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ANTIPOLITICA

La mucca pazza della democrazia.


La destra radical-populista e la politica italiana
di Alfio Mastropaolo

1. Il male venuto dal Nord.

Non c’eravamo abituati. Da tempo immemorabile, o quasi, le tur-


bolenze politiche sono state una prerogativa dell’Europa di mezzo, e
di quella meridionale. Stavolta, viceversa, il male è disceso dal Nord:
dall’ordinata, prospera e civile Scandinavia, dove, nel lontano 1972,
vedeva in Danimarca la luce il Partito del progresso, che alle elezioni
di un anno dopo otteneva il 16 per cento dei voti. Fu una fiammata
iniziale, ma da allora quel partito ha mantenuto un’audience superio-
re, di poco, al 6 per cento. Tanto semplice quanto perentoria, ma so-
pra tutto innovativa, era la sua proposta politica. Marcando subito la
differenza con la destra fascista, se la prendeva con lo Stato. Accusava
cioè lo Stato sociale d’essere troppo ingombrante, troppo invadente,
oltre che eccessivamente costoso. Al tempo stesso se la prendeva coi
partiti tradizionali, che monopolizzavano la scena politica. Compiuti i
quindici anni di vita, il Partito del progresso danese ha rinnovato il
suo profilo. Diventando un partito xenofobo e razzista, oltre che fie-
ramente ostile alla prospettiva di un’integrazione più incisiva, econo-
mica e politica, tra i membri dell’Unione Europea.
Quanto spesso c’è capitato da allora d’ascoltare in giro per il Vec-
chio Continente discorsi di questo tenore, pronunciati ogni volta con
linguaggio violento e minaccioso e toni ultimativi?
Al 1972 risale anche la fondazione del Front National di Jean-Ma-
rie Le Pen, il quale inizialmente si limitava ad assemblare i raggruppa-
menti minori di un’estrema destra antica e fertile come quella francese.
È però solo dieci anni dopo che la presenza del Front National comin-
«Meridiana», n. 38-39, 2000

cerà a farsi sentire: ovvero all’inizio degli anni ottanta, allorché, alle
elezioni europee del 1984, esso inaspettatamente otteneva quasi il 10
per cento dei suffragi. Tale seguito Le Pen riuscirà a mantenerlo fino
alle legislative del 1999, quando la rottura con alcuni suoi luogotenenti
sarà motivo di una severa, e forse definitiva, sconfitta. Nato come par-
tito di destra estrema (dal Msi copierà la fiamma tricolore), rivolto alle

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Antipolitica

classi medie, cammin facendo il Front National ha cambiato pubbli-


co, fino a divenire alle presidenziali del 1995, e alle politiche di due
anni dopo, il primo partito operaio del paese. Nell’ultima versione,
anche la sua è una protesta antifiscale e anti-welfare, combinata però
con la denuncia degli eccessi del neoliberismo e la richiesta di politi-
che protezioniste in difesa dell’economia nazionale. Nazionalista,
spesso duramente xenofobo, negazionista, talvolta fascistoide, an-
tieuropeo e fautore semmai di un’Europa della patrie (di memoria
gollista), il Front National non ha trascurato ovviamente i temi
dell’ordine pubblico e della sicurezza. Stabilizzando l’amalgama con
un’idea plebiscitaria di democrazia non del tutto nuova nella tradi-
zione d’Oltralpe. Altro che destra antidemocratica, elitaria e gerar-
chica, com’era la vecchia destra! Il Front National si professa demo-
cratico come e più d’ogni altro partito, specie di quelli che per decen-
ni si sono avvicendati al governo del paese.
Nel 1986 avviene invece la svolta del Partito liberale austriaco, il
quale, dopo che Jörg Haider ne ha assunto la guida, ha preso il nome
di Liberali, di recente assurti all’onore delle cronache per esser giunti
al governo a fianco del Partito popolare, gettando lo scompiglio tra le
cancellerie dell’Europa occidentale. Discendenti da un partito liberal-
nazionale, e quindi ben poco liberale, secondo l’accezione che ci è più
consueta, ma anzi nostalgico, e dichiaratamente di destra, i Liberali,
che Haider guida con piglio carismatico e uno spiccato gusto per le
provocazioni spettacolari, sono una formazione etno-nazionalista, xe-
nofoba, securitaria, antieuropea, con qualche défaillance nazisteggian-
te (o, meglio ancora, negazionista), che, mentre si contrappone risolu-
tamente al duopolio instaurato per mezzo secolo da socialdemocratici
e popolari alla testa dell’Austria, vagheggia una democrazia del leader,
liberata alfine dai troppi impacci della rappresentanza tradizionale.
L’elenco potrebbe proseguire. Nel 1976 un secondo Partito del
progresso era sorto in Norvegia, col medesimo programma politico,
antifiscale, anti-welfare e anti-partito del suo confratello danese. In
Belgio, nel 1977 ha visto la luce nelle Fiandre il Vlaams Blok. Nella
Repubblica Federale Tedesca nascevano nel 1981 i Repubblikaner,
mai rappresentati in parlamento, e non di meno piuttosto attivi sulla
scena pubblica. Nei primi anni novanta la Svezia ha imitato i suoi vi-
cini scandinavi, quantunque Nuova Democrazia sia stata elettoral-
mente assai meno fortunata dei due Partiti del progresso. Nella disci-
plinatissima e noiosissima Svizzera prosperano la Lega dei Ticinesi e
il Partito degli automobilisti, divenuto da ultimo Partito svizzero
della libertà. Quanto all’Italia, fin troppo note ci sono le vicende della

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Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

Lega Nord e quelle di Forza Italia, insieme alla sorprendente meta-


morfosi del Msi in Alleanza nazionale1.
Per farla breve: una folla di nuovi attori, eterodossi ancor più che
indisciplinati, ha nell’ultimo trentennio turbato il paesaggio politico
europeo, che aveva semmai sofferto in precedenza di stabilità eccessi-
va, di pacifici e ordinati avvicendamenti al potere, oppure, in qualche
caso, di ancor più pacifici accordi «consociativi» (secondo la defini-
zione che ne dà la dottrina2, che niente ha a che vedere col gergo di
casa nostra). Ritenere codesti attori membri di un’unica famiglia poli-
tica è forse troppo3. Ed è forse una semplificazione eccessiva anche
collocarli sotto la medesima etichetta. Accolta or non è molto con
tutti gli onori nel Partito popolare europeo, Forza Italia è altra cosa
dai Liberali di Haider. Così come Alleanza nazionale differisce pa-
recchio dal Front National, al cui fianco, per i suoi atteggiamenti raz-
zisti, s’è rifiutata di sedere al Parlamento di Strasburgo. Per non par-
lare dei partiti regionalisti che qua e là per l’Europa vagheggiano una
qualche «piccola patria». Quel che è certo è che se per Lipset e
Rokkan, superando le tempeste dell’entre deux guerres e del secondo
conflitto mondale, i sistemi di partito europei erano rimasti sostan-
zialmente «congelati»4 niente meno che dai primi anni venti, da qual-
che tempo in qua la situazione si è modificata non marginalmente
proprio grazie a queste formazioni. Dai primi anni settanta si è deli-
neata una nuova e imprevista realtà, la quale, a parte agitare i sonni
dei politici (ma forse meno del dovuto), ha richiesto agli studiosi per
cominciare un arduo sforzo di classificazione, per necessità semplifi-
cante. E almeno due sono le espressioni che sono entrate a tal fine nel
vocabolario politico: la prima è quella di «Nuova destra radicale5», la
1
Un prezioso e aggiornato repertorio di informazioni sui partiti europei è costituito da
G. Hermet, J.-T. Hottinger, D.-L. Seiler (a cura di), Les partis politiques en Europe de
l’Ouest, Economica, Paris 1997.
2
A. Lijphart conia il concetto di democrazia «consociativa» con riferimento ai governi
di grande coalizione che si sono costituiti in alcuni paesi divisi sul terreno religioso, lingui-
stico o etnico (ma anche all’esperienza della grande coalizione in Austria): cfr. A. Lijphart,
Democracy in Plural Societies. A Comparative Exploration, Yale University Press, New Ha-
ven 1977.
3
Sul concetto di «famiglia politica» cfr. D.-L. Seiler, Partis et familles politiques, Presses
Universitaires de France, Paris 1980.
4
Cfr. S. M. Lipset - S. Rokkan, Cleavages, Party Systems and Voter Alignments: An In-
troduction, in Idd. (a cura di), Party Systems and Voter Alignments: Cross-National Perspec-
tives, The Free press, New York 1967, pp. 50-1.
5
Cfr. H.-G. Betz - S. Immerfall (a cura di), The Politics of the New Right. Neo-Populist
Parties and Movements in Established Democracies, St. Martin’s Press, New York 1998, H.-
G. Betz ha curato anche Radical Right-Wing Populism in Western Europe, St. Martin’s
Press, New York 1994.

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seconda (e forse la più diffusa nel linguaggio non specialistico) è quel-


la di «populismo», con parecchie varianti, tra cui «neo-populismo»,
«nazional-populismo» e via di seguito6.

2. Nuova destra radicale o neo-populismo?

Le etichette che circolano nelle scienze sociali non sono mai del
tutto neutre. In barba alle pretese di scientificità che tali scienze avan-
zano, le loro etichette solitamente contengono una qualche valutazio-
ne. Quella di «Nuova destra radicale» vuol essere solo un po’ meno
drammatica di quella tradizionale di «estrema destra», e vuol porre
l’accento anzitutto, con l’aggettivo «nuova», sulle differenze rispetto a
quest’ultima (che del resto separatamente sopravvive in alcune forma-
zioni elettoralmente ininfluenti): non senza in pari tempo denunciare
qualche motivo di somiglianza.
Posto che l’uguaglianza è una linea di divisione fondamentale tra
destra e sinistra1, destre vecchie (d’ogni sorta) e nuove si collocano sul
medesimo versante. La Nuova destra non condivide il culto della ge-
rarchia che contraddistingueva le vecchie estreme, e solo parzialmente
concorda coi neoliberali in materia di mercato: anche questo non le
consente il suo populismo, su cui torneremo tra un attimo. Quindi, a
un’occhiata superficiale, può finanche apparire egualitaria. Ma non è
certo egualitaria, per limitarci all’esempio più ovvio, la sua accettazio-
ne selettiva del welfare, che rinnega il nesso, simbolico e sostanziale,
che nello Stato sociale congiungeva intimamente «redistribuzione» e
«protezione». In conformità coi desideri degli elettori, dove neanche i
ceti emergenti più aggressivi sono davvero disposti a rinunciare alla
tutela previdenziale, a quella sanitaria, all’istruzione pagata dallo Sta-
to2, la Nuova destra promette di mantenere tali servizi, se non di po-
6
Tre contributi recentissimi sono quelli di Y. Mény, Y. Surel, Par le peuple, pour le peu-
ple. Le populisme et le démocraties, Seuil, Paris 2000; P. Taggart, Populism, Open University
Press, Philadelphia 2000 e G. Hermet, Les populismes dans le monde: une histoire sociologi-
que, XIXe-XXe siècle, Fayard, Paris 2001. Al neopopulismo la rivista «Vingtième siècle», 56,
1997 ha dedicato un numero speciale, mentre alcuni dei contibuti più interessanti, dei più
noti studiosi del fenomeno, sono tradotti in tre numeri monografici di «Trasgressioni», 29,
30, 31, 2000-2001.
1
Così N. Bobbio, criticatissimo, va detto, in Destra e sinistra: ragioni e significati di una
distinzione politica, Donzelli, Roma 1994. Tra le critiche più sottili, cfr. M. Tarchi, Destra e
sinistra: due essenze introvabili, in «Democrazia e diritto», XXXIV, 1994, 1, pp. 381-96.
2
Non si tratta di dati recentissimi. Ma confermano questo punto di vista quelli analizza-
ti fa O. Borre - E. Scarbrough (a cura di), The Scope of Government, Oxford University
Press, Oxford 1995. Assai interessante è il concetto di welfare chauvinism, in cui si combi-

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Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

tenziarli, ma s’impegna pure a scansare i costi aggiuntivi della redistri-


buzione tra più abbienti e meno abbienti, tra regioni più prospere e
più povere, tra – manco a dirlo – nativi e immigrati.
In pari tempo, se la sinistra aderisce a una concezione «artificiali-
sta» della società, la quale non essendo in grado di raggiungere un
equilibrio da sola, ha bisogno di un’azione regolativa e migliorativa,
più o meno vigorosa, da parte della politica, la Nuova destra invece
condivide il punto di vista «naturalistico» delle destre tradizionali, se-
condo cui la società perviene a una condizione d’equilibrio o lascian-
do a ciascuno piena autonomia nel perseguire il proprio interesse pri-
vato (la destra liberale), oppure, sempre naturalmente, consentendo ai
forti d’imporsi ai più deboli (la destra estrema).
La «novità», non trascurabile, della Nuova destra, che la distingue
dalla destra estrema, sta nel fatto che non condivide con essa, oltre al
culto della gerarchia, neanche quello della violenza e della morte, né
tanto meno l’avversione alla democrazia, alle cui procedure e ai cui
principi anzi professa un’assai più sincera e convinta lealtà di quella
delle forze politiche tradizionali. Mentre, in compenso, la crudezza e,
anzi, la spettacolare brutalità del suo linguaggio la distinguono dalle
destre moderate e giustificano l’appellativo di «radicale».
Il pluralismo delle società in cui viviamo appare alla Nuova destra
non più comprimibile, né essa ritiene di opporsi ai valori di autono-
mia individuale ormai prevalenti, o di rinnegare i diritti di libertà e i
diritti sociali. Ciò non esclude una sospetta ambiguità di toni non so-
lo, come già si è visto, a proposito dello Stato sociale, ma anche ri-
guardo ad altri temi. Si consideri il più delicato di tutti, quello dell’im-
migrazione. In effetti, nonostante su quest’ultima issue essa abbia
compiuto il suo cospicuo investimento politico e simbolico, nell’inter-
pretazione che ne ha elaborata la Nuova destra evita in genere di ri-
proporre le vecchie e screditate teorie sulla superiorità di alcune razze
e l’inferiorità di altre. L’immigrazione è considerata un pericolo, ma,
di norma, non è neppure denunciata in blocco. Piuttosto, la polemica
subdolamente si concentra sulle regole, tacciando la legislazione di
lassismo, o di non esser applicata a dovere dalle autorità responsabili.
Capita persino che gli immigrati siano presentati quali vittime di una
congiura ordita dai poteri forti che reggono l’economia globale, cui
spetta per intero la responsabilità tanto della concorrenza che essi fan-
no ai nativi sul mercato del lavoro, quanto dell’erosione dell’apparato
nano xenofobia e sentimenti antiliberisti, proposto da H. Kitschelt, The Radical in Western
Europe: A Comparative Analysis, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1995.

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radicale della comunità nazionale (la lingua, i costumi, la fede religio-


sa, finanche l’ambiente). Dove però gli istinti intolleranti e autoritari
riaffiorano con prepotenza è al momento di avanzare una ricetta. Per
la Nuova destra la soluzione preferita al problema degli immigrati
consiste nel metterli alla porta (o nel ricacciarli in mare) senza troppi
complimenti. Mentre, per quanto concerne la sicurezza, che gli immi-
grati metterebbero a repentaglio più d’ogni altro, il rimedio sta
nell’importare – dalla destra repubblicana d’oltre oceano – la formula
della «tolleranza zero», non disdegnando talora d’invocare niente me-
no che la pena capitale.
Se tali sono, detto molto in breve, i principali connotati del nuovo
radicalismo di destra, perché mai adoperare per designarlo anche il con-
cetto di populismo3? L’intento è chiaramente quello di meglio differen-
ziare la nuova destra dalle vecchie, ma è anche quello di stigmatizzarla
ulteriormente. Il populismo non è mai un complimento e quando di
populismo si parla, solo i più colti rammentano il remoto populismo
russo, o il movimento dei farmers del Midwest. Quel che torna vicever-
sa alla memoria sono i regimi e i movimenti populisti fioriti in America
Latina a partire dagli anni trenta e la cui memoria è piuttosto recente.
Vivo è tuttora il ricordo della loro incarnazione peronista, che ancora
negli anni settanta conobbe un caricaturale remake.
Di quella vicenda ad essere evocati sono comunque i tratti più vi-
stosi: non l’alleanza tra proletariato urbano e borghesia industriale che
lo sorresse4, né la funzione d’integrazione delle masse nel sistema poli-
tico da esso svolta in qualche modo5, bensì le oceaniche adunate dei
descamisados, il personalismo e la demagogia della sua leadership,
l’emotiva e confusa opposizione tra popolo e classi dirigenti tradizio-
nali che ne animavano il discorso. D’altra parte il termine populismo
era già venuto in voga in Europa quando nei primi anni cinquanta si
era posto il problema di classificare il movimento creato dal nulla da
un libraio francese che aveva chiamato alla riscossa il popolo delle

3
A parte i titoli citati in precedenza, che fanno riferimento alle forme più recenti di
populismo, sul populismo in genere è disponibile una vastissima bibliografia. Ci limitiamo
a segnalare l’ormai classico G. Ionescu - E. Gellner (a cura di), Populism: its Meaning and
National Characteristics, Weidenfeld & Nicolson, London 1969. Il volume non parla
dell’Europa, se non marginalmente. Guarda piuttosto alla diffusione del populismo nel
Terzo Mondo. Inizia invece ad allargare con decisione la prospettiva M. Canovan in Po-
pulism, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1981.
4
Cfr. G. Germani, Autoritarismo, fascismo e classi sociali, il Mulino, Bologna 1975,
pp. 51-94.
5
Cfr. A.-P. Taguieff, Le populisme et la science politique: du mirage conceptuel aux vrais
problèmes, in «Vingtième siècle » cit. (trad. it. Il populismo e la scienza politica: da miraggio
concettuale a problema reale, in «Trasgressioni », 2001, 31, pp. 54-5).

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Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

boutiques, minacciato dalla grande distribuzione, curiosamente incro-


ciando antiche suggestioni antiparlamentari e antipartitiche con
l’egualitarismo «repubblicano»6 d’Oltralpe. Tra quell’episodio e la na-
scita della Nuova destra radicale corre quasi un ventennio. Ciò non ha
impedito agli osservatori di evocare anche il fantasma di Pierre Pouja-
de al momento di classificare un insieme di formazioni politiche ano-
male che sorgevano qua e là per l’Europa, a costo magari di incorag-
giare effetti di imitazione e di convergenza di per sé non scontati7.
La frequenza con cui il concetto di populismo è adoperato, acco-
stando fenomeni apparsi alle latitudini più diverse, va ovviamente a
scapito della chiarezza e della precisione. C’è, tuttavia, un minimo de-
nominatore comune – individuato in tempi non sospetti8 – tra i nume-
rosi fenomeni storici cui tale concetto è applicato. Il populismo non è
un programma politico, né una concezione del mondo, e quindi
un’ideologia, dato che esso si combina con le concezioni e i programmi
più svariati. C’è un populismo di destra e ve n’è uno di sinistra. C’è un
populismo statalista e ve n’è uno liberale. Vi sono populismi autoritari
ed altri democratici. Innanzi tutto perciò il populismo è uno stile9 che,
tra infinite varianti, si fonda sulla retorica intrecciata intorno al popolo.
Inteso come comunità (nazionale), ovvero senza distinzioni di
classe, d’interessi, di valori, e senza le funeste divisioni generate dalla
politica e, in specialmodo, dalle manovre parlamentari e dai partiti,
per il populismo il popolo, fatto dalla gente comune e dall’uomo della
strada, è il depositario di tutte le virtù. La sua saggezza, laboriosità ed
innata moralità contrastano coi vizi dei potenti, che sono poi i politici
di professione, i grandi imprenditori e finanzieri, gli intellettuali, talo-
ra persino le gerarchie ecclesiastiche: tutti propensi a impiegare lin-

6
Il repubblicanesimo francese è la dottrina dell’uguaglianza dei cittadini di fronte allo
Stato, senza differenze di razza, sesso, fede religiosa, estrazione sociale ecc.: cfr. C. Nicolet,
La passion de la République: un itinéraire français, Editions sociales, Paris 1992.
7
Una suggestiva analisi del poujadismo alla luce delle reazioni che suscitò, e dei tentativi
di classificarlo e squalificarlo, cfr. A. Collovald, Histoire d’un mot de passe: le poujadisme.
Contribution à une analyse des ‘‘ismes’’, in «Genèses», 1991, 3, pp. 97-119.
8
Si rinvia al saggio di P. Worsley, The Concept of Populism, contenuto in Ionescu -
Gellner Populism cit. Nello stesso volume, a riprova della complessità, e fragilità, del concet-
to, si veda P. Wiles, A Syndrome, not a Doctrine, dove la fisionomia del populismo è rico-
struita in ben 24 punti. Un altro tentativo di definizione è quello effettuato da Canovan in
Populism cit., la quale contrappone il populismo «agrario» (quello russo e quello nordameri-
co) a quattro modelli di populismo «politico» (il peronismo, la democrazia populista elveti-
ca, il populismo razzista alla George Fallace e il populismo dei politici, che si appella al po-
polo nella sua unità, esemplificato dalla Thatcher). Taguieff, in Le populisme et la science po-
litique cit., distingue, invece – ma è una distinzione analitica, più che fattuale – tra un popu-
lismo «di protesta» e un populismo «identitario».
9
Cfr. Taguieff, Le populisme et la science politique cit. p. 56.

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Antipolitica

guaggi incomprensibili, a complicare inutilmente i problemi e ad av-


vantaggiarsi della propria posizione, a spese, com’è ovvio, del popolo.
Ecco perché il populismo non solo si fa veicolo dell’endemico risenti-
mento popolare contro ogni tipo di establishment, ma pretende pure
di rimettere il popolo sul trono, definendo superiori a ogni valore, ma
anche a ogni regola, le sue manifestazioni di volontà.
È uno stile, quello populista, che prevede un particolare legame tra
il popolo e la leadership, dove per partecipazione popolare esso spac-
cia l’afflato plebiscitario – confermato o no dalle elezioni poco impor-
ta – con cui il popolo sovrano investe chi lo guida. Tra popolo e leader
non v’è mediazione di sorta. Forte e autorevole, per non dire autorita-
rio, nello stile populista, il leader è l’interprete autentico della volontà
del popolo, dove quest’ultimo, proprio nel rapporto diretto ed orga-
nico che instaura con il primo, si costituisce in soggetto politico. Le
elezioni, pertanto, sempre che le si tenga, sono eminentemente un rito
di acclamazione, dove quel che conta è la maggioranza che ha vinto –
e il leader da essa investito – mentre le minoranze appaiono, al cospet-
to della volontà popolare espressa dalla maggioranza, non già porta-
trici di un qualche diritto legittimo da tutelare, bensì un fattore di di-
sturbo, da emarginare e ignorare.
Rispetto a questi tratti minimi del populismo, in cosa la Nuova de-
stra radicale rappresenta una rivisitazione postmoderna e cosa c’è in
specifico in essa?
Per cominciare va menzionata la retorica: oltre all’esaltazione del
popolo, comunitaristicamente e organicisticamente inteso – spesso ri-
proponendo anche il tema della nazione –, e alla concezione plebiscita-
ria della leadership, un tipico ingrediente del discorso populista che la
Nuova destra radicale propone, e anzi esaspera, è la protesta antipoliti-
ca, la quale assume come fondamentale bersaglio polemico l’oligarchia
corrotta e parassitaria dei rentiers della politica, di cui a gran voce – e
non senza qualche ragione – denuncia inefficienze, sprechi, lentezze e
corruzione, l’esibizione sfrontata dei propri privilegi e le complicità
trasversali, che eludono la concorrenza elettorale, unitamente ai vinco-
li cospirativi (quello della congiura è un altro ingrediente della retorica
in questione) che li legherebbero ai poteri forti dell’economia globale10.

10
In materia di «antipolitica», il contributo più rilevante a tutt’oggi è probabilmente A.
Schedler (a cura di), The End of Politics? Explorations into Modern Antipolitics, St. Martin’s
Press, New York 1997. C’è poi il tema dei partiti definiti anti-partito: dello stesso autore,
cfr. Anti-Political-Establishment Parties, in «Party Politics», II, 1996, 3, pp. 291-312. Lo
«European Journal of Political Research», ha infine dedicato un intero numero ( XXV, 19964,
4), a cura di T. Poguntke e S. E. Scarrow, a The Politics of Anti-Party Sentiment.

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Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

Ciascuno lo fa a proprio modo. Ma una volta attribuita alla politi-


ca ufficiale, sequestrata dai politici di mestiere, dalle dirigenze partiti-
che, dagli eletti in parlamento, dalle burocrazie pubbliche e ormai an-
che dalle istituzioni di governo sovranazionali, la responsabilità prin-
cipale dei mali che affliggono la società in cui viviamo, la Nuova de-
stra per porre rimedio a tutto questo si appella al popolo. Senza rinne-
gare, come si è detto, i principi e le regole della democrazia, essa avan-
za la richiesta, tipica del populismo, di restaurarne la sovranità, con-
sentendogli d’investire direttamente la leadership, la quale, una volta
investita, va affrancata dai condizionamenti dei partiti e dei gruppi
d’interesse. La Nuova destra ostenta in tal modo non solo un egualita-
rismo ipocrita e ambiguo, ma anche un dubbio oltranzismo democra-
tico, che alla democrazia adulterata dai politici di professione oppone
un modello di democrazia che si vuole trasparente e sincero, intessuto
com’è d’investiture dirette, ma anche d’iniziative popolari e pronun-
ciamenti referendari (per non parlare dei sondaggi, promossi anch’essi
a manifestazione attendibile della volontà del popolo).
Convertitasi alla democrazia, dando luogo a una peculiare versione
di populismo, che potremmo denominare «antipolitica», la Nuova de-
stra le imprime insomma, una pronunciata curvatura plebiscitaria e
demagogica, la quale è innovativa – a confronto sia con la Destra
estrema di tipo classico, sia con altre forme di populismo – anche per
il modo in cui è fabbricata l’immagine dei leader. Chi non ha sorriso
di recente ascoltando l’implausibile blague del presidente «operaio»
somministrata dal «tele-populismo»11 berlusconiano agli elettori del
Bel paese? Una novità non da poco di questa ultima e più attuale ap-
plicazione del populismo è che essa sì resta fortemente dipendente dai
suoi leader, nei quali seguita a riporre fiducia incondizionata, senza
però in pari tempo pretendere che siano personalità carismatiche, do-
tate di qualità eccezionali. Solitamente, il destino delle formazioni del-
la Nuova destra è intimamente legato a quello del loro fondatore, ov-
vero ad una singola figura politica che dà loro un’impronta personale.
Il leader in questione, tuttavia, è in genere incline ad accreditarsi come
uomo della strada, che ha saputo farsi dal nulla e da sé, senza uscire da
qualche remoto palazzo, che da vicino somiglia ai suoi elettori, che vi-
ve in mezzo ad essi e ne condivide appieno i problemi, e che pertanto
più d’ogni altro è adatto a risolverli.
E ancora: mentre il patchwork culturale della Nuova destra preve-
de anche un’adesione convinta alla fede nel mercato propria del neoli-
11
Così lo definisce Taguieff, Le populisme et la science politique cit., p. 49.

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Antipolitica

berismo, l’incrocio col populismo serve non di meno a dettare al mer-


cato stesso qualche limitazione di rilievo. Il mercato sarà pure addita-
to, in sintonia con lo spirito del tempo, quale il meccanismo di regola-
zione più genuino e meno condizionabile, oltre che meglio in grado di
riconoscere capacità, virtù, meriti dell’uomo qualunque. In compenso,
schierandosi, come il populismo pretende, dalla parte dei «piccoli»
(poiché membri della comunità nazionale e non «diversi»: omosessua-
li, tossicodipendenti ecc.) contro le prevaricazioni dei forti e dei ricchi,
molte formazioni della Nuova destra prendono qualche distanza
dall’ortodossia neoliberale. Perché il mercato funzioni a dovere, e cioè
armoniosamente ed equamente, è doveroso porgli qualche freno, an-
che a protezione dell’economia nazionale.
Da ultimo, c’è da osservare come il populismo antipolitico della
Nuova destra si rivolga ad un pubblico alquanto più variegato di quel-
lo sia della destra estrema, che si rivolgeva soprattutto alla piccola bor-
ghesia nostalgica della disciplina e dell’ordine, sia del populismo «degli
antichi», il quale blandiva le plebi diseredate aizzandole contro i ceti
privilegiati. Il populismo «dei moderni»12 (o dei «postmoderni») è un
populismo catch-all, che non trascura gli strati più poveri e più deboli,
ma che in special modo rivolge le sue lusinghe, agitando lo spauracchio
di un’irreversibile erosione del loro stile di vita, e del loro universo di
valori, alle categorie sociali che negli anni dello sviluppo hanno avuto
modo d’assaporare un relativo benessere e che o sono disorientate dai
tumultuosi cambiamenti prodotti dalla fuoruscita dalla stagione fordi-
sta e dall’internazionalizzazione dell’economia, oppure ne sono già vit-
tima: le quali in tal modo sfogano le loro paure su chi è più forte, ma
ancor più su quanti nella scala sociale si trovano al di sotto di essi.

3. Come si spiega il successo


della Nuova destra radical-populista (NDRP)?

Ricapitoliamo. In termini d’offerta politica, la Nuova destra è destra


in quanto è malgrado tutto antiegualitaria e aderisce a una concezione
«naturalistica» della società; è radicale per il suo estremismo verbale; è
nuova in quanto non respinge i principi democratici. È viceversa popu-
lista perché la sua retorica si fonda sul mito del popolo, dal populismo
derivando al contempo la sua avversione antipolitica, così come, una
volta che s’è sottomessa al principio democratico, ne deriva una prefe-
12
La distinzione è di Hermet, Les populismes dans le monde cit., pp. 126-52.

54
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

renza spiccata per le liturgie plebiscitarie. Mentre del tutto originale è la


predicazione catch-all, rivolta a un elettorato interclassista.
Quel che adesso tocca comprendere è quali fattori e quali condi-
zioni abbiano permesso, ad un gruppo d’imprenditori politici che
hanno utilizzato codesta formula, di spezzare una continuità che,
stando all’analisi di Lipset e Rokkan, durava da oltre mezzo secolo. È
vero, il successo della NDRP è discontinuo nel tempo, e non è neppure
della medesima portata in tutti i paesi europei. Ed è un successo pre-
valentemente elettorale, che non ha suscitato «comunità di destino»,
come gli antichi partiti d’integrazione di massa (anche se talvolta vi ha
provato: si veda il caso della Lega Nord), né ha tanto meno «fidelizza-
to» gli elettori. Ciò malgrado, si tratta di un successo di rilievo, in spe-
cial modo fondato sulla capacità di sedurre fasce di elettorato tutt’al-
tro che irrilevanti, marginali o poverissime, composte in prevalenza da
«orfani del benessere», attuali e potenziali: ceti operai e ceti medi indi-
pendenti, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori1.
Uno studioso attento di queste cose, Marco Tarchi, a questo inter-
rogativo ha replicato suggerendo due moventi principali2: da una par-
te un insieme di fenomeni strutturali che avrebbero destabilizzato le
identificazioni culturali tradizionali, e le loyalties partitico-elettorali
ad esse collegate; dall’altra il logoramento delle democrazie occiden-
tali, espostesi ad accuse d’inefficienza e corruzione, che hanno a loro
volta alimentato vivaci sentimenti di disaffezione e di protesta. Più in
particolare, se l’immigrazione ha rappresentato il movente decisivo
affinché la NDRP attecchisse anche fra strati sociali che erano un tem-
po refrattari alla propaganda fascista, e più ricettivi rispetto a quella
socialista, o al solidarismo cattolico, il segreto del suo successo risie-
de nell’aver saputo costruire un discorso politico di più ampio respi-
ro, il quale fa leva su issues reali e non fittizie, fra cui, oltre al tema
dell’immigrazione, rientrano altre questioni cruciali – da quella
dell’identità nazionale alla questione della sicurezza, dall’insofferenza
antifiscale ai timori suscitati dall’internazionalizzazione dell’econo-
mia – che stanno a cuore a un’assai vasta platea d’insoddisfatti dello
stato in cui attualmente versano le società occidentali. La conclusione
di Tarchi è che, dato che i motivi d’insicurezza e ansietà, e perciò lo
scontento, sono prevedibilmente destinati ad aumentare, con questa
nuova categoria d’interlocutori, scomodi ed irrequieti, ma privi dopo
tutto delle smanie antisistema delle vecchie estreme di destra e di sini-
1
Su questo punto la letteratura è concorde. Si vedano G. Hermet, Les populismes cit.,
Mény - Surel, cit., nonché i saggi raccolti nei tre numeri di «Trasgressioni» cit., alla n. 3.
2
M. Tarchi in L’ascesa del neopopulismo in Europa, in «Trasgressioni», 2000, 29, pp. 3-22.

55
Antipolitica

stra, occorrerà abituarsi a coabitare3.


Rispetto a tale proposta interpretativa, in questa sede intendiamo
esplorarne un’altra, o meglio intendiamo suggerire alcune ipotesi, e
sopra tutto un punto di vista, che con essa non coincidono appieno. È
ben vero che assai difficilmente i cambiamenti che segnano la tarda
modernità sarebbero potuti occorrere senza suscitare disorientamento
e malessere. Ma i cleavages non esistono in natura. O meglio, politica-
mente si aprono solo quando uno dei tanti motivi di stress che com-
plicano la vita collettiva trova degli imprenditori politici (e politico-
intellettuali) in grado di valorizzarli, e quando manchino altri impren-
ditori che impediscano tale eventualità, vuoi creando dei diversivi,
vuoi rimuovendo le ragioni di stress, vuoi offrendo allo stress sbocchi
politici alternativi, riconducendolo ad esempio a un altro cleavage esi-
stente, ma già tenuto sotto controllo4. Si può dunque ipotizzare, in al-
ternativa con Tarchi, che tanto l’issue da lui indicata in prima battuta
(l’immigrazione), quanto quelle indicate in seconda istanza (il logora-
mento della pratica democratica, ma anche il welfare, la sicurezza, la
globalizzazione) si siano politicizzate essenzialmente perché è manca-
ta una politica in grado di trattarle in maniera più appropriata dal
punto di vista democratico.
Detto ancora in altro modo: se ragioniamo in termini di mercato,
dove la fortuna di un prodotto non dipende unicamente dalla qualità
dell’offerta, ma da una costellazione di circostanze favorevoli, a co-
minciare dallo stato del mercato stesso, dalle regole che presiedono al
suo funzionamento, dai comportamenti delle imprese che su di esso
operano, è nostro convincimento che il successo della NDRP non fosse
per nulla obbligato e che esso vada sì attribuito alla presenza di una
clientela potenziale, ma ancor di più (a parte l’esistenza o meno di
norme elettorali e non atte a favorirne la diffusione, o incapaci di im-
pedirla), allo stato attuale delle democrazie occidentali, all’assenza di
offerte politiche concorrenziali, nonché al fatto che gli altri partiti,
cercando di imitarla, ne hanno allargato e consolidato la domanda.
Prima di sviluppare il ragionamento in questo senso, un’altra que-
stione merita almeno un cenno in via preliminare. Ci riferiamo all’inti-
ma parentela che lega populismo e democrazia5. Non che la democrazia
3
Ibid.
4
Resta fondamentale su questi temi P. Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di
teoria e di ricerca empirica, Giappichelli, Torino 1971, pp. 79 sgg.
5
Un riferimento classico al riguardo è E. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre
Componente im demokratischen Verfassungsstaat, Mohr, Tübingen 1958 (trad. it. La compo-
nente rappresentativa e plebiscitaria nello stato costituzionale democratico, Giappichelli, Tori-
no 1994). Ripropongono il tema Mény - Surel. Par le peuple, pour le peuple cit, pp. 38 sgg.

56
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

presupponga necessariamente una dose più o meno massiccia di populi-


smo. Tanto vuol dire unicamente che, se la democrazia ha insediato il
popolo sul trono, la sua versione liberale gli ha posto restrizioni assai
severe nell’esercizio della sua sovranità, che agevolmente si prestano ap-
punto a strumentalizzazioni populiste. La ragione dichiarata di codeste
restrizioni era di garantire libertà e autonomia degli individui. Mentre la
ragione non confessata, e probabilmente essenziale, per cui esse furono
a suo tempo adottate – e sono state successivamente mantenute – era
quella di conservare in poche mani fidate le redini del potere. Ciò non
ha tuttavia impedito allo Stato di diritto di rivelarsi davvero uno stru-
mento prezioso per impedire al potere, anche a quello democratico, di
degenerare. Sebbene il principio di maggioranza sia la regola fondamen-
tale per assumere le decisioni collettive, è una garanzia non da poco che
tali decisioni vengano adottate in parlamento, che è luogo di confronto,
dibattito e compromesso fra valori e interessi divergenti, e che rigide re-
gole proteggano le minoranze soccombenti contro qualsiasi abuso per-
petrato in nome di una maggioranza che pretenda d’incarnare la vo-
lontà popolare.
Consapevole degli abusi che è agevole commettere in nome della so-
vranità popolare, la democrazia liberale ha dunque opportunamente di-
stinto tra titolarità ed esercizio di tale sovranità e ha precisato che unica-
mente nel momento elettorale si selezionano i rappresentanti, cui solo
in parlamento tocca esprimere la volontà popolare. Se non che, ad onta
di queste e di altre cautele, volte a proteggere la democrazia dal rischio
di volgersi nel suo contrario, resta fermo che, una volta eretta la volontà
del popolo a fondamentale principio di legittimazione, l’appellarsi ad
essa, quantunque solo eccezionalmente precipiti in movimenti populisti
veri e propri, sia una tentazione tanto facile, quanto ricorrente, e perfino
inevitabile, anzi un rischio congenito, oltre che una risorsa comune-
mente utilizzata sia dell’establishment politico in carica, sia – a maggior
ragione – dai suoi sfidanti, che ne contestano la legittimità.

4. Cinque ipotesi sulla fortuna


della Nuova destra radical-populista.

Proveremo di qui in avanti a enunciare cinque ipotesi. Non si trat-


ta d’ipotesi esaustive, né direttamente esplicative del successo (mode-
rato e incostante nel tempo e nello spazio) della NDRP, ma d’ipotesi
circa una serie di cambiamenti che sono occorsi nelle democrazie oc-
cidentali, o riguardanti scelte e comportamenti degli imprenditori po-

57
Antipolitica

litici, che avrebbero nel complesso condotto a tale successo. Una cau-
tela è in ogni caso d’obbligo. Si tratta d’ipotesi generali, che certo trag-
gono spunto dai casi specifici cui si accennava in partenza, ma che non
tengono conto in alcun modo delle specificità dei diversi paesi in cui la
NDRP ha attecchito. Senza approfondire le quali, è impossibile com-
prendere appieno tanto le differenze che si danno tra paese e paese,
quanto quelle tra partito e partito.
Prima ipotesi: il declino delle passioni politiche.
Per comune riconoscimento, la democrazia è in primo luogo una
questione di metodo: detta cioè un metodo (competitivo) per selezio-
nare chi dovrà assumere le decisioni collettive, insieme a un metodo (il
principio di maggioranza) per assumere queste stesse decisioni1. Nel
complesso, quel che dunque più la qualifica è la predisposizione a
comporre i conflitti per via pacifica. Ciò però non impedisce che la
democrazia abbia anche un’anima, che è salvifica ed emotiva e che
svolge una funzione decisiva2. La democrazia si alimenta di interessi,
ma anche di valori parziali, i quali a loro volta suscitano sovente pas-
sioni che essa trasforma in legittimità democratica, vuoi perché li ri-
compone per il tramite delle tecniche che le sono proprie, quali il con-
fronto, la discussione, il compromesso, vuoi perché ad essi sovrappo-
ne interessi e valori superiori. Il problema è che negli attuali regimi
democratici non solamente valori e passioni sono nel loro insieme di-
venuti merce rara, ma ancor più rari sono quelli d’ordine superiore, in
grado di abbracciare tutta la società.
Detto altrimenti: in democrazia l’autorità parla in nome del popo-
lo e perciò, in qualche modo e in qualche misura, il popolo deve rico-
noscersi in essa. Vi si può riconoscere in forma diretta, che è quella ca-
ra al repubblicanesimo odierno3 (ma empiricamente alquanto incon-
sueta), oppure in forma mediata (che storicamente è la più frequente):
tra tutti i regimi politici, la democrazia s’è dimostrata il più ospitale e
reattivo nei confronti dei grandi e ambiziosi progetti di riscatto socia-
le, e delle forme d’azione collettiva che li sorreggevano, i quali hanno
costituito per essa uno straordinario carburante, dando indirettamente
legittimità e sostanza alla sovranità popolare4. Orbene, come può il
1
Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 4-7.
2
Questa è la tesi sostenuta da M. Canovan, in Trust the People! Populism and the Two
Faces of Democracy, in «Political Studies», XVVII, 1999, 1, pp. 2-16.
3
Ha riproposto in Italia questa prospettiva teorica, che ha avuto successo in special mon-
do nei paesi anglossassoni, M. Viroli: cfr. Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.
4
Cfr. sull’importanza dell’azione collettiva M. Dogliani, Deve la politica democratica
avere una sua risorsa di potere separata?, in «Nuvole», 2000, 17, pp. 30-4. Ma in realtà questo

58
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

popolo sovrano rassegnarsi ad un uso meramente cauto e prosaico


della sua sovranità? Ovvero: può mai esso acconciarsi a contemplare,
come gli accade sempre più spesso, l’impotenza di un regime che l’ha
posto sul trono? Che la mancanza di coinvolgimento emotivo dei cit-
tadini che contrassegna le odierne democrazie, e le disillusioni e il di-
sincanto che segnano da un pezzo le società occidentali non dipenda-
no anche dal fatto che, ridotta unicamente a metodo, la democrazia ha
smarrito la propria anima? E che la sfiducia, e il distacco di cui soffro-
no le istituzioni democratiche non concorrano a loro volta a creare
condizioni propizie affinché, in alcuni ambiti della società, vengano
seminate e fioriscano nuove passioni, quale che ne sia il contenuto?
I dati sono invero impressionanti: tra fine anni settanta e fine anni
novanta l’astensionismo è mediamente cresciuto in Europa tra il 30 e il
50 per cento: in Italia, Germania e Olanda i non votanti sono passati
dal 10 a poco meno del 25 per cento degli elettori, in Austria dall’8 al
16 per cento; in Francia dal 19 a oltre il 35 per cento; in Gran Bretagna,
dove l’astensionismo è sempre stato piuttosto elevato (in ragione del
sistema elettorale) dal 25 a poco meno del 30 per cento5. Facendo cal-
coli neanche troppo complicati, la quasi totalità dei governi occidentali
è sostenuto intenzionalmente dal voto di circa un terzo degli elettori.
Gli altri due terzi non si sono recati a votare, oppure hanno votato per
formazioni politiche che avversano il governo e la sua maggioranza.
Un rispettabile orientamento di pensiero ha da sempre sdramma-
tizzato l’astensionismo, ritenendolo per la democrazia persino saluta-
re6. Non fa meraviglia pertanto che politici e commentatori negli scor-
si anni abbiano più volte attinto a questo orientamento per banalizza-
re il non voto, in quanto effetto fisiologico per una democrazia matu-
ra, in cui la prosperità ha prodotto una salutare rivoluzione individua-
lista, che ha distolto i cittadini dalla politica, sospingendoli in cambio
a riappropriarsi dei loro destini individuali. In fondo, i grandi disegni
di riscatto e trasformazione sociale d’un tempo, e la partecipazione dei
militanti, in vista di quei disegni, altro non erano che riti manipolativi
(non a caso le ideologie sono state definite religioni «secolari»7) e il de-
clino della partecipazione va dopo tutto salutato con sollievo, quale

è il punto di vista di Hans Kelsen: cfr. Vom Wesen und Wert der Demokratie, J. C. B. Mohr,
Tübingen 1929 (trad. it. in I fondamenti della democrazia e altri saggi, il Mulino, Bologna
1970, pp. 23-5).
5
Cfr. i dati raccolti e analizzati da Belligni in L’inverno del nostro scontento. Il cittadino
democratico tra protesta e uscita, in «Nuvole» cit., pp. 18-29.
6
Cfr. per tutti S. M. Lipset, Political Man. The Social Bases of Politics, Doubleday &
Co., New York 1960 (trad. it. L’uomo e la politica, Comunità, Milano 1963).
7
Cfr. J.-P. Sironneau, Sécularisation et réligions politiques, Mouton, La Haye 1982.

59
Antipolitica

segno di una secolarizzazione virtuosa della politica. Secondo la va-


riante «post-materialista»8, invece, sono in special modo i livelli di
scolarizzazione più elevati che inducono il cittadino a vivere la vita
collettiva in maniera più sofisticata. Fattosi più esigente e più critico,
e sazio del paternalismo e del burocratismo dello Stato sociale e dei
partiti, i suoi bisogni si sono affinati, diserta più facilmente le urne e,
piuttosto che intrupparsi nelle organizzazioni di massa, preferisce il
privato, o magari il mondo vivace, critico, intelligente delle associa-
zioni, del volontariato, dei comitati spontanei. Secondo un’altra va-
riante infine decisivo è il senso di appagamento suscitato nei cittadi-
ni dai risultati che la democrazia ha conseguito, dal benessere che ha
assicurato, delle disuguaglianze che ha rimosso o ridotto9.
In realtà, quali che ne siano i moventi, a ragionarci sopra con at-
tenzione, il distacco dalla politica è un fenomeno ben più complesso
di quanto a prima vista non appaia10. Intanto, non è vero, come qual-
che nostalgico pretende, che i cittadini in passato fossero più affe-
zionati alla politica. Né, al tempo stesso, eterodiretta e prevalente-
mente espressiva com’era, la partecipazione politica del passato, per
quanto non disprezzabile, era di qualità troppo elevata. In terzo luo-
go, se distacco si ha di questi tempi, si tratta di un distacco altamente
selettivo. Per quanto distaccati e risentiti essi siano, i cittadini ap-
prezzano la democrazia sopra ogni altra forma di governo e aspirano
ad esser governati democraticamente, considerando inaccettabili le
forme non democratiche di governo. Non abbiamo purtroppo indi-
cazioni soddisfacenti su cosa i cittadini intendano realmente per de-
mocrazia. È in particolare verosimile che il consenso riguardi in spe-
cial modo il principio elettorale e che già in tema di diritti democra-
tici esso non sia altrettanto univoco e ampio. In ogni caso, un dato
inconfutabile è l’insoddisfazione dei cittadini per come le democra-
zie funzionano in concreto.
I cittadini manifestano cioè un diffuso sentimento di delusione
riguardo alle performances dei regimi democratici. In particolare, es-
8
Si rinvia alle ricerche di R. Inglehart: cfr. in particolare The Silent Revolution: Chan-
ging Values and Political Styles among Western Publics, Princeton University Press, Prince-
ton 1977 (trad. it. La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano 1983).
9
Sintetizza questo punto di vista D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria rea-
listica della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992, p. 75.
10
Tre indicazioni bibliografiche recenti: P. Perrineau (a cura di), L’engagement politi-
que. Déclin ou mutation, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Paris
1994; D. Boy - N. Mayer (a cura di), L’électeur a ses raisons, Presses de SciencesPo, Paris
1997; P. Norris (a cura di), Critical Citizens. Global Support for Democratic Governance,
Oxford University Press, Oxford 1999.

60
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

si accusano i governanti di non rispettare a sufficienza i principi cui


proclamano d’ispirarsi; denunciano con rassegnazione, con risenti-
mento, con sdegno la propria esclusione e il distacco incolmabile che
li separa dalla politica; ai politici infine contestano di somigliarsi tut-
ti quanti, di comportarsi tutti allo stesso modo, al di là di ogni diffe-
renza tra i partiti, nonché di proporre al momento del voto alternati-
ve fittizie e artificiose.
Un tempo monopolio, o quasi, delle categorie sociali marginali,
tali sentimenti d’estraneità sono attualmente condivisi da categorie
centrali, altamente scolarizzate, che sono attente ed esigenti e che al-
la politica rivolgono domande mature ed elaborate, ma restano delu-
se perché essa rifiuta caparbiamente di esaudirle. In compenso, tale
delusione, non generica, ma critica, stando alle indagini più raffinate
di cui disponiamo11, appare dopotutto reversibile. Mentre i suoi di-
fetti più evidenti sono l’astensionismo, l’esasperata volubilità degli
elettori, la loro propensione al voto di mera protesta, la caduta delle
adesioni ai partiti e ai sindacati, nonché, per l’appunto, nei settori
della società culturalmente meno attrezzati e più vulnerabili, il soste-
gno alle formazioni della NDRP.
Esauritasi la lunga e prospera stagione delle trente glorieuses, il
rendimento delle democrazie occidentali è stato in effetti assai medio-
cre: lo sviluppo è rallentato ed è divenuto altalenante, è diminuita l’oc-
cupazione, o è diventata precaria, le provvidenze del welfare sono me-
no generose di un tempo, le disuguaglianze si stanno di nuovo allar-
gando, la povertà è in aumento così come i sentimenti d’insicurezza.
Tutto ciò basterebbe ampiamente a spiegare perché i cittadini siano
insoddisfatti. Non v’è dubbio però che una qualche trasformazione di
rilievo l’ha subita la democrazia medesima. È facile rammentare, in
proposito, che la società è cambiata non poco e che i suoi cambiamen-
ti hanno reso obsolete le forme in cui la democrazia si organizzava in
precedenza. È però anche probabile che la democrazia non abbia sa-
puto riorganizzarsi, o che è inadeguato il modo in cui la sua riorga-
nizzazione è avvenuta: in termini tali da impedirle di potersi adegua-
tamente rifornire di passioni, d’entusiasmi e anche di legittimità.
Si consideri, per cominciare, l’esaurimento di quelle efficientissime
macchine per suscitare aspettative, entusiasmi, azione collettiva, e di

11
Cfr. a parte i testi citati alla nota precedente, l’indagine qualitativa condotta da D.
Gaxie, Enchantements, désenchantements, ré-enchantement: les critiques ordinaires de la po-
litique, relazione presentata al Congrès dell’Association française de science politique, Ren-
nes, 29-30 settembre 1999.

61
Antipolitica

riflesso legittimità democratica, che erano i partiti politici12. A lungo


andare i partiti, che in altri tempi esprimevano i grandi valori emanci-
panti della modernità, hanno cessato di associare e integrare i cittadini,
specie i più deboli e meno istruiti, di motivarli e educarli, nonché di
aggregare e articolare la domanda politica e di concorrere a formulare
le politiche pubbliche. Ridotti a mere agenzie di marketing politico,
essi selezionano e reclutano la leadership e puntano a massimizzare il
consenso elettorale, avendo promosso quest’ultimo, e le cariche pub-
bliche che riescono a conquistare, a misura fondamentale del loro suc-
cesso13. Dando pure per scontato che tale evoluzione sia stata imposta
dal mutamento sociale, doveva proprio avvenire in questo modo?
Riguardo ai regimi democratici, la loro riorganizzazione s’è svolta
invece secondo un più preciso disegno: ovvero applicando la ricetta
dettata a metà anni settanta dalla Trilateral Commission, e dalle varie
teorie del «sovraccarico» e della «governabilità»14. Stando a tali teorie,
ciò di cui i regimi democratici allora soffrivano, sarebbe stato un «ec-
cesso di democrazia»: essi erano cioè sovresposti ad un eccesso di do-
mande particolaristiche generato dalla società. Di conseguenza, l’auto-
rità politica era intasata e fiaccata dalla necessità di mediare tra una
folla d’interessi che su di essa premevano, oltre che dalla troppa parte-
cipazione stimolata dalle organizzazioni di massa. La terapia consiste-
va nel filtrare con più rigore domande e interessi, comprimendo il
pluralismo, o, meglio, respingendolo verso la società, mediante un’ac-
corta immunizzazione delle istituzioni di governo a scapito delle as-
semblee rappresentative e dei partiti. I cittadini, del resto, stando a
12
I quali peraltro provvedevano anche a esorcizzare la tentazione populista della demo-
crazia: cfr. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre Componente im demokrati-
schen Verfassungsstaat cit., ma anche G. Leibholz, Parteienstaat und Repräsentative Demo-
cratie. Eine Betrachtung zu Art. 21 und 38 des Bonner Grundgesetz, in H. Rausch (a cura
di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativ-verfassung, Wissen-
schaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968 (trad. it. in Stato dei partiti e democrazia rap-
presentativa. Considerazioni intorno all’articolo 21 e all’articolo 38 della Legge Fondamen-
tale di Bonn, in La rappresentazione nella democrazia, Giuffré, Milano 1989).
13
Tra i tanti, cfr. P. Mair, Party Organization: From Civil Society to the State, in R. S.
Katz - P. Mair (a cura di), How Parties Organize, Sage, London 1994. Inoltre, sull’involu-
zione dei partiti, cfr. K. Lawson - P. H. Merkl (eds.), When Parties Fail. Emerging Alterna-
tive Organizations, Princeton University Press, Princeton 1988, in particolare nel contribu-
to di K. Lawson, When Linkages Fail. In italiano si vedano le riflessioni di P. Ridola in Par-
titi politici e democrazia rappresentativa, in A. D’Atena - E. Lanzillotta, Alle radici della de-
mocrazia, Carocci, Roma 1998 e il recente sintesi del dibattito proposta da F. Raniolo, Miti
e realtà del cartel party. Le trasformazioni dei partiti alla fine del ventesimo secolo, in «Rivi-
sta italiana di scienza politica», XXX, 2000, 3, pp. 553-82.
14
Cfr. per tutti M. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy.
Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York Uni-
versity Press, New York 1975 (trad. it. La crisi della democrazia, Angeli, Milano 1977).

62
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

questa teoria, erano ormai interessati sopra tutto a ottenere servizi di


miglior qualità da un governo più efficiente e più stabile. Sgombrato il
campo di quell’antiquato residuo che è la partecipazione, il governo a
sua volta, con la qualità delle sue prestazioni, avrebbe provveduto a ri-
tessere dall’alto i legami tra rappresentanti e rappresentati.
È accaduto pertanto che, in una stagione in cui i molteplici e visto-
si – ma anche inevitabili – insuccessi delle autorità di governo corro-
devano il legame che univa la politica ai cittadini, sono state poste in
essere nuove politiche istituzionali volte ad allentarlo ulteriormente.
Ammesso che i cambiamenti occorsi alla società abbiano sollecitato
tale evoluzione, nelle sue forme e nei suoi contenuti non sarà essa an-
che dipesa da una precisa volontà dell’establishment, politico e non,
orientato da un vero e proprio mutamento di paradigma, che ha cam-
biato il modo d’interpretare, intendere e praticare la democrazia?
Mentre l’establishment faceva proprio l’arido empirismo del ma-
nagement e delle compatibilità di bilancio, la democrazia, ridotta a
vuota procedura, ha declassato i cittadini (ormai pronti forse ad assu-
mersi maggiori responsabilità) ad un pubblico di consumatori passivi
da manipolare a piacimento. Offrendo loro, a titolo di consolazione, e
in nome del popolo sovrano, qualche occasionale e circoscritta forma
di partecipazione diretta e magari, in aggiunta, esortandoli al civismo,
alla solidarietà repubblicana e quindi alla deferenza per l’autorità (in-
novazioni, queste, è interessante notarlo, che trovano riscontro anche
in altre sfere: ad esempio entro quella religiosa, dove la spettacolariz-
zazione della liturgia accompagnata da una concezione carismatica, ha
quasi totalmente soppiantato ogni altra dimensione)?15
Come non sospettare allora che proprio tali cambiamenti abbiano
suscitato la frustrazione dei cittadini, contribuendo a predisporre il
mercato elettorale alle violente denunce antipolitiche del populismo
odierno? E che il successo della NDRP non dipenda anche dalla sua ca-
pacità sia di esprimere la protesta che circola per la società, sia di pro-
porsi come un’inversione di trend – paradossale e discutibile quanto si
voglia, ma in sintonia con una domanda latente degli elettori – in gra-
do di eccitare alfine nuove passioni?

Seconda ipotesi: la politica delegittimata.


I cambiamenti che da circa un quarto di secolo segnano il paesag-
gio politico occidentale costituiscono una sorta di «Grande Depres-
15
Cfr. L. Berzano, Processi di innovazione nelle credenze religiose, in «Rassegna italiana
di sociologia», XXXVI, 1995, 4, pp. 513-38.

63
Antipolitica

sione politica», paragonabile – ma speculare – a quella degli anni venti,


la quale ebbe l’effetto di delegittimare le «armonie spontanee»
dell’economia liberale e di rilegittimare per contro la politica. Dopo
gli esperimenti condotti nella gestione dell’economia di guerra, il key-
nesismo e il New Deal, il socialismo democratico dell’Ovest e il co-
munismo, tosto imbarbaritosi dell’Est, gli stessi regimi fascisti, costi-
tuirono tutti risposte «politiche» alla crisi del mercato «autoregola-
to»16: tutti in effetti prevedendo l’intervento attivo dello Stato e tutti
accompagnandosi a forme intense di azione collettiva. La Grande De-
pressione politica, che segna l’ultimo scorcio del secolo ventesimo, e
già l’alba del ventunesimo, sembra compiere il medesimo cammino
all’incontrario, a cominciare dalla delegittimazione inesorabile della
politica, tanto come principio d’organizzazione e regolazione sociale,
quanto come azione collettiva, che la contraddistingue.
Secondo l’ideologia – un’ideologia che ama notoriamente camuffar-
si da anti-ideologia – egemone di questi tempi, non v’è problema uma-
no che la politica sia in grado di risolvere e, anzi, l’esperienza – non so-
lo quella tragica del socialismo reale, ma anche quella pacifica del wel-
fare e della socialdemocrazia – insegna che la politica aggrava i proble-
mi piuttosto che alleviarli. Conviene pertanto liberare gli «spiriti ani-
mali» del mercato, imprigionati dallo Stato sociale, dai grandi accordi
neo-corporativi tra imprenditori e sindacati, dal corporativismo spic-
ciolo di tanti interessi organizzati. Riducendo le prestazioni del welfa-
re e la spesa statale, abbattendo la pressione fiscale, e dando sollievo al-
le finanze pubbliche, nuove risorse si renderanno disponibili a benefi-
cio degli investimenti e delle imprese. A loro volta, privatizzazioni e
deregulation serviranno sia a ridurre i costi di produzione, sia a soste-
nere la domanda, non più alimentata in malo modo dalla spesa pubbli-
ca. Infine, la «flessibilità» nelle relazioni industriali, abbattendo le anti-
quate misure corporative elevate dai sindacati a difesa degli occupati,
consentirà di abbassare il costo del lavoro e quello dei beni, a beneficio
ancora una volta delle imprese e dei consumatori, non senza ricadute
positive anche sull’occupazione. Il compito di ovviare ai fallimenti del
mercato spetterà al caso (e cioè alla leadership selezionata attraverso gli
inaffidabili meccanismi del mercato politico, che non foss’altro sono la
salvaguardia più sicura della libertà individuale17), o, meglio ancora,
agli esperti che fiancheggiano i politici e ne indirizzano le mosse.
16
È la ben nota tesi di Karl Polanyi: cfr. The Great Transformation, Farrar & Rinehart,
New York 1944 (trad. it. La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974).
17
Cfr J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Allen & Unwin, London
1942 (trad. it. Capitalismo, socialismo, democrazia, Comunità, Milano 1964).

64
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

La ricetta di dilatare i confini del mercato, e di comprimere quelli


dello Stato, ha, com’è noto, pervaso il senso comune, e quindi la cul-
tura e la prassi politica: è l’ortodossia condivisa dalle grandi istituzioni
internazionali di governo dell’economia, dai grandi potentati finanzia-
ri e economici, ma anche da gran parte dei governi occidentali. Essa ha
beneficiato senza dubbio dell’obsolescenza delle ricette prima preva-
lenti, ma forse si è giovata ancor di più di una vera e propria «rivolu-
zione culturale» (entro cui rientra anche la revisione del paradigma
democratico), che ha dichiarato il fallimento dello Stato, mettendo in
discussione priorità consolidate da tempo, e che apparivano saldissi-
me. Insieme al concetto di «Stato», gli attori politici e i mezzi di co-
municazione di massa hanno screditato concetti come «pubblico»,
«collettivo», «interesse generale», «classe» «solidarietà». Specularmen-
te sono stati esaltati il «mercato», il «privato», l’«individuo», la «com-
petizione», la «concorrenza», l’«impresa», la «flessibilità», il «locale»,
e via di seguito. Ebbene, come non sospettare che una siffatta trasfor-
mazione antipolitica del modo di rappresentare la società, forse ancor
più che le politiche che ne sono seguite, che spesso le convenzioni
elettorali di chi le decideva hanno provveduto ad ammorbidire, abbia
anch’essa concorso a suscitare una condizione di diffusa sfiducia nella
politica, predisponendo in pari tempo il mercato (quello elettorale,
stavolta) all’offerta della NDRP?

Terza ipotesi: la chiusura oligopolistica del mercato politico (ovve-


ro: perché mai la Nuova destra è divenuta populista e ha prescelto
certi temi e non altri?).
I partiti, si è detto, hanno subito una trasformazione profonda e
radicale negli ultimi decenni. Ma una non meno profonda e radicale
trasformazione hanno subito i rapporti tra loro. Le prime avvisaglie di
entrambe le aveva colte fin dalla metà degli anni cinquanta Otto Kir-
chheimer18, per il quale il fondamentale movente del cambiamento era
la crescita del terziario pubblico e privato e la fuoruscita dei settori
professionalmente più qualificati dalla classe operaia per ricongiun-
gersi alle classi medie, che nel frattempo si allargavano ed esprimevano
una crescente domanda di welfare e nuove aspettative di consumo. Il
progressivo riassorbimento del conflitto di classe sollecitava i partiti a
cambiare. In particolare, i partiti ideologici si autoemarginavano alle
18
Cfr. O. Kirchheimer, Party Structure and Mass Democracy in Europe (1954), e The
Waning of Opposition in Parliamentary Regimes (1957), ora in Id., Politics, Law and Chan-
ge, a cura di F. S. Burin - K. Shell, Columbia University Press, 1969.
19
Cfr. Kircheimer, Party Structure cit., p. 246.

65
Antipolitica

estreme dell’arco politico, e richiamavano i settori di elettorato meno


favoriti dalla grande crescita postbellica. Di contro, i partiti socialisti e
cattolici – cui Kirchheimer per la prima volta applicava l’etichetta di
partiti catch-all19 – usavano strumentalmente le loro ideologie in fun-
zione identificante, ma si facevano apprezzare dagli elettori per la loro
capacità di offrire quei benefici concreti che le opposizioni ideologi-
che rinviavano ad un futuro remoto e improbabile. Divenuti pragma-
tici, gli elettori preferivano quindi i partiti con una chiara vocazione
governativa, i cui rapporti reciproci, ignorando il confine tra maggio-
ranza e opposizione, stavano decisamente migliorando.
Il processo sarebbe proseguito nei decenni successivi. Riguardo ai
quali Kirchheimer, consacrando definitivamente la categoria di partito
«pigliatutto»20, osservava come i partiti e i loro rapporti stessero tra-
sformandosi non in sintonia con i mutamenti occorsi alla loro base
sociale, ma soprattutto in ragione di esigenze di posizionamento elet-
torale. Alleggeritisi del loro bagaglio ideologico, onde allargare il più
possibile la propria audience, i partiti avanzavano offerte programma-
tiche visibilmente convergenti, lasciando all’immagine dei leader il
compito di fare la differenza, mentre i rapporti tra loro potevano dirsi
ormai di pacifica convivenza.
Robert S. Katz e Peter Mair hanno da ultimo ricostruito e analizza-
to il passo successivo, e più attuale, di questa dinamica evolutiva, in-
troducendo nel vocabolario dei politologi la formula del cartel-party
per enunciare, assieme alla compiuta evoluzione dei partiti in agenzie
di marketing politico, anche una fondamentale innovazione sistemica,
ossia il disciplinamento della competizione interpartitica mediante fer-
rei patti di oligopolio21. Una volta appianate le grandi fratture sociali
del passato, i partiti non solamente si sono ravvicinati sul piano pro-
grammatico, ma, gravitando intorno al medesimo elettorato, hanno
preferito spartirsi il mercato e stipulare tra loro accordi oligopolistici a
tutela delle rispettive posizioni, così adoperandosi per scoraggiare l’in-
gresso di nuove agenzie concorrenti. Forti della presa che esercitano
sullo Stato, essi si sono altresì garantiti vicendevolmente una conforte-
vole sopravvivenza, indipendentemente dagli esiti delle elezioni. Dallo

20
Cfr. O. Kircheimer, The Transformation of the European Party Systems, in J. La Pa-
lombara - M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton Uni-
versity Press, Princeton 1966 (trad. it. La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa oc-
cidentale, in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici, il Mulino, Bologna 1971).
21
R. S. Katz - P. Mair, Changing Models of Party Organization and Party Democracy:
The Emergence of the Cartel Party, in «Party Politics», I, 1995 1.
22
Con largo anticipo, la politicizzazione di questa issue fu prevista da J. Habermas in

66
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

Stato, di cui controllano essi stessi le leve, i partiti – in misura quasi


esclusiva – ricavano le cospicue risorse finanziarie che necessitano alla
loro riproduzione, e per propagandare la propria immagine utilizzano
i canali televisivi di proprietà pubblica, impedendo a eventuali nuove
imprese concorrenti di mettere in discussione il loro oligopolio.
Se non che, trasformare in oligopolio la competizione politica,
spartirsi il mercato, porre altissime soglie d’ingresso a nuovi attori è
stato non solo un’offesa alla democrazia liberale, di cui la competizio-
ne politica è uno dei tratti qualificanti, ma anche un errore politico,
foriero di gravi inconvenienti: vuoi perché ha oggettivamente isolato
la politica, vuoi perché ha indotto gli attori che erano interessati ad
entrare sul mercato a ricorrere a discorsi e metodi assai più ardui da
metabolizzare. È una regola piuttosto antica e solida che quando nuo-
vi attori intendono entrare sul mercato politico si appellino alla demo-
crazia e al popolo, pretendendo essi d’incarnare la democrazia, e di
esprimere l’effettiva volontà popolare, mentre le forze politiche con-
venzionali ne rappresenterebbero una versione addomesticata e di-
storta. Fermo restando che occorrono circostanze alquanto particolari
perché tali appelli al popolo, o ai fondamenti della democrazia, si tra-
scolorino in stile populista, tanto è appunto accaduto con la NDRP.
In effetti, un primo tentativo di sbloccare il mercato politico, in
una società che il benessere del dopoguerra stava ormai pacificando e
omologando, fu compiuto da sinistra e non da destra, in successione
politicizzando tre issues: il distacco generazionale e la condizione stu-
dentesca22, la condizione femminile e il decadimento dell’ambiente.
Sullo sfondo, il tema classico della democrazia, della cittadinanza e
quindi del popolo sovrano fu invece declinato individuando un’ulte-
riore linea di frattura nell’alienazione dei cittadini rispetto alle istitu-
zioni ufficiali della politica (ovvero parlamento, partiti e burocrazie
del welfare), e in particolare nella congenita inclinazione paternalista e
autoritaria di queste istituzioni. L’ultima innovazione consistette infi-
ne nel cambiare forme, luoghi e regole della politica, con l’obiettivo
dei movimenti di restituire la politica ai cittadini, e anzi addirittura di
«ridefinirla»23, cancellando i confini con la società, e quelli tra pubbli-
co e privato, nonché rifiutando ogni forma di direzione e organizza-

Reflexionen über den Begriff der politischen Beteilung, in Id. et al., Student und Politik: eine
soziologische Untersuchung zum politischen Bewusstsein Frankfurter Studenten, Luch-
terhand Verlag, Neuwied 1961 (trad. it. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica, in
Id., L’università nella democrazia, De Donato, Bari 1968).
23
Cfr. C. Donolo, La politica ridefinita, in «Quaderni piacentini», IX, 40, pp. 93-125.
24
Propone questa definizione U. Beck in The Reinvention of Politics: Rethinking Mo-

67
Antipolitica

zione permanente e le procedure tradizionali della delega e della rap-


presentanza. Ebbene, in qualche modo, queste originali forme
d’azione collettiva, politiche e antipolitiche insieme, inventate dai
movimenti sopravvivono tuttora sotto l’etichetta della «società civi-
le», che fa sì concorrenza alla politica ufficiale, ma elude la dimensio-
ne elettorale. Società civile e movimenti tendono cioè a condizionare
orientamenti e scelte di policy, sempre però operando su scala ridotta,
con obiettivi accuratamente delimitati e con una labile struttura for-
male, che è affidata all’azione volontaria di alcuni partecipanti più at-
tivi e che è inevitabilmente destinata a dissolversi dopo aver conse-
guito l’obiettivo.
L’autoconfinarsi dei movimenti sul terreno della «subpolitica»24,
una volta drammatizzata la separatezza della politica ufficiale, senza
che quest’ultima a sua volta riuscisse ad avanzare altra offerta che la
sua ottusa blindatura rispetto alle domande e alle pressioni della so-
cietà, ha non di meno offerto un’opportunità preziosa anche agli at-
tori che erano invece interessati a sbloccare da destra il mercato poli-
tico, i quali hanno per cominciare riciclato in chiave populista (esa-
sperandole all’eccesso) le denunce antiburocratiche e soprattutto an-
tipolitiche dei movimenti. Se non che, la NDRP ha sottratto alla sini-
stra convenzionale anche altre issues cruciali, che essa avrebbe potuto
benissimo trattare – ed era anzi vocata a farlo per tradizione – nel
quadro della sua azione politica ordinaria.
In ordine cronologico se la separatezza e la moralità della politica è
la prima issue, quella del fisco, ovvero dei costi crescenti del welfare,
che i partiti pro-welfare non sono riusciti adeguatamente a giustifica-
re, è la seconda. Una terza issue, specificamente sottratta alla sinistra, è
consistita invece nel dualismo tra centro e periferia, che ha dato origi-
ne a nuove formazioni localiste, e ha alimentato una domanda di de-
centramento federalista degli Stati nazionali, che ha corrotto il signifi-
cato originario di un concetto assai nobile qual è quello di federali-
smo25. Una quarta issue decisiva sono state le paure di mobilità discen-
dente suscitate presso alcuni ceti dal superamento del fordismo,
dall’internazionalizzazione dell’economia e dalla nascita d’istituzioni
sopranazionali di governo: è un’issue, anche questa, che la sinistra e i
dernity in the Global Social Order, Polity Press, Cambridge 1997.
25
R. Biorcio in La Lega come attore politico: dal federalismo al populismo regionalista,
in R. Mannheimer (a cura di), La Lega lombarda, Feltrinelli, Milano 1991, ha proposto
un’altra etichetta ancora. Per un’approfondimento della versione «nobile» del federalismo,
cfr. G. Carnevali, Nazionalismo o federalismo? Dilemmi di fine secolo, Utet, Torino 1996.
26
Cfr. B. R. O. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origins and

68
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

partiti convenzionali avrebbero benissimo potuto trattare e che invece


hanno abbandonato alla NDRP. Come del resto hanno fatto (salvo ri-
scoprirla in un secondo tempo) con l’issue della nazione.
La nazione, com’è noto, non è altro che uno dei tanti perimetri,
nel tempo e nello spazio, che gli uomini tracciano intorno a sé per
raggrupparsi, disciplinare le loro differenze e le lealtà alternative che
li dividono, per distinguersi e per rassicurasi26. Artificialmente trac-
ciati dai politici e dagli intellettuali, i perimetri nazionali sono stati ri-
portati in auge non solo come reazione all’allentamento di altri vin-
coli, in primis le identità di classe, ma anche in rapporto al formarsi in
Europa di nuove istituzioni sopranazionali di governo. Il fine di que-
ste ultime era di rendere più stabili le relazioni tra gli stati e di costi-
tuire nuove opportunità di sviluppo. Solo che le classi politiche na-
zionali non hanno voluto mai ricavarne tutte le implicazioni, dise-
gnando appartenenze e cittadinanze più ampie e creando istituzioni
democratiche di più vasto raggio. Quale che ne sia la ragione, hanno
preferito consegnare buona parte del governo sopranazionale a
un’élite di tecnocrati, sprovvisti di legittimazione democratica. Ciò
tuttavia non solo ha reso facile individuare nella nazione lo spazio
fondamentale della democrazia, ma la ha altresì riabilitata, ripropo-
nendo un armamentario concettuale ormai consegnato a stanche li-
turgie politiche e ai manuali di diritto pubblico. Se la nazione è lo
spazio della democrazia, essa è allora ben viva e va difesa, vuoi quale
spazio democratico da proteggere contro le offensive delle burocra-
zie di Bruxelles e dei nuovi poteri economici globali, vuoi quale spa-
zio identitario. E perché poi non utilizzarla per far concorrenza a
quelle dirigenze politiche che, facendo le cose a metà, l’hanno sia
messa a repentaglio, sia riabilitata?
La NDRP non si è fatta sfuggire l’occasione. Connettendo poi il
tema della nazione, visto che nessuno l’aveva prevenuta con adegua-
te politiche d’integrazione (storico patrimonio, rammentiamolo, dei
partiti di sinistra) alle già ricordate questioni (collegate fra loro forse
più dai discorsi politici che non dai fatti) dell’immigrazione e della
sicurezza.
Ecco dunque, grosso modo, il modesto capitale politico della
NDRP, offertole in gran parte dai suoi stessi concorrenti. Investendolo
accortamente il populismo antipolitico l’ha fatto fruttare, perseguen-
do con successo un disegno di gran lunga più ambizioso di quello dei
Spreads of Nationalism, Verso, London, 1991 (tr. it. Comunità immaginate: origini e fortu-
na dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2000).
27
Cfr. il celebratissimo A. Giddens, The Third Way. The Renewal of Social Democracy,

69
Antipolitica

movimenti civici: ha direttamente sfidato i partiti convenzionali e,


postosi in concorrenza elettorale con essi, è riuscito davvero ad in-
frangerne l’oligopolio.

Quarta ipotesi: l’omologazione dell’offerta politica.


Incalzate dai cambiamenti in corso nelle società occidentali, è im-
pressionante come le forze politiche convenzionali non abbiano sapu-
to aggiornare la propria offerta onde rintuzzare la sfida della NDRP e
sottrarle il pubblico cui si rivolge. Anzi. Ai destabilizzanti effetti del
cambiamento, alla crescente precarietà delle condizioni di vita e di la-
voro, ai malumori alimentati da una politica che è invero assai poco se-
ducente, tali forze politiche hanno opposto un discorso che rassicura
ben poco, se addirittura non concorre anch’esso alla destabilizzazione.
Proviamo a rappresentare la situazione con una metafora: non,
questo è chiaro, dal punto di vista delle grandi imprese, delle istituzio-
ni finanziarie o dei poteri forti dell’economia, bensì da quello dell’uo-
mo della strada, del cittadino e dell’elettore medio, e in specie delle ca-
tegorie più a rischio, la cui condizione è ormai crudamente raffigurata,
dai media e dagli attori politici, come una disperata inevitabile discesa
delle tumultuose rapide dell’economia globale, che tocca affrontare
sulla fragile navicella delle nuove professioni, del lavoro autonomo,
part time, parasubordinato, interinale, nero, in ogni caso flessibile, ov-
vero meglio precario. Di fronte alle rapide di una società senza confi-
ni, e con meno regole (o con regole più flessibili), seppur con accenti
diversi tra loro, i partiti convenzionali spacciano anch’essi per inevita-
bile una discesa tanto rischiosa e vantano semmai la libertà concessa a
ciascuno di scegliere a piacimento il proprio itinerario.
La destra liberale classica non dissimula il suo punto di vista. Stan-
do alla sua offerta politica, la competizione è il modo più appropriato
per produrre ricchezza. Le disuguaglianze ne sono un effetto necessa-
rio e perfino auspicabile. Chi è più bravo giungerà a valle e potrà sal-
varsi, conseguendo – gli si dice – un ricco premio, mentre la soddisfa-
zione dei perdenti consisterà nel fatto che la società si è avvantaggiata
perché i migliori, selezionati dalla gara, si saranno arricchiti in pro-
prio, ma avranno anche arricchito la società nel suo insieme.
Non molto diversamente deve tuttavia suonare agli elettori l’offer-
ta della sinistra. Dimenticate le sue antiche strategie integratrici, una
volta dichiarato il fallimento irreversibile delle antiquate soluzioni
welfariste, essa non ha compiuto sforzi politicamente e culturalmente
troppo impegnativi per rassicurare e proteggere chi viene trascinato
dalle acque che fragorosamente procedono verso valle. Al più (si veda

70
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

il caso di un intellettuale illustre come Giddens, patrocinatore ascolta-


tissimo della «terza via»27) si avanza a tutti l’offerta di frequentare corsi
di rafting, onde chi dovrà discendere le rapide sia più attrezzato a farlo.
Un miglioramento quantitativo e qualitativo della formazione sco-
lastica, professionale, universitaria, non è di per sé disprezzabile. Una
società più istruita è presumibilmente una società migliore. A parte il
fatto però che nel discorso pubblico il miglioramento della formazio-
ne è ormai unicamente finalizzato alle necessità delle imprese (talché il
decadimento della «scuola» in senso più nobile, quella che fornisce
una formazione critica e non strumentale, è sotto gli occhi di tutti,
non solo in Italia), come mai i partiti della sinistra hanno anch’essi ri-
nunciato alla replica più ovvia, e per essi più congeniale? Come mai
nessuno propone né di predisporre chiuse che regolino la portata delle
acque, né di allestire lungo il percorso punti di sosta e di ristoro, e
nemmeno di approntare efficienti squadre di salvataggio e via di se-
guito? Come mai nessuno prova a convincere chi scende dell’oppor-
tunità di cooperare, di scambiarsi informazioni e di affrontare insieme
con altri le rapide su imbarcazioni più grandi e più robuste?
E come non pensare a questo punto, che, oltre ai fattori strutturali
che hanno complicato la vita collettiva e indebolito la coesione sociale,
seminando insicurezza ed angoscia, il diffondersi di sentimenti propi-
zi al messaggio della NDRP non sia anche effetto della sprovvedutezza
e arrendevolezza dei suoi concorrenti, in particolare di quelli situati
sulla sinistra dello spazio politico, che poco fanno per offrire rassicu-
razioni credibili ad un elettorato che spesso li ha fedelmente votati per
anni? I partiti di sinistra non rivendicano più niente. Nell’ipotesi mi-
gliore essi governano. Senza programmi e senza idee che ne qualifichi-
no il profilo culturale. Non sarà proprio l’assenza di convincenti of-
ferte alternative sia tra le forze politiche convenzionali, sia fra queste
ultime e la NDRP, una delle ragioni per cui una quota di elettori, quelli
socialmente e culturalmente meno attrezzati e che più temono d’esser
travolti dalle minacciose rapide della società globalizzata, valutano
con interesse l’offerta identitaria e protettiva avanzata da quest’ultima,
la quale detta talora perfino l’agenda politica? Spiccano sopra tutti gli
altri gli esempi dell’immigrazione e delle politiche di law and order:
quanti sono i partiti convenzionali che sono riusciti a sottrarsi
all’identificazione fra criminalità e immigrazione che la NDRP ha susci-

Polity Press, Cambridge 1998, dove il «rinnovamento» è ironicamente divenuto «rifonda-


zione» nella traduzione italiana: La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialde-
mocrazia, Il Saggiatore, Milano 1998.
28
Si veda l’impietosa riflessione di L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raisons d’agir,

71
Antipolitica

tato? Quanti fra tali partiti sfuggono ormai alla suggestione della «tol-
leranza zero» importata dalla NDRP?28 E quanti hanno il coraggio di
proporre, onde prevenire i comportamenti devianti, dispendiose poli-
tiche integratrici, già delegittimate d’altro canto dal pressoché unani-
me accoglimento dell’ortodossia neoliberale?

Quinta ipotesi: la generalizzazione del populismo antipolitico.


In questi ultimi tempi il populismo antipolitico è in realtà divenuto
moneta corrente nel discorso politico quotidiano, da qualsiasi parte es-
so provenga. Esauritesi le ideologie, le grandi narrazioni e rappresenta-
zioni del mondo e della storia, a corto d’altri argomenti propositivi e
polemici mediante i quali mobilitare gli elettori, da parte delle dirigen-
ze politiche convenzionali s’è fatto un gran parlare di popolo e d’inno-
vazioni istituzionali e politiche idonee a permettere al popolo di far
ascoltare più e meglio la propria voce29. Tutte le forze politiche conven-
zionali, di destra e di sinistra che siano, mentre da una parte tributano
continui omaggi al mercato, e ragionano in termini manageriali, dall’al-
tra, onde riscattare la scabra prosaicità dell’economia e della loro poli-
tica, surrogano il nucleo passionale della politica ideologica aderendo
appieno al modello della democrazia del leader30, ovvero all’evoluzione
personalistica della competizione politica, in origine stimolata – stando
a quanto sosteneva a suo tempo Otto Kirchheimer – sia dall’evoluzio-
ne dei partiti, sia dall’impetuoso ingresso dei media sulla scena politica.
In particolare, i dirigenti politici occidentali hanno adottato un nuovo
stile, quel «populismo dei politici», di cui M. Canovan parlava già
all’inizio degli anni ottanta, con riferimento soprattutto alle formazio-
ni di destra, il quale ha comportato una progressiva, ma radicale ride-
finizione dell’immagine che i cittadini hanno sia dell’autorità, sia della
democrazia: dove l’elemento che sopra ogni altro spicca è rappresen-
tato dagli appelli ripetitivamente rivolti anche dagli attori politici con-
venzionali alla volontà popolare, oltre che dalle loro denunce degli in-
trighi e delle beghe inutili della politica e della sua scadente moralità.
Il populismo antipolitico nasce nel cuore stesso della politica, la quale
vi ha aggiunto un ultimo tocco con i maldestri tentativi effettuati dai

Paris 1999.
29
È, questo, uno dei quattro tipi di populismo «politico» indicati da Canovan in Populi-
sm cit., pp. 351 sgg.
30
L’avvento di de Gaulle al potere stimolò in Francia le riflessioni contenute nell’ormai
classico L. Hamon - A. Mabileau (a cura di), La personnalisation du pouvoirs: entretiens de
Dijon, Presses universitaires de France, Paris 1964. In Italia, chi ha più riflettuto sul punto è L.
Cavalli: tra i suoi scritti cfr. Governo del leader e regime dei partiti, il Mulino, Bologna 1992.
31
Cfr. M. Charlot, Doctrine et image. Le thatcherisme est un populisme?, in J. Leruez

72
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

leader di rinverdire la propria popolarità mediante gesti che vorrebbe-


ro sì ricondurli in mezzo al popolo, senza però troppo preoccuparsi
di occultare i loro cospicui privilegi di rango.
Tralasciando altri esempi meno prossimi nel tempo, tra i politici
convenzionali che hanno elaborato un discorso populista e antipoliti-
co di questa fatta va così rammentata Margaret Thatcher, con il suo
fondamentalismo antistatalista e i suoi ripetitivi appelli al merito e alle
virtù robuste della middle class, in opposizione non solo alla vecchia
leadership del suo partito e all’upper class da cui proveniva e che la
spalleggiava, ma anche alle burocrazie sindacali, che avrebbero ad un
tempo stravolto la funzionalità del mercato e quella della democrazia
(per non parlare della guerra scatenata con l’Argentina per recuperare
le isole Falklands)31. All’incirca nei medesimi anni Ronald Reagan
l’imitava oltre oceano, non solo ossessivamente attaccando l’«Impero
del male», ma anch’egli esaltando le virtù della classe media. E lo stes-
so hanno fatto – solo con minor smalto e minor efficacia – tantissimi
tra i dirigenti politici occidentali.
Larghissimo spreco di demagogia e retorica antipolitica si osserva
anche da parte della classe politica francese. Contrapponenedo risolu-
tamente la sua figura ai partiti, de Gaulle aveva a suo tempo costruito
il proprio personaggio, offrendo ai suoi successori un modello da essi
maldestramente imitato: dall’aristocratico Giscard d’Estaing, che a
metà anni settanta per andare incontro al popolo non disdegnava
d’imbracciare la fisarmonica, né di cenare in casa della gente comune,
alla demagogia di Mitterrand, che contestava a Chirac, in un celebre
faccia a faccia televisivo, il monopolio dell’affetto per gli animali do-
mestici32, fino all’esibito repubblicanesimo dello stesso Chirac, che alla
vigilia delle elezioni presidenziali del 1995 scriverà nel più puro stile
antipolitico: «Il popolo è consapevole di non esser preso in considera-
zione nei ragionamenti delle gerarchie che dovrebbero governarlo…
Di qui il suo rigetto per un sistema completamente dissociato dalla
realtà. Il popolo è stato dimenticato da una democrazia della finzione
e delle apparenze: ecco la causa principale del malessere francese»33.
Né tramontata Margaret Thatcher, il thatcherismo è del tutto tra-
montato in Gran Bretagna. O meglio: ha lasciato una cospicua eredità

(a cura di), Le Thatcherisme: doctrine et action, La documentation française, Paris 1984, pp.
19-21.
32
Cfr. Hermet, Les populismes dans le monde cit., p. 433.
33
Cfr. J. Chirac, La France pour tous, NiL Éditions, Paris 1994, p. 39, cit. in Mény -
Surel, Par le peuple, pour le peuple cit., p. 78.
34
A. Lipow - P. Seyd, Political Parties and the Challenge to Democracy: From Steam-

73
Antipolitica

in fatto di stile. Al contagio neopopulista (o «tecno-populista»34) non


è sfuggito nemmeno il Partito laburista, il quale, ribattezzato New
Labour, è stato subito colpito da un’incontenibile smania per la de-
mocrazia diretta: l’ha colpito all’interno, dove impazzano le primarie,
e l’ha colpito all’esterno. La devolution in Scozia, nel Galles e in Irlan-
da del Nord è stata preceduta da consultazioni referendarie, così come
s’è data voce al popolo per introdurre a Londra l’elezione diretta del
sindaco. E il ricorso al referendum è promesso per ogni innovazione
istituzionale che verrà introdotta nel paese: dall’adesione alla moneta
unica alla creazione di nuove assemblee regionali. Così, mentre il lea-
der del Labour ama proporsi agli elettori come un politico non pro-
fessionale, pronto a sottrarsi all’ufficialità e a rientrare tra la gente co-
mune prendendosi un congedo di paternità e cambiando pannolini, il
popolo nel suo complesso, senza più scomode divisioni di classe, di
reddito, di condizioni di vita, è stato collocato al centro di un discorso
politico intriso di suggestioni comunitariste e spoliticizzanti, che deli-
beratamente prescinde dalle divisione partitiche. Mentre a orientare le
scelte di policy provvedono non più le preferenze e le priorità pro-
grammatiche del Labour, bensì un’astratta idea di buon governo, die-
tro cui si dissimula a malapena il maturare effettivo delle decisioni en-
tro ristretti circuiti di esperti, o di portavoce degli interessi forti, di-
scretamente insediati nel cuore delle istituzioni35.
Ebbene, non sarà stata questa retorica antipolitica, diffusa dalla
leadership politica (la quale ha talora perfino l’ipocrisia di voler solle-
vare contro se stessa il tema della sua moralità), un moltiplicatore de-
cisivo della delusione dei cittadini? E non avrà la classe politica indot-
to in questo modo un disastroso effetto d’inquinamento del senso co-
mune, che ha cambiato i modelli con cui la democrazia veniva intesa
dal pubblico, predisponendo di conseguenza il terreno per la NDRP? E
non sarà stata da ultimo accesa, a favore della NDRP, fortificata alla sua

Engines to Techno-Populism, in «New Political Science», 33-4, 1995-96.


35
Cfr. P. Mair, Partyless Democracy. Solving the Paradox of New Labour?, in «New
Left Review», 2000, 2. C‘è un’elaborazione teorica dietro le posizioni del New Labour e
dei comportamenti di Tony Blair: G. J. Mulgan, che dirige l’autorevole think tank ‘‘De-
mos’’ sosteine che la tecnologia sta trasformando definitivamente la democrazia rappresen-
tativa e che quindi le forme della politica moderna sono in irreversibile declino. Per parte
sua, vorrebbe sostituirle i partiti, formali e gerarchici, con una politica «smilza» e agile: cfr.
G. Mulgan, Politics in an Antipolitical Age, Polity Press, Cambridge 1994. C’è infine da do-
mandarsi se questo generalizzato populismo, incarnato dai partiti convenzionali, non sia,
insieme al sistema elettorale, uno dei motivi per cui la Gran Bretagna è rimasta immune dal
contagio neopopulista.
1
È il caso in particolare di Mario Segni, in quel momento sulla cresta dell’onda. È ovvio

74
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

esclusione, una sostanziosa ipoteca in materia di moralità pubblica,


dando altresì credito aggiuntivo al suo impegno a ridisegnare le regole
della politica, onde garantire al popolo la possibilità di far valere, sen-
za adulterazioni di sorta, la propria volonta?

5. Una conclusione all’italiana.


Se il populismo antipolitico, nelle sue varie manifestazioni, può ri-
tenersi ormai un male diffuso dappertutto (e peraltro non recentissi-
mo: basti pensare a certi accenti del gollismo), non altrettanto può dirsi
della NDRP. Ne sono rimasti immuni la penisola iberica, forse vaccinata
dal recente passato autoritario, e le isole britanniche. Ne sono rimasti
colpiti, ma non drammaticamente finora, la maggior parte dei paesi eu-
ropei, dove in genere essa è un fenomeno grave ma dopotutto margi-
nale e locale: più una forma di protesta che non un credibile candidato
alle funzioni di governo. Due casi spiccano invece all’incontrario. Il
primo, lo si è già ricordato, è quello dell’Austria, dove i Liberali hanno
allargato progressivamente il proprio seguito, fino a ottenere alle ulti-
me elezioni il 30 per cento dei voti espressi, accomodandosi quindi alla
guida del paese. Il secondo caso è quello dell’Italia, dove non solo la
NDRP è riuscita ad attrarre, in ancor più rapida progressione, un seguito
elettorale che non ha eguali in Europa, ma ha anche compiuto da sola
una prima, effimera, esperienza di governo, che, dopo una pausa dura-
ta cinque anni, ha iniziato baldanzosamente a ripetere, relegando in
blocco all’opposizione quasi tutte le forze politiche convenzionali.
Un successo così cospicuo merita ovviamente una spiegazione ad
hoc. Com’è mai potuto accadere? La risposta più ovvia a tale interro-
gativo rinvia naturalmente alla micidiale crisi di legittimità che, tra il
1992 e il 1994, ha travolto il sistema dei partiti. Tale risposta tuttavia
non spiega perché proprio la NDRP abbia colmato il vuoto politico
apertosi in quei frangenti. Una spiegazione aggiuntiva è che Berlu-
sconi (insieme ai suoi alleati), ovvero la NDRP all’italiana, ha potuto
avvantaggiarsi, quale strumento di penetrazione politica, dall’enorme
e inedito potenziale comunicativo che gli offrivano sia le catene tele-
visive di cui era proprietario, sia la sua agguerrita organizzazione
aziendale nel campo della pubblicità, sia nell’insieme la sua condizio-
ne economica. Anche questo è pero sufficiente a spiegare perché un
discorso come il suo sia così prepotentemente riuscito a far breccia in
un uditorio educato da mezzo secolo di vita democratica, oltre che
segnato anch’esso dell’esperienza del fascismo?
In realtà se Berlusconi è riuscito così rapidamente a sbaragliare

75
Antipolitica

ogni potenziale competitore che si rivolgesse all’elettorato moderato1,


ciò in primo luogo si deve alle forme in cui s’era sviluppata la crisi in
cui egli è intervenuto e alle ragioni che l’hanno provocata. Detto in
termini molto semplificati e rozzi: gli italiani ormai da un pezzo
aspettavano l’uomo che li avrebbe tratti dagli impicci in cui li aveva
cacciati la vecchia classe politica repubblicana. La quale, paradossal-
mente, aveva essa stessa non solo amplificato e drammatizzato a di-
smisura gli impicci, ma aveva anche suscitato l’attesa di un leader in
grado di salvare gli italiani.
Un tratto assolutamente specifico contraddistingue il caso italiano
negli anni ottanta. Qui, come da nessuna altra parte, l’appello al po-
polo sovrano, l’esaltazione dell’investitura popolare delle autorità di
governo, ma anche delle consultazioni referendarie, e l’esecrazione
per contro della «partitocrazia», dei partiti e delle loro mediazioni,
parlamentari e non, hanno costituito, ad opera delle stesse forze poli-
tiche convenzionali, il leit-motiv della vita politica nazionale per qua-
si un quarto di secolo2.
Quello di fine anni settanta era un quadro politico in cui gli equili-
bri elettorali erano saldissimi e dove il ricambio della classe politica
aveva ormai rigettato i ritmi della storia per adottare quelli della geo-
logia. Nessuno, si badi, vinceva le elezioni illegittimamente. Ma il
troppo prolungato persistere del quadro politico è con ogni probabi-
lità una spiegazione sufficiente del perché, essendo ormai a corto di
proposte in grado di smuovere l’elettorato, alcuni attori abbiano sfer-
rato un’offensiva antipolitica massiccia come da nessun’altra parte, su
di essa innestando la proposta di riscrivere le regole del gioco, ovvero
di riformare le istituzioni, onde accelerare il turnover alla guida del
paese. Il paradosso è che questo racconto, che narrava di una demo-
crazia gravemente malata, perorando in pari tempo le ragioni del po-
polo sovrano, tradito e espropriato dalla partitocrazia, l’hanno elabo-
rato, con l’appoggio compiacente dei media sempre in cerca di som-
movimenti spettacolari, proprio cospicui segmenti della partitocrazia
medesima, i quali, grazie ad esso, sono riusciti ad assumere un ruolo di
primo piano: dal Psi di Craxi ad alcuni backbenchers Dc ai quali erano
vietati i quartieri alti del potere, tra cui Mario Segni, fino al Partito co-

che il successivo consolidamento di Forza Italia implica un discorso più complesso, che deve
tener conto sia della sua capacità di ereditare le vecchie reti di relazioni, sia di quella di costi-
tuirne di nuove, sopratutto affinando l’impiego del mezzo televisivo.
2
Quest’ipotesi è argomentata nel nostro Antipolitica. Alle origini della crisi italiana,
L’Ancora, Napoli 2000.
3
Cfr. S. Belligni, Magistrati e politici nella crisi italiana. Democrazia dei guardiani e

76
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

munista di Occhetto (poi Pds), che, al termine di una lunga fase di de-
clino, s’è convertito alla causa delle riforme costituzionali e alla critica
antipartitocratica, anche a costo di coinvolgere se stesso e la sua storia.
In nome del popolo sovrano, per un buon tratto di tempo in Italia
s’è fatta politica pressoché esclusivamente in questo modo: denun-
ciando i misfatti della politica, l’inconcludente tortuosità delle media-
zioni tra i partiti, l’autoreferenzialità di questi ultimi, opponendo alle
lentezze, alla corruzione, agli sprechi dei politici di professione, e alle
inefficienze delle burocrazie pubbliche, di volta in volta la decisione
rapida ed efficace di un leader direttamente investito dagli elettori, le
sane e robuste virtù dei «tecnici» e dell’imprenditoria privata, la spon-
taneità e la moralità della «società civile». Non si vuol negare con que-
sto il logoramento del costume politico che visibilmente affliggeva la
politica italiana. S’intende sottolineare semplicemente l’impatto che
discorsi cosiffatti – e da ultimo la riduzione di ogni problema alla
«questione morale» – hanno avuto, interagendo con quell’oscura, ma
non ingenua, entità che è la pubblica opinione, sugli elettori: verosi-
milmente movente non ultimo del crollo verticale e repentino che ha
travolto tra il 1992 e il 1994 l’intero sistema dei partiti.
In pari tempo, un secondo tema si stagliava sullo sfondo. Di tutti i
grandi paesi d’Europa l’Italia era il solo in cui le terapie della Trilate-
rale avevano trovato solo parzialissima ed improvvisata attuazione,
sicché l’assetto istituzionale era rimasto, pur con qualche significativa
correzione, quello dettato dall’Assemblea Costituente nel dopoguer-
ra, in tutt’altro clima politico e sociale. Vi sono molti e non infondati
motivi per criticare le formule della Trilaterale. Ma si può pure ben
comprendere perché larghi settori della classe politica e della sfera
pubblica se ne siano appropriati, mirando a sanare l’eccezionalità ita-
liana mediante l’introduzione di un assetto istituzionale che promette
di accrescere stabilità ed efficienza dell’azione di governo.
Il problema è che il fondamentale, e assai dubbio, risultato di una
così furiosa denigrazione antipolitica è stato ben più che l’agognato ri-
cambio della classe dirigente politica: è stato una devastante crisi di le-
gittimità e una fulminea e travolgente ascesa delle formazioni della
NDRP. Questi due fenomeni non vanno, sia chiaro, imputati unica-
mente al clima di sovreccitazione antipolitica suscitato dai partiti con-
venzionali, che pure ha ampiamente dissodato il terreno. L’inopinato
collasso dei partiti che avevano retto il governo del paese per quasi
mezzo secolo l’hanno in primo luogo provocato i loro errori e le loro
malefatte, di cui la magistratura li ha chiamati alfine a rispondere, non
senza arrogarsi pubblicamente un ruolo di supplenza pur esso gravido

77
Antipolitica

di contenuti antipolitici3. Se non che, oltre agli errori commessi dai


partiti, alle denunce pubbliche della magistratura che li perseguiva – e
al potenziamento del messaggio di Berlusconi permesso dalla posizio-
ne da lui detenuta nel mondo della comunicazione televisiva – deve
esserci qualche altra ragione che spiega come mai il discorso antipoli-
tico abbia incontrato così poche resistenze, trovando un’audience infi-
nitamente più ampia e variegata di quella, per lo più composta da «or-
fani del benessere», che trova in altri paesi.
L’ipotesi avanzata da chi scrive è che un peso non indifferente
l’abbia avuto il discorso spregiudicatamente antipolitico elaborato
dagli stessi attori politici convenzionali, che poi da esso si sono tro-
vati intrappolati: apparendo debilitati – e poco credibili – al momen-
to di contrastarne le versioni più pericolose. Ma al riguardo ha parec-
chie eccellenti ragioni Salvatore Lupo quando chiama in causa i pre-
cedenti storici che predicazione e sentimenti antipolitici vantano nel
nostro paese, suggerendo una qualche continuità con l’antiparlamen-
tarismo che vi fiorì rigoglioso tra l’ultimo quarto del secolo decimo-
nono e il primo scorcio del ventesimo, e di cui il fascismo raccolse
con gran vantaggio l’eredità4. L’antiparlamentarismo italico non fu un
fenomeno isolato: fu uno dei tanti antiparlamentarismi che circolava-
no per l’Europa a cavallo tra i due secoli. Ma forse nell’Italia di questi
anni si sono presentate condizioni più favorevoli che altrove perché
quel virus potesse risvegliarsi.
I contenuti dell’antiparlamentarismo storico erano alquanto diver-
si da quelli dell’antipolitica odierna. Ma solo fino a un certo punto.
Incarnato da Gaetano Mosca, da Pasquale Turiello e da tanti altri an-
cora, l’antiparlamentarismo era congenitamente antidemocratico ed
elitario. Paventando l’ingresso delle masse nella vita politica, esso in-
tendeva impedire l’allargamento del suffragio e imbrigliare le istitu-
zioni rappresentative a beneficio dell’esecutivo e della corona. Di con-
tro, l’odierno populismo antipolitico non ha messo in discussione le
forme della democrazia ed è arduo definirlo elitista, tenuto conto della
sua preferenza per le acclamazioni plebiscitarie. Ciò non toglie che
anche per esso l’obiettivo fondamentale sia quello d’aggirare le istitu-

neopopulismo, in «Working Papers», Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collet-


tive (Polis), Università del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro», Alessandria 2000.
4
Cfr. S. Lupo, Attenzione: questo virus viene da lontano, in «Reset», 2000, 65, pp. 10-
2. Più diffusamente però si veda Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli,
Roma 2001, dove Lupo esordisce sottolineando la continuità tra fascismo e discorso anti-
parlamentare.
5
Rivisita questa concezione – e le sue trasformazioni – B. Manin in Principes du gouver-

78
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

zioni rappresentative, e le loro estensioni partitiche, nonché di conse-


gnare il potere ad un nuovo establishment, magari rumorosamente ac-
clamato dal popolo sovrano e propenso a lusingarlo demagogicamen-
te e ad ammaliarlo attraverso i teleschermi, ma non più ampio, né più
aperto dell’establishment convenzionale, e anzi ancor più circoscritto,
pur se meno esposto a pressioni dal basso: dove in questione non so-
no le lobbies più forti e più potenti sul piano economico, bensì i partiti
e le organizzazioni sindacali.
Se le cose stanno davvero in questo modo, è naturale concludere
ponendo qualche interrogativo imbarazzante. Dati i precedenti che
esso vanta in Italia, non era una manovra a dir poco avventurosa far
proprio il discorso antipolitico, amplificarlo e legittimarlo, in misura
assai maggiore che in altri paesi, dove pure s’è commesso il medesimo
peccato? Da parte di alcune forze politiche convenzionali (e di alcuni
intellettuali, nonché dei media), quanto è stato saggio sottovalutare gli
antichi demoni del moderatismo nazionale (d’impronta marcatamente
antiparlamentare e antipartitica), ignorando le prove di vitalità che
quei demoni avevano offerto più volte, nonostante gli sforzi fatti dalla
democrazia repubblicana per esorcizzarli? Com’era possibile dimenti-
care la persistenza di una corrente antiparlamentare e antipolitica
sgangheratamente incarnata dal qualunquismo (troppo prossimo al fa-
scismo per avere successo), quindi dalle polemiche contro la partito-
crazia distillate negli anni sessanta da Maranini sulle colonne del più
letto tra i quotidiani italiani, più tardi riciclate da Marco Pannella,
nonché dalla «maggioranza silenziosa» che si raccoglieva nelle piazze
a metà anni Settanta, oppure ancora il «piano di rinascita democrati-
ca» elaborato nella medesima temperie da Licio Gelli e dalla Loggia
P2, ampiamente infiltrata tra i gruppi dirigenti del paese? Non solo il
virus dell’antiparlamentarismo, che aveva offerto al fascismo tanti ar-
gomenti, era visibilmente ancora in circolo, ma molti indizi avrebbero
dovuto suggerire che i ceti dirigenti, la pubblica opinione e il pubblico
dei cittadini, ne erano tutt’altro che definitivamente immunizzati.
Non è una gran consolazione. Molti errori che la classe politica e
gli intellettuali italiani hanno commesso in questi anni li condividono
coi loro confratelli europei. La differenza fondamentale è che la de-
mocrazia italiana era, per ragioni prossime (la debolezza del quadro
politico) e remote (la tradizione antiparlamentare), più vulnerabile di
altre. Anziché adoperarsi per rafforzarla, e rinnovarla, mediante un
adeguato investimento d’idee concrete, e magari d’ideali e passioni
più sobrie, le élites politiche e intellettuali le hanno niente meno pre-
scritto che una palingenesi morale, iniettandole, con le migliori inten-

79
Antipolitica

zioni, dosi da cavallo di populismo antipolitico. Che in un momento


particolarmente problematico com’è stato il tornante dei primi anni
novanta – quando gli accordi di Maastricht hanno fatto venire al pet-
tine alcuni nodi irrisolti – ha prodotto conseguenze disastrose. Sic-
ché, in conclusione, senza lasciarsi andare per questo a fuorvianti
profezie apocalittiche, c’è da supporre che negli anni a venire occor-
rerà in Italia adoperarsi non poco affinché la democrazia non si de-
gradi e decada ancor di più.
In difficoltà non v’è comunque solo la democrazia italiana. Ma la
democrazia in generale. C’è una singolare parentela tra i mali che l’af-
fliggono e il morbo della mucca pazza: provocato, com’è risaputo,
dall’introduzione di metodi d’allevamento spregiudicati pur di ridur-
re i costi e aumentare i profitti. Lo stato di debolezza in cui versano i
regimi democratici può ritenersi in primo luogo un effetto parados-
sale – e non adeguatamente compreso e contrastato – del successo
della democrazia, la quale, sospinta dalla passione ideologica che ani-
mava le forze politiche, aveva conseguito straordinari risultati in ter-
mini di sviluppo, di libertà, di benessere individuale e collettivo. Se
non che, archiviati questi risultati, dalla democrazia si è preteso trop-
po, sottoponendola a stress inaccettabili. Bene o male, i cittadini de-
mocratici sono cresciuti: sono mediamente più ricchi, più istruiti, la
loro vita media si è allungata, sono più liberi e più in grado di dispor-
re essi stessi della loro esistenza, ma sono anche divenuti più esigenti.
Non sono politicamente più informati, giacché la loro emarginazione
dalla sfera pubblica li scoraggia dal farlo. Ma comunque pretendono
di più. Invece, anziché considerarli con più rispetto, le classi dirigenti
democratiche hanno solo aggiornato e apparentemente democratiz-
zato lo spettacolo, trattandoli, e trattando la democrazia con una su-
perficialità a dir poco provocatoria.
Ritenuto spessissimo scomodo ed ingombrante, il government by
discussion5 è il principio, in verità piuttosto impegnativo, su cui si è
fondata l’organizzazione politica della modernità: inventato dal libe-
ralismo, che l’ha applicato attraverso la rappresentanza e i diritti indi-
viduali, il suffragio universale l’ha costretto ad un faticoso, ma dopo
tutto non fallimentare6, sforzo di adattamento, seppur prevedendo un
nement représentatif, Calmann-Lévy, Paris 1995 (di questo testo era in precedenza apparsa
una versione abbreviata in italiano: cfr. La democrazia dei moderni, Anabasi, Milano 1992).
6
Leibholz, in Parteienstaat und Repräsentative Democratie cit., sottolinea per la verità i
vincoli, a suo dire ferrei, che i partiti di massa pongono all’autonomia dei rappresentanti e
alla loro libertà di discussione, segnando una netta discontinuità tra democrazia parlamen-
tare e democrazia dei partiti. A parte le smentite che la pratica ha opposto a queste idee,
Leibholz, che pure ritiene i partiti una forma organizzativa necessaria alla democrazia, di-

80
Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia

mix di persuasione, discussione e di pedagogia (o di leadership) oltre


a una profonda ridefinizione dei luoghi della discussione pubblica.
Tanto non ha comunque rimosso l’ostilità al government by discus-
sion, che è la ragione ultima non solo di tutti gli antiparlamentarismi,
ma anche di un’ostilità ai partiti tanto antica, quanto frequente, e di
tutte le scorciatoie, rozze o eleganti che siano, che da circa due secoli
si propongono per aggirarlo. Esauritisi, o dispersi i grandi conflitti,
consumatesi le ideologie, rattrappitisi i partiti, l’antica avversione al
government by discussion è anzi tornata ad infiammarsi. Ebbene, an-
ziché riadattarlo e rivitalizzarlo, le classi dirigenti democratiche han-
no consentito alla discussione pubblica di disperdersi e di allonta-
narsi dalle istituzioni, preferendo imboccare la scorciatoia dell’eliti-
smo neoliberale, che combina formali omaggi populisti e un sostan-
ziale disprezzo per il cittadino comune7. Invitando i cittadini – quelli
che potevano – ad arrangiarsi ed arricchirsi, ma lasciandoli in larga
parte indifesi dinnanzi alle temibili sfide che imponeva il cambia-
mento, e per giunta togliendo loro ogni illusione residua. Quando li
si sarebbe dovuti responsabilizzare maggiormente, s’è ritenuto che i
cittadini li si potesse appagare mettendo in scena qualche esibizione
demagogica o qualche rito plebiscitario, beffardamente inneggiando
al popolo sovrano, e che, una volta isolata la politica dai cittadini
stessi, l’essenziale fosse porre l’economia al riparo dei conflitti redi-
stributivi. Inaspettatamente invece s’è diffuso un morbo oscuro, la
mucca pazza della democrazia, di cui disincanto, delusione, risenti-
mento e cinismo costituiscono la sostanza, mentre l’astensionismo e
l’irrequietezza elettorale sono le manifestazioni più frequenti e la
Nuova destra radical-populista, la più sgradevole, anche se non ne-
cessariamente la più rischiosa.

mentica come i partiti stessi fossero luogo di discussione, che è precisamente in punto solle-
vato da Manin in Principes du gouvernement représentatif cit., pp. 140-9.
7
Viviamo in un mondo irto di paradossi, che è sempre bene sottolineare. La tesi del di-
sprezzo che le élites nutrono per il cittadino comune è sostenuta da un autore della sinistra
statunitense, Christopher Lasch, che viene considerato un teorico del neo-populismo (cfr.
The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, Norton & co., New York 1995,
trad. it. La ribellione delle élites: il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 1995).
Ma è un populismo, il suo, ispirato alla tradizione americana, ben diverso da quello di cui si
è detto in queste pagine, in primo luogo perché estraneo ad ogni tentazione plebiscitaria.
Tanto non ha impedito alla destra neo-populista in Italia di farsi forte del suo punto di vi-
sta per rivendicare i propri metodi e il proprio genuino radicamente popolare (cfr. il nume-
ro di «Ideazione», 2000, 2, dedicato a Le virtù del populismo). Dopo di che chi più pecca di
elitismo finisce per essere la sinistra, le cui aperture populiste appaiono ancor più insincere
e strumentali di quelle della destra.

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