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cerà a farsi sentire: ovvero all’inizio degli anni ottanta, allorché, alle
elezioni europee del 1984, esso inaspettatamente otteneva quasi il 10
per cento dei suffragi. Tale seguito Le Pen riuscirà a mantenerlo fino
alle legislative del 1999, quando la rottura con alcuni suoi luogotenenti
sarà motivo di una severa, e forse definitiva, sconfitta. Nato come par-
tito di destra estrema (dal Msi copierà la fiamma tricolore), rivolto alle
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Le etichette che circolano nelle scienze sociali non sono mai del
tutto neutre. In barba alle pretese di scientificità che tali scienze avan-
zano, le loro etichette solitamente contengono una qualche valutazio-
ne. Quella di «Nuova destra radicale» vuol essere solo un po’ meno
drammatica di quella tradizionale di «estrema destra», e vuol porre
l’accento anzitutto, con l’aggettivo «nuova», sulle differenze rispetto a
quest’ultima (che del resto separatamente sopravvive in alcune forma-
zioni elettoralmente ininfluenti): non senza in pari tempo denunciare
qualche motivo di somiglianza.
Posto che l’uguaglianza è una linea di divisione fondamentale tra
destra e sinistra1, destre vecchie (d’ogni sorta) e nuove si collocano sul
medesimo versante. La Nuova destra non condivide il culto della ge-
rarchia che contraddistingueva le vecchie estreme, e solo parzialmente
concorda coi neoliberali in materia di mercato: anche questo non le
consente il suo populismo, su cui torneremo tra un attimo. Quindi, a
un’occhiata superficiale, può finanche apparire egualitaria. Ma non è
certo egualitaria, per limitarci all’esempio più ovvio, la sua accettazio-
ne selettiva del welfare, che rinnega il nesso, simbolico e sostanziale,
che nello Stato sociale congiungeva intimamente «redistribuzione» e
«protezione». In conformità coi desideri degli elettori, dove neanche i
ceti emergenti più aggressivi sono davvero disposti a rinunciare alla
tutela previdenziale, a quella sanitaria, all’istruzione pagata dallo Sta-
to2, la Nuova destra promette di mantenere tali servizi, se non di po-
6
Tre contributi recentissimi sono quelli di Y. Mény, Y. Surel, Par le peuple, pour le peu-
ple. Le populisme et le démocraties, Seuil, Paris 2000; P. Taggart, Populism, Open University
Press, Philadelphia 2000 e G. Hermet, Les populismes dans le monde: une histoire sociologi-
que, XIXe-XXe siècle, Fayard, Paris 2001. Al neopopulismo la rivista «Vingtième siècle», 56,
1997 ha dedicato un numero speciale, mentre alcuni dei contibuti più interessanti, dei più
noti studiosi del fenomeno, sono tradotti in tre numeri monografici di «Trasgressioni», 29,
30, 31, 2000-2001.
1
Così N. Bobbio, criticatissimo, va detto, in Destra e sinistra: ragioni e significati di una
distinzione politica, Donzelli, Roma 1994. Tra le critiche più sottili, cfr. M. Tarchi, Destra e
sinistra: due essenze introvabili, in «Democrazia e diritto», XXXIV, 1994, 1, pp. 381-96.
2
Non si tratta di dati recentissimi. Ma confermano questo punto di vista quelli analizza-
ti fa O. Borre - E. Scarbrough (a cura di), The Scope of Government, Oxford University
Press, Oxford 1995. Assai interessante è il concetto di welfare chauvinism, in cui si combi-
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A parte i titoli citati in precedenza, che fanno riferimento alle forme più recenti di
populismo, sul populismo in genere è disponibile una vastissima bibliografia. Ci limitiamo
a segnalare l’ormai classico G. Ionescu - E. Gellner (a cura di), Populism: its Meaning and
National Characteristics, Weidenfeld & Nicolson, London 1969. Il volume non parla
dell’Europa, se non marginalmente. Guarda piuttosto alla diffusione del populismo nel
Terzo Mondo. Inizia invece ad allargare con decisione la prospettiva M. Canovan in Po-
pulism, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1981.
4
Cfr. G. Germani, Autoritarismo, fascismo e classi sociali, il Mulino, Bologna 1975,
pp. 51-94.
5
Cfr. A.-P. Taguieff, Le populisme et la science politique: du mirage conceptuel aux vrais
problèmes, in «Vingtième siècle » cit. (trad. it. Il populismo e la scienza politica: da miraggio
concettuale a problema reale, in «Trasgressioni », 2001, 31, pp. 54-5).
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Il repubblicanesimo francese è la dottrina dell’uguaglianza dei cittadini di fronte allo
Stato, senza differenze di razza, sesso, fede religiosa, estrazione sociale ecc.: cfr. C. Nicolet,
La passion de la République: un itinéraire français, Editions sociales, Paris 1992.
7
Una suggestiva analisi del poujadismo alla luce delle reazioni che suscitò, e dei tentativi
di classificarlo e squalificarlo, cfr. A. Collovald, Histoire d’un mot de passe: le poujadisme.
Contribution à une analyse des ‘‘ismes’’, in «Genèses», 1991, 3, pp. 97-119.
8
Si rinvia al saggio di P. Worsley, The Concept of Populism, contenuto in Ionescu -
Gellner Populism cit. Nello stesso volume, a riprova della complessità, e fragilità, del concet-
to, si veda P. Wiles, A Syndrome, not a Doctrine, dove la fisionomia del populismo è rico-
struita in ben 24 punti. Un altro tentativo di definizione è quello effettuato da Canovan in
Populism cit., la quale contrappone il populismo «agrario» (quello russo e quello nordameri-
co) a quattro modelli di populismo «politico» (il peronismo, la democrazia populista elveti-
ca, il populismo razzista alla George Fallace e il populismo dei politici, che si appella al po-
polo nella sua unità, esemplificato dalla Thatcher). Taguieff, in Le populisme et la science po-
litique cit., distingue, invece – ma è una distinzione analitica, più che fattuale – tra un popu-
lismo «di protesta» e un populismo «identitario».
9
Cfr. Taguieff, Le populisme et la science politique cit. p. 56.
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In materia di «antipolitica», il contributo più rilevante a tutt’oggi è probabilmente A.
Schedler (a cura di), The End of Politics? Explorations into Modern Antipolitics, St. Martin’s
Press, New York 1997. C’è poi il tema dei partiti definiti anti-partito: dello stesso autore,
cfr. Anti-Political-Establishment Parties, in «Party Politics», II, 1996, 3, pp. 291-312. Lo
«European Journal of Political Research», ha infine dedicato un intero numero ( XXV, 19964,
4), a cura di T. Poguntke e S. E. Scarrow, a The Politics of Anti-Party Sentiment.
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litici, che avrebbero nel complesso condotto a tale successo. Una cau-
tela è in ogni caso d’obbligo. Si tratta d’ipotesi generali, che certo trag-
gono spunto dai casi specifici cui si accennava in partenza, ma che non
tengono conto in alcun modo delle specificità dei diversi paesi in cui la
NDRP ha attecchito. Senza approfondire le quali, è impossibile com-
prendere appieno tanto le differenze che si danno tra paese e paese,
quanto quelle tra partito e partito.
Prima ipotesi: il declino delle passioni politiche.
Per comune riconoscimento, la democrazia è in primo luogo una
questione di metodo: detta cioè un metodo (competitivo) per selezio-
nare chi dovrà assumere le decisioni collettive, insieme a un metodo (il
principio di maggioranza) per assumere queste stesse decisioni1. Nel
complesso, quel che dunque più la qualifica è la predisposizione a
comporre i conflitti per via pacifica. Ciò però non impedisce che la
democrazia abbia anche un’anima, che è salvifica ed emotiva e che
svolge una funzione decisiva2. La democrazia si alimenta di interessi,
ma anche di valori parziali, i quali a loro volta suscitano sovente pas-
sioni che essa trasforma in legittimità democratica, vuoi perché li ri-
compone per il tramite delle tecniche che le sono proprie, quali il con-
fronto, la discussione, il compromesso, vuoi perché ad essi sovrappo-
ne interessi e valori superiori. Il problema è che negli attuali regimi
democratici non solamente valori e passioni sono nel loro insieme di-
venuti merce rara, ma ancor più rari sono quelli d’ordine superiore, in
grado di abbracciare tutta la società.
Detto altrimenti: in democrazia l’autorità parla in nome del popo-
lo e perciò, in qualche modo e in qualche misura, il popolo deve rico-
noscersi in essa. Vi si può riconoscere in forma diretta, che è quella ca-
ra al repubblicanesimo odierno3 (ma empiricamente alquanto incon-
sueta), oppure in forma mediata (che storicamente è la più frequente):
tra tutti i regimi politici, la democrazia s’è dimostrata il più ospitale e
reattivo nei confronti dei grandi e ambiziosi progetti di riscatto socia-
le, e delle forme d’azione collettiva che li sorreggevano, i quali hanno
costituito per essa uno straordinario carburante, dando indirettamente
legittimità e sostanza alla sovranità popolare4. Orbene, come può il
1
Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 4-7.
2
Questa è la tesi sostenuta da M. Canovan, in Trust the People! Populism and the Two
Faces of Democracy, in «Political Studies», XVVII, 1999, 1, pp. 2-16.
3
Ha riproposto in Italia questa prospettiva teorica, che ha avuto successo in special mon-
do nei paesi anglossassoni, M. Viroli: cfr. Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.
4
Cfr. sull’importanza dell’azione collettiva M. Dogliani, Deve la politica democratica
avere una sua risorsa di potere separata?, in «Nuvole», 2000, 17, pp. 30-4. Ma in realtà questo
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è il punto di vista di Hans Kelsen: cfr. Vom Wesen und Wert der Demokratie, J. C. B. Mohr,
Tübingen 1929 (trad. it. in I fondamenti della democrazia e altri saggi, il Mulino, Bologna
1970, pp. 23-5).
5
Cfr. i dati raccolti e analizzati da Belligni in L’inverno del nostro scontento. Il cittadino
democratico tra protesta e uscita, in «Nuvole» cit., pp. 18-29.
6
Cfr. per tutti S. M. Lipset, Political Man. The Social Bases of Politics, Doubleday &
Co., New York 1960 (trad. it. L’uomo e la politica, Comunità, Milano 1963).
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Cfr. J.-P. Sironneau, Sécularisation et réligions politiques, Mouton, La Haye 1982.
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Cfr. a parte i testi citati alla nota precedente, l’indagine qualitativa condotta da D.
Gaxie, Enchantements, désenchantements, ré-enchantement: les critiques ordinaires de la po-
litique, relazione presentata al Congrès dell’Association française de science politique, Ren-
nes, 29-30 settembre 1999.
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Cfr. O. Kircheimer, The Transformation of the European Party Systems, in J. La Pa-
lombara - M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton Uni-
versity Press, Princeton 1966 (trad. it. La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa oc-
cidentale, in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici, il Mulino, Bologna 1971).
21
R. S. Katz - P. Mair, Changing Models of Party Organization and Party Democracy:
The Emergence of the Cartel Party, in «Party Politics», I, 1995 1.
22
Con largo anticipo, la politicizzazione di questa issue fu prevista da J. Habermas in
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Reflexionen über den Begriff der politischen Beteilung, in Id. et al., Student und Politik: eine
soziologische Untersuchung zum politischen Bewusstsein Frankfurter Studenten, Luch-
terhand Verlag, Neuwied 1961 (trad. it. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica, in
Id., L’università nella democrazia, De Donato, Bari 1968).
23
Cfr. C. Donolo, La politica ridefinita, in «Quaderni piacentini», IX, 40, pp. 93-125.
24
Propone questa definizione U. Beck in The Reinvention of Politics: Rethinking Mo-
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tato? Quanti fra tali partiti sfuggono ormai alla suggestione della «tol-
leranza zero» importata dalla NDRP?28 E quanti hanno il coraggio di
proporre, onde prevenire i comportamenti devianti, dispendiose poli-
tiche integratrici, già delegittimate d’altro canto dal pressoché unani-
me accoglimento dell’ortodossia neoliberale?
Paris 1999.
29
È, questo, uno dei quattro tipi di populismo «politico» indicati da Canovan in Populi-
sm cit., pp. 351 sgg.
30
L’avvento di de Gaulle al potere stimolò in Francia le riflessioni contenute nell’ormai
classico L. Hamon - A. Mabileau (a cura di), La personnalisation du pouvoirs: entretiens de
Dijon, Presses universitaires de France, Paris 1964. In Italia, chi ha più riflettuto sul punto è L.
Cavalli: tra i suoi scritti cfr. Governo del leader e regime dei partiti, il Mulino, Bologna 1992.
31
Cfr. M. Charlot, Doctrine et image. Le thatcherisme est un populisme?, in J. Leruez
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(a cura di), Le Thatcherisme: doctrine et action, La documentation française, Paris 1984, pp.
19-21.
32
Cfr. Hermet, Les populismes dans le monde cit., p. 433.
33
Cfr. J. Chirac, La France pour tous, NiL Éditions, Paris 1994, p. 39, cit. in Mény -
Surel, Par le peuple, pour le peuple cit., p. 78.
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A. Lipow - P. Seyd, Political Parties and the Challenge to Democracy: From Steam-
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che il successivo consolidamento di Forza Italia implica un discorso più complesso, che deve
tener conto sia della sua capacità di ereditare le vecchie reti di relazioni, sia di quella di costi-
tuirne di nuove, sopratutto affinando l’impiego del mezzo televisivo.
2
Quest’ipotesi è argomentata nel nostro Antipolitica. Alle origini della crisi italiana,
L’Ancora, Napoli 2000.
3
Cfr. S. Belligni, Magistrati e politici nella crisi italiana. Democrazia dei guardiani e
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munista di Occhetto (poi Pds), che, al termine di una lunga fase di de-
clino, s’è convertito alla causa delle riforme costituzionali e alla critica
antipartitocratica, anche a costo di coinvolgere se stesso e la sua storia.
In nome del popolo sovrano, per un buon tratto di tempo in Italia
s’è fatta politica pressoché esclusivamente in questo modo: denun-
ciando i misfatti della politica, l’inconcludente tortuosità delle media-
zioni tra i partiti, l’autoreferenzialità di questi ultimi, opponendo alle
lentezze, alla corruzione, agli sprechi dei politici di professione, e alle
inefficienze delle burocrazie pubbliche, di volta in volta la decisione
rapida ed efficace di un leader direttamente investito dagli elettori, le
sane e robuste virtù dei «tecnici» e dell’imprenditoria privata, la spon-
taneità e la moralità della «società civile». Non si vuol negare con que-
sto il logoramento del costume politico che visibilmente affliggeva la
politica italiana. S’intende sottolineare semplicemente l’impatto che
discorsi cosiffatti – e da ultimo la riduzione di ogni problema alla
«questione morale» – hanno avuto, interagendo con quell’oscura, ma
non ingenua, entità che è la pubblica opinione, sugli elettori: verosi-
milmente movente non ultimo del crollo verticale e repentino che ha
travolto tra il 1992 e il 1994 l’intero sistema dei partiti.
In pari tempo, un secondo tema si stagliava sullo sfondo. Di tutti i
grandi paesi d’Europa l’Italia era il solo in cui le terapie della Trilate-
rale avevano trovato solo parzialissima ed improvvisata attuazione,
sicché l’assetto istituzionale era rimasto, pur con qualche significativa
correzione, quello dettato dall’Assemblea Costituente nel dopoguer-
ra, in tutt’altro clima politico e sociale. Vi sono molti e non infondati
motivi per criticare le formule della Trilaterale. Ma si può pure ben
comprendere perché larghi settori della classe politica e della sfera
pubblica se ne siano appropriati, mirando a sanare l’eccezionalità ita-
liana mediante l’introduzione di un assetto istituzionale che promette
di accrescere stabilità ed efficienza dell’azione di governo.
Il problema è che il fondamentale, e assai dubbio, risultato di una
così furiosa denigrazione antipolitica è stato ben più che l’agognato ri-
cambio della classe dirigente politica: è stato una devastante crisi di le-
gittimità e una fulminea e travolgente ascesa delle formazioni della
NDRP. Questi due fenomeni non vanno, sia chiaro, imputati unica-
mente al clima di sovreccitazione antipolitica suscitato dai partiti con-
venzionali, che pure ha ampiamente dissodato il terreno. L’inopinato
collasso dei partiti che avevano retto il governo del paese per quasi
mezzo secolo l’hanno in primo luogo provocato i loro errori e le loro
malefatte, di cui la magistratura li ha chiamati alfine a rispondere, non
senza arrogarsi pubblicamente un ruolo di supplenza pur esso gravido
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mentica come i partiti stessi fossero luogo di discussione, che è precisamente in punto solle-
vato da Manin in Principes du gouvernement représentatif cit., pp. 140-9.
7
Viviamo in un mondo irto di paradossi, che è sempre bene sottolineare. La tesi del di-
sprezzo che le élites nutrono per il cittadino comune è sostenuta da un autore della sinistra
statunitense, Christopher Lasch, che viene considerato un teorico del neo-populismo (cfr.
The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, Norton & co., New York 1995,
trad. it. La ribellione delle élites: il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 1995).
Ma è un populismo, il suo, ispirato alla tradizione americana, ben diverso da quello di cui si
è detto in queste pagine, in primo luogo perché estraneo ad ogni tentazione plebiscitaria.
Tanto non ha impedito alla destra neo-populista in Italia di farsi forte del suo punto di vi-
sta per rivendicare i propri metodi e il proprio genuino radicamente popolare (cfr. il nume-
ro di «Ideazione», 2000, 2, dedicato a Le virtù del populismo). Dopo di che chi più pecca di
elitismo finisce per essere la sinistra, le cui aperture populiste appaiono ancor più insincere
e strumentali di quelle della destra.
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