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ANDREA BALZOLA
ANNA MARIA MONTEVERDI
LE ARTI
MULTIMEDIALI
DIGITALI
Storia, tecniche, linguaggi, etiche
ed estetiche delle arti del nuovo millennio
Prima edizione: novembre 2004
Seconda edizione: settembre 2007
ISBN 978-88-11-13086-4
www.garzantilibri.it
1. La questione terminologica
3. Continuità o rottura?
4. Il pregiudizio tecnologico
5. Il progetto editoriale
Sulla base delle riflessioni fin qui svolte, emerge un’impostazione teo
rica che intreccia due temi fondamentali: l’interazione creativa dei lin
guaggi e il rapporto tra arte e nuove tecnologie che sostiene, permea e
sviluppa questa interazione. Il discorso prende quindi avvio dal primo
tema e sfocia progressivamente nel secondo.
La struttura del volume prevede una prima parte dedicata alla «conti
nuità», cioè all’individuazione delle radici storico-culturali e dei «pre
cursori» teorici e artistici – sia singoli che movimenti e tendenze – del-
l’interazione creativa dei linguaggi e del rapporto tra arti e nuove tec
nologie. Si sviluppa secondo un percorso cronologico che parte dal ro
manticismo e giunge alle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta
del Novecento, e con un’articolazione tematica che pur distinguendo i
diversi ambiti disciplinari si apre fin da subito a una prospettiva interdi
sciplinare.
La seconda parte del volume è invece dedicata alla «rottura», cioè al
l’individuazione degli elementi più significativi di novità e di disconti
nuità che caratterizzano il rapporto tra le arti e le nuove tecnologie da
gli anni Ottanta fino a oggi. Questa ricognizione è stata svolta partendo
ancora dai diversi ambiti disciplinari, i quali tendono però, sempre più,
a incrociarsi e interfacciarsi, diventando aree linguistiche-espressive di
frontiera. I contributi hanno angolazioni diverse, che riflettono le spe
cifiche esperienze di chi scrive ma anche la molteplicità delle chiavi di
lettura possibili di una realtà «sperimentale», in costante e accelerata
metamorfosi. Ci sono quindi analisi più orientate sull’evoluzione tecni
ca, altre sulle innovazioni comunicative e linguistiche, altre ancora sulle
trasformazioni artistiche ed estetiche e infine sulle implicazioni formati
ve ed etiche.
La terza parte del volume raccoglie invece due sezioni antologiche. La
INTRODUZIONE 20
prima è un’antologia cronologica, curata da Anna Maria Monteverdi, di
una quarantina di opere, a ciascuna delle quali è dedicata una breve
scheda. Opere più note e meno note, appartenenti a diversi generi e a
diverse generazioni, che abbiamo considerato emblematiche rispetto ai
temi e ai percorsi artistici descritti nel libro. Senza ovviamente la prete
sa di farne una campionatura obbiettiva o di merito, ma con l’intendi
mento di integrare i percorsi storici e teorici con esempi concreti, e di
fornire una sintesi informativa di alcune tappe fondamentali della ri
cerca artistica in oggetto.
La seconda antologia, curata dai due autori, è invece un percorso ra
gionato e tematico di brevi frammenti tratti da scritti inediti ed editi
(perlopiù non tradotti o difficilmente reperibili) di artisti e studiosi ita
liani e stranieri, che integrano i saggi raccolti nelle prime due parti del
volume e contribuiscono in modo significativo a delineare una nuova
estetica delle arti tecnologiche e multimediali, dalle loro radici storiche
a oggi. Chiude il volume una bibliografia organizzate tematicamente.
1
In W.H. Wackenroder, Fantasie sulla musica, a cura di Enrico Fubini, Discanto edi
zioni, Fiesole 1981.
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delle opere plastiche senza musica – e si dovrebbe sempre ascoltare la
musica in sale finemente decorate. Così non si dovrebbe mai godere del
la poesia senza che a essa siano unite musiche e decorazioni» (Novalis).
L’inedita centralità della musica nello spirito romantico ne fa un po
lo di confronto e di attrazione per le altre arti. Uno dei più ferventi fau
tori di questo slancio innovatore è Wilhelm Heinrich Wackenroder, sin
golare figura di scrittore eclettico e aspirante musicista (morto a soli
venticinque anni, proprio nell’anno di fondazione della rivista «Athe
naeum»). In anticipo rispetto ai suoi amici romantici, Wackenroder sot
tolinea la corrispondenza fra l’armonia della musica, quella dell’animo
umano e quella dell’ordine cosmico; questa corrispondenza non solo
spiega la nostra comprensione intuitiva ed emotiva di un’arte così appa
rentemente sganciata dal mondo reale, ma ha un significato ancora più
rilevante: l’armonia è il modello universale della relazione tra il tutto e
le sue parti. L’idea stessa di totalità autosufficiente dell’opera d’arte, in
trodotta da Moritz, nelle frammentarie intuizioni di Wackenroder viene
fondata sul concetto musicale di armonia. Recuperando le antiche teo
rie pitagoriche, egli attribuisce il primato alla musica perché tra le arti è
quella che oltre a garantire la massima libertà creativa possiede le rego
le più forti: in essa «sentimento e scienza sono inseparabilmente e sal
damente attaccati l’uno all’altra». Questo primato verrà poi fermamen
te rilanciato dalla teoria estetica di Schopenhauer, che nella sua opera
principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), riprende e por
ta alle estreme conseguenze le idee di Novalis: se «il fine delle belle arti
è di stimolare l’uomo alla conoscenza delle idee», riproducendo ogget
ti particolari e modificandoli soggettivamente, la musica, invece, spin
gendosi «fino alle idee, è affatto indipendente dal mondo fenomenico;
lo ignora, e potrebbe in certo modo continuare a esistere anche quando
l’universo non fosse più». L’effetto della musica è quindi «più potente,
più penetrante che quello delle altre arti; queste non esprimono che
l’ombra; quella celebra l’essenza». Al di là di una visione riduttiva delle
belle arti che risente ancora dell’influenza platonica (l’arte come copia
del mondo fenomenico, il quale a sua volta riflette il mondo delle idee),
l’elevazione della musica al «grado supremo di oggettivazione della vo
lontà», quindi della vita e delle aspirazioni umane, ribadisce un’indica
zione che segnerà a lungo il progetto di una sintesi ideale delle arti gui-
data dallo spirito musicale.
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2
«Comme de longs échos qui de loin se confondent / dans une ténébreuse et
profonde unité / vaste comme la nuit et comme la clarté, / les parfums, les couleurs
et les sons se répondent.», in Les Fleurs du mal, 1857 (1a ed.) e 1861 (2a ed.), Poulet-
Malassis, Paris.
3
C. Baudelaire, Richard Wagner, in « La Revue européenne», 1° aprile 1861.
4
Per un’analisi dettagliata di questa rivista vedi il relativo saggio di Alain Satgé, in
L’Oeuvre d’art totale, a cura di D. Bablet Cnrs, Paris 1995; inoltre Umberto Artioli, Teo
rie della scena dal naturalismo al surrealismo, Sansoni, Firenze 1972, cap. IV.
33 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
5
Cfr. S. Mallarmé, Tavole e fogli (1893) e le pagine dedicate alla danza, trad. it. in
Opere, a cura di Francesco Piselli, Lerici, Roma 1963.
35 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
5. Appia: la sintesi vivente tra le arti del tempo e le arti dello spazio
6
Cfr. A. Appia, Oeuvres complètes, ed. L’Âge d’homme, Lausanne 1983; M.E. Van-
der Vennet-Tallon, Adolphe Appia et l’oeuvre d’art totale, in L’Oeuvre d’art totale, op. cit., e
U. Artioli, op. cit., cap. VI.
ANDREA BALZOLA 36
musicale come principio regolatore. La musica ha un suo tempo auto
nomo, più vicino a quello della vita interiore dell’uomo che a quello del
la sua vita quotidiana: il ritmo, che è arte della proporzione. Come tale,
il ritmo può diventare una metrica comune del tempo, dello spazio e
delle azioni. Da qui, Appia immagina di inserire una partitura ritmica del
le azioni nella partitura musicale del compositore, mentre lo scenografo
dovrebbe creare un’articolazione dello spazio teatrale funzionale ai mo
vimenti del corpo degli attori.
L’attore, come tramite tra la musica e lo spazio, diventa così sempre
più centrale nella ricerca di Appia, il quale comincia anche a distaccarsi
dall’ingombrante eredità wagneriana per cercare una via autonoma alla
sintesi delle arti. E il suo punto di vista è quello dello spazio teatrale: la
pittura della scena è la luce, la scultura della scena è il corpo, l’architet
tura della scena è lo spazio dell’attore. Nel 1906 assiste alla dimostrazio
ne di un originale metodo di solfeggio corporeo creato da Emile-Jacques
Dalcroze, insegnante al conservatorio di Ginevra. Si tratta di un tentati
vo di unire i movimenti del corpo alla musica, mediante una sorta di
ginnastica ritmica. In questo metodo, che «estrae la musica dal corpo
dell’uomo», Appia trova la conferma che cercava, più che la musica, è il
ritmo il principio regolatore che può realizzare l’unità organica delle ar
ti, perché è questo che, incarnato dall’attore, fa da tramite tra le arti del
tempo e le arti dello spazio. Il ritmo dei sentimenti e degli stati d’animo
può trasformarsi nel ritmo corporeo dei gesti e dei movimenti, in questo
modo si realizza l’opera d’arte vivente:7 l’attore deve essere considerato l’e
lemento cardine della messinscena, affinché «la musica divenga essa
stessa spazio».
In questa nuova luce, Appia ripensa tutti gli elementi della struttura
rappresentativa – in particolare la scenografia, dove introduce l’innova
zione fondamentale di una scenografia tridimensionale praticabile dai movi
menti dell’attore – affrontandoli dal punto di vista tecnico. L’uomo è la
misura di tutte le cose e quindi lui deve essere il protagonista della sin
tesi delle arti, ma questa sintesi non è concretamente raggiungibile se
non attraverso la messa a punto di un metodo e di una tecnica adeguati
ai differenti linguaggi che vi partecipano: «Solo lo strumento tecnico è in
grado di condurci alla bellezza collettiva di cui l’opera d’arte vivente è il
modello [...] Molti tentativi di arte integrale o più o meno collettiva so
no falliti e falliscono tuttora, a causa di una tecnica incompleta; si scam
bia per l’opera intera quel che in realtà non è che un frammento...». In
questo modo, Appia introduce il principio che la tecnica è il mezzo che può
garantire un’organica sintesi delle arti. Questo principio sarà riproposto nel
7
Cfr. A. Appia, L’Oeuvre d’art vivant, in Oeuvres complètes, op. cit.
37 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
8
Per un approfondimento sulla rivoluzione teatrale di Craig vedi il saggio di A.M.
Monteverdi, ivi.
ANDREA BALZOLA 38
sa della messinscena, dalla rappresentazione di un testo allo spettacolo
inteso come sinergia scenica dei linguaggi.
9
Cfr. V. Kandinskij e F. Marc, Der Blaue Reiter, R. Piper, Munich 1912 (1a ed.), 1914
(2a ed.), trad. it. Il Cavaliere azzurro, De Donato, Bari 1967.
10
Il problema delle forme; Sulla composizione scenica; Il suono giallo, ibidem.
39 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
11
La sinestesia come «disturbo» è conosciuta fin dal 1880, ma per molto tempo
è stata considerata poco più che una fantasia legata a ricordi infantili. Recenti ri
cerche scientifiche hanno invece dimostrato che si tratta di un fenomeno reale,
causato da un’attivazione incrociata di due regioni cerebrali che di solito sono se
parate. Le stesse ricerche hanno verificato che allucinogeni naturali come la me
scalina e chimici come l’LSD producono effetti analoghi e che tra gli artisti la sine
stesia è sette volte più frequente che negli altri soggetti. Secondo i ricercatori questi
dati potrebbero anche fornire una spiegazione scientifica della propensione artisti
ca all’uso di metafore e alla spiccata sensibilità per le corrispondenze percettive
sensoriali. Cfr. R.E. Cytowic, The Man Who Tasted Shapes, Mit Press, 1993; V.S. Rama
chandran e E.M. Hubbard, Synaesthesia. A Window into Perception, Thought and Lan
guage, in «Journal of Consciousness Studies», 8, n. 12, 2001, e Psychophysical Investi
gations into the Neural Basis of Synaesthesia, in «Proceeding of the Royal Society of Lon
don», 2001.
ANDREA BALZOLA 40
l’acqua di una piscina o su balconate digradanti, il centro della scena
sarebbe stato occupato dallo stesso Skrjabin al pianoforte, circondato
da una moltitudine di strumentisti, cantanti e danzatrici, in costante
movimento coreografico. Una particolare importanza era attribuita agli
«effetti speciali» delle luci e dei fuochi d’artificio. Il compositore aveva
persino previsto di appendere delle campane a un dirigibile sospeso so
pra gli spettatori e itinerante nei cieli per annunciare e attirare pubbli
co da ogni parte del globo. Scopo di questo kolossal mistico-sinestetico
era di preparare la gente alla «dissoluzione finale nell’estasi». In questo
delirio finale di Skrjabin, che è stato troppo frettolosamente dimenti
cato, ci sono «visioni» che anticipano il filone francese del «teatro tota
le come liturgia» degli anni Venti-Trenta, dove viene sottolineata la fun
zione morale, mistica e terapeutica del teatro: dal «dramma integrale»
teorizzato dal regista Gaston Baty, all’opera del drammaturgo Paul
Claudel, dall’idea della «scena come luogo metafisico» del poeta Paul
Valery, allo «spettacolo integrale per l’uomo totale» di Antonin Artaud.
In tempi recenti, il titanico progetto di Skrjabin sembra rievocato nella
grandiosa cosmogonia musical-teatrale Licht di Karl Heinz Stockhau
sen, un ciclo di sette opere di circa cinque ore ciascuna, dedicato ai set-
te giorni della creazione e della settimana, iniziato nel 1977 e non an
cora concluso; una summa mistico-musicale che trae ispirazione da di
verse sorgenti cosmologiche e cosmogoniche, e anche da temi wagne
riani, dove è riproposta la lotta tra Bene (l’arcangelo Michele) e Male
(Lucifero) e la generazione (tramite Eva) di una nuova razza umana
«musicale».
Come abbiamo già visto accadere con i simbolisti e con Appia, anche
Kandinskij fu inizialmente suggestionato da Wagner, e ne prese poi, pro
gressivamente, le distanze, interpretando l’idea della sintesi delle arti in
chiave spiritualista e traducendola in un linguaggio simbolico, al cui
centro si collocava il concetto di risonanza (o vibrazione) interiore. Questa
vibrazione si manifesta in virtù di una necessità interiore, che Kandinskij
concepisce come l’unione di tre necessità mistiche: l’artista deve esprime
re il suo io profondo, la vita spirituale del suo popolo e della sua epoca,
la vita spirituale dell’arte stessa. In una comunione immediata tra l’arti
sta e la materia, l’opera e il pubblico, la forma e il contenuto. Se il con-
tenuto è l’anima stessa dell’artista, le forme artistiche fondamentali
(suono, colore, movimento), liberate da qualsiasi funzione illustrativa o
narrativa e da qualsiasi gerarchia, ne esprimono congiuntamente la ma
nifestazione sensibile.
Kandinskij elabora questa teoria attraverso la sperimentazione di
una nuova scrittura teatrale, sviluppando con il musicista Thomas von
Hartmann una serie di progetti che si concretizzeranno in cinque com
41 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
posizioni sceniche: Il suono giallo, Il suono verde, Bianco e Nero, Viola e Fi
gura nera. Queste composizioni prevedevano una messinscena partico
larmente ricca e complessa, dove gesti, azioni, personaggi, parole, mu
sica, costumi e scenografia interagivano fra loro in modo sempre dina
mico, anche dissonante e contrappuntistico, creando un evento perfor
mativo in costante metamorfosi. Anche Kandinskij, come i suoi prede
cessori, identifica nella musica («l’arte più immateriale») il modello
dominante di riferimento: il testo è frammentato e trasformato in puro
valore musicale, voce, colori, personaggi e movimenti coreografici sono
impostati secondo i parametri musicali di altezza, timbro, intensità e
durata. Per poter descrivere il gioco combinatorio di tutti questi ele
menti nella sintesi dello spettacolo, il pittore russo e il compositore in
ventano un apposito sistema di notazione (un tetragramma formato da
quattro linee orizzontali) che consente di visualizzare la loro azione si
multanea.
In seguito, la ricerca di Kandinskij si confronterà con l’innovazione
musicale atonale di Schönberg, con i fermenti teatrali espressionisti,
con l’avanguardia costruttivista sovietica e infine con gli artisti del
Bauhaus (a cui approda nel 1922), concentrando progressivamente i
suoi interessi verso l’analisi e la didattica del linguaggio pittorico. L’ulti
ma occasione per sperimentare sulla scena le sue idee fu l’allestimento
affidatogli nel 1928, per l’esecuzione dei Quadri per un’esposizione di Mu
sorgsky, in cui Kandinskij fece confluire sia le idee teatrali del gruppo
del Bauhaus, sia i suoi studi sulle corrispondenze tra forme geometriche
e colori.
12
F.T. Marinetti nel 1905 scrive Roi Bombance, un testo evidentemente ispirato a
Ubu Roi di Alfred Jarry e nel 1909 mette in scena al Teatro Regio di Torino il suo se
condo testo Poupées électriques.
13
Mario Verdone ha studiato e raccolto questi documenti in due preziosi volumi:
Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma 1969, e Teatro italiano d’avanguardia. Drammi e
sintesi futuriste, Officina, Roma 1970.
43 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
14
B. Corra, Musica cromatica (1912), in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avan
guardia 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983.
ANDREA BALZOLA 44
fratelli Corradini provarono a utilizzare l’allora nuovissimo mezzo cine
matografico, realizzando pellicole cromatiche lunghe circa duecento
metri (come L’arcobaleno e La danza, ormai perdute), dipinte a mano e
con animazioni di linee e superfici che anticipano le sinfonie visive del ci
nema astratto.
Marinetti già nel manifesto dei drammaturghi sentiva incombere «la
concorrenza del cinematografo» e in un suo dramma degli oggetti del 1915
(La camera dell’ufficiale) scrive sequenze visive molto simili a quelle di
una sceneggiatura cinematografica, mentre Pino Masnata prevede nel
suo Manifesto del teatro visionico la trasformazione delle scene teatrali in
visioni cinematografiche e Fillia, in uno dei sette atti del suo testo Sen
sualità (1923), immagina «una scena con uno schermo bianco, quattro
grandi lettere sono disposte ai due lati del palcoscenico, sullo schermo si
proietta un film astratto di dadi colorati. Entrano sei ballerine, dagli
stessi colori, che danzano».
La sintesi visiva dei «drammi» futuristi, così come il dinamismo della pit
tura e la ricerca sulla simultaneità del punto di vista (che il cubismo di Bra
que e Picasso aveva avviato fin dal 1907), conducono le arti visive e pla
stiche a uscire dalla staticità e a creare un nuovo spazio-tempo percettivo.
I tempi sono maturi per l’affermazione di una scrittura del movimento (ap
punto il «cinematografo») che realizzi su una scena virtuale quella sinte
si dei linguaggi espressivi che aveva finora tentato, con esiti alterni e par
ziali, la scena teatrale. I futuristi, affascinati dal mito tecnologico, vedono
nel cinema la sintesi perfetta tra arte e tecnica e intuiscono tra i primi le
sue potenzialità artistiche. Nascono così, nel 1916, il Manifesto della cine
matografia futurista e il film Vita futurista. Nella «nuova arte» confluiscono
tutti i principi programmatici e poetici del movimento: «Pittura + scultu
ra + dinamismo plastico + in libertà + intonarumori + architettura + tea
trosintetico = Cinematografia futurista».
15
Cfr. A. Breton, Antologia dell’humour nero (1940), Einaudi, Torino 1971.
45 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
16
Cfr. G. Hugnet, L’avventura Dada (1916-1922), (1957), Mondadori, Milano 1972;
e H. Richter, Dada, arte e antiarte (1964), Mazzotta, Milano 1966.
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neo dei linguaggi, e i surrealisti si concentrano invece sulle loro associazio
ni inconsce.
Se in Marinetti e compagni c’è una radicata e teorizzata intenzione
di rivoluzionare il teatro, in tutti i suoi elementi, per i dadaisti la scena
dell’evento artistico si sgancia anche dal teatro come luogo ideale di ac
coglienza e incrocio dei diversi linguaggi artistici. La poetica dada non
mira alla trasformazione, bensì all’azzeramento paradossale. Gli artisti
dada diventano dei portatori nomadi di gesti e azioni teatrali (basti
pensare alla storia artistica di Marcel Duchamp): più che fare un nuovo
teatro, utilizzano una modalità teatrale di comunicazione per creare
eventi, effimeri e unici, dove i diversi linguaggi artistici s’incontrano e si
scontrano, creando imprevedibili cortocircuiti e coinvolgendo il pub
blico fino all’estremo tentativo di farlo diventare esso stesso attore e co
autore dell’evento. Una scelta, questa, che influenzerà tutte le successi
ve avanguardie del Novecento, prefigurando in particolare la stagione
degli happening e delle performance nelle arti visive (tra gli anni Cin
quanta e gli anni Settanta), ma che non voleva e non poteva generare
un repertorio riproducibile di testi e di modelli estetici; a noi sono
giunte soltanto frammentarie documentazioni visive e sonore, poche
drammaturgie compiute, suggestioni e sperimentazioni verbali che
spesso faticano a vivere autonomamente dal contesto in cui erano con
cepite. Ecco un’altra intuizione dadaista: l’autoreferenzialità e la cadu
cità di un evento artistico, un’opera aleatoria simile al gioco che di
strugge sé stessa nel momento in cui si manifesta; qualsiasi tentativo di
conservarla e riprodurla diventa un procedimento di mummificazione,
utile forse al museo o al mercato dell’arte, ma sterile dal punto di vista
creativo.
Nel clima di sperimentazione a tutto campo che caratterizzava quel
periodo, in parallelo allo spontaneismo dadaista, fiorivano manifesti e
riviste d’avanguardia, correnti e movimenti, grandi e piccoli, talvolta
legati a singoli personaggi. Tra questi è da ricordare Pierre Albert-Bi
rot, animatore di una delle più importanti e longeve riviste della nuo
va poesia: «Sic» (1916-19), patrocinata dal grande nume tutelare del-
l’avanguardia letteraria (e non solo) dell’epoca: Guillame Apollinaire
(fu lui a coniare il termine sur-réalisme, nel 1917). Nel 1916 Albert-Bi
rot fondò il movimento nunique, teorizzando un nuovo umanesimo
radicato nello spirito del passato, ma con l’obiettivo di creare un le
game tra l’evoluzione delle arti e l’innovazione scientifica e tecnolo
gica. Al centro dei molteplici interessi di Albert-Birot c’era anche il
teatro – a cui dedicò un manifesto – che avrebbe dovuto rifondarsi,
integrando sulla scena tutti i linguaggi artistici, musicali, del corpo e
anche le proiezioni di diapositive e di film: «Il teatro nunique deve es
47 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
17
P. Albert-Birot, A propos d’un théâtre nunique, in «Sic», n. 8-9-10, ottobre 1916, cit.
in H. Bèhar, Teatro dada e surrealista (1967), Einaudi, Torino 1976, p. 35.
ANDREA BALZOLA 48
futuristi, e più di loro lo sperimentarono, come linguaggio autonomo e
in modo del tutto originale (da Artaud a Clair e Picabia, da Man Ray a
Duchamp, da Buñuel e Dalí a Richter). Scoprendo la grammatica cine
matografica, ricorda Béhar, il drammaturgo dada e surrealista se ne ser
ve per rinnovare il linguaggio teatrale dall’interno e soprattutto la sua
dimensione temporale: «Il doganiere Rousseau procedeva a una accele
razione del tempo; Tzara l’ha seguito su questo terreno introducendo a
teatro il principio del flash-back segnalato da un sipario di velo; Vitrac
dando a ogni cosa una mobilità estrema, spostando l’azione nei luoghi
più diversi, giocando sull’identità dell’eroe che si trasforma a volontà,
muore, risuscita ed è contemporaneamente in luoghi diversi [...] Ara
gon e Breton utilizzando un montaggio parallelo...». La poesia stessa di-
venta una visione metamorfica che dissolve le immagini una nell’altra,
in modo simile al montaggio cinematografico e al linguaggio del sogno,
come in questa evocazione di Tristan Tzara di un’arte originaria, pro-
pria dell’infanzia dell’umanità: «L’arte era un gioco, i bambini riuniva
no le parole che hanno un suono alla fine, poi gridavano e piangevano
la strofa e le mettevano gli stivaletti delle bambole e la strofa divenne re
gina per morire un poco e la regina divenne balena e i bambini corre
vano a perdifiato».
18
Cfr. il bel catalogo della mostra, L’officina di Eisenstein: dai disegni al film, a cura di
P.M. De Santi, Città di Torino 1981.
49 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
19
Platone, Timeo, VII, cit. in S. Eisenstein, La natura non indifferente, a cura di P.
Montani, Marsilio, Venezia 2003, p. 21.
51 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
dito dagli studi recenti di Michel Chion, il quale identifica questo feno
meno come «transensoriale» distinguendolo dalla «intersensorialità» di
cui parlavano Baudelaire e i simbolisti, e dove «ciascun senso esistereb
be in sé, ma essi avrebbero punti di mutuo incontro, punti di congiun
zione. Nel modello transensoriale (o metasensoriale) che noi opponia
mo a quest’ultimo, non vi è alcun dato sensoriale delimitato e isolato in
partenza: i sensi sono canali, vie di comunicazione, più che territori [...]
L’occhio, per esempio, porta informazioni e sensazioni delle quali sol
tanto alcune possono essere considerate come specificamente e irridu
cibilmente visive (il colore, per esempio), essendo le altre solo transen
soriali. Parimenti, l’orecchio veicola informazioni e sensazioni delle qua-
li soltanto alcune sono specificamente uditive (l’altezza e i rapporti di
intervallo, per esempio)» (M. Chion, 1990).
Con questo percorso, che non voleva e non poteva essere un quadro
esaustivo ma piuttosto una sequenza di episodi emblematici, abbiamo
cercato di descrivere come la grande utopia della sintesi delle arti, fe
condata nel grembo romantico alla fine del Settecento e rivelata dall’o
pera totale di Wagner a metà Ottocento, abbia visto poco alla volta
emergere le sue contraddizioni nel secondo Ottocento con i simbolisti;
tentare una sistematizzazione teorica con Appia, che ne ha nello stesso
tempo disegnato i limiti, aprendo le vie al superamento poi compiuto da
Craig e Mejerchol’d a cavallo del Novecento; imboccare una via spiri
tualista con Skrjabin e Kandinskij; riesplodere nella sintesi teatrale futu
rista, ridefinirsi nello spontaneismo dell’assemblage dadaista e nell’epifa
nia surrealista, e infine essere trasposta nella scena virtuale del cinema,
con Eisenstein.
La sintesi delle arti non si è realizzata e ha confermato solo parzial
mente le sue premesse, ma anche la sua messa in discussione ci ha pro
gressivamente arricchiti di nuovi contributi, punti di vista, approcci cri
tici, teorici e creativi che hanno finito per disegnare tracciati anche mol
to diversi tra loro, quando non addirittura contrastanti. In questa fe
conda molteplicità di ramificazioni è possibile riconoscere alcuni grandi
filoni che hanno organicamente elaborato un’ipotesi di relazione o in
treccio tra le arti: l’idea di una fusione di esse mediante un principio uni
ficatore, identificato prevalentemente nella musica e poi nel ritmo; l’i
dea di una corrispondenza percettiva tra i sensi e i relativi linguaggi espres
sivi (o almeno alcuni di essi), culminata nel principio della sinestesia; l’i
dea di un contrasto creativo tra gli elementi espressivi, che mantengono e
ANDREA BALZOLA 52
persino accentuano la loro differente identità nell’accostamento, ma
che nello stesso tempo, attraverso la loro opposizione dialettica, scopro
no di essere complementari. Da quest’ultimo filone, si sono sviluppati
due ulteriori approcci, che distinguono tra conflitto o accostamento volon
tari, e conflitto o accostamento casuali (come vuole la poetica dadaista, inau
gurando una lunga stagione artistica che giungerà fino al movimento
Fluxus e neo-dadaista) o inconsci (come vuole il surrealismo).
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, nell’ambito di
un rinnovato studio dell’arte come «linguaggio», la semiotica ha cerca
to di analizzare e di formalizzare i codici teatrali, non solo quelli cano
nici del testo drammaturgico, ma anche quelli performativi dello spet
tacolo e dell’attore. Marco De Marinis, che ha dato un contributo im
portante con la sua analisi semiotica dello spettacolo20 e della dramma
turgia dello spazio nel teatro d’avanguardia, realizza sulla rivista «Ver-
sus» (1978-79) un questionario per un gruppo di studiosi internaziona
li, nel quale uno dei quesiti rielabora in chiave semiotica un antico pro
blema: «Pensate che i “linguaggi artistici” (e tra essi il teatro) costitui
scano delle “combinazioni di codici specifici” o che essi siano al contra
rio delle “combinazioni di codici non specifici”, o, ancora, che essi com
binino dei codici non specifici con dei codici specifici?». Tirando le fila
delle risposte sull’argomento, De Marinis sintetizza così l’orientamento
dei suoi interlocutori (Bettetini, Jansen, Kowzan, Pavis e altri): «Tra
montata l’illusione di poter definire “un codice dello spettacolo” tota
lizzante e specifico, e un “linguaggio teatrale” omogeneo e unitario, l’at
teggiamento prevalente [...] è ormai quello di concepire lo spettacolo
teatrale come una combinazione (sempre diversa: perciò singolare, spe
cifica) di codici specifici e non specifici». (De Marinis, 1978)
Questa definizione dello spettacolo teatrale, al di là dei limiti e delle
sorti degli studi semiotici applicati alle arti,21 può rappresentare un mo
dello di riferimento anche per il dibattito attuale sulla multimedialità,
perché unisce due aspetti apparentemente contraddittori: da una parte
la singolarità, e quindi la diversità di ogni combinazione artistica di co
dici, dall’altra parte il riconoscimento che i codici sono combinabili,
quindi compatibili (anche quelli non specifici). Nelle opere/eventi mul
timediali infatti, alla massima differenziazione e libertà possibili delle
modalità creative e delle poetiche che possono dare luogo alla combi
nazione dei codici espressivi, corrisponde l’affermazione di un iper-co
20
Cfr. M. De Marinis, Lo spettacolo come testo, in «Versus. Quaderni di studi semioti
ci», n. 21 e n. 22, Bompiani, Milano 1978-79.
21
Cfr. O. Calabrese, Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano 1985, in particolare
pp. 111-151.
53 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
1
A. Negri, Arti visive, Gulliver, Milano 1979, p. 94.
SANDRA LISCHI 56
2. Movimento, immaginazione, gioco
2
P. Greenaway, in M. Cieutat, J.L. Flecniakoska (a cura di), Le Grand Atelier de Pe
ter Greenaway, Université des Sciences Humaines-Les Presses du Réel, Strasburgo
1998, p. 202 (trad. mia).
3
Per l’analisi puntuale del rapporto fra discipline e linguaggi diversi, e in parti
colare avanguardie artistiche e cinema, cfr. S. Lawder, Il cinema cubista, Costa & No
lan, Genova 1983.
57 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
4
Scheda su G. Baruchello, in A. Granchi (a cura di), Cine qua non. Giornate inter
nazionali del cinema d’artista, catalogo della mostra omonima (Firenze, 12-13 dicembre
1979), Vallecchi, Firenze 1979, p. 94.
5
M. Ray, in A. Bisaccia, Punctum Fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema
e arte nelle avanguardie storiche, Meltemi, Roma 2002, p. 143.
SANDRA LISCHI 58
li film, è la dimostrazione dell’esistenza di una volontà anti-progettuale,
che dà all’esperimento la consistenza di un procedimento senza il col
lante del canovaccio e delle pastoie avviluppanti delle tracce. Distru
zione e negazione, come forze vettoriali dell’anti-istituzione, dovevano
avere un impatto fulmineo nell’eden delle coscienze e nel tranquillo
funzionamento dell’arte».6
3. Film e...
6
Ibidem, p. 140.
7
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 174.
59 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
8
S.M. Eisenstein, Il montaggio, ed. it. a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia
1986, p. 49.
9
A. Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 177.
10
S. Lawder, Il cinema cubista, cit., p. 110. Per le commistioni teatro-cinema e le
corrispondenze con ricerche anche in ambiti diversi (ma in rapporto con le avan
guardie storiche) cfr. L. Colagreco, Il cinema negli spettacoli di Leopoldo Fregoli, «Bianco
& Nero», a. LXIII, n. 3-4, 2002.
SANDRA LISCHI 60
ti) includeva a sua volta la prefigurazione del medium televisivo: un di
spositivo capace di ricevere e trasmettere immagini e suoni da tutto il
mondo, simultaneamente, nel laboratorio di meraviglie scientifiche e
tecnologiche dello scienziato Norsen.
4. Lo schermo strappato
11
P. Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino 1990.
61 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
12
N. Kaplan, Manifesto di una nuova arte: la polivisione, in A. Martini (a cura di),
Utopia e cinema. Cento anni di sogni, progetti e paradossi, Marsilio, Venezia 1994, p. 52.
13
P. de Haas, Entre projectile et project. Aspects de la projection dans les années vingt, in
AA.VV., Projections, les transports de l’image, Le Fresnoy-Hazan-AFAA, Pamplona-Tur
coing 1997.
SANDRA LISCHI 62
mezz’aria, seta di paracadute, sabbia, sale, oggetti, migliaia di sottilissi
me frange di carta. Mentre la «multivisione» si arricchisce nel confron
to fra la scatola luminosa del monitor, le sue dimensioni, la sua grana,
e la riproposizione (più o meno classica) della proiezione su grande
schermo.
La sala «prende luce», lo spettatore diventa elemento essenziale di un
percorso non più e non solo metaforico: vede, ascolta, è chiamato, an
che provocatoriamente, a partecipare; è sottoposto alla necessità di con
frontare più stimoli allo stesso tempo. Riceve (metaforicamente, dallo
schermo) cannonate, pugni, appelli; e nelle performance futuriste e da
daiste, che saranno poi rivisitate dal movimento Fluxus, è sottoposto a
sberleffi, punzecchiature, lancio di oggetti; le avanguardie chiamano al
lavoro dello sguardo, ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi.
Nel suo noto testo del 1936 sulla riproducibilità tecnica dell’opera
d’arte Walter Benjamin sottolinea questo carattere «tattile» del cinema
(che poi Marshall McLuhan, con altre motivazioni, sposterà al medium
televisione), prefigurato soprattutto dai dadaisti, che cercavano «di ot
tenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effet
ti che oggi il pubblico cerca nel cinema». E ancora: coi dadaisti «l’ope
ra d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore.
Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di ci
nema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tat
tile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inqua
drature, che investono gli spettatori a scatti...».14
Il cinerama, che allargava il campo visivo dello spettatore alle possibi
lità di visione periferica dell’occhio umano, fu inventato da Fred Waller
alla fine degli anni Trenta. Il suo primo lungometraggio This is Cinera
ma, girato con macchine da presa multiple e sincronizzate per coprire
una più larga angolazione e proiettato su multischermi curvi a Broadway
all’inizio degli anni Cinquanta, segnò, insieme al suono stereofonico, al
cinema 3D, al cinemascope, la fine della crisi di Hollywood minacciata
dalla televisione e l’inizio della realtà virtuale. Si riferisce proprio a que
ste innovazioni tecniche del Cinerama Morton Heilig, inventore di quel
lo che lui stesso definì il «Teatro dell’esperienza»: un visore televisivo
stereofonico head-mounted (1960, progettato cinque anni prima dei di
splay di Ivan Sutherland al MIT) e il Sensorama Simulator (1962).15
14
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, To
rino 1966, pp. 42-43.
15
Cfr. H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna 1993.
63 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
5. Oltre l’occhio
berto (a cura di), Dal ritmo colorato alla musica visuale, Ergonarte, Milano 1992, pp. 43
44.
18
A. Ricci Lucchi, in S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian/Angela Ricci Lucchi,
Firenze, Hopefulmonster, 1992 (cfr. anche, nello stesso volume, A. Farassino, Catalo
ghi e profumi e J.C. Lipzin, Stimolando l’olfatto: i film di Gianikian e Ricci Lucchi); cfr. an
che P. Mereghetti e E. Nosei, Cinema anni vita. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi,
Il Castoro, Milano 2000.
65 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
19
M. Chion, L’audio-visione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, pp.
129 e 132.
SANDRA LISCHI 66
ro, colorato direttamente a mano sulla pellicola, è concepito per essere
proiettato «su di uno schermo di materia e forma nuove e con interven
ti spettacolari nella hall del cinema e nella sala (spintoni del pubblico,
dialoghi ad alta voce, lancio di coriandoli, spari sullo schermo, proie
zione di Intolerance su uno schermo all’entrata del cinema ecc.)».
Da un’altra parte il suono introduce nel cinema le scoperte di James
Joyce, e tutto ciò molto prima di Resnais, Robbe-Grillet o Duras. Il suo
no è indipendente dall’immagine, essendo quest’ultima in più elabo
rata all’infinito con graffiature, disegni, sovrimpressioni, trattamenti
con l’acido ecc., in una maniera ancora oggi ineguagliata. Nel film Pel
licule di Lemaitre, 1968, «è stata proiettata questa prima massa di pelli
cola davanti agli spettatori, che hanno montato, aggiunto, tagliato, se
condo i loro desideri, nello stesso momento in cui le loro intenzioni ve
nivano registrate. Queste sedute di creazione filmica si sono ripetute in
maniera periodica tutti i mercoledì del Café-Cinéma...».20 Il senso di un
rituale sovvertito, o reinventato; ma anche di un «cinema totale», che
unisce arte e vita, spettacolo e desiderio.
È un cinema «da proiettarsi capovolto sul soffitto e/o sul pavimento,
su schermi multipli sui muri, in contemporanea con eventi teatrali, de
clamazioni, musiche e danze. Ricreare ludicamente uno spaccato allar
gato della vita quotidiana. Il bailamme del traffico urbano, dei televiso
ri accesi, delle radioline a tutto volume, del bop-bop delle auto in coda,
dei conta-tempo computerizzati, dei bip-bip luminosi, del bla-bla della
gente che indaffarata segue – senza vedere, sentire, partecipare – tutti i
solluccheri del sistema di una società volutamente spettacolare, sono
gli input lettristi alla decifrazione dei bersagli da colpire.
È sufficiente, come chiave di lettura, evitare la passività della ricezio
ne. L’indifferenza mutarsi in partecipazione; l’individuo in persona».21
Torna anche lo stress a cui sottoporre lo spettatore per farlo uscire dal
suo torpore mediatico: «Vorrei un film che vi faccia male agli occhi,
davvero [...] che si esca dal cinema col mal di testa! [...] Preferisco pro
curarvi delle nevralgie che niente! [...] Preferisco rovinarvi gli occhi
che lasciarvi indifferenti!», proclama il protagonista del film di Isidore
Isou Traité de bave et d’eternité, 1951.22 Un film-palinsesto, intessuto di ri
ferimenti interdisciplinari: «Daniel pensava che gli piaceva sempre fare
altro; della musica nella poesia, della pittura nel romanzo e ora del ro
manzo nel cinema...». Ma intessuto anche di confronti provocatori, ba
20
Scheda su M. Lemaitre, in A. Granchi (a cura di), Cine qua non, cit.
21
G.S. Brizio, Lettrismo e sperimentalismo, in A. Granchi, op. cit., p. 69.
22
In F. Devaux, Le cinéma lettriste (1951-1991), Paris Expérimental, Parigi 1992, p.
41 (trad. mia).
67 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
7. Lo spettatore attivo
23
F. Devaux, Traité de bave et d’éternité d’Isidore Isou, Yellow Now, Crisnée, Belgique
1994, pp. 21 e 46-49.
SANDRA LISCHI 68
ne. Sono prefigurazioni di quegli «ambienti sensibili», come Studio Az
zurro chiama le sue attuali installazioni interattive basate su semplici
azioni degli spettatori per attivare le immagini (camminare, gridare,
battere le mani, toccare) in spazi in cui i dispositivi tecnologici – senso
ri, guanti, caschi – sono banditi o resi invisibili.
Del resto lo spettatore deve acquisire una distanza critica e diventare
cosciente che quel che vede è un film, una pellicola: allora i proiettori
vengono esibiti in sala, svelati, esibiti come sculture cinetiche, talvolta
modificati (come i pianoforti negli eventi Fluxus); viene materializzato
e reso visibile lo scorrere delle immagini, anche attraverso operazioni
drastiche come la combustione del film durante la proiezione; la pelli
cola viene sottoposta a vari tipi di operazioni, cucita, trattata, interrotta.
Si gioca sull’alternanza di luce e buio come qualità intrinseche e speci
fiche della proiezione, senza alcuna immagine; o si ricreano «polivisio
ni» del tutto particolari, combinando vari formati (pellicole 16mm e
8mm) in proiezioni accostate o sovrapposte, oppure con il film e le
diapositive. Gli sperimentali, l’underground, gli esponenti del cinema
strutturale, i film-maker indipendenti, riprendono (con varie differen
ze di contesto e di uso della tecnologia) alcune intuizioni e alcune pra
tiche delle avanguardie storiche, a partire dalla radicale indifferenza
verso una dimensione narrativa e dal lavoro sul linguaggio. L’immagine
diventa elemento di un collage o di un flusso, il movimento della mac
china da presa segue «gli impulsi della mano, come nell’action pain
ting»,24 il suono si allontana dalla tradizione del cinema di dialogo e si
fa silenzio o rumore.
Dominique Noguez, nel suo studio sul cinema sperimentale, ne ha
così sintetizzato le caratteristiche: «Diciamo dunque che ogni volta che
il film, di per sé [...] si renderà interessante meno per quel che mostra
o racconta che per il modo in cui lo mostra o lo racconta, tutte le volte
che lo schermo sembrerà dirci: “Guardate il rettangolo che sono, o il
quadro che sono, o la bianchezza che sono; guardate il modo in cui le
forme sono collegate sulla mia superficie, il modo in cui si spostano”;
tutte le volte che i colori sembreranno dire: “Vedete il mio splendore o
la mia discrezione”; che la pellicola sembrerà dirci: “Vedete la mia gra
na, o la mia opacità”, allora saremo sul versante della funzione poetica
trionfante e dunque del cinema sperimentale».25
24
A. Aprà, Flash-back/Flash forward. Il cinema indipendente americano degli anni Ses
santa, in Id. (a cura di), New American Cinema. Il cinema indipendente americano degli an-
ni Sessanta, Ubulibri, Milano 1986, pp. 9-19.
25
D. Noguez, Eloge du cinéma expérimental, Paris Expérimental, Parigi 1999 (1a ed.
1979), p. 35 (trad. mia).
69 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
8. Cinema espanso
26
F. Plessi in Vittorio Fagone (a cura di), Arte e cinema. Per un catalogo di cinema
d’artista in Italia 1965-1977, Centro Internazionale di Brera, Milano/Marsilio, Venezia
1977, p. 78.
27
Cfr. B. Di Marino, Sguardo inconscio azione. Cinema sperimentale e underground a Ro
ma (1965-1975), Lithos, Roma 1999.
SANDRA LISCHI 70
mezzo e sui suoi limiti. Forzare i limiti della pellicola, dello schermo,
della sala, del punto di vista, della postura classica dello spettatore. René
Barjavel, teorico del «cinema totale», scriveva nel 1944: «Non si arriverà
a una soluzione soddisfacente finché il cinema sarà schiavo di quel na
stro piatto che si chiama film. Trasformare un’immagine piatta in im
magine a tre dimensioni, anche proiettandola su uno schermo sferico,
ci pare non solo difficile ma illogico. Di fatto, occorrerà trasformare di
rettamente in onde le immagini degli oggetti reali, e poi queste onde in
immagini virtuali. Tali immagini verranno materializzate senza lo scher
mo, o entro uno schermo voluminoso e trasparente, forse addirittura
immateriale, costituito a sua volta da un fascio di onde...».28 La visionaria
descrizione di Barjavel lascia intravedere la tecnologia elettronica come
superamento, o forse estensione, dilatazione del cinema.
Questa espansione del cinema negli altri media e, più estesamente,
nell’ambiente mediatico che ci circonda, è stata una delle teorie basila
ri del cinema sperimentale degli anni Sessanta: expanded cinema, expan
ded eye. I media come estensione e potenziamento dei sensi: un approc
cio che negli stessi anni caratterizza anche l’interpretazione che dei
media dà lo studioso canadese Marshall McLuhan, influenzando non
poco un’intera generazione di film-maker indipendenti e di videoarti
sti. Gene Youngblood pubblica nel 1970 uno straordinario libro intito
lato Expanded Cinema, riunendo nella categoria di «cinema espanso» le
performance dal vivo, le animazioni sperimentali, la computer art, il vi
deo, i film olografici, le polivisioni e i labirinti di proiezioni, gli schermi
giganti e le esperienze immersive, le multivisioni ipertecnologiche (che
si andavano sperimentando nelle grandi esposizioni universali di Mon
tréal e Osaka), le ambientazioni visivo-sonore avvolgenti. Un cinema
che si estende ad altre arti e le ingloba, le ridefinisce, le ricrea; ma an
che un cinema sinestetico, che «include varie modalità estetiche, molti
“percorsi di conoscenza”, simultaneamente operativi»;29 capace di
estendere e potenziare le nostre capacità sensoriali e di pensiero, oltre
la sterile contrapposizione mente-corpo, emozione-conoscenza («l’uni
ca mente capace di capire è la mente creativa», scrive ancora Young
blood).
28
R. Barjavel, in A. Martini (a cura di), Utopia e cinema, cit., p. 42. Il libro di Barja
vel è stato ora tradotto integralmente in Italia: R. Barjavel, Cinema Totale. Saggio sulle
forme future del cinema, Editori Riuniti, Roma 2001.
29
G. Youngblood, Expanded Cinema, Studio Vista, London/Dutton & Co, New
York, 1970, p. 109 (trad. mia). Per un’analisi delle teorie di Youngblood, dei suoi te
sti tradotti in Italia e dello sviluppo successivo del suo pensiero rimando al mio saggio
In search of Expanded Cinema, «Cinema & Cie», International Film Studies Journal, n.
2, Spring 2003, (Il Castoro, Milano 2003).
71 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
30
G. Youngblood, Il mito utopistico della rivoluzione comunicativa, in F. Colombo (a
cura di), Parole sul video, n. speciale di «Comunicazioni Sociali», a. XIV, 2-3, aprile-set
tembre 1992.
SANDRA LISCHI 72
sione bidimensionale, sottoporlo a una percezione complessa, ricca,
fatta di simultaneità e di associazioni.
Certo, si tratterà poi di trasformare questa «spettacolarità» in altro,
di usare queste tecnologie in modo artistico, di sottrarle alla logica del
puro intrattenimento. Ma questo lo sapevano già le avanguardie degli
anni Venti: «Si aprono nuove sale, si moltiplicano gli schermi», scriveva
Abel Gance nel 1928, «senza occuparsi innanzitutto di quello che vi si
proietterà [...] Noi chiediamo templi e chiese per il cinema; ci danno
dancing o fienili...».31
Da qui torniamo al cinema espanso di Youngblood, e alle sue rilettu
re odierne: «Per me», dice nel 1996 Peter Greenaway, «è molto stimo
lante cercare di combinare le nuove tecnologie con la dislocazione del
testo, con gli schermi multipli già usati dalle avanguardie, per reinven
tare il linguaggio cinematografico [...] Penso che il cinema del futuro
avrà cinque nuove caratteristiche. Sarà un cinema con schermi multi
pli, quindi lo schermo scomparirà. Sarà un cinema che coinvolgerà i
cinque sensi e non solo due. Sarà molto più interattivo, cosicché il pub
blico potrà avere un controllo maggiore sulle circostanze. Si allonta
nerà dall’idea di essere un medium per illustrare temi, e soprattutto
sarà incentrato sulla relazione individuale spettatore/schermo».32
Quel «brontolio sotterraneo» che Kandinskij avvertiva nelle arti del-
l’inizio del secolo non si è affievolito. Abbiamo orecchie per sentirlo,
occhi per vederne gli esiti? Sappiamo capirne i nuovi sogni? Ne cono
sciamo i nemici?
31
A. Gance, Come si fa un film, in A. Martini (a cura di), Utopia e cinema, cit., p. 201.
32
P. Greenaway, in M. Polsinelli, Peter Greenaway. Paesaggi con figure, «Bianco & Ne
ro», a. LVII, n. 1-2, 1996.
IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
Anna Maria Monteverdi
Come può l’uomo del nostro secolo, oggi schiavo e ignorante ma assetato di
libertà e di sapere, l’uomo tormentato ed eroico, vittima di violenze e di abu
si, ingegnoso e mutevole, capace di trasformare il mondo in questo grande e
terribile secolo nostro, come può quest’uomo avere un suo teatro che lo aiu
ti a signoreggiare sé stesso e il mondo?
B. Brecht, 1939
1
C. Molinari, Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in «Quaderni di tea
tro», a. III, n. 10, 1980, p. 6.
2
Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali, Est, Mi
lano 1997; F. Cruciani, C. Faletti (a cura di), Civiltà teatrale nel XX secolo, il Mulino, Bo
logna 1986.
75 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
3
F. Cruciani, Teatro nel Novecento. Registi pedagoghi e comunità teatrali nel XX secolo,
Sansoni, Firenze 1985, p. 20.
4
P. Szondi, Teoria del dramma moderno (1880-1959), Einaudi, Torino 1962, p. 11.
5
O. Schlemmer, Uomo e figura artistica, in O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F. Mol
nar, Il Teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino 1965, p. 17.
ANNA MARIA MONTEVERDI 76
modo di sentire che non lasciasse intatto il pubblico ma che avesse una
risonanza nel suo organismo. Un teatro dell’«efficacia» e del «pericolo»:
Antonin Artaud reclamava un teatro d’azione (contrapposta alla finzio
ne: l’arte «anti-menzogna»), di attacco alla sensibilità dello spettatore
che eliminasse ogni barriera (fisica, emotiva, psicologica) e oltrepassas
se la sua soglia di sopportabilità; crudele per «manifestare e imprimere
indelebilmente in noi l’idea di un perpetuo conflitto e di uno spasimo
in cui la vita viene troncata a ogni minuto, in cui ogni elemento della
creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione di esseri defi
niti». Un teatro della crudeltà che non è affatto un teatro di «sangue»
ma un teatro del «rigore» e della «gravità» per una visione lacerante e
catartica (ovvero, con funzione «terapeutico-spirituale») del male:
«Quali che siano i conflitti che angosciano la mente di una determinata
epoca, sfido lo spettatore cui scene violente abbiano trasmesso il loro
sangue, che abbia sentito in sé il passaggio di un’azione superiore, che
abbia visto nel bagliore di vicende straordinarie, i movimenti straordi
nari ed essenziali del proprio pensiero – la violenza e il sangue posti al
servizio della violenza del pensiero –, lo sfido ad abbandonarsi dopo, a
idee di guerra, di sommossa, e di sfrenati assassini».6
2. Teatro o tecnologia?
6
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 198-199.
7
C. Molinari, La scena vuota, in E.G. Zorzi, M. Sperenzi (a cura di), Teatro e spetta
colo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Leo S. Olschki, Firenze 2001.
77 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
8
Cfr. «Théâtre/public», gen. feb. 1996, numero monografico su Théâtre et techno
logie, a cura di F. Maurin.
9
M. Grande, La riscossa di Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Ita
lia (1976-1984), Bulzoni, Roma 1985, pp. 154-155.
ANNA MARIA MONTEVERDI 78
del reale e dei linguaggi “a tenuta debole” della nuova “barbarie infor
matica”, della nuova Babele elettronica» e privilegiava lo spettacolo dal
vivo davanti al quale «ci si trova a fare i conti con la presenza fisica di
“operatori simbolici” che riscaldano (o surriscaldano) l’attualità di si
tuazioni, argomenti, questioni, tematiche, interrogativi, vicende, nelle
forme visibili e “immediate della messa in scena” in presenza, dinanzi al
pubblico. A paragone del “panico tecnologico” costituito dalla rappre
sentazione sfilacciata corrente della rappresentazione […] il teatro con
serva la pressione dell’artisticità concreta, a vista; la proposizione “calda”
di un prodotto preparato a freddo». (M. Grande, 1985)
3. Il dibattito teorico
10
www.webcast.gatech.edu/papers/arch/Auslander.html. Auslander ripropone la
tematica già espressa all’interno della rivista «The Drama Review» (Going with the
Flow. Performance Art and Mass Culture, «Tdr», v. 33, n. 2, 1989).
79 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
4. Macchina o maschera?
Crediamo, con Lukács che l’arte non possa che essere un fenomeno
sociale ed economico, e l’utilizzo di ogni suo mezzo sia ideologicamen
81 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
15
Mi riferisco in particolare ai saggi di Fernando Mastropasqua relativi alla ma
schera greca antica, ora riuniti in Metamorfosi del teatro, Esi, Napoli 2000. E inoltre F.
Mastropasqua, Teatro, provincia dell’uomo, ed. Arti grafiche Frediani, Livorno 2004.
16
F. Mastropasqua, introduzione ad A.M. Monteverdi, La maschera volubile, Titivil
lus, Corazzano 2000.
83 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
17
J. Svoboda, cit. in D. Bablet, La scena e l’immagine, Einaudi, Torino 1985, p. 23.
18
J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1997.
19
Intervista a Robert Lepage per Radio Canada: http://radio-canada.ca/bran
che/v4/89/lepage.
20
R. Ouzounian, Lepage’s Struggle to Stay Free, “The Globe and Mail”, 12 agosto
1997.
21
S.J. Norman, Du «Gesamtkunstwerk» wagnérien aux arts des temps modernes: spectacles
85 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
22
V. Mejerchol’d, in B. Picon-Vallin, Il lavoro dell’attore in Mejerchol’d. Studi e mate
riali, «Teatro e storia», n. 18, 1996, p. 127.
ANNA MARIA MONTEVERDI 88
sia pur bene, non significa dire qualcosa. Di qui la necessità di mezzi
nuovi per esprimere l’inespresso e svelare quanto è celato. Come Wa
gner fa esprimere all’orchestra le emozioni dell’anima, così io faccio
parlare i movimenti plastici».23
I futuristi dopo aver riabilitato il teatro di varietà proponendolo co
me nuovo modello di spettacolo, dinamico e trasformista, ricco di que
gli elementi del «meraviglioso futurista prodotto dal meccanismo mo
derno», definiscono le caratteristiche del nuovo teatro sintetico: «atec
nico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale»; «sintetico cioè
brevissimo. Stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti
innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli».
Così recita il Manifesto del teatro sintetico del 1915 firmato da Marinetti,
Settimelli, Corra che annunciava la morte della farsa, della commedia,
del vaudeville, del dramma e della tragedia e la nascita di nuove forme
teatrali («la battuta riecheggiata, l’ilarità dialogata, il poemetto anima
to, la sensazione sceneggiata»). All’interno del giornale «L’Italia futu
rista» (11 settembre e 15 novembre 1916) uscirà il Manifesto della cine
matografia futurista. Il legame con il teatro sintetico, nel comune obiet
tivo di «sinfonizzare la sensibilità del pubblico esplorandone, risve
gliandone con ogni mezzo le propaggini più pigre» è evidente dalle
stesse parole dei compilatori del documento: contro il cinema che in
fligge «drammi, drammoni e drammetti passatistissimi» una cinemato
grafia poliespressiva, impressionista, antigraziosa ovvero «pittura+scultu
ra+dinamismo plastico+parole in libertà+intonarumori+architettu
ra+teatro sintetico». Le serate futuriste e il loro gusto ludico – il «teatro
dello stupore, del record, della fisicofollia» – insieme al gesto provoca
torio, come hanno sottolineato molti critici, preannunciano le caratte
ristiche dello spettacolo moderno: un montaggio di eventi poetici,
sinfonie, lanci di oggetti e azioni verso il pubblico e l’orchestra, pro
clami e discorsi ad alta voce e insulti che portavano allo scontro e alla
rissa, e il cui modello era la serata romana del 9 marzo 1913 racconta
ta da Francesco Cangiullo. Marinetti nel 1933 dopo la stesura del Ma
nifesto del teatro radiofonico (la radia), scriverà cinque sintesi radiofoni
che – un «poema-spartito» come lo definiva Maurizio Calvesi – così in
titolate: Un paesaggio udito, Dramma di distanze, I silenzi parlano tra di lo
ro, Battaglia di ritmi, La costruzione di un silenzio. Marinetti arriverà ad af
fermare che la radia non è teatro (la cui morte sarebbe stata già de
cretata dal cinema sonoro), non è cinematografo (perché il realismo,
il sentimentalismo e il tecnicismo lo hanno già reso agonizzante), non
è libro (che è diventato qualcosa di fossilizzato e congelato). Sarà piut
23
V. Mejerchol’d, La rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 90.
89 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
24
L. Moholy-Nagy, Teatro, circo, varietà, in O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F.
Molnár, Il Teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino 1975.
ANNA MARIA MONTEVERDI 90
condivide con il futurismo di Marinetti e Prampolini l’impostazione
antiletteraria, che privilegia cioè, l’aspetto fonetico rispetto a quello lo
gico, i rapporti sonori tra le parole rispetto alla trama. Dei futuristi
non accetta però, la rinuncia all’uomo per una forma puramente mec
canica: il suo impiego corporeo e sonoro in scena, sia pur in senso an
ti-individualistico, è invece funzionale per Moholy-Nagy a un concetto
di totalità del teatro, ovvero di organismo, di equivalenza perfetta tra
le parti. Fondante è l’azione scenica della luce pensata in senso asso
lutamente antitradizionale (puntata verso il pubblico, fosforescente), e
la meccanica scenica immaginata (con tapis roulant, piattaforme) che
corrispondono appieno ai progetti di Gropius e Molnár. La luce è de
cisamente protagonista dei suoi studi sulla cinetica applicata non solo
alla scena ma anche alla fotografia e al cinema. Anche Oskar Schlem
mer, scenografo, coreografo e dal 1923 direttore del laboratorio tea
trale del Bauhaus, nel testo Uomo e figura artistica, pur rimanendo nel
tema dell’astrazione, della meccanizzazione dell’arte e delle possibilità
offerte dalla tecnica come segni del tempo, non rinuncia alla compo
nente umana sia pur riveduta e corretta; il teatro è una «zona limite» a
metà tra il sacro e l’intrattenimento popolare, ovvero tra la sacra rap
presentazione e l’azione festiva da un lato e dall’altro il cabaret, il va
rietà e il circo. Il regista universale per Schlemmer unisce come in un
triangolo scaleno i tre generi scaturiti dalla forma di: teatro parlato o
sonoro (letterario o musicale), teatro gestuale (mimico) e teatro visivo
a cui corrispondono le tre diverse specificità e competenze di poeta, at
tore e scenografo. La differenza del genere teatrale sta solo nella va
riabile distribuzione matematica degli elementi, non nel materiale che
è sempre costituito dalla forma, dal colore, dallo spazio, dalla paro
la/musica, dal corpo umano. La forma è legata alla dimensione di al
tezza, larghezza, profondità, ovvero linea, superficie, volume; anche la
luministica ha qualità volumetrica e spaziale (la geometria dei raggi lu
minosi), il colore è una qualità della luce e l’uomo è sia organismo sia
sezione aurea. L’uomo in scena è soggetto sia alle leggi del corpo sia a
quelle dello spazio tridimensionale: nel teatro astratto di Schlemmer,
in cui è evidente l’apporto ideale – pittorico e concettuale – della me
tafisica, l’uomo si relaziona allo spazio prismatico del palcoscenico at
traverso le invisibili linee planimetriche e stereometriche per creare
un’armonia di forme. I suoi movimenti, seguendo l’ordine geometrico
dello spazio, sono ginnici, ritmici ma anche legati all’organismo, al
sentimento di sé, ed è un cammino verso la liberazione dalle costrizio
ni e limitazioni dell’uomo e una sua trasformazione in figura artistica
astratta. Come nelle pitture metafisiche di De Chirico ogni porzione
del corpo (busto, braccia, gambe, testa), ogni punto di snodo delle ar
91 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
25
O. Schlemmer, Uomo e figura artistica, in Il teatro del Bauhaus, cit.
26
D. Monmarte, Honzl et Burian. Structuralism et «Gesamtkunstwerk», in D. Bablet (a
cura di), L’oeuvre d’art totale, cit.
ANNA MARIA MONTEVERDI 92
gata alla corrispondenza sensoriale e alle analogie nei diversi campi
dell’arte, una poesia per i cinque sensi27 che produrrà dei poemi radiogeni
ci in cui è dichiarata l’appartenenza all’universo poetico sinestetico
del Grand jeu e del simbolismo francese (Rimbaud, Mallarmé e Bau
delaire) e ai manifesti futuristi di Marinetti. In questa temperie nasce il
Teatro liberato, fondato da Jiri Frejka e di cui Honzl stesso era teorico,
che enfatizzerà proprio la sintesi delle arti (poesia, pittura, musica, ar
te drammatica) nel suo programma. Ne raccoglierà l’eredità Josef Svo
boda, attento – data l’importanza da lui attribuita alla luce – a una
«simbiosi impressionista» del teatro e per il quale lo spettacolo è una
«questione di proporzioni», di unità, sia pur nella diversità delle sue
componenti; la scenografia è «uno degli strumenti della grande or
chestra formata dai diversi mezzi di espressione che sono propri del
teatro. Essa può a volte suonare in a solo, a volte fondersi nell’insieme
strumentale, a volte smettere di suonare». Tutto ciò che è sul palco de
ve eseguire la partitura richiesta dal regista-direttore d’orchestra:
«Ognuno di questi elementi (l’attore, la parola, il movimento, il suo
no, la musica, la scena, gli attrezzi, la luce) deve essere così elastico e
adattabile, da poter echeggiare all’unisono con gli altri, esserne il con
trappunto o il contrasto, in modo da risuonare non solo in parallelo di
due o più voci con gli altri elementi, ma fondersi con uno qualsiasi di
essi e creare così una nuova gamma».28
27
Cfr. K. Teige, Manifesto del poetismo, in Arte e ideologia (1922-1933), Einaudi, Tori
no 1982. Il primo abbozzo del manifesto è dato dall’articolo Poesia per i cinque sensi
(1925).
28
J. Svoboda, cit. in D. Bablet, La scena e l’immagine, Einaudi, Torino 1970, pp. 36
37.
93 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
hall: «Il teatro di varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pub
blico. Questo non vi rimane statico come uno stupido voyeur, ma par
tecipa rumorosamente all’azione, cantando anch’esso, accompagnan
do l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri
cogli autori».29 Nella Russia rivoluzionaria di Lenin e Trotzkij (1917),
Vsevolod Mejerchol’d diede vita all’Ottobre Teatrale mentre nella Ger-
mania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknecht e di
Rosa Luxemburg (1919) e della Repubblica di Weimar, Erwin Piscator
fondò il Proletarisches Theater e in seguito fu direttore della Volk
sbühne; entrambi i registi, legati a un ideale di teatro politico di pro
paganda delle idee marxiste, della lotta di classe e del movimento rivo
luzionario socialista, introdussero con funzione pedagogica, l’uso di
immagini, cartelli, slogan, disegni, fotografie in una scena fatta di pra
ticabili scheletrici, costruzioni geometriche e congegni che risponde
vano ai principi strutturalisti di stilizzazione e che evidenziavano il le
game con le contemporanee correnti artistiche, visive e letterarie: da
una parte il raggismo, il cubofuturismo della Gončarova, il futurismo
di Majakovskij, il suprematismo di Malevič e il costruttivismo di Tatlin
e di Rodčenko, dall’altra il formalismo e l’eclettismo del Bauhaus. Il ci
nema nel teatro russo d’avanguardia è presente non solo attraverso le
proiezioni di documentari e film, ma anche attraverso una ricercata in
tegrazione linguistica della tecnica: viene trasposto in teatro lo spazio
tempo ideale del film (diverso dallo spazio-tempo reale, come ricordava
Vsevolod Pudovkin), ovvero il montaggio come costruzione in versi di un
nuovo tempo e un nuovo spazio, secondo le parole di Teige. Montag
gio letterario, montaggio di scene, montaggio di azioni: nella macchi
na teatrale c’è un’atomizzazione dello spettacolo, un «disgregamento
molecolare del dramma»: «Ogni spettacolo era un convoglio, una suc
cessione orizzontale di rapidissimi “numeri”, di scene-baleni. Nel tea
tro e nel cinema si sperimentavano allora con accanimento le possibi
lità del montaggio. V’erano artisti fanatici dell’incollatura, come Dziga
Vertov e i “kinoki”, che pur muovendo dall’ansia di cogliere la vita con
spontaneità, di sorpresa, finivano per alterare il loro documentarismo
e la stessa semantica delle inquadrature con troppi artifizi e bizzarrie di
montaggio. Anziché limitarsi ai tagli consueti, i registi di teatro riela
boravano il testo radicalmente, disseccando l’intreccio in nuclei stac
cati e senza alcun climax, invertendo l’ordine delle vicende, “traspo
nendo” i personaggi in maniera da trarne significati sociali, corrispon
29
F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Mi
lano 1968. Cit. in R. Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture (1906
1976), Le Lettere, Firenze 1996, p. 24.
ANNA MARIA MONTEVERDI 94
30
denti agli schemi sovietici». Dispositivi cinematografici entrano in
Terra capovolta (1923). È il primo spettacolo in cui Mejerchol’d utilizza
il materiale documentario; l’aspetto propagandistico della rivoluzione
proletaria era prioritariamente perseguito per arrivare a raggiungere il
fine principale: «l’agitazione». Lo spettacolo, in linea con gli orienta-
menti del teatro del tram di agit-prop e con gli atti di massa inaugura
ti da Evreinov nel 1917, fu portato nelle strade e nelle piazze, e segna
va, secondo le intenzioni di Mejerchol’d, la fine del palcoscenico-scatola.
In Le cocu magnifique (1922), considerato lo spettacolo manifesto del
costruttivismo teatrale, Mejerchol’d creò con la Popova una elementa
re struttura di movimento con una scena praticabile a intelaiatura
scheletrica che veniva percorsa atleticamente dagli attori; nel Revisore
(1926), definito da Ripellino una «suite sinfonica, una “gogoliana” in
15 episodi», i movimenti delle scene e degli attori «biomeccanici» era
no scomposti e definiti «metronomicamente» e meccanicamente come
i gesti di produzione, mentre il montaggio letterario prevedeva inter
polazioni da altri testi di Gogol’ e da varianti della stessa commedia.
L’azione scenica, scomposta e frammentata, a dettagli, si concentrava
per lo più su due piattaforme su ruote; Ripellino, nella dettagliata ana
lisi dello spettacolo, ne osservò il principio cinematografico cui si
uniformava l’aggregato complessivo che rimandava efficacemente ai
primi piani del cinema.
Erwin Piscator riorganizza la scena introducendo innovazioni tecni
che moderne e facendo del fondale arricchito di immagini filmiche – co
me ricordava Bertolt Brecht – un «compartecipe attivo, con funzioni si
mili a quelle del coro greco».31 Nel fondamentale testo Il teatro politico32
Piscator divise le pellicole proiettate in scena in base alla funzione assol
ta nello svolgimento del dramma: il film didattico, il film drammatico e
il film di commento. Il film didattico, secondo il regista, aveva il compito
di comunicare i dati di fatto obiettivi, attuali e storici, mentre quello
drammatico sostituiva la scena recitata. Il film di commento, infine, accom
pagnava lo sviluppo del dramma e attirava l’attenzione del pubblico sui
momenti salienti dell’azione corale. Dopo un primo brillante risultato
dell’utilizzo del film in Bandiere (1918) sullo sciopero operaio per l’otte
nimento delle otto ore lavorative nel 1880 a Chicago, in Ad onta di tutto
30
A.M. Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento,
Einaudi, Torino, 1965, p. 299.
31
B. Brecht, Il teatro sperimentale (1959), in F. Cruciani, C. Faletti, Civiltà teatrale nel
XX secolo, il Mulino, Bologna 1986, p. 255.
32
E. Piscator, Il teatro politico (1932), Einaudi, Torino 1956. D’ora in avanti le cita
zioni anche senza rimando in nota, si riferiscono a questo testo.
95 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
33
W. Gropius, in E. Piscator, Il teatro politico, cit., p. 130.
34
M. Castri, Piscator ovvero Prospero, introduzione a E. Piscator, cit., p. XIV.
35
M. De Marinis, In cerca dell’attore, Bulzoni, Roma 2002.
97 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
The Theatre of Mixed Means (1968) è il titolo del libro di Richard Ko
stelanetz in cui si parla delle contaminazioni tra le arti nel teatro di ri
cerca americano alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze
visive della fine degli anni Cinquanta ai confini con il teatro, come
l’happening o gli intermedia (definiti anche da Robert Rauschenberg
«quadri viventi»), termini che designano variamente una combinazio
ne di vari mezzi espressivi. L’inclusione della musica, della danza, del
le tecniche del film o della televisione e l’esclusione del testo o addi
rittura della parola, il carattere «attimale», dove contano principal-
mente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato
per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani) in cui è col
locato, definiscono le caratteristiche di questo nuovo teatro che mira a
confondere arte e vita. Altri movimenti promuoveranno il tema dell’e
vent e dell’environment (Gutai, Wiener Aktionismus, Fluxus). Oggetti
del décor urbano, materiali ingombranti, gomme d’automobili, mobi
li, falciatrici, carta, bidoni vengono accatasti e collocati insieme ad ac
cadimenti verbali e corporei in un processo di aggregazione caotica
che ricorda le compressioni di César e le accumulazioni di Arman. Ko
stelanetz parla di un vecchio teatro in cui gli elementi erano inter
complementari e di un nuovo teatro in cui sarebbero, invece, comple
tamente indipendenti, e distingue tra happening puro, ambiente ci
netico, happening da palcoscenico e rappresentazione da palcosceni
co; la discriminante sarebbe data dalla apertura o chiusura/fissità o va
riabilità di tempo, spazio e azione. Ma è Michael Kirby a lasciarne alla
memoria il mito con Happening (1968), un volume che oltre a conte
nere la trascrizione dei copioni di quattordici eventi realizzati in Ca
lifornia e a New York tra il 1959 e il 1963 da molti artisti pop america
ni tra cui Robert Whitman, Jim Dine e Claes Oldenburg, comprende
va anche una dettagliata introduzione al fenomeno considerato nei
suoi aspetti formali ricorrenti. Tra gli eventi descritti, lo storico 18 hap
pening in 6 parts che inaugurava nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gal
lery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow, la sta
gione degli happening: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate,
suoni e rumori provenienti da un altoparlante, pareti affrescate con
collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute
da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e in
torno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da
pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. The Store viene rea
lizzato nel 1961 da Claes Oldenburg, che prese in affitto un magazzino
nel vivace quartiere del Lower East Side a Manhattan per le sue rap
99 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
37
H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, Feltrinelli, Milano 1964.
ANNA MARIA MONTEVERDI 100
ni sono fantasie eseguite non esattamente sul modello della vita, anche
se derivate da essa. Terzo: le azioni costituiscono una struttura organiz
zata di eventi. E quarto: il loro “significato” è leggibile in senso simboli
co e allusivo».38 Tra gli scritti sull’arte di Allan Kaprow va ricordato Gli
happening sulla scena newyorkese (1961) in cui l’artista americano elenca le
differenze tra happening e teatro: il primo è un evento realmente par
tecipativo e non strutturato, non scritto e non convenzionale, avente
forma aperta e fluida, passibile negli oggetti di cui si compone, di mo
difiche non prevedibili. L’happening inoltre, dà importanza all’appara
to non verbale (azioni, rumori, materiali visivi) e al contesto (il luogo
della rappresentazione) inteso come «atmosfera globale»: strade, nego
zi, loft; instaura un legame «organico» con l’ambiente, in cui il pubblico
si lascia condurre dall’azione rivestendo un ruolo. Si consuma infine,
nell’unica occasione in cui si presenta, non essendo riproducibile né l’e
sperienza né il caso. A proposito del caso, Kaprow ricorda come questo
non sia presente nel teatro tradizionale, e se appare è relegato all’ambi
to dell’interpretazione, ma che è invece il modo di operare tipico del-
l’happening: «Il caso, più che la spontaneità, è un termine chiave, per
ché implica rischio e paura [...] Designa al meglio anche un metodo che
diventa manifestamente non metodico se si considera l’opera più come
una prova che come una ricetta [...] Gli artisti che utilizzano diretta
mente il caso rischiano uno scacco, lo scacco di essere meno artisti e più
vicini alla vita».39
Il riferimento teorico che porta Kaprow a creare «opere con la vita»,
è quello del filosofo pragmatista americano John Dewey, autore di Art
as Experience (1934). Per Dewey l’esperienza estetica è legata a quella or
dinaria, comune, quotidiana; è un’azione interrelata col mondo ester-
no, completa solo nel momento della realizzazione finale dell’opera e
quindi della sua comunicazione sociale, fuori da un isolamento artisti
co e da un sentire individuale. Dewey sosteneva che l’essenziale dell’a
zione estetica è il compimento (fulfillment) secondo cui il processo for
mativo (come sarà per la teoria della formatività di Pareyson enunciata
nell’Estetica) ha una funzione fondante. Ogni evento è un processo.
Carlo Ludovico Ragghianti in Cinematografo rigoroso aveva anticipato di
qualche anno (1932) il concetto di spazio-temporalità intrinseca di
ogni attività artistica: la forma di un’opera d’arte si identifica col suo
processo attuativo, costruttivo.40 Peter Brook in The Empty Space (1968)
38
A. Kaprow, Happening, in M. Kirby, Happening, De Donato, Bari 1968, p. 76.
39
A. Kaprow, Happennings in New York, «Art News 60», n. 3, 1961. I testi di Kaprow
sono stati raccolti da J. Kelley in L’art et la vie confondus, Centre G. Pompidou, Paris
1996.
101 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
40
Cfr. C.L. Ragghianti, Tempo sul tempo, in Arti della visione, III Il linguaggio artistico,
Einaudi, Torino 1952.
ANNA MARIA MONTEVERDI 102
bientale, decretando la fine del «punto di vista unico, sorta di marchio
di fabbrica del teatro tradizionale».41 Nel testo Six Axioms for Environ-
mental Theatre (1968) Schechner sviluppava la nuova idea di teatro: il fat
to teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubbli
co, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione): «Tutto lo
spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’e
vento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato
sia in uno spazio “lasciato come si trova”; il punto focale è duttile e va
riabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio lin
guaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo
della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci». Questi
enunciati hanno una serie di postulati: l’eredità storica del teatro del
Bauhaus nella definizione di uno spazio organico e dinamico; la mobi
lità dello spettatore rispetto all’evento o agli eventi sparsi a cui è affida
to implicitamente anche il compito di ricucire l’unità delle singole azio
ni, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercam
biabilità tra attore e pubblico; crollo della gerarchia tra gli elementi del
la rappresentazione e tra questi il testo: la letteratura deve essere tratta
ta come materiale, non come autorità e modello.
41
R. Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari 1968.
103 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
teatro deve abbattere. La paura della guerra nella sua terribilità evocata
dal pianto reale degli attori che non recitano, getta in una condizione di
pericolo il pubblico che inconsapevolmente è passato da osservatore a co
protagonista attraverso un meccanismo di inclusione sancito da uno
sguardo, diretto e pieno di odio e timore degli attori, diventati nel tea
tro-trincea suoi nemici. In Frankenstein (1965) il mito della Creatura si
mescola con l’utopia marxista dell’Uomo Nuovo, in un sincretismo cul
turale che unisce Oriente e Occidente, mito e rito, parola – Sofocle e
Mary Shelley – e immagine. Frankenstein (come Antigone) ripropone la fi
gura del resistente dell’antico dramma guardando brechtianamente al
presente: l’azione si riversa anche in sala, accerchiando artaudianamen
te il pubblico nel primo atto; durante la scena della processione del ca
pro espiatorio – il rituale collettivo di morte – gli afflitti si ribellano e
cercano rifugio tra il pubblico. Identificati, finiscono giustiziati. La sala
teatrale diventa la camera delle torture e il pubblico è implicitamente
chiamato a rispondere a quei «segnali tra le fiamme» lanciati dagli atto
ri, secondo la frase di Artaud che Malina cita spesso come miglior im
magine del concetto di teatro della crudeltà. All’indomani della Dichia
razione di azione (Berlino, 1970) il gruppo americano abbandonerà i tea
tri per creare un teatro d’azione sulla strada, teatralizzando la vita, come
idealizzava Evreinov (dal Ciclo dell’Eredità di Caino fino a Not in My Na-
me rappresentato a Times Square ogni qual volta avviene una condanna
capitale, all’odierno Resistence Now i cui slogan hanno invaso Genova nel
2001 in occasione dell’Anti G8).
Il percorso teatrale di Luca Ronconi è una costante ricerca della spa
zialità nascosta del testo, anzi di testi monumentali e apparentemente
irriducibili alla scena e allo spazio-tempo teatrale (dall’Orlando Furioso
dell’Ariosto, 1969 all’Ignorabimus di Holz, 1986 agli Ultimi giorni dell’u
manità di Kraus, 1990); una spazialità fatta di marchingegni e meccani
smi svelati alla luce del sole, la quale «meglio può rivelare la dimensione
concettuale, immaginaria e culturale, dell’autore (ecco allora la scelta di
uno spazio claustrofobico per Ibsen, della macchina fanta-barocca per
l’Ariosto, della macchina bellico-industriale per Kraus)» (A. Balzola,
1993). La disposizione narrativa delle numerose vicende del capolavoro
ariostesco così come quelle del testo-fiume di Kraus sono rappresentate
in una simultaneità di azioni sceniche – come nelle sacre rappresenta
zioni medioevali – che smontano di fatto, l’asse temporale diegetico; lo
spettatore, spostandosi fisicamente intorno ai «luoghi deputati», opera
una libera e soggettiva selezione di visione.
Nel 1976-78 Luca Ronconi dà vita al Laboratorio di Progettazione
Teatrale di Prato come scuola interdisciplinare con l’attrice Marisa
Fabbri e l’architetto Gae Aulenti. Verranno realizzati tre spettacoli in
ANNA MARIA MONTEVERDI 104
qualche modo concatenati tra loro: Le Baccanti di Euripide, La Torre di
Hugo von Hofmannsthal, il Calderón di Pasolini. La caratteristica sia
dei laboratori aperti sia degli allestimenti finali fu la scelta di spazi in
soliti, di luoghi adatti a una più ampia riflessione sulla comunicazione
teatrale, sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività,
su un nuovo rapporto col pubblico, di una ricerca cioè, di quello che
Gae Aulenti definiva il «Teatro-territorio». L’ex orfanotrofio spogliato
di arredi diventa il luogo oppressivo e angosciante che accoglie la tra
gedia euripidea che mostra «il dio a venire» e il labirinto dell’essere.
Marisa Fabbri nei panni di Dioniso, Penteo, Tiresia, Cadmo, il coro dei
tebani e quello asiatico si muovevano tra le suggestioni di geometrie
architettoniche, luci e ombre taglienti, specchi. Così Gae Aulenti spie
ga le motivazioni della scelta di far esplodere lo spettacolo dentro i
luoghi trovati della città, dentro i suoi segni per ricavarne una nuova
scrittura scenica: «Concretamente attraverso il lavoro sulla comunica
zione teatrale, lo studio dei luoghi ad essa destinati costituisce una let
tura pertinente del Territorio. Sono luoghi autonomi che si propon
gono come momenti particolari di quell’insieme di attività che è la co
municazione teatrale. Questa attività è critica: si prende gioco delle ge
rarchie e delle divisioni che il territorio impone, cosicché Teatro, Ban
ca, Capannone industriale, Orfanotrofio, Cementificio, diventano tut
ti luoghi di comunicazione, e all’interno di queste tipologie il teatro
esercita la sua attività indifferente alle convenienze dei generi, dei sog
getti, dei fini di questi edifici. La nuova composizione di questi luoghi
rimette in causa la loro tradizione retorica, i loro rapporti con la città:
Teatro o Banca uguale centro storico, Orfanotrofio uguale fuori le mu
ra, Capannone o cementificio uguale periferia. Questi luoghi, attra
verso la funzione teatro determinano altre forze associative, articolano
una diversa narrazione della città. E la loro descrizione topografica di-
venta una topologia che non stabilisce nessuna preminenza morale ma
solo strutturale».42
Josef Svoboda nasce a Čáslav vicino a Praga nel 1920. Il suo appren
distato artistico in quei primi anni della Repubblica Cecoslovacca è nel
laboratorio del padre falegname; dalla pratica artigianale e dagli studi
di architettura approda presto alla professione teatrale: a ventisei anni
42
G. Aulenti, Diario ’76-’78 in F. Quadri, L. Ronconi, G. Aulenti, Il Laboratorio di
Prato, Ubulibri, Milano 1981, pp. 26-27.
105 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
«...l’arte come spazio, lo spazio come ambiente, l’ambiente come evento, l’e
vento come arte, l’arte come vita...».
Wolf Vostell, 1964
«If this word “music” is sacred and reserved for eighteenth- and nineteenth
century instruments, we can substitute a more meaningful term: organisation
of sound».
John Cage, 1937
Il plurale è d’obbligo, perché è chiaro che non esiste una sola linea,
ma una molteplicità di percorsi diversi, che si affiancano, che si sovrap
pongono, che spesso si contraddicono. Senza l’intenzione di essere
esaustivi, cerchiamo di indicarne alcuni.
Da un lato, è stata tentata l’elaborazione di strategie di convergenza
tra la musica e le altre arti, con l’obiettivo di costruire un’opera compo
sita, in cui il prisma delle diverse irradiazioni sensoriali moltiplica l’im
patto non solo percettivo ma anche espressivo. Dall’altro, sono state at
tivate delle strategie di corrispondenza e di connessione tra i segni e i
linguaggi artistici (tra la musica e il testo poetico o letterario, o ancora le
arti plastiche), con l’obiettivo di rinnovarne le strutture e le funzioni.
O ancora, con l’estensione del campo musicale ai rumori e alla di
mensione dello spazio, e la conseguente emergenza delle nozioni di am
biente e di evento, è stata esplorata la via di un’arte sonora, che pro
gressivamente si allontana dal formalismo astratto del linguaggio musi
cale, per ricercare un contatto più profondo con le dimensioni concre
te dell’esperienza.
In opposizione alla rigida separazione tra arti dello spazio e arti del
tempo, fissata dall’estetica settecentesca, e spinti dal desiderio di ritro
vare l’unità originaria della pulsione creativa, a partire dall’epoca ro
mantica molti poeti, pittori e musicisti hanno cominciato a progettare la
fusione tra le diverse arti.
«L’estetica di un’arte è uguale a quella delle altre, soltanto il materia
le è diverso», scrive Schumann: la convergenza delle diverse discipline
artistiche si fonda su un processo di ricerca dell’Assoluto, di tensione
spirituale che si trasmette con il gioco delle sensazioni, e che va oltre le
dimensioni razionali. L’arte non è più intesa come mimesi, come imita
zione, ma al contrario come espressione del sentimento.
In questo contesto, la musica assume una posizione privilegiata. Con
siderata come rivelazione dell’Assoluto nella forma del sentimento da
Hegel, come immagine pura della volontà da Schopenhauer, la musica
viene esaltata dal romanticismo per la sua capacità di trascendere la ma
teria sensibile, e per la sua conseguente forza espressiva, vertice a cui tut-
te le altre arti devono tendere.
La formulazione più sistematica di questa concezione basata sulla
convergenza delle arti sotto la guida della musica, è rappresentata dalla
poetica della Gesamtkunstwerk di Wagner.
EMANUELE QUINZ 110
Criticando la decadenza dell’opera musicale, Wagner ne propone
una riforma basata sul riequilibrio tra componenti testuali e musicali.
La questione dell’unità delle arti e dell’organicità dell’opera1 è alla ba
se del concetto wagneriano di Drama. Il Drama non corrisponde sempli
cemente al testo, ma «alle azioni della musica divenute visibili» («ersich
tlich gewordene Taten der Musik»2); come sottolinea Carl Dahlhaus, non
è il presupposto della musica (come indicherebbero alcune celebri for
mule di Opera e dramma), ma «emerge come il prodotto della mediazione
tra intenzione poetica ed espressione musicale».3 Nel Ton-Wort-Drama wa
gneriano, la musica non è più schiava del testo, né viceversa, ma tutti i
mezzi concorrono all’attuazione dell’intenzione poetica.
Estetica «come fisiologia applicata»:4 gli effetti devono essere suppor
tati da una causa efficiente: l’immediatezza espressiva si fonda sul calco
lo compositivo, ma soprattutto sulla co-azione di tutti i mezzi, dalla mu
sica al testo, dal gesto all’architettura.
In realtà, la prefigurazione utopica dell’opera d’arte dell’avvenire,
come Wagner la delinea in L’opera d’arte dell’avvenire (1849) e poi in Ope
ra e dramma (1851), nasce dalla nostalgia dell’età dell’oro della tragedia
antica, nella quale viene identificato il paradigma di un’unità originaria
tra parola, suono e gesto.
All’interno di questa strategia della convergenza, la musica non è più
forma pura, ma funzione (espressiva), e, attraverso il dissolvimento del
le strutture sintattiche in un flusso musicale «infinito» e l’utilizzo della
tecnica dei leitmotiv per tessere all’interno delle opere una rete sotter
ranea di riferimenti, costituisce una vera e propria «semiotica sonora».5
Sulla stessa linea si pone, quasi un secolo dopo, Eisenstein, quando
cerca di fondare un teatro delle attrazioni, un teatro il cui compito forma-
le consista nell’agire efficacemente sullo spettatore con tutti i mezzi
messi a disposizione dalla tecnica moderna.
Come per Wagner, il rifiuto dei modelli tradizionali si associa a una
volontà di riforma (o meglio di rivoluzione) estetica, e allo stesso tempo
1
«L’estetica ha constatato che l’unità è un requisito capitale per l’opera d’arte»,
R. Wagner, Über die Anwendung der Musik auf Drama, Gesammelte Schriften und Dichtun
gen, Leipzig 1911 (5a ed.), vol. IX; trad. it. Musikdrama. Scritti teorici sulla musica, Studio
Tesi, Pordenone 1988, p. 228.
2
R. Wagner, Über die Benennung Musikdrama (1872), in GS, p. 30; trad. it., p. 57.
3
C. Dahalaus, Wagners Konzeption des musikalischen Dramas, Regensburg Gustav
Bosse Verlag 1971; trad. it. La concezione wagneriana del dramma musicale, Discanto, Fi
renze 1983, p. 130.
4
F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner ; trad. it. Scritti su Wagner, Adelphi, Milano
1979, p. 214.
5
F. Nietzsche, Der Fall Wagner, ibidem, p. 180.
111 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
9
P. Albera, Il teatro musicale, in Enciclopedia Einaudi, I vol., Einaudi, Torino 2001,
p. 224.
10
Cfr. J.Y. Bosseur, Musique et arts plastiques, Minerve, Paris 1998, cap. 1, p. 9 ss.
11
V. Kandinskij, De la composition scénique, in V. Kandinskij, F. Marc, L’Almanach du
Blaue Reiter, riedizione francese, Klincksieck, Paris 1979, p. 249.
113 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
12
V. Kandinskij, Über das Geistige in der Kunst, trad. it Lo spirituale nell’arte, SE, Mila
no 1989, p. 39.
13
J.-P. Balpe, L’œuvre comme processus, «anomalie n. 0», anomos, Paris 1999, p. 35.
14
P. Lévy, Cyberculture, Odile Jacob, Paris 1997, p. 78; J.-P. Balpe (Hyperdocuments,
Hypertextes, Hypermédias, Eyrolles, Paris 1990) utilizza piuttosto il termine hypermédia.
EMANUELE QUINZ 114
terattività (tra linguaggi) si apre poi all’esterno, a un secondo livello, at
traverso la relazione interattiva che le interfacce instaurano con gli uti
lizzatori.
Negli ultimi anni, sempre più frequenti ricerche e sperimentazioni
interartistiche tentano di definire le specificità di un’estetica dell’inte
rattività. Le modalità di relazione tra le diverse arti divengono sempre
più efficaci, superando progressivamente il piano delle connessioni su
perficiali, per esplorare i legami profondi tra i linguaggi. La scrittura al
goritmica permette in particolare di fissare queste relazioni come una
serie di regole e di comportamenti, integrando anche dei processi alea
tori o dei dispositivi generativi per renderle più rapide, più pertinenti e
più complesse.15
3. La nozione di ambiente
15
Un esempio molto suggestivo è lo spettacolo Trois Mythologies et un Poète aveugle,
realizzato all’IRCAM di Parigi nel 1997, in cui un sistema di generazione automatica di
poesia concepito da Jean-Pierre Balpe era messo in connessione con un sistema ge
nerativo di musica sviluppato dal compositore Jacopo Baboni Schilingi. Cfr. J.-P. Bal
pe, op. cit. Per un’analisi e degli esempi di sistemi musicali interattivi, cfr. R. Rowe,
Interactive Music Systems. Machine Listening and Composing, MIT Press, Cambridge Mass.
1993 e il più recente R. Rowe, Machine Musicianship, MIT Press, Cambridge Mass.
2001, in particolare, sulle installazioni interattive.
115 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
16
Sulla nozione di spazio nella musica contemporanea, cfr. P. Szondy (a cura di),
Espaces, «Cahiers de l’IRCAM» n. 5, 1994; F. Bayer, De Schönberg à Cage – Essai sur la no
tion d’espace sonore dans la musique contemporaine, Klincksieck, Paris 1981; I. Istoianova,
Geste-texte-musique, 10/18, Paris 1978.
EMANUELE QUINZ 116
al formalismo che, da Hanslick in poi, domina l’estetica musicale, con
tro la definizione della musica come puro linguaggio, come sistema dif
ferenziale di valori astratti, si fonda un’arte sonora, che esplora le di
mensioni concrete della produzione e della percezione del suono. Al te
sto viene sostituito l’ambiente, all’oggetto l’evento. È precisamente a
partire dalla nozione di evento sonoro (sound-event) che il compositore
canadese R. Murray Schafer costruisce la sua teoria del paesaggio sonoro
(Soundscape). Criticando la celebre definizione d’oggetto sonoro data
dal padre della musica concreta Pierre Schaeffer, che riconduce un
frammento concreto, estratto da un flusso sonoro registrato alla funzio
ne astratta di unità sintattica, Murray Schafer spiega che l’evento sonoro
non ha semplicemente delle coordinate spazio-temporali, ma mantiene
anche una stretta relazione con la sua fonte: «Se l’oggetto sonoro si ana
lizza come oggetto acustico astratto, l’evento sonoro si definisce, al con
trario, attraverso le sue dimensioni simboliche, semantiche e strutturali.
Esso costituisce un punto di riferimento nell’universo concreto, legato
all’insieme che lo contiene».17
Al contrario degli oggetti sonori, veri e propri «specimen da labora
torio», gli eventi sonori sono pulsazioni vive, perché non hanno tagliato
il cordone ombelicale che li lega al soggetto e all’ambiente che li hanno
prodotti. «Per esempio, lo stesso suono di campana può essere conside
rato come un oggetto sonoro se registrato e analizzato in laboratorio, o
come evento sonoro se è identificato e studiato in seno a una comu
nità».
Murray Schafer definisce quindi il Soundscape come un campo di in
terazione tra eventi sonori. Nel suo celebre libro-manifesto The Tuning
of the World, analizza gli eventi sonori secondo tre categorie: a) le toniche
(Keynote-Sounds), eventi sonori permanenti per tutta la durata del pae
saggio sonoro, riconducibili allo «sfondo» della psicologia della perce
zione, sul quale emergono; b) i segnali (Sound-Signals), ovvero le «figu
re», i suoni ascoltati coscientemente; c) le impronte, «suoni comunitari
che possiedono caratteristiche di unicità oppure qualità tali da fargli at
tribuire da parte di una determinata comunità, valore e considerazione
particolare». Questa classificazione rivela una chiara matrice antropolo
gica. Come spiega lo stesso Murray Schafer, non solo è possibile analiz
zare gli eventi sonori da diversi punti di vista: secondo gli attributi fisici
(acustica), la percezione che se ne ha (psico-acustica), le loro funzioni e
le loro significazioni (semiotica e semantica), le loro qualità affettive
(estetica), ma è necessario anche analizzare la distanza del suono ri
17
R. Murray Schafer, The Tuning of the World, Knopf, New York 1976; trad. it. Il pae
saggio sonoro, Unicopli, Milano 1985.
117 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
18
R. Barthes, Ecoute, in L’obvie e l’obtus, Seuil, Paris 1982, p. 218; trad. it. L’ovvio e
l’ottuso, Einaudi, Torino 1985.
19
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux, Seuil, Paris 1980, p. 386 ss.
EMANUELE QUINZ 118
strategia dell’individuazione: l’ambiente sonoro è percorso alla ricerca de
gli indizi che segnalano le frontiere dei diversi territori, le tracce della
persistenza, dell’attività dei diversi nuclei soggettivi. L’ascolto diviene
una sismografia della presenza.
L’analisi del Soundscape di Murray Schafer, estendendosi dai criteri fi
sici alle relazioni che si instaurano tra paesaggio acustico e i microco
smi culturali e sociali, ha permesso la produzione di progetti musicali e
inter-artistici in situ, fondati sulle nozioni di ecologia acustica e di de
sign sonoro.20 Ma questa concezione dell’ambiente sonoro è ben lungi
dall’essere la sola. In realtà, le componenti plastiche, la convergenza
delle dimensioni sonore, visive, spazio-temporali, le stratificazioni dei
codici e la contaminazione dei supporti, la complessità degli apparati
tecnici utilizzati, danno luogo a materializzazioni estremamente etero
genee di questo modello. Nelle installazioni di artisti come Christina
Kubisch, Laurie Anderson, Stan Douglas, Robin Minard, Bill Fontana o
Gary Hill, le tecnologie di diffusione, spesso associate al video, permet
tono di estendere l’esplorazione dello spazio sonoro a territori ancora
inesplorati (attraverso dei dispositivi della presenza a distanza o dei
processi di alterazione percettiva, per esempio).21 Un’altra via è stata
aperta dalla Musique d’Ameublement (1920) di Erik Satie, e più recente
mente dall’Ambient Music, lanciata da Brian Eno negli anni Sessanta.
L’opera corrisponde alla creazione di un fondo sonoro che implica
un’esperienza d’ascolto distratto: i suoni non sono più un oggetto da
ascoltare ma un luogo da abitare. Secondo la definizione di Eno, l’Am
bient Music è una musica «capace di colorare l’atmosfera dello spazio
in cui è diffusa. È una musica che circonda l’ascoltatore d’un senso di
immensità e di profondità, e che ha la tendenza ad avvolgerlo da tutti i
lati, piuttosto che a dirigersi verso di lui. Essa si confonde con i suoni
dell’ambiente, e sembra invitare ad ascoltare musicalmente l’ambiente
stesso...».22
23
Cfr. J. Cage, Composition as Process, in Silence, Wesleyan University Press, Hanno
ver/London 1973, pp. 18-55.
EMANUELE QUINZ 120
New School for Social Research di New York, tutti (e George Maciunas
in testa) si ispirano alle sue posizioni e in particolare alla poetica del-
l’indeterminazione. Il nome Fluxus riunisce una serie di esperienze
estremamente disparate. Esso appare per la prima volta, in occasione di
una serie di concerti di musica «più nuova» (Fluxus Internationale Fest
spiele neuester Musik, in polemica con la Neue Musik emersa ai Ferienkur
se di Darmstadt) tenutasi a Wiesbaden nel 1962: dalla Ranger Music #17
di Dick Higgins (in cui l’artista si fa radere in scena) alla Drip Music di
George Brecht (in cui un attore su una scala versa da una brocca del-
l’acqua sul suolo), alle celebri Piano Activities di Philip Corner (in cui un
pianoforte viene distrutto sulla scena): emerge una concezione desacra
lizzante, sarcastica della musica, che bandisce l’io per aprirsi, sulla trac
cia delle esperienze dadaiste, ai processi automatici, all’humour dell’i
natteso. Nel 1959, lo stesso anno in cui Kaprow programma i suoi 18
Happenings, George Brecht presenta a New York la sua prima esposizio
ne personale Toward Events. Partito anch’egli dalle sperimentazioni sulle
qualità sonore degli oggetti, Brecht definisce il concetto di evento (event)
come «un’esperienza totale e multi-sensoriale».24 Se l’happening richie
de ancora una dimensione sociale, in cui il pubblico partecipa alla si
tuazione provocata, l’event, attraverso delle partiture che consistono
spesso semplicemente in una serie di istruzioni scritte su delle carte (co
me in un gioco), ha la funzione di attirare l’attenzione su azioni banali
(come accendere la luce, guardare fuori dalla finestra), che possono es
sere svolte dallo spettatore da solo o con chi vuole, e soprattutto dove e
quando vuole. La costellazione Fluxus include, oltre a Brecht e Kaprow,
le sperimentazioni di artisti, in parte emersi dal mondo della musica, co
me il coreano Nam June Paik o la giapponese Yoko Ono, il francese Ben
Vautrier (fondatore a Nizza del Group d’Art Total), il tedesco Wolf Vo
stell (promotore della rivista «Dé-coll/age») o gli americani Ben Patter
son, Emmett Williams, La Monte Young e Henry Flynt. Ma, malgrado gli
sforzi di coordinazione di George Maciunas, Fluxus non riuscì mai a di
venire un vero e proprio movimento con una poetica unitaria. Comuni
erano piuttosto gli obiettivi polemici, una sorta di insofferenza verso la
tradizione e la separazione delle arti, e una nebulosa volontà di fondere
le discipline, di esplorare territori nuovi, di dare all’arte nuovi strumenti
e nuove materie, di includere nell’esperienza estetica gli oggetti e le si
tuazioni della vita quotidiana, di attribuire allo spettatore un ruolo sem
pre più attivo all’interno del processo di creazione. Emerge come rifiuto
del simbolismo, dell’espressionismo e delle dinamiche di rappresenta
24
G. Brecht, The Origin of Events, August 1970, in Happening & Fluxus, Köln 1970,
ripubblicato in Fluxus dixit, Les Presses du Réel, Dijon 2003, p. 47.
121 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
25
M. Nyman, Experimental Music: Cage and Beyond, Studio Vista, London 1974, p. 21.
26
Cit. in E. Restagno (a cura di), Reich, EDT, Torino 1994, p. 23.
27
Cit. in L. Miller, Interview with George Maciunas, 24 marzo 1978, in Fluxus dixit,
op. cit., p. 65.
EMANUELE QUINZ 122
cezione artistica è sempre «aperta», dipende dal prisma delle compe
tenze e delle proiezioni individuali; le opere «aperte» trasformano que
sta constatazione in intenzione programmatica, in matrice formale. La
modularità strutturale apre l’opera a una molteplicità di interpretazioni
diverse (nel doppio senso del termine, come processo di attribuzione di
senso e come esecuzione).
L’indeterminazione e l’alea tuttavia non sono più considerate, come
per Cage e Fluxus, mezzi per liberare le forze dell’alterità e scoprire nuo
ve forme di soggettività, ma sono in qualche modo «controllate», rese og
gettive dal rigore della scrittura musicale. In un saggio del 1957, Boulez28
oppone alla nozione di caso proposta da Cage (che, a suo avviso, «ma
schera una debolezza congenita nella tecnica di composizione») il prin
cipio della permutazione derivato dal serialismo, capace di integrare di
namiche aleatorie (e quindi le nozioni di complessità e variabilità) al-
l’interno di un impianto strutturale di estremo rigore. In composizioni
come la Terza sonata per pianoforte (1957) o Pli selon Pli (1958-62), entram
be ispirate al Coup de dés di Mallarmé, Boulez sperimenta una serie di or
ganizzazioni formali in cui alcuni elementi sono aperti, lasciati all’arbi
trio dell’interprete. Secondo il musicologo Nattiez, la poetica dell’opera
aperta, avvelenata da una serie di aporie concettuali, non riesce a modi
ficare lo statuto del testo musicale.29 In realtà, anche se è vero che alla ri
cezione, lo spettatore si trova davanti a un testo compiuto e quindi in un
certo senso tradizionale, il baricentro si è spostato: l’attenzione non è più
posta sull’oggetto-testo, ma sul processo (la strategia della modulabilità)
che ha portato alla sua attualizzazione.
Con la diffusione delle tecnologie digitali, si passa dalla partecipazio
ne all’interattività. Già alla fine degli anni Sessanta, alcuni degli artisti
americani che hanno promosso l’happening e le altre forme di estetica
partecipativa iniziano a integrare ai loro progetti delle apparecchiature
elettroniche o dei sistemi di sensori. Al fine di instaurare una serie di
collaborazioni tra arte, scienza e tecnologia, viene per esempio fondato
a Los Angeles, nel 1967, l’Art & Technologies Program, al quale parteci
pano artisti come Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Claes Oldenburg,
Walter De Maria, Dan Flavin, Robert Rauschenberg. L’anno seguente, al
MIT di Cambridge, l’artista cinetico Otto Piene fonda il CAVS, Center for
Advanced Visual Studies, che vede la collaborazione di Paik e più tardi
di Bill Seaman. Lo stesso anno, Robert Rauschenberg e l’ingegnere Bil
28
P. Boulez, Aléa, in Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966; trad. it. Note di apprendista
to, Einaudi, Torino 1968. Cfr. la replica di Cage, in J. Cage, Pour les oiseaux, Entretiens
avec Daniel Charles, L’Herne, Paris, p. 219-220.
29
J.-J. Nattiez, Fondements d’une sémiologie de la musique, 10/18, Paris 1975, p. 121 ss.
123 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
30
Sulla linea che collega l’happening ai Reactive Environments, cfr. R. Kostelanetz,
The Theatre of Mixed Means. An introduction to Happenings, Kinetic Environments and
other Mixed-Means Performances (1968), R. Kostelanetz ed., New York 1987.
31
M. Krueger, Artificial Reality, Reading, Addison-Wesley 1983, p. 47.
32
Cfr. i due volumi di Studio Azzurro, Electa, Milano 1995 e 1999.
33
Cfr. C. Buci-Glucksmann, La folie du voir. Une esthétique du virtuel, Galilée, Paris
2002, p. 227.
34
S. Dinkla, Pioniere Interaktiver Kunst, Karlsruhe ZKM/Cantz Verlag 1997, p. 39.
35
D. Rokeby, Very Nervous System, disponibile sul sito dell’artista http://www.inter
log.com/~drokeby/ (luglio 2003).
EMANUELE QUINZ 124
suoni o delle sequenze musicali. A Rokeby non interessa tanto la qualità
dei movimenti o degli eventi sonori, «la danza» o «la musica», quanto
piuttosto «la creazione di una relazione complessa e risonante tra l’inte
rattore e il sistema». Questa relazione che si costruisce attraverso la me
diazione dell’interfaccia, si definisce come un circuito, una spirale che
lega azione, percezione e reazione, ascolto e movimento secondo il mo
dello del feedback teorizzato dalla cibernetica.
In realtà, in questo contesto, il feedback non si riduce a un semplice
behaviorismo basato sul binomio stimolo-risposta, poiché nel dispositivo
interattivo, il sistema è capace di modificare ogni volta la relazione che
stabilisce tra input e output. La macchina non risponde semplicemente
a un segnale, ma tratta un’informazione. La comunicazione che si in
staura all’interno dell’ambiente non corrisponde alla semplice trasmis
sione di un messaggio, ma piuttosto all’«induzione reciproca di com
portamenti coordinati tra i membri di un’unità sociale».36
Nelle installazioni di Rokeby, il feedback diviene l’elemento centrale
dell’opera. Esso non è semplicemente “negativo” o “positivo”, inibitorio
o rinforzante, ma al contrario è l’incarnazione del divenire, delle tra
sformazioni reciproche tra i due sistemi, l’uomo e la macchina».
Secondo Rokeby, questo tipo di relazione è capace di creare una for
ma totalmente inedita di armonia (nel senso musicale del termine), che
egli definisce l’armonia dell’interazione (harmonics of interaction):37 come il
feedback acustico può esagerare gli attributi acustici di una sala, il feed
back interattivo vissuto come un loop continuo è capace di stimolare, di
amplificare certi aspetti del sistema, ma anche dei partecipanti, produ
cendo una serie di «risonanze»: la simmetria della relazione interattiva si
materializza in un’armonia musicale. Lo spazio-interfaccia diviene una
membrana sensibile (very nervous) in attesa che un movimento lo faccia
vibrare. L’ambiente diviene una sorta di iper-strumento,38 di strumento
musicale esteso e intelligente che attende il gesto dello spettatore per in
staurare un dialogo. E questo gesto, questo dialogo, diventano a loro
volta musica.
36
H. Maturana, F. Varela, El arbol del conocimiento, 1984; trad. it. L’albero della Cono
scenza, Garzanti, Milano 1999, p. 167.
37
Cfr. D. Rokeby, The Construction of Experience: Interface as Content, in C. Dodsworth Jr.
(a cura di), Digital Illusion: Entertaining the Future with High Technology, Reading, Addi
son-Wesley 1998.
38
Sulla nozione d’hyper-instrument cfr. T. Machover, HyperInstruments: Musically Intelligent
and Interactive Performance and Creativity Systems, Proceeding of the International Com
puter Music Conference, 1989, pp. 186-190; o D. Rodger, Sensing Motions. Defining a
Tradition in Interactive Music Performance, on-line: http://fraben.latrobe.edu.au/mikro
pol/volume2/rodger/rodger.html (luglio 2003).
ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
COORDINATE PER UN TRACCIATO (1895-1968)
Gilberto Pellizzola
1. Itinerario e preliminari
1
Cfr., per un ricapitolo del dibattito, D. Harvey, La crisi della modernità, 1990, il
Saggiatore, Milano 1997.
127 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
2
G. Rondolino, La musica nel cinema, in A. Basso (a cura di), Musica in scena. Storia
dello spettacolo musicale, 6 voll., UTET, Torino 1997, vol. VI, p. 267.
3
D. Thompson, Scultura, 1960-1976, in G. Ballo, F. Russoli (a cura di), Arte inglese
129 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
oggi. 1960-1976, 2 voll., catalogo della mostra, Palazzo Reale, Milano 1976, Electa, Mi
lano 1976, vol. I, p. 216.
4
R. Radrizzani, Roussel scopritore di nuovi mondi, in H. Szeeman (a cura di), Le mac
chine celibi, Electa, Milano 1989.
5
G. Fanelli, E. Godoli (a cura di), Spartiti musicali illustrati: dall’Art Nouveau al sur
realismo, catalogo della mostra, Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Rag
ghianti, Lucca 1996.
GILBERTO PELLIZZOLA 130
ed è la risposta di Wagner, Huysmans, Gauguin..., l’arte si attesta in una
separazione dal mondo, alla quota eletta dell’esempio individuale o eli
tario, al limite della testimonianza nel martirio. Così Van Gogh «suici
dato dalla società» (Artaud). Dall’altra parte è l’inquieta compromis
sione che già Baudelaire aveva delineato nell’immagine della «perdita
d’aureola» e nella figura del «pittore della vita moderna», «uomo di
mondo, uomo delle folle». Dopo la rivolta dei simbolisti, che assumeva
i tratti dell’irrazionalismo e del primordio, si fa posto nell’arte una nuo
va razionalità critica, dialogante con la scienza, la tecnologia, l’indu
stria, con l’universo metropolitano che ne concretizza gli effetti. Russo
lo con gli Intonarumori e col manifesto L’arte dei rumori (1913), Rutt
mann mediante assemblaggio sonoro su banda ottica, Satie e Varèse im
piegando sonorità meccaniche, esplorano il patrimonio acustico della
grande città. In Russia, all’indomani dell’Ottobre, viene realizzato su
scala urbana un Concerto per sirene di fabbrica. La città è scenario ready-ma
de per gli spettacoli-festa sovietici sull’esempio della rivoluzione france
se. Marinetti: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal pia
cere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche
delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore
notturno degli arsenali e dei cantieri [...]; le stazioni [...]; le officine
[...]» (Fondazione e Manifesto del futurismo, 1909). I dadaisti manipolano
l’informazione e l’opinione pubblica con falsi comunicati stampa e ali
mentando leggende metropolitane. Realizzano, analogamente ai futu
risti, eventi sinestetici polimaterici interdisciplinari, in cui saltano i pa
rametri assodati di prodotto artistico e di ruolo. Questa scandalosa con
fusione deve una parte rilevante della propria efficacia allo smarrimen
to pianificato delle identità personali e professionali, svuotate da ma
scheramenti grotteschi fra il circense e il robotico, o all’opposto desti
tuite di ogni ritualità teatrale. In tal caso, l’artista, il poeta, il musicista
non recitano, non rappresentano, ma si offrono di per sé stessi sulla sce
na effimera di un atto e di un momento reali: «Noi vogliamo rientrare
nella vita. La scienza d’oggi negando il suo passato, risponde ai bisogni
materiali del nostro tempo; ugualmente, l’arte, negando il suo passato,
deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo» (La pittura fu
turista. Manifesto tecnico, 1910). «Arte e tecnica, una nuova unità», è il
motto del Bauhaus di Gropius; in quell’ambito Van Doesburg postula la
didattica come «punto di partenza per la creazione dell’opera d’arte to
tale» e Klee discute di «spiritualità meccanica» (M. Droste, 1991).
«Brancusi cercò per tutta la sua carriera il finito dei prodotti industriali
fatti a macchina. Evidentemente provava piacere per la bellezza e l’au
sterità delle forme funzionali della meccanica» (R. Krauss, 1981). Fino
all’assunzione integrale della tecnologia in quanto linguaggio e del col
131 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
6
D. Fonti, Dalle botteghe d’arte alle «case d’arte»: il rilancio dell’«oggetto d’artista», in G.
Belli (a cura di), La casa del mago. Le Arti applicate nell’opera di Fortunato Depero. 1920
1942, catalogo della mostra, MART, Rovereto 1992, Charta, Milano 1992.
133 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
7
E. Mendgen (a cura di), In Perfect Harmony, Picture+Frame 1850-1920, catalogo
della mostra, Van Gogh Museum, Amsterdam 1995.
GILBERTO PELLIZZOLA 134
Nell’ambiente dello studio la coreografa e ballerina Codreanu, indos
sando costumi ideati da Brancusi, danza le Gymnopédies di Satie.8
Questa molteplicità di implicazioni spinge la scultura verso un’iden
tità più complessa e instabile, connessa al variare di situazioni, luoghi,
occasioni, lontano dalla perentoria completezza della statuaria di tradi
zione. Nell’ambito delle avanguardie si moltiplicano intanto i fenomeni
di estroversione della superficie pittorica, in dialettica con la scultura di
assemblage, e specularmente di valorizzazione cromatica e illusionistica
dell’oggetto scultoreo: il nuovo genere del «rilievo», da Picasso a El Lis
sitskij, da Puni ad Arp, sigla diffusamente la perdita dei confini fra pit
tura e scultura. I Controrilievi d’angolo di Tatlin, attorno al 1915, sono for
me astratte che consistono di materiali nudi, la loro situazione spaziale è
definita dall’ancoraggio all’incrocio delle pareti: «L’angolo investito da
Tatlin [...] permette di insistere sull’interpenetrazione del rilievo e del
lo spazio del mondo, continuum da cui il suo significato dipende» (R.
Krauss, 1981). I rilievi mobili di Rugena Zatkova e di Balla – come i «tut
totondo» Ruota di bicicletta di Duchamp o Palla sospesa di Giacometti –
prevedono l’azione dello spettatore, chiamato a completare l’opera con
una manipolazione diretta. In analogia agli assunti (metaforici) del Ma
nifesto tecnico della pittura futurista – «Noi porremo lo spettatore nel cen
tro del quadro» – e anticipando la permutazione costruttiva dell’arte ci
netica e programmata. Il Rilievo intermutabile di Gianni Colombo o la Ta-
vola di possibilità liquide di Giovanni Anceschi (ambedue del 1959) si fon
dano sull’intervento manuale del pubblico, che ne rivela, con progres
sione all’infinito, la struttura combinatoria.
Tale processualità si estende dal campo dell’immagine, attraverso la
ricerca sul movimento reale, alla presenza e al gesto del pittore, e da
qui al funzionamento della macchina come alternativa metamorfica,
raddoppiamento o sostituto del corpo. Si focalizza l’atto stesso del di
pingere, celebrando o parodiando lo svolgimento rituale e insieme tec
nico della pittura che viene al mondo, in ogni caso, con esiti in varia
misura assimilabili alla temporalità spettacolare di happening e perfor
mance. Già Picabia disegnava «dal vivo» sulla lavagna lasciando allo
spettatore la possibilità di cancellare. L’esecuzione in pubblico di scrit
te e immagini sarà centrale nelle azioni politiche di Beuys e negli hap
pening di Jim Dine. L’informale e l’action painting hanno in comune
la priorità del gesto pittorico, del quale l’opera è materiale testimo
nianza. Pollock assegna valore distintivo al processo, più che al risulta
to, e si cura di documentare ed esporre attraverso fotografie e filmati la
8
G.-G. Lemaire, L’acquario di Place Pompidou, in «Art e dossier», n. 190, 2003; G. Di
Milia, Brancusi, allegato, Giunti, Firenze 2003, p. 24.
135 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
genesi dell’opera: «La mia pittura non nasce sul cavalletto [...]. Sul pa
vimento mi sento più a mio agio, più vicino, più parte del quadro; pos
so camminarci attorno, lavorarci da quattro lati diversi, essere letteral
mente dentro il quadro» (1947). Derivano dai medesimi presupposti le
azioni di Mathieu, che in costume di scena e davanti agli spettatori ese
gue grandi dipinti gestuali, o ancora del gruppo giapponese Gutai: in
terventi corporali di lacerazione e attraversamento del supporto pitto
rico; lanci di colore verso superfici effimere, ulteriormente manipolate.
Nel 1960 Yves Klein propone la seconda versione (più articolata) di
Anthropometries de l’epoque bleue. Accompagnate da un’orchestra d’archi
in tenuta da concerto e precedute dall’autore in abito da sera, alcune
modelle nude cosparse di colore IKB («International Klein Blue») im
primono i loro corpi su tele bianche. L’automatismo meccanico accen
tua gli aspetti aleatori e ludici. Jaquot e Ohashi operano con dispositivi
che liberano fumi colorati. Niki de Saint-Phalle, in ambito del Nouveau
Realisme, e lo scrittore William Burroughs, nei dintorni di Fluxus, spa
rano cartucce di colore che esplodono all’impatto. Tinguely espone
nel 1959 un gruppo di macchine per dipingere (già Schlemmer, nel
1930, aveva simulato in scenografia un macchinario del genere per la
festa di Carnevale dell’Accademia di Breslavia). Le macchine di Tin
guely funzionano a gettoni che il pubblico può acquistare; i risultati,
ironicamente di gusto segnico-gestuale, sono sottoposti al vaglio di una
giuria di esperti (Arp, Klein, Queneau, Restany, Seuphor...), segue ce
rimonia di premiazione.
Gli allestimenti espositivi d’avanguardia confondono ulteriormente
pittura e scultura con lo spazio dello spettatore e lo spettacolo urbano.
Dadaisti e surrealisti provocano una contaminazione fra l’eclettismo del
le vetrine commerciali e il «maraviglioso» delle Wunderkammern ba
rocche. Ivan Puni, in trasferta berlinese dopo un periodo suprematista
in Russia, «organizza nel febbraio del 1921 la sua famosa mostra alla gal
leria Der Sturm, in cui quadri e fogli [...] sono montati in un voluto di
sordine, ancora memore dell’antistrutturalismo futurista: enormi nu
meri e lettere alfabetiche si sovrappongono ai dipinti o traspaiono fra es-
si, in un tentativo [...] di ricostruire l’intero spazio espositivo come “og
getto globale” [...] Né mancano suggestioni dada: in occasione della
mostra, Puni fa percorrere la Kurfuerstendamm da uomini mascherati
nello stile della Parade di Picasso. In tal modo, l’ambiente totale creato
nella galleria si riversa sulla strada: gli “uomini-sandwich” di Puni, con i
loro costumi ispirati ai controrilievi tatliniani, al “lettrismo” di Puni stes
so, alla clownerie sacrale di Ball, all’uomo marionetta dei futuristi italia
ni, ribaltano in azione ciò che nelle sale [...] rimane cristallizzato» (M.
Tafuri, 1980). Nel 1942 Duchamp avvolge con un miglio di filo la mostra
GILBERTO PELLIZZOLA 136
newyorchese delle opere surrealiste. Pittura e pubblico e galleria forma-
no un tutt’uno entro il reticolo ambientale, che rende palese, col trucco
dell’ostacolo, l’integrazione complessa di spazio-tempo-percezione.
Sempre nel ’42 Kiesler escogita, per l’inaugurazione della galleria Art of
this Century, di Peggy Guggenheim, un’ambientazione a pannelli in
curvati e propaggini a sbalzo cui appendere i dipinti (sala dei surreali
sti), con effetti di levitazione e movimento. Nella seconda sala (astratti
sti), le pareti sono completamente libere e le opere stanno appese a ti
ranti di corda. Muri blu, pavimento turchese; i supporti per le sculture,
di legno modellato in forme organiche, fungono anche da sedute o ta
volini. L’illuminazione non è omogenea e viene scandita da momenti di
buio, con accompagnamento acustico di rumori registrati. Un terzo am
biente contiene macchinari ottici che il pubblico deve azionare per ac
cedere alla visione delle opere. Peggy Guggenheim: «Gli avevo lasciato
carta bianca con una sola eccezione: divieto assoluto di cornici».
Con la lunga elaborazione dei Borghesi di Calais (1884-95) Rodin ten
ta una rivoluzione nel campo della scultura monumentale. Il gruppo
scultoreo doveva rappresentare un episodio di storia medievale: l’of
ferta volontaria di sé stessi alla ritorsione dell’assediante re d’Inghilter
ra da parte di eminenti membri della borghesia. Un mito di fondazione
per la comunità commerciale di Calais. I committenti fecero modifica
re il progetto, che prevedeva una collocazione libera delle figure, senza
piedistallo e in scala reale, nella piazza del municipio. È la coerente tra
duzione plastica dell’identità dei personaggi, tornati in effigie nel loro
ambiente. Rodin avrebbe superato d’un colpo la tradizione aulica del
fatto scultoreo isolato, in posizione elevata, al centro gerarchico di uno
spazio urbano. L’incontro sarebbe stato faccia a faccia, attraverso i se
coli, fra cittadino borghese ed eroe borghese, senza la mediazione en
fatica e prevaricante del basamento. Le forme e il messaggio della scul
tura si sarebbero calati nella vita quotidiana, in aperto dialogo con lo
spazio e il tempo dell’attualità. Racconta Lipchitz di aver visitato Modi
gliani mentre provava l’allestimento di alcune sculture: «Cercava di
adattarle una all’altra. [...] assorto a spiegarmi che le aveva concepite
tutte come parti di un insieme. [...] disposte a scala come le canne di
un organo, per meglio esprimere quel senso musicale che egli deside
rava».9 Musicalità della scultura: contro la convenzione della materia la
vorata e chiusa una volta per tutte, significa intendere e praticare una
qualità ambientale, pervasiva del fatto plastico in quanto produttore di
rapporti spaziali. Su questa linea, è logico arrivare a una progettualità
9
In R. Fuchs, J. Gachnang, F. Poli (a cura di), Standing Sculpture, catalogo della
mostra, Castello di Rivoli 1988, p. 53.
137 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
11
In P. Hulten (a cura di), Tinguely. Una magia più forte della morte, catalogo della
mostra, Palazzo Grassi, Venezia 1987, Bompiani, Milano 1987, pp. 166-167.
GILBERTO PELLIZZOLA 142
pio della seconda guerra mondiale. Fluxus accoglie le novità d’oltre
oceano e le integra alla tradizione delle avanguardie storiche, in un con
testo allargato e mobile che, ancora una volta, trova nella musica un ri
ferimento unitario. Attorno alle pratiche della composizione e dell’ese
cuzione – sempre più dilatate verso un’arte globale performativa – si
raccolgono accanto ai musicisti poeti, artisti visivi, gente di teatro. «Nel
1957 la Nuova Musica era il centro dinamico di tutte le arti» ha dichia
rato Paik. Le attività polimorfe di Paik, Vostell, Vautier, Maciunas, Beuys,
s’incontrano in forma di Fluxus Festival, Concerto Fluxus, Fluxus Inter
national Festspiele. Una prassi che rimanda alle Serate futuriste, al ca
baret e alla Fiera dada, alle feste del Bauhaus. Il Festival del Nouveau
Réalisme, che si tiene a Milano nel 1970, comprende un’esposizione al
la Rotonda della Besana, performance in Galleria Vittorio Emanuele,
l’impacchettamento della statua di Leonardo, in Piazza della Scala, a
opera di Christo. Tinguely appresta in Piazza Duomo un gigantesco fal
lo, chiamato Monumento effimero, che si autodistrugge festosamente in un
orgasmo pirotecnico. Negli Stati Uniti le attività di Cage, Kaprow, Cun
ningham, Buckminster Fuller danno origine a una situazione varia e du
revole, che si propaga anche in ricerche e collaborazioni di radice pit
torica (Dine, Johns, Rauschenberg) e plastica (Oldenburg, Morris, Sa
maras, Nauman). «Tutto può essere musica: in questo concetto sta la
prodezza di Fluxus, e la sua unità» ricorda Vostell. «Ed è il motivo che ha
riunito gli artisti americani vicini a Cage agli artisti europei» (A. Bonito
Oliva, 1990). Il dé-collage di Vostell, esteso dalle carte all’immagine tele
visiva e alla scena urbana, ha origine nell’operazione sonora: «Il rumore
dello strappo» è «come un concerto, come un pezzo musicale». Analo
gamente, l’atto del dipingere assume identità acustica nelle performan
ce di Rauschenberg tramite microfoni a contatto applicati alla tela.
Nel 1952 la compagine del Black Mountain College attua uno spetta
colo «anarchico» e «disintenzionale» (vedi scheda), ideato da Cage con
l’apporto autonomo di Cunningham e Rauschenberg e di poeti (Olson
e la Richards) e musicisti (Tudor e Watt).
Ormai considerata un archetipo della neoavanguardia multimediale,
questa realizzazione contiene la struttura aleatoria dell’happening e pa
rimenti l’aperta progettualità della performance, con il contributo riso
lutivo della strumentazione oggettuale e tecnica in una spazialità sito
specifica. Le ragioni dello spazio-ambiente vengono ribadite da Kaprow
in uno scritto teorico del 1966: «La rappresentazione di un happening
dovrebbe avvenire su parecchi spazi, talvolta mobili e mutevoli». «Il tem
po, di pari passo alle considerazioni sullo spazio, dovrebbe essere vario e
discontinuo». «La composizione di un happening è uguale a quella di
un assemblage e di un environment cioè è costituita da un certo collage di
143 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
2. Linee di confine
3. La scrittura cinematografica
1
Cfr. J. Leyda, Storia del cinema russo e sovietico, Il Saggiatore, Milano 1964.
MARCO MARIA GAZZANO 150
cetto di «cinematografia», raffinatissimo e preveggente, brevettato in
Francia nel 1892 insieme alla prima macchina da presa cinematografi
ca da Leon Bouly e brutalmente scippatogli tre anni dopo – senza com
prenderne alcuna implicazione – dai fratelli Lumière: «Una scrittura
fatta di immagini in movimento e suoni: un modo nuovo di scrivere,
dunque di sentire», come lo ha tradotto, per ricordarcelo, Robert Bres
son nel 1951.
6
Cfr. S.M. Eisenstein, La forma cinematografica, Einaudi, Torino 1986; inoltre l’ope
ra omnia degli scritti teorici del regista curata con particolare attenzione filologica e
filosofica da P. Montani per le Edizioni Marsilio di Venezia.
7
Cfr. L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, a cura di S. Costa, Mon
dadori, Milano 1992.
153 COMPORRE AUDIO-VISIONI
8
Cfr. F. Càllari (a cura di), Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991.
9
Cfr. R. Arnheim, Film come arte (1933-1935), Feltrinelli, Milano 1983.
MARCO MARIA GAZZANO 154
5. Youngblood e Chion
10
Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema (1990), Lindau, Torino
2001.
155 COMPORRE AUDIO-VISIONI
6. I precursori italiani
11
Cfr. S. Bordini (a cura di), Videoarte & Arte. Tracce per una storia, Lithos, Roma
1995; L. Albano (a cura di), Modelli non letterari nel cinema, Bulzoni, Roma 1999; S.
Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Costa & Nolan
/ Editori Associati, Ancona-Milano 1999.
157 COMPORRE AUDIO-VISIONI
12
Cfr. M.M. Gazzano (a cura di), Il Novecento di Nam June Paik. Arti elettroniche, ci
nema e media verso il XXI secolo, Carte Segrete, Roma 1992.
MARCO MARIA GAZZANO 158
gnanti. Inventori – come Paik, del resto – di apparecchiature ad hoc per
la messa in pratica della loro poetica (dal sistema MIDI alle «machine vi
sion» agli «ibridi autonomi» alle «tavole interattive»), essi hanno studia
to la luce elettronica e il tempo dell’istante, il «punto di vista delle mac
chine» e l’importanza espressiva del «feedback» elettronico; e tra il 1972
e il 1976 hanno ideato la tecnica del «morphing». Ma la loro più affasci
nante intuizione è stata – intorno al 1970 – quella di rendere estetica
mente produttivo il fatto che in elettronica una stessa frequenza elettro
magnetica, se commutata in un modo origina un suono, se commutata
in un altro origina una immagine, e se adeguatamente distorta rende vi
sibile la linea di confine che i nostri sensi percepiscono tra suono e im
magine, costituendo insiemi audio-visivi per la prima volta nella storia
del cinema effettivamente unitari. Una rivoluzione percettiva che ha fat
to scuola; e, nonostante la volontà dei due autori – ritiratisi nel loro ere
mo creativo di Santa Fé –, anche tra gli «special effects makers» del ci
nema statunitense anni Ottanta e Novanta.13
Nella storia non ancora completamente decifrata delle origini delle
arti elettroniche audio-visive compaiono altri due fondamentali contri
buti europei, quello francese rappresentato dall’opera di Robert Cahen
e di Michel Chion e quello tedesco sintetizzato da Klaus Schöning nella
teoria e nella pratica dell’«arte acustica». Ambedue queste esperienze
sono direttamente connesse a un rapporto con la musica e con il suono;
rapporto che in entrambi i casi ha orientato decisamente le direzioni di
ricerca, tra l’altro contribuendo a fondare una nuova teoria del mon
taggio (videocinematografico e acustico) oltre che spostando l’accento
delle opere – pur nella estrema differenza di poetica e di stile esistente
tra le due «scuole» – su un piano meno «concettuale» e più attento a
nuove forme di narrazione rispetto alle esperienze americane. Un altro
elemento comune importante da segnalare è che in ambedue i casi de
terminante è stato – forse obtorto collo ma c’è stato – il contributo pro
duttivo fornito dai servizi pubblici radiotelevisivi francese e tedesco oc
cidentale.
Al Groupe de Recherches Musicales fondato da Pierre Schaeffer nel
1958 a partire dall’originario gruppo di ricerca sulla «musica concreta»
all’interno dell’ORTF – nel 1960 trasformato in uno dei dipartimenti di
ricerca della televisione pubblica francese – Robert Cahen approda nel
1969 iscrivendosi a uno degli stage ivi organizzati. Studia composizione
elettronica per due anni con Schaeffer nella stessa classe di Michel
Chion e Jean-Michel Jarre. Si diploma nel 1971 in «Musique fondamen
13
Cfr. M.M. Gazzano (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video media e nuove imma
gini nell’arte contemporanea, Fahrenheit 451, Roma 1995.
159 COMPORRE AUDIO-VISIONI
14
Cfr. S. Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, ETS, Pisa 1991;
nuova edizione, ETS, Pisa 1998.
15
Cfr. S. Lischi (a cura di), Cine ma video, ETS, Pisa 1996.
MARCO MARIA GAZZANO 160
la musica Klaus Schöning. I concetti di «arte acustica», «installazione so
nora», «opera per nastro magnetico radiofonico» nascono in questo la
boratorio creativo dal pensiero critico di Schöning e di decine e decine
di autori europei, americani e di altri continenti che egli in questi quasi
quarant’anni ha instancabilmente e appassionatamente prodotto. La ri
flessione sulla «sonorità», sul montaggio «a collage» (come in Joyce,
Majakowskij, Schwitters, McLuhan...), sulla relazione opera d’autore /
mezzo di diffusione e comunicazione di massa, sul significato di una so
norità (o di una stratificazione significativa di sonorità, parole, musi
che) in un ambiente, muovono negli anni Sessanta dalla riflessione di
Schöning intorno allo Hörspiel, ovvero il dramma radiofonico prodotto
e studiato in Germania fin dagli anni Trenta (famosi quelli di Brecht e
importanti le osservazioni di Arnheim).16 Hörspiel che il compositore
Mauricio Kagel, uno degli artisti che più compiutamente rappresentano
la poetica dello «Studio di Arte Acustica», definisce «non come un ge
nere letterario o musicale, ma solo come una categoria acustica: dal con-
tenuto indefinito».
Argomenti e pratiche artistiche che hanno portato Schöning a ipotizza
re relazioni forti delle esperienze creative acustico-musicali; non solo
con le peculiarità dei media e dei dispositivi elettronici, ma con il video
e con la scrittura delle immagini in movimento, oltre a suggerire un
suggestivo modo di intendere la parola. «Letteratura» egli scrive a metà
degli anni Ottanta, «è anche ciò che prende alla lettera le litterae: poesia
di lettere e letteratura che vive senza lettere né scrittura: poesia verbale,
poesia di suoni, articolazione spontanea, espressiva. Passaggi fluidi, fu
sioni. Simbolo dell’arte di questo secolo. Tendenze che, unite alla ric
chezza ancora inesplorata del mezzo tecnico, avrebbero potuto già da
tempo fondare un’estetica generale dell’arte acustica. Così, dopo gli an-
ni Sessanta, lo Hörspiel non ha seguito più la letteratura, ed è vissuto di
sconfinamenti, legati piuttosto all’elemento acustico-musicale, al ritmo e
al contrappunto. Arte del montaggio. Poesia acustica. Alla composizione
letteraria di singole parole, sillabe, lettere in nuove strutture di parola e
di linguaggio, corrispondono i montaggi di frasi e di citazioni, di rumo
ri e di suoni. Secondo il procedimento del montaggio cinematografico. E secon
do quello del collage, come insegna John Cage».17
16
Cfr. R. Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto (1936), Editori Riuniti, Roma 1987.
17
Cfr. K. Schöning, I suoni sono bolle sulla superficie del silenzio, in «Cinema Nuovo»,
maggio-giugno, Roma 1987.
PRIME LUCI ELETTRONICHE
LE TANTE ORIGINI DELLA VIDEOARTE
Alessandro Amaducci
dei video sperimentali a colori in cui compaiono gran parte degli stile
mi classici della videoarte «a venire»: il rapporto con la musica, un nuo
vo tipo di astrattismo, l’utilizzo di alcuni «incidenti» tecnologici come
le immagini autogenerate e moltiplicate all’infinito (con il feedback e il
loop) e soprattutto l’uso della danza e le modificazioni del corpo e del
viso.
Altri nomi sul finire degli anni Sessanta, grazie a una temporanea
apertura di alcune televisioni o laboratori intelligenti, cominciano a pro
durre video, come Loren Sears, Ed Emshwiller e Otto Piene, autore di
un formidabile Electronic Light Ballet (1969), un concentrato di molta
della videoarte degli anni a seguire, dove si intravede già tutto il nuovo
astrattismo elettronico (il video che mostra sé stesso) e soprattutto
un’immagine che, variamente elaborata, sarà per molti quasi un’osses
sione: il feedback.
Insomma, negli Stati Uniti (fondamentalmente a New York) fra il
1967 e il 1969 la situazione è molto variegata e in incredibile espansio
ne, con una rosa di nomi che poi nel tempo ovviamente si ridurrà (nes
suno dei partecipanti di quel mitico programma della WGBH, tranne
Paik, continuerà su questa strada), ma che è già piuttosto ampia: Nam
June Paik, Ed Emshwiller, e i Vasulka che, in maniera parallela, senza
l’apporto diretto di televisioni, ma appoggiandosi a centri di ricerca e
lavorando con laboratori autocostruiti, cominciano a produrre immagi
ni su nastro già dal 1970, rappresentando un unico esempio di indi
pendenza e artigianalità tecnologica applicata all’arte. Global Groove di
Paik è un’opera a cavallo tra l’esplosione creativa del 1969 e l’inizio
della creazione di opere più compiute, dal 1973 in poi. E infatti è il
1974 che può essere considerato l’anno in cui compaiono delle opere
mature, con Woody Vasulka e i suoi C-Trend e The Matter, ed Ed Em
shwiller con Crossing and Meetings, già un capolavoro del chromakey, men
tre il 1978-79 è sicuramente il biennio d’oro delle origini della videoar
te negli Stati Uniti: Nam June Paik si rivela nel suo vero talento visiona
rio che coniuga ironia, documentazione e sperimentazione con Merce by
Merce by Paik (1975, rimontato nel 1978) con il danzatore Merce Cun
ningham; Steina Vasulka realizza un piccolo gioiello di interazione suo
no-immagine, Violin Power (1978), Bill Viola comincia a produrre alcuni
video in cui già si squaderna la sua poetica legata alla percezione ottica,
fisica e metafisica, e alla qualità temporale dell’immagine video come
Memories of Ancestral Power (1977-78), The Reflecting Pool e Moon Blood
(1977-79). In The Reflecting Pool l’immagine del corpo di un uomo fissa
ta nell’attimo stesso in cui questi spicca il tuffo in una piscina, svanisce
nel verde della natura in un lentissimo e impercettibile divenire. Ed Em
shwiller realizza uno dei suoi video ancora oggi più belli, un’opera fon
ALESSANDRO AMADUCCI 166
damentale nella storia della videoarte, Sunstone (1979), e infine Bill Vio
la nel 1979 crea Chott El-Djerid (A Portrait in Light and Heat), un video già
pienamente maturo; con una focale lunga Viola riprende un punto lon
tano all’orizzonte in un deserto sahariano: osservando attentamente,
questo non è altro che un uomo la cui sagoma lentamente prende for
ma man mano che si avvicina all’obbiettivo.
Se le televisioni hanno a poco a poco abbandonato la strada della spe
rimentazione (che farà capolino più tardi, riassorbita da un altro gene
re, quello del videoclip: ma questa è un’altra storia), la videoarte in
America del nord ha avuto, e ha tuttora, fortuna nel circuito e nel mer
cato dell’arte: enti, gallerie, musei, fondazioni hanno finanziato e fi
nanziano gran parte delle produzioni. Questo è merito della grande
azione di diffusione che il video d’artista e il video performativo hanno
avuto in questo periodo, facendo una vera e propria operazione di
«sfondamento». In questi anni Vito Acconci e Aldo Tambellini negli Sta
ti Uniti sono i più attivi, e credo che sia grazie a loro e a tutti gli artisti
che lavoravano in quell’orbita che la videoarte americana esiste ancora
adesso.
2. In Europa
come se i nuovi autori trovassero nella tabula rasa dello spazio mentale
del palco una nuova dimensione sulla quale agire, trattando lo schermo
come uno spazio vuoto (un palco appunto) da riempire di immagini.
Ma è soprattutto il testo teatrale a diventare una sorta di nuova «sceneg
giatura», di spunto paranarrativo dal quale partire, così come lo diven
terà, negli anni successivi, la poesia.
Le date parlano chiaro: già nel 1963 (in effetti, questo sembrerebbe
un anno fatidico) Averty realizza un programma, Avec nous le deluge, do
ve compaiono le tanto amate «finestre» e soprattutto una collezione di
distorsioni di segnale (stretching, avvitamenti, allungamenti ecc.) che di
venteranno pane per i denti degli sperimentatori più radicali. Averty qui
gioca già con il monoscopio, un’immagine che sarà ricorrente nella pro
duzione di Paik. Sempre dello stesso anno è il programma Les raisins
verts, dove le moltiplicazioni dei personaggi e degli elementi della scena
preludono a uno degli stilemi classici della videoarte e soprattutto delle
produzioni americane citate poco prima: il feedback. In Fragson (1969)
Averty comincia a sperimentare in maniera matura il lumakey (sovrappo
sizione di immagini aventi la stessa densità luminosa, intarsiate l’una
dentro l’altra) anticipando di nuovo tutti. Ma la cosa sorprendente è
che mentre tutti in America si affannano a modificare il segnale per per
dersi nelle immagini astratte della scansione elettronica, Averty usa gli ef
fetti per fini espressivi, comunicativi, al servizio di una narrazione che subi
sce già poderosi scarti dal modello tradizionale. Il lavoro più sfolgorante
di questi primi anni di sperimentazione è la versione televisiva di Ubu Roi
(1965) di Alfred Jarry: finestre, lumakey e grafica vengono a collaborare
nella creazione di quello che può essere considerato il primo esempio
reale e maturo di «teatro elettronico». Averty conia l’espressione, a dir
vero molto felice, di mise en page (impaginazione) delle immagini: in ef
fetti c’è molto talento grafico, di composizione degli elementi secondo
un metodo che assomiglia, appunto, all’impaginazione dei giornali, un
linguaggio questo che ben presto influenzerà le regie dei telegiornali.
Ma l’antecedente più diretto di questa maniera di usare le immagini è il
fumetto: fra il riquadro e il balloon c’è una vera e propria filiazione. È
nelle versioni teatrali che Averty sfodera tutto il suo gusto autenticamen
te neodadaista: sempre nel 1965 Hey Joe di Samuel Beckett, ancora un
Ubu, e cioè Ubu enchaîné (1971), in seguito Mouchoir des nuages (1976),
da un testo di Tristan Tzara, e infine Les Mamelles de Tirésias di Apollinai
re (ma siamo già nel 1982).
Insomma, se negli Stati Uniti nasce effettivamente la nozione di «vi
deoarte», già negli anni Sessanta Averty, convinto assertore della distan
za della televisione dal teatro e dal cinema tradizionali, sperimenta con
largo anticipo il linguaggio dell’elettronica, convinto non di fare «arte»,
ALESSANDRO AMADUCCI 168
ma semplicemente la televisione migliore, quella cioè che sfrutta al me
glio il mezzo. Con un inizio così, non sorprende il fatto che la televisio
ne francese sia comunque più interessante di tante altre. Così come la
spinta propulsiva di Paik e di Acconci ha fatto entrare il video nel cir
cuito e nel mercato dell’arte statunitense, Averty sicuramente ha il me
rito di aver fatto nascere la videoarte francese dentro la televisione. Non
è un caso che la maggior parte della sperimentazione di questo paese
oggi venga prodotta o da televisioni o da centri di sperimentazioni pa
ratelevisivi, come l’INA o il Centre Pierre Schaeffer di Montbéliard (che
inizialmente si propone come un luogo per una «televisione di ricerca»,
diventando poi decisamente un centro di produzione di videoarte) e,
ancora, non è un caso che in questo paese tutto sommato si veda in te
levisione più videoarte che altrove.
I frutti di un tale clima si fanno sentire presto, tanto che già nel 1973
(un anno fecondo per tutta la produzione internazionale) un giovane
musicista e filmaker produce il suo primo video: è L’invitation au voyage
di Robert Cahen, un video prodotto in un dipartimento di ricerca ra
diofonico dell’ORTF, l’ente radiotelevisivo francese che già aveva dato
spazio ad Averty. Cahen sfodera in questo suo primo video gran parte
della sua poetica (le coloriture irrealistiche, l’evidenziazione della pasta
elettronica), e soprattutto l’attenzione al suono (Cahen è un allievo di
Pierre Schaeffer). Cahen è un musicista imbevuto di cultura cinemato
grafica, quindi lo scarto nel trattare l’audio si sente.
La Germania sembra essere un paese che accoglie proposte dall’e
sterno (gli esperimenti di Paik, i transiti di Fluxus, l’attività di Gerry
Schum che apre una galleria dando la possibilità ad artisti stranieri di
usare il video), ma fatica a produrre autori locali. Questo però non deve
trarre in inganno, perché la Germania a ben vedere è stato il paese trai
nante di questo movimento, favorendone la nascita, la diffusione e so
prattutto la produzione, attraverso l’azione di gallerie private, musei e,
ancora una volta, televisioni (non dimentichiamoci che gli ultimi video
di Bill Viola, per esempio, sono coprodotti con la televisione tedesca
ZDF, e che la Germania ora conta numerosissimi festival e soprattutto
molti centri e accademie che producono, a volte con mezzi ingenti, ope
re video e multimediali). Nam June Paik stesso, come si è accennato
prima, comincia i suoi primi esperimenti sull’immagine negli studi del
la WDR (ancora un centro di ricerca radiofonico!) di Colonia. Soprattut
to, non bisogna dimenticare l’azione e l’importanza di Wolf Vostell, che
rappresenta sicuramente il motore principale della diffusione di questa
forma espressiva, tanto che già nel 1963 realizza un film, Sun in Your
Head, composto da immagini televisive modificate e riversate successiva
mente in pellicola, diventando così contemporaneo alle esperienze di
169 PRIME LUCI ELETTRONICHE
3. In Italia
1
R. Barilli, Introduzione a F. Alinovi, C. Marra, La fotografia: illusione o rivelazione, il
Mulino, Bologna 1981, p. 10.
FABIO AMERIO 176
ranno conclusioni molto lontane dallo stato reale delle cose. Parafra
sando Lévi-Strauss si può dire che ogni macchina è un organo con una
funzione specifica che si limita a imporre leggi strumentali a elementi di
altra provenienza: sue caratteristiche sono lo sviluppo lineare e l’impos
sibilità di ripristino delle condizioni iniziali. Ma, mentre si assiste a una
modificazione irreversibile di un processo lineare che sostituisce quello
ciclico della natura, «il rapporto inconscio col mondo tende a rimanere
bloccato».2 Per questo il termine multimediale è fuorviante. Esso è il
prodotto di un «inconscio tecnologico» che proietta un’idea di molte
plicità mentre, di fatto, la tecnologia tende radicalmente a quell’unime
dialità che comincia con la teoria dell’informatizzazione di Shannon e
che ne è suo principio epistemico.
Claude Elwood Shannon, che sviluppò e completò la Teoria matemati
ca della comunicazione, riprese la nozione di informazione data da Hartley
nel 1927 come «il numero delle scelte, ossia delle risposte “sì” e “no”,
che permettono di riconoscere univocamente un elemento x in un in
sieme di n elementi». Una delle intuizioni di Shannon fu quella di con
siderare la fonte di informazione come una semplice sorgente di simbo
li di un certo alfabeto, e di comprendere che il contenuto di informa
zione è indipendente dal contenuto o significato del messaggio che vie-
ne trasmesso, ma è in relazione al numero di unità elementari (bit) ne
cessarie per codificarlo.3 Shannon fu il primo a utilizzare il termine bit
(Binary digit) per indicare la quantità di informazione contenuta nella
scelta elementare fra due possibilità ugualmente probabili: un bit può
valere «0» oppure «1», a questi due segni può essere associato un signi
ficato, per esempio 0 = «elemento non presente» e 1 = «elemento pre
sente». In tale senso, la natura del messaggio – testi, suoni, immagini – è
irrilevante dal momento che tutto può essere ridotto in appropriate se
quenze di 1 e di 0 e trasmesso senza perdita di informazioni, purché il
canale sia sufficientemente ampio.
Se tutti i messaggi si uniformano alla stessa struttura (cioè a una serie
di bit), allora vengono poste le basi per un’unica rete di telecomunica
zione valida per tutti gli scambi di informazione (trasmissione dati, se
gnali audio-video, telefono, fax, Internet, radio, televisione, posta elet
tronica, videoconferenza ecc.). Le ragioni che garantiscono il successo
2
Cfr. F. Vaccari, La fotografia e l’inconscio tecnologico, Punto e Virgola, Modena 1979,
p. 11.
3
Nel 1938 Shannon riprese i concetti del sistema binario espressi da Gottfried
Wilhelm Leibniz verso la fine del Seicento e sviluppati, nella seconda metà dell’Ot
tocento, da George Boole. Comunication in the Presence of Noise (1949), ora in C.E.
Shannon, W. Weaver, in La teoria matematica delle comunicazioni, Etas Kompass, Milano
1971.
177 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
4
Come ha dimostrato Roland Barthes a proposito delle foto di Koen Wessing, in
La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 25.
FABIO AMERIO 178
della visione e della visibilità. Nel romanzo Giphantile à Babylone di
Tiphaigne De La Roche, del 1760, si legge la descrizione di una specie
di quadro raffigurante un paesaggio marino prima della tempesta. L’im
magine è così realistica da essere scambiata per una finestra aperta.
Giphantie cerca di sporgersi e sbatte la testa. «La tua percezione è la
causa del tuo errore», gli dice il prefetto. «Devi sapere che i raggi della
luce, riflessi da diversi oggetti, compongono quadri e dipingono questi
oggetti su ogni superficie lucida, sulla retina dell’occhio, per esempio,
sull’acqua, sugli specchi». Sono stati gli «spiriti elementari» a comporre
questa materia «prontissima e viscosa» che spalmata su una tela si com
porta «inizialmente come uno specchio che riflette fedelmente i corpi
vicini o lontani», ma che a differenza dello specchio, grazie al «materia
le viscoso», «trattiene i simulacri».5 Nel racconto fantastico di Giphantie
troviamo l’idea che circa sessant’anni dopo avrebbe portato all’inven
zione della fotografia, ed evidenti analogie con la reazione del pubblico
parigino che il 28 dicembre 1895 affollava il Gran Café, sul Boulevard
des Capucines, per assistere alla prima proiezione pubblica del Cinema
tografo Lumière. Se gli «spiriti elementari» di Babilonia avessero potuto
contare sulle attuali tecnologie, avrebbero pensato probabilmente a uno
schermo al plasma ad alta definizione, magari dotato di una proiezione
tridimensionale. Ma, visto che ogni attività umana è legata al periodo
storico, alle dinamiche sociali e al grado di tecnologia in cui si sviluppa,
è interessante osservare come l’idea pre-fotografica di De La Roche, pur
affondando le radici nel mito dell’uva di Zeusi (tanto erano perfetti gli
acini d’uva dipinti da questo antico artista greco, che un uccello cercò di
beccarli), abbia di fatto anticipato un intero percorso che solo oggi ini
zia a realizzarsi, assottigliando il confine tra comunicazione e facoltà
sensoriali dell’uomo. La rivoluzione iniziata «spennellando cloruro d’ar
gento su pergamena» ha significato il vero punto di non ritorno della
mimesis.
Quando Fox Talbot si interroga sulla fenomenologia delle immagini
cercando di trovare dati per provare l’esistenza di un mondo soprasen
sibile, non attua un’azione di falsificazione, ma intende piuttosto distin
guere le specificità tecniche di un nuovo medium. La fotografia di un
covone di fieno serve a Talbot per distinguere tra «l’immagine meccani
ca che può offrire un’infinità di dettagli in un insieme visivo unico» e «la
visione naturale che tende a riassumere e semplificare in termini di mas
se».6 Per la nascente fotografia il modello immediato non era solo l’in
cisione, il disegno e neppure la messa in scena teatrale (anche se Da
5
Cfr. I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari 1982, p. 22.
6
Cfr. R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, B. Mondadori, Milano 1996, p. 20.
179 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
La nascita della fotografia è stata altresì letta come una naturale evo
luzione delle tecniche di comunicazione visiva: secondo William Ivins
«non si può comprendere il significato della fotografia se non si capisce
il problema che la fotografia ha risolto»; e cioè essere in grado di pro
durre «informazioni pittoriche esattamente ripetibili».9 Se consideriamo
la fotografia unicamente come strumento per veicolare informazioni vi
sive attraverso «rapporti pittorici esattamente ripetibili», il problema
7
A proposito si veda il capitolo Il dilemma del realismo, che ricostruisce con preci
sione polemiche e scontri sulla natura della fotografia, in A. Scharf, Arte e fotografia,
Einaudi, Torino 1979.
8
È questo il titolo dell’interessante saggio di J.D. Bolter e R. Grusin, Remediation.
Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi (1999), Guerini e Associati, Milano
2002.
9
W. Ivins, Prints and Visual Comunication, Routledge and Kegan Paul, London
1953, pp. 23-24. A proposito si veda anche W. Crawford, The Keepers of Light: A History
and Working Guide to Early Photographic Processes, Morgan & Morgan, Dobbs Ferry, New
York 1979.
FABIO AMERIO 180
dell’immagine fotografica si pone nei termini esclusivi di «efficienza
performativa del mezzo» e sulla base di questa tesi si stabilisce anche
una sintassi grafica delle linee che, in funzione del mezzo adoperato,
permette di comunicare informazioni più o meno complesse definite
dall’ampiezza di banda. Le prime xilografie eseguite in Cina nell’800
d.C., utilizzando matrici di legno incise, contengono meno dettagli
(informazioni) di quelli che sono contenuti in una incisione a bulino
del 1400; e in Europa l’introduzione da parte di Ludwig von Siegen del
la mezzatinta nel 1624 apre la strada a una più accurata riproduzione to
nale che si compirà nella tecnica dell’acquatinta inventata da Jean Bap
tiste Le Prince nel 1760, per giungere infine nel 1798 alle pietre litogra
fiche di Aloïs Senefelder.
Una teoria evolutiva della tecnica di comunicazione delle immagini
presuppone la possibilità che una tecnica ha di riprodurre tutte quelle
che l’hanno preceduta. Una stampa litografica può riprodurre facil
mente i tratti (contenuto formale e informativo) di una xilografia, ma
non può avvenire il contrario, se non con la riduzione delle informa
zioni contenute nella stampa litografica e trasmesse (banda passante)
attraverso la definizione del tratto. Il passaggio dall’incisione alla foto
grafia e dalla fotografia alla digitalizzazione delle immagini è stretta
mente correlato a questo concetto di larghezza di banda, inteso come
possibilità di comunicare contenuti sempre più complessi. Il problema
della riproduzione per mezzo della stampa tipografica consiste nel fatto
che la fotografia è una progressione continua di toni chiaroscurali,
mentre il procedimento di stampa è essenzialmente «binario», nel sen
so che un’informazione su di una pagina stampata può assumere solo
due valori: il bianco della carta o il nero dell’inchiostro. La stampa «a
mezzatinta» risolse questo problema suddividendo cartesianamente
l’immagine in un certo numero di linee orizzontali e verticali (un reti
colo o retino tipografico), determinando così, per ogni zona dell’im
magine, la grandezza dei punti che devono essere stampati. I toni più
scuri corrispondono a punti di dimensioni maggiori e i toni più chiari a
punti più piccoli: la traduzione di una gamma continua di valori in un
sistema discontinuo quantificato doveva diventare uno degli strumenti
intellettuali più significativi ed efficaci del XX secolo: la televisione, la fo
totelegrafia, la telemetria e – ancor più importante – la tecnologia del
computer, tutti si fonderanno su questo fondamentale concetto «dialet
tico».10 Il concetto di mezzatinta ebbe per la fotografia l’importanza
che la scoperta della persistenza della visione ebbe per il cinema: infat
10
Cfr. J. Monaco, How to Read a Film, Oxford University Press, New York 2000, tr. it.
Leggere il film, Zanichelli, Bologna 2002.
181 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
11
Cfr. O. Sacks, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano 1999. In particolare il ca
pitolo Il caso del pittore che non vedeva i colori, pp. 23-75.
FABIO AMERIO 182
dati in modo cumulativo: la caratteristica peculiare del cervello è la «pla
sticità» e la sua attività principale consiste nella «riorganizzazione dei da
ti». Nel processo visivo dell’occhio non tutte le informazioni raccolte dai
ricettori sensoriali hanno la stessa importanza e il cervello effettua mol
ti filtraggi ed elaborazioni prima di riconoscere un volto o un oggetto.
Un codec12 di compressione del segnale video, se ottimale, dovrebbe
comportarsi come il cervello, cioè eliminare gli stessi dati che il nostro
meccanismo visivo elimina come non rilevanti. L’occhio umano ha una
risoluzione misurabile nell’ordine di 1/60 di grado su un campo visua
le di 150°, ma ciò non significa che qualsiasi dettaglio avente questa di
mensione «minima» venga considerato importante o sia effettivamente
«visto». Le immagini formate da texture complesse sono più difficili da
elaborare per il nostro sistema visivo rispetto a campiture uniformi o
immagini conosciute e facilmente riconoscibili. Un puntino rosso, un
pixel, tra il fogliame di un albero è pressoché invisibile, se il nostro oc
chio non è guidato a vederlo, ma lo stesso «difetto» sarà immediata
mente percepibile se si trova su di un volto, magari al centro della fron
te o in un paesaggio nel cielo blu. Similmente percepiamo un oggetto
che entri in rapido movimento nel nostro campo visivo senza però di
stinguerne la forma esatta o i dettagli. Se nel processo di codifica digi
tale di un segnale video venissero «filtrati» gli stessi dati che vengono
ignorati o enfatizzati dal nostro sistema visivo, allora si avrebbe un codec
estremamente efficiente che permetterebbe di eliminare quelle stesse
informazioni che non vengono notate. I moderni algoritmi di com
pressione delle immagini fotografiche o video a tutti noti come jpeg,
mpeg, o dv, adottano precisamente questa logica basata sull’eliminazio
ne o quantomeno sulla riduzione delle ridondanze (cioè degli «ele
menti visivi non visti»).
Il 1988 segna un passo importante per la fotografia digitale perché l’I
SO (International Standard Organization) nomina il sottocomitato «Co
ded representation of picture, audio and multimedia/hypermedia infor
mation» conosciuto come «sottocomitato 29». Questo sottocomitato,
formato da un consiglio mondiale di industrie e scienziati, darà origine
a due ulteriori divisioni: il Joint Picture Expert Group (JPEG) che ha il
compito di studiare sistemi di compressione per la fotografia digitale e il
Moving Picture-coding Experts Group (MPEG) con il compito di studiare
i sistemi di compressione delle immagini in movimento e del suono. Il
ruolo di questi due comitati – nati dalle intuizioni dell’ingegnere Leo
nardo Chiariglione, direttore dell’area multimediale del centro ricerche
12
Codec = Encoder o Coder in ingresso all’apparecchiatura digitale e Decoder in
uscita.
183 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
5. Un’immagine «ricamata»
Per capire come si sia arrivati all’immagine che vediamo nei visori
delle moderne fotocamere digitali, la strada da percorrere è lunga e
comincia con il fisico scozzese Alexander Bain che nel 1843 propose
un telegrafo in facsimile che utilizzava per scansione uno stilo fissato a
un pendolo. Al facsimile di Bain seguì il Pantelegraphe dell’abate se
nese Giovanni Caselli e il Kopiertelegraphen di Bernhard Meyer, che
fu di fatto il primo esempio «commerciale» di fax usato dal 1865 al
1870 per mettere in comunicazione Parigi e Lione. Ma la scansione
meccanica usata fino ai primi anni del XX secolo non era molto effica
ce e limitava la velocità di trasmissione dei dati. Il problema fu supera
to nel 1902 quando Arthur Korn, sfruttando le proprietà fotocondutti
ve del selenio già osservate da Jöns Jakob Berzelius, sviluppò la cellula
fotoelettrica. Korn scoprì che, modulando la luce che colpiva il sele
nio, si poteva variare anche l’intensità della corrente che lo attraversa
va. In altre parole, aumentando o diminuendo l’illuminazione di un
FABIO AMERIO 184
elemento di selenio, si otteneva un segnale elettrico «analogico» che
rispecchiava le variazioni di luminosità. Quando la luce aumentava,
aumentava proporzionalmente anche la corrente (perché diminuiva la
resistenza del selenio) e quando la luce diminuiva, anche il segnale
elettrico diminuiva di conseguenza. Il principio venne sfruttato – pro
prio come avviene in un moderno CCD – per convertire i toni differen
ti di un’immagine in variazioni di un segnale elettrico. Un negativo fo
tografico veniva avvolto su un tamburo di vetro inserito in un cilindro
dotato di una piccola apertura da cui passava la luce. I raggi luminosi
modulati dai chiaroscuri dell’immagine venivano riflessi da un prisma
e focalizzati su una cellula al selenio durante la rotazione del tamburo.
Il mezzo di ricezione era carta sensibile fotografica che veniva impres
sionata, in un modo simile alla scansione, da una luce la cui intensità
era modulata dal segnale elettrico. Con questo sistema di phototelegra
fia, Arthur Korn nel 1904 trasmise una fotografia da Monaco di Bavie
ra a Norimberga e successivamente, entro il 1910, Parigi, Londra e
Berlino furono collegate da un servizio di telefax su rete telefonica.
Nel 1922 Korn realizzò un’ulteriore innovazione adattando il suo si
stema alla trasmissione radiofonica. La prima immagine transoceanica
fu radiotrasmessa da Berlino al Maine in circa quaranta minuti. Sem
pre nel 1922 venne trasmessa con successo la prima immagine tra Ro
ma e New York.
Una delle prime applicazioni di questa tecnologia fu introdotta in
Gran Bretagna all’inizio degli anni Venti con il sistema di trasmissione di
Bartlane: utilizzando un nastro perforato simile a quello delle macchine
telescriventi di Wall Street (le ticker), trasformava un segnale elettrico in
un codice simile all’alfabeto Morse. Il codice, una volta decodificato, ri
produceva l’immagine secondo cinque livelli di luminosità. Grazie a
questo sistema, l’immagine veniva così trasmessa e ricostruita dalla mac
china ricevente che punzonava un nastro di carta secondo cinque valori
di chiaroscuro. Il nero era rappresentato da cinque buchi, il grigio scu
ro da quattro buchi, e così via. Le prime immagini digitali erano dun
que, letteralmente, «ricamate» sul foglio.
14
Per una cronologia e un approfondimento sullo sviluppo della fotografia digi
tale dal 1991 al 2001, cfr. L. Pianigiani, Digital decenium, «Jump», anno 7, n. 10/27.
FABIO AMERIO 190
volta da Oscar Barnak, ha definito lo standard comune attorno al qua-
le si sono sviluppate l’ottica, la meccanica e in seguito l’elettronica di
questa categoria di apparecchi fotografici. L’ergonomia dell’oggetto,
l’immediatezza dello scatto, il punto vista all’altezza degli occhi che as
simila il gesto di fotografare allo sguardo, uniti a un’ampia autonomia
di ripresa, sono alcuni dei fattori che hanno determinato il successo
del 35mm. Nel passaggio al digitale, tutti questi caratteri sono stati
mantenuti, come pure è stato mantenuto il formato di ripresa, nono
stante non vi sia più nessuna pellicola. La scelta di mantenere il for
mato è stata fatta per dare un senso di continuità sul mercato delle re
flex prospettando, in questo momento di passaggio, una intercambia
bilità – più teorica che reale – tra analogico e digitale. Gradualmente
tutti i più importanti marchi storici della fotografia entrano in questo
nuovo settore, talvolta stringendo accordi per sfruttare nuovi sensori.
In realtà inequivocabili segnali di allargamento del mercato si erano
già avuti nel 1994 con l’introduzione delle schede di memoria remo
vibile (memory card) che concedono al fotografo un’autonomia di ri
presa simile a quella del rullino fotografico (che, terminato il numero
di scatti, può essere sostituito con un altro caricatore). Oggi la quasi
totalità delle fotografie pubblicate dalla stampa quotidiana è scattata
con fotocamere digitali e di fatto è molto difficile, se non impossibile,
che la fotografia analogica possa avere un qualche futuro in questo
settore.
15
G. Bertolucci, citato in M. Greco, Il digitale nel cinema italiano, Lindau, Torino
2002, p. 34.
193 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
L’utilizzo della ripresa digitale nel cinema «ufficiale» non è certo mo
tivato dall’economicità del mezzo. La qualità dell’immagine fotografica
in questo settore è di primaria importanza e la pellicola – che oggi ha
raggiunto il massimo grado di perfezione e il cui prezzo incide abba
stanza poco sui costi totali di produzione di un film commerciale – è an
cora il riferimento qualitativo del cinema. Nel cinema digitale le mac
chine da presa sono delle telecamere che principalmente operano su
una risoluzione dell’immagine di 2K a cui corrisponde una risoluzione
del fotogramma di 2.100.000 pixel. Al NAB di Las Vegas, nel 2003 è stata
presentata la camera Origin della Dalsa che raggiunge 8.286.208 pixel
per fotogramma. Per avere un’idea delle proporzioni, si pensi che il for
mato DV ne risolve 414.720 e la pellicola cinematografica 35mm 12 mi
lioni. Il formato 4K, considerato l’equivalente della risoluzione cinema
tografica (12.700.000 pixel), per ora viene adottato solo per immagini di
computer graphic.
La ripresa avviene, come per la pellicola, con una scansione pro
gressiva dei singoli frame in uno spazio colore RGB con una conversione
analogico digitale a 12 o 10 bit. Il sistema CineAlta HD24P con risolu
zione 1920x1080 pixel è forse il più noto e molti film come Star Wars I
e II episodio di George Lucas sono stati realizzati con queste macchine;
anche Panasonic, Philips-Tomson – Clirmont camera e la Mitchel-Ike
gami producono cinecamere digitali. Girare un film completamente in
digitale oggi è quindi possibile, ma per la distribuzione nelle sale cine
matografiche è pressoché obbligatorio riversare ancora il film su pelli
cola. Il reale vantaggio di un formato digitale è invece attualmente le
gato alle operazioni di post-produzione. Tutti i film oggi seguono un
percorso che comprende la digitalizzazione a risoluzione video, infatti
il montaggio non avviene più in moviola con il taglio fisico di una copia
di lavoro della pellicola, ma attraverso software e hardware dedicati (il
sistema più usato è l’Avid con Pro Tools per l’audio). Questa nuova
prassi ha cambiato il lavoro dei montatori che possono gestire un inte
ro film (in bassa risoluzione) sul proprio personal computer; final-
mente svincolati dalle faticose operazioni manuali che in passato ne
gravavano i compiti. Oltre al montaggio del suono e delle immagini,
nella post-produzione di un film entrano in gioco altri elementi essen
ziali quali l’introduzione di effetti visivi o l’elaborazione del colore. È
appunto in questi passaggi che subentra la convenienza di girare in di
gitale. Sempre più film (e spot pubblicitari) girati in pellicola vengono
interamente riversati in digitale per subire una serie di elaborazioni
(colore, saturazione, contrasto, definizione ecc.) con software come In
ferno, Flame, Smoke o Symphony e poi nuovamente riversati su pelli
cola per la proiezione.
FABIO AMERIO 194
La sala cinematografica è l’ultimo anello della catena della distribu
zione che determina però, in maniera analoga al televisore, il «formato»
attraverso il quale l’immagine viene fruita dal pubblico ed è quindi su
questo terreno che si gioca realmente il passaggio al digitale nel cinema.
Attualmente la pellicola cinematografica detiene il monopolio presso
ché totale degli schermi.16 Quando un film è ultimato viene stampato e
le copie distribuite nelle sale; nel caso della distribuzione del film in for
mato digitale le cose avvengono in maniera molto diversa: se il film è gi
rato in pellicola, viene portato a una società di post-produzione che ef
fettua il telecinema e riversa il film in digitale; se il film è già stato gira
to in digitale, passa direttamente alla compressione.17 Dopo la compres
sione interviene il criptaggio dei dati; ed è questa la fase più importante
per l’industria cinematografica che intende difendersi efficacemente
dalla pirateria. I file sono compressi e trasmessi attraverso linee dedica
te in banda larga o via satellite all’hub di distribuzione (il nodo centrale
di una rete dove risiedono i file) che, con identiche modalità, li invia
nelle sale cinematografiche, oppure vengono trascritti su diversi dvd
rom. Ma se adottare uno standard industriale di codifica e criptazione
comune soddisfa le esigenze di controllo e sicurezza dei distributori, nel
contempo rischia di creare una lobby difficilmente penetrabile che a lun
go termine potrebbe penalizzare lo stesso sviluppo del cinema. In tal
senso c’è una convergenza di vedute tra le stesse major hollywoodiane
che vogliono evitare che tale tecnologia finisca nelle mani di una sola
azienda, come peraltro era già avvenuto nell’audio con l’introduzione
del Dolby.18
Ma tutti questi dati non vanno letti come mera documentazione tec
nica di un’evoluzione scientifica: come ha dimostrato l’opera di cineasti
quali Lars von Trier, sono anzi i reali elementi su cui si gioca una rivo
luzione estetica del linguaggio cinematografico che, sotto la superficiale
«meraviglia» commerciale hollywoodiana, incide a fondo sul senso stes
16
Cfr. G. Wright, L’anatomia del cinema digitale, in «Computer Gazzette», XVII, n. 3,
marzo 2002, pp. 18-24.
17
Le società che stanno sviluppando soluzioni diverse di cinema digitale sono tre:
la QuVIS, la Grass Valley Group (GVG) e la Technicolor Digital Cinema (TDC) e uti
lizzano diversi sistemi di compressione dell’immagine. La QuVIS usa il QPE (Quality
Priority Encoding), il GVG usa una variante dell’MPEG chiamata MPEG+, la Technicolor
utilizza una compressione Qualcomm ABSDCT (Adaptive Block Size Discrete Cosine
Transform).
18
Si ricordi che l’ultimo anello di questa catena, quello che a oggi «non tiene»,
non per difetti tecnici ma per il costo troppo elevato delle singole unità, è la tecno
logia di proiezione: costosissima e attualmente basata solo su due sistemi: il DLP (Di
gital Light Processing) della Texas Instruments-Barco e quello della D-ILA (Direct-dri
ve Image Light Amplifier) della JVC-Kodak.
195 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
19
Cfr. J. Beirne, Il making di Naquoyqatsi, in «Computer Gazzette», giugno 2003, p.
38.
FABIO AMERIO 196
scopici dell’immagine e i motivi ancor più piccoli della grana d’emul
sione crea un ammasso di particelle nelle zone di maggior dettaglio,
che incrementa il contrasto e la nitidezza apparente. In altre parole,
l’immagine guadagna «materialità» e avviene esattamente ciò che aveva
immaginato Reggio.
Se il caso di Naquoyquatsi ripropone l’annosa questione delle «due
culture», con l’intransigenza refrattaria e supponente degli uni (gli «ar
tisti») e la sufficienza ironica degli altri (i «tecnici»), fortunatamente
non sempre si fronteggiano posizioni così rigidamente «manichee» ed
esistono casi anche importanti (come Greenaway e Altman), in cui la
tecnologia digitale non è stata oggetto di pregiudizi sbilanciati in un
senso o nell’altro. È il caso di The Company, l’ultimo film di Robert Alt
man, in cui l’high definition ha giocato un ruolo fondamentale: Altman
ha potuto girare una singola scena di 28 minuti senza stacchi utilizzando
cinque camere ed entrando in campo più volte per dirigere gli attori e
poi ripetere la scena senza fermare il nastro. Ma anche se l’HD ha con
sentito di riprendere un’enormità di materiale, l’equivalente di circa 6
mila metri di pellicola 35mm al giorno, il budget non è comunque il fat-
tore determinante: «Se si utilizza il digitale per contenere i costi, signifi
ca che si sta facendo un film di budget molto basso». Infatti non è cer
tamente da ascriversi a motivazioni di budget la scelta del digitale ope-
rata da Peter Greenaway nella sua ultima opera: Le valigie di Tulse Luper.
Il passaggio del digitale al cinema avverrà sicuramente e sarà antici
pato e simultaneamente superato da questo cinema post-digitale o mul
timediale che già lascia impronte di una certa profondità. Come è ac
caduto per la foto e per il video, le modalità e i tempi di questa nuova
evoluzione saranno presumibilmente brevi e, come di consueto, deter
minati da quella «massa critica» di consumatori o fruitori che, attraver
so i canali del consenso e del mercato, determinano la realtà estetico
tecnologica che ci circonda. Chi saprà adeguarsi con risultati convin
centi a queste innovazioni sarà premiato, chi resterà indietro dovrà pa
gare, anche e soprattutto in termini economici, il suo ritardo (è il caso
della Kodak, per fare un esempio, che, avendo sottovalutato la rivolu
zione digitale, negli ultimi due anni ha visto le sue azioni perdere il
39,79 per cento).20
20
Cfr. M. Magrini, Kodak rischia il fermo immagine, in «Il Sole 24 Ore», 24 agosto
2003, p. 18.
197 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
21
E. Montale, Ho sceso dandoti il braccio, in Montale tutte le poesie, Mondadori, Mila
no 1984.
22
Cfr. C. Sini, I segni dell’anima, Laterza, Bari 1989, p. 102.
FABIO AMERIO 198
cettuale). Terminato, o meglio «addomesticato», l’abbaglio paralizzante
dell’infinita riproducibilità, all’artista non si chiede più una dialettica
negativa che si fondi sulla retorica della fine, ma una seria presa di co
scienza inerente la possibilità di infittire la rete e di rendere più com
plesso l’algoritmo che determina la matrice del nostro sguardo. Che
questa ricerca sia possibile lo conferma la macchina insonne, servo e pa
drone del moderno voyeur absolut: il fruitore onnivoro, connesso, rami
ficato, pronto a captare l’informazione, il dettaglio, la macrostoria, lo
scatto di coscienza, la pornografia, la ricerca. L’uomo – mon semblable-
mon frère – è pronto a entrare nel flusso del «futuro storico». Come vole-
va Baudelaire per il pubblico della nascente fotografia, oggi come al
tempo del Salon del 1859, «migliaia di occhi avidi [...] sui lucernari del
l’infinito».23
23
C. Baudelaire, La critica d’arte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 68.
SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
Mauro Lupone
1. Il suono tecnologico
1
Per un ascolto degli archivi sonori del futurismo suggerisco Futurismo Musicale,
cd prodotti dall’etichetta Fonoteca, Roma a cura di D. Lombardi e A. Latanza. Si trat
ta di un’interessante raccolta di documenti sonori tratti da varie fonti storiche, con di
chiarazioni degli stessi artefici del movimento e numerosi esempi in cui si fa uso di
intonarumori.
MAURO LUPONE 200
vocato americano Thaddeus Cahill, era costituito da numerosi genera
tori di corrente alternata, interruttori e resistenze, utili a produrre il
suono, ma era costretto, in assenza dell’altoparlante non ancora in uso,
a ricorrere alla trasmissione via telefono, problematica e per questo po
co funzionale in termini di resa. Fu l’espansione della radio negli anni
seguenti a fornire un nuovo impulso alla ricerca e alla sperimentazione
audio. Alla metà degli anni Venti Milhaud realizza esperimenti di tra
sformazione della voce mediante variazione di velocità nella rotazione
dei dischi, mentre intorno al 1930 Hindemith e Toch, nel laboratorio ra
diofonico della Hochschule für Musik di Berlino, producono composi
zioni-studi (studie) utilizzando tecniche fonografiche che vanno dal ta
glio e dissolvenza alle variazioni del numero di giri del disco, alle ripeti
zioni ottenute mediante registrazione su dischi con solchi chiusi (meto
do antesignano della moderna tecnica di loop), tecniche del resto uti
lizzate anche oltreoceano da John Cage alla fine degli anni Trenta (Ima
ginary Landscape n.1). Dallo sfruttamento della valvola elettronica fu in
vece possibile generare delle frequenze elettriche modulabili, possibilità
utilizzate per la produzione sonora creata da nuovi strumenti come il
thereminvox o come il trautonium, che fu prodotto in serie dalla Tele
funken nel 1932 e usato anche in ambito cinematografico per generare
effetti di sound design per l’audio di alcuni film (tra gli altri, anche il ce
lebre Gli uccelli di Hitchcock, 1963) (L. Chadabe, 1997).2
L’avvento del sonoro nel cinema aveva da poco sostituito il com
mento musicale dal vivo del cinema muto, focalizzando l’attenzione co
municativa sulla parola e fornendo anche spazio, pur nella stretta ban
da del suono ottico cinematografico di quegli anni, alla presenza del-
l’elemento rumoristico come aspetto rilevante nella definizione del-
l’ambiente sonoro. La tendenza fu presto annichilita alla metà degli an-
ni Trenta, dal ritorno a una rinnovata ridondanza nella presenza di ac
compagnamento musicale, che nemmeno la tecnica del Dolby, diffusa-
si nella metà degli anni Settanta, con le possibilità offerte dalla pluralità
di piste utilizzabili e dalla larga banda passante, è riuscita sostanzial
mente a cambiare (M. Chion, 1990). Nel cinema ciò che è realmente
importante ancora oggi rispetto alla percezione sonora è l’attenzione
2
Il theremin sfrutta la possibilità di controllare la generazione del suono agendo su
un campo elettromagnetico di un’antenna tramite il movimento delle due mani,
senza quindi nessun contatto diretto con l’oggetto. Lo strumento, precursore dei
moderni sensori di controllo interattivi, vanta una lunga storia e veri e propri esecu
tori-virtuosi che a esso hanno dedicato la propria carriera (tra tutti citiamo Clara
Rockmore). Oggi il theremin sta avendo un forte ritorno di popolarità, e non è raro
trovarlo tra i dispositivi presenti nei set dei musicisti e degli artisti elettronici non ac
cademici.
201 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
2. L’esperienza analogica
5
P. Schaeffer, Traité des objets musicaux, Seuil, Paris 1966; e inoltre la raccolta di in
terventi AA.VV., Ouïr, entendre, écouter, comprendre après Schaeffer, Buchet/Chastel-INA/
GRM, Paris 1999.
6
La BBC inglese promosse nel 1958 l’iniziativa The Radiofonic Workshop per creare
suoni per la radio e la televisione, tra cui i celebri effetti sonori della serie televisiva
203 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
Doctor Who. In Svezia, presso gli studi della Radio di Stoccolma si ricercavano invece
nuove formulazioni di rapporto tra suono e parola, definite dal termine text-sound
composition, vera e propria sorta di arte sonora sviluppatasi fino ai nostri giorni (Cha
dabe, 1997).
7
J.A. Sloboda, The Musical Mind. The Cognitive Psychology of music, Oxford University
Press, Oxford 1985; trad. it. La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica, Il Mu-
lino, Bologna 1988; N. Chomsky, Le strutture della sintassi, Laterza, Bari 1970.
MAURO LUPONE 204
studi incontrandosi su terreni comuni in cui poter formalizzare i pro
cessi di sviluppo della ricerca. La peculiarità della musica su nastro im
poneva comunque una necessaria riflessione anche sulle sue modalità
di diffusione all’interno dell’evento performativo. La possibilità di mo
vimento del suono nello spazio, di considerare cioè la «plasticità» insi
ta nel suono non solo come movimento direzionale ma anche come
ipotesi di collocazione-frammentazione delle sue componenti energe
tiche in una virtuale griglia spaziale tridimensionale, spinse alla ricerca
di soluzioni originali nella dislocazione dei diffusori audio in situazioni
live (ricordiamo la multidiffusione spaziale in sala del Gesang der Jün
glinge di Stockhausen del 1956 o l’esperienza negli anni Settanta di Bay
le con il suo Acousmonium, una scenografica architettura di numerosi
diffusori, allestiti per realizzare plastiche morfologie sonore durante le
performance esecutive). Il tape aveva inoltre rappresentato fin dagli an-
ni Cinquanta un supporto utile alla gestione dell’audio in situazioni
performative, favorendo anche la realizzazione di allestimenti in cui
prevedere la compresenza di proiezioni, luci e azione scenica (Poème
Electronique di Edgar Varèse del 1958, e negli stessi anni il progetto
Rainforest di David Tudor), stimolando al contempo formule funzionali
alla gestione di processi di sincretismo creativo tra i vari mezzi. Fu però
soltanto con lo sviluppo computazionale degli anni Settanta che la ri
cerca sulla spazializzazione del suono poté giovarsi di uno strumento di
controllo efficace per la definizione puntuale del movimento nello spa
zio e la relativa dislocazione dei diffusori, permettendo parallelamente
di stabilire una corretta simulazione degli effetti psicoacustici necessari
al processo di localizzazione del suono nello spazio. Negli stessi anni,
presso i laboratori Dolby si sviluppavano i nuovi sistemi di diffusione
surround che agli inizi degli anni Ottanta porteranno alla diffusione
della tecnologia Dolby Surround, evolutasi fino all’attuale configura
zione a sei canali (5.1), definita come Dolby Digital. Ancora oggi, co
munque, il vero problema della diffusione spaziale del suono risiede
nella difficoltà di prevedere le dinamiche legate alla percezione del
movimento in uno specifico contesto non standardizzato, a differenza
dei cinema forniti del sistema di riproduzione surround. Il movimento
del suono non è un concetto applicabile indipendentemente dallo spa
zio performativo in cui agiamo, dalla dislocazione relativa dei diffusori
e dall’individuazione dei punti di ascolto. In altre parole, è più facile
parlare di spazializzazione in ambito cinematografico, dove è possibile
strutturare situazioni uniformi di diffusione-ascolto, piuttosto che in
ambiti prettamente multimediali in cui, senza un’accurata progettazio
ne in funzione del contesto specifico, si corre il rischio di produrre
una multidiffusione non ottimale in termini di resa.
205 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
8
P. Boulez, in Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966; trad. it. Note di apprendistato, Ei
naudi, Torino 1968.
MAURO LUPONE 206
nendo poi sui controlli manuali relativi a ciascun modulo si modificava
no i parametri che plasmavano la natura del suono prodotto. Ogni mo
dulo è quindi l’implementazione di una funzione necessaria a produrre
un’azione sul segnale elettrico generatore di suono (L. Tarabella, 1992).
Nell’estate del 1952 Bruno Maderna fa eseguire a Darmstad il suo
Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico. Il brano è pre
sentato come il primo lavoro in cui uno strumento interagisce con l’u
niverso sonoro generato elettronicamente. Maderna apre una nuova
strada, una nuova prospettiva. La tecnologia si compenetra con i suoni
strumentali reali, le due dimensioni si incontrano, regolate dai meccani
smi della percezione e da quell’altrimenti indicibile che, secondo We
bern, «soltanto con i suoni si può dire». La tecnologia, l’intervento mo
dificativo sul suono, torna a essere strumento di un’idea musicale, di
una pratica compositiva più consona ai processi propri del fare musica e
soprattutto ai meccanismi naturali della percezione sensoriale e dell’e
stetica. Una tensione soggettiva cioè in cui il risultato finale non è rigi
damente deducibile dall’applicazione delle premesse teorico-formali. Il
processo di strutturazione formale e l’utilizzo delle tecnologie non pos
sono fare a meno di considerare indispensabile il rapporto con i mecca
nismi esperienziali, cognitivi e percettivi.
Negli anni Sessanta l’elettronica cominciò ad affacciarsi anche nei
territori della musica commerciale. Sono gli anni del sintetizzatore
Moog (dal nome del suo costruttore, l’americano Robert Moog), con
cui era possibile generare elettronicamente suoni virtuali (sintetizzare),
utilizzando una tastiera musicale in collegamento con i moduli genera
tori del suono. Lo strumento fu molto apprezzato dall’industria della
musica e prodotto massicciamente in una versione più orientata all’u
tente, dotata di cursori e bottoni che sostituivano le poco pratiche con
nessioni via cavo (Minimoog). Lo strumento popolò i set audio di nu
merosi gruppi pop-rock (ricordiamo Keith Emerson degli Emerson,
Lake and Palmer, con i suoi coltelli piantati tra i tasti a formare grappo
li di note tenute, oppure artisti del calibro di Stevie Wonder, Pink Floyd,
Herbie Hancock, Brian Eno). Fino agli anni Ottanta, data in cui la pro
duzione fu conclusa, furono venduti più di dodicimila sintetizzatori in
tutto il mondo. Da quel momento strumenti analoghi servirono a crea
re nuovi suoni virtuali e la loro produzione e vendita continuò invariata
nel tempo (J. Chadabe, 1997). Altre case produttrici crearono propri
modelli dotati di sempre più sofisticate tecniche di sintesi, in linea con
le esigenze del mercato – come la sintesi in modulazione di frequenza (FM)
con cui alla fine degli anni Settanta fu prodotta tutta la serie dei sinte
tizzatori DX della Yamaha –, le stesse esigenze e tendenze che oggi spin
207 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
gono verso il ritorno sulla scena delle tastiere vintage e delle loro speci
fiche sonorità old-fashion.
10
Cfr. D. Smalley, Spectro-morphology and Structuring Processes, in S. Emmerson (a
cura di), The Language of Electroacustic Music, MacMillan, London 1986 e D. Smalley,
La spettromorfologia: una spiegazione delle forme del suono, “Musica/realtà”, 50-51, 1996.
11
Il problema di avere per ogni strumento soltanto la tecnica di sintesi progettata
e implementata all’origine, ha spinto recentemente le case produttrici di strumenti
musicali, minacciate anche dallo sviluppo dei soft-synth digitali, a investire nello svi
luppo dei cosiddetti mainframe audio, oggetti in grado di variare la tecnica di sintesi
implementata oppure mutarsi in processori di effetti o campionatori (di cui parlere
mo più avanti), semplicemente caricando sulla macchina lo specifico programma di
gestione.
12
Un libro interessante nella sua libera e visionaria esplorazione dei mondi sono
211 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
4. Suono e interazione
ri del nostro tempo è D. Toop, Oceano di suono. Discorsi eterei, ambient sound e mondi im
maginari, Costa e Nolan, Genova 1999.
13
Questo è l’ambito in cui operano oggi le nuove produzioni creative di sincreti
213 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
smo digitale, in cui live video processing, live electronic music, technotheatre si compenetra
no lavorando sulle matrici comuni del linguaggio elettronico (come per il gruppo
spagnolo la Fura dels Baus o gli italiani XEAR – Extended Electronic Arts).
14
Un esempio emblematico ci viene da Brian Eno, definito da A. Ludovico «il gu
MAURO LUPONE 214
rapporto produttivo tra linguaggi elettronici e forme di rappresentazio
ne relative. I nuovi mezzi digitali impongono nuove tipologie di relazio
ne creativa, stimolano la definizione di un nuovo spazio performativo e
di una esperienza percettiva di sincretismo che agisce sullo spazio-tem
po, contribuendo a realizzare una nuova forma di «rappresentazione»
che non può non essere consapevole delle implicazioni messe in gioco
(basti pensare a certa dance di tendenza, dove possiamo trovare sempre
più frequentemente dj-set in cui sono compresenti video-live interattivi e
controller tecnologici di attivazione e gestione audio o alle esperienze che
utilizzano gli sviluppi della tecnologia streaming in rete).
Il processo d’interazione induce a riflettere però, nella sua accezione
più complessa, sulla reale natura che lo stesso può rivestire nei processi
di costruzione e attuazione performativa del progetto, particolarmente
secondo un aspetto tipicamente percettivo-comunicativo. Il soggetto
umano non va considerato agito ma agente, e partecipa con la propria
azione alla definizione ultima del rappresentato, allo stesso modo per
cui si parla oggi di «circolazione del sapere» resa possibile dall’attività di
enunciazione attraverso le diverse materie dell’espressione multimedia-
le. Questa è anche la motivazione del fallimento commerciale della mag
gior parte delle esperienze legate al cd-rom come prodotto d’arte, in cui
la presunta interazione finisce per essere una mera navigazione gestio
nale all’interno del prodotto più o meno ben confezionato.14 Parafra
sando un’affermazione di Berio, in qualunque modo si voglia intendere
l’utilizzo performativo della tecnologia, non possiamo dimenticarci del
«dettaglio uomo» e delle connessioni profonde che regolano la realizza
zione della sua esperienza. La sfida, a mio parere, resta quindi quella di
sviluppare una sempre più attenta consapevolezza rispetto alle implica
zioni profonde che il mezzo tecnologico e digitale comporta, non tanto
rispetto alla possibile complessità insita nelle nuove soluzioni tecnologi
che quanto a come il linguaggio elettronico possa influire sui processi
creativi e percettivi, in funzione anche di una nuova e sempre più sti
ru storico della musica elettronica» (A. Ludovico, Suoni futuri digitali, Apogeo, Mila
no 2000) e autore del «concept» cd-rom HeadCandy, che lo stesso Ludovico definisce
come «uno dei pochi titoli che hanno nobilitato il genere» (ivi). Purtroppo, lo stesso
Eno considera testualmente il suo lavoro: «Orrendo. Tipica spazzatura cd-rom» (B.
Eno, Futuri impensabili, Giunti, Firenze 1997). E in merito al rapporto d’interazione
uomo-macchina, aggiunge in seguito: «C’è una lunga storia di tentativi del genere. In
linea di massima le connessioni tra te e il sistema sono così banali che non sono in
teressanti da esplorare molto a lungo. Non c’è sfumatura nel rapporto che puoi ave
re con l’oggetto. Sono tutte connessioni molto povere, come tutte le cose interattive»
(ivi). Pesante osservazione su cui meditare.
215 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
1.2.1 Totalità
Una delle caratteristiche alla base della multimedialità è quella di TO
TALITÀ.
L’attributo della totalità vale per il testo multimediale dal momento che
2
AA.VV., New media culture in Europe, Uitgeverij de Balie and The Virtual Platform,
Amsterdam 1999, p. 20.
3
Cfr. L. Toschi, L’ipertesto d’autore, (con cd-rom), Marsilio, Venezia 1996.
TOMMASO TOZZI 218
esso si presenta come l’unione di elementi distinti, la cui interazione ge
nera un prodotto diverso dalla semplice somma dei costituenti. Tutti gli
elementi di un testo multimediale, siano essi immagini, testi alfabetici,
suoni o animazioni, mutano, nell’interazione, la loro natura originaria.
Ogni elemento è sé stesso più il contesto di appartenenza e la rimozione
di un’immagine o di un suono provocherà una modifica sostanziale nel
l’economia complessiva del testo.4
Le opere che Eco nel 1962 porta come esempio sono tra le altre quel
le musicali di Boulez, Berio, Stockhausen o Pousser, il teatro di Brecht,
ma anche l’Ulisse di Joyce e in particolar modo il Livre mai concluso da
Mallarmé.
4
A. Anichini, Come scrivere un testo multimediale, in L. Toschi (a cura di), Il linguag
gio dei nuovi media, Apogeo, Milano 2001, pp. 99-103, e, della stessa autrice, Testo, scrit
tura, editoria multimediale, Apogeo, Milano 2003.
5
U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962, pp. 58-60. Vedi l’antologia in que
sto volume.
219 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
Un’idea di ARTE TOTALE che finisce per coincidere con la vita la si può
già intravedere nelle opere di Wagner e in seguito nel movimento dada
(in particolare nei Merzbau di Schwitters), nelle poesie automatiche sur
realiste, nel teatro di Artaud, ma è con il movimento degli happening e
con Fluxus, entrambi nati alla fine degli anni Cinquanta, che il rappor
to ARTE/VITA e l’idea di indeterminazione raggiungono il loro apice.6
Esemplificativi in tal senso sono, per esempio, i lavori del musicista John
Cage sin dallo spettacolo del 1952 al Black Mountain College, gli hap
pening di Allan Kaprow, così come quelli di molti altri, ben raccontati
nel catalogo John Cage Happening & Fluxus.7
Il musicista fiorentino Giuseppe Chiari, le cui prime serie musicali
matematiche risalgono al 1950, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio
dei Sessanta sarà il principale rappresentante in Italia del movimento
Fluxus. Nel 1962 fonderà insieme a un altro musicista fiorentino, Pietro
Grossi, l’Associazione Vite Musicali che sarà un importante luogo di dif
fusione culturale.
Il lavoro di Pietro Grossi si pone invece a cavallo tra i punti di vista (A)
e (B), nel suo tentativo di portare la casualità all’interno di una struttu
ra programmata al computer. Primo violoncello del Comunale a Firenze
negli anni Trenta, sarà in seguito uno dei primi a fare computer music, sin
dagli anni Sessanta, e fonderà la prima cattedra italiana di musica elet
tronica al Conservatorio. Nel 1970 sperimenterà la trasmissione di mu
sica all’interno delle reti telematiche tra il Centro Pio Manzù di Rimini
e il CNUCE di Pisa.
Già negli anni Cinquanta si può notare la divergenza tra il punto di vi
sta di (A) da quello di (B), per esempio attraverso le discussioni in cam
po musicale.8
Secondo (A) la casualità insita nel punto di vista di (B) trae le sue ori
gini nelle filosofie orientali dando luogo a un NON-SENSO anziché a una
molteplicità di sensi possibili. Secondo (A) il pensiero occidentale ha bi
sogno di una struttura, tende per sua naturale attitudine a distinguere e
ORDINARE.
6
H. Szeemann, Happening & Fluxus, Koelnischer Kunstverein, Colonia 1970.
7
E. Pedrini, John Cage Happening & Fluxus, Galleria Vivita, Firenze 1988.
8
H.-K. Metzger, John Cage o della liberazione, e P. Boulez, Alea, in «Incontri Musica
li», n. 3, agosto 1959.
TOMMASO TOZZI 220
Che cos’è un happening? L’assumere come atto significante un atto che
facciamo tante volte durante la vita quotidiana, in modo abituale, distrat
to, quasi senza accorgercene.9
Oltre ai già citati, un altro esempio sono i lavori di Nam June Paik, in
cui l’opera si autorealizza in modo indeterminato attraverso il caso. Nei
suoi lavori del 1963, attraverso 13 Distorted Tv Sets, all’artista viene in
parte sottratta la delega di autore e produttore dell’opera.10
Un altro esempio è il metodo dei cut-up di William S. Burroughs ini
ziato da Brion Gysin nel 1959.11
9
G. Chiari, in «Identités», n. 13/14, febbraio 1966.
10
G. Celant, Off Media, Dedalo Libri, Bari 1977, pp. 19-23.
11
AA.VV., William S. Burroughs. Throbbing Gristle. Brion Gysin, in «Re/Search», n.
4/5, San Francisco 1982.
12
A. Di Corinto, Piccole folle in movimento, in «il manifesto», 16 luglio 2003.
13
G. Bettetini, S. Garassini, B. Gasparini, N. Vittadini, I nuovi strumenti del comuni
care, Bompiani, Milano 2001, p. 49.
221 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
14
G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), Baskerville, Bologna 1993, p.
22.
15
T.H. Nelson, Literary Machines 90.1, cit.
16
M. Foucault, L’Archeologia del sapere (1969), Rizzoli, Milano 1980, p. 5.
17
E. Pedemonte, Personal media. Storia e futuro di un’utopia, Bollati Boringhieri, To
rino 1998, p. 43.
223 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
tuiscono (testi, immagini, video, suoni ecc.) sono spesso però tra loro in
dipendenti. Tale caratteristica di MODULARITÀ dà luogo a una possibile VA
RIABILITÀ, o RICOMBINAZIONE, per cui gli stessi elementi possono servire
a formare più unità di senso differenti, così come le stesse unità di sen
so possono essere utilizzate più volte per contribuire a formare ogni vol-
ta discorsi diversi, talvolta anche tra loro contraddittori.
Nel caso in cui la rete che collega le unità di senso sia di tipo RIZOMA
TICO, ovvero quando ogni unità di senso è potenzialmente collegata a
tutte le altre, la possibilità ricombinatoria diviene enorme.
Già nel 1976 Deleuze e Guattari scrivono Rizoma in cui viene descrit
to un modello di organizzazione del sapere ipertestuale, decentrato e
non gerarchico.18 Secondo Castells la capacità di ricombinare informa
zioni in ogni maniera possibile è ciò che caratterizza un ipertesto ed è
fonte di innovazione, soprattutto quando, come dovrebbe avvenire in
Internet, ciò accade sulla base di scopi specifici decisi in tempo reale da
ciascun utente/produttore dell’ipertesto19 (vedi 1.4.1).
Un esempio è dato nel 1964 da Nam June Paik, il quale mostra che si
può fare videoarte da soli comprandosi una telecamera e un videoregi
stratore portatili (il «portapak»).
Negli anni Sessanta lo spirito dei movimenti del «do it yourself» (DIY)
e l’etica hacker del «farci mettere all’utente le mani sopra» hanno il lo
ro naturale sbocco negli anni Settanta nella nascita del PERSONAL COM
PUTER e nel tentativo da parte dei movimenti di base e dei collettivi arti
stici di usare le nuove tecnologie per fare una rivoluzione culturale.
18
G. Deleuze, F. Guattari, Rizoma, Pratiche editrice, Parma-Lucca 1977. Vedi an
tologia in questo volume.
19
M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e
lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2001, p. 122.
TOMMASO TOZZI 224
mantenere una propria identità e AUTONOMIA all’interno del collettivo.
Una caratteristica questa che in relazione alle reti è stata da alcuni defi
nita GLOCAL, un termine che deriva dall’unione di globale con locale.
Di fatto in campo artistico fin dagli anni Sessanta (ma spesso ancora
oggi) si assiste nelle mostre a un’idea di opera interattiva che si risolve in
un’azione meccanica dello spettatore, obbligata dalla struttura creata
dall’artista.
Un esempio di questa contrapposizione è l’idea di interattività che
emerge nell’esposizione Software Information Technology: Its New Meaning
for Art che viene organizzata nel 1970 da Jack Burnham presso il Mu
seum of Modern Art a New York. A fianco delle indagini concettuali
di artisti come Les Levine, Hans Haacke, e Joseph Kosuth e delle tec
nologie progettate da Ted Nelson e Nicholas Negroponte
(http://vv.arts.ucla.edu/publications/thesis/official/ch2.htm) vi era
no installazioni come:
20
F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media, Laterza, Bari
2000, p. 360.
225 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
sul Web dovremmo essere in grado non solo di trovare ogni tipo di docu
mento, ma anche di crearne, e facilmente. Non solo di seguire i link, ma
di crearli, tra ogni genere di media. Non solo di interagire con gli altri, ma
di creare con gli altri. L’intercreatività vuol dire fare insieme cose o risol
vere insieme problemi.21
21
T. Berners-Lee, L’architettura del nuovo web (1999), Feltrinelli, Milano 2001, p. 148.
22
T. Tozzi, Cotropia: lifeware e coevoluzione mutuale. Tracce per la riformulazione del
TOMMASO TOZZI 226
Già nel 1932 Bertolt Brecht aveva ipotizzato una radio autogestita dal
proletariato, in cui l’ascoltatore fosse anche fornitore di informazioni in
relazione con altri. Una radio dunque che permettesse non solo di rice
vere, ma anche di trasmettere. È la risposta al nazismo che attraverso la
propaganda radiofonica impone un’ideologia totalitarista al mondo (G.
Celant, 1977, p. 7).
Pochi anni dopo, nel 1945, Bush ipotizza che nel Memex il lettore
possa associare al testo i propri pensieri e commenti e nel 1970 Barthes
chiarisce la differenza tra «testi scrivibili» e «testi leggibili».
Si è anche detto che sia per (A) sia per (B) vi è un DECENTRAMENTO
DEL SENSO inteso come moltiplicazione dei sensi possibili grazie alle op
portunità date dal rizoma. Ma solo secondo (B) ipertesti e reti non solo
hanno una molteplicità di unità di senso, ma anche una molteplicità di
strutture potenziali che emergono e mutano in modo fluttuante a se
conda della partecipazione interattiva degli autori/lettori.
Per (B) autore e lettore non solo sono sullo stesso livello, ma si scam
biano vicendevolmente i ruoli al punto che l’autore diventa COLLETTIVO.
23
J.P. Barlow, Crime and Puzzlement, in «Whole Earth Review», n. 68, autunno 1990.
24
R. Scelsi (a cura di), No copyright. Nuovi diritti nel 2000, Shake Edizioni Under
ground, Milano 1994, p. 223.
25
S. Fadda, Definizione zero, Costa & Nolan, Genova 1999, pp. 118-119.
26
T. Tozzi, A. Di Corinto, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, ManifestoLibri,
Roma 2002, pp. 173-261 e 263.
27
H.M. Enzensberger, Constituents of a Theory of the Media, Modern Occasions
Anthology, 1970, pp. 13-38.
28
J. Beuys, M. Ende (1989), in Arte e politica, Guanda, Parma 1994, p. 24.
TOMMASO TOZZI 228
di un autore, mentre secondo (B) la cooperazione riflette un processo
continuo di negoziazione tra gli individui il cui punto di arrivo rifletterà
un accordo e un punto di incontro comune a più parti.
opera d’arte, come utopia, la società come l’opera d’arte per eccellenza,
superiore alle singole opere d’arte. Si potrebbe anche chiamarla l’opera
d’arte totale. Che è fattibile solo con la partecipazione di tutti.28
Uno tra i primi esperimenti che coinvolgono degli artisti nella speri
mentazione dell’ARTE TELEMATICA è Interplay. Computer Communications
Conference, organizzata a Toronto da Bill Bartlett con la partecipazione di
artisti da Canada, Australia, Stati Uniti, Giappone e Austria tra cui l’arti
sta Robert Adrian.
Sempre nel 1980 Roy Ascott, che già si occupa dagli anni Sessanta
del rapporto tra arte e tecnologia, organizza in collaborazione con
Infomedia di Jacques Valle un evento di tre settimane che prevede la
sperimentazione da parte di artisti delle possibilità fornite dalla tele
matica, considerando «le teleconferenze computerizzate come una for
ma di arte».
29
R. Ascott, Il momento telematico, in M. Costa (a cura di), L’estetica della comunica
TOMMASO TOZZI 230
Roy Ascott, come affermerà in seguito, è contro l’idea di artista unico
e lavora a un’idea di networking in cui l’autore è chiunque sia connesso
alla rete.29
Nel 1989 il sottoscritto conia il termine Hacker art, e lo teorizza nel li
bretto Happening/Interattivi sottosoglia:
In questa prospettiva nel 1990 nasce Hacker Art BBS, una banca dati
telematica artistica autogestita. Hacker Art BBS, che precede di un anno
l’analoga, ma più nota The Thing di New York è:
una “mostra aperta senza galleria” alla quale tutti possono partecipare [...]
attraverso un personal computer unito a un modem, lasciando il proprio
intervento che può essere di qualsiasi tipo. [...] L’hacker art di Tozzi [...] si
propone di [...] costituire un circuito di informazioni libere capace di es
sere manipolato da chiunque lo voglia.30
Hacker Art BBS è la conseguenza naturale di una rivista per segreteria te
lefonica che ho realizzato per un anno e mezzo a partire dal marzo 1987
[...] Il compito dell’artista più che di creare merce è di fornire gli stru
menti della comunicazione, mettere in connessione, fare network. Artista
è colui che realizza interfacce fluttuanti cioè rende partecipe ogni uten
te/individuo alla stipulazione degli accordi su cui si fonda la comunica
zione sociale [...] Per rendere possibile un accordo è necessario che il si
stema di traduzione sia un’interfaccia fluttuante in grado di adattarsi alle
differenti versioni tramite convenzioni che devono essere stipulate in ac
cordo tra le parti [...] È proprio nel riuscire a creare collettivamente un
linguaggio che risiede la forza degli scrittori di graffiti, della mail art, di
Fluxus, del punk e di chiunque nel passato abbia fatto “network”.31
Sarà presentata in una mostra ufficiale per la prima volta a giugno del
1991 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna all’interno della mostra
Anni Novanta a cura di Renato Barilli, insieme a Ribellati! un virus infor
matico non distruttivo, da me ideato come opera d’arte nel 1989.
31
T. Tozzi, Fornire gli strumenti della comunicazione, mettere in comunicazione, fare
network..., intervista di R. Pinto, «Flash Art», n. 181, febbraio 1994.
32
S. Brand, Spacewar. Fanatic Life and Symbolic Death Among the Computer Bums, in
«Rolling Stone Magazine», dicembre 1972.
TOMMASO TOZZI 232
ora, è ideato dal sottoscritto nell’estate del 1995 e in seguito viene orga
nizzato insieme a Strano Network, a dicembre dello stesso anno, per
protestare contro gli esperimenti nucleari a Mururoa.33
Il netstrike, o virtual sit-in, ha avuto poi una larga diffusione sia in Ita
lia (www.netstrike.it) che da parte di gruppi internazionali collegati al
mondo dell’arte (dal 1998 il gruppo dell’Electronic Disturbance Thea
tre inizia a utilizzarlo e lo presenta al festival di Ars Electronica a Linz) e
dei movimenti di protesta globale.
Tale pratica può essere considerata un’opera d’arte collettiva da una
parte in continuità con gli happening degli anni Sessanta, in particolar
modo quelli di artisti come Henry Flynt che nel 1963 sfila protestando
di fronte al Museum of Modern Art di New York invitando i passanti a fa
re lo stesso, dall’altra con i sit-in dello stesso periodo che riconoscendo
si nel Free Speech Movement intasano le strade della città per reclama
re il riconoscimento del diritto costituzionale alla libera espressione di
ogni individuo.
33
T. Tozzi, Net strike starter kit, in Strano Network, Net strike, no copyright, ecc., AAA
Edizioni, Bertiolo 1996, pp. 10-42.
34
J.C.R. Licklider, R. Taylor, The Computer as a Communication Device, «Science and
Technology», aprile 1968.
233 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
Nel 1947 sarà uno degli obiettivi della nascente Association for Com
puter Machinery (ACM), mentre negli anni Sessanta la tecnologia del ti
me-sharing, creata grazie anche al contributo degli hacker del MIT,35 favo
rirà la nascita della posta elettronica e delle prime comunità virtuali.36
35
S. Levy, Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica (1984), Shake Edizioni Un
derground, Milano 1996.
36
H. Rheingold, Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio (1993),
Sperling & Kupfer, Milano 1994.
37
R. Scelsi (a cura di), Cyberpunk antologia, Shake Edizioni Underground, Milano
1990, p. 27.
38
G. Blasi, Internet. Storia e futuro di un nuovo medium, Guerini Studio, Milano 1999,
p. 117.
TOMMASO TOZZI 234
Equivalente alla filosofia dell’open source per il software, il modello
dell’open content prosegue questo genere di utopia. Ne ritroviamo ora
mai esempi un po’ ovunque in Internet, laddove esiste uno spirito di vo
lontariato libero dagli interessi del mercato e l’Archivio Hacker Art
(www.ecn.org/hackerart/) è solo uno tra i tanti, quali per esempio an
che Wikipedia – The Free Encyclopedia (www.wikipedia.org).
39
P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1996.
40
M. Davis, Il calcolatore universale, Adelphi, Milano 2003.
41
H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva (1985),
Feltrinelli, Milano 1988.
TOMMASO TOZZI 236
42 43
Gli studi sulle RETI NEURALI, il CONNESSIONISMO e la VITA ARTIFI
CIALE44 stanno indagando in questa direzione.
42
D. Parisi, Intervista sulle reti neurali. Cervello e macchine intelligenti, il Mulino, Bolo
gna 1989.
43
D.E. Rumelhart, J.L. McClelland, PDP. Microstruttura dei processi cognitivi (1986),
il Mulino, Bologna 1999.
44
C.G. Langton, Artificial Life, Addison Wesley, Santa Fe Institute 1989.
237 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
quello di creare CON-FUSIONE più che ordine (T. Tozzi, 2000). Una con
fusione positiva, nel momento in cui ha costretto dei sistemi di potere a
rimettersi in discussione. Ciò che la multimedialità ha messo in crisi è
l’ordine alla base del PENSIERO UNICO dominante.
Il processo di trasformazione del sapere conseguente all’avvento del
la multimedialità ha rinnovato l’utopia di una possibile DEMOCRAZIA
ELETTRONICA, una promessa che accompagna ogni nuova rivoluzione
tecnologica per poi tradirne i presupposti.45
Ciò non toglie che il processo di con-fusione prodotto dall’avvento
delle nuove tecnologie ha alimentato l’esistenza di movimenti artistici e
sociali che nelle fratture determinate dalla con-fusione hanno potuto ri
proporre e sostenere le ragioni dei più deboli e degli indifesi.
45
A. Mattelart, Storia della società dell’informazione (2001), Einaudi, Torino 2002).
TOMMASO TOZZI 238
stendo spesso all’interno della stessa definizione di NET ART (nata nel
1995). Tali tipologie riflettono in parte i due punti di vista esposti dall’i
nizio del saggio:
l’arte diventa il partecipare alla trasformazione dei processi sociali e culturali con
l’obiettivo di favorire la cooperazione, la nascita di nuove forme della conoscen
za e la condivisione decentrata del sapere, così come lo sviluppo di forme, luo
ghi e nuove tecnologie alternative finalizzate al miglioramento e all’evoluzio
ne dell’umanità. Caratteristiche sono il rifiuto dell’autorialità, la decostruzio
ne dei fondamenti culturali su cui si regge ogni ordinamento autoritario e
totalitario del sapere, la costruzione di relazioni orizzontali, la coevoluzione
mutuale e il no-profit.
Hacker art non è la produzione di oggetti vendibili. Si estende oltre i limiti
239 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
46
T. Tozzi, Hacker Art, in A. Mari e S. Romagnolo (a cura di), Revolution OS. Voci
dal codice libero, Apogeo, Milano 2003.
NEW MEDIA E NARRATIVA
Antonio Caronia
Nel 1992, scrivendo un libro che nei dieci anni successivi sarebbe di
venuto un classico sull’argomento, George P. Landow introduceva il
concetto di ipertesto con due citazioni da Barthes e da Foucault.1 Nella
citazione di Barthes (tratta da S/Z) si parla di un «testo ideale» in cui
«le reti sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna possa rico
prire le altre», un testo che «è una galassia di significanti, non una strut
tura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si accede da più entra-
te di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; i co
dici che mobilita si profilano a perdita d’occhio, sono indecidibili...».
Dal canto suo Foucault (L’archeologia del sapere) parla del libro come di
qualcosa i cui confini «non sono mai netti né rigorosamente delimita
ti», perché esso «si trova preso in un sistema di rimandi ad altri libri, ad
altri testi, ad altre frasi: il nodo di un reticolo». In questo modo Lan
dow, nonostante tutti gli elementi di discontinuità che illustra nel corso
del libro, può istituire una linea genealogica fra testo e ipertesto, sino a
definire quest’ultimo come «la più recente estensione della scrittura».2
D’altra parte il termine «ipertesto» era stato coniato negli anni Sessan
ta da Theodor Holm Nelson proprio partendo da una peculiare conce
zione della letteratura. Il progetto Xanadu di questo bizzarro e profeti
co intellettuale e critico si proponeva infatti di dare vita a «una nuova
forma di archiviazione dei dati, un nuovo tipo di letteratura e una rete
che potrebbero dare nuovo vigore alla civiltà umana».3 La definizione
di ipertesto che Nelson mise a punto agli inizi degli anni Ottanta era
estremamente semplice: «Per ipertesto intendo semplicemente la scrit
tura non sequenziale»,4 cioè una scrittura in cui il lettore possa saltare
da un brano all’altro del testo, aprire nuove «finestre» su altri testi col
legati, tornare indietro, e anche inserire osservazioni, note, varianti:
modificare, cioè, il testo in modo che altri lettori possano leggere quel
le modifiche e a loro volta intervenire. Ciò che nei primi anni Sessanta
1
G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), a cura di B. Bassi, Baskervil
le, Bologna 1993, p. 5.
2
Ivi, p. 250.
3
T.H. Nelson, Literary Machines. Il progetto Xanadu (1990), Muzzio, Padova 1992.
4
Ivi, pp. 1-17.
241 NEW MEDIA E NARRATIVA
era solo una vaga idea, una ventina d’anni dopo a Nelson appariva rea
lizzabile tramite i computer: «Ci sarà un solo grande deposito, e ogni
cosa sarà ugualmente accessibile. Questo significa che “differenti” arti
coli e libri saranno piuttosto diverse versioni di una stessa opera, con diffe
renti percorsi al proprio interno per lettori differenti».5 È interessante notare
che Nelson presenta la sua proposta come più aderente ai reali proces
si del pensiero rispetto alla scrittura tradizionale. «La struttura delle idee
non è mai sequenziale; e in verità, nemmeno i processi del nostro pen
siero sono molto sequenziali [...] È mia convinzione che questa nuova
capacità di rappresentare le idee nella completezza delle loro interre
lazioni porterà a forme di scrittura e apprendimento più facili e mi
gliori, e a una ben maggiore capacità di comunicare e condividere le
interrelazioni fra i problemi di domani».6
Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, dunque, le idee sembra
vano chiare. L’ipertesto era l’erede del testo, e prometteva di assolvere le
stesse funzioni, ponendo naturalmente problemi nuovi e suscitando nuo
ve domande, ma senza, per così dire, cambiare del tutto argomento. I ca
pitoli centrali del libro di Landow si intitolano Riconfigurare il testo, Ricon
figurare l’autore, Riconfigurare il racconto, Riconfigurare lo studio della lettera
tura. Riconfigurare non vuol dire necessariamente scardinare, né di
struggere. Riguardo al racconto, per esempio, Landow discute Afternoon
di Michael Joyce, uno dei primi e dei più famosi esempi di ipertesto nar
rativo: ne mette in luce gli aspetti di novità (la trasformazione del lettore
in lettore-autore, il carattere di apertura – e non di chiusura – dell’iper
testo), ma non sembra affatto escludere che l’ipertesto possa misurarsi
positivamente con la dimensione della narrazione. Soltanto ne trasferisce
in parte la responsabilità dall’autore al lettore. «Se si accetta che la trama
sia un fenomeno creato dal lettore-autore a partire dal materiale offerto
dalle lessìe [con lessìe, termine ricavato da Barthes, Landow indica i bloc-
chi testuali che, collegati, costituiscono un ipertesto, n.d.r.], piuttosto che
un fenomeno che appartiene esclusivamente al testo, allora si può rico
noscere che la lettura di Afternoon, e di altri racconti ipertestuali, produ
ca un’esperienza molto simile a quella offerta dalla lettura della trama
unitaria descritta dai narratologi, da Aristotele a White e a Ricoeur».7
Non altrettanto categorico, ma ugualmente ottimista si dimostrava Ro
bert Coover, uno scrittore americano «postmoderno» che ha abbracciato
abbastanza presto la causa dell’ipertesto. Coover, è vero, sottolinea anche
i limiti della narrativa ipertestuale («il racconto corre il rischio di essere
5
Ivi, pp. 1-15, corsivi dell’autore.
6
Ivi, pp. 1-16, 1-18.
7
G. Landow, Ipertesto, cit., p. 141.
ANTONIO CARONIA 242
così debole e sfilacciato da perdere la sua forza di attrazione, creando un
clima di sogno, di assenza di gravità, di smarrimento nello spazio che era
tipico dei primi film di fantascienza»), ma si dimostra poi ottimista sul fat
to che anche in un ipertesto si arrivi a una conclusione narrativa: «Prima
o poi, qualunque sia il gioco, arriva il fischio di fine partita. Anche nell’i
pertesto c’è sconnessione, c’è l’ultima traiettoria in fondo alla quale non
ci sono più finestre».8
Ma verso la metà degli anni Novanta avviene anche un passaggio im
portante, quello dall’ipertesto off-line all’ipertesto on-line. Michael Joy
ce e gli altri narratori ipertestuali della prima generazione affidano i
propri prodotti a supporti magnetici (cd-rom) che il fruitore acquista e
poi legge (o su cui lavora) sul proprio personal computer: la fruizione
di un prodotto del genere avviene in un relativo isolamento, più o me-
no come se si trattasse di un libro; cambiano solo la natura del suppor
to e le modalità della lettura. Lo sviluppo del World Wide Web (www)
permette invece di saltare il problema del supporto, e di affidare a In
ternet la propria produzione. In tal modo, per entrare in contatto con
un ipertesto, il lettore non deve più procurarsi un oggetto che ospiti i
contenuti proposti dall’autore (sia esso un libro o un cd-rom), ma è suf
ficiente che si colleghi a un apposito sito. Anche se spesso, nella sua
esperienza di lettore o di fruitore, ciò non farà grande differenza, la si
tuazione è completamente cambiata. Nel contatto e nella fruizione on
line, il navigatore può saltare non solo da una parte all’altra dell’iper
testo, ma anche da quello ad altri ipertesti, presenti in altri siti. E po
trebbe anche, se il sito glielo permettesse, entrare in contatto diretto
(in «tempo reale») con altri fruitori dello stesso ipertesto. L’idea della
«comunità dei lettori», che sino ad allora era stata una nozione pura
mente virtuale, e realizzata in tempo differito, viene adesso completa
mente attualizzata.
Fra i narratori che per primi si dimostrano in grado di utilizzare le
potenzialità del «www» c’è una curiosa figura di scrittore, artista e guru
dei nuovi media che si presenta con lo pseudonimo di Mark Amerika. A
tutt’oggi risulta abbastanza difficile stabilire non solo il nome di batte
simo di questo personaggio, ma anche la sua storia antecedente ai pri
mi anni Novanta. Sta di fatto che nel 1993 Mark Amerika lancia il sito
Alt-X,9 che diviene in breve tempo uno dei punti di riferimento per le
nuove produzioni artistiche (non solo letterarie, ma anche iconiche,
musicali e multimediali) della scena americana controculturale di que
8
R. Coover, Hyperfiction. Novels for the Computers, in «The New York Times Book Re
view», 29 agosto 1993.
9
http://www.altx.com
243 NEW MEDIA E NARRATIVA
gli anni. Autore di due «romanzi» su carta, The Kafka Chronicles (1993,
salutato da Terry Southern come «un matrimonio fra un lirismo alla
Blake e la dura spiritualità di Celine»), e Sexual Blood (1995),10 Mark
Amerika è all’origine di uno dei fenomeni letterari più curiosi degli an-
ni Novanta, quello del cosiddetto «avant pop», caratterizzato secondo il
suo creatore, Larry McCaffery, dal «fascino per la cultura di massa e
[dal]la volontà di scoprire il modo per entrare nel ventre della bestia e
per esplorarlo senza lasciarsi inghiottire o diventare una mera esten
sione dei suoi meccanismi operativi (ovvero il destino subito da Andy
Warhol e dalla pop art)».11
Fra le strategie per «non lasciarsi inghiottire» dal ventre della bestia e
per non ricadere nel «triste destino» di Warhol e della pop art, Mark
Amerika pare privilegiare quella del racconto. È straordinario come, an
che nei suoi successivi progetti multimediali, come quelli di Gramma
tron12 e di Filmtext,13 Amerika persegua testardamente l’obiettivo di non
lasciar disperdere il testo e la narrazione nel flusso dei dati. «Non posso
smettere di testualizzare i dati», dice letteralmente in Filmtext. E poco
più avanti, in una delle finestre che si aprono in questa affascinante se
quenza di arcane immagini e suoni, è ancora più esplicito: «La narra
zione si presenta come una specie di gioco filosofico, che invita il letto
re a cercare in continuazione nuove forme di significato, e si compone
di una rete di sequenze interconnesse di immagini in movimento, di
loop di suoni sperimentali e di osservazioni filosofiche».14
Ma la narrativa on-line apre altre prospettive, ancora più avanzate.
Essa permette di concepire una processualità ancora più radicale del
testo narrativo: per esempio un sito in cui l’opera mostri davvero, in
tempo reale, il suo carattere di work in progress, anche aprendosi all’ap-
porto del lettore-creatore non più solo nel momento del consumo, ma
forse anche in quello della redazione, della costruzione dell’ipertesto.
Nel caso dell’ipertesto off-line (ma anche di quello proposto on-line in
una versione definitiva) resta comunque una separazione fra momento
della produzione e momento del consumo: l’autore fornisce un iperte
10
M. Amerika, Sangue sessuale, tr. it. di Syd Migx, Shake Edizioni Underground,
Milano 1998.
11
L. McCaffery, Avant Pop: la vita riprende dopo il crollo di ieri, in: Schegge d’America.
Nuove avanguardie letterarie, a cura di L. McCaffery, Fanucci, Roma 1998, pp. 369-370,
trad. it. After Yesterday’a Crash – The Avant Pop Anthology, Penguin Books, 1997). Cfr. an
che: Avant Pop, a cura di L. McCaffery, Shake Edizioni Underground, Milano 1998.
12
http://www.grammatron.com
13
http://www.markamerika.com/filmtext
14
Ibidem.
15
Una buona introduzione alla tematica dei giochi di ruolo è ancora costituita dal
ANTONIO CARONIA 244
sto che ha certamente la possibilità di sviluppare più sequenze narrati
ve tra loro diverse e al limite anche antitetiche, ma in un insieme di
possibilità tutto sommato ancora chiuso. L’intervento creativo del let-
tore, nel momento del consumo, è comunque limitato dalle possibilità
concepite dall’autore al momento del progetto, e offerte sul supporto
magnetico o nel sito secondo l’implementazione che ne viene realizza
ta. La situazione, però, può essere diversa. Se la narrazione viene pro-
posta su un sito «aperto» (aperto a tutti o a cui si accede tramite regi
strazione), l’autore (o progettista, o coordinatore) è comunque re
sponsabile della proposta di un universo di riferimento, di alcuni per
sonaggi fondamentali, di una situazione di partenza che costituisce lo
spunto narrativo: ma lo sviluppo della narrazione, in questo caso, è
aperto (almeno in linea di principio) a tutti gli utenti del sito, che pos
sono proporre sviluppi, varianti, spin-off (diramazioni), magari nuovi
personaggi. È addirittura possibile che, sottoposta alle torsioni dell’in
tervento degli utenti, la storia così come era stata pensata (anche solo
embrionalmente) dall’autore venga completamente stravolta. Ecco che
sembra farsi più concreta la possibilità di un «autore collettivo»: qual
cosa di ancora più vicino al modo in cui Nelson vedeva lo sviluppo del
la letteratura nel suo progetto Xanadu (in cui ogni utente aveva la pos
sibilità di prendere un’opera già data – per esempio una tragedia di
Shakespeare – e apportare le modifiche che riteneva più opportune,
costruendone una nuova variante che avrebbe poi registrato col pro
prio nome accanto a quello dell’autore originale).
Sono possibilità veramente sconvolgenti rispetto alla narrativa tradi
zionale, e certamente ci chiediamo se e come sia possibile concepirne le
realizzazione. In realtà una forma di narrativa totalmente interattiva esi
steva già prima dell’avvento della cultura digitale, ed era quella dei co
siddetti «giochi di ruolo» (role playing), il più famoso dei quali è senz’al
tro Dungeons and Dragons. I giochi di ruolo sono situazioni, gestite da un
master, che si svolgono in una cornice definita da un universo (esplicito
o implicito), da un insieme di regole e uno di personaggi, identificati da
varie proprietà e abilità. Sta ai giocatori (ognuno dei quali incarna un
personaggio), riuniti attorno a un tavolo, realizzare con le loro scelte –
e un moderato intervento del fattore caso, con il lancio di un dado – le
concrete situazioni nelle quali le premesse del gioco si sviluppano.15
Ogni partita di Dungeons and Dragons, o di un altro di questi giochi, rap
libro di L. Giuliano, I padroni della menzogna. Il gioco delle identità e dei mondi virtuali,
Meltemi, Roma 1997. Interessanti considerazioni anche in S. Turkle, La vita sullo
schermo (1996), a cura di B. Parrella, Apogeo, Milano 1997.
16
Sulla narrativa interattiva, M.S. Meadows, Pause & Effect: The Art of Interactive
245 NEW MEDIA E NARRATIVA
Ecco che, a una lettura più attenta e meno entusiasta, l’ipertesto, l’i
permedia, la scrittura digitale, non si presentano più tanto come la pro
messa di un modo nuovo di raccontare, ma piuttosto come il segno di
una crisi e di una difficoltà del raccontare, che sarebbe collegata a una
più generale crisi di identità. L’estendersi del testo «a rete», la fine del-
19
D. Fiormonte, Scrittura e filologia, cit., p. 89.
247 NEW MEDIA E NARRATIVA
Nulla di ciò che ho esposto in queste note è inteso a indurre nel let-
tore pensieri catastrofici, né configura una nostalgia per i bei tempi an
dati, quando un mezzo egemone (la scrittura) dava stabilità alle catego
rie fondanti del patto scrittore-lettore e dell’interpretazione dell’espe
rienza assicurata dalla scrittura, pur nel variegato succedersi delle for
me. Il conflitto non deve spaventare perché è, da sempre, l’anima delle
trasformazioni di una cultura. E di mutamento culturale è intessuta tut-
ta la storia della specie. Un nuovo patto fra soggetti del circuito comu
nicativo, nuove configurazioni dei rapporti fra l’esperienza e la sua rap
presentazione, sono certamente in preparazione. E la narrazione avrà si
curamente un ruolo anche nei nuovi scenari. Ma incedimus per ignes, e sa
rebbe pericoloso sottovalutare la portata e la dimensione delle trasfor
mazioni in corso. La condizione per riuscire a influenzare – almeno par
zialmente – una transizione è quella di assicurarsi la conoscenza più lu
cida possibile dei suoi meccanismi e delle sue tendenze.
LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN
E LE TRAPPOLE DELLA RETE
Carlo Branzaglia
In genere, poi, il Web è ancor oggi (ed è importante che sia così) uno
spazio laboratoriale nel quale si confrontano differenti realtà: ci sono i
siti istituzionali e di servizio, quelli di vendita, i portali, le community e
qualunque altra stramberia. Ma, per non pensare che la rivoluzione del
la rete sia tutta qui, ricordiamo che anche il mercato dell’editoria pe
riodica cartacea è molto variegato, solo più congelato sul piano della di
stribuzione all’utente finale.
Uno spazio laboratoriale significa che a esso fanno riferimento figure
di diversa formazione e provenienza: dallo smanettone appassionato so
stanzialmente di programmi, allo studio grafico che lavora sulle imma
gini istituzionali, da Web agency dedicate sostanzialmente a questo me
dium all’illustratore che impara Flash e anima il suo sito personale, al fo
tografo che trasforma in skin una sua immagine, al videomaker che sco
pre lo streaming video.
È vero che tutti possono in qualche modo accedere alla rete e pub
blicare a prezzo zero i loro prodotti; non è ovviamente vero che il Web
non costi niente; anzi. Se si va in uno studio (o agenzia) che si occupa di
diversi media si scoprirà che gli account, destinati a piazzare il prodotto
al cliente, percepiscono una percentuale minima sul Web in una scala
che passa poi per la produzione video e arriva al tradizionale prodotto
cartaceo. Costa troppo produrre il Web, e costa moltissimo mantenerlo
vivo, aggiornato e interattivo come il navigatore richiede. Per questo le
proposte professionali in realtà rispondono a regole di progettazione
piuttosto precise.
Web design, infatti, nella più attendibile traduzione dall’inglese, si
gnifica «progettazione per il Web»; dato che la parola design, di volta in
volta applicata a product, fashion, interior, concept ecc., trova l’unica
plausibile traduzione italiana proprio con «progettazione». Anzi, in un
paese scarsamente attento come il nostro, il Web ha in qualche modo fa
vorito la definitiva percezione di una cultura del graphic design, desti
nata cioè agli elementi visuali, o per meglio dire, alle scritture visuali.
C’è stata una fase degli informatici, una degli smanettoni e una dei gu
ru di Flash. Ma sono stati i progettisti grafici, responsabili dei meccani
smi di comunicazione dell’identità dei loro clienti, a sviluppare una pro
cedura progettuale integrata che riconducesse a una logica di segni co
mune. In questo senso, il Web altro non è che l’ennesimo elemento del
la comunicazione di impresa: i progettisti, abituati a muoversi dalla ti
pografia all’editoria, dalla stationery all’archigrafia, dai mezzi di tra
sporto al video, che paura possono avere di un nuovo medium?
Al contrario, il Web offre loro la possibilità di mostrare una cosa fon
damentale, e cioè che il progettista non fa solo belle immagini, ma co
struisce soprattutto (anzi, sostanzialmente) corretti ed efficaci processi
CARLO BRANZAGLIA 252
di comunicazione (per ottimizzare gli aspetti comunicativi e fruitivi dei
siti, si è recentemente sviluppata la net-semiology, cioè lo studio dei segni
linguistci e visivi applicato al Web).2 Il che significa che il problema non
è fare una brillante introduzione della home page con animazioni d’ef
fetto, tralasciando magari la struttura e l’immagine del resto del sito;
ma di creare un dialogo efficace con l’utente, che rispetti una dinami
ca di interazione e gli elementi pertinenti a essa, costruendo lo stesso
albero di navigazione e gli elementi che lo devono incarnare e rappre
sentare.
Non è un caso che da studiosi di sistemi grafici come Giovanni An
ceschi (progettista a sua volta, oltre che teorico) siano venuti inquie
tanti suggerimenti sulla grana temporale del Web: per esempio, la sua
asintatticità, che determina la stanchezza dell’utente dopo poche ore
di navigazione. Il Web è tutto a scatti, dice Anceschi, poco fluido, poco
montato: l’occhio si affatica enormemente a questi ritmi, e la durata
della navigazione si contrae.3 Non è raro comunque vedere processi
anche «cinematografici» in rete: effetti di dissolvenza, di incrocio di
immagini, di emersione che vanno nella direzione applaudita dallo
studioso italiano.
Negli studi recenti sulla progettazione si assiste anche a evoluzioni ter
minologiche: la diffusione del termine intermedia, per esempio, sostitui
sce il desueto multimedia. Multimedia, inizialmente, è stata soprattutto
una definizione di comodo, sbandierata dall’industria a partire dagli an-
ni Ottanta per presentare quei prodotti innovativi che integravano suono
e immagine. Anche le installazioni multimediali nascevano sull’onda del
la meraviglia per tale scoperta, in certi casi con l’equivoco (o la furbizia)
che bastasse proiettare immagini retrò su un televisore acceso e diffon
dere una musica new wave per essere multimediali.
Multimedia, dunque, nasce come un termine tecnico: indica un mer
cato, non un metodo. Intermedia sfrutta il prefisso inter, portatore di un
significato inerente alla relazione interna fra fenomeni. Intermodale, si
potrebbe anche definire, per sottolineare l’aspetto di modalità (di pro
ceduralità) su quello propriamente mediale. Né sfugga la ovvia possibi
lità di far riferimento anche alla parola intercodice, cardine dei pensie
ri dell’artista Luigi Veronesi, ma anche dell’attività più recente di Laura
Falqui e Raffaele Milani con il Teatro da camera. Intercodice è una scrit
tura fra i codici: una partitura, come quella musicale, che instaura cor
rispondenze fra sistemi espressivi diversi quali il suono, il colore, il mo
2
Cfr. il sito www.netsemiology.com.
3
G. Anceschi (a cura di), Il progetto delle interfacce, Domus Academy, Milano 1993.
253 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN
4
S. Curran, Convergence Design, Rockport, Gloucester (Mass.) 2003.
5
Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967; J.W.
Ong, Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986.
6
G. Sinni, Progettare variabili, in «Artlab» 5, III trimestre 2002.
CARLO BRANZAGLIA 254
i criteri di riconoscibilità dell’emittente. Anche di questo non si è di
scusso tanto.
Si è parlato molto di altre cose, invece, forse a vanvera. Può essere ve
ro che si è perso tempo su questioni inutili, come qualcuno sostiene, e
non si è ancora arrivati a comprendere davvero a cosa serva il Web.7
Due argomenti sui quali probabilmente si è sprecato tempo sono, per
esempio, «usabilità» e «flashism». Trattasi di due atteggiamenti opposti,
vissuti però entrambi come mandati ideologici da promotori e adepti;
quindi, in quanto ideologici, scarsamente dotati di pregnanza proget
tuale (che non può difettare di elasticità).
L’usability (che indica il grado di fruibilità di un sito) è ormai una di
sciplina di insegnamento. Il fortunato termine utilizzato da Jacob Niel-
sen è diventato l’headline di una marea di libri, seguiti a quello dell’au
tore americano.8 Nessuno si è mai chiesto perché ci fosse bisogno di co
niare un termine nuovo: si poteva utilizzare tranquillamente il termine
«funzionalità». Se è vero che la semplificazione di cui tratta Nielsen è in
favore della capacità umana di interagire correttamente con quanto pro
posto in rete, senza inutili orpelli (fine nobilissimo), allora non c’era bi
sogno di chiamarla «usabilità», bastava appunto dire che i siti devono es
sere funzionali, secondo una tradizione ben chiara e ben delineata nel
la storia del design.
Ma l’usability sembra essere una questione di marketing, più che di
progettazione. Da un punto di vista comunicativo, essa si avvicina al gra
do zero, cioè elimina tutto ciò che connota gli elementi pertinenti; di
menticandosi però che la connotazione non è solo un meccanismo che
aiuta il processo di decodifica, ma in molti casi (in quelli di forte impat
to visuale, o di forte interattività, per esempio) è anche quello che de-
termina la percezione attiva (in senso gestaltico) che precede la decodi
fica. E questo, su un piano progettuale, significa non articolare corret
tamente le informazioni secondo un piano di importanza e di sequen
zialità, solo per citare due questioni prioritarie. Nessuno nega che un
grande portale debba per forza abbattere le sue inflessioni visuali, ai
sensi dell’usability; ma i grandi portali e i siti «molto scritti» non sono as
solutamente rappresentativi di ciò che si fa e si può fare in rete.
Se i meccanismi di manipolazione dell’informazione si restringono a
lineette chiamate a sottolineare le parole, in uno spazio dinamico come
quello della rete, allora il problema sembra essere un altro: quello di ras
sicurare gli uomini di marketing e comunicazione delle imprese che si
trovano a dover usare per forza questa diavoleria che può fare tutto, ma
7
AA.VV., Nella rete, «Il Verri», n. 16, maggio 2001.
8
J. Nielsen, Web Usability, Apogeo, Milano 2000.
255 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN
che non si sa a cosa serva veramente. Così si forniscono loro poche re
gole, e semplici, condite con trecento pagine di elucubrazioni pseudo
dotte e pseudo-tecniche.
Il flashism è invece la malattia che ha afflitto milioni di smanettoni
dalle ascendenze più disparate (in genere, illustratori) in preda all’irre
frenabile desiderio di mettere il movimento dappertutto. Fra i grandi
pionieri nell’uso del celebre Flash di Macromedia ci sono nomi (Brown,
Davis, Nakamura) che hanno effettivamente scritto la breve storia del
web design. Con effetti spettacolari ma anche appropriati. Poi c’è stata
però una inflazione nell’utilizzo di questo programma vettoriale, che in
quanto tale è in grado di animare i tracciati favorendo l’effetto cartoo
ning. Niente di male, per carità; ma se Flash è usato in maniera ipertro
fica, può rendere ben difficili i meccanismi di navigazione che dovreb
bero esprimere il «design dell’esperienza» in rete.
Flash però ha dimostrato una cosa: quanto importanti possano essere
certe tecnologie e certi stili lanciati tramite il Web. Non che questo sia
una novità: il papiro, la forma codex del libro, la stampa, la prospettiva...
(fino a Fontographer, il programma per disegnare caratteri tipografici
introdotto negli anni Novanta) ci dicono che l’innovazione tecnologica
è fortemente connessa all’evoluzione del pensiero e della visione, se
condo quel principio di corrispondenza fra cultura materiale e cultura
simbolica sancito da McLuhan e Barilli.9 E d’altra parte la generazione
in ambiti sottoculturali di stili destinati a essere ripresi nel mainstream è
fenomeno che Hebdige10 e Polhemus11 hanno già degnamente contem
plato.
Il linearismo di Flash è stato infatti motore di un ritorno dell’imma
ginario cartooning anni Cinquanta, quello piatto e disegnato degli
Smithsons. Ha dimostrato la sua funzionalità anche da un punto di vista
prettamente tecnico: certi cartoon per la televisione sono oggi effettiva
mente realizzati in Flash. Ma, senza negarne l’importanza, va sconfessa
ta una visione dichiaratamente «tecnicistica» della questione, ricordan
do che artisti/disegnatori come Shag da un buon decennio insistono su
questo taglio nelle loro serigrafie; e che animatori come Tartakovsky lo
adattano da tempo in serie quali Nel laboratorio di Dexter (così tradotto in
italiano).
Questo non nega l’importanza della rete quale laboratorio di segni,
meticciati appunto fra discipline diverse, e capaci di coagularsi in im
maginari autonomi. Non è magari il caso di scomodare sempre il termi
9
R. Barilli, Culturologia e fenomenologia degli stili, il Mulino, Bologna 1982.
10
D. Hebdige, Sottocultura, Costa&Nolan, Genova 1983.
11
T. Polhemus, Street Style, Thames&Hudson, London 1994.
CARLO BRANZAGLIA 256
ne Web design, così come bisognerebbe verificare le idee che stanno al
la base di una Web art (e di una net art) prima di usare le terminologie
a sproposito. Ma questo è un altro problema. Ricordiamo tuttavia che,
da sempre, chi ha progettato per la comunicazione visiva (fossero essi
pittori o progettisti grafici) ha realizzato progetti sperimentali per pro
prio conto, senza darne visibilità nei canali commerciali. Goya, per
esempio. O i progettisti grafici che partecipano alle varie biennali del
manifesto sparpagliate per il mondo, con proposte autoprodotte. E infi
ne i Web designer, che si ricavano spazi personali in rete, autonomi o na
scosti nei backstage di siti istituzionali di un’agenzia o di uno studio.
Ciò che invece è molto interessante, e peculiare, è il senso di comu
nità che pervade queste pratiche: la famosa «community». Non si può
non essere memori delle parole di Tomàs Maldonado, quando, con la
sua consueta lucidità critica, segnalava ai cultori della democrazia in re
te come le community che in essa si sono costruite assomiglino più alle
sette auto-esaustive della tradizione statunitense, che a (dubbi) modelli
di democrazia ateniese.12 Sono entità in cui si trovano cioè i simili, e nel
le quali essi stessi in qualche modo si rinchiudono. Ma le community
creative in rete presentano anche un forte meccanismo di apertura. So
no quelle che consentono di intervenire su immagini generate da altri,
o collaborare alla realizzazione di opere, o mettere in circolazione ma
teriali a uso comune. Un senso di collettività molto aperto, anche se ma
gari fotografa approcci particolari. Sono queste comunità virtuali a te
nere appunto viva una molteplicità di linguaggi che non può non con
quistare, e che magari solo in un secondo momento arriva al supporto
cartaceo, e non solo per motivi economici (si veda per esempio l’italia
nissima Inguine.net).
Occorre anche ricordare che alle spalle di questa idea di community
creativa c’è un altro vecchio network: quello mail-artistico, che lavorava
invece sulla posta, ovvero sulla possibilità di inviare suo tramite prodotti
destinati a una elaborazione collettiva, e a una seguente raccolta in un
luogo fisico, o in uno stampato, o in un contenitore vero e proprio. E di
fatti la mail art è praticamente svanita nelle maglie del Web. Riprendere
in mano le sue modalità oggi, e in linea più generale tenere conto di
modelli preesistenti, non significa negare la capacità innovativa di que
st’ultimo medium, e dei suoi nuovi fratellini; significa al contrario com
prenderla pienamente, non solo ritagliandola in negativo ma soprattut
to ricavando le matrici culturali che ne sono all’origine.13 Tanto per ave
re infine un’idea di cosa farsene della rete.
12
T. Maldonado, Critica della ragion informatica, Feltrinelli, Milano 1997.
13
C. Branzaglia, Tracks, Integrata, Milano 2003.
E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE
Lorenzo Taiuti
3. Nuove discipline
6. Siti personalizzati
9. Modelli estetico-formativi
una «bacheca» elettronica. O nella forma oggi più diffusa, il «blog», che
permette di conservare gli interventi, trasmessi sul sito automaticamen
te e pronti a essere accresciuti e riletti da ogni visitatore.
Lo strumento della «chat-line» o invio e risposta in tempo reale di
messaggi può essere ripensato e reso uno strumento valido e innovativo.
Forum, chat-line, groupware, mailing list, blog sono comunque stru
menti accomunati da un obiettivo importante e centrale ai fini della di
dattica: centralizzare la figura dello studente come elemento attivo dei
processi di didattica e ricerca.
Centralizzare il soggetto discente implica anche un altro elemento
importante e cioè la «socializzazione» e condivisione di problemi am
pliata all’intera realtà didattica, la sua diffusione in ambiti di studio di
versi: fra studi plastici e studi storici, fra corsi di creazione informatica e
linguaggi visivi.
11. Prospettive
nel campo della didattica via rete la forte domanda di lettura, interpre
tazione, concettualizzazione e comprensione di messaggi multimediali.
Una necessaria attenzione va posta lavorando in questa direzione nel
le caratteristiche progettuali esistenti nel linguaggio: interattività, com
plessità non gerarchica dello spazio di rete. La cultura della rete deve
quindi essere appresa come se fosse un nuovo sistema linguistico che ri
specchia quello esistente.
Una «Virtual Classroom», una classe virtuale è l’obiettivo da creare,
un trasferimento digitale delle classiche dinamiche pedagogiche. L’ap
prendimento attraverso il fare (cercare, selezionare, disporre, cataloga
re ecc.) coincide fra l’altro con linee importanti della pedagogia mo
derna e si pone come uno strumento sempre aperto a innovazioni con
tinue, a processi di aggiornamento che coinvolgono sia il soggetto do
cente sia il soggetto discente.
1. Ricerche, tendenze
2
L. Veronesi, Il cinema astratto, in Ferrania, Milano 1947.
3
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einau
di, Torino 1966.
4
Cfr. G. Youngblood, Cinema and the Code, in Computer Art in Context, Supplemen
tal Issue, ISAST, Usa 1989.
MARIA GRAZIA MATTEI 268
co. Occorre però conquistare artisticamente il nuovo mezzo lavorando
su alcuni elementi strutturali dell’immagine digitale e sintetica, cercan
do di costruire i principali fondamenti linguistici del nuovo cinema.5
Certo è che l’immagine sintetica offre molto di più di quella digitale, ed
è su questo oggetto particolare che vale la pena di soffermarsi con più at
tenzione, poiché gli sviluppi linguistici che l’immagine sintetica animata
contemporanea riserva sono assolutamente originali, e forse è proprio su
questo versante che si potranno vedere realizzate le previsioni di Vero
nesi, di Survage e di tanti altri artisti degli anni Venti.
Se analizziamo la storia della computer art comprenderemo meglio co
me e perché è avvenuta questa svolta che ci propone ormai uno sviluppo
dell’immaginario determinato da nuovi codici, anche se in stretta rela
zione con tutta l’esperienza passata. Nell’arco di venti anni il computer
ha dimostrato di poter permettere più performance di quelle che appe
na si potevano intuire quando è comparso sulla scena.
Il computer, strumento che lavora su istruzioni numeriche, sin dall’i
nizio è stato utilizzato per effettuare il più rapidamente ed esattamente
possibile una quantità di calcoli complicatissimi ed è stato subito visto
anche come estensione e potenziamento delle facoltà della mente. Ad
dirittura, nel dibattito che accompagnava lo sviluppo tecnologico negli
anni Sessanta, si riflettono due posizioni fondamentali: quella utopica
che assegnava al computer una funzione di creazione autonoma e l’al
tra più razionale che lo concepiva come estensione delle possibilità
creatrici dell’uomo.6
Quando il computer ha cominciato a disegnare, o meglio quando è
stato possibile dimostrare che un’immagine mentale poteva essere pro
dotta e descritta attraverso calcoli e materializzata dal computer in se
gni, allora il salto nel dominio dell’arte visiva si è compiuto; è dunque ri
nato l’antico dibattito delle avanguardie storiche, così come si è ripro
posta la questione mai sopita del rapporto tra arte, tecnologia e scienza.
Il Computer Technic Group (CTG), attivo a Tokyo alla fine degli anni
Sessanta, è l’esempio di una formazione artistica la cui attività riflette il
clima culturale di un’epoca attraversata da una grande fiducia nei con
fronti della scienza e della tecnologia e da un fermento di idee innova
tive e dissacranti nei confronti dell’arte ufficiale. L’arte suggerita dalla
tecnologia informatica è un’arte esatta, basata sul calcolo rigoroso mira
to da un lato a rappresentare diversamente la realtà, dall’altro a visua
5
Ibidem.
6
M.G. Mattei, Ingegneria nell’arte, in Computer Grafica & Desktop Publishing, Gruppo
Editoriale Jackson, luglio-agosto 1989.
269 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART
lizzare altre dimensioni. In ogni caso è un’arte che stabilisce rapporti di
versi sia rispetto all’oggetto artistico sia rispetto al pubblico.
Nel primo caso sono nate le principali ricerche su software e hardwa
re tese a rappresentare in modo iperrealistico qualsiasi soggetto, inseri
to però in uno spazio percettivo praticamente illimitato assunto come
pura memoria: uno spazio dove sono possibili tutti i punti di vista e dun
que tutte le prospettive, dove il tempo si manifesta simultaneamente in
ogni sua dimensione e conserva la memoria di sé.
Nel secondo caso le potenze di calcolo e di memoria via via sviluppate
hanno permesso di spingere l’immaginario fino a visualizzare dati pro
venienti dalla scienza (frattali, figure topologiche) o a generare forme
autoreferenti, rispondenti a leggi di comportamento proprie come nel
caso delle creature di Yoichiro Kawaguchi, noto artista giapponese attivo
dalla metà degli anni Settanta.7
Dunque sin dalle prime battute il computer, anche quando era solo
un’ingombrante macchina di calcolo collegata a plotter elementari o a
registratori magnetici connessi al tubo catodico del monitor che trac
ciava i primi graffiti, si è rivelato nelle mani dell’artista esperto un me
dium straordinario, almeno dal punto di vista delle possibilità espressive
per andare molto oltre i sogni delle avanguardie. Solo oggi però possia
mo tentare di tracciare le linee di sviluppo di una ricerca linguistico
espressiva che proprio a partire dai primi risultati ottenuti in campo ar
tistico non ha subìto arresti.
Inizia negli anni Sessanta, abbiamo detto, la sperimentazione con il
computer orientata verso la creazione di immagini. Gli artisti di allora era
no i tecnici e gli ingegneri delle grandi società informatiche che solo in se
guito si sarebbero avvalsi della collaborazione di artisti.
L’immagine elaborata al computer inizialmente è statica ed è traccia
ta per mezzo di simboli grafici. Solo più tardi viene visualizzata partendo da
calcoli. Già le prime ricerche contengono buona parte degli elementi lin
guistici che si sarebbero sviluppati ulteriormente con la rappresentazione
del movimento e con l’animazione e la descrizione di oggetti sintetici: estra
zione dei dati, random, texture, studi prospettici, interazioni, metamorfosi,
studio del colore.
Alla base di tutto c’è il programma, il software elaborato direttamen
te dall’operatore per verificare spesso alcuni presupposti estetici sugge
riti dall’artista nel lavoro di équipe. Nel 1968 a Londra si inaugurava Cy
bernetic Serendipity, una delle mostre più importanti sul rapporto tra arte
e scienza, dove Jean Tinguely esponeva le sue macchine accanto a Cyberne
tic Light Tower di Nicolas Schoffer; Eugenio Carmi poneva le sue opere gra
7
Y. Kawaguchi, Growth Morphogenesis, JICC Publishing Inc., Tokyo 1985.
MARIA GRAZIA MATTEI 270
fiche accanto a quelle stereoscopiche di Michael Noll e ai geroglifici grafici
di Leon Harmon e Kenneth Knowlton; Ben F. Laposky con gli Oscillons, pri
me vere astrazioni elettroniche, dialogava con Electronic Tv-Images di Nam Ju
ne Paik.
La selezione, curata da Jasia Reichardt, attraversava i movimenti del-
l’arte cinetica, dell’arte programmata, di Fluxus e contestualizzava l’espe
rienza della computer art con lo scopo di dimostrare non l’estraneità
della tecnologia al dibattito delle avanguardie artistiche dell’epoca, ma
la sua trasversalità e la sua carica innovativa e originale.8
L’immagine fissa elaborata al computer degli anni Sessanta, bidimensio
nale, in bianco e nero, con una grafica a «fil di ferro», era già un segno
nuovo, per sua natura astratto e nasceva, come è nata l’arte filmica astrat
ta, sui presupposti della sperimentazione e della libertà esplorativa con le
nuove tecnologie. Rappresentate sullo spazio di un foglio o mosse nella
continuità di una pellicola, le nuove immagini esibivano le loro potenzialità
se non estetiche almeno linguistiche. Il random, per esempio, il principio di
casualità introdotto nel computer, evidenziava non solo la bizzarria della
tecnica ma permetteva di costruire strani piani prospettici con figure geo
metriche infinite mosse in direzioni impreviste. Ricerche sulla configura
zione, nate con l’applicazione di questa regola, hanno suggerito studi spa
ziali, prospettici e quindi percettivi. Sulla linea di una ricerca prospettica e
spaziale che stimolasse e coinvolgesse attivamente il pubblico, si muove
vano artisti come Vera Molnar, legata all’ambiente GRAV parigino, Lillian
Schwartz e altri artisti non figurativi attivi negli anni Sessanta, collegati
in realtà più all’esperienza dell’arte cinetica o programmata che a quel-
la astratta. Tuttavia con la scrittura di programmi che permettevano di
generare il movimento dell’immagine nasce, verso la metà degli anni
Sessanta (proprio come è accaduto con le avanguardie pittoriche dei
primi del Novecento), anche la ricerca di un’estetica dell’arte informa
tica, dinamica, esatta e interattiva. E qui la storia si collega sia all’espe
rienza astratta delle avanguardie sia a quella più recente degli anni Cin
quanta e Sessanta cui si accennava prima.
2. Il cinema sintetico
ne intorno alla Terra. Si trattava della verifica visiva di calcoli studiati per
posizionare un satellite di comunicazione nella sua orbita. Niente di ar
tistico dunque: tuttavia l’esperimento fu sufficiente per far intuire che
con la tecnologia a disposizione abbinata al registratore magnetico di
microfilm era forse possibile ottenere di più e magari di meglio anche
dal punto di vista creativo. Non a caso Zajec ha proseguito realizzando
opere come A Pair of Paradoxes (1988) in cui ottiene interessanti effetti
ottici e acustici o Chromas (1986) sullo studio del colore in rapporto al
suono (che vedremo successivamente).
Ken Knowlton, anch’egli impiegato alla Bell & Telephone Laborato
ries produsse invece tra il 1963 e il 1967 una dozzina di film, utilizzando
un proprio programma, molto semplice, che battezzò BEFLIX, e che era
centrato sui concetti di velocizzazione di operazioni e sulla ripetitività.
Sarà con la collaborazione di Stan Vanderbeeck che Knowlton realizzerà
alcune ricerche artistiche astratte più belle e significative.
Poiché le ricerche sull’immagine fissa si erano soprattutto orientate
negli anni Sessanta sullo studio di nuovi pattern visivi geometrici e
astratti che interagissero dinamicamente con lo spazio di rappresenta
zione e con la percezione dei fruitori, l’introduzione del movimento
nella rappresentazione computerizzata, avvenuta negli stessi anni, svi
luppa ulteriormente questi presupposti e si sintonizza subito con la sto
ria delle immagini filmiche rivitalizzandola anche con le prime espe
rienze di musica elettronica.
Non ci sono molti testi scritti sulla storia del cinema sintetico che do
cumentino una cosciente continuità con il cinema delle avanguardie
storiche. Esistono tuttavia alcune dichiarazioni significative degli stessi
autori e soprattutto è possibile tentare qualche analisi dalla visione del
le opere prodotte in quegli anni. Sono opere nate generalmente per col
laudare un dato programma più che per esprimere una ricerca estetica.
Tuttavia alcuni autori come Ronald Resch, John Stehura, Lillian
Schwartz, Michael Noll e altri dimostrano di avere una certa sensibilità
artistica coscientemente tesa a «espandere» la ricerca di un’arte filmica
non figurativa. Vanderbeeck, che è uno di questi, scrive nel 1969: «Mi
sono interessato alla pittura in movimento nel ’57. Ho cominciato a la
vorare in animazione dipingendo: fotogramma per fotogramma, ani
mazione: frame per frame; il computer: on e off..., bit per bit...; la se
quenza è inevitabile, la figura in movimento come grafica in movimento.
Il computer mi attrasse nel 1965 per le sue numerose possibilità grafiche,
ho potuto vedere nel computer il mutamento: la memoria del mondo e la
rappresentazione metafisica».9
9
Cfr. J. Reichardt, The Computer in Art, Studio Vista Limited, London 1971.
MARIA GRAZIA MATTEI 272
A differenza del primo film lineare di Zajec, la serie che Vanderbeeck
realizza nel 1964 insieme a Knowlton, intitolata Poemfield, mostra immagini
modulari simili a mosaici complessi, è in bianco e nero e il colore, squil
lante, è stato aggiunto in una fase successiva dai tecnici del laboratorio fo
tografico. Lo scopo era evidentemente quello di ottenere una nuova pittu
ra non oggettiva, dinamica, costruita su un ritmo visivo soggettivo le cui re
gole erano controllate dal computer. Un ritmo tutto interno all’immagine,
dunque.
Anche Lillian Schwartz è un’artista che dalla pittura passa al computer
per muovere il suo segno. Ma sfrutta subito la possibilità che la nuova tec
nologia e il sistema BEFLIX offrivano per creare texture composite, metten
dole però in rapporto con la musica. Pixillation (1970) è la sua prima com
posizione animata ed è una combinazione di quadri dipinti a mano e ani
mazioni al computer colorate personalmente in laboratorio. I pattern vi
sivi astratti di cui è composto il film creano immagini densamente cariche
di colori e sono accompagnati da suoni elettronici sintetici. Ne risulta un
ritmo serrato che è stato paragonato dall’artista stessa al «rullio di tam
buro sugli occhi» e anche se non strutturato in rapporto alla scrittura
musicale, come invece succede in maniera più rigorosa e organica nelle
opere di altri artisti (primo tra tutti John Whitney sr.), Pixillation è un film
che coglie la possibile corrispondenza tra il segno grafico del computer e la
musica elettronica, tra numero e numero.
Altri artisti hanno variamente ripreso e applicato nei loro lavori queste
prime regole e altri hanno sviluppato, anche se in una direzione narrativo
figurativa, tecniche estremamente interessanti dal punto di vista lingui
stico-espressivo come l’interpolazione (il calcolo automatico di un’imma
gine da un frame all’altro). Charles Csuri all’Ohio State University è il pri
mo negli anni Sessanta a dedicarsi alla scrittura di programmi per gene
rare trasformazioni e metamorfosi di oggetti che vengono disintegrati,
ricomposti e moltiplicati facendo ricorso a poche funzioni.
Il film Hummingbird (1968) è composto da una serie di particolari varia
zioni grafiche sul tema di un colibrì. Il CTG in campo grafico (ricordia
mo la storica sequenza Running Coca is Africa del 1967 realizzata ricorrendo
a un algoritmo che convertiva la figura di un uomo in corsa in una bottiglia
di Coca Cola e quest’ultima nel disegno dell’Africa) e soprattutto Peter Fol-
des nell’animazione – si veda The Munger (1974) e soprattutto Metadata
(1971) – applicano in maniera fantasiosa e poetica la stessa tecnica otte
nendo risultati altrimenti impensabili.
È utile qui aprire una parentesi sul passaggio da un’arte filmica di «tran
sizione», come è stato definito da Gene Youngblood il cinema meccanico, a
quella di «trasformazione» che egli attribuisce soprattutto all’immagine
digitale ma che è portata fino alle più estreme conseguenze proprio dal
273 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART
3. Colori, suoni
Resta da dire infine qualcosa sul colore che, come aveva ben intuito Van
Doesburg, solo con la tecnica poteva venire in aiuto al cinema creativo.
Con il computer abbiamo acquisito i mezzi tecnici atti a controllare
tempo e luce così come la musica controlla tempo e suono. «Sui suoni»,
scrive Veronesi in un suo saggio sui rapporti tra suoni e colori, «si è fat
to uno studio matematico molto più approfondito che non sui colori,
perché il numero è sempre stato al principio di tutta la teoria dei suoni,
mentre per la scienza dei colori l’analisi matematica è di data abbastan
za recente».12 Abbiamo avuto sin da tempi lontani un gran numero di
lavori sperimentali che tentavano di mettere in relazione suono, imma
gine, tempo e colore, studi interessantissimi che risalgono al Cinque
cento quando Giuseppe Arcimboldi, nel tentativo di trovare utopici pa
rallelismi, studiò i gradi armonici che hanno portato nell’Ottocento al
la elaborazione della teoria armonica dei complementari e alla defini
zione del cerchio cromatico armonico.13
Sono note le ricerche dei primi del Novecento che da Skriabin,
Schönberg, Kandinskij, Moholy-Nagy arrivano a quelle di Veronesi degli
11
G. Hattinger, M. Russel, C. Schopf, P. Weibel, Virtuelle Welten, Ars Electronica,
Linz 1990.
12
L. Veronesi, Proposta per una ricerca sui rapporti fra suono e colore, Ed. Siemens Da
ta, Milano 1977.
13
Ibidem.
MARIA GRAZIA MATTEI 276
anni Cinquanta e Sessanta, per poi trovare un grande slancio nell’era
elettronica con le ricerche di John Whitney e di altri che come lui stan
no tuttora lavorando con il computer.
Il computer si è rivelato anche in questo caso il ponte tra passato e fu
turo poiché permette non solo di verificare ma anche di sviluppare su ba
si originali i presupposti espressi dalle avanguardie artistiche sul ruolo del
colore nella creazione di un’opera armonica. Sono in atto attualmente
molte ricerche in questo campo; anzi si potrebbe dire che è praticamen
te emersa una nuova tendenza all’interno della categoria della computer
art che si avvale ormai di codici espressivi propri. Su Chromas, uno studio
astratto della durata di venti minuti elaborato nel 1986 da Zajec sulla Se
conda Sonata di Coral, un film dove il colore si sviluppa e si trasforma in
stretta relazione con la musica ma secondo un proprio codice espressivo,
l’autore scrive: «La mia intenzione non era di copiare gli impulsi sonori
uno a uno o di disegnare una coreografia visiva per sottolineare i pro
gressi musicali. Cercavo il punto focale, il principio fondamentale sul
quale basare una linea attiva e autonoma di sviluppo. L’ho trovato nel
concetto-pratica di trasformazione tematica [...] Penso che una teoria di
articolazione divisibile del colore-tempo possa dimostrarsi quel terreno
lungimirante che collega due forme d’arte e fornisce il giusto fulcro nel
la ricerca di nuovi codici di comunicazione visiva...» e conclude poi: «Ab
biamo molto da imparare dalla musica, dalle opere di Klee e di altri ma
anche dalle recenti scoperte matematiche, dai frattali in particolare o
dalla grammatica degli automi cellulari».14
E come il poeta francese Apollinaire coniò il termine orfismo per ce
lebrare la ricomparsa del colore in un nuovo movimento artistico e in
omaggio alla pura esplosione dei colori di Robert e Sonya Delaunay nel re
gno altrimenti monocolore del cubismo astratto, Zajec propone la stessa
definizione per la nuova arte e suggerisce: orfica.
14
E. Zajec, Orphics: Computer Graphics and the Shaping of Time with Color, in Electronic
Art, Pergamon Press, London 1988.
NET ART: GENESI E GENERI
Valentina Tanni
«Quando le macchine sono accese e le tue dita sono sulla tastiera, tu sei con
nesso con uno spazio che è al di là dello schermo. E questo spazio esiste solo
quando le macchine funzionano. È un nuovo mondo in cui puoi entrare [...]
Non riguarda le cose, riguarda le connessioni».
Robert Adrian X, 1997
1. Definizioni
1
http://www.nettime.org
2
http://www.ljudmila.org/nettime/zkp4
3
J. Blank, What is netart?;-), intervento al congresso (History of) Mailart in Eastern
Europe, Staatliches Museum Schwerin, Germania 1996, «Nettime», sito Web,
http://www.desk.nl/~nettime
VALENTINA TANNI 278
nicazione creativa e si serve di Internet come mezzo di produzione e
luogo di fruizione dell’opera allo stesso tempo.
Successivamente vennero messe in evidenza alcune caratteristiche
che sembravano accomunare molti web-projects, come la performatività,
la processualità e una continua e tenace opera di decostruzione del me
dium.4 Molte delle attitudini e delle tematiche riscontrabili nella net art
possono essere rintracciate nella storia dell’arte della seconda metà del
Novecento. È nell’ambito di Fluxus infatti che si delinea una prima de
cisa volontà di confronto con media come la televisione, il telefono e il
satellite, sull’onda di una sempre più stretta contaminazione tra arte e
tecno-scienze che verrà incarnata in modo esemplare dall’esperienza
dell’EAT (Experiments in Art and Technology, 1966-71) della coppia
Rauschenberg-Klüver.
Dalla decostruzione del mezzo televisivo di Nam June Paik, passando
per le trasmissioni satellitari e gli esperimenti con il Telex di Hans
Haacke alla fine degli anni Sessanta, arriviamo, nei decenni Settanta e
Ottanta, a un vero e proprio proliferare di esperienze, accompagnate da
una vasta opera di teorizzazione. La tendenza dominante era quella, già
indicata dalle neo-avanguardie del dopoguerra, che portava alla crea
zione di eventi, alla costruzione di relazioni piuttosto che di oggetti ma
teriali.
L’opera di artisti come Douglas Davis,5 Roy Ascott, Fred Forest e Robert
Adrian X risulta oggi, a uno sguardo retrospettivo, feconda di suggeri
menti per i futuri abitatori della rete. La loro strenua volontà di «smonta
re» la tecnologia, di indagare i processi comunicativi e di «appropriarsi»
degli strumenti mediali è una caratteristica che confluirà interamente nel
movimento net artistico. L’idea di un uso «controsenso» della tecnologia
si accompagna in questi artisti a una dispersione del soggetto, un prolife
rare di «autori-disseminati» che supera i concetti di individualità e di stile
per concentrarsi sulla produzione di reti rizomatiche.
2. Genesi
La genesi della net art va ricercata alla fine degli anni Ottanta, quan
do alcuni artisti operavano tramite le BBS6 (Bulletin Board System), dan
4
A. Broeckmann, Net.Art, Machine and Parasites, «Nettime», 1997, sito Web
http://www.nettime.org/nettime.w3archive/199703/msg00038.html
5
D. Davis è anche l’autore di uno dei primi web-project: The World’s First Collabo
rative Sentence (1994), un’opera collaborativa attualmente di proprietà del Whitney
Museum of America Art di New York.
6
BBS sta per Bulletin Board System ed è un sistema telematico a carattere amato
279 NET ART: GENESI E GENERI
riale aperto al pubblico che può prendere e depositare file, testi o messaggi. Tramite
le BBS si sono formate le prime «comunità virtuali».
7
http://bbs.thing.net
8
http://www.hackerart.org
9
L. Beatrice, C. Perrella, Nuova arte italiana, Castelvecchi, Roma 1998, p. 92.
VALENTINA TANNI 280
Un elemento spesso sottolineato dalla critica (ma che si riscontra cu
riosamente anche nell’informazione generalista) riguarda la presunta
natura immateriale della net art. Considerazione che deriva dalla co
scienza di una transizione epocale determinata dall’avvento delle tecno
logie digitali, quella transizione che Lev Manovich ha efficacemente de
finito come un passaggio «dall’oggetto al segnale».10
In questa prospettiva, i progetti di net art godono indubbiamente di
uno status immateriale, non essendo composti di materia tangibile, ma di
stringhe di codice e di flussi di energia elettrica.11 Tuttavia si tratta di
un’incorporeità del tutto particolare visto che, in ogni caso, l’opera, per
essere visualizzata, ha bisogno di un supporto, costituito dall’hardware del
computer. La registrazione digitale delle informazioni, come spiega Pierre
Lévy nel suo Cybercultura, non è infatti, a rigore, una vera e propria sma
terializzazione, quanto una virtualizzazione, una trasformazione in cifre che
costituiscono la sua descrizione numerica. Questa descrizione, tuttavia, non
può manifestarsi e rendersi visibile senza un supporto fisico. «Più fluida e
volatile, la registrazione digitale occupa una posizione molto particolare
nel mondo delle immagini, a monte della manifestazione visibile, non ir
reale o immateriale, ma virtuale».12
Simile la posizione di Mario Costa – autore di una vasta elaborazione
teorica sull’estetica della comunicazione – che, in più, pone l’attenzione
sul carattere mentale delle immagini espresse in formato digitale. Egli so
stiene che, ancor più che immateriali, le informazioni digitali sono nel
la loro essenza la visualizzazione di un lavoro logico/matematico, in cui
l’energia e la luce cessano di appartenere al mondo fisico e vengono as
similate all’universo mentale delle procedure logico-matematiche e dei
modelli linguistici.13
Questi concetti ci portano a considerare un’altra caratteristica della
net art – e più in generale della telematica – cioè la delocalizzazione del-
l’opera d’arte. Il luogo dove l’opera appare, infatti, è del tutto svincola
to dal luogo in cui l’informazione è fisicamente immagazzinata. I pro
getti di net art si manifestano sullo schermo del computer dell’utente
10
L. Manovich, The Language of New Media, MIT Press, Cambridge 2001, p. 132.
11
F. Ciotti e G. Roncaglia individuano nel trasferimento di energia il carattere di
stintivo di ogni sistema di telecomunicazione: «...siamo in presenza di un sistema di
telecomunicazione se il trasferimento di informazioni nello spazio avviene mediante
il trasporto di energia e non di materia». F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. In
troduzione ai nuovi media, Laterza, Bari 2000, p. 99.
12
P. Lévy, Cyberculture, Odile Jacob, Paris 1998; trad. it. Cybercultura. Gli usi sociali
delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1999, p. 57.
13
M. Costa, L’estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999, p.
277.
281 NET ART: GENESI E GENERI
ogni volta che egli, dovunque si trovi, accede alla rete Internet e richia
ma, attraverso l’URL, un determinato documento. È proprio grazie allo
schermo che le informazioni acquisiscono «la facoltà di manifestarsi qui
e là, indipendentemente dalla localizzazione dei supporti, tanto da con
quistare una condizione di sostanziale ubiquità [...] Il cyberspazio di
schiude una nuova dimensione del viaggio, in quanto mette a disposi
zione del “nomade elettronico” uno spazio in cui egli può esprimere la
propria creatività».14 È dunque piuttosto il nuovo spazio mentale e psi
cologico creato dal cyberspazio a essere totalmente immateriale, più che
i singoli artefatti in formato digitale.
Nel 1994 il sito newyorkese adaweb,15 fondato da Benjamin Weil, ini
zia a commissionare progetti d’artista concepiti per la rete. Artisti già af
fermati come Jenny Holzer e Julia Scher si cimentano con il nuovo me
dium, lasciando che esso influenzi e modifichi la propria poetica. In
Please Change Beliefs16 per esempio la Holzer trasferì i suoi truism (afori
smi, proverbi, slogan, modi di dire) dai supporti a led luminosi allo spa
zio immateriale del Web, un luogo dove potessero circolare, essere mo
dificati e integrati dagli utenti, arricchendo il lavoro di una dinamica bi
direzionale.
Contemporaneamente, al Cultural Center di Chicago, Antoni Mun
tadas presentava The File Room,17 opera esposta sia in forma di installa
zione fisica che come progetto on-line. Il sito è un archivio aperto, pron
to a raccogliere tutti i casi di censura culturale della storia, dall’antica
Grecia a oggi, strutturandosi come un database destinato ad arricchirsi
grazie al contributo degli utenti. La natura collaborativa del lavoro e la
scelta di un tema molto sentito dai navigatori hanno fatto sì che il pro
getto riscuotesse un enorme successo, diventando un esempio paradig
matico per varie esperienze successive.
Significativa l’esperienza coeva dell’inglese Heath Bunting. Il suo la
voro si caratterizza per l’uso programmatico di tecnologie «povere» e
per i contatti con la street culture, che lo trasformano in un moderno
nomade della civiltà elettronica. Per realizzare King Cross Phone In, l’ar
tista diffuse su Internet i numeri di telefono di 36 cabine telefoniche
della stazione londinese di King Cross invitando le persone a chiamare
a una determinata ora. L’ambiente sonoro creato dalla sinfonia di
squilli, le conversazioni improvvisate tra i passanti alla stazione e chi te
14
C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’era di Internet, Raf
faello Cortina Editore, Milano 2000, p. 30.
15
http://adaweb.walkerart.org
16
http://adaweb.walkerart.org/project/holzer/cgi/pcb.cgi
17
http://www.thefileroom.org
VALENTINA TANNI 282
lefonava da casa, furono gli ingredienti di una performance che riu
sciva, attraverso un uso creativo dei mezzi di comunicazione, a conver
tire un luogo di passaggio come la stazione in uno spazio di socializza
zione.
3. Generi
L’attitudine degli artisti verso la rete nei primi anni Novanta era cari
ca di entusiasmo e volontà di sperimentazione. La struttura ad «archi
vio», che caratterizza molte opere della prima metà degli anni Novanta,
valorizza infatti la capacità dell’informazione digitale di essere scambia
ta, manipolata, conservata e condivisa con grande facilità.
Confrontandole con i progetti Web di artisti come Jodi.org,18 che ini
ziano a lavorare in rete intorno al 1995, si può registrare un lento ma co
stante processo di mutazione del linguaggio. La decostruzione dei codi
ci, insieme alla volontà di studiare e mostrare il vero funzionamento –
oltre che il significato sociale – degli strumenti tecnologici, testimonia
no l’inizio di un approccio critico nei confronti delle reali possibilità del
Web e dei luoghi comuni che accompagnavano la sua vertiginosa cresci
ta. Molte opere dei net artisti della seconda metà del decennio sono ca
ratterizzate da uno scetticismo di fondo nei confronti della presunta de
mocrazia del Web, in polemica con l’high tech e con le grandi corpora
tion, nel tentativo di mettere in guardia il navigatore contro il rischio di
un uso passivo della tecnologia.
Il sito Web di Jodi.org (Joan Heemskerk e Dirk Paesmas) può essere
considerato una piattaforma per una ricerca in continua evoluzione.
Negli ultimi otto anni ha ospitato innumerevoli progetti, alcuni rag
giungibili tramite l’home page, altri solo attraverso i motori di ricerca,
altri ancora scomparsi dalla rete a pochi mesi dalla loro creazione.
In una intervista hanno dichiarato: «Noi esploriamo il computer dal
suo interno e ne restituiamo l’immagine sulla rete. Quando l’osservato
re guarda il nostro lavoro, noi siamo dentro al suo computer».19 Un no-
do fondamentale della loro ricerca risiede infatti nell’analisi e nella sov
versione del rapporto tra il codice e la superficie nelle schermate del
computer. Mentre la superficie di Jodi.org risulta assolutamente incom
prensibile, guardando il document source spesso vediamo apparire imma
18
http://www.jodi.org
19
T. Baumgaertel, We Love Your Computer. The Aesthetics of Crashing Browsers, intervi
sta a Jodi.org, in «Telepolis», sito Web,
http://www.heise.de/tp/english/special/ku/6187/1.html, 6 ottobre 1997.
283 NET ART: GENESI E GENERI
gini – come per esempio quella di una bomba – «disegnate» con sem
plici caratteri alfanumerici. Questa dinamica codice-superficie, che ri
mane una costante in tutti i lavori di Jodi, scaturisce da uno studio ap
profondito dell’errore, trasformato poi in elemento di stile.
Tra i loro progetti più interessanti spicca Wrong Browser, primo di una
serie di programmi di navigazione assolutamente schizofrenici ed este
ticamente sorprendenti prodotti dal duo belga-olandese e la serie dei vi
deogame «modificati» che comprende SOD, Ctrl SPACE e Untitled-Ga
me (2002).
Il duo Jodi fa parte, insieme a Vuk Cosic, Olia Lialina, il già citato
Heath Bunting e Alexei Shulgin, della scuola europea della net art, un
nucleo fondante che comprende i pionieri del movimento, oltre che i
principali animatori delle discussioni su Nettime. Le loro ricerche, sep-
pur molto diverse, sono accomunate da una forte attitudine all’ironia e
alla dissacrazione, da una passione per le tecnologie povere o obsolete,
oltre che per una vena situazionista, détournante.
Il nome da loro scelto per autodefinire il proprio lavoro è net.art, na
ming accompagnato da una leggenda inventata ad hoc da Cosic e Shul
gin che narrava la presunta autogenerazione della parola, frutto del
malfunzionamento di un software. Il punto che separa le parole «net» e
«art» è un elemento significativo perché ironizza sulla consuetudine di
etichettare i movimenti artistici apponendo un prefisso alla parola art e
allo stesso tempo rende questa definizione simile al nome di un file o di
un software, con ovvio riferimento al medium utilizzato.
My Boyfriend Came Back From the War20 di Olia Lialina è un tentativo di
confrontare il «linguaggio del Web» con quello cinematografico. L’ar
tista russa narra la storia dell’incontro di due fidanzati dopo una lunga
separazione causata dalla guerra, servendosi di immagini in bianco e
nero e di frasi scritte, tratte da un dialogo immaginario. La vicenda è
evocata più che narrata, e costringe lo spettatore a ritagliarsi un suo
percorso all’interno del mosaico di parole e immagini che appare sullo
schermo. L’artista russa considera i frame delle pagine Web in qualche
modo assimilabili ai fotogrammi del cinema e crea un’inedita ipotesi di
montaggio che viene realizzato dall’utente grazie alla tecnologia iper
testuale: «L’ipertesto è il modo migliore per narrare delle storie, centi
naia di storie simultaneamente. E l’interazione non è altro che un cam
po di sperimentazione, come il palcoscenico, il film, il cervello. Il lin
guaggio della rete è più vicino al film di quello del video, perché il vi
deo non ragiona in termini di frame. Il Web sì. Non solo. Dà la possibi
20
http://www.teleportacia.org/war
VALENTINA TANNI 284
lità di operare su concetti come quello di montaggio lineare, parallelo,
associativo, digitale».21
Gli esperimenti di narrazione non lineare, resa possibile dall’uso
della piattaforma ipermediale, rappresentano una tendenza che, nata
molto precocemente all’interno del movimento net-artistico, non
sembra destinata a spegnersi. A partire dall’ormai storico Gramma
tron22 di Mark AmeriKa (1997), un enorme ipertesto che ha come
protagonista un personaggio di nome Abe Golam (l’info-sciamano), in
sieme al suo alter ego digitale Grammatron. Il nome dello stregone
mediatico fa riferimento alla leggenda medievale ebraica del golem
(capostipite della fortunata dinastia di uomini-macchina, da Franken
stein ai cyborg) e tutto il progetto esplora una possibile «nuova spiri
tualità elettronica».
Più complesso, ma sulla stessa linea d’onda, il progetto World of Awe23
(1995-2003), dell’americana Yael Kanarek, un’hyperfiction basata sul dia-
rio di un viaggiatore perso nel deserto. L’opera, servendosi di una ver
sione aggiornata dell’espediente del manoscritto ritrovato (in questo ca
so un computer), rinnova l’antico genere del racconto di viaggio scin
dendo la narrazione in immagini, pagine di diario, lettere scritte a un’a
mante lontana.
A testimonianza delle possibilità performative della net art c’è l’ormai
noto Digital Hijack,24 un atto di «terrorismo» virtuale opera del collettivo
svizzero Etoy (vedi scheda).25 L’azione iniziata nel 1996, «rapì» oltre
600.000 internauti, dirottati sul sito di etoy mentre usavano normali mo
tori di ricerca, caduti in siti trappola posizionati ad hoc nelle prime posi
zioni dei risultati delle ricerche, con un lungo lavoro di studio e pro
grammazione. Lo scopo del digital hijack era quello di scuotere la noia
della rete, mostrandone i limiti e le potenzialità inespresse, una sorta di
virus psicologico che, attraverso un’azione shock, costringe a riflettere sul
vero assetto della rete e sul controllo del flusso informativo.
Il 1997, oltre a essere l’anno del net.art thread, appare oggi come l’an
no centrale per lo sviluppo del movimento, nonostante molti abbiano vi
sto nell’esplosione della net art i rischi di un appiattimento delle speri
mentazioni e di un progressivo sfruttamento commerciale del fenome
no. Fu in quell’anno che l’arte internettiana fu ammessa a Documenta
21
O. Lialina, Net Film, «Telepolis», sito Web, http://www.heise.de/tp/deutsch/kunst/
nk/3040/2.html, 1998.
22
http://www.grammatron.com
23
http://www.worldofawe.net
24
http://www.hijack.org
25
http://www.etoy.com
285 NET ART: GENESI E GENERI
26
http://www.0100101110101101.org
27
Dichiarazione degli autori estratta dal comunicato stampa relativo al lancio del
progetto.
28
http://www.aha.org
VALENTINA TANNI 286
controinformazione. Tra gli altri ricordiamo il netstrike per la manife
stazione fiorentina «Contro la pena di morte» dal titolo Netstrike 214-T
(30 novembre 2000) di Tommaso Tozzi e Giacomo Verde, un simbolico
sciopero per bloccare i siti del Governo e del Ministero della giustizia
del Texas dove vige la pena di morte.
Esemplare in questo senso il lavoro di Ricardo Dominguez,29 nato a
Las Vegas ma di origini messicane e moderatore di un’area di discussio
ne dal significativo nome di InfoWar. Personaggio poliedrico, che co
niuga espressione artistica e impegno politico, performer e teorico, Do
minguez ha trovato da subito accoglienza nella comunità net artistica,
da sempre aperta alla sperimentazione di rete, diventando editor della
BBS storica del movimento, The Thing, e dando vita a una lunga serie di
esperienze di arte attivista come Il teatro del disturbo elettronico basato sul
la tecnica del netstrike.
In Italia Tatiana Bazzichelli, sociologa della comunicazione, ha rea
lizzato il progetto AHA: Activism Hacking Artivism costituito dalla mostra
evento Aha (Museo laboratorio di arte contemporanea di Roma, 2002,
in seguito diventata itinerante), dall’attivazione della mailing list nata
nel sito di Isole nella rete (www.ecn.org/aha) e relativa newsletter sul
l’attivismo artistico. Tra gli artisti invitati: Federico Bucalossi, Massimo
Contrasto, Mariano Equizzi, GMM – Giovanotti Mondano Meccanici,
Tommaso Tozzi, Giacomo Verde e i collettivi: AvANa.net, Candida Tv,
Indymedia Italia, Quinta Parete Network, Stranonetwork.
Una tendenza interessante, in atto almeno dal 1998, è quella che ve
de gli artisti impegnati nella realizzazione di software alternativi. L’o
biettivo di questi esperimenti consiste nel contrastare una delle con
venzioni più radicate della rete, quella che organizza le informazioni
nella familiare «forma-pagina», mutuando lo stile e la struttura dal vec
chio libro analogico. Opere come Web Stalker del collettivo inglese
I/O/D, Netomat di Maciej Wisnieski (1999) o Feed del newyorkese Mark
Napier (2001) sono solo tre esempi di come gli artisti stiano tentando
di ripensare la rete, di mostrarne le vere potenzialità, sottraendola al
l’omologazione. Si tratta infatti di tre browser, ma il loro uso permette
di visualizzare i dati richiamati dal server tramite l’URL secondo moda
lità molto diverse da quelle consuete. Mentre Web Stalker30 ci mostra la
struttura di un sito Web tramite grafici fatti di cerchietti (le singole pa
gine) e linee di connessione (i link), e Netomat31 elimina l’architettura
dei siti Web, lasciando fluttuare testi e immagini sulla superficie, il più
29
http://www.thing.net/~rdom
30
http://www.backspace.org/iod
31
http://www.netomat.net/original
287 NET ART: GENESI E GENERI
32
http://www.potatoland.org/feed
33
http://www.beigerecords.com/cory
34
http://retroyou.org
OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
Simonetta Cargioli
L’uso del medium video dalla metà degli anni Sessanta non si ricon
duce a un gruppo o movimento o corrente precisi. Contribuisce allo svi
luppo di un nuovo territorio della ricerca artistica che si dirama in una
ricca varietà di esperienze, dove il dispositivo e l’immagine elettronica
sono esplorati dapprima ricercando le loro specificità in un confronto e
dialogo fecondo con altre tecniche, media, linguaggi. Rapidamente il vi
deo diventa un laboratorio dove sono tentati molti esperimenti, messi al
la prova un insieme di concetti e di nozioni, proposti nuove forme – del
le opere – e nuovi comportamenti – del pubblico.
A partire da quegli anni, nel contesto delle arti visive, realizzare un’in
stallazione significa «abitare» temporaneamente con una proposta pla
stica una porzione di spazio che, assieme al dialogo fra i diversi elemen
ti e le persone al suo interno, diventa l’elemento centrale dell’opera.
L’installazione non si centra su un oggetto esclusivo ma considera le re
lazioni fra più elementi e l’interazione con i contesti. Le videoinstalla
zioni sono una categoria particolare: abitano lo spazio con immagini
realizzate con il video, diffuse o proiettate su diversi supporti e in rela
zione con altri media. Sono forme d’arte in cui si intrecciano il cinema,
il teatro, l’architettura, la videoarte, la performance, la scultura e le arti
visive. Fanno ricorso a una pluralità di linguaggi e supporti e appaiono,
per questo, tra i luoghi privilegiati del multimediale. Hanno una straor
dinaria capacità di dialogare con le altre arti: rileggono la pittura e la
scultura; rielaborano le forme del cinema, lavorando sugli schermi, le
proiezioni e i supporti. Si intrecciano con la performance e le arti dello
spettacolo, teatro e danza. Le loro manifestazioni sono diverse: possono
utilizzare nastri o altri supporti registrati, oppure il circuito chiuso; pos
sono avere una dimensione scultorea o tendere verso la dimensione am
bientale. Possono proporre percorsi liberi o definire dei punti di vista
precisi; integrare o meno l’immagine del visitatore il cui ruolo è attivo,
essendo un elemento essenziale dell’opera stessa, del suo «funziona
mento». A volte l’attenzione è attirata dalle immagini che evolvono sui
monitor o sugli schermi; a volte è uno spazio intero che si fa immagine
e suono, l’immagine si estende all’architettura. Lo spazio è sensibile ne
289 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
Con Nam June Paik e Wolf Vostell. Siamo nel 1963: in Germania, a
Wuppertal e negli Stati Uniti, a New York, vengono esposti in due gallerie
i primi lavori con il video realizzati da questi due artisti, entrambi legati a
Fluxus. Allora la tecnologia non permetteva di registrare le immagini su
nastro magnetico e si lavorava direttamente sul segnale elettronico e sul
monitor. Paik nella mostra Exposition of Music-Electronic Tv espone i suoi 13
Distorted Tv Sets, altrettanti modi diversi di manipolare le immagini e il di
spositivo televisivo. Vostell in Television dé-coll/age presenta videosculture
realizzate con i monitor che in seguito avrebbe sottoposti a trattamenti ag
gressivi (immersi nel cemento, avvolti nel filo spinato...).
Agli inizi degli anni Settanta la tecnologia non permetteva di realiz
zare proiezioni video, la qualità dell’immagine era scarsa e, come sotto
linea Steina Vasulka, «...all’inizio tutto era installazione o environment
come lo chiamavamo allora. Nella prima generazione di video con bo
bine non c’era possibilità di montaggio, di editing. La soluzione era quel-
la di tagliare, come si fa con i nastri audio. I nostri “environment”, quin
di, consistevano sia in riprese sia in un innesto di nastri “dal vivo”. Io e
Woody preferivamo usare molteplici schermi, soprattutto un gruppo di
monitor e alcuni videoregistratori. Una delle nostre prime idee per in
1
V.S. Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Nistri-Li
schi, Pisa 2002, pp. 57-58.
SIMONETTA CARGIOLI 290
stallazioni fu quella di far passare lentamente un’immagine in senso
orizzontale da un monitor all’altro».2 Le prime manifestazioni della vi
deoarte sono quindi installazioni che propongono al pubblico princi
palmente una nuova esperienza dello spazio e dell’immagine e spesso
attraverso la combinazione di media e supporti diversi. Frequenti sono i
richiami alle avanguardie storiche ma anche ad alcune forme della rap
presentazione e dello spettacolo: certe videoinstallazioni rileggono le
forme dei dittici, dei trittici della tradizione pittorica o semplicemente la
forma del quadro (vedi la serie delle passioni in Bill Viola, che comincia
con The Quintet of the Astonished, 2000); alcune videoambientazioni si ri
chiamano allo spirito multimediale e sinestetico dell’opera lirica. A que
sto propostito nota Paik: «L’opera rappresenta ciò che io ricerco nel
l’arte elettronica: nel senso di poter arrivare a quel livello di riuscita
performativa in grado di ottenere la migliore opera. In un’opera c’è
tutto: tutti gli elementi, la musica, il movimento, lo spazio. Così se un’o
perazione d’arte elettronica riesce con successo [...] penso che debba es
sere considerata come un’opera elettronica [...] Così anche le videoin
stallazioni hanno la possibilità di diventare un’opera, un’opera video.
Consideriamo quindi l’opera italiana per la sua flessibilità e per il suo
concetto di spazio, di grande spazio».3
Le definizioni sono articolate negli anni Ottanta. Le videosculture
non richiedono al visitatore di oltrepassare un immaginario schermo
frontale: sono costituite da uno o più monitor e propongono principal-
mente una percezione delle immagini messe in relazione con lo spazio,
con altre materie e/o oggetti. Il monitor è utilizzato come materiale di
base, da solo o in accumulazioni e combinazioni diverse: vedi le video
sculture di Shigeko Kubota, riletture dell’opera di Marcel Duchamp, co
me Nu descendant l’escalier (1975), dove i monitor con le immagini ela
borate di una donna nuda sono incastrati in quattro scalini di legno a
costruire dei videowalls, delle grandi sculture monumentali. Paik in Tri
color Video riempie lo spazio del centro Pompidou a Parigi con 384 mo
nitor sincronizzati a formare una mutante bandiera francese elettronica
(1982). Nel 1988 a Seul Paik crea una torre di 1.003 monitor, Tadaikson.
Ricordiamo anche i modi di trattare il monitor nella produzione di Fa
brizio Plessi, che realizza dagli anni Ottanta molte videosculture, opere
nelle quali il monitor è elemento architettonico, che serve a contenere
l’elemento artificiale (luce elettronica, immagine) costantemente messo
2
S. Vasulka, Pensieri, in M.M. Gazzano (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video, me
dia e nuove immagini nell’arte contemporanea, Fahrenheit 451, Roma 1995, pp. 94-95.
3
N.J. Paik, intervista di M.M. Gazzano e A. Zaru, New York 1992, in Il Novecento di
Nam June Paik, Carte Segrete, Roma 1992.
291 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
vecchio sogno delle sinestesie che ritorna, si attualizza nelle nuove tec
nologie. Alla base c’è la simulazione della realtà nella sua integralità at
traverso tutti i sensi. E in tutti i dispositivi interattivi c’è una condivisio
ne di ruoli e responsabilità, dal momento che non esistono delle opere
finite, date una volta per tutte: l’opera si costruisce nella durata dell’e
splorazione del visitatore.
4
A. d’Elia (a cura di), Artronica. Videosculture e installazioni multimedia, Mazzotta,
Milano 1987, p. 14.
SIMONETTA CARGIOLI 294
più recenti la ricerca critica sui nuovi media si rivolge al passato e opera
collegamenti con le avanguardie storiche.5
Altro momento individuato nella storia del cinema con un forte con
tatto con videoinstallazioni e videoambienti è l’expanded cinema teorizza
to da Gene Youngblood negli anni Settanta che ricerca nella pratica ci
nematografica pensata come spazio audiovisivo: la moltiplicazione dei li
velli di proiezione; l’abolizione dei limiti di separazione fra le arti; il ri
torno alla corporeità; la decostruzione delle tecniche filmiche; la crea
zione di opere di «pura luce». Contemporaneamente a certe ricerche
svolte nelle arti visive per uscire dai limiti del quadro, gli artisti che uti
lizzano il cinema vogliono far esplodere lo spazio dello schermo e sono
molte le esperienze di moltiplicazione delle immagini sullo schermo e
di moltiplicazioni delle proiezioni e dei supporti. Le proiezioni dell’im
magine definiscono allora un intero spazio che diventa multimediale
nelle esperienze fatte da Stan Vanderbeek nel Movie Drome, solo per ci-
tare una tra le numerose esperienze di quegli anni (ma non dimenti
chiamo gli intermedia events di John Cage, le esperienze intermediali di
Robert Rauschenberg).
In molti degli artisti che lavorano con sofisticate tecnologie di simu
lazione e interattive sono frequenti le riletture del passato, di dispositivi
e forme della visione e della rappresentazione. Prendiamo per esempio
il lavoro di Jeffrey Shaw: negli anni Sessanta è un performer. Realizza
opere che sono eventi multimediali come Movie Movie, una performan
ce di expanded cinema realizzata nel 1969 in collaborazione con Theo
Botschuijver e Sean Wellesley-Miller.6 A partire dagli anni Novanta Shaw
crea, con il ricorso alle tecnologie informatiche e all’interattività, degli
spazi complessi, narrativi, fruibili in gruppo, che si costruiscono a parti
re dalla convergenza sinestetica di tutte le modalità percettive del visita-
tore, senza il quale le immagini e i suoni non si materializzano e non
evolvono. Spazi del divenire, di dialogo che rileggono la tradizione del
5
Rinvio per un approfondimento a L. Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra
contemplazione e azione, Rubettino, Soveria Mannelli 2000. Il libro analizza le forme di
un’estetica relazionale interattiva attraverso molti esempi, a partire dalle avanguardie
storiche, di relazioni dinamiche tra opera e pubblico. E le ricerche sull’«archelogia
dei media» iniziate dallo studioso finlandese E. Huhtamo; vedi in particolare: Seeing
at a Distance-Towards an Archeology of the «Small Screen», in C. Sommerer e L. Mignon
neau (a cura di), Art@Science, Springer, Wien-New York 1998. E From Kaleidoscomaniac
to Cybernerd. Notes Toward an Archeology of Media, in T. Druckrey (a cura di), Electronic
Culture. Technology and Visual Representation, Aperture, New York 1997.
6
Rinvio a J. Shaw, Movies after Film. The Digitally Expanded Cinema, in M. Rieser, A.
Zapp (a cura di), New Screen Media. Cinema/Art/Narrative, The British Library, London
2002.
295 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
4. Opera mutante
7
Descrizione in F. de Mèredieu, Arts et nouvelles technologies. Art vidéo, art numérique,
Larousse, Paris 2003, p. 157.
SIMONETTA CARGIOLI 296
creazione di nuove modalità di accesso, di incontro e di dialogo con le
immagini.
La studiosa americana Margareth Morse ha messo in rilievo la parti
colarità dell’esperienza della videoinstallazione, così lontana da quella
del cinema e del teatro: non c’è nelle videoinstallazioni la parete invisi
bile che separa la scena dal pubblico.8 E conia per definire queste forme
d’arte l’espressione «arte della presentazione»: mettendo l’accento sul
presentare, lasciando che l’opera si presenti nel suo processo al pubbli
co; e ponendo in primo piano la dimensione temporale, il presente nel
quale avviene l’esperienza dell’opera che sfugge anche alla linearità e
sequenzialità temporale che contraddistinguono il cinema e il teatro
convenzionali.
Le idee di indeterminatezza e di opera come processo trovano nel vi
deo un fertile terreno di sviluppo: già Paik sancisce la crisi della nozione
tradizionale di opera d’arte come resa di un’idea in un oggetto finito;
infatti non si tratta per lui di produrre opere ma di mettere il pubblico
nella situazione di fare l’esperienza di rapporti nuovi con una proposta
artistica. Questa non si materializza in un oggetto unico, ma è un insie
me di situazioni in cui una serie di concetti, di idee, sono fatti evolvere.
L’artista utilizza media diversi, mescola i linguaggi, opera continuamen
te delle circolazioni di forme da un’opera all’altra, ama ibridare, creare
associazioni provocatorie.
Così come cambia la nozione di opera definendosi una rete di rela
zioni che implica una regia di diversi media e linguaggi, muta anche lo
statuto dell’immagine che ha ora un ruolo dipendente dalle situazioni e
relativizzato: «Si dirà che ci sono due maniere di essere o di non essere
dell’immagine in molte installazioni attuali, o ancora due maniere di di
menticarla: una in cui essa è tutto, unico riferimento d’una proiezione
spesso ambientale in una sala oscura; l’altra in cui essa è poca cosa, or-
mai semplice polo di un sistema che implica degli elementi molteplici, o
terminale che permette di rendere visibili cose che succedono altrove,
nella circolazione dei dati su Internet, per esempio».9 L’immagine non
è l’elemento centrale nelle videoinstallazioni e nei videoambienti, è in
vece uno tra gli elementi costitutivi dell’esperienza artistica; tant’è che
spesso la sua percezione è resa difficile dalle condizioni scelte dall’artista
per la sua manifestazione: solo per citare pochissimi esempi, in Paik (Vi
deo Fish, 1975 ), Bill Viola (Passage, 1987; Slowly Turning Narrative, 1992),
Bruce Nauman (Live-Taped Video Corridor, 1970) il nostro desiderio di ve
8
M. Morse, Video Installation Art, cit.
9
A.M. Duguet, Déjouer l’image. Créations électroniques et numériques, ed. J. Chambon,
Nîmes 2002, p. 8.
297 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
dere l’immagine si scontra con una serie di ostacoli. C’è sempre qualche
cosa che non va: o la nostra posizione non è giusta, o alcuni elementi di
sturbano la percezione; o l’immagine si concede solo per frammenti.
5. Mettere a fuoco
Molta della ricerca video degli anni Novanta si ricentra sulle espe
rienze di espansione dell’immagine e multimediali fatte negli anni Ses
santa. Nel vasto campo delle videoinstallazioni la ricerca è tesa a trovare
delle prospettive molteplici e nuove per la proiezione dell’immagine,
per i supporti e per le possibilità narrative. Frequentemente negli ultimi
anni gli autori si appropriano del cinema, in operazioni di segno diver
so e svariato. A volte sono riletti il dispositivo della produzione-ricezione
dell’immagine e il rito della visione del film. Ma la proiezione cinema
tografica è sottomessa a operazioni spesso complesse, che stravolgono la
relazione schermo-spettatore richiedendo una partecipazione del pub
blico invitato a deambulare nello spazio delle proiezioni o sollecitando
in lui diverse modalità percettive, stimolate dalle alterazioni cui è sog
getto il corpo del film (per esempio, le installazioni di «cinema esposto»
di Doug Aitken, Douglas Gordon. Ma anche le esperienze di Chris
Marker e di Chantal Akerman).
Nelle diverse direzioni delle recenti «evoluzioni» delle videoinstalla
zioni (verso l’ambiente, l’interattività, il cinema, i quadri e la pittura...)
sempre è messa in primo piano la presenza del corpo, quindi del visita-
tore. Questo a ribadire che l’esperienza dell’opera passa attraverso il
corpo e lo mette in gioco come strumento emotivo e cognitivo. Il mo
dello immersivo è esplorato in molte creazioni di spazi avvolgenti multi
mediali e multisensoriali: dai videoambienti agli ambienti interattivi in
cui vengono utilizzati le immagini di sintesi, la simulazione di universi
tridimensionali e il virtuale. Il computer gestisce molte delle operazioni
multimediali, le connessioni e integrazioni tra programmi, traduce i di
versi elementi in un linguaggio e li mette in relazione attraverso le in
terfacce. I lavori che fanno ricorso al digitale, ai programmi e alle inter
facce, acquisiscono una ulteriore forma di manifestazione, performati
va. Viene cioè richiesto al visitatore di agire, di partecipare non solo con
i sensi sollecitati: operando sul dispositivo, può ora partecipare e deter
minare una manifestazione, tra le tante, dell’opera.
Nell’opera digitale, videoinstallazione e videoambiente, l’autore pro
pone un programma contenente delle reti di possibilità; il visitatore è
chiamato ad attivare una scelta che determina una manifestazione del-
l’opera, una versione. L’opera è prima di tutto un programma che con
SIMONETTA CARGIOLI 298
nette un insieme di relazioni tra frammenti, dati eterogenei: visivi, so
nori, cinestetici. Le sue manifestazioni si svolgono attraverso una perfor
mance del visitatore con il dispositivo, via le interfacce. Nelle installa
zioni interattive ci è richiesto di agire, di prendere parte al farsi dell’o
pera che è un laboratorio continuo e aperto, work in progress; e spesso è
attivata la nostra capacità manuale. Le installazioni interattive creano
uno spazio multimediale nel quale è richiesto al visitatore di attivare la
scena mantenendo lo sguardo a una certa distanza. Negli ambienti inte
rattivi e virtuali invece è il corpo stesso che diventa interfaccia e si im
merge nell’immagine; il corpo si deve attrezzare per l’esplorazione, in
dossando dei sensori, guanti, occhiali, casco...
Il corpo stesso diventa interfaccia e attiva, connesso al computer, le
mutazioni dei dati audiovisivi. L’immagine è il frutto allora dell’intera
zione corpo-tecnologia e diventa scena da abitare, animare. L’immer
sione del visitatore nell’opera in cui si realizzano nuove modalità del
multimediale non è un’invenzione della realtà virtuale. È un’esperienza
provocata già, come abbiamo visto, dai videoambienti che, tra l’altro, di
latano la coscienza del tempo e dello spazio. L’occhio pare aver delega
to nelle installazioni e negli ambienti interattivi un po’ del suo potere al
la mano e l’immagine è il frutto di un’azione attraverso la quale il visita-
tore esercita una propria autorità.
Una volta accennati e descritti alcuni – i più profondi – cambiamenti
in corso osservando le installazioni, dobbiamo mettere a fuoco certe
problematiche che richiedono di essere trattate, discusse. In questa sede
possono essere solo evocate. A cominciare proprio dall’interattività, ar
gomento al quale sono stati dedicati negli ultimissimi anni molti studi e
ricerche, connessi in particolar modo con la pratica teatrale mentre, al
meno in Italia, sono pochi gli studi in relazione con le videoinstallazioni
e i videoambienti. Tale prospettiva di ricerca dovrà mettere l’accento
sulle conseguenze dal punto di vista percettivo e cognitivo della messa in
scena dell’immagine. Alle differenti modalità della sua messa in scena
sono connessi i cambiamenti del suo statuto. Negli ambienti per esem
pio c’è spesso una perdita del quadro e dei limiti dell’immagine: se non
c’è più delimitazione è legittimo chiedersi se e a che livello sia ancora
giusto parlare di immagine. La performance è un’altra urgente questio
ne: i media digitali sono caratterizzati dalla dimensione performativa,
l’opera è una performance di linguaggi e il tipo di comportamento ri
chiesto al pubblico muta in conseguenza. Il visitatore è infatti un perfor
mer, ma si assiste talvolta a un abuso del termine e le pratiche artistiche
vengono studiate e osservate troppo frequentemente proprio dal punto
di vista del pubblico, si assiste cioè a un rinvio di responsabilità per cui
l’interesse e la critica vengono deviati verso il fruitore. Sovraeccitato da
299 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
posizione del testo e sempre più come composizione di tutti gli elemen
ti espressivi della messinscena. Di conseguenza, la figura dell’autore tea
trale ha visto cambiare la sua identità – anche se non tutti concordano
con questa prospettiva – coincidendo più con l’autore della messinsce
na, cioè il regista, che con l’autore del testo.
Oggi possiamo perciò individuare quattro diverse e articolate acce
zioni di drammaturgia, compresenti; la prima è un’accezione restrittiva
e tradizionale, che si riferisce esclusivamente alla parte letteraria del tea
tro, il copione teatrale; la seconda è un’accezione più generale ed esten
siva: concepisce la drammaturgia come l’organizzazione artistica degli
elementi espressivi che compongono lo spettacolo o la performance tea
trale; l’estensione ha attraversato tre fasi cruciali: l’utopia dell’opera to
tale e della sintesi delle arti (da Wagner ad Appia, alle avanguardie del
primo Novecento); il teatro di regia (teorizzato da Stanislavskij, Mejer
chol’d, Craig); l’happening e la performance (dagli anni Cinquanta,
sulla scia neo-dadaista, con Cage, Cunningham, Kaprow ecc.) e la nuova
avanguardia degli anni Sessanta-Settanta, che sviluppa una visione tota
lizzante di «regia d’autore» (da Kantor a Mnuochkine, da Ronconi a
Wilson), e che in larga parte si ispira alle idee di Artaud, traendone
però percorsi molto diversi (dal Living Theatre a Brook, da Grotowski a
Barba o Carmelo Bene).
Un’accezione più tecnica-professionale è invece quella che si lega al
la pratica reale del rapporto tra testo e scena, articolandosi in quattro
tipologie: 1) il drammaturgo-regista, quando il regista è anche autore del
testo o di un adattamento; 2) la drammaturgia collettiva, tipica delle com
pagnie del teatro di ricerca; 3) il drammaturgo puro, che affida il suo te
sto teatrale al regista. Il Dramaturg in tedesco ha il duplice significato di
«autore teatrale», il drammaturgo puro, e di «poeta di compagnia», co
lui che lavora sul testo pur non essendone l’autore, come esperto, tra
duttore, adattatore e collaboratore alla sua messa in scena, una defini
zione che risale al Settecento; come abbiamo visto nasce in Germania
insieme alle istituzioni teatrali nazionali e viene poi rifondata negli an-
ni Quaranta del Novecento da Bertolt Brecht. Nell’Inghilterra del XVIII
e del XIX secolo questo ruolo è assunto da attori manager, che rielabo
rano il repertorio classico interpretandolo e adattandolo ai gusti con
temporanei del pubblico; negli Stati Uniti è introdotto tardivamente,
grazie ad alcune organizzazioni teatrali, scuole e università, negli anni
Sessanta del Novecento. In Italia, la figura del Dramaturg non è mai sta
ta riconosciuta ufficialmente (il termine stesso non è tradotto ed è di
ardua traduzione, per la complessità delle funzioni che accorpa, anche
se il neologismo «drammatologo» potrebbe avvicinarsi), ma è esistita di
fatto – come ha ricordato Claudio Meldolesi – fin da quando, a metà
ANDREA BALZOLA 302
Ottocento, Gustavo Modena la importa dall’estero; nel secondo Nove
cento svolge un ruolo fondamentale nell’ombra dei grandi registi, ne
sono un esempio emblematico le collaborazioni di Gerardo Guerrieri
con Visconti, di Tofano, Lunari e Raimondo con Strehler, di Zorzi con
De Bosio, di Taviani con Barba. Oggi il suo ruolo professionale è iper
codificato in Germania, dove è presente in ogni teatro con importanti
responsabilità artistiche e nei teatri più grandi si specializza in diverse
funzioni, mentre nel resto d’Europa è da un ventennio in fase di svi
luppo e di ridefinizione (il Dramaturg può essere assunto da un teatro,
da una compagnia o essere un collaboratore fisso di un regista), ma la
sua funzione essenziale è quella di assistere il regista e gli attori nel la
voro di ricerca, eventuale traduzione, interpretazione, commento o
adattamento di un testo alla scena. 4) L’ultima accezione, ancora in via
sperimentale e sulla quale concentreremo la nostra attenzione, è la
drammaturgia multimediale (o ipermediale), intesa come scrittura di una
partitura ipertestuale per uno spettacolo che utilizza le nuove tecnolo
gie audiovisive, digitali e interattive. Questa pratica affonda le sue radi
ci nella nuova drammaturgia novecentesca, che ha cercato di integrare
il linguaggio filmico nel testo teatrale (a due livelli: mediante l’uso di
proiezioni in scena, e attraverso l’interiorizzazione della «grammatica»
cinematografica nella scrittura teatrale) e che poi riprende slancio da
gli anni Ottanta, con l’uso del video in teatro e successivamente con il
teatro tecnologico.
1
Cfr. il mio testo ivi pp. 25-53.
303 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
2
Cfr. F.T. Marinetti, Manifesto dei drammaturghi futuristi (11 gennaio 1911) e Teatro
futurista sintetico (11 gennaio-18 febbraio 1915), in M. Verdone (1969, 1970) e L. Lapini,
Il teatro futurista italiano, Mursia, Milano 1977.
3
Cfr. sulla scenografia cinematografica delle avanguardie A. Cappabianca, M.
Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto, G. Mazzotta editore, Milano 1974.
4
E. Frantisek Burian, nato a Pilsen nel 1904 e praghese d’adozione, teorico, regi
sta e musicista, è uno dei primi a teorizzare (dal 1925), nella sua «estetica polidina
mica», l’uso delle proiezioni cinematografiche in scena come veicolo di sintesi dei
linguaggi, fino a inventare insieme allo scenografo M. Kouril il teatrografo (1936), un
sistema che combina proiezioni di diapositive e retroproiezioni cinematografiche in
tegrato nell’apparato scenico.
ANDREA BALZOLA 306
3. Le trasformazioni sulla scena
5
Uno studio utile sul rapporto tra drammaturgia e nuove tecnologie, concentra
to sull’area francofona, è l’articolo di J. Danan, De l’influence de la technologie sur l’écri
ture dramatique, in Théâtre/Public, dossier Théatre et technologie, 1996.
307 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
6
Uno dei più attenti testimoni critici del rapporto tra ricerca teatrale, cinema e vi
deo in Italia, dal Teatro Immagine di Perlini agli esordi di Tiezzi (con i quali ha col
laborato come sceneggiatore e drammaturgo) è Nico Garrone, anche autore di nu
merosi video sulla processualità creativa degli spettacoli (da Corsetti a Vacis, da Mar
tinelli a Baliani).
ANDREA BALZOLA 308
nel suo testo La déposition (1988) prevede che le due testimonianze cru
ciali delle sorelle del protagonista, sotto processo, siano realizzate con il
video e interagiscano con le reazioni dal vivo dell’accusato. In Democra
zia (Lia e Rachele) (1995) di Andrea Balzola, una stessa attrice, Marisa
Fabbri, si sdoppia in video e in voce nei personaggi opposti di due so
relle; il video evidenzia qui il contrasto drammatico tra la loro specula
rità e una distanza forse incolmabile. Il loro «incontro» finale avviene
tramite un campo e controcampo d’ispirazione cinematografica, rea
lizzato grazie a un’originale soluzione scenografica ideata da Luca Ron
coni, dove l’attrice dal vivo e il suo doppio sullo schermo (trasparente)
sono collocate l’una di fronte all’altro, su una pedana girevole che con
sente allo spettatore di vedere il dialogo da punti di vista sempre diver
si, appunto come accade nel cinema.
Bob Wilson negli anni Ottanta e il regista canadese Robert Lepage
nel decennio successivo sono forse tra i più significativi esploratori tea
trali di una nuova poetica tecnologica. Wilson cerca il superamento
dei vincoli spazio-temporali con due grandiosi progetti teatrali, The
Civil Wars e Die Goldenen Fenster, la cui idea fondante è l’allestimento in
cinque nazioni diverse delle cinque parti di cui si compone ciascuno
spettacolo e la loro ricomposizione televisiva, da trasmettere via satel
lite in tutto il mondo. Lepage sperimenta invece la scena come un
montaggio di visioni tecno-teatrali, tramite specchi, diapositive, film e
soprattutto video (registrati e in diretta), ma il suo progetto nasce a
partire dalla costruzione del testo drammaturgico, sempre in progress,
come dimostra in modo emblematico Les sept branches de la rivière Ota
(1994).
Un’operazione diversa, inedita e che ha una continuità nel tempo
viene inaugurata negli anni Ottanta in Italia, dal gruppo di Studio Az
zurro e da Giorgio Barberio Corsetti con la trilogia Prologo a diario se
greto contraffatto, Correva come un lungo segno bianco e La Camera astratta.
Qui si assiste all’invenzione di una doppia scena, la scena si sdoppia in
fatti tra la dimensione virtuale del video (in ripresa diretta) e la dimen
sione reale della performance teatrale, e i corpi degli attori passano
senza soluzione di continuità dall’una all’altra. Poi, negli anni Novanta,
mentre Barberio Corsetti sviluppa ancora quest’idea con altri video
maker e in alcuni importanti spettacoli esportati all’estero come Dottor
Faustus o il mantello del diavolo (1994), Studio Azzurro avvia una lunga
collaborazione video-teatrale-musicale con il compositore Giorgio Bat
tistelli: Il combattimento di Ettore e Achille (1989), con una videoproiezione
sincronizzata su doppio schermo; Delfi (1990) con l’uso di telecamere
infrarosse che rendono visibile in diretta una scena buia, Kepler’s Traum
(1990), che utilizza in scena schermi mobili che ricevono immagini in
309 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
9
Cfr. A. Balzola, Quer pasticciaccio bello de Ronconi. Da Gadda un invito a ripensare la
drammaturgia contemporanea, in «Sipario», aprile 1996 e La scrittura drammaturgica di
Luca Ronconi, in «Ateatro», n. 35, maggio 2002.
ANDREA BALZOLA 312
sceneggiatura cinematografica, così oggi quest’ultima, per la sua capa
cità di drammatizzare il contemporaneo in un linguaggio attuale, diret
to e molto visivo, diventa un modello possibile per il rinnovamento del
la scrittura teatrale e letteraria). Il «ritorno al testo» in questo caso non
è sinonimo di regressione o conservazione, ma al contrario corrisponde
a una maturazione consapevole della necessità di superare la sterile
«routine» del repertorio e nello stesso tempo di evitare i pressapochismi
di molto sperimentalismo improvvisato.
Come un autentico rinnovamento della scrittura drammaturgica non
può prescindere dalle esperienze della scrittura scenica e delle mutazio
ni introdotte dal cinema, dal video e dalle nuove tecnologie multime
diali, allo stesso modo non può non confrontarsi con le indicazioni che
emergono dal consolidamento di una tradizione che vede nella relazio
ne con il testo un elemento centrale dell’identità registica. Quale sinte
si è dunque possibile tra le tracce della scrittura scenica, le tracce di una
rigenerata tradizione del testo che però invoca il nuovo, e le tracce di
una presenza invasiva sulla scena (ma ancor più nel quotidiano) delle
tecnologie audiovisuali?
Quando ci si riferisce alla drammaturgia contemporanea, territorio
piuttosto fluido e ancora poco codificato, è opportuno in prima istanza
individuare i modelli, impliciti o espliciti, a cui essa fa riferimento. Que
sti sono riconducibili a sei tipologie: 1) il canone drammaturgico moderno,
di cui abbiamo parlato, che ha un’influenza determinante sulla produ
zione drammaturgica dell’ultimo trentennio; 2) la riscrittura del testo tea
trale classico (o di un testo letterario) che è la scelta più diffusa tra i registi e
gli attori-autori e consiste in una sorta di rovesciamento del teatro clas
sico e borghese dove la regia era al servizio del testo: qui invece si attua
lizza, si riduce, si smonta e si rimonta il testo classico adattandolo alle
idee registiche o alle inclinazioni attoriali; 3) il testo mitologico, che rievo
ca i modelli e le varianti del racconto orale e di un repertorio mitologi
co transculturale molto esteso nello spazio, nel tempo, e nei suoi valori
simbolici; 4) il testo destrutturato, frammento concettuale, poetico o pro
sastico di una narrazione esplosa e non ricomponibile, tipicamente post
moderna; 5) il testo iperstrutturato, che riproduce schemi narrativi chiusi,
sedimentati e prestabiliti, le cui radici si trovano nella grande letteratura
romantica ottocentesca e ora tendono a rispecchiare la fiction cine-tele
visiva contemporanea; 6) la cronaca rielaborata, intesa come drammatiz
zazione di vicende biografiche o di eventi reali, tratti dalla cronaca o dal
la storia, particolarmente drammatici o emblematici.
Il racconto mitologico porta sicuramente in sé una forte chiave simboli
ca di lettura e di coinvolgimento emotivo, ma rischia di mantenere un
alto grado di astrazione dall’esperienza del contemporaneo, a meno che
313 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
10
T. Brown, Film e tecnologie video, in T. Verità (a cura di), Il cinema elettronico, Libe
roscambio, Firenze 1982, p. 115.
ANDREA BALZOLA 316
quenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva
dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando
che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione
parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radi
cale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on-line come il Web e off
line come cd-rom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più li
neari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora
la scrittura drammaturgica, o si frantuma caoticamente come nella nar
razione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e
nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’iper
testo spettacolare.
Il passaggio dal testo all’ipertesto e dall’autore singolo all’autore collettivo: in
vece di creare un singolo testo, si tende a creare un ipertesto, cioè una
mappa di testi, immagini e suoni tra loro linkati, realizzabili da uno o
più autori o da un team artistico. Nella definizione ormai classica di
Landow, l’ipertesto è un testo composto da blocchi di informazioni ver
bali, visive e sonore e da collegamenti (link) elettronici (G. Landow,
1992). C’è un’ulteriore differenza tra una scrittura non sequenziale, dove
l’autore crea delle ramificazioni nel testo, introducendo una moltepli
cità di percorsi possibili collegati fra di loro, ma decisi e pilotati dall’au
tore stesso, in genere con un finale predefinito, e una scrittura iperte
stuale vera e propria, dove l’autore crea una mappa di possibilità ma è il
lettore (o l’attore o lo spettatore o entrambi) a decidere quali percorsi
fare, quindi quale testo costruire e come concluderlo. In questo caso c’è
un autore (o più) che crea e organizza i materiali iniziali e poi un auto
re collettivo che ricrea, con molteplici variabili, la sua sequenza testuale.
Le repliche dello spettacolo saranno così ogni volta differenti. Secondo
tale modalità, inoltre, si produce uno spettacolo dove gli autori, il
performer e gli spettatori possono interagire tra loro e con le interfacce
tecnologiche, sia nella fase laboratoriale sia nella fase finale della mes
sinscena.
Tomàs Maldonado, tra gli altri, ha espresso delle legittime riserve sul
l’efficacia e sulla fondatezza dei due princìpi distintivi dell’ipertesto: la
non sequenzialità e la relativizzazione del ruolo dell’autore. Nel primo
caso, la ramificazione dei percorsi può rischiare di trasformarsi in una
sorta di gioco letterario, nel secondo caso il ruolo dell’autore non sa
rebbe ridimensionato a vantaggio del fruitore, sarebbe piuttosto occul
tato come un regista del testo che pilota il lettore/spettatore in una se-
rie di scelte solo apparentemente libere (vedi Antologia). Ora, se l’iper
testo non è composto in modo meccanico, e la molteplicità dei percorsi
formali corrisponde a una molteplicità dei sensi possibili, la componen
te ludica (rivendicata già dai dadaisti) diventa un valore aggiuntivo che
317 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
11
Cfr. A. Appia, La Musique et la Mise en scène, Annuaire de la Société Suisse du
théâtre, Berne 1963.
ANDREA BALZOLA 318
mediante l’hardware e il software in una scena completamente virtuale.
Nello stesso tempo, come suggerisce Paolo Rosa, c’è una nuova forma di
sinestesia che si affaccia nel nostro tecno-mondo, ed è quella di una per
cezione simultanea del reale e del virtuale, cioè quando le due sfere
percettive – accade sempre più spesso – tendono a sovrapporsi, fino a
confondersi.
L’ultimo passaggio evolutivo nell’ambito della drammaturgia multi
mediale è il passaggio dal teatro-spettacolo allo spettacolo-laboratorio, che uni
fica i momenti tradizionalmente separati della scrittura, del progetto re
gistico, dell’interpretazione e della fruizione. Il testo, o meglio, l’iperte
sto drammaturgico, il progetto scenico o coreografico, la partitura so
nora-musicale, l’installazione, il video digitale, il software, non appar
tengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto,
tasselli di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comuni
cativamente forte che dà un’opportunità creativa senza precedenti alla
comunità autorale e alla comunità pubblico di disegnare insieme una
mappa sinestetica delle narrazioni possibili del contemporaneo. Il pub
blico, in questa prospettiva, non è soltanto coinvolto alla fine del per
corso drammaturgico e registico, ma durante il percorso stesso, me
diante laboratori aperti (qualcosa di più e di diverso delle «prove aper
te»), che mostrano anche l’uso creativo delle tecnologie, togliendo quel-
l’aura di impenetrabilità tecnica che spesso separa il valore d’uso creati
vo della tecnica dalla consapevolezza collettiva.
Questi passaggi presuppongono però una diversa relazione «etica»
con l’innovazione tecnologica, che segni una netta distinzione tra fin
zione artistica e simulazione manipolatoria della realtà e che valorizzi la
singolarità di ogni esperienza (e delle relative radici storiche e cultura
li). In opposizione al modello seriale della globalizzazione, che trova
oggi nell’uso politico dei mass media e nell’uso commerciale dei new
media gli strumenti privilegiati di omologazione.
PER UN TEATRO TECNOLOGICO
Anna Maria Monteverdi
1
Per un approfondimento sui registi citati, cfr. F. Quadri, Il teatro degli anni Set
tanta. Invenzione di un teatro diverso. Kantor, Barba, Foreman, Wilson, Monk, Terayama, Ei
naudi, Torino 1984. Sul Visual Theatre cfr. R. Cohn, Visuali e visioni: Foreman, Breuer, in
Nuovo teatro americano 1960-1990, Gremese, Roma 1992, pp. 99-107.
2
R. Bianchi, Autobiografia dell’avanguardia. Il teatro sperimentale americano alle soglie
degli anni Ottanta, Tirrenia-Stampatori, Torino 1980, p. 26.
ANNA MARIA MONTEVERDI 320
riallestito) è una triturazione del testo classico (Le tre sorelle di Čechov) e
una messa in ridicolo della società dell’informazione, dell’ipertrofia del-
l’immagine e della frenesia mediatica, con personaggi che appaiono so
lo in video o solo in carne e ossa, sulla scena, e con una presentatrice
che li introduce e riassume le scene.
Robert Wilson, architetto di formazione, è la personalità che ha mag
giormente contribuito alla definizione del teatro-immagine. Tempo, lu-
ce e immagine sono i fattori predominanti della sua scena: il dominio
dell’immagine si coniuga con l’uso evocativo delle luci e con l’esaspera
to rallentamento del movimento in scena. I suoi spettacoli (tra cui The
Deafman’s Glance, 1971, che destò l’ammirazione dello scrittore surreali
sta Louis Aragon e Einstein on the Beach, 1976), realizzati con diaproie
zioni ed effetti luministici a forte vocazione pittorica e improntati a
un’estetica minimalista, sono stati definiti «quadri che si muovono len
tamente»: apparentemente fissi, hanno movimenti impercettibili. La
lunghezza dei suoi spettacoli (dodici ore, sette giorni e sette notti per KA
MOUNTAIN and GUARDenia TERRACE, 1972) assume la funzione afferma
Franco Quadri di «iniziare» il pubblico, grazie al prolungarsi dell’este
nuazione gestuale e alla musica di Philip Glass, a un ritmo diverso da
quello quotidiano: «Un ritmo che può essere conquistato con la resi
stenza, condividendo lungo inimmaginabili kermesse l’atteggiamento, i
tempi, la vita – perché allora è il caso di parlare di vita – degli attori» (F.
Quadri, 1977). Al tempo accelerato della vita Wilson fa precedere la ri
flessione: «Concedo al pubblico il tempo per riflettere, per meditare su
altre cose oltre a quelle che accadono sul palco; concedo loro spazio e
tempo per pensare». Il tempo caratteristico dei movimenti del teatro di
Wilson è il ralenti, lo slow motion: tecniche che rimandano al cinema e al
la televisione. Il criterio di composizione che presiede il lavoro è fatto di
associazioni visive (con un’attenzione per una ricerca spaziale astratta e
sintetica e per forme geometriche essenziali), di «ritmi di luci e azioni
calcolati al secondo come in una partitura».3 Lo spazio scenico, genera
to da una «architettura di luce» che impone il tempo e detta il ritmo al
la rappresentazione, è equiparato da Ruggero Bianchi al «campo visivo
di un binocolo, che capta accadimenti unificati dalla simultaneità del
qui e ora, ma non necessariamente accadimenti unificati tra loro o ca
paci di costruire una storia oggettiva».4
In Hamlet: a Monologue (1995) Wilson sintetizza e accentua il dramma
3
F. Quadri, Robert Wilson, Octavo-Franco Cantini, Firenze 1997.
4
R. Bianchi, Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione permanente, in R.
Alonge, G. Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einau
di, Torino 2001, p. 798.
321 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
5
G. Bartolucci, Per un nuovo senso dello spettacolo, «Quindici», n. 11, 15 giugno
1968, p. 5.
6
Intervista a Simone Carella nel documentario Rai di Nico Garrone e Giuseppe
Bartolucci L’altro teatro.
7
S. Sinisi, Neoavanguardia e Postavanguardia in Italia, in R. Alonge, G. Davico Bo
nino, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einaudi, Torino 2001.
323 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
8
Cfr. F. Bartolucci, D. Rimoldi, Immagine-immaginario. Il lavoro del teatro La Masche
ra di M. Perlini ed A. Aglioti, Studio-Forma, Torino 1978.
9
R. Mele, Il teatro di Memé Perlini, 10/17 coop. ed., 1982, p. 9.
ANNA MARIA MONTEVERDI 324
tive e la scomposizione della figura umana richiamerebbero le avan
guardie pittoriche primonovecentiste, principalmente quella cubista, e
testimonierebbero una continuità del videoteatro con l’esperienza delle
avanguardie, impegnate fin dalle origini ad avvicinare lo spettatore; di
spositivi architettonici e strategie scenografiche sono stati da sempre im
piegati per soddisfare un’esigenza di prossimità: «Il ricorso alla telecame
ra permette una molteplicità di strategie dello sguardo, perché può ruo
tare, cambiare angolazione, modificare la prospettiva. Il video offre una
grande varietà di punti di vista sull’attore e sullo spazio. Questo fatto ha
portato molti critici a paragonare il dispositivo televisivo dello sguardo
all’approccio cubista che, ugualmente, all’inizio del secolo, si era pro
posto di mostrare i motivi plastici in una prospettiva prismatica. La tec
nologia attualizza nella scena una risposta già formulata dai pittori. La
barriera della frontalità è battuta in breccia» (G. Banu, 1999). Se la
neoavanguardia si esprimeva attraverso «éspaces éclatés, théâtre-par
cours, changement d’angle de vue» (G. Banu, 1999), le nuove tecnolo
gie realizzano proprio questa molteplicità di sguardi e di spazi, di com
presenza di punti di vista, di azioni e di tempi di visione (dalla visione
successiva a quella simultanea).
Negli anni Ottanta e Novanta il video in scena introduce il cosiddet
to «effetto specchio», diventando dispositivo psicologico introspettivo:
il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette
allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e in
dicibile. È il passato e l’altrove, la memoria e il vissuto. Le immagini in
dicano una tendenza dello spettacolo contemporaneamente verso l’e
sterno e verso l’interiorità: «Le immagini video aventi formato più o
meno grande a seconda del loro supporto di diffusione, allargano a un
contesto totalizzante l’azione in scena. Ma legate a una logica di fram
mentazione, di atomizzazione hanno soprattutto una funzione specula
re, narcisistica, mnesica, introspettiva, intimista, ludica, mostrano il
«non mostrabile» in scena o disturbano la vista dello spettatore» (B. Pi-
con-Vallin, 2001). Alcuni studiosi hanno sottolineato il carattere di tea
tralità intrinseco al dispositivo video-installattivo. Anne Marie Duguet,
considera fondamentale quella esperienza che «mette in gioco lo spet
tatore» rendendolo protagonista, perché, citando la famosa frase di
Marcel Duchamp, «Ce sont les regardeurs qui font les tableaux» («So
no gli osservatori che fanno il quadro»): «L’installazione è realizzata
per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne co
struisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quel-
la degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere, e in particolare
delle installazioni interattive, esige un’attività particolare per potersi
manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che
325 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità spe
cifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono
solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro at
tualizzazione (...). L’artista è autore della proposizione, della concezio
ne dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manife
stazione. Il visitatore esercita, mette in pratica questa proposizione, la
interpreta. Ne è il performer, l’attore. Esse appartengono ad un’arte
della presentazione e non di rappresentazione».10 La Duguet ricorda
anche come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i pa
radigmi e le premesse per una spazializzazione e una temporalizzazione
dell’opera video in forma di dispositivi, di installazioni: la messa al ban-
do del punto di vista unico, con l’apertura a una temporalità plurima,
con la partecipazione dello spettatore a un evento reale, fisico e imme
diato, con il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo,
ambientale ed emotivo.11 Frédéric Maurin in Scène, mensonges et vidéo.
La dernière frontière du théâtre américain (pubblicato nel numero di «Théâ
tre/public» dedicato a teatro e media) parte dall’ibridazione tra le arti
che si celava già dietro le pratiche delle video performance americane
degli anni Settanta e delle prime installazioni video di Nam June Paik,
Bruce Nauman, Dan Graham e Keith Sonnier, laddove si sarebbe reso
esplicito il carattere di interdisciplinarietà delle arti (scultura, immagi
ne in movimento, corpo e video in uno spazio espositivo); ma soprat
tutto sottolinea ancora il tema della teatralità implicita in tutte queste
esperienze artistiche, ovvero «una messa in scena dei linguaggi, rispet
to al teatro che è un medium ed è la pratica di uno specifico linguaggio»
(A. Balzola, F. Prono, 1994).
Lo spazio immateriale dello schermo video, dunque, diventa «tea
tro» di un’azione performativa extrateatrale. Anche Paolo Rosa aveva
parlato di una teatralità latente in molte delle prime videoambienta
zioni di Studio Azzurro (Il nuotatore, 1984; Storie percorse, 1985; Vedute,
1985), prima della effettiva svolta teatrale del gruppo milanese con Pro-
logo a diario segreto contraffatto (1985) e soprattutto con Camera astratta
(1987), spettacoli-manifesto del videoteatro italiano, contenenti un’am
pia gamma di possibilità di movimenti e di relazioni spaziali e temporali
tra il corpo dell’attore e l’immagine video in scena (vedi scheda): «Vi
deoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non
10
A.M. Duguet, «Installazioni interattive», in Visibilità zero, a cura di V. Valentini.
Sui dispositivi installattivi cfr. S. Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della vi
deoinstallazione, Nistri-Lischi, Pisa 2002.
11
A.M. Duguet, Dispositivi, in A. Amaducci (a cura di), Video imago, «Il nuovo spet
tatore», n. 15, Franco Angeli, Milano 1994, p. 190.
ANNA MARIA MONTEVERDI 326
solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli ele
menti messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografi
ca. Il teatro era già presente in embrione, come ambito nel quale scon
finare, del quale interessarci per uno sviluppo naturale della ricerca
nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come
luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svol
gere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo
spettatore o l’attore».12
In Camera astratta (1987) troviamo una doppia scena, una materiale e
una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di
fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi. La loro
figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su monitor
che oscillano o restano sospesi, in una complessa articolazione di movi
menti e di sincronicità. I monitor diventano co-protagonisti di una sce
na che rende visibile la dimensione interiore e mentale del personaggio.
Barberio Corsetti definisce la presenza elettronica come un rafforza
mento delle potenzialità dell’azione teatrale, un elemento linguistico e
drammaturgico nuovo all’interno di un contesto teatrale.
12
P. Rosa, Fuori dallo schermo in Studio Azzurro, G. Barberio Corsetti, La camera
astratta. Tre spettacoli tra teatro e video, Ubulibri, Milano 1988, p. 8.
327 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
13
M. Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999,
pp. 254-255
14
Secondo Françoise Parfait sarebbe stato Les Levine il primo a realizzare un’in
stallazione a circuito chiuso utilizzando il décalage temporel (Toronto, 1966), con un ri
tardo di trasmissione di circa cinque secondi. In Francia la prima installazione sa
rebbe stata quella di Martial Raysse Identité, maintenant vous êtes un Martial Raysse (Pa
rigi, 1967).
15
Cfr. A.M. Monteverdi, Partiture, Catalogo Invideo 2003.
ANNA MARIA MONTEVERDI 328
16
ne». L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del
corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto a intervalli davanti a
una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal
posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un mec
canismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e
si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un
effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e a una loro rina
scita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente)
generativa: dall’unicità della performance alla performatività dei me
dia di riproduzione. Nelle performance realizzate con il videoloop (tra
cui Anche le mani invecchiano, 1980; Ne... no, 1980) l’artista continua al-
l’infinito a suonare, a parlare e a (cor)rispondersi vocalmente, visual
mente e musicalmente.
16
M. Costa, L’estetica dei media, cit., p. 255.
329 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
Les sept branches de la rivière Ota (1994), concepito come un testo col
lettivo e prima produzione della neonata struttura multidisciplinare Ex
Machina, fu commissionato al regista canadese Robert Lepage dal go
verno giapponese nell’ambito delle commemorazioni del cinquantesi
mo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. L’azione si svolge
in cinque città (Hiroshima, New York, Osaka, Terezin, Amsterdam), co
pre cinquant’anni e tocca varie tematiche: oltre alla Seconda guerra
mondiale, anche l’Olocausto e l’Aids. Come Hiroshima si sviluppa sui
sette rami del fiume Ota, così lo spettacolo racconta le storie di sette
personaggi in qualche modo collegate tra loro in una specie di ponte
ideale che unisce Oriente e Occidente. La struttura narrativa è conse
guentemente costruita su sei situazioni sceniche e un prologo, ciascuna
delle quali ha un luogo e una data; ogni sezione costituisce un’unità
drammaturgica e visiva compatta e coerente inserita in un quadro d’in
sieme avente una chiara matrice linguistica cinematografica. La sceno
grafia, strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lun
ga, opaca e trasparente, diventa il luogo-contenitore di tutti gli am
bienti; nel corso dello spettacolo la parete scenica si apre, separando le
diverse parti di cui è composta per mostrare altri luoghi distanti nel
tempo e nello spazio: l’interno di un loft americano, un campo di con
centramento, un ristorante giapponese, un appartamento di Amster
dam, tutto questo sempre all’interno dei limiti del quadro rettangolare.
La tecnologia video, associata all’antica tecnica cinese del teatro d’om
bre, diventa metafora stessa del processo di memorazione. Così Perelli-
Contos e Hébert accostano questo teatro all’effetto fotografico: «Que
ste ombre, queste immagini al negativo, latenti, si rivelano in scena gra
18
Sulla storia del Premio di Narni cfr. Carlo Infante, Scenari dell’immateriale. Dal vi
deoteatro alle forme possibili di interazione con il nuovo spaziotempo digitale, in B. Di Marino
(2001)
331 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
20
Comunicazione personale inedita.
21
Su Il regno cfr. l’analisi di A.M. Monteverdi in «Cut-up» 2001 (anche on line
www.cut-up.net, sez. Teatro).
22
Sui gruppi cfr. i cataloghi relativi al Festival Teatri 90. La scena ardita dei nuovi
gruppi, a cura di A. Calbi.
333 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
24
E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 13.
25
Su P. Sellars cfr. Fare teatro, fare la società: un’introduzione al lavoro di Peter Sellars di
M. Delgado, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Rubettino, Catanza
ro 1999.
26
Cfr. P. Sellars, La questione della cultura, in V. Valentini, M. Delgado (a cura di) Pe
ter Sellars, cit., p. 38.
27
V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars, in V. Valentini,
M. Delgado (a cura di), Peter Sellars, cit., p. 57. cfr. anche A. Pomarico, Il gesto estremo
del teatro di Peter Sellars, in V. Valentini (a cura di) Dirottamenti, Comune di Milano
1997.
337 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
i tuoi occhi e quelle invece create dalla tv ti rendi conto che è pazzesco».
Ajax (Boston, 1986) è ambientato al Pentagono, mentre in The Persians
(Parigi, 1993) le immagini sugli schermi in scena mostrano spezzoni
della guerra del Golfo vissuta attraverso le «giornate televisive», in so
stanza attraverso, i réportage della CNN: lo spettacolo diventa così una
dura critica al militarismo americano e alla complicità mediatica che ha
accompagnato questa guerra.
In The Merchant of Venice (1994) durante la famosa scena del proces
so tra l’ebreo Shylock e il nobile veneziano Antonio, una tv mandava in
onda le immagini girate da un videoamatore dell’automobilista negro
Rodney King picchiato a sangue da poliziotti bianchi poi assolti dal tri
bunale, un episodio che scatenò i tragici moti di Los Angeles nel 1992.
L’allestimento shakespeariano di Sellars è diventato un «classico», una
sorta di esempio-campione per chi si occupa del fenomeno del teatro
elettronico. Con interpreti uno Shylock e un Marocco nero, una Porzia
cinese e Bassanio e Antonio sudamericani, Sellars crea una scena tec
nologica «abitata» da monitor, schermi, microfoni a vista, telecamere di
controllo che suggeriscono l’idea della vigilanza ossessiva e dell’uso dei
media per controllare e registrare la vita dei cittadini. Per attualizzare il
testo Sellars opera secondo un principio di equivalenza assolutamente
ineccepibile: se ai tempi di Shakespeare il mercato era legato al com
mercio in mare, ora il potere economico è giocato dalle tecnologie e da
chi ne detiene il possesso. I mezzi di comunicazione di massa hanno
clamorosamente fallito il loro scopo: divulgare capillarmente, fuori da
ogni nazionalismo e separatismo, le culture più lontane, conoscere le
ragioni profonde e la storia di popoli che abitano angoli remoti, prati
cano religioni e stili di vita diversi. La domanda fondamentale è: può
l’arte (anche l’arte del teatro) farci comprendere la realtà e il momen
to storico in cui viviamo? Dice Sellars: «Il teatro spiega che la decisione
di un individuo, su come vivere o non vivere la propria esistenza, forma
il clima e la temperatura morale di una nazione e influisce sulla dire
zione politica e il temperamento di un’epoca».28 Il teatro deve ritrova
re la sua necessità, la comunicazione diretta. «Shakespeare analizza le
radici economiche del razzismo. Venezia era una superpotenza mon
diale che controllava i commerci, cosa che portò a un razzismo siste
matico; un’enorme struttura coloniale viene creata all’epoca di Shake
speare. Shakespeare è più eloquente dei dati economici».29 Da qui l’e
28
P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1999, in M. Mac Donald, So
le antico, luce moderna, Bari, Levante, 99, p. 92.
29
Dal videodocumentario della BBC It’s now our time su The Merchant of Venice,
1994.
ANNA MARIA MONTEVERDI 338
quivalenza con la nostra società, multirazziale e ben spinta dal razzismo
allo sfruttamento, alla discriminazione, all’intolleranza, alla xenofobia,
all’emarginazione. Nessuna forzatura, dunque, perché – come sottoli
nea il regista – Shakespeare descriveva una società molto simile alla no
stra, ovvero «una società multiculturale in seno alla quale il razzismo
istituzionalizzato permetteva di “fare buoni affari” e avere vantaggi eco
nomici».30 Il video è il vero protagonista: «L’uso del video è di capitale
importanza nella percezione di The Merchant of Venice di Peter Sellars, al
pari della distribuzione multirazziale dei ruoli e dello sfondo califor
niano».31 Nello spettacolo una telecamera portata in spalla dagli attori
o fissata a terra su un treppiedi ben visibile agli spettatori registra in di
retta l’azione di un personaggio e la trasmette ai monitor. Questi, schie
rati in posizione avanzata sul palcoscenico, diventano presenze «fisi
che», giurati o testimoni oculari; del resto la parte centrale della com
media è ambientata proprio in una sala del tribunale dove un giudice
deve pronunciare una sentenza. È come se la telecamera spiasse i per
sonaggi, scrutandoli uno a uno, attardandosi su alcuni loro particolari,
ma da angolature diverse dal frontale. Gli spettatori, perciò, hanno da
vanti a loro l’intero in carne e ossa (il corpo dell’attore) e il particolare
(un dettaglio del volto). È chiaro che lo schermo è specchio che riflet
te il sé più intimo e nascosto dei personaggi: è l’interiorità, la memoria,
la verità nascosta. Nella commedia si parla di «false apparenze» e della
necessità di non giudicare superficialmente un uomo: «Le forme este
riori possono ingannare. Sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei
processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce
graziosa non maschera il volto del male?»32 Il video frammenta il corpo,
restituendone porzioni o brandelli: lo «smembramento», come è noto,
è proprio il tema della commedia (nel contratto è previsto che se l’e
breo Shylock non verrà pagato sarà prelevata una parte dal corpo di
Antonio); il video inoltre sottolinea il volto, isola il gesto, che a teatro
diventa confuso tra gli altri perché l’attenzione è distratta dal «totale».
Volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste
«ritagliate» su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Tranci di
carne, teste tagliate, corpi a pezzi, per denaro, per debiti, per guerre,
sono quelli trasmessi dai telegiornali; il nostro occhio televisivo è già co
sì ben abituato a vedere a pezzi un corpo, che non associamo più quel
30
Ibidem.
31
F. Maurin, Usi e usure dell’immagine: speculazioni su «The Merchant of Venice», in V.
Valentini, M. Delgado (a cura di), Peter Sellars, cit., p. 115. 1a pubbl. in B. Picon-Vallin
(a cura di), Les écrans sur la scène, L’âge d’homme, Lausanne 1998.
32
W. Shakespeare, Il mercante di Venezia.
339 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
33
Intervista inedita a Giacomo Verde a cura di A.M. Monteverdi. Vedi anche A.M.
Monteverdi, Giacomo Verde, Catalogo Riccione TTV 2004.
34
L’espressione è usata da J. Baudrillard in L’illusione della fine o Lo sciopero degli
eventi, Anabasi, Milano 1993.
35
G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari alla società dello spettacolo, Su
garco, Milano 1990, p. 88.
341 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
36
Intervista a G. Verde a cura di R. Vidali, «Juliet», n. 71, febbraio-marzo 1995, p.
35.
37
L. Poissant, Esthétique des arts médiatiques, cit.
ANNA MARIA MONTEVERDI 342
Il suo teatro mescola sapientemente la tradizione teatrale (il teatro
d’ombre cinese) con le nuove tecnologie (la diretta video anche asso
ciata al trattamento elettronico delle immagini live in Elsinore e The Bu
sker’s Opera; immagini 3D in The Tempest; Web cam collegate al World
Wide Web per Zulu Time); in La face cachée de la lune (2000) le invenzio
ni moderniste dell’artista canadese fanno i conti con una scenografia mo
bile, una macchineria che evoca insieme semplicità e attrezzeria, mentre
l’intervento sul palco di una tecnologia discreta, fatta di luci e di video,
finalmente affrancata dall’obbligo di «stupire», accompagna (e sostie
ne) visivamente l’intero spettacolo. A dispetto dei suoi detrattori, la
scena di Lepage è sempre più prossima alla meccanica: la sua scena –
come ricorda Georges Banu riferendosi in particolare a Les aiguilles et
l’opium, dove l’attore-protagonista è legato con una fune libero di muo
versi sopra un dispositivo girevole «a lavagna» sopra il quale venivano
retroproiettate le immagini – è strutturata come un «utensile antico»;
non affascina, anzi, contesta le performance tecnologiche attuali e non
appartiene all’«extrême-contemporain»,38 mentre i suoi congegni e circui
ti rendono lo spettacolo «fallibile», lasciando sempre aperta l’ipotesi
dell’incidente (la qual cosa gli conferirebbe – seguendo Benjamin – un
valore di presenza, di aura e unicità). La scena di Lepage è dispositivo
«arcaico», imperfetto e persino pericoloso, macchina e macchineria in
sieme; come per Ronconi, «una macchina leonardesca invece che futu
rista, rudimentale, antitecnologica, d’ingegneria artistica, piuttosto che
simbolo apologetico del mito tecnologico moderno; macchina che
smentisce ironicamente la perfezione del congegno e continua a gio
care al modo antico».39 Lepage, lontano dal proporre un universo fan
tascientifico dove tecnologie sofisticate sovrastano economie e saperi e
sostituiscono definitivamente l’uomo, propende piuttosto per una so
luzione formale di stampo fondamentalmente modernista e umanista.
La tecnologia nel teatro di Lepage non mette affatto in discussione
l’impianto teatrale nel suo complesso (il concetto di rappresentazione,
la funzione dell’attore, la narrazione). La riproposta centralità del sog
getto, la supremazia dell’umano rispetto al suo simulacro in video, la
forma compiuta della trama (che richiama la tradizione del romanzo di
formazione), la scena concepita per una integrazione tra i linguaggi
(come nel Teatro della Totalità di Moholy-Nagy), delineano uno scenario
difficilmente ascrivibile al mondo della postmodernità e per nulla sim
bolo di una nuova era post-human. Se il mondo nel quale Lepage am
38
G. Banu, Théâtre et technologie ou Celui qui dit oui, celui qui dit non, «Jeu», cit.
39
A. Balzola, La scena televisiva secondo Luca Ronconi, «Il castello di Elsinore», n. 18,
1993, p. 93.
343 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
40
L. Fouquet (a cura di), Du théâtre d’ombres aux technologies contemporaines. Entretien
avec Robert Lepage, in B. Picon-Vallin, Les écrans sur la scène, cit., p. 326. Cfr. anche A.M.
Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage (in corso di stampa). E inoltre i saggi di A.M.
Monteverdi in www.ateatro.it.
ANNA MARIA MONTEVERDI 344
travedere oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze.
Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete «fisica»: un
enorme specchio che si sviluppa per tutta la lunghezza del palco ed è
dotato di un movimento rotatorio che lo trasforma sia in oggetto di sce
na sia in soffitto riflettente, restituendo agli spettatori, nel finale dello
spettacolo, l’impressione di un corpo duplicato impegnato in una danza
quasi in assenza di gravità. Come gli screen del teatro «cinetico-visivo» di
Gordon Craig, la scena dal volto mobile di Lepage si trasforma grazie al
movimento e alla luce: «Il teatro è l’arte della trasformazione a tutti i li
velli. […] La trasformazione diventa non solo una maniera, ma il fon
damento stesso del mio lavoro».41 Il montaggio dello spettacolo richiede
tre giorni interi e una squadra di quattordici persone. I congegni im
piegati, più che sofisticate soluzioni hi-tech, ricordano i meccanismi (i co
siddetti ingegni) del teatro rinascimentale, i cui apparati erano un vero
connubio di meraviglia e ars mechanica. Pensiamo agli intermezzi (o in
termedi), vero spettacolo nello spettacolo, in cui la scena era tutta per le
macchinerie, gli ingranaggi, gli apparati scenotecnici e le quinte semo
venti per mezzo di periaktoi che producevano stupore ed esaltavano la
magnificenza del principe: «Gli intermezzi sono lo spettacolo [...] e que
sto spettacolo è uno spettacolo meccanico: come non ricordare che Ber
nardo Buontalenti era studioso degli automata di Erone Alessandrino?
E la commedia? La commedia non c’è, non esiste. O esiste solo nel testo
drammatico. In quanto evento spettacolare la commedia è la sua scena.
E la scena è vuota».42
41
R. Lepage, Quelques zones de liberté, L’instant même, Québec 1995, p. 135.
42
C. Molinari, La scena vuota, in E.G. Zorzi, M. Sperenzi (a cura di), Teatro e spet
tacolo nella Firenze del Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Leo S. Olschki, Firenze 2001.
345 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
43
O. Ponte di Pino, Il teatro tra televisione e cinema, www.ateatro.it (55).
44
E. Quinz, Interface world. Mutazioni della scena: dal testo all’ambiente, in La scena di
gitale, Marsilio, Venezia 2001.
ANNA MARIA MONTEVERDI 346
dell’azione, ha origini «lontane». Dal testo quale organismo chiuso si
arriva a un sistema di relazioni aperte, a una testualità non lineare e di
namica, già in parte delineata da Roland Barthes in S/Z. L’ambiente
dell’opera d’arte si configura secondo Quinz in due modalità diverse:
ambiente-interfaccia e ambiente-mondo. Il primo presuppone un’e
stensione del concetto di interfaccia oltre il significato tecnico (il di
spositivo che mette in comunicazione due sistemi informatici diversi).
Sulla scorta di Pierre Lévy, sarebbe applicabile a «tutte le superfici di
contatto, di traduzione, di articolazione tra due spazi, due specie, due
ordini di realtà differenti» (E. Quinz, 2001). Il carattere primario del-
l’interfaccia è la trasparenza: «Si può definire l’interfaccia come mac
china: dispositivo funzionale, operativo, senza residui, senza incrosta
zioni, senza rumore. Interfaccia come spazio trasparente, come spazio
circolare, spazio della circolazione, spazio in cui non ci sono più ogget
ti ma flussi» (E. Quinz, 2001). Nell’ipotesi di ambiente-mondo, invece,
Quinz prende in considerazione l’ambito delle realtà virtuali. L’intera
zione tra l’uomo e la macchina avviene attraverso un modello di mon-
do tridimensionale generato direttamente dal computer. Quinz, ri
prendendo Weisseberg, propone di assegnare al corpo il ruolo di in
terfaccia di questo virtual environment, in quanto l’esperienza provata
dal corpo è quella centrale: un’immersione globale in un universo di
percezioni contemporaneamente visive, auditive e tattili. «Non si tratta
più semplicemente di fare comunicare sistemi diversi, di trasmettere
informazioni per attivare dei dispositivi, ma di vivere un’esperienza in
un mondo determinato: gli ambienti virtuali non sono vuoti e traspa
renti, ma sono al contrario, “arredati” e “abitati”: nel nuovo universo
esistono degli oggetti che hanno delle forme, personaggi che hanno un
corpo, una storia» (E. Quinz, 2001). L’ambiente-mondo ha anche una
«storia tattile» e il soggetto che vi si trova immerso ha un’esperienza fi
sica, relazionale. Se l’ambiente-interfaccia che funziona con un mecca
nismo di azione-reazione (inter-attività) è una macchina, l’ambiente
mondo è un corpo individuale in cui le relazioni instaurate all’interno
di questo mondo sono, appunto, inter-soggettive (inter-azioni).
Le nozioni di environment, performance ed event accomunerebbero sia lo
spettacolo dal vivo sia i digital multimedia (A. Pizzo, 2003). Così come
ogni spettacolo si dà nel qui e ora, nella sua evenemenzialità impossibile
da replicare, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nel
l’insieme di relazioni (spaziali, temporali, individuali) della scena, anche
il digitale vive in un tempo percepito come presente, come generarsi di
processi: un tempo fatto cioè «non più di eventi, come il tempo televisi
vo, ma di infinite virtualità», come ricorda Edmond Couchot; vive nel
l’interazione tra macchina e agente attraverso interfacce e nella sua «ge
347 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
45
R. Lovell, Computer Intelligence in the Theatre, «New Theatre Quarterly», vol. XVI,
agosto 2000 (ora in E. Quinz, 2001). Robb Lovell è artista-tecnico informatico che la
vora all’Isa (Institute for Studies in the Arts) dell’Università dell’Arizona. Ha creato
«intelligent stage», uno spazio teatrale che risponde attraverso luci, suoni, video e
animazioni agli stimoli provenienti da sensori. Vedi http://isa.asu.edu e
http://isrl.fa.asu.edu.
ANNA MARIA MONTEVERDI 348
re soprattutto dell’illuminotecnica e del suono, mentre vengono studiate
procedure per sincronizzare gli strumenti in un’ottica di prestazioni «in
tegrate», anche se si è lontani dal raggiungere il risultato di un unico si
stema che li comprenda tutti.
In Il teatro delle interfacce Franck Bauchard individua due tipi di inter
facce: «Nel primo tipo di interfaccia, il dispositivo materiale e il software
servono da mediatore fra il computer e delle unità periferiche (camere,
strumenti tradizionali e virtuali…). Ci si orienta allora verso la costituzio
ne di vere e proprie regie digitali, che combinano molteplici fonti sono
re e visive: immagini video in presa diretta, elaborazione digitale dell’im
magine in tempo reale, immagini prese su Internet, immagini d’archivio,
voci off preregistrate, elementi musicali prodotti e trasformati in diret
ta… Questa regia digitale può essere controllata da tecnici, o più rara
mente dagli interpreti, il che comporta necessariamente che gli inter
preti integrino ancor più nella recitazione le loro interazioni con le in
terfacce. Il secondo tipo di ricerca sulle interfacce, più frequente in am
bito coreografico che in ambito teatrale, è incentrato sulla creazione di
oggetti o di esseri digitali interattivi a partire dalla captazione di movi
menti o di emozioni degli interpreti. L’interfaccia si pone allora fra due
sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di
traduzione. Le interazioni fra il reale e il virtuale determinano allora lo
svolgimento della rappresentazione e la costruzione dell’azione scenica.
Esse aprono la strada a un teatro interattivo».46
46
F. Bauchard, Il teatro delle interfacce, in Digital performance, cit. Traduzione di Eri
ca Magris per www.ateatro.it.
349 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
47
M. Iacono, intervento riferito a Storie mandaliche alle Giornate dell’Etica-Teatro
e tecnologia (Castiglioncello, dicembre 2003). Il testo completo è in Storie mandaliche,
a cura di Zonegemma, Nistri-Lischi, Pisa 2004.
351 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
48
Per una dettagliata descrizione di Storie Zip di Venturini-Boldrini rimandiamo a
C. Infante (2000) e A. Pizzo (2003).
49
CCC è stato presentato all’interno delle Giornate dell’Etica-Teatro e tecnologia
(Castiglioncello, dicembre 2003). Un resoconto del dibattito su interattività e teatro
per ragazzi cfr. A.M. Monteverdi, Teatro-Video-Tecnologie, Catalogo di Riccione TTV
2004; e anche A.M. Monteverdi, Bambini interattivi, www.ateatro.it.
ANNA MARIA MONTEVERDI 352
ha creato travolgenti e ironiche performance tecnologiche: da Accions
(1984), Suz/o/Suz (1985) a Tier Mon (1988). Negli anni Novanta le sue
«solo performance» combinavano bodybots (robots controllati dal cor
po), systematugy (narrazione interattiva) e dresskeleton (interfaccia eso
scheletrica). I temi esplorati nel suo lavoro includono l’incrocio natura
le-artificiale: l’uso di materiali biologici nella robotica, come in JoAn,
l’uomo di carne (1992); il controllo telematico da parte dello spettatore di
un corpo alieno nella performance Epizoo (1994); l’espansione dei mo
vimenti del corpo con dresskeletons nella performance Afasia (1998) e
Pol (2002); la coreografia involontaria con il Bodybot Requiem (1999); le
trasformazioni microbiologiche nell’installazione Rinodigestio (1987) e
Agar (1999). In Transpermia (2003) propone un nuovo teatro tecno-an
tropologico in cui l’ibridazione non è più solo tra corpo e tecnica ma
anche tra corpo e biologia, generando nuovi riti tecno-tribali. L’eso
scheletro o «vestito di ferro» permette al performer-sciamano, grazie a
speciali sensori, la modulazione-trasformazione della voce e l’animazio
ne di immagini che mostrano ironiche ipotesi di interfacce per identità
sempre mutanti. Questo ampliamento della struttura biologica e la rela
tiva apertura verso nuove sensibilità extratattili e post-human non è altro
che una potente metafora (e una reminiscenza mitologica) di una ideo
logica liberazione del corpo e un ritorno utopico al luogo di origine, lo
spazio. Antunez Roca in un’intervista a Carlo Infante afferma la ritualità
dell’interattività a teatro: «Operare in mezzo a una complessità come
quella di Afasia significa avere la possibilità di controllare fisicamente
tutto quello che succede durante la performance: tutto significa con
trollare luce, suono, immagine multimedia con il video DVD, videoca
mera in tempo reale, effetti del suono, robot e sequencer MIDI. Ciò per
mette di esprimere con Afasia una nuova forma cerimoniale, come un
rituale che si fonda sull’interattività. Questo impianto risponde all’in
tento di creare una nuova interfaccia, che fa funzionare l’intero spetta
colo a partire dal corpo. L’uomo ha creato in molti secoli tante inter
facce che permettono tante libertà d’azione ma allo stesso tempo dei li
miti. Per esempio la tastiera del computer è la riproposta della tastiera
del pianoforte, non si può certo dire che sia male, ma questo ti obbliga
a essere sempre seduto, senza nessuna altra attività che quella di agire
con le mani solo sulla tastiera che è appunto un’interfaccia che costrin
ge il nostro corpo a essere sedentario, in questo senso è evidente il limi
te di questa soluzione. È proprio nel tentativo di superare questi limiti
che lavoro sulla ricerca di nuove relazioni con le macchine, portandole
in scena con un impianto multimediale come quello di Afasia». Così
Carlo Infante descrive nel dettaglio il principio di macchina-uomo di
Afasia: «Con un complesso esoscheletro innervato di sensori (di tipo di
353 PER UN TEATRO TECNOLOGICO
58
www.teatron.org
SCENOGRAFIE VIRTUALI
Elisabetta Ajani
1. Orizzonti virtuali
1
L’evoluzione del sistema produttivo virtuale ha creato inevitabilmente la ne
cessità di strutturare nuovi spazi attrezzati. In Italia, oltre all’adeguamento degli
studi di posa della RAI e di Cinecittà, sono nati due centri specializzati e aggiorna
ti, il Centro Multimediale di Terni e il Virtual Reality Multimedia Park di Torino a
gestione pubblica con la collaborazione di un partner privato, la società Lumiq,
inaugurato nel 2003. http://www.centromultimediale.it; http://www.lumiq.com/;
http://www.vrmmp.it/.
ELISABETTA AJANI 356
L’evoluzione del chroma-key e gli sviluppi della scenografia virtuale,
hanno determinato con il blue screen la possibilità di rendere indipen
dente il set dagli attori: il sistema integrato di virtual set permette di cal
colare le fughe prospettiche e la profondità di campo nelle diverse in-
quadrature con modalità fissa (sistema slow motion) o in movimento (si
stema Orad).
La tecnologia di virtual set gestisce sistemi 2D e 3D che permettono
movimenti di camera illimitati in real time e non (le motion-capture ty
pe sensor heads montate sulle telecamere consentono carrellate e incli
nazioni a 360°).
2
J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1995, p. 141.
359 SCENOGRAFIE VIRTUALI
3
Intervento di B. Picon-Vallin, Le avanguardie teatrali e le tecnologie del loro tempo al
convegno Il teatro nell’era del digitale (Parigi, 24 ottobre 2004, a cura dell’associazione
Anomos), on-line su www.ateatro.it., n. 64. La traduzione è di E. Magris. Su Poliéri
cfr. anche F. Bauchard, Il teatro delle interfacce, ovvero La tecnica come questione d’arte in E.
Quinz, Digital performance, Anomos, Paris 2000.
361 SCENOGRAFIE VIRTUALI
4
M. Reaney, Virtual Reality on stage, in «VR World», maggio-giugno 1995, vol. III, n.
3; e The Theatre of Virtual Reality: Designing Scenery in an Imaginary World, in «Theatre
Design and Technology», vol. XXIX, n. 2, 1992.
363 SCENOGRAFIE VIRTUALI
5
P. Atzori Activation space, in A. Menicacci, E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media
per la danza, Marsilio, Venezia 2001, p. 346.
ELISABETTA AJANI 364
tificialità naturale»: «Il video fa parte del corpo», ricordano nella nota di
sala gli autori, «o meglio, il danzatore fa parte del video» (cfr. A.M. Mon
teverdi www.ateatro.it).
Nel 2000 Paolo Atzori elabora In Between, una produzione di Twelve
Season, progetto di ricerca condiviso con quattro danzatori e l’ingegne
re-compositore Todor Todoroff. La produzione si propone di integrare
immagine, suono e movimento in un linguaggio condiviso da tutti gli in
terpreti, ispirato ai quattro elementi acqua-aria-terra-fuoco. Similmente
a Svoboda e Cunningham, si ricerca nello spazio scenico la coesistenza
di livelli multipli di percezione: «La rappresentazione si svolge in uno
spazio reattivo, “un’architettura di comunicazione”, caratterizzata da dif
ferenti dimensioni dello spazio e del tempo».6
La scenografia si costituisce in una «dimensione altra», dotata di in
frastrutture proprie, adatte al nuovo linguaggio della rappresentazione,
che mutano gli elementi delle precedenti strutture scenotecniche. L’o
rizzonte percettivo sfonda la prospettiva ordinaria oltre il boccascena,
per affermare la simultaneità di differenti percezioni, tra reale e imma
ginario.
Full Play: A Media Dance Project, ideato da Paolo Atzori con Anthony
Moore e Robert O’Kane (2000-2002), ha come coreografo e performer
Bud Blumenthal. Otto schermi di grandi dimensioni delimitano lo spa
zio degli spettatori. Una pedana centrale rialzata è l’ambiente digitale
dove agisce il danzatore che è anche operatore delle immagini e del suo
no. Il corpo in movimento, infatti, rilevato da sensori collocati a terra e
da un sistema di motion capture e motion tracking, controlla sia il suo
no (potendo effettuare variazioni su quattro accordi di tre note ciascu
no) sia le immagini digitali (preregistrate: il performer stabilisce con la
sua danza, sequenza e velocità). L’interazione uomo-macchina diventa
qualcosa di armonico e fluido, invisibile e impercettibile. La danza cir
colare porta all’interiorità e alla memoria: una casa, un giardino, detta
gli di oggetti. La narrazione è fatta di immagini e di suoni già preesi
stenti nell’hardware (ovvero, nella coscienza) a cui basta un gesto per
farli «venire alla luce». Se con il corpo, attraverso le direzioni, le diago
nali, la velocità del movimento, ma anche attraverso il calore, il perfor
mer può generare armonie e fermi immagine, sequenze e accelerazioni,
le immagini restituiscono il tempo della memoria, il passato, il rewind,
insomma; lo stesso zoom, controllato anch’esso dal danzatore, sembra
rispondere a un principio di affettività. In fondo la storia, la memoria o
come noi ricostruiamo una storia a memoria è una questione di selezio
ne, di montaggio di sequenze a cui i nostri desideri qui e ora danno un
6
Ibidem, p. 187.
365 SCENOGRAFIE VIRTUALI
7
Dal film Il tagliaerbe di Bret Leonard, 1992.
367 SCENOGRAFIE VIRTUALI
8
In http://digilander.libero.it/greenaway/index.htm
9
In G. Bogani, Peter Greenaway e il cinema digitale, intervista in Biblioteca digitale,
Mediamente, 1996.
10
Ibidem.
369 SCENOGRAFIE VIRTUALI
11
In G. De Marco, Matrix Sistem Failure, Editrice Cinetecnica, Faenza 2003, p. 105.
ELISABETTA AJANI 370
lità scenografiche del virtual set con gli effetti visuali della CG: il bullet
time photography (tempo dei proiettili), che permette di rallentare l’a
zione fino a percepire il percorso di un proiettile. Partendo dalle linee
stilistiche del film, il bullet time viola il principio base spazio-tempora
le della cinepresa: la parte temporale della ripresa viene separata da
quella spaziale. Il contenitore scenografico è un virtual set in green
screen progettato a 360°, al cui interno sono posizionate 122 fotoca
mere 35mm caricate a pellicola cinematografica. L’illusione è ottimiz
zata con l’integrazione di videocamere digitali dotate di un’opzione
big ralenty che cattura dodicimila fotogrammi al secondo. L’azione ral
lenta il tempo di svolgimento, poiché viene scomposta in singoli fram
menti a cui è assegnata una velocità differente: l’interpolazione digita
le unisce i fotogrammi. Ciò permette di allungare o stirare i movimen
ti per ottenere l’effetto di compressione temporale. Lo sviluppo di que
sta nuova tecnica flow motion, consente di riprodurre sequenze simili a
quelle che nei videogiochi sono elaborate in real time: il movimento di
camera muta in rapporto alle azioni dei personaggi. La scena appare
come se fosse ripresa da un punto di vista che compie un movimento a
360° intorno all’attore, improbabile da realizzare con uno shotting tra
dizionale. La scelta stilistica è alla base dell’invenzione tecnologica: bul
let time e flow motion nascono per suggerire la modalità di visione che
propone il film: la narrazione è immersa in una realtà artificiale che ha
soltanto l’apparenza della dimensione spazio-temporale in cui viviamo.
IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
Saverio Barsali
1
Laureatosi all’Architectural Association di Londra con Peter Cook, uno degli ar
chitetti del gruppo Archigram, esponenti mondiali dell’architettura «Radicals», Fi
sher ha iniziato le sue esperienze scenografiche con la progettazione di strutture
pneumatiche, vero elemento innovativo dell’architettura dei primi anni Settanta.
Nel 1980 collabora con i Pink Floyd per il tour di The Wall. Da quel momento diven
ta scenografo di riferimento per i maggiori gruppi musicali, tra cui Rolling Stones,
U2, Peter Gabriel, Phil Collins, Elton John, R.E.M., J.M. Jarre. Riviste di architettura
come «AD» si sono più volte interessate ai suoi lavori, e recentemente le sue sceno
grafie sono state oggetto di una specifica pubblicazione fra le monografie di archi
tettura della Wiley-Academy (si veda bibliografia).
SAVERIO BARSALI 372
attore, in ambienti in cui questa separazione non dovrebbe esistere. In
alcuni casi (come i due tour degli U2 ZooTv e PopMart) si può parlare di
tecnologia integrata all’azione umana e allo spettacolo, mentre in altri
casi si assiste invece a una standardizzazione di «cliché» tecnologici me
ramente abbinati a un’esecuzione musicale, dettati da esigenze tecnolo
giche ed economiche di standardizzazione.
Lo stesso Mark Fisher paragona2 il suo lavoro di show-designer a una
sorta di restyling automobilistico, a un modificare elementi già consoli
dati in nuove varie «forme» dai diversi impatti visivi; cioè così come le
macchine hanno sempre (generalmente) quattro ruote, un motore, un
volante, un abitacolo, e questi sono profondamente cambiati come de
sign nel corso degli anni, allo stesso modo i palchi devono avere dei
punti fissi (sistema amplificazione, luci, mixer, schermi) e il compito
dello scenografo sta nel crearne un aspetto sempre differente, spesso
mantenendo inalterato anche lo «scheletro» della struttura metallica
che li sostiene.
Forse Gropius, Schlemmer e altri artisti del Bauhaus non condivide
rebbero questa definizione, ma appare comprensibile, data la grande
specializzazione al giorno d’oggi in questo settore, la difficoltà di mo
dificare queste caratteristiche fisse. Appare però perlomeno compito
dello scenografo (in questo caso con competenze più architettoniche)
provare a modellare la distribuzione o la realizzazione di queste, modi
ficare, se non le caratteristiche tecniche, almeno l’idea di spettacolo, la
distribuzione topologica dei vari elementi. Basta osservare le brillanti
idee del Bauhaus per rendersene conto, e vedere come con artifici
estremamente poveri si possano proporre forme di spettacolo davvero
innovative.
La tecnologia e i meccanismi economici attorno al settore dello
«show design» si sono sviluppati nel corso degli ultimi venti anni, giun
gendo a definire numerose soluzioni standard,3 con ditte altamente spe
cializzate che si occupano della relativa logistica; tutto questo è nato pa
rallelamente all’evolversi «formale» e «tipologico» dei palcoscenici, che
sono progressivamente passati da tipologie chiuse («scatolari») a tipolo
gie aperte, senza copertura e «arco scenico».
Prima di entrare nel dettaglio dei singoli progetti, e nel merito di
questioni scenografiche ed estetiche, è opportuno riassumere quegli
aspetti tecnologici che sono comuni a tutte le scenografie che andremo
ad analizzare. È inoltre necessario evidenziare come la tecnologia negli
2
Cfr. l’articolo di C. Santucci, Show Design, nel sito «Arch’it» www.architettura.it/files,
archivio 2001.
3
Si pensi a ditte come Brilliant Stages o Stageco.
373 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
ultimi venti anni sia profondamente mutata, dal punto di vista delle
strutture, delle luci, delle immagini video.
Un elemento fondamentale che ha condizionato questo tipo di spet
tacoli è il loro aspetto itinerante, spesso limitato all’esecuzione di un so
lo spettacolo per ogni nazione, con rarissimi casi di repliche in una stes
sa città; da ciò consegue che il montaggio, lo smontaggio e il trasporto
sono il fattore principale della progettazione della scenografia. La quan
tità di mezzi e addetti utilizzati nella scenografia varia da tipologia a ti
pologia, ma i mezzi coinvolti sono sempre numerosi, basti ricordare che
nel tour Steel Wheels (1989) dei Rolling Stones per il montaggio della sce
nografia furono utilizzati 10 camion e 70 addetti.
Le modalità di montaggio sono cambiate passando dal montaggio
per singoli elementi (telai della ditta Layher e prima ancora veri e pro
pri tubi Innocenti comunemente utilizzati nelle impalcature) fatto da
più operai in contemporanea, a macrostrutture sollevate da gru, che
permettono l’utilizzo di un minor numero di operai.
Il sistema tecnologico dei ponteggi Layher, certamente il più diffuso
su scala mondiale, nasce come sviluppo delle strutture tubolari comu
nemente usate come impalcature. Il suo uso, rimasto comunque insu
perabile per la realizzazione delle pedane, diventa laborioso quando si
realizzino con esso le strutture verticali di sostegno alla copertura o alle
casse dell’impianto acustico.
Lentamente sul mercato sono comparsi elementi reticolari (in allu
minio o in acciaio a seconda delle funzioni e dei casi) di maggiori di
mensioni, da trasportarsi per intero e da assemblarsi tra di loro per for-
mare delle macrostrutture. L’esempio più interessante di montaggio di
questo tipo di strutture è l’arco del PopMart Tour degli U2 (1997), al cui
interno si trova un vero e proprio telaio in strutture reticolari, montato
sollevando con una gru la trave di sommità, facendo scorrere a terra la
base dei montanti e chiudendo le cerniere predisposte nel meccanismo.
In pochi minuti si monta una struttura alta più di 25 m, pronta da esse
re rivestita con appositi pannelli, e altrettanto rapidamente si possono
montare i pilastri che sostengono il maxischermo sul fondo, realizzati
anch’essi con elementi modulari di notevole dimensione.
Per quanto riguarda l’impianto acustico la tecnologia si è standardiz
zata sul sistema di assemblaggio a «cluster» delle casse acustiche, e il sol
levamento di questi mediante motori. Nel corso degli anni si è lenta
mente passati dalla sospensione a strutture intelaiate a quelle definite
«macro-strutture», che hanno il vantaggio di avere poco ingombro (in
termini di visibilità) e di essere montate facilmente, in maniera del tut
to indipendente dal resto della struttura.
Le luci impiegate in questo settore variano notevolmente come tipo
SAVERIO BARSALI 374
logia, e i modelli presenti sul mercato sono continuamente perfeziona
ti.4 Tra i vari utilizzati, oltre alle classiche luci «can», e alle Blinders si
hanno le luci a «testa mobile», diffuse negli anni Novanta, capaci di
muoversi ruotando su diversi piani e di creare giochi di luce sincroniz
zati comandati da un computer. A differenza di queste, le luci cosiddet
te «scanner» rimangono immobili, si muove solo uno specchio di fronte
alla sorgente luminosa per direzionarne i fasci.
Un altro elemento usato per creare giochi di luce sono i laser, di cui
con appositi specchi si «moltiplica» il raggio e si creano fasci o superfici
curve sospese nello spazio, sfruttando la presenza del fumo come mi
gliore elemento di proiezione. Spesso questi, combinati in modo op
portuno a luci che creino colori «d’ambiente» (wash light) o «coni» lu
minosi definiti (spot light), diventano un suggestivo effetto luminoso,
creato da una singola sorgente.
Un ulteriore effetto comunemente utilizzato è la proiezione di im
magini su grandi superfici. Oltre ai classici maxischermi, che possono
essere a led luminosi oppure funzionanti con retroproiezione, spesso si
utilizza la proiezione frontale (non più dal retro); grazie a nuovi mac
chinari questa può raggiungere notevoli dimensioni. Normalmente la
proiezione di grandi immagini avviene con proiettori a bobina scorre
vole (alcuni modelli combinano anche più bobine), che creano effetti
di movimento (per esempio una parte fissa e una che compie una tra
slazione).
A differenza degli ordinari maxischermi, che ripropongono l’imma
gine dal vivo ripresa da una telecamera, i sistemi di proiezione a bobina
proiettano principalmente immagini fotografiche ed elementi grafici
combinati tra di loro mediante il funzionamento delle bobine.
Queste proiezioni raggiungono dimensioni tali da poter coprire un
palazzo. Un esempio di grandi proiezioni si può ritrovare nello spetta
colo di The Wall 1990 messo in scena a Berlino, dove si proiettava su un
fronte di 80 m, grazie a proiettori sincronizzati.
Il primo esempio di palco a «tipologia aperta» (non scatolare) è quel
lo di Steel Wheels dei Rolling Stones del 1989. In questo progetto, ispira
to alle atmosfere di Blade Runner, oltre alla scala mastodontica (90 m di
larghezza e 25 di altezza), è da evidenziare l’utilizzo di due maxischermi
con retroproiezioni, passerelle per superare i 25 m di dislivello, e i gi
ganteschi pupazzi alti 20 m (evoluzione delle strutture pneumatiche Ra
dicals) che compaiono durante alcune canzoni.
4
Per una trattazione sulle varie tipologie si rimanda alla tesi di laurea di C. San
tucci, Il palcoscenico rock. Genesi, tecnologie e metodi di allestimento del teatro itinerante, Uni
versità degli Studi di Firenze, Facoltà di architettura, relatore arch. Sala, 1998.
375 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
5
R.L. Goldberg, Performance Art: from Futurism to the Present, p. 22, Thames & Hud
son, reprinted London 1996.
6
L. Lapini, Il teatro futurista italiano, Mursia, Milano 1977, p. 112.
379 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
7
M. Fisher, It’s only rock ‘n’ roll, «AD. New Architecture», vol. 60, 1990, pp. 46-61.
SAVERIO BARSALI 380
contrasto spinto all’estremo, e dunque equivalenza, fornita dalla tecnica
moderna, di questo mezzo (luce) accanto a tutti gli altri. La luce sarà pu
re impiegabile per l’abbagliamento repentino, per l’illuminazione so
vrapposta, per la fosforescenza, per tuffare interamente nel chiarore
l’intero spazio occupato dal pubblico, unitamente all’intensificazione
simultanea o allo spegnersi completo di tutte le luci della scena. Tutto
ciò, ovviamente, in modo totalmente differenziato rispetto alle attuali
tradizioni sceniche».8
Sono numerose le analogie tra questi concetti e gli spettacoli per il
grande pubblico realizzati da Mark Fisher. Da evidenziare inoltre analo
gie anche con alcuni termini di corrente uso nel light-design e questo te
sto. Alcune luci, denominate «blinders» (accecanti), sono comunemen
te usate negli spettacoli attuali, con gli intenti espressi da Moholy-Nagy,
e molto spesso si utilizzano illuminazioni del pubblico con una potenza
tale da riscontravi una chiara analogia con «l’azione scenica della luce
spinta al suo estremo».
È anche interessante vedere come il rapporto tra immagine piana
della retroproiezione e valore tridimensionale della luce diffusa nello
spazio si sia manifestato nei vari palcoscenici musicali, tra i quali cito co
me esempi particolarmente efficaci due tour dei Pink Floyd Division bell
(1994) e Momentary Lapse of Reason (1989), o Voodoo Lunge (1994) e Brid
ge to Babylon (1997), tour dei Rolling Stones, in cui all’immagine bidi
mensionale dello schermo si contrappongono i disegni spaziali fatti con
laser e spot. Lo schermo circolare con retroproiezione posto alle spalle
dei musicisti era divenuto fra l’altro un simbolo dei Pink Floyd, e sempre
più si è prestata attenzione alla proiezione di filmati durante gli spetta
coli. Sperimentato da Fisher per il tour di Animals (1977), è stato ripro
posto dietro al muro costruito sulla scena per The Wall (1980) proiet
tandovi i personaggi del «cartone animato» dell’omonimo film.
Con l’evoluzione tecnologica, le luci applicate lungo la circonferenza
hanno assunto un ruolo sempre più crescente, da semplici luci fisse del
peso di pochi chilogrammi (denominate «can light» per la loro struttu
ra in alluminio) si è passati all’inizio degli anni Novanta a sistemi di lu-
ce a testa mobile e sincronizzabili. Le luci quindi hanno iniziato a muo
versi nello spazio, a creare intrecci luminosi sullo schermo e nell’aria,
aiutate spesso dall’abbinamento a effetti fumogeni per evidenziare l’ef
fetto «solido» del fascio di luce. Anche le immagini proiettate hanno
avuto una loro evoluzione, da filmati o cartoni animati si è passati alla
grafica computerizzata. Si veda come esempio il filmato degli orologi
8
L. Moholy-Naghy, Teatro circo e varietà, in O. Schlemmer, Il teatro del Bauhaus, Ei
naudi, Torino 1975, p. 50.
381 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
del celebre brano Time (1973) che da cartone animato diventa un ren
dering computerizzato con i conseguenti vantaggi di modellazione tri
dimensionale. Nel tour di Division Bell il palco con copertura a guscio e
lo schermo circolare centrale assomiglia a un gigantesco occhio con pu-
pilla; in questo tour lo schermo circolare viene fatto muovere durante
l’esecuzione di un brano e viene sospeso in orizzontale sopra i musicisti,
facendo convergere le luci perimetrali sul musicista sottostante e diven
tando un vero e proprio «meccanismo spettacolare» con funzioni ag
giuntive a quelle della proiezione.
Nel tour di Bridge to Babylon dei Rolling Stones, Fisher, oltre a ripro
porre le luci a testa mobile sul perimetro dello schermo circolare e i
conseguenti giochi di luce, compie una significativa svolta: sostituisce il
telo funzionante con retroproiezione a un vero e proprio monitor. Co-
me già evidenziato, questo comporta un maggiore impatto visivo delle
immagini e la possibilità di riprendere e ritrasmettere in tempo reale i
musicisti. In questo tour l’impatto visivo delle luci, sul palco, sul pubbli
co, raggiunge forse il suo massimo (inteso in termini tecnico-quantitati
vi di «lumen» e «illuminamento»), e da una visione delle foto di questi
spettacoli non si può non riscontrare come in esso si realizzi, almeno in
parte, un esempio dei desiderata di Moholy-Nagy.
Un artista come Schlemmer, da sempre interessato alla figura umana,
arriva a discutere sull’astrazione della luce, dei colori, segno questo del-
l’ormai comune maturazione delle varie esperienze sviluppatesi fino ad
allora all’interno del Bauhaus. Egli spiega la diffusa idea di rifiutare
qualsiasi imitazione naturale, arrivando infine ai giochi di luce, in que
sto modo: «Non avendo interesse a far credere la presenza di foreste,
montagne, laghi, o stanze, abbiamo costruito semplici piani di legno e
tela bianca che possono essere mossi avanti e indietro su una serie di bi
nari paralleli e che possono essere usati come schermi per proiezioni di
luce. Attraverso la retroproiezione possiamo anche farli diventare tende
traslucide o superfici murarie, ottenendo un’illusione di grande ordine,
creata direttamente da mezzi facilmente disponibili. Noi non vogliamo
imitare la luce del sole e della luna, mattina, pomeriggio, sera, notte con
la nostra illuminazione. Piuttosto noi vogliamo lasciare la luce funzio
nare da luce: giallo, blu, rosso, verde, viola e così via [...] Perché do
vremmo mettere orpelli su questi semplici fenomeni con certe conven
zioni prestabilite come: rosso sta per pazzia, viola per il mistico, arancio
per la sera e così via? Lasciateci aprire i nostri occhi ed esporre le nostre
menti alla pura potenza del colore e della luce. Se potremo fare ciò, noi
rimarremo sorpresi per come, in maniera magnifica, le leggi del colore
e le sue mutazioni possono essere dimostrate dall’uso della luce colora-
ta, nel laboratorio chimico-fisico che è il palcoscenico teatrale. Con
SAVERIO BARSALI 382
niente di più di semplici illuminazioni da palco, noi possiamo comin
ciare ad apprezzare le varie possibilità per l’uso ricco di immaginazione
dei giochi di colore».9
Analogo interesse ai meccanismi e alle proiezioni si trova nel Teatro
Totale progettato da Gropius, che lo descrive come uno spazio dotato di
un «sistema di proiezioni e di macchine cinematografiche, attraverso il
quale le pareti e la copertura possono trasformarsi in scene figurative in
movimento, tutto l’edificio risulterebbe impegnato da mezzi tridimen
sionali, al posto degli effetti figurativi piatti del teatro tradizionale».10
Questa unitarietà di intenti, sebbene provenienti da ricerche e ambi
ti profondamente diversi, è pienamente riscontrabile nel quadro deli
neato dal Teatro del Bauhaus (1925) e dall’esposizione di Magdeburgo
(1927).
Un passaggio di scala dello spettacolo rispetto al Teatro Totale del
Bauhaus, che si avvicina agli spettacoli per il grande pubblico dei giorni
nostri (siano essi stadi o eventi come quello del Millenium Dome), viene
teorizzato nel 1933 anche da Marinetti.
In uno scritto che non a caso si intitola Il Teatro Totale per le masse11 egli
parla di un «grande teatro rotondo, con diametro di 200 m. Una ribalta
alta 2 m e largha 10 che corre circolarmente a distanza di 5 metri dalle
pareti interne che un poco curve offrono numerosissimi e movimentati
schermi alle proiezioni cinematografiche e di aeropittura».
A differenza dei concerti negli stadi, dove permane l’impostazione
frontale della scena, in spettacoli, come le cerimonie olimpiche o la fe
sta-spettacolo tenutasi all’interno del Millenium Dome di Londra per il
capodanno 2000, si può ritrovare una interessante applicazione delle ri
cerche delle avanguardie, arrivando anche a realizzare quanto sperato
da Marinetti e teorizzato nel Teatro del Bauhaus.
Negli spettacoli inaugurali e di chiusura delle cerimonie olimpiche di
Sidney 2000 si ritrova un largo uso di «meccanismi spettacolari», ovvero
«elevati» alla funzione di atto spettacolare. Oltre a meccanismi spetta
colari mobili che hanno dimensioni tali da interfacciarsi con la scala
umana della recitazione (il drago e altri personaggi meccanici), vi sono
alcuni meccanismi che assumono maggiori dimensioni e si legano alla
spazialità dello stadio: sono il palco-torre e la fiaccola del fuoco olimpi
co. Centinaia di comparse entrano nello stadio danzando e creando gi
9
O. Schlemmer, Teather, in Schlemmer, The Teather of Bauhaus, Wesleyan University
Press, Middletown, Cunnecticut, 1961, p. 94. Questa edizione contiene alcune parti
in più rispetto a quella italiana (trad. S. Barsali).
10
W. Gropius, I compiti del teatro nel Bauhaus, in Il teatro del Bauhaus, cit., p. 88.
11
L. Lapini, Il teatro futurista italiano, cit., pag 139.
383 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
La danza è l’arte del movimento formale del corpo nello spazio e nel
tempo. Proprio per queste sue caratteristiche particolari è stata, storica
mente, un’interlocutrice privilegiata per le tecnologie della visione: il ci
nema prima, la televisione poi, i media informatici oggi, si sono messi
quasi naturalmente in relazione con le peculiarità costitutive della dan
za, che sono il dinamismo, la velocità, il ritmo. L’immagine, infatti, fra i
fattori strutturali della cultura contemporanea, rappresenta nel nostro
tempo uno dei veicoli privilegiati per la comunicazione e in particolare
per quella del corpo danzante.
All’interno dello stesso universo mass-mediatico, parlare di danza in
video – o più precisamente di videodanza – e di danza digitale significa
fare riferimento a ordini di cose differenti, anche dal punto di vista cro
nologico, partendo dal fenomeno più storico, la videodanza, per giun
gere a quelli più attuali: l’ambiente coreografico interattivo, la web-dan
ce, l’interfaccia-mondo della realtà virtuale (E. Quinz, 2001).
Il video di danza, come prodotto chiuso, come testo audiovisivo espe
ribile e decodificabile attraverso la visione e l’ascolto, consentiti dai nor
mali e più tradizionali mezzi di riproduzione (videoregistratore, lettore
dvd ecc.), ripropone una fruizione di tipo frontale e passivo, per certi
aspetti e in apparenza della stessa natura dell’arte coreica tradizionale,
in realtà assai distante dalla presa diretta sul mondo. Quando la danza è
parte integrante dell’ambiente di un evento performativo, nel quale in
teragiscono immagini video, realtà virtuale, suoni sintetizzati, rielabora
zioni digitali del movimento, in differita o in tempo reale, ci troviamo al-
l’interno di un’esperienza percettiva che mette in gioco più diretta
mente la corporeità: se non quella del performer, almeno quella di uno
spettatore certamente più attivo, che in tali contesti ambientali diviene a
sua volta protagonista di un’azione ed è parte in causa e motore del
processo artistico e creativo.
Al di là del ritorno del corpo percettivo del fruitore nell’esperienza
dell’environment, è importante sottolineare alcune conseguenze teori
che di questo percorso storico della danza. Se la videodanza, infatti, ha
proposto e continua a proporre una nuova creatività nell’ambito della
385 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
1
R. Lord, I nomi di una rosa... i come e i perché di «Web Dances», in A. Menicacci, E.
Quinz, La scena digitale, Venezia, Marsilio 2001, pp. 237-345.
2
Cfr. A. Ferraro e G. Montagano, La scena immateriale, in La scena immateriale. Lin
guaggi elettronici e mondi virtuali, a cura di A. Ferraro e G. Montagano, Costa & Nolan,
Genova 1994, pp. 9-34.
3
Cfr. D. De Kerckhove, Remapping sensoriale nella realtà virtuale e nelle altre tecnologie
cibernetiche, in Il corpo tecnologico, a cura di P.L. Capucci, Baskerville, Bologna 1994, pp.
45-60.
ALESSANDRO PONTREMOLI 386
2. Danza e televisione
4
Cfr. P. La Rocca e A. Pontremoli, Dal rito al video: la danza in televisione, in Sipario!
due. Sinergie videoteatrali e rifondazione drammaturgica, a cura di A. Cascetta, RAI
VQPT/Nuova ERI, Roma 1991, pp. 199-203.
5
Cfr. V. Ottolenghi, Danza e televisione, in Il balletto nel Novecento, ERI, Torino 1983,
pp. 189-226.
387 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
3. La videodanza
6
E. Vaccarino, Video e danza, in La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in
Italia, a cura di A. Balzola e F. Prono, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, p. 235. Il testo
più recente sull’argomento è E. Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza,
computer, robot, Costa & Nolan, Genova 1996.
7
Sul concetto di messa in scena, cfr. G. Bettetini, Produzione del senso cit., pp. 109
111.
ALESSANDRO PONTREMOLI 388
zione audiovisiva è virtuale e feriale, di contro a quella teatrale, festiva e
dal vivo.8
Il danzatore e il suo movimento, fissati sulla banda magnetica o ma
sterizzati nelle informazioni digitali di un cd-rom o dvd, sono riproduci
bili all’infinito. L’immagine virtuale, fruibile su uno schermo, è un’om
bra che rinvia a una persona viva,9 a una corporeità della quale è il ri
flesso, la traccia lasciata dal suo passaggio davanti alle videocamere. E
questa traccia, pur nel suo inevitabile quanto ovvio tradimento dell’e
sperienza live, costituisce una fondamentale alternativa al destino di
morte e di oblio che attraversa ogni performance del corpo in situazio
ne di rappresentazione. È bene ricordare, tuttavia, che la danza, nella
sua fruizione diretta, ha a che fare con la conoscenza esperienziale: è un
evento teatrale, che anche quando lascia traccia di sé in un testo scritto o
audiovisivo – testualità in ogni caso da essa diversa – non può essere cer
to detta, in sé, accadimento persistente o arte durevole.
Nell’analizzare e valutare un prodotto di videodanza, non è impor
tante porsi il problema del medium, vale a dire domandarsi se nella vi
deodanza la danza sia un messaggio e il video il mezzo; e, ancora, se
cambiando il medium cambi anche il messaggio. Se è vero l’adagio
mcluhaniano che il mezzo è il messaggio, la danza in video non è un
contenuto, ma è parte integrante di una nuova testualità, un elemento
costitutivo di un nuovo linguaggio. È certamente vero, invece, che l’av
vento di una comunicazione mediale avanzata, nella quale l’audiovisivo
è al centro degli scambi comunicativi (per non parlare oggi dell’inva
sione della sfera della percezione corporea personale da parte delle tec
nologie), ha influenzato enormemente la modalità di concepire anche
la performance coreica dal vivo. I parametri della velocità, del ritmo
convulso e della simultaneità, propri delle estetiche del videoclip o di
certo cinema contemporaneo sono divenuti elementi stilistici anche del
la danza del nostro tempo (William Forsythe, Enzo Cosimi, Molissa Fen
ley, Karole Armitage ecc.).
La videodanza, che può essere considerata una forma particolare del
la videoarte, nasce verso la fine degli anni Settanta come possibilità di
produzione creativa individuale, attiva e democratica contro la fruizione
passiva della comunicazione di massa e contro il tipo di produzione diri
gistica propria dei grandi network radiotelevisivi. Nel corso degli anni,
una sempre maggiore diffusione degli strumenti tecnici per la creazione
di video personali incrementa l’uso libero, immediato e non manipola
8
Cfr. Sipario! Storia e modelli del teatro televisivo in Italia, a cura di G. Bettetini, RAI
VQPT/Nuova ERI, Roma 1989; Sipario! due, cit., passim.
9
R. Alonge, Prefazione, in La nuova scena elettronica, cit., pp. 7-10.
389 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
10
Cfr. Studio Azzurro e G. Barberio Corsetti, La camera astratta. Tre spettacoli tra tea
tro e video, a cura di V. Valentini, Ubulibri, Milano 1988.
391 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
dal punto di vista estetico, ma consueto nelle forme, proprio per l’as
senza di una vera e propria interattività. La dureté temporale obbligata
dalla sincronizzazione dei materiali sonori e visuali riporta questi espe
rimenti nell’ambito di una produzione strutturalmente tradizionale. Si
tratta, insomma, di una situazione ibrida, a cavallo fra scenografia della
contemporaneità ed environment, di una ricerca teatrale o coreografica
ancora fortemente legata alla presenza del corpo.
4. Aspetti percettivi
Cosa accade alla percezione della danza dal vivo nell’era della frui
zione generalizzata della danza in video?
ALESSANDRO PONTREMOLI 392
All’inizio, quando ancora il rapporto si giocava fra immagine filmica e
danza, la relazione era condotta sul comune terreno della modernità, va-
le a dire sul condiviso intento di trovare nuovi strumenti per nuove mo
dalità espressive. Ma danza teatrale e danza cinematografica hanno im
boccato sempre strade differenti, raramente influenzandosi a vicenda.
Del tutto diverso l’impatto dei modi del video sui modi della danza. Il
connubio diviene possibile perché legato all’istanza, comune tanto alla
sensibilità audiovisiva contemporanea quanto alle ultime generazioni di
coreografi, di superamento dei limiti del palcoscenico verso nuove mo
dalità di manipolazione dello spazio-tempo, in qualche caso entrando in
competizione con il fascino irresistibile del video, che permette mani
polazioni infinite e un estremo virtuosismo.
A questo proposito diviene familiare l’uso in scena del ralenti, del re
peat, del rewind, come è ben ravvisabile nelle opere di Carolyn Carlson
(Solo del 1983, poi divenuto video attraverso un processo di rielabora
zione teatrale) o di quelle di Kresnik e della Hoffmann.
Il montaggio, imprescindibile componente tecnico-artistica del video,
diviene importante elemento compositivo della danza contemporanea,
come in Pina Bausch, dove assume la fisionomia di un tratto stilistico
forte del suo Tanztheater. La grande musa tedesca del teatrodanza sem
bra, sin dai primi lavori per la scena, operare con le procedure tipiche
del video-collage.
La francese Karine Saporta costruisce addirittura nuove pièce a parti
re dagli scarti coreografici del materiale di altri interventi video o filmi
ci. La princesse de Milan, per esempio, è uno spettacolo teatrale nato dal
la ripresa e dalla riorganizzazione dei movimenti coreografici già realiz
zati per L’ultima tempesta di Peter Greenaway. Anche le performance del
gruppo canadese dei La La La sono dei videoclip live, che utilizzano la
luminosità particolare del video, la velocità del montaggio, il ritmo fre
netico del linguaggio audiovisivo, coniugato con il virtuosismo fisico, di
rettamente nello spettacolo dal vivo.
11
Oltre al più volte citato testo della Vaccarino, utili per questa ricognizione sono
stati i cataloghi annuali dei vari festival e concorsi nazionali e internazionali: Danza
video (Milano), Teatri90 Danza (Milano), Il coreografo elettronico (Napoli), Dance
Screen (Vienna), Grand Prix Vidéo Danse (Parigi), Dance Film and Video Guide
(Princeton).
393 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
12
F. Pedroni, Alwin Nikolais, prefazione di M. Louis, L’Epos, Palermo 2000, pp.
140-141, 146-148.
ALESSANDRO PONTREMOLI 394
mera. In Gran Bretagna, dove la televisione ha svolto nel passato (già fra
le due guerre, soprattutto documentando la danza dal vivo) un ruolo
fondamentale per lo sviluppo, la diffusione, la promozione e la produ
zione della danza prima e della videodanza poi, con intenti educativi, di
vulgativi, di informazione, è difficile distinguere fra televisione e video
danza, dato che il fenomeno di broadcasting e quello creativo videoarti
stico sono integrati, anche dal punto di vista economico. Negli anni Ot
tanta, in concomitanza con il boom della danza nel mondo occidentale,
le produzioni si intensificano e coinvolgono anche le nuove generazioni
di coreografi inglesi come Richard Alston, Karol Armitage, l’italiana
Adriana Borriello, i provocatori DV8 (Never Again; Dead Dreams of Mono
chrome Men del 1989), l’atletico Mark Murphy (Two Falling Too Far), la
politicizzata Rosemary Butcher (Body as Sight).
Negli anni Novanta, sotto l’egida del progetto Dance for the Came
ra, vengono prodotti alcuni brevi video molto diversi fra loro, fra i qua-
li vale la pena ricordare Never Say Die di Niger Charnok, Dwell Time di
Siobhan Davies, entrambi del 1995. Fra le produzioni indipendenti e
fra quelle ibride, uno dei più significativi è certamente Enter Achilles,
dall’omonimo lavoro teatrale coreografato da Lloyd Newson, del 1996,
preceduto nel 1992 da Strange Fish. La cifra visionaria degli esponenti
del gruppo dei DV8 oscilla fra proiezione onirica e desiderio, in una car
rellata di personaggi di grande energia, ma anche di forte impatto visi
vo, in qualche caso ai limiti dell’erotismo da soft porno. Viaggi nella me
moria sono invece alcuni video presentati alla rassegna milanese Tea
tri90 nell’edizione del 2000, come The Reunion del 1997 con la coreo
grafia di Ian Spink e The Link (2000), del performance artist Glyn Da-
vies Marshall.
La videodanse in Francia, grazie a una sapiente politica di sostegno da
parte del governo, è divenuta, soprattutto nel corso degli anni Ottanta,
una produzione artistica di grande rilievo. La creazione di video e lo
spettacolo dal vivo sono, per la generazione della Nouvelle Danse,13 per
corsi paralleli e allo stesso tempo convergenti, strettamente connessi en
tro l’attività di alcuni coreografi nati e cresciuti in un clima culturale di
massiccio consumo di immagini. Si tratta di una videografia che è debi
trice al cinema di un certo isterismo convulso dei corpi (Jean-Luc Go
dard) e di una frammentarietà del gesto, che si riflette anche nella
performance dal vivo, dove espedienti come la pausa, la ripetizione o
l’accostamento casuale non sono, in questo caso, frutto di un sapiente
13
M.L. Buzzi, La nuova danza francese: contaminazioni e ritorno, in Ai confini della
danza, a cura di A. Pontremoli, numero monografico di «Comunicazioni Sociali»,
XXI, 1999, 4, pp. 454-477.
395 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
15
Cfr. M. Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in La scena immate
riale, cit., pp. 139-150.
397 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
16
A. Pizzo, Teatro e mondo digitale. Attori, scena pubblico, Marsilio, Venezia 2003, p.
23.
17
F. Popper, Art, action et partecipation. L’artiste e la créativité aujourd’hui (1975),
Klincksieck, Paris 1985, p. 13.
18
Cfr. G. Bettetini, La simulazione visiva. Inganno, finzione, poesia, computer graphics,
Bompiani, Milano 1991.
ALESSANDRO PONTREMOLI 398
dificazione dinamica e al divenire processuale dell’esperienza artistico
performativa. Il sogno fantascientifico della robotica, inaugurato nel
1920 dalle visioni di Karel Čapek, sembra oggi essersi realizzato: la na
turalità biologica del corpo è messa in discussione da una serie di feno
meni artistici (body art, cyborg culture ecc.), dove i corpi, invasi da in
nesti artificiali, da connessioni interfacciali elettroniche, da tecnologie
mediche o manipolati dall’ingegneria genetica, sembrano diventati es-
si stessi protesi umane di media intelligenti, piuttosto che nostri pro
lungamenti entro il vecchio ambiente. Terminata l’era della mediazio
ne fra uomo e mondo, siamo ormai immersi nella realtà di un corpo
mondo che può connettersi direttamente alle macchine, tramite mi
crochip interfacciati al nostro sistema nervoso centrale.
Cosa accade al corpo, alla scena, alla percezione, alla concezione del
le coordinate proprie della danza (spazio e tempo), nella relazione che
si stabilisce fra la materialità del corpo danzante hic et nunc e l’immate
rialità informatico-elettronica, o meglio la nuova materialità? Cosa acca
de a questo corpo nel rapporto anche percettivo con l’interfaccia della
realtà virtuale (per esempio il casco, il guanto e la tuta «sensibili»)?
Diventato quasi un apparato semiartificiale, biotecnologico, il corpo
si confronta momento per momento con un mondo altro creato dal
computer. Un mondo fatto di simulazioni in grado di visualizzare in ter
mini di possibilità ogni nostro capriccio inventivo, di originare mondi le
cui regole sfuggono a quelle della nostra realtà concreta, mondi perfet
tamente abitabili anche dalla pesante e obsoleta corporeità umana, or-
mai definita comunemente una wet technology. Il corpo è al centro di
uno spazio nuovo da costruire nella dimensione intermedia fra arte e
tecnologie. La danza è, tra l’altro, l’arte che investe radicalmente sul
corpo. Anche on-line gli internauti hanno sempre una interazione che
implica la dimensione corporea. È quindi possibile una scrittura poetica
comune, perché l’esperienza fisica della corporeità è un tratto condiviso
dell’umano: senza l’esperienza reale non c’è neppure reale sperimenta
zione nell’ambito delle nuove tecnologie.
Nella danza il corpo è portatore dell’invisibile, è trasparente, come
un involucro di cristallo attraverso il quale si può assistere al processo in
atto di una donazione di senso al mondo; il corpo del danzatore si pone
come centro intenzionale, nel suo ambivalente dibattersi e oscillare fra
soggetto e oggetto: la danza trasforma e trasfigura il corpo.19 L’arte è in
fatti la possibilità di rendere sensibile una realtà immateriale, e le nuove
19
Cfr. A. Pontremoli, Corpo e danza, in Ai confini della danza, cit., pp. 373-380; J.-M.
Matos, Danza con tecnologia: il corpo di un’utopia o il corpo di un conflitto, in La scena di
gitale, cit., p. 210.
399 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
7. Conclusione
0. Introduzione
4. Conclusioni
In definitiva, è legittimo utilizzare il modello proposto all’inizio del-
l’articolo per sintetizzare le diverse «risposte» del mondo della danza alle
possibilità offerte dalle tecnologie digitali: rifiuto (che purtroppo resta
l’attitudine della maggioranza, non dei coreografi e della comunità arti
stica, ma delle istituzioni), adattamento e integrazione, trasferimento ra
dicale sui nuovi supporti. In compenso, la constatazione di Benjamin ri
spetto all’opposizione tra mediazione tecnica e immediatezza della pre
senza scenica non è più attuale. È infatti evidente che l’apporto principa
le delle tecnologie digitale, l’interattività (nella sua duplice dimensione di
interazione tra i linguaggi e i media e di dialogo tra soggetti umani e si
stemi-ambienti informatici), permette di ritrovare una forma di immedia
tezza, ripresenta l’attualità dell’hic et nunc. Attraverso le dimensioni para
dossali della sensibilità delle interfacce (membrane di mediazione), della
presenza a distanza, della convergenza tra spazio virtuale e tempo reale, il
corpo e il nodo azione/percezione ritornano al centro dell’esperienza e
stetica. Nel momento in cui la scena si sottrae all’imperativo frontale, per
diventare ambiente, l’opera non è più oggetto, né semplicemente con
cetto o processo, ma diventa questione di gesto, di sensazione. Altro pa
radosso: spesso accade che più le interfacce sono sofisticate, più gli orga
ni di mediazione sono complessi, più gli strati intermediari si moltiplica
no, più la percezione è ricca e l’immediatezza sensibile si ricrea: fragile
gioco di equilibrio in cui i meccanismi di reazione cercano di trasformar
si, di fondare delle dinamiche di relazione.
15
http://www.fdn.fr/~aschmitt/gratin//as/index.html
L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE
Antonio Camurri
1
A. Vidolin, Ambienti esecutivi, in I profili del suono, «Musica verticale», 1987, pp.
159-163.
411 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE
dello spazio fisico (con le sue eventuali estensioni virtuali) che i sistemi
multimediali interattivi spesso trasformano in uno spazio attivo, uno
spazio in grado di osservare l’utente e di dialogare con lui, sia attraver
so la produzione di contenuti visuali e sonori, sia attraverso interfacce
fisiche, tangibili e sistemi robotici. In secondo luogo, un sistema multi
mediale interattivo dovrà occuparsi dell’analisi dei gesti compiuti dagli
utenti. In altre parole, uno spazio attivo dovrà essere in grado di osser
vare e «interpretare» i gesti degli utenti che lo popolano. Tale analisi,
tuttavia, non potrà limitarsi al solo livello dei parametri più grossolani
e superficiali, ma dovrà riguardare le più profonde e sottili caratteristi
che legate all’espressività del gesto, ovvero al come un gesto viene ese
guito. Per esempio, non basterà rilevare che un esecutore ha alzato
una mano, ma bisognerà ottenere informazioni su come l’ha alzata (in
modo fluido, esitante, nervoso, deciso). Sono le informazioni relative a
tali sottili nouance espressive, infatti, che permettono ai sistemi multi
mediali interattivi di agire al livello del linguaggio artistico. Sono infine
di fondamentale importanza le strategie che un sistema multimediale
interattivo impiega per tradurre le informazioni acquisite nel processo
di analisi in valori per parametri di controllo di elementi della perfor
mance e/o in generazione di opportuni stimoli multimediali. Spesso
l’efficacia di un sistema multimediale interattivo dipende direttamente
dal livello di complessità e di intelligenza di tali strategie.
Un controllo efficace di parametri sonori deve da una parte consen
tire un controllo «fine» del suono stesso, dall’altra avere una «sensibi
lità» adeguata nel rilevare le componenti profonde, espressive nel movi
mento. L’analogia più semplice è con gli strumenti musicali tradiziona
li: per esempio, con un pianoforte è possibile trasferire in una interpre
tazione elementi agogici/interpretativi di una elevata complessità e a un
livello di dettaglio che consentono al pianista di esprimersi compiuta
mente dal punto di vista artistico. Analogamente, si vorrebbe avere un
grado di raffinatezza comparabile anche nel caso di sistemi interattivi
multimediali.
Questa sfida si compone di un insieme di problematiche di ricerca, di
nuove metodologie e tecnologie, di nuovi approcci allo studio di mo
delli computazionali dell’espressività nel movimento umano, di inter
facce multimediali e multimodali (ovvero basate sull’analisi di più mo
dalità sensoriali) sempre più sofisticate. Nel suo complesso, sintetizzia
mo questo insieme di componenti come i requisiti necessari per la rea
lizzazione di sistemi e ambienti multimodali interattivi (AMI).
ANTONIO CAMURRI 414
2. Sistemi e ambienti multimodali interattivi
4. Il progetto EyesWeb
4
K. Suzuki, A. Camurri, P. Ferrentino, S. Hashimoto, Intelligent Agent System for
Humn-Robot Interaction through Artificial Emotion in Proceeding of 1998 Intl. Conf. on “Sy
stem, Man Cybernetics, Ieee Cs Press, San Diego (Ca) USA, 1998.
419 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE
Approccio bottom-up
9. Considerazioni finali
Gli sviluppi descritti finora implicano uno stato dell’arte della ricer
ca scientifica e artistica in grande fermento ed evoluzione. Nella danza,
nella musica e nell’arte interattiva sono sempre più spesso coinvolte
componenti informatiche, multimedialità, allo scopo di estendere tali
linguaggi. La maturazione della tecnologia sta rivoluzionando i proces
si di creazione dell’arte. L’informatica musicale, nata più di trent’anni
fa, sta dimostrando in questi ultimi anni una raggiunta maturità sia at
traverso le opere musicali sia attraverso il consolidamento di tecnologie
utilizzate nei processi di creazione e produzione artistica. Nella danza e
nel teatro contemporaneo si sta delineando una visione in cui la tecno
logia estende le facoltà percettive e motorie del corpo umano, allo sco
po di esplorare nuovi linguaggi espressivi. Una delle problematiche
cruciali del teatro musicale contemporaneo concerne il rapporto tra
scenografia e musica, tra visione e ascolto, dove per esempio movimen
ti scenici e musica sono integrati in contesti di ricerca artistica e scien
tifica.
PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
Andrea Balzola
1
D.P. Verene, La filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé (1997), Istituto italiano per
gli studi filosofici, Vivarium, Napoli 2003, in particolare il capitolo Il desiderio tecnolo
gico, pp. 123-165.
2
Tranne alcune rilevanti ma rare eccezioni come l’etica della responsabilità, cfr.
H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), Einaudi,
Torino 1993.
425 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
Secondo Jacques Ellul,3 «la tecnica non rispetta mai la distinzione tra
uso morale e uso immorale. Essa tende, al contrario, a creare una mo
ralità tecnica completamente autonoma». È veramente così? L’autore
ferenzialità della tecnica sospende ogni valore morale? Oppure, come
avverte Philippe Quéau, produce un nuovo mondo che costringe l’uo
mo a trovare «un nuovo ruolo per l’intelligenza umana»? E a rifondare
una nuova etica, come prefigura Hans Jonas? Si assiste ormai a un ri
baltamento, solo apparentemente paradossale: la tecnologia è diventa
ta il modello dominante dell’evoluzione umana (o, per alcuni, soltanto
di un divenire senza meta), liberandosi dai vincoli morali che antica
mente subordinavano il fare della tecnica ai valori etici e al pensiero fi
losofico-religioso, ma ecco che oggi gli effetti del fare tecnologico sol
levano nuovi problemi d’ordine etico e filosofico. Ed è in questo ribal
tamento che il tecnomondo della comunicazione digitale, della roboti
ca, dell’intelligenza artificiale e della biogenetica riporta oggi in primo
piano la questione etica. Al potenziamento dell’apparato tecnologico
corrisponde una rinnovata consapevolezza della portata dei suoi effetti,
tanto i timori quanto gli entusiasmi rispetto a essa convergono nel rico
noscimento che il processo di mutamento innescato dall’azione tecnica
è radicale e irreversibile. Da questo punto di vista, l’etica si deve rifon
dare perché, come suggerisce Jonas, sono cambiate le sue premesse:
«Ogni etica tradizionale [...] condivideva tacitamente le seguenti, tra lo
ro correlate, premesse: 1) la condizione umana, definita dalla natura
dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi
tratti fondamentali; 2) Su questa base si può determinare senza diffi
coltà e avvedutamente il bene umano; 3) la portata dell’agire umano e
quindi della responsabilità è strettamente circoscritta» (H. Jonas,
1979). Queste premesse sono infatti invalidate dal livello di estensione
e potenziamento delle facoltà umane raggiunto e raggiungibile dall’in
novazione tecnologica. Si è prodotto uno scarto epocale – alcuni hanno
3
Cfr. J. Ellul, La tecnica rischio del secolo (1954), Giuffré, Milano 1969.
ANDREA BALZOLA 426
parlato di una trasformazione antropologica – rispetto alla stessa evolu
zione tecnica del passato, di duplice natura: temporale ed essenziale. Tem
porale, perché si è passati, nell’arco dell’ultimo secolo, da un’innovazio
ne tecnica di lunga durata, con tempi e modi adeguati per un’assimila
zione socioculturale diffusa, a un’innovazione accelerata, in tempo rea
le, senza soluzione di continuità e senza la possibilità di un’elaborazio
ne collettiva del suo senso e dei suoi effetti. Essenziale, cioè relativa alle
essenze, perché oggi l’innovazione tecnologica raggiunge l’essenza del
la condizione biologica e ontologica umana. Ciò accade quando la tec
nologia produce armi di distruzione in grado di polverizzare il pianeta,
o scorie industriali in grado di avvelenarlo e desertificarlo, quando
proietta un’identità mediatica universale sulle culture locali, o quando
diventa capace di riconoscere e modificare il codice genetico degli es
seri viventi, di determinarne le condizioni di riproduzione e di nascita,
l’aspetto esteriore e il sesso, la durata di esistenza, di generare creature
ibride e transgeniche, oppure di integrare organicamente l’elemento
artificiale con quello biologico. In una parola, quando l’innovazione
tecnologica sembra appropriarsi in modo assoluto e definitivo del de
stino umano e naturale, rivelandosi in grado di ridefinire lo statuto, le
modalità di generazione e di sopravvivenza del pianeta e degli esseri vi
venti. In questo nuovo paradigma salta l’opposizione tradizionale natu
ra/tecnica, perché la prima viene assorbita e gestita dalla seconda, con
conseguenze capitali, poiché è sempre stata l’esistenza di questa oppo
sizione, e quindi di questa bipolarità, a fornire all’uomo le coordinate
concettuali e materiali di orientamento dei suoi compiti, delle sue re
sponsabilità e finalità. Il ruolo dell’etica in una simile prospettiva non
può più essere un a priori, come lo era in passato, ma uno strumento di
vigilanza e di consapevolezza, in grado di conoscere e di entrare nei ter
mini dell’evoluzione tecnologica al fine di fornire a essa un contesto di
riflessione e di orientamento, mentre di fatto, ora, tempi e modi di tale
orientamento sono dettati quasi esclusivamente dal mercato. Affinché
una rifondazione dell’etica contemporanea sia efficace e possibile, essa
deve calarsi nel fare, o meglio, deve ri-formarsi all’interno delle prati
che tecnologiche. L’etica non può più avere un ruolo prescrittivo, sia
perché, come ricorda Galimberti,4 non è di fatto in grado né di condi
zionare a priori né di prevedere con certezza gli incessanti cambiamen
ti prodotti dall’innovazione tecnologica, sia perché l’etica contempora
nea si presenta come una costellazione di etiche, un pensiero comples
so della molteplicità e della multilateralità, è quindi per sua natura non
4
Cfr. il capitolo La tecnica e l’impotenza dell’etica in U. Galimberti, Psiche e Techne, Fel
trinelli, Milano 1999, pp. 457-473.
427 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
3. La dimensione virtuale
5
Cfr. il capitolo L’universale senza totalità, essenza della cybercultura in P. Lévy, Cyber
cultura (1979), Feltrinelli, Milano 2001, pp. 107-117.
ANDREA BALZOLA 428
rapporto con la realtà. La sua novità sta nell’essere il primo medium
che non comunica messaggi ma percezioni del mondo».6 Collegate al
virtuale sono innanzitutto l’idea e la pratica della simulazione: la realtà
virtuale è di fatto un ambiente digitale all’interno del quale sono simu
late delle condizioni di esperienza reale, sperimentabili sinestetica
mente mediante apposite interfacce tra il corpo e l’apparato tecnologi
co (hardware e software). L’evoluzione di queste interfacce è costante,
dalle prime macchinose tute e caschi ai laser retinici e agli impianti col
legati direttamente ai nervi ottici. Superata la fase d’immedesimazione
analogica audiovisiva proposta dal cinema e dal video,7 si oltrepassa la
quarta parete dello schermo e si entra con il corpo, i suoi movimenti, le
sue azioni e i cinque sensi (anche se l’olfatto e il gusto sono ancora
scarsamente coinvolti dalle esperienze virtuali), dentro un simulacro
sintetico. Questa esperienza può avere tre direzioni possibili, una è
quella di vivere un ambiente immaginifico, riproducendo una sorta di
esperienza onirica, oppure quella di vivere un ambiente verosimile, esisti
to o esistente ma distante nel tempo o nello spazio, oppure un ambien
te possibile, non ancora esistente ma progettabile. Oltre all’ambiente en
tra in gioco la qualità dell’esperienza richiesta, che può andare da una
semplice esplorazione di intrattenimento o conoscenza, all’addestramento
a operazioni (militari, sportive, chirurgiche, ingegneristiche ecc.) par
ticolarmente ardue o particolarmente rischiose nel mondo reale. Pro
prio in quest’ultimo campo si sono avute le principali applicazioni ope
rative, prevalentemente militari, ma è stato anche ipotizzato un possi
bile impiego dell’addestramento virtuale in percorsi iniziatici di ap
prendimento spirituale, di tipo sciamanico (E. Zolla, 1992).
Diversamente dai sistemi tradizionali di realtà virtuale dove l’ambien
te è definito a priori in modo statico, il ruolo dell’utente diventa più at
tivo negli ambienti multimodali interattivi (AMI), – definiti da Camurri co
me sistemi in grado di rilevare attraverso sensori caratteristiche a più li
velli di dettaglio e di sensibilità nel gesto e in generale nel movimento
umano, per gestirle ed elaborarle in tempo reale – in cui egli può mo
dellare lo spazio virtuale mediante il suo comportamento.
Il virtuale è una particolare e inedita forma di simulazione, in grado
di produrre ambienti per l’esperienza: «Il virtuale è un’immagine effi
cace del mondo, un’immagine che permette di agire sul reale. È una
nuova forma di rappresentazione che, mediante immagini di sintesi,
6
G. Bettetini e F. Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Bompiani, Mila
no 1998, p. 306.
7
Cfr. A. Balzola, Per una verginità postuma dell’ordigno audiovisivo, in AA.VV., Il nuo
vo mondo dell’immagine elettronica, edizioni Dedalo, Bari 1985, pp. 116-137.
429 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
4. Critica dell’illusione
8
P. Quéau, Mondes virtuels et mondes potentiels, Symposium XIII video art festival di
Locarno, 1992.
ANDREA BALZOLA 430
delli razionali, si rischia di adottare questo metodo di analisi, che è es
senzialmente formale e matematico, applicandolo alla realtà; confusio
ne, poiché la realtà virtuale è nello stesso tempo reale e virtuale, avendo
gli attributi di entrambe le categorie, il rischio è quello di mescolare
questi attributi e quindi di confondere due categorie ben distinte. Que
sta «confusione» è accentuata dall’enfasi generalmente posta sui risul
tati operativi delle tecnologie del virtuale, a scapito di un interesse per
le modalità con cui essi sono raggiunti e quindi a scapito della verità
dell’esperienza stessa. Le nuove generazioni di piloti militari che han-
no bombardato l’Iraq sono state perfettamente addestrate con dei pro
grammi simulatori e poi, durante le azioni effettive, i loro stessi bom
bardamenti sono stati ripresi con telecamere posizionate sugli aerei
(analogamente a quelle montate nelle cabine di pilotaggio delle auto
mobili di Formula uno). Con un curioso effetto a circuito chiuso tra i
media: dalla virtualità dell’addestramento alla realtà dell’azione milita
re, al ritorno della stessa nella virtualità delle immagini televisive pro
mulgate dai comandi militari attraverso i network. Alla sorgente e alla
foce, l’evento è virtuale e spettacolare, la sostanza tragica dell’azione è
solo un passaggio accidentale tra le due polarità. Ma qual era la diffe
renza per quei piloti nel grado di percezione degli effetti delle loro
azioni, qual era la reale distinzione nella loro esperienza tra il bersaglio
reale e il bersaglio virtuale? Cosa, nella loro percezione, distingueva il
bagliore elettronico di un’esplosione dalla strage reale di una bomba
non abbastanza intelligente? In un certo senso, quei piloti che teleco
mandavano le bombe erano a loro volta telecomandati dall’apparato
tecnologico che li aveva addestrati e finalizzati. Virilio, che ha molto in
sistito sul rapporto tra l’uso, anche artistico, delle nuove tecnologie e
l’innovazione strategica militare, ci ricorda che «tutte le ricerche fatte a
livello militare sono attualmente concentrate sulla fragilità e sulla falli
bilità dell’individuo». Se la tecnologia militare ha cercato di sviluppare
al massimo il processo di miniaturizzazione delle armi e degli strumen
ti di spionaggio, «la parte più difficile da gestire per i militari, è l’indi
viduo che si fa portatore di questi sistemi di armamenti. Ed è in questo
senso che i militari indirizzano i loro interessi sui problemi dell’alluci
nazione, del telecomando, della teleazione dell’individuo. I militari si
chiedono come far teleagire l’individuo contro la sua volontà» (P. Viri
lio, 1995). La guerra, esito radicale ma coerente di una società fondata
sulla potenza tecnologica si astrae, spostandosi anche su un piano per
cettivo: come nei computer-game vince chi vede meglio e chi vede pri
ma e chi associa in modo più rapido ed efficace l’azione alla percezio
ne. L’uomo non va alla ricerca dell’esperienza, l’esperienza gli arriva
già pronta e preparata, rispetto a essa ha un ruolo puramente reattivo a
431 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
Noi sappiamo che tanto le realtà virtuali, quanto i più sofisticati pro
grammi di simulazione non appartengono ancora a un’esperienza col
lettiva diffusa, ma sono il modello sia delle play-station dei computer-ga
me, sia dei software di Motion Capture e delle realtà artificiali, dove l’u
tente anima il proprio alter-ego digitale (avatar) all’interno di un am
biente e di una sequenza di azioni virtuali. Un procedimento adottato
dall’ultima generazione degli effetti speciali cinematografici (vedi la se-
rie di Matrix), dove l’attore viene clonato in un doppio digitale, capace
di sostenere imprese impossibili, ma senza interrompere l’apparente
continuità tra personaggio reale e personaggio virtuale. La simulazione
animata in 3D, al suo massimo grado di definizione, porta alle estreme
conseguenze un tentativo che attraversa tutta la storia della riproduzio
ne cinematografica e televisiva: dissimulare la tecnica per produrre l’ef
fetto di realtà. Oggi possiamo vedere un documentario sui dinosauri così
come lo vedevamo sui leoni, il primo è ricostruito mediante una simula
zione assoluta, l’altro era ripreso dal vero. Entrambi sono il prodotto di
un particolare modello di rappresentazione della realtà che consiste nel
dissimulare la finzione, ma con una significativa differenza. Infatti, il
documentario sui leoni si presenta, mediante un codice comunicativo
9
L’artista Piero Gilardi, Piotr Kowalski e Claude Faure hanno fondato alla fine de
gli anni Ottanta l’associazione internazionale Ars Tecnica, con lo scopo di promuo
vere una ricerca comune tra artisti e scienziati sulle relazioni tra arte, tecnologia, at
tività e divulgazione scientifiche. Cfr. le numerose edizioni e i relativi cataloghi della
mostra ArsLab, che nel corso degli anni Novanta hanno presentato alcuni degli in
croci più avanzati tra arte, scienza e tecnica.
ANDREA BALZOLA 432
acquisito, come una riproduzione oggettiva della vita reale dei leoni,
mentre è anch’essa una ricostruzione artificiale e parziale, basata su una
selezione delle riprese, una scelta di montaggio e anche un’implicita
formula narrativa che fornisce una consequenzialità alle inquadrature. I
leoni esistono davvero, sono quindi reali nella presenza e nelle loro azio
ni, ma la loro dimensione è ricostruita artificialmente mediante uno
specifico codice comunicativo e narrativo audiovisivo. Il documentario
sui dinosauri usa questo stesso codice comunicativo e narrativo per dare
effetto di realtà a una ricostruzione dove anche i soggetti sono artificia
li, cioè simulati. Nel documentario virtuale sui dinosauri salta anche il
residuo rinvio alla realtà che c’era nel documentario sui leoni. L’effetto
illusorio è così raddoppiato, è come se l’uso di un codice comunicativo
artificiale servisse a conferire «effetto di realtà» a un soggetto artificiale,
cioè alla rappresentazione di un’idea (l’idea che oggi abbiamo dei di
nosauri).
L’obiettivo dichiarato, ormai ottenuto, dei programmatori dell’ani
mazione grafica tridimensionale era quello di raggiungere un totale
mimetismo con la realtà, realizzando quello che avevo definito come
un «naturalismo assoluto» (A. Balzola, 1994): rendere perfettamente e
totalmente riproducibile la realtà. Che significa anche, rovesciando i
termini, rendere reale l’illusione. Con le tecnologie virtuali si assiste a
un salto di qualità nel rapporto tra l’immagine e il suo modello reale:
«Tradizionalmente, esisteva una separazione netta tra l’universo del
modello, per esempio il modello del pittore, e l’universo dell’immagi
ne, il quadro. Cosa ugualmente vera nella fotografia [...] nel cinema e
nella televisione. Si fa solitamente una distinzione tra il mondo del mo
dello, che è spesso il mondo del reale, e il mondo delle immagini. Nel
caso del virtuale, accade che questi due universi si trovino posti sullo
stesso piano [...] Questo intimo intreccio tra il livello dei modelli e il li
vello delle immagini costituisce l’originalità del virtuale e cambia
profondamente l’impatto delle sue scritture nell’ordine dell’arte. Io
credo che si tratti di un nuovo ordine estetico» (P. Quéau, 1995).
Quéau sembra qui contraddirsi, da una parte ci avverte del rischio con
cettuale di una confusione tra le categorie del reale e del virtuale e del
rischio sociale di produrre un’illusione collettiva, dall’altra parte vede
in questo intreccio tra il modello reale e la sua immagine l’originalità
del virtuale, il segno di un nuovo ordine estetico. Ma la contraddizione
è solo apparente, perché questo essere insieme immagine e modello
del virtuale si avvera pienamente soltanto se gli si toglie il suo carattere
di suggestione illusoria. Per comprendere l’esperienza virtuale può es
sere utile rievocare una dimensione che si è andata perdendo nella no
stra cultura razionalizzata e razionalizzante (Jung ha cercato di recupe
433 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
10
Cfr. P. Florensky, Le porte regali. Saggio sulle icone (1922), Adelphi, Milano 1981.
ANDREA BALZOLA 434
nel caso di un uso simbolico della tecnica, che non ne nasconde l’arti
ficio, il primato è invece assegnato all’idea e quindi all’arte e alla co
noscenza. Nel primo caso si cerca l’effetto illusorio, nel secondo pre
vale un procedimento cognitivo e creativo. Il primo è un modello au
toreferenziale a circuito chiuso, in quanto la sua finalità coincide con il
risultato stesso della simulazione, il secondo è finalizzato a un percorso
sperimentale ed è aperto a opzioni ed esiti differenti. Il primo suscita
un rapporto idolatrico (di suggestione e adesione acritica) e cerca l’ef
fetto di meraviglia («è incredibile, sembra vero»), il secondo cerca una
partecipazione consapevole, stimolando la dimensione simbolica («vi
vo ciò che immagino»). Il primo può essere usato per manipolare la
realtà, il secondo è un punto di osservazione dei meccanismi che ma
nipolano la realtà. Si tratta di una dicotomia già implicita, come ricor
da Gene Youngblood, nell’etimologia latina del verbo simulare, che si
gnificava sia imitare, fingere, sia rappresentare.11 E il problema filosofico
che pone è ancora più antico, si rintraccia già nella critica alla retorica
sofista, impostata dall’ultimo Platone (nel Fedro) e sistematizzata dalla
retorica di Aristotele. La critica ai sofisti si concentra proprio sulla loro
intenzione di risolvere il problema della verità di un’argomentazione
con il perfezionamento dell’argomentazione stessa: se un’argomenta
zione è perfettamente verosimile raggiunge l’effetto di verità, e quindi
persuade l’ascoltatore come fosse vera (parafrasando questo schema
nell’ambito del virtuale, una simulazione perfettamente verosimile è
come se fosse vera). Un inganno che «chi ha techne e competenza dia
lettica sa riconoscere e distruggere: l’inganno per cui la cosa stessa
sembra irrompere nel luogo della propria immagine, così che diventa
impossibile distinguere fra i luoghi della visione reale e quelli del so
gno, fra hypar e onar. Si tratta precisamente del trompe-l’oeil che Socrate,
nel Fedro, rimprovera ironicamente (ai sofisti) di voler produrre nell’a
scoltatore».12
Questa ricerca del «naturalismo assoluto», che rischia di ridurre il
mondo complesso del virtuale a un trompe-l’oeil tridimensionale e plu
risensoriale, può trovare proprio nell’arte il suo contrasto più efficace.
Poiché il paradosso dell’arte, tanto più evidente nell’uso delle nuove
tecnologie digitali, così potenti nella loro capacità mimetica, è che pre
serva il principio di realtà rilanciando e rafforzando il principio di fin
11
G. Youngblood, Cinema elettronico e simulacro digitale (1986), in «Cinema Nuovo»,
n. 2 (306), marzo-aprile 1987, Metamorfosi della visione, a cura di R. Albertini e S. Li
schi, Ets Editrice, Pisa 1988, pp. 31-41.
12
Cfr. G. Nicolaci, Metafisica e metafora, L’Epos Società Editrice, Palermo 1999, pp.
139-176.
435 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
13
R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica, Jaka Book, Milano 2004, pp. 72-73.
ANDREA BALZOLA 436
una simulazione degli scenari possibili generati dai mutamenti tecnolo
gici, si possono riprodurre le condizioni di un’indispensabile connes
sione fra le ragioni del fare e quelle dell’essere. Lo ha colto con preco
ce precisione Derrick De Kerckhove: «A prima vista, il virtuale, a causa
delle sue innumerevoli possibilità, genera, come afferma Rokeby, un “bi
sogno urgente di filtri” per trarre un senso da tutto questo. Sul piano
estetico, per facilitare la distinzione, ancora difficile da fare nell’ambito
della seduzione tecnologica, tra arte e tecnica, si tratta di comprendere
che il “filtro” dell’interpretazione tecnologica prodotto dall’arte è sem
pre metaforico e mai letterale. L’artista lavora la tecnologia per darle un
senso diverso dalla sua finalità tecnica. In effetti, se l’utilizzazione prati
ca, letterale, di una tecnologia è sufficiente a giustificarla e a legittimar
la secondo dei criteri di efficacia, è la sua interpretazione metaforica che
l’introduce come fattore di trasformazione psicologica. Nella cultura oc
cidentale, dove la condizione è l’innovazione accelerata, solo l’artista si
fa carico, fin dall’inizio, di questo lavoro metaforico».14 Insomma, l’arte
può contribuire, mediante un processo di simbolizzazione della tecno
logia, a renderla interpretabile, e quindi a disegnare l’identità virtuale e
mutante che caratterizza l’esperienza contemporanea dell’essere nel
tecnomondo.
Il ruolo dell’arte come veicolo dell’intervento metaforico sulla tec
nologia, auspicato da De Kerckhove, deve però fare i conti con le con
traddizioni del divenire artistico contemporaneo. Infatti, la tendenza
all’autoreferenzialità del fare tecnico trova anche riscontro in un’auto
referenzialità del fare artistico. Sedlmayr – sia pure da posizioni decisa
mente conservatrici – sosteneva la necessità di distinguere tra opera
d’arte e oggetto estetico:15 nell’opera d’arte ci sarebbe una piena corri
spondenza tra significante e significato, mentre nell’oggetto estetico
sarebbe il significante a dominare incontrastato. Quando si dice che le
avanguardie del primo Novecento hanno liberato l’arte dalla tirannia
del significato, s’intende dire che l’arte si è emancipata dall’imitazione
della realtà e dal contenuto ideologico, tipico di un mercato dell’arte fi-
no ad allora dominato dalla committenza dei poteri istituzionali piut
tosto che dal collezionismo privato. Si è perciò cercata una motivazione
interna al processo artistico, che è diventato un linguaggio autonomo
dove, negli esiti migliori, significante e significato coincidono. Per arri
vare a questo sono stati necessari gesti radicali, traumatici, irreversibili,
14
D. De Kerckhove, Esthétique et épistémologie dans l’art des nouvelles technologies, in
«Esthétique des arts médiatiques», Presses de l’Université du Québec, 1995, tome 2,
pp. 20-30.
15
H. Sedlmayr, Arte e verità (1978), Rusconi, Milano 1984.
437 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
16
Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1936), in Sentieri interrotti, La Nuova
Italia, Firenze 1968; e Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), «Studi germanici», 1937,
pp. 5-20, ripubblicato in G. Vattimo (a cura di), Estetica moderna, il Mulino, Bologna
1977, pp. 339-352.
ANDREA BALZOLA 438
7. Le avventure dell’ibridazione
17
Cfr. A. Caronia, D. Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, Baldini e Ca
stoldi, Milano 1997.
18
Per l’evoluzione attuale e futura della robotica cfr. Hans Moravec, Il Robot uni
versale, in P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994, pp.
99-112.
439 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
gli strumenti concreti oggi offerti dal dispositivo tecnologico.19 Per Or
lan invece il mezzo tecnico serve l’idea di una trasfigurazione artificia
le, esteriore: dopo aver creato al computer una sintesi ideale tra alcuni
modelli di bellezza femminili generati dalla storia dell’arte e divenuti
stereotipi culturali, ha cercato un rimodellamento del proprio volto,
mediante ripetuti interventi di chirurgia estetica documentati come ve
re e proprie performance. Qui l’identità esteriore è manipolata mecca
nicamente per farla corrispondere – in modo anche ironico e provoca
torio – a un’idea interiore o culturale, il corpo viene concepito come
pura materia grezza da rimodellare a piacimento, come se nell’artista
fattosi dio il corpo tornasse argilla per essere ricreato, o meglio, per ri
crearsi da solo, a immagine e somiglianza di un’idea, individuale e so
cialmente parametrata. In questo caso l’ibridazione avviene, ed è con
cretamente realizzata, tra l’idea e la natura. La terza posizione, quella
del brasiliano Eduardo Kac (creatore di conigli e pesci fosforescenti),
vede già realizzata, mediante le nuove tecnologie (soprattutto quelle
mediche e genetiche), una mutazione antropologica, tanto che il corpo
umano non sarebbe già più percepito come un sistema naturale auto
regolato, ma come un oggetto controllato artificialmente e trasformato
elettronicamente. Allora, compito attuale dell’arte sarebbe quello di
conoscere e utilizzare creativamente quel nuovo patrimonio tecnologi
co che ricostruisce, rende trasparente e manipolabile l’antico patrimo
nio biologico dell’uomo e della natura, ibridando i tre regni naturali:
umano, animale e vegetale. «L’arte transgenica è una nuova forma d’ar
te basata sul ricorso alle tecniche dell’ingegneria genetica al fine di tra
sferire dei geni sintetici agli organismi, o di trasferire del materiale ge
netico naturale da una specie all’altra, il tutto con l’obiettivo di creare
nuovi esseri viventi [...] Ormai gli artisti possono non solamente com
binare dei geni provenienti da diverse specie, ma anche scrivere age
volmente una sequenza di DNA allo stesso modo del loro programma di
trattamento del testo, inviarla con un corriere a un’impresa commer
ciale di sintesi e ricevere la settimana seguente una provetta contenen
te milioni di molecole di DNA della sequenza ordinata» (E. Kac, 1995).
Ecco portato a compimento il percorso di mutazione: prima il rimo
dellamento epidermico (Orlan), poi l’innesto tecnostrutturale (la terza
mano o il terzo orecchio di Stelarc), infine il rimodellamento moleco
lare. Questo pensiero estetico implica un rovesciamento etico della fun
zione della tecnologia, l’arte interpreta creativamente ciò che la tecno
logia può fare dell’uomo e della natura. In questo modo, l’uomo con
19
Cfr. Stelarc, Da strategie psicologiche a cyberstrategie: prostetica, robotica ed esistenza re
mota, in P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, pp. 61-76.
ANDREA BALZOLA 440
cepisce il senso dell’evoluzione antropologica esclusivamente all’inter
no delle possibilità che si è dato con la tecnica. A ragion veduta Costa
può definire l’artista tecnologico come «uno sperimentatore estetico
che lavora rendendo operativi e materializzando dei modelli concet
tuali» per realizzare «un prodotto impersonale e ultrasoggettivo».20
Quei modelli concettuali sono tutti interni al dispositivo tecnologico e
il processo di desoggettivazione dell’artista è il risultato complementa
re di un processo di soggettivazione della tecnologia. C’è chi, come Vi
rilio, critica radicalmente questo rovesciamento, sempre riferendosi al
caso Stelarc: «Non è più il pericolo dell’automa esterno all’uomo, ma
quello dell’automa dentro l’uomo. È la vittima di un culto di cui nessu
no parla, del deus ex machina. Il dio macchina è stato insediato da colo
ro che hanno ucciso il dio della trascendenza. Quando si dice “Dio è
morto”, nello stesso momento nasce il dio macchina e Stelarc è il suo
profeta. Egli è pronto a sacrificarsi per il dio macchina» (P. Virilio,
1995). C’è chi, invece, come Eduardo Kac, dilata ulteriormente questa
prospettiva, leggendola a rovescio, positivisticamente, come opportu
nità post-umana: «Noi saremo domani gli ospiti di geni stranieri, così
come oggi portiamo impianti meccanici ed elettronici. In altre parole,
noi saremo transgenici. Il fatto che l’ingegneria genetica renda sorpas
sato il concetto di specie basato sulla nozione tradizionale di riprodu
zione, mette in gioco l’idea di ciò che è umano. Tuttavia, questo non
costituisce una crisi ontologica. Essere umano significherà che il geno
ma umano non sarà più il nostro limite, ma il nostro punto di parten
za» (E. Kac, 1995). In questa chiave, non si assiste più a una rifondazio
ne dell’etica, bensì a un suo completo ribaltamento: sono le ragioni e le
possibilità dell’evoluzione tecnologica prodotta dalla ricerca scientifica
a stabilire le regole del comportamento, ai fini della realizzazione di un
bene collettivo che coincide con la piena realizzazione non dell’essere
umano quale è, ma del suo doppio tecnologico quale potrà essere.
Un’idea che raggiunge il paradosso involontario quando Kac sostiene
che gli artisti transgenici possono svolgere il compito etico di compen
sare la costante scomparsa di specie animali (costrette all’estinzione
proprio da un dissennato modello di sviluppo tecnologico dell’uomo),
contribuendo ad «accrescere la biodiversità mondiale con l’invenzione
di nuove forme di vita». Ecco un altro effetto allucinatorio dell’infatua
zione tecnologica: l’idea che l’intero mondo naturale e biologico sia
semplicemente un modello meccanico che basta decodificare e poi è
possibile smontare e rimontare a piacimento, guadagnando sui brevet
ti dell’ingegneria genetica. Quando Tarkovskij diceva che «l’artista esi
20
Cfr. M. Costa, Il sublime tecnologico, Castelvecchi, Roma 1998.
441 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
ste perché il mondo non è perfetto» non pensava che l’artista potesse
sostituire questo mondo con un altro artificiale, ma piuttosto egli tro
vava in quest’imperfezione il segno di un mistero, di un’inestricabile
complessità, di una dialettica dei contrasti e quindi il motivo di un’ispi
razione. L’idea dell’ibridazione chirurgica, tecnologica o genetica rie
voca la ricerca del segreto dell’immortalità da parte dell’alchimia (d’al
tronde molti artisti del passato furono anche alchimisti),21 che era so
stanzialmente un’ars combinatoria, ma i più avveduti ben sapevano che
l’arte alchemica era una metafora della ricerca creativa dell’essenza del-
l’uomo.
21
Cfr. M. Calvesi, Arte e alchimia, Giunti, Firenze 1986; e C.G. Jung, Psicologia e al
chimia (1944), Boringhieri, Torino 1981.
ANDREA BALZOLA 442
dal mercato dell’arte e dalla filologia museale, facciamo fatica a ricor
dare come quegli artisti avessero imposto le loro visioni a duro prezzo e
in virtù di una «rete» solidale di pensieri e di azioni, e non solo per me
rito esclusivo di pochi collezionisti e critici lungimiranti. In alcuni casi, il
coagulante dell’idea spingeva gli artisti a tentare anche l’opera fatta a
più mani, una possibilità aperta soprattutto dalla scoperta del cinema
come mezzo di espressione artistica e, appunto, di creatività collettiva.
La progettazione artistica con le nuove tecnologie si deve coniugare
con una competenza tecnica via via più sofisticata, non sempre assimila-
bile da uno stesso soggetto, poi la logica dell’opera si trasforma in una
logica di produzione che coinvolge necessariamente diversi soggetti con
ruoli complementari. L’identità dell’artista si ridefinisce allora in quella
di «regista» di un’opera realizzata collettivamente. Infine, nel momento
in cui l’opera è concepita per coinvolgere la partecipazione del pubbli
co e quindi sviluppa il principio di interattività, l’artista non è nemmeno
più regista di un’opera ma diventa regista di un evento aleatorio sempre
diverso, è regista di una relazione mutante tra gli spettatori e un «con
gegno» artistico. La personalità dell’artista è meno importante del siste
ma di relazioni che la sua opera genera. Un’interattività effettiva, sia al
livello della fruizione sia al livello della concezione, comporta l’idea di
un programma aperto e di un processo creativo continuo, che può ave
re diverse fasi ma che non si compie mai in modo definitivo. La tecno
logia multimediale interattiva consente all’artista di produrre eventi
piuttosto che opere o oggetti, il processo si sostituisce al risultato, il la
boratorio è più importante dello spettacolo. Tant’è vero che gran parte
degli spettacoli in cui si fa un uso drammaturgico delle nuove tecnolo
gie, hanno il carattere aperto del «work in progress», dove lo spettacolo
è sempre e soltanto una tappa di un processo di elaborazione costante e
virtualmente infinito e dove il pubblico partecipa fin dalle fasi iniziali
del laboratorio, interagendo con gli autori e contribuendo a orientare il
loro lavoro.
22
Cfr. P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione (2001), Feltri
nelli, Milano 2003.
23
In A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, Manifesto
libri, Roma 2002, pp. 9-10.
445 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
PERCORSI EMBLEMATICI
FRA PRATICHE ARTISTICHE E TEORIE ESTETICHE
a cura di
Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
LE OPERE: 39 SCHEDE
a cura di Anna Maria Monteverdi
fabbrica di uomini premeva un botto sori delle avanguardie del primo No
ne sulla sua scrivania, si apriva la fine vecento nel far interagire in uno stes
stra e il pubblico vedeva due esseri so evento differenti linguaggi espres
umani riflessi da uno specchio dietro sivi. Clair, che diventerà uno dei regi
il palcoscenico. Le immagini degli at sti fondatori della grande scuola ci
tori in movimento apparivano in que nematografica francese, esplora a tut
ste finestre alte trenta centimetri [...] to campo i trucchi e le possibilità del
Era un’illusione, perché un minuto la tecnica filmica dell’epoca, in un
dopo si vedevano gli stessi attori dal pionieristico uso artistico e ludico
vero in palcoscenico... Poi c’era un’al dell’artificio cinematografico. En
tra innovazione, un grande diafram tr’Acte è una delle opere imprescindi
ma sul fondo del palcoscenico. Quan bili del cinema dada e surrealista. Le
do il direttore della fabbrica voleva di immagini fluiscono libere, sganciate
mostrare ai visitatori quanto fosse mo dalla tradizionale consequenzialità
derna la sua fabbrica di robot, apriva narrativa, per associazioni irraziona
un diagramma attraverso cui si vede li, mentali e oniriche, dando vita a un
vano immagini in movimento proiet esempio brillante di cinema non nar
tate dal fondo del palcoscenico su di rativo. Un atto creativo «assoluto»,
uno schermo circolare; si vedeva così un omaggio all’arte e al divertissment
l’interno di un’enorme fabbrica con dada. Non è casuale che a questo
gli operai affaccendati che andavano film partecipino come attori lo stesso
avanti e indietro. Si trattava di un’illu Francis Picabia, Man Ray, Marcel Du
sione perché la macchina da presa si champ. In una sorta di visione cubi
spostava verso l’interno della fabbrica sta dei monumenti e dei tetti di Pari
e il pubblico aveva l’impressione che gi, si intrecciano le immagini di Man
gli attori sul palcoscenico camminas Ray e Duchamp che giocano a scac
sero nella stessa direzione». chi, un getto d’acqua manovrato da
Picabia, una ballerina ripresa in una
René Clair prospettiva dal basso mentre danza
Entr’Acte (Intermezzo) (1924). Sceneggia su un cristallo trasparente e che poi
tura: Francis Picabia; fotografia: Jimmy ripresa dall’alto si rivela un uomo, un
Berliet; musica: Erik Satie; interpreti: cacciatore che da un tetto spara a un
Jean Borlin, Francis Picabia, Man Ray, uovo e che poi viene abbattuto da
Marcel Duchamp, Erik Satie, Marcel una fucilata di Picabia. Da questo sca
Achard. turisce un celeberrimo funerale co
Pellicola ideata come sceneggiatura mico-surreale, con il corteo dei con
da Francis Picabia e girata da René giunti che rincorre il carro funebre,
Clair (1898-1981) come intermezzo prima a balzi rallentati e poi in un in
per lo spettacolo Relâche della compa seguimento sempre più accelerato e
gnia dei Balletti svedesi di Rolf de paradossale che percorre un ottovo
Maré messo in scena al Théatre des lante da Luna Park, diventa insegui
Champs Elysées il 22 novembre 1924. mento automobilistico, navale, ae
Concepito come intreccio tra musica reo, in un crescendo di movimento e
(una composizione originale di Satie intensità comica, dove grazie al gioco
da eseguire dal vivo), cinema e spet dichiarato dell’artificio cinematogra
tacolo (i balletti di de Maré), rappre fico anche gli oggetti inanimati pren
senta uno degli esperimenti precur dono vita.
LE OPERE 454
Abel Gance Paul Claudel, Darius Milhaud
Napoléon (1926) Le Livre de Christophe Colomb (1927)
Abel Gance (1889-1981) è stato uno Nell’estate del 1927 il drammaturgo
dei più arditi sperimentatori della sto francese Paul Claudel (1868-1955) scri
ria del cinema: utilizzò obiettivi defor ve Le Livre de Christophe Colomb, con
manti e schermi di proiezione allargati frontandosi per la prima volta con un
e un montaggio dai ritmi molto rapidi. soggetto storico e concependo fin dal
Tra i suoi film: Mater dolorosa (1917), l’inizio l’idea di farlo musicare dall’a
La decima sinfonia (1918), Accuso! mico Darius Milhaud e di integrare già
(1919, rimontato nel 1922 e rigirato nel testo – come sua parte essenziale –
nel 1937), La ruota (1922), che in la descrizione di sequenze cinemato
fluenzò le avanguardie cinematografi grafiche da proiettare insieme all’azio
che del tempo. Napoleone visto da Abel ne degli attori. Associando al copione
Gance è l’unico rimasto dei sei proget una serie di note che sono precise in
tati episodi che dovevano narrare la dicazioni per la regia. Quest’opera tea
biografia dell’Imperatore, a partire trale-musicale si presenta perciò come
dall’adolescenza alla campagna d’Ita uno degli esempi post-wagneriani di
lia del 1796. Gance si ispirava a Nascita opera totale, particolarmente impor
di una nazione di David Griffith, ma vol- tante e originale perché l’intreccio dei
le sperimentare un’avanguardistica differenti linguaggi espressivi, poesia,
proiezione su tre schermi affiancati teatro, musica e cinema, non avviene
che permetteva una visione allargata solo a posteriori, nella messinscena,
ideata dall’operatore Debrie, chiamata ma a priori, già nel progetto e nella
Polyvision e che anticipa di quasi scrittura drammaturgica. La prima ver
trent’anni il Cinerama. Viene usata sione dell’opera (come opera musica
per le sequenze del dibattito alla Con le) viene allestita a Berlino nel 1930,
venzione, del Bal des Victimes e della con la regia di Hörth che realizza per
marcia dell’esercito francese verso l’I essa 42 minuti di film. Le immagini ci
talia (quest’ultima sequenza è l’unica nematografiche evocano sia la dimen
rimasta perché il regista distrusse le al sione onirica e interiore dei personag
tre due). Nella parte di Marat c’era gi sia la dimensione del viaggio. Non è
Antonin Artaud; in quella di Sant-Just la prima volta che un drammaturgo
lo stesso Gance. La versione originale pensa d’integrare il cinema con il tea
della pellicola durava 6 ore; ne fu tro (Saint-Pol-Roux nel 1895, Elmer Ri-
proiettata solo una parte all’Opéra di ce nel 1914, Iwan Goll nel 1919, Fillia
Parigi il 7 aprile 1927. La pellicola eb nel 1923), ma è la prima volta che vie-
be alterna fortuna: fu perduta e di ne teorizzato come un artificio innova
menticata fino a quando Kevin tivo fondamentale per un nuovo tea
Brownlow ne acquistò una versione tro. Nel 1953 (con un ventennio di
ormai ridotta a un paio di bobine a successive riprese) il grande attore e
passo ridotto e tentò di ricostruirla fi regista Jean-Louis Barrault riporta in
lologicamente negli anni Ottanta. scena il lavoro di Claudel in una ver
Nel 1981 una copia fu recuperata an sione di prosa, pur sempre con musi
che dal regista Francis Ford Coppola che di Milhaud, che di fatto rilancia l’i
che realizzò una versione di quattro dea di spettacolo totale e dove la criti
ore con musiche composte dal padre ca del tempo vede un «unico linguag
Carmine. gio» formato da una perfetta sintonia
455 39 SCHEDE
tra testo, scenografia, danza, luci e ci vimento (di cui era unico socio) dopo
nema. che fu rifiutato nel Club dada, e lo
«L’idea generale è che il dramma sia aveva mutuato dal titolo di uno dei
come un libro che si apre e di cui si suoi quadri più famosi composti a col
consegna il contenuto al pubblico. Es lage, Merz appunto. Così Dietmar El
so, attraverso la voce del cuore, inter ger descrive il Merzbau nel catalogo
roga il lettore e gli attori stessi della della mostra al Pac di Milano (2001)
storia. Domanda loro delle spiegazio in cui è stata presentata la ricostruzio
ni. Si associa ai loro sentimenti [...] Il ne in gesso di Peter Biusseger del
pubblico non guarda solamente gli at Merzbau di Hannover (1983): «Nel
tori. Ha bisogno di sapere cosa accade 1923 Kurt Schwitters iniziò a imposta
nel loro cuore e nella loro testa [...] È re il suo atelier in modo nuovo dal
a questo che serve lo schermo che for punto di vista artistico secondo que
ma il fondale della scena e sostituisce sto “Prinzip Merz”. Ricoprì le pareti e
il telo. È un paesaggio spirituale che le sculture Merz disposte in quello spa
sostituisce il vecchio luogo materiale. zio di strati di ritagli di giornali, fram
Su questa tela si dipingono con gradi menti di manifesti e fotografie, fissan
diversi d’insistenza e di precisione tut dovi poi piccoli oggetti-feticcio e infi
ti i tipi di immagini, limpide o confu ne legando tutti gli elementi fra loro.
se, indicando agli spettatori una mag Se dapprima Schwitters riusciva a uti
giore o minore presenza nel passato, lizzare il locale come stanza da lavoro,
nel presente, nel possibile e nel sogno. ben presto l’ambiente si trasformò in
Il dramma si svolge così a metà strada un’opera d’arte autonoma. Le scultu
tra gli spettatori e una specie di pen re crebbero sempre più fino a diven
siero visibile di cui gli attori sono gli tare un’unica costruzione che occupa-
interpreti» (da Paul Claudel, Note sur va tutto lo studio [...] Il Merzbau era
la mise en scène de Christophe Colomb, un luogo in cui Schwitters poteva rin
Théâtre, vol. II, Gallimard, 1965, p. chiudersi e ritirarsi dal mondo. Era
1491, trad. it. di A. Balzola). nel contempo caverna e torre, en
Andrea Balzola trambe forme architettoniche scelte
anche dagli architetti espressionisti
Kurt Schwitters come spazi di volontario isolamento.
Merzbau di Hannover (1923-37) Molti oggetti e frammenti testuali del
Il Merzbau di Hannover venne creato Merzbau sono indicativi degli eventi
da Kurt Schwitters (1887-1948) tra il politici del tempo e della situazione
1923 e il 1937 e finì distrutto da un at sociale di quegli anni, delle condizio
tacco aereo alleato nel 1943. Si tratta ni di vita di Schwitters, delle sue ami
va di una vera e propria architettura cizie, delle sue attività artistiche. Per
praticabile in cui l’artista accumulava Schwitters il Merzbau assolveva così la
oggetti raccolti per strada per poi suc funzione di un complesso diario crip
cessivamente aggiungervi colore, ges tato, in cui raccoglieva le sue osserva
so e legno. Come dichiarò lo stesso zioni».
autore, il Merzbau era incompleto
«per principio» e dopo quello di Han Miroslav Kouril, Emil Burian
nover Schwitters iniziò altri Merz in Theatregraph (1936)
Norvegia e nel Lake District britanni Nel 1933-34 il cecoslovacco Emil Bu
co. Il Merz era il nome dato al suo mo rian, compositore, attore e regista fon
LE OPERE 456
da il teatro D 34 (Divadlo 1934) e pro e il suo senso di riempimento dello
getta insieme con lo scenografo Miro spazio attraverso i materiali, incontra
slav Kouril il Theatregraph, chiamato il teatro, precisamente nel momento
anche il teatro della luce, inaugurato delle più importanti sperimentazioni
con Il risveglio di primavera da We sui nuovi materiali. La musica, que-
dekind; si trattava di un procedimento st’arte dalle dimensioni sconosciute,
che combinava proiezioni di diapositi quest’arte che parla con il suo ritmo
ve con immagini statiche e filmiche in direttamente al ritmo del cuore e dei
16mm realizzate da Burian. Le proie muscoli, arriva dall’orchestra per
zioni dovevano essere incorporate nel espandersi sulla scena come il passo
l’azione drammatica: il dispositivo della danzatrice che dalla punta dei
progettato catturava letteralmente l’at piedi si estende sulla pianta. La poesia
tore, imprigionandolo tra due superfi cessa di essere una cosa puramente ot
ci cilindriche traslucide, proiettabili tica, legata alla mimica; ella conquista
frontalmente e posteriormente che le lo spazio come una musica senza luo
separavano rispettivamente dalla pla go che si trasforma in una poesia sen
tea e dal fondale. Altre superfici late za parola» (E.F. Burian, La Nouvelle
rali potevano contenere diapositive in Scène tchèque, Prague, 1937, in D. Ba-
un incrocio complesso di proiezioni. blet, 1995).
Una tela centrale, infine, funzionava
come un diagramma ottico. Di grande Pierre Schaeffer
effetto risultava l’utilizzo di particolari Cinq études de bruits (1948) – musica
ingranditi, oggetti e persone ripresi a concreta su disco
distanza molto ravvicinata con la mac Il progetto del primo degli «studi di
china da presa, dettagli che si impone rumori», l’Etude aux chemins de fer, fu
vano allo sguardo dello spettatore in formulato da Pierre Schaeffer (1910
una scala così gigantesca da deformar 95) nella Pasqua del 1948 come idea
li o trasfigurarli, rendendo al loro con «eccitante e sensazionale» di un «con
fronto la presenza umana davvero infi certo di locomotive». Il 5 ottobre 1948
nitesimale. Ecco cosa scriveva Burian la RTF presentò un Concert de bruits co
dell’invenzione che secondo lui sanci stituito dai primi cinque brani di mu
va la fine definitiva della divisione tra sica concreta composti da Schaeffer:
le arti: «Per la prima volta, oggi noi Etude aux chemins de fer 2’ 50”
possiamo realizzare questo teatro nel Etude aux tourniquets 1’ 54”
quale cadranno le frontiere dell’in Etude violette (piano I) 3’ 18”
comprensione tra le arti. Oggi, per la Etude noire (piano II) 3’ 54”
prima volta, noi siamo stupefatti di Etude pathétique
questo accordo tra diversi elementi (étude aux casseroles) 4’ 01”
che gli antichi avevano presentito ma Si tratta di una serie di studi su mate
che non avevano potuto realizzare. riale concreto utilizzando le tecniche
L’architetto che si è assunto la respon di incisione e riproduzione del disco
sabilità di costruire delle città per una realizzabili all’interno degli studi del
vita nuova, sociale e più sana, trova nel la radio francese. I frammenti sonori
teatro un buon alleato. La pittura che venivano incisi su disco (sillon fermé) e
ha aderito per lungo tempo sulle tele poi sottoposti a inversione, variazione
fa scoprire al teatro il suo movimento. della velocità di riproduzione, sovrap
La scultura, con la sua forza dinamica posizione, ripetizione del frammento
457 39 SCHEDE
cità dei punti di vista di cui dispone la con delle anomalie, sono degli am
cinepresa mediante la combinazione bienti ideali. In effetti, più lo spazio fi
dei movimenti di macchina e di otti sico è composto e ricco, più è interes
ca. Ed è questa esigenza che suggeri sante e stimolante l’esperienza che ne
sce a Ronconi l’uso prevalente del fa il visitatore attraverso la mediazione
dolly, del carrello e dello zoom (A. della sfera. Questa tiene sotto control
Balzola, F. Prono, Luca Ronconi: per un lo il pubblico, lo osserva. Non esiste
teatro televisivo?, video, CRUT, Torino più un punto di vista unico e centrale,
1988). umano, ma un occhio meccanico che
ruota e la sua visione sferica. All Vision
Steina Vasulka fa parte di Machine Vision (1978), un
All Vision (1976) ambiente elettronico, ottico e mecca
Machine Vision (1978) nico che contiene un insieme di di
Steina Vasulka, oltre alla collaborazio spositivi (sette) e di congegni mecca
ne con il marito Woody (1937) in di nici e ottici – con prismi, specchi e len
verse ricerche sull’immagine elettroni ti – che effettuano una serie di opera
ca, è impegnata dagli anni Settanta in zioni e movimenti – rotazioni, zoom,
una serie di progetti personali volti a panoramiche, tendine – davanti a otto
tracciare la cartografia di uno spazio telecamere collegate a dodici monitor.
virtuale e a riconfigurare la relazione Lo spazio ridisegnato dai dispositivi è
tra osservatore, immagine e spazio. All complesso: le telecamere, dotate dei
Vision (1976) è un’installazione elet diversi congegni, filmano delle porzio
tronica, ottica e meccanica. Si compo ni di spazio che vengono ritrasmesse
ne di due telecamere poste su una bar sugli schermi disposti a formare un vi
ra di ferro al centro della quale è in deowall.
stallato uno specchio che ha la forma Simonetta Cargioli
di una sfera. La barra ruota lentamen
te, le due telecamere sono orientate Nam June Paik
sulla sfera, filmano ciò che si riflette Merce by Merce by Paik (1978)
sullo specchio. È un’installazione a cir Il video di trenta minuti, è diviso in
cuito chiuso e due monitor sono con due parti di circa quindici minuti cia
nessi alle telecamere mobili. Lo spazio scuna. La prima parte (Blue Studio: Fi
intero nel quale è installato il disposi ve Segments) vede come protagonista
tivo è continuamente ridefinito, cattu Merce Cunningham: le immagini del
rato e ridisegnato dalla sfera; anche ballerino, grazie a coloriture ed effet
l’immagine del visitatore è trasmessa ti speciali sembrano librarsi, scivolare
dalla sfera ai televisori. Il movimento e pattinare dentro e sopra paesaggi
della «visione della macchina» è una urbani e astratti. Il video ne evidenzia
continua rotazione; lo spazio che ne l’ormai classica gestualità e la libertà
risulta sui monitor ha perduto i punti di movimento nello spazio; ma è an
di riferimento, dentro-fuori, sopra-sot che una riflessione sulla danza, con
to, e temporali. Il ruolo dello spazio è l’alternarsi di immagini reali e balletti
determinante per la resa estetica del- «metaforici» come quelli delle auto
l’installazione: spazi complessi visual nel traffico o dei primi passi di un
mente e strutturalmente, che conten bambino. Paik tornerà spesso sia su
gono scale, corridoi, angoli con forme Merce Cunningham (in Blue Studio di
orizzontali, verticali, con delle ombre, Charles Atlas, da cui è tratto il video,
LE OPERE 464
è da lui utilizzato anche in installazio cinematografiche, musicali, Carmelo
ni) sia sulla nozione di doppio, all’o Bene trova il mezzo più idoneo alla
pera nello sdoppiamento del balleri sua poetica di «sottrazione». Per arri
no stesso: «Troviamo qui una delle vare all’essenziale, dove il sonoro pre
più belle sparizioni al centro, figura domina sul visivo, egli tocca vari ele
basilare nella specificità dello spazio menti: rinuncia al colore in cambio di
video. D’un tratto Cunningham scivo un forte contrasto bianco/nero, otte
la via dall’immagine e non da uno dei nuto eliminando grigi e tonalità inter
bordi ma da una fessura invisibile e medie che appiattiscono l’immagine
centrale [...] Al virtuosismo dei corpi televisiva; sostituisce inquadrature
corrisponde un virtuosismo della tra classiche quali campo/controcampo e
ma, capace di prodezze che chiamia campi intermedi con campi lunghi e
mo effetti» (J.P. Fargier). Nella secon primi/primissimi piani su oggetti o
da parte del video (Merce and Marcel) volti, trasformando i dialoghi in un
Paik ricicla materiali relativi a Cun montaggio molto frammentato di mo
ningham accostando Merce Cunnin nologhi narcisistici dei personaggi ri
gham a Marcel Duchamp con un gio presi frontalmente in primo e primis
co di nomi su cui tornerà più tardi simo piano dalla telecamera fissa. Eli
con il video su Allan Kaprow e Allen mina, tranne pochi oggetti emblema
Ginsberg (Allan and Allen’s Com tici, la scenografia, sostituendola col
plaint). Sono qui a confronto due cul nero o il bianco assoluto o, in alcuni
ture che, sembra suggerire Paik, rive totali, con un gioco mutevole di for
lano numerosi punti di contatto pur me bianche e nere ottenuto con l’ef
nelle diversità e nelle distanze di tem fetto chroma-key. Potendo vedersi nel
po. Il video include anche un’intervi monitor a tempo reale, Bene control
sta di Russel Connor a Duchamp rea lava la propria recitazione in fieri, ma
lizzata nel 1964: ulteriore tributo a soprattutto assisteva alla trasformazio
questo maestro, cui i videoartisti spes ne del monitor stesso in specchio ri
so e volentieri rendono omaggio e a flettente la sua immagine (A. Balzola,
cui anche Shigeko Kubota si era espli F. Prono, 1994). Questo specchio, che
citamente riferita nella sua serie «Du sdoppia il corpo-voce istantaneamen
champiana». te, permette all’attore di diventare
Catalogo Invideo, 1990 spettatore di sé stesso ma, restituendo
parallelamente non il personaggio,
Carmelo Bene bensì il volto fisico, quotidiano del-
Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a l’attore stesso, lo rende consapevole
Laforgue) (1978) del suo «fallimento»: «...quando ti
Carmelo Bene realizza quattro regie guardi in questo specchio e ti ricono
televisive originali (Quattro diversi mo sci imbecille e ti accorgi e sai benissi
di di morire in versi, 1976; Amleto, 1977, mo che tutto quello che stai facendo è
Riccardo III, 1978; Otello, 1979). Nella irrappresentabile». L’irrappresentabi
versione televisiva (contenente un col lità del personaggio è uno dei punti
lage di testi diversi, da Laforgue a di arrivo della poetica di Carmelo Be
Freud, ma anche da Balzac a Gozzano ne, il quale proprio guardando nel
e un collage di musiche diverse, da monitor-specchio ne trovò l’ennesima
Mussorgskij a Rossini a Stravinskij a conferma. Il risultato di questo scacco
Wagner) che segue le versioni teatrali, diventa così un monologo nevrotico,
465 39 SCHEDE
mo» (Studio Azzurro, Ambienti sensibi l’autore sul senso del suo lavoro: «Po
li, Electa, Milano 1999). tremmo chiamarla un’orchestrazione
Andrea Balzola di effetti di scrittura. Questi possono
essere testuali, sessuali, ipertestuali,
Mark Amerika qualsiasi altra cosa. L’ importante è
Grammatron (1997) prendere quel «grammo» – o lessìa,
Mark Amerika ha pubblicato romanzi cioè l’unità elementare che costituisce
(The Kafka Chronicles, 1993 e Sexual l’ipertesto – e creare applicazioni nar
Blood, 1995), antologie di racconti e di rative da sogno che possano far disabi
saggi (Degenerative Prose, 1995) ma è tuare dall’esperienza canonica di Web
noto soprattutto per il suo lavoro sugli surfing».
ipertesti: «Per me» scrive Mark Ame
rika «non c’è nessuna differenza tra Peter Gabriel, Real World Multime
scrittura lineare e ipertestuale, perché dia
i miei romanzi sono già una sorta di EVE (Evolutionary Virtual Environment)
hyperfiction». Ma prima ancora, gli do (1997)
vrebbe essere riconosciuto il ruolo di Avete perso il diritto a restare in para
agitatore culturale, un vero Marinetti diso?
nell’era di Internet. Di lui si può sape Eve è un viaggio sotto forma di cd-
re tutto sul sito ALTX.com. Grammatron, rom interattivo. Un viaggio tra pae
con Phon:e:me e Filmtext, è parte di una saggi surreali, ariosi panorami a 360°,
trilogia che l’artista ha realizzato tra la luoghi post atomici, ambienti immer
seconda metà degli anni Novanta e l’i sivi onirici, suoni ipnotici alla ricerca
nizio del nuovo millennio. Gramma del paradiso perduto. Una formula
tron – realizzato con il programma alchemica/tecnologica che si avvicina
Storyspace – si presenta come un va ai sogni di una generazione beat tur
sto arcipelago di immagini, brani mu bata da sostanze psicoattive. Riflette
sicali e brevi frammenti di testo (alcu coerentemente le aspettative degli
ni dei quali diretti a introdurre o a anni Novanta rispetto alla tecnologia
commentare l’opera stessa). Curiosa e al multimedia, e l’idea ancora uto
mente i collegamenti attivabili a di pica che gli ambienti virtuali e inte
screzione del fruitore – in apparenza, rattivi avrebbero soppiantato le altre
la caratteristica più evidente della forme obsolete di comunicazione.
scrittura ipertestuale – sono del tutto Eve è un game ibrido, un gioco di av
assenti nella prima parte dell’opera, ventura come Myst dalle capacità evo
una lunga sequenza di videate che si cative e immaginifiche di una installa
susseguono senza che ci sia alcuna zione d’arte. La struttura labirintica
possibilità di interagire. Soltanto al con chiavi enigmatiche e cervellotiche
termine di questa sorta di introduzio lascia vagare nei luoghi e cattura per
ne i meccanismi dell’interattività ri circa sessanta ore di interazione.
prendono a manifestarsi: viene pre Peter Gabriel è notoriamente un arte
sentata la figura di Abe Golam, «leg fice di progetti innovativi multimedia-
gendario infosciamano creatore di li, dai video degli anni Ottanta fino al
Grammatron», punto focale di una precedente cd-rom Xplora1 del 1994.
proliferazione concettuale che finisce Per l’occasione, con un sostanzioso
per lambire gli angoli più remoti del budget di due milioni di dollari, creò
nostro essere digitali. Così si esprime un ricco staff di artisti, tecnici e teorici
LE OPERE 474
che lavorarono al progetto per oltre svizzeri. Dopo aver tentato ripetuta
un anno. Helen Chadwick, Yayoi Ku mente di acquistare il dominio, deci
sama, Cathy de Monchaux e Nils-Udo sero di intraprendere un’azione lega
realizzarono opere d’arte ad hoc per le contro Etoy, sostenendo che il loro
l’interfaccia visiva, teorici come Kathy sito avrebbe potuto turbare qualche
Acker e Orlan dettero il loro supporto bambino che vi fosse capitato per caso
con interviste e testi, programmatori (dimenticando di digitare la «s»),
come Mike Coulson studiarono nuove contenendo testi non adatti ai minori
stringhe di comandi per apportare e un linguaggio scurrile. Il primo
elementi di interazione anarchica al round legale finì con la vittoria del gi
progetto. gante dei giocattoli e la corte di Los
Il risultato fu quindi questo prezioso Angeles ingiunse a Etoy di chiudere
cofanetto contenente il cd e un libro immediatamente il sito, pena una
dalla grafica accattivante destinati a fa multa di diecimila dollari per ogni
re da modello estetico e strutturale giorno di ritardo. eToys, nonostante
per le realizzazioni multimediali suc avesse acquistato il proprio dominio
cessive e che tutt’oggi continua a in con ben tre anni di ritardo rispetto a
fluenzare trasversalmente vari settori, Etoy, venne riconosciuta vincitrice e
dall’arte, alla musica al teatro. gli agenti di Etoy furono costretti a tra
Federico Bucalossi sferirsi in un altro anonimo url. Subi
to dopo inviarono un’e-mail di de
Etoy nuncia che fece rapidamente il giro
Toywar (1999) del mondo scatenando la reazione del
Etoy è un gruppo di artisti europei popolo della rete. Il contrattacco di
esperti di software. I sette agenti che etoy fu simbolicamente battezzato
ne fanno parte hanno deciso di «la Toywar, una guerra senza quartiere
sciarsi il mondo reale alle spalle» per contro la multinazionale dei giocatto
vivere e agire sulla rete. L’azione che li che vide la partecipazione di oltre
li ha resi noti è il digital hijack, un atto duemila Etoy agents impegnati in mol
«terroristico» virtuale che nel 1996 teplici azioni di sabotaggio e disturbo.
«rapì» più di 600.000 internauti, di L’obiettivo, che era quello di ledere
rottandoli sul sito di Etoy mentre usa l’immagine di eToys al punto da far
vano normali motori di ricerca. L’o crollare le sue azioni in borsa, fu rag
biettivo di Etoy è la riflessione sul si giunto in pochi mesi.
stema dei media e sull’impianto teori Valentina Tanni www.exibart.com
co e concettuale del cyberspazio. Cen
trale nella loro filosofia è il concetto Peter Greenaway
di shock comunicativo. Quello che The Tulse Luper Suitcases. A Fictive Hi
conta è la risonanza mediatica del ge story of Uranium I. The Moab Story
sto, la sua portata simbolica. La lunga (2003)
battaglia legale e mediatica che ha vi The Tulse Luper Suitcase, è un ambizioso
sto protagonisti eToys – multinaziona progetto multimediale che consiste in
le di giocattoli – e gli Etoy ebbe inizio una trilogia epica della durata di sei
nel settembre 1999, quando la società ore composta da 16 episodi e da consi
americana si accorse dell’esistenza di derarsi come un solo lungo film. La
un dominio troppo somigliante al prima e la seconda parte sono state
suo, quello dei radicali cyberartisti presentate ai Festival cinematografici
475 39 SCHEDE
Teatro – Happening
Vediamo che per ogni settore dell’arte teatrale esistono particolari leggi.
Quali sono dunque queste leggi che regolano la vita del teatro?
La pittura ha a che fare con lo spazio, la musica esiste solo nel tempo. Gli
elementi del teatro invece si collocano sempre nello spazio e nel tempo, e
dobbiamo dire che proprio questa combinazione di elementi spaziali e
temporali rappresenta la massima difficoltà dell’arte teatrale. La scienza
contemporanea sta indagando con particolare attenzione il problema del
rapporto tra spazio e tempo. Prima si pensava che si trattasse di due entità
assolutamente differenti, che si potessero studiare separatamente e indi
pendentemente l’una dall’altra. La nuova teoria della relatività invece ci ri-
vela che questa concezione è completamente sbagliata: essendo il teatro
un’arte che, a differenza di tutte le altre agisce contemporaneamente nel
lo spazio e nel tempo, la rivoluzione in corso nelle scienze fisico-matema
tiche lo pone in una condizione particolare. Se infatti l’attore, una volta
entrato in scena, rimanesse immobile, sarebbe una contraddizione: cesse
ANTOLOGIA 480
rebbe di essere un attore e diventerebbe un elemento di un quadro viven
te. Un quadro vivente, non vi pare un vero e proprio assurdo artistico? È
assurdo già l’accostamento di queste due parole «quadro vivente». Perché
mai un quadro dovrebbe essere vivo e perché un essere vivente dovrebbe
essere un quadro, quando tutto ciò che vive è in movimento? Bisogna poi
dire che l’attore, se vuole diventare uno degli elementi dell’arte teatrale,
non può muoversi sul palcoscenico in modo arbitrario, ma deve obbedire
alle leggi del movimento scenico.
«Il teatro moderno è il teatro epico», scriveva Bertolt Brecht nelle Note
all’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny» (1938). Pur intravedendo
il pericolo di un ennesimo furto a opera della borghesia del nuovo mezzo
tecnico, la radio, che non faccia altro che perpetuare il mercato dell’arte,
Brecht sogna un suo utilizzo epico in cui far convogliare insieme, in un
concerto globale, radio e teatro. Il passaggio dalla radio come mezzo di di
stribuzione in mezzo di comunicazione, in grado di ricevere informazioni
ma anche e soprattutto di diventarne fornitore, è uno degli argomenti
centrali nel suo Discorso sulla funzione della radio (1932).
Il problema non è la tecnica, ma la forma artistica da attribuirle:
È compito istituzionale della radio dare a tali iniziative didattiche una for
ma interessante, cioè rendere interessante ciò che ha interesse. A una par
te, specialmente la parte destinata ai giovani, essa può conferire addirittu
ra forma artistica. E questo sforzo della radio di dare forma artistica all’e
lemento didattico verrebbe certo favorito dagli sforzi che certa arte mo
derna compie per conferire all’arte un carattere didattico.
Dinamico, simultaneo
cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità
suggestionante e rivelatrice. Noi crediamo che una cosa valga in quanto
sia stata improvvisata (ore, minuti, secondi) e non preparata lungamente
(mesi, anni, secoli). Noi abbiamo una invincibile ripugnanza per il lavoro
fatto a tavolino, a priori, senza tenere conto dell’ambiente in cui dovrà es
sere rappresentato.
La maggior parte dei nostri lavori sono stati scritti in teatro. L’ambiente
teatrale è per noi un serbatoio inesauribile di ispirazioni.
Teatro Merz
In contrasto col dramma e l’opera, tutte le parti del lavoro teatrale Merz
sono inseparabilmente unite: il teatro Merz non può essere scritto, letto o
ascoltato, ma soltanto realizzato scenicamente. Fino a oggi, si è sempre fat-
ta distinzione tra scena, testo e partitura nelle rappresentazioni teatrali e
ognuno di questi fattori è sempre stato gustato separatamente. Il teatro
Merz invece conosce solo la fusione di tutti gli elementi dell’opera in un
tutto composito. I materiali per la scena sono corpi solidi, liquidi e gasso
si, come muro bianco, uomo, viluppo di filo spinato, distanza blu...
Prendete un trapano da dentista, un tritacarne, un rullo compressore, au
tobus e automobili da diporto, biciclette e tandem, ruote e pneumatici sin
tetici del tempo di guerra. Deformateli. Prendete delle luci e alteratele il
più possibile. Fate cozzare delle locomotive una contro l’altra. Fate che
tendine e portiere formino fili di ragnatele, danzino con le intelaiature
delle finestre e rompano vetri stridenti. Fate esplodere vaporiere. Per co
prire di nebbia la strada ferrata. Prendete sottovesti e altri articoli della
stessa specie, scarpe e parrucche, nonché pattini di ghiaccio, e gettateli al
loro posto e sempre al tempo giusto. Per quanto mi riguarda, prendete an
che vestiario maschile, pistole automatiche, macchine infernali, una tor
pedine marina e una cappa da camino, tutto naturalmente in una condi
zione deformata artisticamente. Raccomandiamo vivamente le camere d’a
ria. Prendete insomma qualunque cosa, dalla toeletta della signora di clas
se al propulsore del Leviathan delle SS sempre avendo in mente le dimen
sioni richieste dal lavoro.
Si possono usare anche persone.
Le persone possono venir legate alle quinte.
Le persone possono anche comparire mentre sono intente alle loro occu
pazioni di ogni giorno... (AA.VV., The Dada Painters and Poets, New York
1951)
The Car Crash (1960) di Jim Dine – che fu anche uno dei più famosi
nomi della pop art – autore dei più movimentati e comici happening, si
riferisce all’elemento dinamico della vita californiana e all’automobile.
ANTOLOGIA 484
Questa la dichiarazione di Dine: «L’aspetto visivo degli happening era si
curamente un prolungamento della mia pittura ma conteneva anche al
tre cose, perché io penso su due piani diversi. Io penso sul piano visivo
che non ha niente a che fare con l’espressione parlata, ma queste cose
dovevano passare attraverso il linguaggio parlato (come le idee lettera
rie pensate in modo visivo) e così sorsero i due piani [...] Quando pro
dussi The Car Crash il lavoro rivelò effettivamente un certo rapporto con
i miei quadri. Il riferimento, tuttavia, era solo dovuto al fatto che i miei
quadri di allora e l’happening avevano lo stesso tema e io avevo pensato
che sarebbe stato interessante legare le due esperienze insieme. Non
c’era altra relazione».
Ancora una volta se ne fa promotrice la Reuben Gallery (dove Allan
Kaprow presentò il suo primo happening) appena trasferitasi in un lo
cale della East Third Street di New York. Protagonista è lo stesso Jim Di-
ne, abbigliato con una cuffia e un impermeabile dipinto d’argento. Gli
attori portavano luci in mano con cui abbagliavano gli spettatori seduti
nella stanza, ingombra di pitture, oggetti e ruote di automobili. Rumori
di traffico registrati creavano l’atmosfera di un «esterno».
Riproduciamo una parte del Copione dell’azione di The Car Crash. Da
notare che le macchine «personificate» da attori vengono incorporate
nella rappresentazione in quanto insolite portatrici di movimenti di
«danza», di luci e di rumori (registrati e simulati con torce elettriche),
questi ultimi orchestrati con clacson in una sorta di originale concerto
in contrappunto con la voce del protagonista. Come afferma Kirby negli
happening gli attori (che non reagiscono «creativamente» ma solo fun
zionalmente all’azione di un altro attore) diventano oggetti e gli ogget
ti attori. Il discorso pronunciato da Pat Oldenburg dopo la premessa
dell’incidente, è il frutto di una tecnica combinatoria, in cui è evidente
l’elemento della casualità di accostamento-assemblaggio sia di rumori
sia di concetti (che rimandano all’esaltazione della macchina di futuri
stica memoria e all’aleatorietà dei surrealisti e di Cage), di sovrabbon
danza di fonemi onomatopeici, di allitterazioni, di un fluire verbale sen
za pause che dovrebbe restituire l’equivalente sonoro di un rombo di
macchina. Evidente – data anche la tematica – il richiamo alla lirica ma
rinettiana. Motivo per cui abbiamo preferito lasciarlo nella lingua origi
nale, l’inglese.
La tematica della macchina e delle strade è presente anche in un altro
famosissimo happening di Claes Oldenburg, Autobodys (Chicago, 9-10 di
cembre 1963) ispirato all’uccisione e ai funerali del presidente Kennedy
avvenuti poche settimane prima. In questo caso l’happening si trasferi
sce significativamente all’esterno, in un parcheggio inondando la città
di azioni artistiche realizzate con betoniere, macchine e moto, accen
485 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
THE CAR IN MY LIFE IS A CAR WITH A POLE IN THE HARM OF MY SOUL WHICH IS
A PRETTY CLANK... (PIÙ FORTE) MY CAR IS MY HERTZ SPOT OF LOVE TO ZOOM
THROUGH THE WHOLE TRANSMISSION OF MY LOVELY TIRE HOLD TIME OF
GOODSHORT GASSSSSSS, HOW SWEET IS SHORT SMELL OF EARTH NOISE WHEN
THE SPARK PLUG LIE OF WHOLE SHORT MAKE MY GARNU FLACK OUT OF SHORT
WEAVING MOTORS COME IN GAS HOLE OF TIRE RACK, TOOL SMELL, AND CUZMY
JERK ON OF OIL SLICK IN THE MIDDLE OF A GOOD TIME OD DAY, WHEN ALL THE
CARS OF MY MY MY MY HORN HONKS ON THE HELP NOISE OF ALL OUR TIME
TRUNCK LOCK CADILLAC MANIA FOR THE FORD IS THE CRUNCH OF THENORD
OFALL THE SHOOT FAST TIME NOICE OF OUR CAR.
Venendo agli happening della fine degli anni Cinquanta, io ero certo che
lo scopo era di «fare» un’arte che fosse distinta da tutti i generi conosciu
ti (o da tutte le combinazioni di generi). Mi sembrava importante svilup
pare qualcosa che non fosse un altro genere di pittura, di letteratura, di
musica, di danza, di teatro, di opera.
ANTOLOGIA 486
Poiché la sostanza degli happening erano gli avvenimenti in tempo reale,
come a teatro o all’opera, il lavoro consisteva logicamente nell’oltrepassa
re tutte le convenzioni teatrali. Così in due anni ho eliminato i contesti ar
tistici, pubblico, unità di tempo e di luogo, luoghi scenici, ruoli, intrecci,
talenti d’attore, ripetizioni, performance rimontate e gli stessi scritti abi
tualmente disponibili.
Ora, se i modelli di questi primi happening non erano artistici, c’erano ab
bondanti alternative nella vita quotidiana: lavarsi i denti, prendere un au
tobus, fare i piatti, chiedere l’ora, vestirsi davanti a uno specchio, chiama
re un amico, spremere arance. Invece di creare un’immagine o un avveni
mento oggettivo destinato a essere visto da qualcun altro, era una questio
ne di fare qualcosa e farne esperienza in sé. Era la stessa differenza che c’è
tra guardare un attore mangiare delle fragole sulla scena e mangiarsele a
casa. Vivere la propria vita, coscientemente, era una nozione impellente
per me. Tuttavia quando si vive la propria vita coscientemente, essa diven
ta abbastanza strana: il fare attenzione trasforma quello su cui poniamo at
tenzione [...] Da qui, un nuovo genere arte-vita era comparso, che riflet
teva a sua volta gli aspetti artificiali della vita quotidiana e le qualità vicine
alla vita dell’arte creata. (A. Kaprow, L’art et la vie confondue, ed. Centre
Pompidou, Paris 1996, trad. it. A.M. Monteverdi)
sciute. L’elemento base di questa nuova urbanistica non sarà dunque la ca
sa, ma il complesso architettonico, imperniato su effetti d’atmosfera emo
tivi dei vani, dei corridoi, delle strade, legati ai comportamenti che essi
contengono e suscitano. In opposizione al razionalismo e al funzionalismo
(allora imperanti) si costruirà un’architettura partendo da situazioni emo
zionali, più che da forme emozionanti. Riallacciandosi alle posizioni di
Antonin Artaud (che attraverso John Cage influenzeranno la formazione
di Fluxus e la nascita degli happening in America a metà degli anni Cin
quanta), Debord sottolinea come le più valide ricerche rivoluzionarie nel
la cultura siano dirette a coinvolgere lo spettatore, il suo intervento attivo,
provocandone la capacità di cambiare la vita. La «situazione» è dunque
creata per essere vissuta dai suoi costruttori. Il ruolo passivo del pubblico
deve diminuire, fino a divenire parte attiva, vivente. Si devono moltiplica
re gli oggetti e i soggetti poetici, oggi rari; è necessario integrare il gioco,
azione comportamentale, nella vita quotidiana, allargando a tutte le forme
dei rapporti umani, come l’amicizia e l’amore.
Fluxus
Agli inizi Fluxus era uno stato dello spirito, più intenso dell’happening. Si
è largamente diffuso agli inizi degli anni Sessanta, anche se cronologica
mente è successivo agli happening. Penso che senza l’happening non ci sa
rebbe stato Fluxus. È la varietà della sua estetica musicale che ci ha fatto
avvicinare a Fluxus, dalla musica di azione, di vita, di pensiero, alla musica
dé-collage, alla musica di comportamento, fino alla musica invisibile. Que
sta concezione della vita non solo come opera d’arte – l’ho già detto nel
1961: la vita è un’opera d’arte, l’opera d’arte è vita –, ma come processo
musicale. Ed è stata a mio parere questa visione della realtà e dell’arte,
piuttosto che gli eventi di Fluxus, a provocare scandalo. Tutto può essere
musica: in questo concetto sta la prodezza di Fluxus e la sua unità. Ed è il
motivo che ha riunito gli artisti americani vicini a Cage agli artisti europei
che, come me, avevano già realizzato events [...] All’epoca io realizzavo gli
strappi di dé-collage interpretando il rumore dello strappo come un con
ANTOLOGIA 488
certo, come un pezzo musicale. E fu la mia ascesa in Fluxus: interpretare i
rumori degli events che realizzavo – lo strappo di manifesti, la distruzione
di un televisore, la demolizione di un edificio con una massa pendolare, il
rumore di un muro che crolla – come una composizione musicale. Era
questa la musica nata dalle azioni di dé-collage ed è appunto il concetto di
musica dé-collage che ho introdotto in Fluxus [...] Ritornando alla co
scienza Fluxus, una parte decisiva del mio lavoro – e penso di poterlo dire
per Fluxus e per l’happening in generale – è che a partire da un certo mo
mento nelle mie realizzazioni non si vedono più immagini o cose, ma si ha
l’impressione che i soggetti comincino a vivere, a provare sensazioni. L’ar
tista non agisce semplicemente davanti a un pubblico, ma con il pubblico,
e ciò significa che l’opera d’arte, musica, environment o azione che sia, è
viva. È un concetto cruciale dopo Picasso. L’arte vive e prende forme per
un momento, identificandosi con il sistema nervoso dell’essere umano. È
soltanto a partire da Fluxus che tutti i sensi e il corpo sono coinvolti. Il mio
contributo a Fluxus si può così definire come un’estensione del concetto
di vita. La vita riceve un nuovo significato quando viene rappresentata e ci
si lavora coscientemente [...] La grande ipotesi che io ho posto è quella di
diventare noi stessi opere d’arte, invece di considerare opere d’arte og
getti a noi esterni. E questo può avvenire nella vita e nella realizzazione
dell’evento artistico, ma anche attraverso la sua contemplazione e il suo
ascolto. Quando questa opera d’arte è capace di dare qualcosa di sé, chi
l’ha prodotta diventa un artista. L’essere umano è, prima di tutto, un’ope
ra d’arte. Poi, può diventare un artista. (Catalogo Mostra Ubi Fluxus Ibi Mo
tus, 1990-1962, op. cit.)
Sin dall’inizio vi furono polemiche circa il fatto che i nostri spettacoli po
tessero o meno essere considerati teatrali. La simbiosi dell’azione scenica
con le proiezioni era essenziale. Noi eravamo persuasi di aver arricchito le
messinscene, conservando certe regole del teatro, di nuovi mezzi tecnici e
soprattutto della collaborazione di tutti gli artisti, che partecipavano con
entusiasmo alla nuova esperienza. Secondo le teorie di Stanislavskij, il tea
tro moderno comincia là dove gli attori si calano nella parte al punto da
diventare i personaggi che rappresentano. In questo senso la Lanterna
Magika, grazie al regista Radok, ha conseguito pienamente lo scopo. Co-
me esempio posso ricordare la scena della conferenza, che era della prima
parte del nostro primo programma; sul palcoscenico, nel ruolo del confe
renziere, c’è una ragazza, mentre altre due, uguali a lei, vengono proietta
te sugli schermi; tutte e tre interagiscono chiamandosi vicendevolmente in
causa, e tutte e tre sono quindi conferenzieri a tutti gli effetti. Ecco il prin
cipio di Stanislavskij sulla suggestione e l’autosuggestione. Questa scena
mi ha ispirato la scenografia che ho sempre desiderato fare, cioè quella co
stituita da multischermi. L’attrice in scena e le sue due immagini sugli
schermi agivano tutte e tre come se fossero realmente presenti. Il pubbli
co in platea si rendeva conto della diversità di quelle presenze, ma le per
cepiva come un’azione drammatica di tre personaggi reali. Per non di
sturbare la percezione non usai né il solito taglio né la carrellata, serven
domi invece, per creare l’illusione di uno spazio delimitato, delle speciali
quinte sceniche.
In Italia a partire dalla metà degli anni Sessanta alcuni registi teatra
li iniziano a sperimentare creativamente il linguaggio televisivo non
solamente come «adattamento» o «traduzione». Per Luca Ronconi,
con le sue regie dell’Orlando Furioso, Bettina, La torre, John Gabriel Bork
man, Gli ultimi giorni dell’umanità, la matrice dell’invenzione televisiva è
l’anomalia:
491 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
Probabilmente il mio interesse per il teatro in tv nasce dal fatto che un te
sto scritto per il palcoscenico non trova sul teleschermo il suo luogo natu
rale di rappresentazione. Per il teatro l’uso del mezzo televisivo è anoma
lo, e questo obbliga il regista a trovare ogni volta tipi di scrittura sempre di
versi. La messinscena per il video pone problemi molto differenti da quel-
la che si allestisce di fronte a un pubblico in carne e ossa, e l’invenzione re
gistica scaturisce proprio dall’incontro, dall’intersezione tra i linguaggi
del teatro e della tv...
Non mi interessa affatto prendere la tv come oggetto drammaturgico, ap
plicare al teatro la drammaturgia televisiva; cerco invece di muovermi ver
so un tipo di drammaturgia che passa attraverso la televisione, per inven
tare forme drammaturgiche specifiche. Con le mie regie ho tentato infat
ti di realizzare non riprese televisive, ma trascrizioni televisive di drammi
scritti per il teatro. Ho, in altre parole, riscritto con un altro linguaggio ciò
che era stato scritto per il linguaggio teatrale. (Intervista a L. Ronconi, in
A. Balzola, F. Prono, Luca Ronconi: per un teatro televisivo?, video, CRUT, To
rino 1988)
Mi sono trovato a lavorare sul mio spettacolo (Gli ultimi giorni dell’Umanità)
nello stesso modo e con lo stesso metodo con cui, per la sua realizzazione,
avevo lavorato sul testo di Kraus. E se prima avevo creato un filo all’inter
no del testo di Kraus, ora, con il video, ho dovuto creare un altro filo al-
l’interno della mia stessa rappresentazione [...] Lo spettatore televisivo ve
de sullo schermo il pubblico del Lingotto e lo vede come attore, come par
te dell’azione; e già questo modifica radicalmente la percezione dell’e
vento, forse il senso del testo. Lo spettatore televisivo torna, in qualche
modo, a essere lettore. Perciò il video, esattamente come il libro, sollecita e
richiede una partecipazione visionaria dello spettatore; promuove la sua
capacità di immaginare altro (forse anche il Lingotto). Spero molto che il
telespettatore sia portato a integrare con l’immaginazione qualche cosa
ANTOLOGIA 492
che l’immagine non dà. (L. Ronconi in AA.VV., Gli ultimi giorni dell’uma
nità, Aleph, Torino 1991)
Il CAE fece un gesto retorico molto specifico e severo. Noi dicemmo: «Le
strade sono morte». Prendemmo ispirazione dal cap. IV di Neuromante di
Gibson dove un hacker e una donna cyber devono entrare nel bunker del-
l’informazione. Allora chiamano in aiuto un altro gruppo, The Panthers
modern, e ciò che loro fanno è di iniettare nel bunker dell’informazione
nuovi livelli di realtà, multiple realtà a tal punto che il bunker non è più in
grado di definire ciò che è vero e ciò che è falso. In qualche modo noi pos
siamo diventare i Panthers modern e possiamo iniettare nel sistema queste
realtà multiple nel senso di sviluppare un gesto simbolico che possa affer
mare più di ogni gesto distruttivo. Il disturbo crea veramente uno spazio,
una situazione, un teatro invisibile che permette al potere di salire improv
visamente in scena e agire... Tu non devi dire nulla. È irrazionale, incom
prensibile per i network, per la polizia. È un microgesto che in sé e dal di
fuori risulta quasi invisibile ma l’effetto che sortisce è quello di creare que
sto grande dramma sociologico. Cominciammo a pensare cosa potesse es
sere la disobbedienza civile elettronica, chi l’avrebbe potuta creare e quale
sarebbe stata la sua risposta. Principalmente decidemmo che azioni dirette,
non violente e on-line sarebbero state il prodotto di piccole cellule. Diven
tammo un teatro, il Teatro del disturbo elettronico. Avremmo fatto una
performance lunga un anno e due azioni ogni mese: «Perché non andiamo
sul sito del presidente Zedillo o su quello della borsa messicana e poi clic
chiamo sul pulsante del reload tra l’una e le quattro della fascia oraria di
Città del Messico?». Questo creerà un disturbo. Quello che vogliamo fare
non è tirare giù il server ma disturbarlo. Io e Stephen siamo quasi pronti
ad attivare il Floodnet quando un gruppo di hacker denominato Heart ci
circonda e ci dice «Guardate che state occupando banda», che loro consi
derano il puro male peggiore. «Se lo fate vi buttiamo giù». È stata la prima
volta che ho incontrato qualcuno che crede che l’ampiezza di banda sia al
di sopra dei diritti umani. Anche se l’azione non riesce, crea comunque
una simbolica distribuzione dell’informazione. Improvvisamente dopo
due ore e tre azioni notiamo che lo Zapatista Floodnet non stava più fun
zionando, stava crashando. Il Pentagono stava usando un’arma da guerra
dell’informazione chiamata Ostile Applet Java. Il potere risponde in mo
do imponente, ci rendiamo conto che è come sedersi e giocare davanti a
un negozio della Disney. Gli zapatisti hanno creato questo gesto potente
tra le reti perché hanno capito che è una questione di linguaggio, una
497 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
David Rokeby ha creato sin dai primi anni Ottanta una serie di instal
lazioni interattive audio e video che coinvolgono performativamente il
corpo del visitatore (il viewer). Tra questi Body Language e Very Nervous Sy
stem (vedi scheda). L’interfaccia non è visibile, così il corpo dell’utente, li
berato di questo condizionante cordone ombelicale, è portato a espri
mersi più liberamente e creativamente. In un’intervista alla rivista digita
le «Dichtung-digital.org» l’artista ha rilasciato interessanti dichiarazioni
sulla necessità di creare attraverso questi progetti artistici interattivi, siste
mi di controllo inesatto e sul fatto che per la sua vera riuscita, il sistema com
puterizzato deve trascendere il controllo del programmatore.
Per la maggior parte delle persone il senso di controllo è una illusione pe
ricolosa. Molte persone sono incapaci di impegnarsi in situazioni dove il
luogo di controllo è ambiguo (che include virtualmente tutte le situazioni
della vita). Io sto tentando di proporre un modello differente. Potresti
non avere controllo sul mio sistema, ma certamente sentirai che le tue
azioni sono altamente significative e che esse riflettono tangibilmente lo
stimolo. Il fatto che il mio vicino non risponda sempre allo stesso modo
quando gli dico «ciao» non significa che questa sia un’esperienza smi
nuente. Se noi allontanassimo dalle nostre vite tutto ciò che è incerto,
non prevedibile e ambiguo, diventeremmo una specie assai triste. Il com
puter azzera l’illusione che il controllo totale sia possibile.
(D. Rokeby, www.dichtung-digital.org)
Fotografia e Cinema
Il cinema, creato alla fine del XIX secolo come uno strumento finaliz
zato a una documentazione scientifica più efficace della fotografia (per
ché in grado di riprodurre anche il movimento) e presentato nei luna
park come un’attrazione effimera, è diventato il medium protagonista
dell’immaginario collettivo del XX secolo (affiancato nella seconda metà
del secolo dalla televisione). Ha attraversato molte fasi di evoluzione
tecnica (dal muto al sonoro, dal colore al cinemascope e al suono ste
reofonico, dalla polivisione al cinema elettronico e digitale), di matura
zione linguistica, e una divaricazione (con qualche raro punto d’inter
sezione) tra cinema industriale di massa e cinema sperimentale d’artista
o d’autore. Molti autori e teorici delle avanguardie hanno visto nel ci
nema anche la possibilità di realizzare l’utopia della sintesi delle arti
che non era riuscita al teatro, e per questo hanno sperimentato come
nel cinema potevano integrarsi o dialogare le diverse forme artistiche,
altri invece, all’opposto, hanno ricercato la «purezza» del linguaggio ci
nematografico, cercando di emanciparlo da modelli naturalistici, lette
rari, teatrali o pittorici ed esplorandone le molteplici potenzialità espres
sive autonome. Così come la fiction e la documentaristica del cinema
hanno ispirato le produzioni televisive, questa ricerca artistica ha ispira
to il fenomeno della videoarte e delle nuove arti digitali, che a loro vol-
ta, adesso, stanno mutando il volto del cinema del nuovo millennio. Il ci
nema, il cui significato etimologico è «scrittura del movimento», con-
ferma la sua straordinaria capacità di metamorfosi e di essere anche
«scrittura in movimento».
Sono andato al cinematografo parecchi anni or sono. L’ho visto alle sue
origini. Quest’invenzione, complemento della fotografia istantanea, può
suggerire idee nuove al filosofo. Essa potrebbe aiutare la sintesi della me
moria o anche del pensiero. Se la circonferenza è composta da una serie di
punti, la memoria è, come la cinematografia, una serie di immagini. Con
queste, essendo immobili, abbiamo lo stato neutro; il movimento è vita.
L’essenza della luce, del suono, non è la vibrazione? L’occhio vivo non è
forse un cinematografo? È noto quale rivoluzione produsse in pittura l’in
venzione della fotografia istantanea. Allora, per esempio, i pittori poterono
accorgersi che gli atteggiamenti dei cavalli in corsa, come da loro erano
stati rappresentati spesso non erano esatti, e li corressero. Ed avvenne che,
ispirandosi alle immagini colte dal vero con la fotografia istantanea, gli ar
tisti dipinsero delle figure rigide, intirizzite, senza vita. Vi guadagnava l’e
sattezza matematica, ma altrettanto vi perdeva l’impressione di verità. Il ci
nematografo insegnò ai pittori che la fotografia aveva torto.
(H. Bergson, Sul cinematografo, in «La Gazzetta del Popolo», Torino 24 feb
braio 1914, ripubblicato in «Aleph cinema e altri media», n. 1, marzo 1990
con una nota di A. Balzola, Commento a Bergson, pp. 101-103)
Studium non significa, per lo meno come prima accezione, «lo studio»,
bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interes
ANTOLOGIA 500
samento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità. È attraverso lo
studium che io mi interesso a molte fotografie, sia che le recepisca come te
stimonianze politiche, sia che le gusti come buoni quadri storici; infatti, è
culturalmente [...] che io partecipo alle figure, alle espressioni, ai gesti, al
lo scenario, alle azioni.
Il secondo elemento viene a infrangere (o a scandire) lo studium. Questa
volta, non sono io che vado in cerca di lui [...], ma è lui che, partendo dal
la scena, come una freccia, mi trafigge. In latino, per designare questa fe
rita, questa puntura, questo segno provocato da uno strumento aguzzo,
esiste una parola; tale parola farebbe ancora meglio al caso mio in quanto
essa rinvia all’idea di punteggiatura e in quanto le foto di cui parlo sono in
effetti come punteggiate, talora addirittura maculate di questi punti sensi
bili; quei segni, quelle ferite sono effettivamente dei punti. Chiamerò
quindi questo secondo elemento che viene a disturbare lo studium, punc
tum; infatti punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo
taglio, e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fa
talità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce).
(R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, pp. 27-28)
Prima si era cercato di unire due temi, l’uno visivo, l’altro sonoro, che of
frivano, o parevano offrire, delle analogie del resto esteriori. Ora è il ritmo
delle immagini che si cerca di seguire con l’orchestra [...]
Io vi domando: era irragionevole affermare che la musica è generatrice di
immagini, che un poema sinfonico è simile a un apparecchio cinemato
501 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
cui li prova, tenderà la mano a chi elaborerà le forme superiori dello spet
tacolo futuro, al cinemago della televisione, che, rapido come un battere
di palpebra o il balenare di un pensiero, giocando con le lunghezze foca
li degli obiettivi e con le profondità di campo, potrà trasmettere in modo
diretto e immediato a milioni di ascoltatori e spettatori la sua interpreta
zione artistica dell’avvenimento, nel momento irripetibile in cui esso si
compie [...]
(S.M. Eisenstein, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, a cura di P. Gobet
ti, Einaudi, Torino 1964, p. XII)
I miei primi film con oggetti immobili erano fatti anche per aiutare il pub
blico ad abituarsi a sé stesso. Di solito, quando si va al cinema, ci si installa
in un mondo irreale, ma quando si vede qualcosa che vi disturba, si sento
no di più gli altri come qualcosa che ci riguarda. Il cinema fa più di quan
to non si possa fare col teatro o con i concerti, dove ci si limita a restare se
duti, e io penso che la televisione farà più del cinema. Si possono fare più
cose guardando i miei film che con altri tipi di film: si può mangiare e be
re e tossire e fumare e smettere di guardare lo schermo e poi guardarlo di
nuovo e i film stanno ancora lì [...] Si tratta di film sperimentali; li chiamo
così perché non so quello che faccio. Mi interessano le reazioni del pub
blico ai miei film: essi saranno adesso degli esperimenti, in un certo senso,
per saggiarne le reazioni.
(A. Warhol intervistato da G. Berg, in A. Aprà e E. Ungari, Il cinema di Andy
Warhol, Arcana, Roma 1973, pp. 23-24)
Nella primavera del 1995, i due registi danesi Lars von Trier (1956) e
Thomas Vinterberg (1969) scrivono il Manifesto DOGMA 95, atto di na
scita del gruppo omonimo di cineasti. Una svolta produttiva e di «ca
stità» estetica che segnerà il modo di fare cinema di una nuova genera
zione di cineasti, esploratori del digitale e realizzatori di film low-budget
e low-tech.
Il testo della Tempesta sembra essere il supporto ideale sul quale costruire
la teatralità cinematografica. Di questa chiave di lettura, Greenaway fa uno
strumento di scrittura, e poi di cinescrittura. L’ultima tempesta mette in
scena un drammaturgo occupato a scrivere un intreccio, a creare una sce
na e dei personaggi, ad animarli e inventare dei dialoghi per loro, delle in
tonazioni ecc. Si tratta dunque di trasporre in immagini, nello stesso tem
po, il testo e tutti i meccanismi della teatralità nella loro genesi e nella lo
ro forma rivelata. [...]
La fusione di un testo e di un corpo in seno alla rappresentazione, fonda
mento della teatralità, si realizza nell’immagine cinematografica. Quando
l’attore appare sullo schermo, la sua bocca si trova al centro dell’immagi
ne, e in sovrapposizione, in sovrimpressione, la prima parola della pièce è
come scritta sulla sua testa. [...]
La messa in immagine trasforma l’evocazione in invocazione. Il film è una
rappresentazione del processo di visualizzazione che il drammaturgo fa
ANTOLOGIA 512
del testo mentre lo sta elaborando, un testo che vive in un presente pro
gressivo, trasformato, proiettato in immagini. [...]
Il cinema di Greenaway si ricorda sempre delle altre arti e si afferma come
arte della sintesi, ricca di una moltitudine di componenti estetiche. Il rap
porto polisemico che egli intrattiene con l’immagine cinematografica ri
flette bene la sua costante preoccupazione di allontanarsi da un cinema
«piatto, lineare e conservatore», mettendo in opera tutte le potenzialità il
lusorie che esso racchiude. Questo cinema va alla ricerca di una terza di
mensione [...].
«Non si rifà la vita...» (Artaud) [...] Ma si può rifare il teatro, fondere due
tipi di rappresentazione, manipolando l’immagine all’interno di uno
schermo frammentato, esploso: si può dar luogo a una nuova forma di me
raviglioso teatrale, una teatralità ad alta definizione.
(A. Berthin-Scaillet, Peter Greenaway: théatralité de cinéma, in Cinéma et Théâ
tralité, a cura di C. Hamon-Sirejols, J. Gerstenkorn, A. Gardies, Cahiers du
Gritec, Aléas, Lyon 1994, pp. 142-144, trad. it di A. Balzola)
Musica
Si può dire che l’unica esplicazione dell’arte dei colori attualmente in uso
è il quadro. Il quadro è un accozzo di colori posti in tali reciproche rela
zioni da rappresentare un’idea. [...] Si può creare una nuova e più rudi
mentale forma d’arte pittorica ponendo sopra una superficie delle masse
di colore armoniosamente disposte le une rispetto alle altre, in modo da
dar piacere all’occhio senza che rappresentino alcuna immagine. Corri
sponderebbe a ciò che in musica si chiama accordo e possiamo quindi
chiamarlo accordo cromatico. Queste due forme d’arte: l’accordo croma
tico e il quadro sono spaziali; la musica ci dice che esiste qualche cosa di es
senzialmente diverso, l’accozzo di suoni susseguentesi nel tempo, il moti
vo, il tema: corrispondentemente l’arte dei colori potrà dar luogo a una
forma d’arte temporale che sarà un accozzo di toni cromatici presentati al-
l’occhio successivamente, un motivo di colori, un tema cromatico.
(B. Corra, Musica cromatica (1912), in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’a
vanguardia 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p. 222)
La musique concrète
«...Dopo aver fatto tabula rasa [...] prendevano i loro suoni non importa
dove, ma di preferenza nella realtà acustica: rumori, strumenti tradiziona
li, occidentali o esotici, voci, linguaggi, e anche qualche suono sintetico».
Il materiale, assemblato nelle prime esperienze su disco e in seguito «tra
sformato e assemblato con varie manipolazioni elettroacustiche [...] si pre
sentava su nastro magnetico e si perfezionava attraverso l’ascolto simulta
neo di diversi canali (stereofonia)». Le tecniche d’intervento derivavano
dalla radiofonia «l’accelerazione e il rallentamento che nel 1948 era per
messo dal giradischi e più tardi dal registratore, furono inizialmente im
piegati in modo casuale», tuttavia con questo tipo di approccio «...ogni
suono era scomponibile e quindi, grazie alle tecniche di montaggio e
mixaggio, ricomponibile con altri suoni». Ma queste operazioni di scom
posizione, analisi e ricomposizione del materiale concreto finirono per
diventare un «sezionare dei cadaveri [...] La musica viva era altrove, e do
veva rivelarsi soltanto a coloro che avrebbero saputo evadere da quei mo
delli semplicistici» e ancora: «...le opere finivano per assomigliarsi tutte».
517 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
Howard Rheingold (1947) è uno degli studiosi e dei teorici più im
portanti del fenomeno della comunicazione in rete, delle comunità vir
tuali e dell’e-learning (l’educazione elettronica). Autore nel 1985 di un
libro profetico, Tools for Thought, sulle prospettive di evoluzione comu
nicativa e cognitiva innescate dall’uso del computer, è stato tra gli ani
matori di una delle prime e più note comunità virtuali on-line (The Well,
http://www.well.com). Con la fondazione di riviste on-line come «Hot
Wired» ed «Electric Minds», e con i due testi Virtual Reality e The Virtual
Community, che si concentrano sui risvolti sociali, culturali e politici dei
new media, ha raggiunto la fama internazionale. La creazione delle co
ANTOLOGIA 522
munità virtuali mediante la comunicazione in rete è uno dei principi
guida dell’etica del movimento hacker e delle nuove pratiche artistiche
on-line (Net Art e Hacker Art) che si sono sviluppate in modo transconti
nentale dagli anni Novanta.
Uno dei vantaggi di Internet è che non si deve essere perennemente col
legati per conversare; tramite l’utilizzo della bacheca si può lasciare un
messaggio e tornarci più tardi per controllare le risposte. Alcune conver
sazioni durano settimane o mesi, addirittura anni; in questo «luogo» si
trascendono tempo e spazio, poiché non si deve essere tutti collegati con
temporaneamente e nello stesso posto. Inoltre, molti pregiudizi cadono
poiché non necessariamente si conosce l’età o il sesso o, ancora, l’appar
tenenza a una cultura dell’interlocutore. Sono molte le barriere comuni
cative che vengono meno con questo medium. Tuttavia, esistono anche
degli svantaggi in questa forma di comunicazione; intanto, non si ha una
persona reale di fronte a sé e, probabilmente, non la si incontrerà mai. Ec
co perché, forse, non si avrà lo stesso senso di responsabilità che si ha con
il vicino di casa. In secondo luogo, è facile, una volta collegato, maschera
re la propria identità fingendo di essere qualcun altro. Le persone poco
gentili possono fingere di esserlo e viceversa.
Nel XX secolo, i mass media hanno avuto una tremenda influenza sulla
gente, portando immagini da tutto il mondo all’interno delle case. Nei
mass media, un piccolo gruppo di persone decidono quello che un vasto
gruppo di gente può sentire e vedere dal mondo; viceversa, non si può ri
prendere con la telecamera quello che succede fuori dalla nostra finestra
e ritrasmetterlo al mondo, se non si possiede Internet. Internet permette
di fare uscire mille voci dove prima se ne sentivano solo alcune! Abbiamo
potuto vedere ciò durante le dimostrazioni di piazza Tien-An-Men quando
gli studenti cinesi inviarono testimonianze oculari su Internet. [...] Oggi
abbiamo uno strumento potenziale per una comunicazione democratica
essendo difficilmente controllabile da un potere centrale, al contrario del
la tv e della radio. Questo significa anche che qualsiasi tipo di persona può
trasmettere informazioni, inclusi estremisti e pazzi. Dobbiamo, dunque, af
frontare il fatto che non esistono più guardiani che determinano come o
quando dare accesso ai media.
(H. Rheingold, intervista, in www.mediamente.rai.it, 1997)
Il nostro cervello
Quando eravamo ancora nelle caverne, circa un milione di anni fa [...]
avevamo gli stessi cervelli (di ora), ma non facevamo uso delle abilità. Se il
cervello è come un computer, allora il segreto sta nel saper formattare il
proprio cervello, nel saper mettere su sistemi operativi per gestire il cer
vello [...] C’è la possibilità di dare il boot o di aggiungere nuove directory.
L’attivazione del cervello si chiama yoga o psichedelia. Trasmettere ciò
che è nel cervello è cibernetico. Il cervello, ci dicono i neurologi, dispone
di qualcosa come settanta o cento pulsanti detti siti recettori, in grado di
attivare circuiti diversi. (p. 35)
Le fasi dell’umanizzazione
In sette decenni la nostra specie ha fatto surf su onde di cambiamento ce
rebrale più grandi, più veloci, più complesse di quante ne avesse mai in
contrate nei 25.000 anni precedenti.
Numero di generazioni (tribali) dalle pitture rupestri alla scrittura e al
l’arte pubblica su grande scala degli egizi (3200 a.C.): circa 1500.
Numero di generazioni (feudali) dalle piramidi alla cattedrale di Nôtre
Dame, alla pittura a olio e alla lettura di libri: circa 320.
Numero di generazioni dai primi libri stampati in fabbrica (primi media
domestici) ai telefoni, radio, giradischi, film del 1950 d.C.: circa 23.
Numero di generazioni tra la tv passiva in bianco e nero (1950) alla pro
gettazione interattiva digitale dello schermo multicanale e multimediale:
3.» (p. 79)
527 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI
Chi è il cyberpunk
Nel mondo antico occidentale il classico modello del cyberpunk è Prome
teo, genio tecnologico che «rubò» il fuoco agli dèi e lo diede all’umanità.
(p. 63)
Tutti i quali hanno avuto successo nello sciogliere le linearità sociali, poli
tiche, religiose e nell’incoraggiare la soggettività e la riprogrammazione
innovativa delle realtà caotiche [...]
Ma l’opera più influente di quel periodo è quella di James Joyce. Nell’U
lisse e nella Veglia di Finnegan, Joyce fissionò e affettò la struttura gramma
ticale del linguaggio fino a produrre byte di pensiero. Joyce non fu soltan
to uno scrittore ma anche un word processor, un hacker ante litteram, che
riduceva le idee a unità elementari e poi le ricombinava infinitamente a
volontà [...] Immaginatevi che cosa James Joyce avrebbe potuto fare con
Microsoft Word, con un sistema grafico su cd-rom o con una moderna ba
se di dati! (p. 47)
(tutte le citazioni sono tratte da T. Leary, Caos e Cibercultura, Urra Apogeo,
Milano 1994)
Molti autori vedono nella teoria del rizoma di Deleuze e Guattari an
che l’anticipazione dell’ipertesto:
Per una curiosa coincidenza del destino letterario, uno dei più celebri
e primi scrittori di letteratura ipertestuale porta il nome di Michael Joyce
(1945). Statunitense, docente universitario, comincia a occuparsi di in
telligenza artificiale (presso la Yale University) fin dalla prima metà degli
anni Ottanta, poi, insieme a un altro noto studioso di new media, Jay
Bolter, e a John B. Smith, crea Storyspace, il primo software distribuito su
larga scala (dalla Eastgate Systems, la più importante editrice ipertestua
le) per la realizzazione di ipertesti narrativi. Utilizzando questo software,
Joyce scrive il suo primo romanzo ipertestuale: Afternoon, a Story (1990),
già divenuto un classico di questo nuovo genere narrativo (vedi scheda).
George P. Landow, uno dei principali studiosi e teorici dell’iperte
sto, nel suo fondamentale libro Ipertesto. Il futuro della scrittura, sceglie il
racconto ipertestuale Afternoon di Joyce come emblematico esempio
dell’evoluzione delle forme narrative. Se fin dai romanzi a puntate ot
tocenteschi e nella letteratura d’avanguardia del Novecento il finale è
lasciato aperto, ambiguo, la fiction ipertestuale porta alle estreme con
seguenze il suo carattere di «opera aperta» (vedi Umberto Eco, in que
sta antologia). Infatti la rete di link che collegano i 538 blocchi testuali
(o lessìe) del romanzo, rende impossibile una chiusura predefinita del
la narrazione e ne moltiplica le possibilità, in relazione ai percorsi e al-
le scelte del lettore. Lo stesso Joyce istruisce i suoi lettori in questo sen
so:
Tra gli autori ipertestuali che usano la rete, alcuni sono consapevoli e
autoironici nei confronti delle trappole seduttive della scrittura in rete.
Uno di questi è il misterioso Mark Amerika, prolifico rappresentante del
movimento letterario «avant pop». Il suo ipertesto on-line How to be an In
ternet Artist (del 2001, consultabile sul suo sito http://www.altx.com) è una
specie di manuale antologico che inizia con un ironico decalogo per chi
vuole diventare un net-scrittore:
Ray Kurzweil ipotizza che in un futuro prossimo gli avatar, gli alter
ego virtuali di cui lo stesso Lanier è stato uno degli inventori, non siano
più distinguibili dagli esseri umani «originali». Ma Lanier non crede
che ci siano le condizioni tecniche perché ciò diventi possibile e inoltre
ridimensiona anche l’enfasi indirizzata alle prospettive dell’intelligenza
artificiale, che ha suggestionato molte fantasie e molta fantascienza ma
la cui esistenza e consistenza non è misurabile.
Il vero problema del futuro della realtà virtuale non è il progresso della
tecnologia perché questo avverrà in un modo abbastanza prevedibile; il ve
ro problema è creare una cultura della realtà virtuale. Potrebbe volerci
molto tempo, per via di questo processo di creazione. Ora stiamo comin
537 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI
proviene dal latino medievale virtualis, derivato, a sua volta, da virtus: for
za, potenza. Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e
non in atto. Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passa
to a una concretizzazione effettiva. L’albero è virtualmente presente nel
seme.
(P. Lévy, Il virtuale, (1995) Raffaello Cortina editore, Milano 1997, p. 5)
Il gotico elettronico
Credo che sia necessario ricostruire la nozione di dimensione. Da qui l’i
dea di dimensione frazionaria. Mi sembra che lo spazio virtuale sia una di
mensione frazionaria supplementare della realtà. Non è solamente un ef
fetto di rilievo. È un luogo dove si può agire, è dunque una sorta di bolla,
che va ad aggiungersi alle tre dimensioni dello spazio. È dunque una di
mensione supplementare. [...]
Adesso l’architetto può programmare degli spazi virtuali all’interno dello
spazio reale del suo edificio che saranno delle stanze virtuali. [...]
L’immagine è sempre stata un materiale di costruzione, non solamente at
traverso l’affresco, il mosaico o gli arazzi, ma soprattutto attraverso le ve
trate. Il gotico ha rinnovato l’immagine, mediante l’invenzione del roso
ne: i grandi rosoni di Chartres, di Colonia o di Strasburgo; il grande roso
ne è una sorta di architettura di luce che ha costruito tutto il gotico. [...]
Adesso, tramite le nuove tecnologie dell’immagine, noi siamo alle soglie
di un nuovo gotico non più ottico, attraverso il quale passa il sole, ma di
un gotico elettronico.
(intervista di D. De Kerckhove a P. Virilio, L’ère du gothique électronique, in L.
Poissant, 1995, trad. di A. Balzola)
Nel 1962 usciva in Italia Opera aperta, un testo di Umberto Eco (1932)
che analizzava in modo sistematico le ricerche artistiche della neo-avan
guardia (musica seriale, letteratura sperimentale, pittura informale, arte
cinetica), l’innovazione del linguaggio cinematografico (da Godard ad
Antonioni), le caratteristiche del linguaggio televisivo e le applicazioni
della teoria dell’informazione all’estetica. La lettura di questi fenomeni,
che si avvaleva di una competenza multidisciplinare e spaziava dalla cri
tica formale alla semiotica, dalla filosofia estetica e del linguaggio alla so
ciologia, individuava una nuova poetica emergente: la «poetica dell’o
pera aperta», e di conseguenza la necessità di ripensare l’estetica con
temporanea. Il libro, che suscitò subito molto interesse e notevoli pole-
miche, si può considerare come il punto di partenza di una nuova ri
flessione estetica in Italia che prelude all’attuale stagione delle arti tec
nologiche e ne anticipa molti temi.
Partendo dall’assunto:
Vittorio Fagone è uno dei critici e storici dell’arte italiani più noti, an
che all’estero, per aver consacrato i propri studi, dagli anni Ottanta, al
rapporto tra arti visuali e nuovi media elettronici. Il suo libro L’immagi
ne video (1990) raccoglie saggi critici, recensioni di opere e una sistema
tizzazione teorica delle arti elettroniche, partendo dalle sue radici stori
che, che affondano nel cinema sperimentale (dalle avanguardie stori
che a Fluxus e al cinema underground americano), fino alla nascita del
la videoarte negli anni Sessanta e alla successiva articolazione dei gene
ri del video in relazione alle arti visive e dello spettacolo. Proprio questa
individuazione dei generi videoartistici e la riflessione sulle loro caratte
ristiche espressive, rappresentano uno dei suoi contributi teorici più im
portanti alla definizione di un’estetica delle arti multimediali.
Videoarte
Del termine videoarte si è spesso lamentata la genericità e l’equivocità. Es
so infatti viene usato per indicare: la produzione originale di opere appo
sitamente concepite per il mezzo video; la registrazione, spesso in tempo
reale, di azioni, performance ed eventi; la dislocazione in uno stesso spa
zio ambientale di diverse strutture video (videosculture ed environment);
la combinazione intermediale di dispositivi eterogenei – diapositive, film,
immagini plastiche, oggetti – (installazioni); infine la coniugazione multi
mediale di produzioni o riprese televisive con altre tecniche e linguaggi
(performance, teatro, danza) [...] Il termine videoarte designa oggi tutte
le utilizzazioni, interne alla produzione artistica, del mezzo video [...] le
operazioni più recenti della videoarte coinvolgono il contatto con gli altri
media oltre alla dislocazione spaziale di diverse sorgenti di immagini vi
deo, situazione che ha stimolato la ricerca sin dagli inizi [...]
Produzione videografica. L’immagine video viene sollecitata in diverse dire
zioni: immagine biografica, esplorazione in tempo continuo di dettagli di
visione; combinazione di geometrie in espansione; deformazione varia-
mente orientata su un’immagine significativa; narrazione e analisi tempo
rale. [...]
Registrazioni. Si è accennato alla diffusione negli ultimi anni Sessanta e nei
ANTOLOGIA 544
primi anni Settanta di ricerche verso forme smaterializzate d’arte. Alle in
dagini rivolte verso la percezione visiva e sociale dell’ambiente, al ricono
scimento di energia, forze e forme primarie nello spazio naturale, all’at
tenzione al corpo come produttore e tramite di linguaggio. Le videoregi
strazioni conservano di questa situazione tra le più arrischiate e produttive
dell’arte contemporanea, un’immagine viva che non è unicamente docu
mentaria, ma partecipa del momento creativo. [...]
Videosculture e videoenvironment. È noto come Marshall McLuhan sottoli
neasse la qualità polisensoriale dell’immagine video e la sua tattilità. Si
può dire che queste qualità vengano esaltate nelle videosculture, articola
zioni complesse dove l’immagine video viene condotta attraverso diversi
monitor a una più larga strutturazione visiva che reagisce con l’ambiente
circostante. Legati all’ambiente, nel quale lo spettatore è invitato a muo
versi come dentro a un percorso da esplorare, sono i videoenvironment
(video-ambienti). [...]
Intermedia e videoinstallazioni. Caratterizzano le videoinstallazioni l’apertura
del circuito alla partecipazione dello spettatore e insieme la complessione
tra media diversi. Tape, diapositive, bande sonore, oggetti, immagini, ven
gono insieme impiegati e creano una complessa e polimorfa immagine
plastica che ridefinisce ogni relazione d’ambiente, ma più i percorsi della
visione. [...]
Multimedia e performance. [...] In uno dei luoghi più emblematici della con
dizione artistica contemporanea, la performance, dove «arti belle» e «arti
dell’esecuzione» si sono fronteggiate su un confine difficile, il video ha in
serito la propria presenza. Esiste oggi una pratica diffusa tra gli artisti che
agiscono la scena di rinvio allo schermo video che vale come specchio, co
me segnale di riconoscimento e come elemento di scala ottica per ogni ge
sto o comportamento e soprattutto come macchina del tempo. [...]
(V. Fagone, L’immagine video, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 36-38)
dell’artista come eroe individualista e alienato dal mondo era stato eclis
sato dal sorgere di un maggior interesse nella responsabilità sociale del-
l’artista, e come l’arte divenne politicamente e socialmente impegnata, la
distinzione tra arte e comunicazione divenne sempre più labile. All’inizio
non c’era una vera separazione tra artisti video e attivisti e quasi tutti face
vano nastri documentaristici. Les Levine fu uno dei primi artisti ad aver ac
cesso all’attrezzatura video a mezzo pollice che divenne disponibile nel
1965 e con quello fece BUM, uno dei primi video di strada. Le sue intervi
ste con gli alcolizzati e i derelitti tra i rumori di strada a New York furono
montate direttamente in macchina, uno dei primitivi mezzi di montaggio
prima che fosse possibile quello elettronico. Rozzo, senza struttura e epi
sodico, BUM fu veramente emblematico dei primi video.
Video di strada
Facendo dei limiti delle loro tecnologie una qualità, i videomaker under
ground inventarono uno stile unico e distintivo per i media. Alcuni pio
nieri usavano telecamere di sorveglianza e divennero esperti della teleca
mera portata a mano libera perché non c’era mirino. I treppiedi – con i lo
ro punti di vista fissi – erano aboliti; era introdotta la fluidità della teleca
mera tenuta a mano. Anche la straordinaria abilità del video di trarre van
taggio dell’immediato con playback istantanei controllando gli eventi in
tempo reale si adattava all’enfasi tipica dell’epoca su «processo non pro
dotto». Arte processuale, arte terrena (il gioco di parole è tra Earth e Art,
n.d.t.) arte concettuale e arte performativa condividevano tutte una smi
tizzazione del lavoro finale, compiuto, e un’enfasi su come invece il lavoro
veniva realizzato. L’assenza di attrezzatura di montaggio elettronico – che
scoraggiava il mettere il video in forma di «prodotto» finito – incoraggiava
ulteriormente lo sviluppo di un’estetica video di processo. Lo stile dei pri
mi video girati fu molto influenzato sia dalle tecniche di meditazione co
me il t’ai chi e di «illuminazioni» indotte da droghe che dalla tecnologia
esistente. Aspirando alla «minima presenza» di un «assorbitore» di infor
mazione, videomaker come Paul Ryan avevano fiducia nell’aspettare che
la scena accadesse, cercando di non dare preventivamente alcuna forma
dirigendo gli eventi. Il fatto che il videotape fosse relativamente economi
co e riusabile rendeva il «lasciar farsi» dell’opera sia praticabile quanto de
siderabile.
Gruppi video underground apparvero in tutti gli Stati Uniti ma New York
ANTOLOGIA 546
divenne il fulcro della scena video underground degli anni Sessanta. I
primi e più importanti gruppi includevano Videofreex, People’s Video
Theater, Global Village e Raindance Corporation. Videofreex fu il gruppo
di produzione più importante del movimento, fungendo da innovatore
quanto a tecnologia ed estetica. Raindance servì come ambito di ricerca e
di sviluppo del movimento. Dal momento che la cronaca di ogni movi
mento tende a incoraggiare la sua espansione, Raindance giocò un ruolo
chiave, producendo la fonte di informazione primaria per il video under
ground e lo strumento di network nazionali come la rivista Radical Softwa
re (edita da Beryl Korot e Phyllis Gershuny). I membri di Raindance con
tribuirono a un data base culturale di videotape dai quali si modellavano
collettivamente: «Media Primers», collage di interviste, video di strada ed
estratti televisivi fuori onda che esploravano la natura della televisione e il
potenziale del video portatile come medium di critica e di analisi.
Codice pubblico/privato
Il concetto di pubblico contrapposto a quello di privato può dipendere da
convenzioni architettoniche. Per convenzione sociale, una finestra media
tra spazio privato (interno) e spazio pubblico (esterno). L’immagine del-
l’interno definisce o è definita dal concetto generalmente accettato di pri
vacy. Una divisione architettonica, la casa, separa la persona privata da
quella pubblica e sanziona determinati tipi di comportamento per ciascu
na di loro. Video Projection Outside Home (1978), mostra come si può svilup
pare una proiezione video fuori di casa. Yesterday/Today (1975), esamina i
ritmi di vita quotidiani del suono e della vista. Il significato della privacy, al
di là della sua mera diversità da ciò che è pubblico, è in modo più com
plesso legato ad altre regole sociali.
547 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE
un mosaico elettronico
un sistema compositivo ottenuto con un numero discreto di impulsi lumi
nosi, i cosiddetti pixel, allineati in file regolari come in un ben ordito pal
lottoliere, e quindi tanto simili a due procedimenti ben noti nella storia
dell’arte: i lontani mosaici ravennati o bizantini e i vicini dipinti della sta
gione divisionista. [...]
In effetti il «mosaico elettronico» recupera alcune proprietà del suo lon
tano progenitore, tra cui la tendenza a ridurre la profondità, a comporre
in superficie, evidenziando i contorni e le superfici. [...]
che si ottengono col computer sono più esatte e meccaniche delle altre ot
tenute con le libere stesure del pennello, o della spatola; appaiono più
unificate e omogenee, meno personali; d’altra parte è un vantaggio po
terle stendere con ritmo sicuro e inesorabile, senza errori esecutivi...
Colore e movimento
Infine Barilli si sofferma sul
Lo svizzero René Berger, storico dell’arte e dei media, nel 1971 in
troduce all’Università di Losanna, tra i primi in Europa, il corso speri
mentale di «Estetica e mass media», con l’intenzione, per altro incom
presa e osteggiata, di estendere gli studi estetici al di là delle arti tradi
zionali. L’anno successivo pubblica due volumi che fonderanno la sua
originale visione del rapporto tra arte, estetica e media: Art et communi
cation e La mutation des signes, per affermare che un oggetto di cono
scenza non è mai dato in forma statica e aprioristica, ma è soggetto alle
trasformazioni dei mezzi di comunicazione, il cui divenire contempora
neo segna l’inizio di una «tecnocultura» (neologismo di Berger poi mol
to diffuso) e di nuova «era multimediale», che prefigura l’avvento di
una «multirealtà». Autore di numerose pubblicazioni ed esposizioni,
Berger aggiorna costantemente la sua limpida analisi estetica ed etica,
ANTOLOGIA 554
spaziando dai mass media ai new media, fino all’intelligenza artificiale e
alle realtà virtuali. Citiamo qui un suo «tentativo di messa a punto» sul
le caratteristiche delle arti tecnologiche, scritto agli inizi degli anni No-
vanta
– l’arte video (o la video arte, la videografia), che si serve del nastro ma
gnetico e del videoregistratore;
– l’arte su computer (la computer art, la computer grafica, l’arte digitale,
l’infografia, le immagini informatiche, le immagini di sintesi ecc.), che
si serve del computer;
– l’olografia (l’arte olografica, l’ologramma), che si serve del laser;
– la reprografia (la copy art), che si serve delle tecniche della fotocopia;
– la telematica artistica (le teleconferenze o teleconversazioni via satelli
te, telefono, videofono, radio o tv);
– la realtà virtuale, che raggruppa le ricerche e le opere tendenti a pro
durre, al di là della rappresentazione, una nuova dinamica all’interno
dei cyberspazi che ne sono i nuovi luoghi di espressione;
– la vita artificiale (artificial life) che, oltre alle ricerche condotte per la
creazione di esseri ibridi suscettibili di un comportamento autonomo,
si sforza di dare luogo a dei procedimenti artistici che congiungano le
risorse dell’informatica e quelle dell’intelligenza artificiale.
555 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE
Tutte queste attività (per le quali Berger propone il nome di arti tecnologi
che o tecnoarti) si propongono una visione e una finalità espressamente ar
tistiche, nell’ambito di una relazione organica con l’una o l’altra delle nuo
ve tecniche impiegate, sia isolatamente, sia in combinazione fra loro.
(R. Berger, Les arts technologiques à l’aube du XXI siècle, L. Poissant, 1995,
trad. di A. Balzola)
che non è necessario fissare su alcun supporto, che non è necessario far
diventare forma, ma sono da vivere e semmai raccontare successivamen
te. Che sia centrale del resto parlare di relazioni in questa epoca, credo
sia evidente a tutti. Proprio le tecnologie, di cui ci occupiamo, in questo
modo che definirei «omeopatico», hanno esasperato esponenzialmente il
desiderio di comunicazione, di informazione. Al punto di identificare
questa necessità come l’esigenza di essere «connesso», sempre e ovunque,
con il fluire del mondo. Attraverso cellulari, televisioni, reti, la nostra
condizione di allacciamento agli eventi del mondo, planetari o privati
che siano, sta per realizzarsi in modo pressoché completo. Tuttavia a que
sto essere «connessi» non corrisponde affatto un miglior essere «relazio
nati». Anzi al contrario la dinamica individuale a cui condizionano questi
strumenti del comunicare, spingono a uno stato di solitudine, di isola
mento, di estraniazione. A un abbandono di quelle ritualità sociali che
garantiscono lo scambio, il confronto, il dialogo, che sono le condizioni
in cui matura una propria ragione di esistenza e di identità, in cui matu
ra una condizione di abitudine al dialogo con il diverso. Estetica delle re
lazioni, può significare infatti, apprezzare il dialogo tra diversità, l’oscilla
zione delle differenze, abituarsi a leggere la bellezza del confronto disar
mato dalla rigidità ideologica. Sfido a credere che non ce ne sia bisogno.
L’arte deve accettare questa sfida, non rimpiangendo di aver ceduto, sul
piano dell’estetica tradizionale, molti elementi proprio a quei mezzi di
comunicazione che hanno una finalità precisa e che rincorrono un’idea
di «fruitore» assai chiara, parlo soprattutto dello spettacolo e della pub
blicità. E piuttosto che rincorrerli nella loro vorticosa e suicida ebbrezza,
abbia il coraggio di uscire dal campo e identificare o inventare un nuovo
territorio su cui far sentire il proprio peso.
(Paolo Rosa, aprile 2004, testo inedito)
Costruisce il software e/o l’hardware che gli occorre per uno scopo e lo
utilizza condividendolo anche con altre entità.
Inoltre qualsiasi opera interattiva si può comprendere e giudicare soltanto
se la si «abita» completamente, se ci si sta dentro senza riserve, ovvero
mettendo in gioco i propri desideri e le proprie aspettative in prima per
sona. Per esempio se in una mailing list si è semplicemente spettatori, li
mitandosi a seguire la discussione senza intervenire, al massimo si possono
valutare le opinioni degli altri. Ma soltanto nel momento in cui nella di
scussione viene espresso un argomento che ci tocca da vicino, spingendo
ci a intervenire e a rispondere, la nostra interazione si attua completa
mente. Cambia così la nostra percezione del gruppo di discussione e so
prattutto del suo valore/senso. Questo accade di solito in tutte le opere in
terattive. Ovvero i «partecipanti» non possono essere semplici spettatori
curiosi, perché soltanto se si attivano mettendo in gioco le proprie pulsio
ni emotive, i propri desideri, le proprie credenze e così via, diventa un’e
sperienza interattiva, altrimenti rimane una esperienza «limitata» quanto
la percezione di un video, di un quadro o di un libro. Per questo spesso
per i critici d’arte, di formazione tradizionale, è molto difficile compren
dere e valutare un’opera interattiva. Spesso si soffermano sull’aspetto for-
male, per esempio sull’interfaccia grafica o sull’argomento trattato. Ma
nelle opere interattive il vero soggetto è il comportamento dei fruitori, e la
grafica è «solo» l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi com
portamenti di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero
cuore dell’opera.
(Giacomo Verde, aprile 2004, testo inedito)
Io non ho mai voluto legare il mio lavoro a nessun medium specifico. De
testo l’idea degli artisti chiamati «video artisti» o «net artisti». Io definisco
semplicemente me stesso come un artista che usa differenti media. [...]
Credo che quanto è successo con il video e con la fotografia ci può aiuta
re a capire il modo in cui oggi i nuovi media entrano nelle arti. Questi me
dia relativamente recenti sono interessanti da analizzare. In origine non
sono nati, com’è stata invece la pittura, come dei media artistici. La foto
grafia nelle sue origini era piuttosto una sorta di antropologia visiva, e fu
usata come strumento di rappresentazione al posto dei media precedenti.
Gli artisti sono una minoranza nella storia della fotografia.
Con il video è successa la stessa cosa: la televisione esisteva e il video fu usa
to commercialmente in differenti modi. Qualcuno poi iniziò a usare il vi
deo come un medium artistico. Quando la rete apparve fu per uso milita
re, in seguito venne utilizzata dal mondo accademico e dopo qualche an-
no alcuni artisti cominciarono a capire che era uno spazio utilizzabile an
che per loro, a cui potevano connettersi e che potevano attivare.
Durante gli ultimi dieci anni la rete è stata come un nuovo territorio. Per
quanto tempo lo rimarrà non possiamo saperlo. Al momento si sta cer
cando di «tirare al massimo» questo medium. Io penso che l’immagina
zione e le prospettive degli artisti in questo campo siano ottime. Anche
molte opere realizzate da giovani artisti nel campo del video sono valide.
Molte ripetono ciò che è stato fatto da altri in passato, ma sempre in un
modo diverso. [...]
Il medium influenza anche il modo in cui la gente osserva o percepisce l’o
pera. Una grande quantità di progetti in rete diventa molto popolare sul
567 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE
Se si fa un paragone con gli altri media, ben poche opere d’arte sono sta
te realizzate con l’olografia. [...] con una stima ottimista ma sommaria ci
saranno circa trecento artisti olografici sparsi per il mondo, la maggioran
za dei quali lavorano negli Stati Uniti. [...]
Gli ostacoli alla crescita dell’olografia come medium artistico sono nello
stesso tempo tecnici e culturali. [...] L’arte non occupa che una percen
tuale molto piccola, benché vitale, nel campo molto più vasto dell’ologra
fia. [...]
L’impiego dell’olografia è variegato e individuale. Gli artisti olografici pro
vengono da diverse sfere delle arti visive e letterarie, delle comunicazioni,
e anche delle arti sceniche, della performance e delle arti effimere. La
ANTOLOGIA 568
maggioranza di loro ha poche conoscenze scientifiche ma possiede un
forte desiderio di superarsi e una volontà di inventare, di risolvere dei pro
blemi. L’olografia ha inoltre trasformato in artisti delle persone senza ba
gaglio artistico o scientifico.
(M. Benyon, in L. Poissant, 1995, trad. di A. Balzola)
le mettere più energia nella macchina che nel corpo, la macchina si di
stacca dal corpo.
Un secondo tipo di spostamento dal centro alla periferia crea un soggetto
autonomo: è la separazione dell’intelligenza. Ci troviamo in una cultura in
cui passiamo dal campo della forza a quello della pianificazione dell’intel
ligenza. È quindi questo spostamento dell’intelligenza che crea l’autono
mazione. La macchina non può essere autonoma se ha solo energia che si
diparte da essa. Essa diventa autonoma solo nel momento in cui all’ener
gia si somma l’intelligenza per darle un soggetto. A questo punto ci tro
viamo di fronte a uno spostamento del soggetto e una messa in gioco au
tomatica del soggetto fondamentale occidentale quale noi siamo. Si pro-
duce quindi un effetto di ritorno. La macchina ci guarda dalla periferia al
centro. Si tratta di affinare lo sguardo, l’ascolto, di permettere al robot di
distinguere i suoni... la vista, l’udito; la cinedinamica, la cinetica e il tatto
sono sollecitati. Non bisogna dimenticare che come ogni sistema interatti
vo, il sistema di interazione tra il corpo e la macchina è una variazione del
tatto, senso essenziale che abbiamo represso per quattrocento anni di os
sessione testuale e che ritroviamo con queste macchine. Perdendo il tatto
abbiamo anche perso il contesto, ossessionati dai testi, abbiamo dimenti
cato il contesto di cui abbiamo impellente bisogno. Al centro dell’interat
tività si trova la fondamentale correlazione neurotecnologica che è la pro
priocezione cioè la percezione diretta e immediata che si ha del mondo nel
proprio corpo. Percezione all’interno del corpo e percezione dell’esterno
del corpo dal momento che esiste anche quello che potremmo definire la
esterocezione, cioè il feedback che si riceve nel nostro essere. Siamo persone
ossessionate dai nostri punti di vista ma entriamo in un’epoca in cui il no
stro punto di vista non è più sufficiente, in cui il punto di essere (di vita,
n.d.t.) diviene più importante. Grazie alle estensioni, il corpo non termina
più con la pelle. Siamo molto più grandi. Menzogna e verità della simula
zione, perché alla propriocezione segue la propriodecezione. In effetti la pro
blematica organica, tecnica, resta. Man mano che le macchine danno al
corpo delle informazioni supplementari, esse ci raccontano delle bugie
nello stesso tempo in cui ci dicono la verità. Perché delle bugie? Perché so
no sempre delle simulazioni. Nella realtà virtuale avete dei guanti, degli
occhiali e tutte le sensazioni che provate sono interamente costruite dal
computer. Quindi sono delle menzogne. Ma in realtà, non è proprio così,
perché la simulazione è una menzogna e un verità insieme. Perché la si
mulazione parla il suo linguaggio a ciascuno dei nostri sensi ed è quindi
reale. Si trova all’interfaccia, letteralmente e metaforicamente, tra il reale
e il virtuale. E non siamo ancora riusciti a risolvere questa complessità sup
plementare. Propongo dunque il termine ibrido di «propriodecezione»
perché è insieme vero e falso. Siamo obbligati a fronteggiare questa du
plicità del mondo nuovo, che è quella dell’uomo assistito dal computer.
(D. De Kerckhove, L’éspace de la robotique en art, in L. Poissant, 1995, trad. di
A.M. Monteverdi)
ANTOLOGIA 570
Il brasiliano Eduard Kac è l’inventore della bio-arte. Dopo installa
zioni sulla telepresenza e sull’arte bio-telematica (sui cui ha pubblicato
un libro: Telepresence, Biotelematics and Transgenic Art) inizia i suoi esperi
menti artistici che vanno sotto il nome di arte transgenica (detta anche
DN-art), termine da lui coniato nel 1999. Si tratta di una corrente artisti
ca estrema e molto discussa (soprattutto da ambientalisti e animalisti),
legata alle biotecnologie e alle manipolazioni genetiche, agendo cioè sul
DNA di animali e mescolandone le caratteristiche. Kac ha realizzato GFP
Bunny, un coniglio fosforescente (trasferendo nel suo genoma le pro
teine fluorescenti di una medusa del Pacifico). Nella citazione che se
gue, Kac sottolinea che l’opera d’arte transgenica non si limita a creare
nuove forme di vita ibride attraverso l’incrocio di geni, ma continua nel
legame possibile da instaurare tra questi nuovi esseri e la società, in per
fetta relazione con quello che accade nelle sperimentazioni scientifiche
agricole, sulle piantagioni di organismi geneticamente modificati e già
in commercio da tempo. Un’arte insomma, che dovrebbe suscitare, se
condo le intenzioni dell’artista, un ragionamento sulle biotecnologie e
sulla biodiversità.
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311n, 315, 325, 330, 342n, 348, 387n, Beckett, Samuel, 167, 300, 303, 304, 306,
428n, 432, 455, 463, 464, 465, 473, 310, 362
491, 493, 499, 512, 520, 532. 533, 537, Beethoven, Ludwig van, 27, 138, 518
538, 555, 557, 567, 568 Béhar, H., 47n
Bambola articolata o Marionetta (O. Sch Behr, M.E., 536
lemmer), 91 Beirne, Joe, 195, 195n
Bandiere (1918, E. Piscator), 94 Belli, Gabriella, 132n
Bandini, Mirella, 486 Beltrame, Paola, 351
Banu, Georges, 79, 79n, 80, 324, 342, Bene, Carmelo, 83, 172, 301, 321, 328,
342n 464, 465, 477, 507
Baratta, G., 151n Benjamin, Walter, 11, 62, 62n, 79, 133,
Barba, Eugenio, 301, 302, 319n 150, 162, 267, 267n, 342, 401, 408
Barberio Corsetti, Giorgio, 59, 291, Benyon, Margaret, 540, 567, 568
307n, 308, 323, 326, 326n, 329, 390, Berberian, Cathy, 203
390n, 468, 477, 492 Berg, Alban, 38, 506, 514
Barcellona, Pietro, 81, 81n, 350 Berger, René, 150, 323, 519, 520, 540,
Baresi, Giuseppe, 330 548, 553, 554, 555,
Barilli, Renato, 175, 175n, 231, 255, Bergson, Henri, 73, 490, 497, 498, 499
255n, 540, 550, 551 Berio, Luciano, 115, 202, 203, 218, 409,
Barjavel, René, 70, 70n 412, 512, 518, 519
Barlach, Ernst, 128 Berliet, Jimmy, 453
Barlow, J.P., 227n Berliner Ensemble, 304
Barnak, Oscar, 190 Berners-Lee, Tim, 216, 225, 225n, 228,
Barney’s Bearnery (E. Kienholz), 141 234, 235, 248, 444, 521, 523, 524, 525
Barrault, Jean-Louis, 454 Bernhard, Thomas, 303, 304
Barron, Stéphan, 230 Bertetto, P., 43n, 60n, 501, 513
Barthes, Roland, 8, 117, 117n, 177n, Berthin-Scaillet, A., 512
226, 240, 346, 497, 499, 500 Berti, Alessandro, 396
Bartlett, Bill, 229 Bertolucci, Giuseppe, 192n
Bartlett, Scott, 164 Berzelius, Jöns Jakob, 183
Bartolucci, F., 323n Bettetini, Gianfranco, 52, 220n, 225,
Bartolucci, Giuseppe, 300, 321, 322, 386, 387n, 388n, 397n, 428n
322n, 323n Bettina (1976, L. Ronconi), 172, 490
Baruchello, Gianfranco, 57, 57n, 69, 507 Beuys, Josef, 134, 142, 157, 228, 229n
Bassi, B., 240n Bianchi, Ruggero, 319, 319n, 320, 320n
Basso, A., 128n Bianco e Nero (T. von Hartmann, V. Kan
Battistelli, Giorgio, 123, 308 dinskij), 40
Baty, Gaston, 40 Bicocchi, Maria Gloria, 170
Bauchard, Franck, 348, 348n, 360n Big Art Group, 344
Baudelaire, Charles, 17, 31, 32, 39, 51, Biped (1999, M. Cunningham), 360, 405
77, 92, 125, 128, 149, 198, 198n, 317, Birds (2000, D. Hinton), 402n
437, 503 Birringer, Johannes, 405
Baudrillard, Jean, 340n Bisaccia, A., 57n
Baumgaertel, T., 282n Biusseger, Peter, 455
Bausch, Pina, 392 Black Panther (Party), 545
Bayer, F., 115n Blade Runner, 374
Bayle, Françoise, 204 Blake, William, 243
Bazzichelli, Tatiana, 286 Blanchot, Maurice, 467
Beatles, 371 Blank, J., 277
Beatrice, L., 279n Blasi, G., 233n
Beck, Julian, 102 Blue Studio (C. Atlas), 463
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 590
Blue Studio: Five Segments (N.J. Paik), 463 Breton, André, 44n, 48
Boal, Augusto, 495 Breuer, Lee, 319, 319n
Boccioni, Umberto, 129, 138 Bridge to Babylon (1997, Rolling Stones),
Body as Sight (R. Butcher), 394 376, 380, 381
Bodybot Requiem (1999, M. Antúnez Ro Brik, Lili, 60
ca), 352 Bring, The (Living Theatre), 75
Body Language (D. Rokeby), 497 Brizio, G.S., 66n
Boetti, Alighiero, 329 Broeckmann, A., 278n
Bogani, G., 368 Brook, Peter, 101, 301
Boissier, J.-L., 407 Brown, Carolyn, 144
Boldrini, Renzo, 351, 351n Brown, Daniel (Danny), 249, 255
Bolter, J.D., 11, 179n, 469, 529 Brown, Earle, 113, 121
Bonito Oliva, Achille, 142, 486 Brown, Trisha, 315n, 393, 466
Bonnard, Pierre, 129 Brownian Motion (R. Lord), 407
Bonora, Lola, 170 Brownlow, Kevin, 454
Bonsiepe, G., 249n Bruch, Klaus Vom, 169
Boole, George, 176n Brunelleschi, Filippo, 74n, 76, 470
Bordini, Silvia, 156n, 459 Bruner, Jerome, 245
Borealis (1993, S. Vasulka), 292 Brunetta, G.P., 125, 138, 144, 145
Borges, Jorge Luis, 529, 530 Bucalossi, Federico, 286, 474
Borghesi di Calais (1884-95, A. Rodin), Buci-Glucksmann, Christine, 123, 123n,
136 540, 556
Boriani, Davide, 140 Buckley, Tim, 458
Borillo, Mario, 556 Buckminster Fuller, R., 142
Borlin, Jean, 453 BUM (L. Levine), 545
Borriello, Adriana, 394 Bunting, Heat, 281, 283
Bosma, J., 567 Buñuel, Luis, 48, 60, 505
Bosseur, J.Y., 112n Buonarroti, Michelangelo, 367
Botschuijver, Theo, 293 Buontalenti, Bernardo, 76, 344
Bottero, M., 452 Burian, Emil Frautišek, 91, 91n, 105,
Boubon-Beaugency, Bénédicte de, 307 305, 305n, 455, 456, 489
Boucourechliev, André, 121 Burroughs, William, 135, 220, 220n,
Boulez, Pierre, 115, 121, 122, 122n, 205, 526, 528
205n, 208, 218, 219n Bush, Vannevar, 216, 216n, 222, 226,
Bouly, Leon, 150 235, 525
Boyle, Deidre, 540, 544, 545 Busker’s Opera, The (R. Lepage), 342
Boyle, William, 185 Bussotti, Sylvano, 113, 129
Brace Up! (1991, Wooster Group), 320 Butcher, Rosemary, 394
Brakhage, Stan, 63, 162, 505 Butor, Michel, 555
Brancusi, Constantin, 130, 133, 134, Buzzi, M.L., 394n
134n
Brand, S., 231n Cadigan, Pat, 527
Branzaglia, C., 256n Cage for Birds (J. Cage, D. Charles), 519
Braque, Georges, 44, 127 Cage, John, 99, 108, 113, 115n, 119,
Brecht, Bertolt, 73, 75, 81, 83, 89, 94, 119n, 121, 121n, 122, 122n, 127, 129,
94n, 95, 160, 218, 226, 301, 303, 304, 132, 142, 143, 156, 157, 160, 171, 200,
336, 460, 477, 480 202, 219, 219n, 293, 301, 317, 393,
Brecht, George, 119, 120, 120n, 487 405, 457, 459, 466, 484, 485, 487, 512,
Brenneis, Lisa, 310 515, 516, 519
Bresson, Robert, 150, 155 Cahen, Robert, 150, 154, 158, 159, 159n,
Bret, Michel, 292 162, 168, 171
591 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE
Crossing and Meetings (1974, E. Emshwil Dead Dreams of Monochrome Men (1989,
ler), 165 DV8), 394
Cruciani, Fabrizio, 74, 74n, 75n, 94n, 95, Deafman’s Glance, The (1971, R. Wilson),
97 320
Cruise, Tom, 399 De Berardinis, Leo, 321
CRWDSPCR (1993, M. Cunningham), 406 Debord, Guy, 101, 340, 340n, 477, 486,
Csuri, Charles, 272 487
C-Trend (1974, W. Vasulka), 165 De Bosio, Gianfranco, 302
Cuba, Larry, 274 Debrie, André, 454
Cunningham, Merce, 119, 142, 143, 162, Debussy, Claude, 121, 131, 501
165, 172, 301, 317, 360, 361, 364, 389, De Chirico, Giorgio, 90, 143, 548
393, 405, 406, 457, 458, 463, 464, 515 Decima sinfonia (1918, A. Gance), 454
Cuoghi, Ezio, 422 Declamazione dinamica e sinottica (F.T. Ma
Curran, S., 253n rinetti), 451, 452
Curval, Philippe, 556 Decoder, 233
«Cut-up», 332n Decouflé, Philippe, 390, 395
Cybernet, 233 Deep Sleep (1985, J. Jesurun), 307
Cybernetic Light Tower (N. Schöffer), 269 Defilé, Le (1987, R. Chopinot), 390
Cytowic, R.E., 39n De Geetere, Patrick, 458
Degenerative Prose (1995, M. Amerika),
Daguerre, Louis Jacques Mandé, 177, 473
179 De Haas, P., 61n
Dahlhaus, Carl, 110, 110n De Keersmaeker, Teresa, 395
Dalcroze, Emile-Jaques, 36 De Kerckhove, Derrick, 13, 17, 230, 317,
Dalí, Salvador, 48, 161, 505 385n, 436, 436n, 538, 540, 557, 558,
Dalmonte, R., 519 559, 568, 569
D’Amburgo, Marion, 329 De La Roche, Tiphaigne, 178
Dame à la faulx, La (1895, Saint-Pol Delahunta, S., 405
Roux), 306 Delaunay, Robert, 38, 276
Da Me a Te (1998, C. Baglioni), 376 Delaunay, Sonya, 276
Danae (Poliziano), 74 Deleuze, Gilles, 117, 117n, 223, 223n,
Danan, J., 306n 363, 402n, 498, 521, 528, 529
Dance (D. Chase), 393 Delfi (1990, G. Battistelli e Studio Azzur
Dancer in the Dark, 476 ro), 308
DanceSpace (F. Sparacino), 403 Delgado, M., 336n, 338n
Dancing with the Virtual Dervish, 404 D’Elia, Anna, 293, 293n
Danza (fratelli Corradini), 44 DeLillo, Don, 333, 334, 335
Danza delle ombre (F. Depero), 378 Delluc, Louis, 501
D.A.V.E. (Digital Amplified Video Engine; K. De Manincor, Anna, 396
Obermaier, C. Haring), 363 De Marco, G., 369n
Davico Bonino, Guido, 320n, 322n De Maré, Rolf, 453
Davidson, Andrea, 406 De Maria, L., 93n
Davies, I., 133 De Maria, Walter, 122
Davies, Siobhan, 394 De Marinis, Marco, 52, 52n, 96, 96n,
Da Vinci, Leonardo, 73, 74, 74n, 77, 142, 102, 111, 111n, 457
151, 151n De Mèredieu, F., 294n
Davis, Charlotte, 471 De Micheli, M., 131
Davis, Douglas, 229, 278, 278n Democrazia (Lia e Rachele; 1985, A. Balzo
Davis, Joshua, 249, 255 la), 308
Davis. M., 235n De Monchaux, Cathy, 474
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 594
Depero, Fortunato, 37, 41, 43, 132, Droste, M., 130
132n, 139, 293, 378 Druckrey, T., 293n
Déposition, La (1988, H. Pedneault), 308 Drum Suite (L. Anderson), 467
Deren, Maya, 65, 162, 392, 402n, 497, Dubois, Philippe, 323, 540, 541, 542
505 Duchamp, Marcel, 46, 48, 57, 61, 99,
Dernier Caravansérail, Le (2003, Théâtre 121, 129, 134, 135, 143, 147, 161, 162,
du Soleil), 313 290, 324, 453, 459, 464, 505, 515
Derrida, Jacques, 555 2001: Odissea nello spazio (S. Kubrick),
De Sade, Donatien-Alphonse-François, 18, 358
365 Duets on Ice (1974, L. Anderson), 466
De Saint-Phalle, Niki, 135, 141 Due vite, una svolta, 390
De Santi, P.M., 48n Duguet, Anne Marie, 296n, 324, 325,
Descrizione di una battaglia (1988, G. Bar 325n, 326, 540, 542, 543
berio Corsetti), 329 Dujardin, Eduard, 32
DeskTop Theater, 310, 310n Dulac, Germaine, 151, 152, 497, 501
De Stijl, 452 Dumb Type, 476, 477, 495
Devaux, F., 66n, 67n Dungeons and Dragons, 244
Dewey, John, 100 Duras, Marguerite, 66, 306
De Wyzewa, Théodor, 32, 33 DV8, 394
Diaghilev, Sergej Pavlovich, 43, 48, 162 Dwell Time (1995, S. Davies), 394
Di Corinto, A., 220n, 227n, 444n Dyens, Georges, 15
Dick, Philip K., 527, 534 Dylan, Bob, 458
Diderot, Denis, 77, 233
Die Entführung eines Kunsthändlers ist Kei Earls, Elliot Peter, 249
ne Utopie Mehr (1975, K. Vom Bruch), Easton, Ellis, 333
169 Ebrea (1971, F. Mauri), 461
Die Ewig Schaffenden Eände Oder (1976, Eckhart, Meister, 457
M. Odenbach), 169 Eco, Umberto, 8, 121, 203, 218, 218n,
Digital Hijack (1996, Etoy), 284, 284n 437, 529, 540, 541
Di Marino, Bruno, 69n, 330n Edison, Thomas Alva, 76
Di Milia, G., 134n Effinger, George Alec, 527
Dine, Jim, 98, 126, 134, 142, 458, 477, Eggeling, Viking, 63, 267, 500, 501
483, 484 Eidos/Telos (1995, W. Forsythe), 406
Dinkla, S., 123n, 403n 18 Happenings in 6 parts (A. Kaprow),
Division bell (1994, Pink Floyd), 380, 381 126
Dixon, S., 403n Einstein on the Beach (1976, R. Wilson),
Doati, Roberto, 422 320
Dodsworth Jr., C., 124n Einstein, Albert, 138
Dogma 95, 498, 509, 510, 511 Eisenstein, Sergei Mikhailovich, 48, 48n,
Dogville (L. von Trier), 191, 475, 476 49, 50, 50n, 51, 59n, 60, 110, 111,
Dominguez, Ricardo, 286, 477, 495, 496 111n, 112, 151, 152n, 305, 306, 317,
Don Chisciotte (1970, C. Quartucci), 172, 407n, 493, 497, 502, 503
465 «Electric Minds», 521
Dorfles, Gillo, 143, 461 Electronic City (2004, F. Richter), 309
Dottor Faustus o il mantello del diavolo Electronic Disturbance Theatre (EDT),
(1994, G. Barberio Corsetti), 308 232, 495, 496
Double Vision (1971, P. Campus), 327 Electronic Light Ballet (1969, O. Piene),
Douglas, Stan, 118 165
Dozois, Gardner, 527 Electronic Tv Images (N.J. Paik), 270
Dream House (L.M. Young e M. Zaeela), Elger, Dietmar, 455
115 El Lissitskij, Lazar, 134, 139
595 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE
Video Piece for Shop Windows in Arcade (D. Wall 1990, The, 374
Graham), 546 Wall, The (1980, Pink Floyd), 371n, 380
Video Projection Outside Home (D. Waller, Fred, 62
Graham), 546 Walser, Randy, 15
Video View of Suburbia in an Urban Atrium Warhol, Andy, 67, 122, 162, 164, 195,
(D. Graham), 546 243, 333, 458, 498, 505, 506
Videodrome (D. Cronenberg), 363 Watson, Emily, 476
Videofreex, 545, 546 Watt, Jai, 142
VideoPlace (M. Krueger), 123, 460 Watts, Robert, 487
Vidolin, Alvise, 410, 410n Weaver, W., 176n
Vinaver, Michel, 306, 307 Web Dances (R. Lord), 407
Vinterberg, Thomas, 509 Webern, Anton von, 38, 206, 514
Viola (T. von Hartmann e V. Kandinskij), Web Stalker (I/O/D), 286
40 Wedekind, Frank, 128, 456
Viola, Bill, 67, 150, 165, 166, 168, 170, Weibel, Peter, 275n, 540, 547, 548
171, 290, 292, 296, 470, 471 Weil, Benjamin, 281
Violin Power (1978, S. Vasulka), 165 Weiner, Norbert, 527
Virilio, Paul, 16, 365, 427, 430, 438, 440, Wellesley-Miller, Sean, 293
521, 526, 538 Wenders, Wim, 466
Visage (1961, L. Berio), 202 Werefkin, Marianne von, 38
Visconti, Luchino, 302 Werfel, Franz, 452
Visitazione (Pontormo), 470 Wesselmann, Tom, 137
Vita futurista (1916, A. Ginna), 44 Wessing, Koen, 177n
Vitrac, Roger, 48 Westbrook, Frank, 393
Vittadini, N., 220n What a Pleasent Madness (1988, J. Fabre),
Vobulazione e bioeloquenza negativa (1969, 395
V. Agnetti e G. Colombo), 171 White, Hayden, 241
Voce, Lello, 341, 470 Whitehead, Alfred North, 73
«Vogue», 534 Whitman, Robert, 98, 477, 482
Voix des legumes, La (1982, M. Guérini), Whitney, fratelli (John e James), 274
395 Whitney, James, 274
Volpe, Gualtiero, 422 Whitney, John, 63, 64n, 65, 272, 274, 276
Von Gunten, Martin, 351 Wiene, Robert, 305
Voodoo Lounge (1994, Rolling Stones), Wigman, Mary, 131
380 Wilkins, John, 233
Vostell, Wolf, 108, 120, 132, 142, 163, Williams, Emmet, 120
168, 169, 289, 458, 459, 487 Willis, Ronald A., 362, 471
Voyage (2003, Dumb Type), 476, 495 Wilson, Robert (Bob), 34, 105, 301, 308,
Vtr and I (1978, M. Sambin), 327 319, 319n, 320, 320n, 321, 331, 365,
Vuarnet, Jean-Noäl, 556 366
Wings (A. Kopit), 362
Wachowsky, Larry e Andy, 369 Wisnieski, Maciej, 286
Wackenroder, Wilhelm Heinrich, 27n, WOE (M. Joyce), 530
28 Wonder, Stevie, 206
Wagner, Cathy, 458 Woolford, Kirk, 405
Wagner, Richard, 16, 27, 29, 30, 31, 32, Wooster Group, 319
33, 35, 38, 40, 51, 85, 87, 88, 109, 110, World of Awe (1995-2003, Y. Kanarek),
110n, 111, 112, 125, 128, 130, 138, 284
301, 302, 477, 502 World Wide Web Consortium (W3C),
Waits, Tom, 315 234
Walczak, Diana, 365, 366 «Wired», 468
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 614
Wright, G., 194n Zaeela, Marian, 115
«Writing on the Edge», 530 Zajec, Edward, 270, 271, 272, 274, 276,
Wrong Browser (Jodi), 283 276n
Wronski, Hoëné, 208 Zannier, I., 178n
Wu Ming, 245n, 521, 533, 534 Zapp, A., 293n
Zaru, A., 290n
XEAR – Extended Electronic Arts, 213n, Zatkova, Rugena, 134
470 Zattera della medusa (T. Géricault), 367
Xenakis, Iannis, 115, 409 Zeami, 82
x-8x8-x (G. Verde), 561 Zeller, Felicia, 310
Xplora 1 (1994, P. Gabriel), 473 Zen per Tv (N.J. Paik), 157
XXX (Fura dels Baus), 365 Zettels Traum (1979, A. Schmidt), 531
0100101110101101.org, 285
Yalkut, Yud, 157 ZKM, 404
Yeats, William Butler, 528 Zolla, Elémire, 428, 429, 521, 538, 539
Yesterday/Today (D. Graham), 546 ZoneGemma, 309, 348, 350n
Young, La Monte, 115, 120, 458, 487 Zoo Tv (U2), 372, 375
Youngblood, Gene, 15, 56, 70, 70n, 71, Zorzi, Elvira Garbero, 76n, 344n
71n, 72, 150, 154, 155, 267n, 272, Zorzi, Ludovico, 302
273n, 293, 434, 434n, 498, 508 Zulù Time (R. Lepage), 377
GLI AUTORI
LORENZO TAIUTI, esperto delle problematiche estetiche dei nuovi media, au-
tore di video, installazioni, website. È docente di Teoria e metodo dei Mass Me
dia all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e di Arte contemporanea al
la Facoltà di Architettura Valle Giulia dell’Università di Roma. Ha pubblicato Ar-
te e media (1996) e Corpi sognanti. L’arte nell’epoca delle tecnologie digitali (2001). Ha
collaborato con vari periodici, tra cui «Giornale dell’Arte», «Mediamente» Rai,
«Virus», «Alias», «Terzocchio», «Linea d’Ombra», «Computer-Repubblica»,
«Raisatzoom», «Juliet».
VALENTINA TANNI, critico d’arte ed esperta di Net Art e Web Art, insegna
Informatica applicata ai Beni storici-culturali dell’Università La Sapienza di Ro
ma. Si interessa principalmente del rapporto arte-nuove tecnologie e dei feno
meni di contaminazione tra linguaggi. Nel 2000 ha fondato «ExiWebArt», prima
rubrica italiana dedicata alla Net Art, ospitata sul portale dell’arte Exibart.com e
nel 2001 «Random», notiziario quotidiano sulla new media art. Scrive su «Exi
bart», «Flash Art« e «Gulliver». Attualmente collabora con “Monti & Taft”.
Introduzione 7
Prima parte
VERSO LA SINTESI DELLE ARTI
I PRECURSORI
Seconda parte
VERSO LA SINTESI DIGITALE
LA GENESI MULTIMEDIALE DELLE ARTI
Terza parte
PERCORSI EMBLEMATICI TRA PRATICHE ARTISTICHE
E TEORIE ESTETICHE
Musica 512
Nikolaievič Alexandr Skrjabin, 512; Arnaldo e Bruno Corradini,
513; Arnold Schönberg, 513; John Cage, 515; Pierre Schaeffer, 516;
Luciano Berio, 518; Daniel Charles, 519
INDICE 622
New media digitali, ipertesti, web, realtà virtuali, 521
a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
Howard Rheingold, 521; Tim Berners-Lee, 524; Doug Engelbart, 525;
Ted Nelson, 525; Timothy Leary, 525; William Gibson, 527; Gilles De
leuze e Felix Guattari, 528; Michael Joyce, 529; George P. Landow, 529;
Tomàs Maldonado, 530; Mark Amerika, 532; Wu Ming, 533; Jaron La-
nier, 534; Pierre Lévy, 537; Philippe Quéau, 537; Paul Virilio, 538; Elé
mire Zolla, 538
Bibliografia 573