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SAGGI

ANDREA BALZOLA
ANNA MARIA MONTEVERDI

LE ARTI
MULTIMEDIALI
DIGITALI
Storia, tecniche, linguaggi, etiche
ed estetiche delle arti del nuovo millennio
Prima edizione: novembre 2004
Seconda edizione: settembre 2007

ISBN 978-88-11-13086-4

© 2004, Garzanti Libri s.p.a., Milano


Printed in Italy

www.garzantilibri.it

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LE ARTI MULTIMEDIALI DIGITALI
INTRODUZIONE

1. La questione terminologica

Il termine «multimediale» indica, nella sua accezione più generale,


etimologica e letterale, l’uso simultaneo di più modalità, strumenti o
supporti di comunicazione a carattere tecnologico. In particolare, per
noi corrisponde all’integrazione tecnica dei media (libri, giornali, radio, ci­
nema, televisione, telefonia ecc.) e dei relativi codici testuali, grafici, fo­
tografici, audiovisivi, musicali, anche tattili, resa possibile dal digitale e
veicolata mediante i computer multimediali. Qualsiasi fonte, medium o
supporto visivo e sonoro può essere oggi, per la prima volta nella storia
umana, mediante il processo di digitalizzazione dei dati (trasformazione di
qualsiasi informazione in un codice numerico binario), convertito e tra­
sposto in un unico metamedium tecnologico (oggi il computer) per esse­
re riprodotto senza perdita di definizione o rielaborato e integrato con
altri media, secondo modalità intercreative e interattive. Questa inte­
grazione tecnica dei linguaggi, che si fonda su uno standard universal­
mente condiviso dagli utenti e dalle macchine, consente un’inedita flui­
dità nella trascodifica e nel passaggio (una libera «navigazione») tra i
media stessi, sviluppandone l’interdipendenza e legittimando anche l’i­
potesi di una loro definitiva (possibile ma non per questo necessaria) in­
tegrazione. Tutto ciò è ovviamente il risultato di una lunga elaborazione
tecnica, ma ha anche – argomento assai meno ovvio e poco esplorato –
come premessa storica e teorica l’integrazione creativa dei linguaggi pro­
fetizzata dagli artisti.
La scelta del termine multimediale, da alcuni studiosi e operatori
considerato impreciso o generico e per altri ormai desueto, non inten­
de trascurare il dibattito terminologico in atto, ma fa riferimento alla
definizione più diffusa e di più immediata comprensione. «Multime­
diale» risale agli anni Ottanta e precede la rivoluzione digitale, quando
da una parte l’industria e dall’altra le sperimentazioni artistiche cerca­
vano una soluzione tecnologica per integrare in una stessa offerta com­
merciale o in una stessa opera artistica suoni e immagini, codici e me­
dia diversi. Il prefisso «multi» può evocare l’idea aritmetica di una
«moltiplicazione» (o di una «somma») o l’idea algebrica di un «insie­
me» dei media, dove la molteplicità indifferenziata rischia anche una
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possibile «con-fusione», piuttosto che l’idea di una integrazione o inte­
razione. Per questo il candidato più favorito alla sua sostituzione è, per
molti addetti ai lavori, il termine «intermediale», la cui origine si trova
nel famoso testo Intermedia di Richard Higgins, del lontano 1966, dove
viene applicato all’happening: «L’happening si sviluppa come un in­
termedium, un territorio inesplorato che si trova tra il collage, la musi­
ca, e il teatro. Esso non è governato da regole prestabilite, ogni opera
determina il suo medium e la sua forma accordandole alle proprie esi­
genze». «Intermedia» è anche il nome del software per la realizzazione
di ipertesti, creato da Landow nel 1985. Il prefisso «inter» comunica l’i­
dea di una relazione «interdipendente» non gerarchizzata tra i media,
che conserva le loro specificità all’interno di un dialogo paritetico, e
inoltre, riportato nell’attualità, richiama lo sviluppo delle interfacce
(interfacciare i media, i linguaggi, corpo e macchina). Questo termine
esprime forse meglio anche il rapporto tra un singolo contenuto e la
molteplicità dei veicoli della sua comunicazione e diffusione. Conside­
rando un unico contenuto di partenza (per esempio performance co­
me quelle di Laurie Anderson, tra le prime artiste a «declinare» una
stessa opera mediante più modalità tecno-espressive) e la sua comuni­
cazione-metamorfosi attraverso media diversi, tra loro complementari:
una sequenza fotografica, una ripresa audiovisiva (film o video), una re­
gistrazione sonora (disco), un testo scritto (libro/catalogo), un’instal­
lazione artistica, uno spettacolo ecc. In questo caso, i diversi media in­
teragiscono tra loro offrendo accessi diversi e complementari allo stes­
so evento.
Altre proposte preferiscono associare il prefisso «inter» alle modalità,
cioè ai processi e alle procedure operative («intermodale»), oppure, co­
me ha proposto l’artista Luigi Veronesi, ai codici che distinguono i dif­
ferenti linguaggi espressivi, per suggerire la ricerca delle loro corri­
spondenze («intercodice»). Il concetto di codice s’inserisce negli studi
sull’arte come linguaggio avviati negli anni Sessanta e dominanti nel de­
cennio successivo. Sul modello degli studi linguistici, si cerca di forma­
lizzare e di analizzare le opere d’arte e i media con gli strumenti della se­
miotica (R. Barthes, 1961 e 1964; U. Eco, 1962 e 1968): ogni arte avreb­
be sviluppato un proprio sistema di regole (il codice) che ne caratteriz­
za la specificità espressiva, le arti come il teatro o il cinema o le nuove ar­
ti performative che utilizzano più linguaggi simultaneamente creereb­
bero un inter-codice.
C’è anche chi suggerisce di sostituire «multimediale» con «multimo­
dale», soprattutto in riferimento all’aspetto interattivo dei cd-rom o del
Web, perché la differenza più rilevante di questi new media rispetto agli
altri è proprio la loro modalità di fruizione. Uno degli autori che più si
9 INTRODUZIONE

sono soffermati su queste distinzioni terminologiche è Pierre Lévy, che


critica la nozione di «multimedia» perché a suo dire più orientata sui
supporti o sulle «forme della rappresentazione» (testi, immagini, suoni
ecc.) e meno sulle modalità di fruizione e di comunicazione, che con­
traddistinguono i new media. Lévy sottolinea poi lo scarto introdotto
dalla diffusione del digitale nella relazione tra i diversi media e propone
l’adozione di un termine apposito per nominare «il confluire di media
separati in un’unica rete digitale integrata»: «unimedia» (P. Lévy, 1999).
Un termine apparentemente opposto a multimedia, ma che di fatto rap­
presenta il punto d’arrivo della sua evoluzione; infatti, la messa in rela­
zione di molteplici media si compie tecnicamente nella convergenza in
un unico standard, quello digitale. Infine, altre tre definizioni sono
emerse recentemente nel tentativo di cogliere l’essenza di un fenomeno
assai complesso, sfaccettato e in costante mutamento: «ipermediale»,
«transmediale» e «sinmediale». Nel primo caso, con «ipermedia», ci si ri­
ferisce soprattutto al modello ipertestuale che caratterizza la comunica­
zione nell’era informatica: confluenza di più «testi» (verbali, visivi, so­
nori ecc.) in una lettura (o percezione) e in una scrittura (o creazione)
simultanea, interattiva e non sequenziale (G.P. Landow, 1992). Volendo
distinguere l’ipertesto dall’ipermedia (cosa che Landow non fa, ma che
altri studiosi teorizzano), l’ipertesto può esser fatto corrispondere a una
«regia di testi», mentre l’ipermedia, che ancora una volta si identifica
con la convergenza dei differenti codici nel codice digitale, corrispon­
derebbe a una «regia di media». Per «transmediale» si può intendere la
facoltà di passaggio diretto da un medium all’altro, la trasformazione di
un atto comunicativo o di un’opera artistica mediante il suo «attraversa­
mento» di più media; si può anche intendere come la qualità peculiare
di un messaggio (poetico o di altra natura) di essere generato nell’am­
bito stesso di una molteplicità di mezzi espressivi e comunicativi. «Sin­
mediale» è infine un termine che enfatizza l’unione dei media, sugge­
rendo il passaggio dalla loro interazione a un’effettiva integrazione, e si
ricollega all’esperienza sinestetica (cioè un’esperienza percettiva pluri­
sensoriale) e all’utopia della sintesi delle arti, immaginata da molte gene­
razioni di artisti assai prima che la tecnologia la trasformasse in un’op­
portunità concreta.
Alla fine però, il termine «multimediale», pur nella consapevolezza
critica dei suoi limiti e della probabile necessità di un suo superamento,
mantiene una riconoscibilità collettiva e una sedimentazione storica che
costituiscono ancora un utile «luogo comune» di riferimento. Proprio la
sua debole specificità suggerisce una definizione sufficientemente aper­
ta e flessibile.
Il suo valore d’uso è d’altra parte accreditato da studi recenti (R.
INTRODUZIONE 10
Packer e K. Jordan, 2001), che non solo lo utilizzano per indicare l’insie­
me dei new media (Web, cd-rom, installazioni interattive, realtà virtuali
ecc.), ma che ne fanno risalire l’origine concettuale all’idea wagneriana
dell’integrazione fra le arti e ne raccontano la «storia segreta», che rac­
coglie i molteplici tentativi e utopie di artisti, studiosi e tecnici-inventori
di giungere alla concretizzazione, anche tecnologica, dell’inter-relazione
fra media e linguaggi espressivi. Qui la storia dei media s’intreccia con la
storia delle parentele, o dei tentativi di apparentamenti fra le arti, che in­
nescano un processo di reciproca trasformazione sempre più dinamico.
Ecco quindi che l’idea di multimedialità fonda e precede la nascita della
multimedialità che oggi conosciamo, e che si presenta come un intreccio
di tre elementi: interazione tra i media tecnologici (vecchi e nuovi); in­
terazione tra i linguaggi artistici e i loro rispettivi campi sensoriali; tra­
sformazione permanente e reciproca dei due elementi precedenti. L’a­
gente di questo intreccio è il digitale.
Nelle opere/eventi multimediali la massima differenziazione possibi­
le delle modalità creative e delle poetiche che operano una combina­
zione dei codici espressivi, si integra con l’affermazione di un iper-codi­
ce o meta-codice che non è l’opera totale, non è la somma o la sintesi
delle arti, ma è una dimensione diversa da ciascun linguaggio (o codice)
che vi partecipa, è una pluralità sinestetica che trasforma il gene(re) ar­
tistico in un’identità ibrida e mutante. E il motore di questa trasforma­
zione è l’innovazione digitale. Anche se il digitale non è necessariamen­
te multimediale, il multimediale digitale è oggi «l’uso più completo del­
le potenzialità del computer ai fini dell’espressione personale» (R.
Packer e K. Jordan, 2001).
Ci è sembrato perciò opportuno accogliere l’indicazione di Nicholas
Negroponte, uno dei fondatori dello «stile multimediale» (con il pro­
getto Aspen del 1978), che ha suggerito un’integrazione della definizio­
ne multimediale con il termine «digitale», per sottolineare l’importanza
della «rivoluzione digitale» nella trasformazione delle modalità di rela­
zione tra i media (1999), una prospettiva recentemente applicata anche
alle nuove frontiere del teatro tecnologico (A. Pizzo, 2003).

2. Verso una nuova estetica?

L’idea di multimedialità precede l’innovazione tecnologica che la


concretizza: il digitale. Il digitale diventa quindi lo specifico della mul­
timedialità contemporanea, ciò che segna la discontinuità con lo speci­
fico delle tecniche fotografiche, cinematografiche, video e audio elet­
troniche analogiche, e nel contempo ridefinisce il loro statuto linguisti­
11 INTRODUZIONE

co. La possibilità di sintesi numerica, quindi di trasferimento, elabora­


zione e interazione (interdipendenza) di qualsiasi testo, immagine o
suono, nell’ambito dello stesso metamedium, indipendentemente dalla
fonte originaria (che diventa una sua «periferica»), segna la terza «rivo­
luzione» nell’ambito del rapporto tra arte, comunicazione e tecnica. La
prima rivoluzione è stata quella della riproducibilità tecnica (dalla stampa
alla fotografia e al cinema), descritta da Walter Benjamin negli anni
Trenta; la seconda rivoluzione si è realizzata con la trasmissione e la ri­
producibilità tecnica a distanza in diretta (telegrafo, telefono, radio, televi­
sione), studiata nei suoi effetti psicologici e sociali da Marshall
McLuhan nei primi anni Sessanta; la terza rivoluzione, introdotta alla fi­
ne del Novecento, è appunto quella che alcuni hanno definito, parafra­
sando Benjamin, della riproducibilità digitale (F. Ciotti e G. Roncaglia,
2000) e che noi preferiamo definire la sintesi digitale connettiva (compu­
ter e rete).
Il divenire multimediale, nel passaggio dall’elettronica analogica al
digitale, ha trasformato i linguaggi artistici codificati, dando vita all’in­
tegrazione di precedenti forme artistiche (videoarte, video-musica, vi­
deo-teatro, video-danza, video-poesia, videoinstallazioni e video-ambien­
ti) e alla nascita di nuove (computer art, software art, net art e hacker
art, web cartoon, cyber-art, arti virtuali e interattive); ha prodotto «ri­
mediazioni» (J.D. Bolter e R. Grusin, 2002) delle forme storiche dei
mass media: la musica e la scena elettroniche e digitali, la fotografia e il
cinema digitali, la radio e la televisione interattive; infine, ha trasforma­
to il contesto e le modalità di creazione: dalla progettazione alla simula­
zione virtuale e di ricezione, dall’osservazione all’immersione, dalla frui­
zione all’interazione, dalla lettura sequenziale alla navigazione non li­
neare ipertestuale. Tutto questo, come vedremo nella prima parte del
volume, affonda le sue radici in un percorso avviato all’alba del XIX se­
colo ed esploso nel XX, dall’utopia dell’opera totale alla decostruzione
della dimensione temporale e spaziale dell’opera, alla ridefinizione del­
la figura dell’artista, dello statuto dell’opera d’arte e della sua fruizione:
l’uscita dal quadro, la rottura della bidimensionalità della tela, della
frontalità della scena teatrale e della linearità della narrazione, letteraria
e filmica, la visione dinamica e multiprospettica, la creazione di am­
bienti artistici installativi o virtuali, l’identificazione tra opera e artista
mediante eventi performativi, la ricerca dell’inclusione dello spettatore
nell’opera o di una sua attivazione creativa.
Il Novecento ha visto affermarsi anche nel mondo delle arti il prima­
to della comunicazione e della tecnologia, e poiché innescare un pro­
cesso comunicativo significa innanzitutto produrre un cambiamento, la
forma va intesa nel senso (direzione e significato) della trasformazione. Se
INTRODUZIONE 12
fare arte significa oggi interrogare creativamente le modalità di comu­
nicazione e di espressione del medium, lo spostamento di attenzione
dall’oggetto al medium presuppone anche uno spostamento dall’opera
al processo creativo. Un orientamento questo, analogo e parallelo allo
spostamento dell’attenzione scientifica dall’oggettività del fenomeno al­
la soggettività dell’osservatore e quindi alla relazione tra fenomeno e os­
servatore. Le arti plastiche e figurative, a partire dalla stagione dell’hap­
pening e della performance, ma ancora prima nelle precorritrici serate
futuriste e dadaiste, hanno determinato un trasferimento semantico del-
l’attenzione creativa dalla presentazione dell’oggetto artistico – l’opera
– alla presentazione di un’azione, di un processo laboratoriale di pro­
gettazione, montaggio o destrutturazione dell’opera nel suo farsi, met­
tendo in atto una teatralizzazione dell’esperienza artistica (H. Rosenberg,
1972). Mettere in scena la pratica artistica ha comportato una svolta
epocale che segna, nello stesso tempo, il compimento dell’esperienza
delle avanguardie storiche e la nascita di un’estetica (che è anche un’eti­
ca) dell’interattività. Se l’interazione è sempre esistita, la novità dell’inte­
rattività consiste nel fatto che oggi esiste una tecnologia (le interfacce
digitali) capace di registrare, riprodurre e quindi elaborare in tempo
reale l’interazione, facendo interagire il corpo naturale dell’uomo con il
mondo artificiale delle macchine. L’interattività è quindi l’evoluzione
tecnologica di un processo di interazione creativa storicamente radicato
nelle relazioni uomo-ambiente, di cui le arti del Novecento si sono fatte
artefici consapevoli: interazione dell’opera con sé stessa, perché teatralizzan­
dosi l’opera prende coscienza della propria genesi; interazione dell’opera
con lo spazio, perché l’azione artistica non può più semplicemente occu­
pare lo spazio ma deve interpretarlo; interazione tra i linguaggi e i generi,
perché nel momento in cui l’opera non è più un oggetto ma un evento
in presenza di un pubblico entrano in gioco simultaneamente i diffe­
renti codici dell’espressione artistica. Quel che accade è allora l’evento
stesso del linguaggio nella pluralità delle sue manifestazioni e trasfor­
mazioni, che senza perdere la loro specificità originaria rivelano la loro
sostanziale complementarità e interdipendenza. Interazione tra gli artefici,
perché nella teatralizzazione dell’opera si creano le condizioni per
un’autoralità partecipata e collettiva; infine interazione con il pubblico, che
si trova sollecitato non soltanto a una generica fruizione ma a una pre­
cisa presa di posizione percettiva, psicologica, culturale e anche fisica ri­
spetto all’evento. La teatralizzazione dell’esperienza artistica praticata
dalla seconda avanguardia degli anni Sessanta aspirava a essere l’occa­
sione di una più ampia socializzazione della creatività artistica con fina­
lità di sensibilizzazione etica e politica. Ed era in questa chiave che agi­
13 INTRODUZIONE

vano i pionieri «creativi» dell’innovazione tecnologica (da Fluxus al mo­


vimento «computer for the people»).
Le nuove tecnologie e i nuovi media, considerato il loro alto poten­
ziale diffusivo, manipolatorio, invasivo e pervasivo, hanno posto e pon­
gono anche a coloro che li usano creativamente nuovi interrogativi d’or­
dine etico e politico, e rilanciano quindi il legame tra arte, etica e co­
municazione. Anche se ai tempi accelerati dell’innovazione tecnologica
non corrisponde forse un’adeguata e tempestiva elaborazione filosofica,
etica ed estetica, la sperimentazione artistica multimediale sta costruen­
do di fatto una nuova est-etica, in relazione al prodursi di nuove moda­
lità di creazione, comunicazione e fruizione (R. Packer e K. Jordan,
2001). L’arte tecnologica, in quanto pratica di ricerca e sperimentazione
delle nuove tecnologie, potrebbe infatti svolgere – come vedremo in
questo volume – un ruolo di primo piano per consentire una corretta in­
terpretazione e un uso non autoreferenziale della tecnologia stessa. In
questo senso l’arte non si pone più nei confronti della riflessione filoso­
fica soltanto come oggetto (pertinente all’Estetica), ma anche come sog­
getto attivo sperimentale che mira a superare la crisi contemporanea
dell’etica (U. Galimberti, 1999), nella prospettiva di una rifondata etica
pluralista del tecno-mondo. È anche attraverso questa via che l’arte può
riattivare i contatti tra le visioni della filosofia e il laboratorio sperimen­
tale della scienza. L’arte è la capacità di trasformare la tecnica in un lin­
guaggio e conferisce alla tecnologia un senso diverso dalla sua finalità
puramente strumentale, se e quando essa agisce sulla tecnologia – come
ricorda de Kerckhove – mediante la creazione di metafore che la ren­
dono interpretabile (e quindi utilizzabile) dalla collettività sul piano
simbolico e psicologico.
Vanno dunque considerate in questo quadro esteso ed estendibile
agli altri campi del pensiero post-umanistico le tendenze emerse dalle
esperienze creative degli ultimi decenni – approfondite nella seconda e
terza parte del volume – che ridefiniscono lo statuto stesso delle arti e
della figura dell’artista:
– integrazione tecnoespressiva: la combinazione di forme artistiche e
tecnologia produce forme espressive ibride e in costante trasforma­
zione;
– immersione, sinestesia e interattività: la ricerca creativa tende, me­
diante l’integrazione dei linguaggi multimediali, a realizzare ambien­
ti o percorsi interattivi, più che singole opere, dove il fruitore non ha
più un ruolo passivo ma si immerge con tutti (o quasi) i sensi e inte­
ragisce percettivamente e operativamente. Oltre ai sistemi di realtà
virtuale dove l’ambiente è definito a priori in modo statico e il lavoro
dell’utente consiste nella navigazione e nell’esplorazione di un mon­
INTRODUZIONE 14
do ricostruito artificialmente, con le ultime generazioni di ambienti
multimodali interattivi (AMI), l’azione dell’utente può plasmare e mo­
dificare direttamente l’ambiente nel quale entra;
– simulazione: le realtà virtuali, le immagini o i suoni di sintesi consen­
tono di simulare un’esperienza reale, decontestualizzandola e riela­
borandola in uno spazio-tempo astratto;
– virtualità: il momento ideativo e progettuale non precede più il mo­
mento comunicativo o espositivo, l’idea è già corpo virtuale dell’ope­
ra e come tale può essere fruita. Con le realtà virtuali l’idea e il pro­
getto possono concretizzarsi in un’esperienza multisensoriale prima
di dare luogo a una loro realizzazione materiale;
– primato della processualità creativa sull’opera compiuta: è più im­
portante il processo di ideazione e di elaborazione che non il risulta­
to finale, semplice tappa di un percorso, di un work in progress. Il la­
boratorio diventa il momento centrale della ricerca;
– specializzazione e interdipendenza: da una parte la conoscenza dei
software e dell’hardware richiede una sempre maggiore competenza,
dall’altra questa competenza vive e produce mediante un’interdipen­
denza tra ruoli diversi e complementari nel processo creativo;
– si tende a superare la figura dell’autore singolo a vantaggio di un auto­
re collettivo (una rete autorale). Il cyberspazio – come scrive Lévy – è
modellato da un’intelligenza collettiva. Il singolo autore non scom­
pare necessariamente, ma tende a diventare un regista di relazioni e
di percorsi ipertestuali;
– narratività e drammaturgie ipertestuali: i nuovi media e le tecnologie
multimediali tendono a sostituire la narrazione lineare con forme
narrative ipertestuali, più concentrate (micronarrazioni), o fram­
mentarie, intrecciate con narrazioni visive, sonore, plurisensoriali, in
sequenze modificabili e non lineari.
Ovviamente questa trasformazione dello statuto delle arti, delle mo­
dalità di creazione e di ricezione, comporta una metamorfosi della fi­
gura stessa dell’artista; Louise Poissant (1995) ha raccolto alcune pro-
poste per una definizione delle nuove tipologie degli artisti multime­
diali. Partendo da quella mappa e integrandola si possono individuare
le identità emergenti che sono entrate sulla scena artistica tecnologica
contemporanea. In sostanza, tutto si gioca nel tipo di rapporto che l’ar­
tista stabilisce con la tecnologia: esiste un tecnoartista artigiano che, in
continuità con gli esperimenti delle avanguardie storiche (alla Man
Ray), cerca, assembla, modifica e manipola l’hardware e crea il softwa­
re (o ne converte l’uso) in funzione delle sue esigenze e dei suoi pro­
getti; la componente artigianale di questo lavoro e la priorità delle idee
sui mezzi differenziano questa figura dall’artista ingegnere o informati­
15 INTRODUZIONE

co, che in genere ha una solida formazione tecnologica e la cui creati­


vità si muove esclusivamente a partire da questo ambito. Diverso anche
dall’artista tecnoscientifico (Piero Gilardi), cioè quell’artista che cerca
d’integrare la sua ricerca con l’innovazione tecnologica e la ricerca
scientifica.
Un’altra dimensione che agisce meno sulla macchina e più con la
macchina, è quella legata alle esperienze performative. Se dalla defini­
zione generale di artista performer, colui che interagisce davanti al pub­
blico con tecnologie elettroniche, digitali, interattive e non (macchine,
schermi, personaggi e ambienti virtuali), scendiamo in un’analisi più
puntuale, troviamo ricerche estreme come quelle dell’australiano Ste­
larc che mirano a trasformare il corpo stesso dell’artista in un cybercor­
po (cioè un corpo dotato di innesti tecnologici e biocibernetici che ne
incrementano le potenzialità psico-fisiche); oppure esperienze di cyber­
narrazione (Giacomo Verde), dove il tradizionale racconto orale e la
presenza dell’attore-narratore sono integrati in una macchina perfor­
mativa plurisensoriale digitale (dall’uso del data-glove, il guanto digitale
interattivo, all’interazione con ipertesti audiovisivi). Per l’artista proce­
duralista (Judson Rosebush), l’arte consiste nel concentrarsi sui proce­
dimenti del fare e sulle relazioni che si creano attraverso il fare; la defi­
nizione space-maker (Randy Walser) indica invece una ricerca dove l’a­
zione fisica e i movimenti del performer (danzatore/attore) partecipa­
no attivamente alla creazione di ambienti (climi, atmosfere) nell’uni­
verso del cyberspazio; l’artista di relazioni (Studio Azzurro) progetta del­
le opere-situazioni interattive che creano nuove relazioni tra l’opera e i
suoi «visitatori», e tra i visitatori stessi, i quali diventano protagonisti di
una sorta di set collettivo in continua mutazione formato dall’«ambien­
te sensibile» dell’opera.
Un altro approccio possibile è quello dell’artista che non crea diret­
tamente le opere, ma che lavora alla progettazione e alla realizzazione
di dispositivi e contesti per la produzione di eventi artistici, come il me­
tadesigner (Gene Youngblood), o il connettivista (Roy Ascott), il quale
sviluppa dei programmi e crea dei luoghi virtuali d’interconnessione
(siti Web, forum, installazioni collegate on-line, webcam meeting e
performance ecc.), in vista della produzione di avvenimenti in rete (o
che si irradiano dalla rete). Il coinvolgimento diretto dello spettatore,
nel momento in cui non è pretestuoso o superficiale, ma diventa orga­
nico alla sostanza espressiva e comunicativa dell’opera, produce una fi­
gura ibrida di spettatore attore (lo spett-attore, secondo Georges Dyens)
o di spettatore creativo, tipico delle migliori installazioni interattive.
L’effettiva partecipazione del pubblico dipende sia dal suo grado di
competenza tecnologica ed estetica sia dal livello di complessità, inte­
INTRODUZIONE 16
resse e dalla durata della proposta artistica. Sicuramente cambiare le
modalità di relazione tra artista-opera-fruitore significa cambiare i con­
testi spazio-temporali nei quali l’evento avviene; la dimensione di uno
spazio laboratorio (piuttosto che i tradizionali spazi scenici o espositivi)
è la più consona a favorire l’assimilazione e la sperimentazione delle in­
novazioni estetiche indicate.
Si delinea così uno scenario dove cambiano anche il ruolo e il signifi­
cato della riflessione critica e teorica, che è chiamata a esprimersi, e
perciò anche a partecipare e compromettersi con gli eventi che osserva,
in tempo reale. Il divenire delle arti multimediali, male o bene che sia lo
giudicheranno altri, non lascia spazio alle reticenze e non lascia tempo
alla sedimentazione, riduce anche le protezioni dai virus dell’enfasi o vi­
ceversa del pregiudizio. A confronto con la lettura dei percorsi artistici
del passato, estende quindi i margini di errore, di fraintendimento e di
approssimazione. Lo stesso impegno formativo ha un carattere speri­
mentale permanente, che richiede costante attenzione, apertura e ag­
giornamento alla dialettica tra innovazione tecnologica, etica comuni­
cativa e ricerca artistica. Questa è una realtà sotto gli occhi di tutti, è co­
me essere immersi in una crescita esponenziale di complessità e velocità
(P. Virilio, 1981), dove tutti i tentativi (compreso il nostro) di mettere
ordine e fornire coordinate di navigazione in questo «caosmo» hanno
perciò una vocazione sperimentale all’azzardo, una volontà di entrare
nei mutamenti per comprenderli e in certi casi anche contribuire a
orientarli quando sono ancora in atto. Un viaggio da affrontare però
con un bagaglio irrinunciabile, quello che Enea aveva scelto caricando­
si il vecchio padre Anchise sulle spalle: la memoria storica.

3. Continuità o rottura?

Quando si parla di multimedialità, spesso si dimentica che se la con­


sideriamo non soltanto dal punto di vista degli strumenti tecnologici,
ma anche dal punto di vista del senso che assume l’innovazione tecno­
logica all’interno del divenire dei linguaggi espressivi e della ricerca ar­
tistica, dobbiamo riconoscere l’esistenza di una storia dell’idea di multi­
medialità. Un’idea che ha precursori illustri e remoti, fin dalle intuizio­
ni del romanticismo, e che precede le invenzioni e la diffusione delle
tecnologie multimediali. La sua prima organica elaborazione risale al-
l’utopia della sintesi delle arti, avviata dalle teorie di Wagner sull’opera
d’arte totale, e poi ricercata in una straordinaria molteplicità di percorsi,
differenti e anche contraddittori, da tutta l’avanguardia artistica nove­
centesca. Intrecciandosi con l’esplorazione sinestetica, poeticamente evo­
17 INTRODUZIONE

cata da Baudelaire e divenuta meta percettiva della «sintesi delle arti».


Essa non solo trova oggi nelle tecnologie interattive multimediali un’i­
nedita possibilità di essere sperimentata, ma si presenta come la condi­
zione caratteristica dell’immersione nelle realtà virtuali, ovvero in quel-
la che de Kerckhove ha chiamato la «sinestesia obbligata del digitale»
(1995).
La sintesi delle arti è un’utopia collettiva che attraversa più di due se­
coli, dalla fine del Settecento a oggi, in una costante metamorfosi, do­
ve gli elementi di originalità si mescolano, in modo talvolta indissolu­
bile, con quelli, consapevolmente o meno, ereditati. Nel fervore del-
l’invenzione creativa come nel distacco della ricostruzione storica e del­
la riflessione critica, si affermano due approcci opposti: uno enfatizza
gli elementi di novità e discontinuità, di rottura con il passato e con la
tradizione, cercando per questa via di legittimare l’originalità dell’ope­
ra o della teoria in oggetto; l’altro approccio rivela i modelli e i riferi­
menti, si ricollega al passato e in esso cerca le premesse ispiratrici, tro­
vando in tal modo una legittimazione del valore dell’opera o della teo­
ria in oggetto in virtù di una continuità. Nel primo caso si rischia di
confondere l’attuale con il nuovo, riproducendo con mezzi nuovi idee
già acquisite e quindi sganciando il progresso formale da uno sviluppo
sostanziale; nel secondo caso, si rischia di sottovalutare e inibire le po­
tenzialità innovative riducendole agli schemi già noti. Questo dualismo
si può riflettere anche in due diverse angolazioni: una tecnicista, tutta ri­
volta a individuare e sottolineare i salti evolutivi e gli elementi tecnolo­
gici di innovazione, e l’altra linguistica, che cerca invece di tracciare i
percorsi e i processi che veicolano l’evoluzione della tecnica e la sua
trasformazione, mediante l’arte, in linguaggio. Una delle idee di fondo,
sottese al progetto di questo volume, è che l’innovazione tecnologica,
se interpretata creativamente dagli artisti e quindi se innestata in una
poetica, diventi o possa diventare innovazione linguistica, cioè espres­
siva. Se si percorre a ritroso l’etimo delle parole «arte» e «tecnica», le si
ritrova congiunte nel termine greco techne, dove appunto l’elemento
tecnico si coniugava a quello espressivo. La separazione terminologica
e anche sostanziale che è avvenuta in seguito tra i due elementi si giu­
stifica sul piano storico e sociale, ma è deviante se si considera il pro­
cesso concreto del fare artistico. Crediamo come Focillon che la tecni­
ca vada intesa non come mero strumento ma come processo, e che l’ar­
te consista nell’esplorazione creativa del processo tecnico e nella sua
trasformazione in un linguaggio. In ogni caso, tanto l’innovazione tec­
nologica, quanto quella linguistica contengono al loro interno sia ele­
menti di continuità – quindi lo sviluppo e la realizzazione di un per­
corso storico – sia elementi di discontinuità – cioè la rottura con una
INTRODUZIONE 18
tradizione e uno scarto evolutivo rispetto a essa – in una misura che è
ovviamente variabile. Cogliere simultaneamente questi aspetti di «con­
tinuità» e di «rottura», in apparenza contraddittori, significa per noi ri­
conoscere nel divenire delle arti, e in particolare, nell’evoluzione del
rapporto tra le arti e le tecniche, non una rigida contrapposizione tra
innovazione e tradizione, tra avanguardia e passato, ma una feconda
dialettica. Una metamorfosi costante e complessa dove le radici non so­
no tagliate o perdute, ma sono rigenerate e rivitalizzate dal nuovo, e do­
ve, come accade nella stessa formazione delle facoltà cognitive ed
espressive umane, c’è un legame inestricabile tra l’«eredità genetica» e
l’innovazione dell’esperienza.

4. Il pregiudizio tecnologico

Il dualismo tra continuità e rottura, tra tecnica e linguaggio, di cui


abbiamo parlato, lo si ritrova anche negli atteggiamenti del mondo del­
le arti visive, musicali e dello spettacolo rispetto alla tecnologia. Da un
lato, c’è un atteggiamento enfatico e di subordinazione, una sorta di in­
seguimento dell’innovazione tecnologica, quasi a suggerire una coinci­
denza della novità di un’opera con la novità della tecnica (o dei mate­
riali) con cui è realizzata. In questa prospettiva, l’innovazione tecnica
assume un plusvalore di sorpresa, di effetto spettacolare, capace di per
sé di suscitare l’interesse del pubblico e della critica. Secondo questo
principio, si valuta la novità di un’opera non tanto in base all’origina­
lità di una poetica, ma piuttosto in base all’attualità dei mezzi che rea­
lizzano l’opera stessa, fino ad arrivare, nei casi più estremi, a un’auto­
sufficienza della tecnica, il cui valore si emancipa dall’esistenza e dalla
pregnanza di una qualsiasi poetica. In questo modo, si può incappare
nel paradosso – non così raro – di un’opera, per esempio, di computer
art, molto più «vecchia» di un’opera pittorica. Oltretutto una tecnica
forte con un messaggio debole invecchia anch’essa precocemente, co­
me dimostra il confronto tra la fantascienza cinematografica d’autore
(vedi 2001: Odissea nello spazio di Kubrick) e la fantascienza costruita
esclusivamente sugli effetti speciali. L’atteggiamento opposto, ancora
molto presente all’interno delle istituzioni formative artistiche, delle
istituzioni musicali e dello spettacolo, e anche in alcuni settori della cri­
tica, è quello di un forte pregiudizio nei confronti dell’innovazione tec­
nologica applicata in ambito artistico. La trasformazione del modus ope­
randi dell’artista che utilizza le nuove tecnologie è giudicata a priori co­
me uno snaturamento, un’alienazione, una perdita di sensibilità quan­
do non addirittura una furberia, un facile espediente per coprire la
19 INTRODUZIONE

mancanza di mestiere e di idee. I torti, ma anche le ragioni di entram­


bi questi opposti atteggiamenti, ci spingono a preferire una terza via,
dove l’arte non è invasata e nemmeno intimorita dalle nuove tecnolo­
gie, ma gioca, nel senso più nobile (e più antico: dionisiaco) del termi­
ne, con esse. In molti infatti hanno sottolineato come le nuove tecno­
logie digitali interattive siano state ideate secondo un’etica partecipati­
va e ludica (vedi i principi etici della scuola californiana che ha dato i
natali alla rivoluzione informatica) e come un loro uso appropriato e
consapevole possa modificare il metodo stesso di apprendimento nella
direzione di un’autoformazione creativa e ludica.

5. Il progetto editoriale

Sulla base delle riflessioni fin qui svolte, emerge un’impostazione teo­
rica che intreccia due temi fondamentali: l’interazione creativa dei lin­
guaggi e il rapporto tra arte e nuove tecnologie che sostiene, permea e
sviluppa questa interazione. Il discorso prende quindi avvio dal primo
tema e sfocia progressivamente nel secondo.
La struttura del volume prevede una prima parte dedicata alla «conti­
nuità», cioè all’individuazione delle radici storico-culturali e dei «pre­
cursori» teorici e artistici – sia singoli che movimenti e tendenze – del-
l’interazione creativa dei linguaggi e del rapporto tra arti e nuove tec­
nologie. Si sviluppa secondo un percorso cronologico che parte dal ro­
manticismo e giunge alle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta
del Novecento, e con un’articolazione tematica che pur distinguendo i
diversi ambiti disciplinari si apre fin da subito a una prospettiva interdi­
sciplinare.
La seconda parte del volume è invece dedicata alla «rottura», cioè al­
l’individuazione degli elementi più significativi di novità e di disconti­
nuità che caratterizzano il rapporto tra le arti e le nuove tecnologie da­
gli anni Ottanta fino a oggi. Questa ricognizione è stata svolta partendo
ancora dai diversi ambiti disciplinari, i quali tendono però, sempre più,
a incrociarsi e interfacciarsi, diventando aree linguistiche-espressive di
frontiera. I contributi hanno angolazioni diverse, che riflettono le spe­
cifiche esperienze di chi scrive ma anche la molteplicità delle chiavi di
lettura possibili di una realtà «sperimentale», in costante e accelerata
metamorfosi. Ci sono quindi analisi più orientate sull’evoluzione tecni­
ca, altre sulle innovazioni comunicative e linguistiche, altre ancora sulle
trasformazioni artistiche ed estetiche e infine sulle implicazioni formati­
ve ed etiche.
La terza parte del volume raccoglie invece due sezioni antologiche. La
INTRODUZIONE 20
prima è un’antologia cronologica, curata da Anna Maria Monteverdi, di
una quarantina di opere, a ciascuna delle quali è dedicata una breve
scheda. Opere più note e meno note, appartenenti a diversi generi e a
diverse generazioni, che abbiamo considerato emblematiche rispetto ai
temi e ai percorsi artistici descritti nel libro. Senza ovviamente la prete­
sa di farne una campionatura obbiettiva o di merito, ma con l’intendi­
mento di integrare i percorsi storici e teorici con esempi concreti, e di
fornire una sintesi informativa di alcune tappe fondamentali della ri­
cerca artistica in oggetto.
La seconda antologia, curata dai due autori, è invece un percorso ra­
gionato e tematico di brevi frammenti tratti da scritti inediti ed editi
(perlopiù non tradotti o difficilmente reperibili) di artisti e studiosi ita­
liani e stranieri, che integrano i saggi raccolti nelle prime due parti del
volume e contribuiscono in modo significativo a delineare una nuova
estetica delle arti tecnologiche e multimediali, dalle loro radici storiche
a oggi. Chiude il volume una bibliografia organizzate tematicamente.

La prospettiva formativa in Italia

Negli ultimi anni in Italia, in seguito alla diffusione delle tecnologie e


delle comunicazioni multimediali, sono stati avviati molti nuovi inse­
gnamenti nelle università (DAMS, corsi di comunicazione), nuovi corsi
nelle accademie di belle arti, nel Politecnico e ad architettura, oltre alla
fioritura di istituti formativi privati, che registrano una costante crescita
di iscritti e l’attivazione di numerose nuove cattedre. Sia pure in ritardo
rispetto al panorama europeo, e con una cronica carenza di fondi, que­
sto fenomeno risponde e si accompagna a una costante crescita dell’in­
teresse delle nuove generazioni e dell’offerta di lavoro nel campo delle
nuove tecnologie della comunicazione. Oltre alla competenza tecnica, si
rivelano fondamentali la capacità creativa e il bagaglio culturale per in­
serirsi in modo efficace in questo nuovo mercato e in una prospettiva di
sperimentazione artistica. Mai come oggi diventa essenziale stabilire un
rapporto tra ricerca – artistica e culturale – e formazione. Nell’attuale
proliferazione di proposte editoriali, si trovano centinaia di manuali tec­
nici, decine di testi monografici sull’evoluzione e sul rapporto tra le ar­
ti e le nuove tecnologie, alcuni testi teorici interessanti e molti cataloghi
di mostre o atti di convegni, con interventi spesso importanti ma di dif­
ficile reperibilità. C’è invece un vuoto editoriale sulla connessione esi­
stente tra le tecniche, i linguaggi e le estetiche, sia dal punto di vista sin­
cronico – il loro reciproco intrecciarsi nel presente – sia dal punto di vi­
sta diacronico – la loro evoluzione nel tempo. È un vuoto da colmare ed
21 INTRODUZIONE

è sulla base delle esperienze personali d’insegnamento e di ricerca arti­


stica dei curatori e dei collaboratori del presente volume che si è indivi­
duata la necessità di riunire i diversi approcci disciplinari in un quadro
unitario, che non ha naturalmente la pretesa di essere esaustivo, ma che
si propone di essere sia un veicolo di riflessione per gli addetti ai lavori
o gli appassionati sia uno strumento utile di orientamento formativo
per gli studenti. È anche significativo che molti autori dei testi di questo
volume coniughino nella loro esperienza l’insegnamento universitario,
lo studio storico e la riflessione teorica, con la pratica professionale e ar­
tistica delle nuove tecnologie, poiché sempre più l’universo multime­
diale rende evidente quanto la comprensione del significato e delle qua­
lità specifiche della tecnologia richieda un contatto e una sperimenta­
zione diretta, e viceversa quanto sapere sia necessario per una relazione
creativa e consapevole con la complessità tecnologica contemporanea.
PRIMA PARTE

VERSO LA SINTESI DELLE ARTI


I PRECURSORI
L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI
DAI ROMANTICI ALLE AVANGUARDIE STORICHE
Andrea Balzola

1. La nuova visione dell’arte nell’estetica romantica

Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, la storia


del pensiero artistico occidentale registra una svolta epocale, fondazione
e preludio della modernità. Nasce l’Estetica come specifica disciplina filo­
sofica, all’insegna del romanticismo e sulle ceneri del principio di imita­
zione (della realtà), modello assoluto dell’arte classica. Prima di allora,
l’Estetica non esisteva come definizione e come campo riconosciuto della
speculazione filosofica (G. Vattimo, 1977; S. Givone, 1988), ma già si era
venuta configurando una variegata pluralità di concezioni, teorie e pre­
cetti (W. Tatarkiewicz, 1979-84) che fin dalla Poetica aristotelica avevano
attraversato tutta la storia del pensiero sulle arti. Quel patrimonio in pri­
mo luogo s’identificava con le riflessioni che gli artisti stessi avevano ela­
borato, a partire dalla loro esperienza diretta con il fare.
L’estetica romantica apre le porte della modernità perché annuncia e
fonda l’idea di un’autonomia dell’arte, e se l’oggetto della riflessione filo­
sofica si emancipa, ne consegue che anche il discorso su di esso scopre
la propria specificità. Naturalmente il passaggio dall’idea classica all’i­
dea romantica dell’arte avviene per gradi. Uno dei suoi più precoci tra­
ghettatori è il tedesco Karl Philipp Moritz. Nell’idea classica, la bellezza
di un’opera d’arte si misurava sul grado di perfezione con cui riprodu­
ceva un modello reale (figura, oggetto o paesaggio) e il valore dell’arti­
sta era stabilito dalla personalità dello stile con cui egli interpretava la
realtà. In tale prospettiva, l’opera imitava la realtà e l’artista era il trami­
te più o meno efficace di tale mimesi. Moritz introduce una precisazio­
ne, in apparenza innocua, che si rivelerà invece il primo passo verso un
sistematico scardinamento dell’opera d’arte intesa come artificio dell’i­
mitazione: concepire l’artista come creatore. L’opera è creata dall’artista
così come la realtà fenomenica è creata dalla natura; l’arte può riflette­
re la natura (occorrerà attendere la fine dell’Ottocento e le avanguardie
del primo Novecento perché l’arte si distacchi definitivamente da un re­
ferente reale), ma è un mondo parallelo che ha leggi diverse da quelle
naturali.
Questo principio è la premessa dell’estetica romantica, che metterà
l’accento «non più sul rapporto di rappresentazione (tra l’opera e il
ANDREA BALZOLA 26
mondo), ma sul rapporto d’espressione: quello che collega opera e arti­
sta» (T. Todorov, 1977, trad. it. 1984). Per Moritz l’opera d’arte è una to­
talità autosufficiente, che vive di vita propria e la cui bellezza non è legata
a un fine utile: l’opera deve «essere considerata come un tutto esistente
per sé stesso che, come la grande natura, ha il proprio fine in sé ed esi­
ste per sé stesso». Qui lo scarto rispetto alla tradizionale idea del bello si
fa sensibile: se l’opera si giustifica da sé, il criterio con cui deve essere
creata non è più il principio di imitazione ma il principio di coerenza in­
terna. La totalità diventa bella se tutte le parti che la costituiscono sono
armonizzate fra loro, questo è il (nuovo) compito supremo dell’artista.
Intuizioni che saranno poi riprese e sviluppate in una sorta di «mani­
festo» ante litteram dell’estetica romantica, messo a punto nell’ambito
della straordinaria esperienza di «Athenaeum», una rivista fondata nel
1798 dai fratelli August Wilhelm e Friedrich von Schlegel, che aveva tra
i suoi collaboratori capofila del pensiero tedesco come Novalis, Schel­
ling, Schleiermacher e Tieck. L’intensa complicità intellettuale ed esi­
stenziale di questo gruppo sembra precorrere di un secolo lo spirito di
creazione e teorizzazione collettive che si affermerà con le avanguardie
storiche, anche perché in quel cenacolo emerge una nuova consapevo­
lezza: la necessità di «formare opere comuni» (è F. von Schlegel a dirlo
esplicitamente, proponendo una sinfilosofia e una sinpoesia). Quest’ope­
ra comune implica innanzi tutto il rinnovamento della visione e della prati­
ca dell’arte, di cui il gruppo di «Athenaeum» abbozza le coordinate: 1)
l’opera d’arte ha una dimensione propria e autonoma, in cui il mo­
mento centrale è il processo di produzione artistica; ciò significa che il mo­
do in cui un’opera è creata è più rilevante del suo risultato finale; 2) pri­
vilegiare il momento del confronto e la complementarità delle differen­
ze di pensiero porta gli autori ad adottare il genere del dialogo, mentre
mettere l’accento sul momento della ricerca li spinge a preferire un ge­
nere di scrittura in forma di frammento e aforisma, piuttosto che mirare a
un’opera sistematica e compiuta; un secolo dopo Nietzsche rilancerà
questo modo di concepire e comunicare il pensiero filosofico, con il
suo testo Aurora (1881); 3) la vera opera d’arte è intransitiva, cioè non
ha un fine strumentale al di fuori di sé stessa e il linguaggio artistico è au­
togenerativo, si crea a partire da sé stesso (Novalis); 4) l’opera poetica de­
ve avere un’organicità che la renda simile alle opere della natura: questa
organicità dipende da una necessità interna all’opera stessa, che non de­
ve perciò contenere elementi superflui o gratuiti. Ciò che garantisce
questa organicità dell’opera è la sua coerenza interna, in essa «il particola­
re non esiste se non per il tramite del tutto» (A.W. von Schlegel); 5) fa­
coltà unica dell’arte è quella di saper riunire – fino al paradosso – gli op­
posti, quella di saper «pensare il contraddittorio e operarne la sintesi» (Schel­
27 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

ling); 6) l’arte produce una pluralità di associazioni di forme e di idee


che riescono a esprimere, a differenza del linguaggio logico, il non dici­
bile e il non rappresentabile. L’arte può, più di ogni altra espressione
umana, comunicare l’ineffabile, ma soltanto per via indiretta, mediante
metafore, simboli e allegorie. È per questo che l’essenza della mitologia
e della religione si esprime in forma poetica. Per i romantici l’opera
poetica è una finestra aperta sull’infinito, essa è tramite di un dialogo
inesauribile tra la finitezza della condizione umana e il mistero dell’in­
finito. Qui si consuma il paradosso dell’arte: attraverso la finzione rivela
una verità che non potrà mai possedere, e tutte le sue forme si generano
e si distruggono in questo costante scacco; 7) l’arte non è soltanto la pra­
tica di una facoltà creativa e immaginativa, ma diventa un modello di vi-
ta. L’aspirazione del romantico è quella di trasformare la propria vita in
un’opera d’arte (un’aspirazione che attraverserà gran parte delle avan­
guardie del Novecento, dai futuristi a Fluxus).
Questi concetti, da noi così sinteticamente riassunti, costituiscono le
fondamenta del pensiero artistico moderno e attraverseranno la grande
utopia dell’opera d’arte totale annunciata da Wagner.

2. Il primato della musica e la relazione tra le arti

Se per i romantici tutte le arti hanno un valore metafisico, è soprat­


tutto la musica a suscitare il loro interesse, poiché è la più astratta, quin­
di la meno imitativa rispetto alla realtà (Novalis) e la più vicina alla filo­
sofia (Schlegel): «Nessun’altra arte come la musica ha una materia pri­
ma che già in sé stessa sarebbe ricca di spirito divino».1 L’insistenza sul
valore dell’astrazione musicale implica anche il superamento del prima­
to illuminista della musica vocale e l’affermazione della musica stru­
mentale pura, con la forma sonata. Sono gli anni in cui Beethoven scri­
ve le sue prime grandi sonate per pianoforte, chiudendo per sempre con
l’eredità barocca che domina ancora il Settecento e che mantiene la
musica strumentale alle dipendenze della musica vocale operistica.
Nell’ambito più generale dell’autonomia delle arti propugnata dai
romantici, acquisisce un significato particolare il sostegno all’autono­
mia del linguaggio musicale e la sua «nobilitazione» allo stesso livello
del linguaggio poetico e letterario. Si crea così una circolarità tra le arti
che prelude alla «fantasia» di farle convivere in uno stesso evento crea­
tivo e in uno stesso luogo di fruizione: «Non si dovrebbero mai vedere

1
In W.H. Wackenroder, Fantasie sulla musica, a cura di Enrico Fubini, Discanto edi­
zioni, Fiesole 1981.
ANDREA BALZOLA 28
delle opere plastiche senza musica – e si dovrebbe sempre ascoltare la
musica in sale finemente decorate. Così non si dovrebbe mai godere del­
la poesia senza che a essa siano unite musiche e decorazioni» (Novalis).
L’inedita centralità della musica nello spirito romantico ne fa un po­
lo di confronto e di attrazione per le altre arti. Uno dei più ferventi fau­
tori di questo slancio innovatore è Wilhelm Heinrich Wackenroder, sin­
golare figura di scrittore eclettico e aspirante musicista (morto a soli
venticinque anni, proprio nell’anno di fondazione della rivista «Athe­
naeum»). In anticipo rispetto ai suoi amici romantici, Wackenroder sot­
tolinea la corrispondenza fra l’armonia della musica, quella dell’animo
umano e quella dell’ordine cosmico; questa corrispondenza non solo
spiega la nostra comprensione intuitiva ed emotiva di un’arte così appa­
rentemente sganciata dal mondo reale, ma ha un significato ancora più
rilevante: l’armonia è il modello universale della relazione tra il tutto e
le sue parti. L’idea stessa di totalità autosufficiente dell’opera d’arte, in­
trodotta da Moritz, nelle frammentarie intuizioni di Wackenroder viene
fondata sul concetto musicale di armonia. Recuperando le antiche teo­
rie pitagoriche, egli attribuisce il primato alla musica perché tra le arti è
quella che oltre a garantire la massima libertà creativa possiede le rego­
le più forti: in essa «sentimento e scienza sono inseparabilmente e sal­
damente attaccati l’uno all’altra». Questo primato verrà poi fermamen­
te rilanciato dalla teoria estetica di Schopenhauer, che nella sua opera
principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), riprende e por­
ta alle estreme conseguenze le idee di Novalis: se «il fine delle belle arti
è di stimolare l’uomo alla conoscenza delle idee», riproducendo ogget­
ti particolari e modificandoli soggettivamente, la musica, invece, spin­
gendosi «fino alle idee, è affatto indipendente dal mondo fenomenico;
lo ignora, e potrebbe in certo modo continuare a esistere anche quando
l’universo non fosse più». L’effetto della musica è quindi «più potente,
più penetrante che quello delle altre arti; queste non esprimono che
l’ombra; quella celebra l’essenza». Al di là di una visione riduttiva delle
belle arti che risente ancora dell’influenza platonica (l’arte come copia
del mondo fenomenico, il quale a sua volta riflette il mondo delle idee),
l’elevazione della musica al «grado supremo di oggettivazione della vo­
lontà», quindi della vita e delle aspirazioni umane, ribadisce un’indica­
zione che segnerà a lungo il progetto di una sintesi ideale delle arti gui-
data dallo spirito musicale.
29 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

3. L’opera d’arte totale secondo Wagner

Sulle premesse romantiche, la musica si candida a diventare il veico­


lo di una fantasticata sintesi delle arti. Non è perciò un caso che sia pro­
prio un musicista, Richard Wagner, a teorizzare per primo l’opera d’arte
totale, mezzo secolo dopo. Gli ideali romantici si sono definitivamente af­
fermati nella cultura, ma non sono riusciti a riformare politicamente la
società. Wagner, che si forma su quegli ideali e li rispecchia artistica­
mente nella sua produzione giovanile, tende progressivamente a distac­
carsene con una visione pessimistica della storia, ma nello stesso tempo
ne rigenera e ne elabora le intuizioni essenziali. Tutta la sua visione del-
l’arte nuova si manifesta tra il 1849 e il 1851, con quattro saggi fonda­
mentali: L’arte e la rivoluzione (1849), L’artista dell’avvenire (1849), L’opera
d’arte dell’avvenire (1849) e Opera e dramma (1851). I suoi scritti nascono
sull’onda di una rinnovata radicalizzazione rivoluzionaria (i moti del
1848), così come era accaduto con i padri fondatori del romanticismo,
immersi nel clima della rivoluzione francese. La sua idea di opera comu­
ne o di opera integrale (sinonimi di opera d’arte totale, traduzione più diffu­
sa del wagneriano Gesamtkunstwerk), si sviluppa a partire da due riferi­
menti: uno positivo, che deve servire da modello al nuovo teatro musi­
cale, la tragedia greca; e uno negativo, che rappresenta l’antimodello da
combattere, il teatro d’opera. La tragedia greca è un esempio dell’unità
originaria tra suono, parola e azione che deve essere ritrovata. L’Opera
invece, secondo Wagner, più che una forma d’arte compiuta è un artifi­
cioso intrattenimento, nato in Italia per dilettare le corti, che si limita a
mescolare la poesia e il dramma con il canto e la musica, senza creare
tra questi una reale unità. La via del rinnovamento artistico implica per
il compositore tedesco (ma lo era già per i romantici) un rinnovamento
spirituale. La tragedia greca antica aveva una funzione catartica (cioè di
purificazione simbolica delle paure e delle passioni) per l’intera comu­
nità, che trovava in essa non solo un momento di divertimento ma an­
che una sintesi artistica delle mitologie epocali e una rappresentazione
delle angosce collettive. Fu proprio il sogno wagneriano, di far rivivere
in una nuova forma moderna di arte la tragedia antica, a ispirare la pri­
ma grande opera filosofica del giovane Nietzsche: La nascita della trage­
dia dallo spirito della musica (1872). Allo stesso modo della tragedia greca,
l’opera d’arte dell’avvenire deve saper scuotere il pubblico dal suo tor­
pore e rispondere alle domande più profonde che l’anima del tempo
suscita negli uomini. La forma d’arte suprema che secondo Wagner cor­
risponde a questa esigenza e a questa funzione è il dramma (Ton-Wort-
Drama, il dramma di parola e musica), veicolo di un’effettiva sintesi del­
le arti, fondata non sul loro semplice accostamento o su un rapporto il­
ANDREA BALZOLA 30
lustrativo, ma sulla loro complementarità. Il vero dramma può essere
soltanto quello «emerso dal desiderio comune di tutte le arti di indirizzar­
si nel modo più diretto a un pubblico comune». Infatti è soltanto tramite
una comunicazione collettiva con le altre arti che ciascun singolo lin­
guaggio artistico può rivelarsi pienamente a un pubblico comune, «per­
ché l’intenzione di ogni singolo genere d’arte non si realizza altrimenti
che con il concorso intelligibile di tutti i generi artistici» (Wagner,
1849).
In realtà, quando Wagner parla del concorso di tutti i generi artistici
nel dramma, intende soprattutto l’unione «trinitaria» di arte poetica (che
si oppone alla volgarizzazione librettistica della poesia), arte dei suoni
(che si oppone alla musica preromantica) e arte della danza (che si op­
pone al balletto del teatro d’opera).
La concezione del dramma comporta comunque, innanzitutto, la ri­
definizione dello spazio teatrale. Una delle più leggendarie imprese wa­
gneriane consiste proprio nei suoi ambiziosi progetti e nei suoi titanici
tentativi di costruire un nuovo teatro, culminati felicemente nel 1876
con l’inaugurazione del costosissimo Teatro di Bayreuth. L’arte architet­
tonica entra dunque nell’opera totale disegnandone il contesto: separa­
zione netta del mondo ideale della scena dalla platea, creazione di una
fossa per l’orchestra affinché la musica viva della sua suggestione invisi­
bile, oscurità che immerge e concentra il pubblico nel «sogno» del
dramma e viceversa illuminazione intensificata sulla scena, mirata sul
personaggio e misurata sull’azione drammatica.
Anche l’arte pittorica partecipa all’opera totale, con la funzione di ani­
mare l’architettura scenica e rafforzare l’effetto illusionistico del dram­
ma. Wagner si appassiona alla pittura contemporanea di paesaggio (cu­
riosamente Caspar David Friedrich, il più grande pittore romantico te­
desco, soprattutto paesaggista, già nel 1830 aveva chiesto ai suoi com­
mittenti russi di accompagnare con la musica la visione di alcune sue pit­
ture), e vuole portarla in teatro per farla interagire – nella forma del
fondale – con la presenza umana vivente degli attori. Il mito romantico
della natura viene così integrato nella finzione drammatica.
In quanto al processo creativo che deve portare alla realizzazione del
dramma, Wagner insiste su un altro tema che abbiamo visto nascere nel
gruppo di «Athenaeum», la creazione collettiva: «L’opera d’arte dell’av­
venire è un’opera collettiva, e non può nascere che da un desiderio col­
lettivo [...] in pratica, essa non è possibile che mediante l’associazione di
tutti gli artisti; ed è la riunione di tutti gli artisti in uno stesso luogo, in
uno stesso tempo e con una meta comune che forma questa associazio­
ne» (Wagner, 1849). Soltanto in una contiguità spazio-temporale co­
stante dei soggetti creativi che partecipano, ognuno portatore della sua
31 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

specificità artistica, alla produzione del dramma, si può sperimentare e


infine realizzare l’auspicata compenetrazione delle arti. Al di là dell’effetti­
va concretizzazione di questo progetto – vedremo in seguito le più si­
gnificative contraddizioni tra le affermazioni teoriche di Wagner e i suoi
tentativi di metterle in pratica – questo passaggio dell’Opera d’arte del-
l’avvenire rappresenta un riferimento fondante, dal quale qualsiasi pro­
gettualità artistica che ha inteso mettere in relazione differenti linguag­
gi non potrà più prescindere (B. Picon-Vallin, D. Bablet, 1995). Ancora
oggi, nel laboratorio multimediale delle arti, soltanto la capacità di far
interagire la soggettività creativa dei linguaggi nella genesi stessa dell’i­
dea può produrre un evento artistico allo stesso tempo unico (perché le
circostanze e le convergenze creative sono ogni volta diverse) e unitario
(perché i linguaggi non sono sommati ma indissolubilmente intreccia­
ti). Una delle motivazioni che spinsero il compositore tedesco a rischia­
re infine la prova della regia, era proprio questa necessità di entrare nel
processo creativo, per pilotare le convergenze tra gli elementi dell’ope­
ra totale.

4. Echi wagneriani: dalla sinestesia di Baudelaire al teatro mentale


di Mallarmé

Gli ambiziosi propositi di Wagner, com’è noto, si sono scontrati con


una realtà che ne ha ridotto la portata concreta. Da una parte, si sono
misurati con i limiti culturali di un’epoca che non era ancora matura
per l’innovazione radicale dei linguaggi artistici (a cui si assisterà mezzo
secolo dopo), condizione necessaria perché l’utopia wagneriana scen­
desse dall’olimpo delle idee nelle forme espressive concrete; dall’altra
parte, con i limiti soggettivi dell’opera di Wagner stesso, messi in luce
dai teorici e dai registi successivi. Il problema di più immediata eviden­
za era il ruolo preminente che di fatto rivestiva la musica nel dramma, e
questo aspetto, che ovviamente si giustifica con la natura musicale del-
l’ispirazione e dell’arte wagneriane, affonda le sue radici nell’attenzio­
ne privilegiata verso l’arte musicale della prima generazione romantica
e poi della teoria estetica di Schopenhauer. Il problema più delicato
era, di conseguenza, il tipo di relazione da stabilire tra l’intenzione poe­
tica e l’espressione musicale, e qui risuona profetico l’avvertimento del­
lo stesso Schopenhauer: «...chi si sforza di accomodare la musica alle pa­
role, e di adattarla agli avvenimenti, ha l’assurda pretesa di farle parlare
una lingua che non è la sua».
Lo sforzo innovatore di Wagner ha un impatto assai precoce e fe­
condo in Francia, dove prima Charles Baudelaire e poi i simbolisti di­
ANDREA BALZOLA 32
mostrano entusiasmo per le sue teorie sulla relazione tra le arti. Un te-
ma a cui l’autore dei Fiori del male (1857) è particolarmente sensibile e
che affronta in forma poetica, nei celebri versi di Corrispondenze2 sulla si­
nestesi (il fenomeno di associazione istantanea tra due o più percezio­
ni corrispondenti di sensi diversi, espresso nella figura retorica della si­
nestesia, per esempio: suono giallo o voce ruvida). Il poeta francese ri­
prende questa idea, sviluppandola in forma teorica, proprio nell’arti­
colo dedicato a Wagner (1861).3 Qui Baudelaire rivela come per lui sia
inconcepibile un’espressione artistica che escluda le corrispondenze
tra le differenti percezioni sensoriali e di conseguenza tra i diversi lin­
guaggi artistici che ne derivano: «...le cose si sono sempre espresse me­
diante una reciproca analogia, dal giorno in cui Dio ha concepito il
mondo come un’indivisibile e complessa totalità». Si potrebbe dire che
l’approccio di Baudelaire è parallelo all’idea di Wagner, perché mentre
quest’ultimo mira alla convergenza delle arti, il poeta francese è più in­
teressato alle «corrispondenze» tra esse, parla infatti della loro «reci­
proca analogia» e quindi, implicitamente, suggerisce una dimensione
espressiva dove i linguaggi artistici interagiscano in modo paritario, sul­
la base delle loro intime affinità, sintonizzandosi e rimandandosi a vi­
cenda. La sintesi non si realizza quindi a priori nel progetto creativo ma
è piuttosto il suo risultato a livello percettivo: l’effetto sinestetico, nel
quale le percezioni sensoriali raggiungono un’indissolubile simulta­
neità. Baudelaire introduce così un nuovo approccio al tema della re­
lazione tra le arti che sarà sviluppato da molte successive ricerche d’a­
vanguardia.
Anche i simbolisti si rivelano sensibili alle sollecitazioni di Wagner,
tanto da dedicargli un’importante rivista, appena due anni dopo la sua
morte (1883): «La Revue wagnérienne» (1885-88).4 La rivista fa da pon­
te tra Wagner e Mallarmé, e i suoi due principali artefici, Edouard
Dujardin e Théodor de Wyzewa, dichiarano esplicitamente che il loro
obiettivo principale non è tanto quello di celebrare l’arte musicale o la
riforma teatrale di Wagner, quanto piuttosto di promuovere la nuova
forma d’arte totale da lui annunciata. In questi autori c’è già la consa­
pevolezza che l’unione di tutte le forme artistiche è per ora solo l’obiet­

2
«Comme de longs échos qui de loin se confondent / dans une ténébreuse et
profonde unité / vaste comme la nuit et comme la clarté, / les parfums, les couleurs
et les sons se répondent.», in Les Fleurs du mal, 1857 (1a ed.) e 1861 (2a ed.), Poulet-
Malassis, Paris.
3
C. Baudelaire, Richard Wagner, in « La Revue européenne», 1° aprile 1861.
4
Per un’analisi dettagliata di questa rivista vedi il relativo saggio di Alain Satgé, in
L’Oeuvre d’art totale, a cura di D. Bablet Cnrs, Paris 1995; inoltre Umberto Artioli, Teo­
rie della scena dal naturalismo al surrealismo, Sansoni, Firenze 1972, cap. IV.
33 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

tivo di un percorso arduo e difficile, e il punto di partenza è lo sforzo


che ciascun artista, nel suo campo (pittorico, letterario, musicale ecc.),
deve fare per oltrepassare le frontiere del proprio linguaggio, aprendo
così dei «passaggi» tra le differenti espressioni artistiche. Ma quest’im­
presa rispecchia anche una vocazione antica degli artisti e trova il suo
modello nella nascita della poesia: «I letterati, per esempio, si accorsero
che le parole, oltre al loro preciso significato, avevano rivestito, per l’o­
recchio, delle speciali sonorità, e che le sillabe erano divenute delle no­
te musicali, e anche i ritmi della frase. Allora tentarono un’arte nuova, la
poesia. Usarono le parole non più esclusivamente per il loro significato,
ma come delle sillabe sonore, capaci di evocare nell’anima l’emozione,
per mezzo di accordi armonici» (de Wyzewa). Questo modello può
estendersi alla pittura e alle altre arti. La sintesi delle arti passa quindi
per i simbolisti «wagneriani» attraverso una trasformazione interna di
ogni singolo linguaggio, motivata e diretta alla convergenza con gli altri
linguaggi espressivi.
Ciò che invece lascia perplessi i simbolisti francesi è il naturalismo
che caratterizza le messinscene wagneriane (e soprattutto quelle dei
suoi epigoni), in particolare la collocazione dell’azione teatrale, dina­
mica, sullo sfondo statico di un paesaggio naturalistico dipinto. Più che
una fusione tra le arti, qui si dà luogo a una condizione ibrida, si cede
a un compromesso con i modelli tradizionali della rappresentazione
fondati sulla finzione naturalistica, mettendo a rischio il compimento
di un’estetica nuova. È proprio su questo tema che si concentra la mor­
dente e originalissima riflessione critica di Stéphane Mallarmé, pubbli­
cata dalla rivista nel 1885. Mallarmé presenta subito, fin dal titolo, Ri­
chard Wagner, rêverie d’un poète français, il suo approccio immaginifico di
poeta alla scena teatrale dell’epoca e alle innovazioni wagneriane, an­
che se il riferimento al compositore tedesco appare piuttosto come
un’occasione, quasi un pretesto, per mettere a fuoco la sua personale
visione estetica. Ne emerge innanzitutto il netto rifiuto della rappre­
sentazione intesa come ingenuo tentativo di far credere al pubblico qual­
cosa, si tratti dell’esistenza di un personaggio, di un luogo o dello svol­
gersi di una storia; la vera suggestione (il miracolo) dello spettacolo de­
ve invece scaturire dal concorso di tutte le arti, ed è in particolare la musi­
ca che per Mallarmé ha la virtù sublime di trasformare tutto, di rigene­
rare la scena in modo davvero inedito. Inoltre la scelta wagneriana di
riesumare e rivitalizzare antiche leggende letterarie come contenuto
del dramma non convince affatto Mallarmé, che affonda il suo affilato
coltello critico proprio nella piaga del rapporto tra la musica ideale e il
dramma di parola. Il poeta francese evidenzia come questi due elementi
non riescano realmente a integrarsi tra loro sulla scena wagneriana, e
ANDREA BALZOLA 34
rileva ironicamente in questo tentativo «la splendida volontà del gioco­
liere incorporata in quella del mago». Mallarmé aspira a un teatro men­
tale in cui non si raccontino più storie (nel doppio senso del termine)
al pubblico, per il tramite di attori, né si tenti una costruzione psicolo­
gica dei personaggi, né si cerchi di ambientare l’azione in luoghi defi­
niti (oltretutto falsi e statici come i fondali dipinti): «un fatto spirituale,
lo sbocciare dei simboli e la loro preparazione, necessitano forse di un
luogo, per svilupparsi, diverso dall’immaginario focolaio di visione dar­
deggiato dallo sguardo di una folla?». La scena diventerebbe allora un
luogo astratto e puro dove la danza (la sola arte scenica «capace di
esprimere il fugace e l’improvviso fino all’Idea») dovrebbe essere l’uni­
ca protagonista materiale, al posto dell’attore, facendo «sbocciare i sim­
boli» plastici e visivi dal suo intimo connubio con la musica (dei suoni
e dei versi), perché «ogni attitudine mimica presa per sé stessa ha un
ritmo incluso nella sinfonia, e lo libera». La parola illustrativa del rac­
conto e della prosa dovrebbe essere rimpiazzata dal poema, dal verso
poetico, che è già «musica per eccellenza» e che solo è in grado di evo­
care una «favola vergine di tutto...».
Mallarmé porterà in seguito alle estreme conseguenze questa idea,
assimilando la scena vuota alla pagina bianca del libro e ipotizzando
una messinscena della pura poesia, «senza accompagnamento e senza
canto», con l’evidente intenzione di ristabilire il primato della poesia
sulla musica stessa, essendo quest’ultima compresa nella prima.5 Tra le
arti «materiali», solo la danza ha la qualità, analoga alla poesia, di scri­
vere nello spazio segni puri, simboli astratti, essa è una «poesia dello
spazio» e come tale può dialogare con la poesia della mente che danza
sulla pagina del libro. Alcuni studiosi hanno ravvisato in questa conce­
zione così astratta dell’evento teatrale un vizio letterario, come se l’idea
di Mallarmé si riducesse soltanto allo spazio puramente immaginario
della pagina e la fruizione dello spettatore finisse per coincidere con la
lettura del libro. In realtà, il teatro mentale di Mallarmé, soprattutto nel­
la sua prima versione, con il suo antinaturalismo assoluto, prelude a
quel processo di radicale spogliazione della scena, di simbolizzazione
del movimento e di frammentazione poetica della parola che sarà svi­
luppato dai filoni più innovativi del teatro novecentesco, da Gordon
Craig fino a Bob Wilson. L’altro aspetto di particolare rilievo, portato
alla luce da Mallarmé, è la focalizzazione del ritmo come ponte tra mu­
sica, poesia e arte del movimento (che nella visione simbolista guarda
al modello della danza ma ne supera i canoni tradizionali). Un’intui­

5
Cfr. S. Mallarmé, Tavole e fogli (1893) e le pagine dedicate alla danza, trad. it. in
Opere, a cura di Francesco Piselli, Lerici, Roma 1963.
35 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

zione che sarà formalizzata di lì a poco dallo scenografo ginevrino


Adolphe Appia, per il quale il ritmo si rivelerà come il vero principio re­
golatore della sintesi tra la musica, le arti del movimento e quelle dello
spazio.

5. Appia: la sintesi vivente tra le arti del tempo e le arti dello spazio

La difficoltà di un’effettiva integrazione delle arti sulla scena del Ton-


Wort-Drama wagneriano, messa in rilievo dai simbolisti francesi, è il pun­
to di partenza della rigorosa sistematizzazione teorica elaborata da Ap­
pia a partire dal 1891.6 Il suo lavoro inizia con uno studio minuzioso del­
le partiture, dalle quali emerge una contraddizione che è all’origine di
tutte le altre: Wagner aspira a una messinscena unificante di parola, mu­
sica, azione e immagine, ma tale intenzione non si traduce in modo or­
ganico nelle sue partiture musicali-poetiche. Le didascalie che fornisco­
no indicazioni sceniche non riflettono o addirittura contraddicono l’a­
zione interiore della musica, limitandosi a suggerire la rappresentazione
esteriore del racconto drammatico. La diagnosi di Appia è che non è
sufficientemente chiara, fin dal momento creativo dell’opera di Wagner,
una gerarchia tra le arti, condizione necessaria alla piena realizzazione
di una loro sintesi. Se il vertice di tale gerarchia non può che essere la
musica, perché essa è «creazione immediata della nostra anima», la poe­
sia soltanto è in grado di darle forma intelligibile, grazie a una possibile
corrispondenza di strutture melodiche e ritmiche. Wagner aveva creato
infatti una vera e propria tecnica di combinazione tra l’allitterazione
poetica, il ritmo e la melodia musicali: la Kunstsprache (parola d’arte).
Poesia e musica insieme esprimono quindi l’azione interiore del dram­
ma, ed è questa che secondo Appia deve essere comunicata sulla scena
mediante il concorso di tutte le altre arti. Se si vuole davvero realizzare
una sintesi delle arti, senza limitarsi a un loro arbitrario accostamento, è
necessario individuare un principio regolatore che crei tra loro una re­
lazione organica. Nel dramma wagneriano, questo principio s’identifica
ovviamente con la musica, e la sintesi delle arti si realizza naturalmente
intorno allo scopo comune di condurre l’anima musicale a manifestarsi
nello spazio. Sulla base di questi principi, Appia si cimenterà nei pro­
getti di messinscena del Sigfrido, del Tristano e Isotta (1910) e della Val­
chiria (1925), e metterà progressivamente a fuoco la sua idea del ritmo

6
Cfr. A. Appia, Oeuvres complètes, ed. L’Âge d’homme, Lausanne 1983; M.E. Van-
der Vennet-Tallon, Adolphe Appia et l’oeuvre d’art totale, in L’Oeuvre d’art totale, op. cit., e
U. Artioli, op. cit., cap. VI.
ANDREA BALZOLA 36
musicale come principio regolatore. La musica ha un suo tempo auto­
nomo, più vicino a quello della vita interiore dell’uomo che a quello del­
la sua vita quotidiana: il ritmo, che è arte della proporzione. Come tale,
il ritmo può diventare una metrica comune del tempo, dello spazio e
delle azioni. Da qui, Appia immagina di inserire una partitura ritmica del­
le azioni nella partitura musicale del compositore, mentre lo scenografo
dovrebbe creare un’articolazione dello spazio teatrale funzionale ai mo­
vimenti del corpo degli attori.
L’attore, come tramite tra la musica e lo spazio, diventa così sempre
più centrale nella ricerca di Appia, il quale comincia anche a distaccarsi
dall’ingombrante eredità wagneriana per cercare una via autonoma alla
sintesi delle arti. E il suo punto di vista è quello dello spazio teatrale: la
pittura della scena è la luce, la scultura della scena è il corpo, l’architet­
tura della scena è lo spazio dell’attore. Nel 1906 assiste alla dimostrazio­
ne di un originale metodo di solfeggio corporeo creato da Emile-Jacques
Dalcroze, insegnante al conservatorio di Ginevra. Si tratta di un tentati­
vo di unire i movimenti del corpo alla musica, mediante una sorta di
ginnastica ritmica. In questo metodo, che «estrae la musica dal corpo
dell’uomo», Appia trova la conferma che cercava, più che la musica, è il
ritmo il principio regolatore che può realizzare l’unità organica delle ar­
ti, perché è questo che, incarnato dall’attore, fa da tramite tra le arti del
tempo e le arti dello spazio. Il ritmo dei sentimenti e degli stati d’animo
può trasformarsi nel ritmo corporeo dei gesti e dei movimenti, in questo
modo si realizza l’opera d’arte vivente:7 l’attore deve essere considerato l’e­
lemento cardine della messinscena, affinché «la musica divenga essa
stessa spazio».
In questa nuova luce, Appia ripensa tutti gli elementi della struttura
rappresentativa – in particolare la scenografia, dove introduce l’innova­
zione fondamentale di una scenografia tridimensionale praticabile dai movi­
menti dell’attore – affrontandoli dal punto di vista tecnico. L’uomo è la
misura di tutte le cose e quindi lui deve essere il protagonista della sin­
tesi delle arti, ma questa sintesi non è concretamente raggiungibile se
non attraverso la messa a punto di un metodo e di una tecnica adeguati
ai differenti linguaggi che vi partecipano: «Solo lo strumento tecnico è in
grado di condurci alla bellezza collettiva di cui l’opera d’arte vivente è il
modello [...] Molti tentativi di arte integrale o più o meno collettiva so­
no falliti e falliscono tuttora, a causa di una tecnica incompleta; si scam­
bia per l’opera intera quel che in realtà non è che un frammento...». In
questo modo, Appia introduce il principio che la tecnica è il mezzo che può
garantire un’organica sintesi delle arti. Questo principio sarà riproposto nel

7
Cfr. A. Appia, L’Oeuvre d’art vivant, in Oeuvres complètes, op. cit.
37 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

corso del Novecento da molta sperimentazione artistica, ma diventa fon­


dante per l’odierna interazione multimediale delle arti.
Il rigoroso contributo teorico di Appia, che per alcuni suoi critici ri­
schia uno schematismo logico poco applicabile alle pratiche teatrali rea­
li, troverà la sua necessaria evoluzione nella genialità artistica e teorica di
due registi: il russo Vsevold Mejerchol’d e l’inglese Edward Gordon
Craig. Anche Mejerchol’d parte dal presupposto che la musica sia «la
più nobile delle arti» e cimentandosi con le opere wagneriane (Tristano
e Isotta, 1910) ne valorizza la dimensione musicale e abolisce tutti gli
aspetti naturalistici della messinscena. Affidando l’azione alla danza e al­
la pantomima, Mejerchol’d sviluppa le idee di Appia sulla centralità del
corpo dell’attore nella sintesi scenica e sul ritmo come tramite tra la
partitura musicale e quella gestuale (che sfocerà in seguito nell’elabo­
razione di una nuova tecnica di recitazione: la biomeccanica). Se l’attore
mantiene la sua centralità di medium fisico tra i linguaggi e tra le idee
registiche e il pubblico, la sua identità viene rimodellata dal regista de­
miurgo, che diventa l’autore supremo dell’arte teatrale a partire dall’in­
segnamento di Stanislavskij al Teatro d’arte di Mosca (dal 1898) fino al­
la sua più radicale affermazione con Mejerchol’d e Craig.
C’è anche chi, come il simbolista Maeterlinck, vorrebbe abolire la
presenza carnale dell’attore e sostituirlo con proiezioni, manichini o au­
tomi. Un’idea che porterà lontano: fin dall’alba del Novecento, come ri-
corda Pizzo, si affacciano numerose ipotesi sulla «trasformazione del-
l’attore in un nuovo essere artificiale. La Supermarionetta di Craig, gli in­
quietanti manichini di Artaud, l’attore biomeccanico di Mejerchol’d, i
ballerini geometrici di Schlemmer, le fantasie tecnologiche di Prampo­
lini e Depero sono soltanto alcuni dei più evidenti esempi...» (A. Pizzo,
2003).
Dal 1912, Mejerchol’d intraprende una strada nuova, teorizzando
l’opposizione creativa tra movimento e musica, in una drammaturgia
tragicomica dove confluiscono tutte le arti dello spettacolo (compresa
l’acrobazia e la clownerie), ma il cui obiettivo non è più la loro fusione
bensì una vivificazione del loro contrasto creativo. Anche Gordon
Craig,8 dal 1911, mette a punto i principi di una nuova estetica e di una
nuova pratica teatrali, dove l’elemento unificatore delle arti è identifi­
cato nel movimento, ma soprattutto dove il suo agente unificatore è il regista.
Parte di qui la rivoluzione teatrale che porterà all’affermazione della
centralità artistica e drammaturgica del regista e che trasformerà l’idea stes­

8
Per un approfondimento sulla rivoluzione teatrale di Craig vedi il saggio di A.M.
Monteverdi, ivi.
ANDREA BALZOLA 38
sa della messinscena, dalla rappresentazione di un testo allo spettacolo
inteso come sinergia scenica dei linguaggi.

6. La sintesi spirituale delle arti tra «Il cavaliere azzurro», Kandinskij


e Skrjabin

Nell’ambito delle correnti artistiche d’avanguardia del primissimo


Novecento, Der Blaue Reiter (Il Cavaliere azzurro) è un raggruppa­
mento atipico, perché non si realizza attorno a un manifesto program­
matico e comprende al suo interno teorie e pratiche artistiche diverse,
dall’astrattismo al realismo, e generi diversi: arti visive, plastiche, musi­
ca e teatro. Ha avuto anche la paradossale caratteristica di far coincide­
re una vita brevissima (dal 1911 al 1914) con una vitalità particolar­
mente intensa, che ha sparso semi per molti anni a venire. Il gruppo,
fondato a Monaco dai pittori Franz Marc e Vasily Kandinskij, realizzava
un’inedita convergenza «geopoetica» di ispirazioni simboliste (france­
si), espressioniste (tedesche) e spiritualiste (russe), che si coagularono
intorno all’omonimo almanacco9 (1912) e a due rilevantissime esposi­
zioni (1911 e 1912). In quelle pagine e in quelle mostre erano presen­
ti artisti del calibro di Macke, Kirchner, Gončarova, Kubin, Jawlensky e
sua moglie Marianne von Werefkin, Nolde, Pechstein, Matisse, Delau­
nay, Klee, Picasso, Rousseau, e musicisti come von Hartmann, Schön­
berg, Berg e Webern.
Ciò che accomunava questi artisti era una visione radicalmente anti­
naturalista, fondata sulla volontà di esprimere la dimensione interiore,
spirituale, dell’uomo attraverso opere d’arte prevalentemente astratte o
comunque sganciate da una rappresentazione mimetica della realtà. Al-
l’interno di questo contesto, le suggestioni sinestetiche e il sintetismo
wagneriano trovarono un terreno fertile in cui attecchire. Nelle sue bre­
vi note autobiografiche del 1913, Kandinskij rivela che assistendo a una
messinscena moscovita del Lohengrin di Wagner fu profondamente col­
pito dalle immagini interiori che la musica suscitava in lui. Da quel mo­
mento, la sua ricerca artistica e teorica si orientò in modo sempre più
convinto sul tema dell’unione delle arti, come testimoniano i suoi scrit­
ti pubblicati sull’almanacco del Cavaliere azzurro10 e il testo di quegli stes­
si anni Lo spirituale dell’arte (1912).
Sempre sull’almanacco è pubblicata un’accurata analisi del musico­

9
Cfr. V. Kandinskij e F. Marc, Der Blaue Reiter, R. Piper, Munich 1912 (1a ed.), 1914
(2a ed.), trad. it. Il Cavaliere azzurro, De Donato, Bari 1967.
10
Il problema delle forme; Sulla composizione scenica; Il suono giallo, ibidem.
39 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

logo Leonid Sabaneev sul Prometeo di Skrjabin (1908-10), una sinfonia


cromatica che cerca di concretizzare le Correspondances evocate da Bau­
delaire. Skrjabin, virtuoso pianista e compositore di formazione ro­
mantica con un’esasperata vocazione spiritualista, realizza una partitu­
ra sinestetica che fa corrispondere alla scala cromatica delle note una
scala cromatica dei colori, e a ogni modulazione armonica una modu­
lazione cromatica. Durante l’esecuzione, avvenuta a Mosca nel 1911
con un’orchestra sinfonica al completo e un coro, la sincronizzazione
tra note e colori doveva avvenire mediante un apposito organo cromatico
progettato dal compositore, ma all’ultimo momento fu sostituito da un
impianto illuminotecnico, che comunque, a detta di Sabaneev, riuscì a
suggerire l’effetto di organica fusione tra ascolto e visione: «Nel Prome­
teo la musica è quasi inseparabile dall’accordo dei colori. Queste carez­
zevoli, allettanti armonie, al tempo stesso così intensamente mistiche,
sono nate dal colore». Alcuni studiosi suppongono che l’accanita ricer­
ca sinestetica di Skrjabin fosse legata a un suo problema neurologico
nella percezione dei colori;11 comunque sia, il compositore russo – co­
me dichiarò a un amico – non voleva restare soltanto «un compositore
di sonate e sinfonie» e dedicò gli ultimi anni della sua breve vita a un
progetto colossale: The Mysterium. Se il Prometeo, poema del Fuoco, rappre­
sentava la creazione del mondo (illustrando anche una «danza degli
atomi»), The Mysterium avrebbe dovuto rappresentare la fine del mondo
e la creazione di una nuova razza umana. Skrjabin riuscì anche a otte­
nere un cospicuo finanziamento per la scrittura della sua opera, che
però rimase a uno stadio embrionale. Si trattava di un’opera totale che
prevedeva il coinvolgimento di tutti i sensi, compreso il tatto e l’olfatto,
concepita come una grande cerimonia rituale collettiva, la cui messin­
scena doveva avvenire in un tempio emisferico, da costruire apposita­
mente in India. Gli spettatori si sarebbero seduti su sedili sospesi sul­

11
La sinestesia come «disturbo» è conosciuta fin dal 1880, ma per molto tempo
è stata considerata poco più che una fantasia legata a ricordi infantili. Recenti ri­
cerche scientifiche hanno invece dimostrato che si tratta di un fenomeno reale,
causato da un’attivazione incrociata di due regioni cerebrali che di solito sono se­
parate. Le stesse ricerche hanno verificato che allucinogeni naturali come la me­
scalina e chimici come l’LSD producono effetti analoghi e che tra gli artisti la sine­
stesia è sette volte più frequente che negli altri soggetti. Secondo i ricercatori questi
dati potrebbero anche fornire una spiegazione scientifica della propensione artisti­
ca all’uso di metafore e alla spiccata sensibilità per le corrispondenze percettive
sensoriali. Cfr. R.E. Cytowic, The Man Who Tasted Shapes, Mit Press, 1993; V.S. Rama­
chandran e E.M. Hubbard, Synaesthesia. A Window into Perception, Thought and Lan­
guage, in «Journal of Consciousness Studies», 8, n. 12, 2001, e Psychophysical Investi­
gations into the Neural Basis of Synaesthesia, in «Proceeding of the Royal Society of Lon­
don», 2001.
ANDREA BALZOLA 40
l’acqua di una piscina o su balconate digradanti, il centro della scena
sarebbe stato occupato dallo stesso Skrjabin al pianoforte, circondato
da una moltitudine di strumentisti, cantanti e danzatrici, in costante
movimento coreografico. Una particolare importanza era attribuita agli
«effetti speciali» delle luci e dei fuochi d’artificio. Il compositore aveva
persino previsto di appendere delle campane a un dirigibile sospeso so­
pra gli spettatori e itinerante nei cieli per annunciare e attirare pubbli­
co da ogni parte del globo. Scopo di questo kolossal mistico-sinestetico
era di preparare la gente alla «dissoluzione finale nell’estasi». In questo
delirio finale di Skrjabin, che è stato troppo frettolosamente dimenti­
cato, ci sono «visioni» che anticipano il filone francese del «teatro tota­
le come liturgia» degli anni Venti-Trenta, dove viene sottolineata la fun­
zione morale, mistica e terapeutica del teatro: dal «dramma integrale»
teorizzato dal regista Gaston Baty, all’opera del drammaturgo Paul
Claudel, dall’idea della «scena come luogo metafisico» del poeta Paul
Valery, allo «spettacolo integrale per l’uomo totale» di Antonin Artaud.
In tempi recenti, il titanico progetto di Skrjabin sembra rievocato nella
grandiosa cosmogonia musical-teatrale Licht di Karl Heinz Stockhau­
sen, un ciclo di sette opere di circa cinque ore ciascuna, dedicato ai set-
te giorni della creazione e della settimana, iniziato nel 1977 e non an­
cora concluso; una summa mistico-musicale che trae ispirazione da di­
verse sorgenti cosmologiche e cosmogoniche, e anche da temi wagne­
riani, dove è riproposta la lotta tra Bene (l’arcangelo Michele) e Male
(Lucifero) e la generazione (tramite Eva) di una nuova razza umana
«musicale».
Come abbiamo già visto accadere con i simbolisti e con Appia, anche
Kandinskij fu inizialmente suggestionato da Wagner, e ne prese poi, pro­
gressivamente, le distanze, interpretando l’idea della sintesi delle arti in
chiave spiritualista e traducendola in un linguaggio simbolico, al cui
centro si collocava il concetto di risonanza (o vibrazione) interiore. Questa
vibrazione si manifesta in virtù di una necessità interiore, che Kandinskij
concepisce come l’unione di tre necessità mistiche: l’artista deve esprime­
re il suo io profondo, la vita spirituale del suo popolo e della sua epoca,
la vita spirituale dell’arte stessa. In una comunione immediata tra l’arti­
sta e la materia, l’opera e il pubblico, la forma e il contenuto. Se il con-
tenuto è l’anima stessa dell’artista, le forme artistiche fondamentali
(suono, colore, movimento), liberate da qualsiasi funzione illustrativa o
narrativa e da qualsiasi gerarchia, ne esprimono congiuntamente la ma­
nifestazione sensibile.
Kandinskij elabora questa teoria attraverso la sperimentazione di
una nuova scrittura teatrale, sviluppando con il musicista Thomas von
Hartmann una serie di progetti che si concretizzeranno in cinque com­
41 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

posizioni sceniche: Il suono giallo, Il suono verde, Bianco e Nero, Viola e Fi­
gura nera. Queste composizioni prevedevano una messinscena partico­
larmente ricca e complessa, dove gesti, azioni, personaggi, parole, mu­
sica, costumi e scenografia interagivano fra loro in modo sempre dina­
mico, anche dissonante e contrappuntistico, creando un evento perfor­
mativo in costante metamorfosi. Anche Kandinskij, come i suoi prede­
cessori, identifica nella musica («l’arte più immateriale») il modello
dominante di riferimento: il testo è frammentato e trasformato in puro
valore musicale, voce, colori, personaggi e movimenti coreografici sono
impostati secondo i parametri musicali di altezza, timbro, intensità e
durata. Per poter descrivere il gioco combinatorio di tutti questi ele­
menti nella sintesi dello spettacolo, il pittore russo e il compositore in­
ventano un apposito sistema di notazione (un tetragramma formato da
quattro linee orizzontali) che consente di visualizzare la loro azione si­
multanea.
In seguito, la ricerca di Kandinskij si confronterà con l’innovazione
musicale atonale di Schönberg, con i fermenti teatrali espressionisti,
con l’avanguardia costruttivista sovietica e infine con gli artisti del
Bauhaus (a cui approda nel 1922), concentrando progressivamente i
suoi interessi verso l’analisi e la didattica del linguaggio pittorico. L’ulti­
ma occasione per sperimentare sulla scena le sue idee fu l’allestimento
affidatogli nel 1928, per l’esecuzione dei Quadri per un’esposizione di Mu­
sorgsky, in cui Kandinskij fece confluire sia le idee teatrali del gruppo
del Bauhaus, sia i suoi studi sulle corrispondenze tra forme geometriche
e colori.

7. I futuristi, teatro sintetico, sinestesia e cinema

L’avanguardia artistica del primo Novecento più prolifica di manife­


sti programmatici fu, com’è noto, quella futurista, ma ciò che a un pri­
mo sguardo appare sorprendente è che la parte più cospicua di questi
manifesti sia dedicata al teatro: 1911, Manifesto dei drammaturghi futuri­
sti (Marinetti); 1913, Teatro di varietà (Marinetti); Il Teatro del Colore (Ric­
ciardi); 1915, Ricostruzione futurista dell’universo (Balla e Depero); Il tea­
tro sintetico (Corra, Marinetti, Settimelli) e Scenografia e coreografia futu­
rista (Prampolini); 1916, La declamazione dinamica e sinottica (Marinetti);
1919, Il teatro aereo futurista (Azari); 1920, Il teatro visionico (Masnata);
1921, Manifesto del tattilismo e Teatro della sorpresa (Cangiullo, Marinetti);
1928, Teatro novatore (Fillia). A questi sono da aggiungere gli interventi
programmatici sui «nuovi media»: il Manifesto della cinematografia futu­
rista del 1916 (Balla, Chiti, Corra, Ginna, Marinetti, Settimelli) e il Ma­
ANDREA BALZOLA 42
nifesto della radio futurista del 1933 (Marinetti). Se l’agente scatenante
dell’interesse futurista per il teatro fu, ancora una volta, Filippo Tom­
maso Marinetti, che si era precocemente cimentato nella scrittura tea­
trale,12 la varietà e la qualità dei testi e dei progetti teatrali futuristi rea­
lizzati nell’arco di un ventennio13 dimostrano un impegno collettivo
non occasionale e anzi un intento preciso: fare della scena teatrale il
luogo concreto ed emblematico di convergenza di tutti i linguaggi arti­
stici rifondati dalla «rivoluzione futurista».
Mario Verdone, analizzando le 79 «sintesi futuriste» (brevi progetti e
testi drammaturgici), individua sette diversi generi, o declinazioni, del
verbo teatrale futurista: grottesco ed eccentrico; dell’assurdo; occultista
e magico; astratto; filmico (o visionico); ideologico e polemico; futuri­
sta-espressionista. Tutti nascono dalle premesse di radicale contestazio­
ne del «teatro borghese» espressa nei primi manifesti: il nuovo teatro
deve essere un’arte autonoma da qualsiasi legame imitativo e rappre­
sentativo della realtà, deve contaminare tempi e luoghi diversi, deve
abolire i generi, o confonderli, ispirandosi soprattutto alla comicità ir­
riverente e alla fisicità esuberante dello spettacolo di varietà, deve esse­
re «sintetico», cioè condensare le sue trame in pochi minuti di azioni e
parole, liberarsi dalla tecnica drammaturgica e registica sedimentata
dagli antichi greci fino alla modernità, privilegiando invece l’improvvi­
sazione, l’azzardo e la sorpresa, il racconto astratto e antisentimentale,
alogico e surreale, le corrispondenze e le sensazioni sinestetiche, so­
prattutto deve risvegliare il pubblico e coinvolgerlo emotivamente e fi­
sicamente nello spettacolo, a ogni costo. Per i futuristi più che «il risul­
tato artistico», cioè l’opera compiuta, è importante «il rinnovamento
del procedimento». Nucleo vitale dell’estetica futurista diventa l’espe­
rienza sul campo, «il dinamico salto nel vuoto». Ancora una volta, ma­
scherati dal funambolismo pirotecnico di Marinetti & c., ritroviamo at­
tualizzati diversi principi romantici e simbolisti, ma anche evidenti pre­
figurazioni della nuova drammaturgia novecentesca e della stagione
dell’happening americano postbellico. L’opera diventa evento, e per­
ciò il suo luogo ideale non è più (soltanto) il quadro, la scultura, lo
spartito, la pagina o lo spazio espositivo, ma una messinscena collettiva

12
F.T. Marinetti nel 1905 scrive Roi Bombance, un testo evidentemente ispirato a
Ubu Roi di Alfred Jarry e nel 1909 mette in scena al Teatro Regio di Torino il suo se­
condo testo Poupées électriques.
13
Mario Verdone ha studiato e raccolto questi documenti in due preziosi volumi:
Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma 1969, e Teatro italiano d’avanguardia. Drammi e
sintesi futuriste, Officina, Roma 1970.
43 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

che incrocia e teatralizza tutte queste espressioni artistiche in una tavo­


lozza astratta e vivente di sensazioni sinestetiche.
Tra i progetti più estremi della ricerca sinestetica futurista c’è sicura­
mente l’idea, rimasta al suo stadio programmatico, di un teatro tattile:
«Avremo dei teatri predisposti per il tattilismo. Gli spettatori seduti ap­
poggeranno le mani su lunghi nastri tattili che scorreranno, producen­
do delle sensazioni tattili con ritmi differenti. Questi nastri tattili po­
tranno essere disposti su piccole ruote giranti con accompagnamenti di
musica e di luci [...] Il tattilista esprimerà ad alta voce le diverse sensa­
zioni tattili che gli saranno date dal viaggio nelle sue mani». Se a questa
idea aggiungiamo quella della cucina futurista (a cui è dedicato un al­
tro, apposito, manifesto), che precorre le più recenti performance del­
la eating art, diventa evidente lo sforzo totalizzante dei futuristi nel rom­
pere i confini tra i generi e i linguaggi. Talvolta questa intenzione è sol­
tanto proclamata al modo un po’ cialtronesco degli imbonitori (non a
caso i futuristi sono considerati anche precursori della comunicazione
pubblicitaria creativa), altre volte è effettivamente perseguita con dei
progetti di valore, come gli esperimenti di Teatro astratto di Balla e De­
pero, che visualizzano pittoricamente e plasticamente la musica di Stra­
vinskij, in collaborazione con i «Balletti Russi» di Diaghilev (tra 1916 e
1917). Con i bozzetti non realizzati per la composizione Il canto dell’usi­
gnolo e poi ripresi per l’allestimento dei Balli plastici (1918), Depero ela­
bora una poetica originale che mira all’astrazione della scena e dei per­
sonaggi. I costumi sono rigidi, geometrici, cromaticamente violenti e
costringono a movimenti meccanici, mentre Balla interpreta la partitura
musicale dei Fuochi d’artificio con una fitta sequenza dinamica di effetti
cromatici luminosi.
I fratelli Corradini (meglio noti come Bruno Corra e Arnaldo Gin-
na), già tra il 1910 e il 1912, in una singolare sincronia con Skrjabin,
pongono al centro delle loro riflessioni, esperimenti e teorie questa cor­
rispondenza tra suono, luce, colore e movimento. Ne scaturiscono i pro­
getti di musica cromatica: una volta «stabilita minutamente tutta la teoria,
noi decidemmo di tentare seriamente la musica dei colori [...] Ci con­
fermammo nell’idea di attenerci alla musica e di trasportare, precisa­
mente nel campo del colore, la scala temperata musicale [...] Per tra­
durre in pratica tutto ciò ci si servì di una serie di 28 lampade elettriche
colorate corrispondenti a 28 tasti [...] La tastiera corrispondeva esatta­
mente a quella comune del pianoforte (era però meno estesa)...»14 Suc­
cessivamente, per raggiungere la complessità di una sinfonia cromatica, i

14
B. Corra, Musica cromatica (1912), in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avan­
guardia 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983.
ANDREA BALZOLA 44
fratelli Corradini provarono a utilizzare l’allora nuovissimo mezzo cine­
matografico, realizzando pellicole cromatiche lunghe circa duecento
metri (come L’arcobaleno e La danza, ormai perdute), dipinte a mano e
con animazioni di linee e superfici che anticipano le sinfonie visive del ci­
nema astratto.
Marinetti già nel manifesto dei drammaturghi sentiva incombere «la
concorrenza del cinematografo» e in un suo dramma degli oggetti del 1915
(La camera dell’ufficiale) scrive sequenze visive molto simili a quelle di
una sceneggiatura cinematografica, mentre Pino Masnata prevede nel
suo Manifesto del teatro visionico la trasformazione delle scene teatrali in
visioni cinematografiche e Fillia, in uno dei sette atti del suo testo Sen­
sualità (1923), immagina «una scena con uno schermo bianco, quattro
grandi lettere sono disposte ai due lati del palcoscenico, sullo schermo si
proietta un film astratto di dadi colorati. Entrano sei ballerine, dagli
stessi colori, che danzano».
La sintesi visiva dei «drammi» futuristi, così come il dinamismo della pit­
tura e la ricerca sulla simultaneità del punto di vista (che il cubismo di Bra­
que e Picasso aveva avviato fin dal 1907), conducono le arti visive e pla­
stiche a uscire dalla staticità e a creare un nuovo spazio-tempo percettivo.
I tempi sono maturi per l’affermazione di una scrittura del movimento (ap­
punto il «cinematografo») che realizzi su una scena virtuale quella sinte­
si dei linguaggi espressivi che aveva finora tentato, con esiti alterni e par­
ziali, la scena teatrale. I futuristi, affascinati dal mito tecnologico, vedono
nel cinema la sintesi perfetta tra arte e tecnica e intuiscono tra i primi le
sue potenzialità artistiche. Nascono così, nel 1916, il Manifesto della cine­
matografia futurista e il film Vita futurista. Nella «nuova arte» confluiscono
tutti i principi programmatici e poetici del movimento: «Pittura + scultu­
ra + dinamismo plastico + in libertà + intonarumori + architettura + tea­
trosintetico = Cinematografia futurista».

8. Il «gran tutto simultaneo», tra dada e surrealismo

Il detonatore profetico delle tempeste che avrebbero scardinato (o al­


meno, che avrebbero tentato di farlo) le scene teatrali del primo ven­
tennio del Novecento esplose il 10 dicembre 1896, quasi per gioco, con
la prima rappresentazione di Ubu Roi di Alfred Jarry, al Théâtre de l’Œu­
vre di Parigi. Jarry fu celebrato come precursore dai surrealisti (il loro
manifesto è del 1924), che vedevano nel personaggio del suo re tiranni­
co, infantile, paradossalmente crudele e volgare non solo la parodia del

15
Cfr. A. Breton, Antologia dell’humour nero (1940), Einaudi, Torino 1971.
45 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

potere, ma anche l’espressione di tutte le forze sconosciute e represse


dell’inconscio.15
Jarry gettava la maschera rassicurante del teatro convenzionale e apri­
va il sipario su una dirompente, inquietante e inedita dimensione
espressiva, che rinnegava l’imitazione della realtà, la logica, la raziona­
lità, il «buon senso» comune e i tradizionali codici teatrali. Si è visto co­
me i futuristi teorizzarono e praticarono con veemenza questa strada, in
tutte le discipline artistiche; dal 1916, sul piccolo palco zurighese del Ca­
baret Voltaire (e sulle pagine dell’omonima rivista), fu il movimento da­
da a raccogliere e rilanciare i dardi futuristi, espressionisti, degli astrat­
tisti del Cavaliere azzurro e dei cubisti, dando nuovo impulso all’arte
nuova, nella sua forma più radicale.16 Fondatore e animatore del Caba­
ret Voltaire era il tedesco Hugo Ball, amico di Kandinskij e con impor­
tanti esperienze teatrali alle spalle (a Monaco era stato assistente del re­
gista austriaco Max Reinhardt, un altro grande innovatore del teatro
d’inizio secolo). L’obiettivo primario era provocare il pubblico, condur­
lo all’esasperazione tramite tutte le declinazioni sceniche dell’assurdo e
dell’insulto, «rincretinirlo» a furia di continui spiazzamenti e spingerlo
a diventare, per complicità o per collera, partecipe dell’evento, autore
egli stesso, in un’anarchica performance collettiva. Ma uno degli afori­
smi dada più importanti diceva che «il caso va preparato» e infatti le se-
rate di Zurigo erano rigorosamente organizzate da Ball e da Tristan Tza­
ra, che programmavano un intreccio incalzante di poemi fonetici reci­
tati, musica «negra» e rumorista, danze cubiste con maschere africane,
presentazioni teatrali di quadri e di manifesti con poesie come spartiti.
Invece di uno spettacolo che rappresentava un testo, o di un’opera tota­
le che cercava una sintesi organica tra il linguaggio verbale, musicale e
visivo, i futuristi e i dadaisti avevano creato nelle loro «serate» una nuo­
va modalità: la drammaturgia di un evento artistico. Ovvero, l’organiz­
zazione di materiali artistici eterogenei all’interno di una sequenza di
azioni teatralizzate (mediante la recitazione, la danza, il canto, la musi­
ca, la pantomima, la declamazione ecc.) dagli artisti stessi che avevano
prodotto quei materiali. Così, futuristi e dada, in seguito i surrealisti,
creano l’interfaccia tra arti sceniche, arti visive e sonore. Ai fini del no­
stro viaggio attraverso le tipologie di relazione tra le arti, teorizzate e
praticate dai romantici in poi, la differenza più significativa tra queste
correnti d’avanguardia consiste nel fatto che i futuristi mirano a una sin­
tesi dinamica dei linguaggi che trova nel teatro un veicolo privilegiato,
mentre i dadaisti sono interessati all’accostamento casuale, ludico e sponta­

16
Cfr. G. Hugnet, L’avventura Dada (1916-1922), (1957), Mondadori, Milano 1972;
e H. Richter, Dada, arte e antiarte (1964), Mazzotta, Milano 1966.
ANDREA BALZOLA 46
neo dei linguaggi, e i surrealisti si concentrano invece sulle loro associazio­
ni inconsce.
Se in Marinetti e compagni c’è una radicata e teorizzata intenzione
di rivoluzionare il teatro, in tutti i suoi elementi, per i dadaisti la scena
dell’evento artistico si sgancia anche dal teatro come luogo ideale di ac­
coglienza e incrocio dei diversi linguaggi artistici. La poetica dada non
mira alla trasformazione, bensì all’azzeramento paradossale. Gli artisti
dada diventano dei portatori nomadi di gesti e azioni teatrali (basti
pensare alla storia artistica di Marcel Duchamp): più che fare un nuovo
teatro, utilizzano una modalità teatrale di comunicazione per creare
eventi, effimeri e unici, dove i diversi linguaggi artistici s’incontrano e si
scontrano, creando imprevedibili cortocircuiti e coinvolgendo il pub­
blico fino all’estremo tentativo di farlo diventare esso stesso attore e co­
autore dell’evento. Una scelta, questa, che influenzerà tutte le successi­
ve avanguardie del Novecento, prefigurando in particolare la stagione
degli happening e delle performance nelle arti visive (tra gli anni Cin­
quanta e gli anni Settanta), ma che non voleva e non poteva generare
un repertorio riproducibile di testi e di modelli estetici; a noi sono
giunte soltanto frammentarie documentazioni visive e sonore, poche
drammaturgie compiute, suggestioni e sperimentazioni verbali che
spesso faticano a vivere autonomamente dal contesto in cui erano con­
cepite. Ecco un’altra intuizione dadaista: l’autoreferenzialità e la cadu­
cità di un evento artistico, un’opera aleatoria simile al gioco che di­
strugge sé stessa nel momento in cui si manifesta; qualsiasi tentativo di
conservarla e riprodurla diventa un procedimento di mummificazione,
utile forse al museo o al mercato dell’arte, ma sterile dal punto di vista
creativo.
Nel clima di sperimentazione a tutto campo che caratterizzava quel
periodo, in parallelo allo spontaneismo dadaista, fiorivano manifesti e
riviste d’avanguardia, correnti e movimenti, grandi e piccoli, talvolta
legati a singoli personaggi. Tra questi è da ricordare Pierre Albert-Bi­
rot, animatore di una delle più importanti e longeve riviste della nuo­
va poesia: «Sic» (1916-19), patrocinata dal grande nume tutelare del-
l’avanguardia letteraria (e non solo) dell’epoca: Guillame Apollinaire
(fu lui a coniare il termine sur-réalisme, nel 1917). Nel 1916 Albert-Bi­
rot fondò il movimento nunique, teorizzando un nuovo umanesimo
radicato nello spirito del passato, ma con l’obiettivo di creare un le­
game tra l’evoluzione delle arti e l’innovazione scientifica e tecnolo­
gica. Al centro dei molteplici interessi di Albert-Birot c’era anche il
teatro – a cui dedicò un manifesto – che avrebbe dovuto rifondarsi,
integrando sulla scena tutti i linguaggi artistici, musicali, del corpo e
anche le proiezioni di diapositive e di film: «Il teatro nunique deve es­
47 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

sere un gran tutto simultaneo, nutrito di tutti i mezzi e di tutte le


emozioni capaci di comunicare una vita intensa e inebriante agli spet­
tatori.»17 Autore egli stesso di testi teatrali, Albert-Birot ipotizza diver­
se innovazioni strutturali, sia dell’edificio teatrale: un teatro rotondo
con una sala circolare, dove il pubblico sta in centro e gli attori lo ac­
cerchiano, recitando su una piattaforma girevole; sia dell’impianto
scenico: per il suo polidramma Larountala, del 1917-18, immagina che
i personaggi agiscano «simultaneamente su due scene l’una dentro
l’altra. Sulla scena interna, più piccola, gli attori in abito borghese do­
vevano recitare in modo realistico, mentre sulla scena generale, più
grande, gli attori vestiti con costumi simbolici dovevano portare delle
maschere...» (H. Béhar, 1967). Come si è visto, l’intuizione di inte­
grare il mezzo cinematografico nel «gran tutto simultaneo» delle nuo­
ve utopie teatrali era nell’aria, ma fu un surrealista precoce e poi
emarginato, Iwan Goll, a portarlo sulla carta, scrivendo nel 1919 il
dramma satirico Methusalem oder Der ewige Bürger. Goll, come Albert-Bi­
rot (entrambi s’ispirano a Jarry e Apollinaire), introduce nella scrit­
tura teatrale dialoghi assurdi, sdoppiamenti dei personaggi, prevede
l’uso di maschere, marionette e automi per rompere qualsiasi imme­
desimazione convenzionale del pubblico con la rappresentazione, e
soprattutto pensa al cinema come il mezzo tecnico e il linguaggio più
adatto a realizzare sulla scena teatrale il mondo onirico del suo pro­
tagonista. Un’idea che viene poi effettivamente realizzata nella prima
rappresentazione francese del Methusalem, al Théâtre Michel a Parigi,
il 10 marzo 1927, dove la proiezione cinematografica (nel film appare
anche Antonin Artaud) si integra organicamente con il teatro. Proba­
bilmente il ben più noto drammaturgo Paul Claudel vide quello spet­
tacolo, e anch’egli integrò l’uso del film nel suo testo teatrale Le Livre
de Christophe Colomb, ultimato tra il luglio e l’agosto dello stesso anno.
Un’ispirazione diretta o una coincidenza? Comunque sia, Claudel svi­
luppò in modo più compiuto e articolato l’intreccio drammaturgico
tra scena teatrale e scena filmica e ne diventò uno dei primi teorizza­
tori.
In generale, gli autori dada e surrealisti, essendo soprattutto dei poe­
ti o nel caso di Artaud, degli attori, al livello della rappresentazione non
amavano mescolare teatro e cinema, prediligevano piuttosto un teatro
puro, con una ricerca radicale sui contenuti inconsci e sui ritmi del lin­
guaggio verbale, e su una nuova espressività della musica, delle arti del
movimento e della luce. Anche loro però guardavano al cinema, come i

17
P. Albert-Birot, A propos d’un théâtre nunique, in «Sic», n. 8-9-10, ottobre 1916, cit.
in H. Bèhar, Teatro dada e surrealista (1967), Einaudi, Torino 1976, p. 35.
ANDREA BALZOLA 48
futuristi, e più di loro lo sperimentarono, come linguaggio autonomo e
in modo del tutto originale (da Artaud a Clair e Picabia, da Man Ray a
Duchamp, da Buñuel e Dalí a Richter). Scoprendo la grammatica cine­
matografica, ricorda Béhar, il drammaturgo dada e surrealista se ne ser­
ve per rinnovare il linguaggio teatrale dall’interno e soprattutto la sua
dimensione temporale: «Il doganiere Rousseau procedeva a una accele­
razione del tempo; Tzara l’ha seguito su questo terreno introducendo a
teatro il principio del flash-back segnalato da un sipario di velo; Vitrac
dando a ogni cosa una mobilità estrema, spostando l’azione nei luoghi
più diversi, giocando sull’identità dell’eroe che si trasforma a volontà,
muore, risuscita ed è contemporaneamente in luoghi diversi [...] Ara­
gon e Breton utilizzando un montaggio parallelo...». La poesia stessa di-
venta una visione metamorfica che dissolve le immagini una nell’altra,
in modo simile al montaggio cinematografico e al linguaggio del sogno,
come in questa evocazione di Tristan Tzara di un’arte originaria, pro-
pria dell’infanzia dell’umanità: «L’arte era un gioco, i bambini riuniva­
no le parole che hanno un suono alla fine, poi gridavano e piangevano
la strofa e le mettevano gli stivaletti delle bambole e la strofa divenne re­
gina per morire un poco e la regina divenne balena e i bambini corre­
vano a perdifiato».

9. Eisenstein: il montaggio delle attrazioni dal teatro al cinema

Il passaggio dalla pittura al cinema, attraverso il teatro, si incarna em­


blematicamente nella poliedrica figura e nell’arte di Sergei Eisenstein,
uno dei massimi teorici e registi cinematografici del primo Novecento.
Straordinario disegnatore,18 con una graffiante vena caricaturale che lo
fa debuttare giovanissimo su giornali e riviste, è presto folgorato da una
memorabile regia teatrale di Mejerchol’d (Mascarade, 1917), una tragica
satira sulle condizioni della Russia zarista, con le scenografie e i costumi
di Alexander Golovin (che lavorerà anche per i «Balletti Russi» di Dia­
ghilev). Questo incontro orienta la sua arte di disegnatore e pittore de­
cisamente verso il teatro, trasformandolo nell’arco di pochi anni in sce­
nografo e costumista. Dopo un’intensa attività grafica per la propaganda
dell’Armata Rossa, nel 1920 Eisenstein aderisce al «nuovo teatro dei la­
voratori», il Proletkult, il cui scopo è l’azzeramento delle forme teatrali
tradizionali e la creazione di un nuovo linguaggio, che trova i suoi mo­
delli ispiratori nelle regie di Mejerchol’d, nell’arte suprematista di Ma­

18
Cfr. il bel catalogo della mostra, L’officina di Eisenstein: dai disegni al film, a cura di
P.M. De Santi, Città di Torino 1981.
49 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

levič e Tatlin e nelle invenzioni sceniche cubofuturiste. Le coordinate di


questa «rivoluzione teatrale» sono la parodia dei testi «borghesi», la ri­
cerca di una nuova spazialità scenica e il recupero delle forme popolari
dello spettacolo, dal circo al varietà, in evidente affinità col futurismo
italiano. Infatti, i primi progetti di scenografie e costumi realizzati da Ei­
senstein per il Proletkult prevedono una scomposizione radicale e dina­
mica della scena e una geometrizzazione ipercromatica dei costumi.
Formatosi, in quegli stessi anni, alla FEKS (la scuola dell’Attore Eccentrico)
e ai corsi per registi teatrali di Mejerchol’d, Eisenstein comincia a ela­
borare la sua teoria del montaggio delle attrazioni (pubblicata nel 1923 su
«LEF», la rivista di Majakovskij e dei futuristi russi), secondo la quale lo
spettacolo teatrale deve essere creato attraverso un libero montaggio di
sensazioni, tra loro indipendenti ma collegate da un motivo tematico
unico; queste sensazioni sono scelte arbitrariamente dal regista e impo­
ste allo spettatore per provocare in esso un shock sensoriale ed emotivo.
Eisenstein cerca di tradurre in pratica queste idee, iniziando a collabo­
rare con Mejerchol’d come scenografo (dal 1921): i suoi progetti evol­
vono dalle ardite sintesi cubofuriste a una complessa macchineria co­
struttivista che prevede il movimento simultaneo di più elementi sceno­
grafici, con sdoppiamenti del palco e ribaltamenti del punto di vista del
pubblico. Tuttavia le sue proposte sono giudicate «eccessivamente ec­
centriche» dal maestro e non vedono mai la luce. Allora Eisenstein de­
cide di assumersi direttamente la responsabilità della regia, mettendo in
scena per il Primo Teatro Operaio la commedia Anche il più saggio si sba­
glia di Ostrovskij (1923), il risultato è una miscela esplosiva di teatro,
musical, clownerie circense e cinema. Il regista russo, inserendo nello
spettacolo un breve filmato che fa il verso alla pellicole di cineattualità
di Dziga Vertov, si apre così la strada che lo condurrà in modo irreversi­
bile alla regia cinematografica (l’idea di inserire la proiezione cinema­
tografica nella scenografia teatrale era stata realizzata solo un anno pri­
ma da Kiesler per la messinscena di R.U.R. di Čapek).
Dopo un paio di regie, Eisenstein si distacca dal teatro che considera
ormai «terribilmente artificiale» e lo liquida con una metafora irrevoca­
bile: «È assurdo perfezionare un aratro quando si può comprare un trat­
tore». Vedendo i grandi affreschi cinematografici dell’americano Grif­
fith (Nascita di una nazione, 1915 e Intolleranza, 1916) e studiando le teo­
rie del montaggio e della composizione dell’inquadratura dei russi Ku­
les̆ov e Vertov, Eisenstein scopre un nuovo orizzonte espressivo che si
presta meglio di ogni altro alla sperimentazione della sua teoria sul mon­
taggio delle attrazioni. Nel 1924 realizza il suo primo film, Sciopero, dove
più che la trama sono importanti la costruzione tematica e l’impatto
ANDREA BALZOLA 50
emotivo sul pubblico, in una combinazione inedita di contenuto reali­
stico e visione espressionista.
Penetrando poi nello specifico del linguaggio filmico, con la profon­
dità teorica e insieme creativa che lo distingueva, Eisenstein sviluppa la
sua teoria nella direzione del montaggio intellettuale, per «rendere con i
mezzi del film non soltanto le emozioni e i sentimenti, ma anche i con­
cetti politici, filosofici, scientifici. È ora che il cinema cominci a operare
con il pensiero astratto, riducibile a un concetto concreto». Questa è la
grande intuizione di Eisenstein: il cinema è sintesi di astratto (perché ha
un tempo e uno spazio artificiale) e concreto (perché la sua materia pri­
ma è la realtà percepita), di sentimento (il pathos che comunica) e me­
todo (la razionalità della sua costruzione formale). Così nel 1925 realiz­
za la Corazzata Potëmkin, un film di grande rigore e originalità sul tema
della rivoluzione (fallita nel 1905 e vinta nel 1917), dove la forza cine­
matografica sta tanto nell’impatto emotivo delle inquadrature quanto
nella metrica del montaggio che il regista modella sull’antica formula
della «sezione aurea» (una definizione di Leonardo che riprende la teo­
ria platonica sulla proporzione perfetta fra le parti e il tutto, e che tra­
duce in termini geometrici e matematici la legge della crescita dei feno­
meni naturali).19 Rielaborando il concetto eracliteo secondo cui «il con­
flitto genera il movimento», Eisenstein identifica nel conflitto la chiave
del linguaggio artistico, e in particolare del cinema; mettendo in se­
quenza due inquadrature di segno opposto, per esempio un banchetto
di ricchi e la mensa vuota dei poveri affamati, si suggerisce allo spettato­
re una terza immagine mentale: il divario e l’ingiustizia sociale. Me­
diante l’accostamento di immagini concrete si evoca un’idea astratta,
creando la dimensione simbolica del linguaggio visivo cinematografico.
Il linguaggio del cinema conduce così a compimento, con Eisenstein,
una diversa interpretazione della relazione tra gli elementi espressivi e
tra le arti stesse, già portata in teatro da Mejerchol’d e dai futuristi, e cioè
una dialettica contrappuntistica dove la tecnica è il montaggio, il metodo
è il conflitto tra le inquadrature (conflitto di senso, di forma, di luce e co­
lore, di ottica, di durata, tra suono e immagine), la misura è il ritmo; una
metrica visiva che poi, con l’Aleksandr Nevskij del 1938, dialogherà in mo­
do intimo e sorprendente con la metrica sonora di Prokof’ev. È questo il
punto d’arrivo di una lunga elaborazione teorica e creativa del regista
russo sul tema della corrispondenza fra il ritmo dell’immagine (sia in­
terno alle inquadrature sia risultante dal montaggio delle stesse) e l’ef­
fetto sinestetico musicale (vedi antologia). Un tema ripreso e approfon­

19
Platone, Timeo, VII, cit. in S. Eisenstein, La natura non indifferente, a cura di P.
Montani, Marsilio, Venezia 2003, p. 21.
51 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

dito dagli studi recenti di Michel Chion, il quale identifica questo feno­
meno come «transensoriale» distinguendolo dalla «intersensorialità» di
cui parlavano Baudelaire e i simbolisti, e dove «ciascun senso esistereb­
be in sé, ma essi avrebbero punti di mutuo incontro, punti di congiun­
zione. Nel modello transensoriale (o metasensoriale) che noi opponia­
mo a quest’ultimo, non vi è alcun dato sensoriale delimitato e isolato in
partenza: i sensi sono canali, vie di comunicazione, più che territori [...]
L’occhio, per esempio, porta informazioni e sensazioni delle quali sol­
tanto alcune possono essere considerate come specificamente e irridu­
cibilmente visive (il colore, per esempio), essendo le altre solo transen­
soriali. Parimenti, l’orecchio veicola informazioni e sensazioni delle qua-
li soltanto alcune sono specificamente uditive (l’altezza e i rapporti di
intervallo, per esempio)» (M. Chion, 1990).

10. Le metamorfosi di un’utopia

Con questo percorso, che non voleva e non poteva essere un quadro
esaustivo ma piuttosto una sequenza di episodi emblematici, abbiamo
cercato di descrivere come la grande utopia della sintesi delle arti, fe­
condata nel grembo romantico alla fine del Settecento e rivelata dall’o­
pera totale di Wagner a metà Ottocento, abbia visto poco alla volta
emergere le sue contraddizioni nel secondo Ottocento con i simbolisti;
tentare una sistematizzazione teorica con Appia, che ne ha nello stesso
tempo disegnato i limiti, aprendo le vie al superamento poi compiuto da
Craig e Mejerchol’d a cavallo del Novecento; imboccare una via spiri­
tualista con Skrjabin e Kandinskij; riesplodere nella sintesi teatrale futu­
rista, ridefinirsi nello spontaneismo dell’assemblage dadaista e nell’epifa­
nia surrealista, e infine essere trasposta nella scena virtuale del cinema,
con Eisenstein.
La sintesi delle arti non si è realizzata e ha confermato solo parzial­
mente le sue premesse, ma anche la sua messa in discussione ci ha pro­
gressivamente arricchiti di nuovi contributi, punti di vista, approcci cri­
tici, teorici e creativi che hanno finito per disegnare tracciati anche mol­
to diversi tra loro, quando non addirittura contrastanti. In questa fe­
conda molteplicità di ramificazioni è possibile riconoscere alcuni grandi
filoni che hanno organicamente elaborato un’ipotesi di relazione o in­
treccio tra le arti: l’idea di una fusione di esse mediante un principio uni­
ficatore, identificato prevalentemente nella musica e poi nel ritmo; l’i­
dea di una corrispondenza percettiva tra i sensi e i relativi linguaggi espres­
sivi (o almeno alcuni di essi), culminata nel principio della sinestesia; l’i­
dea di un contrasto creativo tra gli elementi espressivi, che mantengono e
ANDREA BALZOLA 52
persino accentuano la loro differente identità nell’accostamento, ma
che nello stesso tempo, attraverso la loro opposizione dialettica, scopro­
no di essere complementari. Da quest’ultimo filone, si sono sviluppati
due ulteriori approcci, che distinguono tra conflitto o accostamento volon­
tari, e conflitto o accostamento casuali (come vuole la poetica dadaista, inau­
gurando una lunga stagione artistica che giungerà fino al movimento
Fluxus e neo-dadaista) o inconsci (come vuole il surrealismo).
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, nell’ambito di
un rinnovato studio dell’arte come «linguaggio», la semiotica ha cerca­
to di analizzare e di formalizzare i codici teatrali, non solo quelli cano­
nici del testo drammaturgico, ma anche quelli performativi dello spet­
tacolo e dell’attore. Marco De Marinis, che ha dato un contributo im­
portante con la sua analisi semiotica dello spettacolo20 e della dramma­
turgia dello spazio nel teatro d’avanguardia, realizza sulla rivista «Ver-
sus» (1978-79) un questionario per un gruppo di studiosi internaziona­
li, nel quale uno dei quesiti rielabora in chiave semiotica un antico pro­
blema: «Pensate che i “linguaggi artistici” (e tra essi il teatro) costitui­
scano delle “combinazioni di codici specifici” o che essi siano al contra­
rio delle “combinazioni di codici non specifici”, o, ancora, che essi com­
binino dei codici non specifici con dei codici specifici?». Tirando le fila
delle risposte sull’argomento, De Marinis sintetizza così l’orientamento
dei suoi interlocutori (Bettetini, Jansen, Kowzan, Pavis e altri): «Tra­
montata l’illusione di poter definire “un codice dello spettacolo” tota­
lizzante e specifico, e un “linguaggio teatrale” omogeneo e unitario, l’at­
teggiamento prevalente [...] è ormai quello di concepire lo spettacolo
teatrale come una combinazione (sempre diversa: perciò singolare, spe­
cifica) di codici specifici e non specifici». (De Marinis, 1978)
Questa definizione dello spettacolo teatrale, al di là dei limiti e delle
sorti degli studi semiotici applicati alle arti,21 può rappresentare un mo­
dello di riferimento anche per il dibattito attuale sulla multimedialità,
perché unisce due aspetti apparentemente contraddittori: da una parte
la singolarità, e quindi la diversità di ogni combinazione artistica di co­
dici, dall’altra parte il riconoscimento che i codici sono combinabili,
quindi compatibili (anche quelli non specifici). Nelle opere/eventi mul­
timediali infatti, alla massima differenziazione e libertà possibili delle
modalità creative e delle poetiche che possono dare luogo alla combi­
nazione dei codici espressivi, corrisponde l’affermazione di un iper-co­

20
Cfr. M. De Marinis, Lo spettacolo come testo, in «Versus. Quaderni di studi semioti­
ci», n. 21 e n. 22, Bompiani, Milano 1978-79.
21
Cfr. O. Calabrese, Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano 1985, in particolare
pp. 111-151.
53 L’UTOPIA DELLA SINTESI DELLE ARTI

dice o meta-codice che non è l’opera totale, non è la somma o la sintesi


delle arti, ma è una dimensione diversa da ciascun linguaggio (o codice)
che vi partecipa, è una pluralità sinestetica che trasforma il gene(re) ar­
tistico in un’identità ibrida e mutante. Il motore di questa trasformazio­
ne è l’innovazione digitale.
L’evoluzione contemporanea delle arti tecnologiche, con il loro reci­
proco sconfinamento e il loro progressivo apparentamento hanno riat­
tualizzato i filoni di ricerca otto-novecenteschi, in modo inedito, cioè
non dogmatico e programmatico ma empirico e sperimentale, trovando
nella recente tecnologia digitale un medium capace, per la prima volta
nella storia umana, di trasporre e di interfacciare tutte le tecniche ri­
produttive. L’arte multimediale (o intermediale), intesa come intera­
zione o sintesi dei linguaggi artistici, è oggi anche una possibilità tecnica.
Questo non significa che l’innovazione tecnologica sia automaticamen­
te in grado di realizzare un’utopia che ha ormai due secoli di intensa e
travagliata vita, ma introduce senza dubbio un ulteriore campo di op­
portunità e di varianti in un percorso che ha nutrito e nutre con straor­
dinaria ricchezza l’immaginario e le pratiche artistiche. La prima conse­
guenza di questa possibilità tecnica di interazione o di sintesi è già evi­
dente: è il passaggio da una dimensione naturale a una dimensione in­
tegralmente artificiale. Nel momento in cui tutti i linguaggi dell’arte e
dei sensi possono contribuire, mediante l’hardware e il software digitale,
a creare un ambiente sintetico virtuale plurisensoriale dove l’uomo può
agire in prima persona o indirettamente, mediante un alter ego virtuale,
cambiano radicalmente le coordinate dell’esperienza soggettiva e dei
linguaggi che questa sinora si è data per comunicare, rappresentare e
pensare quell’esperienza.
LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE
Sandra Lischi

1. Cominciando dal linguaggio

Liberazione della parola dall’ordine lineare della riga e della pagina,


liberazione del quadro dalla cornice, della rappresentazione pittorica
dalla prospettiva, dell’immagine dallo schermo, e dello schermo dalla
sua unicità e piattezza, e del palcoscenico e della platea teatrali dai loro
solidi e separati ruoli, e della musica dai suoi strumenti classici... In­
contro e mescolamento di arti, tecniche, discipline, linguaggi, materia­
li. E liberazione delle arti da istanze realistiche, descrittive, narrative,
perfino dall’obbligo di produrre senso. Per le avanguardie letterarie,
artistiche, teatrali, cinematografiche, rappresentare e raccontare il
mondo significa innanzitutto cessare di raccontarlo in maniera descrit­
tiva, lineare, unitaria, compiuta e partire da una riflessione sul linguag­
gio, sui modi del narrare. Del resto, con le rivoluzioni industriali e scien­
tifiche dell’Ottocento e con i media sviluppatisi fra la fine dell’Otto­
cento e i primi vent’anni del Novecento (cinema, radio, televisione), il
mondo stesso è cambiato velocemente e profondamente: per fare solo
un esempio, le metropoli sono diventate straordinarie «palestre» di
uno sguardo mobile, plurimo, sollecitato da stimoli rapidi, inesauribili.
La percezione si trasforma, è sottoposta a stress e superlavoro (si pensi
allo shock da velocità dei primi viaggi in treno), si affolla: occhi e orec­
chie – grazie all’avvento dei media della simultaneità – acquistano un
potere nuovissimo e stupefacente, quello dell’essere in contatto diretto
con l’intero pianeta.
Raccontare, descrivere questo mondo: con quale linguaggio? come?
Forse cominciando, appunto, dal linguaggio: ragionando sull’usura e
sui limiti delle parole, delle immagini, delle rappresentazioni artistiche
e, anche provocatoriamente, scardinando le abitudini culturali e gli au­
tomatismi percettivi. Per stanare dai linguaggi possibilità inesplorate,
tentare di assemblarli in modo nuovo, creare combinazioni complicate
e ricche quanto lo è il pensiero (o il mondo). È un «brontolìo sotterra­
neo», come lo ha chiamato Vasilij Kandinskij per indicare il sommovi­
mento, il rimescolamento di carte negli (e fra gli) ambiti delle arti che
si annuncia nei primi anni del Novecento. Le avanguardie storiche, pur
nelle differenze fra singoli autori, gruppi, movimenti, partono tutte da
55 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

una posizione antagonistica nei confronti dell’esistente: si propongono


di scatenare – con le opere, ma anche con una gran quantità di dichia­
razioni programmatiche, manifesti, proclami – sensibilità, desideri e
capacità immaginative diversi, mettono in discussione i luoghi, i rituali,
le sedi istituzionali e di mercato dell’arte e della cultura. Riflettono sul
linguaggio. Tentando di considerarlo come materia prima e insieme
come il contenuto stesso dell’opera: attraverso il lavoro sulla grafia, sul
colore, rendendoci coscienti della tela, della consistenza della pittura,
della danza delle lettere sulla pagina, del gesto pittorico, dello scorrere
della pellicola (della luce, del buio), del suono che si fa immagine, del
rumore che si fa musica, della coreografia che si fa puro gesto. Le avan­
guardie vogliono scollare il significante dal significato: il linguaggio si­
gnifica solo sé stesso, è già di per sé una straordinaria avventura (o, se
vogliamo, non ha più la pretesa di raccontarci compiutamente il mon-
do; o ancora, saprà raccontarcelo in modi nuovi solo allenandosi e al­
lenandoci a modi nuovi, acrobazie fonetiche, grafiche, pittoriche, au-
dio-visive, mentali finora sconosciute). E anche quando si narra, la sto­
ria si dipana in percorsi lasciati volutamente aperti alla decifrazione: co­
me descrivere i film surrealisti, ispirati alle incongrue e illogiche asso­
ciazioni oniriche?
Un’idea di multimedialità comincia a farsi strada nella consapevolezza
dell’insufficienza del singolo medium, della singola arte, della tecnica
specifica e settoriale a rappresentare questa pluralità di stimoli, questa
fitta rete di interconnessioni. Idee e ricerche elaborate in passato, co­
me quella di «opera d’arte totale», sono recuperate e riviste proprio in
questo senso; così come più tardi, fra gli anni Trenta e Quaranta, il pit­
tore Kurt Schwitters teorizza la Gesamtweldbild (immagine totale del
mondo) riprendendo ed estendendo il concetto wagneriano di Ge­
samtkunstwerk. Pittore, Schwitters, appunto: eppure, allo stesso tempo,
costruttore di opere che assemblano tecniche e materiali diversi. «Il prin­
cipio del montaggio a cui Schwitters fa principalmente riferimento si
collega al recupero dello scarto, dell’oggetto trovato, dell’avanzo del
modo di produzione industriale. Con questo principio Schwitters pro-
duce opere d’arte senza distinzioni di genere: collage (mettendo insie­
me piccoli oggetti come pezzetti di legno, biglietti del tram, ritagli di
giornale); testi poetici (risultanti dal montaggio di citazioni derivate
dalla banalità del linguaggio quotidiano); architetture-sculture-environ­
ments come il Merzbau, una sorta di monumento sviluppatosi nel tempo
nella sua casa di Hannover attraverso il continuo accumulo dei più di­
sparati materiali...».1

1
A. Negri, Arti visive, Gulliver, Milano 1979, p. 94.
SANDRA LISCHI 56
2. Movimento, immaginazione, gioco

Il montaggio, quindi. Base del linguaggio cinematografico e allo stes­


so tempo espressione di quegli accostamenti, di quelle simultaneità del
cosiddetto «mondo moderno». Cito i collage di Schwitters e la compre­
senza di materiali e tecniche diverse anche perché, con un salto di mez­
zo secolo, è proprio a questo artista che Peter Greenaway si richiama
parlando della estrema libertà compositiva consentita oggi all’artista dal
computer. «Secondo me, una delle invenzioni più importanti del XX se­
colo è stato il collage. Il paint-box permette di fare collage a un livello mol­
to sofisticato: conservando le caratteristiche degli oggetti originari inse­
riti nel collage, ma anche permettendo di sintetizzare immagini in modo
molto soddisfacente. Utilizzo quindi il mio paint-box come uno strumen­
to per collage “post-Schwitters”. In questo senso, ridivento pittore, e que­
sto la cinepresa tradizionale non me l’avrebbe mai permesso».2
Greenaway, che potremmo definire autore «multimediale», cineasta
e pittore, ideatore di videoinstallazioni, scrittore (e spesso tutte queste
cose assieme), qui esplicita un debito che gli autori di oggi hanno nei
confronti delle avanguardie storiche; e, allo stesso tempo, indica il com­
puter come il «metamedium» per eccellenza, come un medium cioè in
grado di assumere (digitalizzare) e rielaborare, comporre, riproporre,
tutte le arti (il concetto, lo vedremo dopo, è stato elaborato da Gene
Youngblood). Potremmo dire che se il sogno del cinema (con il movi­
mento, il montaggio, le sovrimpressioni, la velocità) abitava le utopie
delle avanguardie pittoriche, il sogno del «metamedium» digitale ha
abitato il cinema. Un cinema che non è sempre stato quello che oggi ci
viene proposto. Un cinema che, anzi, è stato ai suoi inizi terreno di spe­
rimentazione scientifica e artistica, indifferente alla narrazione e all’in­
treccio, libero dagli steccati definitori e di genere e da rituali rigidi. Un
«cinema come arte moderna», capace di dinamismo e di associazioni vi­
sive impreviste e interpretato dalle diverse correnti artistiche eviden­
ziandone questa o quella caratteristica: schematizzando, per il cubismo
il cinema come simultaneità di punti di vista, per il futurismo come di­
namicità, per il surrealismo come sogno e immaginazione, per il dadai­
smo come gioco combinatorio; e poi il cinema astratto, le sinfonie visi­

2
P. Greenaway, in M. Cieutat, J.L. Flecniakoska (a cura di), Le Grand Atelier de Pe­
ter Greenaway, Université des Sciences Humaines-Les Presses du Réel, Strasburgo
1998, p. 202 (trad. mia).
3
Per l’analisi puntuale del rapporto fra discipline e linguaggi diversi, e in parti­
colare avanguardie artistiche e cinema, cfr. S. Lawder, Il cinema cubista, Costa & No­
lan, Genova 1983.
57 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

ve, l’animazione.3 Forme in movimento, successioni di immagini non


necessariamente narrative, anzi deliberatamente frantumate e assem­
blate in modi non previsti dalla successione temporale del film.
Alla voluta infrazione della linearità e consequenzialità della narra­
zione classica e allo scardinamento di istanze realistiche e descrittive già
attuati dai film delle avanguardie (non solo pittoriche) si aggiunge poi
la ricerca di pratiche spettatoriali dissacratorie ma anche generatrici di
possibili letture «altre» del film e dei film: come nell’andare al cinema
dei surrealisti, che si creavano un palinsesto personale fatto di fram­
menti, peregrinando da una sala all’altra, recependo il film nei modi
più liberi e distratti, componendo un’opera fatta di tanti spezzoni di­
versi, come in un collage appunto, in cui ogni frammento assume nuo­
vo senso, in un montaggio mentale. Una forma artigianale e giocosa di
«interattività» ante litteram, di dialogo spregiudicato con l’opera, di
apertura al caso e al momento: la ricreano, per esempio, Gianfranco
Baruchello e Alberto Grifi quando realizzano, nel 1964, il film La veri­
fica incerta, composto interamente di scarti di pellicola destinati al ma­
cero: l’(anti)rituale della prima presentazione pubblica del film fra l’al­
tro prevedeva la distribuzione agli spettatori del film fatto di nuovo a
pezzi, in un happening decostruttivo e forse ricostruttivo che avrebbe
dovuto riaffermare l’arbitrarietà della creazione artistica e spingere al-
le estreme conseguenze l’affermazione di Duchamp (presente a Parigi
a questa prima proiezione) per cui è lo spettatore che crea l’opera.4
L’operazione distruttiva, poi, non ebbe luogo, ma lo spirito dadaista di
rivendicazione del gioco combinatorio e della natura effimera dell’o­
perazione artistica ha segnato buona parte del cinema d’artista e speri­
mentale e contrassegna oggi molte opere (o eventi, o ambientazioni)
multimediali e videoartistiche. Altra «interattività» artigianale è quella
dei dispositivi inventati da Man Ray per trasformare la propria visione:
«Ho inventato un sistema di prismi che è adatto ai miei occhiali. Que­
sto mi consente di vedere a colori e in immagini astratte dei film in
bianco e nero che mi annoiano».5
Del resto, nella provocazione artistica dadaista «tutto è smembrato,
incoerente, instabile, imprevedibile...» e nel film dada «non esiste la si-
cura progressione possibilità-probabilità-necessità. Tutto rimane nell’a­
rea di una pluridirezionalità cognitiva. L’assenza di sceneggiatura, in ta­

4
Scheda su G. Baruchello, in A. Granchi (a cura di), Cine qua non. Giornate inter­
nazionali del cinema d’artista, catalogo della mostra omonima (Firenze, 12-13 dicembre
1979), Vallecchi, Firenze 1979, p. 94.
5
M. Ray, in A. Bisaccia, Punctum Fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cinema
e arte nelle avanguardie storiche, Meltemi, Roma 2002, p. 143.
SANDRA LISCHI 58
li film, è la dimostrazione dell’esistenza di una volontà anti-progettuale,
che dà all’esperimento la consistenza di un procedimento senza il col­
lante del canovaccio e delle pastoie avviluppanti delle tracce. Distru­
zione e negazione, come forze vettoriali dell’anti-istituzione, dovevano
avere un impatto fulmineo nell’eden delle coscienze e nel tranquillo
funzionamento dell’arte».6

3. Film e...

Dimentichiamoci il racconto, insomma (se non come racconto di


forme). Dimentichiamoci l’immobilità dello spettatore che fruisce pas­
sivamente di un testo compiuto, strutturato, con un inizio e una fine.
Dimentichiamoci la parola che illustra e spiega e facciamo invece co­
noscenza di una parola che è segno, forma, movimento sulla pagina e
sullo schermo e che inventa e si reinventa in libertà, secondo le indica­
zioni dei futuristi. Dimentichiamo talvolta anche la cinepresa, come in
alcune sequenze del film di Man Ray realizzato (al pari delle sue foto­
grafie, i rayographes) collocando degli oggetti direttamente sulla pelli­
cola ed esponendola alla luce per alcuni secondi, in modo da impres­
sionarla solo con le sagome degli oggetti stessi (Retour à la raison, 1923).
Durante la presentazione del film successivo, Emak Bakia (1926), «gli
strappi reali della pellicola che si verificano nel corso della tumultuosa
proiezione (anche questo fa parte della mitologia ormai inseparabile
dal testo visivo) sono omologhi agli strappi metaforici del tessuto di­
scorsivo e narrativo che il film realizza».7
Il cinema, insomma, «sembra l’unico mezzo, per la intrinseca dialet­
ticità del suo linguaggio (il mutamento repentino, la contrapposizione,
il parallelismo dei tempi, dei luoghi, delle immagini) e per il suo rap­
porto con gli spettatori (che ne sono investiti «a scatti», nella distrazio­
ne, come pubblico di massa, indifferenziato), che ha potuto riprendere
e portare avanti in termini oggettivamente progressivi le questioni mes­
se sul tappeto dalla ricerca delle avanguardie» (A. Negri, 1979).
Il film diventa, anche, parte integrante di altre modalità di rappre­
sentazione, di spettacoli di danza, di teatro, e non solo in Francia. Si
pensi agli esordi teatrali, e poi «multimediali», di un regista come Ei­
senstein, che farà dell’accostamento di vari media (teatro e cinema)
prima, e in seguito della simultaneità e del contrasto fra inquadrature
(e interni all’inquadratura), dello shock e della meraviglia, della «at­

6
Ibidem, p. 140.
7
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 174.
59 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

trazione» generati da tale scontro e dalle necessità e possibilità associa­


tive e dialettiche, il fondamento della sua teoria e della sua pratica ci­
nematografica. Questo ripensamento dell’unicità del medium, della li­
nearità narrativa (che arriva anche a riconsiderare il formato dello
schermo), dell’inadeguatezza degli strumenti tradizionali – nella sua
idea, del 1929, di un «libro circolare», che consenta continui rimandi e
connessioni in ogni direzione – di fatto prefigura la logica dell’iperte­
sto e del cd-rom.8
Così uno dei film-simbolo delle avanguardie cinematografiche degli
anni Venti, Entr’acte (1924) di René Clair, è proiettato a mo’ di intro­
duzione all’intervallo – come dice il titolo – all’interno dello spettacolo,
che oggi definiremmo multimediale, Relâche (Parigi, dicembre 1924),
di Erik Satie e Francis Picabia, costituito da «un balletto che non è un
balletto, né un anti-balletto», film, azioni (l’accensione di 370 riflettori
diretti sul pubblico), scritte che imitano slogan pubblicitari. Il signifi­
cato del film, scrive Antonio Costa, «può essere colto solo in relazione
al contesto della sua prima rappresentazione, caratterizzato appunto da
questa programmatica volontà di superare le barriere tra l’arte e la vita
e di dissolverle nella frenesia del presente, della modernità di cui il ci­
nema è – assieme alla moda, all’automobile, al luna park – una delle
manifestazioni».9 Del resto, a Berlino nel 1922 era stato rappresentato
lo spettacolo R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) di Karel Čapek, con sce­
nografie di Friedrich Kiesler, in cui cinema e teatro si integravano e in
cui veniva addirittura prefigurata una sorta di artigianale «diretta» te­
levisiva attraverso una combinazione di vari specchi che consentiva di
inserire nella scenografia la simultaneità di un’immagine «fuori sce­
na». Gli attori della performance «riflessa» apparivano poi nella loro si­
tuazione reale, svelando così il dispositivo allo spettatore.10 Un’altalena
fra realtà e rappresentazione, campo e fuori campo (fuori scena), e
una compresenza di teatro e immagine in movimento, simultaneità e
spettacolo dal vivo che ritroveremo, sessant’anni più tardi e con la «ve­
ra» tecnologia televisiva, negli spettacoli di Studio Azzurro e Giorgio
Barberio Corsetti Prologo (1986) e La camera astratta (1987). Del resto il
film di Marcel L’Herbier L’inhumaine (1924, conosciuto in Italia con il
titolo Futurismo; con scenografie di Fernand Léger e Alberto Cavalcan­

8
S.M. Eisenstein, Il montaggio, ed. it. a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia
1986, p. 49.
9
A. Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 177.
10
S. Lawder, Il cinema cubista, cit., p. 110. Per le commistioni teatro-cinema e le
corrispondenze con ricerche anche in ambiti diversi (ma in rapporto con le avan­
guardie storiche) cfr. L. Colagreco, Il cinema negli spettacoli di Leopoldo Fregoli, «Bianco
& Nero», a. LXIII, n. 3-4, 2002.
SANDRA LISCHI 60
ti) includeva a sua volta la prefigurazione del medium televisivo: un di­
spositivo capace di ricevere e trasmettere immagini e suoni da tutto il
mondo, simultaneamente, nel laboratorio di meraviglie scientifiche e
tecnologiche dello scienziato Norsen.

4. Lo schermo strappato

Del resto, la dimensione talvolta multimediale (teatrale, musicale)


del cinema delle avanguardie è rappresentata anche nelle utopie allora
non realizzate: come il progetto di Eisenstein di chiudere il suo film La
corazzata Potëmkin aprendo letteralmente lo schermo cinematografico
in due (sulle immagini della prua della corazzata che sembra avanzare
verso il pubblico) svelando l’orchestra retrostante. Cinema, musica, tea­
tro, in una lacerazione che è, allo stesso tempo, attraversamento della
soglia fra realtà e rappresentazione, irruzione delle immagini e della
Storia nella sala e nella vita (nel 1989 il videoartista Gianni Toti, uno
degli autori più profondamente ispirati dalle avanguardie storiche, rea­
lizzerà al computer questo sogno, simulando una pressione, poi una la­
cerazione dello schermo virtuale elettronico da parte della prua della
corazzata, in un videopoema che rilegge, appunto, le utopie sociali, po­
litiche, artistiche del Novecento, Squeezangezaùm).
Se le immagini di schermi lacerati (come nel finale di Entr’acte), at­
traversati (come in Sherlock Junior di Buster Keaton, 1924, e in Incatena­
ta alla pellicola di Nikandr Turkin, 1919, con Majakovskij e Lili Brik),
mettono in discussione la frontiera fra realtà e rappresentazione, le im­
magini di occhi (anche tagliati, come nella celebre inquadratura di Un
chien Andalou di Luis Buñuel, 1929), di pupille, palpebre, di occhi mec­
canici (L’uomo con la macchina da presa, Vertov, 1929) popolano tanti
film degli anni Venti: una proliferazione di sguardi che è metafora del
cinema come arte della visione ma anche dell’assunzione di tanti e di­
versi punti di vista, del lavoro visivo-mentale del confronto e della si­
multaneità, del sovvertimento della posizione passiva e statica dello
spettatore.11
Alla ricerca di ritmi visivi, di coreografie di segni astratti, di narra­
zioni non lineari, spesso ispirate alle associazioni oniriche, alle altera­
zioni spazio-temporali, di velocità e di simultaneità che le avanguardie
artistiche cercavano e che il cinema sembra proficuamente accogliere,
si associa dunque anche un ripensamento del quadro, della cornice,
dello spazio e dell’esperienza della visione: perché lo schermo dev’es­

11
P. Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino 1990.
61 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

sere piatto, bidimensionale, e stare verticalmente in posizione frontale


e parallela rispetto allo spettatore? E perché dev’essere delimitato, e
perché unico?
I panorami pittorici presentavano rappresentazioni a 360°, perché
non lo si poteva fare con il cinema, avvolgendo lo spettatore in una plu­
ralità di stimoli in cui muoversi col corpo, non solo con gli occhi? Abel
Gance teorizza la polivisione: per il suo Napoléon (1927) pensa a tre
schermi; negli anni Cinquanta l’ultima compagna dell’artista, Nelly Ka­
plan, ritornerà sulla questione, arricchendola con considerazioni che
hanno a che vedere con la sinestesia: «La musica, le voci, i rumori, cin­
tura sonora, verranno da ogni luogo dovunque saranno necessari, cin­
gendo e dirigendo l’attenzione [...] La simultaneità dello svolgimento
verticale e orizzontale delle scene stimolerà l’immaginazione intorpidi­
ta e le associazioni di idee sepolte in tutti i subconsci. Euforia psicolo­
gica delle nuove sensazioni, suggestione di un mondo nuovo nascosto
tra le immagini che si elevano a una potenza infinita, poiché la molti­
plicazione non basta più [...] La polivisione è il cinema del futuro, arte
unica dell’era atomica che è già aperta davanti a noi. L’età dell’imma­
gine esplosa è giunta!».12
Ma, parallelamente a questo desiderio di moltiplicare gli schermi e
«avvolgerne» in modo polisensoriale lo spettatore (come avverrà più
tardi grazie alla tecnologia elettronica e all’ubiquità della «scatola» te­
levisiva, con le videoinstallazioni; e più avanti con le tecniche immersi­
ve della realtà virtuale), si sviluppa una ricerca sul supporto di proie­
zione: non più una porzione regolare e tesa di stoffa ma superficie ac­
cidentata, frastagliata, mobile. I futuristi Arnaldo Ginna e Bruno Corra
pensavano a tele trattate, László Moholy-Nagy a nuvole e vapore, Léger
a giochi di specchi, sfere metalliche, Alexander Rimington a garze, vel­
luti, cortine di corde; e poi gli schermi in caucciù gonfiabile, gli scher­
mi rotanti (Marcel Duchamp). Ancora Moholy-Nagy nel 1925 pensava
all’abbandono del classico schermo rettangolare per una forma semi­
sferica su cui proiettare due-tre film simultaneamente: il movimento in­
terno al film si sarebbe combinato con «il movimento dell’immagine
stessa che si sposta sul grande schermo attraverso lo spostamento dei
proiettori durante la proiezione».13 Ritroveremo queste ricerche sui
supporti nella videoarte, con proiezioni su stoffe leggere e sospese a

12
N. Kaplan, Manifesto di una nuova arte: la polivisione, in A. Martini (a cura di),
Utopia e cinema. Cento anni di sogni, progetti e paradossi, Marsilio, Venezia 1994, p. 52.
13
P. de Haas, Entre projectile et project. Aspects de la projection dans les années vingt, in
AA.VV., Projections, les transports de l’image, Le Fresnoy-Hazan-AFAA, Pamplona-Tur­
coing 1997.
SANDRA LISCHI 62
mezz’aria, seta di paracadute, sabbia, sale, oggetti, migliaia di sottilissi­
me frange di carta. Mentre la «multivisione» si arricchisce nel confron­
to fra la scatola luminosa del monitor, le sue dimensioni, la sua grana,
e la riproposizione (più o meno classica) della proiezione su grande
schermo.
La sala «prende luce», lo spettatore diventa elemento essenziale di un
percorso non più e non solo metaforico: vede, ascolta, è chiamato, an­
che provocatoriamente, a partecipare; è sottoposto alla necessità di con­
frontare più stimoli allo stesso tempo. Riceve (metaforicamente, dallo
schermo) cannonate, pugni, appelli; e nelle performance futuriste e da­
daiste, che saranno poi rivisitate dal movimento Fluxus, è sottoposto a
sberleffi, punzecchiature, lancio di oggetti; le avanguardie chiamano al
lavoro dello sguardo, ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi.
Nel suo noto testo del 1936 sulla riproducibilità tecnica dell’opera
d’arte Walter Benjamin sottolinea questo carattere «tattile» del cinema
(che poi Marshall McLuhan, con altre motivazioni, sposterà al medium
televisione), prefigurato soprattutto dai dadaisti, che cercavano «di ot­
tenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effet­
ti che oggi il pubblico cerca nel cinema». E ancora: coi dadaisti «l’ope­
ra d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore.
Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di ci­
nema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tat­
tile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inqua­
drature, che investono gli spettatori a scatti...».14
Il cinerama, che allargava il campo visivo dello spettatore alle possibi­
lità di visione periferica dell’occhio umano, fu inventato da Fred Waller
alla fine degli anni Trenta. Il suo primo lungometraggio This is Cinera­
ma, girato con macchine da presa multiple e sincronizzate per coprire
una più larga angolazione e proiettato su multischermi curvi a Broadway
all’inizio degli anni Cinquanta, segnò, insieme al suono stereofonico, al
cinema 3D, al cinemascope, la fine della crisi di Hollywood minacciata
dalla televisione e l’inizio della realtà virtuale. Si riferisce proprio a que­
ste innovazioni tecniche del Cinerama Morton Heilig, inventore di quel­
lo che lui stesso definì il «Teatro dell’esperienza»: un visore televisivo
stereofonico head-mounted (1960, progettato cinque anni prima dei di­
splay di Ivan Sutherland al MIT) e il Sensorama Simulator (1962).15

14
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, To­
rino 1966, pp. 42-43.
15
Cfr. H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna 1993.
63 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

5. Oltre l’occhio

In questa ricerca di «oltrepassamento» dell’esclusivo potere dell’oc­


chio, il suono diventa fondamentale. Anche quando ancora non c’è,
quando cioè il cinema è ancora muto (come si suol dire, con aggettivo
improprio). Le sinfonie visive degli anni Venti (Fischinger, Eggeling,
Ruttmann), come le sinfonie urbane (Vertov, ancora Ruttmann, Lang,
Cavalcanti...) si fondano su una ricerca di ritmo e di sonorità basata solo
sul dipanarsi e combinarsi di immagini. Con l’avvento del sonoro, quasi
subito trasformato in predominio del «parlato» (dei dialoghi) sui rumo­
ri e, soprattutto, sulla ricerca visiva, il cinema d’artista, d’avanguardia,
sperimentale, si attesta su un’orgogliosa rivendicazione di «silenzio»
(Stan Brakhage, Luigi Veronesi) o su una ricerca visivo-musicale in cui
anche la parola diventa pura sonorità, provocazione, rumore, musica.
Alle avanguardie non interessa la dimensione narrativa del linguag­
gio. La musica diventa quindi la compagna ideale di evocazioni e visua­
lizzazioni fantastiche. Nel progetto di messa in immagini di una sua
composizione musicale, Arnold Schönberg (nel 1913) scriveva di vole­
re «la massima irrealtà!». Il film «non deve mai suggerire simboli, o si­
gnificati, o pensieri, ma semplicemente rendere il gioco dei colori e
delle forme. Proprio come la musica non si trascina mai dietro un si­
gnificato, per lo meno nella forma in cui essa (la musica) si manifesta,
anche se il significato è insito nella sua natura, così questo film dovreb­
be essere semplicemente come i suoni per l’orecchio, e, per quanto mi
concerne, ognuno sarà libero di sentire o pensare qualcosa di simile a
quello che pensa quando sente la musica».16
Kandinskij e Schönberg (di cui è illuminante la corrispondenza, e la
collaborazione) avevano un’idea di sintesi delle arti e lavorarono sulle
assonanze fra musica e immagine, suoni e colori. Un sogno antico,
quello della «musica cromatica», teso a cercare affinità fra un determi­
nato suono e un determinato colore, vibrazioni sonore e vibrazioni cro­
matiche. Ancora una ricerca, e un sogno, assunto oggi dalle capacità
del computer come «metamedium»: «L’architettura dei sistemi infor­
matici dell’ultima decade – scrive John Whitney nel 1990 – ha permes­
so di acquisire nuove capacità di generare musica e grafica insieme per
mezzo di un unico computer. Questo è diventato quello che potremmo
giustamente definire la prima macchina universale dell’artista, uno stru­
mento atto a combinare a tempo modalità auditive e visive [...] Inoltre,
una capacità di editing che va oltre l’immediatezza interattiva degli or­
16
A. Schönberg, in S. Lawder, Il cinema cubista, cit., p. 34.
17
J. Whitney, La forma visibile del tempo per la televisione ed i media del futuro, in P. Ro­
SANDRA LISCHI 64
dinari word processors, trasforma la musica – la più fugace delle arti – in
un materiale plastico come la creta nelle mani del singolo, pur mante­
nendo le caratteristiche di durata della pietra...».17
Abbiamo visto dunque, come si cerchi di superare o relativizzare lo
strapotere della vista, proponendo un paritetico rapporto con l’udito e
come l’esperienza statica di spettatore, audio-visiva, si complichi con
una moltiplicazione dei punti di visione, che implica un percorso spa­
ziale dell’occhio, spesso di tutto il corpo, nei confronti dell’immagine
(schermi plurimi, dislocati; supporti tridimensionali e frastagliati). An­
che i tentativi di «cinema profumato» vanno alla ricerca di una dimen­
sione sinestetica dell’arte, capace cioè di attivare insieme vari canali
percettivi. «L’olfatto è il più debole dei sensi, e abbiamo cominciato a
lavorare sugli odori e i profumi come catalizzatori di memoria, asso­
ciandoli alla riscoperta di antichi oggetti che completavano i nostri
film, e che a loro volta racchiudevano ricordi», dice Angela Ricci Luc-
chi, parlando dei film realizzati da lei e da Jervant Gianikian: cineasti­
artisti, autori di «film profumati» negli anni Settanta.18 Anche qui, gli
odori (come nei casi precedenti i suoni e la musica) non sono intesi
nella loro valenza narrativa, illustrativa o di rafforzamento dell’impres­
sione di realtà ma per il loro potere evocativo, di scatenamento di sen­
sazioni e di associazioni mentali inusuali.
Comunque, al di là dell’intenzionalità creativa o meno degli autori
(si tratti cioè di cinema d’artista e sperimentale o di cinema commer­
ciale), «poiché il cinema non è soltanto un dispensatore di suoni e di
immagini, ma genera anche sensazioni ritmiche, dinamiche, temporali,
tattili e cinetiche che utilizzano indifferentemente il canale sonoro o
quello visivo, qualunque rivoluzione tecnica del cinema introduce in
esso un incremento di sensorialità», come scrive Michel Chion. Che
non sempre è esplorata in tutte le sue potenzialità: è il caso della ric­
chezza di stimoli fisici (non solo per l’udito) offerta nelle sale cinema­
tografiche dal dolby stereo, grazie al quale il cinema può diventare vera­
mente «sonoro» e riscattare il rumore dall’oblio in cui il cinema basato
essenzialmente sui dialoghi l’aveva condannato, per restituire al film
«un sentimento della materialità delle cose e degli esseri, e per favorire

berto (a cura di), Dal ritmo colorato alla musica visuale, Ergonarte, Milano 1992, pp. 43­
44.
18
A. Ricci Lucchi, in S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian/Angela Ricci Lucchi,
Firenze, Hopefulmonster, 1992 (cfr. anche, nello stesso volume, A. Farassino, Catalo­
ghi e profumi e J.C. Lipzin, Stimolando l’olfatto: i film di Gianikian e Ricci Lucchi); cfr. an­
che P. Mereghetti e E. Nosei, Cinema anni vita. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi,
Il Castoro, Milano 2000.
65 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

un certo cinema sensoriale che si ricollega – proprio così – con tutto un


filone del muto».19

6. Scritture del film

Già con Gianikian e Ricci Lucchi, con le riflessioni di Michel Chion


sulla dimensione sonora e visiva (sui loro intrecci e dialoghi, e sul rap­
porto fra l’udito, la vista e gli altri sensi nel cinema) abbiamo fatto un
salto di qualche decennio. Ma la cesura fra il cinema delle avanguardie
storiche (gli straordinari anni Venti) e quello sperimentale, indipen­
dente, underground – e poi la videoarte – non è così netta. Quel «bron­
tolio sotterraneo» di inizio Novecento di cui parlava Kandinskij non si è
mai interrotto, in realtà, anche se con l’avvento del cinema sonoro
(combinato con altri fenomeni innanzitutto economici, politici, socia­
li) ha prevalso un cinema narrativo, di intrattenimento, in cui l’innova­
zione tecnologica è finalizzata alla cattura dello spettatore in un mec­
canismo efficace, funzionante, di realismo dello spettacolo, di credibi­
lità del racconto (anche del più inverosimile), di spettacolarizzazione.
Si è visto come in Italia Luigi Veronesi facesse i suoi film pittorici negli
anni Trenta; negli Stati Uniti, Maya Deren realizza film sperimentali, di
danza e non solo, negli anni Quaranta e Cinquanta; John Whitney fa i
suoi primi film sperimentali negli anni Quaranta e lavora pionieristica­
mente a forme di computer grafica e computer art dalla fine degli anni
Sessanta. Sono film e ricerche, che, ancora una volta, cercano di oltre­
passare generi e linguaggi e mescolare le arti (la danza, appunto, la mu­
sica, la pittura).
Imprescindibile, in questo senso, l’esperienza francese del cinema
lettrista, con il suo recupero del medium della scrittura inteso sia in
senso stretto (grafia, segno) sia in senso lato («scrittura» per immagini,
delle immagini, sulle immagini; film come testo, ma soprattutto come
palinsesto da cancellare e riscrivere incessantemente, recuperando l’eti­
mo della parola, che indica un manoscritto pergamenaceo che veniva
raschiato per potervi scrivere di nuovo).
I film dei lettristi (Isidore Isou, Maurice Lemaitre), negli anni Cin­
quanta, mettono l’accento sulla materialità della pellicola, che viene
graffiata, manipolata, persino distrutta durante le proiezioni, che sono
in realtà «sedute di cinema» in cui lo spettatore interviene direttamente.
Le film est déjà commencé, per esempio, di Lemaitre (1951), in bianco e ne­

19
M. Chion, L’audio-visione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, pp.
129 e 132.
SANDRA LISCHI 66
ro, colorato direttamente a mano sulla pellicola, è concepito per essere
proiettato «su di uno schermo di materia e forma nuove e con interven­
ti spettacolari nella hall del cinema e nella sala (spintoni del pubblico,
dialoghi ad alta voce, lancio di coriandoli, spari sullo schermo, proie­
zione di Intolerance su uno schermo all’entrata del cinema ecc.)».
Da un’altra parte il suono introduce nel cinema le scoperte di James
Joyce, e tutto ciò molto prima di Resnais, Robbe-Grillet o Duras. Il suo­
no è indipendente dall’immagine, essendo quest’ultima in più elabo­
rata all’infinito con graffiature, disegni, sovrimpressioni, trattamenti
con l’acido ecc., in una maniera ancora oggi ineguagliata. Nel film Pel­
licule di Lemaitre, 1968, «è stata proiettata questa prima massa di pelli­
cola davanti agli spettatori, che hanno montato, aggiunto, tagliato, se­
condo i loro desideri, nello stesso momento in cui le loro intenzioni ve­
nivano registrate. Queste sedute di creazione filmica si sono ripetute in
maniera periodica tutti i mercoledì del Café-Cinéma...».20 Il senso di un
rituale sovvertito, o reinventato; ma anche di un «cinema totale», che
unisce arte e vita, spettacolo e desiderio.
È un cinema «da proiettarsi capovolto sul soffitto e/o sul pavimento,
su schermi multipli sui muri, in contemporanea con eventi teatrali, de­
clamazioni, musiche e danze. Ricreare ludicamente uno spaccato allar­
gato della vita quotidiana. Il bailamme del traffico urbano, dei televiso­
ri accesi, delle radioline a tutto volume, del bop-bop delle auto in coda,
dei conta-tempo computerizzati, dei bip-bip luminosi, del bla-bla della
gente che indaffarata segue – senza vedere, sentire, partecipare – tutti i
solluccheri del sistema di una società volutamente spettacolare, sono
gli input lettristi alla decifrazione dei bersagli da colpire.
È sufficiente, come chiave di lettura, evitare la passività della ricezio­
ne. L’indifferenza mutarsi in partecipazione; l’individuo in persona».21
Torna anche lo stress a cui sottoporre lo spettatore per farlo uscire dal
suo torpore mediatico: «Vorrei un film che vi faccia male agli occhi,
davvero [...] che si esca dal cinema col mal di testa! [...] Preferisco pro­
curarvi delle nevralgie che niente! [...] Preferisco rovinarvi gli occhi
che lasciarvi indifferenti!», proclama il protagonista del film di Isidore
Isou Traité de bave et d’eternité, 1951.22 Un film-palinsesto, intessuto di ri­
ferimenti interdisciplinari: «Daniel pensava che gli piaceva sempre fare
altro; della musica nella poesia, della pittura nel romanzo e ora del ro­
manzo nel cinema...». Ma intessuto anche di confronti provocatori, ba­

20
Scheda su M. Lemaitre, in A. Granchi (a cura di), Cine qua non, cit.
21
G.S. Brizio, Lettrismo e sperimentalismo, in A. Granchi, op. cit., p. 69.
22
In F. Devaux, Le cinéma lettriste (1951-1991), Paris Expérimental, Parigi 1992, p.
41 (trad. mia).
67 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

sati sulla separatezza e la specificità mediatica: suoni e immagini senza


relazione, elaborati separatamente, riflessione su altri media, come la
fotografia e la radio (evocata dalla voce che parla nel buio totale, senza
immagini, in una parte del film). Un «cinema-radio».23

7. Lo spettatore attivo

Lo spettatore quindi è programmaticamente «incluso» nell’opera;


la quale, come si vede, perde di fatto il carattere di opera (anche se non
per tutti gli autori, né per tutte le correnti artistiche dell’avanguardia e
della sperimentazione artistica e cinematografica) e diventa spesso
evento, provocazione, momento di una operazione più ampia, che me­
scola vari media (affiche, teatro, musica, cinema, in seguito anche vi­
deo). Lo spettatore è chiamato a lavorare, a entrare in uno spazio di-
verso in cui deve «lavarsi gli occhi» dalle abitudini percettive note e
confortevoli.
Il cinema sperimentale e underground, il «new american cinema» ri­
prenderà, negli anni Sessanta, questa strategia di coinvolgimento-pro­
vocazione: Gregory Markopoulos per esempio lascia lo schermo com­
pletamente nero per vari (lunghissimi) minuti per consentire allo spet­
tatore di varcare una soglia percettiva e conoscitiva; lo stesso faranno
poi videoartisti come Bill Viola (nelle installazioni) e Gianni Toti (nei
videopoemi). Viene addirittura teorizzata una certa «noia», messa a du­
ra prova la capacità di resistenza visiva: si pensi ai film di Andy Warhol
che duravano ore e ore senza alcuna azione apparente, con la macchi­
na da presa ferma e un’unica inquadratura. In varie sedute di proiezio­
ne del cinema sperimentale e underground il corpo stesso dello spet­
tatore diventa il supporto di proiezione del film (e in Italia Silvano Ago­
sti racconta di come ha proiettato in strada, sulla schiena di un poli­
ziotto, un cinegiornale controinformativo proprio sulle repressioni po­
liziesche delle manifestazioni politiche, negli anni Sessanta). Lo spetta­
tore è magari invitato a percorrere lo spazio, a scollarsi dalla sua posi­
zione fissa e immobile: lo schermo viene squarciato in modo da poter
attraversare non metaforicamente la soglia fra realtà e rappresentazio­
ne (Rolla di Shuji Terajama, 1976) o l’autore entra in sala e si mette a
interagire con il suo doppio che è sullo schermo (da un vero tavolo ac­
costato alla tela: Ping Pong di Valie Export, 1968); o le ombre degli spet­
tatori proiettate sullo schermo diventano parte integrante dell’immagi­

23
F. Devaux, Traité de bave et d’éternité d’Isidore Isou, Yellow Now, Crisnée, Belgique
1994, pp. 21 e 46-49.
SANDRA LISCHI 68
ne. Sono prefigurazioni di quegli «ambienti sensibili», come Studio Az­
zurro chiama le sue attuali installazioni interattive basate su semplici
azioni degli spettatori per attivare le immagini (camminare, gridare,
battere le mani, toccare) in spazi in cui i dispositivi tecnologici – senso­
ri, guanti, caschi – sono banditi o resi invisibili.
Del resto lo spettatore deve acquisire una distanza critica e diventare
cosciente che quel che vede è un film, una pellicola: allora i proiettori
vengono esibiti in sala, svelati, esibiti come sculture cinetiche, talvolta
modificati (come i pianoforti negli eventi Fluxus); viene materializzato
e reso visibile lo scorrere delle immagini, anche attraverso operazioni
drastiche come la combustione del film durante la proiezione; la pelli­
cola viene sottoposta a vari tipi di operazioni, cucita, trattata, interrotta.
Si gioca sull’alternanza di luce e buio come qualità intrinseche e speci­
fiche della proiezione, senza alcuna immagine; o si ricreano «polivisio­
ni» del tutto particolari, combinando vari formati (pellicole 16mm e
8mm) in proiezioni accostate o sovrapposte, oppure con il film e le
diapositive. Gli sperimentali, l’underground, gli esponenti del cinema
strutturale, i film-maker indipendenti, riprendono (con varie differen­
ze di contesto e di uso della tecnologia) alcune intuizioni e alcune pra­
tiche delle avanguardie storiche, a partire dalla radicale indifferenza
verso una dimensione narrativa e dal lavoro sul linguaggio. L’immagine
diventa elemento di un collage o di un flusso, il movimento della mac­
china da presa segue «gli impulsi della mano, come nell’action pain­
ting»,24 il suono si allontana dalla tradizione del cinema di dialogo e si
fa silenzio o rumore.
Dominique Noguez, nel suo studio sul cinema sperimentale, ne ha
così sintetizzato le caratteristiche: «Diciamo dunque che ogni volta che
il film, di per sé [...] si renderà interessante meno per quel che mostra
o racconta che per il modo in cui lo mostra o lo racconta, tutte le volte
che lo schermo sembrerà dirci: “Guardate il rettangolo che sono, o il
quadro che sono, o la bianchezza che sono; guardate il modo in cui le
forme sono collegate sulla mia superficie, il modo in cui si spostano”;
tutte le volte che i colori sembreranno dire: “Vedete il mio splendore o
la mia discrezione”; che la pellicola sembrerà dirci: “Vedete la mia gra­
na, o la mia opacità”, allora saremo sul versante della funzione poetica
trionfante e dunque del cinema sperimentale».25

24
A. Aprà, Flash-back/Flash forward. Il cinema indipendente americano degli anni Ses­
santa, in Id. (a cura di), New American Cinema. Il cinema indipendente americano degli an-
ni Sessanta, Ubulibri, Milano 1986, pp. 9-19.
25
D. Noguez, Eloge du cinéma expérimental, Paris Expérimental, Parigi 1999 (1a ed.
1979), p. 35 (trad. mia).
69 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

Questi autori, questi «cine-amatori», per usare un termine rivendi­


cato con orgoglio e inteso nella sua valenza antagonista al termine di
«professionista» pienamente inserito negli ingranaggi e nelle trappole
del mercato cinematografico, sono spesso autori «totali», non stabili­
scono steccati fra vita personale e cinema, fra documentario, narrazio­
ne, autobiografia. In questo affini (seppure i modi di intendere e usare
il medium differiscano notevolmente) agli artisti-cineasti, depositari di
vari saperi tecnico-artistici. «Non amo né l’ordine, né le caselle, né le
circoscrizioni», afferma Fabrizio Plessi. «Da anni mi occupo di media
diversi; lo faccio da dilettante accanito con entusiasmo e disinvoltura.
Non credo nel mezzo specifico [...] Faccio tele emulsionate tratte da se­
quenze di film, foto sequenze tratte da videotape, fotografo e filmo del­
le fotografie già fatte, faccio polaroid a fotografie che sono spezzoni di
film. Come si può ordinare, circoscrivere, incasellare tutto ciò?».26
In Italia anche autori come Schifano, Patella, di nuovo Grifi e Baru­
chello esplorano i supporti di proiezione, combinano questa con og­
getti, prismi, sfere; assemblano le proiezioni di vari tipi di immagine,
usano deliberatamente pellicola scaduta per gli effetti cromatici che
può dare, cancellano con schermi opachi il monitor televisivo, giocano
alla maniera dada con gli oggetti trovati o destinati alla distruzione (Ba­
ruchello; e Silvio Loffredo, con film-collage che includono anche spez­
zoni trovati al mercato delle pulci), reinventano con gli artifici cinema­
tografici le pratiche della performance visivo-sonora (Andrea Granchi
e Renato Ranaldi), si collocano sul confine fra cinema d’artista e cine­
ma politico (Anna Lajolo, Guido Lombardi).
Autori multimediali, spesso, che si spostano fra pittura, scultura, ar­
chitettura, fotografia, film, poi (dai primi anni Settanta) video, o inclu­
dono vari media nelle loro azioni e documentazioni.27

8. Cinema espanso

Alla ricerca di rapporti e compresenze di media diversi si unisce in


molti autori delle avanguardie storiche e del cinema sperimentale l’evi­
denziazione di «specificità» (nel caso del cinema la luce, la proiezione, il
«falso movimento»), che si accompagna a una sorta di pressione sul

26
F. Plessi in Vittorio Fagone (a cura di), Arte e cinema. Per un catalogo di cinema
d’artista in Italia 1965-1977, Centro Internazionale di Brera, Milano/Marsilio, Venezia
1977, p. 78.
27
Cfr. B. Di Marino, Sguardo inconscio azione. Cinema sperimentale e underground a Ro­
ma (1965-1975), Lithos, Roma 1999.
SANDRA LISCHI 70
mezzo e sui suoi limiti. Forzare i limiti della pellicola, dello schermo,
della sala, del punto di vista, della postura classica dello spettatore. René
Barjavel, teorico del «cinema totale», scriveva nel 1944: «Non si arriverà
a una soluzione soddisfacente finché il cinema sarà schiavo di quel na­
stro piatto che si chiama film. Trasformare un’immagine piatta in im­
magine a tre dimensioni, anche proiettandola su uno schermo sferico,
ci pare non solo difficile ma illogico. Di fatto, occorrerà trasformare di­
rettamente in onde le immagini degli oggetti reali, e poi queste onde in
immagini virtuali. Tali immagini verranno materializzate senza lo scher­
mo, o entro uno schermo voluminoso e trasparente, forse addirittura
immateriale, costituito a sua volta da un fascio di onde...».28 La visionaria
descrizione di Barjavel lascia intravedere la tecnologia elettronica come
superamento, o forse estensione, dilatazione del cinema.
Questa espansione del cinema negli altri media e, più estesamente,
nell’ambiente mediatico che ci circonda, è stata una delle teorie basila­
ri del cinema sperimentale degli anni Sessanta: expanded cinema, expan­
ded eye. I media come estensione e potenziamento dei sensi: un approc­
cio che negli stessi anni caratterizza anche l’interpretazione che dei
media dà lo studioso canadese Marshall McLuhan, influenzando non
poco un’intera generazione di film-maker indipendenti e di videoarti­
sti. Gene Youngblood pubblica nel 1970 uno straordinario libro intito­
lato Expanded Cinema, riunendo nella categoria di «cinema espanso» le
performance dal vivo, le animazioni sperimentali, la computer art, il vi­
deo, i film olografici, le polivisioni e i labirinti di proiezioni, gli schermi
giganti e le esperienze immersive, le multivisioni ipertecnologiche (che
si andavano sperimentando nelle grandi esposizioni universali di Mon­
tréal e Osaka), le ambientazioni visivo-sonore avvolgenti. Un cinema
che si estende ad altre arti e le ingloba, le ridefinisce, le ricrea; ma an­
che un cinema sinestetico, che «include varie modalità estetiche, molti
“percorsi di conoscenza”, simultaneamente operativi»;29 capace di
estendere e potenziare le nostre capacità sensoriali e di pensiero, oltre
la sterile contrapposizione mente-corpo, emozione-conoscenza («l’uni­
ca mente capace di capire è la mente creativa», scrive ancora Young­
blood).
28
R. Barjavel, in A. Martini (a cura di), Utopia e cinema, cit., p. 42. Il libro di Barja­
vel è stato ora tradotto integralmente in Italia: R. Barjavel, Cinema Totale. Saggio sulle
forme future del cinema, Editori Riuniti, Roma 2001.
29
G. Youngblood, Expanded Cinema, Studio Vista, London/Dutton & Co, New
York, 1970, p. 109 (trad. mia). Per un’analisi delle teorie di Youngblood, dei suoi te­
sti tradotti in Italia e dello sviluppo successivo del suo pensiero rimando al mio saggio
In search of Expanded Cinema, «Cinema & Cie», International Film Studies Journal, n.
2, Spring 2003, (Il Castoro, Milano 2003).
71 LE AVANGUARDIE ARTISTICHE E IL CINEMA SPERIMENTALE

Per Youngblood il cinema è quindi un «metamedium» (anni dopo


questa funzione sarà invece affidata al computer) capace di assumere
tutte le arti precedenti, non solo con finalità estetiche e di rinnova­
mento di modalità di costruzione di linguaggi (e di modi di fruizione)
ma anche con finalità sociali. Vent’anni dopo la pubblicazione di Ex­
panded Cinema, nel 1991, ha affermato che «una rivoluzione delle co­
municazioni dovrebbe occuparsi di creare un mezzo combinando tele­
visione, computer, telefono, satellite in un’unica rete multimediale con­
trollata dall’utente, e il cui uso sarebbe gratuito».30 E oggi sta conclu­
dendo un nuovo, imponente studio sulla comunicazione interattiva che
recuperi una reale dimensione comunicativa e relazionale delle tecno­
logie elettroniche, una loro funzione interattiva interpersonale e socia­
le. Del resto (per fare un passo indietro) l’idea sociale e pubblica del ci­
nema aveva caratterizzato almeno una parte delle avanguardie, in par­
ticolare in Unione Sovietica, nel periodo di fermento (anche culturale)
post-rivoluzionario, con l’idea di schermi posizionati in luoghi pubblici
e di una velocità informativa di comunicazione delle immagini attra­
verso lo sterminato paese.
Per Youngblood il cinema si fa oggi con tanti media diversi (film, vi­
deo, olografia, computer), così come la musica si suona con tanti stru­
menti; il video espande le possibilità del cinema; e quello che noi inten­
diamo con «videoarte» non è altro che «cinema sperimentale praticato
elettronicamente». Di fatto, rileggendo oggi il libro di Youngblood, ri­
sulta evidente come le videoinstallazioni, gli ambienti sensibili, le espe­
rienze artistiche immersive di realtà virtuale, le installazioni multime­
diali (ma anche certe esperienze compiute in rete, quelle comunità rea­
li, effettive – per opporre il termine a quello di virtuale – di cui parlava
Youngblood negli anni Ottanta) rilancino le teorie del cinema espanso
e, tornando ancora più indietro, le utopie e i tentativi del cinema delle
avanguardie artistiche («la nozione di arte sperimentale è insensata. Tut-
ta l’arte o è sperimentale o non è arte», Youngblood, 1970).
Le stesse proiezioni su schermi giganti, i labirinti delle meraviglie
dell’immagine in movimento, i Sensorama, pur se attuati (per motivi di
investimenti e di costi) in situazioni come le esposizioni universali – e
oggi i parchi a tema, le «Géodes», le megasale spettacolari – possono
pur sempre offrire quello shock, quella esperienza percettiva nuova
che adesso manca allo spettatore comune, metterlo di fronte a una sor­
ta di esplosione del quadro e della cornice, scuoterlo, liberarlo dalla vi­

30
G. Youngblood, Il mito utopistico della rivoluzione comunicativa, in F. Colombo (a
cura di), Parole sul video, n. speciale di «Comunicazioni Sociali», a. XIV, 2-3, aprile-set­
tembre 1992.
SANDRA LISCHI 72
sione bidimensionale, sottoporlo a una percezione complessa, ricca,
fatta di simultaneità e di associazioni.
Certo, si tratterà poi di trasformare questa «spettacolarità» in altro,
di usare queste tecnologie in modo artistico, di sottrarle alla logica del
puro intrattenimento. Ma questo lo sapevano già le avanguardie degli
anni Venti: «Si aprono nuove sale, si moltiplicano gli schermi», scriveva
Abel Gance nel 1928, «senza occuparsi innanzitutto di quello che vi si
proietterà [...] Noi chiediamo templi e chiese per il cinema; ci danno
dancing o fienili...».31
Da qui torniamo al cinema espanso di Youngblood, e alle sue rilettu­
re odierne: «Per me», dice nel 1996 Peter Greenaway, «è molto stimo­
lante cercare di combinare le nuove tecnologie con la dislocazione del
testo, con gli schermi multipli già usati dalle avanguardie, per reinven­
tare il linguaggio cinematografico [...] Penso che il cinema del futuro
avrà cinque nuove caratteristiche. Sarà un cinema con schermi multi­
pli, quindi lo schermo scomparirà. Sarà un cinema che coinvolgerà i
cinque sensi e non solo due. Sarà molto più interattivo, cosicché il pub­
blico potrà avere un controllo maggiore sulle circostanze. Si allonta­
nerà dall’idea di essere un medium per illustrare temi, e soprattutto
sarà incentrato sulla relazione individuale spettatore/schermo».32
Quel «brontolio sotterraneo» che Kandinskij avvertiva nelle arti del-
l’inizio del secolo non si è affievolito. Abbiamo orecchie per sentirlo,
occhi per vederne gli esiti? Sappiamo capirne i nuovi sogni? Ne cono­
sciamo i nemici?

31
A. Gance, Come si fa un film, in A. Martini (a cura di), Utopia e cinema, cit., p. 201.
32
P. Greenaway, in M. Polsinelli, Peter Greenaway. Paesaggi con figure, «Bianco & Ne­
ro», a. LVII, n. 1-2, 1996.
IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE
Anna Maria Monteverdi

Come può l’uomo del nostro secolo, oggi schiavo e ignorante ma assetato di
libertà e di sapere, l’uomo tormentato ed eroico, vittima di violenze e di abu­
si, ingegnoso e mutevole, capace di trasformare il mondo in questo grande e
terribile secolo nostro, come può quest’uomo avere un suo teatro che lo aiu­
ti a signoreggiare sé stesso e il mondo?
B. Brecht, 1939

1. Metamorfosi della scena nel Novecento teatrale

Le caratteristiche delle tecnologie digitali multimediali sintetizzabili


secondo Packer e Jordan (2001) in: immersione, integrazione, ipermedialità,
interattività, narratività non lineare stanno definendo una nuova estetica a
partire dalle rinnovate modalità di creazione artistica (dalla progettua­
lità all’attualizzazione alla documentazione). Le arti mediatiche, come
ricorda Louise Poissant (1995), diventano «rivelatrici della sensibilità
della nostra epoca» e ci portano a riflettere sul significato ontologico,
epistemologico (e politico) della qualità non unica e assoluta ma artico­
lata del tempo e dello spazio: lo spazio virtuale, multipercettivo, e il tem­
po non cronologico; ci introducono al tempo ucronico (ovvero, simulato,
autogenerantesi, aperto, senza inizio né fine del mondo numerico se­
condo Edmond Couchot), presente, astratto, differito, sperimentale,
processuale. Definizioni che rimandano al concetto di tempo-durata
soggettivo in Bergson e di evento percipiente in Whitehead. Anche la figu­
ra dell’artista cambia: c’è un ritorno al «modello Leonardo», quello del-
l’artista-ingegnere che trasferisce la conoscenza scientifica nell’arte, evi­
dentemente in relazione al recupero sia di quella doppia competenza
che è insita nel concetto di techne antica (artistica e scientifica, accomu­
nate entrambe da un fare inteso non come prattein ma come poiein, sor­
retto cioè da una gnosis) sia dell’applicazione della matematica al domi­
nio visuale.
La prospettiva lineare inaugurava una modalità di creazione e di or­
ganizzazione di uno spazio di rappresentazione che rispondeva a un prin­
cipio di illusione e di unificazione ideale del reale. Proprio il rinasci­
mento e il barocco abbondano di trattati tecnici sugli apparati teatrali,
ANNA MARIA MONTEVERDI 74
sulle innovazioni meccaniche e sulle scoperte ottiche (Serlio, Sabbati­
ni): questa letteratura segna il progressivo abbandono dell’antica di­
stinzione tra sapere scientifico-matematico e sapere tecnico-artigianale,
tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra arte e tecnica, appunto.
Leonardo stesso si era cimentato come «apparatore» con progetti di
meccanica scenica in occasione dell’allestimento della Festa del Paradi­
so (1490), della Danae (1496) e dell’Orfeo del Poliziano (progetti datati
1506-08, Codice Arundel) in cui, secondo Cesare Molinari, cercò di
realizzare una vera e propria «drehbühne, una scena girevole cioè, del ti­
po di quelle che saranno alla base del rinnovamento tecnologico del
mondo moderno».1 Ma il Novecento teatrale con l’opera – teorica e
scenica – di rinnovamento e di radicale «riteatralizzazione» dei padri
fondatori della regia (Appia, Craig, Mejerchol’d), rinuncia all’idea di
un’unica e omogenea modalità di rappresentazione (e di conoscenza)
manipolando e frantumando il linguaggio e lo spazio-tempo del dram­
ma secondo i punti di vista mutevoli della coscienza umana, sperimen­
tando programmaticamente l’uscita dal quadro scenico, dai limiti ar­
chitettonici della sala e da una visione statica per un’ideale polipro­
spettività, per una forma teatrale sempre più assimilabile a un montag­
gio foto-cinemato/grafico o a un collage/assemblage pittorico. Contro
l’arte come raddoppiamento del reale e in opposizione al naturalismo
descrittivista, le avanguardie teatrali al di là delle molteplicità delle ten­
denze, predicano e praticano una scena plastico-cinetica rinnovata,
astratta, straniata, stilizzata, autonoma dalla letteratura e dal testo
drammaturgico e non più schiava dei fondali dipinti ma traumatizzata,
parcellizzata, non-oggettiva (o di una nuova oggettività). Arte di inter­
pretazione, d’intervento e d’opposizione, sintomatica di una crisi ge­
nerale della rappresentazione all’indomani delle rivoluzioni del 1848 e
influenzata sia dalle contemporanee innovazioni tecniche e teorie
scientifiche (dalla fotografia al cinema; dalla teoria della relatività di
Einstein al primo segnale radio) sia dalle utopie rivoluzionarie, in Rus­
sia e in Germania, di una nuova società.2 Teatro come luogo di valori,
secondo Fabrizio Cruciani: «Le ricerche estetiche si sostanziano di una
estesa tensione etica: determinare, attraverso il teatro, un rapporto con
gli uomini che abbia “valore”, che assuma “significato”, recuperando
una necessità che la cultura non riesce più ad avere. Dalle diverse poe­

1
C. Molinari, Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in «Quaderni di tea­
tro», a. III, n. 10, 1980, p. 6.
2
Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali, Est, Mi­
lano 1997; F. Cruciani, C. Faletti (a cura di), Civiltà teatrale nel XX secolo, il Mulino, Bo­
logna 1986.
75 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

tiche e sperimentazioni si giunge, nei teorici del teatro, alla prefigura­


zione di una società che del teatro abbia bisogno».3
La crisi della forma (e dell’assolutezza) del dramma nato nel rinasci­
mento, come affermava Peter Szondi in Teoria del dramma moderno
(1957), si identifica con il passaggio a un io epico che sancisce la con­
trapposizione tra oggetto e soggetto (in pratica, tra la realtà del dramma
e la realtà a essa esterna) dando vita, a partire dal 1860, a esperimenti sti­
listici «transitivi» che portano – con Ibsen, con Čechov, con Strindberg,
con Hauptmann, con Maeterlinck – all’elaborazione di uno stile epico
maturo non più solamente tematico ma formale, quale culminerà in
Brecht. Il dramma epico proponeva una nuova arte del guardare, esigeva
un atteggiamento critico, distante e consapevole: la tecnica di strania­
mento attuata dalla scena e della recitazione serviva a indirizzare lo
sguardo dello spettatore oltre la vicenda storica e oltre l’immedesima­
zione: «Ciò che si svolge sulla scena non riempie più per intero la rap­
presentazione, come avveniva nel dramma [...] La vicenda è ora oggetto
di narrazione dal palcoscenico, il quale si comporta, nei suoi riguardi,
come un narratore nei riguardi del suo oggetto; è solo dalla contrappo­
sizione dei due che scaturisce la totalità dell’opera».4 Se la realtà del
mondo era fondamentalmente inattaccabile o separata dal teatro o sem­
plicemente estranea al dramma e lo spettatore unicamente «stereosco­
pico», il Novecento con Artaud, con Brecht, con il Living Theatre, farà
del teatro il luogo privilegiato della visione di un mondo – secondo la fa­
mosa formula brechtiana – trasformabile: il teatro serve a mostrare i con­
flitti di classe nell’utopia rivoluzionaria marxista (il gestus sociale dello
spettacolo brechtiano), il male del mondo che scatena l’energia vivifica­
trice (il teatro-peste di Artaud) e l’inferno istituzionalizzato che genera
il desiderio del Paradiso in terra (The Brig e Paradise now del Living
Theatre). Oskar Schlemmer, artista del Bauhaus, affermava significati­
vamente che l’utopia di un nuovo teatro «comincia con l’intima trasfor­
mazione dello spettatore, in quanto alfa e omega pregiudiziale di qual­
siasi azione artistica, la quale è condannata essa stessa a restare utopia,
finché non incontra rispondenza spirituale fuori di sé».5 In Basta con i
capolavori (1938), violento atto di accusa contro una scrittura «chiusa e
individuale» e una poesia del passato ormai morta e che ha ridotto gli
spettatori a voyeurs, Antonin Artaud esponeva il principio di un nuovo

3
F. Cruciani, Teatro nel Novecento. Registi pedagoghi e comunità teatrali nel XX secolo,
Sansoni, Firenze 1985, p. 20.
4
P. Szondi, Teoria del dramma moderno (1880-1959), Einaudi, Torino 1962, p. 11.
5
O. Schlemmer, Uomo e figura artistica, in O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F. Mol­
nar, Il Teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino 1965, p. 17.
ANNA MARIA MONTEVERDI 76
modo di sentire che non lasciasse intatto il pubblico ma che avesse una
risonanza nel suo organismo. Un teatro dell’«efficacia» e del «pericolo»:
Antonin Artaud reclamava un teatro d’azione (contrapposta alla finzio­
ne: l’arte «anti-menzogna»), di attacco alla sensibilità dello spettatore
che eliminasse ogni barriera (fisica, emotiva, psicologica) e oltrepassas­
se la sua soglia di sopportabilità; crudele per «manifestare e imprimere
indelebilmente in noi l’idea di un perpetuo conflitto e di uno spasimo
in cui la vita viene troncata a ogni minuto, in cui ogni elemento della
creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione di esseri defi­
niti». Un teatro della crudeltà che non è affatto un teatro di «sangue»
ma un teatro del «rigore» e della «gravità» per una visione lacerante e
catartica (ovvero, con funzione «terapeutico-spirituale») del male:
«Quali che siano i conflitti che angosciano la mente di una determinata
epoca, sfido lo spettatore cui scene violente abbiano trasmesso il loro
sangue, che abbia sentito in sé il passaggio di un’azione superiore, che
abbia visto nel bagliore di vicende straordinarie, i movimenti straordi­
nari ed essenziali del proprio pensiero – la violenza e il sangue posti al
servizio della violenza del pensiero –, lo sfido ad abbandonarsi dopo, a
idee di guerra, di sommossa, e di sfrenati assassini».6

2. Teatro o tecnologia?

Anche il teatro assorbe le tecnologie, sia pure con notevoli resistenze,


indice di come qualunque innovazione abbia difficoltà a radicarsi sta­
bilmente. Il teatro nasce con la tecnica e in ogni epoca si è valso delle
macchine e delle macchinerie del tempo: dai periaktoi agli ekkuklema greci,
ai congegni che permettevano trasformazioni rapide, voli, apparizioni di
cieli e soli, e alle quinte girevoli progettati da Brunelleschi, Vasari, San­
gallo, Buontalenti per i quattrocenteschi intermezzi7 fino alla scenotecni­
ca barocca, al teatro dei philosophes e ai sistemi meccanici per cambia­
re scene di fine Ottocento (la scena girevole di Karl Lautenschläger,
1896). L’introduzione a teatro dell’illuminazione, prima a gas e poi elet­
trica (la lampada a incandescenza di Edison del 1879 fu adottata per la
prima volta dalla Scala di Milano nel 1883) permetterà grazie alle possi­
bilità di giochi di luci, chiaroscuri e colori, l’evolversi di un inedita idea
di scena, espressiva e suggestiva.
Non è nuova la polemica all’interno della critica teatrale contempo­

6
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 198-199.
7
C. Molinari, La scena vuota, in E.G. Zorzi, M. Sperenzi (a cura di), Teatro e spetta­
colo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Leo S. Olschki, Firenze 2001.
77 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

ranea sull’utilizzo delle tecnologie: se accettarle come parte dell’univer­


so teatrale o relegarle a un ambito minoritario o subordinato.8 L’oppo­
sizione è tra i ferventi sostenitori di una supremazia del fatto tecnologi­
co (giustificata con il principio dell’inevitabilità deterministica del progresso)
di stampo positivista e modernista, o della priorità della forza di attualità
e delle tecniche di «produzione della presenza cruda» del fare artistico
rispetto alle «forme cotte» di rappresentazione dei media – preconfe­
zionate e solo da «riscaldare».9 Ancora forte è evidentemente, il vagheg­
giamento di un «teatro ascetico», «puro» – paradossalmente riferito a
un’arte impura per eccellenza – e ancora legato alla priorità del corpo e
alla qualità «artigianale» e povera dell’arte teatrale (seguendo il pensie­
ro di Antonin Artaud e Jerzy Grotowski). Si privilegia un’idea di teatro
come evento che si offre nella sua immediatezza e come momento rela­
zionale e che, sottoposto a un trattamento mediatico, perderebbe la sua
integrità, separando così di fatto tecnologia e teatro come poli opposti
(e fondamentalmente tra loro concorrenziali e non integrabili) della ri­
cerca espressiva.
Ci troviamo così di fronte a una questione che periodicamente risor­
ge nel dibattito estetico contemporaneo: il rapporto tra l’uomo e la mac­
china, tra «caldo» e «freddo» (secondo la ben nota distizione macluha­
niana). Per certi aspetti la discussione ripropone in altre vesti l’antichis­
sima questione del rapporto tra arte e tecnica, la distinzione tra artes li­
berales e artes mechanicae, la controversia sulla dignità delle arti su cui in­
tervengono dall’inizio della modernità Leonardo, Lessing, Diderot,
Baudelaire; in effetti molte argomentazioni che rivelano resistenza e dif­
fidenza all’utilizzo delle tecnologie nell’arte (il «tecnoscetticismo», co­
me lo definisce Maldonado, la «tecnofobia» come la chiama Couchot)
appaiono a tutti gli effetti pre-umanistiche. Le motivazioni, da una par­
te e dall’altra, non sono prive di luoghi comuni: l’accusa di indegnità,
disumanità e spersonalizzazione della tecnologia e della subalternità de­
gli strumenti di una contemporaneità «fredda» rispetto alla nobile, an­
tica (e calda) arte del teatro, si scontra con l’affermazione di una pre­
sunta funzione «taumaturgica» delle tecnologie in grado di risolvere le
questioni di fondo della società, compresa quella di riempire il vuoto di
idee dell’arte.
Maurizio Grande contestava aspramente a teatro le forme d’arte affi­
liate all’«immediato contemporaneo», le «poetiche della dissoluzione

8
Cfr. «Théâtre/public», gen. feb. 1996, numero monografico su Théâtre et techno­
logie, a cura di F. Maurin.
9
M. Grande, La riscossa di Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Ita­
lia (1976-1984), Bulzoni, Roma 1985, pp. 154-155.
ANNA MARIA MONTEVERDI 78
del reale e dei linguaggi “a tenuta debole” della nuova “barbarie infor­
matica”, della nuova Babele elettronica» e privilegiava lo spettacolo dal
vivo davanti al quale «ci si trova a fare i conti con la presenza fisica di
“operatori simbolici” che riscaldano (o surriscaldano) l’attualità di si­
tuazioni, argomenti, questioni, tematiche, interrogativi, vicende, nelle
forme visibili e “immediate della messa in scena” in presenza, dinanzi al
pubblico. A paragone del “panico tecnologico” costituito dalla rappre­
sentazione sfilacciata corrente della rappresentazione […] il teatro con­
serva la pressione dell’artisticità concreta, a vista; la proposizione “calda”
di un prodotto preparato a freddo». (M. Grande, 1985)

3. Il dibattito teorico

Arold Aronson attribuisce proprio alla tecnologia il declino di quel


teatro di ricerca iniziato con il Living Theatre alla fine degli anni Qua­
ranta. In American Avant-garde Theatre: a History (2001), il critico guarda
all’avanguardia teatrale degli anni Sessanta e Settanta come a un’età au­
rea perduta per sempre: alla sperimentazione di Performance Art
Group, La Mama Theatre Club, Open Theatre si sarebbero sostituite
problematiche legate unicamente all’esperienza visiva e alla cultura
mass mediatica. Dietro la foga tecnologica si nasconderebbe una rinun­
cia, un abbandono degli ideali politici e di contestazione allo status quo,
per promuovere un’idea di teatro legata al progresso, alla civiltà e che
non intaccherebbe né svilupperebbe alcun genere di trasgressione se
non formale, diventando puro entertainment. Dunque, una concessione
alla moda che non produrrebbe né pensiero, né un nuovo mondo, «a
theatre of style sans substance». Philip Auslander in un suo intervento
dal titolo Ontology vs History: making Distinctions between the Live and Me­
diatized10 critica come inadeguati i distinguo tra scena e tecnologia basa­
ti sull’opposizione tra riproducibilità dei media e immediatezza del fat­
to teatrale, tra «intimità» ed effimerità del teatro contrapposta alla ripe­
titività infinita mass mediatica. Sostiene invece la sostanziale «ugua­
glianza ontologica» di media e teatro dal punto di vista delle fasi di crea­
zione e di produzione: alla transitorietà del teatro corrisponderebbe l’e­
vanescenza dell’immagine video. L’opposizione tra tecnologico e live sa­
rebbe soltanto di natura ideologica: la ripetizione non appartiene sol­
tanto al mondo della tecnica ma è alla base della formazione teatrale

10
www.webcast.gatech.edu/papers/arch/Auslander.html. Auslander ripropone la
tematica già espressa all’interno della rivista «The Drama Review» (Going with the
Flow. Performance Art and Mass Culture, «Tdr», v. 33, n. 2, 1989).
79 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

poiché la formulazione delle sequenze sceniche è il risultato di un alle­


namento attoriale, di prove, di un lungo lavoro di ré-pétition. Una delle
ragioni con cui Philip Auslander spiega la presenza di schermi nelle live
performance (a partire da uno strumentale riferimento al libro di Walter
Benjamin) è una sorta di discutibile ritorno al passato, una ricerca di in­
timità quale solo la televisione può suscitare: «Quello che ricerca questo
nuovo pubblico di massa, secondo Benjamin, era la relazione con gli og­
getti culturali definita dalla prossimità e dall’intimità. Egli interpretava la
volontà di riproduzione degli oggetti culturali come sintomatici di que­
sti bisogni [...] Vorrei osservare che le nostre attuali nozioni di prossi­
mità e intimità derivano dalla televisione. L’incursione del mediatizzato
negli eventi live può essere interpretato come un mezzo per fare in mo­
do che quegli eventi rispondano al desiderio di un’intimità televisiva,
soddisfacendo interamente i desideri e le aspettative in forma di rap­
presentazioni mediatizzate».11
Andrew Lavender ricorda che l’uso della tecnologia, come è accadu­
to per la scena futurista e costruttivista la cui poetica fu influenzata dal­
le macchine e dall’invenzione del motore a combustione interna, per­
metterebbe al teatro di attualizzare il proprio linguaggio e di rivolgersi a
un pubblico consapevole dell’evoluzione tecnologica: «Le mixed-media
performance offrono un itinerario più veloce alla percezione e alla rap­
presentazione dei linguaggi della cultura contemporanea di molte altre
strategie teatrali. Ci troviamo di fronte a uno sviluppo teatrale genuina­
mente avanguardistico, destinato a influenzare il teatro negli anni a ve­
nire. Il fascino del multimediale in riferimento al teatro, sta nell’unione
di live e mediatizzato. La retorica della tv, dei video, dei film e dei video­
game diventa una risorsa che può rafforzare le messinscene con un’e­
sperienza moderna, rimanendo sempre soggette alla tridimensionalità e
al senso di presenza del teatro».12
Georges Banu in un intervento apparso nella rivista canadese di tea­
tro «Jeu» dal titolo significativo: Théâtre et technologie ou Celui qui dit
oui/celui qui dit non,13 cerca di sintetizzare le due posizioni, rispettiva­
mente favorevoli o contrarie alla tecnologia, parteggiando, molto tie­
pidamente per l’«Oui». Il critico ricorda come le nuove tecnologie,
non quelle primarie ormai generalizzate e diffuse quali la luce elettri­
ca e le tecniche di registrazione del suono, non siano equamente e so­
11
P. Auslander, Liveness: Performance in a Mediatized Culture, Routledge, New York
1999, p. 159.
12
A. Lavender, Turns and Transformations, in V. Gottlieb e C. Chambers (a cura di),
Theatre in a Cool Climate, Amber Lane Press, London 1999, p. 183.
13
G. Banu, Théâtre et technologie ou Celui qui dit oui/celui qui dit non, «Cahier du théâ­
tre Jeu», n. 90 (1999).
ANNA MARIA MONTEVERDI 80
prattutto democraticamente distribuite in tutto il globo; esistono cioè
scarti notevoli di diffusione delle tecnologie tra i vari paesi, a causa del
diverso grado di resistenza da parte dell’ambiente che si trova ad ac­
coglierli. L’evoluzione della tecnica artistica è quindi determinata dal­
lo sviluppo sociale ed economico, dalla situazione storica particolare
che impone il modo della scelta e l’applicazione di una tecnica con­
creta, come ricordava Lukács in Arte e società. Chi utilizza tecnologie in
scena (ma questo discorso è estendibile a ogni altro campo) deve te­
nere conto del loro differente grado di penetrazione, del diverso hori­
zon d’attente, delle modalità con cui le tecnologie hanno modificato
nei diversi luoghi, abitudini consolidate, costumi, pensieri ed econo­
mie locali, di quanto una determinata società sia impermeabile o me-
no alla tecnologia, insomma di quello che oggi si chiama il digital di-
vide. Il fattore dell’età è inoltre determinante nello stabilire la possibi­
lità di tale penetrazione, poiché le nuove generazioni accettano con
maggiore facilità la commistione dell’arte con l’innovazione tecnolo­
gica. Banu sostiene che la resistenza al tecnologico sia comunque, col
tempo, destinata a fallire; la scena finisce per incorporarlo sempre per­
ché viviamo in una cultura tecnologicamente organizzata e generaliz­
zata da cui il teatro non è immune. L’esempio decisivo di tale assorbi­
mento delle tecniche da parte del teatro è quello della luce elettrica,
che permise, una volta inventata e applicata a teatro, molteplici possi­
bilità, nuove atmosfere evocative che hanno notevolmente modificato
l’estetica teatrale. Banu, rinunciando a definirsi partigiano ottimista
delle tecnologie sostiene che spesso la loro presenza non è sostenuta
da una reale necessità drammaturgica, ma è unicamente piegata a
creare un effetto di sorpresa e di stupore; l’eccesso di elementi visivi e
luminosi inoltre, produrrebbe, secondo lo studioso ungherese, un vio­
lento spostamento percettivo verso le immagini, facendo trascurare gli
altri elementi della scena. La direzione auspicata è quella di una «te­
chnologie intégrée», in cui il teatro non sia sottomesso alla tecnologia,
ma accompagnato in modo invisibile e silenzioso, in ultima analisi, di­
screto, come nel teatro di Robert Lepage in cui l’uomo non ha spez­
zato le sue determinazioni naturali per diventare corpo post-organico
e il teatro non ha infranto la poesia dell’artigianalità e la filosofia
dell’«handmade».

4. Macchina o maschera?

Crediamo, con Lukács che l’arte non possa che essere un fenomeno
sociale ed economico, e l’utilizzo di ogni suo mezzo sia ideologicamen­
81 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

te e indiscutibilmente a servizio di una critica del reale; da questo pun­


to di vista la contraddizione più evidente è che la scissione tra tecnica in
senso scientifico e pratico-industriale e tecnica in senso artistico rispec­
chierebbe la divisione sociale del lavoro, la separazione tra lavoro intel­
lettuale e lavoro operaio, manuale. Una divisione gerarchica decisa­
mente funzionale al capitalismo, vecchio e nuovo. In epoca di post­
fordismo però non solo il lavoro dell’artigiano e della manifattura è sta­
to sostituito a favore dell’industria ma è stato modificato lo stesso pro­
cesso produttivo: le merci sono sempre meno legate alla dimensione
materiale, ai vincoli territoriali e sempre più alla comunicazione, al sa­
pere tecnico e all’informazione. Pietro Barcellona così individua sinteti­
camente il nuovo rapporto tra tecnica e capitale: «La grande novità del-
l’epoca attuale è che il capitale ha bisogno di esercitare immediatamen­
te il suo comando non sulla forza lavoro, bensì sul sapere tecnologico
giacché è dal nuovo intreccio tra capitale e sapere che deriva in defini­
tiva la caduta, almeno apparente, di ogni vincolo esterno alle capacità
produttive e riproduttive del modo di produzione capitalistico».14 L’ar­
retratezza tecnologica – e la delega agli «esperti» – è senz’altro funzio­
nale a quel sistema che ha esautorato dalla scena l’uomo come «entità
politica» (come diceva Piscator) e per il quale è primaria la sua non par­
tecipazione alla gestione del processo di produzione. L’accusa rivolta pa­
radossalmente alle macchine e la mitologia del ritorno alle origini ap­
paiono assolutamente anacronistiche – e forse persino reazionarie – in
un’epoca di massime concentrazioni comunicazionali e informatiche e
in un momento in cui la tecnologia è sempre più il cuore del sistema, so­
ciale ed economico, oltre che il cuore della creazione dell’immaginario
collettivo.
È nel mondo della rete, dei flussi informatici, delle trasmissioni attra­
verso etere e bande larghe, il luogo dove si sono trasferiti i nuovi poteri
economici, e sarà dunque quello il futuro teatro della protesta della
nuova disobbedienza civile, il luogo di un nuovo rekombinant, digital, e
tactical theatre. Si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical
Art Ensemble, punto di riferimento dell’attivismo politico digitale mon­
diale e che non a caso si rifà al Living Theatre e al movimento situazio­
nista. Il vero interrogativo, quindi, al di là dei generi, della qualità, del
materiale usato è: può il teatro – anche quello che usa tecnologie – met­
tere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? È
proprio Brecht nei testi legati alla Teoria della radio (1927-36) ad aver in­
tuito che il problema stava nell’appropriazione del mezzo, nel totale
controllo da parte dell’artista – e della voce collettiva che si nasconde
14
P. Barcellona, Il capitale come puro spirito, Editori Riuniti, Roma 1985.
ANNA MARIA MONTEVERDI 82
dietro di lui – del mezzo tecnico, nella nuova concezione dell’arte che
supera la separazione tra produttore e consumatore. La tematica è stata
ripresa ideologicamente negli ultimi anni da numerosi collettivi di
hacker art e da progetti artistici (e politici) della cosiddetta digital resi­
stance.
Entrando nel merito delle argomentazioni esposte, si potrebbe quin­
di obiettare che il problema non è tanto l’opposizione tra la presenza di
una macchina come attributo artigianale dipendente dall’uomo e da lui
mossa (la mechané greca) oppure completamente autonoma da esso e
che elimina la presenza umana (un sistema computerizzato), né la di­
stinzione tra macchina ingombrante, imponente oppure discreta, arcai­
ca o moderna e dagli attributi innovativi; si tratta al contrario di defini­
re ciò che la sua presenza mette in campo in termini di relazioni (spa­
ziali, attoriali, drammaturgiche, sociali). Se, cioè, la macchina tende al
valore antropologico e concettuale, di maschera che è attributo non ag­
giuntivo e artificiale dell’attore ma sostanziale, senza il quale non po­
trebbe agire. Da sempre il corpo e il volto sono sottoposti a teatro a un
occultamento attraverso la maschera, icona indossabile, ma questa non
duplica l’essere: ne fa uscire lo stato metamorfico interiore. La masche­
ra, oggetto sapienziale per i greci, non è solo custodia di carne ma in­
carnazione di un divenire perenne, «luogo di passaggio estremo verso
altre, polimorfe identità da cui affiorano visioni sconosciute» come ri-
corda Fernando Mastropasqua;15 se l’uomo così-come-è in scena può solo
rappresentare la vita, la sua limitatezza, il suo essere nel tempo, il mo­
strarsi del suo volto sarà allora intollerabile (come ricordava Zeami).
Maschera quale corpo espanso, luogo di «trasformazione» dell’esistente:
«Oggi la maschera è il nemico più feroce della cosiddetta globalizzazione.
Aspirando il mondo a diventare così smisuratamente potente e unifor­
me, più sofisticate devono essere le tecniche di fuga e di metamorfosi af­
finché il teatro sia la forma più alta di resistenza».16 Si tratta di definire,
perciò, quella forma mutevole e metamorfica (maschera o macchina, in­
dipendentemente dalla materia di cui è fatta) che permetta di fuggire
dal mondo della rappresentazione, dell’ordine, della convenzione, dal
carcere sociale, uscire fuori dal tempo: è il percorso verso l’astratto di
Kandinskij, verso la stilizzazione scenica e attoriale di Mejerchol’d o ver­
so la depurazione dell’umano nella Supermarionetta di Craig e nella

15
Mi riferisco in particolare ai saggi di Fernando Mastropasqua relativi alla ma­
schera greca antica, ora riuniti in Metamorfosi del teatro, Esi, Napoli 2000. E inoltre F.
Mastropasqua, Teatro, provincia dell’uomo, ed. Arti grafiche Frediani, Livorno 2004.
16
F. Mastropasqua, introduzione ad A.M. Monteverdi, La maschera volubile, Titivil­
lus, Corazzano 2000.
83 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

macchina attoriale di Carmelo Bene; è la perfezione inaudita del mon-


do delle macchine di Robert Wilson. Così Craig in The Theatre Advancing
(1919) risponde circa le qualità della Marionetta: «Innaturale la Super­
marionetta? Ma se tutti i suoi gesti parlano perfettamente il linguaggio
della Natura! Se una macchina tentasse di muoversi imitando un essere
umano questo sì sarebbe innaturale! Ascoltatemi: la Marionetta è più
che naturale; possiede uno stile, vale a dire la coerenza espressiva; il tea­
tro delle marionette quindi, è il vero teatro!» La Supermarionetta, ca­
pace di espressione, è l’equivalente degli screen: alla volubilità della sce­
na-volto corrisponde una forma che incarna il valore stesso della muta­
bility, del movimento. Perché l’essenza del teatro è la trasformazione (B.
Brecht). The plot is the revolution (J. Malina).

5. La posizione degli artisti

Lavorano al superamento della dicotomia tra tecnologia e teatro arti­


sti come Erwin Piscator, Josef Svoboda e Robert Lepage, la cui opera è
caratterizzata da un libero impiego in scena di tecnologie che non raf­
freddano, non alienano, né fanno rinunciare alla «artigianalità» del tea­
tro, né alla sua dimensione politica.
Erwin Piscator fu promotore nella Germania degli anni Venti di un
nuovo teatro politico «educativo», «didattico», che prevedeva l’introdu­
zione di strutture mobili e mezzi tecnici come forma tipica di un nuovo
teatro ispirato al materialismo storico che siglava il mutamento sociale in
atto con l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte del proleta­
riato. Si chiedeva emblematicamente: «Perché nello sviluppo della tec­
nica teatrale non si devono introdurre lo stesso coraggio e lo stesso slan­
cio che sono stati necessari al rinnovamento tecnico del cinema nel bal­
zo dal cinema muto a quello sonoro, nella scoperta della radiodiffusione
e della televisione posta al servizio dell’arte oppure al lancio nello spazio
di un razzo con equipaggio umano? Ci vuole del coraggio anche per do­
minare nuovamente il teatro. Perché proprio qui a teatro quel timore re­
verenziale nei confronti delle innovazioni? Il tecnicismo pacifico nel tea­
tro non minaccia l’arte meno di quanto l’atomo impiegato nella cura del
cancro non minaccia l’umanità… L’arte, come la tecnica è completa­
mente al servizio dell’uomo, della sua volontà, della sua capacità, del
suo progresso. Una grazie all’altra, nessuna senza l’altra».
Lo scultore di luce Josef Svoboda nella sua lunga carriera ha sperimen­
tato tecniche e materiali più diversi per le sue scene: si riteneva libero di
usare ogni materiale come mezzo espressivo, purché le sue qualità ri­
spondessero ai bisogni della drammaturgia e della messinscena, spa­
ANNA MARIA MONTEVERDI 84
ziando da quelli offerti dalla tecnologia più avanzata a quelli legati al-
l’allestimento tradizionale, dal legno al metallo; dai dispositivi meccani­
ci e luministici più sofisticati ai proiettori cinematografici. Affermava la
necessità di una profonda conoscenza e padronanza della tecnica per­
ché essa è strettamente collegata con il lavoro creativo, e il «diritto» del
teatro alla funzionalità delle nuove tecniche: «Il teatro moderno ha di­
ritto alle nuove tecniche come le case moderne hanno diritto agli ascen­
sori, alle lavatrici e agli asciugatoi meccanici. Se studiassimo nei loro
particolari gli impianti teatrali già esistenti e li paragonassimo alle esi­
genze di un regista moderno o anche alle nostre idee personali, arrive­
remmo a questa conclusione: abbiamo bisogno di maggiori tecniche, di
impiegare meglio le loro possibilità, di comprenderle meglio, di esserne
perfettamente padroni».17 Secondo Svoboda gli oppositori confondono
tecnica con meccanismo: «La tecnica è nella sua sostanza attiva, capace di
azione drammatica».18
Il canadese Robert Lepage, che fa ampio uso di tecnologia elettroni­
ca, in diverse occasioni ha sottolineato come l’evoluzione tecnologica
abbia cambiato anche il modo di raccontare storie a teatro. Per lui le
tecnologie «modificano e inventano nuove forme»,19 impongono filtri,
regole, schemi e vincoli esattamente come la metrica e la rima in poesia.
Per Lepage la rivoluzione tecnologica ha «liberato» il teatro: «Sono ac­
cusato di imprigionare me stesso con la tecnologia, ma la tecnologia è
uno strumento che mi permette di esplorare le cose. Oggi abbiamo a che
fare con un pubblico che ha un vocabolario narrativo molto sofisticato.
Non sto dicendo che stiamo diventando più “cinematici” o più televisivi
ma che abbiamo trovato un modo per invitare quel pubblico a teatro. Si
pensava che il film avrebbe ucciso il teatro, ma lo ha liberato. Ogni volta
che c’è una rivoluzione tecnologica, questa dà all’artista una ragione di
speranza».20

6. Verso una sintesi scenica delle arti

La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato


Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet e Sally-Jane Norman21 – perfezio­

17
J. Svoboda, cit. in D. Bablet, La scena e l’immagine, Einaudi, Torino 1985, p. 23.
18
J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1997.
19
Intervista a Robert Lepage per Radio Canada: http://radio-canada.ca/bran­
che/v4/89/lepage.
20
R. Ouzounian, Lepage’s Struggle to Stay Free, “The Globe and Mail”, 12 agosto
1997.
21
S.J. Norman, Du «Gesamtkunstwerk» wagnérien aux arts des temps modernes: spectacles
85 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

nerebbe l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Ge­


samtkunstwerk di Wagner ha suscitato posizioni e interpretazioni diver­
genti e opposte nei registi rifondatori del teatro moderno ma fonda­
mentalmente secondo Denis Bablet e Umberto Artioli, tradiva e prefi­
gurava una comune aspirazione a un ideale di accordo e unità delle
parti dello spettacolo sviluppatosi nella «totalità espressiva» di Edward
Gordon Craig, nella «sintesi scenica astratta» di Wasilj Kandinskij, nel
teatro sintetico futurista, nel «teatro della totalità» del Bauhaus di Lá­
szló Moholy-Nagy e di Oskar Schlemmer. L’unione cui Wagner aspira-
va è quella idealistica del popolo: nel vagheggiamento romantico del
ritorno all’epoca perduta degli antichi greci – come lo era per il sogno
apollineo-dionisiaco di Nietzsche della Nascita della tragedia (1871) – al
mito e ai suoi simboli, la tragedia attica antica non poteva essere che il
modello ideale del dramma, anche se fu contraddetto però nella prati­
ca, da scenografie realiste. Nella sua radicale visione di una scena ar­
chitettonica «viva come l’attore», Edward Gordon Craig vide in Wa­
gner tradite le utopie di un nuovo teatro e liquidò in Scene (1923) l’ap­
porto del compositore tedesco come quello di un «tiepido riformatore
che fece piccole modifiche». L’unione o sintesi delle arti viene propo­
sta all’inizio del Novecento come una progressiva aspirazione della sce­
na verso una condizione «musicale» (seguendo il famoso motto di Wal­
ter Pater e l’ideale schopenhaueriano): lo spettacolo diventa struttura
sinfonica, il teatro orchestra e il regista ne è direttore o compositore
della musica. La musica, principio regolatore in Appia, è per i simboli­
sti modello armonico per eccellenza: «L’unità armonica della rappre­
sentazione si costituisce a partire dai valori ritmici e melodici del suono
e del movimento [...] La musica non si sovrappone nella rappresenta­
zione, agli altri sistemi di segni, ma anche quando non è presente offre
il modello di un sistema armonico di organizzazione». Gordon Craig è
stato tra le personalità che hanno maggiormente influenzato la rifor­
ma della scena moderna. Craig ha dato esempio del nuovo teatro nel­
le sue «visioni sceniche»: lo aveva immaginato, inciso, disegnato, pittu­
rato, descritto e infine teorizzato più che realizzato concretamente.
Aveva rivendicato il ruolo del metteur-en-scène come unico autore dello
spettacolo («Il teatro non ha nulla a che fare con la letteratura»), men­
tre con la progettazione degli screen (pannelli semoventi che sostituiva­
no la scenografia tradizionale) aveva affermato il valore evocativo ed
espressivo della sua «scena sintetica» dal volto mobile: la scena definita
dagli screen non ha un corpo definito, si va a costituire metamorfica­

multimédias, installations minimalistes; B. Picon-Vallin, Meyerchold, Wagner et la synthèse


des arts; in D. Bablet (a cura di), L’oeuvre d’art totale, Cnrs, Paris 1995.
ANNA MARIA MONTEVERDI 86
mente attraverso pochi moduli scenici che possono creare da soli un
«luogo» teatrale. Se la scena è fatta unicamente di forme geometriche
e luce in movimento continuo, il regista diventava un «pittore di luce»:
«Posso colorare i miei schermi (screen) o la figura dell’attore con lo
stesso grado di luminosità e con la stessa intensità e qualità di luce che
un pittore adopera per i suoi quadri. Io uso soltanto la luce» (G. Craig,
1923). Bisogna ricordare che, sulla base degli insegnamenti di Hubert
von Herkomer, già a partire dalle prime regie musicali inglesi per l’Au­
ditorium di Hampstead di Londra (1900-02) Craig utilizzò i dispositivi
luminosi elettrici da poco introdotti a teatro, in maniera insolita per
l’epoca cioè dall’alto, abolendo completamente le luci di ribalta per ot­
tenere un drammatico effetto evocativo, volutamente indistinto. Il suo
primo contributo teorico di rilievo è On the Art of Theatre (1911). Scrit­
ta in forma di dialogo tra un regista e uno spettatore teatrale, l’opera
introduce molte delle teorie che si troveranno negli scritti successivi: il
teatro non è letteratura né recitazione, ma arte scenica, «autosuffi­
ciente come ogni arte creativa» ovvero per dirla con le stesse parole di
Craig: «Il teatro non si identifica né con la recitazione, né con il testo,
né con la scenografia né con la danza ma consiste in una sintesi armo­
nica dei fondamentali elementi che lo compongono: di azione, che è
lo spirito della recitazione, di parole, che formano il corpo del testo, di
linee e colori che sono il cuore della scenografia, di ritmo che è l’es­
senza della danza». Lontano dall’essere unicamente una accumulazio­
ne di diverse modalità espressive e a differenza del Ton-Wor-Drama wa­
gneriano, l’armonia di fondo deriva dalla comune filiazione delle arti
che ne compongono il linguaggio, da un principio formale unificatore:
il Movimento. «Il movimento sta all’arte del teatro come il disegno al­
la pittura e la melodia alla musica» (G. Craig, 1911). Il movimento de­
ve tornare a essere generatore del teatro (il movimento della forma uma­
na, l’eterno mutamento della scena-volto) e la luce e la scena si do­
vranno «muovere di concerto come in un duetto, ed eseguire figura­
zioni come in una danza». La luce «attiva» la scena, e il loro rapporto
viene paragonato dal regista inglese, a quello «dell’archetto col violi­
no» (G. Craig, 1923) perché «la luce si muove sopra la scena; non sta
mai ferma in un punto fisso... muovendosi produce una musica visiva»
(G. Craig, 1911). In una serie di tavole usate per illustrare il volume
Towards a New Theatre (1913), Craig evidentemente influenzato dalla
contemporanea corrente simbolista, rinunciando alla scenografia di-
pinta, affidava unicamente alla luce che si distribuiva nello spazio, ge­
nerandolo e al movimento il compito di tradurre il senso profondo
del dramma (il «movimento interiore»): una luce dirompente, mai fer­
ma, proveniente dall’alto creava ombre potenti e spigoli taglienti sopra
87 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

massicci monoliti, minacciose presenze della sua visionaria scena ar­


chitettonica. Il Movimento è espressione del divino, è Rivelazione: «Ma
che dire di quella infinita e stupenda cosa che dimora nello spazio: il
Movimento? Dal suono è derivata quella meraviglia delle meraviglie
che ha nome Musica... E come una sfera è simile a un’altra, così il Mo­
vimento è simile alla Musica. Mi piace ricordare che ogni cosa scaturi­
sce dal Movimento, anche la Musica; mi piace pensare che sarà nostro
supremo onore essere ministri della forza suprema – il Movimento».
(G. Craig, 1911) Ma la vera unità scenica è una sintesi realizzata dal re­
gista: la riteatralizzazione del teatro consisterà nel radunare le diverse
competenze intorno alla figura del regista demiurgo che crea il corret­
to equilibrio tra testo drammaturgico e rappresentazione che altro non
significa che «rigore compositivo» sottratto all’emotività o all’improv­
visazione dell’attore (la Supermarionetta) e agli eccessi descrittivi del-
l’autore, e che traduce in una scrittura scenica depurata da ogni diva­
gazione naturalistica, l’interiorità del dramma. Regista, insomma, è co­
lui che «raggiunge pieno dominio dell’azione, delle parole, del colore,
del ritmo» (G. Craig, 1911).
Il regista russo Vsevolod Mejerchol’d partiva proprio dalla costruzio­
ne musicale dello spettacolo, dal suo ritmo interno e relativi intervalli,
dall’analogia tra forma musicale e materiale drammaturgico, tra frasi
sceniche e battute musicali e da una creazione all’insegna di un’identità
ritmica scenico-attoriale dello spettacolo: «Il mio sogno è uno spettaco­
lo provato sulla base di una musica e recitato senza, così che lo spetta­
colo e i suoi ritmi siano organizzati secondo le sue leggi, e ogni inter­
prete le porti in sé».22 L’attore biomeccanico di Mejerchol’d è il vero nu­
cleo della scena, in un raddoppiamento plastico-cinetico: l’utopia della
Gesamkunstwerk diventa una «sintesi organica» tra attore e spazio e la
funzione attribuita da Wagner all’orchestra è affidata proprio ai movi­
menti plastici dell’attore come nuovo mezzo di espressione: «Wagner dà
risalto al dialogo interiore mediante l’orchestra. La frase musicale can­
tata dall’interprete non sembra abbastanza intensa per esprimere l’e­
mozione interiore dell’eroe. Wagner chiama in aiuto l’orchestra, ritiene
che solo l’orchestra sia in grado di esprimere l’inespresso, di svelare il
mistero dinanzi allo spettatore. Come la frase cantata dall’interprete nel
“dramma musicale”, così nel “dramma” la parola non è uno strumento
abbastanza efficace per mettere in luce il dialogo interiore. Ed è vero
che, se la parola fosse l’unico strumento atto a esprimere l’essenza della
tragedia, tutti potrebbero recitare sulla scena. Pronunciare le parole,

22
V. Mejerchol’d, in B. Picon-Vallin, Il lavoro dell’attore in Mejerchol’d. Studi e mate­
riali, «Teatro e storia», n. 18, 1996, p. 127.
ANNA MARIA MONTEVERDI 88
sia pur bene, non significa dire qualcosa. Di qui la necessità di mezzi
nuovi per esprimere l’inespresso e svelare quanto è celato. Come Wa­
gner fa esprimere all’orchestra le emozioni dell’anima, così io faccio
parlare i movimenti plastici».23
I futuristi dopo aver riabilitato il teatro di varietà proponendolo co­
me nuovo modello di spettacolo, dinamico e trasformista, ricco di que­
gli elementi del «meraviglioso futurista prodotto dal meccanismo mo­
derno», definiscono le caratteristiche del nuovo teatro sintetico: «atec­
nico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale»; «sintetico cioè
brevissimo. Stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti
innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli».
Così recita il Manifesto del teatro sintetico del 1915 firmato da Marinetti,
Settimelli, Corra che annunciava la morte della farsa, della commedia,
del vaudeville, del dramma e della tragedia e la nascita di nuove forme
teatrali («la battuta riecheggiata, l’ilarità dialogata, il poemetto anima­
to, la sensazione sceneggiata»). All’interno del giornale «L’Italia futu­
rista» (11 settembre e 15 novembre 1916) uscirà il Manifesto della cine­
matografia futurista. Il legame con il teatro sintetico, nel comune obiet­
tivo di «sinfonizzare la sensibilità del pubblico esplorandone, risve­
gliandone con ogni mezzo le propaggini più pigre» è evidente dalle
stesse parole dei compilatori del documento: contro il cinema che in­
fligge «drammi, drammoni e drammetti passatistissimi» una cinemato­
grafia poliespressiva, impressionista, antigraziosa ovvero «pittura+scultu­
ra+dinamismo plastico+parole in libertà+intonarumori+architettu­
ra+teatro sintetico». Le serate futuriste e il loro gusto ludico – il «teatro
dello stupore, del record, della fisicofollia» – insieme al gesto provoca­
torio, come hanno sottolineato molti critici, preannunciano le caratte­
ristiche dello spettacolo moderno: un montaggio di eventi poetici,
sinfonie, lanci di oggetti e azioni verso il pubblico e l’orchestra, pro­
clami e discorsi ad alta voce e insulti che portavano allo scontro e alla
rissa, e il cui modello era la serata romana del 9 marzo 1913 racconta­
ta da Francesco Cangiullo. Marinetti nel 1933 dopo la stesura del Ma­
nifesto del teatro radiofonico (la radia), scriverà cinque sintesi radiofoni­
che – un «poema-spartito» come lo definiva Maurizio Calvesi – così in­
titolate: Un paesaggio udito, Dramma di distanze, I silenzi parlano tra di lo­
ro, Battaglia di ritmi, La costruzione di un silenzio. Marinetti arriverà ad af­
fermare che la radia non è teatro (la cui morte sarebbe stata già de­
cretata dal cinema sonoro), non è cinematografo (perché il realismo,
il sentimentalismo e il tecnicismo lo hanno già reso agonizzante), non
è libro (che è diventato qualcosa di fossilizzato e congelato). Sarà piut­

23
V. Mejerchol’d, La rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 90.
89 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

tosto una «immensificazione dello spazio», un intreccio di imprevedi­


bili situazioni sonore fatto di rumori captati a diverse distanze, lunghi
silenzi e parole in libertà, simultaneità musicali, interferenze tra sta­
zioni.
Bertolt Brecht non poteva che essere contrario al concetto stesso di
fusione delle arti e in generale di opera d’arte totale: contro un’arte
che nell’assorbimento reciproco produce una magia ipnotizzante sul
pubblico, un’epica drammatica che separa parola, musica e azione.
L’arte come godimento è merce; la funzione dell’opera deve essere in­
vece quella di una efficacia provocatoria per una modificazione della
società. Nelle Note all’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny»
(1929-30) Brecht si scaglia contro il teatro illusionista e «culinario»:
«L’irruzione dei metodi del teatro epico nell’opera ha per conseguen­
za maggiore una radicale separazione degli elementi. La grande lotta
per il primato fra parola, musica e recitazione (che sempre provoca la
questione chi sia l’occasione di che cosa: se la musica del fatto scenico
oppure il fatto scenico della musica ecc.) può essere risolta semplice­
mente grazie alla netta separazione degli elementi. Finché “opera d’in­
sieme” significa che l’insieme è una slavatura, finché cioè si tratta di
“fondere” (stemperare) le diverse arti, tutti i singoli elementi vengono
necessariamente degradati in ugual misura, giacché ognuno può co­
stituire solo l’imbeccata per l’altro. Nel processo di fusione viene in­
cluso anche lo spettatore che fondendosi, rappresenta, nell’insieme,
una parte passiva (perdente). Una simile magia è naturalmente da
combattersi. Bisogna rinunciare a tutto ciò che rappresenta un tenta­
tivo di ipnosi, che è atto a produrre indegne ubriacature, che diffonde
nebbia». Nell’ambito del Bauhaus di Weimar, László Moholy-Nagy, ar­
tista visivo dedito alla fotografia (o all’antifotografia, come sottolineava
Filiberto Menna), al cinema, alla grafica, al teatro, teorizzò nel testo
Teatro circo varietà, il Teatro della Totalità, che «dovrà essere, con i suoi
svariati fasci di rapporti di luce, spazio, superficie, forma, movimento,
suono, uomo – con tutte le possibilità di variazione e di combinazione
di tali elementi vicendevolmente – configurazione artistica: ORGANI­
SMO».24 Pubblicata nel 1925 all’interno del IV volume dei «Bauhausbü­
cher» diretto da Walter Gropius e dallo stesso Moholy-Nagy, tale teoria
insiste sulla rappresentazione SIMULTANEA, SINOTTICA, SINACUSTICA
(procedimento esemplificato nella Partitura per una eccentrica meccanica,
sintesi secondo le stesse parole di Moholy-Nagy «di aspetti dinamica­
mente contrastanti, di spazio, forma, movimento, suono e luce») che

24
L. Moholy-Nagy, Teatro, circo, varietà, in O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F.
Molnár, Il Teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino 1975.
ANNA MARIA MONTEVERDI 90
condivide con il futurismo di Marinetti e Prampolini l’impostazione
antiletteraria, che privilegia cioè, l’aspetto fonetico rispetto a quello lo­
gico, i rapporti sonori tra le parole rispetto alla trama. Dei futuristi
non accetta però, la rinuncia all’uomo per una forma puramente mec­
canica: il suo impiego corporeo e sonoro in scena, sia pur in senso an­
ti-individualistico, è invece funzionale per Moholy-Nagy a un concetto
di totalità del teatro, ovvero di organismo, di equivalenza perfetta tra
le parti. Fondante è l’azione scenica della luce pensata in senso asso­
lutamente antitradizionale (puntata verso il pubblico, fosforescente), e
la meccanica scenica immaginata (con tapis roulant, piattaforme) che
corrispondono appieno ai progetti di Gropius e Molnár. La luce è de­
cisamente protagonista dei suoi studi sulla cinetica applicata non solo
alla scena ma anche alla fotografia e al cinema. Anche Oskar Schlem­
mer, scenografo, coreografo e dal 1923 direttore del laboratorio tea­
trale del Bauhaus, nel testo Uomo e figura artistica, pur rimanendo nel
tema dell’astrazione, della meccanizzazione dell’arte e delle possibilità
offerte dalla tecnica come segni del tempo, non rinuncia alla compo­
nente umana sia pur riveduta e corretta; il teatro è una «zona limite» a
metà tra il sacro e l’intrattenimento popolare, ovvero tra la sacra rap­
presentazione e l’azione festiva da un lato e dall’altro il cabaret, il va­
rietà e il circo. Il regista universale per Schlemmer unisce come in un
triangolo scaleno i tre generi scaturiti dalla forma di: teatro parlato o
sonoro (letterario o musicale), teatro gestuale (mimico) e teatro visivo
a cui corrispondono le tre diverse specificità e competenze di poeta, at­
tore e scenografo. La differenza del genere teatrale sta solo nella va­
riabile distribuzione matematica degli elementi, non nel materiale che
è sempre costituito dalla forma, dal colore, dallo spazio, dalla paro­
la/musica, dal corpo umano. La forma è legata alla dimensione di al­
tezza, larghezza, profondità, ovvero linea, superficie, volume; anche la
luministica ha qualità volumetrica e spaziale (la geometria dei raggi lu­
minosi), il colore è una qualità della luce e l’uomo è sia organismo sia
sezione aurea. L’uomo in scena è soggetto sia alle leggi del corpo sia a
quelle dello spazio tridimensionale: nel teatro astratto di Schlemmer,
in cui è evidente l’apporto ideale – pittorico e concettuale – della me­
tafisica, l’uomo si relaziona allo spazio prismatico del palcoscenico at­
traverso le invisibili linee planimetriche e stereometriche per creare
un’armonia di forme. I suoi movimenti, seguendo l’ordine geometrico
dello spazio, sono ginnici, ritmici ma anche legati all’organismo, al
sentimento di sé, ed è un cammino verso la liberazione dalle costrizio­
ni e limitazioni dell’uomo e una sua trasformazione in figura artistica
astratta. Come nelle pitture metafisiche di De Chirico ogni porzione
del corpo (busto, braccia, gambe, testa), ogni punto di snodo delle ar­
91 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

ticolazioni (clavicola, rotula, anca), ogni movimento e direzione del


corpo nello spazio e ogni sua forma espressiva (mano aperta, braccia
conserte) corrispondono a una forma primaria: prisma, cubo, sfera, ci­
lindro. Il passaggio è verso una progressiva smaterializzazione-stilizza­
zione del corpo, verso una condizione di astrattezza simbolica, come è
esemplificato nei disegni intitolati Architettura ambulante, Bambola arti­
colata (o Marionetta), Organismo tecnico, Forma espressiva metafisica che ac­
compagnano il libro Forma e figura artistica e soprattutto nelle coreo­
grafie e nei costumi ideati per il suo capolavoro scenico, il Balletto tria­
dico (costituito da tre sezioni con dodici diversi brani coreografici e di­
ciotto costumi di forma rigida e imbottita, iniziato nel 1912 a Stoccar­
da con una prima parziale rappresentazione nel 1915 e, in seguito,
completato nel 1922). Per Schlemmer: «La scena come luogo dell’e­
vento temporaneo offre il movimento della forma e del colore; in primo
luogo nella sua configurazione primaria, come forme in moto (croma­
tiche o meno, lineari, di superficie ovvero plastiche), spazio (simil­
mente mutevole e in movimento), e quadri architettonici convertibili.
Questo gioco caleidoscopico, infinitamente variabile, ordinato in un
processo che segue certe leggi, sarebbe, in teoria, la scena-spettacolo.
L’uomo, elemento animato, verrebbe bandito dall’ambito visuale di
un tale organismo meccanico, Egli si troverebbe però a essere il “mac­
chinista perfetto” al quadro comandi della centrale, dal quale gover­
nerebbe la festa dell’occhio».25 I cecoslovacchi Jindrich Honzl e Emil
Frautišek Burian riprendono il tema della regia come orchestrazione
musicale e della sintesi teatrale (divadelnì synthesa) proponendo l’arti­
colazione di una partitura verbale come materia sonora e una nuova
concezione «polifonica» della rappresentazione, insieme basato sul
principio della relazione polidinamica. Per Honzl, influenzato dall’e­
sponente dello strutturalismo praghese Jan Mukarosky e dal Circolo
linguistico di Praga, il carattere specifico del teatro risiederebbe nella
mobilità del segno teatrale: ogni segno è potenzialmente portatore di
azione drammatica. La metafora che Honzl utilizza è quella della cor-
rente elettrica che percorre diversi conduttori (scena, attore) e a un
dato momento può passare attraverso uno di loro o molti o attraverso
tutti simultaneamente.26 Questo accadeva a Praga negli anni Venti e
Trenta in clima di strutturalismo, surrealismo, formalismo e di Poeti­
smo: Karel Teige portava a compimento, con i due manifesti del poeti­
smo (1925 e 1928), l’estetica di una «ars una», di una poesia pura, le­

25
O. Schlemmer, Uomo e figura artistica, in Il teatro del Bauhaus, cit.
26
D. Monmarte, Honzl et Burian. Structuralism et «Gesamtkunstwerk», in D. Bablet (a
cura di), L’oeuvre d’art totale, cit.
ANNA MARIA MONTEVERDI 92
gata alla corrispondenza sensoriale e alle analogie nei diversi campi
dell’arte, una poesia per i cinque sensi27 che produrrà dei poemi radiogeni­
ci in cui è dichiarata l’appartenenza all’universo poetico sinestetico
del Grand jeu e del simbolismo francese (Rimbaud, Mallarmé e Bau­
delaire) e ai manifesti futuristi di Marinetti. In questa temperie nasce il
Teatro liberato, fondato da Jiri Frejka e di cui Honzl stesso era teorico,
che enfatizzerà proprio la sintesi delle arti (poesia, pittura, musica, ar­
te drammatica) nel suo programma. Ne raccoglierà l’eredità Josef Svo­
boda, attento – data l’importanza da lui attribuita alla luce – a una
«simbiosi impressionista» del teatro e per il quale lo spettacolo è una
«questione di proporzioni», di unità, sia pur nella diversità delle sue
componenti; la scenografia è «uno degli strumenti della grande or­
chestra formata dai diversi mezzi di espressione che sono propri del
teatro. Essa può a volte suonare in a solo, a volte fondersi nell’insieme
strumentale, a volte smettere di suonare». Tutto ciò che è sul palco de­
ve eseguire la partitura richiesta dal regista-direttore d’orchestra:
«Ognuno di questi elementi (l’attore, la parola, il movimento, il suo­
no, la musica, la scena, gli attrezzi, la luce) deve essere così elastico e
adattabile, da poter echeggiare all’unisono con gli altri, esserne il con­
trappunto o il contrasto, in modo da risuonare non solo in parallelo di
due o più voci con gli altri elementi, ma fondersi con uno qualsiasi di
essi e creare così una nuova gamma».28

7. Mejerchol’d e Piscator: il cinema a teatro

Pioniere assoluto dell’utilizzo del film in scena in Italia è il trasfor­


mista Leopoldo Fregoli (1867-1936). Grazie alla puntuale ricostruzio­
ne dello spettacolo-tipo fregoliano e del procedimento del fregoligraph
a opera di Luigi Colagreco (vedi scheda) viene restituito filologica­
mente un interessante esempio di dinamismo scenico in cui il cinema
è il modello linguistico per il teatro all’interno di quello spettacolo di
varietà che per la sua eterogenea e rutilante sequenza di numeri di at­
trazione e per la partecipazione del pubblico, accoglierà consensi nel­
l’ambito del teatro futurista italiano: Marinetti propose nei due Mani­
festi del teatro di varietà del 1913 e il 1915 di avvicinare il teatro al music­

27
Cfr. K. Teige, Manifesto del poetismo, in Arte e ideologia (1922-1933), Einaudi, Tori­
no 1982. Il primo abbozzo del manifesto è dato dall’articolo Poesia per i cinque sensi
(1925).
28
J. Svoboda, cit. in D. Bablet, La scena e l’immagine, Einaudi, Torino 1970, pp. 36­
37.
93 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

hall: «Il teatro di varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pub­
blico. Questo non vi rimane statico come uno stupido voyeur, ma par­
tecipa rumorosamente all’azione, cantando anch’esso, accompagnan­
do l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri
cogli autori».29 Nella Russia rivoluzionaria di Lenin e Trotzkij (1917),
Vsevolod Mejerchol’d diede vita all’Ottobre Teatrale mentre nella Ger-
mania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknecht e di
Rosa Luxemburg (1919) e della Repubblica di Weimar, Erwin Piscator
fondò il Proletarisches Theater e in seguito fu direttore della Volk­
sbühne; entrambi i registi, legati a un ideale di teatro politico di pro­
paganda delle idee marxiste, della lotta di classe e del movimento rivo­
luzionario socialista, introdussero con funzione pedagogica, l’uso di
immagini, cartelli, slogan, disegni, fotografie in una scena fatta di pra­
ticabili scheletrici, costruzioni geometriche e congegni che risponde­
vano ai principi strutturalisti di stilizzazione e che evidenziavano il le­
game con le contemporanee correnti artistiche, visive e letterarie: da
una parte il raggismo, il cubofuturismo della Gončarova, il futurismo
di Majakovskij, il suprematismo di Malevič e il costruttivismo di Tatlin
e di Rodčenko, dall’altra il formalismo e l’eclettismo del Bauhaus. Il ci­
nema nel teatro russo d’avanguardia è presente non solo attraverso le
proiezioni di documentari e film, ma anche attraverso una ricercata in­
tegrazione linguistica della tecnica: viene trasposto in teatro lo spazio­
tempo ideale del film (diverso dallo spazio-tempo reale, come ricordava
Vsevolod Pudovkin), ovvero il montaggio come costruzione in versi di un
nuovo tempo e un nuovo spazio, secondo le parole di Teige. Montag­
gio letterario, montaggio di scene, montaggio di azioni: nella macchi­
na teatrale c’è un’atomizzazione dello spettacolo, un «disgregamento
molecolare del dramma»: «Ogni spettacolo era un convoglio, una suc­
cessione orizzontale di rapidissimi “numeri”, di scene-baleni. Nel tea­
tro e nel cinema si sperimentavano allora con accanimento le possibi­
lità del montaggio. V’erano artisti fanatici dell’incollatura, come Dziga
Vertov e i “kinoki”, che pur muovendo dall’ansia di cogliere la vita con
spontaneità, di sorpresa, finivano per alterare il loro documentarismo
e la stessa semantica delle inquadrature con troppi artifizi e bizzarrie di
montaggio. Anziché limitarsi ai tagli consueti, i registi di teatro riela­
boravano il testo radicalmente, disseccando l’intreccio in nuclei stac­
cati e senza alcun climax, invertendo l’ordine delle vicende, “traspo­
nendo” i personaggi in maniera da trarne significati sociali, corrispon­

29
F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Mi­
lano 1968. Cit. in R. Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture (1906­
1976), Le Lettere, Firenze 1996, p. 24.
ANNA MARIA MONTEVERDI 94
30
denti agli schemi sovietici». Dispositivi cinematografici entrano in
Terra capovolta (1923). È il primo spettacolo in cui Mejerchol’d utilizza
il materiale documentario; l’aspetto propagandistico della rivoluzione
proletaria era prioritariamente perseguito per arrivare a raggiungere il
fine principale: «l’agitazione». Lo spettacolo, in linea con gli orienta-
menti del teatro del tram di agit-prop e con gli atti di massa inaugura­
ti da Evreinov nel 1917, fu portato nelle strade e nelle piazze, e segna­
va, secondo le intenzioni di Mejerchol’d, la fine del palcoscenico-scatola.
In Le cocu magnifique (1922), considerato lo spettacolo manifesto del
costruttivismo teatrale, Mejerchol’d creò con la Popova una elementa­
re struttura di movimento con una scena praticabile a intelaiatura
scheletrica che veniva percorsa atleticamente dagli attori; nel Revisore
(1926), definito da Ripellino una «suite sinfonica, una “gogoliana” in
15 episodi», i movimenti delle scene e degli attori «biomeccanici» era­
no scomposti e definiti «metronomicamente» e meccanicamente come
i gesti di produzione, mentre il montaggio letterario prevedeva inter­
polazioni da altri testi di Gogol’ e da varianti della stessa commedia.
L’azione scenica, scomposta e frammentata, a dettagli, si concentrava
per lo più su due piattaforme su ruote; Ripellino, nella dettagliata ana­
lisi dello spettacolo, ne osservò il principio cinematografico cui si
uniformava l’aggregato complessivo che rimandava efficacemente ai
primi piani del cinema.
Erwin Piscator riorganizza la scena introducendo innovazioni tecni­
che moderne e facendo del fondale arricchito di immagini filmiche – co­
me ricordava Bertolt Brecht – un «compartecipe attivo, con funzioni si­
mili a quelle del coro greco».31 Nel fondamentale testo Il teatro politico32
Piscator divise le pellicole proiettate in scena in base alla funzione assol­
ta nello svolgimento del dramma: il film didattico, il film drammatico e
il film di commento. Il film didattico, secondo il regista, aveva il compito
di comunicare i dati di fatto obiettivi, attuali e storici, mentre quello
drammatico sostituiva la scena recitata. Il film di commento, infine, accom­
pagnava lo sviluppo del dramma e attirava l’attenzione del pubblico sui
momenti salienti dell’azione corale. Dopo un primo brillante risultato
dell’utilizzo del film in Bandiere (1918) sullo sciopero operaio per l’otte­
nimento delle otto ore lavorative nel 1880 a Chicago, in Ad onta di tutto
30
A.M. Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento,
Einaudi, Torino, 1965, p. 299.
31
B. Brecht, Il teatro sperimentale (1959), in F. Cruciani, C. Faletti, Civiltà teatrale nel
XX secolo, il Mulino, Bologna 1986, p. 255.
32
E. Piscator, Il teatro politico (1932), Einaudi, Torino 1956. D’ora in avanti le cita­
zioni anche senza rimando in nota, si riferiscono a questo testo.
95 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

(1925) rappresentato al Grosses Schauspielhaus di Berlino che mostrava


l’invincibilità dell’idea della Rivoluzione, Piscator inserì sia immagini fis­
se sia il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano
gli orrori della guerra in una struttura a impalcature con piattaforme e
palcoscenico girevole. Nel teatro inteso come luogo di educazione so­
ciale collettiva, l’efficacia del film garantiva al meglio la trasmissione del
messaggio: «Mi occorrevano mezzi che rivelassero l’influenza reciproca
fra i grandi sovrumani avvenimenti dell’umanità e un individuo o una
classe. Uno di questi mezzi era il film. Ma non era altro che un mezzo,
che domani avrebbe potuto essere sostituito da uno migliore». Il film e la
sua diretta valenza dimostrativa sulle masse operaie che consentiva di col­
locare il dramma storico rappresentato nel presente, doveva fare appel­
lo non soltanto alla dimensione emotiva ma anche e soprattutto a quel-
la critica del dramma (la relativizzazione epica, che anticipa la formulazio­
ne di Brecht del 1931 e il Verfremdungseffekt) creando «una connessione
tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia». Il suc­
cesso dello spettacolo fu tale che Piscator affermò che in esso «la più for­
te azione di propaganda politica aveva coinciso con la più forte creazio­
ne artistica». In Oplà, noi viviamo (1927) da Toller, messo in scena al
Theater am Nollendorfplatz nel quartiere occidentale di Berlino, Pisca­
tor con lo scenografo Traugott Müller progetta una costruzione scenica
multipla a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni
di George Grosz, di proiezioni cinematografiche sceneggiate e girate al-
l’uopo. Cruciani affermava che Piscator aveva «realizzato una scena mul­
tispaziale e multimediale» (F. Cruciani, 1996) mentre Ragghianti lo de­
finiva «il primo regista che abbia compreso, almeno in via pragmatica,
che il teatro come spettacolo figurativo non era sostanzialmente diverso
nella sua natura e nei suoi mezzi dal cinematografo» (C.L. Ragghianti,
1954). Nel progetto mai realizzato per Piscator del Totaltheater (1927),
poco prima che Hitler e il nazismo salissero al potere in Germania, Wal­
ter Gropius, ispirandosi ai principi funzionalisti del Bauhaus, aveva pen­
sato a una vera scena metamorfica, a una macchina-teatro con piattafor­
me girevoli, tre palcoscenici simultanei in cui schermi mobili per le
proiezioni di film e di diapositive potessero integrarsi nell’intera struttu­
ra architettonica, determinando un allargamento della stessa cornice
scenica, avvolgendo letteralmente il pubblico in uno spazio ovale, in una
ideologica spinta alla partecipazione globale. Abolito il vecchio regime
teatrale architettonico, residuo dell’apparato culturale ed economico
borghese, la cui suddivisione in palchi, platea e gallerie rispecchiava «gli
strati sociali del feudalesimo», Gropius riscatta le forme spaziali dell’an­
fiteatro greco-romano e dell’arena circolare circense, mantenendo an­
che il palcoscenico frontale. L’estrema flessibilità di questo «spazio con­
ANNA MARIA MONTEVERDI 96
vertibile» che prevedeva due movimenti rotatori, uno del palcoscenico
circolare, l’altro di una porzione della cavea anch’essa circolare, e che
permetteva di recitare in più luoghi contemporaneamente e di far en­
trare, come ricorda Gropius, lo spettatore «entro il raggio di efficacia
dell’opera» e non solo nei pressi, era data da un sistema di meccanismi,
scene mobili, tapis roulant, piattaforme girevoli, la qual cosa avrebbe
non solo permesso una perfetta funzionalità alla rappresentazione ma
anche offerto un gran numero di soluzioni sceniche e tecniche per sti­
molare e non vincolare la stessa creazione artistica: «Lo scopo di questo
teatro non è dunque quello di ammassare materialmente gli impianti
tecnici e i trucchi più raffinati; questi semplicemente mirano a ottenere
che lo spettatore sia trascinato nel centro degli avvenimenti scenici, fac­
cia parte spazialmente del luogo dell’azione e non vi possa più sfuggire
rimanendo al di qua del sipario».33 La questione delle proiezioni cine­
matografiche impegnò progettualmente Gropius in soluzioni davvero
ardite: numerosi apparecchi da proiezione dovevano essere disposti in
punti diversi fino a riempire di immagini tutta la sala, pareti e soffitto
compresi. Il teatro totale in questa «dilatazione tecnologica»34 ricerca,
per mezzo di luci e proiezioni, una «scena emisferica» al cui centro ri­
mane «l’uomo come entità politica... come funzione sociale».

8. Una questione di spazio

La vera rivoluzione del teatro del Novecento – ricorda Marco De Ma­


rinis – riguarda la nuova dimensione drammaturgica dello spazio: «Fare del­
lo spazio un elemento o una dimensione della drammaturgia significa
rifiutare l’idea che lo spazio sia un dato a priori immodificabile ed ester-
no alla messa in scena, o più precisamente alla composizione dell’opera
teatrale, insomma un contenitore neutro indipendente dai suoi possibi­
li contenuti. Significa ritenere che, al contrario, la dimensione spaziale,
scenico-architettonica di un dato spettacolo sia qualcosa che fa parte
(deve far parte) costituente del processo creativo, e che quindi, al limite,
va progettato/reinventato/organizzato ogni volta ex novo e ad hoc, ri­
ducendo al minimo, e se possibile eliminando del tutto, le costrizioni
preventive».35 In questa prospettiva, la fuga dal quadro scenico, intenden­
do con esso sia i vincolanti spazi delle architetture teatrali del teatro al-
l’italiana che le linee vettrici del testo, è di fatto la conseguenza non so­

33
W. Gropius, in E. Piscator, Il teatro politico, cit., p. 130.
34
M. Castri, Piscator ovvero Prospero, introduzione a E. Piscator, cit., p. XIV.
35
M. De Marinis, In cerca dell’attore, Bulzoni, Roma 2002.
97 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

lo di una decostruzione (o, come ricordava Maurizio Grande, distruzio­


ne) temporale e strutturale dello spettacolo ma anche di una ricerca di
quello che Fabrizio Cruciani definiva uno «spazio di relazione». Questa
progettualità di un nuovo ambiente dell’esperienza sociale, si traduce
nella rottura della frontalità e della linearità dialogica del dramma; nel­
la ricerca della «molteplicità dei livelli di presenza», nell’avvicinamento
e nell’inclusione dello spettatore nell’opera, presente sia nella concreta
realizzazione scenica, sia nella progettazione architettonica e nella teo­
resi di molti autori del Novecento. Pensiamo all’idea di un teatro la cui
azione accerchi lo spettatore espressa da Artaud nel Primo manifesto del
teatro della crudeltà (1938): «Noi sopprimiamo la scena e la sala, sosti­
tuendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di al­
cun genere, che diventerà il teatro stesso dell’azione. Sarà ristabilita una
comunicazione diretta tra spettatore e spettacolo, tra spettatore e attore,
perché lo spettacolo, situato al centro dell’azione, sarà da essa circon­
dato e in essa coinvolto». O agli spettacoli dell’agit prop, agli atti di mas­
sa del teatro spontaneo della Russia rivoluzionaria all’interno di fabbri­
che, piazze, tram, precedenti delle azioni di strada e delle teatralizzazio­
ni dei cortei di protesta degli anni Settanta, vere autorappresentazioni
di gruppo rivelatrici, come ricordava Fabrizio Cruciani, di un «teatro co­
me comunità» (1985). Particolari architetture, dispositivi scenografici e
macchinari per muovere le scene, inoltre furono progettate sin dagli an-
ni Venti in Austria e in Germania per oltrepassare l’idea della «scena a
scatola ottica» e soddisfare un’esigenza di prossimità e di partecipazione
dello spettatore: abolizione del sipario, aperture per proiezioni cinema­
tografiche, scene multiple, palcoscenici simultanei e girevoli che inva­
dono lo spazio della sala. Dal progetto di “teatro” tastiera di Gropius
(«L’architetto che oggi progetti un teatro dovrebbe porsi il fine di crea­
re una vasta tastiera per la luce e lo spazio, tanto pratica e suscettibile di
adattamento da risultare disponibile per qualsiasi visione un regista pos­
sa prefigurarsi») al progetto dell’Endless Theatre (diventato in seguito
progetto per l’Endless Home) per centomila spettatori di Frederick Kie­
sler (1930) ai dispositivi circolari di Poliéri, al teatro anulare di Oskar
Strnad o il Teatro a U di Farkas Molnár del Bauhaus: «Nella nuova visio­
ne dinamica del mondo il teatro diventava il luogo privilegiato in cui
sperimentare l’insieme delle visioni della creazione artistica (dall’arte fi­
gurativa alla musica, dalle arti plastiche al design, dall’illuminotecnica al
cinema) e l’architetto era chiamato a svolgervi una fondamentale fun­
zione guida».36
36
M. Fazio, Spazio, tempo e architettura teatrale negli anni Venti e Trenta, «Il castello di
Elsinore», 1989.
ANNA MARIA MONTEVERDI 98
9. ... E di tempo: happening e situazionismo

The Theatre of Mixed Means (1968) è il titolo del libro di Richard Ko­
stelanetz in cui si parla delle contaminazioni tra le arti nel teatro di ri­
cerca americano alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze
visive della fine degli anni Cinquanta ai confini con il teatro, come
l’happening o gli intermedia (definiti anche da Robert Rauschenberg
«quadri viventi»), termini che designano variamente una combinazio­
ne di vari mezzi espressivi. L’inclusione della musica, della danza, del­
le tecniche del film o della televisione e l’esclusione del testo o addi­
rittura della parola, il carattere «attimale», dove contano principal-
mente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato
per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani) in cui è col­
locato, definiscono le caratteristiche di questo nuovo teatro che mira a
confondere arte e vita. Altri movimenti promuoveranno il tema dell’e­
vent e dell’environment (Gutai, Wiener Aktionismus, Fluxus). Oggetti
del décor urbano, materiali ingombranti, gomme d’automobili, mobi­
li, falciatrici, carta, bidoni vengono accatasti e collocati insieme ad ac­
cadimenti verbali e corporei in un processo di aggregazione caotica
che ricorda le compressioni di César e le accumulazioni di Arman. Ko­
stelanetz parla di un vecchio teatro in cui gli elementi erano inter­
complementari e di un nuovo teatro in cui sarebbero, invece, comple­
tamente indipendenti, e distingue tra happening puro, ambiente ci­
netico, happening da palcoscenico e rappresentazione da palcosceni­
co; la discriminante sarebbe data dalla apertura o chiusura/fissità o va­
riabilità di tempo, spazio e azione. Ma è Michael Kirby a lasciarne alla
memoria il mito con Happening (1968), un volume che oltre a conte­
nere la trascrizione dei copioni di quattordici eventi realizzati in Ca­
lifornia e a New York tra il 1959 e il 1963 da molti artisti pop america­
ni tra cui Robert Whitman, Jim Dine e Claes Oldenburg, comprende­
va anche una dettagliata introduzione al fenomeno considerato nei
suoi aspetti formali ricorrenti. Tra gli eventi descritti, lo storico 18 hap­
pening in 6 parts che inaugurava nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gal­
lery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow, la sta­
gione degli happening: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate,
suoni e rumori provenienti da un altoparlante, pareti affrescate con
collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute
da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e in­
torno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da
pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. The Store viene rea­
lizzato nel 1961 da Claes Oldenburg, che prese in affitto un magazzino
nel vivace quartiere del Lower East Side a Manhattan per le sue rap­
99 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

presentazioni, e che così lo descrive: «Un modo o un altro di usare gli


oggetti in movimento. Tra gli oggetti includo anche le persone, sia prese
come tali sia come causa del movimento dell’oggetto». Queste le co­
stanti individuate da Michael Kirby per l’happening: struttura a com­
partimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze
o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di
suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azio­
ne indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti,
quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’ere­
dità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-24), nella tecnica e nel prin­
cipio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da
Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futu­
rista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee
del Teatro sintetico e del Teatro della sorpresa di Marinetti e Cangiul­
lo) e dadaista (Relâche di Picabia con partitura di Satie, 1924) a cui bi­
sognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il
concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sa­
rebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal
concerto-evento al Black Mountain College del 1952), dall’altro dal­
l’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione arti­
stica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente den­
tro l’opera di cui è rimasta a simbolo la particolarissima modalità creati­
va di Jackson Pollock, fotografato e ripreso nelle sue evoluzioni e sgoc­
ciolamenti dentro le sue monumentali opere pittoriche da Hans Na­
muth. Harold Rosemberg specificò nel famoso saggio The American Ac­
tion Painters (1952) il carattere della nuova pittura americana: «A uno
a uno, tutti i pittori americani incominciarono a considerare la tela co­
me un’arena pronta ad accogliere il loro gesto, e non più uno spazio
su cui riprodurre, copiare, analizzare o “esprimere” un soggetto, reale
o immaginario. Sulla tela non doveva prendere forma un dipinto, ma
un evento».37
Allan Kaprow approda all’happening dopo aver esposto assemblage
in gallerie artistiche all’inizio degli anni Cinquanta, dopo aver sviluppa­
to la tecnica dell’action-collage quale evento pittorico e dopo aver creato
le condizioni per un environment di cui il pubblico diventava parte.
Quattro sono i punti che Kaprow elenca come imperativi nella creazio­
ne di un happening: «Primo: la quiddità immediata di ogni azione, sem­
plice o complessa, priva cioè di qualsiasi altro significato al di là della
semplice immediatezza di quanto si verifica. Questo “essere dell’azione”
fisico, sensibile, tangibile, è per me molto importante. Secondo: le azio­

37
H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, Feltrinelli, Milano 1964.
ANNA MARIA MONTEVERDI 100
ni sono fantasie eseguite non esattamente sul modello della vita, anche
se derivate da essa. Terzo: le azioni costituiscono una struttura organiz­
zata di eventi. E quarto: il loro “significato” è leggibile in senso simboli­
co e allusivo».38 Tra gli scritti sull’arte di Allan Kaprow va ricordato Gli
happening sulla scena newyorkese (1961) in cui l’artista americano elenca le
differenze tra happening e teatro: il primo è un evento realmente par­
tecipativo e non strutturato, non scritto e non convenzionale, avente
forma aperta e fluida, passibile negli oggetti di cui si compone, di mo­
difiche non prevedibili. L’happening inoltre, dà importanza all’appara­
to non verbale (azioni, rumori, materiali visivi) e al contesto (il luogo
della rappresentazione) inteso come «atmosfera globale»: strade, nego­
zi, loft; instaura un legame «organico» con l’ambiente, in cui il pubblico
si lascia condurre dall’azione rivestendo un ruolo. Si consuma infine,
nell’unica occasione in cui si presenta, non essendo riproducibile né l’e­
sperienza né il caso. A proposito del caso, Kaprow ricorda come questo
non sia presente nel teatro tradizionale, e se appare è relegato all’ambi­
to dell’interpretazione, ma che è invece il modo di operare tipico del-
l’happening: «Il caso, più che la spontaneità, è un termine chiave, per­
ché implica rischio e paura [...] Designa al meglio anche un metodo che
diventa manifestamente non metodico se si considera l’opera più come
una prova che come una ricetta [...] Gli artisti che utilizzano diretta­
mente il caso rischiano uno scacco, lo scacco di essere meno artisti e più
vicini alla vita».39
Il riferimento teorico che porta Kaprow a creare «opere con la vita»,
è quello del filosofo pragmatista americano John Dewey, autore di Art
as Experience (1934). Per Dewey l’esperienza estetica è legata a quella or­
dinaria, comune, quotidiana; è un’azione interrelata col mondo ester-
no, completa solo nel momento della realizzazione finale dell’opera e
quindi della sua comunicazione sociale, fuori da un isolamento artisti­
co e da un sentire individuale. Dewey sosteneva che l’essenziale dell’a­
zione estetica è il compimento (fulfillment) secondo cui il processo for­
mativo (come sarà per la teoria della formatività di Pareyson enunciata
nell’Estetica) ha una funzione fondante. Ogni evento è un processo.
Carlo Ludovico Ragghianti in Cinematografo rigoroso aveva anticipato di
qualche anno (1932) il concetto di spazio-temporalità intrinseca di
ogni attività artistica: la forma di un’opera d’arte si identifica col suo
processo attuativo, costruttivo.40 Peter Brook in The Empty Space (1968)

38
A. Kaprow, Happening, in M. Kirby, Happening, De Donato, Bari 1968, p. 76.
39
A. Kaprow, Happennings in New York, «Art News 60», n. 3, 1961. I testi di Kaprow
sono stati raccolti da J. Kelley in L’art et la vie confondus, Centre G. Pompidou, Paris
1996.
101 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

criticherà l’«effetto shock» dell’happening, che «prima spara e poi fa


domande»; per il regista inglese il limite di questa «libera forma» risie­
derebbe eccessivamente nella creatività dell’inventore e nella convin­
zione che basti uno shock improvviso a risvegliare la percezione del
pubblico.
Mentre la critica ha rintracciato il legame degli happening con le ar­
ti visive e con la pittura dei cosiddetti actioners, ha invece sottovalutato il
rapporto con la nuova idea di urbanistica sociale, il rimodellamento dei
luoghi urbani in chiave comunitaria promosso negli States nei primi
anni Cinquanta da Percival Goodman e divulgato attraverso il volume
Communitas (1957) e ai cui principi si ispirerà anche il Living Theatre
nella costruzione dell’ensemble, e con la teoria dell’urbanistica unitaria e
della psicogeografica dei situazionisti in Europa (1953). Non ci sembra
forzato, infatti, ricordare che il superamento dell’arte di Debord e col­
leghi, legati anche loro al surrealismo, era partito proprio dal rinnova­
mento urbano. Sarà il lettrista Gilles Ivain a firmare il Formulario per un
nuovo urbanismo all’interno del primo numero dell’«Internazionale si­
tuazionista» (1958, ma il saggio è del 1953), dove Guy Debord espone
le Sette tesi sulla rivoluzione culturale. Nel testo è possibile rintracciare al­
cuni elementi chiave della ricerca situazionista di una costruzione speri­
mentale della vita quotidiana, di una comunicazione reale diretta: la critica al-
l’urbanistica funzionalista per una nuova architettura cittadina mutan­
te «a seconda della volontà dei suoi abitanti, riconoscendo l’architettu­
ra come mezzo più semplice per articolare le attuali concezioni di tem­
po e di spazio, per sperimentare le possibilità di modificare la vita»; si
tratta di un modo per sperimentare, anche attraverso il gioco aleatorio
della deriva continua, cioè della tecnica di passaggio ed esplorazione ve­
loce attraverso vari ambienti urbani con finalità di osservazione dei
comportamenti in relazione agli scenari, «i mille modi di modificare la
vita»: «L’urbanistica unitaria va contro lo spettacolo passivo, principio
della nostra cultura [...] Mentre oggi le stesse città vengono offerte co­
me un penoso spettacolo, un supplemento ai musei, per i turisti tra­
sportati su corriere di vetro, l’urbanistica unitaria prende in considera­
zione l’ambiente urbano come terreno di un gioco di partecipazione»
(I.S. n.2, 1958).
Naturale evoluzione dell’happening è l’environmental theatre o teatro
ambientale. Alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava
lo spazio trovato della città – già luogo deputato di manifestazioni e di
sit in di protesta – aggiungendo al fatto teatrale una dimensione am­

40
Cfr. C.L. Ragghianti, Tempo sul tempo, in Arti della visione, III Il linguaggio artistico,
Einaudi, Torino 1952.
ANNA MARIA MONTEVERDI 102
bientale, decretando la fine del «punto di vista unico, sorta di marchio
di fabbrica del teatro tradizionale».41 Nel testo Six Axioms for Environ-
mental Theatre (1968) Schechner sviluppava la nuova idea di teatro: il fat­
to teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubbli­
co, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione): «Tutto lo
spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’e­
vento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato
sia in uno spazio “lasciato come si trova”; il punto focale è duttile e va­
riabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio lin­
guaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo
della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci». Questi
enunciati hanno una serie di postulati: l’eredità storica del teatro del
Bauhaus nella definizione di uno spazio organico e dinamico; la mobi­
lità dello spettatore rispetto all’evento o agli eventi sparsi a cui è affida­
to implicitamente anche il compito di ricucire l’unità delle singole azio­
ni, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercam­
biabilità tra attore e pubblico; crollo della gerarchia tra gli elementi del­
la rappresentazione e tra questi il testo: la letteratura deve essere tratta­
ta come materiale, non come autorità e modello.

10. La reinvenzione dello spazio teatrale: Living Theatre e Luca Ronconi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, Luca Ronconi, il


Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, il Performance Group di Ri­
chard Schechner hanno messo in discussione proprio il luogo teatrale,
violando lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradiziona­
li barriere architettoniche dandogli la possibilità di usufruire di più pun­
ti di vista e di essere immerso e di partecipare – in senso fisico e ideolo­
gico – all’azione scenica, prefigurando in qualche modo le possibilità
delle tecnologie. Il Living Theatre iniziava già a partire dai grandi spet­
tacoli rappresentati ancora a teatro (Antigone e Frankenstein) un percor­
so di «de-teatralizzazione teatrale» (M. De Marinis, 1996). L’Antigone
(1966) rappresenta il punto più alto del rifiuto spaziale (del teatro) e
temporale (della storia come è tramandata dalla letteratura) sulla base
di una congiunzione ideale nel qui e ora della vita. La guerra tra argivi
e tebani è in corso adesso e l’architettura teatrale con le sue divisioni in
platea e palcoscenico è funzionale allo spettacolo, acquistando una va­
lenza drammaturgica poiché non rappresenta nient’altro che quella
stessa struttura immobile, tutti quei confini, prigioni e separazioni che il

41
R. Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari 1968.
103 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

teatro deve abbattere. La paura della guerra nella sua terribilità evocata
dal pianto reale degli attori che non recitano, getta in una condizione di
pericolo il pubblico che inconsapevolmente è passato da osservatore a co­
protagonista attraverso un meccanismo di inclusione sancito da uno
sguardo, diretto e pieno di odio e timore degli attori, diventati nel tea­
tro-trincea suoi nemici. In Frankenstein (1965) il mito della Creatura si
mescola con l’utopia marxista dell’Uomo Nuovo, in un sincretismo cul­
turale che unisce Oriente e Occidente, mito e rito, parola – Sofocle e
Mary Shelley – e immagine. Frankenstein (come Antigone) ripropone la fi­
gura del resistente dell’antico dramma guardando brechtianamente al
presente: l’azione si riversa anche in sala, accerchiando artaudianamen­
te il pubblico nel primo atto; durante la scena della processione del ca­
pro espiatorio – il rituale collettivo di morte – gli afflitti si ribellano e
cercano rifugio tra il pubblico. Identificati, finiscono giustiziati. La sala
teatrale diventa la camera delle torture e il pubblico è implicitamente
chiamato a rispondere a quei «segnali tra le fiamme» lanciati dagli atto­
ri, secondo la frase di Artaud che Malina cita spesso come miglior im­
magine del concetto di teatro della crudeltà. All’indomani della Dichia­
razione di azione (Berlino, 1970) il gruppo americano abbandonerà i tea­
tri per creare un teatro d’azione sulla strada, teatralizzando la vita, come
idealizzava Evreinov (dal Ciclo dell’Eredità di Caino fino a Not in My Na-
me rappresentato a Times Square ogni qual volta avviene una condanna
capitale, all’odierno Resistence Now i cui slogan hanno invaso Genova nel
2001 in occasione dell’Anti G8).
Il percorso teatrale di Luca Ronconi è una costante ricerca della spa­
zialità nascosta del testo, anzi di testi monumentali e apparentemente
irriducibili alla scena e allo spazio-tempo teatrale (dall’Orlando Furioso
dell’Ariosto, 1969 all’Ignorabimus di Holz, 1986 agli Ultimi giorni dell’u­
manità di Kraus, 1990); una spazialità fatta di marchingegni e meccani­
smi svelati alla luce del sole, la quale «meglio può rivelare la dimensione
concettuale, immaginaria e culturale, dell’autore (ecco allora la scelta di
uno spazio claustrofobico per Ibsen, della macchina fanta-barocca per
l’Ariosto, della macchina bellico-industriale per Kraus)» (A. Balzola,
1993). La disposizione narrativa delle numerose vicende del capolavoro
ariostesco così come quelle del testo-fiume di Kraus sono rappresentate
in una simultaneità di azioni sceniche – come nelle sacre rappresenta­
zioni medioevali – che smontano di fatto, l’asse temporale diegetico; lo
spettatore, spostandosi fisicamente intorno ai «luoghi deputati», opera
una libera e soggettiva selezione di visione.
Nel 1976-78 Luca Ronconi dà vita al Laboratorio di Progettazione
Teatrale di Prato come scuola interdisciplinare con l’attrice Marisa
Fabbri e l’architetto Gae Aulenti. Verranno realizzati tre spettacoli in
ANNA MARIA MONTEVERDI 104
qualche modo concatenati tra loro: Le Baccanti di Euripide, La Torre di
Hugo von Hofmannsthal, il Calderón di Pasolini. La caratteristica sia
dei laboratori aperti sia degli allestimenti finali fu la scelta di spazi in­
soliti, di luoghi adatti a una più ampia riflessione sulla comunicazione
teatrale, sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività,
su un nuovo rapporto col pubblico, di una ricerca cioè, di quello che
Gae Aulenti definiva il «Teatro-territorio». L’ex orfanotrofio spogliato
di arredi diventa il luogo oppressivo e angosciante che accoglie la tra­
gedia euripidea che mostra «il dio a venire» e il labirinto dell’essere.
Marisa Fabbri nei panni di Dioniso, Penteo, Tiresia, Cadmo, il coro dei
tebani e quello asiatico si muovevano tra le suggestioni di geometrie
architettoniche, luci e ombre taglienti, specchi. Così Gae Aulenti spie­
ga le motivazioni della scelta di far esplodere lo spettacolo dentro i
luoghi trovati della città, dentro i suoi segni per ricavarne una nuova
scrittura scenica: «Concretamente attraverso il lavoro sulla comunica­
zione teatrale, lo studio dei luoghi ad essa destinati costituisce una let­
tura pertinente del Territorio. Sono luoghi autonomi che si propon­
gono come momenti particolari di quell’insieme di attività che è la co­
municazione teatrale. Questa attività è critica: si prende gioco delle ge­
rarchie e delle divisioni che il territorio impone, cosicché Teatro, Ban­
ca, Capannone industriale, Orfanotrofio, Cementificio, diventano tut­
ti luoghi di comunicazione, e all’interno di queste tipologie il teatro
esercita la sua attività indifferente alle convenienze dei generi, dei sog­
getti, dei fini di questi edifici. La nuova composizione di questi luoghi
rimette in causa la loro tradizione retorica, i loro rapporti con la città:
Teatro o Banca uguale centro storico, Orfanotrofio uguale fuori le mu­
ra, Capannone o cementificio uguale periferia. Questi luoghi, attra­
verso la funzione teatro determinano altre forze associative, articolano
una diversa narrazione della città. E la loro descrizione topografica di-
venta una topologia che non stabilisce nessuna preminenza morale ma
solo strutturale».42

11. Svoboda: dal legno alla luce

Josef Svoboda nasce a Čáslav vicino a Praga nel 1920. Il suo appren­
distato artistico in quei primi anni della Repubblica Cecoslovacca è nel
laboratorio del padre falegname; dalla pratica artigianale e dagli studi
di architettura approda presto alla professione teatrale: a ventisei anni

42
G. Aulenti, Diario ’76-’78 in F. Quadri, L. Ronconi, G. Aulenti, Il Laboratorio di
Prato, Ubulibri, Milano 1981, pp. 26-27.
105 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

è caposcenografo del Teatro del 5 maggio e a trenta è direttore artisti­


co e tecnico del Teatro nazionale di Praga. Secondo Bablet (1985) Svo­
boda rivoluzionerà la nozione di scenografia, nobilitandola da una con­
dizione di supporto visivo inteso come cornice, come décor a creazione
artistica con una propria funzione plastica e drammaturgica, relaziona­
ta organicamente con l’intero apparato teatrale. Con lui lo scenografo
diventa non più un fornitore di immagini e di soluzioni tecniche ma
uno stretto collaboratore del regista con il quale realizza una sceneg­
giatura, una «partitura» comune, un co-creatore. Ma il teatro ha biso­
gno anche di altre figure tecniche specializzate: l’équipe del Teatro na­
zionale da lui riorganizzato, doveva comprendere: tre architetti, un in­
gegnere meccanico, un ingegnere di ottica, un elettroacustico e un chi­
mico, professionisti fondamentali nella costituzione di un lavoro arti­
stico collaborativo, collettivo, che guardi alla tecnica come possibilità di
studiare la materia e le sue proprietà per poterla modellare, piegare,
scoprirne le virtù nascoste, estrarne l’essenza e darle infine corpo e vo­
ce; il teatro è un’operazione alchemica, sia materica che umana. Svo­
boda nel corso della sua lunga attività, sperimenterà negli spettacoli di
prosa, opera lirica e balletto, i materiali più diversi anche in combina­
zioni inusuali: legno, plexiglas, lana di vetro, poliestere, speciali plasti­
che, specchi, scelti per il loro potere riflettente, rifrangente, di assorbi­
mento luminoso o acustico. Guardando a Craig e a Burian, Svoboda ap­
proda alla definizione di un proprio «sistema scenografico», uno spazio
psicoplastico, così chiamato perché in grado di modificarsi sulla base
delle diverse atmosfere seguendo il ritmo interno del dramma. Questo
tipo di allestimento – come ricorda Bablet – non poggia più «sul cam­
biamento di scena ma sulla scena in cambiamento».43 Nell’Amleto di
Praga del 1959, il cui riferimento è indubbiamente l’Amleto di Craig, la
scena è composta da una ventina di pannelli di nerolacca provvisti di
un solo movimento e posti in profondità su undici file a formare geo­
metrici labirinti, spazi angusti e inquietanti. Le venti posizioni assunte
dalle superfici corrispondevano ad altrettante situazioni drammatiche.
La sintesi del dramma è evidente dalla successione dei quadri in pianta:
uno spazio con tasselli di un domino o un pentagramma con note che
cambiano posizione seguendo un ritmo visivo, tra intervalli, respiri,
bordoni, in concertato o in assolo, ed è esattamente quanto Craig
avrebbe voluto per il suo allestimento del 1911: una scena cinetica, una
scena musicale. Se si facesse una storia degli Amleti che guardano al ca­
polavoro (incompiuto) di Craig (includendo Hamlet: A Monologue di
Robert Wilson, 1995 e Elsinore di Robert Lepage, 1996) Svoboda po­
43
D. Bablet, La scena e l’immagine, cit.
ANNA MARIA MONTEVERDI 106
trebbe essere indicato come il «trasmettitore» della tradizione scenica,
cioè quell’artista che ha permesso, con il suo lavoro, la persistenza del­
la memoria dell’avanguardia teatrale.
La dinamica della scena (o l’illusione cinetica) in Svoboda è affidata
soprattutto alla luce, creatrice di spazio e fattore espressivo, oggetto di
sperimentazioni ardite nell’intento di «ingabbiarla», come lui stesso ave­
va scritto: il raggio laser per Il flauto magico; il controluce per l’Amleto. Lu­
ce significa anche immagini luminose e tecnologie digitali: proiezioni di
diapositive o di film in sincrono su schermi aventi supporti dalle forme
inconsuete – prismi, sfere –, superfici trattate, non compatte, così come
diverse erano le possibilità di combinazione e di sovrapposizione delle
immagini. Interverrà anche sulle emulsioni filmiche, modificando le im­
magini latenti durante il processo fotochimico. In Tristano e Isotta utiliz­
zerà 108 proiettori. Sperimenta a partire dal 1950 la poliproiezione che
venne usata tra gli altri per l’opera musicale Intolleranza 60 di Luigi No­
no (Venezia 1961, Boston 1965; vedi scheda). Una geometria rigorosa e
complessa fatta di schermi sferici o rettangolari e inclinati e mobili e di
una folla di immagini in movimento sul tema dello sfruttamento, odi
razziali, tematiche politiche invadeva lo spazio del teatro. La direzione
della Fenice censurò le immagini che furono sostituite con proiezioni
delle pitture di Emilio Vedova. A Boston il cinema viene sostituito da
una rete televisiva a circuito chiuso: riprese del coro sul palco, del pub­
blico in sala ma anche di esterni del teatro si mescolavano a fotografie e
riprese del testo; era in gioco «una nuova forma di opera, un nuovo tipo
di teatro totale» (D. Bablet, 1985). L’applicazione più estrema e radica­
le della poliproiezione – che in seguito diventò anche la più popolare,
legata all’industria dello spettacolo – fu la Lanterna Magika, creata con
il regista Alfréd Radok, con il quale collaborava sin dai primissimi anni
del Teatro 5 maggio e ideata per l’esposizione universale di Bruxelles
(1958), poi diventata a Praga teatro stabile; si trattava di una forma di
spettacolo che, come nello spettacolo composito futurista, univa brevi
numeri recitati o musicali e immagini fotografiche e cinematografiche
in molteplici schermi e inaugurava un nuovo genere teatrale, «un im­
pegno per la vista e per l’udito» come lo descriveva lo stesso Svoboda.
Successivamente la Lanterna Magika ospiterà spettacoli (anche di dan­
za) di maggiore complessità drammaturgica e scenica come Il circo ma­
gico (1977) e La regina delle nevi (1979). Parallelamente crea il polyécran
cinetico, inaugurato ufficialmente con il brevissimo spettacolo unica­
mente audiovisivo, Primavera musicale praghese con la regia di Radok. Ot­
to schermi a forma di quadrato e di trapezio con immagini fotografiche
in diapositiva e cinematografiche erano collocati in uno spazio buio do­
ve dominava una musica stereofonica: l’effetto era quello di finestre che
107 IL LABORATORIO TEATRALE DELLE AVANGUARDIE

si illuminavano, o di pitture di luci o di corpi danzanti che si materializ­


zavano nello spazio della scena, liberi dalla gravità. Significativamente
Abel Gance, ideatore del trittico Napoléon (1927), uno dei primi esempi
di schermo allargato, parlò per il polyécran come di un dispositivo che
proseguiva idealmente la sua ricerca (poli)visiva. Il multischermo fu ri­
proposto con variazioni tecniche notevoli, all’esposizione universale di
Montréal (1967) e fu chiamato dallo scenografo ceco «multivisione»: si
trattava di un insieme complesso di quattro meccanismi che prevedeva­
no un’ampia gamma di variazioni sul movimento, sull’inclinazione degli
schermi e sui materiali componenti le superfici di proiezione. Uno di
questi sistemi (il polydiaécran cinetico) contava oltre cento quadrati-scher­
mo, come un videowall ma mobili, in grado di ricevere in retroproiezio­
ne un grandissimo numero di diapositive: la combinazione infinita sia
dei movimenti sia dei giochi di vuoto-pieno, di luce-ombra dei singoli
pannelli creava contemporaneamente l’effetto di una architettura di lu-
ce, di una scultura in movimento, di un brillantissimo mosaico e infine
di un’installazione video-sonora.
DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI
LINEE DI DERIVA DELLA MUSICA
Emanuele Quinz

«...l’arte come spazio, lo spazio come ambiente, l’ambiente come evento, l’e­
vento come arte, l’arte come vita...».
Wolf Vostell, 1964

«If this word “music” is sacred and reserved for eighteenth- and nineteenth­
century instruments, we can substitute a more meaningful term: organisation
of sound».
John Cage, 1937

1. Un nuovo paradigma estetico

Malgrado il pluralismo e l’eterogeneità che caratterizzano le prati­


che artistiche contemporanee, è possibile constatare una progressiva ge­
neralizzazione dell’installazione e la diffusione di prototipi ibridi che
utilizzano contemporaneamente diversi supporti e diversi linguaggi, che
uniscono stimoli sonori e visivi: dal mixed media all’intermedia e al multi­
media.
L’artista non produce più oggetti, ma formula delle proposte, conce­
pisce dei processi, orchestra delle relazioni, predispone degli ambienti e
delle esperienze.
Questo nuovo paradigma estetico (o meglio questa costellazione di
pratiche) nasce dalla confluenza di diverse linee affluenti, e ha radici an­
tiche, nell’atavica pulsione alla fusione delle arti e all’opera d’arte tota­
le. Pur percorrendo tutta la storia dell’arte, questa pulsione non si ma­
nifesta in modo costante: a volte rimane sotterranea, periferica, a volte
scompare, altre volte affiora e domina il dibattito artistico.
A partire dal romanticismo e attraverso le strategie incendiarie delle
avanguardie, questa linea emerge con forza, segnando la crisi di model­
li stilistici secolari, l’indebolirsi progressivo delle frontiere, la deriva dei
linguaggi.
Sebbene nessuno neghi l’importanza della componente sonora nel­
le installazioni o negli altri prototipi interartistici contemporanei, in
pochi ancora hanno esplorato à rebours le linee che, partendo dall’am­
bito della produzione (e della teoria) musicale, approdano al nuovo
paradigma.
109 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

Il plurale è d’obbligo, perché è chiaro che non esiste una sola linea,
ma una molteplicità di percorsi diversi, che si affiancano, che si sovrap­
pongono, che spesso si contraddicono. Senza l’intenzione di essere
esaustivi, cerchiamo di indicarne alcuni.
Da un lato, è stata tentata l’elaborazione di strategie di convergenza
tra la musica e le altre arti, con l’obiettivo di costruire un’opera compo­
sita, in cui il prisma delle diverse irradiazioni sensoriali moltiplica l’im­
patto non solo percettivo ma anche espressivo. Dall’altro, sono state at­
tivate delle strategie di corrispondenza e di connessione tra i segni e i
linguaggi artistici (tra la musica e il testo poetico o letterario, o ancora le
arti plastiche), con l’obiettivo di rinnovarne le strutture e le funzioni.
O ancora, con l’estensione del campo musicale ai rumori e alla di­
mensione dello spazio, e la conseguente emergenza delle nozioni di am­
biente e di evento, è stata esplorata la via di un’arte sonora, che pro­
gressivamente si allontana dal formalismo astratto del linguaggio musi­
cale, per ricercare un contatto più profondo con le dimensioni concre­
te dell’esperienza.

2. Strategie della convergenza, della corrispondenza e della connessione

In opposizione alla rigida separazione tra arti dello spazio e arti del
tempo, fissata dall’estetica settecentesca, e spinti dal desiderio di ritro­
vare l’unità originaria della pulsione creativa, a partire dall’epoca ro­
mantica molti poeti, pittori e musicisti hanno cominciato a progettare la
fusione tra le diverse arti.
«L’estetica di un’arte è uguale a quella delle altre, soltanto il materia­
le è diverso», scrive Schumann: la convergenza delle diverse discipline
artistiche si fonda su un processo di ricerca dell’Assoluto, di tensione
spirituale che si trasmette con il gioco delle sensazioni, e che va oltre le
dimensioni razionali. L’arte non è più intesa come mimesi, come imita­
zione, ma al contrario come espressione del sentimento.
In questo contesto, la musica assume una posizione privilegiata. Con­
siderata come rivelazione dell’Assoluto nella forma del sentimento da
Hegel, come immagine pura della volontà da Schopenhauer, la musica
viene esaltata dal romanticismo per la sua capacità di trascendere la ma­
teria sensibile, e per la sua conseguente forza espressiva, vertice a cui tut-
te le altre arti devono tendere.
La formulazione più sistematica di questa concezione basata sulla
convergenza delle arti sotto la guida della musica, è rappresentata dalla
poetica della Gesamtkunstwerk di Wagner.
EMANUELE QUINZ 110
Criticando la decadenza dell’opera musicale, Wagner ne propone
una riforma basata sul riequilibrio tra componenti testuali e musicali.
La questione dell’unità delle arti e dell’organicità dell’opera1 è alla ba­
se del concetto wagneriano di Drama. Il Drama non corrisponde sempli­
cemente al testo, ma «alle azioni della musica divenute visibili» («ersich­
tlich gewordene Taten der Musik»2); come sottolinea Carl Dahlhaus, non
è il presupposto della musica (come indicherebbero alcune celebri for­
mule di Opera e dramma), ma «emerge come il prodotto della mediazione
tra intenzione poetica ed espressione musicale».3 Nel Ton-Wort-Drama wa­
gneriano, la musica non è più schiava del testo, né viceversa, ma tutti i
mezzi concorrono all’attuazione dell’intenzione poetica.
Estetica «come fisiologia applicata»:4 gli effetti devono essere suppor­
tati da una causa efficiente: l’immediatezza espressiva si fonda sul calco­
lo compositivo, ma soprattutto sulla co-azione di tutti i mezzi, dalla mu­
sica al testo, dal gesto all’architettura.
In realtà, la prefigurazione utopica dell’opera d’arte dell’avvenire,
come Wagner la delinea in L’opera d’arte dell’avvenire (1849) e poi in Ope­
ra e dramma (1851), nasce dalla nostalgia dell’età dell’oro della tragedia
antica, nella quale viene identificato il paradigma di un’unità originaria
tra parola, suono e gesto.
All’interno di questa strategia della convergenza, la musica non è più
forma pura, ma funzione (espressiva), e, attraverso il dissolvimento del­
le strutture sintattiche in un flusso musicale «infinito» e l’utilizzo della
tecnica dei leitmotiv per tessere all’interno delle opere una rete sotter­
ranea di riferimenti, costituisce una vera e propria «semiotica sonora».5
Sulla stessa linea si pone, quasi un secolo dopo, Eisenstein, quando
cerca di fondare un teatro delle attrazioni, un teatro il cui compito forma-
le consista nell’agire efficacemente sullo spettatore con tutti i mezzi
messi a disposizione dalla tecnica moderna.
Come per Wagner, il rifiuto dei modelli tradizionali si associa a una
volontà di riforma (o meglio di rivoluzione) estetica, e allo stesso tempo
1
«L’estetica ha constatato che l’unità è un requisito capitale per l’opera d’arte»,
R. Wagner, Über die Anwendung der Musik auf Drama, Gesammelte Schriften und Dichtun­
gen, Leipzig 1911 (5a ed.), vol. IX; trad. it. Musikdrama. Scritti teorici sulla musica, Studio
Tesi, Pordenone 1988, p. 228.
2
R. Wagner, Über die Benennung Musikdrama (1872), in GS, p. 30; trad. it., p. 57.
3
C. Dahalaus, Wagners Konzeption des musikalischen Dramas, Regensburg Gustav
Bosse Verlag 1971; trad. it. La concezione wagneriana del dramma musicale, Discanto, Fi­
renze 1983, p. 130.
4
F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner ; trad. it. Scritti su Wagner, Adelphi, Milano
1979, p. 214.
5
F. Nietzsche, Der Fall Wagner, ibidem, p. 180.
111 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

etica. E come per Wagner, al centro del programma di Eisenstein vi è la


necessità di definire delle nuove regole di convergenza tra i diversi lin­
guaggi artistici per fondare «un insieme monistico», una trama com­
plessa di suggestioni polisensoriali capace di indurre nello spettatore
una serie di stati psicologici. Eisenstein prende a modello il Kabuki giap­
ponese, in cui «il suono, il movimento, lo spazio, la voce non si accom­
pagnano (e nemmeno vengono messi in parallelo) l’uno con l’altro, ma
vengono trattati come altrettanti elementi autonomi di senso».6 In
realtà, ben presto Eisenstein si rende conto che «lo stato odierno del
teatro» in quanto arte organica e quindi multisensoriale è rappresenta­
to dal cinema, e in particolare dal cinema sonoro.
Per esplorare le potenzialità della nuova arte cinematografica, il regista
russo elabora un programma sperimentale, in cui la musica si inserisce, in­
sieme agli altri linguaggi, all’interno di una teoria generale del montag­
gio, che è allo stesso tempo una teoria generale dell’espressività.7 Mon­
taggio inteso non solo come dispositivo tecnico, ma come vera e propria
dia-grammatica dei media, struttura che permette la gestione scientifica di
tutti gli stimoli e la fondazione di una sintassi sinestesica.
Come mostrano gli esempi di Wagner e Eisenstein, le strategie della
convergenza mirano all’assemblaggio funzionale dei diversi mezzi
espressivi per costruire un testo composito e ibrido, che Marco De Ma­
rinis definisce «testo spettacolare».
Analizzandone le componenti e le specificità, De Marinis distingue
tra eterogeneità codica (il testo mobilita codici diversi), materica (il te­
sto si basa su una molteplicità di materie e supporti) o dimensionale (il
testo coinvolge diversi canali percettivi).8
Per natura quindi stratificato e complesso, lo Spettacolo ha una geo­
metria variabile. Tuttavia nelle sue sedimentazioni secolarizzate si decli­
na secondo un principio di dominanza: i generi si definiscono a partire
dal linguaggio che è posto al centro del sistema e intorno al quale si ar­
ticolano gli altri linguaggi. Per esempio se al centro è la coreografia, si
ha uno spettacolo di danza, se al contrario al centro sono il testo e la pa­
rola, si ha uno spettacolo di teatro, se al centro sono la musica e il can­
6
S.M Eisenstein, Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, ed. it. a cura di P. Montani,
Marsilio, Venezia 1998, p. 41.
7
Cfr. S.M. Eisenstein, Il montaggio, ed. it. a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia
1986.
8
M. De Marinis, Semiotica del teatro, Bompiani, Milano 1982, p. 94. Cfr. anche C.
Metz, Essais sémiotiques, Klincksieck, Paris 1977, p. 25, e A. Moles, Théorie de l’informa­
tion et perception esthétique, Flammarion, Paris 1958, p. 257, che definisce «multiple» le
arti in cui «molteplici canali o loro modi di utilizzazione sono impiegati simultanea­
mente in una sintesi estetica e percettiva».
EMANUELE QUINZ 112
to, si ha un’opera ecc. Ma sempre di più queste differenziazioni si rive­
lano fragili.
L’evoluzione di questi generi è spesso lenta. In particolare, l’opera,
malgrado alcune rare eccezioni, non ha subìto nel corso dell’ultimo se­
colo delle mutazioni radicali, confermandosi molto spesso come un ge­
nere reazionario, una sorta di retrovia dell’estetica tradizionalista, come
un fenomeno culturale e sociale piuttosto che artistico.9 Ciò malgrado,
l’immobilità non appartiene al sistema delle arti: continuamente, come
mostrano i tentativi «rivoluzionari» di Wagner e Eisenstein, nuove stra­
tegie di convergenza tra la musica e le altre arti emergono, e, mosse dal­
l’insofferenza verso le forme cristallizzate della tradizione e il suo siste­
ma di dominanze, ci permettono di esplorare territori nuovi e nuovi
equilibri.
Un’altra linea di deriva è costituita dalle strategie della corrispon­
denza.
Alla fine dell’Ottocento e poi all’inizio del Novecento, si moltiplicano
i tentativi di identificare e incrociare le analogie strutturali tra i diversi
mezzi d’espressione in funzione di una sintesi: dalle ricerche mistiche
sulle corrispondenze tra suoni e colori di Skrjabin, di Čiurlionis o del
gruppo Der Sturm, agli esperimenti sul ritmo del vorticismo inglese o
del musicalismo francese degli anni Trenta.10
Nell’ambito del primo astrattismo (Paul Klee, Piet Mondrian, Theo
Van Doesburg) e in seguito del Bauhaus, la pittura e in generale le arti
plastiche cercano ispirazione nella musica, in quanto linguaggio forma­
lizzato, matematico, fondamentalmente non-naturalista. In questa pro­
spettiva, le strutture musicali vengono utilizzate come parametri d’orga­
nizzazione per la materia pittorica o plastica: le relazioni differenziali, le
configurazioni ritmiche e gli schemi del contrappunto vengono conver­
titi in una sintassi di punti, linee, superfici.
Una delle teorizzazioni più rigorose di questa strategia è quella pro-
posta dal Blaue Reiter. In uno studio preparatorio al Suono giallo, Kan­
dinskij scrive: «Ogni arte ha il suo proprio linguaggio, ovvero dei mezzi
specifici che le appartengono, ma tutte tendono verso lo stesso obietti­
vo: affermare l’anima umana attraverso un processo spirituale indefini­
bile e tuttavia determinato».11
Qualche anno dopo, nel 1921, Kandinskij descrive durante una con­

9
P. Albera, Il teatro musicale, in Enciclopedia Einaudi, I vol., Einaudi, Torino 2001,
p. 224.
10
Cfr. J.Y. Bosseur, Musique et arts plastiques, Minerve, Paris 1998, cap. 1, p. 9 ss.
11
V. Kandinskij, De la composition scénique, in V. Kandinskij, F. Marc, L’Almanach du
Blaue Reiter, riedizione francese, Klincksieck, Paris 1979, p. 249.
113 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

ferenza la sua concezione di un’arte sintetica. Prendendo le distanze


dal sistema wagneriano (in cui constata «un’imprecisione totale dei
termini»), spiega che l’artista, per potere realmente identificare l’u­
nità profonda, non deve affiancare i mezzi d’espressione artistica in
modo meccanico, ma comprenderne e confrontarne le differenti spe­
cificità.
Anche Kandinskij ribadisce il privilegio della musica, che essendo
«l’arte più immateriale»12 e non ricorrendo all’imitazione della natura,
arriva a esprimere più precisamente «la necessità interiore», la vibrazio­
ne spirituale. E questo, secondo l’artista russo, è il vero fine dell’arte e lo
si può ottenere solamente attraverso l’abbandono del naturalismo e del­
la figurazione, ovvero attraverso la fondazione di un’arte astratta (come
la musica).
Non solo la pittura si sposta verso la musica, ma anche la musica co­
mincia ad aprirsi verso le arti plastiche. Sulla traccia delle parole in li­
bertà e delle tavole parolibere futuriste, a partire dagli anni Sessanta al­
cuni compositori (tra cui Cage, Brown, Feldman, Stockhausen, Bussotti,
Chiari) cominciano a esplorare le componenti grafiche della scrittura
musicale: le partiture diventano elaborati diagrammi, vere e proprie
composizioni visive, non più fatte per essere eseguite e poi ascoltate, ma
piuttosto per essere guardate.
Oggi, la diffusione delle tecnologie digitali offre delle possibilità di
collaborazione interartistica totalmente nuove. Il codice binario digitale
si pone come una sorta di codice universale, un «inter-codice»:13 come
uno stadio fluido a cui tutte le materie, per quanto eterogenee, possono
accedere, attraverso una serie di processi di trasformazione (processi di
digitalizzazione).
L’integrazione digitale mette in comunicazione linguaggi che nor­
malmente utilizzano regimi di segni diversi, permette la confluenza tra
media differenti verso uno stesso sistema digitale integrato, stabilendo
una connessione strutturale tra materie eterogenee trasformate tutte
ugualmente in informazione astratta.
In questo senso, come spiega Pierre Lévy, il termine di «multimedia»
«può indurre in errore, perché sembra indicare una molteplicità di sup­
porti o di canali, quando invece la tendenza va al contrario verso l’in­
terconnessione e l’integrazione».14 Questo primo livello profondo di in­

12
V. Kandinskij, Über das Geistige in der Kunst, trad. it Lo spirituale nell’arte, SE, Mila­
no 1989, p. 39.
13
J.-P. Balpe, L’œuvre comme processus, «anomalie n. 0», anomos, Paris 1999, p. 35.
14
P. Lévy, Cyberculture, Odile Jacob, Paris 1997, p. 78; J.-P. Balpe (Hyperdocuments,
Hypertextes, Hypermédias, Eyrolles, Paris 1990) utilizza piuttosto il termine hypermédia.
EMANUELE QUINZ 114
terattività (tra linguaggi) si apre poi all’esterno, a un secondo livello, at­
traverso la relazione interattiva che le interfacce instaurano con gli uti­
lizzatori.
Negli ultimi anni, sempre più frequenti ricerche e sperimentazioni
interartistiche tentano di definire le specificità di un’estetica dell’inte­
rattività. Le modalità di relazione tra le diverse arti divengono sempre
più efficaci, superando progressivamente il piano delle connessioni su­
perficiali, per esplorare i legami profondi tra i linguaggi. La scrittura al­
goritmica permette in particolare di fissare queste relazioni come una
serie di regole e di comportamenti, integrando anche dei processi alea­
tori o dei dispositivi generativi per renderle più rapide, più pertinenti e
più complesse.15

3. La nozione di ambiente

La nozione di ambiente segna una mutazione radicale.


Da sempre considerata arte del tempo, la musica nel corso del Nove­
cento conquista progressivamente la dimensione dello spazio. Attraver­
so le strategie eversive delle avanguardie, in un movimento che coinvol­
ge tutto il sistema delle arti, il modello dell’oggetto-testo tradizionale en­
tra in crisi ed emerge un nuovo paradigma estetico, basato sulla nozione
di ambiente.
È possibile dividere questa linea in due tratti: da un lato le strategie
esplosive, che forzano i confini dell’oggetto fino ad abolirlo, dall’altro le
strategie implosive, più profonde, che rivelano l’emergenza di un nuovo
statuto delle istanze soggettive.
Le strategie esplosive propongono il superamento del rapporto fron­
tale platea-scena (che poi corrisponde al dualismo soggetto-oggetto) e si
definiscono quindi come dei dispositivi di pluralizzazione della prospet­
tiva.
In ambito musicale, i primi margini che sono stati forzati sono quelli
dell’organizzazione spaziale dell’effettivo strumentale. A partire dagli
anni Sessanta, diversi compositori hanno cercato di moltiplicare i punti

15
Un esempio molto suggestivo è lo spettacolo Trois Mythologies et un Poète aveugle,
realizzato all’IRCAM di Parigi nel 1997, in cui un sistema di generazione automatica di
poesia concepito da Jean-Pierre Balpe era messo in connessione con un sistema ge­
nerativo di musica sviluppato dal compositore Jacopo Baboni Schilingi. Cfr. J.-P. Bal­
pe, op. cit. Per un’analisi e degli esempi di sistemi musicali interattivi, cfr. R. Rowe,
Interactive Music Systems. Machine Listening and Composing, MIT Press, Cambridge Mass.
1993 e il più recente R. Rowe, Machine Musicianship, MIT Press, Cambridge Mass.
2001, in particolare, sulle installazioni interattive.
115 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

di emissione, per modificare la percezione uditiva dello spazio e per


spezzare la prospettiva unica, dapprima giocando sulle associazioni lo­
cali all’interno di una coerenza frontale globale (Coro di Berio), poi sul­
la circolazione tra diverse masse strumentali (Gruppen di Stockhausen),
o sull’opposizione spaziale tra un gruppo strumentale e dei solisti (Ré­
pons di Boulez). Altri compositori, come Xenakis (Terretektorh), ancora
Stockhausen (Ensemble) o La Monte Young e Marian Zazeela (Dream
House) hanno permesso agli spettatori di circolare tra gli strumentisti,
per scegliere il loro punto di ascolto.16
In parallelo, nelle arti della scena alcune pratiche sperimentali hanno
spinto ugualmente all’abbandono dell’opposizione classica pubblico­
scena, proponendo nuovi sistemi di organizzazione dello spazio, molti­
plicando i nuclei d’azione e offrendo agli spettatori la possibilità di sce­
gliere il loro punto di vista. Il passaggio dall’oggetto all’installazione nel­
le arti plastiche si inscrive nello stesso percorso: la prospettiva unica è so­
stituita da una pluralità di prospettive, da una costellazione di punti
sparsi nello spazio.
Le tecnologie di diffusione e di amplificazione, gli sviluppi dell’elet­
tronica, permettendo di simulare e modificare la localizzazione delle
fonti sonore e le dinamiche del suono nello spazio (spazializzazione),
hanno dato ulteriore slancio all’esplorazione delle qualità spaziali dei fe­
nomeni sonori.
Uno dei primi ad avere utilizzato gli strumenti elettro-acustici per at­
tribuire ai suoni delle traiettorie spaziali è senza dubbio Edgar Varèse,
con Hyperprisme prima (1922-23) e con il celebre Poème électronique, con­
cepito per essere diffuso da trecento altoparlanti all’interno del Pavillon
Philips progettato da Le Corbusier e Xenakis per l’esposizione univer­
sale del 1958.
Grazie all’elettronica e ai recenti software di spazializzazione, i com­
positori hanno oggi la possibilità di gestire in modo estremamente pre­
ciso i parametri acustici e spaziali. Da elementi contestuali diventano
elementi fondamentali del testo musicale. Meglio, segnano l’esplosione
del modello testuale e la progressiva emergenza del paradigma ambien­
tale.
Con l’introduzione dell’elemento spazio nel suo sistema, la musica
tende a superare i propri confini. La dimensione sonora si sovrappone e
interagisce con la dimensione visiva, tattile, cinestesica. In opposizione

16
Sulla nozione di spazio nella musica contemporanea, cfr. P. Szondy (a cura di),
Espaces, «Cahiers de l’IRCAM» n. 5, 1994; F. Bayer, De Schönberg à Cage – Essai sur la no­
tion d’espace sonore dans la musique contemporaine, Klincksieck, Paris 1981; I. Istoianova,
Geste-texte-musique, 10/18, Paris 1978.
EMANUELE QUINZ 116
al formalismo che, da Hanslick in poi, domina l’estetica musicale, con­
tro la definizione della musica come puro linguaggio, come sistema dif­
ferenziale di valori astratti, si fonda un’arte sonora, che esplora le di­
mensioni concrete della produzione e della percezione del suono. Al te­
sto viene sostituito l’ambiente, all’oggetto l’evento. È precisamente a
partire dalla nozione di evento sonoro (sound-event) che il compositore
canadese R. Murray Schafer costruisce la sua teoria del paesaggio sonoro
(Soundscape). Criticando la celebre definizione d’oggetto sonoro data
dal padre della musica concreta Pierre Schaeffer, che riconduce un
frammento concreto, estratto da un flusso sonoro registrato alla funzio­
ne astratta di unità sintattica, Murray Schafer spiega che l’evento sonoro
non ha semplicemente delle coordinate spazio-temporali, ma mantiene
anche una stretta relazione con la sua fonte: «Se l’oggetto sonoro si ana­
lizza come oggetto acustico astratto, l’evento sonoro si definisce, al con­
trario, attraverso le sue dimensioni simboliche, semantiche e strutturali.
Esso costituisce un punto di riferimento nell’universo concreto, legato
all’insieme che lo contiene».17
Al contrario degli oggetti sonori, veri e propri «specimen da labora­
torio», gli eventi sonori sono pulsazioni vive, perché non hanno tagliato
il cordone ombelicale che li lega al soggetto e all’ambiente che li hanno
prodotti. «Per esempio, lo stesso suono di campana può essere conside­
rato come un oggetto sonoro se registrato e analizzato in laboratorio, o
come evento sonoro se è identificato e studiato in seno a una comu­
nità».
Murray Schafer definisce quindi il Soundscape come un campo di in­
terazione tra eventi sonori. Nel suo celebre libro-manifesto The Tuning
of the World, analizza gli eventi sonori secondo tre categorie: a) le toniche
(Keynote-Sounds), eventi sonori permanenti per tutta la durata del pae­
saggio sonoro, riconducibili allo «sfondo» della psicologia della perce­
zione, sul quale emergono; b) i segnali (Sound-Signals), ovvero le «figu­
re», i suoni ascoltati coscientemente; c) le impronte, «suoni comunitari
che possiedono caratteristiche di unicità oppure qualità tali da fargli at­
tribuire da parte di una determinata comunità, valore e considerazione
particolare». Questa classificazione rivela una chiara matrice antropolo­
gica. Come spiega lo stesso Murray Schafer, non solo è possibile analiz­
zare gli eventi sonori da diversi punti di vista: secondo gli attributi fisici
(acustica), la percezione che se ne ha (psico-acustica), le loro funzioni e
le loro significazioni (semiotica e semantica), le loro qualità affettive
(estetica), ma è necessario anche analizzare la distanza del suono ri­

17
R. Murray Schafer, The Tuning of the World, Knopf, New York 1976; trad. it. Il pae­
saggio sonoro, Unicopli, Milano 1985.
117 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

spetto all’ascoltatore, la sua traiettoria, come è integrato nel resto del-


l’ambiente ecc.
Ciò significa che, se l’analisi tradizionale di un testo musicale si co­
struisce a partire dalle relazioni tra gli elementi interni al testo (princi­
palmente il sistema delle altezze e delle durate), l’analisi di un evento
sonoro all’interno di un Soundscape non può prescindere dall’identifica­
zione della fonte e delle irradiazioni simboliche e socio-culturali che le­
gano questa fonte all’ascoltatore.
In opposizione alle poetiche iper-formaliste (come il serialismo inte­
grale) o concettuali, le diverse estetiche dell’ambiente sonoro ripro­
pongono la centralità dell’ascolto come un fenomeno estremamente
complesso, come un prisma composto di una molteplicità di livelli so­
vrapposti. In questo contesto, la dimensione indiziale del suono, da sem­
pre considerata non pertinente e quindi esclusa dall’ambito musicale,
torna di attualità: a monte della relazione linguistica e affettiva, l’evento
sonoro è percepito come «indizio», designa direttamente la fonte che
l’ha prodotto, e permette da un lato di situarla nello spazio, dall’altro di
caratterizzarla, di identificarla. All’interno dell’ambiente sonoro, il suo­
no è quindi considerato non solo come mezzo espressivo e comunicati­
vo (dimensione linguistica), come un messaggio che emana da un sog­
getto (o da una pluralità di soggetti) e che si rivolge a un altro soggetto
(o a una pluralità di soggetti), ma anche come una traccia fisica di una
presenza (non solo nel tempo, ma anche nello spazio).
Nell’ambito della filosofia, tra gli altri, Barthes, Deleuze e Guattari
hanno sviluppato una riflessione sulla funzione indiziale, spaziale e
quindi relazionale dell’ascolto. Partendo dalla nozione di suono come
traccia della presenza e dall’esempio del mondo animale, Barthes evoca
la possibilità d’appropriarsi di uno spazio attraverso la dimensione so­
nora.18 Deleuze e Guattari propongono il termine «territorio», in quan­
to «prima articolazione» (agencement),19 atto di nominazione e di orga­
nizzazione di uno spazio da parte di un soggetto. Quando questa artico­
lazione, questa strategia di appropriazione di un territorio avviene at­
traverso una serie di indizi sonori, si ottiene quello che i due filosofi
chiamano ritornello. In questa prospettiva, l’emissione e l’ascolto funzio­
nano come dei vettori di soggettivazione e attivano all’interno dell’am­
biente un campo di relazione. L’emissione sonora diviene una strategia
della territorializzazione, come appropriazione sonora di uno spazio, come
instaurazione di un territorio. Dall’altro lato, la ricezione diviene una

18
R. Barthes, Ecoute, in L’obvie e l’obtus, Seuil, Paris 1982, p. 218; trad. it. L’ovvio e
l’ottuso, Einaudi, Torino 1985.
19
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux, Seuil, Paris 1980, p. 386 ss.
EMANUELE QUINZ 118
strategia dell’individuazione: l’ambiente sonoro è percorso alla ricerca de­
gli indizi che segnalano le frontiere dei diversi territori, le tracce della
persistenza, dell’attività dei diversi nuclei soggettivi. L’ascolto diviene
una sismografia della presenza.
L’analisi del Soundscape di Murray Schafer, estendendosi dai criteri fi­
sici alle relazioni che si instaurano tra paesaggio acustico e i microco­
smi culturali e sociali, ha permesso la produzione di progetti musicali e
inter-artistici in situ, fondati sulle nozioni di ecologia acustica e di de­
sign sonoro.20 Ma questa concezione dell’ambiente sonoro è ben lungi
dall’essere la sola. In realtà, le componenti plastiche, la convergenza
delle dimensioni sonore, visive, spazio-temporali, le stratificazioni dei
codici e la contaminazione dei supporti, la complessità degli apparati
tecnici utilizzati, danno luogo a materializzazioni estremamente etero­
genee di questo modello. Nelle installazioni di artisti come Christina
Kubisch, Laurie Anderson, Stan Douglas, Robin Minard, Bill Fontana o
Gary Hill, le tecnologie di diffusione, spesso associate al video, permet­
tono di estendere l’esplorazione dello spazio sonoro a territori ancora
inesplorati (attraverso dei dispositivi della presenza a distanza o dei
processi di alterazione percettiva, per esempio).21 Un’altra via è stata
aperta dalla Musique d’Ameublement (1920) di Erik Satie, e più recente­
mente dall’Ambient Music, lanciata da Brian Eno negli anni Sessanta.
L’opera corrisponde alla creazione di un fondo sonoro che implica
un’esperienza d’ascolto distratto: i suoni non sono più un oggetto da
ascoltare ma un luogo da abitare. Secondo la definizione di Eno, l’Am­
bient Music è una musica «capace di colorare l’atmosfera dello spazio
in cui è diffusa. È una musica che circonda l’ascoltatore d’un senso di
immensità e di profondità, e che ha la tendenza ad avvolgerlo da tutti i
lati, piuttosto che a dirigersi verso di lui. Essa si confonde con i suoni
dell’ambiente, e sembra invitare ad ascoltare musicalmente l’ambiente
stesso...».22

4. Strategie della partecipazione e dell’interattività

Le strategie esplosive rivelano che la pluralizzazione della prospettiva


implica l’abolizione del dualismo soggetto-oggetto. Abitato da una plu­
20
Sulle esperienze della Soundscape Composition, cfr. F. Galante, N. Sani, Musica
espansa, Ricordi LIM, Milano 2000, pp. 341-384.
21
Cfr. il catalogo dell’esposizione Klangkunst, Berlin Akademie der Künste, Prestel
Verlag, München-NY 1996.
22
Cit. in E. Tamm, Brian Eno. His Music and the Vertical Color of Sound, Da Capo
Press, New York 1995, pp. 131-132.
119 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

ralità di oggetti ma anche di soggetti (d’emissione e di ricezione), lo spa­


zio acustico diventa ambiente, campo di relazione. Più sotterranee, le
strategie implosive segnano il cambiamento di statuto, non più dell’og­
getto, ma delle diverse entità soggettive implicate. Tra le altre, le poetiche
performative della partecipazione, dell’happening, dell’opera aperta, e
più recentemente il paradigma interattivo propongono allo spettatore di
assumere una nuova postura: non solo di lasciarsi includere nell’am­
biente, ma anche di intervenire direttamente e sempre più profonda­
mente nei processi di produzione e di attualizzazione dell’opera.
John Cage rappresenta nella storia della musica contemporanea un
punto di crisi radicale. Secondo Cage, la creazione musicale deve rinun­
ciare all’intenzione soggettiva e «lasciare che i suoni siano quello che so­
no»; rinunciare alla costruzione e alla determinazione e aprirsi all’ascol­
to dell’universo (dei suoni) nella sua complessità. In questo modo, non
solo i confini tra suono e rumore vengono aboliti, ma anche la nozione
di musica come linguaggio viene totalmente relativizzata. Nel celebre
4’33’’ (1952), il musicista presente sulla scena non produce alcun suono:
il silenzio focalizza l’attenzione sui rumori dell’ambiente. A partire dagli
anni Cinquanta, Cage comincia a introdurre nel processo compositivo
delle operazioni casuali (per esempio utilizzando il libro cinese dell’I-
Ching in Music of Changes, 1951),23 elaborando una vera e propria poeti­
ca dell’indeterminazione. Lo stesso obiettivo è alla base dei progetti in-
ter-artistici: Cage non cerca di fondare un’opera d’arte totale, una sinte­
si delle arti, ma propone al contrario la coesistenza di elementi diversi,
eterogenei, spesso senza legami. L’artista lascia il campo libero all’azione
di nuove forme di soggettività (automatiche, casuali, plurali): l’arte si av­
vicina alla vita, l’autonomia dei diversi processi e dei diversi soggetti co­
struisce un universo complesso e imprevedibile. Nel 1952, Cage organiz­
za al Black Mountain College il primo happening, una sorta di evento
che riunisce all’interno dello stesso spazio-tempo musica, pittura, testo,
video, diapositive, danza e coinvolge artisti come Merce Cunningham e
Robert Rauschenberg. Qualche anno dopo nel 1959, Allan Kaprow pre­
cisa la nozione dell’happening, come creazione di ambienti e situazioni
anodine, che riuniscono supporti e linguaggi eterogenei (proiezioni di
film e di diapositive, danza, musica concreta, testi, azioni, costellazioni di
suoni), arrivando a includere nell’opera la presenza e l’azione anche de­
gli spettatori.
Sulla scia di Cage nasce Fluxus (1961). Se solo alcuni dei promotori,
come Dick Higgins o George Brecht, frequentano i corsi di Cage alla

23
Cfr. J. Cage, Composition as Process, in Silence, Wesleyan University Press, Hanno­
ver/London 1973, pp. 18-55.
EMANUELE QUINZ 120
New School for Social Research di New York, tutti (e George Maciunas
in testa) si ispirano alle sue posizioni e in particolare alla poetica del-
l’indeterminazione. Il nome Fluxus riunisce una serie di esperienze
estremamente disparate. Esso appare per la prima volta, in occasione di
una serie di concerti di musica «più nuova» (Fluxus Internationale Fest­
spiele neuester Musik, in polemica con la Neue Musik emersa ai Ferienkur­
se di Darmstadt) tenutasi a Wiesbaden nel 1962: dalla Ranger Music #17
di Dick Higgins (in cui l’artista si fa radere in scena) alla Drip Music di
George Brecht (in cui un attore su una scala versa da una brocca del-
l’acqua sul suolo), alle celebri Piano Activities di Philip Corner (in cui un
pianoforte viene distrutto sulla scena): emerge una concezione desacra­
lizzante, sarcastica della musica, che bandisce l’io per aprirsi, sulla trac­
cia delle esperienze dadaiste, ai processi automatici, all’humour dell’i­
natteso. Nel 1959, lo stesso anno in cui Kaprow programma i suoi 18
Happenings, George Brecht presenta a New York la sua prima esposizio­
ne personale Toward Events. Partito anch’egli dalle sperimentazioni sulle
qualità sonore degli oggetti, Brecht definisce il concetto di evento (event)
come «un’esperienza totale e multi-sensoriale».24 Se l’happening richie­
de ancora una dimensione sociale, in cui il pubblico partecipa alla si­
tuazione provocata, l’event, attraverso delle partiture che consistono
spesso semplicemente in una serie di istruzioni scritte su delle carte (co­
me in un gioco), ha la funzione di attirare l’attenzione su azioni banali
(come accendere la luce, guardare fuori dalla finestra), che possono es­
sere svolte dallo spettatore da solo o con chi vuole, e soprattutto dove e
quando vuole. La costellazione Fluxus include, oltre a Brecht e Kaprow,
le sperimentazioni di artisti, in parte emersi dal mondo della musica, co­
me il coreano Nam June Paik o la giapponese Yoko Ono, il francese Ben
Vautrier (fondatore a Nizza del Group d’Art Total), il tedesco Wolf Vo­
stell (promotore della rivista «Dé-coll/age») o gli americani Ben Patter­
son, Emmett Williams, La Monte Young e Henry Flynt. Ma, malgrado gli
sforzi di coordinazione di George Maciunas, Fluxus non riuscì mai a di­
venire un vero e proprio movimento con una poetica unitaria. Comuni
erano piuttosto gli obiettivi polemici, una sorta di insofferenza verso la
tradizione e la separazione delle arti, e una nebulosa volontà di fondere
le discipline, di esplorare territori nuovi, di dare all’arte nuovi strumenti
e nuove materie, di includere nell’esperienza estetica gli oggetti e le si­
tuazioni della vita quotidiana, di attribuire allo spettatore un ruolo sem­
pre più attivo all’interno del processo di creazione. Emerge come rifiuto
del simbolismo, dell’espressionismo e delle dinamiche di rappresenta­
24
G. Brecht, The Origin of Events, August 1970, in Happening & Fluxus, Köln 1970,
ripubblicato in Fluxus dixit, Les Presses du Réel, Dijon 2003, p. 47.
121 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

zione, un ancoraggio al reale, un’insistenza sul concreto. Come mette in


rilievo Michael Nyman, le sperimentazioni della costellazione Fluxus
puntano più verso la natura naturans che verso la natura naturata:25 l’at­
tenzione non è posta sui meccanismi di manipolazione intenzionale de­
gli oggetti del mondo, ma sulla ricerca delle forze sorgive, delle dinami­
che inattese della natura e del mondo in quanto soggetto altro. Scrive nel
1962 George Maciunas, nel manifesto New-Dada in Music, Theater, Poetry,
Art: «L’opera deve fornire una specie di struttura, una macchina automa­
tica, con la quale la natura (la cui legge è il caso) possa completare la for­
ma artistica efficacemente e indipendentemente dall’artista. Quindi il
contributo fondamentale dell’artista consiste nel concepire un metodo
secondo il quale la forma possa creare indipendentemente da lui...».26
Partendo «dall’estremo del concreto»27 ovvero dal ready-made di Du­
champ, esteso poi da Cage al sonoro e da Kaprow all’ambiente e alla si­
tuazione, George Maciunas sviluppa tutta un’ideologia del «concreti­
smo» in opposizione all’illusionismo e all’astrattismo: «Prendendo come
esempio la musica, se si ha una composizione orchestrale, si ha un’ope­
ra astratta, in quanto i suoni sono prodotti artificialmente da degli stru­
menti musicali. Ma se quest’orchestra tenta di imitare una tempesta, di­
ciamo, come fanno Debussy o Ravel, allora l’opera è illusionista [...]. Ma
se si producono dei rumori come gli applausi del pubblico [...] o delle
macchine nella strada, o qualunque altro rumore, allora l’opera è con­
creta». L’appropriazione degli oggetti, dei rumori, delle azioni ready-ma­
de, in quanto espletazione di una pratica concreta, secondo Maciunas
serve a rivelarne non le qualità espressive o imitative, ma a rendere evi­
dente l’automatismo funzionale, abolendo con lo stesso movimento
ogni residuo, oltre che di intenzionalità, anche di «professionalità» arti­
stica. Come voleva Cage, l’arte si libera della forma per aprirsi ai misteri
dell’alterità.
La poetica dell’opera aperta degli anni Sessanta costituisce un’ulte­
riore tappa nella mutazione dello statuto dell’opera musicale. Alcuni
compositori (Stockhausen, Boulez, Brown, Pousseur, Boucourechliev e
altri) cominciano a proporre delle opere in cui alcune scelte (l’ordine
delle sequenze da eseguire, le dinamiche ecc.) sono lasciate all’inter­
prete. Secondo la teorizzazione che ne ha fatto Umberto Eco, la poetica
dell’opera aperta corrisponde a una sorta di applicazione al processo di
creazione dei meccanismi che regolano la ricezione estetica: se la per­

25
M. Nyman, Experimental Music: Cage and Beyond, Studio Vista, London 1974, p. 21.
26
Cit. in E. Restagno (a cura di), Reich, EDT, Torino 1994, p. 23.
27
Cit. in L. Miller, Interview with George Maciunas, 24 marzo 1978, in Fluxus dixit,
op. cit., p. 65.
EMANUELE QUINZ 122
cezione artistica è sempre «aperta», dipende dal prisma delle compe­
tenze e delle proiezioni individuali; le opere «aperte» trasformano que­
sta constatazione in intenzione programmatica, in matrice formale. La
modularità strutturale apre l’opera a una molteplicità di interpretazioni
diverse (nel doppio senso del termine, come processo di attribuzione di
senso e come esecuzione).
L’indeterminazione e l’alea tuttavia non sono più considerate, come
per Cage e Fluxus, mezzi per liberare le forze dell’alterità e scoprire nuo­
ve forme di soggettività, ma sono in qualche modo «controllate», rese og­
gettive dal rigore della scrittura musicale. In un saggio del 1957, Boulez28
oppone alla nozione di caso proposta da Cage (che, a suo avviso, «ma­
schera una debolezza congenita nella tecnica di composizione») il prin­
cipio della permutazione derivato dal serialismo, capace di integrare di­
namiche aleatorie (e quindi le nozioni di complessità e variabilità) al-
l’interno di un impianto strutturale di estremo rigore. In composizioni
come la Terza sonata per pianoforte (1957) o Pli selon Pli (1958-62), entram­
be ispirate al Coup de dés di Mallarmé, Boulez sperimenta una serie di or­
ganizzazioni formali in cui alcuni elementi sono aperti, lasciati all’arbi­
trio dell’interprete. Secondo il musicologo Nattiez, la poetica dell’opera
aperta, avvelenata da una serie di aporie concettuali, non riesce a modi­
ficare lo statuto del testo musicale.29 In realtà, anche se è vero che alla ri­
cezione, lo spettatore si trova davanti a un testo compiuto e quindi in un
certo senso tradizionale, il baricentro si è spostato: l’attenzione non è più
posta sull’oggetto-testo, ma sul processo (la strategia della modulabilità)
che ha portato alla sua attualizzazione.
Con la diffusione delle tecnologie digitali, si passa dalla partecipazio­
ne all’interattività. Già alla fine degli anni Sessanta, alcuni degli artisti
americani che hanno promosso l’happening e le altre forme di estetica
partecipativa iniziano a integrare ai loro progetti delle apparecchiature
elettroniche o dei sistemi di sensori. Al fine di instaurare una serie di
collaborazioni tra arte, scienza e tecnologia, viene per esempio fondato
a Los Angeles, nel 1967, l’Art & Technologies Program, al quale parteci­
pano artisti come Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Claes Oldenburg,
Walter De Maria, Dan Flavin, Robert Rauschenberg. L’anno seguente, al
MIT di Cambridge, l’artista cinetico Otto Piene fonda il CAVS, Center for
Advanced Visual Studies, che vede la collaborazione di Paik e più tardi
di Bill Seaman. Lo stesso anno, Robert Rauschenberg e l’ingegnere Bil­

28
P. Boulez, Aléa, in Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966; trad. it. Note di apprendista­
to, Einaudi, Torino 1968. Cfr. la replica di Cage, in J. Cage, Pour les oiseaux, Entretiens
avec Daniel Charles, L’Herne, Paris, p. 219-220.
29
J.-J. Nattiez, Fondements d’une sémiologie de la musique, 10/18, Paris 1975, p. 121 ss.
123 DALLA GESAMTKUNSTWERK AGLI AMBIENTI SONORI

ly Klüver fondano EAT, Experiments in Art & Technology.30 In altri labo­


ratori americani o canadesi, per la maggior parte universitari, altri pio­
nieri come Myron Krueger o David Rokeby cominciano a creare le pri­
me installazioni tecnologiche interattive. Krueger, a proposito dei suoi
progetti, come il celebre VideoPlace, utilizza il termine di Responsive En­
vironments, ambienti in cui «il comportamento umano è percepito da un
computer che interpreta ciò che osserva e che risponde attraverso delle
manifestazioni audiovisive intelligenti».31
Grazie allo sviluppo progressivo delle interfacce digitali, gli ambienti
subiscono una riconfigurazione: non solo si trasformano in sistemi au­
tomatizzati, ma acquisiscono una sensibilità, diventano interattivi.
Anche in Italia, il gruppo di Studio Azzurro e il compositore Giorgio
Battistelli avviano dalla fine degli anni Ottanta una lunga collaborazione
che integra in modo originale la musica con la performance teatrale e le
immagini video, in un processo evolutivo che va dalle videoproiezioni
multiple dinamiche agli ambienti interattivi.32 Come sostiene Christine
Buci-Glucksmann, con il digitale si consuma il passaggio da una cultura
(e quindi da un’estetica) degli oggetti a una cultura (e un’estetica) dei
flussi.33 All’interno di questo contesto, nelle installazioni, negli ambien­
ti interattivi, il centro dell’opera è costituito dal dialogo che lo spettato­
re instaura con il sistema. O più precisamente, dato che il digitale im­
plica il processo della programmazione, «il materiale artistico è costitui­
to dal dialogo automatizzato tra il programma e lo spettatore».34 In par­
ticolare, le installazioni sonore interattive sviluppano nella maggior par­
te dei casi dei modelli di interazione auditiva, basati sul dialogo tra i mo­
vimenti dello spettatore nello spazio sensibile e l’ambiente sonoro. Il
Very Nervous System a cui David Rokeby comincia a lavorare già nel 1986,
ne rappresenta senza dubbio il primo prototipo. Secondo la definizione
del suo autore, VNS è «un ambiente nel quale il movimento del corpo
dello spettatore crea dei suoni e/o della musica»:35 al centro di uno spa­
zio reso sensibile da una serie di telecamere che captano il movimento,
lo spettatore è invitato a improvvisare dei gesti, ai quali rispondono dei

30
Sulla linea che collega l’happening ai Reactive Environments, cfr. R. Kostelanetz,
The Theatre of Mixed Means. An introduction to Happenings, Kinetic Environments and
other Mixed-Means Performances (1968), R. Kostelanetz ed., New York 1987.
31
M. Krueger, Artificial Reality, Reading, Addison-Wesley 1983, p. 47.
32
Cfr. i due volumi di Studio Azzurro, Electa, Milano 1995 e 1999.
33
Cfr. C. Buci-Glucksmann, La folie du voir. Une esthétique du virtuel, Galilée, Paris
2002, p. 227.
34
S. Dinkla, Pioniere Interaktiver Kunst, Karlsruhe ZKM/Cantz Verlag 1997, p. 39.
35
D. Rokeby, Very Nervous System, disponibile sul sito dell’artista http://www.inter­
log.com/~drokeby/ (luglio 2003).
EMANUELE QUINZ 124
suoni o delle sequenze musicali. A Rokeby non interessa tanto la qualità
dei movimenti o degli eventi sonori, «la danza» o «la musica», quanto
piuttosto «la creazione di una relazione complessa e risonante tra l’inte­
rattore e il sistema». Questa relazione che si costruisce attraverso la me­
diazione dell’interfaccia, si definisce come un circuito, una spirale che
lega azione, percezione e reazione, ascolto e movimento secondo il mo­
dello del feedback teorizzato dalla cibernetica.
In realtà, in questo contesto, il feedback non si riduce a un semplice
behaviorismo basato sul binomio stimolo-risposta, poiché nel dispositivo
interattivo, il sistema è capace di modificare ogni volta la relazione che
stabilisce tra input e output. La macchina non risponde semplicemente
a un segnale, ma tratta un’informazione. La comunicazione che si in­
staura all’interno dell’ambiente non corrisponde alla semplice trasmis­
sione di un messaggio, ma piuttosto all’«induzione reciproca di com­
portamenti coordinati tra i membri di un’unità sociale».36
Nelle installazioni di Rokeby, il feedback diviene l’elemento centrale
dell’opera. Esso non è semplicemente “negativo” o “positivo”, inibitorio
o rinforzante, ma al contrario è l’incarnazione del divenire, delle tra­
sformazioni reciproche tra i due sistemi, l’uomo e la macchina».
Secondo Rokeby, questo tipo di relazione è capace di creare una for­
ma totalmente inedita di armonia (nel senso musicale del termine), che
egli definisce l’armonia dell’interazione (harmonics of interaction):37 come il
feedback acustico può esagerare gli attributi acustici di una sala, il feed­
back interattivo vissuto come un loop continuo è capace di stimolare, di
amplificare certi aspetti del sistema, ma anche dei partecipanti, produ­
cendo una serie di «risonanze»: la simmetria della relazione interattiva si
materializza in un’armonia musicale. Lo spazio-interfaccia diviene una
membrana sensibile (very nervous) in attesa che un movimento lo faccia
vibrare. L’ambiente diviene una sorta di iper-strumento,38 di strumento
musicale esteso e intelligente che attende il gesto dello spettatore per in­
staurare un dialogo. E questo gesto, questo dialogo, diventano a loro
volta musica.

36
H. Maturana, F. Varela, El arbol del conocimiento, 1984; trad. it. L’albero della Cono­
scenza, Garzanti, Milano 1999, p. 167.
37
Cfr. D. Rokeby, The Construction of Experience: Interface as Content, in C. Dodsworth Jr.
(a cura di), Digital Illusion: Entertaining the Future with High Technology, Reading, Addi­
son-Wesley 1998.
38
Sulla nozione d’hyper-instrument cfr. T. Machover, HyperInstruments: Musically Intelligent
and Interactive Performance and Creativity Systems, Proceeding of the International Com­
puter Music Conference, 1989, pp. 186-190; o D. Rodger, Sensing Motions. Defining a
Tradition in Interactive Music Performance, on-line: http://fraben.latrobe.edu.au/mikro­
pol/volume2/rodger/rodger.html (luglio 2003).
ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE
COORDINATE PER UN TRACCIATO (1895-1968)
Gilberto Pellizzola

1. Itinerario e preliminari

Un «menu estetico» pubblicato in data 1893 si chiude con una «ma­


cedonia di frutti proibiti alla Baudelaire, ben zuccherata». Riflesso mi­
nore, ma significativo, della capillare presenza del poeta nella cultura e
nell’immaginario di fine secolo. La fortuna di Baudelaire è dovuta alle
coincidenze della sua vicenda fra vita e arte, poesia e pittura, musica e
letteratura, che lo designano quale precursore dell’ideale simbolista di
unità sinestetica delle arti. Unità che si realizzerebbe, con l’autorità di
Wagner, nell’opera totale a fondamento musicale-teatrale: una formula
che trova lapidaria efficacia nell’assioma di Walter Pater: «Tutte le arti
aspirano costantemente alla condizione della musica» (1877). Il mito
modernista dell’opera totale è in gestazione con il romanticismo, negli
interscambi fra musica, arte, scienza che sono già evidenti in Goethe,
E.T.A. Hoffmann, von Kleist. Il pittore Philipp Otto Runge (1777-1810)
immaginava una combinazione a sfondo mistico, in forma di edificio
templare, fra dipinti di paesaggio, decorazione, musica, architettura.
Elementi intrinsecamente solidali, nella visione romantica, che il razio­
nalismo pratico del positivismo, in coincidenza con la seconda rivolu­
zione industriale, si propone di separare e specializzare. Ma il simboli­
smo, in reazione antipositivistica, ha dalla sua una compattezza teorica
che condiziona la cultura occidentale almeno fino alla Grande Guerra,
e insieme una flessibilità operativa che si dimostra capace di permeare
anche i linguaggi tecnologici ad alta diffusione, quali la stampa, la foto­
grafia, il cinema. In tale aspirazione globalizzante è identificabile il pos­
sibile (per noi funzionale) punto d’avvio di una fusione delle arti nel su­
peramento dei campi disciplinari e, cosa più rilevante, attraverso un’a­
perta sperimentazione linguistica. Il percorso storico-artistico che qui si
tenta è per episodi e casi esemplari individuati nel terreno, che si fa
sempre più vago, delle arti cosiddette visive, partendo dalla data simbo­
lica del 1895, «annus mirabilis» (G.P. Brunetta, 1997): quando, a compli­
care definitivamente il panorama del moderno, appare il cinema. In
questa prospettiva, le avanguardie storiche corrispondono, anche in sen­
so quantitativo e internazionale, alla prima grande affermazione di
un’arte di ricerca che si distingue senza ritorno dall’arte di tradizione, fon­
GILBERTO PELLIZZOLA 126
data su un riconoscibile mandato di conferma socio-culturale e sugli
specifici tecnico-linguistici: quadro, statua, dramma, concerto... Se in
età simbolista restavano comunque vigenti le divisioni convenzionali, la
cui sintesi di fatto avveniva a posteriori, ora le singole poetiche e le im­
prese di gruppo si dilatano a comprendere ogni possibile e nuova even­
tualità di costruzione e combinazione formale, di comunicazione. La
sperimentazione artistica viene inoltre rafforzata da una continua ela­
borazione teorica, che si traduce in tattica sociale attraverso manifesti
d’intenti, conferenze più o meno spettacolarizzate, pubblicazioni perio­
diche. Vicenda e percorso, dell’avanguardia storica, che identificano
senz’altro, con alterne fortune e vicissitudini, una direttrice della mo­
dernità, fino al prevalere, sul crinale del «Sessantotto», di altre istanze,
di ordine analitico, concettuale, politico.1 Al punto critico e in qualche
modo conclusivo di tale itinerario (del quale è bene ribadire la natura
provvisoria di strumento storiografico), poniamo quell’insieme allargato
e instabile, che interseca i fenomeni più ampi del new dada, di Fluxus,
della pop art, rubricato alle voci: environment, intermedia, happening,
performance.
Esperienze estreme, di neovanguardia appunto, in cui si sposta pe­
rentoriamente lo statuto oggettuale dell’opera d’arte verso una defini­
zione formale aleatoria ed effimera: ambientazioni provvisorie e occa­
sionali, azioni individuali e collettive che si consumano in tempo reale,
sonorità e immagini abbandonate al flusso immateriale dei mezzi tec­
nologici. Un’arte volutamente disordinata e frammentaria, aprogram­
matica, incline al repertorio della quotidianità più banale e anche più
degradata: «Dolce e stupida come la vita stessa» (Oldenburg), «Come
una corrente fluttuante» (Maciunas). Ma a differenza dell’imminente
arte concettuale, questi esiti vengono raggiunti per accumulo, non per
sottrazione e analisi, attraverso le più avventate combinatorie di tecni­
che, avvenimenti, materiali, linguaggi. In continuità rispetto al polima­
terismo delle avanguardie storiche, con la prassi e la filosofia del collage,
del montaggio paratattico, dell’assemblage e dell’installazione sito-spe­
cifica, e perseguendo associazioni che svariano e si mescolano dal co­
struttivo all’improvvisato al casuale-inconscio. Relativamente alla scena
americana: «Le prime vere e proprie installazioni erano orientate [...] in
senso teatrale e scultorio, cominciando con gli happening di Allan Ka­
prow per continuare con gli “ambienti” di Jim Dine, Claes Oldenburg,
George Segal ed Edward Kienholz. Di fatto un’opera pionieristica come
i 18 Happenings in 6 Parts di Kaprow [...] dimostra che l’arte dell’instal­

1
Cfr., per un ricapitolo del dibattito, D. Harvey, La crisi della modernità, 1990, il
Saggiatore, Milano 1997.
127 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

lazione e le performance di avanguardia andarono maturando simulta­


neamente e parallelamente nell’ambito della stessa comunità» (D. Ca­
meron, 1988).
Allan Kaprow, che spartisce con Cage l’invenzione degli happening,
ha chiaramente delineato, nel 1960, una genealogia che prende le mos­
se dal papier collé di Braque e Picasso. Divergono sensibilmente da questa
interpretazione Richard Schechner e Michael Kirby. Protagonisti en­
trambi della neovanguardia teatrale nordamericana, propendono nei
loro fondamentali interventi fra 1967 e ’68 ad analizzare il fenomeno in
termini di spazio scenico e spettacolo – di ascendenza Bauhaus per
Schechner – pur riconoscendo il fondamentale apporto delle arti visive
e degli artisti: secondo Kirby, l’happening è anzi teatro fatto dai pittori,
che accolgono come compagni di strada poeti e musicisti (ed eventual­
mente attori e ballerini): «Sebbene alcuni loro sostenitori affermino il
contrario, gli happening, alla stessa stregua di musical e commedie, so­
no teatro. Gli happening sono una nuova forma di teatro (proprio come
il collage è una nuova forma di arte visiva)» (M. Kirby, 1965). Il caso del
futurismo, nell’immagine che ne ha delineato Paolo Fossati, può essere
a questo punto illuminante circa la complessità dei rapporti fra teatro e
arti visive, questione capitale attraverso il Novecento, ma che a distanza
di sintesi storica non offre certo soluzioni univoche: «Di fronte a una cri-
si delle arti, dei generi e dei modi con cui pittori e scultori si esprimono
e comunicano tradizionalmente, la spettacolarizzazione delle esperienze
artistiche e l’integrazione del lavoro figurativo al di là dei generi tradi­
zionali, costituiscono aspetti di grande interesse negli anni che fan cen­
tro nella prima guerra mondiale. Il punto rilevante appare, quindi, la
vocazione allo spettacolo delle arti in quel frangente. Vocazione che in-
contra [...] il teatro vero e proprio [...] per la sua capacità programma­
tica di porsi davanti a una società di massa [...] meglio e più fondata­
mente di quanto non facciano altri media, altri produttori» (P. Fossati,
1977).

2. Una sintesi delle arti

La nascita ufficiale e gli esordi commerciali del cinema si pongono


nel contesto dello spettacolo di intrattenimento e delle attrazioni da ba­
raccone ambulante: non in contraddizione, le precoci analisi teoriche
sul nuovo mezzo lo salutano quale «potente sintesi moderna di tutte le
arti» (Canudo). Le origini del cinematografo e del film s’inquadrano in­
fatti in una cultura entro la quale il ballo popolare, il café chantant e il
cabaret, la fiera e il circo catturano il grande pubblico ma anche gli ar­
GILBERTO PELLIZZOLA 128
tisti non conformisti, dai pittori impressionisti a Toulouse-Lautrec, Seu­
rat e Picasso, da Satie a Wedekind, da Jarry a Stravinskij. Una fascinazio­
ne per il folklore urbano, per la spettacolarità quotidiana e iperbolica
della strada e della vita notturna, che prosegue amplificata nelle prime
avanguardie e ben dentro il Novecento, come dimostra l’egemonia del­
la pop art nel panorama artistico della metà degli anni Sessanta. Il cine­
ma perfeziona un clima di abitudini e attese entro una situazione di ac­
celerazione tecnologica e culturale, vertiginosa se paragonata alle pur
ottimistiche e diffuse aspettative del periodo (S. Kern, 1983). Tali da ri­
velare, nelle prime stupefatte testimonianze, una sorta di predisposizio­
ne antropologica alla sintesi sensoriale: «Il cronista di “Le Radical” ave­
va parlato dei “colori” della realtà riprodotta, nonostante il film dei Lu­
mière fosse in bianco e nero. La contessa de Pange aveva ricordato d’es­
sersi “tappate le orecchie” quando vide un muro crollare, come se l’im­
magine cinematografica avesse riprodotto anche il rumore del crollo,
nonostante il cinema fosse allora muto».2
Nove anni prima Morèas aveva pubblicato il Manifesto del simbolismo. Il
progetto di tendenza – che in realtà nel 1886 era una situazione diffusa-
mente in atto – estende il sistema lirico baudelairiano delle corrispon­
denze all’ambito intero delle arti, unificate a programma da un’identica
aspirazione ideale. Il riscontro in ambito visivo è nella dominante del se­
gno organico curvilineo, quasi un diagramma musicale, che viene a isti­
tuire con il nome di art nouveau un criterio di unità stilistica ed epoca­
le. È un fenomeno che si estende dai preraffaelliti a Munch, che coin­
volge Klimt come Gauguin e Van Gogh, e parimenti l’architettura neo­
barocca di Gaudí e quella protorazionalista di Van de Velde. In scultura
il primato dei valori lineari e fluenti, l’unità continua dei volumi si pro­
tendono con Barlach fino all’espressionismo. La matrice è nella musi­
calità assunta a principio dell’arte, nel tonalismo inteso come armonia
naturale e innata, nel moto ondoso e circolare della sinfonia wagneria­
na. La cui audizione aveva provocato in Baudelaire un’emozione cromati­
ca, paragonata al godimento della pittura, che narrò per lettera al Mae­
stro (con impressionante coincidenza, il giovane Kandinskij: all’ascolto
di Wagner «vidi nella mente tutti i miei colori; erano lì davanti ai miei
occhi»). Van Gogh legge con entusiasmo gli scritti di Wagner e si pro­
pone di «vivere più musicalmente». Ancora «wagneriane», per dichiara­
zione dell’autore, saranno le sculture di Paolozzi nell’ambito della pop
art britannica.3

2
G. Rondolino, La musica nel cinema, in A. Basso (a cura di), Musica in scena. Storia
dello spettacolo musicale, 6 voll., UTET, Torino 1997, vol. VI, p. 267.
3
D. Thompson, Scultura, 1960-1976, in G. Ballo, F. Russoli (a cura di), Arte inglese
129 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

Sono continue, con originaria intensità sul crinale otto-novecente­


sco, le fuoriuscite dai domini disciplinari, le contaminazioni fra ruoli,
tecniche, linguaggi, come prestabiliti da conservatori, accademie, poli­
tecnici. Duchamp ammette con disinvoltura un fondamentale debito
letterario e teatrale: «È stato Roussel l’ispiratore per il mio vetro La
Mariée mise à nu par ses celibataires, même. Dalle sue Impressions d’Afrique
ricavai l’approccio generale».4 Si riferisce alla versione scenica del mi­
rabolante romanzo rousselliano – costellato di sublimi macchine al­
chemiche – cui aveva assistito nel 1911 in compagnia di Picabia. Questi
è autore, fra il 1913 e il 1920, di almeno tre versioni del dipinto La mu­
sica è come la pittura, da confrontare con la diffusione di gusto simboli­
sta degli spartiti musicali illustrati – innovativi quelli di Bonnard per
Ubu Roi di Jarry5 – e con la successiva pratica segnica di compositori di
neoavanguardia come Cage, Bussotti, Chiari. Un disegno di Boccioni
del 1911 mostra una serata futurista in pieno svolgimento. La scena è
occupata dai «declamatori»: Boccioni stesso, Marinetti, Pratella, Rus-
solo e Carrà, e da un gruppo di corpi distesi che vengono trionfalmen­
te calpestati; davanti al palcoscenico un’orchestra in cui prevalgono
fiati e percussioni, scatenata; sul fondale si riconoscono due dipinti
boccioniani e un quadro di Russolo. L’immagine rende con forza l’at­
mosfera caotica ed eccessiva, l’effetto di proliferazione sinestetica e il
provocatorio crescendo che condurrà, inevitabilmente e per la gioia
dei futuristi presenti, alla «scazzottatura» e all’intervento delle forze
dell’ordine.
La varietà di queste formulazioni è riconducibile alla condivisa ne­
cessità, etica e artistica insieme, di misurarsi rispetto alle configurazioni
via via complesse della modernità, all’«età delle macchine» (Leopardi),
al «nostro nuovo mondo elettrico» (McLuhan). L’impegno contro le
divisioni settoriali del sapere e della creazione artistica assume rilevanza
centrale in quanto viatico per la reimmissione dell’arte nella vita, contro
il ruolo marginale e ricreativo che la borghesia attribuisce alla cultura e
all’artista. Obiettivo è la bonifica della sensibilità dell’insieme sociale, se­
condo alcuni atrofizzata per sovraccarico dalla modernità, secondo altri,
proprio in quanto sensibilità plasmata dal moderno, avvilita dalla tradi­
zione e già pronta per nuove e più azzardate avventure. Nel primo caso,

oggi. 1960-1976, 2 voll., catalogo della mostra, Palazzo Reale, Milano 1976, Electa, Mi­
lano 1976, vol. I, p. 216.
4
R. Radrizzani, Roussel scopritore di nuovi mondi, in H. Szeeman (a cura di), Le mac­
chine celibi, Electa, Milano 1989.
5
G. Fanelli, E. Godoli (a cura di), Spartiti musicali illustrati: dall’Art Nouveau al sur­
realismo, catalogo della mostra, Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Rag­
ghianti, Lucca 1996.
GILBERTO PELLIZZOLA 130
ed è la risposta di Wagner, Huysmans, Gauguin..., l’arte si attesta in una
separazione dal mondo, alla quota eletta dell’esempio individuale o eli­
tario, al limite della testimonianza nel martirio. Così Van Gogh «suici­
dato dalla società» (Artaud). Dall’altra parte è l’inquieta compromis­
sione che già Baudelaire aveva delineato nell’immagine della «perdita
d’aureola» e nella figura del «pittore della vita moderna», «uomo di
mondo, uomo delle folle». Dopo la rivolta dei simbolisti, che assumeva
i tratti dell’irrazionalismo e del primordio, si fa posto nell’arte una nuo­
va razionalità critica, dialogante con la scienza, la tecnologia, l’indu­
stria, con l’universo metropolitano che ne concretizza gli effetti. Russo­
lo con gli Intonarumori e col manifesto L’arte dei rumori (1913), Rutt­
mann mediante assemblaggio sonoro su banda ottica, Satie e Varèse im­
piegando sonorità meccaniche, esplorano il patrimonio acustico della
grande città. In Russia, all’indomani dell’Ottobre, viene realizzato su
scala urbana un Concerto per sirene di fabbrica. La città è scenario ready-ma­
de per gli spettacoli-festa sovietici sull’esempio della rivoluzione france­
se. Marinetti: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal pia­
cere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche
delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore
notturno degli arsenali e dei cantieri [...]; le stazioni [...]; le officine
[...]» (Fondazione e Manifesto del futurismo, 1909). I dadaisti manipolano
l’informazione e l’opinione pubblica con falsi comunicati stampa e ali­
mentando leggende metropolitane. Realizzano, analogamente ai futu­
risti, eventi sinestetici polimaterici interdisciplinari, in cui saltano i pa­
rametri assodati di prodotto artistico e di ruolo. Questa scandalosa con­
fusione deve una parte rilevante della propria efficacia allo smarrimen­
to pianificato delle identità personali e professionali, svuotate da ma­
scheramenti grotteschi fra il circense e il robotico, o all’opposto desti­
tuite di ogni ritualità teatrale. In tal caso, l’artista, il poeta, il musicista
non recitano, non rappresentano, ma si offrono di per sé stessi sulla sce­
na effimera di un atto e di un momento reali: «Noi vogliamo rientrare
nella vita. La scienza d’oggi negando il suo passato, risponde ai bisogni
materiali del nostro tempo; ugualmente, l’arte, negando il suo passato,
deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo» (La pittura fu­
turista. Manifesto tecnico, 1910). «Arte e tecnica, una nuova unità», è il
motto del Bauhaus di Gropius; in quell’ambito Van Doesburg postula la
didattica come «punto di partenza per la creazione dell’opera d’arte to­
tale» e Klee discute di «spiritualità meccanica» (M. Droste, 1991).
«Brancusi cercò per tutta la sua carriera il finito dei prodotti industriali
fatti a macchina. Evidentemente provava piacere per la bellezza e l’au­
sterità delle forme funzionali della meccanica» (R. Krauss, 1981). Fino
all’assunzione integrale della tecnologia in quanto linguaggio e del col­
131 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

lettivo come identità: fenomeno evidente nella Russia rivoluzionaria,


nella forte curvatura funzionalista e didattica che assumono i gruppi di
lavoro «agit-prop» e in generale costruttivisti. Per Rodc̆enko e Stepano­
va il «compito del lavoro produttivista è l’espressione comunista del la­
voro costruttivo materialista. Il gruppo si occupa della soluzione di tale
problema basandosi su ipotesi scientifiche e sottolineando la necessità
di sintetizzare l’aspetto ideologico e formale in modo da indirizzare il
lavoro sperimentale sulla via dell’attività pratica» (Programma del gruppo
produttivista, 1920, in M. De Micheli, 1986).
Nel fatale 1895, Van de Velde scriveva il Compendio per una sintesi d’ar­
te. Debussy, che accompagna art nouveau e simbolismo con il suo pre­
stigio di musicista, afferma nel 1901: «L’arabesco musicale, o, piuttosto,
il principio dell’ornamento è alla base di tutte le forme d’arte». Il futu­
rismo sviluppa e accelera l’eredità simbolista, già interiorizzata con il
tramite della pittura divisionista di maestri riconosciuti quali Previati e
Segantini. Per Carrà «qualsiasi succedersi di suoni, rumori, odori stam­
pa nella mente un arabesco di forme e di colori. Bisogna dunque mi­
surare queste intensità e intuire questo arabesco» per giungere alla
«pittura totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi» (La pittu­
ra dei suoni, rumori e odori, 1913). Ma già con l’espressionismo, e quindi
attraverso i rapporti fra le diverse avanguardie storiche, è riscontrabile
una coerenza d’intenti e realizzazioni che riprendono, fino all’inver­
sione, i postulati di tardo Ottocento. Il teatro danza espressionista evi­
denzia nelle coreografie di Mary Wigman un correlativo del segno pit­
torico acuto e drammatico di Kirchner. Il medesimo andamento spigo­
loso e gli improvvisi contrasti animano la scenografia e la recitazione
teatrali e cinematografiche. Intanto Schönberg – che è anche autore di
violente e allucinate immagini pittoriche – esplora le possibilità atona­
li della composizione musicale. È notoria la reciprocità che lo unì a
Kandinskij nel periodo di prima elaborazione del linguaggio pittorico
astrattista, la cui radice simbolica e di corrispondenza musicale è stata
più volte rimarcata dal pittore stesso. Il programma del Blaue Reiter,
elaborato con Franz Marc, dichiara la priorità di una convergenza del­
le arti come premessa al rinnovamento etico e culturale della società.
Con il sodalizio con Schönberg coincide anche il progetto kandinskia­
no per lo spettacolo Suono giallo (1909). Tutto lo schema compositivo di
Suono giallo vive sul dinamismo delle forme che si espandono libera­
mente nello spazio, dando luogo a una suggestiva sinfonia visuale di ti­
po astratto, dove anche la figura umana e gli oggetti sono utilizzati co­
me elementi cromatici in continua metamorfosi, in grado di stabilire,
non diversamente dalla musica, una rete empatetica di relazioni psico­
fisiche con lo spettatore (S. Sinisi, 1995). Un’analoga tensione all’asso­
GILBERTO PELLIZZOLA 132
lutezza formale, spinta fino all’esclusione della componente umana e
recitativa, è in certi esiti del futurismo, nelle scene di Balla per Fuochi
d’artificio di Stravinskij (1917), nei Balli plastici di Depero (1918), nel­
l’attività molteplice di Prampolini. Esperienze che riflettono il manife­
sto a firma Balla e Depero Ricostruzione futurista dell’universo (1915) e gli
scritti prampoliniani in materia di teatro e architettura. Nell’utopistico
e agguerrito trattato Arte polimaterica (1944) Prampolini ricapitola l’av­
ventura delle avanguardie postulando l’assoluta preminenza dell’as­
semblage, che unito alla nuova architettura del razionalismo può dive­
nire finalmente espressione collettiva della moderna civiltà. Il polima­
terismo delle avanguardie storiche apre all’arte il mondo fenomenico
del quotidiano. In dipinti e sculture, sulle scene e negli allestimenti
espositivi si mescolano gli oggetti, i macchinari, i residuati, gli ingre­
dienti effimeri allogeni antiartistici. È la via maestra che conduce al
pianoforte «preparato» di Cage, alle video-sculture di Paik e Vostell e
alle performance di Rauschenberg.

3. Fuori dalla cornice, giù dal piedistallo

Nell’Urlo di Munch (1893) la resa della linea si stacca decisamente


dai ritmi edonistici dell’art nouveau. La tensione della pittura «alla
condizione della musica» vira in direzione del rumore e della pena.
L’andamento lineare coincide con una visualizzazione aggressiva del
materiale sonoro, che viene come proiettato verso lo spettatore. L’«ur­
lo originario» idealmente supera la dimensione del quadro, continua
all’esterno, si propaga nel mondo. Il tentativo di valicare i limiti della
pittura da cavalletto e della statua accademica ha riscontro, all’interno
dell’art nouveau, nel diffondersi di un interesse caratteristico per l’or­
namento, le arti applicate, l’illustrazione, quali spazi ulteriori e più im­
mediati di azione artistica. Sul piano pratico ciò si lega all’incremento
dei mezzi a stampa e delle imprese architettoniche e urbanistiche, ma
anche alla nuova dimensione dell’interno borghese. La casa e la città di­
ventano campo d’azione per le arti, e luogo nevralgico per una loro fu­
sione.
I futuristi, in particolare Balla e Depero, accordano importanza stra­
tegica all’«oggetto d’artista», in quanto cerniera fra l’arte e la vita e mez­
zo di penetrazione ideologica.6 Balla propone geometrici Fiori da camera

6
D. Fonti, Dalle botteghe d’arte alle «case d’arte»: il rilancio dell’«oggetto d’artista», in G.
Belli (a cura di), La casa del mago. Le Arti applicate nell’opera di Fortunato Depero. 1920­
1942, catalogo della mostra, MART, Rovereto 1992, Charta, Milano 1992.
133 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

di legno dipinto. Satie compone Musica d’arredo (1920), «un prodotto


industriale»: «Crea una vibrazione; non ha altro scopo. Ha la stessa fun­
zione della luce, del calore e del comfort in tutte le sue forme». Van Go­
gh prepara nel 1888 la «casa gialla» di Arles per la venuta di Gauguin.
Sarà la prima cellula di una comune artistica sull’esempio delle antiche
scuole giapponesi. È convinto – in sintonia con la cultura simbolista –
che una cornice elaborata dall’artista completi il dipinto, e sia elemento
mediatore con la vita quotidiana.7 Conta di realizzare, attorno a dodici
quadri raffiguranti girasoli, un ambiente unitario, «un arredamento in
cui i giallo cromo puri o composti esploderanno su fondi diversi, dal­
l’azzurro veronese più pallido fino al blu reale [...] Solo per questo va
creata la pittura, per decorare di pensieri, sogni e idee le vuote pareti
degli edifici umani. La pittura da cavalletto altro non è che una illogica
raffinatezza inventata per soddisfare il capriccio o lo spirito commercia­
le di una civiltà decadente», cosi scrive, tre anni dopo, il critico «mili­
tante» Albert Aurier (I. Davies, 2001).
Monet concepisce i quadri sulla cattedrale di Rouen (1892-94) come
un insieme da scorrere in sequenza, con ritmo e successione definiti dal
pittore stesso. Una soluzione impiegata per altre serie iconografiche, co­
me Covoni di fieno o Mattinate sulla Senna, che si fa più azzardata con le
Ninfee dell’Orangerie. La «grande dècoration», installata nel 1926, ultimo
anno di vita di Monet, consiste in grandi fasce continue che seguono
l’andamento curvilineo delle pareti. Lo spettatore si trova immerso nel­
la pittura, sollecitato a commisurarla con il corpo, a condividere l’espe­
rienza dell’artista nel giardino di Giverny. È un programma che si con­
fronta con lo spazio, dato non per sovrapposizione ma per amplificarne
le possibilità di linguaggio. Può anche apparire una risposta, in linea con
le avanguardie, alla crisi di «esponibilità» dell’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica (W. Benjamin, 1936). Il rapporto tra le
opere e il loro contesto spazio-temporale appare intraducibile nella di­
vulgazione fotografica. È un problema che si pongono da scultori Me­
dardo Rosso e Brancusi: come preservare in fotografia l’evento identita­
rio dell’opera plastica, la sua più vera figura nel variare della luce e del­
la collocazione. Per questo allestiscono e fotografano loro stessi le opere:
nel caso del rumeno con totale osservanza del contesto in cui nascono,
tanto da replicare ogni scultura che lasci l’atelier. Lo studio-abitazione di
Impasse Ronsin è l’opera globale di Brancusi. È sua prassi accostare e ri­
combinare le opere in «gruppi mobili» e fotografarle nei diversi stati.

7
E. Mendgen (a cura di), In Perfect Harmony, Picture+Frame 1850-1920, catalogo
della mostra, Van Gogh Museum, Amsterdam 1995.
GILBERTO PELLIZZOLA 134
Nell’ambiente dello studio la coreografa e ballerina Codreanu, indos­
sando costumi ideati da Brancusi, danza le Gymnopédies di Satie.8
Questa molteplicità di implicazioni spinge la scultura verso un’iden­
tità più complessa e instabile, connessa al variare di situazioni, luoghi,
occasioni, lontano dalla perentoria completezza della statuaria di tradi­
zione. Nell’ambito delle avanguardie si moltiplicano intanto i fenomeni
di estroversione della superficie pittorica, in dialettica con la scultura di
assemblage, e specularmente di valorizzazione cromatica e illusionistica
dell’oggetto scultoreo: il nuovo genere del «rilievo», da Picasso a El Lis­
sitskij, da Puni ad Arp, sigla diffusamente la perdita dei confini fra pit­
tura e scultura. I Controrilievi d’angolo di Tatlin, attorno al 1915, sono for­
me astratte che consistono di materiali nudi, la loro situazione spaziale è
definita dall’ancoraggio all’incrocio delle pareti: «L’angolo investito da
Tatlin [...] permette di insistere sull’interpenetrazione del rilievo e del­
lo spazio del mondo, continuum da cui il suo significato dipende» (R.
Krauss, 1981). I rilievi mobili di Rugena Zatkova e di Balla – come i «tut­
totondo» Ruota di bicicletta di Duchamp o Palla sospesa di Giacometti –
prevedono l’azione dello spettatore, chiamato a completare l’opera con
una manipolazione diretta. In analogia agli assunti (metaforici) del Ma­
nifesto tecnico della pittura futurista – «Noi porremo lo spettatore nel cen­
tro del quadro» – e anticipando la permutazione costruttiva dell’arte ci­
netica e programmata. Il Rilievo intermutabile di Gianni Colombo o la Ta-
vola di possibilità liquide di Giovanni Anceschi (ambedue del 1959) si fon­
dano sull’intervento manuale del pubblico, che ne rivela, con progres­
sione all’infinito, la struttura combinatoria.
Tale processualità si estende dal campo dell’immagine, attraverso la
ricerca sul movimento reale, alla presenza e al gesto del pittore, e da
qui al funzionamento della macchina come alternativa metamorfica,
raddoppiamento o sostituto del corpo. Si focalizza l’atto stesso del di­
pingere, celebrando o parodiando lo svolgimento rituale e insieme tec­
nico della pittura che viene al mondo, in ogni caso, con esiti in varia
misura assimilabili alla temporalità spettacolare di happening e perfor­
mance. Già Picabia disegnava «dal vivo» sulla lavagna lasciando allo
spettatore la possibilità di cancellare. L’esecuzione in pubblico di scrit­
te e immagini sarà centrale nelle azioni politiche di Beuys e negli hap­
pening di Jim Dine. L’informale e l’action painting hanno in comune
la priorità del gesto pittorico, del quale l’opera è materiale testimo­
nianza. Pollock assegna valore distintivo al processo, più che al risulta­
to, e si cura di documentare ed esporre attraverso fotografie e filmati la

8
G.-G. Lemaire, L’acquario di Place Pompidou, in «Art e dossier», n. 190, 2003; G. Di
Milia, Brancusi, allegato, Giunti, Firenze 2003, p. 24.
135 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

genesi dell’opera: «La mia pittura non nasce sul cavalletto [...]. Sul pa­
vimento mi sento più a mio agio, più vicino, più parte del quadro; pos­
so camminarci attorno, lavorarci da quattro lati diversi, essere letteral­
mente dentro il quadro» (1947). Derivano dai medesimi presupposti le
azioni di Mathieu, che in costume di scena e davanti agli spettatori ese­
gue grandi dipinti gestuali, o ancora del gruppo giapponese Gutai: in­
terventi corporali di lacerazione e attraversamento del supporto pitto­
rico; lanci di colore verso superfici effimere, ulteriormente manipolate.
Nel 1960 Yves Klein propone la seconda versione (più articolata) di
Anthropometries de l’epoque bleue. Accompagnate da un’orchestra d’archi
in tenuta da concerto e precedute dall’autore in abito da sera, alcune
modelle nude cosparse di colore IKB («International Klein Blue») im­
primono i loro corpi su tele bianche. L’automatismo meccanico accen­
tua gli aspetti aleatori e ludici. Jaquot e Ohashi operano con dispositivi
che liberano fumi colorati. Niki de Saint-Phalle, in ambito del Nouveau
Realisme, e lo scrittore William Burroughs, nei dintorni di Fluxus, spa­
rano cartucce di colore che esplodono all’impatto. Tinguely espone
nel 1959 un gruppo di macchine per dipingere (già Schlemmer, nel
1930, aveva simulato in scenografia un macchinario del genere per la
festa di Carnevale dell’Accademia di Breslavia). Le macchine di Tin­
guely funzionano a gettoni che il pubblico può acquistare; i risultati,
ironicamente di gusto segnico-gestuale, sono sottoposti al vaglio di una
giuria di esperti (Arp, Klein, Queneau, Restany, Seuphor...), segue ce­
rimonia di premiazione.
Gli allestimenti espositivi d’avanguardia confondono ulteriormente
pittura e scultura con lo spazio dello spettatore e lo spettacolo urbano.
Dadaisti e surrealisti provocano una contaminazione fra l’eclettismo del­
le vetrine commerciali e il «maraviglioso» delle Wunderkammern ba­
rocche. Ivan Puni, in trasferta berlinese dopo un periodo suprematista
in Russia, «organizza nel febbraio del 1921 la sua famosa mostra alla gal­
leria Der Sturm, in cui quadri e fogli [...] sono montati in un voluto di­
sordine, ancora memore dell’antistrutturalismo futurista: enormi nu­
meri e lettere alfabetiche si sovrappongono ai dipinti o traspaiono fra es-
si, in un tentativo [...] di ricostruire l’intero spazio espositivo come “og­
getto globale” [...] Né mancano suggestioni dada: in occasione della
mostra, Puni fa percorrere la Kurfuerstendamm da uomini mascherati
nello stile della Parade di Picasso. In tal modo, l’ambiente totale creato
nella galleria si riversa sulla strada: gli “uomini-sandwich” di Puni, con i
loro costumi ispirati ai controrilievi tatliniani, al “lettrismo” di Puni stes­
so, alla clownerie sacrale di Ball, all’uomo marionetta dei futuristi italia­
ni, ribaltano in azione ciò che nelle sale [...] rimane cristallizzato» (M.
Tafuri, 1980). Nel 1942 Duchamp avvolge con un miglio di filo la mostra
GILBERTO PELLIZZOLA 136
newyorchese delle opere surrealiste. Pittura e pubblico e galleria forma-
no un tutt’uno entro il reticolo ambientale, che rende palese, col trucco
dell’ostacolo, l’integrazione complessa di spazio-tempo-percezione.
Sempre nel ’42 Kiesler escogita, per l’inaugurazione della galleria Art of
this Century, di Peggy Guggenheim, un’ambientazione a pannelli in­
curvati e propaggini a sbalzo cui appendere i dipinti (sala dei surreali­
sti), con effetti di levitazione e movimento. Nella seconda sala (astratti­
sti), le pareti sono completamente libere e le opere stanno appese a ti­
ranti di corda. Muri blu, pavimento turchese; i supporti per le sculture,
di legno modellato in forme organiche, fungono anche da sedute o ta­
volini. L’illuminazione non è omogenea e viene scandita da momenti di
buio, con accompagnamento acustico di rumori registrati. Un terzo am­
biente contiene macchinari ottici che il pubblico deve azionare per ac­
cedere alla visione delle opere. Peggy Guggenheim: «Gli avevo lasciato
carta bianca con una sola eccezione: divieto assoluto di cornici».
Con la lunga elaborazione dei Borghesi di Calais (1884-95) Rodin ten­
ta una rivoluzione nel campo della scultura monumentale. Il gruppo
scultoreo doveva rappresentare un episodio di storia medievale: l’of­
ferta volontaria di sé stessi alla ritorsione dell’assediante re d’Inghilter­
ra da parte di eminenti membri della borghesia. Un mito di fondazione
per la comunità commerciale di Calais. I committenti fecero modifica­
re il progetto, che prevedeva una collocazione libera delle figure, senza
piedistallo e in scala reale, nella piazza del municipio. È la coerente tra­
duzione plastica dell’identità dei personaggi, tornati in effigie nel loro
ambiente. Rodin avrebbe superato d’un colpo la tradizione aulica del
fatto scultoreo isolato, in posizione elevata, al centro gerarchico di uno
spazio urbano. L’incontro sarebbe stato faccia a faccia, attraverso i se­
coli, fra cittadino borghese ed eroe borghese, senza la mediazione en­
fatica e prevaricante del basamento. Le forme e il messaggio della scul­
tura si sarebbero calati nella vita quotidiana, in aperto dialogo con lo
spazio e il tempo dell’attualità. Racconta Lipchitz di aver visitato Modi­
gliani mentre provava l’allestimento di alcune sculture: «Cercava di
adattarle una all’altra. [...] assorto a spiegarmi che le aveva concepite
tutte come parti di un insieme. [...] disposte a scala come le canne di
un organo, per meglio esprimere quel senso musicale che egli deside­
rava».9 Musicalità della scultura: contro la convenzione della materia la­
vorata e chiusa una volta per tutte, significa intendere e praticare una
qualità ambientale, pervasiva del fatto plastico in quanto produttore di
rapporti spaziali. Su questa linea, è logico arrivare a una progettualità

9
In R. Fuchs, J. Gachnang, F. Poli (a cura di), Standing Sculpture, catalogo della
mostra, Castello di Rivoli 1988, p. 53.
137 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

che tenda a privilegiare sulla fattura dell’oggetto l’organizzazione dello


spazio, gli accordi fra le parti (assemblage, installazione polimaterica),
fino ad accogliere direttamente nel campo dell’opera le cose e i luoghi
che già esistono, spettatore compreso (installazione sito-specifica, envi­
ronment, happening). Testa ricoperta di oggetti sgradevoli (1930) è un
bronzetto di Arp «in cui le contingenze del tempo reale determinano la
disposizione: i due “oggetti sgradevoli” possono essere disposti secondo
il desiderio dello spettatore, cosicché la scultura risponde alle fantasie
di un’altra persona che non è l’artista» (R. Krauss, 1981). I Mobiles di
Calder e le Macchine inutili di Munari, attorno al 1930, assumono l’aria
come materiale plastico e il caso come fattore cinetico. Sono forme leg­
gere e sospese in equilibrio dinamico, che si modificano a ogni lieve
spostamento d’aria. Nell’operare di Calder – che intanto lavora come
scenografo per la compagnia di danza di Martha Graham – è attivo an­
che l’elemento musicale, il clangore sommesso del metallo: «Come c’è
uno spazio visivo c’è uno spazio acustico; e l’opera d’arte, che vive e si
muove in quel duplice spazio, va veduta e ascoltata» (G.C. Argan,
1970). «Nella nostra scultura lo spazio è diventato un elemento mate­
riale, malleabile» afferma Naum Gabo. Le superfici specchianti della
scultura minimal e quelle texturizzate della optical art dilatano l’ogget­
to nello spazio-tempo con echi visuali continui e mutevoli. L’opera co­
struisce lo spazio implicando nella percezione del tutto lo «spostamen­
to dello spettatore» (F. Popper, 1967). Pierelli, Takis, Vardanega vi ag­
giungono la dimensione musicale. Nelle installazioni pop di Segal e di
Wesselmann l’apporto della tradizione (rispettivamente: il calco in ges­
so e la pittura figurativa) si mescola alla presenza oggettuale tramite
prelievo dal vero e al funzionamento effettivo della merce tecnologica
(il neon, la radio, il telefono...). Lo scultore minimalista Robert Morris
realizza nel 1961 questa performance: «Si alza il sipario; al centro sta
ritta una colonna di compensato grigio, alta due metri e mezzo e larga
sessanta centimetri. Non c’è nient’altro sulla scena. Per tre minuti e
mezzo non succede niente; nessuno entra né esce. All’improvviso la co­
lonna cade. Passano ancora tre minuti e mezzo. Cala il sipario» (R.
Krauss, 1981). In apertura degli anni Settanta, i performer Gilbert &
George dichiarano sé stessi «sculture viventi» e fanno del proprio tem­
po «giorni-scultura».

4. Habitat happening performance

L’esposizione annuale della Secessione viennese è programmata per


il 1902 come un’opera sola, unitaria nel concorso pianificato delle arti,
GILBERTO PELLIZZOLA 138
al cui centro e culmine, in uno spazio ideato da Hoffmann, è il monu­
mento a Beethoven di Klinger. Lungo la fascia alta delle pareti corre il
klimtiano Fregio di Beethoven, ispirato alla Nona sinfonia secondo l’esegesi
proposta da Wagner. Completano l’insieme dipinti appositamente ese­
guiti da altri esponenti della Secessione. L’intento di Hoffmann inclu­
deva un rivestimento murale di intonaci brillanti (non realizzato), in
analogia all’oro «bizantino» profuso da Klimt. Brani della Nona sono or­
chestrati e diretti da Mahler per l’evento inaugurale. L’ideale musicalista
trova qui una corrispondenza ideale e di metodo nell’architettura, che
coordina la convergenza delle arti in forme multiple spaziali coinvol­
genti. Boccioni intende la forma plastica quale «oggetto-ambiente». Per
Heidegger, nel 1969, la scultura non è «un confronto con lo spazio»,
bensì «il farsi-corpo di luoghi», giacché «le cose stesse sono i luoghi e
non solo appartengono a un luogo»: da una posizione lontana dall’at­
tualità artistica, il filosofo enucleava coincidenze illuminanti. È un orien­
tamento che intercetta l’espansione del polimaterico e la sperimenta­
zione teatrale, proseguendo in ambiti e momenti differenziati – fino al-
le molte adesioni in clima di neoavanguardia – con qualificante apporto
dei mezzi e delle problematiche tecno-scientifiche, dagli strumenti au­
dio-visuali alle teorie relativistiche di Einstein e Minkowskij (il «crono­
topo» come unità relativa a quattro dimensioni: le tre volumetriche, di
oggetti spazio spettatore, più quella temporale).
Una precoce apparizione di questo divenire «ambiente» dell’opera
d’arte, si trova nel Panorama dell’Engadina di Segantini, concepito a sco­
po di promozione turistica per l’esposizione universale di Parigi del
1900. L’iniziativa fu abbandonata nel 1897 a causa del ritiro dei finan­
ziatori. «Segantini concepiva l’insieme come un padiglione alto cento
metri, di ottantacinque metri di diametro e con un atrio nello stile tipi­
co delle vecchie case engadinesi. L’atrio avrebbe dovuto essere diviso in
due da una cascata naturale. Due strade, una rotabile e l’altra solo pe­
donale, si sarebbero arrampicate sulle pareti [...] Al di sotto, orsi vivi
avrebbero ricordato la natura selvaggia delle Alpi. Effetti sonori e lumi­
nosi avrebbero rivelato l’atmosfera montana, in momenti e stagioni di­
verse. Con un gioco teatrale elettrico di luci e di ombre, il visitatore sa­
rebbe passato dalla contemplazione delle bellezze naturali, alla contem­
plazione delle bellezze artistiche»: i grandi dipinti di paesaggio.10 È ve­
rosimile che lo spunto materiale del progetto sia nel panorama e nel più
dinamico diorama a forma di cerchio, che era macchina e insieme ar­
chitettura, dimostrazione di tecnica e di magia (G.P. Brunetta, 1997). La
struttura cinetica e spaziale di questi ultimi episodi di «precinema» evi­
10
A.-P. Quinsac, Segantini. Catalogo generale, 2 voll., Electa, Milano 1982, vol. I, p. 30.
139 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

denzia la conseguenza di un coinvolgimento fisico dello spettatore.


L’occhio e lo sguardo trasferiscono sensibilità a tutto il corpo. Integra­
zione molteplice, di arte tecnologia ambiente, corpo spazio percezione,
che Segantini sviluppa appieno nel progetto di un habitat artificiale. Da
pittore divisionista accorda valore principale alla luce e alla sua propa­
gazione, ovvero al movimento, e quindi alla musica come sua espressio­
ne armonica e trascendente (mentre vede lucidamente nell’operazione
un esperimento di «arte rèclame»).
Essendo alla base di ogni meccanica, il movimento diventa parametro
dialettico nel rapporto con la società e la cultura. In accordo agli esiti
scientifici e applicativi di Marey, Muybridge, Gilbreth (S. Giedion,
1948). È nelle forme del movimento che si esprime la partecipazione at­
tiva ed empatica dello spettatore, in quanto processo psicofisiologico,
deambulazione, manipolazione. Si tratta di predisporre concentrati di
spazio e di tempo in cui ambientare e provocare il dialogo, affinché si at­
tui tale corrispondenza. Contemporanee e analoghe alla nuova tridi­
mensionalità scenica (Balla, Kiesler, Popova, Prampolini...) e all’irruzio­
ne del corpo «eccentrico» e «artificiale» nel teatro e nella danza (Mejer­
chol’d, Schlemmer, Craig, Depero...), le esperienze plastiche sul movi­
mento portano all’estremo la natura spazio-temporale-materica della
scultura d’avanguardia. Anche in architettura si indagano le possibilità
di uno spazio cinetico e flessibile, in termini di permutabilità dei vani e
delle funzioni – così nella Casa Schröder di Rietveld o nel Teatro Totale
progettato da Gropius per Piscator – o di funzionalità integrale su mo­
delli tecnologici, come nella teoria di Le Corbusier sulla «macchina per
abitare».
La ricerca di El Lissitskij approda a una spazialità costruita e pratica­
bile, entro la quale hanno luogo, in un repertorio astratto di matrice su­
prematista, forme colori strutture: è la Stanza dei Proun (1923), «stazio­
ni di transito fra la pittura e l’architettura». Con il progetto e la grande
«maquette» per il monumento alla Terza Internazionale (1919-20), Ta­
tlin realizza le immediate premesse dell’opera d’arte totale comunista.
La scultura viene a identificarsi con l’edificio, nella fusione di simbolo
e funzione: il moto progressivo e ascendente della storia proletaria è
scandito dalle rotazioni perpetue e sfasate dei tre rocchi che compon­
gono l’assieme. La trasparenza della struttura a traliccio è speculare a
quella in ferro e vetro dell’intercapedine. Attraverso di esse è in scena
la vita del Partito. Il Merzbau di Schwitters (in progressione dal 1923, di­
strutto nel 1943) è il rovescio dada del simbolismo funzionalista sovieti­
co: individualistico destrutturante «celibe». Un habitat carnevalesco co­
struito con materiali e oggetti di recupero. Un gigantesco assemblag­
gio, che si sviluppa in ogni stanza e rimpiazza il decoro, estetico e com­
GILBERTO PELLIZZOLA 140
portamentale, dell’interno borghese. Kiesler nel 1922 realizza la mac­
china scenografica per R.U.R. di Čapek: «Per la prima volta proiezione
cinematografica e spettacolo dal vivo si combinano» (R. Goldberg,
2001). Anche il film si confronta con lo spazio-ambiente. Moholy-Nagy
unisce alle proiezioni multiple, su piani diversi e mobili, la sagomatura
variabile e la sovrapposizione dei fasci luminosi («cinema simultaneo o
policinema»). Il Modulatore spazio-luce, via via rielaborato dal 1922, si
configura come una costruzione astratta di metallo e vetro, ma è una
struttura di mutazione: opera cinetica a movimento elettromeccanico,
si presta a essere percepita come una scultura, ma è anche matrice di
forme multiple e proiettate se esposta a luce elettrica direzionata, con
esiti ambientali o scenografici, Moholy infatti intendeva impiegarla an­
che in teatro. È infine, nel dimostrare tali potenzialità, «attore» cine­
matografico e soggetto filmico (Light-Display, Black, White and Grey,
1930). La luce artificiale e i rapidi sviluppi applicativi che ne derivano
accompagnano «l’evoluzione del mezzo nell’arte»: formula centrale del
Movimento spaziale fondato da Lucio Fontana. Questi crea nel 1951 un
controsoffitto al neon, in cui ritorna la forma ad arabesco, per la IX
Triennale di Milano. I primi ambienti spaziali risalgono alla fine degli an-
ni Quaranta; seguono gli ambienti monocromi bianchi, che traducono
a scala microarchitettonica i «tagli» pittorici. Fontana ritiene di attri­
buire all’architettura una «quarta dimensione» attraverso la presenza
dell’arte. L’elaborazione teorica degli artisti spaziali si fonda nel «supe­
ramento della pittura, della scultura, della poesia e della musica» e sul­
lo sfruttamento senza remore dei «mezzi nuovi, come la radio, la televi­
sione, la luce nera, il radar», per giungere a un’«invenzione» che «vie­
ne proiettata nello spazio».
L’indagine sulle potenzialità creative della tecnologia, con applica­
zioni a effetto sinestetico, è prioritaria nel filone che prende le mosse
dal Bauhaus. La Camera stroboscopica di Boriani (1965-67) è un ambiente
totale che comprende pannelli specchianti, pareti mobili, impulsi lumi­
nosi e traccianti. La Torre cibernetica di Schöffer, protagonista dell’arte ci­
netica e programmata, è la realizzazione a scala metropolitana di una
scultura di luce in movimento. Del 1961 è lo spettacolo Forme e luci, in
cui, accanto alla Torre, «utilizza 360 proiettori, spot di tutte le grandezze
e “manipolatori di luce” collegati con un complesso gioco d’organi [...]
Il suono viene emesso da colonne stereofoniche [...] in modo tale che la
musica sembra emanare direttamente dai movimenti luminosi» (F. Pop­
per, 1970). Il coinvolgimento degli apporti tecno-scientifici non è co­
munque identificabile con una particolare tendenza, ma si diffonde in
relazione agli sviluppi delle tecnologie audio-visuali. All’interno di
Fluxus è ricorrente l’impiego della fotografia, del video e dei produtto­
141 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

ri e riproduttori elettronici del suono. Rauschenberg e Billy Kluever (un


ingegnere «compagno di strada» che collabora anche con Tinguely)
fondano nel 1966 l’organizzazione E.A.T. (Experiments in Arts and Te­
chnology), con il proposito di attuare «la possibilità di un lavoro che
non è compito esclusivo dell’ingegnere, dell’artista o dell’industria, ma
che scaturisce dall’esplorazione della interazione umana di queste tre
aree» (N. Sundell, 1983).
Già negli anni Cinquanta, ma con maggiore intensità nel decennio
successivo, si verifica una convergenza da diverse posizioni verso l’arte
ambientale. Il situazionista Pinot Gallizio lavora fra 1958 e 1959 alla Ca­
verna dell’antimateria, ove si uniscono una totalizzante presenza della pit­
tura astratto-informale e la diffusione di stimoli acustico-olfattivi. Piero
Gilardi produce i Tappeti natura di gommapiuma dipinta, da vendere al
metro come arredo allo stesso modo della Pittura industriale di Gallizio.
Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle e Per Olof Ultvedt costruiscono a
Stoccolma, nel 1966, la Hon (Lei). Racconta Saint Phalle: «Jean le inse­
risce un planetario nel seno sinistro, un milk bar e una macchina per di­
struggere le bottiglie in quello destro. La Hon [...] giace sul dorso con le
gambe piegate, per entrare si deve passare attraverso il sesso, e all’inter­
no il visitatore troverà svaghi di vario genere. In una gamba una galleria
di falsi [...] In una delle ginocchia Jean colloca “la panchina degli inna­
morati” [...] sotto il cui sedile colloca alcuni microfoni per registrare le
conversazioni e trasmetterle in altre parti della scultura. Realizza anche
una radio-scultura molto divertente. [...] dentro la testa. Per Olof Ult­
vedt costruisce un cervello di legno animato da motori. [...] per una se-
rie di scale e gradini si può giungere alla terrazza sopra il pancione da
dove si gode una vista panoramica dei visitatori pronti a entrare e delle
gambe vistosamente dipinte».11 Kienholz appresta diversi e complessi
«environmental objects». Barney’s Bearnery è la ricostruzione del bar fre­
quentato dagli artisti di Los Angeles. I personaggi invece delle teste han-
no grandi orologi fermi alla stessa ora, la data si desume dai quotidiani
sparsi per il locale. «Il momento colto al suo sgorgare è così fissato [...]
in una sorta di istantanea spaziale. Lo spettatore può direttamente en­
trare nell’opera. [...]. Tutti i sensi sono attivati, anche l’olfatto e l’udito,
un televisore è acceso e trasmette, il peculiare odore del bar è stato con­
servato e c’è anche modo di ordinare le bevande che si bevevano nel
1964» (U. Kultermann, 1967).
Gli apporti delle avanguardie europee si diffondono negli Stati Uniti
con la migrazione degli artisti negli anni Trenta e a seguito dello scop­

11
In P. Hulten (a cura di), Tinguely. Una magia più forte della morte, catalogo della
mostra, Palazzo Grassi, Venezia 1987, Bompiani, Milano 1987, pp. 166-167.
GILBERTO PELLIZZOLA 142
pio della seconda guerra mondiale. Fluxus accoglie le novità d’oltre
oceano e le integra alla tradizione delle avanguardie storiche, in un con­
testo allargato e mobile che, ancora una volta, trova nella musica un ri­
ferimento unitario. Attorno alle pratiche della composizione e dell’ese­
cuzione – sempre più dilatate verso un’arte globale performativa – si
raccolgono accanto ai musicisti poeti, artisti visivi, gente di teatro. «Nel
1957 la Nuova Musica era il centro dinamico di tutte le arti» ha dichia­
rato Paik. Le attività polimorfe di Paik, Vostell, Vautier, Maciunas, Beuys,
s’incontrano in forma di Fluxus Festival, Concerto Fluxus, Fluxus Inter­
national Festspiele. Una prassi che rimanda alle Serate futuriste, al ca­
baret e alla Fiera dada, alle feste del Bauhaus. Il Festival del Nouveau
Réalisme, che si tiene a Milano nel 1970, comprende un’esposizione al­
la Rotonda della Besana, performance in Galleria Vittorio Emanuele,
l’impacchettamento della statua di Leonardo, in Piazza della Scala, a
opera di Christo. Tinguely appresta in Piazza Duomo un gigantesco fal­
lo, chiamato Monumento effimero, che si autodistrugge festosamente in un
orgasmo pirotecnico. Negli Stati Uniti le attività di Cage, Kaprow, Cun­
ningham, Buckminster Fuller danno origine a una situazione varia e du­
revole, che si propaga anche in ricerche e collaborazioni di radice pit­
torica (Dine, Johns, Rauschenberg) e plastica (Oldenburg, Morris, Sa­
maras, Nauman). «Tutto può essere musica: in questo concetto sta la
prodezza di Fluxus, e la sua unità» ricorda Vostell. «Ed è il motivo che ha
riunito gli artisti americani vicini a Cage agli artisti europei» (A. Bonito
Oliva, 1990). Il dé-collage di Vostell, esteso dalle carte all’immagine tele­
visiva e alla scena urbana, ha origine nell’operazione sonora: «Il rumore
dello strappo» è «come un concerto, come un pezzo musicale». Analo­
gamente, l’atto del dipingere assume identità acustica nelle performan­
ce di Rauschenberg tramite microfoni a contatto applicati alla tela.
Nel 1952 la compagine del Black Mountain College attua uno spetta­
colo «anarchico» e «disintenzionale» (vedi scheda), ideato da Cage con
l’apporto autonomo di Cunningham e Rauschenberg e di poeti (Olson
e la Richards) e musicisti (Tudor e Watt).
Ormai considerata un archetipo della neoavanguardia multimediale,
questa realizzazione contiene la struttura aleatoria dell’happening e pa­
rimenti l’aperta progettualità della performance, con il contributo riso­
lutivo della strumentazione oggettuale e tecnica in una spazialità sito­
specifica. Le ragioni dello spazio-ambiente vengono ribadite da Kaprow
in uno scritto teorico del 1966: «La rappresentazione di un happening
dovrebbe avvenire su parecchi spazi, talvolta mobili e mutevoli». «Il tem­
po, di pari passo alle considerazioni sullo spazio, dovrebbe essere vario e
discontinuo». «La composizione di un happening è uguale a quella di
un assemblage e di un environment cioè è costituita da un certo collage di
143 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

eventi in certe misure di tempo e in certe misure di spazio» (G. Dorfles,


2000). Duchamp e Richter assistono nel 1962 all’happening The
Courtyard (Il cortile) di Kaprow, che Richter così descrive: «Un rituale! Di
composizione ritmica, spaziosa, cromatica, misurata nei movimenti, esso
aveva qualcosa di terrificante, di commovente [...] Questa combinazione
di rappresentazione, composizione drammatica, colori e suoni, richia­
mava alla memoria l’opera d’arte globale di Kandinskij, di Ball ecc. Essa
esigeva che il pubblico prendesse parte [...] Quello che vi è di imprevi­
sto nell’ambito della forma prestabilita, si agitava e agitava anche noi». È
una strategia dell’accadere che riserva all’artista un ruolo defilato, ma
insieme demiurgico, in quanto preparatore di luoghi e tempi per un’e­
sperienza collettiva, condotta da un pubblico attivo e consapevole, a vol­
te accuratamente preparato con la predisposizione di volontari e di un
canovaccio. È altresì una flessibile metodica che può adattarsi alla speri­
mentazione su diversi linguaggi. In Fare qualcosa con il proprio corpo e il
muro (1966), Chiari si affida allo spettatore per fare musica: «Qualsiasi
variazione è legittima; basta che si producano rumori ottenuti battendo
il proprio corpo contro il muro». Le indagini di Vaccari sulla fotografia
prevedono una reazione psicofisica diretta e immediata, o addirittura
l’atto fotografico stesso da parte del pubblico, che agisce e interagisce
nell’operazione per la durata complessiva della mostra-evento (Esposi­
zione in tempo reale n. 4: lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo
passaggio, 1972): «Io uso la fotografia come azione e non come contem­
plazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore
dello spazio delle relazioni» (L. Vergine, 2000). Rauschenberg affronta una
nuova teatralità figurativa in complesse organizzazioni coreografiche,
amplificando ancora la presenza di oggetti e funzioni prelevati dal quo­
tidiano. Così riavvicinandosi in modo impuro all’ambito dell’arte visiva
e della danza (e rompendo con Cage e Cunningham). In termini più ge­
nerali, l’happening, comunque in declino, e la performance, in forte
espansione, vanno differenziandosi in due tracciati vicini ma distinti, il
secondo dei quali va a intersecarsi con la videoarte e il teatro danza. A
partire dal 1964, Rauschenberg opera intensamente con il Judson Dan­
ce Theatre. Il punto di svolta è Pelican (1963), il primo spettacolo ideato
interamente da lui e ove compare come ballerino pattinatore. Inevitabi­
le il richiamo a Skating Rink dei Balletti svedesi (1922), su testo di Canu­
do e con scene di Léger (che vi applicava la teoria dell’«object specta­
cle»). È l’inizio di una componente citazionista e metalinguistica, che si
rivolgerà anche a Magritte, De Chirico, Picasso, Seurat e che da un lato
rinsalda il legame con i combine paintings, dall’altro dialoga con la nuova
situazione della Post Modern Dance. In Pelican, vengono impiegati pat­
tini a rotelle, paracadute, «un primitivo skate-board fabbricato con ruo­
GILBERTO PELLIZZOLA 144
te di bicicletta». La parte sonora, su nastro registrato, fonde una musica
composta da Rauschenberg con brani tratti da radio, cinema e televisio­
ne. Carolyn Brown danza sulle punte, i pattinatori le sfrecciano accanto.
«I leggiadri movimenti del balletto classico si contrapponevano e veni­
vano amplificati dai rapidissimi passaggi degli uomini sui pattini» (N.
Sundell, 1983).
L’opera totale coincide con la totale combinatoria. Di fronte a un
pubblico che torna al ruolo distante di spettatore. Al contrario, con le
installazioni di Nauman di fine anni Sessanta, il fruitore è coinvolto in
un’esperienza d’ambiente personale e fisica. Nauman, che esordisce co­
me scultore, procede dal corpo e dal ritmo nelle componenti più ele­
mentari, la danza contemporanea e la musica seriale sono riferimenti di­
chiarati. Le prime performance, per rigore ed essenzialità, si allontana­
no dal pieno rauschenberghiano come dalla lievità di Fluxus. Corpo e
movimento sono presentati in modo anonimo, in quanto codice com­
portamentale. «Nauman usa il termine codification nello stesso modo in
cui è usato dagli ingegneri informatici, cioè per indicare la traduzione
di una parola in termini matematici» (V. Gnesutta, 2000). Le azioni del
periodo 1967-68 sono condotte per la registrazione su pellicola cinema­
tografica, in assenza del pubblico, e regolate sulle necessità e durata del­
la ripresa. Allo stesso periodo appartengono gli ologrammi – una tecno­
logia allora scarsamente diffusa – che fissano primissimi piani e dettagli
del volto automanipolato. Il video e quindi la videoinstallazione aumen­
tano le possibilità esplorative e di durata temporale, mentre accorciano
drasticamente lo scarto fra autore, opera, spettatore. Grazie al «loop»
l’azione può accadere in una virtuale continuità senza limiti. Ciò ne por­
ta all’estremo le implicazioni ossessive ed empatiche. In Performance Cor­
ridor (1969), il primo di una lunga serie di ambienti con ripresa a cir­
cuito chiuso, lo spettatore diventa il doppio sperimentale dell’artista,
trovandosi ad agire nelle medesime, critiche condizioni date. «Questa
sensazione di un centro instabile nel corpo stesso dello spettatore con­
tribuisce alla messa in crisi delle convenzioni della scultura che conti­
nuavano a prevalere dall’inizio del secolo» (R. Krauss, 1981), ovvero
completa il ciclo trasferendo allo spettatore quell’identità mutante che
le avanguardie hanno attribuito alla scultura.
La condivisione prende avvio da una percezione retinica per am­
pliarsi fino a reazioni comportamentali articolate e variabili. I «corri­
doi» di Nauman richiamano una progressione percettiva di «lontananze
e prospettive» e una liberazione immaginativa simili agli effetti delle sca­
tole ottiche dette «Mondo Nuovo». Scrive Brunetta: «Si tratta di una
cassetta dotata di una o più lenti ingrandenti e di alcune candele all’in­
terno per consentire gli effetti giorno e notte e di un sistema di cordi­
145 ARTE ESPANSA: DAL QUADRO ALLA PERFORMANCE

celle per la sostituzione delle stampe [...] consentendo all’occhio di vo­


lare e planare dolcemente su intere città o su parti di esse [...] grazie a
queste piccole macchine ottiche, muta l’atteggiamento spirituale com­
plessivo della visione popolare settecentesca nei confronti del mondo:
l’organizzazione dello spazio offerto dalle vedute, il fatto che l’occhio
venga in pratica prima richiamato e poi risucchiato con tutto il corpo
dello spettatore [...] Tutto il suo corpo, ma anche la sua anima, sono
pronti a librarsi nell’aria. Tempo, spazio, misure di scala del mondo vi­
sibile, sensazione di perdita dei confini dell’Io [...] Per la prima volta,
grazie alle immagini, lo spettatore, o meglio l’icononauta – tenuto fino­
ra in uno stato di soggezione dallo spettacolo ottico dei lanternisti –
sente crescere in modo autonomo la forza dei propri poteri immagina­
tivi» (G.P. Brunetta, 1997).
COMPORRE AUDIO-VISIONI
SUONO E MUSICA SULLE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO
ALLE ORIGINI DELLE ARTI ELETTRONICHE
Marco Maria Gazzano

1. Origini e definizioni delle arti elettroniche

A circa quarant’anni dalle prime ipotesi teoriche e dai primi esperi­


menti, e a qualche anno di meno dalle prime mostre a esse dedicate, le
arti elettroniche audio-visive (espressione più precisa anche se meno effi­
cace di «videoarte»), sono ancora difficili da attribuire – in quanto a ef­
fettiva «paternità» – a questo o a quell’artista, a questo o a quel gruppo,
a questo o a quel paese.
Non che sia un problema fondamentale nelle definizioni o nella sto­
ria di un campo di intervento artistico: anche se occorre riconoscere che
la questione delle «origini» ha sempre un certo fascino – oltre a una cer­
ta utilità – nella definizione teorica del fenomeno analizzato.
In ogni caso gli storici non sono ancora riusciti a diradare le nebbie
che avvolgono la «nascita» della «videoarte» e lo sviluppo delle sue
motivazioni, complice anche la copiosa aneddotica – mitologizzante e
sviante – diffusa su questo tema in particolare dai musei e dai critici
americani. A causa inoltre delle resistenze che a questa comprensione
fanno i protagonisti viventi, nonché di un mercato internazionale del-
l’arte che – avendo «scoperto» alla fine degli anni Ottanta le arti elet­
troniche come merce (videosculture e installazioni, in particolare) – fa
delle «primogeniture» una questione di potere. Né giova alla com­
prensione dei processi che hanno portato alle origini e allo sviluppo
delle arti elettroniche audio-visive l’ambivalenza – che sconfina nell’i­
nafferrabilità – della loro definizione teorica: ciò che, d’altra parte,
rappresenta assai bene sia le provocatorie intenzioni destrutturanti de­
gli artisti più rappresentativi impegnati su questo filone di ricerca da­
gli anni Cinquanta, sia il contributo decisivo che oggi possiamo rico­
noscere alle arti elettroniche – e a quanto da esse «mosso» in ambito
artistico e teorico – al fine di una più sottile conoscenza delle espe­
rienze artistiche, tecnologiche e comunicative che maggiormente han-
no segnato l’immaginario, la narrazione e la vita quotidiana nel Nove­
cento e nella fase più recente del moderno: fotografia, cinema e tele­
visione, anzitutto.
147 COMPORRE AUDIO-VISIONI

2. Linee di confine

Le arti elettroniche audio-visive, a partire dalla videoarte – cioè da un


rapporto creativo e di esplorazione da parte degli artisti del dispositivo
elettronico (analogico prima e numerico in seguito) – possono essere
molte cose insieme. Anzitutto una serie di modi di produzione di opere.
Modi di produzione più concettuali che materiali e più artigianali che
industriali.
E le opere prodotte intervengono – in genere dislocandoli e ridefi­
nendoli – sia negli ambiti tradizionali dell’«arte» sia in quelli della «co­
municazione» moderna; sia nella comunicazione individuale e tra indi­
vidui (dalla conoscenza di sé all’interattività) sia in quella tra individui e
macchine, così come in quella tra macchine e macchine (computer, te­
levisori, telefoni ecc.). Così come sono intervenute – e intervengono
tuttora: anche in questo caso «spostando le insegne», come scriveva Sk­
lovskij di Marcel Duchamp – negli ambiti di pertinenza della cosiddetta
«comunicazione di massa» (pubblicità, moda, televisione, radio, messa
in scena e/o messa in immagini di spettacoli, multimedialità ecc.).
Le opere poi – i risultati veri e propri e ancora individuali o forte-
mente soggettivi della ricerca, almeno fino a quando il Web non cam­
bierà radicalmente le regole – sono parte allo stesso tempo (ma non per le
stesse ragioni, ovviamente) delle storie e dei campi di definizione di
molti e differenti ambiti dell’esperienza artistica, ed essenzialmente:
– arti plastiche (pittura, scultura, installazioni);
– performance (mediatica, sociale, centrata sul corpo, individuale o col­
lettiva);
– cinematografia (intesa come nozione estesa di «scrittura con immagini
in movimento e suoni»; e dunque come parte rilevante delle storie
del cinema e della televisione oltre a quelle più specifiche del «vi­
deo»);
– arti acustiche, quale ambito specifico della ricerca espressiva contem­
poranea sul suono, sulla musica in relazione ai media e agli spazi, sul­
la parola e la phoné stessa.
Le arti elettroniche audio-visive, anzi, possono essere considerate co­
me linea di confine, come luogo di intreccio e reciproca tensione (ed
estensione) fra tutti questi ambiti; e, con particolare quanto ormai rico­
nosciuta efficacia, tra il campo di espressione, scrittura e percezione del
visivo, quello del corporeo (in una dialettica materiale/immateriale assai
seducente), quello del sonoro e addirittura del musicale.
Esse possono inoltre essere considerate parte di un processo di ri-de­
finizione del logos (discorso, narrazione, scrittura, espressione vocale)
come della parola, sia essa poetica o descrittiva, narrativa o concettuale.
MARCO MARIA GAZZANO 148
Il loro fascino è evidente spesso più ai non-specialisti intuitivi e po­
tenzialmente liberi da pregiudizi che ai critici professionali; mentre ciò
che indica la loro importanza nelle storie dell’arte e delle teoriche sul­
l’arte, e in definitiva la loro sostanziale inafferrabilità per mezzo delle ca­
tegorie e dei generi consolidati, è che tutte queste appartenenze coesi­
stono spesso nelle singole opere; con differenze – è naturale – di accenti e di
direzioni espressive da opera a opera e da autore ad autore.
Forse perché fin dai primi balbettii di questa esperienza – scritti su
carta negli anni Cinquanta e Sessanta prima che sul monitor – è stata
condivisa dagli artisti, che con essa si sono misurati, una coscienza espli­
cita della complessità; una coscienza spesso drammatica, mai rassicu­
rante né pacificatoria anche quando la scrittura audio-visiva che ne è ri­
sultata appare gioiosa e addirittura ludica. Forse perché l’immagine e il
suono analogici sono una forma espressiva e tecnologica transitoria, ef­
fimera – e cosciente di esserlo fin dagli anni Cinquanta – posta all’in­
crocio tra fotografia, film, radio e computer, la «macchina universale».
O forse perché più di altri – presi dall’ingranaggio produzione-consumo
perfezionato negli ultimi due secoli del Novecento dall’industria cultu­
rale di massa – gli artisti che hanno privilegiato «il video» come ambito
di ricerca si sono assunti il rischio di lavorare sull’effimero tecnologico e
sui confini tra le arti.
In ogni caso le opere di arte elettronica audio-visiva – e non sono
davvero molte quelle coscienti di tale complessità, a dispetto della mole
di produzioni attratte dalla flessibilità del mezzo e dalla sua apparente
«leggerezza» produttiva ed espressiva – sono una delle rappresentazioni
più efficaci della complessità nel contemporaneo; eredi estreme di una
ispirazione espressiva magari non separata ma certo «altra» rispetto a
quelle proposte dall’industria culturale.
Insieme alle poche opere che dai primi fotografi all’archeo-cinema,
dalle avanguardie degli anni Venti a quelle degli anni Sessanta percor­
rono il moderno tecnologico con spirito critico, i risultati migliori delle
arti elettroniche audio-visive appartengono alla storia di chi – nell’uto­
pia della «sintesi delle arti» – ha cercato un salto di consapevolezza.
E oggi esse rappresentano una fra le più significative tra le modalità
di conoscenza – del sé, del fisico, del materiale e dello spirituale – che ci
sottoponga la sfida (da sempre raccolta da pochissimi artisti) non solo
dell’arte, ma dell’osmosi tra arte, scienza, comunicazione.
149 COMPORRE AUDIO-VISIONI

3. La scrittura cinematografica

La questione l’ha posta, probabilmente per primo, pochi mesi prima


di morire (1909), lo scrittore del XIX secolo più distante dall’infatuazio­
ne modernista. È Leone Tolstoj, infatti, a consegnarci – nell’epoca della
fotografia ma non ancora in quella del film – la considerazione estrema
per cui «il cinema è un assalto, un attacco all’arma bianca alla letteratu­
ra e all’arte tradizionale» il quale «imporrà una nuova maniera di scri­
vere».1
Una «pre-visione» la quale, oltre a fornire chiavi di lettura sorpren­
denti anche per l’oggi, introduce senza rimpianti quella corrente di
pensiero nelle storie della «cinematografia» che – radicalizzando e tra­
scendendo le pur decisive possibilità tecniche succedutesi dall’archeo-ci­
nema alla rete – pone l’accento sul «cinema» come scrittura (del «movi­
mento», e non solo): non come l’insieme di «effetti speciali» narrativi e
decorativi promossi dall’industria dello «enterteinement», ma come for­
malizzazione e «scrittura» di stati ulteriori della coscienza.
Un vero e proprio «combattimento per una immagine», quello sul
«dover essere» del cinema inaugurato da Tolstoj – e prima ancora da
Baudelaire nei suoi scritti sulla fotografia – che attraversa il moderno e
approda, inevitabilmente non risolto, all’estetica e all’etica del XXI seco­
lo e del cyberspazio.
Ma per scrivere cosa, in fin dei conti, oltre a cercare di svelarci sempre
più i valori fondanti della vita?
Lo spazio e il corpo? Certo con il primo piano, il dettaglio, la profon­
dità di campo e oggi l’ingrandimento numerico di ogni singola linea e
punto-luce dell’immagine si dilatano, estendono, ri-costruiscono fino
alla ri-creazione, sia lo spazio sia il corpo: per questo – nel cinema – da
sempre «virtuali».
La luce, i colori, i suoni, la materia e, dall’elettronica in poi, gli stessi ele­
menti primordiali e incandescenti della materia fino alla sua stessa tra­
scendenza?
Il tempo, fino a certi risultati alti della videoarte che iniziano a farci
«vedere» (o, meglio, audio-vedere) lo spazio-tempo non più nell’accezio­
ne della fisica lineare nella quale era ancora tecnologicamente – dun­
que necessariamente – immerso il film, ma in quella suggeritaci dalla
teoria del caos e dalla fisica quantistica?
Certo il «cinema» introdotto da Tolstoj è qualcosa di non ancora
completamente chiarito, di inevitabilmente «aperto». Così come il con­

1
Cfr. J. Leyda, Storia del cinema russo e sovietico, Il Saggiatore, Milano 1964.
MARCO MARIA GAZZANO 150
cetto di «cinematografia», raffinatissimo e preveggente, brevettato in
Francia nel 1892 insieme alla prima macchina da presa cinematografi­
ca da Leon Bouly e brutalmente scippatogli tre anni dopo – senza com­
prenderne alcuna implicazione – dai fratelli Lumière: «Una scrittura
fatta di immagini in movimento e suoni: un modo nuovo di scrivere,
dunque di sentire», come lo ha tradotto, per ricordarcelo, Robert Bres­
son nel 1951.

4. Le scritture del tempo

Se il «dinamismo», dunque «il movimento» inteso come spostamento


dello spazio nel tempo, ha segnato espressivamente e narrativamente
tutta l’arte contemporanea e le sue interazioni con la storia dei media e
della comunicazione, non solo la «cinematografia» va riconsiderata, ma
anche la musica e il suono.
Queste due parallele «scritture del tempo», infatti, spesso anche a di­
spetto dei propri interpreti, hanno agito insieme lungo tutto il moder­
no; non solo nel definirsi reciprocamente, ma nel tendere consapevol­
mente a quella sintesi superiore dei linguaggi espressivi chiamata da Mi­
chel Chion audio-logo-visione la quale oggi, complici le possibilità dell’e­
lettronica numerica, nei momenti più alti della ricerca, tende ad appro­
dare a una esplicita intermedialità delle arti e dei linguaggi.
Una questione tra le più seducenti e di difficile decifrazione nelle
storie dell’arte e della comunicazione contemporanee poiché – per
mezzo delle tecniche moderne, nell’epoca della tecnologia dispiegata –
segna il percorso, non lineare, dalla riproduzione artificiale del movimen­
to e del suono alla produzione significativa dell’unità movimento-suono: in
ultima istanza il percorso che tende a coniugare la messa in immagine
della profondità di campo cinematografica con l’audio-visione della profon­
dità di tempo. Una possibilità nuova della cinematografia che le arti elet­
troniche hanno liberato (cfr. in particolare le VideoPoemOpere di Gianni
Toti, ma anche le prime opere di «televisione elettronica» anni Settanta
di Nam June Paik, Steina e Woody Vasulka, Bill Viola, Robert Cahen, Fa­
brizio Plessi, Ulrike Rosenbach).
A rileggere con attenzione, tuttavia, la storia delle teoriche del cine­
ma e la sua «praxis» – come occorrerebbe fare, tenendo conto del con­
tributo delle arti elettroniche – ci si accorge che, sull’onda dell’«utopia
cinematografica», alla ricerca del «dover essere» del cinema, molto era
già stato intuito, e fin dagli anni Dieci e Venti del Novecento. Teorici co­
me Karel Teige e Walter Benjamin fino a Gene Youngblood e René Ber­
ger senza dimenticare Rudolf Arnheim o Siegfried Kracauer; registi e
151 COMPORRE AUDIO-VISIONI

teorici come Dziga Vertov, Charlie Chaplin, Sergej Eisenstein fino ad


Antonioni, Godard e Kubrick hanno via via consolidato questa linea di
riflessione, non estranea neppure ai più pessimisti tra i pensatori con­
temporanei quali Adorno o Enzensberger o, per altri versi, a sociologi
come Hauser e McLuhan.2
Dobbiamo certamente a Lo spirituale nell’arte (1910-12) e all’opera di
Vasilij Kandinskij la riaffermazione, in epoca moderna, di «una affinità
tra le arti e in particolare tra musica e pittura»; o l’intuizione del «suo­
no interiore» come risonanza dell’«armonia dei colori» fondata sul
«principio della necessità interiore»; o ancora l’affermazione – sor­
prendente se riletta in epoca «digitale» e di «convergenza tecnologica»
nei linguaggi numerici di tutti i linguaggi della comunicazione e in
particolare di quelli dell’immagine e del suono – per cui «Il numero è
l’ultima espressione astratta di ogni arte».3 Per stupirci di meno do­
vremmo forse rileggere – come ebbero a fare Kandinskij, Eisenstein,
Arnheim – gli appunti scritti tra il 1480 e il 1516 da Leonardo da Vinci,
noti come Libro di pittura nei quali egli muove dal riconoscimento di un
intreccio tra arti e scienze per approdare nel Paragone delle arti all’analisi
delle relazioni reciproche tra parola, immagine, suono, poesia.4 Ma è
con le intuizioni «visualiste» di Germaine Dulac del 1922-27 e con la di­
chiarazione Il futuro del sonoro redatta da Eisenstein nel 1928 (firmata
anche da Pudovkin e Aleksandrov) che il desiderio dell’audio-visione –
come unità espressiva e non reciprocamente descrittiva delle sue com­
ponenti – si afferma esplicitamente. La prima grande regista donna del
cinema europeo (saggista e animatrice di movimenti femministi e ci­
nematografici) scrive nel 1925 L’essence du cinéma parlando del cinema
come «musica degli occhi»: e apre la strada non tanto ai film astratti e spe­
rimentali di Richter ed Eggeling, ma a una necessaria interrogazione
sullo statuto stesso del linguaggio cinematografico.5 Questione sulla
quale, come è noto, Sergej Eisenstein non ha smesso mai di arrovellar­
si, dal 1923 al 1948, realizzando film, rischiando il gulag, scrivendo di
cinematografia, arte, pittura, musica e filosofia a partire dall’analisi del­
le chiavi di volta espressive di quella «sintesi delle arti, le quali tendono
alla loro piena e organica fusione in seno al cinematografo»: composi­
2
Cfr. M.M. Gazzano (a cura di), Il «cinema» dalla fotografia al computer, Quattro-
Venti, Urbino 1999; A. Martini (a cura di), Utopia e cinema, Marsilio, Venezia 1994.
3
Cfr. V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989.
4
Cfr. C. Pedretti e G. Baratta, Leonardo e il Libro di pittura, a cura di R. Nanni, Edi­
zioni Associate, Roma 1997.
5
Cfr. A. Trivelli, L’altra metà dello sguardo, Bulzoni, Roma 1998.
MARCO MARIA GAZZANO 152
zione e inquadratura, montaggio, suono, colore, accordo o conflitto,
innovazioni tecniche e, nel 1946, «il miracolo della televisione».
Elementi diversi tra loro e per questo sempre ipotizzati in relazione
con gli altri, ma consci della propria specificità. Per esempio: «Il suono,
inteso nella sua vera funzione, cioè come nuovo elemento di montaggio
indipendente dall’immagine visiva»; il quale, liberato dalle «orripilanti»
e illusorie attrazioni immagine-suono-musica, se concepito in maniera
contrappuntistica non solo «offre possibilità di nuove e più perfette forme
di montaggio» e può portare «alla creazione di un nuovo contrappunto
orchestrale», ma «introdurrà un mezzo estremamente efficace per espri­
mere e risolvere i complessi problemi contro i quali urtava la realizza­
zione per l’impossibilità di trovare loro una risoluzione mediante i soli
mezzi visivi».6
Chi tuttavia sorprende di più, riletto nell’epoca della cinematografia
elettronica e della convergenza telematica, è Luigi Pirandello. Poco no­
to come teorico del cinema (assai acuto per verità) anche se ideatore di
soggetti per film, protagonista delle cronache mondane mediatiche del-
l’epoca, lo scrittore italiano – Nobel per la letteratura nel 1934 – è auto­
re, nel 1915, del primo romanzo al mondo che ha come argomento (fi­
losofico e non solo) il cinema. Si gira... (Ciak, tradotto oggi in inglese...),
riedito nel 1925 come Quaderni di Serafino Gubbio operatore parla con
straordinarie intuizioni e altrettanto argute descrizioni della tecnica mo­
derna, del divismo, dell’etica aberrante del cinema-spettacolo, della mu­
sica, della «verità» nel cinema e anzitutto dell’«oltre che c’è in tutto», che
il cinema consentirebbe di rivelare: e che «voi non volete o sapete vede­
re».7
Forse debitore di Germaine Dulac e del dibattito francese sulla «foto­
genia», forse ancora impressionato dalle conversazioni con Chaplin o
dai tanghi di Gardel appena conosciuti nel suo viaggio nelle Americhe,
certo è che Pirandello ci lascia, tra l’aprile e il luglio 1929, una serie di
considerazioni sul «cinema sonoro» – pubblicate in tutto il mondo, da
«La Nacion» di Buenos Aires al «Corriere della Sera» all’«Anglo-Ameri­
can Newspaper Service» – le quali, rilette oggi, lasciano intuire più che i
film e i video che l’industria culturale ha evitato accuratamente di rea­
lizzare (promuovendo esattamente il contrario) proprio certi capolavo­
ri delle arti elettroniche audio-visive.

6
Cfr. S.M. Eisenstein, La forma cinematografica, Einaudi, Torino 1986; inoltre l’ope­
ra omnia degli scritti teorici del regista curata con particolare attenzione filologica e
filosofica da P. Montani per le Edizioni Marsilio di Venezia.
7
Cfr. L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, a cura di S. Costa, Mon­
dadori, Milano 1992.
153 COMPORRE AUDIO-VISIONI

«Bisogna che la cinematografia si liberi dalla letteratura», scrive Pi­


randello nella più compiuta fra queste annotazioni, «per trovare la sua
vera espressione e allora compirà la sua vera rivoluzione. Lasci la narra­
zione al romanzo e lasci il dramma al teatro. La letteratura non è il suo
proprio elemento; il suo proprio elemento è la musica. Si liberi dalla let­
teratura e s’immerga tutta nella musica, ma non nella musica che ac­
compagna il canto; il canto è parola: e la parola, anche cantata, non può
essere delle immagini; l’immagine, come non può parlare, così non può
neanche cantare. Lasci il melodramma al teatro d’opera e lasci il jazz al
music hall. Io dico la musica che parla a tutti senza parole, la musica che
s’esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia, potrà essere il lin­
guaggio visivo. Ecco: pura musica e pura visione. I due sensi estetici per
eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un godimento unico. Gli occhi
che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza
e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresentata nelle
immagini che questi sentimenti suscitano ed evocano, sommovendo il
subcosciente che è in tutti; immagini impensate, che possono essere ter­
ribili come gli incubi, misteriose e mutevoli come nei sogni, in vertigi­
nosa successione, o blande e riposanti, col movimento stesso del ritmo
musicale. Cinemelografia: ecco il nome della vera rivoluzione: linguag­
gio visibile della musica».8
Certo i maestri europei e americani della «videoarte» non conosce­
vano questo testo di Pirandello che pur intuisce la «rivoluzione» cine­
matografica che proprio essi porteranno a compimento negli anni Ses­
santa/Settanta; e sembra addirittura descrivere, con straordinaria pre­
cisione – senza ovviamente avere alcun elemento razionale per farlo – il
fondamento espressivo, le dinamiche percettive, le reciproche fluidità
audio-visive, i ritmi di montaggio delle arti elettroniche audio-visive, in
ultima istanza le «immagini impensate» proprie delle opere video più
importanti. E occorre ricordare che la parola «televisione» è stata co­
niata solo alla fine del 1929, l’apparecchiatura realizzata e pubblicizza­
ta tra il 1933 e il 1935; e che solo Dziga Vertov (nel 1925) e Karel Teige
(nel 1929) avevano immaginato di poter mettere in relazione il cinema
con il futuro mondo delle immagini «tele-visive», capaci cioè di «vedere
lontano» come affermò Rudolf Arnheim nei suoi saggi del 1935-37?9

8
Cfr. F. Càllari (a cura di), Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991.
9
Cfr. R. Arnheim, Film come arte (1933-1935), Feltrinelli, Milano 1983.
MARCO MARIA GAZZANO 154
5. Youngblood e Chion

Due teorici, uno nordamericano l’altro francese, hanno riflettuto con


attenzione e passione, in una serie di libri e saggi che coprono i venti an-
ni dal 1970 al 1990, sui rapporti tra le arti nell’era elettronica: e la loro
attenzione si è in particolare concentrata sui rapporti tra la musica, il
suono e il cinema (film e video). Si tratta di Gene Youngblood, autore
nel 1970 di uno degli studi più rilevanti per la teoria del cinema nel se­
condo Novecento, Expanded Cinema e Michel Chion, compositore e vi­
deoartista oltre che saggista, allievo prediletto, insieme a Robert Cahen,
di Pierre Schaeffer e autore di più di venti volumi sul suono, la voce e
l’immagine in movimento: ricerche che approdano nel 1990 al fonda­
mentale L’Audio-Vision.10 Due studiosi vicinissimi alle esperienze degli
artisti che hanno aperto la strada alle arti elettroniche audio-visive e al­
la musica contemporanea; e artisti essi stessi. Il loro interesse per la re­
lazione delle immagini con il suono e la musica (o la parola intesa come
suono) non è un paradosso: tutte le correnti e le individualità artistiche
che quasi quarant’anni fa hanno tenuto a battesimo le arti elettroniche
audio-visive, infatti, si sono manifestate a partire da un confronto con la musi­
ca e con i musicisti (compositori, esecutori, studiosi) nonché da una re­
lazione forte con i risultati – allora già acquisiti – della musica contem­
poranea (in particolare elettronica ed elettroacustica, concettuale, alea­
toria, neoprimitiva e concreta). Dieci anni infatti separano l’inizio delle
ricerche musicali avanzate nel secondo dopoguerra (1945-48) e gli al­
bori della «videoarte» (1958-59). In ogni caso è certo che il confronto
con la musica è stato assai più importante per le arti elettroniche audio­
visive dei rapporti – solo apparentemente più prossimi – con il film, la
televisione, le arti plastiche. Lo testimoniano bene Youngblood e Chion
in pressoché ogni tesi importante della loro ricerca teorica, o in parti­
colare quando, a partire dall’esperienza del «video» degli artisti o del
«cinema esteso», arrivano a riproporre, con i nuovi elementi portati dal­
l’esperienza moderna, il leonardiano «paragone fra le arti».
«La storia del cinema può anche essere raccontata come un movi­
mento senza fine di integrazione degli elementi più disparati: il suo­
no, l’immagine, il sensoriale, il verbale ecc. Vi sono periodi in cui la
fusione riesce, ma a prezzo di molte semplificazioni e difficoltà, e di
dittatura di uno degli elementi sugli altri. E vi sono periodi di rimessa
in discussione e di evoluzione – come oggi – in cui esplodono le di­

10
Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema (1990), Lindau, Torino
2001.
155 COMPORRE AUDIO-VISIONI

sparità del cinema, ma che portano con sé anche meraviglie» (M.


Chion, 1990).
«Oggi è importante distinguere il cinema dal suo medium, nello stesso
modo in cui distinguiamo la musica da un singolo strumento. Il cinema
è l’arte di organizzare un flusso di eventi audiovisivi nel tempo; è un flus­
so di eventi esattamente come la musica. Vi sono tre media che possiamo
utilizzare per fare del cinema: il film, il video, il computer; proprio come
vi sono molti strumenti con cui possiamo fare della musica. Ovviamente
ognuno di questi strumenti ha proprietà distinte e contribuisce in modo
differente alla storia e alle teorie del cinema, ampliando la nostra com­
prensione di ciò che il cinema è e potrebbe essere. Senza dimenticarci
che tutto ciò è e rimane essenzialmente cinema. Per quanto riguarda il vi­
deo, i problemi della dimensione e della qualità delle sue immagini sono
solo aspetti secondari, che saranno in ogni caso risolti nel prossimo de­
cennio. È invece essenziale sapere che continueremo a fare cinema anche
con questo nuovo medium, che verrà a sua volta inglobato dal computer,
la macchina universale» (G. Youngblood, 1987).

6. I precursori italiani

Le intuizioni di Pirandello e degli altri maestri delle avanguardie sto­


riche a proposito di relazioni fra le arti e in particolare di quella tra «ci­
nematografia» («un modo nuovo di scrivere: dunque di sentire», sottoli­
nea Bresson) e musica, paiono pertanto essersi inverate proprio con le
arti elettroniche: in molte opere certamente, ma ancor più nelle esplici­
te posizioni teoriche dei loro autori. Un risultato dovuto allo svilupparsi
e diffondersi della coscienza dell’intermedialità (della quale le connes­
sioni «multimediali» sono solo una condizione tecnica) e alla complicità
delle peculiarità tecniche dei nuovi dispositivi di produzione, riprodu­
zione e percezione delle immagini e dei suoni dei quali questa genera­
zione di artisti ha esplorato le possibilità espressive con autentica pas­
sione e indubbia radicalità.
Dal punto di vista della ricostruzione storica è certamente opportuno
segnalare che, sia sul piano teorico, sia su quello artistico, esiste un «fi­
lone» italiano che per molti versi ha anticipato gli altri più noti (ameri­
cani, francesi, tedeschi) che hanno portato alla nascita della videoarte e
delle arti elettroniche. Ma altrettanto sinceramente bisogna riconoscere
che questo contributo non è stato ancora né storicizzato né sistematiz­
zato. E questa è una responsabilità «politica» oltre che critica del nostro
paese, dei nostri studiosi e dei nostri amministratori.
Il manifesto futurista L’arte dei rumori del pittore Luigi Russolo esposto
MARCO MARIA GAZZANO 156
a Milano alla birreria Spaten il 24 novembre 1924, il Manifesto del movi­
mento spaziale per la televisione del 17 maggio 1952 (per non citare che il
più esplicito tra quelli redatti dal pittore Lucio Fontana tra il 1947 e il
1952, collegato a una trasmissione tv sperimentale realizzata alla RAI di
Milano che se non fosse stata perduta dal nostro servizio pubblico ra­
diotelevisivo avrebbe potuto rappresentare la prima opera di «videoar­
te» e di «neotelevisione» della storia), le opere televisive realizzate tra il
1969 e il 1985 da Carlo Quartucci, il crogiuolo di ricerca rappresentato
dal Centro videoarte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara (1974-94), arti­
sti come Fabrizio Plessi, Federica Marangoni, Mario Sasso, la ricerca so­
nora e musiche di Nicola Sani, Gianni Toti con le sue VideoPoemOpere e la
sua intuizione della «profondità di tempo» hanno spesso anticipato la ri­
cerca internazionale. Precorrendo le intuizioni più importanti sulla re­
lazione immagine-suono / musica e non solo: ma l’ignavia della cultura
italiana non li ha fatti ancora adeguatamente apprezzare.11

7. Arti elettroniche e ricerca sonora

Non così è accaduto al filone di ricerca più noto e pubblicizzato nel­


la storia – ancora non completamente scritta – dell’aurora delle arti
elettroniche audio-visive: quello originato dai desideri e dalla energia
creativa di Nam June Paik, giovane compositore coreano approdato in
Europa negli anni Cinquanta e trasferitosi con successo a New York nel
1965. Si tratta in questo caso della ricerca più destrutturante i linguag­
gi e i codici (visivi, musicali, tecnologici) a essa precedenti, mossa dallo
scambio di lettere intrecciato da Paik con John Cage tra il 1958 e il
1961, dall’incontro tra Cage e il movimento Fluxus in Germania occi­
dentale (Colonia, Düsseldorf, Wuppertal, 1962-64), dall’invito rivolto
da Cage a Paik a trasferirsi in America. Le date-chiave sono quelle note:
le mostre performative di Paik tra il 1961 e il 1962 a Colonia, la prima
«Esposizione di Musica / Televisione elettronica» a Wuppertal nel
1963, la prima mostra newyorkese «Electronic Art» nel dicembre 1965,
la prima retrospettiva «Videa ‘n’ Videology» all’Everson Museum di Sy­
racuse (NY) nel 1973, i lavori straordinari per la televisione universita­
ria indipendente WGBH Tv di Boston all’inizio degli anni Settanta fino

11
Cfr. S. Bordini (a cura di), Videoarte & Arte. Tracce per una storia, Lithos, Roma
1995; L. Albano (a cura di), Modelli non letterari nel cinema, Bulzoni, Roma 1999; S.
Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Costa & Nolan
/ Editori Associati, Ancona-Milano 1999.
157 COMPORRE AUDIO-VISIONI

al successo internazionale (e anche di mercato) negli anni Ottanta cul­


minato con il Leone d’oro alla carriera del quale Paik è stato insignito
alla Biennale d’arte di Venezia nel 1993. Tutto ciò, leggende metropo­
litane escluse, delle quali è prodiga la biografia artistica di Paik, spesso
create ad arte dai grandi musei e dalle importanti gallerie che trattano
le sue opere al fine di elevarne le quotazioni. Una pratica che tuttavia
non offusca la rilevanza di questo artista nel dibattito sull’arte di fine
millennio.12
La musica è presente sempre, e ancora oggi accompagna la vicenda
artistica di Nam June Paik. Lo è nel periodo della formazione (composi­
tore ed esecutore al pianoforte; diplomatosi a Tokyo con una tesi su
Schönberg e allievo di Stockhausen in Germania), nell’incontro quasi fi­
liale con John Cage e la sua musica «aleatoria», «random» e transcultu­
rale, nell’amicizia stretta con l’artista performer Joseph Beuys – un vero
e proprio «tandem» artistico –, nelle note «azioni» newyorkesi con Char­
lotte Moorman (la violoncellista che con il suo stesso corpo diventò negli
anni Settanta parte vivente dei nuovi strumenti audio-visivi e performati­
vi ideati da Paik: il «Tv Cello» e il «Tv Bra»), nei pianoforti «preparati» e
distrutti alla maniera di Cage, nei violini spezzati come provocatorio «cri­
mine culturale», nelle colonne sonore «pop» dei suoi video concepite in­
sieme ad Allen Ginsberg, Yud Yalkut, Alvin Lucier nella forma specifica
di Paik: frenesia musicale e audiovisiva intrecciata con il nero e il silenzio
assoluto – formalizzazione audio-visiva del principio dialettico cinese del­
lo Yin e dello Yang, matrice di Zen per Tv, principio creativo paikiano per
eccellenza. E la musica è anche presente nei suoi «allievi» principali, al­
trettanto innovatori: Laurie Anderson, Peter Gabriel, Philip Glass, Mau­
ricio Kagel, Takehisa Kosugi, tra gli altri.
Ma, tra i maestri euro-americani delle arti elettroniche vanno anno­
verati anche Steina e Woody Vasulka. Lei violinista islandese, lui cineasta
boemo, fuggono nel 1964 dall’Europa del provincialismo borghese e
dello stalinismo. Approdano a New York negli stessi mesi di Paik e lì, al
Greenwich Village, «scoprono» le possibilità estetiche del video (che es-
si stessi hanno contribuito a decifrare) con l’intensità di chi si è trovato
improvvisamente di fronte «al fuoco degli dèi». I Vasulka sono artisti che
hanno firmato le loro opere sia insieme sia separatamente per trent’an­
ni e devono la loro importanza non solo ad alcune «scoperte» capitali
nella conoscenza del linguaggio video, ma anche alla loro attività di ani­
matori culturali (hanno fondato The Kitchen, il primo centro di produ­
zione video e musicale d’avanguardia a New York), di teorici e di inse­

12
Cfr. M.M. Gazzano (a cura di), Il Novecento di Nam June Paik. Arti elettroniche, ci­
nema e media verso il XXI secolo, Carte Segrete, Roma 1992.
MARCO MARIA GAZZANO 158
gnanti. Inventori – come Paik, del resto – di apparecchiature ad hoc per
la messa in pratica della loro poetica (dal sistema MIDI alle «machine vi­
sion» agli «ibridi autonomi» alle «tavole interattive»), essi hanno studia­
to la luce elettronica e il tempo dell’istante, il «punto di vista delle mac­
chine» e l’importanza espressiva del «feedback» elettronico; e tra il 1972
e il 1976 hanno ideato la tecnica del «morphing». Ma la loro più affasci­
nante intuizione è stata – intorno al 1970 – quella di rendere estetica­
mente produttivo il fatto che in elettronica una stessa frequenza elettro­
magnetica, se commutata in un modo origina un suono, se commutata
in un altro origina una immagine, e se adeguatamente distorta rende vi­
sibile la linea di confine che i nostri sensi percepiscono tra suono e im­
magine, costituendo insiemi audio-visivi per la prima volta nella storia
del cinema effettivamente unitari. Una rivoluzione percettiva che ha fat­
to scuola; e, nonostante la volontà dei due autori – ritiratisi nel loro ere­
mo creativo di Santa Fé –, anche tra gli «special effects makers» del ci­
nema statunitense anni Ottanta e Novanta.13
Nella storia non ancora completamente decifrata delle origini delle
arti elettroniche audio-visive compaiono altri due fondamentali contri­
buti europei, quello francese rappresentato dall’opera di Robert Cahen
e di Michel Chion e quello tedesco sintetizzato da Klaus Schöning nella
teoria e nella pratica dell’«arte acustica». Ambedue queste esperienze
sono direttamente connesse a un rapporto con la musica e con il suono;
rapporto che in entrambi i casi ha orientato decisamente le direzioni di
ricerca, tra l’altro contribuendo a fondare una nuova teoria del mon­
taggio (videocinematografico e acustico) oltre che spostando l’accento
delle opere – pur nella estrema differenza di poetica e di stile esistente
tra le due «scuole» – su un piano meno «concettuale» e più attento a
nuove forme di narrazione rispetto alle esperienze americane. Un altro
elemento comune importante da segnalare è che in ambedue i casi de­
terminante è stato – forse obtorto collo ma c’è stato – il contributo pro­
duttivo fornito dai servizi pubblici radiotelevisivi francese e tedesco oc­
cidentale.
Al Groupe de Recherches Musicales fondato da Pierre Schaeffer nel
1958 a partire dall’originario gruppo di ricerca sulla «musica concreta»
all’interno dell’ORTF – nel 1960 trasformato in uno dei dipartimenti di
ricerca della televisione pubblica francese – Robert Cahen approda nel
1969 iscrivendosi a uno degli stage ivi organizzati. Studia composizione
elettronica per due anni con Schaeffer nella stessa classe di Michel
Chion e Jean-Michel Jarre. Si diploma nel 1971 in «Musique fondamen­

13
Cfr. M.M. Gazzano (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video media e nuove imma­
gini nell’arte contemporanea, Fahrenheit 451, Roma 1995.
159 COMPORRE AUDIO-VISIONI

tale et appliquée à l’audiovisuel» e nello stesso anno realizza il suo pri­


mo film, quel Portrait de famille che l’autore stesso definisce «una specie
di regolamento di conti con quel padre terribile che per me è stato Pier­
re Schaeffer». Grazie a quel film, Schaeffer decide di assegnare a Cahen
un contratto di ricerca come compositore e quale responsabile del la­
boratorio video sperimentale del Service de la Recherche. «Niente vi­
deoarte all’ORTF a quel tempo», ricorda Cahen, «solo interviste e com­
posizioni musicali per film televisivi. E tuttavia, gli uffici della ricerca
musicale e quelli della produzione cinematografica si trovavano nello
stesso edificio. E io, che volevo imparare, continuavo a fare la spola fra
gli studi di musica e quelli dell’immagine [...] Schaeffer mi ha insegna­
to a montare i suoni, ad ascoltare un suono in sé stesso, a saper com­
prendere cosa c’è dentro un suono quando è decontestualizzato dalla
sua fonte sonora: ad ascoltare il suono del violino senza pensare al violi­
no. Questo mi ha permesso di capire che si può guardare un’immagine
senza guardare ciò che essa significa in prima istanza [...] Volevamo fare
con l’immagine ciò che facevamo in musica».14
«Musica concreta è musica creata direttamente sul suo supporto, sul
mezzo scelto per fissarla. È stata studiata e concepita come tale, con que­
sto nome da Pierre Schaeffer nel 1948», annota Chion, «e tutto quello
che si fa in musica concreta lo si può fare con l’immagine elettronica».
In particolare il dar peso alle cose (Chion) evitando la leggerezza e la flui­
dità insite nell’immagine video, o la tendenza dei videomaker alla «ver­
bosità visiva».15
Per cogliere, come nelle opere video e nelle installazioni di Cahen, il
tempo «giusto» dell’immagine, la sua vibrazione sonora, la sua risonan­
za interiore, magari alterando all’estremo i tempi della percezione, i co­
lori e gli spazi; o immaginando immagini e cromatismi come fossero no­
te musicali, assonanze e dissonanze sonore, dissolvenze, assolvenze, ral­
lentamenti, desaturazioni: «Per meglio cogliere l’invisibile».

8. Arte acustica e intermedialità

Altra esperienza europea decisiva nello studio delle arti elettroniche


audio-visive è quella – direttamente connessa alla ricerca sonora, musi­
cale e acustica – dello «Studio Akustische Kunst», ideato nel 1963 e di­
retto fino a oggi presso la WDR di Colonia dal compositore e storico del­

14
Cfr. S. Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, ETS, Pisa 1991;
nuova edizione, ETS, Pisa 1998.
15
Cfr. S. Lischi (a cura di), Cine ma video, ETS, Pisa 1996.
MARCO MARIA GAZZANO 160
la musica Klaus Schöning. I concetti di «arte acustica», «installazione so­
nora», «opera per nastro magnetico radiofonico» nascono in questo la­
boratorio creativo dal pensiero critico di Schöning e di decine e decine
di autori europei, americani e di altri continenti che egli in questi quasi
quarant’anni ha instancabilmente e appassionatamente prodotto. La ri­
flessione sulla «sonorità», sul montaggio «a collage» (come in Joyce,
Majakowskij, Schwitters, McLuhan...), sulla relazione opera d’autore /
mezzo di diffusione e comunicazione di massa, sul significato di una so­
norità (o di una stratificazione significativa di sonorità, parole, musi­
che) in un ambiente, muovono negli anni Sessanta dalla riflessione di
Schöning intorno allo Hörspiel, ovvero il dramma radiofonico prodotto
e studiato in Germania fin dagli anni Trenta (famosi quelli di Brecht e
importanti le osservazioni di Arnheim).16 Hörspiel che il compositore
Mauricio Kagel, uno degli artisti che più compiutamente rappresentano
la poetica dello «Studio di Arte Acustica», definisce «non come un ge­
nere letterario o musicale, ma solo come una categoria acustica: dal con-
tenuto indefinito».
Argomenti e pratiche artistiche che hanno portato Schöning a ipotizza­
re relazioni forti delle esperienze creative acustico-musicali; non solo
con le peculiarità dei media e dei dispositivi elettronici, ma con il video
e con la scrittura delle immagini in movimento, oltre a suggerire un
suggestivo modo di intendere la parola. «Letteratura» egli scrive a metà
degli anni Ottanta, «è anche ciò che prende alla lettera le litterae: poesia
di lettere e letteratura che vive senza lettere né scrittura: poesia verbale,
poesia di suoni, articolazione spontanea, espressiva. Passaggi fluidi, fu­
sioni. Simbolo dell’arte di questo secolo. Tendenze che, unite alla ric­
chezza ancora inesplorata del mezzo tecnico, avrebbero potuto già da
tempo fondare un’estetica generale dell’arte acustica. Così, dopo gli an-
ni Sessanta, lo Hörspiel non ha seguito più la letteratura, ed è vissuto di
sconfinamenti, legati piuttosto all’elemento acustico-musicale, al ritmo e
al contrappunto. Arte del montaggio. Poesia acustica. Alla composizione
letteraria di singole parole, sillabe, lettere in nuove strutture di parola e
di linguaggio, corrispondono i montaggi di frasi e di citazioni, di rumo­
ri e di suoni. Secondo il procedimento del montaggio cinematografico. E secon­
do quello del collage, come insegna John Cage».17

16
Cfr. R. Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto (1936), Editori Riuniti, Roma 1987.
17
Cfr. K. Schöning, I suoni sono bolle sulla superficie del silenzio, in «Cinema Nuovo»,
maggio-giugno, Roma 1987.
PRIME LUCI ELETTRONICHE
LE TANTE ORIGINI DELLA VIDEOARTE
Alessandro Amaducci

1. Negli Stati Uniti

Parlare di origini di una forma di espressione artistica è sempre un


esercizio teorico e storico affascinante, che spesso forza l’immaginazio­
ne di chi scrive a favore di origini «mitologiche», individuando persone,
artisti o situazioni che diventano l’origine unica e irrefutabile di qualco­
sa: la tentazione di inventarsi un Big Bang per la videoarte l’hanno avu­
ta in molti e tutto sommato questa forma artistica ha già il suo Adamo,
rappresentato dalla figura di Nam June Paik, folletto orientale che pren­
de in mano la tecnologia e la trasforma, magicamente, in arte. Fermo re­
stando che ogni teoria tutto sommato è valida, mi piacerebbe affrontare
l’argomento cercando di adottare una vista dall’alto, valutando i pro­
cessi che hanno portato determinati artisti in determinati periodi stori­
ci a esprimersi in una maniera definita poi in seguito (e non da loro) vi­
deoarte. Ritengo che la nascita di un fenomeno così particolare, varie­
gato e difficilmente classificabile sia da recuperare in un ambiente più
che in un personaggio, un ambiente che si è sviluppato contempora­
neamente in paesi diversi, avendo come promotori artisti che non si
consideravano ancora (alcuni non lo si considerano neppure oggi) dei
videoartisti, ma persone che usavano in maniera creativa la tecnologia
elettronica e (in seguito) digitale.
Partiamo dagli Stati Uniti, giusto perché è il paese che più viene
chiamato in causa per il periodo che va dagli inizi degli anni Sessanta ai
primi anni Settanta. New York in effetti, diventa il crocevia di tensioni
artistiche e culturali veramente eccezionali, che coinvolgono tutto il
panorama espressivo artistico: pittura, teatro, musica e cinema. È inuti­
le sottolineare, perché lo fanno i protagonisti stessi, il debito culturale
della nuova ondata di creatività americana, già iniziata negli anni Cin­
quanta, con la tradizione delle avanguardie storiche europee, i surrea­
listi ma soprattutto una figura che in America diventa ben presto un mi­
to: Marcel Duchamp. È bene ricordare che negli Stati Uniti emigrano,
a causa della guerra o per altri motivi, o vivono già, in periodi diversi,
numerosi artisti: Marcel Duchamp, Man Ray, Max Ernst, Salvador Dalí,
Hans Richter; altri, come la scrittrice e collezionista Gertrude Stein, il
cui salotto letterario parigino era un punto di riferimento per gli artisti
ALESSANDRO AMADUCCI 162
statunitensi di passaggio nella capitale, e Jean Cocteau, cineasta, scrit­
tore e disegnatore nonché artista della cerchia dada e surrealista, ami­
co di Picabia, Diaghilev e Picasso, costituiscono già dei riferimenti d’ob­
bligo. Insomma, una sorta di «colonia» di dadaisti e/o surrealisti si sta­
bilisce a New York e incontra tutta una serie di personaggi: John Cage,
Maja Deren, più tardi Andy Warhol, e via dicendo. Del resto, a leggere
i nomi dei protagonisti delle varie avanguardie americane (da Roy Li­
chtenstein a James Rosenquist a Robert Rauschenberg, da Andy Warhol
stesso a Jackson Pollock, da Jonas Mekas a Maja Deren), appartengono
decisamente a una cultura europea, di un’Europa tra parentesi molto
«balcanica», quando non proprio, come nel caso della Deren, della
Grande Madre Russia, il nemico culturale numero uno degli americani.
Senza dimenticarsi ovviamente dei poeti beat (Ginsberg, Kerouac) e
del teatro (Living Theatre, Allan Kaprow). Eppure, fra tutti questi è evi­
dentemente Duchamp a lasciare il segno, e soprattutto le due linee teo­
riche da lui usate e da altri abusate: il ready-made e il concetto di «ca­
sualità», l’alea, a fianco dei quali fa capolino, spontaneamente, in tutte
le arti e in moltissimi artisti, quello del «flusso», legato all’idea di ri­
producibilità tecnica di cui Walter Benjamin è fulcro teorico. La casua­
lità e la fluidità diventano i cardini di una nuova poetica: il caso entra in
teatro, e nascono le idee di performance e di happening, un teatro fluidi­
ficato, debordante, che scende nelle strade, che si stratifica nel corpo,
abbandonando i teatri e modificando il concetto di attore; nella danza
con le coreografie casuali e temporalmente debordanti di Cunnin­
gham; nella musica, con le teorie di John Cage e con le esibizioni
«estreme» di Joan La Barbara che fa concerti tenendo la stessa nota per
anche più di trenta minuti; nel cinema che, abbandonando le espe­
rienze più legate al surrealismo (Maja Deren), si addentra nelle pelli­
cole «improvvisate» di Jonas Mekas o nei lunghi silenzi di Stan Brakha­
ge, culminando nelle «quasi-dirette televisive» dei film di Warhol; infi­
ne nell’arte, che usa sempre di più oggetti e abbandona i musei e le gal­
lerie, riscoprendo il corpo, il paesaggio, l’ambiente.
È in questa straordinaria atmosfera culturale che negli Stati Uniti na­
sce, non come un fungo isolato, la cosiddetta videoart. Nasce dopo la
comparsa, è ovvio, della televisione, e dopo la scoperta di un fenomeno
la cui portata culturale non è stata studiata fino in fondo, e cioè la «di­
retta». Il concetto di flusso, in maniera quasi naturale, va a unirsi a quel­
lo di ready-made e di casualità.
Nel campo prettamente artistico la trasformazione dell’opera in even­
to fa nascere il concetto di «installazione» e ben presto i televisori co­
minciano a occupare, come per Duchamp la ruota della bicicletta o l’o­
rinatoio, un posto di prim’ordine nelle gallerie d’arte. La data d’obbligo
163 PRIME LUCI ELETTRONICHE

che sancisce la nascita «ufficiale» della videoarte è il 1963, anno in cui


Nam June Paik realizza la mostra 13 Distorted Tv Sets presso la galleria
Parnasse a Wuppertal, in Germania. Paik è un personaggio inserito in
un mondo in cui l’elettronica (e anche il digitale) viene usata dagli arti­
sti, come Wolf Vostell, che Paik frequenta e dal quale viene aiutato per
organizzare la fatidica mostra. Per Vostell il televisore diventa il ready-ma­
de per eccellenza già dalla fine degli anni Cinquanta: come può essere il
contrario, in un’epoca in cui il mercato televisivo si sta espandendo a vi­
sta d’occhio e quell’oggetto che emette luce sta occupando un posto di
riguardo in tutte le case? Certo: Vostell adopera carcasse di televisori,
Paik, a modo suo, li accende, ma non può essere sottovalutato il fatto
che l’artista coreano sia in stretto contatto con questo vecchio ex-pittore
cubista passato ben presto, e non a caso, dalla parte della performance,
ovvero dell’opera in azione nel tempo. Tra parentesi, Paik comincia a fare
i famosi esperimenti sul tubo catodico quasi contemporaneamente alle
analoghe ricerche di Vostell: d’altronde Paik stesso inizia a interessarsi
di immagini elettroniche in Germania, presso gli studi della emittente
tedesca WDR.
13 Distorted Tv Sets: questo è il titolo della mostra. Tredici televisori
scoperchiati, con il tubo catodico a vista, che trasmettono immagini te­
levisive deformate nelle maniere più diverse: calamite, interventi diretti
sullo schermo, e varie interferenze magnetiche. Non ci sono ancora le
telecamere o i videoregistratori a portata degli artisti, quindi bisogna la­
vorare sulla luce (e molta dell’arte contemporanea dell’epoca aveva già
cominciato a farlo) e sul tempo reale. In una parola: fluidità. Ma a que­
sto punto compare un altro nome che bisogna tenere in giusta conside­
razione, quello di un tecnico «fuoriuscito» dalla Sony, che con Paik ini­
zierà a costruire delle macchine, i primi prototipi di mixer video: Shuya
Abe. Le interferenze dei campi magnetici sullo schermo televisivo o sui
tubi catodici stessi sono sicuramente pane quotidiano per Abe, perché è
grazie a questi fenomeni che i televisori vengono, ancora adesso, tecni­
camente «testati»; così come la compresenza di più televisori uno a fian­
co all’altro, a parte un chiaro riferimento ai videowall delle vetrine dei
negozi, è un’immagine usuale per un tecnico che ha visto sciorinare da­
vanti a sé, trasportati dalla catena di montaggio, centinaia di televisori
con il tubo catodico a vista.
In una qualche maniera, la storia dell’«arte tecnologica» si ripete: l’a­
more, di sapore dadaista, per le vetrine, e per le immagini che il merca­
to industriale produce, e l’incontro con un tecnico (come il cineopera­
tore Dudley Murphy che aiuta Léger per il suo Ballet mécanique), insom­
ma la simbiosi fra arte, commercio e tecnica diventa una nuova frontie­
ALESSANDRO AMADUCCI 164
ra che sarà attraversata, ovviamente in maniera completamente diversa e
più cinicamente lucida, da Andy Warhol.
Da qui a poco altri due nomi affiancano la ricerca tecnologica con­
nessa all’idea di fluidità e di uso della luce: Woody e Steina Vasulka, che
già a partire dal 1969 cominciano anche loro a sperimentare effetti e a
costruire macchine. Sembra paradossale, ma la maggior parte delle ela­
borazioni scoperte da questi tecnoartisti sono diventate parte integrante
della base effettistica di qualsiasi buon mixer video professionale, e si ri­
trovano anche nei più sofisticati sistemi di montaggio digitali: come al
solito l’industria si rivela assai ricettiva e veloce nell’assorbire le spinte
creative degli artisti. Dai primi anni Settanta in poi i Vasulka cominciano
a sciorinare una serie impressionante di esperimenti, dal punto di vista
tecnologico anche più interessanti di quelli di Paik, che si basano sulla
generazione, o autogenerazione, di immagini in diretta, andando negli
anni a compilare un vero e proprio «alfabeto dell’immagine elettroni­
ca». Si affiancherà ben presto un altro nome degli esordi, «dimenticato»
dai più: quello di Ernest Gusella, un personaggio veramente ai margini
(sembra sia difficile reperire i suoi video anche in America) ma impor­
tante soprattutto per Woody Vasulka, che lo farà recitare in uno dei loro
video, The Commission (1983).
Le prime sperimentazioni sull’immagine video riversata e fruibile su
nastro cominciano ben prima, e con nomi illustri: i fratelli Whitney e
Stan Van der Beek con i loro film computerizzati (non è corretto, a mio
avviso, separare la computer grafica dall’immagine elettronica per
quello che riguarda la videoarte) che risalgono alla metà degli anni
Sessanta; e soprattutto Scott Bartlett, che già nel 1967 col suo OFF-ON
mostra, riversate in pellicola, delle immagini elaborate elettronicamen­
te in una maniera che sarà poi piuttosto usuale per i videoartisti. Biso­
gnerebbe anche andare a cercare in alcuni cortometraggi di Jordan
Belson dove qua e là si intravedono elaborazioni elettroniche, sempre
riprese in pellicola. Nam June Paik nel 1973 realizza il suo primo video
«monocanale», da fruire su singolo monitor, Global Groove, ed è eviden­
te che l’ambiente che lo circonda lo ha spinto in qualche modo in quel-
la direzione: un’intera grammatica di effetti video è messa in campo in
quest’opera-manifesto di Paik: chromakey, sovrimpressioni, feedback, co­
lorizzazioni elettroniche. Nel 1969 l’emittente televisiva WGBH Tv di Bo­
ston apre le porte a una serie di artisti che realizzano nel 1969 opere vi­
deo impressionanti per qualità e preveggenza nei confronti di quello
che sarebbe successo di lì a poco. Fu proprio Nam June Paik l’invento­
re-promotore di questa straordinaria esperienza artistico-tecnologica.
Terry Riley, insieme ad Arlo Acton (Music with Balls), poi Philip Makan­
na (The Empire of Things) e James Sewright (Capriccio for Tv) realizzano
165 PRIME LUCI ELETTRONICHE

dei video sperimentali a colori in cui compaiono gran parte degli stile­
mi classici della videoarte «a venire»: il rapporto con la musica, un nuo­
vo tipo di astrattismo, l’utilizzo di alcuni «incidenti» tecnologici come
le immagini autogenerate e moltiplicate all’infinito (con il feedback e il
loop) e soprattutto l’uso della danza e le modificazioni del corpo e del
viso.
Altri nomi sul finire degli anni Sessanta, grazie a una temporanea
apertura di alcune televisioni o laboratori intelligenti, cominciano a pro­
durre video, come Loren Sears, Ed Emshwiller e Otto Piene, autore di
un formidabile Electronic Light Ballet (1969), un concentrato di molta
della videoarte degli anni a seguire, dove si intravede già tutto il nuovo
astrattismo elettronico (il video che mostra sé stesso) e soprattutto
un’immagine che, variamente elaborata, sarà per molti quasi un’osses­
sione: il feedback.
Insomma, negli Stati Uniti (fondamentalmente a New York) fra il
1967 e il 1969 la situazione è molto variegata e in incredibile espansio­
ne, con una rosa di nomi che poi nel tempo ovviamente si ridurrà (nes­
suno dei partecipanti di quel mitico programma della WGBH, tranne
Paik, continuerà su questa strada), ma che è già piuttosto ampia: Nam
June Paik, Ed Emshwiller, e i Vasulka che, in maniera parallela, senza
l’apporto diretto di televisioni, ma appoggiandosi a centri di ricerca e
lavorando con laboratori autocostruiti, cominciano a produrre immagi­
ni su nastro già dal 1970, rappresentando un unico esempio di indi­
pendenza e artigianalità tecnologica applicata all’arte. Global Groove di
Paik è un’opera a cavallo tra l’esplosione creativa del 1969 e l’inizio
della creazione di opere più compiute, dal 1973 in poi. E infatti è il
1974 che può essere considerato l’anno in cui compaiono delle opere
mature, con Woody Vasulka e i suoi C-Trend e The Matter, ed Ed Em­
shwiller con Crossing and Meetings, già un capolavoro del chromakey, men­
tre il 1978-79 è sicuramente il biennio d’oro delle origini della videoar­
te negli Stati Uniti: Nam June Paik si rivela nel suo vero talento visiona­
rio che coniuga ironia, documentazione e sperimentazione con Merce by
Merce by Paik (1975, rimontato nel 1978) con il danzatore Merce Cun­
ningham; Steina Vasulka realizza un piccolo gioiello di interazione suo­
no-immagine, Violin Power (1978), Bill Viola comincia a produrre alcuni
video in cui già si squaderna la sua poetica legata alla percezione ottica,
fisica e metafisica, e alla qualità temporale dell’immagine video come
Memories of Ancestral Power (1977-78), The Reflecting Pool e Moon Blood
(1977-79). In The Reflecting Pool l’immagine del corpo di un uomo fissa­
ta nell’attimo stesso in cui questi spicca il tuffo in una piscina, svanisce
nel verde della natura in un lentissimo e impercettibile divenire. Ed Em­
shwiller realizza uno dei suoi video ancora oggi più belli, un’opera fon­
ALESSANDRO AMADUCCI 166
damentale nella storia della videoarte, Sunstone (1979), e infine Bill Vio­
la nel 1979 crea Chott El-Djerid (A Portrait in Light and Heat), un video già
pienamente maturo; con una focale lunga Viola riprende un punto lon­
tano all’orizzonte in un deserto sahariano: osservando attentamente,
questo non è altro che un uomo la cui sagoma lentamente prende for­
ma man mano che si avvicina all’obbiettivo.
Se le televisioni hanno a poco a poco abbandonato la strada della spe­
rimentazione (che farà capolino più tardi, riassorbita da un altro gene­
re, quello del videoclip: ma questa è un’altra storia), la videoarte in
America del nord ha avuto, e ha tuttora, fortuna nel circuito e nel mer­
cato dell’arte: enti, gallerie, musei, fondazioni hanno finanziato e fi­
nanziano gran parte delle produzioni. Questo è merito della grande
azione di diffusione che il video d’artista e il video performativo hanno
avuto in questo periodo, facendo una vera e propria operazione di
«sfondamento». In questi anni Vito Acconci e Aldo Tambellini negli Sta­
ti Uniti sono i più attivi, e credo che sia grazie a loro e a tutti gli artisti
che lavoravano in quell’orbita che la videoarte americana esiste ancora
adesso.

2. In Europa

In Francia la figura di riferimento, e, in mancanza di altri dati certi,


onestamente pionieristica e solitaria, è quella di Jean-Cristophe Averty.
In effetti, l’opera di Averty è un’isola nel deserto, soprattutto valutando
la cronologia delle sue opere. Il primo fattore importante e, tutto som­
mato, unico nella storia internazionale della videoarte, è che Averty la­
vora per la televisione, la ORTF, e non per programmi particolari in cui
l’artisticità dell’operazione viene presentata e valorizzata come qualcosa
di eccezionale dal palinsesto normale. Averty è un regista televisivo: ep­
pure, all’epoca nessuno fa una televisione come la sua, e a guardarli og­
gi i suoi programmi possono essere considerati delle vere e proprie ope­
re di videoarte.
È interessante l’anticipo su tutte le esperienze appena raccontate:
Averty già a metà degli anni Sessanta realizza una serie di opere in cui
tutti gli stilemi di un certo tipo di videoarte vengono sperimentati e mes-
si al servizio di una estrema ironia: riquadri, colorizzazioni, l’uso della
danza come nuovo codice attoriale per le immagini in movimento, il
rapporto col suono, l’integrazione dell’immagine elettronica con le ani­
mazioni digitali, e soprattutto il «ritorno» al teatro. Questo interesse nei
confronti del teatro e della danza è un elemento importante per questa
fase della produzione sperimentale in video, ed è un fatto interessante,
167 PRIME LUCI ELETTRONICHE

come se i nuovi autori trovassero nella tabula rasa dello spazio mentale
del palco una nuova dimensione sulla quale agire, trattando lo schermo
come uno spazio vuoto (un palco appunto) da riempire di immagini.
Ma è soprattutto il testo teatrale a diventare una sorta di nuova «sceneg­
giatura», di spunto paranarrativo dal quale partire, così come lo diven­
terà, negli anni successivi, la poesia.
Le date parlano chiaro: già nel 1963 (in effetti, questo sembrerebbe
un anno fatidico) Averty realizza un programma, Avec nous le deluge, do­
ve compaiono le tanto amate «finestre» e soprattutto una collezione di
distorsioni di segnale (stretching, avvitamenti, allungamenti ecc.) che di­
venteranno pane per i denti degli sperimentatori più radicali. Averty qui
gioca già con il monoscopio, un’immagine che sarà ricorrente nella pro­
duzione di Paik. Sempre dello stesso anno è il programma Les raisins
verts, dove le moltiplicazioni dei personaggi e degli elementi della scena
preludono a uno degli stilemi classici della videoarte e soprattutto delle
produzioni americane citate poco prima: il feedback. In Fragson (1969)
Averty comincia a sperimentare in maniera matura il lumakey (sovrappo­
sizione di immagini aventi la stessa densità luminosa, intarsiate l’una
dentro l’altra) anticipando di nuovo tutti. Ma la cosa sorprendente è
che mentre tutti in America si affannano a modificare il segnale per per­
dersi nelle immagini astratte della scansione elettronica, Averty usa gli ef­
fetti per fini espressivi, comunicativi, al servizio di una narrazione che subi­
sce già poderosi scarti dal modello tradizionale. Il lavoro più sfolgorante
di questi primi anni di sperimentazione è la versione televisiva di Ubu Roi
(1965) di Alfred Jarry: finestre, lumakey e grafica vengono a collaborare
nella creazione di quello che può essere considerato il primo esempio
reale e maturo di «teatro elettronico». Averty conia l’espressione, a dir
vero molto felice, di mise en page (impaginazione) delle immagini: in ef­
fetti c’è molto talento grafico, di composizione degli elementi secondo
un metodo che assomiglia, appunto, all’impaginazione dei giornali, un
linguaggio questo che ben presto influenzerà le regie dei telegiornali.
Ma l’antecedente più diretto di questa maniera di usare le immagini è il
fumetto: fra il riquadro e il balloon c’è una vera e propria filiazione. È
nelle versioni teatrali che Averty sfodera tutto il suo gusto autenticamen­
te neodadaista: sempre nel 1965 Hey Joe di Samuel Beckett, ancora un
Ubu, e cioè Ubu enchaîné (1971), in seguito Mouchoir des nuages (1976),
da un testo di Tristan Tzara, e infine Les Mamelles de Tirésias di Apollinai­
re (ma siamo già nel 1982).
Insomma, se negli Stati Uniti nasce effettivamente la nozione di «vi­
deoarte», già negli anni Sessanta Averty, convinto assertore della distan­
za della televisione dal teatro e dal cinema tradizionali, sperimenta con
largo anticipo il linguaggio dell’elettronica, convinto non di fare «arte»,
ALESSANDRO AMADUCCI 168
ma semplicemente la televisione migliore, quella cioè che sfrutta al me­
glio il mezzo. Con un inizio così, non sorprende il fatto che la televisio­
ne francese sia comunque più interessante di tante altre. Così come la
spinta propulsiva di Paik e di Acconci ha fatto entrare il video nel cir­
cuito e nel mercato dell’arte statunitense, Averty sicuramente ha il me­
rito di aver fatto nascere la videoarte francese dentro la televisione. Non
è un caso che la maggior parte della sperimentazione di questo paese
oggi venga prodotta o da televisioni o da centri di sperimentazioni pa­
ratelevisivi, come l’INA o il Centre Pierre Schaeffer di Montbéliard (che
inizialmente si propone come un luogo per una «televisione di ricerca»,
diventando poi decisamente un centro di produzione di videoarte) e,
ancora, non è un caso che in questo paese tutto sommato si veda in te­
levisione più videoarte che altrove.
I frutti di un tale clima si fanno sentire presto, tanto che già nel 1973
(un anno fecondo per tutta la produzione internazionale) un giovane
musicista e filmaker produce il suo primo video: è L’invitation au voyage
di Robert Cahen, un video prodotto in un dipartimento di ricerca ra­
diofonico dell’ORTF, l’ente radiotelevisivo francese che già aveva dato
spazio ad Averty. Cahen sfodera in questo suo primo video gran parte
della sua poetica (le coloriture irrealistiche, l’evidenziazione della pasta
elettronica), e soprattutto l’attenzione al suono (Cahen è un allievo di
Pierre Schaeffer). Cahen è un musicista imbevuto di cultura cinemato­
grafica, quindi lo scarto nel trattare l’audio si sente.
La Germania sembra essere un paese che accoglie proposte dall’e­
sterno (gli esperimenti di Paik, i transiti di Fluxus, l’attività di Gerry
Schum che apre una galleria dando la possibilità ad artisti stranieri di
usare il video), ma fatica a produrre autori locali. Questo però non deve
trarre in inganno, perché la Germania a ben vedere è stato il paese trai­
nante di questo movimento, favorendone la nascita, la diffusione e so­
prattutto la produzione, attraverso l’azione di gallerie private, musei e,
ancora una volta, televisioni (non dimentichiamoci che gli ultimi video
di Bill Viola, per esempio, sono coprodotti con la televisione tedesca
ZDF, e che la Germania ora conta numerosissimi festival e soprattutto
molti centri e accademie che producono, a volte con mezzi ingenti, ope­
re video e multimediali). Nam June Paik stesso, come si è accennato
prima, comincia i suoi primi esperimenti sull’immagine negli studi del­
la WDR (ancora un centro di ricerca radiofonico!) di Colonia. Soprattut­
to, non bisogna dimenticare l’azione e l’importanza di Wolf Vostell, che
rappresenta sicuramente il motore principale della diffusione di questa
forma espressiva, tanto che già nel 1963 realizza un film, Sun in Your
Head, composto da immagini televisive modificate e riversate successiva­
mente in pellicola, diventando così contemporaneo alle esperienze di
169 PRIME LUCI ELETTRONICHE

Averty e antecedente a qualsiasi esperienza americana. Come natural­


mente accade negli altri paesi presi in considerazione, gli anni Settanta
diventano «anni caldi» per le prime produzioni, e per la nascita di auto-
ri che in seguito faranno carriera e fortuna. Klaus Vom Bruch produce il
suo primo nastro nel 1975: Die Entführung eines Kunsthändlers ist Keine
Utopie Mehr, e Marcel Odenbach l’anno seguente realizza Die Ewig Schaf­
fenden Eände Oder, così come Bettina Gruber fa la sua comparsa nel 1978
con Über Kultur. Fin dai titoli qui menzionati, tutti rigorosamente in te­
desco, si intuisce come Vostell, in contatto con Fluxus, sia già inserito in
un’orbita internazionale, mentre gli autori citati adesso si muovono in
una vasta area di sperimentalismo locale dove però l’idea di «cinema
d’impegno» tarpa non poco le ali a questo tipo di produzione. Il cam­
biamento di orbita avverrà negli anni Ottanta, quando questi autori si af­
fermeranno a livello internazionale.
È interessante notare come, nonostante la Germania sia stata il ful­
cro, anche tecnologico, della videoarte degli esordi, Bruch, Odenbach
e Gruber sono, tutto sommato, poco affascinati dalla tecnologia, ma
più attenti a discorsi sul linguaggio delle immagini e soprattutto di de­
nuncia del mezzo televisivo. Sarà più tardi, in coincidenza dell’apertu­
ra di una serie di laboratori e di scuole dei nuovi media (Colonia, Karl­
sruhe, e altri), e non per la spinta degli autori, che questo paese diven­
terà l’avanguardia della sperimentazione nel campo multimediale e di­
gitale.
Nel frattempo, in coincidenza con quello che sta succedendo negli al-
tri paesi, anche in Inghilterra nasce un piccolo fermento attorno a que­
sto nuovo mezzo. Ancora una volta è una televisione (bisogna ammette­
re che «il nemico numero uno» dei videoartisti ne ha tenuti parecchi a
battesimo...) che dà accesso (limitato) a un artista per sperimentare la
tecnologia: David Hall realizza nel 1971 7 Tv Pieces per la BBC, geniali in­
tervalli televisivi girati in pellicola dove la tecnologia elettronica, più che
venire usata, viene messa in scena, così come in Relative Surfaces (1974­
75), meditazione sulla visione, e in Tv Fighter (1977), dove lo schermo te­
levisivo viene utilizzato come una sorta di tavolozza. Bisogna aspettare il
1979 con This is a Television Receiver perché Hall scopra le deformazioni
del segnale video, qui impiegata con sapiente ironia: ma siamo già alle
soglie degli anni Ottanta.

3. In Italia

Non tanto colpita dai sommovimenti europei (Francia e Germania


non sono così lontane), ma smossa dall’amore, quasi un’ossessione, per
ALESSANDRO AMADUCCI 170
tutto ciò che è targato USA, la videoarte arriva in Italia abbastanza presto,
e si sviluppa seguendo tappe ormai consolidate: l’impegno politico, la
controinformazione prima, la performance poi, e infine la sperimenta­
zione. In questo senso l’Italia reagisce precocemente alle sollecitazioni
d’oltralpe: Alfredo Leonardi a Genova già negli anni Sessanta apre la
prima videogalleria mentre Luciano Giaccari documenta ogni evento ar­
tistico significativo e nel 1972 scrive la Classificazione dei metodi di impiego
del videotape in arte, introducendo per la prima volta la distinzione tra «vi­
deo diretto» (caldo, creativo) e «video mediato» (freddo, documentati­
vo). Roberto Faenza predica la controinformazione «senza chiedere
permesso», dal titolo del suo libro del 1973, e proprio in quegli anni na­
scono i primi centri, non solo di promozione, ma di produzione video:
nel 1972 aprono Art-Tapes-22, fondato da Maria Gloria Bicocchi che
produrrà, tra gli altri, alcuni video di Bill Viola, e il Centro videoarte di
Ferrara, fondato da Lola Bonora. A Venezia sempre nel 1972, viene
inaugurata da Paolo Cardazzo anche la Galleria del Cavallino intorno al­
la quale ruota la personalità eclettica, musicale e videoperformativa di
Michele Sambin. Importante citare nel 1973 L’altro video, incontro rea­
lizzato dal Festival del cinema di Pesaro, da sempre attento alle novità in
campo linguistico, che rappresenta il primo incontro delle nuove forze
di critici e di curatori che poi in Italia diffonderanno la cultura del vi­
deo. Proprio a Ferrara sempre nel 1974, vengono prodotte le prime vi­
deoinstallazioni di un autore che si consoliderà ben presto con successo
nel panorama internazionale: Fabrizio Plessi infatti realizza Segare l’ac­
qua, e soprattutto Travel. Plessi arriva da una formazione artistica tra­
sversale, tipica dell’epoca: performance, film, azioni. Se Segare l’acqua se­
gue la scia delle documentazioni in video di lunghe performance, Travel
è invece un video pensato come opera autonoma. Il Centro non ha
grandi mezzi, quindi in Italia bisogna aspettare gli anni Ottanta prima
che si scoprano l’elettronica e le sue possibilità; eppure Plessi in que­
st’opera sfodera, cosa rara in quell’epoca così «tecnologica», tutto il suo
talento poetico, quasi lirico. Se il tema del viaggio è collegato a una serie
di immagini simboliche molto dirette (la valigia, le porte, segni di pas­
saggio e ovviamente l’acqua, il tema-cardine di tutta la produzione di
Plessi), è in realtà la parte finale del video, dove la protagonista si fa una
«doccia di luce», che inaugura, in un certo senso, la stagione videoarti­
stica italiana, che però fatica a esplodere come invece avviene negli altri
paesi. Plessi, non a caso, di lì a poco «emigra» in Germania per prose­
guire la sua fortunata carriera.
Gli incidenti fra cinema sperimentale e video diventano un caso che
esplode al Festival di Venezia: nel 1975 Alberto Grifi presenta Anna, rea­
lizzato in tecnica mista; l’anno successivo Paolo Gobetti e il suo Archivio
171 PRIME LUCI ELETTRONICHE

nazionale cinematografico della resistenza presentano quaranta ore non


montate di interviste realizzate in video di combattenti anarchici della
guerra di Spagna. Purtroppo questi due eventi non smuovono l’am­
biente, e la cosa finisce lì.
Come si vede, in questa storia manca completamente la televisione,
che in questi anni non apre, se non eccezionalmente, i canali alla speri­
mentazione. Eppure, anche nel nostro paese ci sono esempi molto «an­
tichi», se così si può dire, questi sì isolatissimi, dell’attenzione del mon-
do artistico nei confronti dei nuovi media. È del 1969 infatti Vobulazione
e bioeloquenza negativa di Vincenzo Agnetti e Gianni Colombo, uno
straordinario saggio di modificazioni del segnale: tutto in bianco e nero,
tutto (ovviamente) contro la televisione e le sue false verità, eppure un
documento curioso di un movimento che in Italia in realtà non è mai
«scoppiato», nonostante ci fossero le forze.
A ben vedere, considerando quello che è successo in Germania e in
Francia, bisogna forse concludere che la videoarte non nasce dalla tele­
visione, quanto dalla radio. Sono i centri di ricerca radiofonica quelli
che ospitano Paik in Germania, e vari sperimentatori tra cui Cahen in
Francia. Paik è un allievo di Stockausen e di Cage, Cahen di Schaeffer.
Averty comincia la sua carriera televisiva con una serie di programmi sul
jazz. In quel famoso programma della WGBH c’è anche Terry Riley: Stei­
na Vasulka è una violinista e Bill Viola ha iniziato a sperimentare con i
sintetizzatori musicali. Insomma, coloro che nascono da una formazione
più artistica sono preoccupati di documentare sé stessi, chi invece pro­
viene da una formazione musicale attua un approccio all’immagine vi­
deo con uno spirito completamente diverso, più attento al mezzo. È una
sorta di radiofonia visiva quella che si sviluppa in questi anni, e non qual­
che cosa in continuità con l’arte concettuale o con la body art, che pro­
durrà invece le videodocumentazioni alla Acconci, Baldessari e via di­
cendo. Coloro che usano il video in maniera avvertita più che dalle arti
plastiche provengono dalla grafica, come Averty. Il riferimento «statico»
più diretto e vicino alla videoarte è il fumetto (di nuovo Averty e la sua
mise en page), e poi il cartone animato e il cinema d’animazione, di cui
tanto cinema sperimentale comunque si è nutrito.
È innegabile comunque che la televisione abbia dato, a modo suo,
per contrapposizione o per integrazione, una spinta vitale, demarcando
in qualche modo la qualità stessa dei video realizzati in questi anni. È ov­
vio che chi si autoproduce o gode dei mezzi di piccoli centri (pensiamo
a Plessi) non può sperimentare ciò che fanno Cahen, Paik o Averty. E
questo segna non poco gli sviluppi e la fortuna della videoarte di ogni
singolo paese. Così come è interessante l’esperienza dei Vasulka, veri e
propri «imprenditori della sperimentazione elettronica», lontani dalle
ALESSANDRO AMADUCCI 172
televisioni, eppure vicini ai centri di ricerca tanto da potersi costruire un
proprio laboratorio. Ma questo veramente può succedere solo in un
paese quale l’America, così come solo la Sony giapponese può finanzia­
re un autore come Paik.
Altra costante è il legame con il teatro. Carmelo Bene (insieme con
Luca Ronconi e Carlo Quartucci) accede negli anni Settanta al «santua­
rio» della RAI: data la radicalità delle sue proposte e il numero non esi­
guo di programmi prodotti, rappresenta un caso veramente ecceziona­
le, che forse ha provocato un po’ di «terra bruciata» per altri tipi di pro-
poste. Carlo Quartucci è il primo a cimentarsi con le regie televisive
(Don Chisciotte, 1970 e Moby Dick, 1973), proseguendo con un particolare
e originale uso del chromakey prima e del videomirage poi (sperimentato
nel video La montagna gialla, 1985), mentre Luca Ronconi, attirato dal­
l’anomalia che il teatro rappresenta per la televisione riscrive l’Orlando
furioso (trasmesso nel 1975), Bettina (1976), La torre, da Hofmannsthal,
(1979) mantenendo come costanti interpretative sia la scelta antinatu­
ralistica del disoccultamento della finzione sia l’uso del piano-sequenza
che sostituiva il più tradizionale campo e controcampo. Carmelo Bene
realizza quattro regie originali (Quattro diversi modi di morire in versi, 1978;
Amleto, 1977, Riccardo III, 1978; Otello, 1979 incompiuto e montato postu­
mo) dove abolisce campi e controcampi trasformandoli in monologhi
narcisistici dei personaggi ripresi in primo o primissimo piano dalla te­
lecamera fissa (A. Balzola e F. Prono, 1994).
Però ricordiamoci che i primi programmi autoriali di Averty sono ver­
sioni televisive di testi teatrali, e che Paik stesso si trova a suo agio nel do­
cumentare le coreografie di Merce Cunningham, piuttosto che gli hap­
pening di Allan Kaprow (Allan’s and Allen’s Complaint) o gli spettacoli del
Living Theatre (Living with the Living Theatre, 1986).
Radio, musica elettronica, fumetto e nuovo teatro: con queste forme
artistiche è in continuità quella videoarte che più usa la tecnologia per
un nuovo immaginario. Certo: a fianco della videoarte c’è anche il cine­
ma sperimentale, quello storico degli anni Venti e quello degli anni Ses­
santa, ma sono due approcci molto vicini, che producono realizzazioni
con stili, contenuti e tensioni comunque molto diversi, e, lo ripeto, c’è
più cinema d’animazione che altro in questo periodo. Non mi sembra
casuale che i cineasti sperimentali che hanno «scoperto» il video nelle
sue reali possibilità (Emshwiller, per esempio), si siano poi concentrati
su questa tecnologia, andando a toccare anche il digitale, mentre altri
(Mekas, Snow, Marker, Godard stesso) si sono avvicinati per continuare
poi, tutto sommato, per la loro strada.
SECONDA PARTE

VERSO LA SINTESI DIGITALE


LA GENESI MULTIMEDIALE DELLE ARTI
LA MUTAZIONE DIGITALE
FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO
Fabio Amerio

1. Tutto sotto controllo. Informazione, digitalizzazione e linguaggio nell’era


degli istanti

La tecnologia non fa bene all’arte in quanto viola l’ethos del corpo: la


rappresentazione e la «propagazione» dell’immagine sono correspon­
sabili dell’anonimato derivante dall’oggettivazione delle tecniche di ri­
produzione. L’«arte» perde la sua «aura» allorché la fotografia, già con­
taminata dalla tecnica ripetitiva, falsificatrice e aleatoria del mezzo, con
l’introduzione del computer, offre sempre meno credibilità. In linea
teorica questi adagia potrebbero anche essere accettati come baluardo
dell’ultraconservatorismo: non condivisibili, ma accettabili. Sarebbero
accettabili se fossero dedotti da un giudizio di genere rivolto a tutte
quelle opere che sfruttano tecnologia digitale, oppure dall’osservazio­
ne dei singoli casi. Ma sarebbe come dire che la tipografia danneggia il
libro perché i codici miniati del XII secolo sono più belli dell’Universa­
le Economica degli anni Cinquanta. Di fronte al disagio del paradosso,
si finisce quasi sempre con l’attribuire a queste argomentazioni un ta­
glio larvatamente neoidealistico che trancia tout court le possibilità di
approccio critico e necessita di una ovvia, ma radicale, riduzione feno­
menologica. Al sospetto che la fotografia non sia da annoverare tra le
arti ma «tra le vili pratiche meccaniche» rispondiamo, con Renato Ba­
rilli, «tanto peggio per l’arte»: la possibilità tecnica aperta dalla foto­
grafia consente di accedere al continente dell’estetica «presa in acce­
zione etimologica, e intesa come l’ambito dei valori percettivi e senso­
riali in genere».1
Il problema oggi è di riuscire a impossessarsi di un linguaggio. Fac­
ciamo un esempio, forse approssimativo, ma lampante nella sua sempli­
cità: immaginiamo di sentire dieci poesie scritte usando solo trenta pa­
role. Si avrà una legittima sensazione di uniformità, si dirà che il mezzo
linguistico ha poche possibilità espressive, qualcuno arriverà persino a
dire che la tale lingua è di per sé «impoetica». Così, invece di cogliere
che la regola del gioco (voluta o imposta) sono le trenta parole, si trar­

1
R. Barilli, Introduzione a F. Alinovi, C. Marra, La fotografia: illusione o rivelazione, il
Mulino, Bologna 1981, p. 10.
FABIO AMERIO 176
ranno conclusioni molto lontane dallo stato reale delle cose. Parafra­
sando Lévi-Strauss si può dire che ogni macchina è un organo con una
funzione specifica che si limita a imporre leggi strumentali a elementi di
altra provenienza: sue caratteristiche sono lo sviluppo lineare e l’impos­
sibilità di ripristino delle condizioni iniziali. Ma, mentre si assiste a una
modificazione irreversibile di un processo lineare che sostituisce quello
ciclico della natura, «il rapporto inconscio col mondo tende a rimanere
bloccato».2 Per questo il termine multimediale è fuorviante. Esso è il
prodotto di un «inconscio tecnologico» che proietta un’idea di molte­
plicità mentre, di fatto, la tecnologia tende radicalmente a quell’unime­
dialità che comincia con la teoria dell’informatizzazione di Shannon e
che ne è suo principio epistemico.
Claude Elwood Shannon, che sviluppò e completò la Teoria matemati­
ca della comunicazione, riprese la nozione di informazione data da Hartley
nel 1927 come «il numero delle scelte, ossia delle risposte “sì” e “no”,
che permettono di riconoscere univocamente un elemento x in un in­
sieme di n elementi». Una delle intuizioni di Shannon fu quella di con­
siderare la fonte di informazione come una semplice sorgente di simbo­
li di un certo alfabeto, e di comprendere che il contenuto di informa­
zione è indipendente dal contenuto o significato del messaggio che vie-
ne trasmesso, ma è in relazione al numero di unità elementari (bit) ne­
cessarie per codificarlo.3 Shannon fu il primo a utilizzare il termine bit
(Binary digit) per indicare la quantità di informazione contenuta nella
scelta elementare fra due possibilità ugualmente probabili: un bit può
valere «0» oppure «1», a questi due segni può essere associato un signi­
ficato, per esempio 0 = «elemento non presente» e 1 = «elemento pre­
sente». In tale senso, la natura del messaggio – testi, suoni, immagini – è
irrilevante dal momento che tutto può essere ridotto in appropriate se­
quenze di 1 e di 0 e trasmesso senza perdita di informazioni, purché il
canale sia sufficientemente ampio.
Se tutti i messaggi si uniformano alla stessa struttura (cioè a una serie
di bit), allora vengono poste le basi per un’unica rete di telecomunica­
zione valida per tutti gli scambi di informazione (trasmissione dati, se­
gnali audio-video, telefono, fax, Internet, radio, televisione, posta elet­
tronica, videoconferenza ecc.). Le ragioni che garantiscono il successo
2
Cfr. F. Vaccari, La fotografia e l’inconscio tecnologico, Punto e Virgola, Modena 1979,
p. 11.
3
Nel 1938 Shannon riprese i concetti del sistema binario espressi da Gottfried
Wilhelm Leibniz verso la fine del Seicento e sviluppati, nella seconda metà dell’Ot­
tocento, da George Boole. Comunication in the Presence of Noise (1949), ora in C.E.
Shannon, W. Weaver, in La teoria matematica delle comunicazioni, Etas Kompass, Milano
1971.
177 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

della rivoluzione digitale sono qui: efficienza della trasmissione, minimiz­


zazione dei rischi di perdita dei dati, semplicità nell’elaborazione, eco­
nomicità del sistema e, infine, possibilità di avere un «controllo totale»
all’interno di un processo infinitamente reversibile. Questa è la ragione
per cui stiamo correndo a un ritmo forsennato verso «la digitalizzazione
di ogni cosa che possa essere digitalizzata».

2. «Cose dell’altro mondo»: tendenze multimediali dell’immagine fotografica

L’estensione tonale del chiaroscuro e la ricchezza dei dettagli sono


valori di primaria importanza già alle origini della fotografia. Il criterio
di sviluppo tecnologico dell’immagine, almeno nei suoi primi anni, sem­
bra rivolto a ottenere una perfetta similitudine tra l’immagine «come la
vede l’occhio» e la sua riproduzione fotografica. Le aspettative nei con­
fronti della fotografia da parte dei primi ricercatori furono radicali e de­
ludenti rispetto alle attese: Joseph Nicéphore Niepce il 1° aprile del
1816 si dice soddisfatto per quanto riguarda l’effetto principale, ma ri­
tiene di primaria importanza, ancor prima di trovare un mezzo per ri­
produrre l’immagine, riuscire a fissarne i colori. Se vi fosse riuscito, for-
se non avremmo quell’astrazione concettuale cromatica dei toni che è
oggi la fotografia in bianco e nero. Le prime immagini fotografiche in­
fatti presentano caratteristiche materiali e cromatiche molto diversifica­
te (dal blu, al marrone, passando per il porpora e il rosso con tutte le iri­
descenze tipiche della superficie metallica dei dagherrotipi) e di fatto il
bianco e nero è un caso piuttosto raro.
Per noi oggi la fotografia non è che uno dei molti codici attraverso
cui è possibile comunicare e, anche se le regole che determinano la sin­
tassi di questo linguaggio tendono a mimetizzarsi nelle pieghe di quel ri­
flesso di realtà a cui l’immagine fotografica rimanda, è possibile «subo­
dorare una regola strutturante» che dia ragione del gesto essenziale del­
l’Operator.4 Ma prima di connotarsi come linguaggio, la fotografia neces­
sita della libertà dei segni che gli sono propri e a cui è lecito richiamar­
si. Partendo da quella «mitologica fotografica» descritta molto prima
dell’invenzione di Daguerre, che intende l’immagine fotografica come
«matita della natura». Quando Sir John Frederick William Herschel, in
una lettera del 28 febbraio 1839, suggeriva a William Henry Fox Talbot
di sostituire il termine «fotogenico» con «fotografico» rendeva implicito
il significato di «segno originario», graphia della luce stessa, principio

4
Come ha dimostrato Roland Barthes a proposito delle foto di Koen Wessing, in
La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 25.
FABIO AMERIO 178
della visione e della visibilità. Nel romanzo Giphantile à Babylone di
Tiphaigne De La Roche, del 1760, si legge la descrizione di una specie
di quadro raffigurante un paesaggio marino prima della tempesta. L’im­
magine è così realistica da essere scambiata per una finestra aperta.
Giphantie cerca di sporgersi e sbatte la testa. «La tua percezione è la
causa del tuo errore», gli dice il prefetto. «Devi sapere che i raggi della
luce, riflessi da diversi oggetti, compongono quadri e dipingono questi
oggetti su ogni superficie lucida, sulla retina dell’occhio, per esempio,
sull’acqua, sugli specchi». Sono stati gli «spiriti elementari» a comporre
questa materia «prontissima e viscosa» che spalmata su una tela si com­
porta «inizialmente come uno specchio che riflette fedelmente i corpi
vicini o lontani», ma che a differenza dello specchio, grazie al «materia­
le viscoso», «trattiene i simulacri».5 Nel racconto fantastico di Giphantie
troviamo l’idea che circa sessant’anni dopo avrebbe portato all’inven­
zione della fotografia, ed evidenti analogie con la reazione del pubblico
parigino che il 28 dicembre 1895 affollava il Gran Café, sul Boulevard
des Capucines, per assistere alla prima proiezione pubblica del Cinema­
tografo Lumière. Se gli «spiriti elementari» di Babilonia avessero potuto
contare sulle attuali tecnologie, avrebbero pensato probabilmente a uno
schermo al plasma ad alta definizione, magari dotato di una proiezione
tridimensionale. Ma, visto che ogni attività umana è legata al periodo
storico, alle dinamiche sociali e al grado di tecnologia in cui si sviluppa,
è interessante osservare come l’idea pre-fotografica di De La Roche, pur
affondando le radici nel mito dell’uva di Zeusi (tanto erano perfetti gli
acini d’uva dipinti da questo antico artista greco, che un uccello cercò di
beccarli), abbia di fatto anticipato un intero percorso che solo oggi ini­
zia a realizzarsi, assottigliando il confine tra comunicazione e facoltà
sensoriali dell’uomo. La rivoluzione iniziata «spennellando cloruro d’ar­
gento su pergamena» ha significato il vero punto di non ritorno della
mimesis.
Quando Fox Talbot si interroga sulla fenomenologia delle immagini
cercando di trovare dati per provare l’esistenza di un mondo soprasen­
sibile, non attua un’azione di falsificazione, ma intende piuttosto distin­
guere le specificità tecniche di un nuovo medium. La fotografia di un
covone di fieno serve a Talbot per distinguere tra «l’immagine meccani­
ca che può offrire un’infinità di dettagli in un insieme visivo unico» e «la
visione naturale che tende a riassumere e semplificare in termini di mas­
se».6 Per la nascente fotografia il modello immediato non era solo l’in­
cisione, il disegno e neppure la messa in scena teatrale (anche se Da­

5
Cfr. I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari 1982, p. 22.
6
Cfr. R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, B. Mondadori, Milano 1996, p. 20.
179 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

guerre era uno scenografo e possedeva teatri), come lecitamente soste­


nuto da una parte della critica,7 ma l’immagine della camera oscura. E
anche oggi osservandola, come capita di fare sul vetro smerigliato di un
apparecchio fotografico a banco ottico, o sul fondo traslucido di una
scatola dotata di una piccola lente, si rimane affascinati dalla perfezione
di quell’immagine che riproduce il mondo reale con colori assoluti, co­
me ancora nessuna pellicola o monitor può riprodurre, con contrasti
naturali, senza alte luci bloccate o ombre impenetrabili che non siano
quelle della vista. I dettagli del soggetto sembrano infiniti, inesauribili.
Come nel caso del quadro di Giphantie, si tratta di «un altro mondo»
contro cui rompersi la testa. Anche l’era digitale è un altro mondo e at­
testarsi malinconicamente alla vulgata secondo cui il computer consen­
te ogni cosa, ma offre sempre meno credibilità, significa eludere il vero
problema che pone il digitale: quello di una rimediazione atassica che,
con sussulti e strappi, traghetta le esigenze del mercato verso una goffa
canonizzazione artistica. È infatti possibile fare dell’estetica o della fio­
rita retorica sul prodotto «addomesticato» di una continua remediation.8
O bisogna considerare l’ipotesi di una continua produzione di fossili
tecnologici dai nomi inquietanti a cui guardare come graffiti ingenui e
un po’ naïf di una nuova era tecnologica cui mancano ancora i termini
d’espressione adeguata?

3. Una questione di banda

La nascita della fotografia è stata altresì letta come una naturale evo­
luzione delle tecniche di comunicazione visiva: secondo William Ivins
«non si può comprendere il significato della fotografia se non si capisce
il problema che la fotografia ha risolto»; e cioè essere in grado di pro­
durre «informazioni pittoriche esattamente ripetibili».9 Se consideriamo
la fotografia unicamente come strumento per veicolare informazioni vi­
sive attraverso «rapporti pittorici esattamente ripetibili», il problema
7
A proposito si veda il capitolo Il dilemma del realismo, che ricostruisce con preci­
sione polemiche e scontri sulla natura della fotografia, in A. Scharf, Arte e fotografia,
Einaudi, Torino 1979.
8
È questo il titolo dell’interessante saggio di J.D. Bolter e R. Grusin, Remediation.
Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi (1999), Guerini e Associati, Milano
2002.
9
W. Ivins, Prints and Visual Comunication, Routledge and Kegan Paul, London
1953, pp. 23-24. A proposito si veda anche W. Crawford, The Keepers of Light: A History
and Working Guide to Early Photographic Processes, Morgan & Morgan, Dobbs Ferry, New
York 1979.
FABIO AMERIO 180
dell’immagine fotografica si pone nei termini esclusivi di «efficienza
performativa del mezzo» e sulla base di questa tesi si stabilisce anche
una sintassi grafica delle linee che, in funzione del mezzo adoperato,
permette di comunicare informazioni più o meno complesse definite
dall’ampiezza di banda. Le prime xilografie eseguite in Cina nell’800
d.C., utilizzando matrici di legno incise, contengono meno dettagli
(informazioni) di quelli che sono contenuti in una incisione a bulino
del 1400; e in Europa l’introduzione da parte di Ludwig von Siegen del­
la mezzatinta nel 1624 apre la strada a una più accurata riproduzione to­
nale che si compirà nella tecnica dell’acquatinta inventata da Jean Bap­
tiste Le Prince nel 1760, per giungere infine nel 1798 alle pietre litogra­
fiche di Aloïs Senefelder.
Una teoria evolutiva della tecnica di comunicazione delle immagini
presuppone la possibilità che una tecnica ha di riprodurre tutte quelle
che l’hanno preceduta. Una stampa litografica può riprodurre facil­
mente i tratti (contenuto formale e informativo) di una xilografia, ma
non può avvenire il contrario, se non con la riduzione delle informa­
zioni contenute nella stampa litografica e trasmesse (banda passante)
attraverso la definizione del tratto. Il passaggio dall’incisione alla foto­
grafia e dalla fotografia alla digitalizzazione delle immagini è stretta­
mente correlato a questo concetto di larghezza di banda, inteso come
possibilità di comunicare contenuti sempre più complessi. Il problema
della riproduzione per mezzo della stampa tipografica consiste nel fatto
che la fotografia è una progressione continua di toni chiaroscurali,
mentre il procedimento di stampa è essenzialmente «binario», nel sen­
so che un’informazione su di una pagina stampata può assumere solo
due valori: il bianco della carta o il nero dell’inchiostro. La stampa «a
mezzatinta» risolse questo problema suddividendo cartesianamente
l’immagine in un certo numero di linee orizzontali e verticali (un reti­
colo o retino tipografico), determinando così, per ogni zona dell’im­
magine, la grandezza dei punti che devono essere stampati. I toni più
scuri corrispondono a punti di dimensioni maggiori e i toni più chiari a
punti più piccoli: la traduzione di una gamma continua di valori in un
sistema discontinuo quantificato doveva diventare uno degli strumenti
intellettuali più significativi ed efficaci del XX secolo: la televisione, la fo­
totelegrafia, la telemetria e – ancor più importante – la tecnologia del
computer, tutti si fonderanno su questo fondamentale concetto «dialet­
tico».10 Il concetto di mezzatinta ebbe per la fotografia l’importanza
che la scoperta della persistenza della visione ebbe per il cinema: infat­

10
Cfr. J. Monaco, How to Read a Film, Oxford University Press, New York 2000, tr. it.
Leggere il film, Zanichelli, Bologna 2002.
181 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

ti entrambi sfruttano in modo semplice ed efficace quest’aspetto psico­


logico della percezione, l’uno sull’asse della distribuzione spaziale del
pattern (il retino), l’altro sull’asse della distribuzione temporale dei fo­
togrammi.

4. La scansione dell’immagine: campionamento, quantizzazione, compressione

La digitalizzazione dell’immagine segue la scansione: per semplifica­


re il discorso, diciamo che lo scanner è l’interprete che quantifica i valo­
ri tonali dell’immagine come la bilancia quantifica un oggetto in termi­
ni di peso. L’oggetto che si vuole «pesare» nel nostro caso è la lumino­
sità e il colore di una determinata area dell’immagine che chiamiamo
pixel. La precisione con cui è tarata la scala della bilancia (in kg, g, mg)
è la profondità di quantizzazione. Un segnale analogico, caratterizzato
da un andamento continuo e «costantemente variabile», può essere tra­
sformato in una serie di valori numerici discreti che sono appunto la sua
rappresentazione in forma digitale.
La digitalizzazione avviene attraverso due processi: il campionamento e
la quantizzazione. Il campionamento preleva dal segnale analogico dei
campioni a intervalli regolari. Si definisce frequenza di campionamento
il numero di cicli al secondo con cui vengono prelevati i campioni (tale
valore si esprime in Hz). Dopo tale operazione, l’informazione si pre­
senta non più come un segnale variabile con continuità temporale, ma
come una serie di valori discreti, detti sample: la precisione con cui viene
descritto il valore analogico del campione dipende dalla «profondità» di
quantizzazione, ovvero dal numero di bit che nel processo di elabora­
zione vengono attribuiti al sample.
Una critica che talvolta viene mossa nei confronti del digitale è basa-
ta sulla discontinuità quantica dei valori che, quando riconvertiti in un
qualcosa che possa essere interpretato dai nostri sensi (suoni o immagi­
ni), non ne rispecchia comunque l’integrità analogica originaria. Ciò
senza dubbio è vero, ma bisogna ricordare che anche il nostro cervello
compie costantemente una riduzione degli stimoli e che un eccesso di
dati porta a una ridondanza delle informazioni utili a definire il conte­
nuto di un messaggio e comporta un aumento dello spazio richiesto per
memorizzare o trasmettere i dati stessi.11 L’attività principale del nostro
cervello non è dunque quella di un «archivio» statico che immagazzina

11
Cfr. O. Sacks, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano 1999. In particolare il ca­
pitolo Il caso del pittore che non vedeva i colori, pp. 23-75.
FABIO AMERIO 182
dati in modo cumulativo: la caratteristica peculiare del cervello è la «pla­
sticità» e la sua attività principale consiste nella «riorganizzazione dei da­
ti». Nel processo visivo dell’occhio non tutte le informazioni raccolte dai
ricettori sensoriali hanno la stessa importanza e il cervello effettua mol­
ti filtraggi ed elaborazioni prima di riconoscere un volto o un oggetto.
Un codec12 di compressione del segnale video, se ottimale, dovrebbe
comportarsi come il cervello, cioè eliminare gli stessi dati che il nostro
meccanismo visivo elimina come non rilevanti. L’occhio umano ha una
risoluzione misurabile nell’ordine di 1/60 di grado su un campo visua­
le di 150°, ma ciò non significa che qualsiasi dettaglio avente questa di­
mensione «minima» venga considerato importante o sia effettivamente
«visto». Le immagini formate da texture complesse sono più difficili da
elaborare per il nostro sistema visivo rispetto a campiture uniformi o
immagini conosciute e facilmente riconoscibili. Un puntino rosso, un
pixel, tra il fogliame di un albero è pressoché invisibile, se il nostro oc­
chio non è guidato a vederlo, ma lo stesso «difetto» sarà immediata­
mente percepibile se si trova su di un volto, magari al centro della fron­
te o in un paesaggio nel cielo blu. Similmente percepiamo un oggetto
che entri in rapido movimento nel nostro campo visivo senza però di­
stinguerne la forma esatta o i dettagli. Se nel processo di codifica digi­
tale di un segnale video venissero «filtrati» gli stessi dati che vengono
ignorati o enfatizzati dal nostro sistema visivo, allora si avrebbe un codec
estremamente efficiente che permetterebbe di eliminare quelle stesse
informazioni che non vengono notate. I moderni algoritmi di com­
pressione delle immagini fotografiche o video a tutti noti come jpeg,
mpeg, o dv, adottano precisamente questa logica basata sull’eliminazio­
ne o quantomeno sulla riduzione delle ridondanze (cioè degli «ele­
menti visivi non visti»).
Il 1988 segna un passo importante per la fotografia digitale perché l’I­
SO (International Standard Organization) nomina il sottocomitato «Co­
ded representation of picture, audio and multimedia/hypermedia infor­
mation» conosciuto come «sottocomitato 29». Questo sottocomitato,
formato da un consiglio mondiale di industrie e scienziati, darà origine
a due ulteriori divisioni: il Joint Picture Expert Group (JPEG) che ha il
compito di studiare sistemi di compressione per la fotografia digitale e il
Moving Picture-coding Experts Group (MPEG) con il compito di studiare
i sistemi di compressione delle immagini in movimento e del suono. Il
ruolo di questi due comitati – nati dalle intuizioni dell’ingegnere Leo­
nardo Chiariglione, direttore dell’area multimediale del centro ricerche

12
Codec = Encoder o Coder in ingresso all’apparecchiatura digitale e Decoder in
uscita.
183 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

CSELT di Torino e una delle più autorevoli figure dell’informatica mon­


diale – è stato quello di creare gli «standard» su cui è potuta crescere ra­
pidamente l’industria dell’audiovisivo e della telecomunicazione digita­
le. Nel corso degli anni sono state definite una serie di accurate descri­
zioni tecniche che specificano come devono essere realizzati i sistemi di
codifica e compressione, mantenendo tuttavia un ampio grado di inte­
grazione e apertura tra i vari livelli dello standard.
Frequenza di campionamento e profondità di quantizzazione sono i
parametri che determinano la definizione nello spazio e nel tempo del
nostro campione e la precisione della scala attraverso cui viene misurato;
il periodo di campionamento, ovvero la frequenza con cui vengono scel­
ti i campioni è dunque strettamente correlata alla «definizione dell’im­
magine-segnale» che vogliamo digitalizzare. La compressione consiste
nell’eliminare le informazioni che possono essere trascurate in funzione
della larghezza di banda di trasmissione. In altre parole, campionare e
comprimere sono processi assimilabili all’atto di «circoscrivere uno
sguardo» o, ancora meglio, una «profondità» di sguardo funzionale, eli­
minando ciò che non è significativo. Si calcola che il nostro sistema visi­
vo (occhi-cervello) elabori 3 gigabytes di dati al secondo. I computer
raggiungeranno l’elaborazione di calcolo del cervello stimata in 1014,
1015 gigabytes intorno al 2020. Entro il 2025 si avranno macchine che
potranno elaborare dati alla stessa velocità di trasmissione delle sinapsi
cerebrali e che pertanto potranno esserne direttamente l’interfaccia.

5. Un’immagine «ricamata»

Per capire come si sia arrivati all’immagine che vediamo nei visori
delle moderne fotocamere digitali, la strada da percorrere è lunga e
comincia con il fisico scozzese Alexander Bain che nel 1843 propose
un telegrafo in facsimile che utilizzava per scansione uno stilo fissato a
un pendolo. Al facsimile di Bain seguì il Pantelegraphe dell’abate se­
nese Giovanni Caselli e il Kopiertelegraphen di Bernhard Meyer, che
fu di fatto il primo esempio «commerciale» di fax usato dal 1865 al
1870 per mettere in comunicazione Parigi e Lione. Ma la scansione
meccanica usata fino ai primi anni del XX secolo non era molto effica­
ce e limitava la velocità di trasmissione dei dati. Il problema fu supera­
to nel 1902 quando Arthur Korn, sfruttando le proprietà fotocondutti­
ve del selenio già osservate da Jöns Jakob Berzelius, sviluppò la cellula
fotoelettrica. Korn scoprì che, modulando la luce che colpiva il sele­
nio, si poteva variare anche l’intensità della corrente che lo attraversa­
va. In altre parole, aumentando o diminuendo l’illuminazione di un
FABIO AMERIO 184
elemento di selenio, si otteneva un segnale elettrico «analogico» che
rispecchiava le variazioni di luminosità. Quando la luce aumentava,
aumentava proporzionalmente anche la corrente (perché diminuiva la
resistenza del selenio) e quando la luce diminuiva, anche il segnale
elettrico diminuiva di conseguenza. Il principio venne sfruttato – pro­
prio come avviene in un moderno CCD – per convertire i toni differen­
ti di un’immagine in variazioni di un segnale elettrico. Un negativo fo­
tografico veniva avvolto su un tamburo di vetro inserito in un cilindro
dotato di una piccola apertura da cui passava la luce. I raggi luminosi
modulati dai chiaroscuri dell’immagine venivano riflessi da un prisma
e focalizzati su una cellula al selenio durante la rotazione del tamburo.
Il mezzo di ricezione era carta sensibile fotografica che veniva impres­
sionata, in un modo simile alla scansione, da una luce la cui intensità
era modulata dal segnale elettrico. Con questo sistema di phototelegra­
fia, Arthur Korn nel 1904 trasmise una fotografia da Monaco di Bavie­
ra a Norimberga e successivamente, entro il 1910, Parigi, Londra e
Berlino furono collegate da un servizio di telefax su rete telefonica.
Nel 1922 Korn realizzò un’ulteriore innovazione adattando il suo si­
stema alla trasmissione radiofonica. La prima immagine transoceanica
fu radiotrasmessa da Berlino al Maine in circa quaranta minuti. Sem­
pre nel 1922 venne trasmessa con successo la prima immagine tra Ro­
ma e New York.
Una delle prime applicazioni di questa tecnologia fu introdotta in
Gran Bretagna all’inizio degli anni Venti con il sistema di trasmissione di
Bartlane: utilizzando un nastro perforato simile a quello delle macchine
telescriventi di Wall Street (le ticker), trasformava un segnale elettrico in
un codice simile all’alfabeto Morse. Il codice, una volta decodificato, ri­
produceva l’immagine secondo cinque livelli di luminosità. Grazie a
questo sistema, l’immagine veniva così trasmessa e ricostruita dalla mac­
china ricevente che punzonava un nastro di carta secondo cinque valori
di chiaroscuro. Il nero era rappresentato da cinque buchi, il grigio scu­
ro da quattro buchi, e così via. Le prime immagini digitali erano dun­
que, letteralmente, «ricamate» sul foglio.

6. La fotografia elettronica e il CCD

Lo sviluppo della fotografia digitale si deve soprattutto all’evoluzione


della tecnologia di ripresa televisiva. Da qui in poi la storia del video e la
storia della fotografia digitale confluiscono in un comune discorso, in
quanto le tecnologie di ripresa, elaborazione e registrazione delle im­
magini sono sostanzialmente identiche.
185 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

La storia dell’immagine digitale è preceduta da una fase di fotogra­


fia elettronica in cui le immagini provenienti dal CCD vengono regi­
strate su nastro o su disco magnetico (è il caso delle telecamere e delle
still camera o fotocamere elettroniche). La fotografia elettronica non ha
una data esatta di nascita: tuttavia non saremmo troppo lontani dal ve­
ro se fissassimo questa data alla fine degli anni Sessanta: a quel periodo
risale infatti la scoperta che il CMOS poteva essere reso fotosensibile. Il
CMOS (Complementary Metal Oxide Semiconductor), come il CCD, è
un chip di memoria allo stato solido reso fotosensibile. La caratteristi­
ca peculiare di questo fotosensore è di avere un maggior numero di
funzionalità integrate: oltre a convertire i fotoni in elettroni e successi­
vamente trasferire le cariche, il CMOS può anche elaborare l’immagine
applicando algoritmi di Edge detection (un sistema per il riconoscimen­
to dei bordi dell’immagine), filtrare il rumore di fondo e operare la
conversione da analogico a digitale. Il tutto all’interno dello stesso
chip. Grazie a questa estrema versatilità il CMOS è stato utilizzato nelle
più svariate applicazioni informatiche, anche al di fuori dell’ambito
fotografico.
Nel 1969, William Boyle e George Smith, ricercatori dei laboratori
Bell a Murray Hill nel New Jersey, studiando il problema delle memo­
rie allo stato solido inventarono il CCD (Charge Coupled Device, Di­
spositivo ad accoppiamento di carica). Il CCD, convertendo l’immagine
fotografica in un segnale elettrico analogico sequenziato, diventerà l’e­
lemento centrale dello sviluppo delle nuove tecnologie per l’acquisi­
zione delle immagini. La fotografia, il video e il cinema digitale non sa­
rebbero potuti nascere se non fossero stati preceduti da questa fase
«elettronica» dell’immagine, ma questo aspetto è talmente insito nel
processo di digitalizzazione che molto spesso nel senso comune o nel­
l’informazione merceologica, viene confuso con il reale stato delle co­
se. Il CCD, l’elemento fotosensibile che ha sostituito la pellicola, e che è
visto come l’emblema del digitale, è in realtà un dispositivo analogico
che ha unicamente il compito di convertire l’immagine in un segnale
elettromagnetico sequenziato che verrà digitalizzato in una fase suc­
cessiva. La prima macchina fotografica elettronica è stata brevettata
(ma non costruita) da Willis A. Adcock della Texas Instruments a Dal­
las il 27 giugno del 1972. Il primo CCD commerciale è stato prodotto
nel 1973 dalla ditta Fairchild grazie al lavoro di Gil Amelio, che ne ha
reso possibile la produzione, basandosi sulle tecnologie utilizzate per
realizzare i semiconduttori su cialda di silicio. Questo primo CCD aveva
una risoluzione di 100×100 pixel e fu usato nel primo prototipo ope­
rativo di macchina fotografica elettronica costruito da Steve Sasson nel
1975 per la Kodak. Le prime applicazioni di elaborazione digitale del­
FABIO AMERIO 186
l’immagine si ebbero in campo militare (spionaggio), scientifico (fo­
tografia astronomica), e televisivo (broadcast). Negli anni della guerra
fredda, gli Stati Uniti temevano una crescita incontrollata degli arma-
menti nucleari sovietici e necessitavano dunque di un efficiente siste­
ma per riprendere e trasmettere le immagini ottenute dai satelliti. Le
immagini satellitari impresse su supporto analogico presentavano mol-
te difficoltà legate soprattutto al recupero della pellicola: una volta che
il rullino era esaurito il satellite lo lanciava verso l’Oceano Pacifico (al­
l’altezza delle Hawaii) in un contenitore dotato di paracadute; un ae­
reo C-119 tentava di intercettarlo in caduta recuperandolo con una
specie di retino. Se cadeva in acqua il contenitore poteva galleggiare
per due giorni, prima che un particolare tappo di sale si sciogliesse, fa­
cendolo affondare ed evitando che i contenuti cadessero in mani ne-
miche (il presidente Clinton alla fine del suo mandato ha desecretato
quelle foto, e l’intero database è stato messo su Internet). Tra il 1959 e
il 1972 il progetto «Corona», nato dalla sinergia tra CIA e US Air Force
con il nome in codice KH (KeyHole, buco della serratura), dimostrò l’ef­
ficacia della fotografia satellitare e diventò un elemento centrale nella
strategia di riarmo americano. Nella fotografia astronomica, il CCD sop­
piantò in breve le convenzionali pellicole ad alogenuro d’argento per­
ché aveva un’ottima risposta alle basse intensità di luce; negli anni Ot­
tanta il telescopio spaziale Hubble, grazie all’utilizzo del CCD, ha infat­
ti permesso di vedere oggetti che emettono una luce un miliardo di
volte inferiore a quella percepibile dall’occhio umano. I primi passi
nell’elaborazione digitale delle immagini avvengono ancora nel campo
dell’esplorazione spaziale allorché la NASA, a partire dal 1964, iniziò a
filtrare digitalmente i segnali analogici trasmessi dalla sonda spaziale
Ranger 7 per eliminare i disturbi (rumore di fondo) dovuti alle radia­
zioni cosmiche.

7. La fotografia digitale: compatte, dorsi digitali, reflex

La pellicola assolve simultaneamente due funzioni: «catturare l’im­


magine» e «registrarla». Nella fotografia digitale queste due funzioni
sono distinte: il CCD cattura l’immagine e trasferisce le cariche al con­
vertitore analogico/digitale (qui avviene il campionamento e la quan­
tizzazione). Successivamente i dati ottenuti vengono registrati nella me­
moria hardware. La prima macchina fotografica digitale messa sul mer­
cato è stata la «Logitech FotoMen»; sebbene diversa nelle dimensioni,
ricorda molto la filosofia delle macchine fotografiche compatte che
questa stessa ditta propone ancora oggi. Questo tipo di fotocamere in­
187 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

terpretano il desiderio di immediatezza richiesto da un pubblico di


massa che non vuole complicazioni e il cui motto è stato mirabilmente
sintetizzato nel 1891 da George Estman nel famosissimo slogan di lan­
cio della «Kodak n. 1»: «Voi premete il bottone, noi faremo il resto».
Paradossalmente questo segmento di mercato – il più importante per
un’industria fotografica che fonda i suoi valori sul fatturato – è stato ed
è attualmente il più difficile da raggiungere; ed è anche quello su cui si
gioca l’effettivo passaggio alla fotografia digitale. I motivi sono duplici:
sino al 2000 vi era ancora un elevato costo dell’hardware, oggi invece il
problema è più di tipo «culturale». La fotografia digitale, a ogni livello,
è strettamente legata all’utilizzo del computer e, anche se è possibile ve­
dere le immagini su un normale televisore, per apprezzarne a pieno i
colori, per ingrandirle, sceglierle, spedirle – in poche parole «fare tut­
to ciò che si fa con le fotografie su carta» – è necessario avere un com­
puter. In attesa della piena riconversione informatica della società, la
fotografia vive un momento di profonda ambivalenza che emerge os­
servando i dati pubblicati dalla Npd Technowarld/PMA (Photo Marke­
ting Association International). A fine 2002 il 64% delle fotocamere
non digitali, sul mercato statunitense, è rappresentato da «compatte».
Nei primi mesi del 2003 si assiste a un calo del 25% del settore della fo­
tografia analogica, con un incremento proporzionale del 35% del set-
tore digitale.
Tuttavia, analizzando i dati ci si accorge del divario tra fotografie
che vengono scattate – nel digitale mediamente quattro volte di più
che in analogico – e fotografie stampate. Nel 2002 il 71% delle foto­
grafie digitali sono state archiviate su disco, il 13% è stato inviato per e-
mail e soltanto il 20% stampato. Se si considera poi che di quel 20% di
stampe il 94% è realizzato con stampanti di tipo domestico e solo il
10% raggiunge i canali di produzione tradizionale dei fotolaboratori,
risulta evidente che a fronte di una fotografia analogica che ha un in­
dotto legato alla vendita delle pellicole e allo sviluppo e stampa che è
superiore al 100% delle fotografie riprese, il digitale sbilancia attual­
mente il mercato tutto sulla vendita dell’hardware in controtendenza
rispetto allo «spostamento da prodotto a servizio» che si può indivi­
duare in tutte le attività che caratterizzano gli altri media di comuni­
cazione.
La natura intrinsecamente privata di questo tipo di fotografia è ra­
dicata nei processi contemporanei dell’elaborazione della memoria
privata e del ricordo. Ancora una volta Kodak, attentissima alle moti­
vazioni del pubblico, sintetizza questo concetto verso la fine del 2000
in una campagna pubblicitaria che reca un messaggio quantomeno in­
quietante: «Una foto non scattata è un ricordo che non c’è!». Il pro­
FABIO AMERIO 188
blema del rapporto tra memoria collettiva e memoria individuale, in
questi primi anni del secolo, si sposta progressivamente a causa dello
status virtuale, e in un certo qual modo effimero, delle immagini digi­
tali verso una globalizzazione e un’identificazione collettiva dell’indi­
vidualità privata. Come scrive Maurizio Rebuzzini sulle pagine della
sua rivista «Fotographia»: «Il rito fotografico assume un valore tempo­
rale che conferma solo l’istante... La visualizzazione in tempo reale del-
l’immagine, soprattutto di sé stessi, sta prendendo il posto della
realtà»; ma in questa era degli istanti «lo spazio-tempo assolto dalla
tecnologia digitale è uno spazio tempo aggiunto alla vita oppure ruba­
to all’esistenza individuale?».13 Il percorso a ritroso nella memoria, su­
scitato per esempio dal ritrovamento di un’immagine in un cassetto,
assume un aspetto grottesco se si sostituisce alla superficie un po’ graf­
fiata di una vecchia fotografia l’iridescente superficie metallica di un
cd. Questo aspetto non trascurabile rappresenta il legame che imme­
diatamente si crea, per riconoscimento, verso la fotografia cartacea, in
cui non vi è differenza tra supporto e immagine: lo stesso non avviene
con una memory card o con un nastro magnetico, in cui a meno di un’e­
tichetta, non vi è nessun rapporto tra l’oggetto e ciò che il contenuto
rappresenta. Nessuno desidera buttare via la fotografia cartacea della
persona amata e se ciò avvenisse assumerebbe un significato catartico
che nulla spartisce col valore materiale dell’oggetto. La fotografia digi­
tale mancando di materialità finisce anche per mancare un poco di
memoria, specialmente se proiettata a breve termine. Nell’immediato
non rimpiangiamo certo di non aver registrato il telegiornale o di non
aver conservato ogni quotidiano, così come cancelliamo volentieri le
fotografie immediatamente riviste sui display delle fotocamere digitali,
quando deludono le nostre aspettative e la nostra visione soggettiva
della realtà. In tal senso non può sfuggire ciò che una maggiore consa­
pevolezza dell’immagine comporta: vedere la fotografia già come sarà
in un piccolo schermo televisivo implica una continua ricontestualiz­
zazione del vissuto.
Il mercato della fotografia digitale si afferma a partire dagli anni No-
vanta. In questa prima fase il digitale è presentato come un momento
di passaggio per la video-elaborazione professionale delle immagini: le
fotografie vengono trattate da strutture specializzate che forniscono al
cliente una pellicola diapositiva a colori di grandi dimensioni, conside­
rata «originale di seconda generazione», termine usato per enfatizzar­
ne le possibilità espressive e smentire il timore di perdita di qualità in­
sito in ogni processo di duplicazione. La pellicola quindi rientra nel
13
Cfr «Fotographia», X, 91, maggio 2003, p. 7.
189 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

normale ciclo produttivo dell’editoria ed essendo una tradizionale dia­


positiva non rappresenta un elemento di rottura per il sistema consoli­
dato della stampa tipografica che, piuttosto, deve reagire alla rivoluzio­
ne del DTP (desktop publishing). Ai fotografi pubblicitari, che eseguono
molte riprese in studio, di soggetti statici, con apparecchi di medio for­
mato o a banco ottico, sono rivolti i «dorsi digitali» ovvero dei «carica­
tori» che si applicano dietro una fotocamera dotata di magazzino in­
tercambiabile, nata per scattare con pellicole tradizionali, che viene co­
sì trasformata in qualcosa che ricorda una telecamera e funziona come
uno scanner: nei dorsi a scansione il fotosensore (un CCD lineare) si
muove esplorando l’immagine come avviene in uno scanner piano per
documenti. I dorsi digitali attualmente si suddividono secondo le me­
todologie di acquisizione delle immagini in 3 gruppi: 1) modelli a scat­
to unico, in cui il fotosensore memorizza l’intera immagine con una so­
la breve esposizione, come avviene con le normali pellicole, 2) modelli
a tre o più scatti, che registrano l’immagine in una sequenza di esposi­
zioni per catturare separatamente le singole componenti cromatiche
della sintesi primaria rosso, verde e blu, 3) modelli a scansione pro­
gressiva, che garantiscono la massima risoluzione ma effettuano l’espo­
sizione dell’immagine muovendo il fotosensore sul piano focale co­
stringendo così alla massima staticità camera e soggetto. I limiti e le
prestazioni delle singole tipologie d’acquisizione sono legati allo speci­
fico tipo di ripresa che nella professione fotografica presenta ampie
differenze: i dorsi a scansione, grazie alla loro elevatissima risoluzione
vengono utilizzati nella documentazione delle opere d’arte e nella fo­
tografia still life; i dorsi a scatto unico, in grado di memorizzare istanta­
neamente le immagini, trovano il loro campo d’impiego nella fotogra­
fia pubblicitaria e di moda.14
Le fotocamere reflex 35mm sono lo strumento con cui è stata rac­
contata la storia per immagini dal secondo dopoguerra a oggi: sono il
sinonimo di una fotografia attiva, presente e responsabile e fanno
tutt’uno con la figura del reporter sociale, che sul finire degli anni
Sessanta e per tutto il decennio successivo ha rappresentato un mon-
do in radicale trasformazione. Il passaggio al digitale di queste fotoca­
mere implica la necessità di ereditare, non solo la tecnologia consoli­
data in questo settore, ma di mantenere anche quelle peculiari carat­
teristiche che hanno trasformato «l’applicazione d’uso» in un «lin­
guaggio espressivo». Cuore del sistema 35mm è l’omonimo formato di
pellicola che dal 1913, cioè da quando venne utilizzato per la prima

14
Per una cronologia e un approfondimento sullo sviluppo della fotografia digi­
tale dal 1991 al 2001, cfr. L. Pianigiani, Digital decenium, «Jump», anno 7, n. 10/27.
FABIO AMERIO 190
volta da Oscar Barnak, ha definito lo standard comune attorno al qua-
le si sono sviluppate l’ottica, la meccanica e in seguito l’elettronica di
questa categoria di apparecchi fotografici. L’ergonomia dell’oggetto,
l’immediatezza dello scatto, il punto vista all’altezza degli occhi che as­
simila il gesto di fotografare allo sguardo, uniti a un’ampia autonomia
di ripresa, sono alcuni dei fattori che hanno determinato il successo
del 35mm. Nel passaggio al digitale, tutti questi caratteri sono stati
mantenuti, come pure è stato mantenuto il formato di ripresa, nono­
stante non vi sia più nessuna pellicola. La scelta di mantenere il for­
mato è stata fatta per dare un senso di continuità sul mercato delle re­
flex prospettando, in questo momento di passaggio, una intercambia­
bilità – più teorica che reale – tra analogico e digitale. Gradualmente
tutti i più importanti marchi storici della fotografia entrano in questo
nuovo settore, talvolta stringendo accordi per sfruttare nuovi sensori.
In realtà inequivocabili segnali di allargamento del mercato si erano
già avuti nel 1994 con l’introduzione delle schede di memoria remo­
vibile (memory card) che concedono al fotografo un’autonomia di ri­
presa simile a quella del rullino fotografico (che, terminato il numero
di scatti, può essere sostituito con un altro caricatore). Oggi la quasi
totalità delle fotografie pubblicate dalla stampa quotidiana è scattata
con fotocamere digitali e di fatto è molto difficile, se non impossibile,
che la fotografia analogica possa avere un qualche futuro in questo
settore.

8. Il video e il cinema digitale

Il passaggio al digitale rappresenta per la fotografia un momento di


cruciale importanza in cui i sistemi di ripresa elettronica che sin dalle
origini hanno segnato il destino della televisione hanno giocato un ruo­
lo determinante. In tal senso, l’introduzione del CCD al posto dei tubi da
ripresa è stata considerata come un’evoluzione «fisiologica» del mezzo,
essenziale per il raggiungimento dell’eccellenza formale e tecnica. L’in­
dustria ha dovuto innanzitutto modellare la sua produzione in modo
omogeneo allo standard televisivo adottato nei diversi paesi: Pal, Secam
o Ntsc. L’Ntsc (National Television Sistem Committee) è stato adottato
negli Stati Uniti nel 1953 ed è stato il primo sistema di radiodiffusione
televisiva a colori; lo standard Pal (Phase Alternation by Line) progetta­
to da Telefunken nel 1963 è stato scelto in Europa; l’Italia lo ha scelto
nel 1967 dopo una lunga battaglia parlamentare che vedeva opposta l’a­
rea dei partiti di sinistra a favore del Secam (adottato solo in Francia, da
alcuni paesi dell’Africa settentrionale e numerosi paesi dell’Europa del­
191 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

l’Est) e Pal sostenuto dalla Democrazia cristiana. Queste scelte hanno


fatto sì che tutti gli sforzi dell’industria fossero finalizzati al raggiungi­
mento del miglior risultato possibile all’interno di parametri che ne ga­
rantissero la compatibilità con l’hardware installato (il televisore di casa).
Oggi la crescita delle prestazioni dei personal computer e il migliora­
mento delle telecamere hanno fatto in modo che anche un’utenza me­
dia potesse raggiungere il grado di qualità fissato molti anni or sono da­
gli standard televisivi. L’introduzione del digitale ha significato qualcosa
di molto importante in termini di liberalizzazione dell’accesso ai media,
in quanto lo «stage» su cui avviene il confronto (lo schermo televisivo) è
identico per ogni tipo di immagine. È vero che vi sono delle diversità
formali nella qualità fotografica proposta dalla televisione commerciale
e ciò che un videomaker può oggi realizzare, ma le differenze sono es­
senzialmente legate alle prestazioni dei fotosensori delle telecamere e
dell’elettronica di controllo (comunque destinate a crescere) e non al
formato del segnale video. Un aspetto che è sotto gli occhi di tutti è il
fatto che le moderne «telecamerine» DV hanno una qualità di immagi­
ne, a parità di condizioni di ripresa, superiore alla qualità della televi­
sione di soli dieci anni fa.
L’introduzione del digitale nella ripresa video – intendendo con «vi­
deo» «l’immagine fotografica in movimento» – ha avuto effetti più
profondi che in ogni altro settore. La fotografia poteva benissimo anda­
re avanti per altri cento anni in analogico, sfruttando ancora i sali d’ar­
gento e realizzando i fotomontaggi con la colla come faceva Oscar Gu­
stave Rejlander, ma per la ripresa non era lecito indugiare oltre. Il mer­
cato esigeva nuove e impellenti rivoluzioni. Attorno al 1850, la fotografia
era un privilegio riservato a pochi e per esporre un dagherrotipo era ne­
cessario lucidare costosissime lastre ricoperte d’argento. Prima dell’av­
vento del digitale, ci trovavamo in una situazione analoga, perché girare
in 16mm, montare con una moviola, stampare una copia e proiettarla in
una sala cinematografica era senza dubbio privilegio di pochi. Oggi la
tecnologia disponibile è molto più «alla mano»; ma pensare che il DV sia
«un surrogato della pellicola che deve crescere» è uno sbaglio, come di­
mostrano le strade prese dalla cinematografia professionale, che guarda
al digitale con standard qualitativi e investimenti di capitale completa­
mente diversi (se il DV fosse un surrogato della pellicola, sembra provo­
carci von Trier, allora Dogville dovrebbe leggersi come un surrogato di
un film o come una pellicola low budget con attori da milioni di dollari?).
Come osserva Jon Jost: «Uno dei problemi principali del video DV è che
la maggior parte dei suoi utenti e spettatori hanno la pellicola come
punto di riferimento qualitativo. Si tratta essenzialmente di una menta­
FABIO AMERIO 192
lità conservatrice che spinge un nuovo medium a emularne uno già esi­
stente».
L’introduzione del digitale in campo broadcast avvenne nel settore
della videoregistrazione per superare il problema del degrado della de­
finizione audiovisiva durante il riversamento e la duplicazione. Dal
1987, data di presentazione del primo videoregistratore digitale, a oggi
sono stati proposti numerosi sistemi di registrazione digitale. Tutti han-
no in comune il fatto che il segnale video, dopo l’acquisizione, viene di­
gitalizzato (nei vari standard la variabile è determinata dal formato del
segnale video, il tipo di campionamento e quantizzazione, e dall’even­
tuale compressione dei dati).
Nella cinematografia digitale uno dei formati adottati è l’Hdcam, ma
il formato video digitale che gode di maggior successo e riconoscimen­
to tra un vasto numero di utenti è il formato DV (digital video). Si tenga
presente che il DV non è un semplice sinonimo di video digitale (di cui
fanno parte, invece, numerosi formati e standard qualitativamente mol­
to diversi), ma è un formato di video digitale compresso lanciato nel 1994 da
un gruppo di aziende che hanno concordato gli aspetti comuni di un si­
stema di registrazione digitale basato su nastri da 6,3 mm e su un bit ra­
te di 25 Mbps. Lo scopo era di semplificare e unificare i processi di ri­
presa, di acquisizione, di editing e di riversamento aumentando nel con-
tempo la qualità del video rispetto ai sistemi consumer precedenti (per
esempio Dvcam e Dvc Pro sono altri formati analoghi al DV che si diffe­
renziano per la velocità di scorrimento del nastro).
Il digitale risponde a vari livelli alle diverse esigenze di utilizzo: per i
videomaker e per un’ampia utenza rappresenta la possibilità di collega­
re direttamente la telecamera al computer per acquisire il girato e gesti­
re una post-produzione con strumenti molto simili se non identici a
quelli usati nel broadcast televisivo. Il DV ha significato per il video ciò che
il DTP (Desktop Publishing) ha significato per la grafica e l’editoria: la pos­
sibilità di essere indipendenti e avere al tempo stesso un’ottima qualità
del prodotto a basso costo. Tutti questi fattori, uniti alla grande libertà di
ripresa dovuta alle piccole dimensioni delle telecamere DV, e al control­
lo dell’immagine che può avvenire su un piccolo monitor integrato al
corpo della camera, hanno permesso di «utilizzare il mondo come set»
attraendo l’interesse di molti registi che non hanno resistito al fascino di
queste «camera stilo»: «Macchine da presa come leggerissime penne sti­
lografiche. Era il grande sogno di Astruc e di Cocteau, che alla fine de­
gli anni Quaranta ne auspicavano l’utilizzazione...».15

15
G. Bertolucci, citato in M. Greco, Il digitale nel cinema italiano, Lindau, Torino
2002, p. 34.
193 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

L’utilizzo della ripresa digitale nel cinema «ufficiale» non è certo mo­
tivato dall’economicità del mezzo. La qualità dell’immagine fotografica
in questo settore è di primaria importanza e la pellicola – che oggi ha
raggiunto il massimo grado di perfezione e il cui prezzo incide abba­
stanza poco sui costi totali di produzione di un film commerciale – è an­
cora il riferimento qualitativo del cinema. Nel cinema digitale le mac­
chine da presa sono delle telecamere che principalmente operano su
una risoluzione dell’immagine di 2K a cui corrisponde una risoluzione
del fotogramma di 2.100.000 pixel. Al NAB di Las Vegas, nel 2003 è stata
presentata la camera Origin della Dalsa che raggiunge 8.286.208 pixel
per fotogramma. Per avere un’idea delle proporzioni, si pensi che il for­
mato DV ne risolve 414.720 e la pellicola cinematografica 35mm 12 mi­
lioni. Il formato 4K, considerato l’equivalente della risoluzione cinema­
tografica (12.700.000 pixel), per ora viene adottato solo per immagini di
computer graphic.
La ripresa avviene, come per la pellicola, con una scansione pro­
gressiva dei singoli frame in uno spazio colore RGB con una conversione
analogico digitale a 12 o 10 bit. Il sistema CineAlta HD24P con risolu­
zione 1920x1080 pixel è forse il più noto e molti film come Star Wars I
e II episodio di George Lucas sono stati realizzati con queste macchine;
anche Panasonic, Philips-Tomson – Clirmont camera e la Mitchel-Ike­
gami producono cinecamere digitali. Girare un film completamente in
digitale oggi è quindi possibile, ma per la distribuzione nelle sale cine­
matografiche è pressoché obbligatorio riversare ancora il film su pelli­
cola. Il reale vantaggio di un formato digitale è invece attualmente le­
gato alle operazioni di post-produzione. Tutti i film oggi seguono un
percorso che comprende la digitalizzazione a risoluzione video, infatti
il montaggio non avviene più in moviola con il taglio fisico di una copia
di lavoro della pellicola, ma attraverso software e hardware dedicati (il
sistema più usato è l’Avid con Pro Tools per l’audio). Questa nuova
prassi ha cambiato il lavoro dei montatori che possono gestire un inte­
ro film (in bassa risoluzione) sul proprio personal computer; final-
mente svincolati dalle faticose operazioni manuali che in passato ne
gravavano i compiti. Oltre al montaggio del suono e delle immagini,
nella post-produzione di un film entrano in gioco altri elementi essen­
ziali quali l’introduzione di effetti visivi o l’elaborazione del colore. È
appunto in questi passaggi che subentra la convenienza di girare in di­
gitale. Sempre più film (e spot pubblicitari) girati in pellicola vengono
interamente riversati in digitale per subire una serie di elaborazioni
(colore, saturazione, contrasto, definizione ecc.) con software come In­
ferno, Flame, Smoke o Symphony e poi nuovamente riversati su pelli­
cola per la proiezione.
FABIO AMERIO 194
La sala cinematografica è l’ultimo anello della catena della distribu­
zione che determina però, in maniera analoga al televisore, il «formato»
attraverso il quale l’immagine viene fruita dal pubblico ed è quindi su
questo terreno che si gioca realmente il passaggio al digitale nel cinema.
Attualmente la pellicola cinematografica detiene il monopolio presso­
ché totale degli schermi.16 Quando un film è ultimato viene stampato e
le copie distribuite nelle sale; nel caso della distribuzione del film in for­
mato digitale le cose avvengono in maniera molto diversa: se il film è gi­
rato in pellicola, viene portato a una società di post-produzione che ef­
fettua il telecinema e riversa il film in digitale; se il film è già stato gira­
to in digitale, passa direttamente alla compressione.17 Dopo la compres­
sione interviene il criptaggio dei dati; ed è questa la fase più importante
per l’industria cinematografica che intende difendersi efficacemente
dalla pirateria. I file sono compressi e trasmessi attraverso linee dedica­
te in banda larga o via satellite all’hub di distribuzione (il nodo centrale
di una rete dove risiedono i file) che, con identiche modalità, li invia
nelle sale cinematografiche, oppure vengono trascritti su diversi dvd­
rom. Ma se adottare uno standard industriale di codifica e criptazione
comune soddisfa le esigenze di controllo e sicurezza dei distributori, nel
contempo rischia di creare una lobby difficilmente penetrabile che a lun­
go termine potrebbe penalizzare lo stesso sviluppo del cinema. In tal
senso c’è una convergenza di vedute tra le stesse major hollywoodiane
che vogliono evitare che tale tecnologia finisca nelle mani di una sola
azienda, come peraltro era già avvenuto nell’audio con l’introduzione
del Dolby.18
Ma tutti questi dati non vanno letti come mera documentazione tec­
nica di un’evoluzione scientifica: come ha dimostrato l’opera di cineasti
quali Lars von Trier, sono anzi i reali elementi su cui si gioca una rivo­
luzione estetica del linguaggio cinematografico che, sotto la superficiale
«meraviglia» commerciale hollywoodiana, incide a fondo sul senso stes­
16
Cfr. G. Wright, L’anatomia del cinema digitale, in «Computer Gazzette», XVII, n. 3,
marzo 2002, pp. 18-24.
17
Le società che stanno sviluppando soluzioni diverse di cinema digitale sono tre:
la QuVIS, la Grass Valley Group (GVG) e la Technicolor Digital Cinema (TDC) e uti­
lizzano diversi sistemi di compressione dell’immagine. La QuVIS usa il QPE (Quality
Priority Encoding), il GVG usa una variante dell’MPEG chiamata MPEG+, la Technicolor
utilizza una compressione Qualcomm ABSDCT (Adaptive Block Size Discrete Cosine
Transform).
18
Si ricordi che l’ultimo anello di questa catena, quello che a oggi «non tiene»,
non per difetti tecnici ma per il costo troppo elevato delle singole unità, è la tecno­
logia di proiezione: costosissima e attualmente basata solo su due sistemi: il DLP (Di­
gital Light Processing) della Texas Instruments-Barco e quello della D-ILA (Direct-dri­
ve Image Light Amplifier) della JVC-Kodak.
195 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

so dell’arte cinematografica. Per esempio, quando negli anni Settanta e


Ottanta si parlava di «cinema sperimentale», ci si riferiva a film come
Empire di Warhol (per fare un esempio estremo); oggi, con maggior
aderenza etimologica, parlando di cinema sperimentale dobbiamo
pensare a un film che sia «un esperimento controllato con premesse
iniziali stabilite e un risultato sconosciuto». Per chiarire le aporie e le
contraddizioni in cui versa l’estetica del digitale che prova a chiarire sé
stessa, è interessante seguire la polemica tra Godfrey Reggio, regista
americano neo luddista, autore di Naquoyquatsi (che nella lingua Hopi
dei pellerossa vuol dire «vita come guerra»), e Joe Beirne, consulente
per la post-produzione digitale del film ed esperto in alta tecnologia, la
cui maggior frustrazione professionale consiste nell’occuparsi di film
che dovrebbero essere «teoricamente innovativi» e si traducono «in un
pasticcio di idee trite e ritrite».19 La sfida narrativa e visiva del film di
Reggio consisteva nell’ottenere una connessione fra immagini non ori­
ginariamente collegate che rispondesse a una «struttura ellittica di sen­
so», partendo dalla relazione con le musiche originali di Philip Glass.
Scopo del film era quello di «rivisitare il modo iconico con cui le im­
magini sono utilizzate dalla nostra cultura come se il mondo delle im­
magini fosse un luogo fisico». Queste premesse teoriche hanno trovato
concreta applicazione nella post-produzione elettronica affidata a Tim
Spitzer che, grazie all’uso combinato di diversi software (come Film
composer e Symphony della Avid o Automatic Composition Import del­
la Automatic Duck e Maya della Alias/Wawefont), ha paradossalmente
ottenuto «in pratica» il risultato che era nelle premesse puramente teo­
riche ed estetiche del regista. Una volta avuto il negativo originale già
montato e cromaticamente corretto si è infatti passati alla stampa su
pellicola del film e in questo passaggio si è realizzata quella nuova ac­
cezione di sperimentalità cinematografica cui abbiamo accennato: i da­
ti quantizzati e decimati sono divenuti realtà molecolare, chimico-ottica
e fragile. Ciò che accade quando le immagini a bassa risoluzione ven­
gono espanse in alta risoluzione è prevedibile solo in parte, e dipende
dal procedimento adottato. Quando si utilizza un algoritmo software
per ingrandire un’immagine, si ottiene un ammorbidimento visivo ge­
nerale, dal momento che nessun algoritmo di espansione può creare
dal nulla un dettaglio credibile. Ma, a livello di chimica del procedi­
mento fotografico, esiste un’inevitabile variazione statistica creata dallo
schema casuale dei grani di alogenuro d’argento dell’emulsione. Si
tratta di un effetto utile in quanto l’interazione fra gli schemi micro­

19
Cfr. J. Beirne, Il making di Naquoyqatsi, in «Computer Gazzette», giugno 2003, p.
38.
FABIO AMERIO 196
scopici dell’immagine e i motivi ancor più piccoli della grana d’emul­
sione crea un ammasso di particelle nelle zone di maggior dettaglio,
che incrementa il contrasto e la nitidezza apparente. In altre parole,
l’immagine guadagna «materialità» e avviene esattamente ciò che aveva
immaginato Reggio.
Se il caso di Naquoyquatsi ripropone l’annosa questione delle «due
culture», con l’intransigenza refrattaria e supponente degli uni (gli «ar­
tisti») e la sufficienza ironica degli altri (i «tecnici»), fortunatamente
non sempre si fronteggiano posizioni così rigidamente «manichee» ed
esistono casi anche importanti (come Greenaway e Altman), in cui la
tecnologia digitale non è stata oggetto di pregiudizi sbilanciati in un
senso o nell’altro. È il caso di The Company, l’ultimo film di Robert Alt­
man, in cui l’high definition ha giocato un ruolo fondamentale: Altman
ha potuto girare una singola scena di 28 minuti senza stacchi utilizzando
cinque camere ed entrando in campo più volte per dirigere gli attori e
poi ripetere la scena senza fermare il nastro. Ma anche se l’HD ha con­
sentito di riprendere un’enormità di materiale, l’equivalente di circa 6
mila metri di pellicola 35mm al giorno, il budget non è comunque il fat-
tore determinante: «Se si utilizza il digitale per contenere i costi, signifi­
ca che si sta facendo un film di budget molto basso». Infatti non è cer­
tamente da ascriversi a motivazioni di budget la scelta del digitale ope-
rata da Peter Greenaway nella sua ultima opera: Le valigie di Tulse Luper.
Il passaggio del digitale al cinema avverrà sicuramente e sarà antici­
pato e simultaneamente superato da questo cinema post-digitale o mul­
timediale che già lascia impronte di una certa profondità. Come è ac­
caduto per la foto e per il video, le modalità e i tempi di questa nuova
evoluzione saranno presumibilmente brevi e, come di consueto, deter­
minati da quella «massa critica» di consumatori o fruitori che, attraver­
so i canali del consenso e del mercato, determinano la realtà estetico­
tecnologica che ci circonda. Chi saprà adeguarsi con risultati convin­
centi a queste innovazioni sarà premiato, chi resterà indietro dovrà pa­
gare, anche e soprattutto in termini economici, il suo ritardo (è il caso
della Kodak, per fare un esempio, che, avendo sottovalutato la rivolu­
zione digitale, negli ultimi due anni ha visto le sue azioni perdere il
39,79 per cento).20

20
Cfr. M. Magrini, Kodak rischia il fermo immagine, in «Il Sole 24 Ore», 24 agosto
2003, p. 18.
197 LA MUTAZIONE DIGITALE: FOTOGRAFIA, CINEMA, VIDEO

9. «On a touché la photographie»

L’immagine proiettata da un obbiettivo sul piano focale di un appa­


recchio fotografico può essere raccolta e fissata attraverso una serie di
procedimenti fisico-chimici che da oltre un secolo e mezzo siamo soliti
chiamare fotografia. La fotografia è quella gamma di toni continua e in­
finitamente variabile dal bianco al nero che, attraverso il grigio e tutte le
sfumature di colore, riproduce il soggetto. Questo in teoria. Ma quando
la teniamo tra le mani o la osserviamo appesa, una foto è un’immagine
su carta. Questo fino a pochi anni fa. Oggi, parafrasando Mallarmé si
può dire: «On a touché la photographie». «Hanno toccato il verso», di­
ceva il poeta, tra il divertito e il sornione, al pubblico di un nuovo mon-
do poco propenso a recepire la sua sottile ironia. Oggi, di fronte a un
uditorio molto più preparato e cosciente possiamo dire: «Hanno tocca­
to la foto», certi che per tutti risulterà chiaro che nell’ironia dell’imper­
sonale (On) si gioca il senso di ogni progresso: chi, o che cosa ha «toc­
cato» la foto? L’evoluzione tecnologica? Il mercato? L’arte? Una volta gli
artisti dell’immagine fotografica erano sperimentatori, illusionisti, deli­
cati cialtroni da baraccone come il Courtial di Céline, in Morte a credito...
Oggi l’arte è «a rimorchio» di una tecnica fruibile quasi immediata­
mente da tutti o comunque da un vastissimo numero di persone. I mo­
derni illusionisti sono i tecnici che vediamo nel backstage del «making
of»: sono i tanti professionisti dell’illusione che più che svelare «i trucchi
del mestiere» si limitano a mostrare i «ferri del mestiere».
Per tornare a quella contaminazione della foto a scapito della credi­
bilità da cui siamo partiti, il punto è di riuscire a sollecitare i limiti del
pensiero di chi crede che il reale sia «quello che si vede».21 Se il reale è
ciò che siamo disposti a credere, la nostra realtà deve basarsi su un gra­
do di finzione accettabile. Le strade sono due: o si tratta di far emerge­
re quella che Calvino, sulla scia di Ponge, definiva la superficie «inesau­
ribile delle cose», oppure bisogna mettere in crisi il principio di identità
dell’immagine, riportando l’immagine stessa all’archetipo-assenza che
ne è anche principio epistemico: «L’immagine infatti a differenza di
quello che ritengono gli psicologi, che considerano l’immagine un ar­
ricchimento della realtà, de-realizza, ovvero lavora senza realtà e, così la­
vorando, la presenta in assenza».22 Dopo «la società dei simulacri» ci at­
tende la «società delle matrici», che mediante le profondità dei loro co­
dici determineranno il raffinamento della percezione (sensoriale e con­

21
E. Montale, Ho sceso dandoti il braccio, in Montale tutte le poesie, Mondadori, Mila­
no 1984.
22
Cfr. C. Sini, I segni dell’anima, Laterza, Bari 1989, p. 102.
FABIO AMERIO 198
cettuale). Terminato, o meglio «addomesticato», l’abbaglio paralizzante
dell’infinita riproducibilità, all’artista non si chiede più una dialettica
negativa che si fondi sulla retorica della fine, ma una seria presa di co­
scienza inerente la possibilità di infittire la rete e di rendere più com­
plesso l’algoritmo che determina la matrice del nostro sguardo. Che
questa ricerca sia possibile lo conferma la macchina insonne, servo e pa­
drone del moderno voyeur absolut: il fruitore onnivoro, connesso, rami­
ficato, pronto a captare l’informazione, il dettaglio, la macrostoria, lo
scatto di coscienza, la pornografia, la ricerca. L’uomo – mon semblable-
mon frère – è pronto a entrare nel flusso del «futuro storico». Come vole-
va Baudelaire per il pubblico della nascente fotografia, oggi come al
tempo del Salon del 1859, «migliaia di occhi avidi [...] sui lucernari del­
l’infinito».23

23
C. Baudelaire, La critica d’arte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 68.
SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE
Mauro Lupone

1. Il suono tecnologico

I processi di sintesi e di modificazione digitale del suono, oggi realiz­


zabili con comuni sistemi informatici, se da una parte hanno indiscuti­
bilmente messo a disposizione di tutti strumenti applicativi e soluzioni fi-
no a qualche anno fa assai dispendiosi in termini di tempo ed econo­
mie, dall’altra hanno soprattutto stimolato una radicale trasformazione
della natura del sapere, generando nuove categorie di pensiero in me­
rito ai processi posti in essere nell’uso del materiale sonoro. La storia del
rapporto tra suono e media è del resto anche la storia della sua ripro­
ducibilità tecnica, della possibilità di progettare e riprodurre in un con­
testo tecnologico specifico il processo creativo.
Le implicazioni del suono con l’altro da sé, con il suo manifestarsi
evento performativo, sono indubbiamente condizionate, fin dal proces­
so ideativo iniziale, dalle caratteristiche e dai limiti presenti nelle possi­
bilità di progettazione, riproduzione e gestione tecnologica del suono­
segnale, in funzione anche delle modalità in cui la comunicazione si ma­
nifesta. Pensiamo per esempio al rapporto tra suono, parola e rumore
che agli inizi del Novecento ispirò il movimento artistico d’avanguardia
del futurismo e ai nuovi oggetti strumentali che ne derivarono. Fra que­
sti vi erano macchine che Luigi Russolo, tra i fondatori del movimento,
definì intonarumori, azionate da manovelle, leve e bottoni, e i cui sistemi
meccanici producevano rumori di varia natura o generavano vibrazioni
utilizzando corrente a bassa tensione prodotta da semplici accumulato­
ri. La rinnovata formulazione del pensiero creativo stimolava la realizza­
zione di sistemi tecnologici funzionali a un’emancipazione del suono-ru­
more, in contrapposizione all’estetica accademica della musica e del tea­
tro di tradizione.1
Al contrario, il thelarmonium, creato agli inizi del Novecento dall’av­

1
Per un ascolto degli archivi sonori del futurismo suggerisco Futurismo Musicale,
cd prodotti dall’etichetta Fonoteca, Roma a cura di D. Lombardi e A. Latanza. Si trat­
ta di un’interessante raccolta di documenti sonori tratti da varie fonti storiche, con di­
chiarazioni degli stessi artefici del movimento e numerosi esempi in cui si fa uso di
intonarumori.
MAURO LUPONE 200
vocato americano Thaddeus Cahill, era costituito da numerosi genera­
tori di corrente alternata, interruttori e resistenze, utili a produrre il
suono, ma era costretto, in assenza dell’altoparlante non ancora in uso,
a ricorrere alla trasmissione via telefono, problematica e per questo po­
co funzionale in termini di resa. Fu l’espansione della radio negli anni
seguenti a fornire un nuovo impulso alla ricerca e alla sperimentazione
audio. Alla metà degli anni Venti Milhaud realizza esperimenti di tra­
sformazione della voce mediante variazione di velocità nella rotazione
dei dischi, mentre intorno al 1930 Hindemith e Toch, nel laboratorio ra­
diofonico della Hochschule für Musik di Berlino, producono composi­
zioni-studi (studie) utilizzando tecniche fonografiche che vanno dal ta­
glio e dissolvenza alle variazioni del numero di giri del disco, alle ripeti­
zioni ottenute mediante registrazione su dischi con solchi chiusi (meto­
do antesignano della moderna tecnica di loop), tecniche del resto uti­
lizzate anche oltreoceano da John Cage alla fine degli anni Trenta (Ima­
ginary Landscape n.1). Dallo sfruttamento della valvola elettronica fu in­
vece possibile generare delle frequenze elettriche modulabili, possibilità
utilizzate per la produzione sonora creata da nuovi strumenti come il
thereminvox o come il trautonium, che fu prodotto in serie dalla Tele­
funken nel 1932 e usato anche in ambito cinematografico per generare
effetti di sound design per l’audio di alcuni film (tra gli altri, anche il ce­
lebre Gli uccelli di Hitchcock, 1963) (L. Chadabe, 1997).2
L’avvento del sonoro nel cinema aveva da poco sostituito il com­
mento musicale dal vivo del cinema muto, focalizzando l’attenzione co­
municativa sulla parola e fornendo anche spazio, pur nella stretta ban­
da del suono ottico cinematografico di quegli anni, alla presenza del-
l’elemento rumoristico come aspetto rilevante nella definizione del-
l’ambiente sonoro. La tendenza fu presto annichilita alla metà degli an-
ni Trenta, dal ritorno a una rinnovata ridondanza nella presenza di ac­
compagnamento musicale, che nemmeno la tecnica del Dolby, diffusa-
si nella metà degli anni Settanta, con le possibilità offerte dalla pluralità
di piste utilizzabili e dalla larga banda passante, è riuscita sostanzial­
mente a cambiare (M. Chion, 1990). Nel cinema ciò che è realmente
importante ancora oggi rispetto alla percezione sonora è l’attenzione

2
Il theremin sfrutta la possibilità di controllare la generazione del suono agendo su
un campo elettromagnetico di un’antenna tramite il movimento delle due mani,
senza quindi nessun contatto diretto con l’oggetto. Lo strumento, precursore dei
moderni sensori di controllo interattivi, vanta una lunga storia e veri e propri esecu­
tori-virtuosi che a esso hanno dedicato la propria carriera (tra tutti citiamo Clara
Rockmore). Oggi il theremin sta avendo un forte ritorno di popolarità, e non è raro
trovarlo tra i dispositivi presenti nei set dei musicisti e degli artisti elettronici non ac­
cademici.
201 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

verso il parlato: l’esigenza di una puntuale intelligibilità nei dialoghi si


impone su tutto ciò che resta dell’ambiente sonoro. L’evoluzione ri­
guardo al concetto audio si è quindi sostanzialmente indirizzata verso
la ricerca di una migliore definizione qualitativa del segnale piuttosto
che verso un suo più specifico impiego creativo, meno che mai di na­
tura sperimentale.

2. L’esperienza analogica

Nel processo di sviluppo tecnologico, furono un mezzo e un metodo


di lavoro a cambiare radicalmente l’approccio alla gestione creativa del
suono: da un lato la registrazione elettromagnetica su nastro (le prime
dimostrazioni del magnetofono risalgono al 1935 a opera dell’industria
tedesca AEG) e dall’altro la tecnica del montaggio, in pratica il processo
di taglio, rielaborazione e missaggio del segnale audio registrato su na­
stro magnetico. Nel processo analogico il segnale elettrico che rappre­
senta il suono si muove infatti in «analogia» allo spostamento della
pressione dell’aria che caratterizza il fenomeno fisico, orientando le
particelle elettromagnetiche presenti sul nastro; nel processo di rilettu­
ra del nastro la disposizione delle stesse genererà una variazione di se­
gnale elettrico che sarà trasmessa all’amplificatore e ai diffusori audio
incaricati di ricreare meccanicamente la variazione di pressione dell’a­
ria generatrice del suono. Seguendo una prassi spesso comune nel
mondo delle tecnologie applicate all’arte, almeno fino a pochi anni fa,
le iniziali sperimentazioni furono sviluppate in quei centri di ricerca
che potevano disporre di strumenti e supporti adeguati, in quegli anni
sostanzialmente le radio nazionali europee e le università d’oltre ocea­
no.3 È a queste esperienze che dobbiamo riferirci nel tentativo di trac­
ciare una ricostruzione storica, anche perché solo sulla base delle spin-
te esplorative accademiche si è resa possibile una conseguente produ­
zione commerciale di musica tecnologica, la quale, preoccupandosi di
utilizzare secondo logiche di mercato le soluzioni sperimentali prodot­
te dai centri di ricerca, sostanzialmente al fine di creare dei «surrogati»
strumentali predisposti all’uso, non ha certo contribuito a incrementa­
3
Personalmente, credo che oggi gli stimoli più interessanti di incontro tra tecno­
logia e sperimentazione sonora non siano più circoscritti ai laboratori e alle aule del­
le «accademie» ma vivano in territori altri della comunicazione, legati alla club cultu­
re e al teatro tecnologico, agli spazi performativi digitali di confine, incontrando il vi­
deo digitale, il corpo e lo spazio in una pratica esperienziale tipica del nostro tempo.
4
P. Schaeffer, A la recherche d’une musique concrète, Seuil, Paris 1952.
MAURO LUPONE 202
re lo sviluppo di una cosciente consapevolezza nell’utilizzo del mate­
riale sonoro.
In Francia, sorretto anche dal sostegno ottenuto dalla Radiodiffusion
Télévision Française che fornì mezzi tecnici e finanziari adeguati, nac­
que il Groupe de Recherches de Musique Concrète (1951) di cui Pierre
Schaeffer rappresentò l’esponente di riferimento. Introduction à la musi­
que concrète (datato 1949 e apparso sulla rivista «Poliphonie» nel 1950) e,
più compiutamente, A la recherche d’une musique concrète del 19524 costi­
tuiscono i primi documenti attestanti le ricerche e le formulazioni del-
l’estetica di Schaeffer. Particolarmente importante è l’attenzione che ri­
volge all’evento musicale nella sua singolarità (objet musical), concetto
dal quale in seguito sviluppò, in collaborazione con il fisico acustico An­
dré Moles, un sistema di classificazione e caratterizzazione degli eventi
sonori, formalizzato più tardi nel Traité des objets musicaux del 1966.5 Il
materiale sonoro della musica concreta, formato da elementi preesi­
stenti mutuati da qualsiasi suono, rumore o musica tradizionale che fos­
se, rappresentava una sezione acustica del mondo, un richiamo all’e­
splorazione della materia nella sua fisicità, nel tentativo di fornire nuo­
ve possibilità di approccio consapevole al suono.
Ogni tentativo di trasferire la musica concreta dalla sua funzione di
commento radiofonico o scenico agli spazi strettamente destinati alla mu­
sica destò tuttavia un’accesa ostilità, tanto da far erroneamente conside­
rare a taluni l’esperienza della musica concreta come una manifestazione
storica di transizione, primo passo di una logica evolutiva che si perfezio­
nerà in seguito, fondendosi con i processi messi in essere all’interno dei
nascenti laboratori di musica elettronica europei (Lanza, 1991).
In Italia, lo Studio di Fonologia Musicale della RAI di Milano, in cui
operarono fin dalla sua fondazione i compositori Luciano Berio e Bru­
no Maderna, ospitò la creazione di numerose produzioni audio origina­
li a opera di artisti provenienti da tutto il mondo, con una particolare at­
tenzione verso quei prodotti che risultavano funzionali al mezzo ra­
diofonico. La radio costituiva infatti un nuovo ambito di committenza e
di sperimentazione sonora, un medium, da potenziare ed esplorare e in
cui far convergere suoni, voci e rumori come in Ritratto di città (1954) o
Visage (1961) di Berio, Notturno (1956) di Maderna, Fontana Mix (1958)
di Cage.6 Visage, un brano per nastro magnetico in cui la voce del sopra­

5
P. Schaeffer, Traité des objets musicaux, Seuil, Paris 1966; e inoltre la raccolta di in­
terventi AA.VV., Ouïr, entendre, écouter, comprendre après Schaeffer, Buchet/Chastel-INA/
GRM, Paris 1999.
6
La BBC inglese promosse nel 1958 l’iniziativa The Radiofonic Workshop per creare
suoni per la radio e la televisione, tra cui i celebri effetti sonori della serie televisiva
203 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

no Cathy Berberian, miscelata a suoni elettronici generati presso lo Stu­


dio di Fonologia di Milano, esplora la grammatica generativa del suono­
linguaggio; lo stesso Berio ricorda, nelle note di copertina del disco pro­
dotto dall’etichetta Turnabout (1966), la natura radiofonica del lavoro,
una sorta di colonna sonora per una «drammaturgia» mai scritta, basato
sul simbolismo sonoro profondo delle generazioni vocaliche, sui riferi­
menti emozionali e sulle tendenze associative che a esse si ricollegano.
Le analisi sui meccanismi di strutturazione del suono si collegano ai
meccanismi della percezione e della linguistica, incontrandosi su terre-
ni comuni in cui poter formalizzare i processi di sviluppo della ricerca.
La linguistica e la semiotica orientano il pensiero creativo (vedi il rap­
porto di collaborazione professionale che ha legato Berio a Umberto
Eco): fonemi e prosodia che si sviluppano in una sorta di narrazione del
processo di costruzione del linguaggio e della comunicazione emozio­
nale, ruotanti attorno al ritorno puntuale della parola-chiave «parole»
che allude ogni volta a diverse accezioni semantiche e comunicative.
Le esperienze degli studi elettronici contribuirono a valorizzare la
complessa articolazione spettrale del suono, espandendone le poten­
zialità anche in virtù delle analisi sul suono e delle conseguenti mani­
polazioni elettroacustiche (filtraggio, missaggio, ripetizione) che da es­
se derivavano (J. Chadabe, 1997). Senza dubbio la valorizzazione della
materia sonora in quanto spettro dinamico – formato, in altre parole,
dall’insieme di zone d’energia dotate di morfologia propria che defini­
scono e caratterizzano l’evento sonoro – ha aperto in seguito un qua­
dro di relazione più attento e «percettivamente» più consapevole ri­
spetto all’utilizzo del materiale. Il suono non viene più considerato nel­
la sua staticità, cristallizzandolo in un’analisi che ne definisce i para­
metri caratterizzanti, ma nella sua mutevole complessità, investigando
in quella ricca morfologia dinamica che lo accompagna dalla sua pro­
duzione alla sua estensione. Questa rinnovata attenzione, questa vo­
lontà di esplorare i meccanismi profondi che regolano il fenomeno so­
noro troverà inoltre un forte supporto teorico nei risultati acquisiti da­
gli studi delle scienze cognitive e psicopercettive e dalla linguistica.7 Le
analisi sui meccanismi di strutturazione del suono si collegano a questi

Doctor Who. In Svezia, presso gli studi della Radio di Stoccolma si ricercavano invece
nuove formulazioni di rapporto tra suono e parola, definite dal termine text-sound
composition, vera e propria sorta di arte sonora sviluppatasi fino ai nostri giorni (Cha­
dabe, 1997).
7
J.A. Sloboda, The Musical Mind. The Cognitive Psychology of music, Oxford University
Press, Oxford 1985; trad. it. La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica, Il Mu-
lino, Bologna 1988; N. Chomsky, Le strutture della sintassi, Laterza, Bari 1970.
MAURO LUPONE 204
studi incontrandosi su terreni comuni in cui poter formalizzare i pro­
cessi di sviluppo della ricerca. La peculiarità della musica su nastro im­
poneva comunque una necessaria riflessione anche sulle sue modalità
di diffusione all’interno dell’evento performativo. La possibilità di mo­
vimento del suono nello spazio, di considerare cioè la «plasticità» insi­
ta nel suono non solo come movimento direzionale ma anche come
ipotesi di collocazione-frammentazione delle sue componenti energe­
tiche in una virtuale griglia spaziale tridimensionale, spinse alla ricerca
di soluzioni originali nella dislocazione dei diffusori audio in situazioni
live (ricordiamo la multidiffusione spaziale in sala del Gesang der Jün­
glinge di Stockhausen del 1956 o l’esperienza negli anni Settanta di Bay­
le con il suo Acousmonium, una scenografica architettura di numerosi
diffusori, allestiti per realizzare plastiche morfologie sonore durante le
performance esecutive). Il tape aveva inoltre rappresentato fin dagli an-
ni Cinquanta un supporto utile alla gestione dell’audio in situazioni
performative, favorendo anche la realizzazione di allestimenti in cui
prevedere la compresenza di proiezioni, luci e azione scenica (Poème
Electronique di Edgar Varèse del 1958, e negli stessi anni il progetto
Rainforest di David Tudor), stimolando al contempo formule funzionali
alla gestione di processi di sincretismo creativo tra i vari mezzi. Fu però
soltanto con lo sviluppo computazionale degli anni Settanta che la ri­
cerca sulla spazializzazione del suono poté giovarsi di uno strumento di
controllo efficace per la definizione puntuale del movimento nello spa­
zio e la relativa dislocazione dei diffusori, permettendo parallelamente
di stabilire una corretta simulazione degli effetti psicoacustici necessari
al processo di localizzazione del suono nello spazio. Negli stessi anni,
presso i laboratori Dolby si sviluppavano i nuovi sistemi di diffusione
surround che agli inizi degli anni Ottanta porteranno alla diffusione
della tecnologia Dolby Surround, evolutasi fino all’attuale configura­
zione a sei canali (5.1), definita come Dolby Digital. Ancora oggi, co­
munque, il vero problema della diffusione spaziale del suono risiede
nella difficoltà di prevedere le dinamiche legate alla percezione del
movimento in uno specifico contesto non standardizzato, a differenza
dei cinema forniti del sistema di riproduzione surround. Il movimento
del suono non è un concetto applicabile indipendentemente dallo spa­
zio performativo in cui agiamo, dalla dislocazione relativa dei diffusori
e dall’individuazione dei punti di ascolto. In altre parole, è più facile
parlare di spazializzazione in ambito cinematografico, dove è possibile
strutturare situazioni uniformi di diffusione-ascolto, piuttosto che in
ambiti prettamente multimediali in cui, senza un’accurata progettazio­
ne in funzione del contesto specifico, si corre il rischio di produrre
una multidiffusione non ottimale in termini di resa.
205 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

Nell’immediato dopoguerra, la spinta data da una rinnovata volontà


di riformulazione radicale del linguaggio musicale trovò un forte sup­
porto tecnologico, e potremmo dire anche «ideologico», nell’utilizzo si­
stematico degli oscillatori analogici presenti nei nascenti centri di ricer­
ca elettronici europei. Era il periodo da taluni definito come «anno ze­
ro», in cui il compositore Pierre Boulez dichiarava in un celebre saggio
la «morte» di Schönberg, come volontà di liberarsi da quello che veniva
considerato come un ultimo retaggio della tradizione.8 Il suono elettro­
nico, originale per sua stessa natura e nella sua assoluta valenza virtuale,
costituiva la «tabula rasa» da cui partire nella progettazione del proprio
contesto creativo, un suono definito e strutturato in ogni sua compo­
nente fin dal pensiero che lo genera, secondo le regole imposte dal­
l’imperante logica strutturalista (A. Lanza, 1991). Questa ambizione au­
toreferenziale era del resto contemporanea allo sviluppo dei primi lin­
guaggi meccanici e costituisce la base teorica della scienza e della teoria
dell’automazione. Non a caso molte delle nascenti produzioni sonore
della prima avanguardia elettronica ebbero come modelli formali gli
automatismi astratti di queste nuove elaborazioni scientifiche, che in se­
guito troveranno nella futura disciplina dell’informatica un terreno co­
mune cui riconnettersi.
Il suono elettronico rappresentava quindi l’oggetto funzionale, il ma­
teriale perfetto su cui poter esercitare il controllo razionale e pervasivo
tipico dello strutturalismo. Tuttavia, si capirà ben presto che più accura­
ta e totalizzante è la strutturazione del processo, più alto sarà il grado di
livellamento nel risultato, come maggiore sarà la tendenza entropica
del sistema. I processi legati alla percezione e alla teoria dell’informa­
zione ci insegnano che quanto più si rende densa e complessa l’infor­
mazione tanto più si complica la comunicazione e l’orientamento per­
cettivo, avvicinandosi al collasso del sistema. La volontà di controllare ri­
gidamente ogni parametro del suono secondo logiche concettuali pre­
stabilite, caratterizzò lo strutturalismo di quegli anni e condusse a un vi­
colo cieco comunicativo da cui si pensò di uscire legittimando in segui­
to la presenza del caso e dell’alea controllata all’interno del processo
creativo. Rispetto alla prassi, la logica operativa degli studi di musica
elettronica consisteva nell’utilizzo di circuiti elettronici modulari ai qua-
li associare una funzione definita (per esempio, un oscillatore-genera­
tore variabile nel tempo in tensione). I circuiti realizzati erano inoltre
messi in collegamento tra loro per mezzo di connessioni via cavo, origi­
nando configurazioni spesso inestricabili e molto pittoresche. Interve­

8
P. Boulez, in Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966; trad. it. Note di apprendistato, Ei­
naudi, Torino 1968.
MAURO LUPONE 206
nendo poi sui controlli manuali relativi a ciascun modulo si modificava­
no i parametri che plasmavano la natura del suono prodotto. Ogni mo­
dulo è quindi l’implementazione di una funzione necessaria a produrre
un’azione sul segnale elettrico generatore di suono (L. Tarabella, 1992).
Nell’estate del 1952 Bruno Maderna fa eseguire a Darmstad il suo
Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico. Il brano è pre­
sentato come il primo lavoro in cui uno strumento interagisce con l’u­
niverso sonoro generato elettronicamente. Maderna apre una nuova
strada, una nuova prospettiva. La tecnologia si compenetra con i suoni
strumentali reali, le due dimensioni si incontrano, regolate dai meccani­
smi della percezione e da quell’altrimenti indicibile che, secondo We­
bern, «soltanto con i suoni si può dire». La tecnologia, l’intervento mo­
dificativo sul suono, torna a essere strumento di un’idea musicale, di
una pratica compositiva più consona ai processi propri del fare musica e
soprattutto ai meccanismi naturali della percezione sensoriale e dell’e­
stetica. Una tensione soggettiva cioè in cui il risultato finale non è rigi­
damente deducibile dall’applicazione delle premesse teorico-formali. Il
processo di strutturazione formale e l’utilizzo delle tecnologie non pos­
sono fare a meno di considerare indispensabile il rapporto con i mecca­
nismi esperienziali, cognitivi e percettivi.
Negli anni Sessanta l’elettronica cominciò ad affacciarsi anche nei
territori della musica commerciale. Sono gli anni del sintetizzatore
Moog (dal nome del suo costruttore, l’americano Robert Moog), con
cui era possibile generare elettronicamente suoni virtuali (sintetizzare),
utilizzando una tastiera musicale in collegamento con i moduli genera­
tori del suono. Lo strumento fu molto apprezzato dall’industria della
musica e prodotto massicciamente in una versione più orientata all’u­
tente, dotata di cursori e bottoni che sostituivano le poco pratiche con­
nessioni via cavo (Minimoog). Lo strumento popolò i set audio di nu­
merosi gruppi pop-rock (ricordiamo Keith Emerson degli Emerson,
Lake and Palmer, con i suoi coltelli piantati tra i tasti a formare grappo­
li di note tenute, oppure artisti del calibro di Stevie Wonder, Pink Floyd,
Herbie Hancock, Brian Eno). Fino agli anni Ottanta, data in cui la pro­
duzione fu conclusa, furono venduti più di dodicimila sintetizzatori in
tutto il mondo. Da quel momento strumenti analoghi servirono a crea­
re nuovi suoni virtuali e la loro produzione e vendita continuò invariata
nel tempo (J. Chadabe, 1997). Altre case produttrici crearono propri
modelli dotati di sempre più sofisticate tecniche di sintesi, in linea con
le esigenze del mercato – come la sintesi in modulazione di frequenza (FM)
con cui alla fine degli anni Settanta fu prodotta tutta la serie dei sinte­
tizzatori DX della Yamaha –, le stesse esigenze e tendenze che oggi spin­
207 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

gono verso il ritorno sulla scena delle tastiere vintage e delle loro speci­
fiche sonorità old-fashion.

3. La generazione del digitale

La vera trasformazione, anche in termini di pensiero, si ha però con


l’avvento del digitale e con l’utilizzazione del computer come gestore
dell’intero processo di produzione sonora. Se il modulo sonoro del cir­
cuito elettronico analogico offriva in sostanza l’implementazione di un
modello matematico, si pensò che lavorare con sequenze di numeri e
programmi di elaborazione, sfruttando le potenzialità di calcolo e di
memoria dei nuovi mezzi informatici, potesse sostituire virtualmente il
modulo elettronico e permettere di ricreare il processo generativo so­
noro direttamente al calcolatore. Le strutture musicali scritte al compu­
ter con specifici linguaggi di programmazione sostituirono quindi i cir­
cuiti modulari elettronici, con il vantaggio di una migliore stabilità nel
funzionamento, una duplicazione e riproduzione virtualmente infinita
degli algoritmi generativi, garantendo sostanzialmente una più versatile
e potente possibilità di progettazione e definizione nei processi di sinte­
si del suono (L. Tarabella, 1992). Furono le stesse possibilità che intra­
vide Max Mathews alla fine degli anni Cinquanta nei Laboratori Bell di
Murray Hill, New Jersey. Giovane ricercatore incaricato di sviluppare
studi sulle applicazioni digitali per la telefonia, Mathews coltivava paral­
leli interessi musicali ed estese le sue ricerche alla possibilità di svilup­
pare il processo necessario a generare e controllare frequenze audio,
operando nel passaggio dal dominio analogico al dominio digitale del
computer. Compilando al computer la scrittura funzionale relativa allo
strumento generativo, per mezzo di un linguaggio di programmazione
dedicato, si poteva produrre in teoria qualunque suono. Le tecnologie
informatiche disponibili in quegli anni non garantivano tuttavia ancora
la possibilità di poter generare all’istante il suono sintetizzato (tempo rea­
le): fu necessario quindi sviluppare una tecnica in cui per prima cosa oc­
correva sintetizzare il suono, immagazzinarlo sul supporto digitale per
poi rileggerlo successivamente mantenendo intatti i rapporti di tempo­
rizzazione e continuità del processo generativo (tempo differito). Ancora
una volta i limiti del sistema tecnologico condizionarono e orientarono
l’esplorazione del mezzo e le possibili applicazioni pratiche che ne deri­
varono.
Si ebbero quindi, a partire da quegli anni, tutta una serie di pro­
grammi software (come la serie denominata Music, culminata alla fine
degli anni Sessanta con il programma Music V), con i quali produrre la
MAURO LUPONE 208
sintesi digitale diretta del suono, fino ad arrivare ai giorni nostri con il
programma Csound, sviluppato in linguaggio C dal Media Lab del MIT
(Massachussets Institute of Technology), universalmente considerabile
come il software di riferimento per chiunque lavori nell’ambito della
produzione sonora in sintesi digitale diretta (anche perché stiamo par­
lando di un software freeware e multipiattaforma).
Le prospettive operative rese possibili dall’elaboratore hanno subito
coinvolto tutti gli aspetti del processo produttivo sonoro. Dagli iniziali
tentativi che utilizzavano il mezzo per «generare» partiture da far ese­
guire in seguito agli strumentisti (Hiller e Isaacson) o che producevano
esecuzioni virtuali in cui i parametri di frequenza e durata rappresenta­
vano gli unici aspetti sostanziali di variazione, si arrivò, soprattutto quan­
do le possibilità del mezzo lo resero possibile, a concepire una forma di
intervento digitale più diretto al suono-materia, alla sua struttura inter­
na, alla morfologia che lo definisce. Il suono esplorato nei suoi aspetti
spettromorfologici, nelle sue dinamiche, portava alla luce nuove co­
stanti risorse, consapevolezze e stimoli per ulteriori sviluppi estetici (ba­
sti pensare alla produzione del pensiero spettromorfologico di Smalley
o all’esperienza di sincretismo tra video e suono elettronico di Woody e
Steina Vasulka). Esplorare il suono significava, per dirla con Wronski,
svelare «l’intelligenza presente nel suono».
Alla fine degli anni Settanta, il progredire della tecnologia compu­
tazionale, con i nuovi calcolatori dotati di più efficienti microproces­
sori e hard-disk capienti, ha garantito risorse necessarie ai sempre più
complessi processi di sintesi e di elaborazione del suono. Furono isti­
tuiti centri specializzati come l’IRCAM (Institut de Recherche et Coor­
dination Acoustique Musique) di Parigi, fortemente voluto dal compo­
sitore Pierre Boulez, per il quale furono messi a disposizione finanzia­
menti e strutture adeguate alla ricerca e alla produzione musicale tec­
nologica. Si affermano personalità di riferimento, ognuna con pecu­
liarità operative interessanti nell’ottica dello sviluppo del settore. Nel
1971 il francese Risset è a Marsiglia a capo del Dipartimento di Musica
del Centro Universitario di Marseille-Luminy, dove prosegue la sua ri­
cerca di sintesi timbrica computerizzata; dopo una esperienza all’IR­
CAM, nel 1985 è al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifi­
que) per lavorare nel Laboratoire de Mécanique et d’Acoustique. La ri­
cerca di Risset si caratterizza nel panorama elettroacustico contempo­
raneo per l’uso del computer come strumento d’indagine e di mani­
polazione sonora. Dal processo di analisi del suono si arriva al proces­
samento digitale, ai processi di mutazione morfologica dinamica tra i
suoni (morphing), a tecniche che pongono particolare attenzione alle
caratteristiche e ai limiti della percezione uditiva (illusioni percettive). Il
209 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

suo interesse si è concentrato per anni sui meccanismi di interazione


tra strumenti acustici, voce e suoni generati al computer, favorendo,
con l’intervento delle tecniche di trattamento del suono, processi di in­
terrelazione tra il mondo fisico e quello «virtuale». È una sorta d’inter­
vento sull’identità sonora dello strumento acustico a opera del proces­
so di elaborazione che «forza» la struttura morfologica del materiale e
la compenetra, mantenendo sempre costantemente presenti i riferi­
menti ai processi della percezione e della comunicazione. In Passages,
lavoro per flauto e nastro magnetico del 1982,9 Risset già nel titolo al­
lude ai differenti passaggi sonori del nastro che il flauto attraversa du­
rante il suo percorso strumentale: flussi di un incontro tra due mondi
sonori, quello del flauto, tipizzato ma mobile, e quello dell’elaborato­
re, duttile ma fisso nella sua natura di generatore del materiale prere­
gistrato; glissandi rumoristici, la cui distribuzione spettrale simula la
conduzione dei fenomeni di turbolenza, suoni fluidi con componenti
di rumore (entrambi componenti fondamentali, nella simulazione
morfologica del flauto), esplorazione di armonici virtuali che si fondo­
no con i sottili ricami acuti dei whistle tones del flauto, fino ad arrivare,
nel finale, a trasfigurare le relazioni e la percezione sonora in un con­
tinuo e fluido morphing tra voce, suono strumentale e suono virtuale.
La stessa attenzione sottintende il lavoro del compositore-musicologo
neozelandese Denis Smalley, già nei primi anni Settanta al GRM di Pa­
rigi, e successivamente in altri studi di Francia, Inghilterra, Finlandia e
Canada. Per Smalley le caratteristiche spettrali del suono assumono
fondamentale importanza, sia come base per la formulazione di una ti­
pologia d’analisi elettroacustica che consenta di definire un lessico re­
lativo agli oggetti sonori e alla loro strutturazione (analisi spettro-morfo­
logica) sia per un criterio di orientamento per il proprio agire compo­
sitivo: caratteristiche e strutturazioni morfologiche sulle quali Smalley
lavora e «sperimenta», applicando tecniche di signal processing modifi­
cative che gli permettono di ottenere un materiale spesso dotato di
una nuova qualità spettro-morfologica, pur mantenendo tracce della
originaria struttura spettrale. Resta comunque fondamentale, anche
per Smalley, l’importanza di filtrare il proprio processo operativo con
un approccio al suono e alla composizione in cui sia sempre presente
una attitudine estetica cosciente (da lui stesso definita electro-acoustic
9
La dizione «nastro magnetico» si è estesa, dopo il periodo di utilizzo del nastro
analogico, anche al supporto digitale per definire il prodotto attraverso il quale vie-
ne diffuso l’audio preregistrato. L’uso del calcolatore si rende più ottimale invece
nella riproduzione di interazione, in cui sono necessari sincroni di attivazione e di
modulabile relazione con l’azione che si sviluppa nel contesto specifico, evitando la
immutabile fissità sequenziale del supporto preregistrato.
MAURO LUPONE 210
sensibility), indipendentemente dalla tecnologia e dalle implicazioni
speculative messe in gioco.10
I risultati della ricerca furono considerati sufficientemente interes­
santi anche dagli ambiti musicali non accademici, e i grandi colossi
produttori di strumenti musicali cominciarono ben presto a produrre
una serie di strumenti tecnologici digitali dedicati alla musica: le nuove
tecnologie disponibili potevano far prevedere un incremento sensibile
nelle vendite. Gli strumenti elettronici uscirono così dai centri di ricer­
ca e furono immessi nel circuito della produzione musicale commer­
ciale, alimentando nuove contaminazioni elettroniche e favorendo il
proliferare delle azioni performative in cui utilizzare i nuovi dispositivi
tecnologici. Ai già presenti sintetizzatori elettronici si affiancarono
drum machines digitali per riprodurre ritmiche sintetizzate, strumenti
non eccessivamente costosi, trasportabili, relativamente semplici da
usare e orientati al facile utilizzo pratico. Il problema fu, ovviamente, la
conseguente tendenza alla standardizzazione nei processi creativi ed
estetici. Non solo si avevano a disposizione circoscritte possibilità di so­
luzioni a causa delle limitate tecniche di sintesi definite in sede di pro­
getto e installate su ogni particolare dispositivo, ma anche l’uso che ne
derivò si risolse molto spesso in una selezione sistematica dei soli presets
forniti dallo stesso strumento. Lo strumento migliore diventava quindi
quello che aveva i suoni di serie più originali e stimolanti al momento
della sua uscita sul mercato, suoni che venivano tuttavia sistematica­
mente «bruciati» come novità dai grandi della musica commerciale,
che primi tra tutti potevano permettersi di testare e utilizzare i nuovi
strumenti.11 La stessa industria capì presto come fosse necessario idea­
re una forma di comunicazione tra i vari strumenti elettronici, per ga­
rantire una proliferazione senza rischi delle proprie attività di vendita.
Occorreva trovare un terreno comune, un linguaggio che garantisse lo
scambio di informazioni, il dialogo necessario a favorire la compresen­
za simultanea dei dispositivi tecnologici in sede performativa (basti

10
Cfr. D. Smalley, Spectro-morphology and Structuring Processes, in S. Emmerson (a
cura di), The Language of Electroacustic Music, MacMillan, London 1986 e D. Smalley,
La spettromorfologia: una spiegazione delle forme del suono, “Musica/realtà”, 50-51, 1996.
11
Il problema di avere per ogni strumento soltanto la tecnica di sintesi progettata
e implementata all’origine, ha spinto recentemente le case produttrici di strumenti
musicali, minacciate anche dallo sviluppo dei soft-synth digitali, a investire nello svi­
luppo dei cosiddetti mainframe audio, oggetti in grado di variare la tecnica di sintesi
implementata oppure mutarsi in processori di effetti o campionatori (di cui parlere­
mo più avanti), semplicemente caricando sulla macchina lo specifico programma di
gestione.
12
Un libro interessante nella sua libera e visionaria esplorazione dei mondi sono­
211 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

pensare alla difficoltà nel gestire le «torri» di sintetizzatori, immagine


tipica di certa iconografia del rock). Agli inizi degli anni Ottanta le
aziende organizzarono quindi una piattaforma comune da cui fu re­
datto un nuovo standard di comunicazione tra gli strumenti digitali,
che prese il nome di MIDI (Musical Instrument Digital Interface). Le
specifiche di questo nuovo standard crearono una vera e propria rivo­
luzione nella produzione di strumenti elettronici: era finalmente possi­
bile far comunicare strumenti elettronici, anche di marche diverse tra
loro, semplicemente inviando ordini digitali di esecuzione. La caratte­
ristica principale del MIDI è di non veicolare segnale audio (operazione
che richiederebbe un pesante impiego del sistema), ma messaggi ese­
cutivi sotto forma di leggere stringhe di byte. L’ordine esecutivo viene
semplicemente eseguito dal dispositivo ricevente con il suono che in es­
so risiede. L’utilizzo del MIDI non si esaurì nell’esecuzione remota di
eventi nota (nota-on), anche in termini di esecuzione differita di se­
quenze preregistrate per mezzo di strumenti dedicati (sequencer), ma fu
molto importante come linguaggio di controllo per il sincronismo tra i
vari dispositivi, garantendo la coesistenza nei vari set audio di drum ma­
chines, sequencers, expanders digitali (sintetizzatori senza tastiera, proget­
tati per «suonare» con i timbri propri della macchina l’ordine esecuti­
vo ricevuto dal dispositivo MIDI esterno), che si rese utile anche nel sin­
cronismo con il supporto video. Negli anni Ottanta l’elettronica entra­
va nel cuore della musica commerciale. Sempre più spesso, non solo in
studio ma anche nelle esecuzioni dal vivo, le parti strumentali venivano
affidate all’esecuzione di strumenti virtuali (magari preregistrati su
tracce digitali con la tecnica del sequencing).
Le tecniche di sintesi evolvevano inoltre verso soluzioni sempre più
precise e funzionali, come la modellazione fisica in cui piuttosto che sin­
tetizzare il risultato si progettava un algoritmo di riproduzione virtua­
le del sistema fisico generatore del suono (tubi sonori, corde, piastre
percosse). Tuttavia, controllare e avere padronanza delle tecniche di
sintesi presenti sui dispositivi elettronici, soprattutto nel tentativo di si­
mulare i suoni degli strumenti tradizionali, costituiva un compito non
facile per l’utente medio. Un’alternativa, che con il tempo finì col ri­
sultare vincente, fu data dalla tecnica del campionamento, ovvero l’ac­
quisizione in digitale del segnale audio e la sua successiva gestione di
utilizzo al pari di un comune preset timbrico. Alla fine degli anni Ot­
tanta i campionatori, dopo una iniziale difficoltà dovuta anche all’ele­
vato prezzo di acquisto, s’imposero sul mercato come tastiere caratte­
rizzate dalla loro versatilità. Con i campionatori era ormai possibile ri­
produrre qualunque campione sonoro e «suonarlo» a differenti altez­
ze frequenziali, con una versatilità limitata solo dalla potenza del siste­
MAURO LUPONE 212
ma utilizzato. I suoni del mondo reale (anche rumoristico) entrarono
quindi a far parte del lessico sonoro elettronico, simulatori virtuali di
una realtà strumentale ma anche estensori di una rinnovata creatività
sonora in cui, ancora una volta, l’elemento materico, l’oggetto sonoro
concreto, tornava a essere suscettibile di interesse estetico.12

4. Suono e interazione

La reale possibilità di gestire la comunicazione tra dispositivi digita­


li, unita al costante potenziamento delle capacità di elaborazione del
computer, ha stimolato il processo di rivalutazione del concetto d’in­
terazione in live electronics, contribuendo anche a rafforzare lo sviluppo
nella progettazione di interfacce sonore sempre più adeguate. A so­
stegno delle più concrete opportunità di modificazione real time del
materiale, si sono infatti sviluppate nuove forme di controllo e intera­
zione sonora utilizzabili nelle più diverse situazioni performative. Pro­
gettare dispositivi di interfaccia dedicati, creare il proprio personale
set audio e stabilire un controllo di gestione performativa del sistema,
anche in rapporto alla compresenza di media diversi, rappresenta un
desiderio che lo stato dell’arte tecnologica può oggi soddisfare, utiliz­
zando le nuove risorse digitali disponibili. Dai primi trigger analogici
con cui controllare l’attivazione o il sincronismo tra le macchine si è
passati negli anni Ottanta ai dispositivi analog to MIDI trigger, con i qua-
li convertire segnali elettrici prodotti da sensori in corrispondenti da­
ti MIDI, che controllano il proprio sistema audio (J. Chadabe, 1997).
Indubbiamente lo standard MIDI ha costituito, per la sua grammatica e
la relativa facilità di gestione, un linguaggio ideale su cui sviluppare
gran parte dei processi d’interazione tra i dispositivi tecnologici. La
tecnologia di rilevamento utilizzata è solitamente di tipo sensoristico
analogico (infrarossi, rilevatori di pressione o di prossimità...) o si ac­
quisisce da un processo di digitalizzazione video, da cui rilevare una
conseguente «mappatura» di riferimento finalizzata alla gestione del
processo di controllo interattivo: in relazione all’immagine digitalizza­
ta si definisce uno spazio di azione e si considera la variazione di un
elemento al suo interno (movimento, luminosità, colore...) come va­
riazione di controllo di un relativo parametro del sistema audio (mo­
dificazione dell’altezza, della dinamica...). La grammatica di controllo

ri del nostro tempo è D. Toop, Oceano di suono. Discorsi eterei, ambient sound e mondi im­
maginari, Costa e Nolan, Genova 1999.
13
Questo è l’ambito in cui operano oggi le nuove produzioni creative di sincreti­
213 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

si riduce sostanzialmente a una attivazione on-off o alla variazione con­


tinua di un parametro entro limiti predeterminati. In definitiva, all’at­
tivazione del sensore «accade» qualcosa oppure alla variazione dina­
mica di tale valore del sensore corrisponde una correlata variazione
del relativo parametro di controllo del sistema. Come detto, per la co­
difica delle informazioni acquisite, il MIDI costituisce un terreno co­
mune cui ricondurre i processi di elaborazione e gestione necessari al
controllo desiderato. I dati prodotti dai sensori elettronici sono tra­
sformati in messaggi MIDI e gestiti dal sistema (per esempio un com­
puter dotato di interfaccia MIDI-USB). Ma come organizzare il materia­
le all’interno del proprio mondo performativo? La gestione creativa di
tali informazioni costituisce infatti il vero aspetto rilevante del proces­
so tecnologico d’interazione. Innanzitutto, l’informazione limitata del
segnale acquisito rappresenta di per sé materiale inutile nella gestione
del processo di intervento sul suono, se non la si considera come ele­
mento funzionale, «agente» su un predisposto algoritmo di trattamen­
to ed elaborazione del segnale. Oltre alla formulazione di dispositivi
originali di interazione è stato quindi necessario realizzare applicazio­
ni software che gestissero attraverso il computer le informazioni ac­
quisite, inserendole all’interno della progettualità come attivatori di
eventi o controllori parametrici. Occorre in pratica progettare un am­
biente di lavoro all’interno del quale aprire delle «porte» che attivino
la comunicazione d’interazione con l’esterno. Questa logica ha unifor­
mato l’approccio delle applicazioni sonore rispetto ai vari contesti
performativi e mediatici della scena contemporanea: dalle installazio­
ni multimediali al tecnoteatro interattivo, dalla computer art alla dan­
za contemporanea tecnologica. Da software quali MAX/MSP della Cy­
cling ’74 (programmazione a oggetti per la gestione globale di situa­
zioni interattive) allo stesso già citato Csound del MIT, anch’esso sem­
pre più orientato alla gestione interattiva in tempo reale, alle applica­
zioni dedicate alla danza e alla gestione dello spazio scenico realizzate
allo STEIM di Amsterdam, tutti gestori di una realtà sensibile e percet­
tiva che mette in relazione suono e ambiente circostante.13
Il rapporto tra suono e media, tra suono, percezione e linguaggi digi­
tali presuppone comunque una consapevolezza non solo nell’uso spe­
cialistico delle tecnologie o nella creazione sintetizzata del suono ma an­
che, e questo rappresenta la novità dell’era digitale, nella gestione del

smo digitale, in cui live video processing, live electronic music, technotheatre si compenetra­
no lavorando sulle matrici comuni del linguaggio elettronico (come per il gruppo
spagnolo la Fura dels Baus o gli italiani XEAR – Extended Electronic Arts).
14
Un esempio emblematico ci viene da Brian Eno, definito da A. Ludovico «il gu­
MAURO LUPONE 214
rapporto produttivo tra linguaggi elettronici e forme di rappresentazio­
ne relative. I nuovi mezzi digitali impongono nuove tipologie di relazio­
ne creativa, stimolano la definizione di un nuovo spazio performativo e
di una esperienza percettiva di sincretismo che agisce sullo spazio-tem­
po, contribuendo a realizzare una nuova forma di «rappresentazione»
che non può non essere consapevole delle implicazioni messe in gioco
(basti pensare a certa dance di tendenza, dove possiamo trovare sempre
più frequentemente dj-set in cui sono compresenti video-live interattivi e
controller tecnologici di attivazione e gestione audio o alle esperienze che
utilizzano gli sviluppi della tecnologia streaming in rete).
Il processo d’interazione induce a riflettere però, nella sua accezione
più complessa, sulla reale natura che lo stesso può rivestire nei processi
di costruzione e attuazione performativa del progetto, particolarmente
secondo un aspetto tipicamente percettivo-comunicativo. Il soggetto
umano non va considerato agito ma agente, e partecipa con la propria
azione alla definizione ultima del rappresentato, allo stesso modo per
cui si parla oggi di «circolazione del sapere» resa possibile dall’attività di
enunciazione attraverso le diverse materie dell’espressione multimedia-
le. Questa è anche la motivazione del fallimento commerciale della mag­
gior parte delle esperienze legate al cd-rom come prodotto d’arte, in cui
la presunta interazione finisce per essere una mera navigazione gestio­
nale all’interno del prodotto più o meno ben confezionato.14 Parafra­
sando un’affermazione di Berio, in qualunque modo si voglia intendere
l’utilizzo performativo della tecnologia, non possiamo dimenticarci del
«dettaglio uomo» e delle connessioni profonde che regolano la realizza­
zione della sua esperienza. La sfida, a mio parere, resta quindi quella di
sviluppare una sempre più attenta consapevolezza rispetto alle implica­
zioni profonde che il mezzo tecnologico e digitale comporta, non tanto
rispetto alla possibile complessità insita nelle nuove soluzioni tecnologi­
che quanto a come il linguaggio elettronico possa influire sui processi
creativi e percettivi, in funzione anche di una nuova e sempre più sti­

ru storico della musica elettronica» (A. Ludovico, Suoni futuri digitali, Apogeo, Mila­
no 2000) e autore del «concept» cd-rom HeadCandy, che lo stesso Ludovico definisce
come «uno dei pochi titoli che hanno nobilitato il genere» (ivi). Purtroppo, lo stesso
Eno considera testualmente il suo lavoro: «Orrendo. Tipica spazzatura cd-rom» (B.
Eno, Futuri impensabili, Giunti, Firenze 1997). E in merito al rapporto d’interazione
uomo-macchina, aggiunge in seguito: «C’è una lunga storia di tentativi del genere. In
linea di massima le connessioni tra te e il sistema sono così banali che non sono in­
teressanti da esplorare molto a lungo. Non c’è sfumatura nel rapporto che puoi ave­
re con l’oggetto. Sono tutte connessioni molto povere, come tutte le cose interattive»
(ivi). Pesante osservazione su cui meditare.
215 SUONO, MEDIA E TECNOLOGIE: PERCORSI IN DIVENIRE

molante esperienza estetica e simbolica. Le tecnologie oggi offrono vir­


tualmente la possibilità di scegliere autonomamente tra un’enorme pos­
sibilità di soluzioni, apparentemente senza limitazioni e senza alcun cri­
terio trascendente di legittimazione del sapere. Ma cerchiamo di non di­
menticare, come diceva Edgar Varèse, che «tutto quello che non è sin­
tesi di intelligenza e volontà è destinato a restare inorganico».
DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE
Tommaso Tozzi

1.1 Ipertesti, reti telematiche e opera d’arte

Secondo la letteratura corrente, un IPERTESTO consiste in una serie di


BLOCCHI TESTUALI e in una serie di collegamenti e rimandi (LINK) isti­
tuiti fra tali blocchi, fra porzioni di tali blocchi, o all’interno di un sin­
golo blocco.

L’ipertesto più conosciuto oggi è il World Wide Web realizzato tra il


1989 e il 1990 al CERN di Ginevra dal gruppo di Tim Berners-Lee. La re­
te telematica più nota è Internet, il cui termine viene inventato nel 1972
e i cui protocolli sono stati progettati nel 1974 da Vinton Cerf e Robert
Kahn.

Sempre secondo la letteratura corrente la prima idea di ipertesto ri-


sale però a un articolo di Vannevar Bush del 1945 dal titolo As We May
Think1 in cui, ipotizzando una tecnologia futuristica che egli chiama Me­
mex, fornisce una descrizione di molte delle caratteristiche degli attuali
ipertesti, usando alcuni dei termini che saranno in seguito spesso colle­
gati agli ipertesti. Nel 1965 Ted Nelson inventa il termine Hypertext (iper­
testo), mentre nel 1967 realizza HES (Hypertext Editing System), il pri­
mo sistema ipertestuale, e progetta, senza mai realizzarla, una «bibliote­
ca universale» in rete che denomina Xanadu. Nel 1962 Douglas Engel­
bart, con From Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework, inizia
la progettazione di NLS (On-Line System), il primo ipertesto collegato in
rete, poi realizzato nel 1968. La sua interfaccia avveniristica ispirerà mol-
te delle future realizzazioni collegate sia alla nascita della reti telemati­
che sia ai sistemi operativi a finestre degli attuali personal computer. La
prima rete telematica è Arpanet e nasce nel 1969 per collegare alcuni
centri di ricerca.

Sempre secondo la letteratura corrente, le prime importanti mostre


collegate all’arte digitale sono Computer-generated Pictures (1965, New
1
V. Bush, Come possiamo pensare (1945), in T.H. Nelson, Literary Machines 90.1,
Muzzio, Padova 1992.
217 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

York), Generative Computergrafik e Computergrafik (1965, Stoccarda), Cy­


bernetic Serendipity (1968, Londra) e Software Information Technology: Its
New Meaning for Art (1970, New York) mentre viene considerato nodale
il connubio tra arte e tecnologia promosso da R. Rauschenberg e il fisi­
co B. Kluver con la fondazione di EAT (Experiments in Art and Techno­
logy) il cui obiettivo era di

stabilire un network internazionale di servizi e attività sperimentali pro­


gettati per catalizzare le condizioni fisiche, economiche e sociali necessa­
rie per la necessaria cooperazione tra artisti, ingegneri e scienziati.2

Ma seguire questo tipo di ragionamento sarebbe fare un torto all’idea


stessa di ipertesto, di rete e di arte digitale. L’ipertesto e l’idea di rete so­
no infatti molto di più e la loro storia molto complessa.3 Analogamente
l’arte collegata al digitale non è solo una questione di 1 e 0, bensì una
variabile possibile di una molteplicità di pratiche disciplinari all’interno
di un processo storico. L’atto di ogni singolo individuo, scienziato o ar­
tista che sia, non è altro che un piccolo tassello di una infinita costella­
zione di relazioni, scoperte, idee, e realizzazioni pratiche talmente col­
legate l’una con l’altra da rendere inutile il tentativo di assegnare il me­
rito a una singola idea, tecnica o persona.

L’obiettivo di questo saggio sarà dunque quello di individuare alcune


tra le caratteristiche più importanti connesse all’idea di ipertesto e di re­
te per confrontarle con le caratteristiche di opere d’arte analoghe.
Descrivere una caratteristica corrisponde però a fornire un punto di
vista riguardo a essa. A tale scopo la descrizione che segue presenta sul­
le stesse questioni due punti di vista diversi che definiamo (A) e (B). Due
distinzioni astratte tra le innumerevoli possibili.

1.2 Determinato vs indeterminato

1.2.1 Totalità
Una delle caratteristiche alla base della multimedialità è quella di TO­
TALITÀ.

L’attributo della totalità vale per il testo multimediale dal momento che

2
AA.VV., New media culture in Europe, Uitgeverij de Balie and The Virtual Platform,
Amsterdam 1999, p. 20.
3
Cfr. L. Toschi, L’ipertesto d’autore, (con cd-rom), Marsilio, Venezia 1996.
TOMMASO TOZZI 218
esso si presenta come l’unione di elementi distinti, la cui interazione ge­
nera un prodotto diverso dalla semplice somma dei costituenti. Tutti gli
elementi di un testo multimediale, siano essi immagini, testi alfabetici,
suoni o animazioni, mutano, nell’interazione, la loro natura originaria.
Ogni elemento è sé stesso più il contesto di appartenenza e la rimozione
di un’immagine o di un suono provocherà una modifica sostanziale nel­
l’economia complessiva del testo.4

1.2.2 Opera aperta, polisemica e in divenire


All’idea di totalità si affianca però la caratteristica di OPERA APERTA.
Con questo termine si è voluto da parte di (A) indicare la POLISEMI­
CITÀ degli ipertesti e della rete, intendendo con ciò il fatto che il senso
di questo tipo di opera non è dato in modo esclusivo dall’autore, ma
emerge da una parte dalla struttura creata dall’autore e dall’altra dalla
lettura attraverso cui il lettore la interpreta secondo un campo indefini­
to di possibilità.

Secondo il punto di vista (A), l’OPERA APERTA (o «IN MOVIMENTO») è


un’opera IN DIVENIRE che si trasforma nella lettura, sebbene all’interno
di un campo di possibilità imposte dalla struttura creata dall’autore.5

Le opere che Eco nel 1962 porta come esempio sono tra le altre quel­
le musicali di Boulez, Berio, Stockhausen o Pousser, il teatro di Brecht,
ma anche l’Ulisse di Joyce e in particolar modo il Livre mai concluso da
Mallarmé.

1.2.3 Casualità, indeterminazione, arte totale, arte/vita, assenza


dell’autore
Secondo il punto di vista (B) il significato di «aperto» include l’idea di
polisemicità attribuita da (A), ma si oppone all’idea di ARTISTA UNICO e
all’esistenza di una struttura che delimiti il campo di possibilità dell’o­
pera. In questo caso si parla di CASUALITÀ e INDETERMINAZIONE dell’o­
pera. L’opera emerge non solo all’interno di un evento collettivo che
confronta in modo orizzontale gli atti creativi di una molteplicità di in­
dividui e cose (vedi 1.4.1), ma il divenire dell’opera fluttua secondo gli
sviluppi casuali e non prevedibili della vita.

4
A. Anichini, Come scrivere un testo multimediale, in L. Toschi (a cura di), Il linguag­
gio dei nuovi media, Apogeo, Milano 2001, pp. 99-103, e, della stessa autrice, Testo, scrit­
tura, editoria multimediale, Apogeo, Milano 2003.
5
U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962, pp. 58-60. Vedi l’antologia in que­
sto volume.
219 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

Un’idea di ARTE TOTALE che finisce per coincidere con la vita la si può
già intravedere nelle opere di Wagner e in seguito nel movimento dada
(in particolare nei Merzbau di Schwitters), nelle poesie automatiche sur­
realiste, nel teatro di Artaud, ma è con il movimento degli happening e
con Fluxus, entrambi nati alla fine degli anni Cinquanta, che il rappor­
to ARTE/VITA e l’idea di indeterminazione raggiungono il loro apice.6
Esemplificativi in tal senso sono, per esempio, i lavori del musicista John
Cage sin dallo spettacolo del 1952 al Black Mountain College, gli hap­
pening di Allan Kaprow, così come quelli di molti altri, ben raccontati
nel catalogo John Cage Happening & Fluxus.7
Il musicista fiorentino Giuseppe Chiari, le cui prime serie musicali
matematiche risalgono al 1950, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio
dei Sessanta sarà il principale rappresentante in Italia del movimento
Fluxus. Nel 1962 fonderà insieme a un altro musicista fiorentino, Pietro
Grossi, l’Associazione Vite Musicali che sarà un importante luogo di dif­
fusione culturale.
Il lavoro di Pietro Grossi si pone invece a cavallo tra i punti di vista (A)
e (B), nel suo tentativo di portare la casualità all’interno di una struttu­
ra programmata al computer. Primo violoncello del Comunale a Firenze
negli anni Trenta, sarà in seguito uno dei primi a fare computer music, sin
dagli anni Sessanta, e fonderà la prima cattedra italiana di musica elet­
tronica al Conservatorio. Nel 1970 sperimenterà la trasmissione di mu­
sica all’interno delle reti telematiche tra il Centro Pio Manzù di Rimini
e il CNUCE di Pisa.

Già negli anni Cinquanta si può notare la divergenza tra il punto di vi­
sta di (A) da quello di (B), per esempio attraverso le discussioni in cam­
po musicale.8

Secondo (A) la casualità insita nel punto di vista di (B) trae le sue ori­
gini nelle filosofie orientali dando luogo a un NON-SENSO anziché a una
molteplicità di sensi possibili. Secondo (A) il pensiero occidentale ha bi­
sogno di una struttura, tende per sua naturale attitudine a distinguere e
ORDINARE.

Secondo (B) indeterminazione non significa non-senso, ma un senso


«trovato» in modo non preordinato all’interno degli atti quotidiani.

6
H. Szeemann, Happening & Fluxus, Koelnischer Kunstverein, Colonia 1970.
7
E. Pedrini, John Cage Happening & Fluxus, Galleria Vivita, Firenze 1988.
8
H.-K. Metzger, John Cage o della liberazione, e P. Boulez, Alea, in «Incontri Musica­
li», n. 3, agosto 1959.
TOMMASO TOZZI 220
Che cos’è un happening? L’assumere come atto significante un atto che
facciamo tante volte durante la vita quotidiana, in modo abituale, distrat­
to, quasi senza accorgercene.9

Bisogna dire che sebbene di tipo indeterministico, anche in queste


opere esiste una struttura progettata dall’artista. Fin quando esiste un at­
to volontario a questo corrisponde la scelta e creazione di una struttura.
Laddove la scelta sarà collettiva (vedi 1.5) entra in crisi l’idea di autore
unico, ma non l’esistenza di una struttura.
La differenza rispetto ad (A) è che la struttura (non solo il contenuto)
è fluttuante e imprevedibile come la vita, sebbene se ne possa ricono­
scere la presenza.
La struttura esiste fin quando ne siamo consapevoli, la riconosciamo
e fin quando ci si pone il problema della sua esistenza. La consapevo­
lezza implica il linguaggio, e il linguaggio implica una struttura.

Oltre ai già citati, un altro esempio sono i lavori di Nam June Paik, in
cui l’opera si autorealizza in modo indeterminato attraverso il caso. Nei
suoi lavori del 1963, attraverso 13 Distorted Tv Sets, all’artista viene in
parte sottratta la delega di autore e produttore dell’opera.10
Un altro esempio è il metodo dei cut-up di William S. Burroughs ini­
ziato da Brion Gysin nel 1959.11

Recentemente si sta affermando la pratica dei cosiddetti Flash Mob, ve­


ri e propri happening di massa coordinati tramite Internet e privi di un
senso definito a priori.12 Queste manifestazioni stanno prendendo piede
in un’area collegata alle proteste del movimento di Seattle del 1999 e a
metodi di protesta quali i Critical Mass e i Netstrike (collegamenti si­
multanei collettivi a uno stesso sito).

L’uso delle tecnologie informatiche causa delle trasformazioni che


mettono in discussione l’autorialità dell’opera, in un’ottica che va oltre
le distinzioni appena descritte13 e che produce questo tipo di conse­
guenze:

9
G. Chiari, in «Identités», n. 13/14, febbraio 1966.
10
G. Celant, Off Media, Dedalo Libri, Bari 1977, pp. 19-23.
11
AA.VV., William S. Burroughs. Throbbing Gristle. Brion Gysin, in «Re/Search», n.
4/5, San Francisco 1982.
12
A. Di Corinto, Piccole folle in movimento, in «il manifesto», 16 luglio 2003.
13
G. Bettetini, S. Garassini, B. Gasparini, N. Vittadini, I nuovi strumenti del comuni­
care, Bompiani, Milano 2001, p. 49.
221 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

1) Inizia a emergere con maggiore risalto l’ipotesi che vada considerata


arte non tanto l’azione creativa realizzata dal singolo utilizzatore delle
nuove tecnologie (per esempio l’utente che usa un software grafico
per realizzare un disegno digitale) quanto la creazione degli strumenti
(per esempio il software grafico) che rendono possibile tale azione
creativa. In questo senso va considerata arte non il risultato di un’a­
zione creativa quanto le premesse che ne permettono l’esistenza.
2) In particolar modo va considerata arte la partecipazione alla creazione
di una situazione (per esempio la realizzazione di una rete) che renda
possibile la CREAZIONE COLLETTIVA degli strumenti creativi (vedi 1.4.1).
Una creazione collettiva che faccia sì che tali strumenti siano pensati
per rispondere a ogni bisogno creativo di ogni singolo appartenente a
tale comunità, anziché essere pensati e realizzati secondo i criteri di
maggiore o minore vendibilità del prodotto. In questo senso va con­
siderata arte non il singolo oggetto, quanto il sistema (da altri defini­
to network) che rende possibile la creazione del singolo oggetto (ve­
di 1.5.2). Artista non è colui che produce il singolo oggetto, bensì ar­
tista è chiunque partecipi al SISTEMA (o network) all’interno del qua-
le viene prodotto il singolo oggetto.

Sulla base di tali premesse è stato difficile distinguere a questo punto


tra arte e vita, dato che è proprio in ogni singolo atto della vita che si
partecipa a un sistema creativo. Chi realizzando oggetti, chi insegnando
competenze, chi coordinando, chi scoprendo nuove logiche o tecniche
possibili, chi aiutando le persone a relazionarsi, chi fornendo stimoli,
chi attraverso le proprie opposizioni o addirittura assenze, chi parteci­
pando involontariamente ecc.
Sulla base di queste premesse e del percorso delle principali avan­
guardie artistiche del Novecento, soprattutto nell’ultima parte del seco­
lo scorso, si sono creati dei movimenti artistici che non avevano interes­
se e non volevano esplicitamente partecipare al sistema dell’arte, e nem­
meno le singole persone volevano essere definite artisti, seppure ciò che fa­
cevano era LA REALIZZAZIONE DI UNA NUOVA IDEA DI ARTE.
È questo il caso degli hacker, dei provo, dei pranks, degli hyppies, de­
gli hobbyst del «fai da te» tecnologico, del punk, dei graffiti, del cyber­
punk, delle BBS, del movimento dei centri sociali, delle jamming culture,
dell’hacktivism, dei no global, e moltissimi altri talvolta più connessi al
sistema dell’arte ufficiale, oppure all’attivismo politico, o a nessuno di
questi settori.
TOMMASO TOZZI 222
1.3 Unico vs molteplice

1.3.1 Rete distribuita, molteplicità, non-linearità, link, unità di senso


(o blocchi), nodi
Sia per (A) che per (B) il senso dell’opera non è unico e non è ordi­
nato secondo un unico schema lineare.

Il senso è DISTRIBUITO in una MOLTEPLICITÀ di UNITÀ DI SENSO (o


BLOCCHI), così come era stato previsto nei progetti di Bush.14
Il collegamento di tali unità di senso attraverso dei LINK permette al
lettore la scelta di una molteplicità di percorsi possibili che danno luogo
a una NON-LINEARITÀ della lettura, così come affermato da Nelson nel
1965.15
Il libro ha già una struttura ipertestuale, fatta di rimandi a note, altri
libri ecc., che, come osserva Foucault, sono NODI di un unico reticolo.16
L’ipertesto non solo rende più potente questa possibilità, ma ipotizza
l’esistenza di un testo che non ha un ordine e una struttura prefissati,
per esempio un inizio e una fine, ma una molteplicità di inizi, così come
di strutture possibili; una molteplicità di percorsi di lettura possibili de­
terminati dalle scelte dell’utente.
Lo strutturalismo francese negli anni Sessanta ha lavorato molto sul
problema dei testi aperti e non lineari.
Promuovere una non-linearità della lettura è parte di un clima cultu­
rale che negli anni Sessanta, come in altri tempi, muove una critica al
pensiero unico dominante sia sul piano scientifico sia su quello sociale e
politico.17

1.3.2 Rete distribuita, intertestualità, modularità, variabilità,


ricombinazione, rizoma
Il fatto che le unità di senso siano collegate tra loro in una RETE DI­
STRIBUITA dà luogo a una caratteristica di INTERTESTUALITÀ che è comu­
ne non solo ai nuovi media e che è causata dall’interdipendenza tra le
unità di senso (un caso è quello già citato di una nota in un libro che ri-
manda a un altro libro). Tali unità di senso o gli elementi che le costi­

14
G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), Baskerville, Bologna 1993, p.
22.
15
T.H. Nelson, Literary Machines 90.1, cit.
16
M. Foucault, L’Archeologia del sapere (1969), Rizzoli, Milano 1980, p. 5.
17
E. Pedemonte, Personal media. Storia e futuro di un’utopia, Bollati Boringhieri, To­
rino 1998, p. 43.
223 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

tuiscono (testi, immagini, video, suoni ecc.) sono spesso però tra loro in­
dipendenti. Tale caratteristica di MODULARITÀ dà luogo a una possibile VA­
RIABILITÀ, o RICOMBINAZIONE, per cui gli stessi elementi possono servire
a formare più unità di senso differenti, così come le stesse unità di sen­
so possono essere utilizzate più volte per contribuire a formare ogni vol-
ta discorsi diversi, talvolta anche tra loro contraddittori.
Nel caso in cui la rete che collega le unità di senso sia di tipo RIZOMA­
TICO, ovvero quando ogni unità di senso è potenzialmente collegata a
tutte le altre, la possibilità ricombinatoria diviene enorme.
Già nel 1976 Deleuze e Guattari scrivono Rizoma in cui viene descrit­
to un modello di organizzazione del sapere ipertestuale, decentrato e
non gerarchico.18 Secondo Castells la capacità di ricombinare informa­
zioni in ogni maniera possibile è ciò che caratterizza un ipertesto ed è
fonte di innovazione, soprattutto quando, come dovrebbe avvenire in
Internet, ciò accade sulla base di scopi specifici decisi in tempo reale da
ciascun utente/produttore dell’ipertesto19 (vedi 1.4.1).

1.4 Globalizzazione vs moltitudine

1.4.1 Autogestione, autonomia, glocal


Secondo (B) l’opera si concede a un uso PERSONALE da parte del let-
tore.

Un esempio è dato nel 1964 da Nam June Paik, il quale mostra che si
può fare videoarte da soli comprandosi una telecamera e un videoregi­
stratore portatili (il «portapak»).

Negli anni Sessanta lo spirito dei movimenti del «do it yourself» (DIY)
e l’etica hacker del «farci mettere all’utente le mani sopra» hanno il lo­
ro naturale sbocco negli anni Settanta nella nascita del PERSONAL COM­
PUTER e nel tentativo da parte dei movimenti di base e dei collettivi arti­
stici di usare le nuove tecnologie per fare una rivoluzione culturale.

Il termine personale va quindi per (B) reinterpretato secondo il signifi­


cato del termine AUTOGESTIONE, usato all’interno dei movimenti non
tanto per indicare un’attitudine individualista o personalista, quanto per

18
G. Deleuze, F. Guattari, Rizoma, Pratiche editrice, Parma-Lucca 1977. Vedi an­
tologia in questo volume.
19
M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e
lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2001, p. 122.
TOMMASO TOZZI 224
mantenere una propria identità e AUTONOMIA all’interno del collettivo.
Una caratteristica questa che in relazione alle reti è stata da alcuni defi­
nita GLOCAL, un termine che deriva dall’unione di globale con locale.

Non a caso è proprio dai movimenti che verranno le maggiori criti­


che ai monopoli informatici.
Sarà criticato il TOTALITARISMO per sostenere l’UNIVERSALITÀ.
Sarà criticata la GLOBALIZZAZIONE per sostenere la MOLTITUDINE.

1.5 Interattività vs intercreatività

1.5.1 Interattività, partecipazione, intercreatività, coevoluzione


mutuale
L’OPERA INTERATTIVA si differenzia da modalità artistiche quali la vi­
deoarte, la computer grafica e l’animazione digitale che spesso si limita-
no a produrre rappresentazioni di fronte alle quali lo spettatore si deve
porre in un atteggiamento di pura contemplazione passiva.20
Su ciò concordano sia (A) che (B) per i quali la PARTECIPAZIONE del
lettore determina l’emergere di un senso differente dell’opera.
Ciò su cui però divergono i due punti di vista è il significato che viene
dato a questa interattività del lettore con l’opera. Anche quando si par­
la di interattività il termine può essere usato per nascondere una pratica
che lascia comunque l’utente passivo e semplice strumento degli interes­
si di altri.

Di fatto in campo artistico fin dagli anni Sessanta (ma spesso ancora
oggi) si assiste nelle mostre a un’idea di opera interattiva che si risolve in
un’azione meccanica dello spettatore, obbligata dalla struttura creata
dall’artista.
Un esempio di questa contrapposizione è l’idea di interattività che
emerge nell’esposizione Software Information Technology: Its New Meaning
for Art che viene organizzata nel 1970 da Jack Burnham presso il Mu­
seum of Modern Art a New York. A fianco delle indagini concettuali
di artisti come Les Levine, Hans Haacke, e Joseph Kosuth e delle tec­
nologie progettate da Ted Nelson e Nicholas Negroponte
(http://vv.arts.ucla.edu/publications/thesis/official/ch2.htm) vi era­
no installazioni come:
20
F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media, Laterza, Bari
2000, p. 360.
225 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

Proxima Centauri di Lillian Schwartz che consisteva in «una sfera su cui


vengono proiettate in continuità immagini generate dal computer che, at­
tivata da un controllo di tipo elettronico, si muove verso l’alto uscendo dal
cilindro che la ospita quando le si avvicina uno spettatore (G. Bettetini,
2001, p. 46).

Da una partecipazione puramente passiva e meccanica, quale è quel-


la descritta sopra, si differenzia l’idea di (A) per cui l’INTERATTIVITÀ
equivale a una scelta da parte del lettore di un differente percorso di let­
tura tra la molteplicità resa possibile dall’autore. Però, anche in questo
caso, se pure vi fosse un atto creativo da parte del lettore questo non an­
drebbe oltre l’essere un completamento di un percorso iniziato dall’au­
tore (vedi 1.1.2).

Questo tipo di interattività ridotta lo si ritrova spesso, ma non sempre,


in opere di realtà virtuale o artificiale, in cui l’interattività rimane di so­
lito costretta all’interno di una struttura prefissata in modo ben preciso
dall’autore.
Un esempio in tal senso sono i lavori di Myron Krueger, da lui svilup­
pati dall’inizio degli anni Settanta e definiti nel 1975 Artificial Reality, in
cui l’immagine dello spettatore ripresa da una telecamera viene tra­
sportata all’interno del monitor di un computer e fatta interagire, come
se fosse il cursore del mouse, in uno spazio di oggetti simulati creato dal­
l’autore.

Diversamente, per (B) l’interattività equivale anche a un atto creativo


di SCRITTURA da parte dello spettatore/autore, quella che è stata defini­
ta da Tim Berners-Lee INTERCREATIVITÀ.
Secondo l’inventore del World Wide Web,

sul Web dovremmo essere in grado non solo di trovare ogni tipo di docu­
mento, ma anche di crearne, e facilmente. Non solo di seguire i link, ma
di crearli, tra ogni genere di media. Non solo di interagire con gli altri, ma
di creare con gli altri. L’intercreatività vuol dire fare insieme cose o risol­
vere insieme problemi.21

Personalmente ho ridefinito questo tipo di intercreatività come COE­


VOLUZIONE MUTUALE per sottolineare l’aspetto etico della necessità di ri­
cavare un beneficio reciproco nello scambio interattivo in rete.22

21
T. Berners-Lee, L’architettura del nuovo web (1999), Feltrinelli, Milano 2001, p. 148.
22
T. Tozzi, Cotropia: lifeware e coevoluzione mutuale. Tracce per la riformulazione del
TOMMASO TOZZI 226
Già nel 1932 Bertolt Brecht aveva ipotizzato una radio autogestita dal
proletariato, in cui l’ascoltatore fosse anche fornitore di informazioni in
relazione con altri. Una radio dunque che permettesse non solo di rice­
vere, ma anche di trasmettere. È la risposta al nazismo che attraverso la
propaganda radiofonica impone un’ideologia totalitarista al mondo (G.
Celant, 1977, p. 7).

Pochi anni dopo, nel 1945, Bush ipotizza che nel Memex il lettore
possa associare al testo i propri pensieri e commenti e nel 1970 Barthes
chiarisce la differenza tra «testi scrivibili» e «testi leggibili».

Gli ipertesti e le reti nascono quindi nel segno dell’intercreatività,


ma i limiti delle tecnologie e soprattutto gli interessi del mercato pilote­
ranno il loro sviluppo all’interno di un clima di controllo e di interpas­
sività. L’interattività su cui si concentreranno gli investimenti e i finan­
ziamenti statali sarà spesso solo quella necessaria e sufficiente a leggere
una pubblicità, a comprare un prodotto, o a tracciare il profilo privato
di un cittadino. Altrimenti l’interattività proposta sarà quella che fun­
gerà da strumento di trasmissione di una struttura di valori sociali pre­
fissati, per garantire l’interstabilità del sistema all’interno delle muta­
zioni dell’economia globale.

1.6 Autore unico vs autore collettivo

1.6.1 Decentramento, autore collettivo, no copyright, cooperazione,


open source
Come si è già accennato, per (B) l’interattività implica anche il DE­
CENTRAMENTO, ovvero la perdità di una centralità cui fare riferimento,
in questo caso quella determinata dall’autore.

Si è anche detto che sia per (A) sia per (B) vi è un DECENTRAMENTO
DEL SENSO inteso come moltiplicazione dei sensi possibili grazie alle op­
portunità date dal rizoma. Ma solo secondo (B) ipertesti e reti non solo
hanno una molteplicità di unità di senso, ma anche una molteplicità di
strutture potenziali che emergono e mutano in modo fluttuante a se­
conda della partecipazione interattiva degli autori/lettori.

concetto di arte interattiva, in «La Stanza Rossa», n. 25, luglio-settembre, Bologna


1997.
227 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

Per (B) autore e lettore non solo sono sullo stesso livello, ma si scam­
biano vicendevolmente i ruoli al punto che l’autore diventa COLLETTIVO.

L’ipertesto apre i confini di ogni unità testuale (blocco di testo) in­


terconnessa rendendo evidente la dipendenza di tali unità testuali l’una
dall’altra. Poiché tali unità testuali possono essere connesse attraverso
link sia interni che esterni al testo scritto da un singolo autore diventa
evidente la dipendenza del singolo testo di ogni autore dai testi a esso
connessi scritti da altri autori. In tal modo vengono messi in discussione
il concetto di proprietà intellettuale e i confini del diritto d’autore.23 Un
problema questo fortemente sentito negli anni Sessanta, per esempio
dall’Internazionale situazionista che rifiutava il copyright sui propri te­
sti.24
Nello stesso periodo la richiesta del decentramento è fortemente sen­
tita sia all’interno dei collettivi che chiedono una televisione decentra­
lizzata fatta dalla gente per la gente25 sia tra gli hacker del MIT che, seb­
bene per finalità più scientifiche che sociali, promuovono fortemente
un uso libero e una creazione collettiva delle nuove tecnologie. Linux
(il sistema operativo «open source» alternativo a Windows) sarà il mi­
gliore esempio di una programmazione decentrata e collettiva.26
Quella del decentramento è una richiesta che investe tutto il mondo
dei media e lo scontro politico che gli intellettuali svolgono intorno a es-
si. Un esempio sarà il testo Constituents of a Theory of the Media scritto da
H.M. Enzensberger nel 1970 in cui a un uso repressivo dei media fa cor­
rispondere il loro uso emancipativo: media decentrati anziché centra­
lizzati. La comunicazione molti a molti anziché uno a molti. L’intera­
zione e partecipazione del pubblico che non è più passivo. Il controllo
attraverso forme autorganizzate di base anziché verticali. La produzione
collettiva e non elitaria.27

Alla base dei modi di vedere di (A) e (B) vi è la necessità di un princi­


pio di COOPERAZIONE.
Secondo (A) la cooperazione viene comunque pilotata dal progetto

23
J.P. Barlow, Crime and Puzzlement, in «Whole Earth Review», n. 68, autunno 1990.
24
R. Scelsi (a cura di), No copyright. Nuovi diritti nel 2000, Shake Edizioni Under­
ground, Milano 1994, p. 223.
25
S. Fadda, Definizione zero, Costa & Nolan, Genova 1999, pp. 118-119.
26
T. Tozzi, A. Di Corinto, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, ManifestoLibri,
Roma 2002, pp. 173-261 e 263.
27
H.M. Enzensberger, Constituents of a Theory of the Media, Modern Occasions
Anthology, 1970, pp. 13-38.
28
J. Beuys, M. Ende (1989), in Arte e politica, Guanda, Parma 1994, p. 24.
TOMMASO TOZZI 228
di un autore, mentre secondo (B) la cooperazione riflette un processo
continuo di negoziazione tra gli individui il cui punto di arrivo rifletterà
un accordo e un punto di incontro comune a più parti.

Il modello dell’intellettuale collettivo, inteso da Gramsci negli anni Tren­


ta come il corpo del partito dei lavoratori che produce cultura, è sosti­
tuito oggi dalla comunità in rete, uno spazio di condivisione collettiva
del sapere, definita da Pierre Lévy cosmopedia, in cui sono continuamen­
te rinegoziate le proprie relazioni e i propri contesti di significati condi­
visi.

L’idea di condivisione è presente già nei primi ipertesti. Un esempio


ne è il sistema Augment progettato all’inizio degli anni Sessanta da En­
gelbart per aumentare le capacità intellettuali umane attraverso l’uso di
macchine collegate in rete che permettevano una gestione collettiva del-
l’informazione.

Un altro esempio di cooperazione è dato dall’attività del Network


Working Group (NWG) che nasce nel 1968 con lo scopo di sviluppare i
protocolli di comunicazione e altre parti significative di quella che di­
venterà la rete Internet. Il Network Working Group era un gruppo di
hacker che operava sulla base del modello OPEN SOURCE: a chiunque era
permesso di contribuire con idee, che venivano poi sviluppate collettiva­
mente. Un esempio sono i Request For Comment inaugurati da Steve
Crocker nel 1969. A tutt’oggi è conosciuto come Internet Engineering
Task Force e opera con l’Internet Society fondata da Vinton Cerf.

Le reti telematiche nascono dunque con il preciso scopo di fornire


strumenti di collaborazione e coordinamento all’interno di una struttura
di rapporti decentrata e il World Wide Web, come afferma Tim Berners-
Lee, è una creazione sociale più che tecnica (P. Himanen, 2001).

1.6.2 Arte sociale, arte telematica, networking, hacktivism


L’idea di arte intesa come il fare network non è per forza collegata alla
tecnologia o alle reti telematiche e ha dei precedenti illustri, quali, per
esempio, l’arte postale o molte pratiche underground quali il graffitismo
o il circuito delle fanzine. Oltre che con gli happening è un qualcosa
che può avere dei punti in comune con l’ARTE SOCIALE di Joseph Beuys,
così come la spiega nel 1985:

L’evoluzione va dall’arte moderna [...] all’arte antropologica e in quel


contesto si realizza l’arte sociale: l’opera d’arte sociale e la società come
229 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

opera d’arte, come utopia, la società come l’opera d’arte per eccellenza,
superiore alle singole opere d’arte. Si potrebbe anche chiamarla l’opera
d’arte totale. Che è fattibile solo con la partecipazione di tutti.28

L’uscita delle nuove tecnologie dai centri di ricerca ha dunque sem­


plicemente permesso un loro utilizzo da parte di quell’area artistica che
era già concettualmente preposta a un’idea di arte collaborativa e di
NETWORKING.

È il caso di Fred Forest che dall’arte sociologica degli anni Settanta è


passato dall’inizio degli anni Ottanta agli esperimenti di arte e telemati­
ca, così come di tutta un’area artistica che si è occupata già negli anni
Ottanta di arte come networking diffuso attraverso le reti telematiche tra
cui Roy Ascott, Robert Adrian, Eduardo Kac e molti altri.

Un esempio, seppur limitato, di opera collettiva è l’installazione del


1980 Hole in Space di Kit Galloway e Sherrie Rabinowitz in cui le persone
di Los Angeles e New York possono interagire liberamente attraverso
due monitor e due telecamere collegate in diretta tra loro e posizionate
in due spazi pubblici.

Uno tra i primi esperimenti che coinvolgono degli artisti nella speri­
mentazione dell’ARTE TELEMATICA è Interplay. Computer Communications
Conference, organizzata a Toronto da Bill Bartlett con la partecipazione di
artisti da Canada, Australia, Stati Uniti, Giappone e Austria tra cui l’arti­
sta Robert Adrian.

A febbraio del 1980 viene organizzata Artist’s Use of Telecommunica­


tions Conference. Tra i partecipanti vi sono tra gli altri l’artista Robert
Adrian, Bill Bartlett e Douglas Davis. Viene organizzata da La Mamelle
Inc. e il Museum of Modern Art di San Franscisco. L’evento sarà un mo­
mento di importante promozione di questa nuova possibilità dell’arte.

Sempre nel 1980 Roy Ascott, che già si occupa dagli anni Sessanta
del rapporto tra arte e tecnologia, organizza in collaborazione con
Infomedia di Jacques Valle un evento di tre settimane che prevede la
sperimentazione da parte di artisti delle possibilità fornite dalla tele­
matica, considerando «le teleconferenze computerizzate come una for­
ma di arte».

29
R. Ascott, Il momento telematico, in M. Costa (a cura di), L’estetica della comunica­
TOMMASO TOZZI 230
Roy Ascott, come affermerà in seguito, è contro l’idea di artista unico
e lavora a un’idea di networking in cui l’autore è chiunque sia connesso
alla rete.29

Nel 1983 un gruppo di artisti sotto la guida di Derrick de Kerckhove e


Mario Costa formano il gruppo dell’Estetica della Comunicazione. Tra
questi vi sono Fred Forest, Christina Sevette, Stéphan Barron, Natan
Karczmar e Robert Adrian. L’obiettivo dichiarato dal gruppo è di indaga­
re intorno agli aspetti estetici e psicosociologici delle nuove tecnologie
della comunicazione. (http://vv.arts.ucla.edu/publications/thesis/offi­
cial/NET_thesisF.doc)

Planetary Network, a cura di Roy Ascott, Tom Sherman, Don Foresta,


Tommaso Trini e Maria Grazia Mattei, era una parte del Laboratorio
Ubiqua alla Biennale di Venezia del 1986. Al suo interno veniva realiz­
zato uno scambio di materiali in rete attraverso il network ARTEX di Ro­
bert Adrian oltre ad altre forme di scambio in tecnologia digitale.

Nel 1989 il sottoscritto conia il termine Hacker art, e lo teorizza nel li­
bretto Happening/Interattivi sottosoglia:

Happening e interattivi poiché quello era il problema principale del-


l’happening, la partecipazione del pubblico all’evolversi dell’azione. Non
un oggetto d’arte, ma un’interazione tra cose e individui. Interattivi come
sembra iniziare a essere la prevalenza dei sistemi di informazione attuali
[...] Sottosoglia perché devono agire come virus, virus in un dischetto del
computer. Bisogna fare arte come la fanno gli hacker.

In questa prospettiva nel 1990 nasce Hacker Art BBS, una banca dati
telematica artistica autogestita. Hacker Art BBS, che precede di un anno
l’analoga, ma più nota The Thing di New York è:

una “mostra aperta senza galleria” alla quale tutti possono partecipare [...]
attraverso un personal computer unito a un modem, lasciando il proprio
intervento che può essere di qualsiasi tipo. [...] L’hacker art di Tozzi [...] si
propone di [...] costituire un circuito di informazioni libere capace di es­
sere manipolato da chiunque lo voglia.30

zione, Castelvecchi, Roma 1999.


30
F. Storai, Arte emergente. Giochi di «bit» via cavo, La Nazione, Firenze 23 dicembre
1990, p. IX.
231 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

La BBS è collegata ad alcune reti telematiche internazionali, e propo­


ne essa stessa e l’intera sua comunità di utenti come un’opera d’arte,
puntando molto sulla totale libertà degli utenti non solo di creare e in­
serire, ma anche rimanipolare i suoi contenuti (vedi 1.4.1).

Hacker Art BBS è la conseguenza naturale di una rivista per segreteria te­
lefonica che ho realizzato per un anno e mezzo a partire dal marzo 1987
[...] Il compito dell’artista più che di creare merce è di fornire gli stru­
menti della comunicazione, mettere in connessione, fare network. Artista
è colui che realizza interfacce fluttuanti cioè rende partecipe ogni uten­
te/individuo alla stipulazione degli accordi su cui si fonda la comunica­
zione sociale [...] Per rendere possibile un accordo è necessario che il si­
stema di traduzione sia un’interfaccia fluttuante in grado di adattarsi alle
differenti versioni tramite convenzioni che devono essere stipulate in ac­
cordo tra le parti [...] È proprio nel riuscire a creare collettivamente un
linguaggio che risiede la forza degli scrittori di graffiti, della mail art, di
Fluxus, del punk e di chiunque nel passato abbia fatto “network”.31

Sarà presentata in una mostra ufficiale per la prima volta a giugno del
1991 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna all’interno della mostra
Anni Novanta a cura di Renato Barilli, insieme a Ribellati! un virus infor­
matico non distruttivo, da me ideato come opera d’arte nel 1989.

Alla creazione collettiva dei contenuti in rete si affianca sia la globa­


lizzazione della protesta in rete, e quindi le pratiche di HACKTIVISM, così
come un nuovo modello del fare informazione non gerarchico e aperto
alla partecipazione di tutti.
Un esempio in Italia ne sono i siti www.ecn.org, www.indymedia.it,
www.decoder.it, www.neural.it.
All’uso del computer nel 1969 per sostenere le lotte pacifiste contro
la guerra nel Vietnam,32 segue una rivendicazione sociale e politica del-
l’uso del computer negli anni Settanta e una vera e propria esplosione
di pratiche sociali e antagoniste in rete negli anni Ottanta, che otten­
gono un riconoscimento nei movimenti internazionali degli anni No-
vanta.

Il primo netstrike mondiale, un corteo virtuale di massa realizzato col­


legandosi collettivamente e ripetutamente allo stesso sito e alla stessa

31
T. Tozzi, Fornire gli strumenti della comunicazione, mettere in comunicazione, fare
network..., intervista di R. Pinto, «Flash Art», n. 181, febbraio 1994.
32
S. Brand, Spacewar. Fanatic Life and Symbolic Death Among the Computer Bums, in
«Rolling Stone Magazine», dicembre 1972.
TOMMASO TOZZI 232
ora, è ideato dal sottoscritto nell’estate del 1995 e in seguito viene orga­
nizzato insieme a Strano Network, a dicembre dello stesso anno, per
protestare contro gli esperimenti nucleari a Mururoa.33
Il netstrike, o virtual sit-in, ha avuto poi una larga diffusione sia in Ita­
lia (www.netstrike.it) che da parte di gruppi internazionali collegati al
mondo dell’arte (dal 1998 il gruppo dell’Electronic Disturbance Thea­
tre inizia a utilizzarlo e lo presenta al festival di Ars Electronica a Linz) e
dei movimenti di protesta globale.
Tale pratica può essere considerata un’opera d’arte collettiva da una
parte in continuità con gli happening degli anni Sessanta, in particolar
modo quelli di artisti come Henry Flynt che nel 1963 sfila protestando
di fronte al Museum of Modern Art di New York invitando i passanti a fa­
re lo stesso, dall’altra con i sit-in dello stesso periodo che riconoscendo­
si nel Free Speech Movement intasano le strade della città per reclama­
re il riconoscimento del diritto costituzionale alla libera espressione di
ogni individuo.

1.7 Riservato vs accessibile

1.7.1 Condivisione, archivi e accessibilità


Sia per (A) che per (B) l’opera esiste solo grazie alla CONDIVISIONE di
contenuti tra più persone. Le possibilità ricombinatorie si attuano solo
se esistono ARCHIVI contenenti unità di senso da ricombinare e solo se
tali archivi sono costruiti secondo modalità che ne permettono un’AC­
CESSIBILITÀ condivisa a più persone.
Già nel 1968 Licklider e Taylor, che lavorano al progetto Arpanet, nel
loro saggio The computer as a Communication Device scrivono:

Essere collegati sarà un privilegio o un diritto? Se la possibilità di sfruttare


il vantaggio dell’amplificazione dell’intelligenza sarà riservata a un’élite
privilegiata della popolazione, la rete non farà che esasperare le differen­
ze tra le opportunità intellettuali.34

Sul problema della condivisione vengono quindi concentrati molti


degli sforzi della ricerca tecnologica.

33
T. Tozzi, Net strike starter kit, in Strano Network, Net strike, no copyright, ecc., AAA
Edizioni, Bertiolo 1996, pp. 10-42.
34
J.C.R. Licklider, R. Taylor, The Computer as a Communication Device, «Science and
Technology», aprile 1968.
233 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

Nel 1947 sarà uno degli obiettivi della nascente Association for Com­
puter Machinery (ACM), mentre negli anni Sessanta la tecnologia del ti­
me-sharing, creata grazie anche al contributo degli hacker del MIT,35 favo­
rirà la nascita della posta elettronica e delle prime comunità virtuali.36

I movimenti degli anni Sessanta esaltano gli aspetti comunitari e di


condivisione. Il clima politico si riflette sia nella cultura dei laboratori di
ricerca scientifica che nelle attività dei collettivi di base.
Da uno di essi nasce uno dei primi esperimenti di comunità virtuali, il
Community Memory Project, che, avviato a San Francisco nel 1971 da
Felsenstein e altri, è il primo progetto di telematica sociale del mondo,
un database per raccogliere i saperi della comunità a cui tutti potevano
accedere liberamente anche per scambiarsi messaggi.
Nel 1981 nasce ad Amburgo il Chaos Computer Club con l’intento di
socializzare gli strumenti e i saperi per poter far creare autonomamente
l’informazione a chiunque,37 obiettivi portati avanti in Italia per esem­
pio dal gruppo Decoder e da reti come la Cybernet (1991) e l’European
Counter Network (1989).

1.7.2 Biblioteca universale, lingua universale e open-content


Intorno all’idea di condivisione sono stati realizzati da tempi remoti
progetti di tipo UNIVERSALE.
L’idea di una BIBLIOTECA UNIVERSALE e di una LINGUA UNIVERSALE so­
no parte di molti dei processi sociali storici, così come della nascita degli
ipertesti e della rete.

Tra questi si può citare il lavoro di Wilkins, Leibniz, Bacone, l’Enci­


clopedia di Diderot e d’Alembert, in cui l’intertestualità tra le voci crea
una rete di rimandi che sono alla base della forma ipertestuale, e Xana­
du, il già citato progetto di Nelson.
Nel 1971 Hart crea il Gutenberg Project che offre libri in rete gratui­
tamente e senza copyright.38

35
S. Levy, Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica (1984), Shake Edizioni Un­
derground, Milano 1996.
36
H. Rheingold, Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio (1993),
Sperling & Kupfer, Milano 1994.
37
R. Scelsi (a cura di), Cyberpunk antologia, Shake Edizioni Underground, Milano
1990, p. 27.
38
G. Blasi, Internet. Storia e futuro di un nuovo medium, Guerini Studio, Milano 1999,
p. 117.
TOMMASO TOZZI 234
Equivalente alla filosofia dell’open source per il software, il modello
dell’open content prosegue questo genere di utopia. Ne ritroviamo ora­
mai esempi un po’ ovunque in Internet, laddove esiste uno spirito di vo­
lontariato libero dagli interessi del mercato e l’Archivio Hacker Art
(www.ecn.org/hackerart/) è solo uno tra i tanti, quali per esempio an­
che Wikipedia – The Free Encyclopedia (www.wikipedia.org).

1.7.3 Interoperabilità e standard


Questo tipo di progetti si sono da sempre scontrati con il problema
dell’INTEROPERABILITÀ, dell’esistenza cioè di STANDARD che permettano
un linguaggio comune a una moltitudine di individui e culture e quindi
di tecnologie differenti.

Un problema che attualmente viene affrontato, per esempio, dal


World Wide Web Consortium (W3C), un’organizzazione no-profit fon­
data da Tim Berners-Lee per l’elaborazione di protocolli comuni rivolti
al miglioramento del Web.

1.7.4 Riproducibilità, velocità, diffusione, memoria collettiva


A tali problematiche si sono da sempre anche affiancati il problema
della RIPRODUCIBILITÀ (SENZA PERDITE) e della VELOCITÀ per garantire il
massimo della DIFFUSIONE dell’informazione nel minimo tempo.
L’esistenza degli archivi universali prima citati si è quindi dovuta af­
fiancare a delle tecniche standardizzate in grado di poter funzionare da
MEMORIA COLLETTIVA per le generazioni future.

1.8 Tassonomia vs rete

1.8.1 Reperibilità, tassonomia, Web semantico, indicizzazione


associativa, modello reticolare
Il problema causato dall’accumulo di informazioni in tali archivi ha
però prodotto fin da sempre il problema della REPERIBILITÀ della singo­
la informazione.
L’ordine TASSONOMICO di tipo classico con cui si è cercato di organiz­
zare i saperi si è infatti scontrato con l’aumento esponenziale dell’infor­
mazione prodotta nel tempo sia da culture tra loro differenti che all’in­
terno di una singola cultura.
Le attuali ricerche di Tim Berners-Lee sul WEB SEMANTICO cercano a
tal proposito di creare una rete che aiuti gli individui a comprendere il
235 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

significato dei contenuti in essa condivisi e accelerarne la reperibilità (T.


Berners-Lee, 1999).
Il problema della selezione e del reperimento delle informazioni è
stato uno dei motivi per cui personaggi come Bush e molti altri hanno
cercato di immaginare un’INDICIZZAZIONE DEL SAPERE DI TIPO ASSOCIATI­
VO che simulasse i meccanismi della mente umana: una RETE i cui colle­
gamenti neuronali non sono organizzati secondo un ordine gerarchico,
ma in modo decentrato. Gli ipertesti nascono su tali premesse e per ri­
solvere anche tali problematiche (G.P. Landow, 1992).

1.9 Naturale vs artificiale

1.9.1 Intelligenza collettiva, calcolatore universale, intelligenza


artificiale, augmenting human intellect
Il tentativo è quello di costruire un’INTELLIGENZA COLLETTIVA che sia il
risultato delle azioni e del modo di pensare di ogni individuo che appar­
tiene alla comunità universale.39 Per ottenere ciò il progetto dell’epoca
moderna è quello di costruire una macchina in grado di effettuare ogni
calcolo possibile, una sorta di CALCOLATORE UNIVERSALE.40 Considerando
il pensiero una forma di calcolo combinatorio, l’idea è quella di costrui­
re attraverso una macchina una forma di INTELLIGENZA ARTIFICIALE.41
Una macchina che pur simulando il pensiero umano possa da una parte
AUMENTARE LE POSSIBILITÀ DELL’INTELLETTO, dall’altra possedere una sua
memoria universale condivisa da ogni individuo possibile.

1.9.2 Autonomia, auto-organizzazione, reti neurali, connessionismo,


vita artificiale, agenti intelligenti, automazione
A un progetto di calcolatore universale basato su una logica di tipo
simbolico in cui le istruzioni alla base del suo funzionamento sono già
iscritte e previste nella struttura della macchina (l’attuale modello alla
base di ogni computer), si è sovrapposto un progetto di macchina il cui
funzionamento emerga spontaneamente attraverso le relazioni autono­
me delle varie unità che compongono la rete. Quest’ultimo progetto
prevede una certa AUTONOMIA DELLA MACCHINA che è in grado di AUTO­
ORGANIZZARSI allo scopo di trasformarsi per ADATTARE la sua interfaccia
ai differenti bisogni o modi di pensare di ogni singolo utente.

39
P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1996.
40
M. Davis, Il calcolatore universale, Adelphi, Milano 2003.
41
H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva (1985),
Feltrinelli, Milano 1988.
TOMMASO TOZZI 236
42 43
Gli studi sulle RETI NEURALI, il CONNESSIONISMO e la VITA ARTIFI­
CIALE44 stanno indagando in questa direzione.

I software per il reperimento automatico dell’informazione definiti


AGENTI INTELLIGENTI, sono un altro dei campi di ricerca attuali.

1.10 Convergenza vs con-fusione

1.10.1 Integrazione digitale, codice binario, convergenza, sincretismo,


eterogeneità, sinestesia, transcodifica, multimedialità, interdipendenza
dei media
Come si è già detto, essenziale in questo processo è la costruzione di
uno standard condiviso da tutti gli individui oltre che da tutte le mac­
chine. L’INTEGRAZIONE DIGITALE è il punto di arrivo di questa tendenza
e trae le sue origini dal CODICE BINARIO e dunque dalla conversione del-
l’informazione in numeri. L’essere riusciti a trasformare mezzi di comu­
nicazione diversi come il libro, la radio, la televisione, il telefono ecc. in
macchine digitali ha permesso la condivisione tra essi di uno standard
che le fa comunicare.
Ciò ha favorito la CONVERGENZA in un unico medium di modalità
espressive diverse (SINCRETISMO) e di famiglie di codici diversi (ETERO­
GENEITÀ DEI CODICI) e potenziato l’esistenza di una macchina in grado
di provocare stimoli afferenti a organi sensoriali diversi (SINESTESIA). In­
versamente, tale convergenza digitale permette la TRANSCODIFICA e
quindi la trasformazione di un elemento appartenente a un medium in
un altro medium. Tali caratteristiche fanno parte di un processo storico
connesso, ma precedente, alla MULTIMEDIALITÀ e che ha trovato nel
computer solo un punto di transito. Un processo che ha comunque pro­
vocato un’INTERDIPENDENZA DEI MEDIA e che ha avuto conseguenze non
solo sul piano tecnologico, ma anche su molti altri, quali per esempio
quello sociale, economico e artistico.

1.10.2 Con-fusione, pensiero unico, democrazia elettronica


Uno dei risultati principali del percorso multimediale è stato infatti

42
D. Parisi, Intervista sulle reti neurali. Cervello e macchine intelligenti, il Mulino, Bolo­
gna 1989.
43
D.E. Rumelhart, J.L. McClelland, PDP. Microstruttura dei processi cognitivi (1986),
il Mulino, Bologna 1999.
44
C.G. Langton, Artificial Life, Addison Wesley, Santa Fe Institute 1989.
237 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

quello di creare CON-FUSIONE più che ordine (T. Tozzi, 2000). Una con­
fusione positiva, nel momento in cui ha costretto dei sistemi di potere a
rimettersi in discussione. Ciò che la multimedialità ha messo in crisi è
l’ordine alla base del PENSIERO UNICO dominante.
Il processo di trasformazione del sapere conseguente all’avvento del­
la multimedialità ha rinnovato l’utopia di una possibile DEMOCRAZIA
ELETTRONICA, una promessa che accompagna ogni nuova rivoluzione
tecnologica per poi tradirne i presupposti.45
Ciò non toglie che il processo di con-fusione prodotto dall’avvento
delle nuove tecnologie ha alimentato l’esistenza di movimenti artistici e
sociali che nelle fratture determinate dalla con-fusione hanno potuto ri­
proporre e sostenere le ragioni dei più deboli e degli indifesi.

Il lavorare in rete è stato inteso da molti artisti come il potenziamen­


to di una pratica di critica culturale e sociale. Attraverso le pratiche di
hacktivism la rete diventa dunque il luogo della protesta globale e il de­
centramento un modo per restituire un ruolo di centralità alle richieste
di ogni singolo componente della comunità globale.

L’arte non è l’azione del singolo individuo, ma l’esistenza di momen­


ti collettivi di questo tipo all’interno dei quali collaborare, insieme, per
migliorare il mondo.

2. Rete come contenitore vs rete come opera

Sulla base di quanto si è detto si può giungere ad almeno due con­


clusioni:

1) La convergenza presentata in questo saggio tra gli ambiti artistici e


quelli scientifico, sociale, economico e molti altri ancora ci porta ad af­
fermare quanto sia arbitraria la netta differenziazione tra tali ambiti di­
sciplinari e come ognuno di essi sia di fatto parte anche dell’altro. In ta­
le prospettiva la realizzazione di un’opera d’arte è un atto congiunto a
cui partecipano simultaneamente differenti individui, ambiti, processi e
cose.

2) Sulla base delle caratteristiche enunciate sopra si può ritenere che


tra le molte possibili esistono almeno due differenti tipologie di uso ar­
tistico delle reti telematiche, tra loro in netta contraddizione pur coesi­

45
A. Mattelart, Storia della società dell’informazione (2001), Einaudi, Torino 2002).
TOMMASO TOZZI 238
stendo spesso all’interno della stessa definizione di NET ART (nata nel
1995). Tali tipologie riflettono in parte i due punti di vista esposti dall’i­
nizio del saggio:

(A) La rete come contenitore


Il mezzo telematico viene usato come supporto dove appendere una ver­
sione digitale di quadri o lavori artistici già esistenti. Le opere come appli­
cazioni software create appositamente per la rete, ma che non mettono in
discussione il rapporto unidirezionale tradizionale autore/spettatore.
Dunque l’opera come prodotto realizzato da un artista che permette al­
l’utente/spettatore di interagirvi all’interno di percorsi prestabiliti limi­
tandone una reale partecipazione creativa.

(B) La rete come opera


La rete come luogo comunitario, incrocio di relazioni e scambio di saperi.
L’opera diventa la trasmissione del senso, non tanto il segno che si fa por­
tatore di tale senso, quanto la struttura molteplice che ne consente una
creazione e un’interpretazione cooperativa e orizzontale. La comunità si
fonda sui nuovi linguaggi che emergono spontaneamente attraverso la
struttura rizomatica della rete.

Ciò determina la necessità di un ripensamento sull’appropriatezza


del termine net art per definire le opere che rientrano nella poetica di
(B).

2.1 Hacker art

Quando nel 1989 il sottoscritto ha scelto la definizione HACKER ART


per indicare la concezione della «rete come opera», si è volutamente
usato un termine che non riconduceva a una tecnologia o a un modello
(quello della rete), come è il caso del termine NET ART, quanto a un’eti­
ca: l’etica hacker (P. Himanen, 2001).
Secondo l’attitudine etica alla base dell’hacker art

l’arte diventa il partecipare alla trasformazione dei processi sociali e culturali con
l’obiettivo di favorire la cooperazione, la nascita di nuove forme della conoscen­
za e la condivisione decentrata del sapere, così come lo sviluppo di forme, luo­
ghi e nuove tecnologie alternative finalizzate al miglioramento e all’evoluzio­
ne dell’umanità. Caratteristiche sono il rifiuto dell’autorialità, la decostruzio­
ne dei fondamenti culturali su cui si regge ogni ordinamento autoritario e
totalitario del sapere, la costruzione di relazioni orizzontali, la coevoluzione
mutuale e il no-profit.
Hacker art non è la produzione di oggetti vendibili. Si estende oltre i limiti
239 DAL MULTIMEDIA ALLA RETE: IPERTESTO, INTERATTIVITÀ E ARTE

di un oggetto per coprire lo spazio di tutti i corpi e cose che partecipano


nel tempo alla sua costruzione. È un sistema aperto, molteplice, anonimo, de­
centrato e in divenire.
Hacker art non è un genere, ma un’attitudine di disobbedienza culturale con
origini millenarie. L’hacker art non si trova solo nei musei o nelle gallerie
d’arte, ma anche in ogni spazio della vita. È qualsiasi sistema fluttuante (o
TAZ) da cui emergono pratiche di interferenza finalizzate a garantire l’ugua­
glianza e la fratellanza tra i popoli, la creatività e la libera espressione indivi­
duale e collettiva, la difesa dei diritti costituzionali, quali, tra gli altri, il di­
ritto alla comunicazione e alla privacy, promuovendo un’etica del rispetto tra
gli individui.46

46
T. Tozzi, Hacker Art, in A. Mari e S. Romagnolo (a cura di), Revolution OS. Voci
dal codice libero, Apogeo, Milano 2003.
NEW MEDIA E NARRATIVA
Antonio Caronia

Nel 1992, scrivendo un libro che nei dieci anni successivi sarebbe di­
venuto un classico sull’argomento, George P. Landow introduceva il
concetto di ipertesto con due citazioni da Barthes e da Foucault.1 Nella
citazione di Barthes (tratta da S/Z) si parla di un «testo ideale» in cui
«le reti sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna possa rico­
prire le altre», un testo che «è una galassia di significanti, non una strut­
tura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si accede da più entra-
te di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; i co­
dici che mobilita si profilano a perdita d’occhio, sono indecidibili...».
Dal canto suo Foucault (L’archeologia del sapere) parla del libro come di
qualcosa i cui confini «non sono mai netti né rigorosamente delimita­
ti», perché esso «si trova preso in un sistema di rimandi ad altri libri, ad
altri testi, ad altre frasi: il nodo di un reticolo». In questo modo Lan­
dow, nonostante tutti gli elementi di discontinuità che illustra nel corso
del libro, può istituire una linea genealogica fra testo e ipertesto, sino a
definire quest’ultimo come «la più recente estensione della scrittura».2
D’altra parte il termine «ipertesto» era stato coniato negli anni Sessan­
ta da Theodor Holm Nelson proprio partendo da una peculiare conce­
zione della letteratura. Il progetto Xanadu di questo bizzarro e profeti­
co intellettuale e critico si proponeva infatti di dare vita a «una nuova
forma di archiviazione dei dati, un nuovo tipo di letteratura e una rete
che potrebbero dare nuovo vigore alla civiltà umana».3 La definizione
di ipertesto che Nelson mise a punto agli inizi degli anni Ottanta era
estremamente semplice: «Per ipertesto intendo semplicemente la scrit­
tura non sequenziale»,4 cioè una scrittura in cui il lettore possa saltare
da un brano all’altro del testo, aprire nuove «finestre» su altri testi col­
legati, tornare indietro, e anche inserire osservazioni, note, varianti:
modificare, cioè, il testo in modo che altri lettori possano leggere quel­
le modifiche e a loro volta intervenire. Ciò che nei primi anni Sessanta

1
G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), a cura di B. Bassi, Baskervil­
le, Bologna 1993, p. 5.
2
Ivi, p. 250.
3
T.H. Nelson, Literary Machines. Il progetto Xanadu (1990), Muzzio, Padova 1992.
4
Ivi, pp. 1-17.
241 NEW MEDIA E NARRATIVA

era solo una vaga idea, una ventina d’anni dopo a Nelson appariva rea­
lizzabile tramite i computer: «Ci sarà un solo grande deposito, e ogni
cosa sarà ugualmente accessibile. Questo significa che “differenti” arti­
coli e libri saranno piuttosto diverse versioni di una stessa opera, con diffe­
renti percorsi al proprio interno per lettori differenti».5 È interessante notare
che Nelson presenta la sua proposta come più aderente ai reali proces­
si del pensiero rispetto alla scrittura tradizionale. «La struttura delle idee
non è mai sequenziale; e in verità, nemmeno i processi del nostro pen­
siero sono molto sequenziali [...] È mia convinzione che questa nuova
capacità di rappresentare le idee nella completezza delle loro interre­
lazioni porterà a forme di scrittura e apprendimento più facili e mi­
gliori, e a una ben maggiore capacità di comunicare e condividere le
interrelazioni fra i problemi di domani».6
Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, dunque, le idee sembra­
vano chiare. L’ipertesto era l’erede del testo, e prometteva di assolvere le
stesse funzioni, ponendo naturalmente problemi nuovi e suscitando nuo­
ve domande, ma senza, per così dire, cambiare del tutto argomento. I ca­
pitoli centrali del libro di Landow si intitolano Riconfigurare il testo, Ricon­
figurare l’autore, Riconfigurare il racconto, Riconfigurare lo studio della lettera­
tura. Riconfigurare non vuol dire necessariamente scardinare, né di­
struggere. Riguardo al racconto, per esempio, Landow discute Afternoon
di Michael Joyce, uno dei primi e dei più famosi esempi di ipertesto nar­
rativo: ne mette in luce gli aspetti di novità (la trasformazione del lettore
in lettore-autore, il carattere di apertura – e non di chiusura – dell’iper­
testo), ma non sembra affatto escludere che l’ipertesto possa misurarsi
positivamente con la dimensione della narrazione. Soltanto ne trasferisce
in parte la responsabilità dall’autore al lettore. «Se si accetta che la trama
sia un fenomeno creato dal lettore-autore a partire dal materiale offerto
dalle lessìe [con lessìe, termine ricavato da Barthes, Landow indica i bloc-
chi testuali che, collegati, costituiscono un ipertesto, n.d.r.], piuttosto che
un fenomeno che appartiene esclusivamente al testo, allora si può rico­
noscere che la lettura di Afternoon, e di altri racconti ipertestuali, produ­
ca un’esperienza molto simile a quella offerta dalla lettura della trama
unitaria descritta dai narratologi, da Aristotele a White e a Ricoeur».7
Non altrettanto categorico, ma ugualmente ottimista si dimostrava Ro­
bert Coover, uno scrittore americano «postmoderno» che ha abbracciato
abbastanza presto la causa dell’ipertesto. Coover, è vero, sottolinea anche
i limiti della narrativa ipertestuale («il racconto corre il rischio di essere

5
Ivi, pp. 1-15, corsivi dell’autore.
6
Ivi, pp. 1-16, 1-18.
7
G. Landow, Ipertesto, cit., p. 141.
ANTONIO CARONIA 242
così debole e sfilacciato da perdere la sua forza di attrazione, creando un
clima di sogno, di assenza di gravità, di smarrimento nello spazio che era
tipico dei primi film di fantascienza»), ma si dimostra poi ottimista sul fat­
to che anche in un ipertesto si arrivi a una conclusione narrativa: «Prima
o poi, qualunque sia il gioco, arriva il fischio di fine partita. Anche nell’i­
pertesto c’è sconnessione, c’è l’ultima traiettoria in fondo alla quale non
ci sono più finestre».8
Ma verso la metà degli anni Novanta avviene anche un passaggio im­
portante, quello dall’ipertesto off-line all’ipertesto on-line. Michael Joy­
ce e gli altri narratori ipertestuali della prima generazione affidano i
propri prodotti a supporti magnetici (cd-rom) che il fruitore acquista e
poi legge (o su cui lavora) sul proprio personal computer: la fruizione
di un prodotto del genere avviene in un relativo isolamento, più o me-
no come se si trattasse di un libro; cambiano solo la natura del suppor­
to e le modalità della lettura. Lo sviluppo del World Wide Web (www)
permette invece di saltare il problema del supporto, e di affidare a In­
ternet la propria produzione. In tal modo, per entrare in contatto con
un ipertesto, il lettore non deve più procurarsi un oggetto che ospiti i
contenuti proposti dall’autore (sia esso un libro o un cd-rom), ma è suf­
ficiente che si colleghi a un apposito sito. Anche se spesso, nella sua
esperienza di lettore o di fruitore, ciò non farà grande differenza, la si­
tuazione è completamente cambiata. Nel contatto e nella fruizione on­
line, il navigatore può saltare non solo da una parte all’altra dell’iper­
testo, ma anche da quello ad altri ipertesti, presenti in altri siti. E po­
trebbe anche, se il sito glielo permettesse, entrare in contatto diretto
(in «tempo reale») con altri fruitori dello stesso ipertesto. L’idea della
«comunità dei lettori», che sino ad allora era stata una nozione pura­
mente virtuale, e realizzata in tempo differito, viene adesso completa­
mente attualizzata.
Fra i narratori che per primi si dimostrano in grado di utilizzare le
potenzialità del «www» c’è una curiosa figura di scrittore, artista e guru
dei nuovi media che si presenta con lo pseudonimo di Mark Amerika. A
tutt’oggi risulta abbastanza difficile stabilire non solo il nome di batte­
simo di questo personaggio, ma anche la sua storia antecedente ai pri­
mi anni Novanta. Sta di fatto che nel 1993 Mark Amerika lancia il sito
Alt-X,9 che diviene in breve tempo uno dei punti di riferimento per le
nuove produzioni artistiche (non solo letterarie, ma anche iconiche,
musicali e multimediali) della scena americana controculturale di que­

8
R. Coover, Hyperfiction. Novels for the Computers, in «The New York Times Book Re­
view», 29 agosto 1993.
9
http://www.altx.com
243 NEW MEDIA E NARRATIVA

gli anni. Autore di due «romanzi» su carta, The Kafka Chronicles (1993,
salutato da Terry Southern come «un matrimonio fra un lirismo alla
Blake e la dura spiritualità di Celine»), e Sexual Blood (1995),10 Mark
Amerika è all’origine di uno dei fenomeni letterari più curiosi degli an-
ni Novanta, quello del cosiddetto «avant pop», caratterizzato secondo il
suo creatore, Larry McCaffery, dal «fascino per la cultura di massa e
[dal]la volontà di scoprire il modo per entrare nel ventre della bestia e
per esplorarlo senza lasciarsi inghiottire o diventare una mera esten­
sione dei suoi meccanismi operativi (ovvero il destino subito da Andy
Warhol e dalla pop art)».11
Fra le strategie per «non lasciarsi inghiottire» dal ventre della bestia e
per non ricadere nel «triste destino» di Warhol e della pop art, Mark
Amerika pare privilegiare quella del racconto. È straordinario come, an­
che nei suoi successivi progetti multimediali, come quelli di Gramma­
tron12 e di Filmtext,13 Amerika persegua testardamente l’obiettivo di non
lasciar disperdere il testo e la narrazione nel flusso dei dati. «Non posso
smettere di testualizzare i dati», dice letteralmente in Filmtext. E poco
più avanti, in una delle finestre che si aprono in questa affascinante se­
quenza di arcane immagini e suoni, è ancora più esplicito: «La narra­
zione si presenta come una specie di gioco filosofico, che invita il letto­
re a cercare in continuazione nuove forme di significato, e si compone
di una rete di sequenze interconnesse di immagini in movimento, di
loop di suoni sperimentali e di osservazioni filosofiche».14
Ma la narrativa on-line apre altre prospettive, ancora più avanzate.
Essa permette di concepire una processualità ancora più radicale del
testo narrativo: per esempio un sito in cui l’opera mostri davvero, in
tempo reale, il suo carattere di work in progress, anche aprendosi all’ap-
porto del lettore-creatore non più solo nel momento del consumo, ma
forse anche in quello della redazione, della costruzione dell’ipertesto.
Nel caso dell’ipertesto off-line (ma anche di quello proposto on-line in
una versione definitiva) resta comunque una separazione fra momento
della produzione e momento del consumo: l’autore fornisce un iperte­

10
M. Amerika, Sangue sessuale, tr. it. di Syd Migx, Shake Edizioni Underground,
Milano 1998.
11
L. McCaffery, Avant Pop: la vita riprende dopo il crollo di ieri, in: Schegge d’America.
Nuove avanguardie letterarie, a cura di L. McCaffery, Fanucci, Roma 1998, pp. 369-370,
trad. it. After Yesterday’a Crash – The Avant Pop Anthology, Penguin Books, 1997). Cfr. an­
che: Avant Pop, a cura di L. McCaffery, Shake Edizioni Underground, Milano 1998.
12
http://www.grammatron.com
13
http://www.markamerika.com/filmtext
14
Ibidem.
15
Una buona introduzione alla tematica dei giochi di ruolo è ancora costituita dal
ANTONIO CARONIA 244
sto che ha certamente la possibilità di sviluppare più sequenze narrati­
ve tra loro diverse e al limite anche antitetiche, ma in un insieme di
possibilità tutto sommato ancora chiuso. L’intervento creativo del let-
tore, nel momento del consumo, è comunque limitato dalle possibilità
concepite dall’autore al momento del progetto, e offerte sul supporto
magnetico o nel sito secondo l’implementazione che ne viene realizza­
ta. La situazione, però, può essere diversa. Se la narrazione viene pro-
posta su un sito «aperto» (aperto a tutti o a cui si accede tramite regi­
strazione), l’autore (o progettista, o coordinatore) è comunque re­
sponsabile della proposta di un universo di riferimento, di alcuni per­
sonaggi fondamentali, di una situazione di partenza che costituisce lo
spunto narrativo: ma lo sviluppo della narrazione, in questo caso, è
aperto (almeno in linea di principio) a tutti gli utenti del sito, che pos­
sono proporre sviluppi, varianti, spin-off (diramazioni), magari nuovi
personaggi. È addirittura possibile che, sottoposta alle torsioni dell’in­
tervento degli utenti, la storia così come era stata pensata (anche solo
embrionalmente) dall’autore venga completamente stravolta. Ecco che
sembra farsi più concreta la possibilità di un «autore collettivo»: qual­
cosa di ancora più vicino al modo in cui Nelson vedeva lo sviluppo del­
la letteratura nel suo progetto Xanadu (in cui ogni utente aveva la pos­
sibilità di prendere un’opera già data – per esempio una tragedia di
Shakespeare – e apportare le modifiche che riteneva più opportune,
costruendone una nuova variante che avrebbe poi registrato col pro­
prio nome accanto a quello dell’autore originale).
Sono possibilità veramente sconvolgenti rispetto alla narrativa tradi­
zionale, e certamente ci chiediamo se e come sia possibile concepirne le
realizzazione. In realtà una forma di narrativa totalmente interattiva esi­
steva già prima dell’avvento della cultura digitale, ed era quella dei co­
siddetti «giochi di ruolo» (role playing), il più famoso dei quali è senz’al­
tro Dungeons and Dragons. I giochi di ruolo sono situazioni, gestite da un
master, che si svolgono in una cornice definita da un universo (esplicito
o implicito), da un insieme di regole e uno di personaggi, identificati da
varie proprietà e abilità. Sta ai giocatori (ognuno dei quali incarna un
personaggio), riuniti attorno a un tavolo, realizzare con le loro scelte –
e un moderato intervento del fattore caso, con il lancio di un dado – le
concrete situazioni nelle quali le premesse del gioco si sviluppano.15
Ogni partita di Dungeons and Dragons, o di un altro di questi giochi, rap­

libro di L. Giuliano, I padroni della menzogna. Il gioco delle identità e dei mondi virtuali,
Meltemi, Roma 1997. Interessanti considerazioni anche in S. Turkle, La vita sullo
schermo (1996), a cura di B. Parrella, Apogeo, Milano 1997.
16
Sulla narrativa interattiva, M.S. Meadows, Pause & Effect: The Art of Interactive
245 NEW MEDIA E NARRATIVA

presenta quindi un racconto, un insieme di eventi concatenati: una for­


ma di narrazione, insomma, creata e gestita collettivamente. È appena il
caso di ricordare che una forma di creazione collettiva di testi e disegni,
presente da sempre nei giochi di società, era già stata praticata dai sur­
realisti nella forma del cosiddetto cadavre exquis (un racconto o un’im­
magine che appariva su un foglio di carta ripiegato, in cui ogni parteci­
pante aggiungeva il proprio contributo dopo aver visto solo l’ultima pa­
rola o l’ultimo tratto del disegno del partecipante precedente). E anche
in contesti più «tradizionali», quindi, si vanno oggi sviluppando in rete i
primi esperimenti di narrazioni collettive (racconti interattivi, o narrati­
va cooperativa).16
Sono passati poco più di dieci anni dai primi esperimenti narrativi
con i new media, e in un libro interessante e informato sulla scrittura di­
gitale oggi possiamo leggere:

Jerome Bruner, il fondatore della psicologia culturale e uno dei principa­


li studiosi di narrative, considera il racconto uno degli strumenti principa­
li per la costruzione dell’identità. In un suo intervento recente fa un rife­
rimento alla «crisi» di narratività del presente (di cui scorge i contorni, ma
non addita le cause). Non so se sia possibile saldare questa «crisi di iden­
tità» alla «crisi della storia», ma non possiamo escludere un collegamento
fra la rottura degli equilibri causata dal modificarsi della relazione tempo­
rale (e gerarchica) autore-opera-lettore e il «vecchio» modo lineare di rac­
contare. Come se la società attuale, abbandonato un mondo, non avesse
ancora trovato i mezzi espressivi adatti a rappresentare il nuovo – cioè a
raccontarlo.17

Ecco che, a una lettura più attenta e meno entusiasta, l’ipertesto, l’i­
permedia, la scrittura digitale, non si presentano più tanto come la pro­
messa di un modo nuovo di raccontare, ma piuttosto come il segno di
una crisi e di una difficoltà del raccontare, che sarebbe collegata a una
più generale crisi di identità. L’estendersi del testo «a rete», la fine del-

Narrative, New Riders, 2002. Un interessante esperimento di narrativa interattiva per


bambini si trova all’indirizzo Web: www-white.media.mit.edu/vismod/demos/kid­
sroom/kidsroom.html. Tra i vari esperimenti di racconti collaborativi citiamo quello
sviluppatosi nel newsgroup Internet alt.cyberpunk fra il 1997 e il 1998, e l’esperien­
za del sito MediaMOO all’indirizzo http://www.cc.gatech.edu/fac/
Amy.Bruckman/MediaMoo. In Italia un esperimento di narrazione collettiva è stato
condotto dal gruppo Wu Ming e si trova sul sito http://www.wumingfoundation.com.
17
D. Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003,
pp. 148-149.
18
W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (1982), il Mulino, Bologna
1986, pp. 198-199.
ANTONIO CARONIA 246
la linearità, la collaborazione fra autore e lettore sino alla fusione delle
due figure, l’intersecarsi dei mezzi (parola, immagine, suono), la possi­
bilità di una creazione collettiva (quindi, in qualche modo la fine del-
l’autore), insomma tutto ciò che caratterizza l’ipertesto, o piuttosto l’i­
permedia, non appaiono più come entusiasmanti ma, tutto sommato,
innocue estensioni delle precedenti e analoghe attività umane: sembra­
no piuttosto gli araldi di una trasformazione che ha anche aspetti in­
quietanti – per esempio, sembrano annunciare un indebolimento (se
non un’eclissi) della tradizionale funzione delle narrazioni nelle società
che ci hanno preceduto.
Walter Ong aveva già riflettuto sulla diversa funzione del racconto
nelle società a oralità primaria rispetto a quelle della scrittura, e pare
opportuno riprendere sinteticamente le sue osservazioni. Se il raccon­
to, secondo lo studioso canadese, è infatti un modo di trattare ed ela­
borare il flusso temporale che struttura l’esperienza umana (ed è per­
ciò presente in tutte le società), la narrativa «è in certo modo più fun­
zionale in quelle a oralità primaria che nelle altre [...] In una cultura
che conosca la scrittura o la stampa, il testo unifica fisicamente tutto ciò
che contiene, e permette di recuperare ogni tipo d’organizzazione del
pensiero come un tutto unico. Nelle culture a oralità primaria, dove
non esistono testi, la narrazione serve a unificare il pensiero in modo
più efficace e permanente di quanto non permettano gli altri generi
orali».18 La struttura della narrazione a trama lineare con un climax, in
cui a una fase ascendente segue una discendente, sarebbe tipica, se­
condo Ong, delle società scritturali e tipografiche, mentre nelle cultu­
re orali le narrazioni (soprattutto quelle epiche) hanno un andamento
a episodi, collegati tra loro ma non in maniera lineare, sì da escludere
un acme narrativo. Nell’epos orale si può entrare e uscire in ogni pun­
to della narrazione, la quale quindi non ha un inizio né una fine deter­
minati.
È evidente che tutto ciò richiama molte caratteristiche degli ipertesti
e degli ipermedia, che hanno un inequivocabile rapporto con l’oralità
(come pionieristicamente suggeriva già McLuhan negli anni Sessanta).
Ma è anche vero che indietro non si torna. La neo-oralità dell’ipertesto
è ormai ineluttabilmente imbevuta di scrittura. E questa ibridazione ri­
chiama forse un inevitabile declino – o almeno una mutazione – della
funzione fondante del racconto nella società. Lyotard ci ha parlato della
«fine delle grandi narrazioni» nell’epoca postmoderna o tardomoderna.
Ma neppure le «piccole» narrazioni se la passano meglio, quando sono

19
D. Fiormonte, Scrittura e filologia, cit., p. 89.
247 NEW MEDIA E NARRATIVA

immerse nell’ambiente digitale. Fiormonte parla della «facilità con cui ci


si perde nei meandri della narrativa ipertestuale», e aggiunge:

È solo quando la fabula «tiene» che scattano le possibilità interpretative e


che il lettore vuole entrare dentro il testo, saperne di più o magari decidere
che il finale va cambiato [...] La possibilità di stabilire veri link, percorsi, di­
gressioni e alternative è proprio ciò che «uccide» l’interpretazione (e il go­
dimento dell’opera) generando un testo che – paradossalmente – si «usu­
rerà» prima del testo chiuso, divenendo presto inservibile.
A questo punto, forse, all’orizzonte è spuntato qualcosa che prima non
avevamo notato: il conflitto fra informatica e narrazione.19

Nulla di ciò che ho esposto in queste note è inteso a indurre nel let-
tore pensieri catastrofici, né configura una nostalgia per i bei tempi an­
dati, quando un mezzo egemone (la scrittura) dava stabilità alle catego­
rie fondanti del patto scrittore-lettore e dell’interpretazione dell’espe­
rienza assicurata dalla scrittura, pur nel variegato succedersi delle for­
me. Il conflitto non deve spaventare perché è, da sempre, l’anima delle
trasformazioni di una cultura. E di mutamento culturale è intessuta tut-
ta la storia della specie. Un nuovo patto fra soggetti del circuito comu­
nicativo, nuove configurazioni dei rapporti fra l’esperienza e la sua rap­
presentazione, sono certamente in preparazione. E la narrazione avrà si­
curamente un ruolo anche nei nuovi scenari. Ma incedimus per ignes, e sa­
rebbe pericoloso sottovalutare la portata e la dimensione delle trasfor­
mazioni in corso. La condizione per riuscire a influenzare – almeno par­
zialmente – una transizione è quella di assicurarsi la conoscenza più lu­
cida possibile dei suoi meccanismi e delle sue tendenze.
LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN
E LE TRAPPOLE DELLA RETE
Carlo Branzaglia

Le origini della rete Web risalgono al progetto militare ARPANet (Ad­


vanced Research Projects Administration Network), la rete di computer
creata dal Dipartimento della difesa statunitense sul finire degli anni
Sessanta, che nel 1983, distaccata dalla rete militare Milnet e collegata a
una serie di ulteriori reti nate nel frattempo, diede vita a Internet. Alla
sua origine ci sono due tipi di tecnologie: il packet switching (commu­
tazione di pacchetto) che divide i messaggi in pacchetti di dati utili per
arrivare a destinazione; e il distribuited network (rete distribuita), crea­
to dal 1960 al 1962 dalla Rand Corporation nell’ambito di un progetto
di telecomunicazioni in caso di guerra nucleare. Mentre il termine
World Wide Web viene coniato nel 1990 da Tim Berners-Lee, dopo aver
realizzato per l’Organizzazione europea per le ricerche nucleari di Gi­
nevra (CERN) un programma capace di creare link fra documenti distri­
buiti in rete.
Da una prima fase nella quale la rete serve sostanzialmente a collega­
re i laboratori di ricerca scientifica, si passa dunque a una seconda nella
quale essa diventa un mezzo per consultare testi di qualunque formato e
dimensione. La sua caratteristica fondamentale, di combinare le tecno­
logie di rete con quelle ipertestuali, la rende dagli anni Novanta uno
strumento potentissimo di comunicazione, capace di giungere ovunque
ci siano un computer e una rete telefonica attraverso programmi di ge­
stione (server) e gestori di rete (provider) che consentono, tramite i loro
nodi, di inviare dati al costo di una chiamata telefonica urbana.
Ovvio l’interesse per chiunque abbia dei messaggi da mettere a di­
sposizione: dai fautori della democratizzazione della comunicazione,
alle imprese commerciali; dagli organi di informazione alle strutture
di servizio. Quindi, da un primo momento in cui il problema dell’in­
terfaccia si pone in maniera molto limitata, essendo il pubblico di ri­
ferimento composto da specialisti abituati a scambiarsi dati, si passa a
una fase nella quale il linguaggio deve farsi il più possibile friendly
user, e ricorrere, data la novità del mezzo, a metafore comprensibili,
codici consolidati, ma anche innovazioni accattivanti, nella capacità di
utilizzare contemporaneamente più registri sia sul piano visivo (dal vi­
deo al testo), sia su quello sonoro (dalla segnaletica alla musica vera e
propria).
249 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN

Il Web design è in sostanza la risposta a tale problema, coniugando a


livello terminologico, come accade spesso in ambiti anglosassoni, il ter­
mine design (traducibile in italiano come progettazione)1 con un suffis­
so che designa il settore «manifatturiero» di appartenenza: e come ogni
grande macroarea ha le sue divisioni (per esempio, il forniture design,
progettazione per il settore mobiliero, è evidentemente una branca del
product design), così il Web design di fatto attiene all’ambito del
graphic design, perché si trova a estendere, con modalità sinestetiche
nelle quali immagini e suoni si combinano, le problematiche di comu­
nicazione coordinata tipiche di quella disciplina.
Quindi, da un Web design degli ingegneri (di cui le teorie di Nielsen
sull’usabilità sono in realtà un’ultima propaggine), si passa a un web
design dei progettisti, con tutte le incertezze e le deviazioni di rotta ti­
piche di un medium che si va consolidando. Non indifferente è ovvia­
mente il progresso nella realizzazione di software dedicati. L’avvento
della grafica vettoriale, per esempio, in grado di definire algoritmica­
mente le superfici, introduce nuove possibilità e nuovi entusiasmi, tan­
to da generare un vero e proprio «movimento», il cosiddetto flashism,
dal nome del celeberrimo programma di animazione Flash, prodotto
da Macromedia, che rivitalizza addirittura un certo immaginario nel
settore del cartooning, estendendo il suo uso all’illustrazione e all’im­
magine televisiva.
Il passaggio da un Web design ingegneristico a uno progettuale non
può essere chiaramente scandito, tanto rapida è la sua evoluzione e tan­
to estese sono le modalità di intervento in rete. È evidente il ruolo di ve­
ri e propri sperimentatori, spesso e volentieri provenienti dal mondo del
graphic design o dell’illustrazione, e capaci di gestire complesse opera­
zioni intermediali (basate cioè sull’utilizzo di più media su una piat­
taforma comune), come lo statunitense Elliot Peter Earls, progettista e
performer. Mentre in una fase più avanzata le sperimentazioni di
Brown, Davis e soprattutto di Yugo Nakamura diventano immediata­
mente opzioni per generare pagine su committenza. La rete è infatti un
fenomeno complesso, all’interno del quale l’autoproduzione può con­
vivere con massicci investimenti commerciali; e la sperimentazione con
la banalità più trita.
Allora, per affrontare il tema della comunicazione in rete non si può
non tenere conto dei fattori e delle situazioni commerciali susseguitesi ne­
gli ultimi anni, e ben note a tutti. L’esplosione dell’attenzione nei con­
fronti di Internet ha creato, tanto per sintetizzare, un’aspettativa enorme
non completamente mantenuta in termini sia linguistici, sia economici.
1
G. Bonsiepe, Dall’oggetto all’interfaccia, Feltrinelli, Milano 1993.
CARLO BRANZAGLIA 250
Né d’altronde altro poteva essere, vista la sovraesposizione impazzita di un
fenomeno i cui parametri non erano ancora chiari a chi si accingeva a
praticarlo con grandi investimenti alle spalle. Ed ecco i disastri, nazionali
ma non solo: ne fanno le spese grandi gruppi internazionali come Razor­
fish, che interrompe i finanziamenti alle sedi londinesi; o i loro consocia­
ti, come Metadesign, che nella stessa città deve chiudere i battenti. D’altra
parte, il settore del terziario avanzato è sempre quello più difficilmente
monitorabile e difendibile, sul piano occupazionale: testa di ponte verso
nuove strutturazioni del mercato, esso è sensibilissimo a errori di strategia
o mutamenti di rotta del contesto. Mentre, sul piano linguistico, inventa­
re un linguaggio per la rete ha presentato, e presenta ancora, forti margi­
ni di rischio, data la quantità (forse più che la qualità) degli stimoli pro­
posti. Anche questo però si rivela un problema ben prevedibile, se non un
falso problema, dato che l’entusiasmo e la proiezione verso il nuovo sono
stati (e sono tuttora) tipici di quegli operatori che, con una scarsa cono­
scenza delle metodologie della comunicazione, ritengono il Web un lin­
guaggio talmente nuovo e differente da quelli sinora praticati da potervi
agire senza regola né legge. Dimenticando, magari, che di fronte ha sem­
pre il buon vecchio interlocutore umano.
C’è un errore di metodo nel leggere la vicenda della comunicazione
via Web. Anzi, una serie di errori. Essi riguardano questioni disciplinari;
meccanismi, definizioni, obiettivi, metodologie. Sarà il caso di affronta­
re le cose con ordine, per quanto possibile. Ed è interessante vedere,
punto per punto, se la comunicazione via Web abbia in sé effettivamen­
te tutta la portata innovativa che le è stata attribuita.
Innanzitutto: quali sono le discipline che si occupano della comuni­
cazione via Web? Se prendiamo per esempio la comunicazione pubbli­
citaria, verifichiamo che sul Web è realmente qualcosa di indefinibile, a
meno che non si voglia far riferimento al banner, l’elemento più sem­
plice e banale di advertising, che può essere realizzato da chiunque, sul
piano pratico: agenzie pubblicitarie, studi di design grafico, Web agency,
autodidatti...
Nella difficoltà di monitorare il diverso grado di attenzione, ovvero il
differente tempo di navigazione, il semplice contatto col messaggio visi­
vo non serve più: quello che conta è il click, ma questo non è detto de­
termini affezione positiva (se il sito di destinazione è troppo diverso da
quello di partenza), necessitando talora di filtri di passaggio; né è ga­
rantito che il sito di destinazione venga poi visitato adeguatamente, an­
che se si possono sempre contare le pagine «sfogliate» durante la visita.
Certo, il processo è più complesso, ma non dissimile nel meccanismo
dalle modalità con le quali diamo attenzione o meno alle pagine pub­
blicitarie di un giornale qualunque.
251 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN

In genere, poi, il Web è ancor oggi (ed è importante che sia così) uno
spazio laboratoriale nel quale si confrontano differenti realtà: ci sono i
siti istituzionali e di servizio, quelli di vendita, i portali, le community e
qualunque altra stramberia. Ma, per non pensare che la rivoluzione del­
la rete sia tutta qui, ricordiamo che anche il mercato dell’editoria pe­
riodica cartacea è molto variegato, solo più congelato sul piano della di­
stribuzione all’utente finale.
Uno spazio laboratoriale significa che a esso fanno riferimento figure
di diversa formazione e provenienza: dallo smanettone appassionato so­
stanzialmente di programmi, allo studio grafico che lavora sulle imma­
gini istituzionali, da Web agency dedicate sostanzialmente a questo me­
dium all’illustratore che impara Flash e anima il suo sito personale, al fo­
tografo che trasforma in skin una sua immagine, al videomaker che sco­
pre lo streaming video.
È vero che tutti possono in qualche modo accedere alla rete e pub­
blicare a prezzo zero i loro prodotti; non è ovviamente vero che il Web
non costi niente; anzi. Se si va in uno studio (o agenzia) che si occupa di
diversi media si scoprirà che gli account, destinati a piazzare il prodotto
al cliente, percepiscono una percentuale minima sul Web in una scala
che passa poi per la produzione video e arriva al tradizionale prodotto
cartaceo. Costa troppo produrre il Web, e costa moltissimo mantenerlo
vivo, aggiornato e interattivo come il navigatore richiede. Per questo le
proposte professionali in realtà rispondono a regole di progettazione
piuttosto precise.
Web design, infatti, nella più attendibile traduzione dall’inglese, si­
gnifica «progettazione per il Web»; dato che la parola design, di volta in
volta applicata a product, fashion, interior, concept ecc., trova l’unica
plausibile traduzione italiana proprio con «progettazione». Anzi, in un
paese scarsamente attento come il nostro, il Web ha in qualche modo fa­
vorito la definitiva percezione di una cultura del graphic design, desti­
nata cioè agli elementi visuali, o per meglio dire, alle scritture visuali.
C’è stata una fase degli informatici, una degli smanettoni e una dei gu­
ru di Flash. Ma sono stati i progettisti grafici, responsabili dei meccani­
smi di comunicazione dell’identità dei loro clienti, a sviluppare una pro­
cedura progettuale integrata che riconducesse a una logica di segni co­
mune. In questo senso, il Web altro non è che l’ennesimo elemento del­
la comunicazione di impresa: i progettisti, abituati a muoversi dalla ti­
pografia all’editoria, dalla stationery all’archigrafia, dai mezzi di tra­
sporto al video, che paura possono avere di un nuovo medium?
Al contrario, il Web offre loro la possibilità di mostrare una cosa fon­
damentale, e cioè che il progettista non fa solo belle immagini, ma co­
struisce soprattutto (anzi, sostanzialmente) corretti ed efficaci processi
CARLO BRANZAGLIA 252
di comunicazione (per ottimizzare gli aspetti comunicativi e fruitivi dei
siti, si è recentemente sviluppata la net-semiology, cioè lo studio dei segni
linguistci e visivi applicato al Web).2 Il che significa che il problema non
è fare una brillante introduzione della home page con animazioni d’ef­
fetto, tralasciando magari la struttura e l’immagine del resto del sito;
ma di creare un dialogo efficace con l’utente, che rispetti una dinami­
ca di interazione e gli elementi pertinenti a essa, costruendo lo stesso
albero di navigazione e gli elementi che lo devono incarnare e rappre­
sentare.
Non è un caso che da studiosi di sistemi grafici come Giovanni An­
ceschi (progettista a sua volta, oltre che teorico) siano venuti inquie­
tanti suggerimenti sulla grana temporale del Web: per esempio, la sua
asintatticità, che determina la stanchezza dell’utente dopo poche ore
di navigazione. Il Web è tutto a scatti, dice Anceschi, poco fluido, poco
montato: l’occhio si affatica enormemente a questi ritmi, e la durata
della navigazione si contrae.3 Non è raro comunque vedere processi
anche «cinematografici» in rete: effetti di dissolvenza, di incrocio di
immagini, di emersione che vanno nella direzione applaudita dallo
studioso italiano.
Negli studi recenti sulla progettazione si assiste anche a evoluzioni ter­
minologiche: la diffusione del termine intermedia, per esempio, sostitui­
sce il desueto multimedia. Multimedia, inizialmente, è stata soprattutto
una definizione di comodo, sbandierata dall’industria a partire dagli an-
ni Ottanta per presentare quei prodotti innovativi che integravano suono
e immagine. Anche le installazioni multimediali nascevano sull’onda del­
la meraviglia per tale scoperta, in certi casi con l’equivoco (o la furbizia)
che bastasse proiettare immagini retrò su un televisore acceso e diffon­
dere una musica new wave per essere multimediali.
Multimedia, dunque, nasce come un termine tecnico: indica un mer­
cato, non un metodo. Intermedia sfrutta il prefisso inter, portatore di un
significato inerente alla relazione interna fra fenomeni. Intermodale, si
potrebbe anche definire, per sottolineare l’aspetto di modalità (di pro­
ceduralità) su quello propriamente mediale. Né sfugga la ovvia possibi­
lità di far riferimento anche alla parola intercodice, cardine dei pensie­
ri dell’artista Luigi Veronesi, ma anche dell’attività più recente di Laura
Falqui e Raffaele Milani con il Teatro da camera. Intercodice è una scrit­
tura fra i codici: una partitura, come quella musicale, che instaura cor­
rispondenze fra sistemi espressivi diversi quali il suono, il colore, il mo­
2
Cfr. il sito www.netsemiology.com.
3
G. Anceschi (a cura di), Il progetto delle interfacce, Domus Academy, Milano 1993.
253 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN

vimento. Per quanto parametrata, tale logica di corrispondenze è spesso


arbitraria, come tranquillamente ammetteva anche Wasilij Kandinskij.
Una procedura intermediale mira dunque a costruire una sorta di
partitura, capace di stabilire una relazione unitaria tra linguaggi diversi
nell’uso combinato di più media. Tale partitura si incarna nella proget­
tazione Web, intesa ormai da parecchio tempo, anche a livello teorico,
come una sorta di regia che coordina diversi «attori»: segni, lettere, im­
magini fisse e in movimento, elementi tridimensionali (c’è tutta l’area
dell’exhibit design), e via dicendo. Non è utile qui approfondire la pre­
gnanza di tali opzioni nel momento in cui la frontiera si sposta verso
l’integrazione fra altri e più sofisticati sistemi tecnologici: televisione (di­
gitale e interattiva), UMTS, palmari e altre tecnologie wireless, che già al-
tri corposi testi illustrati descrivono.4
Un tema intrigante, da approfondire mediante le ricerche sulla sine­
stesia, che hanno un contraltare frequente, oggi, in un design di prodot­
to che integra massicce quantità di informazioni multisensoriali. Non sa­
ranno più soltanto coinvolti il senso della vista o dell’udito, ma, secondo
Ong, McLuhan e altri studiosi,5 la comunicazione dei nuovi media co­
niugherà progressivamente tutti i sensi, come avevano prefigurato i futu­
risti. E parliamo di effettiva esperienza sinestesica, non di metafora poli­
sensoriale. Un tema di indagine che si può già assumere nell’analisi del­
la rete. In essa navighiamo con tre sensi collegati: vista, udito e tatto. Esi­
stono abbondanti studi sulle segnaletiche tattili e sonore; riflessioni sulle
mappe per non vedenti; disamine sulla semantica dei materiali; e via di­
cendo. Più pragmaticamente, le Playstation vibrano quando si entra in
zona pericolo... Però di questo si parla ancora poco.
Un altro tema di rilievo è quello che Gianni Sinni ha chiamato in un
suo testo il design delle variabili.6 Una caratteristica del Web, infatti, che
complica la vita anche all’approccio intermediale, è il fatto che non si sa
mai con certezza quale sarà effettivamente l’output del progetto che si
manda in rete. Ci sono delle variabili: la risoluzione dello schermo, i ca­
ratteri caricati, i programmi installati. Il fatto che chi progetta un sito lo
controlli immediatamente sia su Mac sia su Pc è qualcosa di più di una
leggenda metropolitana. Questa, se vogliamo, è davvero una peculiarità
del Web; e induce anche a procedure atte a evitare differenziazioni sen­
sibili, non solo per il corretto funzionamento della macchina interattiva,
ma per quello della macchina comunicativa, che deve mantenere solidi

4
S. Curran, Convergence Design, Rockport, Gloucester (Mass.) 2003.
5
Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967; J.W.
Ong, Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986.
6
G. Sinni, Progettare variabili, in «Artlab» 5, III trimestre 2002.
CARLO BRANZAGLIA 254
i criteri di riconoscibilità dell’emittente. Anche di questo non si è di­
scusso tanto.
Si è parlato molto di altre cose, invece, forse a vanvera. Può essere ve­
ro che si è perso tempo su questioni inutili, come qualcuno sostiene, e
non si è ancora arrivati a comprendere davvero a cosa serva il Web.7
Due argomenti sui quali probabilmente si è sprecato tempo sono, per
esempio, «usabilità» e «flashism». Trattasi di due atteggiamenti opposti,
vissuti però entrambi come mandati ideologici da promotori e adepti;
quindi, in quanto ideologici, scarsamente dotati di pregnanza proget­
tuale (che non può difettare di elasticità).
L’usability (che indica il grado di fruibilità di un sito) è ormai una di­
sciplina di insegnamento. Il fortunato termine utilizzato da Jacob Niel-
sen è diventato l’headline di una marea di libri, seguiti a quello dell’au­
tore americano.8 Nessuno si è mai chiesto perché ci fosse bisogno di co­
niare un termine nuovo: si poteva utilizzare tranquillamente il termine
«funzionalità». Se è vero che la semplificazione di cui tratta Nielsen è in
favore della capacità umana di interagire correttamente con quanto pro­
posto in rete, senza inutili orpelli (fine nobilissimo), allora non c’era bi­
sogno di chiamarla «usabilità», bastava appunto dire che i siti devono es­
sere funzionali, secondo una tradizione ben chiara e ben delineata nel­
la storia del design.
Ma l’usability sembra essere una questione di marketing, più che di
progettazione. Da un punto di vista comunicativo, essa si avvicina al gra­
do zero, cioè elimina tutto ciò che connota gli elementi pertinenti; di­
menticandosi però che la connotazione non è solo un meccanismo che
aiuta il processo di decodifica, ma in molti casi (in quelli di forte impat­
to visuale, o di forte interattività, per esempio) è anche quello che de-
termina la percezione attiva (in senso gestaltico) che precede la decodi­
fica. E questo, su un piano progettuale, significa non articolare corret­
tamente le informazioni secondo un piano di importanza e di sequen­
zialità, solo per citare due questioni prioritarie. Nessuno nega che un
grande portale debba per forza abbattere le sue inflessioni visuali, ai
sensi dell’usability; ma i grandi portali e i siti «molto scritti» non sono as­
solutamente rappresentativi di ciò che si fa e si può fare in rete.
Se i meccanismi di manipolazione dell’informazione si restringono a
lineette chiamate a sottolineare le parole, in uno spazio dinamico come
quello della rete, allora il problema sembra essere un altro: quello di ras­
sicurare gli uomini di marketing e comunicazione delle imprese che si
trovano a dover usare per forza questa diavoleria che può fare tutto, ma

7
AA.VV., Nella rete, «Il Verri», n. 16, maggio 2001.
8
J. Nielsen, Web Usability, Apogeo, Milano 2000.
255 LA NUOVA COMUNICAZIONE DEL WEB DESIGN

che non si sa a cosa serva veramente. Così si forniscono loro poche re­
gole, e semplici, condite con trecento pagine di elucubrazioni pseudo­
dotte e pseudo-tecniche.
Il flashism è invece la malattia che ha afflitto milioni di smanettoni
dalle ascendenze più disparate (in genere, illustratori) in preda all’irre­
frenabile desiderio di mettere il movimento dappertutto. Fra i grandi
pionieri nell’uso del celebre Flash di Macromedia ci sono nomi (Brown,
Davis, Nakamura) che hanno effettivamente scritto la breve storia del
web design. Con effetti spettacolari ma anche appropriati. Poi c’è stata
però una inflazione nell’utilizzo di questo programma vettoriale, che in
quanto tale è in grado di animare i tracciati favorendo l’effetto cartoo­
ning. Niente di male, per carità; ma se Flash è usato in maniera ipertro­
fica, può rendere ben difficili i meccanismi di navigazione che dovreb­
bero esprimere il «design dell’esperienza» in rete.
Flash però ha dimostrato una cosa: quanto importanti possano essere
certe tecnologie e certi stili lanciati tramite il Web. Non che questo sia
una novità: il papiro, la forma codex del libro, la stampa, la prospettiva...
(fino a Fontographer, il programma per disegnare caratteri tipografici
introdotto negli anni Novanta) ci dicono che l’innovazione tecnologica
è fortemente connessa all’evoluzione del pensiero e della visione, se­
condo quel principio di corrispondenza fra cultura materiale e cultura
simbolica sancito da McLuhan e Barilli.9 E d’altra parte la generazione
in ambiti sottoculturali di stili destinati a essere ripresi nel mainstream è
fenomeno che Hebdige10 e Polhemus11 hanno già degnamente contem­
plato.
Il linearismo di Flash è stato infatti motore di un ritorno dell’imma­
ginario cartooning anni Cinquanta, quello piatto e disegnato degli
Smithsons. Ha dimostrato la sua funzionalità anche da un punto di vista
prettamente tecnico: certi cartoon per la televisione sono oggi effettiva­
mente realizzati in Flash. Ma, senza negarne l’importanza, va sconfessa­
ta una visione dichiaratamente «tecnicistica» della questione, ricordan­
do che artisti/disegnatori come Shag da un buon decennio insistono su
questo taglio nelle loro serigrafie; e che animatori come Tartakovsky lo
adattano da tempo in serie quali Nel laboratorio di Dexter (così tradotto in
italiano).
Questo non nega l’importanza della rete quale laboratorio di segni,
meticciati appunto fra discipline diverse, e capaci di coagularsi in im­
maginari autonomi. Non è magari il caso di scomodare sempre il termi­

9
R. Barilli, Culturologia e fenomenologia degli stili, il Mulino, Bologna 1982.
10
D. Hebdige, Sottocultura, Costa&Nolan, Genova 1983.
11
T. Polhemus, Street Style, Thames&Hudson, London 1994.
CARLO BRANZAGLIA 256
ne Web design, così come bisognerebbe verificare le idee che stanno al­
la base di una Web art (e di una net art) prima di usare le terminologie
a sproposito. Ma questo è un altro problema. Ricordiamo tuttavia che,
da sempre, chi ha progettato per la comunicazione visiva (fossero essi
pittori o progettisti grafici) ha realizzato progetti sperimentali per pro­
prio conto, senza darne visibilità nei canali commerciali. Goya, per
esempio. O i progettisti grafici che partecipano alle varie biennali del
manifesto sparpagliate per il mondo, con proposte autoprodotte. E infi­
ne i Web designer, che si ricavano spazi personali in rete, autonomi o na­
scosti nei backstage di siti istituzionali di un’agenzia o di uno studio.
Ciò che invece è molto interessante, e peculiare, è il senso di comu­
nità che pervade queste pratiche: la famosa «community». Non si può
non essere memori delle parole di Tomàs Maldonado, quando, con la
sua consueta lucidità critica, segnalava ai cultori della democrazia in re­
te come le community che in essa si sono costruite assomiglino più alle
sette auto-esaustive della tradizione statunitense, che a (dubbi) modelli
di democrazia ateniese.12 Sono entità in cui si trovano cioè i simili, e nel­
le quali essi stessi in qualche modo si rinchiudono. Ma le community
creative in rete presentano anche un forte meccanismo di apertura. So­
no quelle che consentono di intervenire su immagini generate da altri,
o collaborare alla realizzazione di opere, o mettere in circolazione ma­
teriali a uso comune. Un senso di collettività molto aperto, anche se ma­
gari fotografa approcci particolari. Sono queste comunità virtuali a te­
nere appunto viva una molteplicità di linguaggi che non può non con­
quistare, e che magari solo in un secondo momento arriva al supporto
cartaceo, e non solo per motivi economici (si veda per esempio l’italia­
nissima Inguine.net).
Occorre anche ricordare che alle spalle di questa idea di community
creativa c’è un altro vecchio network: quello mail-artistico, che lavorava
invece sulla posta, ovvero sulla possibilità di inviare suo tramite prodotti
destinati a una elaborazione collettiva, e a una seguente raccolta in un
luogo fisico, o in uno stampato, o in un contenitore vero e proprio. E di­
fatti la mail art è praticamente svanita nelle maglie del Web. Riprendere
in mano le sue modalità oggi, e in linea più generale tenere conto di
modelli preesistenti, non significa negare la capacità innovativa di que­
st’ultimo medium, e dei suoi nuovi fratellini; significa al contrario com­
prenderla pienamente, non solo ritagliandola in negativo ma soprattut­
to ricavando le matrici culturali che ne sono all’origine.13 Tanto per ave­
re infine un’idea di cosa farsene della rete.

12
T. Maldonado, Critica della ragion informatica, Feltrinelli, Milano 1997.
13
C. Branzaglia, Tracks, Integrata, Milano 2003.
E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE
Lorenzo Taiuti

1. Panorama delle esperienze e-learning o apprendimento elettronico

La problematica dell’e-learning è oggi al centro di una serie di anali­


si, ricerche e sperimentazioni. Da molte parti negli ultimi anni si è defi­
nita o ridefinita l’importanza di utilizzazioni possibili sia nel campo del-
l’aggiornamento professionale sia nella formazione a tutti i livelli e in
campi diversi, da quello scientifico a quello umanistico.
Grandi sviluppi nella didattica informatica in generale sono stati com­
piuti negli Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia. Nuovi studi
vengono ora condotti sulle possibilità della didattica elettronica e in ge­
nerale sia in Europa sia in America c’è una forte attenzione per la for­
mazione elettronica.
I problemi aperti su un territorio vastissimo di ricerche e di applica­
zioni possibili, e contenuti nell’idea stessa di università di massa, evi­
denziano la richiesta di nuove e più complesse modalità di rapporto fra
didattica e sistema formativo elettronico, con problematiche che parto­
no dalla scuola secondaria per arrivare fino all’università.

2. Prospettive della didattica elettronica

È evidente che l’influenza della tecnologia porterà alla crescita espo­


nenziale delle tecniche di comunicazione digitale, le quali comportano
una serie di strategie didattiche ampliate e differenziate, in parallelo a
quanto noi, attraverso il digitale, cambiamo e ridefiniamo il nostro mo­
do di esprimerci, interagire e riconfigurare la cultura in generale.
Le tecnologie digitali iniziano solo ora la loro più complessa evolu­
zione. Il loro formarsi, trasformarsi e avvicinarsi ai bisogni dell’utenza
umana è uno degli obiettivi principali dell’emergente «età dell’infor­
mazione».
L’obiettivo nel nostro caso è trasferire il maggior numero di funzioni
possibili tipiche della didattica all’interno delle diverse forme di comu­
nicazione. Per «e-learning» o insegnamento elettronico si intende oggi
l’utilizzazione di ogni forma di dispositivo elettronico predisposto alla
comunicazione, dal cd-rom alla rete. Questo comporta oggi la necessità
LORENZO TAIUTI 258
di organizzare la didattica con una serie di processi complessi e articolati
in modi inediti e aperti.
Questi processi muovono su diversi livelli e cercano di integrare la di­
dattica su dei percorsi dinamici non basati solamente su «testi» o imma­
gini e informazioni prestabilite, ma su un sistema interattivo con conte­
nuti flessibili ideati volta per volta. Questo comporta lo studio delle pos­
sibilità e delle capacità di trasmettere e utilizzare informazioni telemati­
camente complesse nelle comunicazioni fra docenti e discenti.
Nella sua declinazione più semplice, la didattica elettronica è eviden­
temente radicata nella «computer-comunication» e nelle sue possibilità
di ampliare la comunicazione sperimentate a livelli generali, commer­
ciali e industriali.
Nella sua realtà più complessa tocca le ipotesi comunicative più sofi­
sticate formulate e investigate nei campi estetici e creativi come l’arte in
rete e la comunicazione politica attivista, cioè le modalità più aperte al­
la sperimentazione comunicativa in campi non commerciali.

3. Nuove discipline

Naturalmente, per evidenziare le possibilità innovative dei nuovi


mezzi di comunicazione, bisogna prefigurare la fondazione di discipli­
ne accademiche attraverso le pratiche di inedite modalità comunicati­
ve.
Si tratta di sviluppare insieme un’area complessiva di linguaggi che
esprimono nuove e impensate comunicazioni intellettuali capaci di in­
serire i «new media» nella pratica culturale e didattica contemporanea.
Questo comporta la creazione di inediti strumenti per definire l’ap­
prendimento elettronico, o e-learning, man mano che viene a coprire
un’area sempre maggiore delle pratiche didattiche. In particolare è sta­
to il mondo scientifico a trovare gli strumenti per l’archiviazione e la di­
stribuzione su Internet di lezioni, «tutorial» e seminari. I risultati otte­
nuti e le griglie di lavoro sviluppate possono essere utilizzati in molti al-
tri settori dove è forte la necessità di formazione multimediale.
L’esigenza di comunicazioni a distanza è condivisa in quasi tutti i
campi della didattica, finora soprattutto nelle aree tecniche a causa del­
la necessità di superare dati resi velocemente obsoleti dai linguaggi di­
gitali in continuo rinnovamento, cambiamento e trasformazione.
259 E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE

4. Quale didattica artistica?

Il problema centrale è definire i rapporti nel campo specifico della di­


dattica d’arte e nella formazione creativa.
Da una parte si tratta di focalizzare gli aspetti pedagogici possibili del-
l’e-learning, dall’altra le sostanziali differenze che passano fra insegna­
menti letterari o scientifici e argomenti e problematiche estetico-comu­
nicative.
Date le caratteristiche della comunicazione artistica, il modo di uti­
lizzare la rete come spazio didattico va evidentemente differenziato dal­
l’uso più informativo e dalle funzioni di distribuzione di dati che sono
comuni alle aree letterarie o scientifiche.
Nella didattica artistica sono presenti caratteristiche di relazione con
l’immagine e con la formazione per «configurazione» di immagini che
la differenziano da altre materie didattiche.
Questo apre problematiche nuove e richiede l’uso di nuovi software
che permettono di trattare e collocare in rete immagini leggere e ani­
mazioni, video e altro.
La pratica didattica detta «edutainment», e cioè un termine compo­
sto da «educazione e intrattenimento» è probabilmente la formula che
più si avvicina a una didattica artistica in rete.
La componente ludica insita nei linguaggi indica il gioco combinato­
rio e concettuale come strumento didattico. Il «learning by doing» (ap­
prendimento attraverso la pratica) è l’equivalente telematico di pratiche
già tipiche dell’insegnamento artistico. Come collocarle in rete?

5. Nuovi processi formativi: il sito docente

Le pratiche dell’e-learning seguono una serie di strategie definite dal­


le possibilità del mezzo stesso. In questo caso il «Web based training», o
preparazione basata sulla rete, indica possibilità utili a differenziare la
didattica artistica da altre forme di insegnamento in rete. Una di queste
è la possibilità di collocare in rete in un sito appositamente costruito i
materiali didattici, le informazioni, i link con altri siti pertinenti, le im­
magini o i suoni di riferimento perché siano terreno di scambio infor­
mativo. Il sito può essere personalizzato e disegnato secondo le necessità
del docente e della materia, con la possibilità di offrire materiali testua­
li o audiovisivi.
A questo punto si aprono diverse opzioni nella modalità d’uso:
a) Attraverso il sito creare la possibilità di videoconferenze, mediante
l’uso della «webcam» (piccola telecamera digitale per il Web) che per­
LORENZO TAIUTI 260
mette la visione dell’interlocutore a distanza. Oppure attivare una co­
municazione audiovisiva o testuale in tempo reale, utilizzando tecniche
di «videostreaming», e cioè di trasmissione di file video o audio ripro­
dotti durante l’operazione di «download» dei file stessi, anziché a
«download» avvenuto.
b) Oppure, sempre in diretta, realizzando una comunicazione bidi­
rezionale, con la possibilità di «chat-line», cioè di dialogo tra il docente
e gli studenti, a cui si può aggiungere l’interazione audio e video del-
l’audience con l’insegnante e/o con gli altri studenti.
c) Oppure si può creare una «lezione differita» collocando sul sito un
semplice archivio di lezioni che ha il vantaggio di essere consultabile a
volontà, può diventare un archivio di dati dove si può dividere la lezione
in sezioni indicizzabili e si può consultare anche solo in parte.

6. Siti personalizzati

Questa redistribuzione delle conoscenze e questa apertura all’inter­


vento autogestito della realtà dello studente (pubblico) è d’altra parte
un elemento che trova nell’area delle applicazioni estetiche sulla rete
importanti riscontri.
Se per esempio si opera sulla base di concetti di scambio, interazione e
creazione di «processi compositi», questi processi possono essere composti
da elementi di vario tipo come: elementi-estetici, elementi-didattici, ele­
menti-archivio. Ma quando sono composti anche da ibridi di tutte queste
funzioni producono modalità comunicative completamente nuove.
Attraverso le azioni di interattività, ridefinizione delle immagini, ri­
composizione di contenuti, allargamento di fruizione ecc., la didattica a
distanza di materie estetiche (e relative a queste discipline) prende con­
notazioni dalle ricerche fatte in campi estetici. E questo si incrocia an­
che con l’importanza della manipolazione dei simboli visivi, così rile­
vanti nella comunicazione contemporanea.
Ugualmente importante è il passaggio di mezzi nel campo estetico, e
cioè dall’uso esclusivo di mezzi tradizionali dell’arte come colori, mate­
riali naturali o artificiali, installazioni, strutture plastiche ai nuovi lin­
guaggi espressivi legati al digitale stesso come video digitale, fotografia
digitale e forme virtuali.

7. Comunicazioni e forme espressive

Questo passaggio viene a creare una sintonia fra comunicazione in re­


261 E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE

te e forme espressive che, pur non essendo un fattore globale, è suffi­


cientemente presente da determinare aree comunicative crescenti e da
indicare il senso complessivo della collocazione didattica di dati in rete.
È in atto una «digitalizzazione» dei linguaggi visivi che si pone già in
questo contesto.
Il computer permette infatti di intervenire su elementi inseriti in rete
e di rielaborarli come un nuovo prodotto. A differenza degli strumenti
meccanici dell’età industriale, il computer permette al suo fruitore di­
retto accesso alla modifica e al riassetto delle strutture più profonde di
un’opera o di un progetto ipertestuale. I lavori collocati nel sito pren­
dono un senso aggiuntivo e sono avvantaggiati dalla possibilità di inter­
venti diretti e pertinenti nella natura digitale del prodotto.

8. Tipologie comunicative e strategie didattiche

Le comunicazioni sperimentate nell’area estetica della rete ci per­


mettono di fare ipotesi diversificate dall’e-learning applicato su materie
scientifiche. Le comunicazioni di questo tipo rinviano al concetto di
«edutainment», cioè educazione connessa con l’intrattenimento.
Secondo i concetti correnti nel campo estetico l’espressione creativa
avrebbe già una componente ludica, ma la sua traduzione in didattica
vuole comunque una codificazione.
Una pratica innovativa riguarda la possibilità di «montare» lavori di­
gitali singolarmente o collettivamente e poi collocarli in rete in modo
innovativo nel campo specifico delle forme estetiche.

9. Modelli estetico-formativi

Il modello di molti interventi creativi sulla rete prefigura un «lear­


ning object», un «oggetto di apprendimento». Nel campo didattico que­
sto «learning object» è insieme un prodotto e un modello di usi e appli­
cazioni possibili.
Se l’oggetto di apprendimento è un sito con particolari caratteristi­
che, per esempio che dia la possibilità di costruire o aggiungere ele­
menti al sito stesso, si realizza uno scambio attivo di informazioni ed ela­
borazioni tra lo studente e il suo oggetto di studio, che dà luogo a un
originale e creativo processo di apprendimento. L’insegnamento diven­
ta così necessariamente «flexible teaching», insegnamento flessibile do­
ve lo schema di partenza composto di dati multimediali viene modifica­
LORENZO TAIUTI 262
to, arricchito o ridefinito in una dinamica che riguarda delle conoscen­
ze molteplici.
Per esempio i dati formali forniti possono poi essere ristretti attraver­
so un processo di selezione, scegliendo una serie di forme o colori, o te­
sti, fino a modificare l’oggetto-sito collocato in rete.
Se analizziamo alcuni progetti di net art come per esempio Net Flag di
Mark Napier, collocato sul sito del Guggenheim Museum, vediamo che
la natura di questi progetti si presenta spesso come un prodotto di tipo
insieme estetico e didattico.
Il sito consiste in una serie di dati concernenti
a) tutte le bandiere esistenti sul pianeta;
b) le forme: i dati possono poi essere ristretti attraverso un processo
di selezione, per esempio selezionando una serie di forme simili pre­
senti in alcune bandiere: triangoli, rettangoli, stelle, quadrati ecc.
c) Lo stesso procedimento viene fatto sui colori.
d) Grazie alla possibilità di interagire con il sito si può quindi co­
struire una forma nuova, una nuova bandiera a cui si potrà dare il pro­
prio nome.
e) La nuova bandiera viene poi collocata con il nome dell’autore sul
sito del museo.
Si possono desumere da questo esempio una serie di dati utili: la pos­
sibilità del docente di operare in modo complesso e interlinguistico, po­
nendo sul sito non solo un insieme di dati ma un modello manipolativo
praticamente inesauribile, per attivare negli studenti problematiche
estetiche e riceverne risposte complesse sia su tematiche inerenti alla re­
te sia su altri linguaggi.
Il problema della comunicazione estetica si fa duttile e diversificabile
sulla interazione fra diversi operatori e anche su corsi diversi: corsi ba­
sati sulla creazione visiva o sull’apprendimento di storia dell’arte.

10. Forme comunicative in rete

Rispetto alle implicazioni estetiche e alle esperienze dislocabili sulla


rete troppo spesso il progetto didattico legato alla rete è riferito alla
semplice «Library» (collocazione di elementi in rete come una bibliote­
ca permanente). La funzione, in sé importante, non copre se non in
parte il problema della comunicazione di dati nel rapporto docente-di­
scente. Questi possono avvenire attraverso «mailing list» o «groupwa­
re», sistemi aggregati di scambio su cui è possibile inserire tecniche co­
municative interrelazionali, in cui circolano idee, proposte e informa­
zioni, oppure «forum» collocati in rete dove lasciare interventi come in
263 E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE

una «bacheca» elettronica. O nella forma oggi più diffusa, il «blog», che
permette di conservare gli interventi, trasmessi sul sito automaticamen­
te e pronti a essere accresciuti e riletti da ogni visitatore.
Lo strumento della «chat-line» o invio e risposta in tempo reale di
messaggi può essere ripensato e reso uno strumento valido e innovativo.
Forum, chat-line, groupware, mailing list, blog sono comunque stru­
menti accomunati da un obiettivo importante e centrale ai fini della di­
dattica: centralizzare la figura dello studente come elemento attivo dei
processi di didattica e ricerca.
Centralizzare il soggetto discente implica anche un altro elemento
importante e cioè la «socializzazione» e condivisione di problemi am­
pliata all’intera realtà didattica, la sua diffusione in ambiti di studio di­
versi: fra studi plastici e studi storici, fra corsi di creazione informatica e
linguaggi visivi.

11. Prospettive

L’università di massa è una realtà in continuo sviluppo, una realtà che


tocca oggi sia le facoltà scientifiche sia quelle umanistiche o quelle crea­
tive e artistiche.
Questo prefigura un contesto che allontana il rapporto docente-di­
scente e ne prefigura modelli didattici e cognitivi legati alla rete infor­
matica. Per esempio un «Desktop-Video-Conferencing», la cui più co­
mune configurazione usa multimedia, computer e software di confe­
renza come Proshare o Picturetel ed è efficace per comunicare consen­
tendo una visione collettiva (in piccolo gruppo).
Ognuno con una webcamera può formare un gruppo di siti (multi­
point) che dividono informazioni, e che si incontrano via webcam.
Ma al di là delle numerose soluzioni tecniche che sono state e vengo­
no utilizzate e sperimentate, va focalizzato il concetto di didattica in re­
te come luogo di scambio culturale e didattico non rigidamente presta­
bilito ma continuamente aggiornato nello sviluppo delle possibilità co­
municative della rete stessa.

12. Condivisioni, collaborazioni

Un termine chiave di una cultura didattica basata sulla comunicazio­


ne telematica è oggi l’idea di sharing, condivisione. Condivisione di co­
noscenze, condivisione di informazioni, condivisione di saperi, condivi­
sione di software.
LORENZO TAIUTI 264
Il concetto di sharing porta il processo didattico verso forme di
scambio di elementi informatici e informazioni che sono alla base
dell’«object learning» o oggetto di apprendimento, perché non si
tratta più solamente di condividere una struttura significativa (un sito
didattico) ma anche lavorare sulla condivisione di software o parti di
essi. Infatti la comunicazione di dati non si limiterà ai contenuti, ele­
menti testuali o visivi, ma anche a parti di software da comporre insie­
me.
La condivisione di software o codici informatici porta alla costituzio­
ne di una entità didattica diretta, ma anche alla ridefinizione dei mezzi
comunicativi ed espressivi. La crescente possibilità di gestione dei mate­
riali informativi da parte dei software e l’apprendimento di questi da
parte degli studenti permettono a questi ultimi di partecipare alla co­
struzione sia di informazione sia di «progettazione dell’informazione».

13. Altri modelli culturali

I modelli comunicativi dei nuovi media si rifanno continuamente al­


la costruzione possibile di «opere» sulla rete. La creazione di queste
opere si presenta con le stesse caratteristiche del «gioco di gruppo» in
cui la partecipazione è possibile per tutti.
Questi «giochi», che possono essere ogni volta progettati su temati­
che emergenti, hanno la caratteristica di «processi di simulazione» in
cui i temi proposti vengono svolti.
Le caratteristiche di questi processi didattici sono definite anche blen­
ded learning e cioè «apprendimento combinato». Dove per apprendi­
mento combinato si intende l’utilizzazione alternata di varie modalità
comunicative: segno e parola, suono e video ecc. Se l’obiettivo è la solu­
zione di problemi, la realizzazione di forme estetiche o la formulazione
visiva di concetti si definiscono secondo modalità simili a quelle delle ar­
ti tecnologiche: la simulazione visiva, la narrazione come mezzo di par­
tecipazione, la realtà virtuale.

14. Guidati dalla comunicazione

In un ambiente dominato dalle comunicazioni sempre più diventano


maggioritarie le comunicazioni visive. La domanda per comunicazioni
visive complesse diventa quindi un «topic» centrale sia nella comunica­
zione estetica sia nella comunicazione pedagogica. Va quindi focalizzata
265 E-LEARNING: ARTE E DIDATTICA VIA RETE

nel campo della didattica via rete la forte domanda di lettura, interpre­
tazione, concettualizzazione e comprensione di messaggi multimediali.
Una necessaria attenzione va posta lavorando in questa direzione nel­
le caratteristiche progettuali esistenti nel linguaggio: interattività, com­
plessità non gerarchica dello spazio di rete. La cultura della rete deve
quindi essere appresa come se fosse un nuovo sistema linguistico che ri­
specchia quello esistente.
Una «Virtual Classroom», una classe virtuale è l’obiettivo da creare,
un trasferimento digitale delle classiche dinamiche pedagogiche. L’ap­
prendimento attraverso il fare (cercare, selezionare, disporre, cataloga­
re ecc.) coincide fra l’altro con linee importanti della pedagogia mo­
derna e si pone come uno strumento sempre aperto a innovazioni con­
tinue, a processi di aggiornamento che coinvolgono sia il soggetto do­
cente sia il soggetto discente.

15. Culture e strumenti

La net art propone delle formule rappresentative che la portano ver­


so una organizzazione innovativa dei tools, degli strumenti utilizzati e
utilizzabili nei linguaggi digitali. La realtà della didattica via rete dei lin­
guaggi estetici è da una parte legata strettamente allo sviluppo delle te­
matiche creative nel campo dei linguaggi multimediali e alle sue possi­
bilità di creare «spazi di accesso» ai linguaggi creativi.
Dall’altra parte è legata alla selezione di pertinenti strumenti e softwa­
re che permettano la ricerca e l’applicazione.
È necessario creare attraverso questi nuovi strumenti degli «oggetti
comunicativi» che abbiano connotazioni estetiche tali da alterare il sen­
so stesso della didattica, modificandone i processi tradizionali.
La classe con le sue lezioni «frontali» si trasforma in una «Virtual Co­
munity», in una «Virtual Classroom» e infine in un «Workgroup», e oltre
ancora in una «Learning Community», una »Comunità di Apprendi­
mento» dove ricerca, condivisione, collaborazione sono i dati di base
per una ridefinizione digitale della formazione creativa multimediale.
IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART
Maria Grazia Mattei

1. Ricerche, tendenze

Computer animated film, computer animation, arte auto-cinetica, ar­


monia digitale, visione nel movimento: sono tanti i modi con i quali vie-
ne definito il prodotto di una mutazione avvenuta non più di venti anni
fa nel mondo dell’immagine animata: quella della creazione di immagi­
ni generate con il computer senza più alcun rapporto diretto con la
realtà; immagini ontologicamente nuove, oggetti difficilmente concepi­
bili senza l’ausilio di una tecnologia digitale, basati su calcoli matemati­
ci, sul numero. L’accento sulla tecnologia enfatizza forse troppo il ri-
corso alla macchina, ma risponde alla necessità più o meno cosciente e
dichiarata di sottolineare il ruolo fondamentale e innovativo che la tec­
nologia stessa svolge oggi nei confronti della creazione di immagini in mo­
vimento. In un certo senso il computer raccoglie e sviluppa tutte le in­
tuizioni e le suggestioni che la storia del cinema e delle avanguardie ar­
tistiche hanno potuto trasmettere con le loro ricerche audiovisuali, con
il loro desiderio di un cinema assoluto, radicato profondamente nell’e­
sperienza artistica: il computer è lo strumento più perfezionato, è la tec­
nologia del calcolo esatto, dell’interazione, dell’astrazione per eccellen­
za che a esso può dare risposta.
Gli artisti dell’immagine astratta e dell’audiovisivo totale, del cinema
assoluto hanno cercato armonie di forme in movimento che l’occhio
potesse percepire e apprezzare. Il loro dichiarato desiderio era quello di
dilatare lo spazio, di creare dimensioni percettive diverse, emotivamen­
te forti, e per questo hanno avuto bisogno di negare la figuratività e di
proporre concetti espressi in luce, colori, segni e musica.1 Dai loro con­
tributi teorici spesso si ricavano suggestioni che vanno oltre le possibilità
espressive che i mezzi di allora permettevano. Luigi Veronesi, per esem­
pio, in un suo scritto pubblicato nel 1947 dalla rivista «Ferrania» espri­
me la necessità di un ulteriore sviluppo della ricerca sulle immagini in
movimento. Dopo aver sperimentato la pellicola e dopo aver già avviato
le sue ricerche sul rapporto tra musica e colore, dichiara: « ...Non sap­
1
Cfr. G. Ballo, Origini dell’astrattismo, verso altri orizzonti del reale, Silvana Editoriale,
Milano 1979.
267 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART

piamo se il film astratto continuerà a vivere o se altri film verranno, se al­


tre strade nel campo del cinema puro saranno battute. Forse un giorno
avremo film astratti di nuovo genere, proiettati singolarmente o simul­
taneamente nello spazio, su schermi multipli, su piani differenti, su
schermi permeabili ai suoni e ai corpi; essi potranno dire allora parole
nuove e faranno più ricco e più magico il linguaggio del cinema».2
Anche Leopold Survage negli anni Venti aveva lavorato nella direzio­
ne di un’arte che non fosse né pittura né cinema, ma una forma espressiva
autonoma.
Il problema dunque era essenzialmente tecnologico. «La storia di ogni
forma artistica», scrive Walter Benjamin, «mostra fasi critiche nelle quali
una certa forma d’arte raggiunge gli effetti che potrebbero essere pie­
namente ottenuti soltanto con un mutato standard tecnico, cioè con una
nuova arte»,3 e sappiamo che Theo Van Doesburg già nel 1921 in una let­
tera scritta dopo una visita a Eggeling e Richter avvertiva la necessità che la
superficie e i rapporti di colore fossero rigorosamente precisi, fossero cioè
prodotti meccanicamente e aggiungeva a proposito del nuovo cinema:
«. . .ma è proprio questa superficie che si deve far saltare per scoprire dietro
di essa la nuova profondità, la continuità nel tempo e nello spazio del cine­
ma», anticipando l’esperienza dell’expanded cinema americano e della
computer art.
Oggi, sia dal punto di vista della fenomenologia dell’immagine in movi­
mento che del linguaggio, con l’immagine digitale e più ancora con quella
sintetica è possibile superare non solo i confini della «pittura da cavalletto»
quanto quelli del cinema stesso, realistico o astratto che sia. Anzi possia­
mo affermare che la ricerca in atto contribuirà senz’altro a una diversa
definizione della teoria del cinema e dell’arte.
Basta considerare la natura dell’immagine digitale: il numero, il codice,
definito dai coniugi Vasulka «variation machine», in quanto capace di
introdurre mutamenti nel mondo delle immagini in movimento e nuove
condizioni epistemologiche e ontologiche.4
Il computer è oltretutto un metamezzo, capace non solo di riappro­
priarsi delle funzioni estetiche di tutti i mezzi precedenti, ma anche di rea­
lizzare ciò che prima o non era possibile o era estremamente difficile.
Metamorfosi, evoluzione, effetti speciali: con le nuove tecnologie possia­
mo estendere, «espandere», la ricchezza del linguaggio cinematografi­

2
L. Veronesi, Il cinema astratto, in Ferrania, Milano 1947.
3
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einau­
di, Torino 1966.
4
Cfr. G. Youngblood, Cinema and the Code, in Computer Art in Context, Supplemen­
tal Issue, ISAST, Usa 1989.
MARIA GRAZIA MATTEI 268
co. Occorre però conquistare artisticamente il nuovo mezzo lavorando
su alcuni elementi strutturali dell’immagine digitale e sintetica, cercan­
do di costruire i principali fondamenti linguistici del nuovo cinema.5
Certo è che l’immagine sintetica offre molto di più di quella digitale, ed
è su questo oggetto particolare che vale la pena di soffermarsi con più at­
tenzione, poiché gli sviluppi linguistici che l’immagine sintetica animata
contemporanea riserva sono assolutamente originali, e forse è proprio su
questo versante che si potranno vedere realizzate le previsioni di Vero­
nesi, di Survage e di tanti altri artisti degli anni Venti.
Se analizziamo la storia della computer art comprenderemo meglio co­
me e perché è avvenuta questa svolta che ci propone ormai uno sviluppo
dell’immaginario determinato da nuovi codici, anche se in stretta rela­
zione con tutta l’esperienza passata. Nell’arco di venti anni il computer
ha dimostrato di poter permettere più performance di quelle che appe­
na si potevano intuire quando è comparso sulla scena.
Il computer, strumento che lavora su istruzioni numeriche, sin dall’i­
nizio è stato utilizzato per effettuare il più rapidamente ed esattamente
possibile una quantità di calcoli complicatissimi ed è stato subito visto
anche come estensione e potenziamento delle facoltà della mente. Ad­
dirittura, nel dibattito che accompagnava lo sviluppo tecnologico negli
anni Sessanta, si riflettono due posizioni fondamentali: quella utopica
che assegnava al computer una funzione di creazione autonoma e l’al­
tra più razionale che lo concepiva come estensione delle possibilità
creatrici dell’uomo.6
Quando il computer ha cominciato a disegnare, o meglio quando è
stato possibile dimostrare che un’immagine mentale poteva essere pro­
dotta e descritta attraverso calcoli e materializzata dal computer in se­
gni, allora il salto nel dominio dell’arte visiva si è compiuto; è dunque ri­
nato l’antico dibattito delle avanguardie storiche, così come si è ripro­
posta la questione mai sopita del rapporto tra arte, tecnologia e scienza.
Il Computer Technic Group (CTG), attivo a Tokyo alla fine degli anni
Sessanta, è l’esempio di una formazione artistica la cui attività riflette il
clima culturale di un’epoca attraversata da una grande fiducia nei con­
fronti della scienza e della tecnologia e da un fermento di idee innova­
tive e dissacranti nei confronti dell’arte ufficiale. L’arte suggerita dalla
tecnologia informatica è un’arte esatta, basata sul calcolo rigoroso mira­
to da un lato a rappresentare diversamente la realtà, dall’altro a visua­

5
Ibidem.
6
M.G. Mattei, Ingegneria nell’arte, in Computer Grafica & Desktop Publishing, Gruppo
Editoriale Jackson, luglio-agosto 1989.
269 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART

lizzare altre dimensioni. In ogni caso è un’arte che stabilisce rapporti di­
versi sia rispetto all’oggetto artistico sia rispetto al pubblico.
Nel primo caso sono nate le principali ricerche su software e hardwa­
re tese a rappresentare in modo iperrealistico qualsiasi soggetto, inseri­
to però in uno spazio percettivo praticamente illimitato assunto come
pura memoria: uno spazio dove sono possibili tutti i punti di vista e dun­
que tutte le prospettive, dove il tempo si manifesta simultaneamente in
ogni sua dimensione e conserva la memoria di sé.
Nel secondo caso le potenze di calcolo e di memoria via via sviluppate
hanno permesso di spingere l’immaginario fino a visualizzare dati pro­
venienti dalla scienza (frattali, figure topologiche) o a generare forme
autoreferenti, rispondenti a leggi di comportamento proprie come nel
caso delle creature di Yoichiro Kawaguchi, noto artista giapponese attivo
dalla metà degli anni Settanta.7
Dunque sin dalle prime battute il computer, anche quando era solo
un’ingombrante macchina di calcolo collegata a plotter elementari o a
registratori magnetici connessi al tubo catodico del monitor che trac­
ciava i primi graffiti, si è rivelato nelle mani dell’artista esperto un me­
dium straordinario, almeno dal punto di vista delle possibilità espressive
per andare molto oltre i sogni delle avanguardie. Solo oggi però possia­
mo tentare di tracciare le linee di sviluppo di una ricerca linguistico­
espressiva che proprio a partire dai primi risultati ottenuti in campo ar­
tistico non ha subìto arresti.
Inizia negli anni Sessanta, abbiamo detto, la sperimentazione con il
computer orientata verso la creazione di immagini. Gli artisti di allora era­
no i tecnici e gli ingegneri delle grandi società informatiche che solo in se­
guito si sarebbero avvalsi della collaborazione di artisti.
L’immagine elaborata al computer inizialmente è statica ed è traccia­
ta per mezzo di simboli grafici. Solo più tardi viene visualizzata partendo da
calcoli. Già le prime ricerche contengono buona parte degli elementi lin­
guistici che si sarebbero sviluppati ulteriormente con la rappresentazione
del movimento e con l’animazione e la descrizione di oggetti sintetici: estra­
zione dei dati, random, texture, studi prospettici, interazioni, metamorfosi,
studio del colore.
Alla base di tutto c’è il programma, il software elaborato direttamen­
te dall’operatore per verificare spesso alcuni presupposti estetici sugge­
riti dall’artista nel lavoro di équipe. Nel 1968 a Londra si inaugurava Cy­
bernetic Serendipity, una delle mostre più importanti sul rapporto tra arte
e scienza, dove Jean Tinguely esponeva le sue macchine accanto a Cyberne­
tic Light Tower di Nicolas Schoffer; Eugenio Carmi poneva le sue opere gra­
7
Y. Kawaguchi, Growth Morphogenesis, JICC Publishing Inc., Tokyo 1985.
MARIA GRAZIA MATTEI 270
fiche accanto a quelle stereoscopiche di Michael Noll e ai geroglifici grafici
di Leon Harmon e Kenneth Knowlton; Ben F. Laposky con gli Oscillons, pri­
me vere astrazioni elettroniche, dialogava con Electronic Tv-Images di Nam Ju­
ne Paik.
La selezione, curata da Jasia Reichardt, attraversava i movimenti del-
l’arte cinetica, dell’arte programmata, di Fluxus e contestualizzava l’espe­
rienza della computer art con lo scopo di dimostrare non l’estraneità
della tecnologia al dibattito delle avanguardie artistiche dell’epoca, ma
la sua trasversalità e la sua carica innovativa e originale.8
L’immagine fissa elaborata al computer degli anni Sessanta, bidimensio­
nale, in bianco e nero, con una grafica a «fil di ferro», era già un segno
nuovo, per sua natura astratto e nasceva, come è nata l’arte filmica astrat­
ta, sui presupposti della sperimentazione e della libertà esplorativa con le
nuove tecnologie. Rappresentate sullo spazio di un foglio o mosse nella
continuità di una pellicola, le nuove immagini esibivano le loro potenzialità
se non estetiche almeno linguistiche. Il random, per esempio, il principio di
casualità introdotto nel computer, evidenziava non solo la bizzarria della
tecnica ma permetteva di costruire strani piani prospettici con figure geo­
metriche infinite mosse in direzioni impreviste. Ricerche sulla configura­
zione, nate con l’applicazione di questa regola, hanno suggerito studi spa­
ziali, prospettici e quindi percettivi. Sulla linea di una ricerca prospettica e
spaziale che stimolasse e coinvolgesse attivamente il pubblico, si muove­
vano artisti come Vera Molnar, legata all’ambiente GRAV parigino, Lillian
Schwartz e altri artisti non figurativi attivi negli anni Sessanta, collegati
in realtà più all’esperienza dell’arte cinetica o programmata che a quel-
la astratta. Tuttavia con la scrittura di programmi che permettevano di
generare il movimento dell’immagine nasce, verso la metà degli anni
Sessanta (proprio come è accaduto con le avanguardie pittoriche dei
primi del Novecento), anche la ricerca di un’estetica dell’arte informa­
tica, dinamica, esatta e interattiva. E qui la storia si collega sia all’espe­
rienza astratta delle avanguardie sia a quella più recente degli anni Cin­
quanta e Sessanta cui si accennava prima.

2. Il cinema sintetico

Il primo film al computer risale al 1963 e fu prodotto presso la Bell &


Telephone Laboratories nel New Jersey da Edward Zajec. Rappresentava
la simulazione simbolica del movimento di un satellite di comunicazio­
8
J. Reichardt, Cybernetic Serendipity the Computer and the Arts, Studio International,
London 1968.
271 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART

ne intorno alla Terra. Si trattava della verifica visiva di calcoli studiati per
posizionare un satellite di comunicazione nella sua orbita. Niente di ar­
tistico dunque: tuttavia l’esperimento fu sufficiente per far intuire che
con la tecnologia a disposizione abbinata al registratore magnetico di
microfilm era forse possibile ottenere di più e magari di meglio anche
dal punto di vista creativo. Non a caso Zajec ha proseguito realizzando
opere come A Pair of Paradoxes (1988) in cui ottiene interessanti effetti
ottici e acustici o Chromas (1986) sullo studio del colore in rapporto al
suono (che vedremo successivamente).
Ken Knowlton, anch’egli impiegato alla Bell & Telephone Laborato­
ries produsse invece tra il 1963 e il 1967 una dozzina di film, utilizzando
un proprio programma, molto semplice, che battezzò BEFLIX, e che era
centrato sui concetti di velocizzazione di operazioni e sulla ripetitività.
Sarà con la collaborazione di Stan Vanderbeeck che Knowlton realizzerà
alcune ricerche artistiche astratte più belle e significative.
Poiché le ricerche sull’immagine fissa si erano soprattutto orientate
negli anni Sessanta sullo studio di nuovi pattern visivi geometrici e
astratti che interagissero dinamicamente con lo spazio di rappresenta­
zione e con la percezione dei fruitori, l’introduzione del movimento
nella rappresentazione computerizzata, avvenuta negli stessi anni, svi­
luppa ulteriormente questi presupposti e si sintonizza subito con la sto­
ria delle immagini filmiche rivitalizzandola anche con le prime espe­
rienze di musica elettronica.
Non ci sono molti testi scritti sulla storia del cinema sintetico che do­
cumentino una cosciente continuità con il cinema delle avanguardie
storiche. Esistono tuttavia alcune dichiarazioni significative degli stessi
autori e soprattutto è possibile tentare qualche analisi dalla visione del­
le opere prodotte in quegli anni. Sono opere nate generalmente per col­
laudare un dato programma più che per esprimere una ricerca estetica.
Tuttavia alcuni autori come Ronald Resch, John Stehura, Lillian
Schwartz, Michael Noll e altri dimostrano di avere una certa sensibilità
artistica coscientemente tesa a «espandere» la ricerca di un’arte filmica
non figurativa. Vanderbeeck, che è uno di questi, scrive nel 1969: «Mi
sono interessato alla pittura in movimento nel ’57. Ho cominciato a la­
vorare in animazione dipingendo: fotogramma per fotogramma, ani­
mazione: frame per frame; il computer: on e off..., bit per bit...; la se­
quenza è inevitabile, la figura in movimento come grafica in movimento.
Il computer mi attrasse nel 1965 per le sue numerose possibilità grafiche,
ho potuto vedere nel computer il mutamento: la memoria del mondo e la
rappresentazione metafisica».9

9
Cfr. J. Reichardt, The Computer in Art, Studio Vista Limited, London 1971.
MARIA GRAZIA MATTEI 272
A differenza del primo film lineare di Zajec, la serie che Vanderbeeck
realizza nel 1964 insieme a Knowlton, intitolata Poemfield, mostra immagini
modulari simili a mosaici complessi, è in bianco e nero e il colore, squil­
lante, è stato aggiunto in una fase successiva dai tecnici del laboratorio fo­
tografico. Lo scopo era evidentemente quello di ottenere una nuova pittu­
ra non oggettiva, dinamica, costruita su un ritmo visivo soggettivo le cui re­
gole erano controllate dal computer. Un ritmo tutto interno all’immagine,
dunque.
Anche Lillian Schwartz è un’artista che dalla pittura passa al computer
per muovere il suo segno. Ma sfrutta subito la possibilità che la nuova tec­
nologia e il sistema BEFLIX offrivano per creare texture composite, metten­
dole però in rapporto con la musica. Pixillation (1970) è la sua prima com­
posizione animata ed è una combinazione di quadri dipinti a mano e ani­
mazioni al computer colorate personalmente in laboratorio. I pattern vi­
sivi astratti di cui è composto il film creano immagini densamente cariche
di colori e sono accompagnati da suoni elettronici sintetici. Ne risulta un
ritmo serrato che è stato paragonato dall’artista stessa al «rullio di tam­
buro sugli occhi» e anche se non strutturato in rapporto alla scrittura
musicale, come invece succede in maniera più rigorosa e organica nelle
opere di altri artisti (primo tra tutti John Whitney sr.), Pixillation è un film
che coglie la possibile corrispondenza tra il segno grafico del computer e la
musica elettronica, tra numero e numero.
Altri artisti hanno variamente ripreso e applicato nei loro lavori queste
prime regole e altri hanno sviluppato, anche se in una direzione narrativo­
figurativa, tecniche estremamente interessanti dal punto di vista lingui­
stico-espressivo come l’interpolazione (il calcolo automatico di un’imma­
gine da un frame all’altro). Charles Csuri all’Ohio State University è il pri­
mo negli anni Sessanta a dedicarsi alla scrittura di programmi per gene­
rare trasformazioni e metamorfosi di oggetti che vengono disintegrati,
ricomposti e moltiplicati facendo ricorso a poche funzioni.
Il film Hummingbird (1968) è composto da una serie di particolari varia­
zioni grafiche sul tema di un colibrì. Il CTG in campo grafico (ricordia­
mo la storica sequenza Running Coca is Africa del 1967 realizzata ricorrendo
a un algoritmo che convertiva la figura di un uomo in corsa in una bottiglia
di Coca Cola e quest’ultima nel disegno dell’Africa) e soprattutto Peter Fol-
des nell’animazione – si veda The Munger (1974) e soprattutto Metadata
(1971) – applicano in maniera fantasiosa e poetica la stessa tecnica otte­
nendo risultati altrimenti impensabili.
È utile qui aprire una parentesi sul passaggio da un’arte filmica di «tran­
sizione», come è stato definito da Gene Youngblood il cinema meccanico, a
quella di «trasformazione» che egli attribuisce soprattutto all’immagine
digitale ma che è portata fino alle più estreme conseguenze proprio dal­
273 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART

l’immagine sintetica tridimensionale. In poche parole l’immagine digitale


prima e quella sintetica poi hanno messo in discussione il concetto stesso
di fotogramma che nel nuovo cinema non è più un oggetto ma il seg­
mento del tempo di un segnale continuo. Ciò rende possibile una sin­
tassi basata sulla trasformazione e non sulla transizione.
Si tratta quindi di un concetto di montaggio completamente diverso
che a sua volta comporta una resa diversa del ritmo delle immagini in
rapporto allo spazio e al tempo. Citando i coniugi Vasulka, tutto ciò
porta a «...nuove possibilità narrative e a nuove strutture semiotiche:
per esempio la possibilità di un evento passato o futuro che appare da
un punto di vista spaziale dietro o davanti a un evento attuale all’interno
dello stesso frame».
L’elaborazione del fotogramma da parte delle avanguardie degli an-
ni Venti era già stata un tentativo in questa direzione, ma tutto ciò di­
viene ancora più significativo con le immagini di sintesi, poiché l’im­
magine è numero. «Solo oggi», continuano i Vasulka, «si può comincia­
re a immaginare un film privo di stacchi, tendine o dissolvenze, dove
ogni immagine si trasforma in quella successiva secondo possibilità infi­
nite con conseguenze emotive e psicologiche illimitate».10
Dunque anche la metamorfosi, la trasformazione del segno, tecnica
già nota nel mondo dell’animazione tradizionale, solo con l’immagine
di sintesi può essere controllata perfettamente e divenire fotoreale. Ap­
plicarla per creare un disegno lineare o per realizzare un’immagine
fantasiosa è cosa ben diversa dall’utilizzarla per generare e/o trasfor­
mare un oggetto ontologicamente realistico poiché libero da condizio­
namenti esterni. L’immagine di sintesi tridimensionale è infatti ogget­
to a tutti gli effetti, virtualmente rappresentato sullo schermo. Esiste in
quanto dotato di ogni informazione, come un essere contiene il suo
DNA.
Questo è stato solo teoricamente possibile nel cinema meccanico e in
qualche modo è stato anche ottenuto nell’animazione tradizionale (si
vedano le opere a effetto tridimensionale di Oskar Fischinger o le ani­
mazioni con i pupazzi di George Pal). Ma la vera tridimensionalità si ot­
tiene solo con l’immagine sintetica poiché si tratta di un oggetto spe­
ciale derivato da un data base, il cui movimento nello spazio e la cui me­
tamorfosi rispondono all’evoluzione e alla trasformazione dei dati che
l’hanno generata.
In un film creato col computer possiamo controllare non solo la po­
sizione dell’immagine-oggetto all’interno del fotogramma ma anche la
sua prospettiva, il suo angolo visuale, la sua geometria. Conseguente­
10
Cfr. G. Youngblood, Cinema and the Code, cit., p. 29.
MARIA GRAZIA MATTEI 274
mente nella fruizione interattiva il pubblico diventa utente e il rapporto
con la visione non è più basato solo sull’osservazione ma sull’azione. Il
pubblico non si identifica solo con la cinepresa: è la cinepresa. «È un
punto di vista attivo all’interno della scena. Può dirigere il suo sguardo
ma può anche essere rappresentato: vede ed è visto», come afferma
Catherine Richards nel catalogo del Festival Video di Los Angeles del
1987.
Naturalmente questi sono solo brevi appunti sulle possibilità espres­
sive rinnovate da un uso della tecnologia informatica. Possibilità appena
intuite negli anni Sessanta. Lo studio dei modelli tridimensionali pren­
de avvio infatti solo più tardi, verso la fine degli anni Settanta, e si è svi­
luppato soprattutto nel decennio successivo. Tuttavia anche l’elabora­
zione di immagini computerizzate, seppure bidimensionali, dei primi
anni era già una esperienza significativa rivolta, come abbiamo detto, al­
lo studio dei fenomeni visivi e in qualche modo già coinvolta teorica­
mente e praticamente con la storia del cinema e delle sue valenze este­
tiche. I concetti di spazio e di tempo per esempio, di rapporto tra le for­
me in movimento vengono studiati a fondo con grande slancio già a par-
tire da quegli anni da artisti come James Whitney (con Lapis del 1966, uni­
co film da lui composto con il computer), da Larry Cuba, dallo stesso
Edward Zajec e naturalmente da John Whitney che scopre nel numero il
minimo comune denominatore per creare quelle armonie ritmiche che
le avanguardie avevano ricercato con mezzi manuali, stendendo i colori
fotogramma per fotogramma secondo un rigoroso rapporto matematico
tra la scala musicale e lo spettro della luce (come faceva Veronesi) o trac­
ciando forme astratte come una partitura musicale, cercando di rende­
re l’immagine della musica in immagini musicali.
Vorremmo qui sottolineare come, in un certo senso, tutto il movi­
mento astratto, espresso via via da movimenti artistici diversi, torni a es­
sere con la ricerca al computer estremamente attuale e originale.
Tutt’altro che utopico risulta infatti il desiderio di un’opera audiovisiva
totale figlia di un’arte autonoma «né cinema né pittura», come sostene­
va Survage. I film dei fratelli Whitney o di Larry Cuba sono opere capa­
ci di trasmettere profonde emozioni, di lasciare immaginare nuovi spazi
e vivere tempi percettivi diversi da quelli a cui siamo normalmente abitua­
ti: appartengono a un’arte che propone oggi allo spettatore, come ab­
biamo prima accennato, condizioni di fruizione di grande interesse for-
male.
Vale la pena poi segnalare quello che già sta succedendo di nuovo. Il
livello di oggettivazione dell’immagine si può realizzare anche con di­
splay «tridimensionali»: l’ologramma di un oggetto in movimento è un
esempio significativo che tuttavia presuppone un referente reale. Le ul­
275 IL PERCORSO STORICO DELLA COMPUTER ART

time esperienze di produzione e di proiezione stereoscopica di immagi­


ni di sintesi invece, possono fare a meno della ripresa a tutto vantaggio
della creatività pura. La stereoscopia computerizzata oltre a offrire la de­
finizione massima di un’immagine astratta ci permette anche di vivere
un’esperienza percettiva totalmente nuova poiché l’oggetto sintetico,
di per sé già tridimensionale, sconfina dallo spazio bidimensionale del­
lo schermo.
Nel caso della realtà virtuale o telepresenza (ricerca in atto alla VPL
californiana e alla NASA), lo spazio cinematico diventa invece un luogo
da vivere, uno spazio costruito da macchine intelligenti per interagire fi­
sicamente con il mondo rappresentato dal computer. Con la realtà vir­
tuale si realizza il sogno di Alice dietro lo specchio: si può vivere nella
rappresentazione e sperimentare nuove leggi della percezione.
Le immagini virtuali non sono né concrete né astratte; la realtà vir­
tuale forse rappresenta la dimensione che l’arte astratta ha cercato di
esprimere in lunghi anni di ricerca.11

3. Colori, suoni

Resta da dire infine qualcosa sul colore che, come aveva ben intuito Van
Doesburg, solo con la tecnica poteva venire in aiuto al cinema creativo.
Con il computer abbiamo acquisito i mezzi tecnici atti a controllare
tempo e luce così come la musica controlla tempo e suono. «Sui suoni»,
scrive Veronesi in un suo saggio sui rapporti tra suoni e colori, «si è fat­
to uno studio matematico molto più approfondito che non sui colori,
perché il numero è sempre stato al principio di tutta la teoria dei suoni,
mentre per la scienza dei colori l’analisi matematica è di data abbastan­
za recente».12 Abbiamo avuto sin da tempi lontani un gran numero di
lavori sperimentali che tentavano di mettere in relazione suono, imma­
gine, tempo e colore, studi interessantissimi che risalgono al Cinque­
cento quando Giuseppe Arcimboldi, nel tentativo di trovare utopici pa­
rallelismi, studiò i gradi armonici che hanno portato nell’Ottocento al­
la elaborazione della teoria armonica dei complementari e alla defini­
zione del cerchio cromatico armonico.13
Sono note le ricerche dei primi del Novecento che da Skriabin,
Schönberg, Kandinskij, Moholy-Nagy arrivano a quelle di Veronesi degli

11
G. Hattinger, M. Russel, C. Schopf, P. Weibel, Virtuelle Welten, Ars Electronica,
Linz 1990.
12
L. Veronesi, Proposta per una ricerca sui rapporti fra suono e colore, Ed. Siemens Da­
ta, Milano 1977.
13
Ibidem.
MARIA GRAZIA MATTEI 276
anni Cinquanta e Sessanta, per poi trovare un grande slancio nell’era
elettronica con le ricerche di John Whitney e di altri che come lui stan­
no tuttora lavorando con il computer.
Il computer si è rivelato anche in questo caso il ponte tra passato e fu­
turo poiché permette non solo di verificare ma anche di sviluppare su ba­
si originali i presupposti espressi dalle avanguardie artistiche sul ruolo del
colore nella creazione di un’opera armonica. Sono in atto attualmente
molte ricerche in questo campo; anzi si potrebbe dire che è praticamen­
te emersa una nuova tendenza all’interno della categoria della computer
art che si avvale ormai di codici espressivi propri. Su Chromas, uno studio
astratto della durata di venti minuti elaborato nel 1986 da Zajec sulla Se­
conda Sonata di Coral, un film dove il colore si sviluppa e si trasforma in
stretta relazione con la musica ma secondo un proprio codice espressivo,
l’autore scrive: «La mia intenzione non era di copiare gli impulsi sonori
uno a uno o di disegnare una coreografia visiva per sottolineare i pro­
gressi musicali. Cercavo il punto focale, il principio fondamentale sul
quale basare una linea attiva e autonoma di sviluppo. L’ho trovato nel
concetto-pratica di trasformazione tematica [...] Penso che una teoria di
articolazione divisibile del colore-tempo possa dimostrarsi quel terreno
lungimirante che collega due forme d’arte e fornisce il giusto fulcro nel­
la ricerca di nuovi codici di comunicazione visiva...» e conclude poi: «Ab­
biamo molto da imparare dalla musica, dalle opere di Klee e di altri ma
anche dalle recenti scoperte matematiche, dai frattali in particolare o
dalla grammatica degli automi cellulari».14
E come il poeta francese Apollinaire coniò il termine orfismo per ce­
lebrare la ricomparsa del colore in un nuovo movimento artistico e in
omaggio alla pura esplosione dei colori di Robert e Sonya Delaunay nel re­
gno altrimenti monocolore del cubismo astratto, Zajec propone la stessa
definizione per la nuova arte e suggerisce: orfica.

14
E. Zajec, Orphics: Computer Graphics and the Shaping of Time with Color, in Electronic
Art, Pergamon Press, London 1988.
NET ART: GENESI E GENERI
Valentina Tanni

«Quando le macchine sono accese e le tue dita sono sulla tastiera, tu sei con­
nesso con uno spazio che è al di là dello schermo. E questo spazio esiste solo
quando le macchine funzionano. È un nuovo mondo in cui puoi entrare [...]
Non riguarda le cose, riguarda le connessioni».
Robert Adrian X, 1997

1. Definizioni

È il marzo del 1997. Sulla mailing list Nettime1 è in corso un acceso


dibattito che coinvolge artisti, critici e studiosi, passato poi alla storia co­
me net.art thread.2 È il primo tentativo di analisi e contestualizzazione di
alcune pratiche già in atto sulla rete dall’inizio degli anni Novanta. Gli
stessi autori degli esperimenti di arte telematica cominciavano a pren­
dere coscienza della nascita di un movimento e si confrontavano sulle
specificità – concettuali ed estetiche – delle loro opere.
Le caratteristiche della net art venivano inizialmente individuate per
via di negazione, con l’obiettivo di distinguerla da altri fenomeni di tan­
genza e contaminazione del mondo dell’arte con il «fenomeno Inter-
net», primo fra tutti quello delle cosiddette «gallerie virtuali». L’opposi­
zione era tra net art e art on the net, cioè tra un’arte specifica del Web e un
semplice meccanismo di digitalizzazione e diffusione di opere preesi­
stenti tramite le reti telematiche.3 La distinzione, che poteva sembrare, a
uno sguardo superficiale, un’oziosa contesa sul nome di battesimo del
movimento, era in realtà sostanziale. Quello che veniva rifiutato – e spes­
so contestato duramente – era l’uso della rete come mero veicolo delle
informazioni e come «vetrina» per un futuribile mercato dell’arte on-li­
ne. Né si doveva confondere la net art con i siti dedicati alle varie perso­
nalità artistiche, con le home page dei musei o con i magazine d’arte.
L’arte della rete si configura invece come un inedito spazio per la comu­

1
http://www.nettime.org
2
http://www.ljudmila.org/nettime/zkp4
3
J. Blank, What is netart?;-), intervento al congresso (History of) Mailart in Eastern
Europe, Staatliches Museum Schwerin, Germania 1996, «Nettime», sito Web,
http://www.desk.nl/~nettime
VALENTINA TANNI 278
nicazione creativa e si serve di Internet come mezzo di produzione e
luogo di fruizione dell’opera allo stesso tempo.
Successivamente vennero messe in evidenza alcune caratteristiche
che sembravano accomunare molti web-projects, come la performatività,
la processualità e una continua e tenace opera di decostruzione del me­
dium.4 Molte delle attitudini e delle tematiche riscontrabili nella net art
possono essere rintracciate nella storia dell’arte della seconda metà del
Novecento. È nell’ambito di Fluxus infatti che si delinea una prima de­
cisa volontà di confronto con media come la televisione, il telefono e il
satellite, sull’onda di una sempre più stretta contaminazione tra arte e
tecno-scienze che verrà incarnata in modo esemplare dall’esperienza
dell’EAT (Experiments in Art and Technology, 1966-71) della coppia
Rauschenberg-Klüver.
Dalla decostruzione del mezzo televisivo di Nam June Paik, passando
per le trasmissioni satellitari e gli esperimenti con il Telex di Hans
Haacke alla fine degli anni Sessanta, arriviamo, nei decenni Settanta e
Ottanta, a un vero e proprio proliferare di esperienze, accompagnate da
una vasta opera di teorizzazione. La tendenza dominante era quella, già
indicata dalle neo-avanguardie del dopoguerra, che portava alla crea­
zione di eventi, alla costruzione di relazioni piuttosto che di oggetti ma­
teriali.
L’opera di artisti come Douglas Davis,5 Roy Ascott, Fred Forest e Robert
Adrian X risulta oggi, a uno sguardo retrospettivo, feconda di suggeri­
menti per i futuri abitatori della rete. La loro strenua volontà di «smonta­
re» la tecnologia, di indagare i processi comunicativi e di «appropriarsi»
degli strumenti mediali è una caratteristica che confluirà interamente nel
movimento net artistico. L’idea di un uso «controsenso» della tecnologia
si accompagna in questi artisti a una dispersione del soggetto, un prolife­
rare di «autori-disseminati» che supera i concetti di individualità e di stile
per concentrarsi sulla produzione di reti rizomatiche.

2. Genesi

La genesi della net art va ricercata alla fine degli anni Ottanta, quan­
do alcuni artisti operavano tramite le BBS6 (Bulletin Board System), dan­

4
A. Broeckmann, Net.Art, Machine and Parasites, «Nettime», 1997, sito Web
http://www.nettime.org/nettime.w3archive/199703/msg00038.html
5
D. Davis è anche l’autore di uno dei primi web-project: The World’s First Collabo­
rative Sentence (1994), un’opera collaborativa attualmente di proprietà del Whitney
Museum of America Art di New York.
6
BBS sta per Bulletin Board System ed è un sistema telematico a carattere amato­
279 NET ART: GENESI E GENERI

do vita alle prime comunità virtuali, all’interno delle quali nacquero e si


svilupparono progetti artistici in progress e stimolanti dibattiti. La pratica
artistica in rete infatti, si intreccia fin dagli inizi con una continua di­
scussione sui propri temi, modi e finalità, senza trascurare l’analisi del
complesso impatto psicosociale delle tecnologie di rete e dei cosiddetti
nuovi media.
Esemplare in questo senso l’esperienza dell’artista tedesco Wolfgang
Stahele che nel 1991 fondò la BBS The Thing,7 un network concepito ini­
zialmente come opera d’arte e laboratorio di creazione collettiva e dive­
nuto poi un network internazionale con decine di nodi sparsi nel mon-
do. Pionieristica in Italia l’attività di Tommaso Tozzi che comprende
una lunga sperimentazione e un ampio lavoro di riflessione teorica sul­
le telecomunicazioni e il loro ruolo sociale. All’inizio degli anni Novan­
ta l’artista toscano fondava la Hacker Art BBS,8 una banca dati casalinga
accessibile a tutti grazie a un collegamento al suo computer tramite mo­
dem. Aperta al pubblico il 1o dicembre del 1990, questa BBS si propose
sin dall’inizio come opera d’arte collaborativa, ridefinendo il ruolo del-
l’artista che, secondo Tozzi: «Non è quello di scoprire forme d’arte uni­
versali, ma di partecipare collettivamente alla costruzione di interfacce
che rendano possibile la messa in connessione del maggior numero di
individui. In modo che tutti possano partecipare alla costruzione di que­
sto nuovo linguaggio globale».9
Nel 1993 l’invenzione del World Wide Web e dei primi browser grafi­
ci segna una svolta decisiva. Software come Mosaic, Netscape ed Explo­
rer, tramite un’interfaccia intuitiva e user friendly, permettevano per la
prima volta di navigare in una rete multimediale, in cui le informazioni
testuali erano affiancate da suoni e immagini e connesse tra loro trami­
te collegamenti ipertestuali (link).
I progetti di net art raggiungono lo spettatore grazie alla connessione
alla rete, che avviene tramite un computer, una linea telefonica, un mo­
dem. Indispensabile per la loro fruizione è dunque la condivisione di
linguaggi di programmazione e l’interazione con un’interfaccia, che
media tra il linguaggio macchina e quello umano. Tuttavia, sono spesso
questi stessi dispositivi (il browser, le interfacce, la stessa struttura iper­
testuale) a essere messi in discussione dagli artisti, che li utilizzano nelle
loro opere secondo modalità del tutto inedite, smontandoli e deconte­
stualizzandoli.

riale aperto al pubblico che può prendere e depositare file, testi o messaggi. Tramite
le BBS si sono formate le prime «comunità virtuali».
7
http://bbs.thing.net
8
http://www.hackerart.org
9
L. Beatrice, C. Perrella, Nuova arte italiana, Castelvecchi, Roma 1998, p. 92.
VALENTINA TANNI 280
Un elemento spesso sottolineato dalla critica (ma che si riscontra cu­
riosamente anche nell’informazione generalista) riguarda la presunta
natura immateriale della net art. Considerazione che deriva dalla co­
scienza di una transizione epocale determinata dall’avvento delle tecno­
logie digitali, quella transizione che Lev Manovich ha efficacemente de­
finito come un passaggio «dall’oggetto al segnale».10
In questa prospettiva, i progetti di net art godono indubbiamente di
uno status immateriale, non essendo composti di materia tangibile, ma di
stringhe di codice e di flussi di energia elettrica.11 Tuttavia si tratta di
un’incorporeità del tutto particolare visto che, in ogni caso, l’opera, per
essere visualizzata, ha bisogno di un supporto, costituito dall’hardware del
computer. La registrazione digitale delle informazioni, come spiega Pierre
Lévy nel suo Cybercultura, non è infatti, a rigore, una vera e propria sma­
terializzazione, quanto una virtualizzazione, una trasformazione in cifre che
costituiscono la sua descrizione numerica. Questa descrizione, tuttavia, non
può manifestarsi e rendersi visibile senza un supporto fisico. «Più fluida e
volatile, la registrazione digitale occupa una posizione molto particolare
nel mondo delle immagini, a monte della manifestazione visibile, non ir­
reale o immateriale, ma virtuale».12
Simile la posizione di Mario Costa – autore di una vasta elaborazione
teorica sull’estetica della comunicazione – che, in più, pone l’attenzione
sul carattere mentale delle immagini espresse in formato digitale. Egli so­
stiene che, ancor più che immateriali, le informazioni digitali sono nel­
la loro essenza la visualizzazione di un lavoro logico/matematico, in cui
l’energia e la luce cessano di appartenere al mondo fisico e vengono as­
similate all’universo mentale delle procedure logico-matematiche e dei
modelli linguistici.13
Questi concetti ci portano a considerare un’altra caratteristica della
net art – e più in generale della telematica – cioè la delocalizzazione del-
l’opera d’arte. Il luogo dove l’opera appare, infatti, è del tutto svincola­
to dal luogo in cui l’informazione è fisicamente immagazzinata. I pro­
getti di net art si manifestano sullo schermo del computer dell’utente

10
L. Manovich, The Language of New Media, MIT Press, Cambridge 2001, p. 132.
11
F. Ciotti e G. Roncaglia individuano nel trasferimento di energia il carattere di­
stintivo di ogni sistema di telecomunicazione: «...siamo in presenza di un sistema di
telecomunicazione se il trasferimento di informazioni nello spazio avviene mediante
il trasporto di energia e non di materia». F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. In­
troduzione ai nuovi media, Laterza, Bari 2000, p. 99.
12
P. Lévy, Cyberculture, Odile Jacob, Paris 1998; trad. it. Cybercultura. Gli usi sociali
delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1999, p. 57.
13
M. Costa, L’estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999, p.
277.
281 NET ART: GENESI E GENERI

ogni volta che egli, dovunque si trovi, accede alla rete Internet e richia­
ma, attraverso l’URL, un determinato documento. È proprio grazie allo
schermo che le informazioni acquisiscono «la facoltà di manifestarsi qui
e là, indipendentemente dalla localizzazione dei supporti, tanto da con­
quistare una condizione di sostanziale ubiquità [...] Il cyberspazio di­
schiude una nuova dimensione del viaggio, in quanto mette a disposi­
zione del “nomade elettronico” uno spazio in cui egli può esprimere la
propria creatività».14 È dunque piuttosto il nuovo spazio mentale e psi­
cologico creato dal cyberspazio a essere totalmente immateriale, più che
i singoli artefatti in formato digitale.
Nel 1994 il sito newyorkese adaweb,15 fondato da Benjamin Weil, ini­
zia a commissionare progetti d’artista concepiti per la rete. Artisti già af­
fermati come Jenny Holzer e Julia Scher si cimentano con il nuovo me­
dium, lasciando che esso influenzi e modifichi la propria poetica. In
Please Change Beliefs16 per esempio la Holzer trasferì i suoi truism (afori­
smi, proverbi, slogan, modi di dire) dai supporti a led luminosi allo spa­
zio immateriale del Web, un luogo dove potessero circolare, essere mo­
dificati e integrati dagli utenti, arricchendo il lavoro di una dinamica bi­
direzionale.
Contemporaneamente, al Cultural Center di Chicago, Antoni Mun­
tadas presentava The File Room,17 opera esposta sia in forma di installa­
zione fisica che come progetto on-line. Il sito è un archivio aperto, pron­
to a raccogliere tutti i casi di censura culturale della storia, dall’antica
Grecia a oggi, strutturandosi come un database destinato ad arricchirsi
grazie al contributo degli utenti. La natura collaborativa del lavoro e la
scelta di un tema molto sentito dai navigatori hanno fatto sì che il pro­
getto riscuotesse un enorme successo, diventando un esempio paradig­
matico per varie esperienze successive.
Significativa l’esperienza coeva dell’inglese Heath Bunting. Il suo la­
voro si caratterizza per l’uso programmatico di tecnologie «povere» e
per i contatti con la street culture, che lo trasformano in un moderno
nomade della civiltà elettronica. Per realizzare King Cross Phone In, l’ar­
tista diffuse su Internet i numeri di telefono di 36 cabine telefoniche
della stazione londinese di King Cross invitando le persone a chiamare
a una determinata ora. L’ambiente sonoro creato dalla sinfonia di
squilli, le conversazioni improvvisate tra i passanti alla stazione e chi te­

14
C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’era di Internet, Raf­
faello Cortina Editore, Milano 2000, p. 30.
15
http://adaweb.walkerart.org
16
http://adaweb.walkerart.org/project/holzer/cgi/pcb.cgi
17
http://www.thefileroom.org
VALENTINA TANNI 282
lefonava da casa, furono gli ingredienti di una performance che riu­
sciva, attraverso un uso creativo dei mezzi di comunicazione, a conver­
tire un luogo di passaggio come la stazione in uno spazio di socializza­
zione.

3. Generi

L’attitudine degli artisti verso la rete nei primi anni Novanta era cari­
ca di entusiasmo e volontà di sperimentazione. La struttura ad «archi­
vio», che caratterizza molte opere della prima metà degli anni Novanta,
valorizza infatti la capacità dell’informazione digitale di essere scambia­
ta, manipolata, conservata e condivisa con grande facilità.
Confrontandole con i progetti Web di artisti come Jodi.org,18 che ini­
ziano a lavorare in rete intorno al 1995, si può registrare un lento ma co­
stante processo di mutazione del linguaggio. La decostruzione dei codi­
ci, insieme alla volontà di studiare e mostrare il vero funzionamento –
oltre che il significato sociale – degli strumenti tecnologici, testimonia­
no l’inizio di un approccio critico nei confronti delle reali possibilità del
Web e dei luoghi comuni che accompagnavano la sua vertiginosa cresci­
ta. Molte opere dei net artisti della seconda metà del decennio sono ca­
ratterizzate da uno scetticismo di fondo nei confronti della presunta de­
mocrazia del Web, in polemica con l’high tech e con le grandi corpora­
tion, nel tentativo di mettere in guardia il navigatore contro il rischio di
un uso passivo della tecnologia.
Il sito Web di Jodi.org (Joan Heemskerk e Dirk Paesmas) può essere
considerato una piattaforma per una ricerca in continua evoluzione.
Negli ultimi otto anni ha ospitato innumerevoli progetti, alcuni rag­
giungibili tramite l’home page, altri solo attraverso i motori di ricerca,
altri ancora scomparsi dalla rete a pochi mesi dalla loro creazione.
In una intervista hanno dichiarato: «Noi esploriamo il computer dal
suo interno e ne restituiamo l’immagine sulla rete. Quando l’osservato­
re guarda il nostro lavoro, noi siamo dentro al suo computer».19 Un no-
do fondamentale della loro ricerca risiede infatti nell’analisi e nella sov­
versione del rapporto tra il codice e la superficie nelle schermate del
computer. Mentre la superficie di Jodi.org risulta assolutamente incom­
prensibile, guardando il document source spesso vediamo apparire imma­
18
http://www.jodi.org
19
T. Baumgaertel, We Love Your Computer. The Aesthetics of Crashing Browsers, intervi­
sta a Jodi.org, in «Telepolis», sito Web,
http://www.heise.de/tp/english/special/ku/6187/1.html, 6 ottobre 1997.
283 NET ART: GENESI E GENERI

gini – come per esempio quella di una bomba – «disegnate» con sem­
plici caratteri alfanumerici. Questa dinamica codice-superficie, che ri­
mane una costante in tutti i lavori di Jodi, scaturisce da uno studio ap­
profondito dell’errore, trasformato poi in elemento di stile.
Tra i loro progetti più interessanti spicca Wrong Browser, primo di una
serie di programmi di navigazione assolutamente schizofrenici ed este­
ticamente sorprendenti prodotti dal duo belga-olandese e la serie dei vi­
deogame «modificati» che comprende SOD, Ctrl SPACE e Untitled-Ga­
me (2002).
Il duo Jodi fa parte, insieme a Vuk Cosic, Olia Lialina, il già citato
Heath Bunting e Alexei Shulgin, della scuola europea della net art, un
nucleo fondante che comprende i pionieri del movimento, oltre che i
principali animatori delle discussioni su Nettime. Le loro ricerche, sep-
pur molto diverse, sono accomunate da una forte attitudine all’ironia e
alla dissacrazione, da una passione per le tecnologie povere o obsolete,
oltre che per una vena situazionista, détournante.
Il nome da loro scelto per autodefinire il proprio lavoro è net.art, na­
ming accompagnato da una leggenda inventata ad hoc da Cosic e Shul­
gin che narrava la presunta autogenerazione della parola, frutto del
malfunzionamento di un software. Il punto che separa le parole «net» e
«art» è un elemento significativo perché ironizza sulla consuetudine di
etichettare i movimenti artistici apponendo un prefisso alla parola art e
allo stesso tempo rende questa definizione simile al nome di un file o di
un software, con ovvio riferimento al medium utilizzato.
My Boyfriend Came Back From the War20 di Olia Lialina è un tentativo di
confrontare il «linguaggio del Web» con quello cinematografico. L’ar­
tista russa narra la storia dell’incontro di due fidanzati dopo una lunga
separazione causata dalla guerra, servendosi di immagini in bianco e
nero e di frasi scritte, tratte da un dialogo immaginario. La vicenda è
evocata più che narrata, e costringe lo spettatore a ritagliarsi un suo
percorso all’interno del mosaico di parole e immagini che appare sullo
schermo. L’artista russa considera i frame delle pagine Web in qualche
modo assimilabili ai fotogrammi del cinema e crea un’inedita ipotesi di
montaggio che viene realizzato dall’utente grazie alla tecnologia iper­
testuale: «L’ipertesto è il modo migliore per narrare delle storie, centi­
naia di storie simultaneamente. E l’interazione non è altro che un cam­
po di sperimentazione, come il palcoscenico, il film, il cervello. Il lin­
guaggio della rete è più vicino al film di quello del video, perché il vi­
deo non ragiona in termini di frame. Il Web sì. Non solo. Dà la possibi­
20
http://www.teleportacia.org/war
VALENTINA TANNI 284
lità di operare su concetti come quello di montaggio lineare, parallelo,
associativo, digitale».21
Gli esperimenti di narrazione non lineare, resa possibile dall’uso
della piattaforma ipermediale, rappresentano una tendenza che, nata
molto precocemente all’interno del movimento net-artistico, non
sembra destinata a spegnersi. A partire dall’ormai storico Gramma­
tron22 di Mark AmeriKa (1997), un enorme ipertesto che ha come
protagonista un personaggio di nome Abe Golam (l’info-sciamano), in­
sieme al suo alter ego digitale Grammatron. Il nome dello stregone
mediatico fa riferimento alla leggenda medievale ebraica del golem
(capostipite della fortunata dinastia di uomini-macchina, da Franken­
stein ai cyborg) e tutto il progetto esplora una possibile «nuova spiri­
tualità elettronica».
Più complesso, ma sulla stessa linea d’onda, il progetto World of Awe23
(1995-2003), dell’americana Yael Kanarek, un’hyperfiction basata sul dia-
rio di un viaggiatore perso nel deserto. L’opera, servendosi di una ver­
sione aggiornata dell’espediente del manoscritto ritrovato (in questo ca­
so un computer), rinnova l’antico genere del racconto di viaggio scin­
dendo la narrazione in immagini, pagine di diario, lettere scritte a un’a­
mante lontana.
A testimonianza delle possibilità performative della net art c’è l’ormai
noto Digital Hijack,24 un atto di «terrorismo» virtuale opera del collettivo
svizzero Etoy (vedi scheda).25 L’azione iniziata nel 1996, «rapì» oltre
600.000 internauti, dirottati sul sito di etoy mentre usavano normali mo­
tori di ricerca, caduti in siti trappola posizionati ad hoc nelle prime posi­
zioni dei risultati delle ricerche, con un lungo lavoro di studio e pro­
grammazione. Lo scopo del digital hijack era quello di scuotere la noia
della rete, mostrandone i limiti e le potenzialità inespresse, una sorta di
virus psicologico che, attraverso un’azione shock, costringe a riflettere sul
vero assetto della rete e sul controllo del flusso informativo.
Il 1997, oltre a essere l’anno del net.art thread, appare oggi come l’an­
no centrale per lo sviluppo del movimento, nonostante molti abbiano vi­
sto nell’esplosione della net art i rischi di un appiattimento delle speri­
mentazioni e di un progressivo sfruttamento commerciale del fenome­
no. Fu in quell’anno che l’arte internettiana fu ammessa a Documenta

21
O. Lialina, Net Film, «Telepolis», sito Web, http://www.heise.de/tp/deutsch/kunst/
nk/3040/2.html, 1998.
22
http://www.grammatron.com
23
http://www.worldofawe.net
24
http://www.hijack.org
25
http://www.etoy.com
285 NET ART: GENESI E GENERI

Kassel, vero tempio dell’arte contemporanea internazionale. Questo pri­


mo segno di ricettività del mondo dell’arte nei confronti di una corren­
te nata perlopiù ai suoi margini, provocò nella comunità internettiana
reazioni contrastanti, ma permise anche di mettere a fuoco alcune que­
stioni fondamentali, come le possibili modalità espositive dei lavori e il
confronto con un pubblico più vasto.
Life_sharing (2000) degli italiani – ma residenti a Barcellona –
0100101110101101.org26 è una sorta di manifesto per la libera circola­
zione dell’informazione e insieme un utopico appello alla condivisione
totale delle risorse sulla rete. Il titolo, che può essere tradotto come
«condivisione della vita», è un anagramma di file sharing, opzione che
permette appunto la condivisione con altri utenti del proprio hard disk.
Dal momento esatto in cui life_sharing è stato aperto, gli 01.org hanno
permesso agli utenti della rete, 24 ore su 24, di accedere all’intero con-
tenuto del proprio computer. Hanno aperto l’archivio, i progetti, i
software e persino la corrispondenza privata. Si tratta di un’applicazione
radicale dell’open source che sfida il concetto di privacy e invita alla rifles­
sione sulle contraddizioni della proprietà27 intellettuale nell’era di In­
ternet. «Il contenuto del sito non verrà aggiornato periodicamente, ma
0100101110101101.org lavorerà direttamente sul computer che è con­
diviso – il server –, perciò il pubblico potrà seguire lo sviluppo dell’ope­
ra in tempo reale. Da questo punto di vista è un po’ come se infiniti spet­
tatori avessero accesso allo studio di un artista e potessero così assisterlo
durante l’evolversi del suo lavoro, senza che quest’ultimo ne venga mi­
nimamente disturbato».
Ci sono poi alcune esperienze, che normalmente vengono raggrup­
pate sotto l’etichetta di hacktivism,28 che nascono dalla coincidenza tra
creativi e attivisti politici, seguendo una tradizione nata negli anni Ses­
santa in ambito situazionista e in alcuni movimenti sociali radicali. Con­
cetti come sabotaggio, plagio, controinformazione sono centrali in que­
sto tipo di azioni. Molte operazioni attiviste nascono spesso al confine
tra arte e politica pura e i protagonisti del cosiddetto hacktivism fanno
parte della stessa comunità che ha visto nascere la net art, rendendo a
volte molto difficile una separazione netta tra i due fenomeni. Il termi­
ne hacktivism è un neologismo che nasce dall’unione di hacking e activi­
sm e viene utilizzato per definire le varie pratiche di attivismo sociale che
si servono delle nuove tecnologie, tramite operazioni di sabotaggio e

26
http://www.0100101110101101.org
27
Dichiarazione degli autori estratta dal comunicato stampa relativo al lancio del
progetto.
28
http://www.aha.org
VALENTINA TANNI 286
controinformazione. Tra gli altri ricordiamo il netstrike per la manife­
stazione fiorentina «Contro la pena di morte» dal titolo Netstrike 214-T
(30 novembre 2000) di Tommaso Tozzi e Giacomo Verde, un simbolico
sciopero per bloccare i siti del Governo e del Ministero della giustizia
del Texas dove vige la pena di morte.
Esemplare in questo senso il lavoro di Ricardo Dominguez,29 nato a
Las Vegas ma di origini messicane e moderatore di un’area di discussio­
ne dal significativo nome di InfoWar. Personaggio poliedrico, che co­
niuga espressione artistica e impegno politico, performer e teorico, Do­
minguez ha trovato da subito accoglienza nella comunità net artistica,
da sempre aperta alla sperimentazione di rete, diventando editor della
BBS storica del movimento, The Thing, e dando vita a una lunga serie di
esperienze di arte attivista come Il teatro del disturbo elettronico basato sul­
la tecnica del netstrike.
In Italia Tatiana Bazzichelli, sociologa della comunicazione, ha rea­
lizzato il progetto AHA: Activism Hacking Artivism costituito dalla mostra
evento Aha (Museo laboratorio di arte contemporanea di Roma, 2002,
in seguito diventata itinerante), dall’attivazione della mailing list nata
nel sito di Isole nella rete (www.ecn.org/aha) e relativa newsletter sul­
l’attivismo artistico. Tra gli artisti invitati: Federico Bucalossi, Massimo
Contrasto, Mariano Equizzi, GMM – Giovanotti Mondano Meccanici,
Tommaso Tozzi, Giacomo Verde e i collettivi: AvANa.net, Candida Tv,
Indymedia Italia, Quinta Parete Network, Stranonetwork.
Una tendenza interessante, in atto almeno dal 1998, è quella che ve­
de gli artisti impegnati nella realizzazione di software alternativi. L’o­
biettivo di questi esperimenti consiste nel contrastare una delle con­
venzioni più radicate della rete, quella che organizza le informazioni
nella familiare «forma-pagina», mutuando lo stile e la struttura dal vec­
chio libro analogico. Opere come Web Stalker del collettivo inglese
I/O/D, Netomat di Maciej Wisnieski (1999) o Feed del newyorkese Mark
Napier (2001) sono solo tre esempi di come gli artisti stiano tentando
di ripensare la rete, di mostrarne le vere potenzialità, sottraendola al­
l’omologazione. Si tratta infatti di tre browser, ma il loro uso permette
di visualizzare i dati richiamati dal server tramite l’URL secondo moda­
lità molto diverse da quelle consuete. Mentre Web Stalker30 ci mostra la
struttura di un sito Web tramite grafici fatti di cerchietti (le singole pa­
gine) e linee di connessione (i link), e Netomat31 elimina l’architettura
dei siti Web, lasciando fluttuare testi e immagini sulla superficie, il più

29
http://www.thing.net/~rdom
30
http://www.backspace.org/iod
31
http://www.netomat.net/original
287 NET ART: GENESI E GENERI

recente Feed32 si confronta soltanto con i file grafici, ignorando le infor­


mazioni testuali.
Il campo di ricerca dei net artisti si è molto ampliato e diversificato a
partire dal 2000, sia numericamente sia dal punto di vista tecnico-tema­
tico. Questa crescita è accompagnata e in parte causata dal sempre più
diffuso interesse dimostrato da critica, pubblico e istituzioni.
Molti sono gli artisti che si confrontano con il format del videogame,
sia producendo giochi ex-novo sia modificando il codice di prodotti no­
ti come Quake o SuperMario. Oltre alle già citate sperimentazioni di Jo­
di.org, rivestono particolare interesse i lavori dell’americano Cory Ar-
cangel,33 che interviene su vecchi videogiochi cambiandone la grafica e
i personaggi, e dello spagnolo Retroyou,34 che si confronta con le gare
automobilistiche trasformandole in caleidoscopici vortici di colore,
frammentati e ultraveloci come un quadro futurista.
La manipolazione di programmi informatici già esistenti e la creazio­
ne di codici d’artista ha spinto molti studiosi a parlare di software art. Que-
st’ultima sembra configurarsi come una corrente autonoma e accompa­
gna la sperimentazione pratica con una massiccia attività teorica e sag­
gistica. La programmazione viene considerata un’arte alla quale appli­
care regole di valutazione derivate dalla critica letteraria: metrica, ele­
ganza formale e musicalità. Le tipologie di programmi sono molto varie:
dai word processor, ai software grafici; dai browser ai virus.

32
http://www.potatoland.org/feed
33
http://www.beigerecords.com/cory
34
http://retroyou.org
OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI
Simonetta Cargioli

1. Videoinstallazioni: intrecci tra le arti

L’uso del medium video dalla metà degli anni Sessanta non si ricon­
duce a un gruppo o movimento o corrente precisi. Contribuisce allo svi­
luppo di un nuovo territorio della ricerca artistica che si dirama in una
ricca varietà di esperienze, dove il dispositivo e l’immagine elettronica
sono esplorati dapprima ricercando le loro specificità in un confronto e
dialogo fecondo con altre tecniche, media, linguaggi. Rapidamente il vi­
deo diventa un laboratorio dove sono tentati molti esperimenti, messi al­
la prova un insieme di concetti e di nozioni, proposti nuove forme – del­
le opere – e nuovi comportamenti – del pubblico.
A partire da quegli anni, nel contesto delle arti visive, realizzare un’in­
stallazione significa «abitare» temporaneamente con una proposta pla­
stica una porzione di spazio che, assieme al dialogo fra i diversi elemen­
ti e le persone al suo interno, diventa l’elemento centrale dell’opera.
L’installazione non si centra su un oggetto esclusivo ma considera le re­
lazioni fra più elementi e l’interazione con i contesti. Le videoinstalla­
zioni sono una categoria particolare: abitano lo spazio con immagini
realizzate con il video, diffuse o proiettate su diversi supporti e in rela­
zione con altri media. Sono forme d’arte in cui si intrecciano il cinema,
il teatro, l’architettura, la videoarte, la performance, la scultura e le arti
visive. Fanno ricorso a una pluralità di linguaggi e supporti e appaiono,
per questo, tra i luoghi privilegiati del multimediale. Hanno una straor­
dinaria capacità di dialogare con le altre arti: rileggono la pittura e la
scultura; rielaborano le forme del cinema, lavorando sugli schermi, le
proiezioni e i supporti. Si intrecciano con la performance e le arti dello
spettacolo, teatro e danza. Le loro manifestazioni sono diverse: possono
utilizzare nastri o altri supporti registrati, oppure il circuito chiuso; pos­
sono avere una dimensione scultorea o tendere verso la dimensione am­
bientale. Possono proporre percorsi liberi o definire dei punti di vista
precisi; integrare o meno l’immagine del visitatore il cui ruolo è attivo,
essendo un elemento essenziale dell’opera stessa, del suo «funziona­
mento». A volte l’attenzione è attirata dalle immagini che evolvono sui
monitor o sugli schermi; a volte è uno spazio intero che si fa immagine
e suono, l’immagine si estende all’architettura. Lo spazio è sensibile ne­
289 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

gli ambienti realizzati con il ricorso al digitale e reagisce alle stimolazio­


ni dei visitatori.
Come è stato più volte sottolineato in vari studi e ricerche, negli anni
Settanta e Ottanta le videoinstallazioni si rivelano soprattutto come spa­
zi critici e trasgressivi in grado di sovvertire le forme della rappresenta­
zione e della fruizione e di proporre nuovi statuti dell’immagine e del-
l’opera d’arte, con la conseguente ridefinizione del ruolo del pubblico.1
Fin dalle esperienze iniziali di videoinstallazioni infatti, l’immagine si dà
alla percezione come genesi; l’opera è un evento che mette in relazione
diversi linguaggi artistici i quali si manifestano al pubblico nel loro dive­
nire. Assistiamo e partecipiamo allora a delle performance di linguaggi.
Le videoinstallazioni e i videoambienti sono spazi che coinvolgono tutti
(o quasi) i nostri sensi: è importante sottolineare alcune manifestazioni
del passaggio tra il video e l’interattività, in particolar modo quelle che
riguardano l’opera e il pubblico. Ma prima facciamo un passo indietro,
alle origini della videoinstallazione.

2. Immagini diverse, esperienze nuove. Storie

Con Nam June Paik e Wolf Vostell. Siamo nel 1963: in Germania, a
Wuppertal e negli Stati Uniti, a New York, vengono esposti in due gallerie
i primi lavori con il video realizzati da questi due artisti, entrambi legati a
Fluxus. Allora la tecnologia non permetteva di registrare le immagini su
nastro magnetico e si lavorava direttamente sul segnale elettronico e sul
monitor. Paik nella mostra Exposition of Music-Electronic Tv espone i suoi 13
Distorted Tv Sets, altrettanti modi diversi di manipolare le immagini e il di­
spositivo televisivo. Vostell in Television dé-coll/age presenta videosculture
realizzate con i monitor che in seguito avrebbe sottoposti a trattamenti ag­
gressivi (immersi nel cemento, avvolti nel filo spinato...).
Agli inizi degli anni Settanta la tecnologia non permetteva di realiz­
zare proiezioni video, la qualità dell’immagine era scarsa e, come sotto­
linea Steina Vasulka, «...all’inizio tutto era installazione o environment
come lo chiamavamo allora. Nella prima generazione di video con bo­
bine non c’era possibilità di montaggio, di editing. La soluzione era quel-
la di tagliare, come si fa con i nastri audio. I nostri “environment”, quin­
di, consistevano sia in riprese sia in un innesto di nastri “dal vivo”. Io e
Woody preferivamo usare molteplici schermi, soprattutto un gruppo di
monitor e alcuni videoregistratori. Una delle nostre prime idee per in­

1
V.S. Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Nistri-Li­
schi, Pisa 2002, pp. 57-58.
SIMONETTA CARGIOLI 290
stallazioni fu quella di far passare lentamente un’immagine in senso
orizzontale da un monitor all’altro».2 Le prime manifestazioni della vi­
deoarte sono quindi installazioni che propongono al pubblico princi­
palmente una nuova esperienza dello spazio e dell’immagine e spesso
attraverso la combinazione di media e supporti diversi. Frequenti sono i
richiami alle avanguardie storiche ma anche ad alcune forme della rap­
presentazione e dello spettacolo: certe videoinstallazioni rileggono le
forme dei dittici, dei trittici della tradizione pittorica o semplicemente la
forma del quadro (vedi la serie delle passioni in Bill Viola, che comincia
con The Quintet of the Astonished, 2000); alcune videoambientazioni si ri­
chiamano allo spirito multimediale e sinestetico dell’opera lirica. A que­
sto propostito nota Paik: «L’opera rappresenta ciò che io ricerco nel­
l’arte elettronica: nel senso di poter arrivare a quel livello di riuscita
performativa in grado di ottenere la migliore opera. In un’opera c’è
tutto: tutti gli elementi, la musica, il movimento, lo spazio. Così se un’o­
perazione d’arte elettronica riesce con successo [...] penso che debba es­
sere considerata come un’opera elettronica [...] Così anche le videoin­
stallazioni hanno la possibilità di diventare un’opera, un’opera video.
Consideriamo quindi l’opera italiana per la sua flessibilità e per il suo
concetto di spazio, di grande spazio».3
Le definizioni sono articolate negli anni Ottanta. Le videosculture
non richiedono al visitatore di oltrepassare un immaginario schermo
frontale: sono costituite da uno o più monitor e propongono principal-
mente una percezione delle immagini messe in relazione con lo spazio,
con altre materie e/o oggetti. Il monitor è utilizzato come materiale di
base, da solo o in accumulazioni e combinazioni diverse: vedi le video­
sculture di Shigeko Kubota, riletture dell’opera di Marcel Duchamp, co­
me Nu descendant l’escalier (1975), dove i monitor con le immagini ela­
borate di una donna nuda sono incastrati in quattro scalini di legno a
costruire dei videowalls, delle grandi sculture monumentali. Paik in Tri­
color Video riempie lo spazio del centro Pompidou a Parigi con 384 mo­
nitor sincronizzati a formare una mutante bandiera francese elettronica
(1982). Nel 1988 a Seul Paik crea una torre di 1.003 monitor, Tadaikson.
Ricordiamo anche i modi di trattare il monitor nella produzione di Fa­
brizio Plessi, che realizza dagli anni Ottanta molte videosculture, opere
nelle quali il monitor è elemento architettonico, che serve a contenere
l’elemento artificiale (luce elettronica, immagine) costantemente messo

2
S. Vasulka, Pensieri, in M.M. Gazzano (a cura di), Steina e Woody Vasulka. Video, me­
dia e nuove immagini nell’arte contemporanea, Fahrenheit 451, Roma 1995, pp. 94-95.
3
N.J. Paik, intervista di M.M. Gazzano e A. Zaru, New York 1992, in Il Novecento di
Nam June Paik, Carte Segrete, Roma 1992.
291 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

in relazione con elementi naturali (principalmente l’acqua, il fuoco e


materiali dell’arte povera). E non dimentichiamo le esperienze del
gruppo milanese di Studio Azzurro che dopo le collaborazioni con il de­
signer Sottsass (Luci di inganni, 1982) e la celebre videoinstallazione nel­
la piscina con Il nuotatore (1984), contribuiscono in modo decisivo, in
collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti, alla creazione del «teatro
elettronico» degli anni Ottanta: l’immagine video è utilizzata sulla scena
con i monitor che adempiono a delle precise funzioni drammaturgiche,
si spostano come attori e devono potersi esprimere come un corpo vi-
vente (in particolar modo questo è concretizzato nella Camera astratta,
1987). Con questo ultimo esempio entriamo nel terreno di ibridazione
con l’arte della scena.
Le videoinstallazioni ricreano spazi specifici che contribuiscono a sol­
lecitare una sensazione di spiazzamento percettivo, di perdita dei punti
abituali di riferimento spazio-temporali, a rafforzare la coscienza del vi­
sitatore della propria presenza in una dimensione nuova. Prima di tutto
il tempo, con lo spazio, è la categoria rielaborata e manipolata dagli au­
tori che ci invitano a fare l’esperienza di situazioni dove si tessono a vol­
te complesse connessioni spazio-temporali e dove, con il ricorso alla di­
retta, è messa in primo piano la disgiunzione tra tempo e luogo (come
nelle «stanze» della percezione di Dan Graham, per esempio Time Delay
Room 1-7; Present Continuous Past, entrambe del 1974). A volte nelle vi­
deoinstallazioni le immagini diffuse o proiettate costruiscono uno spa­
zio chiuso, come il cerchio di monitor nel quale penetra il visitatore in A
las cinco de la tarde di Marie-Jo Lafontaine (1984).
Le videoinstallazioni dagli anni Settanta hanno preparato il terreno a
una nuova tipologia di opere e di comportamenti: per esempio le in­
stallazioni a circuito chiuso creano una relazione di interdipendenza fra
l’opera e il visitatore. Se il richiamo allo specchio è frequente, si tratta
però spesso di uno specchio truccato, perturbante dove la relazione tra
corpo, immagine e tecnologia sollecita domande più che fornire rassi­
curanti risposte. Peter Campus per esempio opera spostamenti e slitta­
menti fra corpo, immagine e supporto di proiezione e, traendo spunto
anche dalla catottrica seicentesca, crea spazi complessi ed enigmatici in
cui è sfidata la nostra percezione (Interface, 1972; Mem e Anamnesis,
1974). Sottolineiamo che prima ancora di offrire l’immagine allo sguar­
do dello spettatore, le videoinstallazioni offrono il tempo come una cer­
ta durata che le immagini materializzano. L’esperienza è temporale, co­
struita con un punto di vista mobile e l’integrazione di media diversi. Si
tratta di esporre il tempo («scolpire il tempo», diceva Tarkovskij parlan­
do del cinema) e di proporre al pubblico di attivare combinazioni e
montaggi personali nell’opera-sistema di relazioni in cui è spazzata via
SIMONETTA CARGIOLI 292
l’unicità in nome della molteplicità dei punti di vista. Inoltre sin dagli
anni Settanta nelle videoinstallazioni sono state portate avanti ricerche
sulle relazioni tra l’immagine e il suono e il successivo perfezionamento
di tecniche di spazializzazione acustica ha permesso la creazione di am­
bienti sonori immersivi.
A volte le immagini sono disposte secondo una strutturata espansione
dei flussi visivi e sonori e nei videoambienti il dispositivo si dilata sino a
coincidere con lo spazio stesso, nel quale il visitatore penetra e dal qua-
le è avvolto, come in alcune creazioni di Bill Viola, per esempio Slowly
Turning Narrative (1992); e di Steina Vasulka (Borealis, 1993). Pipilotti Ri­
st trasforma in Remake of the Weekend (2000) l’intero primo piano del
Musée d’Art Moderne di Parigi in un grande videoambiente con proie­
zioni su supporti e dimensioni diverse (dallo schermo gigante alla proie­
zione in una bottiglia) che stabiliscono relazioni con il visitatore diverse
e di tipo aptico. Nei videoambienti è ricercato l’effetto di immersione: le
immagini e i suoni circondano e avvolgono il visitatore.
Negli anni Ottanta lo sviluppo della tecnologia digitale, dei program­
mi di trattamento dei dati, dei sensori, rende più facile e accessibile agli
artisti l’esplorazione artistica dell’interattività e alcune delle mutazioni
già messe in moto dal video nelle installazioni e negli ambienti (espan­
sione e esplosione dell’opera; partecipazione del pubblico; immagine
come processo) vengono portate avanti in modo radicale.
L’installazione interattiva chiama il visitatore ad agire attraverso l’inter­
faccia sul programma e in questo modo a eseguire una manifestazione
dell’opera: The Legibile City (Jeffrey Shaw, Dirk Groenveld, 1989); Je sème à
tout vent (Edmond Couchot, Michel Bret, Marie-Hélène Tramus, 1990);
Intro Act (Christa Sommerer e Laurent Mignonneau, 1995-97).
L’installazione interattiva talvolta propone l’esplorazione di universi
virtuali attraverso apposite interfacce (Handsight, Agnes Hegedüs, 1993;
Memory Theater VR, 1997). Il videoambiente interattivo fa ricorso al di­
gitale (computer, programmi, interfacce) strutturandosi come un siste­
ma aperto ed esplora le possibilità dell’interattività, nel senso di pro­
porre forme d’esperienza dal dialogo uomo-macchina e uomo-macchi­
na-uomo, creando spazi agibili e fruibili da più persone che attivano si­
multaneamente l’opera (Studio Azzurro, Tavoli. Perché queste mani mi
toccano? e Coro, le prime opere interattive del gruppo, 1995; Totale della
battaglia, 1996). Lo spazio è strutturato con dei sensori che captano e
trasmettono i dati fisici (gestuali, vocali, oculari, corporei...) che saran­
no trattati dal programma informatico. A volte nei videoambienti inte­
rattivi sono definite forme diverse di partecipazione sul modello di
comportamento che è l’immersione; corrisponde a una volontà di coin­
volgere tutto il corpo, di ricercare una totalità percettiva. È un po’ il
293 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

vecchio sogno delle sinestesie che ritorna, si attualizza nelle nuove tec­
nologie. Alla base c’è la simulazione della realtà nella sua integralità at­
traverso tutti i sensi. E in tutti i dispositivi interattivi c’è una condivisio­
ne di ruoli e responsabilità, dal momento che non esistono delle opere
finite, date una volta per tutte: l’opera si costruisce nella durata dell’e­
splorazione del visitatore.

3. Presagi: il divenire multimediale del cinema

È opportuno ricordare che la ricerca verso un superamento dell’ope­


ra-oggetto, l’allargamento delle soglie percettive e la partecipazione del
pubblico, non sono assolutamente prerogativa delle tecnologie video e
digitali. La multimedialità preesiste alle odierne tecnologie multimedia-
li: in particolar modo le avanguardie storiche e le seconde avanguardie
ne hanno articolato le teorie e testato le possibilità concrete. Negli anni
Venti il cinema, esperienza di luce, durata e movimento, è il territorio di
una feconda sperimentazione che vuole spingere il linguaggio e la scrit­
tura del visibile oltre i limiti dell’immagine sullo schermo e spesso le
proiezioni cinematografiche sono degli eventi a cui si associano altri
media, altri linguaggi; la musica, la performance, la poesia, le arti visive.
Nelle opere e nelle manifestazioni di poetica delle avanguardie emer­
gono progetti, descrizioni di dispositivi pensati e a volte realizzati che
hanno strette relazioni con certi dispositivi messi a punto qualche de­
cennio più tardi, spesso con l’ausilio di una «nuova tecnologia». Per
esempio i futuristi ricercano nel cinema le combinatorie di forme capa­
ci di scatenare pensieri ed emozioni nuove coinvolgendo il pubblico in
esperienze di partecipazione multisensoriale. La ricerca è verso un lin­
guaggio multimediale. E ricordiamo anche Moholy-Nagy, e il suo pro­
getto di «teatro totale». Molti studiosi mettono in risalto le connessioni
tra certe esperienze delle avanguardie storiche e le videoinstallazioni; al­
la fine degli anni Ottanta Anna d’Elia, curatrice di una tra le prime
esposizioni in Italia di videoinstallazioni, scriveva: «Le atmosfere delle vi­
deoinstallazioni, pregne di sinestesie [...] rievocano gli ambienti e le se-
rate motorumoriste dei futuristi, il teatro magnetico di Prampolini, la
pittura di suoni, rumori, odori di Carrà, la ricostruzione futurista di Bal­
la e Depero (1915). Provocazione, sorpresa, shock sensoriale restano gli
elementi di fondo di una strategia della tensione artistica».4 E in tempi

4
A. d’Elia (a cura di), Artronica. Videosculture e installazioni multimedia, Mazzotta,
Milano 1987, p. 14.
SIMONETTA CARGIOLI 294
più recenti la ricerca critica sui nuovi media si rivolge al passato e opera
collegamenti con le avanguardie storiche.5
Altro momento individuato nella storia del cinema con un forte con­
tatto con videoinstallazioni e videoambienti è l’expanded cinema teorizza­
to da Gene Youngblood negli anni Settanta che ricerca nella pratica ci­
nematografica pensata come spazio audiovisivo: la moltiplicazione dei li­
velli di proiezione; l’abolizione dei limiti di separazione fra le arti; il ri­
torno alla corporeità; la decostruzione delle tecniche filmiche; la crea­
zione di opere di «pura luce». Contemporaneamente a certe ricerche
svolte nelle arti visive per uscire dai limiti del quadro, gli artisti che uti­
lizzano il cinema vogliono far esplodere lo spazio dello schermo e sono
molte le esperienze di moltiplicazione delle immagini sullo schermo e
di moltiplicazioni delle proiezioni e dei supporti. Le proiezioni dell’im­
magine definiscono allora un intero spazio che diventa multimediale
nelle esperienze fatte da Stan Vanderbeek nel Movie Drome, solo per ci-
tare una tra le numerose esperienze di quegli anni (ma non dimenti­
chiamo gli intermedia events di John Cage, le esperienze intermediali di
Robert Rauschenberg).
In molti degli artisti che lavorano con sofisticate tecnologie di simu­
lazione e interattive sono frequenti le riletture del passato, di dispositivi
e forme della visione e della rappresentazione. Prendiamo per esempio
il lavoro di Jeffrey Shaw: negli anni Sessanta è un performer. Realizza
opere che sono eventi multimediali come Movie Movie, una performan­
ce di expanded cinema realizzata nel 1969 in collaborazione con Theo
Botschuijver e Sean Wellesley-Miller.6 A partire dagli anni Novanta Shaw
crea, con il ricorso alle tecnologie informatiche e all’interattività, degli
spazi complessi, narrativi, fruibili in gruppo, che si costruiscono a parti­
re dalla convergenza sinestetica di tutte le modalità percettive del visita-
tore, senza il quale le immagini e i suoni non si materializzano e non
evolvono. Spazi del divenire, di dialogo che rileggono la tradizione del

5
Rinvio per un approfondimento a L. Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra
contemplazione e azione, Rubettino, Soveria Mannelli 2000. Il libro analizza le forme di
un’estetica relazionale interattiva attraverso molti esempi, a partire dalle avanguardie
storiche, di relazioni dinamiche tra opera e pubblico. E le ricerche sull’«archelogia
dei media» iniziate dallo studioso finlandese E. Huhtamo; vedi in particolare: Seeing
at a Distance-Towards an Archeology of the «Small Screen», in C. Sommerer e L. Mignon­
neau (a cura di), Art@Science, Springer, Wien-New York 1998. E From Kaleidoscomaniac
to Cybernerd. Notes Toward an Archeology of Media, in T. Druckrey (a cura di), Electronic
Culture. Technology and Visual Representation, Aperture, New York 1997.
6
Rinvio a J. Shaw, Movies after Film. The Digitally Expanded Cinema, in M. Rieser, A.
Zapp (a cura di), New Screen Media. Cinema/Art/Narrative, The British Library, London
2002.
295 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

panorama – Place-Ruhr, 2000 – o spazi appositamente configurati per un


coinvolgimento plurisensoriale in un mondo virtuale dal quale si sno­
dano diverse possibilità narrative, come con Figuring the Cave, 1997, rea­
lizzato in collaborazione con Agnes Hegedüs, Bernt Lintermann e Le­
slie Stuck. Cave è il dispositivo cubico stereoscopico che permette l’im­
mersione dello spettatore in un ambiente tridimensionale. Degli scher­
mi di retroproiezione danno allo spettatore l’illusione di muoversi in un
ambiente al contempo reale e artificiale. Un sentimento di perturbazio­
ne spazio-temporale è dato dalle pareti di proiezione – da tre a sei –, dal­
la presenza di sensori, dalla possibilità che ha il visitatore di controllare
l’orientamento delle immagini. L’uso di occhiali stereoscopici restitui­
sce una visione tridimensionale.7

4. Opera mutante

Le videoinstallazioni e i videoambienti accentuano l’apertura alle va­


riazioni come uno dei tratti dell’opera d’arte: le sue forme possono mu-
tare adattandosi a situazioni e spazi diversi; non è un oggetto unico,
proposto alla contemplazione del pubblico; le sue manifestazioni sono il
frutto di una pluralità di possibilità che il visitatore è chiamato ad attiva­
re in diverse situazioni – dal dispositivo del circuito chiuso all’interatti­
vità prodotta con l’informatica – che implicano una partecipazione del
pubblico impegnandolo mentalmente e sensorialmente e spesso in atti­
vità manipolatorie, esploratrici.
Lo spazio-tempo della videoinstallazione e dei videoambienti coin­
volge il corpo del visitatore in una relazione con gli elementi disposti
nello spazio. Il procedimento di messa in scena teatralizzata intende
produrre delle interazioni audiovisive che attirano l’attenzione del
pubblico senza fermarlo né orientarlo in maniera arbitraria, come è in­
vece tendenza nella pittura, nel cinema e in altre forme d’arte visiva.
Ciascuno è invitato a costruire un proprio percorso abbandonandosi al-
le sollecitazioni delle connessioni tra i vari elementi. Queste opere la­
vorano sulla percezione, ne esplorano le condizioni e i processi. Inoltre
l’immagine elettronica coinvolge l’architettura che ne diviene un’e­
stensione: ciò che è importante non è l’immagine in sé e per sé ma di-
venta immagine tutto un insieme di elementi che interagiscono nello
spazio e che orientano la percezione e il comportamento del visitatore.
È stato più volte notato come l’interesse degli artisti si sposti verso la

7
Descrizione in F. de Mèredieu, Arts et nouvelles technologies. Art vidéo, art numérique,
Larousse, Paris 2003, p. 157.
SIMONETTA CARGIOLI 296
creazione di nuove modalità di accesso, di incontro e di dialogo con le
immagini.
La studiosa americana Margareth Morse ha messo in rilievo la parti­
colarità dell’esperienza della videoinstallazione, così lontana da quella
del cinema e del teatro: non c’è nelle videoinstallazioni la parete invisi­
bile che separa la scena dal pubblico.8 E conia per definire queste forme
d’arte l’espressione «arte della presentazione»: mettendo l’accento sul
presentare, lasciando che l’opera si presenti nel suo processo al pubbli­
co; e ponendo in primo piano la dimensione temporale, il presente nel
quale avviene l’esperienza dell’opera che sfugge anche alla linearità e
sequenzialità temporale che contraddistinguono il cinema e il teatro
convenzionali.
Le idee di indeterminatezza e di opera come processo trovano nel vi­
deo un fertile terreno di sviluppo: già Paik sancisce la crisi della nozione
tradizionale di opera d’arte come resa di un’idea in un oggetto finito;
infatti non si tratta per lui di produrre opere ma di mettere il pubblico
nella situazione di fare l’esperienza di rapporti nuovi con una proposta
artistica. Questa non si materializza in un oggetto unico, ma è un insie­
me di situazioni in cui una serie di concetti, di idee, sono fatti evolvere.
L’artista utilizza media diversi, mescola i linguaggi, opera continuamen­
te delle circolazioni di forme da un’opera all’altra, ama ibridare, creare
associazioni provocatorie.
Così come cambia la nozione di opera definendosi una rete di rela­
zioni che implica una regia di diversi media e linguaggi, muta anche lo
statuto dell’immagine che ha ora un ruolo dipendente dalle situazioni e
relativizzato: «Si dirà che ci sono due maniere di essere o di non essere
dell’immagine in molte installazioni attuali, o ancora due maniere di di­
menticarla: una in cui essa è tutto, unico riferimento d’una proiezione
spesso ambientale in una sala oscura; l’altra in cui essa è poca cosa, or-
mai semplice polo di un sistema che implica degli elementi molteplici, o
terminale che permette di rendere visibili cose che succedono altrove,
nella circolazione dei dati su Internet, per esempio».9 L’immagine non
è l’elemento centrale nelle videoinstallazioni e nei videoambienti, è in­
vece uno tra gli elementi costitutivi dell’esperienza artistica; tant’è che
spesso la sua percezione è resa difficile dalle condizioni scelte dall’artista
per la sua manifestazione: solo per citare pochissimi esempi, in Paik (Vi­
deo Fish, 1975 ), Bill Viola (Passage, 1987; Slowly Turning Narrative, 1992),
Bruce Nauman (Live-Taped Video Corridor, 1970) il nostro desiderio di ve­

8
M. Morse, Video Installation Art, cit.
9
A.M. Duguet, Déjouer l’image. Créations électroniques et numériques, ed. J. Chambon,
Nîmes 2002, p. 8.
297 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

dere l’immagine si scontra con una serie di ostacoli. C’è sempre qualche
cosa che non va: o la nostra posizione non è giusta, o alcuni elementi di­
sturbano la percezione; o l’immagine si concede solo per frammenti.

5. Mettere a fuoco

Molta della ricerca video degli anni Novanta si ricentra sulle espe­
rienze di espansione dell’immagine e multimediali fatte negli anni Ses­
santa. Nel vasto campo delle videoinstallazioni la ricerca è tesa a trovare
delle prospettive molteplici e nuove per la proiezione dell’immagine,
per i supporti e per le possibilità narrative. Frequentemente negli ultimi
anni gli autori si appropriano del cinema, in operazioni di segno diver­
so e svariato. A volte sono riletti il dispositivo della produzione-ricezione
dell’immagine e il rito della visione del film. Ma la proiezione cinema­
tografica è sottomessa a operazioni spesso complesse, che stravolgono la
relazione schermo-spettatore richiedendo una partecipazione del pub­
blico invitato a deambulare nello spazio delle proiezioni o sollecitando
in lui diverse modalità percettive, stimolate dalle alterazioni cui è sog­
getto il corpo del film (per esempio, le installazioni di «cinema esposto»
di Doug Aitken, Douglas Gordon. Ma anche le esperienze di Chris
Marker e di Chantal Akerman).
Nelle diverse direzioni delle recenti «evoluzioni» delle videoinstalla­
zioni (verso l’ambiente, l’interattività, il cinema, i quadri e la pittura...)
sempre è messa in primo piano la presenza del corpo, quindi del visita-
tore. Questo a ribadire che l’esperienza dell’opera passa attraverso il
corpo e lo mette in gioco come strumento emotivo e cognitivo. Il mo­
dello immersivo è esplorato in molte creazioni di spazi avvolgenti multi­
mediali e multisensoriali: dai videoambienti agli ambienti interattivi in
cui vengono utilizzati le immagini di sintesi, la simulazione di universi
tridimensionali e il virtuale. Il computer gestisce molte delle operazioni
multimediali, le connessioni e integrazioni tra programmi, traduce i di­
versi elementi in un linguaggio e li mette in relazione attraverso le in­
terfacce. I lavori che fanno ricorso al digitale, ai programmi e alle inter­
facce, acquisiscono una ulteriore forma di manifestazione, performati­
va. Viene cioè richiesto al visitatore di agire, di partecipare non solo con
i sensi sollecitati: operando sul dispositivo, può ora partecipare e deter­
minare una manifestazione, tra le tante, dell’opera.
Nell’opera digitale, videoinstallazione e videoambiente, l’autore pro­
pone un programma contenente delle reti di possibilità; il visitatore è
chiamato ad attivare una scelta che determina una manifestazione del-
l’opera, una versione. L’opera è prima di tutto un programma che con­
SIMONETTA CARGIOLI 298
nette un insieme di relazioni tra frammenti, dati eterogenei: visivi, so­
nori, cinestetici. Le sue manifestazioni si svolgono attraverso una perfor­
mance del visitatore con il dispositivo, via le interfacce. Nelle installa­
zioni interattive ci è richiesto di agire, di prendere parte al farsi dell’o­
pera che è un laboratorio continuo e aperto, work in progress; e spesso è
attivata la nostra capacità manuale. Le installazioni interattive creano
uno spazio multimediale nel quale è richiesto al visitatore di attivare la
scena mantenendo lo sguardo a una certa distanza. Negli ambienti inte­
rattivi e virtuali invece è il corpo stesso che diventa interfaccia e si im­
merge nell’immagine; il corpo si deve attrezzare per l’esplorazione, in­
dossando dei sensori, guanti, occhiali, casco...
Il corpo stesso diventa interfaccia e attiva, connesso al computer, le
mutazioni dei dati audiovisivi. L’immagine è il frutto allora dell’intera­
zione corpo-tecnologia e diventa scena da abitare, animare. L’immer­
sione del visitatore nell’opera in cui si realizzano nuove modalità del
multimediale non è un’invenzione della realtà virtuale. È un’esperienza
provocata già, come abbiamo visto, dai videoambienti che, tra l’altro, di­
latano la coscienza del tempo e dello spazio. L’occhio pare aver delega­
to nelle installazioni e negli ambienti interattivi un po’ del suo potere al­
la mano e l’immagine è il frutto di un’azione attraverso la quale il visita-
tore esercita una propria autorità.
Una volta accennati e descritti alcuni – i più profondi – cambiamenti
in corso osservando le installazioni, dobbiamo mettere a fuoco certe
problematiche che richiedono di essere trattate, discusse. In questa sede
possono essere solo evocate. A cominciare proprio dall’interattività, ar­
gomento al quale sono stati dedicati negli ultimissimi anni molti studi e
ricerche, connessi in particolar modo con la pratica teatrale mentre, al­
meno in Italia, sono pochi gli studi in relazione con le videoinstallazioni
e i videoambienti. Tale prospettiva di ricerca dovrà mettere l’accento
sulle conseguenze dal punto di vista percettivo e cognitivo della messa in
scena dell’immagine. Alle differenti modalità della sua messa in scena
sono connessi i cambiamenti del suo statuto. Negli ambienti per esem­
pio c’è spesso una perdita del quadro e dei limiti dell’immagine: se non
c’è più delimitazione è legittimo chiedersi se e a che livello sia ancora
giusto parlare di immagine. La performance è un’altra urgente questio­
ne: i media digitali sono caratterizzati dalla dimensione performativa,
l’opera è una performance di linguaggi e il tipo di comportamento ri­
chiesto al pubblico muta in conseguenza. Il visitatore è infatti un perfor­
mer, ma si assiste talvolta a un abuso del termine e le pratiche artistiche
vengono studiate e osservate troppo frequentemente proprio dal punto
di vista del pubblico, si assiste cioè a un rinvio di responsabilità per cui
l’interesse e la critica vengono deviati verso il fruitore. Sovraeccitato da­
299 OLTRE LO SCHERMO: EVOLUZIONI DELLE VIDEOINSTALLAZIONI

gli impulsi diversi, questi rischierebbe di scivolare in una situazione in


cui il sensazionale prevarrebbe sulla sensazione. E dove la saturazione
dell’esperienza potrebbe portare all’anestesia (allarme dato più volte
da Paolo Rosa, di Studio Azzurro). Non a caso il titolo della penultima
Biennale di Venezia era Più etica, meno formalismo, e quello dell’ultima La
dittatura dello spettatore...
L’arte poi deve far dimenticare la tecnologia: dopo una fase iniziale
in cui si descrivono e analizzano dispositivi, tecniche, linguaggi, si deve
passare alla costruzione di riflessioni e discorsi di tipo estetico ed etico.
Le questioni della multimedialità, dell’arte delle interfacce e dei pro­
grammi devono poter permettere di delineare i nuovi campi in cui si svi­
luppa l’arte tecnologica e interattiva con il conseguente tentativo di pen­
sare in modo critico processi e connessioni. Ci si deve interrogare sulle
questioni etiche connesse all’interattività, nei termini della condivisione
di spazi e linguaggi. E sugli impatti che le tecnologie e il multimediale
hanno sui sensi e sui processi cognitivi in dimensione collettiva. I com­
piti della ricerca sono molti e impegnativi. È alla base necessario conti­
nuare a forgiare strumenti idonei per comprendere l’evoluzione odier­
na della multimedialità oltre gli approcci tradizionali dell’estetica che
hanno ancora delle resistenze a considerare gli aspetti pragmatici,
performativi e ludici che sono attivi nei diversi campi dell’arte.
VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE
Andrea Balzola

1. Drammaturgia: una definizione aperta

Il termine «drammaturgia» ha assunto nell’arco del Novecento una


molteplicità di significati che ne hanno fatto una definizione aperta e
anche piuttosto ambigua, una sorta di campo semantico che raccoglie
diverse concezioni del teatro e che ne riflette l’evoluzione. Se prendia­
mo la definizione da un odierno dizionario linguistico, troviamo che la
drammaturgia è «l’arte di comporre drammi» (Garzanti); se invece con­
sultiamo un dizionario etimologico, troviamo che l’origine più antica
del termine, quella greca, corrisponde a drama e dramatikòs che hanno la
radice dorica dran (che equivale ad «agire»), da cui dramatourgòs, che sa­
rebbe il «demiurgo dell’azione» (Zanichelli). Se ricorriamo poi a una
spiegazione enciclopedica specifica, leggiamo che «in senso stretto, il
termine indica la tecnica di composizione di un testo drammatico; più
ampiamente, la riflessione su di questo, ed equivale quindi a poetica
teatrale» (Garzanti). Nella Poetica di Aristotele, il dramma è una delle
forme fondamentali di scrittura che si distingue dalla narrazione (l’epi­
ca) perché il suo oggetto è il confronto e il conflitto diretto tra i perso­
naggi: gli eroi del dramma agiscono e parlano in prima persona, non at­
traverso lo svolgersi di un racconto.
Il primo drammaturgo dell’era moderna è considerato Gotthold Eph­
raim Lessing, perché è il primo a definirsi tale e nel 1767 è incaricato da
un gruppo di finanziatori di farsi promotore e responsabile artistico del
primo teatro nazionale tedesco ad Amburgo. La figura del Dramaturg in
Germania nasce quindi insieme alle stesse istituzioni teatrali, come ele­
mento chiave di una rifondazione culturale che riceve il suo slancio dal­
la rivoluzione francese e trova in Goethe e Tieck i suoi illustri artefici.
Una corrente tedesca di studi teatrali (la Theaterwissenschaft) suggeri­
sce di distinguere fra il Drama (la letteratura drammatica) e il Theater (lo
spettacolo). Infatti, nell’epoca moderna l’accezione del termine «dram­
maturgia» non è più circoscritta a un genere teatrale, appunto il dram­
ma, che entra definitivamente in crisi con Beckett e tende a oltrepassa­
re i suoi confini storici del teatro di parola per approdare alla scrittura
scenica (G. Bartolucci). Con l’avvento del teatro di regia, alle soglie del
Novecento, si è interpretata la drammaturgia sempre meno come com­
301 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

posizione del testo e sempre più come composizione di tutti gli elemen­
ti espressivi della messinscena. Di conseguenza, la figura dell’autore tea­
trale ha visto cambiare la sua identità – anche se non tutti concordano
con questa prospettiva – coincidendo più con l’autore della messinsce­
na, cioè il regista, che con l’autore del testo.
Oggi possiamo perciò individuare quattro diverse e articolate acce­
zioni di drammaturgia, compresenti; la prima è un’accezione restrittiva
e tradizionale, che si riferisce esclusivamente alla parte letteraria del tea­
tro, il copione teatrale; la seconda è un’accezione più generale ed esten­
siva: concepisce la drammaturgia come l’organizzazione artistica degli
elementi espressivi che compongono lo spettacolo o la performance tea­
trale; l’estensione ha attraversato tre fasi cruciali: l’utopia dell’opera to­
tale e della sintesi delle arti (da Wagner ad Appia, alle avanguardie del
primo Novecento); il teatro di regia (teorizzato da Stanislavskij, Mejer­
chol’d, Craig); l’happening e la performance (dagli anni Cinquanta,
sulla scia neo-dadaista, con Cage, Cunningham, Kaprow ecc.) e la nuova
avanguardia degli anni Sessanta-Settanta, che sviluppa una visione tota­
lizzante di «regia d’autore» (da Kantor a Mnuochkine, da Ronconi a
Wilson), e che in larga parte si ispira alle idee di Artaud, traendone
però percorsi molto diversi (dal Living Theatre a Brook, da Grotowski a
Barba o Carmelo Bene).
Un’accezione più tecnica-professionale è invece quella che si lega al­
la pratica reale del rapporto tra testo e scena, articolandosi in quattro
tipologie: 1) il drammaturgo-regista, quando il regista è anche autore del
testo o di un adattamento; 2) la drammaturgia collettiva, tipica delle com­
pagnie del teatro di ricerca; 3) il drammaturgo puro, che affida il suo te­
sto teatrale al regista. Il Dramaturg in tedesco ha il duplice significato di
«autore teatrale», il drammaturgo puro, e di «poeta di compagnia», co­
lui che lavora sul testo pur non essendone l’autore, come esperto, tra­
duttore, adattatore e collaboratore alla sua messa in scena, una defini­
zione che risale al Settecento; come abbiamo visto nasce in Germania
insieme alle istituzioni teatrali nazionali e viene poi rifondata negli an-
ni Quaranta del Novecento da Bertolt Brecht. Nell’Inghilterra del XVIII
e del XIX secolo questo ruolo è assunto da attori manager, che rielabo­
rano il repertorio classico interpretandolo e adattandolo ai gusti con­
temporanei del pubblico; negli Stati Uniti è introdotto tardivamente,
grazie ad alcune organizzazioni teatrali, scuole e università, negli anni
Sessanta del Novecento. In Italia, la figura del Dramaturg non è mai sta­
ta riconosciuta ufficialmente (il termine stesso non è tradotto ed è di
ardua traduzione, per la complessità delle funzioni che accorpa, anche
se il neologismo «drammatologo» potrebbe avvicinarsi), ma è esistita di
fatto – come ha ricordato Claudio Meldolesi – fin da quando, a metà
ANDREA BALZOLA 302
Ottocento, Gustavo Modena la importa dall’estero; nel secondo Nove­
cento svolge un ruolo fondamentale nell’ombra dei grandi registi, ne
sono un esempio emblematico le collaborazioni di Gerardo Guerrieri
con Visconti, di Tofano, Lunari e Raimondo con Strehler, di Zorzi con
De Bosio, di Taviani con Barba. Oggi il suo ruolo professionale è iper­
codificato in Germania, dove è presente in ogni teatro con importanti
responsabilità artistiche e nei teatri più grandi si specializza in diverse
funzioni, mentre nel resto d’Europa è da un ventennio in fase di svi­
luppo e di ridefinizione (il Dramaturg può essere assunto da un teatro,
da una compagnia o essere un collaboratore fisso di un regista), ma la
sua funzione essenziale è quella di assistere il regista e gli attori nel la­
voro di ricerca, eventuale traduzione, interpretazione, commento o
adattamento di un testo alla scena. 4) L’ultima accezione, ancora in via
sperimentale e sulla quale concentreremo la nostra attenzione, è la
drammaturgia multimediale (o ipermediale), intesa come scrittura di una
partitura ipertestuale per uno spettacolo che utilizza le nuove tecnolo­
gie audiovisive, digitali e interattive. Questa pratica affonda le sue radi­
ci nella nuova drammaturgia novecentesca, che ha cercato di integrare
il linguaggio filmico nel testo teatrale (a due livelli: mediante l’uso di
proiezioni in scena, e attraverso l’interiorizzazione della «grammatica»
cinematografica nella scrittura teatrale) e che poi riprende slancio da­
gli anni Ottanta, con l’uso del video in teatro e successivamente con il
teatro tecnologico.

2. Scacco matto al testo teatrale classico

Nel Novecento, la drammaturgia teatrale tradizionale, quella legata


alla scrittura di un testo teatrale che poi viene rappresentato in scena,
subisce un triplice scacco, mortale.
Il primo scacco proviene dalla rivoluzione teatrale (tra la seconda metà
dell’Ottocento e il primo scorcio del Novecento) profetizzata dai teori­
ci di un teatro totale come Wagner e Appia e poi di un teatro di regia
sottratto al dominio esclusivo della parola, come indicano Mejerchol’d,
Craig, Artaud. Con visioni e modalità molto diverse tra loro,1 costoro
promuovevano un teatro di regia, piuttosto che di parola, un teatro do­
ve tutti i linguaggi, dello spazio e della luce, del gesto e del movimento,
del suono e dei sensi, fossero esplorati e concorressero alla creazione di
un evento teatrale multisensoriale, un nuovo mondo della percezione si­
nestetica e una nuova estetica dello spettacolo. Come molti rivoluziona­

1
Cfr. il mio testo ivi pp. 25-53.
303 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

ri, nella loro opera prevalsero le utopie e le «profezie» piuttosto che


un’effettiva realizzazione delle loro idee, ma poiché erano idee spesso
fondate su intuizioni valide e su sperimentazioni autentiche, il tempo
diede loro ragione. Infatti, tutto il teatro di ricerca (o cosiddetto di
«avanguardia») che prende avvio in Nord America e in Europa a partire
dagli anni Sessanta del Novecento, pur nei suoi molteplici e differenzia­
ti percorsi, fa riferimento ai citati «padri» della rivoluzione teatrale e
mette finalmente alla prova dei fatti e della scena le loro «utopie». La
parola non scompare dalla rappresentazione, ma il suo ruolo è notevol­
mente ridimensionato e soprattutto muta di senso. Il testo teatrale di-
venta più simile a una partitura, dove le parole e i dialoghi interagiscono
fin dalla loro genesi con le altre pulsioni espressive: musica, danza, in­
venzione dello spazio scenico e dell’illuminazione ecc. L’autore del te­
sto e il regista, o in molti casi il gruppo, concepito come autore colletti­
vo, tendono sempre più a identificarsi, la tradizionale separazione dei
ruoli tende a svanire. Il più delle volte è il regista stesso che, mediante
adattamenti dalla letteratura, rifacimenti dei classici o canovacci origi­
nali, realizza i testi dello spettacolo.
Il secondo scacco proviene dai drammaturghi stessi, cioè da quegli au­
tori, quasi tutti con esperienze anche di regia, come Pirandello, Clau­
del, Brecht, Beckett, Bernhard, Pinter, che hanno portato alle estreme
conseguenze la scrittura drammaturgica, ripensandone il senso e le for­
me e fondando il canone drammaturgico moderno. Per tutti questi au­
tori, il testo è portatore di una nuova concezione teatrale. Nel Piran­
dello maturo il testo diventa metateatrale, cioè fa del teatro l’ambien­
tazione e l’oggetto stesso della pièce teatrale; in realtà il «teatro nel
teatro» è sempre esistito (basti pensare alla rappresentazione teatrale
dell’omicidio del padre orchestrata da Amleto), ma Pirandello rico­
struisce la fenomenologia stessa della scrittura drammaturgica: smonta
ironicamente il meccanismo del testo e della sua rappresentazione, op­
pone la finzione dichiarata al naturalismo e al simbolismo, rompe la
sua linearità logica e cronologica, si apre a una molteplicità di punti di
vista e di sviluppi possibili, svela e ostenta la crisi d’identità dell’autore
e dei suoi personaggi (la trilogia Ciascuno a suo modo, Sei personaggi in
cerca d’autore, Questa sera si recita a soggetto, ma anche, per ragioni diver­
se: Enrico IV e l’incompiuto I giganti della montagna). Paul Claudel, è in­
vece un autore spiritualista che esalta la dimensione poetica e simboli­
ca della scrittura teatrale e intuisce molto precocemente la possibilità
di un’organica integrazione drammaturgica tra linguaggio teatrale e
linguaggio cinematografico, introducendo nella scrittura di Le Livre de
Christophe Colomb (1927; poi musicato da Milhaud) la proiezione cine­
matografica e teorizzando la necessità di riformulare in tale prospettiva
ANDREA BALZOLA 304
la stessa arte dell’autore teatrale (ispirandosi probabilmente al Methu­
salem scritto dal surrealista tedesco Iwan Goll nel 1919, rappresentato
nel 1922 in Germania e nel 1927 in Francia, nel quale i sogni del pro­
tagonista sono ricreati con proiezioni filmiche). Bertolt Brecht è il
grande riformatore della figura del Dramaturg tedesco nell’ambito del­
la straordinaria esperienza del Berliner Ensemble (anni Quaranta);
nella sua visione politica del teatro prende forma la poetica dello «stra­
niamento» dove l’attore non si immedesima nel personaggio ma è in
una relazione dialettica e critica con esso. Nella sua poetica il teatro
mescola le forme popolari della canzone e della ballata con quelle col-
te del testo storico, trasformando lo spettacolo in forma di riflessione
collettiva, di impegno etico e politico. L’opera di Samuel Beckett segna
la crisi definitiva del «dramma», con lui e con il Teatro dell’assurdo (a
cui contribuisce soprattutto Ionesco) la scrittura teatrale raggiunge il
grado zero, si scarnifica fino all’essenza, riempiendosi di silenzi e di pa­
radossi, di attese insolute e di vuoti, segna l’apocalisse della comunica­
zione e del linguaggio; inoltre la scrittura beckettiana si apre ai nuovi
media del cinema (Film, un corto con Buster Keaton), della radio e
della televisione (con i suoi radiodrammi e teledrammi per la BBC).
L’eredità beckettiana trova in Thomas Bernhard una dimensione os­
sessiva fino al parossismo e alla parodia, una scrittura alienata che spin­
ge la rappresentazione all’annichilimento, all’autodistruzione (che di-
venta vera e propria devastazione esistenziale in alcuni autori delle ge­
nerazioni successive, come l’inglese Sarah Kane, i cui testi sono crona­
che atroci di un suicidio annunciato e inevitabile). Anche la scrittura di
Harold Pinter, che è insieme drammaturgo e sceneggiatore cinemato­
grafico, risente dell’impronta beckettiana in una chiave che è meno
estrema, ma che attualizza la scrittura teatrale con i ritmi della sintassi
cinematografica.
Il terzo scacco deriva dalla comparsa delle nuove tecnologie audiovisive
e della comunicazione: in ordine di apparizione il cinema, prima muto
e poi sonoro, la televisione e la telematica. La grande svolta tecnologica
si annuncia nel primo ventennio del Novecento, con la scoperta del ci­
nema da parte delle avanguardie storiche, che intuiscono le potenzialità
creative di quella nuova invenzione tecnica, inizialmente relegata a in­
trattenimento da baraccone o a pura funzione documentaria. A partire
dai futuristi, letteralmente invasati dal mito moderno dell’innovazione
tecnologica, la concezione del teatro subisce una trasformazione radica­
le: da medium convenzionale di massa dominato dal dramma borghese,
a luogo di un evento performativo (di carattere sia propagandistico sia
artistico) che provoca il pubblico per teatralizzare il suo ruolo (in una
forma plateale di dissenso o di consenso) e che scardina i meccanismi
305 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

del progetto drammaturgico. Il testo diventa canovaccio per l’improvvi­


sazione, i temi consueti sono derisi o cancellati, il linguaggio si disarti­
cola nel verso libero o si concentra in una antinarrazione costruita da
brevi frammenti, con l’obiettivo esplicito di creare un teatro sintetico, ca­
pace di «vincere la concorrenza col cinematografo».2 Il cinema diventa lo
strumento ideale per contaminare e ridefinire lo statuto stesso della co­
municazione teatrale. I poeti e gli artisti delle avanguardie, prima anco­
ra dei teatranti, portano la finzione scenica teatrale dentro lo schermo3
(basti pensare al Gabinetto del dottor Caligari di Wiene, del 1920) e lo
schermo dentro il teatro (come On Trial di Elmer Rice, del 1914, Methu­
salem di Goll, del 1919, Sensualità di Fillia, del 1923, o Entr’acte di Clair,
del 1924, concepito come intermezzo cinematografico di un balletto
moderno, oppure come i film di Man Ray proiettati durante le serate da­
daiste e surrealiste). Il cinema viene poi inserito organicamente all’in­
terno della scena teatrale da registi teorici come Burian,4 Mejerchol’d,
Eisenstein e Piscator o da geniali scenografi come Kiesler (nel 1922, per
la messinscena di R.U.R. di Čapek, realizza una macchina scenografica
che prevede l’uso di proiezioni cinematografiche) e Svoboda. In seguito
il cinema ha continuato a influenzare la scrittura teatrale mediante le in­
novazioni del suo linguaggio. Dagli anni Settanta il teatro scopre la tele­
visione, come strumento utile di documentazione ed eventuale trascri­
zione degli spettacoli, e poi, dagli anni Ottanta, sull’onda delle speri­
mentazioni videoartistiche delle arti visuali, il teatro di ricerca si affaccia
al video, usandolo come mezzo di potenziamento e ridefinizione poeti­
ca della scena (A. Balzola, F. Prono, 1994). In quest’ultimo decennio, le
realtà artificiali e virtuali, la rete, i software interattivi e la robotica ri­
mettono ancora una volta radicalmente in discussione il modo di co­
struire e di fruire la dimensione dello spettacolo (E. Quinz, 2002; A.
Pizzo, 2003).

2
Cfr. F.T. Marinetti, Manifesto dei drammaturghi futuristi (11 gennaio 1911) e Teatro
futurista sintetico (11 gennaio-18 febbraio 1915), in M. Verdone (1969, 1970) e L. Lapini,
Il teatro futurista italiano, Mursia, Milano 1977.
3
Cfr. sulla scenografia cinematografica delle avanguardie A. Cappabianca, M.
Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto, G. Mazzotta editore, Milano 1974.
4
E. Frantisek Burian, nato a Pilsen nel 1904 e praghese d’adozione, teorico, regi­
sta e musicista, è uno dei primi a teorizzare (dal 1925), nella sua «estetica polidina­
mica», l’uso delle proiezioni cinematografiche in scena come veicolo di sintesi dei
linguaggi, fino a inventare insieme allo scenografo M. Kouril il teatrografo (1936), un
sistema che combina proiezioni di diapositive e retroproiezioni cinematografiche in­
tegrato nell’apparato scenico.
ANDREA BALZOLA 306
3. Le trasformazioni sulla scena

L’idea di utilizzare una tecnologia extrateatrale per potenziare la mac­


china scenica precede l’invenzione del video e si affaccia fin dagli albori
del cinema, con le precoci intuizioni drammaturgiche di Saint-Pol-Roux
(che nel suo testo La dame à la faulx, del 1895, immaginava di riprodur­
re cinematograficamente sul palcoscenico la sequenza di una cavalcata)
e più tardi con gli esperimenti dei futuristi, dei surrealisti e dei pionieri
del teatro di regia Mejerchol’d, Eisenstein e Piscator (che proiettano do­
cumenti filmati o immagini visionarie durante gli spettacoli). Il cinema
induce anche una duplice trasformazione nella drammaturgia: da una
parte, fin dalla stagione futurista e dada, gli autori teatrali interiorizzano
le innovazioni linguistiche del cinema (soprattutto le scansioni e i salti
temporali del montaggio) all’interno della loro scrittura (Arthur Miller,
Samuel Beckett, Marguerite Duras, Harold Pinter fino ai più recenti
Sam Shepard, David Mamet e Michel Vinaver); dall’altra parte, comin­
ciano a pensare l’integrazione dell’immagine cinematografica già nella
costruzione del testo (tra i precursori di questa tendenza ci sono i futu­
risti, i citati Rice, Goll e Claudel).5
Questo duplice filone si riproduce e si sviluppa con l’arrivo del video.
L’immagine video in scena è stata uno degli elementi caratterizzanti del­
la ricerca teatrale degli anni Ottanta ed è poi entrata molto più facil­
mente del cinema nel codice teatrale, anche per ragioni di maggiore
economicità e flessibilità del medium. Sia negli spettacoli teatrali sia nel­
la danza, l’utilizzazione del video è presto diventata una pratica piutto­
sto corrente della messa in scena, approdata anche sui palcoscenici del­
le più canoniche istituzioni teatrali. La tendenza più diffusa è stata quel-
la di inserire la proiezione video nello spettacolo in funzione prevalen­
temente scenografica o alla ricerca del puro effetto spettacolare. Un’op­
zione più che legittima, ma che in molti casi riflette una concezione ri­
duttiva del rapporto tra scena reale e scena virtuale, e in alcuni casi rie­
voca addirittura i fondali dipinti del teatro ottocentesco. Sostituire al-
l’architettura scenografica o integrare in essa uno schermo con imma­
gini animate non costituisce infatti, necessariamente, l’apertura di una
nuova dimensione comunicativa ed espressiva per il teatro, ma piuttosto
rischia di appiattire quest’ultimo su un modello di fruizione televisiva. Si
tratta infatti di teatralizzare il video piuttosto che «televisizzare» il teatro.
Se questo è un vicolo cieco nel quale si sono infilate le produzioni tea­

5
Uno studio utile sul rapporto tra drammaturgia e nuove tecnologie, concentra­
to sull’area francofona, è l’articolo di J. Danan, De l’influence de la technologie sur l’écri­
ture dramatique, in Théâtre/Public, dossier Théatre et technologie, 1996.
307 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

trali che simulano un’innovazione del linguaggio, eludendone la so­


stanza, ci sono dei percorsi alternativi, che spostano l’uso dell’immagine
video o digitale dal momento della messinscena al momento del concepimento
dell’idea drammaturgica. In realtà, i due momenti s’intrecciano continua-
mente, perché è proprio caratteristica della ricerca drammaturgica sul­
le nuove tecnologie non voler e non poter prescindere dalle sperimen­
tazioni sulla scena. Ciò che fa la differenza è il ruolo che si attribuisce al-
le immagini video o digitali in scena, che diventano elementi costitutivi del
testo drammaturgico e non solo elementi integrativi della messinscena. A titolo di
esempio (ma non certo con valore esaustivo) è utile ricordare alcuni
episodi emblematici di questo nuovo corso.
In Italia, i Magazzini Criminali, con la regia di Federico Tiezzi, in­
troducono il video in scena fin dal 1979, in Punto di rottura, dove quat­
tro monitor sezionano lo spettacolo, isolandone le azioni e i particola­
ri; in Come è (1987) l’attore riprende sé stesso, in una specularità stra­
niante e narcisistica del proprio corpo recitante. Mario Martone, in
Missione Alphaville (1987), scrive e dirige un ideale seguito teatrale di
un film-cult di Jean-Luc Godard (Alphaville, 1965), dove si assiste a un
dialogo bilingue tra l’agente segreto in missione e l’immagine video del
suo istruttore. Un’idea sviluppata nel Filottete, dove il protagonista, esi­
liato e nascosto su un’isola, sogna il ritorno degli eroi omerici dialo­
gando con la loro immagine (video) mimetizzata nell’acqua e nella sab­
bia.6 Il francese Michel Vinaver nelle sue opere teatralizza invece la ma­
nipolazione dei media, soffermandosi in particolare sul processo di
contraffazione della realtà attuato dai programmi televisivi d’attualità:
in A la renverse (1980) prevede l’allestimento di alcune postazioni tele­
visive nelle quali un reality show trasmette le interviste al personaggio
pubblico Bénédicte de Bourbon-Beaugency e racconta in diretta la sua
malattia mortale; in L’èmission de télévision (1990) si svelano ancora più
esplicitamente i meccanismi di manipolazione televisiva su uno sciope­
ro di lunga durata, messi in opera dagli autori di un altro reality show. Il
nord-americano John Jesurun, in Deep Sleep (1985) immagina una scena
centrale a due livelli: sul primo agiscono gli attori dal vivo e sul secondo
si fronteggiano due proiezioni video laterali con battute e azioni regi­
strate; in questo modo durante lo spettacolo si creano molte varianti di
un dialogo incrociato tra attori reali e attori virtuali. Hélène Pedneault

6
Uno dei più attenti testimoni critici del rapporto tra ricerca teatrale, cinema e vi­
deo in Italia, dal Teatro Immagine di Perlini agli esordi di Tiezzi (con i quali ha col­
laborato come sceneggiatore e drammaturgo) è Nico Garrone, anche autore di nu­
merosi video sulla processualità creativa degli spettacoli (da Corsetti a Vacis, da Mar­
tinelli a Baliani).
ANDREA BALZOLA 308
nel suo testo La déposition (1988) prevede che le due testimonianze cru­
ciali delle sorelle del protagonista, sotto processo, siano realizzate con il
video e interagiscano con le reazioni dal vivo dell’accusato. In Democra­
zia (Lia e Rachele) (1995) di Andrea Balzola, una stessa attrice, Marisa
Fabbri, si sdoppia in video e in voce nei personaggi opposti di due so­
relle; il video evidenzia qui il contrasto drammatico tra la loro specula­
rità e una distanza forse incolmabile. Il loro «incontro» finale avviene
tramite un campo e controcampo d’ispirazione cinematografica, rea­
lizzato grazie a un’originale soluzione scenografica ideata da Luca Ron­
coni, dove l’attrice dal vivo e il suo doppio sullo schermo (trasparente)
sono collocate l’una di fronte all’altro, su una pedana girevole che con­
sente allo spettatore di vedere il dialogo da punti di vista sempre diver­
si, appunto come accade nel cinema.
Bob Wilson negli anni Ottanta e il regista canadese Robert Lepage
nel decennio successivo sono forse tra i più significativi esploratori tea­
trali di una nuova poetica tecnologica. Wilson cerca il superamento
dei vincoli spazio-temporali con due grandiosi progetti teatrali, The
Civil Wars e Die Goldenen Fenster, la cui idea fondante è l’allestimento in
cinque nazioni diverse delle cinque parti di cui si compone ciascuno
spettacolo e la loro ricomposizione televisiva, da trasmettere via satel­
lite in tutto il mondo. Lepage sperimenta invece la scena come un
montaggio di visioni tecno-teatrali, tramite specchi, diapositive, film e
soprattutto video (registrati e in diretta), ma il suo progetto nasce a
partire dalla costruzione del testo drammaturgico, sempre in progress,
come dimostra in modo emblematico Les sept branches de la rivière Ota
(1994).
Un’operazione diversa, inedita e che ha una continuità nel tempo
viene inaugurata negli anni Ottanta in Italia, dal gruppo di Studio Az­
zurro e da Giorgio Barberio Corsetti con la trilogia Prologo a diario se­
greto contraffatto, Correva come un lungo segno bianco e La Camera astratta.
Qui si assiste all’invenzione di una doppia scena, la scena si sdoppia in­
fatti tra la dimensione virtuale del video (in ripresa diretta) e la dimen­
sione reale della performance teatrale, e i corpi degli attori passano
senza soluzione di continuità dall’una all’altra. Poi, negli anni Novanta,
mentre Barberio Corsetti sviluppa ancora quest’idea con altri video­
maker e in alcuni importanti spettacoli esportati all’estero come Dottor
Faustus o il mantello del diavolo (1994), Studio Azzurro avvia una lunga
collaborazione video-teatrale-musicale con il compositore Giorgio Bat­
tistelli: Il combattimento di Ettore e Achille (1989), con una videoproiezione
sincronizzata su doppio schermo; Delfi (1990) con l’uso di telecamere
infrarosse che rendono visibile in diretta una scena buia, Kepler’s Traum
(1990), che utilizza in scena schermi mobili che ricevono immagini in
309 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

diretta dai satelliti, Il fuoco, l’acqua, l’ombra (ispirato al regista Tarkovskij


e in collaborazione con il coreografo Roberto Castello, 1998), con vi­
deoproiezioni sincronizzate con i movimenti coreografati di quattro
danzatori su una pedana-zattera mobile; l’opera musicale The Cenci (da
Artaud, 1997) e Giacomo mio, salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopar­
di, drammatizzati da Sermonti) nei quali l’intera scena praticabile si
trasforma in un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i per­
sonaggi con le loro azioni, gesti e suoni, possono provocare degli even­
ti visivi e sonori. Questi ambienti sensibili sono stati sperimentati da Stu­
dio Azzurro in molte videoinstallazioni interattive (dal 1995, con Tavo­
li), che mutano radicalmente il rapporto dell’opera con lo spettatore e
dove l’esperienza di quest’ultimo diventa performativa. Entra quindi
già nell’installazione una drammaturgia dell’interazione opera-pubbli­
co che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e
segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e
sinestetica.
In Storie mandaliche, uno spettacolo laboratorio in progress (1998­
2004), realizzato dal gruppo ZoneGemma (G. Verde, A. Balzola, M. Lu­
pone, M. Cittadini, L. Paolini, A. Monteverdi), il testo di Balzola è una
mappa variabile di sette storie concepite come degli ipertesti: sono col­
legate tra loro mediante link e interagiscono con sequenze visive e so­
nore generate da un software (prima il Mandala System, poi Flash). Il
narratore-regista (Giacomo Verde) ha perciò la possibilità di cambiare
ogni volta il percorso della narrazione, in relazione alle scelte dello spet­
tatore. Un esempio di come si possa coniugare la forma più antica della
narrazione orale (quella del rapsodo e del cantastorie) con la dramma­
turgia multimediale contemporanea.
La Germania, insieme alla Gran Bretagna, è la realtà europea dove
una forte tradizione si combina con un attento sostegno istituzionale al­
la drammaturgia contemporanea e dove quindi le diverse ricerche dei
nuovi autori trovano un immediato riscontro nella verifica del palco­
scenico, anche nell’ambito di una ancora minoritaria scrittura multi­
mediale. Un esempio recente è la pièce Electronic City di Falk Richter
(prima rappresentazione nel 2004 alla Schaubühne di Berlino, per la
regia di Tom Kühnel): una storia d’amore contemporanea tra due pen­
dolari dei cieli e del lavoro che si sviluppa negli ambienti omologati de­
gli aeroporti internazionali (Berlino, New York, Singapore, Sydney e
Los Angeles) e che mescola ironicamente i due generi oggi dominanti
della fiction di massa: soap opera e videogame. Così come il videogame
(che è stato anche, storicamente, il terreno di sperimentazione tecno­
logica e creativa di un percorso narrativo interattivo) influenza o pilota
le sceneggiature fiction della grande produzione cinematografica
ANDREA BALZOLA 310
(Tomb Raider & C.), la sua trasposizione nella drammaturgia teatrale
consente di creare, con l’ausilio di apparati scenici video e multime­
diali, delle strutture con molteplici diramazioni possibili, plot paralleli
e finali aperti. Ormai la circolarità e l’integrazione tra le «drammatur­
gie» cinematografica, multimediale e teatrale si sta consolidando e ca­
pita che autori di formazione cinematografica importino nel «montag­
gio» della loro scrittura teatrale il montaggio filmico ed elettronico, co­
me nel caso di un’altra autrice tedesca, Felicia Zeller. Il suo testo Io, va­
ligia è scritto e ambientato su un treno, ha per protagonisti anonimi
viaggiatori, i loro incontri effimeri, il loro reciproco osservarsi e i loro
dialoghi frammentati. Ispirandosi agli appunti raccolti nei suoi viaggi,
la giovane autrice elabora in chiave paradossale e rimonta «cinemato­
graficamente» questi frammenti di esistenza, di pensieri e di conversa­
zioni, come un arazzo collettivo a molte voci: «Il linguaggio, simulando
ironicamente la conversazione quotidiana, si compone in gran parte di
frasi sconnesse e sbrindellate, ripetizioni continue che si trasformano
spesso in veri e propri loop autistici, gioca con le frasi fatte sviluppando
veri e propri esilaranti combattimenti linguistici di modi di dire. Le
storie dei passeggeri si incrociano scivolando nell’assurdo [...] Il testo e
il treno intanto proseguono inarrestabilmente verso il deragliamen­
to...».7 (C. Menin, 2004). Un altro ambito di ricerca drammaturgica,
ancora in fase embrionale ma con interessanti prospettive di sperimen­
tazione interattiva, è l’uso teatrale della rete e dei suoi strumenti (web­
cam e chat). Uno dei primi progetti è stato quello delle due artiste ca­
liforniane Lisa Brenneis e Adriene Jenik (fondatrici del gruppo Desk-
Top Theater),8 che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta
hanno messo sulla scena della rete alcuni testi teatrali, coinvolgendo il
«pubblico» mediante lo strumento della chat. Nel 1997, utilizzando il
celeberrimo Aspettando Godot di Beckett, il DeskTop Theater ha coin­
volto gli utenti, a loro insaputa, inducendoli tramite il dialogo via chat
a identificarsi con la situazione e i personaggi del testo teatrale e a far
emergere le loro personali ansie, aspettative e inquietudini esistenziali.
In questo modo gli utenti sono diventati essi stessi personaggi della piè­
ce beckettiana. Un altro gruppo californiano, il George Coates Perfor­
mance Group, improvvisa i propri spettacoli dal vivo sulla base di una
scelta dei testi che i frequentatori del loro sito inviano on-line. In Italia,
il primo ad aver utilizzato il Web per realizzare delle performance tea­
trali interattive on-line è stato Giacomo Verde con il suo webcam-thea­
ter. Nella performance Connessione remota, al Museo Pecci di Prato
7
Cfr. C. Menin, Drammaturghi da scoprire, in «ateatro», n. 63, febbraio 2004.
8
Cfr. il sito www.desktoptheater.org.
311 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

(2001), Verde si è collegato in rete presentando tramite webcam una


decina di videoazioni, con le quali gli utenti collegati potevano intera­
gire dialogando in una chat visualizzata insieme alle immagini. In que­
sto modo la performance era percepibile con tre modalità diverse: in
rete, dal vivo e un mix. Tre diversi esempi di come il medium della
chat può essere usato come luogo di creazione collettiva interattiva,
mediante una teatralizzazione della scrittura virtuale, che può anche
sconfinare dalla rete e far dialogare evento reale con evento virtuale.
Attualmente con l’evoluzione delle chat grafiche e in 3D, questo stru­
mento è ulteriormente potenziato anche nella prospettiva di una dram­
maturgia multimediale interattiva on-line.

4. I modelli della scrittura drammaturgica contemporanea

Prima di affrontare l’analisi dei diversi modelli di riferimento dell’in­


novazione drammaturgica, nel cui ambito s’inserisce la prospettiva mul­
timediale, è necessaria una premessa. In questo scenario aperto sul fu­
turo, si assiste anche al cosiddetto «ritorno al testo» (R. Alonge, 2004) e
alla rivalutazione degli ambiti specifici dell’arte scenica, come la recita­
zione, la scenografia, la stessa regia. Questo «ritorno», praticato da mol­
ti protagonisti della ricerca degli anni Settanta e Ottanta e in certi casi
attuato fino ai risvolti più restaurativi, ha un senso che va pienamente
compreso per non incorrere nella semplicistica e spesso fasulla opposi­
zione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione.
Per esempio un grande regista come Luca Ronconi, protagonista da­
gli anni Settanta dell’innovazione teatrale non solo italiana e da sempre
impegnato in complessi adattamenti drammaturgici di testi letterari
spesso giudicati irrappresentabili, ha dato precise indicazioni per la
rifondazione di una tradizione teatrale europea (creando scuole per at­
tori e registi, organizzando delle compagnie stabili, facendo una pro­
grammazione che rifletta una lettura culturale del mondo contempora­
neo) e per un rinnovamento della drammaturgia del testo.9 Suggerendo
di perseguire nella scrittura l’idea di complementarità tra alto e basso,
tra lingua alta, letteraria e mitologica, e parlato quotidiano, su temati­
che non effimere. Sul modello trainante della drammaturgia inglese i
cui protagonisti non a caso sono anche tra i migliori sceneggiatori cine­
matografici (come la drammaturgia teatrale ha dato i fondamenti alla

9
Cfr. A. Balzola, Quer pasticciaccio bello de Ronconi. Da Gadda un invito a ripensare la
drammaturgia contemporanea, in «Sipario», aprile 1996 e La scrittura drammaturgica di
Luca Ronconi, in «Ateatro», n. 35, maggio 2002.
ANDREA BALZOLA 312
sceneggiatura cinematografica, così oggi quest’ultima, per la sua capa­
cità di drammatizzare il contemporaneo in un linguaggio attuale, diret­
to e molto visivo, diventa un modello possibile per il rinnovamento del­
la scrittura teatrale e letteraria). Il «ritorno al testo» in questo caso non
è sinonimo di regressione o conservazione, ma al contrario corrisponde
a una maturazione consapevole della necessità di superare la sterile
«routine» del repertorio e nello stesso tempo di evitare i pressapochismi
di molto sperimentalismo improvvisato.
Come un autentico rinnovamento della scrittura drammaturgica non
può prescindere dalle esperienze della scrittura scenica e delle mutazio­
ni introdotte dal cinema, dal video e dalle nuove tecnologie multime­
diali, allo stesso modo non può non confrontarsi con le indicazioni che
emergono dal consolidamento di una tradizione che vede nella relazio­
ne con il testo un elemento centrale dell’identità registica. Quale sinte­
si è dunque possibile tra le tracce della scrittura scenica, le tracce di una
rigenerata tradizione del testo che però invoca il nuovo, e le tracce di
una presenza invasiva sulla scena (ma ancor più nel quotidiano) delle
tecnologie audiovisuali?
Quando ci si riferisce alla drammaturgia contemporanea, territorio
piuttosto fluido e ancora poco codificato, è opportuno in prima istanza
individuare i modelli, impliciti o espliciti, a cui essa fa riferimento. Que­
sti sono riconducibili a sei tipologie: 1) il canone drammaturgico moderno,
di cui abbiamo parlato, che ha un’influenza determinante sulla produ­
zione drammaturgica dell’ultimo trentennio; 2) la riscrittura del testo tea­
trale classico (o di un testo letterario) che è la scelta più diffusa tra i registi e
gli attori-autori e consiste in una sorta di rovesciamento del teatro clas­
sico e borghese dove la regia era al servizio del testo: qui invece si attua­
lizza, si riduce, si smonta e si rimonta il testo classico adattandolo alle
idee registiche o alle inclinazioni attoriali; 3) il testo mitologico, che rievo­
ca i modelli e le varianti del racconto orale e di un repertorio mitologi­
co transculturale molto esteso nello spazio, nel tempo, e nei suoi valori
simbolici; 4) il testo destrutturato, frammento concettuale, poetico o pro­
sastico di una narrazione esplosa e non ricomponibile, tipicamente post­
moderna; 5) il testo iperstrutturato, che riproduce schemi narrativi chiusi,
sedimentati e prestabiliti, le cui radici si trovano nella grande letteratura
romantica ottocentesca e ora tendono a rispecchiare la fiction cine-tele­
visiva contemporanea; 6) la cronaca rielaborata, intesa come drammatiz­
zazione di vicende biografiche o di eventi reali, tratti dalla cronaca o dal­
la storia, particolarmente drammatici o emblematici.
Il racconto mitologico porta sicuramente in sé una forte chiave simboli­
ca di lettura e di coinvolgimento emotivo, ma rischia di mantenere un
alto grado di astrazione dall’esperienza del contemporaneo, a meno che
313 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

riesca a interiorizzare nell’universalità dei suoi procedimenti espressivi


la singolarità del qui e ora. I risultati più efficaci giungono quando si rie­
sce a realizzare una sintesi tra i grandi temi contemporanei e le forme
del racconto mitologico o teologico (come in Genesi, della Raffaello San­
zio Socìetas, 1999) o della sua dimensione epica (come nell’«Odissea»
dei migranti contemporanei in Le dernier Caravansérail del Théâtre du
Soleil, 2003). Oppure quando l’interpretazione «mitologica» del con­
temporaneo mantiene nella scrittura dell’autore le tracce «etniche» del­
le sua comunità d’origine (come nella drammaturgia del premio Nobel
nigeriano Wole Soyinka). Infine, può rientrare in questo ambito la tea­
tralizzazione delle mitologie proiettate sul futuro (come quelle della let­
teratura cyberpunk).
La narrazione destrutturata e quella concettuale rischiano nei casi più
estremi un’ermeticità elitaria, penalizzando la comunicazione con il
grande pubblico (è il caso di una certa ricerca che si situa tra la perfor­
mance e il teatro), nello stesso tempo, quando rimettono al centro del-
l’evento teatrale una ricerca poetica autentica, si riallacciano alla nobile
tradizione del teatro simbolista (da Mallarmè in poi) o alla vitalità degli
happening poetici (dalle avanguardie storiche alla beat generation).
La narrazione iperstrutturata, all’opposto, tende a riprodurre un mo­
dello di narrazione ipercodificata, sottomessa agli schemi strutturali del­
la narrazione tradizionale o alle rigide leggi seriali della fiction cinema­
tografica e televisiva, ma ripropone anche, in rari casi (soprattutto deri­
vati dalla letteratura), un ritorno alla «grande narrazione», importante
come veicolo di massa di una cultura e di una memoria del contempo­
raneo.
La cronaca rielaborata è uno dei modelli più praticati e fortunati, so­
prattutto nei monologhi degli attori-autori; i temi affrontati sollevano
problemi etici, di indagine storica, di denuncia politica e sociale, con
forti richiami alla memoria collettiva della realtà e perciò con un’imme­
diata presa sul pubblico (uno dei più riusciti esempi italiani è Il racconto
del Vajont di Paolini e Vacis, 1993). Qui il principale rischio da evitare è
quello di appiattire il linguaggio sulla semplice illustrazione degli even­
ti e di costruire una prevedibile retorica dei sentimenti. È comunque
molto importante, in questo modello drammaturgico, la volontà di va­
lorizzare il rapporto tra memoria e comportamento, tra consapevolezza
e atto.
La scrittura è per statuto memoria della parola, ma è oggi una me­
moria insufficiente e si rende necessaria una riconfigurazione della scrittu­
ra della memoria come laboratorio della scrittura plurisensoriale. La memoria
storica, che è condizione fondamentale per la formazione di un patri­
monio culturale, oggi è quantitativamente estesa dalla tecnologia digi­
ANDREA BALZOLA 314
tale, ma nello stesso tempo viene continuamente cancellata dalla crona­
ca mediatica del presente. Qualsiasi evento sia sociale sia culturale, an­
che di grande portata come le guerre e le catastrofi umanitarie di questi
decenni, non ha un tempo di deposito e di riflessione, perché è imme­
diatamente sovrimpresso da una sequenza ininterrotta di altri eventi.
La scrittura ritrova qui una funzione più che mai vitale: ancorare la pro­
liferazione di immagini e parole a una memoria poetica, simbolica e ri­
flessiva capace di depositare le sue tracce in un processo artistico che è
nello stesso tempo una visione del mondo. Una visione che per esplici­
tarsi ha però bisogno di nuove coordinate espressive e nuovi strumenti
comunicativi. Infatti, tanto la memoria quanto il comportamento neces­
sitano oggi più che mai di essere interpretati e trasmessi sinestetica­
mente, cioè attraverso un’esperienza plurisensoriale che renda conto
delle indissolubili interazioni che avvengono nel nostro scenario quoti­
diano tra modelli narrativi, modelli iconici, modelli sonori, anche mo­
delli tattili e olfattivi.

5. Prospettive della drammaturgia multimediale

Le mutazioni ipermediali della scena procedono nella direzione di


un progressivo coinvolgimento dello spettatore nel processo della crea­
zione artistica e la mutazione «genetica» dello spazio in un ambiente
che non è più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile,
estensibile, modellante e modulabile. Questa mutazione, che coinvolge
il divenire di tutte le arti, ha sulla scena delle ripercussioni forse anco­
ra lente ma sicuramente irreversibili che procedono nella direzione di
una perdita della «frontalità» spaziale, una perdita della «linearità»
temporale del testo spettacolare, e nella conseguente apertura alla nuo­
va dimensione di un «ambiente ipertestuale» (A. Menicacci ed E.
Quinz, 2001). Un ambiente che deve essere «programmato», perciò
scritto, con un linguaggio interattivo dove parole, suoni e azioni si con­
figurano mediante la generazione potenzialmente illimitata di inter­
facce. Un altro aspetto fondamentale di questa trasformazione riguarda
il processo creativo della scrittura drammaturgica, in cui viene supera­
ta la tradizionale separazione tra la fase progettuale del testo (o fase let­
teraria) e le fasi di visualizzazione e sonorizzazione dello stesso: il mo­
dello ipertestuale consente di lavorare contestualmente sui diversi lin­
guaggi, attuandone così un approccio multimediale. Alcuni grandi re­
gisti cinematografici (come Antonioni, Coppola, Godard, Greenaway,
Kubrick) intuiscono fin dai primi anni Ottanta che il futuro del cinema
stesso sarebbe stato elettronico e introducono delle innovazioni di
315 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

grande rilevanza nei procedimenti tecnici e creativi del film. Francis


Ford Coppola in particolare inventa la «sceneggiatura elettronica» che
anticipa l’ipertesto drammaturgico multimediale (in occasione della
realizzazione del film Un sogno lungo un giorno, del 1981, un’onirica
commedia cinematografica misconosciuta dalla critica ma molto inno­
vativa nella sua concezione e realizzazione). In essa cade la tradiziona­
le distinzione tra la fase di progettazione del film (ridefinita da Coppo­
la «previsualizzazione») e la fase della sua realizzazione. Dal momento
della scrittura al momento delle riprese è un unico work in progress:
«Lo script si è trasformato in una sceneggiatura audiovisiva o meglio in
un “copione elettronico”. Questo costituiva l’armatura sulla quale
avremmo strutturato il film. Il copione elettronico è diventato il filo di
collegamento sul quale l’informazione passava, veniva tagliata e spedita
al laboratorio per la rimozione o correzione.»10 La trasposizione sull’e­
laboratore della sceneggiatura scritta realizza un copione elettronico;
recitato dalle voci degli attori e provvisoriamente musicato diventa un
«radiodramma»; con l’illustrazione delle scenografie (tramite diaposi­
tive dei modellini animate al videotape) l’elaborato si trasferisce su na­
stro magnetico, organizzando la sceneggiatura in un primo tempo fil­
mico. Questa fase viene a sua volta aggiornata e sviluppata con l’inseri­
mento di scene recitate dagli attori negli studios, e poi dalla ripresa in
videotape dell’intero film negli ambienti reali di Las Vegas per favorire
una ricostruzione e una recitazione fedele all’atmosfera originale (poi­
ché gli ambienti del film sono totalmente ricostruiti); intanto la com­
posizione musicale di Tom Waits procede di pari passo con la composi­
zione dell’immagine. Tutto questo con la possibilità di rivedere il ma­
teriale in qualsiasi momento; la previsualizzazione permette così di spe­
rimentare le riprese prima di girarle nella loro versione definitiva, ri­
ducendo al minimo i tempi, i costi, e semplificandone le modalità. Le
riprese sono poi controllate su un monitor durante la realizzazione e ri­
viste subito dopo per la verifica finale, con la facoltà immediata di cor­
rezione; tutta la produzione audiovisiva viene simultaneamente seguita
e guidata dal regista. Infine il montaggio, decisamente agevolato da
questo sistema, può avvenire con la sperimentazione di tutte le combi­
nazioni al computer (A. Balzola, 1985).
Le trasformazioni della scrittura drammaturgica in relazione ai nuovi
media si possono riassumere in quattro «passaggi» principali, tra loro
conseguenti.
Il passaggio dalla macronarrazione lineare alla micronarrazione non se­

10
T. Brown, Film e tecnologie video, in T. Verità (a cura di), Il cinema elettronico, Libe­
roscambio, Firenze 1982, p. 115.
ANDREA BALZOLA 316
quenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva
dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando
che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione
parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radi­
cale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on-line come il Web e off­
line come cd-rom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più li­
neari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora
la scrittura drammaturgica, o si frantuma caoticamente come nella nar­
razione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e
nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’iper­
testo spettacolare.
Il passaggio dal testo all’ipertesto e dall’autore singolo all’autore collettivo: in­
vece di creare un singolo testo, si tende a creare un ipertesto, cioè una
mappa di testi, immagini e suoni tra loro linkati, realizzabili da uno o
più autori o da un team artistico. Nella definizione ormai classica di
Landow, l’ipertesto è un testo composto da blocchi di informazioni ver­
bali, visive e sonore e da collegamenti (link) elettronici (G. Landow,
1992). C’è un’ulteriore differenza tra una scrittura non sequenziale, dove
l’autore crea delle ramificazioni nel testo, introducendo una moltepli­
cità di percorsi possibili collegati fra di loro, ma decisi e pilotati dall’au­
tore stesso, in genere con un finale predefinito, e una scrittura iperte­
stuale vera e propria, dove l’autore crea una mappa di possibilità ma è il
lettore (o l’attore o lo spettatore o entrambi) a decidere quali percorsi
fare, quindi quale testo costruire e come concluderlo. In questo caso c’è
un autore (o più) che crea e organizza i materiali iniziali e poi un auto­
re collettivo che ricrea, con molteplici variabili, la sua sequenza testuale.
Le repliche dello spettacolo saranno così ogni volta differenti. Secondo
tale modalità, inoltre, si produce uno spettacolo dove gli autori, il
performer e gli spettatori possono interagire tra loro e con le interfacce
tecnologiche, sia nella fase laboratoriale sia nella fase finale della mes­
sinscena.
Tomàs Maldonado, tra gli altri, ha espresso delle legittime riserve sul­
l’efficacia e sulla fondatezza dei due princìpi distintivi dell’ipertesto: la
non sequenzialità e la relativizzazione del ruolo dell’autore. Nel primo
caso, la ramificazione dei percorsi può rischiare di trasformarsi in una
sorta di gioco letterario, nel secondo caso il ruolo dell’autore non sa­
rebbe ridimensionato a vantaggio del fruitore, sarebbe piuttosto occul­
tato come un regista del testo che pilota il lettore/spettatore in una se-
rie di scelte solo apparentemente libere (vedi Antologia). Ora, se l’iper­
testo non è composto in modo meccanico, e la molteplicità dei percorsi
formali corrisponde a una molteplicità dei sensi possibili, la componen­
te ludica (rivendicata già dai dadaisti) diventa un valore aggiuntivo che
317 VERSO UNA DRAMMATURGIA MULTIMEDIALE

favorisce anche la teatralizzazione; la limitazione del campo di scelte del


fruitore all’interno di un ipertesto teatrale garantisce invece ampi mar­
gini interattivi senza disgregare però le articolazioni che generano il
senso, o i sensi, dell’evento scenico.
Il passaggio dal testo scritto e dalla scrittura scenica alla scrittura sinestetica
rianima le differenti utopie dell’opera d’arte totale, delle corrisponden­
ze sinestetiche e dell’accostamento/contrasto tra i linguaggi espressivi
che, come abbiamo visto nella prima parte di questo volume, avevano
acceso molte generazioni di artisti dal romanticismo alle avanguardie
del Novecento. Per superare una semplice giustapposizione delle arti in
un loro insieme realmente integrato, la «sintesi delle arti» secondo Ap­
pia deve essere il frutto di una «necessità organica», e quindi va «gover­
nata da un principio regolatore che è l’espressione diretta della volontà
creatrice dell’artista, e ciascuna arte, mantenendo la sua specificità è
condizionata dai rapporti con questo principio regolatore».11 Il princi­
pio regolatore, che nella visione gerarchica di Appia era la musica, nel­
l’ambito non gerarchico della sintesi multimediale (o ipermediale) del­
le arti è l’idea drammaturgica. Nell’ambiente ipertestuale infatti non si
scrivono più (soltanto) dialoghi e didascalie ma eventi performativi in
tempo reale, che uniscono fin dal loro nucleo costitutivo la pluralità dei
linguaggi sensoriali. Qui la scrittura drammaturgica non precede più
l’evento, ma procede con esso, lo pilota e ne è pilotato. Anche quando
l’obiettivo non sia una sintesi tra i linguaggi, ma creare una risonanza
tra essi (sulla scia di Baudelaire o Kandinskij), una dissonanza o contra­
sto (Mejerchol’d ed Eisenstein), un accostamento casuale (Cage e Cun­
ningham), la genesi creativa parte dalla scrittura di una partitura dei lin­
guaggi e delle loro relazioni. La scrittura sinestetica digitale differisce dalle
precedenti esperienze e teorie, perché la condizione di percezione si­
nestetica non è più il punto d’arrivo di una convergenza o corrispon­
denza tra linguaggi «naturali» (corpo, voce, suono ecc.), ma è il punto
di partenza degli ambienti virtuali interattivi. Lo ricorda con chiarezza
De Kerckhove: «Il lavoro della pittura, della musica, della scultura era di
coltivare ciascuno dei sensi separatamente, al servizio del senso nelle ar­
ti figurative o nelle strutture melodiche. Quello del virtuale sarà di riu­
nirli e di tradurli nella sinestesia obbligata del digitale. Se il testo aveva se­
parato il corpo dalla mente, e il senso dai sensi, il virtuale adesso li sta
riunificando». Quindi il progetto drammaturgico diventa: come usare
creativamente l’esperienza sinestetica, o, in termini più precisi, come
modellare la percezione e l’azione sinestetica indotta artificialmente

11
Cfr. A. Appia, La Musique et la Mise en scène, Annuaire de la Société Suisse du
théâtre, Berne 1963.
ANDREA BALZOLA 318
mediante l’hardware e il software in una scena completamente virtuale.
Nello stesso tempo, come suggerisce Paolo Rosa, c’è una nuova forma di
sinestesia che si affaccia nel nostro tecno-mondo, ed è quella di una per­
cezione simultanea del reale e del virtuale, cioè quando le due sfere
percettive – accade sempre più spesso – tendono a sovrapporsi, fino a
confondersi.
L’ultimo passaggio evolutivo nell’ambito della drammaturgia multi­
mediale è il passaggio dal teatro-spettacolo allo spettacolo-laboratorio, che uni­
fica i momenti tradizionalmente separati della scrittura, del progetto re­
gistico, dell’interpretazione e della fruizione. Il testo, o meglio, l’iperte­
sto drammaturgico, il progetto scenico o coreografico, la partitura so­
nora-musicale, l’installazione, il video digitale, il software, non appar­
tengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto,
tasselli di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comuni­
cativamente forte che dà un’opportunità creativa senza precedenti alla
comunità autorale e alla comunità pubblico di disegnare insieme una
mappa sinestetica delle narrazioni possibili del contemporaneo. Il pub­
blico, in questa prospettiva, non è soltanto coinvolto alla fine del per­
corso drammaturgico e registico, ma durante il percorso stesso, me­
diante laboratori aperti (qualcosa di più e di diverso delle «prove aper­
te»), che mostrano anche l’uso creativo delle tecnologie, togliendo quel-
l’aura di impenetrabilità tecnica che spesso separa il valore d’uso creati­
vo della tecnica dalla consapevolezza collettiva.
Questi passaggi presuppongono però una diversa relazione «etica»
con l’innovazione tecnologica, che segni una netta distinzione tra fin­
zione artistica e simulazione manipolatoria della realtà e che valorizzi la
singolarità di ogni esperienza (e delle relative radici storiche e cultura­
li). In opposizione al modello seriale della globalizzazione, che trova
oggi nell’uso politico dei mass media e nell’uso commerciale dei new
media gli strumenti privilegiati di omologazione.
PER UN TEATRO TECNOLOGICO
Anna Maria Monteverdi

1. Il nuovo teatro americano: Hamlet: a Monologue di Robert Wilson

Il lavoro sull’immagine, il rapporto con le arti visive e la new dance di­


viene segno distintivo del teatro sperimentale americano degli anni Set­
tanta, da Robert Wilson a Richard Foreman a Meredith Monk.1 Dobbia­
mo alla critica americana Bonnie Marranca la definizione di «theatre of
the image», un genere in cui la fondatrice del «Performing Arts Jour­
nal» ha raggruppato registi come Lee Breuer, Foreman e Wilson, e per
la seconda generazione i Mabou Mines e il Wooster Group di Elizabeth
LeCompte. Il rapporto con fotografia e cinema costituisce uno dei ter­
reni d’intervento, tra gli altri, dello Structuralist Workshop di Michael
Kirby. Come ricorda Ruggero Bianchi: «Non esiste praticamente un ope­
ratore teatrale che non abbia in qualche modo sondato il rapporto tra
linguaggio filmico e linguaggio teatrale, che non abbia in una maniera
o nell’altra analizzato la relazione tra due strumenti ugualmente e di­
versamente dinamici. Il limite della fissità fondamentale dello schermo
non pare costituire un ostacolo apprezzabile ma, semmai, una sfida av­
vincente».2 Gli spettacoli (o performance multimedia o ambienti sceni­
ci ipercinetici, come vengono variamente definiti) del Wooster Group
nato a New York nella metà degli anni Settanta, da una costola del
Performance Group di Richard Schechner e attualmente in attività pres­
so il teatro The Performing Garage, prevedono l’utilizzo di un gran nu­
mero di monitor e microfoni che raddoppiano voce e immagine, dando
vita a una sorta di ironica rivalità per la priorità di scena. La produzione
si estende non solo al teatro ma anche alla radio, alla musica, al cinema,
al video e al multimedia. Secondo Michael Rush (1999) l’arte scenica
del Wooster Group sarebbe da inscriversi completamente nell’estetica
postmodern esattamente nell’accezione datane da Jameson (1989): deco­
struzione narrativa, décalage temporale. Brace up! (1991, e recentemente

1
Per un approfondimento sui registi citati, cfr. F. Quadri, Il teatro degli anni Set­
tanta. Invenzione di un teatro diverso. Kantor, Barba, Foreman, Wilson, Monk, Terayama, Ei­
naudi, Torino 1984. Sul Visual Theatre cfr. R. Cohn, Visuali e visioni: Foreman, Breuer, in
Nuovo teatro americano 1960-1990, Gremese, Roma 1992, pp. 99-107.
2
R. Bianchi, Autobiografia dell’avanguardia. Il teatro sperimentale americano alle soglie
degli anni Ottanta, Tirrenia-Stampatori, Torino 1980, p. 26.
ANNA MARIA MONTEVERDI 320
riallestito) è una triturazione del testo classico (Le tre sorelle di Čechov) e
una messa in ridicolo della società dell’informazione, dell’ipertrofia del-
l’immagine e della frenesia mediatica, con personaggi che appaiono so­
lo in video o solo in carne e ossa, sulla scena, e con una presentatrice
che li introduce e riassume le scene.
Robert Wilson, architetto di formazione, è la personalità che ha mag­
giormente contribuito alla definizione del teatro-immagine. Tempo, lu-
ce e immagine sono i fattori predominanti della sua scena: il dominio
dell’immagine si coniuga con l’uso evocativo delle luci e con l’esaspera­
to rallentamento del movimento in scena. I suoi spettacoli (tra cui The
Deafman’s Glance, 1971, che destò l’ammirazione dello scrittore surreali­
sta Louis Aragon e Einstein on the Beach, 1976), realizzati con diaproie­
zioni ed effetti luministici a forte vocazione pittorica e improntati a
un’estetica minimalista, sono stati definiti «quadri che si muovono len­
tamente»: apparentemente fissi, hanno movimenti impercettibili. La
lunghezza dei suoi spettacoli (dodici ore, sette giorni e sette notti per KA
MOUNTAIN and GUARDenia TERRACE, 1972) assume la funzione afferma
Franco Quadri di «iniziare» il pubblico, grazie al prolungarsi dell’este­
nuazione gestuale e alla musica di Philip Glass, a un ritmo diverso da
quello quotidiano: «Un ritmo che può essere conquistato con la resi­
stenza, condividendo lungo inimmaginabili kermesse l’atteggiamento, i
tempi, la vita – perché allora è il caso di parlare di vita – degli attori» (F.
Quadri, 1977). Al tempo accelerato della vita Wilson fa precedere la ri­
flessione: «Concedo al pubblico il tempo per riflettere, per meditare su
altre cose oltre a quelle che accadono sul palco; concedo loro spazio e
tempo per pensare». Il tempo caratteristico dei movimenti del teatro di
Wilson è il ralenti, lo slow motion: tecniche che rimandano al cinema e al­
la televisione. Il criterio di composizione che presiede il lavoro è fatto di
associazioni visive (con un’attenzione per una ricerca spaziale astratta e
sintetica e per forme geometriche essenziali), di «ritmi di luci e azioni
calcolati al secondo come in una partitura».3 Lo spazio scenico, genera­
to da una «architettura di luce» che impone il tempo e detta il ritmo al­
la rappresentazione, è equiparato da Ruggero Bianchi al «campo visivo
di un binocolo, che capta accadimenti unificati dalla simultaneità del
qui e ora, ma non necessariamente accadimenti unificati tra loro o ca­
paci di costruire una storia oggettiva».4
In Hamlet: a Monologue (1995) Wilson sintetizza e accentua il dramma
3
F. Quadri, Robert Wilson, Octavo-Franco Cantini, Firenze 1997.
4
R. Bianchi, Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione permanente, in R.
Alonge, G. Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einau­
di, Torino 2001, p. 798.
321 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

nel ricercato contrasto bianco e nero delle luci di scena. La caratteristi­


ca dello spettacolo è l’abolizione della trama stessa all’interno della più
generale abolizione del tempo della storia. Il movimento è circolare, il
testo non è narrato in successione ma si muove dalla fine e ritorna alla
fine. La storia che viene raccontata è già accaduta. Tutto è costruito co­
me un flashback, ovvero un riaffiorare di parole nella memoria di Am­
leto morente, in una visione in soggettiva della vicenda. La tragedia è av­
venuta e contemporaneamente sta per cominciare, in qualunque tempo
e in qualunque luogo. L’elemento portante di tutto il lavoro è la luce:
370 unità di luci e speciali stoffe per il fondale per provvedere all’effet­
to di blackness; il nero è il colore predominante associato allo spettacolo.
Il suo visual book (un vero e proprio story board in quindici riquadri)
mostra schematicamente questo accentuato contrasto bianco e nero in
cui il nero è ora una tenda laterale (con un evidente richiamo alla ten­
dina cinematografica), ora il fondale, ora il sipario teatrale (che ribadi­
sce la natura «teatrale» della storia: la scena è cioè continuamente in­
corniciata). Il punto di partenza è l’immagine della roccia, che altro
non è che il testo perché secondo le stesse parole di Wilson, «Shake­
speare is a stone», «Shakespeare è una pietra». La roccia su cui è ap­
poggiato in bilico Amleto nella prima e più famosa scena (che corri­
sponde però anche all’ultima della storia, ovvero l’attimo in cui sta per
morire) non è immune al divenire, si sgretola fino a sparire completa­
mente e diventare il baule del trovarobato teatrale: il testo è inglobato
nel corpo di Amleto e diventa il mestiere dell’attore. Nello spettacolo
troviamo tutti gli elementi del teatro di Wilson. Una scena minimalista,
smaterializzata dalla presenza di luci che si impongono per la loro in­
tensità. La luce assume una propria autonomia espressiva, emotiva, luce­
stato d’animo. L’effetto visivo rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi
che lo spettacolo non fosse altro che un video ad alta definizione: l’in­
tenso sfondo luminescente simula infatti un tipico effetto mixer, l’effet­
to intarsio o chroma-key.

2. Il teatro immagine italiano: Pirandello: chi? di Memé Perlini

In parallelo con il nuovo teatro americano, a partire dagli anni Set­


tanta anche il teatro italiano propone nuove modalità di creazione, di
rappresentazione, di coinvolgimento del pubblico, occupando nuovi
spazi extrateatrali per l’azione scenica. Con il Manifesto per il convegno
di Ivrea (1967), firmato tra gli altri da Carmelo Bene, Luca Ronconi,
Leo De Berardinis, oltre che da «critici militanti» come Quadri e Barto­
lucci, si era già consumata la prima vera rottura con la tradizione bor­
ANNA MARIA MONTEVERDI 322
ghese. Viene elaborata la innovativa nozione di scrittura scenica (conte­
stando con questo termine la scrittura drammaturgica e la priorità del
testo sugli altri elementi della rappresentazione) che privilegia, come ri­
cordava Giuseppe Bartolucci, i tre elementi di spazio, immagine e movi­
mento: «I segni di un nuovo teatro sono ormai abbastanza evidenti, al­
meno per chi li sa riconoscere e vedere, anche se per il momento biso­
gna scovarli di volta in volta, tra le pieghe di questa o quella rappresen­
tazione. Questi segni sono lo spazio, l’immagine, il movimento, che sono
però contaminati e frantumati al tempo stesso: frantumati, in quanto al-
l’interno di ogni singola rappresentazione appaiono e scompaiono, e
contaminati, perché provengono da altre arti e se ne arricchiscono».5
Questa prevalenza dell’immagine sulla parola sarà rappresentativa di
una tendenza che viene riconosciuta in Italia alla rassegna di Salerno In­
contro/Nuove tendenze (1973) curata da Filiberto Menna e dallo stesso
Giuseppe Bartolucci.
In Italia il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile
che vede come principali protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Si­
mone Carella e Memé Perlini. Simone Carella parla di un’attenzione a
una comunicazione basata sulla «percezione visiva», guardando agli stu­
di sulla luce delle prime avanguardie storiche, da Moholy-Nagy a Balla:
«La luce è diventata fondamentale non perché si sostituiva a qualcos’al­
tro ma perché più precisamente si è lavorato sulla percezione, che è un
tipo di comunicazione più profonda che non con il testo o attraverso il
parlato. Quando ho fatto Fuochi d’artificio in effetti mi sono meravigliato
non della capacità di Balla di immaginare centoventi cambi di luce in
tre minuti ma di come abbia usato e strumentalizzato quello che era
l’impianto illuministico tradizionale, usando le luci di ribalta, quelle di
sopra, quelle laterali. Allora si è aperto per me un grande universo su
cui lavorare: si procedeva di pari passo con il lavoro sullo spazio e con la
luce».6 Una volta smembrato l’impianto narrativo testuale, la grammati­
ca scenica di Perlini è costituita dalla «parola che si riduce a frammento
sonoro, elemento di provocazione sensoriale, mentre il riferimento si dà
come citazione, memoria evocativa, pretesto per mettere in moto un
procedimento teso alla riappropriazione di uno spazio scenico ridefini­
to nella sfera del visivo».7

5
G. Bartolucci, Per un nuovo senso dello spettacolo, «Quindici», n. 11, 15 giugno
1968, p. 5.
6
Intervista a Simone Carella nel documentario Rai di Nico Garrone e Giuseppe
Bartolucci L’altro teatro.
7
S. Sinisi, Neoavanguardia e Postavanguardia in Italia, in R. Alonge, G. Davico Bo­
nino, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einaudi, Torino 2001.
323 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

Il manifesto del teatro-immagine è considerato Pirandello: chi? Il 3


gennaio 1973 al Beat 72, luogo storico del periodo delle cosiddette
«cantine romane», Perlini firma la regia di uno spettacolo (di cui rea­
lizzerà successivamente anche una versione televisiva) nel quale l’opera
di Pirandello, I sei personaggi in cerca d’autore, viene resa quasi unica­
mente utilizzando corpi in movimento sotto riquadri di luce bianca ge­
nerati da un faretto e parole ridotte a emissioni foniche. Non si tratta di
una trasposizione letterale del testo di Pirandello, ma di una composi­
zione onirica e visionaria di immagini evocative, citazioni dal cinema
surrealista e in genere dal cinema e dall’arte d’avanguardia (Legér,
Moholy-Nagy): squarci di immagini (frammenti-immagine, come li chia-
ma lo stesso regista),8 oggetti poveri, corpi-manichini, che sembrano
emergere dal buio della scena grazie alle luci di taglio. Il rapporto con
il reale, con la rappresentazione, non è più mediato dalla parola, da
una trama, ma da associazioni mentali, psicologiche o di sogno, un
«non racconto tenuto insieme da elementi linguistici estremamente in­
significanti come il sottile rettangolo di luce che appare all’improvviso
e taglia il buio».9

3. Installazioni performative e dispositivi di visione: Camera astratta


di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro

Il carattere «bicefalo» del video (immagine e dispositivo, come lo de­


finisce Philippe Dubois; oppure «monovideo e multivideo», come di­
stingue invece René Berger) produce un oggetto e dà vita a un processo.
L’uso di schermi o monitor in scena con immagini digitali o analogiche,
generate live o preregistrate, filmiche e di repertorio, convive con l’at­
tore interagendo a livelli diversi (scenograficamente, drammaturgica­
mente e coreograficamente). L’effetto di moltiplicazione di punti di vi­
sta, di rottura della frontalità, di introduzione di primi piani, di simulta­
neità di spazi, di temporalità multipla, destabilizza il campo visivo dello
spettatore: richiede infatti una diversa partecipazione e una diversa di­
sposizione percettiva. Le immagini sono spesso decontestualizzate, fram­
mentate, velocizzate, processate, simultanee su più schermi, costringen­
do a una bifocalizzazione di corpo e immagine e lo spettacolo diventa
«polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del
nostro sguardo» (B. Picon-Vallin, 1998). Questa molteplicità di prospet­

8
Cfr. F. Bartolucci, D. Rimoldi, Immagine-immaginario. Il lavoro del teatro La Masche­
ra di M. Perlini ed A. Aglioti, Studio-Forma, Torino 1978.
9
R. Mele, Il teatro di Memé Perlini, 10/17 coop. ed., 1982, p. 9.
ANNA MARIA MONTEVERDI 324
tive e la scomposizione della figura umana richiamerebbero le avan­
guardie pittoriche primonovecentiste, principalmente quella cubista, e
testimonierebbero una continuità del videoteatro con l’esperienza delle
avanguardie, impegnate fin dalle origini ad avvicinare lo spettatore; di­
spositivi architettonici e strategie scenografiche sono stati da sempre im­
piegati per soddisfare un’esigenza di prossimità: «Il ricorso alla telecame­
ra permette una molteplicità di strategie dello sguardo, perché può ruo­
tare, cambiare angolazione, modificare la prospettiva. Il video offre una
grande varietà di punti di vista sull’attore e sullo spazio. Questo fatto ha
portato molti critici a paragonare il dispositivo televisivo dello sguardo
all’approccio cubista che, ugualmente, all’inizio del secolo, si era pro­
posto di mostrare i motivi plastici in una prospettiva prismatica. La tec­
nologia attualizza nella scena una risposta già formulata dai pittori. La
barriera della frontalità è battuta in breccia» (G. Banu, 1999). Se la
neoavanguardia si esprimeva attraverso «éspaces éclatés, théâtre-par­
cours, changement d’angle de vue» (G. Banu, 1999), le nuove tecnolo­
gie realizzano proprio questa molteplicità di sguardi e di spazi, di com­
presenza di punti di vista, di azioni e di tempi di visione (dalla visione
successiva a quella simultanea).
Negli anni Ottanta e Novanta il video in scena introduce il cosiddet­
to «effetto specchio», diventando dispositivo psicologico introspettivo:
il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette
allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e in­
dicibile. È il passato e l’altrove, la memoria e il vissuto. Le immagini in­
dicano una tendenza dello spettacolo contemporaneamente verso l’e­
sterno e verso l’interiorità: «Le immagini video aventi formato più o
meno grande a seconda del loro supporto di diffusione, allargano a un
contesto totalizzante l’azione in scena. Ma legate a una logica di fram­
mentazione, di atomizzazione hanno soprattutto una funzione specula­
re, narcisistica, mnesica, introspettiva, intimista, ludica, mostrano il
«non mostrabile» in scena o disturbano la vista dello spettatore» (B. Pi-
con-Vallin, 2001). Alcuni studiosi hanno sottolineato il carattere di tea­
tralità intrinseco al dispositivo video-installattivo. Anne Marie Duguet,
considera fondamentale quella esperienza che «mette in gioco lo spet­
tatore» rendendolo protagonista, perché, citando la famosa frase di
Marcel Duchamp, «Ce sont les regardeurs qui font les tableaux» («So­
no gli osservatori che fanno il quadro»): «L’installazione è realizzata
per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne co­
struisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quel-
la degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere, e in particolare
delle installazioni interattive, esige un’attività particolare per potersi
manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che
325 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità spe­
cifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono
solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro at­
tualizzazione (...). L’artista è autore della proposizione, della concezio­
ne dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manife­
stazione. Il visitatore esercita, mette in pratica questa proposizione, la
interpreta. Ne è il performer, l’attore. Esse appartengono ad un’arte
della presentazione e non di rappresentazione».10 La Duguet ricorda
anche come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i pa­
radigmi e le premesse per una spazializzazione e una temporalizzazione
dell’opera video in forma di dispositivi, di installazioni: la messa al ban-
do del punto di vista unico, con l’apertura a una temporalità plurima,
con la partecipazione dello spettatore a un evento reale, fisico e imme­
diato, con il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo,
ambientale ed emotivo.11 Frédéric Maurin in Scène, mensonges et vidéo.
La dernière frontière du théâtre américain (pubblicato nel numero di «Théâ­
tre/public» dedicato a teatro e media) parte dall’ibridazione tra le arti
che si celava già dietro le pratiche delle video performance americane
degli anni Settanta e delle prime installazioni video di Nam June Paik,
Bruce Nauman, Dan Graham e Keith Sonnier, laddove si sarebbe reso
esplicito il carattere di interdisciplinarietà delle arti (scultura, immagi­
ne in movimento, corpo e video in uno spazio espositivo); ma soprat­
tutto sottolinea ancora il tema della teatralità implicita in tutte queste
esperienze artistiche, ovvero «una messa in scena dei linguaggi, rispet­
to al teatro che è un medium ed è la pratica di uno specifico linguaggio»
(A. Balzola, F. Prono, 1994).
Lo spazio immateriale dello schermo video, dunque, diventa «tea­
tro» di un’azione performativa extrateatrale. Anche Paolo Rosa aveva
parlato di una teatralità latente in molte delle prime videoambienta­
zioni di Studio Azzurro (Il nuotatore, 1984; Storie percorse, 1985; Vedute,
1985), prima della effettiva svolta teatrale del gruppo milanese con Pro-
logo a diario segreto contraffatto (1985) e soprattutto con Camera astratta
(1987), spettacoli-manifesto del videoteatro italiano, contenenti un’am­
pia gamma di possibilità di movimenti e di relazioni spaziali e temporali
tra il corpo dell’attore e l’immagine video in scena (vedi scheda): «Vi­
deoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non

10
A.M. Duguet, «Installazioni interattive», in Visibilità zero, a cura di V. Valentini.
Sui dispositivi installattivi cfr. S. Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della vi­
deoinstallazione, Nistri-Lischi, Pisa 2002.
11
A.M. Duguet, Dispositivi, in A. Amaducci (a cura di), Video imago, «Il nuovo spet­
tatore», n. 15, Franco Angeli, Milano 1994, p. 190.
ANNA MARIA MONTEVERDI 326
solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli ele­
menti messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografi­
ca. Il teatro era già presente in embrione, come ambito nel quale scon­
finare, del quale interessarci per uno sviluppo naturale della ricerca
nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come
luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svol­
gere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo
spettatore o l’attore».12
In Camera astratta (1987) troviamo una doppia scena, una materiale e
una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di
fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi. La loro
figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su monitor
che oscillano o restano sospesi, in una complessa articolazione di movi­
menti e di sincronicità. I monitor diventano co-protagonisti di una sce­
na che rende visibile la dimensione interiore e mentale del personaggio.
Barberio Corsetti definisce la presenza elettronica come un rafforza­
mento delle potenzialità dell’azione teatrale, un elemento linguistico e
drammaturgico nuovo all’interno di un contesto teatrale.

4. Le videoperformance di Michele Sambin

Sin dagli anni Sessanta Michele Sambin sperimenta una particolare


modalità performativa musicale e filmica o video-sonora, dedicandosi al
videotape creativo a partire dal 1974. Guardando alle storiche soluzioni
di «composizione globale» e ai pittori-cineasti della prima e seconda
avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy), ai registi
indipendenti e sperimentali (Warhol, Brakhage, Snow), ai concerti
Fluxus, alle esperienze americane del Black Mountain College, ai dispo­
sitivi video di ambito concettuale (Graham, Campus, Nauman), alle
opere-evento della performance art, Sambin mette in scena la tematica
principale delle sue opere: il tempo. Le prime esperienze di videorecording
e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo perfor­
mativo, tendendo sempre più a esplodere oltre la cornice-schermo-gal­
leria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale, e per il
pubblico «condizione di esperienza» (A.M. Duguet, 1989), un insediar­
si direttamente all’interno del flusso «presente-continuo» delle immagi­
ni. In Ripercorrersi (1978) protagonista è il pubblico che percorre uno
stretto spazio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, at­

12
P. Rosa, Fuori dallo schermo in Studio Azzurro, G. Barberio Corsetti, La camera
astratta. Tre spettacoli tra teatro e video, Ubulibri, Milano 1988, p. 8.
327 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

traverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, riman­


di ciclici del corpo dell’artista. Il video in questo caso rientrerebbe con­
temporaneamente sia nella categoria definita da Mario Costa dei «vi­
deoriporti», in cui l’artista «opera per o con il video», sia in quella della
«videoperformance», in cui il dispositivo video «entra a far parte, come
uno specifico insostituibile, di un’azione-operazione che però tende so­
stanzialmente ad altro».13 Questo sistema era usato negli anni Settanta
dagli artisti americani per riflettere sulla «telepresenza», sul panottico,
sulla inquietante applicazione delle tecnologie per il controllo e la sor­
veglianza sociale, e sul loro sistematico uso per scopi militari. Si tratta di
installazioni che permettevano di fare una esperienza molto particolare
del presente attraverso la diretta video, in tempo reale. Tra i videomaker
americani che hanno posto grande attenzione all’aspetto spazio-tempo­
rale per le proprie videoinstallazioni e hanno molte affinità con le spe­
rimentazioni di Sambin troviamo Peter Campus (Double Vision, 1971),
Bruce Nauman (Going Around the Corner Piece, 1970; Live-taped Video Cor­
ridor, 1970) e soprattutto Dan Graham (Performer, Audience, Mirror, 1975;
e il «dispositivo installattivo», «la stanza della visione» (S. Cargioli, 2002)
di Present Continuous Past, 1974: l’immagine del visitatore catturata da un
videotape è in realtà una falsa diretta, restituita nei monitor con un ri­
tardo di otto secondi mentre attraverso lo specchio, la stessa immagine
è deformata, invertita).14
Sambin sarà il primo artista a sperimentare a partire dal 1976, decli­
nando in seguito l’operazione in moltissime varianti, il videoloop, il vi­
deo a bobina aperta (open reel). È un procedimento circolare generato
dalla semplice unione delle estremità dei due nastri di registrazione e
di lettura in cui l’immagine e il suono vengono ripetuti a ciclo.15 L’arti­
sta videoregistrandosi a intervalli diventa l’interlocutore del suo «se
stesso elettronico» con cui affronta un dialogo infinito. Sambin dà
un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I (1978), in
cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autori­
flettente del video tape recorder. Si tratta di una esposizione autoanali­
tica del proprio lavoro d’artista, un’«operazione video-linguistica» per­
ché il dispositivo video «è tematizzato e preso come oggetto di indagi­

13
M. Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999,
pp. 254-255
14
Secondo Françoise Parfait sarebbe stato Les Levine il primo a realizzare un’in­
stallazione a circuito chiuso utilizzando il décalage temporel (Toronto, 1966), con un ri­
tardo di trasmissione di circa cinque secondi. In Francia la prima installazione sa­
rebbe stata quella di Martial Raysse Identité, maintenant vous êtes un Martial Raysse (Pa­
rigi, 1967).
15
Cfr. A.M. Monteverdi, Partiture, Catalogo Invideo 2003.
ANNA MARIA MONTEVERDI 328
16
ne». L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del
corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto a intervalli davanti a
una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal
posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un mec­
canismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e
si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un
effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e a una loro rina­
scita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente)
generativa: dall’unicità della performance alla performatività dei me­
dia di riproduzione. Nelle performance realizzate con il videoloop (tra
cui Anche le mani invecchiano, 1980; Ne... no, 1980) l’artista continua al-
l’infinito a suonare, a parlare e a (cor)rispondersi vocalmente, visual­
mente e musicalmente.

5. Cenni sul videoteatro italiano degli anni Ottanta

Difficilmente inseribile in un «genere» a causa della sua natura ibri­


da, il videoteatro è stato spesso tralasciato dai critici della videoarte da
una parte e da quelli del teatro contemporaneo dall’altra, che si sono
occupati marginalmente del fenomeno, rinunciando a ogni definizione
tipologica e a ogni tentazione compilativa. Generalmente i volumi di vi­
deoarte dedicano poco spazio al rapporto del video con la scena, limi­
tandosi a documentare situazioni artistiche «di confine» (eventi Fluxus,
happening, videoperformance); i manuali di teatro a loro volta si limi­
tano a osservare come questo filone rientri nel campo delle arti visive
propriamente dette.
In effetti il termine «videoteatro» è andato genericamente a definire
sia la produzione videografica di ispirazione teatrale legata a uno spet­
tacolo (quella che Valentina Valentini definiva nel 1987 una «dramma­
turgia residua»), sia creazioni completamente autonome (videodocu­
mentazioni, biografie videoartistiche), sia produzioni di teatro televisi­
vo (le sperimentazioni televisive di Luca Ronconi, Carlo Quartucci,
Carmelo Bene e Mario Martone). Ma videoteatro è soprattutto perfor­
mance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in
scena.
A muoversi in questa direzione è in particolare il teatro della post­
avanguardia italiana (l’etichetta viene lanciata al convegno-festival di Sa­
lerno nel 1976), che accentua le caratteristiche antinarrative e visionarie
inaugurate dal teatro-immagine (A.M. Sapienza, 1992). Sono protago­

16
M. Costa, L’estetica dei media, cit., p. 255.
329 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

nisti di questa stagione la Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti,


Marco Solari e Alessandra Vanzi, il Carrozzone (primo nucleo dei Ma­
gazzini Criminali, poi Magazzini e ora Compagnia Lombardi-Tiezzi) e
Falso Movimento di Mario Martone (1977 col nome di Nobili di Rosa).
Nelle loro produzioni entrano l’esperienza contemporanea della me­
tropoli, l’universo cinematografico, i fumetti, la musica rock, e le tecno­
logie elettroniche.
Punto di rottura (1979), dove quattro monitor sezionano lo spettacolo,
e il «melodramma intergalattico» Crollo nervoso (1980) dei Magazzini
Criminali diventano un punto di riferimento generazionale. Così Ma­
rion D’Amburgo descrive lo spazio scenico di Crollo nervoso (realizzato
da Alighiero Boetti), i due atti dello spettacolo, l’uso del video e i rife­
rimenti culturali del loro «teatro patologico»: «È una trama di situazio­
ni mentali che coinvolgono una improbabile pattuglia di avventurieri
intergalattici in una serie di stati di emergenza e di combattimenti, o
forse soltanto la loro simulazione. I personaggi hanno nomi fantasiosa­
mente evocativi: Dallas e Beuys, Bruce Lee e Willard (come il protago­
nista dell’Apocalypse coppoliana). [...] Suddiviso in due parti, Crollo ner­
voso gioca tra l’esterno e l’interno di una scatola scenica delimitata da
quattro pareti di veneziane azzurrate dalla luce dei neon. Davanti, in
“primo piano”, si svolgono le due più brevi sezioni iniziale e finale, par­
tendo da un’apparente situazione di spiaggia, tra sedie e sdraio, radio
portatili [...] Dentro, “in campo lungo” le due sezioni maggiori si di­
stendono in uno spazio vuoto in cui stanno come elementi di disturbo
pochi oggetti legati a corde elastiche capaci di catapultarli all’esterno.
Pistole e aerei giocattoli che pendono dall’alto, altre sdraio e tavolini,
attorno a cui si organizzano i movimenti degli attori, piegamenti ritmi­
ci, attraversamenti diagonali e orizzontali dello spazio, gesti minimali e
ripetuti, assimilati in maniera distorta dall’osservazione del quotidia­
no».17
Giorgio Barberio Corsetti (Animali sorpresi distratti, 1983; Ladro di
anime, 1984; Descrizione di una battaglia, 1988), i Magazzini (Come è,
1987, Artaud, 1987), i Krypton di Giancarlo Cauteruccio (Eneide, 1982),
Falso Movimento di Mario Martone (Tango glaciale, 1982; Ritorno ad
Alphaville, 1986, sequel teatrale del film di Godard Missione Alphaville):
quella degli anni Ottanta sarà la «generazione multimediale» che
creerà una consapevole circolarità tra le due dimensioni espressive: vi­
deo e teatro, elaborando personalmente (Teatro della Valdoca, Socìe­
tas Raffaello Sanzio) o con l’aiuto di videomaker professionisti (Giaco­
17
Magazzini Criminali, Nascita della visione. Verso il teatro di poesia, Ripostes, Salerno
1985.
ANNA MARIA MONTEVERDI 330
mo Verde, Agata Guttadauro, Giuseppe Baresi) anche creazioni video
autonome dagli spettacoli, clip brevi o brevissimi dando vita a una vera
e propria «estetica della sintesi» (A. Balzola, 1994 e 2001). Fondamen­
tali per la produzione e diffusione delle opere videoteatrali sono in
questi anni l’esperienza del POW (Progetto Opera Videovideoteatrale)
al festival Scenari dell’Immateriale di Narni ideato nel 1985 da Carlo In­
fante, pioniere del videoteatro in Italia,18 e successivamente Riccione
TTV.

6. Schermi di visione: Les sept branches de la rivière Ota di Robert Lepage

Les sept branches de la rivière Ota (1994), concepito come un testo col­
lettivo e prima produzione della neonata struttura multidisciplinare Ex
Machina, fu commissionato al regista canadese Robert Lepage dal go­
verno giapponese nell’ambito delle commemorazioni del cinquantesi­
mo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. L’azione si svolge
in cinque città (Hiroshima, New York, Osaka, Terezin, Amsterdam), co­
pre cinquant’anni e tocca varie tematiche: oltre alla Seconda guerra
mondiale, anche l’Olocausto e l’Aids. Come Hiroshima si sviluppa sui
sette rami del fiume Ota, così lo spettacolo racconta le storie di sette
personaggi in qualche modo collegate tra loro in una specie di ponte
ideale che unisce Oriente e Occidente. La struttura narrativa è conse­
guentemente costruita su sei situazioni sceniche e un prologo, ciascuna
delle quali ha un luogo e una data; ogni sezione costituisce un’unità
drammaturgica e visiva compatta e coerente inserita in un quadro d’in­
sieme avente una chiara matrice linguistica cinematografica. La sceno­
grafia, strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lun­
ga, opaca e trasparente, diventa il luogo-contenitore di tutti gli am­
bienti; nel corso dello spettacolo la parete scenica si apre, separando le
diverse parti di cui è composta per mostrare altri luoghi distanti nel
tempo e nello spazio: l’interno di un loft americano, un campo di con­
centramento, un ristorante giapponese, un appartamento di Amster­
dam, tutto questo sempre all’interno dei limiti del quadro rettangolare.
La tecnologia video, associata all’antica tecnica cinese del teatro d’om­
bre, diventa metafora stessa del processo di memorazione. Così Perelli-
Contos e Hébert accostano questo teatro all’effetto fotografico: «Que­
ste ombre, queste immagini al negativo, latenti, si rivelano in scena gra­

18
Sulla storia del Premio di Narni cfr. Carlo Infante, Scenari dell’immateriale. Dal vi­
deoteatro alle forme possibili di interazione con il nuovo spaziotempo digitale, in B. Di Marino
(2001)
331 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

zie ai particolari procedimenti di scrittura scenica che muta, in questo


spettacolo, in una vera “foto-grafia”. Scritture di luce che, attraverso
flash (istantanei) e flash-back (ricordi), stampano la vita di metà secolo,
proiettandola sulla scena e sugli schermi sotto forma di biografia origi­
nale, fatta di fotografie. Di ombre e di riflessi».19 Il simulato effetto di
«intarsio» tra l’immagine videoproiettata e il corpo dell’attore e tra la
figura e sfondo monocromo luminescente (che simula invece un effet­
to chroma-key alla Wilson) rende quasi alla lettera il senso più profon­
do dello spettacolo: il legame indissolubile tra Oriente e Occidente,
l’impossibilità di cancellare la memoria, che si è definitivamente «fissa­
ta» nelle vite e nei destini di tutti gli uomini che hanno avuto a che fa­
re con la città di Hiroshima, con le sue immagini, con la sua devasta­
zione.

7. Teatro come film tridimensionale: Il regno di Paola Lo Sciuto

Paola Lo Sciuto, artista visiva, scenotecnica e regista teatrale e video,


ha brevettato nel 2000 una macchina che produce un’illusione di realtà,
anzi di rifrazione di una proiezione bidimensionale. È stata utilizzata in
scena per la prima volta nel 2000 con Il regno. Se si proiettano dall’alto
immagini su vetro o pvc, secondo speciali traiettorie, le immagini assu­
mono effetto tridimensionale, come dei corpi che alla pari degli attori
agiscono sulla scena senza che lo spettatore abbia la percezione della lo­
ro diversa natura, una umana l’altra immateriale, fatta solo di luce ma
che si muove illusoriamente nello spazio. Questa la descrizione tecnica
dalle stesse parole dell’artista siciliana: «L’effetto viene raggiunto attra­
verso l’uso di una serie di schermi e di specchi che spostano l’immagine
da un piano parallelo al palcoscenico al piano perpendicolare ponen­
dosi di fronte lo spettatore e non più proiettato su di un piano ma nello
spazio, grazie a uno schermo trasparente che rifrange l’immagine spo­
standola indietro. L’immagine infatti attraversa il piano dello schermo
trasparente e per rifrazione appare magicamente fondendosi con il rea­
le. Ovviamente la ripresa del soggetto deve essere fatta in modo da ri­
spettare la proporzione (cosa non semplice), l’angolazione e la pro­
spettiva di quello che alla fine vuoi vedere; tutto deve armonizzarsi po­
tendo interagire così con attori veri e oggetti posti sul palco. Il soggetto
va girato in un ambiente nero o in chroma-key, in modo che lo schermo
della proiezione sparisca. Tutto si basa su un precario equilibrio di ri­
19
I. Perelli-Contos, C. Hébert, L’écran de la pensée ou les écrans dans le théâtre de Robert
Lepage, in B. Picon-Vallin, Les écrans sur la scène, L’âge d’homme, Lausanne 1998.
ANNA MARIA MONTEVERDI 332
flessione e di giochi di luce, di proporzioni esatte e messe a punto di di­
versi elementi per ingannare la percezione. Il principio in fisica ottica è
quello del miraggio. È ciò che ho sempre cercato di ricreare. Quel mi­
raggio che mi appare davanti agli occhi quando guardo le cose. Non c’è
solo il reale, il tangibile; si sovrappone sempre alla realtà un’immagine
della mente che è l’interazione con il mio vissuto. La percezione del rea­
le che dialoga con l’immaginazione, la paura, la mia gioia o la memo­
ria».20 Il regno viene presentato dall’artista come un film tridimensionale
perché porta a confrontarsi e fondersi insieme video digitali, elabora­
zioni di suoni e forme plastiche, corpi e azioni sceniche, animazioni fo­
tografiche, calchi e disegni, oggetti e apparizioni, forma e materia. Deli­
rio onirico in ventiquattro quadri, il sogno nello spettacolo si presenta
come rivelazione improvvisa, concatenazione di nonsense, materializza­
zione di corpi, azioni, gesti e violenze, ossessioni, follie e deliri di potere,
folgorazioni di luci flashanti e immagini ipnotiche di metropoli. Abolita
una narrazione teatrale di tipo convenzionale, la scena mostra e ospita
ciò che l’occhio della mente, scavando nel profondo, riporta alla luce, e
lo lascia nel bilico della sua inaudita, impronunciabile, irrappresentabi­
le esistenza.21

8. Dall’installazione al teatro e ritorno: Motus

Motus è uno dei gruppi di punta della cosiddetta generazione No-


vanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta,
in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in
centri sociali o spazi occupati (Link a Bologna, Interzona a Verona).
Si impongono per il forte impatto visivo e la carica trasgressiva: Motus,
Fanny e Alexander, Teatrino Clandestino, Masque Teatro (quattro
gruppi romagnoli, cresciuti sulla scia di Socìetas Raffaello Sanzio e Al-
be-Ravenna Teatro), Accademia degli Artefatti.22 È un teatro legato a
un vero culto dell’immagine, che si esprime in una poetica dall’ecces­
so di visione: una visione mediatizzata (televisione, video, cinema, pit­
tura e fotografia) si accompagna a una ossessiva indagine sulle tema­
tiche di un corpo (postorganico, cyber, fagocitato nell’intero mecca­
nismo tecnologico) mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di vio­

20
Comunicazione personale inedita.
21
Su Il regno cfr. l’analisi di A.M. Monteverdi in «Cut-up» 2001 (anche on line
www.cut-up.net, sez. Teatro).
22
Sui gruppi cfr. i cataloghi relativi al Festival Teatri 90. La scena ardita dei nuovi
gruppi, a cura di A. Calbi.
333 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

lenza e di sesso. Con le loro installazioni, performance e spettacoli, i


Motus richiamano Warhol, DeLillo, Cocteau, Easton Ellis, Nick Cave,
Abel Ferrara, Gus Van Sant. Le loro strutture sceniche, territori esi­
stenziali di confine, architetture di piacere. Il tema del teatro come
sguardo e la ricerca di particolari dispositivi di visione (dispositifs à
voir) è una delle costanti del gruppo riminese fondato da Enrico Ca­
sagrande e Daniela Nicolò. Uno sguardo che viene catturato in scena
da una fotocamera in Catrame (1996), che guarda a Crash di Ballard-
Cronenberg. Un corpo rinchiuso in teche di plexiglass e costretto in
una struttura circolare in movimento in Orlando furioso (1998), la tra­
sgressiva rivisitazione sadomaso del capolavoro di Ariosto che li ha im­
posti all’attenzione del pubblico. Con i Motus lo spettacolo nasce dap­
prima come installazione, come scultura scenica: protagonista è il luo­
go come dispositivo che si impone con le sue grandi proporzioni nel­
lo spazio dell’architettura del teatro. Orpheus Glance (2000) nasce co­
me installazione muta, i personaggi nient’altro che manichini di una
favola-mito-fotoromanzo-fiction, inseriti in teche-finestre: la prima fa-
se del Progetto Orpheus è testimoniata nella rassegna Teatri90 da Étran­
ge (Être-ange), un gioco di parole tra «essere angelo» e «estraneo» che
prevedeva teche di vetro a specchio che si illuminavano generando vi­
sioni pulsanti e intercambiabili tra attori e spettatori. Scrive Oliviero
Ponte di Pino che «è in questo gioco di sguardi e trasparenze, nel
continuo slittamento tra vicinanza e distanza, in cui il pubblico è coin­
volto e protagonista, che si costruisce il fascino della situazione. Le fi­
nestre specchio di questa scuola dello sguardo rimandano lo sguardo
dello spettatore che incontra per un attimo se stesso». Nella versione
finale i manichini prendono la parola: la voce. Orfeo, dio «fonocen­
trico» secondo i Motus, in questo «disorientamento temporale» del
mito, è Nick Cave (interpretato dall’attore-cantante Dany Greggio),
abita in un appartamento a New York, ripensa a Euridice che ha perso
per sempre e che è un sogno lontano come i paesaggi-cartolina proiet­
tati. La scena di Orpheus Glance è invasa da una struttura a due piani: è
la casa di Orfeo, che ospita le sue memorie passate e il suo presente
quotidiano; ma è anche il regno dell’Ade abitato da un enigmatico
Lucifer (l’angelo Heurtebise dal film Orphée di Cocteau) e pieno di trac-
ce della presenza di Euridice, che nell’Ade abiterà per sempre ma che
rimarrà immortale nella memoria di Orfeo, sua inseparabile ombra,
oggetto-reliquia, oggetto-ricordo. La scena si definisce in funzione del
corpo e dei movimenti degli attori. Si tratta di ambienti visivi e sonori
affiancati l’uno all’altro quasi «fotogramma per fotogramma», mentre
lo sviluppo diacronico dello spettacolo sembra il risultato di un mon­
taggio di frammenti o – come avrebbe detto Ragghianti – un «seguito
ANNA MARIA MONTEVERDI 334
di visioni» staccate direttamente dalla superficie di una tela (dipinta)
o di un telo (cinematografico). Coerentemente con il loro percorso
artistico e con il processo che caratterizza i loro lavori, anche il pro­
getto successivo, Vacancy Room, ispirato a Rumore bianco di Don DeLillo,
ha avuto una prima visione in forma installattiva al Museo Pecci di
Prato; in scena un «contenitore» d’ambienti riempito di oggetti, pa­
role, suoni e immagini evocati dal cinema e dalla letteratura: una ca­
mera d’albergo e bagno contigui e comunicanti. Successivamente l’a­
zione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set,
simula il cinema; poi la struttura si raddoppia con immagini preregi­
strate o provenienti da telecamere a circuito chiuso che affiancano la
stanza reale; infine le immagini preesistenti vengono mixate live con
quelle girate in diretta dagli attori in scena. La regia teatrale diventa
regia di montaggio. Il progetto teatrale termina quindi con la creazio­
ne di un ulteriore dispositivo di sguardi: una struttura modulare, una
digital room che raddoppia e affianca la stanza reale; le immagini che vi
vengono proiettate, provenienti da telecamere in mano agli attori e da
microcamere fisse, contribuiscono a dare l’impressione di assistere a
un «doppio film». È la versione definitiva del progetto che ha dato vi-
ta allo spettacolo Twin Rooms (2002). La cornice scenografica di que­
sto expanded live cinema dove «il corpo vede se stesso che vede» (M.
Merleau-Ponty, 1960) invade tutto lo spazio del palco e le immagini
riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di vi­
sibile: la videocamera moltiplica gli sguardi e seziona i corpi, dati in
pasto allo sguardo del pubblico. I personaggi e il loro doppio in im­
magine in questa dimensione di «incorporazione criptica» prendono
sembianze di morte. Orpheus Glance e Twin Rooms hanno molti punti in
comune e tra questi il luogo, un interno (che ricorda il tema del «ter­
ritorio mutante» e della «territorializzazione esistenziale» di Félix
Guattari), e la lunga genesi costruttiva: modifiche, innesti narrativi e
visivi. Come racconta Daniela Nicolò: «Il rapporto con lo spazio mu­
tante è stata la spinta sin da quando abbiamo iniziato a occuparci di
teatro, proponendo performance in centri sociali, gallerie d’arte, spa­
zi urbani; successivamente quando siamo entrati in teatro, che ha spa­
zi già strutturati, abbiamo sentito la necessità di creare ulteriori pare­
ti, un’architettura effimera, smontabile, un dispositivo architettonico.
L’idea era di concepire l’interno in un’ottica di conflitto con l’ester­
no, la scena urbana con l’io psichico e corporeo, radicalizzato in
Orpheus con la resa di un ambiente domestico iperrealistico. La strut­
tura scenica è però una simulazione, anche se ha arredi, pareti, è un
modello: per realizzarlo abbiamo lavorato con architetti e designer. La
struttura è poi funzionale al nostro discorso sul cinema, al tema del
335 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

montaggio».23 Lo svolgimento dello spettacolo rivela molte affinità


con il procedimento filmico. Il soggetto stesso è un vero e proprio to­
pos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo
film di genere. Video come finestra sull’io e morbosità dell’occhio
della telecamera che si sofferma sui corpi. E questo si trova anche in
DeLillo, i cui personaggi agiscono sullo sfondo di immagini televisive
di morte e disastri oppure passeggiano tra i grandi magazzini e si ve­
dono ripresi dalle telecamere e i loro volti vanno in diretta in televi­
sione, in una città che diventa un mosaico di microvisioni e microvisi­
bilità. Il video in scena quindi integra il procedimento del romanzo: lo
shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di iden­
tità nel flusso della rappresentazione del sé: «Una sera camminavano
accanto a un grande magazzino, andavano a zonzo. E Marina guar­
dando verso un televisore in vetrina vide la cosa più sorprendente,
una cosa talmente strana che dovette fermarsi a fissarla, afferrandosi
saldamente a Lee. Era il mondo che andava dal di dentro verso il di
fuori. Stavano a bocca aperta a fissare se stessi dallo schermo tv. Era in
televisione!» (Don DeLillo). Il progetto Rooms nasceva come installa­
zione-mise en boite di corpi esposti allo sguardo in un ambiente privato,
intimo, ed è tornato a essere installazione video – senza corpi. Le di­
verse versioni sono state registrate e nel 2004 sono confluite in un’in­
stallazione con una speciale caratteristica spaziale: i monitor rimanda­
no tutti i diversi e molteplici sguardi, lontani e ravvicinati sull’azione
teatrale.

9. Tecnologia e politica: Peter Sellars e Giacomo Verde

Una scena che svela, tentando di destabilizzarle, le logiche politiche


ed economiche degli apparati comunicazionali è quella di Peter Sellars
e Giacomo Verde. In riferimento al teatro gli schermi e le tecnologie
(non soltanto di riproduzione ma anche di trasformazione dell’immagi­
ne) possono offrire nuovi spazi per l’immaginario, modificare i modi di
percezione, permettere la visione e l’esplorazione di un mondo, ma an­
che rendere consapevoli di poter partecipare al suo cambiamento, so­
ciale e politico. Se la storia del video ci ricorda l’eredità «combattiva» e
di militanza che ne ha fatto strumento privilegiato di tanta controcultu­
ra, per mostrare il lato nascosto dell’informazione, del tecnopolio, i me­
dia in scena, ricorda Giacomo Verde, dovranno guardare proprio a quel
23
Intervista a Daniela Nicolò di A.M. Monteverdi, ora in www.exibart.com sez. Ar­
teatro.
ANNA MARIA MONTEVERDI 336
versante della storia, perché le tecnologie non sono neutrali e il loro uti­
lizzo in qualsiasi contesto è sempre un utilizzo politico. Le tecnologie
danno forma a un mondo, definiscono gerarchie, poteri, culture. «Tec­
nica è dominio, è potenza», ricorda Emanuele Severino; l’utilizzo delle
tecniche è legato sempre meno a soddisfare bisogni e sempre più a ga­
rantire, sorvegliare, controllare: «Nella memoria e nella comunicazione
totale informatico-telematica il messaggio essenziale della tecnica è dun­
que la tecnica stessa e quindi la sua capacità di organizzare i messaggi
della memoria e della comunicazione totale».24

Caratteristica del teatro di Peter Sellars, giovane e trasgressivo regista


teatrale e d’opera statunitense,25 è una scena ricca di tematiche di im­
pegno politico e sociale26 spesso mascherate sotto testi classici (i greci e
Shakespeare) e di riferimenti a culture non esclusivamente occidentali.
Costante del suo teatro sono infatti sia il multiculturalismo sia quel prin­
cipio dell’attualizzazione del mito antico e di denuncia del sistema poli­
tico che rimanda al teatro epico di Brecht e al nuovo teatro americano:
«Prendere in esame il lavoro di Sellars significa innanzitutto esaminare
cosa, a fine secolo, è diventato il teatro che ha ereditato la tradizione
sperimentale – modernista e interculturale – delle neo-avanguardie».27
Nelle sue opere c’è sempre un riferimento all’attualità; e durissime sono
le sue dichiarazioni sulle questioni politiche del momento, dalla globa­
lizzazione alla multiracial society, dalla guerra alla manipolazione del-
l’informazione a opera dei media, al razzismo, rilasciate in occasione di
conferenze o di interviste: «In quasi ogni stanza in cui trascorriamo la
nostra vita c’è una televisione, che diventa così un personaggio. Quindi
molte volte nei miei spettacoli metto una televisione sul palcoscenico
perché è un qualcuno con cui conviviamo e che non sta mai zitto. Come
puoi avere dei tuoi pensieri quando vivi accanto a questa cosa che non
fa altro che parlare? È uno dei grossi punti di tensione della vita quoti­
diana, ogni parte del nostro dialogo interiore è influenzata da questa
scatola, se ti chiedi quali sono le opinioni basate su ciò che hai visto con

24
E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 13.
25
Su P. Sellars cfr. Fare teatro, fare la società: un’introduzione al lavoro di Peter Sellars di
M. Delgado, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Rubettino, Catanza­
ro 1999.
26
Cfr. P. Sellars, La questione della cultura, in V. Valentini, M. Delgado (a cura di) Pe­
ter Sellars, cit., p. 38.
27
V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars, in V. Valentini,
M. Delgado (a cura di), Peter Sellars, cit., p. 57. cfr. anche A. Pomarico, Il gesto estremo
del teatro di Peter Sellars, in V. Valentini (a cura di) Dirottamenti, Comune di Milano
1997.
337 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

i tuoi occhi e quelle invece create dalla tv ti rendi conto che è pazzesco».
Ajax (Boston, 1986) è ambientato al Pentagono, mentre in The Persians
(Parigi, 1993) le immagini sugli schermi in scena mostrano spezzoni
della guerra del Golfo vissuta attraverso le «giornate televisive», in so­
stanza attraverso, i réportage della CNN: lo spettacolo diventa così una
dura critica al militarismo americano e alla complicità mediatica che ha
accompagnato questa guerra.
In The Merchant of Venice (1994) durante la famosa scena del proces­
so tra l’ebreo Shylock e il nobile veneziano Antonio, una tv mandava in
onda le immagini girate da un videoamatore dell’automobilista negro
Rodney King picchiato a sangue da poliziotti bianchi poi assolti dal tri­
bunale, un episodio che scatenò i tragici moti di Los Angeles nel 1992.
L’allestimento shakespeariano di Sellars è diventato un «classico», una
sorta di esempio-campione per chi si occupa del fenomeno del teatro
elettronico. Con interpreti uno Shylock e un Marocco nero, una Porzia
cinese e Bassanio e Antonio sudamericani, Sellars crea una scena tec­
nologica «abitata» da monitor, schermi, microfoni a vista, telecamere di
controllo che suggeriscono l’idea della vigilanza ossessiva e dell’uso dei
media per controllare e registrare la vita dei cittadini. Per attualizzare il
testo Sellars opera secondo un principio di equivalenza assolutamente
ineccepibile: se ai tempi di Shakespeare il mercato era legato al com­
mercio in mare, ora il potere economico è giocato dalle tecnologie e da
chi ne detiene il possesso. I mezzi di comunicazione di massa hanno
clamorosamente fallito il loro scopo: divulgare capillarmente, fuori da
ogni nazionalismo e separatismo, le culture più lontane, conoscere le
ragioni profonde e la storia di popoli che abitano angoli remoti, prati­
cano religioni e stili di vita diversi. La domanda fondamentale è: può
l’arte (anche l’arte del teatro) farci comprendere la realtà e il momen­
to storico in cui viviamo? Dice Sellars: «Il teatro spiega che la decisione
di un individuo, su come vivere o non vivere la propria esistenza, forma
il clima e la temperatura morale di una nazione e influisce sulla dire­
zione politica e il temperamento di un’epoca».28 Il teatro deve ritrova­
re la sua necessità, la comunicazione diretta. «Shakespeare analizza le
radici economiche del razzismo. Venezia era una superpotenza mon­
diale che controllava i commerci, cosa che portò a un razzismo siste­
matico; un’enorme struttura coloniale viene creata all’epoca di Shake­
speare. Shakespeare è più eloquente dei dati economici».29 Da qui l’e­
28
P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1999, in M. Mac Donald, So­
le antico, luce moderna, Bari, Levante, 99, p. 92.
29
Dal videodocumentario della BBC It’s now our time su The Merchant of Venice,
1994.
ANNA MARIA MONTEVERDI 338
quivalenza con la nostra società, multirazziale e ben spinta dal razzismo
allo sfruttamento, alla discriminazione, all’intolleranza, alla xenofobia,
all’emarginazione. Nessuna forzatura, dunque, perché – come sottoli­
nea il regista – Shakespeare descriveva una società molto simile alla no­
stra, ovvero «una società multiculturale in seno alla quale il razzismo
istituzionalizzato permetteva di “fare buoni affari” e avere vantaggi eco­
nomici».30 Il video è il vero protagonista: «L’uso del video è di capitale
importanza nella percezione di The Merchant of Venice di Peter Sellars, al
pari della distribuzione multirazziale dei ruoli e dello sfondo califor­
niano».31 Nello spettacolo una telecamera portata in spalla dagli attori
o fissata a terra su un treppiedi ben visibile agli spettatori registra in di­
retta l’azione di un personaggio e la trasmette ai monitor. Questi, schie­
rati in posizione avanzata sul palcoscenico, diventano presenze «fisi­
che», giurati o testimoni oculari; del resto la parte centrale della com­
media è ambientata proprio in una sala del tribunale dove un giudice
deve pronunciare una sentenza. È come se la telecamera spiasse i per­
sonaggi, scrutandoli uno a uno, attardandosi su alcuni loro particolari,
ma da angolature diverse dal frontale. Gli spettatori, perciò, hanno da­
vanti a loro l’intero in carne e ossa (il corpo dell’attore) e il particolare
(un dettaglio del volto). È chiaro che lo schermo è specchio che riflet­
te il sé più intimo e nascosto dei personaggi: è l’interiorità, la memoria,
la verità nascosta. Nella commedia si parla di «false apparenze» e della
necessità di non giudicare superficialmente un uomo: «Le forme este­
riori possono ingannare. Sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei
processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce
graziosa non maschera il volto del male?»32 Il video frammenta il corpo,
restituendone porzioni o brandelli: lo «smembramento», come è noto,
è proprio il tema della commedia (nel contratto è previsto che se l’e­
breo Shylock non verrà pagato sarà prelevata una parte dal corpo di
Antonio); il video inoltre sottolinea il volto, isola il gesto, che a teatro
diventa confuso tra gli altri perché l’attenzione è distratta dal «totale».
Volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste
«ritagliate» su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Tranci di
carne, teste tagliate, corpi a pezzi, per denaro, per debiti, per guerre,
sono quelli trasmessi dai telegiornali; il nostro occhio televisivo è già co­
sì ben abituato a vedere a pezzi un corpo, che non associamo più quel­

30
Ibidem.
31
F. Maurin, Usi e usure dell’immagine: speculazioni su «The Merchant of Venice», in V.
Valentini, M. Delgado (a cura di), Peter Sellars, cit., p. 115. 1a pubbl. in B. Picon-Vallin
(a cura di), Les écrans sur la scène, L’âge d’homme, Lausanne 1998.
32
W. Shakespeare, Il mercante di Venezia.
339 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

la immagine alla morte. Lo spettacolo diventa così un’aspra critica alla


monodirezionalità televisiva e alla nostra anestesia di fronte agli eventi:
la tecnologia scardina gli organi. Non c’è più alcuna integrità possibile:
«La televisione», dice Peter Sellars, «ha cancellato il potere emozionale
degli eventi».

Giacomo Verde è mediattivista, videoartista e tecnoperformer. Le


sue «oper’azioni» sono da sempre variazioni sulla necessità di un uso
politico e di una riappropriazione-diffusione capillare dei mezzi tecno­
logici, passando dai laboratori per i bambini ai Giochi di autodifesa tele­
visiva, fino alla creazione di tv comunitarie interattive come la Minimal
TV. In Per mettere mano. Azione installattiva di riciclaggio tv l’intervento
estetico interattivo proposto come gioco collettivo condiviso prende le
sembianze di una aggressione ludica del televisore, attraverso una ru­
dimentale manipolazione della scatola e del dispositivo video. La me­
desima tensione politica sottende tutte le creazioni di Verde: è una «at­
titudine hacker» che se non si esprime direttamente nei contenuti, si
materializza nell’elaborazione di dispositivi low tech che esemplificano
un uso dei media elettronici creativo ma a basso costo e alternativo a
quello proposto dal mercato. Nel sito www.verdegiac.org si possono
trovare le istruzioni per rifare da casa l’installazione del videoloop inte­
rattivo e condividere le immagini di 5116 Maya. A teatro l’accento è po­
sto sul live, sulla performatività dei media, per comprendere questa
realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo testo Per un
teatro tecno.logico vivente (in A.M. Monteverdi, 2000). Verde parla di una
tecnonarrazione che possa rivitalizzare l’antica arte della narrazione
orale con i nuovi strumenti comunicativi e faccia sentire lo spettatore
necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che
amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole
e ritmi preregistrati e immutabili. Con i Teleracconti aveva mostrato co­
me è facile attraverso una telecamera «far credere che le cose sono di­
verse da quelle che sono»: in altre parole che le immagini trasmesse
dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fis­
sare per noi un punto di vista sul mondo. Il teleracconto, tecnica tea­
tral-tecnologica applicata inizialmente a spettacoli per bambini e poi
sviluppata autonomamente come modalità di base per videofondali li­
ve, smaschera un procedimento televisivo: una telecamera inquadra in
macro un piccolo spazio e alcuni oggetti collocati vicinissimo alla tele­
camera; ingranditi attraverso la riproduzione televisiva, questi oggetti
rivelano un’immagine diversa rispetto alla loro normale apparenza. Gli
oggetti sono chiamati a far parte del racconto per similitudine morfo­
logica, per somiglianza di forme o di colore; ma è soprattutto lo spet­
ANNA MARIA MONTEVERDI 340
tatore che deve intervenire con l’immaginazione a coprire lo scarto
tra quello che l’oggetto è nella realtà e quello che deve significare nel
«racconto per immagine»: il guscio di una noce ripreso in macro può
sembrare, come in Hansel e Gretel Tv (1989, vedi scheda), il volto della
strega, le dita, alberi vecchi e nodosi, un pomodoro un fuoco accecan­
te… Questo procedimento serve a mostrare lo scarto percettivo tra la
realtà e l’immagine: perché «l’immagine della cosa non è la cosa; il
problema sta nel fatto che nel sistema televisivo e dei media in genere,
si tende a utilizzare le immagini televisive come rappresentazione del
reale, non dell’immaginario».33 Così Antonio Attisani: «È il supporto la
novità. Supporto come la maschera o la marionetta, supporto che im­
pone o crea una propria sintassi, ma che non elimina l’attore e con es­
so il suo sapere, la sua tecnica, la sua responsabilità». Anche attraverso
il teleracconto Verde ci mostra come quella dei media sia la realtà «ras­
sicurante» di un mondo che non esiste, la realtà al tempo dei vanishing
events.34 Le telecronache della Guerra del Golfo ma soprattutto quelle
da Genova in occasione del meeting del G8 ci hanno insegnato quanto
potente sia la macchina spettacolare dell’informazione, la «gestione
della catastrofe» e la simulazione-contraffazione degli eventi. Ci pare
persino banale citare oggi il Debord dello «spettacolo concentrato» o il
Baudrillard della «fine della storia»: nei Commentari alla Società dello
Spettacolo Debord ricordava come la società dello spettacolo si fondi
sul dissolvimento del legame e delle identità sociali, trasformando la
comunità in utente mentre la vita si dissolve lentamente in una sua ir­
reale rappresentazione: «Lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e
l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza.
Ma la critica che raggiunge la verità dello spettacolo lo scopre come la
negazione visibile della vita; come una negazione della vita che è divenu­
ta visibile».35
La pratica del teatro sperimentale e il legame strettissimo con le tra­
dizioni popolari (è stato suonatore di zampogna e artista di strada)
hanno condotto «naturalmente» Verde verso l’utilizzo del video in sce­
na: «Negli anni Ottanta ho scoperto la possibilità di usare i video in sce­
na come elemento drammaturgico, oltre che scenografico. Così mi so­
no accorto che lo strumento video si adattava molto bene alle mie “ca­
pacità artistiche”, permettendomi di esprimere visioni difficilmente

33
Intervista inedita a Giacomo Verde a cura di A.M. Monteverdi. Vedi anche A.M.
Monteverdi, Giacomo Verde, Catalogo Riccione TTV 2004.
34
L’espressione è usata da J. Baudrillard in L’illusione della fine o Lo sciopero degli
eventi, Anabasi, Milano 1993.
35
G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari alla società dello spettacolo, Su­
garco, Milano 1990, p. 88.
341 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

realizzabili con altri strumenti comunicativi e dato che mi occupavo di


cultura popolare, mi è sembrato naturale fare i conti con la televisione
e le comunicazioni elettroniche, che oggi hanno ereditato e modificato
gli archetipi dell’immaginario popolare. Occuparmi di video e di tele­
visione (che sono due cose ben diverse) e ora di computer è stato come
decidere di vivere nel contemporaneo, superando vecchie e inutili
ideologie di comportamento artistico, accettando il confronto creativo
piuttosto che la fuga conservativa».36 Nel teatro globale di Connessione
remota, uno dei primissimi esperimenti italiani di Webcam theatre, andato
contemporaneamente in scena e in diretta Web dal Museo Pecci di Pra­
to nel maggio 2001, gli spettatori potevano assistere alla performance
dal Web, incontrarsi in rete, chattare tra loro e dialogare e scrivere in
tempo reale con lo stesso narratore-performer: «Questi esperimenti mi
hanno confermato», dice Giacomo Verde, «l’intuizione di poter fare un
teatro con/per la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso
si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi ma­
teriali». In questi anni Verde ha sviluppato una propria tecnica per la
creazione di videofondali live e/o interattivi per performance e rea­
ding poetico-musicali (tra cui Rap di fine millennio e Fast Blood, con il
poeta Lello Voce e il musicista Frank Nemola) che gli permette di rea­
lizzare ogni volta, quasi improvvisando, immagini suggestive e astratte,
capaci di adattarsi a diverse situazioni artistiche.

10. La macchina teatrale: La face cachée de la lune di Robert Lepage

Molti artisti hanno integrato immagini e meccanismi scenici in un


unico apparato in cui arte e tecnica ritrovano la loro comune etimolo­
gia e in cui l’uomo è ancora al centro della ricerca. Ricordava Woody
Wasulka: «Sto dalla parte della macchina. La macchina ti lancia una sfi­
da e tu reagisci. Semplicemente mi considero una specie di guardiano
del processo e mi piace chiamare “rituale” ciò che fa la macchina. Un
rituale molto preciso. Più la precisione aumenta, più il rituale diventa
potente. Il rituale si ripete come una performance, anche se talvolta
perde il controllo perché anche una macchina può fallire. Si ferma o
balbetta. Ci sono dei momenti impossibili da prevedere. A poco a poco
la macchina assume un carattere culturale».37 La scena del regista e in­
terprete canadese Robert Lepage è un trionfo di mechané e techne antica.

36
Intervista a G. Verde a cura di R. Vidali, «Juliet», n. 71, febbraio-marzo 1995, p.
35.
37
L. Poissant, Esthétique des arts médiatiques, cit.
ANNA MARIA MONTEVERDI 342
Il suo teatro mescola sapientemente la tradizione teatrale (il teatro
d’ombre cinese) con le nuove tecnologie (la diretta video anche asso­
ciata al trattamento elettronico delle immagini live in Elsinore e The Bu­
sker’s Opera; immagini 3D in The Tempest; Web cam collegate al World
Wide Web per Zulu Time); in La face cachée de la lune (2000) le invenzio­
ni moderniste dell’artista canadese fanno i conti con una scenografia mo­
bile, una macchineria che evoca insieme semplicità e attrezzeria, mentre
l’intervento sul palco di una tecnologia discreta, fatta di luci e di video,
finalmente affrancata dall’obbligo di «stupire», accompagna (e sostie­
ne) visivamente l’intero spettacolo. A dispetto dei suoi detrattori, la
scena di Lepage è sempre più prossima alla meccanica: la sua scena –
come ricorda Georges Banu riferendosi in particolare a Les aiguilles et
l’opium, dove l’attore-protagonista è legato con una fune libero di muo­
versi sopra un dispositivo girevole «a lavagna» sopra il quale venivano
retroproiettate le immagini – è strutturata come un «utensile antico»;
non affascina, anzi, contesta le performance tecnologiche attuali e non
appartiene all’«extrême-contemporain»,38 mentre i suoi congegni e circui­
ti rendono lo spettacolo «fallibile», lasciando sempre aperta l’ipotesi
dell’incidente (la qual cosa gli conferirebbe – seguendo Benjamin – un
valore di presenza, di aura e unicità). La scena di Lepage è dispositivo
«arcaico», imperfetto e persino pericoloso, macchina e macchineria in­
sieme; come per Ronconi, «una macchina leonardesca invece che futu­
rista, rudimentale, antitecnologica, d’ingegneria artistica, piuttosto che
simbolo apologetico del mito tecnologico moderno; macchina che
smentisce ironicamente la perfezione del congegno e continua a gio­
care al modo antico».39 Lepage, lontano dal proporre un universo fan­
tascientifico dove tecnologie sofisticate sovrastano economie e saperi e
sostituiscono definitivamente l’uomo, propende piuttosto per una so­
luzione formale di stampo fondamentalmente modernista e umanista.
La tecnologia nel teatro di Lepage non mette affatto in discussione
l’impianto teatrale nel suo complesso (il concetto di rappresentazione,
la funzione dell’attore, la narrazione). La riproposta centralità del sog­
getto, la supremazia dell’umano rispetto al suo simulacro in video, la
forma compiuta della trama (che richiama la tradizione del romanzo di
formazione), la scena concepita per una integrazione tra i linguaggi
(come nel Teatro della Totalità di Moholy-Nagy), delineano uno scenario
difficilmente ascrivibile al mondo della postmodernità e per nulla sim­
bolo di una nuova era post-human. Se il mondo nel quale Lepage am­

38
G. Banu, Théâtre et technologie ou Celui qui dit oui, celui qui dit non, «Jeu», cit.
39
A. Balzola, La scena televisiva secondo Luca Ronconi, «Il castello di Elsinore», n. 18,
1993, p. 93.
343 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

bienta le sue storie appare dominato da una tecnologia in forma di «vi­


sione» e di «immagine», questa però non ha spezzato le determinazio­
ni naturali dell’essere umano: le ha semplicemente raddoppiate, costi­
tuendo per i personaggi, più che una compiuta «seconda natura» o
alienazione nella sfera tecnologica, un surreale dialogo tra «vivi». Le-
page parla significativamente di una doppia impressione che l’attore
deve produrre in relazione alle tecnologie dell’immagine in scena:
«Deve essere un attore “scenico”, e deve essere anche “schermico”, cioè
deve essere cosciente sia della sua ombra sia della sua presenza fisica,
deve costruire la sua immagine bidimensionale».40
Con musiche originali di Laurie Anderson, La face cachée de la lune
prende spunto dall’invio nello spazio delle navicelle sovietiche e ameri­
cane. L’esplorazione della luna (fino a Galileo «specchio della terra»,
come si racconta nel Prologo) diventa la metafora per parlare di un’al­
tra ricerca, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è la storia di
due fratelli, uno meteorologo, l’altro venditore di abbonamenti da sem­
pre attratto dal tema delle esplorazioni extraterrestri. Separati da diver­
si stili di vita e caratteri (anglofoni e francofoni?), si incontrano nuova­
mente dopo che viene loro a mancare la madre. La luna e la madre, con
il relativo armamentario mitico e simbolico, sono i due temi che si in­
tersecano continuamente. La vita dei due protagonisti è costellata da
«domestiche esplorazioni» simboleggiate da un unico oggetto: l’oblò di
una lavatrice. Una similitudine davvero poetica ci ricorda che siamo ve­
nuti alla luce e al mondo come piccoli astronauti che prendono per la
prima volta fiato dopo che il cordone ombelicale-cavo che ci collega al­
la navicella madre è stato staccato e dopo il preciso colpetto alla schiena
dato dalla levatrice al neonato a testa in giù. Riuscirà qualcuno a co­
struire davvero quell’enorme Torre Eiffel (che ricorda il Monumento al­
la Terza Internazionale di Tatlin) che innalzata fino oltre la stratosfera do­
vrebbe essere in grado di captare quello che è ancora segreto, il lato na­
scosto della Luna? Quale sonda riuscirà mai a scoprire il lato misterioso
e rimosso del nostro Io? Lepage inventa un fondale metallico di color
grigio scuro che occupa tutta la larghezza del palco e che nasconde al
suo interno ambienti tra loro separati da pannelli che scorrono silen­
ziosi su binari; sulla sua parete vengono proiettate immagini tratte dai
documentari sull’esplorazione della Luna, filmini in super8 della vita
del personaggio o immagini video astratte. Le ante scorrevoli fanno in­

40
L. Fouquet (a cura di), Du théâtre d’ombres aux technologies contemporaines. Entretien
avec Robert Lepage, in B. Picon-Vallin, Les écrans sur la scène, cit., p. 326. Cfr. anche A.M.
Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage (in corso di stampa). E inoltre i saggi di A.M.
Monteverdi in www.ateatro.it.
ANNA MARIA MONTEVERDI 344
travedere oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze.
Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete «fisica»: un
enorme specchio che si sviluppa per tutta la lunghezza del palco ed è
dotato di un movimento rotatorio che lo trasforma sia in oggetto di sce­
na sia in soffitto riflettente, restituendo agli spettatori, nel finale dello
spettacolo, l’impressione di un corpo duplicato impegnato in una danza
quasi in assenza di gravità. Come gli screen del teatro «cinetico-visivo» di
Gordon Craig, la scena dal volto mobile di Lepage si trasforma grazie al
movimento e alla luce: «Il teatro è l’arte della trasformazione a tutti i li­
velli. […] La trasformazione diventa non solo una maniera, ma il fon­
damento stesso del mio lavoro».41 Il montaggio dello spettacolo richiede
tre giorni interi e una squadra di quattordici persone. I congegni im­
piegati, più che sofisticate soluzioni hi-tech, ricordano i meccanismi (i co­
siddetti ingegni) del teatro rinascimentale, i cui apparati erano un vero
connubio di meraviglia e ars mechanica. Pensiamo agli intermezzi (o in­
termedi), vero spettacolo nello spettacolo, in cui la scena era tutta per le
macchinerie, gli ingranaggi, gli apparati scenotecnici e le quinte semo­
venti per mezzo di periaktoi che producevano stupore ed esaltavano la
magnificenza del principe: «Gli intermezzi sono lo spettacolo [...] e que­
sto spettacolo è uno spettacolo meccanico: come non ricordare che Ber­
nardo Buontalenti era studioso degli automata di Erone Alessandrino?
E la commedia? La commedia non c’è, non esiste. O esiste solo nel testo
drammatico. In quanto evento spettacolare la commedia è la sua scena.
E la scena è vuota».42

11. Ibridazione di tecniche e prestiti di linguaggi tra teatro, televisione (o)


cinema: Flicker del Big Art Group

La combinazione di forme artistiche e tecnologia (dall’elettronica al


digitale al Web) produce una sorta di integrazione tecnoespressiva, un
métissage, un genere «ibrido» (come già profetizzava McLuhan) o dia­
morfico (come lo definisce Edmond Couchot) e in costante trasforma­
zione, poiché è in stretto legame con le evoluzioni delle tecnologie stes­
se. Molti artisti si sono collocati al confine di varie arti: Roberto Paci
Dalò (Giardini Pensili), Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino.
Flicker (2003), lo spettacolo del Big Art Group diretto da Caden Man-
son, simula lo spazio-tempo filmico proponendo a teatro tecniche di ri­

41
R. Lepage, Quelques zones de liberté, L’instant même, Québec 1995, p. 135.
42
C. Molinari, La scena vuota, in E.G. Zorzi, M. Sperenzi (a cura di), Teatro e spet­
tacolo nella Firenze del Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Leo S. Olschki, Firenze 2001.
345 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

presa e di rappresentazione cinematografica; costruito come un «real ti­


me film», Flicker è una parodia dei reality show televisivi, delle dirette dai
luoghi della tragedia, delle cronache in tempo reale e dei film che sfrut­
tano una visione voyeuristica della vita. Costruisce «artigianalmente»
movimenti di ripresa, alternarsi di campi e controcampi, carrellate, ef­
fetti still o mirror, mentre l’attore è di fatto immobile in scena davanti al­
la telecamera. Il palcoscenico teatrale diventa un set cinematografico in
cui gli esterni sono costruiti con trucchi ed effettacci: cartelli, fotografie
di alberi attaccate alla telecamera, mentre la visione continua spazio­
temporale è quell’inganno che il gruppo attacca sistematicamente nel
corso dello spettacolo con manipolazioni «alla luce del sole» e inganni
ottici. Sopra un palco sono posizionate tre telecamere, le riprese realiz­
zate nella parte superiore della scena (una sorta di upper stage) vengono
mostrate in diretta su tre schermi posti perpendicolarmente in basso. Al-
le tre telecamere corrispondono tre postazioni e otto attori che gesti­
scono a turno e «personalmente» il proprio «occhio digitale» e contem­
poraneamente incarnano un personaggio della storia e imprestano
braccia, testa e busto per l’inquadratura di un altro. Ma se quello che si
vede negli schermi in scena tende ad avere una qualche coerenza nar­
rativa, quello che accade nel reale, su set, è un guazzabuglio, una sara­
banda di frenetici cambi di costume e posizioni, raddoppiamenti conti­
nui di gesti e personaggi. Chi guardasse solo quello che fanno gli scate­
nati attori in carne e ossa non capirebbe assolutamente nulla, perché il
codice per interpretare il linguaggio non è teatrale, è altrove (ovvero,
nelle regole cinematografiche che presiedono al montaggio del film
proiettato sui tre video).43

12. Interazione e interattività: il dibattito teorico

Emanuele Quinz ricorda l’emergenza della nozione di ambiente (en­


vironment) che ha sostituito il modello tradizionale teorico di oggetto­
testo44 Non sarebbero state la tecnologia digitale né l’evoluzione tecni­
ca a modificare lo statuto dell’opera o a imporre un nuovo modello
strutturale: la tendenza a decentralizzare, rompere la linearità tempo­
rale narrativa a favore di una multimodalità (copresenza di emittente e
destinatario) e una modulabilità (o apertura), della moltiplicazione dei
punti di emissione e della collocazione dello spettatore nello spazio

43
O. Ponte di Pino, Il teatro tra televisione e cinema, www.ateatro.it (55).
44
E. Quinz, Interface world. Mutazioni della scena: dal testo all’ambiente, in La scena di­
gitale, Marsilio, Venezia 2001.
ANNA MARIA MONTEVERDI 346
dell’azione, ha origini «lontane». Dal testo quale organismo chiuso si
arriva a un sistema di relazioni aperte, a una testualità non lineare e di­
namica, già in parte delineata da Roland Barthes in S/Z. L’ambiente
dell’opera d’arte si configura secondo Quinz in due modalità diverse:
ambiente-interfaccia e ambiente-mondo. Il primo presuppone un’e­
stensione del concetto di interfaccia oltre il significato tecnico (il di­
spositivo che mette in comunicazione due sistemi informatici diversi).
Sulla scorta di Pierre Lévy, sarebbe applicabile a «tutte le superfici di
contatto, di traduzione, di articolazione tra due spazi, due specie, due
ordini di realtà differenti» (E. Quinz, 2001). Il carattere primario del-
l’interfaccia è la trasparenza: «Si può definire l’interfaccia come mac­
china: dispositivo funzionale, operativo, senza residui, senza incrosta­
zioni, senza rumore. Interfaccia come spazio trasparente, come spazio
circolare, spazio della circolazione, spazio in cui non ci sono più ogget­
ti ma flussi» (E. Quinz, 2001). Nell’ipotesi di ambiente-mondo, invece,
Quinz prende in considerazione l’ambito delle realtà virtuali. L’intera­
zione tra l’uomo e la macchina avviene attraverso un modello di mon-
do tridimensionale generato direttamente dal computer. Quinz, ri­
prendendo Weisseberg, propone di assegnare al corpo il ruolo di in­
terfaccia di questo virtual environment, in quanto l’esperienza provata
dal corpo è quella centrale: un’immersione globale in un universo di
percezioni contemporaneamente visive, auditive e tattili. «Non si tratta
più semplicemente di fare comunicare sistemi diversi, di trasmettere
informazioni per attivare dei dispositivi, ma di vivere un’esperienza in
un mondo determinato: gli ambienti virtuali non sono vuoti e traspa­
renti, ma sono al contrario, “arredati” e “abitati”: nel nuovo universo
esistono degli oggetti che hanno delle forme, personaggi che hanno un
corpo, una storia» (E. Quinz, 2001). L’ambiente-mondo ha anche una
«storia tattile» e il soggetto che vi si trova immerso ha un’esperienza fi­
sica, relazionale. Se l’ambiente-interfaccia che funziona con un mecca­
nismo di azione-reazione (inter-attività) è una macchina, l’ambiente­
mondo è un corpo individuale in cui le relazioni instaurate all’interno
di questo mondo sono, appunto, inter-soggettive (inter-azioni).
Le nozioni di environment, performance ed event accomunerebbero sia lo
spettacolo dal vivo sia i digital multimedia (A. Pizzo, 2003). Così come
ogni spettacolo si dà nel qui e ora, nella sua evenemenzialità impossibile
da replicare, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nel­
l’insieme di relazioni (spaziali, temporali, individuali) della scena, anche
il digitale vive in un tempo percepito come presente, come generarsi di
processi: un tempo fatto cioè «non più di eventi, come il tempo televisi­
vo, ma di infinite virtualità», come ricorda Edmond Couchot; vive nel­
l’interazione tra macchina e agente attraverso interfacce e nella sua «ge­
347 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

nerazione senza referenzialità», al punto che Pizzo definisce la loro con­


taminazione un «delicato e sfumato attrarsi tra simili». Secondo tale ap­
proccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena ad «au­
mentare» il senso di presenza e di liveness del teatro (enhanced theatre,
«teatro aumentato», è una delle definizioni del teatro digitale).
Robb Lovell ha recentemente tentato di teorizzare il tema dell’intelli­
genza artificiale a teatro.45 Lovell immagina il teatro come un computer’s
body con i media elettronici come membra, telecamere e microfoni usati
come occhi e orecchie, un programma di generazione voce come la boc­
ca. Tutto questo va a definire l’Intelligent stage. Lo spazio in cui avviene la
performance diventa un ambiente generato dal comportamento del
computer. Lovell illustra come questo intelligent environment possa espan­
dere le potenzialità del teatro in varie maniere e non implichi affatto la
morte del teatro, ma una sua espansione in nuovi territori di espressività.
Nello specifico definisce tre abilità richieste all’«intelligenza» di un com­
puter: percezione (attraverso sensori e programmi che rimandano imma­
gini e suoni), ragionamento (la risposta alle informazioni percepite) e de­
strezza (capacità di interagire attraverso media elettronici con gli attori).
All’Institute for Studies in the Arts (Isa) in Arizona Lovell sta sperimen­
tando le possibilità di questo Intelligent stage, un ambiente reso sensibile
dai media che risponde agli attori in scena nel momento in cui essi si
muovono. Attraverso un sistema video elaborato su un programma dal
nome EYES, il computer percepisce quello che accade in scena e quello
che si sente. La percezione attraverso il computer permette al performer
di avere sotto controllo tutti gli elementi della scena (suono, illumina­
zione, video, laser). Il tentativo del gruppo di ricerca dell’Isa è volto a cer­
care di aumentare e potenziare le capacità di intelligenza e di «consape­
volezza» del computer, portandolo a conoscere l’attrezzatura e fare espe­
rienza dell’ambiente sempre diverso in cui si trova a operare, senza pie-
gare l’artista alle esigenze di un determinato spazio. Lovell ricorda quali
sono i ruoli dell’intelligenza artificiale nel teatro: «Assistere, potenziare e
partecipare alla rappresentazione. Il computer può anche contribuire a
facilitare la produzione di uno spettacolo e a semplificare la realizzazione
di effetti complessi difficili da controllare da parte di operatori umani.
Ma anche la partecipazione in qualità di attore, da intendersi nel “senso
umano”, è una possibilità reale». I computer già sono utilizzati nel setto­

45
R. Lovell, Computer Intelligence in the Theatre, «New Theatre Quarterly», vol. XVI,
agosto 2000 (ora in E. Quinz, 2001). Robb Lovell è artista-tecnico informatico che la­
vora all’Isa (Institute for Studies in the Arts) dell’Università dell’Arizona. Ha creato
«intelligent stage», uno spazio teatrale che risponde attraverso luci, suoni, video e
animazioni agli stimoli provenienti da sensori. Vedi http://isa.asu.edu e
http://isrl.fa.asu.edu.
ANNA MARIA MONTEVERDI 348
re soprattutto dell’illuminotecnica e del suono, mentre vengono studiate
procedure per sincronizzare gli strumenti in un’ottica di prestazioni «in­
tegrate», anche se si è lontani dal raggiungere il risultato di un unico si­
stema che li comprenda tutti.
In Il teatro delle interfacce Franck Bauchard individua due tipi di inter­
facce: «Nel primo tipo di interfaccia, il dispositivo materiale e il software
servono da mediatore fra il computer e delle unità periferiche (camere,
strumenti tradizionali e virtuali…). Ci si orienta allora verso la costituzio­
ne di vere e proprie regie digitali, che combinano molteplici fonti sono­
re e visive: immagini video in presa diretta, elaborazione digitale dell’im­
magine in tempo reale, immagini prese su Internet, immagini d’archivio,
voci off preregistrate, elementi musicali prodotti e trasformati in diret­
ta… Questa regia digitale può essere controllata da tecnici, o più rara­
mente dagli interpreti, il che comporta necessariamente che gli inter­
preti integrino ancor più nella recitazione le loro interazioni con le in­
terfacce. Il secondo tipo di ricerca sulle interfacce, più frequente in am­
bito coreografico che in ambito teatrale, è incentrato sulla creazione di
oggetti o di esseri digitali interattivi a partire dalla captazione di movi­
menti o di emozioni degli interpreti. L’interfaccia si pone allora fra due
sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di
traduzione. Le interazioni fra il reale e il virtuale determinano allora lo
svolgimento della rappresentazione e la costruzione dell’azione scenica.
Esse aprono la strada a un teatro interattivo».46

13. Cyber labirinti e cyber tappeti: Storie mandaliche di Zonegemma e CCC


del Teatro di Piazza e d’Occasione

Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e teorico


Andrea Balzola pongono per la prima volta mano a un progetto di nar­
razione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la ste­
sura dei testi, alla forma e al significato del mandala, simbolo della tra­
sformazione spirituale dell’individuo, «cosmogramma» e «psicogram­
ma» secondo l’interpretazione di Jung e Tucci. Il mandala, il «cerchio
magico» della tradizione buddhista, è un elemento centrale delle ceri­
monie rituali e delle pratiche di meditazione, strumento per l’indivi­
duazione del sé. Al Festival Scantafavole di Ripatransone (Ascoli, luglio
1998) inizia il primo laboratorio con conferenza dimostrativa pubblica
in cui contestualmente alla scelta del sistema interattivo Mandala Sy­

46
F. Bauchard, Il teatro delle interfacce, in Digital performance, cit. Traduzione di Eri­
ca Magris per www.ateatro.it.
349 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

stem, si pongono le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo


abbozzo di un testo che per adattarsi alle esigenze della macchina tec­
nologica viene concepito con caratteristiche ipertestuali, ovvero con­
nessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Sono set-
te storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale,
animale e divino, ovvero sette storie di personaggi «linkate» tra loro
con un andamento «concentrico»: il bambino-uomo, il mandorlo, la
principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra, l’ermafrodita. Ogni
storia (cioè ogni iper-racconto) e ogni personaggio è associato a un co­
lore, a un elemento e a un punto cardinale (nell’orientamento manda­
lico l’Est è rivolto verso il basso) più il Nord-Est che è nella simbologia
mandalica il luogo del sole, il Sud-Ovest che è il luogo della luna, e il
centro. Il labirinto greco, i rosoni delle cattedrali medievali si ricolle­
gano allo stesso sostrato simbolico. Nel suo volume su Dioniso Karl
Kerény riporta le iconografie greche antiche documentate a Mileto,
nel Santuario dedicato ad Apollo, al Palazzo di Cnosso e su raffigura­
zioni provenienti da Atene relative all’immagine (come segno e non
simbolo) del labirinto: il meandro e la spirale continua (linee curve o
angoli retti), percorso iniziatico aperto che conduceva al centro e poi
con una giravolta decisiva di nuovo all’ingresso; oppure, se tracciato
chiuso, prigione eterna senza via di uscita in cui si perde la vita. Labi­
rinto come luogo di morte o di illuminazione: raggiungere il centro del
labirinto significava, infatti, nel mondo greco antico, penetrare nei re­
cessi sotterranei e protetti dei misteri divini, itinerario sapienziale per
comprendere – come nell’espressione eraclitea – «ciò che è non detto
e non nascosto» (Eraclito, frammento 120) e raggiungere una rinnova­
ta condizione di «liberazione conoscitiva». In Storie mandaliche, lo spet­
tatore teatrale, collocato dentro lo spazio mandalico, entra nel labirin­
to della narrazione, nel crocevia di tutte le storie, con le immagini e i
suoni in continua trasformazione. Lo spettacolo ha attraversato diverse
fasi, acquistando nuovi sviluppi narrativi a seconda dei «contesti parte­
cipati» in cui era collocato e delle ipotesi di lavoro e delle ricerche del
gruppo, subendo una ulteriore metamorfosi con le animazioni in Fla­
shMX create da Lucia Paolini e con le sonorità digitali avvolgenti ed
evocative di Mauro Lupone. Le immagini e i suoni hanno anche la fun­
zione di aiutare a memorizzare il percorso e a immergersi nel tema e
nelle caratteristiche dei personaggi e introducono in una geometria
narrativa esplosa oltre la pura linearità diegetica. Nell’architettura labi­
rintica e ramificata della narrazione non lineare e non sequenziale del­
la scrittura ipertestuale creata per Storie mandaliche, ognuna delle sette
storie percorse conduce al centro – come ogni mandala. È al centro, ov­
vero alla fine del tragitto, che si trovano la soluzione e il luogo fisico do­
ANNA MARIA MONTEVERDI 350
ve tutte le storie si intrecciano e si incontrano. È un percorso che con-
duce dentro l’intreccio dell’unica «trama» che lo spettacolo va a svela­
re: chi si trasforma non muore, chi non si trasforma muore. Dietro di essa si
nasconde l’archetipico topos della mutazione-trasformazione presente
in tutti i miti e leggende della tradizione occidentale e orientale. La tra­
sformazione è anche la caratteristica dell’ipertesto, ovvero «rete di se­
gni interconnessi»: nella continua modificabilità e transitorietà del te­
sto di partenza, la responsabilità del percorso narrativo si trasferisce
dall’autore al lettore (o al digitatore). Modalità «itinerante» e «creativa»:
così è stata definita la navigazione in uno spazio di scrittura ipertestua­
le da parte di un lettore attivo «e a volte anche un po’ invadente» (G.P.
Landow, 1998). Nel racconto orale, la storia viene ogni volta modifica­
ta e ricreata a seconda delle scelte degli spettatori a ogni bivio iperte­
stuale: si aggiungono particolari, se ne omettono altri a seconda dello
«stato d’animo» del pubblico; il narratore diventa, secondo una bella
definizione di Giacomo Verde, «un termometro dell’emotività della
platea». L’attore, attraversato dall’umore del pubblico, partorisce paro­
le, suoni e immagini ed è in qualche modo anche lui impasto di inces­
santi mutazioni. A tale scopo il lavoro del tecnonarratore unisce alla
memoria orale collettiva (quella che Pietro Barcellona definisce il de­
posito della gruppalità, la cui elaborazione è fondamentale per la crea­
zione dell’individualità) l’abilità digitale (nel senso letterale e anche
etimologico del termine): il cyber contastorie (la definizione è di Giaco­
mo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell’immagine
del raccontastorie), invece della tela disegnata, ha di fronte a sé le im­
magini animate e in videoproiezione e i suoni che lui stesso può gesti­
re e trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.
Ogni sera il percorso è diverso e la strada-racconto che porta al centro
viene decisa ogni volta assieme agli spettatori. Storie mandaliche, luogo
politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare
una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo
sdoppiarsi, metamorfosarsi e riconvertirsi in nuovo significato confe­
rendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nell’ori­
ginaria natura della maschera. In epoca di digitale nasce una nuova
«oralità» in cui il tecno-rapsodo «attiva con il pubblico un coinvolgi­
mento dove tanto il bambino quanto l’adulto sono perfettamente con­
sapevoli di partecipare a un gioco di verità giocato sull’emozionante
confine del credere e del non credere».47

47
M. Iacono, intervento riferito a Storie mandaliche alle Giornate dell’Etica-Teatro
e tecnologia (Castiglioncello, dicembre 2003). Il testo completo è in Storie mandaliche,
a cura di Zonegemma, Nistri-Lischi, Pisa 2004.
351 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

Davide Venturini (con il Teatro di Piazza e d’Occasione e con Renzo


Boldrini di GialloMare Minimal Teatro) ha realizzato spettacoli per ra­
gazzi a partire dall’uso di tecnologie, dalle più tradizionali a quelle più
sofisticate.48 CCC (children cheering carpet), ideato nel 2003 da Davide Ven­
turini con la collaborazione di Francesco Gandi, Martin Von Gunten,
Paola Beltrame e Rossano Monti, è uno spazio di gioco teatrale condiviso
composto da un ambiente digitale, ovvero un tappeto interattivo, un vi­
deoproiettore che invia dall’alto immagini animate e un sistema di tren­
tadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone
sul tappeto genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un rac­
conto di viaggio in Giappone, tra i colori e le forme di un giardino zen.
CCC viene definito dagli autori «una azione teatrale a metà tra un atelier
multimediale e uno spettacolo», «quasi teatro». Se il ruolo dell’artista è
quello di «innescare processi» (creativi, comportamentali, sociali) solo in
parte prevedibili, l’opera d’arte diventa un viaggio collettivo di cui non si
conosce la destinazione. Venturini sottolinea a proposito di CCC come
l’artista crei le condizioni più adatte per un’esperienza intima e comune,
riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma an­
che di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; un’e­
sperienza spontanea, collettiva e condivisa di emozione sensoriale, di
contemplazione estetica, di concentrazione interiore, ma anche di azio­
ne e competizione. Attraverso l’opera si deve sviluppare un’esperienza di
interazione consapevole giocata su un’attitudine al riconoscimento, alla me­
morizzazione, alla concentrazione, all’intima percezione delle cose. La
struttura drammaturgica si trasforma e il racconto diventa un pretesto,
un avviso per gli utenti, una guida un po’ invadente o un «libretto di
istruzioni per il computer», secondo le parole dell’artista, un’invisibile ar­
chitettura ipertestuale, complessa e ramificata in cui la storia è solo uno
dei tasselli di un’infinità di storie possibili.49

14. Il corpo tra naturale e artificiale: le performance di Marcel.lí Antunez


Roca

Marcel.lí Antúnez Roca è stato membro fondatore (nonché regista,


musicista e performer) del gruppo catalano la Fura dels Baus, con cui

48
Per una dettagliata descrizione di Storie Zip di Venturini-Boldrini rimandiamo a
C. Infante (2000) e A. Pizzo (2003).
49
CCC è stato presentato all’interno delle Giornate dell’Etica-Teatro e tecnologia
(Castiglioncello, dicembre 2003). Un resoconto del dibattito su interattività e teatro
per ragazzi cfr. A.M. Monteverdi, Teatro-Video-Tecnologie, Catalogo di Riccione TTV
2004; e anche A.M. Monteverdi, Bambini interattivi, www.ateatro.it.
ANNA MARIA MONTEVERDI 352
ha creato travolgenti e ironiche performance tecnologiche: da Accions
(1984), Suz/o/Suz (1985) a Tier Mon (1988). Negli anni Novanta le sue
«solo performance» combinavano bodybots (robots controllati dal cor­
po), systematugy (narrazione interattiva) e dresskeleton (interfaccia eso­
scheletrica). I temi esplorati nel suo lavoro includono l’incrocio natura­
le-artificiale: l’uso di materiali biologici nella robotica, come in JoAn,
l’uomo di carne (1992); il controllo telematico da parte dello spettatore di
un corpo alieno nella performance Epizoo (1994); l’espansione dei mo­
vimenti del corpo con dresskeletons nella performance Afasia (1998) e
Pol (2002); la coreografia involontaria con il Bodybot Requiem (1999); le
trasformazioni microbiologiche nell’installazione Rinodigestio (1987) e
Agar (1999). In Transpermia (2003) propone un nuovo teatro tecno-an­
tropologico in cui l’ibridazione non è più solo tra corpo e tecnica ma
anche tra corpo e biologia, generando nuovi riti tecno-tribali. L’eso­
scheletro o «vestito di ferro» permette al performer-sciamano, grazie a
speciali sensori, la modulazione-trasformazione della voce e l’animazio­
ne di immagini che mostrano ironiche ipotesi di interfacce per identità
sempre mutanti. Questo ampliamento della struttura biologica e la rela­
tiva apertura verso nuove sensibilità extratattili e post-human non è altro
che una potente metafora (e una reminiscenza mitologica) di una ideo­
logica liberazione del corpo e un ritorno utopico al luogo di origine, lo
spazio. Antunez Roca in un’intervista a Carlo Infante afferma la ritualità
dell’interattività a teatro: «Operare in mezzo a una complessità come
quella di Afasia significa avere la possibilità di controllare fisicamente
tutto quello che succede durante la performance: tutto significa con­
trollare luce, suono, immagine multimedia con il video DVD, videoca­
mera in tempo reale, effetti del suono, robot e sequencer MIDI. Ciò per­
mette di esprimere con Afasia una nuova forma cerimoniale, come un
rituale che si fonda sull’interattività. Questo impianto risponde all’in­
tento di creare una nuova interfaccia, che fa funzionare l’intero spetta­
colo a partire dal corpo. L’uomo ha creato in molti secoli tante inter­
facce che permettono tante libertà d’azione ma allo stesso tempo dei li­
miti. Per esempio la tastiera del computer è la riproposta della tastiera
del pianoforte, non si può certo dire che sia male, ma questo ti obbliga
a essere sempre seduto, senza nessuna altra attività che quella di agire
con le mani solo sulla tastiera che è appunto un’interfaccia che costrin­
ge il nostro corpo a essere sedentario, in questo senso è evidente il limi­
te di questa soluzione. È proprio nel tentativo di superare questi limiti
che lavoro sulla ricerca di nuove relazioni con le macchine, portandole
in scena con un impianto multimediale come quello di Afasia». Così
Carlo Infante descrive nel dettaglio il principio di macchina-uomo di
Afasia: «Con un complesso esoscheletro innervato di sensori (di tipo di­
353 PER UN TEATRO TECNOLOGICO

verso: elettromagnetici e interruttori dinamici al mercurio) Marcel.lí


esprime una tele-operatività che permette di muovere dei robot musica­
li e d’interagire con una videoproiezione da computer. Sulla scena cam­
peggiano totemiche, delle installazioni d’acciaio (di Roland Olbeter)
che attraverso un complesso sistema di servomeccanismi producono dei
suoni: una sorta di grande chitarra, un tamburo e una serie di fiati. Con
il movimento del suo corpo pilota le interfacce: agisce a distanza su que­
sti strumenti suonandoli con una gesticolazione precisa, da inedito one­
man-show interattivo. Diventa uomo-orchestra: si muove e suona, esten­
dendo l’azione del suo corpo non solo nello spazio ma «nelle» macchi­
ne elettroniche che traducono i suoi gesti in informazioni dinamiche,
bit che muovono le cose. Il suo corpo con quelle protesi elettromecca­
niche muove la macchina, la informa (le soluzioni interattive sono di
Sergi Jordà e Toni Aguilar)».50

58
www.teatron.org
SCENOGRAFIE VIRTUALI
Elisabetta Ajani

1. Orizzonti virtuali

Nel mondo audiovisivo l’ingresso della tecnologia della realtà virtua­


le ha rivoluzionato il sistema produttivo, trasformando le professioni e le
modalità del lavoro. L’unità “scenografia” si fonde con i dipartimenti de­
gli effetti visuali. L’équipe dello scenografo si espande, mutandone la
forma e ampliandone i ruoli: all’art director che coordina il lavoro crea­
tivo vengono affiancati artisti della computer graphic (CG), illustratori,
concept artist e story-board artist. Si veda il caso esemplare del film Il
quinto elemento, nella cui elaborazione creativa tra i vari illustratori è sta­
to coinvolto Moebius: già avvezzo al mondo del cinema per precedenti
esperienze, ha disegnato nuovi spunti visionari e si è attinto al suo im­
maginario per l’invenzione dello skyline urbano con le macchine volan­
ti. Recentemente nella trilogia del Signore degli Anelli l’affiancamento di
concept artist allo scenografo è stato fondamentale: per la gestione dei
350 set, story-board artist e art director hanno lavorato insieme allo sce­
nografo neozelandese Grant Major. È recente e indispensabile l’ingres­
so dello strumento dello story-board, che è andato affermandosi in una
nuova professionalità. La gestione dell’immaginazione del regista nella
traduzione degli ambienti virtuali e degli effetti speciali passa obbligato­
riamente dallo story-board per pianificare la produzione artistica e pro­
duttiva.
La scenografia virtuale è ormai capace di creare in modo sofisticato
qualunque ambiente tridimensionale, si pensi per esempio alla rico­
struzione di siti perduti quali il teatro La Fenice o il Colosseo. Le prime
applicazioni di scenografia virtuale sono state stimolate infatti dalle im­
portanti ricostruzioni monumentali in ambiente CG. Da non trascurare
l’effetto dell’influenza degli ambienti virtuali delle complesse consolle
per videogame: il rapido sviluppo della grafica, ulteriormente accelera­
to dalle esigenze del business, ha dato un ruolo da protagonista alla sce­
nografia. Nei videogiochi l’occhio dello user coincide con i movimenti
di camera che attraversano gli ambienti, suscitando l’impressione im­
mersiva: lo slittamento tra le stanze provoca una sensazione di preesi­
stenza dello spazio.
Il risultato più innovativo nell’applicazione della progettazione digi­
355 SCENOGRAFIE VIRTUALI

tale alla scenografia è il virtual set: scenografia sintetica progettata al


computer mediante la tecnologia della realtà virtuale, che sostituisce il
tradizionale spazio scenico costruito.
«Il virtual set», spiega S. Sylwan, «è una tecnologia che consente di in­
serire riprese reali all’interno di ambienti e scenografie virtuali, realiz­
zate in computer grafica e poste in tempo reale intorno agli attori. Un si­
stema di telecamere a raggi infrarossi permette di registrare il movi­
mento compiuto dalla camera reale e di riportarlo, con la più alta pre­
cisione, all’interno del mondo virtuale».
Il sistema virtuale separa la performance in due entità: gli attori
dialogano e interagiscono in un set vuoto senza contatto con gli ele­
menti della scena, visti solo dalla telecamera; la scenografia digitale
viene progettata in computer grafica 3D. La nuova configurazione sov­
verte la modalità relazionale del linguaggio comunicativo dello spet­
tacolo: agendo separatamente le due entità affermano la loro esisten­
za soltanto al momento dell’invio del segnale nel tubo catodico. È un
ambiente virtuale «abitato» da attori reali che vi si trovano immersi
senza la consapevolezza di ciò che li circonda. Ma il fruitore riceve
l’immagine video di uno scenario reale in cui i personaggi sembrano
agire naturalmente. E quasi a intendere una sorta di filosofia Matrix, il
virtual set è il sistema che ricompone le due entità: coniuga la sceno­
grafia digitale con i personaggi reali, «traducendo in realtà» l’illusio­
ne ottica.
Il virtual studio, allestito all’interno di uno studio di posa,1 è costitui­
to da un sistema di virtual set integrato con tecnologie per la ripresa au­
diovisiva e un set vuoto costituito da pavimento e ciclorama (fondale se­
micircolare che determina le pareti della scena) di colore uniforme blu
oltremare (blue screen) o verde (green screen). Nel virtual studio ven­
gono realizzati prodotti audiovisivi con modalità virtuali. Le immagini
virtuali sono generate con la computer grafica, modelli e animazioni
3D, o con contributi audiovisivi preprodotti (video background). Il blue
screen è un’evoluzione del chroma-key, tecnica televisiva conosciuta già
da molti anni che significa letteralmente «chiave di colore»; il sistema si
basa sulla possibilità di sostituire gli elementi scenici di tono blu o verde
con altri contributi di immagine.

1
L’evoluzione del sistema produttivo virtuale ha creato inevitabilmente la ne­
cessità di strutturare nuovi spazi attrezzati. In Italia, oltre all’adeguamento degli
studi di posa della RAI e di Cinecittà, sono nati due centri specializzati e aggiorna­
ti, il Centro Multimediale di Terni e il Virtual Reality Multimedia Park di Torino a
gestione pubblica con la collaborazione di un partner privato, la società Lumiq,
inaugurato nel 2003. http://www.centromultimediale.it; http://www.lumiq.com/;
http://www.vrmmp.it/.
ELISABETTA AJANI 356
L’evoluzione del chroma-key e gli sviluppi della scenografia virtuale,
hanno determinato con il blue screen la possibilità di rendere indipen­
dente il set dagli attori: il sistema integrato di virtual set permette di cal­
colare le fughe prospettiche e la profondità di campo nelle diverse in-
quadrature con modalità fissa (sistema slow motion) o in movimento (si­
stema Orad).
La tecnologia di virtual set gestisce sistemi 2D e 3D che permettono
movimenti di camera illimitati in real time e non (le motion-capture ty­
pe sensor heads montate sulle telecamere consentono carrellate e incli­
nazioni a 360°).

2. Real time nella scena teatrale: nuovi territori virtuali

Per real time si intende la modalità di realizzazione di un prodotto in


diretta senza la necessità di post-produzione o finalizzazione. Il sistema
di set virtuale 2D gestisce modelli di scenografia virtuale di minore com­
plessità e video background: la modalità 3D gestisce ambienti tridimen­
sionali sintetici e animazioni complesse in modo assolutamente realisti­
co.
Gli apparati del virtual set 2D e 3D sono principalmente costituiti da:
blue screen, chroma-key ultimate 9, workstation grafiche e relativo
software di gestione per il calcolo e il rendering del set, workstation gra­
fiche per l’interfaccia utente e il preview, sistemi di modellazione e ani­
mazione 3D e painting 2D per la scenografia virtuale, character anima­
tion, librerie per l’importazione di set completi e modelli, interfacciati
con le tecnologie per produzione e regia digitali. L’impiego dei sistemi
3D real time impone una tecnologia capace di gestire in tempo reale vi­
sioni scenografiche elaborate in armonia con oggetti e persone in scena:
attualmente questa capacità professionale è offerta solo da poche piat­
taforme. Per ottenere la ripresa di 25 frame al secondo, richiesta dalle
caratteristiche dell’occhio umano, si è sviluppato un sistema di potenti
computer che renderizzano la grafica 3D in real time ottimizzando i
movimenti di camera. Attualmente uno dei sistemi più avanzati dell’ar­
chitettura hardware del virtual set 3D in real time è costituito da work­
station grafiche Silicon Graphics Onyx 2 Infinite Reality 2, utilizzate in
ambito televisivo, pubblicitario, cinematografico, nella grafica ad alta ri­
soluzione e negli effetti speciali.
Uno degli standard professionali del sistema 3D real time più utiliz­
zato è il Cyberset della Orad, di origine militare israeliana, sviluppato
per le simulazioni e successivamente immesso sul mercato civile. Legge
il tracciato di una griglia colorata del blue screen e utilizza la tecnologia
357 SCENOGRAFIE VIRTUALI

Pattern Recognition e Infrared (Infra Track): il sistema di tracking a led


infrarossi permette una maggiore versatilità delle riprese dello spazio
scenico e di movimento degli attori, poiché indica automaticamente do­
ve essi si trovano all’interno del set virtuale: il loro rapporto con lo spa­
zio scenico passa attraverso dei monitor presenti in studio.
Se da un lato la frammentazione della modalità virtuale ha determi­
nato un disorientamento per gli attori, per contro questa tecnica ha da­
to il via a nuove possibilità scenografiche. Superando la separazione del­
le due entità artistiche provocata dal sistema virtual set, il teatro ha sfrut­
tato questo limite per ricongiungere nel set live del palcoscenico la re­
lazione tra performer e pubblico. La contaminazione tra i linguaggi vi­
suali ha favorito l’ingresso del real time in teatro: il dialogo tra scena di­
gitale e corpo analogico si rinsalda nel tempo artificiale del real time.
Attualmente le sperimentazioni del linguaggio scenografico virtual
reality (VR) in teatro si basano principalmente sull’idea di fondere spa­
zio reale e attore fisico nell’ambiente virtuale. Nel linguaggio scenogra­
fico si traduce in differenti tentativi di immettere lo spettatore nella VR
attraverso l’uso di schermi e proiezioni in una relazione integrata con
drammaturgia, regia e utilizzo della luce. Poiché l’immagine digitale vi­
ve nella percezione dei pixel che si posano su una superficie, la princi­
pale difficoltà della scenografia è di materializzare l’immagine nello spa­
zio tridimensionale dando un senso unitario e un’affermazione artistica
allo spazio virtuale dello spettacolo.

3. Svoboda e Poliéri: precursori della scena virtuale

La soluzione progettuale della sintesi tra spazio scenico e spazio vir­


tuale è attualmente lo stimolo creativo più indagato, non solo per la
concezione della nuova modalità scenografica, ma soprattutto per il si­
gnificato ambivalente e seduttivo che associa l’utilizzo del mezzo tecnico
con il linguaggio della messinscena. Il linguaggio contaminato tra spazio
teatrale e immagine filmica trova interessanti precedenti nelle applica­
zioni dello scenografo Josef Svoboda.
Un preciso riferimento culturale per gli attuali scenografi virtuali nel
dipanarsi del dibattito VR è la capacità artistica di Svoboda di trattare la
materia visuale dall’interno della narrazione, rivelando la funzione in­
terpretativa più che decorativa della scenografia; la modalità interattiva
con cui egli utilizza i mezzi tecnici al servizio del linguaggio dramma­
turgico nella creazione di scenografie fluide di compiuta immersione
percettiva.
Il senso narrativo coincide con il senso della percezione spaziale in
ELISABETTA AJANI 358
una sorta di anticipazione dell’essenza di significato che dovrebbe avere
oggi il real time.
Il set di Svoboda evolve in sequenze di configurazioni che seguono il
ritmo delle emozioni utilizzando mezzi flessibili per la creazione di pro­
spettive multiple. Similmente alle contemporanee tecniche cinemato­
grafiche, unisce in un linguaggio interattivo il set live al set virtuale. Il
teatro all’italiana – set live costituito da pavimento, soffitto, portale,
palcoscenico e platea – determina lo spazio drammatico e ne definisce
i limiti, viene integrato con il set virtuale definibile con punto di vista,
prospettiva, spazio dell’immagine e dell’immaginario. A una struttura­
ta concezione del luogo architettonico teatrale, Svoboda unisce l’im­
magine virtuale che esplora con materiali che esprimono «il dentro
dello spazio»: superfici speculari, proiezioni e televisioni a circuito
chiuso, uso creativo della pellicola e della luce. Troviamo esempi in tut-
ta la sua produzione, ma possiamo citare il fotomontaggio nei Racconti
di Hoffman; le forme stereometriche, la proiezione, il montaggio cine­
tico nell’Odissea. La Lanterna Magika viene inaugurata in occasione
dell’esposizione universale di Bruxelles, 1958. Con essa nasce una spe­
cifica forma di spettacolo teatral-cinematografico, di interazione tra
azione dal vivo e immagine filmica. Svoboda inventa il polyécran, un si­
stema di multischermo articolato nello spazio scenico in forme qua­
drate e trapezoidali. Il pubblico percepisce le immagini globalmente in
una sorta di pre-realtà virtuale con immagini filmiche fisse e mobili in­
viate da sette proiettori cinematografici e otto per diapositive, gestite da
un sistema tecnico di circuito memorizzante che comanda tutte le fun­
zioni dello spettacolo in sincronia con il suono. In seguito al successo di
questo esperimento, Svoboda evolve il sistema per l’esposizione univer­
sale di Montréal, elaborando un complesso audiovisivo che denomina
«multivisione». Figure in fasci di luci rotanti vengono proiettate su cu­
bi, prismi e superfici piatte in un movimento catturato da specchi in­
clinati verso gli spettatori. Un mosaico di 112 quadrati in doppia proie­
zione: la scena a mosaico produce 160 variazioni di immagine e ha la
potenzialità di modulare la profondità di campo visuale avanzando o
arretrando nel palcoscenico. Tale sistema scenografico preso per esem­
pio, evidenzia una soluzione spaziale che dovrebbe sottendere oggi l’ar­
ticolazione del linguaggio scenografico VR: «Lo scopo era di creare im­
magini intere, ma nello stesso tempo disintegrare la superficie di proie­
zione ricomponendola poi in modo diverso e rendendo evidente anche
il rilievo».2 Notiamo che l’allestimento multivisione è stato progettato
dallo scenografo trent’anni prima dell’utilizzo della tecnologia digitale.

2
J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1995, p. 141.
359 SCENOGRAFIE VIRTUALI

Il complesso multivisione di Svoboda basato sul sistema tecnico della


giostra è oggi gestito dal sistema Jumbo per computer, ma il contenuto
scenografico resta l’idea innovativa delle elaborazioni spaziali di Svo­
boda. Non solo fondale, quindi, e non solo proiezione su schermo che
rievoca troppo un passato di scenografie dipinte (annosa questione di­
battuta da generazioni di scenografi e superata da Craig e Appia). In­
fatti attualmente, il limite di alcune applicazioni della scenografia vir­
tuale in teatro ha riproposto la problematica antica del fondale dipinto
bidimensionale sostituito dallo schermo che rimanda proiezioni virtua­
li. Ciò non è sufficiente per ottenere un ambiente scenografico VR.
L’inserimento dell’immagine virtuale nel palcoscenico deve prevedere
una progettazione di strutture sceniche concepite tridimensionalmen­
te per ricevere l’immagine e superare la proiezione bidimensionale, in
una nuova concezione scenografica VR che fonde spazio reale (set live),
pixel (proiezione), attore fisico per la creazione dell’ambiente virtuale
(set virtuale). La Picon-Vallin mette in relazione Svoboda con un altro
grande scenografo e creatore di dispositivi di visione: Poliéri. Esplorato­
re di nuove dimensioni spazio-temporali ibride, Poliéri utilizza il digi­
tale dall’inizio degli anni Ottanta, e immaginerà per l’arte dello spetta­
colo delle nuove e grandiose modalità di realizzazione, come il via sa­
tellite, la messa in rete, Internet. Egli mette in movimento lo spazio
dello spettacolo e l’area d’azione attraverso proiezioni fisse o mobili. Le
proiezioni, il cinema, l’immagine a 360° aprono la strada a una nuova
estetica della mutevolezza e della complessità, che distrugge la fronta­
lità della scena, ne fa esplodere la compattezza, la fa uscire dal suo con­
tenitore e la moltiplica nella sala. Spingendosi ancora più in là, Poliéri
dà un impulso di movimento all’intero spazio teatrale, non in senso
metaforico, ma in senso concreto. La scena (1968, Grenoble), come la
sala (1970, esposizione universale di Osaka) diventeranno mobili. De­
clina diverse modalità di messa in movimento dell’edificio stesso in nu­
merose affermazioni e in alcune realizzazioni: «scena anulare» che cir­
conda gli spettatori a 360°, «sala giroscopica», «scena tripla», «sala au­
tomatica mobile», «scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabi­
li», scena elettronica (destinata alla «città nuova» di Les Ulis nella cin­
tura parigina) le cui superfici nella loro totalità sono alla stesso tempo
degli schermi e delle superfici neutre, e permettono sia la proiezione di
immagini che la realizzazione di riprese in studio. In un manifesto del
1955, Poliéri «prediceva» ciò che si verifica oggi quando gli attori, at­
trezzati di appositi sensori, iniziano a essere capaci di generare da soli
la propria regia luminosa o musicale. Egli proclamava già allora ciò che
continua a dire oggi a proposito del teatro elaborato nel Web: «Le stes­
se forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, po­
ELISABETTA AJANI 360
tranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani
del teatro e in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immagi­
nare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglas con due bu­
sti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circonda­
to da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con
tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di
ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli co­
nici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e
straordinario caleidoscopio teatrale. I binari della ferrovia dello spetta­
colo si avvicineranno, si incroceranno e poi, dopo essere stati per un
po’ paralleli, si allontaneranno l’uno dall’altro in un fuoco d’artificio
eternamente rinnovato e in una festa perpetua. Per il momento, tran­
quillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco e un cervello. Ma tutto è
possibile».3

4. Scene virtuali per il teatro e per la danza

I tentativi di articolare il linguaggio della narrazione per immagini in


teatro presentano esempi che partono dai vari generi dello spettacolo. Il
mondo della danza, per sua vocazione spazio-evolutiva si è rivelato par­
ticolarmente innovativo nell’esplorazione dei nuovi territori virtuali. Più
di vent’anni fa Merce Cunningham immagina una tecnologia informa­
tica capace di visualizzare una coreografia al computer. In quel periodo
la tecnologia per creare il movimento di figure in 3D non esisteva anco­
ra, tuttavia la visione del coreografo prefigurava un software coreografi­
co realizzato in seguito e influenzato dalle sue anticipazioni. Nel 1989
Cunningham crea una nuova coreografia con il programma Life Forms
(E. Quinz, A. Menicacci, 2001) che permette di progettare idee di mo­
vimento nello spazio e nel tempo con un’interfaccia grafica interattiva.
Cunningham ha creato più di venti coreografie con Life Forms e la sua
capacità di visualizzare e materializzare lo spazio ha stimolato le frontie­
re cognitive dell’immaginazione nel mondo della danza e dell’informa­
tica.
Egli stesso si è spinto nelle coreografie di Ghostcatching! e Biped (en­
trambi del 1999) a inserire in scena proiezioni delle figure elaborate

3
Intervento di B. Picon-Vallin, Le avanguardie teatrali e le tecnologie del loro tempo al
convegno Il teatro nell’era del digitale (Parigi, 24 ottobre 2004, a cura dell’associazione
Anomos), on-line su www.ateatro.it., n. 64. La traduzione è di E. Magris. Su Poliéri
cfr. anche F. Bauchard, Il teatro delle interfacce, ovvero La tecnica come questione d’arte in E.
Quinz, Digital performance, Anomos, Paris 2000.
361 SCENOGRAFIE VIRTUALI

per il progetto coreografico, in motion capture: lo spazio così ottenuto


crea una relazione integrata fra il corpo fisico del danzatore e le figure
stilizzate generate al computer. Le figure rappresentate con segni gra­
fici in movimento, rallentano o accelerano la dinamica dell’azione ed
evidenziano in un flusso pittorico i dettagli della danza. Lo spettatore
viene immesso in una visione spaziale a diversi livelli: la proiezione su
quinte, fondali e cieli della quadratura del palcoscenico, permette la
percezione multipla, scorporata in diversi obiettivi focali. Contempora­
neamente si può godere della scena globale, ma anche percepire ogni
singolo movimento della danza nelle diverse profondità di campo del
palcoscenico. Il movimento delle figurine grafiche del corpo umano
progettate per la coreografia diventano il tracciato scenografico dentro
il quale il corpo fisico agisce la sua danza e si relaziona con la sua stes­
sa dinamica codificata di gesti pittorici in successione cromatica. Una
danza spaziale senza percezione di confine, a sensazione atmosferica, è
infatti vicino alla percezione di un territorio dell’universo: uno stra­
niante tessuto astrologico, sorta di cosmo puntinato di figure tracciate
che dialogano con il corpo umano in un ambiente in cui non si perce­
piscono i confini.
Su questo nuovo territorio virtuale preconizzato da Svoboda e inau­
gurato da Cunningham, si incrociano differenti esplorazioni emblema­
tiche: dalle sperimentazioni condotte dallo scenografo Mark Reaney, al-
le configurazioni spaziali create da Paolo Atzori, Studio Azzurro e la Fu­
ra dels Baus.
A partire dal 1987, all’Università del Kansas, lo scenografo Mark Rea­
ney, inizia a utilizzare la CG come strumento per l’allestimento sceno­
grafico. Dalla progettazione di bozzetti e progetti esecutivi realizzati
con gli standard digitali per l’elaborazione architettonica e la grafica
3D, giunge alla programmazione di ambienti virtuali per la fase illu­
strativa con il regista: importa in un sistema VR, il disegno dal software
architettonico (CAD) e utilizzando una visiera a cristalli liquidi e un
guanto di manipolazione VR (data glove), immette il regista e gli attori
nella scenografia virtuale permettendogli di navigare al suo interno e
valutare l’efficacia del progetto in corso. Reaney, realizza il suo labora­
torio sperimentale di progettazione scenica utilizzando un PC Power
Macintosh con interfacce immersive e un ingranditore di monitor a
grandangolo, elaborando i modelli scenografici con Walk Through
Pro: questo software della Virtus Corporation crea modelli architetto­
nici all’interno dei quali lo user può muoversi ed è particolarmente
adatto agli scenografi. Non avendo a disposizione un software specifico,
la progettazione scenografica digitale è costretta a utilizzare diversi pro­
grammi che variano tra applicativi architettonici, grafici, fotografici,
ELISABETTA AJANI 362
3D e VR. Un progetto viene quindi realizzato con l’uso di programmi di­
versi che rispondono ai tre elementi che sottende il progetto scenogra­
fico: artistico per il disegno creativo dell’idea, esecutivo per la realizza­
zione e costruzione della scena, dimostrativo per l’esposizione del pro­
getto. Ciò implica la necessità di dover importare il progetto da un pro­
gramma all’altro per le diverse applicazioni, poiché usa formati grafici
standard permettendo l’importazione di progetti da altri programmi.4
Nel 1993 Mark Reaney accorcia la distanza tra bozzetto e scena co­
struita riproducendo in scala reale i modelli 3D nel boccascena. L’e­
sperimento si basa sul principio delle tradizionali restituzioni di sce­
notecnica, scenosintesi e scenoplastica per il controllo dell’efficacia
progettuale nell’inserimento del palcoscenico. Lo scenografo tenta di
simulare la percezione scenografica proiettando il modello digitale
sul fondo del palco all’interno della cornice del boccascena. Il siste­
ma, che però si rivela troppo complesso, permette a Reaney di evolve­
re «lo strumento del progetto virtuale» in una nuova concezione del­
lo spazio scenico, immaginando la realizzazione della «scenografia vir­
tuale tridimensionale» direttamente sul palcoscenico. Nel 1995 Rea­
ney, con il regista Ronald A. Willis, mette in scena The Adding Machine:
A Virtual Reality Project of Elmer Rice: The Adding Machine di Elmer Rice,
è un testo scritto nel 1923 e influenzato dall’espressionismo tedesco
che denuncia l’alienazione dell’uomo nel XX secolo (cfr. A. Pizzo,
2003 e scheda).
Altri allestimenti sperimentali seguono a questo primo tentativo di
Reaney: Play (S. Beckett), Wings (A. Kopit), Telsa Eletric (D.G. Fraser),
Machinal (S. Treadwell): con diversi tentativi di sperimentare le moda­
lità espressive degli ambienti digitali, la ricerca si è principalmente sta­
bilizzata verso la qualità della risoluzione grafica, ripercorrendo le in­
tenzioni del primo allestimento. Nell’ottica di questo dibattito si inne­
sta il lavoro dell’architetto-videomaker Paolo Atzori, particolarmente ri­
goroso nell’articolazione di scenografie elettroniche e nella concezione
di uno spazio scenico integrato nel processo creativo della messinscena:
«Il problema della rappresentazione, dovendo includere l’ideazione di
un’interfaccia, diviene quindi una sorta di attrattore concettuale per
un complesso lavoro di équipe, in cui le diverse individualità, compe­
tenze e interessi vengono fra loro olisticamente integrati in un unico
progetto. La concezione e sviluppo di una scenografia digitale come
l’infrastruttura di nuove forme di rappresentazione che includano am­

4
M. Reaney, Virtual Reality on stage, in «VR World», maggio-giugno 1995, vol. III, n.
3; e The Theatre of Virtual Reality: Designing Scenery in an Imaginary World, in «Theatre
Design and Technology», vol. XXIX, n. 2, 1992.
363 SCENOGRAFIE VIRTUALI

bienti interattivi, uno spazio aumentato, un ambiente pervasivo... il tea­


tro ridiviene il luogo della sintesi dinamica delle trasformazioni con­
temporanee».5
D.A.V.E. (Digital Amplified Video Engine) è uno spettacolo di danza
ideato dai due artisti austriaci Klaus Obermaier (creatore delle musiche
e delle immagini video) e Chris Haring (danzatore e coreografo) sul te-
ma dell’ibridazione, clonazione, manipolazione del corpo umano in
un’epoca di riproducibilità biotecnologica. Si tratta di citazioni e di un’i­
ronica presa in giro di tutte le modalità con cui la letteratura e il cinema
(da quella classica a quella di science fiction cyberpunk, al genere splat­
ter) ma anche la storia dell’arte hanno raccontato le mutazioni e relative
ossessioni di decostruzione (che diventa in questo caso «malleabilità» e
«intercambiabilità») dell’identità: dalla Metamorfosi di Kafka al Neuro­
mante di Gibson, da Videodrome di Cronenberg a The Mask). In effetti
proprio queste stratificazioni di immagini video, proiettate direttamente
sul corpo come un innesto (con una precisione perfetta di movimenti
da parte del performer), che apportano membra, occhi e bocche e lo
deformano all’estremo senza però intaccarlo, rendono virtualmente
(che in questo caso equivale a un «magicamente») il corpo figura mito­
logica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, ma anche
metà uomo e metà macchina, metà uomo e metà «cosa». La nuova carne
proposta nello spettacolo è parente stretta del cyborg di Donna Ha­
raway, dei post umani di Sterling nella Matrice spezzata, ma soprattutto di
quella carne macellata con cui Deleuze definiva le figure umane di Ba­
con. Come i quadri di Bacon, infatti, creati a partire dalle «fotografie in
movimento» di Muybridge, che danno l’impressione di aderire a un
principio «cinematografico» della visione, implosi nel loro urlo fossiliz­
zato nella tela che incrudelisce la carne, così lo spettacolo restituisce un
corpo che negando le regole di equilibrio, di armonia, di baricentro, è
letteralmente scorticato, stritolato, meccanizzato e ossimoricamente in
movimento e in stasi, in rotazione e nella sua fissa frontalità. Per un mo­
mento lo spettatore è spiazzato: non trova più davanti ai suoi occhi il
corpo e pensa che sia stato ingoiato dall’immagine, divorato e poi vomi­
tato in forma allucinata. Lo spiazzamento prodotto nello spettatore è
quello di non sapere più distinguere cosa è immagine e cosa è corpo, e
si concretizza nel dubbio se quello che sta vedendo sia un ologramma o
un essere umano in carne e ossa. Mutazione come seconda natura, co­
me una sorta di «felice» alienazione e sussunzione dell’uomo nella sfera
bio-tecnologica, passaggio indolore a una nuova realtà, a una nuova «ar­

5
P. Atzori Activation space, in A. Menicacci, E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media
per la danza, Marsilio, Venezia 2001, p. 346.
ELISABETTA AJANI 364
tificialità naturale»: «Il video fa parte del corpo», ricordano nella nota di
sala gli autori, «o meglio, il danzatore fa parte del video» (cfr. A.M. Mon­
teverdi www.ateatro.it).
Nel 2000 Paolo Atzori elabora In Between, una produzione di Twelve
Season, progetto di ricerca condiviso con quattro danzatori e l’ingegne­
re-compositore Todor Todoroff. La produzione si propone di integrare
immagine, suono e movimento in un linguaggio condiviso da tutti gli in­
terpreti, ispirato ai quattro elementi acqua-aria-terra-fuoco. Similmente
a Svoboda e Cunningham, si ricerca nello spazio scenico la coesistenza
di livelli multipli di percezione: «La rappresentazione si svolge in uno
spazio reattivo, “un’architettura di comunicazione”, caratterizzata da dif­
ferenti dimensioni dello spazio e del tempo».6
La scenografia si costituisce in una «dimensione altra», dotata di in­
frastrutture proprie, adatte al nuovo linguaggio della rappresentazione,
che mutano gli elementi delle precedenti strutture scenotecniche. L’o­
rizzonte percettivo sfonda la prospettiva ordinaria oltre il boccascena,
per affermare la simultaneità di differenti percezioni, tra reale e imma­
ginario.
Full Play: A Media Dance Project, ideato da Paolo Atzori con Anthony
Moore e Robert O’Kane (2000-2002), ha come coreografo e performer
Bud Blumenthal. Otto schermi di grandi dimensioni delimitano lo spa­
zio degli spettatori. Una pedana centrale rialzata è l’ambiente digitale
dove agisce il danzatore che è anche operatore delle immagini e del suo­
no. Il corpo in movimento, infatti, rilevato da sensori collocati a terra e
da un sistema di motion capture e motion tracking, controlla sia il suo­
no (potendo effettuare variazioni su quattro accordi di tre note ciascu­
no) sia le immagini digitali (preregistrate: il performer stabilisce con la
sua danza, sequenza e velocità). L’interazione uomo-macchina diventa
qualcosa di armonico e fluido, invisibile e impercettibile. La danza cir­
colare porta all’interiorità e alla memoria: una casa, un giardino, detta­
gli di oggetti. La narrazione è fatta di immagini e di suoni già preesi­
stenti nell’hardware (ovvero, nella coscienza) a cui basta un gesto per
farli «venire alla luce». Se con il corpo, attraverso le direzioni, le diago­
nali, la velocità del movimento, ma anche attraverso il calore, il perfor­
mer può generare armonie e fermi immagine, sequenze e accelerazioni,
le immagini restituiscono il tempo della memoria, il passato, il rewind,
insomma; lo stesso zoom, controllato anch’esso dal danzatore, sembra
rispondere a un principio di affettività. In fondo la storia, la memoria o
come noi ricostruiamo una storia a memoria è una questione di selezio­
ne, di montaggio di sequenze a cui i nostri desideri qui e ora danno un

6
Ibidem, p. 187.
365 SCENOGRAFIE VIRTUALI

ordine (e un senso) sempre diversi. Lo spettacolo è stato ispirato al libro


di Paul Virilio Macchine della visione.
Questo stesso intento si percepisce nel «venire alla vita» delle proie­
zioni interattive di Studio Azzurro. In The Cenci (1997) una larga area a
forma di croce irrompe nell’orizzonte visuale del pubblico: il palcosce­
nico si attiva di immagini video con valenza narrativa parallela alle pa­
role degli attori e alla musica. La visione scenografica simulata coincide
con la struttura della croce, in modo tale che l’immagine stessa diventa
palcoscenico, superando il supporto dello schermo, ma nello stesso tem­
po trascendendo la tridimensionalità. In Giacomo mio, salviamoci! (1998),
il «conferenziere» Umberto Orsini recita il suo omaggio a Leopardi se­
duto di fronte a un immenso tavolo che occupa tutta la platea: questo ta­
volo riflette come uno specchio dell’anima il mondo interiore di Leo­
pardi, su di esso gli spettatori dai palchi possono vedere ambienti e azio­
ni virtuali che interagiscono con la narrazione dal vivo. Un gregge di pe­
core che percorre il tavolo, la mano reale dell’attore che versa l’acqua di
una brocca in un tavolo apparecchiato da immagini proiettate. Concen­
trando la scenografia nell’immagine, Studio Azzurro piega poeticamen­
te il principio stesso di virtualità al desiderio di toccare l’immaterialità
dell’immagine.
La coincidenza tra immagine reale e virtuale vede invece nell’ultimo
spettacolo della Fura dels Baus, XXX, un diverso esempio di applicazione:
prendendo a prestito i testi di De Sade, lo spettacolo riflette sulla porno­
grafia e sul mondo virtualizzato della sessualità, provocando il pubblico a
recuperare il contatto con la realtà carnale della vita e della morte. In
un’ambientazione da rito esoterico-iniziatico, La Fura crea una partico­
lare coincidenza e dissolvenza tra immagine proiettata e azione reale, so­
vrapponendo la proiezione tra schermi e fondali di tulle. Sul fondo del
palcoscenico sono posizionati megaschermi che inviano immagini vio­
lente degli scontri in Medio Oriente; davanti, a centro palco, l’azione tea­
trale degli attori in scena viene mandata su schermi di tulle posti in pro­
scenio, in dissolvenza con le proiezioni di inaspettate intrusioni del mon-
do reale: l’eleganza delle pubblicità patinate o lo squallido mondo degli
show televisivi. La sovrapposizione delle immagini crea una visione mul­
tipla simultanea, stratificata sui diversi livelli della profondità di campo,
in un montaggio alternato tra cinema e teatro.
Robert Wilson e Philip Glass realizzano nel 1998 a Los Angeles Mon­
ster of Grace 1.0, opera multimediale che unisce le suggestioni mistiche
del poeta Sufi Jalaluddin Rumi, vissuto in Turchia nel XIII secolo canta­
te in diretta da una solista e un film in animazione 3D diretto da Diana
Walczak e Jeff Kleiser. Il titolo deriva da una incidentale storpiatura del­
la frase «Ministers of Grace» dall’Amleto. Il film interamente digitale e
ELISABETTA AJANI 366
proiettato su schermo allargato doveva avere (nel progetto) quali attori
unicamente oggetti e personaggi creati artificialmente a partire dai di­
segni di Wilson, attraverso un sistema ideato dalla coppia Walczak-Klei­
ser e renderizzati su Workstation Silicon Graphics utilizzando i software
grafici di Alias/Wawefront: Maya, Alias, Tav, Explore, Dynamation, Ki­
nematione, Composer. Le immagini finali sono state registrate sulla pel­
licola 70mm utilizzando la tecnologia laser exposure. Lo spettacolo, 73
minuti suddivisi in 13 scene suonate e cantate in diretta, necessitava per
la visione di occhialetti polarizzati. La sezione filmica esplorava tre tipi
di scenari ideati da Wilson (che comunque non sarà soddisfatto del ri­
sultato finale): paesaggi, nature morte e ritratti. Immagini come una
mano gigante mentre viene tagliata da un bisturi, un ragazzo che peda­
la in un limpido paesaggio e un oceano che arriva all’orizzonte. Kleiser
e Walczak hanno creato dei synthespians: «Teste di persone reali sono sta­
te «cyberscansionate», ha detto Walczak. «Un laser esplora la testa della
persona per catturarne forma e trama. Questa immagine è ricoperta da
una testa digitale successivamente piazzata sopra un intero corpo digita­
le. Nelle prime versioni dello spettacolo, attori dal vivo dipingevano un
prototipo di uomo, donna e bambino ma nella versione definitiva questi
personaggi appaiono sullo schermo come partecipanti silenziosi in un
mondo cyber». In un lungo articolo (Monster of Immersion, in www.cyber­
stage.org) Packer e Jordan raccontano nel dettaglio le disavventure e le
contraddizioni di questo progetto di teatro digitale della più innovativa
forma di «opera totale».

5. Cinema: al di là dello schermo

La realtà virtuale non è una semplice simulazione, è tutto un altro


mondo, una nuova dimensione elettronica; «è l’utopia, dottore, l’utopia
che gli uomini hanno sognato per migliaia di anni».7 Ambigua e con­
troversa, discussa nella sua essenza di linguaggio in un dibattito sempre
aperto, tra azione del pensiero e probabilità del reale, la VR immaginata
da cinema e tv nei primi anni Novanta, ha un’aura da fantascienza. Sen­
timenti ambivalenti si alternano tra il serial di Star Trek: The Next Genera­
tion e l’incubo del Tagliaerbe, e nelle anticipazioni della nuova prospetti­
va che supera gli spazi percettivi del reale. Si offre un nuovo punto di vi­
sta al pubblico: la visione multipla immersiva.
In questo contesto l’opera di Greenaway svolge una funzione artico­
lata e anticipatoria in cui si fonde l’utilizzo artistico della tecnologia con

7
Dal film Il tagliaerbe di Bret Leonard, 1992.
367 SCENOGRAFIE VIRTUALI

un concetto di opera totale multimediale. Si tratta di un’estetica della vi­


sione con percezione immersiva. Dalla metà degli anni Ottanta, in cui il
regista inglese esplora l’immagine con una ricerca fotografica d’avan­
guardia, evolve nella consapevolezza e nell’utilizzo di tutte le possibili
tecnologie finalizzate a una nuova tipologia narrativa.
Greenaway utilizza la tecnologia come strumento pittorico: come un
artista di assunto rinascimentale dipinge con l’ausilio di regole prospet­
tiche, il pittore del terzo millennio evolve per mutazione naturale in ci­
neasta e l’impulso tecnologico ne determina l’estetica. La scena si fa im­
magine pittorica, tela filmica del cineasta.
Nell’Ultima tempesta (1991) la disinvoltura con cui Greenaway tratta
la materia tecnologica trasforma il linguaggio stilistico: l’architettura
scenica si snoda in un’articolazione numerata di contenitori che per­
corrono labirinti piranesiani. Come in un gioco alla Escher gli sceno­
grafi Ben Van Os e Jan Roelfs seguono la regia configurando l’articola­
zione di un set che si risolve dentro un altro. I poteri generati da libri
«magici» visualizzano ricordi e visioni di Prospero in superfici spec­
chianti.
Per ottenere le animazioni tridimensionali dei libri Greenaway si è
servito di immagini digitali ad alta definizione (formato 16/9) mixan­
dole nella composizione visiva del tradizionale formato cinematografico
(il 35mm): per ricavare l’effetto plastico di animazione delle figure, la
tecnologia interviene direttamente nel processo creativo e il regista in­
troduce gli effetti grafici e cromatici col Paintbox (il Paintbox della
Quantel, utilizzato nella realizzazione di videoclip o spot pubblicitari. È
uno strumento che impiega una «paletta» elettronica per animare, so­
vrapporre, mischiare e scomporre le figure in 17 milioni di colori diffe­
renti).
Il film offre diversi livelli di lettura scenografica: lo spazio-architettu­
ra (la biblioteca è una riproduzione della Biblioteca Laurenziana di Fi­
renze, opera di Michelangelo); lo spazio-immagine (lo schermo nello
schermo, gli inserti, la decolorazione, il trattamento cromatico di parti
dell’immagine, l’uso visionario della scrittura come corpo godibile); fi-
no alla restituzione scenografica dello spazio-quadro (lo studio di Pro­
spero riproduce il dipinto di Antonello da Messina, San Girolamo nello
studio e la tempesta si configura sul modello della tela di Théodore Gé­
ricault, La zattera della Medusa).
Greenaway tratta la pittura filmica realizzando la multivisione con
giochi di immagine dentro l’immagine. Nei Racconti del cuscino di Gree­
naway (1996), tre storie si intrecciano sovrapponendo tre immagini che
giocano tra loro in una visione multipla. Lo schermo si rimodella: le ri­
prese sono girate in diversi formati cinematografici uniti nel montaggio
ELISABETTA AJANI 368
come un unico film. Come nell’Ultima tempesta, il regista utilizza il
Paintbox per il trattamento dei tredici libri. Nell’intreccio narrativo, le
scene emergono in riquadri l’una all’interno dell’altra con le tradizio­
nali tinte pastello dell’acquerello giapponese e la proiezione di una
prospettiva ridotta. Greenaway introduce il superamento dell’inqua­
dratura del boccascena, nella deformazione del formato rettangolare.
È la ricerca di un’immagine che attui lo sfondamento della cornice ci­
nematografica nella visione immersiva di un grande schermo Omni­
max. Una percezione a 360°, con il pubblico circondato dal film: «L’e­
sperienza nel mondo è tutta attorno a noi; non è soltanto davanti, in un
rettangolo».8
Nelle intenzioni, la prossima produzione di The Talls Looper suitcase
persegue l’idea di un film realizzato su cd-rom in visione Omnimax, do­
ve lo spettatore-viaggiatore sia libero di costruire il suo percorso narrati­
vo partendo da qualsiasi punto, aprendo nuove finestre, navigando li­
beramente come afferma Greenaway, in «un’apertura verso l’orizzonta­
lità dell’immagine».
Un’opera d’arte globale, dove la percezione del pubblico e lo spazio
scenico sono contenuti intrinsecamente nella visione dell’autore. Il film
è «...come la mappa di un quartiere di Londra vista dall’alto di un aereo,
composta di tante stradine uguali, di tante casettine tutte uguali; noi riu­
sciamo a vedere dall’alto tutto il film come un unico istante sincronico
nel quale abbiamo la mappa di tutto ciò che ci interessa...».9 Greenaway
afferma, inoltre: «Nei miei film si deve poter passeggiare come dentro
un edificio progettato da Renzo Piano; io passeggio, io scelgo i punti di
vista, però sono sempre all’interno di una visione di un autore, e in que­
sto caso di un grande autore».10
L’artista attiva una nuova relazione di dialogo tra analogico e digita­
le: l’uso creativo del pixel determina la possibilità di inserire immagini
digitali all’interno del tradizionale spazio scenico costruito e offrire
possibilità creative virtualmente illimitate all’immagine scenografica.
Ma soprattutto, il sistema virtuale può fornire un nuovo strumento
creativo alla regia: abbattendo la forza di gravità si aprono nuovi oriz­
zonti prospettici della narrazione filmica, permettendo molteplici e
inediti movimenti di camera. Attori che recitano sospesi nel vuoto o
che agiscono su paesaggi irreali, carrellate prospettiche che sfiorano il
limite dell’infinito scenico o fisicamente non realizzabili da un movi­

8
In http://digilander.libero.it/greenaway/index.htm
9
In G. Bogani, Peter Greenaway e il cinema digitale, intervista in Biblioteca digitale,
Mediamente, 1996.
10
Ibidem.
369 SCENOGRAFIE VIRTUALI

mento di camera tradizionale. Espandendo queste potenzialità, l’auto­


re diffonde immagini come fossero generate direttamente dalla mente
e non più vincolate ai limiti di gravità: «È tutto nella tua mente», dice
Morpheus a Neo all’inizio del film Matrix, per descrivere la concezione
della realtà, che si oppone al sistema di controllo del mondo di Matrix.
La filosofia che sottende il film dei fratelli Wachowsky sembra riman­
dare alla condizione ambivalente dello statuto tecnologico: illusione
manipolatoria della realtà o invenzione creativa di nuove dimensioni
immaginarie. Il sistema virtuale diventa un medium che permette di vi­
sualizzare l’universo immaginato dalla mente, ma quando la macchina
assurge al ruolo di protagonista, la vicenda artistica esprime un falli­
mento. È il caso di Final Fantasy, primo lungometraggio interamente
virtuale, prodotto nel 2001.
Tutto il film è stato creato con il linguaggio binario: la scenografia,
gli elementi della realtà fisica, le persone, le loro ombre, gli effetti at­
mosferici, le luci, perfino i sentimenti e le emozioni dei personaggi. Gli
shotting di Final Fantasy sono stati effettuati con il sistema del virtual
set. Le riprese degli attori veri nel blu screen, formano i tracking ani­
mati generati dalle telecamere: questi vengono successivamente rico­
perti da texture provenienti da potenti calcolatori e ri-renderizzati ne­
gli spazi virtuali elaborati al computer. Per questo film sono stati utiliz­
zati potenti strumenti informatici (4 server SGI, 4 sistemi di visualizza­
zione Silicon Graphics, 167 workstation, per 4 anni di lavoro di 200 ar­
tisti specializzati nella tecnologia CGI – Computer Graphic Interface – e
30 programmatori), ma pur rappresentando una tappa storica nell’e­
voluzione della CG, Final Fantasy esprime il fallimento dell’utilizzo dei
mezzi digitali che si impongono come protagonisti e non come stru­
menti di valorizzazione narrativa: la sceneggiatura è irrisolta e la regia si
limita a riprodurre il linguaggio dei videogiochi. In Matrix invece lo sti­
le del linguaggio virtuale era intrinseco alla filosofia del film: «La men­
te umana è l’elemento in grado di incrinare la perfezione meccanica di
Matrix. «Mente» nel film sembra rimandare all’idea di immaginazione,
intuizione creativa, pensare al di fuori degli schemi prestabiliti».11 La
scenografia di Owen Paterson, strettamente connessa con gli effetti vi­
suali, configura un ambiente che risponde alle metafore del cyberthril­
ler. Il tempo e lo spazio sono le matrici stilistiche di una scenografia che
suggerisce una realtà artificiale slegata da qualsiasi legge fisico-terrena.
Per visualizzare le 480 scene di effetti speciali visuali, John Gaeta ha in­
ventato con la Manex una nuova tecnica di ripresa che unisce le moda­

11
In G. De Marco, Matrix Sistem Failure, Editrice Cinetecnica, Faenza 2003, p. 105.
ELISABETTA AJANI 370
lità scenografiche del virtual set con gli effetti visuali della CG: il bullet
time photography (tempo dei proiettili), che permette di rallentare l’a­
zione fino a percepire il percorso di un proiettile. Partendo dalle linee
stilistiche del film, il bullet time viola il principio base spazio-tempora­
le della cinepresa: la parte temporale della ripresa viene separata da
quella spaziale. Il contenitore scenografico è un virtual set in green
screen progettato a 360°, al cui interno sono posizionate 122 fotoca­
mere 35mm caricate a pellicola cinematografica. L’illusione è ottimiz­
zata con l’integrazione di videocamere digitali dotate di un’opzione
big ralenty che cattura dodicimila fotogrammi al secondo. L’azione ral­
lenta il tempo di svolgimento, poiché viene scomposta in singoli fram­
menti a cui è assegnata una velocità differente: l’interpolazione digita­
le unisce i fotogrammi. Ciò permette di allungare o stirare i movimen­
ti per ottenere l’effetto di compressione temporale. Lo sviluppo di que­
sta nuova tecnica flow motion, consente di riprodurre sequenze simili a
quelle che nei videogiochi sono elaborate in real time: il movimento di
camera muta in rapporto alle azioni dei personaggi. La scena appare
come se fosse ripresa da un punto di vista che compie un movimento a
360° intorno all’attore, improbabile da realizzare con uno shotting tra­
dizionale. La scelta stilistica è alla base dell’invenzione tecnologica: bul­
let time e flow motion nascono per suggerire la modalità di visione che
propone il film: la narrazione è immersa in una realtà artificiale che ha
soltanto l’apparenza della dimensione spazio-temporale in cui viviamo.
IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO
Saverio Barsali

Negli ultimi trentacinque anni si è assistito alla diffusione della mu­


sica cosiddetta «pop» (da popular) e alla nascita di spettacoli con mi­
gliaia di spettatori che seguono questo nuovo fenomeno. In un breve
arco di tempo (a partire da Elvis Presley e i Beatles) la musica raggiun­
ge masse inaspettate e ci si trova costretti a organizzare spettacoli adat­
ti a questa nuova situazione. In un primo momento lo spettacolo orga­
nizzato in spazi aperti e con gran numero di spettatori è un semplice
trasferimento di quello realizzato in piccoli teatri e cinema-auditorium.
Vista l’ampiezza dello spazio con cui ci si viene a confrontare e il nu­
mero di spettatori, l’organizzazione dello spettacolo diventa man mano
sempre più complessa e arriva nell’ultimo decennio a realizzazioni co­
lossali.
Dalla minuscola pedana sopra cui vengono fatti suonare i Beatles nel­
la loro tournée americana (1965), negli ultimi anni si arriva alle dimen­
sioni mastodontiche degli stadi: in alcuni spettacoli di Pink Floyd, Rol­
ling Stones e U2 la scenografia, progettata dall’architetto inglese Mark
Fisher,1 arriva a un fronte palco di quasi 90 m e ad altezze sempre supe­
riori ai 25 m, ricca di luci, fuochi d’artificio, schermi video alti più di 20
metri fatti di «led» luminosi oppure con retroproiezioni.
La grandezza dei palchi diventa tale da reggere il confronto con i gi­
ganteschi catini degli stadi, e la componente visiva, gli effetti speciali e
l’illuminazione così potenti da attirare l’attenzione di 50-100.000 spetta­
tori. Sebbene le dimensioni siano adeguate allo spazio, la lettura di que­
sto rimane però spesso ugualmente carente, ricreando una spazialità ti­
pica dell’arco scenico, con la conseguente separazione tra spettatore e

1
Laureatosi all’Architectural Association di Londra con Peter Cook, uno degli ar­
chitetti del gruppo Archigram, esponenti mondiali dell’architettura «Radicals», Fi­
sher ha iniziato le sue esperienze scenografiche con la progettazione di strutture
pneumatiche, vero elemento innovativo dell’architettura dei primi anni Settanta.
Nel 1980 collabora con i Pink Floyd per il tour di The Wall. Da quel momento diven­
ta scenografo di riferimento per i maggiori gruppi musicali, tra cui Rolling Stones,
U2, Peter Gabriel, Phil Collins, Elton John, R.E.M., J.M. Jarre. Riviste di architettura
come «AD» si sono più volte interessate ai suoi lavori, e recentemente le sue sceno­
grafie sono state oggetto di una specifica pubblicazione fra le monografie di archi­
tettura della Wiley-Academy (si veda bibliografia).
SAVERIO BARSALI 372
attore, in ambienti in cui questa separazione non dovrebbe esistere. In
alcuni casi (come i due tour degli U2 ZooTv e PopMart) si può parlare di
tecnologia integrata all’azione umana e allo spettacolo, mentre in altri
casi si assiste invece a una standardizzazione di «cliché» tecnologici me­
ramente abbinati a un’esecuzione musicale, dettati da esigenze tecnolo­
giche ed economiche di standardizzazione.
Lo stesso Mark Fisher paragona2 il suo lavoro di show-designer a una
sorta di restyling automobilistico, a un modificare elementi già consoli­
dati in nuove varie «forme» dai diversi impatti visivi; cioè così come le
macchine hanno sempre (generalmente) quattro ruote, un motore, un
volante, un abitacolo, e questi sono profondamente cambiati come de­
sign nel corso degli anni, allo stesso modo i palchi devono avere dei
punti fissi (sistema amplificazione, luci, mixer, schermi) e il compito
dello scenografo sta nel crearne un aspetto sempre differente, spesso
mantenendo inalterato anche lo «scheletro» della struttura metallica
che li sostiene.
Forse Gropius, Schlemmer e altri artisti del Bauhaus non condivide­
rebbero questa definizione, ma appare comprensibile, data la grande
specializzazione al giorno d’oggi in questo settore, la difficoltà di mo­
dificare queste caratteristiche fisse. Appare però perlomeno compito
dello scenografo (in questo caso con competenze più architettoniche)
provare a modellare la distribuzione o la realizzazione di queste, modi­
ficare, se non le caratteristiche tecniche, almeno l’idea di spettacolo, la
distribuzione topologica dei vari elementi. Basta osservare le brillanti
idee del Bauhaus per rendersene conto, e vedere come con artifici
estremamente poveri si possano proporre forme di spettacolo davvero
innovative.
La tecnologia e i meccanismi economici attorno al settore dello
«show design» si sono sviluppati nel corso degli ultimi venti anni, giun­
gendo a definire numerose soluzioni standard,3 con ditte altamente spe­
cializzate che si occupano della relativa logistica; tutto questo è nato pa­
rallelamente all’evolversi «formale» e «tipologico» dei palcoscenici, che
sono progressivamente passati da tipologie chiuse («scatolari») a tipolo­
gie aperte, senza copertura e «arco scenico».
Prima di entrare nel dettaglio dei singoli progetti, e nel merito di
questioni scenografiche ed estetiche, è opportuno riassumere quegli
aspetti tecnologici che sono comuni a tutte le scenografie che andremo
ad analizzare. È inoltre necessario evidenziare come la tecnologia negli

2
Cfr. l’articolo di C. Santucci, Show Design, nel sito «Arch’it» www.architettura.it/files,
archivio 2001.
3
Si pensi a ditte come Brilliant Stages o Stageco.
373 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

ultimi venti anni sia profondamente mutata, dal punto di vista delle
strutture, delle luci, delle immagini video.
Un elemento fondamentale che ha condizionato questo tipo di spet­
tacoli è il loro aspetto itinerante, spesso limitato all’esecuzione di un so­
lo spettacolo per ogni nazione, con rarissimi casi di repliche in una stes­
sa città; da ciò consegue che il montaggio, lo smontaggio e il trasporto
sono il fattore principale della progettazione della scenografia. La quan­
tità di mezzi e addetti utilizzati nella scenografia varia da tipologia a ti­
pologia, ma i mezzi coinvolti sono sempre numerosi, basti ricordare che
nel tour Steel Wheels (1989) dei Rolling Stones per il montaggio della sce­
nografia furono utilizzati 10 camion e 70 addetti.
Le modalità di montaggio sono cambiate passando dal montaggio
per singoli elementi (telai della ditta Layher e prima ancora veri e pro­
pri tubi Innocenti comunemente utilizzati nelle impalcature) fatto da
più operai in contemporanea, a macrostrutture sollevate da gru, che
permettono l’utilizzo di un minor numero di operai.
Il sistema tecnologico dei ponteggi Layher, certamente il più diffuso
su scala mondiale, nasce come sviluppo delle strutture tubolari comu­
nemente usate come impalcature. Il suo uso, rimasto comunque insu­
perabile per la realizzazione delle pedane, diventa laborioso quando si
realizzino con esso le strutture verticali di sostegno alla copertura o alle
casse dell’impianto acustico.
Lentamente sul mercato sono comparsi elementi reticolari (in allu­
minio o in acciaio a seconda delle funzioni e dei casi) di maggiori di­
mensioni, da trasportarsi per intero e da assemblarsi tra di loro per for-
mare delle macrostrutture. L’esempio più interessante di montaggio di
questo tipo di strutture è l’arco del PopMart Tour degli U2 (1997), al cui
interno si trova un vero e proprio telaio in strutture reticolari, montato
sollevando con una gru la trave di sommità, facendo scorrere a terra la
base dei montanti e chiudendo le cerniere predisposte nel meccanismo.
In pochi minuti si monta una struttura alta più di 25 m, pronta da esse­
re rivestita con appositi pannelli, e altrettanto rapidamente si possono
montare i pilastri che sostengono il maxischermo sul fondo, realizzati
anch’essi con elementi modulari di notevole dimensione.
Per quanto riguarda l’impianto acustico la tecnologia si è standardiz­
zata sul sistema di assemblaggio a «cluster» delle casse acustiche, e il sol­
levamento di questi mediante motori. Nel corso degli anni si è lenta­
mente passati dalla sospensione a strutture intelaiate a quelle definite
«macro-strutture», che hanno il vantaggio di avere poco ingombro (in
termini di visibilità) e di essere montate facilmente, in maniera del tut­
to indipendente dal resto della struttura.
Le luci impiegate in questo settore variano notevolmente come tipo­
SAVERIO BARSALI 374
logia, e i modelli presenti sul mercato sono continuamente perfeziona­
ti.4 Tra i vari utilizzati, oltre alle classiche luci «can», e alle Blinders si
hanno le luci a «testa mobile», diffuse negli anni Novanta, capaci di
muoversi ruotando su diversi piani e di creare giochi di luce sincroniz­
zati comandati da un computer. A differenza di queste, le luci cosiddet­
te «scanner» rimangono immobili, si muove solo uno specchio di fronte
alla sorgente luminosa per direzionarne i fasci.
Un altro elemento usato per creare giochi di luce sono i laser, di cui
con appositi specchi si «moltiplica» il raggio e si creano fasci o superfici
curve sospese nello spazio, sfruttando la presenza del fumo come mi­
gliore elemento di proiezione. Spesso questi, combinati in modo op­
portuno a luci che creino colori «d’ambiente» (wash light) o «coni» lu­
minosi definiti (spot light), diventano un suggestivo effetto luminoso,
creato da una singola sorgente.
Un ulteriore effetto comunemente utilizzato è la proiezione di im­
magini su grandi superfici. Oltre ai classici maxischermi, che possono
essere a led luminosi oppure funzionanti con retroproiezione, spesso si
utilizza la proiezione frontale (non più dal retro); grazie a nuovi mac­
chinari questa può raggiungere notevoli dimensioni. Normalmente la
proiezione di grandi immagini avviene con proiettori a bobina scorre­
vole (alcuni modelli combinano anche più bobine), che creano effetti
di movimento (per esempio una parte fissa e una che compie una tra­
slazione).
A differenza degli ordinari maxischermi, che ripropongono l’imma­
gine dal vivo ripresa da una telecamera, i sistemi di proiezione a bobina
proiettano principalmente immagini fotografiche ed elementi grafici
combinati tra di loro mediante il funzionamento delle bobine.
Queste proiezioni raggiungono dimensioni tali da poter coprire un
palazzo. Un esempio di grandi proiezioni si può ritrovare nello spetta­
colo di The Wall 1990 messo in scena a Berlino, dove si proiettava su un
fronte di 80 m, grazie a proiettori sincronizzati.
Il primo esempio di palco a «tipologia aperta» (non scatolare) è quel­
lo di Steel Wheels dei Rolling Stones del 1989. In questo progetto, ispira­
to alle atmosfere di Blade Runner, oltre alla scala mastodontica (90 m di
larghezza e 25 di altezza), è da evidenziare l’utilizzo di due maxischermi
con retroproiezioni, passerelle per superare i 25 m di dislivello, e i gi­
ganteschi pupazzi alti 20 m (evoluzione delle strutture pneumatiche Ra­
dicals) che compaiono durante alcune canzoni.

4
Per una trattazione sulle varie tipologie si rimanda alla tesi di laurea di C. San­
tucci, Il palcoscenico rock. Genesi, tecnologie e metodi di allestimento del teatro itinerante, Uni­
versità degli Studi di Firenze, Facoltà di architettura, relatore arch. Sala, 1998.
375 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

La mancanza di scatola scenica viene risolta con l’inserimento di ele­


menti aggettanti dalla retrostante scenografia, formalmente questa neces­
sità viene risolta proponendo una sembianza «meccanica» alla scenografia
(questi oggetti sono dei giganteschi tubi simili a prese d’aria di una nave),
dando al palco le sembianze di un vero e proprio meccanismo.
Se osserviamo il palco di Zoo TV (1993) o PopMart (1997) degli U2, ci
rendiamo conto che si tratta della stessa impostazione spaziale, con alcu­
ne piccole varianti: il palco frontale collegato da una penisola a una pic-
cola pedana al centro dello stadio. Anche in questo caso, buona parte del­
lo stadio rimane inutilizzabile. Da apprezzare nel primo tour l’abbina­
mento del disco degli U2 a una visione critica della televisione e del
«bombardamento» mediatico, materializzato nella scenografia con deci­
ne di monitor e maxischermi (retropoiezioni) su cui passano scritte va­
gamente ispirate a McLuhan e alle opere di Jenny Holzer: Watch more Tv.
L’ironico riferimento ai massmedia si ha anche nella sceneggiatura. Il
cantante, durante lo spettacolo, interagisce in differenti maniere con i
video alle sue spalle. In alcuni casi si pone davanti ai monitor più picco­
li e la sua sagoma viene contemporaneamente proiettata sui monitor
maggiori con una conseguente moltiplicazione e un ingrandimento del­
la sua azione; durante un altro momento dello spettacolo, il cantante
con un telecomando cambia canale sui vari monitor (mentre questi tra­
smettono dei programmi televisivi realmente in onda), e alla fine arriva
a duettare con un altro artista il cui volto e la cui voce (registrati) sono
ritrasmessi dai video.
Per il disco degli U2 intitolato Pop si crea il PopMart Tour, in cui su un
palco ricco di reminiscenze postmoderne, e riferimenti a espedienti ti­
pici dell’architettura di Venturi (con gli insegnamenti espressi in Lear­
ning from Las Vegas), si realizza uno schermo, fatto di led luminosi (non
una retroproiezione) alto 16 m e largo 50. Davanti al maxischermo è po­
sto un arco alto 25 m, elemento caratterizzante della scenografia, a cui è
appeso il «cluster» di casse acustiche. All’interno di questo arco si trova
una struttura metallica il cui sistema di montaggio si è precedentemen­
te descritto. Da evidenziare che il cluster di casse è unico, avendo defi­
nitivamente rinunciato a una riproduzione stereofonica della musica.
Sullo schermo passano immagini d’opere d’arte pop mescolate a riela­
borazioni elettroniche delle riprese dei musicisti che suonano; da evi­
denziare l’interessante abbinamento di queste elaborazioni: una sorta di
puntinato divisionista, ottenuto con mezzi elettronici, l’utilizzo dello
schermo a led luminosi, con gigantesche lampadine che hanno la fun­
zione di pixel, insieme alla proiezione di opere pittoriche di Lichten­
stein, con il risultato di una efficace continuità figurativa tra le riprese li­
ve e le immagini registrate.
SAVERIO BARSALI 376
Tutto lo spettacolo è incentrato sul concetto di commercializzazione
dell’arte, e impostato sul parallelismo tra arte, architettura e consumi­
smo. Il gigantesco arco ricorda volutamente la M di McDonald’s, e come
oggetti emblematici, oltre ai carrelli della spesa sono utilizzati un enor­
me limone e un pilastro fatto a forma di stuzzicadenti con una oliva. Du­
rante lo spettacolo i musicisti escono dal frutto luccicante (mediante
giochi di luce sulla superficie riflettente del frutto, come una sfera da di­
scoteca) che si muove sul palco.
A conferma delle evidenti influenze di Venturi, è da segnalare la scel­
ta simbolica di far partire questo tour mondiale proprio da Las Vegas,
dove il concetto di architettura ha assunto una sua particolarità unica al
mondo, decisamente abbinata al concetto di consumo. E non a caso un
articolo scritto dallo stesso Fisher per la rivista «AD» si intitola Architec­
ture as a Consumer Event.
Nonostante tutti questi espedienti, del costo di vari miliardi, il palco
rimane comunque un palco frontale (sebbene dotato di una piccola pe­
nisola in cui vengono eseguiti alcuni brani) con un fondale scenico pia­
no, realizzato da uno schermo video; unico elemento di novità è la di­
mensione e la potenza visiva di questo schermo a led luminosi.
Schema spazialmente identico si troverà anche nel baroccheggiante
Bridge to Babylon, tour dei Rolling Stones del 1997. In questo caso il pal­
co ha anche un vero e proprio sipario, nonostante gli sforzi delle avan­
guardie per andare verso altre direzioni. Al posto della penisola abbia­
mo un ponte «telescopico» in fibra di carbonio che arriva alla piccola
pedana centrale. Da evidenziare che questo curioso meccanismo si
estende ad arco per 50 m fino a raggiungere un piccolo palco nel centro
dello stadio. Questo sistema, che riprende il funzionamento delle scale
degli automezzi dei vigili del fuoco, per la lunghezza dell’aggetto e la
sua posizione orizzontale è stato costruito in fibra di carbonio per esse­
re più leggero in quanto con il peso di acciaio e alluminio la struttura
non avrebbe resistito alle sollecitazioni e sarebbe collassata. Questo mec­
canismo, del costo di costruzione di circa 2 miliardi, serve solo per far fa­
re ai musicisti un’improvvisa passeggiata sulla testa degli spettatori fino
alla minuscola pedana nel centro dello stadio, ma nulla cambia all’im­
postazione frontale del palco.
Gli unici esempi trovati nell’ambito di questa ricerca (nonostante il
centinaio di progetti con impostazione frontale consultati) che cercano
una lettura dello spazio stadio alternativa al palco frontale, sono en­
trambi del cantante italiano Claudio Baglioni. Dopo aver proposto nel
tour Assieme una pedana quadrata posta nel mezzo dello stadio, per il
mini tour di Da Me a Te (1998) Baglioni fa realizzare una grande croce
posta a centrocampo, con quattro «braccia» che arrivano fino all’estre­
377 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

mità del terreno di gioco. L’azione è basata principalmente sulla mobi­


lità umana, su personaggi, ballerini, acrobati che agiscono su tutta la pe­
dana. Le foto dall’alto mostrano come in termini di lettura dello spazio
si sia cercato di unire tutte le parti dello stadio, riuscendo a creare uno
spettacolo fatto per essere visto da ogni direzione.
Nel tour Tutto in un abbraccio (2003) questa soluzione è stata ulterior­
mente sviluppata, coinvolgendo centinaia di comparse. L’impostazione
«radiocentrica» dello spettacolo, sebbene ottimale, ha suscitato critiche
per la scarsa luminosità e per il basso impatto visivo, non potendo collo­
care luci sopra il palco o schermi dietro di esso.
Passando dagli stadi ai palazzetti dello sport, l’impostazione «on the
round» dello spettacolo risulta invece spesso la preferita, potendo sfrut­
tare la copertura esistente per applicarvi luci e, a volte, sospendervi teli
per proiezioni, in modo da ottenere la stessa «forza» visiva dello spetta­
colo. Molti artisti ricorrono a questa tipologia. Il precursore in ambito
pop è stato Peter Gabriel, per cui Robert Lepage ha realizzato la sceno­
grafia del Secret World Tour del 1993. Questo esempio, favorito anche dal­
la scala «umana» dello spettacolo rispetto al modello degli stadi, ha bril­
lantemente mescolato la performance (si veda la cabina telefonica, l’al­
bero), con le luci, e con la videoproiezione. Importante sottolineare co­
me questa non sia usata come un mero «ingrandimento» dello spetta­
colo (uno schermo gigante che fa vedere le stesse cose che vedrebbe
una persona più vicina), ma come mezzo autonomo, che interpreta
creativamente lo spettacolo nel suo farsi (si pensi alla telecamera che ri­
prende e trasmette l’occhio di Gabriel mentre canta). La stessa abbon­
danza di riferimenti alle performance e all’azione acrobatica/spettaco­
lare o meccanica/spettacolare riscontrabili nelle avanguardie si ha nel
recente Growing Up Tour (2003), in cui Lepage collabora nuovamente
con Gabriel. In esso compaiono interessanti mezzi che «amplificano» e
rendono «spettacolari» i gesti del musicista; si veda la sfera trasparente
in cui è inserito, le strutture pneumatiche che compaiono dall’alto del­
la scena, il fatto di sospendere il cantante a testa in giù. Questa spazialità
era stata ampiamente sviluppata dallo stesso Lepage nel suo spettacolo
Zulù Time, in cui oltre a un’azione verticale e radiocentrica della scena,
ritroviamo l’utilizzo di proiezioni e di «macchine spettacolari».
Come si può notare le avanguardie novecentesche continuano anche
oggi a essere fonte d’ispirazione e insegnamento. Le avanguardie rap­
presentano un patrimonio culturale e progettuale rimasto per anni na­
scosto o sottovalutato, dove attingere per trovare soluzioni di forte im­
patto e novità che investano tutto il campo dello spettacolo. Queste pos­
sono essere suddivise in tre ambiti:
1) la concezione dello spettacolo come evento, basato sull’aspetto visivo
SAVERIO BARSALI 378
e sulla compresenza di vari mezzi espressivi, ormai libero da conven­
zioni e dettami di testi letterari;
2) il vasto campionario di mezzi e artifici proposti per creare nuove for­
me di spettacolo, dove al posto di attori troviamo meccanismi in mo­
vimento, luci, proiezioni di immagini, danzatori e acrobati;
3) la «rivoluzione copernicana» dello spazio teatrale, non più imposta­
to sulla frontalità del teatro ottocentesco, ma sulla dislocazione in
ambienti più estesi, gigantesche arene, in cui lo spettatore circonda lo
spettacolo e vi si mescola, è attore e spettatore di sé stesso.

Queste innovazioni assumono particolare importanza negli spettaco­


li per il grande pubblico: i primi due ambiti, come abbiamo visto negli
allestimenti dei palchi esaminati in precedenza, fanno ormai parte del
patrimonio figurativo ed espressivo dei concerti di musica pop; il terzo
ambito, spesso trascurato nei grandi tour musicali, sarà invece applicato
in altri spettacoli, come le cerimonie olimpiche o altri eventi spettacola­
ri di cui analizzeremo in seguito un esempio.
Dal futurismo, che getta le basi di una nuova concezione di spettaco­
lo, basato su azione e movimento, sul suono delle parole piuttosto che
su una narrazione drammatica, attraverso il «cabaret» dadaista, fino al
Bauhaus, che teorizza la nuova forma di teatro (un’arena con palco cen­
trale mobile), si trova un vasto campionario di esperienze, molto utile
anche ai giorni nostri; lo stesso Totaltheater per esempio si pone come
magnifica materializzazione della sintesi di questi tre campi di innova­
zione.
Molti artisti si sono mossi in sintonia con l’invito marinettiano «Ucci­
diamo il chiaro di luna!», e si sono diretti verso una sintesi della luce con
gli altri elementi della scena, di cui è un esempio calzante La danza del­
le ombre di Depero.5 Questa richiama per molti aspetti alcune successive
pantomime del Bauhaus, in cui si mescolano l’azione umana e i giochi
d’ombra, oppure gli spettacoli, sempre del Bauhaus, di «Giochi di luce».
Anche Prampolini in Scenografia e coreografia futurista6 afferma che è ne­
cessario «portare la scena alla espressione più avanzata, ma attribuirle
qui valori vitali suoi propri che finora le mancavano, che nessuno prima
di oggi aveva potuto darle. Invertiamo le parti della scena illuminata,
creiamo la scena illuminante: espressione luminosa che irradierà con
tutta la sua potenza emotiva i colori richiesti dall’azione teatrale [...]
consiste nell’impiego di colori elettrochimici, usando i sali fluorescenti

5
R.L. Goldberg, Performance Art: from Futurism to the Present, p. 22, Thames & Hud­
son, reprinted London 1996.
6
L. Lapini, Il teatro futurista italiano, Mursia, Milano 1977, p. 112.
379 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

che hanno la proprietà chimica di essere suscettibili alla corrente elet­


trica e di emanare colorazioni luminose di qualsiasi tonalità [...] Nell’e­
poca totalmente realizzabile dal futurismo vedremo le dinamiche archi­
tetture luminose della scena emanare incandescenze cromatiche che
[...] desteranno inevitabilmente nello spettatore nuove sensazioni, nuo­
vi valori emotivi. Guizzi e forme luminose [...] si divincoleranno contor­
cendosi dinamicamente; veri attori-gas di un teatro incognito dovranno
sostituire gli attori viventi...».
Fuochi d’artificio di Balla è un vero e proprio lavoro di light-designer.
Questo spettacolo, basato sulla musica di Stravinskij, è una delle poche
opere futuriste ad aver avuto la fortuna di essere realizzata e di cui ci è
pervenuta documentazione di varia forma: dalle prime idee, i quadri dai
quali è nata, allo spettacolo, e di cui è stato possibile ricostruire anche
un modellino.
Mark Fisher nel descrivere una sua realizzazione7 la paragona a un
edificio che si trasforma secondo la luce nell’arco della giornata, pas­
sando dalle varie illuminazioni solari alla luce notturna. Ancora più lun­
gimirante, Balla aveva già concepito una scena che, a seconda dell’illu­
minazione, cambia, assumendo diversi aspetti (35 progetti eseguiti e 49
piazzati di luce), trasposizione materiale, in legno e tela, delle idee speri­
mentate con la fotodinamica.
Tra gli artisti del Bauhaus, particolarmente interessante è lo studio di
Moholy-Nagy sul ruolo della luce, analizzata sotto l’aspetto «spaziale-ar­
chitettonico» in Teatro circo e varietà. Dopo aver approfonditamente stu­
diato le potenzialità della luce in sé, passando da studi «statici/planime­
trici» a studi «dinamici/spaziali» (secondo un percorso di ricerca che af­
fronta la fotografia astratta, attraverso meccanismi come il «Modellatore
di Luce» in cui questa investe lo spazio circostante) egli arriva a ipotiz­
zare l’utilizzo di «proiezioni con riflettori sul film in piano, nonché gio­
chi di luce nello spazio». Questa chiara visione delle potenzialità della
luce come elemento in sé, sebbene all’epoca potesse suonare alquanto
utopistica e meramente teorica, è quanto viene quotidianamente fatto ai
nostri giorni dai light-designer, mediante schermi con retroproiezioni e
giochi di luce con faretti a testa mobile.
Moholy-Nagy afferma: «...Il colore (la luce) dovrà, sotto questo aspetto,
registrare variazioni ancora maggiori del suono [...] un palcoscenico co­
lorato, senza compromettere gli effetti di contrasto tra il corpo umano e
una qualsiasi azione meccanica. A ciò si accompagna la possibilità di
usare proiezioni con riflettori sul film in piano, nonché giochi di luce
nello spazio, la possibilità cioè, dell’azione scenica della luce intesa come

7
M. Fisher, It’s only rock ‘n’ roll, «AD. New Architecture», vol. 60, 1990, pp. 46-61.
SAVERIO BARSALI 380
contrasto spinto all’estremo, e dunque equivalenza, fornita dalla tecnica
moderna, di questo mezzo (luce) accanto a tutti gli altri. La luce sarà pu­
re impiegabile per l’abbagliamento repentino, per l’illuminazione so­
vrapposta, per la fosforescenza, per tuffare interamente nel chiarore
l’intero spazio occupato dal pubblico, unitamente all’intensificazione
simultanea o allo spegnersi completo di tutte le luci della scena. Tutto
ciò, ovviamente, in modo totalmente differenziato rispetto alle attuali
tradizioni sceniche».8
Sono numerose le analogie tra questi concetti e gli spettacoli per il
grande pubblico realizzati da Mark Fisher. Da evidenziare inoltre analo­
gie anche con alcuni termini di corrente uso nel light-design e questo te­
sto. Alcune luci, denominate «blinders» (accecanti), sono comunemen­
te usate negli spettacoli attuali, con gli intenti espressi da Moholy-Nagy,
e molto spesso si utilizzano illuminazioni del pubblico con una potenza
tale da riscontravi una chiara analogia con «l’azione scenica della luce
spinta al suo estremo».
È anche interessante vedere come il rapporto tra immagine piana
della retroproiezione e valore tridimensionale della luce diffusa nello
spazio si sia manifestato nei vari palcoscenici musicali, tra i quali cito co­
me esempi particolarmente efficaci due tour dei Pink Floyd Division bell
(1994) e Momentary Lapse of Reason (1989), o Voodoo Lunge (1994) e Brid­
ge to Babylon (1997), tour dei Rolling Stones, in cui all’immagine bidi­
mensionale dello schermo si contrappongono i disegni spaziali fatti con
laser e spot. Lo schermo circolare con retroproiezione posto alle spalle
dei musicisti era divenuto fra l’altro un simbolo dei Pink Floyd, e sempre
più si è prestata attenzione alla proiezione di filmati durante gli spetta­
coli. Sperimentato da Fisher per il tour di Animals (1977), è stato ripro­
posto dietro al muro costruito sulla scena per The Wall (1980) proiet­
tandovi i personaggi del «cartone animato» dell’omonimo film.
Con l’evoluzione tecnologica, le luci applicate lungo la circonferenza
hanno assunto un ruolo sempre più crescente, da semplici luci fisse del
peso di pochi chilogrammi (denominate «can light» per la loro struttu­
ra in alluminio) si è passati all’inizio degli anni Novanta a sistemi di lu-
ce a testa mobile e sincronizzabili. Le luci quindi hanno iniziato a muo­
versi nello spazio, a creare intrecci luminosi sullo schermo e nell’aria,
aiutate spesso dall’abbinamento a effetti fumogeni per evidenziare l’ef­
fetto «solido» del fascio di luce. Anche le immagini proiettate hanno
avuto una loro evoluzione, da filmati o cartoni animati si è passati alla
grafica computerizzata. Si veda come esempio il filmato degli orologi
8
L. Moholy-Naghy, Teatro circo e varietà, in O. Schlemmer, Il teatro del Bauhaus, Ei­
naudi, Torino 1975, p. 50.
381 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

del celebre brano Time (1973) che da cartone animato diventa un ren­
dering computerizzato con i conseguenti vantaggi di modellazione tri­
dimensionale. Nel tour di Division Bell il palco con copertura a guscio e
lo schermo circolare centrale assomiglia a un gigantesco occhio con pu-
pilla; in questo tour lo schermo circolare viene fatto muovere durante
l’esecuzione di un brano e viene sospeso in orizzontale sopra i musicisti,
facendo convergere le luci perimetrali sul musicista sottostante e diven­
tando un vero e proprio «meccanismo spettacolare» con funzioni ag­
giuntive a quelle della proiezione.
Nel tour di Bridge to Babylon dei Rolling Stones, Fisher, oltre a ripro­
porre le luci a testa mobile sul perimetro dello schermo circolare e i
conseguenti giochi di luce, compie una significativa svolta: sostituisce il
telo funzionante con retroproiezione a un vero e proprio monitor. Co-
me già evidenziato, questo comporta un maggiore impatto visivo delle
immagini e la possibilità di riprendere e ritrasmettere in tempo reale i
musicisti. In questo tour l’impatto visivo delle luci, sul palco, sul pubbli­
co, raggiunge forse il suo massimo (inteso in termini tecnico-quantitati­
vi di «lumen» e «illuminamento»), e da una visione delle foto di questi
spettacoli non si può non riscontrare come in esso si realizzi, almeno in
parte, un esempio dei desiderata di Moholy-Nagy.
Un artista come Schlemmer, da sempre interessato alla figura umana,
arriva a discutere sull’astrazione della luce, dei colori, segno questo del-
l’ormai comune maturazione delle varie esperienze sviluppatesi fino ad
allora all’interno del Bauhaus. Egli spiega la diffusa idea di rifiutare
qualsiasi imitazione naturale, arrivando infine ai giochi di luce, in que­
sto modo: «Non avendo interesse a far credere la presenza di foreste,
montagne, laghi, o stanze, abbiamo costruito semplici piani di legno e
tela bianca che possono essere mossi avanti e indietro su una serie di bi­
nari paralleli e che possono essere usati come schermi per proiezioni di
luce. Attraverso la retroproiezione possiamo anche farli diventare tende
traslucide o superfici murarie, ottenendo un’illusione di grande ordine,
creata direttamente da mezzi facilmente disponibili. Noi non vogliamo
imitare la luce del sole e della luna, mattina, pomeriggio, sera, notte con
la nostra illuminazione. Piuttosto noi vogliamo lasciare la luce funzio­
nare da luce: giallo, blu, rosso, verde, viola e così via [...] Perché do­
vremmo mettere orpelli su questi semplici fenomeni con certe conven­
zioni prestabilite come: rosso sta per pazzia, viola per il mistico, arancio
per la sera e così via? Lasciateci aprire i nostri occhi ed esporre le nostre
menti alla pura potenza del colore e della luce. Se potremo fare ciò, noi
rimarremo sorpresi per come, in maniera magnifica, le leggi del colore
e le sue mutazioni possono essere dimostrate dall’uso della luce colora-
ta, nel laboratorio chimico-fisico che è il palcoscenico teatrale. Con
SAVERIO BARSALI 382
niente di più di semplici illuminazioni da palco, noi possiamo comin­
ciare ad apprezzare le varie possibilità per l’uso ricco di immaginazione
dei giochi di colore».9
Analogo interesse ai meccanismi e alle proiezioni si trova nel Teatro
Totale progettato da Gropius, che lo descrive come uno spazio dotato di
un «sistema di proiezioni e di macchine cinematografiche, attraverso il
quale le pareti e la copertura possono trasformarsi in scene figurative in
movimento, tutto l’edificio risulterebbe impegnato da mezzi tridimen­
sionali, al posto degli effetti figurativi piatti del teatro tradizionale».10
Questa unitarietà di intenti, sebbene provenienti da ricerche e ambi­
ti profondamente diversi, è pienamente riscontrabile nel quadro deli­
neato dal Teatro del Bauhaus (1925) e dall’esposizione di Magdeburgo
(1927).
Un passaggio di scala dello spettacolo rispetto al Teatro Totale del
Bauhaus, che si avvicina agli spettacoli per il grande pubblico dei giorni
nostri (siano essi stadi o eventi come quello del Millenium Dome), viene
teorizzato nel 1933 anche da Marinetti.
In uno scritto che non a caso si intitola Il Teatro Totale per le masse11 egli
parla di un «grande teatro rotondo, con diametro di 200 m. Una ribalta
alta 2 m e largha 10 che corre circolarmente a distanza di 5 metri dalle
pareti interne che un poco curve offrono numerosissimi e movimentati
schermi alle proiezioni cinematografiche e di aeropittura».
A differenza dei concerti negli stadi, dove permane l’impostazione
frontale della scena, in spettacoli, come le cerimonie olimpiche o la fe­
sta-spettacolo tenutasi all’interno del Millenium Dome di Londra per il
capodanno 2000, si può ritrovare una interessante applicazione delle ri­
cerche delle avanguardie, arrivando anche a realizzare quanto sperato
da Marinetti e teorizzato nel Teatro del Bauhaus.
Negli spettacoli inaugurali e di chiusura delle cerimonie olimpiche di
Sidney 2000 si ritrova un largo uso di «meccanismi spettacolari», ovvero
«elevati» alla funzione di atto spettacolare. Oltre a meccanismi spetta­
colari mobili che hanno dimensioni tali da interfacciarsi con la scala
umana della recitazione (il drago e altri personaggi meccanici), vi sono
alcuni meccanismi che assumono maggiori dimensioni e si legano alla
spazialità dello stadio: sono il palco-torre e la fiaccola del fuoco olimpi­
co. Centinaia di comparse entrano nello stadio danzando e creando gi­

9
O. Schlemmer, Teather, in Schlemmer, The Teather of Bauhaus, Wesleyan University
Press, Middletown, Cunnecticut, 1961, p. 94. Questa edizione contiene alcune parti
in più rispetto a quella italiana (trad. S. Barsali).
10
W. Gropius, I compiti del teatro nel Bauhaus, in Il teatro del Bauhaus, cit., p. 88.
11
L. Lapini, Il teatro futurista italiano, cit., pag 139.
383 IL LIGHT DESIGN E LO SPETTACOLO PER IL GRANDE PUBBLICO

gantesche coreografie, mentre quattro pedane mobili convergono verso


il centrocampo. Da queste quattro pedane assemblate verrà sollevata
una torre costituita da sei strutture ad «H» in acciaio che si dispiegano
ribaltandosi verso il centro; tutto questo con l’aiuto di piattaforme mo­
bili (comunemente usate dagli operai nei cantieri edilizi) che sono sta­
te rese parti integranti della scenografia. Anche l’accensione del fuoco
olimpico nell’arena avviene mediante un meccanismo spettacolare: una
volta acceso dal tedoforo, il «braciere» inizia a scorrere lungo un binario
posto lungo le gradinate fino ad arrivare alla sommità dello stadio,
creando una sorta di cascata luminosa lungo i binari. Nella cerimonia fi­
nale un interessante meccanismo spettacolare è il palcoscenico a rag­
giera i cui «petali» si chiudono trasformandosi in un globo, su cui, una
volta sollevato, saranno fatte delle proiezioni video. Possiamo riscontra­
re in questo (e in un altro esempio dalla cerimonia di apertura) un in­
teressante uso «tridimensionale» della videoproiezione. Essa non avvie­
ne, come spesso accade in scenografie inserite «dietro» un arco scenico,
in maniera frontale, ma si sviluppa a 360° e inoltre si muove tra il pub­
blico. Su questo globo, mediante proiettori sincronizzati posti da più la­
ti, vengono proiettate immagini che sembrano far girare la sfera. Nella
cerimonia di apertura un gigantesco telo tenuto da decine di comparse
viene fatto scendere sopra il pubblico passando dalle gradinate al cam­
po. Durante questo percorso, grazie a un proiettore sospeso al centro
dello stadio, vengono proiettate immagini storiche degli eventi olimpici,
nonché i cinque cerchi. Una trovata che, in maniera inequivocabile, an­
nulla la separazione tra attore e spettatore, tra meccanismo e uomo,
fondendoli in un insieme, in cui uno si «appoggia» all’altro, come teo­
rizzato nel Teatro Totale.
Anche nello spettacolo tenutosi nel Millenium Dome, curato da Mark
Fisher, si ritrovano numerosi meccanismi spettacolari, proiezioni, giochi
di luce. In particolare il copioso utilizzo di costumi e «protesi» per am­
plificare la gestualità umana (si vedano gli studi di Schlemmer), e la sin­
golare «Torre di Babele» telescopica, che ricorda il «sistema cinetico-co­
struttivo» di Moholy-Nagy, oltre ai numerosi personaggi sospesi al soffit­
to che richiamano alla mente gli acrobati nel «Teatro a U in azione» di
Molnar.
LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE
Alessandro Pontremoli

1. Danza e tecnologie della visione

La danza è l’arte del movimento formale del corpo nello spazio e nel
tempo. Proprio per queste sue caratteristiche particolari è stata, storica­
mente, un’interlocutrice privilegiata per le tecnologie della visione: il ci­
nema prima, la televisione poi, i media informatici oggi, si sono messi
quasi naturalmente in relazione con le peculiarità costitutive della dan­
za, che sono il dinamismo, la velocità, il ritmo. L’immagine, infatti, fra i
fattori strutturali della cultura contemporanea, rappresenta nel nostro
tempo uno dei veicoli privilegiati per la comunicazione e in particolare
per quella del corpo danzante.
All’interno dello stesso universo mass-mediatico, parlare di danza in
video – o più precisamente di videodanza – e di danza digitale significa
fare riferimento a ordini di cose differenti, anche dal punto di vista cro­
nologico, partendo dal fenomeno più storico, la videodanza, per giun­
gere a quelli più attuali: l’ambiente coreografico interattivo, la web-dan­
ce, l’interfaccia-mondo della realtà virtuale (E. Quinz, 2001).
Il video di danza, come prodotto chiuso, come testo audiovisivo espe­
ribile e decodificabile attraverso la visione e l’ascolto, consentiti dai nor­
mali e più tradizionali mezzi di riproduzione (videoregistratore, lettore
dvd ecc.), ripropone una fruizione di tipo frontale e passivo, per certi
aspetti e in apparenza della stessa natura dell’arte coreica tradizionale,
in realtà assai distante dalla presa diretta sul mondo. Quando la danza è
parte integrante dell’ambiente di un evento performativo, nel quale in­
teragiscono immagini video, realtà virtuale, suoni sintetizzati, rielabora­
zioni digitali del movimento, in differita o in tempo reale, ci troviamo al-
l’interno di un’esperienza percettiva che mette in gioco più diretta­
mente la corporeità: se non quella del performer, almeno quella di uno
spettatore certamente più attivo, che in tali contesti ambientali diviene a
sua volta protagonista di un’azione ed è parte in causa e motore del
processo artistico e creativo.
Al di là del ritorno del corpo percettivo del fruitore nell’esperienza
dell’environment, è importante sottolineare alcune conseguenze teori­
che di questo percorso storico della danza. Se la videodanza, infatti, ha
proposto e continua a proporre una nuova creatività nell’ambito della
385 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

ricerca coreografica, il computer ha contribuito a una ulteriore smate­


rializzazione della danza e del danzatore. Nel primo caso si coglie anco­
ra la presenza, per quanto differita nel passato, di un corpo sottoposto a
ripresa ed eventualmente a post-produzione deformante, ma pur sem­
pre di una corporeità reale transcodificata nell’informazione audiovisi­
va; nel caso, invece, di una danza frutto unicamente di un processo di­
gitale di simulazione (come nel caso della web-dance,1 per esempio), la
presenza diviene virtuale e il corpo non è più quello di un essere al
mondo esistenzialmente situato, di una realtà biografica e biologica
identificabile e verificabile: nella migliore delle ipotesi, quello che lo
spettatore intercetta è un insieme proteiforme di sistemi e protesi, che
possono ricondurre a un centro intenzionale, portatore di senso, solo
se, «attaccata» a queste protesi, si trova una corporeità vivente (Stelarc,
1994). In una tale situazione in continua mutazione, la danza partecipa
del mutamento in atto, proprio attraverso il contatto, spesso molto crea­
tivo e stimolante, con le nuove tecnologie. Parallelamente alla nascita di
nuovi prodotti della visione o della partecipazione ambientale, esistono
delle ibridazioni di linguaggi.2 Assistiamo a una riorganizzazione del
sensorio dell’uomo e della sua percezione del mondo, che permette la
fruizione di questi stessi nuovi prodotti linguistici in una continua ride­
finizione delle convenzioni comunicative e percettive e dei confini fra
realtà, virtualità ed esperienza.3
Danza e video hanno dunque storicamente instaurato un rapporto
prevedibile e inevitabile: l’arte del corpo in movimento nello spazio e
nel tempo, come tale, fin dalle origini del cinema, è oggetto privilegia­
to dello sguardo della macchina da presa e, a partire dall’invenzione
della televisione, anche dell’obiettivo della telecamera. Sul versante
della produzione coreografica e della sua conservazione, gli artisti han-
no cominciato a capire che gli strumenti più adatti per la persistenza
nel tempo delle loro effimere evoluzioni performative, e per la divul­
gazione delle stesse come oggetto d’arte, erano proprio il cinema, la te­
levisione e il video.

1
R. Lord, I nomi di una rosa... i come e i perché di «Web Dances», in A. Menicacci, E.
Quinz, La scena digitale, Venezia, Marsilio 2001, pp. 237-345.
2
Cfr. A. Ferraro e G. Montagano, La scena immateriale, in La scena immateriale. Lin­
guaggi elettronici e mondi virtuali, a cura di A. Ferraro e G. Montagano, Costa & Nolan,
Genova 1994, pp. 9-34.
3
Cfr. D. De Kerckhove, Remapping sensoriale nella realtà virtuale e nelle altre tecnologie
cibernetiche, in Il corpo tecnologico, a cura di P.L. Capucci, Baskerville, Bologna 1994, pp.
45-60.
ALESSANDRO PONTREMOLI 386
2. Danza e televisione

Cosa accade quando il medium televisivo incontra la danza?


Se la danza è il luogo di concorso di molteplici sistemi di significa­
zione, che realizzano il fine della loro vicenda comunicativa nella «mes-
sa in scena» di fronte a un gruppo di recettori, la specificità dell’evento
spettacolare sta dunque proprio nella sua «messa in scena» (G. Betteti­
ni, 1975). La fruizione dal vivo e la fruizione televisiva sono perciò mol­
to diverse. La situazione performativa è un accadimento ritagliato nel­
lo spazio e nel tempo, crea una nuova unità di spazio e di tempo e im­
plica un atto volontario; la danza alla televisione, invece, non ha alcuna
caratteristica di evento e si contestualizza in un flusso continuo di im­
magini e di informazioni, talvolta anche contemporanee, grazie alle
tecnologie che permettono di vedere più trasmissioni nello stesso mo­
mento. Tale tipo di fruizione è feriale (lo spettatore è nella sua poltro­
na a casa sua), e pone l’atto della visione sul piano di tutte le altre azio­
ni quotidiane. Il pubblico live può intervenire con una risposta impli­
cita o esplicita a quanto vede rappresentato, provocando una modifica­
zione sul palcoscenico, analogamente a quanto accade nella comunica­
zione interpersonale; nel caso della televisione il flusso comunicativo è
inalterabile dallo spettatore dal punto di vista del tempo e della signifi­
cazione.
Tuttavia è possibile costruire un rapporto reciprocamente rispettoso
fra televisione e danza.4 Quando la prima svolge attività informativa e di
diffusione culturale nei confronti della seconda, anche con la messa in
onda di opere di videodanza, la relazione fra i due media diventa profi­
cua, nonostante i codici del teatro e della danza siano difficili ed elitari.
In questo caso la televisione parla di danza, senza rinunciare alle proprie
caratteristiche. In Italia, l’esempio più significativo, da questo punto di
vista, è quello di Maratona d’estate, storico programma ideato e condotto
da Vittoria Ottolenghi, nato nel 1978 e proseguito con numerose edi­
zioni fino agli anni Novanta.5 Altrettanto noto è il caso della televisione
del Regno Unito che ha avuto un ruolo fondamentale nei confronti del­
la danza (britannica e non solo), al servizio della quale svolge ormai da
molti anni un’opera capillare di divulgazione, documentazione, infor­
mazione ed educazione del gusto.

4
Cfr. P. La Rocca e A. Pontremoli, Dal rito al video: la danza in televisione, in Sipario!
due. Sinergie videoteatrali e rifondazione drammaturgica, a cura di A. Cascetta, RAI
VQPT/Nuova ERI, Roma 1991, pp. 199-203.
5
Cfr. V. Ottolenghi, Danza e televisione, in Il balletto nel Novecento, ERI, Torino 1983,
pp. 189-226.
387 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

Se l’incontro fra apparato televisivo e arte della danza rimane entro


gli obiettivi indicati sopra, produce una tipologia che si dispone lungo
l’asse del tempo. Possiamo parlare anzitutto di videomemoria, vale a di­
re della possibilità che il mezzo televisivo ha di documentare e conser­
vare gli eventi importanti della danza, mantenendo in vita, anche per
le generazioni future, le tracce di alcuni particolari momenti creativi.
In secondo luogo, se dal passato passiamo al presente, incontriamo
un tipo di ripresa televisiva gergalmente definita in diretta, che media la
realtà di un particolare evento coreico in tempo reale. Il flusso discorsi­
vo e significante è, in questo caso, originato nel momento stesso della
messa in onda e si costruisce progressivamente attraverso le scelte della
regia televisiva.
Quando la diretta viene integrata con riprese particolari, montate a
completamento del materiale originale, per realizzare correzioni e si­
stemazioni di errori causati dall’imponderabilità della diretta, l’esito è
un prodotto che pensa al futuro, che ipotizza una fruizione differita dei
suoi contenuti e viene quindi strutturandosi, per le scelte post-produtti­
ve, come un’opera alquanto vicina alla videodanza.

3. La videodanza

La parola videodanza, introdotta per la prima volta negli Stati Uniti


negli anni Settanta, definisce oggi un preciso genere di produzione ar­
tistica: un’opera audiovisiva a sé stante, entro la quale vengono pre­
sentati dei materiali coreografici, creati esplicitamente per il mezzo vi­
deo o già esistenti e riadattati per la ripresa. Si tratta di un lavoro sul­
l’immagine a partire dalla danza o, reciprocamente, di un lavoro sulla
coreografia a partire dalle peculiarità del mezzo che lavora sull’imma­
gine.
La videodanza,6 in quanto prodotto originale che mette in scena,7 fra
gli altri elementi, anche la danza, porta la riflessione e l’analisi in un am­
bito di ricerca del tutto particolare, che presuppone strumenti critico­
teorici molto diversi da quelli utilizzabili generalmente solo in ambito
teatrale, e ciò soprattutto, come abbiamo visto, per il fatto che la frui­

6
E. Vaccarino, Video e danza, in La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in
Italia, a cura di A. Balzola e F. Prono, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, p. 235. Il testo
più recente sull’argomento è E. Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza,
computer, robot, Costa & Nolan, Genova 1996.
7
Sul concetto di messa in scena, cfr. G. Bettetini, Produzione del senso cit., pp. 109­
111.
ALESSANDRO PONTREMOLI 388
zione audiovisiva è virtuale e feriale, di contro a quella teatrale, festiva e
dal vivo.8
Il danzatore e il suo movimento, fissati sulla banda magnetica o ma­
sterizzati nelle informazioni digitali di un cd-rom o dvd, sono riproduci­
bili all’infinito. L’immagine virtuale, fruibile su uno schermo, è un’om­
bra che rinvia a una persona viva,9 a una corporeità della quale è il ri­
flesso, la traccia lasciata dal suo passaggio davanti alle videocamere. E
questa traccia, pur nel suo inevitabile quanto ovvio tradimento dell’e­
sperienza live, costituisce una fondamentale alternativa al destino di
morte e di oblio che attraversa ogni performance del corpo in situazio­
ne di rappresentazione. È bene ricordare, tuttavia, che la danza, nella
sua fruizione diretta, ha a che fare con la conoscenza esperienziale: è un
evento teatrale, che anche quando lascia traccia di sé in un testo scritto o
audiovisivo – testualità in ogni caso da essa diversa – non può essere cer­
to detta, in sé, accadimento persistente o arte durevole.
Nell’analizzare e valutare un prodotto di videodanza, non è impor­
tante porsi il problema del medium, vale a dire domandarsi se nella vi­
deodanza la danza sia un messaggio e il video il mezzo; e, ancora, se
cambiando il medium cambi anche il messaggio. Se è vero l’adagio
mcluhaniano che il mezzo è il messaggio, la danza in video non è un
contenuto, ma è parte integrante di una nuova testualità, un elemento
costitutivo di un nuovo linguaggio. È certamente vero, invece, che l’av­
vento di una comunicazione mediale avanzata, nella quale l’audiovisivo
è al centro degli scambi comunicativi (per non parlare oggi dell’inva­
sione della sfera della percezione corporea personale da parte delle tec­
nologie), ha influenzato enormemente la modalità di concepire anche
la performance coreica dal vivo. I parametri della velocità, del ritmo
convulso e della simultaneità, propri delle estetiche del videoclip o di
certo cinema contemporaneo sono divenuti elementi stilistici anche del­
la danza del nostro tempo (William Forsythe, Enzo Cosimi, Molissa Fen­
ley, Karole Armitage ecc.).
La videodanza, che può essere considerata una forma particolare del­
la videoarte, nasce verso la fine degli anni Settanta come possibilità di
produzione creativa individuale, attiva e democratica contro la fruizione
passiva della comunicazione di massa e contro il tipo di produzione diri­
gistica propria dei grandi network radiotelevisivi. Nel corso degli anni,
una sempre maggiore diffusione degli strumenti tecnici per la creazione
di video personali incrementa l’uso libero, immediato e non manipola­

8
Cfr. Sipario! Storia e modelli del teatro televisivo in Italia, a cura di G. Bettetini, RAI
VQPT/Nuova ERI, Roma 1989; Sipario! due, cit., passim.
9
R. Alonge, Prefazione, in La nuova scena elettronica, cit., pp. 7-10.
389 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

bile da terzi della videocamera. La sostituzione più recente della tecno­


logia analogica con quella digitale, sia del suono sia dell’immagine, ha al­
largato enormemente le possibilità di intervento artistico sulla ripresa vi­
deo e sulla post-produzione, spesso integrate con la computer graphic e
con le tecniche avanzate di animazione e simulazione.
L’opera simbolo, che può a ragione essere considerata il manifesto
della videodanza, è Merce by Merce by Paik di Nam June Paik e Merce Cun­
ningham del 1978, nella quale vengono composti artisticamente ele­
menti di una coreografia espressamente creata per la telecamera insie­
me ad altri materiali video anche preesistenti. L’uso di alcuni espedien­
ti tipicamente videografici, come l’incrostazione, lo sdoppiamento, la
moltiplicazione dei corpi sullo schermo, la loro decentralizzazione, pro­
cedimenti analoghi a quelli che Cunningham sfrutta coreograficamente
sulla scena, creano i presupposti per una composizione in cui la danza
informa l’opera d’arte nella sua totalità, facendone un prodotto parti­
colare di videoarte, appunto uno dei primi e più significativi esemplari
di videodanza.
Tale fenomeno è stato anticipato e forse accompagnato nel suo na­
scere da un clima socio-culturale particolare, nel quale sono cresciuti i
danzatori e i coreografi della generazione degli anni Ottanta. In Fran­
cia, gli esponenti della Nouvelle Danse sono figli delle correnti del nuo­
vo cinema francese, sono cinefili alimentatisi del flusso delle immagini
che caratterizza il nostro attuale approccio alla realtà, fatto di frequenti,
rapide e massicce informazioni sensoriali che hanno da tempo riorga­
nizzato il nostro modo di sentire il mondo. Questi autori hanno inizial­
mente trasferito i ritmi e i modi dell’immagine cinematografica e video­
grafica sul palcoscenico, con spettacoli di danza caratterizzati dalla com­
mistione di codici, linguaggi e ingranaggi mediatici. In un secondo mo­
mento hanno portato la danza all’interno della produzione video, a volte
divenendo registi (meglio videomaker) delle loro stesse opere di video­
danza. Interessante, a questo proposito, il lavoro di Angelin Preljocaj, che
si muove senza soluzione di continuità fra lo spazio scenico tradizionale
e il video, passando senza difficoltà dalla produzione specifica per la te­
lecamera, in una sinergia creativa con il regista Cyril Collard (Les rabo­
teurs, 1988), alla rielaborazione per il video o alla prosecuzione ideale in
video di opere già realizzate per la scena, come nel caso rispettivamente
di Un trait d’union (1992), che riprende e rielabora un originario duetto
maschile teatrale, o di Le postier (1991) e Idées noires (1991), continua­
zione ideale del balletto Amer America.
Il genere che più ha influenzato la videodanza è certamente il video­
clip musicale (o videomusic). Nato inizialmente come veicolo promo­
zionale di un altro prodotto dell’industria culturale, il disco, è divenuto
ALESSANDRO PONTREMOLI 390
un genere a sé, caratterizzato da una commistione fra elementi musica­
li e visionarietà post-moderna, resa possibile dal progresso della compu­
ter graphic. Non bisogna dimenticare, poi, l’influenza che su entrambe
queste forme ha esercitato lo spot pubblicitario, basato sulla brevità e
sull’alta concentrazione di senso finalizzata alla comunicazione di un
preciso messaggio commerciale. Negli anni Ottanta non è difficile sor­
prendere intrecci fra queste tre forme videoartistiche, soprattutto quan­
do alcuni coreografi vengono coinvolti nella realizzazione di spot pub­
blicitari (E. Vaccarino, 1996).
Non è pertanto sorprendente che la videodanza abbia trovato natu­
rale seguire, in molti casi, i modi e le forme della videomusic e del vi­
deospot, entro i quali la danza è stata, fin dall’inizio, coinvolta come ele­
mento strutturale. La genesi di questo coinvolgimento può essere rin­
tracciata nel forte recupero, da parte delle giovani generazioni degli an-
ni Settanta-Ottanta, della dimensione del corpo in movimento, fenome­
no che è ben testimoniato dall’ondata di film musicali o incentrati sul
tema della danza di quegli anni: La febbre del sabato sera, Grease, Footloose,
Due vite, una svolta, All That Jazz ecc. Si pensi, inoltre, a Michael Jackson,
a Madonna (che si avvale della collaborazione, fra l’altro, di Karole Ar­
mitage) e ai loro videoclip; oppure a coreografi come Daniel Ezralow,
che ha lavorato per Sting, e Philippe Decouflé per i New Order. Alcuni
prodotti di videodanza si avvicinano addirittura a videoclip di grande
qualità, come per esempio i «corti» di Régine Chopinot: Le defilé (1987),
KoK (1988); o di Philippe Decouflé: Caramba (1986) e il capolavoro Le
p’tit bal (1994).
Anche in Italia gli anni Ottanta sono gli anni delle intersezioni fra vi­
deo, danza, teatro, videoarte. Alcune figure, come gli esponenti del
gruppo i Magazzini di Tiezzi e Lombardi, di Falso Movimento di Mario
Martone, di Studio Azzurro nel periodo della collaborazione con Gior­
gio Barberio Corsetti10 cominciano a lavorare sul concetto di «ambien­
te» producendo ibridazioni artistico-comunicative che trasmigrano di­
sinvoltamente da un linguaggio all’altro (teatro, danza, installazione ar­
tistica ecc.) e si organizzano intorno all’interazione fra performer e sce­
na tecnologica, tra corpo reale e tecnologie del suono e dell’immagine.
In altri casi, come nei lavori, anche molto diversi fra loro, del coreografo
Roberto Castello (Il fuoco, l’acqua, l’ombra, in collaborazione con Studio
Azzurro, 1998; Le avventure del sig. Quixana, con Paolo Atzori, 1999) la
compresenza di danza dal vivo e videoproiezioni è la costante che con­
tribuisce alla creazione di un ambiente di fruizione spettacolare nuovo

10
Cfr. Studio Azzurro e G. Barberio Corsetti, La camera astratta. Tre spettacoli tra tea­
tro e video, a cura di V. Valentini, Ubulibri, Milano 1988.
391 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

dal punto di vista estetico, ma consueto nelle forme, proprio per l’as­
senza di una vera e propria interattività. La dureté temporale obbligata
dalla sincronizzazione dei materiali sonori e visuali riporta questi espe­
rimenti nell’ambito di una produzione strutturalmente tradizionale. Si
tratta, insomma, di una situazione ibrida, a cavallo fra scenografia della
contemporaneità ed environment, di una ricerca teatrale o coreografica
ancora fortemente legata alla presenza del corpo.

È molto difficile stabilire parametri sicuri per poter catalogare con


certezza un’opera audiovisiva come videodanza. Sono tuttavia utili allo
scopo i criteri scelti da alcune giurie di concorsi internazionali, chiama­
te a valutare e classificare i molti video di danza realizzati da un numero
sempre crescente di coreografi e compagnie. Elisa Vaccarino propone
di seguire le categorie concorsuali di Dance Screen, organizzato dal
Centro Internazionale della Musica (IMZ).
Con stage/studio recording si fa riferimento a opere di videodanza rea­
lizzate con materiale girato sia su un palcoscenico, sia in uno studio te­
levisivo allestito per la ripresa. Camera re-work si riferisce, invece, alla rie­
laborazione per la «camera» di una coreografia già esistente. Con l’e­
spressione screen choreography si identifica propriamente un prodotto co­
reografico esplicitamente nato per lo schermo e non fruibile se non in
quella versione. Il termine documentary si spiega da solo e viene a coinci­
dere con la funzione documentaria che accomuna video e televisione. A
queste categorie tipologiche si possono aggiungere il video a camera fissa,
prodotto in genere dalle compagnie e girato dagli stessi coreografi per
documentare e conservare il proprio lavoro; e il promovideo, spesso arti­
sticamente molto valido, confezionato da un videomaker anche con ma­
teriale di repertorio, allo scopo di promuoverne la compagnia presso
teatri, produttori, critici.
La danza da video non può essere analizzata nello stesso modo della
danza dal vivo, perché l’incontro col mezzo determina nuove condizio­
ni creative al coreografo, nuove e diverse possibilità, ma anche inaspet­
tati condizionamenti e limiti. Gli strumenti di analisi propri della video­
danza non sono diversi, invece, da quelli del video tout-court, se non per
il fatto che nella videodanza le telecamere si occupano soprattutto di
corpi in movimento.

4. Aspetti percettivi

Cosa accade alla percezione della danza dal vivo nell’era della frui­
zione generalizzata della danza in video?
ALESSANDRO PONTREMOLI 392
All’inizio, quando ancora il rapporto si giocava fra immagine filmica e
danza, la relazione era condotta sul comune terreno della modernità, va-
le a dire sul condiviso intento di trovare nuovi strumenti per nuove mo­
dalità espressive. Ma danza teatrale e danza cinematografica hanno im­
boccato sempre strade differenti, raramente influenzandosi a vicenda.
Del tutto diverso l’impatto dei modi del video sui modi della danza. Il
connubio diviene possibile perché legato all’istanza, comune tanto alla
sensibilità audiovisiva contemporanea quanto alle ultime generazioni di
coreografi, di superamento dei limiti del palcoscenico verso nuove mo­
dalità di manipolazione dello spazio-tempo, in qualche caso entrando in
competizione con il fascino irresistibile del video, che permette mani­
polazioni infinite e un estremo virtuosismo.
A questo proposito diviene familiare l’uso in scena del ralenti, del re­
peat, del rewind, come è ben ravvisabile nelle opere di Carolyn Carlson
(Solo del 1983, poi divenuto video attraverso un processo di rielabora­
zione teatrale) o di quelle di Kresnik e della Hoffmann.
Il montaggio, imprescindibile componente tecnico-artistica del video,
diviene importante elemento compositivo della danza contemporanea,
come in Pina Bausch, dove assume la fisionomia di un tratto stilistico
forte del suo Tanztheater. La grande musa tedesca del teatrodanza sem­
bra, sin dai primi lavori per la scena, operare con le procedure tipiche
del video-collage.
La francese Karine Saporta costruisce addirittura nuove pièce a parti­
re dagli scarti coreografici del materiale di altri interventi video o filmi­
ci. La princesse de Milan, per esempio, è uno spettacolo teatrale nato dal­
la ripresa e dalla riorganizzazione dei movimenti coreografici già realiz­
zati per L’ultima tempesta di Peter Greenaway. Anche le performance del
gruppo canadese dei La La La sono dei videoclip live, che utilizzano la
luminosità particolare del video, la velocità del montaggio, il ritmo fre­
netico del linguaggio audiovisivo, coniugato con il virtuosismo fisico, di­
rettamente nello spettacolo dal vivo.

5. In giro per il mondo11

La videoarte incontra la danza negli anni Settanta negli Stati Uniti,


dove lavorano in modo sperimentale autori come Maja Deren e Alwin

11
Oltre al più volte citato testo della Vaccarino, utili per questa ricognizione sono
stati i cataloghi annuali dei vari festival e concorsi nazionali e internazionali: Danza
video (Milano), Teatri90 Danza (Milano), Il coreografo elettronico (Napoli), Dance
Screen (Vienna), Grand Prix Vidéo Danse (Parigi), Dance Film and Video Guide
(Princeton).
393 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

Nikolais. La prima, benché operasse nell’immediato dopoguerra e, dati


i tempi, ancora con pellicola, può essere annoverata fra i videoartisti an-
te litteram proprio per la sua scelta programmatica di creare danza uni­
camente per lo schermo. I suoi film «di ricerca», nei quali coinvolse an­
che John Cage, sono l’esito di una sapiente composizione dell’immagi­
ne, nella quale forme, figure plastiche e danzatori si inseguono in un
flusso di visione profetico per i tempi (Ritual in Transfigured Time, 1945­
46, coreografie di Frank Westbrook; The Very Eye of Night, 1959).
Nel 1964 Alwin Nikolais realizza su pellicola Totem, the World of Alwin
Nikolais, pionieristico film di danza in cui gli esecutori su sfondo mono­
cromatico sembrano fluttuare in uno spazio illusorio senza gravità. Lo
stesso tipo di visione è ripresa da Nikolais nel 1968 in Limbo (in collabo­
razione con la CBS), nel quale alle figure dei danzatori vengono sovraim­
presse immagini di pesci colorati. Relay, prodotto da WNET/13 e dalla
BBC nel 1970, è già un’opera di videodanza a tutti gli effetti, realizzata
con l’uso di strumenti tecnologici più avanzati, che permettono a Niko­
lais di concretizzare in immagini fantastiche tutto il suo universo visiona­
rio; in questo lavoro di grande importanza storica, il corpo danzante si
smaterializza progressivamente divenendo una particella infinitesimale
della sconfinata vastità dell’universo.12
La prima vera e propria videoartista americana è comunque Doris
Chase, per la quale già nel 1977 il critico Peter Grossman utilizzava espli­
citamente il termine di videodance. Dopo Moving Forms del 1974, compo­
sizione astratta di forme in movimento, grazie alla collaborazione con
danzatori delle più importanti compagnie di balletto (Joffrey Ballet,
New York City Ballet, Merce Cunningham Dance Company) realizza i
suoi lavori più significativi, tutti intitolati Dance, cui segue a ogni nuova
creazione un numero progressivo (Dance Seven, Dance Nine ecc.). In que­
sti video la Chase dimostra una predilezione per il corpo del danzatore
solista, colto nei particolari e nei dettagli di movimento.
Si sono cimentati con il film e la videodanza, concepiti in genere in­
sieme ai relativi spettacoli, anche alcuni esponenti della post-modern dan­
ce, artisti sensibili ai fermenti di cambiamento della loro epoca e dispo­
nibili a un dialogo fecondo con le innovazioni tecnologiche: la poliedri­
ca Meredith Monk in Quarry, 1978, rievoca la tragedia dell’Olocausto;
Trisha Brown in Set and Reset, 1985, realizza un’abile composizione di
materiali artistici fra loro autonomi; Ann Halprin esplora il rapporto fra
corpo e natura nel suggestivo Embracing Earth: Dances with Nature del
1995, vincitore nello stesso anno a New York del concorso Dance on Ca­

12
F. Pedroni, Alwin Nikolais, prefazione di M. Louis, L’Epos, Palermo 2000, pp.
140-141, 146-148.
ALESSANDRO PONTREMOLI 394
mera. In Gran Bretagna, dove la televisione ha svolto nel passato (già fra
le due guerre, soprattutto documentando la danza dal vivo) un ruolo
fondamentale per lo sviluppo, la diffusione, la promozione e la produ­
zione della danza prima e della videodanza poi, con intenti educativi, di­
vulgativi, di informazione, è difficile distinguere fra televisione e video­
danza, dato che il fenomeno di broadcasting e quello creativo videoarti­
stico sono integrati, anche dal punto di vista economico. Negli anni Ot­
tanta, in concomitanza con il boom della danza nel mondo occidentale,
le produzioni si intensificano e coinvolgono anche le nuove generazioni
di coreografi inglesi come Richard Alston, Karol Armitage, l’italiana
Adriana Borriello, i provocatori DV8 (Never Again; Dead Dreams of Mono­
chrome Men del 1989), l’atletico Mark Murphy (Two Falling Too Far), la
politicizzata Rosemary Butcher (Body as Sight).
Negli anni Novanta, sotto l’egida del progetto Dance for the Came­
ra, vengono prodotti alcuni brevi video molto diversi fra loro, fra i qua-
li vale la pena ricordare Never Say Die di Niger Charnok, Dwell Time di
Siobhan Davies, entrambi del 1995. Fra le produzioni indipendenti e
fra quelle ibride, uno dei più significativi è certamente Enter Achilles,
dall’omonimo lavoro teatrale coreografato da Lloyd Newson, del 1996,
preceduto nel 1992 da Strange Fish. La cifra visionaria degli esponenti
del gruppo dei DV8 oscilla fra proiezione onirica e desiderio, in una car­
rellata di personaggi di grande energia, ma anche di forte impatto visi­
vo, in qualche caso ai limiti dell’erotismo da soft porno. Viaggi nella me­
moria sono invece alcuni video presentati alla rassegna milanese Tea­
tri90 nell’edizione del 2000, come The Reunion del 1997 con la coreo­
grafia di Ian Spink e The Link (2000), del performance artist Glyn Da-
vies Marshall.
La videodanse in Francia, grazie a una sapiente politica di sostegno da
parte del governo, è divenuta, soprattutto nel corso degli anni Ottanta,
una produzione artistica di grande rilievo. La creazione di video e lo
spettacolo dal vivo sono, per la generazione della Nouvelle Danse,13 per­
corsi paralleli e allo stesso tempo convergenti, strettamente connessi en­
tro l’attività di alcuni coreografi nati e cresciuti in un clima culturale di
massiccio consumo di immagini. Si tratta di una videografia che è debi­
trice al cinema di un certo isterismo convulso dei corpi (Jean-Luc Go­
dard) e di una frammentarietà del gesto, che si riflette anche nella
performance dal vivo, dove espedienti come la pausa, la ripetizione o
l’accostamento casuale non sono, in questo caso, frutto di un sapiente

13
M.L. Buzzi, La nuova danza francese: contaminazioni e ritorno, in Ai confini della
danza, a cura di A. Pontremoli, numero monografico di «Comunicazioni Sociali»,
XXI, 1999, 4, pp. 454-477.
395 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

montaggio elettronico, ma la traduzione corporea di un sentire comu­


ne. La caratteristica saliente della videodanse è comunque quella di esse­
re una videografia d’autore molto riconoscibile nello stile, che nasce
inequivocabilmente dall’incontro fra una visione registica e una visione
coreografica, marcate dalla contaminazione con i materiali artistici e i
linguaggi più vari.
Nella prima fase della produzione, quella della stretta collaborazione
fra un videomaker e un coreografo, abbiamo lavori caratterizzati dalla
brevità e dalla incisività del segno visuale, come La voix des legumes
(1982) girato da Marc Guérini con Philippe Decouflé, o come Incande­
scence (1985), dello stesso regista, per Karine Saporta.
Verso la fine degli anni Ottanta entriamo nella seconda fase della vi­
deodanse, segnata dal passaggio dietro la videocamera degli stessi coreo­
grafi, che anche da registi intendono produrre opere dalla tenuta arti­
stica molto forte, proprio a motivo di questa sovrapposizione e conco­
mitanza nella stessa persona dei due ruoli. Fra le opere più interessanti,
nel 1990 Angelin Preljocaj rielabora per la videocamera la sua ripresa
delle Noces di Stravinskij e nel 1993 vince il Grand Prix Video Danse di
Parigi con Un trait d’union, transcodificazione videografica dell’omoni­
mo duo creato nel 1989 per la scena.
In Belgio la videodanza nasce intorno alla nuova danza fiamminga ed
è caratterizzata da una ricerca analitica quasi ossessiva del movimento.
Accanto alla acribia da entomologo di un Jan Fabre,14 che della ripeti­
zione, dell’attenzione al particolare e dell’osservazione della realtà co­
me organismo fa la sua cifra stilistica (What a Pleasent Madness, 1988; Ti­
voli, 1993; Questa pazzia è fantastica: paysages fabriens, 1993), Anne Teresa
de Keersmaeker, fondatrice del gruppo Rosas, mette in video la sua dan­
za minimale, ripetitiva e caparbiamente coniugata alla dimensione tem­
porale della musica nel film Achterland del 1994 (da un balletto del
1990) e nei molti video che rielaborano per la telecamera i suoi lavori
teatrali.
Se la videodanza spagnola è l’ultima in ordine di tempo a comparire
sugli schermi con una ricca produzione che si adegua a quella che la
Vaccarino definisce la nuova koinè videoartistica europea, caratterizzata
dalla «necessità di uscire dai teatri alla ricerca di luoghi altri, al ricorso a
una quotidianità che diventa arte, all’espressività di un corpo che si fa
protagonista dello sguardo, proprio e altrui, uno sguardo che ci guarda
dallo schermo» (E. Vaccarino, 1996); la videodanza italiana è neonata.
Nel 1994 a Dance Screen scorrevano solo tre video italiani (fra i quali il
14
E. Hrvåtin, Ripetizione, follia disciplina. L’opera teatrale di Jan Fabre, trad. it., Infin­
to Ltd, Torino 2001.
ALESSANDRO PONTREMOLI 396
bel Guardiano di coccodrilli di Corte Sconta, per la regia di Kiko Stella) e
al Gran Prix Video Danse solamente quattro. Tuttavia le manifestazioni
nazionali e i vari concorsi, nati sul finire degli anni Novanta (fra i quali
spicca Il coreografo Elettronico di Napoli e il Premio Riccione TTV) han-
no nel tempo incrementato la produzione di opere indipendenti di
buon valore artistico. Nella selezione di Short Video dell’edizione 2001
di Teatri90 sono presenti interessanti opere di Claudio Prati con coreo­
grafia di Ariella Vidach, di Lino Greco e Monica Francia, di Davide Pepe
e Anna De Manincor. Di quest’ultima videoartista, che afferma: «Non
credo nell’utilità di istituire il genere (senza scopo e senza pubblico) di
“videodanza”, ma ritiene però importante «imbastire la narrazione e la
figurazione cinematografica con le azioni fisiche asciugate e “muscolari”
della danza» (Teatri90 danza, 2000), Scankrèr o la famiglia dell’artista
(1998) è un piccolo capolavoro di 25 minuti. Tratto dall’omonimo spet­
tacolo dell’Impasto di Alessandro Berti e Michela Lucenti, Scankrèr rac­
conta, in tono grottesco e ironico, grazie soprattutto all’esilarante dialo­
go vernacolare e alla plasticità del «movimento cantato» della compa­
gnia, la travagliata storia di un ballerino maledèt, nato in una surreale fa­
miglia padana, dove padre e madre mettono in atto ogni sorta di azione
per stroncarne la vocazione artistica.

6. Nuove tecnologie per una nuova spettacolarità... o nuovi spettacoli per


nuove tecnologie?

All’inizio del nuovo millennio, l’esplosione e la planetaria diffusione


delle nuove tecnologie digitali (L. Manovich, 2001) hanno creato la pos­
sibilità di inusitate esplorazioni nei territori della creazione artistica. Si
tratta, in qualche caso, di mutazioni radicali e non solo di moltiplicazio­
ne di dispositivi di superficie; di cambiamenti profondi che coinvolgono
la stessa nozione di soggetto e di oggetto artistico15 e che rimettono in
discussione l’intero universo della comunicazione, della relazione e del-
l’organizzazione del sensorio.
Nel nostro tempo i mezzi di comunicazione e gli apparati di calcolo
sono tecnologie fra loro complementari: la digitalizzazione dei media
analogici porta alla creazione di un unico grande medium: immagine,
suono, grafica, forme, spazi, testi, generazione di sensazioni artificiali
tramite stimolatori meccanici, guanto o tuta della realtà virtuale e
quant’altro da noi immaginato e immaginabile entro questo ambito di

15
Cfr. M. Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in La scena immate­
riale, cit., pp. 139-150.
397 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

ricerca, sono trasformati in dati numerici, diventano oggetti calcolabili,


un insieme di dati informatici facilmente manipolabili e, in un secondo
momento, di nuovo restituibili alla loro fruizione analogica.
La struttura frattale che caratterizza questi nuovi media, vale a dire la
presenza di una stessa struttura a livelli di scala differenti, offre una
grande possibilità di modularità, anche nelle procedure di program­
mazione. Se uniamo questa peculiarità a quella che permette agli og­
getti dei nuovi media di essere descrivibili in termini formali come fun­
zioni matematiche, constatiamo la possibilità degli algoritmi di realiz­
zare all’interno del processo creativo un crescente automatismo, che li­
mita progressivamente l’intenzionalità umana. I nuovi media, infatti,
non esistono più come oggetti materiali, ma nella forma di dati che
viaggiano nello spazio alla velocità della luce, condizione che permette
la realizzazione del sogno novecentesco dell’unità delle arti, della loro
conversione una nell’altra e della loro combinazione secondo nuove e
imprevedibili modularità. L’arte è sempre meno legata all’idea di pro­
duzione di un oggetto/testo, da incontrare in una fruizione passiva e
contemplativa, e sempre più definibile come un’esperienza, un evento.
Per Antonio Pizzo i media digitali e il teatro sono accomunati dalla no­
zione di evento: «All’interno di questa polarità dei media (cinema, au­
diovisivi, teatro, digitale) – divisi secondo la rappresentazione della di­
stanza dall’oggetto preesistente (lì e altrove dell’immagine riprodotta)
e l’assenza di tale distanza (assoluto qui e ora della propria semiosi) – la
realtà virtuale, la computer graphic e le altre rappresentazioni digitali
appartengono a quest’ultimo lato del polo, insieme [...] al teatro e, in
termini più generali, alla performance».16 All’oggetto viene oggi a so­
stituirsi l’ambiente (E. Quinz, 2001) e alla fruizione contemplativa la
partecipazione diretta dello spettatore al farsi concreto (che può esse­
re, nei risultati, quanto di meno concreto possibile) della stessa crea­
zione artistica.17 Appaiono sempre più labili i confini fra un’arte con­
cepita in termini tradizionali, e che potremmo definire museale o ar­
chivistica, e un’arte pan-performativa. Le nuove tecnologie, nel loro
funzionamento simulativo,18 sono centri di creazione di environment, il
più delle volte virtuali, che tuttavia richiamano fortemente la presenza
di un corpo che interattivamente viene a occupare il nuovo habitat,
spesso contribuendo, con la sua pesante e ingombrante fisicità, alla mo­

16
A. Pizzo, Teatro e mondo digitale. Attori, scena pubblico, Marsilio, Venezia 2003, p.
23.
17
F. Popper, Art, action et partecipation. L’artiste e la créativité aujourd’hui (1975),
Klincksieck, Paris 1985, p. 13.
18
Cfr. G. Bettetini, La simulazione visiva. Inganno, finzione, poesia, computer graphics,
Bompiani, Milano 1991.
ALESSANDRO PONTREMOLI 398
dificazione dinamica e al divenire processuale dell’esperienza artistico
performativa. Il sogno fantascientifico della robotica, inaugurato nel
1920 dalle visioni di Karel Čapek, sembra oggi essersi realizzato: la na­
turalità biologica del corpo è messa in discussione da una serie di feno­
meni artistici (body art, cyborg culture ecc.), dove i corpi, invasi da in­
nesti artificiali, da connessioni interfacciali elettroniche, da tecnologie
mediche o manipolati dall’ingegneria genetica, sembrano diventati es-
si stessi protesi umane di media intelligenti, piuttosto che nostri pro­
lungamenti entro il vecchio ambiente. Terminata l’era della mediazio­
ne fra uomo e mondo, siamo ormai immersi nella realtà di un corpo
mondo che può connettersi direttamente alle macchine, tramite mi­
crochip interfacciati al nostro sistema nervoso centrale.
Cosa accade al corpo, alla scena, alla percezione, alla concezione del­
le coordinate proprie della danza (spazio e tempo), nella relazione che
si stabilisce fra la materialità del corpo danzante hic et nunc e l’immate­
rialità informatico-elettronica, o meglio la nuova materialità? Cosa acca­
de a questo corpo nel rapporto anche percettivo con l’interfaccia della
realtà virtuale (per esempio il casco, il guanto e la tuta «sensibili»)?
Diventato quasi un apparato semiartificiale, biotecnologico, il corpo
si confronta momento per momento con un mondo altro creato dal
computer. Un mondo fatto di simulazioni in grado di visualizzare in ter­
mini di possibilità ogni nostro capriccio inventivo, di originare mondi le
cui regole sfuggono a quelle della nostra realtà concreta, mondi perfet­
tamente abitabili anche dalla pesante e obsoleta corporeità umana, or-
mai definita comunemente una wet technology. Il corpo è al centro di
uno spazio nuovo da costruire nella dimensione intermedia fra arte e
tecnologie. La danza è, tra l’altro, l’arte che investe radicalmente sul
corpo. Anche on-line gli internauti hanno sempre una interazione che
implica la dimensione corporea. È quindi possibile una scrittura poetica
comune, perché l’esperienza fisica della corporeità è un tratto condiviso
dell’umano: senza l’esperienza reale non c’è neppure reale sperimenta­
zione nell’ambito delle nuove tecnologie.
Nella danza il corpo è portatore dell’invisibile, è trasparente, come
un involucro di cristallo attraverso il quale si può assistere al processo in
atto di una donazione di senso al mondo; il corpo del danzatore si pone
come centro intenzionale, nel suo ambivalente dibattersi e oscillare fra
soggetto e oggetto: la danza trasforma e trasfigura il corpo.19 L’arte è in­
fatti la possibilità di rendere sensibile una realtà immateriale, e le nuove

19
Cfr. A. Pontremoli, Corpo e danza, in Ai confini della danza, cit., pp. 373-380; J.-M.
Matos, Danza con tecnologia: il corpo di un’utopia o il corpo di un conflitto, in La scena di­
gitale, cit., p. 210.
399 LA DANZA FRA VECCHIE E NUOVE TECNOLOGIE

tecnologie sembrano portare alle estreme conseguenze il potere, che la


coreografia offre al corpo, di essere qui e altrove, di decostruire il tempo
e lo spazio per ristrutturarli in modo nuovo e diverso.
Il corpo tecnologico è un corpo esteso, connettivo, dotato di nuova e
potenziata sensibilità. In campo artistico, la performance è diventata la
strategia di movimento che può attivare, nella relazione tecnologica, la
produzione mediata di suoni e immagini in tempo reale. In questo mo­
do il danzatore o l’attore possono dar vita sulla scena o nell’ambiente
performativo dell’installazione a una interattività sempre più originale
(A. Pizzo, 2003).

7. Conclusione

Sarà possibile una completa digitalizzazione della danza?


Se per digitalizzazione intendiamo la presenza figurativa del corpo
nel cyberspazio, ci troviamo di fronte a una situazione in cui le infor­
mazioni digitalizzate sono poche rispetto a quelle che si ricavano dal­
l’esperienza in carne e ossa di un corpo in presenza. Come ben sap­
piamo per diretta sperimentazione quotidiana, non crea altrettanti
problemi la digitalizzazione della musica, che avviene attraverso la
compressione, in uno spazio «numerico» relativamente contenuto, di
tutte le informazioni necessarie per una ri-produzione analogica del-
l’esperienza uditiva il più possibile «analoga» a quella della fonte so­
nora originaria. Una digitalizzazione del corpo, per essere altrettanto
efficace, dovrebbe, quindi, riprodurre almeno un’immagine ologram­
matica in movimento, a colori e a grandezza naturale, per avvicinare la
visione di questa immagine a quella di un corpo che danza dal vivo in
presenza.
Le prospettive più interessanti vanno comunque verso una maggiore
integrazione della corporeità con le tecnologie, come esito di una inte­
razione fisica del corpo con la realtà virtuale. In questo senso si potreb­
bero sperimentare nuove possibilità di movimento, che dipenderebbero
dalla percezione reale suscitata da media «sensibili» e induttori di sen­
sazioni fisiche artificiali. Non è forse una prefigurazione di una «danza»
di questo tipo quella che compie Tom Cruise nel film Minority Report,
mentre utilizza un sistema di data processing in realtà virtuale e i movi­
menti perfettamente coreografati delle sue mani e del suo corpo, senza
alcun supporto materiale, costituiscono l’interfaccia con la macchina
che li «legge»?
Che tipo di danza e di movimento possiamo ipotizzare in una situa­
zione totalmente immersiva sia per il danzatore sia per lo spettatore, a
ALESSANDRO PONTREMOLI 400
contatto e in interazione coreografica con i simulacri digitali dei parte­
cipanti, per nulla distinguibili dalle icone delle simulazioni in 3D?
Le domande rimangono e, allo stato attuale delle ricerche, le risposte
sono ancora lontane. Esperimenti del tipo di quelli ipotizzati poco sopra
sembrerebbero andare nella direzione tracciata da Hubert Godard, che
parla di danza non tanto come di un’attività, quanto piuttosto di uno
stato particolare di sensibilità del corpo, di una sua relazione al sensibi­
le che è movimento in rapporto alla percezione interiore e del mondo
in una prospettiva fictional.
Una volta di più la condizione di possibilità della danza è, inequivo­
cabilmente, da ricondurre alla «carne», al corpo che si muove e che vive.
La danza è connessa alla vita, ne è, in qualche modo, la più chiara e vi­
sibile esplicitazione: pare proprio che non si possa fare a meno del no­
stro orizzonte trascendentale di esistenza, quel corpo, secondo alcuni
obsoleto e ingombrante, che tutti gli esperimenti virtualizzanti non solo
non possono eludere, ma devono prendere in seria considerazione, pe­
na l’annullamento della stessa possibilità di ogni nuova esperienza arti­
stica.
COREOGRAFIA DIGITALE
Emanuele Quinz

0. Introduzione

Nella sua analisi dell’impatto delle tecnologie di riproduzione sul siste­


ma delle arti, Walter Benjamin constata la distanza assoluta, anzi l’opposi­
zione tra le nuove opere tecnicamente riproducibili (cinema, fotografia,
eccetera) e le arti della scena, come la danza e il teatro.1 Perché, se queste
ultime propongono un’esperienza dell’immediatezza, in cui interprete e
spettatore sono co-presenti fisicamente all’interno dello stesso spazio-tem­
po («hic et nunc»), nel cinema e nelle altre arti fissate su supporto questa
presenza passa attraverso la mediazione di un apparato tecnico.
Ciò implica, secondo Benjamin due conseguenze: da un lato la presta­
zione dell’attore non è più presentata nella sua totalità, ma i suoi limiti
spazio-temporali sono fissati dal montaggio, dall’altro l’attore perde la
possibilità di adattare la sua interpretazione al pubblico.
Irreversibilità dell’oggetto tecnico: in questo caso, la perdita dell’aura
non si caratterizza solo come una trasformazione dell’interprete che si ri-
duce a un semplice elemento nella macchina della rappresentazione, ma
soprattutto come scissione della co-presenza tra attore e spettatore, come
esplosione dell’hic et nunc. Il rapporto con il dispositivo tecnologico (la te­
lecamera, lo schermo) sostituisce il rapporto diretto tra attore e spettato­
re. A tal punto che la distinzione tra i due non è più sostanziale, ma sem­
plicemente funzionale. Come conclude Benjamin, la mediazione tecnica
contrasta e neutralizza l’immediatezza del corpo.
L’apparizione di una nuova tecnologia (come «pensiero della tecni­
ca»), provoca nel sistema delle arti una scossa profonda e vibrazioni di as­
sestamento. La mutazione del paesaggio non avviene, come certe retori­
che catastrofiste vogliono farci credere, attraverso un movimento di sosti­
tuzioni radicali, ma attraverso un processo di stratificazione.
Di fronte alla diffusione del cinema e delle tecniche videografiche, le
arti della scena si sono trovate davanti a diverse alternative:2 ignorare to­
talmente i nuovi dispositivi, oppure opporsi, insistendo sulle proprie spe­
cificità (la co-presenza fisica tra attore e spettatore, la dimensione corpo­
rea, il dialogo e l’intervento del pubblico nel processo creativo, eccetera,
1
W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Aus­
gewählte Schriften 1, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1977, pp. 150-162.
2
Cfr. M. Costa, Il teatro e il tempo, in L’estetica dei media, Castelvecchi, Roma 1999, pp.
198ss.
EMANUELE QUINZ 402
ovvero promuovere i modi dell’immediatezza contro la mediazione tecni­
ca); o ancora, assimilare la logica del nuovo medium (non solo attraverso
l’introduzione di schermi e proiezioni sulla scena, ma anche attraverso
l’importazione sulla scena di tecniche, procedimenti e ritmi derivati dal­
l’estetica cinematografica); oppure trasferirsi interamente sui nuovi sup­
porti (come nella video-danza, intesa non solo come Choregraphy for came­
ra 3). Oggi, di fronte a quella che viene chiamata «la rivoluzione digitale»,
è legittimo chiedersi se è possibile applicare questo stesso modello per de­
scrivere l’impatto delle tecnologie informatiche. Per cercare di compren­
dere quali apporti e quali modificazioni sono intervenute e intervengono
nei processi di creazione coreografica, di ricezione, ma anche di produ­
zione e di distribuzione.

1. I livelli di impatto del digitale

Il digitale non è una tecnica specifica, ma un fenomeno complesso e


pervasivo che implica un insieme di pratiche eterogenee e tocca progres­
sivamente tutti i livelli della società e della cultura contemporanea. È dun­
que difficile valutarne l’impatto, perché si gioca su diversi livelli.
A un livello più sotterraneo, il digitale si caratterizza come il codice bi­
nario, un sistema astratto di segni capace di rappresentare informazioni
di tutti i tipi. Il processo di digitalizzazione traspone suoni, immagini, te­
sti, eccetera. in informazioni digitali e le immagazzina nella memoria del
computer. Questo processo «molecolare»4 permette un’analisi atomica di
tutte le materie, rendendone il controllo totale.
Con l’isomorfismo e l’integrazione digitale si aprono nuove possibilità
di comunicazione tra i diversi linguaggi artistici, non più sul piano delle
corrispondenze semantiche (il piano dell’espressione), ma sotto la forma
di una vera e propria connessione semiotica: grazie al digitale in quanto
inter-codice, «la transmodalità può divenire sistema».5
3
Il termine deriva dal titolo di un film di Maya Deren (1943). Alle diverse declina­
zioni della Videodanza proposte dal concorso DANCE SCREEN e riprese da E. Vaccarino
in La Musa dello schermo freddo, Costa & Nolan, Genova 1996 (Stage/Studio Recording,
Camera Re-Work, Screen Choregraphy, Documentary), aggiungerei un’ulteriore cate­
goria legata all’utilizzo del montaggio ritmico di sequenze e di movimenti di oggetti, di
animali o di frammenti del corpo, o più spesso di forme astratte, che creano un «ef­
fetto di danza». Questa tecnica sperimentale, molto utilizzata dalle avanguardie stori­
che (basti pensare al Ballet Mécanique di F. Léger, 1924), ma anche in seguito (da Mo­
ving Forms di Doris Chase, 1974 al dibattuto Birds, di David Hinton, premio Dance
Screen 2000), è divenuta oggi comune grazie ai videoclip.
4
Definizione che P. Lévy (Cyberculture, Odile Jacob, Paris 1997, p. 57, e passim) pren­
de dal celebre G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux, Seuil, Paris 1980.
5
A.-G. Balpe, L’œuvre comme processus, «Anomalie digital_arts», n. 0, anomos, Paris
1999, p. 34.
403 COREOGRAFIA DIGITALE

A un secondo livello, c’è il programma che gestisce i comportamenti e


le relazioni attraverso una serie d’istruzioni codificate (algoritmi). Il pro­
gramma interpreta i dati, agisce sull’informazione, comanda i meccanismi
di reazione: tutto ciò che succede nell’ambiente informatizzato, incluse la
presenza, l’azione e le reazioni dei diversi soggetti implicati, è sottomesso
alle regole fissate dal programma.
Se il programma incarna l’intelligenza del sistema-ambiente, l’interfac­
cia è la membrana di contatto, l’organo della sensibilità. Essa permette il
dialogo tra l’universo dell’informazione digitale e il mondo esterno (e gli
oggetti e soggetti che lo compongono).
Gli apporti delle tecnologie digitali al mondo della danza sono molte­
plici. Esse si propongono come nuovi strumenti per la notazione, per la
ricostruzione, la documentazione e la pedagogia della danza.6 Ma è so­
prattutto la creazione che ci interessa. Da un lato, grazie alle interfacce di­
gitali, la scena diventa un ambiente intelligente, sensibile, in una parola:
interattivo. Questa mutazione riconfigura totalmente il gioco delle rela­
zioni tra i diversi elementi e i diversi soggetti dello spettacolo. Dall’altro
lato, la danza si sposta, trova delle nuove scene, delle nuove situazioni di
incontro con il pubblico (le istallazioni interattive, gli ambienti immersivi
di realtà virtuale), oppure si trasferisce totalmente sui nuovi supporti di­
gitali (cd-rom, dvd-rom, siti Internet).

2. La scena delle interfacce

In un precedente testo7 abbiamo proposto una doppia declinazione


della nozione di ambiente interattivo.
L’ambiente-interfaccia corrisponde alla scena come puro sistema di
interfacce. Questo modello può avere materializzazioni diverse, che im­
plicano vari livelli d’interattività e di partecipazione del pubblico: dalle
installazioni interattive, come i Reactive Environments (Very Nervous System
di David Rokeby 1983-1995), a prototipi come l’Intelligent Stage (Robb
Lovell) o DanceSpace (Flavia Saracino), o il palcoscenico interattivo con­
cepito da Paolo Atzori per Full Play (2000-2002), tutti dispositivi scenici
complessi, che permettono di mettere in circuito il movimento con l’a­
6
Cfr. K. Evert, DanceLab, Zeitgenössische Tanz und Neue Technologie, Würzburg König­
shausen & Neumann 2003; S. Dinkla, M. Leeker (eds), Tanz und Technologie. Auf dem Weg
zu medialen Inszenierung, Berlin 2002; S. Dixon, Digital Performance: A History of New Media
in Theater, Dance, Performance Art, and Installation, MIT Press, Cambridge MA 2007.
7
E. Quinz, Interface-World. Mutazioni della scena: dal testo all’ambiente, in A. Menicacci,
E. Quinz (eds), La scena digitale. Nuovi media per la danza, Marsilio, Venezia 2000, pp.
317 ss. Per ulteriori dettagli sui vari coreografi e artisti citati nel corso dell’articolo, fac­
ciamo riferimento ai contributi e alle testimonianze contenuti ne La scena digitale.
EMANUELE QUINZ 404
zione di vari media (suono e musica, immagini proiettate su schermo,
testi…).
Il secondo modello (ambiente-mondo) si riferisce agli ambienti virtuali
(Virtual Environments o Virtual Reality), che si materializzano grazie a stru­
menti come l’Head Mounted Display o ai dispositivi immersivi come il CAVE.
Questa via è stata sperimentata da Yacov Sharir (con il progetto Dancing
with the Virtual Dervish, nel 1996, in collaborazione con Diane Gromala e il
pioniere della Liquid Architecture Marcos Novak8). Di conseguenza, la rela­
zione tra corpo e scena si trasforma in interazione tra corpo e ambiente di­
gitale e passa attraverso la mediazione delle interfacce.
Questo nuovo paradigma propone al danzatore (e nel caso delle in­
stallazioni anche allo spettatore) l’esperienza dall’interno di inedite con­
figurazioni spaziali. Spazi, in cui tutte le componenti e i comportamenti
possono essere parametrati, simulati e manipolati, in cui persino la gravità
può essere eliminata, in cui si costruiscono reticoli di risonanze tra i mo­
vimenti e i suoni, in cui gli schermi si animano di creature e paesaggi vir­
tuali che sentono, che si adattano, che reagiscono ai gesti, in cui, grazie al-
le reti telematiche, corpi lontani si toccano.
Il corpo danzante, connesso, esteso, moltiplicato, grazie alle tecnolo­
gie, si trova al centro di una catena di retroazioni tra immagini, anima­
zioni e suoni, sperimenta inattese forme di presenza: i suoi movimenti
non sono più puri gesti formali, ma costruiscono un dialogo con l’am­
biente interfacciato, sono azioni in un mondo abitato. E le tecnologie si
rivelano non come strumenti neutri, ma come filtri estremamente com­
plessi, capaci di mettere in crisi e riconfigurare gli statuti non solo dello
spazio e del tempo, ma anche del movimento e della corporeità.
Le interfacce più usate nell’ambito della danza sono i sistemi di mo­
tion capture, grazie ai quali i movimenti dei danzatori sono trasformati in
informazioni che possono poi essere utilizzate in diversi modi (per e­
sempio per azionare e gestire delle sequenze sonore, o per animare un
personaggio virtuale). Sul mercato esistono sistemi di motion capture di
diverso tipo: i più comuni sono i sistemi magnetici (che «sentono» al-
l’interno di un campo magnetico dato la posizione di una serie di sen­
sori applicati sul corpo del danzatore), elettro-meccanici (che utilizza­
no un esoscheletro indossato dal danzatore fornito di potenziometri
sulle articolazioni) e ottici (che utilizzano delle sfere riflettenti posizio­
nate sui punti di articolazione del corpo del danzatore e una serie di te­
lecamere). Si tratta di tecnologie costose e complesse, che richiedono
competenze specifiche. Ogni sistema ha le sue potenzialità e i suoi di­
8
Cfr. M.A. Moser, Immersed in Technology: Art and Virtual Environments, MIT Press,
Cambridge MA 1996.
405 COREOGRAFIA DIGITALE

fetti, e le loro applicazioni nel campo della danza richiedono ancora un


lungo lavoro di esplorazione.
Diversi progetti di ricerca e workshop sperimentali sono stati organiz­
zati per confrontare i vari sistemi e per analizzarne le possibili applicazio­
ni coreografiche, per esempio i due laboratori Sharing the Body e Etendre la
perception (Monaco Dance Forum, 2002-04) e che hanno riunito équipe di
ricerca internazionali, coreografi, psicologi, programmatori.9
Grazie alle interfacce, il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo
strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione degli input e out­
put e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di queste
sperimentazioni è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di te­
ner conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena ma di integrarli
alla composizione drammaturgica e coreografica.
Sono già stati realizzati diversi progetti di creazione, che integrano tec­
nologie di motion capture, come le ormai storiche produzioni di Riverbed
(Paul Kaiser e Shelley Eshkar) per Merce Cunningham (Hand Drawn Spa-
ces e Biped, 1999) e Bill T. Jones (Ghostcatching, 1999), di MESH (Kirk
Woolford e Susan Kozel) di Johannes Birringer o dell’australiana Com­
pany in Space, fino alle più recenti produzioni di Isabelle Choinière e del-
l’italo-svizzera AIEP-Ariella Vidach. Oltre alle tecnologie di motion captu­
re esistono altri dispositivi di mediazione, che hanno la funzione di ren­
dere la danza interattiva: dai semplici sensori elettromagnetici (come l’an­
tenna costruita da Billy Klüver sul modello del Theremin per Variations V
di Cage e Cunningham, 1965), ai sensori a ultrasuoni (utilizzati tra l’altro
per In Between di Michèle Noiret, 2001), ai sensori di pressione, ai sensori
che controllano la contrazione muscolare, la temperatura del corpo, per­
sino la pulsazione cardiaca (Heartbeats della compagnia tedesca Palindro­
me), fino ai wearable computers (utilizzati tra gli altri da Yacov Sharir) e alla
celebre «scarpa interattiva» (Instrumented Footwear for Interactive Dance) rea­
lizzata da Joe Paradiso al MIT Medialab.10
In Movatar (2000), Stelarc inverte la situazione tipica della motion cap­
ture: un avatar, un’entità virtuale basata su un sito web e munita di un’in­
telligenza artificiale che la rende autonoma e operativa, diventa attiva nel
mondo reale connettendosi con il corpo reale del performer. Non è più
9
Per il workshop 2002, cfr. S. Delahunta, The Dimensions of Data Space, in E. Quinz
(ed.), Interfaces, «anomalie digital_arts», n. 3, anomos, Paris 2003, pp. 72-79; lo stesso
rapporto è disponibile on-line: http://www.sdela.dds.nl/mcrl/. Per il workshop 2004,
cfr. A. Menicacci, E. Quinz, Etendre la perception? Biofeedback et transfert intermodaux en
danse, in «Nouvelles de Danse», n. 53, Bruxelles 2006.
10
Cfr. gli atti del convegno New Interfaces for Dance, organizzato da anomos durante
ISEA 2000, pubblicati in E. Quinz (ed.), Digital Performance, «anomalie digital_arts», n.
2, anomos, Paris 2002.
EMANUELE QUINZ 406
l’impulso del corpo umano che muove il suo doppio virtuale, ma è l’ava­
tar ad «animare» il corpo dell’attore. Come spiega Stelarc, è una «coreo­
grafia globale guidata da un’intelligenza esterna», in cui si costruisce «una
sorta di danza-dialogo costituita dalla combinazione di azioni comandate
dall’avatar e di risposte personali del corpo-ospite», l’esperienza estrema
«allo stesso tempo di un corpo posseduto e di un corpo agente, in breve
di un corpo diviso». Ciò che interessa Stelarc non è la questione di chi con­
trolla chi, quanto la fondazione di «un sistema di rappresentazione più
complesso, d’interazione tra corpi reali e corpi virtuali».11
Oltre ai sistemi hardware, sono stati sviluppati diversi software per la ge­
stione interattiva dei media digitali sulla scena e per l’editing audio-video
in tempo reale. A parte i classici Max/MSP, VNS, Mandala System e i pro­
grammi di STEIM, bisogna citare EYESWEB, sviluppato dall’equipe diretta da
Antonio Camurri al Laboratorio di Informatica Musicale del DIST di Ge-
nova, SEED di La Graine, le applicazioni del gruppo Palindrome, e ISADO­
RA concepito da Mark Coniglio della Troika Ranch Company.
Alcuni coreografi utilizzano anche dei programmi di analisi come veri
e propri strumenti di composizione. Fra i primi, Merce Cunningham si è
servito del programma di animazione Life Forms per organizzare la sin­
tassi coreografica di diversi pezzi, come CRWDSPCR (1993), introducento
dei procedimenti casuali e di cut-and-paste. Ma gli esempi possono essere
moltiplicati, da William Forsythe, che per Eidos/Telos (1995) ha utilizzato
Binary Ballistic Ballet, l’«interactive choreography system» di Michael Saup,
alla coreografa francese Myriam Gourfink, che compone le sue sequenze
di micro-movimenti con l’aiuto del programma LOL.

3. Nuove scene per la danza

I cd- o dvd-rom e i siti internet sono ancora utilizzati in prevalenza co­


me organi di documentazione e diffusione, e a volte come strumenti pe­
dagogici (come il celebre dvd-rom Improvisation Technologies sulla tecnica
di William Forsythe). Sono ancora pochi e ancora embrionali i progetti in­
teramente realizzati su supporto digitale. Tra questi spicca La Morsure
(2004), in cui la coreografa canadese Andrea Davidson esplora le possibi­
lità di costruire una videodanza interattiva e di trasformare lo schermo in
una nuova scena per la danza. Una scena in cui la coreografia è in parte
affidata all’intervento diretto dello spettatore.
Il dvd propone tre interfacce. Nella prima, lo spettatore (con la sua a­
zione) definisce in quale momento e in quale posizione una nuova micor­
11
Stelarc, L’Involontario, l’Alieno e l’Automatizzato: Coreografie per Corpi, Robot e Fanta­
smi, in A. Menicacci, E. Quinz, op. cit., p. 269.
407 COREOGRAFIA DIGITALE

sequenza sarà attivata all’interno di una fascia orizzontale che taglia lo


schermo. La scelta della microsequenza è gestita da un motore aleatorio,
che la seleziona a caso all’interno del database. Nella seconda interfaccia,
lo spettatore (con la sua azione) non definisce né quale sequenza sarà at­
tivata né quando né dove, ma interviene sulla sua velocità di scorrimento:
al movimento del mouse risponde quello dei personaggi che animano le
microsequenze, in un sorprendente sensualità. Nella terza interfaccia, lo
spettatore (con la sua azione) determina l’attivazione di una nuova se­
quenza all’interno di una figura a forma di croce. In questo caso, la scelta
della sequenza è determinata da un motore generativo, che la seleziona
nel database, seguendo una serie di indici tematici, costruendo quindi dei
segmenti dotati di coerenza (cromatica, spaziale, narrativa). A differenza
di Moments de J.J. Rousseau, opera storica su cd-rom di J-L.Boissier, in cui il
ruolo dello spettatore è di intervenire dirigendo sull’azione l’inquadratura
della telecamera, nella Morsure lo spettatore agisce sul montaggio.12 Come
le installazioni, le opere di questo tipo permettono allo spettatore di ac­
cedere e intervenire sul materiale audiovisivo: la scrittura coreografica si
fa in diretta, si costruisce come dialogo tra immagini e gesti. Ma a diffe­
renza delle installazioni, le opere su dvd-rom sono fruibili nell’intimità del
rapporto «da solo a solo» che instauriamo con il personal computer.
Internet offre delle potenzialità completamente diverse, in quanto con-
nette la situazione «solitaria» del personal computer al web, alla rete plane­
taria: la danza ritrova una (paradossale) dimensione sociale, in cui, grazie
alla connessione remota, diversi spettatori possono condividerse lo stesso
spazio-tempo, la stessa esperienza performativa: presenza a distanza.
Diversi esperimenti sono stati tentati in questo senso. A partire dal
1998, la compagnia Mulleras13 ha sviluppato per la rete il progetto coreo­
grafico mini@tures, costituito da una serie di micro-metraggi, di mini-clip
quick-time che propongono dei brevi annedoti danzati.
Più interessanti sono le Web Dances del coreografo e programmatore in­
glese Richard Lord,14 che si fondano sulla ricerca di un sempre maggiore
coefficiente d’interattività. Se nel progetto Progressive 2 (realizzato già nel
12
Più nello specifico, le tre interfacce possono essere confrontate alle tre tipologie
di montaggio identificate da Martin (Le langage cinématographique, Les Editions du Cerf,
Paris 1992, p. 163) a partire dalle classificazioni formaliste di Eisenstein, Balasz e Pu­
dovkin: montaggio ritmico (relazione tra immagini); montaggio narrativo (relazione
tra avvenimenti)/montaggio ideologico (relazione tra contenuti-unità sovra-segmenta­
li). Sui rapporti tra cinema e interattività, cfr. l’imprescindibile L. Manovich, The Lan­
guage of New Media, MIT Press, Cambridge MA 2000.
13
http://www.mulleras.com
14
http://www.webdances.com; http://www.bigroom.co.uk. Sul sito di Lord sono
presentati anche Lifeblood, 1997, «danza virtuale» ispirata ai MUD Multi-User Dungeon
e Burnt Cinders, 1999, realizzata in Dynamic-HTML.
EMANUELE QUINZ 408
1996) lo spettatore ha la possibilità di attivare e stoppare 9 sequenze Quick­
time Video, orchestrando in modo sempre diverso le sovrapposizioni dei
movimenti filmati di una danzatrice, in Brownian Motion (1997) può inte­
ragire più profondamente con le evoluzioni di una serie di figurine in uno
spazio bidimensionale. Nello stesso registro ludico, le opere per il web del-
l’artista-programmatore francese Antoine Schmitt15 aprono una prospetti­
va più radicale. In Avec tact (1999) e Avec détermination (2000), la program­
mazione algoritmica implementa un’entità minimale, astratta, ma dotata
di comportamenti autonomi. Lo spazio dello schermo diventa l’ambiente
abitato da quest’entità e l’intervento dello spettatore introduce un ele­
mento di disturbo, perturba l’equilibrio fragile dei suoi movimenti, susci­
tando reazioni spesso imprevedibili.
La danza non solamente conquista nuovi contesti e nuovi spettatori,
ma anche nuovi soggetti: dai doppi virtuali ai robot comandati a distanza,
alle creature interamente generate dal calcolo.

4. Conclusioni
In definitiva, è legittimo utilizzare il modello proposto all’inizio del-
l’articolo per sintetizzare le diverse «risposte» del mondo della danza alle
possibilità offerte dalle tecnologie digitali: rifiuto (che purtroppo resta
l’attitudine della maggioranza, non dei coreografi e della comunità arti­
stica, ma delle istituzioni), adattamento e integrazione, trasferimento ra­
dicale sui nuovi supporti. In compenso, la constatazione di Benjamin ri­
spetto all’opposizione tra mediazione tecnica e immediatezza della pre­
senza scenica non è più attuale. È infatti evidente che l’apporto principa­
le delle tecnologie digitale, l’interattività (nella sua duplice dimensione di
interazione tra i linguaggi e i media e di dialogo tra soggetti umani e si­
stemi-ambienti informatici), permette di ritrovare una forma di immedia­
tezza, ripresenta l’attualità dell’hic et nunc. Attraverso le dimensioni para­
dossali della sensibilità delle interfacce (membrane di mediazione), della
presenza a distanza, della convergenza tra spazio virtuale e tempo reale, il
corpo e il nodo azione/percezione ritornano al centro dell’esperienza e­
stetica. Nel momento in cui la scena si sottrae all’imperativo frontale, per
diventare ambiente, l’opera non è più oggetto, né semplicemente con­
cetto o processo, ma diventa questione di gesto, di sensazione. Altro pa­
radosso: spesso accade che più le interfacce sono sofisticate, più gli orga­
ni di mediazione sono complessi, più gli strati intermediari si moltiplica­
no, più la percezione è ricca e l’immediatezza sensibile si ricrea: fragile
gioco di equilibrio in cui i meccanismi di reazione cercano di trasformar­
si, di fondare delle dinamiche di relazione.
15
http://www.fdn.fr/~aschmitt/gratin//as/index.html
L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE
Antonio Camurri

1. L’evoluzione interattiva dell’informatica musicale

Una delle conseguenze più importanti legate alla maturazione e al ve­


loce sviluppo delle scienze e delle tecnologie dell’informazione è stata
l’emergere della consapevolezza che l’uomo nella sua complessità cogni­
tiva e percettiva dovesse essere posto al centro dei processi di sviluppo dei
sistemi informatici. Lo spostamento dell’attenzione dalla macchina all’in­
terazione uomo-macchina ha prodotto così un avvicinamento tra due do­
mini spesso considerati antitetici: quello della tecnologia e quello delle
scienze umanistiche. Se da un lato la ricerca tecnologica si è ispirata a mo­
delli e teorie mediate dalla psicologia, dalle scienze sociali, dalla ricerca
artistica, dall’altro queste discipline si sono avvalse degli strumenti che la
tecnologia metteva loro a disposizione per indagare le innumerevoli sfac­
cettature dell’essere umano a un livello di profondità che mai era stato
raggiunto prima. Questo capitolo ripercorre brevemente l’evoluzione del-
l’informatica musicale con particolare riferimento a questi aspetti e in
particolare alla interazione e alle interfacce uomo-macchina. Vengono
quindi presentati lo stato dell’arte e le prospettive del settore sulla base
delle emergenti tecniche e tecnologie multimediali interattive.
Uno degli sviluppi più interessanti della musica elettronica ed elet­
troacustica negli anni Cinquanta e Sessanta riguarda il concetto di «spa­
zio sonoro», sia in termini estetici sia in termini di tecniche e strumenti
di diffusione e di localizzazione nello spazio tridimensionale di sorgenti
sonore virtuali tramite sistemi a più altoparlanti. I lavori di Berio, di No­
no, di Stockhausen, il Poème electronique (che vide la collaborazione di Le
Corbusier, Varese e Xenakis nel Pavillon della Philips alla esposizione
universale di Bruxelles del 1958) e altri ancora, testimoniano le impor­
tanti innovazioni nel linguaggio musicale oggi ormai patrimonio conso­
lidato della musica e dell’arte contemporanea. Questo ha comportato ri­
sultati della ricerca sia in ambito musicale (per esempio, sulla «orche­
strazione» del suono elettronico nello spazio e la progettazione del suo­
no anche in base allo spazio fisico/architettonico) sia in ambito scienti­
fico (sviluppi decisivi nel campo della psicoacustica, applicati nella mu­
sica elettroacustica, per esempio nella definizione di tecniche di spazia­
lizzazione del suono tramite altoparlanti).
ANTONIO CAMURRI 410
A partire dagli anni Settanta, con il consolidamento e l’evoluzione
dei linguaggi per la computer music della famiglia del MUSIC V, una del­
le sfide più significative si è quindi diretta verso la ricerca e lo sviluppo
di modelli computazionali per la sintesi, il trattamento e il controllo del
suono nelle sue molteplici dimensioni, complessità ed evoluzioni, per
esempio timbriche. Gli aspetti psicoacustici hanno iniziato a giocare un
ruolo fondamentale: il lavoro di Risset sulle illusioni acustiche (fenome­
ni uditivi analoghi ai paradossi visivi dei quadri di Escher) ne è una te­
stimonianza ancora oggi rilevante che ha influenzato molte ricerche de­
gli ultimi trent’anni.
Si è cominciato a considerare e a studiare il suono non per quello che
è oggettivamente, ma per come viene percepito dall’orecchio umano.
Questi sviluppi hanno condotto a importanti evoluzioni nelle tecniche
di sintesi, di filtraggio e di controllo del suono, oltre a rilevanti sviluppi
industriali: per esempio, la tecnica di compressione MP3 si basa sulla sot­
trazione dal segnale audio di componenti scarsamente o del tutto non
udibili, sulla base di risultati dagli studi di psicoacustica.
La generazione in tempo reale o differito di suoni complessi e il loro
controllo attraverso un numero limitato di parametri è stata poi (ed è
tuttora) un’altra sfida importante del settore della informatica musicale.
Un esempio famoso è il lavoro di John Chowning negli anni Settanta
sulla sintesi FM (frequency modulation), che ha tra l’altro prodotto una
vasta diffusione di sintetizzatori (la serie DX della Yamaha) negli anni Ot­
tanta. Con la sintesi FM è possibile controllare in diretta e con pochi pa­
rametri l’evoluzione nel tempo di timbri complessi: questo risulta prati­
camente impossibile in molte tecniche tradizionali di sintesi del suono.
Per esempio, nella sintesi additiva, un suono viene generato sommando
le sue «armoniche»: i parametri per controllarlo sono quindi tre per
ogni armonica (ampiezza, frequenza e fase). È facile comprendere che
per suoni complessi – ovvero con molte armoniche – sia necessario con­
trollare in ogni istante e contemporaneamente i valori di decine se non
di centinaia di parametri per definire una sua evoluzione musicalmente
interessante. Un lavoro di cesello presente in numerose composizioni di
musica informatica in tempo differito, ma un controllo praticamente
impossibile da realizzare in tempo reale.
Con il live electronics è stata definita una serie di tecniche e metodi per
poter integrare l’elettronica nell’orchestra. La figura del direttore della
esecuzione (vedi gli studi e le esperienze di Alvise Vidolin1) si è delineata
in modo chiaro e sono ormai sempre più frequenti partiture di musica

1
A. Vidolin, Ambienti esecutivi, in I profili del suono, «Musica verticale», 1987, pp.
159-163.
411 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

contemporanea in cui agli strumenti tradizionali si affianca una partitu­


ra elettroacustica che prevede l’integrazione di strumenti tradizionali
con l’elettronica. Il live electronics, in breve, consiste nel controllo e nella
manipolazione in tempo reale, di solito tramite potenziometri (slides) o
altre interfacce, dei parametri sonori e acustici in esecuzioni musicali.
Tipicamente si tratta di controllo della spazializzazione, della elabora­
zione del suono (per esempio riverberi, ritardi, vari tipi di filtri, elabo­
razioni più o meno sofisticate come phase vocoder o sound morphing), del­
la modulazione/manipolazione del suono di strumenti tradizionali, ba­
sandosi su suoni elettronici o su suoni di strumenti tradizionali o della
voce.
Queste operazioni sono previste in partitura e sono gestite in tempo
reale durante l’esecuzione dal direttore della esecuzione o direttore del live
electronics.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi fenomeni importanti le­
gati all’evoluzione scientifica e tecnologica. Da una parte, le capacità di
elaborazione delle macchine hanno raggiunto livelli tali da consentire
a un semplice personal computer di effettuare in tempo reale elabora­
zioni audio e video solo pochi anni fa impensabili. Dall’altra, si è assi­
stito allo sviluppo e alla maturazione di un numero importante di nuo­
ve tecniche di elaborazione e di sintesi del suono che, grazie agli ela­
boratori attuali, sono sempre più utilizzabili in tempo reale. Inoltre, la
ricerca sulla percezione e gli sviluppi tecnologici su sistemi di sensori e
su robotica hanno anch’essi raggiunto importanti livelli di maturità.
Parallelamente alla sua straordinaria diffusione, la tecnologia ha pro­
dotto dispositivi sempre più piccoli («mobili», «invisibili», «embedded»),
ad alte e crescenti prestazioni e basso e decrescente costo. Si sono resi
disponibili su vasta scala sistemi capaci di riprodurre ed elaborare mate­
riale audio e video in tempo reale. La multimedialità ha così fornito
mezzi efficaci per migliorare i paradigmi di interazione uomo-macchina,
consentendo di sfruttare in modo più efficace i diversi canali sensoriali
di cui l’uomo è dotato. Si è quindi allargata la palette delle azioni e degli
interventi possibili in tempo reale durante una esecuzione, sia dal pun­
to di vista di potenzialità sonore sia di controllo.
Per esempio, nell’ambito delle tecniche di sintesi del suono, la sinte­
si per modelli fisici, nuove tecniche di sintesi e di elaborazione della vo­
ce, la cross-sintesi (per esempio la possibilità di ottenere dei veri e pro­
pri «morphing» tra strumenti: una voce che diventa un violino), sono
solo alcuni degli sviluppi possibili in questa direzione.
Il percorso dell’informatica musicale è quindi contraddistinto anche
da una veloce evoluzione e maturazione dei modelli computazionali e
ANTONIO CAMURRI 412
dei sistemi informatici multimediali, in grado di manipolare e control­
lare il suono in modo molto sofisticato anche in tempo reale.
Negli ultimi quindici anni si è assistito all’evoluzione delle interfacce
uomo-macchina che ha portato e sta tuttora portando importanti inno­
vazioni: gli iper-strumenti (ovvero, strumenti musicali tradizionali arric­
chiti da sensori ed elettronica per andare oltre le possibilità tradizionali
di controllo del suono), gli strumenti virtuali (strumenti musicali com­
pletamente nuovi, mediante i quali si genera uno spazio «vivo» che rea­
gisce e diventa sensibile al comportamento e al gesto dell’esecutore). I
sistemi interattivi multimodali in generale hanno portato al controllo
dell’«azione sulla scena».
Una ulteriore sfida si è affiancata alle precedenti: quella di poter ave­
re il controllo dello spazio fisico, dell’azione e del gesto sul palcosceni­
co, in breve dello spazio performativo. Si è passati quindi dal modello
classico di live electronics, fondato sul controllo dalla regia, tipicamente
basato su potenziometri, a un modello «allargato» al palcoscenico: il re­
gista o il compositore possono delegare a esecutori (musicisti, cantanti,
danzatori, attori ecc.) il controllo in tempo reale di elementi relativi al
suono (ma anche del video, della luce, di scenografie mobili) durante
una performance. Un esempio tra i molti che possiamo citare lo trovia­
mo nell’azione scenica di Luciano Berio Cronaca del Luogo, che ha aper­
to il Festival di Salisburgo nel 1999. Uno dei personaggi principali, in­
terpretato da David Moss, tramite sensori cuciti nel costume, telecamere
(invisibili, disposte sulle americane sopra il palcoscenico) e il sistema
software EyesWeb (www.eyesweb.org) aveva la possibilità con il proprio
gesto di controllare in tempo reale l’elaborazione della propria voce, di
attivare/disattivare la sua registrazione e sovrapporla successivamente
stratificandola e deformandola, di generare o attivare suoni di sintesi o
campionati ecc. Il tutto avveniva in tempo reale con «gradi di libertà» as­
segnati all’esecutore su palcoscenico.
Questi sviluppi hanno delle implicazioni importanti sia dal punto di
vista del linguaggio e della ricerca artistica sia della ricerca scientifica.
Una delle sfide principali di noi operatori del settore è sintetizzabile
nella possibilità di estendere il controllo e l’esecuzione in un live electro­
nics tramite interfacce uomo-macchina evolute. Controllo che avviene
quindi non solo tramite potenziometri, ma per esempio tramite l’e­
spressività che emerge dalla fisicità del movimento e del gesto del corpo,
di uno o più danzatori, o dei partecipanti di una installazione, o di un
esecutore di un «iper-strumento».
Dalla citata esperienza di Cronaca del Luogo emergono alcuni aspetti
chiave che devono essere considerati nello sviluppo di sistemi multi­
mediali interattivi. Il primo concerne il ruolo e l’utilizzo dell’ambiente,
413 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

dello spazio fisico (con le sue eventuali estensioni virtuali) che i sistemi
multimediali interattivi spesso trasformano in uno spazio attivo, uno
spazio in grado di osservare l’utente e di dialogare con lui, sia attraver­
so la produzione di contenuti visuali e sonori, sia attraverso interfacce
fisiche, tangibili e sistemi robotici. In secondo luogo, un sistema multi­
mediale interattivo dovrà occuparsi dell’analisi dei gesti compiuti dagli
utenti. In altre parole, uno spazio attivo dovrà essere in grado di osser­
vare e «interpretare» i gesti degli utenti che lo popolano. Tale analisi,
tuttavia, non potrà limitarsi al solo livello dei parametri più grossolani
e superficiali, ma dovrà riguardare le più profonde e sottili caratteristi­
che legate all’espressività del gesto, ovvero al come un gesto viene ese­
guito. Per esempio, non basterà rilevare che un esecutore ha alzato
una mano, ma bisognerà ottenere informazioni su come l’ha alzata (in
modo fluido, esitante, nervoso, deciso). Sono le informazioni relative a
tali sottili nouance espressive, infatti, che permettono ai sistemi multi­
mediali interattivi di agire al livello del linguaggio artistico. Sono infine
di fondamentale importanza le strategie che un sistema multimediale
interattivo impiega per tradurre le informazioni acquisite nel processo
di analisi in valori per parametri di controllo di elementi della perfor­
mance e/o in generazione di opportuni stimoli multimediali. Spesso
l’efficacia di un sistema multimediale interattivo dipende direttamente
dal livello di complessità e di intelligenza di tali strategie.
Un controllo efficace di parametri sonori deve da una parte consen­
tire un controllo «fine» del suono stesso, dall’altra avere una «sensibi­
lità» adeguata nel rilevare le componenti profonde, espressive nel movi­
mento. L’analogia più semplice è con gli strumenti musicali tradiziona­
li: per esempio, con un pianoforte è possibile trasferire in una interpre­
tazione elementi agogici/interpretativi di una elevata complessità e a un
livello di dettaglio che consentono al pianista di esprimersi compiuta­
mente dal punto di vista artistico. Analogamente, si vorrebbe avere un
grado di raffinatezza comparabile anche nel caso di sistemi interattivi
multimediali.
Questa sfida si compone di un insieme di problematiche di ricerca, di
nuove metodologie e tecnologie, di nuovi approcci allo studio di mo­
delli computazionali dell’espressività nel movimento umano, di inter­
facce multimediali e multimodali (ovvero basate sull’analisi di più mo­
dalità sensoriali) sempre più sofisticate. Nel suo complesso, sintetizzia­
mo questo insieme di componenti come i requisiti necessari per la rea­
lizzazione di sistemi e ambienti multimodali interattivi (AMI).
ANTONIO CAMURRI 414
2. Sistemi e ambienti multimodali interattivi

Dall’incontro tra il bisogno di progettare sistemi in cui l’utente sia


protagonista, l’interazione naturale e le potenzialità offerte dalla multi­
medialità nascono i sistemi multimediali interattivi. Sistemi che, in un’e­
stesa varietà di domini applicativi e basandosi su un substrato di cono­
scenze tecniche, scientifiche e umanistiche, sfruttano l’azione combina-
ta di più media per la realizzazione di un’applicazione informatica pro­
gettata per e attorno all’utente, e in cui l’interazione con l’utente stesso
costituisce l’aspetto e la modalità principale attraverso la quale gli obiet­
tivi dell’applicazione vengono raggiunti.
Gli ambienti multimodali interattivi sono sistemi in grado di rilevare
attraverso sensori caratteristiche a più livelli di dettaglio e di sensibilità
nel gesto e in generale nel movimento umano, di utilizzarle nella ge­
stione in tempo reale dei processi di generazione di suono, musica, vi­
sual media (per esempio, effetti laser, video, animazione al calcolatore
di attori virtuali) e nel controllo di scenografie in movimento e robot
mobili autonomi.
Il termine «multimodale» si riferisce a una caratteristica fondamentale:
essere in grado di elaborare in tempo reale e in modo integrato flussi di
informazioni dirette a diversi canali sensoriali. Per esempio, nel caso di
uno spettatore coinvolto in un concerto di pianoforte, egli normalmente
percepisce come un unico stimolo la componente visiva (il movimento e
la presenza scenica del pianista) e quella uditiva (la musica).
Tra le caratteristiche principali di questa famiglia di sistemi troviamo
la capacità di modificare dinamicamente la propria struttura e la pro-
pria reattività sulla base del comportamento degli utenti (lo stesso gesto
in contesti diversi produce effetti differenti) e la capacità di «osservare»
caratteristiche generali del movimento, in una sorta di approccio gestal­
tiano al riconoscimento del movimento e del suono.
Questo significa andare oltre la metafora di strumento musicale: per
esempio un danzatore che controlla e genera suono non necessaria­
mente si basa sul «suonare con il corpo». Occorre un modello di intera­
zione più sofisticato, una sorta di «dialogo», di evoluzione nel tempo di
ruoli (del danzatore e del sistema che lo osserva e reagisce), con un si­
stema che abbia una memoria e in base a essa reagisca.

3. Ambienti dinamici, plasmabili dall’utente

I sistemi tradizionali di realtà virtuale hanno come obiettivo l’illusio­


ne del sistema senso-motorio umano, instaurando situazioni immersive
415 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

audio-visuali, di solito fruibili singolarmente. Anche sistemi innovativi e


costosi come CAVE non sfuggono a questa limitazione: soltanto chi in­
dossa i particolari dispositivi (caschi, virtual goggle, dataglove) entra nel
mondo ricreato dal calcolatore. In un AMI lo scopo precipuo non è «in­
gannare» i sistemi senso-motori umani, ma estendere la realtà, facendo
sì che l’utente interagisca con il mondo reale «aumentato» attraverso la
tecnologia. Da un altro punto di vista, sono le facoltà mentali e senso­
riali che vengono estese attraverso la tecnologia (P.L. Capucci, 1994).
A parte rare eccezioni, quale per esempio il sistema Placeholder svi­
luppato da Brenda Laurel al Banff Centre for the Arts ormai più di die-
ci anni fa, nei sistemi tradizionali di realtà virtuale un ambiente è defi­
nito a priori in modo statico. L’azione tipica dell’utente è la navigazio­
ne, l’esplorazione del mondo ricostruito: nel caso di sistemi per la tra­
duzione di gesto in suono/musica si hanno quindi ambienti statici, pas­
sivi, assimilabili a strumenti musicali virtuali. Al contrario, un AMI è un
ambiente «vivo», in quanto plasmabile e modificabile attraverso il com­
portamento dell’utente: in una metafora, non uno «strumento» da suo­
nare, ma un «agente» con cui interagire e «dialogare» (come nella dire­
zione di un’orchestra).
Supponiamo di agire in un AMI che rileva alcune caratteristiche del
movimento dell’utente (per esempio un danzatore) per controllare la
generazione di suono e musica. La situazione più semplice, di cui esi­
stono numerosi esempi (al MIT Media Lab, al Media Lab della CMU
ecc.), corrisponde a uno strumento musicale virtuale o a un iper-strumento.
Un esempio di strumento musicale virtuale è uno spazio dove poter
percuotere percussioni virtuali. In un AMI l’utente ha la possibilità di
plasmare l’ambiente: nello specifico, questo significa che un particolare
comportamento dell’esecutore (per esempio, caratterizzato da movi­
menti nervosi e ritmici in posizioni fisse dello spazio, quindi evocativi
dei movimenti di un percussionista) porta a una trasformazione dell’A­
MI in un insieme di percussioni virtuali. Se però a un certo punto l’ese­
cutore comincia a muoversi diversamente, più «morbido», con diffe­
renti gestualità, l’ambiente si trasformerà progressivamente in modo da
associare differenti suoni o frammenti musicali coerentemente con
questi nuovi gesti e movimenti. Potrà magari trasformarsi in modo gra­
duale da un set di percussioni virtuali in un flusso o tessitura sonora
«morbida», dove attraverso il movimento vengono controllati l’inter­
pretazione e il fraseggio, in una situazione in cui l’utente può even­
tualmente delegare al sistema gradi di libertà su scelte compositive. In
altre parole, il sistema contribuisce in tempo reale alla creazione della
musica.
ANTONIO CAMURRI 416
Questo esempio contiene alcuni princìpi essenziali di questa catego­
ria di sistemi:
– la capacità di «osservare» caratteristiche generali del movimento, con
particolare riferimento all’espressività e al gesto: distinguere diversi
«stili» di movimento (per esempio, da una gestualità nervosa, a scatti
a una caratterizzata da gesti ampi, lenti e graduali); osservare con
quanta energia, con quale fluidità si muove l’esecutore; quanto e co­
me viene occupato il volume sulla scena; quanto è a tempo con la mu­
sica che egli stesso sta generando; rilevazione di simmetrie nel movi­
mento degli arti; analisi di differenze nei movimenti delle braccia ri­
spetto alle gambe ecc.
– la metafora non è quindi solo quella di suonatore di strumento musicale
virtuale (o iper-strumento), ma diventa direttore di una orchestra virtuale, e,
andando ancora oltre, una sorta di interazione sociale o di dialogo tra
danzatore/i e ambiente;
– il progettista di questi ambienti ha un ruolo cruciale, al confine tra
coreografo, regista, compositore;
– i sistemi software per il progetto di ambienti multimodali interattivi e
di gestione e supervisione a run-time e in tempo reale dovranno ne­
cessariamente essere complessi, adattivi, «intelligenti», tali da rappre­
sentare e gestire associazioni dinamiche tra eventi molto più profon­
de di semplici relazioni causa-effetto (come nel caso dell’iper-stru­
mento) e che possano cogliere e mettere a frutto le connessioni inti­
me tra diversi canali percettivi e motori.

4. Il progetto EyesWeb

Se per alcuni decenni ci si era limitati a studiare, con l’ausilio della


tecnologia, gli aspetti più eminentemente cognitivi, legati alle facoltà in­
tellettive e relativi a quella serie di discipline che hanno contribuito a
formare il campo dell’intelligenza artificiale, in tempi più recenti la ri­
cerca si è spinta fino al tentativo di modellare i processi emozionali e le
interazioni sociali. A questo proposito, si considerino per esempio le ri­
cerche su Affective Computing condotte al MIT dal gruppo di Rosalind
Picard2 o le ricerche su KANSEI Information Processing del gruppo di
Shuji Hashimoto in Giappone.3 Allo stesso tempo maggiore attenzione è
2
R. Picard, Affective Computing, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1997.
3
K. Suzuki, S. Hashimoto, Emotional Sound Space Using Neural Networks, in A. Ca­
murri (a cura di) Proceeding of Aimi Intl. Workshop on Kansei “Tecnology of Emotion”, Ai-
mi e Dist-, Università di Genova 1997.
417 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

stata dedicata alla fisicità: dallo studio dell’uomo in quanto «mente» si è


passati allo studio dell’uomo in quanto soggetto dotato di un corpo che
interagisce con l’ambiente circostante.
In questa direzione, diverse ricerche e investimenti si sono rivolti all’a­
nalisi del gesto espressivo: il Laboratorio InfoMus, nell’ambito del pro­
getto europeo IST MEGA (Multisensory Expressive Gesture Applications,
www.megaproject.org), ha esplorato insieme ad altri gruppi di ricerca
(Università di Gent, Padova, Uppsala, il KTH a Stoccolma) una sorta di
«terza via europea» alle due citate sopra (Affective Computing e Kansei
Information Processing). Questa «terza via» ha tra i suoi risultati innovati­
vi sistemi software e hardware riuniti nella piattaforma EyesWeb.
La ricerca alla base del progetto riguarda lo sviluppo di AMI e in par­
ticolare l’esplorazione e lo studio di «gesto espressivo»: sviluppo di al­
goritmi miranti a estrarre parametri di medio-alto livello dal movimento
e dal segnale audio, basandosi anche su studi psicologici sulla espressi­
vità, da teorie di coreografi (come la Teoria dell’Effort di Rudolf Laban)
a teorie musicali (per esempio la Morfologia di Pierre Schaeffer).
Le problematiche, i modelli e i risultati ottenuti sono utilizzati in con­
testi applicativi relativi alle interfacce uomo-macchina multisensoriali
per la comunicazione non verbale, con particolare riferimento al conte­
nuto espressivo in ambienti di Mixed Reality.
L’attenzione è in particolare diretta a sistemi in grado di riconoscere
l’espressività contenuta nell’esecuzione di brani musicali e nel movi­
mento dell’intero corpo umano (si consideri, per esempio, il movimen­
to di un danzatore) e di trasmettere un contenuto espressivo attraverso
l’uso di musica, suoni, movimento, visual media. Le finalità sono molte­
plici: dallo sviluppo di nuovi paradigmi di interazione uomo-macchina,
all’integrazione multimodale di linguaggi mediante teorie ispirate alla
coreografia, al montaggio audiovisivo nel cinema, alla composizione e
alla prassi esecutiva in musica. Gli obiettivi nel progetto EU-IST MEGA
prevedono inoltre lo sviluppo di algoritmi per l’analisi e la sintesi del
contenuto espressivo e l’implementazione delle tecniche approntate al-
l’interno di una innovativa architettura hw/sw integrata (EyesWeb:
www.infomus.dist.unige.it/EywIndex.html).

5. L’analisi dell’espressività nel movimento:


due esempi di direzioni della ricerca

Tra le componenti più rilevanti in questo percorso dell’informatica


musicale abbiamo visto l’analisi del gesto nelle sue componenti multi­
modali ed espressive e il «mapping», ovvero le strategie che un sistema
ANTONIO CAMURRI 418
multimediale interattivo impiega per tradurre le informazioni acquisite
nel processo di analisi in valori per parametri di controllo di elementi
della performance e/o in generazione di opportuni stimoli multime­
diali.
Il lavoro sull’analisi del gesto nelle sue componenti espressive e mul­
timodali deve basarsi su diverse sorgenti:
– biomeccanica e tecniche di motion capture;
– ricerche e teorie di coreografi sulla comunicazione di contenuto
espressivo nella danza (per esempio la «Effort Theory» di Rudolf La­
ban);
– ricerche e teorie di psicologi sulla comunicazione di espressività at­
traverso canali non verbali;
– ricerche e teorie su «Kansei» (in questo contesto la parola giappone­
se «Kansei» è intesa con il significato di intensità del coinvolgimento
artistico, estetico, emotivo);4
– ricerche e teorie legate alla composizione e alla prassi esecutiva in
musica.
In particolare, sulla base degli scritti del coreografo Rudolf Laban, si
distingue principalmente tra l’analisi del movimento nel «Personal Spa-
ce», detto anche «Kinesphere», e l’analisi del movimento nel «General
Space».
Il movimento viene quindi considerato sotto due differenti punti di
vista:
– i dettagli del movimento di una singola persona come il movimento
di una mano di un danzatore;
– il movimento di uno o più persone rispetto a uno spazio più ampio
(danzatori considerati come punti sul palcoscenico, o visitatori che si
muovono in una sala di museo o in una installazione).
Due diverse metodologie possono essere applicate:
– un approccio bottom-up (dal particolare al generale) mirante a misu­
rare un insieme di parametri che psicologi e coreografi ritengono ri­
levanti nella comunicazione di contenuto espressivo;
– un approccio top-down (dal generale al particolare) mirante a identi­
ficare quali siano le caratteristiche del movimento rilevanti per uno
spettatore nel processo percettivo di valutazione della «intensità arti­
stica» (o del Kansei) suscitati da una performance.

4
K. Suzuki, A. Camurri, P. Ferrentino, S. Hashimoto, Intelligent Agent System for
Humn-Robot Interaction through Artificial Emotion in Proceeding of 1998 Intl. Conf. on “Sy­
stem, Man Cybernetics, Ieee Cs Press, San Diego (Ca) USA, 1998.
419 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

Approccio bottom-up

Il percorso verso l’analisi del contenuto espressivo passa attraverso


diversi livelli:
– Estrazione di dati di basso livello mediante sensori. Questo passo dipende
fortemente dal tipo di sensori che vengono utilizzati. In questo con­
testo la parola «sensori» si riferisce sia al dispositivo fisico che viene
utilizzato, sia agli algoritmi di basso livello che estraggono dati ele­
mentari dai sensori. Si può parlare quindi di «sensori virtuali».
– Creazione di una descrizione del movimento osservato. Tale descrizione è
derivata dai dati fisici ottenuti dai sensori (reali e virtuali) del livello
sottostante. Lo scopo è quello di determinare e misurare caratteristi­
che espressive del movimento. Una sequenza di movimento può es­
sere suddivisa in unità base, ciascuna delle quali diversamente carat­
terizzata in termini di velocità, impulsività, diretto/flessibile, fluidità
ecc. Il problema è quindi quello di individuare tali unità base e misu­
rarne le caratteristiche ritenute più importanti al fine della comuni­
cazione di contenuto espressivo. Il risultato di questo livello consiste
nella individuazione e nella descrizione simbolica delle diverse unità
base in cui il movimento è segmentabile e nella misura delle quantità
che li descrivono.
– Analisi dei dati ottenuti. A questo livello lo studio si concentra sull’ana­
lisi dei dati precedentemente ottenuti e riferiti a un archivio di movi­
menti di riferimento (un frammento di movimento di breve durata, ma
sufficiente a riconoscerne le caratteristiche espressive). Un movi­
mento di riferimento (per esempio un breve frammento di una co­
reografia) può essere eseguito con diverse intenzioni espressive. La
metodologia, allora, prevede la registrazione di un archivio di «mi­
crodanze» che vengono esaminate da valutatori umani. Si cerca poi di
collegare le misure fatte automaticamente con i risultati di tale valu­
tazione allo scopo di isolare i fattori importanti per la comunicazione
espressiva.
Una volta individuati e misurati i fattori determinanti per l’analisi del
contenuto espressivo si può procedere allo sviluppo di algoritmi in gra­
do di operarne il riconoscimento. Tali algoritmi potranno essere testati
confrontandone l’output con i risultati della valutazione effettuata da es­
seri umani.
ANTONIO CAMURRI 420
7. Approccio top-down

Questo approccio si basa sulla registrazione di un archivio di filmati


di riferimento contenenti frammenti di performance artistiche. Tecni­
che di elaborazione di immagini vengono quindi applicate ai filmati al­
lo scopo di sottrarre gradualmente informazione dai filmati stessi. Per
esempio, parti del corpo del danzatore possono essere progressivamen­
te nascoste fino a ottenere un insieme di punti in movimento, filtri
deformanti possono essere applicati, il frame rate può essere diminuito.
Ogni qual volta l’informazione viene ridotta, viene chiesto a un gruppo
di spettatori di valutare l’intensità del loro coinvolgimento emotivo («ri­
sonanza») su una scala che spazia da valori negativi a valori positivi (un
valore negativo significa che il filmato suscita un qualche coinvolgimen­
to nello spettatore, ma la sensazione associata è negativa). Le transizioni
tra valutazioni positive, negative e nulle (ovvero lo spettatore non è riu­
scito a trovare alcuna espressività nella sequenza video analizzata) aiute­
rebbero a identificare quali sono le caratteristiche del movimento che
più di altre sono responsabili della comunicazione di contenuto espres­
sivo. Questa metodologia richiede una profonda interazione tra la fase
di elaborazione dei frammenti video (ovvero le decisioni relative a qua-
le informazione debba essere sottratta) e la fase di valutazione.
Appare chiaro come questi esempi descrivano un settore in piena
evoluzione, con sfide sempre più impegnative (spesso impossibili, ma
porsi obiettivi ambiziosi dà lo slancio necessario per ottenere risultati
più modesti ma comunque importanti nella direzione voluta).

8. Esempi: la piattaforma EyesWeb

La piattaforma e il progetto EyesWeb, hanno avuto negli ultimi anni


un’ampia diffusione in diverse comunità scientifiche e artistiche, in ter­
mini di alcune migliaia di utilizzatori del software sia individuali sia isti­
tuzionali (la piattaforma software aperta EyesWeb, in particolare, è di­
sponibile gratuitamente su www.eyesweb.org). In questo capitolo finale
vengono descritti alcuni semplici esempi di moduli che sono stati utiliz­
zati nella realizzazione di sistemi multimodali.
Nella figura seguente, il movimento del danzatore è osservato da Eye­
sWeb che disegna un punto in uno spazio le cui coordinate sono fluidità
(asse X) e quantità di movimento (asse Y):
421 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

Un movimento che il sistema ritiene fluido sarà quindi posizionato


nella destra del grafico, in alto se compiuto con elevata energia e in bas­
so altrimenti.
Nella figura che segue, invece troviamo due esempi di caratteristiche
di basso livello osservabili in EyesWeb, che sono utilizzate come base di
partenza per il calcolo di grandezze più elaborate come fluidità e quan­
tità di movimento. Grazie alla EyesWeb Expressive Gesture Processing
Library, in EyesWeb è possibile estrarre in tempo reale più di un centi­
naio di caratteristiche bidimensionali e tridimensionali. Nella figura, a
sinistra sono individuate alcune aree del corpo (sub-region) di cui è
possibile calcolare l’evoluzione nel tempo; nella figura sulla destra sono
mostrati il contorno della silhouette e la minima regione che circonda il
ANTONIO CAMURRI 422
corpo (i moduli software sono stati sviluppati da Gualtiero Volpe, Bar­
bara Mazzarino e Riccardo Trocca del Laboratorio InfoMus).
EyesWeb è utilizzato molto spesso nella progettazione artistica. Nel­
l’applicazione EyesWeb sviluppata per il brano Allegoria dell’opinione ver­
bale di Roberto Doati, il movimento delle labbra dell’attrice viene rileva­
to e utilizzato per modificare in tempo reale la voce stessa dell’attrice,
creando diverse situazioni percettivamente e artisticamente interessanti,
anche di «spiazzamento percettivo» (brano eseguito alla stagione del
Teatro La Fenice, Venezia e al Teatro Carlo Felice, Genova. Attrice Fran­
cesca Faiella).

Nel laboratorio multimediale InfoMusLab del Dipartimento infor­


matica sistemistica e telematica dell’Università di Genova (http://info­
mus.dist.unige.it) sono state realizzate due esperienze artistiche con un
piccolo robot autonomo (un Pioneer 2 dello Stanford Research Institu­
te, con ulteriori elettroniche wireless e audio sviluppate dallo stesso
InfoMusLab). Il robot è stato utilizzato come un «visitatore» in una mo­
stra di arte contemporanea e in uno spettacolo con il coreografo Virgi­
lio Sieni, la regia di Ezio Cuoghi e testi di Giorgio Celli (L’ala dei sensi,
Ferrara, 1999). Nel primo caso, il robot è una interfaccia tra i visitatori e
le opere nel museo: il robot percorre autonomamente lo spazio esposi­
tivo, ha come obiettivo la visita delle varie opere e riceve dall’ambiente
stimoli positivi (per esempio, l’essere affiancato da persone senza essere
ostacolato nel movimento: riceve interesse) e negativi (un ostacolo di
più persone che si interpongono sulla sua traiettoria e gli impediscono
di raggiungere le opere). Un modello di emozioni artificiali modula il
comportamento del robot, che viene espresso dal particolare modo di
muoversi (scodinzolante e veloce se in uno stato positivo «felice»; o len­
to e attaccato ai muri: «triste»; o a scatti: «arrabbiato ecc.), dalla sono­
rizzazione che viene generata in tempo reale sulla base dello «stato emo­
tivo» del robot stesso, dall’output video che il robot esibisce su schermi
posti nell’ambiente. Questi schermi presentano l’immagine che il robot
«vede» in quel momento, ma filtrata da una sorta di «lente emotiva» che
deforma l’immagine acquisita dalla telecamera del robot in funzione
del suo «stato d’animo».
Nello spettacolo L’ala dei sensi è stata invece studiata l’interazione uo­
mo-robot dal punto di vista della danza e di come si possa rendere inte­
ressante un robot in un contesto di dialogo basato sul movimento e la
comunicazione non verbale (movimento del robot in funzione del mo­
vimento del danzatore; segnale video proiettato dal robot su schermo).
In questo caso, il robot (con una telecamera e un videoproiettore a bor­
do) passa da una situazione completamente controllata dalla regia e
423 L’INTERAZIONE UOMO-MACCHINA NELL’INFORMATICA MUSICALE

con un cavo-«cordone ombelicale» (per l’alimentazione 220V) a una si­


tuazione completamente autonoma creata dal danzatore, che, a un cer­
to punto della performance, stacca il cavo di alimentazione dal robot: da
quel momento il robot prende «vita», seguendo il danzatore e intera­
gendo con lui in modo autonomo.
Un’ultima considerazione concerne l’estensione del dialogo e della
interazione allo spettatore. Si progetta infatti di rilevare non solo quan­
to accade sul palcoscenico (o nella installazione), ma anche le reazioni
degli spettatori, magari per riproporre o esplicitare un dialogo pubbli­
co-esecutore in nuove forme di interazione.
Attualmente una direzione importante della ricerca nella comunità
internazionale è concentrata appunto su modelli e tecniche per rilevare
in modo non intrusivo aspetti relativi al coinvolgimento emotivo in sog­
getti esposti a stimoli artistici. Si tratta di obiettivi molto ambiziosi og­
getto di studio preliminare in progetti di ricerca internazionali (si veda
per esempio www.megaproject.org), ma che sembrano molto promet­
tenti per lo sviluppo della ricerca nel settore dell’informatica musicale,
nelle arti digitali e in diversi settori di ricerca scientifica.

9. Considerazioni finali

Gli sviluppi descritti finora implicano uno stato dell’arte della ricer­
ca scientifica e artistica in grande fermento ed evoluzione. Nella danza,
nella musica e nell’arte interattiva sono sempre più spesso coinvolte
componenti informatiche, multimedialità, allo scopo di estendere tali
linguaggi. La maturazione della tecnologia sta rivoluzionando i proces­
si di creazione dell’arte. L’informatica musicale, nata più di trent’anni
fa, sta dimostrando in questi ultimi anni una raggiunta maturità sia at­
traverso le opere musicali sia attraverso il consolidamento di tecnologie
utilizzate nei processi di creazione e produzione artistica. Nella danza e
nel teatro contemporaneo si sta delineando una visione in cui la tecno­
logia estende le facoltà percettive e motorie del corpo umano, allo sco­
po di esplorare nuovi linguaggi espressivi. Una delle problematiche
cruciali del teatro musicale contemporaneo concerne il rapporto tra
scenografia e musica, tra visione e ascolto, dove per esempio movimen­
ti scenici e musica sono integrati in contesti di ricerca artistica e scien­
tifica.
PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI
Andrea Balzola

1. Il primato del modello tecnologico

Nell’età moderna la tecnica si è progressivamente emancipata dal vin­


colo morale, subordinando sempre più la conoscenza dei valori ai valo­
ri (anche nel senso economico del termine) della conoscenza. All’origi­
ne dell’attuale primato della tecnica, che prende avvio a metà del Sette­
cento con l’impiego di macchine come mezzi di produzione, c’è una
progressiva separazione tra razionalità scientifica e riflessione filosofica,
mentre all’interno della speculazione filosofica si assiste all’affermazio­
ne del metodo razionale cartesiano. «La tecnologia è il dono prometei­
co di Cartesio elevato a modello di vita. In essa tutto è metodo; è un ve­
ro e proprio mondo di mezzi scevro di finalità», sottolinea Verene, ri­
cordando che «la società diventa “tecnologica” quando la tecnica diven­
ta oggetto di “giudizio razionale”, nel momento in cui ci si comincia a
preoccupare del “mezzo migliore”».1 Tutte le attività umane diventano
dei «mezzi» e sono regolate dalla ricerca permanente del «mezzo mi­
gliore», o della sua ottimizzazione: la tecnica diventa il medium dell’esi­
stenza moderna. Si realizza così il passaggio dalla tecnica alla tecnologia,
che corrisponde appunto alla creazione di un logos specifico e autono­
mo della tecnica: la tecnica prende la parola e rifonda l’ordine del di­
scorso sociale. Il ruolo dell’etica è ridimensionato nell’ambito stesso del­
la riflessione filosofica,2 mentre la globalizzazione economica, scientifica
e militare crea le condizioni di uno sdoganamento pressoché assoluto
dell’immaginario tecnologico. L’evoluzione dei modelli sociali, cultura­
li, economici e politici, quindi l’idea stessa di «progresso», viene fatta
coincidere con lo sviluppo tecnologico, che diventa pertanto autorefe­
renziale, diventa appunto valore in sé, al contrario il mancato o arretrato
sviluppo tecnologico, indipendentemente dalle cause e dalle circostanze
diventa sinonimo di arretratezza, quindi di disvalore morale. Di conse­

1
D.P. Verene, La filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé (1997), Istituto italiano per
gli studi filosofici, Vivarium, Napoli 2003, in particolare il capitolo Il desiderio tecnolo­
gico, pp. 123-165.
2
Tranne alcune rilevanti ma rare eccezioni come l’etica della responsabilità, cfr.
H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), Einaudi,
Torino 1993.
425 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

guenza le problematiche legate alla condizione biologica dell’uomo e


della sfera naturale, alla condizione di sviluppo sociale, alla sfera delle
comunicazioni e degli spostamenti, diventano «problemi tecnici» e co­
me tali sono affrontati cercando «soluzioni tecniche», nella direzione di
un potenziamento tecnologico idealmente illimitato delle facoltà uma­
ne.

2. Crisi e rifondazione dell’etica nel tecnomondo

Secondo Jacques Ellul,3 «la tecnica non rispetta mai la distinzione tra
uso morale e uso immorale. Essa tende, al contrario, a creare una mo­
ralità tecnica completamente autonoma». È veramente così? L’autore­
ferenzialità della tecnica sospende ogni valore morale? Oppure, come
avverte Philippe Quéau, produce un nuovo mondo che costringe l’uo­
mo a trovare «un nuovo ruolo per l’intelligenza umana»? E a rifondare
una nuova etica, come prefigura Hans Jonas? Si assiste ormai a un ri­
baltamento, solo apparentemente paradossale: la tecnologia è diventa­
ta il modello dominante dell’evoluzione umana (o, per alcuni, soltanto
di un divenire senza meta), liberandosi dai vincoli morali che antica­
mente subordinavano il fare della tecnica ai valori etici e al pensiero fi­
losofico-religioso, ma ecco che oggi gli effetti del fare tecnologico sol­
levano nuovi problemi d’ordine etico e filosofico. Ed è in questo ribal­
tamento che il tecnomondo della comunicazione digitale, della roboti­
ca, dell’intelligenza artificiale e della biogenetica riporta oggi in primo
piano la questione etica. Al potenziamento dell’apparato tecnologico
corrisponde una rinnovata consapevolezza della portata dei suoi effetti,
tanto i timori quanto gli entusiasmi rispetto a essa convergono nel rico­
noscimento che il processo di mutamento innescato dall’azione tecnica
è radicale e irreversibile. Da questo punto di vista, l’etica si deve rifon­
dare perché, come suggerisce Jonas, sono cambiate le sue premesse:
«Ogni etica tradizionale [...] condivideva tacitamente le seguenti, tra lo­
ro correlate, premesse: 1) la condizione umana, definita dalla natura
dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi
tratti fondamentali; 2) Su questa base si può determinare senza diffi­
coltà e avvedutamente il bene umano; 3) la portata dell’agire umano e
quindi della responsabilità è strettamente circoscritta» (H. Jonas,
1979). Queste premesse sono infatti invalidate dal livello di estensione
e potenziamento delle facoltà umane raggiunto e raggiungibile dall’in­
novazione tecnologica. Si è prodotto uno scarto epocale – alcuni hanno

3
Cfr. J. Ellul, La tecnica rischio del secolo (1954), Giuffré, Milano 1969.
ANDREA BALZOLA 426
parlato di una trasformazione antropologica – rispetto alla stessa evolu­
zione tecnica del passato, di duplice natura: temporale ed essenziale. Tem­
porale, perché si è passati, nell’arco dell’ultimo secolo, da un’innovazio­
ne tecnica di lunga durata, con tempi e modi adeguati per un’assimila­
zione socioculturale diffusa, a un’innovazione accelerata, in tempo rea­
le, senza soluzione di continuità e senza la possibilità di un’elaborazio­
ne collettiva del suo senso e dei suoi effetti. Essenziale, cioè relativa alle
essenze, perché oggi l’innovazione tecnologica raggiunge l’essenza del­
la condizione biologica e ontologica umana. Ciò accade quando la tec­
nologia produce armi di distruzione in grado di polverizzare il pianeta,
o scorie industriali in grado di avvelenarlo e desertificarlo, quando
proietta un’identità mediatica universale sulle culture locali, o quando
diventa capace di riconoscere e modificare il codice genetico degli es­
seri viventi, di determinarne le condizioni di riproduzione e di nascita,
l’aspetto esteriore e il sesso, la durata di esistenza, di generare creature
ibride e transgeniche, oppure di integrare organicamente l’elemento
artificiale con quello biologico. In una parola, quando l’innovazione
tecnologica sembra appropriarsi in modo assoluto e definitivo del de­
stino umano e naturale, rivelandosi in grado di ridefinire lo statuto, le
modalità di generazione e di sopravvivenza del pianeta e degli esseri vi­
venti. In questo nuovo paradigma salta l’opposizione tradizionale natu­
ra/tecnica, perché la prima viene assorbita e gestita dalla seconda, con
conseguenze capitali, poiché è sempre stata l’esistenza di questa oppo­
sizione, e quindi di questa bipolarità, a fornire all’uomo le coordinate
concettuali e materiali di orientamento dei suoi compiti, delle sue re­
sponsabilità e finalità. Il ruolo dell’etica in una simile prospettiva non
può più essere un a priori, come lo era in passato, ma uno strumento di
vigilanza e di consapevolezza, in grado di conoscere e di entrare nei ter­
mini dell’evoluzione tecnologica al fine di fornire a essa un contesto di
riflessione e di orientamento, mentre di fatto, ora, tempi e modi di tale
orientamento sono dettati quasi esclusivamente dal mercato. Affinché
una rifondazione dell’etica contemporanea sia efficace e possibile, essa
deve calarsi nel fare, o meglio, deve ri-formarsi all’interno delle prati­
che tecnologiche. L’etica non può più avere un ruolo prescrittivo, sia
perché, come ricorda Galimberti,4 non è di fatto in grado né di condi­
zionare a priori né di prevedere con certezza gli incessanti cambiamen­
ti prodotti dall’innovazione tecnologica, sia perché l’etica contempora­
nea si presenta come una costellazione di etiche, un pensiero comples­
so della molteplicità e della multilateralità, è quindi per sua natura non

4
Cfr. il capitolo La tecnica e l’impotenza dell’etica in U. Galimberti, Psiche e Techne, Fel­
trinelli, Milano 1999, pp. 457-473.
427 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

dogmatica e pluralista. Se le norme di comportamento e la finalità del


bene collettivo non possono essere ridotte a un unico modello «univer-
sale totalizzante»,5 devono essere individuate attraverso le nuove moda­
lità di comunicazione e socializzazione che si affermano nel nostro tec­
nomondo.

3. La dimensione virtuale

La radicalità e la centralità del modello di sviluppo tecnologico spo­


stano le problematiche dell’esperienza contemporanea dal piano del
reale al piano del virtuale. Le identità individuali e collettive non han-
no più modelli stabili, tendono a s-definirsi e ridefinirsi in continuazio­
ne, sono perciò identità mutanti, che vivono di e nei mutamenti, con
oscillazioni spesso radicali del livello di consapevolezza e anche delle
condizioni reali di vita. Sono identità che si individuano quindi, so­
prattutto, in una dimensione virtuale, cioè nel progetto di un’identità,
dove il presente slitta sul futuro, e ci si ritrova dentro senza preavviso.
In questa prospettiva, il virtuale inteso come orizzonte tecnologico del­
le relazioni, delle comunicazioni e delle esperienze, svolge una funzio­
ne simbolicamente rilevante nell’immaginario collettivo, soprattutto
giovanile. Per questo è diventato subito oggetto di studi e riflessioni che
è importante ripercorrere e mettere a confronto. Secondo Pierre Lévy,
il virtuale non deve essere inteso come un sinonimo di astratto o fittizio,
ma assume i tratti di un differente grado del reale, genera una sua nuo­
va identità (1995). Per Virilio si tratta di una «dimensione supplemen­
tare della realtà», mentre Quéau parla del virtuale come di un «nuovo
stato di realtà»: sarebbe una delle risposte possibili, la più attuale, alle
molteplici definizioni del reale, più precisamente «uno stato interme­
dio» costituito da oggetti matematici, che rievoca la visione profetica di
Platone per il quale proprio gli oggetti matematici erano intermediari
tra il sensibile e l’intelligibile. Ecco che l’ossimoro «realtà virtuale» assume
subito, mediante il suo paradosso costitutivo, una valenza destabiliz­
zante: come può essere una realtà «virtuale»? Oppure una virtualità
«reale»? Anche se esiste una strettissima relazione tra il virtuale inteso
in chiave concettuale e il virtuale tecnologicamente concretizzato nelle
realtà virtuali e artificiali, è importante innanzitutto individuare l’iden­
tità di una «una tecnologia che per prima, in modo esplicito e pro­
grammatico, ha compreso che l’esperienza non è della realtà ma del

5
Cfr. il capitolo L’universale senza totalità, essenza della cybercultura in P. Lévy, Cyber­
cultura (1979), Feltrinelli, Milano 2001, pp. 107-117.
ANDREA BALZOLA 428
rapporto con la realtà. La sua novità sta nell’essere il primo medium
che non comunica messaggi ma percezioni del mondo».6 Collegate al
virtuale sono innanzitutto l’idea e la pratica della simulazione: la realtà
virtuale è di fatto un ambiente digitale all’interno del quale sono simu­
late delle condizioni di esperienza reale, sperimentabili sinestetica­
mente mediante apposite interfacce tra il corpo e l’apparato tecnologi­
co (hardware e software). L’evoluzione di queste interfacce è costante,
dalle prime macchinose tute e caschi ai laser retinici e agli impianti col­
legati direttamente ai nervi ottici. Superata la fase d’immedesimazione
analogica audiovisiva proposta dal cinema e dal video,7 si oltrepassa la
quarta parete dello schermo e si entra con il corpo, i suoi movimenti, le
sue azioni e i cinque sensi (anche se l’olfatto e il gusto sono ancora
scarsamente coinvolti dalle esperienze virtuali), dentro un simulacro
sintetico. Questa esperienza può avere tre direzioni possibili, una è
quella di vivere un ambiente immaginifico, riproducendo una sorta di
esperienza onirica, oppure quella di vivere un ambiente verosimile, esisti­
to o esistente ma distante nel tempo o nello spazio, oppure un ambien­
te possibile, non ancora esistente ma progettabile. Oltre all’ambiente en­
tra in gioco la qualità dell’esperienza richiesta, che può andare da una
semplice esplorazione di intrattenimento o conoscenza, all’addestramento
a operazioni (militari, sportive, chirurgiche, ingegneristiche ecc.) par­
ticolarmente ardue o particolarmente rischiose nel mondo reale. Pro­
prio in quest’ultimo campo si sono avute le principali applicazioni ope­
rative, prevalentemente militari, ma è stato anche ipotizzato un possi­
bile impiego dell’addestramento virtuale in percorsi iniziatici di ap­
prendimento spirituale, di tipo sciamanico (E. Zolla, 1992).
Diversamente dai sistemi tradizionali di realtà virtuale dove l’ambien­
te è definito a priori in modo statico, il ruolo dell’utente diventa più at­
tivo negli ambienti multimodali interattivi (AMI), – definiti da Camurri co­
me sistemi in grado di rilevare attraverso sensori caratteristiche a più li­
velli di dettaglio e di sensibilità nel gesto e in generale nel movimento
umano, per gestirle ed elaborarle in tempo reale – in cui egli può mo­
dellare lo spazio virtuale mediante il suo comportamento.
Il virtuale è una particolare e inedita forma di simulazione, in grado
di produrre ambienti per l’esperienza: «Il virtuale è un’immagine effi­
cace del mondo, un’immagine che permette di agire sul reale. È una
nuova forma di rappresentazione che, mediante immagini di sintesi,

6
G. Bettetini e F. Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Bompiani, Mila­
no 1998, p. 306.
7
Cfr. A. Balzola, Per una verginità postuma dell’ordigno audiovisivo, in AA.VV., Il nuo­
vo mondo dell’immagine elettronica, edizioni Dedalo, Bari 1985, pp. 116-137.
429 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

permette di calarsi in un mondo. In fondo, il virtuale, cos’è? È il mon-


do, non fatto immagine, ma l’immagine che diviene mondo» (P.
Quéau, 1995).
La simulazione virtuale introduce un’opportunità fondamentale dal
punto di vista cognitivo, quella di unire la fase progettuale e la fase spe­
rimentale: l’idea si realizza immediatamente come ambiente e come
esperienza possibili. Il virtuale potenzia quindi le facoltà di conoscenza,
ma i risultati dell’esperienza virtuale oggi sono valutati prevalente­
mente secondo parametri puramente tecnologici di efficacia e di effi­
cienza operative, sia al livello dell’intrattenimento sia al livello dell’adde­
stramento. Rimane perciò in sospeso il «quesito capitale» sul senso di
questo nuovo strumento cognitivo: «Che cosa si dovrà congegnare e
quale libertà sarà da largire agli allestitori di programmi? La risposta
dipenderà dal fine che assegneremo alla vita umana in genere» (E.Zol­
la, 1992).

4. Critica dell’illusione

Abbiamo visto come la finalità sia ancora un problema etico che il


modello di sviluppo tecnologico supera nell’«ideologia» autoreferen­
ziale del fare, dove fine e mezzi coincidono perché l’innovazione tec­
nologica si fonda e si giustifica nel potenziamento, virtualmente indefi­
nito e illimitato, delle facoltà umane. Torna alla mente l’avvertimento
di Quéau, uno dei più precoci studiosi del virtuale: «Anche se i mondi
virtuali ci permettono di pensare meglio, questo vantaggio relativo non
sarà sufficiente a compensare gli inconvenienti dello sviluppo genera­
lizzato di una droga sociale pesante, quella dell’illusione, anch’essa al­
trettanto reale».8 Se la dimensione virtuale è per sua stessa definizione
e costituzione ambigua, questa ambiguità si rispecchia nell’identità del
modello tecnologico nel suo complesso, perciò diventa necessario to­
gliere al discorso sulla tecnica ogni carattere apologetico e sviluppare
una riflessione critica sulle zone d’ombra dei nuovi modelli cognitivi e
comportamentali a essa connessi. Lo stesso Quéau individua tre rischi
principali nell’affermazione del virtuale: schizofrenia, poiché la sempre
crescente spettacolarizzazione e fascinazione dei mondi virtuali può
produrre una dissociazione progressiva tra un corpo che vive nella
realtà e una mente sempre in fuga nel cyberspazio; attitudine formaliz­
zante, poiché, abituati a manipolare tutto in termini di dati, cifre, mo­

8
P. Quéau, Mondes virtuels et mondes potentiels, Symposium XIII video art festival di
Locarno, 1992.
ANDREA BALZOLA 430
delli razionali, si rischia di adottare questo metodo di analisi, che è es­
senzialmente formale e matematico, applicandolo alla realtà; confusio­
ne, poiché la realtà virtuale è nello stesso tempo reale e virtuale, avendo
gli attributi di entrambe le categorie, il rischio è quello di mescolare
questi attributi e quindi di confondere due categorie ben distinte. Que­
sta «confusione» è accentuata dall’enfasi generalmente posta sui risul­
tati operativi delle tecnologie del virtuale, a scapito di un interesse per
le modalità con cui essi sono raggiunti e quindi a scapito della verità
dell’esperienza stessa. Le nuove generazioni di piloti militari che han-
no bombardato l’Iraq sono state perfettamente addestrate con dei pro­
grammi simulatori e poi, durante le azioni effettive, i loro stessi bom­
bardamenti sono stati ripresi con telecamere posizionate sugli aerei
(analogamente a quelle montate nelle cabine di pilotaggio delle auto­
mobili di Formula uno). Con un curioso effetto a circuito chiuso tra i
media: dalla virtualità dell’addestramento alla realtà dell’azione milita­
re, al ritorno della stessa nella virtualità delle immagini televisive pro­
mulgate dai comandi militari attraverso i network. Alla sorgente e alla
foce, l’evento è virtuale e spettacolare, la sostanza tragica dell’azione è
solo un passaggio accidentale tra le due polarità. Ma qual era la diffe­
renza per quei piloti nel grado di percezione degli effetti delle loro
azioni, qual era la reale distinzione nella loro esperienza tra il bersaglio
reale e il bersaglio virtuale? Cosa, nella loro percezione, distingueva il
bagliore elettronico di un’esplosione dalla strage reale di una bomba
non abbastanza intelligente? In un certo senso, quei piloti che teleco­
mandavano le bombe erano a loro volta telecomandati dall’apparato
tecnologico che li aveva addestrati e finalizzati. Virilio, che ha molto in­
sistito sul rapporto tra l’uso, anche artistico, delle nuove tecnologie e
l’innovazione strategica militare, ci ricorda che «tutte le ricerche fatte a
livello militare sono attualmente concentrate sulla fragilità e sulla falli­
bilità dell’individuo». Se la tecnologia militare ha cercato di sviluppare
al massimo il processo di miniaturizzazione delle armi e degli strumen­
ti di spionaggio, «la parte più difficile da gestire per i militari, è l’indi­
viduo che si fa portatore di questi sistemi di armamenti. Ed è in questo
senso che i militari indirizzano i loro interessi sui problemi dell’alluci­
nazione, del telecomando, della teleazione dell’individuo. I militari si
chiedono come far teleagire l’individuo contro la sua volontà» (P. Viri­
lio, 1995). La guerra, esito radicale ma coerente di una società fondata
sulla potenza tecnologica si astrae, spostandosi anche su un piano per­
cettivo: come nei computer-game vince chi vede meglio e chi vede pri­
ma e chi associa in modo più rapido ed efficace l’azione alla percezio­
ne. L’uomo non va alla ricerca dell’esperienza, l’esperienza gli arriva
già pronta e preparata, rispetto a essa ha un ruolo puramente reattivo a
431 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

livello nervoso e una coscienza inerte. Piuttosto che enfatizzare gli


aspetti allucinatori del virtuale, che ne possono fare una droga elettro­
nica apparentabile alle droghe chimiche, sarebbe forse più utile la
creazione di laboratori permanenti, accessibili al pubblico, dove sia
possibile stabilire un rapporto costante di collaborazione e sperimenta­
zione tra la ricerca artistica e quella tecno-scientifica, con finalità, oltre
che creative, formative e divulgative, d’interesse sociale e d’impegno ci­
vile.9 Tanto più che oggi il campo di studio e di ricerca dell’interazione
uomo-macchina si estende dagli aspetti più marcatamente cognitivi, le­
gati alle facoltà intellettive e relativi a quella serie di discipline che han-
no formato gli ambiti dell’intelligenza artificiale, al tentativo di model­
lare i processi emozionali, espressivi e le interazioni sociali (A. Camur­
ri, 1998).

5. Vero e verosimile, simulazione e simulacro

Noi sappiamo che tanto le realtà virtuali, quanto i più sofisticati pro­
grammi di simulazione non appartengono ancora a un’esperienza col­
lettiva diffusa, ma sono il modello sia delle play-station dei computer-ga­
me, sia dei software di Motion Capture e delle realtà artificiali, dove l’u­
tente anima il proprio alter-ego digitale (avatar) all’interno di un am­
biente e di una sequenza di azioni virtuali. Un procedimento adottato
dall’ultima generazione degli effetti speciali cinematografici (vedi la se-
rie di Matrix), dove l’attore viene clonato in un doppio digitale, capace
di sostenere imprese impossibili, ma senza interrompere l’apparente
continuità tra personaggio reale e personaggio virtuale. La simulazione
animata in 3D, al suo massimo grado di definizione, porta alle estreme
conseguenze un tentativo che attraversa tutta la storia della riproduzio­
ne cinematografica e televisiva: dissimulare la tecnica per produrre l’ef­
fetto di realtà. Oggi possiamo vedere un documentario sui dinosauri così
come lo vedevamo sui leoni, il primo è ricostruito mediante una simula­
zione assoluta, l’altro era ripreso dal vero. Entrambi sono il prodotto di
un particolare modello di rappresentazione della realtà che consiste nel
dissimulare la finzione, ma con una significativa differenza. Infatti, il
documentario sui leoni si presenta, mediante un codice comunicativo

9
L’artista Piero Gilardi, Piotr Kowalski e Claude Faure hanno fondato alla fine de­
gli anni Ottanta l’associazione internazionale Ars Tecnica, con lo scopo di promuo­
vere una ricerca comune tra artisti e scienziati sulle relazioni tra arte, tecnologia, at­
tività e divulgazione scientifiche. Cfr. le numerose edizioni e i relativi cataloghi della
mostra ArsLab, che nel corso degli anni Novanta hanno presentato alcuni degli in­
croci più avanzati tra arte, scienza e tecnica.
ANDREA BALZOLA 432
acquisito, come una riproduzione oggettiva della vita reale dei leoni,
mentre è anch’essa una ricostruzione artificiale e parziale, basata su una
selezione delle riprese, una scelta di montaggio e anche un’implicita
formula narrativa che fornisce una consequenzialità alle inquadrature. I
leoni esistono davvero, sono quindi reali nella presenza e nelle loro azio­
ni, ma la loro dimensione è ricostruita artificialmente mediante uno
specifico codice comunicativo e narrativo audiovisivo. Il documentario
sui dinosauri usa questo stesso codice comunicativo e narrativo per dare
effetto di realtà a una ricostruzione dove anche i soggetti sono artificia­
li, cioè simulati. Nel documentario virtuale sui dinosauri salta anche il
residuo rinvio alla realtà che c’era nel documentario sui leoni. L’effetto
illusorio è così raddoppiato, è come se l’uso di un codice comunicativo
artificiale servisse a conferire «effetto di realtà» a un soggetto artificiale,
cioè alla rappresentazione di un’idea (l’idea che oggi abbiamo dei di­
nosauri).
L’obiettivo dichiarato, ormai ottenuto, dei programmatori dell’ani­
mazione grafica tridimensionale era quello di raggiungere un totale
mimetismo con la realtà, realizzando quello che avevo definito come
un «naturalismo assoluto» (A. Balzola, 1994): rendere perfettamente e
totalmente riproducibile la realtà. Che significa anche, rovesciando i
termini, rendere reale l’illusione. Con le tecnologie virtuali si assiste a
un salto di qualità nel rapporto tra l’immagine e il suo modello reale:
«Tradizionalmente, esisteva una separazione netta tra l’universo del
modello, per esempio il modello del pittore, e l’universo dell’immagi­
ne, il quadro. Cosa ugualmente vera nella fotografia [...] nel cinema e
nella televisione. Si fa solitamente una distinzione tra il mondo del mo­
dello, che è spesso il mondo del reale, e il mondo delle immagini. Nel
caso del virtuale, accade che questi due universi si trovino posti sullo
stesso piano [...] Questo intimo intreccio tra il livello dei modelli e il li­
vello delle immagini costituisce l’originalità del virtuale e cambia
profondamente l’impatto delle sue scritture nell’ordine dell’arte. Io
credo che si tratti di un nuovo ordine estetico» (P. Quéau, 1995).
Quéau sembra qui contraddirsi, da una parte ci avverte del rischio con­
cettuale di una confusione tra le categorie del reale e del virtuale e del
rischio sociale di produrre un’illusione collettiva, dall’altra parte vede
in questo intreccio tra il modello reale e la sua immagine l’originalità
del virtuale, il segno di un nuovo ordine estetico. Ma la contraddizione
è solo apparente, perché questo essere insieme immagine e modello
del virtuale si avvera pienamente soltanto se gli si toglie il suo carattere
di suggestione illusoria. Per comprendere l’esperienza virtuale può es­
sere utile rievocare una dimensione che si è andata perdendo nella no­
stra cultura razionalizzata e razionalizzante (Jung ha cercato di recupe­
433 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

rarla con la sua teoria degli archetipi e dell’immaginazione attiva), vale


a dire il rapporto psico-religioso con il simbolo. L’icona sacra non è
una semplice rappresentazione del volto di Dio (tanto è vero che biso­
gnava essere spiritualmente iniziati per realizzarla, come dimostra la vi­
cenda emblematica del monaco pittore Andrej Rublëv), è segno con­
creto della sua presenza attraverso una somiglianza teologicamente e
formalmente codificata.10 Allora il fedele sviluppa verso l’icona un sen­
timento autentico di devozione, completamente diverso dall’ammira­
zione di un appassionato o di un critico d’arte. Il fedele fa esperienza,
mediante quell’icona, del rapporto con il suo Dio. L’icona diventa una
«finestra» su un’altra dimensione, mistica. In altre culture tradizionali,
come per esempio il buddhismo tantrico, l’immagine simbolica della
divinità, che viene poi interiorizzata in meditazione mediante delle vi­
sualizzazioni anche molto complesse, non è né considerata reale, per­
ché si tratta appunto di una rappresentazione simbolica, né, tanto me-
no, è considerata totalmente priva di realtà, perché attraverso quel-
l’immagine l’energia spirituale che corrisponde alla «figura divina»
rappresentata può essere effettivamente evocata e sperimentata dal suo
adepto.
Spostando il discorso sul territorio laico della realtà virtuale, resta
vero il carattere simbolico dell’esperienza: fare esperienza reale in un
ambiente virtuale significa che un’esperienza può essere vera anche in
un contesto «finto». E questo è possibile per due vie: quella illusoria
della suggestione o quella consapevole del simbolo. Ed è qui che in­
terviene la differenza cruciale tra i due modelli di simulazione, il pri­
mo, che abbiamo visto con l’esempio della simulazione di un docu­
mentario sui dinosauri, consiste appunto nella sintesi di due operazio­
ni: simulare la realtà e dissimulare la finzione; l’altro, che consiste nel­
lo sperimentare «realmente» la finzione (la dimensione simbolica)
senza dissimularla, corrisponde invece a un approccio artistico. Fare
questa distinzione non significa negare a priori l’utilità e il virtuosismo
di un programma capace di simulare alla perfezione una realtà dina­
mica mediante il principio di imitazione, l’imitazione è un esercizio
necessario di apprendimento (per riprodurre qualcosa, forma e movi­
mento, occorrono uno studio e una conoscenza approfonditi), ed è
sempre stato un mezzo per scoprire nuove tecniche di rappresentazio­
ne. Il problema è un altro, ed è quello di come si concepisce e si usa
una tecnica di rappresentazione, se l’imitazione è un mezzo per cono­
scere o se diventa un fine: dimostrare l’eccellenza della stessa tecnica
di rappresentazione. In questo caso il primato è assegnato alla tecnica,

10
Cfr. P. Florensky, Le porte regali. Saggio sulle icone (1922), Adelphi, Milano 1981.
ANDREA BALZOLA 434
nel caso di un uso simbolico della tecnica, che non ne nasconde l’arti­
ficio, il primato è invece assegnato all’idea e quindi all’arte e alla co­
noscenza. Nel primo caso si cerca l’effetto illusorio, nel secondo pre­
vale un procedimento cognitivo e creativo. Il primo è un modello au­
toreferenziale a circuito chiuso, in quanto la sua finalità coincide con il
risultato stesso della simulazione, il secondo è finalizzato a un percorso
sperimentale ed è aperto a opzioni ed esiti differenti. Il primo suscita
un rapporto idolatrico (di suggestione e adesione acritica) e cerca l’ef­
fetto di meraviglia («è incredibile, sembra vero»), il secondo cerca una
partecipazione consapevole, stimolando la dimensione simbolica («vi­
vo ciò che immagino»). Il primo può essere usato per manipolare la
realtà, il secondo è un punto di osservazione dei meccanismi che ma­
nipolano la realtà. Si tratta di una dicotomia già implicita, come ricor­
da Gene Youngblood, nell’etimologia latina del verbo simulare, che si­
gnificava sia imitare, fingere, sia rappresentare.11 E il problema filosofico
che pone è ancora più antico, si rintraccia già nella critica alla retorica
sofista, impostata dall’ultimo Platone (nel Fedro) e sistematizzata dalla
retorica di Aristotele. La critica ai sofisti si concentra proprio sulla loro
intenzione di risolvere il problema della verità di un’argomentazione
con il perfezionamento dell’argomentazione stessa: se un’argomenta­
zione è perfettamente verosimile raggiunge l’effetto di verità, e quindi
persuade l’ascoltatore come fosse vera (parafrasando questo schema
nell’ambito del virtuale, una simulazione perfettamente verosimile è
come se fosse vera). Un inganno che «chi ha techne e competenza dia­
lettica sa riconoscere e distruggere: l’inganno per cui la cosa stessa
sembra irrompere nel luogo della propria immagine, così che diventa
impossibile distinguere fra i luoghi della visione reale e quelli del so­
gno, fra hypar e onar. Si tratta precisamente del trompe-l’oeil che Socrate,
nel Fedro, rimprovera ironicamente (ai sofisti) di voler produrre nell’a­
scoltatore».12
Questa ricerca del «naturalismo assoluto», che rischia di ridurre il
mondo complesso del virtuale a un trompe-l’oeil tridimensionale e plu­
risensoriale, può trovare proprio nell’arte il suo contrasto più efficace.
Poiché il paradosso dell’arte, tanto più evidente nell’uso delle nuove
tecnologie digitali, così potenti nella loro capacità mimetica, è che pre­
serva il principio di realtà rilanciando e rafforzando il principio di fin­

11
G. Youngblood, Cinema elettronico e simulacro digitale (1986), in «Cinema Nuovo»,
n. 2 (306), marzo-aprile 1987, Metamorfosi della visione, a cura di R. Albertini e S. Li­
schi, Ets Editrice, Pisa 1988, pp. 31-41.
12
Cfr. G. Nicolaci, Metafisica e metafora, L’Epos Società Editrice, Palermo 1999, pp.
139-176.
435 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

zione. Come suggerisce Agamben, l’affermazione che più si avvicina al­


la verità è quella che dichiara il proprio scarto da essa. In un’epoca do­
minata da una progressiva estetizzazione dei modelli sociali – tutto si
gioca sul piano dell’«immagine», dall’immagine del prodotto a quella
del personaggio, delle sue relazioni e dello stile di vita – e dove la tec­
nologia è il medium prioritario di tale estetizzazione, l’arte, il cui com­
pito è stato di dare forme al pensiero, ha forse la possibilità di ridare
pensiero alle forme. E quindi di formare un’est-etica.

6. Le metafore dell’arte e le pratiche tecnologiche

Da tale quadro risulta evidente come una rifondazione dell’etica ne­


cessiti da una parte di una conoscenza diretta, attraverso la sperimenta­
zione, delle pratiche tecnologiche, dall’altra, di un orientamento delle
stesse, affinché lo sviluppo tecnologico non sia un divenire vuoto, auto­
referenziale e persino distruttivo per il bene collettivo. L’arte, nella mol­
teplicità sempre più sinestetica dei suoi linguaggi, ha perciò la possibi­
lità di svolgere un ruolo determinante come veicolo sperimentale di una
nuova etica del virtuale. Per la sua vocazione di gettarsi subito nelle trin­
cee dell’innovazione tecnologica, e per la sua capacità di coglierne le
potenzialità linguistiche, comunicative ed espressive, l’arte non è più
tanto centrale come oggetto della riflessione filosofica (come accadeva
con lo sviluppo della disciplina estetica) ma può diventare per la rifles­
sione filosofica uno strumento sperimentale, contribuendo appunto a
una rifondazione dell’etica.
Il filosofo e teologo Raimon Panikkar auspica esplicitamente una rin­
novata centralità dell’arte come strumento di «correzione della tecno­
crazia» e propone di ripensare il rapporto teoria e prassi nella relazione
che la tecnologia stabilisce con l’ecosistema. Secondo Panikkar biso­
gnerebbe trasformare il modello invasivo della «tecnologia» in un mo­
dello relazionale che lui chiama «tecnicultura», sia inteso come consa­
pevolezza culturale dell’impatto tecnologico sia come metodo che «col­
tiva» armonicamente l’innovazione anziché imporla unilateralmente
con una logica puramente economica e autoreferenziale.13
L’arte trasforma la pura funzione della tecnica in un linguaggio, cioè
in uno strumento della finzione e del gioco artistico, ma crea anche, me­
diante la rappresentazione simbolica delle possibilità della tecnica, una
mappa orientativa per la comprensione del suo senso e delle sue fina­
lità. Soltanto creando una simile mappa orientativa o, in altre parole,

13
R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica, Jaka Book, Milano 2004, pp. 72-73.
ANDREA BALZOLA 436
una simulazione degli scenari possibili generati dai mutamenti tecnolo­
gici, si possono riprodurre le condizioni di un’indispensabile connes­
sione fra le ragioni del fare e quelle dell’essere. Lo ha colto con preco­
ce precisione Derrick De Kerckhove: «A prima vista, il virtuale, a causa
delle sue innumerevoli possibilità, genera, come afferma Rokeby, un “bi­
sogno urgente di filtri” per trarre un senso da tutto questo. Sul piano
estetico, per facilitare la distinzione, ancora difficile da fare nell’ambito
della seduzione tecnologica, tra arte e tecnica, si tratta di comprendere
che il “filtro” dell’interpretazione tecnologica prodotto dall’arte è sem­
pre metaforico e mai letterale. L’artista lavora la tecnologia per darle un
senso diverso dalla sua finalità tecnica. In effetti, se l’utilizzazione prati­
ca, letterale, di una tecnologia è sufficiente a giustificarla e a legittimar­
la secondo dei criteri di efficacia, è la sua interpretazione metaforica che
l’introduce come fattore di trasformazione psicologica. Nella cultura oc­
cidentale, dove la condizione è l’innovazione accelerata, solo l’artista si
fa carico, fin dall’inizio, di questo lavoro metaforico».14 Insomma, l’arte
può contribuire, mediante un processo di simbolizzazione della tecno­
logia, a renderla interpretabile, e quindi a disegnare l’identità virtuale e
mutante che caratterizza l’esperienza contemporanea dell’essere nel
tecnomondo.
Il ruolo dell’arte come veicolo dell’intervento metaforico sulla tec­
nologia, auspicato da De Kerckhove, deve però fare i conti con le con­
traddizioni del divenire artistico contemporaneo. Infatti, la tendenza
all’autoreferenzialità del fare tecnico trova anche riscontro in un’auto­
referenzialità del fare artistico. Sedlmayr – sia pure da posizioni decisa­
mente conservatrici – sosteneva la necessità di distinguere tra opera
d’arte e oggetto estetico:15 nell’opera d’arte ci sarebbe una piena corri­
spondenza tra significante e significato, mentre nell’oggetto estetico
sarebbe il significante a dominare incontrastato. Quando si dice che le
avanguardie del primo Novecento hanno liberato l’arte dalla tirannia
del significato, s’intende dire che l’arte si è emancipata dall’imitazione
della realtà e dal contenuto ideologico, tipico di un mercato dell’arte fi-
no ad allora dominato dalla committenza dei poteri istituzionali piut­
tosto che dal collezionismo privato. Si è perciò cercata una motivazione
interna al processo artistico, che è diventato un linguaggio autonomo
dove, negli esiti migliori, significante e significato coincidono. Per arri­
vare a questo sono stati necessari gesti radicali, traumatici, irreversibili,

14
D. De Kerckhove, Esthétique et épistémologie dans l’art des nouvelles technologies, in
«Esthétique des arts médiatiques», Presses de l’Université du Québec, 1995, tome 2,
pp. 20-30.
15
H. Sedlmayr, Arte e verità (1978), Rusconi, Milano 1984.
437 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

come quelli dell’astrattismo assoluto o del dada. Ma anche quando


quei gesti erano provocatoriamente «antiartistici», non erano immoti­
vati, e la motivazione fondamentale era: l’arte deve trovare in sé le pro-
prie ragioni di esistere in quanto linguaggio libero da formule e con­
venzioni precostituite, in continua formazione e trasformazione, dove
anche il caso, il gioco, il paradosso siano libere modalità del fare. Ciò
che indubbiamente le avanguardie storiche sono riuscite ad affermare
nella consapevolezza del fare artistico è il principio di metafora: l’arte è
un linguaggio aperto e generativo (U. Eco, 1962, 1976), capace per­
tanto di trasformare in linguaggio la tecnica stessa (le arti multimedia-
li o ipermediali), qualsiasi tipo di materiale (arte povera) il corpo
(body art), il paesaggio naturale (land art), le azioni e i comportamen­
ti (performing art), e questo sia per progetto intenzionale sia oltre la
stessa intenzionalità dell’artista (da dada a Fluxus). Il principio gene­
rativo di metafora supera perciò il rischio di sterilità del significante, e
di pura autoreferenzialità nel quale incorre la produzione di oggetti
estetici che oggi domina molta parte della vetrina e del mercato del-
l’arte. Ed è qui che agisce la funzione etica dell’arte, non tanto o non
solo nell’essere veicolo comunicativo di un pensiero etico, ma appunto
in quanto capace di generare linguaggi dalle cose, dai materiali, dagli
strumenti e dalle tecnologie, poiché è nel linguaggio che si disegnano
gli schemi dell’esperienza umana e la possibilità di riflettere su di es­
sa.16 Se il tecnomondo segna il passaggio dalla dimensione naturale al­
la dimensione artificiale dell’esperienza, l’arte avrà il compito di trova­
re e di plasmare non più i sensi della materia, ma la materia dei sensi,
e la loro nuova connessione tecnologica. Uno dei campi privilegiati
della ricerca artistica dei prossimi decenni sarà infatti la condizione si­
nestetica generata dagli ambienti virtuali, dal momento che la perce­
zione e l’esperienza simultanea di campi sensoriali differenti che gli ar­
tisti, da Baudelaire in poi, invocavano, non è più un punto d’arrivo,
bensì una condizione di partenza prodotta artificialmente. Sulla base
delle esperienze storiche (vedi prima parte di questo volume), ma an­
che secondo modalità inesplorate, gli artisti modelleranno la babele
tecnologica dei sensi alla ricerca di un inedito linguaggio sinestetico.

16
Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1936), in Sentieri interrotti, La Nuova
Italia, Firenze 1968; e Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), «Studi germanici», 1937,
pp. 5-20, ripubblicato in G. Vattimo (a cura di), Estetica moderna, il Mulino, Bologna
1977, pp. 339-352.
ANDREA BALZOLA 438
7. Le avventure dell’ibridazione

Le nuove tecnologie hanno sviluppato due filoni principali dell’im­


maginario e della ricerca nell’arte: l’immersione in un ambiente virtuale, di
cui abbiamo ampiamente parlato, e l’ibridazione, che può avvenire tra­
mite protesi, cioè con l’innesto tecnologico nel corpo biologico per il
suo potenziamento, oppure tramite ricombinazione genetica, cioè con ma­
nipolazione e contaminazione del patrimonio genetico. L’ibridazione
appare come una risposta simbolica estrema alla crisi radicale del sog­
getto che ha attraversato tutto il Novecento (la crisi filosofica, psicana­
litica e poetica dell’Io), e non a caso si manifesta profeticamente nel­
l’immaginario della letteratura fantascientifica dell’ultimo ventennio
del Novecento: il cyberpunk.17 La protesi tecnologica tende a ridurre e
annullare la distanza tra corpo naturale e corpo artificiale, superando
l’idea della creatura artificiale animata dall’uomo, fantasia assai fecon­
da che va dalla leggenda medievale ebraica del Golem fino a Franke­
stein e alla robotica18 per approdare all’idea post-moderna di un’ibri­
dazione tra naturale e artificiale, dove l’uomo ricrea, muta e potenzia
continuamente sé stesso mediante l’innesto tecnologico. Oppure, al­
ternativa più recente della Dn-art (o arte transgenica), mediante la ma­
nipolazione e l’ibridazione genetica. Nel campo artistico, i precursori
più noti di questo nuovo corso sono stati la francese Orlan, l’australia­
no Stelarc e il brasiliano Eduardo Kac. La loro attività può essere con­
siderata esemplare del divenire tecnologico di un certo immaginario
artistico, che affonda le sue radici ancora una volta nelle avanguardie
storiche e le porta alle estreme conseguenze. Lo aveva già segnalato Vi­
rilio, a proposito di Stelarc: «Stelarc è un personaggio importante per­
ché traduce meglio di altri il fatto che l’uomo si mescola alla tecnica,
come auspicavano i futuristi. Già nel 1910, Marinetti diceva che l’uomo
avrebbe dovuto mescolarsi al ferro e nutrirsi di elettricità» (P. Virilio,
1995). Per Stelarc, l’ibridazione è uno strumento per esorcizzare e su­
perare la fragilità di un «corpo obsoleto», troppo fragile e ormai ina­
deguato alle prospettive dell’evoluzione tecnologica e ai nuovi compiti
che apre l’esplorazione dell’universo. Di pari passo all’immaginario
fantascientifico (sempre meno «fanta»), l’uomo deve rilanciare l’uto­
pia eroica della ricerca dell’invulnerabilità e dell’immortalità mediante

17
Cfr. A. Caronia, D. Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, Baldini e Ca­
stoldi, Milano 1997.
18
Per l’evoluzione attuale e futura della robotica cfr. Hans Moravec, Il Robot uni­
versale, in P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994, pp.
99-112.
439 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

gli strumenti concreti oggi offerti dal dispositivo tecnologico.19 Per Or­
lan invece il mezzo tecnico serve l’idea di una trasfigurazione artificia­
le, esteriore: dopo aver creato al computer una sintesi ideale tra alcuni
modelli di bellezza femminili generati dalla storia dell’arte e divenuti
stereotipi culturali, ha cercato un rimodellamento del proprio volto,
mediante ripetuti interventi di chirurgia estetica documentati come ve­
re e proprie performance. Qui l’identità esteriore è manipolata mecca­
nicamente per farla corrispondere – in modo anche ironico e provoca­
torio – a un’idea interiore o culturale, il corpo viene concepito come
pura materia grezza da rimodellare a piacimento, come se nell’artista
fattosi dio il corpo tornasse argilla per essere ricreato, o meglio, per ri­
crearsi da solo, a immagine e somiglianza di un’idea, individuale e so­
cialmente parametrata. In questo caso l’ibridazione avviene, ed è con­
cretamente realizzata, tra l’idea e la natura. La terza posizione, quella
del brasiliano Eduardo Kac (creatore di conigli e pesci fosforescenti),
vede già realizzata, mediante le nuove tecnologie (soprattutto quelle
mediche e genetiche), una mutazione antropologica, tanto che il corpo
umano non sarebbe già più percepito come un sistema naturale auto­
regolato, ma come un oggetto controllato artificialmente e trasformato
elettronicamente. Allora, compito attuale dell’arte sarebbe quello di
conoscere e utilizzare creativamente quel nuovo patrimonio tecnologi­
co che ricostruisce, rende trasparente e manipolabile l’antico patrimo­
nio biologico dell’uomo e della natura, ibridando i tre regni naturali:
umano, animale e vegetale. «L’arte transgenica è una nuova forma d’ar­
te basata sul ricorso alle tecniche dell’ingegneria genetica al fine di tra­
sferire dei geni sintetici agli organismi, o di trasferire del materiale ge­
netico naturale da una specie all’altra, il tutto con l’obiettivo di creare
nuovi esseri viventi [...] Ormai gli artisti possono non solamente com­
binare dei geni provenienti da diverse specie, ma anche scrivere age­
volmente una sequenza di DNA allo stesso modo del loro programma di
trattamento del testo, inviarla con un corriere a un’impresa commer­
ciale di sintesi e ricevere la settimana seguente una provetta contenen­
te milioni di molecole di DNA della sequenza ordinata» (E. Kac, 1995).
Ecco portato a compimento il percorso di mutazione: prima il rimo­
dellamento epidermico (Orlan), poi l’innesto tecnostrutturale (la terza
mano o il terzo orecchio di Stelarc), infine il rimodellamento moleco­
lare. Questo pensiero estetico implica un rovesciamento etico della fun­
zione della tecnologia, l’arte interpreta creativamente ciò che la tecno­
logia può fare dell’uomo e della natura. In questo modo, l’uomo con­

19
Cfr. Stelarc, Da strategie psicologiche a cyberstrategie: prostetica, robotica ed esistenza re­
mota, in P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, pp. 61-76.
ANDREA BALZOLA 440
cepisce il senso dell’evoluzione antropologica esclusivamente all’inter­
no delle possibilità che si è dato con la tecnica. A ragion veduta Costa
può definire l’artista tecnologico come «uno sperimentatore estetico
che lavora rendendo operativi e materializzando dei modelli concet­
tuali» per realizzare «un prodotto impersonale e ultrasoggettivo».20
Quei modelli concettuali sono tutti interni al dispositivo tecnologico e
il processo di desoggettivazione dell’artista è il risultato complementa­
re di un processo di soggettivazione della tecnologia. C’è chi, come Vi­
rilio, critica radicalmente questo rovesciamento, sempre riferendosi al
caso Stelarc: «Non è più il pericolo dell’automa esterno all’uomo, ma
quello dell’automa dentro l’uomo. È la vittima di un culto di cui nessu­
no parla, del deus ex machina. Il dio macchina è stato insediato da colo­
ro che hanno ucciso il dio della trascendenza. Quando si dice “Dio è
morto”, nello stesso momento nasce il dio macchina e Stelarc è il suo
profeta. Egli è pronto a sacrificarsi per il dio macchina» (P. Virilio,
1995). C’è chi, invece, come Eduardo Kac, dilata ulteriormente questa
prospettiva, leggendola a rovescio, positivisticamente, come opportu­
nità post-umana: «Noi saremo domani gli ospiti di geni stranieri, così
come oggi portiamo impianti meccanici ed elettronici. In altre parole,
noi saremo transgenici. Il fatto che l’ingegneria genetica renda sorpas­
sato il concetto di specie basato sulla nozione tradizionale di riprodu­
zione, mette in gioco l’idea di ciò che è umano. Tuttavia, questo non
costituisce una crisi ontologica. Essere umano significherà che il geno­
ma umano non sarà più il nostro limite, ma il nostro punto di parten­
za» (E. Kac, 1995). In questa chiave, non si assiste più a una rifondazio­
ne dell’etica, bensì a un suo completo ribaltamento: sono le ragioni e le
possibilità dell’evoluzione tecnologica prodotta dalla ricerca scientifica
a stabilire le regole del comportamento, ai fini della realizzazione di un
bene collettivo che coincide con la piena realizzazione non dell’essere
umano quale è, ma del suo doppio tecnologico quale potrà essere.
Un’idea che raggiunge il paradosso involontario quando Kac sostiene
che gli artisti transgenici possono svolgere il compito etico di compen­
sare la costante scomparsa di specie animali (costrette all’estinzione
proprio da un dissennato modello di sviluppo tecnologico dell’uomo),
contribuendo ad «accrescere la biodiversità mondiale con l’invenzione
di nuove forme di vita». Ecco un altro effetto allucinatorio dell’infatua­
zione tecnologica: l’idea che l’intero mondo naturale e biologico sia
semplicemente un modello meccanico che basta decodificare e poi è
possibile smontare e rimontare a piacimento, guadagnando sui brevet­
ti dell’ingegneria genetica. Quando Tarkovskij diceva che «l’artista esi­

20
Cfr. M. Costa, Il sublime tecnologico, Castelvecchi, Roma 1998.
441 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

ste perché il mondo non è perfetto» non pensava che l’artista potesse
sostituire questo mondo con un altro artificiale, ma piuttosto egli tro­
vava in quest’imperfezione il segno di un mistero, di un’inestricabile
complessità, di una dialettica dei contrasti e quindi il motivo di un’ispi­
razione. L’idea dell’ibridazione chirurgica, tecnologica o genetica rie­
voca la ricerca del segreto dell’immortalità da parte dell’alchimia (d’al­
tronde molti artisti del passato furono anche alchimisti),21 che era so­
stanzialmente un’ars combinatoria, ma i più avveduti ben sapevano che
l’arte alchemica era una metafora della ricerca creativa dell’essenza del-
l’uomo.

8. Verso l’autore collettivo e l’opera come evento in progress

Un altro modo di porre in questione il soggetto da parte dell’arte, de­


cisamente alternativo all’ibridazione, è quello che interpreta la crisi tar­
do-ottocentesca e primo-novecentesca del soggetto individuale come un
superamento necessario nella direzione di un nuovo soggetto collettivo,
dove l’accento è posto più sulle relazioni intersoggettive che sui sogget­
ti stessi. Questo è infatti un altro aspetto cruciale di cui le avanguardie
artistiche storiche, nel loro insieme, hanno lasciato testimonianza, se­
gnando un passaggio epocale: lo spontaneo riconoscimento che l’idea
creativa è un patrimonio collettivo, è frutto di un’elaborazione a più
mani e più teste. Dove ciascun singolo artista traccia il suo personale
percorso, ma non ha il copyright sul «genoma» del movimento artistico
a cui appartiene. Questa è una cesura radicale con il passato, gli artisti
sono sempre stati inseriti dagli storici dell’arte in filoni, tendenze, cor­
renti, ma non era mai accaduto prima delle avanguardie di fine Otto­
cento e primo Novecento che fossero scritti e firmati manifesti comuni,
che venissero organizzati eventi ed esposizioni collettive con un’esplici­
ta demarcazione di affinità. Insieme a questo spirito collettivo, si afferma
un’altra esigenza inedita da parte degli artisti, quella dell’auto-organiz­
zazione. Non si tratta di una rivisitazione delle corporazioni delle arti e
mestieri di antica memoria, destinate a salvaguardare e legittimare il
«mestiere» dell’artista, qui l’obiettivo è un altro: unire i talenti, le forze
e le energie per affermare il diritto a una pubblica visibilità e il diritto al­
la libera espressione di un’idea e di una ricerca estetiche (e non solo)
che provocano l’ostilità di uno status quo mummificato. Oggi, che l’im­
patto traumatico di quelle avanguardie è stato completamente assorbito

21
Cfr. M. Calvesi, Arte e alchimia, Giunti, Firenze 1986; e C.G. Jung, Psicologia e al­
chimia (1944), Boringhieri, Torino 1981.
ANDREA BALZOLA 442
dal mercato dell’arte e dalla filologia museale, facciamo fatica a ricor­
dare come quegli artisti avessero imposto le loro visioni a duro prezzo e
in virtù di una «rete» solidale di pensieri e di azioni, e non solo per me­
rito esclusivo di pochi collezionisti e critici lungimiranti. In alcuni casi, il
coagulante dell’idea spingeva gli artisti a tentare anche l’opera fatta a
più mani, una possibilità aperta soprattutto dalla scoperta del cinema
come mezzo di espressione artistica e, appunto, di creatività collettiva.
La progettazione artistica con le nuove tecnologie si deve coniugare
con una competenza tecnica via via più sofisticata, non sempre assimila-
bile da uno stesso soggetto, poi la logica dell’opera si trasforma in una
logica di produzione che coinvolge necessariamente diversi soggetti con
ruoli complementari. L’identità dell’artista si ridefinisce allora in quella
di «regista» di un’opera realizzata collettivamente. Infine, nel momento
in cui l’opera è concepita per coinvolgere la partecipazione del pubbli­
co e quindi sviluppa il principio di interattività, l’artista non è nemmeno
più regista di un’opera ma diventa regista di un evento aleatorio sempre
diverso, è regista di una relazione mutante tra gli spettatori e un «con­
gegno» artistico. La personalità dell’artista è meno importante del siste­
ma di relazioni che la sua opera genera. Un’interattività effettiva, sia al
livello della fruizione sia al livello della concezione, comporta l’idea di
un programma aperto e di un processo creativo continuo, che può ave­
re diverse fasi ma che non si compie mai in modo definitivo. La tecno­
logia multimediale interattiva consente all’artista di produrre eventi
piuttosto che opere o oggetti, il processo si sostituisce al risultato, il la­
boratorio è più importante dello spettacolo. Tant’è vero che gran parte
degli spettacoli in cui si fa un uso drammaturgico delle nuove tecnolo­
gie, hanno il carattere aperto del «work in progress», dove lo spettacolo
è sempre e soltanto una tappa di un processo di elaborazione costante e
virtualmente infinito e dove il pubblico partecipa fin dalle fasi iniziali
del laboratorio, interagendo con gli autori e contribuendo a orientare il
loro lavoro.

9. Interdipendenza, interattività e intercreatività

Nell’idea dell’autore collettivo dell’opera tecnoartistica, c’è anche il


progetto di un coinvolgimento organico dello spettatore. La partecipa­
zione del fruitore occasionale dell’opera non soltanto è prevista dalla
struttura comunicativa dell’opera stessa, ma diventa addirittura essen­
ziale affinché essa realizzi pienamente la propria sostanza espressiva. Di
conseguenza il principio dell’autore collettivo diventa un principio
aperto ed estensibile all’infinito, nel momento in cui si combina con il
443 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

principio di interattività. Sia il principio di autore collettivo sia quello


dell’interattività si coniugano in virtù di un principio più generale: il
principio di interdipendenza (i fanatici della rete, direbbero di «inter­
connessione»). Per interdipendenza qui s’intende un livello etico-filo­
sofico: ogni forma-pensiero e ogni forma-azione è in realtà un contesto
di pensiero e un contesto di azione, dove ogni soggetto cerca ed espri­
me la propria identità creativa in relazione a una costellazione di sog­
getti pensanti e agenti affini (o anche divergenti, ma comunque co­
agenti). Per interdipendenza s’intende anche un livello operativo, dove
si stabilisce che nessun aspetto di una produzione artistica tecnologica
può essere generato senza il concorso, più o meno paritario ma comun­
que indispensabile, di un insieme di soggetti.
In una mostra ormai storica, Les immateriaux, che voleva marcare il
passaggio all’«arte immateriale» delle nuove tecnologie, organizzata nel
1985 da Jean-François Lyotard in collaborazione con Thierry Chaput al
Centre Pompidou di Parigi, il tema centrale della smaterializzazione del­
le opere d’arte (principalmente si trattava di opere elettroniche, la cui
materia è appunto luce) si combinava proprio con il tema del processo
di interazione nella creazione collettiva. Lyotard propose a una trentina
di autori, scienziati, artisti, scrittori, filosofi e linguisti, di creare un «pic­
colo dizionario degli Immateriali», attraverso un collegamento a rete
chiusa (allora Internet non era ancora diffuso) tra i terminali privati
dei soggetti coinvolti e la memoria centrale del terminale del Centre
Pompidou. Furono scelte cinquanta parole che dovevano magnetizzare
le differenti definizioni degli autori, su di esse ciascuno poteva interve­
nire liberamente in tempo reale proponendo varianti, integrazioni, con­
nessioni, sintesi e antitesi (vedi antologia).
Le radici di questo principio di interdipendenza sono rintracciabili nel
processo di elaborazione collettiva, avviato nei primi anni Sessanta dai
programmatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Bo­
ston, di un sistema informatico e telematico accessibile al grande pubbli­
co, mediante l’invenzione del personal computer e delle sue interfacce,
dei free software e della rete (Internet e Web). Un dispositivo tecnologico
che ha trasformato radicalmente l’esistenza, le attività e la comunicazione
umane in quella parte privilegiata del mondo di cui facciamo parte. E
questo principio di interdipendenza nasce non a caso all’insegna di un
modello etico. Lo si ricava leggendo il «manifesto» degli hacker (da non
confondere come fanno i mass media con i pirati informatici, i cracker), re­
datto collettivamente in rete: The Jargon File. In esso, gli hacker si autode­
finiscono «persone che programmano con entusiasmo», convinti che «la
condivisione delle informazioni sia un bene positivo di formidabile effica­
cia, e che sia un dovere etico condividere le loro competenze scrivendo
ANDREA BALZOLA 444
free software e facilitare l’accesso alle informazioni e alle risorse di calcolo
ogniqualvolta sia possibile».22 Tutta la storia dell’hacking, dagli anni Cin­
quanta a oggi, è caratterizzata dal progetto di una «comunità virtuale», il
cui principio fondante è «l’impegno attivo e consapevole per migliorare
qualcosa del mondo attraverso l’uso del computer [...] I valori si trasmet­
tono attraverso la condivisione di esperienze, comportamenti e relazioni
in cui, attraverso il confronto e il dialogo, il nostro essere si trasforma
spontaneamente, e spesso inconsapevolmente, in una direzione etica con-
divisa [...] Frutto di un processo collettivo e culturale che non può avve­
nire semplicemente attraverso una scelta razionale...».23 In tale prospetti­
va si capisce come il tema dell’interattività, cioè della possibilità di una
fruizione attiva da parte dell’utente di un’opera o un prodotto realizzati
con il computer, sia da porre a due livelli, un primo livello è quello della
fruizione, il secondo livello è quello della concezione, dove l’interattività
diventa «intercreatività» (T. Berners-Lee, 1999). Al livello della fruizione,
oggi l’interattività è la possibilità, nell’ambito stabilito da un software, di
scegliere delle opzioni e dei percorsi ipertestuali e multimediali. Allo sche­
ma comunicativo unilaterale del libro o dei media audiovisivi come il ci­
nema e la televisione, subentra un medium che non solo offre ma richie­
de un feed-back costante con l’utente, che deve operare continuamente
delle selezioni e delle scelte, personalizzando la sua fruizione. Il livello
d’interattività dipende da due fattori: la flessibilità del programma e la
competenza dell’utente. Spesso l’interattività di molti prodotti, opere o
spettacoli multimediali, si riduce in realtà alla simulazione di un’interatti­
vità (per esempio l’attore o il danzatore sincronizzano i loro gesti all’im­
magine o al suono), a una miscela calibrata di interattività simulata e in­
terattività effettiva (l’attore o il danzatore sono dotati di sensori collegati al
computer che attivano sequenze sonore o visive preregistrate), oppure a
un’interattività pilotata attraverso delle varianti circoscritte in un sistema
chiuso di possibilità. In questo caso, l’interattività è pilotata dall’autore e
diventa più un espediente per l’intrattenimento che un’esperienza au­
toformativa di ricerca. Il principio di interattività è particolarmente fe­
condo di opportunità creative nel campo delle arti, di opportunità for­
mative nel campo della didattica e di positive implicazioni etiche nel cam­
po della comunicazione, ma è necessario che le modalità della fruizione
interattiva risalgano alla sorgente della loro concezione, trasformandosi in
modalità intercreative di programmazione. Poiché qualsiasi software non è

22
Cfr. P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione (2001), Feltri­
nelli, Milano 2003.
23
In A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, Manifesto­
libri, Roma 2002, pp. 9-10.
445 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

un semplice strumento tecnico, ma è un modello operativo complesso


che svolge molteplici funzioni ed ha diverse applicazioni, in esso si confi­
gura una forma pensiero, cioè un particolare modo di organizzare il pen­
siero e le modalità d’uso. Diventa allora determinante, non solo dal pun­
to di vista dell’efficienza tecnica, ma da quello etico della trasparenza del­
la sua natura concettuale, che non sia un modello chiuso, ma sia al con­
trario aperto a differenti sperimentazioni, in una sorta di permanente rie­
laborazione e verifica collettiva, sia sul piano della programmazione sia su
quello dell’utenza. Qui si gioca una grossa partita, tra due polarità radi­
calmente distinte: da un lato, le multinazionali dell’industria informatica,
che vogliono una netta separazione tra i programmatori e gli utenti, i pri­
mi sono dei tecnici professionisti arruolati nel gioco della squadra che li
paga e per la quale operano indipendentemente dall’interesse generale; i
secondi svolgono la funzione di cavie del mercato, nella veste di consu­
matori acritici dell’hardware e del software. Dal lato opposto, troviamo
una rete di soggetti indipendenti ma coordinati tra loro che si riconosco­
no in entrambi i ruoli di programmatori e utenti, e che vivono le loro
competenze con senso di responsabilità nei confronti dell’interesse col­
lettivo. In questa direzione un altro problema etico cruciale fa da spar­
tiacque: il problema dell’accesso alle conoscenze, per colmare progressi­
vamente il gap tecnico che separa l’utente dal mondo della programma­
zione, e, su un terreno più basilare, il problema dell’accesso alla tecnolo­
gia informatica e alla rete, per garantire la diffusione dei computer e la lo­
ro accessibilità economica e formativa nelle zone depresse del pianeta,
quelle zone dove nemmeno i bisogni primari della sopravvivenza trovano
risposte. L’informatizzazione del pianeta, che ne sta cambiando il volto, ri­
schia infatti di radicalizzare ulteriormente l’esclusione dei paesi poveri da
qualsiasi opportunità di riscatto. Non ci potrà essere, come ammettono
anche i sostenitori più ottimisti del cyberspazio come Lévy, una legittima­
zione etica della rivoluzione telematica senza una reale universalizzazione
dell’accesso.

10. Prospettive: alcuni principi per una nuova mappa etica

Sulla base delle problematiche etiche che abbiamo cercato di indivi­


duare ed enucleare nel rapporto tra arte e nuove tecnologie, si possono
in conclusione riassumere schematicamente alcuni principi guida che
potrebbero rispondere alla necessità ormai condivisa di ripensare un’e­
tica su misura del tecnomondo.
– La premessa generale è che l’arte tecnologica, in quanto pratica di ri­
cerca e sperimentazione delle nuove tecnologie, è in grado di svolge­
ANDREA BALZOLA 446
re un ruolo di primo piano per consentire una corretta interpreta­
zione e un uso non autoreferenziale della tecnologia stessa.
– In questo senso l’arte non si pone più soltanto come oggetto della ri­
flessione filosofica (pertinente all’estetica), ma come un principio rifles­
sivo innestato nella prassi tecnologica, quindi come soggetto sperimenta­
le di una riflessione filosofica che intende rifondare un’etica. È anche
attraverso questa via che l’arte può riattivare i contatti tra le visioni
della filosofia e il laboratorio sperimentale della scienza.
– Poiché lo sviluppo tecnologico è via via più accelerato ed emancipato
dai vincoli della riflessione filosofica, morale e sociologica, appare ne­
cessario sospendere nei suoi confronti un atteggiamento apologetico e
viceversa sviluppare un principio critico, capace di coglierne per tempo e
segnalare le contraddizioni, le negatività, gli aspetti più rischiosi per il
bene collettivo. Questo non significa temere o demonizzare l’innova­
zione tecnologica, bensì farne un monitoraggio costante per contestua­
lizzarla in un orizzonte di senso socialmente utile e condiviso.
– Poiché la tendenza dominante della ricerca nel campo del virtuale mi­
sura l’efficacia della riproduzione tecnologica del reale sulla base del­
la perfezione mimetica del risultato, cioè mira a un perfettamente ve­
rosimile capace di produrre l’illusione di essere vero, funzione del-
l’arte è di sviluppare, in controtendenza, un principio di dissimulazione
dell’artificio e della potenza illusoria della tecnologia virtuale, sfrut­
tando invece le sue potenzialità di simulazione ed esplorazione co­
gnitiva.
– L’arte è la capacità di trasformare la tecnica in un linguaggio e con­
ferisce alla tecnologia un senso diverso dalla sua finalità puramente
strumentale. Agisce sulla tecnologia mediante un principio di metafora,
che la rende interpretabile sul piano simbolico e psicologico.
– L’ibridazione tecnologica o genetica dell’universo biologico, che al­
cuni artisti prefigurano con le loro sperimentazioni, costituisce una
volontà di superamento del paradigma bipolare natura/tecnica, a
vantaggio di un paradigma unico, ibrido, dove si progetta la sotto­
missione totale della natura alla tecnica, senza poterne prevedere le
conseguenze effettive. A questo processo di ibridazione è sensato op­
porre un principio di distinzione che riaffermi i valori naturali della bio­
diversità e l’irriducibile complessità dell’ecosistema. Il biologico e
l’artificiale possono trovare ed evolvere la loro complementarità tan­
to meglio quanto più sono differenziate le loro funzioni. Così come il
modellamento genetico deve rispondere a un principio di singolarità e
di specificità delle sue applicazioni, all’interno di una ricontrattatazio­
ne costante dell’opposizione natura/tecnica e non attraverso il suo
annullamento.
447 PRINCIPI ETICI DELLE ARTI MULTIMEDIALI

– L’arte tecnologica, per la varietà e complessità delle competenze che


riunisce, ma anche per le sue specifiche caratteristiche di connetti­
vità, sviluppa un principio creativo di autore collettivo.
– Nell’opera d’arte tecnologica prevale il progetto sul risultato, il pro­
cesso sul suo compimento, poiché la scoperta del linguaggio interno
all’innovazione tecnica è qualcosa che accade durante la sua messa in
evento. Qui s’incrociano quindi tre principi: il principio di processualità,
che significa privilegiare la messa in opera rispetto all’opera conclusa,
il laboratorio piuttosto che lo spettacolo; il principio di mutamento co­
stante, che significa che all’opera non viene posto un sigillo di chiu­
sura, può essere abbandonata e ripresa, è un processo in costante tra­
sformazione affidato all’autore collettivo; il principio di eventualità, pri­
vilegiare il laboratorio rispetto allo spettacolo significa creare le con­
dizioni creative, coagulando la metafora poetica e il dispositivo tec­
nologico, perché qualcosa accada e la fruizione diventi esperienza
creativa.
– La partecipazione del fruitore all’opera è essenziale affinché essa rea­
lizzi pienamente il proprio accadimento. Di conseguenza i principi
dell’autore collettivo, del mutamento costante e dell’eventualità di­
ventano effettivi nel momento in cui si combinano con il principio di
interattività, al livello della fruizione, e con il principio di intercreatività,
al livello della concezione.
– I principi di autore collettivo, di interattività e intercreatività si co­
niugano in virtù di un principio più generale: il principio di interdipen­
denza. Un’interdipendenza etico-filosofica, per cui ogni pensiero e
ogni azione sono riconducibili a un contesto, dove l’identità creativa
del soggetto è immediatamente interagente con altri soggetti attivi in
quel contesto. Un’interdipendenza anche operativa, per cui qualsiasi
produzione artistica tecnologica comporta il concorso di più soggetti.
– Nelle arti multimediali gli aspetti della ricerca e della produzione
coincidono necessariamente con un percorso autoformativo. Molti
hanno sottolineato che la ricerca creativa in ambito multimediale ha
un carattere eminentemente ludico: un gioco che sposta progressiva­
mente le sue regole e che quindi usa l’innovazione come metodo di
risposta agli ostacoli che di volta in volta si oppongono al percorso in­
dividuato. Nello stesso tempo, il percorso di ricerca si ridisegna in re­
lazione a ogni innovazione. Questo significa che la creatività è forma­
tiva e che la formazione è creativa. La rilevanza etica del principio di
formazione creativa consiste quindi nel generare un modello formativo
di sperimentazione permanente, non puramente teorico e nemmeno
puramente pratico.
TERZA PARTE

PERCORSI EMBLEMATICI
FRA PRATICHE ARTISTICHE E TEORIE ESTETICHE
a cura di
Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
LE OPERE: 39 SCHEDE
a cura di Anna Maria Monteverdi

Leopoldo Fregoli prete» (L. Fregoli, Fregoli raccontato da


Fregoligraph Fregoli. Le memorie del mago del trasformi­
Leopoldo Fregoli (1867-1936), noto smo, Rizzoli, Milano 1936). Gli spetta­
esponente del café-chantant italiano, coli di Fregoli rappresentano un caso
fu tra i primi a diffondere il cinemato­ isolato nella storia degli incontri tra
grafo Lumière in Italia. Fregoli ricevet­ teatro di varietà e cinema delle origini;
te l’apparecchio insieme a molti film, in queste messe in scena si superava la
direttamente da Louis Lumière, cono­ semplice giustapposizione dei due me­
sciuto nel 1897 a Lione. Così racconta dia, realizzando una serie di rimandi
l’incontro avvenuto al Teatro Celestin: che avevano nel trasformista Fregoli
«Una sera mi dissero che in poltrona un efficace trait d’union. Lo spettacolo
di prima fila c’era Luigi Lumière, di dal vivo incentrato sui numeri di tra­
cui avevo già sentito parecchio parlare. sformismo anticipava con la sua rapi­
Maniaco di fotografia e di meccanica dità e con l’esasperazione del procedi­
come ero, mandai il mio segretario in mento del montaggio di quadri le
platea, a pregare lo scienziato di voler proiezioni cinematografiche dell’ulti­
salire in un intervallo sul palcoscenico; ma parte del programma chiamata Fre­
e una volta dinanzi a lui, gli chiesi di goligraph. Questa prevedeva solitamen­
poter visitare la sua officina. Quegli te la proiezione di una dozzine di pelli­
aderì, e l’indomani io mi recai a tro­ cole, molte delle quali realizzate dallo
varlo... Per una settimana rimasi dalla stesso Fregoli, tra cui spiccava Fregoli
mattina alla sera nella loro officina, ad dietro le quinte. Il film mostrava al pub­
addestrarmi nei segreti della riprodu­ blico quel che avveniva nel retroscena
zione, dello sviluppo, della stampa e durante un numero di trasformismo.
della proiezione di [...] film. Convinto L’operazione, volta a chiarire i segreti
che la proiezione di quei primi saggi dell’arte di Fregoli, instillava di fatto
cinematografici alla fine di ogni mio nella mente dello spettatore l’idea di
spettacolo potesse essere una vera at­ una seconda scena posta dietro le
trattiva e suscitare un vivo interesse nel quinte.
pubblico, chiesi ai fratelli Lumière il Luigi Colagreco
permesso di proiettare le loro pellico­
le. I due scienziati [...] aderirono, mi Filippo Tommaso Marinetti
consegnarono un apparecchio di La declamazione dinamica e sinottica
proiezione e con esso il diritto di esclu­ (1916)
sività per i miei spettacoli di un note- I principi della Declamazione dinamica
vole gruppo di brevissimi film. In se­ e sinottica enunciati l’11 marzo 1916,
guito [...] pensai di fabbricarne io stes­ fanno seguito al Manifesto delle Parole
so, riproducendo scene comiche delle in libertà di Filippo Tommaso Marinet­
quali ero naturalmente l’unico inter­ ti (Distruzione della sintassi Immagina­
LE OPERE 452
zione senza fili Parole in libertà, 11 mag­ sinottica fu Piedigrotta (parolibero:
gio 1913). Contro «l’ideale statico di Francesco Cangiullo, declamatore:
Mallarmé» e «l’ossessione dell’Io che Marinetti) che ebbe luogo il 29 marzo
i poeti hanno descritto, cantato, ana­ 1914 nel Salone dell’esposizione futu­
lizzato e vomitato fino a oggi» il nuo­ rista a Roma.
vo «lirismo multilineo» distruggerà bru­
talmente la sintassi, i periodi, l’agget­ Frederick Kiesler
tivazione, la punteggiatura per mezzo Scenografia per R.U.R. di Karel Čapek
di parole essenziali e in libertà: «Il (1923-1924)
poeta lancerà su parecchie linee pa­ Frederick John Kiesler (1890-1965),
rallele parecchie catene di colori, suo­ architetto nato in Romania, si trasferì
ni, odori, rumori, pesi, spessori, ana­ a Vienna, nel clima creativo e intellet­
logie. Una di queste linee potrà esse­ tuale dell’Austria degli anni Venti di
re per esempio odorosa, l’altra musi­ Krauss, Werfel, Loos, Kokoschka.
cale, l’altra pittorica». Con il Manife­ Chiamato familiarmente Doktor
sto della declamazione dinamica e sinotti­ Raum (dottor Spazio), Kiesler proget­
ca Marinetti (1876-1944) intende de­ ta nel 1923-25 l’Endless theatre (Tea­
finire le regole del declamatore futu­ tro infinito) che prevedeva una capa­
rista di versi, che vanno dalla mimica cità di diecimila persone, «un guscio
facciale, alla gestualità, alla posa del in tensione continua di pianta circola­
corpo, all’utilizzo di strumenti rumo­ re e sezione ellittica con rampe elicoi­
reggianti (campanelli elettrici, tam­ dali che collegavano vari livelli» (M.
buri, martelli, seghe), senza senti­ Bottero, F. Kiesler. L’infinito come proget­
mentalismi e affettazioni da fine dici­ to, 1999). Kiesler partecipa alla mostra
tore. L’uomo deve sparire a vantaggio delle nuove tecniche del teatro di
di una rigidità marionettistica: «Disu­ Vienna (1923) con il progetto di pal­
manizzare completamente la voce, to­ coscenico circolare in legno su strut­
gliendole sistematicamente ogni mo­ tura metallica con rampe elicoidali
dulazione o sfumatura. Disumanizza­ chiamato Raumbühne (versione prov­
re completamente la faccia, evitare visoria ed economica dell’Endless
ogni smorfia, ogni effetto d’occhi. theatre). Nel 1923 lavora alla sceno­
Metallizzare, liquefare, vegetalizzare, grafia cinetica contenente anche
pietrificare ed elettrizzare la voce, proiezioni cinematografiche, di
fondendola colle vibrazioni stesse del­ R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) di
la materia». Il declamatore, in sinto­ Karel Čapek, rappresentata a Berlino
nia con l’autore parolibero, imita «in nel 1923, che trovò i consensi entusia­
tutto e per tutto i motori e i loro rit- stici del gruppo di De Stijl (di cui Kie­
mi» e non si accontenta di pronuncia­ sler entrò a far parte). Così Kiesler la
re parole, ma fa della poesia un’azio­ descrive nei Diari (1961): «R.U.R. fu
ne spettacolare (come le serate dadai­ la mia occasione di usare per la prima
ste al Cabaret Voltaire di Zurigo): scri­ volta in un teatro una scena in movi­
ve su lavagne «teoremi equazioni e ta- mento anziché uno sfondo dipinto, e
vole sinottiche di valori lirici», corre anche la televisione, nel senso che
per la sala, e crea un concertato tra avevo una grande finestra quadrata
musica, rumori e suoni prodotti da nel mezzo di uno schermo che poteva
strumenti onomatopeici. Un primo essere comandata da lontano. Quan­
esempio di declamazione dinamica e do nella commedia il direttore della
453 39 SCHEDE

fabbrica di uomini premeva un botto­ sori delle avanguardie del primo No­
ne sulla sua scrivania, si apriva la fine­ vecento nel far interagire in uno stes­
stra e il pubblico vedeva due esseri so evento differenti linguaggi espres­
umani riflessi da uno specchio dietro sivi. Clair, che diventerà uno dei regi­
il palcoscenico. Le immagini degli at­ sti fondatori della grande scuola ci­
tori in movimento apparivano in que­ nematografica francese, esplora a tut­
ste finestre alte trenta centimetri [...] to campo i trucchi e le possibilità del­
Era un’illusione, perché un minuto la tecnica filmica dell’epoca, in un
dopo si vedevano gli stessi attori dal pionieristico uso artistico e ludico
vero in palcoscenico... Poi c’era un’al­ dell’artificio cinematografico. En­
tra innovazione, un grande diafram­ tr’Acte è una delle opere imprescindi­
ma sul fondo del palcoscenico. Quan­ bili del cinema dada e surrealista. Le
do il direttore della fabbrica voleva di­ immagini fluiscono libere, sganciate
mostrare ai visitatori quanto fosse mo­ dalla tradizionale consequenzialità
derna la sua fabbrica di robot, apriva narrativa, per associazioni irraziona­
un diagramma attraverso cui si vede­ li, mentali e oniriche, dando vita a un
vano immagini in movimento proiet­ esempio brillante di cinema non nar­
tate dal fondo del palcoscenico su di rativo. Un atto creativo «assoluto»,
uno schermo circolare; si vedeva così un omaggio all’arte e al divertissment
l’interno di un’enorme fabbrica con dada. Non è casuale che a questo
gli operai affaccendati che andavano film partecipino come attori lo stesso
avanti e indietro. Si trattava di un’illu­ Francis Picabia, Man Ray, Marcel Du­
sione perché la macchina da presa si champ. In una sorta di visione cubi­
spostava verso l’interno della fabbrica sta dei monumenti e dei tetti di Pari­
e il pubblico aveva l’impressione che gi, si intrecciano le immagini di Man
gli attori sul palcoscenico camminas­ Ray e Duchamp che giocano a scac­
sero nella stessa direzione». chi, un getto d’acqua manovrato da
Picabia, una ballerina ripresa in una
René Clair prospettiva dal basso mentre danza
Entr’Acte (Intermezzo) (1924). Sceneggia­ su un cristallo trasparente e che poi
tura: Francis Picabia; fotografia: Jimmy ripresa dall’alto si rivela un uomo, un
Berliet; musica: Erik Satie; interpreti: cacciatore che da un tetto spara a un
Jean Borlin, Francis Picabia, Man Ray, uovo e che poi viene abbattuto da
Marcel Duchamp, Erik Satie, Marcel una fucilata di Picabia. Da questo sca­
Achard. turisce un celeberrimo funerale co­
Pellicola ideata come sceneggiatura mico-surreale, con il corteo dei con­
da Francis Picabia e girata da René giunti che rincorre il carro funebre,
Clair (1898-1981) come intermezzo prima a balzi rallentati e poi in un in­
per lo spettacolo Relâche della compa­ seguimento sempre più accelerato e
gnia dei Balletti svedesi di Rolf de paradossale che percorre un ottovo­
Maré messo in scena al Théatre des lante da Luna Park, diventa insegui­
Champs Elysées il 22 novembre 1924. mento automobilistico, navale, ae­
Concepito come intreccio tra musica reo, in un crescendo di movimento e
(una composizione originale di Satie intensità comica, dove grazie al gioco
da eseguire dal vivo), cinema e spet­ dichiarato dell’artificio cinematogra­
tacolo (i balletti di de Maré), rappre­ fico anche gli oggetti inanimati pren­
senta uno degli esperimenti precur­ dono vita.
LE OPERE 454
Abel Gance Paul Claudel, Darius Milhaud
Napoléon (1926) Le Livre de Christophe Colomb (1927)
Abel Gance (1889-1981) è stato uno Nell’estate del 1927 il drammaturgo
dei più arditi sperimentatori della sto­ francese Paul Claudel (1868-1955) scri­
ria del cinema: utilizzò obiettivi defor­ ve Le Livre de Christophe Colomb, con­
manti e schermi di proiezione allargati frontandosi per la prima volta con un
e un montaggio dai ritmi molto rapidi. soggetto storico e concependo fin dal­
Tra i suoi film: Mater dolorosa (1917), l’inizio l’idea di farlo musicare dall’a­
La decima sinfonia (1918), Accuso! mico Darius Milhaud e di integrare già
(1919, rimontato nel 1922 e rigirato nel testo – come sua parte essenziale –
nel 1937), La ruota (1922), che in­ la descrizione di sequenze cinemato­
fluenzò le avanguardie cinematografi­ grafiche da proiettare insieme all’azio­
che del tempo. Napoleone visto da Abel ne degli attori. Associando al copione
Gance è l’unico rimasto dei sei proget­ una serie di note che sono precise in­
tati episodi che dovevano narrare la dicazioni per la regia. Quest’opera tea­
biografia dell’Imperatore, a partire trale-musicale si presenta perciò come
dall’adolescenza alla campagna d’Ita­ uno degli esempi post-wagneriani di
lia del 1796. Gance si ispirava a Nascita opera totale, particolarmente impor­
di una nazione di David Griffith, ma vol- tante e originale perché l’intreccio dei
le sperimentare un’avanguardistica differenti linguaggi espressivi, poesia,
proiezione su tre schermi affiancati teatro, musica e cinema, non avviene
che permetteva una visione allargata solo a posteriori, nella messinscena,
ideata dall’operatore Debrie, chiamata ma a priori, già nel progetto e nella
Polyvision e che anticipa di quasi scrittura drammaturgica. La prima ver­
trent’anni il Cinerama. Viene usata sione dell’opera (come opera musica­
per le sequenze del dibattito alla Con­ le) viene allestita a Berlino nel 1930,
venzione, del Bal des Victimes e della con la regia di Hörth che realizza per
marcia dell’esercito francese verso l’I­ essa 42 minuti di film. Le immagini ci­
talia (quest’ultima sequenza è l’unica nematografiche evocano sia la dimen­
rimasta perché il regista distrusse le al­ sione onirica e interiore dei personag­
tre due). Nella parte di Marat c’era gi sia la dimensione del viaggio. Non è
Antonin Artaud; in quella di Sant-Just la prima volta che un drammaturgo
lo stesso Gance. La versione originale pensa d’integrare il cinema con il tea­
della pellicola durava 6 ore; ne fu tro (Saint-Pol-Roux nel 1895, Elmer Ri-
proiettata solo una parte all’Opéra di ce nel 1914, Iwan Goll nel 1919, Fillia
Parigi il 7 aprile 1927. La pellicola eb­ nel 1923), ma è la prima volta che vie-
be alterna fortuna: fu perduta e di­ ne teorizzato come un artificio innova­
menticata fino a quando Kevin tivo fondamentale per un nuovo tea­
Brownlow ne acquistò una versione tro. Nel 1953 (con un ventennio di
ormai ridotta a un paio di bobine a successive riprese) il grande attore e
passo ridotto e tentò di ricostruirla fi­ regista Jean-Louis Barrault riporta in
lologicamente negli anni Ottanta. scena il lavoro di Claudel in una ver­
Nel 1981 una copia fu recuperata an­ sione di prosa, pur sempre con musi­
che dal regista Francis Ford Coppola che di Milhaud, che di fatto rilancia l’i­
che realizzò una versione di quattro dea di spettacolo totale e dove la criti­
ore con musiche composte dal padre ca del tempo vede un «unico linguag­
Carmine. gio» formato da una perfetta sintonia
455 39 SCHEDE

tra testo, scenografia, danza, luci e ci­ vimento (di cui era unico socio) dopo
nema. che fu rifiutato nel Club dada, e lo
«L’idea generale è che il dramma sia aveva mutuato dal titolo di uno dei
come un libro che si apre e di cui si suoi quadri più famosi composti a col­
consegna il contenuto al pubblico. Es­ lage, Merz appunto. Così Dietmar El­
so, attraverso la voce del cuore, inter­ ger descrive il Merzbau nel catalogo
roga il lettore e gli attori stessi della della mostra al Pac di Milano (2001)
storia. Domanda loro delle spiegazio­ in cui è stata presentata la ricostruzio­
ni. Si associa ai loro sentimenti [...] Il ne in gesso di Peter Biusseger del
pubblico non guarda solamente gli at­ Merzbau di Hannover (1983): «Nel
tori. Ha bisogno di sapere cosa accade 1923 Kurt Schwitters iniziò a imposta­
nel loro cuore e nella loro testa [...] È re il suo atelier in modo nuovo dal
a questo che serve lo schermo che for­ punto di vista artistico secondo que­
ma il fondale della scena e sostituisce sto “Prinzip Merz”. Ricoprì le pareti e
il telo. È un paesaggio spirituale che le sculture Merz disposte in quello spa­
sostituisce il vecchio luogo materiale. zio di strati di ritagli di giornali, fram­
Su questa tela si dipingono con gradi menti di manifesti e fotografie, fissan­
diversi d’insistenza e di precisione tut­ dovi poi piccoli oggetti-feticcio e infi­
ti i tipi di immagini, limpide o confu­ ne legando tutti gli elementi fra loro.
se, indicando agli spettatori una mag­ Se dapprima Schwitters riusciva a uti­
giore o minore presenza nel passato, lizzare il locale come stanza da lavoro,
nel presente, nel possibile e nel sogno. ben presto l’ambiente si trasformò in
Il dramma si svolge così a metà strada un’opera d’arte autonoma. Le scultu­
tra gli spettatori e una specie di pen­ re crebbero sempre più fino a diven­
siero visibile di cui gli attori sono gli tare un’unica costruzione che occupa-
interpreti» (da Paul Claudel, Note sur va tutto lo studio [...] Il Merzbau era
la mise en scène de Christophe Colomb, un luogo in cui Schwitters poteva rin­
Théâtre, vol. II, Gallimard, 1965, p. chiudersi e ritirarsi dal mondo. Era
1491, trad. it. di A. Balzola). nel contempo caverna e torre, en­
Andrea Balzola trambe forme architettoniche scelte
anche dagli architetti espressionisti
Kurt Schwitters come spazi di volontario isolamento.
Merzbau di Hannover (1923-37) Molti oggetti e frammenti testuali del
Il Merzbau di Hannover venne creato Merzbau sono indicativi degli eventi
da Kurt Schwitters (1887-1948) tra il politici del tempo e della situazione
1923 e il 1937 e finì distrutto da un at­ sociale di quegli anni, delle condizio­
tacco aereo alleato nel 1943. Si tratta­ ni di vita di Schwitters, delle sue ami­
va di una vera e propria architettura cizie, delle sue attività artistiche. Per
praticabile in cui l’artista accumulava Schwitters il Merzbau assolveva così la
oggetti raccolti per strada per poi suc­ funzione di un complesso diario crip­
cessivamente aggiungervi colore, ges­ tato, in cui raccoglieva le sue osserva­
so e legno. Come dichiarò lo stesso zioni».
autore, il Merzbau era incompleto
«per principio» e dopo quello di Han­ Miroslav Kouril, Emil Burian
nover Schwitters iniziò altri Merz in Theatregraph (1936)
Norvegia e nel Lake District britanni­ Nel 1933-34 il cecoslovacco Emil Bu­
co. Il Merz era il nome dato al suo mo­ rian, compositore, attore e regista fon­
LE OPERE 456
da il teatro D 34 (Divadlo 1934) e pro­ e il suo senso di riempimento dello
getta insieme con lo scenografo Miro­ spazio attraverso i materiali, incontra
slav Kouril il Theatregraph, chiamato il teatro, precisamente nel momento
anche il teatro della luce, inaugurato delle più importanti sperimentazioni
con Il risveglio di primavera da We­ sui nuovi materiali. La musica, que-
dekind; si trattava di un procedimento st’arte dalle dimensioni sconosciute,
che combinava proiezioni di diapositi­ quest’arte che parla con il suo ritmo
ve con immagini statiche e filmiche in direttamente al ritmo del cuore e dei
16mm realizzate da Burian. Le proie­ muscoli, arriva dall’orchestra per
zioni dovevano essere incorporate nel­ espandersi sulla scena come il passo
l’azione drammatica: il dispositivo della danzatrice che dalla punta dei
progettato catturava letteralmente l’at­ piedi si estende sulla pianta. La poesia
tore, imprigionandolo tra due superfi­ cessa di essere una cosa puramente ot­
ci cilindriche traslucide, proiettabili tica, legata alla mimica; ella conquista
frontalmente e posteriormente che le lo spazio come una musica senza luo­
separavano rispettivamente dalla pla­ go che si trasforma in una poesia sen­
tea e dal fondale. Altre superfici late­ za parola» (E.F. Burian, La Nouvelle
rali potevano contenere diapositive in Scène tchèque, Prague, 1937, in D. Ba-
un incrocio complesso di proiezioni. blet, 1995).
Una tela centrale, infine, funzionava
come un diagramma ottico. Di grande Pierre Schaeffer
effetto risultava l’utilizzo di particolari Cinq études de bruits (1948) – musica
ingranditi, oggetti e persone ripresi a concreta su disco
distanza molto ravvicinata con la mac­ Il progetto del primo degli «studi di
china da presa, dettagli che si impone­ rumori», l’Etude aux chemins de fer, fu
vano allo sguardo dello spettatore in formulato da Pierre Schaeffer (1910­
una scala così gigantesca da deformar­ 95) nella Pasqua del 1948 come idea
li o trasfigurarli, rendendo al loro con­ «eccitante e sensazionale» di un «con­
fronto la presenza umana davvero infi­ certo di locomotive». Il 5 ottobre 1948
nitesimale. Ecco cosa scriveva Burian la RTF presentò un Concert de bruits co­
dell’invenzione che secondo lui sanci­ stituito dai primi cinque brani di mu­
va la fine definitiva della divisione tra sica concreta composti da Schaeffer:
le arti: «Per la prima volta, oggi noi Etude aux chemins de fer 2’ 50”
possiamo realizzare questo teatro nel Etude aux tourniquets 1’ 54”
quale cadranno le frontiere dell’in­ Etude violette (piano I) 3’ 18”
comprensione tra le arti. Oggi, per la Etude noire (piano II) 3’ 54”
prima volta, noi siamo stupefatti di Etude pathétique
questo accordo tra diversi elementi (étude aux casseroles) 4’ 01”
che gli antichi avevano presentito ma Si tratta di una serie di studi su mate­
che non avevano potuto realizzare. riale concreto utilizzando le tecniche
L’architetto che si è assunto la respon­ di incisione e riproduzione del disco
sabilità di costruire delle città per una realizzabili all’interno degli studi del­
vita nuova, sociale e più sana, trova nel la radio francese. I frammenti sonori
teatro un buon alleato. La pittura che venivano incisi su disco (sillon fermé) e
ha aderito per lungo tempo sulle tele poi sottoposti a inversione, variazione
fa scoprire al teatro il suo movimento. della velocità di riproduzione, sovrap­
La scultura, con la sua forza dinamica posizione, ripetizione del frammento
457 39 SCHEDE

sonoro tramite chiusura del solco sul profondimenti e le formulazioni teori­


disco (boucle) o riassemblati con tec­ che degli anni seguenti.
niche di montaggio prima di passare Mauro Lupone
alla definitiva incisione finale su di­
sco. John Cage, Merce Cunningham,
– Etude aux chemins de fer è composto David Tudor, Robert Rauschen­
da frammenti sonori «ferroviari» berg, Mary Caroline Richards
(fischi, rumori di rotaie, sbuffi di Untitled Event (1952)
vapore...) registrati nella stazione John Cage entra al Black Mountain
di Batignolles e, probabilmente, re­ College (Carolina del Nord) diretto da
periti anche all’interno del vasto ar­ Joseph Albers, già docente alla Scuola
chivio discografico-rumoristico del­ della Bauhaus, nel 1948, dopo aver stu­
la Radio Televisione Francese. diato con Arnold Schönberg. Nel 1952
– Etude aux tourniquets utilizza mate­ organizza un evento considerato il pre­
riale tratto da metallofoni, percus­ cedente degli happening e dei concer­
sioni di legno, e trottole col fischio ti Fluxus: Untitled Event (chiamato an­
(tourniquets). che Theatre Piece n. 1) che includeva
– Etude violette e Etude noir (Etude au una performance simultanea di pia­
piano I/II) utilizzano materiale con­ noforte, di danza improvvisata, decla­
creto di derivazione pianistica cer­ mazioni poetiche e una conferenza.
cando, tuttavia, di utilizzarlo come Nella stanza erano appesi i Quadri
risorsa timbrica decontestualizzata bianchi di Robert Rauschenberg. L’e­
dagli aspetti storici ed estetici della vento non accadeva su un palco ma in
tradizione. una stanza, in mezzo agli spettatori,
– Etude pathétique impiega frammenti mentre Tim La Farge e Nick Cerno­
sonori derivati da coperchi di pen­ vich proiettavano sulle pareti film e
tole (casseroles), battelli fluviali, pa­ diapositive. L’Untitled Event fu inter­
role parlate e cantate tratte da di­ pretato non come una performance
schi, armonica a bocca e un pia­ musicale ma come esempio di «nuovo
noforte. teatro» (M. Kirby, 1968; M. De Marinis,
Nonostante sia ancora un prodotto ru­ 1989). Kirby in Happening (1968) ne
dimentale e dal modesto esito artisti­ rintraccia la matrice dadaista (con rife­
co, possiamo considerare il primo Etu­ rimento al Teatro Merz di Schwitters;
de aux chemins de fer come tappa fonda­ ma rispetto a Cage l’influenza più di­
mentale nel quadro dell’evoluzione retta era piuttosto Marcel Duchamp)
musicale del Novecento, sia perché fu descrivendolo così: «I sedili per il pub­
il frutto di un procedere «tecnologi­ blico, tutti volti verso il centro, erano
co» sistematizzato, legato anche a una stati sistemati nel mezzo del refettorio
possibile riproducibilità tecnica svin­ del collegio in modo da lasciare un
colata dall’esecutore, sia perché il ma­ passaggio tra la “platea” e le pareti.
teriale semantico concreto e manipo­ Calcolate al secondo come in una
lato metteva in gioco meccanismi per­ composizione musicale, le varie azioni
cettivi e di fruizione diversi da quelli si svolgevano tra e intorno agli spetta­
posti in essere dalla musica tradiziona­ tori. Cage, con abito e cravatta neri,
le, fornendo inoltre approcci di for­ lesse una conferenza su Maestro
malizzazione cosciente del materiale Eckhart da un leggio collocato in un
che serviranno come base per gli ap­ lato della camera [...] Mary Caroline
LE OPERE 458
Richard (che aveva tradotto per l’A­ localizzazione spaziale. In questi ri­
merica Il teatro e il suo doppio di Anto­ quadri l’attrice Anouk Adrien e il bal­
nin Artaud) declamò solennemente lerino Lucius Romeo si muovono sui
dei versi da una scala a pioli. Charles tetti di New York sulle note di alcuni
Olson e altri attori «nascosti» tra il brani di John Cale e Lou Reed o dan­
pubblico si alzarono a turno in piedi e zano come incastonati nello spazio
recitarono poche battute. David Tudor del vuoto elettronico grazie al chro­
suonò il piano. Sul soffitto vennero ma-key. La doppia ripartizione del vi­
proiettate immagini cinematografiche: deo ricorda le proiezioni multiple di
all’inizio si vide il cuoco della scuola, Warhol, ancora lontane dalle possibi­
poi il sole che tramontò quando l’im­ lità dell’elettronica: Chelsea Girl
magine si mosse dal soffitto al muro. (1966), il suo maggior successo un­
Mentre Robert Rauschenberg metteva derground, concepito per una proie­
vecchi dischi su un fonografo portati­ zione simultanea su doppio schermo.
le, Merce Cunningham improvvisò Il ricercato effetto di pellicola graffia­
una danza intorno al pubblico. Un ca­ ta, i disturbi, le code perforate teleci­
ne prese a seguirlo e fu accettato nella nemate e i marchi della materia evi­
rappresentazione». denziati che caratterizzano Les conta­
minations ricordano direttamente i
Patrick De Geetere e Cathy Wagner film di Warhol e il cinema sperimenta­
Les contaminations (la Factory di Warhol) le americano. Per la ricostruzione del-
Usa-Francia, 1992, 59’ l’ambiente e dei personaggi Patrick
Videodocumentario di creazione elet­ De Geetere ha utilizzato l’autobiogra­
tronica sulla vita della Factory e sulla fia Popism. Warhol’s 60s scritta dall’arti­
figura di Warhol cineasta, girato a New sta insieme con Pete Hackett. Il libro
York e montato al Centro internazio­ narra della quotidianità con artisti co­
nale di creazione arti elettroniche me Bob Dylan, Rudolf Nureyev, Nor­
Pierre Schaeffer di Montebéliard. Si man Mailer, Jimi Hendrix, Tim Buck­
tratta di una elaborata rilettura elet­ ley, La Monte Young, Bob Rauschen­
tronica dell’universo Warhol attraver­ berg, Jim Dine e termina con il 1969,
so le voci, i corpi e la musica dei pro­ anno della morte per overdose dell’at­
tagonisti, con materiali di archivio, fo­ trice Edie Segdwick. Molte cose comin­
to, alcuni fotogrammi da Empire e in­ ciano a cambiare già dal 1969. Hol­
terviste realizzate appositamente per il lywood si interessa ai lavori di Warhol:
video a Jonas Mekas, a Taylor Mead la Columbia Picture gli chiede di gira­
(protagonista di vari film di Warhol e re un film in 35mm. La Factory viene
Ron Rice), a Paul Morrisey (regista disertata. Paul Morrisey inizia le ripre­
della seconda fase del cinema warho­ se di Trash e Urban Cowboy.
liano). E ancora, al fotografo e arreda­
tore della Factory, Bill (Linich) Name, Wolf Vostell
al critico d’arte Pierre Restany, a Nam Tv Dé-coll/age (1958)
June Paik, a John Giorno, poeta e at­ Il de-coll/age è un neologismo crea­
tore in Sleep e a Sterling Morrison, to dall’artista Fluxus Wolf Vostell nel
componente dei Velvet Underground. 1954 per definire un processo artisti­
Lo schermo si divide in due parti, in co di sua invenzione che assemblava
due sezioni contigue e comunicanti materiali e oggetti diversi per lo più
tra loro, variabili nel formato e nella simbolo della società dei mass media
459 39 SCHEDE

(brandelli di giornali, fotografie) con si è parlato di affinità con il gesto di


colate di pittura o di cemento. A par- Lucio Fontana, il taglio nella tela di
tire dal 1958 tra gli oggetti incluse un quadro monocromo».
anche apparecchi elettroacustici e i
televisori, inserendo come parte inte­ Lars Movin
grante dell’opera, azioni, comporta- The Misfits. Thirty Years of Fluxus Dani­
menti e gesti di distruzione, manipo­ marca, 1993, 79’
lazione delle immagini televisive, «Un ritratto video di un gruppo di ar­
deformazione e rifunzionalizzazione tisti che dall’inizio degli anni Sessanta
di chiara matrice espressionista e da­ hanno sconvolto la nostra concezione
daista. Così lo stesso artista definisce di quel che può essere l’arte» (Lars
l’operazione: «Il termine dé-coll/age Movin). Un mosaico multicolore di
rinvia a un principio della negazione immagini di suoni di ieri e di oggi: The
estetica, o a un’estetica della negazio­ Misfits (gli spostati, i disadattati) del
ne: a forme di distruzione volontaria danese Lars Movin (1959) è un viag­
o involontaria, per opera dell’uomo gio in trent’anni di provocazioni arti­
o del destino. Duchamp aveva dichia­ stiche, di eventi dissacratori, di scon­
rato che “l’oggetto intatto” era nuovo certanti concerti, di creazioni effime­
in quanto opera d’arte. Il processo di re. Il documentario – che ben si inse­
dé-coll/age, che deforma l’oggetto, è risce nel filone del cosiddetto «docu­
anche un evento, un avvenimento, mentario di creazione» perché mesco­
un’azione che ha la stessa importan­ la interviste tradizionali a tutta una
za del risultato estetico. La vita trova­ gamma di efficaci effetti elettronici – è
ta al posto dell’oggetto trovato, la vita un omaggio agli straordinari protago­
trovata “dé-coll/agée” è la scoperta nisti del movimento Fluxus, un movi­
che determina la mia opera: distor­ mento che fin dai primi anni Sessanta
sione di immagini televisive, manife­ ha voluto abbattere la separazione ar­
sti bruciati, cancellamento di riviste, te/vita e scardinare gli steccati disci­
azioni de-coll/age, dimostrazioni in plinari, le tradizioni, i rituali dell’arte
pubblico della produzione dei miei e dello spettacolo. E da cui, tra l’altro,
oggetti». Cosi Silvia Bordini (1995) provengono alcuni dei padri fondatori
descrive alcuni dei dé-coll/age pro­ delle video-opere. Le testimonianze
posti per gallerie artistiche, tra cui degli artisti sono state raccolte in gran
l'opera-manifesto Tv Dé-coll/age parte durante la Biennale di Venezia
(1958): «Vostell propone in Tv Dé­ del 1990, e sono assemblate creativa­
coll/age una grande tela incolore, la­ mente con preziosi materiali di archi­
cerata in vari punti da cui si intrave­ vio su eventi Fluxus (spettacoli, perfor­
dono altrettanti occhieggiamenti di mance musicali, happening di strada).
schermi, con le loro emissioni assur­ Le interviste contemporanee si intar­
damente decontestualizzate ridotte a siano così, nella tavolozza elettronica,
residui e metafore inquietanti [...] con le immagini storiche. George Ma­
Nel 1963 durante la presentazione ciunas, Yoko Ono, John Cage, Jonas
della prima versione di Sun in your Mekas, Nam June Paik e tanti altri
Head, 9 Nein De-coll/agen distrugge (scomparsi o ancora attivi) compon­
con un colpo di fucile un televisore gono un ritratto in continua meta­
acceso, una simbolica uccisione di un morfosi, un «flusso» che resiste tuttora
mezzo di comunicazione per la quale a ogni inquadramento, a ogni punti­
LE OPERE 460
gliosa suddivisione in capitoli, a ogni diapositive, venne utilizzato il sistema
definizione: anche quella della corni­ a circuito chiuso televisivo. Le riprese
ce del monitor. Il video è stato premia­ in diretta dalla strada di una casuale
to al Festival di Clermont-Ferrand nel manifestazione di protesta e del coro
1994. in esterni che cantava diretto dal di­
Catalogo Invideo, 1995 rettore dentro il teatro che dava loro
gli attacchi attraverso un monitor, ap­
Luigi Nono, Josef Svoboda parivano sulla scena su due enormi
Intolleranza 1960 (1961-65) schermi, insieme con i volti del pub­
Opera lirica ispirata a testi di Ripelli­ blico catturati da una telecamera in
no, Eluard, Sartre, Brecht, Majakov­ sala.
skij. Ne furono fatte due diverse pre­
sentazioni (Venezia 1961, Boston Myron Krueger
1965). Si tratta di un’opera dramma­ Videoplace (1970)
tica che racconta il ritorno in patria Myron Krueger è tra i primi computer
di un rifugiato politico, il quale lungo artist che hanno esplorato le possibi­
il viaggio subisce ingiustizie, prigione lità dell’arte telematica e dell’arte in­
e tortura. Gli avvenimenti storici deci­ terattiva. I suoi responsive environments
sivi che portarono il compositore Lui­ furono progettati dal 1969-70 in colla­
gi Nono a definire il progetto di un’o­ borazione con artisti e ingegneri del­
pera musicale contro lo sfruttamento, l’Università del Wisconsin per creare
il razzismo e ogni forma di intolleran­ opere che potessero «rispondere»,
za, furono la lotta degli algerini per la reagire ai movimenti e alle azioni dei
liberazione e il disastro minerario di visitatori attraverso un sistema di digi­
Marcinelles. Svoboda aveva da poco talizzazione della ripresa video. L’arti­
inaugurato la Lanterna Magika che sta diventa un «compositore di spazi
univa l’azione dell’attore o del can­ generati dal computer» che permetto­
tante con una scena cinetica, illumi­ no una comunicazione tra persone. Il
nata e animata da proiezioni cinema­ rapporto uomo-macchina è dunque
tografiche sincronizzate, e il sistema alla base di questa (all’epoca ancora
di proiezioni multiple Polyécran. La emergente) forma d’arte. Videoplace è
«macchina teatrale» concepita da definito dall’artista «un ambiente
Svoboda per Intolleranza presenta un concettuale senza esistenza fisica» che
insieme di superfici di proiezione atte «unisce persone in luoghi separati in
ad accogliere film e diapositive con una comune esperienza visiva permet­
immagini di campi di concentramen­ tendo loro di interagire in modi inat­
to, paesaggi di guerra. Si trattava di tesi attraverso il medium video». Vi­
schermi di varie forme, anche sferici deoplace anticipa successivi sviluppi
e persino schermi mobili che avanza­ della ricerca artistica dedicata alla te­
no dal fondo del palcoscenico fino al- lepresenza e alla Artificial Reality. Il vi­
l’orchestra. La versione di Venezia sitatore cammina in una stanza buia
non vide mai le proiezioni di Svobo­ dove vengono proiettate su grande
da; sebbene l’impianto scenografico schermo immagini o silhouette di sé e
fosse mantenuto, le immagini scelte di persone lontane, generate dal vi­
dall’artista ceco furono infatti censu­ deo in diretta con cui può interagire
rate e sostituite con pitture astratte di toccandole, modificandole con il solo
Emilio Vedova. A Boston oltre alle movimento del proprio corpo nella
461 39 SCHEDE

stanza e giocare con oggetti, figure si sperimenta in poco tempo l’ideolo­


grafiche da lui stesso generati. Come gia falsa, l’abisso della Superficialità
dice Krueger – «response is the me­ istituzionalizzata, la Tautologia del Po­
dium»; il tema centrale è la relazione tere assoluto, la malignità intima della
tra osservatore e ambiente: «Lo scopo Bugia nascosta nell’Ordine, la vergo­
dei dispositivi è comunicare le relazio­ gna della confusione culturale, l’irre­
ni che l’ambiente sta cercando di sta­ sponsabilità di chi avoca a sé la libertà
bilire. Questi devono essere capaci di di giudizio collettivo, l’inganno della
grandi variazioni e ottimo controllo. giovinezza che porta grazia e fiducia a
La risposta può essere espressa sotto fare da preludio ad ogni proprio mas­
forma di luce, suono, movimento sacro» (F. Mauri, 1973). La perfor­
meccanico o attraverso ogni altro mance è segnata da una decisa critica
mezzo che può essere percepito. Così dell’autore al Regime e all’ipocrisia
sono stati usati grafica computerizza­ trionfalistica ed esaltativa della retori­
ta, apparecchiature video, apparecchi ca fascista (la scritta The end campeg­
luminosi e sintetizzatori del suono» giava nello schermo del film). La te­
(M. Krueger, Responsive Environments, matica politica prosegue con Ebrea
1977). (1971) riproposta alla Biennale di Ve­
nezia nel 1993 con Il Muro occidentale o
Fabio Mauri del Pianto. La demistificazione della
Che cos’è il fascismo (1971) manipolazione del linguaggio è il te-
Fabio Mauri (1926), esponente dell’a­ ma dei libri d’arte Il Linguaggio è guer­
vanguardia gestuale romana degli an- ra (1975) composto da reperti foto­
ni Cinquanta, «anticipatore del pop» grafici tedeschi di epoca fascista ritoc­
secondo Gillo Dorfles e successiva­ cati e timbrati, e Manipolazione di cul­
mente artista concettuale con la serie tura (1976). Tra il 1975 e il 1980 inizia
«Schermi», ha sperimentato le più la serie delle performance con proie­
svariate tecniche e linguaggi espressi­ zioni di film su oggetti e corpi: tra
vi: pittura, fotografia, performance, questi Intellettuale (1975) in cui proiet­
cinema. tava Il Vangelo Secondo Matteo sullo stes­
Amico di Pier Paolo Pasolini con il so Pasolini.
quale nel 1942 fondò la rivista «Il Se­
taccio», nel 1971 inizia a realizzare la Dan Graham
serie delle opere e performance poli­ Present Continuous Past(s) (1974)
tiche e di denuncia ispirate alla trage­ Storica videoinstallazione basata sul
dia della Seconda guerra mondiale, principio del circuito chiuso e della
all’Olocausto, all’ideologia nazista e video-sorveglianza in cui l’osservatore
alla sua iconografia. Che cos’è il fasci­ è parte integrante del dispositivo. La
smo è una «riproduzione» di una ceri­ possibilità di fare esperienza del pre­
monia «ludi juveniles» d’epoca fasci­ sente e in generale, del tempo in for­
sta, «un’azione complessa che fonde ma spazializzata, ha portato Dan
in sé elementi di teatro e arte gestua­ Graham (1942), artista americano in­
le» secondo l’artista stesso. Svastiche teressato al rapporto tra le arti e alle
sugli arredi, pubblico ebreo separato, implicazioni sociali e politiche dei
giovani del Littorio, oratoria propa­ media, a far muovere il visitatore in
gandistica, proiezione di film Luce, un percorso architettonico labirintico
musica d’epoca, esercizi ginnici: «Qui di riconoscimento di sé e contempo­
LE OPERE 462
raneamente di spiazzamento percetti­ Luca Ronconi
vo-temporale, sia attraverso specchi L’Orlando Furioso televisivo (1975)
sia attraverso meccanismi di registra­ L’Orlando Furioso fu realizzato da Luca
zione video e di ritardo dell’immagi­ Ronconi per la RAI in cinque puntate
ne riprodotta. Françoise Parfait di un’ora circa con una scelta antolo­
(2001) descrive la videoinstallazione gica degli episodi ariosteschi – corri­
così: «Dan Graham ha costruito una spondenti a cinque episodi autonomi
sala in cui due muri sono ricoperti di incentrati ognuno su un personaggio
specchi; nella terza uno schermo e – e una loro connessione affidata alla
una telecamera sono incastrati l’uno voce narrante dello stesso regista. Dal­
sopra l’altro. Il visitatore che entra in lo spazio aperto e dalla scena molti­
questo spazio vede nel monitor plicata dell’evento teatrale messo in
un’immagine che non è in diretta, scena nelle piazze con un centinaio di
ma leggermente in differita. Questo attori (1967), Ronconi si trovò nello
ritardo è messo en abîme grazie agli spazio chiuso della scena unica del vi­
specchi che riflettono l’immagine del deo (girava con la cinepresa ma pen­
monitor che prolunga il termine al- sando alla destinazione televisiva).
l’infinito. Anche l’immagine in tem­ Ronconi trasloca la troupe cinemato­
po reale, che il dispositivo suggerisce, grafica e gli attori nell’esoterica Villa
è negata e rifiutata allo spettatore che Farnese di Caprarola: il palazzo cin­
deve attendere prima di vedersi. Il quecentesco è il mondo (ariostesco,
confronto tra l’immagine dello spec­ secondo Ronconi), le stanze sono
chio e quella del falso specchio elet­ paesaggi e/o passaggi, gli scaloni
tronico crea uno scarto, un turba­ montagne, i sotterranei allagati sono i
mento di riconoscimento che avvalo­ mari, la soffitta è la luna (alcune sce­
ra una rappresentazione critica del- ne dell’Orlando sono girate a Cine­
l’immagine di sé da parte del sogget­ città, nelle Terme di Caracalla e nella
to dell’esperienza. Il presente, l’im­ Chiesa di S. Maria in Cosmedin). Poi­
mediatamente passato e l’immediato ché l’Orlando Furioso è un grande af­
futuro sono messi in relazione in que­ fresco fantastico, Ronconi esalta la
sta camera temporale, in questa camera fantasia barocca dell’Ariosto giocan­
di eco visivo». Graham afferma che do deliberatamente con la finzione
nell’opera sono contrapposti due mo­ teatrale: gli attori recitano plateal­
delli di tempo: «Il tempo presente mente e con accenti musicali i versi
della tradizionale prospettiva rinasci­ dell’Ariosto, cavalcano cavalli finti,
mentale, che corrisponde, in questo combattono in una Parigi stilizzata.
lavoro, alle immagini di sé nello/ne­ Ma il palazzo è anche il labirinto dove
gli specchi, e il tempo del feedback vi­ si inseguono, si perdono, si incontra­
deo loop. L’uso del dispositivo di di­ no, si scontrano i personaggi proprio
storsione del tempo video in unione come accade nel labirinto delle pagi­
con gli specchi, permette allo spetta­ ne dell’Ariosto. La molteplicità dei
tore di vedere ciò che non è normal- punti di vista di cui poteva disporre lo
mente raggiungibile visivamente: la spettatore nell’Orlando teatrale, spo­
simultaneità di sé sia come soggetto standosi fisicamente egli stesso nella
che come oggetto» (D. Graham, Video simultaneità delle azioni sceniche di­
in Relation to Architecture, in D. Hall, slocate nello spazio, in televisione tro­
S.J. Fifer, 1990). va una corrispondenza nella moltepli­
463 39 SCHEDE

cità dei punti di vista di cui dispone la con delle anomalie, sono degli am­
cinepresa mediante la combinazione bienti ideali. In effetti, più lo spazio fi­
dei movimenti di macchina e di otti­ sico è composto e ricco, più è interes­
ca. Ed è questa esigenza che suggeri­ sante e stimolante l’esperienza che ne
sce a Ronconi l’uso prevalente del fa il visitatore attraverso la mediazione
dolly, del carrello e dello zoom (A. della sfera. Questa tiene sotto control­
Balzola, F. Prono, Luca Ronconi: per un lo il pubblico, lo osserva. Non esiste
teatro televisivo?, video, CRUT, Torino più un punto di vista unico e centrale,
1988). umano, ma un occhio meccanico che
ruota e la sua visione sferica. All Vision
Steina Vasulka fa parte di Machine Vision (1978), un
All Vision (1976) ambiente elettronico, ottico e mecca­
Machine Vision (1978) nico che contiene un insieme di di­
Steina Vasulka, oltre alla collaborazio­ spositivi (sette) e di congegni mecca­
ne con il marito Woody (1937) in di­ nici e ottici – con prismi, specchi e len­
verse ricerche sull’immagine elettroni­ ti – che effettuano una serie di opera­
ca, è impegnata dagli anni Settanta in zioni e movimenti – rotazioni, zoom,
una serie di progetti personali volti a panoramiche, tendine – davanti a otto
tracciare la cartografia di uno spazio telecamere collegate a dodici monitor.
virtuale e a riconfigurare la relazione Lo spazio ridisegnato dai dispositivi è
tra osservatore, immagine e spazio. All complesso: le telecamere, dotate dei
Vision (1976) è un’installazione elet­ diversi congegni, filmano delle porzio­
tronica, ottica e meccanica. Si compo­ ni di spazio che vengono ritrasmesse
ne di due telecamere poste su una bar­ sugli schermi disposti a formare un vi­
ra di ferro al centro della quale è in­ deowall.
stallato uno specchio che ha la forma Simonetta Cargioli
di una sfera. La barra ruota lentamen­
te, le due telecamere sono orientate Nam June Paik
sulla sfera, filmano ciò che si riflette Merce by Merce by Paik (1978)
sullo specchio. È un’installazione a cir­ Il video di trenta minuti, è diviso in
cuito chiuso e due monitor sono con­ due parti di circa quindici minuti cia­
nessi alle telecamere mobili. Lo spazio scuna. La prima parte (Blue Studio: Fi­
intero nel quale è installato il disposi­ ve Segments) vede come protagonista
tivo è continuamente ridefinito, cattu­ Merce Cunningham: le immagini del
rato e ridisegnato dalla sfera; anche ballerino, grazie a coloriture ed effet­
l’immagine del visitatore è trasmessa ti speciali sembrano librarsi, scivolare
dalla sfera ai televisori. Il movimento e pattinare dentro e sopra paesaggi
della «visione della macchina» è una urbani e astratti. Il video ne evidenzia
continua rotazione; lo spazio che ne l’ormai classica gestualità e la libertà
risulta sui monitor ha perduto i punti di movimento nello spazio; ma è an­
di riferimento, dentro-fuori, sopra-sot­ che una riflessione sulla danza, con
to, e temporali. Il ruolo dello spazio è l’alternarsi di immagini reali e balletti
determinante per la resa estetica del- «metaforici» come quelli delle auto
l’installazione: spazi complessi visual­ nel traffico o dei primi passi di un
mente e strutturalmente, che conten­ bambino. Paik tornerà spesso sia su
gono scale, corridoi, angoli con forme Merce Cunningham (in Blue Studio di
orizzontali, verticali, con delle ombre, Charles Atlas, da cui è tratto il video,
LE OPERE 464
è da lui utilizzato anche in installazio­ cinematografiche, musicali, Carmelo
ni) sia sulla nozione di doppio, all’o­ Bene trova il mezzo più idoneo alla
pera nello sdoppiamento del balleri­ sua poetica di «sottrazione». Per arri­
no stesso: «Troviamo qui una delle vare all’essenziale, dove il sonoro pre­
più belle sparizioni al centro, figura domina sul visivo, egli tocca vari ele­
basilare nella specificità dello spazio menti: rinuncia al colore in cambio di
video. D’un tratto Cunningham scivo­ un forte contrasto bianco/nero, otte­
la via dall’immagine e non da uno dei nuto eliminando grigi e tonalità inter­
bordi ma da una fessura invisibile e medie che appiattiscono l’immagine
centrale [...] Al virtuosismo dei corpi televisiva; sostituisce inquadrature
corrisponde un virtuosismo della tra­ classiche quali campo/controcampo e
ma, capace di prodezze che chiamia­ campi intermedi con campi lunghi e
mo effetti» (J.P. Fargier). Nella secon­ primi/primissimi piani su oggetti o
da parte del video (Merce and Marcel) volti, trasformando i dialoghi in un
Paik ricicla materiali relativi a Cun­ montaggio molto frammentato di mo­
ningham accostando Merce Cunnin­ nologhi narcisistici dei personaggi ri­
gham a Marcel Duchamp con un gio­ presi frontalmente in primo e primis­
co di nomi su cui tornerà più tardi simo piano dalla telecamera fissa. Eli­
con il video su Allan Kaprow e Allen mina, tranne pochi oggetti emblema­
Ginsberg (Allan and Allen’s Com­ tici, la scenografia, sostituendola col
plaint). Sono qui a confronto due cul­ nero o il bianco assoluto o, in alcuni
ture che, sembra suggerire Paik, rive­ totali, con un gioco mutevole di for­
lano numerosi punti di contatto pur me bianche e nere ottenuto con l’ef­
nelle diversità e nelle distanze di tem­ fetto chroma-key. Potendo vedersi nel
po. Il video include anche un’intervi­ monitor a tempo reale, Bene control­
sta di Russel Connor a Duchamp rea­ lava la propria recitazione in fieri, ma
lizzata nel 1964: ulteriore tributo a soprattutto assisteva alla trasformazio­
questo maestro, cui i videoartisti spes­ ne del monitor stesso in specchio ri­
so e volentieri rendono omaggio e a flettente la sua immagine (A. Balzola,
cui anche Shigeko Kubota si era espli­ F. Prono, 1994). Questo specchio, che
citamente riferita nella sua serie «Du­ sdoppia il corpo-voce istantaneamen­
champiana». te, permette all’attore di diventare
Catalogo Invideo, 1990 spettatore di sé stesso ma, restituendo
parallelamente non il personaggio,
Carmelo Bene bensì il volto fisico, quotidiano del-
Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a l’attore stesso, lo rende consapevole
Laforgue) (1978) del suo «fallimento»: «...quando ti
Carmelo Bene realizza quattro regie guardi in questo specchio e ti ricono­
televisive originali (Quattro diversi mo­ sci imbecille e ti accorgi e sai benissi­
di di morire in versi, 1976; Amleto, 1977, mo che tutto quello che stai facendo è
Riccardo III, 1978; Otello, 1979). Nella irrappresentabile». L’irrappresentabi­
versione televisiva (contenente un col­ lità del personaggio è uno dei punti
lage di testi diversi, da Laforgue a di arrivo della poetica di Carmelo Be­
Freud, ma anche da Balzac a Gozzano ne, il quale proprio guardando nel
e un collage di musiche diverse, da monitor-specchio ne trovò l’ennesima
Mussorgskij a Rossini a Stravinskij a conferma. Il risultato di questo scacco
Wagner) che segue le versioni teatrali, diventa così un monologo nevrotico,
465 39 SCHEDE

esasperato, ironico, che Bene sputa dramma, attori, tecnici e macchinisti


fuori narcisisticamente come se egli smontassero anche il testo ricostruen­
fosse, appunto, da solo davanti a uno dolo poi in un altro luogo e in un altro
specchio. «La televisione è uno stru­ modo. C’era quindi una lettura del
mento che consente di scavare nel viaggio teatrale: a partire dalla casa­
“paesaggio umano”. Che cosa voglio teatro si andava verso altri luoghi di
dire? Il paesaggio umano è costituito comunicazione scenica completamen­
dalla presenza degli attori che non so­ te diversa, per cui lo smontaggio avve­
no lontani come sulla scena, ma sono niva per aprire altre possibilità di rac­
una realtà viva sulla quale indagare conto [...] Dove poteva svolgersi la
minuziosamente. La telecamera di- quarta parte del viaggio di Nora? Mi
venta una specie di occhio esplorativo piacque l’idea di entrare nella casa-te­
che coglie tutto, anche i più piccoli levisiva, dove il finale del testo di Ib­
dettagli, e offre la possibilità di rac­ sen – drammaturgicamente forse po­
contare potendo selezionare un mate­ co adatto alla scena teatrale – poteva
riale enorme». ritrovare, grazie proprio al mezzo elet­
Federico Polacci tronico, la sua effettiva realtà, cioè tor­
nare a essere il manifesto da cui era
Carlo Quartucci stato prelevato (Quartucci si riferisce
L’ultimo spettacolo di Nora Helmer (1979) al monologo di Nora da lui assimilato
Carlo Quartucci si cimenta con la re­ al manifesto «ante-femminista» delle
gia televisiva realizzando le trasposizio­ suffragette, ndr). Il mezzo televisivo
ni dei romanzi Don Chisciotte di Cer­ [...] conteneva tutte le scene prece­
vantes (1970) e Moby Dick di Melville denti. Gli attori erano alla loro ultima
(1973). Con L’ultimo spettacolo di Nora recita che la tv aveva il compito di ri­
Helmer (1979) riprende invece, dal te­ prendere; il chroma-key era uno stu­
sto teatrale di Ibsen Casa di bambola, pendo mezzo espressivo capace di far
soltanto il traumatico finale nel quale vedere pagine del viaggio già avvenu­
la protagonista abbandona la sua fami­ to» (C. Quartucci in A. Balzola, F. Pro-
glia, replicando la scena come in un no, 1994).
viaggio attraverso tre modalità tecnico­
linguistiche diverse e con una dialetti­ Falso Movimento
ca straniante e ironica tra attori e per­ Tango glaciale (1982)
sonaggi: all’inizio la scena viene rap­ Oliviero Ponte di Pino, curatore nel
presentata su un palcoscenico che vie- 1985 della mostra Il nuovo teatro dedi­
ne progressivamente smontato, poi ri­ cata al teatro della postavanguardia e
presa all’interno di un cascinale tra­ relativo volume contenente interviste
sformato in un set cinematografico, ai protagonisti dell’epoca, così descri­
infine si svolge in bianco e nero in ve Tango glaciale: «1982, per Falso Mo­
uno studio televisivo vuoto, la cui im­ vimento di Mario Martone è l’anno di
magine è però costellata di chroma­ Tango glaciale, lo spettacolo-rivelazio­
key con i frammenti dello spettacolo. ne che impone il gruppo napoletano
Così Quartucci racconta l’idea di regia all’attenzione del pubblico e della cri­
televisiva: «Mi affascinava partire dalla tica, in Italia e all’estero. Ma quella
recita teatrale e lavorare su questo fi­ perfetta e accattivante macchina spet­
nale nel teatro sul teatro. Mi ero im­ tacolare, con le sue intricate sovrim­
maginato che nell’ultima scena del pressioni di filmati e diapositive, con
LE OPERE 466
la precisione dei gesti e delle immagi­ versione teatrale con gli scenari elet­
ni, con la coinvolgente e ammiccante tronici del chroma-key. La scena tea­
colonna sonora, con il ritmo incalzan­ trale diventa scena elettronica modifi­
te del montaggio, è solo il punto di ar­ ca radicalmente le modalità di regia,
rivo di un lungo percorso, di una pun­ recitazione e visione.
tigliosa esplorazione dei meccanismi
della società dei mass media e della si­ Laurie Anderson
mulazione diffusa. È una tappa esem­ Home of the Brave (1984)
plare di un processo mimetico che Laurie Anderson nasce a Chicago nel
sembra aprire nuovi orizzonti: non a 1947. Studia violino e arte, con un’im­
caso Tango glaciale diventa immediata­ postazione fin da subito estesa a varie
mente il Manifesto della Nuova Spet­ forme espressive, dalla musica elettro­
tacolarità, l’esempio di un’alleanza nica alla poesia, dalla fotografia al vi­
possibile tra la comunicazione teatra­ deo, dalle performance alle installa­
le e quella elettronica». Martone rac­ zioni sempre più spostate sul versante
conta l’esperienza di Tango glaciale: «multimediale» e sulla ricerca di nuo­
«Ho sempre trovato insopportabile vi strumenti e tecnologie. Tra i pro­
usare le diapositive in quanto tali, con getti artistici: Automotive (concerto per
una funzione descrittiva («proietto clacson di automobili, 1972), Duets on
quindi indico»), un procedimento Ice (1974) e The Hand Phone Table (una
«minimalista» che non mi è mai pia­ geniale installazione sonora e visiva
ciuto. La diapositiva mi interessava in­ del 1978). Si trasferisce presto a New
vece come scenografia di luce, eterea, York, esordendo nella scena artistica,
bidimensionale. Mi interessava soprat­ frequentando John Cage e collabo­
tutto il lavoro sulla bidimensionalità: rando con i musicisti Peter Gabriel,
Tango glaciale è indubbiamente uno Brian Eno, Philip Glass, Lou Reed,
spettacolo bidimensionale. Ma era con la coreografa Trisha Brown e con
una bidimensionalità falsa. Innanzi­ il regista Wim Wenders. Nel 1982, con
tutto lo spettacolo era ovviamente tri­ il singolo O Superman, sequenza ipno­
dimensionale, ma c’era anche una tica di una sola nota in cui la voce del-
apertura dello spazio come un respi­ l’artista è filtrata e modificata dal vo­
ro: si apriva e si chiudeva continua- coder, balza sorprendentemente in ci-
mente, come una macchina pulsante, ma alle classifiche dei dischi più ven­
per cui non c’erano solo i tre piani duti, ottenendo fama internazionale e
normali, ma venivano continuamente un contratto con la Warner Brothers.
moltiplicati e rinchiusi. Si trattava Nel 1984 incide il disco Home of the
quindi di accettare il confronto con il Brave (Il paese dei valorosi) e realizza
piano della simulazione dei mass me­ l’omonimo film-concerto (1985).
dia, per svelarne l’illusorietà, esaltan­ Uno spettacolo multimediale straordi­
do invece la concretezza teatrale». nariamente innovativo più per l’origi­
Verrà realizzata anche una regia tele­ nale combinazione degli elementi
visiva per la RAI nel 1982, una reinven­ espressivi che per la musica in sé, pur
zione elettronica dello spettacolo: cer­ molto variegata (le canzoni sono più
cando di conservare l’idea originaria raccontate che cantate, come in una
del falso movimento degli attori in performance poetica, e hanno diverse
uno spazio-tempo virtuale, Martone ispirazioni ritmiche, da quelle asiati­
sostituisce gli scenari proiettati della che alle afro-caraibiche). Laurie An­
467 39 SCHEDE

derson vi esibisce la sua originale ri­ circolare, e consiste in punti che si


cerca sulla strumentazione elettronica toccano lungo la via. Mi è sempre pia­
(dal violino digitale alla cravatta- ta­ ciuto il viaggio. E se è abbastanza inte­
stiera) e un uso poetico e ironico del ressante, non mi pongo limiti».
video, dove s’intrecciano le tracce del­
la videoarte (di Fluxus in particolare) Gary Hill
e il gioco di animazioni in computer Incidence of Catastrophe (1984)
grafica. Nel brano Late Show usa il vo­ Gary Hill, artista californiano, ha fat­
coder per far diventare maschile la to, a partire dagli anni Settanta, del
propria voce, mentre in Language is a rapporto tra suono-immagine elettro­
virus canta le parole del poeta William nica e linguaggio – oralità e testo scrit­
Burroughs che appare anche sulla to – il centro della propria ricerca ar­
scena e danza con lei. Nello spettaco­ tistica. Negli anni Ottanta il pensiero
lo inserisce inoltre Drum Suit, una sua di Hill si arricchisce di un confronto
performance del 1985; così lei stessa con i testi di Derrida, Heidegger e
ne descrive la creazione: «Visitavo re­ Blanchot: soprattutto quest’ultimo au-
golarmente quei negozi (di elettroni­ tore corrisponde alle esigenze intel­
ca di seconda mano, ndr) e collezio­ lettuali ed estetiche di Hill, che pro­
navo pezzi di scarto. È così che mi so­ pone diverse letture del romanzo Tho­
no portata a casa una drum machine mas l’obscur, scritto da Blanchot nel
che non funzionava più. L’ho smon­ 1941, nel 1984-85 con il video Inciden­
tata e ho scoperto che i lunghi fili cui ce of Catastrophe, nel 1986 con la vi­
erano collegati i chip per i diversi suo­ deoinstallazione In Situ e nel 1990
ni (tamburo, grancassa, battimano con l’installazione Inasmuch as it
ecc.) erano stati ficcati all’interno. Always Already Takin Place. In Incidence
Con qualche modifica sono riuscita a of Catastrophe, Hill è il corpo del letto­
far funzionare i chip, ma invece di ri­ re e finirà per perdere la propria
montarli nella scatola [...] li ho cuciti identità confondendosi nel Thomas
su un abito e li ho collegati con fili blanchotiano: «Per me la scelta di es­
più lunghi. La grancassa era sul cuo­ serci ha a che fare con l’esperienza
re, il tamburo sul ginocchio, i batti­ della lettura di Thomas l’obscure. Non
mano sulle mani». (in Laurie Ander­ voglio verbalizzarla, volevo essere que­
son, The Record of the Time, Mazzotta, sto. Volevo mettere me stesso contro
Milano 2003). quel testo». Il video di Hill è sobrio, di
Dal 1992 al 1995 elabora la sua princi­ rigore concettuale: il trattamento elet­
pale performance multimediale The tronico dell’immagine consiste in po­
Nerve Bible che porta in un lungo tour che sovrimpressioni, dove il flusso del-
mondiale, e sempre nel 1995 esce il l’acqua si allarga su altre immagini,
suo primo cd-rom, Puppet Motel: sulle pagine del testo. Il sonoro è li­
«Quando feci il mio primo cd-rom co­ mitato al suono sincrono dell’acqua e
minciai a pensare: “Qui c’è un mezzo a pochi altri quali il fruscio delle pagi­
che comprende immagini, suono e ne e degli arbusti. Le uniche voci so­
elettronica, e li posso mescolare”. È no quelle dei commensali a tavola;
un tipo di realizzazione di arte digita­ dapprima le udiamo registrate a velo­
le che corrisponde al modo di funzio­ cità normale e in sincrono con i volti,
nare della mia mente, perché fa inte­ in seguito subiscono un trattamento
ragire tra di loro le cose. È un mezzo di rallentamento, vengono manipola­
LE OPERE 468
te elettronicamente e il suono resti­ grammi informatici. Li costruisco in
tuito è straniante e snaturato. La voce, modo che lo strumento tenda a suo­
elemento strutturale presente in pa­ nare tenendo gli accenti musicali op-
recchie opere precedenti, lascia il po­ pure in modo che il suo ritmo sia dop­
sto al silenzio. Thomas l’obscur è un’av­ pio se ti muovi più velocemente».
ventura fisica dentro il testo, dentro la Rokeby definisce il suo percorso for­
scrittura, dentro la parola, sino allo mativo un «mix di matematica/logi­
smarrimento del sé in quanto corpo e ca/ scienza e arte/musica/letteratu­
in quanto linguaggio. ra» e descrive questo sistema contem­
Simonetta Cargioli catalogo Invideo poraneamente come uno «strumento
2000 da suonare col corpo» e un’occasione
di incontro con il nostro stesso corpo;
David Rokeby Rokeby pensò anche ad un utilizzo
Very Nervous System (1986-90) dell’installazione a fini terapeutici.
L’artista canadese David Rokeby ha
iniziato a progettare installazioni so­ Giorgio Barberio Corsetti e Studio
nore e video interattive legate a siste­ Azzurro
mi di percezione artificiale del movi­ La camera astratta (1987)
mento del corpo umano dal 1982, an- Prologo a Diario segreto contraffatto
no in cui lavora a Very Nervous System. (1985)
Si tratta di un’installazione – nel cui ti­ Spettacoli-manifesto del videoteatro
tolo è chiaro il gioco di parole tra «si­ italiano nati da un progetto di Studio
stema informatico» e «sistema nervo­ Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti.
so» – in cui i movimenti del visitatore Dopo una prima collaborazione per il
vengono registrati da una videocame­ film di Studio Azzurro L’osservatorio
ra mentre un processore di immagini nucleare del sig. Nanof, Corsetti e il
li trasforma in tempo reale in suoni e gruppo milanese lavorano ancora in­
frasi musicali (di chitarra acustica o sieme per l’installazione Vedute per Pa­
elettrica, o batteria, o strumenti a fia­ lazzo Fortuny a Venezia e infine per
to) grazie a un’interfaccia invisibile tre progetti teatrali: Prologo a diario se­
(che diventa secondo le parole di greto contraffatto, Correva come un lungo
Rokeby, «zona di esperienza, di un in­ segno bianco, La camera astratta. Il video
contro multidimensionale»). Un siste­ in questi spettacoli invade la scena co­
ma di relazione uomo-computer che me coprotagonista, con una propria
funziona attraverso un ciclo continuo presenza fisica: la relazione tra attori e
di stimoli e di risposte: in un’intervista monitor è giocata sul doppio binario
alla rivista «Wired» Rokeby sottolinea del rapporto tra materialità e immate­
proprio l’aspetto comportamentale, sia rialità, naturale e artificiale.
dell’installazione degli strumenti elet­ Studio Azzurro, che ha spesso parlato
tronici stessi: «Ogni strumento ha fon­ di una espansione in senso teatrale
damentalmente un comportamento, delle loro installazioni, ha cercato con
una personalità costruita elettronica­ Camera astratta di «mettere in dialogo
mente. Ti guarda. Sta puntando il suo gli strumenti tecnologici con lo spazio
sguardo sul tuo corpo, e regola la pro- che li contiene. Immaginarli non co­
pria condotta dai tuoi movimenti. me schermi, diffusori di immagini, ma
Questi comportamenti sono di fatto, come presenze, con una loro uma­
definizioni algoritmiche – sottopro­ nità» (Paolo Rosa). In Prologo e Camera
469 39 SCHEDE

astratta (presentato a Documenta Kas­ tra flashback e lessìe che ritornano


sel, 1987) si mette in campo una strut­ con grande frequenza. In questa strut­
tura complessa di comunicazione tra tura a rete cambiano, da lettura a let­
corpo e ambiente, immagine video e tura e da lettore a lettore, le coordina­
presenza attoriale: in un’architettura te spazio-temporali e la storia assume
geometrica che sezionava il palco in risvolti sempre diversi. L’insieme degli
varie parti, i monitor erano disposti su episodi è determinato dalle scelte del
binari o montati su assi oscillanti. Ap­ lettore grazie a una barra-menu su cui
pesi e impilati ma mobili, i monitor può digitare le istruzioni per prosegui­
costruivano e decostruivano la figura re o cambiare percorso; non solo, il
umana intera giocando anche sulla lettore può scegliere di selezionare
continuità-discontinuità dell’azione specifiche parole che svilupperanno
del performer all’interno della corni­ un nuovo episodio. Afternoon è stato
ce del video, e mostravano in diretta creato utilizzando il programma (crea­
azioni realizzate in un nascosto retro- to dallo stesso Joyce) Storyspace per
set. Le sagome di figure femminili viste Macintosh che consente di spazializza­
unicamente in silhouette prigioniere re la trama e creare dei link che porta-
dei monitor, si liberavano progressiva­ no a testi, grafici, immagini permet­
mente e conquistavano lo spazio della tendo di costruire una vera architettu­
scena. Nell’idea degli autori, la Camera ra di segni e di blocchi di testo con­
astratta è la mente stessa e gli eventi nessi l’uno all’altro, organizzati e as­
dello spettacolo sono come le emana­ semblati insieme. Del romanzo e della
zioni-manifestazioni degli istanti-pen­ sua struttura «geometrica» parla J.D.
siero che attraversano quella scena in­ Bolter (1993): «Lo spazio di scrittura
teriore. Dello spettacolo rimane una (in Afternoon, ndr.) può essere rappre­
video-opera di sintesi realizzata dallo sentato graficamente con un diagram­
stesso Studio Azzurro che «scopre» i ma di figure rettangolari per denotare
meccanismi di ripresa del restroset gli episodi e con frecce per indicare i
non visibile al pubblico presente in sa­ nessi che li legano. Il diagramma com­
la. plessivo è vasto perché Afternoon con­
tiene più di cinquecento episodi e ol­
Michael Joyce tre novecento nessi. Il lettore non per­
Afternoon, a Story (1987) cepisce mai questa struttura diagram­
Afternoon di Michael Joyce è uno dei matica, ma vive piuttosto un’esperien­
più famosi ipertesti narrativi, uno dei za monodimensionale dell’opera, dal
primi esempi di narrativa interattiva. momento che segue i percorsi che
Questa la semplice trama: Peter, uno portano da un episodio al successivo.
scrittore, un pomeriggio crede che fi­ Deve cioè costruire una rappresenta­
glio e moglie siano morti la mattina in zione intuitiva della struttura spaziale
un incidente. La storia è un pretesto man mano che procede nella lettura.
per spostare l’attenzione sul meccani­ Tale compito ricorda da vicino quello
smo della lettura, e invitare il lettore di un matematico che tenti di rappre­
in un gioco (elettronico) labirintico e sentarsi un oggetto a quattro dimen­
sviarlo continuamente dalla rotta prin­ sioni guardando una serie di proiezio­
cipale (ovvero da un ordine lineare ni tridimensionali di quest’ultimo.
del discorso), attraverso una naviga­ Ciascuna di esse è un’istantanea, che
zione – a schermo – controcorrente, sintetizzata con le altre permette di ot­
LE OPERE 470
tenere una qualche percezione del- te ininterrotta, immagini provenienti
l’insieme». da più fonti, il cui procedimento è a
vista.
Giacomo Verde
Il teleracconto (1989) Bill Viola
Il teleracconto è una tecnica teatral­ The Greeting (1995)
televisiva applicata inizialmente a uno Opera video ispirata alla Visitazione
spettacolo per bambini ancora in re­ del Pontormo, tavola del primo ma­
pertorio (Hansel & Gretel Tv), poi svi­ nierismo fiorentino raffigurante la vi­
luppata autonomamente come moda­ sita di Maria incinta a Elisabetta, an-
lità di base per videofondali live in oc­ ch’essa in attesa del figlio primogeni­
casione di performance musicali e to, Giovanni Battista. Riambientando
poetiche (per Nanni Balestrini e Lello il dipinto a oggi, nel video due donne
Voce). Una telecamera inquadra in conversano, interrotte da una terza
macro alcuni piccoli oggetti: briciole che sorridendo va incontro a braccia
di pane, pastina, stecchini; questi at­ aperte a una di loro. Questo evento
traverso la riproduzione televisiva in genera una leggera brezza che smuo­
contemporanea (e in relazione) alla ve i veli e produce un’illuminazione
narrazione di Verde, sembrano altro dorata che accende le vesti arancioni,
rispetto a quello che sono normal- gialle e rosse. La giovane donna incin­
mente: stelle di un firmamento, sbar­ ta saluta l’amica e le sussurra all’orec­
re della prigione del povero Hansel. chio qualcosa. L’evento è rallentato al
Gli oggetti nel teleracconto sono chia­ punto da restituire un passaggio di
mati in causa come attori per somi­ pochi secondi in un lentissimo e iera­
glianza di forme e colore rispetto agli tico percorso di sguardi e gesti della
elementi evocati dalla fiaba, ma so­ durata di dieci minuti: «A mio avviso,
prattutto lo spettatore è chiamato a uno degli eventi più decisivi degli ulti­
intervenire con l’immaginazione per mi centocinquanta anni è l’animazio­
coprire lo scarto tra quello che l’og­ ne dell’immagine, l’avvento dell’im­
getto è nella realtà e quello che deve magine in movimento. Questa intro­
significare nel «racconto per immagi­ duzione del tempo nell’arte visiva può
ne». Verde ha disposto una macchina considerarsi tanto determinante
più complessa ma in sostanza ricon­ quanto l’affermazione della prospetti­
ducibile al teleracconto, nelle sceno­ va da parte di Brunelleschi e la rap­
grafie live di oVMMO del gruppo presentazione dello spazio pittorico
Xear.org, in cui dal tema delle Meta­ tridimensionale. Le immagini oggi
morfosi di Ovidio i miti vengono rac­ hanno una forma quadri-dimensiona­
contati per metonimia o per astrazio­ le e hanno una vita propria, un com­
ne da pochi oggetti degni di un «tea­ portamento, sono in possesso di un’e­
tro povero»: carta da regalo, confetti, sistenza al passo coi tempi dei nostri
rametti, scatole colorate ingranditi pensieri e immaginazioni: nascono,
dall’ottica della telecamera e digitaliz­ crescono, si modificano e muoiono. Il
zati in tempo reale e mescolati a im­ vero materiale grezzo non sono la te­
magini catturate in scena da una web­ lecamera e il monitor ma il tempo e
cam insieme al classico videoloop. Il l’esperienza stessa; il vero luogo in cui
dispositivo cortocircuita ipnoticamen­ esiste l’opera non è la superficie dello
te in una trasformazione praticamen­ schermo o lo spazio racchiuso dalle
471 39 SCHEDE

mura della stanza, ma la mente e il ambienti virtuali apparivano fusi in­


cuore della persona che lo osserva. È sieme, e lo sguardo li seguiva muover­
là che tutte le immagini vivono» (B. si come in una sequenza cinemato­
Viola, Unseen Images, 1992). L’opera è grafica» (A. Pizzo, 2003). Lo spettato­
diventata installazione videosonora a re per poter fruire della visione tridi­
Carmignano (Prato, 2001) nella Chie- mensionale, necessitava di occhiali
sa di S. Michele, affiancata alla tela polarizzati. L’ambiente virtuale – per
del Pontormo. il quale sono stati usati PowerMac
6100 e 7100 – era costantemente ma­
Mark Reaney nipolato in modo da introdurre sugli
The Adding Machine: A Virtual Reality schermi anche immagini digitalizzate
Project (1995) in tempo reale degli stessi attori attra­
Mark Reaney nasce come scenografo verso videocamere e un mixer MX-1
legato alla Virtual Reality; i suoi primi con cui venivano creati i chroma-key.
esperimenti vedono l’impiego del
WalkThrough Pro, un software usato Charlotte Davis
per la progettazione virtuale di am­ Osmose (1995)
bienti scenografici; successivamente Charlotte Davis inizia la sua carriera
Reaney pensa alla possibilità della artistica come pittrice e film-maker
presenza diretta in scena della realtà negli Stati Uniti e in Canada; si dedica
virtuale. Nasce The Adding Machine esclusivamente alla computer art nel
con la regia di Ronald A. Willis dal te­ 1987, quando inizia a lavorare con la
sto di Elmer Rice del 1923, romanzo società Softimage di Montréal. La so­
espressionista americano in cui la ri­ cietà nel 1994 creerà i dinosauri di Ju­
cerca della felicità del Signor Zero si rassic Park e nello stesso anno la Mi­
scontra con una realtà disumana e crosoft di Bill Gates la acquisice. In se­
meccanizzata. Così Antonio Pizzo, guito la Davis crea una società auto­
sottolineando la perfetta amalgama noma, Immersence. Osmose è un am­
visiva e drammaturgica di attore e sce­ biente virtuale immersivo e interatti­
nografia 3D generata da proiezioni vo che utilizza grafica computerizzata
stereografiche su schermo, descrive lo 3D, un ambiente buio con due scher­
spettacolo: «Tutte le immagini proiet­ mi luminosi e suono spazializzato e in­
tate sulla scena erano prodotte e ge­ terattivo. Ambienti naturali, sottoma­
stite in tempo reale: a eccezione della rini, sotterranei, foreste, abissi e mi­
musica, nulla era registrato. Anche il crocosmi sono generati e possono es­
punto di vista all’interno dell’ambien­ sere esplorati e modificati in tempo
te virtuale era costruito e improvvisa­ reale attraverso occhiali polarizzati
to ogni sera da un tecnico specifico stereofonici (HMD: Head Mounted Di­
denominato VED (Virtual Environ- splay) e un sistema di Motion Captu­
ment Driver). Osservando gli attori re, con sensori che registrano il respi­
reali sul palco, il VED interagiva libe­ ro e quei movimenti del visitatore che
ramente con loro, accompagnava i alterano l’equilibrio del suo corpo.
movimenti e manipolava, di conse­ Sia il respiro sia l’equilibrio sono in­
guenza, l’ambiente intorno all’azione fatti gli elementi simbolicamente fon­
che gli attori, peraltro, svolgevano in danti dell’opera della Davis che tenta
costante riferimento alla scena che di provocare con questa installazione
appariva sugli schermi. Attori reali e un comportamento che vada nella di­
LE OPERE 472
rezione di una ricerca del proprio tola, del pane... I visitatori sono invita­
«centro» e di un equilibrio stabile tra ti a toccare quelle superfici, ma vivo-
sé e il mondo. Uno dei due schermi no un’esperienza singolare e spiaz­
proietta il mondo tridimensionale zante: stanno toccando la materialità
percorso, permettendo una parziale del tavolo o l’immaterialità delle figu­
«condivisione» pubblica dell’espe­ re che lo occupano? L’azione di toc­
rienza di chi è ospite dell’ambiente care provoca (mediante un sistema di
virtuale, l’altro proietta l’ombra in sensori invisibili) un micro-evento: il
silhouette del corpo che si muove in pane viene tolto, la candela dà fuoco
risposta agli stimoli dell’ambiente at­ al tavolo, la donna scivola dal tavolo
traversato. Osmose è un viaggio in un ecc. La presenza dello spettatore che
mondo di colori e suoni in incessante percorre liberamente lo spazio di que­
trasformazione (l’osmosi è il processo sta mensa virtuale e simbolica (con
biologico di travaso di liquidi da una molti riferimenti alla tradizione pitto­
membrana a un’altra) vissuto come rica) non è quella di uno spettatore
una simbolica simbiosi tra esterno e che osserva passivamente l’opera ma è
interno, tra naturale e artificiale attra­ quella di un convitato che in concor­
verso il corpo usato come interfaccia, so con altri interagisce con questo la­
come «medium dell’esperienza», se­ bile confine tra virtuale e reale, da cui
condo quel che osserva la Davis. Il scaturiscono microracconti che l’im­
procedimento è realizzato con Onyx maginazione di ciascuno può comple­
2, Infinite Reality e Silicon Graphics. tare, così come, in un cortocircuito si­
Lo spazio di immersione percettiva ed nestetico, è il tatto che attiva le imma­
esperienza sensoriale e interiore di gini e i suoni (stranianti) a esse corre­
Osmose è significativamente paragona­ lati. L’artista in questo caso non è più
to da Oliver Grau (2003) alla pom­ colui che realizza un’opera, ma un ar­
peiana Villa dei Misteri in cui è illu­ tefice di relazioni che si dispiegano in
strato in affresco un rituale di inizia­ un «ambiente sensibile» abitato da
zione dionisiaca. suggestioni immaginarie e differenti
percorsi possibili della percezione.
Studio Azzurro «Ci siamo arrivati con due punti chia-
Tavoli, perché queste mani mi toccano? ri in testa: creare spazi di “fruizione
(1995) collettiva” e utilizzare “interfacce na­
Tavoli è la prima videoambientazione turali”. Entrambi questi elementi do­
interattiva realizzata da Studio Azzur­ vevano concorrere a formulare
ro, presentata alla Triennale di Mila­ un’“ipotesi di narrazione” che non
no nel maggio 1995. Realizzata con 6 fosse una semplice esibizione del di­
videoproiettori, 6 tavoli sensibili, 6 cd- spositivo [...] Nell’uso più diffuso l’in­
I, 1 pc, con la regia di Paolo Rosa, le terattività è sviluppata in modo deci­
immagini di Fabio Cirifino e il proget­ samente individualizzato [...] Abbia­
to informatico di Stefano Roveda. Sei mo pensato quindi di creare ambienti
tavoli in legno disposti in un luogo dove le scelte fossero frutto della pre­
oscurato sono «apparecchiati» con senza di più persone, il racconto pro­
immagini videoproiettate: immagini cedesse per causa di più decisioni, do­
domestiche come una candela, mani ve accanto alla relazione uomo e di­
che preparano e spreparano una tova­ spositivo, rimanesse presente quella –
glia, una donna corpulenta, una cio­ per noi essenziale – tra uomo e uo­
473 39 SCHEDE

mo» (Studio Azzurro, Ambienti sensibi­ l’autore sul senso del suo lavoro: «Po­
li, Electa, Milano 1999). tremmo chiamarla un’orchestrazione
Andrea Balzola di effetti di scrittura. Questi possono
essere testuali, sessuali, ipertestuali,
Mark Amerika qualsiasi altra cosa. L’ importante è
Grammatron (1997) prendere quel «grammo» – o lessìa,
Mark Amerika ha pubblicato romanzi cioè l’unità elementare che costituisce
(The Kafka Chronicles, 1993 e Sexual l’ipertesto – e creare applicazioni nar­
Blood, 1995), antologie di racconti e di rative da sogno che possano far disabi­
saggi (Degenerative Prose, 1995) ma è tuare dall’esperienza canonica di Web
noto soprattutto per il suo lavoro sugli surfing».
ipertesti: «Per me» scrive Mark Ame­
rika «non c’è nessuna differenza tra Peter Gabriel, Real World Multime­
scrittura lineare e ipertestuale, perché dia
i miei romanzi sono già una sorta di EVE (Evolutionary Virtual Environment)
hyperfiction». Ma prima ancora, gli do­ (1997)
vrebbe essere riconosciuto il ruolo di Avete perso il diritto a restare in para­
agitatore culturale, un vero Marinetti diso?
nell’era di Internet. Di lui si può sape­ Eve è un viaggio sotto forma di cd-
re tutto sul sito ALTX.com. Grammatron, rom interattivo. Un viaggio tra pae­
con Phon:e:me e Filmtext, è parte di una saggi surreali, ariosi panorami a 360°,
trilogia che l’artista ha realizzato tra la luoghi post atomici, ambienti immer­
seconda metà degli anni Novanta e l’i­ sivi onirici, suoni ipnotici alla ricerca
nizio del nuovo millennio. Gramma­ del paradiso perduto. Una formula
tron – realizzato con il programma alchemica/tecnologica che si avvicina
Storyspace – si presenta come un va­ ai sogni di una generazione beat tur­
sto arcipelago di immagini, brani mu­ bata da sostanze psicoattive. Riflette
sicali e brevi frammenti di testo (alcu­ coerentemente le aspettative degli
ni dei quali diretti a introdurre o a anni Novanta rispetto alla tecnologia
commentare l’opera stessa). Curiosa­ e al multimedia, e l’idea ancora uto­
mente i collegamenti attivabili a di­ pica che gli ambienti virtuali e inte­
screzione del fruitore – in apparenza, rattivi avrebbero soppiantato le altre
la caratteristica più evidente della forme obsolete di comunicazione.
scrittura ipertestuale – sono del tutto Eve è un game ibrido, un gioco di av­
assenti nella prima parte dell’opera, ventura come Myst dalle capacità evo­
una lunga sequenza di videate che si cative e immaginifiche di una installa­
susseguono senza che ci sia alcuna zione d’arte. La struttura labirintica
possibilità di interagire. Soltanto al con chiavi enigmatiche e cervellotiche
termine di questa sorta di introduzio­ lascia vagare nei luoghi e cattura per
ne i meccanismi dell’interattività ri­ circa sessanta ore di interazione.
prendono a manifestarsi: viene pre­ Peter Gabriel è notoriamente un arte­
sentata la figura di Abe Golam, «leg­ fice di progetti innovativi multimedia-
gendario infosciamano creatore di li, dai video degli anni Ottanta fino al
Grammatron», punto focale di una precedente cd-rom Xplora1 del 1994.
proliferazione concettuale che finisce Per l’occasione, con un sostanzioso
per lambire gli angoli più remoti del budget di due milioni di dollari, creò
nostro essere digitali. Così si esprime un ricco staff di artisti, tecnici e teorici
LE OPERE 474
che lavorarono al progetto per oltre svizzeri. Dopo aver tentato ripetuta­
un anno. Helen Chadwick, Yayoi Ku­ mente di acquistare il dominio, deci­
sama, Cathy de Monchaux e Nils-Udo sero di intraprendere un’azione lega­
realizzarono opere d’arte ad hoc per le contro Etoy, sostenendo che il loro
l’interfaccia visiva, teorici come Kathy sito avrebbe potuto turbare qualche
Acker e Orlan dettero il loro supporto bambino che vi fosse capitato per caso
con interviste e testi, programmatori (dimenticando di digitare la «s»),
come Mike Coulson studiarono nuove contenendo testi non adatti ai minori
stringhe di comandi per apportare e un linguaggio scurrile. Il primo
elementi di interazione anarchica al round legale finì con la vittoria del gi­
progetto. gante dei giocattoli e la corte di Los
Il risultato fu quindi questo prezioso Angeles ingiunse a Etoy di chiudere
cofanetto contenente il cd e un libro immediatamente il sito, pena una
dalla grafica accattivante destinati a fa­ multa di diecimila dollari per ogni
re da modello estetico e strutturale giorno di ritardo. eToys, nonostante
per le realizzazioni multimediali suc­ avesse acquistato il proprio dominio
cessive e che tutt’oggi continua a in­ con ben tre anni di ritardo rispetto a
fluenzare trasversalmente vari settori, Etoy, venne riconosciuta vincitrice e
dall’arte, alla musica al teatro. gli agenti di Etoy furono costretti a tra­
Federico Bucalossi sferirsi in un altro anonimo url. Subi­
to dopo inviarono un’e-mail di de­
Etoy nuncia che fece rapidamente il giro
Toywar (1999) del mondo scatenando la reazione del
Etoy è un gruppo di artisti europei popolo della rete. Il contrattacco di
esperti di software. I sette agenti che etoy fu simbolicamente battezzato
ne fanno parte hanno deciso di «la­ Toywar, una guerra senza quartiere
sciarsi il mondo reale alle spalle» per contro la multinazionale dei giocatto­
vivere e agire sulla rete. L’azione che li che vide la partecipazione di oltre
li ha resi noti è il digital hijack, un atto duemila Etoy agents impegnati in mol­
«terroristico» virtuale che nel 1996 teplici azioni di sabotaggio e disturbo.
«rapì» più di 600.000 internauti, di­ L’obiettivo, che era quello di ledere
rottandoli sul sito di Etoy mentre usa­ l’immagine di eToys al punto da far
vano normali motori di ricerca. L’o­ crollare le sue azioni in borsa, fu rag­
biettivo di Etoy è la riflessione sul si­ giunto in pochi mesi.
stema dei media e sull’impianto teori­ Valentina Tanni www.exibart.com
co e concettuale del cyberspazio. Cen­
trale nella loro filosofia è il concetto Peter Greenaway
di shock comunicativo. Quello che The Tulse Luper Suitcases. A Fictive Hi­
conta è la risonanza mediatica del ge­ story of Uranium I. The Moab Story
sto, la sua portata simbolica. La lunga (2003)
battaglia legale e mediatica che ha vi­ The Tulse Luper Suitcase, è un ambizioso
sto protagonisti eToys – multinaziona­ progetto multimediale che consiste in
le di giocattoli – e gli Etoy ebbe inizio una trilogia epica della durata di sei
nel settembre 1999, quando la società ore composta da 16 episodi e da consi­
americana si accorse dell’esistenza di derarsi come un solo lungo film. La
un dominio troppo somigliante al prima e la seconda parte sono state
suo, quello dei radicali cyberartisti presentate ai Festival cinematografici
475 39 SCHEDE

di Cannes 2003 e Venezia 2003, la ter­ le. L’individuazione di alcuni elementi


za al festival di Berlino del 2004 insie­ minimi, e della loro ricorrenza in un
me al resto del progetto che consta di numero ben preciso di casi simili, por­
2 cd-rom, 16 episodi televisivi e tre an- ta alla costruzione di un sistema com­
ni di trasmissioni su Internet plesso e articolatissimo, ramificato in
http://www.tulseluper.net. Partendo ogni direzione, e questo finisce per
dal ritrovamento di 92 valige sparse in contagiare anche la sfera del linguag­
tutto il mondo, in un periodo che va gio, che tende a espandersi, a conta­
dal 1928, anniversario della scoperta minarsi, ad arricchirsi dell’apporto di
dell’uranio, alla caduta del muro di nuovi media.
Berlino nel 1989 il film narra le vicen­ Fabio Amerio
de di Tulse Luper che viene seguito at­
traverso le 16 prigioni in cui viene di Lars von Trier
volta in volta rinchiuso. Si parte quin­ Dogville (2003)
di dal Galles, con Luper poco più che Dogville, che deve il nome della sua
bambino, per ritrovarlo dodici anni unica strada (Elm Street) ad un olmo
dopo nel ’38, nel deserto americano che non c’è mai stato, è una specie di
di Moab, dove incontra un gruppo di città fantasma semidisabitata. Anche
tedesco-americani che ne diventano Mosè, unico cane della città dei cani,
presto i carcerieri. Durante la guerra non esiste ed è raffigurato con una sa­
fredda Luper viene imprigionato a goma bianca su un pavimento scuro.
Mosca e in Siberia. Ricompare a Hong Sorta nei pressi di una miniera che è
Kong e poi a Kyoto. Negli anni Ottan­ stata abbandonata con la crisi degli
ta si dice sia a Pechino, c’è chi ipotizza anni Trenta, Dogville è l’ultimo luogo
a Shangai. Viene avvistato l’ultima vol- abitato prima delle montagne e dei
ta nei deserti della Manciuria. boschi, forse l’ultima frontiera di
Ma parlare di trama è riduttivo come quell’America cui Lars von Trier in-
sa bene chi ha già avuto modo di co­ tende dedicare una trilogia. Realizza­
noscere l’opera di Greenaway, che ta con pochi elementi metonimici: un
sempre più viene a comporsi come letto per una stanza, una scrivania,
un’esperienza sensoriale unica e tota­ qualche mobile, due cespugli disegna­
lizzante – per esempio il n. 92 è un ri­ ti per terra. La scena è allestita in uno
mando al suo primo film The Falls, che spazio unico con pareti invisibili deli­
era costituito da 92 biografie di sog­ mitate da spazi disegnati sul pavimen­
getti il cui nome cominciava con le let­ to ma, ulteriore elemento straniante,
tere «Fall», frammento di un immagi­ quando gli attori aprono le porte ine­
nario catalogo alfabetico completo. sistenti si sente il cigolio dei cardini.
Anche il fatto che questo primo Tulse Senza dubbio Lars von Trier, con i
Luper sia solo parte di un progetto più suoi film e con le sue teorizzazioni ha
grande, e al tempo stesso un’opera segnato l’ultimo decennio del cine­
con una sua coerenza interna rigoro­ ma: ha puntato all’estremo sull’inten­
sissima, è particolarmente importante sità attoriale sollecitando al massimo
in quanto riprende l’idea del mondo lo spettatore; quindi ha deciso di an­
in un frammento, della proliferazione dare oltre i limiti stessi imposti da
potenzialmente infinita di aperture di Dogma, quasi tutti violati in questa
una particella minimale, che diviene sua ultima opera. Con il suo impianto
matrice di un nuovo universo cultura­ brechtiano architettato in nove capi­
LE OPERE 476
toli e un prologo, Dogville rappresen­ della guerra, della morte, alla man­
ta una sfida al tempo cinematografi­ canza di una direzione, il tutto senza
co, al ritmo narrativo del cinema tra­ utilizzare verbal pretext, la parola, per­
dizionale e alla rappresentazione sce­ ché «words fail us», come loro stessi af­
nografica. Come la Watson delle Onde fermano. La ricerca è quella di una ri­
del destino e Bjork di Dancer in the Dark, sonanza emotiva senza dialogo, senza
Nicole Kidman che impersona la pro­ trama. La partecipazione da parte del­
tagonista Grace (nome che rimanda lo spettatore è di natura immersiva an­
al giansenistico «Tutto è Grazia» e, ov­ che a causa del forte impatto con le
viamente, all’idea della predestinazio­ tecnologie audio-video ad altissima de­
ne) è una vittima sacrificale e una finizione e dell’estrema amplificazio­
compiacente e quasi sadiana «macchi­ ne di potenza dei suoni che sconvol­
na da umiliazioni», che la forma tea­ gono i canoni tradizionali dell’ascolto
trale tende a far risaltare con ancora (e della visione) teatrale. Domina la
maggior evidenza, divaricando il lin­ scena uno schermo gigante le cui im­
guaggio filmico da un estremo «mi­ magini proiettate sono raddoppiate
metico» a un estremo «figurale e sim­ dallo specchio posto a livello del pavi­
bolico». Non per nulla il cane dise­ mento. In un crescendo angoscioso
gnato a terra che prende vita abbaian­ emergono paure associate ai diversi
do contro la cinepresa sta lì a ricor­ elementi, terra, acqua, aria che diven­
darci quanto nel cinema sia sottile il tano così il tecnopaesaggio sintetico
confine tra reale e simbolico e quanto metaforico: la paura della profondità,
labile la convenzione narrativa. Del degli abissi, dell’altezza, della perdita,
film è stato realizzato il dvd con la ver­ di volare senza controllo, di perdere la
sione integrale (173 minuti), mai rotta, che i nostri sogni non si realizzi­
proiettata in Italia. no. Le situazioni proposte dai perfor­
Fabio Amerio mer in forma di quadri visivi o sonori,
partono da viaggi concreti (in aereo,
Dumb Type in nave, in una navicella spaziale, in
Voyage (2003) un caccia militare), o immaginati
Il collettivo Dumb Type nato a Kyoto (dentro la psiche, dentro i nostri so­
nel 1984, si è da sempre distinto per la gni, dentro la memoria). Ma tutti sono
spettacolarità delle loro installazioni filtrati attraverso una mediazione tec­
video e performance multimedia. Nel­ nologica. Siamo nel cyberspazio,
lo spettacolo Voyage (che ha anche «un’architettura immensa di dati nel­
un’installazione gemella) l’obiettivo è l’allucinazione vissuta consensualmen­
quello di trasmettere attraverso sofisti­ te», come scriveva Gibson; un’avventu­
cati dispositivi audio-video digitali as­ ra di viaggio direttamente collegata al
sociati a performance di danza, le con­ nostro sistema nervoso. Questo per­
dizioni emotive e psichiche dei nostri mette al gruppo di equiparare con
giorni: ansietà, paura, angoscia, insi­ grande naturalità i processi tecnologi­
curezza. Dare forma, attraverso le tec­ ci a quelli cognitivi, psichici, di trovare
nologie, al concetto di crisi, individua­ analogie tra il segnale elettromagneti­
le e collettiva, dare un suono al timore co e i recettori visivi.
ANTOLOGIA: L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA
a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi

Teatro – Happening

Richard Wagner, Vsevolod Mejerchol’d, Bertolt Brecht, Teatro Sintetico


Futurista, Teatro Merz, Robert Whitman, Jim Dine, Allan Kaprow, Guy
Debord, George Maciunas, Rosalee Goldberg, Josef Svoboda, Luca Ron­
coni, Giorgio Barberio Corsetti, Mario Martone, Robert Lepage, Dumb
Type, Ricardo Dominguez, David Rokeby.

La prima definizione di «opera d’arte totale» è legata a Richard Wa­


gner e ai principi del Gesamtkunstwerk su cui si sono confrontati artisti e
teorici del Novecento accettando o rifiutandone l’utopia, filosofica, so­
ciale ed estetica, trovando inadeguata la riforma scenica del musicista o
proponendo una nuova interpretazione-rilettura dell’unione delle arti.
Le tecnologie multimediali digitali aggiornano il concetto di «composi­
zione scenica» (da Kandinskij) e ridefiniscono una nuova forma teatra­
le in una fluidificazione di linguaggi: ibridata col cinema (da Mejer­
chol’d ai dispositivi di Kiesler e Gropius fino a Lepage e Martone), con
la radio (l’epica drammatica radiofonica di Brecht), con la televisione
(Ronconi, Bene, Quartucci); e ancora, «bicefala» (il video-teatro: Studio
Azzurro e Barberio Corsetti; le performance dello spettatore nei dispo­
sitivi interattivi di David Rokeby), interfacciata (Dumb Type, Marce.lì
Antunez Roca), interattiva e «contestativa» via Web (Critical Art Ensem­
ble).
E pone nuovi (o gli stessi?) interrogativi sulla funzione sociale (e po­
litica) dell’arte.

Richard Wagner (1813-1883)


Principi fondamentali dell’opera d’arte dell’avvenire

L’unione delle arti e il compito dell’orchestra


Nell’opera d’arte universale dell’avvenire non esiste facoltà delle singole
arti che, tratta al massimo potere espressivo, resti inutilizzata, perché solo
in essa giunge alla pienezza dei singoli valori. Anzitutto la musica, che si
sviluppa in una maniera tanto particolare e varia nella forma strumentale,
potrà raggiungere le più ricche espressioni in quell’opera d’arte; sarà pro­
prio lei a suggerire, per quanto le compete, invenzioni del tutto nuove al­
ANTOLOGIA 478
la danza pantomimica e, dall’altra parte, offrirà alla poesia un’insperata
abbondanza [...] Come l’architettura e soprattutto la pittura scenica del
paesaggio possono porre l’artista drammatico nell’ambiente della natura e
offrirgli, nell’inesauribile fonte dei fenomeni naturali, uno sfondo sempre
ricco e suggestivo, così l’orchestra, corpo vivente di sempre varie armonie,
è stata data all’individuo attore come la fonte inesauribile di un elemento
naturale, di un’arte quasi umana [...]
Danza, musica e poesia, prese separatamente, sono ognuna limitata a sé
stessa; se si oppongono ai propri limiti, ognuna si sente schiava, a meno
che, giunta agli estremi, non tenda la mano all’altro genere d’arte corri­
spondente con un amore tutto pieno di riconoscimento, [...] Completan­
dosi reciprocamente nel loro giro alternato, le arti sorelle si metteranno in
evidenza ora tutte insieme, ora a due a due, ora isolatamente, secondo la
necessità dell’azione drammatica che è unica legge e misura. Ora la pan­
tomima plastica ascolta la logica non appassionata del pensiero, ora la vo­
lontà del pensiero si apre decisa nell’espressione immediata del gesto, ora
la musica da sola esprime il volgersi dei sentimenti, il brivido dell’emozio­
ne; ogni tanto però tutti e tre in uno slancio comune, elevano la volontà
del dramma all’atto diretto, possente. C’è infatti una cosa per i tre generi
d’arte riuniti; una cosa che debbono volere per essere liberi nella loro po­
tenza, e questa cosa è proprio il dramma. [...]
(R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, 1844).

Fulcro del lavoro di Vsevolod Mejerchol’d (1874-1940) è la composi­


zione musicale dello spettacolo a opera del regista e l’articolazione rit-
mata e sincopata del corpo dell’attore in sintonia con la scena; in un te­
sto tratto dalla Rivoluzione teatrale (1962) che raccoglie interventi dal
1899 al 1939 (riferiti al lavoro teatrale prima della stesura della fonda­
mentale opera L’Ottobre teatrale), dal titolo Ideologia e tecnologia del teatro
(1933) Mejerchol’d parla del lavoro dell’attore in riferimento alla musi­
ca e alla tecnica e di ciò che è il nucleo di partenza per l’energia crea­
trice, sottolineando l’importanza dello studio degli artisti del passato,
primo fra tutti Gordon Craig.

Ogni attore deve avere orecchio musicale.


È indispensabile parlarne poiché grandiosi avvenimenti si concentrano in
uno spazio ristretto come il palcoscenico e in un quel breve spazio di tem­
po che va dalle otto alle dieci e mezza di sera. Quanti avvenimenti per un
così breve periodo!
Non appena diciamo di trovarci alle prese con le leggi temporali e spazia­
li, subito ci appare chiara la necessità dell’essere musicali, dato che si trat­
ta di saper controllare il tempo, di sapersi organizzare nel suo ambito e
quindi occorre essere musicali, avere un buon orecchio, saper calcolare il
tempo senza guardare l’orologio. C’è in questo una specie di ritmo, è co­
me se funzionasse in scena una sorta di metronomo pronto a offrire un
479 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

orientamento sulla maniera di disporre del tempo e pertanto occorrono la


conoscenza del ritmo, il senso ritmico.
Quando studiate il materiale drammaturgico dovete comprendere che co­
s’è la forma. Quando cominciamo a studiare la forma musicale ci accor­
giamo quanto vi è di comune nella sua costruzione con quella del mate­
riale drammaturgico ed ecco perché spesso si dice: spettacolo in tre o in
quattro atti. L’espressione viene dalla musica. Si tratta di questioni estre­
mamente complicate, sulle quali ci sarebbe moltissimo da dire, ma io mi
devo limitare ad accennare a tutti i settori che vi tocca prendere in consi­
derazione nel momento di organizzare uno spettacolo. Da qui deriva l’ar­
monia, da qui la capacità di dividere lo spettacolo mediante gli intervalli,
a fare di uno spettacolo di cinque parti un altro di quattro, da qui la capa­
cità di suddividere le parti, di comprendere che la prima parte può maga­
ri essere più lunga perché lo spettatore non è stanco, mentre la seconda
deve essere più breve e ancora più breve la terza. Tutto questo rientra nel
campo della costruzione musicale dello spettacolo.

Nelle Lezioni del 1918 tradotte e curate in italiano per Ubulibri da


Fausto Malcovati (2004), Mejerchol’d mette in luce il tema del teatro co­
me arte dello spazio e del tempo, e l’importanza oltre alla parola e al suono,
della gestualità, nonché la differenza tra arte teatrale e arte scenica, una
campo di azione del regista, l’altra dell’attore; se la responsabilità della
scena è concentrata nell’unica volontà del regista che «deve sviluppare il
più ampiamente possibile la propria musicalità» per dirigere come un
direttore d’orchestra il concertato teatrale e garantire, in stretto legame
con l’architetto-scenografo, «il rispetto per la legge fondamentale della
messinscena: la solidità architettonica della forma drammatica nel suo
complesso», l’attore è il «creatore dell’attimo presente», colui che defi­
nisce la «partitura musicale» dei propri personaggi:

Vediamo che per ogni settore dell’arte teatrale esistono particolari leggi.
Quali sono dunque queste leggi che regolano la vita del teatro?
La pittura ha a che fare con lo spazio, la musica esiste solo nel tempo. Gli
elementi del teatro invece si collocano sempre nello spazio e nel tempo, e
dobbiamo dire che proprio questa combinazione di elementi spaziali e
temporali rappresenta la massima difficoltà dell’arte teatrale. La scienza
contemporanea sta indagando con particolare attenzione il problema del
rapporto tra spazio e tempo. Prima si pensava che si trattasse di due entità
assolutamente differenti, che si potessero studiare separatamente e indi­
pendentemente l’una dall’altra. La nuova teoria della relatività invece ci ri-
vela che questa concezione è completamente sbagliata: essendo il teatro
un’arte che, a differenza di tutte le altre agisce contemporaneamente nel­
lo spazio e nel tempo, la rivoluzione in corso nelle scienze fisico-matema­
tiche lo pone in una condizione particolare. Se infatti l’attore, una volta
entrato in scena, rimanesse immobile, sarebbe una contraddizione: cesse­
ANTOLOGIA 480
rebbe di essere un attore e diventerebbe un elemento di un quadro viven­
te. Un quadro vivente, non vi pare un vero e proprio assurdo artistico? È
assurdo già l’accostamento di queste due parole «quadro vivente». Perché
mai un quadro dovrebbe essere vivo e perché un essere vivente dovrebbe
essere un quadro, quando tutto ciò che vive è in movimento? Bisogna poi
dire che l’attore, se vuole diventare uno degli elementi dell’arte teatrale,
non può muoversi sul palcoscenico in modo arbitrario, ma deve obbedire
alle leggi del movimento scenico.

«Il teatro moderno è il teatro epico», scriveva Bertolt Brecht nelle Note
all’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny» (1938). Pur intravedendo
il pericolo di un ennesimo furto a opera della borghesia del nuovo mezzo
tecnico, la radio, che non faccia altro che perpetuare il mercato dell’arte,
Brecht sogna un suo utilizzo epico in cui far convogliare insieme, in un
concerto globale, radio e teatro. Il passaggio dalla radio come mezzo di di­
stribuzione in mezzo di comunicazione, in grado di ricevere informazioni
ma anche e soprattutto di diventarne fornitore, è uno degli argomenti
centrali nel suo Discorso sulla funzione della radio (1932).
Il problema non è la tecnica, ma la forma artistica da attribuirle:
È compito istituzionale della radio dare a tali iniziative didattiche una for­
ma interessante, cioè rendere interessante ciò che ha interesse. A una par­
te, specialmente la parte destinata ai giovani, essa può conferire addirittu­
ra forma artistica. E questo sforzo della radio di dare forma artistica all’e­
lemento didattico verrebbe certo favorito dagli sforzi che certa arte mo­
derna compie per conferire all’arte un carattere didattico.

Verso un’epica drammatica radiofonica?


L’arte drammatica epica, con la sua divisione in «numeri staccati», con la
sua separazione dei vari elementi, cioè dell’immagine dalla parola, delle
parole dalla musica, ma soprattutto con il suo atteggiamento didattico,
potrebbe fornire alla radio un’infinità di suggerimenti pratici. Usata però
per fini puramente estetici, non porterebbe ad altro che a una nuova mo­
da e di mode ci bastano già quelle vecchie! Se il teatro si aprisse all’arte
drammatica epica, alla rappresentazione pedagogico-documentaria, la ra­
dio potrebbe svolgere una forma completamente nuova di propaganda a
favore del teatro, e cioè fornire informazioni reali, informazioni che sono
indispensabili. Un commento del genere, strettamente connesso col tea­
tro e che costituirebbe un completamento del dramma, pari a esso per va­
lore e qualità, potrebbe dare origine a forme del tutto nuove ecc. Si po­
trebbe poi organizzare anche una forma di collaborazione diretta tra spet­
tacoli teatrali e radiofonici. La radio potrebbe trasmettere i cori ai teatri,
così come anche, sulla base delle rappresentazioni collettive di lavori di­
dattici sul tipo dei meeting, potrebbe trasmettere all’opinione pubblica le
decisioni e le produzioni del pubblico ecc.
481 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Anticipano certe azione degli happening degli anni Cinquanta e Ses­


santa il Teatro sintetico futurista e il Cinema futurista (il Manifesto del­
la cinematografia futurista redatto da Marinetti, Corra, Settimelli, Gin-
na, Balla, Chiti esce nel 1915-1916 all’interno del giornale «L’Italia fu­
turista»). Film come «analogie cinematografate», «simultaneità e com­
penetrazione di tempi e di luoghi diversi cinematografate», «equivalen­
ze lineari plastiche, cromatiche ecc. di uomini, donne, avvenimenti,
pensieri, musiche, sentimenti, pesi, odori, rumori cinematografati»; «pa­
role in libertà in movimento cinematografate (tavole sinottiche di valo­
ri lirici – drammi di lettere umanizzate o animalizzate – drammi orto­
grafici – drammi tipografici – drammi geometrici-sensibilità numerica
ecc.)». Questi invece i punti del TEATRO SINTETICO FUTURISTA enunciati
nel Manifesto del 1915 che rifiuta la verosimiglianza e il teatro storico,
esalta il Teatro di Varietà e prevede la vivacità dinamica, la simultaneità
di azione e di tempo, e un «risveglio» dello spettatore:

Dal Manifesto del Teatro sintetico futurista (1915)

Dinamico, simultaneo
cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità
suggestionante e rivelatrice. Noi crediamo che una cosa valga in quanto
sia stata improvvisata (ore, minuti, secondi) e non preparata lungamente
(mesi, anni, secoli). Noi abbiamo una invincibile ripugnanza per il lavoro
fatto a tavolino, a priori, senza tenere conto dell’ambiente in cui dovrà es­
sere rappresentato.
La maggior parte dei nostri lavori sono stati scritti in teatro. L’ambiente
teatrale è per noi un serbatoio inesauribile di ispirazioni.

Autonomo, alogico, irreale


Il teatro futurista nasce dalle due vitalissime correnti della sensibilità futu­
rista, precisate nei due Manifesti: Il teatro di varietà e Pesi, misure e prezzi del
genio artistico che sono:
1) la nostra frenetica passione per la vita attuale, veloce, frammentaria,
elegante, complicata, cinica, muscolosa, sfuggevole, futurista; 2) la nostra
modernissima concezione cerebrale dell’arte secondo la quale nessuna lo­
gica, nessuna tradizione, nessuna estetica, nessuna tecnica, nessuna op­
portunità è imponibile alla genialità dell’artista che deve solo preoccupar­
si di creare delle espressioni sintetiche di energia cerebrale le quali abbia­
no VALORE ASSOLUTO DI NOVITÀ.
Il teatro futurista saprà esaltare i suoi spettatori, cioè far loro dimenticare
la monotonia della vita quotidiana, scaraventandoli attraverso un labirinto
di sensazioni improntate alla più esasperata originalità e combinate in mo­
di imprevedibili.
ANTOLOGIA 482
Prototipo della nuova scena è anche Il Teatro Merz di Kurt Schwitters
o «composita opera d’arte Merz». Quest’ultimo mai andato «in scena»,
è un’ulteriore declinazione del Merzbau, basato sul principio dada del-
l’assemblaggio e del collage.

Teatro Merz
In contrasto col dramma e l’opera, tutte le parti del lavoro teatrale Merz
sono inseparabilmente unite: il teatro Merz non può essere scritto, letto o
ascoltato, ma soltanto realizzato scenicamente. Fino a oggi, si è sempre fat-
ta distinzione tra scena, testo e partitura nelle rappresentazioni teatrali e
ognuno di questi fattori è sempre stato gustato separatamente. Il teatro
Merz invece conosce solo la fusione di tutti gli elementi dell’opera in un
tutto composito. I materiali per la scena sono corpi solidi, liquidi e gasso­
si, come muro bianco, uomo, viluppo di filo spinato, distanza blu...
Prendete un trapano da dentista, un tritacarne, un rullo compressore, au­
tobus e automobili da diporto, biciclette e tandem, ruote e pneumatici sin­
tetici del tempo di guerra. Deformateli. Prendete delle luci e alteratele il
più possibile. Fate cozzare delle locomotive una contro l’altra. Fate che
tendine e portiere formino fili di ragnatele, danzino con le intelaiature
delle finestre e rompano vetri stridenti. Fate esplodere vaporiere. Per co­
prire di nebbia la strada ferrata. Prendete sottovesti e altri articoli della
stessa specie, scarpe e parrucche, nonché pattini di ghiaccio, e gettateli al
loro posto e sempre al tempo giusto. Per quanto mi riguarda, prendete an­
che vestiario maschile, pistole automatiche, macchine infernali, una tor­
pedine marina e una cappa da camino, tutto naturalmente in una condi­
zione deformata artisticamente. Raccomandiamo vivamente le camere d’a­
ria. Prendete insomma qualunque cosa, dalla toeletta della signora di clas­
se al propulsore del Leviathan delle SS sempre avendo in mente le dimen­
sioni richieste dal lavoro.
Si possono usare anche persone.
Le persone possono venir legate alle quinte.
Le persone possono anche comparire mentre sono intente alle loro occu­
pazioni di ogni giorno... (AA.VV., The Dada Painters and Poets, New York
1951)

Michel Kirby ha raccolto nel volume Happening (1965) i copioni di


numerosi happening statunitensi e le dichiarazioni degli artisti. Flower,
di Robert Whitman (che sarà promotore del gruppo EAT) fu uno degli
happening più «rappresentati» (per un totale di venti volte nel marzo
1963). L’artista americano per i suoi happening (tra cui Mouth, The Ame­
rican Moon) sceglieva ideologicamente di privilegiare la tematica del
«tempo», come dichiara lui stesso, cercando di trattarlo come qualcosa
di materico: «Per me il tempo è qualcosa di concreto, e mi piace usarlo
allo stesso modo del colore, del gesso o di qualsiasi altro materiale. Col
tempo si possono descrivere altri eventi naturali». Lo sviluppo dell’azio­
483 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

ne segue una processualità naturale e spontanea: «Io lascio che l’ordine


degli eventi si sviluppi praticamente. Quando si costruisce una cosa bi­
sogna incominciare da un punto preciso. È impossibile incominciare a
costruire una casa dal secondo piano, ma una volta che ci sono le fon­
damenta, è indifferente finire prima una camera o un’altra» (p. 180). La
caratteristica di Flower era la proiezione contemporanea di tre proietto­
ri di diapositive e film, adiacenti, mentre luci di flash abbagliavano il
pubblico:

Gli spettatori che entravano nel vasto negozio o magazzino a pianterreno


di Great Jones Street, sito alcuni isolati a est di Washington Square Park a
New York City, prima di raggiungere i posti a sedere incontravano sul loro
cammino alcuni macchinari per lo spettacolo. La parte anteriore del loca­
le era suddivisa da tende bianche, tirate parzialmente a lato per permette­
re l’ingresso, e nel centro di questo corridoio (destinato a servire da re­
troscena) era stata costruita una piattaforma di legno che sosteneva un
proiettore cinematografico e un proiettore da diapositive. A destra era vi­
sibile una tavola che fungeva da «centro di controllo» delle varie attrezza­
ture per le luci e i suoni. E verso sinistra, vicino alle tende, c’era una gros-
sa struttura rettangolare di circa un metro e ottanta di altezza di cui non si
riusciva a capire l’uso e lo scopo [...] Quando gli spettatori si furono sedu­
ti, le tende anteriori si chiusero scivolando e tutte le luci, di cui la maggior
parte era fissata a un telaio di legno quadrato, e sospeso al centro del-
l’ambiente, si spensero. Un flash illuminò improvvisamente la zona ante­
riore del locale e gli spettatori si volsero in quella direzione. Un altro lam­
po brillò a una certa distanza, illuminando per un istante la figura del-
l’uomo che l’aveva fatta scattare. Nella luce estremamente fioca prove­
niente dall’area di controllo, il pubblico poté scorgere una figura che at­
traversava i sei metri di spazio libero ai bordi della camera e si fermava da­
vanti a quello che doveva senz’altro essere uno spettatore seduto all’estre­
mità di una delle file delle sedie. Dopo aver condotto al centro lo spetta­
tore, l’attore lo mise in posa, lo fotografò in fretta con il flash bianco del­
la sua macchina e lo riaccompagnò al suo posto. Poi si diresse nuovamen­
te verso la parte anteriore del locale e scattò un’altra fotografia col flash al
grosso sacco di juta che giaceva nell’angolo... Gli spettatori [...] videro
l’immagine a colori di un bosco proiettata su una delle tende. Con questa
immagine iniziò una serie di diapositive di paesaggi e natura. Quando
cambiò il soggetto della proiezione si videro particolari di anatomia fac­
ciale, come una bocca aperta, un orecchio, un naso, venne proiettato sul­
la tenda adiacente un altro film ricavato dalle stesse diapositive ma virato
sul blu. (M. Kirby)

The Car Crash (1960) di Jim Dine – che fu anche uno dei più famosi
nomi della pop art – autore dei più movimentati e comici happening, si
riferisce all’elemento dinamico della vita californiana e all’automobile.
ANTOLOGIA 484
Questa la dichiarazione di Dine: «L’aspetto visivo degli happening era si­
curamente un prolungamento della mia pittura ma conteneva anche al­
tre cose, perché io penso su due piani diversi. Io penso sul piano visivo
che non ha niente a che fare con l’espressione parlata, ma queste cose
dovevano passare attraverso il linguaggio parlato (come le idee lettera­
rie pensate in modo visivo) e così sorsero i due piani [...] Quando pro­
dussi The Car Crash il lavoro rivelò effettivamente un certo rapporto con
i miei quadri. Il riferimento, tuttavia, era solo dovuto al fatto che i miei
quadri di allora e l’happening avevano lo stesso tema e io avevo pensato
che sarebbe stato interessante legare le due esperienze insieme. Non
c’era altra relazione».
Ancora una volta se ne fa promotrice la Reuben Gallery (dove Allan
Kaprow presentò il suo primo happening) appena trasferitasi in un lo­
cale della East Third Street di New York. Protagonista è lo stesso Jim Di-
ne, abbigliato con una cuffia e un impermeabile dipinto d’argento. Gli
attori portavano luci in mano con cui abbagliavano gli spettatori seduti
nella stanza, ingombra di pitture, oggetti e ruote di automobili. Rumori
di traffico registrati creavano l’atmosfera di un «esterno».
Riproduciamo una parte del Copione dell’azione di The Car Crash. Da
notare che le macchine «personificate» da attori vengono incorporate
nella rappresentazione in quanto insolite portatrici di movimenti di
«danza», di luci e di rumori (registrati e simulati con torce elettriche),
questi ultimi orchestrati con clacson in una sorta di originale concerto
in contrappunto con la voce del protagonista. Come afferma Kirby negli
happening gli attori (che non reagiscono «creativamente» ma solo fun­
zionalmente all’azione di un altro attore) diventano oggetti e gli ogget­
ti attori. Il discorso pronunciato da Pat Oldenburg dopo la premessa
dell’incidente, è il frutto di una tecnica combinatoria, in cui è evidente
l’elemento della casualità di accostamento-assemblaggio sia di rumori
sia di concetti (che rimandano all’esaltazione della macchina di futuri­
stica memoria e all’aleatorietà dei surrealisti e di Cage), di sovrabbon­
danza di fonemi onomatopeici, di allitterazioni, di un fluire verbale sen­
za pause che dovrebbe restituire l’equivalente sonoro di un rombo di
macchina. Evidente – data anche la tematica – il richiamo alla lirica ma­
rinettiana. Motivo per cui abbiamo preferito lasciarlo nella lingua origi­
nale, l’inglese.
La tematica della macchina e delle strade è presente anche in un altro
famosissimo happening di Claes Oldenburg, Autobodys (Chicago, 9-10 di­
cembre 1963) ispirato all’uccisione e ai funerali del presidente Kennedy
avvenuti poche settimane prima. In questo caso l’happening si trasferi­
sce significativamente all’esterno, in un parcheggio inondando la città
di azioni artistiche realizzate con betoniere, macchine e moto, accen­
485 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

tuando sempre di più quell’elemento di connessione arte e vita che più


volte appare negli scritti teorici di Allan Kaprow e John Cage.

RUMORI DI TRAFFICO. L’automobile entra in scena producendo una danza


turbinosa di luci in movimento. Dopo un breve intervallo compaiono due
persone vestite di bianco che cercano di colpirsi a vicenda con fasci di lu-
ce diretta. Continuano a centrare per sbaglio la vettura. Ogni volta che vie-
ne illuminata, l’auto sobbalza ed emette dei mugolii. Subito dopo i due co­
minciano a colpirsi con maggiore regolarità. Uno indirizza il fascio di luce
sugli organi sessuali dell’altro che a sua volta gli illumina la faccia. Poi si av­
vicinano sempre più l’uno all’altro, finché finiscono al centro della scena
dove si fissano intensamente e girano con lentezza e precauzione tenendo
i corpi e le luci rigidi per sessanta secondi (possibilmente centoventi).
Cessano i rumori dell’auto. Si accendono le luci.
I due uomini in bianco vanno ai loro rispettivi posti e danno inizio a una
sequenza di rumori. L’auto si muove lentamente per la scena clacsonando.
A un certo punto (da stabilirsi) Pat incomincia il suo discorso mentre il
fragore continua in sottofondo e il clacson esegue variazioni. Verso la fine
del suo monologo, l’auto smette di suonare, si toglie un pallone di tasca e
lo gonfia lentamente. Quando il pallone scoppia, Pat si interrompe. Si
spengono le luci.

THE CAR IN MY LIFE IS A CAR WITH A POLE IN THE HARM OF MY SOUL WHICH IS
A PRETTY CLANK... (PIÙ FORTE) MY CAR IS MY HERTZ SPOT OF LOVE TO ZOOM
THROUGH THE WHOLE TRANSMISSION OF MY LOVELY TIRE HOLD TIME OF
GOODSHORT GASSSSSSS, HOW SWEET IS SHORT SMELL OF EARTH NOISE WHEN
THE SPARK PLUG LIE OF WHOLE SHORT MAKE MY GARNU FLACK OUT OF SHORT
WEAVING MOTORS COME IN GAS HOLE OF TIRE RACK, TOOL SMELL, AND CUZMY
JERK ON OF OIL SLICK IN THE MIDDLE OF A GOOD TIME OD DAY, WHEN ALL THE
CARS OF MY MY MY MY HORN HONKS ON THE HELP NOISE OF ALL OUR TIME
TRUNCK LOCK CADILLAC MANIA FOR THE FORD IS THE CRUNCH OF THENORD
OFALL THE SHOOT FAST TIME NOICE OF OUR CAR.

Allan Kaprow così rilegge l’esperienza e il significato degli happening


e l’attenzione non ordinaria alla vita attraverso l’arte. Guardando a Er­
ving Goffman e al suo testo pubblicato proprio alla fine degli anni Cin­
quanta La rappresentazione della vita quotidiana:

Rappresentare la vita (1979)

Venendo agli happening della fine degli anni Cinquanta, io ero certo che
lo scopo era di «fare» un’arte che fosse distinta da tutti i generi conosciu­
ti (o da tutte le combinazioni di generi). Mi sembrava importante svilup­
pare qualcosa che non fosse un altro genere di pittura, di letteratura, di
musica, di danza, di teatro, di opera.
ANTOLOGIA 486
Poiché la sostanza degli happening erano gli avvenimenti in tempo reale,
come a teatro o all’opera, il lavoro consisteva logicamente nell’oltrepassa­
re tutte le convenzioni teatrali. Così in due anni ho eliminato i contesti ar­
tistici, pubblico, unità di tempo e di luogo, luoghi scenici, ruoli, intrecci,
talenti d’attore, ripetizioni, performance rimontate e gli stessi scritti abi­
tualmente disponibili.
Ora, se i modelli di questi primi happening non erano artistici, c’erano ab­
bondanti alternative nella vita quotidiana: lavarsi i denti, prendere un au­
tobus, fare i piatti, chiedere l’ora, vestirsi davanti a uno specchio, chiama­
re un amico, spremere arance. Invece di creare un’immagine o un avveni­
mento oggettivo destinato a essere visto da qualcun altro, era una questio­
ne di fare qualcosa e farne esperienza in sé. Era la stessa differenza che c’è
tra guardare un attore mangiare delle fragole sulla scena e mangiarsele a
casa. Vivere la propria vita, coscientemente, era una nozione impellente
per me. Tuttavia quando si vive la propria vita coscientemente, essa diven­
ta abbastanza strana: il fare attenzione trasforma quello su cui poniamo at­
tenzione [...] Da qui, un nuovo genere arte-vita era comparso, che riflet­
teva a sua volta gli aspetti artificiali della vita quotidiana e le qualità vicine
alla vita dell’arte creata. (A. Kaprow, L’art et la vie confondue, ed. Centre
Pompidou, Paris 1996, trad. it. A.M. Monteverdi)

Al situazionismo e alla figura di Guy Debord Mirella Bandini ha de­


dicato molte monografie tra cui L’estetico e il politico. Da Cobra all’Inter­
nazionale Situazionista 1948-1957 (1977) Nel saggio I situazionisti e la no­
zione di dérive e di psicogeografia nell’ambiente urbano inserito nel catalogo
della mostra Ubi Fluxus Ibi Motus (Venezia, 1990, a cura di Achille Boni­
to Oliva) sottolinea il nucleo di partenza della «costruzione sperimen­
tale della vita quotidiana» di Debord: la ricerca di un’interazione ludi­
ca e dinamica tra comportamento e spazio urbano (attraverso percorsi
nomadici e una mappatura delle città – la dérive e la psicogeografica –
che riprendono le tematiche del gioco-azione libera-caso di matrice
surrealista) e un’urbanistica unitaria, elaborate nel 1953-56 prima come
Internazionale Lettriste (che faceva capo a Isidore Isou) tra le pagine
della rivista «Potlach» poi nell’«Internazionale Situazionista» a partire
dal primo numero uscito nel 1958 subito dopo la fondazione del movi­
mento.

Dal 1958 la «costruzione delle situazioni» è definita come «momento del­


la vita, concretamente e deliberatamente costruito per mezzo dell’orga­
nizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimen­
ti», quale si realizza nell’«urbanisme unitaire» per una creazione globale
dell’esistenza [...] L’urbanisme unitaire, più complesso ed esteso della sin­
tesi delle arti, deve comprendere la creazione di nuove forme, come il ci­
nema, la musica, l’ambiente sonoro, e il détournement di quelle cono­
487 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

sciute. L’elemento base di questa nuova urbanistica non sarà dunque la ca­
sa, ma il complesso architettonico, imperniato su effetti d’atmosfera emo­
tivi dei vani, dei corridoi, delle strade, legati ai comportamenti che essi
contengono e suscitano. In opposizione al razionalismo e al funzionalismo
(allora imperanti) si costruirà un’architettura partendo da situazioni emo­
zionali, più che da forme emozionanti. Riallacciandosi alle posizioni di
Antonin Artaud (che attraverso John Cage influenzeranno la formazione
di Fluxus e la nascita degli happening in America a metà degli anni Cin­
quanta), Debord sottolinea come le più valide ricerche rivoluzionarie nel­
la cultura siano dirette a coinvolgere lo spettatore, il suo intervento attivo,
provocandone la capacità di cambiare la vita. La «situazione» è dunque
creata per essere vissuta dai suoi costruttori. Il ruolo passivo del pubblico
deve diminuire, fino a divenire parte attiva, vivente. Si devono moltiplica­
re gli oggetti e i soggetti poetici, oggi rari; è necessario integrare il gioco,
azione comportamentale, nella vita quotidiana, allargando a tutte le forme
dei rapporti umani, come l’amicizia e l’amore.

George Maciunas (1931-78) fu il fondatore del movimento Fluxus,


inaugurato con il manifesto Neo-dada in musica, teatro, poesia, arte letto da
Arthur C. Caspar in occasione del concerto Fluxus Dopo John Cage a
Wuppertal il 9 giugno 1962. Tra i protagonisti del movimento, il gruppo
di New York (George Brecht, Robert Watts, Dick Higgins, La Monte
Young) e quello di Colonia (Nam June Paik, Wolf Vostell, Ben Patterson
e Thomas Schmit). L’Italia ebbe una voce considerevole in Fluxus con i
musicisti Giuseppe Chiari e Gianni Emilio Simonetti. In questo testo
WOLF VOSTELL racconta la storia e l’estetica di Fluxus con un riferimen­
to al concetto di dé-collage e al suo valore non solo visivo ma anche
performativo-musicale.

Fluxus

Agli inizi Fluxus era uno stato dello spirito, più intenso dell’happening. Si
è largamente diffuso agli inizi degli anni Sessanta, anche se cronologica­
mente è successivo agli happening. Penso che senza l’happening non ci sa­
rebbe stato Fluxus. È la varietà della sua estetica musicale che ci ha fatto
avvicinare a Fluxus, dalla musica di azione, di vita, di pensiero, alla musica
dé-collage, alla musica di comportamento, fino alla musica invisibile. Que­
sta concezione della vita non solo come opera d’arte – l’ho già detto nel
1961: la vita è un’opera d’arte, l’opera d’arte è vita –, ma come processo
musicale. Ed è stata a mio parere questa visione della realtà e dell’arte,
piuttosto che gli eventi di Fluxus, a provocare scandalo. Tutto può essere
musica: in questo concetto sta la prodezza di Fluxus e la sua unità. Ed è il
motivo che ha riunito gli artisti americani vicini a Cage agli artisti europei
che, come me, avevano già realizzato events [...] All’epoca io realizzavo gli
strappi di dé-collage interpretando il rumore dello strappo come un con­
ANTOLOGIA 488
certo, come un pezzo musicale. E fu la mia ascesa in Fluxus: interpretare i
rumori degli events che realizzavo – lo strappo di manifesti, la distruzione
di un televisore, la demolizione di un edificio con una massa pendolare, il
rumore di un muro che crolla – come una composizione musicale. Era
questa la musica nata dalle azioni di dé-collage ed è appunto il concetto di
musica dé-collage che ho introdotto in Fluxus [...] Ritornando alla co­
scienza Fluxus, una parte decisiva del mio lavoro – e penso di poterlo dire
per Fluxus e per l’happening in generale – è che a partire da un certo mo­
mento nelle mie realizzazioni non si vedono più immagini o cose, ma si ha
l’impressione che i soggetti comincino a vivere, a provare sensazioni. L’ar­
tista non agisce semplicemente davanti a un pubblico, ma con il pubblico,
e ciò significa che l’opera d’arte, musica, environment o azione che sia, è
viva. È un concetto cruciale dopo Picasso. L’arte vive e prende forme per
un momento, identificandosi con il sistema nervoso dell’essere umano. È
soltanto a partire da Fluxus che tutti i sensi e il corpo sono coinvolti. Il mio
contributo a Fluxus si può così definire come un’estensione del concetto
di vita. La vita riceve un nuovo significato quando viene rappresentata e ci
si lavora coscientemente [...] La grande ipotesi che io ho posto è quella di
diventare noi stessi opere d’arte, invece di considerare opere d’arte og­
getti a noi esterni. E questo può avvenire nella vita e nella realizzazione
dell’evento artistico, ma anche attraverso la sua contemplazione e il suo
ascolto. Quando questa opera d’arte è capace di dare qualcosa di sé, chi
l’ha prodotta diventa un artista. L’essere umano è, prima di tutto, un’ope­
ra d’arte. Poi, può diventare un artista. (Catalogo Mostra Ubi Fluxus Ibi Mo­
tus, 1990-1962, op. cit.)

RosaLee Goldberg ha scritto una importante storia della performan­


ce nel 1979 (Performance: Live Art 1909 to the Present, New York), in cui ne
sottolinea il legame con le avanguardie storiche, ricordando il debito
nei confronti del futurismo, del movimento dada e surrealista, dell’hap­
pening. Queste alcune caratteristiche comuni che l’autrice rintraccia:
forma aperta, uso provocatorio di immagini e corpo, giustapposizioni di
materiali, corporei e tecnologici.

«(1) Una presa di posizione provocatoria, anticonvenzionale, spesso di in­


terventismo o di performance aggressiva; (2) opposizione all’accomoda­
mento dell’arte alla cultura; (3) un testo multimedia che estragga i suoi
materiali non solo sui corpi vivi dei performer, ma sulle immagini dei me­
dia, immagini proiettate, immagini visive, film, poesie, materiale autobio­
grafico, narrativa, danza, architettura e musica; (4) un interesse nei prin­
cipi del collage, assemblaggio, e simultaneità; (5) un interesse nell’usare
materiali «trovati» o già «fatti»; (6) fare affidamento su inusuali giustap­
posizioni di immagini apparentemente incongrue.

Lo scenografo ceco Josef Svoboda, che aveva da sempre sostenuto


489 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

l’importanza della sperimentazione tecnica a teatro («un intervento su


un corpo vivo») chiamato a promuovere l’immagine della Cecoslovac­
chia all’esposizione universale di Bruxelles del 1958, così descrive lo
spazio della scena, le soluzione tecniche e le proiezioni cinescopiche
ideate per lo spettacolo multischermo da lui definito Lanterna Magika
destinato a diventare l’evento pionieristico di molta scena multimedia-
le. Lo spettacolo rispondeva ad alcuni principi cari a Svoboda, un ar­
ricchimento della scena tradizionale con le sperimentazioni contem­
poranee della luce e del suono (le luci denominate proprio Svoboda
sono ancora oggi usate e restituiscono una luce diffusa, non diretta),
una commistione organica dell’azione scenica con il cinema, la musica,
la televisione.

Svoboda afferma anche che nello spettacolo della Lanterna Magika la


relazione dell’attore con gli schermi ha a che fare con la più tradiziona­
le prassi recitativa: il lavoro stanislavskiano dell’attore sul personaggio:

Sin dall’inizio vi furono polemiche circa il fatto che i nostri spettacoli po­
tessero o meno essere considerati teatrali. La simbiosi dell’azione scenica
con le proiezioni era essenziale. Noi eravamo persuasi di aver arricchito le
messinscene, conservando certe regole del teatro, di nuovi mezzi tecnici e
soprattutto della collaborazione di tutti gli artisti, che partecipavano con
entusiasmo alla nuova esperienza. Secondo le teorie di Stanislavskij, il tea­
tro moderno comincia là dove gli attori si calano nella parte al punto da
diventare i personaggi che rappresentano. In questo senso la Lanterna
Magika, grazie al regista Radok, ha conseguito pienamente lo scopo. Co-
me esempio posso ricordare la scena della conferenza, che era della prima
parte del nostro primo programma; sul palcoscenico, nel ruolo del confe­
renziere, c’è una ragazza, mentre altre due, uguali a lei, vengono proietta­
te sugli schermi; tutte e tre interagiscono chiamandosi vicendevolmente in
causa, e tutte e tre sono quindi conferenzieri a tutti gli effetti. Ecco il prin­
cipio di Stanislavskij sulla suggestione e l’autosuggestione. Questa scena
mi ha ispirato la scenografia che ho sempre desiderato fare, cioè quella co­
stituita da multischermi. L’attrice in scena e le sue due immagini sugli
schermi agivano tutte e tre come se fossero realmente presenti. Il pubbli­
co in platea si rendeva conto della diversità di quelle presenze, ma le per­
cepiva come un’azione drammatica di tre personaggi reali. Per non di­
sturbare la percezione non usai né il solito taglio né la carrellata, serven­
domi invece, per creare l’illusione di uno spazio delimitato, delle speciali
quinte sceniche.

La sintesi delle arti è l’obiettivo della ricerca teatrale di Svoboda, guar­


dando a Mallarmé, Apollinaire, Klee, Kandinskij e Burian. Nasce una
ANTOLOGIA 490
nuova forma, «simbiotica», ritmica, astratta, risonante e «fluida»: una
multiscena che abolisce il tracciato lineare (e oggettivo) della storia.

I cambiamenti sono espressione del tempo. Così come le nuvole passano


sopra il paesaggio, allo stesso modo le correnti artistiche e l’immaginazio­
ne non sono individuabili in una forma concreta. L’ispirazione proviene
dalla musica, dalla letteratura, da Proust, da Bergson. Se ne impadronisce
il cinema, se ne impadronisce il teatro. Anche noi abbiamo accettato que­
ste correnti fluide, e alla vecchia compattezza abbiamo sostituito una stra­
tificazione variabile, in modo che sul palcoscenico non ci fosse posto per
la monotonia. L’azione scenica doveva combaciare con le tre fasi del tem­
po: passato, presente, futuro. Ora siamo arrivati allo spazio multiscenico,
che però non significa azione simultanea. Multiscena significa che sul pal­
coscenico si possono svolgere parallelamente alcune azioni diverse, oppu­
re la stessa azione può essere seguita da diversi punti di vista e di opinione,
secondo una gradualità che affianca cause e conseguenze. Multiscena si­
gnifica anche visibile e divisibile unione degli assi scenici, significa aboli­
zione dell’azione teatrale lineare e unitaria e sua trasformazione in acca­
dimenti diversi e simultanei.
Ma qualsiasi processo di sviluppo, per essere percepito, deve essere suddi­
viso in cicli prestabiliti e non casuali e deve avere un certo ritmo. Fu così
che un giorno ci trovammo di fronte al problema delle pause. La tecnica
del teatro moderno non le esige, ma noi sapevamo che devono esistere,
come esistono in musica, dove sono un mezzo di articolazione. Se la pau­
sa ha una certa lunghezza che non dipende dal cambiamento di scena,
può aumentare la tensione drammatica dello spettacolo. La sua efficacia
dipende proprio dal saperla utilizzare al momento giusto. Per questo ab­
biamo attentamente cercato lo spazio per gli intervalli drammatici, crean­
do così una nuova trama – una specie di sottotesto – che influenzava il
tempo della messinscena. Il dramma cessava di essere uno stato d’animo e
diventava un processo di sviluppo, mentre il ritmo e il tempo assumevano
qualità precise, quasi tangibili. Mi resi conto allora, all’improvviso, del ve­
ro senso delle parole di Paul Klee: «L’arte non deve rappresentare le cose
visibili, ma quelle invisibili. Ciò significa che deve tradurre il mondo se­
condo le nuove leggi dell’immagine. Invece dell’albero, del ruscello e del­
la rosa, ci interessa piuttosto la manifestazione della loro crescita, dello
scorrere, del fiorire». (I testi di Svoboda sono tratti da I segreti dello spazio
scenico, Ubulibri, Milano 1995)

In Italia a partire dalla metà degli anni Sessanta alcuni registi teatra­
li iniziano a sperimentare creativamente il linguaggio televisivo non
solamente come «adattamento» o «traduzione». Per Luca Ronconi,
con le sue regie dell’Orlando Furioso, Bettina, La torre, John Gabriel Bork­
man, Gli ultimi giorni dell’umanità, la matrice dell’invenzione televisiva è
l’anomalia:
491 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Probabilmente il mio interesse per il teatro in tv nasce dal fatto che un te­
sto scritto per il palcoscenico non trova sul teleschermo il suo luogo natu­
rale di rappresentazione. Per il teatro l’uso del mezzo televisivo è anoma­
lo, e questo obbliga il regista a trovare ogni volta tipi di scrittura sempre di­
versi. La messinscena per il video pone problemi molto differenti da quel-
la che si allestisce di fronte a un pubblico in carne e ossa, e l’invenzione re­
gistica scaturisce proprio dall’incontro, dall’intersezione tra i linguaggi
del teatro e della tv...
Non mi interessa affatto prendere la tv come oggetto drammaturgico, ap­
plicare al teatro la drammaturgia televisiva; cerco invece di muovermi ver­
so un tipo di drammaturgia che passa attraverso la televisione, per inven­
tare forme drammaturgiche specifiche. Con le mie regie ho tentato infat­
ti di realizzare non riprese televisive, ma trascrizioni televisive di drammi
scritti per il teatro. Ho, in altre parole, riscritto con un altro linguaggio ciò
che era stato scritto per il linguaggio teatrale. (Intervista a L. Ronconi, in
A. Balzola, F. Prono, Luca Ronconi: per un teatro televisivo?, video, CRUT, To­
rino 1988)

Se ogni spettatore faceva un montaggio al Lingotto per Gli ultimi gior­


ni dell’Umanità (1990) del proprio spettacolo personale attraverso una
selezione soggettiva – sia pur guidata dai movimenti forti e dalle struttu­
re portanti della regia – delle scene che accadevano simultaneamente, in
televisione l’autodeterminazione fruitiva viene naturalmente a mancare
ed è il regista a condurre, oltre alla regia dello spettacolo, una regia del­
lo sguardo dello spettatore, una regia di montaggio. E paradossalmente,
in questo processo di sdoppiamento, dei montaggi testuali, delle regie e
dell’esperienza dello spettatore, lo spettatore del Lingotto ripreso dalle
telecamere mentre ascolta il comizio polemico inscenato su carrelli mo­
bili dal Criticone (maschera pacifista di Kraus) e dall’Ottimista (l’anta­
gonista guerrafondaio), o mentre segue il funerale del principe eredita­
rio, diventa anch’esso attore per la platea televisiva.

Mi sono trovato a lavorare sul mio spettacolo (Gli ultimi giorni dell’Umanità)
nello stesso modo e con lo stesso metodo con cui, per la sua realizzazione,
avevo lavorato sul testo di Kraus. E se prima avevo creato un filo all’inter­
no del testo di Kraus, ora, con il video, ho dovuto creare un altro filo al-
l’interno della mia stessa rappresentazione [...] Lo spettatore televisivo ve­
de sullo schermo il pubblico del Lingotto e lo vede come attore, come par­
te dell’azione; e già questo modifica radicalmente la percezione dell’e­
vento, forse il senso del testo. Lo spettatore televisivo torna, in qualche
modo, a essere lettore. Perciò il video, esattamente come il libro, sollecita e
richiede una partecipazione visionaria dello spettatore; promuove la sua
capacità di immaginare altro (forse anche il Lingotto). Spero molto che il
telespettatore sia portato a integrare con l’immaginazione qualche cosa
ANTOLOGIA 492
che l’immagine non dà. (L. Ronconi in AA.VV., Gli ultimi giorni dell’uma­
nità, Aleph, Torino 1991)

L’effetto che si produce è quello del superamento della mediazione


tra occhio e obiettivo, tra percezione e descrizione narrativa: il percorso
dell’occhio coincide con l’evento, la visione diventa, appunto, lettura:

In televisione, il Teatro resta qualcosa di estremamente più letterario; il


teatro in televisione assomiglia di più al libro letto che a qualcosa di rap­
presentato. La televisione non è il luogo ideale della rappresentazione, me
ne sono accorto dopo, non prima, me ne sono accorto lavorando, trovan­
do analogie notevoli tra il mio modo di fare televisione e la meccanica del­
la lettura. Per esempio, la scelta di non fare molti stacchi di montaggio è
proprio per far concentrare l’occhio su uno svolgersi continuo piuttosto
che uno stare in luogo, che è tipico del montaggio cinematografico. E
quindi l’attenzione alla parola e alla didascalia e alla continuità tra battu-
ta e didascalia, esattamente come succede nella lettura di un testo teatrale.
Cosa che invece sparisce nella rappresentazione teatrale, perché la dida­
scalia viene riassorbita dalla rappresentazione teatrale stessa.
(Intervista a Luca Ronconi, cit.)

Giorgio Barberio Corsetti, a partire dall’esperienza del video in scena


con Studio Azzurro e sua personale con Il legno dei violini e America, de­
finisce uno dei tratti fondamentali del rapporto tra scena e immagine vi­
deo, quello del linguaggio.

Nell’andamento di uno spettacolo, nel suo dipanarsi luminoso e opaco, il


video appartiene senz’altro al mondo della luce, e la proiezione (film o vi­
deoproiezione) a quello delle ombre.
Se penso di servirmene ancora lo percepisco come una fonte di luce e di
ombre che ha un forte valore concettuale, valore che si sprigiona se crea
un’interazione concreta con la scena; non può avere un valore decorativo
o di sfondo, a quel punto si perde nel vuoto di senso e restituisce solo il
frastuono dell’universo dei media.
Interazione significa che il video diventa una parola del linguaggio poeti­
co della scena. Entra nel flusso di produzione poetica, che è fatta di tutti
gli altri elementi tenuti insieme dalla tensione degli attori, e si stacca, si
isola come parola per risuonare con tutto il resto. Non descrive, non in­
troduce fondali o paesaggi, non crea illusione, ma dà un elemento sem­
plice e significativo.
Se si pensa ad uno spettacolo come ad un testo poetico articolato il video
può corrispondere a dei sostantivi, o verbi sostantivati. Elementi naturali,
oggetti, azioni semplici apparendo in immagine, diventando corpi lumino­
si nel video alludono al «genere» e all’essenza: per esempio il fuoco, l’ac­
qua, il camminare, il correre ecc.
493 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Con il video si ha la possibilità di isolare e dare corpo ad un elemento. Co­


sì si agisce in due direzioni: sul palcoscenico si rende evidente un termine
che diventa immagine ed esprime un concetto al di là delle parole parlate,
nel video, nell’immagine si ritrova il potere simbolico, la si circonda di mi­
stero ed evocazione aboliti di un linguaggio video legato alla televisione,
chiuso, sincopato e soffocante». (A. Balzola, F. Prono, 1994)

Mario Martone, fondatore del gruppo Falso movimento ricorda il suo


debito verso il cinema: Godard, Eisenstein. Verità, montaggio.

Montaggio, sintomo, simbolo

Voglio farmi accompagnare da Godard.


Egli ha infatti predicato e praticato cinema come estensione della vita stes­
sa, lasciando coincidere la regia con lo sguardo e il montaggio col battito
del cuore, innalzando il suono a pari dignità di racconto con l’immagine,
manipolando chimicamente la pellicola alla stregua del più agguerrito ci­
neasta sperimentale; e rifiutando la sceneggiatura chiusa di cui il film ri­
sulti proiezione ortogonale [...]
Noi abbiamo indagato su un teatro che fosse al di fuori di ogni schema
rappresentativo, e che precipitasse i suoi elementi reali e costitutivi (dal
corpo all’oggetto allo spazio) in un accelerato accadimento scenico: «il ci­
nema è verità a 24 volt al secondo», secondo Godard.
[...] Nato quasi insieme al cinema, e addirittura preesistente alla televisio­
ne, il montaggio è un meccanismo naturale per questi linguaggi che non
si pongono il problema della scissione tra testo letterario, immagine e suo­
no; introdurre questa tecnica a teatro può essere invece del tutto artificio­
so. [...]
Il problema è alla radice: mettere in discussione il sistema stesso della
narrazione teatrale, considerare parola, suono e spazio come tutti uniti
già all’atto della creazione del testo. Cercare di uscire da uno schema
rappresentativo illusorio (testo-messinscena) per praticare l’irreversibi­
lità della fusione dei segni e guardare alla scena come a un pezzo di
realtà, come a una materia viva.
Io definisco «montaggio» il sistema di giunture dove si incorniciano e
reagiscono parola, suono, spazio concepiti tutti insieme per il fine poeti­
co.
Da questo principio sono derivate le nostre scenografie mobili, che inte­
grano elementi realistici con altri più astratti o concettuali facendo uso di
parti dipinte, costruite o proiettate: grazie a esse è stato infatti possibile
cambiare molte volte d’ambiente, e consentire agli attori di non dover en­
trare o uscire di quinta. (M. Martone, Ritorno ad Alphaville di Falso Movi­
mento, Ubulibri, Milano 1987)

Robert Lepage, regista sia di teatro sia di opera e di cinema e creato­


ANTOLOGIA 494
re delle scene per concerti rock, ha spesso utilizzato la commistione ci­
nema-teatro, sia nell’atmosfera, quanto nell’uso di tecniche di narrazio­
ne tipicamente cinematografiche, e nelle scenografie che ricordano il
grande schermo. Lepage parla di una cultura audiovisiva, cinematogra­
fica e televisiva che ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a
«reinventare il vocabolario narrativo». In quanto canadese, anzi in quan­
to québecchese:

In Québec non c’è tradizione letteraria. Il nostro Molière è ancora in vita,


ha cinquant’anni e si chiama Michel Tremblay. La tradizione letteraria
non è presente come in Europa. La nostra tecnica di scrittura viene effet­
tivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dal­
la scrittura: non si parla di scrittura teatrale ma piuttosto di uno spazio di
scrittura cinematografica affiliata al teatro. Per quanto mi riguarda trovo la
scrittura cinematografica più teatrale del teatro, risponde veramente alle
regole della tragedia greca: le sceneggiature sono strutturate, sono dei si­
stemi shakesperiani. Mi stupisco dunque molto che la gente di teatro ri­
fiuti questa scrittura. Con lo zapping ciascuno può seguire una storia sen­
za che le sia raccontata in maniera lineare. Davanti alla sua televisione
uno spettatore può guardare contemporaneamente il calcio, un dibattito.
E finisce per trovare il filo di ciò che guarda. È come a teatro, è in grado di
trovare il filo tutto da solo, sa riconoscere un flashback. Troppa gente con­
sidera il teatro qualcosa di superato. (R. Lepage, «Les inrockuptibles», n.
77, nov. 1999)

Per Lepage le tecnologie sono i nuovi mezzi a disposizione dell’artista


contemporaneo, «un nuovo strumento musicale che i compositori e i
musicisti stanno cercando di esplorare per vedere quale sensibilità si
possa esprimere attraverso loro», oppure un nuovo materiale da studia­
re, modellare e sperimentare. La tecnologia è la nuova materia a dispo­
sizione dell’artista e promuove nuove forme per l’opera. Materia come il
gesso o il marmo, anche se ironicamente afferma che «spesso la tecno­
logia è più dura del marmo!»:

La tecnologia chiaramente implica una forma, e io mi sono sempre defi­


nito un formalista. Sono sempre stato interessato sia alla forma che al con-
tenuto [...] La tecnologia è interessante perché inventa nuove forme. Gli
scultori diranno che si fa una scultura con la pasta da modellare, si fa una
scultura con il gesso, si fa una scultura con il marmo; è chiaro che è la ma­
teria che vi informa su come fare la vostra scultura, come raccontare quel­
lo che avete da raccontare. Trovo che le tecnologie siano proprio questo,
cioè che i nuovi strumenti, le risorse che ci sono oggi pongono una sfida
su come raccontare le cose. (http://radio-canada.ca/branche/v4/89/le­
page_t.htm)
495 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Il teatro nasce ai primordi, con due soli elementi, luce e ombra:

La tecnologia è la reinvenzione del fuoco. All’inizio del teatro, molti seco­


li fa, c’era la luce e l’ombra. L’attore parlava davanti al fuoco. Il fuoco è un
elemento naturale, ma il suo utilizzo è l’inizio della tecnologia ed è l’inizio
del teatro: dopo, tutte le forme di utilizzo del fuoco sono diventate pittura,
cinema, video. Il fuoco è stato rimpiazzato dalla tecnologia, ma la gente
viene ancora a teatro a sedersi attorno al fuoco: è la stessa cosa oggi come
molti secoli fa. Io devo reinventare l’utilizzo del fuoco ogni volta (R. Le-
page, intervista di A.M. Monteverdi, Montréal, giugno 2001)

Il collettivo giapponese Dumb Type (1984) che usa sofisticate tec­


nologie digitali del suono e dell’immagine in scena per performance
multimediali di grande impatto percettivo, in cui mostrare la trasfor­
mazione-trasfigurazione della realtà e del corpo stesso in epoca digita­
le, ha dichiarato di voler sviluppare «una forma d’arte/performance
per riempire il gap tra arte visuale statica e performance dipendente dal
dialogo», in un programma di sala del suo lavoro Voyage (2003) afferma
che, anche attraverso le più sofisticate tecnologie usate, l’artista non de­
ve dimenticarsi di lasciarsi coinvolgere dai problemi sociali e politici del
mondo perché il teatro è «arte vivente».

Un’atmosfera di opaca incertezza senza precedenti ci circonda. Addor­


mentati o svegli, se cercate di dimenticarla e di paralizzare il vostro spirito,
essa non vi lascia, come una seconda pelle di ansia e di paura. Simulate in­
differenza, non resisterete a lungo, non ci metterete una croce sopra, co­
me se si trattasse di problemi altrui o di eventi separati da voi dallo scher­
mo della televisione. Molte più persone di quante possiamo immaginare si
confrontano con un sentimento di crisi, lottando per trovare un nome per
questa condizione. In queste circostanze cosa potrebbe risultare più ridi­
colo e derisorio che delle innocenti «attività artistiche»?
Dobbiamo chiederci incessantemente perché proviamo ancora a espri­
merci attraverso le arti dello spettacolo, perché perseveriamo nella nostra
attività creativa. Abbiamo deciso deliberatamente di non ricorrere al lin­
guaggio né di commentare in altro modo le circostanze che ci circonda­
no attualmente. Cerchiamo di ritrovare una comunicazione reale senza
utilizzare le parole. È possibile? (Dumb Type, libretto di sala di Voyage,
2003)

Ricardo Dominguez ex membro del CAE (Critical Art Ensemble) è an­


che co-fondatore dell’Electronic Disturbance Theatre (EDT) che ispi­
randosi al Teatro degli oppressi di Augusto Boal, al Living Theatre, al
Teatro Campesino ha dato vita a netstrike, a virtual sit in e al Digital Za­
patismo in collaborazione con il movimento zapatista in Chapas (EZLN).
ANTOLOGIA 496
Le azioni in rete dell’EDT sono passate attraverso il server (e insieme si­
to) The thing (www.thing.net), un luogo di comunicazione e di diffusio­
ne di idee e progetti di attivismo sociale e artistico. Una intervista com­
pleta a Dominguez realizzata da Coco Fusco è on-line al sito
www.thehacktivist.com. Riportiamo invece l’intervista a Dominguez rea­
lizzata dal gruppo di controcomunicazione CandidaTv ora nel video
Reality Hacking (www.candidatv.org; www.ngvision.org) in occasione di
uno degli hackmeeting italiani.

Il CAE fece un gesto retorico molto specifico e severo. Noi dicemmo: «Le
strade sono morte». Prendemmo ispirazione dal cap. IV di Neuromante di
Gibson dove un hacker e una donna cyber devono entrare nel bunker del-
l’informazione. Allora chiamano in aiuto un altro gruppo, The Panthers
modern, e ciò che loro fanno è di iniettare nel bunker dell’informazione
nuovi livelli di realtà, multiple realtà a tal punto che il bunker non è più in
grado di definire ciò che è vero e ciò che è falso. In qualche modo noi pos­
siamo diventare i Panthers modern e possiamo iniettare nel sistema queste
realtà multiple nel senso di sviluppare un gesto simbolico che possa affer­
mare più di ogni gesto distruttivo. Il disturbo crea veramente uno spazio,
una situazione, un teatro invisibile che permette al potere di salire improv­
visamente in scena e agire... Tu non devi dire nulla. È irrazionale, incom­
prensibile per i network, per la polizia. È un microgesto che in sé e dal di
fuori risulta quasi invisibile ma l’effetto che sortisce è quello di creare que­
sto grande dramma sociologico. Cominciammo a pensare cosa potesse es­
sere la disobbedienza civile elettronica, chi l’avrebbe potuta creare e quale
sarebbe stata la sua risposta. Principalmente decidemmo che azioni dirette,
non violente e on-line sarebbero state il prodotto di piccole cellule. Diven­
tammo un teatro, il Teatro del disturbo elettronico. Avremmo fatto una
performance lunga un anno e due azioni ogni mese: «Perché non andiamo
sul sito del presidente Zedillo o su quello della borsa messicana e poi clic­
chiamo sul pulsante del reload tra l’una e le quattro della fascia oraria di
Città del Messico?». Questo creerà un disturbo. Quello che vogliamo fare
non è tirare giù il server ma disturbarlo. Io e Stephen siamo quasi pronti
ad attivare il Floodnet quando un gruppo di hacker denominato Heart ci
circonda e ci dice «Guardate che state occupando banda», che loro consi­
derano il puro male peggiore. «Se lo fate vi buttiamo giù». È stata la prima
volta che ho incontrato qualcuno che crede che l’ampiezza di banda sia al
di sopra dei diritti umani. Anche se l’azione non riesce, crea comunque
una simbolica distribuzione dell’informazione. Improvvisamente dopo
due ore e tre azioni notiamo che lo Zapatista Floodnet non stava più fun­
zionando, stava crashando. Il Pentagono stava usando un’arma da guerra
dell’informazione chiamata Ostile Applet Java. Il potere risponde in mo­
do imponente, ci rendiamo conto che è come sedersi e giocare davanti a
un negozio della Disney. Gli zapatisti hanno creato questo gesto potente
tra le reti perché hanno capito che è una questione di linguaggio, una
497 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

questione di poesia, di simulazione, una simulazione trasparente, costruire


un mondo che renda possibili più mondi possibili.

David Rokeby ha creato sin dai primi anni Ottanta una serie di instal­
lazioni interattive audio e video che coinvolgono performativamente il
corpo del visitatore (il viewer). Tra questi Body Language e Very Nervous Sy­
stem (vedi scheda). L’interfaccia non è visibile, così il corpo dell’utente, li­
berato di questo condizionante cordone ombelicale, è portato a espri­
mersi più liberamente e creativamente. In un’intervista alla rivista digita­
le «Dichtung-digital.org» l’artista ha rilasciato interessanti dichiarazioni
sulla necessità di creare attraverso questi progetti artistici interattivi, siste­
mi di controllo inesatto e sul fatto che per la sua vera riuscita, il sistema com­
puterizzato deve trascendere il controllo del programmatore.

In Body language /Very Nervous System e Inter/face ho cercato di creare inter­


facce che rendessero complicati e conflittuali i meccanismi di controllo. Il
corpo e il viso sono sempre usati espressivamente, ma non spesso consa­
pevolmente. Il corpo non è soltanto il nostro dispositivo di output. La no­
stra relazione con il corpo è molto complessa e ha a che fare con dinami­
che sociali, fisiologiche e emotive. Così la nostra intenzione non si riflette
mai completamente nell’azione risultante. L’azione meno è controllata,
più è ricca.

Lo stimolo di reagire liberamente deriva proprio dalla macchina: per­


ché il controllo totale è, appunto, impossibile.

Per la maggior parte delle persone il senso di controllo è una illusione pe­
ricolosa. Molte persone sono incapaci di impegnarsi in situazioni dove il
luogo di controllo è ambiguo (che include virtualmente tutte le situazioni
della vita). Io sto tentando di proporre un modello differente. Potresti
non avere controllo sul mio sistema, ma certamente sentirai che le tue
azioni sono altamente significative e che esse riflettono tangibilmente lo
stimolo. Il fatto che il mio vicino non risponda sempre allo stesso modo
quando gli dico «ciao» non significa che questa sia un’esperienza smi­
nuente. Se noi allontanassimo dalle nostre vite tutto ciò che è incerto,
non prevedibile e ambiguo, diventeremmo una specie assai triste. Il com­
puter azzera l’illusione che il controllo totale sia possibile.
(D. Rokeby, www.dichtung-digital.org)

Fotografia e Cinema

Henri Bergson, Roland Barthes, Ricciotto Canudo, Germaine Dulac,


Sergej M. Eisenstein, Michel Chion, László Moholy-Nagy, Maya Deren,
ANTOLOGIA 498
Gregory Markopoulos, Andy Warhol, Andrea Granchi, Gene Young­
blood, Michelangelo Antonioni, Dogma 95, Peter Greenaway.

Il cinema, creato alla fine del XIX secolo come uno strumento finaliz­
zato a una documentazione scientifica più efficace della fotografia (per­
ché in grado di riprodurre anche il movimento) e presentato nei luna
park come un’attrazione effimera, è diventato il medium protagonista
dell’immaginario collettivo del XX secolo (affiancato nella seconda metà
del secolo dalla televisione). Ha attraversato molte fasi di evoluzione
tecnica (dal muto al sonoro, dal colore al cinemascope e al suono ste­
reofonico, dalla polivisione al cinema elettronico e digitale), di matura­
zione linguistica, e una divaricazione (con qualche raro punto d’inter­
sezione) tra cinema industriale di massa e cinema sperimentale d’artista
o d’autore. Molti autori e teorici delle avanguardie hanno visto nel ci­
nema anche la possibilità di realizzare l’utopia della sintesi delle arti
che non era riuscita al teatro, e per questo hanno sperimentato come
nel cinema potevano integrarsi o dialogare le diverse forme artistiche,
altri invece, all’opposto, hanno ricercato la «purezza» del linguaggio ci­
nematografico, cercando di emanciparlo da modelli naturalistici, lette­
rari, teatrali o pittorici ed esplorandone le molteplici potenzialità espres­
sive autonome. Così come la fiction e la documentaristica del cinema
hanno ispirato le produzioni televisive, questa ricerca artistica ha ispira­
to il fenomeno della videoarte e delle nuove arti digitali, che a loro vol-
ta, adesso, stanno mutando il volto del cinema del nuovo millennio. Il ci­
nema, il cui significato etimologico è «scrittura del movimento», con-
ferma la sua straordinaria capacità di metamorfosi e di essere anche
«scrittura in movimento».

Il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), di formazione spiri­


tualista e di vocazione evoluzionistica (secondo un’idea che sosteneva la
possibile integrazione di scienza e religione mediante la fiolosofia), in­
fluenzò profondamente il pensiero fenomenologico ed esistenzialista e
soprattutto il mondo letterario e artistico (Proust, i simbolisti, gli im­
pressionisti). Bergson pone al centro della sua riflessione filosofica il
tempo, sottolineando l’importanza della dimensione qualitativa dei fat­
ti psichici (il tempo soggettivo dell’esperienza), rispetto a quella quanti­
tativa dei fatti fisici (il tempo oggettivo della matematica e della scien­
za). Di qui nasce il suo precocissimo interesse per il mezzo cinemato­
grafico (in tempi recenti il filosofo Gilles Deleuze ha ripreso e discusso
il suo pensiero nei suoi scritti sul cinema: L’immagine-tempo e L’immagine­
movimento, Ubulibri, Milano 1984 e 1988); interesse testimoniato anche
da un suo articolo poco noto del 1914, comparso sulla «Gazzetta del Po­
499 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

polo» di Torino. Il cinema, nato con finalità di documentazione scienti­


fica, fallisce quasi subito il suo compito originario, infatti pur rivelando­
si utile alla documentazione non offre sufficienti informazioni e garan­
zie di «oggettività», si scopre ben presto che è uno strumento inaffida­
bile, antinaturalistico, che può mentire e che comunque produce sinte­
si arbitrarie: coglie il reale ma distorcendolo, coniugandolo secondo
leggi estranee alla scienza, più funzionale a usi artistici (vedi il cinema
fiction e quello sperimentale delle avanguardie) o ideologici (vedi il ci­
nema di propaganda). Per Bergson questo «difetto», questa capacità di
sintesi arbitraria e soggettiva del cinema è la sua principale qualità e re­
stituisce alla sintesi pittorica quel valore che la fissità descrittiva della fo­
tografia aveva messo in crisi:

Sono andato al cinematografo parecchi anni or sono. L’ho visto alle sue
origini. Quest’invenzione, complemento della fotografia istantanea, può
suggerire idee nuove al filosofo. Essa potrebbe aiutare la sintesi della me­
moria o anche del pensiero. Se la circonferenza è composta da una serie di
punti, la memoria è, come la cinematografia, una serie di immagini. Con
queste, essendo immobili, abbiamo lo stato neutro; il movimento è vita.
L’essenza della luce, del suono, non è la vibrazione? L’occhio vivo non è
forse un cinematografo? È noto quale rivoluzione produsse in pittura l’in­
venzione della fotografia istantanea. Allora, per esempio, i pittori poterono
accorgersi che gli atteggiamenti dei cavalli in corsa, come da loro erano
stati rappresentati spesso non erano esatti, e li corressero. Ed avvenne che,
ispirandosi alle immagini colte dal vero con la fotografia istantanea, gli ar­
tisti dipinsero delle figure rigide, intirizzite, senza vita. Vi guadagnava l’e­
sattezza matematica, ma altrettanto vi perdeva l’impressione di verità. Il ci­
nematografo insegnò ai pittori che la fotografia aveva torto.
(H. Bergson, Sul cinematografo, in «La Gazzetta del Popolo», Torino 24 feb­
braio 1914, ripubblicato in «Aleph cinema e altri media», n. 1, marzo 1990
con una nota di A. Balzola, Commento a Bergson, pp. 101-103)

Proprio a causa di questa fissità innaturale, di questo atto artificiale


di furto di un istante al flusso continuo del tempo e sua fissazione pe­
renne, il grande critico letterario francese Roland Barthes (1915-1980)
parlava del carattere «luttuoso» della fotografia: l’atto di fermare il tem­
po come metafora della morte. Nelle sue note sulla fotografia del 1980
(raccolte nel volume La camera chiara), Barthes elabora anche un’origi­
nale teoria empirica della lettura dell’immagine, dove sono compre­
senti due livelli di lettura, che egli definisce con termini latini, lo stu­
dium e il punctum:

Studium non significa, per lo meno come prima accezione, «lo studio»,
bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interes­
ANTOLOGIA 500
samento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità. È attraverso lo
studium che io mi interesso a molte fotografie, sia che le recepisca come te­
stimonianze politiche, sia che le gusti come buoni quadri storici; infatti, è
culturalmente [...] che io partecipo alle figure, alle espressioni, ai gesti, al­
lo scenario, alle azioni.
Il secondo elemento viene a infrangere (o a scandire) lo studium. Questa
volta, non sono io che vado in cerca di lui [...], ma è lui che, partendo dal­
la scena, come una freccia, mi trafigge. In latino, per designare questa fe­
rita, questa puntura, questo segno provocato da uno strumento aguzzo,
esiste una parola; tale parola farebbe ancora meglio al caso mio in quanto
essa rinvia all’idea di punteggiatura e in quanto le foto di cui parlo sono in
effetti come punteggiate, talora addirittura maculate di questi punti sensi­
bili; quei segni, quelle ferite sono effettivamente dei punti. Chiamerò
quindi questo secondo elemento che viene a disturbare lo studium, punc­
tum; infatti punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo
taglio, e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fa­
talità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce).
(R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, pp. 27-28)

Nell’ambito delle ricerche artistiche sulla corrispondenza tra musica


e cinema, abbiamo visto come i fratelli Corradini, artisti futuristi, aves­
sero precocemente intuito la possibilità di usare il cinema per realizzare
una «musica cromatica», successivamente, nell’area dadaista-astrattista
svizzero-tedesca questa idea si concretizza in una serie di sperimentazio­
ni cinematografiche con animazioni grafiche che interpretano motivi
musicali o generano «sinfonie visive» (dal 1917). I protagonisti di questa
stagione del Film assoluto o astratto sono artisti eclettici come Viking Eg­
geling, Hans Richter, Werner Graeff, Walter Ruttmann, Oskar Fischin­
ger. Come già aveva teorizzato Appia, nel suo tentativo di sviluppare il
progetto wagneriano di una sintesi delle arti, il principio regolatore di
un’unità tra musica, parola e movimento era il ritmo, e proprio attraver­
so un minuzioso lavoro sul ritmo delle sequenze grafiche, questi artisti
divenuti cineasti, tentarono di produrre con le immagini in movimento
l’effetto musicale. Tra i teorici di questa ricerca c’è l’italiano (ma parigi­
no d’adozione) Ricciotto Canudo (1879-1923), uno dei primi teorici e
critici cinematografici, fondatore del primo cineclub per il cinema arti­
stico. Nella sua idea, il cinema rovescia a suo vantaggio il rapporto tra
musica e immagini:

Prima si era cercato di unire due temi, l’uno visivo, l’altro sonoro, che of­
frivano, o parevano offrire, delle analogie del resto esteriori. Ora è il ritmo
delle immagini che si cerca di seguire con l’orchestra [...]
Io vi domando: era irragionevole affermare che la musica è generatrice di
immagini, che un poema sinfonico è simile a un apparecchio cinemato­
501 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

grafico che proietta visioni sapientemente collegate sullo schermo della


nostra coscienza e del nostro inconscio? Era dunque assurdo pretendere
che i ritmi, gli arabeschi melodici, i timbri strumentali potessero generare
linee, volumi e curve? Era ridicolo insinuare che il ritmo visivo e il ritmo
uditivo fossero fratelli, come dimostrano il teatro lirico e l’arte coreografi­
ca? Era infine pazzesco giungere alla conclusione che, poiché un direttore
di balletto ha il diritto di trarre da un Notturno di Chopin, dal Carnevale di
Schumann, da un poema sinfonico di Rimsky o da un Preludio di Debussy
tutta una serie di realizzazioni plastiche, un regista cinematografico, che
dispone di uno strumento di trasposizione infinitamente più docile, più
ricco e soprattutto più «musicale» nella sua tecnica, ha il diritto di riven­
dicare lo stesso privilegio?
(J. Mitry, Storia del cinema sperimentale, Mazzotta, Milano 1971, p. 210)

Germaine Dulac (1882-1942), prima regista donna di lungometraggi


(il suo film più importante fu La souriante Madame Beudet del 1923) ed
esponente di punta dell’avanguardia cinematografica parigina (con
Louis Delluc). Teorizza un cinema puro, impressionista, non narrativo:
riprese poetiche della natura o di una realtà percepita interiormente,
con una marcata soggettività emotiva, inconscia e onirica. In questa
chiave va inteso, per lei, il fondamentale ruolo espressivo del ritmo e il
rapporto con la musica. Nel 1927 realizza anche un film onirico su sce­
neggiatura di Antonin Artaud (che però, insieme a tutti i surrealisti, lo
sconfesserà): La coquille et le clergymen.

Il cinema puro non respingeva né la sensibilità né il dramma, tentava sol­


tanto di raggiungerli attraverso gli elementi visivi. Andava a ricercare l’e­
mozione superando i limiti dell’umano, in ciò che esiste in natura, nell’in­
visibile, nell’imponderabile, nel movimento astratto. Fu questa scuola che
mostrò, in forma ironica (Leger, Richter, Clair) o sensibile (Eggeling, Rutt­
mann, Chomette, Ivens, Dulac ecc.), l’espressione del movimento e del
ritmo liberata da ogni vincolo narrativo lasciando sgorgare suggestivamen­
te l’idea, la critica o l’azione drammatica. Si trattava di provare che:
1) l’espressione di un movimento dipende dal suo ritmo;
2) il ritmo in sé e lo sviluppo del movimento costituiscono due elementi
sensibili e sentimentali che stanno alla base della drammaturgia dello
schermo;
3) l’opera cinematografica deve rifiutare l’estetica impersonale cercando
invece la sua negli apporti visivi;
4) l’azione cinematografica deve essere «vita»;
5) l’azione cinematografica non si deve limitare a rappresentare l’essere
umano, ma deve inoltrarsi nei territori della natura e del sogno.
(G. Dulac, Il cinema d’avanguardia, in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’a­
vanguardia 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p. 359)
ANTOLOGIA 502
Il russo Sergej M. Eisenstein (1898-1948) è uno dei più grandi registi
e fondatori del linguaggio e dell’estetica del cinema. A partire dalle sue
esperienze di pittore, scenografo, regista teatrale e poi cinematografico,
Eisenstein elabora una sua personale idea di come le differenti arti pos­
sano trovare una sintesi nel film, analizzando profondamente le corri­
spondenze tra pittura, cinema e musica (citando Wagner e Schönberg)
e, infine, agli albori della televisione, intuendo le straordinarie poten­
zialità di questo nuovo medium (rispetto alle quali però, come lui la­
mentava già nel cinema, gli artisti avranno poche opportunità di met­
tersi alla prova).

La musica del paesaggio


[...] il cinema muto componeva esso stesso la sua musica. Una musica pla­
stica [...] A quel tempo, il movimento musicale della scena si risolveva nel­
l’ordine e nel montaggio dell’immagine. I pezzi di montaggio determina­
vano non solo il movimento della scena ma anche la sua musica. Come
dallo schermo «parlava» un volto muto, così «risuonava» l’immagine. Era
il paesaggio a «risuonare» più frequentemente: infatti il paesaggio è l’ele­
mento più libero del film, il meno gravato da compiti narrativi ausiliari e
particolarmente duttile per la trasmissione di umori, stati d’animo ed
emozioni. [...]
Non si tratta di rafforzare l’azione (sebbene si tratti in buona misura an­
che di questo), quanto di finire di raccontare emozionalmente quanto è inespri­
mibile con altri mezzi.
(S.M. Eisenstein, La natura non indifferente (1945-47), a cura di P. Montani,
Marsilio, Venezia 2003, p. 250)

Il cinema e il miracolo della televisione


[...] Non ancora risolto fino in fondo è il problema della sintesi delle ar­
ti, le quali tendono alla loro piena e organica fusione in seno al cinema­
tografo. E intanto problemi sempre nuovi avanzano verso di noi. Ci era­
vamo appena impadroniti della tecnica del colore, e già si presentano i
nuovi problemi del volume e dello spazio proposti dal cinema stereosco­
pico che sta uscendo dalle fasce. Ed ecco che nel miracolo della televisio­
ne ci sta dinanzi come una realtà la vita viva che minaccia di mandare in
pezzi i risultati, ancora non completamente assimilati e chiariti dall’espe­
rienza, del cinema muto e sonoro. In essi, per esempio, il montaggio non
era che il calco più o meno perfetto del corso reale della percezione degli
avvenimenti ricreata attraverso il prisma della coscienza e della sensibilità
dell’artista.
Nella televisione, invece, il montaggio diventerà lo stesso corso immediato
nel preciso istante in cui il processo si svolge. Assisteremo alla stupefacen­
te congiunzione di due estremi. Il primo anello della catena delle forme
dinamiche dello spettacolo teatrale, l’attore, che trasmette allo spettatore
il contenuto dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti nel momento stesso in
503 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

cui li prova, tenderà la mano a chi elaborerà le forme superiori dello spet­
tacolo futuro, al cinemago della televisione, che, rapido come un battere
di palpebra o il balenare di un pensiero, giocando con le lunghezze foca­
li degli obiettivi e con le profondità di campo, potrà trasmettere in modo
diretto e immediato a milioni di ascoltatori e spettatori la sua interpreta­
zione artistica dell’avvenimento, nel momento irripetibile in cui esso si
compie [...]
(S.M. Eisenstein, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, a cura di P. Gobet­
ti, Einaudi, Torino 1964, p. XII)

Michel Chion, critico, compositore e regista francese, è considerato il


più importante teorico contemporaneo del rapporto tra suono e imma­
gine nel cinema e nel video. Nel suo testo, fondamentale, L’audiovisione.
Suono e immagine nel cinema (1990) ritorna sul tema del ritmo come ele­
mento espressivo transensoriale, secondo un’idea di transensorialità che
si oppone alle corrispondenze sinestetiche evocate dai poeti Baudelaire
e Rimbaud:

Quando un fenomeno ritmico ci giunge attraverso una via sensoriale, que­


sta via, occhio o orecchio, è forse soltanto il canale attraverso cui ci giunge
il ritmo, nulla di più. Dopo essere entrato nell’orecchio o nell’occhio, il fe­
nomeno colpisce in noi una qualche area sensoriale connessa con le aree
motorie, ed è soltanto a questo livello che esso viene decodificato ritmica­
mente [...]
L’occhio, per esempio, porta informazioni e sensazioni delle quali soltan­
to alcune possono essere considerate come specificamente e irriducibil­
mente visive (il colore, per esempio), essendo le altre solo transensoriali.
Parimenti, l’orecchio veicola informazioni e sensazioni delle quali soltan­
to alcune sono specificamente uditive (l’altezza e i rapporti di intervallo,
per esempio) [...]
La transensorialità non ha nulla a che vedere con ciò che si potrebbe
chiamare intersensorialità, ossia le famose corrispondenze tra i sensi di
cui parlano Baudelaire, Rimbaud o Claudel. Quando Baudelaire, per
esempio, evoca «profumi freschi come la carne di un bambino, dolci co­
me l’oboe», fa riferimento a un’idea di intersensorialità: ciascun senso
esisterebbe in sé, ma essi avrebbero punti di mutuo incontro, punti di
congiunzione.
Nel modello transensoriale (o metasensoriale) che noi opponiamo a que­
st’ultimo, non vi è alcun dato sensoriale delimitato e isolato in partenza: i
sensi sono canali, vie di comunicazione, più che territori [...]
Abbiamo anche, con il cinema muto da un lato e la musica acusmatica
(dal greco, «che sente senza vedere la causa originaria del suono») dal­
l’altro, due esempi simmetrici che ci mostrano come, quando sensazioni
cinetiche artisticamente organizzate vengono trasmesse tramite un unico
canale sensoriale, esse possano tradurre attraverso quell’unico canale, nel­
ANTOLOGIA 504
lo stesso tempo, gli altri sensi: il cinema muto, in assenza di suono sincro­
no, esprimeva talvolta i suoni meglio del suono stesso (e per questo ricor­
reva spesso a un montaggio fluido e rapido), mentre la musica acusmatica,
nel suo rifiuto cosciente del visivo, porta con sé visioni che sono più belle
delle immagini.
(M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema (1990), Lindau, To­
rino 2001, pp. 117-118)

Il pittore ungherese László Moholy-Nagy (1895-1946), di ispirazione


neoplastica e costruttivista, collaboratore di Gropius e insegnante al
Bauhaus, lavorò come scenografo con Erwin Piscator e fu uno dei primi
artisti d’avanguardia (con Richter e Man Ray) a occuparsi di fotografia e
poi di cinema. Questa molteplicità di interessi e di esperienze nel cam­
po delle differenti arti lo portò a teorizzare una ricerca che unisse le ar­
ti visive, sceniche e il movimento introdotto dalle nuove tecniche. Pre­
cursore dell’arte cinetica, fu anche uno dei primi, insieme ad Abel Gan­
ce (inventore della «polyvision»: un triplice schermo per la visione del
suo Napoleone nel 1927; vedi scheda), a studiare le potenzialità del «ci­
nema simultaneo» o «policinema», con la progettazione di schermi spe­
ciali per consentire la proiezione simultanea e/o intrecciata di più nar­
razioni cinematografiche (anche integrabili sulla scena con l’azione tea­
trale, come nel teatro di Piscator):

Un’altra soluzione per cambiare lo schermo potrebbe consistere nella so­


stituzione dell’attuale schermo rettangolare con uno schermo sferiforme
[...] Sullo schermo dovrebbero venire proiettati più film non su un punto
fisso; essi dovrebbero venire spostati continuamente da sinistra a destra, da
destra a sinistra, dall’alto in basso, dal basso in alto ecc. Grazie a questo
procedimento, potrebbero venire rappresentati due o più avvenimenti,
che all’inizio sarebbero indipendenti, ma in un secondo tempo converge­
rebbero secondo calcoli predeterminati in una trama [...]
Il film sul signor A scorre da sinistra a destra: nascita, corso della vita. Il
film sulla signora B scorre dal basso verso l’alto: nascita, corso della vita. Le
due proiezioni si intersecano, amore, matrimonio ecc. I due film possono
procedere intersecandosi e avremo delle sequenze traslucide degli avveni­
menti, oppure possono scorrere parallelamente, oppure, ancora, un nuo­
vo film comune alle due persone può sostituire i primi due. Un terzo o
quarto film potrebbe essere quello del signor C che, per esempio, scorre­
rebbe con gli episodi di A e B dall’alto verso il basso o da destra a sinistra
o in un’altra direzione fino al punto in cui si incrocerà o si sovrapporrà ra­
zionalmente con gli altri due film ecc.
(L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film 1925-1967, a cura di G. Rondolino,
Martano, Torino 1975)
505 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Conclusa negli anni Trenta del Novecento la stagione delle speri­


mentazioni cinematografiche delle avanguardie storiche, il seme della
ricerca di un cinema artistico, non sottomesso alle leggi e ai modelli del
cinema industriale e di massa, attecchisce negli anni Quaranta, negli
Stati Uniti. Film-makers (così chiamati perché autori e produttori dei lo­
ro film) come Maya Deren (1908-1961), autrice di opere oniriche e in­
troiettive (definite anche Trance film), apriranno la strada a un filone del
cinema d’avanguardia americano che esploderà alle soglie degli anni
Sessanta con il cinema underground. Autori indipendenti come i fratelli
Adolfas e Jonas Mekas (fondatori della rivista «Film Culture», 1955, e del
New American Cinema Group, 1960), John Cassavetes, Gregory Marko­
poulos, Stan Brakhage, Kenneth Anger, Curtis Harrington, Stan Van­
derbeek, raccolgono l’eredità surrealista di Cocteau, Buñuel e Dalí,
quella dadaista di Man Ray e Duchamp, l’eclettismo di Richter e anche
il Caligarismo, creando un cinema originale, antinarrativo, antinaturali­
stico, antirappresentativo, con forti connotazioni, oniriche, autobiogra­
fiche ed erotiche, che insieme alle produzioni di Andy Warhol e Paul
Morrisey faranno scandalo e scuola. Molti considerano infatti questo ci­
nema sperimentale precursore del Cinema d’artista degli anni Sessanta-
Settanta e anche della Videoarte degli anni Settanta-Ottanta.
Gregory Markopoulos mette in relazione le tecniche pittoriche e poe­
tiche con quelle cinematografiche e sottolinea come anche nel cinema
l’uso dei materiali poveri e dei loro stessi «difetti» sia legittimo (un tema
poi ripreso da molta videoarte che ha tratto dai limiti del mezzo un’e­
stetica):

Una sovraespozione o una sottoesposizione corrispondono al mescolare i


colori di un pittore. È una tecnica simile a quella dei poeti antichi, che sa­
pevano come l’effetto poteva essere arricchito con l’introduzione di una
frase o un giro di parole che provocasse nell’orecchio dell’ascoltatore un
susseguirsi di associazioni emotive. Una striatura presente sulla pellicola di
un film, è assimilabile a quella che si può rinvenire sulla superficie di qua­
dri che vengono definiti capolavori [...] Esattamente come una superficie
povera o di canapa grezza può essere utilizzata da un pittore, un quaderno
d’appunti di poco prezzo da uno scrittore, della creta comune da uno
scultore, anche da un film-maker possono venire impiegati, nella propria
opera, materiali del genere.
(G. Markopoulos, Caos Phaos, Feltrinelli, Milano 1976, p. 122)

Il pittore Andy Warhol (1928-1987), protagonista della pop art ame­


ricana, trasformò dai primi anni Sessanta la sua Factory in un centro di
produzione cinematografica di pellicole sia sperimentali sia distribuite
nei circuiti commerciali, avvalendosi della collaborazione del regista
ANTOLOGIA 506
Paul Morrisey (Flesh, 1969; Trash, 1970) e altri. Alcune «opere» cinema­
tografiche di Warhol, come per esempio Empire (1964) che dura 8 ore
ed è un’inquadratura fissa sul grattacielo durante diverse ore del giorno,
cercano di modificare il modo stesso di fruire l’immagine e prefigurano
in qualche misura l’idea della videoinstallazione:

I miei primi film con oggetti immobili erano fatti anche per aiutare il pub­
blico ad abituarsi a sé stesso. Di solito, quando si va al cinema, ci si installa
in un mondo irreale, ma quando si vede qualcosa che vi disturba, si sento­
no di più gli altri come qualcosa che ci riguarda. Il cinema fa più di quan­
to non si possa fare col teatro o con i concerti, dove ci si limita a restare se­
duti, e io penso che la televisione farà più del cinema. Si possono fare più
cose guardando i miei film che con altri tipi di film: si può mangiare e be­
re e tossire e fumare e smettere di guardare lo schermo e poi guardarlo di
nuovo e i film stanno ancora lì [...] Si tratta di film sperimentali; li chiamo
così perché non so quello che faccio. Mi interessano le reazioni del pub­
blico ai miei film: essi saranno adesso degli esperimenti, in un certo senso,
per saggiarne le reazioni.
(A. Warhol intervistato da G. Berg, in A. Aprà e E. Ungari, Il cinema di Andy
Warhol, Arcana, Roma 1973, pp. 23-24)

Il Cinema d’Artista, luogo privilegiato dell’invenzione

Il cinema sperimentale si era affacciato sullo scenario italiano e interna­


zionale fin dagli anni Cinquanta e Sessanta (con diverse definizioni: cine­
ma d’avanguardia, sperimentale, underground, altro cinema, cinema di ri­
cerca, cinema indipendente ecc.), ma negli anni Settanta si ebbe una con­
centrazione così alta e progressiva di lavori, di eventi, di pubblicazioni ta­
le da far ripensare, anche da un punto di vista storico critico, tutto il set-
tore e anche la definizione stessa di quel lavoro.
La qualità peculiare riguadagnata dal «Cinema d’Artista», a partire dal
1968-69 per attuarsi compiutamente negli anni Settanta, fu quella di riaf­
fermare l’invenzione creativa dell’artefice, di nuovo legato alla forza della
«manovra pura» delle immagini reali o finte. Si avviò cioè il recupero di
tutti quei mezzi e modalità «artigianali» nella composizione dei lavori che
riportavano il mezzo filmico quasi alla purezza degli inizi, alle prove magi­
che e sorprendenti di Méliès, all’idea di spettacolo mobile e vagante caro
ai manipolatori di lanterne magiche, oppure al gusto dell’astrazione asso­
luta o della costruzione di uno spettacolo «fantasmagorico» alla Robert­
son, ma che in più utilizzasse anche aspetti non propriamente cinemato­
grafici e che coinvolgesse sempre più totalmente lo spettatore offrendogli
mutevoli e molteplici valenze espressive, occasioni d’intervento se non ad­
dirittura sollecitazioni sensorie. Significativi a questo proposito i «film pro­
fumati» di Gianikian-Ricci Lucchi, ma anche le proiezioni del ciclo di film
Teoria dell’incertezza di Andrea Granchi che prevedevano un sonoro im­
507 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

provvisato dal pubblico. Il «Cinema d’Artista» si poneva quindi come idea­


le «ars combinatoria» ma anche come luogo di ricerca in cui lievitasse di
nuovo il gusto del «pezzo unico», irripetibile, lavorato quasi artigianal­
mente, in piena contraddizione col mercato da una parte e con lo stan­
dard moltiplicatorio e ripetitivo diffuso negli anni Settanta (si pensi all’u­
so sistematico della fotografia e della carta stampata). In particolare alcu­
ni artisti della Scuola di Firenze, tra cui chi scrive, iniziarono un primo rial­
lacciamento con le avanguardie storiche, con il cinema astratto degli anni
Venti e con i primi esiti storici dell’«animazione», anticipando peraltro
quella vasta rivisitazione di tutte le avanguardie che poi il «recupero» del­
la pittura favorirà largamente nel decennio Ottanta-Novanta. Una produ­
zione caratterizzata da una predilezione per l’uso di tecniche animatorie
talvolta radicalmente inventate o improvvisate (L. Baldi, A. Granchi, R. Ra­
naldi, M. Mariotti) sì da arrivare a una sorta di proto o pseudo-animazio­
ne, fortemente sbilanciata nell’uso e nella contaminazione dei materiali
più eterogenei: frammenti di pittura, disegni, sagome, foto, costruzioni tri­
dimensionali. Roma prediligeva la definizione di «Cinema indipendente»
– la presenza di Cinecittà e della produzione su grande scala ha certo sti­
molato gli artisti e i film-maker a cercare di svincolarsi dalla schiacciante
onnipresenza di un’industria onnivora magari operando in un’azione di
intelligente e acuto riciclaggio delle sue scorie di produzione (penso a Ba­
ruchello con la sua Verifica incerta ma anche a Schifano) – sostenuta dalla
centrale attività alternativa del Filmstudio. Torino invece, città di vocazio­
ne industriale ma di cultura internazionale, in particolare francese, rivela­
va aspetti di creatività vicina al paradosso surreale (penso ai lavori di Ne­
spolo con Baj e Fontana). Infine, a Napoli e nel mezzogiorno prevaleva un
attraversamento caricaturale e dissacratorio del feticismo mistico e dei mi­
ti cari al sud (grande impressione fece il film Nostra Signora dei Turchi di
Carmelo Bene quando uscì nel ’68). In questo contesto gli artisti (e gli ar­
chitetti) operanti a Firenze optarono per una «manovra» del film legata al­
l’immagine, al territorio dell’arte, alla sua profonda manipolazione e rein­
venzione rivendicando nettamente (in particolare da parte di chi scrive) la
collocazione dei loro film nel territorio specifico delle arti visive nel segno
di un’eredità diretta con le avanguardie storiche.
Spetta perciò al «Cinema d’Artista» il ruolo di anello di congiunzione tra
gli aspetti più vitali della ricerca artistica italiana degli anni Settanta e il
recupero pieno della creatività e dell’eclettismo tecnico, formale e arti­
gianale che caratterizzò il decennio successivo, quello degli anni Ottanta.
E, in effetti, già il «Cinema d’Artista» degli anni Settanta raccoglieva in sé
il tema dell’unicità e la consapevolezza di essere luogo privilegiato del-
l’invenzione tramite la manipolazione più sfrenata e liberatoria delle im­
magini. Ma compete al «Cinema d’Artista» anche un’ulteriore merito il
cui peso, a distanza di oltre trent’anni da quella prima straordinaria tem­
perie, si fa sentire oggi più che mai, quello di aver guadagnato al campo
delle arti visive due poli fondamentali: lo scorrimento del tempo e la rap­
presentazione della stasi e del movimento dell’idea. Il portato di questa
ANTOLOGIA 508
ricerca quindi si fa ancor più incisivo proprio nello scenario di oggi, in
quell’attenzione e predilezione che le giovani generazioni stanno dimo­
strando per la multimedialità e nell’uso ormai sistematico della «registra­
zione» di operazioni o installazioni che prevedono tempo, suono e movi­
mento.
(Andrea Granchi, 2003, testo inedito)

Gene Youngblood, artista e teorico dell’uso artistico del video, ha in­


dicato nel suo famoso libro Expanded Cinema (1970), come la videoarte
sia più legata al cinema sperimentale che alla televisione – intesa come
mezzo di comunicazione di massa – e come la videoarte sia una sorta di
espansione nella prospettiva elettronica delle possibilità espressive del
cinema.

Il cinema è l’arte di organizzare temporalmente un flusso di eventi. È un


evento-flusso, come la musica. Ci sono al momento almeno quattro media
con cui possiamo praticare il cinema: il film, il video, il computer, l’olo­
grafia; proprio come ci sono molti strumenti con cui possiamo praticare la
musica. Naturalmente ciascuno di essi ha proprietà specifiche e contribui­
sce in modo diverso alla teoria del cinema. Il video, per la sua tecnologia e
il contesto estetico e culturale in cui si è sviluppato, espande le possibilità
del cinema, amplia la nostra comprensione di cosa il cinema può essere e
fare. Quel che intendiamo realmente con «video-art», quindi, è cinema
sperimentale praticato elettronicamente: un’impresa più personale che
istituzionale, che rappresenta la forma poetica del cinema, opposta alla
forma prosastica del raccontare storie. In altre parole, è la vera arte del ci­
nema, l’opposto dell’intrattenimento, se con arte intendiamo un processo
di esplorazione e ricerca.
(G. Youngblood, Metaphysical Structuralism, «Millennium Film Journal», n.
20-21, autunno-inverno 1988-89)

Michelangelo Antonioni (1912), uno dei maggiori registi cinemato­


grafici italiani, è stato anche uno dei primi cineasti a interessarsi della
trasformazione elettronica del cinema, realizzando nel 1980 il film elet­
tronico Il mistero di Oberwald, dove i caratteri e gli stati d’animo dei per­
sonaggi si esprimono anche mediante un’aura cromatica che li circonda
(un’idea che sarà elaborata anche da Francis Ford Coppola in Un sogno
lungo un giorno, 1982).

La gamma di possibilità che l’elettronica offre agli autori di cinema è infi­


nita. Per esempio offre il controllo del colore: posso continuare a fare il
colore «naturalistico», ma per mezzo del nuovo «correttore dei colori»
posso avere i colori elettronici che più mi sembrano giusti per esprimere
la soggettività della storia che sto raccontando. E ancora, con la nuova tec­
509 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

nica dell’«intarsio», l’elettronica dà la possibilità di correggere anche solo


un angolo del fotogramma.

Negli anni Ottanta si assiste a un’esplosione di interesse e di esperi­


menti sull’immagine elettronica analogica che Antonioni commenta co­
sì:

Penso che l’avvento nel cinema dell’elettronica possa metterci di fronte a


una situazione analoga a quella che venne a crearsi nel mondo della pit­
tura con l’avvento dell’arte astratta, quando migliaia, decine di migliaia di
persone, sempre in virtù del solito bisogno di esprimersi, cominciarono a
scarabocchiare con i colori, convinti di poter essere artisti purchessia an­
che e solo disegnando cerchi e linee. E solo adesso, a distanza di anni, sap­
piamo che quelli che davvero hanno significato qualcosa per questo tipo
di arte, sono solo quei cinque o dieci che conosciamo tutti: si sono salvati
solo coloro che del mezzo sono riusciti davvero a fare il loro autentico
mezzo di espressione. Accadrà lo stesso con l’elettronica [...] che solo ap­
parentemente semplificherà il mestiere di autore di cinema e lo aprirà
praticamente a tutti [...]
(M. Antonioni intervistato da A.M. Mori, in «La Repubblica», 15 novem­
bre 1983)

Nella primavera del 1995, i due registi danesi Lars von Trier (1956) e
Thomas Vinterberg (1969) scrivono il Manifesto DOGMA 95, atto di na­
scita del gruppo omonimo di cineasti. Una svolta produttiva e di «ca­
stità» estetica che segnerà il modo di fare cinema di una nuova genera­
zione di cineasti, esploratori del digitale e realizzatori di film low-budget
e low-tech.

«DOGMA 95 è un collettivo di registi cinematografici fondato a Copenha­


gen nella primavera del 1995.
DOGMA 95 si pone lo scopo dichiarato di contrastare “una certa tenden­
za” del cinema attuale.
DOGMA 95 è un’azione di salvataggio!
Nel 1960 dissero basta! Il cinema era morto e venne fatto risorgere. Lo sco­
po era buono ma i mezzi no! La Nouvelle Vague si dimostrò un’increspa­
tura che finì in nulla sulla spiaggia e si trasformò in mucillagine.
Gli slogan dell’individualismo e della libertà crearono qualche opera, ma
nessun cambiamento. L’onda era buona per tutte le stagioni, come i suoi
registi. L’onda non è mai stata più forte degli uomini che le stavano dietro.
Il cinema antiborghese divenne borghese, perché la base su cui le sue teo­
rie erano costruite era la percezione borghese dell’arte. Il concetto di au-
tore era romanticismo borghese sin dall’inizio, e quindi falso!
Per DOGMA 95 il cinema non è individuale!
Oggi infuria una tempesta tecnologica, da cui conseguirà la definitiva de­
ANTOLOGIA 510
mocratizzazione del cinema. Per la prima volta chiunque può fare un film.
Ma più i media divengono accessibili, più si fa importante l’avanguardia.
Non è un caso che la parola avanguardia abbia connotazioni militaresche.
La disciplina è la risposta… dobbiamo mettere un’uniforme ai nostri film,
perché il film individuale sarà decadente per definizione!
DOGMA 95 si contrappone al film individuale presentando un corpo di
regole indiscutibili conosciute come Il voto di castità.
Nel 1960 si disse basta! Il cinema era stato cosmetizzato fino alla morte, si
disse; eppure a partire da allora l’uso di cosmetici ha avuto un’esplosione.
Il fine «supremo» dei cineasti decadenti è ingannare il pubblico. È di que­
sto che siamo tanto fieri? È questo che abbiamo ottenuto da questi 100 an-
ni di cinema? Illusioni tramite le quali si possono comunicare delle emo­
zioni? Tramite la libera scelta d’ingannarci dell’artista individuale?
La prevedibilità (drammaturgia) è divenuta il vitello d’oro attorno al
quale noi danziamo. Il fatto che le vite interiori dei personaggi giustifi­
chino la trama è troppo complicato, non è “arte alta”. Mai come ora si
sono lodate sperticatamente l’azione superficiale e la cinematografia su­
perficiale.
Il risultato è vuoto. Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore.
Per DOGMA 95 il cinema non è illusione!
Oggi infuria una tempesta tecnologica, da cui deriva l’elevazione dei co­
smetici a Dio. Usando la nuova tecnologia chiunque in qualsiasi momen­
to può lavare via gli ultimi granelli di verità nell’abbraccio mortale della
sensazione. Le illusioni sono tutto ciò che il cinema può nascondere die­
tro di sé.
DOGMA 95
“Io giuro di sottomettermi al seguente corpo di regole delineate e confermate da DOG­
MA 95:
Le riprese devono essere fatte dal vero. Non devono essere utilizzati scenografie e set
(se è necessario per la storia un particolare elemento scenografico, si deve scegliere
una location in cui è già presente quell’elemento).
Il suono non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa (la
musica non deve essere usata a meno che non si senta nell’ambiente in cui si svolge
il film).
La cinepresa deve essere a spalla. Sono concessi tutti i movimenti (e l’immobilità)
che si può ottenere a mano (il film non deve svolgersi dove è piazzata la cinepresa;
le riprese devono avere luogo dove si svolge il film).
Il film deve essere a colori. Non sono concesse illuminazioni speciali. (Se c’è troppa
poca luce per impressionare la pellicola la scena deve essere tagliata o si può attac­
care una singola torcia alla cinepresa).
Il lavoro sulle ottiche e sui filtri è proibito.
Il film non deve contenere azioni superficiali (omicidi, armi ecc. non devono com­
parire).
È proibita l’alienazione temporale o geografica (cioè il film deve avere luogo qui e
ora).
I film di genere non sono accettabili.
511 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Il formato del film deve essere Academy 35 mm.


Il regista non deve essere accreditato.
Mi impegno inoltre come regista a evitare il gusto personale! Non sono più un arti­
sta. Giuro di non creare un’“opera”, poiché ritengo l’istante molto più importante
del tutto. Il mio fine supremo è costringere la verità a uscire dai miei personaggi e
dalle mie ambientazioni. Giuro di fare ciò con tutti i mezzi disponibili e a discapito
di ogni considerazione di buongusto o di carattere estetico.
Pronuncio a questo modo il mio VOTO DI CASTITÀ.
Copenhagen, lunedì 13 marzo 1995
(cit. da http://www.trax.it/dogma95.htm)

L’inglese Peter Greenaway (1942) pittore, scrittore, prima montatore


e poi regista, rivela fin dal suo lungometraggio d’esordio (I misteri del
giardino di Compton House, 1982) la matrice pittorica della sua poetica vi­
siva e l’importanza del suo sodalizio con il musicista Michael Nyman.
Dall’inizio degli anni Novanta, con una versione video dei Canti dante­
schi e con la rivisitazione cinematografica della Tempesta di Shakespeare
(L’ultima tempesta, 1991) si rivela uno dei più originali sperimentatori
dell’evoluzione elettronica del cinema, componendo all’interno dell’in­
quadratura altre immagini statiche o dinamiche con narrazioni paralle­
le e metalinguistiche (accade così, all’interno della stessa inquadratura,
quello che Moholy-Nagy immaginava con il cinema simultaneo), intrec­
ciando in una sintesi originale i generi, le forme artistiche e le modalità
di racconto (documentario, fiction, teatro, opera musicale, arti visive e
calligrafiche). L’ultima tempesta, che esplicita il carattere metateatrale del
«testamento» drammaturgico di Shakespeare, è anche un modello di
teatralizzazione dell’immagine filmica:

Il testo della Tempesta sembra essere il supporto ideale sul quale costruire
la teatralità cinematografica. Di questa chiave di lettura, Greenaway fa uno
strumento di scrittura, e poi di cinescrittura. L’ultima tempesta mette in
scena un drammaturgo occupato a scrivere un intreccio, a creare una sce­
na e dei personaggi, ad animarli e inventare dei dialoghi per loro, delle in­
tonazioni ecc. Si tratta dunque di trasporre in immagini, nello stesso tem­
po, il testo e tutti i meccanismi della teatralità nella loro genesi e nella lo­
ro forma rivelata. [...]
La fusione di un testo e di un corpo in seno alla rappresentazione, fonda­
mento della teatralità, si realizza nell’immagine cinematografica. Quando
l’attore appare sullo schermo, la sua bocca si trova al centro dell’immagi­
ne, e in sovrapposizione, in sovrimpressione, la prima parola della pièce è
come scritta sulla sua testa. [...]
La messa in immagine trasforma l’evocazione in invocazione. Il film è una
rappresentazione del processo di visualizzazione che il drammaturgo fa
ANTOLOGIA 512
del testo mentre lo sta elaborando, un testo che vive in un presente pro­
gressivo, trasformato, proiettato in immagini. [...]
Il cinema di Greenaway si ricorda sempre delle altre arti e si afferma come
arte della sintesi, ricca di una moltitudine di componenti estetiche. Il rap­
porto polisemico che egli intrattiene con l’immagine cinematografica ri­
flette bene la sua costante preoccupazione di allontanarsi da un cinema
«piatto, lineare e conservatore», mettendo in opera tutte le potenzialità il­
lusorie che esso racchiude. Questo cinema va alla ricerca di una terza di­
mensione [...].
«Non si rifà la vita...» (Artaud) [...] Ma si può rifare il teatro, fondere due
tipi di rappresentazione, manipolando l’immagine all’interno di uno
schermo frammentato, esploso: si può dar luogo a una nuova forma di me­
raviglioso teatrale, una teatralità ad alta definizione.
(A. Berthin-Scaillet, Peter Greenaway: théatralité de cinéma, in Cinéma et Théâ­
tralité, a cura di C. Hamon-Sirejols, J. Gerstenkorn, A. Gardies, Cahiers du
Gritec, Aléas, Lyon 1994, pp. 142-144, trad. it di A. Balzola)

Musica

Nikolaievič Alexandr Skrjabin, Arnaldo e Bruno Corradini, Arnold


Schönberg, John Cage, Pierre Schaeffer, Luciano Berio, Daniel Charles.

Il compositore e pianista russo Nikolaievič Alexandr Skrjabin (1872­


1911), di formazione romantica, è considerato un precursore delle avan­
guardie musicali novecentesche, soprattutto per la sua originale tecnica
armonica e per la sua ricerca sulla sinestesia musicale-cromatica. Nel
suo Prometeo (1908-10), che definisce «sinfonia cromatica», realizza una
partitura sinestetica che fa corrispondere alla scala cromatica delle note
una scala cromatica dei colori, e a ogni modulazione armonica una mo­
dulazione cromatica. A questo scopo Skrjabin progetta anche un «ap­
posito organo cromatico», che però al momento dell’esecuzione (1911)
viene sostituito da un impianto illuminotecnico. Nel famoso almanacco
del Cavaliere Azzurro (1912), gli artisti Vasilij Kandinskij e Franz Marc
pubblicano la recensione di Prometeo del musicologo russo Leonid Saba­
neev, con una nota dove è descritta la tabella delle corrispondenze tra
note e colori:

Do = Rosso Fa diesis = Blu vivo


Sol = Rosa-arancione Re bemolle = Viola
Re = Giallo La bemolle = Viola-porpora
La = Verde Mi bemolle
Mi = Bianco-azzurro Si bemolle = Grigio acciaio
Si = Mi Fa = Rosso-bruno
513 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Il canone risulta evidente dalla distribuzione dei suoni a intervalli di quin­


ta. I colori si distribuiscono in modo quasi esattamente corrispondente al­
la sequenza dello spettro, mentre le deviazioni da quest’ordine si spiegano
solo in base all’intensità del sentimento (per esempio: Mi maggiore =
Bianco lunare). Mi bemolle e Si bemolle non trovano posto nello spettro:
per Skrjabin hanno colore indefinito, ma una spiccata sfumatura metalli­
ca. È questa la corrispondenza tra suoni e colori che Skrjabin impiega nel
Prometeo. Chi ha ascoltato il Prometeo con i relativi effetti di luce deve effet­
tivamente riconoscere che l’impressione musicale corrisponde in modo
perfetto agli effetti luminosi e che questa combinazione raddoppia e in­
tensifica al massimo la forza espressiva dell’opera...
(V. Kandinskij e F. Marc, Il Cavaliere Azzurro (1912), De Donato, Bari 1967,
nota p. 104)

Fin dal 1910, quasi contemporaneamente alla «sinfonia cromatica» di


Skrjabin, in Italia i fratelli Corradini, artisti futuristi noti con gli pseu­
donimi di Bruno Corra e Arnaldo Ginna, teorizzavano e sperimentava­
no dei progetti di «musica cromatica». Mentre Skrjabin partiva dalla
musica e andava verso il colore, i fratelli Corradini, viceversa, partivano
dal colore pittorico e ne cercavano la corrispondenza musicale. Prima
cercando di realizzare una tastiera simile al pianoforte con i 28 tasti col­
legati a 28 lampade elettriche colorate, poi mescolando la tecnica pitto­
rica con l’allora nuovissimo mezzo cinematografico. Dipinsero così le
pellicole con animazioni di linee e superfici che anticipano le «sinfonie
visive» del cinema astratto.

Si può dire che l’unica esplicazione dell’arte dei colori attualmente in uso
è il quadro. Il quadro è un accozzo di colori posti in tali reciproche rela­
zioni da rappresentare un’idea. [...] Si può creare una nuova e più rudi­
mentale forma d’arte pittorica ponendo sopra una superficie delle masse
di colore armoniosamente disposte le une rispetto alle altre, in modo da
dar piacere all’occhio senza che rappresentino alcuna immagine. Corri­
sponderebbe a ciò che in musica si chiama accordo e possiamo quindi
chiamarlo accordo cromatico. Queste due forme d’arte: l’accordo croma­
tico e il quadro sono spaziali; la musica ci dice che esiste qualche cosa di es­
senzialmente diverso, l’accozzo di suoni susseguentesi nel tempo, il moti­
vo, il tema: corrispondentemente l’arte dei colori potrà dar luogo a una
forma d’arte temporale che sarà un accozzo di toni cromatici presentati al-
l’occhio successivamente, un motivo di colori, un tema cromatico.
(B. Corra, Musica cromatica (1912), in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’a­
vanguardia 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p. 222)

Arnold Schönberg (1874-1951), grande compositore austriaco, teori­


co e docente, ma anche letterato e pittore, membro del gruppo Il Cava­
liere Azzurro fondato dai suoi amici pittori Kandinskij e Marc, creò la
ANTOLOGIA 514
Scuola viennese (con i suoi allievi Alban Berg, Anton Webern e altri), il
cui ruolo fu fondamentale per il rinnovamento musicale novecentesco.
Formatosi sul modello di Gustav Mahler, Schönberg abbandona dal
1908-09 la musica tonale e nel 1923 inventa la «dodecafonia» («metodo
di composizione per mezzo di 12 suoni in relazione unicamente tra lo­
ro»). La sua vasta cultura e le sue molteplici esperienze artistiche, a di­
retto contatto con le sperimentazioni delle avanguardie pittoriche tra gli
anni Dieci e gli anni Trenta, lo portarono a riflettere e teorizzare anche
sul rapporto tra le diverse arti. In particolare, Schönberg sostiene che
l’interazione e il parallelismo tra i linguaggi artistici (in questo caso la
musica e la poesia) non deve avvenire sulla base di un’illustrazione este­
riore, bensì in virtù di una libertà espressiva che ne faccia emergere le
corrispondenze interiori e impreviste.

Quando Karl Kraus chiama il linguaggio la madre del pensiero, Vasilij


Kandinskij e Oskar Kokoschka dipingono quadri il cui oggetto che ne co­
stituisce il tema è poco più di un pretesto per improvvisare con forme e co­
lori, e per esprimersi come finora soltanto il musicista ha potuto espri­
mersi, ci troviamo di fronte a una graduale espansione della conoscenza
della vera natura dell’arte. Perciò ho letto con immensa gioia il libro di
Kandinskij, Dello spirituale nell’arte, nel quale è indicata la strada della pit­
tura e aperto il campo alla speranza che chi ancora va alla ricerca del testo,
del soggetto materiale, ben presto smetta di cercare. Sarà allora chiaro ciò
che è già chiaro da tempo in altri campi.
Nessuno dubita che un poeta il quale lavori su materiale storico possa agi­
re con piena libertà, e che un pittore, se vuol dipingere ancora oggi quadri
storici, non per questo sia obbligato a gareggiare con un professore di sto­
ria. Bisogna attenersi a ciò che l’opera d’arte intende offrire, non a ciò che
ne è soltanto il pretesto; e dunque in ogni musica composta per la poesia,
l’esattezza nella riproduzione dei fatti è del tutto irrilevante per la valuta­
zione artistica, proprio come lo è la rassomiglianza di un ritratto rispetto al
suo modello. Infine, passati cent’anni, nessuno è più capace di provarlo,
mentre l’effetto artistico permane; e non già perché, come forse credono
gli impressionisti, attraverso esso ci parla un uomo vero (cioè l’uomo ap­
parentemente rappresentato), ma perché in esso opera l’artista: l’artista
che nel ritratto ha espresso sé stesso, a cui il ritratto deve rassomigliare a
un più alto grado di realtà. Quando si sia capito questo, è facile capire an­
che come la corrispondenza esteriore fra musica e testo, realizzata dalla
declamazione, dal tempo alla dinamica, abbia ben poco a che fare con la
corrispondenza interiore, e invece appartenga allo stesso genere dell’imi­
tazione primitiva della natura, a cui appartiene la copia di un modello. Ap­
parenti divergenze in superficie possono essere necessarie per realizzare
un parallelismo a un livello già alto...
(A. Schönberg, Stile e idea (1950), Feltrinelli, Milano 1975, pp. 16-17)
515 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

Lo statunitense John Cage (1912-92) è una delle figure determinanti


per l’avanguardia, non solo musicale, del secondo dopoguerra. Allievo
«ribelle» di Schönberg, compositore e soprattutto «filosofo» della musi­
ca e dell’arte. Inventore del «piano preparato» (un pianoforte con i suo­
ni modificati dall’inserimento di oggetti nella cassa acustica) e teorico
della non intenzionalità nella creazione artistica (fondamentali furono
l’incontro con Marcel Duchamp e lo studio del buddhismo zen, di cui è
stato uno dei pionieri occidentali), realizzò composizioni musicali con
tecniche aleatorie e con l’introduzione di strumenti extramusicali, di ru­
mori ambientali o registrati. La sua idea della «composizione come pro­
cesso» aperta al caso e all’interazione con gli altri linguaggi artistici, ha
influenzato profondamente artisti visivi, del teatro e della danza, e ha
ispirato il movimento Fluxus (1961). Fin dal 1942, Cage collabora con il
coreografo Merce Cunningham (teorizzando un accostamento tra mu­
sica e danza fondato sulla casualità e la reciproca indipendenza) ed
estende progressivamente la sua produzione artistica a musiche audio-vi­
sive ed eventi multimediali, teatralizzando l’esecuzione e l’ascolto musi­
cali, per superare la separazione dell’udito dagli altri sensi. Cage apre
così la strada dell’happening neo-dada e della performance (storica fu
la performance al Black Mountain College del 1952, con M. Cunnin­
gham, vedi scheda).

Osservazioni sugli spettacoli di danza della compagnia di Merce Cunningham


(1956)
Vi è una certa indipendenza fra musica e danza che, a ben guardare, è pre­
sente anche nelle opere apparentemente normali. Questa indipendenza
consegue dalla fede di Cunningham, fede che io condivido, nel fatto che
il sostegno della danza non si ritrova nella musica, ma nel danzatore stes­
so, sulle due gambe cioè, e talvolta su una gamba sola.
Analogamente la musica consiste talvolta di singoli suoni o gruppi di suo­
ni non sostenuti da armonie, ma modulati entro uno spazio di silenzio. Da
questa indipendenza tra musica e danza risulta un ritmo che non è quello
dello scalpitio dei cavalli o di altri battiti regolari, ma che ci ricorda una
molteplicità di eventi nel tempo e nello spazio: le stelle, per esempio, nel
cielo, o le attività sulla terra viste dall’alto.

Diario (a)uditorio (1966)


I. Noi siamo un uditorio per l’arte del computer? La risposta non è No; è
Sì. Quel che ci occorre è un computer che non ci risparmi la fatica, ma
che anzi accresca il lavoro da fare, che effettui giochi di parole (questa è
un’idea di McLuhan) come Joyce che trae in luce ponti (questa è un’idea
di Brown) dove pensavamo che non ce ne fossero, che ci porti (idea mia)
non «sugli» artisti ma negli artisti. Ortodossa disposizione dei sedili nelle sina­
goghe. Gli indiani lo sapevano da secoli: la vita è una danza, un gioco, è il­
ANTOLOGIA 516
lusione. Lila. Maya. L’arte del XX secolo ci ha aperto gli occhi. Ora la mu­
sica ci ha aperto le orecchie. Teatro? Basta che guardiate quello che suc­
cede intorno a voi. (Se quel che uno desidera in India è un pubblico, mi
disse Gita Sarabhai, tutto ciò che occorre sono una o due persone.)
II. Lui disse: Trovo che ascoltare la tua musica mi provoca. Che dovrei fare
per goderla? Risposta: Ci sono molti modi per aiutarti. Per esempio, ti
darò un passaggio, se vai nella mia direzione, ma l’ultima cosa che farei sa­
rebbe di dirti come usare certe facoltà estetiche tutte tue [...] Eravamo so­
liti mettere l’artista su un piedestallo. Ora, egli non è affatto più straordi­
nario di noi.
(J. Cage, Silenzio (1939-1967), Feltrinelli, Milano 1981, p. 104 e p. 85)

La musique concrète

L’intenzione di rivalutare la materia sonora nella sua fisicità, la ricerca di


nuove possibilità di emissione del suono, la volontà di immergersi in una
realtà sonora concreta da contrapporre a una simbolica e preconcetta fa­
coltà d’astrazione, sono tutte azioni riconducibili nella loro genesi ai pro­
cessi messi in essere dall’esperienza della musique concrète francese nei pri­
mi anni Cinquanta, da cui presero spunto molte delle più importanti espe­
rienze di riflessioni e teorizzazioni future sulla natura sonora.
(P. Schaeffer, Traité des objects musicaux. Essai interdisciplines, Seuil, Paris
1966; trad. it. di A. Lanza contenuta in Storia della Musica - Il secondo Nove­
cento, EDT, Torino 1991).

Pierre Schaeffer (1910-1995), teorico e musicista, afferma l’impor­


tanza dell’object trouvé quale punto di partenza del processo creativo di­
chiarando:

«...Dopo aver fatto tabula rasa [...] prendevano i loro suoni non importa
dove, ma di preferenza nella realtà acustica: rumori, strumenti tradiziona­
li, occidentali o esotici, voci, linguaggi, e anche qualche suono sintetico».
Il materiale, assemblato nelle prime esperienze su disco e in seguito «tra­
sformato e assemblato con varie manipolazioni elettroacustiche [...] si pre­
sentava su nastro magnetico e si perfezionava attraverso l’ascolto simulta­
neo di diversi canali (stereofonia)». Le tecniche d’intervento derivavano
dalla radiofonia «l’accelerazione e il rallentamento che nel 1948 era per­
messo dal giradischi e più tardi dal registratore, furono inizialmente im­
piegati in modo casuale», tuttavia con questo tipo di approccio «...ogni
suono era scomponibile e quindi, grazie alle tecniche di montaggio e
mixaggio, ricomponibile con altri suoni». Ma queste operazioni di scom­
posizione, analisi e ricomposizione del materiale concreto finirono per
diventare un «sezionare dei cadaveri [...] La musica viva era altrove, e do­
veva rivelarsi soltanto a coloro che avrebbero saputo evadere da quei mo­
delli semplicistici» e ancora: «...le opere finivano per assomigliarsi tutte».
517 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

L’analisi del materiale sonoro concreto tuttavia metteva in gioco anche le


connessioni con i processi cognitivi e percettivi.
E nel tentativo di legittimare tale approccio, Schaeffer afferma: «(nel lin­
guaggio) le variazioni di intonazione sono indifferenti; ciò che conta per il
senso è la struttura che presiede alla percezione. Nel linguaggio delle co­
se [...] certi significati ci sono indifferenti o impenetrabili; certi indizi in­
vece sono limpidi, e ci informano non su ciò che il soggetto vuole dirci,
ma su ciò che vogliamo sapere su di lui».
È un invito a «esercitare un ascolto musicale sull’oggetto sonoro», anche
quando espresso dal rudimentale filo d’erba suonato da un fanciullo, se­
condo l’esempio propostoci da Schaeffer. Il bambino, per Schaeffer, ha in­
tenzioni chiaramente musicali alle quali non si può negare un’intenzio­
nalità estetica o artistica, «non contento di plasmare i suoni, li lavora, li
confronta, li giudica trovandoli più o meno riusciti, o più o meno soddi­
sfacenti nella loro successione. Che altro sta facendo se non musica?». E
spostando l’attenzione verso i processi legati all’ascolto afferma: «Che co­
sa sentirà l’ascoltatore? [...] Una volta tanto, e non è cosa consueta, sentirà
degli oggetti sonori. Non appena avrà identificato la causalità erba [...] il
nostro ascoltatore sarà tenuto a subire una collezione di oggetti sonori pri­
vi di senso musicale, per cui li udirà meglio» e ancora «il fatto paradossale
è che questo ascoltatore non musicista si troverà ad ascoltare il miglior
ascolto da musicista che ci sia. Costretto ad ascoltare, tanto sono aggressi­
vi gli oggetti sonori, formulerà tacitamente dei giudizi di valore». Espe­
rienza costruttiva in quanto, come affermato in precedenza, «non si ascol­
ta più il suono per l’avvenimento, ma l’avvenimento sonoro stesso». Non si
tratta più, quindi, di «un ascolto musicale, convenzionale per definizione;
e nemmeno di un allargamento delle convenzioni musicali allo scopo di
integrarvi questo nuovo campo sonoro... Che cosa domandare all’ascolta­
tore sperimentale nell’ascolto di suoni su cui non ha alcun potere?». E an­
cora: «Lo poniamo contemporaneamente in una situazione acusmatica,
impedendogli di interrogarsi sull’origine del suono, e in una situazione di
decondizionamento, negandogli il riferimento a un solfeggio tradizionale
in modo che possa ascoltare con orecchio nuovo, curioso di discernere
qualità che sfuggono per ora al suo sistema ma che, se bene intese, richie­
dono di entrare in un altro sistema per generalizzazione obliqua». E da
questa riflessione Schaeffer traccia le linee per formulare un rinnovato
processo in cui l’ascoltatore è chiamato ad «ascoltare il suono come se lo
fabbricasse». [...]
Nella pratica della musique concrète il frammento-evento sonoro «concreto»
veniva isolato mediante la tecnica della registrazione (sillon fermé) in prin­
cipio su disco in seguito su nastro magnetico –, formalizzato e utilizzato
nel processo creativo tramite tecniche empiriche desunte dalla «radiofo­
nia» (Schaeffer era impiegato presso la società radiofonica francese). Ini­
zialmente, infatti, l’unico mezzo a disposizione era costituito dal disco e
dalle sue tecniche di incisione e riproduzione. I tre giradischi utilizzati nel­
lo studio d’essai della radio di Parigi alla fine degli anni Quaranta per­
ANTOLOGIA 518
mettevano di usare materiale sonoro e rumoristico, desunto anche dal ric­
co archivio discografico della radio, soggetto a manipolazioni come il ta­
glio, la sovrapposizione, il montaggio, la variazione della velocità di ripro­
duzione, così come l’inversione o la ripetizione del frammento sonoro tra­
mite chiusura del solco su disco (in questo modo la spirale si chiude in cir­
colo e la puntina ripete incessantemente il frammento). Appartengono a
questo periodo i Cinq études de bruits del 1948, considerato il primo pro­
dotto sperimentale dell’estetica musicale di Schaeffer. Già in questo lavoro
si evidenzia, tuttavia, il limite principale della musica concreta, ossia quel-
l’inevitabile senso di eclettismo rumoristico che non riuscirà fino in fondo
a sviluppare le proprie iniziali premesse. Il richiamo «programmatico»
dell’objet trouvé è, soprattutto nei frammenti concreti facilmente riconosci­
bili, innegabilmente presente in un lavoro che rivela i limiti di un approc­
cio ancora da sottoporre a sistematicità, disciplina e autolimitazione. (cit.
di P. Schaeffer a cura di Mauro Lupone)

Luciano Berio (1925-2003), compositore italiano di fama mondiale,


ha fondato con Bruno Maderna lo Studio di fonologia musicale presso
la RAI di Milano (1954). Ha insegnato a lungo in Germania e negli Stati
Uniti, è stato direttore del Dipartimento elettro-acustico dell’IRCAM di
Parigi e dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Tra i protagonisti del­
la scena musicale internazionale del secondo dopoguerra, ha perseguito
una costante ricerca musicale, sperimentando le tecnologie elettro-acu­
stiche ed elettroniche e aprendosi a una colta e personale contamina­
zione tra generi musicali diversi. Le riflessioni che seguono, oltre a ri­
cordare il percorso della musica elettronica, mettono in luce due aspet­
ti particolarmente importanti: la necessità di collegare alla sperimenta­
zione delle nuove tecnologie lo sviluppo di un pensiero artistico (in que­
sto caso musicale) e di un’originale visione estetica; la necessità di supe­
rare una sterile opposizione tra innovazione e tradizione per cercare
un’integrazione, sia pure nella trasformazione e nell’estensione, tra i
nuovi strumenti tecnologici e l’esperienza storica della musica.

Il vero lavoro è sempre quello di cercare le tendenze potenziali e non


quelle in atto, e quindi sperimentare. Comunque il confine fra esperi­
mento e opera è molto artificiale e ideologico, se pensiamo che Beetho­
ven con la Nona sinfonia, tutto sommato, ha tentato un grossissimo espe­
rimento i cui risultati tutti conoscono. Voglio semplicemente dire che
senza un interesse per l’evoluzione delle idee e dei mezzi musicali – sen­
za cioè un aspetto sperimentale, di ricerca – la musica come espressione
di idee sarebbe morta da un pezzo. Il caso della musica elettronica è però
molto speciale. Negli anni Cinquanta e Sessanta gli studi di musica elet­
tronica analogici (ove cioè il musicista controllava manualmente e in ma­
niera continua delle onde elettriche che erano analoghe alle forme d’on­
519 L’OPERA TOTALE TRA TEATRO, CINEMA, MUSICA

da del suono) esistevano allo scopo di produrre opere musicali. Durante


gli anni Settanta e anche prima, gli studi di musica elettronica hanno
cambiato tecnologia, e sono esistiti per perfezionare sé stessi. Insomma,
venti o trenta anni fa il musicista piegava alle sue idee e alle sue visioni,
dei mezzi tecnici di origine non musicale (oscillatori, filtri, magnetofoni
ecc.), mentre invece durante questi ultimi dieci o quindici anni si è avuta
l’impressione che lo sviluppo tecnologico avesse preso il sopravvento e il
compositore ammutolisse proprio di fronte ai nuovi mezzi creati apposta
per lui.

Ancora oggi, soprattutto con le nuove tecnologie, è sempre più importan­


te l’input dell’output, è cioè ancora più utile usare un sistema digitale per le
sue possibilità di trasformazione di dati sonori già acquisiti che per le sue
possibilità di produrre “suoni nuovi”. È facile produrre suoni nuovi: è però
difficile, per ora, che questi suoni siano l’emanazione di un pensiero mu­
sicale nuovo, come invece era accaduto negli anni ’50. Il pensiero musica­
le nuovo, soprattutto se vuole manifestarsi con mezzi nuovi, deve essere
consapevole dell’esperienza musicale non-nuova: è perfettamente inutile
contrapporre un computer che gestisce un sistema digitale a un direttore
che gestisce un’orchestra. Le nuove tecnologie devono innanzitutto pro­
porsi di avvicinarsi al lavoro musicale degli esecutori, di inserirsi in esso, di
estenderlo e non di opporvisi.
(L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Bari 1981,
pp. 137-138; 141)

Daniel Charles (1935), filosofo e musicista, allievo di Messiaen e ami­


co di Cage (con il quale realizza il libro-opera-conversazione Cage for
Birds, trad. it. Cage per gli uccelli, Multhipla, Milano 1977), docente di
estetica, ha realizzato numerose pubblicazioni sulla musica, l’arte e le
nuove tecnologie.

Per una poetica dell’oltredisciplinarietà


Irriducibile alla multi o alla inter-disciplinarietà, la transdisciplinarietà mi­
ra a individuare e a esplorare i flussi d’informazione zampillanti nello spa­
zio che separa le diverse discipline (Nicolescu). Essa si scontra con lo scet­
ticismo dei seguaci dell’«anti-transdiciplinarietà», secondo i quali un tale
spazio non può che essere vuoto [...] o la diffidenza – parallela – dei criti­
ci d’arte d’osservanza greenberghiana, che si rifiutano di ammettere che
una qualsiasi forma di creatività possa colmare l’intervallo vuoto che sepa­
ra le arti canoniche.
Non diversamente dall’erudito, l’artista non si fa illusioni sull’eventualità
di una fusione tra sfere disciplinari distinte; la riattivazione dell’ideale uni­
tario defunto, la Gesamtkunstwerk o unità delle arti, appare oggi utopica. In
compenso, bisogna senza dubbio affrontare quella che Nicolescu chiama
«l’irriducibilità dell’ignoto», e ciò che René Berger definisce l’«abisso»,
ANTOLOGIA 520
ispirandosi a Mallarmé, a Magritte, al MA degli architetti giapponesi, così
come al teorema di Goedel, e che egli tematizza come il limite del sistema
di pensiero sul quale si fondano le differenti discipline (vedi R. Berger, Il
nuovo Golem (1991), Raffaello Cortina, 1992, capitolo 5, ndr).
L’abisso apre su un’oltredisciplinarietà che potrebbe racchiudere il «noc­
ciolo intuitivo» su cui tutte le civiltà sono segretamente innervate e che go­
verna tutti i varchi transdisciplinari. Se fosse così, c’incammineremmo ver­
so una definizione inedita (ma suscettibile di ancoraggi tradizionali inat­
tesi) delle grandi congiunzioni arte/scienza o uomo/macchina; e in ciò
che concerne più precisamente l’arte, l’estetica come disciplina sfocereb­
be su una “cosmogonia non solamente concepita ma vissuta”, quindi su
una “poetica” nel suo senso più forte.»
(D. Charles, Relazione al Symposium del XIII video art festival di Locarno,
1992, trad. it. di A. Balzola)
NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI
a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monterverdi

Howard Rheingold, Tim Berners-Lee, Ted Nelson, Timothy Leary, Wil­


liam Gibson, Gilles Deleuze e Felix Guattari, Michael Joyce, George P.
Landow, Tomàs Maldonado, Mark Amerika, Wu Ming, Jaron Lanier,
Pierre Lévy, Philippe Quéau, Paul Virilio, Elémire Zolla

I new media digitali, cioè il nuovo mondo della comunicazione tele­


matica, interattiva, ipertestuale, in rete e virtuale hanno avuto dei pre­
cursori, dei pionieri e degli artefici, sul piano sia della riflessione teorica,
sia della progettazione tecnica e della pratica artistica. Questi tre aspet­
ti, pur già presenti nell’invenzione della fotografia, del cinema e della
televisione, forse come mai prima nel campo dell’innovazione tecnica e
comunicativa, si sono profondamente intrecciati, dando luogo a un pro­
cesso complesso e accelerato di elaborazione collettiva, interdisciplinare
e intermediale.
Per questo breve capitolo antologico abbiamo scelto come punto di
partenza (anche perché è da considerare come punto di non ritorno tecno­
logico) il passaggio alla comunicazione interattiva di massa, che avviene
con la creazione degli ipertesti e di quell’ipertesto globale che è la rete
Web e più estensivamente il cyberspazio, immaginato dalla letteratura fan­
tascientifica, teorizzato da studiosi e filosofi visionari, ideato e realizzato
da straordinari professionisti dell’invenzione cibernetica. La sua ema­
nazione multisensoriale e multimediale più avanzata, discussa e in piena
metamorfosi, è oggi costituita dalle realtà virtuali, sulle quali abbiamo in-
fine scelto alcune emblematiche e diversificate riflessioni.

Howard Rheingold (1947) è uno degli studiosi e dei teorici più im­
portanti del fenomeno della comunicazione in rete, delle comunità vir­
tuali e dell’e-learning (l’educazione elettronica). Autore nel 1985 di un
libro profetico, Tools for Thought, sulle prospettive di evoluzione comu­
nicativa e cognitiva innescate dall’uso del computer, è stato tra gli ani­
matori di una delle prime e più note comunità virtuali on-line (The Well,
http://www.well.com). Con la fondazione di riviste on-line come «Hot
Wired» ed «Electric Minds», e con i due testi Virtual Reality e The Virtual
Community, che si concentrano sui risvolti sociali, culturali e politici dei
new media, ha raggiunto la fama internazionale. La creazione delle co­
ANTOLOGIA 522
munità virtuali mediante la comunicazione in rete è uno dei principi
guida dell’etica del movimento hacker e delle nuove pratiche artistiche
on-line (Net Art e Hacker Art) che si sono sviluppate in modo transconti­
nentale dagli anni Novanta.

Uno dei vantaggi di Internet è che non si deve essere perennemente col­
legati per conversare; tramite l’utilizzo della bacheca si può lasciare un
messaggio e tornarci più tardi per controllare le risposte. Alcune conver­
sazioni durano settimane o mesi, addirittura anni; in questo «luogo» si
trascendono tempo e spazio, poiché non si deve essere tutti collegati con­
temporaneamente e nello stesso posto. Inoltre, molti pregiudizi cadono
poiché non necessariamente si conosce l’età o il sesso o, ancora, l’appar­
tenenza a una cultura dell’interlocutore. Sono molte le barriere comuni­
cative che vengono meno con questo medium. Tuttavia, esistono anche
degli svantaggi in questa forma di comunicazione; intanto, non si ha una
persona reale di fronte a sé e, probabilmente, non la si incontrerà mai. Ec­
co perché, forse, non si avrà lo stesso senso di responsabilità che si ha con
il vicino di casa. In secondo luogo, è facile, una volta collegato, maschera­
re la propria identità fingendo di essere qualcun altro. Le persone poco
gentili possono fingere di esserlo e viceversa.

Ci sono delle comunità conosciute come MUD, ossia multi-users dungeons,


nelle quali si assumono ruoli diversi: ci sono principi e principesse, draghi
e maghi. Invece di andare al cinema o di leggere un libro per divertirsi, lì,
le persone creano il loro proprio film, il proprio libro nel quale giocano i
loro rispettivi ruoli.

L’altro aspetto centrale delle riflessioni e delle iniziative di Rheingold


è l’uso formativo e autoformativo dell’interconnessione interattiva e del­
la rete:

L’educazione è in crisi e alcuni pensano che aggiungendo tecnologia tut­


to si risolverà. Oggi sono arrivati Internet e i computer, strumenti che crea­
no un vantaggio didattico eccezionale [...] piccole scuole, lontane dai cen­
tri metropolitani [...] possono accedere alle più grandi biblioteche del
mondo.
[...] Ancora più importante, avrebbero un contatto diretto con i professo­
ri e con altri studenti che possono dar loro un aiuto per imparare insieme.
[...] Esistono modi di utilizzare il computer per costruire simulazioni e per
utilizzare modelli grafici che permettono agli studenti di studiare molto
più attivamente che con la vecchia lavagna. Tuttavia, aggiungere Internet
e i computer nelle aule non garantisce che tutti sappiano utilizzarli. I pro­
fessori devono essere formati e devono esserci fondi per la formazione
continua.
523 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

È molto importante sottolineare questa libertà che si trova in Internet,


poiché significa che dobbiamo insegnare agli studenti a interrogare criti­
camente le fonti d’informazione «incrociando» le ricerche. Ritorna anco­
ra una volta il paradosso: per potere utilizzare queste tecnologie bisogna
insegnare ai ragazzi come pensare in modo critico.

Nel XX secolo, i mass media hanno avuto una tremenda influenza sulla
gente, portando immagini da tutto il mondo all’interno delle case. Nei
mass media, un piccolo gruppo di persone decidono quello che un vasto
gruppo di gente può sentire e vedere dal mondo; viceversa, non si può ri­
prendere con la telecamera quello che succede fuori dalla nostra finestra
e ritrasmetterlo al mondo, se non si possiede Internet. Internet permette
di fare uscire mille voci dove prima se ne sentivano solo alcune! Abbiamo
potuto vedere ciò durante le dimostrazioni di piazza Tien-An-Men quando
gli studenti cinesi inviarono testimonianze oculari su Internet. [...] Oggi
abbiamo uno strumento potenziale per una comunicazione democratica
essendo difficilmente controllabile da un potere centrale, al contrario del­
la tv e della radio. Questo significa anche che qualsiasi tipo di persona può
trasmettere informazioni, inclusi estremisti e pazzi. Dobbiamo, dunque, af­
frontare il fatto che non esistono più guardiani che determinano come o
quando dare accesso ai media.
(H. Rheingold, intervista, in www.mediamente.rai.it, 1997)

Quando, nel 1966, in seno all’agenzia ARPA (Advanced Research


Projects Agency) del Dipartimento della difesa statunitense, nacque e si
sviluppò l’idea di creare una rete per consentire la comunicazione e lo
scambio di informazioni tra i computer dei vari laboratori universitari
finanziati dall’agenzia, non si poteva certo immaginare che quel pro­
getto di Bob Taylor e Larry Roberts (diventato esecutivo nel 1969 con il
nome di Arpanet) si sarebbe rapidamente trasformato in una inter-rete
(grazie al nuovo protocollo di comunicazione elaborato da Vinton Cerf
e Bob Kahn nel 1974), si sarebbe esteso a tutte le università americane
e poi europee prendendo la forma e il nome di Internet (1972). Lo svi­
luppo della rete telematica Internet è sostenuto dalle esigenze di inter­
scambio scientifico, dall’impulso creativo ed etico di quei programma­
tori (il cui nucleo originario si forma alla fine degli anni Cinquanta al
MIT – Massachusetts Institute of Technology – di Boston) che credono
nella necessità di un accesso universale, democratico e «orizzontale» al-
le tecnologie e alle informazioni, ma è anche incentivato dalle aziende
private in cerca di espansione sui mercati internazionali. Agli inizi degli
anni Novanta la rete si trasforma con la nascita dell’ipertesto globale
World Wide Web (nei laboratori del CERN di Ginevra, sotto la guida di
Tim Berners-Lee).
ANTOLOGIA 524
L’inglese Tim Berners-Lee è universalmente noto come il creatore
del World Wide Web (anche se lui stesso dichiara che si tratta del risultato
ultimo di intuizioni ed elaborazioni collettive). Lavorando presso il
CERN di Ginevra, come ingegnere consulente allo sviluppo software, ha
progettato agli inizi degli anni Ottanta un programma per raccogliere
informazioni, Enquire, che è stato l’embrione concettuale del progetto
di ipertesto globale World Wide Web (1989).
Tim Berners-Lee racconta la storia di questa avventura, che ha radi­
calmente modificato il modo di pensare, di comunicare e di creare del­
le ultime generazioni, nel suo libro L’architettura del nuovo Web.

Pensai: mettiamo che le informazioni di tutti i computer, dovunque si tro­


vino, siano collegate. Immaginiamo che io possa programmare il mio com­
puter in modo da creare uno spazio in cui tutto è collegato a tutto. Tutti i
frammenti di informazione di ogni computer del CERN e sul pianeta sa­
rebbero a disposizione del sottoscritto e di tutti gli altri. In questo modo
otterremmo un singolo spazio globale dell’informazione. (p.18)

Quel primo frammento di codice Enquire mi condusse a qualcosa di più


vasto, a una visione che abbracciava la crescita decentrata e organica di
idee, tecnologia e società. Io considero il Web come un tutto potenzial­
mente collegato a tutto, come un’utopia che ci regala una libertà mai vista
prima e ci consente di crescere in modo più veloce di quanto non fosse
possibile quando restavamo impelagati nei sistemi gerarchici di classifica­
zione. Tutti i nostri precedenti metodi di lavoro diventano solo uno stru­
mento come tanti, le nostre paure del futuro un contesto fra tanti. E ciò
rende i meccanismi della società più simili ai meccanismi della nostra
mente [...] Per quanto gli ubiqui www e .com alimentino il commercio elet­
tronico e i mercati azionari di tutto il mondo, essi sono soltanto una parte,
per quanto ampia, del Web... (pp. 15-16)

Il Web è scaturito da numerose influenze nella mia mente, da tanti pen­


sieri informi, conversazioni frammentarie ed esperimenti in apparenza
scollegati. Io ho mescolato tutto quanto mentre continuavo nel mio solito
lavoro e nella vita di tutti i giorni, ho articolato questa visione e scritto i
primi programmi Web, escogitando acronimi ormai onnipresenti, URL (al­
lora UDI), HTTP, HTML, e naturalmente WORLD WIDE WEB. Ma tante altre
persone, in gran parte sconosciute, hanno fornito gli ingredienti essenzia­
li nella medesima maniera, quasi in maniera casuale. Un gruppo di indivi­
dui che condivideva un sogno e collaborava a distanza ha quindi scatena­
to un cambiamento enorme. (p. 16)

Berners-Lee ripercorre le figure e le innovazioni che hanno maggior­


mente contribuito all’ideazione e all’evoluzione del suo progetto:
525 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

Durante la seconda guerra mondiale Vannevar Bush (1890-1974), ex pre­


side di ingegneria al MIT, era diventato direttore dell’ufficio per la ricerca
e lo sviluppo statunitense, dove aveva supervisionato la creazione della pri­
ma bomba atomica. In un articolo del 1945 per «Atlantic Monthly» intito­
lato Come facciamo a pensare, parlò di una macchina fotoelettronica, il Me­
mex, che poteva attuare e seguire riferimenti incrociati tra i vari docu­
menti su microfilm servendosi di codice binario, fotocellule e fotografia
istantanea.

Doug Engelbart, un ricercatore della Stanford University, dimostrò negli


anni Sessanta la possibilità di uno spazio di lavoro in collaborazione chia­
mato NLS (oN Line System), prevedendo che la gente avrebbe usato l’i­
pertesto come strumento per il lavoro di gruppo. Per muovere il cursore
del computer sullo schermo e selezionare facilmente i link ipertestuali,
Doug inventò un blocco di legno con dei sensori e una pallina nella parte
inferiore che chiamò mouse. (p. 19)

Ted Nelson (Theodor Holm Nelson, 1937), visionario di professione,


parlò nel 1965 delle «Macchine letterarie», cioè computer che avrebbero
permesso alla gente di scrivere e pubblicare in un formato nuovo, non li­
neare, che battezzò ipertesto. L’ipertesto era un testo «non sequenziale», in
cui il lettore non era costretto a leggere in un ordine definito, ma poteva
seguire i link (collegamenti) e scavare nel documento originale per trarne
una breve citazione. Ted delineò un progetto futuribile, Xanadu, in cui
tutta l’informazione del mondo poteva essere pubblicata sotto forma di
ipertesto. (pp. 18-19)
(tutte le citazioni di Tim Berners-Lee sono tratte dal suo libro L’architettu­
ra del nuovo Web (1999), Feltrinelli, Milano 2001)

Inventore del termine hypertext, Ted Nelson lo definisce nel modo


seguente:

Con «ipertesto» intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e


consente al lettore di scegliere; qualcosa che si fruisce al meglio davanti a
uno schermo interattivo. L’ipertesto include come caso particolare la scrit­
tura sequenziale, ed è quindi la forma più generale di scrittura. Non più li­
mitati alla sola sequenza, con un ipertesto possiamo creare nuove forme di
scrittura che riflettano la struttura di ciò di cui scriviamo; e i lettori posso­
no scegliere percorsi diversi a seconda delle loro attitudini, o del corso dei
loro pensieri, in un modo finora ritenuto impossibile.
(T.H. Nelson, Literary Machines (1965), Muzzio, Padova 1992)

Lo statunitense Timothy Francis Leary (1920-1996), docente in psi­


cologia a Harvard, è stato uno dei più controversi protagonisti della co­
siddetta Beat Generation nordamericana che negli anni Sessanta ha
ANTOLOGIA 526
esplorato le nuove frontiere della controcultura (movimenti pacifisti,
antirazzisti e comunitaristi, libertà sessuale, apertura alla filosofia e alle
tecniche di meditazione orientali, ricerca e innovazione dei linguaggi
artistici, sperimentazione delle droghe psichedeliche). Negli anni Ot­
tanta ha avuto una conversione tecnologica, diventando uno dei teorici
estremi della Cibercultura e delle realtà virtuali. Il processo di evoluzione
tecnologica, prefigurato dalla ricerca scientifica e artistica, è da lui con­
cepito come testimonianza e possibilità di un processo evolutivo della
mente umana e come un processo di emancipazione collettiva verso
nuove e più libertarie forme di organizzazione sociale. Se per i suoi ami-
ci poeti William Burroughs e Allen Ginsberg è stato «un vero visionario
della mente e dello spirito dell’uomo» e «un eroe della consapevolezza
americana», teorici come Paul Virilio hanno invece criticato radical-
mente le sue teorie per la loro enfasi sugli aspetti allucinatori delle nuo­
ve tecnologie.
Il testo da cui estraiamo le seguenti citazioni, Caos e cibercultura, è l’ul­
timo libro da lui scritto (1994) e rappresenta una sorta di testamento an­
tologico del suo pensiero.

Il nostro cervello
Quando eravamo ancora nelle caverne, circa un milione di anni fa [...]
avevamo gli stessi cervelli (di ora), ma non facevamo uso delle abilità. Se il
cervello è come un computer, allora il segreto sta nel saper formattare il
proprio cervello, nel saper mettere su sistemi operativi per gestire il cer­
vello [...] C’è la possibilità di dare il boot o di aggiungere nuove directory.
L’attivazione del cervello si chiama yoga o psichedelia. Trasmettere ciò
che è nel cervello è cibernetico. Il cervello, ci dicono i neurologi, dispone
di qualcosa come settanta o cento pulsanti detti siti recettori, in grado di
attivare circuiti diversi. (p. 35)

Le fasi dell’umanizzazione
In sette decenni la nostra specie ha fatto surf su onde di cambiamento ce­
rebrale più grandi, più veloci, più complesse di quante ne avesse mai in­
contrate nei 25.000 anni precedenti.
Numero di generazioni (tribali) dalle pitture rupestri alla scrittura e al­
l’arte pubblica su grande scala degli egizi (3200 a.C.): circa 1500.
Numero di generazioni (feudali) dalle piramidi alla cattedrale di Nôtre
Dame, alla pittura a olio e alla lettura di libri: circa 320.
Numero di generazioni dai primi libri stampati in fabbrica (primi media
domestici) ai telefoni, radio, giradischi, film del 1950 d.C.: circa 23.
Numero di generazioni tra la tv passiva in bianco e nero (1950) alla pro­
gettazione interattiva digitale dello schermo multicanale e multimediale:
3.» (p. 79)
527 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

Leary, appassionato lettore di fantascienza, rivolge subito la sua at­


tenzione alla generazione di scrittori cyberpunk che nasce a metà degli
anni Ottanta, a seguito del romanzo Neuromancer (Neuromante, 1984) di
William Gibson.
Gibson è il primo a utilizzare la definizione di cyberspazio: uno spazio
informatico (costituito da informazioni) gestito dai computer e model­
lato da software sempre più potenti e sofisticati, in grado di creare una
dimensione virtuale autonoma e parallela a quella reale (la matrice), nel­
la quale le persone agiscono mediante interfacce cervello-macchina e al­
ter ego virtuali, detti avatar (per gli induisti gli avatar sono divinità che
assumono sembianze umane, agiscono come uomini ma sono invulne­
rabili). Questo spazio è caratterizzato da una lotta feroce tra le multina­
zionali per il controllo delle informazioni, in un oscuro scenario futuri­
bile di violenza e ingiustizia sociale, di controllo orwelliano degli indivi­
dui e di ibridazione dell’identità biologica mediante manipolazioni ge­
netiche e innesti tecnologici.
La definizione di cyberpunk è invece utilizzata per la prima volta dal
critico letterario ed editor Gardner Dozois, in riferimento al romanzo
di Gibson, e battezza un nuovo movimento letterario (con Philip Dick,
mito tutelare, e autori come Cadigan, Effinger, Maddox, Rucker, Shir­
ley, Sterling, Swanwick ecc.), ma acquisisce subito un significato più va­
sto nell’immaginario collettivo giovanile. Il cyberpunk diventa la proie­
zione di un «eroe postmoderno», un hacker avventuriero del cyberspa­
zio, una sorta di disincantato Robin Hood delle informazioni, pilota li­
bertario di una nuova etica indipendente dalle spietate regole del mer­
cato e dalle derive autoritarie del controllo diffuso. Leary è tra coloro
che rovesciano in una chiave ottimistica la «rivoluzione virtuale» del cy­
berspazio e soprattutto il suo protagonista, il cyberpunk.

Chi è il cyberpunk
Nel mondo antico occidentale il classico modello del cyberpunk è Prome­
teo, genio tecnologico che «rubò» il fuoco agli dèi e lo diede all’umanità.
(p. 63)

Non è perciò un caso, secondo l’interpretazione di Leary, che il ter­


mine «cibernetica» (introdotto da Norbert Weiner) derivi dalla parola
greca kubernetes: «pilota».

I naviganti ellenici di quei tempi antichi dovevano essere coraggiosi e pie-


ni di risorse: andare per i sette mari senza carte e senza strumenti di navi­
gazione significava essere costretti a sviluppare capacità di pensiero indi­
pendente. L’autosufficienza conferita ai piloti ellenici dai loro viaggi andò
ANTOLOGIA 528
probabilmente a ispirare anche il carattere democratico, indagatore, os­
servatore della loro vita sulla terraferma. (p. 64)

Arte digitale! Fdt (Fai da te!)


[...] Gli impressionisti utilizzavano macchie di colore e pennellate poste a
caso, convertendo la materia in onde luminose riflesse. Seurat e i divisio­
nisti dipingevano addirittura in pixel [...] Il cubismo cercava di ritrarre og­
getti comuni in termini di piani e di volumi che riflettessero la fondamen­
tale struttura geometrica della materia, e in questo modo illustrava diret­
tamente la nuova fisica. I movimenti dada e del collage spezzettavano la
realtà materiale in bit e in byte diversificati. Il surrealismo produsse un
convincente simulacro della realtà in plastica liscia, perfezionata poi dalla
Sony [...] Questi esperimenti estetici di Fdt d’avanguardia vennero presto
incorporati nella pop art, nella pubblicità e nel design industriale. La so­
cietà imparava a convivere con le prospettive mutevoli dello schermo e
con le rappresentazioni pixellate dell’universo che erano state previste
nelle equazioni dei fisici quantistici. (p. 47)

Leary rileva poi la presenza delle stesse tendenze estetiche nell’evo­


luzione della letteratura, soprattutto quella inglese. Cita i nomi di
Emerson, Stein, Yeats, Pound, Huxley, Beckett, Orwell, Burroughs, Gy-
sin:

Tutti i quali hanno avuto successo nello sciogliere le linearità sociali, poli­
tiche, religiose e nell’incoraggiare la soggettività e la riprogrammazione
innovativa delle realtà caotiche [...]
Ma l’opera più influente di quel periodo è quella di James Joyce. Nell’U­
lisse e nella Veglia di Finnegan, Joyce fissionò e affettò la struttura gramma­
ticale del linguaggio fino a produrre byte di pensiero. Joyce non fu soltan­
to uno scrittore ma anche un word processor, un hacker ante litteram, che
riduceva le idee a unità elementari e poi le ricombinava infinitamente a
volontà [...] Immaginatevi che cosa James Joyce avrebbe potuto fare con
Microsoft Word, con un sistema grafico su cd-rom o con una moderna ba­
se di dati! (p. 47)
(tutte le citazioni sono tratte da T. Leary, Caos e Cibercultura, Urra Apogeo,
Milano 1994)

L’importanza dell’opera di James Joyce è sottolineata anche dai filo­


sofi francesi Gilles Deleuze e Felix Guattari che vedono in essa una nuo­
va pratica «rizomatica» della scrittura:

Le parole di Joyce, giustamente definite a radici multiple, effettivamente


infrangono l’unità lineare della parola o anche della lingua solo stabilen­
do un’unità ciclica della frase, del testo, del sapere.
529 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

Molti autori vedono nella teoria del rizoma di Deleuze e Guattari an­
che l’anticipazione dell’ipertesto:

Il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e


ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa na­
tura; mette in gioco regimi di segni molto differenti e anche stati di non­
segni. Il rizoma non si lascia riportare né all’uno né al molteplice. Non è
fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento,
non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa.
(G. Deleuze e F. Guattari, Rizoma (1976), Pratiche editrice, Parma 1977)

Per una curiosa coincidenza del destino letterario, uno dei più celebri
e primi scrittori di letteratura ipertestuale porta il nome di Michael Joyce
(1945). Statunitense, docente universitario, comincia a occuparsi di in­
telligenza artificiale (presso la Yale University) fin dalla prima metà degli
anni Ottanta, poi, insieme a un altro noto studioso di new media, Jay
Bolter, e a John B. Smith, crea Storyspace, il primo software distribuito su
larga scala (dalla Eastgate Systems, la più importante editrice ipertestua­
le) per la realizzazione di ipertesti narrativi. Utilizzando questo software,
Joyce scrive il suo primo romanzo ipertestuale: Afternoon, a Story (1990),
già divenuto un classico di questo nuovo genere narrativo (vedi scheda).
George P. Landow, uno dei principali studiosi e teorici dell’iperte­
sto, nel suo fondamentale libro Ipertesto. Il futuro della scrittura, sceglie il
racconto ipertestuale Afternoon di Joyce come emblematico esempio
dell’evoluzione delle forme narrative. Se fin dai romanzi a puntate ot­
tocenteschi e nella letteratura d’avanguardia del Novecento il finale è
lasciato aperto, ambiguo, la fiction ipertestuale porta alle estreme con­
seguenze il suo carattere di «opera aperta» (vedi Umberto Eco, in que­
sta antologia). Infatti la rete di link che collegano i 538 blocchi testuali
(o lessìe) del romanzo, rende impossibile una chiusura predefinita del­
la narrazione e ne moltiplica le possibilità, in relazione ai percorsi e al-
le scelte del lettore. Lo stesso Joyce istruisce i suoi lettori in questo sen­
so:

La chiusura è, come in ogni racconto, una qualità sospetta, anche se qui è


resa manifesta. Quando la storia non progredisce più, o quando si ripete,
o quando ti stanchi di percorrerla, l’esperienza di leggerla termina.

Landow precisa che la differenza tra le narrazioni non sequenziali


(da Laurence Sterne e Proust, fino ai contemporanei Borges, Graham
Swift e Penelope Lively) e le narrazioni ipertestuali, di cui sono in qual­
che misura anticipatrici, consiste
ANTOLOGIA 530
soprattutto nella maggior libertà e nel maggior potere del lettore. È Swift
a stabilire il momento in cui il racconto di Tom Crick si ramifica [...] ma
nella versione ipertestuale di Finzioni di Borges realizzata da Stuart
Moulthrop e in Afternoon di Michael Joyce è il lettore a prendere questa
decisione. (p. 133)

Anche se entra da un unico punto determinato dall’autore, il lettore sce­


glie l’uno o l’altro percorso e richiama un’altra lessìa in vari modi, e ripe-
te questo processo finché non trova un buco o un dislivello. A questo pun­
to può anche tornare indietro e prendere un’altra direzione. Potrebbe
anche scrivere qualcosa lui stesso, o richiamare un brano di un altro auto­
re che gli viene in mente... (p. 139)

Se l’ipertesto narrativo Afternoon è stato pubblicato sul supporto mul­


timediale di un cd-rom, e il successivo WOE è stato realizzato per un
giornale («Writing on the Edge», University of California, 1991), Joyce si
è successivamente orientato, a partire dall’opera ipertestuale Twelve Blue
realizzata per il Web (1994), verso le sperimentazioni di arte interattiva
e partecipativa sulla rete
(le citazioni di G.P. Landow sono tratte dal suo volume Ipertesto. Il futuro
della scrittura, Baskerville, Bologna 1993; per i riferimenti all’opera di Mi­
chael Joyce vedi i siti Web: http://www.eastgate.com e http://iberia.vas­
sar.edu/˜mijoyce/).

Nelle pratiche e nelle teorizzazioni sulla narrazione ipertestuale c’è il


rischio, tipico dei momenti aurorali in cui vengono esplorate le caratte­
ristiche e le potenzialità di nuovi media e nuove modalità espressive a es-
si connesse, di enfatizzare, sopravvalutare fino alla distorsione lo scarto
rispetto al passato. L’argentino Tomàs Maldonado (1922), teorico ra­
zionalista dell’architettura e delle trasformazioni tecniche della moder­
nità, dopo essersi soffermato sulla rivoluzione informatica e sugli oriz­
zonti virtuali (cfr. il volume Reale e virtuale, 1992), ha anche analizzato le
trasformazioni della scrittura nell’era digitale (in T. Maldonado, Parlare,
scrivere, leggere nella prospettiva digitale, relazione alla Scuola per librai U. e
E. Mauri, Venezia, gennaio 2004).
Partendo dall’invenzione della scrittura come deposito della me­
moria collettiva («risposta tecnico-strumentale al bisogno di agevolare
i processi di raccolta, custodia, recupero ed elaborazione dei dati»),
Maldonado ricorda come la scrittura influenzi poi la stessa interazione
verbale, che assorbe il modello razionale, l’ordine logico sottostante,
la sua linearità conseguenziale e causale. Queste caratteristiche sono
ora radicalmente rimesse in discussione dalla diffusione delle tecno­
logie digitali (privilegio esclusivo delle «società tecnologicamente
agiate») e soprattutto dai teorici della scrittura elettronica ipertestua­
531 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

le. Come abbiamo visto in precedenza e come ricorda Maldonado, i


tratti distintivi di quest’ultima sono l’interattività, la non-linearità, la
non conseguenzialità, la non compiutezza e la non chiusura. Dopo
aver ricordato che le teorie e le pratiche ipertestuali hanno avuto co­
me oggetto privilegiato più la letteratura che la saggistica (dove in
molti casi la necessità di una logica dell’argomentazione limita la de­
costruzione e la ramificazione ipertestuali), lo studioso argentino se­
gnala come autenticamente anticipatrici, oltre alle opere di Joyce e
Borges, i due romanzi: Rayuela (1963) di Julio Cortàzar e Zettels Traum
(1970) di Arno Schmidt, ma critica l’idea che queste nuove forme di
narrazione comportino il tramonto del ruolo dell’autore e della lette-
ratura «tradizionale». Citando il romanzo Afternoon di Joyce, Maldo­
nado nota che:

In realtà, accedere a un’opera come Afternoon, percorrere la sua labirinti­


ca rete di connessioni, è più vicino all’esperienza di chi partecipa a un vi­
deogioco, diciamo, letterario. Non escludo che l’idea di un lettore-gioca­
tore possa essere salutata da qualcuno con entusiasmo. Dopotutto, una si-
mile interpretazione ludica della lettura è stata spesso teorizzata nel pas­
sato, per esempio dai dadaisti e dai neodadaisti.

Verosimilmente, siamo di fronte a due «plaisir de la lecture» diversi. E qui ci


può essere d’aiuto la distinzione dei formalisti russi tra «intreccio» (n.b.: la
sequenza degli eventi presenti nella narrazione così come è raccontata
dall’autore) e «fabula» (n.b: l’ordine logico-cronologico effettivo degli
eventi presenti nella narrazione). Nella lettura ipertestuale, il «plaisir de la
lecture» s’identifica prevalentemente con l’«intreccio», nella lettura tradizio­
nale prevalentemente con la «fabula».
Un’altra questione riguarda l’idea molto diffusa, che l’ipertestualità con­
corra a infirmare (e addirittura a vanificare) il potere dell’autore. Ho for­
ti dubbi al riguardo. È evidente che allorché l’autore funge da regista uni­
co della navigazione ipertestuale, da conduttore occulto (o manifesto) de­
gli itinerari che il lettore è chiamato a percorrere, il risultato, in pratica,
non è altro che un sostanziale potenziamento del classico ruolo dell’auto­
re come soggetto singolo, ossia, un incremento del famigerato «autorita­
rismo dell’autore» [...]

Oso avanzare l’ipotesi che la navigazione ipertestuale, contrariamente a


ciò che si presume, non contribuisca a rendere più aperto un testo di nar­
rativa, ma piuttosto a sbarrare, a coartare la connaturata tendenza, pre­
sente in ciascuno di noi, a una spontanea, libera navigazione soggettiva
dentro (e intorno) a un testo.
In un certo senso si può dire, a scopo provocatorio, che un’opera iperte­
stuale è meno aperta di un’opera tradizionale. Che Afternoon di Michael
Joyce, malgrado la sua imponente megamacchina di connessioni, è meno
ANTOLOGIA 532
aperta, per esempio, di La cognizione del dolore di Gadda, che, con il suo im­
pianto sfuggente, erratico e digressivo, ci sfida di continuo a crearci, sul
piano immaginario, le nostre proprie connessioni.

Tra gli autori ipertestuali che usano la rete, alcuni sono consapevoli e
autoironici nei confronti delle trappole seduttive della scrittura in rete.
Uno di questi è il misterioso Mark Amerika, prolifico rappresentante del
movimento letterario «avant pop». Il suo ipertesto on-line How to be an In­
ternet Artist (del 2001, consultabile sul suo sito http://www.altx.com) è una
specie di manuale antologico che inizia con un ironico decalogo per chi
vuole diventare un net-scrittore:

1) createvi un’identità immaginaria. 2) Avviate il processo di branding per


trasformare questa identità immaginaria nel nome del vostro dominio. 3)
Registrate il vostro dominio e aprite un conto con un Internet service pro-
vider (ISP). 4) Ricavate dai dati disaggregati una mitologia della narrazio­
ne e costruite per essa un sito specifico, poi usate l’ISP per distribuire que­
sti dati ai mercati di nicchia che sono in procinto di formarsi (convergen­
za digitale). 5) Sviluppate senza dare nell’occhio delle soluzioni di com­
mercio elettronico che consentiranno al vostro mercato di nicchia di ac­
quistare elettronicamente i prodotti del vostro lavoro. 6) Mentre conti­
nuate a costruire il brand-name della vostra identità, fate qualsiasi cosa sia
in vostro potere per produrre delle entrate che possano facilmente essere
attribuite al successo del vostro sito. 7) Reinvestite tutte le entrate che ave­
te realizzato nella ricerca e nello sviluppo del vostro sito. 8) Usate abil­
mente strategie di marketing altamente sovversive per attirare l’attenzione
sul fatto che voi state producendo delle entrate mediante la vostra identità
di narratore, e poi trasformate questa attenzione nel vostro personale virus
mediatico o nella memoria culturale collettiva per consolidare il vostro
brand-name come uno dei leader industriali. 9) Conquistate tutti gli otto
precedenti obiettivi in meno tempo di quanto richieda lo sviluppo di
un’appassionata relazione sessuale con qualcuno che amate. 10) Lanciate
il vostro IPO. (trad. di A. Balzola, pp. 1-2)

Ogni invenzione espressiva in parte crea e in parte trasforma prece­


denti invenzioni. Anche Mark Amerika ricollega l’ipertesto al collage da­
daista e descrive la pratica creativa del «surf-sample-manipulate» nella
rete:

Landow scrisse un pezzo intitolato «ipertesto come collage» e io ho scritto


sul lavoro di artisti come Duchamp, Rauschenberg e soprattutto Kurt
Schwitters. Il suo progetto del Merzbau io lo interpreto, retrospettivamen­
te, come una specie di agenzia di raccolta di spazzatura ipertestuale, e
penso questo con il massimo rispetto. È piuttosto interessante, quando si
usa il collage nel mondo digitale delle composizioni istantanee diffuse via
533 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

Internet, la pratica del «surf-sample-manipulate» (naviga-cattura-manipo­


la) che agisce su due fronti: il primo riguarda il cosiddetto «contenuto
creativo», i testi, le immagini, la musica e la grafica di molti siti di web-art
sono spesso campionati da altre fonti e, dopo alcune manipolazioni digi­
tali, sono immediatamente integrati nell’opera come si trattasse di una
costruzione «originale»; il secondo riguarda il cosiddetto «source code»
(codice sorgente) stesso, che è il linguaggio html che informa il browser
su come visualizzare l’opera, molte volte si tratta di un’appropriazione di
altri progetti che circolano in rete, eventualmente mascherati dietro la
struttura compositiva delle videate. La grande cosa della rete è che se tu
trovi qualcosa che ti piace, sia un «contenuto» sia un «codice sorgente», il
più delle volte puoi scaricartelo e manipolarlo in funzione delle tue anti­
estetiche esigenze.
(Intervista di A. Galloway a Mark Amerika, in «Rhizome», parzialmente ri­
pubblicata in How to be an Internet Artist, p. 30, trad. A. Balzola)

L’idea dell’autore collettivo, già teorizzata dai romantici della rivista


«Athaeneum» ed esplosa con le avanguardie artistiche storiche, è stata ri­
lanciata su larga scala e rielaborata in una chiave di libera intercreatività,
con l’avvento della comunicazione e dell’arte digitali on-line, ed è spesso
caratterizzata dalla scelta, come abbiamo visto con Mark Amerika, di pseu­
donimi individuali e di gruppo (una pratica incentivata dalle chat e dalle co­
munità virtuali, dov’è abituale l’uso di un nick name). Uno degli esempi
più significativi in Italia, nell’ambito dell’incrocio tra narrativa, comunità
virtuale e attivismo etico-politico, è il gruppo che ha esordito (con note-
vole successo editoriale) con il nome di Luther Blisset (dal 1994, vedi il si­
to http://www.lutherblisset.net) poi trasformato in Wu Ming (dal 2000,
vedi il sito http://www.wumingfoundation.com). Wu Ming, che in cinese
mandarino vuol dire «nessun nome», è un gruppo che ha portato nel
mercato editoriale italiano la politica del «no copyright», già ampiamen­
te diffusa sulla rete, con il «software libero», per favorire il processo di li­
bera appropriazione e di elaborazione collettiva della creatività informa­
tica e artistica. Wu Ming si autodefinisce:

un laboratorio di design letterario, all’opera su diversi media e per diver­


se committenze

il cui progetto, in continuità con la precedente stagione di Luther


Blisset, si caratterizza per:

radicalità di proposte e contenuti, slittamenti identitari, eteronimie e tat­


tiche di comunicazione-guerriglia, il tutto applicato alla letteratura e, più
in generale, finalizzato a raccontare storie (qualunque sia il linguaggio o il
supporto: romanzi, sceneggiature, reportage per organi d’informazione,
ANTOLOGIA 534
concept per videogiochi o giochi da tavolo ecc.) o curare/lanciare storie
scritte da altri (editing, talent scouting, consulenze editoriali, traduzioni
da e in diverse lingue ecc.).
(dalla Dichiarazione d’intenti di Wu Ming, 2000, in http://www.wu­
mingfoundation.com)

Come è accaduto con la letteratura cyberpunk, il genere narrativo


privilegiato è quello fantascientifico, perché permette di visualizzare il
presente alle sue estreme conseguenze e il futuro come apocalisse, ov­
vero come rivelazione della catastrofe finale o come utopia di un riscat­
to:

È che la categoria stessa di futuribile appare, tra le macerie ancora fumanti


di Ground Zero, intrinsecamente problematica. Tende a confondersi sem­
pre più con la categoria di apocalittico, o meglio ancora con la categoria di
escatologico [...]
Non è un caso: la fantascienza che ha segnato gli ultimi decenni si è occu­
pata assai spesso di catastrofi e dopo-catastrofi. Non è un caso: uno dei più
grandi autori del secolo, Philip K. Dick, è attraversato in maniera conti­
nua, ossessiva, da una tensione escatologica che interroga il presente, at­
traverso lo specchio deformante dei futuri ipotetici, sugli ultimi giorni del­
l’umanità. Non è un caso: la singolarità che scrive, portavoce del collettivo
noto come Wu Ming, scrive principalmente fantascienza. Scrive a ragion
veduta; veduta nel senso che darebbe al termine uno sciamano di ritorno
dal mondo degli spiriti. Futilità e Visione. È l’ossessione per i particolari
che altri ritengono ininfluenti che definisce esteticamente uno stile; è la
capacità di vedere mondi possibili a definire l’appartenenza all’uno o al-
l’altro campo politico. Etica ed estetica collidono. Il futuro è la punta affi­
lata del pensiero di fronte al mare della non-consapevolezza: un modo
per cercare di redigere nuove mappe, e affidabili, per sostituire l’hic sunt
leones con...
(Wu Ming 5, Novosibirsk brucia – Che ne rimane del futuribile?, in «Vogue»,
nov. 2001)

Nella creazione del cyberspazio attuale e futuribile, oltre all’«iperte­


sto globale» della rete, assumono un ruolo centrale il concetto e la tec­
nologia delle realtà virtuali. Per realtà virtuale s’intende un ambiente
digitale all’interno del quale sono simulate delle condizioni di espe­
rienza reale, sperimentabili sinesteticamente mediante apposite inter­
facce tra il corpo e l’apparato tecnologico (hardware e software). L’evo­
luzione di queste interfacce è costante, dalle prime tute, guanti e caschi
interattivi ai laser retinici e agli impianti collegati direttamente ai nervi
ottici.
Il termine «realtà virtuale» è stato creato da Jaron Lanier, visionario
535 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

esploratore e pioniere dell’informatica finalizzata all’interfaccia uomo­


oggetti-ambienti virtuali. Fondatore della prima industria del settore
(VPL Research Inc., poi ceduta alla SUN), è tra gli inventori del data-glove
(un guanto interattivo per la manipolazione di oggetti virtuali, in Italia
utilizzato creativamente per la prima volta da Giacomo Verde e Stefano
Roveda con Euclide, 1992), e si è interessato, in qualità di inventore
eclettico, ma anche di artista-musicista, a tutti i possibili sviluppi e appli­
cazioni del virtuale nel campo scientifico, sociale, commerciale e artisti­
co (progettando videogame artistici, strumenti e composizioni musicali
interattivi).

Io all’inizio avevo tirato fuori il termine «realtà virtuale» come reazione o


come risposta alle definizioni che già circolavano. Un ragazzo chiamato
Ivan Sutherland – il padre della computer grafica – usava il termine «mon­
di virtuali», che attualmente viene fatto risalire alla filosofa dell’arte Su­
zanne Langer. Lei parlava di mondi virtuali negli anni Cinquanta, prima
ancora che esistessero le tecnologie per immaginarli; lei usava questa de­
finizione come una metafora. Poi Ivan Sutherland la usò per descrivere il
display di un casco, dove una persona poteva guardare e vedere un mondo
generato dal computer come fosse reale. Io ero interessato a un approccio
differente, mi interessava che in questo mondo generato dal computer ci
fossero più persone contemporaneamente, in modo che le persone potes­
sero vedersi l’un l’altra e condividere quel mondo come un mezzo di co­
municazione. Per me il termine «mondo» si riferisce a qualcosa che è al di
fuori di noi, mentre il termine «realtà» si riferisce a qualcosa che condivi­
di con gli altri. In altre parole, il mondo è là fuori da osservare, mentre la
realtà è qualcosa con cui devi interagire.

Ray Kurzweil ipotizza che in un futuro prossimo gli avatar, gli alter
ego virtuali di cui lo stesso Lanier è stato uno degli inventori, non siano
più distinguibili dagli esseri umani «originali». Ma Lanier non crede
che ci siano le condizioni tecniche perché ciò diventi possibile e inoltre
ridimensiona anche l’enfasi indirizzata alle prospettive dell’intelligenza
artificiale, che ha suggestionato molte fantasie e molta fantascienza ma
la cui esistenza e consistenza non è misurabile.

Io voglio comunque distinguere l’intelligenza artificiale dalla realtà vir­


tuale. Se tu stai facendo un mondo fittizio, non è un problema, perché
quel mondo non ha una coscienza, è come fare arte. Una cosa è dover
progettare degli abiti o delle abitazioni, un’altra è dover progettare delle
persone. Nel momento stesso in cui cerchi di creare una persona, devi fa­
re i conti con la concezione del tuo io e della spiritualità.

Le direzioni di ricerca che interessano maggiormente Jaron Lanier


ANTOLOGIA 536
sono quelle nelle quali la tecnologia contribuisce a superare gli attuali li­
miti della comunicazione interpersonale:

Il pensiero fondamentale rispetto alla condizione umana è constatare


quanto limitata essa sia. Viviamo solo per un breve periodo ed esistiamo
in questi involucri di pelle separati tra loro. Il più grande progetto uma­
no per superare questi limiti è stata la creazione del linguaggio naturale,
che funziona molto bene. Ma io vedo le tecnologie digitali come un ul­
teriore sforzo su differenti fronti e con percorsi diversi per superare le
distanze...

Il gioco virtuale è per Lanier un territorio privilegiato di sperimenta­


zione non solo delle tecnologie, ma delle nuove possibilità di interazio­
ne creativa e di condivisione tra le persone.

Le realtà virtuali suggeriscono un tipo di connessione che non si è mai


avuta prima. E i primi esempi sono i mondi del gioco on-line. La gente
condivide questi mondi folli e comunica in un modo diverso [...] al di là di
quello che si può descrivere con il linguaggio [...] Io chiamo questo tipo di
comunicazione post-simbolica. Con il linguaggio ci scambiamo simboli,
ma con queste connessioni ci scambiamo qualcosa che va oltre i simboli:
scambiamo esperienze.
(Intervista a J. Lanier a cura di M.E. Behr, «PC Magazine», febbraio 2002,
trad. di A. Balzola)

La caratteristica fondamentale della realtà virtuale è quella di combi­


nare la percezione di un ambiente virtuale come fosse un luogo fisico e
nello stesso tempo trovarsi in una dimensione fluida come l’immagina­
zione. Per questo, secondo Lanier, la realtà virtuale può diventare in fu­
turo il veicolo di una nuova socializzazione dove condividere un mondo
immaginario e interiore che va oltre le percezioni sensoriali del mondo
fisico e le attuali forme di comunicazione verbale, visiva e auditiva, re­
cuperando anche una dimensione creativa infantile. Uno dei principali
progetti su cui attualmente Lanier lavora è la tele-immersione, collegato
alla sperimentazione di Internet 2 (un grande extranet universitario
molto potente e veloce): una miscela di videoconferenza e realtà virtua­
le che simula il trasporto di un ambiente all’interno di un altro, produ­
cendo l’illusione che persone di differenti città si trovino nella stessa
stanza.

Il vero problema del futuro della realtà virtuale non è il progresso della
tecnologia perché questo avverrà in un modo abbastanza prevedibile; il ve­
ro problema è creare una cultura della realtà virtuale. Potrebbe volerci
molto tempo, per via di questo processo di creazione. Ora stiamo comin­
537 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

ciando a sviluppare nuove tecnologie che hanno la capacità di afferrare,


per così dire, il mondo tridimensionale e metterlo automaticamente nella
realtà virtuale, in maniera analoga a una telecamera. [...]
Per poter realizzare ciò dobbiamo sviluppare nuovi strumenti che finora
non siamo stati in grado di immaginare. Proprio ora, per creare un mon-
do virtuale ci si deve sedere al computer – in genere un vecchio tipo di
computer convenzionale, con una tastiera e uno schermo – e si deve pro­
gettare il mondo virtuale pezzo per pezzo; elaboriamo una superficie, le
diamo un motivo e un colore, realizziamo qualcosa che si muova... ci sono
così tanti dettagli a cui pensare che, effettivamente, si sono fatte pochissi­
me creazioni di realtà virtuale di buona qualità. [...]
Personalmente credo che in futuro avremo strumenti che non somiglie­
ranno alle interfacce utenti dei programmi informatici convenzionali a cui
siamo abituati, ma avremo una qualità molto diversa. Quello che spero è
di riuscire a realizzare qualcosa di simile a uno strumento musicale, un ti­
po di interfaccia su cui si possa improvvisare per creare dei soggetti rapi­
damente. Ma questo è un sogno molto, molto difficile da realizzare.
(Intervista a J. Lanier, marzo 1998, in http://www.mediamente.rai.it)

Il dibattito filosofico, etico ed estetico sul tema delle «realtà virtuali»,


avviato agli inizi degli anni Novanta, è quanto mai ricco e articolato (ve­
di il saggio Principi etici delle arti multimediali, in questo volume). Parte
dalla questione terminologica e approda a una riflessione a tutto campo
sul concetto stesso di realtà e sulla relazione tra realtà e simulazione tec­
nologica.
Il filosofo francese Pierre Lévy ricorda l’origine etimologica e filoso­
fica della parola virtuale:

proviene dal latino medievale virtualis, derivato, a sua volta, da virtus: for­
za, potenza. Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e
non in atto. Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passa­
to a una concretizzazione effettiva. L’albero è virtualmente presente nel
seme.
(P. Lévy, Il virtuale, (1995) Raffaello Cortina editore, Milano 1997, p. 5)

Secondo Lévy, il virtuale non deve essere inteso come un sinonimo di


astratto o fittizio, ma assume i tratti di un differente grado del reale, e
anche Philippe Quéau, ingegnere delle telecomunicazioni ed esperto di
tecnologie digitali, parla del virtuale come di un «nuovo stato di realtà»:
sarebbe una delle risposte possibili, la più attuale, alle molteplici defini­
zioni del reale, più precisamente «uno stato intermedio» costituito da
oggetti matematici, che rievoca la visione profetica di Platone per il qua-
le proprio gli oggetti matematici erano intermediari tra il sensibile e l’in­
telligibile.
ANTOLOGIA 538
I mondi virtuali introducono uno scarto fondamentale nella storia dei mo­
derni mezzi di rappresentazione. Essi conferiscono concretezza al concet­
to di simulazione, finora riservato al pensiero astratto. Essi permettono al
pensiero «puro» di incarnarsi nel mondo sensibile e, viceversa, mediatiz­
zano la conversione del gestuale, del tattile, dell’uditivo, del visuale, in
breve dei corpi, in modelli e in strutture formali, intelligibili. [...]
Lo specifico della «realtà virtuale» consiste nel suo darsi come fosse una
realtà in atto, mentre essa è in parte una realtà in potenza e in parte una
realtà in atto, grazie alla nostra mediazione. Essa ci insegna a distinguere i
livelli di queste diverse realtà intermedie. Poiché noi abbiamo bisogno di
strumenti per prendere la mira, capaci di guidarci tra queste visioni ibride.
(P. Queau, Relazione Mondes virtuels et mondes potentiels al Symposium del
XIII video art festival di Locarno, 1992, trad. di A. Balzola)

Per Paul Virilio, teorico e urbanista, il virtuale è una «dimensione sup­


plementare della realtà»:

Il gotico elettronico
Credo che sia necessario ricostruire la nozione di dimensione. Da qui l’i­
dea di dimensione frazionaria. Mi sembra che lo spazio virtuale sia una di­
mensione frazionaria supplementare della realtà. Non è solamente un ef­
fetto di rilievo. È un luogo dove si può agire, è dunque una sorta di bolla,
che va ad aggiungersi alle tre dimensioni dello spazio. È dunque una di­
mensione supplementare. [...]
Adesso l’architetto può programmare degli spazi virtuali all’interno dello
spazio reale del suo edificio che saranno delle stanze virtuali. [...]
L’immagine è sempre stata un materiale di costruzione, non solamente at­
traverso l’affresco, il mosaico o gli arazzi, ma soprattutto attraverso le ve­
trate. Il gotico ha rinnovato l’immagine, mediante l’invenzione del roso­
ne: i grandi rosoni di Chartres, di Colonia o di Strasburgo; il grande roso­
ne è una sorta di architettura di luce che ha costruito tutto il gotico. [...]
Adesso, tramite le nuove tecnologie dell’immagine, noi siamo alle soglie
di un nuovo gotico non più ottico, attraverso il quale passa il sole, ma di
un gotico elettronico.
(intervista di D. De Kerckhove a P. Virilio, L’ère du gothique électronique, in L.
Poissant, 1995, trad. di A. Balzola)

Elémire Zolla (1926-2002), uno dei principali studiosi del pensiero


mistico occidentale e orientale, si è precocemente interessato alle realtà
virtuali dal punto di vista delle potenzialità pedagogiche e della forma­
zione psichica e spirituale che questa nuova frontiera tecnologica po­
trebbe offrire:

Cominciano a moltiplicarsi le realtà virtuali pedagogiche, visite a pianeti


per astronauti, operazioni su corpi virtuali per chirurghi. E hanno altresì
539 NEW MEDIA DIGITALI, IPERTESTI, WEB, REALTÀ VIRTUALI

inizio i primi esperimenti di realtà virtuali con tempo accelerato o rallen­


tato. Siamo ai principi di uno sviluppo che dovrebbe giungere appieno at­
torno al 2030. [...]
Fra le aperture prossime possiamo immaginare uno stuolo di realtà peda­
gogiche, ma anche ogni genere di diporti, la massima parte dei quali sarà
agli inizi militaresca [...] Ma confido che al ciglio del mercato, al margine
delle coazioni, si prospetti un futuro diverso.

Questo futuro diverso, nell’applicazione dei programmi di realtà vir­


tuale, secondo Zolla potrebbe riprodurre le esperienze sciamaniche, co­
me quelle di immedesimazione negli spiriti animali, nella loro dimen­
sione percettiva:

Queste traslazioni dall’uomo all’animale saranno virtuali in futuro, si ve­


drà l’universo tramite gli occhi complessi delle fiere, delle aquile, degli in­
setti, se ne acquisteranno i sensori, i radar. Ma sarà possibile procedere al­
dilà, suscitare programmi che ricalchino a puntino l’iniziazione sciamani­
ca [...] e accanto a essa altri casi di perfezionamento psichico e spirituale.
Ma a questo punto s’impone il quesito capitale: che cosa si dovrà conge­
gnare e quale libertà sarà da largire agli allestitori di programmi. La ri­
sposta dipenderà dal fine che assegneremo alla vita umana in genere.
(E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p. 19-23)
ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE
a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi

Umberto Eco, Philippe Dubois, Anne-Marie Duguet, Vittorio Fagone,


Deidre Boyle, Dan Graham, Peter Weibel, Woody Vasulka, Renato Baril-
li, Edmond Couchot, René Berger, Jean-François Lyotard, Nanni Bale­
strini, Christine Buci-Glucksmann, Pierre Lèvy, Piero Gilardi, Paolo Ro­
sa, Giacomo Verde, Stelarc, Antoni Muntadas, Margaret Benyon, Der­
rick De Kerckhove, Eduard Kac

Nel 1962 usciva in Italia Opera aperta, un testo di Umberto Eco (1932)
che analizzava in modo sistematico le ricerche artistiche della neo-avan­
guardia (musica seriale, letteratura sperimentale, pittura informale, arte
cinetica), l’innovazione del linguaggio cinematografico (da Godard ad
Antonioni), le caratteristiche del linguaggio televisivo e le applicazioni
della teoria dell’informazione all’estetica. La lettura di questi fenomeni,
che si avvaleva di una competenza multidisciplinare e spaziava dalla cri­
tica formale alla semiotica, dalla filosofia estetica e del linguaggio alla so­
ciologia, individuava una nuova poetica emergente: la «poetica dell’o­
pera aperta», e di conseguenza la necessità di ripensare l’estetica con­
temporanea. Il libro, che suscitò subito molto interesse e notevoli pole-
miche, si può considerare come il punto di partenza di una nuova ri­
flessione estetica in Italia che prelude all’attuale stagione delle arti tec­
nologiche e ne anticipa molti temi.

Partendo dall’assunto:

Nessuna opera d’arte è in effetti «chiusa», bensì ciascuna racchiude, nella


sua esteriore definitezza, una infinità di «letture» possibili (p. 65),

Eco precisa che

la nozione di «opera aperta» non è una categoria critica, ma rappresenta un


modello ipotetico, sia pure elaborato sulla scorta di numerose analisi concre­
te, utilissimo per indicare, con formula maneggevole, una direzione del-
l’arte contemporanea. (p. 19)

il modello di un’opera aperta non riproduce una presunta struttura og­


gettiva delle opere, ma la struttura di un rapporto fruitivo; una forma è
541 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

descrivibile solo in quanto genera l’ordine delle proprie interpretazioni...


(p. 22)

Quindi una certa opera d’arte contemporanea si può definire aper­


ta non perché sia indefinita, questo comprometterebbe secondo Eco il
suo stesso carattere di «opera», ma perché è un’opera in divenire che si
apre fin dalla sua concezione a una molteplicità di percorsi interpreta­
tivi:

L’esempio dell’informale, come di ogni opera aperta, ci condurrà dunque


non a decretare la morte della forma, ma a una più articolata nozione del
concetto di forma, la forma come campo di possibilità. (p. 182)

Un altro importante contributo di Eco, nell’ambito del rapporto tra


media ed estetica, è la sua analisi del fenomeno televisivo. In Italia la te­
levisione era giunta da poco (dal 1954) e se ne parlava soltanto in ter­
mini tecnici o sociologici, ma Eco mette in rilievo le specifiche caratte­
ristiche di questo nuovo linguaggio, che sarebbe stato esplorato e sco­
perto di lì a poco dagli artisti (con la nascita della videoarte):

I problemi connessi all’operazione televisiva altro non fanno che ricon­


fermare il discorso filosofico che assegna a ogni «genere» d’arte il dialogo
con una sua «materia» e l’instaurazione di una sua grammatica e un suo
lessico. [...]
[...] l’apporto più interessante alla nostra ricerca viene dato proprio da
quel particolarissimo tipo di comunicazione che è esclusivo del mezzo te­
levisivo: la ripresa diretta di avvenimenti. [...]
Ripresa, montaggio e proiezione, tre fasi che nella produzione cinemato­
grafica sono ben distinte e hanno ciascuna fisionomia propria, qui s’iden­
tificano. [...]
La scelta (del regista della diretta) diviene così una composizione, una
narrazione, l’unificazione discorsiva di immagini isolate analiticamente
nel contesto di una più vasta serie di avvenimenti compresenti e interse­
cantisi. (pp. 187-189)
(U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962, I edizione tascabile 1976)

Philippe Dubois si interroga sulla natura bicefala (come il dio bifron­


te Giano) dell’arte video: si tratta di una tecnica o di un linguaggio? Di
processo o di opera? Di arte o di comunicazione? Di immagine o di di­
spositivo?

Video-Giano: un’estetica dell’ambivalenza generalizzata

Si può, per presentare la cosa, estremizzare un po’ la situazione e dire che


ANTOLOGIA 542
il video gioca anche, non senza tentennamenti, tra il livello dell’arte e
quello della comunicazione, tra la sfera artistica e quella mediatica – due
universi a priori antagonisti. In termini semiologici, il primo ha bisogno di
un oggetto (immagine) e di un linguaggio (morfologico, sintattico e se­
mantico); il secondo è puro processo (senza oggetto) e una semplice azio­
ne (pragmatica). La prima è la seconda fa. Per quanto concerne la rice­
zione la prima rientra nell’ordine del privato l’altro del pubblico. Per
quanto riguarda la legittimazione simbolica, il primo rientrerebbe nel­
l’ordine del nobile, il secondo dell’ignobile. I due modelli a questo ri­
guardo potrebbero essere da una parte la pittura (l’opera-oggetto dal lin­
guaggio forte e sempre singolare di cui ciascun fruitore fa esperienza in sé
e per sé) e dall’altro, diciamo, la televisione (la non-opera ontologica, sen­
za linguaggio, che nessuno guarda veramente ma che tutti consumano). Il
video in questo scarto occupa una posizione difficile, instabile, ambigua:
essere allo stesso tempo oggetto e processo, opera-immagine e mezzo di
trasmissione allo stesso tempo nobile e ignobile, privato e pubblico, allo
stesso tempo pittura e televisione. Tutto questo senza essere mai né l’una
né l’altra. Questa è la sua natura paradossale, fondamentalmente esitante,
dal doppio volto.
(P. Dubois, Vidéo et écriture électronique. La question esthetique, in L. Poissant,
1995, trad. di A.M. Monteverdi)

Anne-Marie Duguet: dal 1988 il concetto di dispositivo video (riferito al-


l’opera video intesa non solo come immagine rappresentata, ma come
struttura che innesca un processo di «esplosione» dell’immagine verso
l’esterno, strettamente connesso con il contesto spaziale) introdotto dal­
la Duguet nell’articolo Les dispositifs è entrato familiarmente nel lin­
guaggio comune. In questi brani di un’intervista realizzata da Louise
Poissant, la Duguet racconta come con la videoarte si entri in un’esteti­
ca del tempo e dello spazio, ovvero del «relativo permanente»:

L’immagine elettronica e la sintesi impura


Per gli artisti che hanno utilizzato il video, non si trattava tanto di pro­
durre un oggetto finito, qualcosa di chiuso, di definitivo, ma piuttosto di
mostrare un’opera sul punto di farsi, la qual cosa implicava la possibilità
di includere la durata nell’opera. È chiaro che tutte le possibilità di in­
cludere la diretta apportate dal video, soprattutto nelle videoinstallazioni,
sono state un fattore determinante dell’interesse che gli artisti hanno di­
mostrato per questa tecnica. Un altro aspetto mi sembra molto significa­
tivo: la concezione di un’opera esplosa, di un’opera che si situa in uno
spazio, che va in qualche modo a costituire uno spazio. Il video, grazie al­
la mobilità e all’autonomia dei suoi diversi elementi tecnici, ha permesso
di concepire degli spazi specifici dipendenti dall’installazione. Bisogna
anche dire che gli artisti interessati al video per la sua specifica durata,
erano altrettanto interessati alla performance. C’è una similitudine tra
543 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

performance e l’utilizzo del video. Questo sviluppo dell’opera nella du-


rata, questa possibilità di includere l’evento sono altri elementi di ordine
tecnico che possono spiegare l’interesse per il video. Infine io credo an­
che che ciò che era importante con l’utilizzo del video, è il fatto che si
trattava di una tecnica passibile di essere utilizzata in ogni genere di arte,
musica, danza, arti plastiche. Questa tecnica non aveva una vocazione
specifica ed era questa la sua grande ricchezza. Era immediatamente di­
sponibile una tecnica impura che poteva mettere in relazione differenti
media, differenti elementi.
(A.M. Duguet, L’image électronique et la synthèse impure, in L. Poissant, 1995,
trad. di A.M. Monteverdi)

Vittorio Fagone è uno dei critici e storici dell’arte italiani più noti, an­
che all’estero, per aver consacrato i propri studi, dagli anni Ottanta, al
rapporto tra arti visuali e nuovi media elettronici. Il suo libro L’immagi­
ne video (1990) raccoglie saggi critici, recensioni di opere e una sistema­
tizzazione teorica delle arti elettroniche, partendo dalle sue radici stori­
che, che affondano nel cinema sperimentale (dalle avanguardie stori­
che a Fluxus e al cinema underground americano), fino alla nascita del­
la videoarte negli anni Sessanta e alla successiva articolazione dei gene­
ri del video in relazione alle arti visive e dello spettacolo. Proprio questa
individuazione dei generi videoartistici e la riflessione sulle loro caratte­
ristiche espressive, rappresentano uno dei suoi contributi teorici più im­
portanti alla definizione di un’estetica delle arti multimediali.

Videoarte
Del termine videoarte si è spesso lamentata la genericità e l’equivocità. Es­
so infatti viene usato per indicare: la produzione originale di opere appo­
sitamente concepite per il mezzo video; la registrazione, spesso in tempo
reale, di azioni, performance ed eventi; la dislocazione in uno stesso spa­
zio ambientale di diverse strutture video (videosculture ed environment);
la combinazione intermediale di dispositivi eterogenei – diapositive, film,
immagini plastiche, oggetti – (installazioni); infine la coniugazione multi­
mediale di produzioni o riprese televisive con altre tecniche e linguaggi
(performance, teatro, danza) [...] Il termine videoarte designa oggi tutte
le utilizzazioni, interne alla produzione artistica, del mezzo video [...] le
operazioni più recenti della videoarte coinvolgono il contatto con gli altri
media oltre alla dislocazione spaziale di diverse sorgenti di immagini vi­
deo, situazione che ha stimolato la ricerca sin dagli inizi [...]
Produzione videografica. L’immagine video viene sollecitata in diverse dire­
zioni: immagine biografica, esplorazione in tempo continuo di dettagli di
visione; combinazione di geometrie in espansione; deformazione varia-
mente orientata su un’immagine significativa; narrazione e analisi tempo­
rale. [...]
Registrazioni. Si è accennato alla diffusione negli ultimi anni Sessanta e nei
ANTOLOGIA 544
primi anni Settanta di ricerche verso forme smaterializzate d’arte. Alle in­
dagini rivolte verso la percezione visiva e sociale dell’ambiente, al ricono­
scimento di energia, forze e forme primarie nello spazio naturale, all’at­
tenzione al corpo come produttore e tramite di linguaggio. Le videoregi­
strazioni conservano di questa situazione tra le più arrischiate e produttive
dell’arte contemporanea, un’immagine viva che non è unicamente docu­
mentaria, ma partecipa del momento creativo. [...]
Videosculture e videoenvironment. È noto come Marshall McLuhan sottoli­
neasse la qualità polisensoriale dell’immagine video e la sua tattilità. Si
può dire che queste qualità vengano esaltate nelle videosculture, articola­
zioni complesse dove l’immagine video viene condotta attraverso diversi
monitor a una più larga strutturazione visiva che reagisce con l’ambiente
circostante. Legati all’ambiente, nel quale lo spettatore è invitato a muo­
versi come dentro a un percorso da esplorare, sono i videoenvironment
(video-ambienti). [...]
Intermedia e videoinstallazioni. Caratterizzano le videoinstallazioni l’apertura
del circuito alla partecipazione dello spettatore e insieme la complessione
tra media diversi. Tape, diapositive, bande sonore, oggetti, immagini, ven­
gono insieme impiegati e creano una complessa e polimorfa immagine
plastica che ridefinisce ogni relazione d’ambiente, ma più i percorsi della
visione. [...]
Multimedia e performance. [...] In uno dei luoghi più emblematici della con­
dizione artistica contemporanea, la performance, dove «arti belle» e «arti
dell’esecuzione» si sono fronteggiate su un confine difficile, il video ha in­
serito la propria presenza. Esiste oggi una pratica diffusa tra gli artisti che
agiscono la scena di rinvio allo schermo video che vale come specchio, co­
me segnale di riconoscimento e come elemento di scala ottica per ogni ge­
sto o comportamento e soprattutto come macchina del tempo. [...]
(V. Fagone, L’immagine video, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 36-38)

Deidre Boyle, nel volume antologico curato da Doug Hall e Sally Jo


Fifer Illuminating Video. An Essential Guide to Video Art (1990), propone
un importante contributo sulla storia del video di documentazione ame­
ricano degli anni Sessanta e Settanta (variamente definito televisione di
strada, video comunitario o video base, video underground, televisione di guerri­
glia, tv alternativa) nato secondo un’ottica di pluralismo dell’informa­
zione. Ovvero l’altra faccia della storia della videoarte:

Gli anni Sessanta: video underground


Nel 1965 la Sony Corporation decide di lanciare il suo primo e più grande
sforzo produttivo sul mercato del consumo di apparecchi video negli Stati
Uniti. Il primo «consumatore» a comprare questo apparecchio ancora in­
gombrante, fu l’artista coreano Nam June Paik, che realizzò il primo do­
cumentario video reso pubblico, mentre era su un taxi a New York. Gli an-
ni Sessanta erano l’epoca giusta per la nascita del video portatile. Il ruolo
545 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

dell’artista come eroe individualista e alienato dal mondo era stato eclis­
sato dal sorgere di un maggior interesse nella responsabilità sociale del-
l’artista, e come l’arte divenne politicamente e socialmente impegnata, la
distinzione tra arte e comunicazione divenne sempre più labile. All’inizio
non c’era una vera separazione tra artisti video e attivisti e quasi tutti face­
vano nastri documentaristici. Les Levine fu uno dei primi artisti ad aver ac­
cesso all’attrezzatura video a mezzo pollice che divenne disponibile nel
1965 e con quello fece BUM, uno dei primi video di strada. Le sue intervi­
ste con gli alcolizzati e i derelitti tra i rumori di strada a New York furono
montate direttamente in macchina, uno dei primitivi mezzi di montaggio
prima che fosse possibile quello elettronico. Rozzo, senza struttura e epi­
sodico, BUM fu veramente emblematico dei primi video.

Boyle si sofferma sulle produzioni di street video (a partire dai video di


Frank Gillette sulla comunità hippy newyorkese) e sull’ideologia dei pri­
mi collettivi radicali e community video, e sul progetto NOW (autunno
1969), uno show magazine della CBS che doveva mostrare la cultura un­
derground attraverso video documentari. Il collettivo Videofreex rac­
colse molto materiale tra cui una storica intervista a Fred Hampton del­
le Black Panther pochi giorni prima che fosse ucciso.

Video di strada
Facendo dei limiti delle loro tecnologie una qualità, i videomaker under­
ground inventarono uno stile unico e distintivo per i media. Alcuni pio­
nieri usavano telecamere di sorveglianza e divennero esperti della teleca­
mera portata a mano libera perché non c’era mirino. I treppiedi – con i lo­
ro punti di vista fissi – erano aboliti; era introdotta la fluidità della teleca­
mera tenuta a mano. Anche la straordinaria abilità del video di trarre van­
taggio dell’immediato con playback istantanei controllando gli eventi in
tempo reale si adattava all’enfasi tipica dell’epoca su «processo non pro­
dotto». Arte processuale, arte terrena (il gioco di parole è tra Earth e Art,
n.d.t.) arte concettuale e arte performativa condividevano tutte una smi­
tizzazione del lavoro finale, compiuto, e un’enfasi su come invece il lavoro
veniva realizzato. L’assenza di attrezzatura di montaggio elettronico – che
scoraggiava il mettere il video in forma di «prodotto» finito – incoraggiava
ulteriormente lo sviluppo di un’estetica video di processo. Lo stile dei pri­
mi video girati fu molto influenzato sia dalle tecniche di meditazione co­
me il t’ai chi e di «illuminazioni» indotte da droghe che dalla tecnologia
esistente. Aspirando alla «minima presenza» di un «assorbitore» di infor­
mazione, videomaker come Paul Ryan avevano fiducia nell’aspettare che
la scena accadesse, cercando di non dare preventivamente alcuna forma
dirigendo gli eventi. Il fatto che il videotape fosse relativamente economi­
co e riusabile rendeva il «lasciar farsi» dell’opera sia praticabile quanto de­
siderabile.
Gruppi video underground apparvero in tutti gli Stati Uniti ma New York
ANTOLOGIA 546
divenne il fulcro della scena video underground degli anni Sessanta. I
primi e più importanti gruppi includevano Videofreex, People’s Video
Theater, Global Village e Raindance Corporation. Videofreex fu il gruppo
di produzione più importante del movimento, fungendo da innovatore
quanto a tecnologia ed estetica. Raindance servì come ambito di ricerca e
di sviluppo del movimento. Dal momento che la cronaca di ogni movi­
mento tende a incoraggiare la sua espansione, Raindance giocò un ruolo
chiave, producendo la fonte di informazione primaria per il video under­
ground e lo strumento di network nazionali come la rivista Radical Softwa­
re (edita da Beryl Korot e Phyllis Gershuny). I membri di Raindance con­
tribuirono a un data base culturale di videotape dai quali si modellavano
collettivamente: «Media Primers», collage di interviste, video di strada ed
estratti televisivi fuori onda che esploravano la natura della televisione e il
potenziale del video portatile come medium di critica e di analisi.

Dan Graham (1942), artista video americano legato alle implicazioni


socio-politiche dei media nella società e alla relazione tra le arti, nel te­
sto Video as Television: An American Family parla della funzione di specchio
deformante della società della televisione dagli anni Cinquanta: la tv
vende la nozione di famiglia felice idealizzata, quale è rappresentata nei
generi tipici, la situation comedy o le soap opera. Graham mise in opera un
corto circuito esterno/interno, pubblico/privato in alcune video-instal­
lazioni dislocate in negozi, bar, spazi all’aperto, vetrine, come in Yester­
day/Today (1975), Video Piece for Shop Windows in an Arcade (1976), Video
Projection Outside Home (1978) o in Video View of Suburbia in an Urban
Atrium (1979).
(Public/Private Code che riflette sulle convenzioni sociali e morali nell’uti­
lizzo pubblico o privato degli spazi di casa o quelli esterni, e Video as Ar­
chitectural/Mirror and Window sono inclusi in Video in Relation to Architecture
e pubblicati nell’antologia Illuminating video a cura di D. Hall e S.J. Fifer,
New York 1990.)

Codice pubblico/privato
Il concetto di pubblico contrapposto a quello di privato può dipendere da
convenzioni architettoniche. Per convenzione sociale, una finestra media
tra spazio privato (interno) e spazio pubblico (esterno). L’immagine del-
l’interno definisce o è definita dal concetto generalmente accettato di pri­
vacy. Una divisione architettonica, la casa, separa la persona privata da
quella pubblica e sanziona determinati tipi di comportamento per ciascu­
na di loro. Video Projection Outside Home (1978), mostra come si può svilup­
pare una proiezione video fuori di casa. Yesterday/Today (1975), esamina i
ritmi di vita quotidiani del suono e della vista. Il significato della privacy, al
di là della sua mera diversità da ciò che è pubblico, è in modo più com­
plesso legato ad altre regole sociali.
547 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

Graham solleva evidentemente anche la questione della videosorve­


glianza in ambienti pubblici, dei segni e delle insegne elettroniche nel­
l’ambiente urbano. E la funzione di specchio e finestra del video collo­
cato nell’ambiente urbano.

Video come specchio e finestra architettonica


Il video in architettura funziona a livello semiotico simultaneamente come
finestra e come specchio, ma sovverte gli effetti e le funzioni di entrambi.
Le finestre in architettura mediano tra unità spaziali separate e incorni­
ciano la prospettiva convenzionale di un’unità in rapporto all’altra; gli
specchi in architettura definiscono in modo autoriflessivo uno spazio e un
io delimitati.
L’immagine allo specchio risponde otticamente ai movimenti dell’osser­
vatore, variando in funzione della sua posizione. Se l’osservatore si avvici­
na, lo specchio si apre ad accogliere un’immagine più larga e più profon­
da dell’ambiente e ingrandisce quella di chi guarda. Viceversa un’imma­
gine video su uno schermo non si sposta parallelamente agli spostamenti
di chi la guarda. L’immagine allo specchio collega la soggettività con l’as­
se spazio-temporale dello spettatore. Otticamente gli specchi sono pensa­
ti per essere visti frontalmente. L’immagine proiettata dallo schermo video
di uno spettatore che lo osserva dipende dalla relazione di quello spetta­
tore rispetto alla posizione della videocamera, ma non della sua posizione
rispetto al monitor. Un’immagine dello spettatore può essere trasmessa
dalla videocamera istantaneamente o dopo uno scarto temporale, a se­
conda della distanza, sullo schermo che può essere vicino o lontano dalla
posizione dello spettatore nello spazio o nel tempo. (…)
Gli specchi negli spazi chiusi esteriorizzano gli oggetti degli spazi interni,
cosicché essi appaiono allo specchio come piani frontali. In spazi chiusi
rettilinei gli specchi creano scatole prospettiche illusorie. La simmetria
degli specchi tende a nascondere o a cancellare lo scorrere del tempo,
mentre lo spazio architettonico interno, abitato da movimenti, da proces­
si e graduali spostamenti dell’uomo, è svuotato di significato. Poiché l’im­
magine allo specchio viene percepita come un istante statico, il tempo
(tempo e spazio) diventa illusoriamente eterno. Il mondo visto attraverso
il video, al contrario, è preda del flusso temporale e soggettivamente con­
nesso (poiché può essere identificato con) alla durata esperita.
(D. Graham, Il video in rapporto all’architettura, trad. di M. Baiocchi, in Le
pratiche del video a cura di V. Valentini, Bulzoni, Roma 2004)

Peter Weibel (1944), artista multimediale, docente al Centre for Art


and Media di Karlsruhe (Germania), curatore di mostre internazionali,
è stato uno dei protagonisti della ricerca artistica e teorica su arte e me­
dia in Europa, a partire dagli anni Sessanta con gli esperimenti sull’«ex­
panded cinema». Negli anni Settanta ha realizzato lavori per la televi­
sione e videoinstallazioni, negli anni Ottanta si è dedicato alle installa­
ANTOLOGIA 548
zioni interattive basate sul computer e negli anni Novanta a progetti ba­
sati sulla rete. Parallelamente all’idea generale di «tecnocultura» intro­
dotta da Berger, Weibel sviluppa una importante riflessione sul «tecno­
tempo», cioè su come il passaggio dall’immagine pittorica a quella fil-
mica, e da questa all’immagine elettronica, segni la trasformazione del-
l’idea e della percezione del tempo.

Per la prima volta nella storia possiamo creare il movimento generandolo


direttamente dentro una macchina elettronica: in precedenza il movi­
mento concerneva sempre qualcosa di naturale, che fossero animali o pez­
zi meccanici. Siamo all’inizio di una nuova era che coincide con la nascita
di un nuovo tipo di tempo: il tecno-tempo. Tra i pochi che lo hanno capi­
to vi è stato Giorgio de Chirico. Non limito perciò la mia nozione di que­
sti media a uno stato puro di visione e ascolto. Treni, autovetture, aero­
plani sono media come lo sono le cineprese, i videotape, le radio. I media
non sono soltanto un’estensione dell’occhio e dell’orecchio, della visione
e del suono, ma anche un’esperienza cinetica, cioè hanno un loro movi­
mento interno. Nel cinema Dziga Vertov si è occupato di questo proble­
ma. [...]
Il cubismo e il futurismo sono state le prime avanguardie artistiche a oc­
cuparsi del problema del movimento. La posizione dei cubisti è che anche
se l’oggetto è fermo, il punto di vista del pittore è in movimento; la posi­
zione dei futuristi è esattamente l’opposta; l’oggetto è osservato mentre si
muove, ma il punto di vista dell’artista è statico. [...]
Tutte queste «tecniche artistiche» – come la sovrapposizione, la definizio­
ne di un punto di vista, la graduazione dei rapporti all’interno dell’imma­
gine – sono state inventate prima dai pittori e dopo trasferite nel cinema.
Perciò si può affermare che le strategie estetiche dell’immagine elettroni­
ca comprendono tutte quelle dei media artistici precedenti, ma ve ne sono
anche di nuove. [...]
La pittura è un’arte statica: il cinema e l’immagine elettronica rappresen­
tano qualcosa che sparisce. E l’immagine in movimento è divenuta sempre
più accelerata; non solo gli oggetti in movimento sono diventati immagini
in movimento, ma tutta la società stessa ha aumentato il suo ritmo e l’im­
magine dunque ha seguito questo ritmo. L’immagine elettronica è un’im­
magine accelerata; è un’estetica radicale della sparizione. E questa accele­
razione non dipende tanto da tagli netti e veloci, come per esempio nei
«video-rock»; l’immagine accelerata proviene dall’abolizione dello spazio,
perché il tecno-tempo è un tempo invisibile e dunque neppure lo spazio è
manifesto attraverso il tempo.»
(P. Weibel, L’estetica della sparizione nell’immagine elettronica (1986), in «Ci­
nema Nuovo», luglio-ottobre 1988, pp. 41-45)

Woody Vasulka (1937), moravo, ingegnere industriale, dopo essersi


trasferito a New York si dedica dal 1969 alla ricerca sperimentale con il
549 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

video, passando prima per la musica elettronica. Fonda con la moglie


Steina il centro di esposizioni e ricerche «The Kitchen». Tra i suoi video
più noti: The Commission e Art of Memory (1980). In questo testo Verso uno
spazio narrativo non centrico, Vasulka parla della differenza dell’immagine
digitale rispetto al cinema e alle sue modalità narrative.

Bisogna capire che il vantaggio della macchina (computer) non consiste


tanto nelle nuove immagini possibili, ma nel nuovo spazio che questa of­
fre all’esplorazione. Malgrado si tenti di raccontare qualcosa cinemato­
graficamente, con il computer si sperimenta una certa incapacità nell’af­
ferrare e presentare compiutamente la totalità dello spazio astratto che
viene offerto. Come all’emergere della sintassi del film (quando la neces­
sità tecnica dell’incollatura tra pezzi di pellicola determinò l’invenzione
del montaggio) lo spazio astratto del computer si sottomette al modo di
raccontare. Sono le regole dello spazio digitale – la sua trasformazione e
il suo movimento – che diventano la forza trainante di un’automatica
evoluzione sintattica: in questo spazio «teatrale» per ora appena intuito.
Nel gergo del computer, termini come «inquadratura» o «scena» vengono
sostituiti dalle descrizioni di un «mondo» o di «mondi» fondati su sugge­
stioni di continuità spaziale. In uno spazio multidimensionale, una singo­
la inquadratura non è più pratica. Ogni «inquadratura» nella memoria di
un computer, è già costruita come un «ambiente», come una scena. Una
singola inquadratura/scena, in un computer implica più di una possibi­
lità: molti «punti di vista» possono essere selezionati nella costruzione di
una scena, molti vettori narrativi possono essere rivolti in altrettante dire­
zioni.
Una «inquadratura» in un film indica un particolare punto di vista: e la
sua proposta narrativa è di eliminare tutti gli altri sguardi possibili. Mentre
un «mondo» nel computer contiene l’infinità di uno spazio condiviso,
non ancora selezionato dai punti di vista della progressione narrativa logi­
co-sequenziale. [...]
Forse questo nuovo spazio che ci viene offerto è uno spazio «non centri­
co», uno spazio senza coordinate. E la descrizione e la ricerca dovrebbero
essere applicate all’esplorazione narrativa di un simile spazio. Non-centri­
co. Non singoli percorsi che diventano mezzi o fini. L’autore torna a esse­
re come un’antica guida: con i suoi istinti e le sue mappe logore, il piede
non più sicuro dello spettatore.
La condizione necessaria per uno spazio non-centrico è la rimozione tota­
le della gravità. La tradizionale direzionalità non viene più considerata:
non Sud, Nord, Sopra o Sotto. Senza meta, lo spazio non ha da definire al­
cuna particolare priorità, eccetto quando incrocia o diventa una «zona di
pericolo», da controllare attentamente nello specchio retrovisore dello
spettatore. Ciò che tuttavia ha un senso è ancora l’«evento». Anche se non
accade nulla per un lungo periodo di tempo, la storia che lo spazio ci rac­
ANTOLOGIA 550
conta quando finalmente inizia a raccontare potrebbe essere minima, ma
non per questo meno entusiasmante.
(W. Vasulka, Verso uno spazio narrativo non centrico (1992). Dal catalogo Stei­
na e Woody Vasulka. Video, media e nuove immagini nell’arte contemporanea, a
cura di M.M. Gazzano, Fahrenheit 451, Roma 1995)

Renato Barilli (1935), critico e storico dell’arte italiano, particolar­


mente interessato alla ricerca artistica d’avanguardia, è stato tra i primi
studiosi italiani a soffermare l’attenzione sul rapporto tra arte e tecno­
logia, e in particolare tra arte e computer. A questo tema nel 1987 dedi­
ca una importante mostra (Rotonda della Besana, Milano) e un lungo
saggio sul catalogo (Arte e computer), da cui citiamo alcuni passaggi.

Il rapporto arte e tecnologia


Un rapporto, che proprio per la sua importanza, deve nutrirsi di ragioni
profonde, di affinità a lungo raggio, di sintonie capaci di coinvolgere il
meglio di ciascuno dei due ambiti chiamati al confronto, e non consistere
in una meccanica assunzione di prestiti esteriori. Non basta, insomma,
maneggiare qualche ritrovato tecnico, pur sofisticato e avanzato, per di­
mostrare ipso facto di aver stabilito un vincolo simpatetico con la tecnologia
del proprio tempo. [...]
In effetti, dai tempi delle avanguardie ruggenti del secondo decennio del
Novecento, non si contano i tentativi di impadronirsi di mezzi estranei al
territorio delle «belle arti», consueti invece in quello della produzione in­
dustriale e del lavoro...

Barilli descrive l’immagine elettronica come

un mosaico elettronico
un sistema compositivo ottenuto con un numero discreto di impulsi lumi­
nosi, i cosiddetti pixel, allineati in file regolari come in un ben ordito pal­
lottoliere, e quindi tanto simili a due procedimenti ben noti nella storia
dell’arte: i lontani mosaici ravennati o bizantini e i vicini dipinti della sta­
gione divisionista. [...]
In effetti il «mosaico elettronico» recupera alcune proprietà del suo lon­
tano progenitore, tra cui la tendenza a ridurre la profondità, a comporre
in superficie, evidenziando i contorni e le superfici. [...]

Mentre il Seurat divisionista (qui Barilli ricorda un’intuizione che fu


già di McLuhan)

è un grande pioniere in quanto prevede che la cultura del nostro tempo


conoscerà procedimenti di massa fondati su quel metro del comporre a
piccole unità «discrete», a piccoli impulsi cromatici, con l’inevitabile ef­
fetto connesso all’astrazione.
551 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

Pixel, linea e superficie


Confrontando il procedimento grafico e pittorico con quello della
computer art, Barilli sottolinea

un processo di stilizzazione astrattiva, e quindi anche decorativa, sempre


immanente alla grafica ottenuta col computer; e quindi il segno non può
attingere il grado di drammaticità che conosceva, poniamo, il dripping pol­
lockiano; ma non è detto che questo sia un male, un tale connotato ci ri-
porta ancora una volta, alle origini della contemporaneità, al divisionismo
seuratiano, che era sempre accompagnato da un coefficiente ornamenta­
le, e viveva in simbiosi col gusto dell’astrazione simbolica.

Allo stesso modo le campiture

che si ottengono col computer sono più esatte e meccaniche delle altre ot­
tenute con le libere stesure del pennello, o della spatola; appaiono più
unificate e omogenee, meno personali; d’altra parte è un vantaggio po­
terle stendere con ritmo sicuro e inesorabile, senza errori esecutivi...

Colore e movimento
Infine Barilli si sofferma sul

fascino di quel colore particolarissimo emanante dai pixel; quel colore-lu­


ce, che tale è in senso letterale, fisico, e che, ancora una volta, esaudisce i
voti coltivati da Seurat e compagni, i quali tentavano disperatamente di eli­
minare le impurità fisiche dei colori fabbricati industrialmente, e quindi
rinunciavano a mescolarli, affidavano il mixing alla retina dello spettatore,
o ancor più alla ricezione neurologico-psicologica interna. [...]
Ma soprattutto, la computer graphic gode del bene inestimabile del movi­
mento, ponendo la più valida candidatura a essere considerata come la
più autentica arte cinetica del nostro tempo. Infatti, non solo i programmi
dei computer odierni riescono ad adattarsi alle curve libere, ai grafismi
sciolti degli artisti, ma li restituiscono anche nella successione temporale
dell’atto, del gesto che li traccia.
(R. Barilli, Arte e computer, Electa, Milano 1987, pp. 9-14)

Edmond Couchot, artista e teorico francese legato all’interattività,


coordinatore delle ricerche su arte e tecnologia all’Università Paris
VIII, ha pubblicato molti articoli e saggi sull’immagine di sintesi e vari
libri tra cui: Images. De l’optique au numérique (1988), L’arte numérique
(2003).
Nel brano che segue, tratto dal saggio La mosaïque ordonnée ou l’écran
saisi par le calcul (1988), Couchot affronta un’analisi parallela a quella di
Barilli, illustrando le caratteristiche dell’opera al tempo del digitale e ri­
ANTOLOGIA 552
percorrendo le fasi di creazione dell’immagine dalla pittura al pennello
elettronico al pixel.

Dalla scansione al calcolo


In rapporto al cinema, l’immagine elettronica – anche se appartiene
morfogeneticamente, come quella del cinema, al sistema di rappresenta­
zione fondato sull’ottica – introduce un’importante novità nella tecnica
di registrazione: la scansione. Il suo principio risale alla metà del XIX se­
colo e consiste nella decomposizione dell’immagine ottenuta attraverso
la proiezione ottica in un certo numero di sottili linee parallele. Lo scher­
mo elettronico può quindi essere assimilato a un mosaico – come ha fat­
to McLuhan – ma a un mosaico di cui l’ordinamento non è ancora defi­
nito: alle linee e ai punti che lo costituiscono manca la digitalizzazione,
cioè l’esatta individuazione grazie a quantità numeriche discrete. Non di
meno è attraverso la linea che si ha accesso all’immagine, che la si può la­
vorare, una volta che è generata dall’obiettivo della videocamera, come
hanno fatto i primi artisti che si sono interessati allo schermo elettronico.
In questo la scansione rende possibile un controllo dell’immagine che né
la fotografia né il cinema permettono, perché l’immagine non vi può es­
sere colta che per piani o porzioni di piano (découpage, coloriture, collage,
trattamento chimico o intervento sul fascio di luce stesso al momento
dello sviluppo). La digitalizzazione – il calcolo quindi – permette di eser­
citare un controllo totale sull’ultimo elemento fisico che costituisce l’im­
magine: il punto, che chiamiamo pixel nel processo di sintesi di immagi­
ne. In questo modo le tecniche di controllo dell’immagine sono passate
dal piano alla linea e dalla linea al punto. Ma il pixel non è il punto, l’e­
lemento primario della pittura come lo analizzava Kandinskij. Il punto di
Kandinskij appartiene, come la pittura, a un sistema di rappresentazione
che anche se non sempre è dipendente dall’ottica, resta comunque lega­
to alla traccia, alla registrazione. Il punto per questo pittore, nasce dallo
shock dello strumento sul «piano originario» (dal contatto del pennello
con la tela, nella punta della matita con la carta o della punta del bulino
sulla placca di metallo da incidere), contatto che feconda il supporto e
crea la forma, o le differenti forme del punto. Il punto è il risultato, tec­
nicamente e in un certo senso anche esteticamente, dell’incontro di un
supporto particolare e di un oggetto preesistente – lo strumento – che im­
prime la sua traccia su questo supporto. Anche se le forme rappresentate
sono astratte, non rimandano (per proiezione) ad alcuna realtà ricono­
scibile, come in un quadro di Kandinskij, la traccia del punto è testimo­
nianza di un evento capitale: l’incontro organizzato dall’artista di queste
due realtà, lo strumento che traccia e il piano che riceve. E in questo il
punto pittorico è simile ai sali d’argento di una pellicola fotografica che si
trasformano in cristalli di metallo all’impatto dei fotoni emessi dall’og­
getto fotografato, o ancora al segnale elettronico che nasce sul fondo fo­
tosensibile di un tubo elettronico colpito dalla luce. L’immagine-traccia
testimonia l’incontro di due realtà che si imprimono l’una nell’altra, che
553 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

si scontrano e si fecondano. E anche quando quest’immagine non rap­


presenta nulla, rappresenta almeno il momento privilegiato di quest’in­
contro.
La situazione è completamente differente nell’immagine di sintesi. Il pixel
non è più un punto. Non è la registrazione dello shock di uno strumento
su un piano originario, e nemmeno la registrazione di una traccia lumi­
nosa lasciata da un oggetto su un supporto chimico o elettronico sensibile
alla luce. Non di meno, come nelle immagini video ottenute attraverso sin­
tetizzatori – o per manipolazioni elettroniche – lo shock di un fascio di
elettroni sui luminofori dello schermo. Altrettante operazioni che impli­
cano per forza, in ogni caso, il trattamento di una realtà fisica preesisten­
te, materia o energia preesistente. Il pixel è innanzitutto linguaggio, un
linguaggio formalizzato certamente, ma pur sempre linguaggio. Non tra­
duce alcuna realtà preesistente. Rende visibili dei modelli logici e matematici,
dei simboli astratti.

L’immagine di sintesi produce un radicale cambiamento estetico:

L’immagine non è più l’immagine di qualcosa, la rappresentazione di una


realtà preesistente; non è più esattamente un’immagine, d’altra parte; è
diventata una «realtà» virtuale, per così dire parallela alla realtà fisica di
cui riveste l’aspetto ma che soprattutto funziona come la realtà e che le si
sostituisce. Allorché all’immagine-traccia preesiste il reale, all’immagine­
matrice della sintesi preesiste il modello. L’immagine simulata [...] non
rinvia dunque più a questo momento privilegiato in cui un oggetto pree­
sistente imprime la sua traccia su un supporto fotosensibile né al momen­
to in cui lo strumento del pittore feconda il piano originario. Non lo rap­
presenta – alla lettera – lo crea, crea il suo presente fra quasi una infinità
di presenti possibili.
(E. Couchot, La mosaïque ordonnée, «Communications», n. 48, 1988, tr. di
E. Magris)

Lo svizzero René Berger, storico dell’arte e dei media, nel 1971 in­
troduce all’Università di Losanna, tra i primi in Europa, il corso speri­
mentale di «Estetica e mass media», con l’intenzione, per altro incom­
presa e osteggiata, di estendere gli studi estetici al di là delle arti tradi­
zionali. L’anno successivo pubblica due volumi che fonderanno la sua
originale visione del rapporto tra arte, estetica e media: Art et communi­
cation e La mutation des signes, per affermare che un oggetto di cono­
scenza non è mai dato in forma statica e aprioristica, ma è soggetto alle
trasformazioni dei mezzi di comunicazione, il cui divenire contempora­
neo segna l’inizio di una «tecnocultura» (neologismo di Berger poi mol­
to diffuso) e di nuova «era multimediale», che prefigura l’avvento di
una «multirealtà». Autore di numerose pubblicazioni ed esposizioni,
Berger aggiorna costantemente la sua limpida analisi estetica ed etica,
ANTOLOGIA 554
spaziando dai mass media ai new media, fino all’intelligenza artificiale e
alle realtà virtuali. Citiamo qui un suo «tentativo di messa a punto» sul­
le caratteristiche delle arti tecnologiche, scritto agli inizi degli anni No-
vanta

1. A differenza delle opere «tradizionali», che si inscrivono in specifici me­


dia – pittura, scultura, teatro, danza, architettura, cinema ecc. – il compu­
ter predispone a una concezione e a una realizzazione multimedia, che fan-
no largamente appello al settore video, alle immagini e alla musica di sin­
tesi, al laser ecc.
2. A differenza delle opere «tradizionali», quadri, sculture, architetture, la
cui destinazione e le cui sedi espositive sono ben definite (appartamenti,
giardini, parchi, edifici, musei), le arti che ricorrono al computer tendono
a creare spazi e durate di un tipo nuovo.
3. A differenza delle opere «tradizionali», le «opere tecnologiche» non
mirano tanto a soddisfare una pratica costituita – lo spettacolo per le arti vi­
sive (quadro appeso alla parete, film guardato al cinema o sullo schermo
del televisore), il concerto per la musica (con le sue orchestre, le sue sale, i
suoi generi, le sue convenzioni sociali) – quanto a suscitare un «Ereignis»,
contemporaneamente evento ed esperienza, la cui caratteristica propria è
generare pratiche ibride di tipo nuovo, alle quali l’artista americano My­
ron Y. Krueger ha dato il nome quanto mai evocatore di «Responsive En­
vironment».
(R. Berger, Il nuovo Golem, Raffaello Cortina editore, Milano 1992, pp. 58­
59)

Nel 1995 Berger sintetizza così il quadro delle «arti tecnologiche» o


«tecnoarti»:

– l’arte video (o la video arte, la videografia), che si serve del nastro ma­
gnetico e del videoregistratore;
– l’arte su computer (la computer art, la computer grafica, l’arte digitale,
l’infografia, le immagini informatiche, le immagini di sintesi ecc.), che
si serve del computer;
– l’olografia (l’arte olografica, l’ologramma), che si serve del laser;
– la reprografia (la copy art), che si serve delle tecniche della fotocopia;
– la telematica artistica (le teleconferenze o teleconversazioni via satelli­
te, telefono, videofono, radio o tv);
– la realtà virtuale, che raggruppa le ricerche e le opere tendenti a pro­
durre, al di là della rappresentazione, una nuova dinamica all’interno
dei cyberspazi che ne sono i nuovi luoghi di espressione;
– la vita artificiale (artificial life) che, oltre alle ricerche condotte per la
creazione di esseri ibridi suscettibili di un comportamento autonomo,
si sforza di dare luogo a dei procedimenti artistici che congiungano le
risorse dell’informatica e quelle dell’intelligenza artificiale.
555 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

Tutte queste attività (per le quali Berger propone il nome di arti tecnologi­
che o tecnoarti) si propongono una visione e una finalità espressamente ar­
tistiche, nell’ambito di una relazione organica con l’una o l’altra delle nuo­
ve tecniche impiegate, sia isolatamente, sia in combinazione fra loro.
(R. Berger, Les arts technologiques à l’aube du XXI siècle, L. Poissant, 1995,
trad. di A. Balzola)

Jean-François Lyotard (1924-1998), filosofo francese di formazione fe­


nomenologica, autore di un celebre libro sulla condizione del sapere nel­
la società post-industriale e creatore del fortunato termine post-moderno
(La condizione postmoderna, 1979, trad. it. Feltrinelli 1981), organizzò in
collaborazione con Thierry Chaput al Centre Pompidou di Parigi, una
mostra ormai storica, Les immateriaux (1985) che voleva marcare il passag­
gio all’arte immateriale delle nuove tecnologie. Il tema centrale della sma­
terializzazione delle opere d’arte (principalmente si trattava di opere elet­
troniche, «fatte di luce») si combinava con il tema del processo di intera­
zione nella creazione collettiva. Invece di realizzare il consueto testo per il
catalogo, Lyotard propose a una trentina di autori, scienziati, artisti, scrit­
tori, filosofi e linguisti, di realizzare un «dizionario» sperimentale, attra­
verso un’elaborazione collettiva interattiva che utilizzava una connessione
a rete chiusa (allora Internet non era ancora diffuso) tra i terminali privati
dei soggetti coinvolti e la memoria centrale del terminale del Centre Pom­
pidou. Furono scelte cinquanta parole che dovevano magnetizzare le dif­
ferenti definizioni degli autori, su di esse ciascuno poteva intervenire li­
beramente in tempo reale proponendo varianti, integrazioni, connessio­
ni, sintesi e antitesi. Lyotard colse il profilarsi, con l’invenzione e la diffu­
sione degli ipertesti e della rete telematica, di un nuovo modo di pensare
e di scrivere, interattivo e intercreativo:

Cosa succederebbe se il pensiero e la scrittura si trovassero esposte a que­


sto azzardo di interferenze bizzarre, non solamente nella loro condizione
di opere già concluse, nel testo che loro hanno partorito, ma nel momen­
to in cui stanno per formarsi, allo stadio embrionale?

Da questo dizionario, inedito in Italia, proponiamo due estratti, il pri­


mo è una «sintesi poetica randomizzata» fatta da Nanni Balestrini delle
diverse nozioni della voce «immagine», emerse dagli autori coinvolti nel
progetto:

Butor: saggezza nella quale convergono le avventure generate dalle diverse


illustrazioni di una leggenda data.
Derrida: traccia nella quale convergono le frasi generate dai diversi stoc­
caggi di un discorso dato.
ANTOLOGIA 556
Buci-Glucksmann: riproduzione nella quale convergono le alterità generate
dai diversi godimenti di una procreazione data.
Lacoue-Labarthe: sospetto nel quale convergono le presentazioni generate
dalle diverse spaziature di una temporalità data.
Curval: effetto nel quale convergono le evoluzioni generate dalle diverse
tappe di una civiltà data.
Rosenstiehl: goccia nella quale convergono gli schizzi generati dalle diverse
fabbricazioni di un prodotto dato.
Major: lavoro nel quale convergono le percezioni generate dalle diverse at­
tività di un inconscio dato.
Vuarnet: spettro nel quale convergono i colori generati dalle diverse sinte­
si di un punto dato.
Borillo: definizione nella quale convergono i passaggi generati dai diversi
risultati di un’applicazione data.
Latour: serbatoio nel quale convergono gli effetti generati dai diversi sim­
boli di una rivoluzione data.
Cassé: adattamento nel quale convergono le intuizioni generate dalle di­
verse manifestazioni di una disperazione data.
Sperber: soluzione nella quale convergono i livelli generati dalle diverse
istanze di un problema dato.
Roche: magia nella quale convergono i riflessi generati dalle diverse inti­
mità di un avvicinamento dato.
Roubaud: sacco nel quale convergono le frasi generate dai diversi momen­
ti di una mela data.
Chatelet: cinematografia nella quale convergono le simbolizzazioni genera­
te dalle diverse istanze di una velocità data. (pp. 89-90)

La seconda citazione è di Christine Buci-Glucksmann, sempre riferita


alla voce «immagine», ed è una riflessione estetica sulle nuove relazioni
possibili tra scrittura e immagine elettronica:

Instaurando quel minimo di separazione che permette l’incontro, l’inter­


faccia dello schermo consentirebbe una nuova «scena della scrittura». In
questo «essere ibrido» che è la pagina video dello schermo, le divisioni e le
gerarchie stabilite in Occidente tra il visibile e il segno, il figurale e lo
scritto, potranno finalmente svanire. È come se le «nuove tecnologie» fa­
vorissero un ritorno al pittogramma, a dei modelli di scrittura «orientali»,
a tutto ciò che in occidente non ha mai smesso di rivendicare l’immagine
come passaggio di frontiere, come scena costitutiva (i barocchi, i mistici, i
poeti...). Scriveremo il Libro dei Mutamenti (I-Ching), ritrovando così un an­
tico principio cinese che vuole che si consideri «la pittura come un ramo
dell’arte di pensare» e «la scrittura come un ramo dell’arte di dipingere»?
Non saremo né dalla parte dell’immagine, né dalla parte del segno, ma in
uno spazio intermedio, in quel regime di «imsegni» (immagini-segni) che
cercava appassionatamente Pasolini nella scrittura del cinema di poesia?
(p. 89)
557 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

(in J.F. Lyotard, Les Immateriaux. Epreuves d’écriture, Editions du Centre G.


Pompidou, Paris 1985, trad. di A. Balzola)

Anche il filosofo francese Pierre Lévy ritorna su questo mutamento


ideografico della scrittura e della comunicazione telematica, teorizzan­
do la ideografia dinamica (a cui dedica studi e sperimentazioni di pro­
grammi):

Non si tratta di rimpiazzare né il linguaggio parlato, né il testo alfabetico,


e nemmeno il testo statico con l’ideografia dinamica. Si tratta invece di
sfruttare a fondo le potenzialità dei nuovi supporti facendo riemergere i
linguaggi dimenticati, le lingue grafiche dimenticate. Si dice oggi che c’è
da una parte il linguaggio e dall’altra il disegno o l’immagine, mentre in
realtà non è vero. C’è piuttosto un continuum semiotico tra i due, e l’o­
biettivo è proprio quello di ricostruire questo continuum. [...]
Con il libro L’ideografia dinamica, io cerco di dimostrare sul piano teorico
che un linguaggio di immagini animate e interattive non ha praticamente
nessuna limitazione che gli impedisca di raggiungere la potenza del lin­
guaggio orale, la potenza del discorso. [...]
Si tratta di un linguaggio che non si poteva concepire prima dei nuovi
media, dello schermo dinamico e interattivo, con capacità di memoria e
di reazione autonoma. Per dirlo con una parola, l’orizzonte dell’ideogra­
fia dinamica è la visualizzazione su uno schermo di un modello mentale.
[...]
Mi piacerebbe che arrivassimo a creare dei sistemi a partire da una sorta
di dizionario di ideogrammi dinamici preesistenti, dei quali le persone
potranno appropriarsi e servirsi per esprimere il loro pensiero. (pp. 355­
356)
(Intervista di D. De Kerckhove a P. Lévy, Esthétique et technologies de l’intelli­
gence, in L. Poissant, 1995, trad. di A. Balzola)

Piero Gilardi (1942) è un artista affermatosi sulla scena artistica in­


ternazionale degli anni Sessanta con i «tappeti natura» (sculture da pa­
vimento o frammenti ambientali in poliuretano espanso), parodia e se­
duzione di una trasformazione artificiale della natura, negli anni Set­
tanta si dedica all’uso terapeutico dell’arte nel disagio mentale e dagli
Ottanta ritorna alla produzione artistica lavorando su opere e installa­
zioni interattive e fondando con Claude Faure l’associazione italo-fran­
cese «Ars Technica» (per lo sviluppo e la divulgazione della relazione ar­
te-scienza-tecnologia).

L’interattività è una costante dell’arte, perché l’arte ha sempre attinto alla


sfera del virtuale, di ciò che esiste come possibilità e che sfugge al destino
mortifero dell’individuo, integrandosi nel corpo sociale e passando alle
ANTOLOGIA 558
generazioni seguenti; ma il virtuale tecnologico – e questo è il paradigma
odierno – è ben diverso dal virtuale mitico e dal virtuale storico del passa­
to: è un’entità ibrida che non solo indaga e prefigura, ma assieme proget­
ta e costruisce i sistemi evolutivi nella odierna complessità non-lineare.
[...]
Nelle mie installazioni l’azione fisica del pubblico si combina con l’imma­
terialità del programma informatico: abbiamo ormai superato la cartesia­
na distinzione tra la mente e il corpo, come hanno dimostrato da tempo i
neurobiologi. Nel nostro cervello le attività mentali, scolpiscono conti­
nuamente, modificandola, la struttura aggregativa dei neuroni. Il cervello
può essere considerato il primo «complesso virtuale» come conferma l’au­
dace teoria cognitiva di Francisco Varela, per cui la percezione si costitui­
sce non come rappresentazione a posteriori del mondo osservato, ma co­
me «ricreazione» continua, e del mondo e della nostra mente. [...] Una
delle cruciali direzioni di ricerca della tecno-scienza dei computer è quel-
la degli human interfaces, cioè la connessione sempre più diretta tra il no­
stro corpo-mente e i sistemi digitali. [...]
Nella cultura mediatica corrente mi pare si sia diffusa una caricatura ideo­
logica della virtualità, che suscita sia aspettativa di pseudo-liberazione che
timori legati alla crisi di identità. [...]
A un soggetto che ha perso i valori identitari forti ridefinendosi come un
insieme di informazioni, corrisponde una rete di transiti comunicativi
«just in time»; per ora in questa rete passano espressioni e saperi: il pro­
blema è allora come far scaturire una peculiare creatività del cyberspazio.
[...]
Non è che io non mi preoccupi del controllo strategico che il cosiddettto
«apparato industriale-militare» ha sulle nuove tecnologie, ma questo fatto
non deve fermarci dall’agire. Pensiamo per esempio a come nacque la
prospettiva all’alba della precedente era storica: furono i militari a incre­
mentare la balistica per ottimizzare l’uso delle armi da fuoco e da essa sca­
turirono alcuni principi della prospettiva, che divenne poi il «brain frame
visivo», come direbbe Derrick De Kerckhove, della civilizzazione rinasci­
mentale. [...]
La creatività è da ricercare nella produzione di senso, anche, ovviamente,
extra-artistica. Se la creatività nella produzione di senso sulle reti del cy­
berspazio è ancora da individuare, e forse emergerà con il connubio tra le
reti e le realtà virtuali, essa è già invece palesemente presente nel lavoro
degli artisti virtuali. Sia nella programmazione del software delle opere
che nella navigazione che il pubblico vi compie, si esprime la creazione
della nuova soggettività attraverso tutto un pattern di simboli, oggetti vir­
tuali e connessioni tra le persone, e tra le persone e l’ambiente...
(P. Gilardi, Dialogo con Marco Meneguzzo, in Piero Gilardi «Attraverso un cam­
biamento di natura», Fumagalli arte contemporanea, Bergamo 1995)

Da sempre particolarmente attento alle implicazioni etiche e politi­


che dell’innovazione scientifica e tecnologica, Gilardi aveva progettato e
559 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

proposto di creare per la fine millennio una bambola gigante ipertec­


nologica: Ixiana 2000. Così descritta da De Kerckhove:

Un’enorme bambola come esposizione itinerante delle più perfezionate


tecnologie meccaniche ed elettroniche, percepite e mostrate come esten­
sioni dirette, e modificatori del nostro corpo e della mente. La bambola
rappresenta una bimba e la sua testa-mente è un teatro per realtà virtuali.
Grazie a questo genere di installazione il pubblico potrebbe velocemente
imparare a capire l’impatto dei media sulla conoscenza e sui sensi. (in D.
De Kerckhove, catalogo Ars Electronica, Torino 1990)

Il gruppo milanese di Studio Azzurro (Fabio Cirifino, Paolo Rosa,


Stefano Roveda, Leonardo Sangiorgi), fondato nel 1982, è un gruppo
di sperimentazione artistica e produzione video di fama internazionale.
Le sue ricerche sono orientate sul rapporto arte e tecnologia e coinvol­
gono ambiti disciplinari diversi (arti visive, cinema, teatro, teatro musi­
cale, danza, progettazioni di manifestazioni e ambiti museali), negli ul­
timi anni hanno sviluppato soprattutto installazioni e ambienti interat­
tivi realizzando anche il film Il Mnemonista (2000) (www.studioazzur­
ro.com).

Per una estetica delle relazioni


Più volte mi è capitato di affermare che la maniera per valutare la riuscita
di certe mie esperienze (dello Studio Azzurro s’intende) sia affidata piut­
tosto che ai convenzionali modi di analisi e di riconoscimento, alla sensa­
zione nitida del trasformarsi del mio ruolo di ideatore e realizzatore di
queste esperienze in quello di spettatore. Una sorta di uscita dal sé gratifi­
cato e orgoglioso di autore della propria opera, per un sé, più modesto e
umile, di spettatore qualunque dei propri spettatori. Nel caso di talune
esperienze interattive, che hanno segnato il mio percorso artistico di que­
sti anni, l’apparente contraddizione è ancor più manifesta. Poiché lo stato
di spettatore fermo, di osservatore immobile contrasta con i comporta-
menti di altre persone che stanno invece agendo sui dispositivi, toccando
le immagini, provocando suoni e trasformando le narrazioni che si sono
appena composte. Questo spettatore classico, contemplativo, questo me
stesso fuori da qualsiasi forma narcisistica, è determinato dal piacere del-
l’osservazione, dalla bellezza del comportamento, delle reazioni, da ciò
che veicolano in termini di significato, di spontanea espressione. C’è uno
scarto infatti tra la reazione immaginata nel tuo progetto e il comporta­
mento realmente svolto dal partecipante. È uno scarto che attinge spesso
alle risorse più preziose dell’altrui immaginazione, svincolate dal risvolto
codificato perché si rifà a una spontanea e intrinseca reazione. È questo
scarto che induce spesso a trasformare l’autore che osserva in spettatore
sorpreso ed estasiato e misura la qualità estetica dell’opera che stai pre­
sentando. Già nella fase progettuale di un lavoro con caratteristiche di in­
ANTOLOGIA 560
terattività ambientale (per esempio i nostri «ambienti sensibili») hai con­
sapevolezza che, oltre a immaginare un’opera che si rifà certamente con
continuità a certi codici artistici, stai prevedendo una possibile reazione
degli spettatori, stai in qualche modo disegnando un atteggiamento com­
portamentale degli stessi. Questa consapevolezza non può evitare di porti
problemi di carattere etico: perché, in che modo e sino a che punto puoi
indurre le reazioni delle persone con cui desideri interloquire? Fino al li­
mite, come è capitato in qualche occasione, di interrogarti sull’opportu­
nità di realizzare per davvero un’idea o un progetto.
Sono domande, inquietudini che credo siano condivise in molti altri cam­
pi sperimentali e che riflettono la difficile condizione del pensiero etico
tradizionale, la sua debolezza, di fronte alla dimensione che ha assunto la
tecnologia (e l’economia) e alle possibilità che essa ci ha aperto. Trovarsi
nella posizione di essere progettista di comportamenti disvela le contrad­
dizioni impressionanti di questa materia, evidenzia l’assonanza con in­
quietanti dinamiche sociali, ma scopre anche il ruolo che potrebbe avere
la ricerca artistica nel rappresentare il punto di vista inverso del proble­
ma. Non infatti la determinazione di comportamenti per un uso stru­
mentale e di potere, viceversa la valorizzazione degli scarti espressivi, del­
le imprevedibilità, delle sorprese che possono essere restituite in queste
dinamiche. Tutto ciò non può avvenire se non c’è alla base un piacere,
una emozione, una considerazione profonda nell’idea di pubblico che ti
fai nella testa quando pensi e progetti queste opere. Il contrario dell’idea
utilitaristica se non addirittura speculativa che se ne fa nel caso opposto.
È proprio questa tensione che ti induce a capovolgere improvvisamente il
tuo ruolo e assumere i panni dell’altro. Ma penso che questa mia sensa­
zione, di ribaltamento da autore a spettatore, nasconda nella sua sempli­
cità, anche qualcosa d’altro che riguarda molto da vicino anche lo svilup­
po di quell’universo artistico che sentiamo così prossimo. Accade infatti
di avvertire, in questo spostamento, la necessità di rinforzare i codici di
un’estetica convenzionale, attraverso cui analizzare l’opera che si sta pro­
ponendo, con un nuovo punto di vista che ci sposta più sulla relazione
determinata dall’opera stessa con lo spettatore. È come se il centro del-
l’interesse si fosse spostato dall’oggetto all’azione, reale o mentale, che si
forma nella vicinanza dei due elementi. In altri contesti, ho definito que­
sta condizione «un’arte che è fuori di sé», vale a dire che l’oggetto artisti­
co, cosa, installazione o gesto, non è più il centro, ma solo il pretesto di
una dinamica che diviene invece il vero fulcro espressivo. Questa dinami­
ca la si può leggere solo se la si inquadra in un contesto estetico del tutto
inedito. Ecco perché il metro di misura attraverso cui colgo se un’opera­
zione è riuscita oppure no, sta proprio nell’osservazione, svuotata di qual­
siasi compiacimento, di ciò che la mia opera «fuori di sé» provoca. In
questo processo è evidente che la reazione dello spettatore (non più tale
oramai) è componente essenziale e fortissimamente espressiva. Si sente
perciò l’esigenza di formulare una vera e propria estetica delle relazioni,
basata sull’apprezzamento di momenti, incontri, reazioni, espressioni,
561 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

che non è necessario fissare su alcun supporto, che non è necessario far
diventare forma, ma sono da vivere e semmai raccontare successivamen­
te. Che sia centrale del resto parlare di relazioni in questa epoca, credo
sia evidente a tutti. Proprio le tecnologie, di cui ci occupiamo, in questo
modo che definirei «omeopatico», hanno esasperato esponenzialmente il
desiderio di comunicazione, di informazione. Al punto di identificare
questa necessità come l’esigenza di essere «connesso», sempre e ovunque,
con il fluire del mondo. Attraverso cellulari, televisioni, reti, la nostra
condizione di allacciamento agli eventi del mondo, planetari o privati
che siano, sta per realizzarsi in modo pressoché completo. Tuttavia a que­
sto essere «connessi» non corrisponde affatto un miglior essere «relazio­
nati». Anzi al contrario la dinamica individuale a cui condizionano questi
strumenti del comunicare, spingono a uno stato di solitudine, di isola­
mento, di estraniazione. A un abbandono di quelle ritualità sociali che
garantiscono lo scambio, il confronto, il dialogo, che sono le condizioni
in cui matura una propria ragione di esistenza e di identità, in cui matu­
ra una condizione di abitudine al dialogo con il diverso. Estetica delle re­
lazioni, può significare infatti, apprezzare il dialogo tra diversità, l’oscilla­
zione delle differenze, abituarsi a leggere la bellezza del confronto disar­
mato dalla rigidità ideologica. Sfido a credere che non ce ne sia bisogno.
L’arte deve accettare questa sfida, non rimpiangendo di aver ceduto, sul
piano dell’estetica tradizionale, molti elementi proprio a quei mezzi di
comunicazione che hanno una finalità precisa e che rincorrono un’idea
di «fruitore» assai chiara, parlo soprattutto dello spettacolo e della pub­
blicità. E piuttosto che rincorrerli nella loro vorticosa e suicida ebbrezza,
abbia il coraggio di uscire dal campo e identificare o inventare un nuovo
territorio su cui far sentire il proprio peso.
(Paolo Rosa, aprile 2004, testo inedito)

Il «tecknoartista» e mediattivista Giacomo Verde (www.verdegiac.org)


attraverso le sue installazioni estese alle tecnologie domestiche, al mon-
do digitale e della rete, si è da tempo schierato nelle sue opere contro
il monopolio tecnologico, economico e produttivo. Le sue oper-azioni
sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso
politico e di una riappropriazione-diffusione capillare dei mezzi tecno­
logici, tema che oltrepassa ogni argomentazione di tipo estetico. L’in­
terattività proposta da Verde è significativamente connessa a una prati­
ca sociale dell’arte: da Per mettere mano, azione installattiva di frantuma­
zione e ricostruzione ludica della televisione, alla Minimal tv, primo
progetto di telestreet o broadcasting comunitario autogestito ideato in­
sieme al gruppo Quinta parete, ai Giochi di autodifesa televisiva, all’in­
stallazione x-8x8-x (e sito collegato) dove nel gioco del loop video ap­
plicato allo schermo del computer, il visitatore vede apparire i siti Web
off-line delle associazioni mondiali non governative. In questo testo ine­
ANTOLOGIA 562
dito, racconta ironicamente e polemicamente i cinque livelli di interat­
tività dell’arte.

Riflessione soggettiva sull’interazione


In questi ultimi anni l’arte interattiva si è molto diffusa anche se, secondo
me, non sono state realmente approfondite le diverse tipologie di intera­
zione possibile. Inoltre il concetto di arte interattiva si è legato in maniera
riduttiva all’uso specifico delle tecnologie digitali in ambito installattivo.
Invece penso che «l’interazione» sia una «attitudine» che si può esprime­
re in diversi contesti artistici e che può esprimersi in maniera compiuta an­
che senza l’uso specifico di tecnologie digitali. Ne sono un valido esempio
le tv-comunitarie, certi happening teatrali o azioni di pittura o scrittura
collettiva. È comunque vero che lo sviluppo dell’informatica ha evidenzia­
to, elaborandole in diverse direzioni, le possibilità offerte dall’interazione.
Io considero l’interazione come un’esperienza che ha cinque livelli di
complessità o profondità, ma ci sto ancora riflettendo e non sono sicuro
che questa suddivisione sia giusta e definitiva.
1. Il primo livello di interattività è il cosiddetto «clicca e vai», che permet­
te al fruitore dell’opera di agire anche senza sapere cosa succede dopo. È
la curiosità dell’utente che innesca la partecipazione, che avvia un evento
precostituito dall’autore e comunque limitato nello spazio e nel tempo.
2. Il secondo livello riguarda l’idea dell’esplorazione, come la navigazione
nel Web, in un cd-rom, in un videogame o in un ipertesto. L’utente ha la
possibilità di fare un proprio percorso, una propria esperienza, attraverso
una grande quantità di informazioni comunque precostituite e difficil­
mente mutabili. In questo caso è importante valutare il livello di consape­
volezza che può venire acquisito dal «navigatore». Maggiore è la consape­
volezza acquisibile e maggiore sarà la navigazione cosciente, e quindi la
«riscrittura», dell’opera esplorata.
3. Il terzo livello è quello che apre lo «spazio-tempo» all’espressione per­
sonale o collettiva in un contesto precostituito: le vecchie BBS, le bacheche
o i forum presenti nel Web, che permettono una partecipazione a diversi
gradi (dal semplice scambio alla piena partecipazione, di quest’ultimo ca­
so è l’esempio Indymedia), le mailing list, gli archivi digitali collettivi, o co­
munque tutte quelle opere che contengono «segni concreti» lasciati dagli
utenti e che crescono e acquistano significati diversi sulla base della reale
partecipazione degli utenti. Sia nel «virtuale» sia nel «reale».
4. Il quarto livello di interattività viene realizzato dal mixare tutti quegli
«strumenti» che permettono di creare una propria espressione o di ospi­
tare quella di altri: ovvero, fai quello che vuoi con dei programmi che già
esistono per disegnare, scrivere, navigare, condividere... tutte azioni che
permettono di creare «oggetti o contesti» utilizzando dei software apposi­
ti, o degli attrezzi in ambienti spazio/temporali predisposti.
5. Infine l’ultimo livello di interattività è rappresentato dal «programma­
tore», che può essere individuale o collettivo: l’interazione è completa.
563 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

Costruisce il software e/o l’hardware che gli occorre per uno scopo e lo
utilizza condividendolo anche con altre entità.
Inoltre qualsiasi opera interattiva si può comprendere e giudicare soltanto
se la si «abita» completamente, se ci si sta dentro senza riserve, ovvero
mettendo in gioco i propri desideri e le proprie aspettative in prima per­
sona. Per esempio se in una mailing list si è semplicemente spettatori, li­
mitandosi a seguire la discussione senza intervenire, al massimo si possono
valutare le opinioni degli altri. Ma soltanto nel momento in cui nella di­
scussione viene espresso un argomento che ci tocca da vicino, spingendo­
ci a intervenire e a rispondere, la nostra interazione si attua completa­
mente. Cambia così la nostra percezione del gruppo di discussione e so­
prattutto del suo valore/senso. Questo accade di solito in tutte le opere in­
terattive. Ovvero i «partecipanti» non possono essere semplici spettatori
curiosi, perché soltanto se si attivano mettendo in gioco le proprie pulsio­
ni emotive, i propri desideri, le proprie credenze e così via, diventa un’e­
sperienza interattiva, altrimenti rimane una esperienza «limitata» quanto
la percezione di un video, di un quadro o di un libro. Per questo spesso
per i critici d’arte, di formazione tradizionale, è molto difficile compren­
dere e valutare un’opera interattiva. Spesso si soffermano sull’aspetto for-
male, per esempio sull’interfaccia grafica o sull’argomento trattato. Ma
nelle opere interattive il vero soggetto è il comportamento dei fruitori, e la
grafica è «solo» l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi com­
portamenti di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero
cuore dell’opera.
(Giacomo Verde, aprile 2004, testo inedito)

L’artista australiano Stelarc (1948) è un performer tecnologico, la


cui ispirazione si può ricollegare alla Body Art (nata alla fine degli Ses­
santa), ma che ha intrapreso un percorso decisamente personale (dagli
anni Ottanta), praticando e teorizzando l’innesto tecnologico nel corpo
umano (sue note performance sono: l’innesto di una terza mano artifi­
ciale, l’inserimento di una microscultura cinetica nello stomaco, l’uso
del suo corpo come interfaccia del computer, anche manipolabile a di­
stanza tramite la tecnica del «touch screen», o l’attuale progetto di
crearsi un terzo orecchio tecnologico). La ricerca artistica di Stelarc,
enfatizzata da alcuni e radicalmente criticata da altri per le sue implica­
zioni etiche, s’inserisce in una riflessione «filosofica» sui limiti evolutivi
dell’essere umano e sulle ipotesi di un loro superamento tecnologico.

Penso che la tecnologia abbia alterato la nostra percezione di che cosa


«sia» un corpo, e di come un corpo «operi». Penso che il corpo sia una
specie di «architettura» evolutiva per operare e per la consapevolezza nel
mondo, e la tecnologia sia un tipo di prolunga addizionale del corpo. Co­
sì, noi accettiamo l’architettura del corpo quando le aggiungiamo la tec­
nologia. Penso che la nostra consapevolezza del mondo venga modificata
ANTOLOGIA 564
attraverso questa «ibridazione» della biologia con la tecnologia. Penso che
anche i concetti dell’esistenza vengano di conseguenza alterati, perché
con la tecnologia possiamo costruire sistemi di supporto per la vita del cor­
po umano, prolungando, estendendo così, la vita del corpo, e riparando
il malfunzionamento del corpo ferito o ammalato. [...]
Ho filmato tre metri di spazio interno al mio corpo, poi, con la Scultura
nello stomaco, abbiamo costruito una scultura destinata non ad uno spazio
pubblico, bensì ad uno spazio «privato-fisiologico»: l’interno del mio cor­
po; questa scultura è un oggetto elettronico che ha la capacità di aprirsi e
chiudersi, di estendersi e ritrarsi, che è munita di una luce lampeggiante
ed un «beep» ripetuto. Così tu puoi immaginare questo oggetto all’inter­
no di una parte del corpo, che normalmente si è soliti pensare come umi­
da, bagnata, scura e vulnerabile, ma bisogna cercare di vedere tale corpo
anche come uno spazio vuoto, non solo come un solido e confinato corpo
biologico [...]
L’etica è spesso rigenerata dalla tecnologia e da nuove situazioni. Credo
che la posizione «etica» per un artista sia molto più flessibile, fluida, e la
tecnologia generi nuove possibilità di concepire l’etica stessa. [...]
Credo sia interessante capire che ciò che è significativo a proposito del-
l’uomo, non è semplicemente affermare lo stato sociale e biologico, ma
piuttosto, esaminare, esplorare, e in qualche modo, «appropriarsi» dei
nuovi dilemmi etici, e di queste nuove possibilità etiche; e credo che non
sia una cosa molto facile da fare. Naturalmente questo ridefinisce anche
cosa noi esseri umani «significhiamo», quello che intendiamo dire con la
parola «esistenza», perché se si è in grado di fertilizzare un ovulo all’ester­
no del corpo – e nel nostro prossimo futuro, si potrà far crescere un feto
all’esterno del grembo materno – allora abbiamo una situazione in cui la
nostra vita inizierà «senza nascita». Se in futuro potessimo sostituire le
parti mal funzionanti del nostro corpo, con componenti di derivazione
tecnologica, o trapiantando organi, allora vi sarà una possibilità di avere
una vita che non finisca con la «morte». Così, improvvisamente dobbiamo
ridefinire l’esistenza: non inizia con una nascita e non finisce con la mor­
te. Come dobbiamo definirla? [...]
Credo si possa fare un paragone tra il corpo obsoleto e la tecnologia ob­
soleta.
Suppongo di vedere il corpo come una specie di «apparato biologico»,
una sorta di «architettura biologica» con un certo repertorio genetico di
comportamenti, che permette al corpo di compiere certe attività sociali e
culturali. Possiamo anche dire, che questo corpo biologico, mentre accu­
mula sempre più informazioni, mentre costruisce sempre più macchine,
effettivamente non può più reggere sul nuovo terreno tecnologico che lui
stesso ha creato. [...]
Le macchine, adesso, sono molto più precise, molto più potenti e molto
più veloci. Nelle loro operazioni, si stanno sostituendo con le macchine
molte delle funzioni che erano del corpo. [...]
Così, se i parametri di sopravvivenza del corpo umano sono molto più li­
565 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

mitati, accettiamo il fatto che il corpo umano è «obsoleto». E in qualche


modo incrementiamo il corpo umano con innesti e impianti tecnologici,
costruiamo molte più interfacce per il corpo. [...]
Le mie performance, generalmente, sono difficili da realizzare fisicamen­
te. La differenza tra la pittura e l’arte della performance è che nella
performance devi accettare le conseguenze fisiche delle tue idee. Tu hai a
che fare con il corpo fisico, con te stesso. Così, se mi viene l’idea di so­
spendere il corpo o se mi viene l’idea di inserire la tecnologia dentro il
corpo, queste sono cose difficili da compiere, non penso possiamo descri­
verle come azioni «violente», sono invece necessarie per sperimentare le
nuove interfacce con la tecnologia. Io costruisco le interfacce, io le speri­
mento direttamente e dopo posso articolare una riflessione a proposito
del significato delle esperienze fatte. I miei testi e ciò che scrivo non sono
solo speculazioni immaginative a proposito del corpo umano, sono idee
generate dalle azioni. In un certo senso le idee sono autenticate dalle
performances [...]
Ho sempre considerato me stesso soltanto un artista performer. Ho sco­
perto, quando frequentavo la scuola dell’arte, che ero un pessimo pittore.
Nelle mie performances, il corpo è esplorato sia nella sua architettura bio­
logica sia nella sua «incrementazione» tecnologica. Se c’è un interesse nel
trasformare il corpo, allora c’è un interesse nel considerare il corpo ridi­
segnato, nel rifargli la mappa e la configurazione, e nel permettere al cor­
po, non soltanto di funzionare come macchina, ma anche di funzionare
come entità virtuale di ricerca. [...]
(da una intervista inedita a Stelarc, realizzata e tradotta da Sara Simonini,
Sidney, Australia 2003)

Antoni Muntadas (1942), artista catalano trasferitosi a New York dal


1972, ha esposto in tutte le principali mostre internazionali ma è parti­
colarmente noto per i suoi progetti che prevedono un uso artistico dei
media e new media, in funzione sociale e politica. Uno dei suoi proget­
ti più interessanti nasce nel 1995 ed è un archivio (File Room,
http://www.cd.sc.ehu.es/FileRoom/documents/) creato in rete per
raccogliere in formato digitale e rendere accessibile a tutti l’immenso
materiale artistico censurato dalle autorità nel corso della storia, dal­
l’antichità a oggi. Muntadas ha creato anche una installazione che ri­
produce l’ambiente di un archivio (come un locale dei servizi segreti),
con pareti di schedari e postazioni di computer, dove i visitatori possono
consultare questi documenti on-line; inoltre possono aggiungere ai ma­
teriali esistenti le proprie riflessioni, nuovi documenti e informazioni
sulla censura dell’arte e della libera espressione creativa. L’intenzione di
Muntadas era infatti quella di incoraggiare le persone a ripensare le lo­
ro nozioni di censura e ad allargare le definizioni di esse.
ANTOLOGIA 566
La censura adesso è molto più sottile, ha mutato forma. Prima distrugge­
vano i libri o tagliavano i film, adesso usano strategie diverse. Alcuni anni
fa la qualità tecnica era un motivo, o meglio una giustificazione, per un ri­
fiuto. Possono anche dire che una certa cosa non ha valore commerciale.
E si rimane sempre con il dubbio: «È censura questa?». Le persone che og­
gi applicano la censura sono più sottili perché sono molto più consapevo­
li dei media e delle loro implicazioni.

Per Muntadas il lavoro dell’artista deve essere sempre contestualizza­


to nella storia dei media e non essere vincolato allo specifico di qualcu­
no di essi:

Io non ho mai voluto legare il mio lavoro a nessun medium specifico. De­
testo l’idea degli artisti chiamati «video artisti» o «net artisti». Io definisco
semplicemente me stesso come un artista che usa differenti media. [...]
Credo che quanto è successo con il video e con la fotografia ci può aiuta­
re a capire il modo in cui oggi i nuovi media entrano nelle arti. Questi me­
dia relativamente recenti sono interessanti da analizzare. In origine non
sono nati, com’è stata invece la pittura, come dei media artistici. La foto­
grafia nelle sue origini era piuttosto una sorta di antropologia visiva, e fu
usata come strumento di rappresentazione al posto dei media precedenti.
Gli artisti sono una minoranza nella storia della fotografia.
Con il video è successa la stessa cosa: la televisione esisteva e il video fu usa­
to commercialmente in differenti modi. Qualcuno poi iniziò a usare il vi­
deo come un medium artistico. Quando la rete apparve fu per uso milita­
re, in seguito venne utilizzata dal mondo accademico e dopo qualche an-
no alcuni artisti cominciarono a capire che era uno spazio utilizzabile an­
che per loro, a cui potevano connettersi e che potevano attivare.

Muntadas sottolinea come a ogni apparizione di un nuovo medium si


creino molte aspettative e molte prospettive interessanti di uso creativo
ma poi finiscano per prevalere i meccanismi dell’industria, del sistema
politico ed economico che se non distruggono, sicuramente modificano
e riducono tali aspettative iniziali, producendo un’«esperienza decaffei­
nata delle aspettative originali»:

Durante gli ultimi dieci anni la rete è stata come un nuovo territorio. Per
quanto tempo lo rimarrà non possiamo saperlo. Al momento si sta cer­
cando di «tirare al massimo» questo medium. Io penso che l’immagina­
zione e le prospettive degli artisti in questo campo siano ottime. Anche
molte opere realizzate da giovani artisti nel campo del video sono valide.
Molte ripetono ciò che è stato fatto da altri in passato, ma sempre in un
modo diverso. [...]
Il medium influenza anche il modo in cui la gente osserva o percepisce l’o­
pera. Una grande quantità di progetti in rete diventa molto popolare sul­
567 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

la rete stessa, ma nessuno li conosce al di fuori. Questa è una buona cosa.


Io non penso che tutti debbano essere tramandati dalla storia nello stesso
modo. Ogni medium procede per la sua strada. Il video negli anni Settan­
ta e Ottanta era ancora un medium totalmente «underground», e fu rifiu­
tato dal sistema dell’arte. Adesso è stato completamente assorbito dalla ge­
nerazione degli anni Novanta, diventando parte del sistema delle gallerie
e del mercato dell’arte.
(A De-cafinated Experience (of Net.Art), intervista ad A. Muntadas a cura di J.
Bosma, dicembre 1999, in «Telepolis. Rivista di netcultura», http://
www.heise.de/tp/english, trad. di A. Balzola)

Margaret Benyon, artista inglese che proviene dalla pittura, è stata la


prima artista a realizzare un ologramma senza l’aiuto degli scienziati.
Pluripremiata, ha contribuito in modo determinante con le sue opere
artistiche, con i suoi studi teorici e ricerche tecniche allo sviluppo del-
l’arte olografica.

Il lato più attraente dell’olografia è la sua capacità di trasformare la luce in


sostanza apparente, illuminazione metaforica di visioni. [...]
L’olografia condivide alcune proprietà con gli altri media. In termini tra­
dizionali, può essere apparentata a un’estensione sia della pittura sia della
scultura perché memorizza le tre dimensioni su una superficie bidimen­
sionale. Un ologramma assomiglia a una fotografia, perché è anch’essa re­
gistrata su un’emulsione fotosensibile, ma qui si fermano le somiglianze.
L’olografia si definisce meglio come un sistema in grado di codificare lo
spazio, strutturalmente più prossimo a sistemi come la cartografia, i rilievi,
e anche l’essicamento a freddo del caffè, piuttosto che alla fotografia. An­
che la descrizione dell’olografia come «fotografia senza lenti» è imprecisa
perché gli ologrammi possono essere generati sia dalle onde sonore sia
dalle onde luminose. [...]

Margaret Benyon ricorda le difficoltà nello sviluppo dell’olografia co­


me medium e più ancora come arte:

Se si fa un paragone con gli altri media, ben poche opere d’arte sono sta­
te realizzate con l’olografia. [...] con una stima ottimista ma sommaria ci
saranno circa trecento artisti olografici sparsi per il mondo, la maggioran­
za dei quali lavorano negli Stati Uniti. [...]
Gli ostacoli alla crescita dell’olografia come medium artistico sono nello
stesso tempo tecnici e culturali. [...] L’arte non occupa che una percen­
tuale molto piccola, benché vitale, nel campo molto più vasto dell’ologra­
fia. [...]
L’impiego dell’olografia è variegato e individuale. Gli artisti olografici pro­
vengono da diverse sfere delle arti visive e letterarie, delle comunicazioni,
e anche delle arti sceniche, della performance e delle arti effimere. La
ANTOLOGIA 568
maggioranza di loro ha poche conoscenze scientifiche ma possiede un
forte desiderio di superarsi e una volontà di inventare, di risolvere dei pro­
blemi. L’olografia ha inoltre trasformato in artisti delle persone senza ba­
gaglio artistico o scientifico.
(M. Benyon, in L. Poissant, 1995, trad. di A. Balzola)

Il belga Derrick De Kerckhove è uno dei più importanti studiosi e teo­


rici del rapporto tra i processi cognitivi umani, le attività artistiche e le
nuove tecnologie telematiche. Allievo ed erede intellettuale di Marshall
McLuhan (1911-80, il più noto teorico dei mass-media), è direttore del
McLuhan Program in Culture and Technology all’Università di Toronto.
Nell’ambito di questo progetto vengono promosse e finanziate le speri­
mentazioni artistiche applicate alle nuove tecnologie e alle realtà virtua­
li. Nel suo testo Brainframes (1991) riflette sulla possibilità di un’arte ro­
botica. Dal robot «classico» al servizio dei nostri bisogni domestici o in­
dustriali e dai partner virtuali si passa all’autonomata, il robot di ultima
generazione, derivante da un nuovo movimento di creazione, di gene­
razione e di estensione dal centro alla periferia. La nuova percezione
del mondo creato dall’uomo sta in una zona limite tra realtà e menzo­
gna. Ovvero nella simulazione.

L’autonomata è una nuova categoria di esseri ibridi, robotica in quanto


non c’è niente di organico in esso, ma è dotato di una tale autonomia psi­
comotoria e fisiomotoria che gli si può attribuire una certa qualità umana.
Ci si accorge che è sempre meno difficile dotarlo di intelligenza e di sog­
gettività e di permettergli dunque di diventare autonomo. [...] Passiamo
subito all’alternanza fondamentale a mio avviso per la robotica e che chia­
merei l’andare dal centro alla periferia, dal centro dell’uomo alle sue
estensioni, e ritorno, cioè quella della creazione di ritorno sull’uomo, mo­
vimento che è fondamentale nella storia dello sviluppo della robotica.
Come la parola è considerata un’estensione del gesto, il robot è una delle
estensioni del gesto umano. Al cuore dell’essere si situa una gestualità che
viaggia dal centro del corpo verso l’esterno per uscirne letteralmente. Il
movimento, la separazione del robot dal corpo passa attraverso degli stati,
segue la volontà che ne è il punto di partenza. Biologicamente quindi c’è
un accordo fra la volontà, la pianificazione e l’esecuzione. C’è un deside­
rio. Questo desiderio deve generare un ordine che a sua volta genera un
progetto, che genera ancora un’esecuzione. Nel sistema nervoso, questa
storia si ripete ogni volta che si attua un gesto. Di conseguenza, possiamo
notare nel pensiero e nella creazione robotica un piano di espansione del
progetto industriale, un’amplificazione dei metodi e infine una distribu­
zione dei prodotti in maniera tale che il maggior numero di persone pos­
sa usufruirne. La cosa interessante nel passaggio dal gesto al robot è quel­
lo che chiamerei lo spostamento della forza motrice, cioè lo spostamento
dell’energia dal corpo a ciò che gli è esterno. Dal momento che è possibi­
569 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

le mettere più energia nella macchina che nel corpo, la macchina si di­
stacca dal corpo.
Un secondo tipo di spostamento dal centro alla periferia crea un soggetto
autonomo: è la separazione dell’intelligenza. Ci troviamo in una cultura in
cui passiamo dal campo della forza a quello della pianificazione dell’intel­
ligenza. È quindi questo spostamento dell’intelligenza che crea l’autono­
mazione. La macchina non può essere autonoma se ha solo energia che si
diparte da essa. Essa diventa autonoma solo nel momento in cui all’ener­
gia si somma l’intelligenza per darle un soggetto. A questo punto ci tro­
viamo di fronte a uno spostamento del soggetto e una messa in gioco au­
tomatica del soggetto fondamentale occidentale quale noi siamo. Si pro-
duce quindi un effetto di ritorno. La macchina ci guarda dalla periferia al
centro. Si tratta di affinare lo sguardo, l’ascolto, di permettere al robot di
distinguere i suoni... la vista, l’udito; la cinedinamica, la cinetica e il tatto
sono sollecitati. Non bisogna dimenticare che come ogni sistema interatti­
vo, il sistema di interazione tra il corpo e la macchina è una variazione del
tatto, senso essenziale che abbiamo represso per quattrocento anni di os­
sessione testuale e che ritroviamo con queste macchine. Perdendo il tatto
abbiamo anche perso il contesto, ossessionati dai testi, abbiamo dimenti­
cato il contesto di cui abbiamo impellente bisogno. Al centro dell’interat­
tività si trova la fondamentale correlazione neurotecnologica che è la pro­
priocezione cioè la percezione diretta e immediata che si ha del mondo nel
proprio corpo. Percezione all’interno del corpo e percezione dell’esterno
del corpo dal momento che esiste anche quello che potremmo definire la
esterocezione, cioè il feedback che si riceve nel nostro essere. Siamo persone
ossessionate dai nostri punti di vista ma entriamo in un’epoca in cui il no­
stro punto di vista non è più sufficiente, in cui il punto di essere (di vita,
n.d.t.) diviene più importante. Grazie alle estensioni, il corpo non termina
più con la pelle. Siamo molto più grandi. Menzogna e verità della simula­
zione, perché alla propriocezione segue la propriodecezione. In effetti la pro­
blematica organica, tecnica, resta. Man mano che le macchine danno al
corpo delle informazioni supplementari, esse ci raccontano delle bugie
nello stesso tempo in cui ci dicono la verità. Perché delle bugie? Perché so­
no sempre delle simulazioni. Nella realtà virtuale avete dei guanti, degli
occhiali e tutte le sensazioni che provate sono interamente costruite dal
computer. Quindi sono delle menzogne. Ma in realtà, non è proprio così,
perché la simulazione è una menzogna e un verità insieme. Perché la si­
mulazione parla il suo linguaggio a ciascuno dei nostri sensi ed è quindi
reale. Si trova all’interfaccia, letteralmente e metaforicamente, tra il reale
e il virtuale. E non siamo ancora riusciti a risolvere questa complessità sup­
plementare. Propongo dunque il termine ibrido di «propriodecezione»
perché è insieme vero e falso. Siamo obbligati a fronteggiare questa du­
plicità del mondo nuovo, che è quella dell’uomo assistito dal computer.
(D. De Kerckhove, L’éspace de la robotique en art, in L. Poissant, 1995, trad. di
A.M. Monteverdi)
ANTOLOGIA 570
Il brasiliano Eduard Kac è l’inventore della bio-arte. Dopo installa­
zioni sulla telepresenza e sull’arte bio-telematica (sui cui ha pubblicato
un libro: Telepresence, Biotelematics and Transgenic Art) inizia i suoi esperi­
menti artistici che vanno sotto il nome di arte transgenica (detta anche
DN-art), termine da lui coniato nel 1999. Si tratta di una corrente artisti­
ca estrema e molto discussa (soprattutto da ambientalisti e animalisti),
legata alle biotecnologie e alle manipolazioni genetiche, agendo cioè sul
DNA di animali e mescolandone le caratteristiche. Kac ha realizzato GFP
Bunny, un coniglio fosforescente (trasferendo nel suo genoma le pro­
teine fluorescenti di una medusa del Pacifico). Nella citazione che se­
gue, Kac sottolinea che l’opera d’arte transgenica non si limita a creare
nuove forme di vita ibride attraverso l’incrocio di geni, ma continua nel
legame possibile da instaurare tra questi nuovi esseri e la società, in per­
fetta relazione con quello che accade nelle sperimentazioni scientifiche
agricole, sulle piantagioni di organismi geneticamente modificati e già
in commercio da tempo. Un’arte insomma, che dovrebbe suscitare, se­
condo le intenzioni dell’artista, un ragionamento sulle biotecnologie e
sulla biodiversità.

L’arte transgenica (1999)


L’essenza di questa nuova forma d’arte è definita non solo dalla nascita e
dalla crescita di una nuova pianta o di un nuovo animale, ma soprattutto
dalla natura della relazione tra l’artista, il pubblico e l’organismo transge­
nico. L’opera d’arte transgenica può essere portata a casa, sia per essere
piantata nel giardino o per essere elevata al rango di compagno. Dal mo­
mento che ormai quotidianamente sparisce almeno una specie in via di
estinzione, suggerisco che gli artisti possano contribuire ad accrescere la
biodiversità mondiale, inventando delle nuove forme di vita. Non c’è arte
transgenica senza senso di responsabilità e senza una forma di impegno se-
rio verso le nuove forme di vita così create.

Le biotecnologie salveranno il mondo (o arricchiranno soltanto la


Monsanto?)

Le culture transgeniche saranno predominanti, degli organismi transge­


nici popoleranno la fattoria e degli animali transgenici faranno parte del­
la nostra famiglia allargata. Bene o male, i legumi e gli animali di cui ci nu­
triamo non saranno più gli stessi. Le fave, le patate, il mais, la zucca e il co­
tone modificati geneticamente sono stati piantati e consumati su vasta sca­
la dal 1995. Lo sviluppo di «planticorpi», vale a dire di geni umani tra­
piantati nel mais, nella soia, nel tabacco e altre piante per produrre degli
anticorpi di qualità farmaceutica, promettono un’abbondanza di proteine
a buon mercato. Se le ricerche e le strategie di marketing mettono spesso
il profitto al di sopra delle considerazioni di ordine sanitario (non si pos­
571 ESTETICHE DELLE ARTI TECNOLOGICHE

sono ignorare i rischi che rappresenta la commercializzazione di cibo tran­


sgenico non identificato e potenzialmente malsano), la biotecnologia sem­
bra per altro offrire delle reali promesse di guarigione là dove il tratta­
mento è ancora difficile. […]
Il fatto che l’ingegneria genetica renda superato il concetto di specie ba­
sato sulla nozione tradizionale di riproduzione mette in gioco l’idea di che
cosa sia l’essere umano. Tuttavia questo non costituisce una crisi ontologi­
ca. Essere umano significherà che il genoma umano non è più un nostro
limite ma il nostro punto di partenza.
(E. Kac, L’art transgénique, in L. Poissant, a cura di, Interfaces et sensorialité,
Québec 2003, trad. di A.M. Monteverdi)
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INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Abe, Shuya, 163 Albera, P., 112n


Accademia degli Artefatti, 332 Albe-Ravenna Teatro, 332
Accions (1984, M. Antúnez Roca), 352 Albers, Joseph, 457
Acconci, Vito, 166, 168, 171 Albert-Birot, Pierre, 46, 47, 47n
Accuso! (A. Gance), 454 Albertini, R., 434n
Achard, Marcel, 453 «Aleph cinema e altri mezzi», 499
Achterland (1994, T. de Keersmaeker), Aleksandr Nevskij (1938, S. Eisenstein),
395 50
Acker, Kathy, 474 Alembert, Jean Le Rond d’, 233
Acousmonium (F. Bayle), 204 Alexandrov, Grigori, 151
Acton, Arlo, 164 Alinovi, F., 175n
Adcock, Willis A., 185 Allan’s and Allen’s Complaint (A. Ka­
Adding Machine, The (1923, E. Rice), 362 prow), 172, 464
Adding Machine: A Virtual Reality Project of Allegoria dell’opinione verbale (R. Doati),
Elmer Rice (1995, M. Reaney, R.A. Wil­ 422
lis), 362, 471 All That Jazz, 390
«AD. New Architecture», 371n, 376, All Vision (1976, S. Vasulka), 463
379n Alonge, R., 311, 320n, 322n, 388n
Ad onta di tutto (1925, E. Piscator), 94 Alphaville (1965, J.-L. Godard), 307, 329
Adorno, Theodor Wiesengrund, 151 Alston, Richard, 394
Adrian, Robert, 229, 230, 277, 278 Altman, Robert, 196
Adrien, Anouk, 458 Amaducci, A., 325n
Afasia (1998, M. Antúnez Roca), 352 Amelio, Gil, 185
Afternoon, a Story (1987, M. Joyce), 241, Amer America (A. Preljocaj), 389
469, 529, 530, 531 American Moon (R. Whitman), 482
Agamben, Giorgio, 435 Amerika, Mark, 242, 243, 243n, 284,
Agar (1999, M. Antúnez Roca), 352 473, 521, 532, 533
Aglioti, A., 323n Amerio, Fabio, 465
Agnetti, Vincenzo, 171 Amleto (1959, J. Svoboda), 105, 106
Agosti, Silvano, 67 Amleto (1977, C. Bene), 172, 464
Aguilar, Toni, 353 Amleto (E.G. Craig), 105
AHA - Activism Hacking Artivism, 286 Amleto (W. Shakespeare), 365
Aiguilles et l’opium, Les (R. Lepage), 342 Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a
Aitken, Doug, 297 Laforgue, 1978, C. Bene), 464
Ajax (1986, P. Sellars), 337 Anamnesis (1974, P. Campus), 291
Akerman, Chantal, 297 Anceschi, Giovanni, 134, 252, 252n
Ala dei sensi, L’ (1999, G. Celli, E. Cuo­ Anche il più saggio si sbaglia (1923, S. Ei­
ghi), 422 senstein), 49
A la renverse (1980, M. Vinaver), 307 Anche le mani invecchiano (1980, M. Sam­
A las cinco de la tarde (1984, M.-J. Lafon­ bin), 328
taine), 291 Anderson, Laurie, 8, 118, 157, 343, 466,
Albano, L., 156n 467
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 588
Anger, Kenneth, 505 Assieme (C. Baglioni), 376
Anichini, A., 218n Association for Computer Machinery,
Animali sorpresi distratti (1983, G. Barbe- 233
rio Corsetti), 329 Astruc, Alexandre, 192
Animals (1977, Pink Floyd), 380 «ateatro.it», 310n, 311n, 345n, 348n,
Animazoo, 404 360n, 364
Anna (1975, A. Grifi), 170 «Athenaeum», 26, 28, 30, 533
Anthropometries de l’epoque bleue (Y. Klein), «Atlantic Monthly», 525
135 Atlas, Charles, 463
Antigone (1966, Living Theatre), 102, Attisani, Antonio, 340
103 Atzori, Paolo, 361, 362, 363n, 364, 390,
Antonioni, Michelangelo, 151, 314, 498, 403
508, 509, 540 Aulenti, Gae, 104, 104n
Antúnez Roca, Marcel.lì, 351, 352, 353, Aurier, Albert, 133
477 Auslander, Philip, 78, 79, 79n
A Pair of Paradoxes (1988, E. Zajec), 271 Autobodys (C. Oldenburg), 484
Apollinaire, Guillame, 46, 47, 167, 276, Automotive (1972, L. Anderson), 466
489 AvANa.net (collettivo), 286
Appia, Adolphe, 35, 36 ,37, 40, 51, 74, Avec détermination (A. Schmidt), 408
85, 301, 302, 317, 317n, 359 Avec nous le deluge (1963, J.-C. Averty),
Aprà, A., 68n, 506 167
Aragon, Louis, 48 Avec tact (A. Schmidt), 408
Arcangel, Cory, 287, 287n Averty, Jean-Cristophe, 166, 167, 168,
Architettura ambulante (O. Schlemmer), 169, 171, 172
91 Avventure del sig. Quixana, Le (1999, R.
Archivio Hacker Art, 234 Castello), 390
Arcobaleno (fratelli Corradini), 44 Azari, 41
Argan, Giulio Carlo, 137
Ariosto, Ludovico, 103, 333, 462 Bablet, Denis, 31, 32n, 84, 84n, 85, 85n,
Aristotele, 241, 300, 435 91n, 92n, 105, 105n, 106
Arman, Ben, 98 Baboni Schilingi, Jacopo, 114
Armitage, Karole, 388, 390, 394 Baccanti, Le (L. Ronconi), 104
Arnheim, Rudolf, 150, 151, 153, 153n, Bacone, Francesco, 233, 363
160, 160n Baglioni, Claudio, 376
Aronson, Arold, 78 Bain, Alexander, 183
Arp, Hans, 134, 135, 137 Baiocchi, M., 547
ARPA – Advanced Research Project A­ Baj, Enrico, 507
gency, 523 Baldessarri, John, 171
«Ars Technica», 557 Baldi, L., 507
Ars Tecnica, 431n Balestrini, Nanni, 540, 555
Artaud (1987, Magazzini Criminali), Baliani, Marco, 307n
329 Ball, Hugo, 45, 135, 143
Artaud, Antonin, 37, 40, 47, 75, 76, 76n, Balla, Giacomo, 41, 43, 132, 134, 139,
77, 97, 130, 302, 309. 454, 458, 487, 293, 322, 379, 481
501 Ballard, James G., 333
Artioli, Umberto, 32n, 35n, 85 Ballet mécanique (F. Léger), 163, 402n
«Artlab», 253n Balletto triadico (O. Schlemmer), 91
Art of Memory (1980, W. Vasulka), 549 Balli plastici (F. Depero), 43, 132
Ascott, Roy, 15, 229, 230, 230n, 278 Ballo, G., 128n, 266n
Aspen (progetto), 10 Balpe, Jean-Pierre, 113n, 114n, 402n
Aspettando Godot (S. Beckett), 310 Balzola, Andrea, 103, 172, 305, 308, 309,
589 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

311n, 315, 325, 330, 342n, 348, 387n, Beckett, Samuel, 167, 300, 303, 304, 306,
428n, 432, 455, 463, 464, 465, 473, 310, 362
491, 493, 499, 512, 520, 532. 533, 537, Beethoven, Ludwig van, 27, 138, 518
538, 555, 557, 567, 568 Béhar, H., 47n
Bambola articolata o Marionetta (O. Sch­ Behr, M.E., 536
lemmer), 91 Beirne, Joe, 195, 195n
Bandiere (1918, E. Piscator), 94 Belli, Gabriella, 132n
Bandini, Mirella, 486 Beltrame, Paola, 351
Banu, Georges, 79, 79n, 80, 324, 342, Bene, Carmelo, 83, 172, 301, 321, 328,
342n 464, 465, 477, 507
Baratta, G., 151n Benjamin, Walter, 11, 62, 62n, 79, 133,
Barba, Eugenio, 301, 302, 319n 150, 162, 267, 267n, 342, 401, 408
Barberio Corsetti, Giorgio, 59, 291, Benyon, Margaret, 540, 567, 568
307n, 308, 323, 326, 326n, 329, 390, Berberian, Cathy, 203
390n, 468, 477, 492 Berg, Alban, 38, 506, 514
Barcellona, Pietro, 81, 81n, 350 Berger, René, 150, 323, 519, 520, 540,
Baresi, Giuseppe, 330 548, 553, 554, 555,
Barilli, Renato, 175, 175n, 231, 255, Bergson, Henri, 73, 490, 497, 498, 499
255n, 540, 550, 551 Berio, Luciano, 115, 202, 203, 218, 409,
Barjavel, René, 70, 70n 412, 512, 518, 519
Barlach, Ernst, 128 Berliet, Jimmy, 453
Barlow, J.P., 227n Berliner Ensemble, 304
Barnak, Oscar, 190 Berners-Lee, Tim, 216, 225, 225n, 228,
Barney’s Bearnery (E. Kienholz), 141 234, 235, 248, 444, 521, 523, 524, 525
Barrault, Jean-Louis, 454 Bernhard, Thomas, 303, 304
Barron, Stéphan, 230 Bertetto, P., 43n, 60n, 501, 513
Barthes, Roland, 8, 117, 117n, 177n, Berthin-Scaillet, A., 512
226, 240, 346, 497, 499, 500 Berti, Alessandro, 396
Bartlett, Bill, 229 Bertolucci, Giuseppe, 192n
Bartlett, Scott, 164 Berzelius, Jöns Jakob, 183
Bartolucci, F., 323n Bettetini, Gianfranco, 52, 220n, 225,
Bartolucci, Giuseppe, 300, 321, 322, 386, 387n, 388n, 397n, 428n
322n, 323n Bettina (1976, L. Ronconi), 172, 490
Baruchello, Gianfranco, 57, 57n, 69, 507 Beuys, Josef, 134, 142, 157, 228, 229n
Bassi, B., 240n Bianchi, Ruggero, 319, 319n, 320, 320n
Basso, A., 128n Bianco e Nero (T. von Hartmann, V. Kan­
Battistelli, Giorgio, 123, 308 dinskij), 40
Baty, Gaston, 40 Bicocchi, Maria Gloria, 170
Bauchard, Franck, 348, 348n, 360n Big Art Group, 344
Baudelaire, Charles, 17, 31, 32, 39, 51, Biped (1999, M. Cunningham), 360, 405
77, 92, 125, 128, 149, 198, 198n, 317, Birds (2000, D. Hinton), 402n
437, 503 Birringer, Johannes, 405
Baudrillard, Jean, 340n Bisaccia, A., 57n
Baumgaertel, T., 282n Biusseger, Peter, 455
Bausch, Pina, 392 Black Panther (Party), 545
Bayer, F., 115n Blade Runner, 374
Bayle, Françoise, 204 Blake, William, 243
Bazzichelli, Tatiana, 286 Blanchot, Maurice, 467
Beatles, 371 Blank, J., 277
Beatrice, L., 279n Blasi, G., 233n
Beck, Julian, 102 Blue Studio (C. Atlas), 463
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 590
Blue Studio: Five Segments (N.J. Paik), 463 Breton, André, 44n, 48
Boal, Augusto, 495 Breuer, Lee, 319, 319n
Boccioni, Umberto, 129, 138 Bridge to Babylon (1997, Rolling Stones),
Body as Sight (R. Butcher), 394 376, 380, 381
Bodybot Requiem (1999, M. Antúnez Ro­ Brik, Lili, 60
ca), 352 Bring, The (Living Theatre), 75
Body Language (D. Rokeby), 497 Brizio, G.S., 66n
Boetti, Alighiero, 329 Broeckmann, A., 278n
Bogani, G., 368 Brook, Peter, 101, 301
Boissier, J.-L., 407 Brown, Carolyn, 144
Boldrini, Renzo, 351, 351n Brown, Daniel (Danny), 249, 255
Bolter, J.D., 11, 179n, 469, 529 Brown, Earle, 113, 121
Bonito Oliva, Achille, 142, 486 Brown, Trisha, 315n, 393, 466
Bonnard, Pierre, 129 Brownian Motion (R. Lord), 407
Bonora, Lola, 170 Brownlow, Kevin, 454
Bonsiepe, G., 249n Bruch, Klaus Vom, 169
Boole, George, 176n Brunelleschi, Filippo, 74n, 76, 470
Bordini, Silvia, 156n, 459 Bruner, Jerome, 245
Borealis (1993, S. Vasulka), 292 Brunetta, G.P., 125, 138, 144, 145
Borges, Jorge Luis, 529, 530 Bucalossi, Federico, 286, 474
Borghesi di Calais (1884-95, A. Rodin), Buci-Glucksmann, Christine, 123, 123n,
136 540, 556
Boriani, Davide, 140 Buckley, Tim, 458
Borillo, Mario, 556 Buckminster Fuller, R., 142
Borlin, Jean, 453 BUM (L. Levine), 545
Borriello, Adriana, 394 Bunting, Heat, 281, 283
Bosma, J., 567 Buñuel, Luis, 48, 60, 505
Bosseur, J.Y., 112n Buonarroti, Michelangelo, 367
Botschuijver, Theo, 293 Buontalenti, Bernardo, 76, 344
Bottero, M., 452 Burian, Emil Frautišek, 91, 91n, 105,
Boubon-Beaugency, Bénédicte de, 307 305, 305n, 455, 456, 489
Boucourechliev, André, 121 Burroughs, William, 135, 220, 220n,
Boulez, Pierre, 115, 121, 122, 122n, 205, 526, 528
205n, 208, 218, 219n Bush, Vannevar, 216, 216n, 222, 226,
Bouly, Leon, 150 235, 525
Boyle, Deidre, 540, 544, 545 Busker’s Opera, The (R. Lepage), 342
Boyle, William, 185 Bussotti, Sylvano, 113, 129
Brace Up! (1991, Wooster Group), 320 Butcher, Rosemary, 394
Brakhage, Stan, 63, 162, 505 Butor, Michel, 555
Brancusi, Constantin, 130, 133, 134, Buzzi, M.L., 394n
134n
Brand, S., 231n Cadigan, Pat, 527
Branzaglia, C., 256n Cage for Birds (J. Cage, D. Charles), 519
Braque, Georges, 44, 127 Cage, John, 99, 108, 113, 115n, 119,
Brecht, Bertolt, 73, 75, 81, 83, 89, 94, 119n, 121, 121n, 122, 122n, 127, 129,
94n, 95, 160, 218, 226, 301, 303, 304, 132, 142, 143, 156, 157, 160, 171, 200,
336, 460, 477, 480 202, 219, 219n, 293, 301, 317, 393,
Brecht, George, 119, 120, 120n, 487 405, 457, 459, 466, 484, 485, 487, 512,
Brenneis, Lisa, 310 515, 516, 519
Bresson, Robert, 150, 155 Cahen, Robert, 150, 154, 158, 159, 159n,
Bret, Michel, 292 162, 168, 171
591 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

«Cahier du théâtre Jeu», 79 «Castello di Elsinore, Il», 342n


«Cahiers de l’IRCAM», 115n Castells, M., 223, 223n
Cahill, Thaddeus, 200 Castri, Massimo, 96n
Calabrese, Omar, 52n Catrame (1996, E. Casagrande, D. Ni­
Calbi, A., 332n colò), 333
Calder, Alexander, 137 Cauteruccio, Giancarlo, 329
Calderón (L.Ronconi), 104 Cavalcanti, Alberto, 59, 63
Cale, John, 458 Cave, Nick, 333
Càllari, F., 153n Caverna dell’antimateria (P. Gallizio),
Calvesi, Maurizio, 88, 441n 141
Calvino, Italo, 197 CCC (children cheering carpet; 2003, Teatro
Camara, Luiz, 407 di Piazza e d’Occasione), 348, 351,
Camera astratta, La (1987, G. Barberio 351n
Corsetti), 59, 291, 308, 323, 325, 326, Čechov, Anton, 75, 320
326n, 390n, 468, 469 Celant, G., 220n, 226
Camera chiara, La (R. Barthes), 499, 500 Celine, Louis-Ferdinand, 243
Camera dell’ufficiale (1915, F.T. Marinet­ Celli, Giorgio, 422
ti), 44 Cenci, The (1997, G. Battistelli e Studio
Camera stroboscopica (D. Boriani), 140 Azzurro), 309, 365
Cameron, D., 127 Centre Pompidou, 443, 559
Campus, Peter, 291, 326, 327 Centro Pio Manzù, 219
Camurri, Antonio, 406, 416n, 418n, 428, Cerf, Vinton, 216, 228, 523
431 Cernovich, Nick, 457
Candida Tv, 286, 496 Cervantes (Don Miguel de Cervantes y
Cangiullo, Francesco, 41, 88, 99, 452 Saavedra), 465
Canto dell’usignolo (I. Stravinskij), 43 César, Moya, 98
Canudo, Riciotto, 127, 143, 497, 500 Chadabe, J., 200, 203, 203n, 206, 212
Čapek, Karel, 49, 59, 140, 305, 398, 452 Chadwick, Helen, 474
Cappabianca, A., 305n Chambers, C., 79n
Capriccio for Tv (J. Sewright), 164 Chambon, J., 296n
Capucci, P.L., 385n, 415, 438n, 439n Chaos Computer Club, 233
Car Crash, The (J. Dine), 483, 484 Chaplin, Charlie, 151, 152
Caramba (1986, P. Decouflé), 390 Chaput, Thierry, 443, 555
Cardazzo, Paolo, 170 Charles, Daniel, 512, 519, 520
Carella, Simone, 322, 322n Charnok, Niger, 394
Cargioli, Simonetta, 289n, 325n, 327, Chase, Doris, 393, 402n
463, 468 Chatelet, François, 556
Carlson, Carolyn, 392 Che cos’è il fascismo (1971, F. Mauri), 461
Carmi, Eugenio, 269 Chelsea Girl (1966, A Warhol), 458
Carnevale (R. Schumann), 501 Chiari, Giuseppe, 113, 129, 143, 219,
Caronia, A., 438n 220n, 487
Carrà, Carlo, 129, 131 Chiariglione, Leonardo, 183
Cartesio (René Descartes), 424 Chion, Michel, 50, 51, 64, 65, 65n, 154,
Casa di bambola (H. Ibsen), 465 154n, 155, 158, 159, 200, 497, 503,
Casagrande, Enrico, 333 504
Cascetta, A., 386n Chiti, R., 41, 481
Caselli, Giovanni, 183 Choinière, Isabelle, 405
Caspar, Arthur C., 487 Chomette, Henri, 501
Cassavetes, John, 505 Chomsky, Noam, 203n
Cassé, Michel, 556 Chopin, Frédéric François, 501
Castello, Roberto, 309, 390 Chopinot, Régine, 390
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 592
Chott El-Djerid. A Portrait in Light and Contrasto, Massimo, 286
Heat (1979, B. Viola), 166 Controrilievi d’angolo (1915, V.E. Tatlin),
Chowning, John, 410 134
Christo (Christo Javacheff), 142 Cook, Peter, 371n
Chromas (1986, E. Zajec), 271, 276 Coover, Robert, 241, 242n
Ciascuno a suo modo (L. Pirandello), 303 Coppola, Francis Ford, 314, 315, 454
Cieutat, M., 56n Coquille et le clergymen, La (G. Dulac),
«Cinema Nuovo», 548 501
Cinematografo Lumière, 178 Coral, Giampaolo, 276
Cinq études de bruits (1948, P. Schaeffer), Corazzata Potëmkin (1925, S. Eisenstein),
456, 518 50, 60
5116 Maya (G. Verde), 339 Corner, Philip, 120
Ciotti, Fabio, 11, 224n, 280n Coro (1995, Studio Azzurro), 292
Circo magico (1977, Lanterna Magika), Coro (L. Berio), 115
106 Corra, Bruno (vedi anche Corradini,
Cirifino, Fabio, 472, 559 fratelli), 41, 43, 43n, 61, 88, 481, 512,
Cittadini, Massimo, 309 513
Čiurlionis, Mikalojus Konstantinas, 112 Corradini (Ginanni), fratelli (vedi an­
Civil Wars, The (B. Wilson), 308 che Corra, Bruno e Ginna, Arnaldo),
Clair, René, 47, 59, 305, 453, 501 43, 500, 512, 513
Claudel, Paul, 40, 47, 303, 306, 454, 455, Correspondances (C. Baudelaire), 32, 39
503 Correva come un lungo segno bianco (Studio
Cocteau, Jean, 162, 192, 333, 505 Azzurro, G. Barberio Corsetti), 308,
Cocu magnifique, Le (1922, V. Mejer­ 468
chol’d), 94 Cortàzar, Julio, 531
Codreanu, Lizica, 133 Corte Sconta, 396
Cognizione del dolore, La (C.E. Gadda), Cosic, Vuk, 283
532 Cosimi, Enzo, 388
Cohn, R., 319n Costa, Antonio, 58n, 59, 59n
Colagreco, Luigi, 59n, 92, 451 Costa, Mario, 230, 230n, 280, 280n,
Collard, Cyril, 389 327n, 328n, 401n, 440, 440n
Collins, Phil, 371n Couchot, Edmond, 73, 77, 292, 344,
Colombo, Fausto, 71n, 428n 346, 540, 551, 553
Colombo, Gianni, 134, 171 Coulson, Mike, 474
Combattimento di Ettore e Achille, Il (1989, Coup de dés (S. Mallarmé), 122
G. Battistelli, Studio Azzurro), 308 Courtyard (A. Kaprow), 143
Come è (1987, Magazzini Criminali), 307, Covoni di fieno (C. Monet), 133
329 Craig, Edward Gordon, 34, 37, 37n, 51,
Commission, The (1983, S. e W. Vasulka), 74, 83, 85, 86, 87, 105, 139, 301, 302,
163, 549 344, 359, 478
Compagnia Lombardi-Tiezzi, 329 Crash (J.G. Ballard, D. Cronenberg),
Company in Space, 405 333
Company, The (R. Altman), 196 Crawford, W., 179n
Computer Technic Group (Tokyo), 268 Crick, Tom, 530
«Comunicazioni Sociali», 394n Critical Art Ensemble (CAE), 81, 477,
Coniglio, Mark, 406 495, 496
Connessione remota (2001, G. Verde), 310, Crocker, Steve, 228
341 Crollo nervoso (1980, Magazzini Crimina­
Connor, Russel, 464 li), 329
Contaminations, Les (1992, P. De Geetere, Cronaca del Luogo (1999, L. Berio), 412
C. Wagner), 458 Cronenberg, David, 333, 363
593 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Crossing and Meetings (1974, E. Emshwil­ Dead Dreams of Monochrome Men (1989,
ler), 165 DV8), 394
Cruciani, Fabrizio, 74, 74n, 75n, 94n, 95, Deafman’s Glance, The (1971, R. Wilson),
97 320
Cruise, Tom, 399 De Berardinis, Leo, 321
CRWDSPCR (1993, M. Cunningham), 406 Debord, Guy, 101, 340, 340n, 477, 486,
Csuri, Charles, 272 487
C-Trend (1974, W. Vasulka), 165 De Bosio, Gianfranco, 302
Cuba, Larry, 274 Debrie, André, 454
Cunningham, Merce, 119, 142, 143, 162, Debussy, Claude, 121, 131, 501
165, 172, 301, 317, 360, 361, 364, 389, De Chirico, Giorgio, 90, 143, 548
393, 405, 406, 457, 458, 463, 464, 515 Decima sinfonia (1918, A. Gance), 454
Cuoghi, Ezio, 422 Declamazione dinamica e sinottica (F.T. Ma­
Curran, S., 253n rinetti), 451, 452
Curval, Philippe, 556 Decoder, 233
«Cut-up», 332n Decouflé, Philippe, 390, 395
Cybernet, 233 Deep Sleep (1985, J. Jesurun), 307
Cybernetic Light Tower (N. Schöffer), 269 Defilé, Le (1987, R. Chopinot), 390
Cytowic, R.E., 39n De Geetere, Patrick, 458
Degenerative Prose (1995, M. Amerika),
Daguerre, Louis Jacques Mandé, 177, 473
179 De Haas, P., 61n
Dahlhaus, Carl, 110, 110n De Keersmaeker, Teresa, 395
Dalcroze, Emile-Jaques, 36 De Kerckhove, Derrick, 13, 17, 230, 317,
Dalí, Salvador, 48, 161, 505 385n, 436, 436n, 538, 540, 557, 558,
Dalmonte, R., 519 559, 568, 569
D’Amburgo, Marion, 329 De La Roche, Tiphaigne, 178
Dame à la faulx, La (1895, Saint-Pol Delahunta, S., 405
Roux), 306 Delaunay, Robert, 38, 276
Da Me a Te (1998, C. Baglioni), 376 Delaunay, Sonya, 276
Danae (Poliziano), 74 Deleuze, Gilles, 117, 117n, 223, 223n,
Danan, J., 306n 363, 402n, 498, 521, 528, 529
Dance (D. Chase), 393 Delfi (1990, G. Battistelli e Studio Azzur­
Dancer in the Dark, 476 ro), 308
DanceSpace (F. Sparacino), 403 Delgado, M., 336n, 338n
Dancing with the Virtual Dervish, 404 D’Elia, Anna, 293, 293n
Danza (fratelli Corradini), 44 DeLillo, Don, 333, 334, 335
Danza delle ombre (F. Depero), 378 Delluc, Louis, 501
D.A.V.E. (Digital Amplified Video Engine; K. De Manincor, Anna, 396
Obermaier, C. Haring), 363 De Marco, G., 369n
Davico Bonino, Guido, 320n, 322n De Maré, Rolf, 453
Davidson, Andrea, 406 De Maria, L., 93n
Davies, I., 133 De Maria, Walter, 122
Davies, Siobhan, 394 De Marinis, Marco, 52, 52n, 96, 96n,
Da Vinci, Leonardo, 73, 74, 74n, 77, 142, 102, 111, 111n, 457
151, 151n De Mèredieu, F., 294n
Davis, Charlotte, 471 De Micheli, M., 131
Davis, Douglas, 229, 278, 278n Democrazia (Lia e Rachele; 1985, A. Balzo­
Davis, Joshua, 249, 255 la), 308
Davis. M., 235n De Monchaux, Cathy, 474
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 594
Depero, Fortunato, 37, 41, 43, 132, Droste, M., 130
132n, 139, 293, 378 Druckrey, T., 293n
Déposition, La (1988, H. Pedneault), 308 Drum Suite (L. Anderson), 467
Deren, Maya, 65, 162, 392, 402n, 497, Dubois, Philippe, 323, 540, 541, 542
505 Duchamp, Marcel, 46, 48, 57, 61, 99,
Dernier Caravansérail, Le (2003, Théâtre 121, 129, 134, 135, 143, 147, 161, 162,
du Soleil), 313 290, 324, 453, 459, 464, 505, 515
Derrida, Jacques, 555 2001: Odissea nello spazio (S. Kubrick),
De Sade, Donatien-Alphonse-François, 18, 358
365 Duets on Ice (1974, L. Anderson), 466
De Saint-Phalle, Niki, 135, 141 Due vite, una svolta, 390
De Santi, P.M., 48n Duguet, Anne Marie, 296n, 324, 325,
Descrizione di una battaglia (1988, G. Bar­ 325n, 326, 540, 542, 543
berio Corsetti), 329 Dujardin, Eduard, 32
DeskTop Theater, 310, 310n Dulac, Germaine, 151, 152, 497, 501
De Stijl, 452 Dumb Type, 476, 477, 495
Devaux, F., 66n, 67n Dungeons and Dragons, 244
Dewey, John, 100 Duras, Marguerite, 66, 306
De Wyzewa, Théodor, 32, 33 DV8, 394
Diaghilev, Sergej Pavlovich, 43, 48, 162 Dwell Time (1995, S. Davies), 394
Di Corinto, A., 220n, 227n, 444n Dyens, Georges, 15
Dick, Philip K., 527, 534 Dylan, Bob, 458
Diderot, Denis, 77, 233
Die Entführung eines Kunsthändlers ist Kei­ Earls, Elliot Peter, 249
ne Utopie Mehr (1975, K. Vom Bruch), Easton, Ellis, 333
169 Ebrea (1971, F. Mauri), 461
Die Ewig Schaffenden Eände Oder (1976, Eckhart, Meister, 457
M. Odenbach), 169 Eco, Umberto, 8, 121, 203, 218, 218n,
Digital Hijack (1996, Etoy), 284, 284n 437, 529, 540, 541
Di Marino, Bruno, 69n, 330n Edison, Thomas Alva, 76
Di Milia, G., 134n Effinger, George Alec, 527
Dine, Jim, 98, 126, 134, 142, 458, 477, Eggeling, Viking, 63, 267, 500, 501
483, 484 Eidos/Telos (1995, W. Forsythe), 406
Dinkla, S., 123n, 403n 18 Happenings in 6 parts (A. Kaprow),
Division bell (1994, Pink Floyd), 380, 381 126
Dixon, S., 403n Einstein on the Beach (1976, R. Wilson),
Doati, Roberto, 422 320
Dodsworth Jr., C., 124n Einstein, Albert, 138
Dogma 95, 498, 509, 510, 511 Eisenstein, Sergei Mikhailovich, 48, 48n,
Dogville (L. von Trier), 191, 475, 476 49, 50, 50n, 51, 59n, 60, 110, 111,
Dominguez, Ricardo, 286, 477, 495, 496 111n, 112, 151, 152n, 305, 306, 317,
Don Chisciotte (1970, C. Quartucci), 172, 407n, 493, 497, 502, 503
465 «Electric Minds», 521
Dorfles, Gillo, 143, 461 Electronic City (2004, F. Richter), 309
Dottor Faustus o il mantello del diavolo Electronic Disturbance Theatre (EDT),
(1994, G. Barberio Corsetti), 308 232, 495, 496
Double Vision (1971, P. Campus), 327 Electronic Light Ballet (1969, O. Piene),
Douglas, Stan, 118 165
Dozois, Gardner, 527 Electronic Tv Images (N.J. Paik), 270
Dream House (L.M. Young e M. Zaeela), Elger, Dietmar, 455
115 El Lissitskij, Lazar, 134, 139
595 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Ellul, Jaques, 425, 425n Export, Valie, 67


Elsinore (1996, R. Lepage), 105, 342 EZLN, 495
Eluard, Paul, 460 Ezralow, Daniel, 390
Emak Bakia (1926, M. Ray), 58
Embracing Earth: Dances with Nature Fabbri, Marisa, 103, 104, 308
(1995, A. Halprin), 393 Fabre, Jan, 395, 395n
Emerson, Keith, 206 Face cachée de la lune, La (2000, R. Lepa­
Emerson, Lake and Palmer, 206 ge), 341, 342, 343
Emerson, Ralph Waldo, 528 Fadda, S., 156n, 227n
Èmission de télévision, L’ (1990, M. Vina- Faenza, Roberto, 170
ver), 307 Fagone, Vittorio, 69n, 540, 543, 544
Emmerson, S., 210n Faiella, Francesca, 422
Empire (A. Warhol), 195, 458, 506 Faletti, Clelia, 74n, 94n
Empire of Things (P. Makanna), 164 Falqui, Laura, 252
Emshwiller, Ed, 165, 172 Falso Movimento, 329, 390, 465, 466,
Encyclopédie (D. Diderot, J.L.R. d’Alem­ 493
bert), 233 Fanelli, G., 129n
Ende, M., 229n Fanny & Alexander, 332, 344
Eneide (1982, G. Cauteruccio), 329 Farassino, A., 64n
Engelbart, Douglas, 216, 228, 525 Fare qualcosa con il proprio corpo e il muro
Eno, Brian, 118, 118n, 206, 214n, 466 (1966, G. Chiari), 143
Enrico IV (L. Pirandello), 303 Fargier, J.P., 464
Ensemble (K.H. Stockhausen), 115 Fast Blood (L. Voce), 341
Enter Achilles (1996,DV8), 394 Faure, Claude, 431n, 557
Entr’acte (1924, R. Clair), 59, 60, 305, Fazio, M., 97n
453 Febbre del sabato sera, 390
Enzensberger, Hans Magnus, 151, 227, Fedro (Platone), 434
227n Feed (M. Napier), 286, 287, 287n
Epizoo (1994, M. Antúnez Roca), 352 Feldman, Morton, 113
Equizzi, Mariano, 286 Felsenstein, Lee, 233
Eraclito, 349 Fenley, Molissa, 388
Eredità di Caino (Living Theatre), 103 «Ferrania», 266
Ernst, Max, 99, 161 Ferrara, Abel, 333
Erone Alessandrino, 344 Ferraro, A., 385n
Escher, Maurits Cornelis, 367, 410 Ferrentino, P., 418n
Eshkar, Shelley, 405 Festa del Paradiso (Poliziano), 74
Esposizione in tempo reale n. 4: lascia su Fifer, Sally Jo., 461, 544, 546
queste pareti una traccia fotografica del Figura nera (T. von Hartmann e V. Kan­
tuo passaggio (1972, F. Vaccari), 143 dinskij), 40
«Esthétique des arts médiatiques», Figuring the Cave (1997, J. Shaw, A. He­
436n gedüs, B. Lintermann, L. Stuck), 294
Estman, George, 187 File Room, The (A. Muntadas), 281, 565
Etoy, 284, 284n, 474 Fillia (Luigi Colombo), 41, 44, 305, 454
Étrange (Être-ange; Motus), 333 Film (S. Beckett), 304
Euripide, 104 «Film Culture», 505
European Counter Network, 233 Film est déjà commencé, Le (1951, M. Le­
EVE (Evolutionary Virtual Environment, maitre), 65
1997, P. Gabriel, Real World Multi­ Filmstudio, 507
media), 473 Filmtext (M. Amerika), 243, 473
Evert, K., 403n Filottete (M. Martone), 307
Evreinov, Nikolaj Nikolaevic, 94, 103 Final Fantasy, 369
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 596
Finzioni (J.L. Borges), 530 Fregoli, Leopoldo, 59n, 92, 451
Fiori da camera (G. Balla), 132 Fregoligraph (L. Fregoli), 451
Fiormonte, Domenico, 245n, 247, 247n Frejka, Jiri, 92
Fischinger, Oskar, 63, 273, 326, 500 Friedrich, Caspar David, 29
Fisher, Mark, 371, 371n, 372, 376, 379, Fubini, Enrico, 27n
379n, 380, 381, 383 Fuchs, R., 136n
«Flash Art», 231n Full Play: A Media Dance Project (2000­
Flauto magico (J. Svoboda), 106 2002, P. Atzori), 364, 403
Flavin, Dan, 122 Fuochi d’artificio (G. Balla), 322, 379
Flecniakoska, J.L., 56n Fuochi d’artificio (I. Stravinskij), 132, 379
Flesh (1969, P. Morrisey), 505 Fuochi d’artificio (S. Diaghilev), 43
Fleurs du mal, Les (1857, C. Baudelaire), Fuoco, l’acqua, l’ombra, Il (1998, G. Batti­
32 stelli, Studio Azzurro e R. Castello),
Flicker (2003, Big Art Group), 344, 345 309, 390
Florensky, P., 433n Fura dels Baus, 213n, 351, 361, 365
Flower (R. Whitman), 482, 483 Fusco, Coco, 496
Fluxus, 27, 52, 62, 126, 135, 140, 142,
144, 156, 168, 169, 219, 219n, 270, Gabinetto del dottor Caligari, Il (1920, R.
278, 328, 457, 458, 459, 467, 486, 487, Wiene), 305
488, 515, 543 Gabo, Naum, 137
Flynt, Henry, 120, 232 Gabriel, Peter, 157, 371n, 377, 466, 473
Focillon, Henri, 17 Gachnang, J., 136n
Foldes, Peter, 272 Gadda, Carlo Emilio, 311n, 532
Fontana Mix (1958, J. Cage), 202 Gaeta, John, 369
Fontana, Bill, 118 Gaia Scienza, 329
Fontana, Lucio, 140, 156, 459, 507 Galante, F., 118n
Fonti, Daniela, 132n Galilei, Galileo, 343
Footloose, 390 Galimberti, U., 13, 426, 426n
Foreman, Richard, 319, 319n Galizzio, Pinot, 141
Forest, Fred, 230, 278 Gallo, D., 438n
Foresta, Don, 230 Galloway, A., 533
Forma espressiva metafisica (O. Schlem­ Galloway, Kit, 229
mer), 91 Gance, Abel, 61, 72, 72n, 107, 454, 504
Forme e luci (N. Schöffer), 140 Gandi, Francesco, 351
Formenti, Carlo, 281n Garassini, S., 220n
Forsythe, William, 388, 406 Gardies, A., 512
Fossati, Paolo, 127 Gardner, H., 235n
«Fotographia», 188 Garrone, Nico, 307n, 322n
Foucault, Michel, 222, 222n, 240 Gasparini, B., 220n
Fouquet, L., 343n Gates, Bill, 471
4’33’’ (1952, J. Cage), 119 Gaudí, Antoni, 128
Fox Talbot, William Henry, 177, 178 Gauguin, Paul, 128, 130, 133
Fragson (1969, J.-C., Averty), 167 Gazzano, M.M., 151n, 157n, 158n, 290n,
Francia, Monica, 396 550
Frankenstein (1965, Living Theatre), 102, «Gazzetta del Popolo», 499
103 Genesi (1999, Raffaello Sanzio Socìetas),
Fraser, D.G., 362 313
Fregio di Beethoven (M. Klinger), 138 George Coates Performance Group, 310
Fregoli dietro le quinte (L. Fregoli), 451 Géricault, Théodore, 367
Fregoli raccontato da Fregoli. Le memorie del Gershuny, Phyllis, 546
mago del trasformismo (L. Fregoli), 451 Gerstenkorn, J., 512
597 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Gesang der Jünglinge (1956, K.H. Golam, Abe, 284, 473


Stockhausen), 204 Goldberg, RoseLee, 140, 378n, 477, 488
GFP Bunny (E. Kac), 570 Golden Fenster, Die (B. Wilson), 308
Ghostcatching! (1999, B.T. Jones), 360, Goll, Iwan, 47, 304, 305, 306, 454
405 Golovin, Alexander, 48
Giaccari, Luciano, 170 Gončarova, Natalja, 38, 93
Giacometti, Alberto), 134 Goodman, Percival, 101
Giacomo mio, salviamoci! (1998, G. Batti­ Gordon, Douglas, 297
stelli, V. Sermonti e Studio Azzurro), Gottlieb, V., 79n
309, 365 Gourfink, Myriam, 406
GialloMare Minimal Teatro, 351 Goya, Francisco, 256
Gianikian, Jervant, 64, 64n, 65, 506 Graeff, Werner, 500
Giardini Pensili, 344 Graham, Dan, 291, 325, 326, 327, 461,
Gibson, Ruth, 406 462, 540, 546, 547
Gibson, William, 363, 496, 521, 527 Graham, Martha, 137
Giedion, S., 139 Grammatron (1997, M. Amerika), 243,
Giganti della montagna, I (L. Pirandello), 284, 473
303 Gramsci, Antonio, 228
Gilardi, Piero, 15, 141, 431n, 540, 557, Granchi, Andrea, 57n, 66n, 69, 498, 506,
558 507
Gilbert & George (Gilbert Proesch e Grande, Maurizio, 77, 77n, 78, 97
George Passmore), 137 Grau, Oliver, 472
Gilbreth, Frank, 139 Grease, 390
Ginna, Arnaldo (vedi anche Corradini, Greco, Lino, 396
fratelli), 41, 43, 61, 481, 512, 513 Greco, Michela, 192n
Ginsberg, Allen, 157, 162, 464, 526 Greenaway, Peter, 56, 56n, 72, 72n, 196,
Giochi di autodifesa televisiva (G. Verde), 314, 365, 366, 367, 368, 368n, 392,
339, 561 474, 475, 498, 511, 512
Giorno, John, 458 Greeting, The (B. Viola), 470
Giphantile à Babylone (T. De La Roche), Greggio, Dany, 333
178 Griffith, David Wark, 49, 454
Giuliano, L., 244n Grifi, Alberto, 57, 69, 170
Givone, S., 25 Groenveld, Dirk, 292
Glass, Philip, 157, 195, 320, 365, 466 Gromala, Diane, 403
Global Groove (1970, N.J. Paik), 165 Gropius, Walter, 89, 90, 95, 96, 96n, 97,
Global Village, 546 130, 139, 372, 382, 382n, 477
GMM – Giovanotti Mondano Meccanici, Grossi, Pietro, 219
286 Grossman, Peter, 393
Gnesutta, V., 144 Grosz, George, 95
Gobetti, Paolo, 170 Grotowski, Jerzy, 77, 301
Gobetti, Paolo, 503 Growing Up Tour (2003, P. Gabriel), 377
Godard, Hubert, 400 Gruber, Bettina, 169
Godard, Jean-Luc, 151, 172, 307, 314, Gruppen (K.H. Stockhausen), 115
329, 394, 493, 540 Grusin, R., 11, 179n
Godoli, E., 129n Guardiano di coccodrilli (Corte Sconta),
Goethe (von), Johann Wolfgang, 125, 396
300 Guattari, Félix, 117, 117n, 223, 223n,
Goffman, Erving, 485 334, 402n, 521, 528, 529
Gogol’, Nikolai Vasilievic, 94 Guérini, Marc, 395
Going Around the Corner Piece, (1970, B. Guerrieri, Gerardo, 302
Nauman), 327 Guggenheim, Peggy, 136
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 598
Gusella, Ernest, 164 Hey Joe (S. Bechett; 1965, J.-C. Averty),
Gutai, 135 167
Gutenberg Project, 233 Higgins, Dick, 119, 120, 487
Guttadauro, Agata, 330 Higgins, Richard, 8
Gymnopédies (E. Satie), 134 Hill, Gary, 118, 467
Gysin, Brion, 220, 220n, 528 Hiller, Lejaren, 208
Himanen, P., 223n, 228, 238, 444n
Haacke, Hans, 224, 278 Hindemith, Paul, 200
Hacker Art, 11, 82, 230-231, 234-235, Hinton, David, 402n
279, 525 Hitchcock, Alfred, 200
Hackett, Pete, 458 Hitler, Adolf, 95
Hall, David, 169, 544, 546 Hoffmann, E.T.A., 125, 138, 358
Halprin, Ann, 393 Hoffmann, Reinhild, 392
Hamlet: A Monologue (1995, R. Wilson), Hofmannsthal, Hugo von, 104, 172
105, 319, 320 Hölderlin, Friedrich, 437n
Hamon-Sirejols, C., 512 Hole in Space (1980, K. Galloway e S. Ra­
Hampton, Fred, 545 binowitz), 229
Hancock, Herbie, 206 Holz, Arno, 103
Hand Drawn Spaces (1999, M. Cunnin­ Holzer, Jenny, 281, 375
gham), 405 Home of the Brave (1984, L. Anderson),
Hand Phone Table, The (1978, L. Ander­ 466
son), 466 Hon (Lei) (1966, J. Tinguely, N. de Saint
Handsight (1993, A. Hegedüs), 292 Phalle, P. Olof Ultvedt), 141
Hansel e Gretel Tv (1989, G. Verde), 340 Honzl, Jindrich, 91, 91n, 92
Happening (1968, M. Kirby), 457 Hörth, Franz Ludwig, 454
Haraway, Donna, 363 «Hot Wired», 521
Haring, Chris, 363 Hrvatin, E., 395n
Harmon, Leon, 270 Hubbard, E.M., 39n
Harp, Jean, 99 Hugnet, G., 45n
Harrington, Curtis, 505 Huhtamo, E., 293n
Hart, Michael, 233 Hulten, P., 141n
Hartley, Ralph,176 Hummingbird, 272
Hartman, Thomas von, 38, 40 Huxley, Aldous, 528
Harvey, David, 74n, 126n Huysmans, Joris Karl, 130
Hashimoto, Shuij, 416, 416n, 418n Hyperprisme (1922-23, E. Varèse), 115
Hattinger, G., 275n
Hauptmann, G., 75 Iacono, M., 350n
Hauser, Arnold, 151 Ibsen, Henrik, 75, 103, 465
Heartbeats (Palindrome), 405 Idées noires (1991, A. Preljocaj), 389
Hebdige, D., 255, 255n Identité, maintenant vous êtes un Martial
Hébert, C., 330, 331n Raysse (1967, M. Raysse), 327n
Heemskerk, Joan (vedi anche Jodi.org), «Identités», 220n
282 Ignorabimus (1986, L.Ronconi), 103
Hegedüs, Agnes, 292, 294 «il manifesto», 220n
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 109 Imaginary Landscape n.1 (J. Cage), 200
Heidegger, Martin, 138, 437n Impasto, 396
Heilig, Morton, 62 Impressions d’Afrique (R. Roussel), 129
Hendrix, Jimi, 458 Improvisation Technologies (W. Forsythe),
Herkomer (von), Hubert, 86 406
Herschel; (Sir) John Frederick William, In Between (M. Noiret, P. Atzori), 364,
177 405
599 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

In Situ (1986, G. Hill), 467 «Jeu», 342n


Inasmuch as it Always Already Takin Place JoAn, l’uomo di carne (1992, M. Antúnez
(1990, G. Hill), 467 Roca), 352
Incandescence (1985, M. Guérini), 395 Jodi (.org) (Joan Heemskerk e Dirk
Incatenata alla pellicola (1919, N. Paesmas), 282, 282n, 283, 287
Turkin), 60 Joffrey Ballet, 393
Incidence of Catastrophe (1984, G. Hill), John Gabriel Borkman (L. Ronconi), 490
467 John, Elton, 371n
«Incontri Musicali», 219n Johns, Jasper, 142
Indymedia, 286, 562 Jonas, Hans, 424n, 425
Infante, Carlo, 330, 330n, 351n, 352 Jones, Bill T., 405
InfoWar, 286 Jordà, Sergi, 353
«Inrockuptibles, Les», 494 Jordan, Ken, 10, 13, 73, 366
Instrumented Footwear for Interactive Dan­ Jost, Jon, 191
ce (J. Paradiso), 405 Joyce, James, 66, 160, 218, 515, 528
Intellettuale (1975, F. Mauri), 461 Joyce, Michael, 241, 242, 469, 521, 529,
Intelligent Stage (R. Lovell), 403 530, 531
Inter/face (D. Rokeby), 497 «Juliet», 341n
Interface (1972, P. Campus), 291 Jung, Carl Gustav, 348, 432, 441n
«Internazionale Situazionista», 101, Jurassik Park, 471
486
Intolerance (1916, D.W. Griffith), 49, 66 KA MOUNTAIN and GUARDenia TERRACE
Intolleranza 1960 (L. Nono), 106, 460 (1972, R. Wilson), 320
Intonarumori (L. Russolo), 130, 199 Kac, Eduardo, 229, 438, 439, 440, 540,
Intro Act (1995-97, C. Sommerer e L. 570, 571
Mignonneau), 292 Kafka Chronicles (1993, M. Amerika),
Inumaine, L’ (ed. it.: Futurismo; 1924, 243, 473
M. L’Herbier), 59 Kafka, Franz, 363
Invideo catalogo, 460, 464, 468 Kagel, Mauricio, 157, 160
Invitation au voyage, L’ (1973, R. Kahn, Robert (Bob), 216, 523
Cahen), 168 Kaiser, Paul, 405
I/O/D, 286, 286n Kanarek, Yael, 284
Io, valigia (F. Zeller), 310 Kandiskij, Vasily, 38, 40, 41, 45, 51, 54,
Isaacson, Leonard, 208 63, 65, 72, 82, 85, 112, 112n, 113,
Isole nella rete (vedi anche European 113n, 128, 131, 143, 151, 151n, 253,
Counter Network), 286 275, 317, 477, 489, 512, 513, 514,
Isou, Isidore, 65, 66, 486 552
Ivain, Gilles, 101 Kane, Sarah, 304
Ivens, Joris, 501 Kantor, Tadeusz, 301, 319n
Ivins, William, 179, 179n Kaplan, Nelly, 61, 61n
Kaprow, Allan, 98, 99, 100, 100n, 119,
Jackson, Michael, 390 120, 121, 126, 127, 142, 143, 162,
Jameson, Frederic, 319 172, 219, 301, 464, 477, 483, 484,
Jansen, Steen, 52 485
Jarre, Jean-Michel, 158, 371n Karczmar, Natan, 230
Jarry, Alfred, 42n, 44, 45, 128, 129, 167 Kawaguchi, Yoichiro, 269, 269n
Jawlensky, Alexej von, 38 Keaton, Buster, 60, 304
Je sème à tout vent (1990, E. Couchot, M. Kelley, J., 100n
Bret, M.-H. Tramus), 292 Kennedy, J.F., 484
Jenik, Adrienne, 310 Kepler’s Traum (1990, G. Battistelli e
Jesurun, John, 307 Studio Azzurro), 308
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 600
Kerény, Karl, 349 La Barbara, Joan, 162
Kern, S., 128 Lacoue-Labarthe, Philippe, 556
Kerouac, Jack, 162 La Farge, Tim, 457
Kidman, Nicole, 476 Lafontaine, Marie-Jo, 291
Kienholz, Edward, 126, 141 Laforgue, Jules, 464
Kiesler, Friedrich, 59, 97, 136, 139, 140, La Graine, 406
305, 452, 477 Lajolo, Anna, 69
King Cross Phone In (H. Bunting), 281 Landow, George P., 8, 9, 222n, 235, 240,
Kirby, Michael, 98, 99, 100n, 127, 319, 240n, 241, 241n, 316, 350, 521, 529,
457, 482, 483, 484 530, 532
Kirchner, Ernst Ludwig, 38, 131 Lang, Fritz, 60n, 63
Klee, Paul, 38, 112, 130, 276, 489, 490 Langer, Suzanne, 535
Klein, Yves, 135 Langton, C.G., 236n
Kleiser, Jeff, 365, 366 Language is a virus (L. Anderson), 467
Kleist (von), Heinrich, 125 Lanier, Jaron, 521, 534, 535, 536, 537
Klimt, Gustav, 128, 138 Lanterna Magika, 106, 358, 460, 489
Klinger, Max, 138 Lanza, A., 205, 516
Klüver, Billy, 123, 140, 217, 278, 405 Lapini, L., 378n, 382n
Knowlton, Kenneth, 270 Lapis (1966, James Whitney), 274
KOK (1988, R. Chopinot), 390 Laposky, Ben F., 270
Kokoschka, Oscar, 452, 514 La Rocca, P., 386n
Kopit, A., 362 Larountala (1917-18, P. Albert-Birot), 47
Korn, Arthur, 183, 184 Latanza, A., 199n
Korot, Beryl, 546 Late Show (L. Anderson), 467
Kostelanetz, Richard, 98, 123n Latour, Bruno, 556
Kosugi, Takehisa, 157 Laurel, Brenda, 415
Kosuth, Joseph, 224 Lautenschläger, Karl, 76
Kouril, Miroslav, 305n, 455, 456 Lavender, Andrew, 79, 79n
Kowalsky, Piotr, 431n Lawder, S., 56n, 59n, 63n
Kowzan, Tadeus, 52 Leary, Timothy Francis, 521, 525, 526,
Kozel, Susan, 405 527, 528
Kracauer, Siegfried, 150 LeCompte, Elizabeth, 319
Kraus, Karl, 103, 491, 514 Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanne­
Krauss, Clemens 452 ret), 115, 139, 409
Krauss, R., 130, 134, 137, 144, 178n Leeker, M., 403n
Kresnik, Johann, 392 «LEF», 49
Krotoszynsky, Lali, 407 Léger, Fernand, 59, 61, 143, 163, 323,
Krueger, Myron Y., 123, 123n, 225, 460, 326, 402n, 501
461, 554 Legible City, The (1989, J. Shaw e D.
Krypton, 329 Groenveld), 292
Kubin, Alfred, 38 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 176n, 233
Kubisch, Christina, 118 Lemaire, G.-G., 134n
Kubota, Shigeko, 290, 464 Lemaitre, Maurice, 65, 66, 66n
Kubrick, Stanley, 18, 151, 314 Lenin, Vladimir Ilic, 93
Kühnel, Tom, 309 Leonard, Brett, 366n
Kulešov, Lev Vladimirovič, 49 Leonardi, Alfredo, 170
Kultermann, U., 141 Leopardi, Giacomo, 129, 309, 365
Kurzweil, Ray, 535 Lepage, Robert, 80, 83, 84, 84n, 105,
Kusama, Yayoi, 474 308, 330, 331n, 341, 342, 343n, 344,
344n, 377, 477, 493, 494, 495
Laban, Rudolf, 417, 418 Le Prince, Jean Baptiste, 180
601 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Lessing, Gotthold Ephraim, 77, 300 Ludovico, A., 214n


Levine, Les, 224, 327n, 545 Lukács, Gyorgy, 80
Lévi-Strauss, Claude, 176 Lumiére, Louis-Jean e August, 128, 150,
Lévy, Pierre, 9, 14, 113, 113n, 228, 235n, 178, 451
280, 280n, 346, 402n, 427, 427n, 445, Lunari, Luigi, 302
521, 537, 540, 557 Lupone, Mauro, 309, 457, 518
Levy, S., 233n Luther Blisset, 533
Leyda, J., 149n Luxemburg, Rosa, 93
L’Herbier, Marcel, 59 Lyotard, Jean-François, 443, 540, 555,
Lialina, Olia, 283, 284n 557
Licht (K.H. Stockhausen), 40
Lichtenstein, Roy, 122, 162 Mabou Mines, 319
Licklider, J.C.R., 232, 232n Macchine della visione (P. Virilio), 365
Liebknecht, Karl, 93 Macchine inutili (B. Munari), 137
Life_sharing (2000, Machinal (S. Treadwell), 362
0100101110101101.org), 285 Machine Vision (1978, S. Vasulka), 463
Light-Display, Black, White and Grey (L. Machover, T., 124n
Moholy-Nagy), 140 Maciunas, George, 120, 121, 121n, 126,
Limbo (1968, A. Nikolais), 393 142, 477, 487
Linguaggio è guerra, Il (1971, F. Mauri), Macke, August, 38
461 Maddox, Tom, 527
Link, The (2000, G.D. Marshall), 394 Maderna, Bruno, 202, 206, 518
Lintermann, Bernt, 294 Madonna, 390
Lipchitz, Jacques, 136
Maeterlinck, Maurice, 37, 75
Lipzin, J.C., 64n
Maffesoli, M., 396n
Lischi, S., 159n, 434n
Magazzini Criminali, 307, 329, 329n
Lively, Penelope, 525
Magazzini, 329, 390
Live-Taped Video Corridor (1970, B. Nau­
man), 296, 327 Magrini, M., 196n
Living Theatre, 75, 78, 81, 101-102, 162, Magris, E., 360n
172, 301, 496 Magritte, René, 143, 520
Living with the Living Theatre (1986, Li­ Mahler, Gustav, 138, 514
ving Theatre), 172 Majakovskij, Vladimir, 49, 60, 93, 160,
Livre (S. Mallarmé), 218 460
Livre de Cristophe Colomb, Le (1927, P. Major, Grant, 354
Claudel), 47, 303, 454 Major, René, 556
Loffredo, Silvio, 69 Makanna, Philip, 164
Lohengrin (Wagner), 38 Malcovati, Fausto, 479
Lombardi, D., 199n Maldonado, Simone, 77
Lombardi, Guido, 69 Maldonado, Tomàs, 256, 256n, 316, 521,
Lombardi, Sandro, 329, 390 530, 531
Loos, Adolf, 452 Malevič, Casimir Severinovič, 48, 93
Lord, Richard, 385n, 407 Malina, Judith, 83
Lo Sciuto, Paola, 331 Mallarmé, Stéphane, 31, 32, 33, 34, 92,
Louis, M., 393n 122, 197, 218, 313, 452, 489, 520
Lovell, Robb, 347, 347n, 403 Mamelles de Tirésias, Les (G. Apollinaire;
Lucas, George, 193 1982, J.-C. Averty), 167
Lucenti, Michela, 396 Mamet, David, 306
Luci di inganni (1982, Studio Azzurro), Mancini, M., 305n
291 Manifesto delle Parole in libertà (F.T. Mari­
Lucier, Alvin, 157 netti), 451
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 602
Manipolazione di cultura (1976, F. Mauri), McCaffery, Larry, 243, 243n
461 McClelland, J.L., 236n
Manovich, Lev, 280, 280n, 396, 407n McCormick, John, 405
Manson, Caden, 344 McLuhan, Marshall, 11, 62, 70, 129, 151,
Marangoni, Federica, 156 160, 246, 253, 253n, 255, 255n, 344,
Marat, Jean Paul, 454 375, 515, 544, 550, 552, 568
Maratona d’estate (1978, V. Ottolenghi), Mead, Taylor, 458
386 Meadows, M.S., 245n
Marc, Franz, 38, 112n, 512, 513 Médiadanse Lab, 404
Marey, Etienne Jules, 139 Mejerchol’d, Vsevold, 37, 48, 49, 50, 51,
Mari, Alberto, 239n 74, 82, 85n, 87, 87n, 88, 88n, 92, 93,
Mariée mise à nue par ses célibataires, même 94, 139, 301, 302, 305, 306, 317, 477,
(Le Grand Verre, 1915-23, M. Du­ 478, 479
champ), 129 Mekas, Adolfas, 505
Marinetti, Filippo Tommaso, 41, 42, Mekas, Jonas, 162, 172, 458, 459, 505
42n, 44, 46 ,88, 90, 92, 93n, 99, 129, Meldolesi, Claudio, 302
130, 305n, 382, 438, 451, 452, 481 Mele, R., 323n
Mariotti, M., 507 Méliès, Georges, 506
Marker, Chris, 172, 297 Meloni, L., 293n
Markopoulos, Gregory, 67, 498, 505 Melville, Herman, 465
Marra, C., 175n Mem (1974, P. Campus), 291
Marranca, Bonnie, 319 Memories of Ancestral Power (1977-78, B.,
Marshall, Glyn Davies, 394 Viola), 165
Martelli, Bruno, 406 Memory Theater VR (1997, A. Hegedüs),
Martinelli, Marco, 307n 292
Martini, Andrea, 61n, 70n, 151n Mendgen, E., 133
Martone, Mario, 307, 328, 329, 390, 465, Meneguzzo, Marco, 558
466, 477, 493 Menicacci, A., 314, 360, 363n, 385n,
Mascarade (1917, V. Mejerchol’d), 48 405n, 406n
Mask, The, 363 Menin, C., 310, 310n
Masnata, Pino, 41, 44 Menna, Filiberto, 89, 322
Masque Teatro, 332 Mercante di Venezia, Il (W. Shakespeare),
Massachusetts Institute of Technology 338n
(MIT), 443, 523, 525 Merce and Marcel (N.J. Paik), 464
Mastropasqua, Fernando, 82, 82n Merce by Merce by Paik (1978, N.J. Paik),
Mater dolorosa (1917, A. Gance), 454 165, 389, 463
Mathews, Max, 207 Merce Cunningham Dance Company,
Mathieu, Georges, 135 393
Matisse, Henri, 38 Merchant of Venice, The (1994, P. Sellars),
Matos, J.-M., 398n 337, 337n, 338, 338n
Matrice spezzata (B. Sterling), 363 Mereghetti, P., 64n
Matrix (A. e L. Wachowsky) 355, 369, Merleau-Ponty, M., 334
369n, 431 Merzbau (1923-37, K. Schwitters), 55, 99,
Mattei, Maria Grazia, 230, 268n 139, 219, 455, 482
Mattelart, A., 237n MESH, 405
Matter, The (1974, W. Vasulka), 165 Messiaen, Olivier, 519
Mattinate sulla Senna (C. Monet), 133 Metadata (1971, P. Foldes), 272
Maturana, H., 124n Metamorfosi (F. Kafka), 363
Mauri, Fabio, 461 Metamorfosi (Ovidio), 470
Maurin, Frédéric, 77n, 325, 338n Methusalem oder Der ewige Bürger (1919, I.
Mazzarino, Barbara, 422 Goll), 47, 304, 305
603 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Metz, C., 111n Monmarte, Daniele, 91n


Metzger, H.-K., 219n Monster of Grace 1.0 (1998, R. Wilson, P.
Meyer, Bernhard, 183 Glass), 365
Mignonneau, Laurent, 292, 293n Montagano, G., 385n
Migx, Syd, 243n Montagna gialla, La (1985, C. Quartuc­
Milani, Raffaele, 252 ci), 172
Milhaud, Darius, 200, 303, 454 Montale, Eugenio, 197n
«Millennium Film Journal», 508 Montani, Pietro, 50n, 59n, 152n, 502
Miller, Arthur, 306 Monteverdi, Anna Maria, 37n, 82, 309,
Miller, L., 121n 327n, 332n, 335n, 339, 340n, 343n,
Minard, Robin, 118 351n, 364, 486, 495, 542, 543, 569,
mini@tures, 407 571
Minimal TV, 339 Monti, Rossano, 351
Minkowskij, Herman, 138 Monumento alla Terza Internazionale
Minority Report, 399 (V.E. Tatlin), 343
Misfits. Thirty Years of Fluxus (1993, L. Monumento effimero (J. Tinguely), 142
Movin), 459 Moog, Robert, 206
Missione Alphaville (1987, M. Martone), Moon Blood (1977-79, B., Viola), 165
307 Moore, Anthony, 364
Misteri del giardino di Compton House Moorman, Charlotte, 157
(1982, P. Greenaway), 511 Moravec, Hans, 438n
Mitry, J., 501 Morèas, Jean, 128
Mnemonista, Il (2000, Studio Azzurro), Mori, A.M., 509
559
Moritz, Karl Philipp, 25, 26, 28
Mnouchkine, Ariane, 102, 301
Morris, Robert, 137, 142
Mobiles (A. Calder), 137
Morrisey, Paul, 458, 505, 506
Moby Dick (1973, C. Quartucci), 172,
Morrison, Sterling, 458
465
Modena, Gustavo, 302 Morse, Margareth, 296, 296n
Modigliani, Amedeo, 136 Morsure, La (A. Davidson), 406, 407
Modulatore spazio-luce (L. Moholy-Nagy), Moser, M.A., 404n
140 Moss, David, 412
Moebius (Jean Giraud), 354 Motus, 332, 333
Moholy-Nagy, László, 61, 75n, 85, 89, Mouchoir des nuages (T. Tzara; 1976 J.-C.
89n, 90, 140, 275, 293, 322, 323, 326, Averty), 167
342, 379, 380, 380n, 381, 383, 497, Moulthrop, Stuart, 530
504, 511 Mouth (R. Whitman), 482
Moles, André, 111n, 202 Movatar (2000, Stelarc), 405
Molière (Jean-Baptiste Poquelin), 494 Movie Movie (1969, J. Shaw, T. Botschuij­
Molinari, Cesare, 74, 74n, 76n, 344n ver e S. Wellesley-Miller), 293
Molnár, Farkas, 75n, 89n, 90, 97, 383 Movin, Lars, 459
Molnar, Vera, 270 Moving Forms (1974, D. Chase), 393,
Momentary Lapse of Reason (1989, Pink 402n
Floyd), 380 Mukarosky, Jan, 91
Moments de J.J. Rousseau (J.-L. Boissier), Müller, Traugott, 95
407 Mulleras, 407
Monaco, J., 180n Munari, Bruno, 137
Monaco Dance Forum, 405 Munch, Edward, 128, 132
Mondrian, Piet, 112 Munger, The (1974, P. Foldes), 272
Monet, Claude, 133 Muntadas, Antoni, 281, 540, 565, 566,
Monk, Meredith, 319, 319n, 393 567
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 604
Muro occidentale o del Pianto, Il (1971, F. Never Say Die (1995, N. Charnok), 394
Mauri), 461 New American Cinema Group, 505
Murphy, Dudley, 163 New Order, 390
Murphy, Mark, 394 «New Theatre Quarterly», 347n
Murray Schafer, R., 116, 116n, 118 Newson, Lloyd, 394
Music of Changes (1951, J. Cage), 119 New York City Ballet, 393
Music with Balls (A. Acton), 164 «New York Times Book Review, The»,
Musica d’arredo (1920, E. Satie), 133 242n
Musica è come la pittura (F. Picabia), 129 Niccolò, Daniela, 333, 334, 335n
«Musica/realtà», 210n Nicolaci, G., 434n
Musica su due dimensioni (B. Maderna), Nicolescu, Basarab, 519
206 Nielsen, Jakob, 249, 254, 254n
Musorgskij, Modest Petrovič, 41 Niepce, Joseph Nicéphore, 177
Muybridge, Eadweard, 139, 363 Nietszche, Friedrich Wilhelm, 26, 29, 85,
My Boyfriend Came Back From the War (O. 110n
Lialina), 283 Nikolais, Alwin, 393, 393n
Myst, 473 Nils-Udo, 474
Mysterium, The (Skrjabin), 39 Ninfee (C. Monet), 133
Nobili di Rosa, 329
Nakamura, Yugo, 249, 255 Noces (1990, A. Preljocaj), 389, 395
Name, Bill (Bill Lilich), 458 Noguez, Dominique, 68, 68n
Namuth, Hans, 99 Noiret, Michèle, 405
Nanni, R., 151n Nolde, Emil, 38
Napier, Mark, 262, 286 Noll, Michael, 270, 271
Napoléon (1927, A. Gance), 61, 107, 454, Nona Sinfonia (L. van Beethoven), 138,
504 518
Naquoyquatsi (G. Reggio), 195, 195n, Nono, Luigi, 106, 409, 460
196 Norman, Sally-Jane, 84, 84n
Nascita di una nazione (1915, D.W. Grif­ Norsen, Einar 60
fith), 49, 454 Nosei, E., 64n
Nattiez, Jean-Jaques, 122, 122n Nostra Signora dei Turchi (C. Bene), 507
Nauman, Bruce, 142, 144, 296, 325, 326, Not in My Name (Living Theatre), 103
327 Notturno (1956, B. Maderna), 202
Negri, A., 55, 58 Notturno (F.F. Chopin), 501
Negroponte, Nicholas, 10, 224 Novak, Marcos, 404
9 Nein Decoll/agen (W. Vostell), 459 Novalis (Friedrich Freiherr von Harden­
Nel laboratorio di Dexter, 255 berg), 26, 27, 28
Nelson, Theodor Holm (Ted), 216, Nu descendant l’escalier (1975, S. Kubota),
216n, 222, 222n, 224, 240, 240n, 241, 290
241n, 244, 521, 525 Nuotatore, Il (1984, Studio Azzurro), 291,
Nemola, Frank, 341 325
Ne… no (1980, M. Sambin), 328 «Nuovo spettatore, Il», 325n
Nerve Bible, The (L. Anderson), 467 Nyman, Michael, 121, 121n, 511
Nespolo, Ugo, 507
Net Flag (M. Napier), 262 Obermaier, Klaus, 363
Netomat (M. Wisnieski), 286 Odenbach, Marcel, 169
Netstrike 214-T (30 novembre 2000, T. OFF-ON (1967, S. Bartlett), 164
Tozzi e G. Verde), 286 O’Kane, Robert, 364
Nettime, 277, 277n, 283 Olbeter, Roland, 353
Neuromante (W. Gibson), 363, 496, 527 Oldenburg, Claes, 98, 122, 126, 142, 484
Never Again (DV8), 394 Olson, Charles, 142, 458
605 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Onde del destino, 476 Parfait, Françoise, 327n, 462


Ong, Walter J., 246, 246n, 253, 253n Parisi, D., 236n
Ono, Yoko, 120, 459 Parrella, B., 244n
On Trial (1914, E. Rice), 305 Pasolini, Pier Paolo, 104, 461
Oplà , noi viviamo (1927, E. Toller; 1933 Passage (1987, B. Viola), 296
E. Piscator), 95 Passages (1982, J.-C. Risset), 209
Orfeo (Poliziano), 74 Patella, Luca, 69
Organismo tecnico (O. Schlemmer), 91 Pater, Walter, 85, 125
Orlan, 438, 439, 474 Paterson, Owen, 369
Orlando furioso (1998, E. Casagrande, D. Patterson, Ben, 120, 487
Nicolò), 333 Pavis, Patrice, 52
Orlando Furioso (L.Ronconi), 103, 172, «PC Magazine», 536
462, 490 Pechstein, Max, 38
Orphée (J. Cocteau), 333 Pedemonte, E., 222n
Orpheus Glance (2000, Motus), 333, 334 Pedneault, Hélène, 308
Orsini, Umberto, 365 Pedretti, C., 151n
Orwell, George, 528 Pedrini, E., 219n
Oscillons (B.F. Laposky), 270 Pedroni, F., 393n
Osmose (1995, C. Davis), 471, 472 Pelican (1963, R. Rauschenberg), 143,
Osservatorio nucleare del sig. Nanof, L’ (Stu­ 144
dio Azzurro e G. Barberio Corsetti), Pellicule (1968, M. Lemaitre), 66
468 People’s Video Theater, 546
Ostrovskij, Aleksandr Nikolaevič, 49 Pepe, Davide, 396
O Superman (1982, L. Anderson), 466 Per mettere mano. Azione installativa di rici­
Otello (1979, C. Bene), 172, 464 claggio tv (G. Verde), 339
Ottolenghi, Vittoria, 386, 386n Perelli-Contos, I., 330, 331n
Ousler, Tony, 338 Performance Corridor (1969, B. Nauman),
Ouzonian, R., 84n 144
Ovidio, 470 Performance Group, 78, 319
OVMMO, 470 Performer, Audience, Mirror (1975, D.
Graham), 327
Paci Dalò, Roberto, 344 «Performing Arts Journal», 319
Packer, Randall, 10, 13, 73, 366 Perlini, Memè, 307n, 321, 322, 323,
Paesmas, Dirk (vedi anche Jodi.org), 282 323n
Paik, Nam June, 120, 122, 132, 142, 150, Perrella, C., 279n
156, 157, 157n, 158, 161, 163, 164, Persians, The (1993, P. Sellars), 337
165, 167, 168, 171, 172, 220, 223, 270, Phon:e:me (M. Amerika), 473
278, 289, 290, 290n, 296, 325, 389, Pianigiani, L., 189n
458, 459, 463, 464, 487, 544 Piano, Renzo, 368
Pal, George, 273 Picabia, Francis, 47, 59, 99, 129, 134,
Palindrome, 405, 406 162, 453
Palla sospesa (A. Giacometti), 134 Picard, Rosalind, 416, 416n
Panikkar, Raimon, 435, 435n Picasso, Pablo, 38, 44, 127, 128, 134, 135,
Panorama dell’Engadina (G. Segantini), 143, 162
138 Picon-Vallin, Béatrice, 31, 84, 84n, 85n,
Paolini, Lucia, 309, 349 87n, 323, 324, 331n, 338n, 343n, 359,
Paolini, Marco, 313 360n
Paolozzi, Eduardo, 128 Piedigrotta (F. Cangiullo), 452
Parade (P. Picasso), 135 Piene, Otto, 122, 165
Paradise now (Living Theatre), 75 Pierelli, Attilio, 137
Paradiso, Joe, 405 Pil selon Pil (1958-62, P. Boulez), 122
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 606
Ping Pong (1968, V. Export), 67 POW (Progetto Opera Videoteatrale),
Pink Floyd, 206, 371, 371n, 380 330
Pinter, Harold, 303, 304, 306 Prampolini, Enrico, 37, 41, 90, 132, 139,
Pinto, R., 231n 293, 378
Pirandello, Luigi, 152, 152n, 153, 153n, Pratella, Francesco Balilla, 129
155, 303, 321, 323 Preljocaj, Angelin, 389, 395
Pirandello: chi? (M. Perlini), 321, 323 Preludio (C. Debussy), 501
Piscator, Erwin, 81, 83, 92, 93, 94, 94n, Present Continuos Past (1974, D.
95, 139, 305, 306, 504 Graham), 291, 327, 461
Piselli, Francesco, 34n Presley, Elvis, 371
Pittura industriale (P. Gallizio), 141 Previati, Gaetano, 131
Pixillation (1970, L. Schwartz), 272 Primavera musicale praghese (A. Radok),
Pizzo, Antonio, 10, 37, 305, 346, 347, 106
351n, 362, 397n, 399, 471 Princesse de Milan, La (K. Saporta), 392
Place-Ruhr (2000, J. Shaw), 294 Progressive 2 (R. Lord), 407
Platone, 50n, 427, 434 Prokof’ev, Sergej Sergejevič, 50
Play (S. Beckett), 362 Prologo a diario segreto contraffatto (Studio
Please Change Beliefs (J. Holzer), 281 Azzurro, G. Barberio Corsetti), 59,
Plessi, Fabrizio, 69, 150, 156, 170, 171, 308, 325, 468
290 Prometeo (N.A. Skrjabin), 38, 512, 513
Poème électronique (E. Varèse), 115, 204, Prono, F., 172, 305, 325, 387n, 463, 464,
409 465, 491
Proust, Marcel, 490, 498, 525
Poemfield (1964, S. Vanderbeek e K. K­
Proxima Centauri (L. Schwartz), 225
nowlton), 272
P’tit bal, Le (1994, P. Decouflé), 390
Poissant, Louise, 14, 73, 341n, 538, 542.
Pudovkin, Vsevolod, 93, 151
543, 555, 557, 568, 569, 571
Puni, Ivan, 134, 135
Pol (2002, M. Antúnez Roca), 352 Punto di rottura (1979, Magazzini Crimi­
Polacci, Federico, 465 nali), 307, 329
Polhemus, T., 255, 255n Puppet Motel (L. Anderson), 467
Poli, F., 136n
Poliéri, Jacques, 357, 359, 360n Quadri bianchi (R. Rauschenberg), 457
Pollock, Jackson, 99, 134, 162 Quadri per un’esposizione (Mussorgskij),
«Poliphonie», 202 41
Polsinelli, Mara, 72n Quadri, F., 104n, 319n, 320, 320n, 321
Pomarico, A., 336n Quarry (1978, M. Monk), 393
Ponge, Francis, 197 Quartucci, Carlo, 156, 172, 328, 465, 477
Ponte di Pino, Oliviero, 333, 345n, 465 Quattro diversi modi di morire in versi
Pontormo (Jacopo Carucci), 470 (1978, C. Bene), 172, 464
Pontremoli, Alessandro, 386n, 394n, Quéau, Philippe, 425, 427, 429, 429n,
398n 432, 521, 537, 538
PopMart (U2), 372, 374, 375 Questa pazzia è fantastica: paysages fabriens
Popova, Liubov-Sergeevna, 139 (1993, J. Fabre), 395
Popper, Frank, 137, 140, 397n Questa sera si recita a soggetto (L. Pirandel­
Portrait de famille (1971, R. Cahen), 159 lo), 303
Postier, Le (1991, A. Preljocaj), 389 «Quindici», 322n
«Potlach», 486 Quinsac, A.P., 138n
Pound, Ezra, 528 Quinta Parete Network, 286
Poupées électriques (1909, F.T. Marinetti), Quintet of the Atonished (2000, B. Viola),
42n 290
Pousseur, Henri, 121, 218 Quinto elemento, Il, 354
607 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Quinz, Emanuele, 305, 314, 345, 345n, Reinhardt, Max, 45


346, 347n, 360, 360n, 363n, 384, Rejlander, Oscar Gustav, 191
385n, 397n Relâche (1924, E. Satie – F. Picabia), 59,
99, 453
R.E.M., 371n Relay (1970, A. Nikolais), 393
R.U.R. (Rossum’s Universal Robots; 1920, Remake of the Weekend (2000, P. Rist),
K. Capek), 49, 59, 140, 305 292
Rabinowitz, Sherrie, 229 Répons (P. Boulez), 115
Raboteurs, Les (1988, A. Preljocaj e C. «Repubblica, la», 509
Collard), 389 Resch, Ronald, 271
Racconti (E.T.A Hoffmann), 358 Resistence Now (Living Theatre), 103
Racconti del cuscino (1996, P. Greenaway), Resnais, Alain, 66
367 Restagno, E., 121n
Racconto del Vajont, Il (1993, M. Paolini e Restany, Pierre, 135, 458
G. Vacis), 313 Retour à la raison (1923, M. Ray), 58
«Radical, Le», 128 Retroyou, 287, 287n
«Radical Software», 546 Reunion, The (1997, J. Parker), 394
Radok, Alfréd, 106, 489 Revisore (1926, V. Mejerchol’d), 94
Radrizzani, R., 129n «Revue wagnérienne, La», 32
Raffaello Sanzio, Socìetas, 313 Rheingold, Howard, 62n, 233n, 521,
Ragghianti, Carlo Ludovico, 95, 100, 522, 523
101n, 129n, 333 «Rhizome», 533
Raimondo, Claudio, 302 Ribellati! (T. Tozzi), 231
Rainaldi, Renato, 69
Riccardo III (1978, C. Bene), 172, 464
Raindance Corporation, 546
Ricci Lucchi, Angela, 64, 64n, 65, 506
Rainforest (D. Tudor), 204
Ricci, Mario, 322
Ramachandran, V.S., 39n
Ricciardi, Achille, 41
Ranaldi, R., 507
Rap di fine millennio (L. Voce), 341 Rice, Elmer, 305, 306, 362, 454, 471
Rauschenberg, Robert, 98, 99, 119, 122, Rice, Ron, 458
132, 141, 142, 143, 144, 162, 217, 293, Richards, Catherine, 274
457, 458 Richards, Mary Caroline, 142, 457, 458
Ravel, Maurice, 121 Richter, Falk, 309
Ray, Man, 14, 48, 57, 57n, 58, 161, 305, Richter, Hans, 45n, 48, 143, 161, 267,
326, 453, 504, 505 326, 500, 501, 504, 505
Raysse, Martial, 327n Ricoeur, Paul, 241
Rayuela (1963, J. Cortàzar), 531 Rieser, M., 293n
Reactive Environments, 403 Riley, Terry, 164, 171
Real World Multimedia, 473 Rilievo intermutabile (1959, G. Colombo),
Reality Surfaces (1974-75, D. Hall), 169 134
Reaney, Mark, 361, 362, 362n, 471 Rimbaud, Arthur, 92, 503
Rebuzzini, Maurizio, 188 Rimington, Alexander, 61
Record of the Time, The (L. Anderson), Rimoldi, D., 323n
467 Rimsky Korsakov, Nikolay Andreyevich,
Reed, Lou, 458, 466 501
Reflecting Pool (1977-79, B., Viola), 165 Rinodigestio (1987, M. Antúnez Roca),
Reggio, Godfrey, 195, 196 352
Regina delle nevi (1979, Lanterna Ma­ Ripellino, Angelo Maria, 94, 94n, 460
gika), 106 Ripercorrersi (1978, M. Sambin), 326
Regno, Il (2000, P. Lo Sciuto), 331 Risset, Jean-Claude, 208, 209, 410
Reichardt, Jasia, 270, 270n, 271n Rist, Pipilotti, 292
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 608
Risveglio di Primavera (F. Wedekind), Runge, Philipp Otto, 125
456 Running Coca is Africa, 272
Ritorno ad Alphaville (1986, M. Martone), Ruota di bicicletta (M. Duchamp), 134
329, 493 Ruota, La (1922, A. Gance), 454
Ritratto in città (1954, L. Berio), 202 Rush, Michael, 319
Ritual in Transfigured Time (1945-46, M. Russel, M., 275n
Deren), 393 Russoli, F., 128n
Riverbed (P. Kaiser e S. Eshkar), 405 Russolo, Luigi, 129, 130, 155, 199
Robbe-Grillet, Alain, 66 Ruttmann, Walter, 63, 130, 500, 501
Roberto, P., 64n Ryan, Paul, 545
Roberts, Larry, 523
Robertson, John S., 506 Sabaneev, Leonid, 38, 512
Roche, Maurice, 556 Sabbatini, Nicola, 74
Rockmore, Clara, 200n Sacks, O., 181n
Rodčenko, Aleksandr Michailovich, 93, Saint-Just, Louis-Antoine-Léon, 454
131 Saint-Pol Roux (Paul-Pierre Roux), 306,
Rodger, D., 124n 454
Rodin, Auguste, 136 Samaras, Lucas, 142
Roelfs, Jan, 367 Sambin, Michele, 170, 326, 327
Roi Bombance (1905, F.T. Marinetti), 42n San Girolamo nello studio (A. da Messina),
Rokeby, David, 123, 123n, 124, 124n, 367
403, 436, 468, 477, 497 Sangallo, Giovanni da, 76
Rolla (1976, S. Terajama), 67 Sangiorgi, Leonardo, 559
Rolling Stones, 371, 371n, 373, 380, 381 Sani, Nicola, 118n, 156
«Rolling Stone Magazine», 231n Santucci, G., 372n, 374n
Romagnolo, Salvatore, 239n Sapienza, A.M., 328
Romeo, Lucius, 458 Saporta, Karine, 392, 395
Roncaglia, Gino, 11, 224n, 280n Sarabhai, Gita, 516
Ronconi, Luca, 102, 103, 104n, 172, 301, Saracino, Flavia, 403
308, 311, 311n, 321,328, 342n, 462, Sartre, Jean-Paul, 460
463, 477, 490, 491, 492 Sasso, Mario, 156
Rondolino, G., 128n, 504 Sasson, Steve, 186
Rosa, Paolo, 299, 318, 326n, 468, 472, Satgé, Alain, 32n
540, 559, 561 Satie, Erik, 59, 99, 118, 128, 130, 133,
Rosas, 395 134, 453
Rosebush, Judson, 15 Saup, Michael, 406
Rosenbach, Ulriche, 150 Scankrèr o la famiglia dell’artista (1998, A.
Rosenberg, Harold, 12, 99, 99n De Manincor), 396
Rosenquist, James, 162 Scelsi, Raf Valvola, 227n, 233n
Rosenstiehl, Pierre, 556 Scena (1968, J. Poliéri), 359
Rosso, Medardo, 133 Schaeffer, Pierre, 116, 154, 158, 159,
Roubaud, Jacques, 556 168, 171, 202, 202n, 456, 458, 512,
Rousseau,Henri (il doganiere), 38, 48 516, 517, 518
Roussel, Raymond, 129, 129n Scharf., A., 179n
Roveda, Stefano, 472, 535, 559 Schechner, Richard, 101, 102, 102n,
Rowe, R., 114n 127, 319
Rublëv, Andrej, 433 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 26,
Rucker, Rudy, 527 27
Rumelhart, D.E., 236n Scher, Julia, 281
Rumi, Sufi Jalaluddin, 365 Schermi (F. Mauri), 461
Rumore bianco (D. DeLillo), 334 Schifano, Mario, 69, 507
609 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Schlegel, August Wilhelm von, 26, 27 Sewright, James, 164


Schlegel, Friedrich von, 26, 27 Sexual Blood (1995, M. Amerika), 243,
Schleiermacher, Friedrich, 26 243n, 473
Schlemmer; Oskar, 37, 75, 75n, 85, 89n, Shag, 255
90, 91, 91n, 135, 139, 372, 380n, 381, Shakespeare, William, 321, 336, 337,
382, 382n, 383 338, 338n, 464, 511
Schmidt, Arno, 531 Shannon, Claude Elwood, 176, 176n
Schmit, Thomas, 487 Sharir, Yacov, 404
Schmitt, Antoine, 408 Shaw, Jeffrey, 292, 293, 293n
Schöffer, Nicolas, 140, 269 Shelley, Mary, 103
Schönberg, Arnold, 38, 41, 63, 63n, Shepard, Sam, 306
115n, 131, 205, 275, 457, 502, 512, Sherlock Juior (1924, B. Keaton), 60
513, 514, 515 Sherman, Tom, 230
Schöning, Klaus, 158, 160, 160n Shirley, John, 527
Schopenauer, Arthur, 28, 31, 109 Shulgin, Alexei, 283
Schopf, C., 275n «Sic», 46, 47n
Schum, Gerry, 168 Sieni, Virginio, 422
Schumann, Robert, 109, 501 Sigfrido (Wagner), 35
Schwartz, Lillian, 225, 270, 271, 272 Signore degli Anelli, 354
Schwitters, Kurt, 55, 56, 99, 139, 160, Silva, U., 305n
219, 455, 457, 482 Simonetti, Gianni Emilio, 487
Sciopero (1924, S. Eisenstein), 49 Simonini, Sara, 565
Scultura nello stomaco (Stelarc), 564 Sini, C., 197n
Seaman, Bill, 122 Sinisi, S., 132, 322n
Sears, Loren, 165 Sinni, Gianni, 253, 253n
Seconda sonata (G. Coral), 276 «Sipario», 311n
Secret World Tour (1993, P. Gabriel), 377 Skating Rink (1922, Balletti Svedesi),
Sedlmayr, H., 436, 436n 143
SEED (Le Graine), 406 Sklovskij, Viktor Borisovic, 147
Segal, George, 126, 137 Skrjabin, Nicolaievic Aleksandr, 38, 39,
Segantini, Giovanni, 131, 138, 138n, 139 40, 43, 51, 112, 275, 512, 513
Segare l’acqua (1974, F. Plessi), 170 Sloboda, J.A., 203n
Segdwick, Edie, 458 Slowly Turning Narrative (1992, B. Viola),
Sei personaggi in cerca d’autore (L. Piran­ 292, 296
dello), 303, 323 Smalley, Denis, 208, 209, 210n
Sellars, Peter, 335, 336, 336n, 337, 337n, Smith, George, 185
338, 338n, 339 Smith, John B., 529
Senefelder, Aloïs, 180 Smithsons, 255
Sensualità (1923, Fillia), 44, 305 Snow, Michael, 172
Sept branches de la rivière Ota, Les (1994, R. Socìetas Raffaello Sanzio, 329, 332
Lepage), 308, 330 Sofocle, 103
Serlio, Sebastiano, 74 Sogno lungo un giorno, Un (1981, F.F. Cop­
Sermonti, Vittorio, 309 pola), 315
«Setaccio, Il», 461 Solari, Marco, 329
Set and Reset (1985, T. Brown), 393 Solo (1983, C. Carlson), 392
Settimelli, Emilio, 41, 88, 481 Sommerer, Christa, 292, 293n
Seuphor, Michel, 135 Sonnier, Keith, 325
Seurat, Georges, 128, 143, 550, 551 Sottsass, Ettore, 291
7 Tv Pieces (1971, D. Hall), 169 Souriante Madame Beudet, La (G. Dulac),
Severino, Emanuele, 336, 336n 501
Sevette, Christina, 230 Southern, Terry, 243
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 610
Soyinka, Wole, 313 Sunstone (1979, E., Emshwiller), 166
Sperber, Dan, 556 Suono giallo (T. von Hartmann e V. Kan­
Sperenzi, Mario, 76n, 344n dinskij), 40, 131
Spink, Ian, 394 Suono verde (T. von Hartmann e V. Kan­
Spitzer, Tim, 195 dinskij), 40
Squeezangezaùm (1989, G. Toti), 60 Supermarionetta (Craig), 37, 82, 83
Stahele, Wolfgang, 279 Survage, Leopold, 267, 274
Stanislavskij, Konstantin Sergeevic, 37, Sutherland, Ivan, 62, 535
301, 489 Suz/o/Suz (1985, M. Antúnez Roca),
Stanza dei Proun (1923, El Lissitskij), 352
139 Suzuki, K., 416n, 418n
«Stanza Rossa, La», 226n Svoboda, Josef, 83, 84, 84n, 92, 92n,
Star Trek: The Next Generation, 365 104, 105, 106, 305, 357, 358, 358n,
Star Wars (G. Lucas), 193 359, 364, 460, 477, 488, 489, 490
Steel Wheels (1989, Rolling Stones), 373, Swanwick, Michael, 527
374 Swift, Graham, 529
Stehura, John, 271 Sylwan, S., 355
Stein, Gertrude, 161, 528 Szeeman, H., 129n, 219n
Stelarc (Stelios Arcadiou), 15, 385, 405, Szondi, Peter, 75, 75n, 115n
406, 438, 439, 439n, 440, 540, 563,
565 Tadaikson (N.J. Paik), 290
Stella, Kiko, 396 Tafuri, M., 135
Stepanova; Varvara, 131 Tagliaerbe, Il (1992, B. Leonard), 366,
Sterling, Bruce, 363, 527 366n
Sterne, Laurence, 529 Takis (Vassilakis Panayotis), 137
Sting, 390 Talls Looper Suitcase, The (P. Gree­
Stockhausen, Karl Heinz, 40, 113, 115, naway), 368
121, 171, 204, 218, 409 Tambellini, Aldo, 166
Storai, F., 230n Tamm, E., 118n
Store, The (1961, C. Oldenburg), 98 Tango Glaciale (1982, M. Martone), 329,
Storie mandaliche (1998-2004, Zone- 465, 466
Gemma), 309, 348, 349, 350, 350n Tanni, Valentina, 474
Storie percorse (1985, Studio Azzurro), Tappeti di natura (P. Gilardi), 141
325 Tarabella, L., 206, 207
Strange Fish (1992, DV8), 394 Tarkovskij, Andrej, 291, 308, 440
Strano Network, 232, 232n, 286 Tartakovsky, Gennady, 255
Stravinskij, Igor Fyodorovich, 43, 128, Tatarkiewicz, Wladislaw., 25
132, 379, 395 Tatlin, Vladimir Evgrafovic, 48, 93, 134,
Strehler, Giorgio, 302 139, 343
Strindberg, August, 75 Taviani, Ferdinando, 302
Strnad, Oskar, 97 Tavola di possibilità liquide (1959, G. An­
Structuralist Workshop, 319 ceschi), 134
Stuck, Leslie, 294 Tavoli. Perché queste mani mi toccano?
«Studi germanici», 437n (1995, Studio Azzurro), 292, 309,
Studio Azzurro, 15, 59, 68, 123, 123n, 472
291, 292, 299, 308, 309, 323, 325, Taylor, Robert (Bob), 232, 232n, 523
326, 326n, 361, 365, 390, 390n, 468, Teatrino Clandestino, 332, 344
469, 472, 473, 477, 559 Teatro Campesino, 495
Sturm, der, 112 Teatro degli oppressi, 495
Sun in Your Head (W. Vostell), 168, 459 Teatro del disturbo elettronico (R. Domin­
Sundell, N., 141, 144 guez), 286
611 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Teatro della Valdoca, 329 Todorov, Tzvetan, 26


Teatro di Bayreuth, 29 Tofano, Sergio, 302
Teatro di Piazza e d’Occasione, 348, Toffetti, S., 64n
351 Toller, Ernst, 95
Teatro Immagine, 307n Tolstoj, Lev N., 149
Teatro Merz, 457, 477, 482 Tomb Raider, 310
Teatro Sintetico Futurista, 85, 477, 481 Toop, David, 212n
Teige, Karel, 91, 92n, 150, 153 Torre, La (1979, L. Ronconi), 104, 172,
«Telepolis. Rivista di netcultura», 567 490
Teleracconto (G. Verde), 339, 470 Torre cibernetica (N. Schöffer), 140
Television dé-coll/age (W. Vostell), 289, Toschi, Luca, 217n, 218n
458-459 Totale della battaglia (1996, Studio Az­
Telsa Eletric (D.G. Fraser), 362 zurro), 292
Tempest, The (R. Lepage), 342 Totem, the World of Alwin Nikolais (1964,
Tempesta (W. Shakespeare), 511 A. Nikolais), 393
Terajama, Shuji, 67, 319n Toti, Gianni, 60, 67, 150, 156
Terretektorh (I. Xenakis), 115 Toywar (1999, Etoy), 474
Terza sonata per pianoforte (1957, P. Bou­ Tozzi, Tommaso, 225n, 227n, 230,
lez), 122 231n, 232n, 237, 239n, 279, 286,
Tessari, R., 93n 444n
Testa ricoperta di oggetti sgradevoli (1930, Trait d’union, Un (1992, A. Preljocaj),
H. Arp), 137 389, 395
Theatre Advancing, The (1919, E.G. Traité de bave ed d’eternité (1951, I. Isou),
Craig), 83 66
«Theatre Design and Technology», Tramus, Marie-Hélène, 292
362n Transpermia (2003, M. Antúnez Roca),
Théâtre du Soleil, 313 352
Theatregraph (1936, M. Kouril, E. Bu­ Trash (P. Morrisey), 458, 506
rian), 455, 456 Travel (1974, F. Plessi), 170
«Théâtre/public», 77, 325 Tre sorelle, Le (A. Cechov), 320
Thing, The (www.thething.net), 279, Treadwell, S., 362
279n, 286, 286n, 496 Tremblay, Michel, 494
This is a Television Receiver (1979, D. Tricolor Video (N.J. Paik), 290
Hall), 169 Trier, Lars von, 191, 194, 475, 509
This is Cinerama (F. Waller), 62 Trini, Tommaso, 230
Thomas l’obscrur (1941, M. Blanchot), Tristano e Isotta (J. Svoboda), 106
467, 468 Tristano e Isotta (Wagner), 35, 37
Thompson, D., 128n Trivelli, A., 151n
13 Distorted Tv Sets (1963, N.J. Paik), Trocca, Riccardo, 422
163, 220, 289 Troika Ranch Company, 406
Tieck, Ludwig, 26, 300 Trotzkij, Lev, 93
Tier Mon (1988, M. Antúnez Roca), 352 Tucci, Giuseppe, 348
Tiezzi, Federico, 307, 307n, 329, 390 Tudor, David, 142, 204, 457, 458
Time (1973, Pink Floyd), 381 Tulse Luper Suitcases (2003, P. Gree­
Time Delay Room 1-7 (1974, D. Graham), naway), 474, 475
291 Turkin, Nikandr, 60
Tinguely, Jean, 135, 141, 141n, 142, Turkle, S., 244n
269 Tutto in un abbraccio (2003, C. Baglio­
Tivoli (1993, J. Fabre), 395 ni), 377
Toch, Ernst, 200 Tv Fighter (1977, D, Hall), 169
Todoroff, Todor, 364 Twelve Blue (M. Joyce), 530
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 612
Twelve Season, 364 Vangelo secondo Matteo (P.P. Pasolini),
Twin Rooms (2002, Motus), 334, 335 461
Two Falling Too Far (M. Murphy), 394 Van Gogh, Vincent, 128, 130, 133
Tzara, Tristan, 45, 48, 167 Van Os, Ben, 367
Van Sant, Gus, 333
Über Kultur (1978, B. Gruber), 169 Vanzi, Alessandra, 329
Ubu enchaîné (1971, J.-C. Averty), 167 Vardanega, Gregorio, 137
Ubu Roi (1896, Jarry, Alfred), 42n, 44, Varela, Francisco, 124n, 558
129, 167 Varèse, Edgar, 115, 130, 204, 215, 409
Ubu Roi (1965, J.-C. Averty), 167 Variations V (1965, J. Cage, M. Cunnin­
Uccelli (1963, A. Hitchcock), 200 gham), 405
Ulis, Les, 359 Vasari, Giorgio, 76
Ulisse, (J. Joyce), 218, 528 Vasilicò, Giuliano, 322
Ultima Tempesta, L’ (1991, P. Greenaway), Vasulka, Steina, 150, 157, 158n, 164,
367, 368, 392, 511 165, 171, 208, 267, 273, 289, 290n,
Ultimi giorni dell’umanità (1990, L. Ron­ 292, 463, 549, 550
coni), 103, 490, 491, 492 Vasulka, Woody, 150, 157, 158n, 164,
Ultimo spettacolo di Nora Helmer (1979, C. 165, 171, 208, 267, 273, 289, 290n,
Quartucci), 465 341, 463, 540, 548, 549, 550
Ultvedt, Per Olof, 141 Vattimo, Gianni, 25, 437n
Un chien Andalou (1929, L. Buñuel), 60 Vautrier, Ben, 120, 142
Ungari, E., 506 Vedova, Emilio, 106, 460
Untitled event (Theatre Piece n. 1, 1952, J. Vedute (1985, Studio Azzurro e G. Barbe-
rio Corsetti), 325, 468
Cage, M. Cunningham, D. Tudor, R.
Veglia di Finnegan (J. Joice), 528
Rauschenberg, M.C. Richards), 457
Velvet Underground, 458
Uomo con la macchina da presa, L’ (1929,
Venturi, Robert, 375
D. Vertov), 60
Venturini, Davide, 351, 351n
Urban Cowboy (P. Morrisey), 458 Verde, Giacomo, 15, 286, 309, 310, 311,
Urlo (1893, E. Munch), 132 329, 335, 339, 340, 340n, 341, 341n,
U2, 371, 371n, 372, 373, 375 348, 350, 470, 535, 540, 561, 563
Verdone, Mario, 42, 42n, 305n
Vacancy Room (Motus), 334 Verene, D.P., 424n
Vaccari, Franco, 143 Vergine, L., 143
Vaccarino, E., 387n, 390, 391, 392n, 395, Verifica incerta (1964, G. Baruchello – A.
402n Grifi), 57, 507
Vacis, Gabriele, 307n, 313 Verità, T., 315n
Valchiria (Wagner), 35 Veronesi, Luigi, 8, 63, 65, 252, 266,
Valentini, Valentina, 325n, 328, 336n, 267n, 275, 275n
338n, 547 «Verri, Il», 254n
Valery, Paul, 40 «Versus. Quaderni di studi semiotici»,
Valigie di Tulse Luper, Le (P. Greenaway), 52, 52n
196 Vertov, Dziga, 49, 60, 63, 93, 151, 153,
Valle, Jaques, 229 548
Vanderbeeck, Stan, 271, 293, 505 Very Eye of Night, The (1959, M. Deren),
Van der Beek, Stan, 164 393
Van der Beek, Whitney, 164 Very Nervous System (D. Rokeby), 123,
Van de Velde, Henry, 128, 131 123n, 403, 468, 497
Vander Vennet-Tallon, Mary Elizabeth, Vidach, Ariella, 396, 405
35n Vidali, R., 341n
Van Doesburg, Theo, 112, 130, 267, 275 Video Fish (1975, N.J. Paik), 296
613 INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Video Piece for Shop Windows in Arcade (D. Wall 1990, The, 374
Graham), 546 Wall, The (1980, Pink Floyd), 371n, 380
Video Projection Outside Home (D. Waller, Fred, 62
Graham), 546 Walser, Randy, 15
Video View of Suburbia in an Urban Atrium Warhol, Andy, 67, 122, 162, 164, 195,
(D. Graham), 546 243, 333, 458, 498, 505, 506
Videodrome (D. Cronenberg), 363 Watson, Emily, 476
Videofreex, 545, 546 Watt, Jai, 142
VideoPlace (M. Krueger), 123, 460 Watts, Robert, 487
Vidolin, Alvise, 410, 410n Weaver, W., 176n
Vinaver, Michel, 306, 307 Web Dances (R. Lord), 407
Vinterberg, Thomas, 509 Webern, Anton von, 38, 206, 514
Viola (T. von Hartmann e V. Kandinskij), Web Stalker (I/O/D), 286
40 Wedekind, Frank, 128, 456
Viola, Bill, 67, 150, 165, 166, 168, 170, Weibel, Peter, 275n, 540, 547, 548
171, 290, 292, 296, 470, 471 Weil, Benjamin, 281
Violin Power (1978, S. Vasulka), 165 Weiner, Norbert, 527
Virilio, Paul, 16, 365, 427, 430, 438, 440, Wellesley-Miller, Sean, 293
521, 526, 538 Wenders, Wim, 466
Visage (1961, L. Berio), 202 Werefkin, Marianne von, 38
Visconti, Luchino, 302 Werfel, Franz, 452
Visitazione (Pontormo), 470 Wesselmann, Tom, 137
Vita futurista (1916, A. Ginna), 44 Wessing, Koen, 177n
Vitrac, Roger, 48 Westbrook, Frank, 393
Vittadini, N., 220n What a Pleasent Madness (1988, J. Fabre),
Vobulazione e bioeloquenza negativa (1969, 395
V. Agnetti e G. Colombo), 171 White, Hayden, 241
Voce, Lello, 341, 470 Whitehead, Alfred North, 73
«Vogue», 534 Whitman, Robert, 98, 477, 482
Voix des legumes, La (1982, M. Guérini), Whitney, fratelli (John e James), 274
395 Whitney, James, 274
Volpe, Gualtiero, 422 Whitney, John, 63, 64n, 65, 272, 274, 276
Von Gunten, Martin, 351 Wiene, Robert, 305
Voodoo Lounge (1994, Rolling Stones), Wigman, Mary, 131
380 Wilkins, John, 233
Vostell, Wolf, 108, 120, 132, 142, 163, Williams, Emmet, 120
168, 169, 289, 458, 459, 487 Willis, Ronald A., 362, 471
Voyage (2003, Dumb Type), 476, 495 Wilson, Robert (Bob), 34, 105, 301, 308,
Vtr and I (1978, M. Sambin), 327 319, 319n, 320, 320n, 321, 331, 365,
Vuarnet, Jean-Noäl, 556 366
Wings (A. Kopit), 362
Wachowsky, Larry e Andy, 369 Wisnieski, Maciej, 286
Wackenroder, Wilhelm Heinrich, 27n, WOE (M. Joyce), 530
28 Wonder, Stevie, 206
Wagner, Cathy, 458 Woolford, Kirk, 405
Wagner, Richard, 16, 27, 29, 30, 31, 32, Wooster Group, 319
33, 35, 38, 40, 51, 85, 87, 88, 109, 110, World of Awe (1995-2003, Y. Kanarek),
110n, 111, 112, 125, 128, 130, 138, 284
301, 302, 477, 502 World Wide Web Consortium (W3C),
Waits, Tom, 315 234
Walczak, Diana, 365, 366 «Wired», 468
INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE 614
Wright, G., 194n Zaeela, Marian, 115
«Writing on the Edge», 530 Zajec, Edward, 270, 271, 272, 274, 276,
Wrong Browser (Jodi), 283 276n
Wronski, Hoëné, 208 Zannier, I., 178n
Wu Ming, 245n, 521, 533, 534 Zapp, A., 293n
Zaru, A., 290n
XEAR – Extended Electronic Arts, 213n, Zatkova, Rugena, 134
470 Zattera della medusa (T. Géricault), 367
Xenakis, Iannis, 115, 409 Zeami, 82
x-8x8-x (G. Verde), 561 Zeller, Felicia, 310
Xplora 1 (1994, P. Gabriel), 473 Zen per Tv (N.J. Paik), 157
XXX (Fura dels Baus), 365 Zettels Traum (1979, A. Schmidt), 531
0100101110101101.org, 285
Yalkut, Yud, 157 ZKM, 404
Yeats, William Butler, 528 Zolla, Elémire, 428, 429, 521, 538, 539
Yesterday/Today (D. Graham), 546 ZoneGemma, 309, 348, 350n
Young, La Monte, 115, 120, 458, 487 Zoo Tv (U2), 372, 375
Youngblood, Gene, 15, 56, 70, 70n, 71, Zorzi, Elvira Garbero, 76n, 344n
71n, 72, 150, 154, 155, 267n, 272, Zorzi, Ludovico, 302
273n, 293, 434, 434n, 498, 508 Zulù Time (R. Lepage), 377
GLI AUTORI

ANDREA BALZOLA, drammaturgo e docente di Drammaturgia multimediale e


di Teoria e metodo dei Mass Media all’Accademia di Belle Arti di Brera (Mila-
no). Ha insegnato alle Università di Torino, Firenze e Palermo. Ha pubblicato,
con F. Prono, La nuova scena elettronica (introd. di R. Alonge, 1994) e saggi sulle
antologie Elettroshock. Trent’anni di video in Italia (a cura di B. De Marino, 2001),
e Digital Performance (a cura di E. Quinz, 2002). Ha realizzato sceneggiature, fil­
mati e opere multimediali (RAI, Editori Riuniti, CRUT). Ha collaborato con nu­
merose riviste di teatro tra cui «Sipario», «Hystrio», «Il castello di Elsinore»,
www.ateatro.it.

ANNA MARIA MONTEVERDI, insegna Storia e Teoria della Scenografia al Dams


di Genova, collabora alla didattica del Corso di laurea in Cinema Musica e Tea­
tro dell’Università di Pisa. Ha pubblicato saggi e articoli sulla videoarte (Studio
Azzurro, Giacomo Verde, Patrick De Geetere) e sul teatro d’avanguardia e con­
temporaneo (Gordon Craig, Living Theatre, Motus, Robert Lepage); e inoltre
La maschera volubile. Frammenti di teatro e video (2000); Frankenstein del Living Thea­
tre (introd. di J. Malina, 2002); Il teatro di Robert Lepage (2004). Collabora a «Hy­
strio» e ateatro.it

ELISABETTA AJANI, scenografa e art director per cinema-teatro-spazi urbani­


mostre-eventi, titolare della Cattedra di Scenografia dell’Accademia di Belle Ar­
ti di Torino. Pubblica articoli e studi di settore, ultima pubblicazione: «Indiani
a Torino – Pagine dal diario di un location manager» in High Tech High Touch
Professioni culturali emergenti (a cura di F. De Biase, A. Garbarini, 2003).

ALESSANDRO AMADUCCI, videomaker, studioso di videoarte e docente di Video


all’Università di Torino (Dams) e all’Istituto Europeo di Design di Milano. Dal
1991 collabora con l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza P. Go­
betti di Torino. Ha pubblicato Il video. L’immagine elettronica creativa (1997), Se­
gnali video (2000), Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia
(2003), e Passo uno. L’immagine animata dal cinema al digitale (con G. Alonge,
2003).

FABIO AMERIO, fotografo e direttore della fotografia per il cinema di fiction e


documentario. Insegna Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Carrara e Mul­
timedialità all’Università di Firenze.

SAVERIO BARSALI, architetto, laureato presso la Facoltà di Architettura dell’U­


GLI AUTORI 616
niversità degli Studi di Firenze con la tesi Lo spettacolo per il grande pubblico dalle
Avanguardie al Light-Design. Progettazione e calcolo strutturale di un palco trasportabi­
le per concerti in stadi, premiata nel 2002 con la Promozione Acciaio Onlus. Col­
labora con www.architettura.it

CARLO BRANZAGLIA, studioso di Design e comunicazione, insegna alla Facoltà


di Design del Politecnico di Milano e Teoria e metodo dei Mass Media all’Acca­
demia di Belle Arti di Bologna. Direttore editoriale del trimestrale «Artlab», col­
labora a numerose riviste tra cui «Oht» e «D. La Repubblica delle Donne». Ha
pubblicato recentemente i volumi Tracks. Esperienze di grafica progettata (2003),
Comunicare con le immagini (2003), e Marginali. Iconografie delle culture alternative
(2004).

ANTONIO CAMURRI, insegna all’Università di Genova presso il Dipartimento di


Informatica Sistemistica e Telematica (corsi di Ingegneria del software e Proget­
tazione e produzione multimediale), dove ha fondato e dirige l’InfoMusLab
(Laboratorio di Informatica Musicale). Impegnato in ricerche internazionali di
sistemi multimediali e multimodali, Kansei information processing. Collabora
dal 1989 in allestimenti scenici per esempio con Luciano Berio, Studio Azzurro,
Virgilio Sieni. Ha pubblicato un saggio in La scena digitale (a cura di A. Menicac­
ci, E. Quinz, 2001) e su riviste internazionali del settore, tra cui «Interface. Jour­
nal of New Music Theory» e «Artificial Intelligence», «Ieee Multimedia».

SIMONETTA CARGIOLI, studiosa di arti elettroniche, si è specializzata sulle in­


stallazioni video e interattive; collabora con il Corso di laurea in Cinema Musica
e Teatro dell’Università di Pisa. Lavora tra l’Italia e la Francia come ricercatrice
e organizzatrice di eventi culturali. È stata assistente di produzione al CICV di
Montbéliard e ha codiretto il Festival video di Clermont-Ferrant. Ha pubblicato
Sensi che vedono (2002) e ha curato il volume Le arti del video. Sguardi d’autore fra
pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie (2004).

ANTONIO CARONIA, studioso di teorie della comunicazione e dell’immaginario


tecno-scientifico, è traduttore di Ballard e altri autori, e collaboratore
dell’«Unità» e di molte riviste. Insegna al dipartimento multimediale dell’Acca­
demia di Belle Arti di Brera. Ha pubblicato Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale
(1985, nuova ed. 2001), Il corpo virtuale (1996), Houdini e Faust. Breve storia del cy­
berpunk (con Domenico Gallo, 1997), Archeologie del virtuale (2001).

MARCO MARIA GAZZANO, studioso di cinema e arti elettroniche, è stato diret­


tore del VideoArt Festival di Locarno. Insegna Teoria e storia della cinemato­
grafia all’Università «Carlo Bo» di Urbino e Cinema e Media elettronici all’Uni­
versità Roma 3. Ha pubblicato le monografie Il Novecento di Nam June Paik
(1992), Mario Sasso. Architetture elettroniche (1994), Steina e Woody Vasulka (1995) e
ha curato l’antologia Il «cinema» dalla fotografia al computer (1999).

SANDRA LISCHI, docente di Teoria e tecnica dei mezzi di comunicazione au­


617 GLI AUTORI

diovisiva all’Università di Pisa. Ha pubblicato: Il respiro del tempo (su Robert


Cahen, 1991); Visioni elettroniche. L’oltre del cinema, 2001; Un video al Castello, 2003
(diario di lavoro sul video PlaneToti-Notes da lei realizzato sul regista Gianni Toti).
Ha curato, con R. Albertini, il volume Metamorfosi della visione, 1988. Ha pubbli­
cato numerosi articoli e saggi sulla produzione video sperimentale e indipen­
dente; dirige a Pisa dal 1985 Ondavideo e codirige a Milano Invideo.

MAURO LUPONE, compositore e sound designer. Collabora con produzioni


multimediali, arte digitale, danza e teatro di interazione tecnologica e con isti­
tuzioni internazionali come la New York University (Department of Performing
Arts), il Reparto di Informatica Musicale del Cnuce/Cnr di Pisa, Facets-2004
(Bangalore, India). È il fondatore del Laboratorio di Tecnologie Sonore dell’I­
stituto Musicale L. Boccherini di Lucca. Insegna Composizione e Nuove Tecno­
logie all’Istituto Superiore Artistico di Lucca, e Sound Design presso l’Accade­
mia di Belle Arti di Carrara.

MARIA GRAZIA MATTEI, giornalista e critico d’arte, esperta di nuove tecnologie


della comunicazione, ha fondato e dirige la società MGMDigital Communica­
tion. Insegna Cultura Digitale all’Accademia di Belle Arti di Brera. Collabora
con il Domenicale de «Il Sole 24 Ore», ha pubblicato vari articoli e saggi su ca­
taloghi e libri, tra cui Oltre il Villaggio Globale (1996), Computer Animation Stories
(1998).

GILBERTO PELLIZZOLA, critico d’arte, ha collaborato con le maggiori testate


del settore («Juliet», «Flash Art», «Tema celeste», «Titolo»). Docente di Storia
dell’arte presso il Dipartimento di Arti multimediali dell’Accademia di Belle Ar­
ti di Carrara. Curatore di mostre, performance ed eventi multimediali, nell’am­
bito del circuito Giovani Artisti Italiani, del Centro Videoarte del Palazzo dei
Diamanti, dei Musei e del Comune di Ferrara. Ha pubblicato saggi in numerosi
cataloghi monografici di artisti e in volumi antologici tra cui Artel. Media elettro­
nici nell’arte visuale in Italia (a cura di A.M. Montaldo, P. Atzori, 1995).

ALESSANDRO PONTREMOLI, insegna Storia della danza e del mimo all’Univer­


sità di Torino (Dams). Ha studiato danza storica con Peggy Dixon in Italia e in
Inghilterra. Recentemente ha pubblicato: Storia della danza dal Medioevo ai giorni
nostri, 2002. Tra i saggi, Il corpo ritrovato: la danza moderna e contemporanea, in Sto­
ria del teatro moderno e contemporaneo (a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino,
2001), Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento (con P. La Rocca), e Dal rito al vi­
deo: la danza in televisione, in A. Cascetta (a cura di), Sipario2!, 1991.

EMANUELE QUINZ, musicologo e studioso di estetica delle arti digitali, presi­


dente dell’associazione Anomos e delle edizioni «Anomalie_Digital Arts», è do­
cente del Dipartimento di Danza e Multimedialità dell’Università Paris 8. Ha cu­
rato le antologie La scena digitale. Nuovi media per la danza (con A. Menicacci,
2001), From Body to Avatar 1.0 (con M. Almiron), Digital Performance (2002) e In­
terfaces (con M. Aktypi, S. Lotz, 2003). Nel 2004 ha avviato, con L. Marchetti, il
GLI AUTORI 618
progetto artistico itinerante En:trance promotore dei nuovi linguaggi delle arti
tecnologiche.

LORENZO TAIUTI, esperto delle problematiche estetiche dei nuovi media, au-
tore di video, installazioni, website. È docente di Teoria e metodo dei Mass Me­
dia all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e di Arte contemporanea al­
la Facoltà di Architettura Valle Giulia dell’Università di Roma. Ha pubblicato Ar-
te e media (1996) e Corpi sognanti. L’arte nell’epoca delle tecnologie digitali (2001). Ha
collaborato con vari periodici, tra cui «Giornale dell’Arte», «Mediamente» Rai,
«Virus», «Alias», «Terzocchio», «Linea d’Ombra», «Computer-Repubblica»,
«Raisatzoom», «Juliet».

VALENTINA TANNI, critico d’arte ed esperta di Net Art e Web Art, insegna
Informatica applicata ai Beni storici-culturali dell’Università La Sapienza di Ro­
ma. Si interessa principalmente del rapporto arte-nuove tecnologie e dei feno­
meni di contaminazione tra linguaggi. Nel 2000 ha fondato «ExiWebArt», prima
rubrica italiana dedicata alla Net Art, ospitata sul portale dell’arte Exibart.com e
nel 2001 «Random», notiziario quotidiano sulla new media art. Scrive su «Exi­
bart», «Flash Art« e «Gulliver». Attualmente collabora con “Monti & Taft”.

TOMMASO TOZZI, fondatore di Strano Network, insegna Storia dell’arte con­


temporanea e d’avanguardia all’Università di Firenze e Teoria e metodo dei
mass media all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove è coordinatore del Di­
partimento di Arti Multimediali. Autore di Hacker Art BBS (1990) e ideatore del
primo netstrike mondiale (1995). Ha pubblicato Happening Digitali Interattivi
(cd-rom e libro, 1992), Hacktivism (con A. Di Corinto, 2002) e saggi nell’antolo­
gia Il linguaggio dei nuovi media (a cura di L. Toschi, 2001).
INDICE

Introduzione 7

Prima parte
VERSO LA SINTESI DELLE ARTI
I PRECURSORI

L’utopia della sintesi delle arti dai romantici alle avanguardie


storiche, di Andrea Balzola 25
Le avanguardie artistiche e il cinema sperimentale, di Sandra Lischi 54
Il laboratorio teatrale delle avanguardie, di Anna Maria Monteverdi 73
Dal Gesamstkunstwerk agli ambienti sonori. Linee di deriva
della musica, di Emanuele Quinz 108
Arte espansa: dal quadro alla performance, Coordinate per
un tracciato (1895-1968), di Gilberto Pellizzola 125
Comporre audio-visioni. Suono e musica sulle due sponde
dell’Atlantico alle origini delle arti elettroniche,
di Marco Maria Gazzano 146
Prime luci elettroniche, Le tante origini della videoarte,
di Alessandro Amaducci 161

Seconda parte
VERSO LA SINTESI DIGITALE
LA GENESI MULTIMEDIALE DELLE ARTI

La mutazione digitale. Fotografia, cinema ed elettronica,


di Fabio Amerio 175
Suono, media e tecnologie: percorsi in divenire, di Mauro Lupone 199
INDICE 620
Dal multimedia alla rete: ipertesto, interattività e arte,
di Tommaso Tozzi 216
New media e narrativa, di Antonio Caronia 240
La nuova comunicazione del web design e le trappole della rete,
di Carlo Branzaglia 248
E-learning: arte e didattica via rete, di Lorenzo Taiuti 257
Il percorso storico della computer art, di Maria Grazia Mattei 266
Net art: genesi e generi, di Valentina Tanni 277
Oltre lo schermo: evoluzioni delle videoinstallazioni,
di Simonetta Cargioli 288
Verso una drammaturgia multimediale, di Andrea Balzola 300
Per un teatro tecnologico, di Anna Maria Monteverdi 319
Scenografie virtuali, di Elisabetta Ajani 354
Il light design e lo spettacolo per il grande pubblico,
di Saverio Barsali 371
La danza fra vecchie e nuove tecnologie, di Alessandro Pontremoli 384
Coreografia digitale, di Emanuele Quinz 401
L’interazione uomo-macchina nell’informatica musicale,
di Antonio Camurri 409
Principi etici delle arti multimediali, di Andrea Balzola 424

Terza parte
PERCORSI EMBLEMATICI TRA PRATICHE ARTISTICHE
E TEORIE ESTETICHE

Le opere: 39 schede, a cura di Anna Maria Monteverdi 451


Leopoldo Fregoli, Fregoligraph, 451; Filippo Tommaso Marinetti, La
declamazione dinamica e sinottica (1916), 451; Frederick Kiesler, Sceno­
grafia per R.U.R. di Karel Čapek (1923-24), 452; René Clair, Entr’Acte
(1924), 453; Abel Gance, Napoléon (1926), 454; Paul Claudel, Darius
Milhaud, Le livre di Christophe Colomb (1927), 454; Kurt Schwitters,
Merzbau di Hannover (1923-37), 455; Miroslav Kopuri, Emil Burian,
621 INDICE

Theatregraph (1936), 455; Pierre Schaeffer, Cinq études de bruits (1948),


456; John Cage, Merce Cunningham, David Tudor, Robert Rauschen­
berg, Mary Caroline Richards, Untitled Event (1952), 457; Patrick De
Geetere e Cathy Wagner, Les contaminations (1992), 458; Wolf Vostell,
Tv Dé-coll/age (1958), 458; Lars Movin, The Misfits (1993), 459; Luigi
Nono, Josef Svoboda, Intolleranza 1960 (1961-65), 460; Myron Krue­
ger, Videoplace (1970), 460; Fabio Mauri, Che cos’è il fascismo (1971), 461;
Dan Graham, Present Continuous Past(s) (1974), 461; Luca Ronconi,
L’Orlando Furioso televisivo (1975), 462; Steina Wasulka, All Vision
(1976) e Machine Vision (1978), 463; Nam June Paik, Merce by Merce by
Paik (1978), 463; Camelo Bene, Amleto di Carmelo Bene (da Skakespeare e
Laforgue) (1978), 464; Carlo Quartucci, L’ultimo spettacolo di Nora Helmer
(1979), 465; Falso Movimento, Tango glaciale (1982), 465; Laurie An­
derson, Home of the Brave (1984), 466; Gary Hill, Incidence of Catastrophe
(1984), 467; David Rokeby, Very Nervous System (1986-90), 468; Giorgio
Barberio Corsetti e Studio Azzurro, La camera astratta (1987) e Prologo
a Diario segreto contraffatto (1985), 468; Michael Joyce, Afternoon, a Story
(1987), 469; Giacomo Verde, Il teleracconto (1989), 470; Bill Viola, The
Greeting (1995), 470; Mark Reaney, The Adding Machine (1995), 471;
Charlotte Davis, Osmose (1995), 471; Studio Azzurro, Tavoli, perché que­
ste mani mi toccano? (1995), 472; Mark Amerika, Gramatron (1997), 473;
Peter Gabriel, Real World Multimedia, EVE (Evolutionary Virtual En­
vronment) (1997), 473; Etoy, Toywar (1999), 474; Pete Greenaway, The
Tulse Luper Siutcases (2003), 474; Lars von Trier, Dogville (2003), 475;
Dumb Type, Voyage (2003), 476

Antologia: l’opera d’arte totale tra teatro, cinema, musica,


a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi 477
Teatro – Happening 477
Richard Wagner, 477; Vsevolod Mejerchol’d, 478; Bertolt Brecht,
480; Teatro Sintetico Futurista, 481; Teatro Merz, 482; Robert Whit­
man, 482; Jim Dine, 483; Allan Kaprow, 485; Guy Debord, 486; Geor­
ge Maciunas, 487; Rosalee Goldberg, 488; Josef Svoboda, 488; Luca
Ronconi, 490; Giorgio Barberio Corsetti, 492; Mario Martone, 493;
Robert Lepage, 493; Dumb Type, 495; Ricardo Dominguez, 495; Da­
vid Rokeby, 497

Fotografia e Cinema 497


Henri Bergson, 498; Roland Barthes, 499; Ricciotto Canudo, 500; Ger­
maine Dulac, 501; Sergej M. Eisenstein, 502; Michel Chion, 503; László
Moholy-Nagy, 504; Maya Deren, 505; Gregory Markopoulos, 505; Andy
Warhol, 505; Andrea Granchi, 506; Gene Youngblood, 508; Michelan­
gelo Antonioni, 508; Dogma 95, 509; Peter Greenaway, 511

Musica 512
Nikolaievič Alexandr Skrjabin, 512; Arnaldo e Bruno Corradini,
513; Arnold Schönberg, 513; John Cage, 515; Pierre Schaeffer, 516;
Luciano Berio, 518; Daniel Charles, 519
INDICE 622
New media digitali, ipertesti, web, realtà virtuali, 521
a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
Howard Rheingold, 521; Tim Berners-Lee, 524; Doug Engelbart, 525;
Ted Nelson, 525; Timothy Leary, 525; William Gibson, 527; Gilles De­
leuze e Felix Guattari, 528; Michael Joyce, 529; George P. Landow, 529;
Tomàs Maldonado, 530; Mark Amerika, 532; Wu Ming, 533; Jaron La-
nier, 534; Pierre Lévy, 537; Philippe Quéau, 537; Paul Virilio, 538; Elé­
mire Zolla, 538

Estetiche delle arti tecnologiche, 540


a cura di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
Umberto Eco, 540; Philippe Dubois, 541; Anne-Marie Duguet, 542;
Vittorio Fagone, 543; Deidre Boyle, 544; Dan Graham, 546; Peter
Weibel, 547; Woody Vasulka, 548; Renato Barilli, 550; Edmond Cou­
chot, 551; René Berger, 553; Jean-François Lyotard, 555; Nanni Ba­
lestrini, 555; Christine Buci-Glucksmann, 556; Pierre Lévy, 557; Piero
Gilardi, 557; Studio Azzurro, 559; Giacomo Verde, 561; Stelarc, 563;
Antoni Muntadas, 565; Margaret Benyon, 567; Derrick De Kerckho­
ve, 568; Eduard Kac, 570

Bibliografia 573

Indice dei nomi e delle opere 587

Gli autori 615


Finito di stampare nel mese di settembre 2007
da Grafica Veneta s.r.l., Trebaseleghe (PD)

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