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Relazioni internazionali
Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo e Giulia Tarantino
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Indice
Riassunti del libro “Relazioni internazionali” di E. Diodato
5. Capitolo 5: il costruttivismo
6. Capitolo 6: il postmodernismo
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consiglia agli studenti che usufruiscono di questo servizio di integrarli con i testi indicati nelle schede di
trasparenza.
• Dividi et impera che permette di non creare coalizioni troppo forti (è la strategia tra le più
applicate)
• Compensazione territoriale ovvero se uno Stato è troppo forte lo si smembra, ma questa è una
strategia di tempi remoti
• Strategie dissuasive che passando per la corsa agli armamenti hanno la funzione di deterrente,
avere tutti a disposizione armamenti nucleari funge da deterrente nell’utilizzo di questi
• Alleanze mirate che se pur possono portare a tante piccole guerre queste sono necessarie per
scongiurare le major war
La condizione necessaria perché si possa avere realmente la balance of power è che la distribuzione
di potenza deve far si che l’attore più forte non sia mai in grado di poter sconfiggere tutti gli altri
attori. La condizione sufficiente, invece, è che solo nella misura in cui gli attori adottano politiche di
balancing e non di bandawagoning si raggiunge un equilibrio di sistema. Per i realisti l’equilibrio si
raggiunge volontariamente per i neorealisti spontaneamente. Waltz ha introdotto un correttivo,
l’elemento della percezione della minaccia che è diventato estremamente importante. Occorre che gli
Stati non trascurino minacce crescenti e che mettano in moto politiche di balancing per gli Stati che
vengono percepiti come minaccia perché diversamente si andrebbe incontro ad una rottura degli
equilibri. La Cina è un esempio attuale di messa in crisi delle politiche di balancing.
Volendo ripercorrere le tappe salienti della storia del realismo nelle IR conviene distinguere fra
realismo classico, realismo eterodosso e neorealismo (e realismo strutturale). Nel realismo classico,
che domina il ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, confluiscono sia studiosi
che fanno discendere la perversità della lotta per il potere dalle caratteristiche immutabili dell’uomo,
sia studiosi che insistono piuttosto sull’irreconciliabilità dei diversi interessi nazionali e sull’anarchia
• Una concezione secolarizzata della storia incentrata sulle categorie di necessità, caso e fattori
umani
• Un’antropologia naturalistica e pessimistica
• Una concezione conflittualistica della politica
• Una teoria della regolarità delle dinamiche di potenza
Sin dalle prime pagine di La Guerra del Peloponneso mette in chiaro qual è il suo intento, non
dilettare il lettore rievocando gesta eroiche, ma comporre un’opera che sia un acquisto per l’eternità
e sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è
avvenuto e che un giorno potrà ripresentarsi in maniera uguale o molto simile. Se la storia è destinata
a ripetersi è perché immutabile è la natura dell’uomo. In pratica Tucidide è stato il primo ad avanzare
l’idea, poi ripresa nella teoria della guerra egemonica, che la dinamica delle IR sia guidata dalla
crescita differenziale della Potenza fra gli Stati. Infatti la vera ragione che portò allo scoppio della
guerra del Peloponneso si può ritenere che sia stata la grande potenza raggiunta ad Atene che ha
costretto Sparta a dichiarare guerra. Tucidide getta le basi di quel realismo amorale di cui Machiavelli,
in età moderna, sarà considerato l’alfiere. Machiavelli, muovendo da un’assunzione antropologica
profondamente pessimistica, in quanto considera gli uomini ingrati, volubili, simulatori,
dissimulatori, fuggenti dal pericolo, cupidi di guadagno, e dalla convinzione che la conoscenza del
passato possa servire come guida per il futuro, si esercita nella decifrazione delle logiche di potere,
pervenendo a conclusioni nette:
• Il compito prioritario di chi governa è di difendere gli interessi del proprio Stato, garantendone
la sicurezza e la sopravvivenza come entità politica indipendente
• La ricerca della sicurezza si traduce inevitabilmente in uno sforzo egemonico volto
all’imposizione del proprio dominio sugli altri
• La coercizione e la violenza sono connaturate alla politica, la quale consiste essenzialmente
in una lotta che ha per fine il potere
• Il divenire storico è scandito dalla lotta per l’autoconservazione e l’autoaffermazione degli
Stati
Un impatto decisivo sulla scuola realista delle IR lo ha avuto la raffigurazione dello Stato di natura
offerta dal Leviatano del filosofo politico inglese Hobbes, il quale, postula una situazione originaria
di anarchia, cioè di assenza di un’autorità centralizzata, in cui, vige la guerra di tutti contro tutti. La
necessità conseguente dell’insostenibilità di questa condizione generale di insicurezza è l’istituzione
di un potere coercitivo superiore mediante la stipulazione di un patto con cui gli individui
conferiscono tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa
ridurre tutte le voci ad una volontà sola. Ma se i rapporti interindividuali possono emanciparsi nella
Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino
logica del dilemma del prigioniero e dell’uso privato della forza, aprendosi a forme di cooperazione
costanti e durevoli tra individui, questa strada non può essere percorsa dagli Stati sovrani, i quali,
secondo Hobbes, vivono in una primitiva condizione di anarchia, e sono impossibilitati ad uscirne
perché ciò significherebbe rinunciare alla loro sovranità, ossia negare la loro stessa esistenza.
Riprendendo Hobbes, “gli Stati vivono nella condizione di guerra perpetua e in procinto di battersi,
con le frontiere fortificate e i cannoni puntati contro i vicini, e tutt’intorno”.
In seguito al fallimento della Società delle Nazioni e dell’imminente scoppio del conflitto più esteso
e distruttivo della storia, si assiste al collasso dell’intera struttura del pensiero utopista-idealista basato
sul concetto dell’armonia degli interessi. Alla fine del 1939 Carr pubblica un libro in The twenty
years’ crisis: 1919-1939 nel segno di un durissimo j’accuse contro l’idealismo e le illusioni di quanti,
nel ventennio precedente, avevano creduto che il flusso turbolento della politica internazionale
potesse essere canalizzato in un sistema di formule astratte logicamente inattaccabili ispirate alle
dottrine della democrazia liberale. La critica prende di mira soprattutto il postulato essenziale del
credo utopista, rappresentato dall’idea, che tra gli Stati esista una naturale armonia di interessi. Se le
tesi di Carr hanno strutturato la riflessione internazionalistica nel corso del primo dibattito, è a
Morgenthau che va attribuito il ruolo indiscusso di caposcuola del realismo classico. Il suo Politics
Among Nations è il libro più influente e più dibattuto di tutta la storia delle relazioni internazionali.
In esso, Morgenthau, dichiara fin dalle prime righe il suo intento, ossia quello di elaborare una teoria
di politica internazionale, empiricamente fondata e logicamente coerente, che dia ordine a significato
ad una massa di fenomeni che senza di essa rimarrebbero sconnessi. Morgenthau non si limita a
criticare la scuola di pensiero idealista, ma si preoccupa di sistematizzare le assunzioni più tipiche
della scuola realista, alla quale attribuisce il merito di aver compreso che il mondo imperfetto da un
punto di vista razionale è il risultato di forze inerenti alla natura umana e che quindi per migliorarlo
è necessario operare assecondando queste forze e non contro di esse. Morgenthau enuncia quindi i
sei principi fondamentali del realismo politico:
• Il realismo politico ritiene che la politica sia governata da leggi che hanno la loro origini nella
natura umana
• Il realismo politico riconosce che la principale indicazione che aiuta a orientarsi nel
palcoscenico politico è il concetto di interesse definito in termini di potere
• Il realismo politico riconosce che l’interesse definito come potere è una categoria
universalmente valida
• Il realismo politico riconosce l’inevitabile tensione fra il principio morale e i requisiti di una
politica di successo
• Il realismo politico rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una particolare nazione con
le leggi morali che la regolano
• Il realista sostiene l’autonomia della sfera politica
Secondo Morgenthau per comprendere la politica internazionale bisogna occuparsi delle forze che
hanno plasmato il passato e che plasmeranno il futuro, delle leggi fondamentali che si evincono
soltanto mettendo in relazione gli eventi più recenti col passato più remoto analizzando i tratti perenni
della natura umana. Si scoprirà così che la naturale socievolezza dell’uomo, con annessa armonia di
interessi tra le nazioni, non esiste: è la brama di potere, inteso come il controllo dell’uomo sulle menti
e sulle azioni di altri uomini, a permeare di se ogni tratto dell’esistenza umana. La politica non è altro
che la lotta per il potere (struggle for power). Questa lotta, mentre a livello nazionale è disciplinata
dallo Stato, nell’arena internazionale, a causa dell’assenza di autorità centralizzata monopolizzatrice
• Natura dell’uomo
• Caratteristiche interne degli Stati
• Il contesto strutturalmente anarchico in cui gli Stati operino
Waltz esprime una nette preferenza per la terza immagine, la quale, spostando il focus dell’analisi sui
vincoli che l’anarchia internazionale impone all’azione degli Stati, spiega, perché, in assenza di
mutamenti straordinari dei fattori presenti nella prima e nella seconda immagine, l’esistenza di Stati
sovrani indipendenti porta con se la possibilità perpetua della guerra. L’opzione in favore della terza
immagine è ribadita da Waltz in Theory of International Politics, il cui obiettivo dichiarato è quello
di elaborare una teoria della politica internazionale in grado di porre rimedio alle lacune delle teorie
attuali. Waltz esamina criticamente un ampio ventaglio di teorie riduzioniste mostrandone
l’incapacità di spiegare perché, a livello internazionale, gli esiti delle interazioni tra Stati spesso non
corrispondono alle intenzioni degli attori e le stesse cause a volte producono effetti diversi, così come
effetti uguali derivano da cause differenti. Ciò prova, secondo Waltz, che vi è qualcosa che funziona
come elemento di costrizione sugli agenti. Questo qualcosa è la struttura del sistema internazionale,
per studiare quale prospettiva sistemica è necessaria da adottare, ossia un approccio che, definito il
sistema come un insieme di unità interagenti, sia capace di distinguere e tenere separati il livello delle
unità e delle loro interazioni e quello della struttura. Per spiegare la politica internazionale non sono
sufficienti le teorie riduzioniste ma è indispensabile una teoria che analizzi il modo in cui la struttura
del sistema internazionale agisce da forza ordinatrice e di costrizione sulle unità che interagiscono al
suo interno, premiando certi comportamenti e penalizzandone altri. Per Waltz, la struttura di un
sistema è definita da tre elementi:
• La pluralità degli attori non statuali e il declino dello Stato. Sia la crescita impetuosa degli
attori non statuali, sia il declino dello Stato, esposto all’erosione da parte dei processi di
globalizzazione, metterebbe il paradigma realista, fortemente caratterizzato dalla sua visione
Stato-centrica, di fronte ad una insuperabile difficoltà. Ad ogni modo il realismo richiede
semplicemente l’anarchia, in quanto anche se lo Stato sparisse, questo non vorrebbe dire la
fine della competizione per la sicurezza e la guerra.
• Il ruolo delle istituzioni internazionali e l’anomalia dell’UE. Secondo il paradigma gli Stati
sono estremamente riottosi ad attribuire importanza alle istituzioni internazionali o a
consentire a queste di limitarne la loro libertà di azione. Come spiegare allora l’impegno
costante profuso dai paesi dell’Europa occidentale nella costruzione dell’UE? Una risposta
potrebbe essere che le istituzioni sono fatte di regole e prassi che offrono ai partner
relativamente più deboli l’opportunità di far sentire la propria voce, e a quelli più forti
(Germania su tutte) di esercitare la propria egemonia in modo efficiente e sotto una copertura
di falsa eguaglianza tale per cui viene meno la resistenza.
• Il nesso interno-esterno e il ruolo della democrazia liberale. Per il realismo si tratta di
riconoscere il condizionamento talora decisivo esercitato sulla politica estera degli Stati, che
sfugge da qualsivoglia tentativo di determinazione a priori, da quei fattori, a cominciare dalle
ideologie e dalla diversità dei regimi politici, che rimandano ai mutevoli attributi delle unità
del sistema, gli Stati, e alla percezione degli attori. Quando poi al ruolo delle democrazie
liberali nelle IR, occorre considerare le osservazioni di Panebianco che fa notare come solo le
democrazie stabili instaurano fra loro la pace democratica, favorita dalla componente liberale
• Una costituzione repubblicana: ovvero uno Stato governato dal diritto e dalla separazione dei
poteri
• Un accordo di non belligeranza tra gli Stati Repubblicani
• L’affermazione del diritto cosmopolito
Alla base dell’intero progetto, tuttavia, la condizione che pare prevalere è quella dello Stato di diritto
interno agli Stati, caposaldo della pace democratica.
Le tesi dettate da Lenin si dissolvono nel 1945 circa poiché la concorrenza politico-militare fra paesi
capitalistici non gioca più un ruolo di rilievo. L’economia post-bellica può riassumersi nella parola
ultra-imperialismo, delineata da Karl Kautsky secondo cui, allo scontro armato tra i gruppi
capitalistici finanziari nazionali, possono seguire una fase di sviluppo pacifico e dunque lo
sfruttamento delle risorse mondiali. In Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, l’idea di fondo
è caratterizzata dalla convinzione che le trasformazioni economiche della prima metà del novecento
abbiano reso obsoleta la vecchia analisi di Marx. Per i due autori infatti la vera protagonista
dell’economia monopolistica è la società per azioni gigante la quale opera sempre con l’obiettivo
Negli anni settanta, nasce la world-system theory, una teoria legata al nome di Immanuel Wallerstein,
il quale ritiene che i rapporti di dipendenza possano essere ricostruiti e compresi solo in un quadro
globale, capace di considerare le trasformazioni economiche e politiche e la progressiva estensione
del capitalismo. A differenza del disegno tracciato dal Capitale, la teoria del sistema-mondo punta
non a delineare un modello astratto di funzionamento del capitalismo, bensì a ricostruire le concrete
modalità con cui il capitalismo si è affermato. Per Wallerstein il sistema-mondo è un sistema
all’interno del quale è operante “una divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di gruppi
sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente) sia orizzontalmente (socialmente)”. Un
mondo è perciò un sistema di divisione del lavoro, al suo interno relativamente coeso e separato
mediante confini dall’ambiente esterno. A definire l’ambito spaziale dell’economia sono le relazioni
di interdipendenza tra le fasi di produzione, distribuzione e consumo. Secondo Wallerstein tutti i casi
conosciuti di sistema-mondo sono riconducibili a due tipi di relazione tra spazio economico e spazio
politico: gli imperi-mondo, le economie-mondo. Nel caso degli imperi-mondo, lo spazio del sistema
mondo risulta all’interno dei confini del sistema politico, il quale assume i contorni di un impero: in
questo sistema, il surplus viene appropriato mediante imposizione tributaria ai produttori. In sostanza,
gli imperi-mondo sono ridistribuiti nella loro forma economica. Nelle economie-mondo prevale
invece una logica cumulativo-capitalistica, e la dimensione economica non coincide con quella
politica: i confini delle economie-mondo sono più estesi e all’interno di questo mondo i diversi sistemi
politici e culturali sono collegati da una sintesi non politica, ma economica. Un economia-mondo, per
riuscire a riprodursi nel tempo, richiede la formazione di stabili legami commerciali, ma anche la
costruzione, il consolidamento e l’integrazione di quegli specifici mercati. Secondo Wallerstein, il
capitalismo storico riesce a consolidare i diversi mercati, necessari alla costante espansione del
processo di accumulazione, grazie alla costruzione di un sistema di Stati Nazionali. La competizione
fra unità statali costituisce fattori di rafforzamento del capitalismo storico, perché convergono nella
direzione dello smantellamento dei diversi ostacoli al processo di mercificazione. Per Wallerstein,
come per Frank, nel capitalismo si instaurano meccanismi di scambio ineguale e dunque, un processo
di polarizzazione tra il centro e le periferie del sistema. La gerarchia rappresenta una conseguenza
della divisione del lavoro, propria dell’economia-mondo. Ciò comporta che lo scambio tra le due aree
non sia eguale, e che il surplus prodotto nella periferia tenda a spostarsi verso il centro. Dunque, i
centri e le periferie cambiano nel corso dei secoli. In generale, una periferia dell’economia-mondo è
il settore geografico la cui produzione riguarda beni di scarso valore, ma che è parte del sistema
globale di divisione del lavoro, perché le merci sono indispensabili nell’uso quotidiano. Secondo
Wallerstein, l’economia-mondo tende però a produrre una forte gerarchia. L’egemonia prende forma
infatti quando “la corrente rivalità tra le grandi potenze è così sbilanciata che una potenza può
imporre le sue regole e i suoi interessi”. Le radici dell’egemonia sono economiche, perché alla base
dell’egemonia c’è la capacità delle imprese di operare nelle tre arene della produzione agro-
La concezione materialistica elaborata da Marx viene intesa come una sorta di meta-scienza: una
visione generale delle dinamiche storiche in grado di cogliere la realtà delle relazioni sociali. I
politologi comportamentisti vedono negli studi marxisti soltanto agitatori politici, distanti dal rigore
della scienza. La dissoluzione del blocco sovietico innesca una duplice metamorfosi nel profilo della
tradizione critica: in primo luogo, la scomparsa di quei regimi che avevano fatto di Marx la stella
polare non può che indebolire l’identificazione tra Marxisti e la superpotenza; in secondo luogo, il
fallimento del socialismo reale in Unione Sovietica accelera il ripensamento critico di Marx. Occupa
un ruolo di primo piano la teoria critica, al cui interno confluiscono studiosi della scuola di
Francoforte e autori come Max Horkheimer, T.W. Adorno. Erich Fromm. Alla base della scuola di
Francoforte si torva una miscela di filosofia, psicologia e sociologia che attinge a Marx, ma anche a
Hegel e Freud. La scuola sviluppa una riflessione critica nei confronti del progetto illuministico
occidentale. In termini più specifici, la componente della teoria critica viene ripresa nel campo delle
IR è la relazione problematica tra conoscenza e potere. Cox definisce la proposta di Waltz come una
teoria problem solving: una teoria che non mette in questione i rapporti di potere esistenti, ma li
considera solo come elementi immutabili. Le teorie problem solving, tra cui rientra il neorealismo e
il neoliberalismo, risultano di fatto conservatrici, nel senso che legittimano l’ordine sociale e politico
esistente. Secondo la teoria critica, la conoscenza non può essere mai neutrale, perché riflette una
serie di condizioni sociali, ambientali, ideologiche, temporali. La proposta di Cox non si limita
soltanto alla fase di decostruzione o smascheramento, ma punta a predisporre uno schema di analisi
delle forze che si muovono sullo scenario internazionale. Cox adotta la nozione di egemonia nella
versione elaborata da Gramsci per rappresentare i conflitti e i rapporti di forza. L’operazione di
ripensamento, si presenta come un tentativo di procedere a una radicale revisione delle concezioni
dell’egemonia adottate. Al tempo stesso, si profila anche come un ambizioso progetto di definire le
coordinate di una rappresentazione neogramsciana che spesso viene identificata come “scuola
italiana” delle IR. L’egemonia non si limita solo all’azione di persuasione esercitata dall’alto verso
Secondo Marx il modo di produzione capitalistico è una forma specifica di produzione di merci, e
cioè di beni destinati ad essere venduti sul mercato. Marx sintetizza il funzionamento nello schema
Merce-Denaro-Merce. La peculiarità del modo di produzione capitalistico consiste nel costante
accrescimento del valore. Lo schema che illustra la specifica logica del capitale è dunque Denaro-
Merce-Denaro, dove la differenza tra i due denari sta nel plusvalore, ossia l’incremento di valore
realizzato dal capitalista al termine del processo di produzione. È necessario l’incremento di valore
delle merci che può consentire la realizzazione del plusvalore. Il capitalista deve acquistare mezzi di
produzione e forza lavoro, quest’ultima costituisce il presupposto del modo di produzione
capitalistico: l’esistenza di forza lavoro richiede che ci sia una fascia di potenziali lavoratori liberi,
costretti a vendere la propria capacità lavorativa sul mercato; la forza lavoro costituisce la sorgente
I diversi filoni del costruttivismo hanno in comune una ontologia in base alla quale il mondo sociale
è composto da strutture e processi dotati di significato. Gli attori, non sono indipendenti, ma
interagiscono con l’ambiente culturale nel quale si trovano immersi. Non esiste una realtà
oggettivamente indipendente, ma soltanto una conoscenza prodotta storicamente che mette gli
individui in grado di costruire e dare significato alla realtà. Ci sono dei fatti sociali come il denaro, i
governi o la sovranità che pur non esistendo materialmente, esistono perché noi crediamo che essi
esistano e adeguiamo i nostri comportamenti alla loro esistenza. La loro esistenza dipende dal fatto
che c’è un accordo più o meno esplicitato che i fatti sociali esistano. Dato questo, ne deriva che
l’interazione umana è plasmata da fattori ideali, non soltanto da quelli materiali e che i più importanti
fattori ideali sono convinzioni ampliamente condivise o “intersoggettive” le quali costituiscono gli
interessi e le identità degli attori. Le idee, intese come conoscenza collettiva istituzionalizzata,
rappresentano sia il mezzo che il motore dell’azione sociale e definiscono i limiti dell’azione.
Particolare interesse è rivolto alla comunicazione sociale che consente la diffusione di significati
L’anarchia è centrale nell’analisi di Wendt, per lui non è l’anarchia del sistema a produrre le politiche
di potenza e di self-help che portano alla competizione militare, come sostenuto dai neorealisti. Al
contrario, se gli Stati si trovano in un sistema basato sul self-help, è a seguito delle pratiche che hanno
adottato. Per Wendt, l’anarchia è un recipiente vuoto che acquisisce una logica soltanto in funzione
della struttura di ciò che viene versato dentro. Occorre quindi concettualizzare la struttura ma in
termini sociali; gli Stati agiscono sulla base delle idee che hanno circa la natura e i ruoli propri e degli
altri stati. L’esistenza di idee condivise, non comporta automaticamente ad una cooperazione. Per
Wendt esistono più culture dell’anarchia a seconda di quale tipo di ruoli domina il sistema. Pur
rimanendo anarchico, il sistema può quindi essere hobbesiano, lokeano o kantiano. La cultura
hobbesiana si basa sulla rappresentazione “dell’altro” come nemico: la violenza può essere limitata
soltanto dalla carenza di disponibilità materiali o dalla presenza di un Leviatano, ossia di un potere
sovrano. La rappresentazione dell’altro come nemico ha quattro implicazioni: gli stati agiranno come
se avessero interessi revisionisti e quindi cercheranno di distruggersi a vicenda, i processi decisionali
tenderanno ad essere orientati verso gli scenari peggiori, le capacità militari saranno viste come
cruciali, in guerra non ci saranno limiti alla violenza. Per Wendt però, il sistema moderno degli stati
è lockeano, visto che i piccoli stati abbondano e le guerre interstatali sono rare. La logica di Locke
del vivi e lascia vivere, ha dunque rimpiazzato la logica hobbesiana di uccidi o sarai ucciso. Il rivale,
infatti riconosce la sovranità come un diritto. Questo comporta l’aspettativa che uno stato non
minaccerà l’esistenza dell’altro. La rappresentazione dell’altro come rivale ha quattro implicazioni:
gli stati devono agire per il mantenimento dello status quo, i tempi decisionali sono più lunghi, le
minacce non sono esistenziali e si può avere fiducia negli alleati, i rivali in caso di guerra limiteranno
la propria violenza. Come nel caso precedente, la rivalità è una rappresentazione collettiva, che fa si
che gli stati attribuiscono agli altri intenzioni sulla base di ciò che si aspettano che gli altri stati
facciano. In certi periodi e in certe aree tra le quali quella atlantica della seconda guerra mondiale,
per Wendt si è manifestata anche la cultura kantiana, basata sulla struttura di ruolo dell’amicizia e per
la quale gli stati si aspettano che tutti osservino due regole; le dispute si compongono senza violenza,
e in caso di minaccia, tutti gli altri interverranno insieme. Questo porta all’affermazione di comunità
pluralistiche di sicurezza e della sicurezza collettiva. Se le norme della cultura kantiana sono
interiorizzate al minimo, deterrenza o sanzioni sono sufficienti a spingere al rispetto; nel grado
intermedio gli stati rispettano le norme per interesse individuale, nel grado massimo di
interiorizzazione, gli stati finiscono con l’accettare quelle norme come legittime e per comportarsi
come “noi”. Questo dimostra che non esiste una logica dell’anarchia che deriva dalla distribuzione di
potere materiale. Ciò che deriva dall’esistenza dell’anarchia, deriva dai soggetti che operano al suo
interno e dalla struttura delle loro relazioni. Per altri costruttivi, è possibile che si vengano a costruire
delle strutture di autorità. Come sostiene Ruggie nel tempo schemi di comportamento finiscono con
l’incarnare elementi di autorità e questo è avvenuto anche a livello internazionale. Ruggie sottolinea
Tra i cambiamenti normativi rientrano l’uso della forza. L’analisi di Finnemore tocca un aspetto
cruciale della politica internazionale, egli porta avanti uno studio dell’intervento militare chiedendosi
come i cambiamenti in questo settore così cruciale siano stati possibili, individuano la principale
ragione delle trasformazioni nelle patiche di intervento nel cambiamento normativo piuttosto che in
cambiamenti materiali. Un primo cambiamento di rilievo riguarda l’erosione del valore normativo
dell’uso della forza in politica internazionale: mentre nei secoli passati la guerra veniva vista come
un’attività onorevole, nel corso degli ultimi tre secoli ha perso questo attributo. Oggi la guerra è
considerata un male. Su questo, per Finnemore ha inciso la diffusione della norma dell’eguaglianza;
eguaglianza in termini di diritti umani e in termini di stati ugualmente sovrani. A cambiare è anche la
modalità di intervento. Nel XIX secolo l’intervento umanitario poteva non essere multilaterale. A
partire dal XX secolo invece, che l’intervento sia multilaterale è considerato necessario per
giustificare l’azione. Tutto ciò ha spinto gli stati a non intervenire con la forza per motivi territoriali
e a preferire la stabilità, ma anche a individuare nelle politiche interne la forma principale di un
intervento militare. Finnemore individua i meccanismi del cambiamento in questa aerea a livello
collettivo e a livello individuale. A livello collettivo meccanismi rilevanti sono la coercizione, ma
anche le istituzioni internazionali e il diritto e i movimenti sociali. A livello individuale rilevanti sono
la persuasione e l’azione comunicativa. Il cambiamento più rilevante è costituito dalla quasi
estinzione delle guerre tra Stati, ma che parallelamente si è verificato un incremento dei conflitti
interni.
Le fonti intellettuali del postmoderno sono Nietzsche, Wittgenstein, Foucault. Nietzsche opera una
critica radicale di tutte le ideologie o costruzioni sistematiche, egli rinuncia a tutto e volge il “pungolo
del sapere verso se stesso”; possiamo considerare Nietzsche come un autore antisistematico in cui
emerge una demolizione totale e grandiosa delle ideologie. Dal punto di vista politico il nazionalismo,
e in particolar modo quello tedesco, gli sono invisi, a causa di una visione estetica della vita, non
certo per pacifismo. Due opere importanti di Nietzsche sono “Umano troppo umano” in cui vengono
demoliti i valori assoluti della conoscenza e della verità e “La genealogia della morale” in cui esamina
le vere o presunte origini della morale. Proprio in quest’ultima opera emerge ci che differenzia
Nietzsche dai postmoderni: il suo cercare di disvelare qualcosa che sta dietro alla morale, sulla cui
genealogia elabora la teoria dei “ressentiment” (la morale come risultato del risentimento dei più
deboli contro i più forti). Mentre Nietzsche aspira al disvelamento, i postmoderni diffidano di ogni
tipo di impresa interpretativa. I contributi di Foucault che hanno più influito sulle IR sono costituiti
dalla ricostruzione archeologia del sapere, della critica delle istituzioni totali e dalla teoria del potere.
La prima tematica mira a individuare i punti di riferimento generali ed epistemici del pensiero in una
certa collocazione storica e culturale: se si vuole intraprendere un’analisi archeologica del sapere,
bisogna ricostruire il sistema generale del pensiero in cui la rete rende possibile un gioco di opinioni
Uno dei compiti che per primo si è proposto il postmodernismo nelle IR è stato la decostruzione di
questa autorappresentazione e la rilettura sia dei classici sia di quei testi del pensiero politico e
filosofico posti alla base delle varie tradizioni o paradigmi interpretativi. In particolare i postmoderni
sono partiti da Tucidide a Machiavelli fino a Carr e Mongenthau. Questi autori vengono tolti dalla
loro ossificazione e restituiti alla loro collocazione storica. Ricollocare gli autori nel quadro dei
problemi e dei dibattiti del loro tempo ha significato. Ad esempio, si vedrà in Tucidide non solo il
precursore della dinamica del potere, ma anche un autore che analizza l’importanza delle decisioni
individuali, la dinamica dialogica, la definizione della buona condotta nella politica interna alla Polis.
In Machiavelli, si ricercherà il politico e il pensatore che si è poso il problema di come costituire uno
Stato e di come studiarne le cause di grandezza ed espansione, nonché decadenza. Carr invece, tratta
un’opera in cui egli si propone al lettore come punto mediano di equilibrio tra utopismo e un tipo di
realismo rigido. Durante l’ascesa della Germania, Carr pensava che si dovessero soddisfare alcune
esigenze della Germania per poterne placare gli appetiti espansionistici; Carr non nascondeva le sue
simpatie per l’Unione Sovietica. Più difficile per è la posizione dei postmoderni nei confronti di Hans
Morgenthau, in cui viene messa in evidenza la sua duplicità tra dichiarazioni positivistiche da una
parte ed eredità legate alla comprensione weberiana dall’altra. Morgenthau da una parte cerca di
comprendere le motivazioni dell’uomo di Stato, dall’altra invece intende costruire una teoria
scientifica governata da leggi oggettive. Questi due aspetti sono definiti “realismo pratico” e
“realismo tecnico”. Una parte importante della critica postmoderna è quella rivolta al concetto di
anarchia. Ashley chiama questa pratica “pratica eroica”, che si fonda su un’opposizione
sovranità/anarchia, in cui al primo termine viene data una valutazione positiva, al secondo una
negativa. L’anarchia è pertanto la caratteristica di un dominio problematico da portare sotto il
controllo di un centro sovrano, che riduce all’ordine tale ambito anarchico. D’altra parte, per parlare
di anarchia è necessario partire da qualche cosa, e questo qualcosa è lo Stato, che è difficile da
definire. Questa difficoltà è data dai problemi insiti nella determinazione del principio di sovranità,
che ha sempre due aspetti, quello interno e quello esterno. Si hanno così due possibilità: una lettura
L’IPE emerge come tentativo di integrare aspetti economici in una letteratura sulla politica
internazionale; rappresenta un filone a sé, che risente di influenze eclettiche e che, si è costantemente
e notevolmente sviluppato e diversificato. È utile ricostruire le origini dell’IPE iniziando dal contesto
internazionale in cui queste teorie presero forma. Il sistema economico che emerge alla fine della
Seconda guerra mondiale è il portatore di due istanze diverse, una politica ed una economica. E’
necessario costituire il versante economico dell’egemonia politico-militare americana sul mondo
occidentale. Questo porta ad un nuovo sistema, quello di Bretton Woods, che precede la fine del
conflitto e all’acuirsi della contrapposizione bipolare. Il sistema istituzionale che emerge è fondato
su tre pilastri. Il primo, a livello monetario, è la costruzione di un sistema fondato sul dollaro come
moneta di transazione e di riserva dell’economia internazionale. Le altre monete erano legate al
dollaro tramite un sistema di tassi di cambio fissi in cui il dollaro poteva essere scambiato con l’oro
un valore prestabilito. Questo regime monetario internazionale, avrebbe permesso di evitare gli effetti
negativi rispetto alle speculazioni competitive delle monete. Il secondo elemento è rappresentato dalle
nuove istituzioni internazionali, in primis il Fondo monetario internazionale (FMI). Il ruolo dell’FMI
è di costituire la fonte di finanziamento di ultima istanza in situazioni di crisi di paesi
momentaneamente incapaci di far fronte ai pagamenti internazionali e di mantenere, dunque, la
stabilità dei tassi di cambio. Consci che costruire un ampio mercato a livello mondiale costituiva la
priorità per la ricostruzione dell’Europa, i fondatori del sistema di Bretton Woods avevano pensato a
Gilpin crea una tripartizione che costituisce il punto di partenza condiviso nella ricostruzione di cos’è
l’IPE. I tre paradigmi differiscono fra loro sulla base delle due principali dimensioni d’analisi della
disciplina nel suo rapporto con le IR: il rapporto fra politica ed economia e l’outcome o l’effetto in
Jim O’Nell ha coniato il termine di successo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) per definire i paesi
emergenti (più di recenti si usa l’acronimo BRICS per includere il Sud Africa e i summit organizzati
da questo gruppo di Stati). Declino e ascesa delle potenze sono due temi tradizionali delle IR e
dell’IPE ed emerge dunque la necessità di descrivere il ruolo degli Stati Uniti e lo spostamento degli
equilibri tra potenza egemone ed emergenti, proprio a partire dal fenomeno BRIC. La fine di Bretton
Woods non segna il declino degli Stati Uniti, quanto piuttosto una ristrutturazione dell’ordine
economico internazionale in cui gli Stati Uniti giocano un ruolo diverso ma non meno rilevante. La
spinta innovativa nell’economia americana trova una fonte nel capitalismo deregolato: innovazioni
di prodotto e di processo capaci di riorganizzare anche la catena distributiva in maniera estremamente
redditizia. L’innovazione tecnologica è stata stimolata da investimenti statali nel settore della ricerca
e dello sviluppo, anche legati a spin-offs di origine militare. Difficile escludere lo Stato come attore
fondamentale dello sviluppo economico, almeno nel senso di creare condizioni e opportunità
favorevoli, finanziando in parte il bene pubblico della ricerca e agendo sui settori di interesse
strategico. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la fine del sistema monetario basato sul dollaro non ha
eliminato la posizione privilegiata della moneta americana sui mercati internazionali. In particolare,
due elementi hanno garantito tale posizione: da un lato le transazioni economiche internazionali
principali avvengono in dollari; dall’altro i titoli di Stato americani costituiscono il bene rifugio per
molti investitori istituzionali e privati a livello mondiale. Questo significa che gli Stati Uniti, entro
certi limiti, hanno il controllo della moneta e in larga misura del tasso di interesse dei debiti che
contraggono. La trasformazione economica ha portato con sé un riallineamento della posizione degli
Stati e con essa degli equilibri fra le potenze. La tendenza di questo mutamento sembra essere l’ascesa
di nuovi mondi (Brasile e Sud Africa) da un lato e il riemergere di grandi potenze (Cina e Russia)
dall’altro. L’ascesa delle periferie del sistema economico globale è legata a una pluralità di fattori e
porta con sé una pluralità di conseguenze. Le cause sono legate alla complessa interazione tra fattori
esterni e interni. Fra i primi ha influito il rilassamento delle barriere commerciali e finanziarie a livello
internazionale e dunque un ambiente in cui si potevano costituire posizioni di vantaggio per paesi
capaci di produrre beni a costi competitivi. L’aumento degli investimenti diretti all’estero ha
costituito un elemento fondamentale nello sviluppo industriale e nell’urbanizzazione. Molti di questi
casi hanno portato un aumento delle diseguaglianze interne e acuito il conflitto sociale soprattutto
nella forma di criminalità diffusa nelle grandi metropoli. Fra i BRICS si tengono incontri annuali,
l’ascesa della Cina rappresenta al momento un fenomeno non assimilabile per portata ad altri. Lo
sviluppo cinese può costituire anche un elemento di antagonismo con le altre potenze emergenti, India
in prima luogo.
Una prima fase della crisi finanziaria del 2007 è stata interpretata come segnale della fine di un
modello economico neoliberale basato sulla deregolamentazione e sull’espansione del mercato.
Questo è segnato dalle politiche di salvataggio delle banche da parte degli Stati, dall’intervento
pubblico in alcuni settori industriali e da un processo di ri-regolamentazione di quelle che venivano
percepite come le deviazioni di un capitalismo impazzito (o casinò). Una seconda fase della crisi
La riflessione sulla guerra e sul modo di condurla fanno parte di una tradizione plurimillenaria e sono
state l’esperienza napoleonica e l’effetto delle rivoluzioni militari e sociali che si verificano in Francia
alla fine del XVIII secolo ad aver posto le fondamenta del pensiero strategico moderno. Sino alle fasi
della Pria guerra mondiale, la guerra era un ambito dal quale i civili erano esclusi. Lo studio della
guerra era collegato alla risoluzione di problematiche concrete inerenti l’assetto delle forze armate, il
loro sviluppo e la vittoria finale. Negli scritti di Jomini la guerra è stata affrontata da una prospettiva
generale e scientifica. Muovendo dal resoconto delle campagne napoleoniche, Jomini richiamava
alcuni principi immutabili nella condotta della guerra come il ricorso all’offensiva, l’utilizzo della
massa su forze numericamente inferiori e la concentrazione dell’azione nel punto decisivo. Secondo
Jomini, se separata dal contesto storico, la guerra era sempre uguale a sé stessa, retta da principi
immutabili che quando conosciuti e applicati avrebbero portato alla vittoria. Il nesso tra l’applicazione
di norme definite o immutabili e la vittoria sul campo era la rassicurazione di cui le forze armate
avevano bisogno. La guerra però è un fenomeno sociale: un effetto del contesto in cui avviene e una
causa di quello che la seguirà. La strategia è in primo luogo il risultato di un lavoro di interpretazione
ed elaborazione di ipotesi la cui correttezza è confermata dagli esiti concreti prodotti dal campo di
battaglia. Le guerre vanno messe in relazione al contesto in cui si sviluppano. A seconda dei casi,
infatti, i comportamenti efficaci (le strategie) saranno il prodotto della combinazione di fattori
ambientali, umani (sociali) e casuali differenti. Anche Clausewitz ha riflettuto sulla guerra
condizionata dall’esperienza vissuta nelle guerre napoleoniche. Secondo Clausewitz, la vittoria
proviene dall’analisi, dall’innovazione, non dall’imitazione decontestualizzata delle campagne del
La ricostruzione mette in luce alcune aree di tensione ricorrenti: quella tra integrazione europea e
solidarietà atlantica, quella tra potenza civile e militare, e quella tra approcci intergovernativi e
comunitari. Per quanto riguarda la prima tensione, occorre osservare che i tentativi iniziali che sono
stati fatti per sviluppare una politica estera comune apparivano di secondaria importanza rispetto alla
NATO. Il concetto di potenza civile vs. potenza militare risale a Duchene e si concentra sulla
possibilità che un attore internazionale ha di essere una potenza, pur non avendo a disposizione
strumenti militari. Per quanto riguarda la tensione tra approcci intergovernativi e comunitari, occorre
osservare che se da un lato la politica estera dell’Unione si è sviluppata e continua a essere una policy
in cui si applica il metodo intergovernativo, dall’altro lato è costretta a far ricorso agli strumenti
comunitari per attuare le sue decisioni. Washington temeva che le difficili condizioni economiche
potessero favorire la diffusione dell’ideologia comunista nei paesi europei. Attraverso il piano
Marshall, gli Stati Uniti donarono 20 miliardi di dollari per la ripresa economica; l’obietto era anche
quello di influenzare i valori che avrebbero dovuto cooperare nelle ricostruzioni economica e
accettarsi reciprocamente come membri dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica
(OECE). Questa condizione favorì la collaborazione tra leader politici, diplomatici e funzionari dei
paesi dell’Europa occidentale, che avrebbe portata pochi anni dopo all’inizio del processo di
integrazione europea. Due anni prima dell’inizio del processo di integrazione europea con la firma
nel 1951 del Trattato di Parigi che istituì la Comunità europea per il carbone e l’acciaio (CECA), gli
Stati Uniti si impegnarono nel 1949 con la firma del Trattato del Nord Atlantico, a garantire la
sicurezza dei propri alleati dell’Europa occidentale. Inizialmente gli Stati Uniti considerarono la
nuova alleanza atlantica come una sorta di piano Marshall militare, tuttavia ciò nel giro di un anno
diventò l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, nell’ambito della quale, al vertice di
un’alleanza militare integrata, un comandante americano dirigeva la difesa territoriale dell’Europa
occidentale. Gli Stati Uniti erano disposti a rafforzare la presenza delle proprie forze sul suolo
europeo, ma chiedevano ai paesi europei di intensificare i loro sforzi per la difesa, in particolare per
difendere un attacco da Est. Quindi, i francesi presentarono il piano Pleyen, in base al quale unità
militari degli Stati membri sarebbero state integrate in un esercito europeo, composto da 100.000
uomini e controllato dal ministro della Difesa. Pertanto, attraverso la creazione di una Comunità
europea di difesa (CED), i soldati tedeschi avrebbero potuto operare nell’ambito di un esercito
europeo. Il trattato CED venne firmato dai sei paesi CECA (Francia, Germania occidentale, Italia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo). Ma l’Assemblea nazionale francese nel 1954 si rifiutò di ratificarlo,
ponendo così fine al progetto di esercito comune europeo. La questione del riarmo della Germania
occidentale fu risolta attraverso una revisione del Trattato di Bruxelles del 1948 per includere la
Germania occidentale e l’Italia. Con la firma dei Trattati di Roma del 1957 il processo di integrazione
europea assumeva connotati economici. Alla Comunità economica europea venivano concesse delle
competenze relative al commercio estero e alla conclusione di accordi con i paesi terzi, che
consentirono alla CEE di diventare un attore internazionale. L’Atto unico europeo (AUE) del 1986 è
importante per la politica estera dell’Unione Europea in quanto con il suo obiettivo di completare il
mercato interno aumentava l’attrattività della Comunità europea per i paesi terzi, sempre più
interessati a ottenere accordi che prevedessero un accesso privilegiato a tale mercato. Proposta dal
presidente francese Pompidou al summit dell’Aja dl 1969, prese avvio la cooperazione politica
europea (CPE). Gli obiettivi di essa consistevano nel cercare di assicurare una migliore comprensione