aspetto cfr., oltre al già più volte citato Who Were the Fascists, DIETER M ÜHLBERGER (a cura di), The Social
Basis of European Fascist Movements, London/New York/Sydney, Croom Helm 1987.
32
Cfr. ZEEV STERNHELL, Strands of French Fascism, in STEIN UGELVIK LARSEN, BERNT HAGTVET , JAN PETTER
M YKLEBUST (a cura di), Who Were the Fascists, cit., pp. 488 e 493.
nazionalismo, i diritti che la generazione che aveva combattuto in guerra si era
guadagnata attraverso i sacrifici compiuti, la prevalenza dell’interesse nazionale sulle
aspettative egoistiche dei singoli gruppi sociali, i movimenti fascusti facevano appello alla
massa degli individui sino ad allora apatici e cercavano di mobilitarli contro la vecchia
classe dirigente liberale, cui accollavano la responsabilità della decadenza della politica,
della società e dell’etica pubblica. Al di là del fascino di una simile retorica, una serie di
circostanze concrete spingeva taluni settori della popolazione ad avvicinarsi al campo
antidemocratico: essi vedevano i loro interessi e valori minacciati dal disordine sociale,
dalla crisi economica e da inattesi cambiamenti culturali. Ai loro occhi, il fascismo appariva
lo strumento più adeguato a porre fine contemporaneamente alle due principali fonti delle
divisioni di cui la comunità nazionale soffriva: la lotta di classe e lo spirito partigiano.
L’impatto dell’azione fascista, che accelerò nell’Europa meridionale e orientale la
diffusione della politica di massa, viene spesso circoscritto dagli studiosi alle classi medie.
Alcuni di essi lo descrivono come la lotta della piccola borghesia intellettuale 33 e/o del
settore emergente del ceto medio, composto in prevalenza da tecnici e impiegati 34, contro
le richieste delle classi proletarie e l’arroganza dei capitalisti o addirittura lo interpretano
nei termini di una “dittatura della generazione piccolo-borghese emergente in nome
dell’omogeneità nazionale” 35. A volte, tuttavia, i movimenti fascisti si conquistarono i
consensi di altri soggetti sociali: contadini, operai, disoccupati. Queste differenze sono da
imputare principalmente al livello di sviluppo socioeconomico di ciascun paese. Nelle
società oligarchiche tradizionali basate sull’agricoltura, dove l’industrializzazione era
ancora agli albori, la predicazione fascista, fondata sull’anticapitalismo, sulla xenofobia,
sull’antisemitismo e su un culto mistico del suolo, riuscì a mobilitare alcune componenti
della comunità rurale contro la borghesia industriale urbana. Le processioni della Guardia
di Ferro romena, aperte da sacerdoti ortodossi che ostentavano icone sacre,
raccoglievano – come testimoniano le fotografie dell’epoca – folle di contadini con indosso
i costumi nazionali; uno dei tre capi della Falange, Onésimo Redondo, era
soprannominato dai sostenitori sparsi nelle campagne “el caudillo de Castilla”; uno stile
simile fu adottato dai movimenti fascisti locali in Portogallo, in Polonia e negli altri paesi
balcanici. Nelle società “dualistiche”, dove lo sviluppo industriale veniva a trovarsi alle
prese con una crescente organizzazione della classe operaia e nel contempo con il
conflitto urbano/rurale, i fascisti cercarono di “nazionalizzare” il processo di integrazione
delle masse nel nuovo contesto sociale, prima di tutto facendo appello ai settori del ceto
medio, sia industriale che agrario, scontenti dell’inefficacia delle strutture politiche
democratiche. Questa fu, tipicamente, la strada intrapresa dal fascismo italiano. Nei paesi
nei quali l’industrializzazione era all’apice, come la Gran Bretagna, la Germania e la
Francia, i movimenti fascisti enfatizzarono invece un’ideologia che auspicava una
produttività massiccia, il pieno impiego e un’assistenza sociale garantita dallo stato,
sottolineando il proprio carattere anticlassista e il desiderio di costruire una società
nazionale onnicomprensiva. In questi contesti (e prima di tutto in Germania) la tentazione
fascista, meno efficace in quei paesi in cui la politica di massa godeva già di una
tradizione consolidata, trovò un terreno di penetrazione più fertile durante la Grande
Depressione. Le dimensioni dello spazio politico ancora non occupato dai partiti
tradizionali determinarono il grado altamente variabile di successo di ciascun movimento;
33
Cfr. LUIGI SALVATORELLI , Nazionalfascismo, Torino, Einaudi 1925; M ABEL BEREZIN, Created Constituencies: The
Italian Middle Classes and Fascism, in RUDY KOSHAR (a cura di), Splintered Classes: Politics and the Lower Middle
Classes in Interwar Europe, New York/London, Holmes & Meier 1990, pp. 142-163; IRINA LIVIZEANU, Between State
and Nation: Romanian Lower-Middle-Class Intellectuals in the Interwar Period, ibidem, pp. 163-182.
34
Cfr. RENZO DE FELICE , Intervista sul fascismo, Bari, Laterza 1975, pp. 30-34; IDEM, Italian Fascism and the Middle
Classes in STEIN UGELVIK LARSEN, BERNT HAGTVET , JAN PETTER M YKLEBUST (a cura di), Who Were the Fascists, cit.,
pp. 312-317.
35
LUDOVICO INCISA DI CAMERANA, Fascismo, populismo, modernizzazione, Roma, Pellicani 2000, p. 255.
ma in tutti i casi il coinvolgimento fascista nell’arena politica, accrescendo il livello di
intensità del conflitto, contribuì alla mobilitazione di nuovi attori contro i regimi democratici.
I due processi che sostanziano la seconda e decisiva fase della crisi dei regimi
democratici sono un forte e rapido aumento della violenza politica e il coinvolgimento nella
lotta politica dei cosiddetti “poteri neutrali”: l’esercito, la polizia, il potere giudiziario, il capo
dello stato – monarca o presidente –, gli alti funzionari statali.
f. Aumento della violenza. La violenza generalmente era già in fase di crescita
quando la crisi di molte democrazie europee nel periodo fra le due guerre mondiali stava
attraversando la prima fase, e spesso contribuì profondamente all’intensificazione delle
tensioni sociali e politiche; ma la sua importanza crebbe considerevolmente via via che i
governi si rivelarono incapaci di riprendere il controllo della situazione. Dopo che tutte le
modalità d’azione pacifiche ordinarie erano state provate senza successo, alcuni degli
attori politici che volevano imporre ai conflitti la soluzione che a loro più conveniva videro
nel ricorso alla forza la mossa decisiva per uscire dallo stallo e, a seconda degli obiettivi
che si prefiggevano, restituire al sistema l’equilibrio perduto oppure causarne il crollo. Il
terreno fertile per l’uso della violenza era ampio in quasi tutti i paesi europei: la
disoccupazione, l’esclusione, la povertà alimentavano le frustrazioni e l’aggressività nelle
fasce marginali della società, mentre l’esperienza del fronte aveva abituato milioni di
persone a combattere e a maneggiare quotidianamente le armi per anni. Gli ex
combattenti, che spesso dopo la smobilitazione si erano ritrovati disoccupati, erano pronti
a svolgere la funzione di ausiliari delle forze di polizia, ad entrare a far parte delle milizie
paramilitari, ad offrirsi volontari per missioni patriottiche, a spezzare i picchetti degli
scioperanti con la forza. Partiti e governi potevano usarli, a seconda delle opportunità e
delle circostanze, per restaurare l’ordine oppure per sollevare una rivolta, per pacificare i
conflitti oppure per acuirli. Talvolta le loro azioni violente furono utilizzate per provocare, a
titolo di reazione, il coinvolgimento nello scontro di altri settori della popolazione, riducendo
ulteriormente il livello di legalità e di legittimità di cui il regime godeva.
La familiarità dei fascisti con la violenza è ben nota. Payne ha tuttavia pienamente
ragione quando osserva che “l’idea che il Pnf abbia in un certo senso inventato la violenza
politica è deplorevolmente superficiale […] Ciò che i fascisti fecero fu imitare un comune
stile rivoluzionario, includendovi alcuni aspetti del comportamento e delle tattiche dei
bolscevichi”36, così come è nel giusto quando asserisce che “la marcia verso il potere di un
movimento fascista minacciava di introdurre nel contesto civico nel quale si svolgeva una
situazione di guerra politica assolutamente diversa dalla normale politica parlamentare”37.
Ovviamente, i partiti e movimenti fascisti non furono i primi, nella storia politica europea, a
reclutare bande paramilitari o ad indossare uniformi, ma la loro strategia combinò in modo
piuttosto originale l’azione violenta e il rispetto di alcune delle regole del gioco liberali, in
un tentativo di impadronirsi del potere attraverso quella che Carl Schmitt definì, facendo
riferimento al caso tedesco, una “rivoluzione legale”. La violenza costituiva del resto una
parte significativa del loro codice genetico: la propensione per uno stile politico
militarizzato derivava direttamente dalla mentalità dei loro capi e dei loro seguaci, nella
maggior parte ex combattenti o giovani studenti usi a considerare la prima guerra
mondiale come l’anticamera di una necessaria rivoluzione nazionale. Trasferendo la lotta
politica nelle strade e facendo uso della forza contro quelli che additavano come i “nemici
della nazione” – scioperanti, socialisti, comunisti, militanti sindacali, membri dei gruppi
etnici “stranieri”, ecc. –, essi lanciarono una sfida diretta alle istituzioni liberali e
sottolinearono il fatto che i governanti democratici non erano in grado di garantire l’ordine
pubblico, sapendo bene che l’opposizione al disordine crescente era l’argomento migliore
di cui disponevano per trovare alleati nel campo conservatore.
L’uso della violenza era implicito nella natura dei movimenti fascisti per un altro
motivo. I capi fascisti, come tutti i loro discorsi, scritti e memoriali testimoniano, si
sentivano investiti della urgente missione di salvare la comunità nazionale dall’incombente
pericolo di disgregazione o di decadenza, e perciò vivevano ed agivano in una
permanente condizione psicologica di emergenza. Ai loro occhi, la situazione di crisi non
36
STANLEY G. PAYNE, Fascism. Comparison and Definition, cit., p. 47.
37
Ibidem, p. 206.
poteva durare a lungo, e d’altronde spesso i movimenti che guidavano scarseggiavano
delle risorse necessarie a sostenere per anni una competizione con i partiti
istituzionalizzati: una organizzazione territoriale, dirigenti esperti, il sostegno dichiarato di
gruppi di interesse importanti, buone relazioni con la stampa, contributi finanziari regolari.
La violenza era un potenziale acceleratore della crisi: precipitando le cose, poteva
consentire ai “ritardatari” di recuperare in pochi anni il terreno perduto. In numerosi casi, i
fascisti cercarono perciò di attizzare una situazione di guerra civile strisciante, certi che i
sistemi democratici non avrebbero potuto sopportarla a lungo. Inoltre, là dove assunse le
dimensioni di un movimento di massa, spesso il fascismo spinse gli avversari conservatori
o – più frequentemente – socialisti ad imitare taluni aspetti del suo stile di azione, a creare
le proprie organizzazioni paramilitari o a moltiplicare i comizi e le sfilate. L’esistenza di
gruppi strutturati su una base paramilitare e che si ripromettevano di usare la forza a fini
politici, anche se si identificavano nel regime democratico e dichiaravano di voler
combattere i nemici del sistema, era in sé un incentivo alla radicalizzazione della lotta
politica, e la spinse all’apice quando le forze di polizia e l’esercito non riuscirono più ad
avere il completo controllo della forza legittima. La politica fascista del “tanto peggio, tanto
meglio” non giovò, nel complesso, a chi la proponeva, ma i suoi costi furono molto elevati
per la democrazia, specialmente nei paesi in cui gli attori di élite si convinsero che per
respingere la sfida fascista occorreva instaurare un regime autoritario.
g. Politicizzazione dei poteri neutrali. Il ruolo della violenza come fattore di crisi è
evidente anche se consideriamo il coinvolgimento dei poteri neutrali nell’inasprimento del
conflitto politico, che portò alcuni regimi democratici a sfiorare il collasso. L’azione delle
milizie di partito costituiva una sfida diretta al monopolio militare della forza coercitiva. Le
forze armate, la cui subordinazione all’autorità politica era uno dei pilastri della legalità
democratica, reagirono a questa minaccia in modi differenti. In molti casi, gran parte dei
capi delle squadre fasciste erano ufficiali dell’esercito in pensione o in congedo, che
godevano ancora di eccellenti rapporti con i precedenti compagni d’arme. Questa
circostanza favorì la complicità, o quantomeno la tolleranza, nei confronti delle attività
delle milizie, specialmente quando erano dirette ad affermare valori patriottici. Ciò
accadeva d’abitudine in Finlandia, in Germania, in Austria, in Estonia, in Lituania e in
Lettonia, vale a dire in quei paesi nei quali le bande irregolari di guardie civili, che
all’immediato indomani della prima guerra mondiale avevano difeso i confini nazionali e
represso ogni tentativo rivoluzionario ispirato all’esempio russo, fornivano ai gruppi fascisti
o similari il nucleo essenziale delle loro truppe, ma anche in Italia, dove gli alti gradi
dell’esercito vedevano di buon occhio il coinvolgimento fascista in complotti nazionalisti sul
genere dell’occupazione di Fiume realizzata da Gabriele D’Annunzio. Più in generale, i
militari di professione assai spesso simpatizzarono con le azioni violente fasciste, per
ragioni culturali e ideologiche, tutte le volte che queste erano dirette contro i comunisti e i
socialisti, mentre si dimostrarono sospettosi, e talvolta apertamente ostili, quando partiti o
governi di sinistra fondarono milizie paramilitari per reagire agli attacchi fascisti, come
accadde in Germania con il Reichsbanner, in Italia con gli “arditi del popolo” e in Spagna con
le milizie popolari. Solamente in quei paesi nei quali non esistevano credibili minacce
rivoluzionarie provenienti da sinistra, le forze armate aiutarono i governi legittimi a
reprimere le attività sovversive fasciste, e a volte questo coinvolgimento nella lotta politica
rappresentò il primo passo di un intervento diretto volto a sostituire la “conflittuale”
democrazia con un “pacificante” regime autoritario posto sotto sorveglianza militare.
Quello militare non fu peraltro l’unico potere neutrale coinvolto nella lotta tra i
governi democratici e le forze antidemocratiche nel periodo che stiamo considerando. Là
dove il processo di crisi sfiorò il crollo, sia gli attori prosistema sia quelli antisistema
cercarono di trovare alleati al di fuori dell’arena politica. Attraverso la politicizzazione delle
istituzioni-chiave del regime – il capo dello stato, la magistratura, l’amministrazione statale
– i campi in conflitto potevano impossessarsi di risorse cruciali, e soprattutto garantire
oppure impedire la messa in opera delle decisioni assunte. I movimenti fascisti, facendo
sfoggio del carattere patriottico delle loro rivendicazioni, dipingendo i nemici come “l’anti-
stato” e accusando i governi liberali di partigianeria, fecero ogni sforzo per spingere i
funzionari statali a rinunciare alla tradizionale lealtà nei confronti delle istituzioni
democratiche. Quando riuscirono a raggiungere in qualche misura tale obiettivo, come
accadde in Italia nel 1921-22, in Germania nel 1930-33 e in Spagna nel 1936, questo
risultato spianò loro la strada verso la conquista del potere e gettò le prime fondamenta
dell’instaurazione dello stato autoritario o totalitario.
Naturalmente, anche in questo ambito le affinità ideologiche e psicologiche
giocarono un ruolo importante. L’azione fascista ebbe maggiore successo là dove il
retroterra culturale dei leaders politici democratici differiva sensibilmente da quello dei
ranghi più elevati della burocrazia; ottenne viceversa peggiori esiti nei contesti nei quali i
membri della classe dirigente e gli alti funzionari condividevano gli stessi valori. Riscontri
empirici della collusione fra poteri neutrali e fascisti si possono trovare in molti casi: in
Italia, anche se il prestigio della monarchia favoriva una sorta di “doppia lealtà” (sia al re
che ai valori del nazionalismo estremo) in seno alla burocrazia; nella Germania di Weimar;
nella seconda repubblica spagnola, dove l’infiltrazione di idee fasciste e autoritarie nella
pubblica amministrazione diventò evidente dopo il pronunciamiento militare e il conflitto
scoppiato tra le istituzioni repubblicane e nazionaliste; in Romania, dove i giudici che nel
1924 mandarono assolto Codreanu sebbene avesse confessato di aver ucciso un prefetto
di polizia non trovarono nulla da ridire sul fatto che tutti i giurati popolari indossassero al
momento della sentenza un nastro su cui era riprodotto il simbolo di una Lega
antisemita 38. La simpatia per le idee antidemocratiche di una larga parte dell’élite
amministrativa, più che il prodotto del proselitismo fascista, era piuttosto una conseguenza
dell’infatuazione autoritaria, corporativa e nazionalista che si era propagata già prima del
1914 in molti paesi d’Europa per il tramite di una pletora di associazioni sociali e culturali,
e spesso si accompagnò al consenso per organizzazioni della “nuova destra” non fascista:
le leghe pangermaniche, l’Action Française, l’Associazione nazionalista italiana, il carlismo
tradizionalista spagnolo, il partito socialcristiano austriaco. I suoi effetti, tuttavia, agirono
come un fattore di crisi soltanto quando, nel nuovo clima creato dagli imitatori e sostenitori
esteri di Mussolini, l’autoritarismo cessò di esercitare una suggestione puramente
intellettuale e si trasformò in un modello per movimenti e partiti che operavano ai margini
della destra collocata nell’establishment o al di fuori di essa.
38
Cfr. CORNELIU ZELEA CODREANU , Guardia di Ferro (Per i Legionari), Roma-Torino, Casa Editrice Nazionale 1938,
p. 187.
39
Per una recente riflessione su questo tema, che include anche aggiornati riferimenti bibliografici, cfr. LEONARDO
M ORLINO, Democracy Between Consolidation and Crisis, Oxford, Oxford University Press 1998, pp. 12-18.
Per quanto concerne l’efficacia e l’effettività, questa influenza corrosiva era
semplicemente la conseguenza della natura antisistemica dei movimenti fascisti, e più
specificamente del carattere di late-comers che li costringeva ad enfatizzare l’ostilità verso
tutte le maggiori correnti politiche esistenti: il liberalismo, il socialismo, il comunismo, il
conservatorismo, il cattolicesimo sociale. Per conquistarsi un proprio spazio politico, essi
facevano di gran lunga più ricorso alle negazioni che ai programmi affermativi: il primo
obiettivo cui miravano era essere riconosciuti e apprezzati come anti-movimenti,
contrapposti alla “vecchia politica” e al “vecchio mondo” nel suo insieme. Non potevano
pertanto concedere nessuna tregua ai nemici.
La propaganda fascista si concentrava soprattutto sull’inefficacia dei regimi
democratici, cioè sul fatto che essi non erano in grado, per ragioni strutturali, di trovare le
soluzioni appropriate ai problemi basilari, e faceva del suo meglio per impedire che i
cittadini si sentissero soddisfatti dall’azione dei governi. Ogniqualvolta le circostanze
offrirono loro un’opportunità di sottolineare l’impotenza dei governi eletti di fronte alla
tensione sociale crescente, i fascisti tentarono di organizzare azioni spettacolari di
“disobbedienza civile” per dimostrare di essere capaci di surrogare le autorità legali in casi
di emergenza. Durante gli scioperi, in Italia, i militanti fascisti cooperarono più volte ad
assicurare il funzionamento dei servizi di pubblica utilità, guidando treni, autobus e tram,
spazzando le strade o proteggendo i negozianti che non aderivano agli scioperi dalle
reazioni dei manifestanti. In Germania, al culmine della Grande Depressione, le SA e le
SS costruirono mense e ostelli gratuiti per disoccupati privi di alloggio. Lo stesso si verificò
su scala più ristretta in Francia e in molti altri paesi, sempre con lo scopo di diffondere fra
la gente un messaggio di forte attrattiva: i fascisti erano pronti a prendere possesso dello
stato ed erano in grado di far marciare la macchina della pubblica amministrazione. In altre
parole l’agitazione fascista, sul piano sia legale che violento, era mirata innanzitutto a
sottolineare l’evidente deficit di efficacia ed effettività dei regimi democratici e a far
lievitare, di conseguenza, l’insoddisfazione popolare. Le carenze del processo decisionale
e della messa in atto delle politiche ad esso correlate veniva imputata non solo ai politici
ma anche alle regole e allo stile di azione che caratterizzano la democrazia: la strutturale
debolezza dei governi che agivano sotto il ricatto dei partiti, sostenevano, non consentiva
loro di portare a compimento i programmi che avevano adottato e tantomeno di difendere
l’interesse pubblico.
Ancor più negativo fu l’impatto dell’azione fascista sulla legittimità dei regimi
democratici degli anni Venti e Trenta. Come Linz ricorda, “al fondo la legittimità
democratica si basa sul convincimento che per quel dato paese in quella data situazione
storica nessun altro tipo di regime potrebbe assicurare con maggiore successo il
perseguimento delle finalità collettive” 40. Ed è proprio questa convinzione ciò che i
movimenti fascisti intendevano negare con ogni mezzo. Facendo uso della violenza per
motivi pretesamente patriottici, essi sfidarono apertamente le regole del gioco democratico
e contrapposero il “superiore” interesse della patria al rispetto della legge. L’insistenza
della loro propaganda sul carattere “antinazionale” dei governi eletti suggeriva che altre
istituzioni avrebbero potuto fare meglio di quelle esistenti, biasimate per le tergiversazioni
e i fallimenti, e metteva in discussione il diritto delle autorità istituzionali di emanare ordini
in contrasto con la “volontà della nazione (o del popolo)”. Assumere una simile posizione
equivaleva ad istigare i poteri neutrali a rifiutarsi di obbedire quando non condividevano i
contenuti di una decisione che erano chiamati a mettere in atto.
Un’altra minaccia alla legittimità democratica risiedeva nello stile politico dei
movimenti e partiti fascisti. La loro azione, basata non soltanto sull’uso di milizie armate
contro gli oppositori ma anche su una struttura simbolica fatta di comizi, marce e
cerimonie, che puntava a creare effetti emotivi e a diffondere fra i seguaci la sensazione di
40
JUAN J. LINZ, Il crollo dei regimi democratici: un modello teorico, cit., p. 40.
appartenere ad una sorta di comunità mistica, estranea alle regole e alla mentalità della
democrazia, provocò un profondo distacco della loro opposizione dallo spirito della politica
parlamentare 41 anche in quei paesi in cui rappresentanti fascisti sedevano nelle camere
legislative. Inoltre il fascismo fornì alimento a due tendenze politiche la cui diffusione
danneggiò gravemente la legittimità percepita dei regimi pluralistici: il culto della leadership
carismatica personale e il crescente spostamento della competizione politica dall’arena
parlamentare a quella extraparlamentare.
La fiducia assoluta nel capo fu forse la caratteristica più specifica dei movimenti
fascisti e si contrappose direttamente alla mentalità democratica. Niente era più lontano
del Führerprinzip dalle teorie liberali sulla rappresentanza elettorale, sulla responsabilità
politica e sulle decisioni collettive, e nel mentre magnificavano le eccezionali qualità dei
propri capi, i fascisti rimproveravano alle democrazie l’inefficienza dei loro processi
decisionali, condizionati da un gran numero di poteri di veto e costretti ad estenuanti
mediazioni. Quanto invece allo scivolamento della competizione politica verso l’arena
extraparlamentare, esso aveva ampiamente preceduto la nascita dei movimenti fascisti e
coesisteva in tutti i paesi europei con le democrazie parlamentari sin da quando queste si
erano instaurate, come conseguenza dei conflitti scatenati dalle fratture socioculturali più
rilevanti. Consapevoli di questo dato di fatto, dopo la prima guerra mondiale i regimi
democratici pensarono di poter piegare la mobilitazione di massa ai propri fini, e in molti
paesi – primi fra tutti quelli appartenenti al campo dei vincitori: Francia, Gran Bretagna,
Italia ecc. – i rituali patriottici che raccoglievano folle moltitudinarie nelle commemorazioni
degli eventi bellici divennero strumenti ordinari di integrazione democratica delle masse.
Ciononostante, l’azione fascista (e comunista) rafforzò questa tendenza per tutt’altri scopi,
puntando all’uso dell’agitazione di piazza non solo per esercitare una pressione
dall’esterno su parlamenti e governi ma anche e principalmente per far penetrare nella
mente della popolazione l’idea che gli interessi dell’uomo della strada non avevano niente
a che vedere con le discussioni dei politicanti e potevano essere promossi solo al di fuori
del parlamento (definito da Mussolini in un celebre discorso “aula sorda e grigia”) e contro
di esso.
Solamente in due dei tredici paesi nei quali le democrazie parlamentari nel 1938
erano già state sostituite da dittature i partiti fascisti presero il potere in modo diretto e
raggiunsero una posizione egemonica all’interno della coalizione dominante dei regimi
costruiti sulle rovine della poliarchia. È pertanto utile estrapolare l’Italia e la Germania dalla
serie dei casi che stiamo esaminando in prospettiva comparata ed osservare più da vicino
quale ruolo i movimenti fascisti svolsero nel processo di crisi della democrazia in questi
due paesi. Tenendo conto dei propositi generali che la presente analisi si prefigge, non
discuteremo qui le specifiche condizioni strutturali e congiunturali che resero possibile il
successo fascista, ma ci concentreremo sugli effetti delle mosse che i partiti di Mussolini e
di Hitler compirono con l’intenzione di volgere il corso della crisi a proprio vantaggio.
42
Alcuni dati significativi di questa tendenza sono riportati in M ARCO TARCHI , La “rivoluzione legale”. Identità
collettive e crollo della democrazia in Italia e Germania, Bologna, Il Mulino 1993, p. 229.
43
Le cifre sono fornite, sulla base di documenti di archivio, da RENZO DE FELICE , Mussolini il fascista. I. La conquista
del potere, Torino, Einaudi 1966, pp. 8-11.
44
Le positive conseguenze elettorali per la Nsdap della campagna contro il piano Young sono efficacemente illustrate
da RICHARD F. HAMILTON, Who voted for Hitler?, Princeton, Princeton University Press 1982, p. 237, tab. 1-10.
proprio atteggiamento nei confronti dei fascisti a seconda delle convenienze,
subordinando la difesa delle istituzioni agli interessi contingenti.
45
Sui caratteri e il grado di diffusione di questa cultura in Germania prima del 1933 cfr. GEORGE L. M OSSE, The Crisis
of German Ideology, New York, Grosset & Dunlap 1964, trad. it. Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore
1968, e JOST HERMAND, Old Dreams of a New Reich: Volkish Utopias and National Socialism, Bloomington &
Indianapolis, Indiana University Press 1992.
46
JUAN J. LINZ, Some Notes Toward a Comparative Study of Fascism in Sociological Historical Perspective, cit., pp. 13-14.
coscienza sociale era ancora limitata sia di altri più consolidati, colpiti dalle conseguenze
della crisi economica e politica.
Per sottolineare la volontà di riunificare la comunità nazionale lacerata dai con flitti
provocati dai processi di modernizzazione economica, tanto il Pnf quanto la Nsdap
orientarono la propria azione in più direzioni, attraverso una rete organizzativa che
soprattutto nel caso tedesco si dimostrò un efficace strumento di penetrazione e
socializzazione politica, ottenendo i risultati migliori nei piccoli paesi e nelle città di media
grandezza 47. Ovunque era possibile, i nazionalsocialisti e i fascisti, prestando attenzione a
tutti i segnali di insoddisfazione, a un certo numero di domande trascurate dai concorrenti
e alle lamentele degli attori sociali che non si sentivano sufficientemente rappresentati sul
piano politico, moltiplicarono i contatti con circoli culturali e associazioni professionali,
adattando i propri punti di vista alle diverse espressioni del malessere sociale in cui si
imbattevano. In Germania, ove la società civile era densamente organizzata e le lealtà di
tipo subculturale venivano ritualizzate attraverso l’affiliazione a gruppi esclusivi, mentre gli
iscritti alla Nsdap si infiltravano nelle associazioni del ceto medio con lo scopo di
partecipare alla vita delle comunità locali e di ampliare il raggio dei contatti e delle
influenze, un gran numero di organizzazioni specifiche adattarono il messaggio del partito
alle speranze e ai timori diffusi in altri contesti sociali: la NS-Frauenschaft si rivolgeva alle
donne, la NS-Betreibszellenorganisation agli operai, l’Agrarpolitische Apparat agli
agricoltori; e lo stesso facevano le associazioni studentesche, le leghe professionali, le
organizzazioni per la protezione dei commercianti o dei pensionati e così via48. In Italia,
ove la vita associativa era piuttosto intensa nella classe operaia e nell’ambito
confessionale cattolico ma scarsamente sviluppata nelle classi medie, i fascisti fecero
invece conto sulla violenza per ostacolare l’attività delle organizzazioni comuniste,
socialiste e clericali – leghe operaie e bracciantili, cooperative, sindacati, società di mutuo
soccorso, case del popolo – in quei settori in cui la loro penetrazione diretta era
difficoltosa. Soltanto dopo aver limitato con i mezzi della coercizione armata l’azione delle
strutture rivali, i fascisti cercarono di raccogliere consensi per il tramite di propri sindacati,
che nel giugno del 1922 dichiaravano di avere 458.284 iscritti 49. Il ceto medio fu il
referente privilegiato dell’azione fascista. Il Pnf effettuò ripetuti sforzi per mobilitare le
categorie meno integrate nella struttura di classe: ingegneri, assicuratori, medici, avvocati,
architetti, artisti e incoraggiò l’ancora incerta sindacalizzazione degli impiegati e dei
funzionari. Sebbene tali tentativi abbiano avuto solo in parte successo, attraverso il
coinvolgimento dei ceti medi urbano e rurale nello scontro di classe e l’unificazione delle
loro domande politiche il fascismo poté trovare un sostegno di massa e aprirsi uno spazio
politico50. Tramite l’egemonia sulle classi medie e la loro contromobilitazione, il movimento
di Mussolini riuscì nel contempo ad acquistare consensi fra i simpatizzanti dei partiti
borghesi, migliorare le relazioni con un buon numero di gruppi di interesse e rafforzare la
propria immagine di baluardo contro la disgregazione del sistema di relazioni sociali,
messo a dura prova dalla guerra civile strisciante in atto.
47
Esistono ormai numerose ricerche in argomento, capostipite delle quali è W ILLIAM SHERIDAN A LLEN, The Nazi Seizure
of Power. The Experience of a Single German Town, Chicago, University of Chicago Press 1965, trad. it. Come si diventa
nazisti, Torino, Einaudi 1968.
48
THOMAS CHILDERS (a cura di), The Formation of the Nazi Constituency, 1919-1933, London, Croom Helm 1986,
illustra il modo in cui alcune di queste strutture favorirono la conquista di consensi elettorali per la Nsdap. La
bibliografia sulle organizzazioni parallele nazionalsocialiste è ampia e non può essere racchiusa in una nota; per i
riferimenti essenziali rinviamo a M ARCO TARCHI, La “rivoluzione legale”, cit., passim.
49
Sul reclutamento fascista nei vari ambiti sociali, cfr. JENS PETERSEN, Wählerverhalten und soziale Basis des
Faschismus in Italien zwischen 1919 und 1928, in WOLFGANG SCHIEDER (a cura di), Faschismus als soziale Bewegung,
Hamburg, Hoffmann und Campe 1976, pp. 119-156.
50
Il tema è affrontato più ampiamente da PAOLO FARNETI, La crisi della democrazia italiana e l’avvento del fascismo:
1919-1922, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, V (1975), 2, pp. 45-82.
La penetrazione sociale che i movimenti fascisti, grazie alle risorse organizzative
delle quali disponevano, riuscirono a realizzare, oltre ad allargarne i consensi elettorali,
ridusse il potenziale democratico del sistema politico sia in Germania che in Italia. Come
una variegata serie di studi sulla storia elettorale weimariana 51 ha posto in chiaro, il
nazionalsocialismo non solo mobilitò una forte percentuale di quei cittadini che in
precedenza avevano scelto la via dell’astensione per esprimere apatia od ostilità verso la
politica (la percentuale dei votanti, fra il 1919 e il 1928, decrebbe dall’82,7% al 75,5%, ma
risalì all’81,4% nel 1930, all’83,4% nel 1932 e all’88,1% nel 193352), ma ottenne anche
consensi dall’elettorato dei partiti democratici. Inoltre, a partire dal 1932 la Nsdap assorbì
quasi tutti i votanti dei piccoli partiti di interessi – che nel 1928 e nel 1930 avevano raccolto
il 14% dei voti espressi – e una quota rilevante dell’elettorato della Dnvp, formazione
conservatrice con tendenze autoritarie, causando uno slittamento di questa frangia semi-
leale della pubblica opinione verso un’opposizione globale al sistema. Come abbiamo già
avuto modo di notare in altra sede 53, l’evoluzione molto più rapida della crisi italiana non
consente di dimostrare l’esistenza di un andamento analogo sulla base dei dati elettorali:
nel 1919 i fascisti si presentarono in un esiguo numero di circoscrizioni e nel 1921 fecero
parte della coalizione guidata da Giolitti. Malgrado ciò, alcuni indicatori qualitativi
suggeriscono che l’ascesa del fascismo al potere non fu la semplice conseguenza di un
invito a governare rivolto al suo capo dalla classe dirigente politica dell’epoca o addirittura
“un bluff che si sarebbe potuto facilmente prevenire se solo le forze armate avessero
provato a farlo”54, ma piuttosto l’esito finale di un’opera di infiltrazione a tappe forzate nella
società e nelle istituzioni italiane. Quando uno statista di lungo corso e di mentalità
moderata come Giolitti decise di cooptare il movimento di Mussolini nell’arena politica
legittimata, non venne guidato dall’ingenuità o dall’improvvisazione; la sua mossa era
mirata a sfruttare il già non indifferente potenziale elettorale del fascismo (che era stato
sperimentato attraverso una serie di alleanze “patriottiche” locali nelle elezioni comunali
dell’autunno 1920) per riequilibrare il rapporto di forze esistente tra destra e sinistra in
parlamento. La vasta rete di complicità che permise al fascismo di commettere azioni
illegali su larga scala mise inoltre in evidenza l’esistenza di diffuse simpatie per le camicie
nere non solo fra gli attori di élite ma anche a livello di massa. La crescita del consenso
popolare venne del resto attestata, un anno prima della Marcia su Roma, dal forte
aumento del numero degli iscritti al Pnf, che già nell’ottobre del 1921 superava le cifre del
partito socialista: 217.072 tessere distribuite contro le 216.327 dell’avversario55. E, come
nel caso della Nsdap, si trattava di un sostegno che proveniva da un retroterra sociale
composito 56.
51
Cfr. KARL O’LESSKER, Who Voted for Hitler? A New Look at the Class Basis of Nazism, in “American Journal of
Sociology”, LXXIV (1986), pagg. 63-69; A LLAN SCHNAIBERG, A Critique of Karl O’Lesskers “Who Voted for Hitler?”,
in “American Journal of Sociology”, LXXIV (1986), pagg. 732-735; R.I. M CKIBBON , The Myth of the Unemployed. Who
Did Vote for the Nazis? , in “Australian Journal of Politics and History”, XXV (1969), pp. 25-40; THOMAS CHILDERS, The
Social Bases of the National Socialist Vote, in GEORGE L. M OSSE (a cura di), International Fascism. New Thoughts and New
Approaches, London & Beverly Hills, Sage 1979, pp. 161-188; THOMAS CHILDERS, The Nazi Voter, Chapel Hill & London,
University of North Carolina Press 1984; THOMAS CHILDERS (a cura di), The Formation of the Nazi Constituency, 1919-
1933, cit.; RICHARD F. HAMILTON, Who voted for Hitler?, cit.; PETER MANSTEIN, Die Mitglieder und Wähler der NSDAP
1919-1933, Frankfurt am Main, Peter Lang 1990; JÜRGEN W. FALTER, Hitlers Wähler, München, C.H. Beck 1991.
52
Cfr. STEIN ROKKAN e JEAN MEYRIAT , International Guide to Electoral Statistics, vol. I, National Elections in Western
Europe, Den Haag, Mouton 1969.
53
Cfr. M ARCO TARCHI , Italy: Early Crisis and Fascist Takeover, in in DIRK BERG-SCHLOSSER E JEREMY M ITCHELL (a
cura di), op. cit., pp. 294-320.
54
NANCY BERMEO, op. cit., p. 4.
55
Le cifre sono riportate in JENS PETERSEN, Wählerverhalten und soziale Basis des Faschismus in Italien zwischen 1919
und 1928, cit.
56
Cfr. PETER H. M ERKL, The Fascist Core Countries: Germany and Italy. Introduction, in STEIN UGELVIK LARSEN,
BERNT HAGTVET , JAN PETTER M YKLEBUST (a cura di), Who Were the Fascists, cit., pp. 257-267.
Nei due paesi in cui presero il potere, i movimenti fascisti contribuirono durante la
prima fase della crisi, assieme ai partiti rivali e alle organizzazioni di interessi,
all’allargamento dell’arena politica, sostenendo le domande di nuovi attori mobilitati
dall’esperienza di guerra. Nella seconda fase, quando l’eccessivo numero di problemi da
risolvere, il disaccordo tra i partiti sull’adozione dei criteri di priorità per affrontare i vari
temi sul tappeto e il loro conflitto sull’allocazione delle risorse disponibili inceppò l’agenda
setting dei governi democratici, sia la Nsdap che il Pnf influirono invece sul restringimento
di quella medesima arena. Svolsero tale ruolo assorbendo e aggregando le domande di
tutti quei gruppi che, per motivi diversi, temevano le conseguenze di una espressione
incontrollata di conflittualità in una società già profondamente segmentata e pertanto
vedevano il pluralismo, e i suoi sostenitori, sotto una luce negativa. A quegli ansiosi settori
di opinione i movimenti fascisti promisero, in caso di successo, un’immediata
smobilitazione coercitiva dei partiti che fino ad allora avevano organizzato e alimentato i
conflitti sorti attorno ai vari cleavages, nonché la nascita di un nuovo ordine basato
sull’indiscussa supremazia dello stato su tutti gli interessi particolari (Gemeinnutz vor
Eigennnutz, l’interesse generale prima dell’interesse individuale, era uno degli slogans più
ripetuti dal partito di Hitler), nel cui ambito sarebbero state immediatamente create
istituzioni più efficaci votate al compito di ristabilire l’ordine pubblico.
Conclusioni
Come è noto, nel periodo fra le due guerre mondiali i movimenti e partiti fascisti
europei non conquistarono una schiacciante maggioranza di voti popolari (l’unica
eccezione, corrispondente alle elezioni legislative italiane del 1924, fu condizionata
dall’uso senza scrupoli delle risorse statali da parte del governo fascista in carica) e
neppure riuscirono ad organizzare colpi di stato con i propri mezzi. Nella maggioranza
delle situazioni, la loro sfida alla classe dirigente si risolse in un fallimento. In molti altri
casi i fascisti dipesero, nei tentativi di conquistare il potere, da alleati conservatori
inaffidabili e assai più potenti di loro, che spesso li emarginarono o li misero al bando dopo
averne incamerato l’aiuto per distruggere il regime democratico e gettare le basi per la
fondazione di uno stato autoritario. La tabella 2 offre un quadro di questo orientamento.
Tabella 2. Ruolo dei movimenti fascisti e sorte della democrazia in Europa nel periodo fra le due guerre
Paese Crollo della democrazia Ruolo attivo dei movimenti Inclusione dei movimenti fascisti nella coalizione
Fascisti o simili durante la crisi dominante dopo il crollo della democrazia
Austria sì sì sì
Belgio no sì -
Bulgaria sì no no
Cecoslovacchia no sì -
Danimarca no no -
Estonia sì sì no
Finlandia no sì -
Francia no sì -
Germania sì sì sì
Gran Bretagna no sì -
Grecia sì no no
Irlanda no sì -
Islanda no sì -
Italia sì sì sì
Jugoslavia sì sì no
Lettonia sì sì no
Lituania sì sì sì
Norvegia no sì -
Olanda no sì -
Polonia sì no no
Portogallo sì no no
Romania sì sì no
Spagna sì sì sì
Svezia no no -
Svizzera no sì -
Ungheria no sì -
Nonostante ciò, non vi è alcun dubbio sul fatto che il fascismo svolse nell’Europa
degli anni Venti e Trenta del XX secolo il ruolo di principale sfidante della democrazia:
l’attacco alle regole e ai valori democratici provenne in quasi tutti i paesi da due versanti
opposti, estrema sinistra ed estrema destra, ma in nessuno di essi i gruppi comunisti o di
estrema sinistra presero il potere, se si esclude l’effimera esperienza dell’Ungheria di Bela
Kun, mentre un’ampia maggioranza dei dodici regimi non competitivi instaurati fra il giugno
del 1923 (Bulgaria) e il febbraio del 1938 (Romania) fu influenzata dal precursore esempio
italiano ed incorporò, in taluni casi dichiaratamente e in altri di fatto, alcuni elementi del
modello fascista.
È vero che, come Juan Linz ha ripetutamente fatto notare, il successo del fascismo
come movimento di massa fu perlopiù una conseguenza di fattori congiunturali, come
l’insolita sequenza di cambiamenti sociali, economici e sociali innescati dalla prima guerra
mondiale e dalle sue dirette conseguenze o l’alto grado di corruzione che affliggeva molti
governi parlamentari. Tuttavia, la delusione e la mancanza di fiducia nei confronti delle
ideologie e delle istituzioni democratiche furono condivise, in quegli anni, da un’ampia
varietà di correnti intellettuali e di attori politici. Cattolici tradizionalisti, anarchici,
sindacalisti rivoluzionari, comunisti, conservatori autoritari e nazionalisti imperialisti erano
tutti immersi, ciascuno ovviamente con le proprie specifiche speranze e credenze, nello
Zeitgeist antidemocratico e si consideravano, per ragioni diverse, nemici del liberalismo
borghese. Nessuna di queste famiglie politiche, tuttavia, riuscì ad avvantaggiarsi in modo
diretto della situazione esplosiva creata dalla prima guerra mondiale. Partiti e leghe di
orientamento nazionalista esistevano nei più importanti paesi europei già dall’ultimo
decennio del XVIII secolo, ed anche la loro ideologia collocava la lealtà verso la comunità
nazionale al di sopra della lealtà nei confronti delle istituzioni statali, ma l’attivismo
nazionalista non rappresento mai di per sé una seria minaccia alla legittimità dei sistemi
liberali. La nuova sintesi ideologica e politica realizzata attraverso quel processo che
Payne ha definito “la nazionalizzazione di certi settori della sinistra rivoluzionaria” 57
consentì invece ai movimenti fascisti di sfidare simultaneamente la democrazia su un
duplice terreno: la sfera razionale delle decisioni sostantive e la dimensione simbolica
delle attività politiche identificanti 58, ed offrì loro un’importante carta da giocare.
All’immediato indomani di una guerra che aveva sconvolto quasi l’intero continente,
il fascismo trovò terreno fertile nel clima psicologico di insicurezza che la brusca
intensificazione dei conflitti sociali e della politica di massa stava producendo. In un’epoca
nella quale i pilastri del vecchio ordine politico e sociale stavano progressivamente e
rapidamente logorandosi e cresceva di continuo il numero delle domande contrastanti e
intersecate le une con le altre che salivano dall’opinione pubblica verso i governi, i
movimenti fascisti cercarono di assicurarsi uno spazio politico rassicurando tutti quei
gruppi che la modernizzazione, con i suoi alti costi materiali e culturali, aveva spaventato.
Diversamente dai partiti autoritari conservatori, essi non promisero il ritorno a una qualche
passata età dell’oro, ma si impegnarono a restaurare in caso di successo l’ordine pubblico
e l’autorità, onde porre sotto il controllo dello stato le inevitabili trasformazioni sociali
richieste dalla civiltà di massa che ormai si era affermata.
Il carattere antidemocratico del programma fascista era evidente: esso proponeva
un’estrema semplificazione del sistema politico e sociale, basata su una forte riduzione del
pluralismo. A causa del suo modello rappresentativo, basato viceversa su un’illimitata
libertà di azione per qualunque tipo di interessi organizzati, la democrazia era degenerata
– a loro avviso – in un’incontrollata lotta di classe, nell’affermazione delle rivendicazioni
particolaristiche sulle esigenze di ordine generale e nell’inefficienza parlamentare. Il
corporativismo e il mito della comunità nazionale erano chiamati a rovesciare la situazione
ed avrebbero consentito al futuro stato fascista di sfruttare le risorse offerte dalla
modernizzazione per assicurare il bene comune.
Questo genere di suggestioni esercitò un’ampia influenza sullo “spirito del tempo”
che si affermò in Europa nel periodo fra le due guerre mondiali, modificando la percezione
della democrazia sia negli ambienti intellettuali, sia fra la gente comune. I parlamenti, che
erano stati a lungo quasi unanimemente considerati un bastione della libertà popolare,
vennero sempre più di frequente dipinti come simboli dell’impotenza e del privilegio; ai
partiti si addebitò la disgregazione della società. Non dappertutto le negazioni e gli appelli
fascisti riuscirono a farsi strada fra gli attori politici di vertice, nella comunità intellettuale o
fra i cittadini; alcuni paesi, come la Gran Bretagna, si dimostrarono immuni dall’“infezione”
fascista grazie all’elevata stabilità delle loro istituzioni, mentre altri, come l’Olanda, la
Cecoslovacchia, la Svizzera e i paesi nordici reagirono alla minaccia soprattutto in virtù di
riusciti accordi consociativi, che impedirono ai movimenti fascisti di trovare spazio a livello
di massa e, in alcune occasioni, anche grazie a specifici provvedimenti repressivi
rivolticontro le manifestazioni di estremismo. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il
fascismo contribuì a diffondere una mentalità incline all’autoritarismo e perciò fece da
detonatore a svolte antidemocratiche anche laddove queste si verificarono ai suoi danni,
come accadde in Romania, in Estonia, in Jugoslavia e in Lettonia.
Come la tabella 2 ci ricorda, il crollo dei regimi democratici nell’Europa degli anni
Venti e Trenta non deve essere considerato sinonimo di successo fascista. Nondimeno, i
movimenti fascisti influenzarono profondamente la dinamica della crisi della democrazia,
favorendo la crescita di alcuni fattori cruciali per l’indebolimento degli stati liberali. Essi
contribuirono all’intensificazione della lotta politica a livello sia di élite che di massa,
coinvolgendo nel conflitto politico nuovi attori, mobilitati dalle conseguenze della guerra, ed
57
STANLEY G. PAYNE, Fascism. Comparison and Definition, cit., p. 42.
58
La distinzione fra i due ambiti è individuata e spiegata da A LESSANDRO PIZZORNO , Sulla razionalità della scelta
democratica, in ROBERTO SCARTEZZINI, LUIS GERMANI , ROBERTO GRITTI (a cura di), I limiti della democrazia, Napoli,
Liguori 1985, pp. 207-246.
espandendone il raggio agli scontri di piazza. La loro azione causò un’elevata fluidità e
una serie di spostamenti sia dei tradizionali allineamenti dei partiti, dei sindacati e degli
altri sociali, sia della società civile nel suo complesso; modificò la precedente distribuzione
delle risorse e moltiplicò i problemi insolubili, che condussero in alcuni casi alla paralisi
dell’agenda setting governativo. Soltanto in Germania e in Italia i fascisti presero il potere
da soli, ma in molti altri casi vi si avvicinarono notevolmente e la loro presenza diventò di
per sé una potenziale minaccia, una causa di instabilità per la democrazia. Ogni volta che
una democrazia parlamentare crollava, il fascismo era evocato sia dai simpatizzanti che
dagli avversari: talvolta era effettivamente presente sulla scena, talaltra svolgeva la
funzione di “ospite silenzioso” del nuovo regime autoritario e il suo spettro serviva ad
eccitare le passioni popolari. Ciò diventò particolarmente evidente dopo lo scoppio della
guerra civile spagnola, che moltissimi osservatori interpretarono come il prologo del futuro
scontro finale tra fascismo e democrazia, anche se il regime di Franco era ben lungi dal
soddisfare i requisiti dell’idealtipo del fascismo e i comunisti facevano parte del campo
democratico solo per motivi tattici.
Possiamo perciò concludere che il ruolo dei movimenti fascisti fu centrale nella crisi
delle democrazie europee manifestatasi tra il primo e il secondo conflitto mondiale.
L’intima debolezza dei regimi parlamentari, determinata dalla simultanea presenza di
un’ampia serie di sfavorevoli condizioni economiche, sociali e culturali, fu all’origine della
loro nascita e ne facilitò in molti casi il compito; ma i fascisti, a causa della mentalità
attivistica che li caratterizzava, non potevano limitarsi ad aspettare che le circostanze
volgessero ancor più a loro favore. La loro azione si diresse invariabilmente contro la
democrazia con la non celata speranza di accelerarne il collasso; lungo l’intero periodo di
crisi le loro mosse ridussero oppure aumentarono, a seconda dei risultati ottenuti, le
probabilità di persistenza e di stabilità dei regimi che combattevano. In qualche caso, il
fallimento delle sfide che avevano pubblicamente lanciato all’ordine legale – l’abortito
colpo di stato di Mäntsälä del movimento di Lapua; la campagna elettorale di Degrelle
contro il primo ministro van Zeeland; le violente scorribande delle milizie di Mosley nella
East London; i tumulti provocati il 6 febbraio 1934 dalle Leghe francesi di fronte al
parlamento – rafforzò la legittimità delle istituzioni che si prefiggevano di rovesciare.
Qualunque sia stato l’esito finale della loro agitazione, in ogni caso i movimenti fascisti
trassero alimento dalla crisi e nel contempo fecero del loro meglio per inasprirla; anche se
non riuscirono, nell’insieme, ad approfittarne nella misura sperata.