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Supporto appunti

Relazioni internazionali
Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo e Giulia Tarantino

Vivere Scienze Politiche viverescienzepolitiche.it


VIVERE SCIENZE POLITICHE

Supporto appunti

Indice
Riassunti del libro “Relazioni internazionali” di E. Diodato

1. Capitolo 1: le relazioni internazionali

2. Capitolo 2: la tradizione realista

3. Capitolo 3: la tradizione liberale

4. Capitolo 4: la tradizione critica

5. Capitolo 5: il costruttivismo

6. Capitolo 6: il postmodernismo

7. Capitolo 7: International Political Economy

8. Capitolo 8 gli studi strategici dalla Guerra Fredda all’invasione dell’Iraq

9. Capitolo 9: la politica estera dell’Unione Europea

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Capitolo 1: Le relazioni internazionali: logica, metodo e livelli di analisi
Con la fondazione dell’American Political Science Association (APSA), avvenuta negli Stati Uniti
nel 1903, le relazioni internazionali furono immediatamente riconosciute come un settore della
scienza politica. Ciò che ha alimentato i dibattiti di questo secolo è stato il continuo e complesso
rapporto delle IR con la scienza politica. Il primo dibattito sull’ordine e sulla natura del potere, con
cui il realismo si impose quale tradizione dominante, fu alimentato da un gruppo di studiosi che non
si riconoscevano pienamente nella scienza politica. Il secondo dibattito sul metodo scientifico si
svolse ai margini della scienza politica, raggiungendo il suo apice nel 1966, con un attacco mosso
dalla scuola inglese per difendere la tradizione britannica delle relazioni internazionali, contro il
mainstream statunitense interessato a rendere la disciplina sempre più un sottosettore della scienza
politica. Ma con il terzo dibattito, le IR si assestarono tra il 1974 e il 1991 entro il quadro della scienza
politica, riuscendo a stabilire un minimo linguaggio condiviso e una minima logia comune. Tuttavia,
con la fine della Guerra Fredda la disciplina tornò nuovamente a frammentarsi, aprendo una stagione,
ancora in corso, segnata dall’influenza della cultura europea e dal dibattito sul costruttivismo, che
tende a spostare l’obiettivo dalla spiegazione scientifica dei fenomeni politici alla loro interpretazione
storica e sociale. Questa tendenza ha favorito una parziale fuoriuscita delle IR dall’alveo della scienza
politica.
Il realismo è spesso considerato il principale paradigma delle IR. Ma se ha conquistato tale posizione
all’inizio della Guerra Fredda, oggi appare un po’ in affanno. Il successo e i limiti del realismo sono
tutti nella sua mossa di apertura, quindi nel modo in cui si è affermato; muovendo sia contro
l’idealismo sia contro lo scientismo comportamentista. Il 1954 è importante perché segna la data in
cui il realismo tradizionalista si contrappose al comportamentismo per assicurarsi una vittoria
definitiva sul fronte dell’idealismo. Il realismo si presentò con un proprio statuto scientifico per porsi
in una condizione di superiorità rispetto all’idealismo. Tra la Seconda guerra mondiale e il 1954, anno
di affermazione del realismo classico o tradizionalista, lo studio della politica tout court fu segnato
dalla discussione sulla possibilità di sviluppare una scienza della politica. Nel 1948 fu fondata la
rivista World Politics e lo studio accademico delle relazioni internazionali si stava riorganizzando in
due scuole di pensiero. Una scuola guidata già a partire dagli anni 1920-30 da Charles Merriam e dai
suoi colleghi dell’Università di Chicago, affondava le radici nella scienza politica americana e nella
fede nel potere dell’intelletto umano di creare gradualmente un mondo migliore. Per questa scuola,
di matrice liberale, non era in discussione che le IR fossero un sottosettore della scienza politica.
L’altra scuola, quella realista, affondava le sue radici nella cultura filosofica europea, soprattutto
quella tedesca, ed era interessata a decidere che cosa fosse la politica piuttosto che la scienza. Il
fondatore di World Politics, Frederick Dunn, sostenne che le IR avevano ereditato dal liberismo
ottocentesco il presupposto della razionalità e quello gemello dell’inevitabile progresso verso la pace
e l’abbondanza. Ma l’avvento delle due guerre mondiali avevano reso necessario, secondo Dunn,
rivedere qualcosa di questi presupposti. Questo rivedere qualcosa, non poteva però essere accettato
dai realisti, poiché nella loro visione lo Stato doveva essere considerato come un attore unitario,
razionale, e ciò che contava era la politica tra le nazioni in un’arena considerata anarchica poiché
priva di governo, non certo l’arena domestica. Esponente di spicco della visione realista era un
professore di Chicago, Hans Morgenthau, che pubblicò tre libri molto importanti: Scientific Man
Versus Power Politics, Politics Among Nations e Defence of the National Interest. Se tuttavia
Morgenthau divenne presto il nume tutelare del realismo delle IR, nonché colui che legittimò l’intera
disciplina delle IR facendone un corpo separato rispetto alla scienza politica, fu anche grazie a un suo
allievo, Kenneth Thompson. Morgenthau attaccò l’inadeguatezza del metodo quantitativo della

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scienza politica e i limiti degli studi sul comportamento politico. Il realismo rivendicava lo scettro
delle IR e un ruolo autonomo rispetto alo scientismo della scienza politica in virtù della sua capacità
di elaborare una teoria indipendente. Nel 1955, uscì la seconda edizione di Politics Among Nations,
dove Morgenthau pretende di presentare una teoria della politica internazionale. Punto di partenza
era il sistematico ripudio di tutte quelle posizioni idealiste basate sulla fiducia nelle istituzioni liberali
e nell’organizzazione internazionale. Idee che si erano affermate tra le due guerre in un testo dello
storico Edward Carr. La guerra del 1914-18 aveva posto fine alla convinzione che essa, la guerra,
riguardasse solo i militari e, di conseguenza, che la politica internazionale potesse essere affidata solo
ai diplomatici. Era quindi sorto il bisogno di una scienza della politica internazionale. Carr aveva
dunque posto le fondamenta del paradigma realista, partendo dalla concezione del potere in
Machiavelli. La differenza tra gli idealisti e i realisti risiedeva, secondo Carr, nell’attenzione rivolta
dai secondi al ruolo del potere in un eventuale nuovo ordine internazionale. I realisti imputano agli
idealisti, non solo l’illusione di aver creduto che il comportamento degli Stati fosse spiegabile
mediante la formazione razionale delle preferenze, ma anche la responsabilità di non aver compreso
l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale. La teoria realista di Morgenthau doveva spiegare perché
la razionalità nei comportamenti razionali difficilmente avrebbe favorito, col tempo, un’evoluzione
più pacifica delle relazioni internazionali. Il vero terreno di scontro con quella parte che il realismo
chiamava idealisti o utopisti, ma che nel secondo dopoguerra erano diventati scienziati politici,
riguardò pertanto la natura del potere. Per Morgenthau gli interessi degli attori erano razionali, ma
erano definiti in termini di potere e quest’ultimo non era affatto un fenomeno sociale razionale, poiché
sgorgava dall’oscuro desiderio umano per il dominio. Questo era ciò che veniva dall’insegnamento
dei classici, quale fondamento di un pessimismo antropologico cui Morgenthau accordava uno statuto
ontologico, ossia di verità. Per questa ragione era inutile indagare le sorgenti interne del
comportamento sociale (ossia le preferenze politiche individuali), se non per cercare conferme o
perfezionamenti della teoria realista. Ciò che il realismo fece è proporsi come una disciplina capace
di elaborare, a differenza dell’idealismo, una teoria indipendente delle relazioni internazionali.
Tuttavia, per affermarsi sull’idealismo, il realismo accettò la sfida di una teoria internazionale
accusando il rivale di essere solo una dottrina utopica e presentandosi, pertanto, con un proprio
linguaggio di tipo scientifico. Sul terreno del confronto scientifico, molto presto le IR si mostrarono
più deboli e metodologicamente immature della scienza politica.
Negli stessi anni del dopoguerra, la scienza politica fu attraversata dalla cosiddetta rivoluzione
comportamentista. Il comportamentismo derivava dalla psicologia. Nella scienza politica poneva
l’attenzione sul comportamento umano o individuale come principale fattore esplicativo della politica
e dell’attività di governo. Inoltre, si distanziava dal modo in cui il realismo si riferiva alla filosofia
positivista ottocentesca. L’ideale positivista di una società industriale razionale, ossia regolata
secondo criteri scientifici, era recepito dalla scienza politica in un clima completamente mutato, in
cui l’idea di una conoscenza politica neutrale si saldava con l’obiettivo di promuovere la democrazia
e la libertà. Per gli scienziati politici, l’idea dell’unità della scienza deriva dal neopositivismo
viennese, quindi si basava sul principio dell’empirismo logico. Il realismo, invece, recepiva
vagamente i tratti più conservatori della filosofia positivista, senza accogliere né l’idea di progresso
né il rigore dell’empirismo logico. Nel giro di pochi anni, tuttavia, il realismo segnò il passo ed entrò
gradatamente in una fase di stallo. Fu Morton Kaplan a incanalare nelle IR la rivoluzione
comportamentista. Il comportamentismo fu adattato alle IR mediante la teoria dei sistemi rimuovendo
così il tema realista dall’oscuro desiderio umano e relegando il discorso morale ai margini della
riflessione politica. L’idea di fondo era che qualunque tipo di sistema, naturale o umano che fosse,

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sarebbe stato in grado di raggiungere una stabilità dinamica a prescindere dall’intervento di singoli
fattori causali. Sarebbe stato possibile valutare il comportamento degli Stati a partire dal tipo di
sistema che questi formano. In analogia con i sistemi economici o di mercato, Kaplan distingueva, ad
esempio, tra oligopolio (sistema bipolare elastico, con due superpotenze e alcune grandi potenze) e
duopolio (sistema bipolare rigido, con due sole superpotenze), tra carrello (sistema universale, tipo
Nazioni Unite) e monopolio (sistema gerarchico o unipolare, con una sola superpotenza), tra
concorrenza semplice (sistema multipolare) e concorrenza condizionata dal potere di veto di alcuni
stati (sistema della proliferazione nucleare). Tuttavia, l’obiettivo di elaborare una teoria sistemica
delle IR non fu raggiunto. Perché i modelli di Kaplan non furono definiti chiaramente in termine di
strutture differenti, ma furono considerati come sistemi di azione che i comportamenti degli Stati
avrebbero potuto trasformare.
Con il trascorrere del tempo, nella stessa scienza politica ci furono importanti cambiamenti, finché il
comportamentismo perse gradualmente la sua rilevanza. Ciò diede nuovo spazio di manovra al
realismo, ma in un contesto notevolmente mutato, che gli fece assumere la denominazione di
neorealismo. Chi ne approfittò fu Kennech Waltz, il quale, nel 1979, dopo aver lavorato per anni sul
problema dei livelli di analisi riformulò il realismo emancipandolo dalla sua natura filosofica e
indirizzandolo verso un nuovo paradigma neorealista. Con Theory of International Politics a Waltz
riuscì ciò che a Morgenthau non era riuscito, ossia elaborare una teoria indipendente della politica
internazionale. In genere si tende a considerare Morgenthau più come filosofo e Waltz più come
scienziato. Indubbiamente il realismo tradizionalista di Morgenthau aveva un formato più filosofico,
fondato sull’assunto della natura del potere e dell’oscuro desiderio umano, mentre il neorealismo di
Waltz adottò un formato più scientifico. Per Waltz una teoria doveva avere le caratteristiche di un
costrutto coerente, prodotto anche in modo creativo, piuttosto che una collezione di leggi ricavate
induttivamente dall’osservazione. Evidentemente il sentiero aperto da Kaplan fu di grande utilità per
Waltz. L’idea di fondo rimaneva che qualunque tipo di sistema è in grado di raggiungere una stabilità
dinamica a prescindere dall’intervento di singoli fattori causali. Tuttavia, per Waltz applicare questa
logica alla politica internazionale significava approfondire la struttura del sistema oggetto d’indagine,
non il comportamento delle unità. Secondo Waltz, tutti i sistemi sviluppano strutture che premiano o
puniscono il comportamento delle unità, ovviamente nella misura in cui queste si conformano alle
esigenze di stabilità del sistema. In considerazione dei vincoli o delle costrizioni strutturali imposte
dal sistema, le preferenze degli Stati passano in secondo ordine e la ricerca delle preferenze e delle
determinanti interne della politica estera diventa riduzionista. Più che le preferenze, sono le capacità
degli Stati a contare. Ma non le capacità in quanto tali, bensì la distribuzione della potenza tra gli
Stati. La distribuzione relativa della potenza è una caratteristica fondante della struttura, poiché
consente di trasformare il disordine in stabilità. Per questa via Waltz escluse alcuni modelli teorici di
Kaplan, innanzitutto il cartello, poiché avrebbe richiesto una precisa scelta da parte degli stati e in
secondo luogo il monopolio, poiché avrebbe richiesto una capacità smisurata concentrata in un
singolo stato. Secondo Waltz le due strutture possibili erano soltanto quella bipolare e quella
multipolare. Come il realismo, anche il neorealismo recepì i tratti più conservatori del positivismo
senza accogliere l’idea di progresso. Ma, a differenza del realismo tradizionalista di Morgenthau, ciò
avvenne mediante una teoria strutturale di tipo deduttivo. Per Waltz l’osservazione del fenomeno non
precedeva la teoria, avrebbe potuto solo confermarne la validità o falsificarla. L’apparato teorico di
Waltz fu deduttivo, quindi orientato a definire quei criteri di stabilità che, non sono trasformati
dall’evoluzione storica.

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Il terzo dibattito si focalizzò soprattutto sul ruolo delle istituzioni internazionali. Per certi versi, può
essere considerato come un confronto sulla possibilità di un livello maggiore di efficienza che un
sistema internazionale può raggiungere grazie alle sue istituzioni. L’evoluzione della tradizione
liberale ebbe luogo mediante il passaggio dall’idealismo all’istituzionalismo. Secondo la migliore
tradizionale liberale, il focus della riflessione rimaneva al livello individuale, quello della
formulazione delle scelte e delle preferenze politiche. Un primo momento di svolta si ebbe con un
saggio su World Politics di Robert Keohane e Joseph Nye, che avviò una nuova stagione durante la
quale il liberalismo fece leva sulle istituzioni statali per spiegare come le relazioni transnazionali
favorissero la cooperazione. In tal modo si accettava l’assunto della centralità dello Stato per lo studio
delle IR, poiché erano proprio le istituzioni statali che favorivano le relazioni transnazionali. Ma fu
negli anni successivi che il liberalismo cambiò, allontanandosi dall’idealismo e dall’istituzionalismo.
Ciò avvenne quando i liberali iniziarono a considerare la cooperazione transnazionale come un
obiettivo difficile da raggiungere. Tuttavia, l’istituzionalismo neoliberale riteneva comunque
possibile la cooperazione tra gli Stati grazie al ruolo determinante delle istituzioni internazionali.
Quest’ultimo spostamento spinse il liberalismo a cambiare notevolmente la sua natura, poiché i
vincoli istituzionali divenivano prioritari rispetto alle preferenze individuali. Da un punto di vista
metodologico, non si comprenderebbe quindi l’evoluzione della tradizione liberale senza considerare
cosa stesse accadendo all’interno del realismo. In particolare, nel dibattito tra neorealisti decisiva fu
a quel tempo la critica a Waltz mossa da Robert Gilpin. Per Gilpin, la teoria strutturale di Waltz
poteva essere definita sociologica poiché assumeva che il comportamento delle unità fosse spiegato
dalla natura del sistema e dalla posizione che le unità occupano nel sistema stesso. In realtà,
l’approccio di Waltz era sistemico più che sociologico. Tuttavia, la critica di Gilpin fu comunque
efficace ed ebbe effetti sull’evoluzione della tradizione liberale. Il fatto che il comportamento delle
unità fosse spiegato dalla natura del sistema, dava importanza alla struttura del sistema ed anche ai
fattori istituzionali del comportamento e quindi a quelle regole costrittive che, vincolano i
comportamenti delle parti entro il sistema. Secondo Gilpin, proprio tali vincoli avrebbero assunto
maggior rilievo se, oltre all’approccio sistemico/sociologico, si fosse adottato anche quello
economico. La critica di Gilpin al neorealismo di Waltz colpì su due fronti: innanzitutto, introducendo
un nuovo elemento per spiegare la stabilità, vale a dire la capacità degli stati dotati di maggiore potere
di influenzare le istituzioni internazionali; in secondo luogo, mostrando i limiti della teoria strutturale
quando si tratta di spiegare il cambiamento. Nel primo caso, Gilpin sostenne che la stabilità dipende
dal ruolo degli Stati egemoni. In virtù della loro posizione, questi Stati sono capaci di fissare quelle
regole costrittive le quali, vincolando i comportamenti degli altri stati, garantiscono la continuità del
sistema, quindi una stabilità egemonica. Nel secondo caso, Gilpin sostenne che il mutamento dipende
dalla difficoltà di quegli stessi Stati egemoni di continuare a fissare regole costruttive, quindi dal
tentativo di altri Stati di mutare gli scopi e la natura delle istituzioni internazionali. La teoria di Gilpin
rimaneva nel solco del paradigma realista. Chi sviluppò questa intuizione in chiave liberale fu proprio
Keohane, che considerò le condizioni che avrebbero potuto conservare la stabilità di un sistema e
delle sue istituzioni anche dopo il declino di uno Stato egemone. Secondo Keohane, l’egemonia era
necessaria per instaurare un sistema di cooperazione e stabilità tra Stati, ma tale sistema poteva poi
proseguire dopo il declino dello Stato egemone grazie alle istituzioni internazionali. Keohane pose al
centro della riflessione la razionalità degli stati, che diveniva presupposto per il conseguimento del
miglior vantaggio economico per tutti. È importante capire il contesto storico in cui si sviluppò il
dibattito sulle istituzioni. Siamo infatti negli anni della trasformazione del sistema di Bretton Woods
dal 1973. Il compito delle IR era comprendere come governare l’interdipendenza e risolvere i

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problemi di competizione interni al sistema occidentale tra Stato egemone e Stati emergenti. Prima
di entrare nel merito del dibattito sulle istituzioni internazionale, è utile rimettere in pista la scuola
inglese. In The Anarchical Society, Bull aveva proposto di distinguere tra sistema internazionale e
società internazionale, quest’ultima era una condizione nella quale un gruppo di Stati, consci di certi
interessi e valori comuni, si sentono legati a un set di regole comuni e concorrono alla costruzione di
istituzioni. Per Bull una società internazionale emerge quando un gruppo di Stati è capace di darsi nel
tempo delle istituzioni intese come abitudini e pratiche per ottenere scopi comuni. Tuttavia, nello
studio sui regimi internazionali l’attenzione fu rivolta al coordinamento economico tra attori
interessati a ottenere vantaggi competitivi. Il dibattito sulle istituzioni nasceva da esigenze storiche e
gli istituzionalisti neoliberali accettarono di giocare la partita con il neorealismo nel campo neutro
della logica sistemica. In questo senso si può dire che il dibattito interparadigmatico ebbe l’effetto di
ricondurre le IR nell’alveo della scienza politica americana. Occorre dire che il dibattito era rimasto
per lungo tempo polarizzato tra due posizioni contrastanti. Da una parte Robert Axelrod e Keohane,
i quali avevano sostenuto che nei regimi internazionali è la norma della reciprocità a essere
istituzionalizzata a favorire la cooperazione, togliendo legittimità alla defezione o comunque
rendendola più costosa. L’idea di fondo veniva dalla teoria dei giochi ed era basata sull’assunto che
il problema del coordinamento potesse risolversi grazie alla circolazione delle informazioni. In un
gioco del dilemma del prigioniero, gli attori sono spinti a non collaborare, come farebbero due
prigionieri separati dai carcerieri e che sia accusano a vicenda, anche se la migliore strategia sarebbe
tacere. Ma se i due prigionieri possono scambiarsi segnali, intesi come informazioni, la probabilità
della collaborazione, ossia il silenzio complice aumenta. Nel caso dei regimi internazionali, ciò
significa che le istituzioni possono avere rilevanza nella misura in cui, consentendo la circolazione
delle informazioni, riescono a ridurre l’incertezza e ad aumentare le opportunità di ricompensa per
gli Stati che cooperano. Dalla parte opposta, quella realista, ritroviamo Joseph Grieco, il quale aveva
ribadito l’importanza dei vantaggi relativi, ossia l’idea che in ogni tipo di relazione lo scopo degli
Stati è prevenire una perdita di capacità rispetto agli altri. Il problema è quindi, la conservazione della
propria posizione misurata in termini di capacità. Interessati soprattutto alla sopravvivenza, gli Stati
non perseguono altro interesse che evitare una riconfigurazione delle capacità peggiore di prima, ossia
un arretramento. Più semplicemente, il successo delle istituzioni era possibile, secondo Grieco, solo
a causa dell’interesse strategico di un egemone a mitigare la perdita di guadagni. Tuttavia, il
contributo più rilevante e innovativo venne da Krasner. Con Krasner si è parlato di sintesi neo-neo
(tra neorealismo e neoliberalismo), una convergenza tra i due paradigmi resa possibile dal fatto che
entrambi condividevano l’assunto per cui lo Stato è mosso dalla ricerca di un interesse. Ma la
particolarità della sintesi di Krasner fece leva sull’impiego metaforico del concetto di fronte
paretiano. Introdusse un’espressione impiegata negli studi economici sull’efficienza paretiana e che
indica un certo numero di punti in cui si raggiunge l’ottimo. Se i neoistituzionalisti erano in grado di
determinare quali sono i punti in cui i governi possono raggiungere un certo livello di efficienza, i
neorealisti erano in grado di indicare qual è il punto che effettivamente i governi selezionano in
considerazione della capacità dello Stato egemone. C’era quindi bisogno di entrambi gli approcci per
spiegare il regime della comunicazione internazionale.
Alla fine della stagione della Guerra Fredda, non poteva non avere effetti sulle IR la stessa sintesi
neo-neo, che non resse il colpo, per quanto se ne continuò a dibattere negli anni successivi. Keohane
riconosceva ad alcuni studiosi il merito di aver tentato di sfidare la prospettiva razionalista. Questo
approccio poteva essere posto sotto l’etichetta di riflettivismo, poiché concerneva la riflessione sulla
natura delle istituzioni. Questa distinzione ebbe importanti conseguenze metodologiche dopo la fine

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della Guerra Fredda. Secondo Keohane, nei loro programmi di ricerca i razionalisti, avevano
enfatizzato i regimi e le organizzazioni internazionali formali, quindi si erano mostrati interessati a
spiegare come tali istituzioni riducessero l’incertezza stabilizzando le aspettative, favorendo la
circolazione delle informazioni e quanto tali istituzioni riflettessero la distribuzione del potere.
Viceversa, secondo Keohane, i riflettivisti non avevano delineato un chiaro programma di ricerca.
Negli anni successivi i programmi riflettivisti si perfezionarono e lungo il sentiero di studi
riflettivista/costruttivista è emerso innanzitutto che il concetto di istituzione internazionale è da
intendersi in senso più ampio; in secondo luogo che i quesiti di ricerca dovrebbero spaziare
dall’analisi di come le istituzioni si trasformano a causa d i mutamenti; all’analisi di quanto tali
trasformazioni riflettono i punti di vista degli Stati egemoni oppure si generano grazie
all’apprendimento sociale. Di conseguenza, occorre dare rilievo alla ricerca qualitativa basata
sull’analisi di materiali documentali e dei resoconti, e minore attenzione ai modelli derivati dalla
teoria dei giochi a vantaggio degli strumenti cognitivi offerti dall’indagine sociologica. Il passaggio
dal razionalismo al riflettivismo segnò non soltanto l’indebolimento della logica economica, ma
anche lo spostamento del focus al livello degli Stati e ciò è avvenuto seguendo due sentieri. Da una
parte, studiosi liberali, interessati a riportare il focus sulle scelte individuali. Dall’altra parte, gli
studiosi marxisti, che hanno spostato il focus della riflessione sulle forze sociali che modellano le
identità e gli interessi nazionali, piuttosto che sulle scelte individuali. La presenza del neomarxismo
è evidente anche con riferimento a un problema agente-struttura. Tala problema ripropone la
questione metodologica dei livelli di analisi, ma concerne più nello specifico la relazione tra ogni tipo
di agente e ogni tipo di struttura. Mentre per i neorealisti e i neoliberali il sistema vincola il
comportamento degli Stati, per i neomarxisti più che il sistema internazionale conta la struttura
globale che lo contiene e che non solo condiziona gli Stati ma altresì genera le forme di stato. Vale a
dire che una volta definita la struttura di potere internazionale si può comprendere non solo il
comportamento degli Stati, ma anche il loro adattamento a quella struttura. Il problema agente-
struttura è risolto dai neomarxisti in modo dialettico. Sono le forze sociali che modellano la
configurazione del potere materiale promuovendo una certa immagine dell’ordine mondiale e un
insieme di istituzioni nazionali e internazionali capaci di amministrare il medesimo ordine.
Negli ultimi anni il costruttivismo è diventato il laboratorio dove le IR si sono mostrate più capaci di
riflettere su sé stesse e, quindi, sulla natura del comportamento degli Stati. Il costruttivismo si presenta
come un nuovo terreno di confronto tra liberalismo e realismo. Alexander Wendt si è segnalato come
il principale studioso del costruttivismo. Secondo Wendt, le istituzioni internazionali sono da
intendersi come insiemi codificati in norme e regole. Ma solo in considerazione del fatto che tali
insiemi sono resi possibili grazie all’esistenza di motivazioni generate dalla socializzazione tra gli
Stati. Ne consegue che le istituzioni internazionali sono prodotte da identità, oltre che da interessi
razionali. Le istituzioni non sono semplicemente condizionate dalla struttura di potere, ma si
modellano secondo i processi interni di trasformazione delle identità. Il problema agente struttura è
quindi risolto in modo strutturazionista, vale a dire che non è attribuita priorità alla struttura e neppure
all’agente, ma al processo di socializzazione. Il ventaglio di posizioni interne al dibattito sul
costruttivismo, per molti versi può essere fatto risalire ai processi di decolonizzazione, quando,
raddoppiò il numero degli Stati e apparve evidente che le regole della società internazionale degli
Stati non erano condivise automaticamente. L’apprendimento degli Stati non è una modalità passiva
di adattamento sociale, ma acquisizione consapevole del proprio ruolo. Da un punto di vista
costruttivista lo Stato è concepito come un agente nel contesto delle strutture nazionali e
internazionali. I governi perseguono interessi, cercano di risolvere problemi e, a tal fine, possono

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agire tanto attraverso le istituzioni nazionali quanto in quelle internazionali. Occorre riconoscere al
costruttivismo due meriti: quello di aver riportato le IR alla consapevolezza che i sistemi
internazionali sono processi storici e sociali; e in secondo luogo, ha fatto spazio alla riflessione
normativa, ossia a quel corpo di studi che affronta la dimensione etica delle relazioni internazionali.
Si pensi ad esempio, alle questioni legate ai diritti umani e alla protezione dell’ambiente. L’approccio
costruttivista, occupa una posizione intermedia tra quattro estremi di tipo ontologico ed
epistemologico. Letti in chiave metodologica, gli estremi ontologici riguardano la natura del mondo
sociale. Non sono quindi riferiti all’esistenza o meno di una realtà oggettiva, oppure alla natura della
politica internazionale, ma alla dicotomia tra struttura e agente. Gli estremi epistemologici riguardano
il tipo di conoscenza che possiamo avere del mondo e sono espressi dalla dicotomia tra spiegare e
capire. Da un punto di vista strutturale, il razionalismo e il riflettivismo sono uniti dall’assunto che le
proprietà di un sistema non possano essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti. Dal
punto di vista degli agenti, il comportamentismo e il normativismo sono uniti dall’assunto che
qualsiasi sistema è il prodotto dell’agire delle sue componenti. Dal punto di vista della spiegazione,
il razionalismo e il comportamentismo condividono l’obiettivo di contribuire alla conoscenza dei
fenomeni sociali. Dal punto di vista della comprensione, il riflettivismo e il normativismo
condividono che il compito della ricerca è favorire un’interpretazione dei fenomeni sociali.
Il costruttivismo ha avuto il merito di adottare un approccio più attento al ruolo degli agenti e a
processi che questi attivano. Prendendo spunto dal costruttivismo, Andrew Moravcsik ha ripreso
anch’egli il dibattito per riportare l’attenzione del liberalismo sul comportamento degli Stati.
Moravcsik ha posto ha posto le preferenze degli Stati intendendole però, come politiche che
esprimono modelli di interazione sociale. A differenza dei razionalisti, che accettano una visione
sistemica perché lo stato non può fare ciò che vuole ma è vincolato dal sistema, Moravcsik sostiene
che, sì, gli Stati non ottengono quello che vogliono, ma neppure a livello domestico. Le preferenze
statali si formano mediante l’attuazione di politiche interdipendenti poiché transnazionali. In altre
parole, è il processo di formazione delle preferenze nazionali, che impone un vincolo sul
comportamento degli Stati. L’attenzione torna sul comportamento dello Stato, combinando
preferenze e vincoli. Per Moravcsik il comportamento degli Stati dipende dalla trasformazione delle
preferenze, quindi dei valori e degli interessi domestici e transazionali. La nuova teoria liberale di
Moravcsik recupera punti dell’istituzionalismo, vicini più alle teorie neofunzionaliste. Tuttavia,
mentre quelle teorie insistevano su valori e interessi economici, Moravcsik sottolinea che le politiche
statali si spiegano con una logica politica, non con una logica economica. La cosiddetta pace
democratica, ossia la tesi per cui le democrazie sono meno aggressive e più propense a collaborare
tra loro, non può essere spiegata, secondo Moravcsik, ricorrendo al processo di formazione delle
preferenze. Ciò significa procedere alla comparizione tra politiche estere, ossia mediante il confronto
empirico. Ne deriva la necessità di rompere la linea di divisione tra scienza politica e IR. Secondo
Morgenthau le preferenze sono da definirsi in termini di potere e pertanto sgorgano dall’oscuro
desiderio umano per il dominio. Per Moravcsik, invece, se oltre ad essere razionali sono anche
espresse liberamente, quindi mediante procedure democratiche, favoriscono la collaborazione e la
pace. La tendenza a riportare il focus sul comportamento degli Stati ha investito anche il paradigma
realista. La novità è il rifiuto dell’assunto di Waltz per cui la principale preoccupazione degli Stati è
mantenere la propria posizione nel sistema, piuttosto che aumentare il potere. Come scriveva Grieco,
questo assunto implica un tipo di realismo in natura più difensivo che offensivo. Tuttavia, a partire
dalla pubblicazione del saggio di Schweller, iniziò a imporsi un modo più offensivo di intendere il
realismo. Per il realismo offensivo, la preoccupazione degli Stati può essere quella di mantenere la

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posizione, ma vi è altresì la possibilità che Stati non soddisfatti della distribuzione del potere tentino
di sfruttare le opportunità di guadagno. Il libro che ha reso noto il realismo offensivo è stato scritto
da John Mearsheimer, e si intitola The Tragedy of Great Power Politics; qui emergono due novità
di rilievo. Innanzitutto, la tendenza a riformulare modelli di comportamento statale che adottano
l’individualismo metodologico della scelta razionale, pur se applicato in chiave storica. In secondo
luogo, si assiste al recupero di un approccio psicologico. Nel senso che le fonti del potere e del
comportamento degli Stati hanno una componente psicologica, condizionata dalla percezione delle
minacce alla sicurezza e dalle opportunità di mutamento. Il recupero di questa dimensione psicologica
ha spinto il realismo ad abbandonare il tema dell’oscuro desiderio umano per il potere, per accogliere
l’idea della percezione come fonte cognitiva del comportamento politico.
Anche la tradizione critica è tornata a riflettere sul tema del potere, seguendo un approccio
neomarxista presentato da Robert Cox come nuovo realismo. A differenza del realismo dei realisti,
infatti, questa tradizione ha trovato spazio in un ripensamento riflettivista. Per Cox il livello strutturale
è di tipo globale. Ciò che conta è lo studio dei mutamenti politici in considerazione del modo in cui
gli Stati, guidati da forze sociali interne e transnazionali, sfruttano le occasioni offerte dalle
trasformazioni del sistema-mondo capitalistico. È al livello globale che gli Stati e le forze sociali
trovano risorse per mutare il sistema. Il nuovo realismo è quindi impegnato in un percorso contrario
rispetto al liberalismo e al realismo, nel senso che si sposta verso l’alto e non verso un ritorno a livelli
statale e individuale. Questo consente ai neomarxisti di mantenere il loro focus sulle forze sociali. Il
focus del realismo è stato il livello statale, il focus del liberalismo quello individuale e il focus del
marxismo quello delle classi o delle forze sociali. Per concludere, con l’avvento del neorealismo, il
paradigma realista ha spostato il suo focus dal livello statale a quello del livello sistemico o strutturale,
ma nel post-Guerra Fredda l’attenzione è tornata a livello statale. Con l’avvento del neoliberalismo,
anche il liberalismo ha spostato il suo focus sul livello strutturale. Ma oggi è l’attenzione sulla
formazione delle preferenze e sul conseguente comportamento degli Stati, quindi a livello
individuale. Il realismo e il liberalismo hanno traversato in verticale i livelli di analisi. Il
costruttivismo è riuscito a imporsi grazie alla sua capacità di attraversare i livelli di analisi, tra agente
e struttura. Il neomarxismo pone l’accento sull’approccio sociologico, in particolare sul ruolo delle
identità culturali, ma il suo metodo rimane storico.

Capitolo 2: La tradizione realista. Anarchia e asimmetria nel sistema politico


internazionale.
Il realismo ha rappresentato, e per molti versi ancora rappresenta, il paradigma principale delle IR.
Certo fin dagli anni ’70 ’80, ma con più forza dopo la fine della guerra fredda, l’emergere di nuovi
approcci analitici ha vanificato le pretese monopolistiche del paradigma realista inducendo non pochi
studiosi a decretarne l’eclissi. Ma il realismo è ben lungi dal definirsi obsoleto: al contrario, esso
palesa una perdurata vitalità e mantiene fondamentalmente intatta la sua utilità come guida alla
comprensione degli affari internazionali.
Il realismo nelle IR è solcato al suo interno da profonde divisioni, concernenti punti di dottrina e
questioni di metodo assai rilevanti. Da qui la famosa nota di Hoffman secondo cui “adesso siamo
tutti realisti, ma non esistono due realisti che presentano un’analisi concorde di ciò che è o dovrebbe
essere”. Tuttavia l’eterogeneità dal realismo non ci impedisce di enucleare gli assunti fondamentali,
tanto quelli unanimemente condivisi che quelli su cui il consenso è solo parziale:
• Centralità dello Stato

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• Anarchia internazionale
• Unitarietà e razionalità degli attori sociali
• Politica di potenza ed interesse nazionale
• Equilibro di potenza e politica delle alleanze
Inoltre, la maggior parte degli autori identificati come “realisti politici” è accomunata da un marcato
pessimismo antropologico, che mette capo ad una filosofia ciclica della storia, e da una concezione
conflittualistica della politica, che si compendia in poche assunzioni fondamentali:

• La realtà politica è in conflitto


• Il conflitto si governa con la forza
• Il conflitto produce ordine e forma attraverso l’instaurazione di gerarchia e comando
Gli assunti basilari condivisi da tutti i realisti delle IR si riducono a due:

• Centralità dello Stato


• Anarchia internazionale
L’assunto stato-centrico identifica gli Stati quali attori principali della politica internazionale. I
realisti non negano che nel sistema internazionale operino anche altri attori ma non sono convinti che
gli Stati restino comunque gli attori più importanti, anche perché all’occorrenza, come dice Waltz,
cambiano le regole che consentono agli attori non-Stati di operare. Un eventuale superamento dello
Stato, purché non conduca all’instaurazione di un governo mondiale, non comporterebbe di per se
conseguenze negative per la teoria realista. Si consideri che all’assunto Stato-centrico si accompagna
il postulato di razionalità, autonomia e unitarietà degli Stati, i quali si muoverebbero sulla scena
internazionali sia come attori autonomi e unitari, cioè relativamente svincolati dalle loro istituzioni
nazionali o dalle preferenze di segmenti particolari della loro società, sia come attori razionali che
calcolano con cura i costi di corsi di azione alternativi cercando di massimizzare la loro utilità attesa.
L’assunto dell’anarchia internazionale poggia sull’idea secondo cui gli Stati, che sono unità politiche
sovrane operino in un contesto strutturalmente anarchico, non nel senso caotico del termine, ma nel
senso etimologico dell’assenza di un’autorità sovraordinata monopolizzatrice della forza, alla quale
potersi appellare per ottenere giustizia e protezione. Se le relazioni interstatali si svolgono all’ombra
della guerra è proprio perché la politica internazionale, a differenza di quella interna, manca di
un’autorità centralizzata che provveda a garantire l’ordine. Riprendendo Waltz “nessuno ha diritto a
comandare nessuno ha il dovere di obbedire”. Di tale strumento si avvalgono anche molti studiosi
non realisti, che non hanno difficoltà ad indicare nell’assenza di governo la caratteristica
fondamentale della politica internazionale. Ciò che contraddistingue il realismo è il fatto di attribuire
all’anarchia internazionale un carattere di necessità e di naturalità. Il primato delle considerazione
spetta in questo contesto sicuramente alla sicurezza e al potere. Per via dell’assenza di procedure e
istituzioni atte a risolvere i conflitti, l’arena internazionale non può soggiacere ad altra legge che non
quella della forza: la forza non serve come ultima ratio ma anche come prima e costante. Ne consegue
che gli Stati si preoccupano sempre prima della loro sicurezza. A tal fine, gli Stati cercano di
preservare, e se possibile incrementare, tanto in termini quantitativi, tanto in termini qualitativi, le
loro risorse di potenza, anzitutto militari. La potenza militare è la moneta da cui dipendono le
gerarchie a livello internazionale. Di qui la centralità attribuita al realismo, alla lotta per il potere ed
alla politica di potenza (power politics), che non è di per sé una politica votata alla violenza, ma una
politica votata in via esclusiva al perseguimento dell’interesse nazionale. La condotta degli Stati non

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è suscettibile di giudizi morali fintanto opera nel perseguimento dell’interesse nazionale. Il solo
principio sui cui gli Stati possono fare affidamento per sopravvivere e salvaguardare i propri interessi
è quindi l’autodifesa (self-help). Il self-help, secondo Waltz, è il principio necessario dell’azione in
un sistema anarchico. I tentativi degli Stati di far da sé nel provvedere alle proprie esigenze di
sicurezza tendono a produrre una crescente insicurezza per gli altri, giacché ognuno interpreta le
proprie misure come difensive e le misure degli altri come potenzialmente minacciose. Si innesca
così una spirale di competizione perversa fatta di sfiducia reciproca, sospetto, paura e generale
insicurezza. Tale meccanismo è noto come dilemma della sicurezza. Qui entra in gioco un altro
concetto chiave nella teoria realista, al quale si ispira, fin dalle sue origini anche la pratica della
politica internazionale, ossia l’equilibrio di potenza (balance of power). Dei tanti significati quello
più comune si riferisce a una situazione caratterizzata da una distribuzione approssimativamente
uguale della potenza tra gli attori in campo. Assai frequente è anche l’uso del concetto nell’accezione
di meccanismo regolatore della politica internazionale. In questa accezione, l’espressione indica la
tendenza, da parte degli Stati che si sentono minacciati dalla crescita della potenza di uno Stato che
cerca di conquistare una posizione egemonica nel sistema internazionale, a intraprendere azione di
balancing volte a riequilibrare i rapporti di forza. Fra tali azioni rientrano sia lo sforzo individuale,
da parte degli Stati minacciati, di accumulare ulteriori risorse in modo tale da pareggiare quelle dello
sfidante, sia, ed è questa la principale manifestazione storica dell’equilibrio di potenza, la formazione
di alleanze formali o informali dirette contro lo Stato in ascesa. L’unica realtà che si deve scongiurare
è quella del bandwagoning, ossia salire sul carro del vincitore alleandosi con lo Stato in ascesa.
Perseguendo la teoria della Real Politique il nemico del mio nemico è il mio migliore amico. Il
balance of power può realizzarsi in vari modi:

• Dividi et impera che permette di non creare coalizioni troppo forti (è la strategia tra le più
applicate)
• Compensazione territoriale ovvero se uno Stato è troppo forte lo si smembra, ma questa è una
strategia di tempi remoti
• Strategie dissuasive che passando per la corsa agli armamenti hanno la funzione di deterrente,
avere tutti a disposizione armamenti nucleari funge da deterrente nell’utilizzo di questi
• Alleanze mirate che se pur possono portare a tante piccole guerre queste sono necessarie per
scongiurare le major war
La condizione necessaria perché si possa avere realmente la balance of power è che la distribuzione
di potenza deve far si che l’attore più forte non sia mai in grado di poter sconfiggere tutti gli altri
attori. La condizione sufficiente, invece, è che solo nella misura in cui gli attori adottano politiche di
balancing e non di bandawagoning si raggiunge un equilibrio di sistema. Per i realisti l’equilibrio si
raggiunge volontariamente per i neorealisti spontaneamente. Waltz ha introdotto un correttivo,
l’elemento della percezione della minaccia che è diventato estremamente importante. Occorre che gli
Stati non trascurino minacce crescenti e che mettano in moto politiche di balancing per gli Stati che
vengono percepiti come minaccia perché diversamente si andrebbe incontro ad una rottura degli
equilibri. La Cina è un esempio attuale di messa in crisi delle politiche di balancing.
Volendo ripercorrere le tappe salienti della storia del realismo nelle IR conviene distinguere fra
realismo classico, realismo eterodosso e neorealismo (e realismo strutturale). Nel realismo classico,
che domina il ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, confluiscono sia studiosi
che fanno discendere la perversità della lotta per il potere dalle caratteristiche immutabili dell’uomo,
sia studiosi che insistono piuttosto sull’irreconciliabilità dei diversi interessi nazionali e sull’anarchia

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internazionale come causa prima della conflittualità. Il realismo eterodosso riunisce quegli autori che
si sono sforzati di temperare i principi del realismo mediante la considerazione di fattori che il
realismo classico non considera come le caratteristiche interne delle unità politiche che compongono
il sistema internazionale, per esempio la forma di governo. Il neorealismo, origina dal tentativo,
attuato da Waltz sul finire degli anni settanta, di ricompattare la disciplina attorno ad una versione
rinnovata, più scientifica e rigorosamente deduttiva, della teoria realista.
Prima di soffermarsi sugli autori più rappresentativi delle diverse correnti del realismo, è bene
accennare ai precursori, Tucidide, Machiavelli e Hobbes. Il paradigma originario del realismo politico
prende forma in Tucidide intorno a:

• Una concezione secolarizzata della storia incentrata sulle categorie di necessità, caso e fattori
umani
• Un’antropologia naturalistica e pessimistica
• Una concezione conflittualistica della politica
• Una teoria della regolarità delle dinamiche di potenza
Sin dalle prime pagine di La Guerra del Peloponneso mette in chiaro qual è il suo intento, non
dilettare il lettore rievocando gesta eroiche, ma comporre un’opera che sia un acquisto per l’eternità
e sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è
avvenuto e che un giorno potrà ripresentarsi in maniera uguale o molto simile. Se la storia è destinata
a ripetersi è perché immutabile è la natura dell’uomo. In pratica Tucidide è stato il primo ad avanzare
l’idea, poi ripresa nella teoria della guerra egemonica, che la dinamica delle IR sia guidata dalla
crescita differenziale della Potenza fra gli Stati. Infatti la vera ragione che portò allo scoppio della
guerra del Peloponneso si può ritenere che sia stata la grande potenza raggiunta ad Atene che ha
costretto Sparta a dichiarare guerra. Tucidide getta le basi di quel realismo amorale di cui Machiavelli,
in età moderna, sarà considerato l’alfiere. Machiavelli, muovendo da un’assunzione antropologica
profondamente pessimistica, in quanto considera gli uomini ingrati, volubili, simulatori,
dissimulatori, fuggenti dal pericolo, cupidi di guadagno, e dalla convinzione che la conoscenza del
passato possa servire come guida per il futuro, si esercita nella decifrazione delle logiche di potere,
pervenendo a conclusioni nette:

• Il compito prioritario di chi governa è di difendere gli interessi del proprio Stato, garantendone
la sicurezza e la sopravvivenza come entità politica indipendente
• La ricerca della sicurezza si traduce inevitabilmente in uno sforzo egemonico volto
all’imposizione del proprio dominio sugli altri
• La coercizione e la violenza sono connaturate alla politica, la quale consiste essenzialmente
in una lotta che ha per fine il potere
• Il divenire storico è scandito dalla lotta per l’autoconservazione e l’autoaffermazione degli
Stati
Un impatto decisivo sulla scuola realista delle IR lo ha avuto la raffigurazione dello Stato di natura
offerta dal Leviatano del filosofo politico inglese Hobbes, il quale, postula una situazione originaria
di anarchia, cioè di assenza di un’autorità centralizzata, in cui, vige la guerra di tutti contro tutti. La
necessità conseguente dell’insostenibilità di questa condizione generale di insicurezza è l’istituzione
di un potere coercitivo superiore mediante la stipulazione di un patto con cui gli individui
conferiscono tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa
ridurre tutte le voci ad una volontà sola. Ma se i rapporti interindividuali possono emanciparsi nella
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logica del dilemma del prigioniero e dell’uso privato della forza, aprendosi a forme di cooperazione
costanti e durevoli tra individui, questa strada non può essere percorsa dagli Stati sovrani, i quali,
secondo Hobbes, vivono in una primitiva condizione di anarchia, e sono impossibilitati ad uscirne
perché ciò significherebbe rinunciare alla loro sovranità, ossia negare la loro stessa esistenza.
Riprendendo Hobbes, “gli Stati vivono nella condizione di guerra perpetua e in procinto di battersi,
con le frontiere fortificate e i cannoni puntati contro i vicini, e tutt’intorno”.
In seguito al fallimento della Società delle Nazioni e dell’imminente scoppio del conflitto più esteso
e distruttivo della storia, si assiste al collasso dell’intera struttura del pensiero utopista-idealista basato
sul concetto dell’armonia degli interessi. Alla fine del 1939 Carr pubblica un libro in The twenty
years’ crisis: 1919-1939 nel segno di un durissimo j’accuse contro l’idealismo e le illusioni di quanti,
nel ventennio precedente, avevano creduto che il flusso turbolento della politica internazionale
potesse essere canalizzato in un sistema di formule astratte logicamente inattaccabili ispirate alle
dottrine della democrazia liberale. La critica prende di mira soprattutto il postulato essenziale del
credo utopista, rappresentato dall’idea, che tra gli Stati esista una naturale armonia di interessi. Se le
tesi di Carr hanno strutturato la riflessione internazionalistica nel corso del primo dibattito, è a
Morgenthau che va attribuito il ruolo indiscusso di caposcuola del realismo classico. Il suo Politics
Among Nations è il libro più influente e più dibattuto di tutta la storia delle relazioni internazionali.
In esso, Morgenthau, dichiara fin dalle prime righe il suo intento, ossia quello di elaborare una teoria
di politica internazionale, empiricamente fondata e logicamente coerente, che dia ordine a significato
ad una massa di fenomeni che senza di essa rimarrebbero sconnessi. Morgenthau non si limita a
criticare la scuola di pensiero idealista, ma si preoccupa di sistematizzare le assunzioni più tipiche
della scuola realista, alla quale attribuisce il merito di aver compreso che il mondo imperfetto da un
punto di vista razionale è il risultato di forze inerenti alla natura umana e che quindi per migliorarlo
è necessario operare assecondando queste forze e non contro di esse. Morgenthau enuncia quindi i
sei principi fondamentali del realismo politico:

• Il realismo politico ritiene che la politica sia governata da leggi che hanno la loro origini nella
natura umana
• Il realismo politico riconosce che la principale indicazione che aiuta a orientarsi nel
palcoscenico politico è il concetto di interesse definito in termini di potere
• Il realismo politico riconosce che l’interesse definito come potere è una categoria
universalmente valida
• Il realismo politico riconosce l’inevitabile tensione fra il principio morale e i requisiti di una
politica di successo
• Il realismo politico rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una particolare nazione con
le leggi morali che la regolano
• Il realista sostiene l’autonomia della sfera politica
Secondo Morgenthau per comprendere la politica internazionale bisogna occuparsi delle forze che
hanno plasmato il passato e che plasmeranno il futuro, delle leggi fondamentali che si evincono
soltanto mettendo in relazione gli eventi più recenti col passato più remoto analizzando i tratti perenni
della natura umana. Si scoprirà così che la naturale socievolezza dell’uomo, con annessa armonia di
interessi tra le nazioni, non esiste: è la brama di potere, inteso come il controllo dell’uomo sulle menti
e sulle azioni di altri uomini, a permeare di se ogni tratto dell’esistenza umana. La politica non è altro
che la lotta per il potere (struggle for power). Questa lotta, mentre a livello nazionale è disciplinata
dallo Stato, nell’arena internazionale, a causa dell’assenza di autorità centralizzata monopolizzatrice

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della forza, gli Stati sono costretti a una lotta incessante in difesa dei propri interessi, definiti in
termini di potere. L’unico fattore stabilizzante, comunque precario, delle relazioni internazionali è
l’equilibrio di potenza. Possiamo concludere che l’intera costruzione teorica di Morgenthau ruota
attorno al concetto di interesse nazionale definito in termini di potere. Un’altra figura di spicco del
realismo classico è il teologo statunitense Niebuhr considerato dallo stesso Morgenthau un maestro
della filosofia politica realista. Con Niebuhr è messa in risalto essenzialmente l’intonazione cristiana
del realismo, evidente nel richiamo costante alla dottrina del peccato originale. La peccaminosità
dell’uomo è frutto della sua tendenza a ribellarsi a Dio e alla finitezza della propria condizione di
creatura. Il realismo cristiano di Niebuhr coglie bene la specificità della dimensione politica, ma non
rinuncia a cercare la via di una possibile riconciliazione tra le leggi dell’etica e quelle della politica,
sostenendo che la Realpolitik è un’amara necessità che gli uomini di Stato hanno il dovere di
moderare, attraverso l’applicazione dei principi di responsabilità e prudenza. Se il potere è la posta in
gioco della lotta politica, la sua limitazione è la sfida cruciale cui sono chiamate le moderne
democrazie.
L’autore di maggior spicco fra i realisti eterodossi è senza ombra di dubbio il francese Aron, che tra
gli studiosi delle IR occupa un posto particolare in quanto studioso profondamente europeo in una
disciplina configurata come scienza americana. Aron mostra come per comprendere le relazioni
internazionali sia necessario fare riferimento a quattro livelli di concettualizzazione:

• Teorico: definizione dei concetti generali che devono orientare la ricerca


• Sociologico: l’individuazione dei determinanti e delle regole empiriche
• Storico: l’analisi delle diverse fattispecie diplomatiche
• Praseologico: l’esame dei dilemmi morali delle azioni diplomatico-strategiche
L’analisi aroniana muove dal riconoscimento dell’alternanza continua della pace e della guerra però
critica la concezione che riduce la politica a regno della pura forza e la politica internazionale a
Matchpolitik (politica di potenza). Tale concezione distorce il senso della politica, che è sia lotta tra
individui e tra i gruppi per accedere ai posti di comando e spartirsi i beni rari, ma è anche nel contempo
ricerca dell’ordine equo. La condotta esterna degli Stati non è dettata soltanto dal rapporto delle forze,
in quanto le idee e i sentimenti influiscono sulle decisioni degli attori. Certo, nell’arena internazionale,
dove la pluralità dei centri autonomi di decisione genera un rischio permanente di guerra, grava sugli
Statisti l’obbligo del calcolo delle forze, ma questo non è né il primo né l’ultimo atto della condotta
diplomatico-strategica. A seconda dei regimi, i governanti pensano diversamente la politica estera,
quindi si sbaglierebbe a credere che le loro decisioni non cambiano da un regime all’altro. Aron
individua nello spazio (geografia), nella popolazione (demografia) e nelle risorse (economia) i
determinanti materiali della politica estera, mentre le nazioni con i loro regimi politici, le civiltà e
l’umanità intera ne costituiscono i determinanti morali e sociali.
Se nel secondo dopoguerra il realismo si impone come il paradigma dominante delle IR, nel corso
degli anni ’70 la sua influenza, a fronte del rifiorire del paradigma liberale soprattutto all’avvio della
distinzione dalla moltiplicazione degli attorii non statuali e dalla crescente interdipendenza dalle
economie, si fa meno evidente. A riaffermare la centralità del paradigma realista provvede, sul finire
degli anni ’70, Waltz, il quale con la pubblicazione di Theory of International Politics opera quello
che potrebbe essere definito il superamento di un gradino lungo la scala che porta alla costruzione del
corpus teoretico di una disciplina. Volendo porre rimedio a quelli che considera gli errori capitali del
realismo classico dà vita ad un tentativo riuscito di sistematizzare il realismo politico in un rigoroso
sistema teorico deduttivo della politica internazionale, proponendo una versione rinnovata della storia

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realista. Per Waltz una teoria doveva avere le caratteristiche di un costrutto coerente piuttosto che una
collezione di leggi ricavate induttivamente dall’osservazione, magari tra loro isolate o addirittura
senza connessione logica. Evidentemente il sentiero aperto da Keplan fu di grande utilità per Waltz.
L’idea di fondo, comune ad entrambi, rimaneva che qualunque tipo di sistema è in grado di
raggiungere una stabilità dinamica senza l’intervento necessario di singoli fattori causali. Se Keplan
tentò di tenere insieme il comportamentismo e la teoria dei sistemi, Waltz si concentrò esclusivamente
sulla teoria dei sistemi, in particolare sul sistema politico internazionale, separandolo sia dal livello
delle unità che lo compongono, ovvero sia gli Stati, sia da altri tipi di sistemi internazionali,
economico e sociali. Keplan elaborò più modelli di sistema, in analogia con l’economia, senza però
definirli chiaramente tra livello degli Stati e livello sistemico. Waltz elaborò anche egli in analogia
con l’economia una teoria del sistema politico internazionale, ma a partire dalla natura della struttura
politica e chiarendo il nesso fra i due livelli, statale e sistemico. Secondo Waltz tutti i sistemi
sviluppano strutture che premiano e puniscono il comportamento delle unità, ovviamente nella misura
in cui queste si conformano alle esigenze di stabilità del sistema. In considerazione dei vincoli o delle
costrizioni strutturali imposte dal sistema, le preferenze degli Stati passano in secondo ordine e la
ricerca della preferenza e delle determinanti interne della politica estera diventa riduzionista. Le tesi
esposte in Theory of International Politics possono considerarsi frutto di un’elaborazione
intellettuale iniziata con Man, The State and War. In questa prima opera, Waltz affronta in modo
originale la fondamentale questione dei livelli di analisi nelle IR, osservando come le teorie che hanno
tentato di spiegare le origini della guerra siano riconducibili a tre diversi livelli di causazione, che
egli chiama immagini:

• Natura dell’uomo
• Caratteristiche interne degli Stati
• Il contesto strutturalmente anarchico in cui gli Stati operino
Waltz esprime una nette preferenza per la terza immagine, la quale, spostando il focus dell’analisi sui
vincoli che l’anarchia internazionale impone all’azione degli Stati, spiega, perché, in assenza di
mutamenti straordinari dei fattori presenti nella prima e nella seconda immagine, l’esistenza di Stati
sovrani indipendenti porta con se la possibilità perpetua della guerra. L’opzione in favore della terza
immagine è ribadita da Waltz in Theory of International Politics, il cui obiettivo dichiarato è quello
di elaborare una teoria della politica internazionale in grado di porre rimedio alle lacune delle teorie
attuali. Waltz esamina criticamente un ampio ventaglio di teorie riduzioniste mostrandone
l’incapacità di spiegare perché, a livello internazionale, gli esiti delle interazioni tra Stati spesso non
corrispondono alle intenzioni degli attori e le stesse cause a volte producono effetti diversi, così come
effetti uguali derivano da cause differenti. Ciò prova, secondo Waltz, che vi è qualcosa che funziona
come elemento di costrizione sugli agenti. Questo qualcosa è la struttura del sistema internazionale,
per studiare quale prospettiva sistemica è necessaria da adottare, ossia un approccio che, definito il
sistema come un insieme di unità interagenti, sia capace di distinguere e tenere separati il livello delle
unità e delle loro interazioni e quello della struttura. Per spiegare la politica internazionale non sono
sufficienti le teorie riduzioniste ma è indispensabile una teoria che analizzi il modo in cui la struttura
del sistema internazionale agisce da forza ordinatrice e di costrizione sulle unità che interagiscono al
suo interno, premiando certi comportamenti e penalizzandone altri. Per Waltz, la struttura di un
sistema è definita da tre elementi:

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• Il principio ordinatore (che dà la prima e basilare informazione su come le unità del sistema
si pongono in relazione fra loro)
• La specificazione delle funzioni delle unità
• La distribuzione del potere fra le unità
Mentre nei sistemi politici nazionali, il principio ordinatore è la gerarchia, nel sistema politico
internazionale dove tutti gli Stati sono formalmente uguali, il principio dominante è l’anarchia. Waltz
insiste sul fatto che gli Stati non mirano a massimizzare la potenza, bensì la sicurezza. Ed è proprio
il timore dei pericoli che, in un sistema imperniato sull’autodifesa, incombono su chi non è in grado
di provvedere da sé alla propria sicurezza che stimola gli Stati a comportarsi in modi che tendono alla
creazione di equilibri. Da ciò deriva la preferenza per la bipolarizzazione del sistema. Infatti, mentre
nei sistemi bipolari la politica di bilanciamento si basa prevalentemente su sforzi interni, in quelli
multipolari gli Stati ricorrono soprattutto a sforzi esterni per rafforzare o allargare le proprie alleanze.
In un sistema multipolare l’equilibrio è meno stabile che in un sistema bipolare.
Gilpin si è occupato del modello di analisi del mutamento politico che poggia su cinque assunti:

• Un sistema internazionale è stabile (ovvero in stato di equilibrio) se nessuno Stato ritiene


vantaggioso un mutamento del sistema
• Uno Stato tenterà di mutare il sistema internazionale se i benefici che si attende da questo
mutamento superano i costi
• Uno Stato cercherà di cambiare il sistema internazionale attraverso l’espansione territoriale,
politica ed economica fino a quando i costi marginali di un ulteriore cambiamento non
uguagliano o superano i benefici marginali
• Raggiunto un equilibrio tra costi e benefici, i costi economici del mantenimento dello status
quo tendono a crescere più rapidamente della capacità economica di sostenere lo status quo
• Se non si risolve lo squilibrio, il sistema verrà modificato e si stabilirà un nuovo equilibrio
Quindi, secondo Gilpin, il sistema internazionale va organizzandosi, in ogni particolare momento
storico, in base a un ordine che riflette la distribuzione della potenza tra gli Stati principali del sistema.
Col tempo, gli interessi e il potere degli Stati cambiano, con effetti destabilizzanti per gli assetti
internazionali, che passano da una condizione di equilibrio a una di squilibrio. Nel corso della storia
il principale meccanismo di cambiamento internazionale è stato “la guerra per l’egemonia”, la cui
funzione è appunto quella di ridefinire l’ordine internazionale in conformità alla nuova distribuzione
del potere nel sistema.
Di tutti gli approcci quello della polarità è sicuramente il più efficace. Le asserzioni su cui esso si
fonda sono ricapitolate da Buzan in un libro dal titolo The United States and the Great Powers
destinato a rimanere a lungo un punto di riferimento per tutti gli analisti del sistema internazionale
contemporaneo:

• Il potere è la forza o una delle forze fondamentali che governano le IR


• Gli attori più potenti sono gli Stati
• Le IR sono state dominate da un numero relativamente contenuto di grandi potenze
• Prese collettivamente, queste grandi potenze controllano la maggior parte delle risorse
materiali all’interno del loro sistema
• Per comprendere le IR basta guardare alla struttura e al processo delle relazioni che
intercorrono tra le grandi potenze

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• I numeri sono importanti, soprattutto quelli piccoli. Di conseguenza si possono raggruppare i
sistemati caratterizzati da almeno 4 o 5 grandi potenze considerandoli multipolari e trattandoli
come un’unica categoria
Dopo la fine della guerra fredda il dibattito sulla polarità si è notevolmente complicato, in quanto è
in gioco la stessa definizione della struttura del sistema post bipolare. Consensi prevalenti raccoglie
la tesi secondo cui alla fine del bipolarismo è seguita l’affermazione di un sistema tendenzialmente
unipolare, imperniato su una egemonia americana ancora oggi sostanzialmente priva di credibili
sfidanti globali. Per alcuni l’aspetto unipolare è strutturalmente instabile, destinato a lasciare spazio
ad altre configurazioni di potere, per effetto del bilanciamento, per motivi di sicurezza, da una
coalizione di potenze di secondo rango, o a causa dell’emergere di uno sfidante capace di colmare il
gap che lo divide dalla potenza americana dominante. Per altri, invece, si tratta di un assetto solido,
duraturo, e suscettibile di protrarsi per tutto il XXI secolo, per le ottime ragioni che non ci sono segni
di bilanciamento nei confronti degli USA, ne si vede chi possa o abbia davvero interesse a sfidare in
un prossimo futuro, la supremazia americana, non solo perché questa si fonda su un divario di risorse
e di potere che non ha uguali nella storia, ma anche perché si esercita in una forma benevola che
garantisce vantaggi a tutti gli attori del sistema in termini di beni pubblici altrimenti inattingibili. Alla
luce di tutto ciò le teorie realiste continuano a esercitare il loro potere nella costruzione delle nostre
idee del presente. I loro assunti, sia come costrutti teorici, sia come lezioni trasferite da una
generazione di decision maker all’altra, contribuiscono a suscitare determinate concezioni a
disposizione dell’azione. Per cui il realismo rappresenta ancora uno strumento ermeneutico
necessario alla comprensione della politica mondiale.
Vi sono questioni importanti che la fine della guerra fredda ha riportato al centro dell’attenzione, ma
che il paradigma realista ha difficoltà a trattare in maniera persuasiva.

• La pluralità degli attori non statuali e il declino dello Stato. Sia la crescita impetuosa degli
attori non statuali, sia il declino dello Stato, esposto all’erosione da parte dei processi di
globalizzazione, metterebbe il paradigma realista, fortemente caratterizzato dalla sua visione
Stato-centrica, di fronte ad una insuperabile difficoltà. Ad ogni modo il realismo richiede
semplicemente l’anarchia, in quanto anche se lo Stato sparisse, questo non vorrebbe dire la
fine della competizione per la sicurezza e la guerra.
• Il ruolo delle istituzioni internazionali e l’anomalia dell’UE. Secondo il paradigma gli Stati
sono estremamente riottosi ad attribuire importanza alle istituzioni internazionali o a
consentire a queste di limitarne la loro libertà di azione. Come spiegare allora l’impegno
costante profuso dai paesi dell’Europa occidentale nella costruzione dell’UE? Una risposta
potrebbe essere che le istituzioni sono fatte di regole e prassi che offrono ai partner
relativamente più deboli l’opportunità di far sentire la propria voce, e a quelli più forti
(Germania su tutte) di esercitare la propria egemonia in modo efficiente e sotto una copertura
di falsa eguaglianza tale per cui viene meno la resistenza.
• Il nesso interno-esterno e il ruolo della democrazia liberale. Per il realismo si tratta di
riconoscere il condizionamento talora decisivo esercitato sulla politica estera degli Stati, che
sfugge da qualsivoglia tentativo di determinazione a priori, da quei fattori, a cominciare dalle
ideologie e dalla diversità dei regimi politici, che rimandano ai mutevoli attributi delle unità
del sistema, gli Stati, e alla percezione degli attori. Quando poi al ruolo delle democrazie
liberali nelle IR, occorre considerare le osservazioni di Panebianco che fa notare come solo le
democrazie stabili instaurano fra loro la pace democratica, favorita dalla componente liberale

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della democrazia. Ma molte delle democrazie annoverate come tali non sono democrazie
liberali, neppure alla lontana. Le democrazie utilizzano lo strumento dell’intervento armato
con più frequenza di altri regimi politici
• L’absolescenza della guerra tra paesi sviluppati. Muller ha sostenuto che tra paesi sviluppati,
la guerra, al pari di altre vecchie pratiche cadute in disuso sia diventata obsoleta. L’idea che
la guerra costituisca lo strumento per risolvere i conflitti di interesse è caduta in un crescente
discredito ed è stata progressivamente abbandonata. La tesi di Muller, ovviamente, deve
essere presa in considerazione riferendola alla major war.

Capitolo 3: La tradizione liberale. I diversi sentieri di un paradigma pluralista


La tradizione liberale è una delle più longeve della storia dell’analisi della politica internazionale, tra
i padri ispiratori possiamo citare Kant, Smith e Cobden. Dalla fondazione delle IR, dopo la prima
guerra mondiale, il liberismo, in costante interazione con il realismo, ne ha definito i contorni, i
soggetti principali e i temi di dibattito. Si potrebbe addirittura affermare che le due tradizioni si sono
sviluppate storicamente l’una nell’interazione dell’altra. Entrambe le discipline si sono sviluppate in
ambito statunitense, tanto che Hoffman la definiva “una scienza politica americana”. Il liberismo, al
pari del realismo, è stato influenzato dal periodo storio in cui la disciplina si è affermata, ovvero la
guerra fredda.
Il liberismo è una scuola di pensiero molto ricca e articolata che presenta al proprio interno una varietà
di approcci maggiore di qualsiasi altra tradizione internazionalistica consolidata. Il soggetto di
riferimento principale è l’individuo, sul quale le conseguenze delle scelte dello Stato ricadono. Non
soltanto i primi liberali ponevano alla base della propria analisi assunti sulla natura umana (questa
volta positivi), ma nella maggior parte della letteratura liberale contemporanea gli attori sono il
prodotto di azione di individui. Il risultato è pertanto un mondo molto più variegato di quello descritto
dai realisti. Nel mondo articolato di concezione liberale lo Stato è uno Stato di diritto, nel quale il
rapporto governato da leggi tra governanti e governati influenza anche le decisioni di politica estera.
Quello liberale è uno Stato sensibile alle regole e alle istituzioni ed ha tendenza a crearne anche nel
contesto internazionale, facilitando in tal modo i rapporti cooperativi tra gli Stati. Uno Stato che si
dota di istituzioni liberal-democratiche garantisce maggiore pace e benessere a tutti. Un ulteriore
differenza tra liberismo e realismo è la fiducia liberale nella possibilità del progresso. L’ottimismo è
un tratto distintivo soprattutto nei primi pensatori liberali. La guerra fredda e l’avvento del nucleare
hanno attenuato il naturale ottimismo di fondo, ma non lo hanno cancellato tanto che Clark ha definito
quella liberale come la tradizione dell’ottimismo. All’ottimismo è associata, soprattutto, la
convinzione che il progresso della condizione umana sia possibile. I primi pensatori riconducibili a
queste corrente sono infatti proprio quei pensatori moderni che per primi formulano proposte per la
costruzione di una pace stabile dentro e/o tra gli Stati: Erasmo da Rotterdam, Penn, Locke, Bentham,
Kant. Il cambiamento al quale pensano i liberali fin dagli esordi è quello che porta ad un mondo più
pacifico e di maggior benessere. La teoria tende conseguentemente ad essere normativa, ovvero
fondata su una visione del dover essere, oltre che esplicativa e descrittiva. Strumenti fondamentali
per la costruzione della pace sono il diritto, l’assetto democratico interno agli Stati, le regole che gli
Stati concordano tra loro dando vita ad istituzioni internazionali ed il commercio, considerato da
Adam Smith foriero di pace. La cooperazione, pertanto, nel mondo liberale non solo è possibile ma
auspicabile e facilitata dalla mutua dipendenza degli Stati che sarà tanto maggiore quanto più questi
intratterranno relazioni economiche e politiche. In questo contesto, al contrario della tradizione

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realista, l’interdipendenza è positiva perché incentra la cooperazione tra gli Stati e se istituzionalizzata
porta alla pace.
Per comprendere il liberismo nelle IR occorre ripercorrere brevemente le radici. Innanzitutto bisogna
tenere in considerazione il liberismo classico di Smith, Cobden e Kant. A questi autori si ispira la
larga parte del pensiero liberale contemporaneo nelle IR. Il secondo approccio è quello idealista, in
risposta al quale si genera il cosiddetto primo grande dibattito della disciplina. Infatti è proprio in
risposta alla visione del mondo e al progetto politico proposto da politici ed intellettuali come Wilson
che si afferma il realismo. L’avvento della seconda guerra mondiale e la successiva definizione della
guerra fredda creano le condizioni per una predominanza della tradizione realista e un ruolo marginale
del liberismo nei dibattiti della disciplina. Però con la distensione dei primi anni 70, il presentarsi
sulla scena internazionale di nuovi Stati con il processo di decolonizzazione di Africa e Asia, e di
attori non statuali sempre più rilevanti, nonché con la dimostrazione dell’importanza della dimensione
economica nei rapporti internazionali, che si inaugura un nuovo periodo favorevole al rifiorire del
paradigma liberale nella sua forma più spiccatamente pluralista. La fine della distensione e la critica
di Waltz alla teoria dell’interdipendenza portano prima alla ridefinizione della teoria
dell’interdipendenza in interdipendenza complessa ad opera di Keohane e Nye, e poi alla
formulazione di una risposta liberale alla teoria dei regimi. Gli anni 80 sono anche il rilancio del
paradigma liberale nella sua versione neokantiana e la formulazione della teoria della pace
democratica. E con gli inizi degli anni ’90, tuttavia, che il liberismo riassume un ruolo di primo piano
nei grandi dibattiti delle IR, con l’interazione tra istituzionalismo neoliberale e neorealismo. Sarà
proprio la sintesi neo-neo ad evidenziare un avvicinamento tra i due paradigmi. L’ultima evoluzione
del paradigma liberale si può trovare in quegli approcci costruttivisti che più adottano concetti tipici
del liberalismo e, ad esempio, guardano all’espansione delle norme nella politica internazionale.
Possiamo individuare due correnti, l’una che vede la costruzione della pace attraverso il commercio
e l’altra attraverso il diritto. Nel primo caso, ovvero la pace veicolata dal commercio, gli autori di
riferimento sono Smith e Cobden. Smith pone al centro della sua riflessione la fiducia nella capacità
del mercato di riequilibrare automaticamente, quasi vi fosse una mano invisibile, le azioni degli
individui che perseguono il proprio interesse individuale. Il risultato è una naturale armonia degli
interessi. Malgrado Smith non estenda l’armonia degli interessi ai rapporti tra gli Stati, suoi interpreti
del XIX secolo Cobden affermano che anche a livello di commercio internazionale la mano invisibile
del mercato è in grado di armonizzare gli interessi degli Stati portando di fatto a relazioni pacifiche.
Cobden critica l’imperialismo britannico e ripone più fiducia nella diffusione dei commerci e nella
diffusione dell’educazione che nell’operato dei governi. Per quanto concerne la seconda corrente,
ovvero quella che crede in una pace veicolata dal diritto, il punto di riferimento è senza dubbio Kant,
la cui opera, Per la pace perpetua influenza significativamente la tradizione internazionalista
liberale. In Per la pace perpetua, Kant individua tre condizioni fondamentali per l’instaurazione di
una pace perpetua tra gli Stati:

• Una costituzione repubblicana: ovvero uno Stato governato dal diritto e dalla separazione dei
poteri
• Un accordo di non belligeranza tra gli Stati Repubblicani
• L’affermazione del diritto cosmopolito
Alla base dell’intero progetto, tuttavia, la condizione che pare prevalere è quella dello Stato di diritto
interno agli Stati, caposaldo della pace democratica.

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Angel nel suo libro The Great Illusion mostra come la convinzione dei leader politici che si possa
ottener potere e benessere attraverso il conflitto armato è una grande illusione. L’interdipendenza tra
gli Stati ad economia sviluppata è tale che questi beneficiano molto più della pace e del commercio
che delle conquiste militari. Lo scoppio della prima guerra mondiale sembra smentire la tesi di Angel
che tuttavia non ha mai affermato che l’interdipendenza renda la guerra impossibile, ma irrazionale.
Nel dopoguerra, in linea col proprio pensiero, Angel condanna il trattamento vessatorio della
Germania, auspica un sistema di sicurezza collettivo inclusivo anche della Germania e sostiene la
Società delle Nazioni.
Wilson, professore universitario prima, presidente dell’ASPA poi, e infine presidente degli Stati Uniti
incarna quella relazione stretta tra disciplina delle IR ed evoluzione della politica internazionale. La
decisione di maggior rilievo della sua presidenza è senza dubbio l’entrata in guerra degli USA nel
1917. Il suo annuncio di una guerra per rendere il mondo sicuro per la democrazia e porre termine a
tutte le guerre anticipa il progetto di costruzione di un ordine pacifico che prevenga guerre future. Il
progetto viene articolato alla fine della prima guerra mondiale nei suoi famosi 14 punti, che
individuano nell’uguaglianza delle nazioni, nell’autogoverno dei popoli, nella libertà dei mari, in una
riduzione generalizzata degli armamenti, nel libero commercio e nella creazione di un’organizzazione
internazionale gli strumenti principali per la creazione di una pace duratura. I punti di Wilson
costituiscono la base per le trattative di pace di Parigi che chiudono la prima guerra mondiale. I 14
punti attireranno pesanti critiche nel momento in cui il congresso americano non ratifica l’entrata
nella Società delle Nazioni.
Il periodo che segue la seconda guerra mondiale vede una battuta di arresto del paradigma liberale,
duramente colpito prima dal fallimento della SdN e dall’avvento della seconda guerra mondiale, poi
dall’affermarsi della guerra fredda. Con la progressiva affermazione della logica della deterrenza tra
due superpotenze nucleari, pochi sono gli spazi per un’analisi in chiave liberale se non guardando a
un’area del mondo nella quale i principi liberali stanno dando i loro frutti: l’Europa occidentale.
L’idea di una federazione di Stati era già apparsa nel 1700 con l’opera dell’abate di Saint-Pierre, ma
è con la fine della prima guerra mondiale che si porta all’attenzione delle istituzioni l’ipotesi della
creazione di un’Europa federale. La proposta trova terreno fertile e si fa strada solo dopo la fine della
seconda guerra mondiale. Il progetto si concretizza nel 1951 con la nascita della CECA, progetto che
vede coinvolti Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. L’idea è semplice e
intrinsecamente liberale: creare un’istituzione nella quale gli Stati europei che hanno combattuto due
guerre mondiali collaborino in aree cruciali dell’economia nazionale, il carbone e l’acciaio, con l’idea
che questo possa innescare un processo di ampliamento delle aree di cooperazione istituzionalizzata
tra gli Stati membri. Dopo aver analizzato il fallimento della SdN, Mitrany propone un approccio alla
costruzione della pace che potremmo definire “funzionale” e che passa per l’aumento
dell’interdipendenza e dei legami transnazionali tra gli Stati. La via principale per la creazione di tali
legami è una cooperazione in settori nei quali giocano un ruolo fondamentale i tecnici, e non i politici,
e nei quali è più facile cooperare. L’avvio della cooperazione in un settore porterebbe poi
all’ampliamento della cooperazione anche in altri settori, fino ad includere quelli a più alto contenuto
politico attraverso un processo che Mitrany chiama di “ramificazione”. La ramificazione altro non è
che un circolo virtuoso di cooperazione che si amplia di settore in settore originando una rete di
norme, procedure e strutture che mutano le percezioni e le azioni dei protagonisti della politica
internazionale. Haas rivede la teoria di Mitrany, mettendo a punto quello che possiamo definire un
approccio neofunzionale. Anche Haas riconosce che la cooperazione in un settore contagia gli altri
attraverso un meccanismo che lui chiama spillover. Nel processo il ruolo più importante, però, non è

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giocato dai tecnici, ma dalle èlite dei settori pubblici e privati, motivate dai loro interessi. Lo spillover
non è dovuto al mero riconoscimento dei vantaggi della cooperazione, ma piuttosto alla frustrazione
degli Stati che collaborano in specifici settori funzionali, che non possono permettersi di rinunciare
alla cooperazione e cercano di ovviare all’insoddisfazione espandendo la collaborazione nel settore
specifico e in settori vicini. Inoltre Haas e gli altri funzionalisti notano la presenza di altri due
fenomeni nei processi di integrazione:

• La politicizzazione: tendenza a trattare in chiave politica anche problemi meramente tecnici


• L’esternalizzazione: tendenza da parte degli Stati che sono parte del processo di integrazione
ad assumere atteggiamenti analoghi di fronte a Stati terzi
Nello stesso periodo in cui vengono elaborate le prime versioni delle teorie funzionaliste
dell’integrazione, guardando a un’altra organizzazione, l’Alleanza Atlantica, Deutsch mette a punto
una teoria dell’integrazione di ispirazione liberale ma dalle caratteristiche assai diverse. Deutsch
teorizza la possibilità che un gruppo di Stati formi quella che potremmo definire una comunità nella
quale viene meno il dilemma della sicurezza. Una comunità di sicurezza pluralistica si realizza
quando tra gli Stati c’è:

• Compatibilità di valori fondamentali


• Mutua lealtà
• Aspettative reciproche di cambiamento pacifico
Particolarmente importanti nelle comunità di sicurezza sono i legami transnazionali e le
comunicazioni tra società. Deutsch vede nell’Alleanza Atlantica un esempio del primo caso di
comunità di sicurezza. Un secondo caso potrebbe essere rappresentato dall’UE.
Se durante la prima fase della guerra fredda il pensiero liberale è marginale rispetto ai grandi dibattiti
sulla deterrenza che dominano la disciplina, con l’inizio degli anni ’70 e l’avvio della distensione tra
i due blocchi si creano le condizioni per un ritorno del paradigma liberale al centro dei dibattiti. Il
paradigma liberale riemerge nella sua versione più pluralistica. Nel suo World Society, Burton
propone una rappresentazione della politica internazionale “a ragnatela” secondo la quale ogni Stato
di fatto è l’insieme di una molteplicità di gruppi (religiosi, professionali, ecc), ciascuno con propri
interessi e legami con l’esterno. Il risultato è una rete di comunicazioni e un sistema di appartenenze
multiple. Keohane e Nye notano che esistono una pluralità di attori non statuali sulla scena
internazionale. Come i teorici dell’integrazione, notano anche l’importante presenza di fattori
economici accanto ai fattori politici, ritengono che la cooperazione internazionale sia possibile e che
esistano condizioni che la facilitano (l’interdipendenza). Non considerano lo Stato obsoleto e
insistono sull’importanza delle relazioni internazionali.
Dal foedus pacificum kantiano alla Società delle Nazioni, molte sono state le proposte di costruzione
della pace attraverso istituzioni multilaterali. Il liberismo ha visto nella codificazione di regole e, nella
creazione di istituzioni formali, uno strumento per una cooperazione. Ciò a cui si assiste sempre più,
sono forme di cooperazione multilaterale à la carte. Gli stessi Stati Uniti, hanno praticato un
multilateralismo non vincolante. La pratica unilaterale degli Stati Uniti è letta come il risultato del
loro status di unica superpotenza, anche se da più parti i liberali ricordano come anche una
superpotenza abbia bisogno degli altri. Un aspetto specifico dell’azione multilaterale è quello della
sicurezza collettiva. L’istituzione principe del sistema di sicurezza collettiva globale, la Società delle
Nazioni, è frequentemente in difficoltà e bloccata da veti e vittima della tensione. La politica
internazionale e il liberalismo vivono la stessa tensione, che trova la sua massima espressione nella

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dottrina della responsabilità a proteggere. La dottrina stabilisce il dovere di ogni Stato a proteggere
i propri cittadini, ma anche il dovere della comunità internazionale di intervenire (non
necessariamente militarmente) nel caso in cui uno Stato non riesca a garantire l’incolumità dei propri
cittadini.

Capitolo 4: La tradizione critica. Le logiche della politica internazionale nelle


teorie marxiste
Dagli anni novanta del secolo scorso ha cominciato a prendere forma una sorta di revival marxista il
quale propone letture di Marx lontane sia dall’oleografia coltivata dall’Unione Sovietica, sia dalle
coordinate del marxismo degli anni sessanta e settanta del Novecento. Si riprendono infatti, alcune
nozioni di base della critica marxiana dell’economia politica, non si abbandonano dunque le
acquisizioni chiave della riflessione postmodernista, del pensiero femminista e della svolta culturale.
Marx era sostenitore di un’analisi che poggia sulla convinzione che il capitalismo sia destinato ad
estendersi a tutto il pianeta e che il capitale, per sua stessa natura, deve “tendere ad abbattere ogni
ostacolo locale che si frappone allo scambio, e conquistare la terra intera come suo mercato”. Le
teorie dell’imperialismo tentano in effetti di offrire una soluzione a quelle domande lasciate da Marx
senza risposta. Analogamente ai pensatori del realismo politico, anche le teorie marxiste
concepiscono infatti la storia umana come segnata dal conflitto e dalla violenza ma i marxisti, a
differenza di quanto fanno i realisti classici, non pensano che il conflitto sia il risultato della “natura
umana”. Nella loro prospettiva, il conflitto scaturisce piuttosto dall’assetto dei rapporti sociali di
produzione e assume pertanto la forma di un conflitto tra classi contrapposte. Inoltre se i realisti
intendono la storia come dominata da regolarità che si ripetono ciclicamente, i marxisti concepiscono
invece il processo storico in termini lineari; anche i marxisti ritengono che la storia umana sia
indirizzata verso una meta di progresso. I liberali ritengono però che il progresso possa essere
raggiunto tramite l’attitudine cooperativa degli esseri umani. Al contrario, Marx e molti suoi epigoni
pensano che la strada verso il progresso sia segnata dalla violenza e dal conflitto e che la pace
diventerà possibile solo nel momento in cui le divisioni di classe saranno scomparse. La prima
generazione dei marxisti riconosce nella lunga depressione di fine ottocento, quella crisi che dovrebbe
causare il crollo complessivo della produzione capitalistica. Quando l’economia mondiale supera la
crisi, gli epigoni si trovano davanti al compito di comprendere quali motivi possano spiegare la
rinnovata vitalità del capitalismo. Gli stessi Marx ed Engels avevano attirato l’attenzione su alcune
controtendenze, tra cui l’organizzazione dei datori di lavoro, l’esportazione dei capitali, la formazione
dei monopoli, l’ingresso dello Stato nell’economia. L’ulteriore controtendenza è l’imperialismo,
termine con il quale intendiamo esprimere quella propensione a politiche aggressive e militariste che
condurrà alla prima guerra mondiale. Per la riflessione marxista, l’imperialismo si definisce uno
stadio particolare dello sviluppo capitalistico, mentre si parla di un’epoca dell’imperialismo per
indicare la fase in cui, questa formazione economica è diventata predominante. L’imperialismo
diventa la tendenza della guerra tra paesi capitalistici. Per i marxisti la tendenza alla guerra scaturisce
dalle caratteristiche strutturali del capitalismo. In questo modo, le teorie marxiste, si discostano dalla
visione realista, che riconduce la politica a considerazioni di potenza o sicurezza autonome
dall’economia, quanto dalla visione liberale, che considera l’interdipendenza e lo sviluppo economico
come fattori di pacificazione. Rosa Luxemburg elabora una spiegazione in cui le crisi del capitalismo
determinata da cause oggettive; la studiosa polacca rinviene le radici della crisi sul lato della
realizzazione del plusvalore. In sostanza, Luxemburg ritiene che il capitalismo sia contrassegnato
dalla tendenza ad espandere la propria base produttiva, più rapidamente di quanto non si estendano

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le possibilità di effettivo consumo. Per questo, il capitale è condannato a inevitabile crisi; Luxemburg
osserva che nel modo di produzione capitalistico esiste una tendenza all’accumulazione, ossia a un
reinvestimento del plusvalore realizzato, finalizzato all’allargamento della base produttiva. La
pressione della concorrenza spinge a ricercare metodi per abbassare i costi di produzione perché
necessario che il plusvalore venga realizzato mediante la vendita sul mercato, e cioè che venga
tradotto in denaro, per riattivare il ciclo dell’accumulazione. La sua convinzione è infatti che le
possibilità di consumo non crescano proporzionalmente all’espansione della base produttiva e che sia
necessario quindi ricercare possibilità di realizzazione fuori dal mercato capitalistico, ovvero
all’esterno. Per la sua necessaria sopravvivenza, il capitalismo necessita dunque di un ambiente non
capitalistico e Luxemburg ritiene che l’imperialismo costituisca uno sviluppo inevitabile di questa
tendenza. L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale, esso
cresce in energia e forza d’urto, sia nella sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia
nell’inasprimento dei contrasti fra paesi capitalistici. Anche il militarismo è un aspetto che
accompagna in tutte le sue fasi storiche l’accumulazione del capitale. Quando si rivolge all’ambiente
non capitalistico, il capitalismo innesca una trasformazione in senso capitalistico di quell’ambiente,
un fuori che è invece tendenzialmente destinato a svanire. La convinzione di Luxemburg è che la
completa trasformazione in senso capitalistico del mondo renda impossibile l’accumulazione di
capitale. Raggiunto il dominio mondiale, il capitalismo raggiunge il suo limite economico. In questa
prospettiva, la guerra diventa la manifestazione più evidente della tendenza alla catastrofe propria del
capitalismo. La teoria di Luxemburg si fonda però su un presupposto scorretto: non esiste alcun
motivo per escludere che i consumi dei lavoratori e dei capitalisti non possano crescere
proporzionalmente in modo da garantire che l’espansione delle merci possa essere acquistata senza
ricorrere a mercati esterni. Mentre Luxemburg si concentra sulle cause più profonde
dell’imperialismo, Lenin si limita a riconoscere gli effetti che il processo di accumulazione ha
prodotto sul capitalismo dei primi anni del XX secolo. Il punto di partenza delle teorie di Lenin
consiste nel riconoscimento di una trasformazione che ha mutato il volto del capitalismo studiato da
Marx. Il capitalismo concorrenziale, ha ormai lasciato posto al monopolio, e Lenin ritiene che la fase
del capitalismo monopolistico sia contrassegnata da: la concentrazione della produzione del capitale,
la crescita della rilevanza delle banche, la spartizione del mondo in sfere di influenza e infine, un
inasprimento della lotta per la ripartizione del monopolio. In linea generale, l’intero discorso di Lenin
presuppone che lo Stato sia uno “strumento” nelle mani dell’oligarchia finanziaria, e che dunque la
burocrazia e la classe politica non abbiano autonomia in ciò che riguarda le scelte di politica estera.
Il problema della riflessione leniniana consiste quindi in una definizione ambigua dell’imperialismo
che viene a indicare quattro fenomeni diversi: l’impero formale, l’imperialismo come espansione
dello stato, il colonialismo, l’impero informale. La sovrapposizione di questi significati comporta la
difficoltà di distinguere tra una fase e l’altra dello sviluppo.

Le tesi dettate da Lenin si dissolvono nel 1945 circa poiché la concorrenza politico-militare fra paesi
capitalistici non gioca più un ruolo di rilievo. L’economia post-bellica può riassumersi nella parola
ultra-imperialismo, delineata da Karl Kautsky secondo cui, allo scontro armato tra i gruppi
capitalistici finanziari nazionali, possono seguire una fase di sviluppo pacifico e dunque lo
sfruttamento delle risorse mondiali. In Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, l’idea di fondo
è caratterizzata dalla convinzione che le trasformazioni economiche della prima metà del novecento
abbiano reso obsoleta la vecchia analisi di Marx. Per i due autori infatti la vera protagonista
dell’economia monopolistica è la società per azioni gigante la quale opera sempre con l’obiettivo

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della massimizzazione del profitto, ma con un orizzonte temporale molto più esteso. La società per
azioni gigante riesce a controllare i prezzi grazie alla posizione di monopolio. Tali trasformazioni non
possono però superare le contraddizioni strutturali dell’economia capitalistica, che riemergono così
in una forma nuova. Proprio perché non esiste una pressione concorrenziale a una riduzione dei costi
di produzione si accompagna una crescita dei profitti, e ciò determina una nuova contraddizione: la
tendenza alla crescita del surplus economico della società, definito come la “differenza tra ciò che la
società produce e i costi necessari per produrla”. Questa legge, sostituisce quella di Marx sulla caduta
del saggio di profitto. In sostanza, un aumento del surplus non comporta un proporzionale aumento
dei consumi. Il problema, diventa la destinazione di questo surplus poiché dato che i tradizionali
canali non sono in grado di compensare il surplus “eccedente” il capitalismo monopolistico tende a
volgersi in direzioni diverse: un primo canale è rappresentato dalla promozione delle vendite, un altro
dalla spesa statale. Baran e Sweezy ritengono che la gerarchia dei paesi capitalistici sia contrassegnata
da relazioni di sfruttamento organizzate secondo una “logica piramidale”: i paesi che stanno al vertice
sfruttano tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno
più in basso. Distinguono dunque tra le metropoli e le colonie e per conservare la propria gerarchia,
ogni stato deve avvalersi di forze armate. La potenza relativa agli Stati Uniti cresce dal 1914 al 1945
e l’espansione militare può diventare un vantaggioso canale per l’assorbimento del surplus. Per
quanto riguarda l’Unione Sovietica, i due studiosi credono che non abbia mai avuto mire
espansionistiche. La motivazione reale che spinge gli Stati Uniti a un aumento del proprio potenziale
bellico consiste nella lotta contro il socialismo. Gli strumenti di questa strategia di lotta antisocialista
sono tre: la ricostruzione dei centri tradizionali del potere capitalistico, la creazione di una rete di
alleanze e di basi militari distribuite attorno al perimetro socialista, il costante rafforzamento di un
apparato militare in grado di sostenere un conflitto potenziale con le forze socialiste. Secondo i due
autori, i paesi capitalistici avanzati non sono però entrati nella “fase del capitalismo monopolistico di
Stato”; questi estremizzano le idee di Lenin di “aristocrazia operaia” sia perché considerano le classi
lavoratrici integrate nella società opulenta, sia perché ritengono che la reale minaccia all’ordine
capitalistico provenga dai movimenti socialisti dei paesi sottosviluppati. In questo modo, quelle
contraddizioni che Marx collocava al cuore della produzione capitalistica, vengono spostate “al di
fuori” e trasformate in una contrapposizione tra Stati ricchi e poveri. Dall’opera di Baran e Sweezy
verrà successivamente creata la “teoria della dipendenza” in cui si collocano studiosi di formazione
differente come: Frank, Amin ed Enzo Faletto; questi teorici sono accomunati dalla convinzione che
la condizione di sottosviluppo dei paesi del sud del mondo, sia conseguenza dello sfruttamento
esercitato dai paesi occidentali. Frank, identifica il capitalismo con un sistema di scambio mondiale,
contrassegnato dalla persistenza del monopolio e da relazioni di sfruttamento. Dunque presuppone
che l’esistenza di relazioni commerciali capitalistiche coincida con l’espansione dell’economia
capitalistica. In particolare Frank vuole dimostrare che lo sviluppo di scambi commerciali con i paesi
occidentali inneschi il meccanismo di sfruttamento e dipendenza da cui si origina il sottosviluppo.
Secondo Frank, il sottosviluppo è un prodotto del capitalismo: le aree sottosviluppate sono state
incorporate nel mercato mondiale in una posizione di netta subordinazione, ciò ha posto le basi per
delle condizioni di sottosviluppo. Frank localizza l’origine del sistema capitalistico nelle prime fasi
di colonizzazione del Nuovo Mondo e secondo lui il capitalismo è caratterizzato da tre contraddizioni:
l’espropriazione del surplus economico e la sua appropriazione da parte di una minoranza, la
polarizzazione del sistema capitalistico, la continuità della struttura metropoli-satellite. In primo
luogo Frank crede che il surplus prodotto nei satelliti venga appropriato dalla metropoli: tutto ciò
tende a strutturarsi tramite una catena gerarchica, che parte dalla metropoli mondiale e arriva ai centri

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nazionali fino ai centri locali. La crescita degli scambi non può che irrobustire la relazione di
subordinazione e dipendenza, della quale i paesi satelliti possono liberarsi solo interrompendo le
relazioni economiche con la metropoli e con i paesi sviluppati. Infine, secondo Frank, la
contraddizione tra sviluppo e sottosviluppo non rappresenta una tappa della storia del capitalismo ma
una sua caratteristica costitutiva. Per Marx il processo di produzione del capitale avviene nel corso
del processo lavorativo, mediante l’estrazione del plus lavoro dalla forza di lavoro impiegata, per
Frank il capitalismo si basa sull’espropriazione del surplus prodotto nei satelliti ed esportato verso le
metropoli e dunque sullo sfruttamento dei paesi sottosviluppati da parte di quelli sviluppati.

Negli anni settanta, nasce la world-system theory, una teoria legata al nome di Immanuel Wallerstein,
il quale ritiene che i rapporti di dipendenza possano essere ricostruiti e compresi solo in un quadro
globale, capace di considerare le trasformazioni economiche e politiche e la progressiva estensione
del capitalismo. A differenza del disegno tracciato dal Capitale, la teoria del sistema-mondo punta
non a delineare un modello astratto di funzionamento del capitalismo, bensì a ricostruire le concrete
modalità con cui il capitalismo si è affermato. Per Wallerstein il sistema-mondo è un sistema
all’interno del quale è operante “una divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di gruppi
sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente) sia orizzontalmente (socialmente)”. Un
mondo è perciò un sistema di divisione del lavoro, al suo interno relativamente coeso e separato
mediante confini dall’ambiente esterno. A definire l’ambito spaziale dell’economia sono le relazioni
di interdipendenza tra le fasi di produzione, distribuzione e consumo. Secondo Wallerstein tutti i casi
conosciuti di sistema-mondo sono riconducibili a due tipi di relazione tra spazio economico e spazio
politico: gli imperi-mondo, le economie-mondo. Nel caso degli imperi-mondo, lo spazio del sistema
mondo risulta all’interno dei confini del sistema politico, il quale assume i contorni di un impero: in
questo sistema, il surplus viene appropriato mediante imposizione tributaria ai produttori. In sostanza,
gli imperi-mondo sono ridistribuiti nella loro forma economica. Nelle economie-mondo prevale
invece una logica cumulativo-capitalistica, e la dimensione economica non coincide con quella
politica: i confini delle economie-mondo sono più estesi e all’interno di questo mondo i diversi sistemi
politici e culturali sono collegati da una sintesi non politica, ma economica. Un economia-mondo, per
riuscire a riprodursi nel tempo, richiede la formazione di stabili legami commerciali, ma anche la
costruzione, il consolidamento e l’integrazione di quegli specifici mercati. Secondo Wallerstein, il
capitalismo storico riesce a consolidare i diversi mercati, necessari alla costante espansione del
processo di accumulazione, grazie alla costruzione di un sistema di Stati Nazionali. La competizione
fra unità statali costituisce fattori di rafforzamento del capitalismo storico, perché convergono nella
direzione dello smantellamento dei diversi ostacoli al processo di mercificazione. Per Wallerstein,
come per Frank, nel capitalismo si instaurano meccanismi di scambio ineguale e dunque, un processo
di polarizzazione tra il centro e le periferie del sistema. La gerarchia rappresenta una conseguenza
della divisione del lavoro, propria dell’economia-mondo. Ciò comporta che lo scambio tra le due aree
non sia eguale, e che il surplus prodotto nella periferia tenda a spostarsi verso il centro. Dunque, i
centri e le periferie cambiano nel corso dei secoli. In generale, una periferia dell’economia-mondo è
il settore geografico la cui produzione riguarda beni di scarso valore, ma che è parte del sistema
globale di divisione del lavoro, perché le merci sono indispensabili nell’uso quotidiano. Secondo
Wallerstein, l’economia-mondo tende però a produrre una forte gerarchia. L’egemonia prende forma
infatti quando “la corrente rivalità tra le grandi potenze è così sbilanciata che una potenza può
imporre le sue regole e i suoi interessi”. Le radici dell’egemonia sono economiche, perché alla base
dell’egemonia c’è la capacità delle imprese di operare nelle tre arene della produzione agro-

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industriale, del commercio e della finanza. Wallerstein individua solo tre grandi egemonie:
l’egemonia delle Province Unite olandesi nel corso del XVII secolo, l’egemonia del Regno Unito nel
XIX secolo e l’egemonia degli Stati Uniti degli anni quaranta/sessanta del novecento. Per chiarire i
meccanismi della trasformazione, Wallerstein ricorre ai cicli di Kondratieff, i quali hanno una durata
approssimativa di cinquanta-sessant’anni e che si suddividono in due fasi: la fase A indica il periodo
in cui un monopolio può essere conservato, la fase B si riferisce invece ai periodi di trasferimento
geografico della produzione, ossia al periodo in cui i monopoli sono ormai esauriti e in cui cominciano
i conflitti per il controllo di nuovi monopoli emergenti. Ma lo stesso Wallerstein afferma che “una
volta che si è venuta a creare una nuova egemonia, per mantenerla sono necessari finanziamenti
massicci che, ne segnano il declino e scatenano la lotta per la successione”, da ciò quindi, se ne
deduce che la conservazione di una supremazia militare e di un primato politico non può che entrare
in contrasto con il declino dell’efficienza relativa delle imprese del paese egemone. Un ciclo
egemonico si apre dopo la conclusione di una guerra mondiale e si conclude con una nuova guerra
mondiale. Per quanto riguarda l’egemonia americana, secondo Wallerstein la configurazione del
sistema è unipolare per l’intero periodo. Wallerstein ritiene però che sia destinata a emergere
un’inedita economia-mondo bipolare con, da un lato, un blocco composto da Stati Uniti, Giappone e
Cina e, sul lato opposto, un blocco formato dall’Unione Europea e Russia. Lo schema tracciato da
Wallerstein, ha senza dubbio elementi in comune con la teoria neorealista elaborata da Kenneth
Waltz, perché in entrambi i casi la prospettiva è sistematica. Esistono però delle differenze fra i due:
la prima sta nel diverso peso assegnato alle dinamiche economiche. Un altro sviluppo estremamente
importante riguardo la teoria del sistema-mondo viene proposto dallo studioso Giovanni Arrighi che
approfondisce gli aspetti relativi all’inizio del declino egemonico. Per Arrighi, l’egemonia non nasce
solo da pressioni sistematiche, ma anche dall’azione e dal profilo dello stesso agente, perché
l’egemone è dotato di un potere che riesce a modificare le regole sistematiche. Dunque, l’egemonia
è il potere addizionale che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di guidare la società in
una direzione che non solo serve gli interessi del gruppo dominante stesso, ma che è percepita anche
dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse. In altre parole, l’egemonia può
prendere forma quando si incontrano l’offerta e la domanda di un ruolo di supplenza nel governo del
mondo. In effetti, ai quattro cicli sistematici individuati da Arrighi corrispondono anche tipi diversi
di istituzioni governative dominanti. Ogni ciclo sistemico comporta anche la rinascita di strategie e
strutture governative, già superate dal precedente regime di accumulazione. Innanzitutto, i diversi
cicli presentano differenze relative al tipo di regime di accumulazione, nel senso che alcuni puntano
a sviluppare i mercati in modo estensivo (allargando lo spazio geografico) altri in modo intensivo
(consolidando l’espansione geografica già realizzata). Tra la fine del XIV e il XVI secolo, i principali
attori istituzionali sono quattro città-Stato italiane (Genova, Venezia, Milano, Firenze). Dopo un
secolo di “caos” e crescente instabilità, la connessione con un ampio territorio (elemento che manca
alle principali città-stato italiane) diventa un punto cruciale per la definizione dello stato. La pace di
Westfalia (sancita dopo la guerra dei trent’anni) inaugura così l’avvio del sistema internazionale degli
Stati con una progressiva internalizzazione dei costi di protezione, dei costi di produzione e dei costi
di transazione. Le crisi egemoniche sono contrassegnate da tre processi: l’intensificazione della
competizione tra Stati e della competizione tra imprese; l’aumento dei conflitti sociali; l’emergere di
nuove configurazioni di potere. All’interno di ciascun ciclo sistemico di accumulazione, Arringhi
individua due periodi distinti: il primo segnato da un’espansione materiale, il secondo da
un’espansione finanziaria, ossia da un meccanismo per cui il capitale si libera dalla forma di merce e
rimane allo stato liquido. In tre crisi egemoniche (olandese, britannica e statunitense) Arrighi

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riconosce, il tratto comune dell’espansione finanziaria su scala sistemica. Espansioni di questo genere
sono il risultato di due tendenze: a- la sovra-accumulazione di capitale, b- un’intensa competizione
interstatale per il capitale mobile, dovuto al fatto che le organizzazioni territoriali reagiscono alla
diminuzione degli introiti fiscali incrementando la competizione per il capitale. L’espansione
finanziaria è dunque un tratto ricorrente che emerge nelle fasi di declino egemonico. Nelle fasi di
declino egemonico il capitale tende a riacquistare flessibilità, abbandonando la forma di merce e
mantenendosi in forma liquida. L’interesse di Arrighi si rivolge al declino egemonico degli stati uniti,
il cui avvio è collocato negli anni settanta. La ripresa degli anni ottanta e novanta è legata alla
finanziarizzazione, che consente agli USA di conseguire una notevole supremazia sotto il profilo
militare, al prezzo però di un fortissimo indebitamento. Il risultato tende a delinearsi con una
biforcazione tra potere militare (nelle mani degli USA) e potere finanziario (verso stati politicamente
deboli). Arrighi ritiene che nella transizione entrino in gioco due variabili decisive: a il
riconoscimento del declino da parte della potenza egemone e l’accettazione di una soluzione di
adattamento e conciliazione; b l’emergere di una nuova leadership globale. Arrighi riconosce nel
2003 il momento di passaggio al vero caos sistemico. L’invasione dell’Iraq testimonia la
determinazione statunitense a non riconoscere il carattere irreversibile del declino, mentre i suoi esiti
palesano la fragilità degli USA. La Cina è emersa come alternativa credibile, anche se le possibilità
di ascesa sono legate alla sostenibilità della crescita economica e alle peculiarità del sistema
interstatale asiatico.

La concezione materialistica elaborata da Marx viene intesa come una sorta di meta-scienza: una
visione generale delle dinamiche storiche in grado di cogliere la realtà delle relazioni sociali. I
politologi comportamentisti vedono negli studi marxisti soltanto agitatori politici, distanti dal rigore
della scienza. La dissoluzione del blocco sovietico innesca una duplice metamorfosi nel profilo della
tradizione critica: in primo luogo, la scomparsa di quei regimi che avevano fatto di Marx la stella
polare non può che indebolire l’identificazione tra Marxisti e la superpotenza; in secondo luogo, il
fallimento del socialismo reale in Unione Sovietica accelera il ripensamento critico di Marx. Occupa
un ruolo di primo piano la teoria critica, al cui interno confluiscono studiosi della scuola di
Francoforte e autori come Max Horkheimer, T.W. Adorno. Erich Fromm. Alla base della scuola di
Francoforte si torva una miscela di filosofia, psicologia e sociologia che attinge a Marx, ma anche a
Hegel e Freud. La scuola sviluppa una riflessione critica nei confronti del progetto illuministico
occidentale. In termini più specifici, la componente della teoria critica viene ripresa nel campo delle
IR è la relazione problematica tra conoscenza e potere. Cox definisce la proposta di Waltz come una
teoria problem solving: una teoria che non mette in questione i rapporti di potere esistenti, ma li
considera solo come elementi immutabili. Le teorie problem solving, tra cui rientra il neorealismo e
il neoliberalismo, risultano di fatto conservatrici, nel senso che legittimano l’ordine sociale e politico
esistente. Secondo la teoria critica, la conoscenza non può essere mai neutrale, perché riflette una
serie di condizioni sociali, ambientali, ideologiche, temporali. La proposta di Cox non si limita
soltanto alla fase di decostruzione o smascheramento, ma punta a predisporre uno schema di analisi
delle forze che si muovono sullo scenario internazionale. Cox adotta la nozione di egemonia nella
versione elaborata da Gramsci per rappresentare i conflitti e i rapporti di forza. L’operazione di
ripensamento, si presenta come un tentativo di procedere a una radicale revisione delle concezioni
dell’egemonia adottate. Al tempo stesso, si profila anche come un ambizioso progetto di definire le
coordinate di una rappresentazione neogramsciana che spesso viene identificata come “scuola
italiana” delle IR. L’egemonia non si limita solo all’azione di persuasione esercitata dall’alto verso

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il basso, ma consiste piuttosto in un’attività di strutturazione delle relazioni sociali e di “costruzione
della realtà”. Cox ritiene che le stesse categorie che identificano i soggetti della politica
internazionale, siano in realtà il prodotto di una costruzione egemonica, mediante cui le idee riescono
a strutturare un ordine. I soggetti della politica internazionale non sono affatto elementi naturali, ma
“finzioni” prodotte da un’ontologia sociale plasmata da interessi. Cox individua per gli ultimi due
secoli, una successione tra fasi egemoniche e fasi non egemoniche. Il periodo tra il 1845 e il 1875 è
contrassegnato dall’egemonia britannica (il libero commercio, il gold standard e la teoria del
vantaggio comparato), Londra riesce a controllare i mari. Fra il 1875 e il 1975 si entra invece in una
fase non egemonica, le leadership britanniche entrano in crisi. Dopo il 1945 prende forma l’egemonia
americana che entra in crisi dalla metà degli anni sessanta con la caduta degli accordi di Bretton
Woods, ciò non ha prodotto una nuova fase egemonica, ma ha innescato trasformazioni rilevanti. Un
mutamento sostanziale delle relazioni di potere, capace di incidere sulla divaricazione tra sud e nord
del mondo non può però giungere soltanto da una trasformazione economica, perché richiede la
formazione di una nuova alleanza controegemonica. Nel testo Empire, Michael Hardt e Antonio
Negri hanno tentato di definire i contorni del nuovo paradigma di esercizio della sovranità, l’adozione
del termine impero testimonia l’emergere di una nuova forma di sovranità. Il nuovo paradigma si
definisce come una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono
l’intero spazio mondiale, si tratta di una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata
orizzontalmente come la società di controllo descritta da Foucault, in cui emerge una forma di bio-
potere, che non si limita a disciplinare gli individui, ma punta a organizzarli nella totalità delle loro
attività, raggiungendo la profondità delle coscienze e dei corpi. La svolta verso il nuovo paradigma
(che esordisce nel 1991, con la guerra del Golfo) non determina la senescenza dello Stato, ma solo
un trasferimento di funzioni ad altri livelli. Hardt e Negri descrivono la costituzione imperiale come
una struttura piramidale, composta da tre piani, ognuno dei quali composta da vari livelli. Al primo
piano di questa piramide si trovano gli Stati Uniti, un numero limitato di stati nazionali, ma tutti sono
ordinati su tre livelli gerarchici. Al secondo piano si trovano le reti delle corporation capitalistiche
transnazionali e la gran parte degli stati, che svolgono una molteplicità di funzioni. In fine, al terzo
piano si trovano gli organismi che rappresentano gli interessi popolari, ossia tutte quelle
organizzazioni che sono parzialmente indipendenti sia dagli stati che dal capitale. La costituzione
imperiale deve essere intesa come un equilibrio instabile di corpi sociali. Il mercato mondiale è
concepito come ambito di produzione e riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche. Molti critici
hanno messo in luce un limite, la carenza di basi empiriche per molte affermazioni: l’idea di una
progressiva diminuzione delle differenze tra primo e terzo mondo; la centralità assegnata al lavoro
immateriale nelle dinamiche produttive. Il lavoro di Hardt e Negri è segnato da catastrofismo.

Secondo Marx il modo di produzione capitalistico è una forma specifica di produzione di merci, e
cioè di beni destinati ad essere venduti sul mercato. Marx sintetizza il funzionamento nello schema
Merce-Denaro-Merce. La peculiarità del modo di produzione capitalistico consiste nel costante
accrescimento del valore. Lo schema che illustra la specifica logica del capitale è dunque Denaro-
Merce-Denaro, dove la differenza tra i due denari sta nel plusvalore, ossia l’incremento di valore
realizzato dal capitalista al termine del processo di produzione. È necessario l’incremento di valore
delle merci che può consentire la realizzazione del plusvalore. Il capitalista deve acquistare mezzi di
produzione e forza lavoro, quest’ultima costituisce il presupposto del modo di produzione
capitalistico: l’esistenza di forza lavoro richiede che ci sia una fascia di potenziali lavoratori liberi,
costretti a vendere la propria capacità lavorativa sul mercato; la forza lavoro costituisce la sorgente

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del plusvalore. Marx definisce i macchinari e i mezzi di produzione come capitale costante e la forza
lavoro come capitale variabile. Sono due gli elementi che possono incidere negativamente innescando
la crisi: è possibile che le merci prodotte non vengano effettivamente vendute sul mercato e ciò
scaturisce una condizione di sottoconsumo, in virtù della quale i beni prodotti risultano eccessivi. La
tendenza che conduce il sistema capitalistico verso la senescenza è rappresentata dalla caduta
tendenziale del saggio di profitto. Il capitalismo è destinato a erodere i margini di profitto degli
𝑝𝑣
investimenti produttivi. Il saggio di profitto, definito come 𝑝 = 𝑐+𝑣, indica il peso che la quota del
plusvalore ha rispetto alla massa degli investimenti. Dato che Marx definisce il saggio di plusvalore
𝑠
(𝑠1 ) come rapporto fra plusvalore e capitale variabile 𝑠1 = 𝑣 e la composizione organica di capitale
𝑐
(𝑞) come 𝑞 = , ne deriva che il saggio di profitto è 𝑝 = 𝑠1 (𝑖 − 𝑞). Se s’ aumenta, cresce anche 𝑃,
𝑐+𝑣
mentre se 𝑄 aumenta, 𝑃 diminuisce. Dato che secondo Marx la composizione organica di capitale è
destinata ad aumentare il saggio di profitto deve assottigliarsi sempre più fino ad annullarsi.

Capitolo 5: Il costruttivismo. La rivalutazione delle idee nelle relazioni


internazionali
Con il costruttivismo ha luogo la svolta sociologica delle IR. La politica internazionale viene vista
come processo o insieme delle relazioni sociali in cui gli ideational factors (d’ora in avanti fattori
ideali) sono importanti quanto i fattori materiali, e in cui gli agenti sono importanti quanto la struttura.
I percussori classici del costruttivismo sono Durkheim e Weber. Il primo per la sua attenzione nei
fattori ideali della vita sociale, per Durkheim le interazioni sociali sono in grado di creare dei fattori
sociali. Per Weber gli esseri umani sono anche degli esseri culturali che si relazionano con il mondo,
gli attribuiscono senso e interagiscono sulla base del senso attribuito. Compito delle scienze sociali è
quello di interpretare il significato e il senso che gli attori sociali attribuiscono all’azione sociale. Il
metodo proposto da Weber è quello di Verstehen che prevede: una comprensione diretta dell’azione
analizzata dal punto di vista dell’attore, una comprensione esplicativa dell’azione all’interno di un
insieme di pratiche sociali, l’oggettivazione o reificazione. Sia Durkheim che Weber si concentrano
su fattori ideali, rigettano l’individualismo e ritengono che fattori ideali e materiali si condizionino
reciprocamente. Ci sono quattro filoni diversi che trattano il costruttivismo: il primo quello di Kant e
dei neokantiani, i quali sostengono che conoscere significa imporre le forme aprioristiche della nostra
mente sulle strutture della natura e della cultura. Un altro contributo di rilievo proviene
dall’ermeneutica soggettiva di Heidegger e Wittgenstein, che, sfidando il positivismo, mettono in
evidenza che i fatti sociali si costituiscono attraverso le strutture del linguaggio, quindi non possono
essere studiati se non così come mediati dal linguaggio. All’interno di questo filone si colloca Searle,
il quale mostra che “ci sono porzioni del mondo reale, che sono fatti soltanto sulla base dell’accordo
umano, esistono soltanto perché noi crediamo che essi esistano”. L’intenzionalità politica collettiva
è dunque in grado di produrre fatti sociali. Il terzo filone si rifà alla Scuola di Francoforte e ad
Habermas che promuove una teoria sociale dell’azione comunicativa e della democrazia deliberativa.
Il quarto ed ultimo filone sarà rappresentato da Weber e Durkheim, descritti inizialmente nel
paragrafo. Per comprendere le radici del costruttivismo è necessario analizzare il contesto nel quale
esso sorge, a seguito dei processi di decolonizzazione degli anni sessanta e settanta. Il contesto porta
a rendere centrale l’identità, e la nascita del costruttivismo è anche influenzata dalla fine della guerra
fredda, la quale pose l’accento al cambiamento. Ma sarà con la critica di Ruggie a Waltz che iniziano
a delinearsi una profonda insoddisfazione nei confronti del neorealismo dominante; Ruggie ritiene
infatti che il modello di spiegazione di Waltz sia incapace di prevedere ma anche spiegare la
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trasformazione del sistema internazionale. Ad essere criticati sono lo Stato-centrismo e le strutture di
identificazione, legittimazione ed interesse dello Stato stesso. Le critiche sono rivolte alla possibilità
del sistema di avere esistenza autonoma e indipendente negli elementi che la compongono. In ultima
analisi, secondo Ashley, il neorealismo finisce con il negare la politica. Anche Wendt mette in
discussione il neorealismo di Waltz sia dal punto di vista ontologico che epistemologico. Ad essere
contestati sono soprattutto gli assunti pre-teorici sui quali il neorealismo si fonda. Sotto il profilo
epistemologico, il problema consiste nell’adozione di un’epistemologia non esplicitata in base alla
quale la spiegazione delle strutture riguarda soltanto la restrizione delle scelte di agenti preesistenti.
Un’analisi storica è invece necessaria per spiegare come le condizioni strutturali che hanno reso
possibili le azioni statali siano emerse e si siano consolidate. Dal punto di vista ontologico,
l’approccio deve essere strutturazionista: gli elementi della struttura sociale non possono essere
concepiti né definiti indipendentemente dalla loro struttura; ma anche le strutture sociali sono
ontologicamente dipendenti e quindi costituite dalle pratiche degli agenti. Kratochwil si sofferma
invece sulle regole e sulle norme nelle relazioni internazionali. Si inizia a differenziare tra norme
regolative (che regolano le attività esistenti come il codice stradale) e le norme costitutive, che non
soltanto disciplinano un’attività, ma la rendono possibile (le regole di un gioco ad esempio). Le norme
influenzano le decisioni riducendo la complessità, per comprendere come gli attori attribuiscano
significato alle norme e come le norme siano comprese dagli attori. Il fuoco si sposta sulla
deliberazione e sulle argomentazioni usate per distinguere ciò che viene considerato come valido e
appropriato. Il costruttivismo ha messo al centro dell’analisi la costruzione sociale della realtà e la
reciproca costituzione di agente e struttura. Adler, distingue quattro varianti di costruttivismo: quello
modernista, modernista linguistico, radicale e infine critico. Il costruttivismo modernista si rifà più
direttamente a Weber e Durkheim, gli studiosi che appoggiano questa variabile di costruttivismo
ambiscono a svelare i meccanismi sociali casuali. Coloro che appartengono alla variabile linguistica
invece combinano un’ermeneutica soggettiva e un interesse nella spiegazione e comprensione della
realtà sociale. La variante radicale invece risulta dalla combinazione di una svolta linguistica radicale
e di un atteggiamento decostruttivista verso la conoscenza, qui la realtà è risultato di pratiche
discorsive. L’ultima variante è quella del costruttivismo critico, risultato della combinazione tra
ermeneutica oggettiva e interesse nei confronti degli effetti emancipatori della conoscenza.
L’interesse è quello di comprendere i meccanismi sui quali si basano gli ordini politici e sociali per
giungere all’emancipazione della società.

I diversi filoni del costruttivismo hanno in comune una ontologia in base alla quale il mondo sociale
è composto da strutture e processi dotati di significato. Gli attori, non sono indipendenti, ma
interagiscono con l’ambiente culturale nel quale si trovano immersi. Non esiste una realtà
oggettivamente indipendente, ma soltanto una conoscenza prodotta storicamente che mette gli
individui in grado di costruire e dare significato alla realtà. Ci sono dei fatti sociali come il denaro, i
governi o la sovranità che pur non esistendo materialmente, esistono perché noi crediamo che essi
esistano e adeguiamo i nostri comportamenti alla loro esistenza. La loro esistenza dipende dal fatto
che c’è un accordo più o meno esplicitato che i fatti sociali esistano. Dato questo, ne deriva che
l’interazione umana è plasmata da fattori ideali, non soltanto da quelli materiali e che i più importanti
fattori ideali sono convinzioni ampliamente condivise o “intersoggettive” le quali costituiscono gli
interessi e le identità degli attori. Le idee, intese come conoscenza collettiva istituzionalizzata,
rappresentano sia il mezzo che il motore dell’azione sociale e definiscono i limiti dell’azione.
Particolare interesse è rivolto alla comunicazione sociale che consente la diffusione di significati

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collettivi e consente agli agenti di fissare il significato della realtà materiale. Gli agenti selezionano
il significato tra una gamma di opzioni possibili e contribuiscono alla sua istituzionalizzazione.
Particolare attenzione viene dedicata alle “norme costitutive” ossia quelle regole che definiscono
l’insieme delle pratiche che compongono una particolare attività sociale organizzata, essa specifica
cosa realmente conta come attività. Questo tipo di regole non si limita a specificare un tipo di
comportamento, ma gli attribuisce senso e lo rende possibile. Esse rappresentano il fondamento della
vita sociale, perché in loro assenza il comportamento risulta privo di senso e quindi di effetto. Questo
per Wendt significa che “le idee contano sempre, dal momento che il potere e l’interesse non hanno
effetti indipendentemente dalla conoscenza condivisa che li costituisce in quanto tali. Da quanto detto,
emerge che la costituzione reciproca di agente e struttura rappresenta un altro elemento caratterizzante
del costruttivismo. Le azioni, contribuiscono a definire le istituzioni e i significati condivisi della
struttura, ma le istituzioni e i significati condivisi contribuiscono a definire gli attori e le strutture
influenzano le proprietà degli agenti, arrivando a costituirne identità e interessi. Gli stati adattano il
loro comportamento per conformarsi alle regole esistenti, ma cercano anche di interpretare, e quindi
ridefinire, le regole esistenti in modo da far sì che il proprio comportamento sia legittimato.
L’attenzione nei confronti del cambiamento costituisce un altro aspetto che caratterizza l’approccio
costruttivista. Il cambiamento può riguardare le regole costitutive, l’evoluzione e la trasformazione
delle strutture sociali. Cambiamenti nei fattori ideali possono quindi condurre a cambiamenti sia negli
attori sia nella struttura. Ruggie dimostra che il multilateralismo promosso negli USA in quanto stato
egemone è dovuta non al fatto che il sistema fosse egemonico bensì al fatto che lo stato egemone
fossero gli USA. Un’innovazione che è stata permessa dal cambiamento normativo riguardante la
norma di legittimità procedurale. Alcuni meccanismi del cambiamento sono stati individuati
nell’apprendimento collettivo, nell’evoluzione cognitiva, nel cambiamento epistemico e nel ciclo di
vita delle norme. Altro aspetto centrale nello studio del costruttivismo è che gli interessi non esistono
oggettivamente e non dipendono esclusivamente dalla distribuzione di potere, ma sono socialmente
costruiti sulla base delle idee e dei contesti culturali. Più importante della distribuzione del potere nel
sistema è la distribuzione delle idee, e quindi degli interessi. L’effetto prodotto può essere compreso
soltanto se prima si comprende l’interazione tra fattori materiali e ideali. Il costruttivismo, non nega
che siano gli interessi a guidare gli stati e che questi siano spesso egoistici, ma mette in evidenza che
essi sono costituiti soltanto in parte dai fattori materiali e per il resto da idee condivise e cultura. Gli
interessi sono essi stessi idee o schemi, che sotto forma di convinzioni o obiettivi, rendono possibile
l’identificazione di oggetti ed eventi. Tutti questi sono schemi e funzioni di percezioni culturalmente
costituite, non sono il risultato di fattori materiali. Gli interessi si costituiscono sulla base delle
interazioni con gli altri attori e con l’ambiente sociale, attraverso processi di socializzazione e di
interiorizzazione, ma gli interessi possono cambiare nel tempo. È attraverso il linguaggio infatti, che
vengono costruiti significati intersoggettivi. È attraverso il linguaggio che la realtà può essere
percepita e costruita. Dietro un enunciato, può essere presente un’intenzione, l’esistenza di dispositivi
simbolici come le parole simbolizzano qualcosa al di là di sé, così da rendere il linguaggio essenziale
per la costruzione di una realtà istituzionale. La doppia ermeneutica è una metodologia basata
sull’interpretazione dell’interpretazione. Se, l’attribuzione di senso è un’operazione importante nella
politica internazionale, vi è consapevolezza che esistono due momenti interpretativi da prendere in
considerazione: al livello dell’azione e al livello dell’osservazione. Nel primo, gli attori attribuiscono
senso all’azione; nel secondo, gli osservatori cercano di stabilire i significati delle pratiche che
osservano sulla base di premesse analitiche. In comune i costruttivisti hanno la consapevolezza che
per individuare i processi causali occorre prima la pratica interpretativa, che consente di scoprire i

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significati intersoggettivi, e che non esiste un punto di vista neutrale dal quale acquisire una
conoscenza oggettiva. I costruttivisti affermano di essere giunti a interpretazioni logiche ed
empiricamente plausibili di azioni, eventi o processi e si appellano all’evidenza che sostiene le loto
affermazioni, ma ammettono anche che le loro affermazioni sono sempre interpretazioni contingenti.
Altro aspetto comune è che, visto che le idee costituiscono le situazioni sociali e il significato delle
forze materiali, i costruttivisti sono più interessati alla costituzione che alla casualità e dunque
tendono a chiedersi non il perché o il come delle cose, bensì il come è possibile di talune cose.

L’anarchia è centrale nell’analisi di Wendt, per lui non è l’anarchia del sistema a produrre le politiche
di potenza e di self-help che portano alla competizione militare, come sostenuto dai neorealisti. Al
contrario, se gli Stati si trovano in un sistema basato sul self-help, è a seguito delle pratiche che hanno
adottato. Per Wendt, l’anarchia è un recipiente vuoto che acquisisce una logica soltanto in funzione
della struttura di ciò che viene versato dentro. Occorre quindi concettualizzare la struttura ma in
termini sociali; gli Stati agiscono sulla base delle idee che hanno circa la natura e i ruoli propri e degli
altri stati. L’esistenza di idee condivise, non comporta automaticamente ad una cooperazione. Per
Wendt esistono più culture dell’anarchia a seconda di quale tipo di ruoli domina il sistema. Pur
rimanendo anarchico, il sistema può quindi essere hobbesiano, lokeano o kantiano. La cultura
hobbesiana si basa sulla rappresentazione “dell’altro” come nemico: la violenza può essere limitata
soltanto dalla carenza di disponibilità materiali o dalla presenza di un Leviatano, ossia di un potere
sovrano. La rappresentazione dell’altro come nemico ha quattro implicazioni: gli stati agiranno come
se avessero interessi revisionisti e quindi cercheranno di distruggersi a vicenda, i processi decisionali
tenderanno ad essere orientati verso gli scenari peggiori, le capacità militari saranno viste come
cruciali, in guerra non ci saranno limiti alla violenza. Per Wendt però, il sistema moderno degli stati
è lockeano, visto che i piccoli stati abbondano e le guerre interstatali sono rare. La logica di Locke
del vivi e lascia vivere, ha dunque rimpiazzato la logica hobbesiana di uccidi o sarai ucciso. Il rivale,
infatti riconosce la sovranità come un diritto. Questo comporta l’aspettativa che uno stato non
minaccerà l’esistenza dell’altro. La rappresentazione dell’altro come rivale ha quattro implicazioni:
gli stati devono agire per il mantenimento dello status quo, i tempi decisionali sono più lunghi, le
minacce non sono esistenziali e si può avere fiducia negli alleati, i rivali in caso di guerra limiteranno
la propria violenza. Come nel caso precedente, la rivalità è una rappresentazione collettiva, che fa si
che gli stati attribuiscono agli altri intenzioni sulla base di ciò che si aspettano che gli altri stati
facciano. In certi periodi e in certe aree tra le quali quella atlantica della seconda guerra mondiale,
per Wendt si è manifestata anche la cultura kantiana, basata sulla struttura di ruolo dell’amicizia e per
la quale gli stati si aspettano che tutti osservino due regole; le dispute si compongono senza violenza,
e in caso di minaccia, tutti gli altri interverranno insieme. Questo porta all’affermazione di comunità
pluralistiche di sicurezza e della sicurezza collettiva. Se le norme della cultura kantiana sono
interiorizzate al minimo, deterrenza o sanzioni sono sufficienti a spingere al rispetto; nel grado
intermedio gli stati rispettano le norme per interesse individuale, nel grado massimo di
interiorizzazione, gli stati finiscono con l’accettare quelle norme come legittime e per comportarsi
come “noi”. Questo dimostra che non esiste una logica dell’anarchia che deriva dalla distribuzione di
potere materiale. Ciò che deriva dall’esistenza dell’anarchia, deriva dai soggetti che operano al suo
interno e dalla struttura delle loro relazioni. Per altri costruttivi, è possibile che si vengano a costruire
delle strutture di autorità. Come sostiene Ruggie nel tempo schemi di comportamento finiscono con
l’incarnare elementi di autorità e questo è avvenuto anche a livello internazionale. Ruggie sottolinea

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che la volontà di sottoporsi alla necessità di sistemi cooperativi crea autorità, un regime che promuove
gli interessi degli attori crea un senso di obbligazione; questo porta a conformarsi alle norme, si è
dunque in presenza di autorità. Questa autorità è una struttura trans-ordinata ma è comunque autorità.
L’autorità legittima si basa su obiettivi sociali condivisi. L’autorità è “l’abilità dio un attore di usare
risorse istituzionali e discorsive per indurre deferenza negli altri”. Quando gli stati riconoscono una
regola, un’istituzione o un attore come aventi diritto a prendere decisioni, dobbiamo riconoscere che
esiste autorità piuttosto che anarchia. L’autorità è dunque una relazione sociale, che esiste quando gli
attori credono che le strutture incarnino potere legittimo e che agiscano in modo da rinforzare questo
potere. Le comunità pluralistiche di sicurezza descritte da Adler e Barnett rappresentano
un’applicazione del terzo tipo di logica dell’anarchia identificata da Wendt. Sulle comunità di
sicurezza, sui gruppi talmente integrati da avere reali garanzie che i membri delle comunità
riusciranno a comporre i propri conflitti non facendo ricorso all’uso della forza. Queste sono
caratterizzate da istituzioni comuni, valori fondamentali compatibili e sensibilità reciproca che
derivano da identità e lealtà reciproca e senso del “noi”. Le identità dei membri della comunità
mutano, portano alla ridefinizione degli interessi. Ciò che gli interessi statali sono o diventano e il
significato ed il fine del potere acquisiscono forma all’interno di una struttura normativa che emerge
ed evolve a causa delle azioni ed interazioni degli attori statali e non statali. Le aspettative di
cambiamento pacifico esistono anche in assenza di un’alleanza formale grazie al fatto che l’ambiente
sociale ha creato identità condivise, obiettivi comuni. La rivisitazione delle comunità pluralistiche di
sicurezza di Adler e Barnett prevede tre livelli. Il primo livello è composto dalle condizioni che
incoraggiano gli stati a coordinarsi (ad esempio una minaccia esterna), il secondo livello è composto
da fattori strutturali e dal processo. Potere e conoscenza sono i fattori strutturali di base. Il potere va
però inteso come l’autorità di determinare i significati, il senso del “noi”. La conoscenza è parte della
struttura internazionale perché fornisce le strutture cognitive, ossia i significati e il senso condiviso.
Il terzo livello è quello in cui si sviluppa la fiducia reciproca e in cui si formano le identità collettive.
Nella fase di maturità della comunità sono infatti presenti procedure decisionali consensuali, i confini
vengono demilitarizzati. La creazione di comunità di sicurezza non comporta l’abolizione dell’uso
del potere; quello che viene escluso è ricorso all’uso della forza. Le norme sono soggette a
interpretazione e a risolvere i conflitti pacificamente, non a evitarli. L’esempio più noto di comunità
pluralistica di sicurezza è nella regione atlantica tra USA e Europa occidentale e che include anche
Canada e Australia. Qui sono riscontrabili alcuni degli identificatori fissati da Adler e Barnett: le
procedure decisionali tendono ad essere consensuali, i piani militari dei membri non sono cambiati
perché uno di essi viene considerato una potenziale minaccia militare, le minacce tendono ad essere
definite in comune, è presente una sicurezza collettiva e cooperativa.
L’attenzione deve essere prestata ai meccanismi che possono portare al cambiamento. Tra quelli
identificati dai costruttivisti particolare rilievo assumono il ciclo delle norme e l’evoluzione cognitiva.
Il ciclo delle norme è stato studiato da Finnemore e Sikkink. Il cambiamento nelle idee e nelle norme
intese come “standard di comportamento “appropriato per attori con una data identità costituisce il
fattore principale per la trasformazione del sistema. Nella prima fase la presenza di un imprenditore
di norme risulta importante per l’emersione di una norma. Le norme sono, infatti costruite da agenti
che hanno un forte senso di ciò che è appropriato per la comunità. Spesso dovranno mettere in
discussione lo standard e la logica di ciò che fino a quel momento veniva considerato appropriato. È
attraverso la piattaforma organizzativa che l’imprenditore di norme si assicura il sostegno degli stati
spesso attraverso la persuasione. Nella seconda fase, quella della cascata, sempre più paesi adottano
la nuova norma. Il meccanismo per la promozione è quello della socializzazione: essa implica che
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nuovi stati sono indotti a cambiare il proprio comportamento attraverso l’adozione delle norme
preferite, e sono indotti a farlo attraverso l’apprezzamento o la censura diplomatica. In questa fase,
gli stati si adeguano alle norme per rafforzare la propria identità come membri di una società
internazionale, dovuta alla volontà di essere legittimati internazionalmente. Nella terza fase, le norme
sono talmente accettate da essere interiorizzate dagli attori fino a diventare scontate. Stati che cercano
di migliorare il loro status o la loro reputazione tenderanno ad adottare le nuove norme e ad adeguarsi.
Norme adottate da stati visti come modelli di successo nel campo economico, culturale e militare
hanno più probabilità di essere adottati da altri stati. È più probabile che una nuova norma sia più
convincente se si riesce a legarsi al quadro normativo esistente. In momenti quali guerre o depressioni,
è più probabile che le vecchie norme siano screditate. Altro meccanismo di cambiamento di rilievo è
quello dell’evoluzione cognitiva descritto da Adler. È un processo di apprendimento collettivo
attraverso il quale le idee innovative sopravvivono a un processo di selezione politica e
istituzionalizzazione, e quindi diventano il fondamento di nuove pratiche internazionali. Adler
definisce l’apprendimento come il processo di adozione da parte dei decisori politiche di nuove
interpretazioni della realtà. L’evoluzione cognitiva si compone di tre processi: innovazione, selezione
e diffusione. Nel processo di innovazione individui all’interno di strutture istituzionali creano nuovi
significati e interpretazioni. Una volta condivise, si ha l’acquisizione di nuove aspettative e valori.
Durante la selezione, gli attori, le strutture determinano quali aspettative e valori trasformare in
politiche. Durante la diffusione, si viene a costituire una convinzione comune a livello internazionale
e iniziano a condividere aspettative e valori. Individui e istituzioni si trasmettono aspettative e calori.
A essere discussione è la struttura cognitiva che influenza il senso del giusto e dello sbagliato, crea i
significati intersoggettivi. I decisori politici adottano nuove interpretazioni della realtà, che sono
rilevanti non tanto nella misura in cui sono vere, quanto nella misura in cui sono condivise. L’idea
selezionata non è necessariamente la migliore o la più efficiente ma soltanto quella che ha più
successo.

Tra i cambiamenti normativi rientrano l’uso della forza. L’analisi di Finnemore tocca un aspetto
cruciale della politica internazionale, egli porta avanti uno studio dell’intervento militare chiedendosi
come i cambiamenti in questo settore così cruciale siano stati possibili, individuano la principale
ragione delle trasformazioni nelle patiche di intervento nel cambiamento normativo piuttosto che in
cambiamenti materiali. Un primo cambiamento di rilievo riguarda l’erosione del valore normativo
dell’uso della forza in politica internazionale: mentre nei secoli passati la guerra veniva vista come
un’attività onorevole, nel corso degli ultimi tre secoli ha perso questo attributo. Oggi la guerra è
considerata un male. Su questo, per Finnemore ha inciso la diffusione della norma dell’eguaglianza;
eguaglianza in termini di diritti umani e in termini di stati ugualmente sovrani. A cambiare è anche la
modalità di intervento. Nel XIX secolo l’intervento umanitario poteva non essere multilaterale. A
partire dal XX secolo invece, che l’intervento sia multilaterale è considerato necessario per
giustificare l’azione. Tutto ciò ha spinto gli stati a non intervenire con la forza per motivi territoriali
e a preferire la stabilità, ma anche a individuare nelle politiche interne la forma principale di un
intervento militare. Finnemore individua i meccanismi del cambiamento in questa aerea a livello
collettivo e a livello individuale. A livello collettivo meccanismi rilevanti sono la coercizione, ma
anche le istituzioni internazionali e il diritto e i movimenti sociali. A livello individuale rilevanti sono
la persuasione e l’azione comunicativa. Il cambiamento più rilevante è costituito dalla quasi
estinzione delle guerre tra Stati, ma che parallelamente si è verificato un incremento dei conflitti
interni.

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Il costruttivismo si è affermato occupando un terreno di mezzo tra strutturalismo ed individualismo e
tra materialismo e idealismo. Il successo è dato dal fatto che ha costretto a una maggiore attenzione
verso i fattori ideali. Il costruttivismo non è ancora giunto alla formulazione di una teoria in grado di
offrire previsioni su regolarità e tendenze della politica internazionale e quindi non ha portato al
definitivo superamento delle teorie esistenti. Un'altra criticità riguarda il fatto che il costruttivismo si
è sviluppato molto in Europa che in America.

Capitolo 6: Il postmodernismo e le relazioni internazionali


Il termine “postmoderno” si colloca in antitesi e in successione temporale rispetto a qualsiasi punto
di vista o di impostazione che possa essere definito dalla modernità. Più nello specifico, da approcci
struttural-funzionali o da quello dell’individualismo metodologico, in particolar modo nella forma
della scelta razionale. Il clima culturale generale tendeva a sottolineare l’importanza dei punti di vista
particolari e della decostruzione delle teorie. Il colpo definitivo è stato portato dalla fine della guerra
fredda, che ha dimostrato le difficoltà delle teorie correnti a render conto di un rilevante mutamento
nella politica internazionale. L’esigenza di un maggior rigore metodologico, ha posto l’accento, nelle
IR, sull’aspetto della spiegazione rispetto a quello della comprensione. Questa differenza fu per la
prima volta tematizzata da Max Weber. La spiegazione si propone di mettere in evidenza una
concatenazione di cause ed effetti, così come viene fatto nelle scienze della natura, in modo da rendere
conto di certi eventi nell’ambito sociale, nel nostro caso nell’ambito dell’IR. La comprensione,
invece, si propone di affrontare e di mettere in evidenza anche le motivazioni dell’agire sociale. Il
postmoderno, conduce verso un soggettivismo e un relativismo estremi. Questo relativismo muove
da un’interpretazione radicale del pensiero di Wittgenstein. Dato che conosciamo il mondo solo
attraverso il linguaggio, il tentativo di comprendere le motivazioni degli attori, ci porta ad avvitarci
in un circolo vizioso interpretativo. Infatti, ogni tentativo di comprendere le motivazioni dell’agire
sociale di altri soggetti può essere costituito soltanto da un’interpretazione di ciò che questi stessi
soggetti ci comunicano attraverso le loro espressioni verbali o scritte. Secondo i postmoderni non
possiamo né conoscere il mondo indipendentemente dal linguaggio, né formalizzare il linguaggio
naturale senza snaturarlo del tutto.

Le fonti intellettuali del postmoderno sono Nietzsche, Wittgenstein, Foucault. Nietzsche opera una
critica radicale di tutte le ideologie o costruzioni sistematiche, egli rinuncia a tutto e volge il “pungolo
del sapere verso se stesso”; possiamo considerare Nietzsche come un autore antisistematico in cui
emerge una demolizione totale e grandiosa delle ideologie. Dal punto di vista politico il nazionalismo,
e in particolar modo quello tedesco, gli sono invisi, a causa di una visione estetica della vita, non
certo per pacifismo. Due opere importanti di Nietzsche sono “Umano troppo umano” in cui vengono
demoliti i valori assoluti della conoscenza e della verità e “La genealogia della morale” in cui esamina
le vere o presunte origini della morale. Proprio in quest’ultima opera emerge ci che differenzia
Nietzsche dai postmoderni: il suo cercare di disvelare qualcosa che sta dietro alla morale, sulla cui
genealogia elabora la teoria dei “ressentiment” (la morale come risultato del risentimento dei più
deboli contro i più forti). Mentre Nietzsche aspira al disvelamento, i postmoderni diffidano di ogni
tipo di impresa interpretativa. I contributi di Foucault che hanno più influito sulle IR sono costituiti
dalla ricostruzione archeologia del sapere, della critica delle istituzioni totali e dalla teoria del potere.
La prima tematica mira a individuare i punti di riferimento generali ed epistemici del pensiero in una
certa collocazione storica e culturale: se si vuole intraprendere un’analisi archeologica del sapere,
bisogna ricostruire il sistema generale del pensiero in cui la rete rende possibile un gioco di opinioni

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simultanee e contradditorie. È questa rete che definisce le condizioni di una possibilità di dibattito.
Questo programma è stato definito da Habermas “smascheramento critico-razionale delle scienze
umane”, ossia la ricostruzione della formazione di metodi e concetti ormai ossificati nella pratica
delle scienze umane. In Foucault, si mette in evidenza il carattere di controllo, uniformazione e
dominio che hanno la teoria e la pratica carceraria a partire dall’illuminismo, con la fine della
punizione come risposta all’affronto verso il sovrano, come l’esempio del “Panoptikon”, un progetto
di carcere ideato da Jeremy Benthan in cui ogni singolo atto del detenuto era controllabile da un luogo
di osservazione centrale. Il Panoptikon diviene metafora perfetta di un potere che controlla la vita dei
cittadini. Successivamente vi è Jean-François Lyotard sostenitore della condizione postmoderna: la
fine delle grandi narrazioni, cioè l’impossibilità di comprendere l’intera realtà storica con un’unica
teoria, che viene considerata come un’unica narrazione, un racconto, un particolare punto di vista.
Poi vi è Jaques Derrida, associato invece alla pratica della decostruzione; secondo lui il problema
fondamentale è che il manoscritto del mondo non è mai esistito, esistono solo le sue tracce,
quest’ultime oramai scomparse, cancellate. Ogni testo si riferisce a se stesso e ad altri testi in reciproci
rapporti di commento, di interpretazione, di reinterpretazione in contesti differenti. Il mondo sociale
potrebbe essere quindi letto come un testo: i processi con cui si costruisce la realtà sociale sono simili
a quelli con cui si costruisce un testo. Dunque, un discorso o un testo vanno intesi come un processo
che ha luogo in un contesto culturale e storico rispetto al quale ha significato.

Uno dei compiti che per primo si è proposto il postmodernismo nelle IR è stato la decostruzione di
questa autorappresentazione e la rilettura sia dei classici sia di quei testi del pensiero politico e
filosofico posti alla base delle varie tradizioni o paradigmi interpretativi. In particolare i postmoderni
sono partiti da Tucidide a Machiavelli fino a Carr e Mongenthau. Questi autori vengono tolti dalla
loro ossificazione e restituiti alla loro collocazione storica. Ricollocare gli autori nel quadro dei
problemi e dei dibattiti del loro tempo ha significato. Ad esempio, si vedrà in Tucidide non solo il
precursore della dinamica del potere, ma anche un autore che analizza l’importanza delle decisioni
individuali, la dinamica dialogica, la definizione della buona condotta nella politica interna alla Polis.
In Machiavelli, si ricercherà il politico e il pensatore che si è poso il problema di come costituire uno
Stato e di come studiarne le cause di grandezza ed espansione, nonché decadenza. Carr invece, tratta
un’opera in cui egli si propone al lettore come punto mediano di equilibrio tra utopismo e un tipo di
realismo rigido. Durante l’ascesa della Germania, Carr pensava che si dovessero soddisfare alcune
esigenze della Germania per poterne placare gli appetiti espansionistici; Carr non nascondeva le sue
simpatie per l’Unione Sovietica. Più difficile per è la posizione dei postmoderni nei confronti di Hans
Morgenthau, in cui viene messa in evidenza la sua duplicità tra dichiarazioni positivistiche da una
parte ed eredità legate alla comprensione weberiana dall’altra. Morgenthau da una parte cerca di
comprendere le motivazioni dell’uomo di Stato, dall’altra invece intende costruire una teoria
scientifica governata da leggi oggettive. Questi due aspetti sono definiti “realismo pratico” e
“realismo tecnico”. Una parte importante della critica postmoderna è quella rivolta al concetto di
anarchia. Ashley chiama questa pratica “pratica eroica”, che si fonda su un’opposizione
sovranità/anarchia, in cui al primo termine viene data una valutazione positiva, al secondo una
negativa. L’anarchia è pertanto la caratteristica di un dominio problematico da portare sotto il
controllo di un centro sovrano, che riduce all’ordine tale ambito anarchico. D’altra parte, per parlare
di anarchia è necessario partire da qualche cosa, e questo qualcosa è lo Stato, che è difficile da
definire. Questa difficoltà è data dai problemi insiti nella determinazione del principio di sovranità,
che ha sempre due aspetti, quello interno e quello esterno. Si hanno così due possibilità: una lettura

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monologica che offre una versione univoca della realtà e una lettura dialogica che porta al confronto
reciproco di narrazioni diverse. Nella lettura monologica la dicotomia tra anarchia/sovranità non
ammette né terze possibilità né zone d’ambiguità. Al contrario, il modello interpretativo del dialogo
dà la precedenza alla pratica rispetto alla struttura e al movimento storico rispetto alla stasi.
Decostruendo la lettura monologica, si pone in evidenza come l’approccio realista, caratterizzato da
questo tipo di lettura, tende a costruire barriere e a porre separazioni rigide tra sovranità e anarchia.
Per questo Ashley e Walker propongono di guardare le IR da molteplici punti di vista ed elencano
una serie di figure sottoposte a una tensione che spinge a poter assumere rispetto alla realtà sociale
diverse ottiche e anche tra loro in conflitto. Tra queste, ad esempio, il lavoratore disoccupato. Il
maggior problema del liberalismo secondo i postmoderni, risiede nella mancata considerazione delle
differenze e della loro non eliminabilità. Quanto al primo aspetto, la differenza veniva eliminata
all’interno e spostata alle relazioni tra gli Stati. Collocare la diversità al di fuori di confini, impedisce
di identificarla all’interno delle nostre società. Il maggior problema del liberalismo, sta anche nel suo
carattere non critico, che lascia prevalere la reale necessità di presentarsi come un liberalismo
“robusto”, cioè capace di confrontarsi con le dure realtà della politica. Il liberalismo propone
un’eguaglianza politica nei fatti limitata; a questa corrisponde anche una grande diseguaglianza
economica, la realtà delle relazioni economiche.

Capitolo 7: International Political Economy: Stati, mercati e potenze emergenti


nell’età della globalizzazione
La International Political Economy (IPE) è un settore di studio che ha subito un profondo processo
di trasformazione in cui convivono oggi approcci stratificati ed eterogenei; è una sotto-disciplina delle
IR attraversata da domande su due principali temi: il ruolo delle dinamiche economiche per spiegare
i rapporti fra Stati e i loro mutamenti; la relazione fra Stati e mercati, politica ed economia, politici e
capitalisti, declinata in chiave internazionale. Il rapporto fra politica ed economia si spiega attraverso
le tre principali paradigmi classici: mercantilismo, liberalismo e marxismo.

L’IPE emerge come tentativo di integrare aspetti economici in una letteratura sulla politica
internazionale; rappresenta un filone a sé, che risente di influenze eclettiche e che, si è costantemente
e notevolmente sviluppato e diversificato. È utile ricostruire le origini dell’IPE iniziando dal contesto
internazionale in cui queste teorie presero forma. Il sistema economico che emerge alla fine della
Seconda guerra mondiale è il portatore di due istanze diverse, una politica ed una economica. E’
necessario costituire il versante economico dell’egemonia politico-militare americana sul mondo
occidentale. Questo porta ad un nuovo sistema, quello di Bretton Woods, che precede la fine del
conflitto e all’acuirsi della contrapposizione bipolare. Il sistema istituzionale che emerge è fondato
su tre pilastri. Il primo, a livello monetario, è la costruzione di un sistema fondato sul dollaro come
moneta di transazione e di riserva dell’economia internazionale. Le altre monete erano legate al
dollaro tramite un sistema di tassi di cambio fissi in cui il dollaro poteva essere scambiato con l’oro
un valore prestabilito. Questo regime monetario internazionale, avrebbe permesso di evitare gli effetti
negativi rispetto alle speculazioni competitive delle monete. Il secondo elemento è rappresentato dalle
nuove istituzioni internazionali, in primis il Fondo monetario internazionale (FMI). Il ruolo dell’FMI
è di costituire la fonte di finanziamento di ultima istanza in situazioni di crisi di paesi
momentaneamente incapaci di far fronte ai pagamenti internazionali e di mantenere, dunque, la
stabilità dei tassi di cambio. Consci che costruire un ampio mercato a livello mondiale costituiva la
priorità per la ricostruzione dell’Europa, i fondatori del sistema di Bretton Woods avevano pensato a

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un’altra istituzione: la Banca mondiale. Il terzo fondamento del nuovo sistema è il GATT (General
Agreement on Trade and Tariffs), accordi finalizzati alla costruzione di uno spazio mondiale di libero
commercio. Questi tre pilastri sono accomunati da una filosofia su cui il sistema si basava: quello del
cosiddetto embedded liberalism cioè un liberalismo ancorato, guidato. Le ancore erano due. Da un
punto di vista teorico, il liberalismo era istituzionalizzato, legato alla presenza di organizzazioni
internazionali che miravano a controllare le fluttuazioni eccessive di un mercato non regolato e a
evitare che gli Statu agissero da soli mettendo in moto effetti perversi. L’egemonia americana
costituisce l’effettivo ancoraggio di questo sistema. Stabilità monetaria, credibilità ed efficacia
dell’azione di istituzioni internazionali, erano possibili grazie alla presenza di un attore in posizione
di superiorità rispetto agli altri. Come notava Charles Kindleberger, tutto ciò consentiva di evitare la
spinte centrifughe, minimizzando i conflitti fra le parti e garantendo così la stabilità e il buon
funzionamento del sistema. Si parla di teoria della stabilità egemonica. Lo sviluppo economico
trasforma paesi agricoli in potenze industriali e permette la ricostruzione di un tessuto industriale
devastato dalla guerra. In Europa, ricostruzione e crescita economica si muovono in parallelo con il
processo d’integrazione e costruzione di istituzioni comuni. La CECA prima e le Comunità europee
dopo, rappresentano passi straordinari di un processo integrativo dei mercati che riproduce il modello
internazionale di Bretton Woods. Dal punto di vista economico, questo processo ha un feedback
positivo sulla crescita dei paesi coinvolti. Dagli anni settanta si assiste a una crisi originata anche da
debolezze strutturali dell’economia americana; in particolare un aumento dell’inflazione legato alle
spese pubbliche e militari contribuisce a trasformare gli Stati Uniti nel grande debitore del sistema
internazionale. Dopo la crisi degli anni settanta, vi fu il mutamento di equilibri politici ed economici
internazionali. Tre appaiono di particolare rilevanza. La fine del regime di Bretton Woods mette in
discussione l’egemonia americana e sembra prefigurare un sistema economico internazionale non
dominato e gestito da un solo attore ma più interdipendente. In secondo luogo, l’ascesa di nuove
potenze economiche impone un ripensamento tematico nelle IR. Questo avviene in due forme: da un
lato, si conferma la necessità di pensare oltre l’egemonia americana, guardando alle trasformazioni
del sistema economico internazionale di fronte all’ascesa di nuovi attori; dall’altro sembra che si
assista a una divaricazione fra ricerca del potere e della ricchezza. Il terzo elemento è la crisi
petrolifera che mette in risalto le nuove potenzialità di sfruttamento a fini politici di strumenti
economici. Di fronte al sostegno occidentale a Israele nel conflitto con Siria ed Egitto del 1973, i
paesi arabi produttori di petrolio proclamano un embargo alle loro esportazioni, causando un
innalzamento del prezzo del petrolio e una pesante recessione nelle economie sviluppate dipendenti
dal petrolio. Anche in questo caso, il problema che emerge per le IR è duplice. Da un lato si tratta di
tenere in considerazione che il nuovo assetto politico-economico internazionale è influenzato da attori
che non fanno parte del Primo mondo. Dall’altro la trasformazione è legata a un fattore di tipo
economico che rappresenta un vero e proprio strumento delle politiche degli Stati nell’arena
internazionale. È in questo contesto di crisi e trasformazioni che emerge l’esigenza di individuare
dimensioni analitiche in grado di cogliere sia le specificità del sotto-sistema economico nell’ambito
del sistema internazionale sia i collegamenti fra questi due livelli. In particolare, questo tentativo si
può rintracciare nell’opera dello studioso Robert Gilpin che ricostruisce i tre paradigmi fondamentali
del rapporto tra politica ed economia: mercantilismo, liberalismo, marxismo.

Gilpin crea una tripartizione che costituisce il punto di partenza condiviso nella ricostruzione di cos’è
l’IPE. I tre paradigmi differiscono fra loro sulla base delle due principali dimensioni d’analisi della
disciplina nel suo rapporto con le IR: il rapporto fra politica ed economia e l’outcome o l’effetto in

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termini di cooperazione/conflitto nelle relazioni fra Stati. Il mercantilismo è basato sull’idea che
l’obiettivo dell’azione degli Stati, sia l’aumento della potenza nazionale. Secondo i mercantilisti
l’accumulazione di ricchezza da parte di uno Stato non è tanto un fine in sé quanto un mezzo per
l’acquisizione di maggiore potere. È possibile rintracciare la teoria del mercantilismo nella
produzione di Friedrich List. Egli sosteneva l’importanza per i governi di stimolare lo sviluppo di
un’industria manifatturiera nazionale, anche attraverso la creazione di barriere al commercio
internazionale. È facile intuire il rapporto tra realismo e mercantilismo. Del realismo il mercantilismo
condivide la visione essenzialmente e naturalmente conflittuale della politica internazionale, la
centralità che i rapporti di forza hanno nelle interazioni fra Stati e l’idea della centralità dello Stato
come attore. Nella visione mercantilista dell’IPE la politica e lo Stato sono sovraordinati rispetto a
economia e mercato: a livello internazionale gli agenti economici sono in ultima istanza dipendenti
dalle azioni degli Stati. Gli Stati creano le condizioni politiche affinché le imprese possano
commerciare. Buone relazioni fra Stati costituiscono un importante elemento di cui le imprese
tengono conto nella valutazione dei rischi connessi alle proprie attività estere. Non è un interesse
economico condiviso a creare le basi della cooperazione, ma sono le buone relazioni fra Stati che
generano l’interscambio. Inoltre, gli Stati possono usare le imprese multinazionali come strumento
della loro politica estera e favoriscono la nascita di industrie in settori strategici e ne difendono lo
sviluppo proteggendole dalla competizione internazionale. Nelle teorie liberali dell’IPE si assiste a
un ribaltamento delle prospettive rispetto al mercantilismo. Queste teorie sono legate alle tesi della
scuola economica scozzese, emerse con Adam Smith e con David Ricardo. Gli economisti scozzesi
ritenevano che il commercio internazionale libero permettesse l’accrescimento del benessere degli
Stati in esso coinvolti. Il meccanismo è noto come vantaggio comparato: due paesi che commerciano
fra loro tenderanno a specializzarsi nella produzione del bene nel quale sono più produttivi. Lo
scambio internazionale permette di evitare di disperdere risorse nella produzione di beni. L’apertura
dei mercati permette di allargare la frontiera in termini di consumi perché aumenta l’efficienza nella
produzione e nell’allocazione dei beni. Nella politica internazionale, per uno Stato i vantaggi in
termini di arricchimento legati al commercio con altri Stati sono tali che ogni atto ostile che
minacciasse la stabilità delle interazioni economiche con i propri partner commerciale sarebbe
totalmente irragionevole. Nel liberalismo l’economia ha la primacy sulla politica, il benessere
economico è un fine autonomo e principale. Questa primacy si denota dal fatto che la natura della
politica internazionale impone agli Stati di guardare ai guadagni che possono derivare da
un’interazione con altri Stati solo in modo relativo. Il vantaggio che deriva dallo scambio è tale se si
guadagna più degli altri. Nell’ottica liberale i guadagni sono visti anche in maniera assoluta: se
entrambe le parti si avvantaggiano da un’interazione, la relazione è proficua e la cooperazione da
perseguire. Come nota Albert Hirschman, il principale problema delle teorie liberali è il sottovalutare
le relazioni di influenza e dipendenza che emergono da una struttura del commercio non simmetrica.
Nella visione liberale il ruolo dello Stato nell’economia resta limitato. La prevalenza dell’economia
sulla politica vuol dire meno conflitto perché meno politica vuol dire, meno politica di potenza. Esiste
un terzo elemento tipico delle teorie liberali e che consiste nell’idea che l’ordine emerga e si mantenga
in maniera spontanea: per gli economisti liberali classici il sistema è naturale e l’ordine emerge come
il portato delle scelte razionali delle parti. Spontanea dovrebbe essere la costituzione di regole, atte a
far funzionare in maniera efficiente il sistema: i costi di tali istituzioni sarebbero più che ripagati dai
vantaggi che emergono con la cooperazione che da esse è facilitata. Marxismo e neomarxismo
rappresentano la terza fondamentale anima dell’IPE. Le fondamenta teoriche marxiane contengono i
due elementi centrali, ossia le strutture e le logiche che guidano la dinamica delle relazioni

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economiche internazionali: la supremazia dell’economia sulla politica e lo sfruttamento. Il primo
elemento, rappresenta l’elemento distinzione/opposizione netta rispetto al mercantilismo e riduce la
politica a strumento non di un generico mercato ma degli interessi della borghesia capitalista. La
potenza dello Stato porta ad obiettivi che non avvantaggiano lo Stato ma un gruppo sociale preciso
all’interno di esso. Per quanto riguarda lo sfruttamento, nell’arena internazionale le diverse teorie
dell’IPE si basano sull’idea che alcuni Stati sfruttino altri, perché dominati direttamente o perché in
condizioni di dipendenza. Strettamente collegata, è la visione del conflitto come dinamica dominante
nelle relazioni internazionali. Un conflitto che assume due forme principali: una competizione
orizzontale per la spartizione delle risorse e una competizione verticale legata al tentativo dei paesi
sfruttati di affrancarsi dalla loro condizione, tentativo che incontra le resistenze dei paesi oppressori.
A questa distinzione è possibile collegare due approcci di matrice marxista: il primo, legato alle tesi
di Lenin che definisce l’imperialismo come fase suprema del capitalismo; il secondo è legato al
tentativo di adattare la constatazione della natura asimmetrica della struttura economica
internazionale alla fine del colonialismo. Il tentativo più completo è quello di Immanuel Wallerstein
e la sua definizione di sistema-mondo. Compatibili in tale senso, le teorie della dependencia
sviluppatesi in America Latina in cui l’elemento fondamentale risiede nei passaggi di fascia: il
conflitto, anche violento, è il frutto della non accettazione da parte dei paesi della periferia e
semiperiferia delle regole che li relegano in una posizione di inferiorità, ed è legato al tentativo di
uscire da tale sistema con politiche di protezione e non accettazione dell’ingerenza del centro.

Il concetto di globalizzazione è il punto di partenza fondamentale per ricostruire le traiettorie del


dibattito attuale sull’IPE. Gilpin ha suggerito di parlare di GPE (Global Political Economy). La
globalizzazione è descritta come il portato o la causa dell’abbattimento delle barriere commerciali e
degli ostacoli ai movimenti di capitale, deregulation, processi di trasferimento della produzione e di
traslazione del valore dal bene al servizio. Nel contesto di trasformazione è possibile identificare: tesi
di natura ottimista sulla globalizzazione legata al neoliberismo; resi critiche e pessimiste sulla portata
di tale processo; tesi legate alla tradizione realista/mercantilista. Secondo Thomas Friedman la
globalizzazione è caratterizzata dalla riduzione se non dalla fine delle distanze, da un sistema
internazionale dove tutti gli agenti economici possono giocare ad armi apri, dalla realizzazione del
sogno liberale di abbattimento delle barriere commerciali e dei costi connessi con le transazioni
economiche grazie ai quali si può realizzare un incontro perfetto tra domanda e offerta. Le spinte al
cambiamento sono collegate a una trasformazione nella domanda di beni e servizi. Le nuove
tecnologie aumentano le informazioni a disposizione dei consumatori, la loro possibilità di scegliere
e ciò porta i consumatori a diventare consumatori globali. I processi di outsourcing e di
delocalizzazione hanno rilevanza internazionale. Il primo è legato all’esternalizzazione di alcune
attività di un’industria ad altri agenti capaci di realizzarle in maniera più efficiente; il secondo allo
spostamento degli impianti produttivi in regioni e paesi che permettono costi operativi più bassi e
dunque maggiore efficienza. Un altro elemento di cambiamento è legato alla finanziarizzazione
dell’economia. Anche in questo caso si sovrappongono e rafforzano mutamenti qualitativi e
quantitativi in cui il cambiamento è relativo alla tecnologia della finanza. Le conseguenze sono di
due tipi: la prima è relativa al rapporto Stato-mercato, secondo cui nella visione ottimista della
globalizzazione gli Stati perdono più potere a favore dei mercati; la seconda riguarda la dinamica fra
cooperazione e conflitto. Nell’età dell’economia globale la guerra è un fenomeno residuale nella
politica internazionale. L’interconnessione e l’aumento del grado di omogeneità dei sistemi
economici, la diffusione della produzione e in generale la primacy degli interessi economici, rendono

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il conflitto politico irrazionale dal punto di vista degli Stati, influenzati dagli agenti economici.
Tensioni di natura politica aumentano il rischio paese e dunque la capacità di attrarre investimenti e,
con essi, sviluppo e ricchezza.
Un secondo gruppo di tesi non nega che le trasformazioni siano avvenute, ma differisce nella
valutazione della direzione e degli effetti di questi cambiamenti. Una voca attiva nell’analisi dei
sintomi della globalizzazione fu quella di Susan Strange. Secondo ella, il problema era la visione
opposta delle conseguenze della perdita di potere dello Stato sul mercato: i confini territoriali degli
Stati non coincidono più con l’estensione o i limiti dell’autorità politica sull’economia e sulla società.
Per la Strange si dà origine a un capitalismo d’azzardo che è sganciato dal tradizionale controllo che
lo Stato ha esercitato nel sistema moderno. Quattro funzioni sono importanti: la sicurezza, la
conoscenza, la produzione e la finanza. Lo Stato controlla la sicurezza, le altre tre dimensioni
sfuggono al controllo dello Stato e sono transnazionali. In questo contesto sorgono problemi politici
ed economici. In riferimento ai primi, ci sono riduzioni di accountability o responsabilità di fronte
all’incapacità dello Stato di controllare alcuni settori della vita economica e sociale. Poi la ritirata
dello Stato crea una frammentazione dell’autorità, nel quale esistono vaste zone grigie. Possono
prosperare attori non statali come gruppi criminali. Le conseguenze economiche sono legate
all’estrema instabilità dell’economia finanziarizzata contemporanea. La fine di Bretton Woods ha
contribuito a deregolare un mercato valutario e ad ampliare raggio e strumenti d’azione delle
istituzioni finanziarie private. Queste si sono trasformate, con l’emergere di attori come hedge funds,
fondi di private equity e con la crescita del settore dell’investment banking. Questi attori
contribuiscono all’instabilità mirando a guadagni di breve periodo e sono basati sull’assunzione di
rischi eccessivi da parte degli investitori. Tutto ciò rende più probabile il verificarsi di crisi
finanziarie. L’instabilità finanziaria non è solo un problema per investimenti e risparmi: quello che è
a rischio è anche l’economia reale. La delocalizzazione e l’outsourcing hanno un impatto sulla
quantità del lavoro così come sulla sua qualità. Un’altra conseguenza più diffusa è l’allargamento
delle diseguaglianze di reddito tra le varie fasce della popolazione. L’intensificazione del conflitto
sociale, è una conseguenza possibile di tali trasformazioni. Secondo Mary Kaldor si forma una
economia di guerra globalizzata: il mercato globale è anche quello delle armi, la transnazionalità
delle minacce e dei gruppi armati. Ma se la competizione fra Stati non è a livello militarizzato,
presenta numerosi elementi disfunzionali che non sono in grado di mitigare gli effetti negativi della
globalizzazione in termini di rischi finanziari, delle loro ricadute economiche collettive e degli effetti
più generali per gli individui coinvolti nel casinò globale. Esiste infine un gruppo di tesi che
sottolineano le continuità della politica internazionale di fronte alle trasformazioni del sistema
economico mondiale. Da un lato, lo Stato rimane l’attore fondamentale nell’arena politico-economica
internazionale, dall’altro le ragioni sottostanti il conflitto internazionale sono legate a considerazioni
tradizionali di carattere politico e militare rispetto alle quali la dimensione economica gioca un ruolo
sussidiario. Lo Stato mantiene un ruolo attraverso partecipazioni azionarie dirette soprattutto in alcuni
casi e settori; giocano un ruolo fondamentale anche nei mercati finanziari. Gli stati utilizzano
strategicamente le risorse per costituire fonti di investimento e risparmio orientate al futuro sia come
strumento di influenza sui mercati finanziari o per acquisire partecipazioni di aziende strategiche. Le
attività di molte banche centrali nell’accumulazione di riserve sono considerabili come espressione
diretta della politica economica estera di uno Stato. L’interdipendenza viene visto come un elemento
politicamente neutro nella politica internazionale, motivo per il quale venne attuata una critica
attraverso l’analisi waltziana delle relazioni internazionali per cui l’interdipendenza deve venire
intesa come reciproca vulnerabilità. Questo tipo di analisi insiste sull’importanza che nella

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formazione del sistema globale di stampo neoliberale hanno le preferenze economiche e gli interessi
della potenza mondiale dominante, gli Stati Uniti. La globalizzazione non sarebbe il portato casuale
ma la ristrutturazione dell’ordine economico mondiale, cioè la rappresentazione di un nuovo modo
della superpotenza di intendere i rapporti economici internazionali. Gli Stati non sono solo dipendenti
dal sistema economico globale, ma ne sono anche protagonisti nel senso che le loro politiche
economiche influenzano in maniera rilevante l’economia internazionale.

Jim O’Nell ha coniato il termine di successo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) per definire i paesi
emergenti (più di recenti si usa l’acronimo BRICS per includere il Sud Africa e i summit organizzati
da questo gruppo di Stati). Declino e ascesa delle potenze sono due temi tradizionali delle IR e
dell’IPE ed emerge dunque la necessità di descrivere il ruolo degli Stati Uniti e lo spostamento degli
equilibri tra potenza egemone ed emergenti, proprio a partire dal fenomeno BRIC. La fine di Bretton
Woods non segna il declino degli Stati Uniti, quanto piuttosto una ristrutturazione dell’ordine
economico internazionale in cui gli Stati Uniti giocano un ruolo diverso ma non meno rilevante. La
spinta innovativa nell’economia americana trova una fonte nel capitalismo deregolato: innovazioni
di prodotto e di processo capaci di riorganizzare anche la catena distributiva in maniera estremamente
redditizia. L’innovazione tecnologica è stata stimolata da investimenti statali nel settore della ricerca
e dello sviluppo, anche legati a spin-offs di origine militare. Difficile escludere lo Stato come attore
fondamentale dello sviluppo economico, almeno nel senso di creare condizioni e opportunità
favorevoli, finanziando in parte il bene pubblico della ricerca e agendo sui settori di interesse
strategico. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la fine del sistema monetario basato sul dollaro non ha
eliminato la posizione privilegiata della moneta americana sui mercati internazionali. In particolare,
due elementi hanno garantito tale posizione: da un lato le transazioni economiche internazionali
principali avvengono in dollari; dall’altro i titoli di Stato americani costituiscono il bene rifugio per
molti investitori istituzionali e privati a livello mondiale. Questo significa che gli Stati Uniti, entro
certi limiti, hanno il controllo della moneta e in larga misura del tasso di interesse dei debiti che
contraggono. La trasformazione economica ha portato con sé un riallineamento della posizione degli
Stati e con essa degli equilibri fra le potenze. La tendenza di questo mutamento sembra essere l’ascesa
di nuovi mondi (Brasile e Sud Africa) da un lato e il riemergere di grandi potenze (Cina e Russia)
dall’altro. L’ascesa delle periferie del sistema economico globale è legata a una pluralità di fattori e
porta con sé una pluralità di conseguenze. Le cause sono legate alla complessa interazione tra fattori
esterni e interni. Fra i primi ha influito il rilassamento delle barriere commerciali e finanziarie a livello
internazionale e dunque un ambiente in cui si potevano costituire posizioni di vantaggio per paesi
capaci di produrre beni a costi competitivi. L’aumento degli investimenti diretti all’estero ha
costituito un elemento fondamentale nello sviluppo industriale e nell’urbanizzazione. Molti di questi
casi hanno portato un aumento delle diseguaglianze interne e acuito il conflitto sociale soprattutto
nella forma di criminalità diffusa nelle grandi metropoli. Fra i BRICS si tengono incontri annuali,
l’ascesa della Cina rappresenta al momento un fenomeno non assimilabile per portata ad altri. Lo
sviluppo cinese può costituire anche un elemento di antagonismo con le altre potenze emergenti, India
in prima luogo.
Una prima fase della crisi finanziaria del 2007 è stata interpretata come segnale della fine di un
modello economico neoliberale basato sulla deregolamentazione e sull’espansione del mercato.
Questo è segnato dalle politiche di salvataggio delle banche da parte degli Stati, dall’intervento
pubblico in alcuni settori industriali e da un processo di ri-regolamentazione di quelle che venivano
percepite come le deviazioni di un capitalismo impazzito (o casinò). Una seconda fase della crisi

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sembra mettere in evidenza che questo processo di ristrutturazione dell’equilibrio Stato-mercato in
favore del primo non è né lineare né scontato né omogeneo. Anzi, i mercanti e gli agenti economici
sembrano tornare alla ribalta come motori delle decisioni politiche. Un altro tema è l’asimmetria degli
effetti della crisi sugli Stati a livello globale. La diffusione della crisi e l’interdipendenza dei mercati
non hanno significato un’omogeneità negli effetti negativi su tutti gli Stati. Alcuni trend id lungo
periodo non sono stati scalfiti anzi, la crisi ha accelerato alcune tendenze. Anni di bassa crescita in
molti paesi europei hanno portato al sorpasso cinese. Ultimo tema è la governance del sistema
economico internazionale. La questione può essere vista su almeno due livelli, regionale e globale.
Al primo livello, in Europa sono state mostrate le difficoltà di coordinamento fra i paesi di fronte al
carattere transnazionale della crisi. Si può superare il dilemma dell’azione collettiva trovando nuove
forme di cooperazione che concilino le esigenze degli attori più deboli di fronte alla crisi con quelle
degli attori più forti, gli unici in grado di sostenere i costi del salvataggio. Un problema centrale è
l’azione degli organismi internazionali, quindi la loro capacità di affrontare nei tempi appropriati e
con gli strumenti giusti le crisi finanziarie. Si è assistito all’emergere di nuove arene come il G20,
che hanno rappresentato il luogo del riconoscimento che al dibattito sulla governance mondiale
devono partecipare attori nuovi rispetto ai grandi del G7 e del G8.

Capitolo 8: Gli studi strategici dalla Guerra fredda all’invasione dell’Iraq


Gli studi strategici sono la branca delle IR che studia come l’applicazione, la non applicazione e
l’evoluzione degli strumenti militari condizionano l’esistenza degli Stati e i loro rapporti. Gli ambiti
privilegiati risultano la guerra, gli scopi che la sottendono e le implicazioni che ne derivano per il
sistema internazionale e i suoi membri. Poiché la guerra è un fenomeno sociale che comprende una
pluralità di dimensioni, il campo d’interesse di questa disciplina tende a variare per ampiezza e
prospettive analitiche applicabili a seconda delle circostanze storiche.

La riflessione sulla guerra e sul modo di condurla fanno parte di una tradizione plurimillenaria e sono
state l’esperienza napoleonica e l’effetto delle rivoluzioni militari e sociali che si verificano in Francia
alla fine del XVIII secolo ad aver posto le fondamenta del pensiero strategico moderno. Sino alle fasi
della Pria guerra mondiale, la guerra era un ambito dal quale i civili erano esclusi. Lo studio della
guerra era collegato alla risoluzione di problematiche concrete inerenti l’assetto delle forze armate, il
loro sviluppo e la vittoria finale. Negli scritti di Jomini la guerra è stata affrontata da una prospettiva
generale e scientifica. Muovendo dal resoconto delle campagne napoleoniche, Jomini richiamava
alcuni principi immutabili nella condotta della guerra come il ricorso all’offensiva, l’utilizzo della
massa su forze numericamente inferiori e la concentrazione dell’azione nel punto decisivo. Secondo
Jomini, se separata dal contesto storico, la guerra era sempre uguale a sé stessa, retta da principi
immutabili che quando conosciuti e applicati avrebbero portato alla vittoria. Il nesso tra l’applicazione
di norme definite o immutabili e la vittoria sul campo era la rassicurazione di cui le forze armate
avevano bisogno. La guerra però è un fenomeno sociale: un effetto del contesto in cui avviene e una
causa di quello che la seguirà. La strategia è in primo luogo il risultato di un lavoro di interpretazione
ed elaborazione di ipotesi la cui correttezza è confermata dagli esiti concreti prodotti dal campo di
battaglia. Le guerre vanno messe in relazione al contesto in cui si sviluppano. A seconda dei casi,
infatti, i comportamenti efficaci (le strategie) saranno il prodotto della combinazione di fattori
ambientali, umani (sociali) e casuali differenti. Anche Clausewitz ha riflettuto sulla guerra
condizionata dall’esperienza vissuta nelle guerre napoleoniche. Secondo Clausewitz, la vittoria
proviene dall’analisi, dall’innovazione, non dall’imitazione decontestualizzata delle campagne del

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passato. Perché il rapporto tra i mezzi e i fini della politica si mantenga efficiente, garantendo alla
strategia la flessibilità necessaria ad adattarsi al contesto sociale, la storia delle campagne potrà essere
di aiuto, ma non sostituirà il genio del condottiero. La guerra è prima di ogni altra cosa un fenomeno
sociale e storico, materia plasmabile solo attraverso forze sociali e individuali di tipo analogo.
L’intendo dell’opera Vom Kriege di Clausewitz era di mostrare al lettore la sua natura cangiante: la
guerra è un camaleonte. Dopo la seconda guerra mondiale, la durata e l’intensità dei combattimenti,
i livelli di contrapposizione ideologica e mobilitazione sociale, il potenziale distruttivo raggiunto dai
sistemi d’arma, sembrava mostrassero che gli attriti fossero venuti meno e la guerra reale si fosse
ormai approssimata al modello teorico della guerra assoluta. Disporre di una potenza immensa senza
essere in grado di farne un uso controllato sembrava svuotasse la vittoria militare del suo significato
politico. La forza sembrava aver perso la capacità di essere uno strumento utile rispetto ai fini della
politica. La nascita degli studi strategici risale al 1943. Dopo il lancio dei due ordigni di Hiroshima e
Nagasaki, si favorì l’emancipazione degli studi strategici dal corpus delle IR. L’ampiezza delle
conseguenze che avrebbe provocato una guerra atomica, le conseguenti ricadute sui civili e l’onere
di essere responsabili della distruzione di intere società posero le condizioni perché fosse messa in
discussione la visione secondo cui, dichiarata la guerra, i civili avrebbero dovuto cedere il passo ai
militari. Le porte dello studio della strategia erano ormai aperte ai civili. Accanto alle accademie
militari e alle università, sorsero negli anni cinquanta i think-tanks: istituzioni che si occupavano di
far fronte con adeguati strumenti intellettuali alle necessità storiche che gli Stati Uniti stavano
affrontando: l’analisi era funzionale alla gestione e politicamente efficiente della forza. Gli studi
strategici si sono inizialmente focalizzati sulle ambiguità del potere atomico e soprattutto nel caso
delle armi nucleari, il primato militare non appariva direttamente convertibile in valuta politica. Sino
al termine della guerra fredda, gli studi strategici si sono posti su un piano di continuità con il
realismo, differenziandosene per il carattere prescrittivo implicito nelle finalità applicative delle
analisi. In sintesi gli studi strategici sono stati un prodotto del contesto sociale americano; un filone
di ricerca legato alla Guerra fredda e alla dottrina/teoria della deterrenza; una disciplina olistica in cui
le dimensioni speculativa, tecnologica e applicativa tendevano a coesistere e a condizionarsi a
vicenda. L’evoluzione degli studi strategici può essere divisa in due periodi distinti: dagli anni
cinquanta al crollo del Muro di Berlino e dall’implosione dell’Unione Sovietica a oggi. Entro queste
linee di sviluppo vengono chiamate bipolari e contemporanee possiamo identificare quattro
articolazioni in epoca bipolare: dall’insediamento di Eisenhower alla crisi di Cuba; dall’intervento in
Vietnam alla firma degli accordi SALT 1; dal disimpegno in Vietnam all’invasione sovietica
dell’Afghanistan; dall’elezione di Reagan al crollo dell’URSS; e due in epoca contemporanea: l’arco
temporale delle guerre degli anni novanta; dall’attentato alle Torri gemelle all’invasione dell’Iraq nel
2003.
In epoca nucleare, il primo assunto alla base degli studi strategici era che la dissuasione fosse per lo
Stato il principale obiettivo in politica internazionale. Dopo il blocco di Berlino del 1948, le armi
nucleari erano entrate a far parte dei piani di guerra americani. Poiché il vantaggio americano si
andava riducendo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto investire sulla tecnologia a fusione sfruttando la
loro capacità di infliggere danni irreparabili alla popolazione civile. Questo era lo stato dei fatti nel
1953 quando si insediò il presidente Eisenhower. La centralità assunta dalle armi nucleari e una
propensione a tenere in considerazione i vantaggi collegati a tali armi, hanno caratterizzato la fase di
evoluzione degli studi strategici nota come età dell’oro. I quesiti contenuti nelle analisi di studiosi e
che hanno contribuito a creare il nucleo originario degli studi strategici, erano: se fosse possibile
combattere e vincere una guerra nucleare; che genere di uso si potesse fare delle armi nucleari; in che

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quantità fossero necessarie per compensare il vantaggio convenzionale sovietico. Questi studi si sono
focalizzati sulla dottrina della rappresaglia massiccia (massive retaliation) che consisteva
nell’intenzione di rispondere a eventuali aggressioni affidandosi alla capacità di rappresaglia
istantanea con i mezzi e nei luoghi che ci riserviamo di scegliere, fatta salva la necessità di rivedere
tale dottrina qualora si fosse rivelata svantaggiosa. William Kaufmann avvertiva che la rappresaglia
massiccia era una dottrina che per essere efficace presupponeva una propensione al rischio fuori dal
comune, perché in caso di aggressione le opzioni nelle mani dell’amministrazione sarebbero state
due: rilanciare (significava andare incontro all’olocausto nucleare) o tacere (perdita di reputazione
verso gli alleati europei e una riduzione della capacità di dissuasione verso gli avversari). La
rappresaglia massiccia presentava un fattore di rischio occulto: l’economicità. Nel 1954
l’amministrazione americana adottò una nuova linea: New Look, secondo cui il potere nucleare
avrebbe dovuto adempiere a due finalità: scoraggiare per mezzo di una minaccia credibile eventuali
aggressioni convenzionali sovietiche; rassicurare gli alleati europei sulle intenzioni americane di
garantire la sicurezza: due compiti incompatibili. I due obiettivi avrebbero potuto convergere
ricorrendo alle armi nucleari: la difesa del suolo europeo sarebbe stata affidata alle truppe NATO. In
questo modo, il blocco occidentale avrebbe mantenuto il suo vantaggio; le armi nucleari tattiche
avrebbero avvantaggiato la difesa; il loro uso non avrebbe causato danni eccessivi ai civili. Con la
fine degli anni cinquanta il dibattito sulla guerra nucleare perse di credibilità. La gran parte degli
strateghi aveva riconosciuto come il ricorso alle armi nucleari assicurasse due esiti negativi: non
avrebbe consentito né di contenere né di controllare gli effetti delle armi nucleari; avrebbe trasformato
tutti i conflitti in guerre nucleari. Le difficoltà legate all’impiego delle armi nucleari sono state
all’origine di un’ulteriore linea strategica che principalmente ha coinvolto l’aviazione: distruggere al
suolo la capacità di rappresaglia nemica mediante un attacco preventivo. Una fase di maggiore
sensibilità e consapevolezza rispetto ai nodi della deterrenza si era aperta con l’insediamento, nel
1961, di Kennedy. In assenza di una difesa antimissile si era giunti a una situazione di stallo nucleare
consolidata dalle forze di rappresaglia invulnerabili. Il reciproco annientamento si era fatto reale. La
crisi di Cuba ha consentito agli studi strategici di approfondire la deterrenza e i rischi legati
all’applicazione di modelli di azione razionale. Gli Stati Uniti si impegnarono ad assicurare la stabilità
dei rapporti di forza tra i blocchi basando la sua posizione sul concetto di natural assured destruction
(MAD): la capacità di dissuadere il nemico conservando la capacità di infliggere danni inaccettabili
anche dopo un attacco di sorpresa. L’assunto alla base era che la capacità delle parti di distruggersi a
vicenda avrebbe impedito che la deterrenza fallisse. Ma questa ipotesi fu smentita quando l’Unione
Sovietica si assicurò una capacità di secondo colpo. La risposta americana era stata di non replicare
in modo speculare alla condotta dell’Unione Sovietica, ma di avanzare sul fronte dell’offesa
implementando un sistema di testate multiple indipendenti in grado di moltiplicare il potenziale
offensivo degli ordigni, riducendo in questo modo l’efficacia della difesa. Alla luce dell’evoluzione
delle forze in campo, si sono sviluppati approcci strategici che ponevano al centro della riflessione il
tema dell’escalation, ovvero dell’incremento potenziale di violenza e intensità in un conflitto. Questo
tema si trovò durante il governo Kennedy nella dottrina della risposta flessibile (flexible response)
cioè rispondere in modo freddo e deliberato a eventuali attacchi nemici. Hermann Kahn concentrò i
suoi sforzi nell’elaborazione di una scala che contemplasse ben 44 livelli di aumento di violenza, in
cui le armi nucleari nel caso degli Stati Uniti sarebbero entrate in causa a partire dal quindicesimo e
i decisori politici avrebbero potuto esercitare il loro controllo sino allo stadio ultimativo
dell’autodistruzione, definita spasm war. Thomas Schelling sostenne che anche se la deterrenza fosse
fallita, non necessariamente si sarebbe arrivati alla guerra. La capacità deterrente delle armi nucleari

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dipendeva da quella di provocare danni. Questo effetto, secondo Schelling, era collegato all’assenza
di una contro minaccia e al fatto che il comportamento scorretto innescasse la risposta della
controparte. I limiti riguardo la comprensione di antagonisti né americani né occidentali, emersero
durante la guerra del Vietnam che è stata una guerra irregolare. La fine della guerra in Vietnam ha
offerto un’opportunità di rinascita per gli studi strategici in termini di ampliamento di prospettive.
Tutta una serie di sviluppi collaterali (testate multiple, migliore rapporto peso/potenza, sistemi di
comunicazione) rendevano inoltre le analisi sull’impiego delle armi nucleari molto più tecniche. Ciò
modificava l’insieme di vincoli in base ai quali i decisori politici pianificavano le loro strategie
nazionali. In particolare, il controllo degli armamenti divenne un tema rilevante nel dibattito interno
alla disciplina. Nella prima metà degli anni settanta, la disciplina ha iniziato ad aprirsi verso tematiche
di più ampio respiro. Temi come le cause della guerra, il rapporto tra difesa e offesa, la rilevanza dei
fattori politici interni in politica estera, i rapporti tra alleati e la cooperazione con i nemici, hanno
assunto una maggiore rilevanza. Durante le due amministrazioni Nixon e Nixon-Ford ci si era
impegnati affinché la logica di dominanza nell’escalation fosse migliorata sul piano operativo,
sortendo un maggiore effetto deterrente sul nemico. Nel 1979 l’Unione Sovietica invase
l’Afghanistan, iniziando una guerra che avrebbe portato al crollo del Muro di Berlino, mentre gli Stati
Uniti, con l’elezione di Ronald Reagan intrapresero una sostanziale revisione della loro politica. Gray
e Payne sostennero che era possibile vincere un confronto nucleare e che la sicurezza occidentale
avrebbe tratto enorme vantaggio dal fatto che gli Stati Uniti avessero acquisito l’effettiva capacità di
dominare ciascun livello dell’escalation. Negli anni ottanta, l’obiettivo divenne porre l’avversario in
condizione di accettare questa situazione lungo tutti i gradini della scala. L’approccio
dell’amministrazione Reagan costringeva gli Stati Uniti all’offensiva a oltranza, privandoli in caso di
fallimento delle deterrenze di opzioni alternative alla guerra. A questo si affiancava il progetto di
difesa strategica noto come guerre stellari. Questo progetto, se implementato avrebbe alterato
l’equilibrio del terrore che stava alla base della deterrenza e consentito agli Stati Uniti di disporre di
capacità di secondo colpo. Il progetto ha incontrato un certo numero di impedimenti che ne hanno
bloccato gli sviluppi. Il biennio 1989-91 ha segnato la fine della Guerra fredda.
Nel corso degli anni novanta, gli studi strategici hanno visto un riesame che ha favorito la
denuclearizzazione della disciplina; portato alla smilitarizzazione della categoria di sicurezza e del
suo ampliamento; messo in discussione l’interpretazione realista e Stato-centrica, aprendo la strada
ad analisi più attente ai fattori culturali e antropologici della politica internazionale. nel 1991 lo
scoppio della Guerra del Golfo e dei primi scontri nella ex Jugoslavia avevano fornito un chiaro
segnale riguardo a come lo scenario internazionale fosse mutato. Bisognava intraprendere un
rinnovamento utilizzando nuove tecnologie innovative e attuare un adattamento organizzativo
creando una rivoluzione militare. Inoltre, si è sforzati di comprendere quali tecnologie avanzate
avrebbe potuto utilizzare gli Stati Uniti. Snyder aveva definito la cultura strategica come il complesso
di idee, risposte condizionate e comportamenti abituali che una specifica comunità condivide in
merito alla strategia nucleare. Gray aveva rielaborato il concetto per spiegare la diversità di
atteggiamenti e di comportamenti che Stati Uniti e Unione Sovietica avevano rispetto all’eventualità
di combattere e vincere una guerra nucleare. Thomas Berger ha trattato invece la cultura strategica
come un complesso di credenze e valori che condiziona la percezione dei fatti e veicola le risposte di
una società nelle diverse security issues. Secondo Berger la cultura strategica sarebbe il risultato di
un processo di socializzazione che coinvolge fattori sia esterni sia interni allo Stato. Kupchan ha
definito la cultura strategica come il complesso delle concezioni e nozioni di sicurezza nazionale più
radicate nell’élite politica, sottolineando come le élite colleghino le diverse strategie a simboli e
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immagini capaci di farle assimilare alle masse. Kier si è concentrata sul rapporto tra cultura e dottrina
militare e ha criticato un approccio funzionale o strutturale ritenendo l’approccio culturalista più
efficace nel predire i comportamenti degli Stati. Secondo la Kier, la politica interna fissa i limiti, la
cultura militare li interpreta e la cultura organizzativa delle forze armate interviene tra le decisioni
dei civili e la dottrina militare. Secondo Johnston, la cultura strategica è costituita da un corpo
principale di credenza sulla natura del conflitto, del nemico, sull’efficienza della violenza e di una
gerarchia di preferenze strategiche. La cultura definisce il contesto in cui si sono formulate le scelte
strategiche, mentre la cultura strategica è un sistema integrato di simboli che stabilisce le preferenze
strategiche, rendendole le sole realistiche ed efficaci. Individuate le credenze di una certa società,
infatti, il suo obiettivo è di verificare i loro effetti sui decisori. Il vero elemento di rottura rispetto al
passato concerne non l’impatto della tecnologica o della cultura, ma il mutamento del ruolo dello
Stato come monopolista della violenza legittima e organizzata. Agli attentati dell’11 settembre 2001
tende a essere collegata la revisione della politica estera americana. Da un lato il primato economico
e militare degli Stati Uniti favoriva tale risultato, dall’altro l’espansione della NATO e le decisioni di
non sottoscrivere il Protocollo di Kyoto erano la prova che Washington era intenzionata a ridefinire
la propria strategia in base a un approccio muscolare. La dottrina Bush affondava le sue radici nella
transizione postbipolare degli anni novanta e nell’ascesa dei neoconservatori nell’establishment
americano. La National Security Strategy si proponeva di rafforzare i rapporti con gli alleati,
sconfiggere i nemici e prevenire aggressioni future contro gli Stati Uniti e gli Stati nemici. Bush
assumeva la posizione di difensore morale della democrazia e promotore dell’espansione dei regimi
democratici a livello globale. Le caratteristiche peculiari della National Security Strategy 2002 sono
state sintetizzate in tre diversi obiettivi: difendere la pace combattendo terroristi e governi dispotici;
conservare la pace costruendo buone relazioni con le grandi potenze; ampliare la pace favorendo
l’instaurazione di società libere e aperte in ogni continente. Il primato militare, il peso economico e
l’influenza politica, sono stati gli strumenti attraverso i quali gli Stati Uniti avrebbero dovuto
realizzare una distribuzione di potere che favorisse le libertà degli individui. Riguardo all’uso della
forza, l’approccio dell’amministrazione repubblicana si connotava per una maggiore fiducia nei suoi
mezzi e sostituiva alla condotta incrementale e verso il multilateralismo una logica proattiva,
unilaterale e volta a procedere con i nemici come gli alleati attraverso fatti compiuti. Relativamente
alla minaccia terroristica veniva negata la differenza tra terroristi e paesi i cui i gruppi terroristi
avevano il nucleo operativo. La National Security Strategy 2002 prediligeva un approccio in cui sono
gli scopi della missione a definire la partnership di riferimento e non viceversa. L’Europa era
considerata soprattutto per il peso economico, mentre Cina e Russia diventavano partner strategici;
inoltre essa sembrava riporre maggiore fiducia nelle capacità americane di raggiungere certi obiettivi
attraverso l’uso della forza. La National Security Strategy 2002 prevedevano tre differenti tipi di
azione: prevention, pre-emption e defense. Nel primo caso, l’obiettivo è impedire attraverso la
diplomazia, il controllo degli armamenti e il controllo sulle esportazioni, quindi la loro diffusione e
la loro accessibilità da parte di gruppi terroristici. Riguardo il secondo aspetto, l’idea è di anticipare
e bloccare gli Stati canaglia e i gruppi terroristici. Infine, per quanto concerne la difesa, l’idea che si
dovesse incrementare l’efficienza del sistema era declinata a un progetto di difesa missilistica e a un
consistente incremento di spesa. Per quanto invece concerne il versante della letteratura afferente gli
studi strategici, Callwell aveva individuato alcuni tratti dei conflitti asimmetrici che si sarebbero
rivelati delle costanti nel tempo: natura non omogene degli attori; forze disperse; rapporto spazio-
tempo funzionale al prolungamento delle operazioni avversarie e conoscenza del territorio. John
Arquilla e David Ronfeldt, infine, hanno cercato di sottolineare il rapporto tra nuovi modelli di

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combattimento, tipo di attori coinvolti e ruolo delle tecnologie informatiche e delle
telecomunicazioni. Secondo i due, massa e concentrazione di fuoco sarebbero state sostituite dallo
swarming (sciamare). Questa definizione è ispirata alla metafora animale degli attacchi portati dalle
api, che agiscono come unità autonome e disperse, ma convergono nella loro manovra su un obiettivo
comune; colpiscono da tutte le direzioni in maniera coordinata e vigilano l’una sull’altra. Infine,
l’attacco non mira ad abbattere l’avversario ma la sua coesione interna.

Capitolo 9: La politica estera dell’Unione Europea: quale integrazione?


La politica estera è tra le prerogative di ogni Stato sovrano, attraverso la quale essi definiscono le
relazioni reciproche, difendono la propria integrità territoriale e promuovono gli interessi nazionali.
Questa definizione è influenzata dall’hard security context caratterizzato dalla contrapposizione
militare con la Germania e nella seconda parte dalla Guerra fredda. Tale contesto favoriva
un’immagine della politica estera centrata sul ruolo degli Stati più forti, sull’esistenza di minacce
militari provenienti da altri Stati e sulla necessità di mantenere consistenti strumenti militari. Secondo
Hill, la politica estera può essere definita come l’insieme delle relazioni esterne condotte da un attore
indipendente, solitamente uno Stato, nelle relazioni internazionali. La politica estera cerca di
coordinare il modo in cui vengono stabilite delle priorità tra i diversi interessi esterni. Si tratta, anche
del modo in cui una società si definisce rispetto al mondo esterno e proietta i valori che essa
rappresenta. Keukeleire e MacNaughtan definiscono la politica estera come quell’area della politica
diretta all’ambiente esterno con l’obiettivo di influenzarlo cercando di modificare il comportamento
di altri attori al suo interno, in modo tale da perseguire i propri interessi, valori e obiettivi. Essi
dividono la politica estera in convenzionale e strutturale: la prima, è orientata verso gli Stati, la
sicurezza militare, la crisi e i conflitti; la seconda si riferisce a una politica estera che cerca di
influenzare in modo duraturo le strutture politiche, giuridiche, socio-economiche. Esempi di politica
estera possono essere il piano Marshall del 1947, che promuoveva la creazione di nuove strutture in
Europa occidentale in modo tale da risolvere il problema dell’ostilità franco-tedesca. Nel caso
dell’Unione Europa, gli esempi più importanti sembrano essere la politica della Comunità/Unione
Europea verso i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO), che si poneva l’obiettivo di
stabilizzare e ristrutturare questi paesi a seguito dei conflitti degli anni novanta. La politica estera
dell’Unione Europea è una politica multipilastro (o trasversale) e multilivello. La sua natura
multipilastro si riferisce al fatto che l’Unione può fare politica estera utilizzando diversi pilastri o aree
di policy, e quindi diversi metodi decisionali. Inoltre, essa comprende anche le politiche esterne del
cosiddetto primo pilastro (commercio internazionale, accordi di cooperazione e associazione,
sanzioni economiche). La strutturazione su più pilastri comporta che vi siano diversi metodi
attraverso i quali vengono prese le decisioni di politica estera. Nelle aree di policy del secondo e terzo
pilastro si applica il metodo intergovernativo, grazie al quale gli Stati membri mantengono il controllo
delle decisioni di politica estera attraverso la posizione dominante del Consiglio dei ministri e il voto
all’unanimità, basato sull’equilibrio istituzionale tra Consiglio dei ministri, Commissione europea,
Parlamento europeo e Corte di Giustizia, e il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio. Una
politica multilivello interagisce con le politiche estere dei suoi Stati membri e anche con gli altri
contesti internazionali in cui la politica estera viene elaborata come la NATO, l’Organizzazione per
la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite (NU).
Secondo Wallace sarebbe più accurato parlare di una politica estera multilocation per evitare la

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nozione di gerarchia implicita nel concetto di multilivello e per indicare che l’Unione è uno soltanto
dei diversi contesti/luoghi in cui la politica estera viene decisa.

La ricostruzione mette in luce alcune aree di tensione ricorrenti: quella tra integrazione europea e
solidarietà atlantica, quella tra potenza civile e militare, e quella tra approcci intergovernativi e
comunitari. Per quanto riguarda la prima tensione, occorre osservare che i tentativi iniziali che sono
stati fatti per sviluppare una politica estera comune apparivano di secondaria importanza rispetto alla
NATO. Il concetto di potenza civile vs. potenza militare risale a Duchene e si concentra sulla
possibilità che un attore internazionale ha di essere una potenza, pur non avendo a disposizione
strumenti militari. Per quanto riguarda la tensione tra approcci intergovernativi e comunitari, occorre
osservare che se da un lato la politica estera dell’Unione si è sviluppata e continua a essere una policy
in cui si applica il metodo intergovernativo, dall’altro lato è costretta a far ricorso agli strumenti
comunitari per attuare le sue decisioni. Washington temeva che le difficili condizioni economiche
potessero favorire la diffusione dell’ideologia comunista nei paesi europei. Attraverso il piano
Marshall, gli Stati Uniti donarono 20 miliardi di dollari per la ripresa economica; l’obietto era anche
quello di influenzare i valori che avrebbero dovuto cooperare nelle ricostruzioni economica e
accettarsi reciprocamente come membri dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica
(OECE). Questa condizione favorì la collaborazione tra leader politici, diplomatici e funzionari dei
paesi dell’Europa occidentale, che avrebbe portata pochi anni dopo all’inizio del processo di
integrazione europea. Due anni prima dell’inizio del processo di integrazione europea con la firma
nel 1951 del Trattato di Parigi che istituì la Comunità europea per il carbone e l’acciaio (CECA), gli
Stati Uniti si impegnarono nel 1949 con la firma del Trattato del Nord Atlantico, a garantire la
sicurezza dei propri alleati dell’Europa occidentale. Inizialmente gli Stati Uniti considerarono la
nuova alleanza atlantica come una sorta di piano Marshall militare, tuttavia ciò nel giro di un anno
diventò l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, nell’ambito della quale, al vertice di
un’alleanza militare integrata, un comandante americano dirigeva la difesa territoriale dell’Europa
occidentale. Gli Stati Uniti erano disposti a rafforzare la presenza delle proprie forze sul suolo
europeo, ma chiedevano ai paesi europei di intensificare i loro sforzi per la difesa, in particolare per
difendere un attacco da Est. Quindi, i francesi presentarono il piano Pleyen, in base al quale unità
militari degli Stati membri sarebbero state integrate in un esercito europeo, composto da 100.000
uomini e controllato dal ministro della Difesa. Pertanto, attraverso la creazione di una Comunità
europea di difesa (CED), i soldati tedeschi avrebbero potuto operare nell’ambito di un esercito
europeo. Il trattato CED venne firmato dai sei paesi CECA (Francia, Germania occidentale, Italia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo). Ma l’Assemblea nazionale francese nel 1954 si rifiutò di ratificarlo,
ponendo così fine al progetto di esercito comune europeo. La questione del riarmo della Germania
occidentale fu risolta attraverso una revisione del Trattato di Bruxelles del 1948 per includere la
Germania occidentale e l’Italia. Con la firma dei Trattati di Roma del 1957 il processo di integrazione
europea assumeva connotati economici. Alla Comunità economica europea venivano concesse delle
competenze relative al commercio estero e alla conclusione di accordi con i paesi terzi, che
consentirono alla CEE di diventare un attore internazionale. L’Atto unico europeo (AUE) del 1986 è
importante per la politica estera dell’Unione Europea in quanto con il suo obiettivo di completare il
mercato interno aumentava l’attrattività della Comunità europea per i paesi terzi, sempre più
interessati a ottenere accordi che prevedessero un accesso privilegiato a tale mercato. Proposta dal
presidente francese Pompidou al summit dell’Aja dl 1969, prese avvio la cooperazione politica
europea (CPE). Gli obiettivi di essa consistevano nel cercare di assicurare una migliore comprensione

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dei problemi internazionali e nel rafforzare la solidarietà dei sei promuovendo l’armonizzazione dei
loro punti di vista, il coordinamento delle loro posizioni e anche un’azione comune. I nuovi
meccanismi si limitavano a incontri biennali dei ministri degli Esteri dei sei e incontri trimestrali di
un comitato politico composto da funzionari degli Stati membri. Si trattava di strumenti
intergovernativi. La CPE mancava di tutti quegli strumenti civili e militari; gli unici strumenti a
disposizione erano quelli economici (sanzioni e supporto economico) della Comunità europea.
Durante la conferenza intergovernativa sull’unione politica europea, si scontrarono due posizioni,
quella di francesi e tedeschi, che proponevano la comunitarizzazione della CPE, e la posizione della
Gran Bretagna, che sottolineava la natura intergovernativa della CPE e il ruolo centrale svolto dalla
NATO. La posizione che prevalse fu quella degli inglesi. Il Trattato sull’Unione Europea creò la
PESC come secondo pilastro dell’Unione. Inoltre, venne distinta la direzione politica della politica
estera, ambito di competenza della PESC, dagli strumenti economici della Comunità, come la politica
commerciale, gli accordi di cooperazione e la cooperazione allo sviluppo. La PESC doveva includere
tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, inclusa una politica di difesa comune. Il Trattato
di Amsterdam del 1997 introdusse la funzione di segretario generale/alto rappresentante della PESC,
con il compito di assistere il Consiglio e la Presidenza nella formulazione, preparazione e
implementazione delle decisioni di policy. La dichiarazione di San Malò del 1998 lanciò quel
processo che portò alla creazione della PESD, superando la tensione fra integrazione europea e
alleanza atlantica e la tensione fra potenza civile e militare. L’Unione doveva essere in grado di
intraprendere un’azione autonoma, supportata da mezzi militari credibili, in modo da poter rispondere
alle crisi internazionali. Le capacità militari dell’Unione Europea non venivano realizzate attraverso
la creazione di un esercito permanente europeo, ma grazie ai contributi volontari e temporanei degli
Stati membri alle operazioni PESD. L’Unione Europea decise di dotarsi di capacità civili per la
gestione delle crisi, tali da intraprendere non soltanto missioni militari, ma anche civili. Nel 2002
venne deciso che l’Unione poteva condurre un’operazione autonomamente sia utilizzando le risorse
degli Stati membri, sia quelle della NATO. La PESD ha cambiato la natura della PESC,
trasformandola da una politica estera dichiaratoria, centrata sulla diplomazia, in una politica estera
più orientata all’azione e sulla gestione delle crisi. Il Trattato costituzionale firmato a Roma nel 2004
da venticinque Stati membri, sebbene non sia entrato in vigore, conteneva tre elementi di innovazione.
Il primo riguardava la fine del sistema a pilastri dell’Unione Europea; inoltre veniva concessa
personalità giuridica all’Unione. Il Trattato costituzionale manteneva la divisione tra il regime
decisionale che si applicava alla PESC/PESD e quello che si applicava alle altre attività esterne. La
seconda era relativa alla creazione del ministro dell’Unione per gli Affari esteri, di un presidente del
Consiglio europeo e di un Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). Il nuovo ministro europeo
avrebbe svolto il ruolo di alto rappresentante della PESC e di commissario per le relazioni esterne e
avrebbe presieduto il Consiglio affari esteri. Il nuovo presidente del Consiglio europeo avrebbe
dovuto assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione. La terza riguarda la PESD. Il Trattato
costituzionale introduceva la prevenzione dei conflitti tra gli obiettivi della politica estera
dell’Unione. Il Trattato di Lisbona, firmato nel dicembre del 2007, mantiene le innovazioni previste
del Trattato costituzionale; il titolo di ministro dell’Unione per gli Affari esteri viene abbandonato in
favore del titolo di alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. La
PESC e la PESD manterranno il proprio distinto regime di policy-making e che non viene lesa la
capacità degli Stati membri di condurre le proprie politiche estere nazionali. Viene per la prima volta
inserito il concetto di prevenzione dei conflitti, come uno degli obiettivi dell’azione esterna
dell’Unione.

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Il sistema politico estero dell’Unione Europea è governato da due distinti regimi di policy-making: il
metodo intergovernativo, che si applica alla PESC, e il metodo comunitario, che si applica alla
politica commerciale. Il primo su cui si basa il primo metodo è che i governi mantengono il controllo
sul processo decisionale attraverso la cooperazione intergovernativa e attraverso l’integrazione
intergovernativa. Nel primo caso i governi non trasferiscono competenze all’Unione Europea, ma
nell’ambito dell’Unione cooperano nell’elaborazione della politica estera. Nel secondo caso gli Stati
membri trasferiscono competenze di politica estera all’Unione Europea, ma i governi mantengono
uno stretto controllo sul processo decisionale attraverso la posizione dominante del Consiglio e la
regola dell’unanimità. Il secondo metodo si basa sul principio di un interesse comune, che gli attori
definiscono, promuovono e rappresentano. Questo metodo viene operazionalizzato attraverso un
sistema di equilibrio istituzionale tra Commissione sovranazionale, Consiglio dei ministri e
Parlamento europeo. Il Consiglio europeo è composto da capi di Stato e di governo degli Stati
membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione europea. A seguito del Trattato di
Lisbona, il Consiglio europeo venne presieduto dal presidente del Consiglio europeo. A quest’ultimo
spetta l’individuazione degli interessi e degli obiettivi strategici dell’azione esterna dell’Unione. Per
azione esterna dell’Unione si deve intendere non soltanto la PESC ma anche altri settori come la
politica commerciale, la cooperazione con i paesi terzi, l’aiuto umanitario, le misure restrittive, gli
accordi internazionali e le relazioni con le organizzazioni internazionali, i paesi terzi e le delegazioni
dell’Unione. Il Trattato di Lisbona ha introdotto la figura di un presidente permanente del Consiglio
europeo. Esso viene eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due
anni e mezzo, rinnovabile una volta. Le sue funzioni sono: presiedere e animare i lavori del Consiglio
europeo; assicurare la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio; facilitare la coesione;
presentare relazioni dopo le riunioni del Consiglio europeo; assicurare la rappresentanza esterna
dell’Unione e infine, convocare una riunione straordinaria del Consiglio europeo per definire le linee
strategiche della politica dell’Unione. Il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata,
nomina l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (AR). Le sue
funzioni principali sono: condurre la PESC in linea con il mandato ricevuto dal Consiglio; contribuire
all’elaborazione della PESC; proporre al Consiglio la nomina di un rappresentante speciale per un
mandato per problemi politici specifici; presiedere il Consiglio affari esteri; essere uno dei
vicepresidenti della Commissione; rappresentare l’Unione per le materie che rientrano nella PESC e
condurre il dialogo politico con paesi terzi. Per quanto riguarda la Politica di sicurezza e difesa
comune, le funzioni principali dell’AR sono: proporre al Consiglio le decisioni relative a tale politica
e coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni. Spetta all’AR, congiuntamente con la
Commissione, proporre al Consiglio l’interruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni
economiche e finanziarie con uno o più paesi terzi e/o l’adozione di misure restrittive nei confronti
di persone fisiche o giuridiche. Spetta all’AR, insieme alla Commissione, attuare ogni utile forma di
cooperazione con gli organi delle NU, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Spetta
all’AR, congiuntamente con la Commissione e a seguito di una richiesta da parte delle autorità
politiche dello Stato colpito da un attacco terroristico o vittima di una calamità naturale, proporre al
Consiglio le modalità di attuazione della clausola di solidarietà. Il Consiglio degli affari esteri è
l’attore più importante nel processo decisionale relativo alla politica estera. Esso si occupa del
commercio estero, cooperazione allo sviluppo, aiuto umanitario, accordi internazionali e PESC.
Inoltre è composto dai ministri degli Esteri degli Stati membri e dall’AR. I ministri discutono e

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adottano decisioni relative alle relazioni esterne e alla politica estera, utilizzando sia il metodo
intergovernativo che quello comunitario. Il Consiglio è l’attore decisionale principale nelle fasi del
policy-making: definizione, decisione, implementazione e controllo. La Commissione europea svolge
un ruolo significativo nelle cosiddette politiche esterne comunitarizzate, grazie al suo diritto esclusivo
di iniziativa legislativa, ma non ha alcun ruolo nella PESC. Le principali fonti di finanziamento della
politica estera dell’Unione Europea sono il bilancio dell’Unione, i bilanci nazionali, le disposizioni
comuni al di fuori del bilancio comunitario, i finanziamenti provenienti da altri organizzazioni
internazionali. Le relazioni tra i PECO (paesi dell’Europa centrale e orientale) e l’Unione possono
essere ricostruite in tre fasi: la prima fase iniziò prima della caduta del Muro di Berlino. Tra il 1988
e il 1989 la Comunità europea concluse i primi accordi di cooperazione di Varsavia e Budapest,
mentre la conservatrice Cecoslovacchia si dovette accontentare di un accordo meno vantaggioso dal
punto di vista commerciale e nel caso della Romania i negoziati furono interrotti a causa del mancato
rispetto dei diritti umani. Nel 1991 Varsavia, Praga e Budapest, firmarono i primi accordi di
associazione in cui l’obiettivo consisteva nel fornire un quadro per il dialogo politico, la promozione
del commercio e delle relazioni economiche. La seconda fase ebbe inizio con il Consiglio europeo di
Copenaghen del 1993: l’adesione poteva aver luogo soltanto quando i candidati sarebbero stati in
grado di soddisfare alcune condizioni relative al rispetto per la democrazia e lo Stato di diritto, alla
protezione dei diritti umani e delle minoranze. Tra il 1994 e il 1996 tutti i paesi associati dell’Europa
centrale e orientale e le tre repubbliche baltiche presentarono domanda di adesione all’Unione. La
Commissione europea presentò dieci opinioni individuali sulle domande di adesione. Per cinque paesi
(Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia ed Estonia) essa raccomandò l’apertura dei negoziati
di adesione. La terza fase iniziò nel dicembre 1997 e, si passa dall’influenza indiretta a quella diretta.
La strategia si basava su tre nuovi strumenti: i partenariati di adesione (atti unilaterali), le valutazioni
annuali della Commissione europea relative al progresso effettuato dai paesi candidati nel rispettare
le condizioni dell’Unione (la Commissione evidenziava quanto era stato fatto per soddisfare le
priorità politiche ed economiche elencate nel partenariato di adesione) e l’assistenza finanziaria
finalizzata all’adesione. A partire dalla metà del 1991, è nei Balcani che la politica estera europea
mostrò la sua più grande inefficacia, in quanto né la CPE né la PESC furono in grado di fermare le
guerre ai confini dell’Unione. Questo fallimento ha condizionato gli sviluppi del secondo pilastro
dell’Unione. Con gli accordi di pace che posero fine alla guerra in Bosnia e in Kosovo, ci si rese
conto che la presenza di forze militari non era da sola sufficiente al raggiungimento di una pace
duratura, che richiedeva una fondamentale trasformazione della regione in modo da demilitarizzare
le relazioni tra Stati e tra gruppi sociali. In questo contesto, l’Unione iniziò il processo di
stabilizzazione e associazione (PSA) per aiutare questi paesi a consolidare le istituzioni democratiche,
assicurare la supremazia del diritto e sostenere un’economia libera. Tale processo si basava su tre
elementi: gli accordi di stabilizzazione e associazione, accordi internazionali bilaterali giuridicamente
vincolanti che fornivano il quadro entro cui sostenere la graduale integrazione di questi paesi
nell’Unione; un programma di assistenza finanziaria, CARD (Community Assistance for
Reconstruction, Democratization and Stabilization), sostituito nel 2007 dallo strumento per la pre-
adesione e la cooperazione regionale. L’Unione decise di offrire anche a questi paesi la possibilità di
diventare membri dell’Unione. Le relazioni della Turchia con la Comunità risalgono al 1963, quando
fu firmato l’Accordo di Ankara. L’aspetto principale di questo accordo era l’istituzione di un’unione
doganale in tre fasi. Le relazioni bilaterali peggiorarono nel 1980, a seguito del colpo di Stato, al
quale la Comunità reagì con la decisione di bloccare gli aiuti finanziari verso il paese. Tali relazioni
iniziarono a normalizzarsi a seguito della restaurazione di un governo civile nel 1983. Il 14 aprile

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1987 la Turchia presentò domanda di adesione. La Commissione europea suggerì che non sarebbe
stato utile aprire in quel momento i negoziati di adesione, per motivi sia politici sia economici. Nel
frattempo, nel 1995 si realizzò un’unione doganale con l’Unione Europea. Attraverso l’unione
doganale la Turchia diventa parte del mercato interno per quanto riguarda le merci e deve adottare
gran parte dell’acquis indipendentemente dalla prospettiva di adesione. Però mentre l’unione
doganale dalla Turchia veniva percepita come primo passo di un cammino verso l’adesione, per
l’Europa si trattava di uno strumento per approfondire le relazioni economiche con la Turchia, ma del
tutto scollegato dalla questione dell’adesione. Il Consiglio europeo di Lussemburgo decise anche di
elaborare una strategia per preparare la Turchia all’adesione. Il Consiglio europeo di Helsinki del 10-
11 dicembre 1999 rappresenta l’inizio di una nuova era per quanto riguarda le relazioni fra Turchia e
Unione. Viene infatti deciso che la Turchia è un paese candidato destinato a unirsi all’Unione. Nel
dicembre del 2004 il Consiglio europeo stabilì che i negoziati di adesione con la Turchia si sarebbero
aperti nell’ottobre 2005. Il punto 2 dell’accordo-quadro raggiunto fra la Turchia e l’Unione sosteneva
i punti che avrebbero portato la Turchia all’adesione: i criteri di Copenaghen; buone relazioni di
vicinato; sostegno per risolvere i problema di Cipro; accordo di associazione a tutti i nuovi Stati
membri dell’Unione, compresa la repubblica di Cipro. Il mancato rispetto di quest’ultima condizione,
ha portato l’Unione nel 2006 alla decisione di sospendere parzialmente i negoziati di adesione.
L’Unione avrebbe però molto più da guadagnare che da perdere dall’adesione della Turchia. Tale
adesione potrebbe agire da contrappeso alla tesi dello scontro di civiltà, contribuire a cambiare
l’immagine dell’Unione come quella di un club cristiano e a ridefinire le sue relazioni con il mondo
musulmano. A seguito dell’allargamento del 2004 le relazioni con i nuovi vicini a Est e con i paesi
della sponda meridionale del Mediterraneo furono raggruppate in un’unica e nuova politica regionale,
la politica europea di vicinato (PEV). Verso la metà degli anni novanta, l’Unione decise di proiettare
il Mediterraneo al centro della sua politica estera attraverso una nuova e ambiziosa politica, il
partenariato euro-mediterraneo (PEM), conosciuto anche come processo di Barcellona, verso i paesi
di quest’area. Tale politica fu incoraggiata anche dal nuovo contesto meridionale, caratterizzato
dall’Accordo di Oslo del 1993 tra Israele e Palestina. L’Unione si poneva l’obiettivo di favorire
cambiamenti nelle strutture politiche, giuridiche, economiche e sociali dei paesi mediterranei, nelle
loro relazioni reciproche e nelle relazioni con l’Unione. La Conferenza euro-mediterranea istituì il
PEM, che iniziava un processo mirato alla creazione di una cornice multilaterale per il dialogo e la
cooperazione nelle tre dimensioni del partenariato: la dimensione politica e della sicurezza, la
dimensione economica e finanziaria e quella sociale e culturale. Il PEM stabilì un programma
dettagliato di lavoro, fissò meccanismi istituzionali per consentire incontri regolari a livello di
ministri, funzionari, parlamentari, autorità locali, organizzazioni della società civile e mise a
disposizione ingenti risorse finanziarie attraverso un apposito strumento regionale di assistenza
finanziaria. A circa dieci anni di distanza, l’Unione cercò di rinnovare questo processo attraverso la
PEV. Obiettivo principale era rafforzare la stabilità e la sicurezza ai nuovi confini dell’Unione,
attraverso la promozione dello sviluppo economico e politico e della cooperazione regionale tra i
nuovi vicini del Mediterraneo meridionale, dell’Europa orientale e del Caucaso meridionale. Ai
partner della PEV non poteva essere offerto l’incentivo dell’adesione all’Unione ma gli veniva
richiesto lo stesso impegno dei paesi che hanno una prospettiva di adesione per quanto riguarda i
valori comuni, in particolare la democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto per i diritti umani. Gli
strumenti principali per realizzare questa politica sono i piani di azione e l’assistenza finanziaria
tramite l’ENPI (European neighbourhood policy instrument), che a partire dal 2007 ha sostituito i
programmi regionali MEDA e TACIS.

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