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Conservatorio Statale di Musica “O.

Respighi”
Latina
Biennio di II Livello

Ritmica, Isoritmica e Poliritmica


docente M° Nicolò Iucolano

Béla Bartók - Sonata per due pianoforti e percussione

Allievo
Giuseppe Salvagni
Béla Bartók - Sonata per due pianoforti e percussione

È una musica come indagine della materia,


che cerca di individuare gli archetipi universali
(Gustav Jung)

Scienziato-contadino. Forse è questa l’immagine che Béla Bartók (1881-1945) ha voluto


personificare nella stesura di uno dei suoi capolavori. Mettere la parola fine all’eterna lotta tra il
cuore e la mente, l’istinto ed il raziocinio. Come ogni “eroe” musicale (forse sarebbe meglio dire
“del pensiero”, inteso nel senso più ampio del termine) marchia la propria opera con assoluta
personalità, condensando in ogni suono ciò che è stato lo sguardo di una vita. Proprio come la serie
di Fibonacci, un uomo è la somma del giorno precedente con il resto della propria esistenza. Quella
di Bartók, come musicista, inizia a 5 anni, con le prime lezioni di pianoforte prese dalla madre,
essendo finalmente guarito da una terribile infermità infantile dovuta alle conseguenze di una
vaccinazione contro il vaiolo, fatta quando aveva 3 mesi, che gli aveva sviluppato un orribile
eczema che lo deturpava. Ciò deve aver sicuramente generato un profondo trauma a causa di quella
terribile “sfigurazione” (Massimo Mila), dato che lo segregava dalla compagnia e dai giochi dei
coetanei e dalle carezze materne. Questa umiliazione lo portò, col crescere, a nascondersi e ad
isolarsi. Studiò presso l’Accademia Nazionale di Musica a Budapest, dove tornerà come docente di
pianoforte nel 1908. Viene apprezzato come brillante esecutore. Stimolato dalle opere di Liszt,
iniziò un appassionato interesse per il canto popolare ungherese, romeno e balcanico. Ogni estate si
incamminava tra le montagne della Transilvania e le pianure ungheresi in cerca di canzoni. Questo
ebbe un duplice beneficio: dal punto di vista dell’arricchimento e della scoperta di nuovi linguaggi
musicali (non bisogna dimenticare il suo enorme contributo come etnomusicologo, assieme ad
Zoltán Kodály, che lo portò a raccogliere, notandoli o registrandoli, ben diecimila canti popolari di
tutta l’area balcanica) e da quello fisico e umano. Infatti la vita all’aria aperta e le lunghe camminate
irrobustiscono la sua gracile costituzione, mentre il contatto con contadini,pastori e boscaioli gli fa
superare la propria timidezza grazie allo sforzo necessario per vincere la loro diffidenza ed indurli a
cantare vecchie canzoni locali. Questo gli svela un popolo nella sua schiettezza non sofisticata,
depositario di un’antichissima civiltà contadina. Scopre antiche scale modali e ritmi
caratteristicamente irregolari. Nel 1923, dopo una lunga crisi, divorzia dalla prima moglie e si sposa
con Ditta Pásztory (sua brillante allieva). Grazie a questa unione si riaccosta alla carriera
concertistica formando un affiatato duo pianistico.
La propria esistenza viene di nuovo sconvolta: questa volta dalla guerra. Il nazismo aveva
“intrappolato” anche l’Ungheria. Bartók, malgrado l’apparente timidezza, col suo corpo fragile, già
minato dalla leucemia, celava una volontà di ferro. Le sue posizioni erano sempre state nette e
inesorabili. Incapace a sottostare ai compromessi, lasciò la sua patria, assieme a sua moglie,
partendo come emigrante per l’America, andandosi a stabilire nei pressi di New York. Qui
cominciò a dare concerti con Ditta, a tenere conferenze e lezioni, conseguendo un incarico presso la
Columbia University. Non riuscì, comunque mai, ad inserirsi pienamente nella vita americana,
vivendo di stenti e rimanendo pressoché sconosciuto presso le grandi istituzioni statunitensi.

La Sonata per due pianoforti e percussione nasce nel 1937, quando viene commissionata da Paul
Sacher per farla rappresentare l’anno successivo in occasione del decennale della fondazione della
sezione basileiense della Società Internazionale di Musica Contemporanea. Presumibilmente Bartók
aveva pensato già da tempo all’idea di comporre un brano per pianoforte e percussione.
Gradualmente si convinse che un solo piano forte non avrebbe potuto controbilanciare in maniera

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soddisfacente il timbro degli strumenti a percussione. Perciò cominciò a pensare di comporre per
due pianisti. Non fu un caso, dato che questo nuovo assetto organico avrebbe permesso ai coniugi
Bartók di avere nuovo materiale per suonare assieme nelle loro tournées, vista la scarsa presenza di
pezzi per due pianoforti. Furono infatti Béla e Ditta ad eseguire la Sonata il 16 gennaio del 1938 a
Basilea.
L’adozione della doppia tastiera avrebbe permesso un “importante” sviluppo polifonico, evitando
che si facesse un uso percussivo del pianoforte. D’altro canto, anche l’evoluzione nel modo di
utilizzare le percussioni procedette parallelamente al raffinarsi del linguaggio contrappuntistico di
Bartók. Egli diede enorme valore e responsabilità a questi strumenti, che tradizionalmente non
erano riguardati come elementi primari di una composizione. Proprio in questo senso è indubbio
asserire che tale composizione abbia dato una spinta notevole all’evoluzione tecnica
percussionistica. Basti pensare ai molteplici mutamenti di nota dei timpani o anche ai veloci cambi
da una percussione all’altra. In tutto questo bisogna tener conto dell’enorme minuziosità del
compositore ungherese che, come vedremo, fa sì che ciascuna nota abbia una timbrica ben precisa,
tanto che è egli stesso a scrivere come e con quali battenti devono essere suonate le percussioni,
così che, in sede interpretativa, nulla venisse lasciato al caso. Evidentemente già aveva ben chiaro
quale dovesse essere il risultato timbrico generale.
Come detto, furono i coniugi Bartók ad eseguire la prima a Basilea dove arrivarono qualche giorno
prima per provare assieme agli altri due percussionisti: Fritz Schießer e Philipp Rühlig. Fu l’autore
stesso ad istruirli e a lottare contro una secolare cristallizzazione. In diversi casi giudicò fallita
un’interpretazione a causa della mediocrità dei musicisti o dell’assenza di qualche strumento
specifico.
Dopo Basilea, ci fu una fortunata serie di esecuzioni tra le quali la prima ungherese del 31 ottobre
del 1938 a Budapest dove fra gli assistenti pianisti ci fu un giovane György Solti che disse che “gli
unici a percepire l’importanza dell’opera e ad applaudire con trasporto furono proprio loro, gli
assistenti, per il resto il pubblico l’accolse con una certa freddezza”. L’8 aprile del 1939 fu eseguita
al Festival di Musica Contemporanea di Venezia, che vedeva come direttore artistico Goffredo
Petrassi. Rimane anche un maldestro documento sonoro registrato da Béla e Ditta a New York il 10
novembre del 1940 durante un’esecuzione radiofonica.
Nel dicembre dello stesso anno uscì una versione con organico orchestrale ribattezzata Concerto
per due pianoforti, percussione ed orchestra. In realtà le parti di pianoforte e percussioni rimangono
immutate, eccetto che per alcuni passaggi. L’orchestra aggiunge soltanto un pizzico di colorismo,
che, tutto sommato, appiana la crudezza della prima versione, vanificandone il potente messaggio
primordiale. Rimane ancora oscuro il vero motivo che fece generare questa trascrizione, definita da
molti come “infelice”.

La Sonata per due pianoforti e percussione è stata scritta per due pianisti e due percussionisti. Non
mancano delle eccezioni in cui è stato usato un terzo percussionista per ovviare alle varie difficoltà
tecniche. È suddivisa in tre tempi: “Allegro” preceduto da un introduzione lenta, “Lento ma non
troppo” e “Allegro ma non troppo”. La durata del primo movimento equivale alla somma del
secondo e del terzo. Questo ha fatto ipotizzare la presenza della Sezione Aurea. Il primo ad averla
scoperta all’interno del repertorio bartókiano fu il musicologo ungherese Erno Lendvai. La
cosiddetta Sezione Aurea si basa sulla serie di Fibonacci (ancora lui) in cui il terzo numero è la
somma dei due precedenti (1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, ecc.). Con essa si è cercato di spiegare
ciò che è “apparentemente” asimmetrico, ossia legato da relazioni non esplicite. È stata applicata ad
ogni ramo dello scibile. È così presente in natura che viene ipotizzato un uso anche inconscio da
parte dei compositori (è stata riscontrata in Machaut, Dufay, Desprès, Fux, Bach, Mozart,
Beethoven, Schubert, Chopin, Debussy, ecc.). Nulla di più probabile di una presenza della Sezione
Aurea all’interno del repertorio di Bartók.
Pur seguendo, nei suoi principi formali, rigorose formule matematiche, non si ha mai l’impressione
di un lavoro pervaso dall’astrazione. Al contrario, l’autore s’impegna a ridurre la musica a simboli
semplici e primari. In essa è racchiuso il pensiero del compositore ungherese, il quale cerca di

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portare nella musica colta il carattere della musica contadina, senza, però, imitarne i temi, evitando,
così, il rischio di realizzare un “banale travestimento del materiale popolare” (Bartók). Proprio
questo ultimo elemento (la musica popolare) permette un rapido confronto con un altro caposcuola
del ‘900: Igor Stravinskij. Entrambi profondamente legati alla musica delle proprie origini,
percorrono due sentieri paralleli che non vengono mai a scontrarsi. Stravinskij prende le melodie
della propria infanzia e di quelle della sua terra, le manipola a tal punto da renderle apparentemente
irriconoscibili (si ricordi che fino ai suoi ultimi giorni ha sempre negato, alla luce del giorno,
l’attaccamento alle proprie tradizioni, anche se dentro la sua abitazione americana si continuava a
parlare e a mangiare russo). Mentre Bartók non usa la melodia contadina, ma ne inventa una ex
novo, che riesca a rievocare quel clima. Sia l’uno che l’altro, perciò, prendono la materia prima dal
passato e la lavorano, ciascuno a proprio modo, grazie ai nuovi mezzi compositivi con il fine di
renderla musica da collocare nella tradizione “colta”. Col senno di poi, questa alchimia sembra
riuscita. D’altronde questa è un’operazione tentata e riuscita anche in ambito pittorico: si veda
l’imitazione della scultura e della pittura africane da parte di Ricasso e della presenza di simboli
popolari ebraico-russi nella pittura di Chagall. È lo stesso Bartók a dire che “nessuno può subire
un’influenza veramente profonda della musica contadina, se non ha sperimentato questa musica sul
posto, cioè in comunità con i contadini”. Andare direttamente nel luogo, a contatto con il clima, i
colori e le persone. Come si è visto in precedenza è stata questa esperienza ad aver salvato il
compositore, dal punto di vista fisico, musicale ed umano. Forse anche ideologico. Tutto ciò viene
condensato nella Sonata. Il paesaggio irreale disegnato nel Lento iniziale. Le continue rifrazioni
timbriche che riportano all’angoscia dell’uomo contemporaneo, socialmente annientato, che è anche
specchio di una civiltà borghese che ha fallito nei suoi impegni umanistici. Non è un caso che
nell’ultimo tempo viene riscoperta la capacità di comunione collettiva mettendo a frutto i modi
degli antichi canti contadini, immergendosi in un rapporto autentico con la musica popolare e con la
natura, la dea ispiratrice di tante pagine bartókiane.

Dal punto di vista logistico (è lo stesso Bartók a consigliarlo) le percussioni devono inserirsi
all’interno delle code dei due pianoforti, come in un abbraccio (quello sempre desiderato dalla
madre?). Anche se l’autore non lo scrive nelle “istruzioni” iniziali, di norma si usa tenere i due
pianoforti privi del coperchio al fine di permettere un sfericità della proiezione sonora. Il primo
pianoforte deve stare dalla parte del secondo percussionista e viceversa. Le percussioni impiegate
sono: 3 timpani, xilofono, side drum (tamburo militare) con cordiera, side drum senza cordiera,
piatto sospeso, coppia di piatti a mano, grancassa, triangolo e tam-tam. Sono ripartite nel seguente
modo: la Percussione I suona i 3 timpani, i 2 side drum, il triangolo, il tam-tam,il piatto sospeso e i
piatti a due; la Percussione II utilizza lo xilofono, la grancassa, i due side drum, il triangolo, il tam-
tam, il piatto sospeso e i piatti a due. Per ragioni di praticità i medesimi side drum ed il tam-tam
vengono suonati da entrambi i musicisti. È possibile avere in comune, anche se ciò potrebbe
rivelarsi meno comodo, addirittura il piatto sospeso e il triangolo.
Come abbiamo detto è lo stesso compositore a dire come e con cosa suonare. La cassa deve essere
percossa con un battente a due teste. Per il triangolo bisogna usare: una normale bacchetta di
metallo, una sottile bacchetta di legno e un pesante battente di metallo, corto. Il piatto viene suonato
con: un battente per timpani, la parte posteriore della bacchetta per tamburo pesante (verrà indicato
se sul bordo o sulla campana) e una bacchetta di legno leggera. Inoltre tra i vari suggerimenti c’è
quello di staccare la cordiera del side drum quando non viene usato al fine di evitare il fastidioso
rumore dovuto alle vibrazioni simpatiche della pelle inferiore.
L’uso della percussione non serve soltanto a definire ed enfatizzare gli accenti pianistici,
commentare e preparare “drammaticamente” le diverse sezioni, ma a svolgere anche un’autonoma
funzione melodica (il timpano nel primo movimento e lo xilofono nel secondo e nel terzo). È
significativo il fatto che siano le percussioni ad iniziare e a concludere il pezzo.
Tra i vari compiti c’è anche quello di fungere da “direttore” nei seguenti momenti: il timpano a batt.
32 del primo movimento, lo xilofono a batt. 274, i side drum nell’introduzione del secondo
movimento, il timpano e lo xilofono a batt. 140 del terzo movimento.

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Perciò non più considerati come strumenti poco nobili, ma, a seguito di un doveroso
“addestramento”, degni di essere messi alla pari di uno strumento principe come il pianoforte.
Evidentemente è la continuazione di un percorso avviato precedentemente da Stravinskij e Varèse,
che tende a colmare il vuoto della letteratura percussiva, durato per diversi secoli, anche a causa di
un rigido pensiero religioso tipicamente occidentale, astratto.
Per quanto riguarda le difficoltà tecniche c’è da segnalare quella del primo percussionista che deve
fare un lavoro virtuosistico con i pedali (ci sono continui e veloci mutamenti di nota, perciò bisogna
passare in maniera repentina da un timpano all’altro con i piedi, cercando di ottenere la migliore
intonazione possibile!!!!), mentre il secondo percussionista deve avere ben in mente tutti i
cambiamenti di strumento (di conseguenza anche le bacchette) poiché anche questi sono molteplici
e avvengono con velocità (in alcuni momenti bisogna avere battenti diversi in una mano e nell’altra,
come tra batt. 105 e 121 oppure tra batt. 239 e 245 del primo movimento). Inoltre deve avvenire un
proficuo lavoro di collaborazione tra i due come l’inserimento/disinserimento della cordiera dei
side drum, o il passaggio dei piatti a due tra il primo percussionista e il secondo a batt. 42 del terzo
movimento per dare la possibilità ai timpani di non saltare l’appuntamento a batt. 44.

Per quanto riguarda l’aspetto formale e contrappuntistico, nella Sonata troviamo la sintesi di un
compositore maturo che non lascia nulla al caso. Nel primo movimento Assai lento- Allegro molto,
ci si attiene agli elementi classici della forma sonata. Nella lenta introduzione (batt. 2) viene già
anticipato un frammento della sezione Allegro che segue (batt. 195), frammento che fa da ostinato
ritmico. In tutta questa sezione pervade un senso di silenzio interrotto da forti rumori (batt. 6 e 10).
Da segnalare la batt. 18 nella quale il Piano I ha un andamento “staccato”, mentre il Piano II esegue
delle note legate. Si arriva perciò all’Allegro Molto, con il suo tema deciso e penetrante dei
pianoforti, in Do (batt. 33). Dal punto di vista grafico colpisce, nelle tastiere, il “cuneo” che Bartók
scrive al di sopra delle prime due semiminime come fosse uno staccato particolare da contrapporsi
all’accento della terza semiminima. Sembra quasi volere intendere il 9/8 come un 5+4
(scomposizione tipica della musica balcanica). Dopo una doppia esposizione c’è una distensione
che porta al ponte modulante, dove si prefigura una sorta di secondo tema (batt. 84). Già da batt.
101 il Piano II comincia ad annunciare il terzo motivo (o il secondo, da un punto di vista
strettamente scolastico-formale) che verrà “ufficializzato” nel Vivo a batt. 135. Lo sviluppo (che
come si sa costituisce la seconda parte della forma sonata), suddiviso in tre parti, inizia alla misura
175. Sopra un tappeto del Piano II derivante dal Lento iniziale, a partire da batt. 195, il Piano I
richiama il primo tema, a 198, il quale domina il seguito dello sviluppo, caratterizzato dall’assenza
di elaborazione del tema del ponte modulante, nonché del secondo tema. Interessante l’imitazione
che il Piano I fa tra mano sinistra e mano destra a 208. Una veloce distensione anticipa la grandiosa
esplosione sonora a 274, che coincide con la riesposizione (completamente rinnovata rispetto al
primo motivo). L’ultimo tema viene ripresentato a batt. 332 come un fugato a quattro voci. Da batt.
423 il Piano I suona il primo tema, mentre il Piano II esegue il secondo. Da batt. 429, il finale è
costituito da una serie di stretti. L’ultima coda (Tempo primo), di straordinaria potenza, è basata sul
primo motivo.
Il secondo movimento Lento ma non troppo è un tipico “notturno” alla Bartók. Tripartito con la
formula ABA_. L’andamento melodico è assai cromatico. Dopo un introduzione della percussione,
ha inizio la parte motivica con il primo tema. Nella seconda parte, Un poco più andante, l’idea
musicale è costituita da quintine fugaci dei pianoforti basate su una terza minore (batt. 31),
sottolineate dallo xilofono (batt. 45), come ad esaltare il momento di massima intensità, e infine
riprese dal timpano (batt. 48). Da misura 56 i pianoforti cominciano ad eseguire delle rapide scale
cromatiche (tipico nei tempi lenti delle composizioni di Bartók). La ripresa inizia a battuta 66, nella
quale il Piano II riprende il primo tema, mentre il Piano I esegue delle scale veloci (con la mano
destra in Do, mentre con quella sinistra una sorta di scala pentatonica). Dal punto di vista timbrico-
compositivo è interessante il lavoro che svolge il Piano I dalla misura 70: usa dei “glissando” quasi
volesse imitare il suono dell’arpa, è comunque un intensificazione di ciò che è stato suonato a batt.
66 (diminuzioni). Altro elemento degno di nota è rappresentato dalle ultime 4 battute in cui il Piano

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II esegue degli accordi con dinamica sempre più debole (ff, mf, p, pp) come a seguire il suono del
lungo accordo tenuto dal Piano I, che va smorzandosi lentamente.
Il terzo e conclusivo movimento è un Allegro non troppo. Qui esplode una sorta di festa, intrisa di
danze e canti contadini. È la resa dei conti, in cui ci si spoglia dal proprio malessere, il malessere
dell’uomo contemporaneo, e si viene salvati, purificati, vivificati. Bartók è autore anche della
Cantata profana per soli, coro e orchestra, nella quale viene esaltato l’elemento della natura come
salvezza da una umanità alienata. Elemento caratterizzante è il tema (decisamente diatonico, con la
presenza del 7° e 11° armonico ossia Sib e Fa#) esposto dallo xilofono. Tutto il movimento gira
attorno all’intervallo iniziale di 4° (o 5°). La misura 18 assume un carattere imitativo tra Piano II e
percussioni (entrata canonica, Sol-Do). Il primo tema viene usato con l’intervallo iniziale
“rovesciato” a batt. 44. Un secondo elemento tematico viene esposto a batt. 103 dal Piano I. A 137,
dopo un battuta di silenzio, preceduta da due colpi di timpano che chiudono una sezione
“vorticosa”, inizia lo sviluppo con lo xilofono che espone il primo tema al rovescio. Altra formula
compositiva che caratterizza questo movimento sono i continui canoni: possiamo trovare ricorrenti
imitazioni, sia in senso ascendente che discendente, da batt. 148 a 170. Dalla misura 174 avviene un
cambio di ruolo: i pianoforti fungono da elemento percussivo, mentre lo xilofono e i timpani sono i
“padroni” della componente melodica. Da batt. 189 il compositore arricchisce il brano con un
nuovo elemento: la terzina di sedicesimi (che poi si trasformerà anche in sestina). Da 207 il brano
comincia a muoversi attorno all’elemento ritmico esposto dal Piano I. Nella battuta successiva c’è
da segnalare un’ambivalenza armonica: il Piano I usa un accordo maggiore (con la FA#), mentre lo
xilofono è in tonalità minore (FA naturale). La ripresa inizia da batt. 248, dando nuova enfasi al
brano. La coda, a 351, restituisce la pace: infatti vediamo il primo tema, esposto per l’ultima volta,
in un clima più rasserenato (batt. 379). Il finale è un continuo fading, concluso da un lungo accordo
di Do maggiore seguito da alcune misure di tamburo e piatti che terminano il brano
“allontanandosi” dagli ascoltatori.

Geniale e mai irriverente, sempre attento al tessuto timbrico e narrativo, Bartók unisce il meglio di
due mondi in una sintesi mirabile. Dai luoghi “scarni” ed angosciosi fino ad arrivare alle pienezze
armoniche, dai silenzi alle esplosioni improvvise che, dopo il ristoro notturno (secondo
movimento), si svegliano in una festa di canti e danze su qualche monte della Romania; facendo
immaginare (al termine del terzo movimento) un possibile spostarsi, l’indomani, verso nuovi
territori desiderosi di gioia. Nella Sonata c’è tutto: scritta come fosse una metafora della propria
esistenza, è sempre in bilico tra la spontaneità e la ragione, tra la saggezza popolare e la razionalità
compositiva senza che mai nessun elemento riesca a superare l’altro.

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